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Arrocco di torre
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Arrocco di torre

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Giallo - romanzo (238 pagine) - Una nuova indagine dell’avvocato Morelli: un frate si muove nell'ombra di un mistero


Luigi Bonsignori, detenuto nelle carceri di Pescara, muore la notte del lunedì che precede il carnevale. Quella stessa notte suo zio, l’ingegnere Amedeo, muore nella sua villa di Tirana. L’avvocato Morelli se ne deve occupare ma non sarà facile, perché un frate si muove nell’ombra di un mistero che sconvolge la vita della famiglia Bonsignori, un segreto che va conservato a ogni costo, anche a rischio di morire. E il frate è lì, sempre presente, pronto a confessare i peccati, anche quelli che si commettono a carnevale.


Luigi Grilli, nato nel 1939 in Abruzzo, è stato in magistratura dal 1965 fino al 2008 ricoprendo diversi incarichi (giudice istruttore, sostituto Procuratore Generale a L’Aquila, Procuratore della Repubblica a Lanciano e presidente del tribunale di Pescara) andando in pensione con il titolo di Presidente aggiunto della Corte di Cassazione. Nel corso degli anni ha pubblicato sedici lavori in diritto e procedura penale con le case editrici Cedam e Giuffré.

Sposato, con due figli, vive e lavora a Pescara, dove ambienta le sue storie che possono essere collocate nel genere legal thriller.

Negli ultimi tre anni ha pubblicato con Delos Digital cinque romanzi: Monasterio, Il diavolo e l’acqua santa, Il buco nell’acqua, Le ali della farfalla e Due vite per una.

Oltre che dedicarsi alla narrativa ha l'hobby della coltivazione delle rose.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJan 21, 2020
ISBN9788825410969
Arrocco di torre

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    Arrocco di torre - Luigi Grilli

    9788825408584

    Personaggi principali

    Antonio Morelli (Totò), avvocato

    Biagio Mosca, sostituto procuratore della Repubblica

    Professor Marco Bonsignori, chirurgo

    Marta, moglie del professore

    Lodovico e Luigi Bonsignori, figli del professore

    Viviana Reta, moglie di Luigi

    Amedeo Bonsignori, fratello del professore

    Maria Fagiolo, collaboratrice domestica

    Corrado e Lisa, figli di Maria Fagiolo

    Paolo Ventura, attore dilettante

    Trescatti, fotografo

    1

    Il frate confessore

    Terminate le prove gli amici del teatro si diressero verso il bar per la solita partita a scopone scientifico ma Paolo Ventura preferì tornare a casa. In parte, era stanco per l’impegno che aveva messo per recitare nel ruolo di un frate francescano ma, ancor più, perché aveva deciso di girovagare per la città con il saio. Faceva freddo e per questo si era ben guardato dall’indossare i sandali ma teneva aperto il mantello perché si vedesse il costume che portava e lo scambiassero per un frate. Non lo era ma voleva recitare e quello era il giorno che stava aspettando da mesi: era carnevale.

    Dopo due pomeriggi di pioggia finalmente le nuvole si erano diradate e un sole, ancora timido, asciugava l’asfalto, in alcune zone ancora nerastro. La città era in festa. Non tutti i giorni è martedì grasso, quando tutti cercano di divertirsi.

    Una coppia di nonni gli passò accanto e lui sorrise alla bimba che, vestita come una fatina, faceva volteggiare la sua bacchetta argentata, lasciando nell’aria una scia luminosa. Fu infastidito da un giovane che stava schiaffeggiando l’asfalto con alcuni tric–trac, facendo un rumore del diavolo, quando intravide una masnada di ragazzotti che scendevano lungo la via del Santuario, la strada che congiunge la zona dei colli di Pescara al centro città. Camminava piano e da lontano gli giunse il suono di una cornamusa che qualche buontempone stava maltrattando. Due ragazzi si baciavano dietro un portone. Beati loro! Ventura, queste cose non le faceva già da tempo.

    Si trovava vicino alla chiesa della Madonna dei sette dolori e uno spruzzo di coriandoli colorati lo investì di lato. Troppo chiasso, troppa gente, la salita lo stava affaticando, decise di evitare quei ragazzi.

    Entrò in chiesa.

    Il silenzio che vi regnava gli diede subito un senso di pace, di serenità e l’odore dell’incenso bruciato gli accarezzò le narici. Poteva riprendere fiato, recuperare le forze. Sì, aveva fatto bene a fermarsi in quel luogo.

