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Fisiologia I

12 novembre 2010

1
Indice

I Spidalieri 4
1 Lezione 1 4

2 Lezione 2 11

3 Lezione 3 17

4 Lezione 4 21

5 Lezione 5 27

6 Lezione 6 34

7 Lezione 7 44

8 Lezione 8 53

9 Lezione 9 61

10 Lezione 10 74

11 Lezione 11 84

12 Lezione 12 91

13 Lezione 13 99

14 Lezione 14 106

II Bonifazzi 112
15 Lezione 1 112

16 Lezione 2 119

17 Lezione 3 124

18 Lezione 4 131

19 Lezione 5 139

III Guandalini 141


20 Lezione 1 141

21 Lezione 2 143

22 Lezione 3 148

23 Lezione 4 153

24 Lezione 1 [R] 156

25 Lezione 2 [R] 159

2
26 Lezione 3 [R] 164

27 Lezione 4 [R] 168

28 Lezione 5 [R] 173

29 Lezione 6 [R] 178

30 Lezione 7 [R] 181

31 Lezione 8 [R] 185

32 Lezione 9 [R] 190

3
Parte I
Spidalieri
1 Lezione 1

Il sistema circolatorio in figura, pur non ricordando l’organizzazione anatomica reale, evidenzia nel
cuore la sede del meccanismo a pompa che assicura la propulsione del sangue lungo i vasi. Un globulo
rosso in uscita dal ventricolo sinistro può imboccare solamente l’unico vaso afferente del ventricolo
che è l’aorta; a partire dall’aorta si originano, in ordine, le grandi arterie, le medie arterie, le piccole
arterie, le arteriole ed i capillari. A partire dai capillari i vasi cominciano a confluire, prima nelle venule,
poi nelle piccole vene, nelle vene medie, nelle grandi vene ed infine nelle vene cave. Tutto il sangue
proveniente dal circolo sistemico si riversa nell’atrio destro, poi nel ventricolo, da qui inizia il percorso
polmonare attraverso l’arteria polmonare e ritorna all’atrio sinistro attraverso le vene polmonari. Le
conclusioni che è possibile trarre sono due:

• Il circolo cardiocircolatorio è chiuso.


• I vasi del sistema sono organizzati secondo due strategie:

– In serie: i vasi appartenenti ad una diversa tipologia funzionale (es. le grandi arterie sono in
serie con le arterie medie)
– In parallelo: i vasi appartenenti alla stessa tipologia funzionale (es. tutti i capillari tra loro)

Nell’immagine si nota inoltre che il circolo sistemico e quello polmonare non sono indipendenti ma
vengono collegati dal circolo bronchiale che inizia dal primo circolo e termina nel secondo. Le “X”

4
presenti stanno ad indicare i punti di controllo del sistema, cioè le sedi in cui è possibile ad esempio
far pervenire una maggiore quantità di sangue al rene piuttosto che alla mano.
Una conseguenza della proprietà del circolo di essere chiuso è la possibilità di definire l’area di
sezione trasversa, cioè l’area di sezione di tutti i vasi che tra loro condividono tipologia anatomofun-
zionale; la sezione trasversa dell’aorta sarà quindi data dal contributo di quest’unico vaso e coinciderà
con il suo diametro mentre la sezione trasversa capillare sarà data dai contributi dei diametri dei mil-
iardi di capillari esistenti. Una seconda conseguenza della chiusura del circolo è che il flusso a livello
di una data sezione trasversa debba essere uguale a qualsiasi altra sezione, cioè:

V
Q= = costante
t

Il flusso a livello dell’aorta deve dunque essere uguale a quello dei capillari: se questo non avvenisse il
sangue tenderebbe ad accumularsi in un distretto e il flusso si arresterebbe. I due ventricoli sono tra
di loro posti in serie e quindi la costanza del flusso deve valere anche per essi.

La figura sopra schematizza le tipologie di vasi presenti nel sistema cardiocircolatorio. Il diametro
dei vasi diminuisce dall’aorta ai capillari e aumenta da questi ultimi alle vene: i vasi in serie hanno
diametri diversi, decrescenti sul versante arterioso, crescenti in quello venoso. Il secondo numero
indica lo spessore della parete: è evidente come il rapporto tra spessore e diametro segua un andamento
opposto al semplice diametro. Nella parete dei vasi si riconoscono quattro tipologie di tessuto che
conferiscono loro varie proprietà:
• Endotelio

• Fibre di elastina
• Fibre collagene
• Muscolatura liscia

L’elastina ed il collagene diminuiscono dall’aorta ai capillari mentre le fibre muscolari mostrano un


aumento.
Elaborando il concetto di flusso costante è possibile affermare che questo sia il prodotto della velocità
per l’area di sezione trasversa:

5
V h·A h
Q= = = ·A=v·A
t t t

I valori di velocità e di area di sezione trasversa sono dunque inversamente proporzionali in ogni sezione
del sistema e questo può essere reso visibile nel grafico sotto:

L’area di sezione trasversa raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei capillari (il valore è ottocento
volte maggiore di quello aortico), per contro la velocità raggiunge il suo picco all’interno dell’aorta, con
un valore di circa 30cm/sec.
La funzione del sistema cardiocircolatorio è apportare sostanze nutritive ai tessuti e allontanare i
prodotti di scarto: se questo fosse però l’unico scopo si potrebbe correlare la perfusione di un organo
con il suo consumo di ossigeno ma quando si mettono a confronto i dati i risultati sono diversi.

La relazione tra perfusione e consumo non è diretta e in particolare vi sono alcune variazioni importanti:

• Il rene è perfuso in eccesso e questo è legato alla sua funzione di filtro nei confronti del sangue
• Il muscolo è perfuso in difetto e questo è legato alla sua capacità di estrarre efficacemente ossigeno
dal sangue
• La cute è perfusa in eccesso e questo è legato alla sua funzione di termoregolazione

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Una regola semplice per dividere il volume di sangue in uscita dal ventricolo verso i vari organi è la
“regola del 25%”:
• 25% al rene
• 25% al cervello e alle coronarie

• 25% al muscolo e alla cute


• 25% al fegato e agli altri visceri

I vasi sanguigni hanno un comportamento di tipo elastico e la legge che regola il comportamento
dei corpi elastici in fisica è la legge di Hooke. La legge dice che la tensione sviluppata a seguito del-
l’allungamento di un corpo elastico dipende dal suo modulo di Young e dall’allungamento stesso, in
formula:

F L − L0
=Y ·
A L0

con L0 lunghezza iniziale del corpo e Y modulo di Young. La legge di Hooke in forma grafica ha
questo aspetto:

Questa legge è valida solo in presenza di un materiale omogeneo. Da notare che per la fisica un
corpo è tanto più elastico tanto più si oppone allo stiramento e questo è un uso opposto del termine
rispetto a quello colloquiale (un filo di rame per la fisica è più elastico di uno in gomma). L’entità di
allungamento è importante in quanto se questa è consistente si raggiunge un punto limite superato il
quale le proprietà elastiche si modificano e la legge di Hooke non è più valida in questa forma.
I vasi sanguigni delimitano fisiologicamente un organo cavo e sarebbe infelice studiare la loro relazione
tensione-lunghezza: è però possibile derivare una relazione più comoda con pochi passaggi.

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La figura sopra mostra tre pareti con diverse proprietà elastiche ma che racchiudono un volume uguale.
Se i palloni vengono gonfiati le spire vengono dilatate e la parete si allunga: abbiamo allora una vari-
azione di lunghezza. A questo rigonfiamento corrisponde la messa in tensione della componente elastica
che per reazione tenderà a comprimere il contenuto del pallone e quindi ad aumentare la pressione:
nell’analizzare il comportamento di un organo cavo andrò dunque a seguire la relazione pressione-
volume anzichè quella tensione-lunghezza. Una prima relazione tra la pressione e la tensione è datta
dalla legge di Laplace, la cui formulazione è:
1 1
P ∝T ·( + )
R1 R2
Conoscendo la pressione è dunque possibile risalire alla tensione presente. Passando alla relazione
pressione-volume è possibile definire due grandezze rilevanti, l’elastanza e la complianza. Le formu-
lazioni matematiche dei due concetti sono

E= ∆P
∆V C = E −1 = ∆V
∆P

L’elastanza è una misura di quanto si oppone il corpo alla dilatazione mentre la complianza è una
misura di quanto facilmente lo stesso corpo sia distensibile. In termini di grafico pressione-volume è
possibile individuare un corpo come più o meno compliante (o elastante):

Riprendendo la definizione matematica di complianza


V − V0
C=
P − P0
il volume a riposo è quello in cui la pressione interna è uguale a quella esterna; nella maggior parte
dei casi la pressione a riposto è uguale a quella esterna ed esprimendola dunque in termini relativi è
possibile scrivere P0 = 0 semplificando la formulazione della complianza:

8
V − V0 V − V0
C= −→ P =
P C
Quest’ultima equazione è possibile graficarla ottenendo un tracciato identico a quello della legge tensione-
lunghezza:

L’approccio finora usato vale anche per i vasi del nostro corpo? Il grafico sotto mostra i risultati di
alcuni esperimenti su un’arteria iliaca esterna umana:

L’arteria in generale è costituita da materiale non omogeneo e quindi la legge di Hooke a rigore non è
applicabile. Nell’arteria in esame ad un iniziale aumento di volume la tensione aumenta poco (quindi il
materiale è compliante) ma ad un certo punto la retta si impenna (il materiale diventa poco compliante).
La spiegazione di un tale comportamento sta proprio nella composizione della parete. Durante l’iniziale
aumento viene messa in tensione la componente di elastina del vaso e questa è molto compliante;
un successivo aumento di volume va a stirare la componente di collagene che invece è elastante:
la tensione subisce un’impennata. Questo tipo di approccio si può utilizzare anche in vasi diversi,
confrontando ad esempio vene ed arterie come nel grafico sotto:

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Si nota come le vene siano vasi molto più complianti delle arterie: queste ultime veicolano infatti
sangue ad alta pressione e non possono permettersi di cedere alla pressione. Il risultato di questo
diverso comportamento è che all’interno del circolo sistemico tre quarti del sangue sia nei distretti
venosi e solamente un quarto in quelli arteriosi/capillari. L’ultimo confronto da farsi è quello tra i due
circoli sanguigni:

Il circolo sistemico è molto più compliante di quello polmonare. Se aumenta la pressione all’interno
del circolo polmonare si ha un edema che innesca un passaggio di liquido dai capillari verso gli alveoli
con blocco della respirazione e rischio di morte: l’edema periferico è invece un evento molto più raro in
quanto le proprietà elastiche sono diverse.
Una particolarità delle arterie in vivo è che la loro complianza è legata all’età del soggetto: in generale
i vasi tendono ad essere meno complianti con l’età e questo giustifica il fatto che negli anziani la
pressione arteriosa è un pochino più elevata che nei soggetti giovani.

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2 Lezione 2
Quali vantaggi porta la possibilità di poter variare la tensione all’interno di un vaso? Il punto di partenza
è la figura sotto

La legge di Laplace, nella sua forma più semplice, dice che la tensione è il prodotto della pressione per
il raggio dell’organo. La situazione “a” è una situazione di equilibrio che viene turbato nella situazione
“b” con il passaggio della pressione da P a P + ∆P : come risultato il volume aumenta ma non lo fa
all’infinito perchè la tensione inizia ad opporsi finchè non viene trovato un nuovo equilibrio. Lo stesso
discorso vale nella situazione “c” dove è rappresentata una diminuzione della pressione. Lo scenario
cambia radicalmente qualora la parete fosse priva di componente elastica (o ne avesse una modesta):
ad ogni perturbazione non è più possibile ritrovare un equilibrio e si andrà verso le due reazioni estreme
di chiusura o scoppio del vaso. La combinazione di tessuto elastico e muscolare fa si che un vaso possa
variare il suo calibro e quindi adattarsi alle varie condizioni che si possono presentare.
I discorsi finora fatti non prendevano in considerazione il movimento del sangue all’interno dei
vasi: è necessario passare da un approccio emostatico ad uno emodinamico e la prima domanda a
cui rispondere sarà “quali fattori influenzano il flusso all’interno di un condotto?”. Immaginando di
avere un condotto all’interno del quale si muove un liquido, il flusso interno sarà dato, in determinate
condizioni, dalla formula
∆P
Q=
R
Le assunzioni richieste per arrivare a questa semplificazione sono principalmente quattro:
1. Il condotto ha raggio e lunghezza costante o, in altre parole, è rigido.

2. Il condotto è orizzontale e privo di curve.


3. Il liquido in movimento è di tipo newtoniano, obbedisce cioè alla legge della viscosità di Newton.
4. Il liquido si muove di moto laminare.

Fatte queste condizioni è possibile affermare che il liquido si muove grazie al gradiente pressorio ai capi
del condotto e viene rallentato dall’insieme di forze che va sotto il nome di resistenza. I primi tentativi
di determinare da cosa dipenda la resistenza nel condotto furono effettuati da Hagen e Poiseuille che
lavorarono su modelli idraulici fino a codificare la legge di Hagen-Poiseuille.
La figura sotto illustra i principi del moto laminare:

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Due lamine di liquido si muovono una a velocità V e una a velocità V + ∆V e scorrono una rispetto
all’altra: la lamina più vicina all’asse del condotto ha velocità maggiore e tende ad accelerare quella
sopra che di contro tende invece a frenarla. Il risultato delle interazioni tra le lamine è la creazione di
un attrito interno misurabile come una forza di resistenza data da
∆V
F =A·η·
∆X
dove A è l’area della lamina, η la viscosità. A partire da questa formula è possibile andare a calcolare
la velocità di una lamina che ha espressione

r2
Vt = Vmax · (l − )
R2
è questa l’equazione di una parabola per cui la velocità risulta essere massima al centro del condotto per
poi diminuire gradualmente verso la parete dove esiste una sottile lamina di liquido praticamente ferma.
Sostituendo il valore della velocità media nell’equazione del flusso si ottiene la legge di Hagen-Poiseuille:

πr4
Q = ∆P · ( )
8ηl
da questa relazione si può ottenere un’espressione della resistenza:

πr4 −1 8ηl
Q = ∆P/R → R = ( ) = 4
8ηl πr

La relazione di Hagen-Poiseuille è scomponibile in termini più concettuali nella forma

π 1 r4
Q = ∆P · · ·
8 η l

il flusso risulta allora essere dato dal prodotto di quattro fattori: la pressione di spinta, un fattore
numerico, la viscosità e un fattore geometrico. In termini colloquiali il flusso dipende dal gradiente
pressorio, dalla viscosità del fluido e dalla geometria del vaso.
Quali sono gli effetti sul flusso quando vengono variati gli elementi dell’equazione di Hagen-Poiseuille?
Il primo elemento da considerare è il fattore pressiorio ∆P con l’immagine sotto:

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Nel condotto orizzontale in esame viene generato un gradiente pressorio variando l’altezza delle colonne
di liquido nei due recipienti. Nel primo caso nel secondo recipiente la pressione da considerare è quella
atmosferica: il flusso risultante è pari a 5ml/s. Raddoppiando l’altezza del liquido nel recipiente A il
flusso raddoppia ma aggiungendo in B una quantità di liquido pari alla metà di quella in A il flusso
ritorna 5ml/s; il flusso si arresta del tutto quando le due colonne sono uguali: quello che conta è
dunque il gradiente pressorio. Prendendo in esame un distretto arterioso con una P di ingresso pari a
100 e una di uscita pari a 95 avremo un gradiente pressorio pari a 5, lo stesso di un distretto arterioso
magari con P di ingresso pari a 10 e una di uscita pari a 5. Il punto è che ciò che fa muovere il sangue
è il gradiente pressorio e non i valori assoluti della pressione. Se il gradiente pressorio viene dissipato
il flusso si annulla qualunque siano i valori locali di pressione.
Il fattore geometrico della legge di Hagen-Poiseuille è studiato con la figura sotto:

Nella condizione di partenza il flusso è 10ml/s. Raddoppiando la lunghezza del condotto il flusso
diventa la metà poichè la lunghezza è al denominatore: tanto più è lungo il condotto tanto minore è
il flusso a parità di altre condizioni. Raddoppiando il raggio del condotto il flusso diventa sedici volte
maggiore perchè questo fattore appare alla quarta potenza: basta quindi variare di poco il raggio per
avere grandi variazioni di flusso e questo testimonia l’importanza di avere vasi a calibro modificabile. Se

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i vasi non fossero a parete modificabile ma rigida l’unico meccanismo di regolazione di flusso sarebbe
la variazione della pressione: occorrerebbe sviluppare pressioni elevatissime per aumentare il flusso.
Nell’uomo il fattore l è invece poco importante in quanto qualunque sia la posizione assunta dal corpo
la lunghezza dei vasi si modifica di pochissimo.
Il fattore viscosità è di particolare importanza. In fisica l’unità di misura della viscosità è il Poise ma
in fisiologia si è soliti riferirsi alla viscosità relativa ponendo uguale ad 1 quella dell’acqua. Il grafico
sotto è il punto di partenza per studiare la viscosità del sangue:

La linea tratteggiata indica la viscosità dell’acqua. Se togliamo al sangue la parte corpuscolata e rimane
solo il plasma questo ha una viscosità pari a 1,8: se circolasse quindi solo plasma si incontrerebbero
resistenze quasi doppie rispetto ad una circolazione d’acqua. La parte corpuscolata del sangue è una
proporzione rispetto al totale: questa grandezza viene definita ematocrito e normalmente oscilla intorno
al 40%. Con un ematocrito pari al 40% la viscosità del sangue si colloca ad un valore compreso tra tre
e quattro volte quello dell’acqua. La componente corpuscolata è variabile, può aumentare o diminuire
e la viscosità non segue una relazione lineare ma anzi è quasi esponenziale. Il flusso è inversamente
proporzionale alla viscosità e quindi quando l’ematocrito aumenta il flusso diminuisce. In ambito
patologico si possono allora avere due estremi:
• Grave anemia: la viscosità diminuisce di molto e il flusso aumenta con una contemporanea
diminuzione della pressione.
• Policitemia: la viscosità aumenta e i vasi possono chiudersi. COn un aumento dell’ematocrito da
40 a 60 la viscosità del sangue quasi raddoppia e quindi anche la resistenza al flusso è quasi
doppia.

Considerati i singoli fattori che contribuiscono alla legge di Hagen-Poiseuille è giusto chiedersi se
questa sia applicabile anche al nostro organismo e la risposta va data per gradi esaminando ogni
aspetto.
Il primo elemento da considerare è la viscosità del sangue e se esso sia o meno un liquido new-
toniano. Per esaminare la viscosità del sangue si può ricavare una formula a partire dalla legge di
Hagen-Poiseuille:

πr4 πr4
Q = ∆P ( ) =⇒ η = ∆P ( )
8ηl 8lQ
Entrambi gli scienziati fecero degli esperimenti su condotti artificiali sui quali variavano i vari parametri
e andando a misurare il flusso poterono ricavare la viscosità. Se un liquido è di tipo newtoniano la
viscosità è costante in qualsiasi condizione. Gli esperimenti mostrarono che con condotti di diametro
superiore al millimetro il valore di viscosità era costante ma scendendo a diametri inferiori il valore
di viscosità risultava inferiore al previsto: la viscosità dipende dunque dal calibro dei vasi e questo
dimostra che il sangue non è un liquido newtoniano1 . Questi risultati non sono però ritenuti sufficienti
a rigettare la formula perchè alla fine di ogni condotto arterioso è presente un circolo capillare e quindi il
1 In esperimenti su arti di animali il risultato era ancora inferiore rispetto al previsto, ad ulteriore dimostrazione delle

caratteristiche del sangue.

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sangue in tutte le condizioni segue lo stesso percorso: in altri termini il sangue non è un perfetto liquido
newtoniano ma all’interno dell’organismo si comporta come se lo fosse con buona approssimazione
fisica. In un altro set di esperimenti i due ricercatori scoprirono che quando il sangue circolava a
velocità elevate la sua viscosità diminuiva: ancora una volta il sangue si dimostra un liquido non
newtoniano; questa proprietà non è però di nuovo sufficiente a rigettare la teoria perchè le velocità alle
quali si ottengono variazioni significative sono molto superiori a quelle con le quali il sangue circola
nell’organismo.
Il secondo elemento è il moto laminare. Nel nostro organismo in condizioni fisiologiche il sangue si
muove sempre di moto laminare tranne che in una piccolissima fase in corrispondenza della fuoriuscita
dai ventricoli nel periodo di massima eiezione: in questo tempuscolo il sangue ha una velocità talmente
elevata da presentare un moto turbolento. Quando il sangue cambia bruscamente velocità o si immette
in condotti con una repentina variazione di calibro inizia a muoversi in tutte le direzioni assumendo
un moto turbolento; il risultato è un aumento elevato della resistenza, infatti in moto laminare il flusso
è direttamente proporzionale al gradiente pressorio√ mentre in moto turbolento alla radice quadrata
dello stesso (laminare: Q ∝ ∆P , turbolento: Q ∝ ∆P ). Il moto turbolento però non c’è quasi mai
in condizioni fisiologiche: non esiste nei distretti venosi mentre in quelli arteriosi è presente solo nel
tempuscolo di massima eiezione ventricolare. La conclusione è che in condizioni fisiologiche il moto è
sempre laminare, ma in condizioni patologiche questa affermazione non è sempre vera. A questo punto
è possibile affermare che per quanto riguarda la densità del sangue e il suo moto è possibile accettare
la legge di Hagen-Poiseuille con buona approssimazione.
Il terzo elemento è la rigidità dei vasi. Il primo dato è che in un tubo rigido la pressione che
vige all’esterno è irrilevante mentre in un tubo non rigido il calibro è condizionato dalla differenza tra
la pressione interna e quella esterna, differenza che prende il nome di pressione transmurale. Se la
pressione transmurale aumenta il vaso tende a dilatarsi mentre se è la pressione esterna ad aumentare
il vaso tende a collassare fino a chiudersi. Un altro fattore importante che influenza il calibro del vaso
è il tessuto muscolare liscio che quando viene attivato riduce il calibro del vaso; il grafico sotto illustra
il contributo muscolare:

Osservando la curva priva di stimolazione si nota che questa non intercetta l’asse X a zero ma ad
un valore che per l’esperimento è compreso tra 10 e 20mmHg. Questo significa che prendendo un
vaso arterioso è necessario mantenervi all’interno una pressione minima per far si che questo rimanga
pervio: questa pressione minima prende il nome di pressione critica di chiusura. Una volta superato
il valore della pressione critica di chiusura si può avere flusso perchè il vaso è pervio e questo flusso
aumenta con l’aumentare del gradiente pressorio. Se la pressione diventa inferiore alla pressione critica
di chiusura il vaso si chiude e il flusso si arresta immediatamente.

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Qual è la resistenza dei vasi? La resistenza totale dei vasi posti tra loro in serie sarà data dalla
somma delle resistenze dei singoli componenti, cioè

Rtot = R1 + R2 + R3 + · · ·

La resistenza dei vasi posti invece in parallelo sarà data dalla formula
1 1 1 1
= + + + ···
Rtot R1 R2 R3
I capillari hanno una resistenza altissima perchè il raggio è molto piccolo ma il corpo è dotato di una
sola aorta e di miliardi di capillari: come risultato la resistenza totale a livello capillare è bassa. La
resistenza non è uguale nelle varie tipologie di vaso essendo diverso il diametro e ponendo uguale a
100 la resistenza di tutto il circolo sistemico è possibile misurare il contributo dato dai diversi vasi
come nella tabella:

Si nota che il 40% della resistenza è a livello delle arteriole, vasi lunghi pochi mm e dotati di grande
muscolatura. Nei capillari si trova il 27% della resistenza e quindi nel versante arterioso e in quello
capillare si ottiene il 93% della resistenza totale: i distretti venosi contano per il solo 7% della resisten-
za sistemica. Il sangue a bassa pressione di ritorno verso il cuore incontra dunque una resistenza
trascurabile. All’interno dei diversi vasi si trovano anche diversi valori pressori, in particolare la pres-
sione è elevata nelle arterie e cade bruscamente nelle arteriole per poi assumere una caduta più dolce
nei capillari e nelle vene; dove la resistenza è molto elevata il gradiente di pressione tra inizio e fine
condotto è elevato ed è quello che si verifica nelle arteriole.

16
3 Lezione 3
Riassumendo le considerazioni fatte, la legge di Hagen-Poiseuille è valida in un sistema formato da tubi
rigidi ed orizzontali in cui un liquido newtoniano si muove di moto laminare. Nel nostro organismo il
sangue si comporta come fosse un liquido newtoniano anche se sperimentalmente si è scoperto che
la sua viscosità dipende dalla velocità e dal diametro del condotto. Il movimento del sangue è quasi
sempre laminare ad eccezione del tempuscolo di massima eiezione ventricolare; la tendenza a generare
un moto turbolento aumenta con la velocità e con i passaggi in condotti di diverso diametro. Resta
da prendere in considerazione il fatto che i tubi in cui scorre il sangue non sono rigidi e nemmeno
orizzontali.
Le leggi fisiche impongono al flusso di andare dal punto ad energia totale più elevata verso quello ad
energia totale più bassa: dire che il flusso segue il gradiente pressorio è una semplificazione. L’energia
totale è data dalla somma di tre energie:

• L’energia pressoria P
• L’energia cinetica 12 sv 2
• L’energia potenziale gravitazionale ρgh
l’espressione matematica dell’energia totale sarà dunque
1
E = P + ρgh + sv 2
2
e questo prende il nome di principio di Bernoulli. La legge fondamentale del flusso significa allora che
nella maggior parte dei casi le componenti gravitazionale e cinetica dell’energia totale sono modeste
e la pressione guida il flusso: la formula Q = ∆P/R vale se il tubo è orizzontale (nessun contributo
gravitazionale) e se la velocità è bassa (modesto apporto cinetico). Se un liquido è fermo in un recipiente
la sua energia totale sarà data da

E = P + ρgh

in quanto il contributo cinetico è nullo. Se al recipiente viene collegato un tubo il liquido fuoriesce con
un flusso che dipende dal dislivello, quindi dal fattore gravitazionale; il flusso in un sistema di condotti
dipende dal dislivello ma non dal percorso: tanto maggiore è il dislivello tanto maggiore sarà il flusso.
Nel nostro organismo il circolo è chiuso: il fatto che i tubi non siano orizzontali è dunque irrilevante
alla luce di questo che prende il nome di principio del sifone.
L’elemento dei vasi rigidi può essere studiato grazie ad un modello meccanico che prende il nome di
resistore di Starling illustrato nella figura sotto:

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Questo modello simula la condizione cui sono sottoposti i nostri vasi; il diametro del tubo di gomma
dipende dal gradiente di pressione interno ed esterno. Se viene aumentato il liquido all’esterno il
tubo viene compresso fino a chiudersi, se viene prodotta invece una depressione si dilata: il calibro è
quindi dipendente dalla differenza di pressione. I tre elementi da considerare sono Pi di ingresso, Ps
circostante e Po di uscita:

Un’altra condizione che condiziona i nostri vasi è la posizione dell’organismo rispetto al vettore grav-
itazionale. Prendendo un soggetto alto 180cm in posizione orizzontale e misurando la pressione si
ottiene una pressione media: verso la testa e verso i piedi questo valore tende a diminuire. Il ∆P è 5
verso i piedi e 5 verso la testa. La pressione venosa di riferimento è invece 2mmHg a livello cardiaco
e 5mmHg a capo e piedi: il sangue si sposta dal cuore alla periferia per gradiente pressorio e torna
dalla periferia al cuore per lo stesso motivo. Nel soggetto in piedi il cuore si trova ad un’altezza di
circa 120cm; se a livello cardiaco la pressione è 100 ai piedi sarà 188 per sommazione del fattore ρgh
mentre a livello della testa il valore sarà inferiore di 44 unità per via della distanza dal cuore. Nella
postura eretta i vasi venosi degli arti inferiori si dilatano per accogliere più sangue mentre quelli del
capo tendono a collassare perchè hanno pressione inferiore: nel passaggio da posizione sdraiata ad
eretta il sangue invece di tornare inizialmente verso il cuore si accumula nelle vene e si dirige al cuore
solo quando la dilatazione è completa. Questo comportamento è evitabile con la contrattura della mus-
colatura delle gambe: vengono così schiacciate le vene per cui si crea un’azione di pompa sufficiente a
mantenere l’irrorazione al cervello.

18
Il sangue circola grazie all’azione compiuta dal cuore. La premessa è che ciascuna parte del cuore
riceve sangue da vasi venosi e quindi a bassa pressione e lo espelle in arterie e quindi ad alta pressione:
per la fisica un dispositivo che compie questo è una pompa. Il cuore possiede due pompe che sono i
due ventricoli; l’atrio non è una pompa perchè non possiede valvole di afflusso:il sangue può andare
sia verso il ventricolo che verso le corrispondenti vene e questo impedisce di generare pressioni elevate.
Il ventricolo possiede sia valvole di afflusso che di deflusso: il sangue può andare solo verso l’arteria e
quindi si crea un meccanismo di pompa efficace.
Una pompa è un dispositivo con un tempo di riempimento dove si raggiunge un certo volume, in questo
caso la diastole, e un tempo di svuotamento, la sistole. Tra questi due tempi sono inseriti due tempus-
coli e per questo il cuore può essere definito una pompa a due tempi e a quattro fasi. Il meccanismo
che regola l’apertura delle valvole cardiache è completamente passivo. L’ostio atrioventricolare è molto
grande rispetto alle semilunari: un ostio molto grande significa bassa resistenza al flusso. I muscoli
papillari non hanno funzione di tenere aperta la valvola ma di impedire che i lembi si estroflettano verso
l’atrio quando la pressione ventricolare aumenta. Lo stato di chiusura delle valvole dipende dunque dal
solo gradiente pressorio.
Il comportamento del cuore viene analizzato misurando le pressioni importanti che, a sinistra, sono
quella atriale, quella ventricolare e quella aortica; viene inoltre studiato l’andamento del volume ventri-
colare. Graficando tutte queste informazioni si ottiene questo:

Gli eventi fondamentali nel ciclo cardiaco sono:


• Apertura della valvola AV: questo accade perchè la pressione atriale diventa maggiore di quella
ventricolare.
• Inizio della fase di riempimento: il volume ventricolare aumenta (non si parte da un valore zero
perchè il cuore non si svuota mai completamente). La fase di riempimento si divide in tre sottofasi:

– Riempimento rapido: 60% del totale. Questa fase si ottiene perchè prima dell’apertura della
valvola AV il sangue ha avuto il tempo di accumularsi nell’atrio.

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– Riempimento lento: 20% del totale. Questa fase si ottiene quando il ventricolo si sta riempi-
endo del sangue in arrivo direttamente dalle vene polmonari.
– Sistole atriale: 20% del totale. Questa fase si ottiene quando l’atrio si contrae e riversa parte
del suo contenuto nel ventricolo e parte di reflusso torna alle vene.

• Inizio della contrazione ventricolare: si chiude la valvola AV quando la pressione del ventricolo
diventa maggiore di quella atriale. A chiusura avvenuta il cuore diventa una camera chiusa e
l’unica variazione possibile è un aumento della pressione: questo tempuscolo è detto contrazione
isovolumetrica e dura fin tanto che la pressione ventricolare non raggiunge il valore di quella
aortica, momento in cui si apre la valvola semilunare.

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4 Lezione 4
Riprendendo il grafico degli eventi del ciclo cardiaco

si possono indicare otto momenti principali:

1. Apertura valvola AV
2. Fase di riempimento con le tre sottofasi
3. Contrazione ventricolare e chiusura valvola AV
4. Contrazione isovolumetrica

5. Apertura della valvola semilunare


6. Fase di eiezione, suddivisa in rapida e lenta. Fino alla fine della fase di eiezione rapida la pressione
ventricolare è maggiore di quella aortica; nella transizione a eiezione lenta la pressione si inverte:
esiste un punto, detto protodiastole, durante il quale la pressione aortica è maggiore di quella
ventricolare ma la valvola non si è ancora chiusa.

7. Chiusura della valvola semilunare


8. Rilasciamento isovolumetrico

Perchè la valvola aortica non si chiude immediatamente alla fine della fase di eiezione rapida ma si
osserva il fenomeno della protodiastole? Il flusso segue il gradiente energetico e non solamente presso-
rio e ciò che ritarda la chiusura della valvola è la componente di energia cinetica del sangue in uscita
dall’ostio semilunare. La valvola si chiude solo quando l’energia totale a livello aortico è maggiore di
quella a livello ventricolare.

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Curva del volume ventricolare. Il volume ven-
tricolare raggiunge il suo minimo al termine della
fase di eiezione: questo valore prende il nome di
volume residuo ed è pari a circa 80mL. Il valore
massimo raggiungibile a fine della diastole prende
invece il nome di volume telediastolico ed è pari a
circa 150/160mL: il riempimento durante un ciclo
è dunque circa 70 − 80mL e questa quantità viene
definita volume sistolico.
Curva della pressione ventricolare. Durante
il riempimento la pressione ventricolare è molto
bassa e presenta solo un piccolo aumento in cor-
rispondenza della sistole atriale: questo aumento
è modesto per via del fatto che l’atrio non avendo
valvole di afflusso non genera grande spinta. Quando si chiude la valvola AV e inizia la contrazione
isovolumetrica la pressione aumenta molto senza variazioni di volume fino a superare quella aortica
facendo aprire la valvola semilunare; la pressione continua ad aumentare durante la fase di eiezione
raggiungendo il culmine e comincia poi a diminuire inizialmente dolcemente e poi rapidamente. Es-
istono dunque una fase ad alta pressione, la sistole, ed una a bassa pressione, la diastole, tra loro
unite da due fasi transitorie isovolumetriche.
Curva della pressione aortica. La pressione aortica oscilla tra un valore massimo di fine fase eiezione
ed un valore minimo di fine diastole; queste oscillazioni sono legate all’attività cardiaca e normalmente
il picco si assesta intorno ai 120mmHg. Il decremento pressorio nell’aorta viene bloccato intorno agli
80mmHg dall’arrivo di nuovo sangue dal ventricolo: le variazioni di pressione dell’aorta sono parallele a
quelle del ventricolo. Il piccolo aumento che si nota dopo la valvola aortica si è chiusa è detto incisura
dicrotica ed è dovuto al fatto che il sangue subisce un piccolo reflusso legato all’inversione di pressione
e questo mette in tensione la parete aortica. La cosa importante è che la pressione aortica non è mai
bassa: oscilla sempre tra gli 80 e i 120mmHg.
Curva della pressione atriale. Nell’atrio la pressione è sempre bassa perchè non essendoci valvole
non possono essere generati regimi di alta pressione. Nell’andamento si riconoscono tre onde positive:
l’onda A (atrio), l’onda C (contrazione) e l’onda V (volume ematico di accumulo). Quando si apre la
valvola AV la pressione nell’atrio è di poco superiore a quella ventricolare e questo garantisce il flusso;
quando l’atrio si contrae nella sistole atriale comprime il contenuto e innalza un poco la pressione:
è questa l’onda A. Quando inizia la fase isovolumetrica la pressione dell’atrio aumenta e diminuisce
quando si aprono le semilunari: questo è dovuto al fatto che l’aumento della pressione nel ventricolo
spinge i lembi della valvola AV verso l’atrio in un movimento contrastato dai muscoli papillari. Finita
l’onda C la valvola AV è chiusa e l’atrio ritorna a riempirsi aumentando la pressione: la sua pressione
continua ad aumentare lentamente mentre quella ventricolare è in calo; quando l’aumento di pressione
sarà tale da superare il valore ventricolare la valvola AV si aprirà dando inizio ad un nuovo ciclo.
I termine diastole, sistole, riempimento e svuotamento necessitano qualche precisazione. Defini-
amo sistole il tempo durante il quale il ventricolo è contratto dunque dalla chiusura della valvola AV
all’apertura della valvola semilunare: la fase di eiezione, o tempo di svuotamento, è però più breve in
quanto sono da escludere le fasi isovolumetriche. I termini non coincidono dunque perfettamente.
Nel disegno è presente anche l’elettrocardiogramma: l’attività elettrica del cuore provoca e precede
l’attività meccanica. Nell’ECG si ritrovano tre elementi: l’onda P, il complesso QRS e l’onda T. L’onda
P è legata all’eccitazione dell’atrio e precede dunque la sistole atriale. Il complesso QRS è generato
dall’eccitamento del ventricolo che precede la sistole: l’onda R coincide circa con la chiusura della
valvola AV. L’onda T è generata per ultima dalla ripolarizzazione del ventricolo.
Il fonocardiogramma è la registrazione dei suoni emessi dal cuore durante la sua attività. In fisiologia
si chiamano toni i suoni di origine fisiologica e rumori i suoni di origine patologica2 . Il primo tono
compare in corrispondenza della chiusura della valvola AV mentre il secondo in corrispondenza della
chiusura delle valvole semilunari. Esiste un terzo tono di più difficile rilevazione che si presenta in fase
di riempimento ed è legato al fatto che il sangue passa nel ventricolo semipieno provocando una sorta
di gorgoglio.
2 Per la fisica invece i toni sono suoni ad una sola frequenza e i rumori sono suoni con più frequenze.

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Nella figura sopra vengono confrontati gli eventi del cuore sinistro con quelli del cuore destro. Qui
il fonogramma è più accurato e mostra un quarto tono in corrispondenza della sistole atriale causato
dal movimento del liquido dall’atrio. Confrontando i due ventricoli si notano alcune differenze. La
pressione nel ventricolo sinistro in sistole raggiunge i 120mmHg mentre nel destro il picco è a soli
30mmHg; questo fatto rende sfasate nel tempo le aperture delle due semilunari: la prima ad aprirsi è
la polmonare perchè la sua pressione d’apertura è inferiore. La valvola aortica si apre dopo e si chiude
prima rispetto alla polmonare perchè il gradiente pressorio è maggiore: la fase di eiezione del ventricolo
destro è più lunga di quella del ventricolo sinistro.

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Il grafico mostra due curve di flusso per l’aorta e la polmonare. Durante la fase di riempimento il flusso
è zero. La prima valvola ad aprirsi è la polmonare e quindi il flusso diventa positivo; successivamente
si apre l’aortica e le pressioni salgono, poi si chiude per prima l’aorta e poi la polmonare. Prima che la
valvola aortica si chiuda si nota un piccolo flusso negativo causato dal reflusso di un poco di sangue nel
ventricolo: questo a destra non succede perchè le pressioni sono minori. L’andamento della curva del
flusso è perfettamente a campana nella polmonare mentre nell’aorta è meno regolare: questo è legato
alla diversa consistenza della muscolatura dei due ventricoli.
Quanto dura un ciclo cardiaco? Dipende dalla frequenza. Un cuore che batte a 70bpm avrà un ciclo
della durata di 60/70 = 0, 8 − 0, 85sec. Nel ciclo a riposo distinguiamo una sistole di durata 0, 3sec e una
diastole di 0, 5sec: la diastole dura di più perchè è un evento passivo. Quando la frequenza cardiaca
sale la sistole non si accorcia molto ma la diastole diventa molto più breve e passa a 0, 12 − 13sec. Nella
fase di riempimento la sottofase colpita per prima è quella di riempimento lento.
Attraverso l’ecocardiografia si possono rilevare informazioni dinamiche sulla morfologia del cuore.
Un esempio di studio ecocardiografico è nella figura sotto:

Durante la fase di svuotamento le pareti si avvicinano ispessendosi mentre durante il riempimento si


assottigliano e aumenta la distanza. Nella figura sopra si è studiato il lembo anteriore della valvola
mitrale. Il punto D indica l’apertura della valvola AV e l’inizio del riempimento: il lembo si sposta verso
la parete aumentando la distanza. Da D ad E si ha il riempimento rapido, da E ad F quello lento e la
valvola tende a chiudersi: questa tendenza viene interrotta dalla sistole atriale che riallontana i lembi.
I lembi poi si avvicinano e avviene la contrazione ventricolare con la chiusura della valvola AV in C.

I discorsi fatti sui rapporti tensione-lunghezza e volume-pressione possono essere applicati al ven-
tricolo in quanto anch’esso ha pareti elastiche che seguono le leggi della fisica. Studiando il cuore in

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condizione di sistole e in condizione di diastole si nota che il comportamento e le proprietà sono molto
diverse:

Nel caso della diastole all’aumentare della lunghezza della fibra miocardica aumenta lo sviluppo di
tensione, cioè con l’aumento del volume telediastolico aumenta la pressione; in diastole il ventricolo
inizialmente oppone poca tensione ed è dunque molto compliante, poi la curva tende ad impennarsi e
dunque diventa meno compliante. La situazione cambia molto in sistole: a parità di volume o lunghezza
si raggiungono pressioni molto più elevate. Il ventricolo sviluppa dunque tensione o pressione sia in
condizioni passive (diastole) che in condizioni attive (sistole).

Per studiare questa proprietà è stato sviluppato


un modello analogico del muscolo che contiene
tre elementi fondamentali:

• Un elemento contrattile
• Un elemento elastico in serie
• Un elemento elastico in parallelo
L’elemento contrattile è il sarcomero. Quando il
muscolo viene allungato si osserva una tensione
dovuta alle proprietà elastiche della muscolatura
posta in parallelo con la componente contrattile.
Se il muscolo si contrae attivamente il sarcomero
si accorcia e mette invece in tensione l’elemento

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elastico in serie. Lo sviluppo di tensione in con-
dizioni attive e passive è dovuto al fatto che esistono i due elementi elastici: quelli in serie sono fonda-
mentalmente i tendini, quelli in parallelo sono l’epimisio, l’endomisio e tutto il connettivo che circonda
i ventri muscolari.

L’evento contrattile del muscolo cardiaco è conseguente all’insorgenza di un potenziale d’azione.


Quando viene applicato uno stimolo si osserva un’iniziale latenza e poi una reazione. Esistono due
tipologie fondamentali di contrazione:
• Contrazione isometrica: la lunghezza della fibra non si modifica, ad esempio sostenendo un carico
con il braccio
• Contrazione isotonica: il muscolo si contrae e si modifica la lunghezza mantenendo una forza
costante
Queste due tipologie di contrazione sono due estremi e in realtà la contrazione cardiaca non è ne
isotonica ne isometrica. Nella figura sono indicate entrambe le tipologie di contrazione. Esistono
sempre dei carichi esterni o interni dovuti ad esempio al peso dell’arto: questi carichi sono la forza da
vincere per spostare il braccio. Il muscolo all’inizio deve contrarsi e sviluppare una tensione crescente
finchè non raggiunge il valore del carico e a quel punto si accorcia.

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5 Lezione 5

Quando viene aggiunto un carico ad un corpo elastico, e il muscolo è un corpo elastico, questo si
allunga e mette in tensione la componente elastica sviluppando una forza che si oppone all’allunga-
mento stesso: quando le due tendenze sono uguali si raggiunge un equilibrio. Nella situazione B al
muscolo viene applicato un peso e viene posto sopra un sostegno: il muscolo si allunga dunque sotto
l’effetto del peso ma non di quanto farebbe in assenza del sostegno. Il peso ha però fatto allungare
un po’ il muscolo e in fase di contrazione ci sarà un carico da vincere: il carico da vincere prima della
contrazione è detto precarico. Si parla dunque di un precarico per indicare il carico applicato prima
della contrazione e di un postcarico, cioè quello che il muscolo deve spostare. Il muscolo è preparato a
poter spostare il precarico.

La figura sopra mostra come si adatta un muscolo papillare al variare del postcarico: all’aumentare
del postcarico le contrazioni sono sempre più ritardate e la fine è sempre più anticipata, con risultato

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totale che la durata dell’accorciamento è sempre minore. In aggiunta alla riduzione di durata si registra
anche una riduzione dell’entità dell’accorciamento e della sua velocità.
Trasferendo le osservazioni al contesto del ventricolo si può dire che la sua contrazione sia anch’essa
sottoposta a pre e postcarico. La figura sotto è stata ottenuta studiando un modello di ventricolo isolato
e prende il nome di diagramma di Frank:

Questo tipo di curva chiusa è detto inviluppo e descrive le relazioni tra pressione e volume del ventricolo
sinistro durante un ciclo cardiaco. Il punto A è l’apertura della valvola AV e quindi l’inizio della fase di
riempimento: il volume dunque aumenta passando da residuo (70mL) a telediastolico (150mL). Il punto
C è il volume di fine diastole. Inizialmente il ventricolo si riempie perchè la pressione atriale è maggiore
di quella ventricolare ma nella figura si vede un fatto paradossale: la pressione inizialmente diminuisce
e poi aumenta. La caduta pressoria iniziale è dovuta al fatto che il ventricolo non ha ancora finito di
rilassarsi quando inizia a riempirsi: il sangue inizialmente arriva in un ventricolo cedevole e quindi la
pressione cala; quando la fase di rilasciamento del ventricolo diminuisce qualsiasi ulteriore aumento
di volume comporta un aumento pressorio. Il tratto BC mostra come il ventricolo sopporti una grande
variazione di volume rispondendo con una modesta variazione pressoria: è un corpo molto compliante
(C = ∆V /∆P ). Con l’aumentare del riempimento il ventricolo diventa sempre meno compliante ma in
condizioni fisiologiche il cuore lavora sempre nel tratto di curva a complianza elevata. Nel punto C la
valvola AV si chiude ma non perchè il ventricolo si è riempito: la causa è la contrazione del ventricolo
che, se non avvenisse, consentirebbe al ventricolo stesso di continuare a riempirsi. La chiusura della
valvola AV trasforma il ventricolo in una camera chiusa e si ha l’inizio della fase isovolumetrica. Il
tratto CD rappresenta la contrazione isovolumetrica e infatti si assiste semplicemente ad un aumento
pressorio. D è il valore pressorio in cui la pressione ventricolare eguaglia la pressione aortica e inizia la
fase di eiezione: nel tratto DEF il volume ventricolare diminuisce.
Il ventricolo prima di contrarsi non è libero ma ha un carico fornito dal grado di riempimento,
cioè dal volume presente che a questo punto è il precarico: volume telediastiolico e precarico sono
sinonimi. Quando il ventricolo comincia a contrarsi per potersi svuotare deve sviluppare una pressione
superiore al postcarico, che sarà la pressione in aorta al suo minimo. Il precarico nel grafico è indicato
con il punto C, il postcarico con il punto D. Il volume ventricolare diminuisce nel tratto DEF e giunti
in F la pressione del ventricolo torna ad essere inferiore a quella aortica, la valvola semilunare si
chiude e si è di nuovo nella fase di camera chiusa. Quando il ventricolo si svuota (tratto DEF) la
pressione inizialmente aumenta e solo successivamente segna una diminuzione: una camera d’aria
fatta svuotare subisce invece una diminuzione immediata della pressione; la differenza sta nel fatto
che lo svuotamento ventricolare è un processo attivo e l’aumento di pressione iniziale è espressione del
fatto che la tensione viene sviluppata più velocemente di quanto non riesca a svuotarsi il ventricolo.

