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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA


CORSO DI LAUREA IN

CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI

ATHYRMATA FENICIO-PUNICI:
LA DOCUMENTAZIONE DI SULCIS (CA)

Relatore Candidato
Dott.ssa Ida Oggiano Antonio Sechi

ANNO ACCADEMICO 2005-2006


Alla mia fidanzata
e
alla mia famiglia

Le foto dei reperti nel § 3 sono state eseguite dal Sig. Ugo Virdis presso i locali di
Sant’Antioco della Soprintendenza Archeologica per le province di Cagliari e Oristano.

-2-
INDICE
INDICE pagina 3
PREMESSA >> 5
1. INTRODUZIONE: SULCIS >> 7
1.1. Geografia, topografia e storia del sito >> 7
1.2. Storia delle ricerche >> 13
2. GLI ATHYRMATA DI SULCIS >> 19
2.1. Athyrmata della necropoli >> 19
2.2. Athyrmata del tophet >> 37
3. CATALOGO >> 53
3.1. Tomba 1 BLV PGM >> 53
3.2. Tomba 5 PGM >> 65
3.3. Tomba 6 PGM >> 71
3.4. Tomba 9 AR >> 82
3.5. Tomba 10 AR >> 94
3.6. Tomba 11 AR >> 98
4. ANALISI TIPOLOGICA >> 101
4.1. Gioielli >> 101
4.1.1. Bracciali >> 101
4.1.2. Elementi di collana >> 103
4.1.3. Pendenti >> 112
4.1.4. Orecchini >> 119
4.1.5.Anelli crinali >> 123
4.1.6. Anelli digitali >> 125
4.2. Amuleti >> 128
4.2.1. Amuleti a forma di mano >> 128
4.2.2. Serpenti urei >> 134
4.2.3. Occhi udjat >> 137
4.2.4. Ptah-pateci >> 141
4.2.5. Leone >> 149
4.3. Scarabei >> 150
-3-
4.3.1. Scarabei in faïence e steatite >> 154
4.3.2. Scarabei in pietra dura >> 159
4.4. Varia >> 169
5. ASPETTI DI USO, PRODUZIONE E SCAMBIO >> 177
5.1. Uso >> 177
5.1.1. Gioielli >> 177
5.1.2. Amuleti >> 182
5.1.3. Scarabei >> 195
5.1.4. I destinatari >> 207
5.2. Produzione >> 213
5.2.1. Osso o avorio >> 215
5.2.2. Pietra dura semipreziosa >> 218
5.2.3. Faïence e steatite >> 227
5.2.4. Vetro o pasta vitrea >> 236
5.2.5. Oro, argento e altri metalli >> 240
5.2.6. Altri materiali >> 247
5.3. Scambio >> 249
6. CONCLUSIONI >> 265
BIBLIOGRAFIA >> 275
Periodici >> 275
Collane >> 279
Atti di incontri e opere enciclopediche >> 280
Monografie e singoli contributi >> 283
Risorse web >> 315
APPENDICE >> 317
Grafico 1 >> 317
Grafico 2 >> 317
Grafico 3 >> 318

-4-
PREMESSA

Con il termine athyrmata si intendono quegli ornamenti ed oggetti di corredo


personale di piccole dimensioni che costituivano una componente importante del
corredo funerario dei defunti della civiltà fenicia e punica di Sardegna.
Scopo del presente lavoro è quello di analizzare nel dettaglio la documentazione
relativa al centro di Sulcis nell’isola di Sant’Antioco, uno dei più antichi insediamenti
della colonizzazione fenicia dell’Isola. Lo spunto per la presente ricerca è offerto dalla
disponibilità di materiale inedito rinvenuto in tre tombe di recente scoperta nella
necropoli di età punica1 e dalla necessità quindi di aggiornare lo stato della questione
posta in maniera preliminare nel 1991 da P. Bernardini2.
Il capitolo 1 avrà lo scopo di fornire una presentazione del sito nel suo contesto
geografico e storico (§ 1.1) e dello stato delle ricerche (§ 1.2) che con metodologia più
o meno scientifica lo hanno interessato dalla scoperta dei primi monumenti ad oggi.
Nel capitolo 2 verrà focalizzata l’attenzione sull’oggetto specifico della
presente ricerca. Gli athyrmata saranno infatti distinti in base al loro contesto di
rinvenimento in quelli provenienti dalla necropoli (§ 2.1) e quelli rinvenuti nel tophet
(§ 2.2).
Un ruolo fondamentale nel presente lavoro avranno i reperti inediti
sopramenzionati e quelli di altre tre tombe già oggetto di tesi di laurea, ma ancora
indisponibili alla comunità scientifica. A questi sarà dedicato un catalogo (§ 3) ed una
dettagliata analisi tipologica (§ 4) volta a riconoscerne i caratteri fondamentali e la
provenienza.
Lo studio dell’intera documentazione sulcitana si concretizzerà nel capitolo 5 in
cui saranno indagati quegli aspetti funzionali (§ 5.1), produttivi (§ 5.2) e commerciali
(§ 5.3) che meglio si adattano allo studio dei prodotti della cultura materiale di un
popolo, al quale rango sono da noi considerati gli athyrmata.
In un capitolo finale (§ 6) sarà offerta una sintesi conclusiva dei punti ora
descritti ed evidenziati eventuali spunti per una ricerca o approfondimento futuri.

1
Tombe 5 e 6 PGM, 1 PGM BLV. Colgo l’occasione per ringraziare il Dott. Paolo Bernardini per avermi
accordato la visione e lo studio dei materiali, e per gli spunti e i suggerimenti fornitimi nel corso della ricerca.
2
Bernardini 1991.
-5-
-6-
1. INTRODUZIONE: SULCIS

1.1. GEOGRAFIA, TOPOGRAFIA E STORIA DEL SITO


L’antico centro di Sulcis sorgeva sulla costa nord-orientale dell’Isola di Sant’Antioco,
dove ora sorge il moderno centro omonimo. Questa è l’isola più grande tra quelle che
gravitano intorno alla Sardegna con circa 108 km2 di superficie.
L’isola di Sant’Antioco è costituita prevalentemente da rocce vulcaniche
(trachiti e basalti) e pietre calcaree. Sostanzialmente collinosa raggiunge la sua
massima altitudine sul colle Perdas de Fogu a m. 273 nel settore centro-meridionale
dell’isola ed è legata alla sua costa sud-orientale da una striscia di terra, un istmo,
creatosi nei secoli, insieme allo stagno di Santa Caterina, dai depositi alluvionali del
Rio Palmas, che ha il suo delta nella costa sarda antistante l’isola. L’istmo, composto
da un piccolo arcipelago esteso per una lunghezza di circa 4 km da Sant’Antioco
all’isola madre, doveva essere percorribile quasi completamente tra fine del IV e prima
metà del III millennio, per la presenza lungo di esso di due menhir detti su Para e sa
Mongia3, ma costante nel tempo dovette essere l’opera dell’uomo ai fini della sua
integrazione e corretta viabilità, come testimoniato da un ponte di età romana
completamente restaurato e visibile e un canale forse fenicio. Quest’ultimo in antichità
consentiva di sicuro la comunicazione dei due porti naturali situati uno a nord e l’altro
a sud dell’istmo.
Il moderno centro di Sant’Antioco, popolato da circa 12.000 abitanti, copre una
striscia di costa in direzione nord-sud stretta tra il mare e l’altura del Monte de Cresia
(m 80 s.l.m.) e limitata a meridione dall’area industriale prossima all’innesto
dell’istmo con l’isola. Il centro storico è costituito dall’estremità settentrionale e sotto
di esso sussistono ancora lembi della necropoli punico-romana e dell’abitato. Della
prima si contano circa 1500 tombe a camera ipogeica, per cui si è calcolato che
quest’ultimo dovesse ospitare, seppur approssimativamente, nel periodo di maggior
espansione circa 9.000/10.000 abitanti4, ovvero quasi la popolazione odierna.

3
Trad. “il frate e la suora”: Santoni 1989, p. 64.
4
Bartoloni 1995, p. 4.

-7-
Nell’altura a nord nota col nome di Guardia de is pingiadas, in un’area scarsamente
edificata, è collocato il tophet: il santuario extraurbano fenicio che limita l’estensione a
nord dell’abitato antico. La città era verosimilmente corredata di due porti: uno
settentrionale sulla costa a stretto contatto con l’abitato, quello meridionale in una
vasta insenatura a sud dell’istmo protetta dal molo naturale di Punta de s’aliga5.
Nonostante la regione del Sulcis offra consistenti testimonianze di tempi
anteriori6, l’occupazione dell’isola da parte di genti autoctone, testimoniata da
monumenti e resti archeologici di varia natura, non risale oltre la fine del III millennio
ed ha inizio solamente con il Neolitico finale7. I resti più antichi della presenza umana
nell’isola, ascrivibili alla cultura di San Michele di Ozieri (3300-2480 ca. a.C.), sono i
complessi archeologici costituiti dagli scavi urbani del cronicario di Sant’Antioco, dal
quale provengono ceramiche e ossidiane8, dall’insediamento abitativo della piana di
Cannai nel sud dell’isola9. Resti monumentali del culto di questa fase preistorica sono
invece i due menhir sopra menzionati10, mentre a quella funeraria appartengono le due
grotticelle de Is Pruinis, sul versante orientale dell’isola a sud di Sant’Antioco,
riferibili ad un altro abitato non ancora individuato11. Alla successiva cultura
calcolitica di Monte Claro (2480-1855) appartengono resti ceramici rinvenuti presso
un nuraghe “a corridoio” in località Gruttiacqua12, presso il quale sono due circoli
megalitici di dubbia attribuzione alla medesimo orizzonte culturale13. Alla sfera
funeraria appartengono invece le c.d. domus de janas di Serra Nuarxis situate sempre
all’interno dell’estremità meridionale dell’isola14.
Decisamente più cospicua è la documentazione archeologica relativa all’età del
Bronzo, quando anche nel resto della Sardegna fiorisce la civiltà dei Nuraghi. Diversi
infatti sono i nuraghi, fortezze realizzate in grossi massi squadrati e dalla

5
Moscati 1982, p. 348; Moscati 1986a, p. 242.
6
Tronchetti 1988, p. 7.
7
Per la datazione delle culture protostoriche si fa riferimento al testo di G. Lilliu: Lilliu 2003, pp. 9-17.
8
Santoni 1989, pp. 67-68; Marras V. 1996, p. 87, bibliografia a nota 5.
9
Santoni 1989, pp. 68-73; Marras V. 1996, p. 87, bibliografia a nota 4.
10
Santoni 1989, pp. 63-64; Marras V. 1996, p. 87, bibliografia a nota 6; Lilliu 2003, pp. 98-99.
11
Santoni 1989, pp. 65-67; v. Marras V. 1996, p. 87, bibliografia a nota 7.
12
Marras V. 1996, p. 87.
13
Santoni 1989, p. 65.
14
Marras V. !996, pp. 87-88, tav. II.

-8-
composizione semplice o complessa, concentrati come le altre testimonianze di età
preistorica nel sud dell’isola15.
Costituisce elemento di raccordo con la successiva fase fenicia di Sant’Antioco
il fondo di una capanna rinvenuto lungo le pendici del colle di castello, nel luogo
successivamente occupato dalla necropoli punica, ed i cui materiali di superficie
indicano una datazione al Bronzo Finale (fine XII – inizi IX secolo)16.

La frequentazione delle coste ad opera di micenei e ciprioti negli ultimi secoli del II
millennio ha come effetto archeologico una dispersione di materiale, principalmente
ceramico, che individua la valle del Campidano come asse preferenziale17. Da questa
diffusione appare al momento escluso l’intero Sulcis-Iglesiente, nonostante le sue
miniere siano da ritenere uno dei motivi delle presenze lungo la costa occidentale del
Golfo di Cagliari18. L’isola di Sant’Antioco non fa eccezione e rimane in silenzio
anche in relazione alla successiva fase della c.d. precolonizzazione fenicia, mentre la
frequentazione delle coste della regione sulcitana è postulata a spiegazione della
presenza di materiali in bronzo tra IX e VIII secolo nei siti periferici di Antas, Santadi
(grotta Pirosu – Su Benatzu) e Bithia19.
In Sardegna la presenza di genti orientali, e fenicie nella fattispecie, è
testimoniata esemplarmente dal contesto di Sant’Imbenia20, un villaggio nuragico sulla
costa nord-occidentale della Sardegna, che presente tracce di residenti fenici dai livelli
di fine IX - prima metà dell’VIII secolo21, ma è solo con il limite inferiore di questo
periodo che si traduce nella creazione di insediamenti urbani stabili. Ed è proprio nel
Sulcis ed a Sant’Antioco che ne cogliamo la presenza grazie alla ceramica rinvenuta
nel tophet e negli strati più antichi dell’abitato nell’area del cronicario. Di poco più

15
Marras V. 1996, p. 107, tav. I, lo studio dell’autrice è limitato al solo comune di Sant’Antioco, uno dei due
dell’isola omonima, ma occupante i due terzi circa della porzione sud-orientale della stessa. Nel comune di
Calasetta questi tipi di resti comunque non mancano e pongono il problema della carenza documentaria nel
comprensorio della città di Sant’Antioco, che si spiega più facilmente con una minore evidenza dovuta alla
più intensa frequentazione nei secoli e millenni successivi.
16
Santoni 1989, pp. 76-77.
17
Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, pp. 7-9.
18
Ibidem.
19
Ib., pp. 10-13.
20
Ib., pp. 17-18.
21
Sulla ceramica di Sant’Imbenia v. Oggiano 2000.

-9-
antiche le tracce della necropoli ad incinerazione di San Giorgio di Portoscuso, il cui
abitato non è stato ancora individuato, che era in uso gia dalla metà del secolo,
collocata nella terraferma antistante l’isola di Sant’Antioco.
Il cronicario, che conserva gli unici strati archeologici abitativi arcaici finora
messi in luce del nostro centro, ha fornito associazioni di ceramiche locali e fenicie per
le fasi più antiche22. Ciò, in conformità con quanto emerso in altre parti dell’isola,
esclude che l’incontro delle due popolazioni sia stato conflittuale. I sardi in sostanza
dovettero integrarsi pacificamente all’interno della nuova comunità di Sulcis.
Sin dai primi momenti di vita della Sulcis fenicia compare il tophet, un’area
sacra extra-urbana a cielo aperto destinata alla operazione di rituali di varia natura, tra
i quali sacrifici animali e arsioni di bambini morti in età perinatale23. L’importanza del
santuario nel tessuto cittadino, nel nostro caso sopra un’altura a Nord dell’abitato,
risulta evidente anche da quanto rilevato negli altri centri fenici e punici occidentali.
Esso risorge sempre sullo stesso luogo a discapito del passare dei secoli24 e indica
l’importanza ricoperta dal centro sulcitano sin dal momento della sua fondazione.
La ceramica proveniente dai contesti noti e scavati a Sant’Antioco indica una
partecipazione ai traffici commerciali che interessavano anche le coste tirreniche della
penisola italiana, con quelle del Nord Africa e della Andalusia ed esprimono il clima
di benessere e ricchezza che dovette perdurare nel centro per oltre due secoli25. Già
intorno alla seconda metà dell’VIII secolo viene fondato sulla costa antistante l’isola di
Sant’Antioco, ma in posizione più elevata, un altro centro fenicio, Monte Sirai,
ritenuto un’emanazione sulla terra ferma del nostro centro26, e le cui espressioni della
cultura materiale tradiscono una continua ispirazione a quella sulcitana27.
La seconda metà del VI secolo è un periodo cruciale per il determinarsi degli
equilibri delle potenze del mediterraneo e in Sardegna vede l’avviarsi della politica di
conquista da parte di Cartagine, prima “una delle tante” colonie fenicie nel

22
Tra queste anche le caratteristiche pentole e i vasi bolli latte di tradizione nuragica del Bronzo Finale
provenienti dal tophet: Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, p. 53.
23
Sul tophet v. il fondamentale contribuito Ribichini 1987a; sui problemi della funzione recentemente
riconsiderati v. Bernardini 2006.
24
Bartoloni 1989, p. 75.
25
Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, p. 53.
26
Ibidem, p. 54, sebbene espresso con qualche dubbio.
27
Moscati 1986a, p. 273-282; Moscati 1996b.

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mediterraneo, ora una superpotenza militare in continua espansione. Intorno al 540
a.C. si combatte la battaglia di Alalia o “del Mare Sardonio”, che sebbene dall’esito
incerto contribuisce a fissare i limiti del controllo etrusco-cartaginese nel mare Tirreno
contro l’intraprendenza greca focese28, mentre in Sardegna il decennio 545-535 a.C. è
interessato dalle campagne di Malco che, subita la sconfitta per mano della resistenza
delle colonie fenicie di Sardegna, abbandona il campo. A questa spedizione seguirà
l’intervento dei figli di Magone, Asdrubale e Amilcare, negli anni 525-510 e che si
concluderà con la conquista dell’isola e l’integrazione forzata di essa nei territori
controllati da Cartagine29. La resistenza operata dai fenici fu pagata duramente da
centri come quello di Cuccureddus di Villasimius e Monte Sirai, che mostrano evidenti
tracce di distruzione, e con la recessione economica, cui segue in certi casi
l’abbandono, dai centri di Sulcis, Bithia e Santa Maria di Villaputzu30. Diversamente
dovette andare per quelli che avrebbero assicurato fedeltà ai conquistatori come
Tharros e Caralis, le cui necropoli forniscono l’evidenza di un periodo particolarmente
florido sin dai primi anni del V secolo31. Benché poche siano le tombe edite
esaustivamente32, la necropoli di Sulcis offre un quadro più povero di materiali rispetto
a quello dei due centri sopra menzionati e ciò, lo si vedrà più avanti, avrà un ricadere
nella documentazione relativa agli ornamenti personali. La ragione di questa crisi può
essere stata inoltre la non disponibilità di un vasto entroterra da destinare alle culture
cerealicole, che invece caratterizzava i due centri del basso e alto Campidano.
L’agricoltura e lo sfruttamento delle risorse minerarie erano comunque gli interessi
primari della presenza cartaginese in Sardegna, per il secondo dei quali Sulcis nella
fase precedente doveva svolgere un ruolo primario nel convoglio dei metalli estratti
dal bacino dell’Iglesiente, principalmente argento e piombo.
La conquista ha come conseguenza la deportazione dal Nord Africa di masse di
coloni allo scopo di popolare i territori appena conquistati, il che ha i suoi risultati più

28
Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, pp. 67-69.
29
Ibidem, pp. 70-72.
30
Ib., p. 71.
31
Sulcis 1989, p. 17.
32
V. § 1.2.

- 11 -
visibili nel cambiamento del rito funerario e nella cultura materiale33. Mentre nelle
città fenicie di Sardegna il rito praticato nella fase fenicia era prevalentemente
l’incinerazione, dalla fine del VI secolo in poi appare diffuso quello dell’inumazione
entro camera ipogeica34.
I segni della ripresa per il nostro centro iniziano a comparire nell’ultima fase
punica della Sardegna con gli inizi del IV secolo35, ciò nonostante si abbia notizia che
nel 379 fossero scoppiati in Sardegna e nelle province nordafricane moti insurrezionali
in seguito ad una pestilenza che colpì Cartagine36. A questa data si attribuisce la
costruzione della cortina muraria che cinge l’abitato dell’antica Sulcis al pari di altri
centri punici dell’isola37.
Il secolo e mezzo che segue vede nel mediterraneo centrale la crescita delle
grandi potenze romana e cartaginese. Le ostilità prendono forma apertamente
conflittuale nel 264 con l’inizio della I Guerra Punica in Sicilia e presto anche nelle
acque sarde. Nel 258 nel golfo di Palmas, porto meridionale di Sulcis, la flotta romana
al comando di Sulpicio Patercolo sconfiggeva quella cartaginese, composta di “Punici
e Sardi”, ivi stanziata e comandata dall’ammiraglio Annibale. La sconfitta costò la vita
all’ammiraglio cartaginese che fu punito dai suoi con la crocifissione entro le mura di
Sulcis38.
Tutta la Sardegna cadrà nel 238 sotto il dominio di Roma a seguito della
repressione dei moti dei mercenari punici qui stanziati: la civiltà dei cartaginesi
nell’isola si avvia ormai alla conclusione.
Sotto il dominio romano Sulcis ritrova splendore ma non prima del 47 d.C.,
quando appoggia Pompeo nella lotta con Cesare negli ultimi giorni della Repubblica,
ospitando nel porto una flotta pompeiana al comando di L. Nasidio, rifornendola di
truppe, e assicurando spedizioni di armi e metalli al pompeiano Q. Cecilio Metello Pio
Scipione. In seguito alla vittoria l’anno seguente Cesare trovandosi a Caralis punì i

33
Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, pp. 71-72.
34
Per primo v. Bartoloni 1981.
35
Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, p. 76.
36
Diodoro, Biblioteca Storica, XV, 24, 2
37
Sulcis 1989, p. 18.
38
Zonara VIII, 12, P. I 389, cit. in Sulcis 1989, p. 19; cit. anche in Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, p. 100.

- 12 -
Sulcitani con una multa di 100.000 sesterzi, la consegna di un’ottava parte del grano
invece della consueta decima e la vendita dei beni di alcune famiglie39.
Nel corso del I secolo d.C. Sulcis sarà elevata al rango di municipium, e forse
più precisamente sotto l’imperatore Claudio (41-54 d.C.), che nella regione disponeva
di numerosi possedimenti e sotto il cui regno furono eseguiti i numerosi ritratti della
famiglia Giulio-Claudia rinvenuti a Sant’Antioco40.
In questo periodo l’isola di Sant’Antioco era nota col nome di Plumbea41, non
per la presenza di risorse al suo interno quanto per la lavorazione del metallo che qui
avveniva allo scopo di estrarne l’argento. La vocazione commerciale del centro è
anche e ancora dimostrata dalle fonti archeologiche che iscrivono Sulcis negli stretti
contatti che intercorrono tra la Sardegna e le altre province romane del Nord Africa42.
In data non precisata si stabilisce un nucleo di popolazione di stirpe ebraica che pratica
i suoi culti nelle catacombe ricavate dall’adattamento di precedenti ipogei punici, ora
sotto le fondamenta della basilica di Sant’Antioco43. Nel II secolo d.C. è da porre poi
l’arrivo del santo che darà il moderno nome all’isola e che troverà la morte nel 125,
secondo la tradizione, prima dell’arresto da parte delle autorità romane44.

1.2. STORIA DELLE RICERCHE


La prima menzione di antichità e monumenti a Sant’Antioco si deve all’opera dei G.F.
Fara intitolata “Geografia della Sardegna” ed edita intorno al 158045, in cui si
descrivono resti di edifici, fortificazioni ed il ponte edificato con grossi macigni. Ma
bisognerà attendere il XIX secolo per un interesse più scientificamente attendibile.
Nel Dizionario Geografico dei comuni della Sardegna edito a cura di G. Casalis
tra il 1833 e il 1856 è descritto il borgo di Sant’Antioco allora (1849) popolato da circa

39
Bellum Africanum 98, 2; Sulcis 1989, pp. 19-20; Tronchetti 1989, pp. 12-13.
40
Tronchetti 1989, p. 13.
41
Tolomeo, Geografia III, 3, 8.
42
Tronchetti 1989, p. 15.
43
Ibidem.
44
Ib.
45
Fara G.F., a cura di Secchi P., (1972). Geografia della Sardegna. Quattromori, Sassari, cit. in Sulcis 1989, p.
21; si menziona anche la più recente Farae I.F., a cura di Cadoni E., (1992). In Sardiniae Chorographiam.
Gallizzi, Sassari.

