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Angeli neri
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Angeli neri

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About this ebook

La realtà è veramente quella che vediamo?

I demoni che ci tormentano sono davvero frutto della nostra immaginazione?

Lo scetticismo è conseguenza della razionalità o la difesa da qualcosa che non riusciamo a spiegare o che forse non siamo ancora in grado di accettare?

Queste sono le domande che si trovano ad affrontare Jessica e Devis, due personaggi dalle vite oscure e tormentate, immersi nel gotico ambiente del rock e le cui risposte spalancheranno le porte al mondo popolato dalle creature della notte. Si frantumerà così ogni loro certezza e si prepareranno a vivere un’esperienza surreale, dove un cuore che batte non è altro che un lontano ricordo.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateFeb 20, 2014
ISBN9788867822584
Angeli neri

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    Angeli neri - Giordana Ungaro

    Giordana Ungaro

    Angeli

    Editrice GDS 

    Giordana Ungaro

    Angeli neri

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel. 02 9094203

    email: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Collana ©Aktoris

    Illustrazione e progetto copertina di ©Bianchini Alexia

    Tutti i diritti riservati.

    Questo libro è il prodotto finale di una serie di fasi operative che esigono numerose verifiche sui testi. È quasi impossibile pubblicare volumi senza errori. Saremo grati a coloro che avendone trovati, vorranno comunicarceli.

    Per segnalazioni relative a questo volume:

    iolanda1976@hotmail.it

    …a Denis

    Io sono tre donne [...] Colei che ero; colei che non avevo diritto di essere ma ero lo stesso; colei che tu hai salvato. Ti ringrazio, pistolero.» (Susannah Dean)Stephen King

    Capitolo 1

    Devis correva lungo il ciglio della strada deserta, illuminata fiocamente dai radi lampioni. Era all’incirca mezzanotte, un orario insolito per fare jogging, pensò, ma a lui piaceva così. Quello era il primo momento libero dopo una giornata piena d’impegni e appuntamenti, al fianco di persone con le quali si sentiva costretto a interagire mantenendo sempre un sorriso cordiale e accantonando il suo stato d’animo. Non poteva di certo essere maleducato o scostante. Il suo studio dipendeva da quelle persone e lui era la chiave di volta che teneva insieme tutti i pezzi di quel complesso andirivieni di ragazzi, un via vai continuo che andava organizzato, seguito e accudito con costanza e dedizione. Quella sera l’ultimo gruppo era uscito alle undici dalla sala prove per poi attardarsi a chiacchierare con i colleghi. Appena tutti se ne erano andati Devis aveva chiuso la porta, finalmente solo, godendosi quel primo momento di pace e silenzio della giornata. L’unico rumore era il lieve ronzio del frigorifero distributore di bibite in fondo al corridoio, nient’altro.

    Era salito al piano di sopra attraverso la scala interna che collegava lo studio al trilocale, composto da un’ampia camera mansardata, un bagno e una piccola cucina. Lui viveva lì, sopra il suo prezioso e amato studio di registrazione.

    Si era infilato al volo il completo da jogging ed era sceso in strada lasciando una luce accesa e chiudendo la porta con la spessa grata di ferro per scoraggiare qualsiasi ladro. Niente iPod quella sera. Aveva voglia di assoluto silenzio.

    Era partito in una corsa leggera mantenendo una velocità moderata e inoltrandosi nelle vie periferiche della cittadina senza un percorso preciso, lasciandosi guidare solo dall’istinto tra le strade deserte in quella fresca notte d’autunno. Attraversò la zona industriale costeggiando e superando l’unico grande ipermercato del paese. L’aria era umida e cominciò a sentire sulla pelle un leggero e fastidioso velo appiccicaticcio che gli incollava la maglietta al torace. Man mano che avanzava allontanandosi dal centro, i complessi condominiali si diradavano, lasciando posto a cascinali e campi. Talvolta, al suo passare, un cane spuntava abbaiando da dietro un cancello spezzando il silenzio. Devis correva sul ciglio della strada, in equilibrio sulla lunga riga bianca continua che ne delimitava il confine. Aveva sete, così decise di svoltare a sinistra in una via secondaria, dove ricordava esserci una fontana.

