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Questa notte vedrai Cassiopea...
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Questa notte vedrai Cassiopea...

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About this ebook

Il Barbarossa, Costantinopoli, la terza e la quarta crociata, la Sindone e la via Francigena
Sono temi della nostra storia imparata sui libri di scuola, forse frettolosamente, ma sempre come cose fredde, distaccate dalla nostra vita.
Il romanzo invece prende per mano il lettore e lo porta a visitare quei luoghi, quei personaggi, facendo intrecciare storie d’amore, magia, vita monastica e guerra contro gl’infedeli.
Il tutto per nascondere o meglio svelare un segreto che contraddistingue la Sindone, il lenzuolo di Torino, che “scompare” per circa 150 anni e nessuno ha idea dove sia finta in quel periodo, che va dal sacco “cristiano” di Costantinopoli per poi riapparire nel cuore della Francia da un discendente templare, i monaci guerrieri che carichi di magia accompagnano tutte le storie medioevali.
Per poi scoprire, almeno nel romanzo qui raccontato, che sono le persone che fanno la storia e non le corporazioni o gli ordini religiosi.
LanguageItaliano
Release dateOct 15, 2013
ISBN9788868559618
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    Questa notte vedrai Cassiopea... - Claudio Cantore

    (Sant’Agostino)

    Il Supplizio

    «MALEDETTO SIA TU, PALMIERO Signore di Reanum! Tu, tutta la tua filiazione e tutti coloro che diverranno possessori del castrum o della piana. Su voi ricada la dannazione perenne. Si salveranno… si salveranno solo i puri di cuore, coloro che doneranno più di ciò che ricevono da questo feudo. Per tutti gli altri resteranno solo disgrazie, mestizie e lutti. Questo possedimento dovrà restare integro in memoria del gran sacrificio infertoci… per perpetuare e custodire il segreto che noi, oggi, ci porteremo appresso… per sempre!».

    A queste ultime parole del templare Ludovicus Capilli seguirono le fiamme appiccate dagli sgherri. Insieme al monaco, furono accusati d’eresia e condannati al rogo: quattro confratelli, sei contadini del luogo e quattro donne. Solo il fuoco purificatore aveva la forza di dividere l’anima dal corpo, solo le fiamme potevano depurare la comunità e non era ammesso lo spargimento del sangue che portava alla morte; anche se tanto ne era stato versato sotto tortura.

    Era l’estate del 1221 e la sentenza non dette scampo: Eresia di gruppo. L’inquisitore, venuto da Roma, decise così; e così si stava attuando!

    Inquisizione significa indagine.

    La crociata contro gli Albigesi era troppo recente e ogni caso sospetto d’ortodossia catara doveva essere eliminato; la paura che la dottrina dei Poveri di Lione si diffondesse era troppo temuta dalla Chiesa. Un avvicinamento, tra i templari e gli Uomini Puri, era considerato fin troppo pericoloso, tuttavia i presenti sapevano che quell’emessa era una sentenza fasulla, un processo per estorcere una confessione.

    Nessuno ebbe il coraggio di contraddire, scoprendo poi che non era più possibile tornare indietro. L’inquisitore voleva che quello di Reanum fosse un sermo generalis, vale a dire un’ammissione pubblica d’eresia, invece divenne una penosa farsa con un altrettanto orrendo verdetto da scordare e cancellare.

    La sentenza finale che ne uscì fu:

    In cospectu populi comburantur!

    (Bruciateli di fronte al popolo!).

    Sulla spianata della Rivata, ove si trovava il crocevia per la via di Villiana con la strada di Djavën verso Ranverso fuori dell’abitato di Reanum, fu approntato un grosso palco. L’intera popolazione del luogo fu chiamata per procurare la legna e le sterpaglie. Quindici pali diritti suddivisi in tre gruppi puntavano verso il cielo e sotto vi erano delle fascine pronte per innescare i roghi.

    Cinque alla volta i condannati, torturati così tanto da essere irriconoscibili, furono trasportati con un carro dalla cascina templare fino a quel luogo; le prime vittime restarono legate tra loro, sul palco, per oltre un’ora ad attendere il supplizio.

    Con i confratelli Felicius, Ambroise, Goffredo e Ugo, Ludovicus fu posto al centro nella prima fila. Lui era il capo, si voleva che il popolo ne testimoniasse, senza ombra di sospetto, il supplizio e… l’espiazione o forse la confessione.