- 13 -
2900 abitanti46. La parte più umile di questi, circa 500 individui, abitava gli ipogei
punici, dei quali allora ne erano noti circa 16047, ed era nota come gruttaius. Nel testo
sono inoltre menzionati seppur brevemente anche altri monumenti al tempo visibili48.
Il viaggiatore Alberto Ferrero Della Marmora in visita in Sardegna nella prima
metà del XIX secolo è l’autore di una prima edizione ragionata delle antichità
sulcitane49, ma è all’opera antiquaria del canonico G. Spano che dobbiamo la più
completa descrizione di Sulcis del secolo riportata sulle pagine del suo Bollettino
Archeologico Sardo tra il 1856 e il 185750. Trattando dei monumenti individuava per
la precisione tre necropoli, attribuendole a tre diverse “nazioni”: quella egiziana,
quella cartaginese e la romana51. Tenuta presente la conoscenza della civiltà fenicia e
di quella egizia che il canonico mostrava di possedere, e che era piena espressione del
suo secolo52, la prima delle tre è sicuramente da individuare nel tophet posto sull’altura
nota come Guardia de is pingiadas53. Lo Spano ne attribuiva la paternità agli egizi a
causa delle numerose stele che in quel periodo si raccolsero, ed in cui erano
rappresentati “a basso rilievo ora Iside, ora Osiride, ora una vacca, un obelisco, un
montone”54, ma sicuramente non per la presenza di amuleti o scarabei egiziani o
egittizzanti, i quali il canonico ben mostrava di conoscere perché rinvenuti in grande
quantità dagli scavi contemporaneamente condotti a Tharros, e che per diverse
circostanze non gli capitò di incontrare a Sulcis55. Quanto alle altre due necropoli,
quella cartaginese era individuata sulla base dell’analogia tra le sue tombe e quelle di
Tharros e Caralis56 e quella romana, situata sul versante occidentale del villaggio
dietro la basilica di Sant’Antioco, per la presenza di colombari paragonabili a quelli

46
Dizionario Angius/Casalis, vol. 14, p. 223.
47
Ibidem, p. 225. La necropoli è più esaustivamente descritta in ib., vol. 7, pp. 84-85.
48
Sulcis 1989, p. 21.
49
Ferrero Della Marmora A., (1826-1828, seconda edizione 1840). Voyage en Sardaigne ou description
statistique, physique et politique de cette île. Parigi, cit. in Sulcis 1989, p. 21. Si veda anche la traduzione in
italiano: Della Marmora A., (1927). Viaggio in Sardegna. Fondazione il Nuraghe, Cagliari.
50
Spano 1856-1857.
51
Ibidem, p. 54.
52
Si veda al riguardo Scandone Matthiae 1991.
53
Trad. “vedetta delle pentole”, in chiaro riferimento alle urne cinerarie.
54
Spano 1856-1857, p. 54.
55
Ibidem, nota 1; altrove e più tardi ancora lo Spano indica come “in nessun altro sito dell’Isola si è potuto
scoprire uno scarabeo, non ostante le molte ricerche che si sono fatte”: Spano G., (1861). Notizie sull’antica
città di Tharros. In BAS vol. 7, pp. 193, 195, nota 1, cit. in Scandone Matthiae 1991, p. 385.
56
Spano 1856-1857, p. 54.

- 14 -
cagliaritani. Anche questi tuttavia dovranno essere identificati con le camere ipogeiche
di età punica, adattati successivamente a catacombe, per i motivi stessi riportati dallo
Spano: la loro frequentazione moderna da parte dei gruttaius, il rinvenimento
all’interno di elementi di
armatura e le tracce di
pittura rossa57.
Ai fini del presente
lavoro ricopre un
particolare interesse la
menzione, da parte dello
studioso, della grande
Figura 1. Sigilli da Sulcis (Della Marmora 1868, p. 122, nota 1). quantità di oggetti d’oro e
sigilli che al tempo erano
già conservati nei locali del R. Museo di Cagliari58, che venivano ancora indossati
dalle donne della moderna città o rinvenuti casualmente dai contadini e poi venduti a
stranieri59. La descrizione da un’idea della quantità di ornamenti inediti e scomparsi
che dovevano essere indossati dagli abitanti dell’antica Sulcis, tuttavia non è possibile
attribuire ad età punica almeno la gran parte di questi oggetti, e per la capacità già
menzionata dello Spano di scorgere l’elemento egizio che caratterizza i sigilli e gli
ornamenti punici, e per la stessa interpretazione grafica che egli stesso fornisce di
alcuni di questi, i quali agevolmente possono essere attribuiti al periodo romano
(fig. 1).
Dopo quasi mezzo secolo di interruzione della ricerca archeologica a
Sant’Antioco Antonio Taramelli, direttore della Soprintendenza di Cagliari dal 1903 al
1934, redisse in quasi vent’anni una serie di contributi editi principalmente nelle
Notizie degli Scavi di Antichità della Regia Accademia dei Lincei60. In essi traspare
l’interesse nei confronti della tutela dei monumenti ed un atteggiamento non

57
Ibidem, p. 55, nota 1, invero queste ultime possono essere attribuite ad età posteriore. Per i gambali e gli elmi
di Sulcis v. Fenici 1988, pp. 133-134, datati al VI sec.; in generale sui riti funerari romani a Sulcis v.
Tronchetti 1989a, pp. 81-83, e sulle catacombe: pp. 85-87.
58
Ora Museo Archeologico Nazionale.
59
Spano 1856-1857, pp. 52-53, nota 2.
60
Moscati 1977a, p. 13; Sulcis 1989, p. 21.

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esclusivamente antiquario61. In particolare nel contributo in cui presentava la notizia
dello scavo di due tombe ipogeiche di età punica, ma riutilizzate in epoca romana,
avvenuto nel tratto iniziale di Via Castello nel luglio 1906, deprecava la mancanza di
dati su cui ricostruire la topografia dell’antica città, mancanza ancora superiore a
quella disponibile cinquant’anni prima per “l’incremento edilizio” che nel frattempo
era intercorso62. Stupisce inoltre il fatto che si fosse persa l’esatta localizzazione del
tophet63, non ancora identificato come tale, ma come il luogo di provenienza delle
stele, per la quale peraltro lo Spano nel passo sopra ricordato non forniva più precise
informazioni.
Un altro fatto degno di nota è il rapporto di collaborazione con l’autorità locale,
nella persona dell’allora sindaco Giuseppe Biggio, che si tradusse nei fatti in una
strenua attività di tutela e nella costituzione di una raccolta di oggetti, recuperati in
circostanze casuali, che avrebbe dovuto costituire una collezione comunale64.
L’antica Sulcis destò l’interesse anche dei successivi Soprintendenti e ispettori
che si susseguirono nella tutela dei beni archeologici come P. Mingazzini65, S. Puglisi,
al quale si deve lo scavo di tre tombe ipogeiche in Via Belvedere66, e G. Lilliu, cui si
deve il primo studio sulle stele del tophet67, allora ancora dimenticato68.
Il 1954 è la data dell’avvio di ricerche sistematiche a Sant’Antioco ad opera
dell’allora soprintendente G. Pesce al quale si deve la riscoperta del tophet nel 1959 e
lo scavo di un lembo della necropoli punica69, la scoperta durante il suo mandato
dell’acropoli di Monte Sirai (1962), nonché l’avvio delle campagne di scavo in quel
sito70.

61
Ibidem.
62
Taramelli 1908, p. 146.
63
Ibidem, p. 147: “Le tombe a fossa, sormontate dalle stele, dovevano estendersi presso la chiesa parrocchiale;
ma sulla precisa posizione loro come sul luogo dove furono rinvenute […] non abbiamo esatta notizia”.
64
Ib., pp. 152, 155. Sull’attività della famiglia Biggio e sul rapporto con il Taramelli v. anche Moscati 1977a.
65
Mingazzini 1948a, in merito ai resti di un area sacra sopra la collina di Castello; Mingazzini 1948b, in cui
riferisce alcune osservazioni sui rituali funerari emersi dagli scavi del Puglisi.
66
Puglisi 1942b.
67
Lilliu G., (1944). Le stele puniche di Sulcis (Cagliari). ANL Memorie 40, pp. 293-418.
68
Sulcis 1989, p. 22.
69
Ibidem. Per alcune notizie sui primi scavi del tophet v. Pesce 1961, pp. 118-121, in cui fa una breve menzione
ad “amuleti, altri oggettini e cianfrusaglie varie” rinvenuti nella setacciatura del terreno: p. 120; Pesce 1963;
per le tombe v. invece Pesce 1961, p. 160, figg. 44-45, 51-53; vedi anche la voce “Sulcis” in EAA, vol. 7, pp.
551-553, a cura dello stesso Pesce.
70
Zucca 2000.

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Dal 1967 il nuovo soprintendente F. Barreca prosegue gli scavi del tophet e
della necropoli, stringendo un’attiva collaborazione con S. Moscati ed il suo staff che
cura l’edizione di tutte le stele del tophet71, delle collezioni private Don Tore Armeni72
e Biggio73, degli amuleti rinvenuti nel tophet74, inaugurando così una nuova stagione
degli studi con attenzione puntuale all’edizione delle vecchie e delle nuove scoperte.
Al Moscati stesso si deve l’opera di sintesi delle ricerche fenicie e puniche in Sardegna
e non solo, concretizzata nel caso specifico di Sulcis in tre fondamentali contributi
editi tra il 1982 ed il 198875.
Dal 1983 P. Bernardini inoltre indaga un settore dell’abitato individuato in Via
Galeto (cronicario), i cui scavi sono tuttora in corso76, mentre proseguono altresì quelli
nel tophet e di alcune tombe della necropoli punica, della quale se ne appresta
un’edizione critica a cura dello stesso Bernardini77.

71
Moscati S., (1986). Le stele di Sulcis: caratteri e confronti. CSF 23, Roma.
72
Uberti 1971.
73
Biggio 1977.
74
Bartoloni 1973.
75
Moscati 1982; Moscati 1986a, pp. 240-262; esclusivamente per gli aspetti della cultura materiale Moscati
1988a.
76
Si veda da ultimo Bernardini 2000a.
77
Bernardini c.p.

- 17 -
- 18 -
2. GLI ATHYRMATA DI SULCIS
Il termine athyrmata78 verrà privilegiato nel menzionare l’oggetto di studio in questo
lavoro. Omero è il primo a farne uso definendo con disprezzo le tipiche mercanzie dei
Fenici del suo tempo, considerate al rango di “cianfrusaglie”79. Dal punto di vista
tipologico si tratta di oggetti di piccola taglia portati principalmente al collo o indossati
in altra maniera. Negli studi fenicio-punici è prevalsa la classificazione in gioielli,
amuleti e scarabei, che verrà rispettata in gran parte di questo lavoro, ma della quale
se ne terranno a mente i limiti. Essa riveste la mera funzione di agevolare la ricerca,
ma in nessun modo quella di ricalcare una suddivisione che fosse condivisa dal
primitivo possessore. Verranno altresì considerati altri oggetti, che rientrano più
probabilmente nella sfera dell’abbigliamento o dell’arredo e che raramente hanno
trovato posto nelle edizioni di scavo. Più latamente andrebbero compresi anche oggetti
che qui non sono stati valutati, se non per confrontarne la distribuzione con i pendenti
nello stesso materiale80, ovvero gli unguentari in vetro, e come essi altre classi di
materiali, che tuttavia a Sulcis non sono state ancora rinvenute, quali le uova di struzzo
dipinte ed i rasoi.
Allo scopo di fornire uno sguardo di insieme sullo stato delle ricerche, che
rientrino esclusivamente nell’edito, e di dare un’idea della presenza di athyrmata nelle
tombe puniche di Sulcis, proponiamo qui di seguito un elenco di oggetti ordinati per
tomba di appartenenza e, all’interno di questa, quando nota, per deposizione. L’intento
principale di questo elenco sarà quello di ottenere una stima, meno approssimativa
possibile ma provvisoria, della quantità e della qualità di questi rinvenimenti, dati che
ci saranno di estrema utilità nella sintesi finale di questo lavoro.

2.1. ATHYRMATA DELLA NECROPOLI


La maggior parte degli athyrmata di Sulcis proviene dalla necropoli, un’area che
originariamente era estesa per circa 6 ettari ed entro la quale erano scavate nel tufo
quasi 1500 tombe a camera ipogeica81. Il settore meglio noto e scavato è situato sulle

78
Sulla problematica della terminologia e sulla sua etimologia v. Moscati 1987, pp. 77-82.
79
Omero, Odissea XV, 416.
80
V. § 5.3.
81
Bartoloni 1995, p. 4.
- 19 -
pendici orientali della collina di Castello, ed ancora meglio le tombe scavate dagli anni
ottanta nell’area dell’anfiteatro romano, nel terreno di proprietà di Agus Raffaele. Un
altro settore visitabile è accessibile dalla Basilica di Sant’Antioco e consta di alcune
tombe, riadattate nei primi secoli della nostra era come catacombe, che difficilmente
hanno preservato elementi del corredo originario. Il periodo di utilizzo è compreso tra
la fine del VI secolo e la fine del III e coincide con il dominio di Cartagine sulle città
fenicie di Sardegna ed il prevalere del rito dell’inumazione sulla precedente
incinerazione82. In prossimità della costa, e per la precisione in Via Peret, è stato
localizzato un nucleo della necropoli arcaica, ovvero in uso tra VIII e VI secolo83.
Tuttavia l’impossibilità di condurre scavi in quest’area ci priva della documentazione
degli athyrmata di questa fase di Sulcis. Inoltre quella proveniente dal tophet84 per la
maggior parte non ha conservato le associazioni con gli strati, non consentendo così
una datazione sicura degli ornamenti a questo o a quel periodo. In confronto la
documentazione della necropoli appare perciò molto più omogenea.
L’elenco che segue è nelle linee essenziali basato su quello fornito da G. Hölbl
in “Ägyptisches kulturgut im phönikischen und punischen Sardinien” del 1986 alle
pagine 56-5885, che abbiamo avuto cura di integrare con le nuove pubblicazioni dei
materiali nel frattempo comparse.

Tombe aperte da A. Taramelli e R. Loddo nell’estate 1906 nel tratto iniziale di via
Castello86:
Tomba 187:

82
Ibidem, p. 3; v. anche Bartoloni 1981.
83
Sulcis 1989, pp. 30-31.
84
V. § 2.2.
85
Hölbl 1986, pp. 56-58, v. comunque le pp. 54-59 per la trattazione del sito di Sulcis nell’economia del testo. I
numeri tra parentesi nel testo, quando presenti, si riferiscono ai numeri inventariali presenti sui pezzi al tempo
della visita al Museo Archeologico Comunale di Sant’Antioco effettuata dall’autore nel 1979 (p. 59, nota 28).
Negli anni successivi nuovi numeri sono stati attribuiti e riportati nella recente edizione di Savio, Lega,
Bontempi 2004, verosimilmente basata sulle analisi e fotografie realizzate da E. Acquaro intorno al 1987: v.
infatti Acquaro 1987a.
86
Taramelli 1908. Tra le due tombe scavate, ma visibilmente depredate in antico, solo la prima presentava resti
di ornamenti personali, la seconda, all’interno dell’urna n. 6 di età imperiale romana, ha fornito alcuni
frammenti di pisside in avorio e osso, tra i quali uno splendido “pappagallo che afferra col becco una foglia
d’acanto” (pp. 156-157, fig. 11), a lungo ritenuto erroneamente prodotto di età punica: v. sintesi in Acquaro
1984, pp. 159-160, fig. 222.
87
Taramelli 1908, pp. 152-154. Scavata nei giorni 26-28 luglio 1906, la tomba conteneva almeno una
inumazione di età punica, manomessa per far spazio a nove cassette litiche con resti di incinerati di età
romana, la tomba è a camera del tipo con tramezzo centrale, perciò in uso dalla metà del V sec. La
- 20 -
due vaghi baccellati in pasta vitrea88;
anellino digitale a staffa con castone ellittico in oro89.

Tombe aperte da S. Puglisi nel 1942 in via Belvedere90:


Tomba 291:
Camera A92:
2 orecchini a spirale con rosetta decorata a filigrana in oro su anima bronzea93;
2 orecchini a spirale semplice in oro94;
orecchino con estremità avvolte a spirale in oro95.

Tomba 396:
Area A97:
collana composta di 26 elementi98 tra i quali:
alcuni vaghi in pasta vetro;
scrofa che allatta i cuccioli;
5 divinità a testa animale99;
numerosi pateci bifronte100;
testa di ariete policroma in pasta vitrea;
scarabeo.
Area B101:

numerazione qui usata per le prime tre tombe, e non seguita dalla sigla in lettere, risponde alla numerazione
data dall’editore della prima edizione e non al numero dato negli archivi della Soprintendenza
88
Ibidem, pp. 153 e 155, rinvenuti nel corridoio di accesso.
89
Ib., pp. 154-155, fig. 8.
90
Puglisi 1942b, p. 106.
91
Ibidem, pp. 107-110, fig. 1. La presenza di resti di incinerati entro un sarcofago nella camera B “contribuisce
a collocare la cronologia generale del sepolcro […] tra il IV e il III sec. a.C.”: Bernardini 1991, p. 196.
92
Conteneva i resti di due inumati: Puglisi 1942b, p. 109.
93
Ibidem, pp. 108-109, fig. 2 e 6, che li definisce “anelli crinali”; Quillard 1987, pp. 151-152, a confronto con il
n. 250, tav. XII, proveniente da Utica (tipo D7). L’autrice dimostra come potessero essere indossati al lobo
(tav. XXXV, 1-2) e ne riferisce la datazione alla fine del IV secolo (p. 152), v. inoltre “tableau recapitulatif”
IX; Pisano 1988b, p. 48; Bernardini 1991, p. 196.
94
Puglisi 1942b, p. 108, fig. 6, anche in questo caso l’autore riferisce “anelli crinali”, ma non c’è motivo di
accettare tale definizione.
95
Ibidem, p. 109, fig. 6.
96
Puglisi 1942b, pp. 110-115; Bartoloni 1993a.
97
Puglisi 1942b, pp. 113-114, contenente i resti di un inumato e un incinerato.
98
Hölbl 1986, p. 56; Puglisi 1942b, fig. 6.
99
Chiamati dal Puglisi “Ammon” (ibidem, p. 114), potrebbero essere a testa di ariete: Hölbl 1986, p. 56.
100
Hölbl 1986, p. 56.
101
Puglisi 1942a, p. 114.
- 21 -
2 anellini in oro;
anellino laminare in oro.
Area E102:
2 orecchini con legature in oro e anima d’argento.

Tomba 11:
19 pateci bifronte (nn. 1501-1504, 1506-1516, 1518-1520, 1525)103;
pateco molto più piccolo della stessa forma (n. 1522)104;
pateco bifronte con 3 fori (n. 1524)105;
udjat (n. 1526);
placchetta rettangolare con udjat su entrambi i lati (n. 1527).

Tomba 13:
Astuccio porta amuleti con protome leonina in lamina d’oro106.

Tomba 22 (“degli anelli crinali” o “delle bare di argilla”):


pateco(?) (n. 1561);
Shu (n. 1539)107;
divinità criocefala (n. 1564);
2 divinità a testa di falco (nn. 1533-1534108);
ariete più piccolo e accovacciato (n. 1551);
Falco (n. 1536)109;
3(?) Thoeris (nn. 1537110, 1554, 1565);
2 gatti (nn. 1535 con smalto verde acceso, 1552);

102
Ibidem, inumazione della quale gli orecchini costituiscono gli unici elementi di corredo recuperati.
103
Del tipo 5.2.A.3.2 di Hölbl: Hölbl 1986, p. 56, nota 18, tav. a colori III, 3 (n. 1513), tav. XIX, 7 (n. 1510);
nuovi numeri di inv.: 100218-100220, 100222-100233, 100235-10037, 100242 in Savio, Lega, Bontempi
2004, pp. 131-135, nn. 8, 27-28, 30-39, 41-46, figg. 25, 44-56, 59-63. Dal confronto dei due testi si nota che
il vecchio n. di inv. 1504 presente nel primo studio non lo è nel secondo, e viceversa per il n. 1505.
104
Ibidem, p. 131, n. 19, fig. 36 (nuovo n.i. 100239).
105
Ib., p. 127, n. 1, fig. 18.
106
Hölbl 1986, tav. CLXV, 1; Fenici 1988, p. 692, n. 643, con datazione al V secolo (n.i. 103247); Sulcis 1989,
p. 134, fig. 55; Bernardini 1991, tav. IV, 3-4.
107
Hölbl 1986, tav. XXXV, 5, del tipo 11.A.1.
108
Hölbl 1986, tav. XLIV, 2 del tipo 18.2.b.3.A.3.
109
Savio, Lega, Bontempi 2004, p. 140, n. 62, fig. 60 (nuovo n.i. 100253).
110
Hölbl 1986, tav. LXII, 5 del tipo 27.A.1.4.
- 22 -
2 udjat in faïence (n. 1528, 1550);
2 scettri wadj (n. 1566, 1567);
2 amuleti non identificati (n. 1553, 1569).

“tomba degli scarabei”:


Pateco (n. 1541)111;
2 pateci (n. 1517, 1523)112;
Scimmia (n. 1540);
Non identificati amuleti in faïence.

“tomba delle teste”:


Thot (n. 1538);

“tombe profanate della piazzetta Azuni” (scavi 1962-63):


4 pateci in faïence (nn. 2601113-2602114, 2613115, 2671116);
Isis in trono con Horus fanciullo (n. 2615) ;
2 Harpocrati (nn. 2608117-2609118);
Imhotep (n. 2659)119;
3 Horus a testa di falco (nn. 2606120, 2647, 2704121);
Divinità criocefala (n. 2653122);
2 thot (nn. 2603123, 2652);
Ureo in faïence (n. 2656);
Thoeris (n. 2655)124 ;

111
Ibidem, tav. XI, 1 del tipo 5.1.A.1.2.
112
Del tipo 5.2.A.3.2; Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 40, fig. 57 (nuovo n.i. 100234), n. 12, fig. 29 (100240).
113
Hölbl 1986, tav. XV, 1, del tipo 5.1.A.4.1.5.2.
114
Ibidem, tav. XIII, 3, stesso tipo del precedente.
115
Ib., tav. X, 2, del tipo 5.1.A.1.1.2.
116
Del tipo 5.2.A.3.2; Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 15, fig. 32 (n.i. 2071, nuovo n.i. 100820) senza
provenienza.
117
Hölbl 1986, tav. XXXIII, 1, del tipo 10.A.2.
118
Ibidem, tav. XXXIV, 2, stesso tipo del precedente.
119
Ib., tav. XXXIII, 2, del tipo 10bis.
120
Ib., tav. XLIV, 3, del tipo 18.2.b.3.A.2.
121
Ib., tav. XLIV, 1, del tipo 18.2.b.3.A.3.
122
Ib., tav. XXXIX, 3 del tipo 17.A.2.
123
Ib., tav. L, del tipo 19.A.2.
124
Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 51, fig. 69 (n.i. 2055, nuovo n.i. 100804).
- 23 -
2 falchi in faïence (nn. 2607 e 2641125) 126;
2 gatti in faïence (nn. 2604127-2605128);
lepre in faïence (n. 2679)129;
scimmia (n. 2673)130;
2 udjat in faïence (nn. 2693, 2700)
scettro wadj (n. 2701)131.

Tombe del fondo Don Tore Armeni (anni 1964-65, solo la 4 scavata nel 1967; sigla
DA):
Tomba 2 DA:
Nehebkau (n. 2644)132;
2 urei in faïence (n. 2657, 2658)133;
2 Thoeris in faïence (n. 2616, 2618)134;
Bue (n. 2611)135;
Cane (n. 2642)136;
2 udjat in faïence (n. 2612, 2685).

Tomba 4 DA:
9 pateci bifronte in faïence (n. 2610, 2614, 2619, 2624, 2625, 2626-2629)137;
Shu in faïence (n. 2646);

125
Hölbl 1986, tav. LVI, 1 del tipo 25.A.1.2 “punico”.
126
Entrambi sono editi in Savio, Lega, Bontempi 2004, nn. 61 (con bibliografia errata) e 65, figg. 79 e 83, che
mostrano invertite le immagini fotografiche (nn.i. 2007 e 2041, nuovi nn.i. 103312 e 100829).
127
Hölbl 1986, tav. LXV, 3, del tipo 31.A.1.1.
128
Ibidem, tav. LXV, 1, stesso tipo del precedente (errato il rimando alla tavola a p. 58).
129
Ib., tav. LXXI, 3, del tipo 35.A.3.
130
Ib., tav. LXXII, 4, del tipo 36.A.2.2.
131
Ib., tav. XC, 6 del tipo 55.2.
132
Ib., tav. LII, 1 del tipo 20.1.
133
Savio, Lega, Bontempi 2004, nn. 58 e 60, figg. 76-78, in cui sono diversamente riportati i vecchi numeri di
inv.: 2057-2058 (nuovi n.i. 100806-100807).
134
Ibidem, nn. 50 e 49, figg. 68 e 67 (nuovi n.i. 100765-100767).
135
Hölbl, tav. LXXVII, 3 del tipo 41.1.A.1.
136
Ibidem, tav. LXIV, 8 del tipo 29.A.2.
137
Ib., tav. XX, 4 (2628) del tipo 5.2.A.3.2, al quale appartengono almeno quattro a detta dell’autore;
sommariamente corrispondenti a Savio, Lega, Bontempi 2004, nn. 2-3, 10, 16-17, 23, 25, figg. 19-20, 27, 33-
34, 40-42, che riportano nn. inv. con 26- iniziale (ad es. 2614 = 2014?), manca il 2626 ed è attribuito due
volte il n. 2619 (o 2019) ai nn. di catalogo 16 e 17, nonché il 2629 (o 2029) al n. 2 e al n. 54 (ureo) (nuovi nn.
inv. 100763, 100768, 100773, 100776-100778). Alla tomba 4 (sic) sono attribuiti i nn. 2010 e 2025 (= 2610 e
2625 ?): ibidem, nn. 29 e 20, figg. 46 e 37 (nuovi nn. inv. 100774 e 103315).
- 24 -
Iside stante con corona hathorica (n. 2643)138;
ureo in faïence (n. 2620)139;
scimmia (2640)140;
Thoeris (n. 2645)141;
3 udjat in faïence (n. 2632-2633, 2635);
udjat in avorio (n. 2637)142;
2 scettri wadj in faïence (n. 2648-2649);
Corona del Basso Egitto in faïence (n. 2650)143.

