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Quando comanda il mare
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Quando comanda il mare
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Quando comanda il mare

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About this ebook

Per rinascere non sempre è necessario essere morti, a volte basta non aver mai vissuto. E per uscire da una gabbia, non sempre servono le chiavi, a volte è sufficiente allargare le sbarre.
Per il giovane e brillante chirurgo Marco Lorenzi il trasferimento a Ferrara è l’occasione per lasciarsi alle spalle sia una insoddisfacente situazione professionale, sia la relazione ormai vuota con Michela e, al tempo stesso, è l’opportunità di conoscere un gruppo di amici che appartengono alla “crema” della società ferrarese. Un vero e proprio cambiamento di vita, soprattutto il superamento di una solitudine esistenziale profonda, in una città invernale, dove le giornate di nebbia densa generata dal fiume si alternano a giornate limpide e ventose, quando il vento soffia dal mare.
E, dopo aver trovato le chiavi della propria vita, la difficoltà consiste poi nel trovare la porta giusta.
LanguageItaliano
Release dateJul 14, 2019
ISBN9788855390026
Quando comanda il mare

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    Quando comanda il mare - Roberto Menaguale

    Paesi.

    Sudore e profumo

    L’asfalto viscido e la nebbia, sempre più color latte sotto l’insolenza dei fari, mi suggerirono di accettare l’invito di un’insegna giallastra, dove la parola trattoria, a causa di un paio di lettere spente, più che leggersi, si indovinava.

    Se non altro, avrei fatto riposare gli occhi e calmare lo stomaco.

    La porta massiccia, appena appena alleggerita da un vetro ellittico, opaco, da cui la luce faticava a uscire, si aprì indecisa, facendo squillare un campanello stonato.

    Non ero ancora entrato del tutto, quando un odore unto, ma gradevole, si impossessò del mio naso e vampate di calore umido cominciarono a condensare sulla pelle fredda del mio viso.

    Il locale era ampio, i tavoli quasi tutti occupati da persone che mi sembrarono camionisti, alcuni già alle prese con pietanze fumanti, altri con vino e grissini, altri ancora in attesa, chi in attesa composta, chi un po’ meno.

    L’odore che avevo avvertito entrando era adesso forte e pregnante, sputato fuori da una specie di grossa finestra sullo sfondo, sul davanzale della quale un concerto di mani posava, senza sosta, piatti stracolmi.

    Evidentemente la generosità non doveva far difetto a una griglia, che pur invisibile, si faceva indovinare con i suoi scoppiettii.

    Stavo guardando se c’era un tavolo libero, quando un cameriere, giacca bianca sgualcita e pantaloni neri, spuntato non so da dove, mi intercettò con modi gentili.

    «Il signore è solo?»

    «Sono solo.»

    Con decisione e con un fare che voleva essere elegante, mi fece sistemare in un tavolo d’angolo, dove l’aria calda si concentrava e il chiacchiericcio, fastidioso, risuonava.

    Mi tolsi la giacca, con un certo sollievo, ma dovetti rassegnarmi a quei graffi sui timpani.

    «Faccio io o preferisce ordinare?»

    Dato l’ambiente e il tono della sua voce, la risposta mi sembrò obbligata.

    «Faccia lei, ma mi raccomando, qualcosa di leggero.»

    Leggero, non mi era venuto un altro aggettivo.

    «Ci penso io, non si preoccupi, intanto le porto del vino, abbiamo un rosso niente male.»

    «Anche dell’acqua minerale gassata, grazie.»

    Solo quando si girò, dirigendosi verso la bocca dell’inferno, mi accorsi dell’immancabile tovagliolo appeso a un braccio e di un codino di capelli nerissimi.

    Non mi fece aspettare molto.

    «Vedrà che resterà soddisfatto.»

    Aveva ragione, rimasi più che soddisfatto, il rosso era morbido e la sua interpretazione dell’aggettivo leggero non avrebbe potuto essere più azzeccata.