    Il rogo

    «Ho combattuto gli infedeli in Terrasanta, però ho visto tanti amici morire per mano cristiana… è questa la dottrina che il Signor Iddio, Gesù Cristo, ci ha spiegato? Questo è quanto scritto nei vangeli?».

    Queste parole di Ludovicus furono il suo ultimo atto d’accusa, nessuna ritrattazione.  Legato al palo del supplizio egli aveva alla sua destra fra’ Felicius, il frate più anziano, che non riusciva più a parlare, emetteva solo suoni gutturali; sotto tortura gli era stata strappata la lingua, cicatrizzandola poi con un ferro rovente onde evitare la temuta morte per dissanguamento. Dall’altra parte, sulla sinistra vi era fra’ Ambroise. Ludovicus notò subito che i polsi del suo assistente erano in una posizione innaturale, fu chiaro che era stato sottoposto al supplizio dello stiramento, sentiva il suo gemito di dolore. Gli altri due confratelli: Ugo e Goffredo, non riusciva a scorgerli tuttavia, dai loro lamenti, capiva che anche loro erano stati torturati.

    Prima di essere legato al palo, Ludovicus scorse tra le altre vittime, Agata, una cara amica di sua madre; essa aveva la fama di essere una guaritrice. Forse fu scambiata per una strega, un’eretica da bruciare, invece lei aveva elargito tanto bene, salvato vite, fatto nascere mezzo paese e forse più. Ludovicus pensò amaramente che avrebbero dovuto santificarla, invece ora era lì a torso nudo, si vedevano i suoi seni grossi e cadenti; le tante ferite evidenziavano la dura tortura a cui era stata sottoposta.

    Di fronte ai condannati, sotto il sole accecante d’agosto, una folla inquieta chiedeva di fermare quella carneficina mentre dietro svettava l’imponente profilo del castello il cui sguardo pareva fissarsi sull’altro lato, quasi rifiutandosi di dover fare da testimone a quell’ingiustizia. Sotto, all’ombra del maniero, si vedevano la chiesa di San Sebastiano e la cascina templare; in mezzo il campo di grano era appena stato falciato, le stoppe brillavano così tanto da sembrare d’oro e le paglie erano ammucchiate sotto i piedi degli imprigionati.

    Questo mondo rimarrà il custode inconsapevole del mio grande segreto.

    Il feudatario, già da qualche tempo, aveva trasferito la sua abitazione a Vilare Folcardi. Egli era preoccupato per la presenza templare e temeva che i suoi privilegi fossero minacciati. Forse fu quella l’unica motivazione per quel vigliacco tradimento. Palmiero usò ogni mezzo per calunniare i monaci, ricorrendo persino ad un falso processo d’eresia.

    La casa templare era un riparo per i più deboli e li difendeva dalle ingiustizie. Questa cosa, ai signorotti locali, non piaceva. Palmiero non aveva il coraggio di contrastare l’Ordine fino a quando non ricevette soccorso dai potenti cavalieri spedalieri, ostentatori della loro angolosa croce ottagona. Questi avevano dei conti in sospeso con Ludovicus e attendevano quell’occasione da diversi anni. Volevano impossessarsi di una preziosissima reliquia di cui egli era il solo custode depositario avendo giurato di proteggerla nella Costantinopoli assediata dai fratelli crociati. Non avendo scoperto dove questa reliquia era nascosta, gli spedalieri volevano che tutto si dissolvesse nell’acre fumo delle pire.

    Il nero carro che trasportava l’inquisitore era già molto lontano, ben oltre la collina. Egli sicuramente guardava all’indietro cercando il segno del compimento del proprio lavoro: la traccia scura di fumo che avrebbe offuscato il celeste del cielo d’estate che nessun nembo, fino a quel momento, aveva osato imbrattare.

    Nell’aria si diffondevano i forti odori estivi e le mosche imperavano sulle ferite dei condannati, eppure nessuno era infastidito. I magistrati esecutori domandarono per l’ultima volta ai prigionieri se volevamo ricredere alle loro decisioni, era l’estremo inutile dovere. Le prime pire umane già iniziavano ad ardere; Ludovicus era oramai circondato dal fumo, sentiva il calore aumentare e il rumore scricchiolante delle fascine secche incendiate.

    Urla terribili squarciavano l’aria! Provenivano dalla fila più arretrata, quella formata dalle quattro donne e Pujn, il bracciante che aveva la sola colpa di vivere in una casa proprio a ridosso del muro confinante della cascina. Per i magistrati egli doveva sapere.