    Avrebbe voluto restare a casa, ma gli amici lo avevano convinto che le prove dello spettacolo andavano fatte anche quel martedì perché tra un mese ci sarebbe stata la rappresentazione e la compagnia non era ancora ben affiatata. Era stato lui a proporre di mettere sul cartellone una riduzione dell’opera di Modesto della Porta, un autore abruzzese che gli piaceva perché sapeva coniugare una satira feroce con una bonomia tutta paesana. Gli era stata assegnata la parte di fra Modestino. Anche l’anno precedente gli amici lo avevano convinto a indossare il saio per recitare nel ruolo di un frate mendicante. A sentir loro, ne aveva l’aspetto e forse avevano ragione quando gli ripetevano che era tagliato per quella parte e, soprattutto, che era credibile.

    Lui, non ne era del tutto convinto ma gli piaceva recitare, stare con gli amici e, pur di salire sul palcoscenico, si adattava al ruolo. Sapeva di non essere un santo né un frate, ma le cose gli si erano messe per quel verso e tutto sommato ne era contento.

    Aveva scelto il giorno che si prestava bene per la sua esibizione. L’idea di girovagare per le strade con quel saio, che lo faceva sembrare e sentire proprio come un frate francescano, gli dava la sensazione di recitare su un palcoscenico vero, grande, con un suo pubblico. Non era timido, ma non si sarebbe permesso di andare in giro in quel modo, solo che quel giorno, se avesse incontrato qualche amico o un conoscente, non se ne sarebbero meravigliati.

    Si sentiva stanco.

    Entrato nella chiesa, decise di sedersi per qualche minuto. Una penombra soffusa lo avvolse come a nasconderlo alle statue dei santi che rivestivano i lati delle navate e il luccichio dei ceri che si trovavano davanti il piccolo altare della Vergine per un attimo gli fece da guida. Si sedette.

    Doveva arrivare fino al parcheggio di piazza Roma. La strada non era molta, ma anche le prove lo avevano affaticato. Paolo Ventura sapeva di non essere più giovane ma non si sentiva nemmeno tanto vecchio: aveva da poco festeggiato i sessanta anni. Ne aveva trascorsi gran parte a lavorare come ragioniere negli uffici del Comune di Pescara e non se ne lamentava anche se faceva fatica a pagare le bollette di casa. Una volta aveva pensato di fare una rapina ma per certe cose bisogna esserci tagliati e lui, con quel fisico che madre natura gli aveva dato, sapeva di non poterselo permettere: Magro, alto non più di un metro e sessanta, aveva i capelli scuri con qualche striatura di bianco alle tempie. Quando al mattino si metteva davanti lo specchio per radersi non poteva fare a meno di notare il suo naso, troppo grosso per quel viso, che faceva pensare a una carota, mentre gli occhi, di un nero opaco, facevano trasparire una costante tristezza.

    Rimase seduto per qualche minuto con gli occhi chiusi. Prese un libro di preghiere che si trovava sulla panca e si mise a leggerlo. Semplice curiosità, per ingannare il tempo. La domenica sua moglie lo portava in chiesa e qualche volta si confessava, ma non era certo della sua fede perché spesso la vita lo aveva maltrattato.

    – Scusi, padre, mi potrebbe confessare?

    Alzò la testa e vide una ragazza che se ne stava lì vicino. Notò che aveva un’aria contrita e s’era rivolta a lui con garbo. Non ebbe il minimo dubbio: quella aspettava una risposta e lui doveva dargliela.

    Che fare?

    Poteva recitare. Perché no?

    Sarebbe stato interessante venire a conoscere i segreti di quella fanciulla! S’era vestito con il saio, voleva fare il frate e ora ne aveva l’occasione.

    Perché no? Si disse e sorrise a se stesso.

    Le rivolse un cenno di assenso.

    Si alzò e si diresse verso il confessionale che si trovava poco lontano dalla panca sulla quale si era seduto.

    Scostò la tendina che copriva l’ingresso e si sedette.

    La ragazza lo seguì e si inginocchiò.

    All’inizio non sapeva come comportarsi ma gli venne in mente il confessore della sua parrocchia e si limitò ad ascoltare. Ci volle una decina di minuti prima che lei riuscisse a raccontargli i peccati che alla sua età poteva aver commesso. Le diede il perdono cristiano con l’impegno di recitare cinque pater, ave e gloria.

