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BIBLIOTHECA SARDA

N. 87

Giuseppe Dess

SAN SILVANO
a cura di Anna Dolfi

In copertina: Foiso Fois, Il terrapieno, 1949

INDICE

7 Prefazione 24 Nota biografica 28 Nota bibliografica


Riedizione dellopera: San Silvano, Milano, Feltrinelli, 19622.

SAN SILVANO 41 I 83 II

Dess, Giuseppe San Silvano / Giuseppe Dess ; a cura di Anna Dolfi. - Nuoro : Ilisso, c2003. 167 p. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 87) I. Dolfi, Anna 853.914

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Scheda catalografica: Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro

Copyright 2003 ILISSO EDIZIONI - Nuoro ISBN 88-87825-73-4

LE MODULAZIONI DEL TEMPO SENSIBILE

1. La preistoria del romanzo Capita a volte che i tempi lunghi di una maturit ufficiale1 nascondano una pi precoce, segreta e diversa maturit. Basta scorrere le lettere di Giuseppe Dess agli amici (o ricostruirle dalle risposte),2 sfogliare le pagine dei diari giovanili, leggere i primi racconti, per accorgersi di quanto spazio di riflessione stesse dietro un linguaggio talvolta ancora aspro, per notare quanto palese antidecadentismo si dichiarasse demble in una vocazione di scrittore non legata (come in qualche modo avevano voluto Proust, Svevo e Pirandello) al tentativo di salvare (o conoscere) solo sulla pagina la vita vera, ma piuttosto nella netta consapevolezza del suo esterno esistere alla necessit di fissarne qualche interna linea di sviluppo. Come se insomma per un giovane che tutto era stato tranne che filologo, a dominare dinanzi al reale fosse subito una sorta di filologica attenzione alle iniziali declinazioni, alle parole pure, alle origini. Nella scansione di interni dialoghi che, al pari di quelli ingenuamente progettati nei primi anni 30, fossero dazione e assieme di verit e di morte. Da quei tempi, nei quali ancora gli riecheggiava in mente leco del nome di Furio Vincitore (lalter ego che aveva relegato lio in una immaginata follia), gli era nata lidea di un romanzo del quale doveva avere parlato a elettissimi amici e al pi
1. Ovvero pubblicamente riconosciuta: consacrata dagli studi liceali e dallUniversit. Come noto Dess fu a lungo un pessimo scolaro. A salvarlo da letture confuse e disordinate che lo avevano condotto sullorlo della follia sarebbe stata la lettura dellOrlando furioso regalatogli dal padre (ma cfr. per questo quanto ha raccontato lautore in un bel saggio, Il mio incontro con lOrlando furioso, collocato, insieme a pochi altri, a discrezione del curatore, a integrare lultimo romanzo incompiuto, La scelta). 2. Questo il caso delle lettere giovanili a Varese, andate distrutte nel bombardamento della casa di Varese in Sardegna (per quanto invece ci resta dellepistolario cfr. G. Dess, C. Varese, Lettere 1931-1977, a cura di M. Stedile, Roma, Bulzoni, 2002).

Prefazione

amato dei maestri pisani, Aldo Capitini. Gi allora era questione di un personaggio il cui nome avrebbe dovuto essere Giacomo, e della necessit/volont di pensare i sentimenti, di dire la gioia e il dolore. Nellattenzione (cos ormai al tempo di quello che sarebbe poi stato San Silvano e dei primi anni 40), oltre i fatti, alla loro trama, al loro fluire3 lento nella memoria, nella convinzione che vale la pena scrivere solo per raccontare fatti che non sono accaduti (Vale la pena di parlare di Elisa, che non mai esistita) e che tutto in arte (oltre che nella vita, quanto meno nel campo dellaffettivit) questione di tono, di misura. Per raggiungerli, quel tono e quella misura, ed uscire con un primo romanzo che ci appare oggi come uno dei pi belli del nostro secondo Novecento, bisognava far decantare la storia, la biografia, drasticamente ridurre il materiale lentamente raccolto (a partire almeno dal 1934), che oggi troviamo in sette cartelle cartonate color crema che riuniscono quanto pu definirsi lavantesto e il testo stesso del romanzo.4 A guidarci nella ricerca una copertina di quaderno, che dichiara esplicitamente Appunti per San Silvano. Seguono mucchietti di fogli annotati con scrittura regolare su carta da computisteria. E lentamente identit si declinano e appaiono nomi che, omessi (o appena accennati) proprio in quello per il quale sembravano essere nati, sarebbero tornati in tutti gli altri romanzi, fino alla postuma Scelta,5 dove
3. Cos in una pagina di diario del 15 maggio 1942 (per una trascrizione dei diari giovanili, in particolare degli anni in questione, cfr. G. Dess, Diari 1931-1948, a cura di F. Linari, Roma, Jouvence, 1999). 4. Custodito nel Fondo Dess donato dalla moglie dello scrittore, Luisa, e dal figlio Francesco, allArchivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze (ma per una catalogazione e descrizione completa del Fondo si veda adesso risultato di una tesi di laurea da me diretta e discussa allUniversit di Firenze Giuseppe Dess. Storia e catalogo di un archivio, a cura di A. Landini, Firenze, Firenze University Press, 2002). 5. G. Dess, La scelta, introduzione di C. Varese. Commento e nota al testo di A. Dolfi, Milano, Mondadori, 1978 (del libro, ormai introvabile da anni, uscita nel luglio 2003 una riedizione allegata al quotidiano LUnione Sarda).

ancora era questione di Giacomo, di un tacito amore giovanile, di Alina6 Il fatto che non c niente di cos difficile di cui parlare come della propria schermata biografia. Forse quanto ossessionava lautore era, oltre a un mondo circostante di cui non si sarebbe liberato mai (la Sardegna montana, il paese di Villacidro, le contese per la propriet e per la terra, un padre ufficiale a lungo e pericolosamente lontano, una madre precocemente perduta), la storia di una formazione sentimentale e intellettuale, e il bisogno di fare affiorare, anche se per schegge disperse, un ritratto: a portrait of the artist as a young man. 2. Genesi e occultamento di Giacomo
Proprio quando agli occhi di tutti Giacomo stava diventando un ragazzo assennato (gli Alicandia e i Ben dicevano che Oreste aveva avuto su di lui una benefica influenza), proprio allora egli attravers una crisi.

Si avvia cos, sulla figura di Giacomo, uno dei primi tentativi di romanzo.7 A parlare dellamico, fuggito dal collegio (come per altro era avvenuto allautore: si noti dunque la dislocazione della propria pseudo-identit su un personaggio diverso dallio narrante) una voce che con sottile malia, in una prosa fatta tutta di pensiero (che torner poi, raffinata e perfetta, nel romanzo, a costituirne la cifra pi vera), si sofferma pi che
6. Proprio nei primi appunti (GD.1.1.1, questa la segnatura del materiale in archivio) compare una figura femminile (Olivia, da cui poi Alina), al secondo matrimonio, e con una prepotente nostalgia per la Francia. 7. Il materiale depositato in Archivio isola in varie cartelle gli appunti e stesure del romanzo. Qui ci limiteremo a un utilizzo funzionale soprattutto della prima cartella (GD.1.1.1.) che contiene probabilmente il materiale per noi in questa sede pi interessante. GD.1.1.2.(a-c)a ad esempio un quaderno con pagine talvolta interamente cassate. Altrove (in altre sezioni) si trovano nuclei di pagine (anche dattiloscritte) con cassature e indicazione di una possibile suddivisione tematica. Ma ci sarebbe da accertarne la reale pertinenza a San Silvano piuttosto che a racconti di poco precedenti o coevi (sicuramente tangenti testi come La citt rotonda, La sposa in citt, Gioco interrotto).

Prefazione

sugli avvenimenti (una fuga per un amore infelice?) sulle oscillazioni della sensibilit, su una sorta di compenetrazione e differenziazione di stati danimo. Quanto rivela il tempo (lapporto di conoscenza da ascrivere alla vista retrospettiva), proprio il nome da dare alle modalit di essere che si susseguono rapidamente, dalla tristezza alla gioia, a segnare la tipologia dei personaggi:
Ma in poco tempo avevo notato in lui una tristezza che solo da lontano ricordava la mia malinconia. Io la posso chiamare solo ora tristezza.8

Diversificato Giulio,9 lintellettuale fratello di colui che parla, dagli altri due, accomunati non solo da una straordinaria forza di sentimento, ma dalla capacit, anche attraverso la cultura, di educare (coltivare) la vita.10 La vera opera darte dellirrazionale razionalit di Giacomo11 infatti la vita12 (si ricordi che Dess, in altri romanzi, lavrebbe fatto scomparire in difesa della libert, nel fiore degli anni, nel corso della guerra
8. Cfr. GD.1.1.1, c. 1r. (ove con c. si indica la carta, e con r. e v. il recto e il verso). 9. Che, come ormai si pu dire esplicitamente, era modellato sullamico a Dess pi caro, Claudio Varese. 10. Ora, se Giacomo fosse stato, a sedici anni, un filosofo della forza e della precocit di Giovanni Battista Vico, o un filologo della forza di Leopardi giovane, mio fratello non se ne sarebbe meravigliato. Ci che lo meravigliava e gli appariva contro natura, era la straordinaria forza di sentimento del nostro amico Ma in realt larte di Giacomo non doveva essere la pittura ma la vita stessa (GD.1.1.1, c. 2). 11. Io sono daccordo con Giulio nel riconoscere che in lui prevaleva lelemento irrazionale, il sentimento. Ora Giulio afferma (non so poi come si faccia a sapere e ad affermare certe cose) che il sentimento una cosa sola col pensiero. Il male viene forse dallaver sentito il bisogno di vedere distintamente sentimento e pensiero; ma altrettanto male dire, sentimento e pensiero sono la stessa cosa (GD.1.1.1, c. 8r.). 12. tanti altri momenti della vita di Giacomo, sono come purissime liriche, e i motivi fondamentali della sua vita come laspirazione costante alla verit sono come i motivi poetici che animano unopera darte (GD.1.1.1, c. 2v.).

civile spagnola), una vita vissuta tutta nella proiezione verso la gioia morale, quella gioia che dura solo in quanto presente perch essa si attinge solo quando possiamo in un attimo dare un senso a tutta la nostra vita passata accordandola col presente, quando noi insomma, in un modo o nellaltro siamo unit, interi.13 E importanti, a ben vedere, per la poetica di Dess, sono proprio questa unit e interezza: ch quanto conta non salvare uno solo dei tre tempi umani, ma riuscire a saldarli insieme, inverandoli luno nellaltro. Diverso insomma questattimo dalle intermittences proustiane, che arrivano allimprovviso, impreviste, imprevedibili, a svelare il passato e a dargli senso, ma come incuranti del presente; incuranti anche di quella forza e tensione morale che guida in Giacomo lebbrezza delloggi che, raccordato al passato, consente di rendere ogni singolo gesto risultato di unesistenza vissuta e rivelata ad un tratto nella sua compatta unit. Qualcosa potrebbe forse ricordare i momenti di essere woolfiani, nei quali per pi questione di concentrazione di pienezza vitale che di moralit. La scienza morale, letica, aveva invece sempre appassionato Dess fin da quando, tardivo studente al Liceo Dettori di Cagliari, aveva proditoriamente citato Spinoza a Delio Cantimori, discutendo con lui della natura di Dio, e forse, chiss, anche di quella della mente umana, che, come ricordava il filosofo, percepisce le cose sotto una certa specie di eternit.14 Eternit anche degli affetti, che il nostro appassionato lettore di filosofia non poteva avere dimenticato essere largomento della terza, straordinaria parte dellEthica.15 Ma torniamo agli abbozzi e a Giacomo; che ama i libri (di cui fa nutrita provvista in casa dellio narrante), ma per
13. GD.1.1.1, c. 6. 14. De natura Rationis est res sub quidam aeternitatis specie percipere (B. de Spinoza, Ethica, pars II, corollarium II). 15. Non defuerunt tamen viri qui de recta vivendi ratione preclara multa scripserint; verum Affectuum naturam, et vires, et quid contra Mens in iisdem moderandis possit, nemo, quod sciam, determinavit (B. de Spinoza, Ethica, pars III, praefatio).

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Prefazione

abbandonarli poi ai piedi degli alberi, e misura la calma e gioia interne nella sincronia con il ritmo della natura, sentendo la stanchezza come unintuizione dellopacit insita nellesistenza. Giacomo ritorna periodicamente a San Silvano, cos come accadr a colui che dice io nel romanzo. Solo che in questo la terna Giacomo, Giulio, io narrante degli abbozzi si riduce a una coppia (io narrante, Giulio; alla quale ben inteso da aggiungersi Elisa, che gi appariva, ma solo come puro nome, nei progetti iniziali), e sar allora verso Giulio (piuttosto che verso Giacomo, occultato nellio) che si rivolger linquieto interrogarsi sullaltro. A Pinocchio (vezzeggiativo di Pino [che viene a sua volta da Giuseppe] che non ricorre che due sole volte; parimenti, in apax o quasi, nella Recherche, appariva il nome Marcel) passa, di Giacomo, la forza naturale irresistibile, o meglio una forza spirituale ancora indiscriminata, indisciplinata, torbida, che tendeva per alla pi grande purezza, una forza che aveva in s una possibilit infinita di perfezione. Ma nel trascorrere da Giacomo a Pino, a essere cedute sono soltanto le premesse, non lo sviluppo, insomma linfinita perfezione, legata jamais a unimmagine rve du moi. Giacomo, quando ritorner, non potr che farlo in sinopia, in controluce, giacch raramente la vita consente di attingere la purezza, di pervenire al raggiungimento completo di tutte le potenzialit. Giacomo insomma non poteva vivere, neppure come personaggio; sarebbe diventato piuttosto, per unintera carriera narrativa (e non solo),16 un polo costante di rimorso e fascinazione. Avrebbe giocato il ruolo dellamico sfuggente e ideale toccato dalla follia; sul suo volto si sarebbe modellato quello delladolescente che con i versi del Foscolo vive la morte e rigenerazione del mondo nella Citt rotonda ; o quello del pittore pazzo che dal meta-racconto che apre la La sposa in citt avrebbe continuato a ricordare, in pi libri (San Silvano tra questi) che il vero valore sta fuori
16. Si vedano alcune testimonianze dautore in una lettera ad Anna Dolfi riportata nel commento e note al testo della Scelta.

del quadro,17 e che lassolutezza (impossibile) della vita si avvicina allassolutezza dellopera darte. Quanto pi numerose sono le cause simultaneamente concorrenti da cui un affetto eccitato, tanto pi esso forte, aveva detto Spinoza nella VIII Proposizione del De libertate humana.18 Pu essere un motivo sufficiente per scrivere e cercare di essere artisti, il bisogno di parlare (e/o il tentare di parlare) della vita: lunica opera darte che non si riusciti a realizzare come si sarebbe voluto? 3. La parola come mezzo espressivo Si diceva, dunque, della sostituzione in itinere (per unoggettiva impossibilit/pudore a parlare dellio)19 di Pino a Giacomo; si potrebbe parlare propriamente anche del passaggio dalluno allaltro dei quesiti su Dio, lestetica, la matematica, dellinterrogazione sullarte, il pensiero, la libert, arrivando ai libri comuni20 (quelli stessi che erano stati scoperti dallautore adolescente nella biblioteca murata). Anche i libri si intrecciano alla necessaria morte e sostituzione di Giacomo, se vero che a generare tristezza basta la sola idea di una manovella che giri allindietro, costringendo la vita a ritornare su se stessa, e a ripetere gesti, luoghi, situazioni. In tal caso infatti tutto sarebbe stabilito fin dallinizio, ma lio dovrebbe rivivere il passato come presente, nellillusione di essere libero, sfiorando il terrore (che gi una volta aveva portato
17. Le citazioni senza rimando immediato rinviano tutte, liberamente utilizzate per altri fini, a GD.1.1.1, c. 8. 18. Parte V dellEthica (si cita dalla traduzione di G. Durante: Ethica, Firenze, Sansoni, 1963). 19. Intendendo con io (Io) quanto pi si avvicina alla verit dellio, distinguendolo dal s (assai meno complesso e interessante, e di cui fin troppo ci ha parlato la maggior parte dei romanzi italiani del Novecento). 20. Si veda, ancora dalle carte preparatorie al romanzo: Dopo le prime letture di alcune opere di Spencer, di Darwin, che avevano gettato in lui i germi di tutto un vasto castello di costruzioni mentali, invece di approfondire in questo senso, come avrebbe fatto Giulio, Giacomo, con la rapidit di intuizione che gli era propria, sera fatto su questi schemi una concezione del mondo (GD.1.1.1, c. 9v.).

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Prefazione

alla pazzia)21 che la vita libera non sia neppure quella del passato-presente, ma una ancora pi lontana, da cui procedere nuovamente rebours. Da questo determinismo claustrofobico Dess aveva gi tentato di salvarsi una volta: qualcosa in lui doveva inconsciamente opporsi a ogni cammino che avrebbe obbligato di fatto a una ripetizione. Chiss che anche questo non labbia tenuto lontano dal romanzo autobiografico strettamente inteso22 che a questo percorso allindietro avrebbe fatalmente costretto, a partire proprio dal cogito destinato al sum. Il cogito (la vita del pensiero, che avrebbe sempre costituito la forza delle sue pagine pi belle) sarebbe stato come un seme nutrito allinterno, affidato a una voce attoriale che, se non sarebbe arrivata al coraggio di Giacomo, che aveva usato se stesso, la sua vita, come mezzo espressivo,23 avrebbe tentato di avvicinarvisi24 ripercorrendo, attraverso altre maschere,25 altre stagioni ed et, pi che la vita la sua preistoria,
21. Negli appunti di San Silvano si parla esplicitamente anche della pazzia di Giacomo. 22. Sia pur con tutte le immancabili variazioni dalla vita vera tipiche dello stesso genere. 23. Utilizzo ancora liberamente qualche pagina di appunti: Gli spiegai che Giacomo era un artista, che aveva scelto se stesso come mezzo espressivo, una specie di attore, che sperimentava il suo dramma nel mondo (GD.1.1.1, c. 15r.). 24. Si veda per questo quanto risulta da A. Dolfi, Un romanzo interrotto. Commento e nota al testo di G. Dess, La scelta cit., pp. 129-176. 25. Tra laltro dietro le singole storie, personaggi, libri, esiste, da un romanzo allaltro di Dess, una serie continua e sottilissima di rimandi, una suggestiva geografia di corrispondenze: si intrecciano vicende, volti, protagonisti che oltre tutto (cos avviene anche allio narrante di San Silvano) hanno capacit visionaria, vista eidetica. Si moltiplicano allora gli echi del riconoscimento per i lettori dellopera complessiva, a costruire, correggere, integrare, nel non-finito del romanzo moderno, una storia unica e imprendibile (privata e oggettiva) che lautore si accanisce a ridire per rifrazioni, ottiche parziali, dubitative. Una storia che rinvia non solo a un paese e alla sua gente, ai volti, reali e fantastici, di una biografia trasfigurata e vissuta, ma anche a unurgenza di conoscere e interpretare il mondo, decifrando ci che si rivela in segreto svelandosi a intelligenza e passione unite assieme per forza di purissimo empito.

i suoi antecedenti. Questo spiegherebbe anche perch in ogni libro Dess si spinga per certi versi sempre pi indietro nel tempo, fino a ripercorrere, oltre la propria nascita (il caso di Paese dombre, ove si mostra solo alla fine bambino),26 la storia di figure parentali (debitamente trasfigurate dalla fantasia e dalla scrittura), e il clima di unepoca (adombrato gi in San Silvano : il nonno Uras, il padre in guerra) che si potrebbe ripercorrere allinfinito alla ricerca di linee di continuit con una pi ardua, indicibile storia individuale. Che, per dirla con lautore, fatta di una quantit innumerevole di frammenti che si sono capricciosamente aggregati gli uni agli altri formando figure27 che soltanto il tempo, e nel tempo larte, pu consentire di leggere. Animati, lo sfondo e le figure, di un sentimento che non pu essere nato da quel caos primigenio,28 nutriti piuttosto da quella pacatezza di stile che attenua e addolcisce lo sgomento del nulla sostituendolo, nelluniverso del linguaggio, con il sogno possibile di unapprossimazione alla vita,29 di unarmonia universale.30
26. Per una storia delle connessioni tra vita reale e finzione romanzesca cfr. tutta la sezione delle Note e commento al testo di G. Dess, Un pezzo di luna. Note, memoria e immagini della Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1987. 27. GD.1.1.1, c. 16v. 28. Strappo ancora parole dallo scartafaccio dessiano (GD.1.1.1, c. 17r.), utilizzandole per il mio discorso. 29. Su questa linea di avvicinamento il titolo del romanzo dedicato da Dess a Giacomo Scarbo: Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, Venezia, Sodalizio del libro, 1959. 30. Si veda, a titolo di exemplum, il contrasto tra forma e significato in un brano di appunti: Quando Giacomo, per esempio, mi diceva che gli atomi contengono sistemi solari simili a quello che noi uomini abbiamo creduto per tanto tempo luniverso stesso, e mi diceva che da una parte si va verso linfinitamente grande e dallaltra verso linfinitamente piccolo, ma che in realt il grande e il piccolo non esistono, che non c grandezza alcuna, che non c alcun termine di paragone, che c solo il nulla, io non sospettavo neppure che da questa concezione di cui sentivo tutta la tristezza potesse nascere una specie di Superuomo nietzschiano o un Immoraliste, che si stabilisse in questa scala infinita di grandezze come il centro delluniverso, tornando, in certo senso al punto di partenza come una cometa (GD.1.1.1, c. 17v.).

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Prefazione

4. Verso il tempo sensibile Fin dal primo romanzo (perfino lungo le direttrici che spiegano labbandono di primi progetti per puntare sul libro reale) appare chiara la ricerca di situazioni narrative che, cos come voleva Spinoza, inducono a parlare degli affetti tramite le cause, dellesistenza tramite il tentativo di affidarsi a una storia comune. Sar in una Sardegna fatta di pause, di silenzi, di vento (simile e assieme diversa da quella dellesperienza vitale) che Dess trover i tempi lunghi di una quotidianit esaltata a mito, il senso di una continuit capace di assorbire la morte (cos nella chiusa di molti romanzi, da San Silvano ai Passeri a Paese dombre) trasformandola in una durata affettiva che obbedisce alle leggi della spinoziana persistenza. Nella solitudine spazio-temporale di una terra morta e immobile come la luna, ove veramente lunare il concetto di tempo e di spazio, sarebbe nata la sua concezione del tempo, tutta giocata sulle misurazioni soggettive della durata e dellistante. Al tempo sociale, collettivo della storia, al tempo reale, si sarebbe aggiunto prepotentemente, proprio a partire dallo spaesamento spazio-temporale dellisola, un tempo individuale che avrebbe dato il via a un altro tempo, una sorta di tempo sensibile, tipico dellautore (o meglio della sua controfigura, o figura pi vera) e di tutti i personaggi che ne costituiscono il doppio ideale. Ogni tempo di Dess fatto di questo intreccio, ove poi si sottolinei che essendo il tempo sensibile a filtrare quello storico, anche nelle griglie oggettive si ha un predominio pressoch totale della soggettivit; ch a contare davvero linterna durata, che accelera o rallenta le misure esterne secondo le irrazionali modalit dellanimo. Ne risulta, nei casi pi felici, un genere romanzesco poco praticato in Italia, che ci consente di ascrivere la narrativa di Dess al campo del romanzo di riflessione, a quello che potremmo chiamare non del tutto impropriamente roman philosophique. San Silvano di questa tipologia costituisce davvero un luminosissimo esempio, alimentato com, oltre che da una delle pi grandi prose di pensiero della modernit
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(il riferimento naturalmente alla Recherche proustiana),31 da libri di grandi filosofi (Leibniz, Spinoza, ma anche Kant, Nietzsche, Schopenhauer, gli idealisti tra questi Gentile, che, non si dimentichi, aveva annotato proprio lEthica , a correggere il soffocante determinismo indotto dalla precoce lettura di Compte, Spencer, Darwin). I Nuovi saggi, la Monadologia, lEthica avrebbecro a nostro avviso provocato ben pi di qualche citazione o puntuale tangenza,32 se vero Leibniz e Spinoza, assieme a qualche verso di poesia lentamente scandito (Foscolo, Leopardi, Tommaseo, Rilke) ci sembrano di San Silvano quasi una struttura portante, una suggestiva lente di evocazione e percezione delle cose. San Silvano nascer pi di qualunque altro libro dalla tensione di questo mondo intellettuale e sentimentale di cui Giacomo Scarbo tra laltro, presente o assente che sia, sar sempre una sorta di metafora viva. In San Silvano, libro dai pochi personaggi e dalle infinite sfumature di stile (la scrittura vi raffinata e coltissima, giocata, in sapienti cadenze melodico-ritmiche, su interruzioni e riprese, ripetizioni e ritorni), ogni personaggio nasce da un sentimento, da una modalit affettiva, da una soggettiva declinazione del tempo. Il protagonista sar incapace di percepire la bench minima cosa ove fissata in schemi mentali lontani dallaffettivit; la forza fantastica (una fantasia tutta modulata in sentire) si identificher per lui con la possibilit di conoscere e alterare il reale per arrivare a coglierne lessenza. Lontano dal mondo di Giulio,33 lintellettuale fisso al presente, sostenuto da unimperturbabile sicurezza conoscitiva, il pi giovane
31. Si ricordi che Gianfranco Contini, alluscita del libro, aveva parlato di Dess come del Proust sardo. 32. Ma per una lettura filosofica dellopera di Dess si veda il nostro La parola e il tempo. Saggio su Giuseppe Dess, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1977 (n. ed. rivista, Roma, Bulzoni, 2003, con il titolo La parola e il tempo. Giuseppe Dess e lontogenesi di un roman philosophique). 33. Ispirato liberamente, come gi si diceva, alla figura dellamico Claudio Varese, a cui il libro (in cifra) dedicato (giacch Giulio era il secondo nome di Varese, mentre Ramo era il cognome della nonna materna).

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Prefazione

fratello fonde la lettura ed il sogno, la realt desiderata ed il vero, ama la cultura nella misura in cui gli si fa elemento provocatore di intensit emotiva e fantastica. Giulio rappresenta un mondo dove la sensibilit subordinata allintelligenza, ove lassenza dincertezza potrebbe rischiare di far dimenticare il passato; Pino, al di l della comunione intellettuale con il fratello, dellammirazione per lui, sente la forza di quello che il ragionare non spiega, e pensa allintelligenza come alla capacit di intuire al di l di ogni ratio astratta. Ci non gli impedir di essere anche lui colpevole di equivoci, di incomprensioni; colpevole in particolare di avere assieme a Giulio frainteso il mondo di Elisa, collaborando alla sua lenta morte. Se Giulio punta alla perfezione di Elisa, e in questa astratta perfezione la uccide; Pino dimentica Elisa, la sua sofferenza, per proiettare nellimmagine lontana della sorella e nel mito del paese infantile un suo bisogno di durata immutabile, di auto-creazione fantastica che progressivamente perde i contatti con la realt. Il suo discorso mentale, il suo desiderio, gli fanno modificare gli eventi, impedendogli di accorgersi, prima che a sancirlo sia la tragedia finale, che comunque San Silvano sparito. Sparito dal momento dellallontamento per il continente che aveva infranto liniziale e felice endiadi fantasia/vita; sparito dal giorno in cui il vivere secondo piet di Elisa (non a caso ultimo lare di uninfanzia perduta, da sempre figura materna) era stato sopraffatto dalle istanze contraddittorie della vita adulta. Invecchiato come i suoi protagonisti, il paese non vive pi di quella complessa forza fantastica che gli avrebbe permesso di resistere allimpatto col vero; il ritorno non potr allora che essere la storia di uno scacco, la verifica di unimpotenza, il segno di un errore esistenziale e conoscitivo. Da quel primo errore daltronde era nata la tristezza di Elisa, lo spostarsi da San Silvano a Pontario; quel primo errore aveva gradualmente, rilkianamente maturato in lei una morte indotta da una sorta di lenta asfissia. La stanchezza del paese la stanchezza di Elisa, prigioniera, nel ricordo dei fratelli, di un colloquio segreto che, incapace di vivificare il presente, la riconduce a un passato
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che sovrappone, su lei viva, la tristezza di una storia familiare passata, il volto di una madre scomparsa alla quale va sempre pi assomigliando. Pino, tornando a San Silvano, incapace di liberarsi delladolescenza e del suo fascino sottile, pur riconoscendo linsufficienza della razionalit di Giulio, non ha la forza di arricchire il mondo di Elisa con un presente che, ove accettato contemporaneamente nella realt e nella fantasia, avrebbe il potere di modulare di nuovo la vita. Il ritorno su cui si apre il romanzo, accompagnato subito da un senso di perdita irrimediabile, di nostalgia immedicata, da una sorta di preveggenza di morte che muta la gioia in tristezza per trasformarla in dolore, sar destinato al tormento di una verit troppo tardi capita e di cui Elisa sar innocentissima vittima. Pure, al di l degli errori, resta in Pinocchio linquieta ansia del forse. Il suo pacato non so nei confronti di Elisa, lavvio lento, graduale del dubbio che si estende a tutto il passato, si fonderanno con gli interrogativi della notte insonne trascorsa, in una certezza che non ha altre radici che la propria paura, a scrutare in silenzio il volto pallido, sofferente di Giulio. Se sono gli stati danimo a riempire i fatti di consistenza, di verit, poco importa che la morte non sia ancora avvenuta: conta la certezza intuita a distanza, sentita nella propria stanchezza, nel proprio anticipato dolore. Un dolore che accresce la colpa ma allo stesso tempo la svuota, se vero che chi ama sempre pieno di dubbi, e se sono i dubbi di Giulio, intuiti nel dialogo muto, a convincere Pino di non essere pi sicuro di nulla. Ecco allora che, quasi inventata dalla compassione di Pino, dalla capacit acuta, affettiva del suo sguardo (lattenzione al vedere, alla penetrazione della vista, interna o esterna che sia, un altro dei caratteri peculiari dei personaggi dessiani), anche lintelligenza di Giulio si allontana dalla teoria astratta per spingersi ormai sul terreno leggero del tono, della misura, convergendo verso unidea che matura allunisono lentamente nei due fratelli. Doppia conoscenza fantastica (come quella che aveva accompagnato linfanzia felice ed era sparita, con San Silvano, come laria da un pianeta morto), capace di farsi ancora una
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Prefazione

volta vita, proiettandosi nel futuro tramite unintensit di sentire che si traduce in comunicazione, in linguaggio. Quello che le idee e le parole avevano tolto, lo possono infine restituire, in un dettato che porta ormai il segno indelebile di una maturit sofferta, di unumanit pietosa degli altri e di s. Limmaginazione, facolt indivisibile dalla memoria e dalla percezione degli oggetti corporei 34 (Dess doveva averlo imparato anche sulle pagine del Dizionario dei sinonimi del Tommaseo), si fa garanzia (matematica, metafisica) di una nuova consistenza tangibile: il ritratto di Elisa come un oggetto assoluto, come non era stato mai. 5. Tre tempi, tre dramatis personae 35 Quid id, quod amat, destrui imaginatur, contristabitur. Le parole della XIX Proposizione del De Affectibus spinoziano potrebbero accompagnare, quasi controcanto, voce di sfondo impercettibile, ma ripetuta, insistente, la lettura di San Silvano : Colui che pensa distrutto ci che ama prover tristezza. E la tristezza, infatti, la malinconia per ci che inevitabilmente perduto si fanno quasi forma interna del romanzo, nel seguire la privata, sentimentale biografia del protagonista alla ricerca vana e difficile di San Silvano nelle fasi diverse del tempo. La tristezza diviene la modalit categoriale, la linea melodica dalla quale il giovane intellettuale filtra i ricordi, i
34. Cfr., ad vocem fantasia nel Dizionario dei sinonimi di Tommaseo. 35. Per una lettura puntuale e complementare di San Silvano sia consentito il rinvio a I tre tempi di San Silvano, in A. Dolfi, La parola e il tempo. Saggio su Giuseppe Dess cit., pp. 239-277; a A. Dolfi, Le costanti narrative nellopera di Dess e leccezione ferrarese di San Silvano, in Esperienze letterarie, 1979, 1, pp. 76-88 (poi in A. Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 405-422); a A. Dolfi, Introduzione a G. Dess, San Silvano, Milano, Mondadori Oscar, 1981, pp. 5-28 (poi, col titolo Ragione e passione in un roman philosophique, in A. Dolfi, Terza generazione cit., pp. 423-434); a A. Dolfi, Postface a G. Dess, San Silvano, Lagrasse, Verdier, 1988 (poi, col titolo Rileggendo Dess e San Silvano, in A. Dolfi, In libert di lettura. Note e riflessioni novecentesche, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 159-168).

sentimenti, le passioni, i pensieri: tutto un mondo che in San Silvano trova un sotterraneo, nascosto punto di origine, un luogo distante, misterioso di convergenza. Il romanzo presenta tre tempi distinti, eppure uniti dal persistente tentativo di riportarsi allesperienza, alla ricerca del passato, per trovarvi la spiegazione, il chiarimento, e anche la pacificazione, la felicit; e tre dramatis personae che in modi diversi sono coinvolte in questa soggettiva recherche : Pinocchio, Giulio, Elisa. Ma una presenza, la loro, con lunica eccezione di Pinocchio, io narrante del romanzo, che pu verificarsi anche in assenza (cos quella di Elisa nellultimo, deluso, privativo tempo di San Silvano, o quella di Giulio, che spesso per il protagonista unalterit del pensiero, unalternativa vivente di percezione e sensibilit). I tre tempi sono segnati da una gradualit affettiva in linea discendente; daltronde nei tre personaggi esiste una diversa misura della sensibilit, o meglio una diversa capacit di coinvolgersi negli affetti, nella loro espressione e partecipazione. Pinocchio, Giulio ed Elisa rappresentano tempi diversi della storia e della vita: Elisa quello favoloso, mitico dellinfanzia, Giulio quello razionale, oggettivo del momento presente, e Pinocchio quello della proiezione in interiore hominis, dellinterrogazione dei sentimenti e della loro esplosione. Il suo tempo insieme passato e presente per una sorta di angosciante capacit a percepire, nel passato come presente, e nel presente quasi fosse passato, lostacolo frapposto a una durata completa e a una conclusa felicit. Pinocchio vive le cose in un turbamento presago della fine; ha la capacit e la possibilit di vivere il tempo di oggi e quello del ricordo con la stessa attimale violenza di sentimento totale, esclusivo, turbato solo dalla finale tristezza. E questo tempo morale, il pi complesso, il pi vario, si riverbera su quello degli altri protagonisti, a rendere inquieta, suggestiva e sfuggente la sicurezza di Giulio, a turbare di una previsione di morte la sorridente, materna figura di Elisa. Ogni tempo, a qualunque personaggio appartenga, soggetto a un suo ciclo; anche se il tempo definitivo di tutti i
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Prefazione

personaggi, lunico per tutti infine sicuro, quello di Pinocchio: che alona e circonda di possibilit irrisolte, di interrogativi mancati, di pudori e di reticenze una storia che solo alla fine potr essere ricostruita nelle fasi distinte del tempo. San Silvano il luogo deputato di questo unirsi e intrecciarsi di tempi, dissolti e inverati nella tonalit narrativa del terzo tempo, che quello di una trascritta, alterata autobiografia. Se si volesse definirli, questi tempi, avendo in mente il De Affectibus spinoziano, facendo ricorso a parole tematiche del romanzo (e ai campi semantici dominanti), si dovrebbe porli allinsegna della gioia, del dolore e della tristezza. La gioia e il dolore, come affetti primari dai quali tutti gli altri si originano per mancanza, corrispondono ai tempi veri del romanzo (quelli degli avvenimenti verificati); la tristezza, che muove il terzo tempo, lunico ontologicamente vero, nel quale si situa lio narrante, la misura del loro dissolversi, del loro sparire. La gioia la privilegiata localizzazione di un tempo primo, adolescenziale, innocente, fatto di scoperte e di fantasia, di immaginazione e di sogno; il dolore il tempo della verifica concreta, della gioia perduta, dellinutile ritorno a San Silvano, della parabola conclusa di Elisa; la tristezza il terzo tempo del tempo, e costituisce la sottile, opaca nebbia che si frappone, dopo il rovesciamento della gioia in dolore, a circondare di unaura di nuovo mitica il ricordo. Dal tempo della tristezza, che il tempo presente, si muove la ricostruzione del protagonista, e il suo tentativo di dare una sistemazione organica a una vicenda che trova solo a svolgimento concluso un significato e un valore emblematico. Dalloggi Pinocchio ricorda e tenta di riafferrare, per segnarne la perdita definitiva, il paese dellinfanzia, il luogo favoloso della fantasia, degli affetti, delle prime amicizie, quel paese della gioia che era stato cercato, e malamente cercato, in alcuni mesi di improvviso, imprevisto ritorno. Quel secondo tempo, che era gi a suo modo un tempo della tristezza, non poteva che culminare nella morte di Elisa, che si identifica con San Silvano, con la sua dolce e impenetrabile sofferenza. Elisa la coscienza fanciulla dei due protagonisti uccisa
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dallet adulta; la sua morte, innocente o colpevole che sia, propone San Silvano come un paese dombre, un luogo di miti perduti. Eppure Elisa dovr morire per sciogliere lequivoco dellidentit (esemplato anche sulla tristezza, passata come sentimento struggente, contagioso, al fratello minore), radicalizzare la fine concreta di unet della vita, offrire la possibilit di una diversa lettura del tempo. La morte spezzer in qualche modo il cerchio della ripetizione, rendendo possibile anche la speranza, che altro non che letizia incostante, nata dallimmagine di una cosa futura.36 Da l nasceranno anche le finali parole di Giulio, che richiamano alla continuit, alla persistenza di vita, anche se traslata su altri oggetti, su persone e situazioni diverse. Nel futuro poi potranno forse evitarsi gli errori, e potr non esserci posto per la paura che, come intermittente tristezza, nasce dallincertezza e dal timore. Fuori del dubbio, eliminato dalla morte di Elisa proprio con il passaggio dalla tristezza al dolore, potr nascere una nuova sicurezza, una gioia da proiettare in un tempo possibile. Aver fede (queste le parole con le quali si chiude il romanzo) affidarsi di nuovo, come ai tempi di San Silvano, a una fantasia non sorretta da scopo ma guidata soltanto da unintima necessit. Solo allora il mondo disgregato potr ricostruirsi, e San Silvano, da luogo impossibile della fantasia, potr divenire luogo deputato della scrittura. Eppure, al di l di ogni riscatto, la tristezza, che in Elisa si era sostituita alla gioia, si fatta ormai categoria necessaria non solo del suo tempo ma del tempo, schermo distanziante che, nelleleganza e nella calma che induce, prova la verit ultima dellatto finale dellcriture.
Anna Dolfi