    Avevo appena finito quando un donnone dall’età indefinibile, lardi in libertà, il grembiule a quadri a stento trattenuto dai lacci, il viso gonfio ma ingentilito da un sorriso accattivante, mi chiese se potevo far accomodare gli ultimi arrivati, due tipi con i baffi in prima fila, pelle olivastra e profumo non proprio di violetta.

    «Sa... anche stasera siamo al completo.»

    Concentrato su quella cenetta inattesa, su quella carne tenera arrostita con cura, il palato solleticato da carezze a tredici gradi, non mi ero accorto che c’era perfino qualcuno che aspettava sulla porta.

    «Ci mancherebbe, signora, lascio subito il tavolo libero... devo arrivare in serata al residence Le Torri, ho prenotato.»

    «Ma lei vuole scherzare, ogni minuto che passa è peggio, la nebbia diventa sempre più fitta.»

    «Ma sono solo pochi chilometri...»

    «Aldo, diglielo tu.»

    Aldo era uno di loro e loro erano i camionisti, adesso non c’erano più dubbi sul mestiere di quegli uomini così diversi eppure, per qualche verso, decisamente uguali.

    E sì, adesso che ci avevo fatto caso, trovare una donna in quella fauna umana non era facile, ce n’erano solo due, infatti, tutte e due in un gruppetto che festeggiava qualcosa.

    Così almeno si capiva da un residuo di torta e dalle bottiglie di spumante, tante, parcheggiate in ordine sparso.

    Aldo mi guardò pigramente, con la faccia di chi la sa lunga ma non ha voglia di parlare, poi liberò la sua saggezza.

    «Certo, quando comanda il fiume ci fermiamo perfino noi.»

    «Quando comanda il fiume?! E che vuol dire?»

    «Quando comanda il fiume... ah... sì...»

    Sembrava sorpreso che non avessi capito, ma fu roba di un attimo.

    «Quando comanda il fiume, vuol dire che sul mare c’è calma piatta, che l’aria non ha neanche voglia di starnutire, e così la nebbia la fa da padrona. Domani sarà anche peggio, vedrà.»

    «Ma allora che faccio?»

    Sembrava che il donnone non aspettasse altro.

    «Abbiamo delle stanze comodissime, tutte con bagno, televisione, lenzuola sempre fresche... servizio anche al piano. Si troverà benissimo, vedrà.»

    Accettai, non mi sembrò di avere altra scelta e poi quell’odore mi aveva un po’ stordito, ci stava di dormire lì.

    Mano a mano che salivo le scale mi spogliavo di quel caldo condito e il mio naso cominciava a desiderare nuovamente l’aria fresca.

    Così, non appena in camera, aprii la finestra, lavandomi il viso con il semplice gesto di affacciarmi.

    Tagliando la nebbia con gli occhi, aiutato dagli sfarfallii di due lampioni ricurvi, mi riempii le pupille d’acqua nel tentativo di vedere qualcosa, ma fuori – lo intuii, più che vederlo – c’era soltanto un piazzale affollato di Tir.

    Avevo viaggiato per non più di tre ore e questo era bastato a far cambiare il mondo intorno a me e non solo per la nebbia, che pure conoscevo bene, anche se mai avrei immaginato che potesse diventare anche solida.

    Erano state quelle facce, quei corpi troppo grassi o troppo magri, quel modo di mangiare, avido ma non volgare, era stato quell’alzarsi continuo di bicchieri, quel roteare delle mani per spezzare il pane, era stato quel vociare continuo, quell’orchestra di voci appagate, quel teatrino casereccio, a scaraventarmi in una dimensione diversa dalla mia e che pure mi aveva acchiappato, che aveva asciugato, nel giro di un niente, il sudore vanitoso della mia pelle.

    Una dimensione diversa, certo.

    Già, ma qual era la mia dimensione?

    Non ebbi il tempo di cominciare a pensarci, qualcuno stava bussando alla porta.

    «Avanti, è aperto.»

    Avevo ordinato dell’acqua minerale, pensai fosse in arrivo.

    La porta si aprì con un movimento prima deciso, poi lento.

    Mi ero sbagliato, la ragazza non aveva nulla in mano.

    «Il signore ha bisogno di qualcosa?»