Tomba 5 DA:
5 pateci bifronte (n. 2663, 2665, 2668, 2670, 2672)144;
2 udjat in faïence (n. 2694, 2696145).

Tomba 6 DA:
2 pateci a doppia figura in faïence (n. 2661, 2667)146;
Shu in faïence (n. 2680);
lepre in faïence (n. 2639)147;
falco in faïence (n. 2623)148;
udjat in faïence bianca (n. 2631).

Tomba 8 DA:

138
Hölbl 1986, p. 57 la definisce “dea stante con testa animale”; Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 48, fig. 66
(2043, nuovo n.i. 100792).
139
Ibidem, n. 59, fig. 77 (2020, nuovo n.i. 100769).
140
Hölbl 1986, tav. LXXII, 5 del tipo 36.A.2.1.
141
Ibidem, p. 57, lo definisce “amuleto zoomorfo in faïence”; Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 52, fig. 70 (2045,
nuovo n.i. 100794).
142
Hölbl 1986, tav. LXXXIV, 2 del tipo 49.C.1.
143
Ibidem, tav. LXXXIX, 6 del tipo 52.A.2.
144
Ib., p. 57, di cui almeno 4 del tipo 5.2.A.3.2 (il 2668 non fu trovato all’epoca ma è dello stesso tipo degli altri
4: v. p. 57, nota 23); corrispondenti a Savio, Lega, Bontempi 2004, nn. 11, 13, 18, 24 e 26, figg. 28, 30, 35,
41 e 43 (come già notato i nn. inv. cominciano per 20-, nuovi nn. inv. 100812, 100814, 100817, 100819,
100821) dei quali il n. 18 è attribuito alla tomba 4 (sic), v. supra nota 137.
145
Questo n.i. corrisponde a ibidem, n. 57, fig. 75 (con n.i. 2096 e nuovo n.i. 100845), ureo corrispondente a sua
volta a Hölbl 1986, tav. LXIII, 4 a sinistra, uno di due amuleti per i quali l’autore non fornisce n.i. (si dovrà i
intendere i due udjat come urei, o i due urei saranno da aggiungere al corredo della tomba 5 DA?).
146
Savio, Lega, Bontempi 2004, nn. 4 e 9, figg. 21 e 26 (nn.i. 2061 e 2067, nuovi nn.i. 100810 e 100816).
147
Hölbl 1986, tav. LXXI, 4, del tipo 35.A.3.
148
Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 64, fig. 82 (n.i. 2023, nuovo n.i. 100772), sebbene il falco menzionato
dall’Hölbl fosse coronato (Hölbl 1986, p. 57).
- 25 -
4 pateci bifronte in faïence (nn. 2662, 2664, 2666 e 2669)149;
divinità a testa animale (n. 2684);
falco (n. 2622)150;
2 arieti (nn. 2677-2678)151;
7 udjat (n. 2630152, 2688, 2690-2692, 2697-2698);
simbolo wadj (n. 2702).

Tomba 12 DA:
Shu in faïence brillante (n. 2681);
2(?) Thoeris (n. 2654, 2674);
ariete accovacciato (n. 2676);
gatto in faïence (n. 2621);
Scrofa in faïence con appiccagnolo sul dorso (n. 2675);
Bue (n. 2617)153;
7 udjat in faïence (n. 2634, 2636, 2686154-2687, 2689, 2695155, 2699);
placchetta rettangolare in faïence, udjat/vacca con vitello (n. 2660);
Corona dell’Alto Egitto (n. 2682)156.

Dallo stesso fondo, ma rinvenuta qualche anno prima, una collana157 composta di un
udjat, due vaghi in pasta vitrea con decorazione “ad occhi” e 7 vaghi cilindrici.

Una piastrella quadrangolare in piombo e ferro con incisione b‘ly proviene da una
tomba scavata negli stessi anni ed interpretata dall’editore come talismano, per il suo
rinvenimento presso il collo/torace del defunto158.

149
I nn. 2664 e 2669 del tipo 5.2.A.3.2; Savio, Lega, Bontempi 2004 ne menziona solo 3: nn. 6, 21-22, figg. 23,
38-39, (nn.i. 2062, 2064 e 2069, nuovi nn.i. 100811, 100813 e 100818).
150
Ibidem, n. 63, fig. 81 (n.i. 2022, nuovo n.i. 100771), contrariamente a quello menzionato da G. Hölbl non è
coronato.
151
Hölbl 1986, tav. LXXVII, 7-8, dei tipi 42.2.A.1 e -2.
152
Ibidem, tav. LXXXII, 1, del tipo 49.A.2.2.1.
153
Ib., tav. LXXVII, 2, del tipo 41.1.A.1.
154
Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 66, fig. 84 (n.i. 2086, nuovo n.i. 100835).
155
Hölbl 1986, tav. LXXXII, 2 del tipo 49.A.2.2.1; a questo n.i. (2095) in Savio, Lega, Bontempi 2004
corrisponde il n. 5, fig. 22, pateco.
156
Hölbl 1986, tav. LXXXIX, 8 del tipo 53.A.1.
157
Ibidem, tav. LXXXII, 7, con indicazione inventariale “TOMBE “D.A.” 2-12-61”, udjat del tipo 49.A.2.2.2.
158
Barreca 1965, pp. 53-54, tav. I; Barreca 1986, p. 231, fig. 208, definito scapolare e datato al V sec.
- 26 -
Tomba 2A159:
3 urei (nn. 3721-3723)160;
5 orecchini;
collana di vaghi in oro, ambra e pasta vitrea;
anello con castone figurato;
laminetta aurea161.

Tomba 3A162:
pateco (n. 3938)163;
anello in oro con castone romboidale inciso con rappresentazione di falco Horus,
munito di doppia corona e flabello, su fiore di loto164;
collana di vaghi in oro, ambra, pasta vitrea e corniola;
2 orecchini165.

Tomba 4A166:
2 astucci porta-amuleti a protome animale167.

Tomba 5A168:

159
Tomba a camera con tramezzo centrale (Sulcis 1989, p. 40, pianta E), e quindi con inizio d’uso non anteriore
alla metà del V sec., conteneva almeno una decina di deposizioni: Bernardini 1991, p. 195.
160
Savio, Lega, Bontempi 2004, nn. 53, 55-56, figg. 71, 73-74 (nuovi nn.i. 100699-100701); cfr. Hölbl 1986, p.
58, nota 26.
161
Bernardini 1991, p. 195.
162
Come la precedente, cfr. supra nota 159; Sulcis 1989, p. 91, attribuisce alla stessa tomba gli oggetti delle
vetrine 4-5 del vecchio Museo Comunale, afferenti a corredi in parte di V e IV secolo, da essa proviene anche
una statuetta fittile di Astarte e due cembali bronzei forse rituali: ibidem, p. 135, fig. 57.
163
Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 7, fig. 24; cfr. Hölbl 1986, p. 58, nota 26, che non ne identificò il tipo.
164
Pisano 1988b, pp. 48-49; Sulcis 1989, pp. 91, 135, fig. 58; Bernardini 1991, p. 205, nota 40, tav. V, 2, viene
indicata una datazione non anteriore al V secolo.
165
Ib., p. 195; Sulcis 1989, p. 91, menziona “alcuni anelli in ambra” da identificare più probabilmente con dei
vaghi anulari.
166
Tomba a camera con tramezzo centrale (ibidem, p. 40, pianta E), contente almeno sei deposizioni: Bernardini
1991, p. 195; Tronchetti 1989, p. 32, la inserisce tra le più antiche della necropoli per la presenza al suo
interno di anfore databili alla fine del VI secolo, ma la descrizione della tipologia tombale (forse della tomba
4 DA, o anche 4 AR?) non corrisponde a quella desumibile dalla fig. 18, per la quale una datazione dalla metà
del V secolo in poi è più opportuna.
167
Bernardini 1991, p. 195.
168
Cfr. supra nota 159. Tomba in uso dalla metà del V al I secolo, per il riutilizzo in età romana, conteneva
anche un’urna con spalla carenata a decoro metopale in stile geometrico, e una maschera fittile di sileno con
barba e baffi, esposti al tempo nelle vetrine 6-7 del vecchio Museo Comunale di Sant’Antioco: Sulcis 1989,
p. 93; per la maschera silenica v. anche Moscati 1986a, p. 256, tav. XXXIX, c; Fenici 1988, p. 684, fig. 594.
- 27 -
collana di vaghi in ambra e pasta vitrea169.

Tomba 6A170:
4 anelli crinali in oro su anima bronzea171.

Dallo “sterro” della necropoli:


2 pateci bifronte in faïence (n. 2057172, 2059173);
Harpokrates(?) in faïence (n. 2543) ;
divinità ieracocefala (n. 1532);
Thot in steatite biancastra (n. 2058)174;
scrofa con cuccioli in faïence biancastra (n. 1546);
volatile in faïence bruno chiaro (n. 2053);
falco in steatite (n. 2056);
3 udjat in faïence (n. 1529, 2086175, 2638);
3 placchette rettangolari, di cui 2 in faïence (nn. 1531176 e 2085177) e una in steatite
biancastra (n. 1530178: udjat/vacca e vitello, sopra loto);
mano in faïence (n. 1547)179;
Altri 4 amuleti in faïence non identificati (n. 1545, 1548, 2061, 2091).

Al di fuori del summenzionato elenco, G. Hölbl riporta nel suo studio altri oggetti di
provenienza sulcitana, ma privi di precisa indicazione e numero inventariale:
2 urei in faïence dalla necropoli180;
leone di tipologia insolita e materiale non identificato, testa volta a destra di 90
gradi181;

169
Bernardini 1991, p. 195.
170
Tomba a camera di pianta irregolare (Sulcis 1989, p. 40, pianta E), conteneva oltre dieci deposizioni:
Bernardini 1991, p. 195.
171
Ibidem.
172
A questo n.i. corrisponde Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 58, fig. 76, un ureo.
173
Del tipo 5.2.A.3.2.
174
A questo n.i. corrisponde Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 60, fig. 78, un ureo.
175
A questo n.i. corrisponde ibidem, n. 66, fig. 84, l’udjat proveniente dalla tomba 12 DA, cfr. supra nota 154.
176
Hölbl 1986, tav. LXXXVI, 4, del tipo 51.A.1.9.
177
Ibidem, tav. LXXXVI, 5, stesso tipo della precedente.
178
Savio, Lega, Bontempi 2004, n. 47, figg. 64-65 (nuovo n.i. 100247).
179
Del tipo 64.2, mano chiusa che fa le fiche.
180
Hölbl 1986, tav. LXIII, 4, del tipo 28.A.1.4, forse dalla tomba 5 DA: v. supra nota 145.
- 28 -
corona del basso Egitto in faïence182;
2 simboli wadj in faïence dalla necropoli183;
scarabeo in pasta dalla necropoli con geroglifici a lettura ‘3 mn R‘ 184;
2 scarabei in faïence con ureo probabilmente teriomorfo e alato, di cui uno solo di
sicuro dalla necropoli185;
scarabeo in faïence semivitrea con ureo (alato?) su neb alla base186;
scarabeo in pasta azzurro chiaro con motivo floreale alla base dalla necropoli187;
2 scarabei-amuleti in faïence senza base
piatta e con perforazione trasversale188;
scarabeo in diaspro verde scheggiato in due
punti con personaggio su trono, con scettro
e thymiaterion alla base189;

A G. Hölbl va inoltre dato il merito di aver


ricordato un altro amuleto in steatite a
Figura 2. Amuleto a forma di leone con iscrizione forma di leone con iscrizione fenicia ‘bd’
alla base (Della Marmora 1868, vol. 1, p. 124). alla base, rinvenuto intorno al 1840 a
Sant’Antioco190. Se ne riporta alla fig. 2 la

181
Ibidem, p. 94, tav. LXVII, 6 (n.i. 2506), unica attestazione del tipo 32.2.2, in materiale grigio-argento. Per
l’assenza dell’appiccagnolo non è assicurato che si tratti di un amuleto.
182
Ib., tav. LXXXIX, 5, del tipo 52.A.2.
183
Ib., tav. XC, 5 e 7, del tipo 55.2.
184
Ib., p. 226-227, tav. CXXIX, 2 (n.i. 1557, prossimo a quelli della tomba 22), con preciso parallelo conservato
a Leiden (p. 226).
185
Ib., pp. 216-217, tav. CXLI, 1-2 (quest’ultimo: n.i. 1559, cfr. nota prec.), per i quali l’autore nota paralleli
naukratiti di Taranto, per forme, materiale e motivo alla base (p. 217, nota 426). Si potrebbero infatti
accostare al type XXVIII della Feghali Gorton: Feghali Gorton 1996, per il gruppo A p. 101, nn. 220-222 (da
Taranto), per il gruppo B p. 104, nn. 120-124 (da Cartagine) e 125-138 (da Taranto).
186
Ib., pp. 216-217, tav. CXLI, 3, cfr. nota prec.
187
Ib., p. 248, tav. CXLV, 4 (n.i. 1558, cfr. nota prec.), asserisce trattarsi di un prodotto vicino orientale di una
tipologia diffusa nel mediterraneo centrale dal VIII secolo, tuttavia la provenienza necropolitana non consente
di accettare una datazione così alta.
188
Ib., p. 253, tav. CXLVIII, 1-2 (quest’ultimo dalla necropoli: n.i. 1560, cfr. nota prec.).
189
Ib., p. 300, n. 120, tav. CLIV, 1, senza n.i. ma conservato tra i materiali del tophet. Una caratteristica degli
scarabei trovati nel tophet di Sulcis (sebbene siano 4 in tutto) è infatti quella di essere scheggiati o in
frammenti: v. Bartoloni 1973, tav. LXIII, 9-12. Sia dal punto di vista iconografico che stilistico il confronto
più vicino per questo pezzo è uno scarabeo rinvenuto nella tomba 11 di Monte Sirai: Bondì 1975, pp. 75-77,
88-90, n. 8, tav. VI, 8.
190
Spano 1864, tav. VII, 2; Della Marmora 1868, p. 124; Guzzo Amadasi 1967, Sardegna 2, p. 87, fig. 13; Hölbl
1986, pp. 59, 94, 133, nota 368, unica attestazione del tipo 32.2.1.3 (ovvero “con iscrizione fenicia alla base”,
cfr. tipo 32.2.1.2 cui appartiene Uberti 1971, n. 44 da Sulcis).
- 29 -
riproduzione dell’epoca.

Risultano ancora inediti i gioielli di cui P. Bernardini fornisce la sola rappresentazione


fotografica, indicando in didascalia la provenienza dalle tombe di Via Castello191, il
settore della necropoli punica tutt’oggi visibile ai turisti. Nelle immagini sono presenti:
5 fermatrecce o orecchini aurei, di cui uno con estremità legate a nodo “erculeo” e
avvolte a spirale, uno con corpo a maglia ingrossato ed estremità avvolte a spirale, uno
con una sola estremità avvolta e due con entrambe le estremità avvolte nonché il corpo
ingrossato192;
un orecchino ellittico ad arco ingrossato e un anello crinale in oro su anima di bronzo,
con una sola estremità avvolta a spirale193;
una collana composta di 36 vaghi tra cui numerosi in lamina d’oro con decorazione a
reticolo e almeno 3 in pasta vitrea con decorazione ad occhi194;
una collana composta di 26 vaghi in lamina aurea e decorazione a reticolo195;
pendente a phiale in oro196;
anello digitale con castone circolare decorato da rosetta a otto petali in filigrana e
intarsi di pasta vitrea197;
da una tomba di Piazza Azuni proviene un ben noto anello digitale con castone a
rosetta realizzato a godronatura in oro e pasta vitrea198.

Diverse collezioni private di antichità comprendono alcuni ornamenti probabilmente


provenienti dalla necropoli. La collezione Don Armeni199, appartenuta allo stesso
proprietario del fondo in cui dagli anni ’60 si scavarono le tombe puniche con sigla
DA, comprende i seguenti oggetti:

191
Bernardini 1991. È plausibile una loro provenienza dalle stesse tombe sin qui elencate.
192
Ibidem, p. 201, tav. I.
193
Ib., p. 202, tav. II, 1 e 3.
194
Ib., p. 203, tav. III, 1.
195
Sulcis 1989, pp. 91, 133, fig. 54, con datazione al V sec.; Bernardini 1991, p. 203, tav. III, 2.
196
Ibidem,, p. 204, tav. IV, 1.
197
Ib., p. 205, tav. V, 1.
198
Da ultimo ib., pp. 195-196, e relative note, p. 205, tav. V, 3-4, con datazione a IV – III secolo; v. anche:
Pisano 1988b, p. 48, con datazione al V secolo; Sulcis 1989, pp. 91, 132, fig. 53, con datazione al III sec.;
Tronchetti 1989, p. 14, fig. 6, con datazione al IV secolo.
199
Uberti 1971. La località “Is Purixeddus (sic = pirixeddus)” è indicata come origine della totalità dei pezzi qui
menzionati. Il nome, “i piccoli peri” in italiano, indica come a questo tipo di coltura fosse dedicata l’area,
ancora non edificata in tempi moderni.
- 30 -
scarabeo in steatite bianco-grigiastra, con geroglifici alla base200;
scarabeo in steatite biancastra con sfinge alata accovacciata tra piuma shu e neb alla
base 201;
scarabeo in diaspro verde con figura di Bes e due serpenti alla base202;
scarabeo in faïence turchese con satiro danzante e cane203;
2 Thoeris, una con copricapo204 e una senza205;
3 Thot206;
2 cinocefali stanti207;
Shu208;
Bes con corona di piume209;
figurina umana deforme (forse pateco)210;
7 pateci, di cui 5 schematici211 e 2 più naturalistici212;
Iside stante213 e kourotròphia214;
3 falchi, di cui uno coronato215e 2 senza corona (l’ultimo provvisto di ulteriore
montatura in oro, del tipo ad anello con estremità avvolte a spirale)216;
volatile (avvoltoio?)217;
leone passante in steatite con geroglifici alla base218;

200
Ibidem, p. 295, n. 17, tav. XLIV, 1-2; Feghali Gorton 1996, p. 38, n. 8, rientra nel type XIII diffuso intorno al
VII sec. a Ischia e Cartagine (p. 40).
201
Uberti 1971, p. 296, n. 18, tav. XLIV, 3-4; Uberti 1975d, p. 86, fig. 2; Feghali Gorton 1996, p. 50, n. 4,
rientra nel type XVI di produzione punica dal VI secolo in poi.
202
Uberti 1971, p. 296, n. 19, tav. XLIV, 5-6; Hölbl 1986, p. 308, n. 150; CPSC, n. 22/67.
203
Uberti 1971, pp. 296-207, n. 20, tav. XLIV, 7-8; Hölbl 1986, pp. 59, 251-252, tavv. CXLVII, 2-3, in cui
l’autore nota la corrispondenza iconografica con due esemplari inediti, forse tharrensi, conservati al Museo
Archeologico Nazionale di Cagliari, i quali dalla Feghali Gorton inclusi nel type XXXIX del gruppo “Late
punic workshops” diffuso e verosimilmente prodotto in Sardegna tra V e IV secolo: Feghali Gorton 1996, pp.
136-137, nn. 8-9.
204
Uberti 1971, p. 299, n. 21, tav. XLV, 1; Hölbl 1986, pp. 59, 92, del tipo 27.A.2.2.
205
Uberti 1971, pp. 299-300, n. 22, tav. XLV, 2-3; Hölbl 1986, pp. 59, 91, del tipo 27.A.1.1.
206
Uberti 1971, pp. 300-301, nn. 23-25, tav. XLV, 4-6; Hölbl 1986, pp. 59, 89, del tipo 19.A.3.
207
Uberti 1971, pp. 301-302, nn. 26-27, tav. XLV, 7-8; Hölbl 1986, pp. 59, 97, del tipo 36.A.2.1.
208
Uberti 1971, p. 302, n. 28, tav. XLVI, 1; Hölbl 1986, pp. 59, 87, del tipo 11.A.1.
209
Uberti 1971, p. 302, n. 29, tav. XLVI, 2; Hölbl 1986, pp. 59, 85, del tipo 6.1.A.1.1.3.
210
Uberti 1971, p. 303, n. 30, tav. XLVI.
211
Uberti 1971, pp. 303-304, nn. 31-35, tav. XLVI, 4-8; Hölbl 1986, pp. 59, 84, del tipo 5.2.A.3.2.
212
Uberti 1971, pp. 304-305, nn. 36-37, tav. XLVI, 9-10; Hölbl 1986, pp. 59, 83, del tipo 5.2.A.1.1.2.
213
Uberti 1971, p. 305, n. 38, tav. XLVI, 11.
214
Ibidem, p. 305, n. 39, tav. XLVI, 12.
215
Ibidem, p. 306, n. 40, tav. XLVII, 1; Hölbl 1986, p. 59, nota 32, simile ma non “corrispondente” a quello
della tav. LVI, 1.
216
Ibidem, p. 306, nn. 41-42, tav. XLVII, 2-3; Hölbl 1986, pp. 59, 90, del tipo 25.A.2.1.2.
217
Uberti 1971, pp. 306-307, n. 43, tav. XLVII, 4; Hölbl 1986, pp. 59, 91 (con disegno), unica attestazione del
tipo 26.
- 31 -
leone accovacciato219;
ariete accovacciato220;
lepre221;
3 udjat222.