36. B. de Spinoza, Ethica, pars III, propositio XVIII, scholium II.

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NOTA BIOGRAFICA

Nel Contre Saint-Beuve Proust ricordava che lio vero dello scrittore non si svela che nei libri, che un livre est le produit dun autre moi qua celui qua nous manifestons dans nos habitudes, dans la socit. In modo ancor pi complesso Proust, aprendo Jean Santeuil, confessava che quelle pagine non avrebbero potuto chiamarsi romanzo perch raccoglievano lessenza stessa della sua vita, ma subito dopo, nella prface, richiamava il protagonista e il lettore su una domanda fondamentale, improponibile a qual si voglia scrittore moderno. Due giovani, turbati e commossi dal casuale incontro con lo scrittore C., da tempo al centro della loro passione letteraria, arrivano a seguirne gli spostamenti, a studiarne le giornate, ad ascoltarne gli inediti, a interrogarsi sulla vita, il pensiero, senza per osare varcare il diniego secco e preciso che C. pare opporre alla domanda taciuta che li ossessiona pi di ogni altra: quella, propriamente, che vorrebbe chiarito il legame tra la vita e lopera, tra la realt e larte, al di l del rapporto segreto, della metamorfosi necessaria tra lapparenza delle cose e lessenza profonda in quelle svelata dalla scrittura. Questo per dire che ogni biografia vera dautore riconduce fatalmente a questo nodo insolubile, al quale si pu e deve accostarsi in modi diversi secondo le opere, i tempi, gli scrittori, ben sapendo che ogni possibile risposta si trover sempre e solo nellopera, in quelle strutture profonde che sole possono rinviare ad altre profonde strutture. Ove poi si ricordi che il problema si fa pi delicato e complesso quando lautore di cui si parla un contemporaneo, massime un contemporaneo come Giuseppe Dess, ossessionato in qualche modo dal tema del tempo, della memoria, dellautobiografia. Date queste premesse, non stupir se per una vera ricostruzione della biografia dellautore ci verr spontaneo rinviare il lettore a tutte le opere dessiane, in particolare, oltre alle corrispondenze e ai diari, ai testi saggistici, al romanzo postumo
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pi scopertamente autobiografico (La scelta), e al lavoro di commento nato proprio intorno alla Scelta e a Un pezzo di luna (commento ricco di dati, notizie dalle quali emerge, intenzionalmente non sistematica, anche quella che potremmo chiamare una concreta biografia dautore) aggiungendo qui soltanto qualche dato esterno da premettere alla bibliografia delle opere. Giuseppe Dess nacque a Cagliari il 7 agosto 1909, ma, assieme al fratello minore (Franco), trascorse a Villacidro, cittadina alle pendici del Monte Linas, ove da generazioni aveva radici la sua famiglia, una difficile, inquieta adolescenza. La scoperta casuale di una biblioteca murata (ne avrebbe parlato nella Scelta) che custodiva, assieme a tanti altri libri, il Catchisme positiviste e il Cours de philosophie di Comte, il Discorso sul metodo di Cartesio, lEthica di Spinoza, la Monadologia e la Teodicea di Leibniz, il Piccolo compendio del Capitale di Cafiero fu loccasione per disordinate letture filosofiche e letterarie che lo portarono ben presto sullorlo della follia. Il provvidenziale intervento del padre (ufficiale, e eroe della prima guerra mondiale), che mitig il determinismo filosofico con la poesia (da qui la scoperta dellOrlando furioso, di cui ancora nei testi aggiunti alla Scelta), e un tardivo corso regolare di studi (Dess fu allievo di Delio Cantimori, allora giovanissimo storico, al liceo Dettori di Cagliari) portarono nel 1931 quello che era stato un tempo uno studente ribelle in una delle citt universitarie pi prestigiose dItalia, alla Facolt di Lettere e Filosofia dellUniversit di Pisa. L Dess frequent, oltre a Varese (che aveva gi conosciuto in Sardegna, grazie a Cantimori, e che avrebbe esercitato a lungo con lui il ruolo di matre-camarade), Carlo Cordi, Mario Pinna, Carlo Ludovico Raggianti, Aldo Capitini, laureandosi nel 1936, dopo avere studiato a lungo Tommaseo, con una tesi su Manzoni discussa con Luigi Russo. I giovanili racconti della Sposa in citt e il primo romanzo, San Silvano, incoraggiati dagli amici normalisti degli anni pisani (primo fra tutti Claudio Varese, che si fece promotore
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Nota biografica

del finanziamento del primo volume; Dess gli avrebbe poi dedicato il secondo) segnarono nel 1939 il felice esordio di uno scrittore che con opere di narrativa e teatro avrebbe confermato nel tempo, nel panorama italiano, la scelta di una presenza letteraria e culturale costante, coerente, coraggiosa, discreta. Salutato da Gianfranco Contini come il Proust sardo (il saggio-recensione a San Silvano apparve nellaprile del 1939 su Letteratura con il titolo programmatico di Inaugurazione di uno scrittore), Dess avrebbe proseguito su una strada di ricerca e scrittura originale e personalissima (del 1942 il romanzo bipartito Michele Boschino), pubblicando, nei lunghi intervalli tra un romanzo e laltro, in rivista (e poi in volume) numerosi racconti. Del 1949 una fiaba-libro per ragazzi e adulti, Storia del principe Lui; del 1955, in pieno clima di neorealismo, I passeri, un romanzo che continua ad obbedire alle leggi pi tipicamente dessiane della relativit della conoscenza sullo sfondo di grandi avvenimenti storici; del 1959 lIntroduzione alla vita di Giacomo Scarbo, primo romanzo esplicitamente dedicato a quellalter ego che sarebbe stato costante presenza nella narrativa di Dess, a partire dal primo racconto-prefazione alla Sposa in citt fino alla postuma Scelta. Del 1961 Il disertore, romanzo breve che si muove in maniera esemplare su piani diversi di sentimenti, di spazi, di tempo, e del 1972 lultimo libro compiuto, Paese dombre, tentativo di offrire su un impianto di tipo tolstoiano la storia di un personaggio, di un paese, sempre approssimata altrove per sparsi frammenti. Quasi sempre lontano dalla Sardegna, pur sempre acutamente presente alla sua tensione narrativa, sfondo costante di romanzi e racconti drammatici (al teatro di Dess, rappresentato spesso con notevole successo di pubblico e di critica, vanno ascritti testi di preciso impegno politico: La giustizia, Qui non c guerra, Eleonora dArborea; mentre La trincea inaugur nel 1962 la seconda rete televisiva), Dess fu costretto a spostamenti continui (dopo la Pisa degli anni universitari e Ferrara dove avrebbe fatto parte del gruppo dei cinque amici di cui parla Bassani in Concerto , Sassari dove pass gli
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anni pi difficili della guerra , Ravenna, Teramo, Grosseto) da una contrastata carriera di Provveditore agli studi. Che si concluse a Roma, dove si trasfer negli anni 50, distaccato (secondo la logica del promoveatur ut amoveatur) allAccademia dei Lincei. Ma con la Sardegna, dopo la Pisa (e la Toscana) della giovinezza, due sole citt hanno avuto unincidenza determinante nella privata biografia: la Ferrara degli anni 40 (da dove veniva la prima moglie, Lina Baraldi; e dove sarebbe cresciuto il figlio Francesco) e Roma, dove visse per oltre un ventennio (insieme a Luisa Babini, che avrebbe sposato negli anni 70), fino alla morte avvenuta il 6 luglio del 1977. Nel 1972 era stato assegnato il Premio Strega a Paese dombre, il libro scritto con lenta tenacia negli anni dolorosi della malattia che lo aveva colpito fin dal 1964; nel 1978 stato pubblicato postumo da Mondadori, a cura di Anna Dolfi, un romanzo incompiuto, La scelta, che riprendeva la storia di Giacomo l dove lavevano lasciata interrotta San Silvano e lIntroduzione alla vita di Giacomo Scarbo. Nel decennale della morte, grazie allintervento del Banco di Sardegna, apparso, a cura di Anna Dolfi, Un pezzo di luna. Note, memoria e immagini della Sardegna, che riunisce gli scritti dispersi sulla Sardegna, che possono sicuramente includersi tra le sue pagine pi belle. Per linspiegabile e duratura latitanza della casa editrice Mondadori, Sellerio ha pubblicato nel 1989, a cura della moglie Luisa, unultima raccolta di racconti (Come un tiepido vento). Da qualche anno, in seguito alla generosa donazione voluta dalla moglie Luisa e dal figlio Francesco, le carte Dess sono depositate a Firenze, allArchivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux,1 a disposizione degli studiosi.

1. Riordinate e catalogate da un gruppo di allievi della Facolt di Lettere di Firenze che hanno discusso con Anna Dolfi tesi (su Dess) in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

SCRITTI DI GIUSEPPE DESS Romanzi e racconti La sposa in citt, Modena, Guanda, 1939. San Silvano, Firenze, Le Monnier, 1939; Milano, Feltrinelli, 1962; Milano, Mondadori, Oscar, 1981. Michele Boschino, Milano, Mondadori, 1942, 1975 e Oscar, 1977; Nuoro, Ilisso, 2002. Racconti vecchi e nuovi, Roma, Einaudi, 1945. Storia del principe Lui, Milano, Mondadori, 1949 e 1969. I passeri, Pisa, Nistri-Lischi, 1955; Milano, Mondadori, 1965. Isola dellAngelo, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1957. La ballerina di carta, Bologna, Cappelli, 1957. Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, Venezia, Sodalizio del libro, 1959; Milano, Mondadori, 1973. Il disertore, Milano, Feltrinelli, 1961; Milano, Mondadori, 1974 e Oscar, 1976; Nuoro, Ilisso, 1997. Lei era lacqua, Milano, Mondadori, 1966; Nuoro, Ilisso, 2003. Paese dombre, Milano, Mondadori, 1972 e Oscar, 1975; Nuoro, Ilisso, 1998. La scelta, a cura di A. Dolfi, Milano, Mondadori, 1978. Come un tiepido vento, Palermo, Sellerio, 1989. Dei volumi di racconti si forniscono, per utilit di consultazione, le referenze cronologiche, ove presenti, e un indice essenziale: La sposa in citt: La sposa in citt (1938), Unospite di Marsiglia (1938), La citt rotonda (1930), Giuoco interrotto (1931),
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I piedi sotto il muro (1932), Il cane e il vento (dialogo) (1934), Le amiche (1935), La rivedremo in paradiso (1937), Una collana (1937), Inverno (1936), Cacciatore distratto (1938). Racconti vecchi e nuovi : Giuoco interrotto (1931), Inverno (1936), Una collana (1937), La rivedremo in paradiso (1937), Unospite di Marsiglia (1938), Cacciatore distratto (1938), Incontro nel buio (1938), Ricordo fuori del tempo (1939), Un bambino quieto (1939), Linsonnia (1940), Suor Emanuela (1940), Vigilia (1940), Ritratto (1941), Le aquile (1941), Gli amanti (1941), Saluto a Pietro Quendesquitas (1941), Lebda (1942), Paesaggio (1942), Innocenza di Barbara (1942), La cometa (1945). Isola dellAngelo: Isola dellAngelo (1949), I segreti (1952), La cometa (1945), La mia trisavola Letizia (1949), Lei era lacqua (1950), Il bacio (1949), La capanna (1949), Black (1951), La frana (1950). La ballerina di carta : La mano della bambina, I violenti, La ballerina di carta, La magnolia, Fuga di Marta, La paura, Il fidanzato, La verit, Succeder qualcosa, Paese dombra, Giovani sposi, La rondine, Le scarpe nere, Caccia alle tortore, Oh Martina!, La ragazza nel bosco, Luomo col cappello, Lo sbaglio, Il colera, La felicit, Un canto, La clessidra, Lutilitaria, Il grande Lama, La bambina malata. Lei era lacqua : Isola dellAngelo (1949), I segreti (1952), La cometa (1945), La mia trisavola Letizia (1949), Lei era lacqua (1950), Il bacio (1949), La capanna (1949), Canto negro (1949), Il giornale del luned (1961), Il distacco (1958), Commiato dallinverno (1958), Fuochi sul molo (1959), Black (1951), La frana (1950), Vacanza nel Nord (1965). Come un tiepido vento : Pagine bianche (1958), Il bastone (1933), Risveglio (1934), Eucalipti (1934), La sposa in citt (1937), Il figlio (1945), Le scarpe nuove (1949), Lofferta (1949), Il risveglio di Daniele Fumo (1951), Ellisse (1953), La fiducia (1955), Il pozzo (1956), La serva degli asini (1956), Unastrazione poetica (1957), Giroscopio (1957), Tredici
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Nota bibliografica

(1958), Signorina Eva (1958), La strada (1959), successo a Livia (1959), Il destino di Numa (1959), Breve diluvio (1960), Il disastro (1960), Coro angelico (1960), Fuga (1962), La certezza (1962), Claudia (1963), I cinque della cava (1963), Come un tiepido vento (1964), Il battesimo (1966), Lettera crudele (1975), Il giorno del giudizio (1975). Teatro Racconti drammatici (La giustizia, Qui non c guerra), Milano, Feltrinelli, 1959. Luomo al punto, in Terzo programma, 1961, 1, pp. 240-283. La trincea, in Teatro nuovo, marzo-aprile 1962 (poi in AA.VV., Drammi e commedie, Torino, ERI, 1965, X). Eleonora dArborea, Milano, Mondadori, 1964; Sassari, Edes, 1995. Saggistica Sardegna una civilt di pietra (in collaborazione con F. Pinna e A. Pigliaru), Roma, Edizioni de LAutomobile, 1961. Narratori di Sardegna (in collaborazione con N. Tanda), Milano, Mursia, 1965. Scoperta della Sardegna, Milano, Il Polifilo, 1966. La leggenda del Sardus Pater, Urbino, Stamperia Posterula, 1977. Un pezzo di luna. Note, memoria e immagini della Sardegna, a cura di A. Dolfi, Cagliari, Edizioni della Torre, 1987. Degli ultimi due volumi, che raccolgono testi diversi si fornisce, per utilit di consultazione, un indice essenziale: La leggenda del Sardus Pater : La leggenda del Sardus Pater, Io e il vino, Proverbi del mio paese, Il professore di liceo.
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Un pezzo di luna : I Scoperta della Sardegna, Paese dombra, Le due facce della Sardegna, Sale e tempo, La donna sarda, La leggenda del Sardus Pater, Proverbi e verit, Io e il vino, Taccuino di viaggio, Nostalgia di Cagliari, Carnevale con diavoli rossi, Belli feroci e prodi, Noialtri, Unisola nellisola; II I sogni dellarciduca, Il frustino, Il castello, Una giornata di primavera, Solitudine del popolo sardo, Riscossa, Il verismo di Grazia Deledda, Grazia Deledda centanni dopo, Luomo Gramsci, Ricordo di Eugenio Tavolara, Come sono diventato scrittore. Poesie, diari, corrispondenze, interviste Diari 1926-1931, a cura di F. Linari, Roma, Jouvence, 1993. Poesie, a cura di N. de Giovanni, Alghero, Nemapress, 1993. Diari 1931-1948, a cura di F. Linari, Roma, Jouvence, 1999. G. Dess, C. Varese, Lettere 1931-1997, a cura di M. Stedile, Roma, Bulzoni, 2002. Dellautore su se stesso si vedano in particolare le pagine di Ritratti su misura (Venezia, Sodalizio del libro, 1960), lappendice a La Scelta (Milano, Mondadori, 1978), e i brani di ricordo e ricostruzione autobiografica in Un pezzo di luna. Note, memoria e immagini della Sardegna (Cagliari, Edizioni della Torre, 1987). Per una dichiarazione di poetica lintervista Larroganza della letteratura, in Il contesto, 1977, 1, pp. 69-74 (ora, con il titolo Larroganza della letteratura (intervista a Giuseppe Dess), in A. Dolfi, In libert di lettura. Note e riflessioni novecentesche, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 379-384). Sulla passione di Dess per la pittura e il disegno (e con riproduzione di sue opere figurative) si veda G. Dess, M. Lai, Un gioco delle parti, a cura di A. Dolfi, Cagliari, Arte Duchamp, 1997. Essenziali ormai per lo studio della bibliografia dellautore alcuni libri che danno notizia dei materiali custoditi nel
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Nota bibliografica

Fondo Dess dellArchivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze. In particolare il riferimento a: Giuseppe Dess. Storia e catalogo di un archivio, a cura di A. Landini, Firenze, Firenze University Press, 2002. Le corrispondenze familiari nellArchivio Dess, a cura di C. Andrei, Firenze, Firenze University Press, 2003.

SCRITTI SU GIUSEPPE DESS G. Contini, Inaugurazione di uno scrittore, in Letteratura, aprile 1939 (poi in Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974, pp. 175-180). N. Gallo, La narrativa italiana del dopoguerra, in Societ, giugno 1950, pp. 324-341 (ora in Scritti letterari di Niccol Gallo, Milano, Il Polifilo, 1975, pp. 29-47). A. Leone De Castris, I passeri, in Decadentismo e realismo, Bari, Adriatica, 1959, pp. 181-186. E. Falqui, Giuseppe Dess, in Novecento letterario, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 121-146. E. De Michelis, Giuseppe Dess [1939], in Narratori al quadrato, Pisa, Nistri-Lischi, 1962, pp. 69-79. P. Ragionieri Sergi, Breve storia di Giuseppe Dess, in Belfagor, 1962, 2, pp. 220-224. C. Varese, Prefazione a San Silvano, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 7-15. G. Debenedetti, Dess e il golfo mistico, in Intermezzo, Milano, Mondadori, 1963; Milano, Il Saggiatore, 1972, pp. 190-200. C. Varese, Giuseppe Dess, in Occasioni e valori della letteratura contemporanea, Bologna, Cappelli, 1967 (ma come raccolta di interventi del 1940, 1949, 1955, 1959, 1960, 1961).
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M. Tondo, Giuseppe Dess, in Storia della letteratura italiana. I contemporanei, III, Milano, Marzorati, 1969, pp. 559-586 (poi ampliato in Lettura di Giuseppe Dess, in Sondaggi e letture di contemporanei, Lecce, Micella, 1974, pp. 9-69). N. Tanda, in Realt e memoria nella narrativa contemporanea, Roma, Bulzoni, 1970. G. Manacorda, Giuseppe Dess, in Ventanni di pazienza. Saggi sulla letteratura italiana contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 87-115 (ma come raccolta di precedenti interventi). V. Stella, Introspezione e storia nella narrativa di Giuseppe Dess, in Trimestre, 1972, 3/4, pp. 359-393 (ora in Lapparizione sensibile. Analisi e revisioni, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 243-277). C. Toscani, Dess, Firenze, La Nuova Italia, 1975. C. Varese, Introduzione a Paese dombre, Milano, Mondadori, Oscar, 1975, pp. V-XIII (poi, con altri saggi dessiani, in C. Varese, Sfide del Novecento. Letteratura come scelta, Firenze, Le Lettere, 1992). C. Varese, Introduzione a Michele Boschino, Milano, Mondadori, 1975, pp. V-XIV (poi, con altri saggi dessiani, in C. Varese, Sfide del Novecento. Letteratura come scelta, Firenze, Le Lettere, 1992). A. Dolfi, Introduzione a Il disertore, Milano, Mondadori, Oscar, 1976, pp. 5-27 (poi, col titolo Forme della ripetizione e intermittences nel Disertore, in A. Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 435-446). M. Miccinesi, Invito alla lettura di Dess, Milano, Mursia, 1976. A. Dolfi, La parola e il tempo. Saggio su Giuseppe Dess, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1977 (n. ed. rivista, col titolo La parola e il tempo. Giuseppe Dess e lontogenesi di un roman philosophique, Roma, Bulzoni, 2003). A. Dolfi, Un romanzo interrotto. Commento e nota al testo, in La scelta, Milano, Mondadori, 1978, pp. 129-176.
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Nota bibliografica

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stolografo, il critico letterario), in Critica letteraria, 1988, 58, pp. 49-110; 59, pp. 281-303. Pisa 1935: Giuseppe Dess e Luigi Russo (Due testi inediti), M. Musio (a cura di), in Annali della Facolt di Lettere e Filosofia Universit di Siena, Firenze, Olschki, 1990, pp. 189-203. S. Maxia, Prefazione a Il disertore, Nuoro, Ilisso, 1997, pp. 7-37. M. DellAquila, Giuseppe Dess: i racconti, in Italianistica, 1998, 3, pp. 393-400. S. Maxia, Prefazione a Paese dombre, Nuoro, Ilisso, 1998, pp. 7-35. C. A. Madrignani, Il silenzio di Michele, prefazione a Michele Boschino, Nuoro, Ilisso, 2002, pp. 7-25. G. Marci, L. Pisano, Giuseppe Dess: I luoghi della memoria. Fotografie di Salvatore Ligios, Cagliari, Cuec, 2002.