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Superato il punto E questa tendenza si annulla: la tensione diminuisce, il diametro ventricolare pure e
quindi anche la pressione. A partire dal punto F il ventricolo inizia a rilasciarsi ma questo processo non
termina in A bensì in B: il rilasciamento continua anche durante la primissima fase del riempimento.
Esaminando il grafico pressione-volume del ventricolo si possono individuare tre volumi: quello
residuo (proiezione di A), quello telediastolico (proiezione di C) e quello sistolico (tratto AC); maggiore
è la distanza AC tra i due segmenti isovolumetrici maggiore sarà la gittata. Si nota inoltre che il
riempimento avviene a bassa pressione mentre l’espulsione necessita di alte pressioni: le due fasi
isovolumetriche hanno il significato di portare la pressione dai bassi livelli idonei al riempimento agli
alti livelli idonei allo svuotamento. Dal grafico si possono ricavare dati numerici sulle pressioni: il punto
D di apertura della semilunare sarà il livello minimo di pressione aortica e infatti si colloca intorno agli
80mmHg mentre il punto E sarà il picco intorno ai 120mmHg.
I valori di pre e post carico non sono fissi ma possono variare coerentemente a parametri circolatori
o cardiaci e queste variazioni possono essere studiate. Nell’esempio di un’attività fisica la gittata car-
diaca aumenta e quindi è necessario aumentare la frequenza cardiaca o la gittata sistolica; parlare di
variazioni di pre e post carico significa parlare di meccanismi regolatori del cuore. Tra i parametri che
regolano l’attività cardiaca ve ne sono tre facilmente studiabili: precarico, postcarico e contrattilità. La
figura sotto mostra come si modifica la meccanica cardiaca per effetto di variazioni nel precarico:

La figura è semplificata in quanto il tratto ABC è rettilineo ma questo non ha grande importanza.
La variazione del precarico è marcata dallo spostamento verso destra del punto C: si tratta di un
aumento del volume telediastolico ottenibile aumentando il flusso dall’atrio al ventricolo o ritardando
la contrazione ventricolare. L’aumento del precarico fa aumentare sia il volume sistolico (il tratto AC
è più lungo) che quello residuo (il punto A si sposta leggermente a destra). Maggiore è l’incremento di
volume telediastolico e maggiore sarà l’entità di incremento degli altri due volumi.
L’effetto delle variazioni di postcarico è studiato nella figura sotto:

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La modifica del solo postcarico, cioè lo spostamento in alto del punto D e quindi l’aumento della pres-
sione aortica minima, ha come effetto la diminuzione del volume sistolico e l’aumento di quello residuo.
Come mai si ottiene questo effetto? Il muscolo comincia a contrarsi utilizzando una parte della forza
sviluppata per vincere il postcarico e la parte residua per svuotare il ventricolo: un postcarico aumenta-
to significa una frazione maggiore di forza per vincerlo e quindi meno forza per l’eiezione. Questo effetto
può arrivare al caso estremo in cui il postcarico è maggiore della forza massima sviluppabile e il ventri-
colo non si svuota. Una condizione di pressione minima elevata e incontrollata può generare dunque
una contrazione isometrica perchè la forza sviluppata dal muscolo cardiaco è insufficiente a vincere il
postcarico. Nel grafico l’inviluppo 2 indica il ciclo successivo: questo ciclo partirà da un volume residuo
maggiore e, con un ritorno venoso costante, arriverà dunque ad un volume telediastolico maggiore. Se
viene raggiunto un volume telediastolico maggiore il ventricolo sviluppa una forza maggiore e si arriva
ad avere una gittata sistolica uguale alla precedente: il ventricolo riesce dunque a mantenere costante
la gittata pur lavorando con un precarico aumentato. Il concetto è che entro certi limiti l’aumento del
postcarico può essere controbilanciato dal ventricolo per mantenere costante la gittata. In entrambi
i grafici visti finora i tre punti che corrispondono alla chiusura delle valvole semilunari (punti F del
diagramma di Frank) sono posti su di una retta la cui pendenza è un indice delle condizioni del cuore.
Come mai il ventricolo reagisce in questo modo alla variazione di precarico? Un aumento del pre-
carico causa un aumento del volume sistolico che a sua volta è indice di un’aumentata forza: il volume
sistolico è un indice delle forze sviluppate dal ventricolo. Quando c’è un aumento del volume teledias-
tolico si deve avere un aumento della lunghezza della fibra miocardica ed è questa la ragione dell’au-
mento della forza di contrazione, stiamo parlando di una relazione tensione-lunghezza dopotutto. Il
sarcomero ha una lunghezza ottimale alla quale si forma il numero massimo di ponti actinomiosinici e
a questa lunghezza sviluppa il picco della forza: allontanandosi da questo valore, sia per eccesso che
per difetto, porta ad una diminuzione del numero possibile di ponti e quindi ad una riduzione della
forza. Aumentare il volume telediastolico significa allungare la fibra: se la lunghezza non diventa ec-

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cessiva si assiste ad un aumento del volume sistolico mentre se si esagera si ha una diminuzione dello
stesso.
Cosa succede nella variazione di postcarico? La forza di contrazione è determinata dal numero di
ponti actinomiosinici che si possono formare e quindi dal volume telediastolico: aumentare il postcarico
non fa contrarre con maggior forza il ventricolo ma lo pone in condizione di dover affrontare uno sforzo
maggiore. Il fatto che rimanga un volume residuo maggiore a fine contrazione farà però aumentare la
forza di contrazione nel ciclo successivo ripristinando una gittata sistolica costante (sempre se si tratta
di variazioni ragionevoli di postcarico).
L’ultimo parametro da analizzare è la contrattilità:

La curva non tratteggiata è la situazione di partenza, la 1 segna un aumento di contrattilità e la 2 una


diminuzione; in tutte le condizioni pre e postcarico sono costanti e prefissati. Nella curva 1 il volume
sistolico aumenta molto e il volume residuo diminuisce: il ventricolo si è svuotato più efficacemente.
Nella curva 2 accade l’opposto: il volume sistolico è ridotto e quello residuo è aumentato molto. Nel
caso di un aumento della contrattilità l’aumento della forza di contrazione è di origine particolare in
quanto il precarico è fisso e dunque non può essere coinvolta la lunghezza del sarcomero: si tratta di
una variazione di tipo omeometrico e non eterometrico. In queste condizioni i punti di chiusura delle
valvole semilunari non sono più su di una retta. Il controllo della variazione di contrattilità è spiegato
nelle lezioni dopo.
Tutte queste considerazioni sono state sviluppate a seguito dello studio di un modello di ventrico-
lo isolato e a questo punto c’è da chiedersi se esse siano valide per un cuore in situ; il problema fu
analizzato e risolto da un gruppo di scienziati tra i quali il principale fu Starling. La considerazione di
partenza è che i meccanismi di regolazione dell’attività cardiaca sono divisibili in due grandi categorie:
quelli intrinseci messi in atto dal cuore stesso e quelli estrinseci che hanno localizzazione esterna al
cuore ma su di esso agiscono; all’epoca degli esperimenti di Starling (inizio Novecento) già si conosce-
vano gli effetti sul cuore di simpatico, parasimpatico ed alcuni ormoni ma non era chiaro se nell’uomo
esistessero regolazioni intrinseche. Starling inventò un meccanismo che gli consentiva di eliminare
tutti i fattori di regolazione estrinseca noti o meno al suo tempo lasciando dunque in opera, qualora
presenti, gli ipotetici meccanismi intrinseci; il preparato da lui inventato è illustrato in figura:

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Starling prese il circolo sistemico e chiuse tutti i vasi arteriosi sostituendo loro un circolo artificiale di
tubi di gomma studiato in modo da avere gli stessi attributi di quello naturale. Il sistema arterioso ha
una certa complianza e una certa resistenza ed entrambe queste proprietà vennero simulate. In alto a
destra si vede il resistore di Starling, che è un dispositivo in grado di far variare la pressione transmu-
rale e dunque di simulare la proprietà della resistenza arteriolare. La capacità/complianza del sistema
arterioso è invece simulata grazie alla bottiglia capovolta vicina al resistore: questa contiene una certa
quantità d’aria che essendo comprimibile permette di immagazzinare sangue ed energia e di restituirla
al sistema al termine della contrazione. Il sangue passa nel sistema in questo circolo artificiale e si
scarica in un recipiente di raccolta di grande capacità che simula il bacino venoso. Il recipiente di
raccolta presenta una pinza a vite che permette di regolare il ritorno venoso al cuore (ritorno venoso
che può essere aumentato anche per via gravitazionale alzando il recipiente di raccolta). Il piccolo
circolo polmonare viene mantenuto intatto. Nel preparato di Starling i tessuti, ad eccezione di cuore
e polmone, non ricevono più sangue e vanno in necrosi: il sistema nervoso muore e con esso la sua
capacità di regolazione cardiaca; a sopravvivere sono dunque solamente il cuore ed il polmone (venti-
lato dall’esterno artificialmente) e per questo il preparato prende il nome di preparato cuore-polmone
di Starling. La serpentina con la candela ricorda un aspetto importante: la termoregolazione è man-
tenuta dal SN che in queste condizioni muore. Il sangue del preparato deve essere dunque riscaldato
artificialemtne e arricchito in glucosio per i fabbisogni del muscolo cardiaco: in queste condizioni il
preparato sopravvive parecche ore.
Grazie al preparato di Starling è possibile studiare l’adattamento del cuore alle variazioni di pre e
postcarico, che vengono così modificati:

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• Precarico: si modifica aumentando il ritorno venoso, quindi svitando la vite o sollevando il recipi-
ente di raccolta.
• Postcarico: si modifica aumentando la resistenza del sistema arterioso, quindi con il resistore di
Starling.
L’esperimento dimostra l’esistenza di sistemi intrinseci di regolazione se a queste variazioni corrispon-
dono variazioni nella gittata sistolica.

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6 Lezione 6

La figura sopra mostra i risultati di esperimenti condotti tramite il preparato di Starling: si tratta
di una variazione sul precarico ottenuta per aumento del ritorno venoso (vite allentata/recipiente in-
nalzato). La tecnica di registrazione risale ai primi del secolo scorso ed è completamente meccanica: si
tratta dei segni lasciati su un cilindro rotante di carta affumicata da una punta collegata al manometro
che si vede nella figura del preparato. Nella figura in X è posto il tempo, in Y la pressione in mmH2 O. A
seguito dell’aumento della pressione venosa il ventricolo si riempiva in misura maggiore: ad un aumen-
to del volume telediastolico corrispondeva un aumento della gittata sistolica e del volume telesistolico
(residuo). In modo analogo una diminuzione della pressione venosa genera una diminuzione del vol-
ume telediastolico e quindi di quello sistolico. In questo modo Starling diede una prima dimostrazione
dell’esistenza di una regolazione intrinseca: a fronte di un aumento del precarico il ventricolo è in grado
di aumentare il volume sistolico e quello residuo.

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La figura sopra mostra i risultati di un secondo esperimento sullo stesso preparato in cui viene
azionato il resistore di Starling e quindi viene aumentata la pressione arteriosa (postcarico). Quando
viene aumentata la pressione arteriosa il volume sistolico resta invariato (le altezze dei tracciati sono
costanti) ma si modificano il volume telediastolico e quello residuo. Il cuore risponde allora ad un
aumento del postcarico mantenendo costante la gittata: si ritrova un equilibrio tra la diminuzione della
gittata sistolica e l’aumento del volume residuo.
Sulla base degli esperimenti condotti sul suo preparato venne creata la legge di Starling che in forma
grafica ha l’aspetto sotto:

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Sull’asse Y è posto il volume di eiezione (volume sistolico) e sull’asse X il volume telediastolico (pre-
carico). Si nota che all’aumentare del volume telediastolico la gittata aumenta fino a uncerto punto
oltre il quale si passa da una fase di compenso ad una di scompenso in cui un ulteriore aumento del
volume telediastolico comporta una diminuzione della gittata. La ragione della fase di scompenso sta
ancora una volta nella relazione tensione-lunghezza del sarcomero: il sarcomero troppo allungato vede
il numero dei ponti possibili diminuire e con esso la forza sviluppabile. La legge di Starling dice dunque
che la forza sviluppata dal ventricolo in contrazione dipende dalla lunghezza delle fibre prima della
contrazione stessa: la forza dipende dunque dal volume telediastolico.
Quando la legge di Starling venne pubblicata vi furono molte critiche. Secondo alcuni la legge
non era valida in quanto sviluppata su di un preparato artificiale ma una delle obiezioni maggiori era
legata al fatto che nello studiare un organismo in vivo si sarebbero dovuti ottenere gli stessi risultati.
Valutando il volume telediastolico di un soggetto a riposo e subito dopo un esercizio fisico noto che non
solo non è aumentanto ma addirittura è diminuito: un risultato opposto a quello previsto dalla legge di
Starling. Il risultato in vivo si ottiene però in un sistema in cui sono attive sia le regolazioni intrinseche
che quelle estrinseche: dobbiamo concludere che nell’esercizio fisico i meccanismi estrinseci sono più
potenti di quelli intrinseci ma dal punto di vista logico questo non impedisce la loro esistenza. Ad oggi
la legge di Starling mantiene una sua validità ma è necessario fare alcune osservazioni. Si è visto che la
gittata dei due ventricoli deve essere uguale come corollario della legge di continuità (i ventricoli sono in
serie tra loro, il flusso deve essere uguale) ma cosa succederebbe se venisse introdotta una variazione di
appena il 2%? Conteggiando anche la variazione si ottiene una gittata a sinistra pari a 5L/min e a destra
pari a 5, 1L/min. Se questa condizione si mantiene per dieci minuti abbiamo uno spostamento netto di
un litro di sangue dal circolo sistemico a quello polmonare: a questo punto ci saranno 2, 3L di sangue
sistemico e 2, 7L di sangue polmonare. Questa condizione è totalmente ipotetica in quanto la pressione
sarebbe così elevata nel circolo polmonare da portare il soggetto a morte per edema polmonare entro
pochi minuti. La legge di Starling si può allora indicare come il meccanismo attraverso il quale la gittata
dei due ventricoli viene mantenuta costante anche a seguito di transizioni momentanee come possono
verificarsi in caso di trasfusioni od emorragie.

La gittata cardiaca è il risultato di tutto ciò che compie il cuore in ambito meccanico: si tratta di un
indice funzionale cardiaco. Abbiamo già visto come la gittata venga modificata al variare dei tre fattori

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fondamentali: precarico, postcarico e contrattilità. Come fanno i tre fattori a modificare la gittata?
La figura sotto mostra la relazione tra lo stiramento del ventricolo, quindi il volume telediastolico, e il
volume sistolico:

Il grafico in altre parole illustra la legge di Starling nella fase di compenso: all’aumentare dello stiramen-
to aumenta la gittata sistolica in quanto viene incrementata la forza che il ventricolo può sviluppare.
Questa curva e le seguenti vengono usate nei reparti di cardiologia per valutare la funzionalità cardiaca.

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La figura sopra è leggermente diversa dalla precedente in quanto viene introdotto l’elemento fre-
quenza: non si esamina più la gittata sistolica ma la gittata cardiaca. Sull’asse X è posta la pressione
in atrio destro, grandezza dalla quale dipende il volume telediastolico: se la pressione atriale è alta
si ha un flusso maggiore all’apertura della valvola AV e quindi un aumento del volume telediastolico;
in questo caso si è preso dunque ad esame non il precarico ma un indice ad esso correlato. Il grafi-
co mostra l’esistenza di una corrispondenza biunivoca tra la pressione dell’atrio di destra e la gittata
cardiaca. La figura sotto introduce a questo esperimento anche l’elemento della contrattilità:

38
Se viene ad essere modificata la contrattilità si ottengono curve in cui a variare è la pendenza: pren-
dendo un punto in X a parità di condizioni si ottengono tre valori in Y a seconda dello stato del cuore.
Si può affermare che la contrattilità va ad incidere sull’efficienza della contrazione e questo si traduce
nella variazione di pendenza della curva di compenso della legge di Starling.
Normalmente è raro che venga studiato un parametro alla volta; la figura sotto mostra la vera curva
della funzionalità cardiaca in cui vengono presi in considerazione tutti i parametri insieme:

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Misurare lo stato funzionale di un ventricolo significa misurare la pressione al suo interno. La figura
sotto mostra la variazioni misurate in funzione del tempo:

40
La pressione parte da un livello minimo diastolico, aumenta, raggiunge il livello massimo per poi ri-
tornare al punto di partenza. Questo grafico è ottenibile da qualsiasi paziente inserendo un catetere
in atrio sinistro. Se il cuore viene reso iperdinamico (curva B) si assiste ad un aumento della pres-
sione massima ma soprattutto della velocità con cui questa viene raggiunta: la valutazione del cuore
può allora essere operata numericamente. Si definisce indice di contrattilità il picco massimo della
pressione o, in alternativa, la derivata prima del tratto iniziale dell’incremento pressorio. Una sec-
onda metodica di valutazione funzionale è la rilevazione della frazione di eiezione, cioè del rapporto
volume sistolico/volume telediastolico; il volume telediastolico è circa 150mL, quello sistolico oscilla tra
i 70 e gli 80mL: la frazione di eiezione normale è dunque poco meno del 50%. Questo significa che in
condizioni fisiologiche il ventricolo è in grado di espellere circa la metà del suo contenuto massimo:
variando i quattro determinanti dell’attività cardiaca (precarico, postcarico, contrattilità e frequenza) si
va a modificare anche la frazione di eiezione.
Un approccio totalmente diverso alla valutazione della funzionalità cardiaca è quello energetico.
Il sangue arriva all’atrio destro con una pressione minima ed era partito dall’aorta con una pressione
massima: il gradiente pressorio tra inizio e fine del circolo sistemico è allora un indice della dissipazione
di energia legata al flusso sanguigno. Il sangue per poter circolare richiede che vengano spese delle
energie ed è questo il compito del cuore in quest’ottica: l’attività di pompa immette dell’energia nel
sangue che verrà dissipata poi per vincere le resistenze al flusso. Partendo da queste considerazioni si
può andare a studiare il lavoro in senso fisico che il cuore compie. In fisica il lavoro è definito come
prodotto tra forza e spostamento; riprendendo la relazione pressione volume possiamo affermare che:
F 3 F
P ·V = 2
·l = = Lavoro
l l
Parlando della relazione pressione/volume si è dunque parlato del lavoro eseguito dal cuore. La figura
sotto analizza l’aspetto:

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In A viene indicata la fase di riempimento del ventricolo: il tratteggio sotto la curva esprime i n termini
di lavoro l’energia residua che il snague possiede di ritorno al cuore; l’energia rimasta nel sangue
viene utilizzata per distendere il ventricolo quindi in questo caso è il sangue a compiere un lavoro sul
ventricolo e non viceversa. In B interviene la contrazione isovolumetrica: non essendoci variazioni
di volume non c’è spostamento e quindi il lavoro compiuto in questo momento dal cuore è zero. Il
fatto che il lavoro sia zero non vuol dire che non ci sia energia in gioco: la contrazione isovolumetrica
richiede energia che viene accumulata ma non trasformata in lavoro. In C il ventricolo si svuota e
viene compiuto un lavoro dal cuore sul sangue mentre in D essendoci una seconda fase isovolumetrica
non ci sarà di nuovo lavoro. In E viene illustrato l’inviluppo d’insieme delle varie fasi: l’area sottesa
dalla curva è il lavoro totale compiuto dal cuore sul sangue. In che modo è possibile calcolare il lavoro
compiuto dal cuore?
ˆ
Lavoro = F orza · Spostamento = (P · A) · D = P · (A · D) = P · ∆V → P dV

Dal punto di vista energetico questa quantità non può essere l’unica in gioco: gli eventi isovolumetrici
non sono caratterizzati da produzione di lavoro ma richiedono ugualmente energia. La domanda è
dunque: di quanta energia ha bisogno il cuore? Per rispondere è necessario tenere conto sia del lavoro
compiuto che dell’energia usata per la contrazione isovolumetrica. L’energia per le fasi isovolumetriche
prende il nome di attivazione costante ed è data dall’equazione
ˆ
A.C. = α T dt

dove α è un coefficiente legato alla natura del muscolo, T la tensione e t la sua variazione nel tempo.
L’energia totale richiesta dal cuore per il suo funzionamento sarà dunque data dall’espressione
ˆ ˆ
Etot = P dV + α T dt

L’energia totale richiesta dal cuore non viene interamente trasformata in lavoro e buona parte viene
dissipata dal sangue sotto forma di calore quando vengono vinte le resistenze dei vasi; qual è l’efficienza
del cuore? In fisica l’efficienza di una macchina è data dal rapporto tra l’energia trasformata in lavoro
e quella totale, dunque
´
P dV
Ef f icienza(η) = ´ ´
P dV + α T dt

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Questo valore è normalmente compreso tra il 3 e il 15% e in genere è inferiore al 10%: è quindi
piccolissima la quota energetica che viene effettivamente trasformata in lavoro. Il concetto di efficienza
cardiaca ha aspetti pratici. Se aumenta la frequenza cardiaca l’efficienza si riduce perchè ad ogni
ciclo cardiaco è necessario sviluppare la tensione isovolumetrica: la conseguenza banale di questo è
che un cuore che batte ad una frequenza elevata, magari 80-85bpm anzichè 70, riduce l’aspettativa
di vita del suo portatore in quanto tutti i dispositivi meccanici si esauriscono. La tensione sviluppata
aumenta all’aumentare del postcarico, cioè della pressione arteriosa: con l’invecchiamento la pressione
arteriosa tende naturalmente a salire e, per mantenere costante la gittata, è necessario sprecare molta
più energia, riducendo ulteriormente l’efficienza meccanica del cuore.

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7 Lezione 7
Finora si è visto cosa influenza la gittata cardiaca, ora il problema è come essa possa essere misurata.
Nel 1870 un fisiologo tedesco mise a punto un semplice principio passato alla storia con il nome di
principio di Fick e sul quale si basano tutte le metodiche di misurazione di flusso attuali. Il punto di
partenza è la definizione di concentrazione di una sostanza:

X
[X] =
V
Risolvendo in funzione del volume si ottiene
X
V =
[X]

quindi per conoscere un volume basta sapere la quantità della sostanza X presente e la sua concen-
trazione. Dividendo primo e secondo termine per il tempo si ottiene

V X X
= →Q=
t [X] · t [X] · t

Se si passa ad un approccio dinamico in cui la sostanza X può essere aggiunta o sottratta l’equazione
diventa
∆X/t
Q=
∆[X]

Questa situazione si verifica nella realtà? Si verifica continuamente tanto è vero che il principio di
Fick prende anche il nome di principio di consumo dell’ossigeno in quanto la sostanza X non è altro
che O2 :

[ConsumoO2 ]
Q=
[O2 ]arteriosa − [O2 ]venosa

Il procedimento di solito viene usato sull’ossigeno ma è valido anche per la CO2 . Sapendo dunque il
consumo di ossigeno è possibile risalire alla gittata cardiaca: quali sono i procedimenti? Per misurare
il consumo di ossigeno nell’unità di tempo si utilizzano gli spirometri mentre per le concentrazioni si
effettuano prelievi di sangue arterioso e di sangue venoso: in totale servono dunque una spirometria
e una coppia di prelievi. Esiste un problema procedurale: il sangue arterioso in qualsiasi punto è
sempre rappresentativo del totale ma non è così per il sangue venoso, che all’interno delle vene non
si mescola; esiste un unico punto in cui il sangue venoso si mescola ed è nell’arteria polmonare a
causa del tempuscolo di moto turbolento che si instaura: prelevare sangue dalla arteria polmonare è
complesso e richiede ospedalizzazione.
Per cercare di ovviare al problema dei prelievi di sangue sono stati inventati dei metodi indiretti basati
sulla somministrazione di una sostanza che funge da indicatore (tecnica della diluizione di un indi-
catore). La sostanza usata come indicatore non può essere scelta a caso ma deve essere in grado di
rimanere in circolo senza abbandonare i capillari: il problema è che questi tipi di sostanze sono rare da
individuare e se è necessario ripetere la misurazione è sempre necessario cambiare indicatore.

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Una soluzione contenente una quantità nota di indicatore viene iniettata al tempo X del grafico e viene
misurata la concentrazione della quantità stessa al tempo Y: il valroe avrà prima un aumento, arriverà
al suo picco e poi andrà a diminuire come si vede dal grafico. Esiste anche con questa tecnica un prob-
lema operativo: la concentrazione prima sale e poi scende ma non arriva mai a zero perchè l’indicatore
è stato scelto tra le sostanze che non possono abbandonare il circolo; il ricircolo non permette alla
concentrazione di azzerarsi e disturba il calcolo dell’area sottesa dalla curva. Per risolvere il problema
basta usare un artificio matematico: la concentrazione viene espressa tramite il suo logaritmo ottenen-
do un decadimento esponenziale che trasforma la curva in retta e rende possibile l’estrapolazione e il
calcolo della gittata cardiaca.
Metodiche più moderne, sempre basate sul principio di Fick, permettono di aggirare l’ostacolo del
riutilizzo nella tecnica della diluizione di un indicatore. Tra queste metodiche la più importante è la
termodiluizione: viene iniettata in circolo una soluzione fisiologica o del sangue ad una temperatura
leggermente diversa (inferiore) da quella del sangue in circolo e viene misurata a valle la temperatura.
Quando si procede all’iniezione la temperatura inizialmente diminuisce, tocca il suo minimo e poi risale
fino a tornare al livello precedente: la curva della variazione termica ha lo stesso andamento di quella
della concentrazione della sostanza indicatrice ma si ha il grande vantaggio di poter riutilizzare la
tecnica senza problemi.

L’azione di pompa del cuore ha un prerequisito fondamentale: un adeguato volume di sangue deve
tornare all’atrio destro, se questo non succede il cuore pompa a vuoto. Maggiore è il ritorno venoso
maggiore sarà il volume telediastolico e quindi a parità di altre condizioni la gittata sarà maggiore.
Quali sono i fattori che influenzano il ritorno venoso? Il punto di partenza è la legge fondamentale del
flusso Q = ∆P/R: quali sono i valori di pressione per l’ambito venoso? La pressione iniziale è quella
vigente nelle venule mentre quella finale sarà la pressione di atrio destro, quindi la legge fondamentale
è:
Pvenule − Pa.d.
Qvenoso =
Rv.s.
La pressione nell’atrio destro è facilmente misurabile mentre la resistenza venosa sistemica è calco-
labile. La pressione nelle venule è impossibile da calcolare, sia perchè le venule sono moltissime sia
perchè sono di dimensioni tali che il solo inserimento di un catere influisce con il flusso falsando le
misure; per risolvere il problema viene utilizzato il valore di pressione medio sistemica anzichè quello
della pressione venulare. La pressione medio sistemica è la pressione statica che vige nel circolo, cioè
la pressione che vige quando il flusso è zero e che viene misurata sperimentalmente negli animali.

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Quando il cuore dell’animale viene fatto fibrillare la gittata si annulla e con essa il gradiente pressorio:
a questo punto si misura la pressione medio sistemica. Essendo il sistema cardiocircolatorio un circolo
chiuso il valore della pressione medio sistemica deve essere compreso tra il valore massimo e quello
minimo; alla fine dei capillari oltre il 90% delle resistenze è già stato superato e quindi si può dire che
il valore della pressione medio sistemica è molto prossimo a quello della pressione di tutte le venule. A
questo punto posso riscrivere l’equazione del flusso venoso:

Pm.s. − Pa.d 1
Qvenoso = =− · (Pa.d. − Pm.s. )
Rv.s. Rv.s.
1
Questa è l’equazione di una retta in cui il valore − Rv.s. è il coefficiente angolare. Graficando questa
equazione con il gradiente pressorio in asse X e il flusso in asse Q e traslando gli assi si ottiene la figura
sotto:

I fattori determinanti il ritorno venoso sono dunque la pressione in atrio destro, la pressione medio
sistemica e la resistenza venosa sistemica. La retta nella figura sopra ci dice che quando la pressione
dell’atrio destro è uguale alla pressione medio sistemica non si ha più un gradiente pressorio e quindi
il ritorno venoso al cuore è nullo. A partire dal valore di pressione medio sistemica il flusso cresce a
mano a mano che la pressione in atrio destro si riduce e raggiunge il suo picco quando questa è zero.
La linea tratteggiata della figura esprime il fatto che, quando la pressione nell’atrio destro scende a
meno di zero (diventa cioè subatmosferica), il gradiente pressorio da considerare non è più Pm.s. − Pa.d.
ma Pm.s. − Patm : si va a considerare da quel punto in poi la differenza con la pressione atmosferica. Per
valori pressori subatmosferici dunque il ritorno venoso non dipende più dalla pressione in atrio destro.

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La figura sopra mostra cosa accade facendo variare non la pressione in atrio destro ma la pressione
medio sistemica. In generale si n ota che se la pms aumenta lo fa anche il ritorno venoso che quindi
diminuisce se scende la pms. Quali sono i fattori che influenzano la pms? Il punto di partenza è la
definizione di complianza sotto richiamata:

∆V V − V0 V − V0
C= = →P =
∆P P − P0 C
Una precisazione importante è che la complianza è legata ad una situazione statica: la differenza
di pressione non è il gradiente pressorio ma, nell’esempio di un pallone, sono le pressioni interne
ed esterne ad esso. Vo e P0 sono dunque valori riferiti alle condizioni atmosferiche: se aumento il
volume aumento la pressione parziale ma senza coinvolgere il concetto di gradiente pressorio. A questo
punto esaminando l’equazione ottenuta si capisce che per far variare la pressione medio sistemica sono
percorribili due vie: variare il volume circolante o la complianza del sistema venoso. Il primo caso è
la variazione della complianza: le venule possiedono una sottile componente muscolare che, se fatta
contrarre, riduce questo attributo senza variare la resistenza. Il volume del sangue circolante (totale e
non solo venoso) può variare ad esempio in condizioni di emorragia o di trasfusione ematica: ovviamente
se il volume aumenta dovrà aumentare anche il ritorno venoso. In una più ampia prospettiva il volume
ematico è in equilibrio con il volume dei fluidi corporei e quest’ultimo dipende dal bilancio in ingresso e
in uscita dell’acqua: si perdono liquidi con la sudorazione, l’espirazione e la minzione e vengono invece
assunti con la dieta; conseguenza di questa osservazione è che qualsiasi modificazione a livello degli
apparati coinvolti nell’omeostasi dei liquidi (primariamente reni e tratto digerente) ha ripercussione sul
ritorno venoso al cuore.
L’ultimo elemento da analizzare per il ritorno venoso è la resistenza venosa sistemica, tema indagato
nella figura sotto:

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In generale se la resistenza aumenta il ritorno diminuisce. Com’è possibile variare la resistenza venosa
sistemica? Il fattore importante è la pressione transmurale, cioè la differenza pressoria tra interno ed
esterno del vaso: ogni volta che la pressione esterna aumenta la resistenza la segue e diminuisce il
ritorno venoso. Com’è possibile ridurre invece la resistenza venosa sistemica? I vasi venosi sono dotati
di muscolatura e la contrazione di questa può variare il calibro del vaso: variazioni della resistenza
venosa possono dipende dunque dal tono di contrazione della muscolatura delle vene. La muscolatura
dei vasi è quasi esclusivamente controllata dal simpatico che, quando attivo, diminuisce la capacità a
livello venulare favorendo il ritorno venoso.
L’atrio destro è il termine del circolo venoso e la pressione al suo interno è l’elemento che accoppia
il ritorno venoso con la funzione di pompa. Se il ritorno venoso aumenta la pressione nell’atrio sale e
questo valore segue anche l’andamento della funzione di pompa. Maggiore è la capacità di pompa del
ventricolo e minore sarà la pressione in atrio destro: un cuore che lavora in maniera insufficiente d’altra
parte non riuscirà a smaltire tutto il sangue in arrivo e si assisterà ad un aumento della pressione
nell’atrio destro.
Tutte le conclusioni finora proposte sono riassunte nella figura sotto:

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La prima parte “a” mostra la curva della funzione ventricolare. L’asse X segna la pressione in atrio
destro e l’asse Y la gittata cardiaca. La gittata cardiaca è un flusso come pure il ritorno venoso: sono
la stessa cosa. Quando si parla di ritorno venoso vengono enfatizzati i meccanismi che fanno tornare
il sangue al cuore, quando si parla di gittata dei meccanismi che invece lo fanno abbandonare. In
condizioni ottimali i due flussi devono essere uguali, altrimenti si crea una situazione di insufficienza
cardiocircolatoria.
La seconda parte “b” della figura mostra la curva del ritorno venoso già vista.
La terza parte “c” mostra la combinazione delle prime due e evidenzia il punto in cui si incrociano gittata
cardiaca e ritorno venoso: questo è un punto dinamico in quanto, come già visto, gittata cardiaca e
ritorno venoso possono essere modificati per mezzo dei loro determinanti.

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Il ritorno venoso finora è stato visto come determinato da fattori sistemici, cioè Pa.d. , Pm.s. e Rv.s. ma
in realtà viene influenzato anche da fattori cardiaci, cioè dalla capacità di pompa del cuore:

Quando la capacità del cuore diminuisce il ritorno venoso non può far altro che diminuire, viceversa
quando aumenta si assiste al comportamento opposto. Gli argomenti flusso venoso e gittata cardiaca
sono collegati: il ritorno venoso dipende da fattori sistemici e cardiaci e questi ultimi sono determinanti
per la gittata.

La figura sopra mostra come la gittata cardiaca venga modificata (a parità degli altri determinanti)
dal ritorno venoso. Quando il ritorno venoso aumenta la gittata fa lo stesso.
Cosa succede al cuore durante un esercizio fisico? La figura sotto mostra le curve di funzionalità
cardiaca a riposo e sotto sforzo:

50
In A viene descritta una condizione di riposo con una gittata pari a 5L/min e quindi con un ritorno
di pari entità. La gittata cardiaca può aumentare notevolmente e arriva facilmente fino a 20L/min
con picchi di 40L/min negli atleti, cioè fino ad otto volte il valore di riposo: come avviene questo? La
gittata cardiaca come visto può aumentare perchè i quattro determinanti possono essere modificati:
contrattilità, frequenza, precarico e postcarico non sono fissi. Non tutti i determinanti della gittata
cardiaca hanno però lo stesso valore. La pressione arteriosa, quindi il postcarico, non è agevole che
diminuisca e quindi conta poco. Il grosso della variazione è un lavoro sulle resistenze e in generale i
fattori più importanti sono la frequenza e la contrattilità. La frequenza non può aumentare all’infinito
perchè se lo facesse ridurrebbe troppo il tempo di riempimento generando contrazioni inefficaci: si
tratta dunque di un fattore limitante. Sperimentalmente si è visto che gli atleti hanno a riposo una
frequenza cardiaca relativamente bassa e una gittata sistolica alta; partendo da una frequenza inferiore
(55bpm) e arrivando a valori superiori (70bpm) l’incremento di pressione è maggiore.
Tutti questi discorsi sottintendono che per aumentare la gittata cardiaca sia necessario aumentare di
pari passo il ritorno venoso. Questo proposito viene perseguito modificando sia la resistenza venosa
sistemica che la pressione medio sistemica: quest’ultima, non potendo far variare il volume di sangue
circolante, verrà modificata lavorando sulla complianza del sistema.
L’elemento scatenante del ritorno venoso è l’esistenza di un gradiente pressorio ∆P tra venule e atrio
destro. Questo elemento, una volta definito vis a tergo, è il più importante determinante del ritorno
venoso ma non è l’unico: esistono altre due tipologie di forze, definite fattori ausiliari del ritorno venoso.
Il primo fattore è la vis a latere che esercitano le pareti dei vasi. Durante la contrazione muscolare molti

51
vasi venosi rimangono schiacciati e si occludono spremendosi: in questo scenario il sangue si sposta
in una sola direzione, verso il cuore, grazie alla presenza delle valvole di flusso. Questo sistema di
pompa muscolare è efficace solo se alternato a periodi di rilassamento: una contrazione mantenuta
nel tempo non solo non favorisce il ritorno venoso ma lo ostacola. Il secondo fattore ausiliario è la vis
a fronte legata alla capacità di aspirazione del sangue che a sua volta dipende da due meccanismi:
la pompa aspirante premente della respirazione e il meccanismo del piano valvolare. La pompa della
respirazione è legata alla ventilazione polmonare: quando si inspira la gabbia toracica si espande e i
grandi vasi si dilatano perchè la pressione transmurale diminuisce; l’opposto accade invece durante
l’espirazione. Questo movimento alternato della gabbia toracica porta ad un aumento del ritorno venoso
in inspirazione e ad una diminuzione durante l’espirazione. In espirazione però il diaframma ritorna
in posizione e spreme i vasi venosi addominali favorendo il ritorno venoso al cuore. Il meccanismo del
piano valvolare è invece legato al fatto che anche il cuore ha una sua azione alternata di contrazione
e rilassamento. Quando il cuore si svuota diminuisce i suoi diametri, soprattutto la distanza tra
la base e l’apice (si abbassa la base e non il contrario): quando il ventricolo si svuota dunque si
abbassa il pavimento degli atri riducendo leggermente la pressione degli stessi e aumentando così il
ritorno venoso. Questi fattori ausiliari sono sicuramente di minore importanza ma la loro esistenza è
documentata e da sapere.

52
8 Lezione 8

La figura sopra è uno sfigmogramma, cioè una rappresentazione grafica dell’andamento della pres-
sione arteriosa in funzione del tempo. La pressione arteriosa non è costante ma varia istante per istante
in funzione degli eventi del ciclo cardiaco. Quando si parla di pressione arteriosa si possono indicare
dunque vari valori, quello istantaneo, quello massimo, quello minimo, o quello differenziale (cioè la
differenza tra Pmax e Pmin , valore definito anche polso pressorio). Tutti questi valori sono in realtà
d’importanza relativa in quanto ciò che davvero interessa parlando di pressione è il suo valore medio
che è di fatto un indice della capacità che ha il sangue di progredire nel suo percorso. Le variazioni di
pressione arteriosa non sono regolari e quindi non esiste una relazione semplice per calcolare il preciso
valore della pressione media e bisogna sfruttare per forza il calcolo integrale. Il calcolo solitamente non
viene però svolto e il medico individua tramite lo sfigmomanometro i valori di pressione massima e di
pressione minima; per risalire alla pressione media sono state individuate delle modalità che potessero
partire dai valori rilevati di Pmax e Pmin , in particolare si usa il seguente calcolo:
1
Pa = Pmin + (Pmax − Pmin )
3

1
Pa = 80 + (120 − 80) = 93, 3mmHg
3
La ragione di questa formula sta nel fatto che per circa i due terzi del ciclo la pressione è più vicina a
quella diastolica che a quella sistolica. Notare che la pressione media è più bassa del valore 100 che
si ottiene con la media aritmetica dei due valori. Un criterio clinico molto approssimativo è che per
pressioni medie da 100 in su si sia in presenza di ipertensione.
Quali sono i fattori determinanti la pressione arteriosa? La pressione arteriosa dipende da due
tipologie di fattori:

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Perchè i valori fisici sono volume ematico e complianza arteriosa? Per rispondere ancora una volta si
parte dalla definizione di complianza e la risposta è ovvia:

V − V0 V − V0
C= →P =
P C
La dimostrazione della correlazione ai fattori fisiologici passa invece per la legge fondamentale del flusso

∆P Paorta − Parteriole
Q= → Qart =
R Rarteriosa sistemica
I discorsi fatti per il ritorno venoso valgono anche qui: la pressione aortica è facile da misurare men-
tre quella delle arteriole è impossibile. In questo caso non è possibile sfruttare la pressione medio
sistemica perchè non è assolutamente vicina alla pressione nelle arteriole: viene dunque introdutta
un’approssimazione molto più grande inserendo questo valore nell’espressione. Riscrivendo la formula
si ottiene
Paortica − Pms
Q=
Ra.s.
La pressione aortica ha un valore quasi uguale a quello della pressione arteriosa media in quanto si ha
una variazione minima nelle grandi arterie. La pressione arteriosa media del soggetto sano si è visto
essere 93, 3mmHg, la pms è calcolata in 7mmHg quindi influisce per poco nel calcolo (anche se in realtà
la pressione nelle arteriole è maggiore e il valore 7 è molto sottostimato). Un approccio alternativo
a questo calcolo è l’usare il gradiente pressorio dell’intero circolo e non del solo versante arterioso;
in questo caso si usa la pressione in atrio destro al posto della pms, introducendo un errore ancora
maggiore ma rendendo molto più semplice il calcolo. Tutte queste considerazioni sono legate al fatto
che non esiste una pressione misurabile prossima alla pressione arteriolare media.
Quando viene individuata un’ipertensione viene prescritto normalmente un diuretico e consigliato
di eliminare il sale dalla dieta: questo presidio terapeutico mira a far variare il valore di pms. I diuretici
fanno eliminare liquidi determinando un calo della Pms mentre la dieta iposodica stimola anch’essa la
diuresi rafforzando l’effetto.
Conoscendo i fattori determinanti la pressione arteriosa si hanno in mano gli attrezzi per farla
variare. I fattori in primo luogo efficaci per far variare la pressione arteriosa sono la gittata cardiaca, la
frequenza e la resistenza arteriosa.

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Il grafico sopra è un grafico volume pressione (il volume andrebbe in X, finezze del cazzo). Ai valori
di Pmin , Pmax e Pa corrispondono dei volumi. Nella figura si ipotizza che il volume ematico aumenti
passando da V 1min e V 2max a V 3min e V 4max : si nota come tutte le pressioni aumentino e in particolare
aumenti il polso pressiorio, cioè la distanza tra la minima e la massima.

Il grafico sopra mostra cosa succede se non vengono modificati i volumi ma la complianza. In questo
caso vengono modificati solo alcuni valori pressori: la pressione media resta invariata ma aumenta il
polso pressorio, cioè aumenta l’escursione tra minima e massima. Questo è coerente con la pratica:
con l’età le capacità elastiche dei vasi cambiano e questo si traduce in una diminuzione della pressione
minima, un aumento di quella massima ma una teorica capacità di spinta invariata. Il senso del dis-
corso è focalizzare l’attenzione sulla pressione media, vero indice funzionale, e non sui valori istantanei
o estremi.

55
L’ultima figura prende in considerazione variazioni della resistenza periferica totale. In A si ipotizza
un aumento della resistenza: in queste condizioni si ha un aumento di tutte le pressioni, massima,
media e polso pressorio. In B viene descritta la reazione in caso di rapporti P/V non lineari: l’incremento
della massima è maggiore rispetto al primo caso e quindi il polso pressorio aumenta.

Normalmente vengono indicati come valori pressori normali di un adulto sano 80mmHg per la min-
ima e 120mmHg per la massima; queste affermazioni vogliono dire che misurando queste pressioni in
un soggetto a caso sono questi i valori più probabili ma il caso individuale può discostarsi senza per
questo implicare patologie. Esistono tutta una serie di fattori aggiuntivi che modificano la pressione
arteriosa, tra i principali vanno ricordati

• Età: con l’età la pressione tende ad aumentare


• Sesso: le donne hanno valori medi di circa 5−10mmHg in meno ma queste differenze sono ormono-
dipendenti e infatti spariscono dopo la menopausa
• Metabolismo, legato ad esempio a differenze nelle abitudini alimentari

• Fattori genetici
• Fattori emozionali
La pressione arteriosa si è visto anche che varia in relazione al ciclo cardiaco e questo tipo di variazioni
viene definito di I grado per distinguerlo dalle variazioni di II e III grado. Le variazioni legate alla
respirazione sono di II grado e vengono definite onde di Hering. Le modifiche di III grado sono legate al
tono vasomotore.

Una domanda importante a questo punto è: quali sono i vantaggi evolutivi dati dai vasi a pareti non
rigide? Cosa succede nei vasi arteriosi?

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Il primo vantaggio evolutivo è legato al fatto che riducendo il calibro di vasi non rigidi aumenta la
pressione interna e quindi la caduta pressoria è in generale minore. Quando il sangue viene espulso in
sistole la porzione iniziale dell’aorta si dilata e in questo modo immagazzina energia potenziale di tipo
elastico, viene cioè messa in tensione la componente elastica. Nel tempuscolo successivo la porzione
che è stata dilatata ritorna nella condizione originaria in quanto si comporta da corpo elastico e questo
genera dilatazione nella porzione successiva: la dilatazione prosegue lungo la parete arteriosa e questo
è evidente palpando le arterie superficiali. In conclusione le pareti delle arterie pulsano in fase con
l’attività cardiaca; cosa succederebbe in un sistema di tubi rigidi? All’atto dell’espulsione di sangue dal
ventricolo la pressione si innalzerebbe a valori elevati per via della scarsissima complianza ma cadrebbe
a zero una volta terminata la fase di eiezione: si otterrebbe una pressione oscillante tra un valore nullo
e un valore elevatissimo, con un polso pressorio esagerato rispetto ai valori fisiologici. L’esistenza delle
pareti elastiche ha due risultati principali:
• Riduzione del polso pressorio: la minima non scende mai molto e la massima non si impenna
• Trasformazione dell’impulso intermittente del cuore in un flusso continuo

Le pareti delle varie tipologie di arterie in cui scorre il sangue hanno composizione diversa e proprietà
diverse: l’aorta è più distendibile delle arterie medie e piccole ad esempio, e le implicazioni di questo
sono illustrate nella figura sotto.

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La figura mostra gli sfigmogrammi in aorta e nell’arteria femorale. La pressione media in aorta è più
elevata ma la femorale presenta una maggior escursione tra il valore minimo, inferiore a quello aortico,
e il valore massimo, superiore a quello aortico. Questo è giustificato dal fatto che i vasi femorali sono
meno complianti e da un lato oppongono maggiore resistenza alla distensione (sviluppando una Pmax
maggiore) e dall’altro si svuotano restituendo più energia (sviluppando così una Pmin inferiore).
I vasi sanguigni subiscono dilatazioni e costrizioni in funzione dell’attività cardiaca e queste sono
variazioni parietali che si propagano con una velocità di 10 − 30m/s mentre il sangue al loro interno si
propaga al massimo a 10cm/s: si hanno allora due velocità e due fenomeni totalmente diversi. Come in
ogni fenomeno superficiale, la parete dei vasi risente delle proprietà elastiche del materiale, del calibro
e della curvatura: le onde pulsatorie riflettono le condizioni anatomiche del circolo.

La figura sopra mostra diversi vasi tra loro in serie e analizza le modifiche di pressione e di velocità
di polso. Dalla curva in alto si nota che la pressione arteriosa media diminuisce in funzione della
distanza mentre la massima tende ad aumentare e la minima a diminuire a causa delle modificazioni
alle proprietà elastiche dei vasi. Queste modifiche non sono di grande entità ed è questa la ragione per

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la quale è accettabile l’andare a misurare la pressione arteriosa sul braccio. La curva in basso mostra
invece un punto fondamentale. Nell’aorta il flusso si ha solo nella sistole, raggiunge un massimo e
poi declina fino ad invertirsi: esiste un modestissimo flusso retrogrado che riporta il sangue verso
il ventricolo. Nei vasi successivi in serie la dilatazione descritta in precedenza immagazzina energia
potenziale che viene restituita in fase di diasole: il flusso da discontinuo diventa continuo. Attenzione:
il flusso diventa continuo ma non costante. Nelle vene se non vengono introdotte condizioni particolari
il flusso è continuo. Le arterie sono dunque in grado di trasformare il flusso da discontinuo a continuo
grazie alle loro proprietà meccaniche.
La pressione minima arteriosa non cade mai a valori prossimi allo zero perchè c’è sempre resistenza.
Se viene bloccata la resistenza arteriolare per via farmacologica o con tossine si ha una diminuzione
della pressione minima ma la resistenza non è l’unico fattore: il secondo elemento è il volume ematico.

Come è possibile misurare la pressione arteriosa? Le metodiche per ottenere questo tipo di infor-
mazione si dividono in due gruppi: cruente ed incruente. Le metodiche cruente richiedono un inter-
vento, un’incisione, per inserire un catetere connesso ad un trasduttore di pressione. Le metodiche
incruente permettono di misurare la pressione arteriosa in modo indiretto ma molto più agevole.

La figura sopra illustra il principio su cui si basa il più importante metodo di misurazione incruen-
ta: l’uso dello sfigmomanometro. Questo strumetno si compone di un bracciale in gomma contenuto
all’interno di un manicotto di tela: si ha dunque una doppia parete, compliante all’interno e rigida
all’esterno. Quando il bracciale in gomma viene gonfiato si dilata ma viene ostacolato in questo dalla
tela all’esterno; l’aria viene immessa nel bracciale tramite una pompetta collegata ad un manometro:
quando viene pompata aria la pressione ottenuta è dunque leggibile sullo strumento. Un punto impor-
tante è che manometro e bracciale devono essere alla stessa altezza in quanto per altezze differenti si
introduce una variazione in funzione del vettore gravità (ρgh); il bracciale inoltre si mette sul braccio
perchè in questo modo viene a trovarsi a livello del cuore. Quando cuore, bracciale e manometro sono
alla stessa altezza la seconda legge di Pascal garantisce che la pressione sia tra loro uguale. Quando la
pressione nel bracciale viene innalzata oltre il valore interno ai vasi arteriosi questi si chiudono e il flus-
so si arresta: il soggetto avverte un formicolio legato alla stimolazione dei nocicettori che rispondono
all’anossia. Questa azione è semplicemente tesa ad aumentare la pressione transmurale. A questo
punto il polso, tipicamente quello radiale, non è più rilevabile. Quando si svita la vite posta sulla
pompetta la pressione inizia a scendere nel bracciale e quando raggiunge un valore di poco inferiore
a quella massima sistolica si ha un guizzo di sangue: la parete a valle inizia a vibrare e il polso è di
nuovo percepibile. Tramite il metodo palpatorio è dunque possibile determinare la pressione sistolica
ma non c’è modo di determinare la diastolica: serve necessariamente un fonendoscopio. Sfruttando

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un fonendoscopio è possibile apprezzare i rumori legati al flusso sanguigno. Quando la pressione nel
bracciale è maggiore a quella aortica non c’è flusso e quindi non c’è rumore ad esso legato; nel momento
in cui la pressione scende al di sotto della massima il flusso ricomincia ad essere presente e mette in
vibrazione le pareti creando un rumore. Il rumore diventa via via più intenso all’aumentare del flusso
ma poi inizia a diminuire diventando ovattato in quanto il sangue passa ormai continuamente: quando
il rumore non è più percebile si è raggiunto il valore di pressione minima.
Quando si va ad aumentare la pressione nel bracciale è necessario evitare di aumentarla troppo in
quanto la compressione attiva la muscolatura liscia dei vasi arteriosi generando errori nella mis-
urazione: in generale per un soggetto giovane in cui non si ipotizzano patologie si sale poco sopra i
120mmHg e si scende lentamente. In definitiva lo sfigmomanometro si basa sul principio che le carat-
teristiche del moto del sangue si modificano quando il vaso arteiroso viene compresso: il moto diventa
da laminare a turbolento e questo produce rumori che forniscono informazioni sulla pressione minima
e su quella massima.

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9 Lezione 9
L’attività meccanica del muscolo cardiaco (come pure del muscolo scheletrico) dipende dalle sue par-
ticolari proprietà elettriche. L’attività elettrica consiste nella capacità di generare potenziali d’azione i
quali innescano un’attività meccanica attraverso un processo detto complemento ed eccitazione. Che
tipo di attività eletrica si può registrare a livello del miocardio?

A livello del miocardio si possono avere due tipologie di potenziale d’azione: la risposta rapida e la
risposta lenta. La
risposta rapida è tipica del miocardio specifico di conduzione atriale e ventricolare e del miocardio
comune atriale e ventricolare. La risposta lenta è tipica del tessuto nodale, cioè del nodo senoatriale e
del nodo atrioventricolare.
Nel ricavare la curva A di risposta rapida si notano varie fasi dell’esperimento. Inizialmente l’elettro-
do è posto nel bagno in cui la cellula è immersa e la differenza di potenziale è zero (tratto “a”); quando
viene portato all’interno del citoplasma si registra un potenziale che è il potenziale di riposo (punto “b”)
che in questo tipo di cellule si aggira intorno ai −90mV . Ad un certo punto questo potenziale di riposo
viene interrotto dall’insorgenza di un potenziale d’azione che consiste in una rapida depolarizzazione
seguita da una rapida ripolarizzazione: tra le due fasi sono però interposti elementi che sono tipici
delle cellule del miocardio e non esistono in quelle scheletriche. Il potenziale d’azione delle cellule del
miocardio è distinto in quattro fasi:
• Fase 0: depolarizzazione
• Fase 1: parziale ripolarizzazione (o spike)

• Fase 2: plateau
• Fase 3: ripolarizzazione
• Fase 4: potenziale di riposo
Il potenziale d’azione durca circa 200ms, è quindi molto più lungo del potenziale d’azione di una cellula
nervosa (0, 5 − 1ms) o di una cellula scheletrica (1 − 3ms).

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La curva B presenta alcune differenze sostanziali. In primo luogo il potenziale d’azione delle cellule
che rispondono in questo modo è molto meno negativo: si attesta intorno ai −60mV . La fase 0 di
depolarizzazione è presente ma manca la fase 1 di spike e la flase di plateau è molto meno accentuata.
In entrambe le risposte si nota che il potenziale va da un livello negativo ad uno leggermente positivo:
accade quella che prende il nome di inversione (o overshoot) del potenziale.
Il potenziale di riposo di una cellula, in generale, dipende dal fatto che in condizioni di riposo la
membrana cellulare è molto permeabile agli ioni potassio ma scarsamente agli ioni sodio. La tabella
sotto mostra le concentrazioni ed i potenziali di equilibrio delle principali specie ioniche di interesse per
il miocardio:

Il sodio è più concentrato all’esterno della cellula e quindi tende ad entrare all’interno della cellula sia
secondo il gradiente chimico sia secondo gradiente elettrico in quanto il suo potenziale di equilibrio di
Nernst è posto a +70mV (il potenziale di equilibrio di Nernst è il potenziale in cui la tendenza dello ione
a migrare cessa). Al potenziale di riposo la permeabilità della membrana a questo ione è molto bassa.
Lo ione potassio è molto concentrato all’interno della cellula e ha un potenziale di equilibrio di Nernst
posto a −94mV : questo ione tende quindi ad uscire. La spinta all’uscita dalla cellula del potassio è
data da un modesto gradiente elettrico (4mV ) ma da un enorme gradiente chimico. La permeabilità per
questo ione al potenziale di riposo è molto elevata.
La tendenza di entrambi gli ioni a muoversi è contrastata e bilanciata dall’azione della pompa Na-K che
riporta fuori li ioni sodio entrati e porta invece dentro ioni potassio. Il potenziale d’equilibrio dunque
è determinato da un lato dalle concentrazioni delle due specie ioniche e dall’altro dall’intervento della
pompa Na-K ATP-dipendente.
L’ultimo ione da considerare è lo ione calcio che è fondamentale per la funzionalità miocardica. Questo
ione è molto più concentrato all’esterno della cellula, come il sodio, e tende dunque ad entrare dentro
la cellula e lo fa sfruttando una permeabilità di membrana piuttosto elevata.

