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Quei giorni perduti
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Quei giorni perduti

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About this ebook

L'incontro dopo quarant'anni con una vecchia amica, Marta, risveglia nella protagonista ricordi dolorosi e riporta alla mente traumi non ancora pienamente risolti. Gloria si era allontanata da Marta per seguire Lucio, un ragazzo "bello e dannato" che le aveva rubato il cuore e la ragione e che lei ha amato con tutta se stessa. Attraverso il racconto degli anni passati con Lucio, Gloria vuole condividere con l'amica ritrovata tutto il male che ha subito e affrontare il rimorso per averle improvvisamente negato la sua amicizia ed averla allontanata senza una spiegazione.

Tutto ciò che è raccontato in questo libro è realmente accaduto alla protagonista. Il suo corpo, e soprattutto la sua anima, portano ancora i segni di ogni atto di violenza fisica e psicologica che ha subito. Nonostante tutto però, Gloria è qui, è viva e vuole lanciare un messaggio di speranza a tutte le donne che come lei ogni giorno subiscono violenza dai loro partner che dicono di amarle. Vuole dire loro che, come lei, ce la possono fare!
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 5, 2019
ISBN9788831621410
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    Quei giorni perduti - Gloria Pennisi

    perduti

    INTRODUZIONE

    1975

    Cap. 1

    Anche i dolori sono, dopo lungo tempo, una gioia, per chi ricorda tutto ciò che ha passato e sopportato. Omero

    Chissà da quanto tempo mia madre era lì, seduta ad aspettarmi su una delle panchine di pietra del giardino. I lunghi capelli corvini erano raccolti in una coda, ma qualche ciocca sfuggiva all’elastico che li teneva stretti e le scivolava morbida sulle spalle. Li avevo presi da lei, i miei capelli, scuri, lisci, che lei insisteva a colorare di una gradazione troppo marcata, quasi bluastra, che io non approvavo. D’altra parte, in quel periodo approvavo ben poco di quello che faceva: si era spezzata l’intesa che avevamo creato nei primi anni della mia adolescenza, quando riuscivamo a parlare di ogni cosa e lei aveva sempre una risposta per tutto, quando ero così fiera di assomigliarle che m’inorgoglivo se qualcuno si stupiva che fossi sua figlia solo perché, diceva, sembravamo sorelle. Eravamo due gocce d’acqua, infatti, somiglianza rafforzata dalla sintonia delle nostre anime. La nostra complicità era frutto di un legame profondo, ma evidentemente non abbastanza indissolubile se, dopo, quel filo si era spezzato.

    Non mi vide arrivare, così io rallentai per pensare ad una strategia da usare nel caso LUI ci avesse visto. Ci teneva che non parlassi con nessuno, neanche con i miei genitori, o dovrei dire, soprattutto con i miei genitori. Li detestava.

    Era bella mia madre. Quel giorno indossava un paio di pantaloni bluette ed una felpa bianca, con un disegno di Topolino.

    Cavoli, mamma, hai quarant’anni, no dico, qua-ran-ta, tra poco sarai nonna  e ti vesti ancora con le maglie di Disney? – pensai mentre mi avvicinavo.

    Reggeva un enorme cocomero, come se lo stesse cullando, come se si volesse preparare all’evento che ormai era vicino, almeno questa era la mia impressione mentre percorrevo un tratto del vialetto che ci separava. Aveva lo sguardo rivolto alla strada dove il traffico procedeva a singhiozzo per le auto che si fermavano allo scattare del rosso, al semaforo che regolava l’incrocio. Anch’io rivolsi lo sguardo alla strada, a quei volti visibili attraverso i finestrini, volti di persone della cui vita non sapevamo nulla e che, molto probabilmente, non avremmo incontrato mai più: volti di uomini, di ragazzi, di donne, di madri, di padri, di figli che per un attimo incrociavano le nostre strade, le sfioravano appena, per poi scomparire per sempre dal nostro orizzonte. Non si accorse subito del mio arrivo così, volutamente, indugiai per osservare l’espressione assorta del suo viso,  quel viso che stavo guardando per l’ultima volta. Ma io, questo, ancora non potevo saperlo.