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A Giulio Ramo

Dacch mia sorella sera sposata e la casa di San Silvano era stata chiusa, io non conoscevo pi il riposo dei mesi estivi, che mi rifaceva le forze per il lungo periodo che mi toccava poi di passare in citt. San Silvano era la patria dove io, come gli animali selvatici nel bosco e gli uccelli nellaria, mi ritrovavo naturalmente a mio agio, e la lontananza dai suoi boschi era sempre stata per me una grande fatica. Riposare, in altri luoghi riposare veramente come io intendo non mi riusciva. Potevo starmene giornate intere disteso su un letto o su una sedia a sdraio, bivaccare nei giardini pubblici, andarmene per qualche settimana in una spiaggia poco frequentata; ma questo non era mai un riposo, era piuttosto una sosta, dopo la quale bisognava riprendere lattivit di prima, incessante ma sempre pi fiacca, sempre pi monotona. Allora lunico rimedio era un mese o due a San Silvano. Per questo mi era stato tanto difficile perdonare a mia sorella di essersi sposata e di essersi stabilita a Pontario, per quanto Pontario disti da San Silvano solo una decina di chilometri. Erano quattro anni ormai che mia sorella aveva chiuso la nostra vecchia casa e da quattro anni, si pu dire, io non riposavo pi, quando la lettera di Giulio mi spinse a tornare ancora una volta a Pontario dove ero stato due anni prima e da dove ero partito col proposito di non tornare: anzi la lettera di mio fratello mi fece rinascere la speranza di strappare mia sorella al marito. Giulio, che prima di ripartire per la Germania aveva visto Elisa a Roma, mi scriveva da Colonia, dove finalmente le mie lettere lo avevano raggiunto, e dopo avermi fatto un lungo resoconto della situazione politica tedesca, che a me non interessava affatto, mi parlava a lungo di Elisa. Secondo il solito, Giulio che non capace di parlare se non va avanti a furia di schemi intellettuali,
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quasi che le cose di cui parla siano sempre sul punto di sfuggirgli, diceva: tu sai che sono tutte cos (le donne), sono tutte sensi, la loro intelligenza, quando ce lhanno, sensibilit acutissima che permette loro di penetrare nel nostro mondo spirituale senza vivere il tormento delle nostre esperienze. Ci seguono in ogni pi piccolo movimento, e per loro i movimenti del nostro pensiero sono una cosa sola coi movimenti del nostro corpo, col nostro gestire, con lespressione del nostro viso Con listinto mobile e pronto che loro proprio, rifanno la eco della nostra voce, mutandone solo un poco il tono, quel tanto che basta per darci lillusione di una loro personalit distinta delicata e inafferrabile Mai lambiente creato da loro: esse ne fanno parte come le cose e gli animali, riflettono la personalit di chi sta loro pi vicino, sia di una persona intelligente che di un bifolco. Cos teorizzava Giulio per convincermi che bisognava fare di tutto, e aiutare Elisa a liberarsi da Vincenzo e tornare alle primitive abitudini di intelligenza. La teoria in verit non mi convinceva, perch nessuna teoria mi convincer mai. Rifanno la eco della nostra voce mutandone solo un poco il tono, quel tanto che basta per darci lillusione, ecc. ecc.. Malgrado la sua lunga abitudine di pensiero anche Giulio intelligente solo fino ad un certo punto e non saccorge, o forse non saccorgeva allora, che nella vita dellintelligenza tutto questione di tono, di misura, e che le donne in questo ci possono essere maestre. Per questo Giulio non aveva mai capito Elisa e non la cap se non quando fu costretto a ripensare la vita di lei riandandone tutte le vicende, tutti i momenti, i minimi atti, fin dove poteva arrivare col ricordo. Si sarebbe detto che fino a quel punto egli avesse rimandato la conoscenza di Elisa a un tempo avvenire, quando ella avesse acquistato quella perfezione di donna che egli sognava. Bisogna rieducarla, diceva fin da quando cominciavamo a studiare un po di filosofia, bisogna insegnarle tutto ci che sappiamo,
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perch sia come uno di noi. Ed Elisa, con quella comprensione che la faceva adulta bench avesse solo pochi anni pi di Giulio, lo secondava volenterosamente, anzi ci secondava, giacch i desideri di Giulio erano, in quel tempo, anche i miei; forse perch sentiva che quello era il solo modo di starci vicina e che il momento di lasciarci soli alle nostre forze non era ancora arrivato. Si compiva in noi, in quel tempo, quel mutamento rapidissimo comune a tutti gli adolescenti, per cui essi si lasciano indietro inesorabilmente la donna che ha vissuto per loro fino a quei giorni e li ha guidati, madre o sorella che sia: essa appare improvvisamente donna ai loro occhi, non pi protettrice ma bisognosa di protezione. E Giulio lo credeva ancora, questo, e quando pensava di indurre Elisa a lasciare il marito e la sua nuova casa per venire a stabilirsi con noi a Firenze, intendeva esercitare su di lei una specie di fraterna sapiente protezione. Tuttavia, malgrado queste considerazioni, la sua lettera valse a farmi pensare di nuovo a Elisa, che forse soffriva realmente e che bisognava aiutarla a liberarsi della sua sofferenza. Non pensavo neppure che la separazione da suo marito doveva essere cosa relativamente facile non essendovi figlioli, e la necessit di questa separazione divenne via via cos evidente per me che, tra tutte le difficolt a cui saremmo andati incontro, mi preoccupavano veramente solo quelle che sarebbero potute nascere dalla sua incertezza. Tanto pi ero risoluto in quanto due anni prima avevo fatto infruttuosamente lo stesso tentativo. Infatti quando io giunsi a Pontario dopo una giornata e mezzo di viaggio, durante la quale avevo valutato e chiarito tutte le ragioni che mi sembravano buone a convincere Vincenzo e mia sorella della necessit della separazione, Elisa, che una settimana prima mi aveva scritto una lunga lettera parlandomi delle cose pi indifferenti, ma nella quale cera, in fine, una frase, una frase soltanto, che suonava come un appello disperato, era di nuovo tranquilla, o tale pareva, rientrata ostinatamente nella vita
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che sera scelta; e sera difesa da me strenuamente (e forse anche da se stessa) facendoci credere dessere incinta; di modo che si era creato intorno a lei, di colpo, un cerchio impenetrabile. Perch questo non si ripetesse, io decisi di recarmi a Pontario come ospite pacifico, e di lasciare che mia sorella, se ne aveva bisogno, come realmente credevo, cercasse da sola il mio appoggio. Ero sicuro di riuscire: si trattava daver pazienza, di aspettare, e tutto si sarebbe chiarito da s e saremmo giunti, forse per vie diverse, a una conclusione comune. Mentre preparavo le valigie, rifacevo i discorsi dellaltra volta, correggendoli secondo il mio desiderio, immaginando di aver gi raggiunto lo scopo che mero prefisso; e gi sceglievamo la nostra casa a Firenze, dove da tanto tempo io e Giulio desideravamo stabilirci e dove speravamo di trovare, grazie alla presenza di Elisa, quel raccoglimento e quella intimit di cui tanto aveva bisogno la nostra vita. Immaginavo che Elisa si scusasse dellerrore che aveva commesso sposando Vincenzo, e che, dopo essersi scusata, dopo aver riconosciuto appieno lerrore, riandasse indietro negli anni, allorigine di questo errore, che era in fondo anche un poco nostro. Lavevamo lasciata sola laggi, nella casa di San Silvano, come se non dovesse aspettarsi pi nulla dalla vita, come forse non si pu lasciare neppure una madre. Mi commuoveva questo rimprovero immaginario, che riconoscevo cos giusto, e intanto pensavo che la vita avvenire avrebbe ripagato Elisa e noi della lunga separazione e degli errori commessi. Avevamo creduto che i libri potessero bastarle, mentre i libri non erano bastati neppure a noi; avevamo creduto che San Silvano fosse anche per Elisa quale noi lo vedevamo dalle citt lontane. Quanto eravamo stati ingiusti, io e Giulio, verso quella sorella che a un certo punto aveva voluto vivere un poco anche per se stessa! Forse soltanto il rancore e il rimpianto di averla perduta ci avevano fatto disapprovare con tanto accanimento (e laccanimento era
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venuto crescendo via via) la sua scelta; e anchio, come Giulio, la dicevo meschina e dovuta a un momento di debolezza. Il momento di coraggio, insistevo nello stile di Giulio, in quel colloquio immaginario, il momento di coraggio che fa mutare la rotta della vita, deve ripetersi, e col suo ripetersi crea la vita; mentre il momento di sconforto, lerrore, non pu ripetersi senza dare una stanchezza sempre pi grande, fino alla morte. In questi colloqui con le persone assenti susano spesso grosse parole che ci farebbero sorridere se avessimo davanti a noi, nella realt, il caro viso pronto anchesso a sorridere; ma a un tratto, in quella fantasia, io avevo udito la mia voce staccata da me, come sognando si vede la propria persona correre avanti, e la mia voce diceva: Ah, sorellina, se ti fosse nato il bambino che desideravi tanto, ora non si parlerebbe di momenti di sconforto n di stanchezza!. Mai, prima di quel momento, avevo pensato che mia sorella potesse avere un bambino, e anche allora questo pensiero cos naturale saffacci solo un istante alla mia mente, e spar. Poi nel lungo rettilineo di Acquapiana, che io e Giulio, nella buona stagione, facevamo spesso per andare a passare la domenica a San Silvano, laspetto di quella campagna familiare unita nella memoria al ricordo delle gite di fine settimana e degli incontri con Elisa, che non mancava di venire a prenderci fino a quella stazione col trenino delle Complementari, snebbi limmagine di mia sorella, che in quei due anni di distacco quasi cruccioso mi si era un poco offuscata nella memoria; e la rividi come se lavessi davanti a me, sul sedile di fronte, con la sua lunga persona ossuta, col suo viso magro e intelligente, cos diverso dal mio e nel quale tuttavia m dato specchiarmi; con una tale verit che studiavo nel suo viso la traccia di quei due anni passati, bench me la raffigurassi ancora con lo stesso abito grigio dellultima volta. Spesso il sabato, al tocco, trovavo lauto dei Ben ferma davanti al portone del Liceo. Quella macchina grigia e
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infangata non mi riempiva pi di gioia come un tempo con la prospettiva di una corsa verso i monti. Quando la signora Adriana accompagnava in citt suo marito, il sabato, non era possibile rifiutarsi di passare la serata a Campesi, tanto pi che disponevano le cose in modo che anche Elisa ci attendesse alla fattoria. Malgrado il sincero affetto dei Ben, non sempre queste loro premure ci erano gradite. Sentivamo fin dallora il bisogno di custodire la nostra intimit, e nulla la minacciava come laffetto e le gentilezze di quei nostri vecchi e cari amici. Certo essi non immaginavano che noi preferivamo andare a San Silvano in treno e trovare Elisa ad Acquapiana ferma accanto al deposito dellacqua, tutta chiusa nella sua pelliccia; non immaginavano che la corsa in auto attraverso la campagna buia e le strade illuminate dai fari, il t accanto al fuoco e le lunghe chiacchierate, tutte cose a noi molto care un tempo, non valevano quegli incontri con Elisa. Io mi sporgevo dal finestrino per vedere la sua alta figura accanto alla colonna grigia del serbatoio, e ogni volta era come se ci ritrovassimo dopo una lunga separazione. Credo che non ci siamo mai abbracciati, in quegli incontri, anche quando eravamo pi piccoli, o per lo meno non ricordo che ci siano mai state fra noi le solite manifestazioni esteriori daffetto, ma ricordo invece la gioia con cui attraversavamo i binari per andare dalla stazione delle Ferrovie dello Stato a quella delle Complementari, la gioia con cui rivedevamo il nostro trenino. Io respiravo lodore della pelliccia di mia sorella, e qualche volta non sapevo trattenermi e ci affondavo la faccia: Ma che cosa questo profumo? dicevo. Avevamo tante cose da raccontarle: anzitutto i libri che avevamo letto (ogni settimana ce nerano di nuovi), poi la scuola gli amici. Io parlavo per Giulio, Giulio per me; e tutto di noi la interessava, come a noi interessava tutto di lei, tutto ci che avveniva intorno a lei, a San Silvano, tutto ci che riguardava le persone che vivevano a San Silvano, anche quelle che non ci erano amiche, come lo zio
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Guglielmo; e i personaggi dei nostri libri si mescolavano stranamente a queste persone vive. In attesa che il trenino partisse passeggiavamo sulla banchina oppure, se tirava vento, come spesso accadeva, ce ne stavamo sul terrazzino dello scompartimento a guardare i facchini che caricavano le merci. Contadini e operai saffollavano davanti alla vetrata del bar, entravano, bevevano un bicchierino di acquavite, accendevano il mezzo toscano e prendevano posto nello scompartimento accanto al nostro, che restava vuoto, ingombrando reticelle e sedili coi loro tascapani e con gli attrezzi da lavoro. Poi, quando il trenino fischiava, salivamo anche noi. Giulio cercava un libro nella sua borsa di pelle, io ed Elisa continuavamo a parlare sottovoce guardando la campagna e ascoltando il vocio confuso della terza classe, che era come un primo saluto di San Silvano. Io ammiravo Giulio, allora, anzi non lho mai amato, ammirato e seguito come in quel tempo e mai come allora egli si era sentito mio maestro; ma in quei momenti mi dimenticavo completamente di lui, felice di starmene tutto solo con Elisa. Pi di Giulio io ne avevo bisogno, e mi piaceva che entro la cerchia gelosamente custodita in quel mondo che apparteneva esclusivamente a me, a Elisa e a lui, ci fosse ancora qualcosa che apparteneva a me e a lei soltanto, quasi, come tra madre e figlio, un linguaggio segreto. In quei lunghi colloqui a bassa voce apprendevo tante cose intorno al babbo e alla mamma, quella parte della loro vita che Elisa, pi vecchia di noi di qualche anno, aveva conosciuto, e che restava, in certo senso, fuori della sensibilit di Giulio, come sempre i pi segreti pensieri di lei. Non erano fatti e nemmeno ricordi precisi, ma piuttosto frammenti di ricordi, alcuni assai vaghi, i quali poi, quasi allevati da una amorosa e costante attenzione, serano uniti in un tempo che si fondeva col suo e col mio. Come spore o semi di una pianta morta di cui si fosse perduta la memoria, alcuni di essi continuavano a restare ostinatamente chiusi e muti anche
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per lei, ed ella sentiva il bisogno di confidare a me quelle labili ombre quasi per dar loro la consistenza che hanno solo le cose che anche qualche altro conosce. Spesso questa doppia conoscenza fantastica, questo raccontarci e tornare ancora a raccontarci a vicenda le stesse cose fino a non saper pi chi di noi due le avesse dette per la prima volta ricreava magicamente intorno a un gesto, a una parola che prima restavano sospesi nella memoria, incomprensibili come frammenti di una statua arcaica o di un codice, quella atmosfera di tempo che era sparita come laria da un pianeta morto. Qualche volta Giulio alzava la testa dal libro e ci guardava assorto, come se ascoltasse, poi, stirando le labbra con una piccola smorfia che gli era abituale, tornava a immergersi nella lettura. Lepri o leprotti? io facevo questa domanda come si ripetono le parole di rito in certi giuochi. Lepri o leprotti? Oppure eran conigli?. Il babbo li aveva mandati dal Carso con un soldato, il cui nome ricorreva pi volte nelle sue lettere. Elisa vedeva un uomo in grigioverde seduto su un divano rosso. Non riusciva in nessun modo a ricordare il viso di quelluomo. Ricordava invece le mollettiere e le scarpe, nelle quali eran tracce di quel fango rossiccio che avevamo poi ritrovato nei binoccoli prismatici del babbo. Scarpe grosse, imbullettate. Fiammeggiavano nella macchia grigia delluomo seduto le mostrine della brigata. Elisa diceva: Ma no, non erano conigli, erano lepri, due leprotti. Su questo non c dubbio, e abbassava la voce, quasi temesse che Giulio potesse ascoltarci davvero. Ma il divano rosso? Non cera nessun divano rosso in casa nostra e neppure in casa del nonno, e neppure in casa di donna Maria, per quanto ricordo. Forse quello della camera dellalbergo, dicevo. Infatti la mamma, quando aveva notizia di una azione a cui la brigata avrebbe preso parte, si recava in citt per avere i comunicati freschi. Elisa vedeva la mamma seduta di fronte al soldato che aveva finito di raccontare qualche cosa, seduto sul divano rosso.
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La mamma teneva il fazzoletto appallottolato fra le mani, e i due leprotti se ne stavano acquattati nel suo grembo, sotto la mano sottile come una foglia. La mamma potrebbe averti parlato di questo soldato, dicevo senza convinzione. Perch mi piaceva pensare che questo ricordo fosse passato in Elisa dalla mamma senza che lei gliene avesse parlato mai. Forse che non vedevo anchio il soldato togliersi dalla tasca sinistra della giubba la bottiglia del latte che le bestiole non avevano consumato durante il viaggio? E vedevo anche la sua faccia barbuta che Elisa non aveva visto mai. Quando la mamma tornava dalla citt, io e Rosina andavamo a prenderla alla stazione con la carrozza del nonno oppure con il land di donna Maria, e un giorno il cocchiere caric sullimperiale una gabbia con due grosse lepri, e queste lepri uscirono non si sa come dalla gabbia, nellanticamera, e facevano salti altissimi e sbattevano contro il soffitto, salti incredibili con le loro lunghe gambe. La Rosina chiam il cocchiere, che le riprese con molta fatica e ne ebbe le mani tutte sgraffiate. Poi Elisa rivedeva non pi due grosse lepri ma ancora i leprotti di prima, grandi come due arance, le orecchie lunghe e fresche rovesciate sul dorso soffice, bere il latte annacquato che la mamma versava in un piattino da caff, sulla tavola da pranzo. Poi ancora, come se le loro proporzioni dipendessero dallallontanarsi o dallavvicinarsi di una lente, vedeva chiuse nella serra, i cui vetri erano stati sostituiti da una rete metallica, le due grandi lepri carsiche, dignitose e composte come bestie sacre. E ricordava, l accanto alla serra, la mamma che piangeva con la testa china sulle ginocchia. Noi abbiamo trovato una lettera del babbo la cui data corrisponde, secondo i nostri calcoli, a quel tempo, nella quale viene nominato per lultima volta Itri Giovanni, il soldato delle lepri. La lettera dice: Ho ricevuto la tua del 5 c. Il soldato Itri, a cui lavevi affidata, stato colpito mentre tornava in trincea. Cosa scrivevi a proposito di Guglielmo? Ripeti perch lultima pagina diventata illeggibile.
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Alla stazione dAcquapiana, quando il treno cominci a rallentare e il serbatoio dellacqua, simile a un grande e rozzo pulpito, e il giardinetto coi fiori bruciati dal vento intorno allo zampillo secco apparvero dietro gli eucalipti, il desiderio di vedere e baciare il viso di Elisa mi dest repentinamente dalla mia fantasia. Senza neppure guardare dal finestrino per farle un primo saluto, preparai le valigie, e, aperto lo sportello, le buttai gi non appena il treno fu fermo. Cera un venditore ambulante di castagne e di noci, due carabinieri, tre ragazze accanto alla pompa, e il capostazione. Solo dopo un poco vidi uscire con molta flemma dalla sala daspetto Maria e dietro di lei una donna che portava il pesante e dignitoso costume nero delle vedove di Parte dIspi. Elisa non cera. Per un momento fui tentato di rimontare sul treno e proseguire per Ordena, ma pensai che se Elisa non era venuta a prendermi ad Acquapiana come sempre, qualche grave motivo laveva trattenuta, che forse era ammalata. Elisa invece, come mi disse subito Maria nel salutarmi, stava bene; un piccolo disturbo le aveva impedito di venire ad Acquapiana come avrebbe voluto, e si scusava. Offrii il braccio a Maria per aiutarla ad attraversare la ghiaia dei binari, e le indicavo il punto dove avrebbe dovuto posare i piedi, guidandola compitamente; ma tutta la gioia di poco prima sera mutata in una rabbia sorda che mimpediva di pensare. Improvvisamente il mio viaggio mi parve noioso e inutile a causa di quel colloquio fantastico con mia sorella cos bruscamente interrotto. Camminava davanti a noi la donna vestita di nero e portava una delle mie valigie equilibrata come unanfora sulla testa. Lampade elettriche senza globo erano accese in cima a sottili colonne di cemento, e non era ancora buio. Anche a San Silvano, nella mole oscura dellArcuentu, le lampade erano gi accese e si distinguevano i quattro rioni illuminati da quelle lampade, disposti come i bracci di una croce intorno alla piazza grande. Un poco pi a destra, nel buio del
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monte, oltre boschi invisibili, erano le luci disordinate di Pontario in fondo alla valle pure invisibile, ma che sindovinava, tanto quelle luci erano strette le une alle altre. Pensai quanto sarebbe stato bello piantar l Maria e salire sul trenino di San Silvano che andava su e gi per la manovra obbedendo come un cane da caccia al fischio del capostazione, tra un altalenare di fanali rossoverdi, piantarla l, quella stupida insulsa cognata, e con lei tutti gli altri, compresa mia sorella, e andare a passar la notte in qualche osteria di San Silvano, come un commesso viaggiatore, come un forestiero. Dopo cena sarei uscito a far due passi e avrei visto le finestre chiuse della nostra casa. La donna stava in piedi ferma tra le due valigie con le sue ampie vesti nere, immobile, e solo i suoi occhi ci seguivano. Passandole davanti la riconobbi: era Rita, una ragazza che Elisa sera portata da San Silvano e che in quei quattro anni aveva fatto a tempo a sposarsi con un contadino di Pontario e a restar vedova con una bambina di pochi mesi. Io ricordavo una giovanetta di diciottanni dalla carnagione rosata e dai bei capelli castani che portava con grazia certi abiti smessi di Elisa. Mi ricordai tutto questo mentre le dicevo: Be, come va a Pontario? e subito mi pentii della domanda banale. Come Dio vuole, rispose. Dio ci colpisce a Pontario come in tutti gli altri paesi del mondo. E sospir. la frase dobbligo con cui usa rispondere, nei nostri paesi, chi stato colpito da una disgrazia, e viene ripetuta senza variazioni sia a San Silvano, che a Pontario e a Norbio: a me parve quasi un accessorio del grave costume vedovile, che lasciava scoperte solo le mani della donna e il suo viso appassito. Dalla ciminiera della locomotiva uscivano, miste a un fumo compatto che si spezzava nellaria, volate di scintille verdi simili a lucciole che scendendo verso terra, sul punto di spegnersi diventavano rosse e sparivano tra lerba. Il trenino di Pontario part. Io e Maria avevamo preso posto nello scompartimento di prima classe e Rita in quello di
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terza, bench non ci fossimo che noi due nello scompartimento di prima. Io pensai come si sarebbe comportata Elisa in un simile caso, se avrebbe fatto viaggiare anche Rita in prima oppure no. Considerando quello scompartimento di prima classe, che da tanto tempo non rivedevo, pensai che poteva somigliare a un salotto di San Silvano, con quelle trine bianche sul velluto vinoso dei divani; i quadretti reclamistici alle pareti potevano anche simulare, nellombra, vecchie fotografie di famiglia; e trovai giusto, in fondo, che Rita viaggiasse nello scompartimento di terza, che quella sera, non essendo sabato, doveva essere vuoto e freddo, o se non giusto, fatale, giacch non ricordavo di aver mai visto una donna come Rita seduta con noi nel nostro salotto. Ecco, come sedeva di fronte a me Maria, cos sedeva Elisa tanti anni prima. Anche Elisa, come Maria, guardava fuori del finestrino. Le piaceva il paesaggio che attraversava il trenino di San Silvano, tanto simile a questo. Ebbi il senso di tutto quel tempo passato, e mi parve che mia sorella fosse morta, e invano cercai di distogliermi da questo pensiero. Le piacevano i ritorni serali verso le montagne. Dinverno la grande croce dei lumi di San Silvano adagiata sul fianco dellArcuentu alto e buio nella notte appariva ora a destra ora a sinistra dietro i larghi cristalli bagnati di pioggia, secondo le svolte della salita tortuosa. Quanderavamo soli, Elisa mi parlava di certe lontane serate domenicali passate con la mamma, gi ammalata in quel tempo, dietro i vetri del salotto nella vecchia casa di via Gialeto. Pensando a quelle serate Elisa doveva sentirsi sola e orfana, pi di quanto non ci sentissimo soli e orfani io e Giulio, che, si pu dire, non avevamo conosciuto la mamma; e per questo quelle serate serano riempite di tanta tristezza nel suo ricordo e via Gialeto doveva apparirle anche pi buia e deserta di quanto non fosse realmente allora, chi sa! La gioia che, bambina, provava a guardar passare la gente infreddolita standosene appoggiata alle care ginocchia e
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sbucciando pian piano un mandarino con lunghia del pollice, Elisa non poteva pi raggiungerla, allora, senza attraversare la tristezza sopravvenuta con gli anni, anzi si pu dire che la tristezza sopravvenuta fosse resa pi acuta dal ricordo di quella gioia infantile e inscindibile da essa. I contadini uscivano dalla bettola, compravano le bruciate dal rivenditore che aveva messo il suo fornello pieno di brace nellangolo, nella cunetta, saffollavano intorno al fornello ardente, che appariva or s or no tra i loro lunghi cappotti neri a campana, tutti uguali, coi cappucci a punta, si riempivano le tasche; le donne passavano in mezzo al fumo bendate fino agli occhi dagli scialletti scuri tirandosi dietro i ragazzi che trottavano con la faccia rivolta al fornello. A un tratto il vento si imbizziva, faceva mulinello con le foglie di canna secche, con le bucce delle castagne, con tutto ci che di leggero sera accumulato nella cunetta, ne avvolgeva una vecchia magra e alta, che si fermava in mezzo alla strada nascondendosi la faccia con le mani. Elisa ricordava tutte queste cose, ma soprattutto la mano della mamma, che teneva tra le sue manine, gli anelli che i suoi ditini facevano girare nelle dita smagrite cercando il foro lasciato da una perla che la mamma aveva perduto e che non aveva mai fatto rimettere. Ora Elisa portava quegli stessi anelli e la sua mano era in tutto simile a quellaltra, inconfondibile come un volto. A un tratto, senza ragione, mi riprese la gioia di prima, anzi la gioia: un sentimento che mi visitava di tanto in tanto, a intervalli a volte assai lunghi, ed era come una ventata daria marina, come una buona notizia, purissima e priva di qualsiasi movente. La ritrovavo svegliandomi la mattina in una camera dalbergo, per esempio, in una citt dove non mi ero mai fermato pi duna notte e che era per me semplicemente la stazione, lalbergo, il duomo che avevo visto in una cartolina illustrata: e questo sentimento di cui ero gi pieno nel sonno, pervadendo tutto il mio essere, facendosi chiaro come la luce del mattino, mi
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destava silenziosamente. Non avevo sognato nulla. Guardavo i muri della squallida camera, scoprivo in alto, tra la tappezzeria stinta e il soffitto, una striscia azzurra, sulla quale si fermava il mio occhio e la mia gioia. Anche nel rettilineo di Acquapiana, la gioia non mi veniva dal pensiero che tra breve avrei rivisto e baciato il viso di mia sorella, ma questo pensiero era entro la mia gioia. Maria non diceva parola, io ero felice del suo silenzio arrivando cos a illudermi di essere solo e di filare verso San Silvano. Forse avr pensato che io ero triste, e il mio viso glielo lasciava credere; invece ero pieno di gioia. La gioia pareva venirmi direttamente dalla campagna, la campagna oscura pareva essere, come la striscia azzurra nella camera dalbergo, fonte di questa gioia non turbata neppure dal sospetto che potesse svanire in un attimo, cos come era venuta. E la campagna era simile a quella di San Silvano, che conosco cos bene che posso ripensarla a occhi chiusi, essere presente in essa ovunque sorga un suono, fucilata o latrato. Vedo cespugli che mi ricordano la caccia mattutina alle tortore o la silenziosa ricerca della pernice, che fa tra le stoppie un canto sommesso, una serie di piccoli baci scoccati nel palmo della mano. Il fumo della locomotiva, che ora bianco, si rovescia sulla siepe e inumidisce le larghe pale verdi dei fichidindia, copre cespugli che riemergono poi come scogli da cui si ritiri londata; e fila duccelli grossi e scuri si levano ordinatamente e piegano verso lombra dei colli mostrando nella larga virata il petto bianco come la spuma di unonda. Ne avevo visti anche attraversando la Maremma, ma non ero riuscito allora a ricordarmi il loro nome. Riconobbi subito, fuori della stazione, il vento arido della montagna che scopre il fondo delle strade scoscese come torrenti, simili in tutto a quelle di San Silvano, rividi la piazzetta di due anni fa, le piccole case, gli empori, con le loro vetrine illuminate, grandi come finestre, zeppi delle
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mercanzie pi disparate, dagli zoccoli di legno ai ceri per le offerte. In cima alla frusta del cocchiere saccendeva ogni tanto con uno scoppio un fiocco di luce e le donne, con la brocca equilibrata sul capo, si tiravano da parte sulla cunetta piegando lanca e appoggiandosi al muro col gomito ma non cavavano le mani di sotto lo scialle. Ci guardavano passare voltando lentamente il capo sotto il peso della brocca. Trovavo che le donne di Pontario somigliavano a quelle di San Silvano. La coperta da viaggio che mi avevano gettato sulle ginocchia era la stessa coperta colore arancione a disegni neri che ci avvolgeva tutti e tre quando andavamo fuori in calesse, e mi pareva persino di sentirci ancora il profumo arabo che Roberto Scarbo aveva portato ad Elisa e che Giulio non poteva soffrire. Nonostante tutto bisogna che ascolti mio cognato, che venuto a prenderci alla stazione e fa le scuse di Elisa. cambiato molto. Non parla pi di Elisa con quella tenerezza che odio. Ho limpressione che non abbia pi bisogno di fare uno sforzo per sentirsi unito a lei, che sia penetrata nella sua vita un poco della tristezza di Elisa, cos che, malgrado lavversione che provo per lui, sento che uno della nostra famiglia, non per il fatto che sia mio cognato, ma perch qualche cosa di Elisa, inconfondibile come la sua mano e il suo volto, si trasfusa in lui. Tuttavia taccio ostinatamente, non ascolto pi. Un uomo grida funghi. Quel grido mi aiuta a non ascoltare. lodore della terra umida sotto le grandi querce di Codinas, quando al ritorno da una escursione sui monti, ci sedevamo a consumare le ultime provviste per riportare a casa i sacchi vuoti ed Elisa sosteneva fredda e ironica lo sguardo implorante del povero Corrado Ben, tanto che io mi vergognavo per lui e scavavo scavavo con avvilimento fino a rompermi le unghie nella terra umida dove marcivano le foglie. Come avrei voluto che Elisa guardasse cos suo marito! Ma egli invece mi raggiunge anche in questa solitudine di boschi. Senti! dice Maria a Vincenzo, che le siede di fronte col
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bastone tra le ginocchia. Vincenzo, che ascoltava quel grido come me e come Maria, sorride e toccando col manico dargento del suo bastone la spalla di lei, la rassicura: Gi fatto, cara, dice: gi fatto!. Senza che nessuno me lo dica io capisco che Elisa ha desiderato i funghi, indovino ci che costoro non si curano neppure di dirmi. Due anni prima Elisa aveva inventato di essere incinta e tutti serano affrettati a darmene la notizia, per essi insperata: ora la cosa era vera, mi si rivelava da s, era in quel senso nuovo di virilit e di sicurezza che scoprivo sempre pi nel volto di Vincenzo, in quella somiglianza carnale con Elisa. Tuttavia, quando Elisa mi venne incontro nellatrio e io vidi che la sua vita era sottile come due anni prima, e vidi la mano destra appesa al collo con un fazzoletto color malva a palline bianche, la sua cara mano fasciata come un bambino, per un momento volsi in ischerzo il mio sospetto e credetti di essermi ingannato. Il nostro incontro non fu freddo come parve a Maria e a Vincenzo, (Elisa me lo disse poi); noi non ci siamo mai abbandonati specie in presenza di estranei, alle effusioni solite dopo i lunghi distacchi. Io e Elisa ci baciammo semplicemente e ci guardammo a lungo, come sempre, per riconoscerci, per vedere nella nostra faccia il tempo che era passato; e come gi nellincontro immaginario del treno, io vidi sul volto di mia sorella quei due anni di separazione e riconobbi la mia Elisa di sempre in quel silenzioso scrutarci. Presi il suo braccio ed entrammo in casa seguiti dagli altri. Passando in cucina vidi sulla tavola una cestella di funghi carnicini, che una ragazzetta stava mondando. Erano larghi, scuri di sopra e di sotto bianchi, delicati come zucchero. Istintivamente, ripreso dal sospetto, mi fermai come per chiedere una spiegazione e guardai Elisa. Mia sorella sorrise, prese un fungo con la mano sinistra, e spezzatolo tra le dita, me lo diede a odorare. Come prima avevo avuto la certezza che era incinta ora sentivo che anche lei pensava a San Silvano, alle quercie di Codinas, allodore dei boschi, il cui silenzio ci separava
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dalle persone che erano intorno a noi, parenti e servi, che a quel gesto si erano scambiati uno sguardo dintesa e di augurio. Io sentii ancora una volta che i gesti, le parole, la vita intera di Elisa avevano un senso per gli altri e uno pi riposto, pi vero, per me e per lei. E cos sarebbe stato anche per il bimbo, se doveva nascere. Questa serenit solo ora ritorna purificata, ora che tanto tempo passato, quasi uno spazio di tempo incommensurabile; allora era come la calma superficie di un lago alla quale solo per brevi istanti mi era dato affiorare. Lampio orizzonte che quei brevi istanti aprivano, subito si richiudeva non restando di quella vastit se non il ricordo vago; non un senso darmonia operante nei miei pensieri, ma un desiderio affannoso della pace che me nera venuta, un desiderio di liberarmi da tutto ci che mi stringeva, che mi opprimeva, da tutto ci che a un certo punto, per una fatalit a cui sentivo di non poter sfuggire, si faceva opaco e incomprensibile. Un rancore simile a quello che mi aveva offuscato alla stazione di Acquapiana, quando il mio desiderio di vedere Elisa era stato deluso, mi riprese subito dopo il nostro incontro e per il resto della serata mi divise da lei; come se la trasparenza spirituale che in altri tempi ci aveva unito, ora tornasse stancamente di tanto in tanto, vecchia abitudine della nostra anima. Quella sera cera in casa di mia sorella laria di festa, e un poco di cerimonia, con cui nelle case agiate e tradizionali saccoglie lospite. Questa accoglienza mi ricordava il mio primo soggiorno a Pontario; se non che allora lostilit di Vincenzo era troppo viva per poter essere dissimulata, e la sua stessa casa, dove tutto era cos suo, rifletteva i suoi sentimenti, il suo rancore, il timore di perdere Elisa, la rabbia silenziosa e impotente contro di noi che volevamo chiamarla ancora nel nostro mondo lontano e per lui incomprensibile. Tutto in casa di Vincenzo mi ricordava la casa del nonno e il dissidio tra noi e gli Uras, nel quale bisognava ricercare lorigine della
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tristezza della mamma. Era la stessa gente, per quanto ingentilita dai tempi. In queste famiglie dei paesi di Parte dIspi, che vivono sulla terra, nel fondo della provincia, e giunte al limite del loro sviluppo economico formano una classe che sembra destinata a durare, continua unevoluzione lenta, i cui effetti si manifestano, pi che nel progresso dei singoli individui, nel passaggio da una generazione allaltra, bruscamente. Cos in casa di Vincenzo, per quanto il tono generale della vita fosse lo stesso di due generazioni avanti, pure vera alcunch di pi gentile, di pi borghese, rispetto alla patriarcale rudezza di un tempo. Bench queste famiglie vivano completamente isolate in quella vasta regione, lentamente si adeguano alla classe che comunemente chiamiamo borghese; e il loro processo di adeguamento non avviene per una influenza esteriore ma quasi naturalmente, come animali o piante della stessa specie crescerebbero simili sotto i climi pi diversi. Le generazioni precedenti a quella di Vincenzo, cio quella del nonno e dello zio Guglielmo, erano state di transizione, non erano appartenute a nessuna classe ben definita; il nonno e lo zio erano stati, come tanti altri, i fondatori e i difensori della propria fortuna. Non simponevano certo per la loro personalit, questi uomini duri, ma per ci che conservavano della comunit da cui erano usciti e per il fatto che ne erano usciti. I loro figli cercavano ora nella borghesia un altro mondo anonimo come il primo, quasi sentissero il bisogno di nascondere quelle caratteristiche, troppo evidenti nei loro padri, e che erano state la loro forza. Gente che si sentiva ancora intrisa di terra, fortemente legata alla terra. La possedevano, in quanto ne godevano i frutti, la vendevano, costringevano altri uomini a lavorarla duramente, piantavano agrumeti dove prima era il letto ciottoloso del Narti; ma in realt la terra continuava a possedere loro in maniera pi profonda e completa, come possedeva i contadini che la raspavano con le zappe e gli aratri, continuava a dare a tutti loro un unico aspetto,
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una stessa faccia, gli stessi pensieri, li avvolgeva col mutamento delle sue stagioni; essi continuavano a essere i figli e i servi della terra anche quando apparentemente se ne allontanavano e maneggiavano, non senza signorile dignit, un bastone dal manico dargento. Era un senso quasi religioso del possesso, per cui tutto ci che apparteneva a loro era quasi una parte del loro corpo, la casa, i parenti, i servi. Tutto, in casa di Vincenzo, era suo, e non poteva essere daltri che suo, dalle chiavi appese nella stanza dingresso, come in casa del nonno, alla tovaglia di lino filato e tessuto sotto i loggiati, dove ora i servi attendevano gli ordini per lindomani, forse da una trisavola che aveva gli stessi occhi grigi di Vincenzo, che sono gli occhi di tutta una gente contadina sparsa e riconoscibile tra il popolo dei paesi di Parte dIspi; quella tovaglia bianca, il cui tessuto era fatto pi tenue e prezioso dal tempo e sulla quale riconoscevo ora le posate dargento con lo stemma degli Scarbo, che Elisa aveva ereditato dalla zia Maria. Questo matrimonio non stato una cosa facile neanche per lui, pensavo con compiacimento guardando mia sorella. Tutti avevano creduto che quel matrimonio sarebbe stato la conciliazione di un fatto economico e di un fatto sentimentale; perch Vincenzo, come tutti sapevano, era sinceramente innamorato di Elisa. Lamava: io stesso avevo dovuto riconoscerlo, per quanto continuassi a chiedermi cosa poteva esserci di comune tra quel possidente di campagna e mia sorella, che credevo destinata a una vita diversa da quella che poteva offrirle Pontario e la casa di Vincenzo. Ma lamore non nasce da una profonda comprensione reciproca e talora neppure la crea, anzi spesso coloro che si amano sono intimamente sconosciuti gli uni agli altri. Egli lamava, e nonostante tutto bisognava riconoscere, a suo onore, che non aveva fatto calcoli economici, che non sera eccessivamente interessato del patrimonio di Elisa, come qualcuno diceva a San Silvano (a Pontario invece dicevano che fosse stata Elisa a sposare Vincenzo per interesse);
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mentre, nellopinione dei parenti e degli amici, non era senza peso il vasto patrimonio terriero che Elisa portava in dote. Nei paesi di Parte dIspi ognuno cos fortemente legato allopinione dei parenti e degli amici, anzi, si pu dire, di tutto il paese, che difficilmente sattenta di far cosa che non sia a tutti gradita. Ora, la scelta che egli aveva fatto aveva suscitato un coro dapprovazioni nella sua trib. Nulla aveva dato a Vincenzo tanta gioia come quellapprovazione unanime. Gli piaceva di sentire il suo amore riecheggiato da quel coro agreste; perch tutti ne parlavano, anche i contadini. Quando Elisa aveva risposto alla sua prima lettera dicendogli che, salvo lapprovazione nostra, ella era onorata di accettare la sua proposta di matrimonio (so che Elisa si espresse in questi termini quasi burocratici, per lei inconsueti) Vincenzo se nera andato in campagna, solo, col suo calesse, bench fosse di domenica, cos grande e incontenibile era la sua gioia. La convenienza economica di questo fatto doveva passare tra le sue fantasie dinnamorato come una intuizione rapida, una certezza su cui non era necessario fermarsi, ma che legava la sua felicit al resto del mondo intorno a lui e la rendeva comprensibile a tutti, accrescendo cos la sua gioia; e quando aveva pensato ai poderi di Elisa, allora incolti e semiabbandonati, sporgendosi dal calesse aveva strappato una manciata di foglie e ne aveva aspirato lodore stirandosi beatamente sul sedile. Della questione, cio dei poderi di Elisa, sera occupato in tutti i particolari il coro agreste di San Silvano e di Pontario, celebrando la saggezza della sposa, qualit che si conciliava con i calcoli economici. Saggia la chiamavano facendone le lodi; e a lui piaceva che non si parlasse della bellezza di Elisa, che era segreta, nota a lui solo. Infatti, che Elisa fosse bella non lo aveva mai detto nessuno n a Pontario n a San Silvano, tranne i Ben forse, che continuavano ad ammirare i suoi occhi stupendi, giustificati in questa ammirazione dal ricordo di Elisa giovinetta. Si sapeva quali erano i poderi di Elisa, quali
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restavano a me e a Giulio; si sapeva quanto ne avrebbe ricavato Vincenzo vendendoli, quali era conveniente permutare, e quali nuove colture Vincenzo, da esperto agricoltore, avrebbe introdotto in quei poderi pieni di sterpeti. Neppure lui aveva immaginato, da principio, una realizzazione cos facile e completa dei suoi desideri. Che dolore mi aveva dato la sua aria soddisfatta di sposo novello e come mi era sembrato povero e limitato nella sua gioia! Anche Elisa doveva averne sofferto, nonostante la sua apparente indifferenza. Forse sera rassegnata, pensando che quella gioia inopportuna delluomo a cui sera volontariamente e deliberatamente legata avrebbe ceduto il posto, col tempo, alla semplice vita quotidiana, al lavoro in comune, alle abitudini della famiglia futura. Da quel punto stesso era cominciata la delusione di Vincenzo e la sua ostilit verso me e Giulio. Ma egli lamava ancora e soffriva, e io mero compiaciuto della sua delusione e del suo dolore, cos diverso dal mio, guardando quella mano estranea posata sul braccio di mia sorella, quella mano che scendeva verso la mano di lei, che restava insensibile e pensosa. Ora erano passati altri due anni. Elisa aveva risposto a quella carezza. Forse era tornata a rinchiudersi nella sua solitudine, ma, per un momento almeno, aveva risposto a quella carezza. Era legata per sempre a quel mondo? Era questa certezza che ogni tanto la faceva trasalire e le faceva levare un grido verso di noi? Oppure la sua gravidanza non era altro che la stessa bugia di due anni prima, ma divenuta complessa e ricca come tutte le cose desiderate a lungo e lungamente meditate, una fantasia nella quale, improvvisa e inaspettata, pu accendersi una scintilla che ladegua alla realt? Che cosa la faceva cos tranquilla e assorta come una fanciulla che fantastica? Io pensavo tutto questo mentre la conversazione continuava insignificante e apparentemente cordiale; e dal fondo dellanima continuavo a scrutarla senza riuscire a rendermi conto dei suoi pensieri.