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La figura sopra illustra come i vari ioni contribuiscono alle varie fasi del potenziale d’azione (risposta
rapida).
La fase zero di depolarizzazione è dovuta ad un aumento della permeabilità di membrana agli ioni
sodio, aumento reso possibile dall’apertura di canali al sodio voltaggio dipendenti. I canali al sodio
voltaggio diipendenti possono esistere in tre stadi funzionali:
• Chiusi
• Aperti
• Inattivi
Questo è dovuto al fatto che ognuno presenta due barriere: una barriera di attivazione e una barriera
di inattivazione. La depolarizzazione della cellula costituisce il segnale che provoca l’apertura di questi
canali e il sodio, seguendo il gradiente elettrochimico, si precipita all’interno della cellula cercando di
portarne il potenziale ai suoi +70mV. L’apertura dei canali è transitoria in quanto questi si inattivano
dopo un tempuscolo relativamente breve: interviene infatti la barriera di inattivazione e questo spiega
come mai il potenziale di membrana non riesce a raggiungere i +70mV ma si ferma ad un valore
compreso tra +10 e +20mV . Quando interviene la barriera di inattivazione il canale non può più aprirsi
se non quando la cellula viene ripolarizzata perchè è proprio la ripolarizzazione a rimuovere la barriera
di inattivazione e a restaurare quella di attivazione: riassumendo la riapertura di un canale inattivato è
operata grazie al processo di ripolarizzazione ed è questa la ragione della fase 0 del potenziale d’azione.
La fase 1 è una fase di parziale ripolarizzazione ed è legata ad una corrente, detta ito (to= transient
outwork, transiente uscente), che percorre i canali omonimi. I canali ito sono canali al potassio anch’es-
si voltaggio dipendenti e la loro apertura è scatenata dalla depolarizzazione. Quando si ha apertura dei

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canali al potassio questo ione tende a fuoriuscire seguendo il suo gradiente elettrochimico ma anche
questi canali hanno apertura transitoria e dunque non si raggiunge una ripolarizzazione completa ma
la membrana continua ad essere depolarizzata.
La fase 2 di plateau è una fase complessa alla cui realizzazione concorrono varie componenti. La pri-
ma componente è una corrente entrante di ioni calcio attraverso canali detti canali L (L= LongLasting,
a lunga apertura); questi canali in realtà si aprono all’inizio della fase 0 ma, poichè lenti, manifestano
la loro presenza solo tardivamente, terminata la fase 1. Gli ioni calcio stanno a questo punto entrando
nella cellula seguendo il loro gradiente elettrico che vorrebbe la membrana ad un potenziale di +132mV .
Questo movimento netto di calcio tende a rendere più positiva la cellula mentre il grafico mostra che
il potenziale è invece piuttosto stazionario: come mai? La ragione è che se il calcio entra una seconda
specie ionica deve uscire e l’unica che lo fa è il potassio: l’equilibrio tra la corrente calcio entrante e
la corrente potassio uscente mantiene costante il potenziale durante la fase di plateau. Il discorso è
in realtà più complesso perchè se la permeabilità di membrana al potassio aumentasse molto si real-
izzerebbe qualcosa di simile ad un corto circuito; durante la fase di plateau in effetti la conduttanza al
potassio diminuisce perchè vengono coinvolti particolari tipi di canali al potassio (le cellule del miocar-
dio hanno almeno tre tipologie di canali per questo ione). La corrente al potassio coinvolta in questa
fase prende il nome di ik1 e viene denominata corrente rettificante in ingresso. La figura sotto illustra
meglio il comportamento del potassio in questa fase:

Viene qui illustrato un esperimento di blocco del voltaggio, cioè una condizione in cui viene mantenuto
stabile un potenziale di membrana e, se vengono aperti dei canali, viene erogata una corrente opposta
a quella che vi passa attraverso. La corrente ik1 passa attraverso il canale omonimo che ha un com-
portamento particolare: la sua permeabilità dipende dal potenziale di membrana. Nel grafico in X è
segnato il voltaggio imposto e in Y la corrente da erogare per mantenerlo. Il punto della curva sulla linea
indica il potenziale d’inversione, cioè il potenziale al quale il potassio attraversa il canale in entrambe
le direzioni con ugual tendenza. Se ci si allontana dal potenziale d’inversione lo ione potassio si muove
come in figura; per valori positivi la conduttanza di questo canale è minima e questo genera il plateau
mentre per valori negativi la conduttanza aumenta e con esso la tendenza del potassio a migrare per
raggiungere il suo potenziale d’equilibrio.
La fase 3 è la fase di ripolarizzazione ed è anch’essa legata ad una serie di eventi distinti. Il primo
evento è la riduzione della permeabilità agli ioni calcio in quanto i canali L, pur rimanendo aperti

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a lungo, vanno incontro ad inattivazione anche se lentamente. Nel frattempo attraverso i canali ik1
il potassio tende ad uscire e questo fa diventare la membrana più negativa: come visto nel grafico
precedente se questo accade la permeabilità al potassio aumenta in un circolo vizioso. Esiste inoltre
un altro canale al calcio (al potassio?) che media la corrente rettificata ritardata. In sintesi la fase di
ripolarizzazione è dovuta all’esaurirsi dell’ingresso di calcio e all’aumento dell’ingresso di potassio, sia
attraverso la corrente ik1, sia attraverso la corrente ito che si è ridotta ma non è sparita, sia attraverso
la corrente rettificata ritardata.

Riprendendo la figura 23.1 si possono esaminare altri aspetti dell’attività elettrica del cuore. Tutti
i potenziali d’azione possiedono dei periodi refrattari assoluti e relativi. Durante il periodo refrattario
assoluto la cellula è assolutamente ineccitabile mentre durante il periodo refrattario relativo la cellula
è eccitabile ma con stimoli di maggior intensità del normale. Il periodo refrattario assoluto è legato al
fatto che tutti i canali al sodio sono inattivati, quindi non apribili qualunque sia l’entità dello stimolo.
Il periodo refrattario relativo inizia invece quando i canali escono dall’inattivazione per effetto della
ripolarizzazione: a mano a mano che il numero di canali apribili aumenta lo stimolo necessario a
scatenare un potenziale diventa minore. Indicativamente il periodo refrattario relativo inizia a metà
della fase 3 e termina quando la cellula si è completamente ripolarizzata.
Quali sono in sintesi le differenze tra la risposta rapida e quella lenta?
• Il valore del potenziale di riposo: più negativo per la risposta rapida (−90mV ) e meno negativo per
la lenta (−60mV ).
• La risposta rapida ha un’ampiezza di potenziale maggiore: parte da valori più negativi e raggiunge
valori più positivi.
• Le velocità sia di ripolarizzazione che di depolarizzazione sono maggiori nella risposta rapida.

• La durata totale del potenziale d’azione è minore nella risposta lenta.

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La figura sopra pone l’accento sulla variazione di permeabilità ai vari ioni nelle varie fasi del poten-
ziale d’azione. La prima a variare è la permeabilità al sodio che però ha una breve durata per via
dell’inattivazione dei canali. La permeabilità al calcio legata ai canali L inizia con la fase di depolariz-
zazione e si sviluppa lentamente per poi iniziare a ridursi durante la fase 3. La permeabilità al potassio
infine diminuisce durante la fase di plateau e tende ad aumentare durante la fase 3.
La domanda a questo punto è: come mai il potenziale d’azione di una cellula cardiaca è tanto diverso
dal potenziale d’azione di una cellula muscolare?

La figura sopra mostra l’aspetto elettrico (potenziale d’azione) accoppiato all’effetto meccanico. La fase
0 è rappresentata dal tratteggio per ragioni tecniche: è troppo rapida per essere registrata e se si
aumenta l’intensità si sbava tutto il resto. Risulta evidente che la scossa muscolare si sviluppa con
un tempuscolo di ritardo rispetto al potenziale d’azione ma raggiunge il suo picco quando la cellula
si sta ripolarizzando e termina quando ormai la cellula è già completamente ripolarizzata. Gli eventi
meccanici sappiamo essere sommabili tra di loro nel caso del muscolo scheletrico: in questo tipo di
muscolo si ha il fenomeno della sommazione delle scosse illustrato sotto:

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Uno dei meccanismi attraverso cui è possibile regolare la forza sviluppata da un muscolo scheletrico è
appunto la sommazione delle scosse che, nel suo culmine, sfocia nella condizione di tetano muscolare.
Nel muscolo cardiaco un secondo potenziale d’azione può insorgere solo nel periodo refrattario ma a
questo punto la seconda scossa non si somma alla prima se non per pochissimo: c’è sempre un periodo
di rilassamento tra una scossa e la successiva. Un altro dato è che il secondo potenziale d’azione è meno
ampio del primo e più breve perchè sono a disposizione meno canali al sodio.
Il muscolo scheletrico è sfruttabile in due tipologie di attività: attività tonica in cui la contrazione
rimane stabile e attività fasica in cui si alternano fasi di contrazione e fasi di rilasciamento. Il muscolo
cardiaco non potrebbe mai avere un simile comportamento: la contrazione tonica nel cuore porterebbe
a morte del soggetto in pochi minuti. L’evoluzione ha trovato il modo di risolvere questo aspetto confer-
endo ai potenziali d’azione cardiaci una durata più lunga in modo tale che ogni volta che c’è contrazione
c’è obbligatoriamente una fase di rilasciamento prima della contrazione successiva. Il garantire un ri-
lasciamento anche minimo a seguito di una contrazione cardiaca è dunque la ragione fondamentale
della durata del potenziale d’azione cardiaco.
Nel muscolo scheletrico il potenziale d’azione innesca un processo di rilascio del Ca++ libero nel
reticolo sarcoplasmatico: il calcio liberato raggiunge il meccanismo contrattile, attiva i ponti actino-
miosinici e il muscolo si contrae. Questa strategia non è attuabile nel muscolo cardiaco perchè il
potenziale d’azione non è in grado di liberare direttamente il Ca++ : è il calcio che entra durante la
fase di plateau a far uscire altro calcio dal reticolo sarcoplasmatico. Al termine della contrazione il

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calcio viene sequestrato nuovamente all’interno del reticolo sarcoplasmatico e la quota entrata in fase
di plateau viene espulsa dalla membrana.
Questi aspetti si collegano al modo in cui si può graduare la forza muscolare scheletrica. La forza di
un muscolo scheletrico si regola tramite due meccanismi fondamentali:
• Sommazione delle scosse
• Reclutamento delle unità motrici
L’unità funzionale del muscolo è l’unità motrice, definita come l’insieme del motoneurone e da tutte le
fibre che esso innerva: ogni muscolo può dunque essere considerato come una somma di unità motrici.
Quando contraiamo un muscolo le unità motrici non si attivano in blocco ma lo fa solo una parte: è
dunque possibile graduare la forza aumentando o diminuendo la frazione di unità motrici attivate.
Il muscolo cardiaco ha un’organizzazione molto diversa tale per cui quando una sola cellula si eccita
l’intero cuore la segue: quando il cuore batte lo fa perchè tutte le cellule del miocardio sono eccitate.
Il meccanismo per regolare la forza del cuore non può dunque contare sul reclutamento delle unità
motrici: viene invece sfruttata la via di modulazione della quantità di ioni calcio in ingresso alla cellula.
Questo meccanismo di regolazione è stato accennato parlando della contrattilità e definito come una
regolazione omeometrica, cioè indipendente dalla lunghezza della fibra miocardica. In ultima analisi
la possibilità del cuore di regolare la forza di contrazione è basata sull’esistenza dei canali al calcio
voltaggio dipendenti di tipo L.
Lo studio della regolazione del controllo di contrattilità attraverso i canali L è illustrato nella figura
sotto:

La cellula in esame è posta in un bagno in cui viene immessa una sostanza che blocca i canali al calcio
voltaggio dipendenti: queste sostanze sono chiamate beta bloccanti. La figura mostra quattro tracciati
di controllo in cui i numeri 3, 10 e 30 rappresentano concentrazioni crescenti di beta bloccante. Dal
punto di vista elettrico si nota che a concentrazione 3 non si hanno quasi modifiche del potenziale
d’azione mentre le concentrazioni maggiori, riducendo l’ingresso di ioni calcio, provocano una riduzione
della fase di plateau e quindi una precoce ripolarizzazione della cellula: dal punto di vista elettrico
dunque il beta bloccante tende a ridurre la durata del potenziale d’azione perchè la fase di plateau è
più breve. Dal punto di vista meccanico le variazioni sono invece notevoli; la concentrazione 3, che
quasi non variava l’aspetto elettrico, quasi dimezza la forza sviluppata e i valori maggiori la riducono
ulteriormente. Questo esperimento illustra come il movimento degli ioni calcio sia alla base della

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modulazione della forza. Questo concetto pone le basi di un uso farmacologico dei beta bloccanti: un
farmaco di questo tipo è in grado di ridurre la forza di contrazione modificando l’attività elettrica in
modo marginale.

Riprendendo la figura 23.1 la domanda da porsi è questa: è possibile trasformare un tipo di risposta
nell’altro? Il primo caso è la trasformazione di una risposta rapida ad una risposta lenta, processo che
è realizzabile.

In A si vede la reazione di risposta rapida prodotta da una fibra del Purkinje: la fase 1 di ripolarizzazione
è molto più pronunciata rispetto a quelle viste perchè la corrente ito è molto più marcata. Il bagno in
cui è posta la cellula in esame contiene tetrodotossina che si lega ai canali al sodio voltaggio dipendenti
e ne impedisce l’apertura. Una cellula muscolare trattata allo stesso modo prima vede il suo poten-
ziale d’azione ridotto e poi scomparso; una cellula miocardica invece si adatta alle nuove condizioni
trasformando una risposta rapida in una risposta lenta: questo è possibile perchè la tetrodotossina
blocca i canali al sodio ma non quelli al calcio. In queste condizioni il potenziale dipende dunque
esclusivamente dagli ioni calcio; in una cellula miocardica sono presenti due correnti: una rapida al
sodio e una lenta al calcio. Quando la corrente rapida viene bloccata, la corrente lenta può comunque
generare un potenziale d’azione ma lo farà più lentamente. Tramite questo esperimento si è dimostrato
che è possibile trasformare una risposta rapida in lenta con la tetrodotossina ma questo non ha valore
terapeutico in quanto un soggetto trattato con questa sostanza morirebbe per paralisi respiratoria.

La figura sopra illustra una seconda via per modificare il tipo di risposta: variare la concentrazione
extracellulare di ioni potassio. Se vado ad aumentare la concentrazione di potassio extracellulare il
potenziale di riposo si riduce perchè questo ione avrà una minor tendenza ad uscire: la cellula è tanto
meno negativa tanto maggiore è la concentrazione degli ioni potassio. All’aumentare della concen-
trazione extracellulare di potassio il potenziale d’azione si trasforma sempre più in una risposta lenta:
questo risultato si ottiene perchè riducendo il potenziale di membrana i canali al sodio si inattivano

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gradatamente quindi applicando uno stimolo ci sono sempre meno canali al sodio chiusi e quindi sem-
pre meno apribili. Questa situazione ha un risvolto clinico importante: tutte le situazioni che alterano
la concentrazione del potassio interferiscono con l’eccitabilità dei tessuti; tra queste situazioni vanno
inserite anche quelle comuni di diarrea o sudorazione elevata.
L’ultima condizione in cui è possibile trasformare una risposta rapida in una lenta è legata alla pompa
Na-K. Il potenziale di riposo di membrana è legato all’intervento di questa pompa che, se bloccata per
via farmacologica, ne fa ridurre il valore (cioè si avvicina al valore di −60mV ) generando una risposta
lenta. Riassumendo il trasformare una risposta da rapida a lenta significa ridurre la forza sviluppata
dal muscolo cardiaco ed è un risultato ottenibile secondo tre metodi:
1. Uso della tetrodotossina

2. Variazione della concentrazione extracellulare di potassio


3. Blocco della funzionalità della pompa Na-K

Trasformare una risposta rapida in una lenta è dunque possibile: è fattibile anche l’operazione
opposta? No. La risposta lenta è tipica del tessuto nodale che forma agglomerati di piccole dimensioni
che hanno importanza nella funzionalità cardiaca ma non nello sviluppo di forza. Si potrebbe pensare
che si possa indurre una risposta rapida in queste cellule portando il potenziale di riposo da −60mV a
−90mV ma questo non succede perchè, in condizioni fisiologiche, mancano i canali al sodio voltaggio
dipendenti. La ragione per cui non è possibile rendere rapida una risposta lenta è che le cellule nodali
semplicemente non hanno i requisiti minimi: mancano i canali fondamentali.

La figura sopra mostra una risposta rapida e dei tentativi di far insorgere una seconda risposta
con stimoli successivi nel periodo refrattario relativo. Dal grafico sotto si deduce che quando insorge
il potenziale d’azione c’è un periodo di refrattarietà assoluta in cui la soglia di insorgenza di un sec-
ondo potenziale è +∞. La soglia tende poi a diminuire nel tempo e quindi stimoli di intensità calante
sono richiesti per provocare un secondo potenziale d’azione. L’esistenza del periodo refrattario è stata
dimostrata molto prima che venisse scoperto il potenziale d’azione e l’esperimento che ha portato a
questa dimostrazione è illsutrato sotto:

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Questa figura risale al 1876 e fu opera di un fisiologo francese, Marey. A quei tempi si lavorava su
un cuore di rana che era più facile da mantenere di quello di un mammifero. La traccia in bianco
è l’incisura di una punta fatta su cilindri rotanti e misura la forza sviluppata dal ventricolo: tutti i
tracciati sono allineati in modo da coincidere con l’inizio della seconda sistole. A partire dal tempo
0 si applicavano stimoli elettrici e questo si vede dal gradino che si forma nella linea bianca sotto i
tracciati. L’esperimento dimostra che uno stimolo applicato subito dopo l’inizio della sistole è inutile:
il ventricolo in questo tempo non è eccitabile. Nel tracciato 4 l’applicazione di uno stimolo in ritardo
inizia a provocare una seconda contrazione di minor forza e durata della prima che si innesca nella fase
di rilasciamento del ventricolo. La scossa indotta dalla stimolazione elettica diventa via via maggiore
finchè nel tracciato 8 arriva a somigliare alla precedente se non per l’insorgenza un pochino precoce:
la scossa 8 è insorta prima del previsto. Quando gli eventi elettrici sono turbati questo si riflette negli
eventi meccanici e questi sono più facili da rilevare: il tracciato 8 indica un’extra-sistole. L’extra-sistole
non dipende dalla sistole anticipata ma da quella successiva che, per bilanciare la situazione, avviene
dopo un intervallo più lungo: il ventricolo si riempie in misura maggiore per regolazione eterometrica e
questo viene avvertito come un “rimbalzo” del cuore.
Riassumendo i discorsi di questa lezione si può dire che il muscolo cardiaco differisce da quello
scheletrico per alcune fondamentali tematiche:

• Non può mai avere contrazioni toniche: deve rilasciarsi dopo ogni contrazione.

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• Non può sfruttare la via di sommazione delle scosse.
• Non può sfruttare il reclutamento delle unità motrici.
• La regolazione della forza avviene controllando i gradienti di calcio.
Un altro punto importante è il rapporto delle due tipologie di muscolo con l’innervazione. Il muscolo
scheletrico denervato diventa totalmente ineccitabile e, poichè l’innervazione ha funzione trofica, di-
venta anche atrofico fino a ridursi ad una massa connettivale. Il muscolo cardiaco denervato conserva
invece la capacità di battere3 grazie a due sue caratteristiche fondamentali:
• Automatismo: il cuore è in grado di eccitarsi da solo

• Ritmicità: il cuore è in grado di dare un ritmo alla sua attività autonoma

La figura sopra mostra i potenziali d’azione registrati in una trabecola di muscolo cardiaco isola-
ta dal resto del cuore. Per ottenere una contrazione bisogna applicare stimoli elettrici a frequenza
costante in modo da simulare l’attività ritmica fisiologica. La durata del potenziale d’azione è molto
lunga quando la frequenza di stimolazione è bassa (24Hz) e si va riducendo a mano a mano che si
raggiungono frequenze superiori (162Hz). La durata del potenziale d’azione si riduce perchè si riduce la
fase di plateau: la frequenza di stimolazione influenza le proprietà dei canali responsabili della fase di
plateau e di quella di ripolarizzazione. Secondo alcuni studiosi la stimolazione modifica la corrente ito
potenziandola all’aumentare e facendo insorgere così precocemente la ripolarizzazione.
3 Questo è il motivo per cui è stato possibile trapiantare il cuore molto prima del muscolo.

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La figura illustra i potenziali d’azione registrati a tre livelli diversi: in A il miocardio comune ventrico-
lare, in B il nodo senoatriale, in C il miocardio comune atriale. Confrontiamo i due miocardi. Nell’atrio
il potenziale d’azione dura molto di meno e quindi l’evento meccanico dura circa la metà: questo è il
motivo per cui la sistole atriale è più breve di quella ventricolare. Il potenziale d’azione delle cellule
atriali è diverso per via di proprietà leggermente diverse dei canali per esso responsabili. In B si nota
che la scala dei tempi è dimezzata rispetto ad A e C: li potenziale qui descritto è molto più breve degli
altri due. Sono presenti le caratteristiche viste prima: potenziale di riposo minore, durata minore,
mancanza di fase 1 e di plateau; questo è possibile perchè le cellule nodali non devono sviluppare forza
ma hanno un ruolo fondamentale che si nota alla fine della fase quattro: in A e in C il potenziale di
riposo è stabile mentre in B non si è in grado di mantere un valore costante. L’incapacità di mantere
un potenziale di riposo costante delle cellule nodali non è un errore di natura ma è la ragione per cui il
cuore ha la capacità di eccitarsi in maniera autonoma.

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10 Lezione 10

Riprendendo l’ultima figura vista, si era arrivati all’osservazione che le cellule del nodo senoatriale
presentano un potenziale di riposo instabile e che questa proprietà è alla base della capacità del cuore
di autoeccitarsi, cioè del suo automatismo. Questo potenziale instabile ha un nome: si tratta del
potenziale pacemaker ed è il generatore del ritmo cardiaco. Si ha dunque una depolarizzazione graduale
che, quando raggiunge una determinata soglia, determina la generazione di un potenziale d’azione.
Nelle cellule nervose o in quelle muscolari l’insorgenza di un potenziale d ’azione è provocata per via
sinaptica, grazie all’azione dei recettori sensoriali o artificialmente in laboratorio: qui invece vediamo
una capacità totalmente nuova, quella di generare un potenziale d’azione in assenza di stimoli esterni.
I meccanismi ionici responsabili del potenziale pacemaker sono molto diversi da quelli responsabili del
potenziale d ’azione che era stato definito risposta lenta.
La proprietà di non avere un potenziale di riposo stabile è posseduta da tre tipologie di cellule:
• Le cellule del nodo senoatriale
• Le cellule del nodo atrioventricolare
• Le cellule ventricolari
Su questa base si afferma che esistono tre pacemaker a tre diversi livelli ma, in condizioni fisiologiche,
il ritmo viene dettato solamente dalle cellule del nodo senoatriale.

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La figura sopra parla di un pacemaker A dominante che, in condizioni fisiologiche, è il nodo senoatriale
e di un pacemaker subordinato B che può essere sia il nodo atrioventricolare che le cellule pacemaker
ventricolari. In tutte le curve la linea grigia rappresenta la soglia d’insorgenza del potenziale d’azione.
Il potenziale d’azione è un fenomeno tutto o nulla, cioè non presenta livelli intermedi: se in un punto
viene raggiunta la soglia è li che insorgerà il potenziale che si propaga poi in entrambe le direzioni. La
propagazione dell’informazione normalmente viene descritta come unidirezionale ma non per proprietà
fisiche della membrana ma per il fatto che le sinapsi sono strutturate in modo da funzionare in una sola
direzione: questo non accade invece in ambito cardiaco. Qual è dunque la differenza tra il pacemaker
A e quello B? Le depolarizzazioni hanno velocità diverse. In A la cellula inizia a depolarizzarsi e,
raggiunta la soglia, scatena il potenziale d’azione. In B la cellula si nota avere potenzialità da pacemaker
ma queste non vengono sfruttate perchè il potenziale d’azione insorge propagato da un’altra fonte
prima che abbia il tempo di scatenarsi autonomamente: la differenza è dunque legata al fatto che la
depolarizzazione è troppo lenta in B e fa prima la cellula A ad arrivare a soglia. Se vengono distrutte
le cellule del nodo senoatriale il pacemaker diventa il nodo atrioventricolare che però detterà al cuore
una frequenza inferiore: il pacemaker dominante è dunque, in ogni momento, semplicemente quello
più rapido a disposizione.

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Il potenziale pacemaker detta dunque la frequenza alla quale batte il cuore: modificare questo
potenziale significa dunque modificare la frequenza cardiaca. Sono stati individuati sperimentalmente
tre modi per variare il potenziale pacemaker.
Il primo metodo consiste nel cambiare la pendenza del potenziale, cioè di rendere la sua curva più
ripida in modo da raggiungere la soglia più velocemente. Questo metodo ha a che fare con la variazione
del comportamento dei canali che determinano il potenziale pacemaker.
Il secondo metodo consiste nel variare il livello di soglia: se questo livello si abbassa la frequenza
aumenta perchè il potenziale pacemaker lo raggiunge prima, il contrario accade se si alza.
Il terzo ed ultimo metodo consiste nel modificare il livello del potenziale di riposo. Se la forbice tra
potenziale di riposo e soglia aumenta la frequenza diminuirà perchè ci vorrà più tempo a colmare il
divario. Riassumendo le metodiche di variazione del pacemaker sono:
• Cambio della pendenza
• Cambio della soglia
• Cambio del potenziale di riposo

Classicamente di questi tre meccanismi uno viene indicato come non vero ma solo teorico: un tempo
si era certi che la soglia non si potesse modificare ma esperimenti recenti suggeriscono il contrario. Al
momento il problema della modificabilità della soglia è aperto.
Come si origina il potenziale pacemaker? Le cellule che ne sono dotate sfruttano canali partico-
lari che permettono il passaggio di particolari correnti: tutto questo non è presente nelle cellule con
potenziale di riposo stabile. Quali sono le correnti? La prima corrente viene detta IF (Inward Funny,
cioè entrante stramba) edè una corrente al sodio in ingresso che passa attraverso dei canali voltaggio
dipendenti il cui segnale di apertura è l’iperpolarizzazione. Quando la cellula ha generato il potenziale
d’azione si deve poi ripolarizzare, ed è questo il segnale d’apertura dei canali al sodio IF: la cellula
miocardica a questo punto inizia a depolarizzarsi sotto l’effetto del sodio entrante. L’iniziale depolar-
izzazione indotta dalla corrente IF è il segnale che fa scattare l’apertura di un secondo tipo di canale,

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stavolta per il calcio, detto canale T (T=transiente): all’iniziale ingresso di sodio si aggiunge ora l’ingres-
so di calcio e quindi la depolarizzazione si fa più intensa e porta la cellula verso la soglia. Una terza
corrente fondamentale contribuisce al pacemaker: si tratta di una corrente al potassio. Durante la
genesi del potenziale pacemaker i canali al potassio tendono a chiudersi e non ad aprirsi: il potassio
finisce con l’essere bloccato all’interno della cellula e la mancata uscita di cariche positive equivale
ad iniettarne rendendo la cellula ancor più positiva. Riassumendo sono tre le correnti cui è legato il
potenziale pacemaker:
• Corrente IF: corrente entrante al sodio
• Corrente T: corrente entrante al calcio
• Corrente potassio: blocco della fuoriuscita di potassio

La combinazione di questi tre elementi genera il potenziale pacemaker: a seconda delle caratteristiche
dei canali interessati si generano frequenze diverse. In base a questa considerazione si può regolare
il potenziale pacemaker e modificare così la frequenza cardiaca. Quando un cuore si è eccitato e si è
contratto il ciclo successivo viene innescato dalle cellule che si depolarizzano per prime, cioè le cellule
del nodo senoatriale.

Nel muscolo cardiaco le cellule muscolari sono striate e hanno sarcomeri simili a quelli del muscolo
scheletrico ma ci sono degli elementi di forte distinzione morfologica e funzionale. In questo tessuto
esistono le strie intercalari, visibili anche in microscopia ottica, all’interno delle quali vi sono due
tipologie di formazioni: i desmosomi, la cui funzione è l’assicurare continuità meccanica al miocardio,
e le gap junctions; le gap junctions sono canali a bassa resistenza che mettono in comunicazione due
cellule contigue: sono queste formazioni li substrato anatomico delle sinapsi elettriche. La maggior
parte delle sinapsi elettriche, a differenza di quelle chimiche, è bidirezionale: quando una cellula del
miocardio raggiunge il potenziale d’azione questo si propaga a tutto il ventricolo sfruttando questo
tipo di connessioni. In base a questo comportamento un tempo si diceva che il cuore non fosse un
sincizio ma che si comportasse come tale, cioè lo si può considerare un sincizio funzionale. Il risultato
della presenza di questa organizzazione anatomica è che o il cuore non è eccitato o se è eccitato lo è
ogni singola cellula. Il pacemaker fisiologico è dunque il nodo senoatriale, dove le cellule raggiungono
per prime il livello soglia, ma il potenziale d’azione qui generato si diffonde a tutto il cuore tramite le
sinapsi elettriche. Il miocardio si divide però in varie tipologie di tessuti (miocardio di lavoro, nodale,
non nodale, specifico di conduzione): esiste un miocardio specifico di conduzione che è in grado di
convogliare lo stimolo in modo efficace ottimizzando la contrazione.

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In figura si vede uno spaccato del cuore con evidenziato il miocardio specifico nodale e quello di con-
duzione. L’eccitamento si propaga attraverso tutto l’atrio tramite il miocardio specifico di conduzione
atriale che è costituito dalle vie internodali; le vie internodali prendono il nome di anteriore, posteriore
e media e tutte raggiungono il nodo atrioventricolare. Esiste una via atriale aggiuntiva che va dall’atrio
destro a quello sinistro: si tratta del fascio di Backmann ed è la struttura alla base della sincronia del-
l’attività dei due atri (il potenziale insorge in atrio destro, quindi in posizione asimmetrica). La velocità
di propagazione dipende in generale da due aspetti:
• Presenza/assenza di mielina
• Diametro della fibra4

Nel caso del muscolo cardiaco non esistono fasci mielinici, sono
tutti amielinici e conducono con una velocità dell’ordine di un metro
al secondo; questa velocità, non certo elevata, è comunque doppia
rispetto a quella a cui conduce il miocardio comune atriale: la fun-
zione di questo tessuto specializzato è dunque condurre velocemente
lo stimolo. Una volta raggiunto il nodo atrioventricolare si incontra il
fascio di His (o fascio atrioventricolare comune) che è l’unica struttura
che mette in comunicazione la muscolatura atriale e quella ventrico-
lare. Il fascio di His conduce ad una velocità quattro volte superiore
del miocardio specifico atriale: si arriva a valori di circa 4m/s. La
struttura del fascio è divisa in una branca sinistra, più robusta, e una
4 Come ordine di grandezza si può ottenere la velocità su di una fibra moltiplicandone il diametro per un valore compreso tra

5 e 6, ad esempio una fibra di 20µ conduce a circa 120m/s.

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destra, più esile; la branca sinistra si divide ulteriormente in una di-
visione anteriore ed una posteriore. La branca sinistra raggiunge l’apice del c uore e termina sia in
corrispondenza di questo che delle pareti laterali come fibre del Purkinje. Le fibre del Purkinje sono
dunque le ultime diramazioni del fascio di His. Il senso del fascio di His è condurre velocemente l’impul-
so: come risultato la contrazione del ventricolo è simultanea in ogni sua parte. Se non fosse presente
un tessuto con le proprietà del fascio di His ci sarebbe uno sfasamento tra le prime cellule a contrarsi
e le ultime: il cuore diventerebbe incredibilmente inefficiente.

La figura sopra mostra i potenziali d’azione delle principali cellule di interesse cardiaco. La prima
cellula è quella del nodo senoatriale, la linea verticale rappresenta l’istante in cui il potenziale pace-
maker raggiunge la soglia. Il potenziale d’azione insorge per primo nelle cellule del nodo e si propaga a
tutto il cuore; le cellule del miocardio atriale si eccitano con un tempo di ritardo legato alla conduzione
e si nota che presentano un potenziale di riposo stabile: non hanno potenzialità pacemaker.
Il nodo atrioventricolare ha potenzialità pacemaker ma è troppo lento e subisce quindi una eteroecc-
itazione. A livello del nodo atrioventricolare l’eccitamento rallenta la sua velocità; questa struttura è
formata da cellule di piccole dimensioni che conducono a una velocità bassissima, intorno ai 5cm/s. La
struttura del nodo atrioventricolare è piuttosto complessa in cui si riconoscono varie zone:
• La zona AN (Atrio-Nodo) dove le cellule subiscono la transizione tra citotipo5 atriale e citotipo
nodale.
• La zona N costituita da cellule tipicamente nodali.
5 Termine che probabilmente neanche esiste ma fa cultura.

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• La zona NH (Nodo-His) dove le cellule subiscono la transizione da citotipo nodale a citotipo del
fascio di His.
La velocità di propagazione del segnale è direttamente proporzionale al diametro della cellula da at-
traversare: tanto più è piccola la cellula tanto minore è la velocità. Le cellule che compongono il
fascio di His sono molto piccole e questo fornisce una ragione anatomica alla bassissima velocità di
conduzione: si ha un rallentamento di parecchie decine di millisecondi. Il significato funzionale di
questo ritardo è che in questo modo l’eccitazione prima invade l’atrio che si contrae e poi invade il
ventricolo che si contrae: se fosse tutto simultaneo verrebbe meno il contributo della sistole atriale
che, ricordiamo, contribuisce al 20% del volume telediastolico. Una volta superato il rallentamento del
fascio di His si ha il problema di far propagare l’eccitamento nel modo più veloce possibile ad entrambi
i ventricoli e a questo rispondono le branche del fascio. Tutte le strutture coinvolte a questo punto
(fibre del Purkinje e miocardio ventricolare) presentano risposta rapida però le fibre del Purkinje hanno
un potenziale d’azione molto più lungo: questo secondo alcuni è legato all’impedire che il potenziale
torni indietro. Se l’ultima cellula del ventricolo ad eccitarsi fosse circondata da cellule il cui periodo
refrattario assoluto è terminato si avrebbe eccitazione retrograda: questo è appunto quel che viene
impedito dal lungo potenziale delle fibre. La prima parte del miocardio comune ad essere eccitata è il
setto interventricolare o meglio la sua parte anteriore, cioè quella dove decorre il fascio di His. Questa
contrazione del fascio è importante perchè il cuore non ha un ancoraggio osseo e l’irrigidimento del set-
to fornisce un appoggio per l’azione successiva, quando si eccita l’apice. All’eccitazione dell’apice segue
quella delle pareti laterali del ventricolo fino alla porzione posteriore del setto. Riassumendo l’ordine di
contrazione del ventricolo è:
1. Setto interventricolare, porzione anteriore

2. Apice
3. Pareti laterali e setto interventricolare posteriore
Il particolare ordine di contrazione fa si che il ventricolo venga effettivamente spremuto spostando il
sangue in direzione della valvola semilunare in modo da svuotarsi efficacemente; pazienti con patologie
del miocardio specifico di conduzione presentano contrazioni ad efficacia estremamente ridotta.

L’attività elettrica del cuore è dunque alla base delle sue capacità meccaniche: questo quadro è
modificabile in qualche misura? La risposta è ovviamente si, altrimenti la frequenza cardiaca, la gittata
e gli altri parametri dovrebbero essere costanti. Si è già visto che il cuore subisce regolazione intrinseca
ed estrinseca. La regolazione intrinseca si basa su meccanismi interni al cuore ed esempi sono la rego-
lazione eterometrica dell’attività cardiaca (la legge di Starling), l’automatismo cardiaco e la propagazione
dell’eccitazione. Accanto ai sistemi intrinseci esistono quelli estrinseci di natura ormonale o nervosa.
Il cuore è innervato sia dal simpatico che dal parasimpatico ma nessuno dei due è necessario per la
genesi del battito cardiaco: qual è dunque il loro ruolo? L’innervazione aggiunge e raffina la capacità di
adattamento del cuore. La regola generale è che il parasimpatico ha funzione inibitoria e il simpatico
eccitatoria: hanno funzione antagonista anche in ambito cardiaco.

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L’innervazione parasimpatica è fornita dai rami del nervo vago, i cui corpi cellulari si trovano nel nu-
cleo motore dorsale del vago e nel nucleo ambiguo. I nuclei di origine del vago sono a loro volta sotto
controllo di altre regioni del sistema nervoso. Le fibre di questo nervo sono fibre pregangliari e contrag-
gono sinapsi con gangli che si trovano in prossimità dell’organo (questa è una grande differenza con
l’innervazione simpatica) . Nel caso del sistema nervoso simpatico i nuclei di origine si trovano invece
nella colonna intermedia del midollo spinale e fuoriescono come ramo comunicante bianco andando a
raggiungere i gangli della catena paravertebrale; i segmenti spinali di riferimento sono CVII-TV. I gangli
fondamentali per questo sistema sono il cervicale superiore, il medio e quello inferiore oltre ai primi
gangli toracici. Da questi gangli partono i rami comunicanti grigi che raggiungono i nervi e decorrono fi-
no ad arrivare al cuore, innervandolo. Importante è che le fibre pregangliari (ramo comunicante bianco)
sono mieliniche, mentre quelle postgangliari sono amieliniche. In ultima analisi sia il sistema nervoso
simpatico che il parasimpatico sono controllati dal SNC che impartisce ordini ai nuclei diriferimento.
Quali porzioni della muscolatura ventricolare sono interessate dall’innervazione? Il simpatico inner-
va il nodo senoatriale, il nodo atrioventricolare, il miocardio comune atriale e il miocardio comune
ventricolare, in pratica tutto il cuore. Il parasimpatico innerva invece il nodo senoatriale, quello atri-
oventricolare, la muscolatura comune atriale mentre innerva pochissimo la muscolatura ventricolare,
dunque non influenza la forza di contrazione del ventricolo. La potenza dell’effetto è legata alla potenza
dell’innervazione quindi il controllo del ventricolo è legato soprattutto al sistema nervoso simpatico. Il
nodo senoatriale, sede del pacemaker cardiaco, è sotto innervazione di entrambi i sistemi; il parasim-
patico (inibitorio) diminuisce la frequenza cardiaca, il simpatico (eccitatorio) la aumenta. Questo tipo di
controllo viene definito effetto cronotropo, suddiviso in effetto cronotropo positivo (simpatico) e negativo
(parasimpatico). Entrambi i sistemi controllano il nodo atrioventricolare, sede di enorme rallentamen-
to dello stimolo: il simpatico diminuisce l’entità del rallentamento mentre il parasimpatico l’aumenta;
questo effetto prende il nome di effetto dromotropo e sarà dromotropo positivo per il simpatico e dro-
motropo negativo per il parasimpatico. Esiste inoltre un’innervazione della muscolatura atriale, di poca
importanza, e una ventricolare, sulla quale il simpatico effettua azione positiva e il parasimpatico neg-
ativa: si tratta dell’effetto inotropo, cioè della variazione della forza di contrazione. Si è visto che la
muscolatura ventricolare è innervata quasi esclusivamente dal simpatico: se ne deduce che l’effetto
inotropo positivo esiste mentre quello negativo è qualcosa di irrilevante. A questo punto risulta chiaro
che in passato si è parlato di inotropismo usando un suo sinonimo: contrattilità. Le principali azioni
del sistema nervoso sul cuore sono dunque:
• Effetto cronotropo sulla frequenza delle contrazioni

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• Effetto dromotropo sulla velocità di conduzione del fascio di His
• Effetto inotropo sulla forza delle contrazioni
In cosa consistono i tre effetti? Vediamo il meccanismo di ognuno singolarmente.
L’effetto cronotropo riguarda il potenziale pacemaker, si verifica infatti nel nodo senoatriale. Una
premessa al suo funzionamento è la seguente: se devo regolare un qualsiasi parametro è più semplice
se il livello base non è zero ma un valore diverso; le variazioni da un livello non zero sono più facili da
ottenere in quanto non bisogna andare a valori negativi se si vuole diminuire il fenomeno. In termini
rigorosi si afferma che il SNA che raggiunge il cuore è dotato di un’attività tonica: se si registra l’attività
delle fibre simpatiche e parasimpatiche si trova un valore di base nell’organismo a riposo; in altre parole
il pacemaker primario del cuore è sottoposto continuamente in modo tonico ad una serie di segnali
(ecco il concetto di non partire da valore zero): per regolare l’azione del cuore a questo punto basta
modulare il segnale tonico. Come si dimostra che questo è possibile? Anestetizzando un animale e
registrando l’attività dei tronchi simpatici e parasimpatici, inoltre è possibile andare a studiare l’azione
del singolo comparto del SNA bloccando l’azione dell’altro. L’esistenza di una stimolazione tonica è
dimostrata se, eliminando uno o l’altro componente, la frequenza del cuore cambia. La farmacologia con
il tempo ha scoperto sostanze che bloccano selettivamente un comparto: la tropina blocca l’azione del
parasimpatico perchè blocca l’azione dell’acetilcolina mentre il propanololo blocca l’azione del simpatico
(un tempo gli stessi effetti si ottenevano recidendo fisicamente le connessioni con uno o l’altro sistema).
Qualunque sia la via di blocco, cosa succede quando viene interrotta la stimolazione? La frequenza
cardiaca diminuisce se viene bloccata l’azione del simpatico; se un cuore che batte ad una frequenza
di 70bpm viene privato dell’innervazione simpatica questo si sposta verso frequenze intorno ai 60bpm. Il
risultato opposto si ottiene con il blocco del parasimpatico: si va verso frequenze di 110bpm. Se entrambe
le divisioni del SNA vengono bloccate, i loro contributi vanno a sommarsi: il simpatico toglie 10bpm, il
parasimpatico ne aggiunge quaranta con il risultato che il cuore si assesta ad una frequenza di 100bpm.
Uno spunto interessante è dato dal trapianto: un cuore sottoposto a trapianto non ha controllo tonico
da parte del SNA e quindi batte autonomamente alla frequenza di 100bpm, ben più alta del normale.
In che modo l’innervazione SNA modifica la frequenza? In cosa le cellule del nodo senoatriale vengono
cambiate? Si va a modificare il potenziale pacemaker. Un esempio pratico è il desiderio di aumentare
la frequenza cardiaca; per ottenere un battito più rapido in teoria ho a disposizione tre vie:
• Inibire l’azione del parasimpatico
• Potenziare l’azione del simpatico
• Fare entrambe le cose in misura minore
Il controllo è dunque raffinato in quanto la frequenza è il determinante fondamentale della gittata
cardiaca.

La figura sopra mostra i potenziali registrati a livello delle cellule pacemaker (l’ascesa lenta e costante
è il potenziale pacemaker). La linea discontinua rappresenta il tempo di stimolazione del simpatico o
del parasimpatico (nervo vago). Quando si ha stimolazione del parasimpatico la cellula a fine ripolariz-
zazione raggiunge un potenziale di riposo più negativo e quindi il potenziale pacemaker diventa meno

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ripido: vengono sfruttati due meccanismi di controllo, cioè l’abbassamento del potenziale di riposo e
la variazione della pendenza. Dal grafico si nota un aspetto importante, cioè che l’effetto cronotropo
negativo introdotto dalla stimolazione parasimpatica permane anche dopo che lo stimolo è cessato:
questo è in contrasto con l’effetto del simpatico che cessa con la stimolazione. Questo è dovuto al
fatto che il simpatico agisce attraverso la liberazione di acetilcolina che viene scissa per via enzimatica
(acetilcolinesterasi) in brevissimo tempo; il parasimpatico agisce invece tramite la noradrenalina che
viene allontanata per riassunzione in un processo più lungo. L’effetto del simpatico è cronotropo pos-
itivo e non è legato ad un abbassamento del potenziale di riposo: si ha solo un aumento della ripidità
del potenziale pacemaker in modo da raggiungere prima la soglia. In breve dunque il parasimpatico
controlla la frequenza cardiaca a breve durata mentre il simpatico lo fa per periodi un po’ più lunghi
Queste fottutissime sbobinature si contraddicono a rotta di collo. Controllare il libro che tutto sa e
tutto può.
Sappiamo dunque che è il potenziale pacemaker a generare il battito cardiaco: modificandolo si
varia la frequenza. Il potenziale pacemaker è dovuto a tre correnti (IF, T e al potassio) ed è qui che il
SNA agisce.
Il simpatico ha l’effetto di potenziare le correnti entranti, cioè la corrente al sodio IF e la corrente al
calcio T: quando si ha stimolazione entra più calcio e la soglia viene raggiunta più velocemente. Un
secondo effetto del simpatico è la riduzione della permeabilità al potassio e quindi il potenziamento dei
meccanismi di base di genesi del potenziale pacemaker. In sintesi maggior ingresso di sodio e calcio e
minor uscita di potassio sono gli effetti della stimolazione simpatica.
Il parasimpatico svolge il suo effetto soprattutto sui canali al potassio che diventano più permeabili: il
potassio fuoriesce maggiormente, il potenziale diventa più negativo e la pendenza della curva è minore.
Da un punto di vista funzionale quali sono le ricadute funzionali della variazione di frequenza
cardiaca? La tabella sotto le illustra:

La frequenza cardiaca normale di riposo è circa 70bpm e questo è legato al bilancio delle varie regolazioni.
Quando questa frequenza aumenta cosa succede? La durata del ciclo deve ridursi, quindi diastole e
sistole diventano più brevi: la differenza è che la diastole è un processo passivo mentre la sistole un
processo attivo. La tabella mostra che passando ad una frequenza di 150bpm la sistole diminuisce
pochissimo (intorno al 10%) mentre la diastole risulta troncata notevolmente (intorno al 75%) . Da
questi dati si deduce che l’aumento della frequenza cardiaca non è sempre vantaggioso: lo è fintanto
che la gittata sistolica è sufficiente e questo dipende dal tempo di riempimento che viene lasciato al
cuore. Avevamo visto che il ciclo di riempimento del cuore è diviso in tre fasi: rapido, lento e sistole
atriale. Quando aumenta la frequenza la fase che scompare per prima è quella di riempimento lento,
seguita da quello rapido e infine dalla sistole atriale. Esiste una frequenza, intorno ai 180 − 200Hz, oltre
la quale il riempimento è insufficiente. Ad una frequenza intorno ai 150Hz la durata del riempimento è
modesta ma il ventricolo è ancora in grado di riempirsi a sufficienza, come fa? Aumentando il gradiente
pressorio tra atrio e ventricolo, quindi aumentando la pressione in atrio, quindi aumentando il ritorno
venoso. Riassumendo un ritorno venoso aumentato contribuisce ad incrementare la pressione atriale
in misura tale da riempire efficacemente il ventricolo. Qual è allora il livello al quale l’aumento della
frequenza cardiaca inizia ad essere inutile? La risposta è legata alla capacità del cuore ma anche a
quella del circolo: se uno dei due meccanismi è insufficiente la soglia si abbassa.

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11 Lezione 11

Si era parlato di un effetto cronotropo, nella figura si vedono gli effetti della stimolazione del
parasimpatico (vago) e del simpatico: ogni grafico è posto a confronto con quanto accade prima della
stimolazione, cioè nella condizione basale.
Nella prima riga si vede l’effetto sul nodo senoatriale: il potenziale pacemaker diventa meno ripido , cioè
più lento a raggiungere la soglia e questo diminuisce la frequenza; il simpatico provoca effetti opposti.
La seconda riga mostra gli effetti sul nodo atrioventricolare: si nota l’effetto dromotropo. La velocità
di propagazione dell’eccitamento è variata da entrambe le divisioni del SNA. Quando viene attivato
il parasimpatico il pacemaker si modifica diventando meno ampio e più lento; la stimolazione del
simpatico fa si invece che il potenziale d’azione abbia una depolarizzazione più ripida e raggiunga
livelli leggermente più alti. Com’è possibile variare la velocità di conduzione? Il primo elemento della
velocità è la dimensione della cellula ma ne simpatico ne parasimpatico sono in grado di variare questo
attributo: varieranno dunque altre condizioni. A riposo la cellula è carica negativamente all’esterno
e positivamente all’esterno ma quando insorge il potenziale si crea un punto di inversione: in un
punto l’interno diventa positivo e l’esterno negativo ma questo punto si trova circondato da zone di
membrana normalmente polarizzate. In queste condizioni si viene a creare un gradiente elettrico: gli
ioni positivi tendono a migrare nella zona negativa e viceversa creando una propagazione di correnti
locali di tipo elettrotonico. La velocità di propagazione del potenziale lungo la membrana dipende allora
dalla resistenza con cui gli ioni si muovo dentro la cellula (all’esterno la resistenza è quasi nulla). Un
altro fattore da cui dipende la corrente è la differenza di potenziale: se il potenziale d’azione diventa più
ampio la tendenza di queste correnti a modificarsi aumenta. Se in un punto il potenziale diventa più
ampio il risultato è un flusso di cariche più intenso e rapido: i tratti di membrana raggiungono prima la
soglia e la propagazione avviene più velocemente. Modificando dunque la forma del potenziale d’azione
a livello del nodo atrioventricolare è possibile modificare la velocità d propagazione.
L’effetto inotropo è la variazione sulla forza di contrazione del cuore. Nella parte C del grafico si
illustra l’attività elettrica del cuore in accoppiata a quella meccanica dell’atrio. Quando si stimola il
parasimpatico la durata del potenziale d’azione si riduce e con esso la forza; quando si stimola invece
il simpatico il potenziale d’azione cambia poco ma la forza incrementa.

