L'Eroica in Moto: Gaiole in Chianti 0-2015
Автор Andrea Leggieri
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L'Eroica in Moto - Andrea Leggieri
Twain
l' Eroica© in Moto
di Andrea Leggieri
Grazie alla moto ho avuto la fortuna di vedere un (bel) po’ di Mondo. Ai tempi in cui presi la mia prima patente -la novità del momento erano le TV a colori, WOW!- l’Italia non si poteva proprio definire cosmopolita; un Paese senza un significativo passato coloniale, unito da neppur centi anni e già passato per due guerre mondiali, una guerra civile e una fredda, con una storia di emigrazione in cui ancora prevaleva la sofferenza dei tanti ai successi dei pochi, si era concentrato sul ricostruire un sentimento di appartenenza nazionale piuttosto che alimentare fantasie esotiche…
Ricordo bene l’unica fantozziana escursione all’estero della mia infanzia, arenatasi già al primo ristorante francese, dove increduli scoprimmo che non si servivano né gli spaghetti né il caffè espresso – all’uscita, disgustato ed affamato, mio padre saltò sulla Bianchina, fece inversione e sgommando come non mai fece nuovamente rotta verso l’italico rassicurante grembo materno!
Circondati da muri fisici e mentali, senza neanche immaginare cosa avrebbe potuto in futuro combinare Internet, il nostro era un piccolo mondo; ma per chi ci stava stretto in quegli orizzonti casalinghi, il desiderio di andare oltre era irresistibile; e per chi osava sfidare quelle Colonne d’Ercole
, allora era sufficiente percorrere poche centinaia di chilometri per ritrovarsi in altri-Mondi
. A Nord-Est, appena valicate le Alpi, si srotolovano immensi confini blindati, dove ti esaminavano come se tu fossi 007 in persona in uno dei suoi diabolici travestimenti da mototurista, dove o tacevano come se tu non esistessi, o ti si rivolgevano con parole lunghe chilometri, senza una vocale umana ed anzi infarcite di x j z h; dove un giorno ti capitava di mangiare con mille lire in un ristorante di lusso sfrenato, e quelli successivi di piangere per la fame perché i negozi erano tutti vuoti.
Ma in fin dei conti anche qui le strade erano asfaltate (più o meno), le case quadrate, i bambini la mattina si alzavano per andare a scuola e gli adulti per andare in fabbrica o in ufficio; e se ognuno di noi aveva si un qualche zio o amico capitalista
che definiva questo altro-Mondo
il Male Assoluto, certo non poteva mancare un vicino o un compagno di banco comunista
che al contrario lo considerava la Terra Promessa, per cui da buon viaggiatore dopo qualche giorno di acclimatamento ci si sentiva come a casa propria.
La Paris-Dakar
…
Eppoi, ecco all’improvviso spuntare un gruppo di giovani scavezzacollo francesi che ci apparecchia davanti un altro orizzonte mozzafiato.
Si erano fatti le ossa (più di uno se le era rotte, a dire il vero) nei primi pioneristici rally transcontinentali degli anni ‘60/’70, ma all’alba degli anni ottanta uno di loro aveva fatto innamorare tutto il mondo di una idea fissa e folle, che iniziava la notte di Capodanno dal cuore di Parigi e si concludeva un mese dopo tuffandosi nelle acque dell’Oceano Atlantico, dopo aver trionfalmente sfilato sulla spiaggia di Dakar. Nel mezzo uno spazio sconfinato di dune e rocce e cielo e sole accanito, che prima credevamo fosse deserto
, e che poi scoprimmo straordinariamente ricco di vita, di fascino, di imprevisti, di poesia.
Quell’enorme spazio prima indistinto e vuoto sull’atlante, che i libri di geografia liquidivano come Sahara, iniziò a popolarsi di paesaggi assai diversi: le pietraie dell’Assekrem o l’albero del Tenerè, le onde di dune della Mauritania e la giungla della Guinea. E i nostri progetti di viaggio si riempirono di soste nelle oasi e di incontri con odalische e Tuareg, mentre le tappe e le destinazioni che magnetizzavano avidamente ogni nostra energia di vita cominciarono a chiamarsi Djanet, Tamanrassset, Agadez.
La Paris-Dakar
presto assurse unanimamente al titolo di ultima grande avventura
.
Ai partecipanti delle primissime edizioni, appassionati che attrezzavano con enormi serbatoi e taniche le stesse moto con cui si recavano quotidianamente a scuola o al lavoro, presto si aggiunsero piloti professionisti e tanti protagonisti del bel mondo
, ma a lungo il suo spirito resistette pervicacemente immutato nella sostanza: " tutta l’umanità era rappresentata, ed unicamente perché la Dakar non esigeva qualità particolari, a parte uno spiccato senso dell’avventura, spirito di sacrificio ed onestà (Paolo Scalera,
Il prezzo era alto", Massimo Baldini Editore).
© Claudio Falanga
Per tutto l’anno i preparativi e i progressi del Rally correvano paralleli alle fantasie di noi giovani sognatori: ogni momento libero lo si dedicava al lavoro in garage, ma non per abbellire la moto o renderla più potente, con l’obiettivo di strappare una benevola occhiata dalle ragazze sul lungomare, o per rivaleggiare con gli amici nelle corse sui passi – ora che anche noi eravamo dakariani
(nel nostro piccolissimo), come sembravano puerili questi vecchie preoccupazioni! Ben altri erano adesso i nostri pensieri: aumentare la autonomia di carburante della moto, montare taniche per l’acqua che non si staccassero al primo salto, rinforzare telaio e sospensioni sperando potessero rivelarsi all’altezza delle micidiali prolungate sollecitazioni delle piste, ricavare alloggi di fortuna per ricambi ed attrezzi – e alla fine con che occhi sognanti e innamorati guardavamo quegli accrocchi a due ruote che anticipavano lo stile post-atomico!
E finalmente scoccava l’agognata ora della partenza: arrivavi a Genova difendendoti alla bell’è meglio dal gelo padano, ti imbarcavi con somma pazienza sulla Habib
, e dopo 24 ore -quando finalmente si apriva la chiglia della nave- SDENG! subito sbattevi contro all’Africa, cercando di aprirti un passaggio in una atmosfera densa di spezie, sudore, trappole e gloria, comunque promessa di giorni non banali.
Qui non voltavi pagina, cambiavi