    Si accorse solo allora che una leggera coltre di nebbia davanti a sé inghiottiva l’orizzonte, sempre di più, man mano che avanzava, come se quella strada, portasse in un minaccioso e tetro nulla. Esitò titubante a proseguire accortosi che alcuni lampioni si erano spenti poco più avanti, creando così un lungo tratto completamente buio.

    È solo nebbia Devis, si disse ricacciando indietro il pensiero di tornare sui propri passi. In fondo non c’erano pericoli, se fosse arrivata una macchina le fasce catarifrangenti che aveva sul braccio, e sulle scarpe, lo avrebbero reso visibile. In pochi minuti sarebbe sbucato nella perpendicolare principale del centro di Mirano, a un centinaio di metri dall’ospedale e avrebbe potuto placare la sete alla piccola fontana. Pochi minuti soltanto. Continuò così la corsa trovandosi rapidamente inghiottito dalla nebbia e dall’oscurità.

    Si spostò più al centro della strada per evitare di scivolare nel fosso che la costeggiava. Rallentò un po’ il ritmo, frenando la voglia di attraversare in fretta quel tratto oscuro aumentando con la velocità anche il rischio di inciampare. Il tonfo sordo dei passi scandiva il tempo con il ritmico tamburellare sull’asfalto. La nebbia era fitta, fastidiosa e pungente al contatto con la pelle nuda delle braccia e del viso. I capelli corti erano appiccicati alla fronte, sentiva le gocce di sudore scivolare dalle tempie giù lungo il collo. Era nella zona d’ombra. Concentrò lo sguardo avanti dove la chiara luce dei lampioni accesi dava una rassicurante meta da raggiungere.

    Fu in quel momento che apparve, spuntata dal nulla, una figura femminile vestita di un rosso vermiglio. Si stagliava netta nella nebbia come uno schizzo di sangue su piastrelle opache, intorno a lei l’aria tremolava come se emanasse un intenso calore. Il volto nascosto dall’ombra ne celava i tratti. Quell’abito, lungo fino al ginocchio, era talmente fuori luogo nel cuore della notte in una stradina di campagna da enfatizzarne l’evanescenza, il tessuto lucido e attillato la fasciava aderente rivelandone i contorni dei fianchi e il guizzare sensuale delle cosce snelle a ogni movimento, calzava un paio di sandali rossi dal tacco altissimo, su cui camminava sicura, a passi decisi, lungo il bordo della strada. Notò che non aveva con sé nessuna borsetta, feticcio essenziale per ogni donna. Quell’apparizione lo colse di sorpresa, improvvisa come l’aroma che parve accompagnarla, un profumo di zolfo stranamente piacevole e intenso che lo inebriò. Devis continuò a correre avanzando nel senso opposto incrociandola così solo per pochi istanti, senza avere il tempo di pensare o fermarsi. Lei non lo guardò, continuò a camminare a testa china. I lunghi capelli ondulati color della pece le nascondevano il volto ricadendo in parte davanti alle spalle. Fu in quel momento che si accorse dello strano silenzio, nessun ticchettio accompagnava i suoi passi, come se fluttuasse invece di camminare. Si voltò, oltrepassandola, incapace di staccarle gli occhi di dosso. Qualcosa di appuntito scintillò tra i capelli sopra la tempia, ma non riuscì a vedere cosa fosse perché in quel momento di distrazione il suo piede urtò qualcosa. Devis perse l’equilibrio, poggiò malamente la caviglia che si torse con una fitta di dolore e ruzzolò a terra, sentì l’asfalto ruvido sfregare sul ginocchio e sui palmi delle mani come carta vetrata e si trovò in un istante a cozzare contro il suolo. Accidenti a lui, pensò quando fu a terra imbarazzato per la figuraccia. Diede un’occhiata alle proprie spalle rimettendosi subito in piedi ma la ragazza vestita di vermiglio era sparita, inghiottita dalla nebbia nel buio. Forse abitava nella stradina, meditò.