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In figura si vede lo studio di un preparato isovolumetrico di ventricolo, un preparato cioè alla quale è
applicato un post carico talmente elevato che alla fase di contrazione non ne segue una di eiezione. La
parte iniziale del grafico è prestimolazione del ganglio stellato (il principale dell’innervazione simpatica,
di questi gangli ne esistono due ma il principale è quello destro) mentre quella a destra è post stimo-
lazione. Quando il ganglio viene stimolato si produce una forza maggiore e in tempi più rapidi: in un
contesto normale si avrebbe un aumento del volume di eiezione ma il ventricolo del preparato non può
svuotarsi. La figura sotto mostra invece cosa succede quando ad essere stimolato è il vago:

Ad un primo sguardo l’effetto sembrerebbe l’opposto di quello del ganglio stellato ma in realtà questo
grafico è frutto di un artefatto sperimentale legato al fatto che il ventricolo ha un’innervazione molto
modesta d a parte del vago: all’atto pratico dunque l’effetto dell’innervazione parasimpatica è modesto.
Cosa comporta questa modesta variazione? Il fatto che se è necessario far variare la contrattilità
bisogna agire sul simpatico perchè il parasimpatico conta poco: nel caso dell’inotropismo la contrattilità
fa la parte da leone.
Fino a questo punto si è vista dunque un’azione sulla frequenza cardiaca, l’effetto cronotropo, cui
partecipano sia il simpatico che il parasimpatico, un’azione sulla velocità di propagazione e infine
una sulla contrattilità principalmente legata al simpatico. L’effetto cronotropo è legato alle variazioni
delle correnti responsabili del pacemaker, l’effetto dromotropo alla variazione della forma del potenziale
d’azione, come funziona l’effetto inotropo? Il meccanismo è in figura:

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Si vede il canale al calcio tipo L (longlasting) che è responsabile della fase di plateau. Questo canale
quando si apre fa entrare gli ioni calcio i quali inducono la liberazione di altri ioni calcio dal reticolo
sarcoplasmatico facendo in ultima analisi attivare il meccanismo contrattile. Il canale al calcio L pre-
senta più di un controllo: si tratta di un controllo voltaggio dipendente ma anche ligando dipendente.
Un canale ligando dipendente presenta dei recettori, che in questo caso sono recettori β-adrenergici
che vengono attivati dalle catecolamine: in questa famiglia di molecole si trovano sia l’adrenalina che
la noradrenalina. La figura mostra che quando la catecolamina si lega al recettore si attiva un’ade-
nilato ciclasi che inizia a formare cAMP con ruolo di II messaggero; cAMP attiva delle fosfochinasi
cAMP-dipendenti che provocano la fosforilazione di particolari proteine, tra le quali soprattutto:
1. Proteina canale del calcio
2. Fosfolambano
3. Troponina I

La fosforilazione della proteina canale del calcio causa l’ingresso di più calcio perchè l’apertura del
canale è sia voltaggio che ligando dipendente. In che cosa consiste la contrattilità? La contrattilità è
la forza della contrazione in condizioni omeometriche, cioè indipendenti dal precarico. Osservando i
grafici di funzionalità ventricolare, o pressione volume, si nota che l’attivazione del simpatico sposta la
curva verso sinistra mentre il parasimpatico la sposta a destra seppur di poco considerato il suo ruolo
minore. A parità di riempimento aumenta dunque il volume di eiezione: entra una maggior quantità di
calcio attraverso i recettori beta e questo si traduce in maggior forza. Il fosfolambano è una sostanza
che agisce invece sulla pompa ATPasica che risequestra il calcio all’interno del reticolo sarcoplasmatico:
si ha una maggior rapidità di sequestro del calcio rilasciato e quindi l’intero evento meccanico ha una
durata inferiore. La troponina I infine agisce inibendo il legame calcio-troponina C: il muscolo dunque
si rilascia precocemente per l’intervento di questa proteina che normalmente non è presente in grandi
quantità ma in questo momento lo è per via della fosforilazione. Riassumendo gli effetti:
1. Proteina canale del calcio: entra più calcio e quindi si genera più forza più rapidamente
2. Fosfolambano: il calcio uscito viene sequestrato più rapidamente e l’intero evento meccanico dura
di meno

3. Troponina I: il legame calcio-troponina C viene terminato prematuramente causando rilasciamen-


to del muscolo
A destra della figura si vedono invece delle proteine canale che hanno ricadute cliniche. Ad ogni
potenziale d’azione entra calcio nella cellula e questo potrebbe, in condizioni di mancata omeostasi,
accumularsi all’interno: normalmente invece viene espulso nei periodi di riposo grazie a meccanismi
vari. Uno di questi meccanismi è la pompa ATPasica al calcio che esclude lo ione dalla cellula ma questo
non è il più importante. Il meccanismo fondamentale è uno scambiatore sodio-calcio elettrogenetico:

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vengono scambiati tre ioni sodio per uno ione di calcio. Durante i periodi di riposo dunque viene
eliminato uno ione calcio a fronte di un’assunzione di tre ioni sodio. In figura sono citati i farmaci
glicosidi cardiaci, farmaci che vengono prescritti quando il cuore non ha forza sufficiente; per anni
questi farmaci sono stati usati senza sapere cosa facessero ma ora il meccanismo è chiaro. I glicosidi
cardiaci agiscono sulla pompa Na-K inibendola: quando la pompa viene bloccata il sodio si accumula
dentro alla cellula e lo scambiatore Na-Ca funziona meno e questo aumenta la concentrazione di calcio
intracellulare e quindi la forza di contrazione.
In che cosa consiste invece l’effetto inotropo negativo del parasimpatico? L’innervazione parasimpatica
del ventricolo è minima e l’effetto inotropo negativo è raggiunto in due modi: inibizione della sintesi di
cAMP (antagonismo sul simpatico) o stimolazione della sintesi di cGMP che agisce in maniera opposta
al cAMP. L’effetto diretto può però raggiungere direttamente solo il piccolo numero di cellule innervate,
per tutte le altre come si risolve? L’acetilcolina liberata da questo sistema agisce secondo due modalità:
neurotrasmettitore propriamente detto e modulatore del rilascio di noradrenalina.

A questo punto si inizia l’argomento dell’elettrocardiogramma che non dice nulla di più della fisi-
ologia del cuore rispetto a quanto già descritto. L’ECG è nato in un periodo di modeste conoscenze
fisiologiche e risponde alla ricerca di metodiche non invasive per la valutazione della funzionalità car-
diaca. Inizialmente si trattò di un approccio patologico: si studiava l’ECG di soggetti patologici e si
confermavano poi le ipotesi in sede autoptica. L’ECG è la registrazione dell’attività elettrica del cuore,
effetto sommatorio del contributo delle singole cellule che generano un potenziale d’azione. L’esame
svolto di routine è l’ECG indiretta in cui gli elettrodi sono posti a distanza dal cuore, ma è da sapere
che esiste, e si può fare in condizioni particolari, l’ECG diretto in cui si inseriscono gli elettrodi per via
ematica. Il disegno sotto è un tipico tracciato ECG:

Ogni quadratino nel tracciato rappresenta sull’asse X 40ms e sull’asse Y 0, 1mV . Si notano tutte le
onde registrabili: P, Q, R, S, T, e infine l ’onda U che non si vede quasi mai nei grafici clinici. La
prima onda, l’onda P, venne chiamata così perchè insorge prima della sistole ed è quindi Pre-sistole:
le successive sono semplicemente in ordine alfabetico. L’onda P è espressione dell’attività elettrica
dell’atrio; l’eccitamento è sorto nel nodo senoatriale ma questo è formato da un numero troppo basso
di cellule per essere registrato: l’onda P è dunque la registrazione dell’attività elettrica dei due atri
insieme. L’eccitamento, una volta invaso gli atri, raggiunge il nodo atrioventricolare nel tratto PQ che
viene rappresentato come piatto: questo perchè il tessuto nodale è talmente piccolo da non far registrare
variazioni significative. Il fatto che il tratto PQ sia isoelettrico non vuol dire che non c’è corrente, ma
che è troppo piccola per essere misurata: si parla quindi con più precisione di tratto apparentemente
isoelettrico o tratto isoelettrico spurio. Superato il nodo AV l’eccitazione arriva al ventricolo e segue una
successione precisa; prima si eccita il setto interventricolare (onda Q), poi il resto del ventricolo (onde R
ed S). Quando l’intero ventricolo è stato eccitato c’è un tempo in cui è completamente depolarizzato: il
tratto S-T esprime una condizione di stazionarietà. L’onda T chiude l’ECG ed esprime la ripolarizzazione
che si nota essere molto più lunga della depolarizzazione. L’onda U di solito non si vede e se si vede
viene scambiata per un artefatto; in realtà quest’onda è legata al fatto che le cellule del Purkinje hanno

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un potenziale d’azione molto più lungo e sono le ultime a ripolarizzare: quando lo fanno generano l’onda
U. Riassumendo:
• Onda P: onda presistole, misura l’attività elettrica dei due atri
• Tratto PQ: tratto isoelettrico spurio in cui si eccita il nodo AV

• Complesso QRS: misura l’attività elettrica ventricolare


• Tratto ST: stazionarietà di depolarizzazione
• Onda T: ripolarizzazione
• (Onda U): ripolarizzazione delle cellule del Purkinje

L’ampiezza di queste onde è in realtà molto piccola: un ECG misura un evento che va da 1 a 2 millivolt;
per confronto il potenziale d’azione varia da un valore di −90mV a uno di +30mV , con un escursione
dunque di 130mV .
Come mai compaiono queste onde nell’ECG? La spiegazione parte dal concetto di dipolo illustrato
sotto:

Un dipolo è un complesso di cariche separate di segno opposto:


questa situazione crea una corrente che, secondo la notazione
convenzionale, va dal polo positivo a quello negativo. In figura
le linee tratteggiate sono le linee isopotenziali, perpendicolari ai
flussi di corrente e per questo con lo stesso valore di potenziale.
La cellula ha cariche negative all’interno separate da quelle pos-
itive all’esterno da una membrana isolata: questo è un dipolo
biologico. Una coppia di elettrodi, di cui uno vicino alla cellula
e uno lontano non registra differenze di potenziale: lo spazio ex-
tracellulare è isopotenziale e quindi, in assenza di cellule attive,
non ci sono differenze. Cosa succede se si innesca un potenziale
d’azione? In un punto della membrana la separazione di cariche
si inverte e l’elettrodo inizia a rilevare delle differenze. Esiste una
fonte di eccitamento in movimento e l’elettrodo leggerà l’avvici-
narsi di cariche positive come un’onda positiva, viceversa come
una negativa. Le onde registrate saranno tanto più ampie tante più cariche coinvolgeranno e tanto più
queste saranno vicine all’elettrodo. Questa situazione è definita d ipolo mobile: le cariche si avvicinano
o si allontanano dal dipolo e in fisica si descrive l’evento in termini vettoriali: ogni cellula attiva viene
rappresentata da un vettore e questi si sommeranno con la regola del poligono. Come si applicano
questi concetti fisici alla realtà?

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Ipotizziamo un volume conduttore sferico con un gruppo di dipoli posti al centro; prendendo un piano
passante per il centro della sfera si ottiene una circonferenza, di cui ora prendiamo in considerazione
il triangolo equilatero inscritto. Se si collegano i tre vertici del triangolo con dei connettori, e questi
connettori vengono a coppie attaccati ad un voltimetro, si registra una differenza di potenziale derivante
dalla proiezione del vettore risultante sul lato del triangolo compreso tra la coppia di elettrodi in esame.
Si vede dunque una grandezza scalare che dipende dal vettore risultatnte e dall’angolo che questo
forma con il lato del triangolo: il segnale registrato è in funzione del coseno dell’angolo, quindi il valore
massimo è per angolo nullo ed è minimo per l’angolo retto (cos 90 = 0, cos 0 = 1). Il segnale può essere
analizzato dunque su tre diverse coppie: AB, BC, AC. Questo triangolo è un caso ideale che nella fisicità
umana non esiste, ma questo inconveniente è stato ovviato grazie a dei postulati che presero il nome
del fisiologo tedesco che li inventò: sono i postulati di Einthoven. Questi postulati sono i seguenti:
• Il torace viene assimilato ad una sfera conduttrice omogenea
• Il cuore viene immaginato come puntiforme e posto al centro della sfera idealizzata che è il torace
• Il triangolo di Einthoven viene tracciato tra i punti in cui gli arti, superiori ed inferiori, si in-
seriscono al tronco
Con questi presupposti, ponendo gli elettrodi ai vertici del triangolo, si è in grado di registrare un’attività
elettrica scalare. Si possono fare più derivazioni, in base alle coppie di elettrodi via via collegate; queste
derivazioni sono standard e sono:
• Prima derivazione: Braccio sinistro (+) / Braccio destro (-)
• Seconda derivazione: Braccio destro (-) / Gamba sinistra (+)
• Terza derivazione: Gamba sinistra (+) / Braccio sinistro (-)
La seconda derivazione inverte le polarità per un motivo pratico: se così non fosse il complesso QRS
sarebbe invertito nel tracciato, facendo questa operazione invece i tracciati nelle tre derivazioni sono
simili. Il triangolo di Einthoven è quello che in fisica viene definito nodo: la somma algebrica delle
correnti che lo attraversano deve dunque essere zero. Chiamando V1, V2 e V3 le proiezioni dei vettori
sui lati del triangolo deve valere l’uguaglianza

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V1−V2+V3=0→V2=V1+V3

Questo è verificabile sperimentalmente e garantisce che i postulati di Einthoven, pur essendo molto
distanti dalla realtà, sono corretti.

La figura sopra aggiunge un passaggio al discorso. Si può andare a vedere il vettore risultante non
istantaneo ma medio: questo approccio è importante nello studio del complesso QRS che riguarda il
ventricolo ed è quindi indice funzionale. L’ECG è una grandezza scalare, ma prendendone un tratto è
possibile risalire alla grandezza vettoriale: si fa questo sommando il complesso QRS nelle tre derivazioni
e riportando il risultato sul triangolo a partire dal punto medio; il punto di convergenza dei tre vettori,
unito al punto medio, è il vettore risultante, la cui direzione si modifica in condizioni patologiche. Il
vettore risultante da questa operazione varia da soggetto a soggetto e viene chiamato in cardiologia
vettore cardiaco medio.

La figura mostra nella prima riga la condizione normale con un orientamento medio dell’asse elettrico
cardiaco pari a 60°. La seconda riga mostra una situazione in cui l’asse elettrico cardiaco è 120° e il
cuore è orientato verso destra. La terza riga mostra infine un asse elettrico diminuito, 0°, e quindi un
cuore orientato a sinistra. L’ambito fisiologico per la direzione della propagazione dell’eccitamento è
−30/ + 110°, valori al di fuori del range entrano in patologia.

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12 Lezione 12
La lezione precedente aveva porta alla conclusione che, assumendo i postulati di Einthoven, l’ECG è
una grandezza scalare derivante dalla somma dei vettori elementari legati all’attività delle singole cel-
lule. Nelle derivazioni bipolari degli arti viene collocata una coppia di elettrodi secondo lo schema scelto
mentre un terzo viene costruito collegando tra loro gli altri cavi simulando così un elettrodo posto all’in-
finito e detto elettrodo esplorante. Il concetto di vettore cardiaco medio si era visto dare un’indicazione
sulla direzione media di propagazione dell’eccitamento durante il complesso QRS e quindi durante
l’attività ventricolare.
Quando viene fatto un ECG di routine vengono posti i tre elettrodi per gli arti (per le derivazioni
bipolari) ma anche alcuni elettrodi davanti al torace nelle posizioni indicate dalla figura sotto:

Grazie agli elettrodi sul torace sono state codificate altre sei derivazioni:
• Prima e seconda derivazione: a livello del IV spazio intercostale rispettivamente a destra e a
sinistra della linea marginosternale.
• Quarta derivazione: emiclaveare sinistra
• Terza derivazione: a metà tra seconda e quarta derivazione
• Quinta derivazione: linea ascellare anteriore, V spazio intercostale
• Sesta derivazione: linea ascellare media, V spazio intercostale
Tutte queste derivazioni sono nel complesso dette precordiali, poichè ottenute da misurazioni davanti al
cuore. Queste misure permetto l’esplorazione dell’attività cardiaca sul piano orizzontale, e non frontale
come quelle bipolari. Questi esami vengono sfruttati per monitorare l’attività ventricolare di destra e di
sinistra; in particolare:
• V1 e V2 esplorano l’attività del ventricolo destro
• V3 è intermedia
• V4, V5 e V6 esplorano l’attività del ventricolo sinistro
Come mai gli elettrodi sono posti solo sul torace e non sulla schiena? Perchè la spina dorsale e il midollo
spinale altererebbero le misurazioni mascherando l’attività cardiaca: se si vuole una misurazione pos-
teriore si fa inghiottire al paziente un elettrodo che viene posto nell’esofago all’altezza del cuore anche
se oggi esistono altre metodiche. La figura sotto mostra i risultati ottenibili con le varie tecniche, cioè
le prime tre derivazioni bipolari, le sei derivazioni precordiali e tre derivazioni aggiuntive, poco usate in
Italia, che prendono il nome di aumentate (di Colbergher? In realtà si chiamava Goldberger).

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aVR sta per augmented voltage right, aVL sta per augmented voltage left e aVF per augmented voltage
foot. Queste derivazioni sono dette pseudounipolari e vengono ottenute con un elettrodo esplorante
posto di volta in volta su un arto e con il secondo elettrodo ottenuto mettendo insieme le altre due
derivazioni. Ad esempio la aVR viene ottenuta tramite l’elettrodo del braccio destro confrontato con
l’unione dei due elettrodi del braccio sinistro e del piede: il segnale in questo modo risulta leggermente
aumentato6 . Il numero di derivazioni possibili illustra un concetto alla base: il tracciato ECG in con-
dizioni sia fisiologiche che patologiche dipende dalla posizione degli elettrodi. Seguono alcuni esempi
di tracciati commentati.

Il tracciato in A è normale e si evidenziano i ritmi sinusali, cioè il ritmo del cuore derivato dal nodo
senoatriale. In B si ha una tachicardia sinusale, cioè il battito è più elevato, mentre in C si ha una
bradicardia sinusale, che è la situazione opposta. Studiando la distanza tra un’onda R e la successiva
si può dunque andare a vedere se la frequenza è aumentata o diminuita ma soprattutto se è regolare
(distanza costante) o irregolare.
6 Wikipedia docet: l’elettrodo positivo viene posto sul braccio destro, mentre l’elettrodo negativo è la combinazione di quello del

braccio sinistro e del piede.

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Lo schema in alto illustra la propagazione dell’eccitamento. Lo stimolo insorge nel nodo senoatriale,
invade poi l’atrio e sfrutta il nodo atrioventricolare per arrivare al ventricolo. L’onda T ha la stessa
polarità dell’onda R ma hanno significato opposto: una è una depolarizzazione e l’altra una ripolariz-
zazione: come mai l’onda T ha verso positivo? Questo aspetto deriva dal fatto che le fibre del Purkinje
sono subendocardiche e quindi le prime cellule ad essere eccitate sono subendocardiche. L’eccitamento
si porpaga poi verso l’epicardio quindi la direzione della depolarizzazione è endo-epicardica. Le cellule
subepicardiche sono le ultime ad essere eccitate e anche le prime a ripolarizzarsi perchè hanno un
potenziale d’azione di durata minore: il processo di ripolarizzazione avviene quindi in senso opposto e
l’onda T ha una polarità uguale a quella dell’onda R. L’onda T e quella R sarebbero opposte se l’ordine
di eccitazione fosse lo stesso di quello di ripolarizzazione.
La seconda parte della figura mostra delle considerazioni cliniche. In B1 si ha un’onda P con polarità
verso il basso: questo si ottiene perchè il pacemaker in queste condizioni è il nodo atrioventricolare e
quindi la direzione di propagazione è opposta a quella normale. In B2 l’eccitamento sorge sempre al
nodo atrioventricolare ma l’onda P è simultanea al complesso QRS e ne viene mascherata perchè di
entità minore. In B3 si descrive una situazione in cui la propagazione all’atrio è talmente lenta che
l’onda P compare dopo il complesso QRS. In C si ha una situazione ancora diversa: il pacemaker è ora
a livello del ventricolo (pacemaker ileoventricolare) e questo porta a modifiche sia del complesso QRS
che dell’onda T.

In cardiologia viene definito blocco un’interferenza sulla trasmissione dell’eccitamento e ne vengono


individuati di primo, secondo e terzo ordine. Il blocco di primo ordine è quello in cui l’eccitamento

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impiega più tempo del dovuto per passare attraverso il nodo atrioventricolare. La figura sopra mostra
in A un blocco di primo grado. Il risultato pratico è un aumento della latenza tra l’onda P e il complesso
QRS: questo tipo di blocco è fisiologico, nel senso che si può ottenere stimolando il parasimpatico
(effetto dromotropo negativo) o inibendo il simpatico (che avrebbe effetto dromotropo positivo). In B si
vede un blocco cardiaco di secondo grado in cui l’eccitamento insorge nel nodo senoatriale ma viene
trasmesso al ventricolo solo una volta ogni due: il risultato è che la frequenza del ventricolo è metà
di quella dell’atrio. In C si ha una patologia più grave: qui l’eccitamento insorge nel nodo ma non
raggiunge mai il ventricolo, situazione legata a patologie del fascio di His. In queste condizioni il
ventricolo e l’atrio sono completamente sconnessi dal punto di vista elettrico e quindi lo sono anche
l’onda P ed il complesso QRS.

La figura sopra mostra patologia extrasistolica, cioè la presenza di un battito ectopico distante
dalla sua sede fisiologica. A livello dell’atrio l’eccitamento insorge un pochino prima del dovuto (la
distanza tra le due onde R si nota essere minore). In B si ha la stessa condizione ma nel ventricolo
e i risultati sono più evidenti: il complesso QRS è completamente modificato in quanto quando arriva
l’eccitamento dall’atrio il ventricolo è in periodo refrattario e non può eccitarsi; nei giovani l’extrasistole
viene percepita come un battito più forte legato al fatto che il cuore compensa con un aumento del
riempimento, negli anziani invece questa stessa condizione è da esplorarsi clinicamente.

La figura sopra mostra due esempi di patologie parossistiche in cui la frequenza cardiaca è alterata a
rialzo. Questa condizione di tachicardia può insorgere sia a livello atriale (tachicardia sopraventricolare)
che a livello ventricolare: la prima è illustrata in A e la seconda in B.

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L’ultima figura mostra patologie molto gravi: le fibrillazioni. In A viene illustrata una fibrillazione
atriale: l’eccitamento insorge si, ma poi non segue il percorso dovuto e rimane a circolare all’interno
dell’atrio; in queste condizioni si ha un eccitamento continuo e si perde la presenza di una ona P netta:
si ha piuttosto un segnale tremolante e la sistole atriale è compromessa. La condizione di fibrillazione
atriale è perfettamente compatibile con la vita7 in quanto la sistole atriale contribuisce per un modesto
20% al riempimento ventricolare e questo apporto può facilmente essere compensato dalla attività ven-
tricolare. In B si vede invece la patologia grave della fibrillazione ventricolare: l’eccitamento si propaga
qui in maniera scoordinata e quindi inefficiente. In queste condizioni il sangue tende a spostarsi all’in-
terno del ventricolo anzichè ad uscire: se la fibrillazione non viene corretta con il defibrillatore entro
pochi minuti il soggetto muore.

L’argomento da affrontare ora è il controllo dell’attività del sistema cardiocircolatorio. La regolazione


del circolo può essere suddivisa con le stesse modalità viste per la regolazione cardiaca: esistono una
regolazione intrinseca/locale, una nervosa ed una umorale.

La tabella sopra è una versione più precisa del grafico a torta visto nella prima lezione. Viene esaminato
un soggetto con una gittata cardiaca a riposo pari a 5, 8L/min che diventano 25L/min durante un’attività
fisica massimale. Si nota che ci sono organi, ad esempio il cervello, il cui flusso è costante sia a riposo
che sotto sforzo: queste sono dunque strutture il cui flusso locale non è influenzato dal movimento.
Altri organi, in primis il muscolo, vedono il loro flusso aumentare enormemente: sotto sforzo quasi
tutta la gittata cardiaca va al muscolo, con la precisazione che il flusso aumenta solo per i muscoli
attivi mentre quelli a riposo non subiscono variazioni. Alcuni organi infine subiscono una riduzione
del flusso: ad esempio ci sono riduzioni nei circoli renale e splancnico. Il cuore stesso si garantisce
una quota maggiore di sangue sotto sforzo aumentando il flusso nel circolo coronarico. Quali sono le
basi di questa regolazione? Il flusso, nella sua concezione più semplice, è legato alle resistenze e alle
capacità del circolo: sono questi gli aspetti da regolare e verrà fatto questo in modo altamente difforme
per i vari organi.
Si è già visto che il cuore ha una regolazione della sua attività per cui la gittata aumenta: questo
aumento deve e ssere legato ad una modifica del controllo da parte dei vasi, controllo che però deve
essere difforme. Per quanto riguarda il circolo periferico l’elemento chiave è il tessuto muscolare liscio
presente nella parete dei vasi, in particolare quelli di resistenza (arteriole) e di capacità (venule): a
questi livelli una vasocostrizione diminuisce il flusso e una vasodilatazione lo incrementa.
La muscolatura liscia è un tema che va affrontato in paragone a quella scheletrica. Nel muscolo
scheletrico le cellule muscolari sono indipendenti tra loro e non esistono cellule pacemaker: il muscolo
7 L’attività atletica è da escludersi.

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liscio è totalmente diverso. Esistono due grandi categorie di muscolatura liscia: il muscolo unitario
e il muscolo unitario. Queste sono categorie estreme e la maggior parte dei muscoli ha proprietà
di entrambi ma i vari organi hanno comunque una prevalenza di uno o dell’altro. I parametri per
distinguere il muscolo liscio unitario da quello multiunitario sono tre:
• Presenza/assenza di innervazione: non tutta la muscolatura liscia è innervata

• Presenza di attività spontanea


• Presenza di risposta allo stiramento
Il muscolo liscio multiunitario è quello più simile allo scheletrico: si tratta di un muscolo sempre inner-
vato, privo di attività spontanea e con una modesta risposta allo stiramento. Il muscolo liscio unitario
è invece privo di innervazione e presenta delle contrazioni spontanee in quanto contiene cellule pace-
maker connesse da gap-junctions: questa muscolatura ha dunque un controllo locale indipendente dal
sistema nervoso e, quando stirata, risponde con una contrazione riflessa. Come si distribuiscono le due
tipologie di muscolo liscio? Il muscolo unitario si trova andando verso i capillari8 mentre allontanandosi
da essi si ha più facilmente muscolatura liscia multiunitaria.
Il muscolo liscio presenta anche altre proprietà, tra cui una fondamentale è la presenza di numerosi
recettori di membrana che, al contatto con il loro ligando, possono innescare una contrazione: ques-
ta contrazione può essere dovuta sia ad una variazione del voltaggio causata dal ligando sia esserne
indipendente. Il muscolo scheletrico per confronto è scarsamente sensibile alle sostanze circolanti. I
recettori del muscolo liscio sono diversi in base ai diversi distretti e quindi la risposta ad una stessa
sostanza può variare localmente: una molecola può dunque indurre contrazione ad un livello e rilascia-
mento ad un altro in quello che viene chiamato effetto farmaco-meccanico. Caratteristica fondamentale
poi di tutto il muscolo liscio, sia multiunitario che unitario, è la presenza di un tono, cioè una con-
trazione di base indipendente dai segnali esterni: questo tono può dipendere sia da un meccanismo
nervoso che dal grado di stiramento cui è sottoposta la muscolatura.
La prima regolazione da studiare è quella locale e per farlo è necessario eliminare tutte le interferenze
estrinseche ripercorrendo quello che Starling fece per il cuore. I fattori nervosi vengono eliminati
facilmente denervando il muscolo mentre il controllo umorale non è facile da sopprimere: lo si fa
sperimentalmente perfondendo un organo di animale con sangue prelevato esternamente e quindi
controllato dallo sperimentatore.

La figura sopra mostra i risultati di un esperimento nelle condizioni descritte. In X c’è la pressione di
perfusione ed in Y il flusso. Alla pressione media di 100mmHg si ottiene un certo flusso, modificando
i valori pressori come cambia? Si hanno solo regolazioni intrinseche. Aumentando la pressione di
20mmHg il vaso si dilata ed il flusso aumenta molto ma se questo aumento permane dopo circa due
minuti il flusso diminuisce ritornando ad un valore molto simile a quello basale. La modificazione
del flusso è transitoria: se Q aumenta anche R sarà aumentato mentre se diminuisce anche il raggio
farà altrettanto. Il calibro dei vasi è libero di ridursi perchè c’è la muscolatura liscia che risponde allo
8I capillari però non lo possiedono, in quanto in generale i capillari non hanno muscolatura di alcun tipo.

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stiramento: il muscolo inizialmente si stira, poi inizia a contrarsi e il vaso ritorna nelle condizioni iniziali
o quasi. Se la pressione in circolo invece di aumentare diminuisce il flusso la segue ma successivamente
torna ad aumentare verso i valori basali. Esiste allora un meccanismo di regolazione grazie al quale,
per un certo range pressorio (20 − 120mmHg), il flusso è indipendente dalla pressione se non per una
fase transitoria iniziale.

La base del meccanismo descritto sopra è in figura. Quando la pressione di perfusione aumenta il
vaso si dilata, il muscolo si stira e questo risponde lentamente contraendosi e riportando il flusso a
valori basali: questo meccanismo è definito meccanismo miogeno, un’autoregolazione tipica del tessuto
muscolare e presente nella maggior parte degli organi.
Se il meccanismo miogeno fosse l’unico ogni organo dovrebbe avere un flusso che quasi non varia:
è ovvio che manca qualcosa. Quando il flusso sanguigno ad un organo viene bloccato, come succede
ad esempio con il manicotto dello sfigmomanometro, ottengo una situazione di anossia: questa si può
protrarre fino a novanta minuti nei tessuti periferici e per al massimo un minuto in cuore e cervello.
Quando viene rimosso il blocco il flusso dovrebbe tornare al livello precedente sulla base del meccanis-
mo miogeno ma questo non è vero: il flusso risulta aumentato e si parla di iperemia reattiva. L’iperemia
reattiva ha entità e durata direttamente proporzionali alla durata del blocco; il flusso dovrebbe tornare
alla normalità ma non lo fa, questo significa che il blocco ha fatto variare qualcosa. Il blocco ha cam-
biato la possibilità di pulire il tessuto interstiziale dagli scarti del metabolismo: ogni organo produce
dei metaboliti e dei cataboliti vasodilatatori. Queste molecole vengono allontanate dal flusso sanguigno
ma quando questo viene bloccato si accumulano e causano vasodilatazione: maggiore è l’accumulo
maggiori saranno durata ed entità dell’iperemia reattiva.

I metaboliti vasodilatatori inibiscono la contrazione della muscolatura liscia finchè sono presenti: il
vaso si dilata e si ha l’iperemia. Accanto al controllo intrinseco muscolare esiste allora un controllo
estrinseco di tipo metabolico. Dal punto di vista pratico quali sono queste sostanze vasodilatatrici?
La vasodilatazione potrebbe dipendere dalla pressione parziale dell’ossigeno, o dalla produzione di
anidride carbonica, di protoni, di acido lattico, di prostaglandine, di protossido d’azoto e via dicendo.
L’attività sperimentale ha evidenziato che tutte queste sostanze hanno attività vasodilatatrice: se viene
cambiato un solo parametro si ha sempre vasodilatazione ma di entità minore di quella fisiologica. I
metaboliti vasodilatatori hanno dunque effetto additivo e l’azione di vasodilatazione non ha un’unico
agente responsabile: in generale la maggior parte delle sostanze che si liberano dall’attività metabolica
sono vasodilatatrici. Come si ottiene la risposta altamente differenziata che è richiesta per far variare
il flusso? L’azione vasodilatatrice è diversa nei vari organi ammettendo che questi siano sensibili in
modo diverso a ciascuna di queste molecole; può allora avvenire che in un organo sia fondamentale
l’acido lattico, in un altro l’adenosina e così via. Esempio concreto: a livello cerebrale il metabolità

97
fondamentale è la CO2 mentre a livello muscolare è l’acido lattico, che non ha effetto sulla circolazione
del cervello.
Come funziona il controllo nervoso? La muscolatura liscia è innervata dal simpatico toracolombare
dei livelli TI-LII/III dove la colonna intermediolaterale emette gli assoni mielinici (ramo comunicante
bianco) che finiscono nei gangli e raggiungono poi i vasi e i nervi simpatici. Il sistema simpatico sfrutta
come neurotrasmettitore la noradrenalina a livello periferico e l’acetilcolina a livello dei gangli; l’effetto
di questo sistema è la vasocostrizione dei vasi di resistenza e di quelli di capacità. L’attivazione del
simpatico fa contrarre le arteriole e questo aumenta la resistenza al flusso e quindi la pressione. Se si
ha vasocostrizione da parte del sistema nervoso e vasodilatazione da parte dei metaboliti ad un certo
livello si ottiene una riduzione generale del flusso ed un suo aumento invece locale: il flusso aumenta
negli organi attivi e diminuisce in quelli inattivi. Sotto questa luce la vasocostrizione simpatica è dunque
un meccanismo attraverso cui deviare il sangue da zone inattive a zone attive. L’innervazione simpatica
non è uniforme: i vasi cerebrali ad esempio sono poco innervati e quindi risalta di più il meccanismo
metabolico mentre i vasi cutanei sono molto innervati. La regola fondamentale è questa: se l’organo a
riposo ha un’attività metabolica elevata il controllo nervoso simpatico è modesto.
Non tutto il simpatico è però vasocostrittore: esiste un simpatico vasodilatatore colinergico, cioè basato
sull’acetilcolina. Questo sistema è stato scoperto nei cani e nei gatti e poi ritrovato nei primati anche
se nell’uomo non se ne conosce l’esatta potenzialità. Il simpatico colinergico vasodilatatore non si
distribuisce uniformemente ma solo a livello della muscolatura scheletrica e delle ghiandole sudoripare
cutanee. Questo sistema diventa attivo quando l’organismo sta per iniziare un’attività motoria: i vasi
muscolari si dilatano e il flusso ematico aumenta prima che lo faccia il fabbisogno metabolico. Si tratta
di un ruolo di preparazione del sistema muscolare e l’aumento del flusso è mirato ai muscoli che stanno
per muoversi. In generale allora il simpatico vasocostrittore è sistemico mentre quello vasodilatatore è
locale.
Come funziona il controllo umorale? Si è detto che esistono vari recettori sulle membrane delle
cellule muscolari lisce e questi possono, una volta attivati dai ligandi, aumentare o diminuire la
contrazione. I recettori più importanti sono i recettori adrenergici.

I recettori α e β hanno effetti opposti: i primi sono vasocostrittori, gli altri vasodilatatori. Si chiamano
recettori adrenergici perchè vengono attivati dall’adrenalina e dalle sostanze adrenalina-simili quali la
noradrenalina e l’isoproterenolo. Sui recettori α l’adrenalina è quella più potente mentre per i β la
molecola più efficace è l’isoproterenolo: tutte e tre le molecole citate tuttavia sono efficaci sui due recet-
tori. In base alla presenza di un tipo di recettore si determinano gli effetti: la sostanza potrebbe dunque
essere vasodilatatrice ad un livello e vasocostrittrice ad un altro. I recettori β-adrenergici sono quelli
che mediano la contrattilità: esiste la forma β-1 nel miocardio e la formaβ-2 nei vasi ed eventualmente
nel cuore. I vasi della cute possiedono invece soprattutto i recettori di tipo α: l’adrenalina quando
entra in circolo produce quindi vasocostrizione cutanea (si impallidisce). Molti organi hanno vasi che
possiedono entrambi i recettori e l’effetto finale sarà dato sia dal recettore quantitativamente più rapp-
resentato che dai valori di soglia che sono diversi. La soglia dei recettori β è più bassa: poca adrenalina
in circolo è vasodilatatrice, tanta è vasocostrittrice. Riassumendo gli effetti di una regolazione umorale,
in questo caso adrenergica, dipendono da:
• Tipo di recettore presente

• Bilancio numerico tra i vari recettori rappresentati


• Soglia dei recettori

98
13 Lezione 13
L’impostazione di studio finora usata prevedeva l’approccio analitico di ogni aspetto preso separata-
mente: come si uniscono però i vari meccanismi? Qual è l’elemento unificante il circolo e il cuore?
Il parametro unificante tutti gli aspetti è la pressione: il cuore genera una pressione ed è questa che
permette al sangue di progredire lungo il circolo. Se è la pressione il parametro fondamentale un suo
controllo dovrà dunque risiedere nel SNC.

La figura sopra mostra un classico esperimento in cui si sondavano gli effetti sul sistema cardiocir-
colatorio di stimolazioni in particolari regioni del cervello. Si vedono raffigurati il bolbo e il ponte:
le aree tratteggiate obliquamente nella parte rostrale/laterale, se stimolate, inducono un aumento
pressorio e vengono dunque definite aree pressorie. Le aree tratteggiate orizzontalmente nella parte
mediale/inferiore se stimolate provocano invece una diminuzione della pressione arteriosa e vengono
dunque definite aree depressorie. L’area tratteggiata più in generale corrisponde ad una porzione della
formazione reticolare all’interno della quale i gruppi di neuroni tra loro collegati formano dei centri con
funzioni specifiche.

In figura vengono mostrati quattro centri fondamentali: cardio inibitorio (CI), cardio acceleratorio (CA),
vasocostrittore (VC) e vasodilatatore (VD). Questi centri sono tra loro connessi: i centri VC e CA sono in

99
buona parte sovrapponibili e corrispondono all’area pressoria in quanto si può aumentare la pressione
sia agendo sui vasi (vasocostrizione) che sul cuore (aumento frequenza). Il meccanismo nervoso di
controllo del sistema cardiocircolatorio è tutto qui; le vie afferenti sono per il centro cardio-inibitore il
nervo vago e per il centro cardio-acceleratore le vie bulbospinali che si portano al cuore con il sistema
simpatico. Il centro vasocostrittore è costituito da neuroni che proiettano al midollo spinale, attivano
il simpatico e esercitano vasocostrizione per tramite della muscolatura liscia; il centro vasodilatatore
infine non ha efferenze ma agisce inibendo il vasocostrittore.
I centri che regolano la pressione ricevono influenze da parte di altre regioni del SNC, ad esempio
l’ipotalamo che contribuisce a controllare l’espressione emotiva. Un’emozione è mediata da segnali che
dall’ipotalamo si portano al bulbo e controllano i quattro centri fondamentali. La corteccia di norma
non agisce direttamente sul bolbo e infatti le sue proiezioni non sono sviluppate: le sue influenze
si ottengono per via indiretta tramite l’ipotalamo; esiste però una via diretta per il controllo dei vasi
cutanei e muscolari: si ha una proiezione verso il midollo spinale. Il pensiero di muovere un braccio
attiva la corteccia motrice che invia segnali al midollo provocando una vasodilatazione nei vasi dei
muscoli del braccio e questo controllo sfugge al centro bulbopontino di regolazione della pressione
arteriosa. Esistono però anche segnali in arrivo dalla periferia di interesse per i quattro centri: sono
i segnali in arrivo dai barocettori e dai chemocettori. Questi tipi di recettori controllano due funzioni
fondamentali: la funzione respiratoria e quella cardiovascolare.
I barocettori sono trasduttori la cui forma di energia di partenza è la pressione. Questi recettori sono
presenti in numerose sedi tra le quali i vasi che portano il sangue al cervello e l’aorta, due posizioni
strategiche.

Esistono due grandi categorie di barocettori: quelli posti in distretti ad alta pressione e quelli in distretti
a bassa pressione. I più importanti barocettori sono posti alla biforcazione della cartodie comune e
formano il seno carotideo, innervato dal nervo del seno (ramo del glosso faringeo) che si porta anche al
glomo carotideo nelle vicinanze: seno e glomo hanno però funzioni diverse, il primo è un barocettore, il
secondo un chemocettore. Altri barocettori importanti sono i barocettori dell’arco aortico i cui segnali
viaggiano attraverso il ramo aortico del vago e raggiungono il centro bulbare a livello del nucleo del
tratto solitario.

100
La figura correla lo sfigmogramma dell’aorta ai potenziali d’azione a livello del seno carotideo. Quando
aumenta la pressione si modifica l’attività di questi recettori: più sale la pressione più i potenziali
d’azione sono frequenti e di lunga durata. Il punto limite si raggiunge per valori di pressione intorno
ai 200mmHg: la scarica diventa continua. La registrazione della pressione arteriosa è affidata ad un
controllo di frequenza: alte frequenze corrispondono ad alte pressioni.

Se sperimentalmente viene trasformata una pressione pulsatoria in stazionaria, cioè pressione media,
come cambia la segnalazione da parte dei recettori? La frequenza di scarica è caratteristica per una
determinata pressione pulsatoria: se si passa ad un regime stazionario la frequenza di scarica scende
ma non diminuisce, questo cosa significa? Significa che i barocettori forniscono due tipi di informazioni:
la pressione arteriosa media e la velocità di incremento della pressione. La figura sotto completa il
discorso illustrando la gamma di attività che questi recettori possono presentare:

101
Quando si modifica la pressione arteriosa si registra una frequenza di scarica. I recettori per poter
scaricare devono misurare una pressione minima di 50mmHg: al di sotto di questa soglia non si ha
alcun firing neuronale9 . A partire dal valore soglia ogni incremento provoca un aumento della frequenza
di scarica fino ad un valore di 180mmHg: a questo punto il sistema è saturo e ulteriori aumenti pressori
non vengono rilevati. Funzionalmente le conseguenze sono tre:

• Quando la pressione è bassa o prossima ai 50mmHg tutte le attività legate ai barocettori vengono
meno.
• Il SNC interpreta pressioni oltre i 180mmHg tutte allo stesso modo quindi non c’è controllo.
• La curva ha un picco di capacità di segnalazione intorno ai 90mmHg: il sistema funziona al
massimo a valori vicini a quelli fisiologici più comuni.

Cosa se ne fa il SNC delle informazioni che riceve da questi recettori?


Claude Bernard nel 1878 formulò un pensiero fondamentale: tutti i meccanismi vitali hanno l’obi-
ettivo di mantenere costanti le condizioni interne dell’organismo, cioè sono meccanismi di omeostasi.
Nel nostro corpo la pressione arteriosa è una delle grandezze omeostatiche e quando non viene regolata
si parla di ipertensione. Meccanismi semplici di omeostasi sono realizzati anche dall’uomo, ad esempio
per stanze a temperatura controllata. Il valore termico viene mantenuto costante intorno ad un cosid-
detto valore di riferimento e ogni variazione viene misurata: la differenza tra valore misurato e valore
di riferimento prende il nome di segnale d’errore che, se nullo, indica che i valori coincidono.

In ambito fisiologico la variabile da regolare è la pressione arteriosa e le informazioni su di essa


provengono dai barocettori. La regolazione viene inviata tramite il nervo vago (e l’accessorio) al centro
bulbo pontino dove viene confrontata con il valore di riferimento; se il check genera un segnale d’errore
questo viene processato dal sistema nervoso autonomo e risolto in periferia dagli effettori, cioè cuore e
vasi. A livello cardiaco si possono modificare frequenza cardiaca e volume sistolico e a livello vascolare
le varie resistenze/capacità. La figura illustra poi dove possono esserci dei disturbi, quali ad esempio
emorragie o resezioni dei nervi. Come funziona il sistema di controllo?
9 Che tecnicismo fioi

102
Il sistema prende il nome di regolazione nervosa/barocettiva/riflessa della pressione arteriosa a secon-
da dell’aspetto da accentuare. La terminazione di riflesso in particolar modo evidenzia che questo è un
meccanismo interamente incosciente. Si tratta di una regolazione a breve termine che agisce nell’arco
di pochi secondi, solamente il tempo necessario ai segnali di viaggiare lungo le vie; esiste una rego-
lazione a lungo termine che impiega più tempo e che si basa su meccanismi diversi (endocrini, roba di
fisio2). Le regolazioni a lungo termine si basano sugli equilibri di volume ematico a sua volta legato al
volume del liquido extracellulare.
In figura sono illustrate tre situazioni possibili: una normale, una di pressione diminuita e una di
pressione aumentata. Le informazioni pressorie vengono captate e ritrasmesse dai barocettori (in slide
nervo del senocarotideo): il segnale diminuisce od aumenta coerentemente con i valori pressori. I
segnali trasmessi vengono captati dai centri cardiomotori e vasomotori (CI, CA, VC, VD) e confrontati
con quelli di riferimento; il riferimento viene inteso come attività nervosa: se il segnale è diverso si
verificano le correzioni da fare e vengono indirizzate attraverso le due sezioni del SNA al cuore e ai
vasi. Quando la pressione diminuisce si ha inibizione del sistema vagale e quindi un aumento della
frequenza cardiaca: viceversa quando la pressione aumenta il vago viene stimolato e la frequenza
cardiaca sale. Cosa accade alla contrattilità? Questo parametro è legato più al simpatico: bassa
pressione stimola il simpatico ad aumentare la contrattilità, mentre alta pressione inibisce il simpatico
e la fa calare. La combinazione di frequenza aumentata ed aumentata contrattilità portano ad un
aumento della pressione media. Per quanto riguarda la vascolatura si ha una situazione in cui il
simpatico è tonicamente attivo: quando la pressione sale il tono scende e la muscolatura si rilascia,
quando la pressione scende accade il contrario. Riassumendo:
• Calo pressorio

– Effetti cardiaci: aumento della frequenza (inibizione del vago) e aumento della contrattilità
(stimolazione del simpatico)
– Effetti vascolari: aumento del tono muscolare (inibizione del simpatico)

• Aumento pressorio

– Effetti cardiaci: riduzione della frequenza (stimolazione del vago) e riduzione della contrattilità
(inibizione del simpatico)
– Effetti vascolari: riduzione del tono muscolare (stimolazione del simpatico)

Cosa succede nei vasi di capacità, quali venule e piccole vene? Se la pressione scende il ritorno
venoso diminuisce in quanto viene a mancare una spinta al ritorno al cuore, mentre l’opposto accade
nell’ipertensione. Alcuni esempi di questo:
1. Passando dalla posizione sdraiata a quella eretta la gravità ostacola il ritorno di sangue al cuore,
quindi diminuisce il ritorno venoso e, per la legge di Starling, anche la gittata cardiaca: in ultima
analisi cala dunque anche la pressione arteriosa. Il drop di pressione arteriosa viene captato dai

103
barocettori e viene corretto tramite i vari parametri cardiovascolari. Passando da una posizione
eretta ad una posizione sdraiata vengono fatte le correzioni al contrario e si ritorna comunque al
livello pressorio basale.
2. Un soggetto traumatizzato può avere un emorragia interna o esterna. L’emorragia comporta una
diminuzione del volume ematico circolante e quindi di pressione arteriosa: il drop pressorio causa
un aumento della frequenza cardiaca e della contrattilità: queste variazioni non sono seguite da
un aumentato ritorno venoso in quanto il circolo non è più chiuso. Il soggetto emorragico appare
pallido nel volto e negli arti: la vasocostrizione provoca una riduzione del flusso ematico periferico
e quindi anche una diminuzione della temperatura; tachicardia, pallore e temperatura ridotta
sono tanto più marcati quanto più è grave l’emorragia.

3. Un soggetto costretto a letto per lungo periodo quando si alza scatena il riflesso barocettivo
che però non essendo stato usato per lungo tempo genera una risposta non misurata e causa
svenimento.
4. Gli astronauti di ritorno dallo spazio devono riaddestrare il cuore in quanto vengono sollecitati
tutti i sistemi di controllo: il cuore si era adattato a condizioni molto diverse e questo comporta
problemi cardiovascolari più o meno gravi.
Una malattia estremamente diffusa dopo i quarant’anni è l’ipertensione: questo quadro è sintomo di
un’incapacità dell’organismo di mantenere un’omeostasi; la mancata omeostasi può essere legata sia
ad un deficit totale dei vari meccanismi sia alla presenza di perturbazioni maggiori della capacità di
correzione massima.

La figura sopra illustra la base di un altro meccanismo regolatore: il riflesso di Baindridge. Questo
ricercatore si rese conto che soluzioni endovenose di sangue o fisiologica causavano tachicardia priva
di modifiche alla contrattilità e al tono vasomotore: come mai? Quando si fa l’iniezione aumenta il
liquido a livello venoso e questo provoca un aumento di pressione nell’atrio destro dove esistono dei
recettori di volume: in realtà l’atrio è molto compliante e questa variazione pressoria è minima. Questi
recettori generano dei segnali afferenti da inviare ai centri di controllo che rispondono con un aumento
della frequenza cardiaca. Vari esperimenti per confermare il fenomeno diedero risultati contrastanti: a
volte si otteneva tachicardia e a volte bradicardia, il punto è il riflesso barocettivo. Quando viene fatta
un’infusione si ottengono due effetti: da un lato l’attivazione dei recettori di volume atriali e dall’altro la
stimolazione ad un maggior svuotamento ventricolare grazie al riflesso barocettivo. Quel che succede a
seguito di una trasfusione dipende allora dai due fattori, barocettivo e Braindridge, che si confrontano
algebricamente: vince semplicemente il più forte.

104
L’ultimo meccanismo di regolazione è quello dei chemocettori che hanno accesso ai centri di con-
trollo cardiovascolare. Gli stimoli che attivano i chemocettori sono pH, P CO2 , P O2 . L’effetto primario
dei chemocettori è una bradicardia ottenuta tramite azione diretta sui nuclei vagali; i chemocettori
periferici agiscono anche a livello respiratorio incrementando profondità e frequenza degli atti. Quando
il respiro diventa profondo il polmone si distende ed esistono dei recettori che monitorano questo com-
portamento; il secondo effetto della profondità è l’ipocapnia, cioè la riduzione della pressione parziale
dell’anidride carbonica. I segnali di ipocapnia e aumento della distensione polmonare raggiungono il
centro bulbare vagale e lo inibiscono: si ottiene così una tachicardia. In generale l’effetto sul cuore
è proporzionale a quanto intensamente sono attivati i recettori; quando i chemocettori lavorano in
un range fisiologico si ottiene una bradicardia, mentre un’attivazione massiccia induce la risposta di
tachicardia descritta prima.
Esempio patologico dell’azione dei chemocettori. Quando si respira monossido di carbonio c’è una fase
transitoria di tachicardia prima di ottenere l’inibizione dei centri.

105
14 Lezione 14
Il ruolo primario del circolo capillare è di contribuire alla costanza dell’ambiente interno: le cellule
necessitano di ossigeno e di materiale nutritivo e producono CO2 e sostanze cataboliche che devono
essere smaltite. La modifica dell’ambiente interno alle cellule oltre un certo range si ripercuote sulla
loro funzionalità. Quanti sono i capillari? Probabilmente nell’uomo circa quaranta miliardi, un numero
tale da garantire che la stragrande maggioranza delle cellule sia a contatto10 con uno di essi: questa
è un’idea generale ma esistono tessuti, ad esempio la cartilagine o il cristallino, che hanno bassa
perfusione e basso metabolismo. Il capillare tipo ha una lunghezza molto ridotta, circa 1mm e un
diametro compreso tra i 7 e i 9 micron, quindi paragonabile a quello dei globuli rossi. Il numero di
capillari e la loro configurazione in parallelo fanno si che l’area di sezione trasversa sia enorme e quindi
la velocità molto bassa, al massimo 1mm/sec, valore idoneo agli scambi gassosi.