Altra importante collezione di antichità fenicio-puniche di sicura provenienza sulcitana


è quella appartenente alla famiglia Biggio, la cui costituzione fu iniziata nei primi
decenni del secolo scorso con oggetti provenienti in parte dall’area necropolitana223.
Per quello che riguarda gli athyrmata la collezione si compone dei seguenti oggetti:
grande scarabeo in steatite con geroglifici alla base224;
grande scarabeo in steatite con perforazione trasversale, motivo rappresentazionale di
nascita di Horus e iscrizione con nome e patronimico del proprietario (gr’šmn bn
­mlk) alla base225;

scarabeo in faïence con sfinge accovacciata alla base226;


scarabeo in faïence con vacca che allatta vitello e simbolo astrale alla base227;
scarabeo in faïence con raffigurazione di difficile lettura alla base 228;
scarabeo in diaspro verde con immagine di personaggio regale o divino su trono alla
base229;
scarabeo in diaspro verde con vacca che allatta vitello alla base230;

218
Uberti 1971, p. 307, n. 44, tav. XLVII, 5-6; Hölbl 1986, pp. 59, 94, 161, fig. 21, del tipo 32.2.1.2.
219
Uberti 1971, p. 307, n. 45, tav. XLVII, 7; Hölbl 1986, pp. 59, 94, del tipo 32.1.A.2.2.
220
Uberti 1971, pp. 307-308, n. 46, tav. XLVII, 8; Hölbl 1986, pp. 59, 99, del tipo 42.A.3.
221
Uberti 1971, p. 308, n. 47, tav. XLVII, 9; Hölbl 1986, pp. 59, 96, del tipo 35.A.3.
222
Uberti 1971, pp. 308-309, nn. 48-50, tav. XLVII, 10-12; Hölbl 1986, pp. 59, 100, il primo del tipo 49.A.2.2.1,
il secondo del -2.
223
Biggio 1977; Moscati 1977a, p. 15. La località “Su Narboni”, un tempo tra la basilica di S. Antioco e il corso
Vittorio Emanuele, deve il suo nome alla pratica di mettere i campi a fuoco (“narbonare”) allo scopo di
nettare e dedicare ad altra coltura, e fornisce la prova di come non fosse edificata sino a tempi moderni.
224
Uberti 1977a, pp. 37-39, n. 1, tav. XVI, 1; Acquaro 1984, pp. 74-75, figg. 85-86; Hölbl 1986, pp. 59, 175, fig.
22, “typentafel” I, n. 9; non repertoriato in Feghali Gorton 1996, ma verosimilmente da includere nel type V,
“classical Egyptian types” per dimensioni e forte analogia con i nn. 2 e 5 (p. 16-18).
225
Uberti 1977a, pp. 37, 39-42, n. 2, tav. XVII, 2; Hölbl 1986, pp. 59, 175 (“typentafel” I, n. 11), 180.
226
Uberti 1977a, pp. 37-38, 42, n. 3, tav. XVIII, 3; Hölbl 1986, pp. 59, 242, fig. 44.
227
Uberti 1977a, pp. 38, 42-43, n. 4, tav. XVIII, 4; Hölbl 1986, pp. 59, 248, fig. 49.
228
Uberti 1977a, pp. 38, 43, n. 5, tav. XVIII, 5; Hölbl 1986, pp. 59, 250, fig. 51.
229
Acquaro 1977a, pp. 45, 47-48, n. 1, tav. XIX, 1, datato all’inizio del V secolo; la prima menzione della
gemma si deve ad Albizzati C., (1927). Sardus Pater: Il convegno archeologico in Sardegna, giugno 1926.
Reggio Emilia, p. 104, fig. 11, cit. in ibidem, p. 45, che costituisce un terminus ante quem per il suo ingresso
nella collezione; Acquaro 1984, pp. 82-85, figg. 102-103; Hölbl 1986, pp. 59, 298, nota 234; CPSC, n. 17/22;
l’importanza del motivo e la qualità dell’incisione possono ben giustificare la menzione di questo oggetto in
diversi studi tra i quali si riportano: Gubel E., (1987). Phoenician furniture. Leuven, p. 44, n. 19, tav. VIII,
cit. in ibidem; Conti 2000b, pp. 51-52, fig. 1, 6.
- 32 -
scarabeo in diaspro verde con guerriero stante in atteggiamento di difesa con scudo,
lancia e clamide alla base231;
scarabeo in diaspro verde con guerriero inginocchiato in atteggiamento di difesa con
scudo ad umbone configurato a faccia di Bes o satiro, clamide, elmo crestato e lancia
alla base e montatura ad anello con estremità avvolte a spirale232;
scarabeo in diaspro verde scheggiato con figura ellenizzante di “atleta”, poggiante
forse su asta e sulla gamba destra, flessa la sinistra, mano dietro e borsa o aryballos
davanti233;
scarabeo in diaspro verde con personaggio incedente che porta una coppa alle labbra, e
forse una lancia, alla base e montatura ad anello con estremità avvolte a spirale234;
scarabeo in “pietra dura cinerognola” con animale, forse bue, alla base235;
scarabeo in diaspro verde con personaggio femminile orante discoforo inginocchiato,
con oggetto a due sfere tra le mani, alla base e appiccagnolo a piccolo anello applicato
all’estremità frontale del foro236;
scarabeo in corniola con centauro che tiene un ramo alla base237;
anello digitale in oro con castone ellittico e volto femminile di tre/quarti con collana,
ai lati lettere aleph e nun238;

230
Acquaro 1977a, pp. 45, 48, n. 2, tav. XIX, 2, l’autore propone una datazione intorno alla metà del IV secolo;
Acquaro 1984, pp. 83, 86-87, figg. 104-105.
231
Acquaro 1977a, pp. 45-46, 49, n. 3, tav. XIX, 3, datato ai primi del V secolo; Acquaro 1984, pp. 88-89, figg.
106-107; Barreca 1986, p. 252, fig. 243, con datazione a V-IV sec.; CPSC, n. 28/5, con “pinched back”.
232
Acquaro 1977a, pp. 46, 49, n. 4, tav. XX, 4, datazione come il precedente; Acquaro 1984, pp. 92-93, figg.
108-109; CPSC, n. 28/47, con “pinched back”. È verosimilmente da ritenersi prodotto dalla stessa bottega del
precedente, nonché di altri due scarabei tharrensi sui quali lo stesso personaggio è inciso con lievi differenze
iconografiche: il primo conservato al museo di Cagliari (n.i. 19849: Moscati 1986b, p. 141, fig. 82; Fenici
1988, p. 696, n. 667) ed il secondo al Museo A. Sanna di Sassari (n.i. 2873: Acquaro 1987b, n. 27, pp. 238,
245, tav. VII).
233
Acquaro 1977a, pp. 46, 49, n. 5, tav. XX, 5, con ampia datazione tra V e IV secolo; Acquaro 1984, pp. 98-99,
figg. 112-113; CPSC, n. 30/28, con “pinched back”.
234
Acquaro 1977a, pp. 46, 49, n. 6, tav. XXI, 6, datato a IV-III secolo; Acquaro 1984, pp. 96-97, figg. 110-111;
CPSC, n. 30/13.
235
Acquaro 1977a, pp. 46-47, 49, n. 7, tav. XXI, 7, definito “ippocampo” per la forma insolita del treno
posteriore, ritorto verso l’alto; CPSC, n. 40/19, repertoriato sotto la categoria B (“bulls, alone”) e per errore
tra gli scarabei in diaspro verde. In effetti, per la criniera a trattini che a stento si nota sulla riproduzione
fotografica, potrebbe trattarsi di un cavallo.
236
Acquaro 1977a, pp. 47, 49, n. 8, tav. XXII, 8, che vi legge un “personaggio ieracocefalo” in virtù di
un’interpretazione della tecnica esecutoria come “a globulo”, dalla quale evince il III secolo come datazione:
v. p. 49, nota 21; Acquaro 1984, p. 100, fig. 114; Hölbl 1986, pp. 59, 295, n. 102, il quale legge invece il
personaggio come “Frauengestalt”; CPSC, n. 7/36.
237
Acquaro 1977a, pp. 47, 49, n. 9, tav. XXII, 9, eseguito a globulo e datato come il precedente al III secolo.
238
Uberti 1977b, pp. 51-51, n. 1, tav. XXIII, 1, che vi legge un volto maschile e propone su base iconografica e
paleografica una datazione a IV – III secolo; Acquaro 1984, p. 37, fig. 50; Quillard 1987, pp. 177, 213, nota
- 33 -
2 orecchini ellittici in oro a corpo ingrossato239;
orecchino in oro con estremità avvolte a spirale240;
pendente in oro a goccia con decorazione geometrica a granulazione sul cilindro
superiore241;
pendente vitreo blu a doppia protome femminile242;
amuleto in oro a forma di “mano che fa le fiche” con ingabbiatura in filo d’oro243;
gatto seduto in faïence244;

Un’altra poco nota collezione santantiochense, perché non edita correttamente, è


quella di proprietà Gallus e si compone di 39 amuleti e di una campanella o astuccio
porta-amuleti in metallo, appartenuti alla stessa collana rinvenuta, a detta dell’editore,
in una tomba punica245.
Tra i materiali provenienti da Sulcis e appartenenti a collezioni private vanno
probabilmente considerati quelli della collezione Torno, tra i cui materiali annovera
una matrice ed alcune forme vascolari ceramiche, nonché una stele di certa origine
sulcitana246. Nonostante la situazione di incertezza, non risulta tuttavia inverosimile
una provenienza sulcitana anche per i quattro scarabei247 ed i 23 amuleti, che

1204, lo pone tra i confronti per analoghi anelli cartaginesi del tipo B3(a) e conferma la cronologia della
Uberti: v. p. 166 e segg., “tableau recapitulatif” XI.
239
Uberti 1977b, pp. 51-53, nn. 2-3, tav. XXIII, 2-3, impossibilitata a dare una datazione l’autrice notava
comunque l’insolita assenza di confronti in Sardegna: p. 52, nota 8; Quillard 1987, pp. 142-144, nota 712, del
tipo A (“boucle en forme d’outre”) in cui nota che l’ellisse dei due esemplari sardi è particolarmente lunga, v.
inoltre “tableau recapitulatif” IX.
240
Uberti 1977b, pp. 51, 53, n. 4, tav. XXIII, 4, con valida e ampia datazione a V – III secolo.
241
Ibidem, pp. 51, 53-54, n. 5, tav. XXIII, 5; Acquaro 1984, p. 19, fig. 6.
242
Uberti 1977c, pp. 57-58, n. 1, tav. XXIV, 1, propone sulla base di confronti una datazione a IV – III secolo;
Hölbl 1986, pp. 59, 87, del tipo 15 (Astarte?); Bernardini 1991, p. 194, tav. IV, 2, che riferisce il
rinvenimento, nell’area del cronicario, di una matrice per oggetti dello stesso tipo in contesto stratigrafico di
V sec.
243
Uberti 1977c, pp. 57-58, n. 2, tav. XXIV, 2; Acquaro 1984, p. 120, fig. 135.
244
Uberti 1977c, pp. 57-58, n. 3, tav. XXIV, 3; Hölbl 1986, pp. 59, 93, del tipo 31.A.1.1 che l’autore considera
come importazione egiziana: p. 132.
245
Pesce 1961, p. 304-305, fig. 139. Nient’altro è noto su questi amuleti ed è difficile dall’immagine farsi un
idea di tutte le tipologie e della contemporaneità dei tipi, che, se reale, costituirebbe una fonte di inestimabile
valore per la conoscenza della loro cronologia relativa. Si intravedono comunque un leone, due urei, due
scrofe che allattano i piccoli, un grande Nefertum al centro, un gatto, una lepre e diverse divinità sedute. v.
anche Redissi 1991a, p. 104, nota 102, che individua (in alto a destra) tre udjat stilizzati datati a IV-III secolo.
246
Torno 1987; v. in particolare per i reperti qui in esame: Pisano 1987b, per gli scarabei, e Ciafaloni 1987, per
gli amuleti.
247
Pisano 1987b, n. 1, pp. 15, 17-20, tav. I, 1 (in diaspro verde con nascita di Horus su fiore di loto alla base,
datato a VI – V sec.), n. 2, pp. 15-16, 20-23, tav. I, 2 (in diaspro verde con volto femminile di profilo alla
base, datato a fine V – inizio IV sec.), n. 3, pp. 16-17, 23-27, tav. II, 3 (in diaspro verde con bovide dalle
- 34 -
ripropongono, questi ultimi, tipologie già note come l’udjat248, la dea ippopotamo
Thoeris249, il cinocefalo stante250, l’Horus ieracocefalo251, l’Amon-Ra criocefalo252, il
bovide coronato253, il leone accovacciato254, e l’ariete nella stessa posizione255. Fa
eccezione la sfinge alata in osso256 che manca di confronti in Sardegna e che per la
forma appiattita e la mancanza dell’appiccagnolo non permette un suo corretto
riconoscimento come amuleto, ma che ritroviamo in analoghe e più piccole
attestazioni tipologiche in pasta257. Gli athyrmata della collezione, insieme ai reperti
ceramici affini per datazione (V secolo)258, potrebbero aver costituito il corredo di una
o più tombe della necropoli di Sulcis.
Dagli scavi editi negli anni successivi alla ricognizione museografiche di G.
Hölbl, sino a tempi recenti, provengono:

Scavi effettuati in proprietà di Agus Raffaele (sigla AR), nel corso degli anni ’80:

Tomba 2 AR259:
anello crinale in lamina d’oro su anima bronzea con estremità avvolte a spirale260;
coppiglia bronzea261;
15 lingotti di piombo262;
sezione longitudinale sinistra di astragalo di bovino263.

zampe posteriori sollevate, datato al IV sec.), n. 4, pp. 17, 27-28, tav. II, 4 (in corniola con Pegaso in volo e
datato a fine V sec.).
248
Ciafaloni 1987, nn. 1-9, pp. 49-52, 57, tav. XIV, 1-9.
249
Ibidem, nn. 10-12, 14, pp. 52-53, 57-58, tav. XIV, 10-12, 14.
250
Ib., n. 13, pp. 53, 58, tav. XIV, 13.
251
Ib., n. 15, pp. 54, 59, tav. XV, 15.
252
Ib., n. 16, pp. 54, 59, tav. XV, 16.
253
Ib., nn. 17-18, pp. 54-55, 60, tav. XV, 17-18.
254
Ib., n. 19, pp. 55, 60, tav. XV, 19.
255
Ib., nn. 20-22, pp. 55-56, 60, tav. XV, 20-22.
256
Ib., n. 23, pp. 56, 60-62, tav. XVI, 23.
257
V. ad es. Acquaro 1977b, nn. 822-833, tavv. XXXVII-XXXVIII.
258
Pisano 1987c, p. 97.
259
Bartoloni 1987a, scavata nell’autunno 1982 presentava al suo interno tre deposizioni susseguitesi entro il
primo quarto del V secolo. L’esiguità del corredo ornamentale del defunto si spiega con una depredazione
avvenuta in tempi antichi (p. 61).
260
Ibidem, pp. 61-62, tav. X, c-d (2 AR/10).
261
Ib., pp. 61-62, tav. X, b (2AR/11), visibilmente manomessa e gettata lontano dal sarcofago cui apparteneva.
262
Ib., pp. 61-62, tav. X, e (2 AR/12/1-5), la loro menzione qui ha solo scopo di completezza, non rientrando
come le coppiglie bronze tra gli athyrmata propriamente detti.
263
Ib., pp. 62-63, tav. X, f (2 AR/13), dalla presunta funzione apotropaica.
- 35 -
Tomba 6 AR264:
vago in pasta vitrea blu.

Tomba 9 AR265:
v. § 3.4.

Tomba 10 AR266:
v. § 3.5.

Tomba 11 AR267:
v. § 3.6.

Tomba 12 AR268:
Deposizione presso la parete S:
7 vaghi in pasta vitrea e corniola269:
2 placchette rettangolari con udjat su un lato e tre frammenti incomprensibili270;
frammenti di laminetta d’argento271;

264
Tronchetti 1990, scavata nel 1988. Sebbene l’editore riporti la sigla 6A, questa non è da confondere con
l’omonima tomba di via Castello (v. supra), dalla quale differisce per la pianta (cfr. ibidem, fig. 16 con Sulcis
1989, pianta E), e da intendersi come tomba 6 AR. Conteneva al suo interno almeno tre deposizioni ed è da
datarsi al pieno V secolo sulla base del corredo ceramica, mentre la tipologia tombale restringe la datazione
alla prima metà del secolo.
265
Tomba a camera unica contenente 10 deposizioni con periodo di utilizzo entro la prima metà del V sec., i
monili appartenevano a solo tre deposizioni (1, 2 e 9), forse le più antiche della sepoltura: Bernardini c.p.
Scavata da P. Bernardini nel 1989, e oggetto di una pubblicazione preliminare (Bernardini 1993, pp. 137-141,
tavv. II-V), è stata tema di una tesi di laurea presso l’Università di Urbino, che non abbiamo potuto visionare.
Abbiamo preso visione tuttavia degli ornamenti conservati ancora nel 2005 presso i magazzini della
Soprintendenza di Sant’Antioco.
266
Tomba con tramezzo centrale della prima metà del V sec., i monili appartengono alla sola deposizione del
vano destro, forse la più antica di tutta la sepoltura: Bernardini c.p. Scavata insieme alla precedente nel 1989.
Relazione preliminare in Bernardini 1999, pp. 141-144, tavv. VI-VIII; studio esaustivo di tutto il corredo
della tomba in Melchiorri 2002, non visionato a differenza dei materiali: v. § 3.4.
267
Tomba intensamente utilizzata tra seconda metà del V e primi decenni del IV sec. per la presenza di circa 20
deposizioni, di cui 5 con monili. Nel catalogo al § 3.6. è stato possibile includere i gioielli delle deposizioni 6,
18 e 19. Scavata nello stesso anno delle due precedenti: Bernardini 1991, p. 133, nota 1. Studio esaustivo del
corredo in Melchiorri 2002.
268
Scavata nel 1989 da C. Tronchetti: Tronchetti 1997; Tronchetti 2002. Tomba a camera semplice in uso nella
prima metà del V secolo, conteneva i resti di almeno tre deposizioni, di cui una priva di ornamenti.
269
Ibidem, p. 151, n. 16, tav. VI, 5, l’immagine non trova riscontro con la descrizione in cui si menzionano solo
vaghi in pasta vitrea, mentre sono evidenti due vaghi in corniola, di cui uno a barilotto e l’altro sferico. Nella
prima edizione dei materiali (Tronchetti 1997) i due vaghi in corniola sono espressamente ritenuti d’ambra: n.
303, p. 292.
270
Tronchetti 2002, p. 156, n. 51, tav. XIV, 2.
- 36 -
Deposizione presso l’angolo NO:
bracciale in argento a sezione circolare272;
elementi di collana:
pendente circolare umbonato in oro;
vago a goccia;
4 vaghi cilindrici;
2 vaghi sferici;
4 dischetti;
2 frammenti a fiore di loto e uno a piumaggio di Bes;
vago a falce di luna273.
Frammenti di laminetta d’argento274.

Anche più recenti scavi, condotti a cura della Soprintendenza per i Beni Archeologici
delle Province di Cagliari e Oristano e per opera dei dipendenti del Parco Geo-
Minerario (sigla PGM), hanno interessato tombe di età punica, alcune delle quali
hanno restituito oggetti di nostro interesse. Tre tombe in particolare saranno oggetto di
analisi specifica in questo lavoro, rimandiamo quindi al catalogo nei § 3.1-3. per
l’elenco dettagliato dei rinvenimenti; si tratta della tombe 1 PGM BLV di Via
Belvedere e delle tombe 5 e 6 PGM.

2.2. ATHYRMATA DEL TOPHET


Numerosi oggetti di ornamento, non dissimili quanto a tipologia da quelli sin qui
elencati, provengono dal tophet ed erano solitamente contenuti entro le urne insieme ai
resti ossei inceneriti. Lo stato di conservazione, non sempre ottimale, dimostra una
loro continua esposizione agli agenti atmosferici e forse in qualche caso una loro
sottoposizione al fuoco275. Quest’ultima circostanza potrebbe essere indicativa di un

271
Ibidem, p. 154, n. 37, p. 156, n. 52.
272
Ib., p. 153, n. 27, tav. X, 1.
273
Ib., p. 153, n. 30, tav. XI, 2. Tutti i vaghi sono ritenuti d’ambra, fatto non verificabile dall’immagine in bianco
e nero.
274
Ib., p. 155, n. 41.
275
Cfr. Martini 2004, pp. 41-42, 80, per quanto proposto riguardo al n. 82, amuleto fuso con bracciale infantile;
diversa è l’opinione riguardo ai reperti rinvenuti più recentemente in Montis 2005.
- 37 -
utilizzo in vita degli oggetti da parte del piccolo defunto, e in mancanza di analisi
antropologiche permetterebbe di distinguere tra incinerati umani ed animali, essendo
tuttavia possibile che in quest’ultimo caso la presenza di ornamenti permettesse di
rendere più verosimile il sacrificio di sostituzione.
Proviene dagli scavi effettuati non oltre il 1973, data della sua edizione276, un
gruppo di 126 oggetti così composto:
3 “mani che fanno le fiche” con braccio in osso277;
mano o piede in bronzo278;
organi genitali maschili in osso279;
amuleto a forma di tavoletta di difficile interpretazione (genitali maschili?) in osso280;
amuleto a forma di bocciolo di fiore di loto in osso281;
4 amuleti cordiformi282;
Bes in pasta vitrea283;
2 cinocefali accovacciati e discofori284;
testa con corona atef (Mahes?)285;

276
Bartoloni 1973, l’autore non specifica le annate di scavo ma informa che fu compiuto dall’allora
soprintendente Ferruccio Barreca: p. 181, nota 1.
277
Ibidem, p. 186, nn. 1-3, tav. LVI, 1-2, 4; i nn. 1 e 3 in Barreca 1986, p. 240, fig. 219, secondo e quinto da
destra; Ferrari 1994, p. 84, note 38-40, fornisce numerosi confronti.
278
Bartoloni 1973, p. 187, n. 4, tav. LVI, 7. Anche in questo caso è difficile dare un’interpretazione convincente
dell’oggetto costituito da una lamina triangolare, alla cui base quattro incisioni individuano 5 appendici simili
a corte dita, al di sopra delle quali sono due incisioni oblique simili a quelle presenti su amuleti a forma di
cippo (Acquaro 1977b, nn. 1263-1264, tav. LXI) o di tavoletta (Cintas 1946, p. 98, tav. XX, 134).
279
Bartoloni 1973, p. 187, n. 5, tav. LVI, 3; Hölbl 1986, p. 107, attribuisce al tipo 65.1.C (in osso) riferendosi
erroneamente al n. 3; Barreca 1986, p. 240, fig. 219; Sulcis 1989, fig. 63, primo a sinistra (la didascalia
riporta la datazione al IV sec.); Ferrari 1994, p. 84, indica il riscontro con esemplari da contesti databili dal V
secolo.
280
Bartoloni 1973, n. 6, tav. LVI, 10; Ferrari 1994, p. 84.
281
Bartoloni 1973, p. 187, n. 7, tav. LVI, 8, da lettura come fallo; Sulcis 1989, fig. 63, al centro; Ferrari 1994,
pp. 88-89, nota 189, troverebbe un confronto in un esemplare ellenistico di Gezer.
282
Ibidem, pp. 187-188, nn. 8 (in bronzo), 9-10 (vetro), 11 (calcare). Mentre i primi tre rispettano il modello
egiziano, il quarto assume la forma convenzionale moderna dell’organo. Il n. 10 anche in Hölbl 1986, p. 106,
tav. XCI, 7 (“materia porosa rossastra”), del tipo 63; Ferrari 1994, p. 87, esprime perplessità nella lettura del
n. 11.
283
Bartoloni 1973, p. 188, n. 12, tav. LVI, 9; Hölbl 1986, pp. 85, 115, 162, tav. XXIV, a-b, del tipo 6.1.A.1.1.1,
propone provenienza egiziana; da ultima Ferrari 1994, pp. 87-88, riscontra confronti puntuali in ambito
cipriota di VIII – VII secolo e cartaginese di metà del VI.
284
Bartoloni 1973, p. 188, nn. 13-14, tav. LVII, 1 e 5. Il primo, in pasta vitrea azzurrastra, da intendersi
importazione egiziana. Per il secondo, edito anche in Hölbl 1986, p. 97, tav. LXXV, 4, del tipo 38.1.A.2.1;
Ferrari 1994, p. 86 (per il n. 13 propone l’appartenenza a modelli di XXII – XXIV dinastia - nota 95 - quindi
databile tra i primi tre secoli del I millennio), p. 88 (per il n. 14 propone invece maggiore aderenza alla figura
di Bes: nota 159).
285
Bartoloni 1973, p. 189, n. 15, tav. LVII, 4. In questo caso l’autore propone l’interpretazione come gatto-
Bastet; Ferrari 1994, p. 88, propone invece l’appartenenza all’iconografia di Mahes (Petrie 1914, n. 192), tipo
raro ma di certo non assente in ambito fenicio-punico.
- 38 -
Horus Arpocrate286;
3 Horus ieracocefali, di cui rimane la sola parte superiore287;
Thoeris stante priva della testa288 e figura antropomorfa accovacciata priva della testa
(Thoeris?)289;
2 parti inferiori di divinità seduta in trono e stante290;
Sekhmet coronata e stante291;
Anubis di cui residua la sola parte superiore292;
2 urei293;
2 pateci294;
3 udjat295;
sfinge296;
animale in osso non identificato297;
simbolo wadj in osso298;
2 tavolette in osso299;