    Ognuno dei condannati aspettava il proprio turno, in una sorta d’anticamera dell’oblio. L’olezzo della carne bruciata giungeva forte provocando vomito e nausee.

    La reazione delle prime vittime fu emotiva, urlavano di paura, chiedevano aiuto… inutilmente!

    Nessuno, ormai, ci potrà più salvare! pensò Ludovicus.

    I fluidi corporali alimentavano il fuoco stesso, fino a far sciogliere le carni e far scoprire il bianco lattiginoso delle ossa che compariva tra le vampate.

    La gente era inorridita da quell’atroce spettacolo ma anche attratta. Chi poteva si copriva la bocca e il naso con pezzi di stoffa ricavati dagli abiti tuttavia gli sguardi erano fissi su quelle scene di terrore e di morte che Ludovicus, anche se molto più vicino di loro, poteva solo immaginare.

    Qualcuno, pochi in verità, di fronte ai suppliziati rideva e li scherniva, altri piangevano.

    La maggioranza protestava, i soldati dovevano faticare molto a trattenere gli scalmanati per evitare risse che avrebbero distolto l’attenzione dallo spettacolo principale.

    Ludovicus, tra la folla, vide Dianella singhiozzante. Era lì, a pochi passi da lui ma non poteva toccarla e un disperato pensiero corse nella sua mente: non l’avrebbe mai più rivista né potuta amare.

    No… Dianella l’avrei ritrovata in Paradiso e saremmo stati per sempre insieme! Si tranquillizzò, con quel pensiero.

    Egli riportò lo sguardo verso la folla e, di fianco a Dianella, vide Barbara la sua sorella gemella; notò chiaramente che lei non piangeva, era nervosa, si guardava intorno tuttavia non pareva disperata. Poi, incrociando gli sguardi, lei fece un segno che solo i doppi sapevano riconoscere, era un cenno di conforto, un …non ti preoccupare tutto a posto! Ludovicus però non riusciva a capire.

    La chioma rossa e riccioluta di Barbara si distingueva sempre. Egli si vergognò di essere in quelle condizioni, per un momento pensò che forse avrebbe potuto cedere svelando il suo segreto, permettendo così di riavere la sua vita tanto brutalmente seviziata e far terminare tutto quel dolore.

    Volse lo sguardo verso il cielo per cercare aiuto e lo trovò!

    Si preparò allora alla morte, salutò quelle due donne e impresse l’immagine della dolcezza dei loro visi nel proprio cuore; nessuna fiamma avrebbe potuto cancellarla.

    Ludovicus sentiva che il calore era sempre più intenso eppure non percepiva dolore o paura, la sua mente vagava e si distaccava dal corpo per ripercorrere il vissuto; fu in quello stato d’incoscienza che, tra la folla, scorse il viso di Pierre sorridente, un riso sarcastico e amaro, di chi sfida la morte prima della battaglia. Egli non era con Barbara, dove si aspettava di vederlo ma più distaccato, dietro a dei soldati, non indossava la cotta e l’armatura, come l’aveva visto tantissime volte, solo un saio da pellegrino che lo camuffava tra la folla; anche se la sua alta statura lo tradiva… come sempre!

    A Ludovicus pareva di vivere in un altro mondo, il dolore, i suoni, gli odori intorno erano spariti e sentiva una voce da dentro che diceva: «Hai presente un frutteto fiorito? Pensa a degli alberi di pesco, metti che per un attimo si alzi un po’ di vento… e tu sei lì nel mezzo. Assisterai ad uno spettacolo della natura non messo in conto, totalmente gratuito e sconvolgente: una nevicata di piccoli petali rosa che ti annebbia la vista e il cuore».

    Questa fu la sua ultima visione!

    Marianna

    Nove lustri prima su una collinetta, che divideva Reanum con il borgo di Villiana proprio all’imbocco di quella valle che permise ad Annibale con i suoi elefanti di entrare nella terra dominata dai romani, esisteva un luogo abitato da contadini, specializzati nell’allevamento delle api, chiamato Peiralèida.

    La zona era caratterizzata da una particolare vegetazione ricca di pini e prati da cui affioravano rocce che si sfaldavano calpestandole, rilasciando un colore rossastro. Qua e là curiosi massi dai colori e forme differenti erano in bilico sul baratro che si protraeva verso i quattro laghi posti nel fondovalle. Macigni estranei rispetto al paesaggio circostante, quasi come se la mano dell’Onnipotente li avesse deposti lì, in una sorta d’ornamento del paesaggio; come nei cibi dei nobili che sono ritoccati da sapienti mani al sol scopo d’imbellettarne l’aspetto.