    Se prima mi era sfuggito il senso di quelle parole, adesso non mi ci volle molto per capire.

    Il servizio al piano doveva essere lei, una brunetta ruspante, truccata pochissimo, due seni a stento trattenuti dai bottoni di uno strano camicione, corto quanto bastava per lasciar immaginare qualcosa di più di due gambe.

    «Grazie, ma non credo di aver bisogno di nulla... O forse sì, avevo ordinato dell’acqua minerale.»

    «Solo l’acqua minerale?»

    «Beh... sì.»

    «Va bene.»

    Intanto però, con la scusa di chiudere la finestra, era entrata, sfiorandomi quel poco, o quel tanto, che bastasse a farsi assaggiare.

    «Certo che fuori non si vede proprio niente.»

    «E quando non c’è la nebbia?»

    «Niente di particolare, da qui si vede solo l’autostrada.»

    Non so perché, ma quelle frasi buttate lì, così banali, mi solleticarono, accendendomi come un fiammifero.

    Forse non erano state le parole, forse mi avevano acceso i suoi movimenti per afferrare le persiane, il vederla di spalle, il camicione che inseguiva, su e giù, i movimenti delle braccia.

    «Allora vado a prendere l’acqua minerale. Peccato, però.»

    «Perché peccato?»

    «Perché una persona come lei...»

    «Come me?»

    «Sì, come lei, così fine, così elegante... da queste parti non capita spesso.»

    Fece per girarsi verso la porta, fu un attimo, l’afferrai per un braccio.

    «L’acqua può aspettare.»

    «Vuol dire?»

    «Vuol dire che c’ho ripensato, vieni.»

    Non se lo fece ripetere due volte, chiuse subito a chiave la porta poi, avvicinatasi nuovamente alla finestra, accostò le tende con cura.

    «Che bisogno c’era?»

    «Niente è l’abitudine... e poi così è più intimo, mi piace di più.»

    Si tolse il camicione, indugiò quel tanto che bastava e si infilò nel letto.

    Le lenzuola erano pulite, un po’ consumate, ma proprio pulite.

    Pochi chilometri possono anche essere tanti quando la voglia di arrivare è troppa e io invece non solo non avevo adesso voglia di arrivare, ma neanche voglia di muovermi.

    Quel bagno nella carne mi aveva rigenerato, anche perché la carne trovata lì era molto diversa da quella cui ero abituato.

    La carne cui ero abituato io, infatti, era quella preziosa dei ristoranti à la page, quella indifesa, tagliata e sanguinante di un corpo sul tavolo operatorio, quella lisciata di Michela, tanto cremosa, tanto profumata, da non sembrare neanche carne.

    Niente a che vedere con la carne bruciacchiata, speziata di legna, con la carne aspra di sudore, ma viva, con la carne asciutta, odorosa di se stessa, carne di femmina.

    Fu lo squillo del telefonino a chiudere il sipario alla mente.

    «Dottore l’aspettavamo per stamattina, ha avuto problemi?»

    «Nessun problema, solo la nebbia. Sto arrivando, dica al professore che sarò lì fra meno di un’ora.»

    «La strada se la ricorda?»

    «Penso di sì, e poi adesso ho il navigatore.»

    Il professore, lui comincia alle sette, non dovevo dimenticarlo.

    C’eravamo conosciuti nel reparto di chirurgia di uno di quegli ospedali all’americana, dove bisogna pregare che gli ascensori non si guastino mai.

    Credo che avesse apprezzato da subito le mie capacità di apprendista stregone, anche se poi dovevo essere entrato definitivamente nelle sue simpatie per il fatto di essere l’unico ad arrivare prima di lui, la mattina, e l’unico ad andarmene dopo di lui, la sera.

    Non lo facevo certo apposta, solo che dopo anni passati sui libri avevo voglia di bruciare le tappe, di usare le mani per operare su qualcosa di vivo e non per girare le pagine, di usare la testa per capire quello che vedevo e non per mandare a memoria fiumi di inchiostro.