286
Bartoloni 1973, p. 189, n. 16, tav. LVII, 11; Hölbl 1986, p. 87, tav. XXXIV, 1, del tipo 10.A.2; Ferrari 1994,
p. 85, con riscontri in contesti cartaginesi di V – IV secolo (nota 83).
287
Bartoloni 1973, p. 189, nn. 17-19, tav. LVII, 2, 6 e 8; Ferrari 1994, p. 87, per la quale i tre amuleti
documentano la variante diffusa tra IV e III secolo.
288
Bartoloni 1973, pp. 189-190, n. 20, tav. LVII, 3; Hölbl 1986, tav. LXII, 1, tipo incomprensibile; Ferrari 1994,
p. 88.
289
Bartoloni 1973, p. 190, n. 21, tav. LVII, 12; Ferrari 1994, p. 88.
290
Bartoloni 1973, p. 190, nn. 22-23, tav. LVII, 9-10; Ferrari 1994, p. 88.
291
Bartoloni 1973, p. 190, n. 24, tav. LVIII, 1, interpretato come Anubis; Hölbl 1986, pp. 54, 80, 108, 420 segg.,
tav. VII, 1, che interpreta l’amuleto come divinità leontocefala (Sekhmet) del tipo 2.A.2, tramite il confronto
con cinque amuleti di Tarquinia (Hölbl 1979, vol. II, n. 130, k-o, p. 44, tav. XXXVII, 4-8), e conferisce
datazione alla seconda metà dell’VIII – prima metà del VII sec.: p. 108; Ferrari 1994, p. 88.
292
Bartoloni 1973, p. 190, n. 25, tav. LVII, 7; Ferrari 1994, p. 88, per la quale troverebbe confronti in tombe
cartaginesi e tharrensi di VI secolo: nota 172.
293
Bartoloni 1973, p. 191, nn. 26-27, tav. LVII, 13-14; il primo corrispondente a Sulcis 1989, p. 134, fig. 56, in
basso a sinistra; Ferrari 1994, p. 84, note 45-46 (per i confronti).
294
Bartoloni 1973, p. 191, nn. 28-29, tav. LX, 2 e 9; il 28 edito anche in Hölbl 1986, p. 84, tav. XIX, 6, del tipo
5.2.A.3.2; e corrispondente a Sulcis 1989, p. 134, fig. 56, in basso a destra; per entrambi v. Ferrari 1994, p.
85, e per i confronti v. nota 75.
295
Bartoloni 1973, pp. 191-192, nn. 30-32, tav. LIX, 11-13, di cui il 32 in osso e gli altri in pasta vitrea; il 31
anche in Sulcis 1989, p. 134, fig. 56, in alto a destra, e in Hölbl 1986, p. 102, del tipo 49.A.2.4.4; il 32 in
Ibidem, p. 103, tav. LXXXIV, 3, unico esempio del tipo 49.C.2; Ferrari 1994, p. 84.
296
Bartoloni 1973, p. 192, n. 33, tav. LVIII, 5; Ferrari 1994, p. 87.
297
Bartoloni 1973, p. 192, n. 34, tav. LVIII, 2; Sulcis 1989, p. 134, fig. 56, in alto a sinistra.
298
Bartoloni 1973, p. 192, n. 35, tav. LVIII, 6 (il riferimento all’immagine è scambiato con quello del n. 36),
diversa l’interpretazione dell’autore come pilastrino (djed?); Ferrari 1994, p. 87, concorre all’interpretazione
come w3dj, ma nota la mancanza di confronti puntuali.
299
Bartoloni 1973, pp. 193 e 196, nn. 36 e 54, tav. LVIII, 3 (cfr. nota prec. 278) e LIX, 10. Lo scarso sviluppo
del primo in profondità non permette l’identificazione come pilastro djed, per il quale comunque mancano
confronti con anello di sospensione così conformato. Il secondo è definito placchetta, ma è da notare come
l’appiccagnolo non sia forato; Ferrari 1994, p. 87 (considera il n. 54 come tavoletta derivata da quelle con
motivo dell’udjat e vacca con vitello), p. 88 (il n. 36 come cippo betilo, per il quale propone, come per i nn.
- 39 -
2 cippi in osso300;
11 teste sileniche in pasta e talco301;
maschera grottesca (negroide?) in osso302;
maschera tragica in vetro blu303;
corona composita in piombo304;
placchetta rettangolare con udjat/vacca e vitello305;
2 dischi in piombo, uno con simbolo di Tanit su un verso306 e l’altro con segni forse
alfabetici307;
pendente discoide in oro frammentato308;
pendente laminare a ghianda con foro a losanga al centro in bronzo309;
pendente incompleto laminare in piombo di forma approssimativamente circolare310;
pendente incompleto in argento311;
pendente rettangolare in bronzo con quattro scanalature verticali312;
pendente informe in argento313;

37-38, datazione a V – II secolo). L’identificazione qui proposta è come “tavoletta da scrittura”, un tipo non
tanto frequente tra gli amuleti punici ma di certo non assente: Cintas 1946, p. 98, tav. XX, 134; Fresina 1980,
n. 32, p. 32, fig. III, 7, tav. VI, 32; per il motivo a croce presente su questi amuleti e già riscontrato nel n. 4
dal tophet cfr. supra nota 179.
300
Bartoloni 1973, p. 193, nn. 37-38, tav. LVIII, 8 e 9; Hölbl 1986, p. 106, del tipo 56.1; Ferrari 1994, p. 88: cfr.
nota precedente.
301
Bartoloni 1973, pp. 193-195, nn. 39-49, tavv. LVIII, 4, 7, 10-14, LIX, 1, 3, 5-6; il n. 39 in Barreca 1986, p.
240, fig. 219, primo da destra; i nn. 39-40 e 46 anche in Sulcis 1989, p. 138, fig. 64, con didascalia riportante
il VII secolo come datazione; Ferrari 1994, p. 83, nota 19, suddivide il gruppo in due: maschera di sileno con
barba liscia (nn. 42-49) e barba con incisioni (nn. 39-41), indica inoltre il VII – inizi V secolo come periodo
di diffusione della tipologia.
302
Bartoloni 1973, p. 195, n. 50, tav. LIX, 2; Ferrari 1994, p. 83, nota 13, indica il riscontro con un esemplare da
una tomba cartaginese della metà del V secolo.
303
Bartoloni 1973, p. 195, n. 51, tav. LIX, 8.
304
Ibidem, p. 195, n. 52, tav. LIX, 7. Come affermato dallo stesso autore, si tratta di un elemento appartenente ad
un oggetto di maggiori dimensioni, forse una statuetta e quindi non di un amuleto. Si compone di disco solare
umbonato, sopra il quale è la doppia corona egiziana, il tutto affiancato da quelli che l’autore definisce urei,
ma potrebbero essere due corna, per assimilazione con il copricapo hathorico.
305
Ib., pp. 195-196, n. 53, tav. LIX, 9. Si tratta verosimilmente di uno degli esempi più tardi di questa tipologia
per l’utilizzo della sola tecnica ad incisione: Ferrari 1994, p. 87.
306
Bartoloni 1973, p. 196, n. 55, tav. LX, 1, forato sulla superficie in tre punti, forse per il passaggio di chiodi.
307
Ibidem, p. 196, n. 56, tav. LX, 3, ayin su di un verso e sull’altro 11 tratti a raggiera su metà della
circonferenza. È interessante notare che i dischi hanno spessore diverso ma uguale diametro (22 mm).
308
Ib., p. 196, n. 57, tav. LX, 4. L’autore asserisce campito da una decorazione a disco solare alato, v. anche
Quillard 1979, p. 68, nota 335, che lo inserisce tra i confronti per il tipo “pendentif discoïde à décor
égyptisante”, e nota la differente tecnica decorativa, che a differenza di quella più diffusa a granulazione e
filigrana (“rapporté”), è qui a stampigliatura.
309
Bartoloni 1973, p. 196, n. 58, tav. LX, 12.
310
Ibidem, p. 196, n. 59, tav. LX, 7.
311
Ib., p. 197, n. 60, tav. LX, 6, con quattro linee incise al centro presso il bordo.
312
Ib., p. 197, n. 61, tav. LX, 5, per l’autore le incise sarebbero prodotte dagli spazi tra linee di granuli.
313
Ib., p. 197, n. 62, tav. LXI, 2, ossidato.
- 40 -
testa di piccozza in piombo314;
testa di animale in pasta vitrea315;
placchetta a forma di cavallo in osso316;
testina di uccello (ibis?) in ceramica317;
pesce in osso incompleto318;
4 vertebre di pesce, di cui una in ceramica319 e 3 autentiche320;
2 opercoli di turbinide321;
10 pendenti a ghianda, di cui 2 in osso322 e 8 in bronzo323;
elemento vegetale in osso324;
3 dadi, di cui uno in avorio approssimativamente cubico con numerazione su tutte e sei
le facce325, due in ceramica prismatici con numerazione da 1 a 4 sui soli lati lunghi326;
4 campanelle327 e 4 battagli in bronzo328;
12 gasteropodi del tipo Cypraea Lurida329;
13 opercoli di turbinide di cui uno incastonato in filo d’argento330;
2 pendenti discoidali, di cui uno in argento e uno in elettro, con decorazione ocellata a
granulazione331;

314
Ib., p. 197, n. 63, tav. LX, 8, le ridotte dimensioni (lungh. 35 mm) possono giustificare un uso rituale.
315
Ib., p. 197, n. 64, tav. LXI, 1; richiamato in nota in Acquaro 1977b, p. 17, nota 29, a confronto con simili
amuleti dalla connotazione bovina: nn. 94 e 100; Ferrari 1994, p. 87, per la quale le incisioni
testimonierebbero la tecnica dell’incastonatura (nota 141).
316
Bartoloni 1973, p. 197, n. 65, tav. LXI, 3, incompleto, con foro sulla spalla; Ferrari 1994, p. 89, nota la
difficoltà di definizione tra equide o canide.
317
Bartoloni 1973, p. 198, n. 66, tav. LXI, 11.
318
Ibidem, p. 198, n. 67, tav. LXI, 5, l’autore attribuisce la rappresentazione ad un’esponente della famiglia degli
sparidi: nota 31; Ferrari 1994, p. 88.
319
Bartoloni 1973, p. 198, n. 68, tav. LX, 10, vi riconosce l’imitazione di una vertebre di un esponente della
famiglia degli scienidi.
320
Ibidem, pp. 201-202, nn. 93-95 tav. LXII, 11-13.
321
Ib., p. 198, nn. 69-70, tav. LXII, 5 e 8, opercoli di murex.
322
Ib., pp. 198, 200, nn. 71 e 80, tavv. LIX, 4 e LXI, 6; Ferrari 1994, p. 88, propone per il n. 80 appartenenza al
tipo del fiore di loto in boccio (nota 186).
323
Bartoloni 1973, pp. 199-200, nn. 72-79, tavv. LX, 11, LXI, 7-9, 13, LXII, 3-4, 6.
324
Ibidem, p. 200, n. 81, tav. LXI, 10; Sulcis 1989, p. 138, fig. 63, primo a destra; Ferrari 1994, p. 89, nota 195,
riferendosi erroneamente al n. 34, propone il confronto con Fresina 1980, p. 40, n. 38, fig. II, 15, tav. VII,
provvisto di tre modanature sotto al foro di sospensione.
325
Ib., p. 200, n. 82, tav. LXI, 4; Barreca 1986, p. 240, fig. 219, terzo in alto da destra.
326
Bartoloni 1973, p. 200, nn. 83-84, tav. LXI, 12 e LXII, 9.
327
Ibidem, pp. 200-201, nn. 85-88, tav. LXII, 1-2, 10 e 14, solo la prima provvista di battaglio e anello di
sospensione.
328
Ib., p. 201, nn. 89-92, tav. LXII, 7 e LXIII, 1, 3-4.
329
Ib., p. 202, nn. 96-107, tav. LXIII, 2.
330
Ib., p. 202, nn. 108-120, tav. LXIII, 7-8.
331
Ib., p. 202, nn. 121-122, tav. LXIII, 5-6.
- 41 -
scarabeo in diaspro verde incompleto con sistro hathorico con corona di disco e urei e
affiancato da urei discofori alla base332;
scarabeo in diaspro verde incompleto con testa di negro di profilo333;
scarabeo in diaspro verde incompleto con parte posteriore di leone accovacciato a
lettura orizzontale334;
frammento di scarabeo in diaspro verde335;

Scavi più recenti effettuati negli anni 1995 e 1998 hanno portato un’ulteriore
importante contributo alla conoscenza degli oggetti di ornamento deposti insieme alle
ceneri nelle urne del tophet336. La datazione delle urne in questo settore del tophet è
compresa indicativamente tra l’ultimo quarto del VII e fine del VI secolo337.
Le urne dei quadranti B-D 5-11, scavati nel 1995, hanno restituito i seguenti
corredi:
Urna 3338:
scoria di piombo339.
Urna 38:
orecchino in due frammenti di bronzo340.
Urna 45:
4 vaghi in pasta vitrea341.
Urna 48:
Vago anulare in corniola342.
Urna 50:
20 frammenti in bronzo pertinenti ad almeno 4 bracciali;

332
Ib., p. 202, n. 123, tav. LXIII, 9; Hölbl 1986, p. 314, n. 171, tav. CLIV, 2; CPSC, n. 1/8.
333
Bartoloni 1973, pp. 202-203, n. 124, tav. LXIII, 10; CPSC, n. 36/24.
334
Bartoloni 1973, p. 203, n. 125, tav. LXIII, 11, vi legge una sfinge; CPSC, n. 38/29.
335
Bartoloni 1973, p. 203, n. 126, tav. LXIII, 12.
336
Ringrazio la dott.ssa Ilaria Montis per avermi messo a disposizione una copia dell’articolo che, nel momento
in cui si scrive, è ancora inedito: Montis 2005.
337
Montis 2003.
338
Si intendano i numeri progressivi, che individuano l’urna in Montis 2005, sempre preceduti dalla sigla
SATH/U-.
339
Ibidem, n. 1, tav. II. Per l’interpretazione di materiali di questo tipo a Mozia v. Ciasca 1992, p. 143, la quale
proponeva l’appartenenza a pendenti in questo poco nobile metallo, liquefatto per l’esposizione all’olocausto
funebre.
340
Montis 2005, n. 2, tav. II.
341
Ibidem, n. 3, tav. II.
342
Ib., n. 4, tav. II.
- 42 -
astuccio porta amuleti, a testa piatta con appiccagnolo ad anello ed estremità inferiore
arrotondata, in bronzo;
3 vaghi in steatite;
orecchino con corpo a sanguisuga in oro;
piccola sfera d’argento;
2 amuleti non identificati343.
Urna 67:
vago anulare in materiale non identificato344.
Urna 82:
scoria di piombo345.
Urna 86:
vago anulare in materiale non identificato346;
anello crinale in bronzo347.
Urna 93:
scoria di piombo348.
Urna 121:
orecchino ad arco ingrossato in bronzo;
9 vaghi in pasta vitrea349.
Urna 145:
amuleto non identificato in 4 frammenti350;
2 frammenti di verga in bronzo351;
2 vaghi in pasta vitrea352.

343
Ib., nn. 4-11, tav. III.
344
Ib., n. 12, tav. II, baccellato. Da quanto è possibile apprendere dall’immagine, questo vago presenta una forte
analogia con quelle che dovrebbero essere le anime dei vaghi in lamina aurea decorata a reticolo. Diversi
esemplari di questo tipo sono presenti nel nostro catalogo (v. § 3, nn. 10-11, 53), le cui dimensioni sono
tuttavia di circa tre volte maggiori (12 mm contro i 4 del presente vago), rispettando così una, già rilevata e
costante, differenza tra i gioielli del tophet e quelli destinati ai defunti delle necropoli.
345
Ib., n. 13, tav. II. Cfr. quanto proposto supra a nota 339 per il n. 1.
346
Ib., n. 14, tav. II. Analogo al n. 12 anche per dimensioni (Ø 4 mm) (cfr. quanto proposto supra a nota 344) ma
differisce leggermente per la decorazione: qui la baccellatura sembra essere costituita da solchi più
ravvicinati.
347
Ib., n. 15, tav. II.
348
Ib., n. 16, tav. IV. Cfr. quanto proposto supra a nota 339 per il n. 1.
349
Ib., nn. 17-18, tav. II.
350
Ib., n. 19, tav. IV, forse un pateco.
351
Ib., n. 20, tav. IV, forse appartenenti ad un anello crinale.
352
Ib., n. 21, tav. IV.
- 43 -
Urna 159:
vago in pasta vitrea353.
Urna 175:
9 vaghi, di cui uno in bronzo e i restanti in pasta vitrea354.
Urna 190:
orecchino ellittico ad arco ingrossato in argento;
amuleto udjat in steatite;
testa silenica in pasta;
pendente discoidale umbonato e margini rilevati in argento;
Cypraea Lurida;
Thoeris priva della testa in faïence;
Khonsu in faïence;
33 vaghi, di cui 5 bianchi in pasta vitrea, 15 piccoli e neri in vetro, 1 cubico in pasta
vitrea turchese, 1 con decorazione a quattro occhi e 1 in bronzo355.
Urna 200:
7 vaghi a forma di stella a quattro punte in argento;
2 vaghi in pasta vitrea356.
Urna 213:
Cypraea Lurida;
vago in bronzo357.
Urna 225:
2 vaghi in pasta vitrea, di cui uno discoidale;
anello crinale in bronzo;
2 teste sileniche in faïence;
piccola sfera d’argento358.

353
Ib., n. 22, tav. IV.
354
Ib., n. 23, tav. IV.
355
Ib., nn. 24-31, tav. V.
356
Ib., n. 32, tav. IV. Vaghi di forma stellare sono già noti dal tophet di Mozia, ma in terracotta e sia nella
variante a quattro che in quella a tre punte: Ciasca 1992, p. 143; sette in lamina d’oro, provenienti da Ibiza,
sono anche conservati al Museo Arqueologico Nacional di Madrid, a quattro punte ma leggermente più
grandi di quelli sulcitani e per i quali è proposta la funzione di adorno di indumenti o copricapi: San Nicolás
Pedraz 1984, p. 30, fig. 7; Almagro Gorbea 1986, n. 179, p. 166, tav. LX. È da notare come gli oggetti
riprodotti nell’immagine presentino due o tre fori al centro, mentre i nostri ne hanno uno solo.
357
Montis 2005, nn. 33-34, tav. VI.
358
Montis 2005, nn. 35-39, tav. VI.
- 44 -
Urna 230:
4 vaghi in pasta vitrea bianca e azzurra;
anello crinale in bronzo359.
Urna 239:
4 vaghi, di cui 3 in pasta vitrea e uno in steatite;
pateco in pasta di tipo stilizzato con quattro fori ai lati del collo e delle gambe;
orecchino ad arco ingrossato in bronzo;
2 frammenti di verga in piombo360.

Gli scavi eseguiti nel 1998, che hanno interessato i quadrati del settore E, hanno
restituito i seguenti corredi:
Urna 265:
2 vaghi in pasta vitrea;
frammento di vago discoidale con 6 cerchi disposti a raggiera intorno ad uno centrale
in pasta vitrea361.
Urna 278:
vago in pasta vitrea362.
Urna 287:
2 vaghi in pasta vitrea di cui uno rosso363.
Urna 288:
Bes364.
Urna 289:
anello a sezione circolare in bronzo;
Cypraea Lurida365.
Urna 292:
anello crinale a spirale multipla in argento;
vago in steatite;

359
Ibidem, nn. 40-41, tav. VI.
360
Ib., nn. 42-45, tav. VII.
361
Ib., nn. 46-47, tav. VII.
362
Ib., n. 48, tav. VI.
363
Ib., n. 49, tav. VII.
364
Ib., n. 50, tav. VI.
365
Ib., nn. 51-52, tav. VII.
- 45 -
frammenti di verghe di bronzo pertinenti ad almeno 3 bracciali;
due frammenti di 1 orecchino o anello in bronzo366.

Purtroppo privi dell’associazione con l’urna sono i seguenti oggetti:


2 teste sileniche in faïence;
vago in materiale non identificato;
pendente ad arco centinato con decoro geometrico in argento;
2 vaghi cubici in pasta vitrea turchese367.

Gli ultimi due gruppi di materiali sin qui elencati costituisce il lotto più numeroso di
gioielli e amuleti provenienti da un tophet che sia stato edito sinora. L’unico che
permetta perciò di stabilire delle relazioni e delle differenze con i materiali provenienti
dalla necropoli dello stesso centro. In primo luogo sorprende la notevole varietà di
tipologie, all’interno di ciascuna classe di materiali e nei confronti dei materiali già
noti nel resto del mondo punico. In questa varietà P. Bartoloni vi ha riconosciuto
giustamente la “testimonianza di un artigianato non chiuso da criteri informativi
standardizzati e non limitato ad una vieta e pedissequa esecuzione di copie”368, ma non
va sottovalutato il fatto che ci troviamo di fronte a reperti per la maggior parte privi di
una benché minima possibilità di datazione, anche a ragione di quanto detto pocanzi:
difficile stabilire datazioni su base stilistica quando la produzione non è standardizzata
e non riconosca quella impostazione che della stessa analisi stilistica è necessario
presupposto. Ma considerato il lungo periodo di vita del santuario sulcitano (dalla
fondazione nell’VIII secolo all’età romana repubblicana369) non dovrebbe sorprendere
di potervi ritrovare nei suoi corredi oggetti di svariate tipologie370. Questo vale di
sicuro almeno per gli oggetti dell’edizione del 1973, mentre il lotto tuttora inedito
degli scavi degli anni 1995 e 1998, ha fornito un quadro abbastanza preciso: tra gli
amuleti spicca l’alta percentuale di teste sileniche (5 su 13) a conforto della

366
Ib., nn. 53-56, tav. VIII.
367
Ib., nn. 58-62, tav. VIII.
368
Bartoloni 1973, p. 183.
369
Sulcis 1989, pp. 52-53.
370
Sulla presenza di tipologie riscontrate nel tophet di Sulcis ma non negli altri v. Ferrari 1994, p. 87.
- 46 -
destinazione infantile, anche se di sicuro non esclusiva, di questa tipologia371. Questo
dato, già evidente nel 1973, ha portato lo stesso Bartoloni a considerare il tipo come
elemento distintivo del tophet372, considerazione che almeno a Sulcis trova conferma
dalla totale assenza della testa silenica tra gli amuleti della necropoli373. Anche la
frequenza della Cypraea Lurida374, conchiglia la cui forma ricorda il genitale
femminile, e per questo destinataria di interesse in numerose culture primitive375, è un
evento da non sottovalutare e forse da ricollegare a quel “gusto e […] sensibilità più
popolaresche e più immediate”376 che trovano nel santuario di Sulcis pieno
compimento. Ulteriore elemento distintivo del tophet è la dimensione dei gioielli: la
sensibile riduzione può essere traccia della pertinenza a individui di piccola taglia,
bambini per l’appunto, secondo una prassi documentata anche in ambito tombale377.
Ancora un tratto costitutivo del tophet in generale, che raramente è stato preso in
considerazione378 e al quale daremo il giusto risalto nel capitolo dedicato agli aspetti
funzionali degli athyrmata, è la presenza degli scarabei, ma soprattutto per quanto
riguarda Sulcis la qualità di questa presenza. Da quanto si può evincere dai resoconti
di scavo e dalle sintesi riguardanti i tophet, sorprende la totale assenza di questo tipo di
amuleto nei santuari, cosicché il cattivo stato di conservazione dei quattro scarabei in
diaspro di Sulcis potrebbe essere stato intenzionale e per motivazioni di tipo rituale. A
conforto della nostra ipotesi è il fatto che lo scarabeo edito dall’Hölbl come
probabilmente proveniente dal tophet sia anch’esso scheggiato379.