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Mi ritirai presto, e quando fui solo nella mia camera, la stessa che avevo occupato due anni prima, mi prese un grande sconforto, opaco come la stanchezza del lungo viaggio che dilag improvvisa. Il giorno dopo mi svegliai presto, riposato, pieno di una inesplicabile calma. Come sempre, fra poco quella serenit sarebbe scomparsa, ne avrei perduto la memoria; ma intanto durava sicura come la bella luce che riempiva la stanza luce di paese ai piedi di montagne boscose, alto sulla pianura; aria di San Silvano, frizzante, sottile. Sentivo per istrada le voci delle donne che andavano al mercato e alla fonte, e immaginavo le loro facce invecchiate anzitempo e, sotto le vesti pesanti, il loro passo lungo, i loro corpi matriarcali. Cos rassicurato mi abbandonai alla gioia del riposo, come gi maccadeva un tempo a San Silvano. Non avevo rinunciato ai miei progetti, ma trovavo che per il momento era saggio starmene quieto e attendere, e immergermi in quella vita elementare e serena i cui rumori giungevano fino a me nella stanza chiusa, dove mi destavo senza sforzo, e mi guidavano per i cortili e per i loggiati. Se la mattina loleificio si metteva in moto un poco prima del solito, io me naccorgevo e partecipavo, nella mia immobilit, al fervore degli uomini che saffaccendavano attorno ai carri da scaricare. Come quando, da bambino, la febbre mi lasciava stranamente leggero e sensibile e non sapevo pi dove fosse andato a finire il mio piede o il dito mignolo della mia mano, che poco prima riempiva la stanza soffocandomi; come allora, senza guardarli, sentivo gli oggetti intorno, conoscevo il loro peso, la loro durata, il segreto rapporto che li univa. Il mio corpo era un oggetto tra gli oggetti. Il saluto che due donne si scambiavano alla lontana nel dialetto di Pontario, solo un poco pi aspro di quello di San Silvano e che mi pareva di riconoscere, mi scopriva uno scorcio di tetti e di strade
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con tale chiarezza che io, considerando lasfalto lucente e il fascio di fili elettrici che tagliava diagonalmente la strada, mi meravigliavo dellaria cittadina che quella borgata di contadini aveva preso negli ultimi due anni. Bastava la sirena di un autotreno che salisse lentissimo da Acquapiana oppure, sullimbrunire, il fischio del trenino, per rivelarmi una larga parte di campagna, boschi, grani verdi e distese cupe di cisti; come quando a San Silvano salivo il pendio di Monte Or e mi fermavo sulla spianata che si affaccia alla pianura. Riconoscevo nellaria laria stessa di San Silvano, di un San Silvano sepolto nella memoria, che si ridestasse con la stagione. Da ragazzo ero vissuto nella cerchia dei monti la cui forma monotona era come uno spigolo pi alto del tetto della nostra casa. La sola cosa che mavvinceva in quel paesaggio senza sorprese, era il cielo sopra lampia sella dellArcuentu, il cui nome significa, come Elisa mi disse, arco o porta del vento. Infatti quella plaga di cielo era sempre spazzata dal vento, tersa e splendente, piena del mistero delle campagne nascoste dal monte non ancora scalato che il vento attraversava. Ricordo la monotonia dei mesi estivi, quel paesaggio immobile noto in tutte le sue linee, in tutti i suoi alberi, e il desiderio di percorrere in treno la pianura e vedere i monti sciogliersi dalla loro stretta sviluppandosi nellampia catena che chiude lorizzonte, al limite della quale riappariva di scorcio la sella dellArcuentu con le due cime aguzze, ma senza pi noia, senza pi monotonia, lontano e perduto nellampiezza del tramonto. Il mutarsi delle stagioni che portano alla campagna nuovi colori e rinnovano le prospettive dalla fioritura dei mandorli, a principio di febbraio, fino alle prime pioggie autunnali, che ravvivano le rocce dei monti tra il verde dei boschi era chiuso in quella lontananza trasparente di montagne azzurrine, le quali saprivano per me solo quando il mistero di questa vicenda era di nuovo sommerso nellimmobilit dellestate.
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Ora, dopo tanti anni, ritrovavo la campagna in piena primavera, questa stagione che per me linfanzia; e nei viaggi quasi giornalieri da Pontario a San Silvano, dove mi recavo con la scusa di alcuni lavori che stavano facendo nel giardino, scoprivo che San Silvano era dilagato fino a Pontario nel rigoglio della stagione, sommergendo ogni diversit che prima poteva esserci. I colori danno rilievo alla distanza che passa tra albero e albero. Un ciuffo di canne in riva a un fosso, verdissime, che sindovinano tenere e acquose, ferma il mio occhio mentre lautobus procede lentamente, crea distanze, limita e allarga a un tempo il paesaggio. In un campo di grano ci sono ulivi potati, cos che tra le foglie e i sottili rami neri e contorti si sente laria. Le foglie sono di un verde pallido, sulla via di farsi grigie. Si direbbe che un soffio dincendio abbia spogliato le vecchie piante e che esse si rinnovino ora esprimendo questa tenerezza di vita dal legno durissimo. Hanno il tronco affondato per met nel grano, che folto come cresce solo nelle terre fecondate dal fuoco. Potrei passare lunghe ore a guardare uno di questi alberi, un ramo o un cancello. La corsa dellautobus non mi distacca da nulla: ogni cosa mi ritorna moltiplicata e rinnovata, alberi, rami e cancelli. Scopro con meraviglia che non v nessuna differenza tra questo viaggiare e lo starmene sdraiato sul mio letto: non viaggio attraverso la campagna, ma sono nella campagna, come quando la campagna mi sapre con la sua ricchezza di boschi e di spazio per virt di un rumore. Quando entriamo in una zona pianeggiante, un vasto campo di asfodeli su cui gettata una immensa rete di fili di ragno sottili e brillanti per la nebbia non del tutto sciolta in quel punto, nel sole che cinveste rompendo obliquo dalle nuvole e velato tuttavia di nebbia, il paesaggio svanisce in questo brillio, e il mio occhio, per ritrovare il senso delle proporzioni e delle distanze che fino allora laveva riposato, si ferma sulle spalle e sulla testa della signora seduta di fronte. Mi d le spalle. vestita di nero, ma non
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porta lutto. Il colore scuro degli abiti si conf al pallore meridionale del suo viso non bello n regolare ma nobilissimo. Quando si volta per parlare col suo bambino, vedo nel profilo i denti candidi un poco sporgenti che irradiano simpatia su tutto il volto familiare. Mi sembra di conoscerla da tanto tempo. Pacatamente il mio occhio passa dallinfinita distesa di fili brillanti a quei denti che brillano nel profilo fermo della mia vicina. Nellinconscia ricerca di un paesaggio diverso, durante le lunghissime monotone estati di San Silvano, di un paesaggio vario e ricco di forme impreviste, simile a quello che pensavo disteso sotto il cielo splendente dellArcuentu, dietro il monte, io che mentre Giulio prendeva appunti sui suoi libri di zoologia e di botanica me ne stavo ore e ore sotto la magnolia del giardino con la sola compagnia di un libro di Verne, avevo scoperto entro la cerchia immobile di quei monti, entro gli stessi confini della casa e del giardino, un altro paesaggio o meglio un altro mondo vario, ricco, che il mio desiderio di novit non poteva esaurire. Bastava lasciarsi andare bocconi con il mento sul braccio e stare in attesa. Senza sforzo di immaginazione, i mucchietti di terra, i sassi, gli embrici delle aiuole diventavano monti e convalli, e nelle vaste pianure le piantine di camomilla erano antichi alberi. Tuttavia le enormi margherite che saprivano sugli alti rami o gli ireos o i dondiego carichi di calici sgargianti e di bacche nere non mi facevano pensare agli alberi del pane e alle altre meraviglie delle foreste tropicali di Bernardin de Saint-Pierre, che Elisa mi leggeva, n allIsola misteriosa, ma erano montagne e alberi dei paesi nostri, del paese nascosto dal monte Arcuentu o anche la campagna stessa di San Silvano rinnovata da una stagione che io non conoscevo, erano querce, pini, ginepri. E questo paese sconosciuto e familiare a un tempo era popolato di una gente minutissima e fantastica, ma non per questo meno concreta del paese che si componeva davanti ai miei occhi; perch erano s, per quanto
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io non ci pensassi, grandi come un pugno, come i pigmei di Omero, ma non erano gnomi o folletti: era il popolo stesso di San Silvano, infinitamente vario numeroso e multicolore, quasi che rivivessero, unite in una nuova era di ricchezze e di armonia, le centinaia di generazioni che erano passate su quella terra sconosciute le une alle altre. Questa fantasia, che non occup un periodo ben definito della mia fanciullezza, mi lasci e ritorn, a distanza di tempo, talora di anni, senza che io la rievocassi, come un aspetto della realt. Io ne avevo confidato il segreto a Corrado, e Corrado ai suoi fratelli, e allinvisibile popolo fu dato un nome, ed esso ebbe vicende non meno definite di quelle dei Romani o dei popoli dellOriente. Gli Uomini del bosco restarono uomini anche per gente di scarsa fantasia come mio fratello e i ragazzi Ben e per tutti coloro che ne conoscevano lesistenza; solo che, per gli estranei, non si chiamavano Uomini del bosco ma Le Genti. Le donne di casa, quando facevano il pane, avevano preso labitudine di cuocere un certo numero di pagnottine assai minute, che io e Corrado Ben mangiavamo in segreto in un angolo ombroso del giardino, religiosamente. Con la stessa libert respiravo ora in quella mai vista campagna primaverile. Essa girava intorno a me e mi pareva di essere immobile e di sognarla. Mi pareva dessere Elisa distesa nella sua camera la sera del mio arrivo, con la mano sul petto. Essa aveva trovato la posizione giusta per ridurre il dolore a un palpito, e il dito palpitava come unarteria. Se ne stava immobile, dimentica del suo corpo, posata sul letto senza rigidit. Le giungeva, da Acquapiana il primo fischio del trenino, e quando giungeva, il trenino era gi in moto. Poi altri fischi pi lunghi, a intervalli, seguiti or s or no dallindistinto ansare affannoso della locomotiva, che si perdeva nelle curve. Vedeva la campagna che io attraversavo, la quale sera fatta bosco verdeggiante fitto di rossi tronchi di querce e cespugli, e tra i cespugli e i lunghi rami volavano basso i bruni uccelli pesanti di cui
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non posso, ora, ricordare il nome. Frullavano pettirossi e passeri di monte. I verdoni stavano come pappagalli sui rami. Ma ecco Balanotti, e dietro il colle la fattoria di Campesi e la villetta dei ragazzi Ben, poi le tettoie zincate sotto cui riparano le pecore quando piove. E la campagna di nuovo spoglia. Tra un fischio e laltro ritornava lansare affannoso di cane in cerca. Elisa mi seguiva nelle curve della salita, mentre io pensavo a lei e al salotto di San Silvano nel buio scompartimento; cos immobile che sarebbe bastato un alito di quellaria serale per darle la sensazione del suo volto, come una maschera funebre. Soltanto, sul seno, palpitava il dito, e dentro il suo seno era un altro palpito, non quello noto del cuore, ma un palpito pi segreto, nuovo, che essa ascoltava senza meraviglia, a volta a volta passando da esso a quel fischio lontano; cos come il mio sguardo passava continuamente dallintrico di fili di ragno al viso e alla bocca della mia vicina. Della quale, nei giorni seguenti, prese il posto una ragazzetta di circa quattordici anni, che portava un abito grigio e rosa con una fascia blu alla vita e il cappellino sulle ginocchia; ma nel suo viso era lo stesso segno, che doveva essere di tutta la famiglia della signora in nero: i denti candidi e un poco sporgenti. Ed essa faceva un piccolo sforzo per nasconderli, quando io la guardavo, quasi che sentisse che la sua vita, per virt di quel segno, mi si apriva senza segreti. I viaggi in autobus a San Silvano cominciavano a stancarmi soprattutto per la compagnia forzata di persone estranee, le quali per cortesia si credevano tenute a farmi una quantit di domande che risultavano poi inutili, perch maccorgevo subito che erano perfettamente al corrente dei fatti miei e della mia famiglia. Molti avevano conosciuto il babbo e la mamma; per molti di essi la mamma aveva scritto lettere, ottenuto sussidi ed esoneri in tempo di guerra; e tutti si rifacevano a quel tempo lontano, pur senza accennare a questi piccoli favori, il cui ricordo doveva, in certo senso, umiliarli. Molti, in quegli anni, serano
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arricchiti e non ricordavano volentieri la loro umile condizione di un tempo. La povera Angela Uras, dicevano parlando della mamma, il povero Capitano Alicandia; e si capiva che anche di loro essi sapevano tutto, come io sapevo tutto della fanciulla che stava sul sedile di fronte; con questa differenza, che io non conoscevo nessun fatto della sua vita ma tutte le possibilit della sua vita; sapevo quale sarebbe stata lespressione del suo simpatico viso se le avessi detto, per esempio, che nella valle di Codinas c una sorgente dacqua freschissima, che non tutti conoscono, se le avessi parlato, io che per lei ero un forestiero, di quei luoghi familiari, e le avessi lasciato intravvedere un poco della mia vita di adolescente, quando facevo le escursioni in montagna coi ragazzi Ben. Ripensando a quel tempo e a noi adolescenti la mettevo tra noi e sapevo come sarebbe stata, con la sua timida trasparente anima; e non per questo la sua vita ne rimaneva limitata, anzi si arricchiva di tutte le infinite possibilit che erano state anche nostre. Ma i Pontaresi e i Sansilvanesi che venivano a sedersi di fronte a me coi loro involtini sulle ginocchia e mi facevano tutte quelle domande inutili per avere la conferma di cose che sapevano gi, a che cosa dovevano ridurre la mia vita e quella di mio fratello se non a una serie di piccole disfatte che ci avevano spinto lontano dalla nostra terra in cerca di nuova fortuna? Una serie di disfatte che era cominciata con la decadenza degli Alicandia, molte decine di anni avanti. Gente decaduta eravamo, che altri pi arditi e avveduti avevano spinto gi dallantica potenza. E pensavo a mia madre e ad Angela Uras come a due persone diverse. Per evitare questa pena cercavo di portare la conversazione su altri argomenti, chiedevo notizie del raccolto, mi informavo anchio dei loro affari. Allora sanimavano, e senza mai dimenticare la loro abituale prudenza, prendevano un tono elegiaco, lamentoso; guai se venivano i venti gelati, dicevano indicandomi gli ulivi che cominciavano
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a mignolare: tutto sarebbe stato perduto; anche i mandorli promettevano un buon raccolto, ma era anche questo alla merc della stagione incostante. Mi mostravano i grani, bellissimi ma esposti a ogni rischio. E anchio sentivo la bellezza effimera di quel rigoglio primaverile, che avrebbe maturato ben poche delle sue promesse. Questi discorsi riuscivo pi facilmente a sopportarli. Cera in essi il ricordo di un ordine largo, come se anche qui le stagioni avessero avuto, in un tempo antichissimo, un loro arco costante e si fossero succedute ben distinte le une dalle altre, sicure nella loro durata; come quelle virt patriarcali di cui parlano i loro vecchi, e che forse sono sempre state soltanto un ricordo o un desiderio. Di buon grado accettai un calesse che Vincenzo mi prest per le mie passeggiate: un calesse e un piccolo cavallo della Giara, che guidavo io stesso. Aveva la groppa larga e le gambe sottili e agili, e sarebbe stato bellissimo se gli avessero lasciato crescere la folta criniera e la coda. Qualche volta pregavo Elisa di accompagnarmi. Prendevamo una stradina di campagna stretta e affondata fra alte siepi, a rischio di rimanere bloccati se incontravamo un carro carico di legna. A tratti, le siepi saprivano in larghi varchi dai quali si vedevano campi a mandorli e a ulivi, pieni di silenzio. Elisa voleva guidare, nonostante la sua mano fasciata. Teneva le briglie nel pugno come un guinzaglio e il cavallino trottava docile e svelto come un cane. Notavo con meraviglia in mia sorella una avidit tutta nuova di sensazioni elementari, che continuamente la distraevano dalla conversazione. Io le parlavo di Giulio, della nostra intenzione di trasferirci tutti a Firenze, e lei taceva facendo solo ogni tanto qualche domanda vaga. Alla fine stavo zitto anchio irritato non tanto dalla sua indifferenza quanto dallostinazione mia e di Giulio, ma soprattutto di Giulio. Che cosa vogliamo noi due da lei? chiedevo mentalmente a mio fratello. giusto voler prolungare
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allinfinito uno stato di cose che ha avuto termine con la nostra adolescenza, che finita per sempre?. Ma in quel punto stesso, proprio come se anche Giulio tacesse, come Elisa, le mie parole perdevano il loro senso. Cercavamo in lei la fedele compagna dei nostri primi anni, anzi lorigine stessa della nostra intelligenza, la custode di quellordine e di quella pace dalla quale, come dallaria nativa, attingevamo la nostra forza. Solo in grazia di questa certezza avevamo potuto allontanarci da quel sicuro rifugio senza perderci. Quella era la nostra patria segreta: patria di immagini e di pensieri. A volte, con un leggero sforzo, appoggiandosi appena alla mia spalla, Elisa tagliava la strada quasi ad angolo retto infilando una delle tante viottole laterali. Si sarebbe detto che il piccolo cavallo obbedisse pi alla sua voce che alle redini. Con un mancamento di respiro che dava a Elisa un brivido di piacere, facevamo una breve discesa, una rapida salita attraversando il letto ciottoloso del torrente, poi il tonfo degli zoccoli si smorzava di nuovo nel terreno torboso. La sentivo bevere avidamente laria fresca e sapida, e anchio guardavo le ragazze che scerbavano il grano, diritte, con le loro zappe dal manico lungo e sottile. Ricevetti in quei giorni una lettera di Giulio, sempre da Colonia. Che strano effetto mi fece leggere ci che mi scriveva della pubblicazione del suo libro! Pochi giorni erano bastati a staccarmi completamente da quel mondo di studi nel quale egli viveva senza stancarsene mai, da tutto quellintrico di persone e di affari che mi prendevano mio malgrado e nel quale io non mi ero mai sentito completamente a mio agio. Giulio, almeno in apparenza, ci viveva dentro dominandolo e senza lasciarsene dominare. A me bastava allontanarmene un poco per sentirmene improvvisamente estraneo; e avevo bisogno di questi distacchi, di questi riposi, come un nuotatore dal corto fiato ha bisogno di aggrapparsi allorlo della barca o di tornare a stendersi sulla spiaggia. La barca o la spiaggia, il vero riposo, erano
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stati per me la mia casa, la solitudine di San Silvano, i libri che si accumulavano in quelle stanze e segnavano le tappe di quella strada faticosa, che pure, ininterrottamente, avevo seguito. Solo l, nella mia stanza, ritrovavo lassoluto disinteresse che mi aveva spinto verso la vita dei libri. Cosa poteva importarmi degli impegni di Giulio con leditore ora che, dopo tanto tempo, ero sul punto di ritrovare pace e riposo? Senza finire di legger la lettera, me la misi in tasca e solo pi tardi ne ripresi la lettura. Giulio mi chiedeva perch non scrivevamo. A chi si rivolgeva quel plurale? A me e a Elisa, che non riuscivamo pi a parlare come un tempo delle nostre cose? Come tutto doveva apparire facile e naturale a mio fratello! In un primo tempo il silenzio seguito alla tua partenza, scriveva, maveva fatto sperare che il nostro progetto ti stesse veramente a cuore, ma temo ora che tu ti sia lasciato riprendere dalla solita immobilit di San Silvano. Oh! non credere che possa mai venire dalla solitudine alcun giovamento. Solitudine vera e proficua quella che noi stessi ci facciamo stando in mezzo agli uomini. Mi pregava di non annoiarmi, di stare ad ascoltarlo fino alla fine: era mortificato anche lui, diceva, di dovermi ripetere ancora le stesse cose. difficile non perdere la cognizione del tempo e degli avvenimenti, in quella pace di San Silvano, che tu hai sempre troppo amato: un amore estatico che ha diviso in due la tua vita: da una parte la vita faticosa di tutti i giorni, dallaltra la pace di San Silvano e linfanzia. questo bisogno di ritornare a San Silvano che spezza sempre la tua attivit e ti rende irresoluto di fronte alle cose che richiederebbero energia e decisione. San Silvano come il fondo di un lago pieno dincanti: bisogna appena toccarlo col piede e subito risalire alla superficie. In altri tempi mi sarei seduto con Elisa sotto la magnolia e assieme avremmo gustosamente commentato questa lettera; ma ora ero solo, solo come forse non ero mai stato, e anche loro due erano soli, distanti, incapaci di intendersi, di intendermi. Che cosa aveva operato
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questo distacco? Qual era ora il centro del loro mondo? Io lo ignoravo, come essi ignoravano quei miei pensieri, lironia appena affiorata alle mie labbra e la pi consistente tristezza a cui aveva ceduto. Oh, lironia era stata la cara compagna della nostra amicizia, un tempo! Ero rimasto solo, e questa scoperta, questa sensazione cos precisa mi diede una vertigine di sgomento. Quante volte la certezza che avrei potuto ritrovare in loro lessenza di un pensiero che mi sfuggiva, la fede che era mia ma che improvvisamente sera offuscata, mi avevano salvato da quello sgomento di solitudine che ora mi prendeva proprio l, a San Silvano! Nel punto stesso che scrivevo: Carissimo, senza sapere come continuare la lettera, presi la decisione di lasciar subito la casa di mia sorella e di stabilirmi a San Silvano. Carissimo, continuai. Tutto pu sembrarti molto facile, da lontano. Facile lattuazione del progetto di cui abbiamo tanto parlato e fantasticato assieme. Ora non lasciarti impressionare da questa parola: fantasticato. Qui la solitudine e forse la tristezza del luogo rendono pi precisi tutti i miei pensieri. Non devi credere quindi che io mi lasci distrarre dai nostri propositi, no, e non fantastico: ma proprio lestrema difficolt della loro attuazione, il desiderio di raggiungere lo scopo per cui sono tornato qui che mi fa temere ogni parola, ogni atto imprudente. Non si tratta di ragionare, come facevamo tra noi, non si tratta di convincere Elisa, voglio dire con un ragionamento. Vedi, anche noi stessi, io e te, indifferentemente, potremmo convincerci, ragionando, pensandoci su, che bene fare una certa cosa: eppure al momento di agire non basta pi la forza della ragione, ma bisogna che, per un attimo, chiudiamo gli occhi e ricorriamo a una forza che non quella della nostra ragione, certo. Passato quel momento ritorna la chiarezza, ma di quel momento di oscurit non se ne pu fare a meno, non lo si pu evitare. E tanto meno quindi quando si tratta di convincere altri, sia pure di una
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verit, di una necessit verso la quale essi stessi tendono oscuramente. Oltre il ragionamento, al limite del ragionamento, c questa zona di ombra: in breve, io dovrei prendere Elisa per un braccio, farle attraversare di corsa questa strada buia, rapirla come unamante. Ritorno incessantemente sui pensieri che noi abbiamo fatto, sulla necessit, di cui sono convinto, di lasciarci per sempre alle spalle San Silvano: il mio ragionamento si ferma l, non resterebbe da fare altro che agire. Ebbene, io non oso. Non mi sento di operare nessuna violenza contro Elisa. Io sono qui. E attendo. Se avr bisogno di me, mi trover in tutti i momenti. Sono pronto a diventare laiuto che lei desidera quando ci chiama. Altro non posso fare. Ho gi fatto tanto a dirti questo, e non so se ti mander questa lettera o se la straccer. Tutti i miei pensieri sono chiari, eppure sono cos pieno dincertezza. Non resterebbe che agire, bisognerebbe agire e al pi presto: ma non so se sia giusto. proprio vero che Elisa soffra? Credi che stia male perch non pi abbonata alle riviste letterarie, che non avrebbe pi tempo di leggere, o perch noi non le leggiamo pi Racine, la sera?. Rilessi quel che avevo scritto, feci qualche correzione, qualche aggiunta, poi chiusi la busta e me la misi in tasca deciso a imbucarla. Scrissi anche una lettera a Vittorio Lami, che si trovava in quel tempo a Bologna, pregandolo di sistemare le mie cose in modo che io potessi fermarmi a San Silvano per qualche tempo. In questa lettera parlai a lungo dei lavori di Giulio, del libro e delle noiosissime ricerche per cui il libro di mio fratello avrebbe dovuto portare anche il mio nome. Pregavo Lami di convincere Giulio che questo non era conveniente n per me n per lui. Ero disposto a continuare le ricerche in archivio, ma il libro era di Giulio, e bastava chegli mi ricordasse in una nota. Non era generosit o modestia, da parte mia, ma piuttosto un senso indefinibile di fastidio, che Vittorio Lami capiva indubbiamente, ma di cui sarebbe stato molto imbarazzante parlare a Giulio. Il mio nome non era
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mai stato legato finallora a nessuna opera scientifica, i miei lavori letterari erano stati sempre di breve respiro e di carattere giornalistico, e anche questi, dopo aver occupato quasi interamente la mia attivit per qualche anno, sandavano facendo pi rari, come se quella mia vena di facile scrittore si andasse esaurendo. Le uniche vere gioie mi venivano dalle rare letture disinteressate, e mai dai libri che ero costretto a leggere come recensore. Per questo, quando vedevo i miei scritti stampati, li leggevo, se non con rammarico, con assoluta indifferenza, quasi fossero di un altro, e li trovavo sempre inferiori a tutto ci che avevo pensato e pensavo sullargomento di cui essi trattavano. La complessit di pensieri e di impressioni che destava in me la lettura di un libro che valesse veramente la pena di essere letto rimaneva inespressa; tutte le mie esperienze pi vere erano lontane dal trapelare in quella prosa ora sciatta ora brillante e sempre impersonale. Giulio non poteva rassegnarsi a questo, trovando in me doti di sensibilit e di cultura che, cos diceva, la maggior parte di coloro che pubblicavano in quegli anni mi avrebbero invidiato. Tu devi farti uno stile, diceva, come molti anni prima, quando mi aveva iniziato allo studio dei poeti moderni, mi aveva detto: Tu devi farti un gusto. Che cosa aveva significato allora per me quellespressione misteriosa: farti un gusto! Ogni sua parola, ogni suo consiglio mi scendeva profondamente nellanima e portava frutto. Se allora avesse avuto il coraggio di dirmi: Devi farti uno stile, chiss? forse mi sarei fatto uno stile. Oh! lincanto di certi poeti tedeschi che egli traduceva per noi in quei cari incontri domenicali, quando il cattivo tempo ci proteggeva dalle visite indiscrete! Come amavo quelle nuvole che si levavano come il fumo di un incendio dalla gola di Codinas invadendo il cielo plumbeo! E come mi sembrava bello Rilke nella traduzione di Giulio! In quel tempo egli non solo aveva smesso la lettura dei libri di geologia e di botanica che aveva divorato fino a qualche anno prima con quella
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sete di conoscenze enciclopediche che propria di un certo periodo delladolescenza, ma sera liberato anche dalle prime torbide e per lui fugaci, esperienze romantiche che lo avevano avvicinato per un momento a Giacomo Scarbo. Leggeva sempre moltissimo, ma aveva gi imparato a scegliere con cura i suoi libri, e come un minatore che scopre nella terra e segue, quasi per istinto, un filone di minerale pi prezioso, la sua attenzione doveva essere stata attratta da quella corrente di pensiero, la quale ancor oggi continua ad alimentarlo segretamente e dalla quale egli pensa di essersi staccato per sempre come da unultima illusione romantica. Fin dallora ricordo daver visto, nel piccolo scaffale accanto al suo tavolino da studio o nella sua borsa, alcuni libri che leggeva assiduamente e dei quali non mi parlava mai. Erano il Sommario di Pedagogia, lEstetica, i Nuovi Saggi ; e la cura con cui egli evitava di parlarmene attir per la prima volta la mia attenzione su quei libri che furono poi, e sono ancora, nostri fedeli compagni: compagni, voglio dire, di quella solitudine che noi, secondo lespressione di Giulio, ci creiamo in mezzo agli uomini, e allo stesso tempo tramite di comunicazione con altri uomini che come noi vivono in solitudine. Non me ne parlava, come non mi parlava mai delle sue scoperte se non quando serano del tutto chiarite ed erano entrate nella sua vita attivamente. Gli veniva da questo scrupolo pedagogico una grande nettezza di esposizione e una grande chiarezza di pensiero, in conseguenza. Io pi tardi disprezzai questa sua dote che tanto mi aveva giovato, e che mi parve mancanza di sensibilit. La sicurezza, che prima mi aveva dato tanta fiducia, fin per farmi perdere la fiducia che avevo in lui. Avrei voluto che mio fratello mi comunicasse il fermento di un problema nel suo nascere, e non apprezzavo il pudore con cui egli lo nascondeva in s. Ma al tempo delle letture di Rilke lo ammiravo ancora incondizionatamente. Solitudine mia beata e santa , scandiva con la sua voce pacata ove ogni
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dubbio pareva chiarito; e forse sentiva in quelle parole la calma esaltazione della sua intima solitudine, dove il dubbio e lincertezza non erano risolti ma soltanto celati. La chiarezza che tanto ammiravo mi pareva gli venisse da esperienze di pensiero a me ancora ignote, ma che avrebbero dovuto essere anche mie, figurandomi di doverlo seguire passo per passo sul suo cammino. Il mio spirito o meglio la mia immaginazione era volta ai filosofi di cui tanto spesso lo avevo sentito discutere con Giacomo Scarbo o con altri, e dai quali immaginavo che egli avesse appreso per sempre una verit fondamentale. Invece anche quei filosofi, che erano Leibniz e Spinoza, nomi meravigliosi per me, erano rimasti anche per lui, per lungo tempo, in una specie di limbo fantastico, impenetrabili alla sua intelligenza; sera staccato dalla lettura delle loro opere come dalla lettura dei libri di botanica e di zoologia, per tornare ad essi solo pi tardi e con pi disciplina. Quando io cominciavo a decifrare faticosamente la Monadologia sullo stesso libriccino giallo sgualcito e pieno di note, egli ne aveva ripreso da tempo la lettura nelledizione del Gerhardt, riposatamente e con rigore di metodo; anzi questo filosofo aveva perduto limportanza fondamentale che egli gi gli aveva attribuito; e con lui, per un periodo di cui non saprei precisare la durata, tutti i filosofi forse. Era il tempo in cui ci leggeva i poeti, il tempo della sua grande passione per la poesia. Solo pi tardi capii con quanta forza, nel segreto, egli, dopo essere passato attraverso gli idealisti italiani, dovesse afferrarsi alle parole dei poeti come allunica realt ancora salda. Questo amore esclusivo gli aveva dato improvvisamente una maturit di gusto e una sicurezza di giudizio che ho ritrovato poi solo in Vittorio Lami. E tra i poeti amava soprattutto i minori, che non possono essere amati, come diceva, se non da chi ama profondamente la poesia. Io allora maccontentavo, non conoscendo il tedesco, di una brutta traduzione di Rilke, che rileggevo allinfinito, trovando in essa tutto,
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come accade a quellet, quando si comincia ad amare la poesia e la si adora, come i popoli selvaggi adorano la divinit, in idoli rozzi. Come Leibniz era il primo filosofo che leggevo, lunico, ben pi importante di quanto non siano mai stati tutti gli altri studiati poi con rigore e disciplina, cos quella traduzione mi fece sentire per la prima volta la lontana voce di un poeta. Forse quelli che a me parvero pi tardi i limiti della sensibilit di Giulio, non erano che gli effetti di una disciplina intellettuale gi salda. Vittorio Lami soleva dirmi che Giulio era arrivato alla comprensione della vita attraverso la cultura, mentre io avevo della vita una comprensione istintiva, estranea a ci che simpara dai libri, e che mi serviva anche a capire i libri. Tale definizione non mi parve lusinghiera e facendo mio per un momento e per mero spirito polemico un modo di giudicare che era proprio di mio fratello, e forse lo stesso sorriso ironico, chiesi a Lami che cosa volesse dire capire la vita. Il mio amico, che non usava queste espressioni correnti se non con le persone con le quali aveva una lunga consuetudine di ragionamento e accennando a idee gi chiare e definite, non si cur di rispondermi; e io, ripensandoci, dovetti ammettere che nella sua definizione cera molta verit. Mentre io ed Elisa, fin dai primi anni, eravamo vissuti della stessa tristezza della mamma, un sentimento adulto che ci trascendeva, quasi che la nostra individualit, fattasi trasparente senza disperdersi, avesse permesso la continuazione in noi della sua vita, di modo che i ricordi di Elisa e i miei, si riducessero essi a un gesto, a una parola, avevano il segreto potere di emanare tempo, di cingersi di unaureola di tempo, di ricreare infine tutto un profondo cielo di tempo; per Giulio invece nulla esisteva allinfuori del presente, fatto anchesso come di frammenti di ricordi che faticosamente si componessero, parole gesti persone, simboli pi che essenza della realt presente. Avrebbe riso se qualcuno gli avesse parlato di una certa tendenza trascendentale del suo spirito.
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Io ed Elisa eravamo entrati, nascendo, nel fiume gi ricco dacque che era la vita di nostra madre, come se le sue rare gioie e la sua costante tristezza ci avessero raggiunto e nutrito col suo sangue quandella ci sentiva muovere dentro di s: avevamo continuato pi che iniziato una vita. Come un essere destinato a una vita lunghissima che cominciasse con lui, Giulio si costruiva lentamente; e ripensando la sua vita di studi, che solo ora mi dato ripercorrere passo per passo, scoperta dopo scoperta, come la vita di Elisa mi nota in tutti i suoi affetti, mi pare di assistere al lento formarsi di quellorgano di percezione che per lui la cultura, quasi locchio limpido e impassibile attraverso il quale il mondo gli si venuto via via manifestando. E c qualche cosa di primordiale nel formarsi di questo organo, che, come locchio di un animale preistorico attraverso infinite generazioni, si rinnovava e si faceva via via pi perfetto nelle successive ere della sua vita; fino a che, entrando egli con la conoscenza degli idealisti in un ordine nuovo di idee, pi stabile e pi civile, come in un nuovo continente, questo suo occhio immobile e senza palpebra si fece umano. Allora mi accorsi che per lui non valeva tanto il contenuto del pensiero quanto lo stile del pensiero, il quale doveva avere lo stesso valore che aveva per Vittorio Lami lidea o meglio il senso della forma, che gli rendeva possibile la comprensione profonda della poesia. Ma le parole del filosofo che anchio leggevo per la prima volta sotto la sua guida, e che furono, come gi erano state per lui, il lievito della mia vita intellettuale, semplici e nude nella sua esposizione come formule matematiche, sallargavano e sarricchivano fantasticamente non appena io riprendevo per mio conto la lettura del sottile libretto. Ogni schema intellettuale si riempiva di oggetti sensibili, si rendeva comprensibile per quel tanto di fantastico e di sensibile che la mia anteriore esperienza vi apportava. Se leggevo che ogni porzione della natura pu essere considerata come un giardino pieno di piante o come uno
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stagno pieno di pesci e che ogni ramo di tali piante, ogni membro di tali animali, ogni goccia dei loro umori ancora un simile stagno, un simile giardino, questo pensiero si presentava al mio spirito con una chiarezza estrema, tanto da darmi un senso di inebriamento sottile: ed ero costretto a chiudere il libro e a uscire, sero in casa, o a distendermi ai piedi dei grandi alberi, sero nella pineta, a San Silvano, come spesso accadeva. Ogni oggetto a cui pensavo o sul quale i miei occhi si posavano, i velieri e i piroscafi della darsena, il golfo, oppure la campagna coi suoi monti, gli stagni, i fiumi, si vestiva di quella chiarezza, sentivo con una energia nuova gli alberi, ai piedi dei quali stavo sdraiato, immersi nellaria calda e sapida di resina, li conoscevo con tutto il mio essere dalle radici sprofondate nella terra ai loro rami, dalla scorza scagliosa alla linfa che saliva lentissima fino ai loro aghi ancor pallidi, verdi e aciduli. Lo stagno di Olaspri, loliveto di Balanotti, gli agrumeti sulle rive del Narti, tutte quelle parti pi note di campagna nella vasta campagna di San Silvano, erano una cosa sola con lo stagno e il giardino del piccolo libro che tenevo chiuso fra le mani. Senza meraviglia, nella magia di quei pensieri non solo la campagna di San Silvano ma la conoscenza fantastica di questa campagna, fin dove arrivava la mia memoria, si fondeva col giardino del filosofo; le piccole montagne, i piccoli alberi, le Genti che mero figurato bambino, quando mi stendevo bocconi per terra immaginando di essere anchio piccolo come una mano. Mi pareva che il pensiero che prima Giulio maveva spiegato, ma che solo in quella solitudine fantastica si ravvivava come i fiori che Elisa metteva in un vaso al ritorno da una passeggiata, e che solo allora si offriva con estrema chiarezza al mio spirito, che diventava anzi la mia intelligenza stessa, fosse stato in me anche prima dallora, nascosto in quella fantasia delle Genti, come nel boccio nascosta la forma del fiore aperto, e fosse giunto a quella chiarezza, come un fiore che si apre, per variazioni impercettibili, col
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maturarsi della mia intelligenza. Quando riaprivo il libro e riprendevo la lettura, ogni parola era piena di una forza vitale e lievitante. Cos non c nulla di incolto, di sterile, di morto nelluniverso, non v affatto caos, non vi confusione se non in apparenza leggevo; e dopo un poco tornavo a chiudere il libro. Quando la sera passeggiavamo per i viali di Buon Cammino, e raccontavo a Giulio, che mi ascoltava distratto, la trama dei Buddenbrook, giunti alla rotonda, il Golfo degli Angeli sapriva ampio e azzurro, e dai fari che gi si rispondevano, a intervalli, dalla solitudine del mare, dai monti di Capoterra il mio sguardo abbracciava con un breve giro la vasta catena del Linas in fondo alla quale, insignificanti per tutti gli altri, tranne che per me e per qualche recluta di San Silvano consegnata nella caserma Carlo Alberto, si distinguevano contro il cielo splendente le due cime nere e aguzze dellArcuentu fatte dello stesso buio greve delle altre montagne. Lontanissime, come una di quelle nebulose che sindovinano in una plaga pi oscura del cielo, come un pulviscolo luminoso sul punto di disperdersi, erano le luci che tante volte da Monte Or, avevo visto improvvisamente brillare allimboccatura della valle come una grande costellazione. Rivarcando la pianura dove il tramonto non era ancora del tutto spento, e sprofondandomi nel buio notturno delle montagne riscoprivo con la fantasia la nota ricchezza di boschi e di acque, le strade, le siepi, le case costruite sulla viva roccia, e ancora le parole del libro mi tornavano in mente. In quella forma di monti nota a noi soli, sommersa in quel buio che si distendeva ormai su tutta la pianura come unonda che crolla e si spande sulla spiaggia, era San Silvano, tra quelle luci che brillavano ora pi distinte era il nostro giardino, la nostra casa, nella piccola sala da pranzo era Elisa con le cugine Scarbo e con Matilde e Anita Ben; e nellaria raccolta della stanza giungevano i rumori, sempre gli stessi a quellora, degli uomini e delle bestie che tornavano dal lavoro.
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Imbucai le due lettere e feci una breve passeggiata in calesse. La sera, a Pontario, tutti mi guardarono con meraviglia quando seppero della mia decisione di trasferirmi a San Silvano. Per un momento vidi gli occhi di Elisa fissi su di me, pieni di stupore doloroso: ma fu un attimo: mi disse che avrebbe provveduto a trovarmi una donna di servizio, cosa che accettai di buon grado. Una donna anziana, si lasci sfuggire Maria, e tutti risero. Intanto rifacevo mentalmente la lettera per Giulio. Perch ritrovavo solamente ora la mia serenit? Questa possibilit di capire gli altri, perch la ritrovavo solo in momenti fuggevoli? Ora gli occhi di Elisa, dopo quel primo momento di stupore doloroso, mi dicevano chiaramente: Va a San Silvano, va e aspetta. Lasciami sola. E mentre le sbucciavo unarancia, continuavo mentalmente la lettera. Quando Elisa turbata e ci chiede soccorso, allora s che una povera donna pronta ad appoggiarsi a chi le sta vicino, allora s che la sua serenit se n andata davvero e quel vivace mondo che la circonda, visibile solo per noi, quel mondo che il suo occhio sereno contempla anche nellapparente squallore di Pontario e della sua casa, si spento. E gli dicevo come ritrovassi in lei, anche allora, la mia vera maestra, mia e forse anche sua, che mi aveva insegnato a non subire mai gli altri, pur senza antipatia e insofferenza, a non esser legato a questo capriccio della simpatia o della antipatia che ci oscura. Grazie alla serenit di Elisa, lavversione che Vincenzo aveva per me cos viva (anche se in quel momento laveva, per cos dire, dimenticata) non accendeva in me un sentimento corrispondente, ma tuttal pi una tranquilla indifferenza che non turbava i miei pensieri. La simpatia, lamicizia che sentivo per una sola persona, per lei, temprava quella mia indifferenza, laddolciva, mi rendeva gli altri non solo innocui come bambini, con tutto il loro rancore, ma comprensibili e quasi fatti trasparenti. Quandebbi finito di sbucciare larancia, Elisa, che parlava con Maria di non so che lavori di un loro orto, prese distrattamente il
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frutto che le porgevo, lo divise in due parti con le sue lunghe deboli dita, e ne diede met a Vincenzo. Come se continuassi la lettera a Giulio, mi ritorn in mente un frammento del filosofo che avevamo tanto amato, dove dice: Chi felice non sente ogni momento la sua gioia, poich a volta a volta si riposa dal meditare, anzi ordinariamente si rivolge a onorate faccende. Ma basta che egli sia in grado di sentire la propria gioia ogniqualvolta ci voglia pensare, e nel frattempo ne sorge una gioia nel suo agire, e nel suo essere. Pensando alla mia camera, ai miei libri, alla solitudine che mi aspettava a San Silvano, al raccoglimento a cui non avevo pensato arrivando a Pontario, mi pareva che sarei riuscito anchio a sentire la mia gioia ogniqualvolta ci avessi voluto pensare; quella gioia che invece appariva improvvisa e passeggera nella mia vita e sfuggiva alla mia meditazione.