    Ad un tratto sembrò scuotersi: mi aveva visto. Appoggiò l’anguria sulla panchina e mi venne incontro con un sorriso luminoso, poi, a pochi passi da me, con un guizzo si abbassò, mi cinse i fianchi e mi stampò una serie di baci con lo schiocco sulla pancia.

    Dai, mamma, non sei l’unica che diventerà nonna!- e mentre le dicevo questo, mi guardai intorno temendo il peggio, temendo che mio marito potesse vederci, mentre le parlavo…

    Oh no, speriamo di no, che poi sarebbe l’inferno!- pensai preoccupata. Lei era di fronte a me. Mi guardò negli occhi con una tenerezza che mi straziò.

    Ti ho portato quello- disse indicando la panchina- sono gli ultimi, sai? Il mio fruttivendolo l’ha tenuto da parte per te, ma ormai siamo fuori stagione. So che ti piace tanto l’anguria e nelle tue condizioni devi mangiarne tanta di frutta e verdura, che ti fanno bene.

    Sono incinta, mamma, sbottai, mica malata!

    Ero odiosa, lo sapevo, ma se Lucio fosse stato nei paraggi, almeno

    avrebbe visto che la trattavo male, pensai, e non si sarebbe arrabbiato.

    Poi, quasi vergognandomi del  ruolo detestabile che mi stavo imponendo, aggiunsi

    Beh, grazie, comunque. Ora devo entrare in casa, perché sono un po’ stanca. Di notte dormo poco, ormai manca solo un mese… 

    Lei annuì, mi guardò dritto negli occhi fin dentro l’anima. Sembrava leggermi nel profondo quello che non le avevo mai detto, quello che non avevo mai rivelato a nessuno, ma che lei aveva sempre saputo. Che di notte lui mi svegliava quando arrivava a casa molto tardi, dopo aver fatto baldoria con gli amici ed aveva fame e mi chiedeva di fargli qualcosa da mangiare e si innervosiva perché non c’è mai niente di buono in questa casa, diceva, e io pensavo solo a dormire invece di aspettarlo e, da brava moglie, preparargli qualcosa, che lui non sapeva più cosa fare con me, mi amava troppo ed io non me lo meritavo e se mi picchiava faceva più male a lui che a me, ma io lo costringevo a farlo perché doveva farmi capire come si stava al mondo, che quei porci, sì, diceva proprio così, quei porci schifosi dei miei genitori non mi avevano insegnato nulla e se ne infischiavano di me, ed era per questo che, se mi avesse visto parlare con loro, mi avrebbe riempito di cazzotti. Avrei fatto meglio ad ignorarli, anzi li dovevo evitare proprio, perché cosa potevo imparare da due persone così spregevoli … ed io ero  una persona inutile ma per fortuna mi avrebbe raddrizzato lui che mi adorava e mi voleva insegnare a vivere, ma se volevo tornare nella fogna, ero liberissima di farlo, anche se così lo avrei condannato a morte, perché lui viveva solo per me….

    Soffocai un singhiozzo, ma fu solo un attimo e subito mi ricomposi. Lei era ancora lì, davanti a me. Sembrava stesse per dire qualcosa

    - Gloria- disse soltanto, poi cambiò idea, forse perché sapeva che non l’avrei ascoltata, sapeva che in quella fase della mia vita non c’era niente che potesse dire o fare per convincermi a togliermi da quella situazione pericolosa che io credevo amore. Si avviò verso il cancello. Sapeva che non le avrei chiesto di accompagnarmi dentro casa. Era  entrata nel mio appartamento solo il giorno del trasloco ed erano già passati diversi mesi da allora. Girò la testa e sussurrò, quasi parlando tra sé e sé:

    – Abbi cura di te, tesoro mio- poi camminando verso il cancello aggiunse- e della tua creatura.