In margine all’elenco dei materiali provenienti dal tophet aggiungiamo quello degli
amuleti appartenenti alla collezione privata di proprietà di Emanuele Lai di

371
Ferrari 1994, pp. 83, 89-90; Montis 2005; vedi anche la presenza in contesti tombali infantili a Monte Sirai:
Bartoloni 1987b, pp. 154-155, tav. II, b e c (tomba 54, datata tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo);
Campanella, Martini 2000, nn. 11-12, 15, pp. 47, 54 (tomba 103, datata al secondo quarto del VI secolo).
372
Bartoloni 1993b, p. 156.
373
Non va tuttavia dimenticato lo scarto cronologico di tali attestazioni e silenzi: le teste sileniche sinora note e
datate provenienti da tophet appartengono alla fase arcaica (VIII-VI secolo: Ferrari 1994, p. 83), mentre la
necropoli punica di Sulcis inizia ad essere utilizzata solo dalla fine del VI secolo.
374
12 esemplari provengono dai vecchi scavi e solo 3 da quelli nuovi.
375
Bartoloni 1973, p. 185, nota 23, con bibliografia.
376
Ibidem, p. 183.
377
Campanella, Martini 2000, p. 50. Per le dimensioni correlate a quelle del possessore: Bénichou-Safar 2004, p.
54, tav. XXXIII, 3; Montis 2005.
378
Martini 2004, p. 77; Montis 2005.
379
Hölbl 1986, p. 300, n. 120, tav. CLIV, 1. Cfr. supra nota 189.
- 47 -
Sant’Antioco, per i quali si è proposta una provenienza analoga a quella degli oggetti
che precedono380. Alla collezione appartengono i seguenti amuleti:
8 pateci senza attributi381;
40 pateci con attributi, di cui 7 con Iside pterofora sul retro382, e 37 del tipo
dall’estrema schematizzazione383;
Horus-Ra gradiente a testa di falco384;
figura e protome di Bes coronato385;
4 Thot386;
2 divinità criocefale (Khnum-Ra)387;
Anubis388;
Sekhmet389;
3 amuleti a forma di Iside, di cui due stanti e una seduta kourotrophia390;
Shu391;
5 divinità antropomorfe stanti o gradienti non identificate392;
45 udjat, di cui quattro nella variante incisa e a traforo393, uno di lodevole qualità con
ureo sotto la pupilla394, due con i tratti incisi su un solo lato395 ed i restanti a semplice

380
Martini 2004. Sui modi di recente rinvenimento della collezione e sui motivi per cui si ritiene fosse composta
di reperti originariamente dal tophet v. p. 7.
381
Ibidem, nn. 1-8, pp. 22, 85-86, tav. I, a tutto il gruppo viene proposta una datazione di poco posteriore agli
inizi del IV secolo (p. 22).
382
Ib., nn. 9-15, pp. 23-24, 86-87, tavv. II-III. Per il n. 13 un confronto ibicenco fornisce la datazione alla fine
del V secolo (p. 24).
383
Ib., nn. 16-48, pp. 24-25, 87-92, tavv. III-V.
384
Ib., nn. 49-62, pp. 25-27, 92-94, tavv. V-VIII. Come limiti per la datazione del gruppo viene fornito il VI-V
secolo del n. 49, considerato di fattura egiziana, ed il secondo quarto del IV – fine del III secolo per quelli di
fattura occidentale più schematica (p. 27).
385
Ib., nn. 63-64, pp. 27-30, 94-95, tav. VIII. Mentre per il primo la schematizzazione giustifica una datazione
bassa, per il n. 64 è l’analisi stilistica che individua influssi della corrente “ellenizzante” punica per i quali si
propone una datazione analoga a IV-III secolo (p. 30).
386
Ib., nn. 65-68, pp. 30-31, 95, tavv. VIII-IX.
387
Ib., nn. 69-70, pp. 31-33, 95-96, tav. IX.
388
Ib., n. 71, pp. 33-34, 96, tav. IX.
389
Ib., n. 72, pp. 34-35, 96, tav. IX.
390
Ib., nn. 73-75, pp. 34-38, 96-97, tav. X.
391
Ib., n. 76, pp. 38-39, 97, tav. X.
392
Ib., nn. 77-81, pp. 39, 97-98, tav. X.
393
Ib., nn. 82-85, pp. 41-42, 98, tav. XII, il n. 85 legato ad un piccolo bracciale d’argento per supposta
sottoposizione al fuoco incineratorio (p. 41).
394
Ib., n. 87, pp. 42, 98-99, tav. XII, che trova puntuale confronto in due amuleti del Museo di Cagliari: Acquaro
1977b, nn. 402-403, tav. XVI.
395
Martini 2004, nn. 118-119, pp. 43, 103, tav. XVII.
- 48 -
incisione quando apprezzabile per lo più di bassa qualità o in cattivo stato di
conservazione396;
4 amuleti cordiformi in quattro diversi materiali: pasta di talco, osso, pasta vitrea e
vetro397;
“mano che fa le fiche” in osso398;
corona dell’alto Egitto399;
cinocefalo in trono400;
4 arieti accovacciati, di cui due dalla resa naturalistica e due schematica401;
bovide402;
10 amuleti rappresentanti il gatto/Bastet403;
4 amuleti del tipo della scrofa che allatta i piccoli404;
4 Thoeris, di cui due del tipo con corona405;
11 falconi406;
Ibis davanti alla piuma shu407;
2 urei408;
3 astucci porta-amuleti in osso e avorio409;
4 “simboli di Tanit” in osso410;
6 amuleti in forma di anforetta o piccolo vaso411;

396
Ibidem, nn. 86, 88-117, 120-124, pp. 42-43, 98-104, tavv. XII-XVII. Lo stato di conservazione richiama
“evidenti tracce di combustione” (p. 42).
397
Ib., nn. 127-130, pp. 44, 104-105, tav. XVIII.
398
Ib., n. 131, pp. 45, 105, non fornisce immagini ma assicura la somiglianza con Bartoloni 1973, nn. 1-2, p.
186, tav. LVI.
399
Martini 2004, n. 132. pp. 45-46, 105, tav. XVIII.
400
Ibidem, n. 133, pp. 47, 105-106, tav. XVIII.
401
Ib., nn. 134-137, pp. 48, 106, tav. XIX, i primi due in pasta di talco e i secondi in pasta silicea (p. 106).
402
Ib., n. 138, pp. 49-50, 106, tav. XIX, per il quale l’autrice propone una datazione a IV-III secolo (p. 50).
403
Ib., nn. 139-148, pp. 50-52, 106-108, tavv. XX-XXII.
404
Ib., nn. 149-152, pp. 53-54, 108, tav. XXII, per la resa schematica e sommaria dei dettagli propone una
datazione a fine IV – inizi III secolo.
405
Ib., nn. 153-156, pp. 55-56, 109, tavv. XXII-XXIII, i primi due con corona, per il n. 156, per il confronto con
simili amuleti cartaginese e cagliaritani, l’autrice propone una datazione a IV-III secolo (p. 56).
406
Ib., nn. 157-167, pp. 57-58, 109-111, tavv. XXIII-XXIV, per il gruppo viene proposta una datazione alla
prima metà del IV secolo, ad eccezione dei nn. 164-167 per i quali pare più opportuna una datazione a fine IV
– inizi III secolo (p. 58). L’amuleto rappresentato con il n. 158 appare più vicino al gatto per la forma del
corpo, attribuzione non inverosimile data la mancata conservazione della testa.
407
Ib., n. 168, pp. 59, 111, tav. XXIV, l’attribuzione trova conforto, nonostante lo stato lacunoso dell’oggetto, in
un amuleto conservato al Museo di Cagliari (Acquaro 1977b, n. 1239, tav. LX). Al di là di questi due
esemplari il tipo risulta assente tra gli amuleti sardo-punici.
408
Ib., nn. 169-170, pp. 59-60, 111, tav. XXIV.
409
Ib., nn. 171-173, pp. 61, 111-112, tav. XXV, il n. 172 in avorio.
410
Ib., nn. 174-176, pp. 63, 112, tav. XXV.
- 49 -
9 cippi steliformi in osso412;
17 amuleti a forma di ghianda, di cui 5 in avorio ed i restanti in osso413;
14 esemplari di Cypraea Lurida414;
5 denti di ovino415;
3 frammenti amorfi416.
Alla collezione appartengono anche numerosi vaghi in pasta vitrea, bottoni in
osso, campanellini in bronzo, bracciali in argento e fibbie in bronzo, in parte già
studiati e in corso di pubblicazione417. Anche la tipologia di questi ultimi materiali
rende plausibile la provenienza dell’intero lotto dal tophet, ma sorprende tuttavia come
il gruppo sinora edito si riveli omogeneo ai fini di una datazione al IV - inizio del III
secolo418. Tenuto conto di questa datazione il dato delle tipologie riscontrate e
confrontate con quelle degli scavi 1995 e 1998, che hanno fornito corredi databili al
periodi arcaico, si presta ad alcune considerazioni. La tipologia della testa di sileno,
per la quale avevamo proposto una maggiore frequenza nel periodo arcaico non è
attestata nella collezione Lai, mentre lo sono maggiormente il pateco, con o senza
attributi, e l’udjat che raramente si incontrano in età arcaica. Anche se ciò non
permette di comprendere a fondo il valore e significato di questi oggetti, questo è
senz’altro segno che il passare de tempo e della storia abbia ripercussioni anche sulla
fruizione di questa categoria artigianale e che l’accettazione dei suoi prodotti non sia
nel complesso acritica.

411
Ib., nn. 178-183, pp. 64-65, 112-113, tav. XXVI. La proposta dell’autrice coinvolge altri amuleti in un
problema definitorio, per cui amuleti in pasta vitrea avrebbero aspetto maggiormente simile ad una mammella
o una ghianda, mentre quelli in osso o in metallo (interessando così anche analoghi prodotti di oreficeria)
sarebbero più simili ad un piccolo vaso: v. ad es. Bartoloni 1973, n. 80 (cfr. supra nota 322), repertoriato
come ghianda).
412
Martini 2004, nn. 184-192, pp. 66, 113-115, tav. XXVI-XXVII. L’ambito cronologico per questa tipologia è
esclusivamente punico con attardamento in età romana (V-II secolo) e, nonostante la mancanza di
differenziazioni regionali, viene indicata la maggior rappresentatività di questa proprio a Sulcis, che il
materiale stesso concorrerebbe ad indicare come luogo della sua produzione (p. 66).
413
Ibidem, nn. 193-209 (di cui i nn. 193-194, 200, 203, 208 in avorio), pp. 67-68, 115-117, tavv. XXVII-XIX.
Anche per questi oggetti è proposta una cronologia tarda (p. 67) e la produzione in loco (p. 68).
414
Ib., nn. 210-223, pp. 69-70, 117-118, tav. XXIX, di cui otto (nn. 210-217) integri ed i restanti dal dorso
asportato forse perché aderisse meglio al corpo quando indossati (p. 69).
415
Ib., nn. 224-228, pp. 70, 119, tav. XXX, con foro di sospensione attraverso la radice.
416
Ib., nn. 229-231, pp. 70, 119-120.
417
Ib., p. 7, nota 1, i bottoni e i vaghi in pasta vitrea sono in corso di pubblicazione a cura di Stefania Poveromo,
mentre i restanti materiali sono in corso di studio da parte di Francesca Ricci.
418
Ib., p. 79.
- 50 -
Ancora limitatamente agli amuleti è possibile operare dei confronti sulla
frequenza delle tipologie presenti nel tophet e nella necropoli, che presentiamo stavolta
sotto forma di grafico419.
I due grafici relativi alle frequenze amuletiche nei due diversi contesti offrono
una visione sinottica delle singole tipologie, quadro che proponiamo come esempio di
come in futuro l’indagine possa essere condotta ed il dato quantificato. Sono state
epurate dall’elenco quelle tipologie che non hanno fornito almeno due esemplari, in
rispetto ad una necessità di economia di spazio, ed in taluni casi si è forzata la lettura
di amuleti non completamente comprensibili, o che non trovano puntuali confronti, per
farli rientrare in una determinata tipologia.
Per quanto riguarda il proposito di come una dettagliata quantificazione dei
materiali dovrebbe essere compilata sarà necessario fare alcune annotazioni. In primo
luogo si dovrà rivolgere puntuale attenzione anche ai gioielli: sebbene in questa sede
verrà tentata una sintesi della situazione inerente questa categoria artigianale, il dato si
presenta al momento in evidente incompletezza e lo stato di conservazione, sovente
disastroso, dei gioielli del tophet quasi mai consente un preciso riconoscimento
tipologico. In secondo luogo il quadro qui proposto è del tutto svincolato dalle
possibili, e di sicuro esistenti, articolazioni diacroniche, così da apparire in sincronia
l’intero contesto produttivo e delle credenze magico-religiose di un centro abitativo o
santuariale come quelli di Sulcis. I due grafici insomma sono qui presentati in maniera
leggermente più dettagliata, ma con lo stesso intento, di analoghi che accompagnano
alcune edizioni di amuleti conservati in collezioni museali420.

419
V. Grafici 1-2 in Appendice.
420
Per il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari: Acquaro, Tore 1989, p. 145; per gli amuleti di Tharros
conservati al British Museum: Mendleson 1987, p. 109; per quelli delle collezioni spagnole: Fernandez, Padró
1986, pp. 91-100.
- 51 -
- 52 -
3. CATALOGO

3.1. TOMBA 1 PGM BLV


La tomba 1 PGM BLV di Via Belvedere è la più antica tomba a camera rinvenuta
sinora a Sant’Antioco. Il pessimo stato di conservazione non ha permesso di
riconoscere tutte le deposizioni e le relative associazioni con il corredo. Tuttavia deve
aver contenuto almeno 3 o 4 inumati e la posizione dei monili in fondo alla camera
potrebbe indicare la loro appartenenza alla fase più antica di utilizzo tra 500 e 480 a.C.
La ceramica indica invece una continuità di utilizzo della sepoltura ancora nel
ventennio successivo422.

1. non inventariato (giornale di scavo n. 39).

Deposizione 1.

Vetro blu.
Fusione.
Integra, iridescenza e perdita del colore superficiale su un
lato.
Ø 81 mm, sezione Ø 6,5 mm.

Armilla circolare costituita da una barra a sezione circolare,


aperta alle estremità con intervallo di 24 mm.

(1:2)

422
Bernardini c.p.
- 53 -
2. non inventariato (giornale di scavo n. 70).

Deposizione 2.

Oro e forse bronzo.


Laminazione e trafilatura.
In tre frammenti, fortemente ossidato, aperto e con depositi.

Lungh. ricostruita 87 mm, largh. massima 24 mm, Ø della


sezione superstite nel punto di massimo ingrossamento 2,5
mm, Ø alle estremità 1 mm.

Orecchino di forma ellittica allargata e corpo ingrossato in


basso, costituito da una barretta a sezione circolare. Aperto su
di un lato per l’inserzione nel lobo.

(1:1)

3. non inventariato (giornale di scavo n. 84).

Deposizione non nota.

Argento.
Fusione.
Incompleto, ossidato e corroso, presenti gli attacchi
delle estremità del corpo dell’anello.

Lungh. 21 mm, largh. 7 mm, spessore al centro 2,5 mm,


distanza tra gli attacchi del corpo dell’anello 9 mm.

Castone ellittico di anello in argento, probabilmente in


origine del n. 4.

(2:1)

- 54 -
4. non inventariato (giornale di scavo n. 25).

Deposizione non nota.

Argento.
Fusione.
Incompleto, ossidato e corroso, una estremità
assottigliata, l’altra con bozzo.

Ø 30 mm, Ø della sezione nel punto mediano del


corpo 6 mm.

Grande anello digitale in argento con corpo


leggermente ingrossato, costituito da una barretta a
sezione circolare. Era forse completato dal castone
n. 3. (2:1)

5. non inventariato (giornale di scavo n. 74).

Deposizione 2.

Argento.
Fusione.
In due frammenti, incompleto, ossidato, corroso e
con depositi, una estremità con bozzo.

Ø 20 mm, Ø della sezione 2/5 mm.

Anello in argento con corpo leggermente ingrossato


costituito da una barretta a sezione circolare. (2:1)

- 55 -
6. non inventariato (giornale di scavo n. 75).

Deposizione non nota.

Argento.
Fusione.
Incompleto, leggermente ossidato e superficie
leggermente ondulata.

Lungh. della corda 21 mm, Ø della sezione nel


punto di massimo ingrossamento 5 mm. (2:1)

Frammento di anello a corpo ingrossato costituito


da una barretta a sezione circolare.

7. non inventariato (giornale di scavo n. 77).

Deposizione non nota.

Oro.
Laminazione, filigrana e granulazione.
Integro.

Lungh. 15, largh. 9 mm, spessore 1 mm.


Appiccagnolo: largh. 3 mm, Ø 2 mm.

Pendente di forma rettangolare con parte superiore ad arco


centinato decorato su di un lato da una losanga costituita da nove
granuli al centro e da sei triangoli di sei granuli, ciascuno con
vertice verso il centro e base poggiante sulla cornice, quest’ultima
costituita da due file di granuli intervallate da un sottile filo d’oro.
L’altro lato è liscio e privo di decorazione.
Appiccagnolo costituito da un rocchetto composto da un sottile
filo d’oro che si avvolge a spirale per sette giri.

(2:1)

- 56 -
8. non inventariato (giornale di scavo n. 82).

Deposizione non nota.

Oro.
Laminazione a sbalzo, granulazione.
Integro, leggermente deformato e consunto.

Lungh. 12 mm, largh. 9,5 mm, spessore 1 mm.


Appiccagnolo: largh. 5 mm, Ø alle estremità 3 mm.

Pendente circolare decorato su due lati da un crescente lunare con


corna verso il basso sopra disco solare. I contorni dei due astri sono
evidenziati da una fila di granuli eccetto il margine inferiore di un
solo lato. Il campo interno del disco solare invece doveva essere
originariamente in rilievo: convesso su di un lato e concavo
sull’altro. La raffigurazione su questo lato è leggermente obliqua.
Appiccagnolo costituito da un rocchetto composto da otto cerchi di
sottile filo d’oro, completato alle estremità da una vera di cinque (2:1)
piccole sfere d’oro rimartellate e schiacciate all’esterno.

9. non inventariato (giornale di scavo n. 86).

Deposizione non nota.

Elettro?.
Laminazione a sbalzo, granulazione.
Integro, leggermente deformato, incrostazioni di ossidazione.

Lungh. 10 mm, largh. 9, spessore 1 mm.


Appiccagnolo: largh. 4 mm, Ø alle estremità 4 mm.

Pendente discoide come n. 8, ma di esecuzione più precisa.


Crescente e disco solare in asse su tutti e due i lati e completamente
marginati da una fila di granuli. Il campo del disco solare, anch’esso
originariamente in rilievo, è rientrato e appiattito. Nel complesso
l’aspetto discoide è fornito dai corni del crescente aggettanti rispetto
al profilo del disco solare. Diverso è l’appiccagnolo: più stretto e
costituito da un rocchetto composto da 5 cerchi saldati tra loro e
completati alle estremità da due anelli più larghi a sezione quadrata. (2:1)

- 57 -
10. non inventariato (giornale di scavo n. 69).

Deposizione 1.

Oro.
Laminazione a sbalzo, incisione.
Leggermente deformato.

Ø 12 mm, largh. 8 mm.

Vago di collana di forma sferica schiacciata in lamina d’oro


decorata da linee parallele incrociate a reticolo. Queste ricoprono la
gran parte della superficie senza raggiungere i bordi del foro di (2:1)
sospensione.

non inventariato
11 (a-g).
(giornale di scavo n. 85).

Deposizione non nota.

Oro.
Laminatura a sbalzo, incisione.
Alcuni deformati e aperti.
(1:1)
Ø 11/12 mm, largh. 7/9 mm.

Sette vaghi di collana di forma sferica


schiacciata in lamina d’oro come il n. 10
ma decorati da linee parallele incrociate
a reticolo a maglie più larghe. La
decorazione inoltre copre tutta la
superficie del vago sino ai bordi del foro Dettaglio (11 f) (2:1)
di sospensione.

- 58 -
12 (a-e). non inventariato (giornale di scavo n. 73).

Deposizione 2.

Oro, pasta vitrea.


Laminazione e trafilatura
(anello), fusione (vaghi).
Integri, iridescenza (vaghi).

(2:1)

Anello: Ø 8 mm, largh. 2,5, spessore 1 mm.


Vaghi: Ø 7/8 mm.

Cinque elementi di collana di cui un anellino in oro costituito da una barretta a sezione
a D e quattro vaghi in pasta vitrea celeste, bianco e madreperla con decorazione a
occhi: otto occhi su un esemplare e sette sugli altri tre.
L’anellino era forse elemento di separazione.

13. non inventariato (giornale di scavo n. 78).

Deposizione non nota.

Argento.
Fusione.
Ossidato e corroso.

Ø 6 mm, Ø del foro 3 mm. (2:1)

Anellino in argento a sezione piatta dalla superficie molto


frastagliata, era forse completamento di un altro gioiello.

- 59 -
14 (a-s). non inventariato (giornale di scavo n. 83).

Deposizione non nota.

Osso, corniola, pietra, ambra e pasta vitrea.


Intaglio (osso, corniola, pietra e ambra), fusione su barra (pasta vitrea).
Integri ma consunti.

Diciannove vaghi di collana di diverse materie, forma e dimensioni:


a-b, q-r: in osso cilindrici (Ø 7/8 mm, lungh. 9 mm);
c, p: in pietra sferici (Ø 5 e 8 mm);
d-e, h-o: dieci in pasta vitrea sferici più o meno schiacciati di cui:
d, i-j, l-o: sette (Ø 7/9 mm) bianchi e celeste iridescente con decorazione “a occhi”
(uno a 5, uno a 6, uno a 7 e quattro a ad 8 occhi);
k: uno celeste iridescente senza decorazione;
e, h: in pasta silicea bianco, azzurro e celeste, sferici più o meno schiacciati
entrambi a 7 occhi (Ø 10 e 13 mm);
f: cubico in pasta silicea celeste (6 mm per lato);
g: a barilotto in corniola (Ø 10 mm, lungh. 9);
s: frammento di vago a barilotto in ambra (lungh. 9 mm).

(1:1)

- 60 -
15. non inventariato (giornale di scavo n. 80).

Tomba 1 BLV PGM. Deposizione non nota.

Osso.
Intaglio.
Incompleto.

Lungh. 31 mm, largh. 24 mm, spessore 6 mm.

Amuleto a forma di mano distesa. Risulta mutilo della parte


inferiore conservando almeno un terzo delle dita e il pollice sino
all’unghia ma privo dell’attacco alla mano, e della parte superiore
ovvero della metà del dorso comprensivo del polso in cui in
analoghi amuleti è situato il foro di sospensione.
La realizzazione è a tutto tondo ma solo il lato dorsale è intagliato
mentre quello relativo al palmo è piatto. (1:1)

16. non inventariato (giornale di scavo n. 79).

Deposizione non nota, rinvenuto dentro la lucerna n. 49


del giornale di scavo.

Faïence o steatite.
Modellazione o intaglio.
Abraso.

Lungh. 13 mm, largh. 11 mm, spessore 8 mm.

Scarabeo totalmente illeggibile nel dorso. Su di uno dei


fianchi si nota un alta base e una zampa. Labili tracce di
raffigurazione a lettura orizzontale sulla base sembrano
riferirsi ad un leone o una sfinge accovacciata e rivolta a
destra. La rappresentazione è completata da esergo in
basso e cornice a linea semplice lungo il bordo.

(2:1)

- 61 -
non inventariato
17 (a-k).
(giornale di scavo n. 76).

Deposizione non nota.

Osso.
Intaglio, levigatura e foratura.
Integri.

Ø 11/13 mm, spessore 5/6 mm, Ø foro


4/5 mm.

Undici borchie piano-convesse con foro


non passante alla base, eccetto che su un
esemplare (j).

(1:1)

- 62 -
18 (a-s). non inventariato (giornale di scavo nn. 71-72).

Deposizione 2.

Bronzo.
Fusione.
Ossidati, incompleti e in frammenti.

Occhielli: Ø 19,5/20,5 mm, fili: Ø sezione 7 mm circa.

Diciannove frammenti di strumenti in bronzo, di cui tre occhielli di coppiglia a sezione


circolare e corpo ingrossato (a-c).

(1:1)

- 63 -
non inventariato
19 (a-j).
(giornale di scavo n. 81).

Deposizione non nota.

Bronzo.
Fusione.
Ossidati, incompleti e in frammenti.

Occhielli:Ø 20 mm, fili:Ø sezione 5 mm.


Chiodo: testa Ø 16 mm, corpo Ø sezione 5
mm, lungh. 24 mm.
(1:1)
Dieci frammenti di strumenti in bronzo, di cui
un chiodo con testa a fungo (a) e due occhielli
di coppiglia a sezione circolare e corpo
ingrossato analoghi ai precedenti (b-c).

20. non inventariato (giornale di scavo n. 83).

Deposizione non nota.

Ocra rossa.

Quattro grumi di ocra di piccole dimensioni e dalla


consistenza compatta.
(1:1)

- 64 -
3.2. TOMBA 5 PGM
Tomba a camera unica423 in uso nei decenni compresi tra 480 e 450 a.C. circa. Gli
ornamenti appartenevano a due delle tre deposizioni ospitate al suo interno: il vago di
collana n. 22, rinvenuto presso la seconda deposizione, probabilmente apparteneva in
origine alla prima.

21 (a-c). non inventariato.

Deposizione 1.

Pasta vitrea.
Fusione su barra.
Integri.

Ø 11 mm, 8 mm, 8 mm.

Tre vaghi di collana sferici di cui due in


pasta vitrea azzurra, blu e bianca con (2:1)
decorazione “a occhi” (entrambi a sette
occhi) (a, c), e uno giallo, bianco e bruno
iridescente decorato ad 8 occhi (b).

22. non inventariato.

Deposizione 2.

Pasta vitrea.
Fusione su barra.
Integro.

Ø 11,5 mm.
(2:1)
Vago sferico in pasta vitrea azzurra, blu e bianca con
decorazione a 7 occhi.

423
Notizia preliminare in Bernardini 2004, p. 144.
- 65 -
23. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde, alcune crepe.

Altezza 13 mm, largh. 10 mm, spessore 5 mm.

Amuleto in forma di ureo su base con un foro di sospensione dietro il capo.

(2:1)

24. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde, alcune crepe.