II

Da tre giorni ho lasciato la casa di mio cognato. Ora sono qui e leggo. Da tre giorni tira vento senza un momento di sosta. Si porter via questo fantasma di primavera, e di colpo verr lestate. Un signore cerimonioso che certamente mi conosceva e sa che sono fratello di Elisa, ma che io non ricordo di aver mai visto, mi ha detto che la primavera fa qui appena una visita di dovere. Quando ho preso questo libro dallo scaffale credevo che fosse il volume dei Romans di Voltaire, invece Marivaux. Forse cercavo proprio questo: La double inconstance. Elisa sapeva che dovevo venire qui solo, Maria invece non era di questo parere. Possibile che persone estranee debbano intromettersi nei fatti miei? Il giorno prima della partenza le ho sentite discutere nella saletta da lavoro accanto alla sala da pranzo. Maria le medicava il dito, io fingevo di ascoltare la radio. Secondo Maria, Elisa avrebbe dovuto accompagnarmi, stare qui con me alcuni giorni, e tornare poi di tanto in tanto. Elisa diceva che non era necessaria la sua presenza, che Rita era pratica delle nostre abitudini, che era meglio lasciarmi fin dal primo giorno la libert di ordinare come meglio credevo il mio tempo. Ho sentito nel loro discorso la parola villeggiatura. Perch dicono che questa per me una villeggiatura? Perch Elisa ha scelto Rita invece di una persona sconosciuta, come avrei preferito? Eppure lei sa che desidero essere solo. E mi secca ancora di pi la condiscendenza di Elisa a quegli scrupoli di Maria: infatti hanno stabilito che Rita non sar sola in casa con me. Non si lasciava convincere facilmente Maria, della necessit del mio soggiorno a San Silvano, ostinata come tutti quelli che sanno che il loro parere non ha molto peso. Mi sono accorto che mia sorella non discute mai. Naturalmente, e senza che nessuno se ne sia
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avveduto, tranne i servi, Maria stata sostituita da Elisa nella direzione della casa. La mia visita a Pontario riusciva gradita molto pi di quanto non fosse stata lultima frettolosa visita di Giulio o quellaltra mia di due anni fa. Due anni sono passati da quel mio tentativo sfortunato. Che facce diverse hanno ora! Forse pensano di essersi ingannati, allora, circa le mie intenzioni, di avermi sospettato ingiustamente. Sono gentili, Maria e Vincenzo, e anche gli altri loro parenti di Pontario, Blesilda Argei, Daniele Fumo, Ersilia Uras, lontana parente di mia madre, secondo i calcoli di Maria, per cui risulta che anche prima del matrimonio di Elisa noi eravamo un poco parenti: un altro ramo, unaltra razza di Uras, meno intraprendente e pi mite dei parenti di mia madre. E ci tengono, non per me naturalmente, ma in quanto sono fratello di Elisa, cos in astratto. In questi paesi ognuno tiene a mantenere buone relazioni coi parenti, a formare la casta chiusa, la trib, e far sapere agli altri che esistono queste larghe alleanze. Laltro giorno Maria annaffiava un vaso di garofani sul balcone della sua camera, quando pass un gruppo di signorine sue amiche, zitelle come lei gi sfiorite. La salutarono, si fermarono, e facendo solecchio con la borsetta di pelle, una le chiese se sarebbe andata la sera alla adunanza del Circolo delle Dame Cattoliche. Oh! no, Maria non poteva. Abbiamo ospiti! disse sporgendosi dal balcone. Il suo viso doveva essere raggiante; non per me, certo, ma perch poteva dire cos alle amiche: Abbiamo ospiti! allungando misteriosamente le parole. So che di me e di Giulio parla volentieri coi conoscenti e gli amici, informandoli per quanto pu capirci e ricordare, dei lavori di Giulio, delle cariche che Giulio ricopre; i suoi titoli accademici devono aver per questa gente un valore pari a quello di cavaliere e di commendatore. E non c vanit, da parte di Maria, ma una sorta di deferenza affettuosa per la cognata. La mia decisione di ritirarmi per un po di tempo a San Silvano non poteva quindi essere gradita n a Maria n
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a Vincenzo. Pareva che io sdegnassi le loro gentilezze. Inoltre ha sconvolto un progetto che Maria vagheggiava da tempo. Ultimamente sono state fatte alcune riparazioni qui a San Silvano, nella nostra casa: la cucina stata imbiancata, rinnovata la tappezzeria della stanza del Pozzo. Perch non affittarla, diceva Maria, quella casa disabitata? A questo Elisa s opposta con violenza, per la prima volta ha perduta la sua calma abituale. Maria per tornata con ostinazione sullargomento. Il Pretore cercava una casa. Erano cittadini, la nostra casa era adatta per loro. Maria ne enumerava i pregi: il giardino, per esempio, con quella magnolia, quelle aiuole, quegli immensi eucalipti! Pregi che per agli occhi suoi e del fratello sono veri e propri difetti. Nei primi tempi anzi Vincenzo aveva chiesto a Elisa se poteva far tagliare gli eucalipti; ma essendosi subito accorto di aver toccato un tasto falso, aveva aggiunto: Lo facevo per evitare il rumore di quelle piante quando fa vento. E a San Silvano ci tira!. Elisa era rimasta doppiamente addolorata perch Vincenzo sera dimenticato di ci che lei gli aveva detto di quegli alberi. Quando tira il vento e dalla pineta si leva un muggito lungo, simile a quello che fa il mare, gli eucalipti stormiscono sul nostro tetto con un frastuono di onde che si rompano sulla scogliera. Questo piaceva alla mamma, ricordandole, negli ultimi anni, paesi dove aveva vissuto giorni cos diversi da quelli bui di San Silvano, e le faceva sperare di ritornarci. Maria bagnava il cotone nella bacinella dove era il disinfettante e lo strizzava prima di passarlo sul dito malato. Non ho mai voluto vedere quel dito, e anche quei rumori mi davano un brivido nella persona. Maria procedeva con estrema delicatezza, ma Elisa diceva: Piano, piano! e si capiva che faceva uno sforzo per non gridare. Dopo un poco Maria ricominci a parlare di me. Se voleva una stanza pi quieta, doveva dirlo liberamente, ch gli davamo quella in fondo al corridoio: d sugli orti e i rumori della strada non ci arrivano. E poi, se a lui piace la campagna,
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con quella vista davanti. Elisa non rispondeva: continuava a lamentarsi piano, per il dito. Non venuto per stare con te? Da due anni non vi vedete, e ora se ne va!. Ma no, non venuto per stare con me, diceva Elisa lamentandosi tuttavia per le fitte al dito che laltra curava paziente e impassibile, non venuto per me; venuto per lavorare. Tu capisci! a casa lui ha i suoi libri, le sue cose. Lui abituato a studiare nella sua casa, non come Giulio. Alla fine non pot trattenere un piccolo grido acuto. Vincenzo sera offerto di mandarmi un uomo per governare il cavallo, ma Elisa, vedendo che Maria cominciava a spaventarsi al pensiero che ci sarebbero volute tre persone di servizio per me soltanto, Rita, la sorella e uno stalliere, disse che al cavallo ci avrebbero pensato le donne, giacch docile e c acqua in casa. Anche se bisognasse portarlo allabbeverata, Marietta non si spaventerebbe. In casa loro i cavalli li portano sempre le donne allabbeveratoio, disse. Dietro il calesse fu legato un sacco con fave e paglia per due o tre giorni, fino a che non ne avessero mandato una buona provvista, poi Vincenzo batt con la mano sulla groppa del cavallo per dargli il via. Il cavallino barcoll, si scosse e punt le zampe nella salita. Elisa rideva di quel buffo apparato. Addio!. Addio!. Uno di questi giorni verrai a colazione da noi, no?. Certo, verr. Bene, fatti vedere! disse Vincenzo. Non startene rintanato tutto il giorno in casa, mi grid Elisa. Invece da tre giorni non esco di casa. E questo vento non cessa ancora. In unagenda militare del babbo (1912, guerra italoturca) per pagine e pagine non ci sono che annotazioni di questo genere, sotto la data: Cielo sereno cielo sereno,
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vento pioggia e vento forte durante la notte, cielo coperto di mattina con vento di ponente Temp. Media 8 cielo sereno nel pomeriggio sereno temp. 6 vento da ovest. Potrei andare a prendere lagenda in quel cassetto, dove certamente rimasta: stata sempre l, da sempre io so i nomi del Drappello Cavalleggeri: Grosso Alcide, Liberatore Angelo, Sommarone Ercole, Romano Carmine, Vitullo Domenico Non penso a nulla. Sento il legno della porta a cui sono appoggiato, il cuoio cedevole delle scarpe, il tessuto della mia biancheria, briciole di biscotto in fondo a una tasca. Sento questa materia come se un senso nuovo, pi acuto dello sguardo e del tatto, la penetrasse in ogni fibra, in ogni granello: conosco la durata dei suoi aspetti effimeri nel tempo umano, ed essi compiono nei miei sensi il loro ciclo riducendosi a qualche cosa di indifferenziato, pulviscolo atmosferico fuori del tempo e dellumana conoscenza. La mia intelligenza non la scalfisce neppure. Basterebbe un soffio, ora, a disperdere la memoria dellequilibrio che sorregge i miei sensi, la mia intelligenza addormentata. Sono come uno che trattiene il respiro e si finge morto a se stesso; ed veramente un poco morto. San Silvano sparito. Mentre mi facevo la barba guardavo le aiuole del giardino. Nessuno si cura di strappare le erbe secche che saffoltano al calcio dei roseti. Ma tuttavia il giardino ricorda lordine di un tempo; in ogni pianta di rose, bench non pi potata da tanti anni, un senso di civilt estraneo allaria di qui. I cedri conservano tutta la loro bellezza duratura di alberi che crescono con grande lentezza, perfetti in tutte le loro foglie. Passeggiando per i vialetti sui quali si riversano i ciuffi di vaniglia, se chiudo gli occhi ho lillusione di essere nel giardino che la mamma e poi Elisa curavano con tanto amore: lo stesso profumo di terra umida e di foglie fradice misto a quello delle piante, delle erbe e dei fiori; tra i quali prevale, secondo il luogo in cui mi fermo o
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il vento o la disposizione dei miei sensi, il profumo del cedro, della vaniglia, dellerba luisa o delle rose: lodore che ha impregnato di s le stanze a pianterreno della nostra casa, un po umida anchessa come il giardino; inseparabile dalle stampe della sala da pranzo, nelle quali, come nelle immagini di una Via Crucis, raffigurata la vita di Napoleone. Il suo panciotto bianco e le sue piccole mani sono unite anchesse, nel mio ricordo, a questo odore. Guardavo il giardino, e mi pareva di essere stato assente solo per breve tempo: mesi, anzi giorni, un giorno solo; ma che in quel giorno di lontananza fosse avvenuto un fatto irreparabile nella nostra casa, tra noi. Tutti questi anni, tutti gli avvenimenti di questi anni, gravi o insignificanti, sono evaporati come un liquido da un bicchiere lasciato sul davanzale della finestra, e non resta nel fondo che un residuo calcinoso, il senso di questa giornata di distacco che divide le nostre vite. S fatto buio. Il tetto della casa di fronte, con i suoi ciuffi derba, somiglia a un monte con una rada foresta sul crinale. Alberi battuti dal vento, una montagna di qui, simile a quelle a sud dellArcuentu, grevi e senza maest; ma di una forma ancora diversa. Ripensando a una certa ora di sera, rivedo ancora oggi una stella brillare sopra la valle di Lugheria, una delle prime, su una sella di monte che porta lo stesso nome della valle; anzi alla buia valle il nome deve essere venuto di lass, dilagando come la luce dellalba. Io e Elisa avevamo fantasticato a lungo sul mistero di quel nome. Elisa mi diceva di aver sentito dire dal babbo, che i nomi di molti luoghi e paesi, che apparentemente non hanno alcun significato, si possono riaccostare alla radice di parole latine, greche o puniche; alcuni di essi, specie in Parte dIspi, si ritrovano nella Bibbia; ma questi nomi di cime e di valli sperdute, di luoghi in cui cinque o sei pastori vivono alcuni mesi dellanno, meraviglioso come siano giunti fino a noi, ripetuti non da un intero popolo ma da pochi uomini, che se li son passati di mano in
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mano come il corno del sale o la zucchetta del vino. E resta tuttavia inviolato il mistero della loro nascita. In qualunque tempo sia nato, il nome di Lugheria devessersi acceso nella fantasia di un uomo come la luce della stella che a questora sovrasta il monte, che non si pu mai dire quando abbia cominciato a brillare: in quella stessa ora, e da quel momento, fu come la stella, che era sempre stata, anche se luomo la vedeva allora per la prima volta. Rivedo la sella di Lugheria, cos ampia e dolce, il cielo puro, come solo nelle plaghe pi alte sullorizzonte, nelle quali il nostro occhio non si ferma mai, avendo bisogno, come un uccello, di spaziare quasi per sfuggire allo sgomento dellimmensit; o se si ferma, senza sguardo. Nel cielo di Lugheria ritrovo anche ora la stessa purezza sconosciuta. La curva del monte, nuda dalberi in quel punto e dolce nella sua ampiezza, era come un appoggio al nostro sguardo, che si riposava in quel seno di cielo. Immaginavo che sotto quel cielo, che si faceva di attimo in attimo profonda cupezza intorno alla stella sospesa, dietro alla quale altre, rade e appena percettibili, rivelavano irraggiungibili spazi, quasi una prospettiva metafisica, si distendesse una pianura vastissima, antica come quella dei racconti della Bibbia; e pi tardi quando lessi il Canto notturno di un pastore errante dellAsia, la luna seguiva il pastore su quella pianura deserta. Anche ora, tutte le volte che vedo un astro pendere cos su una collina, sempre mi ritorna quel senso di vastit dietro un monte. Tra poco una torma di passeri si poser sul crinale del tetto: gli alberi torneranno erba, il furioso vento, brezza leggera, uno stornello si affaccer allo scrimolo e lancer il suo fischio interrogativo. Conto gli alberi sul crinale del monte: quattro dieci dodici quindici Ho fatto cos con i monti veri e lentamente ho imparato a conoscerli, contando i loro alberi, estate dopo estate. Ho visto i loro alberi sempre in unaria nitida, meno brillante di questaria primaverile, che una novit per me, qui a San Silvano; e i monti sono diventati, coi loro alberi, questa
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realt che mi balza dentro anche quando me ne sto sdraiato sul letto. Se mi inoltro nella valle del Narti, arida e monotona, sento dietro alle mie spalle, concreta realt, la ricca pianura con le sue strade, i campi chiusi da siepi, i folti dalberi e le case, ampiezza misurata dalle anse del fiume; la sento tutta, solo che abbai un cane o scoppi una mina nella cava di Leri: rumori che, assieme a mille altri confusi e indistinti come ronzio dinsetti, formano un vasto paesaggio sonoro che si popola di silenziose e aerate architetture dalberi. Sulla realt di questi monti grevi che ingombrano lo spazio nella valle stretta e afosa, se ne accende unaltra, simile a quei fantasmi bianchi di alberi che vedo salire nel cielo del crepuscolo, a Monte Or, quando distolgo gli occhi dai cupi cipressi ai piedi del colle. triste sapere che ci sono uomini per i quali non esiste che quellaltra realt greve e muta, materia inconoscibile, e momenti in cui anche per me non esiste che essa: montagne viste da sempre, senza pi polvere n vento, senza vegetazione, senza aria. Per un istante, ma con la pienezza che avrebbe uno stato danimo duraturo la condizione di una creatura felice e saggia mi sento immerso in una grande pace. Vedo da Monte Or i lumi di San Silvano tremolare nellaria e riodo la voce di Elisa, tanti anni fa: Ma s, proprio il vento. San Silvano sparito. Intorno a me, le pareti della mia stanza, e un paese senza forma, che sfugge ai miei sensi. Sono andato a cercare lagenda del babbo, ho riletto i nomi dei cavalleggeri, e andando avanti ho trovato quelli degli scritturali, degli zappatori, le forze al completo della compagnia: ufficiali 4, sottufficiali 3, caporali e soldati 153, carrette muli cavalli. Cos, come di San Silvano, non rimangono altro che nomi. Ma basterebbe un attimo di ispirazione perch questa compagnia si mettesse in marcia, e i nomi prendessero un volto come il soldato delle lepri, che pure io non ho mai visto. Nella memoria questi spazi
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bianchi segnati dalla scrittura minuta di mio padre, serano allargati in un tempo indefinito, schiarito dai venti. Ora invece non riesco a leggere che la cronaca di queste brevi giornate. 5 febbraio. Appostamento notturno, allarmi. Sereno, calma. Temp. 6. 6 febbraio. Marcia su (nome illeggibile). Si pernotta. Notte splendida. Indisturbati. Sereno, calma. Temp. molto bassa. 11 febbraio. Cielo semicoperto. Vento di NE forte. Visito Marsa Zuaga in camion. 12 febbraio. A Marsa Zuaga troviamo la corallina sbalzata dalle onde sulla spiaggia, il pontile distrutto. Notte dal 12 al 13 vento di NO. Pioggia e grandine. Di mattina continua il vento e piove, grandine a Marsa Zuaga. Sereno, calma. 17 marzo. Durante la notte vien dato lallarme. Si odono voci di numerose genti dirette a Sidi-Abdes-Amad. Il telefono rotto, nessuno si presenta alle opere. Cielo coperto, leggero vento di Nord. 18 marzo. Alle ore 18 falso allarme. Esco con la compagnia in cerca dei predoni. Si fa una corsa inutile e si rientra alle 19. Cielo coperto, vento di NE. Temp. 17 maggio. Cielo sereno. Cimbarchiamo sul Cavour. 18 maggio. Cielo sereno, vento di NE. A bordo del Cavour fermi nelle acque di Zuara. 19 maggio. Sereno, calma. Si effettua il carico, e forse la sera si salper. Alle 14 si leva lancora. 20 maggio. Sereno, calma. 18 giugno. Cielo nuvoloso, leggero vento di NO. Alle 14 si leva il campo. I pezzi da 149 sono puntati contro il
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campo nemico. Alle 8 la colonna centrale parte dal Marabutto. Alle 9,30 comincia il fuoco e cessa alle 18,30 con la presa del Campo Rosso. Qui si sosta. 19 giugno. Sereno, vento di NO. La notte, indisturbati. Stamattina, mentre facevo colazione, arrivato Vincenzo. Non si direbbe che sia questo il timido giovanotto di un tempo, il marito impacciato e goffo di quattro anni fa. Ora disinvolto, e c persino qualche cosa di aristocratico nei suoi modi: cos potrebbe interpretare il suo riserbo e la sua calma sicurezza chi non lo avesse mai conosciuto prima dora. Mentre gli versavo il caff guardavo da vicino le sue guance abbronzate di signore campagnolo, e mi dicevo: Elisa ha baciato queste labbra. Questo pensiero mi ha dato una pena acuta come lo sguardo che ho sorpreso laltro giorno negli occhi di mia sorella, che era come una carezza su quel volto cotto dal sole, su quei capelli ricciuti e brizzolati. Ho pensato alla loro vita, immaginando di non esistere neppure, alla loro vita, me assente, quando mia sorella si dimentica di me, di Giulio, e cos priva di memoria lascia che la sua vita ricominci in questo amore, libera dalloppressione della solitudine e dallattesa estenuante del nostro ritorno. Allora guardando il volto abbronzato di Vincenzo, non pi giovanile, e dimenticando la trasformazione che ha subito in quattro anni di vita comune, penser che questo luomo che desiderava. Ho ripensato alla zia Giannetta e allo zio Guglielmo, che erano molto pi giovani di Elisa e di Vincenzo, quando si sposarono, e sul cui amore ho tanto fantasticato, bench non me ne rimanga altro ricordo allinfuori di questo: vedo nel vano del portone lo zio Guglielmo a cavallo e in groppa la zia Giannetta stretta a lui con un braccio; ricordo la lunga casacca da cacciatore dello zio, lodore di erbe e di selvatico di questa casacca, le sue tasche ampie dalle quali uscivano ghiande e uccelli feriti; lamore esclusivo per i suoi bambini, lindifferenza assoluta e sprezzante per gli altri, per me.
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Non sui momenti di pace o di intenso amore che noi dobbiamo contare, che sono rari, divini, estranei alla nostra volont; ma proprio sulla nostra volont, cio sulla pazienza e sulla disciplina che ci aiuta a conservare lamicizia e la fa resistere. La pace ce la rivela soltanto. E la pace sempre di breve durata: ci concesso soltanto di affacciarci ad essa per brevi istanti; e per brevi istanti si rivela a noi lamicizia, come gli dei, sotto forma di fanciulle e di giovinetti, si rivelavano agli uomini nellatto stesso di dileguare nellaria. Conserviamo lamicizia attraverso gli anni per un momento di pace che ce lha rivelata; ricordiamo, e aspettiamo nuove apparizioni. Per quellattimo di trasparenza, i pensieri dellamico e persino i suoi silenzi ci riescono comprensibili. Rimane nel nostro ricordo questa realt che il tempo non distrugge. Eppure sento che non solo il ricordo, che mi lega a te, Elisa. Siamo usciti, e lho accompagnato dal padrone di un agrumeto dal quale ha comprato una partita di arance e di mandarini. Il proprietario dellagrumeto il macellaio che ha la bottega allangolo di via Azuni. Questo fatto mi sembrato stranissimo. Non avevo mai sospettato che quel macellaio possedesse un orto, e non so perch mi meraviglia tanto che un macellaio possegga un orto. Mi sembrato di avere scoperto il segreto della sua vita, di capire meglio anche la vita di tutta la gente di San Silvano. Suo padre, ho pensato, eredit lorto dal nonno, il nonno dal bisnonno, eppure tutti erano macellai; a sua volta lui lo lascer ai figli assieme alla bottega e al mestiere. Irriga zappa concima lorto, ne vende i frutti. Nella sua casa, dove da tempo immemorabile si sente lo stesso odore nauseante di pelli e di sugna che emana dalla sua persona tozza, entra ogni tanto un cesto di mandarini, di arance o di cedri. Si capiva che doveva conoscere i suoi alberi uno per uno, luomo, e ne aveva contato i frutti. Vincenzo calcolava a occhio, rapido e preciso, passandosi ogni tanto la
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mano sui baffi. Il macellaio teneva alto il prezzo. Vincenzo continuava a contare, imperturbabile. Finito che ebbe, gli chiese se era sicuro che i suoi mandarini avrebbero potuto durare a lungo sulla pianta. Il macellaio disse di s, che erano sanissimi, e cos le arance. E i ladri? chiese Vincenzo senza guardarlo. Il macellaio rise: ladri non ne entravano nel suo orto: cera sempre qualcuno, giorno e notte, o lui o la moglie o qualcuno dei figli. Ma i ladri che io dico non fanno rumore, sono scalzi, disse Vincenzo guardando me, che non capivo, con un sorriso dintesa. Neanche il macellaio capiva e ci guardava, incerto se mio cognato volesse prenderlo in giro o dicesse sul serio. Ma Vincenzo gli mostr un mandarino forato e svuotato delicatamente dai topi, cos che pareva intatto. Ce nera su ogni pianta. Sul cancello quando stavamo per lasciarlo, luomo accett il prezzo che Vincenzo proponeva. inutile che mi tormenti a cercare il perch. Ci sono fatti che inutile tentar di spiegare logicamente. Forse sono essi, incomprensibili oggi, che ci aiuteranno a spiegare altri fatti in seguito. Si fa pi comprensibile, la vita, come si allontana nel tempo. Il fatto che il buon umore di Vincenzo mi dava noia, stamattina, anzi si mutava per me in altrettanta tristezza. Ricordavo lo scialbo giovane di tanti anni prima, che ci appariva cos ingenuo e ignaro, bench non fossimo che dei ragazzi. Che cosa era stata la sua vita, in confronto alla nostra? Vita senza letture, la sua, senza fantasie, vita simile a quella di tutti gli altri nostri conoscenti e parenti di San Silvano, cos diversa da quella di noi ragazzi. Era il tempo in cui Corrado Ben era innamorato di Elisa e soffriva di questo amore che lo maturava, e Giacomo Scarbo, gi immerso in quella solitudine tremenda che doveva condurlo alla pazzia, studiava il tedesco con Giulio e leggeva Leibniz. Anche San Silvano era giovane, noi non ne avevamo ancora penetrato lessenza, intuivamo appena la sua tristezza, n sapevamo quali profonde
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radici ci legassero a questa terra ancora sconosciuta sconosciuta appunto come sono i giovani, che presentano infinite possibilit per il futuro. Tale ci appariva San Silvano, fatto quasi a nostra immagine; e tale rimase a lungo nel nostro ricordo. Ritrovo ora questo paese adulto, anzi invecchiato. Ci che credevo passeggero diventato stabile, ci che era mobile come la fantasia una realt contro la quale inutile lottare. Questa gente di San Silvano non pi una gente anonima, ma volti individuabili, riconoscibili uno per uno, e in tutti scopro un sentimento, che senza essere odio o antipatia li divide da me, da noi. Da questa folla anonima uscita anche la faccia di Vincenzo, e non pi nuova, non pi sconosciuta, anzi porta limpronta di qualche cosa che conosco profondamente, e che mi pare, in quel volto estraneo, un poco perduta. Ora Elisa gli legata per sempre. Forse porta nel seno un figlio di questo uomo estraneo. Mi chiedo se non sia stata una illusione la luce dintelligenza che ho sempre visto brillare negli occhi di Elisa e mi faceva pensare che ella fosse consapevole, anche nel suo silenzio, di tutte le esperienze che noi andavamo consumando via via per tornare poi sempre a lei, quasi ne fosse il termine, quasi che il nostro affaticarci non servisse che a farci riconquistare di volta in volta quella chiarezza che la illuminava costantemente. Tutto ci che questuomo ignorer sempre. Come mi pareva allora indegno di Elisa il dolce Corrado Ben, anche se soffrivo per lui quando Elisa fingeva di non accorgersi del suo tormento! Forse anche in lui dura il ricordo di quegli anni, forse il ricordo di Elisa giovinetta rimasto intatto nel suo cuore; non quale essa fu per lui, indifferente e altera, ma quale egli la sognava: un aspetto di Elisa che a me e a Giulio non sar mai dato conoscere, e neppure a Vincenzo, credo, che la spoglia di tutto quanto per lui incomprensibile, la sua cultura, la sua intelligenza, per ricondurla a una elementarit primordiale che sola pu dargli la sicurezza del possesso. Quale Elisa primitiva e contadina rinasce,
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nella solitudine della notte? Oh! eravamo esigenti con Corrado Ben, allora. Giacomo Scarbo era il modello a cui tutti tendevamo; e ci pareva che nessuno potesse capire e apprezzare Giacomo meglio di Elisa. Era cos naturale che Elisa diventasse la sua compagna! Questo segreto desiderio cominci a staccarci dai nostri amici Ben, non solo perch la signora Adriana mostrava chiaramente la sua simpatia per Elisa, come tutte le madri quando cominciano a vagheggiare in una giovinetta la sposa del loro figliolo, ma anche per il modo di vita dei Ben, contrario allo stile severo di Giacomo. Odiavamo tutti il tepore della famiglia. Per noi la famiglia era la nostra amicizia, quel costante aspettarci e ritrovarci. N Corrado n alcun altro avremmo voluto che fosse il compagno di Elisa, ma Giacomo. E anche per questo, quando la sua intelligenza, che ci era stata di guida e di modello, improvvisamente divamp e si spense, ed egli ci lasci come se morisse, una parte della nostra giovinezza si spense con lui. Anche oggi Vincenzo tornato. venuto fino a San Silvano in autobus, poi ha attaccato lui stesso il mio cavallino al calesse e siamo andati a Balanotti. Lungo la strada ha dato a me le redini, e, smontato dal calesse, si inoltrato fra gli ulivi fino al greto del torrente. Io ho lasciato andare il cavallo al passo. Da ragazzo facevo spesso questa strada a cavallo, tutto solo. Il mio cavallo, o meglio la mia cavallina baia, si chiamava Zel. Mi piacevano gli ulivi enormi chiusi nei campi cinti di muri a secco. Nessuna pianta domestica come questi ulivi, che fanno pensare, coi loro tronchi enormi, a pachidermi accosciati. Passano di padre in figlio, alimentano generazioni di uomini per secoli. Non hanno niente di comune con quelli della Toscana sparsi a intervalli regolari sulle colline, resi leggeri e ariosi dalle potature frequenti, cos che ogni ramo, ogni foglia preziosa. Questi di Balanotti sono precedenti a ogni umana concezione di ordine e di simmetria. Gli uomini
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non hanno potuto far altro che raccogliere le pietre laviche sparse intorno, ammonticchiarle, farne questi primitivi bassi muretti che delimitano i campi. Sono alberi aspri e scabri come queste pietre e dello stesso colore grigiastro, pieni di un vigore lento e possente. Il loro pedale, e spesso tutto il tronco, che sembra fatto di tre o quattro tronchi attorti, si copre di polloni di ulivastro, giacch gli innesti sono molto alti. Solo lass, dove sembrano schiantati dal fulmine, si effonde la dolcezza dellulivo. La loro chioma, bench sia in realt folta, anzi sovrabbondante, appare esigua in confronto alla massa gigantesca del tronco. Sono alberi di doppia natura, come mostri preistorici, cos diversi dagli ulivi di Lugheria, lisci e civili, che il babbo fece venire appunto dalla Toscana. Ogni tanto si udiva una fucilata. Vincenzo seguiva il greto del torrente e sparava a non so che uccelli. Torn col carniere pieno; mi disse che erano tordi e merli, e presone uno, mi mostrava, soffiando sulle piume del petto, come era bianco e grasso per via delle ulive mangiate nellinvernata abbondante. La storia di San Silvano quella delle sue piante. Sarebbe in tutto simile agli altri paesi di Parte dIspi, San Silvano, senza i suoi agrumeti, i mandorleti, le piante da frutto, i pini e i cipressi. Doveva essere ancora rozza, la sua gente, quando si lasci contagiare da questo amore per gli alberi. Sui monti non cerano che boschi di querce, allora, o i loro resti; sulle colline e nel piano gli antichi ulivi. I campi erano chiusi da siepi di fichidindia e di lentischio. Solo la valle del Narti conserva ancora oggi questo aspetto primordiale; ma la sua imboccatura assediata da una rigogliosa vegetazione fluviale. Appena esci da questa valle deserta, vedi, tra gli ulivi, sul greto del fiume, gruppi di alti eucalipti, canneti di un verde pi pallido, quasi celeste, ciliegi meli peschi e pini, pini dappertutto, questi alberi nuovi, e tutti della stessa et, pressa poco, pi giovani di qualche anno di quelli della pineta che circonda il
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paese. Infatti per venir su, questi pini isolati nella campagna, hanno dovuto aspettare che cessasse lostilit dei Sansilvanesi, che erano stati per molti anni loro nemici. Mai il nonno Uras aveva trovato tanta difficolt a vincere lostinazione dei suoi amministrati come quando si era trattato di piantare la pineta. I consiglieri comunali seran chiusi nei loro cappotti dorbace e avevano opposto un reciso diniego; e non ci fu modo di convincerli. Si faceva un gran parlare della proposta del Sindaco, a San Silvano. A che cosa potevano servire quegli alberi che non davano frutto? e quando mai sera visto che un comune si mettesse a piantar pini? San Silvano aveva le sue foreste (qui i Sansilvanesi si facevano silenziosi pensando che il recupero di tali foreste lo dovevano appunto allo stesso uomo che voleva piantare i pini ai piedi di Monte Or e dellArcuentu), foreste che erano sempre state, anche quando San Silvano non era altro che quattro capanne di pastori e di caprai intorno alla chiesa; e gli bastavano, a San Silvano, le sue foreste. Come accade nei paesi di Parte dIspi, queste discussioni e il malcontento erano fomentati dai nemici del nonno; e un giorno che egli se nandava in calesse a sorvegliare certi operai del Campidano che innestavano un suo vigneto di Lugheria, gli furono tirate alle spalle due schioppettate, ma senza intenzione di colpirlo. Era un semplice avvertimento. Il nonno aveva fermato il cavallo e sera voltato tranquillamente a guardare; un paio di brache bianche erano sparite nella macchia: poi aveva proseguito la sua strada. La calma del nonno aveva fatto un grande effetto sui Sansilvanesi, i quali commentarono variamente il fatto, e lopposizione per la pineta cadde come per incanto. Quando io guardo questi alberi alti e scagliosi, che a vederli sembrano antichissimi ma che invece hanno pressa poco la stessa et del babbo e della mamma (quando il nonno fece piantare quei pini, la sua prima moglie era morta da un anno lasciandogli mia madre ancora in fasce), amo pensare il nonno non come luomo
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per causa del quale i miei genitori hanno tanto sofferto, ma come un piccolo benefico re di quella terra favolosa che era per me San Silvano, di questa terra circondata da antiche foreste, da questa pineta in virt della quale le fonti accrescono di anno in anno la ricchezza delle loro acque; di questa terra nata dal suo duro cuore di contadino come una pianta dal seme. Ripreso lantico costume bianco e nero, che aveva mutato con labito civile per sposare donna Evelina Scarbo, continua a governare il suo popolo di contadini e di pastori, che nella lontananza si confonde a quello multiforme e screziato delle Genti ; e mentre il babbo e la mamma si fanno sempre pi chiari nel nostro spirito, il vecchio Uras l, appoggiato a un ulivo, col suo sorriso furbo, con le brache bianche e la casacca nera, piccolo come una mano. Questo piccolo piatto di frutta davanti a me, leggermente incrinato nel fondo, mi richiama il ricordo improvviso di monotoni pranzi in casa del nonno Uras. Sul fondo, una pagoda, alberi carichi di frutti rotondi, senza foglie, una civetta appollaiata su un palo, e intorno alla civetta, nel cielo bianco, piccoli uccelli neri simili a quelli che i bambini disegnano con due tratti di penna sui loro quaderni; poi un fiume, un ponte, e sul ponte tre cinesini che pescano. Vincenza infilava le steariche accese nei candelieri, e noi bambini, gi seduti intorno alla grande tavola deserta, ci esortavamo a vicenda al silenzio. Venivano poi il nonno, lo zio Guglielmo, lo zio Anselmo, le zie e la nonna; ma io non ricordo che venissero a un certo punto a sedersi intorno alla tavola. Apparivano ai loro posti, dimprovviso. Forse quando noi bambini ci svegliavamo. Gli zii discutevano animatamente a voce bassa, finivano le frasi con un gesto della mano, con una smorfia della bocca. Non sapevamo nulla di loro, noi bambini. Una sera (non so se tutto ci avvenne in una sera soltanto o se quei lunghi pranzi si fondono nel mio ricordo intorno a un fatto
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che mi colp particolarmente) le esortazioni al silenzio da parte della nonna erano pi frequenti. Non potevamo scambiarci unocchiata, che subito la nonna ci preveniva con un dito sulle labbra e ci indicava col mento il nonno, che ogni tanto inforcava gli occhiali e si chinava su un foglio spiegato accanto al tovagliolo. Io mero avvezzato a quei lunghi silenzi; e avevo trovato il modo di passare il tempo: guardavo fisso un oggetto, la caraffa dellacqua per esempio, e con una tensione dello sguardo che mi faceva dolere il bulbo degli occhi riuscivo a sdoppiare loggetto, a staccarne un fantasma; poi, quando il fantasma e loggetto avevano raggiunto una certa distanza, cos che avevo davanti a me due caraffe e non sapevo pi quale fosse la vera, allentavo lo sforzo, e le due immagini, con un moto lentissimo che non dipendeva pi dalla mia volont, si avvicinavano fino a ricongiungersi. Allora la caraffa di pulito cristallo sulla tovaglia candida acquistava una consistenza nuova. Facevo lo stesso gioco col piatto, e i tre cinesini diventavano sei, gli alberi la pagoda e il ponte si sdoppiavano, lo stormo di neri uccelli nel cielo bianco sapriva e volteggiava. Quella sera, non so come, cera un nichelino da venti sotto la caraffa: penso che ce lo avesse messo lo zio Anselmo per farci stare quieti, con la promessa di darlo al pi buono. Infatti tutti guardavamo la piccola moneta lucente, che pareva ora grande come uno scudo. Ed ecco che a un certo punto la moneta cominci a palpitare, a gonfiarsi, a sfaldarsi; e saliva in riflessi fino al pelo dellacqua. Albertino e Paola cominciarono a farsi dei cenni, a soffiarsi qualche parola prudentemente; anche gli altri bambini guardavano senza potersi spiegare il mistero. Allora io, che sapevo come ci avvenisse, o mi pareva di saperlo, feci un cenno ad Albertina, cominciai anchio a soffiare qualche parola dietro la zuppiera. Sinizi cos una conversazione di bisbigli, mentre i grandi erano occupati ad ascoltare il nonno che leggeva il foglio a voce alta. Ma non so come, una di quelle parole che accennavo con
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circospezione, come dire? mi si spezz nella gola, e ne usc una specie di grido di uccello beffardo e provocatore. Tutti tacquero improvvisamente, e lo zio Guglielmo si volse verso di me con tutta la persona scostando la sedia dalla tavola. La sua occhiata fu cos lunga che la nonna, forse vedendomi impallidire, mi pass una mano sui capelli con un gesto furtivo, rapidissimo. Non era la prima volta che lo zio Guglielmo mi guardava cos, ed era uno sguardo troppo grave, il suo, per un bambino di cui egli non si curava mai. Ora penso che quello sguardo non fosse rivolto a me, ma a una mia somiglianza con mio padre, gi ben distinta fin dallora nella mia fronte e nei miei occhi. Forse la nonna lo intuiva, e, come sempre, faceva quel timido gesto di angelo ignavo con la mano insonnolita, per rompere la fissit dellodio che si mostrava senza maschera allimmagine innocente e disarmata del babbo come mai aveva osato manifestarsi a lui stesso. Il filo dei miei pensieri, anzi della mia vita, si rompeva; e come quando in sogno si precipita dallalto nel buio, io non ero che un cuore soffocato, una trepida volont di abbandono. Gli occhi dello zio si distolsero lentamente dai miei. Sul muro, un poco pi sopra della sua testa ricciuta, palpitava il volo di una grossa farfalla, vagava sulle oleografie piene di cacciagione e di frutta. Amiamo pensare i nostri morti riposanti in una infinita saggezza. Ce la rivela la morte, questa saggezza, e la ritroviamo poi nella loro vita, ripensandola. Saggi, lontani dai giorni torbidi, il loro respiro si fa dentro di noi regolare e profondo col passar degli anni, dormono placidamente in noi; alla fine puntano il gomito, appoggiano il capo alla mano, e il loro volto quello dellamicizia chiaroveggente, della trasparente simpatia, della pace duratura, quella pace che ci aveva scoperti gli uni agli altri e uniti nella vita lontana per qualche attimo soltanto. La loro volont, gi sviata da contraddizioni e da errori, appare finalmente chiara e costante. Ma solo molto tardi dato loro di svegliarsi in questo paradiso di saggezza dal quale ci guardano.
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A lungo, nei loro sonni pieni di pentimenti e di rimpianti, saggirano di l dal fiume, dove aspettano, come uccelli di pace, i nostri pensieri. Cos, quando Elisa studiava ancora al Sacro Cuore, e Giulio frequentava il Ginnasio, io ero in casa del nonno, a San Silvano, e il sorriso di mia madre non era ancora riapparso a illuminare gli anni oscuri della mia infanzia. Non sapevo nulla di mia madre, allora. Crescevo solo, affidato al mio istinto e a una malsana tendenza a impietosirmi di me stesso. Certo il tiepido affetto della nonna non poteva bastarmi. Confrontavo la mia vita con quella dei miei fratelli, che vedevo di rado, quando venivano in vacanza a San Silvano in casa di donna Maria Scarbo, che era la loro tutrice. Ci vedevamo anche nella chiesa dellImmacolata, dove le zie andavano regolarmente. Ricordo Elisa vestita di scuro nel piazzale della chiesa, con un feltro nero dalla falda rialzata sulla fronte, cos che il suo dolce lungo viso sembrava pi pallido, di un pallore splendente, quasi che ella fosse stata di una materia pi preziosa. Mincantavano i suoi capelli sciolti sulle spalle, la baverina di pizzo, le sue mani sottili e bianche, quando contava su una panchina di pietra i piccoli aranci ancora verdi che mi portava in un fazzoletto dal giardino di casa, le sue ginocchia nude che uscivano dalla sottana a pieghe che ella sollevava nel sedersi con un gesto pieno di grazia ancora infantile. Erano questi brevi incontri che mi facevano desiderare di rivedere mia sorella. Ogni mattina la nonna, quando Vincenza le portava il caff, chiedeva come stesse il bambino. Bench in casa sua di bambini ce ne fossero altri, per la nonna, quando parlava con Vincenza, il bambino ero io. Dicono i parenti di mia madre che la nonna avesse una particolare predilezione per me, ma di questo affetto non mi resta altro ricordo allinfuori delle timide carezze con le quali mi faceva sentire la sua presenza nei miei smarrimenti. Qualche volta Vincenza veniva a cercarmi e mi portava in camera della nonna. Questa camera mi piaceva: era ampia, illuminata da due grandi finestre
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che davano sulla campagna, e la nonna in tutta quella luce girava per la stanza avvolta in una lunga vestaglia bianca. Quando luscio della camera dello zio Anselmo era aperto, andavo a vedere un quadro appeso dietro la scrivania di legno chiaro, una di quelle cattive riproduzioni fuori testo che arricchivano il numero di capodanno della Scena Illustrata. Il quadro rappresentava una fanciulla nuda legata alla bocca di un cannone. Si vedevano, sotto il velo, le membra strette alla corda. I capelli sciolti piovevano dalla testa riversa sfiorando appena le esili spalle. I grandi occhi di martire mi aspettavano, mi guardavano con infinita piet, e io duravo fatica a staccarmene, quando la nonna mi chiamava. Sotto la figura cera uniscrizione a caratteri minutissimi, e se io avessi potuto leggere quelle parole misteriose, che Vincenza compitava senza capire, avrei saputo che quella fanciulla era La Belgique, quale la faceva apparire la propaganda inglese allinfantile fantasia popolare. Cos prendeva forma un senso di piet ancora astratto e incerto, ma abbastanza forte per farmi soffrire. Immaginavo che la fanciulla mi seguisse sempre coi suoi languidi occhi e sempre mi vedesse, dovunque fossi, e questo mi faceva silenzioso e mi isolava dalle persone che mi vivevano intorno. Una volta sognai che lo zio Guglielmo entrava nella stanza dove noi giocavamo, e con una frusta che avevo visto appesa sotto il loggiato, picchiava la fanciulla del cannone, che si contorceva sotto i colpi. La mia piet era cos forte che, nel sonno, mi identificavo con la fanciulla, e sentivo il mio corpo nudo e sulle spalle i lunghi capelli sciolti. Questo sogno mi lasci unimpressione incancellabile, e da quel giorno cominciai a fantasticare sulla crudelt dei parenti di mia madre, che invece era, nei miei riguardi, soltanto indifferenza. So che mia madre si abbandon a un pianto disperato quando il piroscafo si stacc dalla banchina. Aveva trentanni. Dopo dieci anni di lotte, finalmente il babbo aveva
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ottenuto la sua mano, finalmente partivano. Per lungo tempo non sarebbero pi tornati. E la mamma piangeva. Era tanto affezionata alla casa, tua madre, mi hanno detto gli Uras anche laltro giorno, quando sono andato a salutarli. Infatti ci si affeziona ai luoghi in cui si soffre: si lascia in essi per sempre una parte di noi, una parte delle nostre possibilit frustrate, la giovinezza. La mamma non piangeva per la casa che lasciava: anche gli Uras lo sanno, sanno quale liberazione sia stata per la mamma il matrimonio, e forse pensano, nel segreto, che la mamma piangeva di felicit. Oh! la felicit sar cominciata dopo quel pianto, un breve e intenso periodo di gioia durante il quale nacque Elisa; ma in quel momento la mamma piangeva su se stessa, sul tormento di tutti quegli anni, per la prima volta. Non aveva mai pianto su di s, non sera mai impietosita di se stessa. Gli Uras mi hanno detto: Come amava le bestie, tua madre! e raccontano degli uccelli che essa allevava, stornelli e quaglie; aveva anche un piccolo cervo legato sotto il porticato. Una vera mania insomma. Era laspetto di un dolore profondo, di un amore esasperato e represso per tutte le creature che soffrono, il quale solo con gli anni si chiar in una pi consapevole solidariet umana, che era anche serenit e doveva comportare una dolente e rassegnata limitazione della fiducia negli uomini, e allo stesso tempo un compatimento della loro debolezza e dei loro errori. La fiducia era in un bene lontano, segreto, che nessuno poteva distruggere; il dolore, fatto sangue, diventava accettabile, diventava chiarezza di pensiero, sereno occhio aperto sul mondo. Elisa aveva ereditato dalla mamma questa chiarezza, frutto del travaglio di unintera vita, laveva ereditata come una qualit nativa; cos che io ritrovai in lei, senza saperlo, mia madre. E gi prima che io ritrovassi in Elisa il volto e le mani di mia madre, il suo amore aveva cominciato a riscaldare il povero bimbo intirizzito che io ero.
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Ho risalito ancora una volta la valle del Narti. La pianura era illuminata dal sole fino ad Acquapiana, dove giungeva lombra dei monti. Gli agrumeti parevano pi cupi, nellombra, i grani invece di un tenero verde. Tuttintorno al paese ognuno si tagliato un piccolo campo e lha cinto di muretti e di siepi. Pi oltre invece la distesa verde dei grani interrotta solo da strade, da macchie di cisti e da questo fiume di alberi e di verzura che il Narti. Sulle rive del fiume crescono pioppi salici eucalipti, e dove questi sono radi i canneti coprono il greto pietroso lasciando appena intravvedere qua e l il riflesso dellacqua. Costantemente paragono questa campagna primaverile, per me nuova, a quella estiva che per tanti anni ho trovato immutata, e il pensiero che questa primavera possa sparire da un momento allaltro non mi abbandona mai. Tra gli ulivi riapparirebbero i fieni secchi e le stoppie, la verzura che segna il corso del fiume sarebbe lunico riposo degli occhi, con le sue larghe curve, nella pianura arida; se ne andrebbe questaria buona a respirarsi, questi colori e questi suoni distinti. La pianura tornerebbe di colpo a essere un volto dagli occhi chiusi, simile al volto di queste donne, terreo sotto i grandi fazzoletti scuri. Quando lascio dietro le mie spalle la pianura e mi inoltro tra le montagne color piombo, i segni della stagione si fanno rari, quasi non li avverto pi, e sembra proprio che una raffica di vento abbia spazzato via la primavera come unemanazione notturna del fiume e degli alberi. Gli alberi, nella valle, formano una coltre spessa sui fianchi del monte, sempre uguale dinverno e destate. Bisogna guardarli da vicino, questi rami, per vedere tra le foglie vecchie e coriacee quelle nuove, di un verde diverso, unico segno della primavera. Non c altro che quercie. Con una forza lenta e invincibile le foreste distrutte si sono rifatte e gi guadagnano il crinale del monte. Vedo sul cielo lucente la rada fila, gli alberi neri cresciuti sotto un incessante traboccare
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di venti. Sembra impossibile che proprio da questa aridit nasca il fiume. Le sue acque scorrono sotterranee e il loro corso segnato da una traccia esigua di oleandri che si sprofonda con la sua lieve fioritura tra gli alti dirupi e sparisce come nellimboccatura di un enorme assaggio di miniera. Il fondo del viottolo nero per tutto il carbone che i Toscani hanno fatto in queste foreste e trasportato coi loro muli. Ancora si vede, qua e l, la traccia di una carbonaia. Dal colle di Medados, che a un certo punto sbarra la valle, la quale, pi oltre, si fa ancor pi chiusa e selvaggia, scendono un bambino e una donna, mi vengono incontro. Il bambino precede la donna cantando qualche cosa che gli hanno insegnato a scuola, ma non appena mi vede smette e ficcandosi un dito nel naso mi guarda con diffidenza e attende la madre. Anchessa mi guarda in silenzio di sotto il fascio di legna secca che porta sul capo. consuetudine che quelli che scendono dal monte salutino per primi quelli che salgono; ma la donna non saluta. C nel suo sguardo la stessa diffidenza del suo bambino, ma consapevole e grave. Io proseguo e dopo un poco risento nel silenzio la vocetta del bambino, che ha ripreso a cantare. Pi oltre, un gruppo duomini, donne e ragazzi viene avanti coi ciuchini carichi di legna. Anche le donne portano tutte un fascio sulla testa e gli uomini la bisaccia, da cui spunta qualche tronco secco. Cos, pazientemente, si fanno la provvista di legna per linverno ancora lontano. Forse il mio bastone da passeggio che d loro il diritto di guardarmi con tanta durezza. Eppure la stessa gente che si alza rispettosamente per salutare mia sorella, quando passa davanti alle loro porte. Forse mi credono forestiero; oppure mi scambiano con qualcuno che li ha offesi; forse qualcuno della mia famiglia, in altri tempi, li ha offesi davvero, ed essi conservano il loro rancore attraverso generazioni. Chi sa! Mi viene un altro sospetto, che costoro siano miei parenti. Cosa ne stato dei parenti che il nonno Uras dimentic quando cominci ad arricchirsi?
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Non ne ho mai avuto notizia; eppure sono sparsi tra questa gente di San Silvano. C qualche cosa, in queste facce, che le fa somigliare alla mia. Quelluomo che si toglie di bocca il sigaro e si volta per sputare oltre la groppa dellasino, per esempio. Mi faccio animo e saluto per primo: voglio sentire la loro voce. Ed eccomi ancora in casa del nonno, piccino. Da una balla di sacchi, nel loggiato, accanto alla porta di cucina, guardo i servi che mangiano pane e ricotta secca seduti su una scalinata. Una donna va attorno con un bicchiere e il boccale. Non il vino che susa dare agli uomini al tempo della mietitura, chiaro e leggero, razzente solo quanto basta per spegnere la sete, n quello biondo e melato del tempo della vendemmia, che ricorda le prugne e i fichi bianchi; ma un vino denso e cupo che lascia nel bicchiere riflessi sanguigni e accende gli sguardi dei vecchi servi e rende loro, per una mattina, il gesto sciolto e risoluto dei figli che hanno lasciato la roncola e la zappa per andare a combattere sul Piave. Si sente odore di erba e di terra venire a folate dalla campagna rinverdita dalla pioggia che fa brillare i tetti; odore di pioggia fuori tempo, di erbe venute su in una notte con tutti i fiori aperti. Sul sole passano vapori ora addensati ora dispersi dai capricci del vento; qua e l attimi di terso profondo azzurro. Vedo per la prima volta sulla collina le basse casette di fango, rallegrate intorno alle finestre e alle porte da una striscia di calce viva, acquattarsi sul pendio come quaglie spaurite non appena la luce smuore e una nuvola greve e notturna savanza. Gli alberi si scompigliano a una raffica. La voce di Vincenza continua a chiamarmi dalla cucina. La nuvola si scioglie. Sullalberello di lill che si scuote e sembra infisso a un piedistallo di legno, fischia un passero di monte dal grosso becco. Un galoppo leggero tra labbaiare dei cani; Luigi, il figlio di Sante. Vincenza spia dietro i vetri e arrossisce quando lo vede entrare in cucina impillaccherato fino alla cintola, e si vergogna del suo vestito celeste