    Lasciò perdere, andando avanti verso il tratto illuminato che distava ormai appena qualche metro.

    Ogni passo gli provocava una fitta di dolore alla caviglia tanto acuta che quasi non riusciva a poggiarla a terra.

    Raggiunse il punto illuminato e si fermò per prendere fiato e controllare i danni.

    Aveva un ginocchio sbucciato e i palmi graffiati. Il problema più serio sembrava la caviglia che ora gli doleva anche da fermo. Sperò di non essersela rotta.

    Si voltò di nuovo. Alle sue spalle la strada era silenziosa e deserta e della ragazza in rosso non vi era traccia. Cominciò a dubitare di averla vista sul serio e riprese ad avanzare zoppicando finché sbucò sulla strada principale a due passi dal centro del paese; si avvicinò alla fontana maledicendo la sete e quella dannata scorciatoia. Bevve avidamente dalle mani a coppa poi si sciacquò il viso e il ginocchio sentendosi un po’ meglio. Era lontano da casa, non aveva il cellulare e a quell’ora non passavano autobus. Ottimo, pensò ironicamente.

    Per di più la caviglia gli faceva un male infernale. Non aveva altra scelta pensò guardando la facciata dell’ospedale poco distante e prevedendo una lunga e inevitabile notte al pronto soccorso come splendida conclusione di giornata. Si avviò zoppicante e varcò il grande cancello sempre aperto seguendo le indicazioni per il pronto soccorso, era stato lì solo un paio di volte negli ultimi anni e quindi tutt’altro che pratico del posto.

    Il piccolo giardino che circondava l’ospedale era fiocamente illuminato. La nebbia rendeva il soffice tappeto verde umido e scivoloso e Devis evitò di tagliarci attraverso. Salì la piccola rampa d’entrata sostenendosi al corrimano di ferro. Il vetro smerigliato della porta faceva intravedere l’interno illuminato dalla classica asettica luce al neon, decisamente poco invitante. Devis si fermò a un metro dalla porta. Non aveva nessuna voglia di entrare. L’idea dell’interminabile e noiosa attesa che lo aspettava non lo allettava. Tergiversò titubante pensando a un’altra possibile soluzione. Udì il bubbolare di un gufo tra gli alberi, ne scrutò le fronde ma non lo scorse, il suo sguardo fu attirato dall’ipnotico saettare di un pipistrello attorno a un lampione e fu allora che uscì bruscamente qualcuno dal pronto soccorso cogliendolo di sorpresa. Il battente della porta cozzò sulla ringhiera con un tonfo spinto con forza dall’interno e lui venne praticamente travolto dalla ragazza che schizzò fuori a passo deciso. Urtò violentemente la spalla contro la sua facendogli perdere l’equilibrio e Devis imprecò quando poggiò tutto il peso sulla caviglia dolente.

    Hey!, disse con una smorfia di dolore.

    Lei non lo considerò nemmeno e svanì in tutta fretta nella notte camminando a testa bassa verso il cancello d’uscita.

     Fanculo, mormorò tra sé irritato ed entrò rassegnato al pronto soccorso venendo investito dall’odore di disinfettante ospedaliero che gli fece storcere il naso e rivoltare lo stomaco. La sala d’aspetto era poco accogliente, muri bianchi, soffitto di un verde opaco e accecanti luci a neon.

    Zoppicò verso il bancone dell’accettazione guardandosi intorno, la stanza era deserta se non per le due infermiere in piedi in un angolo che parlavano a voce bassa reggendo ciascuna una cartelletta.