    E poi nel reparto c’era un’infermiera che mi piaceva da morire e quello era l’unico modo di incontrarla anche quando faceva il turno di notte, salutandola la sera quando lei arrivava e io me ne andavo e offrendole il caffè la mattina, quando io arrivavo e lei se ne andava.

    Un giorno mi resi conto che non c’era niente da fare, che era fidanzatissima, prossima a sposarsi; continuai però con gli stessi orari.

    D’altra parte abitavo a due passi dall’ospedale e fin da piccolo ero abituato a svegliarmi prestissimo, complice la sirena della fabbrica di birra, che mi aveva insegnato ad amare i colori e i rumori del mattino.

    Quando Odorici lasciò l’ospedale, dopo una lite furibonda col direttore sanitario, mi salutò con un arrivederci a presto, tanto presto che per tre anni buoni non l’avevo più né visto né sentito.

    Avevo però avuto notizie di lui dalle riviste specializzate e un paio di volte anche dai giornali.

    Quando mi aveva finalmente chiamato, una domenica sera, non avevo nemmeno riconosciuto la sua voce.

    «Lorenzi, sei tu?»

    «Sono io, sì.»

    «Finalmente, è da ieri che ti cerco.»

    «Ma chi parla, scusi...»

    «Sono Odorici.»

    «Certo, adesso la riconosco. Buonasera, professore... mi scusi, ma lì per lì... dopo tanto tempo...»

    «Senti, Lorenzi, vengo subito al dunque, se hai voglia di trasferirti, ho un posto che fa per te.»

    «Trasferirmi? Da lei?»

    «Certo, da me. Non ti spaventeranno mica trecento chilometri di autostrada?»

    «Lei lo sa in che situazione mi trovo...»

    «So tutto di te, Lorenzi.»

    Aveva sparato quella frase con un tale tono di voce, da farmi sbavare di orgoglio.

    «Quanto tempo ho per decidere? Sa... non...»

    «Puoi chiamarmi domani mattina, non dopo mezzogiorno, però.»

    Michela non l’aveva presa molto bene, anzi non l’aveva presa bene per niente.

    Quando gliel’avevo detto mi aveva guardato come se fossi ubriaco, come se le mie parole le fossero arrivate impastate, poco comprensibili, stonate.

    Poi aveva fatto mezzo giro della stanza, fermandosi dall’altra parte del tavolo, quasi volesse trovare un pulpito dal quale lanciare il suo anatema.

    Era appena stata dal parrucchiere, ma i suoi capelli, massacrati ora dalle dita nervose, se ne erano già dimenticati.

    «E tu una decisione così la prendi senza neanche parlarmene, come se fossero solo cazzi tuoi? Ma che razza di bestia sei...»

    «Calmati, non ho avuto tempo di parlartene, ho dovuto decidere in poche ore... E poi, lo sai...»

    «So che cosa? Sentiamo, che cosa dovrei sapere? Che di me te ne sbatti?»

    «Lo sai che cercavo un’altra occasione, che non ne potevo più, che ne avevo i coglioni pieni.»

    «Poverino. Se sei tanto bravo, potevi cercartela qui un’altra occasione, qui ci sono più ospedali che chiese.»

    «Se è per questo ci sono anche le cliniche private, come quella di tuo fratello e dei suoi soci.»

    «Certo... e con lui potresti guadagnare anche bene.»

    «Ma che cazzo stai dicendo? Mi stai rompendo, hai capito? Io non sarò mai una sanguisuga come tuo fratello.»

    «Che vorresti dire? Che mio fratello...»

    «Lo sai benissimo quello che voglio dire.»

    «Sei solo invidioso perché lui guadagna in un giorno quello che tu porti a casa in un mese. Sei un fallito, ecco che sei.»

    «Mi hai stufato. Vorrei sapere che cazzo ci stai a fare con un fallito... Vattene.»

    «Vaffanculo, me ne vado, certo che me ne vado. E per scopare trovati un’altra, che con me hai chiuso.»

    «Vattene, t’ho detto.»

    Se ne andò senza chiudere la porta, tornando poi subito indietro, questa volta per prenderla a calci.