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e del grembiulino bianco ancora caldo di ferro. Eccolo che smonta dalla cavallina baia che ha un occhio bianco: passa una gamba sul collo della bestia, e salta a terra leggero. (Chi ho visto smontare cos mettendo una mano sullelsa della sciabola agganciata alla sella? una mano inguantata che accarezza il collo del cavallo sotto la criniera). Mai il caffellatte era stato cos buono, bench sulla tavola di cucina ci fossero alcuni spicchi daglio. Luigi di Sante pone accanto al mio pane abbrustolito un mazzetto di timo, che pur non riesce a confondere lodore dellaglio a cui Vincenza toglie pian piano la rezzola tenendola tra il coltello e il pollice, tutta assorta, come se temesse di romperla. Luigi fischia pian piano come quando porta i vitelli slattati allabbeverata. Paolo affonda la faccia nella tazza guardando con gli occhi intenti oltre lorlo turchino. Luigi racconta qualche cosa. Se piove a Carabus! esclama. La pioggia ha finito di sciogliere le nevi e i torrenti vengono gi con un fragore che copre il muggito del branco. Erano l, lui e i compagni, sulla riva, accanto al guado: altri badavano a tenere indietro le bestie, che non si buttassero in acqua prima che i carri fossero disposti in fila per fare argine alla corrente. Ma a un tratto il toro modicano, quello che avevano portato dalla Sicilia lo scorso autunno, era riuscito a passare e se lo erano visto venire addosso come una valanga, puntare diritto verso i carri. Poi cozz con la fronte contro la quercia. La mia mano in quella di Vincenza, che la stringe forte. Si spande intorno lodore del sangue selvaggio che cola bruno sul greto del torrente. Dimprovviso, notte. Vincenza entra col viso infocato in sala da pranzo; attraverso le porte aperte sode il chiasso della cucina, una voce ben nota che grida: Con permesso? il tonfo degli stivali speronati. Sante si china per entrare dalla porta. Veste un costume di pelle di montone, come usano i mandriani di Acquapiana. Spande intorno un forte odore di lana e di grasso, odore di ovile, di pastore. Il nonno gli indica una sedia un po pi bassa
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delle altre e Sante siede discosto dalla tavola. Prima di sedersi ha sollevato il cappello sulla testa e subito se lo rimesso. Il nonno fa un cenno a Vincenza, e Vincenza col vassoio e la caraffa gli porta da bere. Sembra una bambina, accanto alluomo seduto: tiene il vassoio contro il petto e lo guarda. Non gli arriva alla spalla. A gambe larghe, con un pugno sul ginocchio, luomo vuota il bicchiere. Le zie se ne sono andate portandosi via i bambini: Paolo e Albertina dormono coi riccioli sparsi sulla tovaglia piena di briciole, e anchio ho piegato la testa sul braccio e fingo di dormire. Guardo tra le palpebre Sante e il nonno. Vedo Sante sorridere e il volto del nonno riflettere quel sorriso. Forse io ricordo veramente la sua faccia, ma pu darsi anche, siccome non ricordo la faccia di nessuna delle persone che allora abitavano quella casa, n la nonna, n gli zii, che io dia al nonno una fisionomia della quale mi sono fatto lidea pi tardi guardando due ritratti che sono, tra molti altri, sulla consolle del salotto. Una di quelle fotografie, come si pu dedurre dalla data scritta a tergo da una mano di donna, dalla mamma forse, fu fatta prima della morte della madre di mia madre; laltra al tempo delle seconde nozze. Ma la faccia del vecchio che sorride a Sante in quel lontano ricordo, non somiglia n alluna n allaltra fotografia; risulta piuttosto dalla sovrapposizione e dalla fusione delle due immagini, come in una veduta stereoscopica, ed piena di un risalto, di una vitale espressione che ciascuna delle due immagini per s sola non avrebbe. Ci che pi strano per che la faccia del nonno non sembra quella di un vecchio, quale doveva essere quando io abitavo in casa sua, ma quella di un giovane contadino di San Silvano: un viso rotondo e grassoccio dal mento sfuggente, dagli zigomi alti e forti, dai piccoli occhi obliqui sotto le sopracciglia sottili e distanti: mongolici sono i baffetti che ricadono agli angoli della bocca, mongolica la silenziosa furbizia di cui quel viso materiato.
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Il nonno ascoltava ci che Sante diceva, e sorridendo ogni tanto con un sol baffo continuava a sbucciare una pera gialla e grinzosa come la pelle delle sue mani. Mi pareva che Sante non fosse pi un servo, ma uno come il nonno e gli zii; e a un certo punto lo vidi seduto al posto del nonno, e vidi Vincenza seduta al posto della zia Giannetta. Parlavano di certe erbe che maturano sullaltipiano a lunghi intervalli di anni, dopo non so che piogge salate, e se le bestie ne mangiano impazziscono; i branchi vengono presi a un tratto da una strana irrequietezza che cresce cresce fino a quando tori e vacche non si danno a corse pazze lanciandosi nel torrente e spaccandosi la fronte contro le querce. Il sangue dei tori, sul greto, nero, il sangue delle vacche invece celeste e sa di latte. Ma chi galoppa sullaltipiano, dietro i vitelli, col viso che non sa mai esser duro? mio padre. lui che mi porta sullarcione fino al boschetto di castagni dove c una fonte di acqua cos cupa e diaccia che il cavallo allunga il collo e la sfiora appena. La cacciatora di velluto verde sa di acqua di vento di timo di campestre libert. lui che mi racconta la storia dei pastori di Carabus e mi mostra dietro i rami del castagno i vitelli slattati di fresco che piangono come bambini senza toccare lerba. Ma ecco di nuovo la sala da pranzo: il nonno si alza, si alza Sante, il nonno d la mano a Vincenza, Sante alla zia Giannetta, e la catena sallunga, aggiungendosi a questi altri che non riesco a distinguere: accennano un passo di danza, una danza lenta, fatta di passetti brevi. Stanno in equilibrio sulla punta del piede sinistro e con la punta del destro accennano piccoli colpi delicati ora qua ora l intorno al piede fermo. Socchiudono gli occhi col viso serio e alzato. Ho chiesto a Vincenzo se sapesse darmi qualche informazione intorno il trenino col quale un tempo il carbone o non so che altri materiali venivano portati gi per la valle del Narti, ma non mi ha saputo dire nulla di preciso, e mi ha indicato una persona che, secondo lui, deve essere
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molto bene informata: Alfonso Alicandia. Non sapevo che ci fossero a San Silvano altri Alicandia, e Vincenzo si molto meravigliato di questa mia ignoranza. Si tratta di un lontano cugino del babbo. Passando davanti al caff me lo ha indicato: il signore compito che mi saluta sempre per primo, quello che dice che la primavera fa qui soltanto una visita di dovere. Anche questa volta ci ha fatto un largo saluto col cappello e un inchino. Mi saluta da quando ho sposato Elisa, dice Vincenzo stringendomi il braccio e sorridendo. Prima non si degnava. Poi aggiunge: Vieni, ti offro un caff. Ed era come se avesse detto: Vedrai che tipo!. La presentazione fu naturale e disinvolta da tutte e due le parti. Io feci finta di conoscere gi da molto tempo il vecchio signore, di ricordarmi quando, in casa di donna Maria Scarbo, cugina sua e del babbo, minsegnava a tirare col flobert. probabile che don Alfonso mi confonda con Giulio; ma questa mia finzione lo mise subito a suo agio. Vincenzo si rivolgeva a lui con tono leggermente ironico, il tono che devono avere tutti i giovani di San Silvano con il vecchio signore. Ma don Alfonso sembrava non accorgersi neppure della presenza di Vincenzo, e forse lo vedeva soltanto quando doveva salutarlo; Vincenzo esisteva per lui solo in quanto era il marito di Elisa. Si rivolgeva a me e mi preg anzi di andare a trovarlo. Gli chiesi dove abitasse, ma lui fece un cenno vago con la mano, poi disse: Qui, domattina. Oppure stasera, sempre, quando volete. Ci incontrammo il giorno dopo. Mi parl di San Silvano, dellamministrazione di San Silvano, e mi faceva notare come le strade fossero tenute male, come lacquedotto non funzionasse a dovere. Quandera sindaco Pierangelo Uras questo non accadeva, disse. Mi guard con attenzione, e io capii che pensava a qualche altra cosa, forse al nonno Uras, o a un aspetto del nonno Uras che lui credeva mi fosse meno noto. Poi i suoi
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occhietti scialbi si accesero improvvisamente di cattiveria, e disse: Contadino s, ma galantuomo!. Aveva calcato sulla parola contadino. Quando la societ toscana di cui il nonno era amministratore nel territorio di San Silvano fall, le foreste furono messe allasta, e il nonno, che avrebbe potuto acquistarle in proprio volle che le acquistasse il Comune. Avrebbe potuto farsi ricco! e invece Un gesto, come dire? superiore alla sua condizione. Se questo lo avesse fatto don Raimondo Scarbo, o il marchese dAcquapiana, sarebbe stato naturale, ma lui, un contadino!. I Sansilvanesi non potevano aspettarsi questo da un loro pari. Erano diffidenti. Si scaten contro il nonno una vera tempesta. Quando passava per via Gialeto tornandosene a casa dopo quelle sedute burrascose, la gente lo guardava senza salutarlo. Si ostinavano a vederci un trucco, nella proposta di vostro nonno, quei caprai, temevano che lui tramasse qualche cosa. Noi ci mettemmo daccordo, voglio dire mio padre, don Raimondo Scarbo, il marchese dAcquapiana e vostro nonno Alicandia, e fu facile convincere quelli del Consiglio comunale. Quasi tutti erano stati nostri servi e ci portavano ancora le regalie. Che i calcoli tornavano, i consiglieri se ne accorsero poi, quando tutti, a San Silvano, ebbero legna per linverno, ghiande e pascoli per il bestiame, e ogni bendidio. Se ne accorsero, i Sansilvanesi, quando, grazie agli introiti del fitto delle foreste e dei tagli, che venivan fatti a norma di legge e non pi arbitrariamente, furono abolite tutte le tasse comunali. S, Pierangelo Uras ha avuto molti meriti come amministratore, disse fermandosi pensieroso e lisciandosi il mento sbarbato. Anzi bisogna dire, riprese con vivacit, che, come amministratore del Comune fu un galantuomo. E ripet ancora dopo una pausa, scandendo le sillabe: Come amministratore del Comune! Eh gi! Perch le terre, e mi costrinse a fermarmi e a guardarlo, il patrimonio di tuo padre, quello non lo amministr altrettanto bene!.
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Disse queste ultime parole rapidamente, e le ripet pi volte come una giaculatoria, precedendomi di alcuni passi e muovendo nervosamente le dita. Camminammo per un po senza parlare, fino al Ponte di Ferro. Accenn con un gesto al canale, alla fontana, agli alberi intorno alla piazza e alle pinete attorno al paese. Tutto questo, tutto ci ch bello e utile, a San Silvano, si deve a quel contadino di Angelo Uras, a quel nostro nemico. Mi raccont come, dopo lacquisto delle foreste e lassestamento economico del Comune, era stata fatta la strada che unisce San Silvano ad Acquapiana, a Pontario, a Norbio, a Ordena; come era stata incanalata lacqua della Spendula, regolato il corso della Fluminera, fatto lacquedotto, riattato il convento, da dove i frati erano stati scacciati. Per! disse a voce pi bassa, arricciandosi i baffi maliziosamente, la scomunica dei frati non ha toccato neppure un albero di San Silvano, anzi li ha, come dire? rinvigoriti!. Le sue magre braccia alzate eran diventate due alberi rinvigoriti dalla scomunica, due querce o due pini di San Silvano. La sua mimica cominciava con un gesto impercettibile, misurato, naturale, poi diventava eloquenza, esuberanza rettorica. E nel convento ci hanno fatto le scuole, concluse ricomponendosi. Si ferm, chiuse gli occhi e congiunse lindice col pollice davanti alla bocca: Le scuole!. E voleva dire: Di qui comincia una nuova era, il progresso!. Gli chiesi se conoscesse la valle del Narti. Da un pezzo non vado pi oltre il colle di Medados. La valle lunga, e lunica strada che la percorre si ferma alla Cantina. La Cantina un gruppo di capanne fatte di sassi e di tronchi. Intorno a queste capanne i Toscani ammucchiavano il carbone prima di trasportarlo con il trenino fino ad
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Acquapiana, e di l, coi carri, alla costa, per limbarco. Quel trenino, fu il primo mezzo di locomozione moderno, non solo in Parte dIspi ma anche in tutte le regioni circostanti. Una storia vecchia, disse don Alfonso. Non hai mai sentito parlare, qui, di Mons Mandell? Mons Mandell e il suo socio Mons Giovanni?. Io mi ricordo di aver visto il ritratto del nobile svedese Carlo Gustavo Mandell e di Giovanni de La Haye nel solaio di donna Maria Scarbo. In una memoria di un giornalista amico di casa Scarbo i loro nomi ricorrono ancora. Vi si legge come nel luglio del 1840 sia stato stipulato un contratto tra il signor Mandell e lIntendente Generale, un contratto della durata di trentanni per lo sfruttamento delle miniere della regione. I concessionari dovevano corrispondere al Regio Patrimonio il due per cento sulloro, largento, il rame, lo stagno e il ferro. A Giovanni de La Haye venne affidata la direzione della fonderia di San Silvano. meraviglioso pensare a questa ricchezza di cui rimane solo il nome, il ricordo, disse don Alfonso. Eppure non un mito creato dalla fantasia di questa gente. E poi la fantasia non crea mai a vuoto. Basta credere. Ora nessuno crede pi che qui ci sia loro, e loro non c!. Il trenino funzionava solo fin dove lo portava il pendio del terreno, per forza dinerzia, e veniva trascinato su, al ritorno, fino alla fonderia, da tre coppie di muli. Nel 1856 Giovanni de La Haye fu assassinato assieme ai conducenti del trenino. Una grande calamit! disse don Alfonso. Le miniere furono abbandonate e loro spar. Spar! Sai quei tesori rivelati dalle anime dei morti? Se ci vai solo, trovi loro, ma se ci vai in compagnia, trovi una pentola di carbone. Fu allora che vennero i carbonai toscani. Comprarono le foreste, trasportarono nella vallata del Narti le rotaie del trenino, e si vide il trenino girare i fianchi del monte come un bruco che tasti il terreno. I muli stavano nel vagone di
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coda, alla discesa, e ci stavano comodi come nella loro stalla. Tante volte quel convoglio ci passato davanti, a me e a tuo padre, quando andavamo a caccia da quelle parti. Si sentivano i muli soffiare e battere lo zoccolo. Poi anche il trenino spar. Pare che le fucilate se le tirasse addosso, quel trenino. Ci fu altro sangue. Qui a San Silvano dicevano che i Toscani rovinavano le foreste; e non avevano tutti i torti, a dir la verit. Lasciai don Alfonso e me ne tornai a casa. Mi pareva di capire meglio lo squallore di quella vallata e la durezza della gente che mi era capitato di incontrare. Era stato forse il desiderio di scoprire questa storia dimenticata che mi aveva spinto tante volte su per la valle del Narti. Io ci andavo per immergermi in quella solitudine, in cui i pensieri si spegnevano come echi, e camminavo lentamente per il sentiero che ora saliva ora scendeva, accompagnato dal fitto ronzio di migliaia di moscerini che mavvolgevano senza toccarmi. Non vedevo altro che la ghiaia tagliente del sentiero su cui il piede minacciava di sdrucciolare, i lunghi steli di biada dalle loppe vuote e gli alberi immobili che vestono la costa. Se con la giacca di tela che portavo sul braccio davo dentro nella nuvola, la nuvola si fendeva, si disperdeva per un momento, e il silenzio della vallata sapriva davanti a me: un deserto di pietrame diroccato; ma per un attimo. La nuvola tornava ad avvolgermi di colpo nel suo ronzio estatico, che pareva generarsi da un misterioso rapporto di distanze in cui si muovevano, come atomi, quelle miriadi. Socchiudendo gli occhi riuscivo a vedere la mole dei monti come una serie di solidi geometrici sulla cattedra del mio professore di matematica: piramidi e sfingi; poi quellillusione, che pure era piena daria e di vivida luce, cessava, e i monti tornavano a essere monti con invincibile potenza. Allora sentendoli cos presenti, pensavo alla loro vita infinitamente pi lunga della mia, che finge questa immobilit mortale.
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Mi sono disteso per terra. Laria fresca e umida, annuncia la notte che non tarder a venire. Dietro i monti, il cielo splende come dietro lArcuentu, quando lo guardavo dal giardino di casa e cercavo di raffigurarmi la pianura sconosciuta. Nellaria, di tanto in tanto, il profumo acuto del timo che cresce sulla cima dei monti spesso come il vello di una bestia selvatica, vivo e pieno di odore. In questo profumo lunico segno del fermento primaverile che anima tutta la campagna di San Silvano, tranne questa valle e questi monti. Eppure anchessi sono nella primavera, bench non abbiano mutato colore. Ora la primavera mi appare stabile e certa in questo profumo, anche se qui non la vedo. Lincubo dellestate sparito, e col profumo del timo mi viene una gioia intensa. Sono felice di essere disteso cos per terra, cos solo. Sul monte appare un braccio, una testa di gigante chiomato. Immobile, guarda davanti a s. La mano pensosa posata tra gli alberi e le dita scherzano coi loro rami. Gli uccelli volano via. quella mano che ha costruito per gioco gli ovili, le capanne, questi muretti a secco. I grandi occhi riflettono la cupezza dei boschi. Spariscono, e non resta che la mano, un dito sul crinale del monte, poi il cielo vuoto, splendente. Avevo fatto progetti: anzitutto rimettere in ordine questi libri che non tocco pi da quattro anni, metter via queste riproduzioni sbiadite dalla luce. Invece non ho fatto nulla, non so da dove cominciare. Mi pare di essere qui non da quindici giorni, ma da anni, di non essermi mai mosso di qui. Stanotte ho sognato che piangevo perch Giulio voleva portarmi via un temperino col manico di madreperla che ho trovato in un cassetto della libreria assieme allagenda militare del babbo; ma dietro il sogno sentivo crescere questa tristezza invincibile che mi opprime, sentivo che il sogno sarebbe sparito e sarebbe rimasta soltanto questa tristezza che sfugge alla mia coscienza e cerca pretesti per manifestarsi. Non posso far nulla, neppure scrivere una lettera, se prima non me ne libero.
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Vorrei digiunare, aspettare immobile che tutto il mio organismo raggiungesse il perfetto equilibrio che d lastinenza; afferrare questo pensiero che mi sfugge. Ho ricevuto un biglietto di Elisa scritto con la sua mano sinistra: Vieni a colazione domani?. Una scrittura da bambina. Rispondo che sto poco bene. Non potrei andare a Pontario, ora. Del resto questa tristezza non durer eternamente. Passer, come passa la febbre. In certi momenti mi pare di averne trovato la causa. Cerco di fermarla con ogni sforzo. Prendo un lapis e faccio un disegno: lascio che la mia mano faccia un disegno. Poi lo guardo e cerco di leggerlo: una pianura ampia con lievi colline rotonde e ombrelli di pini. Ci sono fontane e una carovana che passa. Perch volevamo portarci via Elisa? Ma volevamo davvero portarcela via? Fin dove sincero questo nostro desiderio? Prolungare indefinitamente la nostra giovinezza, uno stato felice destinato a passare rapidamente. Mi chiedo se proprio vero che Elisa soffre. Cilludiamo di scoprire le cause non solo del nostro dolore ma anche del dolore degli altri, delle persone che ci sono care e che crediamo di conoscere. Ma lei soffre, io ne sono certo. Indovino questa tristezza, la faccio mia, ed essa scende tanto pi cupa su di me e su di lei. E basterebbe invece che mi dicesse lei stessa: io soffro. Quando la guardo e penso che tra poco dovr di nuovo lasciarla senza aver sentito da lei questa parola di confidenza, qui, col ricordo di noi, tra persone che di questa sua tristezza non hanno neppure il sospetto, la mia pena cos acuta che temo che lei se ne accorga. Perch, a che varrebbe che io piegassi la mia testa sulle sue ginocchia, come un tempo? Come un tempo mi chiederebbe: Coshai, Pinocchio?. Crederebbe di dovermi consolare di qualche mio piccolo dolore, e si terrebbe pi nascosto il suo.
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Giacch non vieni tu da me, verr io a San Silvano, mi ha scritto; ed venuta per un poco. stata con me una mezzora, ieri sera, tra una corsa e laltra dellautobus. Questo tempo misurato! Non siamo neppure passati a casa, siamo andati a Monte Or e ci siamo seduti sulla panchina, dove lei, quando ero ragazzo, mi diceva i sonetti del Foscolo. Ma io non le ho detto parola. Non facevo che pensare che tra poco mi avrebbe lasciato. Guardavamo la pianura che si scopre dal poggio, questo paesaggio di sempre. In fondo, Acquapiana, da dove il babbo veniva in diligenza quando tornava a San Silvano. Ecco che si accendono le luci della stazione. Le rocce scendono a picco come scogliere sulla pineta compatta, che, essendo cessato il vento, sembra esalare silenzio. Ai margini della pineta sono case dove i bambini dormono gi, a questora. Le donne sono sedute sulla soglia per accendere il lume il pi tardi possibile, e mondano i legumi per la cena dei loro uomini. Anche noi, come loro, non turbiamo lordine di questo silenzio della campagna. Questa solitudine che un tempo era piena di pensieri che ci univano, tutti e tre, pi del vincolo del sangue. Io mi chiedevo, allora, perch i Romani avessero scelto questo paese, che mi pareva felice, come luogo desilio. Noi siamo cresciuti in questo dolore, sorella mia, lo abbiamo respirato; in grazia a questo dolore antichissimo abbiamo imparato a resistere agli altri che la vita ci aveva preparato: si era temprato di pensieri. Sento il suo braccio magro contro il mio fianco e uno dei suoi capelli sulla faccia come un filo di ragno. Mi dice che ora di avviarsi. Infatti si sente il rombo dellautobus e ogni tanto la sirena; poi appare ai piedi del colle la luce dei fari che illumina allimprovviso la strada e la siepe. Vincenzo mi ha parlato di un complicato affare che secondo lui mi riguarda. Si tratta di un mandorleto dello zio Guglielmo, del quale spetterebbe una parte anche a noi. Infatti quel mezzo ettaro di terreno faceva parte della
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legittima della mamma e noi ne paghiamo le imposte da tanto tempo, cio fin dalla morte del nonno, senza averne mai goduto alcun frutto. Da una parte il reddito del podere, dallaltra le imposte pagate si sono accumulati, e sempre a nostro danno, cos che sarebbe tempo, dice Vincenzo, di venire a un chiarimento con lo zio Guglielmo. La cosa chiara: o lui ci paga il reddito di tutti questi anni, oppure compra il podere e ci rimborsa le imposte da noi pagate fino a ora. Il tratto di podere non grande, ma meglio che la questione sia definita. Vedo Elisa alzare le sopracciglia e sorridere tra s. Ci guarda e scuote la testa: Provate a parlarne. Per conto mio credo sia meglio rinunciare a tutto. Vincenzo si irrita: Rinunciare a tutto! ma perch? Vi spettano sette od ottomila lire se non di pi e voi rinunciate! Eppoi se tu vuoi rinunciare (ammettendo che tu ne abbia il diritto, cosa che non , perch devi conservare ci che tuo per quelli che verranno), non detto che debbano rinunciare i tuoi fratelli. E c ancora unaltra questione da sistemare: in un agrumeto di Lugheria c un pezzo di terreno intestato ancora a vostro padre. Anche di questo voi pagate le imposte: venticinque lire lanno, credo. Ma le pagate per lo meno da venti anni, queste venticinque lire: ora, tu fa il conto! Andr al Catasto a vedere da quanto tempo questo terreno passato agli Uras. Poi faremo la voltura e chiederemo il rimborso delle imposte, come per il mandorleto. Elisa si mise a ridere: Ma Vincenzo, sei impazzito! chiedere il rimborso delle imposte allo zio Guglielmo? chiedere che ci rimborsi qualche cosa come. Quindicimila lire, circa, disse Vincenzo. Quindicimila lire! Contentati di far la voltura, e che non se ne parli pi.
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Vincenzo non capiva latteggiamento di sua moglie e si irritava. Non capisci che vostro diritto? diceva. Sar nostro diritto, ma io non voglio pi litigare con gli Uras. E per questo devi pagare le imposte dei loro terreni e regalare i tuoi? Perch met del mandorleto tuo, o meglio vostro, corresse rivolgendosi a me. Se tu vuoi rinunciare alla tua parte, rinuncia, ma a beneficio dei tuoi fratelli non di un estraneo. Feci notare a Vincenzo che, se mai, io, Elisa e Giulio, saremmo stati solidali nel rinunciare e che ci induceva a questo il desiderio di non suscitare questioni spiacevoli con gli zii. Ma scusate! disse Vincenzo spegnendo nervosamente il sigaro sul piattino, scusate! A me pare che vostro zio dovrebbe capire subito la ragione. A ogni modo, ammettendo anche che vogliate rinunciare al rimborso delle imposte pagate, non giusto che rinunciate alla terra. Ma secondo me non dovete rinunciare a nulla. Del resto, fate come volete. Io e Elisa ci scambiammo unocchiata, e Vincenzo che la sorprese, rest col gesto a mezzaria. Evidentemente non aveva neppure una lontana idea dei soprusi che la mamma e il babbo avevano patito da parte del nonno e dello zio Guglielmo. Io dissi che si poteva parlare con lo zio, per sentire qual era la sua opinione in proposito. Se tutto fosse semplice come tu dici, disse Elisa, credi che la zia Maria non avrebbe fatto ci che vuoi fare tu ora? e se lo zio avesse voluto capire la ragione, credi che si sarebbe tenuto la nostra terra? Oh, basta!. Noi avevamo sempre evitato di parlare di queste cose parendoci inutile cercare la spiegazione e le cause del dolore dei nostri morti. Essi erano liberi ormai dallodio e dal malvolere che li aveva angustiati in vita. Lavversione che gli Uras avevano avuto per noi non ci aveva oscurato,
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non aveva avuto risposta: Ecco San Silvano, io dicevo intanto tra me, un intrigo di miseri interessi che tiene unita tutta questa gente. Per infinite generazioni si sono tramandati i loro campi dividendoli e suddividendoli, sbriciolandoli, guardandosi in cagnesco al di l delle siepi. Non lamicizia che li tiene uniti, ma questa fitta rete del dare e dellavere. La tristezza non ha cause, ma ha bisogno di essere riempita di qualche cosa, e i pensieri che ha suscitato in me la discussione dellaltra sera sono tali da darle materia per lungo tempo; pensieri e ricordi; i nostri rapporti con gli Uras fin da quando la tutela di mio padre venne affidata, non si sa perch, al nonno Pierangelo, vecchio fattore del nonno Alicandia, invece che agli Alicandia o agli Scarbo. Gli Uras amministravano il patrimonio degli Alicandia da quando mio nonno paterno, lasciato il vecchio studio notarile di San Silvano e le terre, sera trasferito in citt per dedicarsi allinsegnamento. Per i Sansilvanesi la decadenza della nostra famiglia e lascesa di Pierangelo comincia da quel punto. Eppure nessuno osa negare che egli abbia amministrato onestamente il patrimonio che gli era stato affidato. Qui dicono che la terra frutta solo a chi ci vive sopra, che la terra non un capitale sul quale si possa vivere di rendita. E forse hanno ragione. Don Alfonso Alicandia, che viene a trovarmi di tanto in tanto, mi ha detto che lavversione di Pierangelo per mio padre deve essere stata dissimulata, nei primi anni, da unapparente deferenza che appagava lorgoglio del giovanetto. Quando tuo padre ed io eravamo alla Nunziatella e venivamo a passare le vacanze qui, a San Silvano, scoppiavano sempre grandi contese tra Alicandia e Scarbo da una parte e Pierangelo Uras dallaltra. Ma lui non perdeva la calma. Era lui il tutore del ragazzo, e pretendeva che abitasse in casa sua. Del resto cera poco accordo anche tra gli Scarbo e gli Alicandia, di modo che Pierangelo finiva
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sempre per averla vinta. E poi ci sapeva fare! Ci metteva a disposizione un cavallo per uno e un servo, ci faceva assegnare, a caccia grossa, la posta migliore, ci conduceva con s in foresta Tutte cose che a tuo padre e a me facevano grande impressione. Alcuni dei nostri parenti si ostinavano a dire che Pierangelo abbia sempre avversato tuo padre. Non vero. Anzi da principio, quando si accorse della simpatia che il pupillo aveva per sua figlia Angela, ne fu lusingato. Pierangelo non era avverso allunione dei due giovani. No, no, tuttaltro. Si oppose al matrimonio solo quando seppe che il regolamento militare prescriveva una dote di quarantamila lire. Dote, a quella figliola, lui non gliene voleva dare. Quando mia cugina, donna Maria, gliene parlava, lui rispondeva che il contratto di matrimonio gli impediva di dotare la figlia del primo letto. Questo naturalmente non era vero, perch Evelina avrebbe dato il suo consenso, anzi era la sola persona che in quella casa vedesse di buon occhio tuo padre. Certe cose, diceva don Alfonso, forse non ve le hanno raccontate mai. Le sappiamo solo noi vecchi, che stiamo per andarcene. Il patrimonio di mio padre a quel tempo era ancora considerevole, e tale che poteva bastare col solo reddito ai suoi bisogni. Eppure si andava ogni anno assottigliando. Il nonno si giustificava davanti al consiglio di famiglia. Andava l coi registri, ci batteva su grandi manate, e dopo la resa dei conti, otteneva il permesso di vendere un altro pezzo di bosco, un vigneto, un giogo di vacche, secondo i casi. Ci che importa, diceva, che il giovane si faccia una posizione. Quello sar il suo patrimonio. Cosa volete farci se le terre non rendono?. Ma a voi s che vi rendono, Pierangelo, diceva rabbiosamente zia Luisa. A me? a me che ci vivo su? In casa mia non manca nulla, donna Luisa! Nulla! Io ho olio, io ho grano, io ho vino, io ho bestiame, ogni ben di Dio, ma non denaro. Dite a vostro nipote che
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si levi la divisa e venga a vivere qui, di quello che d la terra. Ma lui chiede denaro, e per aver denaro bisogna vendere terra. Ecco!. Il ragionamento filava, il vecchio Uras aveva ragione. Se non che, dopo passati per le mani di una terza persona, di una quarta, di una quinta, i vigneti, i boschi, le vacche tornavano invariabilmente nelle mani sue. Agli Scarbo e agli Alicandia che avevano da ridire per queste sue manovre, lui rispondeva: Ma se queste terre non sono pi di vostro nipote, perch non dovrei comperarle io? Sono terre buone, ed io da anni sono in cerca di terre buone. Dunque voi i denari per comprare le terre ce li avete, diceva donna Luisa, a voi le terre vi rendono!. I Sansilvanesi non guardavano tanto per il sottile. Se il giovane Alicandia vende, perch Pierangelo Uras non dovrebbe comprare?. Per loro la cosa era cos ovvia che trascuravano persino il fatto che le terre non venivano vendute direttamente da Igi Alicandia al suo tutore. Nella loro semplicit non ci badavano a questo particolare. Fai bene, Pierangelo Uras, dicevano. Avevano gi assistito a troppi successi, per criticarlo, troppe volte aveva difeso i loro interessi contro i nostri e contro quelli dei forestieri. Se gli fosse venuto in mente di punire i Pontaresi per il tentato rapimento delle reliquie di San Silvano, che ora sono nella chiesa di Santa Barbara, lo avrebbero seguito come i Romani seguirono Tullio Ostilio alla conquista di Alba. Dicevano: Igi Alicandia sposer Angela Uras e si ripiglier le terre come dote della moglie. Cos Pierangelo la dote gliela dar due volte, alla figlia. Ma cera il contratto matrimoniale. Angela aveva diritto a una parte del patrimonio, qual era prima che suo padre sposasse donna Evelina. Eppoi lui non avrebbe mai permesso che Angela diventasse la moglie di quel bottoni lucidi. Daniele Fumo aveva chiesto la sua mano, e la ragazza prima o poi si sarebbe decisa ad accettare, e se anche non si sposava poco male! cera bisogno di lei in casa.
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E questa era la ragione pi forte. Perch Evelina non sera mai occupata di nulla. Mostrai a don Alfonso una fotografia di mio padre e gli chiesi in che epoca credeva fosse stata fatta, e dove. A Genova, disse don Alfonso, a Genova, al tempo della guerra russo-giapponese. Guarda com tranquillo! Credo che non sia mai stato cos tranquillo come in quegli anni! Io vivevo con lui, continuavo a essere il suo migliore amico. E posso assicurarti che tuo padre in quel tempo era felice, anche se non lo dimostrava. Bisognava conoscerlo per capire questa sua felicit. Si era come rasserenato, si era fatto pi uomo. Non che fosse diventato indifferente o scettico, si era semplicemente fatto pi uomo, aveva imparato a godere le gioie che la vita pu dare, anche una vita come quella che facevamo noi. Si accontentava di poco. Gli piaceva andare a cavallo, remare, gli piacevano le donne. Eh! s! gli piacevano. Amava le gioie elementari. Le chiamava cos lui: gioie elementari! Un cavallo, una donna, e gli amici: io e pochi altri. E leggeva molto, pi di tutti noi, certo. Noi, del resto, non leggevamo affatto, preferivamo andarcene a teatro, al bigliardo E San Silvano era sempre nei suoi pensieri. Questo aveva lui nella testa: un grande amore per San Silvano. Ma sai quali erano i libri preferiti da tuo padre? Trattati di agricoltura, manuali che insegnavano lallevamento del bestiame, la coltivazione delle mele, dei cavoli. Ci ritrovava dentro San Silvano. Era una mania. Tuo padre non si mai saputo liberare dal fascino che esercitava su di lui la casa degli Uras, una casa piena di gente: amici, servi, mezzadri, mandriani che venivano a dare notizie e a prendere ordini e provviste, valletti del Comune. I proprietari dei paesi vicini venivano a chiedere consigli a Pierangelo Uras. Tutta questa gente il nonno la riceveva sotto i loggiati, destate, quando tornava la sera dalla campagna, e dinverno nella cucina, vasta come la piazza del Municipio. I Sansilvanesi erano orgogliosi di questa cucina e dicevano che
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la piazza del Municipio era vasta come la cucina del Sindaco. La vita di San Silvano si era manifestata a mio padre attraverso la vita della casa del nonno. In questa casa cera anche la mamma. Era il cuore di questa casa, ma appunto perch era il cuore, il babbo non avrebbe voluto strapparla di l. Quando la simpatia fra i due giovani matur con la loro et e divent amore, quello che comunemente si chiama amore, Pierangelo intu il pericolo. Secondo lui il giovane Alicandia cercava di giuocarlo. Ma vedi che cosa la furberia di questi contadini! disse don Alfonso chinando la fronte sul pugno chiuso. nellaria qui a San Silvano, la furberia. Le cose sono disposte in maniera tale che persino tuo padre corse il rischio di fare il furbo una volta tanto. Corse il rischio! Vuoi venire a caccia con me, domani? Te lho detto, bisogna approfittare del tempo buono. La primavera fa solo una visita di dovere, a San Silvano: il tempo che basta per far pip e andarsene. Lo accompagnai al cancello. Ora non cerco pi le cause della mia tristezza, per quanto non possa dire che essa sia nata dai discorsi di don Alfonso o dalla discussione avuta laltro giorno con Vincenzo. Esisteva gi prima, e non aveva motivi. Del resto le cose che mi ha detto don Alfonso le sapevo gi, presso a poco. Piuttosto si fatto pi preciso in me un dubbio che abbiamo avuto io, Elisa e Giulio senza mai comunicarcelo, un sospetto, che avrebbe assunto il valore di un fatto e sarebbe diventato, per questo solo, reale certezza, se ne avessimo parlato tra noi: avrebbe chiamato un giudizio preciso e forse iniquo: e il ricordo del babbo, come una persona a cui si dica ingiustamente una parola dura, si sarebbe allontanato da noi, si sarebbe reso impenetrabile per sempre. Ora soltanto, in questa solitudine, oso fermare il pensiero su questo sospetto. Forse il babbo si adattava tacitamente al giuoco del nonno, forse, senza confessarlo, rimandava di anno in anno la decisione che
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lo avrebbe strappato per sempre a San Silvano e a quello stato di sogno. Invece ogni anno ripeteva alla mamma lantica promessa, senza accorgersi che quel viso che baciava cominciava a velarsi di una tristezza che lo faceva sfiorire anzitempo. Ci sono modi diversi di guardare le persone, le cose, ma soprattutto i paesi; e tutti questi modi sono legittimi, perch tutti ci rivelano aspetti diversi di una stessa realt che ci sfugge e che forse cogliamo adombrata solo in questa visione intellettuale. Cos San Silvano. A volte mappare come un triste paese tagliato fuori dal mondo, aspro, selvaggio, dove gli ulivi sono come rare voci nella solitudine desolata delle montagne; con la sua gente dura, crudele, nemica di tutto ci che gentile: una monotona tristezza in cui anchio mi ripeto come la mamma e come Elisa: Dovr restare qui sempre? qui tutta la vita?. A volte, quasi per un cambiamento miracoloso di stagione, quella stessa campagna si compone in un paese pieno di un fermento fantastico inestinguibile, simile a quello che animava il giardino di casa. E questo il San Silvano del babbo. Per lui non cera che il suo estatico fantasticare e la romantica attesa di qualche cosa che si sarebbe compiuta qui, a San Silvano, perch fuori di qui la vita era monca e triste. N si pu fargli una colpa di non essersi accorto allora della tristezza della mamma: giacch anche quella tristezza faceva parte del fantastico mondo che egli amava. Non gli si pu fare una colpa di non averla saputa leggere in quei bruni occhi che non si distoglievano un istante da lui durante i brevi incontri in casa di donna Maria, poich la mamma cercava di nascondere anche a se stessa i propri pensieri. I quali forse erano gli stessi pensieri di ora. Con lo struggimento che le veniva da quel suo farsi donna senza penetrare nel cerchio della estatica contemplazione di lui, si inteneriva per la sua inesperienza, per la sua giovinezza, che le faceva sperare una futura virile perfezione, nella quale riposava la sua fantasia durante le attese lunghissime. Come lui vagheggiava San Silvano, mia madre vagheggiava
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questa immagine, e tutto ci che veniva da lui diventava simbolo di quella futura perfezione, di quella futura gioia. Eppure doveva esserci, in fondo alla fantasia di mia madre, un paese che anchella vagheggiava e nel quale poneva se stessa e il babbo. In un armadio a muro del salotto, assieme ad alcuni romanzi e a un album di cartoline illustrate sulle quali il babbo scriveva usando un alfabeto convenzionale che io, senza sforzo, potrei decifrare, tanto ingenuo, ho trovato uno stereoscopio e un pacco di vedute. C lesposizione di Milano del 1906, Pompei, le officine Krupp, e una serie di dieci Winterbild, che sono un poco pi sciupate delle altre; e poich la mamma teneva lo stereoscopio e le vedute gelosamente chiusi in camera sua, penso che dovesse amare queste pi di tutte le altre. Scopro ora che in quattro o cinque il titolo tedesco stato tradotto e trascritto da una mano di donna, la cui scrittura mi sconosciuta: Effetto di brina gelata in una selva di faggi; Faggio ricoperto di brina gelata; Mattino dinverno in una selva di faggi; Mnch presso la Wegeernalp; Grindewald, verso il Wetterhorn; Mattino dinverno nel Giura Svevo. Forse con lo stesso animo che io, disteso per terra, cercavo un paesaggio nuovo trasformando con la fantasia in alberi i ciuffi derba, e immaginavo una vastit che il mio occhio di bambino non conosceva, penso che la mamma, chiusa nella sua camera, davanti al balcone, manovrasse lo specchietto della scatola stereoscopica, come io faccio ora, misurando la luce in questa atmosfera magicamente creata da un giuoco di lenti. A volont, secondo che abbasso lo specchietto o lo alzo, sera o mattina, o anche un mezzogiorno di neve sotto un cielo velato. Non una figura umana, tra questi alberi sconosciuti e maestosi. Solo essi, gli alberi. E ancora pi meravigliosa delle foglie del faggio color ruggine, su cui la brina non ha fatto presa, di questi rami sottili e trinati, dietro i quali sintravvedono rami pi grossi e scuri, e pi oltre una breve pianura e poi colline,
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questa aria immobile e chiara in cui essi vivono. Noi che abbiamo conosciuta luggia di San Silvano, del San Silvano triste, sappiamo con quale rapimento gli occhi della mamma si saranno affondati in questa profondit dalberi e daria. Come nel paese in cui la sua pena sarebbe finita. Certo la mamma non piangeva sulla sua casa o su San Silvano, quando il babbo, con una improvvisa decisione, le fece la dote con una parte del patrimonio che gli veniva da don Raimondo Scarbo e se la port via. Come il paese ideale vagheggiato per tanti anni, dopo la lunga traversata e la monotonia della campagna romana, la mamma vedeva per la prima volta gli Appennini, la pianura padana, il Veneto, il dolce autunno italiano. Il babbo in quei tempi era di guarnigione ad Asolo, tra il Grappa e il Piave, nomi ancora pacifici come quei paesi e quel cielo. La sera viene qualcuno dei parenti di Rita, una delle cognate e la suocera, per portarle la bambina. gente silenziosa e discreta. Ho detto a Rita che, se vogliono, possono stare anche nella sala da pranzo, ma Rita si molto meravigliata della mia proposta. Allora le ho detto che stessero in cucina. Rita mi ha ringraziato, ma ha detto che preferiscono stare sotto il portico del forno, che somiglia a quello della loro casa. Noi siamo abituate cos, ha soggiunto quando le ho fatto notare che nel portico del forno ci batte il vento e che la bimba potrebbe prendere il raffreddore. Ho comprato un pacchetto di caramelle per questa bambina. Si chiama Lisetta, essendo stata tenuta a battesimo da mia sorella. Erano per tutti imbarazzati per la mia presenza, e ho capito che la miglior cosa da farsi era di lasciarli liberi. Dopo un poco mi sono affacciato alla finestra e ho visto che si erano raccolte sotto il portico. Facendo attenzione tra i rumori che vengono dal lavatoio pubblico voci grida panni battuti sulla pietra si udiva il chiacchierio e le risa delle due donne, cos in contrasto con la loro abituale taciturnit. Io non vedo che i loro
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piedi scalzi, un lembo di sottana nera, e, ogni tanto, le braccia nude tese per accogliere la bambina che va dalluna allaltra coi suoi passetti incerti. La casa vuota e silenziosa, avvolta in questi rumori vaghi. Loperazione sar lunga e difficile. Introdotta la sottile verghetta dacciaio tra il dito e lanello, devo segarlo con la lima, senza scosse, leggero leggero. Mi dispiace, dice Elisa, di darti tante noie. La sua faccia stirata dalla sofferenza. Si asciuga gli occhi col fazzoletto gi tutto molle di lacrime. Dispiace a me di farti male, dico fermandomi. Infatti, per quanto cerchi di rendere la mia mano il pi possibile leggera, ogni tanto Elisa si morde le labbra per non gridare. Mi hanno mandato un biglietto alquanto allarmante, stamattina. Il servo non sapeva darmi nessuna spiegazione: diceva che Vincenzo era partito fin dal giorno prima per andare a comprare un vitello, non so dove, e Maria era spaventata. Spaventata di che? Lui non lo sapeva. Lo aveva fatto chiamare e gli aveva detto di montare a cavallo e di portarmi il biglietto. Lo mandai da Antonio per vedere se cera una macchina libera, e intanto guardavo la scrittura sottile e anonima di Maria. Non mi veniva neppure in mente che potesse trattarsi del dito. Pensavo alla gravidanza di mia sorella, a cui, fino a quel momento, non avevo voluto credere. Ecco, mi dicevo, ho voluto tener gli occhi chiusi. In quel mentre venne don Alfonso Alicandia. Veniva a invitarmi a caccia per lindomani. Sinteressava molto al giardino e mindicava le cure che avrei dovuto far praticare alle piante darancio e ai limoni; ma io, fingendo dascoltarlo, continuavo a pensare a mia sorella. Forse Elisa soffriva pi di quanto io non avessi saputo vedere, e la mia incomprensione, il mio silenzio ostinato lavevano esasperata.
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Che cosa ho fatto fino ad ora? che cosa aspettavo? Mi sono lasciato vivere abbandonandomi a questo fiume di sensazioni e di ricordi che sempre ritrovo qui a San Silvano. Come sempre quando son lontano da lei, pensavo Elisa debole e bisognosa della mia protezione: unadolescente che satteggiava secondo la mia fantasia. I segnali della sirena davanti al cancello mi distolsero da questi pensieri. Feci per salutare don Alfonso, ma lui mi chiese dove andassi. Quando seppe del biglietto di Maria, del quale gli parlai declinando linvito per lindomani, disse: Sciocchezze. E mont in auto con me. Sciocchezze! continuava don Alfonso. Gli dissi che poteva trattarsi di cosa molto grave, dato il suo stato. Mi guard con meraviglia: Ma tu esageri! Ho visto un momento fa il dottore e mi ha detto che nel pomeriggio le far il taglio. Mi sentii pieno dodio per quel piccolo uomo assurdo. Il taglio! In dieci minuti fummo a Pontario e io mi precipitai sconvolto in casa di Vincenzo. Maria mi venne incontro tutta sorridente, e il primo sentimento che lessi sul suo viso fu la meraviglia per la mia furia. Allora capii che non cera nulla di grave, che si trattava del dito, e con tutta calma avrei potuto sedermi e attendere che lei mi spiegasse le ragioni di quella chiamata precipitosa. Invece dissi: Ma insomma che cosa successo? dov?. Calmati, disse lei, calmati! non successo nulla. Il gonfiore del dito malato si sta estendendo a tutta la mano, e siccome stasera il dottore vuol fare un altro taglio meglio togliere gli anelli. La volta scorsa non s fatto ed stato male. quello che gli stavo dicendo anchio, disse don Alfonso, che si stava infilando allocchiello una fucsia che aveva preso in cortile. Buon giorno, signorina, disse poi a Maria, sempre aggiustandosi il fiore. Senza curarsi di lui Maria continuava a spiegarmi che bisognava segare gli anelli. Per questo mi aveva chiamato. Aveva fatto male?
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Salimmo. Ora non si lamenta pi, disse Maria fermandosi sul pianerottolo, si vede che i dolori sono cessati. Invece io ero certo che Elisa aveva sentito il motore dellauto e poi la mia voce, e per questo aveva cessato di lamentarsi. Ora ascoltava i nostri passi, il bisbiglio delle nostre voci l sul pianerottolo. Nella camera che io avevo occupato qualche tempo prima Elisa stava distesa su una sedia a sdraio. Quando mi vide scosse la testa e inghiott con una piccola smorfia di pianto. Sembra impossibile, disse, che un dito mi riduca in questo stato. Si sforz di rispondere al mio sorriso, tutta vergognosa. Due lacrime le rigarono le tempie e si spersero tra i capelli. Non rispose neppure al mio bacio. Non tanto il dolore, disse, lavvilimento. Aveva una voce mai udita di bambina e questo mi diede un improvviso piacere. Le passai la mano sulla fronte, tra i capelli. Devi aver pazienza. Vedrai! col taglio il dolore passer. S, passer! il terzo taglio che mi fanno in un mese. Rabbrividendo tolgo la garza umida e limpacco caldo dalla mano ammalata, che trema come un uccello. Il dito medio, sotto la fasciatura, appare gonfio e rosso, e il gonfiore, come ha detto Maria, si va estendendo gi allindice e allanulare, dove sono gli anelli della mamma. Erano stretti anche prima, perch Elisa ha la mano grande, per quanto lunga e scarna. Ora invece sembra grassa, sul dorso. Non escono?. No, era difficile toglierli anche prima. Maria che risponde. Elisa rovescia il capo sul guanciale e sta cos con gli occhi chiusi. Il suo viso si ricompone. La mia mano sembra darle qualche sollievo. Intanto mi portano loccorrente. Ci ha pensato don Alfonso a chiedere allorologiaio una limetta, una verghetta dacciaio e due piccole pinze per aprire gli anelli quando
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saranno segati. Ho limpressione di aver gi fatto questo lavoro unaltra volta, ma so bene che non vero: tutto sembra ripetersi, anche questa contrazione nel collo di Elisa. Cerco dintaccare lanello dove pi sottile. Ma la limetta da principio non morde il metallo e ci lascia solo un segno leggero, un graffio. Non lo sciupare, dice Elisa. Non temere, dico, lo porter dal Settepassi, a Ponte Vecchio, e te lo rimander intatto. Non c bisogno di andare tanto lontano. I suoi occhi solo i suoi occhi si volgono a guardarmi increduli e sorridenti. Perch? chiedo, forse non mantengo le mie promesse?. Qualche volta!. Ah s? per esempio?. Mi avevi promesso di venire a passare qualche settimana in casa mia invece. Per sorride senza rimprovero. Parleremo anche di questo, dico, ora sta buona. Fa cenno di s col capo. Da quanto tempo non sono stato cos contento? Parleremo, dico fra me. Certo che parleremo!. Dove ho visto un anello simile a questo, nel quale era una saldatura fatta con oro un poco pi chiaro? Una saldatura fatta male, da un orefice di provincia, un anello modesto. Ricordo benissimo di averlo visto. Oppure anche questa unillusione, come quella che mi fa credere di aver gi udite queste parole?