    Salutò la grassa signora seduta all’accoglienza che lo guardava nella più totale assenza di cordialità. Era sulla cinquantina, il viso rotondo e flaccido gli ricordò il muso di un bulldog. L’infermiera lo accolse con una fiacca e monotona voce: Compili questi moduli, disse consegnandogli un questionario.

    Lui sospirò e lo prese.

    Devis!, lo chiamò una voce familiare facendolo voltare e si trovò di fronte al padre che lo guardava perplesso.

    Indossava il camice bianco da lavoro e teneva in mano una grande busta gialla, gli occhiali dalla fine montatura di metallo erano scivolati in avanti sul naso tanto che per guardarlo teneva la testa leggermente inclinata verso l’alto.

    Papà!, rispose andandogli incontro con un largo sorriso e dimenticandosi della caviglia che si fece sentire al primo passo strappandogli una smorfia.

    Il padre ebbe in un attimo chiara la situazione, lo raggiunse e si passò il suo braccio attorno alle spalle sfilandogli di mano i moduli e riappoggiandoli sul banco del bulldog assieme alla busta gialla.

    Lasci stare me ne occupo io, disse alla grassa infermiera che annuì e li guardò con sufficienza mentre s’incamminavano piano verso il corridoio.

    Ah, Devis! Vieni con me, facciamo una radiografia e intanto mi spieghi cosa ti è successo, disse suo padre con un leggero tono di rimprovero. Lui si lasciò guidare pensando che la dea bendata quella sera era stranamente magnanima, dopotutto.

    Tommy era appoggiato alla portiera della propria auto parcheggiata nel piccolo spiazzo in terra battuta a fianco della strada. Alle sue spalle si estendeva il parco retrostante la vecchia villa adibita a biblioteca del paese. A quell’ora era chiuso, buio e silenzioso. Le foglie cadute dagli alberi lì attorno coprivano gran parte del terreno come un tappeto e l’aria umida le aveva rese viscide e scivolose. Tommy era infreddolito, indossava solo una felpa con cappuccio grigia sopra una t-shirt a manica corta. Troppo poco per quella fredda serata d’autunno, pensò facendo comunque finta di nulla pur di fare bella figura con Marta. Era la sorella maggiore di uno dei suoi piccoli allievi del corso di batteria e quella la loro terza uscita insieme. L’aveva conosciuta così, per caso, mentre sempre più spesso sostituiva la madre nell’andare a prendere il fratellino alle lezioni pomeridiane. Le occhiate tra loro erano state sempre più intense finché, la settimana precedente le aveva finalmente chiesto di uscire. Era sicuro di piacerle e anche che quella sarebbe stata la volta buona per provare a baciarla.

    Marta abitava nella casa di fronte, sull’altro lato della strada ma non sembrava intenzionata a salutarlo e rientrare, al contrario, tergiversava, forse sperando che lui facesse la prima mossa.

    Erano in piedi, spalla contro spalla, poggiati alla fiancata della macchina.

    Quella sera era più carina del solito, pensò Tommy sbirciandola con attenzione. La pelle chiara, la bocca rosea e gli occhi dorati erano poco truccati, solo un tocco di mascara rendeva più intenso il suo sguardo. Nella fioca luce del lampione sembrava quasi eterea. Erano stati al bowling a giocare a biliardo e aveva dovuto riconoscere che la ragazza non se la cavava per niente male!

    Se non mi bloccavo con quell’otto sulla buca centrale avrei vinto!, disse lei fiera, Non è che mi hai proprio stracciata come dicevi avresti fatto.

    Tommy quasi non la ascoltava distratto com’era dalle sue labbra, osservava il loro fluido movimento a ogni parola. Marta doveva essersene accorta e sembrava non le dispiacesse, anzi. Era fatta, pensò.

    Mmmm…, disse prendendola in giro. Non ti sei nemmeno accorta che imbrogliavo?

    Lei sgranò gli occhi poi li socchiuse in due fessure cariche di ironico sospetto.