    Nella bassa, la zona paludosa era una barriera naturale che intralciava la marcia di eserciti o anche di semplici pellegrini che avevano appena terminato l’attraversamento della catena alpina. Il percorso s’inerpicava sulla collina, giungendo quindi a Peiralèida per poi degradare verso la fertile piana del grande fiume.

    Un pomeriggio d’inizio estate, una donna anziana di Peiralèida prese la propria nipote per mano con la scusa di andar a cercare l’erba ranocchia. Così era chiamata una speciale erba i cui semi erano una ghiottoneria per i batraci. I posti in cui questa cresceva erano rari, non potevano essere troppo assolati, però neppure eccessivamente umidi, insomma bisognava conoscere il luogo esatto e quella donna, dai capelli color grigio lucente tanto da sembrare un airone cenerino, certamente ne conosceva parecchi. Era un’arzilla vecchietta, ben in forma, con lo sguardo vivace e due occhi celesti che attraversavano il corpo per giungere all’anima. I capelli erano raccolti in un fazzoletto nero annodato sotto il mento dal quale alcune ciocche sfuggivano alla stretta e parevano dei nastrini d’argento; le sue mani, pur rugose e sciupate dalla vita, erano morbide e calde. Aveva una voce soave, tuttavia sapeva farsi rispettare e onorare. Tutti nella comunità la stimavano e ne portavano deferenza.

    Marianna, la nipote, era invece una giovanetta di circa dodici anni, quasi donna, con tanta voglia di vivere; una chioma folta, arricciata, con un forte rutilismo e la pelle chiara, piena di macchioline. «…erano i segni distintivi, caratteristici della nostra razza» così diceva la nonna che le aveva già insegnato come riconoscere le erbe per far guarire il rossore della pelle o quelle che alleviavano il mal di stomaco se avevi bevuto acqua non pulita o altre ancora che calmavano il tremolìo alle mani. Le raccomandava sempre di controllare il profumo e il colore delle spezie raccolte, tutte dovevano avere la medesima tonalità e la stessa intensità d’aroma altrimenti, mescolando umori diversi, la mistura poteva non funzionare.

    Era il momento giusto! La nuova luna stava crescendo, l’erba ranocchia era ormai sfiorita e i minuscoli frutti verdi erano pronti per essere raccolti. Mescolati poi con foglie di betulla e piccole pigne resinose, si formava un impiastro che andava pestato nel mortaio e poi allungato nell’acqua. Il miscuglio doveva essere macerato al sole dell’ultima decade di settembre, quando non era più troppo forte ma ancora bel caldo e per una settimana, non meno.

    Terminata questa preparazione l’impiastro andava ancora messo in bollitura per alcune ore. Alla fine si condensava in uno speciale unguento che, spalmato sulle ferite, impediva al sangue di fuoriuscire dal corpo.

    Marianna si aspettava che la nonna l’accompagnasse nelle combe che si trovavano poco oltre il paese. In questa zona, grazie a piccoli laghetti, poco più che pozzanghere, il terreno era umido e formava la giusta combinazione per la crescita dell’erba ranocchia.

    Inaspettatamente però la nonna condusse la nipote sullo spartiacque della montagna di Peiralèida, esattamente nella direzione opposta dove lei si aspettava di andare. Quella era una zona che incantava Marianna. Lo sguardo spaziava e vedeva nella bassa i laghi proprio all’incrocio delle due valli; la corolla delle montagne faceva da frontiera con le cime perennemente imbiancate. Un gruppo di case, che costituivano il borgo di Villiana, erano abbarbicate sulla collina dando protezione ad un castello. Sopra in distanza, sull’eremo, vi era una grossa chiesa, un monastero aperto ai pellegrini che volevano andare a Roma.

    Lei s’immaginava di scendere verso la laguna, speranzosa che la nonna avrebbe mostrato un nuovo posto per l’erba ranocchia tuttavia si fermarono lì. L’ava invitò Marianna a sedersi su una piccola rocca, posta su un precipizio così a strapiombo che pareva cadere e rotolare nella valle sottostante. La giovane capì che l’erba ranocchia era una scusa, la nonna voleva raccontarle una storia, una delle tante, che narrava durante le passeggiate dedicate alla raccolta delle erbe medicinali. Storie che, diceva la nonna: «…appartenevano al segreto della nostra famiglia, al mistero della nostra stirpe».