III

Giulio aveva disapprovato il mio lungo soggiorno a San Silvano; ma non era giusto parlare dincomprensioni e di astrattezze, come avevo fatto scrivendone a Vittorio Lami. Bisognava tener conto della diffidenza di Giulio verso ogni specie disolamento, e in particolare per quello artificiale della campagna. Quando ero stato costretto a toccare questo argomento nelle mie lettere e a giustificarmi non avevo osato, come gi in altri tempi, ricordare Leopardi, Flaubert, Montaigne e mi ero accontentato di scrivergli che mi aveva trattenuto l un bisogno di riposo, di raccoglimento, di silenzio, di lunghe passeggiate, come ne facevo solo a San Silvano. Avevo persino parlato di un lavoro letterario che forse avrei potuto intraprendere. Per tutta risposta Giulio mi aveva mandato un numero di un grande giornale francese fieramente disprezzato da noi e dai nostri amici, nel quale erano riportate le opinioni di alcuni eminenti personaggi del mondo letterario su questo argomento: Dove e come passerete le vostre vacanze?. Giulio aveva sottolineato alcune frasi: Jaime la marche, les longues promenades Depuis que je suis conservateur jai droit un mois de cong pay Sotto il visetto di bambola di una scrittrice assai nota, si leggeva: Je ne travaille vraiment bien qu la campagne. Le calme Cos ebbe fine la nostra polemica e io non ebbi pi modo di spiegargli perch ero rimasto tanto tempo laggi; non avevo neppure trovato il modo di accennare alla gravidanza di Elisa e ai dubbi che per tanto tempo mi avevano travagliato. Come avrei potuto dirgli che per tanto tempo non ci avevo voluto credere, per via di quella mano fasciata proprio come un bambino? che avevo creduto che quella mano fasciata laiutasse a recitare la commedia, quella bugia, come io credevo, al riparo della quale ella si difendeva da me e
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dalla decisione che io lavrei costretta a prendere? Ancora una volta lironia di mio fratello mi aveva tolto ogni possibilit di confidarmi con lui. Infatti anche la gravidanza di Elisa era una confidenza, un segreto, non aveva nulla a che fare con ci che ne pensavano Vincenzo, Maria e tutti gli altri con loro. Era qualche cosa di cui si poteva parlare solo a voce bassa, in una stanza semibuia, come aveva fatto Elisa. Maria e Vincenzo invece consideravano questa gravidanza in ritardo un fatto normale e a tutti noto, anche se non ne parlavano, come sempre accade quando finalmente si raggiunge qualche cosa che non si sperava pi. Quando io arrivai a San Silvano, in primavera, la gravidanza di Elisa, bench gi al terzo mese (questo io lo rilevai pi tardi quando ricevetti il telegramma di Maria), non si manifestava ancora con alcun segno esteriore, allinfuori del fresco sorriso della bocca e dellespressione sognante dello sguardo, quasi un preludio, un ritorno di giovinezza, che non aveva per ancora risvegliato il suo corpo. Guardavo con meraviglia quelle spalle larghe e magre che ella si stringeva con le mani quasi avesse freddo, in certi momenti, posando il lavoro sulle ginocchia, tutta curva, le lunghe gambe raccolte da un lato per non ingombrare, come noi dicevamo scherzando; e mi chiedevo: Sar proprio vero che sta per avere un figlio? possibile?. Pensavo ai rari viaggi che Elisa aveva fatto, durante i quali si era trovata sempre un poco spaesata, malgrado la compagnia nostra e degli amici, alla sua vita solitaria e senza mutamenti, alla sua cameretta di San Silvano, al suo letto, che mi pareva sempre troppo piccolo per lei; e mi ripetevo alcuni versi che avevo imparato in quella camera ancora ragazzo. Perch Elisa, a differenza di tutte le ragazze, non cantava mai (non ricordo di averla mai udita cantare neanche in coro coi ragazzi Ben), e recitava invece a voce alta, per suo conto, molti versi francesi e italiani che sapeva a memoria. Quelli che io ricordavo, legati alla sua cameretta come il profumo dei garofani e dei gelsomini del balcone,
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un profumo distinto e intimo nellodore umido del giardino che entrava dalle imposte spalancate, erano i primi di unelegia di De Parny, che comincia: Dun long sommeil jai got la douceur. Il libretto di queste elegie, una piccola fiorita edizione, stava in uno scaffale accanto al suo tavolo da toeletta, assieme a pochi altri libri, che amava come si amano solo quelli delladolescenza: alcuni romanzi di Dickens, le novelle di Andersen, due o tre romanzi del Fogazzaro, il Libro degli Schizzi di Irving, Sesamo e Gigli di Ruskin, Chamisso e, tranne Leopardi e Manzoni, nessun classico italiano. E anche questi libri, tanto erano legati al ricordo di mia sorella fanciulla (ora sono chiusi in un armadio, in casa di Vincenzo, con altri oggetti a lei cari che ognuno cercher di dimenticare fino a che sar cos doloroso pensarci), accrescevano la mia meraviglia. Come avrei potuto esprimere a Giulio la mia ansia per questo nuovo fermento di vita, la mia meraviglia, se egli avesse considerato questo fatto nuovo come tutti gli altri lo consideravano? Non sarebbe stato pi naturale che lo avesse appreso da Maria o da Vincenzo? La mia calma, anzi la mia stanchezza di un tempo nasceva dalla certezza di conoscere gi tutto ci che avveniva e poteva avvenire intorno a me, di non poter pi aspettare nulla di nuovo; uno stato danimo indipendente da ogni ragionamento e forse anche dalla esperienza, come per alcuni devessere la saggezza. Un fatto veramente nuovo ora si offriva al mio spirito, qualche cosa di nuovo sorgeva nel mondo, fuori e dentro di me al tempo stesso, con forza onnipossente; e io, per capire questo fatto, non potevo far altro che secondarne gli sviluppi con la volont e con lintelligenza. Mi pareva che Elisa si fosse imbarcata per un viaggio lungo, lentissimo e pieno di pericoli e di fatiche, e mi riposavo dalla mia ansia distogliendo il pensiero da questa rotta sconosciuta o la percorrevo con
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limmaginazione verso un approdo felice, il sorriso del bambino che doveva nascerle. Immaginavo che questo mio stato danimo si ripetesse anche in mia sorella; che nel futuro sintrecciassero per lei avvenimenti fantastici, assurdi, ma tutti colorati di quella fiducia, e che ogni tanto, tornando con la mente pi riposata a quelle fantasticherie, vedesse persone note, fatti gi avvenuti, noi stessi forse e la nostra adolescenza, ma arricchita di questo fatto nuovo, e che tutto ci che era stato, la nostra vita passata, le sembrasse piena e perfetta. Vegliavo su quel vivace e silenzioso fantasticare di lei lontana e pensavo quanto apparissero miseri in confronto i progetti miei e di Giulio. Ma non andavo tanto oltre su questa via, subito richiamato, con un sussulto, dalla paura di dovermi ritirare di nuovo, in me stesso, deluso, in una solitudine senza speranza. Sul tronco dei platani la muffa era rinverdita dopo le piogge dagosto, e io pensavo alla nebbia entro cui quei rami alleggeriti dalla potatura primaverile sarebbero di nuovo spariti tra breve. Era destino che io dovessi vedere quella citt sempre avvolta di nebbia. Infatti essa non se nera andata ancora del tutto, quando i potatori avevano cominciato il loro lavoro e io ero partito per San Silvano. Intanto mi godevo quegli ultimi giorni chiari di autunno. Quando stavo pi a lungo del solito senza parlare, Lia infilava la sua mano sottile e leggera sotto il mio braccio, senza guardarmi, e mi chiedeva: A che cosa pensi?. Era molto mutata, e non ripeteva questa domanda oziosamente, come qualche mese prima. Sentiva che cera qualche cosa che mi occupava continuamente e di cui non le parlavo. Non era gelosa, per, e lo capivo dalla pazienza con cui sopportava le mie distrazioni. Un giorno mi disse: Lo so che pensi a tua sorella. Perch non vuoi dirmi?. Di Elisa e di Giulio le avevo parlato spesso, prima della mia partenza, mentre ora mi ero limitato a darle qualche vaga spiegazione su quel mio lungo soggiorno a San Silvano.
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Ceravamo lasciati come se non dovessimo rivederci mai pi, e senza rimpianti, qualche mese prima, tanto che io non le avevo mai scritto; ma, al ritorno, ero andato io stesso a cercarla. Lami non era ancora tornato, e la citt mi era sembrata vuota. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare, volevo semplicemente parlare con lei di Lami, del libro di Giulio, fare una lunga chiacchierata; ma poi, quando la rividi, mi prese un grande bisogno di tenerezza, di tutta la tenerezza che prima non avevo saputo apprezzare. Sembravi uno che avesse avuto una disgrazia, mi disse poi. Da parte della mia amica, in quel primo incontro, non cera pi tenerezza, ma soltanto meraviglia. Il mio contegno alquanto brutale, come lei lo aveva definito, laveva guarita, e non le era riuscito difficile dimenticarmi. Aveva ripreso a suonare, aveva studiato Bach, aveva letto molto, in quei mesi. Quando le dissi che nessuna disgrazia mi aveva colpito e che avevo passato tutto quel tempo tra Pontario e San Silvano, sera convinta che cera nella mia vita qualche cosa di nuovo, che le nascondevo o che non sapevo dirle. A volte mi guardavi in una maniera cos strana, mi disse anche. Infatti tenevo tra le mani la sua testa, che mi pareva cos piccola quasi infantile sotto i capelli, e la guardavo fisso negli occhi, ma distratto, pensando sempre a Elisa e al bambino, in mezzo a tutti i miei dubbi e le mie paure; e ogni tanto la baciavo, ma solo perch la sentivo turbata da quel mio lungo guardarla, che non cercava nulla nei suoi occhi. Eppure a lei quei baci sembravano tanto diversi da quelli di prima, e si chiedeva dove avessi accumulato tanto bisogno di essere amato e di amare. E forse nelle mie mani, nei miei occhi cera davvero come il tremito della febbre. Quando, sempre pi accorata, mi chiedeva: A che cosa pensi? Perch non vuoi dirmi a che cosa pensi? io le dicevo: Non penso a nulla, vedo un paese cos e cos. E mi mettevo a inventarle un paese immaginario, ma poi finivo per parlare di San Silvano e Pontario, delle foreste di Parte dIspi, le facevo lunghe descrizioni
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minuziose. Lentamente si apriva davanti a lei un paese sconosciuto, cos diverso dalla sua pianura, nella quale le stagioni trascorrono distinte e serene come grandi fiumi. Lei, come se li vedesse, quei luoghi, mi chiedeva: Che paese questo? Dove sta questo bosco?. Io facevo un gesto con la mano, come per dire che non esistevano, e lei faceva finta di crederci, perch capiva che questo mi aiutava a parlarne pi liberamente. Cos mi pareva di fantasticare per mio conto. Facevamo lunghe passeggiate sulle mura intorno alla citt, e anche questo accresceva lillusione di quel mio solitario fantasticare. Solo le donne, anzi alcune assai rare tra esse, sanno ascoltare con tanta umilt senza sparire. Finalmente le dissi il segreto che aspettava da tanto tempo, che Elisa stava per avere un bambino. Fu come se le avessi detto che lamavo. Anche se non parlavo, allora, il nostro silenzio non ci divideva pi. Anche Lia, che aveva sentito sempre parlare di Elisa da me e dai nostri amici, cominci a pensarla in quel paese che le ero venuto descrivendo ora aspro ora dolce, pronto a colorarsi dei sentimenti degli uomini. E come Elisa le si rivelava attraverso le mie ansie e i miei timori, il nuovo stato di mia sorella apriva anche per lei una quantit di possibilit fantastiche; e i suoi pensieri, positivi e saggi, quei piccoli pensieri che riempiono, in fondo, la vita di tutte le donne, anche di quelle che ci sembrano pi romanticamente distaccate dalla vita di tutti i giorni, erano animati da questo slancio, da questo fermento fantastico. Intanto era tornato anche Vittorio Lami, e il mio lavoro, che aveva ripreso, mi imponeva una disciplina, senza che io ci pensassi. Da prima mi ero limitato allo spoglio delle riviste e avevo cominciato a scrivere il capitolo che Giulio mi aveva affidato; ma, come mi accade spesso quando sono impegnato in un lavoro faticoso, altri problemi che non avevano alcuna relazione col libro di Giulio mi si affacciavano e chiedevano un chiarimento. Occuparmene era un riposo, una vacanza. Cos in pochi giorni
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scrissi un lungo articolo sugli studi linguistici del Tommaseo, e lo mandai a mio fratello. Dopo un po di tempo Vittorio Lami mi fece vedere una lettera di Giulio. Guarda, disse, tuo fratello convinto di averti strappato alla critica giornalistica, come dice lui. Giulio scriveva che quello sul Tommaseo era il miglior lavoro che avessi fatto fino allora, e voleva che facessi subito qualche ritocco, che proponeva, per pubblicarlo su una rivista alla quale lui e Vittorio Lami collaboravano gi da molti anni. Accennava discretamente al mio soggiorno a San Silvano. Ho avuto torto ad angustiarlo, scriveva, e me ne duole. Ma la prima volta che combina qualcosa di buono laggi; e questo mi fa sperare che finalmente abbia trovato il modo di reagire contro la sua pigrizia, che in San Silvano ha sempre trovato un comodo riparo. Spero di non aver commesso unindiscrezione, disse Vittorio Lami ridendo. Vittorio per, su questo punto, era sempre stato daccordo con Giulio. San Silvano ti fa male, soleva dire anche lui. E io credetti opportuno lasciar credere a tutti e due che a San Silvano avevo impiegato il mio tempo a studiare il Tommaseo. Era una simulazione che mi metteva al riparo dalla loro ironia e mi risparmiava molte spiegazioni che ormai non volevo pi dare. Questa bugia fu il primo fatto dopo il mio ritorno, che mi ricondusse alla solita vita, la vita fuori di San Silvano. Dopo Elisa, Lia era la sola persona alla quale potessi mostrarmi qual ero, e che mi permettesse di fantasticare a mio agio. Tuttavia, per la prima volta, Giulio mostrava per i miei lavori un interesse non pedagogico, come diceva Vittorio, e io trovavo, per la prima volta, meno oziose quelle lunghe conversazioni epistolari che avevo sempre considerate con molto scetticismo. La sua approvazione, pur senza riempirmi di entusiasmo come quando ero ragazzo, mi lusingava. Cos allarticolo sul Tommaseo ne segu un altro sulla questione della lingua nel Manzoni, dove riprendevo largomento della
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mia tesi di laurea, che gi, a suo tempo, aveva fatto nascere qualche speranza in mio fratello. Ma allora n lui n Vittorio erano riusciti a farmi rifare quel lavoro, che giacque per tanti anni nel mio cassetto. Il mio interesse scientifico non era abbastanza grande per indurmi a una simile fatica, e la mia ambizione si appagava meglio e pi facilmente degli articoli che pubblicavo nella terza pagina dei quotidiani. Tu sei un buon critico quando parli, soleva dirmi Giulio a proposito di essi. Quando scrivi accenni ai problemi senza approfondirli. Ci che dici giusto, tante volte, ma le ragioni di ci che dici non appaiono. Sarebbe molto meglio che ti limitassi a scrivere i tuoi pensieri su un quadernino e li sviluppassi in seguito riposatamente. E quando era meno benevolo diceva a Vittorio Lami che ero un dilettante che dice delle cose giuste. Ora invece il lavoro sul Manzoni lo aveva conquistato, e mi scrisse quanto gli piacesse. Ma solo con Vittorio Lami si confid, e Vittorio mi mostr, come al solito, una sua lettera piena di entusiasmo per quel mio lavoro e di affetto per me. Infatti Giulio poteva confidare i suoi sentimenti pi intimi solo a poche persone, ed io non ero tra quelle. Sinteneriva constatando che anchio avevo finalmente capito il valore della cultura. Eppure avevo espresso, in quei due saggi, idee di cui avevo gi parlato tante volte con lui e con Vittorio. Ma la parola scritta aveva sempre esercitato uno strano fascino su mio fratello. Fu allora che feci solenne proponimento di non scrivere pi per la terza pagina dei giornali, per i quali del resto avevo sempre affettato un gran dispregio. Solo con Lia per questo mio dispregio per i giornali non era finto. La mia amica si rallegrava troppo dei miei articoli, era felice di vederli stampati, e la sua gioia mi umiliava e mi dava il senso mortificante dei limiti delle mie aspirazioni. Cercai di spiegarle come avesse ragione Giulio di dirmi che bisognava smettere una buona volta. Le spiegavo come i giornali non consentono un lavoro veramente serio; come il mio saggio sul Tommaseo e quello
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sul Manzoni, che a lei erano sembrati piuttosto noiosi, erano ben pi importanti degli elzeviri che lei ritagliava e conservava con tanta cura. Mi pareva di sentir parlare mio fratello; e come lui, trattenendomi a stento di fare lo stesso gesto breve e convincente con la mano, ripetevo: Larticolo di giornale, a lungo andare, estenua, e ci si accorge poi che non si riusciti a dire ci che era pi importante, non per insufficienza propria ma per lo stile che il giornale impone, per questa necessaria superficialit. Finiva per darmi ragione, la mia amica, e si faceva seria come una ragazzina costretta ad ascoltare un discorso troppo assennato. Ma la prima volta che vide un mio articolo sotto questo titolo vistoso: Romanzieri in vacanza, fu come se non le avessi fatto tutti quei ragionamenti. Le pareva bellissimo, e la sera, quando andai a prenderla per la solita passeggiata serale, non poteva impedirsi di sbirciare con donnesca compiacenza tutti quelli che per la strada o al caff tenevano il giornale sotto il naso. Per la seconda volta ripetei il proposito gi fatto. Ma assai difficile mantenersi in una decisione presa quando ci si confida a unaltra persona, specie se questa molto intima, essendo mortificante sentirsi spiati nella lotta che continuamente sosteniamo con noi stessi e che dovrebbe essere segreta. Inoltre quei brevi lavori nascevano senza sforzo dalle mie letture. Lasciate almeno che smaltisca quello che ho gi scritto, dissi a Vittorio per giustificarmi. Intanto avevo riempito altre venti cartelle, sempre sul Manzoni: un ragionamento chiaro e organico, fissato sulla carta, come piaceva a Giulio; e continuava, non pi ragionamento ma soliloquio monotono, anche quando uscivo a passeggio con Lia. Ma intensificandosi il mio lavoro, anche queste riposanti passeggiate si fecero sempre pi rare; e avrei preferito che Lia non venisse neppure a cercarmi a casa. Quando entrava, stavo coi gomiti puntati sul tavolino, e se le tendevo la mano, senza distogliere gli occhi dal libro, era, pi che un saluto, un invito a sedersi e a stare cheta. Lia sedeva obbediente, senza
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impazienze e leggeva, oppure si metteva a lavorare a maglia, come faceva sempre quando si sentiva umiliata dal mio silenzio. Ma bastava il fruscio di una pagina voltata o il ticchettio dei ferri per rendermi insopportabile la sua presenza. Quando un momento di stanchezza mi annebbiava, mi pareva che fosse Lia a impedirmi di pensare. Avrei voluto essere solo nella mia stanza vuota, sentirmi chiuso tra quelle pareti nude, dalle quali avrei voluto far togliere anche le riproduzioni di Van Gogh che Lia mi aveva regalato proprio in quei giorni. A volte smetteva di leggere o di lavorare e mi guardava; e anche questo mi riusciva insopportabile. Il desiderio di essere solo fin per diventare ossessionante, e Lia, bench io non le dicessi nulla, se ne accorse. Una mattina venne un po prima del solito e mi disse che partiva: andava a Firenze, da sua sorella. Aspettava che io le chiedessi almeno quando sarebbe tornata; leggevo questo desiderio nei suoi occhi, ma temendo di affrettare con questa domanda il suo ritorno, non le dissi nulla. Le feci invece un complimento per un cappellino che, come mi disse, portava gi da una settimana. Capivo che se ne andava per lasciarmi solo e desiderava che io sapessi quanto le riusciva penoso. Ma era troppo tardi per assumere un altro contegno: il suo viso si era chiuso. Anche questa volta ci separammo come se non dovessimo pi rivederci; ma io la raggiunsi il giorno dopo a Firenze. Era bastato quel breve distacco per farmi sentire quanto mi fosse diventata necessaria. Da allora il mio lavoro procedette con un ritmo pi calmo. Qualche volta accadeva che la visita di un amico, un concerto, una gita a Venezia mi allontanasse per un poco dalla stanza piena di libri dove trascorrevo le mie giornate, e la gioia che mi veniva da quei pensieri ordinati durava costante. Ascoltando accanto a Lia un corale di Bach alla Fenice, o anche semplicemente lintermezzo della Cavalleria suonato dalla banda di piazza San Marco, maccadeva di chiedermi con trepidazione se non fossi anchio in grado di sentire la
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mia gioia ogni qualvolta ci volessi pensare. Oh! non era lordine delluniverso, di cui adolescente avevo fantasticato dietro i pensieri del filosofo, quello a cui tornavo con tanto desiderio, ma solo un piccolo mondo di libri, di idee. La curiosit che mi spingeva a cercare la storia di ogni parola del poeta che allora mi appassionava non mi lasciava neppure il tempo di sentire quanto limitato fosse il campo delle mie ricerche. Con modestia e assoluto disinteresse, per la prima volta nella mia vita dopo le letture delladolescenza, che erano state per me come un crisma, mi trovavo tutto assorbito dallopera di un poeta. Le mie letture, fino allora, erano state come strade aperte e interrotte nel folto di una foresta: avevo seguito ora luna ora laltra di queste strade, come uno che debba percorrere senza carte un paese sconosciuto. Ora per che battevo quella sola con sicurezza, il ricordo di quellintrico di viottole mi tornava daiuto dandomi il senso quasi panoramico del vasto paese nascosto. Ben lungi dallavere il senso esatto dei problemi che distingueva mio fratello e Vittorio Lami, io sentivo le idee, le opere darte e persino certi fatti storici legati quasi fisicamente alla mia vita, ai luoghi dove ero vissuto, alle persone che avevo conosciuto; e questo modo fantastico di sentire la cultura era favorito ora dalla precisione con cui alcuni problemi particolari si riflettevano in una sfera intellettuale pi pura. Di tanto in tanto ricevevo una lettera di Elisa: lettere senza fremiti, casalinghe, che avevano, per lo pi, il solo scopo di tranquillizzarmi. Di s e del suo stato non parlava mai se non per vaghi cenni, dilungandosi invece a espormi i piani di lavoro di suo marito, e un suo progetto che stava maturando gi da tempo e al quale Vincenzo aveva acconsentito. Si trattava ora di vincere le ultime resistenze di Maria. Vincenzo dice che bisogna accontentarmi perch ormai ho sentito lodore della calce, scriveva Elisa. Lo dice scherzando, ma un poco ci crede. Ha fatto subito venire
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un muratore e raggiustare lintonaco accanto alluscio della cucina. Ma io gli ho detto che non simmaginava neppure cosa cera in quellodore di calce fresca. Giacch mi prendono per questo verso e credono che tutta la mia vita sia nei sapori e negli odori, bisogna che mi accontentino fino in fondo. Nellodore della calce io ci ho tutta una casa. Ora non spaventarti anche tu, Pinocchio! Tu hai visto come fatta male questa nostra casa, tutte queste stanze in fila, una dentro laltra, e poi cos nuda. Non parlo della facciata, che anzi ha una certa nobilt, ma della parte che guarda il cortile. I pergolati non bastano a vestirla. Ora, io ho pensato di fare un doppio loggiato, da questa parte, a pianterreno e al primo piano, con colonne di travertino e grandi archi. Per questi archi bisogna trovare lampiezza giusta e armonica, ma se non trovo qui uno che mi faccia il disegno a mio modo, te ne occuperai tu. Non sai quanto mi preoccupa la curva di questi archi. Se sapessi disegnare, sento che riuscirebbero bellissimi, tanto ce li ho chiari in mente. Le colonne dovranno avere i loro capitelli, e voglio che non siano fatti da uno scalpellino qualunque ma da mano esperta. Anche di questi dovrai occupartene tu, credo. Io voglio che questi loggiati intorno al cortile siano aperti, e solo su questo punto Vincenzo non daccordo con me. Lui vorrebbe fare qualcosa di moderno, anzi addirittura di razionale, un terrazzo chiuso di vetro e di ferro, ma a me, a parte la spesa eccessiva, non mi piace perch mi pare che non sintoni col carattere della nostra campagna. Vincenzo dice che questi loggiati aperti non serviranno neppure a rendere indipendenti le stanze, se bisogna, per andare da una stanza allaltra, uscire allaperto, ma io sostengo che basta rendere indipendenti alcuni gruppi di stanze. Ho anche altri progetti, sempre riguardo alla casa, ma sar per unaltra volta. Sono tutti ordinati tra loro, si aspettano. Vedrai che casa avremo tra qualche anno!. La ritrovavo immutata, dentro di me, Elisa, dopo quei mesi fervidi di nuovi pensieri e di lavoro, quasi che la
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contingenza degli avvenimenti e il passare del tempo non avessero presa su di lei: e mentalmente paragonavo la nostra amicizia alla amicizia per Lia, cos disuguale e labile, anche se amavo sentire la sua piccola mano posata sul mio braccio e i suoi passi brevi e rapidi adeguarsi ai miei. Ma solo dentro di me e astrattamente potevo fare questa distinzione. Faceva parte anche lei dellinesauribile susseguirsi di pensieri e dimmagini che riempiva la mia solitudine. Pensai di fare in sua compagnia un viaggio un poco pi lungo dei soliti. Volevo visitare Asolo, dove era nata Elisa, e un paesino sulle falde del Grappa, dove il babbo e la mamma erano stati in villeggiatura nei mesi che avevano immediatamente preceduto lo scoppio della guerra italo-turca. Intanto mi facevo descrivere da Lia quei luoghi, che essa conosceva molto bene, e le raccontavo come, da bambino, in casa del nonno, in certe notti di luna, sentissi il richiamo di quel paese sconosciuto, del quale poi avevo trovato la dolcezza nella parlata dei Ben, che erano appunto di Treviso. Anche prima che Elisa mi parlasse di Asolo e dei villaggi in riva al Piave, mi era nota la loro esistenza come sono noti i paesi temperati alle allodole e alle quaglie nate sulle coste dellAfrica. Del resto Elisa stessa conservava un ricordo molto vago di quei luoghi. Asolo si ricordava di averla vista dalle falde del Grappa: un colle fitto di case e di alberi che emerge dalle nebbie della pianura. Ricordava la villetta di Crespano nascosta tra gli abeti, un ponte altissimo su un torrente, e la grande mole della montagna. Questa villetta ero certo di riconoscerla anchio, perch avevo visto, in un album, alcune fotografie, tra le quali una dove erano la mamma ed Elisa sul cancello del giardino. Di quei luoghi Elisa ricordava molti nomi ed io li avevo appresi da lei, come quello della villa di Fieta, poco distante dalla villetta accanto al ponte: una grande villa signorile, dove cera uneco che ripeteva intero un endecasillabo. Elisa aveva imparato l i primi versi di Dante sentendoli gridare dal babbo. Il babbo diceva
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che il Grappa, dalla villa di Fieta, somigliava allArcuentu, tanto la sua anima era piena di nostalgia. Certo la forma delle due montagne non aveva nulla di comune, ma questo fatto non aveva alcuna importanza, bastandogli il senso di solitudine e di pace che si allargava, la sera, dal seno delle valli; e forse il suono di alcuni nomi, che dovevano ricordargliene altri ben noti, come per esempio Bocca Or. Lo stormire degli abeti attorno alla villa gli ricordava quello dei pini di San Silvano e degli eucalipti del giardino; ma io credo che la mamma, pur secondandolo nel trovare queste somiglianze poetiche tra i due paesi, si rallegrasse in cuor suo di questa certezza, che tra gli eucalipti del giardino e gli abeti della villetta accanto al ponte era un grande spazio di mare, di montagne e di silenzio. Facevamo molti progetti su questo viaggio, e Lia contava di passare una notte nel rifugio del Grappa: ma ogni volta, giunti a Padova, io trovavo sempre una buona ragione per proseguire per Venezia, e la mia amica diceva: Tu ti appaghi delle cose parlandone. Al ritorno da uno di questi viaggi trovai il telegramma di Maria. Era il bambino. Elisa desidera vederti vieni. Telefonai subito a Lia e corsi a casa sua col telegramma. Non so se davvero ero cos felice come parvi a Lia. Mi disse poi che il mio viso sembrava raggiante di felicit. Ma io almeno in quel momento, non pensavo a nulla: sentivo solo un gran bisogno di muovermi, di parlare. Se ci fosse pericolo, mi avrebbero telegrafato di avvertire Giulio, non credi? le dissi. Non pensavo che potevano aver telegrafato direttamente anche a lui, e Lia che lo pens, non me lo disse. Ci sono pensieri che si fanno strada lentamente. Limmaginazione nasconde il loro segreto lavorio, fino a quando essi non simpongono con la forza e con levidenza della realt. Sono la realt stessa allora; non pi ragionamenti ma conclusione di un ragionamento, piuttosto, contro cui
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nulla possiamo. Fino a quel punto la fantasia ci aveva tenuto per mano come una cara amica alleviandoci ogni pena con la sua presenza; ed ecco che a un tratto la realt si fa sentire intorno a noi impassibile, immutabile contro la nostra vita effimera e contro la fragilit del nostro stesso dolore. Cos durante il viaggio in ferrovia fino alla citt dimbarco io avevo pensato ad Elisa: la sua casa di Pontario, la famiglia, il bambino, e anche Vincenzo, cos attivo e avveduto amministratore dei beni di Elisa. Come i Pontaresi, pensavo anchio alla ricchezza della terra che Vincenzo aveva valorizzato, al benessere che ne sarebbe venuto a mia sorella. Il sogno sterile di portarci via Elisa aveva ceduto di fronte a possibilit che partecipavano della saggezza e della misura di Elisa; perch il benessere economico significava anche indipendenza, emancipazione, libert. E pensavo a quando Elisa sarebbe venuta a passare la primavera a Firenze con noi e col suo bambino (o una bambina, chiss?). Ma coserano, se non fantasie, questi pensieri che in un primo tempo, quando avevo saputo della gravidanza di mia sorella, avevo accettato con tanta fatica? Il facchino aveva caricato la mia valigia sulla carrozza: mi lasciavo portare per il viale tagliato dalle lunghe ombre degli alberi, e gi mi riprendeva langoscia che sempre mi avevano dato le tristi fortificazioni papali annerite dal tempo e dal fumo, i neri piroscafi carichi di carbone, le merci ammucchiate intorno alle gru, il mare sporco e oleoso: langoscia di tutti i miei arrivi e di tutte le mie partenze da quel porto. La ritrovavo immutata, ogni volta, in quei bastioni, in quelle case altissime dalle piccole misere finestre, come la mattina del mio primo arrivo, quando, dopo la traversata notturna, ero salito sul ponte. Tra me e San Silvano non era la vastit luminosa del mare, che avevo sperato come ristoro e come premio, ma la sconosciuta rotta notturna che mi aveva portato fin l, e la mattina nebbiosa. Anzi il dolore di quel primo distacco non era mai stato cos intenso neppure al momento della mia partenza; ed era l,
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davanti a me, era quella citt triste che vedevo per la prima volta. Tornando poi a San Silvano, dopo alcuni mesi, la gioia del ritorno era offuscata per un momento dallaria di quella citt; e cos fu sempre, anche dopo molti anni, anche quando partire da San Silvano o ritornarvi non mi dava pi n dolore n gioia. Quando, dietro il vetro di un tass che sorpass la mia carrozzella, intravvidi Giulio, quellangoscia fatta estranea a me stesso e ai casi della mia vita, impenetrabile al mio pensiero come sono gli oggetti o certe sensazioni dellinfanzia, le quali diventano materiali come oggetti, alberi citt navi ancorate, si fece a un tratto chiara e trasparente; e come uno che, alla fine, in una lettera decifra una parola che rende tutto comprensibile, pensai: Elisa muore. Allora piansi, nel buio della carrozza. Come avevo potuto avere un solo momento di incertezza nellinterpretare il telegramma di Maria? Ora, anche se mi fossi sbagliato, anche se il signore in abito grigio intravvisto dietro il vetro non era Giulio, da quel momento fui certo che non poteva esserci pi speranza di salvezza per lei. Poteva anche darsi che lei stessa avesse consigliato Maria di telegrafare in quei termini, che avesse avuto semplicemente il desiderio di vedermi; ma tuttavia ero certo che non cera pi speranza, e mi pareva che stesse accadendo un fatto atteso e temuto da tanto tempo, gi gravido di una tristezza provata, duratura e ordinata in pensieri, cos diversa dal dolore disperato delle perdite inaspettate. Gli alberi del lungomare, le navi, il monumento ai Caduti, il suono delle campane, tutta la citt mi appariva familiare come se ci avessi vissuto a lungo e ci tornassi in unora consueta; e anche questo accresceva la certezza di quel fatto e la familiarit di quei pensieri che si erano maturati in me a mia insaputa. Alla stazione marittima trovai un signore in abito grigio con limpermeabile chiaro gettato su una spalla, chino davanti allo sportello della vidimazione. Si volt: era Giulio. Che cosa ho fantasticato finora? a che incubo mi sono abbandonato? chiedevo rispondendo al
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suo abbraccio. E mi tenni stretto a lui, con la faccia sul suo impermeabile, per un momento, poi lo guardai come avevo guardato Elisa tornando lultima volta, qualche mese prima, come non avevo mai guardato lui prima dallora; e forse per questo la meraviglia e una certa ironia cancellarono dal suo viso la traccia di ogni altro sentimento. Come le somiglia! pensai; e ne ebbi un dolore improvviso, per lui, per Elisa, dalla quale, malgrado quella somiglianza, era tanto lontano. Guardavo la sua persona alta e magra, le sue mani, cos simili a quelle di lei, il suo viso, il suo corpo lontano da qualsiasi minaccia, e mi figuravo Elisa, laggi a San Silvano. Non piangevo pi, anzi sentivo che non avrei pianto neppure dopo. Lui non lo sa, pensai, e io non gli dir nulla, non posso dirgli nulla di lei, di quello che io so di lei. Forse non era un segreto anche la sua morte, come era stato un segreto la sua gravidanza? Eventi che non ci avevano colpito, me e lei, dal di fuori, ma si erano maturati dentro di noi e manifestati agli altri solo indirettamente e parzialmente. Mi mostr il telegramma: le stesse parole del mio, che avevo imparato a leggere per, nel frattempo. Lo ripiegai e glielo resi. Credi che ci sia pericolo? chiese. Gli dissi di no, e aggiunsi che dovevamo aspettarci quella chiamata, perch Elisa mi aveva scritto, qualche tempo prima, che desiderava vederci dopo che la cosa fosse avvenuta. Ci si rivede dopo mesi, dopo anni di distacco talvolta, e si ha lingenuit di credere che gli altri si siano fermati a un pensiero o a uno stato danimo che aveva colpito la nostra fantasia; si vuol riprendere da quel punto una conversazione interrotta. Cos Giulio mi riportava indietro di mesi, al tempo della nostra piccola polemica epistolare che sera chiusa con linvio di quel giornale francese, di cui mero completamente dimenticato. possibile, continuavo a chiedermi, che non abbia neppure il sospetto di quello che sta succedendo? possibile che neppure la mia presenza qui glielo faccia pensare?.