Il circolo capillare si trova tra le arterie da un lato e le venule dall’altro e in questo reticolo si
trovano diverse formazioni vasali. La prima formazione è il sistema metarteriola- vaso preferenziale:
funzionalmente si tratta di un capillare in quanto si svolgono scambi, ma è presente una componente
di muscolatura liscia che sparisce andando verso la venula. La seconda formazione è il capillare vero,
caratterizzato dal riversarsi nel vaso preferenziale o direttamente nella venula e dalla presenza dello
sfintere precapillare, cioè una formazione a una o due cellule muscolari lisce a decorso circolare che
contraendosi chiudono il capillare. La conseguenza funzionale è che i capillari veri possono essere
chiusi o aperti mentre il vaso preferenziale è sempre pervio: in ogni istante il 75% dei capillari è chiuso,
se così non fosse il volume contenibile nei capillari sarebbe superiore a quello ematico totale e non
si avrebbe flusso. I singoli capillari alternano fasi di apertura e di chiusura in relazione all’attività
metabolica dell’organo in cui si trovano. Lo sfintere precapillare non è innervato ma segue una rego-
lazione metabolica in quanto si tratta di muscolatura liscia unitaria. Il circolo capillare è un circolo
pulsante ed è visibile sul fondo dell’occhio, unica regione in cui è possibile farlo.
Elemento importantissimo è il rivestimento dei capillari: tutti i vasi sono rivestiti da endotelio che però
in questo distretto è particolare. Esistono tre tipologie di endotelio: continuo, fenestrato e discontinuo.
L’endotelio continuo è fatto di cellule saldate tra loro da giunzioni strette e questo rende difficili gli
scambi: movimenti di molecole possono infatti avvenire solo attraverso membrana o tramite pori. Nel-
l’endotelio fenestrato si trovano pori di dimensioni maggiori ma la membrana basale è continua: questo
schema si trova nel rene e nell’apparato digerente. L’endotelio discontinuo è legato a cellule accostate
le une alle altre con pochissime giunzioni e pori grandi: passano tranquillamente proteine ma anche
cellule; l’endotelio discontinuo è poco selettivo e si ritrova nel fegato, nel midollo osseo e nella milza.
Domanda: come può un endotelio frammentato che poggia solo sulla membrana basale opporsi alla
pressione interna ai capillari? La spiegazione è legata alla legge di LaPlace, cioè
T
P ∝
R
Esiste una pressione capillare e questa deve essere contenuta dalle proprietà elastiche della parete che,
se stirate, generano una tensione: questa tensione è legata soprattutto alla membrana basale che ri-
esce a realizzarla perchè il raggio è molto piccolo. Un raggio estremamente piccolo come quello capillare
10 Entro distanze di pochi micron

106
fa allora si che la tensione sia molto bassa. La pressione capillare dipende da un lato dalla pressione
arteriosa e dall’altro dalla pressione venosa: questi due valori non hanno però uguale importanza. La
pressione arteriosa è a monte del filtro resistenziale arteriolare e quindi una situazione di ipertensione
arteriosa è compatibile con una pressione capillare normale; la pressione venosa non incontra filtri
resistenziali e dunque ogni sua variazione si ripercuote sulla pressione capillare: il determinante fon-
damentale per la pressione nei capillari è dunque la pressione nelle vene. Esempio pratico: un cuore
destro che pompa meno sangue di quello che riceve crea un accumulo a livello venoso e questo genera
una ipertensione capillare; un cuore destro iperattivo riesce al contrario a pompare tutto il sangue che
riceve abbassando la pressione venosa e quindi quella capillare.
Come avvengono gli scambi nei capillari? Gli scambi possono in generale essere attivi o passivi;
sono attivi nelle forme di citopepsi in cui le cellule e le sostanze di grande peso molecolare possono
attraversare la membrana per trasporto attivo, quindi con spesa di ATP. La seconda forma è il trasporto
passivo in cui l’organismo non spende energia: questo sistema si basa sull’esistenza di gradienti. In
che modo allora una sostanza può uscire da un capillare? La prima possibilità è la diffusione, via
percorribile da sostanze che hanno due caratteristiche:
1. Piccolo peso molecolare
2. Liposolubilità per attraversare il doppio strato lipoproteico
Le sostanze che diffondono sono i gas respiratori, O2 e CO2 , e l’acqua. Il passaggio dell’acqua è legato
all’osmosi ed è l’unico ad avere direzione non fissa: i gas respiratori hanno invece sempre la stessa
direzione di diffusione. Come si comportano le sostanze idrosolubili? Che siano cariche o meno, queste
molecole devono comunque attraversare dei pori che più sono piccoli più sono selettivi: le proteine
vengono massicciamente filtrate e passano solo le più piccole come le albumine. Il meccanismo con cui
passano le proteine più piccole e le sostanze idrosolubili è detto filtrazione nel senso capillare-interstizio
e assorbimento nel senso interstizio-capillare. Riassumendo esistono dunque due vie per uscire da un
capillare: diffusione per le sostanze capaci di farlo e filtrazione per tutte le altre.
Da cosa dipendono gli scambi capillari? Ogni capillare è caratterizzato da una pressione interna, la
pressione idrostatica capillare, che favorisce la filtrazione e che è bilanciata nell’interstizio dalla pres-
sione idrostatica interstiziale; entrano in gioco poi le proteine, presenti da entrambi i lati: si avranno
una pressione oncotica interstiziale ed una capillare. Esistono dunque due gradienti pressori: il gra-
diente idrostatico e quello oncotico, entrambi coinvolti nel favorire la filtrazione o il riassorbimento.
Questi gradienti vennero usati da Starling per costruire una formula empirica detta legge di Starling
per i capillari:

Qc = CF C · [(Pc − Pi ) − (πc − πi )]
con CFC coefficiente di filtrazione capillare. Questa formula è un richiamo alla legge del flusso Q =
∆P/R. Il CFC dipende da vari fattori strutturali:
• Superficie per gli scambi: più è vasta più è alto CFC
• Spessore della parete: più è elevato minore è CFC
• Viscosità del sangue: più è alta minore è CFC
• Tipo di endotelio capillare
Cosa è possibile dedurre dalla legge di Starling:
1. Se i gradienti pressori sono uguali non vi è scambio
2. Se il gradiente idrostatico è maggiore di quello oncotico si ha filtrazione
3. Se il gradiente idrostatico è minore di quello oncotico si ha riassorbimento
Se si riesce a dare un valore alle quattro pressioni in analisi si può capire come cambiare la fisiolo-
gia dei capillari. Come è possibile misurare la pressione dello spazio interstiziale? Si ipotizzò che i
tessuti hanno una condizione pastosa che è espressione di una pressione di poco superiore a quella
atmosferica e quindi si ipotizzò che la pressione interstiziale fosse di poco superiore a 1. La pressione
capillare deve essere inferiore a quella arteriosa ma superiore a quella venulare: si riteneva all’epoca
che il capillare non avesse pressione costante ma avesse un valore maggiore all’inizio e minore alla fine.

107
La figura sopra mostra l’ipotesi convenzionale. Il capillare avrebbe una pressione idrostatica iniziale
pari a 34mmHg e una finale pari a 14mmHg. La differenza tra pressione iniziale e finale è il gradi-
ente che viene dissipato per far circolare il sangue nei capillari. Le pressioni osmotiche stimate sono
pari a 5mmHg nell’interstizio e 28mmHg nel capillare (valore attendibile, sono proteine plasmatiche).
All’estremità arteriolare il gradiente di pressione idrostatica è 34 − 1 = 33mmHg e quello oncotico
28 − 5 = 23mmHg: si ottiene un gradiente netto di 33 − 23 = 10mmHg e quindi una filtrazione. Al-
l’estremità venosa il gradiente idrostatico è 14 − 1 = 13mmHg e quello oncotico è invariato: il risultato
è un gradiente netto pari a 13 − 23 = −10mmHg e quindi riassorbimento. Nella porzione centrale del
capillare deve esserci quella regione in cui avviene la transizione tra filtrazione e riassorbimento: non
avviene infatti alcuno scambio. Questo modello, in cui il capillare filtra ad un capo e assorbe dall’altro,
venne accettato finchè non furono disponibili nuovi strumenti di misurazione.
Tecniche più recenti di misurazione diedero come valore più probabile della pressione interstiziale un
valore negativo: −8mmHg, un valore che impone la revisione di tutto il sistema.

Secondo questo nuovo schema la pressione idrostatica capillare oscilla tra l’inizio e la fine da 16 a
14mmHg: i gradienti diventano rispettivamente 16 − −8 = 24mmHg in ingresso e 14 − −8 = 22mmHg in
uscita. Considerato che il gradiente oncotico è sempre 23mmHg non vale più la teoria di un’estremità
filtrante e una riassorbente perchè i margini sono troppo bassi e piccole variazioni sconvolgerebbero la
fisiologia. Il risultato è che la nuova visione del capillare è quella di un elemento variabile, che filtra o
riassorbe a seconda delle condizioni in cui è posto. Esempi: in posizione eretta la pressione venosa au-
menta, aumenta anche quella capillare e i capillari diventano principalmente filtranti a causa del fattore
gravità; passando in posizione sdraiata la pressione venosa diminuisce e i capillari diventano principal-
mente riassorbenti. La pressione idrostatica nel capillare è variabile per diminuzione della sezione delle
arteriole o per aumento della pressione venosa; la pressione venosa può aumentare se il cuore destro
funziona in modo insufficiente: una donna con le caviglie gonfie (cioè con un edema degli arti inferiori
dovuto al fatto che i capillari diventano principalmente filtranti) potrebbe presentare un’insufficienza
del cuore destro. Il valore della pressione oncotica è anch’esso modificabile: una patologia renale ad
esempio che generi proteinuria o albuminuria porta ad una diminuzione della pressione oncotica e
il capillare diventa completamente filtrante. Nel caso di un’emorragia interna la pressione arteriosa
diminuisce, le arteriole riducono il diametro e quindi la pressione idrostatica capillare diminuisce: il
capillare diventa assorbente e richiama liquido dall’interstizio; l’avere un capillare assorbente in questo

108
caso è un vantaggio nel primo momento in quanto compensa le perdite ematiche ma alla lunga questo
comportamento riduce la pressione oncotica del sangue e quindi non può continuare per sempre.
A quanto ammontano gli scambi capillari? Il flusso generato dal cuore è pari a 5L/min che nell’arco
della giornata diventano 7200L; il volume di scambio nei capillari è una frazione di poco superiore
al 2% quindi circa 20L vengono filtrati nei capillari nelle ventiquattro ore. L’85% di questi venti litri
viene riassorbito quindi il sistema filtra più di quanto riesca ad assorbire: rimangono fuori circa tre
litri al giorno. La quota non riassorbita dai capillari viene però assoribta dal circolo linfatico che
lavora sinergicamente a quello capillare. Il circolo linfatico è un circolo aperto: i capillari linfatici sono
infatti a fondo cieco. Questo sistema funziona perchè i vasi linfatici hanno poche giunzioni strette e le
cellule endoteliali sono sovrapposte tra loro e funzionano come valvola:se la pressione nell’interstizio
è maggiore di quella del vaso le cellule si allargano e entra liquido, se la pressione è invece minore
il liquido non può uscire per via della struttura del vaso (il vaso collassa e le cellule sovrapposte si
richiudono eliminando i passaggi). Nel sistema linfatico non esiste un analogo della pompa cardiaca ma
esistono altri meccanismi che permettono alla linfa di muoversi: la pompa muscolare, cioè l’alternanza
contrazione/rilasciamento, e la pulsazione dei vasi arteriosi che si dilatano e collassano continuamente.
Nei vasi linfatici più grandi infine compare una muscolatura liscia che favorisce il flusso centripeto. Il
fatto che il sistema linfatico continuamente porta via proteine è la ragione della pressione negativa
dell’interstizio (questa è un’ipotesi, non una certezza). Intervenire sul circolo linfatico comporta spesso
problemi: nelle donne in cui è stato svuotato il cavo ascellare a seguito di neoplasia della mammella si
ritrova un arto superiore che tende a gonfiarsi perchè si riduce la capacità di assorbimento del filtrato.

Circolo coronarico Quali sono i fattori determinanti del circolo coronarico? Sono i fattori meccanici,
nervosi, umorali e metabolici. Il fattore meccanico è la pressione arteriosa: a parità di tutte le altre
condizioni più è alta e maggiore è il flusso (Q = ∆P/R); un secondo fattore meccanico è legato al fatto
che i vasi coronarici decorrono sul muscolo cardiaco che si contrae ritmicamente: in fase di sistole i
vasi vengono schiacciati e dunque l’attività cardiaca è un fattore determinante il flusso.

L’immagine sopra mostra nella prima riga lo sfigmogramma aortico, nella seconda il flusso coronarico
sinistro e nella terza il flusso coronarico destro. A livello del ventricolo sinistro la pressione arteriosa è
più alta e i vasi coronarici corrispondenti vengono schiacciati molto più che a destra. Nella coronaria
di sinistra il flusso avviene soprattutto in diastole ed è modesto in sistole in quanto questi vasi vengono
chiusi con tale forza che non solo tendono a collassare ma a generare un flusso retrogrado. Nella
coronaria di destra invece il flusso massimo avviene durante la sistole perchè la sua pressione di
riferimento, la ventricolare destra, è più bassa e quindi non c’è un grande schiacciamento.

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La figura sopra mostra un esperimento che valuta il peso della compressione dei vasi. In A si perfonde
una coronaria a pressione costante superiore alla pressione arteriosa media e si notano le oscillazioni
del flusso nella terza riga: il ventricolo viene a questo punto fatto fibrillare e si elimina così il fattore
compressione; eliminare il fattore compressione aumenta il flusso e contestualmente anche la pressione
parziale dell’ossigeno in quanto arriva più sangue. Se questa condizione viene mantenuta per trenta
minuti sia il flusso che la pressione dell’ossigeno sono tornati normali per meccanismo miogeno: questo
dimostra l’importanza della compressione extravasale delle coronarie. Se viene stimolato il ganglio
stellato sinistro, il ganglio del simpatico che genera vasocostrizione, il tratto del grafico vede un’iniziale
vasocostrizione seguita da una vasodilatazione: questo è espressione di un meccanismo metabolico.
Il meccanismo metabolico è talmente potente che quando viene stimolato il simpatico si agisce anche
sulla muscolatura miocardica che aumenta l’attività metabolica: i metaboliti prodotti hanno un effetto
vasodilatatore più potente della vasocostrizione simpatica e si ottiene l’andamento in grafico.

La f igura riassume i fattori determinanti la resistenza coronarica:


1. Il meccanismo miogeno è sempre operante e assicura una regolazione del circolo
2. Il meccanismo metabolico, in cui il metabolita più importante è l’adenosina, agisce come vasodi-
latatore potentissimo
3. La compressione sistolica e l’influenza del ciclo cardiaco
4. Il controllo del SNA anche se non c’è certezza di un’innervazione vagale dei vasi coronarici:
sicuramnete invece il simpatico ha effetti di vasocostrizione.

Circolo cerebrale La regolazione di questo circolo è soprattutto metabolica e legata alla Pco2 . Un prob-
lema di questo circolo è il suo essere confinato in un volume rigido e quindi deve essere perfettamente
bilanciato: non ci si può permettere un edema.

Circolo cutaneo Il circolo cutaneo è legato soprattutto ad un meccanismo nervoso in quanto è respon-
sabile della termoregolazione. Questo circolo si divide in un circolo venoso profondo ed uno superficiale
e questi cambiano a seconda della condizione in cui si trova l’organismo. Se la cute è esposta al freddo

110
il sangue viene deviato dai vasi superficiali a quelli profondi perchè il simpatico fa contrarre le anas-
tomosi arterovenose. Quando la richiesta è la termodispersione il simpatico viene inibito, arriva più
sangue alle anastomosi arterovenose quindi più sangue alle vene superficiali e la dispersione aumenta.
Esempio. In montagna sulla neve la bassa temperatura crea le condizioni per una vasocostrizione
cutanea che è mediata soprattutto dal simpatico. La vasocostrizione crea un accumulo di metaboliti
vasodilatatori e quel che succede è che i tessuti esposti all’esterno, quali volto e mani, presentano im-
provvisamente una vasodilatazione segno del fatto che il meccanismo metabolico batte quello nervoso.
Il meccanismo rischia di diventare perverso ad esempio se si resta sotto la neve: si crea un’ischemia
prolungata per effetto del freddo e parte dei tessuti superficiali rischiano di cristallizzare. In generale
comunque anche nel distretto cutaneo il meccanismo nervoso è più debole di quello metabolico.

111
Parte II
Bonifazzi
15 Lezione 1
La cellula è una membrana che delimita due spazi: si tratta di un’approssimazione grossolana ma utile.
Esistono dei gradienti ch imici tra l’interno e l’esterno della cellula e la membrana è specializzata nello
sfruttare l’energia resa disponibile da questa condizione. Parleremo di un neurone intendendolo come
uno schema semplice, una struttura bipolare o polo recettoriale dove un agente eccitante (chimico o
fisico) cambia uno stato elettrico predisposto e stazionario; questo stato elettrico è quello che si chiama
potenziale di membrana di riposo ed è la sorgente di energia.

La figura sopra mostra diversi esempi di neuroni recettivi che, pur eseguendo compiti diversi, tra-
ducono sempre uno stimolo fisico o meccanico in un segnale elettrico che converge sul pirenoforo dove
origina l’assone. I potenziali d’azione generati in questo modo sono le unità di informazione del sistema
nervoso; quando arrivano in periferia possono essere poi trasmessi direttamente ad una cellula a valle
o possono generare la secrezione di una sostanza chimica. La trasmissione elettrica è stereotipata, cioè
è un fenomeno tutto o nulla, mentre la trasmissione chimica è regolabile nelle quantità di sostanza e
nell’efficacia d’azione.

112
La cellula nervosa possiede dunque una condizione basale che viene definita potenziale di riposo
della membrana: come si può misurare? La figura sopra mostra due modalità di registrazione. Nel pri-
mo caso si ha un elettrodo posto in prossimità della cellula: si vanno così a verificare delle variazioni di
potenziale in prossimità della cellula. Si ritrova un accumulo di cariche negative all’interno della cellula
bilanciato all’esterno da un accumulo di cariche positive in prossimità della membrana cellulare. Nel
secondo caso l’elettrodo è posto direttamente all’interno della cellula ottenendo così una registrazione
più precisa ma molto più invadente.
Che cos’ è il potenziale di membrana? Il potenziale di membrana è definito come la differenza tra il
potenziale di membrana misurato internamente ed esternamente, cioè

Vm = Vi − Ve

Parliamo di uno stato di stazionarietà definendo il potenziale di membrana di riposo come generato da
un lato dai gradienti ionici tra interno ed esterno della cellula e dall’altro dall’azione di un trasportatore:
la pompa sodio-potassio. La presenza di una pompa è resa necessaria in quanto la cellula per man-
tenere una alta efficienza di trasmissione lavora in perdita: con il tempo i gradienti scomparirebbero
se non ci fosse questo meccanismo a mantenerli. Un concetto fondamentale è poi quello di soglia: un
neurone non sempre trasmette informazioni ai neuroni a valle, lo fa solo se viene raggiunto un valore
soglia di potenziale. In generale la membrana della cellula nervosa è in grado di lavorare sia sopra che
sotto soglia, ma con comportamenti radicalmente diversi.

113
Quali sono i valori dei vari potenziali? La figura sopra mostra come è possibile misurarli. Nella
condizione iniziale la cellula è posta in una soluzione con composizione uguale a quella dell’interstizio;
tramite un microavanzatore viene posto un microelettrodo all’interno della cellula e si inizia a misurare.
Quando entrambi gli elettrodi sono esterni alla cellula la differenza di potenziale è zero in quanto
le cariche sono ugualmente distribuite; appena l’elettrodo entra nella cellula si registra un brusco
abbassamento del valore del potenziale, da zero fino a −60mV . Questo esperimento si può fare molte
volte e con qualsiasi durata: il potenziale di membrana registrato è sempre quello. A contribuire a
questo valore c’è quanto detto: un flusso di corrente che entra, uno che esce e infine il lavoro della
pompa Na-K. La cellula è dunque in grado di mantenere questa energia potenziale a disposizione per
un tempo illimitato, come mai?
La stessa figura mostra un esperimento che accoppia all’elettrodo un generatore di corrente in grado di
iniettare cariche nella cellula. Quando vado a iniettare cariche positive all’interno della cellula ottengo
la saturazione di quelle negative già all’interno: si ottiene così un potenziale elettrotonico depolarizzato
di intensità pari alla corrente che ho iniettato. Il potenziale elettrotonico depolarizzato aumenta all’au-
mentare della corrente iniettata ma ad un certo punto il valore del potenziale di membrana si sgancia
dalla dipendenza con la corrente iniettata: la depolarizzazione diventa talmente intensa da superare il
valore 0 e raggiungere valori positivi intorno ai +50mV . Questa variazione indipendente dalla corrente

114
iniettata prende il nome di potenziale d’azione e chi ne discrimina la genesi è il livello soglia. L’esper-
imento dell’iniezione di cariche può essere fatto anche immettendo cariche negative: in questo caso
si ottiene un potenziale elettrotonico iperpolarizzante che ha la caratteristica di non evocare mai un
potenziale d’azione.
La cellula tipo presenta dunque una situazione in cui la membrana ha un accumulo di cariche
positive all’esterno e uno di cariche negative all’interno: qualsiasi volume lontano dalla superficie di
membrana ha carica netta nulla; cosa determina la separazione delle cariche? Un esempio sperimentale
è dato dalla figura sotto.

In un becker si è realizzata una concentrazione salina di


un sale di potassio e si è posta nel mezzo una membrana
semipermeabile che permette al solo potassio di transitare:
gli anioni rimangono confinati nella loro metà originaria. La
concentrazione salina viene presa maggiore nella metà sin-
istra: per effetto osmolare ci sarà un transito di ioni K + da
sinistra a destra che però non potrà essere accompagnato
da un ugual transito di anioni per via della semipermeabil-
ità. Inizialmente dunque ci sarà un traffico netto di cariche
positive da sinistra a destra: questo non può andare avan-
ti all’infinito in quanto la metà di destra diventa positiva e
inizia a opporsi all’arrivo di nuove cariche di ugual segno,
si forma cioè una barriera elettrostatica. Il lavoro chimi-
co generato dal gradiente chimico produce allora un campo
elettrico di intensità crescente la cui funzione è riportare
le cariche positive da destra a sinistra: ad un certo punto
queste due forze saranno uguali e la membrana si ritro-
verà in uno stato elettrico stazionario. Questo esperimento
artificioso non è lontano dalle condizioni di una membrana cellulare.
Nella membrana cellulare l’equivalente del setto poroso nel becker è il canale ionico di membrana.
Questi canali sono proteine intrinseche che esprimono dei siti selettivi e permettono grazie a questi il
passaggio solo di alcune cariche: se la proteina esprime cariche negative ad esempio passeranno solo
cariche positive. Nel liquido extracellulare ci sono però cariche positive diverse: sodio e potassio; i
canali ionici sono selettivi non solo per la carica ma anche per la specie ionica: siamo in grado di far
entare cariche positive in maniera controllata senza raggiungere il valore della soglia ma predisponendo
l’instaurarsi di un potenziale d’azione. I due compartimenti, intracellulare ed extracellulare, sono
formati da sali e proteine in composizione diversa ma in equilibrio osmolare: l’osmolarità è il numero
totale di molecole contenute in un litro di soluzione. Se venisse meno l’equilibrio osmolare la cellula
tenderebbe o a gonfiarsi o a collassare a causa dei movimenti netti di acqua.

115
Com’è possibile dimostrare l’esistenza dei canali di membrana? Il problema fu risolto da Neher
e Sakmann (premi Nobel nel 1991) i quali vollero dare una prova diretta della presenza dei canali
e lo fecero mettendo a punto la tecnica del patch clamp. La tecnica sfrutta un microelettrodo che
viene appoggiato sulla membrana cellulare: grazie ad una piccola aspirazione si crea una depressione
interna che causa l’ingresso di una porzione di membrana all’interno dell’elettrodo stesso. In questo
modo si provoca uno stiramento di membrana che favorisce il contatto elettrostatico con l’elettrodo: a
questo punto il pezzetto di membrana interno è isolato da tutto il resto della cellula. Se all’interno del
pezzetto in esame c’è un canale e questo si apre facendo passare cariche noi vediamo come unico flusso
di corrente proprio questo. Il passo successivo è ricreare all’interno dell’elettrodo le stesse condizioni
del citoplasma, quindi simulare una condizione reale, e studiare come reagiscono i canali: si possono
iniettare cariche di entrambi i segni, o variare le situazioni ambientali. La tecnica del patch clamp ha
due rami principali:

• Tecnica inside-out: la membrana è rovesciata e quello che normalmente dovrebbe essere interno
è all’esterno. Questa tecnica è utile per studiare il comportamento della membrana a variazioni
interne alla cellula.
• Tecnica outside-out: la membrana è normalmente posizionata. Questa tecnica è utile per studiare
il comportamento della membrana a variazioni del citoplasma.

Come ci si rende conto che attraverso i canali circola uno ione? Perchè circoli corrente è necessario che
ci sia una forza che spinge le cariche e questa forza è la differenza di potenziale. Mi rendo conto che c’è
un canale perchè questo fa circolare corrente attraverso la membrana e questo è misurabile: in sintesi
è questo quello che si fa con il patch clamp.

116
La situazione sperimentale prevede dunque un microelettrodo e un circuito che permette di variare
il potenziale ai capi di membrana. Inizialmente il potenziale è quello di riposo, cioè −60mV . Sono in
una condizione in cui non c’è gradiente chimico per il potassio in quanto la concentrazione dentro e
fuori è la stessa: voglio indagare la presenza o meno di un canale che lascia passare questo ione. Se
le concentrazioni sono uguali non si può realizzare un flusso, anche se il canale è presente: non c’è
nessuna forza che riesca a spostare le cariche. Se viene fatta una misura della corrente in transito si
ottiene dunque un valore zero. Il secondo passo è questo: cosa succede se riesco a inoculare cariche
positive all’interno della cellula? Le cariche positive già presenti tenderanno ad uscire maggiormente.
Mi pongo dunque in una situazione a +20mV : quando il canale si apre dovrò dunque registrare una
corrente uscente. Se un canale è aperto in questa condizione lo ione inevitabilmente esce e l’intensità
della corrente che circola sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà la differenza di potenziale: a
+50mV dunque la corrente in uscita sarà più intensa. Se faccio l’esperimento inverso, cioè inoculo
cariche negative, stimolerò il potassio ad entrare ottenendo un risultato speculare al precedente. I
valori delle correnti, sia in uscita che in ingresso, si dispongono su di una retta la cui pendenza è la
conduttanza di membrana; la retta delle intensità di corrente ha formula

i = gV

e si dimostra valida in quanto per un valore di potenziale zero di membrana non si ha corrente in alcun
senso. Questa formula è in realtà una derivazione della legge di Ohm come dimostrato sotto:

V 1
i= g= −→ i = gV
R R
La conduttanza è dunque l’inverso della resistenza. A parità di differenza di potenziale dunque l’inten-
sità di corrente sarà tanto più intensa quanto minore sarà la resistenza o maggiore la conduttanza. In
base all’intensità della corrente in transito siamo dunque in grado di capire se e quanto la membrana è
permeabile ad una determinata specie ionica: il potenziale è imposto, l’intensità calcolata quindi si ha
un’incognita sola.

117
L’esperimento sopra mostrava una condizione lontana dalla realtà in quanto normalmente la cellula
non ha le stesse concentrazioni di potassio dentro e fuori. In questo secondo esperimento ci si mette in
una condizione più reale: 90mM ol/L all’interno e 3mM ol/L all’esterno. In questo caso al potenziale zero
di membrana c’è una grande concentrazione interna di potassio che tende a farlo uscire: ci aspettiamo
allora una corrente uscente in quanto c’è una forza chimica che spinge gli ioni. Spostandosi anche
questa volta verso i +20mV che succede? Alla forza chimica si somma la forza elettrica: la corrente
uscente aumenta di conseguenza. Se l’interno della cellula viene invece caricato negativamente creo
una forza elettrica che contrasta quella chimica: ad un certo punto si giungerà alla situazione in cui le
due forze sono uguali e opposte e non c’è più flusso. La forza chimica dipende totalmente dai gradienti
mentre la forza elettrica è sotto controllo dello sperimentatore: a −50mV la corrente è ancora uscente
mentre a −100mV diventa entrante, cioè la forza elettrica è diventata più forte di quella chimica. Tra
−50 e −100mV c’è dunque un punto in cui la corrente è zero; la relazione per la corrente è:

ik = gk (Vm − Ek )

la corrente è zero se la conduttanza è zero o se la forza elettromotrice netta è zero. La conduttanza


è sicuramente diversa da zero, quindi la corrente è nulla solo quando Vm − Ek = 0 e quindi quando
Vm = Ek . Il valore di potenziale di membrana che garantisce l’intensità zero è il potenziale di Nernst per
il potassio.

118
16 Lezione 2
Che cos’è in definitiva il potenziale di equilibrio di Nernst? Con un semplice esperimento si può
indagarne la natura:

Un becker contiene due compartimenti di soluzione ionica separati tra loro da un setto semiperme-
abile:a sinistra la concentrazione di sale è più alta che a destra. Il setto è permeabile ai soli ioni X + .
A seguito del gradiente di concentrazione tra i due compartimenti un certo quantitativo di ioni viene
trasportato da sinistra a destra e l’entità di questo movimento dipende dal logaritmo del rapporto delle
due concentrazioni. Il lavoro chimico è quantificabile secondo la relazione
[X + ]o
Wc = nRT · ln
[X + ]i
con R costante dei gas, T temperatura, n il numero di ioni trasportati. Il punto è che tutto il primo
fattore è fatto di costanti a temperatura ambiente, quindi si può ignorare. Il costante trasferimento di
ioni da sinistra a destra nel becker crea nel tempo un campo elettrico che opporrà un lavoro di tipo
elettrico in quanto nel lato di destra si verranno ad accumulare cariche positive. Il lavoro elettrico è
quantificabile secondo la relazione
We = nZF E
Queste due forze contrapposte arriveranno al punto di trovare un equilibrio. All’equilibrio il numero
di ioni che si sposta per gradiente chimico è uguale a quello di ioni che ritorna per gradiente elettrico.
Unendo le due formule finora trovate si ha
We = Wc

RT [X + ]o
· log = nZF E
zF [X + ]i

RT [X + ]o
E= · ln
zF [X + ]i
che è la definizione matematica del potenziale di equilibrio di Nernst, cioè quel valore di potenziale tale
per cui il flusso di ioni in uscita è uguale a quello in entrata. Questa relazione rende anche evidente
che affinchè ci sia un flusso è necessaria una differenza di concentrazione tra i due compartimenti.
Come si applica questo concetto ad una cellula ideale? Le condizioni prese in esame sono illustrate
nella figura sotto:

119
La soluzione intracellulare è in equilibrio osmolare con quella extracellulare ma la distribuzione delle
specie ioniche è diversa: il sodio è quattro volte più concentrato fuori al pari del cloro, il potassio trenta
volte più concentrato dentro; a bilanciare la situazione sono posti degli anioni impermeabili all’interno
della cellula. La membrana è presa permeabile a Na, K e Cl e abbiamo dunque flussi in entrambi i
sensi con il risultato finale che la polarità della cellula è −85mV . Sfruttando l’equazione di equilibrio di
Nernst per le concentrazioni in esame si nota che il potenziale di equilibrio è proprio −85mV sia per K
che per Cl: si potrebbe pensare allora che il potenziale di membrana di riposo sia determinato in egual
misura da cloro e potassio. La membrana come si comporta nei confronti dei vari ioni? La permeabilità
non è uguale per tutti, ma prendendo come valore di riferimento 1 la conduttanza al potassio i rapporti
sono:

PN a : Pk = 0.01 : 0.1 PCl : Pk = 0.4 : 0.6

Il punto è dunque che anche se all’esterno c’è un’enorme quantità di Na questo entrerà poco perchè la
conduttanza è bassa, invece per il potassio piccole quantità generano una grande fuoriuscita di questo
ione. Il Cl ha una permeabilità molto simile a quella del potassio e il suo ruolo va definito. Questo
discorso porterà a decretare che il potenziale di riposo è dovuto principalmente al potassio che risulta
essere lo ione maggiormente permeabile, e che un piccolo contributo verrà dato dallo ione sodio a causa
della sua massiccia presenza extracellulare. Lo ione cloro si trova in una situazione di equilibrio molto
efficace tra interno ed esterno della cellula e non influenza praticamente mai il potenziale di riposo.
Come si fa a dire questo? Un esperimento semplice è variare le concentrazioni di cloro e potassio.

Nel primo esperimento parto da una concentrazione di potassio esterna pari a 3mM ol e la raddoppio
raggiungendo i 6mM ol. Per mantenere valida la condizione di iso-osmolarità si è ridotto il Na all’esterno,
passando da 117 a 114mM ol. In queste condizioni ci si aspetta che la forza che fa uscire gli ioni K si
riduca e che quindi aumenti la loro concentrazione intracellulare: in effetti si passa da 90 a 91mM ol, con
una variazione anche per Cl che passa da 4 a 8mM ol. Il valore del potenziale di riposo è molto diverso
in queste condizioni: si raggiungono i −69mV , quindi variazioni ambientali di potassio sconvolgono il
potenziale di riposo.
Come reagisce la cellula alle variazioni di cloro? Raddoppiare il Cl è impossibile dato che è molto
concentrato, quindi lo si dimezza portandosi a concentrazioni di 60mM ol: il Cl entrerà quindi con minor

120
forza e infatti la concentrazione interna passa da 4 a 2mM ol. In risposta a questo ingresso una parte
degli ioni K uscirà ma piccoli trasferimenti di questo ione riescono a compensare grandi variazioni: il
dimezzare la concentrazione non ha variato il potenziale di riposo e questo dimostra che il suo valore
dipende principalmente dal potassio.
L’esperimento precedente ha definito un punto importante: il potenziale di riposo è principalmente
dovuto alla presenza di un gradiente per il potassio accompagnata dalla grande permeabilità della
membrana per questo ione; un piccolo contributo al valore di riposo è dato poi dal Na che ha un
forte gradiente che lo spinge all’interno ma può contare su una piccola permeabilità. Esaminiamo la
condizione in una cellula reale. Se prendiamo il potassio, questo è soggetto ad una forza chimica che
tende a farlo uscire perchè in generale la sua concentrazione è maggiore all’interno; a questa forza si
oppone una forza elettrica e queste trovano un equilibrio solamente al valore di potenziale di Nernst,
cioè −75mV . Facendo le stesse considerazioni per il sodio e usando le sue c oncentrazioni si ottiene che
il suo equilibrio si colloca a +55mV . Sulla base di queste considerazioni è possibile costruire il grafico
sotto:

Riprendiamo il potassio: il suo potenziale di equilibrio è dunque −75mV . Che succede alla corrente
potassio quando ci si porta a −60mV ? La forza chimica non cambia, perchè non cambiano i gradienti,
ma ci siamo allontanati dall’equilibrio e per reazione il potasso tende ad uscire cercando di far ripolar-
izzare la cellula verso i −75mV . In generale dunque la corrente non sarà mai zero se non per il punto di
potenziale di equilibrio. Se si passa ad un potenziale di −90mV , cioè si varia il potenziale dello stesso
valore assoluto ma in senso opposto si otterrà una corrente di intensità uguale alla prima ma di verso
opposto. Per quanto riguarda il sodio invece, dove avrà il suo equilibrio? A +55mV . Al valore −60mV
come sarà la corrente? Intensità uguale ma opposta a quella del potassio, altrimenti il potenziale non
potrebbe rimanere i nalterato nel tempo. Il grafico da poi un’altra informazione fondamentale: i coeffi-
cienti angolari delle due rette sono diversi, in particolare quello della retta del potassio è maggiore. Il
coefficiente angolare in questo tipo di grafico non è altro che la permeabilità di membrana, quindi più
una retta è ripida e più la membrana è permeabile per quello ione.
Il potenziale di equilibrio per il sodio è +55mV , quello per il potassio −75mV : nessuno di questi
due valori è quello del potenziale di membrana di riposo. Questo significa che al potenziale di riposo di
membrana queste due specie ioniche non sono all’equilibrio e quindi un certo quantitativo di sodio entra

121
e uno analogo di potassio esce: questo significa che al potenziale di riposo i gradienti chimici tendono
ad esaurirsi spontaneamente. Che cosa mantiene i gradienti nella cellula? La pompa sodio-potassio,
che porta dentro due ioni potassio e fa uscire tre ioni sodio. Il lavoro di questa pompa è asimmetrico,
in quanto ad ogni ciclo espelle dalla cellula una carica positiva: si dice che la pompa è elettrogenica e
che tende ad iperpolarizzare la membrana. L’elettrogenicità della pompa è conseguenza della necessità
di mantenere vitali i gradienti chimici e la polarità negativa della membrana. L’esistenza della pompa
è tutta nel destino della membrana a dissipare i gradienti: se la cellula non fosse soggetta a questo
processo la pompa non esisterebbe. Com’è possibile dimostrare l’esistenza della pompa? L’esperimento
decisivo fu fatto su neuroni di un serpente a sonagli:

Se entra sodio in grande quantità possiamo pensare che la pompa debba lavorare molto per buttarlo
fuori. Ipotizzando che il neurone in esame avesse molte pompe attive, gli sperimentatori hanno iniettato
un grande quantitativo di Na nella cellula: a seguito di questo la membrana si portava da un valore
di polarità iniziale di −30mV ad uno di −60mV . Ci si aspetterebbe una depolarizzazione e invece si
ottiene una iperpolarizzazione, come mai? La pompa si è definita come elettrogenica, e questa iperpo-
larizzazione è proprio l’effetto del suo lavoro. Se al posto di Na si inietta litio, ione carico positivamente
e dello stesso gruppo del sodio, non si ha una risposta iperpolarizzante in quanto la pompa non lo
riconosce come substrato. La pompa è sensibile all’ouabaina che se aggiunta all’esperimento risulta
competitiva con i siti di legame per il potassio: sodio + ouabaina non danno alcun effetto.

122
Un approccio alternativo allo studio della membrana è quello di fornirne un’approssimazione di
tipo elettrico. Abbiamo visto che esiste un potenziale di riposo dovuto alle cariche di segno negativo
accumulate all’interno: questo accumulo è legato ad un certo numero di forze passive che muovono
gli ioni. In un circuito equivalente il primo ramo è dato da una batteria che rappresenta il potenziale
di equilibrio di Nernst per il sodio: per valori diversi da +55mV ci saranno correnti in ingresso o
uscita. A questo percorso se ne aggiungono altri in parallelo anche per il K e il Cl: la disposizione in
parallelo è legata alla selettività specifica dei canali, attraverso i quali passano solamente gli ioni che
vengono riconosciuti. Un quarto elemento del circuito equivalente è la pompa Na-K che mantiene la
stazionarietà dei gradienti attraverso la membrana. La membrana ha un valore di potenziale di riposo
di −70mV soprattutto perchè ha un’alta permeabilità al potassio: se per qualche motivo la permeabilità
al sodio diventasse la più elevata il potenziale di riposo sarebbe molto più vicino ai +55mV . Regola
generale: il potenziale di membrana di riposo si posiziona a valori prossimi al potenziale di equilibrio
della specie ionica per la quale mostra la maggior permeabilità.

123
17 Lezione 3
[Riprende tutte le faccende viste finora]

Il grafico sopra mostra un potenziale d’azione, che è definibile come una variazione del potenziale di
membrana Vm . Il potenziale di membrana di riposo è il punto di partenza e l’energia da sfruttare; grazie
ad un’agente depolarizzante (iniezione di corrente) viene raggiunto un valore di soglia di eccitabilità
oltre il quale il potenziale cresce rapidamente (1 − 2msec), raggiunge un picco e infine la membrana
si ripolarizza tornando prima a valori più iperpolarizati del potenziale di riposo e poi al potenziale di
riposo. In sintesi: depolarizzazione rapida, iperpolarizzazione postuma e potenziale di riposo. Il picco
di depolarizzazione è intorno ai +50mV , un valore interessante in quanto sappiamo essere prossimo al
potenziale di equilibrio di Nernst per il sodio (EN a = +55mV ). Si era detto che il potenziale di membrana
di riposo è dettato dallo ione che ha la permeabilità più alta: ci aspettiamo allora che la permeabilità al
sodio sia aumentata. Se il sodio attraverso canali dedicati entrano cariche positive quindi viene ridotta
la polarità negativa della membrana: l’aspetto iniziale di depolarizzazione è dovuto ad un’aumenta-
ta permeabilità per questo ione. Seguendo lo stesso ragionamento passiamo all’iperpolarizzazione: il
valore che si raggiunge è −75mV , praticamente il potenziale di equilibrio del potassio. Interpretiamo
questo dato dicendo che dopo un’iniziale apertura dei canali sodio è aumentata anche la permeabil-
ità di membrana per il potassio. L’iperpolarizzazione legata ai potenziali d’azione prende il nome di
iperpolarizzazione postuma.
L’ingresso degli ioni sodio è sempre legato alla relazione

IN a = gN a · (Vm − EN a )

qual è allora la di fferenza tra potenziale elettrotonico e potenziale


d’azione? Il potenziale elettrotonico è direttamente determinato dal-
la corrente che io inietto nella cellula, il potenziale d’azione è invece
un’esplosione dello stato elettrico. Come si fa ad avere la certezza che
il pda è determinato dall’ingresso di sodio? Basta agire sulla com-
ponente EN a dell’equazione, ad esempio riducendo la concentrazione
esterna di sodio. Facendo questo esperimento si nota che il picco del
potenziale si abbassa e quindi ho la conferma che la prima parte del
potenziale è sodio-dipendente: la seconda parte, l’iperpolarizzazione,
non si modifica, in quanto non sono state toccate le concentrazioni

124
del potassio. Il grafico mostra però anche una seconda informazione: non solo il picco di potenziale
è minore, ma l’intera insorgenza è ritardata. Per capire perchè il potenziale si ritarda il filo logico da
seguire è quello dell’azione del sodio in ingresso. Quando si raggiunge il valore soglia del potenziale
viene aperto un numero di canali al sodio voltaggio dipendenti: questo aumenta in primo luogo la con-
duttanza al sodio. A seguito dell’aumento di conduttanza entra una grande quantità di sodio e quindi la
cellula si depolarizza ulteriormente: questo ciclo di feedback porta ad aprire ancor più canali al sodio,
come mostrato nella figura a lato. Se all’esterno c’è meno sodio ho a disposizione una forza minore che
lo spinge dentro: il ciclo di feedback si rallenta e quindi anche il potenziale si sviluppa in ritardo.
La fase successiva al picco è legata ai canali potassio voltaggio-dipendenti. Come si inserisce la
conduttanza al potassio nel contesto? La depolarizzazione aumenta gk ma lo ione quando esce ha
azione iperpolarizzante quindi l’apertura dei canali al potassio favorisce il ritorno verso il valore del
potenziale di riposo. L’intero processo del potenziale d’azione è dovuto alle variazioni di queste due
conduttanze che a loro volta sono legate a variazioni nel potenziale di membrana e che pertanto sono
definite voltaggio dipendenti. I valori di conduttanza alle varie specie ioniche possono essere modificati
farmacologicamente ed è questa la strategia di farmaci che combattono ad esempio l’epilessia.
Una tecnica fondamentale per lo studio del potenziale d’azione è quella del voltage clamp, uno
strumento che è in grado di mantere il voltaggio di membrana bloccato su un valore prestabilito. Ad
ogni variazione si ha una compensazione da parte dello strumento che è in grado di misurare quanta
corrente è necessaria (e in che verso) per non far variare il potenziale. In un tipico esperimento di voltage
clamp, sotto illustrato, si passa da un potenziale di riposo di −60mV a uno di 0mV e si misurano le
correnti in circolo.

125
A questo potenziale di membrana lo strumento deve, in fasi successive, iniettare una corrente capaci-
tiva, una corrente transiente entrante (il sodio) e una corrente ritardata uscente (potassio). In questo
esperimento dunque avevamo una membrana a −60mV che è stata portata a 0mV saturandone le
cariche negative. Come si può capire che la corrente transiente entrante sia legata al sodio e la ritar-
data uscente al potassio? Se si potessero separare si otterrebbero i profili C e D della figura. In C si
vede che l’azione del sodio è limitata ad un piccolo intervallo e dopo 3 − 4msec si esaurisce, cioè poco
dopo il picco del potenziale: questo perchè la corrente al sodio è depolarizzante ed è dunque inutile
e scomoda da mantenere nella fase di ripolarizzazione. In D si vede il comportamento della corrente
potassio; nell’intervallo 0 − 1msec è molto debole perchè è una corrente iperpolarizzante e siamo in fase
di depolarizzazione: questa corrente gioca infatti un ruolo fondamentale nella fase successiva.
Per chiarire meglio le varie correnti servono altri esperimenti, questa volta sul potenziale di in-
versione, unico dato che permette di capire che ione sta circolando in che canale. Se da un canale

126
misuriamo una corrente 0, ricordando la formula Ix = gx (Vm − Ex ) è ovvio che o la conduttanza o la
forza elettromotrice netta debbano avere valore nullo. La conduttanza sappiamo avere un valore magari
piccolo ma diverso da zero, quindi l’attenzione è tutta sul valore Vm − Ex : quando questo è zero siamo
nella condizione Vm = Ex . L’esperimento consiste dunque nel bloccare il potenziale di membrana a
valori diversi fino a incontrare quello che fornisce corrente zero.

Prendendo come riferimento la traccia a −35mV , vedo una curva molto simile a quelle già viste, con
corrente transiente entrante e ritardata uscente. A −85mV , valore inferiore ad Ek , non dovrei trovare
corrente in quanto i canali si aprono con la depolarizzazione: l’esperimento conferma la teoria. A questo
punto ci si sposta a valori più depolarizzati: a +26mV la corrente entrante si riduce e l’uscente aumenta
in quanto ci avviciniamo a EN a . A +52mV la corrente entrante è sparita anche se i canali sodio sono
aperti: la forza elettromotrice è dunque nulla11 . Come si misura la corrente al potassio? L’intento era
trovare il potenziale di inversione a −75mV e dovremmo girare intorno a questo valore: il problema è
che i canali si aprono se depolarizziamo, mentre se si iperpolarizza questi rimangono chiusi.
Il problema del misurare la corrente al potassio è stato
risolto quando sono state scoperte sostanze chimiche in gra-
do di bloccare selettivamente i canali sodio o quelli potas-
sio: andando ad eliminare il contributo del sodio rimane
solo la corrente ritardata al potassio. Il bloccante specifi-
co per il sodio prende il nome di tetrodotossina, una tossi-
na formidabile che agisce in quantità di nanogrammi e che
proviene dal pesce palla. In presenza di tetrodotossina (TTX)
rimangono dunque le sole correnti uscenti ritardate. Suc-
cessivamente è stata scoperta una seconda sostanza, lo ione
quaternario tetraetilammonio (TEA), che se introdotta nella
cellula blocca le correnti al potassio uscenti (Il tetraetilam-
monio è un prodotto di sintesi che non dovrebbe trovarsi in
natura). I derivati di queste due sostanze sono oggi usati
come farmaci. Tramite i bloccanti specifici siamo dunque
in grado di separare le correnti sodio dalle correnti potas- Figura 1: Il cazzutissimo pesce palla
sio e l’azione farmacologica può essere mirata a rallentare o
accelerare l’apertura o la chiusura di questi canali specifici.
Come si comportano i canali da un punto di vista cinetico? All’inizio si trovano in uno stadio iniziale
di chiusura, ed è possibile rappresentare la transizione da questo stadio a quello aperto come una
reazione cinetica; ogni reazione chimica ha la sua reazione inversa, per cui avremo un ripristino delle
condizioni iniziali con una certa velocità di reazione. Lo stimolo a percorrere la reazione in un verso o
nell’altro è lo stato elettrico della membrana. I canali sodio e potassio hanno comportamenti diversi:
quello al potassio rimane aperto fintanto che dura la depolarizzazione, mentre quello al sodio ha una
cinetica più complessa in quanto non ha due stadi ma tre. Il canale sodio può presentarsi dunque in
tre forme: aperto, chiuso o inattivato. Quando arriva lo stimolo il canale passa da chiuso ad aperto,
11 Il valore è leggermente diverso dal potenziale di equilibrio del sodio in quanto per fare questi esperimenti è necessario ferire

la cellula con due elettrodi che disturbano l’ambiente.

127
ma se la depolarizzazione permante passa allo stadio inattivato e vi rimane per tutta la durata della
depolarizzazione. In un esperimento in presenza di TEA si vede che i canali al sodio si aprono, si
raggiunge un picco di corrente e poi inizia il fenomeno dell’inattivazione per cui non passano più ioni
e la corrente torna a zero: la cinetica a tre stadi è alla base del fatto che la corrente è transiente. La
situazione per i due canali è dunque

In condizione di riposo il canale al sodio è chiuso, la depolarizzazione lo trasforma prima in aperto e


poi in inattivo: se la membrana ha molti canali chiusi la depolarizzazione agirà su molti canali, se ne
ha pochi il fenomeno sarà minimo. La separazione tra canali al sodio chiusi e inattivati da luogo alla
possibilità di modulare l’eccitabilità della cellula. Si può infatti agire sul numero dei canali disponibili,
ad esempio con la TTX, oppure sulle loro costanti di apertura/chiusura.
Al potenziale di riposo quanti sono i canali al sodio chiusi e quanti quelli inattivati? Ipotesi: se
fossero tutti inattivi non potrei mai avere il potenziale d’azione in quanto la corrente semplicemente
non circola. La possibilità di eccitarsi viene ripristinata grazie ad un iperpolarizzazione data dalla
costante gamma (cinetica da inattivato a chiuso): al valore di riposo tutti i canali sono inattivi (si
tratta sempre di un’ipotesi) e se depolarizzo la cellula e basta non vedrò mai corrente perchè manca
l’iperpolarizzazione che chiude i canali al sodio.

La figura sopra mostra un esperimento su cellula reale. Si deduce che al potenziale di riposo esistono
contemporaneamente sia canali inattivati che chiusi: iperpolarizzando la cellula prima di stimolarla si
abbassa la frazione di canali inattivi e si alza quella di canali chiusi. In generale al valore di riposo i
canali inattivati sono più di quelli chiusi: sono infatti il 60%. Il punto è che avendo una grande abbon-
danza di questi canali una leggera iperpolarizzazione me li mette a disposizione. Questa particolarità è

128
alla base dell’informazione: la cellula non è un interruttore ma deve modulare la trasformazione di un
impulso analogico e questo sistema dei canali permette una certa efficacia in questo.

La figura sopra mostra i risultati di un esperimento in cui vengono inviati due impulsi in successione
per generare un potenziale d’azione. L’impulso P1 genera un potenziale, il secondo impulso è molto
ravvicinato al primo e genera un potenziale ridotto perchè i canali a disposizione sono di meno. A
seguito di un potenziale d’azione i canali sodio transitano da aperti a inattivi e per un certo periodo
di tempo dal picco si entra in quello che è definito periodo refrattario assoluto: la membrana non
può generare un secondo potenziale perchè tutti i canali sono inattivi. Superato il picco la membrana
si ripolarizza e questo chiude i canali inattivi rendendoli di nuovo disponibili: si può generare un
potenziale d’azione. La cellula affronta ora un momento di iperpolarizzazione quindi il gap tra potenziale
istantaneo e valore soglia è più grande del solito: si ha bisogno di uno stimolo più grande in questa
fase che prende il nome di periodo refrattario relativo. Se ho un farmaco che mi allunga il tempo 1, cioè
la refrattarietà assoluta, posso diminuire la frequenza di generazione dei potenziali d’azione: questi
farmaci, che agiscono in ogni distretto, sono oggi usati per il trattamento dell’epilessia e del dolore
cronico.