    Aspettai che si allontanasse, poi salii di corsa le scale ed entrai in quella casa-prigione, dalla quale solo grazie al mio lavoro riuscivo ad evadere. Entrai piano, in punta di piedi, perché lui, mio marito, era ancora a letto. Appoggiai il cocomero in un angolo del terrazzino adiacente alla cucina. Dovevo subito mettermi a preparare la cena. Dovevo assolutamente preparargli qualcosa di buono, così quella sera non si sarebbe infuriato! D’altra parte, lo sapevo, lui mi amava troppo ed era per questo che si adirava quando sbagliavo. Voleva che fossi perfetta, lo faceva per me, per il mio bene. Poteva succedere che a volte esagerasse e le botte lasciassero troppi segni, così ero costretta ad inventare un sacco di scuse con i colleghi di lavoro e con mia madre che non mi credeva mai! Le dicevo che ero caduta, che avevo colpito con uno zigomo la portiera della macchina, che avevo sbattuto la testa sul lavandino facendo le pulizie. Sapevo recitare così bene, ormai! Ma lei non mi credeva. Lei sapeva. Lo leggevo nei suoi occhi. Era sempre stata diffidente, mia madre, nei confronti di mio marito, aveva sempre messo in dubbio che Lucio fosse l’uomo giusto per me, per non parlare di mio padre che mi proibiva di frequentarlo, arrivando a chiudermi a chiave in camera, fino al momento in cui si era arreso di fronte al fatto che, oramai, quell’uomo me lo ero sposata. Persino lei, mia madre, si era presa qualche sberla, qualche pugno, da mio padre. Li aveva subiti per difendere me, quando io scappavo in strada per incontrare Lucio e, al mio rientro, mio padre andava su tutte le furie e diventava violento. Ma io quel ragazzo lo volevo, l’avevo scelto contro tutto e contro tutti.  Era così doloroso che l’uomo che mi aveva dato la vita e quello che la mia vita se la stava prendendo facessero a gara a chi mi pestava di più. C’era stato un periodo, prima di sposarmi, in cui venivo regolarmente bastonata, in casa da mio padre e fuori da Lucio. Chissà se me lo meritavo! Non ne ero più tanto sicura. Però, a volte, quando mio marito mi vedeva a terra, che piangevo e magari si accorgeva di avermi colpito troppo forte perché mi usciva il sangue dal naso, o il viso era tumefatto, sembrava davvero dispiaciuto, mi chiedeva scusa, mi prometteva che non lo avrebbe fatto mai più e finiva che io gli credevo e lo perdonavo.

    Sentii dei movimenti provenire dalla camera da letto. Forse Lucio si stava alzando, poi sarebbe andato in bagno e si sarebbe preparato per uscire, anche quella sera, come la sera precedente e quella prima ancora. Tornava a notte inoltrata e, all’ora di pranzo, non si alzava dal letto perché era troppo stanco. Ma forse, quando avesse trovato un lavoro gratificante  le cose sarebbero cambiate.

    Quella sera gli avrei preparato una bella cena. Avrei cucinato il pollo alla cacciatora con le patate in rosso. L’ultima volta le aveva mangiate e non mi aveva detto nulla. Dovevano essergli piaciute. E poi, se avesse notato l’anguria che mi aveva portato mia madre, per farlo contento gli avrei detto che l’avevo trattata male come mi aveva raccomandato lui di fare e  l’avevo mandata via e non l’avevo fatta entrare. Ecco, sì, gli avrei detto questo, così lui sarebbe stato orgoglioso di me e, forse, quella sera sarebbe rimasto a farmi un po’ di compagnia prima di uscire. Che poi, molte volte, quando tornava io fingevo di dormire, ma sentivo l’odore che gli rimaneva addosso, l’alito che sapeva di alcool, ma  anche un aroma dolciastro, forse un profumo femminile appena coperto da un olezzo di fumo. Non era il profumo che usavo io. Quante volte piangevo in silenzio, col viso premuto contro il cuscino per soffocare i singhiozzi!  Dovevo solo avere pazienza, mi ripetevo, che appena fosse nato il nostro bambino tutto sarebbe cambiato. Ne ero certa!