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Anchio, durante il viaggio in ferrovia, avevo creduto che nessun pericolo minacciasse Elisa, ma lo avevo creduto con fervore, mi ero aggrappato con tutte le mie forze della fantasia a questa certezza che il mio spirito sera costruita nel primo impeto, inconsciamente. Lui no: era calmo, scherzava; e sera rassegnato a quel viaggio cedendo a quello che credeva un desiderio, anzi un capriccio di Elisa, senza darci troppa importanza. Diceva che era piacevole viaggiare, in autunno. Nel settentrione cera gi la nebbia. Andammo al solito ristorante, come facevamo molti anni prima, quando tornavamo assieme a San Silvano per passarvi il Natale; ma io presi solo alcuni biscotti inzuppati nel vino bianco. Poi andammo allufficio telegrafico e Giulio mand il solito dispaccio: Saremo cost domani, indirizzando ad Elisa. Ma tu, mi disse minacciandomi scherzosamente con la mano, tu lo sapevi!. Alludeva alla gravidanza di Elisa. Gli dissi di no, e dissi di no anche quando torn a chiedermi, facendosi improvvisamente serio, se credevo davvero che non vi fosse pericolo. I suoi pensieri, nei riguardi di Elisa, non potevano aver nulla in comune coi miei, segreti e incomunicabili. Mentivo, preso dalla paura che la notizia non gli venisse dal di fuori e non lo colpisse troppo duramente; senza pensare che questo, prima o poi, tra poche ore, sarebbe avvenuto, se io non cercavo di far nascere in lui il dubbio. Non mi nascondi nulla? chiese ancora, quasi per uno scrupolo. Gli dissi che non gli nascondevo nulla, che stavo poco bene. Ma da quel momento sperai che lidea della morte di Elisa potesse sorgere in lui naturalmente. Mi bastava che, sia pure per un momento e con lapparenza di una possibilit lontanissima, quasi assurda, questidea si fosse affacciata al suo spirito. Oh! si sarebbe certo fatta strada da s. Del resto non dovevo anchio scendere nel pi profondo di me stesso e starvi raccolto, per sentire la realt di quel fatto, nuovo ma non sconosciuto, divenuto
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naturale come tutti gli atti e i pensieri di Elisa? Non appena mi abbandonavo, per un istante, ai discorsi di Giulio, che mi parlava della Germania e mi chiedeva notizie dei nostri amici e degli ultimi libri usciti, mi rifacevo estraneo ai miei segreti pensieri, e lasciandomi cullare dal suono delle sue parole tornavo a sperare che Elisa potesse salvarsi, che lavremmo trovata fuori pericolo, al nostro arrivo. Ma quando mio fratello taceva per guardare il mare e la costa che si abbassava e spariva, e io ritornavo a essere solo col rumore delle macchine, ritrovavo quel pensiero e quella certezza. Allora immaginavo che anche mio fratello sapesse, che i nostri pensieri fossero simili, bramoso del confronto che viene dal sapere i propri pensieri e il proprio dolore condivisi: immaginavo che, come me, fosse in grado di pensare il suo dolore. Egli era invece al di qua del dolore, al di qua dei pensieri che mavevano portato alla profonda conoscenza della vita di Elisa e poi della sua morte. Rimaneva con gli altri uomini, estraneo come tutti gli altri; e cos appoggiato al parapetto col suo impermeabile chiaro gettato sulle spalle e le mani nelle tasche dei calzoni faceva, per cos dire, da comparsa nella mia fantasia. Mi pareva che ogni tanto trasalisse, e allora trasalivo anchio, quasi che fosse giunto il momento di dirci ci che era necessario dire; ma forse era solo il vento che gonfiava il suo impermeabile e animava i suoi capelli, e lui restava immobile e assorto. Forse, mi dicevo, anche lui ha capito e sa ormai cosa ci aspetta, forse in questo momento la verit che teme si chiarisce anche per lui. E pensavo come Giulio per temperamento e per abitudine non manifestasse i propri dubbi n parlasse mai delle cose che gli riuscivano ancora poco chiare; come i suoi rapporti con gli altri, e anche, sebbene in modo pi intenso, lamicizia, si fossero sempre limitati a una conversazione serena piena dintelligenza e dironia. E mi chiesi se la freddezza che gli avevo sempre conosciuto non fosse la maschera di un modo di sentire troppo appassionato ma rimasto allo stato infantile, nella
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sua solitudine; se quellapparenza di uomo freddo e ironico non nascondesse un adolescente timido di fronte alle sue stesse passioni. Una sola, in lui, era diventata adulta, profonda consapevolezza: lamore per la cultura. In quel campo non solo era adulto, ma antico, quasi senza et. Ed era invece un bambino, di fronte a quel dolore che lo attendeva. A che pensava ora, a occhi chiusi, senza curarsi del vento che gli scompigliava i capelli sottili? Lo lasciai, e dopo avere spento la luce, mi distesi nella mia cuccetta, e pensai, anzi dissi come si dicono le parole di una preghiera serale: Elisa muore. Poi anche Giulio entr a far parte del giuoco delle ombre che si muovevano nella luce azzurrina della cabina, o meglio laggi a San Silvano attorno al letto di Elisa, la quale, estranea ormai, guardava come me, da lontano, quellaffaccendarsi di gente nella sua casa. A una certa ora di notte il piroscafo cominci a rullare. Dovevamo essere allaltezza delle Bocche. Immobile, secondavo il movimento ampio della nave. Il digiuno, come sempre, mi dava un senso di leggerezza e di precisione. Poi, come il mare dopo alquanto tempo si fu calmato e un dondolio pi dolce e largo mi avvolse di sonno, feci un sogno chiarissimo, uno di quei sogni che si ritrovano, non si sa come, nel ricordo della notte, anche quando si certi di non aver dormito: un sogno rapido come un gesto, ma che posso ancora riandare in tutti i particolari. Sono a San Silvano, svolto allangolo del giardino di casa, dirimpetto alla vasta tettoia del lavatoio pubblico, prendo la breve salita: ed ecco che un ragazzetto, un ladruncolo cencioso, con la giacchetta svolazzante dietro i gomiti stretti contro i fianchi, corre nel giardino, corre via tra gli alberi inseguito da una donna, si dirige verso la cancellata, si arrampica, la scavalca, si cala in istrada. Anchio corro, e con me unombra che mi camminava a fianco e non aveva avuto il tempo di precisarsi. Lombra apre le braccia, sbarra la strada al ragazzo: io lo afferro. Sento le unghie del ragazzo, simili a quelle di un animale selvatico, sul dorso della mia mano, e
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mi sveglio. Ma il sogno era l, fermo. Rasentavo un muretto, quando avevo visto il ragazzo tra gli alberi e i cespugli di vaniglia e di menta; le donne sotto la tettoia si sono accorte anchesse del ragazzo e si sono voltate a guardare, ritte, coi panni bagnati tra le mani, accanto alle massicce vasche di pietra donne che ho visto tante volte nelle strade buie, donne di San Silvano, dalla voce acuta, che riconoscerei senza fatica anche nelle strade di Acquapiana, di Pontario, di Norbio, di Ordena, bench non abbia mai scambiato parole con esse, allinfuori del saluto serale, qualche volta in campagna. E anche il ladruncolo un ragazzo di San Silvano, uno dei tanti piccoli ladri darance che escono furtivamente dagli orti col mostaccio e le mani incrostate di sudiciume. E io, sveglio, mi chiedo perch lho fermato: ho fatto quello che ho sentito raccontare tante volte dai servi del nonno, io che ho avuto sempre tanta simpatia per questi piccoli ladri. Mi sono buttato su di lui con la precisa intenzione di fermarlo e di punirlo, e con me lombra che mi camminava accanto, che divent una donna nellatto di aprire le braccia e di sbarrare la strada al ragazzo. Ero uno di San Silvano, come il nonno, lo zio Guglielmo e i loro servi, nel sogno. Tanta era stata la sua evidenza che il ragazzo, io, la donna che apriva le braccia ci staccavamo dalla necessit dei nostri atti, e come i personaggi di certi libri, che pare abbiano una vita estranea al libro stesso, acquistavamo autonomia e individualit; e con noi le donne sotto la tettoia, lo scroscio dellacqua nelle vasche. Ma come il quadro intorno acquistava evidenza, il ragazzo, la breve lotta tra noi, le sue unghie aguzze sulla mia mano, tutte queste sensazioni si offuscavano, sparivano nella vastit del paese che sallargava nella luce invernale del sogno: San Silvano senza di me, senza Elisa. Dagli obl si vedeva trascorrere il cielo grigio, la costa senza vegetazione, le basse colline scabre, e, se mi alzavo a sedere nella cuccetta, il mare schiumoso e rapido. La cuccetta di Giulio era vuota.
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Lo trovai sul ponte, tutto arruffato e pallido, col bavero dellimpermeabile alzato. Mi disse di essere salito sul ponte per vedere i marinai alle manovre. Aveva gli occhi rossi e le labbra crettate; ma poteva anche essere stanchezza. Allora mi tornarono in mente i pensieri del giorno prima ma confusi e senza forza, un ricordo scialbo, pi che altro. Non ero pi certo di nulla. Cinoltravamo nel braccio di mare che sinsinua tra le coste basse: mancava poco allo sbarco, questione di mezzora, al massimo. Il ponte saffollava di passeggeri che si disponevano lungo il parapetto con le valigie al piede, e tutti sembravano avere negli occhi pensieri precisi, definiti. Perch ero cos certo ieri che Elisa moriva? mi chiedevo guardando il viso triste e sbattuto di Giulio; e la confusione presente era pi tormentosa della certezza del giorno prima. Quando Giulio sallontan, io pensai se non fosse certo anche lui ora, come ero stato io, che Elisa sarebbe morta; e aspettai che tornasse, per vedere il suo viso e leggerci questo pensiero, se cera. Sotto la tesa del cappello, quando torn sul ponte, il suo sguardo mi parve pi raccolto, padrone di s. Sorpresi i suoi occhi che mi scrutavano mentre cercavo il biglietto nella tasca interna della giacca, e improvvisamente, preso da un senso di disagio e di rabbia, dissi tra me che poteva scrutare a volont, tanto non avrebbe scoperto alcun pensiero sulla mia faccia: e finsi di sbadigliare assonnato. Ma il finto sbadiglio ne stimol uno vero: sbadigliavo con tutta la faccia, come se fossi solo, mentre scendevo la scaletta del pontile, e una signora mi guard e si volt dallaltra parte, severa. Sbadigliavo, e accoglievo in quello sbadiglio la piccola stazione, il molo, i treni; i monti, gli eterni monti esigui e brulli. Che strano effetto mi facevano i luoghi che attraversavo o che semplicemente pensavo, in certi momenti! Mi parevano familiari, come un tempo era stato San Silvano, luoghi e citt, da una parte e dallaltra dellAppennino, sul continente lontano, distanti e uniti nello spazio. Pensai a Lia. Quando lavevo
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baciata sotto i platani delle mura, mi era parso che quegli alberi mappartenessero come i pini di San Silvano quando leggevo Leibniz: quel senso di possesso che d la conoscenza profonda, per cui un oggetto cos completamente esaurito dalla conoscenza che non esiste pi fuori di essa. Avrei voluto dire a Giulio questo pensiero, ma tosto, come uno che sia stato sul punto di cadere, preso da un capogiro e si riabbia lentamente, maccorsi, guardando quei monti e gli alberi oltre il treno, che quel paese cos povero e noto non era che un relitto della mia conoscenza di un tempo, divenuto arido, impenetrabile. Persisteva fuori di me, nulla pi lo faceva mutare. Tornai col pensiero a Lia e alla sua umida citt autunnale, quando il treno si mosse: e appoggiata la testa al vetro, il ricordo della sua tenerezza mi sforz a lacrimare. Allora Giulio pose fugacemente sulla mia la sua mano calda dinsonnia, e io capii, guardandolo, che doveva avere pianto molto anche lui durante la notte. Nessuno dei passeggeri savvide delle mie lacrime, e per meglio nasconderle stetti un pezzo con la fronte appoggiata al vetro. Giulio pareva tranquillo. Vedevo le sue mani incrociate sulle ginocchia, i suoi occhi chiusi. Pensai che anche lui sapeva ci che io avevo saputo fino al giorno prima e che ora il mio spirito non afferrava pi con precisione: e anche questo pensiero mi sfior appena. Ero come uno che, in sogno, voglia aggrapparsi a un sostegno e si senta venir meno la forza nelle dita. passata una giornata da ieri, pensai; e tutto mi parve naturale, anche il mutamento che sera operato in mio fratello. Il suo pianto era impenetrabile come la notte, dentro la quale il piroscafo aveva fatto la sua rotta. Io non ne avrei mai saputo nulla. Cera caldo nella camera, e nessuno osava aprire le finestre per via del vento; cera troppa gente, come accade in queste circostanze, che tutti presumono di essere utili, specialmente le donne. Le parenti di Pontario avevano
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preso possesso di una seggiola, di una poltrona, di un posticino nel divano, dove stavano strette luna allaltra, e ci lasciavano il fazzoletto o la borsetta, quando Rita, in punta di piedi, le chiamava dalla stanza accanto affacciandosi alluscio. Erano decise ormai a non andarsene prima della fine. Vincenzo ci era venuto incontro sulle scale, ci aveva presi per il braccio e ci aveva condotti fino al letto di Elisa, poi era tornato al suo posto senza dir parola e aveva ripreso a muovere piano piano il ventaglio accanto alla tempia di lei. La signora Blesilda mi sfior la mano e mindic due sedie libere, un poco discoste dal letto. Giulio savvicin, baci Elisa sulla guancia e la chiam per nome; ma io non ebbi la forza di fare altrettanto vedendo che essa non lo riconosceva. Ci sedemmo. Due signore che stavano sedute tra il com e la finestra mi guardarono con aria di rimprovero, con insistenza, come le donne che avevo incontrato alcuni mesi prima nella valle del Narti. Mi rimproveravano evidentemente di non essermi gettato su quelle povere mani insensibili. Sapevo cosa pensavano di me, quelle parenti sconosciute, di me e di Giulio che certo non sera riscattato ai loro occhi per quel bacio lieve sulla guancia della morente. Avevano visto il nostro telegramma, quello che Giulio aveva indirizzato a Elisa e che la signora Blesilda aveva fatto circolare tra i presenti. Quellindirizzo aveva fatto fare alle signore molti commenti sulla nostra leggerezza. Ne avevano parlato tanto, e ci avevano atteso con curiosit e con piet ai piedi del letto, disposte a perdonarci di essere stati sempre cos diversi da loro e dai loro uomini. Eravamo stati sempre inspiegabilmente superbi, anche se loro avevano fatto mostra di non accorgersene. Quando avevano sentito il calesse fermarsi davanti al portone, i loro occhi si erano riempiti di lacrime. Fin da ragazzo avevo notato come il nostro riserbo offendesse i parenti di San Silvano; e questi nuovi di Pontario non erano diversi da quelli e immaginavano che, anche ora, soltanto la nostra superbia cimpedisse di abbandonarci alle manifestazioni di
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dolore che serano aspettati. Per meglio giustificare il sentimento di rancore che si era acceso improvvisamente nei loro cuori, pensavano che noi non avevamo mai amato veramente nostra sorella. Dalle facce immobili di Matilde, Valeria, Concetta e Antonia Fumo, sedute tutte e quattro sullo stesso divano, vedevo gli occhi volgersi furtivamente a spiarci; facce devote e pallide, severe come quelle della signora che aveva sorpreso il mio sbadiglio sulla scaletta del piroscafo. Cos dovevano essere anche quando, digiune, dopo lunghe preghiere, saccostavano alla balaustrata di finto marmo per comunicarsi. Alcune recitavano il rosario, altre, forse parenti pi strette, lavoravano a maglia seguendo lesempio di Blesilda Argei. Pi spesso delle altre signore del suo gruppo, la signora Blesilda veniva chiamata nella stanza accanto da una serva. Infatti, pur avendo preso da alcuni giorni la direzione della casa di Vincenzo, ella non cessava di occuparsi anche della sua casa, dove tutto continuava a procedere con ordine e regolarit. Lei aveva fatto preparare le nostre camere, lei aveva mandato alla stazione Gavino col calesse, lei ci aveva detto: Pazienza! venendoci incontro nellatrio, lei sola ci aveva aspettato; e le altre parenti seguivano i suoi pensieri con devota ammirazione. Non ci aspettava, la stazioncina di Pontario, si sarebbe detto che noi lavessimo sorpresa, e con lei il paese e i monti, in una giornata qualunque. Dalla camera di Elisa le signore, imitando anche in questo Blesilda, dirigevano la loro casa. Rita, che non permetteva alle loro serve di salire, e faceva uneccezione per quella della signora Blesilda, veniva ogni tanto a chiamare ora luna ora laltra, ed esse scendevano un momento in cucina, dove le loro donne aspettavano sedute accanto al fuoco. Come avrebbero potuto altrimenti resistere per tante ore chiuse in quella stanza? Avevano bisogno di prendere una boccata daria, ogni tanto, di sapere che i ragazzi avevano fatto merenda, che il marito era rientrato, che le chiavi del magazzino erano state rimesse al loro posto. Il loro spirito si
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divideva tra la casa colpita dalla sciagura e la loro, piena come sempre di voci forti e tranquille, ringraziando il Signore! Questo confronto accendeva in loro uno zelo silenzioso, un fervore di buone intenzioni. Per Elisa oramai non cera pi nulla da fare; bastava muovere pian piano il ventaglio accanto alla sua tempia. Quando Vincenzo laveva posato sul tavolino per venirci incontro, Concetta Fumo aveva preso il suo posto; non perch credesse davvero di dare qualche sollievo alla morente, ma perch quel palpito era come un segno di vita fuori di lei, gi cos immobile, e faceva s che esse potessero aspettare senza impazienza di fare ci che gi avevano predisposto nella loro mente, ognuna, secondo gli usi, essendosi gi scelta il suo compito. Tutto era pronto in una stanza accanto: la biancheria, labito da sposa, i ceri. A un tratto Giulio salz, accost la sedia al letto rumorosamente. Qualcuno gli si avvicin indicandogli il ventaglio di Vincenzo: gli dissero che lammalata aveva bisogno di aria, che era necessario stare un poco discosti. Ma Giulio aveva preso nella sua la mano destra di Elisa, dove era, nel dito medio, la cicatrice del patereccio e lunghia nuova, pi tenera delle altre. Guardava attentamente, chino, come se cercasse di riconoscerla, quella mano nuda dove non cerano pi gli anelli della mamma, che io mero dimenticato di prendere per farli saldare come avevo promesso ad Elisa quando li avevo segati. Di nuovo una delle sorelle Fumo si avvicin a Giulio e gli tocc la spalla, ma Vincenzo si alz e disse: Lasciateci soli. E vedendo che nessuno si muoveva, ripet: Vi prego, lasciateci soli. Parlava con voce ferma, ma ogni tanto un singhiozzo lo scuoteva. Quando le signore furono uscite, chiuse la porta e apr la finestra che dava sul cortile. La stanza si riemp di aria fresca. La riconobbi: era la stanza degli ospiti, dove anchio avevo dormito. Giulio aveva indosso ancora il suo impermeabile chiaro e stava chino sulla mano
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di Elisa. Vincenzo si avvicin al letto e cerc il pulsante. Si ud il trillo del campanello, tre volte, allaltro capo della casa. Il cortile era vuoto e buio. In cucina e in sala da pranzo avevano acceso tutte le luci. Cosa aspettavano? perch avevano invaso la casa? e Maria? Non sapevo nulla di pi del giorno prima: come il giorno prima, sapevo che Elisa moriva. Non la vedevo n la sentivo morire, non lavevo quasi guardata. Cera gi dentro di me una certezza che nessuna sensazione esteriore poteva accrescere o modificare. Bussarono. Vincenzo chiuse i vetri della finestra e accese la luce: sul comodino, accanto a un bicchiere, cera una mezza arancia spremuta e altre due intatte, con la buccia grinzosa e brunastra, di quelle che le vecchie conservano sul guardaroba fino allinverno. Rita entr e Vincenzo le indic le sedie intorno e le fece cenno di portarle via. Rita le prendeva a due a due e le portava senza rumore nella stanza accanto, dove qualcuno parlava sottovoce. Di alla zia Blesilda che non lasci salire nessuno. Dille che la signora non desidera vedere nessuno. Rita si ferm e volse la testa verso di lui guardandolo, poi guard Elisa. Con quanta calma Vincenzo aveva detto quelle parole: La signora non desidera vedere nessuno!. Allora capii che era stato lui a telegrafarci, e pensai che Elisa doveva trovarsi in quello stato dincoscienza gi da alcuni giorni. Ti pare che si respiri meglio? mi disse poi. La luce in capo al letto batteva sul viso di Elisa e i suoi occhi erano aperti, immobili. Non era mutata ma solo un poco smagrita, e i capelli si erano diradati sulle tempie come dopo una lunga malattia. Perch non accendi laltra luce? dissi a Vincenzo indicandogli la lampada da notte sul tavolino. Ma lui credeva che gli chiedessi perch non accendeva anche quella. Mi guard fisso in faccia, negli occhi, esamin minutamente tutta la mia persona. Ogni tanto si sentiva qualcuno parlare
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a voce bassa nella stanza accanto, passi nelle scale, lo scatto degli interruttori nei muri. Me ne andai in punta di piedi, attraversai alcune stanze al buio, dirigendomi verso la scala, dove cera la luce accesa. Due ragazzette erano sedute sugli scalini e piluccavano un grappolo duva. Salzarono quando mi videro. Dov la signorina? chiesi. A letto, disse una delle ragazzette. Da molti giorni a letto?. Da ieri mattina. Laltra stava zitta e guardava ora me ora la sua compagna, sbriciolando nella mano un pezzo di pane. E il bambino? chiesi dopo un po. Per la prima volta da che ero arrivato pensavo al bambino, e non sapevo se fosse vivo o morto. Il bambino lhanno portato in casa della signora Blesilda. Anchio lho visto, disse laltra, pesa cinque chili!. Sta zitta, disse quella che aveva parlato per prima e che cercava di nascondersi la bocca col fazzoletto. Lo sai chi lo allatta? chiesi ancora. Hanno fatto venire la sorella della zia Rita da San Silvano. Quando mi allontanai sentii che bisticciavano fra loro a bassa voce, poi una si mise a piangere, come se la compagna lavesse picchiata. Tornai indietro e risalii alcuni scalini, ma sentendo i miei passi esse serano gi ricomposte. Quando mi allontanai di nuovo, sentii che ridevano. Evitai la sala da pranzo e uscii sulla terrazza. Cera buio. Nella massa scura della vite americana, si sentivano pigolii sommessi di passeri, uno qua uno l. Allora mi ricordai delle loro strida pazze che avevo ascoltato dalla stanza piena di gente, ritrovai dentro di me quelle strida, un albero pieno di passeri, e pensai che doveva essere il digiuno e il sonno perduto. Mi venne desiderio di mangiare pane e uva, il pane intriso nel succo dolce delluva,
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pane bigio, di quello dei servi. Tenendomi stretto con la mano sinistra a un palo di ferro che reggeva il pergolato, feci un piccolo salto e afferrai un grappolo duva che si spiaccic nel mio pugno: il succo col dentro il polsino della camicia lungo il braccio. Mi misi in bocca alcuni acini ancora acerbi. In quel momento un gruppo di signore usciva dalla porta di cucina. Attraversavano il cortile al buio. Ce lhanno fatto capire chiaramente, no? diceva la voce di Concetta Fumo. Mi pare che ce labbiano fatto capire abbastanza chiaramente. Altre uscivano alla spicciolata. Poi fu spenta la luce in sala da pranzo e rest solo quella della cucina, e, in alto, sospesa nella notte, la finestra della stanza degli ospiti. Rientrai in casa e mi distesi sul divano, in salotto. Mi addormentai di colpo. Mi svegli poi un trambusto nella stanza vicina, dalla quale venivano voci. La luce sotto la portiera era attraversata da ombre rapide. Capii dai rumori che stavano montando un letto; e per la prima volta sentii la stretta di quel dolore che mi era sembrato tanto diverso il giorno prima sul lungomare. Avevo pensato la morte di Elisa come avvenuta gi da tempo, anzi mera parso che Elisa, come la mamma, tornasse a me dalla morte, rifatta chiara nella memoria, saggia come sono i morti che ritornano a vivere nel nostro spirito. Cos avevo pensato la sua morte il giorno prima; e mentre piangevo nellangolo della carrozza, la sua morte non mi sembrava sconosciuta ma simile alla sua vita, come sarebbe stata se invece di maritarsi fosse rimasta nella nostra casa di San Silvano. Ora, improvvisamente, i rumori della stanza vicina me la facevano apparire, questa morte, nel suo aspetto fisico, incomprensibile. Quando si piange, non si pensa a nulla, e per questo il pianto accompagna sempre il primo affacciarsi della morte. Spesso, mentre piangiamo, ricordi di gesti, di parole attraversano il buio del nostro pianto, parole e gesti morti, usciti ormai da quel ciclo nel quale ogni tanto riapparivano tornando a noi, come astri, dal buio del tempo; ma se nel pianto si
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accende un pensiero (come questo, che col morire di quei gesti, di quelle parole familiari la realt rimane deserta e incomprensibile) subito esso ci strappa alla fissit del pianto. Qualche volta accade che continuiamo a singhiozzare e a lacrimare, ma col pensiero siamo gi lontani. Come siamo soli, allora, e come crescono rapidi i pensieri in quella solitudine! Pensieri che ritorneranno poi, tra gli altri della nostra vita, per tutta la nostra vita; e sono essi, sgorgati in un attimo, che perpetuano il nostro dolore. Ma io non piangevo, e tuttavia non pensavo a nulla, teso ai rumori della camera accanto. Mi alzai e apersi la finestra. Ricordai di aver letto, da ragazzo, nelle memorie di Franklin, che un bagno di aria fredda corrobora come un bagno di acqua, e pensai: Lavarsi con questaria. Altri pensieri incoerenti si succedevano, ma non riuscivo a fermarne alcuno: come la mattina, essi mi attraversavano senza lasciare traccia. E mi dicevo: Se riuscissi a fermare uno solo di questi pensieri, uno qualunque, a impadronirmene, potrei ricominciare a pensare. Mi feci animo e entrai nella stanza dove stavano preparando il letto. Lo cercavano, mi disse una donna che doveva essere la sorella di Rita, tanto le somigliava. Mi ricordai che una delle sorelle di Rita allattava il bambino. Che ore sono? chiesi. Le due. Le due e un quarto. Le donne avevano i fazzoletti legati dietro la nuca e le maniche rimboccate come quando fanno il pane. Venne Rita con una coperta di damasco da mettere sopra il letto. Tra la coperta e il materasso misero una tela cerata. Andai in cucina. Una vecchia che non conoscevo, forse parente di Rita o di qualche altra serva, era seduta accanto al camino. Cera un gran fuoco che illuminava tutta la cucina. La vecchia si alz, poi subito, a un mio cenno, torn a sedersi. Portava un fazzoletto scuro color caff e uno scialle
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a scacchi, nonostante il calore del fuoco. Aprii la credenza per cercare qualcosa da mangiare. Trovai pane e formaggio e quel tanfo particolare delle credenze lasciate alla discrezione delle serve. Presi il pane e il formaggio, e mi sedetti anchio accanto al fuoco. Volete? dissi alla vecchia. Fece cenno di no. Coi gomiti appoggiati alle ginocchia tendeva verso il fuoco le mani sporgendosi con tutta la persona, e ogni tanto se le sfregava come fanno i contadini. Non faceva freddo, e tutti i movimenti della donna erano vuoti, inutili, anche il suo sbadiglio. Capii che mi giudicava perch mangiavo mentre nello studio di Vincenzo stavano preparando quel letto che continuavano a trascinare sul pavimento come si fa coi tavolini che hanno una gamba pi corta fino a che non si trova il punto giusto. Pensai che forse la vecchia, e tutti gli altri con lei, avevano ragione di credere che non avevo amato mia sorella. Solo Vincenzo doveva aver sentito lesistenza dellamore che ci univa; doveva averlo sentito, se non altro, come pericolo. Doveva guardarsene, da questo amore sconosciuto, che era entrato con Elisa nella sua vita. Quante volte ella era stata lontana da lui proprio mentre la credeva pi sua! Per quanto saggia e avveduta e attentissima alle cose pratiche della vita, tanto che la mia giovinezza e quella di Giulio erano venute su robuste al riparo di quella saggezza che ci permetteva di vivere liberi da preoccupazioni materiali, anche Elisa aveva la mia stessa tendenza a fantasticare. Eppure non ci avevo mai pensato, tanto il suo fantasticare era diverso dal mio e da ci che comunemente si chiama fantasticare. Per giustificare di fronte a me stesso questa parola, che usavo solo in attesa di trovarne una pi appropriata, come mi accadeva quando, scrivendo, non mi veniva subito quella giusta, mi rifacevo a qualche mese prima, al tempo dei miei dubbi sulla sua gravidanza, e ripensavo al suo viso assorto. Fantasticava con tutto il suo essere, con tutto il mondo che la circondava; e la sua fantasia non
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appariva distinta da esso, dalla realt. E alla fine, ecco, ella la sentiva sfuggire; come il pensiero della sua morte, dopo il primo momento di certezza, era sfuggito al mio spirito, come sfuggivano tutti i miei pensieri, quella sera, mentre guardavo i riflessi della fiamma sulle mani brune e dure della vecchia sconosciuta. Ed era rimasta l a guardare quei fantasmi che dileguavano, tornata, come per limprovviso destarsi da un sogno, alla desolazione dalla quale, come la mamma, aveva tentato invano di uscire. Solo dopo la sua morte ho capito la desolazione della sua solitudine a San Silvano. La tristezza che trovavo nella nostra infanzia io lavevo conosciuta, come un sentimento sofferto dagli altri, bench fosse allorigine stessa della mia vita. Avevo guardato da lontano quel paese della tristezza. Quando si arriva a questa solitudine disperata, ci si mette a giocare con niente, come quei carcerati che fabbricano fiori di mollica di pane o si illudono di accennare un motivo musicale tambureggiando col cucchiaio sullorlo della tavola. Elisa aveva i nostri poderi da amministrare: questa era per lei la musica monotona del toc-toc, la danza del cucchiaio sullorlo del tavolo, nella quale Vincenzo dapprima era entrato. Quando Vincenzo aveva messo piede per la prima volta nelloliveto di Lugheria, aveva detto scherzando a Gavino: Si vede che qui vi amministra qualche vecchio, qualcuno che si alza tardi e preferisce starsene accanto al fuoco. No, signore, aveva detto Gavino, donna Elisa Alicandia che ci amministra. Vecchi non ce ne sono, e donna Maria morta da otto anni. Lui lo sapeva bene chi amministrava i poderi, ed era fiero di lei, e pieno di tenerezza e di gioia pensando come sarebbero stati quegli ulivi e quei mandorli fra qualche anno. Con la forza della realt, aveva collaborato anche lui al fantasticare di Elisa, che sera rinvigorito con quegli alberi. Era venuta la primavera, per quanto a fatica, per quanto ritardata dalla nostra ostilit.
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Della morte di Elisa non ho avuto modo di sapere con precisione le cause se non qualche tempo fa. Il cuore, mi dicevano allora, non ha resistito. La gravidanza infatti, contrariamente a quanto mi avevano lasciato supporre le lettere di mia sorella, era stata molto penosa. A Vincenzo non era il caso di fare domande, tanto era affranto; eppoi, in quel momento, non si rendeva conto neppure lui di quanto avveniva. Nelle ultime ore le labbra della morente si saldavano minacciando di soffocare il respiro gi tanto debole. Allora Vincenzo gliele umettava ogni tanto con qualche goccia di aranciata, e cominci a dire che bisognava mandare in citt a prendere lossigeno. Don Alfonso Alicandia voleva andarci lui con la macchina di Antonio, ma il medico, quando fu uscito dalla stanza, gli disse che ormai era questione di minuti. Giulio aveva preso il posto occupato prima da Vincenzo e agitava pian piano il ventaglio. Cera sempre quella luce troppo forte sugli occhi immobili di lei. Vincenzo, ogni tanto, faceva cenno agli altri parenti di scostarsi. La stanza era di nuovo piena di gente e le serve si affacciavano alluscio per vedere. Secondo luso, le tolsero alcune immagini che le avevano messe sotto il cuscino, perch potesse morire, come dicono in Parte dIspi. Gliene lasciarono solo una, di non so che Santo, che aiuta la morte. Guardando i gesti rituali della signora Blesilda e delle altre donne, pensai che nessuno di noi aveva mai portato indosso immagini, se non da bambini. A un tratto vidi Vincenzo impallidire. Aveva smesso di far cadere le gocce di aranciata sulle labbra di Elisa e la guardava fisso. Solo io maccorsi che lo faceva di proposito, in seguito a una risoluzione disperata. Dopo un poco il viso di mia sorella si tese in uno spasimo e solo con grande sforzo le labbra si dissaldarono. Allora la bocca si apr come per uno sbadiglio e tutto il corpo si contrasse. Quando riaprii gli occhi sera ricomposta. Era bellissima. La bellezza cresceva visibilmente sul suo viso. Vincenzo sera appoggiato
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SAN SILVANO

al muro, rigido come un tronco, e fu portato via quasi di peso. Poi fecero uscire anche noi, e dopo un poco vidi Ettore Fumo che portava in braccio una donna avvolta in un lenzuolo reggendola con un braccio sotto le ascelle e uno sotto le ginocchia, come si portano i bambini. E dal lenzuolo uscivano un braccio e i piedi nudi. Il viso era coperto. La riconobbi dai capelli. Mi dissero che la portavano a pianterreno per vestirla e comporla sul letto che avevano preparato. Io non piansi neanche allora. Me ne stetti affacciato fino allalba alla finestra. Qualcuno mi port una tazza di caff. Quando fu giorno, una vecchietta vestita di nero, con una sciarpa pure nera intorno al capo, attravers il cortile, pass sotto la vite americana e cominci a salire faticosamente gli scalini dello studio. Allora piansi anchio e mi fece bene, come il sonno. Ancora oggi mi chiedo se non labbia condotta alla morte la nostra ostilit. Era fatale, dicono la gente semplice e gli estranei. Ma chi ama sempre pieno di dubbi, anche se non ne parla perch sarebbe troppo doloroso o forse troppo difficile. Tra i miei dubbi c stato questo pensiero, che per molto tempo non mi risolvetti di confidare a Giulio, che Elisa se nera andata per colpa nostra. La nostra ostilit doveva farsi sentire ogni tanto nella sua fantasia come rumori nel sonno; e forse, quando pi era necessario che lei fosse forte nella sua fantasia e in se stessa, fin per destarla. Se destandosi da quella fantasia lavesse ritrovata in noi, in me e in Giulio, forse ancora una volta sarebbe avvenuto il miracolo: la fantasia non sarebbe stata pi solo fantasia, ma vita, trasparente, comprensibile vita. Quando glielo dissi, dopo alcuni mesi (era venuto in Italia per la pubblicazione del suo libro), rimase pensieroso, poi mi confess che anche lui ci aveva pensato. E non me ne meravigliai, bench fosse la prima volta che i nostri pensieri sincontravano. Maccorsi che anche lui finalmente capiva Elisa come me, la ritrovavo in
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lui come sempre lavevo pensata. Mi disse anche che quelli di Elisa non erano stati sogni ma vera fantasia, e dava a questa parola il significato che essa aveva comunemente nei nostri discorsi, e diceva che, come quella di un artista, la fantasia di Elisa era sempre stata sul punto di diventare vita; e che anzi non era del tutto morta neanche ora, ma continuava a vivere ritratta in se stessa, fatta quasi irriconoscibile, come un seme, ma poteva di nuovo venir su da quel seme, come un albero simile a quello da cui il seme era nato. E bisognava aver fede. Disse proprio questa parola, che tra quelle che usa pi di rado, come amore, amicizia, e altre che hanno per lui una storia complessa e segreta che il suono della parola non pu esprimere. Non disse altro, ma io capii che alludeva al bambino, che noi non avevamo potuto vedere, prima di partire, perch, essendosi guastato il latte della sorella di Rita, lavevano mandato a balia a Ordena.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2003 presso lo stabilimento della Fotolito Longo, Bolzano

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