129
Nella figura si vedono due esperimenti: nel primo si somministra una corrente a gradino che genera
un potenziale, nel secondo si inietta una corrente che depolarizza lentamente la membrana. Nel primo
caso l’area del gradino è la carica inviata, nel secondo caso bisogna calcolare l’area sottesa al grafico:
in totale invio più carica ma il potenziale scatta dopo, come mai? La risposta è in una figura già vista:

La membrana ha anche una capacità elettrica, che è l’elemento più a destra dello schema. Fornisco tre
impulsi alla membrana e li chiamo 1, 2 e 3, di intensità bassa, alta e intermedia. L’impulso 1 genera
un potenziale elettrotonico sottosoglia che non apre i canali voltaggio dipendenti e quindi non genera
potenziale d’azione. L’impulso 2 è più intenso e fa partire il potenziale. L’impulso 3 è più particolare
in quanto il potenziale a volte non parte al valore soglia: si crea un equilibrio instabile. Il concetto di
soglia è allora dato dall’equilibrio delle correnti positive in ingresso (Na) e da quelle negative in uscita
(K): il valore soglia è un punto di equilibrio tra questi due aspetti, quando il sodio prende il sopravvento
scatta il potenziale d’azione.

130
18 Lezione 4

Nell’esperimento della figura sopra si è depolarizzata elettrotonicamente una cellula fino a portarla a
soglia: le intensità di stimolazione erano crescenti. La corrente iniettata varia istantaneamente mentre
il potenziale raggiunge il valore finale in ritardo: a cosa è dovuto questo scarto di tempo? Il ritardo
nell’innesco del potenziale elettrotonico lo quantificheremo in termini di una costante di tempo che è
un primo indice di integrazione dei segnali. Normalmente un motoneurone riceve sui suoi dendriti circa
duemila input sinpatici che devono essere integrati; in generale nel segmento dal quale nasce l’assone
(che lui chiama pirenoforo ma secondo me si chiama monticolo assonico e io ho ragione) la soglia di
eccitabilità è molto più bassa ed è qui che vediamo insorgere il potenziale. Il discorso della costante di
tempo è legato alle proprietà elettriche passive della membrana.

131
La membrana presenta un certo numero di canali che rappresentano il percorso pervio attraverso il
quale gli ioni entrano o escono: maggiore è il numero dei canali e minore sarà la resistenza. Esiste però
un’ampia superficie di membrana che non presenta canali e che quindi impedisce ogni passaggio di
ioni: queste due proprietà sono tra loro in parallelo. In condizioni normali uno ione può fluire attraverso
i canali o contribuire alla polarizzazione della membrana: questo giustifica il mettere in parallelo questi
due elementi. In termini elettrici dunque uno ione attraversa o la resistenza del canale o la capacità
della membrana. Come si comportano i singoli elementi quando vengono alimentati da una corrente
prefissata? I grafici sotto lo mostrano:

In A si vede il solo elemento resistivo: la corrente ha lo stesso identico andamento della differenza di
potenziale, quindi in assenza di corrente non c’è differenza al potenziale. In B si vede il solo elemento
capacitativo: quando si inietta la corrente una certa quantità di carica andrà nell’unità di tempo sulla
capacità di membrana. In un condensatore la differenza ai capi è data dalla relazione V = q/C quindi
maggiore è la capacità è minore è la differenza di potenziale. Questo perchè se c’è un grande spazio
dove le cariche possono accumularsi le variazioni sono minime mentre se lo spazio a disposizione è
piccolo poche cariche satureranno velocemente la capacità. In C si vede il comportamento reale di
membrana che ha capacità e resistenza in parallelo. Quando si inietta la corrente la prima carica si va
a depositare sulla capacità perchè è il percorso a minor resistenza: con il tempo la capacità si satura e
sempre più cariche seguono il percorso resistivo. In sintesi si ha un iniziale corrente di tipo capacitativo
che viene poi affiancata e sostituita dalla corrente di tipo resistivo. L’iniezione di corrente a gradino

132
comporta allora una variazione di potenziale ritardata (sia in aumento che in diminuzione) in funzione
della capacità di membrana.
Come è possibile riassumere il comportamento della membrana? Si può riformulare il valore del
potenziale in questo modo:

Vm = IRm (1 − e−t/τ )

dove τ è definito come il prodotto della resistenza di membrana per la sua capacità. Questa formula
dice che a determinare il ritardo è la costante di tempo che, se molto grande, costringe a lunghe attese
prima che il voltaggio sia il massimo possibile. La costante di tempo τ è il valore dell’intervallo di tempo
dopo il quale la variazione di potenziale raggiunge il 63%12 del suo massimo.
Come fa la costante di tempo a modulare l’informazione? La spiegazione è nella figura sotto:

La distanza temporale tra le stimolazioni presinaptiche successive è la stessa nei due esperimenti ma la
costante di tempo è molto diversa: 1msec per la prima cellula e 10msec per la seconda. Costanti di tempo
breve significano variazioni del potenziale in tempi brevi, invece costanti di tempo lunghe significano
tempi lunghi per far variare il potenziale. La costante di tempo è stata definita come l’intervallo di
tempo dopo il quale si è raggiunto il 63% della variazione finale: due costanti equivalgono al 95% e tre
costanti al 99%. Nel primo caso il primo evento mi ha portato al valore massimo e riportato a zero:
quando arriva il secondo imuplso ottengo due eventi uguali tra loro e in successione, senza alcuna
sommazione. Nel secondo caso la costante di tempo è più lunga e il secondo stimolo arriva quando si
è quasi al valore massimo: i due eventi si sommano tra loro. Il processo di sommazione è efficace solo
nella seconda cellula e questo ha un risvolto funzionale: posso selettivamente inviare un’informazione
solamente a questa e non alla prima. In generale dunque la costante di tempo favorisce la sommazione
temporale dei segnali che è tanto più efficace quanto più la frequenza di stimolazione è bassa rispetto
alla costante. Se viene mandata presinapticamente la stessa frequenza di impulsi non è allora detto
che tutte le cellule rispondano: lo faranno solo le destinatarie dell’informazione grazie alla capacità di
integrazione.

Un punto fondamentale è la geometria: finora ci si è riferiti ad una cellula sferica ma questa è


un’approssimazione troppo grossolana. Ad esempio sappiamo che la densità dei canali di superficie è
costante: questo significa che un neurone più grande ha più superficie disponibile, quindi più canali e
in ultima analisi una resistenza minore. Come cambia invece la capacità di membrana all’aumentare
delle dimensioni? La capacità aumenta perchè aumenta la superficie. Il problema è che la super-
ficie della cellula non è sferica, ma si dirama e, usando una nuova approssimazione stavolta meno
imprecisa, si può piuttosto assimilare ad un cilindro: la fibra nervosa.
12 Il valore è semplicemente l’espressione percentuale di 1 − e−1 .

133
Consideriamo dunque un assone come un cilindro di diametro costante; in generale un cilindro più
grande avrà un numero maggiore di canali di superficie rispetto ad uno di diametro inferiore: ad assoni
di diametro maggiore corrisponde allora una resistenza minore. Ad un cilindro non sono più applicabili
le approssimazioni della sfera e la geometria spaziale richiederà di esser presa in considerazione. Che
succede se applico una differenza di potenziale su di un assone? Un assone piccolo ha un volume
minore e quindi un quantitativo di ioni minore al suo interno: per questo il flusso di corrente sarà molto
minore rispetto a quello che si può generare in un assone di grande diametro. Un punto importante è
legato al fatto che l’assone di piccolo diametro ha una grande resistenza interna legata proprio al fatto
che gli ioni hanno poco spazio per muoversi, mentre un grande assone è molto più spazioso.
Nell’esperimento in figura viene iniettata corrente esattamente al centro del cilindro: che percorso
seguirà? Questa corrente potrà uscire direttamente attraverso la membrana o circolare lungo l’asse
dell’assone. Nel punto di iniezione quante sono le resistenze che guidano la corrente? La sola resistenza
di membrana. Spostandosi però a destra o a sinistra alla resistenza di membrana si sommano due
resistenze: quella del tratto successivo di membrana e quella del citoplasma del tratto assonico. Tutte
queste resistenze sono tra loro in serie: la resistenza assonale si somma a quella di membrana con il
risultato che la corrente che circola è sicuramente minore. Se misuro la differenza di potenziale in un
punto dove circola corrente minore troverò un valore inferiore: questo sarà tanto minore tanto maggiore
è la distanza dal punto di iniezione perchè le resistenze continueranno a sommarsi. Allontanandosi
dal punto di iniezione si ha dunque un decremento progressivo della differenza di potenziale di tipo
elettrotonico. Esiste una relazione di tipo esponenziale che descrive l’andamento di questo decremento:

V(x) = V0 · e−x/λ

dove lambda è la costante di spazio ed è proporzionale alla resistenza interna dell’assoplasma e a


quella di membrana. Se la resistenza di membrana è alta la corrente uscirà con meno facilità e rimarrà
confinata nell’assone. La costante lambda è definita come
p
λ = rm /ri

134
e indica la distanza dopo il quale la variazione di potenziale si riduce del 63% rispetto al valore iniziale:
è un analogo in termini spaziali di quello che era la costante di tempo.
Nel neurone il segnale si innesca nella zona più scura dell’immagine sotto che prende il nome di zona
di innesco:

Supponiamo che l’assone e il corpo cellulare siano cilindrici e che il primo abbia costante di spazio
1mm e il secondo 0.1mm. Se la distanza tra il segmento integrativo e il punto di iniezione è pari a 1mm
arriverà un segnale che è il 37% di quello iniziale perchè dopo una costante di spazio si è perso il 63%
della potenza. Se la costante di spazio è invece 0.1mm non vedrò alcun segnale in quanto saranno
passate già dieci costanti. Il giocare sulla costante di spazio permette di modulare la somma nello
spazio delle varie depolarizzazioni e graduare la risposta della zona di innesco del neurone.

Compresa la natura del potenziale d’azione ora il problema è come si possa condurlo, cioè in ultima
analisi capire come vengono trasmesse le informazioni: in generale il potenziale d’azione viaggia e la
situazione è quella della figura sotto.

135
In ogni istante esiste un unico punto di polarità interna positiva dove è presente il picco del potenziale
d’azione a +50mV : prima e dopo la membrana sarà in situazione di riposo, quindi polarizzata negati-
vamente all’interno. Ragionando su di un cilindro ho la presenza di un tratto positivo circondato da
tratti negativi e questo crea ovviamente una differenza di potenziale. La polarità all’esterno dell’assone
è complementare a quella interna: dove l’assone è negativo sarà positiva e viceversa. In queste con-
dizioni esiste dunque un flusso di corrente che va dal polo positivo al polo negativo: ho una corrente
che entra dove c’è il potenziale e che esce nei tratti precedenti e successivi. Questa corrente è data dal
sodio, quindi ioni postivi, e satura le cariche negative all’interno della membrana, depolarizzandola:
questo processo porta a soglia il tratto di membrana a valle e genera un secondo potenziale d’azione. In
sintesi il tratto A genera il potenziale d’azione in B che lo genera in C e così via: come viene modulato
questo passaggio di corrente?. Gli assoni sono fondamentalmente di due tipi: mielinati o non mielinati.
La funzione della mielina è di acceleare la velocità di conduzione su queste fibre.

136
Il discorso della conduzione del potenziale può anche essere espresso come sopra in termini di circuito
equivalente. In A la membrana è all’equilibrio e non c’è flusso di corrente tra i due circuiti perchè
manca una differenza di potenziale. In B il circuito di sinistra ha un diverso potenziale rispetto a quel-
lo di destra: la polarità produce un flusso di corrente che passa al segmento successivo mediante la
resistenza assonale che influenza quindi la quantità di corrente in transito. Come varia la resistenza
assonale? Un assone di grande diametro ha una piccola resistenza e quindi conduce meglio. Oltre alla
resistenza assonale c’è però la resistenza di membrana: questi due valori cambiano in modo diverso. La
resistenza di membrana varia linearmente con il diametro assonico mentre la resistenza assonale varia
con il quadrato del raggio: posso intuire che la resistenza di membrana è dunque meno importante
di quella assonale. Un’alta resistenza di membrana significa che la carica rimane confinata meglio
all’interno dell’assone e dunque che ha una maggior probabilità di essere trasmessa al segmento suc-
cessivo. Un ultimo elemento da considerare è la capacità di membrana: se il salto dal valore di riposo
a quello soglia è grande e si accompagna ad una capacità grande dovrò sfruttare tante cariche prima
di raggiungere il valore soglia.

La figura sopra riassume le varie velocità di conduzione del potenziale. Il diametro degli assoni amielin-
ici varia da 0 a 800 micron e la velocità di conduzione è pari a 20m/sec; le fibre mieliniche hanno invece
un diametro che varia da 1 a 12 micron e conducono il segnale fino a 100m/sec.
A me sta roba sembra una vaccata: in neuroanatomia per le fibre amieliniche si parlava di un diametro
massimo di un micron e una velocità di conduzione di 1,5m/sec.
Come funziona la mielina? Nelle fibre mieliniche gli astrociti creano più avvolgimenti circolari di mieli-
na attorno alla fibra con il risultato di isolarla elettricamente. Isolare elettricamente in questo caso
significa che la resistenza della membrana dall’interno all’esterno è diventata enorme e quindi tutta
la carica rimane all’interno dell’assone. In termini di capacità gli strati di mielina allontanano le due
armature e quindi la capacità diventa molto piccola: non servono più molte cariche per saturarla e
quindi la maggior parte va da un nodo di Ranvier al successivo.

137
Al nodo di Ranvier c’è una resistenza di membrana bassissima quindi un grande flusso di corrente che
porta a soglia la membrana. Nei tratti internodali la resistenza di membrana è enorme, la capacità è
piccola e quindi le cariche difficilmente escono. In questo scenario ci sono dunque tratti percorsi più
rapidamente (internodali) e più lentamente (nodi di Ranvier). In definitiva esistono dunque tre elementi
fondamentali: la corrente che circola nell’assone, la sua resistenza e la capacità di membrana.

138
19 Lezione 5
Le cellule muscolari striate fanno parte dei muscoli volontari sotto diretto controllo del SNC. La striatura
è data dalla sovrapposizione di uno schema reale di molti sarcomeri. La contrazione muscolare è
innescata da un potenziale d’azione che si genera sul sarcolemma; l’accorciamento avviene perchè
in un tempo molto breve la quantità intracellulare di calcio aumenta di tre ordini di grandezza, cioè
mille volte (si passa da 10−8 a 10−5 ). Il calcio in questione non proviene dall’esterno, infatti la cellula
muscolare ha grandi dimensioni ma è molto rapida: lo ione proviene infatti dal reticolo sarcoplasmatico
liscio, dove normalmente è sequestrato.
Il sarcolemma ha invaginazioni interne al muscolo dette tubuli a T che trasportano il segnale elettrico
all’interno del reticolo sarcoplasmatico: una depolarizzazione intensa si propaga nel reticolo e fa così
aprire i canali al Ca+ voltaggio dipendenti che lasceranno uscire, secondo gradiente, il calcio.
L’unità fondamentale da analizzare è il sarcomero:

La miosina costituisce il filamento spesso e ha delle teste che sporgono e sono tra loro in contrap-
posizione. L’actina si posiziona intorno al filamento spesso miosinico formando una disposizione
ad esagono che è fondamentale in quanto consente lo scorrimento longitudinale secondo l’asse del
sarcomero.
Come si misura la tensione che un muscolo può sviluppare? Bisogna mettersi in condizioni isomet-
riche, altrimenti l’energia prodotta è suddivisa in movimento e forza per sollevare il carico. La lunghezza
deve dunque essere imposta da noi:

139
Tramite un trasduttore si va a misurare la forza espressa dal muscolo e in particolare lo si fa in due
condizioni distinte: quando il muscolo non ha stimolazioni nervose e quando invece riceve una sequen-
za di più potenziali che provocano una stimolazione massimale. Problema tecnico: l’unità muscolare
esprime forze diverse per persone diverse in quanto l’esercizio fisico aumenta il diametro della fibra
e quindi la forza sviluppabile; si risolve dividendo la forza calcolata per l’area del muscolo ottenendo
la tensione prodotta che è slegata dal soggetto in esame. L’idea è misurare il funzionamento di un
muscolo in situ, dove sappiamo esistere i tendini e varie strutture connettivali: è necessario misurare
quale sia la componente che forniscono. Per misurarla faccio un primo esperimento dove mi pongo a
lunghezza L0 di riposo senza stimolazione nervosa: ci sarà una tensione residua. Facendo una serie
di allungamenti progressivi si trova la componente passiva della relazione tensione-lunghezza: questo
lo so perchè se invece di allungare il muscolo lo accorcio non ho alcuna espressione di forza. Una
seconda conferma della natura passiva di questa forza è la relazione più o meno lineare con l’entità
dell’allungamento. In conclusione le componenti passive sviluppano tensione solo per allungamenti e
non per accorciamenti.
Passando ora a stimolare il muscolo si fornisce una sequenza particolare di impulsi tale per cui si
ottiene la tensione massima: questa sequenza di stimoli è detta tetano completo. Quando si stimola
una fibra muscolare e si descrive nel tempo come varia la tensione meccanica si vede che c’è una
risposta semplice allo stimolo elettrico: si ottiene un evento meccanico singolo. Se si fornisce un
secondo stimolo quando il muscolo non si è ancora completamente rilasciato si nota che alla tensione
residua se ne somma una seconda: questa coppia di scosse semplici sommate prende il nome di clono.
Se io trovo la frequenza opportuna tale per cui le successive contrazioni arrivano quando la precedente
è al picco massimo di tensione ottengo un tetano: quando sono ancora visibili i singoli impulsi parlo di
tetano incompleto, se invece risulta un unico grande impulso (curva) parlo di tetano completo. Il tetano
completo è quello che crea la tensione massima.
Riprendendo l’esperimento ci poniamo a lunghezza di riposo L0 e iniziamo ad allungare: la tensione
totale è quella data dalla risposta in allungamento di una fibra stimolata per via tetanica.

140
Parte III
Guandalini
20 Lezione 1
La funzione respiratoria avviene attraverso un flusso di aria che è costituito da una miscela gassosa
dove il principale elemento è l’ossigeno. Un punto di partenza è la legge della diffusione: in generale la
velocità di diffusione è legata allo spessore di tessuto che deve essere superato. In un tessuto spesso
un micron si ha diffusione in 0,5msec, in uno di dieci centimetri si parla di un ordine di grandezza di
ore. L’evoluzione ha favorito i meccanismi di diffusione cercando di ridurre gli spessori respiratori: gli
alveoli hanno uno spessore di 0, 1 − 0, 2µm.
Per giungere agli alveoli l’aria percorre una strada che inizia con la bocca o le cavità nasali e continua
con le vie di conduzione. Le vie di conduzione hanno numerose diramazioni con il requisito generale
di ridurre progressivamente il diametro dei condotti e di moltiplicarne l’area: il calibro dunque cala
e aumenta invece l’area di sezione trasversa. Gli scambi non avvengono nelle vie di conduzione ma
iniziano a livello dei bronchioli respiratori e poi giù lungo i dotti alveolari fino agli alveoli: questa è la
porzione respiratoria propriamente detta.
Come si può valutare la funzione respiratoria di un soggetto? L’esame base è la spirometria che
misura i volumi e le capacità respiratorie. Il test richiede al soggetto di espirare molto rapidamente e in
modo costante dopo un’insipirazione libera. Lo spirometro è costituito da un cilindro pieno d’acqua che
si muove in risposta ai flussi d’aria e così fa muovere una penna che scrive su una carta millimetrata.
Durante un’inspirazione il volume d’aria si riduce e la penna scende, mentre quando si espira accade
il contrario.

La figura sopra è un esame spirometrico. Le piccole oscillazioni sono il volume d’aria che entra ed esce
dal sistema respiratorio durante una respirazione tranquilla: questo volume è detto volume corrente
(VC) ed è mediamente 0, 5 − 0, 6L. L’apparato respiratorio è predisposto a fare inspirazioni maggiori del
VC in caso di necessità: si può cioè fare un’inspirazione massimale cui segue poi un’espirazione forzata
per allontanare l’aria inspirata. Il volume d’aria che si muove in questa condizione è molto superiore
e prende il nome di capacità vitale (CV): normalmente si parla di 3, 2 − 4, 8L di aria anche se vi sono
pesanti differenze per sesso ed età. Nel disegno ci sono altre capacità: la capacità polmonare totale
(CPT), intorno ai sei litri, rappresenta l’unione della capacità vitale e del volume residuo, una quantità
non stimabile con la spirometria. Il volume residuo è il volume di aria che rimane sempre all’interno

141
del sistema anche dopo una espirazione forzata al massimo. A cosa è dovuto il volume residuo? Al
primo atto respiratorio gli alveoli si dilatano ed imbrigliano una quantità di aria che non sapranno più
espellere: si tratta di quel litro, litro e mezzo che costituisce nell’adulto il volume residuo. Un altro
indice funzionale è la capacità funzionale residua (CFR), cioè l’aria che rimane all’interno del polmone
a fine espirazione tranquilla: normalmente si parla di circa due litri, somma del volume residuo e di
quello espiratorio.
Un altro dato fondamentale è la frequenza respiratoria: questa varia con le situazioni ma a riposo si
assesta intorno ai 12 atti respiratori al minuto. Per stabilire dunque l’aria che entra/esce in un minuto
basterà moltiplicare il volume corrente per la frequenza: in totale vengono spostati circa 6L di aria al
minuto. Riassumendo i vari dati:
• Volume corrente (VC): aria spostata in un atto respiratorio tranquillo, circa mezzo litro.

• Capacità vitale (CV): aria spostata in un atto respiratorio forzato, tra i tre e i cinque litri.
• Capacità polmonare totale (CPT): insieme di capacità vitale e volume residuo, circa sei litri.
• Volume residuo (VR): volume fisso contenuto all’interno del polmone, circa un litro.

• Capacità funzionale residua (CFR): quantità di aria nel polmone a fine espirazione tranquilla.

Si è detto che lo scambio gassoso avviene solamente dove esistono gli alveoli: l’aria contenuta nelle
sezioni dove non ci sono scambi risulta inutile e prende il nome di spazio morto. Questo volume è
dettato dall’anatomia delle vie aeree e prende il nome di spazio morto anatomico. Fisiologicamente non
tutti gli alveoli sono in grado di condurre scambi, e la percentuale di alveoli in questa condizione può
aumentare patologicamente: si configura allora uno spazio morto alveolare legato a questo aspetto.
Lo spazio morto anatomico insieme a quello alveolare vengono definiti spazio morto fisiologico che in
condizione normale si aggira intorno ai 150mL. L’esistenza di uno spazio morto fisiologico non è un
fatto negativo ma la sua entità può variare molto in condizioni patologiche.

142
Che implicazioni reali ha lo spazio morto? La figura sopra le illustra. Siamo a fine espirazione
tranquilla, con l’inspirazione successiva vengono introdotti circa 500mL di aria: dove andranno? Nel-
l’aria inspirata, o aria ambiente, la pressione parziale dell’ossigeno è pari a 160mmHg mentre a livello
alveolare si parla di 100mmHg: in figura l’aria ambiente è viola, quella alveolare è azzurra. Durante
l’inspirazione l’aria contenuta nello spazio morto, 150mL, sarà la prima ad entrare negli alveoli perchè
spinta dall’aria in ingresso. Del mezzo litro di aria fresca inspirato alla successiva espirazione verranno
espulsi per primi quelli nello s pazio morto che adesso ha però una miscela fresca: ad ogni atto res-
piratorio dunque ci sono sempre 150mL inutili agli scambi. Il risultato è che il volume d’aria spostato
è mezzo litro ma a fini funzionali è come se si muovessero 350mL. Concludendo il volume corrente è
rappresentato da due quote:
VT = VD + VA (T=Total, D=Dead, A=Alveolar)
Posso andarmi a calcolare la ventilazione alveolare semplicemente moltiplicando il volume alveolare per
la frequenza respiratoria quindi 350mL · 12 = 4, 2L/min: la ventilazione alveolare è dunque la quantità
utile di aria sposta al minuto ed è ovviamente inferiore alla ventilazione polmonare (6L/min).

21 Lezione 2
La meccanica respiratoria parte da un concetto fondamentale: il sistema poggia su due costituenti
anatomici, il polmone e la gabbia toracica, che hanno caratteristiche anatomiche molto diverse. Il
polmone ha una struttura omogenea data dal suo parenchima mentre la gabbia toracica è eterogenea
avendo elementi ossei e muscolari. Queste due strutture, pur diverse dal punto di vista anatomico,
sono per la fisica due strutture elastiche.
Una struttura elastica è tale perchè è capace di ritrarsi; ogni struttura elastica possiede una posizione
di riposo in cui le forze esterne hanno risultante nulla: questa posizione deve essere ripristinata in
seguito all’applicazione di forze o pressioni dall’esterno.
Quali sono gli elementi muscolari della gabbia toracica? I muscoli inspiratori principali sono:
• Il diaframma, fondamentale.
• I muscoli intercostali esterni

143
• I muscoli scaleni, lo sternocleidomastoideo e alcuni muscoli di collo, testa e naso.
L’espirazione invece non richiede contributo muscolare in ambito tranquillo ma in ambito forzato
sfrutta il muscolo retto, gli obliqui, il trasverso dell’addome e gli intercostali interni.

Il principale muscolo legato alla respirazione è il diaframma, il cui lavoro è indurre una modifica del
volume della gabbia toracica lungo due piani: antero posteriore e laterale (movimento a pompa dello
sterno e movimento a manico del secchio delle coste). Questo muscolo è innervato dal punto di vista
motorio dal nervo frenico.
Come sono combinati i due elementi elastici polmone e gabbia? Il polmone tende al collasso mentre
la gabbia toracica all’espansione e il rapporto è quello disegnato dalla figura sotto:

Il polmone e la gabbia sono tra di loro vincolati dai due foglietti pleurici, parietale e viscerale: questo
implica che il polmone non può comportarsi in modo disgiunto dalla gabbia e viceversa. Se noi andiamo
a porre un manometro nello spazio intrapleurico vediamo che esiste una pressione e che questa è
negativa rispetto a quella atmosferica, cioè si trova una pressione minore di 760mmHg. In fisiologia
spesso si misurano le pressioni in cmH2 O in quanto la scala dei mmHg è troppo grossolana. In questo
assetto sperimentale se sposto il manometro dentro il polmone registro una pressione nulla, cioè uguale
a quella atmosferica. La pressione negativa nello spazio tra i due foglietti pleurici è detta pressione
intrapleurica ed è generata dalle opposte tendenze di polmone e gabbia. Il polmone può esdsere visto
come una molla ancorata ad un capo: le spire sono più distanziate nel punto di ancoraggio piuttosto
che all’altro, in questo caso il diaframma, dove sono più compresse. Questo per dire che nello spazio
intrapleurico esiste una differenza di pressione: un manometro basale legge un valore meno negativo
di quello apicale in quanto la pressione intrapleurica non è uniforme ma è più negativa in posizione
apicale (i valori sono sempre subatmosferici).
Come si può costruire un modello di sistema toracopolmonare con strumenti semplici? Basta un
palloncino che simuli il polmone e un recipiente dove metterlo. Se il recipiente viene connesso ad
una pompa aspirante si ottiene un sistema valido. In condizioni di riposo il palloncino è sgonfio e ha
la stessa pressione atmosferica: quando si accende la pompa questo si distende e diventa adeso al
recipiente. Nel mio sistema all’interno c’è l’alveolo in cui ci sarà la pressione alveolare uguale a quella
atmosferica, poi tra palloncino e contenitore ci sarà una pressione analoga a quella intrapleurica e
infine al di fuori del recipiente ci sarà la pressione atmosferica.

144
La pressione transpolmonare sarà data dalla differenza di pressione tra il polmone e lo spazio in-
trapleurico, vale a dire pressione alveolare meno pressione intrapleurica. La pressione alveolare è quel-
la atmosferica e quindi zero, mentre quella intrapleurica è negativa, in media −5cmH2 O: la pressione
transpolmonare di norma vale allora 0 − (−5) = +5cmH2 O. La pressione transpolmonare rappresenta
la forza di retrazione elastica del polmone. La pressione transtoracica invece ha valore assoluto uguale
a quella transpolmonare ma segno opposto in quanto è il risultato della sottrazione della pressione
atmosferica a quella intrapleurica; riassumendo:

• Pressione transpolmonare: Patm − Pintrapleurica = 0 − (−5) = 5cmH2 O


• Pressione transtoracica: Pintrapleurica − Patm = −5 + 0 = −5cmH2 O
La pressione transtoracica è dunque espressione dell’azione espansiva della gabbia toracica. Si è detto
che la pressione intrapleurica non è uniforme: in particolare in posizione apicale vale 750mmHg mentre
in posizione basale 757mmHg, i valori in cmH2 O saranno rispettivamente −13cmH2 O e 4cmH2 O. La
pressione transtoracica è negativa quando i muscoli sono rilassati ma se questi si contraggono si
ha una pressione positiva: quando effettuo un’inspirazione forzata creo un contributo muscolare che
sviluppa una pressione negativa (allarga la gabbia), al contrario durante l’espirazione si genera una
pressione positiva (richiude la gabbia).
Si è visto dunque che il sistema poggia su due strutture elastiche diverse ma vincolate: se questo
sistema si altera, ad esempio per un trauma da perforazione, l’equilibrio si rompe e le due strutture
seguono la loro natura, cioè il polmone collassa e la fabbia si espande. Il collasso del polmone prende
il nome di pneumotorace che può essere sia traumatico che spontaneo (individui longilinei e molto
magri).
La pressione intrapleurica è un dato importante per studiare eventuali alterazioni polmonari ma non
è facile da misurare in quanto c’è grande rischio di provocare dei danni. Una stima molto attendibile del
suo valore è ottenibile sfruttando la pressione endoesofagea che viene rilevata introducendo una sonda
nell’esofago: le variazioni da questa registrate sono coerenti con quelle della pressione intrapleurica.
Polmone e gabbia sono strutture elastiche. Che cosa vuol dire esattamente? Vuol dire che sono
strutture che possono ritrarsi, che a riposo non sono soggette a forze esterne e che rispondono qualora
ve ne si applichi una. Una struttura elastica sviluppa delle resistenze, dette resistenze elastiche, che
dipendono dall’entità della deformazione cui vanno incontro; il sistema toracolombare sviluppa poi
delle resistenze dette viscose ed inerziali che dipendono dalla velocità e dall’accelerazione dei movimenti
delle due strutture. Le resistenze toracopolmonari sono dunque di due tipi: statiche, legate alla natura
elastica dei corpi, e viscose, dovute all’aria in movimento; nell’insieme le resistenze offerte dal sistema
vengono chiamate resistenze meccaniche.
Le due strutture del sistema sono strutture complianti, e questa proprietà può essere studiata
studiando i vari valori pressori.

145
Quali valori si prendono per studiare la complianza del polmone? Valuto le variazioni di pressione
transpolmonare e i loro effetti sulle variazioni di volume. Quali sono i riferimenti volumetrici? La ca-
pacità funzionale residua (volume d’aria nel polmone a fine espirazione tranquilla) e la capacità vitale
(massimo volume d’aria spostabile). Nel primo grafico le pressioni risultano positive perchè positi-
va è la pressione transtoracica (Patm − Pintrapleurica ) mentre nel secondo grafico si valuta la pressione
transtoracica che può essere sia positiva che negativa grazie all’intervento dei muscoli respiratori.
Questo schema è un modello, la realtà è più complessa e illustrata sotto:

Si vedono tre curve: polmone isolato, gabbia isolata e sistema toracopolmonare. Il polmone isolato è
rappresentato dalla curva più a destra (rossa); le variazioni di volume avvengono esclusivamente per
variazioni di pressione positive, quindi se voglio espandere il polmone è necessario fornire una pres-
sione maggiore di quella atmosferica. La pendenza della curva è maggiore per variazioni pressorie
piccole e diventa meno ripida quando le pressioni aumentano: la complianza è maggiore per le vari-
azioni pressorie, modeste, iniziali. Il torace isolato è rappresentato dalla curva più a sinistra (blu):
questa curva a differenza della precedente attraversa la linea zero dell’ordinata. Il fatto che la curva
attraversi il valore pressorio 0 significa che la gabbia può mantenere quel volume in una situazione di
equilibrio e il punto in cui lo fa corrisponde al 55% della capacità vitale. Perchè il 55% della capacità
vitale: corrisponde al volume corrente, quindi durante un’inspirazione tranquilla la gabbia si espande
senza che sia necessario applicare alcuna forza. La curva tratteggiata è la complianza del sistema
toraco-lombare.Si vede subito che il sistema ha un punto di equilibrio a pressione zero: a questo punto
la componente toracica e quella polmonare vengono sfruttate in egual misura. Il punto di equilibrio del
sistema toracolombare è la capacità funzionale residua, cioè il sistema è in equilibrio a fine espirazione
tranquilla. Il fatto che il sistema sia in equilibrio si deduce dal fatto che le distanze della linea trat-
teggiata dalla linea rossa e da quella blu sono uguali. Un secondo punto chiave è quello in cui la curva

146
del sistema intercetta quella del polmone: questo avviene al 55% della capacità vitale, cioè in ambito
di respirazione tranquilla e in particolare del volume corrente. Per sviluppare volumi superiori in di-
rezione della capacità vitale è necessario iniziare a sfruttare sia la capacità retrattile del polmone che
le proprietà del torace; in queste condizioni c’è bisogno del contributo aggiuntivo dei muscoli espiratori
perchè in questo momento la gabbia toracica non tende più ad allargarsi ma a collassare. [Sta roba è
spiega meglio nella seconda lezione]

Un’alterazione funzionale a carico della forza di retrazione è detta enfisema: si tratta di una perdita
della capacità retrattile in cui il tessuto si deforma ma non riesce poi a tornare alla condizione iniziale.
Un aumento del tessuto connettivale porta invece a fibrosi in cui l’elasticità si perde ed è necessario
sviluppare pressioni elevatissime per far variare il volume.

147
22 Lezione 3

Le variazioni di volume richiedono pressioni che possono essere sia subatmosferiche che superat-
mosferiche. Il punto critico in cui la curva del sistema toracopolmonare intercetta l’asse Y indica che il
volume raggiunto in questa condizione non richiede contributi pressori: questo volume è il 35% della
capacità vitale e corrisponde alla capacità funzionale residua. Questo punto critico è l’unica condizione
in cui le tendenze opposte di gabbia e polmone si bilanciano. Per poter mantenere volumi al di sotto
della capacità funzionale residua, fino ad arrivare a quello del volume residuo, devo imporre pressioni
negative: durante l’espirazione forzata è necessario sfruttare le capacità di distensione del solo torace.
I volumi che vanno dalla capacità funzionale residua al volume residuo sono dunque ottenuti con il
contributo del solo torace.
Salendo verso volumi maggiori rispetto alla CFR si incontra un altro punto critico in cui la curva
toracopolmonare incrocia quella polmonare: questo punto corrisponde al 55% della capacità viale ed
è il volume corrente, quello raggiunto a fine inspirazione tranquilla. A partire dal volume corrente
l’espirazione tranquilla porta fino a CFR sfruttando la forza di retrazione del polmone: da VC fino a
CFR la sola spinta è data dal polmone che si ritrae.
Volumi superiori al volume corrente, fino alla capacità vitale, possono essere raggiunti solo a patto
che venga sfruttata sia la pressione del polmone che del torace; quest’ultimo in questa condizione
inverte la sua tendenza alla distensione: è infatti necessario erogare una pressione che non è più
subatmosferica ma superatmosferica. A seguito di questo fatto posso affermare che il torace ha una
naturale tendenza alla distensione ma questo non è vero in assoluto: quando si va in inspirazione
massimale si deve poi eseguire un’espirazione forzata che richiede l’intervento dei muscoli espiratori.
La necessità dell’intervento muscolare è dovuta al fatto che il sistema da solo non riesce ad espirare
l’aria; il contributo muscolare è opposto alla condizione naturale del solo torace: per raggiungere la
capacità vitale allora il torace assume un comportamento analogo a quello del polmone.
Riassumendo: l’inspirazione richiede sempre un intervento muscolare (diaframma) mentre l’espirazione
tranquilla sfrutta la restituzione energetica respiratoria; l’inspirazione massimale tuttavia richiede poi
un intervento muscolare per la successiva espirazione in quanto il torace ha raggiunto la sua massima
distensione e ha bisogno di un aiuto dai muscoli.
Qual è la situazione delle forze nei vari punti critici del grafico? A volume residuo la capacità di
collasso del polmone è esaurita mentre la capacità di distensione del torace è normalmente presente.
A capacità funzionale residua l’equilibrio è perfetto e le due forze si equivalgono. A livello del volume
corrente il contributo del torace è sparito e si ha solo la capacità elastica del polmone. Infine a livello
della capacità vitale si ha sia il contributo del polmone che quello toracico, da intendersi però come
contributo muscolare.
La linea a destra nel grafico è l’andamento dei volumi d’aria durante gli atti respiratori. La compli-
anza è pari a circa 200mL di acqua per centimetro ed è uguale per torace e polmone. La complianza è
il reciproco della resistenza e il sistema toracopolmonare è un sistema in parallelo: il risultato è che la
complianza dell’intero sistema è la metà dei due sistemi presi singolarmente.

148
Il senso del conoscere l’andamento dei singoli componenti del sistema e non di quest’ultimo in
generale è clinico: le alterazioni spesso riguardano solo una parte. Il polmone ad esempio ha due
alterazioni principali:
Enfisema Situazione dovuta alla rottura degli alveoli che genera un’aumentata complianza e una curva
molto più ripida: cala la forza di retrazione. L’inspirazione nell’enfisema non risulta alterata ma
i danni si vedono in fase espiratoria: si hanno difficoltà ad allontanare l’aria stantia quindi si
accumula aria sempre più ricca in CO2 e povera di O2 .
Fibrosi La situazione qui è di complianza ridotta: il tessuto elastico sparisce e la distensibilità è persa.
Il torace va incontro più difficilmente a modificazioni ma esistono casi comuni: la gravidanza o l’obesità
ne modificano ad esempio le caratteristiche meccaniche.
Nel soggetto sdraiato come cambia la situazione? In posizione sdraiata il torace si modifica in
quanto il diaframma si sposta a causa della pressione dei visceri: il risultato è che il torace non può
più distendersi al 100% e la curva del sistema toracopolmonare cambia spostandosi verso destra. Se
la curva del sistema si sposta a destra il punto di equilibrio si abbassa e quindi si raggiunge a volumi
inferiori: l’equilibrio va verso il 30% e si avvicina dunque alla capacità funzionale residua. In posizione
sdraiata viene dunque introdotto meno ossigeno e quindi chi ha problemi respiratori si sente consigliare
di dormire con dei cuscini extra: più cuscini sono necessari più sarà grave la situazione.
In fisiologia si parla di una complianza statica perchè riferita alla sola componente elastica del
sistema e quindi indipendente dalle velocità e dalle accelerazioni. Questo dato è importante in clinica
perchè diminuisce tutte le volte che si sviluppano disturbi ventilatori restrittivi, ad esempio con un
polmone non ventilato o un edema alveolare. L’edema è una condizione in cui del liquido si deposita
sugli alveoli togliendo spazio all’aria. Condizioni naturali di riduzione della complianza statica sono
invece l’enfisema e l’invecchiamento.

La figura sopra serve a valutare la complianza del sistema toracopolmonare. Abbiamo due famiglie
di curve ricavate da una situazione sperimentale in cui in un polmone espiantato viene insufflata aria
e vengono osservate le variazioni volumetriche e di pressione. Quello che si nota è che il comporta-
mento del polmone è diverso quando viene insufflato da quando viene sgonfiato, anche se le pressioni
che vengono erogate sono le stesse. Nella curva di insufflazione (pallini bianchi) vedo poi che fino a
una pressione di circa 8cmH2 O il volume quasi non cambia mentre incrementi, anche modesti, oltre

149
i 10cmH2 O generano variazioni sostanziali del volume; a pressioni elevate il comportamento torna ad
essere simile alla situazione iniziale, in pratica dunque il polmone oppone grandi variazioni di volume
ad un range intermedio di pressioni. La curva di desufflazione è molto diversa ed è in generale più
armonica rispetto a quella di insufflazione; l’area sottesa da queste due curve prende il nome di istere-
si. Un dato interessante è che se invece di insufflare aria si usa soluzione fisiologica le due curve si
sovrappongono e la complianza del sistema è diversa.

La figura sopra è la stessa di prima in forma più elegante (e presa da un polmone in situ). Si era visto
che il polmone ha una complianza maggiore se viene insufflata fisiologica anzichè aria [Cazzate, ha
una complianza minore ma lei non lo sa!], cioè oppone variazioni più ampie di volume per variazioni
pressorie modeste: perchè dunque si sfrutta l’aria e non la fisiologica? Consideriamo cosa succede al
polmone in situ e non espiantato come prima. La curva più grande è simile al grafico visto prima ma la
più piccola, pur essendo simile, racchiude un’area molto inferiore. Cosa c’è dietro questo discorso?
La tensione superficiale è la forza, espressa in dine, che agisce attraverso una linea immaginaria di
1cm sulla superficie del liquido, in pratica è la forza che tende a restringere la superficie libera. Una
goccia d’acqua assume una forma sferica perchè è il solido che ha il minor rapporto superficie/volume.

Nella figura sopra ho un liquido sotto e dell’aria sopra. Le particelle d’acqua (A) sono mantenute in
posizione dai legami intermolecolari ed intramolecolari. Le particelle B sono a contatto con il liquido

150
e quindi non hanno un equilibrio come le particelle d’acqua: si parla di tensione sviluppata da un
gas nei confronti di un liquido. Il risultato è che sulla superficie del liquido si sviluppa una tensione
superficiale: questa è la situazione cui sono sottoposti costantemente gli alveoli. Come mai succede
questo? Perchè l’alveolo da un lato ha l’aria inalata e dall’altra i capillari. Gli alveoli hanno però una
strategia per vincere la tensione superficiale: il surfactante, un tensioattivo in grado di abbassarne
il valore. Se la tensione superficiale rimanesse come vista sperimentalmente si avrebbe un richiamo
di liquido dall’interstizio con conseguente collasso dell’alveolo e, alla fine, retrazione del polmone. In
condizioni fisiologiche dunque la tensione superficiale viene molto ridotta e lo vedo dal grafico visto
prima in quanto l’area di isteresi è fortemente ridotta.
Il surfactante è un prodotto dei pneumociti di tipo 2 e il suo nome completo è dipalmitoilsurfatidilcolina:
la sua azione è tensioattiva. In questa molecola si identificano un polo idrofilico e uno idrofobico: questi
poli contrapposti contrastano la forza delle particelle gassose nei confronti di quelle liquide.

Come si valuta la tensione superficiale? Con la legge di LaPlace che la correla direttamente alla
pressione: P = 4T
r . Poichè l’alveolo non è una sfera la formula viene corretta in

2T
P =
r
Secondo la legge dunque tutte le volte che il raggio aumenta, per tensioni costanti, la pressione
diminuisce. Esempio pratico:

L’alveolo a sinistra ha una pressione di 0, 8kP a mentre quello a destra 0, 4kP a: questo perchè ha raggio
doppio rispetto al primo. La tensione nei due alveoli è la stessa ma c’è una differenza di pressione.

151
Gli alveoli non hanno tutti la stessa dimensione, che cambia al variare dello stato di insufflazione. Gli
alveoli sono tra loro collegati dai pori di Kohn; l’alveolo più piccolo ha una pressione più grande di quello
vicino: grazie a questi pori la pressione verrà convogliata verso l’alveolo più grande. Questo discorso
è valido perchè abbiamo un sistema in cui variano solamente raggi e pressioni e non le tensioni.
Il meccanismo ha però un problema: se funzionasse solamente così tutti gli alveoli finirebbero uno
dentro l’altro fino ad avere un unico alveolo gigante in una situazione incompatibile con la funzione
respiratoria (la superficie sarebbe insufficiente). Da qui la necessità di agire sulla tensione grazie al
tensioattivo: il suo valore viene modulato al fine di mantenere il sistema a pressione costante in modo
da avere tutti gli alveoli allo stesso regime pressorio. In generale dunque il raggio dell’alveolo cambia
in funzione dell’evento respiratorio e, per far si che ogni alveolo abbia la stessa pressione, la tensione
viene regolata di conseguenza.
Come si modula la tensione all’interno dell’alveolo? La modulazione avviene grazie al fatto che i
pneumociti di tipo 2 producono surfactante in base al raggio del loro alveolo: più è piccolo il raggio, più
surfactante viene prodotto. Un esempio pratico:

Alveolo1 Alveolo2 Alveolo1 (Surfactante) Alveolo2 (Surfactante)


Raggio 2 1 2 1
Tensione 3 3 2 1
Pressione (2x3)/2=3 (2x3)/1=6 (2x2)/2=2 (2x1)/1=2

Grazie all’azione del surfactante alla fine i due alveoli hanno la stessa pressione pur avendo dimensioni
diverse. Lo stesso alveolo dunque sarà sottoposto a correzioni diverse alla sua tensione a seconda
dello stato in cui si trova: in insiprazione ad esempio ci sarà poco tensioattivo mentre in espirazione
la correzione sarà maggiore (fino ad arrivare al picco del volume residuo). Il tensioattivo in sostanza fa
si che quando l’alveolo raggiunge il raggio minimo, cioè al volume residuo, sia in grado di riprendere
la distensione nell’inspirazione successiva. Il surfactante è fondamentale al momento della nascita,
quando siamo sotto il volume residuo e gli alveoli sono completamente collassati: in queste condizioni
la tensione superficiale è enorme e infatti negli ultimi due mesi di gravidanza si sviluppano le proteine
e il surfactante per permettere il primo respiro. Nelle gravidanze a termine prematuro (7 mesi) c’è il
rischio che il feto non sia preparato alla prima respirazione ed è necessario attuare terapie apposite per
sollecitare la produzione di surfactante.
Quali sono in definitiva le azioni del surfactante:
1. Riduce la tensione superficiale e rende quindi il respiro più agevole.
2. Mantiene stabili gli alveoli, cioè evita che si infilino uno nell’altro.
3. Mantiene asciutti gli alveoli, evitando l’edema polmonare.

La terza attività si ottiene in quanto la situazione nell’alveolo è questa: esiste un interstizio, poi la
parete dell’alveolo su cui è depositato il surfactante e solo dopo c’è l’aria, quindi esiste una barriera
tra ambiente umido e ambiente gassoso. Nel versante interstiziale ci sono i capillari, i quali danno la
possibilità al liquido di trasferirsi verso il versante alveolare: è necessario evitare che questo raggiunga
gli alveoli, cioè evitare che si creino pressioni interstiziali che spingano i liquidi nell’alveolo. Le forze
di Starling che regolano il comportamento del capillare sono due: la pressione idrostatica e quella
oncotica. Se il sangue arriva con una pressione troppo elevata la pressione oncotica non riesce a
bilanciare la situazione e si ha edema polmonare, cioè liquido in uscita dai capillari verso l’alveolo.

152
23 Lezione 4
Finora si è visto che le componenti elastiche del sistema toracopolmonare oppongono delle resistenze
che vengono appunto definite elastiche; esiste però un altro fattore resistivo che è dettato dalle vie di
conduzione: i condotti aerei rappresentano una struttura anatomica capace di sviluppare resistenze.
Le resistenze possono essere statiche (derivanti cioè dal tessuto anatomico della struttura) o di-
namiche (variano sulla base dei fattori tempo, velocità ed accelerazione): le dinamiche sono quelle
dettate dai condotti aerei. I condotti aerei portao l’aria dal naso/bocca fino agli alveoli e rappresentano
l’espressione delle resistenze viscose, qui rappresentate per il 90% del totale. Il rimanente 10% è dovu-
to alla componente tissutale non elastica del sistema. Il senso della dinamicità di queste resistenze è
legato al fatto che c’è dell’aria in movimento che da origine ad un flusso. La legge fondamentale del
flusso è quella di Poiseuille:
∆P 8ηl
Q= R R= πr 4

Un flusso può essere di tipo laminare o di tipo turbolento: cosa fa la differenza? La differenza la fa il
numero di Reynolds che è determinato dal raggio del condotto e dalla velocità, densità e viscosità del
fluido:
r·v·d
Re =
η
Quando questa espressione ha un valore superiore a 2000 il moto diventa turbolento. All’interno dei
condotti aerei, a causa della loro anatomia, si sviluppa un flusso sia laminare che turbolento.
Idealmente il flusso laminare si trova a livello dei bronchioli terminali mentre il flusso è sicuramente
turbolento a livello della trachea, a causa del calibro. Dalla trachea ai bronchioli il percorso è lungo:
l’albero respiratorio è pieno di ramificazioni e in corrispondenza di esse il moto da laminare diventa
turbolento. Qual è allora la situazione? Si dice che, esclusa la trachea dove il moto è turbolento ed
esclusi i bronchioli dove il moto è laminare, il flusso d’aria sia transizionale, alterna cioè momenti
laminari e momenti turbolenti.
Il fattore critico nella modifica del flusso è la resistenza. Dove sono poste le resistenze? Esiste una
distribuzione di tipo anatomico: la maggior parte (70%) è posta nelle prime vie respiratorie, fino ai
bronchi medi; di questa quota resistiva almeno la metà è collocata nelle vie nasali e questo è evidente
in quanto basta un piccolo raffreddore per avere un calo enorme nella capacità respiratoria. In generale
dunque le resistenze diminuiscono alla riduzione del calibro del condotto, questo perchè il numero di
condotti di piccolo calibro è enorme e quindi le resistenze totali in parallelo sono minori della resistenza
di un singolo vaso. Il fatto che i condotti aerei siano critici per il movimento dell’aria è documentato
anche dalla ricca innervazione; questi condotti sono innervati sia dal punto di vista parasimpatico
(vago) che simpatico. Le terminazioni vagali provocano ipersecrezione e costrizione dei vasi mentre le
terminazioni simpatiche hanno effetto opposto. Questo aspetto diventa evidente ad esempio nell’asma
in cui il sistema è alterato e non c’è più una modulazione della costrizione dei condotti.

153
Qual è la ricaduta delle resistenze sulla funzione respiratoria? Si è visto che le resistenze sono
massime nei condotti di calibro maggiore e minime in quelli minori. Le resistenze dipendono però an-
che dal volume polmonare. Quando si raggiunge il volume residuo, cioè il minimo, le resistenze sono
massime mentre a capacità polmonare totale le resistenze sono minime. In sintesi le resistenze sono
minime in fase di massima espansione. Il calibro dei bronchi dipende dalla pressione transmurale, che
in questo caso è la pressione intrapleurica; in situazione di volume residuo i condotti sono vicini al
collasso perchè la pressione intrapleurica tende a farli chiudere. Quando i volumi polmonari aumen-
tano l’espansione della gabbia toracica distende le pareti elastiche dei condotti, quindi li dilata facendo
diminuire le resistenze.