    OGGI

    Cap. 2

    Ma quando penso a te, mio caro amico, ciò che era perduto è ritrovato, e ogni dolore ha fine.  William Shakespeare

    Faccio un veloce calcolo mnemonico. Marta ed io ci siamo diplomate nel lontano 1971, dunque sono più di quarant’anni che non ci vediamo. Devo ammetterlo, sono molto emozionata, anzi sono proprio agitata. Sono arrivata con una mezz’ora di anticipo sul luogo fissato per l’appuntamento, così avrò modo di prepararmi psicologicamente e spiritualmente. Faccio un bel respiro e mi guardo intorno. L’ha indicato Marta questo punto d’incontro, perché è a circa metà strada tra le due città in cui ognuna di noi ha la propria vita, ora. è un grande spiazzo ghiaioso, davanti ad una storica pizzeria lungo la provinciale che congiunge Rovigo con Ferrara. Mi slaccio la cintura e scendo dall’auto. È una bella giornata di sole. Attraverso il piazzale tra ventate di polline e pennacchietti pelosi che mi solleticano il viso. Alzo gli occhi ad osservare la fila di piante ad alto fusto che dondolano come ballerine intente a esercitarsi alla sbarra. I rami sono ancora spogli ma bozzoluti, a dimostrazione che stanno esplodendo, in segreto, le prime gemme. M’incammino lungo il fossato che scorre perpendicolare alla strada inoltrandosi tra i campi. In fondo alla distesa, ancora brulla, il sole pallido si sta avvicinando alla linea dell’orizzonte e allunga le ombre facendone degli Avatar di luce. L’aria odora di viole che stanno spuntando a mazzi lungo l’argine erboso. La primavera si sta manifestando dopo un inverno che sembrava non finire più. Faccio attenzione a non calpestare i ciuffi di margherite appena spruzzate di rosso e i ranuncoli dai riflessi sericei che spruzzano il verde dell’erba nuova con macchie di un giallo intenso: il mio animo di maestra, appassionata nell’educare i suoi alunni al rispetto della natura, mi impedisce di farlo. Una folata di vento solleva in aria gli acheni di un soffione. Mi sfugge un sorriso pensando a quando, insieme a stuoli urlanti di bocia miei coetanei, mi divertivo a soffiare sui tarassachi, di cui la nostra zona era ricca, facendo a gara a chi riusciva a staccare tutte le piumette con un soffio soltanto. Li chiamavamo brusaòci, in un dialetto che, quando ero bambina, era l’unica lingua praticata in famiglia, quando la televisione, con i suoi programmi di intrattenimento, era la prima maestra di italiano per molti. A quei tempi c’erano ancora parecchi adulti analfabeti nelle zone rurali come la mia e il maestro Manzi insegnava loro a leggere e scrivere in un programma televisivo molto seguito, chiamato Non è mai troppo tardi. Rifletto sui cambiamenti rivoluzionari avvenuti nel modo di comunicare. I vari mezzi di comunicazione, oggi comunemente usati ed alla portata di tutti, sarebbero parsi fantascienza in quegli anni. Sembrano passati secoli, da allora. Chi avrebbe mai pensato che, in poco più di cinquant’anni, chiunque avrebbe potuto avere il mondo in casa con un clic?! Era stato grazie ai social, infatti, che ero riuscita a rintracciare ed a mettermi in contatto con Marta. Quando avevo digitato il suo nome nella casella di Facebook, Trova amici, avevo trattenuto il respiro finchè non era comparsa una lista di Marta Paselli con relative foto accanto. L’avevo riconosciuta immediatamente in mezzo a tante: non era per nulla cambiata. Il viso tondo, il taglio un po’ a mandorla degli occhi scuri, i capelli a caschetto che le incorniciavano il volto, il sorriso aperto: tutto era come lo ricordavo. Prima di cliccare sulla manina, posizionata sopra il nome, ci avevo pensato a lungo. Ero rimasta immobile, col dito fermo sopra il tasto del mouse, a pensare all’ultima volta che l’avevo incrociata lungo i corridoi dell’istituto nel quale avevamo condiviso gli anni della scuola superiore. Era il giorno della prova orale di maturità ed eravamo state convocate, per la discussione, in ordine alfabetico. La commissione aveva in programma di esaminare lei, Paselli Marta, per prima e, a seguire, me che di cognome faccio Pennisi, appunto. Ligia come sempre alle restrizioni imposte da Lucio, mi ero autocensurata e, incrociandola, le avevo fatto un cenno appena percettibile con la testa,  non le avevo neppure rivolto un In bocca al lupo. Non potevo trasgredire. Lucio mi aveva detto che LUI avrebbe saputo se avessi tradito la sua fiducia, me lo avrebbe letto negli occhi e, a quel punto, mi avrebbe inflitto la giusta punizione, perché anche un solo gesto fuori posto avrebbe significato che non lo amavo abbastanza, che non ero disposta a rinunciare a niente per amor suo. Per questo mi si era fermato il respiro quando avevo sentito la voce di Marta augurarmi Buona fortuna, Gloria. Quelle parole gentili, in apparenza innocue, mi avevano scaricato addosso tutto il peso del tradimento, mi avevano fatto provare vergogna di me stessa, per ciò che ero diventata, e dolore, tanto dolore, per ciò a cui avevo dovuto rinunciare.

