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Sonetto con rime incrociate nelle quartine e invertite nelle terzine, secondo lo schema ABBA,
ABBA, CDE, EDC. Questo schema metrico, che ricorre anche in altre rime della Vita nuova [G6b,
G13b] presenta una serrata omofonia tra le rime delle quartine (qui rafforzata dal fatto che le rime
in A e in B sono legate tra loro da consonanza). Nella prima terzina si succedono invece tre versi
privi di rima, la cui disposizione simmetrica risalta solo dopo la lettura della seconda terzina; tra le
due rime in C sono interposti ben quattro versi; l’effetto di rottura dell’omofonia è però temperato
all’assonanza tra le rime in C e in E che ricalca quasi, all’interno di ogni singola terzina, uno
schema di rima alternata.
Livello tematico
Il rapporto di complementarità con il precedente sonetto è assai forte anche sul piano tematico. Si
direbbe che, se nel sonetto Amore e ’l cor gentil sono una cosa il poeta ha voluto esprimere una
concezione razionale dell’amore, costruita sul modello della canzone dottrinaria di Guinizzelli ed
esclusivamente affidata alle categorie aristoteliche di potenza, atto e causa efficiente, in questo
sonetto egli intenda, pur senza rinunciare a queste categorie filosofiche, concentrarsi sulla
dimensione soprannaturale dell’azione della donna, capace di far nascere l’amore anche dove,
secondo la dottrina esposta nella canzone-manifesto di Guinizzelli, ciò sarebbe stato impossibile.
Un modello guinizzelliano è costituito ancora da Io voglio del ver la mia donna laudare [E2]).
Dante però – e si può qui ripetere quanto detto a proposito di Donne ch’avete intelletto d’amore
[G8b] – ha ormai approfondito la tematica della lode inquadrandola in un contesto di epifania sacra
che era estraneo al primo Guido.
Ne fa fede, tra l’altro, l’uso di un termine come «miracolo» (che compare qui per la prima volta
nella Vita nuova). Il «miracolo» consiste nella capacità, propria di Beatrice e di nessun’altra donna,
di creare le condizioni della “gentilezza” anche là dove esse non sussistano per natura. La figura di
Beatrice si presenta dunque (nella prospettiva del poeta e non più solo in quella del narratore) come
dotata di attributi che sono propri di Cristo e capace di compiere azioni “miracolose” nel preciso
senso che esse non sono spiegabili secondo leggi naturali. In questo contesto il poeta insiste, nella
seconda terzina, sull’ineffabilità degli effetti prodotti dal sorriso di Beatrice: essi non sono dicibili e
non possono neanche essere ricordati («mente», come del resto lo stesso Dante chiarisce nella
“divisione” del sonetto che non abbiamo riportato, ha il consueto significato tecnico di “memoria”).
Dante recupera qui temi più propriamente cavalcantiani (come l’ineffabilità della bellezza
femminile e l’incapacità della «mente» di comprenderla [E7]). Ma completamente diversi sono i
presupposti filosofici della lirica dantesca. Lo testimonia, tra l’altro, il nuovo significato che egli
conferisce a un termine quanto mai tradizionale della lirica amorosa come il «sospira» di v. 5, che
non è qui connesso con un generico turbamento da parte dell’amante, ma con la coscienza, che
nasce nell’animo del peccatore, della propria imperfezione spirituale. I materiali della lirica cortese
si fondono dunque con quelli della cultura cristiana, con i quali sono giunti a una sintesi organica
mai raggiunta dagli autori precedenti.