Altezza 14,5 mm, largh. 9 mm, spessore 4 mm.

Amuleto in forma di ureo su base con un foro di sospensione appena sopra il collo
dell’animale.

(2:1)

- 66 -
25. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde.

Altezza 13,5 mm, largh. 10 mm, spessore 4 mm.

Amuleto in forma di ureo su base con un foro di sospensione alla seconda spirale.

(2:1)

26. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde e scheggiato.

Altezza 12,5 mm, largh. 9 mm, spessore 3,5 mm.

Amuleto in forma di ureo su base e con pilastrino tra prima e seconda spirale, con un
foro di sospensione sul piastrino da un lato e sulla seconda spirale dall’altro.

(2:1)

- 67 -
27. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


In due frammenti, perso il colore verde e lo smalto del fianco sinistro.

Altezza 14 mm, largh. 10 mm, spessore 5,5 mm.

Amuleto in forma di ureo su base con un foro di sospensione sulla seconda spirale.

(2:1)

28. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde e scheggiato.

Altezza 9 mm, lungh. 11 mm, spessore 4 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.

(2:1)

29. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde.

Altezza 9,5 mm, lungh. 12 mm, spessore 4,5 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.

(2:1)

- 68 -
30. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde e incompleto.

Altezza superstite 5,5 mm, lungh. 11 mm, spessore superstite 2 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.

(2:1)

31. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Consunto.

Altezza 19 mm, largh. 11 mm, spessore 9,5 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco con ai lati due figure mal leggibili,


sul retro Iside pterofora di profilo destro con disco solare sul capo.
Sul capo scarabeo consunto e alla base i geroglifici shw e s
(2:1)
rovesciato.

(2:1)

- 69 -
32. non inventariato.

Deposizione 3.

Steatite bianca dipinta di verde.


Intaglio.
Perso il colore e scheggiato.

Lungh. 17 mm, largh. 12 mm, spessore 8 mm.

Scarabeo dalla sommaria ma netta indicazione del dorso: basso protorace diviso da una
linea semplice dalle elitre, anch’esse separate da una linea semplice; un’incisione a V
indica lo scutellum. Il clipeo è ben definito cosi come sono ben distinti occhi e testa.
Solchi paralleli sulle zampe anteriori e posteriori.
Alla base raffigurazioni geroglifiche: ureo e civetta rivolti a destra, in alto disco solare
alato con corna e in basso segno neb. Fa da cornice una linea semplice.

(2:1)

- 70 -
3.3. TOMBA 6 PGM
Piccola tomba a camera unica424 in uso nel secondo quarto del V secolo e adiacente
alla tomba 5 PGM. I monili costituiscono il principale elemento di corredo della tomba
oltre agli scarsi reperti ceramici. La tomba era accuratamente dipinta e contrassegnata
da due betili schematici scolpiti a rilievo sulla parete di fondo.

33. non inventariato.

Deposizione 1.

Argento.
Laminazione e trafilatura.
In due frammenti, ossidato e corroso.

Lungh. della corda 62 mm, lungh.


dell’arco 80 mm, Ø sezione 5/6 mm.

Due frammenti identici di bracciale in


argento costituito da una barretta a
sezione circolare. (1:1)

34. non inventariato.

Deposizione 3.

Oro.
Laminazione e trafilatura.
Integro
(2:1)

Ø 11 mm, Ø sezione nel punto di massimo ingrossamento 2 mm, Ø sezione alle


estremità 0,8 mm.

Piccolo anello a corpo ingrossato costituito da una barretta a sezione circolare aperta in
alto per l’inserzione.

424
Notizia preliminare in Bernardini 2004, pp. 144-145.
- 71 -
35. non inventariato.

Deposizione 3.

Oro e forse bronzo.


Laminazione e trafilatura.
Integro.

(2:1)

Ø 13,5 mm, Ø della sezione nel punto di massimo ingrossamento 4 mm, Ø della
sezione alle estremità 0,5 mm.

Piccolo anello in oro dal corpo ingrossato e costituito da una barretta a sezione a D, le
cui estremità avvolte a spirale.

36. non inventariato.

Deposizione 3.

Oro e forse bronzo.


Laminazione e trafilatura.
Integro.

(2:1)

Ø 13 mm, Ø della sezione nel punto di massimo ingrossamento 2 mm, Ø della sezione
alle estremità 0,5 mm.

Piccolo anello in oro dal corpo ingrossato e costituito da una barretta a sezione
circolare, le cui estremità avvolte a spirale.

- 72 -
37 (a-n). non inventariato.

Deposizione 2.

Oro.
Laminazione a sbalzo.
Alcuni integri, altri deformati, aperti e tre frammenti.

Ø 9/10 mm, largh. 4,5/5,5 mm.

Undici vaghi di collana sferici schiacciati in lamina d’oro liscia., più tre frammenti.

Dettagli (2:1)

(1:1)

- 73 -
38 (a-h). non inventariato.

Deposizione 2.

Pasta vitrea.
Fusione su barra.
Integri eccetto uno in due frammenti e uno incompleto.
Dettaglio (38 e) (2:1)

Otto vaghi di collana sferici in pasta vitrea e con decorazione “a occhi”, di cui uno (e)
bianco e blu metallico a 4 occhi, adornato da piccole sfere gialle (se ne conservano
solo 4) intorno ai bordi del foro di sospensione (Ø 11,5 mm). I restanti sette di colore
azzurro, blu e bianco di cui tre a 7 occhi (Ø 8/10 mm) e quattro a 8 occhi (Ø 8/9 mm).

(2:1)

39. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Persa la metà longitudinale e parte di quella frontale, nonché gran
parte del colore.

Altezza 11 mm, lungh. superstite 12 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.


(2:1)

- 74 -
40. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e forse in origine dipinta di verde.


Integro, perdita del colore.

Altezza 11 mm, lungh. 12 mm, spessore 4 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.

(2:1)

41. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e forse in origine dipinta di verde.


Integro, perdita del colore.

Altezza 9 mm, lungh. 11 mm, spessore 4,5 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.

(2:1)

42. non inventariato.

Deposizione 1, rinvenuto dentro il piatto n. 4 del giornale di scavo.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Alcune scheggiature e perso il colore verde in più punti.

Altezza 11 mm, lungh. 13 mm, spessore 5 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.

(2:1)

- 75 -
43. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e forse in origine dipinta di


verde.
Perso lo smalto sul lato destro.

Altezza 14,5 mm, largh. 9 mm, spessore 7 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco con Iside


pterofora di profilo sul retro, sorta di pilastri ai lati
e scarabeo sul capo.

(2:1)

44. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence forse in origine smaltata e dipinta di


verde.
Molto consunto e friabile, persa la parte superiore
della figura sul lato destro.

Altezza 13 mm, largh. 8 mm, spessore 6 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco di profilo con


Iside pterofora sul retro, sorta di pilastri ai lati.

(2:1)

- 76 -
45. non inventariato.

Deposizione 1, rinvenuto all’interno del piatto n. 4


del giornale di scavo.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Scheggiato nella figura di sinistra durante la
produzione e in altri punti, consunto e perso lo
smalto nella figura del retro.

Altezza 13 mm, largh. 9 mm, spessore 7 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco con Iside


pterofora di profilo con grande occhio sul retro,
sorta di pilastri ai lati di cui uno scheggiato in fase
di produzione. Quattro linee parallele incrociate
con una trasversale ai 2/3 della superficie stanno
ad indicare sul capo un abbozzo di scarabeo. Alla
base motivo geometrico costituito da quattro linee
incrociate a formare una stella a otto punte.
(2:1)

46. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde su quasi tutta la superficie.

Altezza 15 mm, largh. 11 mm, spessore 8 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco a doppia figura e


figure simili a serpenti sui lati. Sul capo tre linee
parallele su metà della superficie e quattro
sull’altra sono separate da una trasversale
costituendo un abbozzo di scarabeo. Alla base
motivo geometrico a stella come il n. 45.
(2:1)

- 77 -
47. non inventariato.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde su quasi tutta la superficie.

Altezza 13 mm, largh. 9,5 mm, spessore 7 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco a doppia figura e


figure simili a pilastri sui lati. Sul capo tre linee
parallele sono incrociate da una trasversale ai 2/3
della superficie costituendo un abbozzo di
scarabeo. Alla base motivo geometrico a stella
come i nn. 45 e 46.
(2:1)

48. non inventariato.

Deposizione 2.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Perso il colore verde su quasi tutta la superficie.

Altezza 15 mm, largh. 9 mm, spessore 8 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco a doppia figura e


figure simili a pilastri o serpenti sui lati. Sul capo
tre linee parallele sono incrociate da una
trasversale ai circa la metà della superficie
costituendo un abbozzo di scarabeo. Alla base
motivo geometrico a stella quattro punte costituito
da due linee incrociate in diagonale.

(2:1)

- 78 -
49. non inventariato.

Deposizione 2.

Pietra dura bianca e cinorognola.


Intaglio.
Scheggiato.

Lungh. 11,5 mm, largh. 9 mm, spessore 7,5 mm.

Scarabeo con indicazione sommaria del dorso: una linea profonda divide protorace
dalle elitre e un’altra analoga separa queste due. Una linea più sottile incornicia il
protorace e le elitre lungo il loro margine curvilineo. Testa piccola, sporgente verso
l’alto e senza clipeo, zampe indicate non indicate nel dettaglio.
Alla base con lettura orizzontale è una figura ellenizzante di leone o cavallo che rotola
retrospiciente a destra: la criniera è indicata da brevi tratti perpendicolari al corpo, la
zampa anteriore sinistra e aderente al corpo in basso e all’andamento curvilineo del
campo figurativo, la destra è coperta dal corpo e si nota la sola spalla sopra il dorso
dell’animale. Le zampe posteriori sono divaricate simmetricamente e viste dall’alto
nonché aderenti alla linea di contorno del campo figurativo. La coda è aderente al
corpo in direzione curvilinea verso il basso.
Spessa cornice cordonata.

(2:1)

- 79 -
50. non inventariato.

Deposizione 3.

Corniola, oro e forse bronzo. Scarabeo: intaglio; anello: laminazione


e trafilatura. Scheggiato e consunto lo scarabeo.

Scarabeo: lungh. 13 mm, largh. 11 mm, spessore 9 mm;


Impronta (2:1)
Anello: lungh. 17 mm, largh. 15 mm, Ø sezione nel punto di
massimo ingrossamento 3 mm, alle estremità 1 mm.

Scarabeo in corniola con indicazione sommaria del dorso, linea semplice tra le elitre e
tra queste ed il protorace. Testa piccola senza clipeo ma molto consunta. Zampe
indicate da bassissimo rilievo.
Alla base raffigurazione ellenizzante a lettura verticale di figura maschile nuda in
corsa con capigliatura a casco e riccioli sulla fronte e sulla nuca, tiene con la mano
sinistra, il cui braccio è piegato dietro la schiena, un filo o ramo che corre lungo in
bordo superiore del campo figurativo e termina con un fiore o un frutto rivolto verso il
basso cui protende il braccio destro con mano aperta verso l’alto.
Cornice cordonata.
Ancora connesso alla montatura formata da un anello ritorto costituito da una barretta
a sezione circolare in oro a corpo ingrossato le cui estremità più sottili, passate
attraverso il foro di sospensione della gemma, si avvolgono a spirale sino a
raggiungere il punto di torsione. Il corpo ingrossato dell’anello presenta sulla
superficie interna due faccette.

(2:1)

- 80 -
51. non inventariato.

Deposizione 1, rinvenuti all’interno del piatto n. 4 del giornale


di scavo.

Ocra rossa.

Due grumi di ocra di piccole dimensioni e dalla consistenza


compatta. (1:1)

- 81 -
3.4. TOMBA 9 AR

52. inv. CA 143057.

Deposizione 2.

Oro e forse bronzo.


Laminazione e trafilatura.
Integro.

Lungh. 75 mm, largh. inferiore 23 mm, Ø sezione nel punto di


massimo ingrossamento 4 mm, alle estremità 1 mm.
Peso 4,9 g.

Orecchino di forma ellittica allargata e corpo ingrossato in


basso, costituito da una barretta a sezione circolare. Aperto su
di un lato per l’inserzione nel lobo.
(1:1)
Bernardini 1989, tav. II, 2.

- 82 -
53 (a-l). inv. CA 143058.

Deposizione 2.

Oro.
Laminazione a sbalzo.
Deformati. Dettaglio (53 d) (2:1)

Ø 10/12 mm, largh. 6,5/7 mm.

Dodici vaghi di collana di forma sferica schiacciata in lamina d’oro decorati, come il
n. 10, da linee parallele incrociate a reticolo a maglie strette. La decorazione inoltre
copre tutta la superficie del vago sino ai bordi del foro di sospensione.

Bernardini 1989, tav. III, 3.

(1:1)

- 83 -
54 (a-c). inv. CA 143060.

Deposizione non nota.

Argento.
Fusione.
(1:1)
Frammenti incompleti e ossidati.

Tre frammenti di gioielli in argento di cui:


a: quattro sferette di 4 mm di diametro saldate tra loro a formare una vera di 10
mm di diametro superstite e in origine costituito da sei sfere;
b-c: due sferette singole (Ø 4,5 e 5 mm).

55 (a-d). inv. CA 143058, 143060.

Deposizione 9.

Corniola.
Intaglio.
Integri. (1:1)

Quattro vaghi di collana in corniola di cui:


b-c: due sferici schiacciati (Ø 9 e 10 mm, largh. 7 mm);
a, d: due a barilotto, uno più affusolato (Ø nel punto di massimo ingrossamento 6
mm, alle estremità 5 mm, largh. 5 mm) e uno meno (Ø nel punto di massimo
ingrossamento 5,5 mm, alle estremità 5 mm, largh. 5 mm).

Bernardini 1989, tav. III, 3.

- 84 -
56 (a-m). inv. CA 143058, 143060, 143894.

Deposizione 1.

Pasta vitrea.
Fusione su barra.
Tre in frammenti di cui due incompleti, i restanti integri.

Tredici vaghi di collana in pasta vitrea di cui:


a, h-j: quattro sferici marrone, bianco e azzurro a 7 occhi (Ø 7/8mm);
b-d: tre sferici azzurro, bianco e blu a 7 occhi (Ø 7/10 mm);
e: uno anulare in vetro celeste (Ø 10 mm; largh. 3 mm);
f: uno sferico schiacciato blu (Ø 15 mm, largh. 9,5 mm);
g: uno sferico in pasta vitrea blu ma bruno in superficie con due scanalature su
tutta la superficie (Ø 8 mm);
k: uno in tre frammenti azzurro, bianco e blu con decorazione a 6 occhi;
l: tre frammenti di vago bianco e marrone con decorazione a occhi;
m: tre frammenti di vago azzurro, bianco e blu con decorazione a occhi

(1:1)

- 85 -
57 (a-aq). inv. CA 143060.

Deposizione non nota.

Pasta vitrea.
Fusione su barra.
Integri e frammenti.

Ø 2,5/5 mm, largh. 3/5 mm.

Piccoli vaghi subsferici, più o meno


schiacciati e affusolati, in pasta
vitrea azzurra tra cui sei integri e (1:1)
trentacinque frammenti.

58 (a-ab). inv. CA 143060.

Deposizione 9.

Pasta vitrea.
Fusione su barra.
Integri e frammenti.

Ø 2,2/5,5 mm; largh. 3/5 mm.

Piccoli vaghi subsferici, più o meno


schiacciati e affusolati, in pasta vitrea nera tra (1:1)
cui diciannove integri e sette frammenti.

- 86 -
59 (a-i). inv. CA 143060, 143894.

Deposizione 2.

Pasta vitrea.
Fusione su barra.
Frammenti.

Vari frammenti di vaghi di cui:


a-b: due di vago cilindrico
bianco-celeste con una
estremità affusolata (Ø 4,5 mm,
lungh. superstite 15 mm) e due
di vago cilindrico rosso (Ø 4
mm, lungh. 8 mm);
c-d: due frammenti in osso (?);
e: quattro frammenti di vago
sferico schiacciato celeste;
f-g: due frammenti di vaghi a
occhi bianco e rosso;
h: quattro frammenti di vago
bianco;
i: un vago a goccia forse
incompleto con due fori (1:1)
passanti incrociati (lungh. 11
mm, largh. 7,5 mm);.

60. inv. CA 143060.

Deposizione 9.

Faïence o steatite dipinta di verde.


Integro, perso il colore verde.

Altezza 9 mm, lungh. 12 mm, spessore 4 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.


(2:1)

- 87 -
61. inv. CA 143069.

Deposizione 9.

Faïence o steatite forse originariamente dipinta di verde.


Depositi e forse perso il colore verde.

Altezza 7 mm, lungh. 9,8 mm, spessore 3 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.


(2:1)

62. inv. CA 143894.

Deposizione 1.

Faïence verde-azzurro.
Consunto.

Altezza 8 mm, lungh. 17 mm, spessore 4 mm.

Amuleto in forma di leone accovacciato su base e basso pilastro sul retro. Foro di
sospensione passante attraverso i fianchi dell’animale.

(2:1)

- 88 -
63. inv. CA 143894.

Deposizione 1.

Faïence smaltata e dipinta di verde.


Alcune scheggiature e perso il colore verde.

Altezza 12 mm, largh. 7 mm, spessore 7 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco a doppia figura e figure simili a pilastri o serpenti sui
lati. Sul capo cinque linee parallele indicano le elitre, distinte per mezzo di uno spesso
listello da un basso protorace, di uno scarabeo. Alla base il geroglifico di divinità forse
femminile (“ntr.t”) rappresentato come figura umana seduta con croce ankh sulle
ginocchia.

(2:1)

64. inv. CA 143060.

Deposizione non nota.

Pasta dura dipinta di verde.


Incompleto e perso il colore verde.

Altezza superstite 4,5 mm, largh. 7 mm, spessore 6,5 mm.

Base di amuleto in forma di Ptah-pateco della cui figura rimangono


solo gli attacchi delle gambe e delle figure laterali. Sulla superficie
inferiore incisioni probabilmente alfabetiche.

- 89 -
65. inv. CA 143892.

Deposizione 1.

Diaspro verde.
Intaglio.
Integro.
Impronta (2:1)
Lungh. 16 mm, largh. 12 mm, spessore 9 mm.

Scarabeo in diaspro verde con sommaria ma precisa indicazione del dorso: una linea
semplice divide le elitre e queste dal protorace, una linea ulteriore incornicia il
protorace lungo il suo margine curvilineo. La testa è piccola e triangolare con base
convessa verso la parte anteriore, clipeo impreciso, forse consunto, con piccoli intagli
ineguali sul margine frontale.
Sulla base figura ellenizzante a lettura verticale di guerriero nudo inginocchiato, di
schiena di ¾, con elmo alzato sulla fronte e che controlla la rettitudine della sua
freccia. Arco in secondo piano dietro il ginocchio destro alzato, l’altro ginocchio a
terra.
Cornice cordonata.

(2:1)

- 90 -
66. inv. CA 143891.

Deposizione 5.

Diaspro verde.
Intaglio.
In due frammenti.
Impronta (2:1)
Lungh. 16 mm, largh. 12 mm, spessore 9 mm.

Scarabeo in diaspro verde con indicazione sommaria e imprecisa del dorso: linee
semplici e asimmetriche dividono in protorace dalle elitre, a loro volta divise da
un'altra linea semplice. Testa bassa e non delineata, clipeo asimmetrico con piccoli
intagli irregolari sul margine frontale. Ai lati zampe mal indicate da incisioni irregolari
cui si somma una linea incisa perpendicolare alla base.
Alla base figura egittizzante a lettura verticale di orante inginocchiato verso destra tra
le cui mani lievita un oggetto non ben definibile. Preceduto da ureo rivolto anch’esso a
destra. In alto crescente lunare con corni verso l’alto e in basso esergo reticolato a
linee oblique, convergenti e irregolarmente parallele.
Cornice a linea semplice.

(2:1)

- 91 -
67. inv. CA 143893.

Deposizione non nota.

Diaspro verde.
Intaglio.
Integro.
Impronta (2:1)

Lungh. 15 mm, largh. 10 mm, spessore 8 mm.

Scarabeo in diaspro verde con indicazione sommaria del dorso. Intaglio affrettato delle
superfici e segni di abrasione su quasi tutte. Testa piccola a forma di bozza triangolare,
clipeo indicato da quattro spessi intagli disposti non simmetricamente. Dorso da
contorno a giorno irregolare e internamente solcato da una sottile linea ovale,
all’interno una doppia solcatura separa il protorace dalle elitre una più spessa divide
queste ultime. Zampe male intagliate a giorno da linee imprecise.
Alla base raffigurazione egittizzante a lettura verticale di Iside che allatta Horus: la dea
è a sinistra e stende una sola ala (la sinistra) verso il basso a coprire e proteggere il
figlio, ha sul capo un disco solare e sul petto una grossa mammella circolare da cui
allatta Horus. Questi è stante davanti a lei, porta la corona stilizzata dell’alto e basso
Egitto e flabello con la mano sinistra pendente dietro la schiena. In basso un piccolo
esergo semplice e poggiante su di una spessa cornice cordonata. Questa limita il già
ristretto campo figurativo al punto che i copricapi delle due divinità sbordano su di
essa.

(2:1)

- 92 -
68. inv. CA 143059.

Deposizione non nota.

Steatite o faïence smaltata verde.


Integro, perso lo smalto su quasi tutta la superficie.

Lungh. 16 mm, largh. 11 mm, spessore 8 mm.

Scarabeo in pietra bruno chiaro smaltata di verde. Il dorso è indicato in modo semplice
ma preciso: doppia linea tra protorace e elitre con indicazione dello scutellum e linea
semplice tra la elitre. La testa presenta indicazione degli occhi, clipeo triangolare a
base frontale con quattro intagli pressoché simmetrici su di essa. Anche il ventaglio
delle fauci è indicato. Le zampe, anch’esse ben delineate a giorno da intagli precisi,
sono completate dalle consuete linee parallele in quelle anteriori e posteriori.
Alla base composizione geroglifica a lettura orizzontale: nome reale entro ovale (Men-
heper-re in cui i primi due segni sono fortemente stilizzati e quasi irriconoscibili) al
centro tra due piume shw rivolte verso l’esterno e ai lati due neb in verticale e con
dorsi anch’essi verso l’esterno.
Cornice a linea semplice.

(2:1)

- 93 -
3.5. TOMBA 10 AR

69 (a-p). inv. CA 143938.

Deposizione 5.

Ambra e pasta vitrea.


Intaglio (ambra) e fusione su barra
(pasta vitrea).
Integri e frammenti.

(1:1)

Vari vaghi di collana e frammenti di cui:


a-d: quattro vaghi (uno in due frammenti) cilindrici in ambra (Ø 6 mm, lungh.
10/17 mm)
e-n: dieci piccoli frammenti di vaghi come i precedenti;
o: un frammento di vago in pasta vitrea bianca e rossa con decorazione “a occhi”;
p: un vago sferico in pasta vitrea azzurra, bianca e blu con decorazione “a 7 occhi”
(Ø 11 mm).

- 94 -
70. inv. CA 143938.

Deposizione 5.

Faïence verde azzurra.


Integro.

Altezza 9 mm, lungh. 13 mm, spessore 3,5 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.


(2:1)

71. inv. CA 143938.

Deposizione 5.

Faïence verde azzurra.


Integro.

Altezza 9 mm, lungh. 13 mm, spessore 4 mm.

Amuleto in forma di occhio udjat.

(2:1)

- 95 -
72. inv. CA 143938.

Deposizione 5.

Faïence verde azzurra.


Integro.

Altezza 13 mm, largh. 8 mm, spessore 7 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco, Iside pterofora di profilo e con disco solare sul capo
sul retro, figure irriconoscibili sui lati. Sul capo quattro linee parallele indicano le
elitre, distinte per mezzo di uno spesso listello da un basso protorace, di uno scarabeo.

(2:1)

73. inv. CA 143938.

Deposizione 5.

Faïence verde azzurra.


Integro.

Altezza 13 mm, largh. 7 mm, spessore 6 mm.

Amuleto in forma di Ptah-pateco, Iside pterofora di profilo e con disco solare sul capo
sul retro, figure irriconoscibili sui lati ma probabilmente antropomorfe. Sul capo
solchi incomprensibili indicano forse uno scarabeo.

(2:1)

- 96 -
74. inv. CA 143937.

Deposizione 5.

Steatite crema dipinta di verde.


Intaglio.
Scheggiata e perso il colore verde su quasi tutta la superficie.

Lungh. 17 mm, largh. 12 mm, spessore 8 mm.