    Ventura stava uscendo dal confessionale quando una donna gli si avvicinò. – Potrebbe sentire anche me?

    – Si è fatto tardi e tra poco dovrebbe venire il frate confessore.

    La donna, forse della sua stessa età, con uno scialle nero sulle spalle e gli occhi tristi, gli rivolse un sorriso timido ed esclamò: – Per me è la stessa cosa, un frate vale l’altro, sempre uomini di Dio siete.

    – È vero – rispose.

    Si rimise seduto e la donna, inginocchiatasi, si coprì il capo con lo scialle. – Grazie, padre. Non si tratta di molti peccati. Ho un magone sullo stomaco e vorrei parlarne con qualcuno, con un uomo di chiesa.

    – Se ti fa bene, dimmi pure. Sono pronto per ascoltarti.

    – Di nuovo, grazie – ripeté la donna mentre con la mano destra si faceva il segno della croce. Poi: – C’è stato un lutto e non riesco a farmene una ragione. Una disgrazia, di quelle che uno non si aspetta, e non so come regolarmi, cosa fare.

    – La morte fa parte della vita e solo il buon Dio può aiutarci. Non c’è niente da fare né da capire, ma solo rimettersi alla Sua volontà – le sussurrò Ventura, che intuiva il dolore di quella donna e avrebbe voluto aiutarla. Cominciava a sentirsi in imbarazzo, quasi un intruso nella vita di lei, ma restava seduto in quel confessionale. Sentimenti diversi, in parte opposti, confliggenti, lo stavano prendendo. Non se lo sapeva spiegare, forse stava vivendo il suo personaggio. La realtà lo stava prendendo e non sapeva come comportarsi. In teatro tutto era semplice: Bastava che seguisse il copione. Decise di lasciarla parlare. In questo modo le sarebbe stato utile. Lo sperava.

    – Lei ha ragione ma a volte si fa fatica a comprendere certi avvenimenti, certi disegni della divina Provvidenza. – Dopo un attimo di silenzio, forse per mettere ordine nei suoi pensieri, la donna seguitò: – Padre, ho bisogno di un consiglio per una faccenda di famiglia che mi toglie il sonno, specie ora che c’è stato questo lutto. Una brutta storia.

    Il frate confessore capì che la donna voleva parlare del suo problema e al tempo stesso intuiva che doveva avere delle remore. Le disse con tono pacato per rassicurarla, quasi per invogliarla ad aprirsi: – Abbi fede. ti ascolto.

    – Non è facile… Piuttosto lei, padre, si sente bene?

    – Sì, sta’ tranquilla, è solo la mia asma che non mi dà tregua. Non pensare a me e comincia dall’inizio. Vedrai che la matassa si sbroglia e la Madonna ti aiuterà a trovare la soluzione giusta – le disse, mentre si metteva a posto gli occhialini e chiudeva il libro di preghiere che fino a quel momento aveva tenuto aperto, poggiato sulle ginocchia.

    Gli venne il dubbio che dovesse svelare alla donna il suo stato laicale ma non seppe decidersi mentre lei seguitava a guardarlo con aria di attesa.

    Si convinse di non interrompere quella confessione. Lui avrebbe recitato, lei forse ne avrebbe avuto giovamento.

    Decise di tacere e di ascoltare.

    La donna iniziò a parlare, a raccontare la sua storia, il suo dolore, in fondo il suo segreto. Lui ascoltava, chiedeva dettagli e lei ne dava.

    Ci volle quasi un quarto d’ora.

    Al termine della confessione la donna si alzò dall’inginocchiatoio. Gli appariva più serena, come se, condividendo i suoi problemi, avesse trovato delle risposte.

    Ventura, uscito dal confessionale, poggiò sulla panca la copia del vangelo che aveva tenuto con sé e si portò verso l’uscita della chiesa. Aveva recuperato parte delle forze ma non riusciva a camminare spedito. Trascinava leggermente il piede destro. Anni prima era rimasto coinvolto in un incidente e la ricostruzione del femore non era avvenuta a regola d’arte. Gli era rimasto quel difetto, piccolo ma fastidioso, specie in una giornata umida e carica di pioggia. Non era uno zoppo, questo no, ma sapeva di darne l’impressione e gli dispiaceva.

    La donna si voltò un istante e gli sorrise. Lui vide che si dirigeva verso l’altare centrale e si inginocchiava davanti alla statua della Madonna.