    Il giorno dopo fui tentato di chiamarla, non lo feci e al momento di partire quasi quasi non ci pensavo più.

    Non mi chiesi il perché.

    «Allora signori, visto che la squadra è nuovamente al completo, non mi resta che augurarvi buon lavoro.»

    Odorici non era cambiato, sotto l’aspetto voluminoso del professorone c’era un medico sempre pronto a inginocchiarsi davanti al malato.

    «Lorenzi, mi aspetto molto da te. Ricordati di tenere sempre acceso il cellulare, noi siamo sempre in servizio.»

    «Professore, lo sa che io, se si tratta di orari...»

    «Lo so, lo so, ma qui le infermiere sono tutte stagionate.»

    «Ho capito, non si preoccupi.»

    «Lorenzi, patti chiari, io le scommesse sono abituato a vincerle, per questo ho puntato su di te. Mi sono spiegato?»

    «Perfettamente, professore. Perfettamente.»

    «Ti sei già sistemato?»

    «Per ora sono al residence Le Torri, ma è troppo lontano.»

    «Troppo lontano, certo, ti voglio a un tiro di schioppo, con te sarà come se avessi quattro mani.»

    Stavo sul punto di alzarmi in volo, gonfio come una mongolfiera, quella frase mi ripagava del troppo amaro inghiottito.

    «Cercherò una sistemazione qui vicino.»

    «Rivolgiti alla signora Teresa.»

    «La caposala?»

    «Sì, lei, ci penserà lei.»

    Prima di infilarsi nel corridoio, mi salutò con un buffetto.

    Più si allontanava, più la sua sagoma bianca mi sembrava grande.

    Non era stato facile conquistare la stima di Odorici.

    In quella palude di Chirurgia, dove avevo imparato a scalare le montagne, era più facile incontrare una spia, che incontrare un medico.

    Sì, incontrare una spia, perché se il camice di tutti poteva sembrare bianco, quello che contava era il colore che c’era sotto.

    Colore sporco, colore politico.

    Come stare in ospedale il minor tempo possibile, come procurarsi le visite private, come comprare da quella ditta anziché da quell’altra, come lavorarsi gli informatori scientifici, come farsi invitare a convegni, come partecipare a congressi e, peggio del peggio, come manovrare le liste d’attesa.

    C’è sempre qualcosa da arraffare, c’è sempre qualcuno da imbucare.

    E poi, chi più ne ha, più ne metta.

    E soprattutto guerra ai diversi, diversi di colore si intende, l’isolamento, la calunnia le armi più usate.

    E i malati?

    Un impiccio, una pratica da sbrigare, una rottura di scatole, in tutti i sensi.

    Qualche volta un limone da spremere, un assegno circolare.

    Ecco perché dava fastidio Odorici, perché davano fastidio le sue giornate senza fine, il suo non guardare in faccia nessuno, i suoi sgambetti a chi correva soltanto per sé.

    Dava fastidio a tutti ma non a me, che volevo soltanto imparare, che ero capitato in quel reparto per caso, a tappare un buco, spinto solo dalla voglia di fare, di imparare e non dai calci nel sedere di qualche barone o di qualche amico degli amici.

    Odorici se ne era accorto presto e cominciò così a torturarmi, per mettermi alla prova, per vedere di che pasta ero fatto.

    Mi spaccai le ossa, mi svuotai il cervello, ma rimasi attaccato al suo camice.

    Naturalmente, quando se ne andò, me la fecero pagare, rendendomi la corsia una specie di girone dell’inferno.

    Ancora qualche tempo e quella telefonata sarebbe arrivata su un binario morto; dopo più di tre anni, infatti, mi stavo per arrendere.

    La signora Teresa non faticò a trovarmi una sistemazione.

    Nella pensioncina, gestita dalla sorella, erano state infatti ricavate, nel sottotetto, tre graziose mansarde, cui si accedeva dal cortile dell’adiacente casa di ringhiera, ristrutturata con gusto, sfruttando una scala qua e là ancora ostruita da calcinacci e attrezzi da muratore.

    «Fra qualche mese avremo anche l’ascensore.»