I condotti aerei dunque non sono rigidi ma hanno una parete elastica (ad eccezione della trachea, che
è il tratto più rigido) e risentono della distensione del polmone. In altre parole c’è da aspettarsi che
il movimento d’aria all’interno dei condotti sia correlato a delle variazioni pressorie, ad esempio della
pressione intrapleurica, della pressione alveolare e della forza di retrazione polmonare. La chiave di
lettura è l’evento respiratorio. A livello di capacità funzionale residua cosa si nota?

1. Il volume è minimo
2. Il flusso d’aria non c’è
3. La pressione alveolare è quella atmosferica
4. La pressione intrapleurica è subatmosferica

5. La pressione di retrazione è espressa dalla componente elastica del polmone stesso


Quando il volume aumenta la pressione intrapleurica diventa ancor più negativa, gli alveoli si disten-
dono e la pressione di retrazione diventa anch’essa più negativa. La pressione alveolare è diventata
subatmosferica e questo fa muovere l’aria negli alveoli. L’inspirazione prosegue fino al punto massimo
di distensione polmonare e poi cessa quando si è raggiunto il massimo valore negativo della pressione
intrapleurica. A questo punto la pressione alveolare sta perdendo il gradiente accumulato e quindi
l’aria non raggiunge più gli alveoli. A questo punto inizia l’espirazione: la pressione alveolare diventa
maggiore di quella atmosferica e si crea un gradiente inverso. L’espirazione richiede una riduzione
della negatività della pressione intrapleurica. Il processo di espirazione andrà avanti fintanto che c’è
un gradiente favorevole verso il naso: quando questo svanisce termina l’evento respiratorio.
Una semplificazione dell’evento respiratorio è data dalla figura sotto:

154
Partendo da fine espirazione abbiamo un flusso zero dato dal fatto che non c’è un gradiente pressorio.
Due sono le componenti essenziali: la componente muscolare, che a fine espirazione non è presente,
e la forza di retrazione polmonare, nulla anch’essa in questo momento. Quali sono le resistenze in
gioco al momento? Le resistenze sono alte in quanto i dotti hanno una tendenza al collasso, il calibro è
piccolo e non ci sono forze che tentano di aumentarlo. L’inspirazione è dettata dal contributo muscolare
che, insieme all’espansione della gabbia, va a ridurre la pressione intrapleurica che diventa così ancor
più negativa: questo va a ridurre anche la pressione alveolare che diventa subatmosferica. Si ha ora
un gradiente pressorio dal naso agli alveoli e il flusso inizia in questa direzione. Una volta iniziata
l’inspirazione i condotti aerei vanno incontro ad una sempre più ridotta componente resistiva: dove
sarà il minimo livello resistivo? A fine inspirazione, quando la gabbia è completamente distesa e il
polmone la segue e quindi si ha il picco di negatività della pressione intrapleurica. Il gradiente che
prima favoriva l’ingresso dell’aria viene annullato e il flusso cessa. A questo punto segue l’espirazione
che può essere tranquilla o forzata.
Durante una espirazione tranquilla l’energia dei muscoli che era stata fornita in ispirazione viene resti-
tuita e si va a ridurre progressivamente la negatività della pressione intrapleurica. La forza di retrazione
elastica viene contrastata dalla pressione intrapleurica; questa forza ad inizio espirazione è massima.
L’effetto sarà una pressione alveolare superiore a quella atmosferica e quindi si ricrea un gradiente che
spinge l’aria ad uscire. L’espirazione cessa quando la forza di retrazione diminuisce e non riesce più
a creare il gradiente positivo per l’aria. Quando si effettua invece un’espirazione forzata si aggiunge
il contributo muscolare che incide pesantemente sulla pressione intrapleurica. L’espirazione forzata è
l’unica occasione in cui la pressione intrapleurica cambia segno: la forza muscolare è tanto elevata da
rendere positiva la pressione intrapleurica. Normalmente si ha una pressione di inizio espirazione di
circa −8cmH2 O: ora si arriva anche a 25cmH2 O. Come incide questo sulla pressione alveolare? La fa
aumentare, portandola a +35cmH2 O e creando così un gradiente enorme supportato sia dalla retrazione
elastica che dalla forza muscolare.
Che cosa mantiene pervie le vie aeree? Due elementi: la pressione trasmessa dagli alveoli e la forza
di retroazione polmonare. Cosa succede durnante l’espirazione? La pressione in arrivo dagli alveoli
si va esaurendo. Il condotto è soggetto ad una pressione transmurale dettata dalla differenza con la
pressione intrapleurica che in fase espiratoria non cambia: esiste allora un punto in cui la forza di
propulsione dagli alveoli è bilanciata dalla forza di distensione esercitata sul condotto. In altri termini
a questo punto non c’è una forza sufficiente a mantenere dilatato il condotto stesso.

155
24 Lezione 1 [R]
La funzione renale è riassumibile in termini di conservazione dell’ambiente interno, stabilizzando il
volume e la composizione del fluido extracellulare: l’escrezione urinaria è il frutto di questa attività.
La complessità della struttura del rene giustifica le sue funzioni articolate: un semplice filtro avrebbe
un’anatomia molto più semplificata.
Due sono gli elementi fondamentali per la funzione renale: acqua ed elettroliti; entrambi possiedono
due ingressi possibili: l’ingresso metabolico, cioè la loro produzione durante le reazioni biochimiche, o
l’ingresso alimentare. Acqua ed elettroliti vanno poi a collocarsi in compartimenti precisi che sono
solamente tre: intracellulare, extracellulare e plasmatico13 . L’equilibrio idrosalino, e in definitiva
l’omeostasi, è legato al bilancio tra i percorsi compiuti all’interno di questi compartimenti.
Come sono divisi i compartimenti nell’organismo? Per un individuo giovane del peso di 70Kg la
ripartizione è la seguente:
• 23L è il volume intracellulare totale
• 19L è il volume extracellulare totale (compreso il volume plasmatico)
• 42L è il volume idrico totale
Più in generale si possono esprimere dei rapporti percentuali in funzione al peso corporeo:
• 60% del peso corporeo è il volume idrico totale
• 33% è la quota del volume intracellulare
• 27% è la quota del volume extracellulare
Passando da una visione dell’intero organismo ad una tissutale le percentuali sono diverse: esistono
tessuti molto ricchi d’acqua, ad esempio il muscolo, e tessuti molto poveri, ad esempio l’adipe.
I compartimenti sono caratterizzati da una profonda differenza nella disposizione elettrolitica, cioè
nelle concentrazioni di cationi e ioni. Lo ione N a+ è molto più concentrato all’esterno14 della cellula,
mentre lo ione K + è molto più concentrato all’interno. Anche gli anioni hanno distribuzione peculiare:
cloro e bicarbonato sono concentrati all’esterno della cellula, mentre il fosfato è tipico dell’ambiente
intracellulare. Tra i vari compartimenti esiste un continuo scambio di prodotti ma queste differenze
di concentrazione devono essere sempre mantenute: l’omeostasi del rene è coinvolta dunque in questo
equilibrio elettrolitico.
L’equilibrio elettrolitico si può rompere a seguito di molte situazioni cliniche (cardiopatie, alterazioni
capillari, variazioni proteiche del sangue, difficoltà del ritorno venoso). Le situazioni che portano ad
una disidratazione ad esempio sono molto varie e con risultati clinici diversi. La prima tipologia di
disidratazione è la disidratazione isotonica, in cui viene persa acqua con un pari contributo elettrolitico
e quindi i rapporti di concentrazione non cambiano; questo tipo di disidratazione si genera in situazioni
quali
• Emorragie
• Ustioni
• Diarrea/vomito
• Ipersudorazione
• Natriuresi farmacologica (perdita di N a con le urine per azione di uno o più farmaci)
La perdita di liquido in una disidratazione isotonica evoca lo stimolo alla sete: viene allora introdotta
acqua ma non vengono generalmente introdotti elettroliti e questo fa evolvere la situazione. Se l’apporto
di acqua non è bilanciato con quello elettrolitico si va allora incontro ad una disidratazione ipotonica,
cioè si crea un ambiente diluito. L’ambiente diluito ha conseguenze negative soprattutto per i tessuti
che accumulano molta acqua: il compartimento intracellulare è ora fortemente impoverito di soluti e la
13 Ilcompartimento plasmatico a rigore può essere visto come una frazione del compartimento extracellulare.
14 In generale l’ambiente extracellulare è in equilibrio nelle sue varie frazioni, cioè ad esempio l’interstizio è quasi in equilibrio
con il plasma.

156
funzionalità cellulare è minata. I segni che spesso sono legati a questa condizione sono cefalea, vomito,
apatia, perdita di coscienza e coma.
La disidratazione si può ottenere anche in altre condizioni, ad esempio in alta quota: in questa con-
dizione si tende ad iperventilare aumentando la quota idrica persa con la respirazione; quando si perde
solamente la quota idrica senza intaccare la quota salina si va incontro ad una disidratazione ipertonica
in cui i compartimenti risultano avere elettroliti in concentrazioni troppo elevate.
Situazione opposta alla disidratazione è l’iperidratazione. L’iperidratazione più comune è legata al-
l’introduzione di troppa acqua ed è uguale alla disidratazione ipotonica vista prima. Questa condizione
è legata alla comparsa di edema generalizzati soprattutto negli arti inferiori: la causa può essere sia
il bere acqua in quantità eccessiva sia un’insufficienza cardiaca, epatica o renale. Un’iperidratazione
molto meno frequente è l’iperidratazione ipertonica, o intossicazione da acqua marina. Se un soggetto
beve acqua di mare, la cui concentrazione salina è troppo elevata, crea un danno all’organismo molto
più grave di quello derivante dal non bere affatto: per compensare alla iperconcentrazione di sali viene
richiamato liquido dal compartimento intracellulare e questo scompensa i tessuti eccitabili.

L’elemento fondamentale per la funzione renale è il corpuscolo renale o del Malpinghi. Questa
struttura è formata dalla capsula di Bowmann e dai capillari arteriosi. La barriera di filtrazione renale
è costituita anatomicamente dall’endotelio fenestrato del capillare, dalla lamina basale e dai podociti,
cellule specializzate del corpuscolo che rivestono la capsula; questa serie di elementi non crea un muro
ma piuttosto una sorta di maglia con spazi larghi 40Å, cioè 4nm: si ha dunque un primo criterio di
filtrazione che è quello della dimensione. In generale sostanze con un ingombro in peso molecolare
superiore ai 69000 milliequivalenti o diametro superiore agli 8nm non possono passare mentre quelle
con diametro compreso tra 4 e 8nm possono essere ultrafiltrate; tutte le sostanze che hanno diametro
inferiore ai 4nm o peso molecolare inferiore a 5000 sono libere di transitare. Questa barriere all’atto
pratico dunque cosa filtra?
• Passano liberamente: acqua, elettroliti, glucosio
• Non passano: globuli rossi e proteine plasmatiche

Le proteine dunque non passano, ma non tutte hanno un grande ingombro: le albumine ad esempio
hanno un diametro ben inferiore ai 40Å tuttavia nel filtrato non sono presenti. La filtrazione qui avviene
per un secondo criterio: le albumine non passano perchè sono dotate di carica. Le proteine in gen-
erale hanno carica negativa e vengono respinte dalla membrana basale: gli anioni sono invece liberi di
transitare perchè sono troppo piccoli per suscitare risposta dalla membrana. La dimostrazione dell’e-
sistenza di una filtrazione su base elettrica sfrutta il destrano, uno zucchero normalmente non carico
e in grado di essere completamente filtrato; se viene caricato formando il solfato di destrano la capacità
di filtrazione si riduce drammaticamente. Il punto è dunque che la carica combinata all’ingombro fa la
differenza nel processo di filtrazione.
Quali sono le forze che guidano il processo di filtrazione? Sono sempre le forze di Starling, cioè
la pressione idrostatica e quella colloidosmotica/oncotica. La pressione idrostatica del capillare (Pgl )
è contrastata da quella all’interno della capsula di Bowmann (PB ): il risultato è che se la pressione
capsulare è inferiore si favorisce la filtrazione. La pressione idrostatica deve però confrontarsi con la
pressione colloidosmotica: le proteine presenti nel plasma richiamano liquidi e si oppongono sempre
alla filtrazione. La pressione idrostatica Pgl a livello afferente è pari a circa 47mmHg mentre quella
capsulare a 12mmHg; la pressione colloidosmotica ha valore 25mmHg quindi sul versante afferente la
situazione sarà

(Pgl − PB ) − πgl (47 − 12) − 25 = 10mmHg


Esiste dunque un gradiente pressorio tale da rendere possibile la filtrazione. Sul versante efferente
come saranno i valori? Le pressioni idrostatiche rimangono invariate, a fare la differenza sarà la
colloidosmotica. Le proteine che non riescono a superare la barriera di filtrazione si concentreranno nel
versante afferente in quanto durante la filtrazione è stato perso liquido: il risultato è che sul versante
efferente la pressione colloidosmotica arriva a 35mmHg. Ricalcolando il gradiente:
(Pgl − PB ) − πgl (47 − 12) − 35 = 0mmHg

157
Il gradiente pressorio viene perso e dunque deduco che la filtrazione è un fenomeno che riguarda
solamente il versante afferente.
La situazione renale in generale è molto diversa da quella sistemica in quanto i capillari sistemici
presentano sia filtrazione che riassorbimento nella stessa sede anatomica. A livello del glomerulo
renale c’è solamente filtrazione a causa delle situazioni emodinamiche che si creano: il gradiente c’è
solo nel versante afferente. Un gradiente per il riassorbimento non esiste a livello del glomerulo: questo
processo avverrà in una sede anatomofunzionale diversa. Un’altra differenza è nei valori pressori: le
pressioni dei capillari glomerulari (45 − 50mmHg) sono di gran lunga superiori a quelle dei capillari
sistemici (15 − 30mmHg) e questo è specchio della particolare situazione emodinamica dell’organo.
Le proteine sono dunque l’elemento chiave della filtrazione e si è visto come il valore della pressione
oncotica passi da 25mmHg a 35mmHg nei due versanti; questi due valori non hanno tra loro un rapporto
lineare ma sono legati da un’equazione di terzo grado.
La pressione netta di filtrazione ha un valore medio di 10 − 12mmHg dato da ∆P − ∆π ma è neces-
sario introdurre un nuovo fattore. Il peso delle forze emodinamiche va corretto e il fattore di correzione
è rappresentato da Kg : il coefficiente di filtrazione. Questo fattore tiene conto di due elementi fon-
damentali: la permeabilità idraulica effettiva della parete capillare e l’area della superficie utilizzata
per la filtrazione; questi due elementi sono soggettivi sia a livello dell’individuo che a livello del sin-
golo glomerulo. Il valore di Kg può variare in quanto entrambi i determinanti possono alterarsi; se
la barriera di filtrazione muta lo farò anche il suo criterio di selettività e si può ad esempio generare
una proteinuria. Le glomerulonefriti hanno ragion d’essere nella modifica del coefficiente di filtrazione:
valori alterati indicano organi alterati.
Com’è fatto l’ultrafiltrato? Fondamentalmente si tratta di plasma privato di proteine. Per l’equilibrio
di Gibbs se le proteine vengono trattenute, e queste hanno carica negativa, deve esserci una redis-
tribuzione delle cariche: i cationi calano rispetto alla concentrazione plasmatica quindi l’ultrafiltrato ha
anche una piccola differenza rispetto al plasma nella distribuzione elettrolitica.
La pressione netta di filtrazione, combinata alle caratteristiche anatomofunzionali del glomerulo,
permette di avere un volume netto di filtrato fisiologico in media pari a 125mL/min: come si misura
questo valore? Si prende una sostanza con tre caratteristiche:

1. Deve essere completamente filtrata


2. Deve essere completamente escreta
3. Non deve essere rimaneggiata lungo il tubulo
Una sostanza di questo tipo viene escreta nelle urine nella stessa quantità che viene filtrata. Il volume
di plasma filtrato viene indicato come velocità di filtrazione glomerulare o GFR, quindi posso affermare
che:
[Quantità f iltrata] = [Quantità escreta]

GF R · [X]P = VU · [X]U

dove [X]P è la concentrazione plasmatica del sangue, VU il volume delle urine e [X]U la concentrazione
urinaria. Risolvendo l’equazione per GFR si ottiene
[Quantità escreta] VU · [X]U
GF R = =
[X]P [X]P
Una sostanza che ha le caratteristiche per essere sfruttata in questo ambito è l’inulina15 , una molecola
esogena derivante dalle dalie. Iniettando questa sostanza in concentrazioni note si va a vederne la
concentrazione ematica attraverso un prelievo e si raccoglie poi l’urina: il risultato sperimentale è una
GFR pari a 118mL, molto prossimo a 125mL.
15 In clinica si usa la creatinina, un sottoprodotto del metabolismo della creatina da parte del muscolo scheletrico.

158
25 Lezione 2 [R]
Quando una sostanza, qualsiasi essa sia, transita per il rene può finire in due sole sedi: nelle urine o
nelle vene. Rapportando la quantità di sostanza nelle urine a quella che era contenuta nella sede di
partenza ottengo il rapporto di estrazione. Quanto tutta la sostanza che era nel plasma viene ritrovata
a livello urinario il rapporto sarà unitario, mentre se non se ne trova traccia nelle urine questa sarà
tutta nelle vene e il rapporto sarà zero.
Xurine
Ex =
Xarterie
Il rapporto di estrazione può anche essere scritto nella formula
Vurine · [X]urine
Ex =
Varterioso · [X]arteriosa
Il numeratore, in virtù delle due sole possibili destinazioni delle sostanze, è però la differenza tra
l’ambito arterioso e quello venoso: tutto quello che non è nelle vene è per forza nelle urine quindi si può
scrivere
[(Varterioso · [X]arteriosa ) − (Vvenoso · [X]venosa )]
Ex =
Varterioso − [X]arteriosa
semplificando
(Varterioso · [X]arteriosa ) (Vvenoso · [X]venosa ) Vvenoso · [X]venosa
Ex = − =1−
(Varterioso · [X]arteriosa ) Varterioso − [X]arteriosa Varterioso − [X]arteriosa
Quando nel versante venoso non c’è traccia della sostanza il rapporto diventa dunque unitario, mentre
quando tutta la sostanza è presente il rapporto diventa zero.
La quantità di plasma che circola nel rene è 660mL/min; nello stesso tempo si formano 1 − 3mL di
urina. Sulla base di questi dati so che nel versante venoso ci saranno 660 − 3mL di plasma, quindi il
99, 7% del volume arterioso: non si introduce un grande errore dicendo che il volume venoso e quel-
lo arterioso sono uguali. Con questa assunzione la formula del rapporto di estrazione si semplifica
ulteriormente:
[X]venosa
Ex = 1 −
[X]arteriosa
Utilizzando l’inulina si ottiene un rapporto di estrazione pari a 1, 06, quindi concludo che la sostanza
viene completamente filtrata. Una sostanza con un rapporto di estrazione minore di 1 non ha una
filtrazione completa ma parziale.
La clearance è il volume di plasma che viene depurato da una certa sostanza nell’unità di tempo:
solo le sostanze che hanno rapporto di estrazione pari a 1 vengono depurate completamente nell’unità
di tempo; per tutte le altre sostanze il volume depurato è un volume virtuale che si approssima: a livello
urinario non ho il 100% della sostanza.
L’inulina è tra le rare sostanze con rapporto di estrazione unitario, quindi la clearance dell’inulina
è una clearance reale. Il punto è che questa sostanza è esogena e non può fornire dati realistici
sull’organismo: il problema si risolve passando dall’utilizzo di una sostanza esogena a quello di una
endogena, la creatinina.
La creatinina è una sostanza prodotta dal metabolismo muscolare che viene filtrata dal rene, anche
se non completamente, ma che può essere secreta e finire direttamente nel tubulo renale ed entrare
nelle urine. Mediamente l’organismo produce creatinina in modo costante con valori che dipendono dal
sesso e dall’età del soggetto: esistono tabelle con questi valori. Nel paziente si fa una raccolta delle urine
della giornata e un prelievo ematico; da entrambi i campioni si ricava la concentrazione della creatinina
e si sfrutta la formula vista prima: la clearance ottenuta si confronta poi con i valori tabellari.
A livello non clinico è interessante avere i valori di clearance per porli a confronto con quelli del-
l’inulina. In generale una sostanza può subire tre tipi di azione nel rene: escrezione, riassorbimento e
secrezione. Se la clearance risulta zero la sostanza in esame viene completamente riassorbita e non se
ne ha traccia nelle urine (o perchè non passa la barriera o perchè viene riassorbita). Una sostanza che
ha clearance zero per riassorbimento totale è ad esempio il glucosio: viene filtrato dalla barriera ma
non si ritrova nelle urine. Se la clearance della sostanza è minore di quella dell’inulina posso dire che
in parte viene escreta e in parte riassorbita mentre se il valore è maggiore devo pensare che la sostanza
sia stata secreta, cioè che dal versante venoso sia passata al tubulo.

159
La clearance può essere utilizzata anche per andare a misurare la quantità di plasma depurato e
filtrato da una sostanza nell’unità di tempo. In questo caso si utilizza una sostanza chiamata PAI,
acido para-ammino-ippurico, che è una molecola esogena con rapporto di estrazione 0.95. Il PAI in
concentrazioni plasmatiche molto basse viene filtrato in grandissima parte e in più può essere secreto:
qualora una quantità sfugga la filtro renale l’epitelio del tubulo è in grado di richiamarla al suo interno.
L’idea è stabilire quanto sangue (o plasma) perfonde il rene e si sfrutta il sistema di Fick che è valido
per tutti gli organi; se valuto la quantità di sostanza iniettata nel plasma e la quantità depositata nelle
urine posso stimare la quantità di sangue che perfonde il rene nell’unità di tempo. Una correzione da
fare però è questa: cerco di indagare la perfusione tramite la clearance che però riguarda solo tubuli
e glomeruli; il rene non è fatto solo di questi due elementi quindi il flusso plasmatico effettivo è pari
all’85-90% del totale. Ricavato il flusso plasmatico bisogna ottenere quello ematico: la differenza tra
plasma e sangue la fa l’ematocrito. Per ricavare il flusso ematico totale del rene correggo la clearance del
PAI per il fattore correttivo dell’ematocrito (1-ematocrito) ottenendo 1200mL/min: quindi in un minuto
arrivano al rene 660mL di plasma e 1200mL di sangue.

A fronte di un’enorme quantità di ultrafiltrato si produce molta poca urina: se passano 660mL di
plasma al minuto e vengono prodotti 1 − 3mL di urina si può concludere che la stragrande maggioranza
del filtrato viene anche riassorbito. I meccanismi di riassorbimento avvengono a partire dal tubulo
prossimale del nefrone: il glomerulo serve esclusivamente a filtrare. Il riassorbimento è legato molto
all’anatomia; l’epitelio del tubulo renale presenta due aspetti: un versante luminale rivolto verso il
tubulo e un versante basolaterale rivolto al capillare. I due versanti sono separati dalle cellule e dalla
membrana basale del capillare; queste cellule non sono sovrapposte ma si creano ampi spazi tra di
esse. Si possono dunque individuare due vie per il transito di una sostanza:

• Via transcellulare: la sostanza attraversa la membrana luminale e poi la basolaterale


• Via paracellulare: la sostanza passa tra cellula e cellula
I trasporti transcellulari avvengono secondo vari meccanismi. Il primo è la diffusione semplice, grazie
al quale una sostanza segue i gradienti elettrochimici: questa via è sfruttata da sostanze liposolubili
di diametro inferiore ad 8Å. Tutte le altre sostanze richiedono un trasporto facilitato, che può essere
un trasporto attivo primario o secondario. Il trasporto attivo primario consuma ATP ed è il tipo di
trasporto attuato dalla pompa Na-K. Il trasporto attivo secondario non richiede ATP ma sfrutta uno ione
motore libero di muoversi che si lega ad un canale facendo in modo che una sostanza normalmente
impossibilitata possa passare; all’interno del trasporto secondario si riconoscono due metodi:

Simporto Quando ione motore e sostanza da trasportare si muovono nello stesso senso: entrambi
escono o entrano. Fondamentale è il simporto sodio-glucosio.
Antiporto Quando lo ione motore si muove in senso opposto alla sostanza da trasportare.

160
La figura sopra mostra due esempi di trasporto: una sostanza trasportata a Tm (Trasporto Massimo)
e una trasportata secondo gradiente tempo. Nel grafico di destra in Y si vedono la quantità filtrata,
escreta o riassorbita. La quantità filtrata è una retta, quindi si evidenzia una proporzionalità diretta
al carico filtrato (il carico filtrato è la concentrazione della sostanza nel plasma moltiplicata GFR). La
quantità riassorbita è invece una curva, quindi c’è un costante riassorbimento finchè il carico è elevato.
La quota riassorbita non è mai il 100% in quanto c’è sempre una parte escreta. Per una sostanza
trasportata a gradiente tempo osservo che il riassorbimento è costante, cioè finchè c’è sostanza questa
viene riassorbita anche se non al 100%: la quota mancante sarà quella escreta (filtrata = riassorbita
+ escreta). Nel grafico di sinistra, quello del trasporto a Tm, le cose sono molto diverse. Si nota che,
per carichi filtrati abbastanza piccoli, il riassorbimento è totale. La sostanza inizia ad essere presente
nelle urine solo a partire da un certo valore. Un tipico esempio di questo tipo di trasporto è quello del
glucosio:

161
Raggiunta la concentrazione di circa 375mg/min la quota riassorbita diventa costante e inizia ad esserci
presenza di glucosio nelle urine. A differenza del grafico precedente qui il passaggo tra riassorbimento
100% e riassorbimento costante avviene tramite una porzione di curva, quindi all’avvicinarsi ad un
riassorbimento costante si avrà anche qualche effetto sulla quota escreta. Nell’intervallo di concen-
trazioni tra 200 e 375mg la quantità di glucosio non riassorbita finirà nelle urine e si avrà il fenomeno
dello splay. Perchè il glucosio si comporta in modo diverso dalla teoria precedente? In realtà esistono
due soglie per questo fenomeno: una soglia empirica e una soglia teorica. La soglia teorica è il risultato
della ricerca di una concentrazione tale per cui la quantità riassorbita risulti costante nel tempo, in
questo caso 375mg/dL. Il trasporto massimo è però legato alla presenza di carrier sulla membrana
luminale: immagino che il glucosio venga riassorbito in modo costante quando tutti questi carrier sono
saturati. Sperimentalmente si è visto che questi carrier sono di due tipi: il carrier GLUT2 depositato
sull’epitelio S1 vicino al glomerulo, e il carrier GLUT1 depositato sull’epitelio S3 vicino all’ansa di Henle.
Quali sono le differenze? GLUT2 ha un rapporto stechiometrico 2:1, cioè trasferisce due ioni sodio per
ogni molecola di glucosio, mentre GLUT1 ha un rapporto stechiometrico 1:1. Il rapporto tra carrier e
glucosio è molto simile a quello enzima substrato. GLUT2 ha una bassa affinità ma una capacità alta in
quanto sono molecole numerose. GLUT1 ha invece la situazione opposta: è più raro ma ha un’affinità
maggiore. Come in un rapporto enzima-substrato, la cinetica è legata ad una costante di dissociazione
che può essere espressa, in questo caso, così:
[G][C]
K=
[GC]
cioè il classico equilibrio prodotti su reagenti in cui il prodotto è il carrier saturo e i reagenti il glucosio
e il carrier scarico. Quando tutti i carrier sono scarichi la probabilità per una molecola di glucosio di
legarsi sarà prossima al 100% ma con l’aumentare della saturazione questa diminuirà: l’esistenza dello
splay è legata quindi ad un discorso di cinetica di legame. Esistono altri fattori che promuovono lo
splay, tra i quali vanno ricordati
• Fattori morfologici: i carrier sono un numero finito che è funzione della dotazione genetica dell’in-
dividuo
• Fattori soggettivi: è fisiologico che esistano nefroni perfettamente funzionanti e nefrono non
funzionanti, inoltre l’età condiziona ulteriomente il quadro

162
In generale comunque non sono previste tracce di glucosio nelle urine, questo grazie al meccanismo
descritto di trasporto a Tm.

163
26 Lezione 3 [R]
La concentrazione alla quale il glucosio è già presente nelle urine è molto più bassa della soglia teorica
e il suo valore è indicato con il termine di soglia renale. La soglia renale è pari a 180 − 190mg/dL e ogni
volta che la glicemia supera questo valore c’è da aspettarsi glicosuria.
Altre sostanze importanti sfruttano il meccanismo di trasporto a Tm. Il fosfato viene ultrafiltra-
to e quasi completamente riassorbito: il limite per la concentrazione in questo caso è 0.1mM ol/min.
Analogamente al fosfato questa è la via sfruttata dai solfati e dagli aminoacidi, ciascuno con valori
soglia specifici.
Il trasporto a Tm è anche importante in quanto consente la secrezione di una sostanza, cioè il
trasferimento dal versante peritubulare a quello tubulare. Una sostanza secreta a Tm è il PAI, l’acido-
para ammino-ippurico.

Quali sono le trasformazioni che l’ultrafiltrato subisce lungo il tubulo renale? La prima porzione del
tubulo, il cosiddetto tubulo prossimale, ha una morfologia particolare che la suddivide in porzione S1,
S2 ed S3. La porzione S1 ha un epitelio caratterizzato da un orletto a spazzola molto ricco che amplia
la superficie: questo serve ad aumentare il numero di canali ottenendo un’elevata permeabilità a varie
sostanze. Il versante basolaterale, cioè quello verso i capillari, è caratterizzato da digitazioni piene di
mitocondri: queste sono il segno di una grande concentrazione di pompe Na-K ATPasiche. Questo
epitelio diventa sempre più semplice andando verso le porzioni S2 ed S3; la riduzione di complessità
sarà accompagnata da una riduzione dei meccanismi che consentono il transito alle sostanze.
In S1 l’ultrafiltrato è praticamente la copia del plasma senza le proteine e ha quindi la stessa con-
centrazione di elettroliti. Lo ione sodio arriva nel versante luminale con una concentrazione di 145
milliequivalenti, praticamente quella plasmatica, e nella porzione S1 viene riassorbito al 60-70%. Cosa
regola questo riassorbimento? Nel versante basolaterale ci sono le pompe sodio potassio, che creano un
gradiente favorevole per l’ingresso di sodio dal lume. Il sodio passa attraverso la cellula per diffusione
passiva.

Il movimento di sodio è utile per il trasporto di tutta una serie di sostanze che possono sfruttare la
strategia dello ione motore. Queste sostanze sono i derivati metabolici quali i solfati e i lattati e sono
realizzabili sia vie di simporto che vie di antiporto.
Il transito di sodio, in quanto catione, crea un gradiente non solo chimico ma elettrico: si ha un
potenziale negativo dentro la cellula grazie alla pompa Na-K. Se si va a misurare il potenziale elettrico
nel versante luminale si ottiene un valore di circa −64mV contro un valore intracellulare di −70mV :
ovviamente se le cariche positive del sodio abbandonano il tubulo il potenziale elettrico del liquido
tubulare dovrà essere negativo. Come mai −64mV ? A fronte del movimento dal tubulo all’interno della
cellula esiste anche un trasferimento dalla cellula al versante basolaterale quindi il potenziale elettrico
cellulare è dettato dal versante basolaterale. La pompa sul versante basolaterale lavora fintanto che c’è
ATP e non dipende dai flussi di ioni; il suo lavoro è sbilanciato ed elettrogenico in quanto esclude un
numero di cariche positive maggiore di quello di cariche negative che fa entrare. A cosa si deve allora
la differenza tra il potenziale luminale e quello cellulare? Al fatto che il sodio viene sfruttato da molte
sostanze tra le quali parecchi anioni. In sintesi il movimento di sodio (catione) è bilanciato in buona
parte dagli anioni che transitano sfruttando il meccanismo dello ione motore.
Quando l’ultrafiltrato va verso S2 si ha una nuova condizione. In S1 pochi ioni cloro vengono
trasferiti dentro la cellula: questi ioni, pur presenti, non transitano agevolmente. In S2 allora il cloro

164
risulta essere concentrato nell’ultrafiltrato e questa massiccia presenza renderà il potenziale elettrico
luminale particolarmente negativo rispetto a quello intracellulare. Il potenziale transluminale, cioè
la differenza tra il potenziale cellulare e quello tubulare, subisce un inversione: passa da negativo
(−70 − (−64) = −4mV ) a positivo (−70 − (−72) = +2mV ).
Un trasporto tipico del tubulo prossimale è il riassorbimento del carbonato, che ha un meccanismo
particolare. Il carbonato lega idrogenioni (HCO3− + H + ) i quali vengono riversati nel lume tramite
antiporto con il sodio; questo legame forma acido carbonico (H2 CO3 ) il quale si dissocia in acqua
e anidride carbonica. L’anidride carbonica diffonde, l’acqua entra nella cellula e i due elementi nel
plasma si ricombinano, riformando l’acido carbonico che si ridissocia in carbonato. L’idrogenione che
si libera in quest’ultimo passaggio è lo stesso utilizzato per formare l’acido carbonico all’inizio del ciclo.

La porzione prossimale del tubulo fa un lavoro enorme in quanto recupera il 70% dell’ultrafiltrato: per
tutto il resto del tubulo renale rimane da gestire dunque solo un terzo dell’ultrafiltrato. Riassumendo:
• Sodio e carbonato vengono recuperati (70%)

• Derivati organici vengono riassorbiti (100%?)


• Il cloro viene riassorbito in S2 grazie all’inversione del potenziale e alla sua concentrazione (In s1
non si riassorbe)
• Il potassio viene riassorbito per il 70%

Tutti questi trasporti avvengono tramite canali appositi per i quali sono stati individuati i relativi in-
ibitori. La pompa Na-K è inibita dall’ouabaina, la florizina inibisce il simporto glucosio-Na e l’amiloride
inibisce l’antiporto Na-H.
Al trasferimento di elettroliti si combina il trasferimento di acqua per attivazione delle aquaporine,
localizzate sia nel versante luminale che in quello basolaterale. L’acqua si muove sempre per gradiente
osmotico quindi a fronte di un riassorbimento di soluti ci sarà un riassorbimento di acqua. A livello
del tubulo prossimale un 70% dei soluti viene riassorbito, accompagnato da una pari percentuale di
acqua. Il liquido che rimane giacente nel lume sarà dunque isoosmotico al plasma perchè i bilanci
idrosalini sono stati rispettati; questo liquido a questo punto prende il nome di preurina, in quanto
non è più possibile chiamarlo ultrafiltrato a causa della sua composizione.
Cosa sono di preciso le aquaporine? Sono molecole appartenenti ad una famiglia abbastanza ampia;
le aquaporine-1 sono tipiche del tubulo prossimale e della porzione discendente dell’ansa di Henle. Altre
aquaporine sono distribuite in varie sedi e hanno caratteristiche leggermente diverse.
Superato il tubulo prossimale si affronta l’ansa di Henle. Nella porzione discendente dell’ansa l’epite-
lio è abbastanza piatto, privo di orletto sviluppato, e permeabile all’acqua: l’effetto complessivo è con-
sentire il riassorbimento di soluti ancora presenti nel lume su base dei gradienti elettrochimici. La
porzione ascendente ha una morfologia eterogenea e presenta un epitelio più alto e spesso: lo spessore
dipende dalla lunghezza delle anse; le anse corticali, piuttosto brevi, hanno epitelio uniforme mentre
le anse lunghe sono più complesse: il ramo discendente è sottile mentre quello ascendente è spesso.
Sulla base di queste caratteristiche si parla di porzione spessa dell’ansa che ha un’alta probabilità di
trovare una pompa Na-K sul versante basolaterale. Nel ramo ascendente spesso c’è dunque movimento

165
di sodio e questo viene sfruttato ad esempio dal cloro. Per ogni ione sodio in transito entrano due
ioni cloro e, per rispettare l’equilibrio elettrico, viene scambiato uno ione potassio: si realizza così un
cotrasporto elettricamente neutro. Nel tratto spesso dell’ansa di Henle si ha un riassorbimento di circa
il 10% di sodio e di cloro grazie a questa strategia.

A livello dell’ansa ascendente spessa di Henle si osserva una grande permeabilità al potassio ed è
questa la ragione per cui è possibile un trasporto elettricamente neutro.
La porzione successiva è rappresentata dal tubulo distale e dal tubulo collettore, entrambi costituiti
da un epitelio eterogeneo in cui le cellule principali si alternano a quelle intercalate. Tra le cellule
intercalate si riconoscono le cellule infossate e quelle sporgenti, che contribuiscono in maniera diversa
al trasferimento di alcuni elettroliti. Nel lume tubulare sono rimaste ancora piccole quantità di sodio,
cloro e carbonato. Il tubulo distale è costituito da una prima porzione, il tubulo di connessione con
l’ansa di Henle, cui segue un tubulo contorto e infine il dotto collettore; ad eccezione del dotto ci sono
sempre le cellule principali e le intercalate. Il dotto ha composizione diversa in quanto la porzione
corticale e l’esterna midollare sono formate dalle due tipologie di cellule mentre la porzione midollare
interna presenta solo cellule intercalate.
Il sodio continua ad essere assorbito a livello del tubulo di connessione e del tubulo contorto dis-
tale grazie alle pompe Na-K ATPasiche ma non ci sono più anioni in grado di accompagnare questo
trasporto. Il risultato è una variazione del potenziale e infatti il potenziale transepiteliale è piuttosto
negativo, si arriva a valori di −30, 40, 50mV (a livello del tubulo prossimale erano −4mV ). Man mano che
il sodio luminale viene riassorbito diventa sempre più difficile recuperare la piccola quantità residua:
nel dotto collettore questa piccola quantità viene recuperata grazie all’ormone aldosterone. L’aldos-
terone è prodotto dalla porzione glomerulare del surrene a partire dal colesterolo, quindi è un ormone
steroideo: il recettore è dunque nucleare e l’effetto è la trascrizione di una proteina, detta proteina
aldosterone-indotta. Questa proteina consente in primo luogo l’attivazione di permeasi che facilitano il
trasferimento del sodio all’interno della cellula; in secondo luogo questa proteina è in grado di poten-
ziare l’attività della pompa Na-K rendendola più efficace. Esiste un terzo effetto che è il favorire l’attività
metabolica della cellula facendole produrre molto ATP per le pompe: queste tre vie consentono al sodio
di essere recuperato quasi al 100%. Riassumendo, la proteina aldosterone indotta:
1. Attiva le permeasi

2. Migliora la funzionalità della pompa Na-K


3. Stimola il metabolismo cellulare per produrre ATP
Le tre vie non sono indotte simultaneamente: la via metabolica è la più lenta mentre quella delle
permeasi è la più rapida.
Sempre a livello del dotto collettore anche il riassorbimento idrico richiede un ormone, l’ADH o vaso-
pressina. L’ADH è prodotto dai nuclei sovraottico e paraventricolare dell’ipotalamo ed è un polipeptide:
il suo funzionamento si basa sul secondo messaggero cAMP che viene formato grazie all’azione del-
l’adenilato ciclasi. cAMP consente la fosforilazione di protein kinasi cAMP dipendenti che si portano
a fosforilare le aquaporine: queste infatti trasportano acqua solo a condizione di essere fosforilate.
L’inibizione della produzione di ADH rende l’epitelio del dotto collettore completamente impermeabile

166
all’acqua. Non tutte le aquaporine però reagiscono a questo stimolo in quanto le aquaporine 3 e 4 non
sono ADH-dipendenti.
In sintesi la situazione è la seguente. Nel tubulo prossimale la quota riassorbita in termini di acqua
e soluti è fissa: 70% qualunque siano le necessità dell’organismo. Il dotto collettore è invece soggetto a
regolazione ormonale poichè da un lato le quantità di soluti sono oramai basse e dall’altro la morfologia
non è sufficiente al riassorbimento. In generale dove è previsto un intervento ormonale è perchè si è
in presenza di meccanismi omeostatici di primaria importanza: la loro esistenza dimostra che il rene
serve a conservare l’omeostasi e non solo a filtrare il sangue. Sotto quest’ottica il tubulo distale è quel
che serve all’organismo per mantenere l’omeostasi.

167
27 Lezione 4 [R]
Riprendendo le ultime conclusioni, il tubulo prossimale e quello distale hanno compiti molto differenti.
Il primo ha un enorme carico di lavoro in quanto riassorbe i due terzi dell’ultrafiltrato, il secondo ha
invece un significato regolativo dipendente dagli ormoni e lavora su quantità inferiori. Si è detto che
l’ultrafiltrato riassorbito a livello prossimale è il 70%, come si fa a calcolarlo? La GFR è 125mL/min. Il
sodio plasmatico ha concentrazione 145mM ol/L, la componente filtrata è circa 18mM ol/L. A partire da
18mM ol/L, 12 vengono riassorbite e ne rimangono sei, quindi la quota riassorbita è circa il 67%. Cosa
succede se aumenta la GFR? Se si passa ad esempio ad una GFR di 165mL/min si filtrano 24mM ol/L
di cui ne vengono riassorbite sedici. In totale viene dunque sempre riassorbito un 67% anche se la
GFR varia: cosa determina questa costanza? L’aggiustamento costante del riassorbimento da parte del
tubulo prossimale viene definito bilancio glomerulo-tubulare.
Esiste una differenza fondamentale tra i capillari sistemici e quelli renali: in quello sistemico la
porzione prossimale filtra e la porzione distale riassorbe16 ; nel rene ci sono due sedi anatomiche differ-
enti: il capillare glomerulare è preposto alla filtrazione e quello peritubulare al riassorbimento. Ancora
una volta a guidare tutto sono le forze di Starling, qual è la situazione?

Come mai la pressione all’interno del capillare peritubulare è così bassa rispetto a quella sistemica?
C’è stata un’operazione di filtrazione nel glomerulo e quindi sono state trattenute le proteine a monte
del capillare: si ha una concentrazione di resistenze (che cazzo vorrebbe dire?) in aumento ed è questa
la prima ragione del valore pressorio. La seconda ragione è che la pressione idrostatica plasmatica in
questo vaso è modesta: sono vasi in serie e dunque necessariamente presentano alta resistenza e bassa
pressione. Quali sono i valori pressori relativi a questi capillari peritubulari?

Il capillare peritubulare ha una pressione idrostatica pari a 11mmHg che è contrastata dalla pres-
sione idrostatica dell’interstizio che è pari a 7mmHg. La variazione pressoria idrostatica è dunque
16 Spida dice il contrario fioi...

168
11 − 7 = 4mmHg. La pressione colloidosmotica interna al capillare peritubulare è elevata perchè c’è sta-
ta l’ultrafiltrazione e quindi le proteine sono concentrate: il valore è 35mmHg. Nell’interstizio qualche
proteina potrebbe essere presente quindi esiste una pressione oncotica anche se bassa: 6mmHg. Qual
è il gradiente pressorio netto?
∆P − ∆π = (11 − 7) − (35 − 6) = −25mmHg
Il valore negativo garantisce che ci sia un costante riassorbimento, così come a livello glomerulare era
presente una costante filtrazione. Le cellule epiteliali del tubulo non sono adese tra loro e infatti le
sostanze possono prendere la via paracellulare passando tra cellula e cellula. Quando si parla di ri-
assorbimento bisogna considerare che la stessa sostanza può prendere sia la via intracellulare che la
paracellulare: la via paracellulare è però libera e quindi permette di andare da capillare a interstizio
ma anche viceversa. La quantità finale di sostanza assorbita viene allora definita come riassorbimento
netto. Che cosa guida il riassorbimento netto? Se la GFR aumenta, cioè aumenta la quantità di ultra-
filtrato, aumenta la pressione oncotica: si ha allora un incremento della forza principale che causa il
riassorbimento, quindi il riassorbimento netto sale. L’opposto è da aspettarsi se la GFR cala. Se invece
la pressione nel ramo efferente aumenta (dilatazione) si avrà un aumento della pressione idrostatica
che si oppone al riassorbimento: il risultato è una diminuzione del riassorbimento netto. L’opposto è
da aspettarsi in caso di riduzione della pressione nel ramo efferente. Questo discorso giustifica il fatto
che ad un aumento del carico filtrato si abbia un riassorbimento in percentuale costante: questo adat-
tamento, legato alla variazione delle condizioni emodinamiche, è fondamentale in quanto intrinseco
all’organo stesso che quindi lo conserva anche in caso di trapianto.

L’elemento fisico, cioè le forze di Starling, è il determinante alla base del bilancio glomerulo-tubulare.
Esistono almeno tre spiegazioni per la dipendenza dalla GFR:
• Ipotesi della geometria tubulare. Se aumenta la pressione idrostatica afferente la pressione di
filtrazione aumenta ma questo andrà a modificare i rapporti che esistono tra cellula e cellula: la
filtrazione avviene si in base ad un criterio emodinamico ma bisogna confrontarsi con la barriera
di filtrazione, cioè con il coefficiente di filtrazione Kg . Un aumento di pressione risulta in un
diverso rapporto spaziale tra le cellule che sostanzialmente si distanziano tra loro aumentando la
permeabilità e quindi influendo sul riassorbimento.
• Ipotesi dell’accoppiamento di riassorbimenti attivi. Nel tubulo prossimale si riassorbono molecole
anche abbastanza grandi come il glucosio. Queste molecole sfruttano lo ione motore sodio:

169
se viene a mancare queste sostanze non verranno trasferite e potranno fare la differenza nelle
pressioni interstiziali che incidono sul riassorbimento netto finale.
• Fattori intratubulari. Si tratta dei fattori umorali che modificano la permeabilità dell’epitelio o
del capillare stesso, quindi adattano le condizioni emodinamiche per mantenere una costanza tra
filtrato in arrivo e riassorbito.

La quantità di filtrato prodotta dal rene è 125ml/min, ma questo è un organo molto perfuso: in un
minuto passano 660mL di plasma e 1200mL di sangue. Una simile ricchezza di flusso deve rimanere
abbastanza costante: arriva già molto sangue e non è opportuno che ne arrivi di più. Questi valori di
flusso sono un rapporto fisiologico, cioè espressione di una condizione ottimale: la quantità di filtrato
ottimale è pari al 19% del plasma in arrivo (125 : 660 = X : 100). Questo valore prende il nome di
frazione di filtrazione e risente delle variazioni della GFR. Nel nostro organismo ogni volta che cambia
la pressione o il fattore resistivo il flusso muta, quindi mi devo aspettare che ad ogni variazione di
pressione ci sia una variazione della quantità di sangue in arrivo al rene: è davvero così? Non sempre.

Il grafico mostra che la pressione arteriosa incide sul flusso renale solo quando assume valori inferiori
ai 90mmHg o superiori ai 180 − 200mmHg. Per pressioni comprese tra 90 − 100mHg e 180 − 200mmHg
il flusso renale è costante: questi valori pressori sono un intervallo fisiologico quindi per pressioni
normali la quantità di sangue filtrata è costante. Il grafico mostra inoltre che la GFR segue lo stes-
so identico andamento ma presenta una particolarità: il filtrato glomerulare richiede una pressione
minima, definita pressione di diuresi, in quanto per pressioni inferiori il rene semplicemente non filtra.
Come si spiega questo meccanismo di autoregolazione? Potrebbe essere l’effetto Baylis [N.B. questa
roba è il meccanismo miogeno che raccontava Spida], cioè l’applicazione della legge di Laplace ad
un vaso (P = 2T r ). L’effetto Baylis dice che in un vaso le pareti sono soggette a stiramento a fronte
di un aumento pressorio e questo ne fa variare il calibro. Questo effetto ha il senso di regolare le
resistenze al fine di mantenere costante la tensione in quanto la pressione non dipende dal singolo
vaso ma dall’intero sistema. L’effetto Baylis può dunque giustificare la costanza della GFR all’interno
dell’intervallo pressorio fisiologico.
Il meccanismo di autoregolazione è sicuramente intrinseco al rene e lo si dimostra negli organi
trapiantati; il suo scopo è mantenere costanti sia la GFR che il flusso ematico renale. Il punto di
partenza è la formula della frazione di filtrazione:

GF R
FF =
FPR
lavorando sui fattori della frazione è allora possibile mantenerne costante il valore. L’intervallo d’azione
è abbastanza ampio in quanto si va dai 70mmHg ai 140mmHg. Qual è lo schema seguito dall’autore-
golazione? Il primo fattore è la pressione sistemica, che può variare aumentando o diminuendo. Se

170
aumenta la pressione sistemica l’arteriola efferente assume un tono maggiore e questo fa aumentare
le resistenze vascolari renali: l’opposto accade se la pressione sistemica diminuisce. Questo comporta-
mento mantiene la pressione di diuresi: in generale dunque l’arteriola afferente aggiusta il suo tono in
modo da regolare le resistenze e rendere costante GFR e FPR senza scendere mai sotto i valori minimi
funzionali.
Meccanismo fondamentale dell’autoregolazione è il feedback tubulo-glomerulare, un feedback di
tipo negativo: se un fattore cambia si rileva la variazione e lo si corregge riportandolo al valore di
riferimento. Questo feedback coinvolge il tubulo renale e il glomerulo. Quando il liquido tubulare
abbandona l’ansa di Henle per andare verso il tubulo distale viaggia quasi a ridosso del glomerulo dove è
presente una struttura: l’apparato iuxta-glomerulare. Questo apparato è in posizione strategica perchè
è prossimo sia al gllomerulo che all’ansa ascendente: il risultato è che la preurina che viene a contatto
con l’apparato è già stata rimaneggiata dal tubulo prossimale e dall’ansa di Henle. Nell’apparato iuxta-
glomerulare gli elementi principali sono:
• La macula densa (MD), formata da una ventina di cellule il cui compito è agire da carrier N a+ −
K + − Cl− .
• Le cellule del mesangio extraglomerulari dotate di filamenti contrattili.

• Le cellule G che sono secernenti e liberano la renina.