    Uscito dalla chiesa, Paolo si diresse verso casa. Il sole si era abbassato sull’orizzonte e timidi raggi di luce filtravano ancora tra gli alberi che fiancheggiavano la strada. Lumi e ombre si alternavano come in un balletto.

    I rumori erano quelli di prima, lo schiamazzo dei festaioli era aumentato, ma non ci faceva caso. Aveva altro cui pensare: Fare il confessore era più difficile e faticoso di quanto aveva creduto stando sul palcoscenico, ma era anche interessante… Molto più interessante!

    2

    Una cliente poco simpatica

    Il giorno dopo, rimessi nell’armadio il saio, il mantello e il cordone con il rosario, in attesa della prossima prova teatrale, Paolo Ventura andò in ufficio alle nove in punto, come faceva sempre.

    I colleghi lo canzonavano per questa precisione nel rispettare gli orari ma lui non ci faceva caso. Non si sentiva nemmeno un impiegato modello. Era fatto in quel modo: aveva i suoi ritmi e si limitava a rispettarli.

    Quel mercoledì rimase in Comune per poco tempo perché i numeri gli danzavano davanti agli occhi e lui non riusciva a contarli. C’era altro cui pensare! Aveva trascorso una notte insonne, agitandosi nel letto e alzandosi tre quattro volte, tanto che Concetta – la moglie – si era svegliata anche lei. Lui aveva cercato di tranquillizzarla dicendole che era il femore a tenerlo sveglio, quasi certamente per l’umidità di quei giorni.

    – Paolo, cerca di dormire. Domani devi andare a lavorare e non puoi passare la notte in bianco. Ti faccio una camomilla? – gli aveva chiesto la moglie nel dormiveglia, con voce rauca.

    – No, lascia stare. Dormi. Adesso passa. Prendo un’aspirina.

    Non era il femore né l’anca né un qualche male fisico. Erano i pensieri a volteggiare per conto proprio e lui non riusciva a fermarli.

    Che pensieri! Proprio a lui doveva capitare una situazione del genere… La camomilla! Roba da matti!

    – Dormi, dormi. Non ti preoccupare – le aveva ripetuto nella speranza di essere lasciato in pace con il suo problema.

    Brutta nottata. Da ricordarsela.

    Era uscito da casa prima del solito e si era diretto verso il palazzo comunale ma non era entrato. Era ancora presto. Aveva cercato di passeggiare per mettere a fuoco quello che stava rimuginando ma inutilmente. Niente da fare! Più ci pensava e meno sapeva decidersi.

    Accidenti! Che casino!

    Finalmente l’orologio della torre comunale batté le nove e decise di entrare. Forse in ufficio, distraendosi con il lavoro, avrebbe preso una decisone.

    Niente da fare. Non gli riusciva di concludere qualcosa.

    Evitò il bar frequentato dagli altri impiegati e andò sul lungofiume, che si trova poco lontano dall’ufficio. Incontrò una collega, giovane, allegra che gli disse: – Ciao, Paolo, il carnevale è finito, va’ a lavorare.

    Le sorrise a mala pena: – Lo so, ci vado, ci vado.

    Doveva decidersi – si ripeteva – ma non era facile, non era facile proprio per niente.

    Da anni era in attesa del suo momento buono e, ora che sembrava averlo a portata di mano, faceva fatica ad afferrarlo. Doveva anche organizzarsi e questo lo impensieriva perché non aveva esperienza e, a parte le sue fantasie, non sapeva come muoversi. Ci aveva pensato tutta la notte ma mettersi contro quella gente sarebbe stata faccenda seria, forse anche pericolosa. Aveva il suo impiego, il suo stipendio, una bella famiglia e forse non valeva la pena mettersi in quell’impiccio, ma non si poteva far sfuggire l’occasione. Non voleva.

    Che diavolo! Ci devo provare, altrimenti non me lo perdonerò… Ma è difficile!

    All’incirca nella stessa ora, verso le dieci, l’avvocato Antonio Morelli – che gli amici da sempre chiamano Totò – si trovava nel suo studio cercando di carburare, di avviare la giornata, ma faceva fatica. Praticamene, non ci stava riuscendo. Colpa del giorno precedente quando aveva accompagnato la moglie e i due figli più grandi – Silvana e Marco – a vedere la sfilata dei carri di carnevale lungo corso Vittorio Emanuele. Fu grato a Milena che era riuscita a trovare una baby sitter per i gemelli, che a due anni sarebbero stati solo di intralcio.