    Un lussuoso angolo di antica povertà.

    «Questa è l’unica libera, è la più grande delle tre. Va bene anche per due persone e poi guardi che panorama.»

    «Molto bella, veramente. Comunque, sa... in caso di...»

    «Ho capito, ho capito... ha bisogno di un altro letto, domani provvedo.»

    «Senza fretta... Non c’è fretta.»

    «Si troverà bene, vedrà. Le altre due sono occupate da una commercialista e da un professore universitario.»

    Una voce soffiò su di noi.

    «Non sono ancora una commercialista, Gina, devo ancora dare l’esame di stato... sto facendo pratica.»

    Era arrivata così, con passo felpato, infilata in una giacca a vento blu, aperta su una tuta rossa, i capelli tenuti insieme da una fascia, sudatissima eppure profumata, affannata, il respiro ancora spezzato, due occhi felini, accesi.

    «Dottor Lorenzi, le presento la signorina Alessandra.»

    «Piacere... mi chiamo Marco.»

    Si strofinò le mani su una parte asciutta della tuta, si tolse la fascia dalla fronte e si ravvivò i capelli, prima scuotendo la testa, poi con le dita a pettine.

    «Sono impresentabile... sudata...»

    «Cosa dice?»

    Le strinsi la mano, anche la mia era adesso sudata.

    «Scusate ma io devo andare.»

    «Grazie, Gina, buonasera.»

    «Buonasera.»

    Le nostre mani si erano appena staccate.

    «Un po’ di movimento è proprio quello che ci vuole, mi rimette al mondo.»

    «C’è una palestra qui vicino?»

    «Sì, ce n’è una molto bella, ma io preferisco correre nel parco, sulle mura...»

    Già, le mura di Ferrara, le avevo notate subito, una cintura lunghissima di mattoni rossi, dove la gente brulicava, a piedi o in bicicletta, mura ancora vive, vestigia di un passato cui piaceva farsi toccare.

    «Sa che mi ha fatto venire voglia? Magari sabato o domenica ci provo anch’io.»

    «E perché non la sera? Potremmo farci compagnia, in due si fatica di meno. O preferisce stare da solo?»

    «Che solo e solo... è che i miei orari...»

    «Perché, che orari fa?»

    «Ah già, non gliel’ho ancora detto, lavoro all’ospedale, qui vicino.»

    «Non capisco. Oppure sì, capisco... le visite private...»

    «No, no, niente visite, è che il lavoro è tanto, vengono pazienti anche da fuori.»

    «Va bene, ma la sera...»

    «La sera guardiamo gli esami, prepariamo gli interventi... e poi c’è sempre l’emergenza, siamo in pochi. Anche il sabato, la domenica, ogni tanto, saltano.»

    Si era tolta la giacca a vento e adesso qualcosa del suo corpo si indovinava.

    «Comunque, se magari qualche sera si libera presto...»

    «Certo, perché no? Ma sabato e domenica proprio niente?»

    «Niente, nei week end sono sotto sequestro.»

    «Il fidanzato... giusto.»

    Non mi rispose, quasi non avesse sentito, fingendosi impegnata a tirar fuori le chiavi da un tascone della giacca.

    O forse non aveva finto, forse non aveva proprio sentito.

    «Adesso mi scusi, ma se non mi infilo sotto la doccia...»

    Era sudata, è vero, ma profumata.

    «Allora a presto.»

    «A presto.»

    Vedere quella porta chiudersi mi lasciò un po’ spento, avrei voluto chiederle di lasciarla aperta, la fantasia a volte corre troppo.

    O forse era soltanto un primo attacco di solitudine.

    Una mansarda quasi quadrata, molto spazio in attesa di un letto, una finestra affacciata sulla storia, un ospedale cucito addosso ai malati, telefonini spenti.

    In pochi giorni il mio mondo si era rivoltato.

    Non sapevo neanche se era quello che volevo, sapevo soltanto che non mi andava di pensarci, che mi bastava aver tirato fuori la testa dal fango.

    E Michela?