    Brutto bugiardo che non sei altro!, rispose colpendolo con un innocuo e poco convinto pugno sulla spalla. Questa è solo una ridicola scusa per il tuo ego, concluse, fiera di tenergli testa e sicura di sé.

    Lui ridacchiò e lei in tutta risposta gli tirò su il cappuccio calcandoglielo in testa e dicendo:

    Smettila di fare il duro, si vede a un chilometro di distanza che stai tremando di freddo!

    Quel gesto li aveva ulteriormente avvicinati. Eccolo, quello era il momento giusto, si disse Tommaso cingendole la vita con una mano e avvicinandola con una leggera pressione finché si ritrovarono a pochi centimetri di distanza l’uno di fronte all’altra. Inclinò il viso scendendo a sfiorarle le labbra, lei schiuse appena le sue pronta a baciarlo. Finalmente, pensò. Fu allora che il suono del suo cellulare infranse l’incanto. Esitò cercando di recuperare l’atmosfera ma il telefonino stava nella tasca della felpa esattamente tra i loro corpi e vibrava fastidioso e insistente.

    Senza allontanarsi lei sussurrò.

    Dovresti rispondere Tommy. Poi si scostò quasi divertita da quella provvidenziale intromissione del destino. Lui fece un gran sospiro rassegnato e tirò fuori l’apparecchio maledicendo chiunque fosse all’altro capo del filo.

    Sul display appariva un numero sconosciuto e di rete fissa; Pronto?, rispose un po’ incerto.

    Tommy, sono io, riconobbe subito la voce di Devis.

    Che succede? Ti ho detto che stasera ero occupato e ti chiamavo più tardi, rispose seccato guardando laconico Marta che ora aveva i gomiti sulla capotta dell’auto, le braccia incrociate e il mento appoggiato a esse, intenta a scrutare il boschetto del parco canticchiando una canzone.

    Sì, sì lo so, ma è un’emergenza, disse Devis, poi ti spiego. Riesci a venirmi a prendere all’ospedale di Mirano?

    La richiesta fu una secchiata di acqua gelata e la preoccupazione ebbe la meglio sull’irritazione.

    Niente di grave, mi sono slogato una caviglia facendo jogging e sono a piedi, concluse lui per spiegare la situazione. Con quelle parole il fantasma di paura si dissolse facendo subentrare nuovamente l’irritazione.

    E non potevi chiamare… che ne so…. Pensò a qualcuno, ma non gli venne in mente nessuno il suo cervello non collaborava distratto dai jeans aderenti di Marta, dal suo profilo delicato, dal dondolio degli orecchini.

    Sì, ma non ho il cellulare con me e il tuo numero è l’unico che ricordo a memoria, disse Devis.

    Ecco fatto, l’aveva incastrato pensò sospirando rassegnato.

    Ok, dammi un po’ di tempo almeno, rispose sperando che l’amico capisse al volo. Riagganciò e mise il telefono nella tasca posteriore dei jeans stavolta.

    Marta non sembrava turbata dall’interruzione anzi, gli sorrise e poi volse di nuovo lo sguardo verso gli alberi davanti a sé. Tommy decise di cambiare tattica scivolandole dietro e cingendole la vita con le braccia. Cominciò a sfiorarle il collo con le labbra e lei lo lasciò fare. Continuò così finché la sentì pian piano abbandonarsi sospirando di piacere.

    Improvvisamente Marta si tirò su dal tettuccio facendo un passo indietro spaventata da qualcosa. Cozzò con la testa sul naso di Tommy che gemette colto di sorpresa dall’impatto e dalla fitta di dolore che ne conseguì.

    C’è qualcuno lì, esclamò la ragazza indicando un punto tra gli alberi.

    Tommy scrutò nel buio tenendosi una mano sul naso dolente e sperando di non cominciare a sanguinare, ma non vide nulla.

    "Sarà

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