    Come l’anno precedente e come era nelle previsioni né lui né il resto della truppa si erano limitati a guardare le figure allegoriche che, sui carri trascinati dai trattori, invogliavano alla festa. Aveva lasciato che i figli si divertissero a modo loro: Marco aveva voluto una maschera da Zorro con relativo mantello nero e spada, mentre Silvana – ormai di dieci anni – si era limitata a una maschera veneziana, accompagnata però da un paio di scarpe della madre con tacco alto cinque centimetri.

    Verso le sette di sera Totò li aveva portati in pizzeria perché era convinto che un carnevale dove non si mangia non è una festa che si rispetti.

    Pizza e coca, secondo le migliori tradizioni della famiglia.

    Lui s’era divertito quanto i ragazzi, molto, e la serata avrebbe avuto il suo epilogo piacevole e sereno nel tepore di casa, se non fosse stato che, quando erano a pochi passi dalla meta, aveva incontrato due amici, di quelli simpatici, cui Totò non sapeva dire di no. Era stato invitato ad andare a ballare. Lui ne avrebbe fatto volentieri a meno ma cedette alle insistenze di Milena e non se la sentì di trascinarla in casa per la sua pigrizia.

    All’inizio s’era illuso di farla franca pensando di avere ancora una buona carta da giocare: I figli erano stanchi per il troppo correre, schiamazzare, giocare.

    Si sbagliava perché la moglie convinse la baby sitter a restare anche per il resto della serata. A quel punto alzò bandiera bianca e seguì gli altri in un casolare fuori città per ballare, mangiare di nuovo, bere e divertirsi.

    Totò – come faceva sempre – all’inizio non voleva, poi borbottava, quindi si lamentava e alla fine si divertiva più degli altri.

    Era stato così anche la sera, anzi, la notte precedente e, se ora aveva mal di testa e la bocca asciutta, non se ne poteva dolere perché – come gli aveva rimproverato Milena appena erano tornati a casa – poteva bere di meno.

    – A quarant’anni, in salute e a carnevale, avrò il diritto di divertirmi anche io – aveva replicato mentre cercava, a fatica, di raggiungere il letto.

    Milena: – Hai tutti i diritti che vuoi ma, poi, non ti lamentare per il mal di testa.

    – Sto bene – aveva concluso con tono quasi saccente nella speranza di porre fine a quella discussione, piccola, ma, date le sue condizioni e l’ora tarda, un poco fastidiosa.

    – Come vuoi. Ne riparliamo domani mattina. – Detto questo lei si era diretta in cucina per preparargli un infuso a base di semi di finocchio selvatico e malva che, nella tradizione di famiglia, curava ogni malessere.

    Mentre stava per prendere sonno Totò, rigirandosi nel letto, le aveva chiesto: – Ci pensi tu domani mattina per la scuola?

    – Va sereno, Morelli, tutto sotto controllo e cerca di dormire.

    Il risveglio era stato difficoltoso ma per fortuna quel mercoledì non doveva andare in tribunale per qualche causa e non ricordava di avere impegni particolari in studio.

    Non aveva nemmeno mal di testa ma solo un alone che lo incoronava. Questo, sì.

    Un’aspirina e un caffè forte avrebbero dovuto aiutarlo e un poco ci stavano riuscendo.

    Era lì, seduto nel suo studio con una lettera che avrebbe dovuto scrivere per un cliente, ma che non prendeva corpo, quando entrò Giovanni, il suo amico, segretario e collaboratore.

    Poggiata sulla scrivania una tazza fumante esclamò: – Nottataccia, eh?

    Morelli: – Non fare battutacce che non è il caso. Cos’è questa brodaglia?

    – Solo e semplice caffè all’americana. Un po’ allungato come so fare io, caldo ed energetico. Segui il mio consiglio: prendilo e vedrai che ti farà bene.

    Avrebbe voluto sorridere alle cure e alle attenzioni che Giovanni gli riservava ma non lo fece per tenerlo a freno, cosa non facile.

