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È il divertimento parte della nostra vita?

Forse …Ma che cosa e il divertimento?Perché divertimento anziché é gioco? Ho paura che se parliamo
di divertimento ci mettiamo dalla parte di ragazzi immaturi o di uomini che non sanno pensare a se
stessi. “Ho scoperto – dice Pascal - che l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper
restare tranquilli in una camera…l’infelicità della nostra condizione, debole, mortale è così miserabile
che nulla ci può consolare quando la consideriamo seriamente. Così l’uomo cerca di distrarsi e si
disperde in attività che lo illudono mentre impegna sé stesso a illudere gli altri…." ”Gli uomini, aggiunge,
non avendo potuto guarire la morte, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici”: una frase che
anticipa Heidegger quando dice che l’uomo non esce dalla genericità delle opinioni impersonali che
dominano la chiacchiera quotidiana e se la morte è un evento ineludibile assolutamente proprio di
ognuno, è sempre considerata come cosa degli altri e nessuno l’assume autenticamente su di sé.
Dunque non resta che rattristarci finché vita ci resta? Non so, io credo che al divertimento si possa
opporre il gioco, che sfugge agli strali dei moralisti. Perché?

comunemente si considera il gioco come un’attività svincolata da fini utilitari e di vera aggressività;
qualcosa che negli individui giovani (e negli animali) porta all’esplorazione e all’apprendimento, mentre
dagli psicologi è stato studiato come elemento portante di uno sviluppo delle emozioni, dell’intelligenza
e del comportamento sociale: un'attenzione che ha portato a far comprendere i valori del gioco ben
oltre quello che la cultura poteva ritenere possibile fino a un secolo fa, e che però nell’arte e nella
filosofia sono andati spesso più avanti, perfino nella dialettica socratica e platonica e sboccando, sulla
scena ateniese, in una concezione del gioco in versione farsesca addirittura come catarsi del dramma
tragico. Trascorrendo i secoli si potrà parlare di Schiller impegnato a tradurre il giudizio estetico kantiano
in quel concetto di libero gioco delle facoltà umane che sostiene la possibilità di una risoluzione della
storia, inaridita dalla divisione del lavoro, nella riconquista di un’armonia perduta. E non ho bisogno di
citare Nietzsche che, attraverso o al di là della concezione dionisiaca e degli sforzi per assurgere alla
volontà di potenza, sembra, nello Zarathustra che danza, innalzare sul gioco di forze cui l’uomo può
consegnarsi, un gioco sempre più alto, fino a quel ripetersi eterno dell’uguale in cui ogni momento
possiede tutto il suo senso.

Forse si può andare oltre? Si può concepire che l’essenza del gioco stia nell’intenderlo non solo come un
modo per educare il bambino e arricchire l’adulto; e neppure come un emblema grazioso di qualche era
avvenire pacifica ed armoniosa, ma addirittura come ciò che può non solo simboleggiare ma in qualche
modo realizzare un ritorno all’Eden, cioè una soppressione del male, se non addirittura una redenzione
dell’esistenza? Perché forse il gioco può appagare perfino ciò cui la religione aspira, sostituendosi all’ira
e agli incubi dei profeti e a quella brama di eroico martirio che ancora spinge i popoli a combattere per il
proprio Dio tingendo di sangue la terra.

Luciana F.

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