Se aumenta la perfusione renale aumenta anche la pressione idrostatica che governa la filtrazione:
il primo risultato è un aumento di GFR. Il filtrato scorre lungo tubulo prossimale e ansa dove viene
sottoposto al riassorbimento: la preurina che abbandona l’ansa di Henle lo fa con una quantità residua
di sodio e cloro che dipende dal volume stesso; se aumenta la GFR in proporzione aumenta anche
la quantità rimasta e questa viene rilevata dalle cellule dell’apparato iuxta-glomerulare che attivano
una serie di meccanismi che hanno lo scopo di ridurre il calibro dell’arteriola afferente. Il meccanismo
dell’apparato iuxta-glomerulare, essendo un feedback negativo, funziona sia per segnalare aumenti di
GFR che diminuzioni.
Come si dimostra che è il cloruro sodico a stimolare l’apparato iuxtaglomerulare? Basta usare un
inibitore del carrier Na-K-Cl, il furosemide17 , per vedere che il meccanismo non si attiva più, quindi
l’autoregolazione è persa. Le cellule G dunque liberano renina che è un enzima che attiva una glob-
ulina epatica, l’angiotensinogeno, che viene trasformata in angiotensina I: questa angiotensina I viene
convertita dal fattore ACE, presente nel polmone, in angiotensina II. L’angiotensina II è un potentis-
simo vasocostrittore, quindi l’apparato iuxtaglomerulare può attivare questo sistema anche se non è
necessario che avvenga.
Una seconda spiegazione che non coinvolge il sistema renina-angiotensina è la seguente. Le cel-
lule iuxtaglomerulari captano le concentrazioni di sodio cloruro e su questa base sintetizzano prodotti
capaci di modificare il tono dell’arteriola afferente. Il tessuto interstiziale è poco vascolarizzato (fatta
eccezione per il glomerulo) e i soluti qui riversati richiederanno tempo per entrare nei pochi vasi pre-
senti; per il solo fatto che ci vuole tempo la concentrazione di cloro aumenta nell’interstizio di due o
tre volte. Questo aumento potrebbe indurre una risposta vasoattiva non necessariamente collocata
a livello dell’arteriola afferente ma che coinvolge magari la barriera di filtrazione. In generale quando
cambia il tono del vaso c’è da pensare ad una sostanza vasoattiva. Sostanze che riducono il calibro
di un vaso sono ad esempio adrenalina, noradrenalina o adenosina; fattore dilatante è invece l’ossido
nitrico.
Le cellule mesangiali infine hanno capacità contrattile e, se l’ambiente circostante è ipertonico,
questa può esssere sfruttata andando a introdurre variazioni proprio nell’ambiente.
17 Principio attivo del diuretico Lasics

171
Come funziona il sistema renina-angiotensina? Il primo grafico indica il rilascio della renina, il
secondo l’attività plasmatica della renina e il terzo il flusso renale. La renina viene liberata quando il
flusso ematico renale diminuisce, quindi quando cala la pressione (< 90mmHg): questo sistema dunque
non può da solo spiegare il feedback tubuloglomerulare in quanto agisce solo per cali pressori e non
per aumenti.

172
28 Lezione 5 [R]
Il sistema renina-angiotensina viene dunque attivato a fronte di una diminuzione della pressione
arteriosa.

Nel grafico sopra la curva blu è espressione della situazione fisiologica, curva rossa (cerchi) è invece ot-
tenuta somministrando un ACE-antagonista. L’antagonista impedisce la formazione dell’angiotensina
II e quindi in circolo rimane solo angiotensina I che non ha l’azione vasocostrittrice della II. In con-
dizioni fisiologiche dunque la GFR rimane costante anche a fronte di un calo di pressione arteriosa in
quanto agisce il sistema renina-angiotensina: nella curva con antagonista si nota invece che la GFR
inizia a diminuire per valori pressori al di sotto dei 100mmHg. L’inibitore del fattore ACE è tra i farmaci
più utilizzati per curare l’ipertensione.
L’angiotensina II si attiva dunque a fronte di un calo pressorio, come mai? Il feedback tubulo-
glomerulare è attivo sia per aumenti che per diminuzioni della pressione, ma il rilascio di renina si
verifica solo nel secondo caso. Qual è la sede di azione della angiotensina II? Si tratta del ramo efferente
del glomerulo. L’angiotensina II viene liberata quando diminuisce la pressione sistemica e quindi la
pressione di perfusione: l’apparato iuxta-glomerulare avverte questa diminuzione e quindi le cellule G
rilasciano renina, da cui inizia la cascata di attivazioni. Quali sono gli effetti di una vasocostrizione sul
versante efferente? L’effetto è un aumento della quantità di ultrafiltrato perchè in effetti aumenta la
GFR. Che succede nel dettaglio? Il plasma entra nel versante afferente, percorre il glomerulo ed esce.
Se sul versante afferente la pressione diminuisce devo aspettarmi una minore quantità di ultrafiltrato;
se nel frattempo viene costretto il ramo efferente le resistenze a valle per il plasma aumentano, quindi
rimane più a lungo all’interno della struttura filtrante. Questo stratagemma migliora la filtrazione: se
l’angiotensina II agisse anche sul sistema afferente non si otterrebbe un risultato degno di nota perchè
le resistenze si sommerebbero nel punto sbagliato.
Riassumendo il concetto per variazioni piccole di pressione si attiva il sistema miogeno (versante
afferente) e quindi un’attivazione del feedback glomerulo-tubulare mentre per variazioni maggiori si
affianca il meccanismo aggiuntivo della renina-angiotensina (versante efferente).
I meccanismi di autoregolazione lavorano in maniera locale e indipendente, ma il rene in realtà
ha una sua innervazione prevalentemente di natura simpatica. Le cellule G sono infatti raggiunte da
terminazioni nervose, qual è il loro ruolo? Esistono dei barocettori che quando vengono sollecitati
registrano le variazioni di pressione tramite una variazione della frequenza di scarica: questa viene ril-
evata e comunicata ai centri nervosi e le informazioni vengono sfruttate per modificare la funzionalità
cardiaca. Accanto alle variazioni di funzionalità cardiaca ci sono le variazioni sul sistema circolato-
rio, quindi sul calibro dei vasi; il simpatico genera effetti costrittivi tramite rilascio di noradrenalina.
L’azione vasocostrittrice del simpatico non è mirata come quella del sistema renina-angiotensina: la
noradrenalina ha azione costrittrice sia a livello afferente che efferente e quindi l’effetto finale è una
diminuzione del flusso ematico/plasmatico al rene. A cosa serve una riduzione del flusso ematico in
risposta ad una riduzione pressoria? La risposta parte dalla frazione di filtrazione: questa è un rap-
porto che può essere alto o basso indipendentemente dai flussi assoluti; l’indice di filtrazione mi dice
quanto lavora il rene in rapporto alla quantità di sangue che gli arriva. Cosa succede dunque a seguito

173
dell’azione del simpatico? Il flusso ematico diminuisce, quindi la GFR diminuisce. La vasocostrizione
agisce anche sul versante efferente quindi rallenta lo scorrimento del plasma: la quantità di filtrato
prodotta aumenta. Il risultato finale è che il numeratore per la frazione di filtrazione è si diminuito, ma
non di molto e quindi in realtà la frazione è quasi costante. Perchè tutto questo? Perchè se si verifica
un’emorragia si realizzano ipovolemia e quindi ipotensione: cervello e cuore devono però garantirsi la
loro quota ematica. La strategia è dunque mantenere una quota minima funzionale agli altri organi,
ma ridurla il più possibile. Al rene viene allora garantita una pressione minima di diuresi ma non di
più, in quanto la funzione renale in caso di emorragia non è poi fondamentale.
Riassunto dei meccanismi di regolazione
1. Effetto miogeno. Meccanismo sempre attivo che lavora entro le variazioni fisiologiche di pressione
sistemica; garantisce che nell’intervallo 90 − 150mmHg non ci siano variazioni nella GFR.

2. Feedback tubulo-glomerulare. Sistema rapido che agisce sul nefrone; può agire tramite il sistema
renina-angiotensina in caso di cali pressori o tramite la produzione di fattori vasoattivi. I fattori
vasoattivi possono essere sia dilatatori che costrittori.
3. Bilancio glomerulo-tubulare.
Tutti i meccanismi intrinseci modulano il KG mentre il simpatico ha effetti sulla variazione della
pressione ematica a livello renale grazie al controllo della muscolatura dei vasi.
Le alterazioni emodinamiche renali possono essere divise in fisiologiche, ad esempio indotte dalle
varie posture, o patologiche.Tutte le variazioni patologiche che portano ad una diminuzione del flus-
so plasmatico renale portano ad un’attivazione del simpatico che risponde rilasciando noradrenalina
e vasocostringendo il versante afferente e quello efferente. Nel frattempo la vasocostrizione attiva il
sistema renina-angiotensina-aldosterone: l’aldosterone opera a livello del dotto collettore e favorisce il
riassorbimento di sodio. Il risultato finale del sistema è una vasocostrizione maggiore nell’arteriola ef-
ferente, quindi un aumento della pressione glomerulare: diminuisce si la quantità di plasma nell’organo
ma ci sono minime variazioni della GFR.

Discutendo del flusso ematico e plasmatico nel rene si è detto che vengono prodotti 1 − 3mL di urina
al minuto: questo corrisponde a 1 − 1, 5L al giorno. Quali sono le condizioni che permettono questa
escrezione? Il plasma ultrafiltrato viene riassorbito per il 99%, come mai questa cifra? Alla base ci sono
gli elementi a livello dell’interstizio e delle anse di Henle.

174
I numeri nei disegni sono il valore di osmolalità18 tra la midollare interna dell’ansa di Henle e quella
esterna; più si va in profondità nella midollare più l’osmolalità aumenta fino a un picco di 1000 −
1200 milliosmoli. I valori sono uguali sia nell’interstizio che nel ramo discendente dell’ansa: nel ramo
ascendente c’è invece una costante differenza di 200 milliosmoli. Morfologicamente i due rami sono
diversi: il discendente è sottile, l’ascendente è invece molto spesso. In un epitelio sottile non ci possono
essere trasporti attivi, che invece sono molto presenti nell’epitelio spesso. Il ramo discendente inoltre è
permeabile all’acqua mentre quello ascendente è totalmente impermeabile.
Il plasma ha un’osmolalità da considerarsi arrotondata a 300 milliosmoli: la linea nella figura rapp-
resenta dunque i punti dove l’osmolalità è uguale a quella plasmatica. Dove nel ramo discendente c’è
un’osmolalità pari a quella plasmatica, trovo invece nel ramo ascendente un valore inferiore di 200
milliosmoli: in quel punto il liquido è diluito rispetto al plasma. Come mai l’osmolalità ha questo
andamento?
Prendiamo un tubo in cui scorre acqua a 30°C e forniamo una massa riscaldante che eroghi
100cal/min. Dopo un tempo X la temperatura dell’acqua arriverà fino a 40°C. Se si prende invece
di un tubo una serpentina, come un termosifone, e la si pone nelle stesse condizioni, il calore viene
trasferito in modo diverso:

La serpentina fa in modo che il calore in risalita con l’acqua nel tubo ascendente venga in parte trasferi-
to all’acqua nel tubo discendente: questo meccanismo prende il nome di moltiplicazione controcorrente
e può essere usato per spiegare i gradienti descritti nell’interstizio.
Invece di prendere una fonte di calore abbiamo un liquido che va progressivamente aumentando
la sua concentrazione, cioè aumenta la sua osmolalità. Partiamo con un tubo ad U riempito con un
liquido ad osmolalità 300 come il plasma; facendo scorrere questo liquido tra pareti che siano vicine
mi aspetto che, per il principio della moltiplicazione controccorente, parte delle osmoli si trasferiscano
dal ramo ascendente all’interstizio e dall’interstizio al tubo discendente. Il gradiente viene mantenuto
aggiungendo costantemente altro liquido in condizione isoosmotica con il plasma:
18 Osmolalità: numero di osmoli di soluto per chilogrammo di solvente. Osmole: quantità in grammi di soluto pari al peso

molecolare divisa per il numero di particelle cui il soluto da origine se posto in soluzione.

175
Come si mantiene questo gradiente? Il ramo discendente è costituito da epitelio sottile che lascia
transitare i soluti sulla base dell’equilibrio con l’interstizio: non fa altro che accumulare soluti finchè
non sarà in equilibrio e dunque avrà la stessa osmolalità. Il ramo ascendente ha invece epitelio spesso
dotato di meccanismi attivi in grado di trasferire soluti a prescindere dal valore interstiziale: per questo
ha un’osmolalità diversa rispetto all’interstizio19 . Per mantenere questo gradiente è necessario che
l’epitelio del ramo ascendente sia impermeabile all’acqua: i soluti vengono depositati nell’interstizio ma
l’acqua non può seguirli. Nelle anse vengono riassorbiti sodio e cloro, unici elementi in grado di creare
il gradiente; qual è la quantità di cloruro sodico liberamente circolante nelle anse? Si tratta di un terzo
del totale in quanto i rimanenti due terzi sono stati riassorbiti a livello del tubulo prossimale: questa
quantità è troppo piccola perchè il cloruro sodico sia l’unico responsabile delle differenze di osmolalità.
I valori di osmolalità partono da 300 e arrivano a 1200: i soluti sono concentrati quattro volte di più e
questo richiederebbe una quantità di cloruro sodico troppo elevata. L’elemento che spiega il gradiente
in realtà è un altro: l’urea.
19 Il valore di 200 osmoli di differenza è dovuto al numero di trasportatori.

176
Le sbobinature fanno cagare: questa è roba presa dal Berne-Levy.
Per capire il meccanismo di concentrazione delle urine bisogna fare due esempi: la produzione di urina
diluita e quella di urina concentrata. Nel primo caso i passaggi principali sono:
1. Il fluido tubulare entra nel ramo discendente in condizione di iso-osmolalità con il plasma in
quanto le porzioni precedenti del nefrone hanno sempre rispettato questo aspetto.

2. Il ramo discendente è molto permeabile all’acqua ma non ai soluti: l’acqua viene riassorbita
tramite AQP1 grazie al gradiente di concentrazione con l’interstizio midollare che è ricco in NaCl
ed urea.
3. Il ramo ascendente sottile è impermeabile all’acqua ma permeabile a NaCl: il cloruro viene
dunque riassorbito passivamente con il risultato che il volume del fluido non cambia ma la sua
concentrazione in sale diminuisce. A questo punto il fluido diventa meno concentrato rispetto
all’ambiente interstiziale.
4. Il ramo ascendente spesso è impermeabile ad acqua e urea ma permeabile a NaCl: questa porzione
riassorbe attivamente NaCl e diluisce ancor di più il fluido.

5. Il tubulo distale e la porzione corticale del dotto collettore assorbono attivamente NaCl ma, in
assenza di ADH, sono impermeabili all’acqua: l’osmolalità del fluido si riduce ancora.
6. Il dotto collettore midollare riassorbe NaCl ma, anche in assenza di ADH, è permeabile leggermente
sia all’acqua che all’urea: un piccolo volume di acqua viene dunque riassorbito e una piccola
quantità di urea entra.

7. L’urina prodotta in questo modo ha un’osmolarità fino a 50 milliosmoli per chilogrammo d’acqua:
in pratica è estremamente diluita.
Come si produce l’urina concentrata? I passi da 1 a 4 sono uguali, però il continuo riassorbimen-
to di NaCl è fondamentale: è questo che crea il gradiente osmotico per richiamare acqua nell’inter-
stizio. Il processo tramite il quale l’ansa di Henle genera il gradiente osmotico è detto moltiplicazione
controcorrente.
1. Come sopra
2. Come sopra
3. Come sopra

4. Come sopra
5. Il fluido che arriva al dotto collettore, a causa del riassorbimento di NaCl, è fortemente ipo-
osmotico rispetto al fluido interstiziale: si crea il gradiente. In presenza di ADH l’acqua diffonde
dal lume tubulare e l’osmolalità del fluido tubulare inizia a salire. In queste condizioni l’osmolalità
maggiore raggiungibile è la stessa del plasma, circa 300 milliosmoli. Considerando che NaCl viene
riassorbito parecchio nelle sezioni prcedenti del nefrone, questa molecola conta per una porzione
minore del solito per l’osmolalità totale del fluido tubulare: il testimone passa ora all’urea.
6. L’osmolalità del fluido interstiziale nella midollare aumenta progressivamente in senso verticale:
si passa dalle 300 milliosmoli del confine corticale/midollare alle 1200 milliosmoli della papilla
renale. Esiste dunque un gradiente costante lungo l’intero dotto collettore midollare: in presenza
di ADH l’osmolalità del fluido tubulare aumenta grazie al riassorbimento di acqua. La porzione
iniziale del dotto collettore è impermeabile all’urea e questa rimane dunque nel fluido tubulare: la
sua concentrazione tende ad aumentare.
7. L’urina prodotta quando ci sono alti livelli di ADH raggiunge osmolalità pari a 1200 milliosmoli e
in queste condizioni ha un volume giornaliero che può raggiungere un minimo di mezzo litro.

La chiave di interpretazione per la concentrazione delle urine è il fluido interstiziale della midollare.
In questa regione i principali soluti sono due: NaCl e urea, le cui concentrazioni sono difformi lungo
la midollare. Al confine tra corticale e midollare il fluido ha osmolalità 300 milliosmoli praticamente
tutte attribuibili ad NaCl; quando viene escreta l’urina più concentrata possibile, l’osmolalità del fluido
interstiziale raggiunge le 1200 milliosmoli, di cui 600 attribuibili all’urea. L’accumulo di NaCl nella
177 molecola durante la moltiplicazione controcor-
midollare è il risultato del riassorbimento di questa
rente; l’accumulo di urea è più complesso. L’urea è una sostanza di origine epatica riconducibile al
29 Lezione 6 [R]

La figura sopra riassume i concetti della lezione precedente: l’urina può essere escreta in tre con-
dizioni diverse rispetto al plasma. Nel primo caso l’urina ha la stessa osmolalità del plasma, cioè circa
300; nel secondo caso le stesse osmoli sono diluite in un volume d’acqua maggiore, quindi l’urina è
ipoosmotica rispetto al plasma: il grafico indica la quantità di acqua libera, cioè quella quantità di
acqua in più che giusitica la differenza di osmolalità rispetto al plasma. La quantità di acqua libera
viene indicata come CH2 O , cioè clearance dell’acqua; quando si parla di CH2 O pari a zero si parla di
urina isoosmotica, in quanto la quota libera d’acqua non esiste. Quando le osmoli vengono escrete
in un volume d’acqua superiore a quello necessario per i valori plasmatici di osmolalità l’organismo si
sta privando d’acqua: stiamo usando una quantità maggiore del previsto di acqua e quindi si avrà la
condizione in cui CH2 O > 0.
Definendo meglio il concetto di acqua libera si può partire da quello di clearance osmolare: la
clearance osmolare è il volume di plasma che contiene osmoli nella stessa quantità del plasma. La
clearance dell’acqua libera è dunque il volume di urine prodotte meno la quota della clearance osmolare:
Vurine ·Osmurine
COSM = Osmplasma CH2 O = Vurine − COSM

• La situazione più semplice è quando il flusso urinario è tale per cui le osmoli vengono allontanate
esattamente alla stessa concentrazione plasmatica: la clearance dell’acqua libera è zero in quanto
si ha CH2 O = 1 − 1 = 0.
• Quando la concentrazione delle osmoli nelle urine è maggiore di quella plasmatica la clearance
dell’acqua libera è minore di zero e avviene risparmio idrico. Il risparmio idrico viene definito
carico tubulare massimo e viene indicato con T c H2 O (T di C in H2 O).
• Quando la concentrazione delle osmoli nelle urine è inferiore a quella plasmatica la clearance
dell’acqua libera è maggiore di zero e si ha un’escrezione netta di acqua superiore a quella dei
soluti.
Esempi pratici. Se viene introdotta poca acqua nell’organismo il flusso urinario si riduce. Le osmoli
presenti nelle urine sono più concentrare rispetto al plasma di quattro o cinque volte: l’osmolalità
plasmatica è 300, si arriva a 1500. Il flusso urinario viene ridotto ad esempio a 0,5ml/min: il risultato
è che la clearance dell’acqua libera è
0, 5 · 1500
CH2 O = 0, 5 − = −2ml
300
Che significa -2ml? Significa che i soluti vengono escreti risparmiando 2ml di acqua al minuto. In una
situazione opposta, con un abbondante ingresso di acqua, l’osmolalità delle urine è piccola e il volume
grande.
Il rene ha dunque margini di correzione per venire incontro alle varie situazioni di idratazione che
può avere l’organismo. Sono due i percorsi che vengono seguiti per correggere le varie situazioni:

178
1. Giocare sulla clearance dell’acqua libera
2. Giocare sul riassorbimento di sodio
L’azione sull’acqua è svolta soprattutto grazie all’ADH che ne consente il riassorbimento agendo sul-
l’epitelio del dotto collettore rendendolo permeabile. Quando l’ADH non può essere sintetizzato o secreto
si ha diabete insipido. In caso di diabete insipido l’epitelio del dotto collettore rimane impermeabile,
l’acqua non viene riassorbita e quindi va persa: con questa patologia si perde circa il 30% dell’acqua in
arrivo al rene, quindi un flusso urinario di 10-20 litri al giorno.

L’ADH è fondamentale per la funzione renale: in sua assenza vengono prodotti 10-20 litri di urina
mentre se la sua presenza è troppa si può arrivare a non produrre urina affatto. Tra questi due estremi
c’è la situazione reale dell’organismo: l’elemento che permette un adeguato rilascio di ADH è l’osmolalità
plasmatica.

All’aumentare dell’osmolalità plasmatica si osserva un aumento della concentrazione di ADH: l ’anda-


mento è rettilineo con una retta che parte per osmolalità superiori alle 280 milliosmoli. Un secondo
rilevatore periferico è dato dal volume plasmatico o dalla pressione: il rilascio di ADH non dipende
dunque dalla sola osmolalità ma anche da variazioni volemiche o di pressione sistemica. All’atto prati-
co che succede? Se l’osmolalità aumenta vuol dire che sono aumentati i soluti rispetto al solvente:
aumento l’ADH in modo da trattenere l’acqua e diluire i fluidi corporei. Gli osmocettori più efficaci
per questo sistema sono localizzati in prossimità dell’ipotalamo, in particolare ai nuclei sopraottico e
paraventricolare, gli stessi che sintetizzano ADH.
Tre esempi pratici:

Parlando del contributo offerto dal rene alla regolazione osmolale vanno considerate le curve di
diuresi e natriuresi da pressione, cioè le curve sotto:

179
Questa curva rappresenta il meccanismo di regolazione a lungo termine della pressione sistemica. Un
sistema di regolazione rapido è rappresentato dai barocettori: lavorano nell’arco di secondi. Un sistema
a medio termine è quello dell’adattamento dei distretti splancnici: il rilascio di mediatori chimici è
protagonista della regolazione. I sistemi più lenti, che richiedono ore se non giorni sono quelli renali.
Quando la pressione sistemica è pari a 100mmHg la quantità di urina prodotta è di un litro o un litro
e mezzo: con una pressione di 120mmHg si raddoppia questo volume. La curva è di tipo esponenziale:
al salire della pressione sistemica il rene aumenta la diuresi. Quando la pressione sale, ad esempio
arrivando a 140mmHg, accade una serie di eventi: aumenta in primis la volemia e quindi viene diminuita
la produzione di ADH, aumentando l’escrezione di acqua. La riduzione pressioria per aumento della
diuresi richiederà però qualche giorno. La raffinatezza di questo sistema è pari al 100%: la via è
attiva fintanto che la pressione non ritorna al valore impostato; si tratta dell’unico sistema in grado di
raggiungere questa accuratezza, ma lo fa al prezzo di un lungo tempo per divenire efficace.
Come mai esistono diuresi e natriuresi legate alla pressione? Si è visto che il flusso renale è ampia-
mente controllato dai meccanismi di autoregolazione, quindi il rene non dovrebbe risentire della pres-
sione sistemica. La verità è che questo è valido solo per i nefroni corticali mentre i nefroni midollari
hanno un’autoregolazione molto meno efficiente: le variazioni sistemiche si ripercuotono dunque a
questo livello ed è questa la giustificazione a diuresi e natriuresi da pressione.

180
30 Lezione 7 [R]
Come funziona la secrezione di ADH? Il sollecitatore primo è la variazione di osmolalità che viene re-
cepita dagli osmocettori centrali. L’osmolalità del plasma normalmente è pari a circa 300 milliosmoli
(meglio 285-290): a questo valore l’ADH viene rilasciato e la concentrazione è la più elevata. In con-
dizioni di osmolalità normale dunque il sistema non è silente ma è già attivo. Il senso di avere un
sistema sempre attivo è il rendere la risposta più veloce possibile; quando viene introdotta una vari-
azione l’ADH viene immesso nel circolo ematico, deve raggiungere poi il dotto collettore, far sintetizzare
un secondo messaggero e rendere così possibile il recupero di acqua: tutto questo richiede tempo. Il
fatto di avere una secrezione tonica di ADH permette di minimizzare al massimo questi tempi in quanto
c’è sempre dell’ADH circolante. Esiste però una seconda motivazione la cui ragione va spiegata per
assurdo. Se il rilascio di ADH avvenisse a livello di 300 milliosmoli, quando viene introdotta la vari-
azione e viene fatto partire il segnale cosa potrebbe garantire che nel frattempo l’osmolalità non sia
variata ancora? L’effetto paradosso è che se io parto con una sollecitazione minima il tempo necessario
per correggerla rende probabile che nel frattempo questa variazione sia aumentata: la quantità di ADH
liberata a questo punto non sarebbe più sufficiente a correggere la situazione. Il meccanismo di rilascio
a livello osmolale fisiologico è dunque un meccanismo di sicurezza che tutela la regolazione in tempi
brevi.
Esistono altri stimoli per la secrezione di ADH che sono le variazioni volemiche: questo è possibile
perchè esistono rilevatori di variazioni di volume/pressione. Questi rilevatori possono essere di due
tipi:
• Recettori volemici a bassa pressione, localizzati dove la pressione è bassa
• Recettori volemici ad alta pressione, localizzati dove la pressione è alta (seno carotideo, arco
carotideo)
Entrambi i recettori inviano segnali all’ipotalamo. Qual è il sistema più efficace? Variazione osmolale o
pressioria/volumetrica? La risposta è in un grafico già visto:

Basta una variazione di osmolalità dell’ordine di 1-2% per attivare il sistema mentre per ottenere rispos-
ta dalla via pressoria è necessario introdurre variazioni del 15%: le variazioni osmolali sono dunque
molto più importanti e ogni volta che ne avviene una c’è da aspettarsi una risposta correttiva.
La lista completa dei fattori che agiscono sul rilascio di ADH in realtà è:
1. Osmolalità plasmatica

2. Volume/pressione sistemica
3. Temperatura (il freddo è diuretico, il caldo antidiuretico)
4. Uso di alcolici → diuresi

5. Uso di tabacco → antidiuresi


6. Uso di barbiturici →antidiuresi

181
La diuresi arriva all’apice a fronte di un’inibizione dell’attività ipotalamica come nel caso del diabete
insipido. In questa patologia l’escrezione urinaria arriva ad essere 10-20 litri al giorno, una quantità
legata alla quantità di osmoli eliminata con le urine. Solitamente con le urine vengono eliminate 600-
800 milliosmoli ma quando l’ADH non è presente l’unica via è eliminare alla stessa osmolalità del
plasma: la quantità d’acqua richiestaper farlo è tre volte tanta.
Come funziona ADH? Questa molecola si lega al suo recettore che, tramite una proteina G, attiva
l’adenilato ciclasi e quindi inizia a produrre cAMP. Il cAMP attiva le proteine cAMP-dipendenti le quali,
tra le altre cose, fosforilano le acquaporine consentendo all’acqua di passare. ADH è anche detto
vasopressina in quanto agisce sulla parete vascolare come vasocostrittore: questa attività sfrutta un
meccanismo diverso in quanto sfrutta un recettore diverso, il V1 a differenza del V2 del dotto collettore.
Il recettore V1 non attiva una adenilato ciclasi ma sfrutta come secondo messaggero il fosfatidil inositolo
che, per azione della fosfolipasi C, viene scisso in diacilglicerolo (DAG) e inositolo 3 fosfato (I3P). L’I3P
apre i canali al calcio del reticolo endoplasmatico facendo aumentare la concentrazione intracellulare
di calcio: questo ione viene catturato da proteine Ca-dipendenti oppure va a modificare la liberazione
di calcio sarcoplasmatico e quindi a modificare il calibro del vaso.
In generale comunque c’è un rapporto inverso tra osmolarità delle urine e flusso urinario, come mostra
il grafico sotto:

La sete è un utile indice della situazione in quanto azione che corregge l’uscita eccessiva di acqua.
Lo stimolo della sete è soggettivo ma i criteri fisiologici che ci stanno dietro sono generali. A livello
centrale infatti esistono popolazioni neuronali che, se stimolate, inducono la ricerca di acqua: se per
inverso queste popolazioni vengono inibite l’animale non cerca acqua anche se disidratato. La sete
può essere evocata dagli stessi rilevatori periferici che una volta attivati favoriscono il rilascio di ADH
oppure dall’angiotensina II. Il sistema di stimolo della sete nell’uomo non è comunque molto raffinato
in quanto il desiderio si spegne prima che siano stati soddisfatti i reali bisogni dell’organismo: basta
bere un bicchiere per non sentire più la sete anche se magari ne servirebbero dieci.

L’acqua non è però l’unica sostanza introdotta tutti i giorni: con la dieta si assumono costantemente
quantità varie di sodio. Se la dieta è ricca di sodio e quindi ne viene introdotto più di quanto ne viene
eliminato la ricaduta sull’organismo è l’aumento di peso.

182
Come mai succede questo? Il sodio viene filtrato, e il carico filtrato è dato dalla concentrazione del
plasma per la GFR:

180L · 145mEq/L = 26100mEq/L

145mEq = 9g

Nove grammi di sodio moltiplicati per la GFR danno 1620g al giorno in transito per il rene. A fronte di
una buona funzionalità renale e di una dieta corretta, al giorno viene escreto meno dell’1% di questa
quota, quindi circa 16g giornalieri.
Immagino ora che la quota escreta nelle urine sia tre volte maggiore: circa 780mEq o 48g al giorno;
a conti fatti vengono eliminati dunque 500mEq extra che vengono accompagnati da almeno 3,5L di
liquido in quanto ogni volta che viene eliminato sodio viene eliminata acqua. Come ottengo il dato dei
tre litri e mezzo?
500mEq
= 3, 45L
145mEq/L
Da dove provengono i liquidi extra? Dal liquido extracellulare. Quando dico che la quota escreta
varia a fronte di una variazione della quantità di sodio, la variazione è a carico del liquido extracellulare:
l’acqua non si prende dal liquido intracellulare, se non in situazioni estreme e pericolose.
Come mai dunque una variazione nel sodio induce una variazione nel peso? Non si tratta di vari-
azioni nella massa magra o grassa, ma nel deposito idrico: l’aumento di peso nella dieta ipersodica è
espressione dell’aumento dell’acqua trattenuta dal sodio.
La regolazione del liquido extracellulare passa dunque tramite la funzionalità renale e quindi tramite
la modulazione del riassorbimento di sodio. Quando si parla di liquido extracellulare si parla di liquido
che bagna l’interstizio, cioè il sangue (plasma). Non è possibile avere informazioni dirette riguardo al
liquido interstiziale, ma riguardo al solo sangue si: dal plasma dunque si possono ottenere moltissime
informazioni e infatti rappresenta l’aspetto tangibile dell’omeostasi operata dal rene.
Se l’attenzione si sposta sul sangue si deve ora parlare di euvolemia, cioè il volume plasmatico
normale. Il volume del liquido extracellulare è espressione id una condizione euvolemica. I meccanismi
che mantengono una simile condizione sono:
• Aldosterone

183
• Autoregolazione del rene (costanza della GFR)
• Bilancio glomerulo-tubulare
Questi meccanismi si attivano nell’ambito fisiologico: tutte le variazioni modeste fisiologiche vengono
riequilibrate con queste vie. Esistono però variazioni non fisiologiche in cui il rene da un contributo
molto diverso all’euvolemia.

La figura sopra parla di VCE, cioè volume circolante efficace: si tratta della frazione di volume in circolo
che perfonde i tessuti con una pressione di ambito fisiologico. Il VCE varia con le variazioni del liquido
extracellulare quindi si possono usare come concetti simili.
In condizioni normali l’escrezione di sodio è pari a circa l’1% (SX) mentre in condizioni non fisiologiche
si può arrivare anche al 6%: questo si ottiene grazie ad una riduzione della quantità di sodio assorbita
lungo il nefrone. Si nota ad esempio che nella porzione prossimale si passa dai due terzi del sodio al
50% e così via negli altri distretti. Che cosa può rendere ragione a questo? Se il liquido extracellulare
aumenta si ha un aumento di volemia, quindi un aumento di pressione sistemica e quindi un aumento
di GFR; se la GFR aumenta il bilancio glomerulo tubulare si riduce. In particolare l’aumento di GFR
provoca un aumento del carico filtrato (cioè aumenta il risultato di GF R · [N a+ ]plasmatica ). Il bilancio
glomerulo tubulare regola il riassorbimento di sodio sulla base delle condizioni emodinamiche dettate
dalle forze di Starling; se aumenta il carico filtrato si ha un aumento della pressione idrostatica nel
capillare in quanto c’è più fluido mentre la pressione oncotica non è cambiata in quanto le proteine
sono sempre quelle: la quantità di sodio riassorbita diminuisce perchè la forza che lo spingeva fuori dal
tubulo è diminuita.
Il dotto collettore non recupera sodio in base alle forze di Starling, ma ha un meccanismo aldos-
terone dipendente. L’aldosterone viene prodotto dal surrene: meno ce n’è in circolo e meno sodio verrà
riassorbito.

184
31 Lezione 8 [R]
Definizione da Internet di VCE (al solito non si capiva un cazzo): Il volume circolante efficace (VCE)
rappresenta la porzione del liquido extracellulare (LEC) che si trova nel distretto arterioso (circa 700
ml nell’uomo tipo di 70 kg). Dal punto di vista fisiologico esso determina la pressione di perfusione dei
barocettori del seno carotideo e dell’arteriola afferente al glomerulo.
Il VCE ha dei rilevatori soprattutto di tipo vascolare che lavorano con grandezze volumetriche. Questi
recettori sono suddivisibili in due classi:
• Recettori a bassa pressione: posti a livello atriale e polmonare
• Recettori ad alta pressione: posti a livello del seno carotideo e dell’arco aortico
Che succede quando queste strutture rilevano un aumento del VCE? Il rene adatta il riassorbimento del
sodio ma necessario un lavoro di tipo integrato, cioè è necessario l’aiuto di altri apparati. Un esempio
di integrazione è dato dalla risposta del cuore: quando l’atrio si dilata per un aumento del volume
ematico le cellule atriali producono il fattore natriuretico atriale, un polipeptide con effetti diuretici
e natriuretici. Questa molecola, unpeptide, raggiunge il cervello attraverso il circolo e raggiunge le
cellule dell’ipotalamo inibendo il rilascio di ADH: si tratta di un diuretico perchè inibisce il rilascio di
vasopressina. La funzione natriuretica è più complessa in quanto ci sono diverse strade. La prima
strada è il favorire la sintesi e la secrezione dell’urodilatina da parte delle cellule del mesangio e da
quelle tubulari più vicine alla papilla: questa sostanza non si trova mai in circolo ma solo nelle urine e
favorisce l’eliminazione di sodio in quanto aumenta la permeabilità dell’epitelio. Ricapitolando, il fattore
natriuretico atriale:
1. Inibisce il rilascio di ADH
2. Favorisce la sintesi dell’urodilatina
3. Inibisce l’attività dell’ACE e quindi inibisce la conversione dell’angiotensina II
4. Antagonizza il sistema renina-angiotensina
5. Antagonizza l’aldosterone
6. Aumenta la permeabilità di tessuti e vasi a livello del glomerulo
7. Vasodilata per effetto sulla muscolatura liscia
Grazie all’urodilatina dunque la GFR risulta molto aumentata. L’aumento di GFR modifica il bilancio
glomerulo-tubulare e, come visto nella lezione scorsa, la quota di sodio riassorbita diminuisce. Du-
rante l’aumento del volume circolante il sistema simpatico è depresso in quanto questo risponde alle
diminuzioni volemiche: esiste dunque un’inibizione dell’attività simpatica che, affiancata dall’azione
del fattore natriuretico atriale, porta ad un aumento della GFR.
Cosa succede invece se il sodio eliminato diminuisce? Tutte le sollecitazioni vengono invertite e la
GFR diminuisce:

185
Il sodio subisce un risparmio assoluto e non viene più escreto con le urine. In generale posso dire che
a fronte di una diminuzione volemica si ha una forte attivazione simpatica. L’attivazione s impatica ha
azione vasoattiva a livello glmerulare e la GFR diminuisce un po’ per mantenere la frazione di filtrazione.
Il sistema inoltre sollecita la via renina-angiotensina perchè a livello dell’apparato juxtaglomerulare
viene rilevata la variazione e si arriva a produrre angiotensina II che vasocostringe il versante efferente.
Se diminuisce il VCE gli atri non hanno sollecitazione quindi non si ha rilascio del fattore natriuretico
atriale e quindi l’aldosterone e il fattore ACE sono normalmente attivi. In queste condizioni dunque la
GFR cala moltissimo e l’aldosterone stimola il riassorbimento di sodio: il risultato finale è l’assenza di
sodio nelle urine.
Riassunto delle varie sostanze per azione biologica

La curva di diuresi/natriuresi da pressione vista qualche lezione fa ora ritorna di interesse:

Se aumenta la concentrazione di angiotensina II la curva si sposta? Questa sostanza è vasocostrittrice,

186
fa aumentare la pressione e quindi deve far spostare questa curva. Lo spostamento sarà verso destra:
il valore di riferimento 1ml/100mmHg in presenza di angiotensina II diventerà 1ml/120 − 140mmHg.

La linea retta rappresenta il valore di assunzione di acqua o di sodio: quando questa intercetta una
delle curve si ha il punto di equilibrio. Il punto di equilibrio corrisponde alla situazione in cui per
una certa quantità di sodio escreta ho una certa pressione. Entro ambiti fisiologici la curva normale è
quella rossa che è praticamente verticale in corrispondenza dei 100mmHg: questo significa che anche
per grande variazioni nella quantità di angiotensina II la pressione sistemica è più o meno costante. In
assenza di angiotensina II si ha diuresi a 80mmHg e in sua presenza 2,5 volte maggiore a 140mmHg.
Quando questo sistema di regolazione n on funziona vengono somministrati anti ipertensivi detti ACE
inibitori che inibiscono la formazione di angiotensina II e quindi eliminano la vasocostrizione.

L’attenzione è da spostarsi ora sul potassio, la cui situazione fisiologica è opposta a quella del
sodio: molto concentrato dentro (150mEqL) la cellula e raro fuori (5mEqL). La distribuzione di questo
ione è data da un contributo ormonale da parte di tre molecole: aldosterone, epinefrina ed insulina.
L’aldosterone è nella lista perchè governa la pompa sodio-potassio ATPasica. Queste tre sostanze
mantengono l’equilibrio, ma questo viene perturbato ad altre condizioni: lisi cellulare, esercizio fisico,
equilibri acido base e osmolarità plasmatica. La variazione dell’osmolarità plasmatica si ha quando si
sviluppa sudorazione profusa con cui si perdono liquidi (aumentando l’osmolarità): a fronte di una forte
sudorazione se non viene integrata acqua la pressione si riduce al punto da generare shocl ipovolemico
ipotensivo. L’organismo in questa condizione ruba acqua al compartimento intracellulare e le cellule si
raggrinziscono: la rimozione d’acqua fa concentrare il potassio all’interno della cellula con il risultato
che questo viene spinto ad uscire e la potassiemia aumenta.
Cosa comporta la variazione potassiemica? Se c’è troppo potassio in circolo questo esce con difficoltà
dal cuore e quindi si ha una difficoltà nella propagazione dell’impulso cardiaco: il tracciato ECG varia
molto con la potassiemia e si può arrivare a fibrillazione ventricolare.

187
Il potassio viene ultratiltrato e trattato nel nefrone. Nel tubulo prossimale viene riassorbito, come
gli altri soluti, per il 70% ma non sfrutta il sodio: il trasferimento di potassio è legato alla via paracel-
lulare. Una seconda sede di lavoro su questo ione è la porzione ascendente spessa dove si combina
con cloro e sodio per dare origine al cotrasporto elettricamente neutro: qui il potassio passa nell’inter-
stizio o nel versante luminale per bilanciare la situazione elettrica. Nella porzione distale il potassio
va incontro al meccanismo della secrezione: le cellule principali ne favoriscono la secrezione verso la
preurina. Il meccanismo di secrezione delle cellule principali è legato all’azione dell’aldosterone sulla
pompa Na-K ATPasica. La pompa da un lato porta fuori Na ma dall’altro accumula potassio che può
essere facilmente secreto in quanto maggiore è la concentrazione intracellulare maggiore sarà la facil-
ità di secrezione. Esiste un antagonista a questo sistema ed è la concentrazione degli idrogenioni, i
quali inibiscono la pompa e in generale la secrezione verso il versante luminale: tutte le volte che gli
idrogenioni luminali aumentano la secrezione del potassio diminuisce.
Il potassio nel tubulo distale non viene solo secreto ma anche riassorbito, e le cellule preposte a questo
riassorbimento sono le cellule intercalate. Queste cellule da un lato riassorbono potassio e dall’altro
secernono idrogenioni. Dato che il potassio viene introdotto con la dieta questo deve essere riassorbito
ed è il compito delle cellule intercalate: la loro attività è legata all’intake di potassio dietario. Le cellule
intercalate sono di due tipi: infossate e sporgenti. La differenza sta nella disponibilità dei canali: le
infossate hanno canali che favoriscono la secrezione di potassio emntre le sporgenti hanno canali che
favoriscono il riassorbimento di potassio e la secrezione di idrogenioni. Il fatto che ci sia un movimento
di idrogenioni implica che il riassorbimento del potassio sia legato al pH: il riassorbimento del potassio
dipende da quanti idrogenioni devono essere allontanati.

188
L’idrogenione è un elemento turbante per la cellula, il potassio invece no. Nelle cellule dove esiste sia
secrezione di potassio che di idrogenioni vincono questi ultimi: ogni volta che aumentano la secrezione
di potassio viene messa in secondo piano. Il pH può variare in due modi: produrre un’acidosi o
produrre un’alcalosi. In acidosi viene privilegiato l’allontanamento degli idrogenioni e quindi aumenta
il riassorbimento del potassio, in alcalosi succede il contrario. In generale in condizioni fisiologiche ci
si aspetta che il potassio eliminato con le urine sia circa 3, 5g o 100mM ol/L.

189
32 Lezione 9 [R]
Il pH ematico è la concentrazione di idrogenioni nel plasma; valori inferiori a 6,8 o superiori a 7,8 sono
incompatibili con la vita. L’intervallo ottimale di pH del plasma è 7,35-7,45 che corrisponde a 45nanoe-
quivalenti/litro: gli idrogenioni devono essere presenti in quantità molto piccole. Il pH viene mantenuto
costante attraverso i sistemi tampone che mitigano gli eventuali insulti acidi o basici: questi sistemi
sibasano sul carbonato, sul fosfato e su varie proteine. L’ambito principale per i sistemi tampone è
lo spazio extracellulare in quanto l’azione è più rapida rispetto a quella intracellulare. Collettivamente
questi sistemi tamponano circa la metà degli acidi prodotti e il 60-80% delle basi: il resto è gestito
internamente dalla cellula.
Il tampone carbonato è il più importante perchè è il più presente. L’efficacia del tampone dipende
dalla quantità e dal suo pK; il carbonato è presente in grandi quantità e il suo pK è la costante di
dissociazione a pH fisiologico. Il tampone carbonato è legato alla reazione di idratazione dell’anidride
carbonica che forma acido carbonico il quale poi si dissocia a ione carbonato e idrogenione:

CO2 + H2 O
H2 CO3
H + + HCO3−

Questa reazione ha una rapidità che dipende dalla presenza dell’enzima anidrasi carbonica: in sua
presenza è molto rapida, in assenza no. La reazione avrà una costante di equilibrio data da

[H + ][HCO3− ]
K=
[H2 CO3 ]

Facendo il logaritmo del valore di K si ottiene

[H2 CO3 ]
logK = log
[H + ][HCO3− ]

Quel che interessa è la concentrazione degli idrogenioni, quindi

[H2 CO3− ]
log[H + ] = logK + log
[HCO3− ]

da qui, poichè pH = −log[X] si ottiene

[HCO3 ]
pH = pK + log
[CO2 ]

Sostituire HCO3 con l’anidride carbonica è corretto perchè la quantità di quest’ultima è direttamente
legata a quella del primo, inoltre l’acido carbonico non è stabile e dissocia subito. L’anidride carbonica
è però un gas e questa quantità sarà espressa come pressione parziale. L’anidride carbonica ha un
fattore di solubilità α = 0.03, quindi l’equazione va riscritta come

[HCO3− ]
pH = pK + log
αPCO2

In questa equazione il pK vale 6.1, la concentrazione del bicarbonato è pari a 24 mEq/L e la PCO2 è 40:
24
pH = 6.1 + log = 7.401
40 · 0.03
Questa equazione prende il nome di equazione di Henderson-Hasselback e dice che il pH è vincolato a
7.4 da due f attori: la concentrazione di bicarbonato e la pressione parziale dell’anidride carbonica.

190
La condizione fisiologica è rappresentata dunque dalla terna 7.4 (pH), 40 (pressione parziale anidride
carbonica) e 24 (concentrazione bicarbonato)

Nel nostro organismo in rapporto all’alimentazione si ha sempre turbamento del rapporto acido base
in quanto gli alimenti originano sia acidi che basi. La degradazione degli acidi grassi e dei carboidrati
produce CO2 in quantità 15-20mMoli al giorno, mentre dalle proteine ne arriva una quantità maggiore,
fino a 100mMoli al giorno. I fosfati ingeriti contribuiscono con 30 millimoli e gli anioni organici con
60. Complessivamente il risultato è che ogni giorno vengono introdotte 100 + 30 − 60 = 70mM ol di acidi.
L’organismo deve allontanare questa quota acida grazie alla formazione di sali di sodio di acidi forti e
alla rimozione di carbonato: tutto questo è dato dal contributo renale.
Come si comporta il rene in questo ambito? La prima operazione è recuperare il carbonato cercando
di portarlo a una concentrazione di 24mEq/L che è detta riserva alcalina. Esistono due sedi di recupero
per il carbonato:
1. A livello del tubulo prossimale dove il carbonato si combina all’anidrasi carbonica a livello lumi-
nale, lega idrogenioni, si formano CO2 e acqua che entrano liberamente nella cellula. Acqua e
anidride si ricombinano nella cellula dove è ancora presente l’anidrasi: si forma acido carbonico
che dissocia in carbonato ed idrogenioni. La quantità assorbita in questo modo è circa l’80% del
totale ed è vincolata al bilancio glomerulo tubulare ma anche all’antiporto sodio-idrogenione che
fornisce l’H + necessario alla reazione.

2. A livello del tubulo distale. A questo livello non c’è quasi più sodio e la secrezioni di idrogenioni
non può più sfruttarlo: si ha ora lo sfruttamento delle cellule intercalate infossate che hanno un
trasportatore attivo secondario che agisce come antiporto per carbonato e idrogenione.

191
Cosa succederebbe se questa operazione non avvenisse? Il secondo intervento importante è quello dei
tamponi a livello renale. Il fosfato è un prodotto plasmatico filtrato che si trova sia in forma monobasica
che bibasicainrapporto 1:4. La forma bibasica lega facilmente idrogenioni e la pK è 6.8 a pH fisiologico.
Qual è la quantità del fosfato? Il fosfato viene filtrato e riassorbito: il riassorbimento avviene a Tm,
cioè viene recuperata una quantità fissa di fosfato. Il fosfato plasmatico è in parte legato alle proteine
e quindi non filtrabile e il rimanente viene riassorbito a Tm: questa parte non può tamponare gli idro-
genioni. Sostanzialmente il fosfato in forma bibasica è capace di catturare una quantità di idrogenioni
pari a 20-40mEq al giorno. L’allontanameno di acidi attraverso il tampone fosfato va sotto il nome di
formazione di acidi titolabili; titolazione di un acido significa misurare la quantità di base necessaria
ad ottenere un tamponamento. Nel tubulo distale gli idrogenioni secreti nel lume vengono catturati dal
fosfato con formazione di acido titolabile; questo processo porta ad un’acidificazione dell’urina in quan-
to la preurina subisce una riduzione del pH. Si parla di acido titolabile in quanto usando un pHmetro
che misura l’acidità delle urine è possibile poi aggiungere una quantità di NaOH per riportare il pH a
valore 7.4: la quantità necessaria sarà legata alla quantità di idrogenioni legati al tampone fosfato.
Nell’allontanare gli acidi normalmente prodotti dall’organismo esiste il contributo di un altro tam-
pone renale: il tampone ammoniaca-ione ammonio. Questo tampone lavora nel tubulo prossimale
perchè è qui che la degradazione della glutammina porta alla formazione di ammoniaca e carbonato.
L’ammoniaca diffonde liberamente nel lume ed è in grado di accettare idrogenioni con un pK che a pH
fisiologico è pari circa a 9. Il quantitativo di ammoniaca è elevato e questa molecola viene prodotta di-
rettamente a livello renale; quando accetta l’idrogenione la molecola diventa ione ammonio che non può
transitare liberamente nell’interstizio se non nel ramo ascendente spesso. Nel ramo ascendente spesso
un canale simile a quello che consente il cotrasporto elettricamente neutro è in grado di far muovere
lo ione ammonio. Nell’interstizio lo ione si dissocia formando ammoniaca e idrogenione: questi due
prodotti finiscono poi nel dotto collettore dove l’ammoniaca in particolare va in soccorso del tampone
fosfato catturando gli idrogenioni rimasti. L’ammoniaca nel dotto collettore cattura idrogenioni e quindi
torna a diventare ione ammonio che va incontro a salificazione (acido+base=sale+acqua) e questi sali
vengono eliminati con le urine.
Fisiologicamente le urine hanno un pH acido in quanto hanno la funzione di allontanare gli idro-
genioni. L’intervento dei sali di ammonio cattura gli idrogenioni in eccesso e questo tampone è quan-
titativamente molto presente in modo da mitigare variazioni di pH molto importanti. A fronte di un
terzo degli acidi che viene tamponato dal fosfato, i rimanenti due terzi vengono tamponati dal sistema
ammoniaca-ione ammonio.
L’equilibrio fisiologico può essere turbato da vari eventi. Le azioni di disturbo possono avere due
obiettivi: il carbonato e la CO2 . Le variazioni di carbonato sono quelle del pH, quindi di natura metabol-
ica, mentre le variazioni di CO2 sono di natura respiratoria. Tutte le volte che aumenta il carbonato o
diminuisce la CO2 si parla di alcalosi, tutte le volte che diminuisce il carbonato o aumenta la CO2 si
parla di acidosi.
A fronte di un’alterazione respiratoria, ad esempio un enfisema, la ventilazione sarà ridotta e quindi
la PCO2 aumenterà creando una condizione di acidosi, cioè una diminuzione del pH delle urine; come
reagisce il rene? A livello del capillare peritubulare viene portato sangue più ricco in CO2 che viene
idratata formando acido carbonico che dissocia in carbonato e idrogenione: il carbonato ritorna nel
capillare a formare la riserva alcalina mentre gli idrogenioni vengono catturati dai tamponi.

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