    Per questo, quando qualche settimana fa l’ho rintracciata grazie al social network più diffuso, non sapevo decidermi, con la mano sopra il mouse e gli occhi a indagare quel volto noto ritratto in una piccola foto rotonda, così familiare ma ormai così lontano nel tempo. In fondo Marta avrebbe avuto un sacco di buone ragioni per non volermi rivedere ed io avrei capito. Ne avrei sofferto, ma avrei capito.

    E invece Marta aveva accettato con entusiasmo la mia richiesta di amicizia su FB, e non si era limitata a questo. Mi aveva inviato un messaggio bellissimo, dimostrandosi felice di avermi ritrovata e sollecitando un incontro.

    Guardo l’orologio. Mi accorgo che mancano pochi minuti all’orario fissato per l’appuntamento, così faccio un veloce dietro-front e mi dirigo a lunghi passi verso il varco d’entrata. Arrivo vicino a dove ho parcheggiato la mia Fiat Punto proprio in tempo per vedere un’auto proveniente da Ferrara, con la freccia lampeggiante, svoltare nella mia direzione. Sento i battiti accelerare e un pizzicore strano che mi sale dallo stomaco: non so bene cosa le dirò, non so neppure cosa farò, ma poi tutto avviene così velocemente, tutto è così facile.

    Appena la mia vecchia amica scende dall’auto, ci guardiamo per un attimo senza riuscire a parlare, ed improvvisamente ci ritroviamo in un abbraccio che è più denso di significato di tante parole, a dimostrazione che, quando tra due anime nasce un’alchimia vera, autentica, neppure gli anni e le avversità della vita riescono ad annientarla: l’amicizia viene solo lasciata in pausa, resta lì in fiduciosa attesa che qualcuno se ne accorga e schiacci il play. Ci prendiamo per mano, come se temessimo di perderci di nuovo, sorridiamo ancora incredule e restiamo ferme immobili ad assaporarci questo momento. Poi ci avviamo verso l’entrata del locale ancora chiuso, dove alcune poltroncine in midollino marrone chiaro sono disposte in bell’ordine sotto il porticato, a disposizione dei clienti che devono ancora arrivare. è ancora troppo presto, infatti, ma noi due non abbiamo nessuna fretta. Dobbiamo recuperare i quarant’anni persi, abbiamo tanto da raccontarci. Soprattutto io sento l’esigenza di chiarire, ho l’urgenza di spiegare.

    Cap. 3

        Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovan. Italo Calvino

    Ero così giovane, quando Lucio entrò nella mia vita. Frequentavamo lo stesso istituto superiore, ma io ero in seconda e lui ancora in prima. Infatti, anche se lui era più grande di me, stava ripetendo l’anno perché non aveva nessuna voglia di studiare, si diceva in giro. Era arrivato qui dopo essersi ritirato da un istituto tecnico. Tutte le mattine le mie compagne di classe formavano un piccolo capannello davanti all’entrata principale e, appena lo vedevano comparire, sembrava fosse comparsa una star. Lanciavano urletti, bisbigli, risatine e sguardi adoranti, neanche fosse Mal dei Primitives. Qualcuna fingeva di chiacchierare, ma non perdeva d’occhio l’entrata, qualche altra assumeva un’espressione sognante e tutte guardavano nella sua direzione sperando che si accorgesse di loro. Quel giorno volli proprio vedere chi era quel tizio che faceva impazzire gli ormoni di tutte le ragazze della scuola, così non entrai subito in aula, come facevo di solito, ma aspettai anch’io, un po’ defilata, curiosa. Quando entrò mi si fermò il respiro. Era bello. Bello e dannato come il James Dean di Gioventù bruciata. Aveva l’espressione di chi ha già fatto

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