    Totò lo conosceva da anni, ancor prima che iniziasse a esercitare la professione dal momento che Giovanni era stato un appuntato dei carabinieri e per quasi vent’anni aveva lavorato alle dipendenze di suo padre, il maresciallo Morelli. Quando lo avevano messo in pensione gli aveva chiesto di entrare nello studio legale e lui non se l’era sentito di dire di no. Se ne fidava molto perché Giovanni era rimasto carabiniere e, se non riusciva a stare un solo minuto senza la giacca, aveva portato una modifica al suo abbigliamento che gli amici del dopolavoro avevano considerato troppo eccentrico: portava sempre una farfalla al posto della cravatta e ci teneva a che si trovasse al centro del colletto.

    Anche quella mattina Giovanni aveva il papillon. Era color giallo con puntini neri. Orribile a vedersi specie per uno come Morelli che amava vestire casual.

    Totò prese la tazza e si mise a bere quella che aveva definito come una brodaglia e si limitò a dire: – Grazie.

    Dal momento che il segretario restava lì, fermo, in attesa di non si sa cosa, Morelli gli rivolse un’occhiata incuriosita e ripeté: – Grazie. C’è altro? Fatti uscire il fiato così guadagniamo tempo.

    – In anticamera c’è una nuova cliente.

    – Falla passare tra un decina di minuti, il tempo di mettermi in sella – grugnì l’avvocato, un tantino sollevato da quella interruzione perché quella maledetta lettera proprio non voleva prendere corpo.

    Dal momento che Giovanni seguitava a restare immobile senza mostrare di voler uscire dalla stanza gli chiese: – Ho capito: è una bella donna. Adesso, dammi i dettagli così mi preparo e smettila di toccare quel cravattino che, te l’assicuro, sta proprio al centro.

    – Non è un cravattino né una cravatta ma una cosa seria.

    – Se lo dici tu! Com’è sta bellezza?

    Totò sapeva che in queste circostanze Giovanni dava il meglio di sé. Non si sbagliava perché la descrizione che ricevette fu sintetica ma completa ed esauriente.

    L’amico gli disse che la nuova cliente poteva avere trent’anni. Aveva un trucco ben calibrato e per questo ne mostrava di meno ma, se non erano trenta, ci mancava poco. Bionda, aveva i capelli lunghi, morbidi e striati con mèches più chiare, quasi dei colpi di sole. Gli zigomi sporgenti e la bocca carnosa la rendevano sensuale.

    Totò lo lascò parlare nel vedere come Giovanni quasi si eccitasse nel descrivere una donna, cosa che faceva sempre, senza che se ne accorgesse ma per istinto, per passione. Lo aveva interrotto solo un attimo quando gli aveva chiesto cosa ne sapesse lui, carabiniere in pensione, dei colpi di sole, ma non era andato oltre perché Giovanni gli aveva tappato la bocca: – Lo so perché me l’ha spiegato mia nipote che fa la parrucchiera.

    A un certo punto gli chiese se avesse da dargli qualche indicazione per la parte economica: – Ho intuito che non è una stracciona ma, andando sul concreto, che mi dici? Che impressione hai avuto?

    Giovanni: – Non ti so dire. Non ho notato bracciali né collane. Però, veste un cappotto di buon taglio e porta una borsa all’ultima moda. Lo so perché ne ha una uguale mia nipote e per regalargliela mi sono svenato. Le scarpe non sono costose, ma fanno la loro figura. Diciamo un tipo medio.

    – Staremo a vedere. Dieci minuti e poi falla entrare.

    Era partita da Chieti pensando che non avrebbe impiegato molto tempo per percorrere quei venti chilometri che la dividevano da Pescara, ma si sbagliava perché le ci volle più tempo per trovare un parcheggio che non per raggiungere la città. Aveva perso la pazienza e stava decidendo di tornare indietro quando il miracolo si manifestò all’improvviso: un tale lasciò un posto libero sul lato destro della via. C’erano le strisce gialle e lei avrebbe dovuto starsene lontano, ma non ne poteva più di girare a vuoto e mise in conto una contravvenzione.

    Lesse la targa che le indicava che aveva raggiunto la meta e, avendo trovato il portone aperto, salì le scale.

    Le venne incontro un signore dall’aria simpatica, un poco avanti negli anni, che le chiese cosa desiderasse.

    – Dovrei parlare con l’avvocato Morelli, se c’è – rispose con tono asciutto, cercando di mostrarsi sicura di sé.

    – Ha un appuntamento?

    – No, non ce l’ho ma, se è impegnato, posso aspettare.

    – Va bene. L’avvocato la riceverà appena possibile.

    L’uomo la

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