    L’anziana genitrice iniziò così il racconto impostando un tono di voce grave e seria in viso: «Vedi, da quella parte siamo arrivati… prima ancora che quella grande chiesa, che intravedi sulla cima, esistesse – affermò indicando l’abbazia di San Michele – …e il borgo che c’è lì sotto, oggi un’importante città di passaggio, era costituito da poche case di paglia quasi tutte costruite di là da quel fiumiciattolo che chiamano Dora, acqua nella nostra antica lingua».

    Appena la nonna si rese conto d’aver rapito l’attenzione della nipote, continuò: «Devi sapere che noi discendiamo da una stirpe antica e nobile; una famiglia di re, che viveva oltre le montagne ma proveniva da una terra ancora più lontana, sita di là da un’immensa distesa d’acqua chiamata mare».

    Per dare più effetto al racconto, allargò le braccia per indicare una cosa molto grande.

    «Più grande del lago dei Mareschi?» chiese Marianna indicando uno dei quattro specchi d’acqua che si trovavano di fronte a lei, il più grande.

    «Nooo… molto più grande. Pensa che dal suo bordo, non si riesce mai vederne la fine; neppure salendo sulla più alta montagna. Vedresti solo il blu delle sue acque che si confonde con il cielo e quando il mare è irato… uuuh, il suo rumoreggiare s’incupisce e soffia un vento fortissimo. In superficie nascono delle montagne d’acqua, sulla cui sommità, si vede la spuma, che pare neve. Non durano che pochi istanti, forse solamente il tempo di un respiro e queste si muovono verso di te…».

    «Deve fare tanta paura, però deve essere anche un bellissimo spettacolo. Nonna Odilia, tu un giorno mi porterai a vederlo!» disse Marianna, ormai evidentemente incantata dal racconto.

    «Sì, un giorno tu lo vedrai, in ogni modo sarà tuo figlio che salirà su grandi case che si muovono sull’acqua con ali bianche crociate di rosso e che si alzano da alberi senza foglie. Lo trasporteranno fino alla costa che non si vede e insanguinerà la sua spada tante volte, di sangue infedele».

    Odilia si fermò alcuni istanti per pensare mentre Marianna si domandava se lei riusciva davvero a percepire il futuro o erano delle illazioni fantasiose della sua mente.

    La stirpe merovingia

    «…non siamo qui per scrutare quello che avverrà! Voglio parlarti del passato, del nostro trascorso. – La nonna lo disse come se volesse svolgere un compito che l’attendeva da anni – Il capostipite della nostra stirpe si chiamava Meroveo; egli era figlio del re Polasio e della principessa Hirama, vivevano in un sontuoso palazzo, in una terra pianeggiante e fertile, ubicata nella direzione in cui sorge il sole. Per entrare nella reggia si doveva scavalcare una soglia alta almeno una spanna, era l’ostacolo per… gli spiriti maligni che, inciampandovi contro, non potevano entrare. La porta era così larga che passavano almeno dieci persone nel medesimo istante, le pareti erano di legno rosso, intagliato con inserti di sottili lamine d’oro che riproducevano scene di vita, montagne e paesaggi locali».

    La nonna Odilia con un rapido gesto scacciò via un insetto che si era avvicinato alla guancia di Marianna e poi senza dar peso a quel fatto continuò: «Si pranzava tre volte il giorno, il cibo era portato alla bocca con le mani che erano mondate con acqua profumata per meglio assaporare le gustosità donate da quella terra, ricca e generosa. I coltelli restavano nella cucina e mai… mai e poi mai sul tavolo, il cibo era già tagliato a giusta misura. Gli uomini locali erano molto concilianti, al tempo stesso austeri, avevano occhi piccoli, pelle chiara e poca barba ma amavano profondamente i nostri antenati fino a che un giorno infausto, dal nord giunse la morte».

    La nonna fece una breve interruzione per meglio magnetizzare l’attenzione.

    «Una popolazione nemica invase il regno e uccise tutti i membri della nostra famiglia, solo Meroveo riuscì a fuggire, gettandosi nel mare».

    Marianna era certa che la nonna avesse una fantasia infinita e quei racconti erano l’immaginazione del momento, però poi continuando…

    «Gli appartenenti a questa dinastia saranno chiamati re lungo chiomati o reges criniti. Essi portavano impressa sulla pelle, all’altezza del cuore, una macchia rossa a forma di croce». La nonna aprì appena il vestito di Marianna allargando la camiciola e indicò la macchia rossa che lei portava sul petto, quasi nel centro, proprio sul cuore, tra le

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