    Forse quell’odore di sudore alla colonia mi aveva già fatto dimenticare la sua scia di Chanel.

    Così presto?

    Non lo sapevo, non mi andava di pensarci.

    Provai quindi a chiudere lo sportello della memoria e decisi di andare a farmi un giro, ma fu già tanto se riuscii a trovare il ristorantino dove mi ero accasato per la cena.

    La nebbia si tagliava e dentro la nebbia soltanto ombre.

    Da quando ero arrivato aveva comandato quasi sempre il fiume, ma non mi ci ero ancora abituato. Quando comanda il fiume, mi era piaciuto quel modo di dire.

    Il bar Centrale

    Il bar Centrale era il ritrovo più chic di Ferrara.

    Sotto i portici, grandi e preziose vetrate, color anice oltre l’altezza d’uomo, lasciavano ammirare soltanto gli splendidi lampadari di Murano e gli stucchi d’oro del soffitto, mentre le finestre della sovrastante sala da tè, calde di luce velata, si affacciavano sulla piazza, rubando buona parte del primo piano dello splendido palazzo rinascimentale.

    Peccato per le smisurate insegne luminose, che deturpavano, invadenti, l’artistica facciata.

    Fuori, sotto i portici, tanta vita, gusto misto, tutti i sapori.

    Dentro quasi soltanto crema, tanta crema.

    C’ero capitato per caso una domenica sera, assetato di acqua tonica e limone, i piedi carichi di chilometri, gli occhi gonfi d’arte e di pietre, le mani stanche di sfogliare la guida turistica.

    Ero alla cassa, con lo scontrino in mano, ma una presa decisa mi impedì di mettere mano al portafogli.

    «Dottor Lorenzi, buonasera. Sono Bonfanti, mi riconosce?»

    «Non so... forse.»

    «Ci siamo visti l’altro ieri in ospedale... abbiamo parlato di mia madre, dell’operazione, degli altri esami richiesti dall’anestesista.»

    «Certo, certo... adesso ricordo. Mi scusi, sa...»

    «Ci mancherebbe. Che ne dice di un aperitivo insieme a noi? Stasera siamo quasi al completo.»

    «Veramente è tardi. Grazie, magari un’altra volta.»

    «Dottore, la prego, mi farebbe veramente piacere.»

    L’invito, ripetuto, mi sembrò caloroso, sincero e poi, a dirla tutta, mi ero già stufato di stare da solo.

    La mattina, infatti, sia pure controvoglia, avevo fatto un paio di volte il numero di Michela, ma poi il dito mi si era fermato, paralizzato, sul tasto di chiamata.

    Il perché non lo sapevo.

    Avevamo litigato, è vero, anzi era lei che aveva litigato con me, ma in fondo una lite ci può stare, quante liti erano finite con la benedizione del letto.

    No, il perché non lo sapevo e non lo volevo sapere, non mi andava di pensarci.

    «Beh, se insiste, se proprio non disturbo...»

    Mi prese sottobraccio e, schivando pellicce e cappotti di cachemire, mi guidò in una specie di area riservata, una sorta di recinto, delimitato da poltroncine in circolo attorno a due tavoli e da un divanetto ad angolo.

    «Ragazzi, vi presento il dottor Lorenzi, il nuovo braccio destro del professor Odorici. Sarà lui a operare mia madre.»

    «Buonasera a tutti, mi chiamo Marco.»

    «Un dottore, giusto quello che ci mancava! Un dottore, bravo.»

    Una voce femmina, appena appena roca, mi orientò verso una bambola viva, una gatta.

    «Vieni qui, Marco, siediti vicino a me, non ne posso più di questo noioso...»

    Chissà che faccia dovevo aver fatto.

    «Obbedisci, Marco, Milena ti vuole annusare. Fa sempre così con gli ospiti.»

    «Questa sera mi è andata bene, noioso è quasi un complimento.»

    Si alzò inciampando.

    «Sono Bruno, il sopportato.»

    «Non ci far caso.»

    Bonfanti, sbuffando, si allentò il nodo della cravatta.

    «Fa caldo qui dentro.»

    «Quante storie, togliti

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