Scarabeo in steatite con indicazione sommaria ma precisa del


dorso: linea semplice tra la elitre e tra queste e il protorace. Testa
unita al clipeo indicato sul margine frontale da tre intagli e fauci a
piano emisferico. Zampe intagliate a giorno con precisione e
completate, quelle anteriori e posteriori da linee parallele sulla
superficie.
Alla base composizione geroglifica a lettura verticale su due
registri: sul primo civetta “m” tra due piume “shw” rivolte verso
l’esterno, sul secondo cartiglio con nome reale di “Men-kheper-re”
(ultimi due segni stilizzati come nel n. 68) tra due piume “shw” più
grandi delle precedenti ma ugualmente rivolte verso l’esterno.
Divide i due registri una linea incisa orizzontale.
(2:1)
Cornice a linea semplice.

- 97 -
3.6. TOMBA 11 AR

75. non inventariato.

Deposizione 18.

Oro e bronzo.
Laminazione e trafilatura.
Aperto, ossidato il bronzo.
(2:1)

Ø 15 mm, Ø sezione nel punto di massimo ingrossamento 2 mm, Ø sezione alle


estremità 0,4 mm.

Piccolo anello in oro su anima di bronzo dal corpo ingrossato costituito da una barretta
a sezione circolare, le cui estremità avvolte a spirale.

76. non inventariato.

Deposizione 19.

Oro e bronzo.
Laminazione e trafilatura.
Aperto, ossidato il bronzo.
(2:1)

Ø 15 mm, Ø sezione nel punto di massimo ingrossamento 2 mm, Ø sezione alle


estremità 0,4 mm.

Piccolo anello in oro su anima di bronzo dal corpo ingrossato costituito da una barretta
a sezione circolare, le cui estremità avvolte a spirale.

- 98 -
77. non inventariato

Deposizione 6.

Argento.
Laminazione e trafilatura.
Fortemente ossidato, corroso e in due frammenti, (2:1)
incompleto.

Anello: Ø 25 mm, Ø sezione nel punto di massimo ingrossamento 6,5 mm, Ø sezione
alle estremità 3 mm;
castone: lungh. 27 mm, largh. 7,5 mm, spessore 2,5 mm, distanza tra gli attacchi delle
estremità dell’anello 9 mm.

Grande anello digitale in argento con castone ellittico. È costituito da una barretta a
sezione circolare dal corpo ingrossato.

- 99 -
- 100 -
4. ANALISI TIPOLOGICA

4.1. GIOIELLI
Sotto il termine gioielli verranno qui compresi tutti quegli oggetti di ornamento
personale come anelli, orecchini ed elementi di collana, realizzati in metalli preziosi e
vetro, o pasta vitrea.
È da notare, nonché più volte ribadito da studiosi di antichità puniche425, l’uso
totalmente arbitrario, almeno nell’ambito fenicio-punico, di una tale terminologia, che
si conforma ad un criterio selettivo comprensibile al lettore moderno e obbedisce alla
semplice necessita espositiva. È infatti presumibile che non corrisponda ad un’analoga
classificazione mentale dell’originario fruitore: può essere esemplificativo il fatto che
simboli rappresentati su pendenti in oro dovessero assolvere funzioni amletiche, così
come cosiddetti amuleti fossero utilizzati quali elementi di collane e d’altro canto per i
loro colori e qualità formali assolvessero indubbiamente una funzione estetica.
Verranno ora descritti i gioielli raggruppati per tipi universalmente riconosciuti,
cui in sede di confronto verrà fornita eventuale appartenenza a tipi riconosciuti da altri
studiosi.

4.1.1. BRACCIALI

Vanno considerati in questa sezione due oggetti in due distinti materiali: il n. 1, della
tomba 1 PGM BLV deposizione 1, in vetro blu e il n. 33, appartenente al corredo della
deposizione 1 della tomba 6 PGM, in argento. Per le dimensioni entrambi potrebbero
essere stati delle armille e perciò portati al braccio, appena al di sopra del gomito, o
anche delle cavigliere. La tipologia di entrambi è estremamente semplificata, ed il
bracciale argenteo troppo corroso, per fornirci qualche dato sensibile di discussione.
Nel caso di quella in vetro invece possediamo il confronto più stringente in un
bracciale conservato al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia426 provvisto di
protomi leonine in oro che ne adornano le due estremità. Nel nostro bracciale sono
evidentemente assenti, ma non è escluso che ne fosse provvisto in origine. Appartiene

425
Tra tutti: Acquaro 1984, p. 13.
426
Oro degli Etruschi 1983, n. 174, p. 297 (inv. 59791). Il bracciale ha diametro di 84 mm, misura quasi identica
a quella del nostro n. 1.
- 101 -
ad un tipo ben attestato in Etruria e proviene da una tomba con corredo di fine VI –
inizi V secolo sita nei pressi di Vulci, da una bottega del cui centro si ritiene fosse
prodotto nell’ultimo quarto del VI secolo427. Se il nostro bracciale fosse originario
della stessa bottega, circostanza non verificabile per l’assenza delle terminazioni auree,
si proporrebbe un esempio di continuità delle relazioni tra Sardegna ed Etruria durante
il dominio cartaginese428, altrimenti la datazione del bracciale dovrà essere posta ad
almeno la metà del VI secolo, immediatamente prima della conquista dell’isola.
Bisogna aggiungere che oltre all’esiguità delle attestazioni, anche un altro elemento
rende il problema più articolato: al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari sono
conservate due protomi di leone in oro che, per dimensioni, per il trovarsi in coppia e
la similarità con quelle vulcenti, potevano svolgere la stessa funzione429. Le
dimensioni esterne rendono possibile l’accoglimento al loro interno di una verga della
stessa misura del bracciale e le coincidenze iconografiche tra le due coppie rendono
verosimile l’ipotesi: uguale la forma data alle orecchie e la criniera che incornicia il
volto. Ulteriore elemento a favore è la presenza di un bracciale incompleto in vetro blu
nelle collezioni del Museo cagliaritano430. La stessa patina madreperlacea presente sul
nostro, risultante dall’iridescenza provocata da simili condizioni conservative431, la
mancanza delle terminazioni e del numero inventariale indicano come ragionevole
l’appartenenza alle due protomi. Nulla osta la datazione ad età ellenistica fornita dalla
editrice che non giustifica con confronto alcuno432.
Tornando al confronto delle due coppie di protomi si rileva la differente tecnica
decorativa: a filigrana (spirali) nella coppia vulcente e a granulazione (triangoli) in
quella tharrense, con l’aggiunta in quest’ultima di un sottile anello filiforme tra le
fauci. Il dato stilistico suggerisce la realizzazione in bottega punica delle protomi
sarde, ma la tecnica della granulazione non era sconosciuta alle botteghe etrusche. Si

427
Ibidem, p. 297.
428
Per la fine delle importazioni etrusche cfr.: Bartoloni, Bondi, Moscati 1997, p. 71-72.
429
Pisano 1974, p. 117, nn. 180-181 (nn. inv. 9337-9338, collezione Spano), fig. 8, tav. XVII, che accredita una
provenienza tharrense; Fenici 1988, p. 691, n. 637, in cui è proposta la datazione a VII – VI secolo e la
funzione di terminazione di bracciale; Pisano 1988b, p. 36, 81, fig. 38, in cui l’autrice suppone la funzione
come terminazione di collana a maglie o bracciale.
430
Uberti 1993, n. 119 (senza n.i.), tav. XVII.
431
Prossimo è anche il riscontro dimensionale: diametro 82 mm, diametro sezione 7 mm: ibidem, pp. 105-106.
432
V. ib., p. 31 (datazione a III – I sec. a.C.).
- 102 -
potrebbe pensare anche ad una diversa realizzazione da parte della stessa bottega per
soddisfare gusti differenti.

4.1.2. ELEMENTI DI COLLANA

E’ necessario premettere che non sono state rinvenute, durante lo scavo delle
sepolture, collane integre, i cui elementi dovevano quindi essere legati da un filo di
materiale deperibile. Questi ultimi quindi verranno trattati a seconda della materia con
cui sono stati realizzati (pasta vitrea e metallo, come oro e argento) e singolarmente.
Non ci sentiamo infatti di poter proporre dei raggruppamenti in collane o bracciali, che
risponderebbero ad un criterio selettivo di estetica personale e non troverebbe conforto
se non in rari esempi rinvenuti integri. In sede di documentazione fotografica si è
provvisto ad applicare i gruppi più consistenti su di un filo di rame per facilitarne
l’esposizione.
I vaghi di collana sono prevalentemente del tipo sferico policromo con
decorazione “a occhi” ottenuta con vari strati concentrici di pasta vitrea colorata e
bianca, per la maggior parte su di una matrice azzurra. Il tipo, diffusissimo in ambito
fenicio-punico e centroeuropeo è stato studiato più recentemente da E. Ruano Ruiz433,
di cui seguiremo la classificazione adottata per i vaghi in vetro del Museo
Archeologico di Ibiza e Formentera434.
Il materiale utilizzato è il vetro o pasta vitrea, uniti nella definizione dalla
medesima tecnica di realizzazione che prevede la mescolanza di silice (SiO2), ossidi
alcalini e carbonati di calcio, costituenti essenziali del vetro435. Diverse colorazioni
erano ottenute con l’aggiunta di altre componenti chimiche come il cobalto per il blu,
antimonio per il giallo e ossido di stagno per il bianco. Il vetro inoltre, per via della sua
stessa composizione, è soggetto ad alterazione in presenza di acqua con effetti che
possono interessare la superficie dell’oggetto con perdita di trasparenza, iridescenza e
opalescenza o più in profondità sino alla polverizzazione dell’intero manufatto436. Tali
alterazioni non sono visibili ad occhio nudo sui nostri esemplari se non nella porosità

433
Ruano Ruiz 1996.
434
Ibidem, p. 43 e segg.: i 1578 vaghi del Museo Archeologico Nazionale di Ibiza e Formentera sono classificati
per forma in 10 tipi e in varianti a seconda dei colori e della decorazione.
435
Ib., p. 33.
436
Savio, Ferrari, Croce 2004, p. 159 e sgg.
- 103 -
superficiale e nell’iridescenza degli anelli di alcuni vaghi con decorazione ad occhi
delle tombe 1 PGM BLV e 5-6 PGM. Si può supporre quindi che tali vaghi in origine
non fossero dissimili da quelli meglio conservati della tomba 9 AR, i quali qui
avrebbero trovato un ambiente che ne ha permesso la migliore conservazione. Ad ogni
modo rimandiamo ad altra sede l’analisi microscopica dei materiali.
Forniamo qui di seguito una tavola sinottica dei vaghi in vetro437:

TIPOLOGIA TOMBA CAT. INV. MISURE OCCHI COLORI E NOTE ANELLI


Lungh. 11,
AMORFO 9 AR 59 i 143060 / B irid. - due fori incrociati /
largh 7,5
ANULARE 9 AR 56 e 143894 Ø 10, largh. 3 / Celeste /
Bianco, friabile in 4
BARILOTTO 9 AR 59 h 143894 / /
frammenti
CILINDRICO 9 AR 59 b 143894 Ø 4, lungh. 8 / Rosso, in 2 frammenti /
1 PGM n.i.
CUBICO 14 f 6x6x6 / Turchese /
BLV (83)
Ø 4,5, lungh. Celeste, in 2 frammenti,
FUSIFORME 9 AR 59 a 143894 / /
15 incompleto
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 12.a Ø7 7 AC, M, B irid. 4
BLV/2 (73)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 12 b Ø8 7 AC, M, B irid. 2
BLV/2 (73)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 12 d Ø8 8 AC, AS, B 4
BLV/2 (73)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 12 e Ø8 7 AC, AS, B 4
BLV/2 (73)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 d Ø9 7 AC, M, B irid. 3
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 e Ø 10 7 AC, AS, B 3
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 h Ø 13 7 AC, AS, B 6
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 i Ø9 8 M, B 3
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 j Ø8 5 AC, M, B irid. 2
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 l Ø8 6 AC, M, B irid. 1
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 m Ø7 8 AC, M, B irid. 2
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 n Ø7 8 AC, M, B irid. 2
BLV (83)
1 PGM n.i.
SFERICO con occhi 14 o Ø7 8 AC, M, B irid. 2
BLV (83)
SFERICO con occhi 5 PGM/1 21 a n.i. Ø8 7 AC, AS, B 4

SFERICO con occhi 5 PGM/1 21 b n.i. Ø8 8 G, AS, B 1

SFERICO con occhi 5 PGM/1 21 c n.i. Ø 11 7 AC, AS, B 5

SFERICO con occhi 5 PGM/2 22 n.i. Ø 11,5 7 AC, AS, B 4

SFERICO con occhi 6 PGM/2 38 a n.i. Ø9 7 AC, AS, B 3

437
Legenda: AC (azzurro chiaro), AS (azzurro scuro), B (bianco), M (marrone), G (giallo), irid. (iridescente).
- 104 -
SFERICO con occhi 6 PGM/2 38 b n.i. Ø8 7 AC, AS, B 2

SFERICO con occhi 6 PGM/2 38 c n.i. Ø 10 7 AC, AS, B 4

SFERICO con occhi 6 PGM/2 38 e n.i. Ø8 8 AC, AS, B 2

SFERICO con occhi 6 PGM/2 38 f n.i. Ø9 8 AC, AS, B 3

SFERICO con occhi 6 PGM/2 38 g n.i. Ø9 8 AC, AS, B 3

SFERICO con occhi 6 PGM/2 38 h n.i. Ø9 8 AC, AS, B 2

SFERICO con occhi 9 AR 56 a 143060 Ø7 7 B, M, AC 3

SFERICO con occhi 9 AR 56 b 143894 Ø7 7 AC, AS, B 5

SFERICO con occhi 9 AR 56 c 143060 Ø9 7 AC, AS, B 4

SFERICO con occhi 9 AR 56 d 143058 Ø 10 7 AC, AS, B 5

SFERICO con occhi 9 AR 56 h 143060 Ø7 7 M, B, AC 4

SFERICO con occhi 9 AR 56 i 143894 Ø7 7 M, B, AC 4

SFERICO con occhi 9 AR 56 j 143894 Ø7 7 M, B, AC 4

SFERICO con occhi 9 AR 56 k n.i. framm. 6 AC, AS, B 2

SFERICO con occhi 9 AR 56 l n.i. framm. ? M, B 2

SFERICO con occhi 9 AR 56 m n.i. framm. ? AC, AS, B ?

SFERICO con occhi 9 AR 59 f 143894 framm. ? M, B NO

SFERICO con occhi 9 AR 59 g 143894 framm. ? M, B 4

SFERICO con occhi 10 AR/5 69 o 143938 framm. ? M, B 5

SFERICO con occhi 10 AR/5 69 p 143938 Ø 11 7 AC, AS, B 3


SFERICO 57 a- Ø 2,5/5, Blu, 6 integri e 35
9 AR 143060 Subsferici /
monocromatico aq largh. 3/5 frammenti
SFERICO 58 a- Ø 2,2/5,5, Neri, 19 integri e 7
9 AR 143060 Subsferici /
monocromatico ab largh. 3/5 frammenti
SFERICO Sferico
9 AR 59 e 143894 framm. Celeste, in 4 frammenti /
monocromatico schiacciato
SFERICO 1 PGM n.i.
14 k Ø8 0 Celeste irid. /
monocromatico BLV (83)
SFERICO Ø 15, largh. Sferico
9 AR 56 f 143894 B /
monocromatico 9,5 schiacciato
SFERICO a occhi con
6 PGM/2 38 d n.i. Ø 11,5 4 AS, B, G /
protuberanze
B, con due scanalature, M
SFERICO scanalato 9 AR 56 g 143894 Ø8 Sferico /
in superficie

Tabella 1. Vaghi in vetro.

Procedendo con la classificazione dei vaghi possiamo notare subito che la prima classe
individuata da E. Ruano Ruiz, quella dei vaghi anulari438, è rappresentata qui da un
solo esemplare: nella variante monocroma in un vetro celeste trasparente. Il fatto
insolito che emerge dal confronto con l’insieme della documentazione ibicenca è la
scarsità di attestazione nelle nostre tombe di questo tipo di vago, che nel museo di

438
Ruano Ruiz 1996, p. 46.
- 105 -
Ibiza e Formentera gode di un’altissima percentuale: su 1578 vaghi il 57,54% è di tipo
anulare439. Il che potrebbe essere il riflesso di una situazione feconda per la Spagna, o
di una produzione ivi localizzata e di una scarsa ricettività da parte di Sulcis, e forse
magari dell’intera Sardegna, per questa tipologia. Ancora può riflettere una differente
caratterizzazione cronologica dell’apice della sua produzione, sebbene Ruano Ruiz lo
ritenga il modello più antico e “atemporale”440. Il discorso non può tuttavia andare
oltre per la mancanza di dati di confronto e per lo scarso interesse dimostrato nelle
pubblicazioni, anche recenti, per questo genere di dati.
A 68 individui e 42 frammenti assommano invece i vaghi sferici di cui
forniamo nella tabella le singole caratteristiche. Si può notare che in questa tipologia la
variante più rappresentata è quella policroma con decorazione ad occhi. 37 sono infatti
gli esemplari che presentano 7 o 8441 occhi disposti su due file442. Due esemplari soli
(14 j e 38 d) appartengono a due diverse varianti: il primo presenta 5 occhi su di una
sola fila443 e il secondo ne presenta 4 con l’aggiunta di globetti gialli ai lati del foro di
sospensione444.
I 37 vaghi a 7 o 8 occhi, che potrebbero apparire come un gruppo omogeneo,
possono essere analizzati sotto due ulteriori punti di vista: il numero degli anelli
concentrici che formano “l’occhio” e le associazioni cromatiche. Queste ultime sono
variabili ma si trova una netta prevalenza di quella più semplice e diffusa, anche in
ambito spagnolo445, che alterna sulla matrice azzurro chiaro “occhi” azzurro scuro e
bianco, ed è presente su 20 esemplari. Gli occhi sono costituiti da strati concentrici di
colore diverso (nei nostri esemplari sono due soli alternati, uno bianco e uno scuro),
entro cui era inserita la sfera che formava la “pupilla”, e si possono trovare in numero
variabile, da uno a sei446. La loro variabilità non sembra essere legata alla policromia
scelta, quanto alle dimensioni del vago (i vaghi più grandi possono accogliere un
maggior numero di anelli) e alla perizia tecnica dell’artigiano. Altra associazione
cromatica presente su 9 vaghi, tutti di media taglia (7/9 mm di diametro) o

439
Ibidem, p. 45, grafico n. 1.
440
Ib., p. 46.
441
In un solo caso (56 k) 6 occhi.
442
Ib., p. 40, cuadro n. 2: tipo B. V. anche p. 49, fig. 6 e-f.
443
Ib., p. 40, cuadro n. 2: tipo A.
444
Ib., p. 40, cuadro n. 2: tipo C.
445
Ib., p. 48.
446
Per comodità abbiamo contato in questa sede i soli anelli scuri.
- 106 -
frammentati, prevede l’uso del marrone e del bianco, ed eventualmente l’azzurro
chiaro per la pupilla. Questa policromia non sembra essere tra le più fortunate nella
Spagna preromana quanto quella che prevede il fondo giallo447, qui presente con un
solo vago (21 b).
Le due principali associazioni cromatiche qui rilevate sembrano più o meno
equamente distribuite tra le 5 tombe448, e ciò concorre a confermare la sostanziale
contemporaneità delle sepolture in esame. È necessario ricordare però che i vaghi di
collana, non costituiscono, allo stato attuale delle ricerche, elementi datanti, ma non è
escluso che lo possano diventare in futuro, nella speranza che il nostro lavoro
contribuisca seppure modestamente a raggiungere questo risultato. La stessa Ruano
Ruiz attribuisce ai vaghi “oculati” un arco cronologico che interessa, almeno per il
mediterraneo occidentale, tutta la storia della civiltà fenicio-punica senza possibilità di
scendere nel dettaglio449, se non per singole aree geografiche, i cui riferimenti non
possono senz’altro essere generalizzati.
Testimoniata da un solo esemplare (n. 56 g) è la variante con scanalature che
circondano il vago nel senso del diametro, che a differenza della documentazione
spagnola è qui monocroma, caratteristica non presente nel museo ibicenco. L’ambito
spagnolo è tuttavia povero di questa tipologia, maggiormente attestata negli altri siti
mediterranei tra cui la Sardegna450.
Più frequente nelle nostre tombe è invece l’altra variante dei vaghi sferici
studiati in ambito spagnolo: quella monocroma semplice, presente qui con i numeri 14
k, 56 f, 59 e, 57 e 58. Si nota subito una prevalenza della tomba 9 AR tra i contesti che
hanno restituito questa variante. In particolare gli ultimi due numeri sono costituiti da
alcune decine di piccolissimi vaghi che con tutta probabilità costituivano un'unica
collana, forse su due file sovrapposte o con un’alternanza di perle nere e blu.
Purtroppo il rinvenimento fuori contesto del n. 57 impedisce di accertarne la
provenienza dalla medesima deposizione, mentre di sicuro il n. 58 proveniva dalla 9
insieme ai vaghi in corniola (n. 55) e ai due udjat (nn. 60-61).

447
Ib., p. 48.
448
Solo la tomba 11 AR, non ha restituito vaghi di collana.
449
Ib., pp. 50-56
450
Ib., p. 56, dove cita Tharrica 1975, in cui abbiamo trovato un solo confronto in un vago della collana E 15: p.
112, p. 118, tav. XLIV, come noto priva di informazioni di contesto.
- 107 -
Diversa situazione interessa gli altri vaghi in vetro che testimoniano la presenza
della tipologia cilindrica con 5 vaghi e 10 frammenti, prevalentemente di colore rosso,
forse ad imitazione della corniola, e provenienti per la quasi totalità dalla deposizione
del vano destro della tomba 10 AR (nn. 69 a-n).
La tipologia fusiforme è presente con un solo vago (n. 59 a) in pasta turchese,
così come quella a barilotto (n. 14 s) in vetro rosso opaco che suggerisce quanto detto
per i vaghi cilindrici dello stesso colore. Tale tipologia non è frequente infatti tra i
vaghi vitrei, mentre lo è maggiormente tra quelli in corniola, presente nei nostri stessi
corredi451.
Di un collier complesso faceva parte forse il n. 59 i452 per la disposizione
incrociata dei due fori passanti. Il vago è comunque incompleto e poteva essere
provvisto di appendici cilindriche in corrispondenza dei fori: il vago è per quanto
sappiamo privo di confronti.
Insolito è poi il vago cubico in vetro opaco turchese (n. 14 f). L’esemplare non
è tuttavia privo di confronti: tre analoghi sono stati rinvenuti nel tophet sulcitano e
attribuiti ad un contesto di fine VII-VI secolo453, e non sono inconsueti nelle collane
cartaginesi: quattro sono presenti nella collana n. 15 del catalogo della Quillard454,
proveniente verosimilmente da un settore della necropoli di Douimès datato al VII-VI
secolo. I quattro vaghi erano associati ad altri in corniola (sia a barilotto che sferici), in
pasta vitrea con decorazione ad occhi e in lamina d’oro con decorazione a reticolo, uno
dei quali ha miracolosamente preservato l’anima in pasta silicea455. Entro una tomba
palermitana della prima metà del VI secolo è stato rinvenuto un ulteriore cubo dalle
dimensioni prossime al nostro456 e appartenente ad una collana ricomposta con vaghi
affusolati e sferici ad occhi in pasta vitrea e quattro vaghi in corniola, rispettivamente
due cilindrici, uno sferico e uno biconico457. Altri vaghi cubici provengono anche dalle

451
V. più avanti.
452
Dalla stessa deposizione n. 2 provengono infatti i vaghi in lamina d’oro n. 53.
453
Montis 2005, p. 15, uno solo è attribuibile con certezza all’urna SATH/U190 (tav. VI, n. 55, di 6 mm di lato),
gli altri due rinvenuti fuori contesto (tav. VIII, n. 62, di 5 mm di lato).
454
Quillard 1979, pp. 19-20, n. 15, tav. XV, n. 15.
455
Ibidem, p. 20.
456
Palermo Punica 1998, p. 131, p. 189, n. cat. 39. Il vago misura 6 x 7 mm e proviene dalla tomba 218 aperta
nel 1954.
457
Ma numerose sono le analogie tra cui la presenza, nel corredo della medesima deposizione di un pendente ad
arco centinato simile al nostro n. 7, ma in argento e privo di decorazione, e di vaghi in lamina ma anch’essi in
argento: ibidem p. 131.
- 108 -
tombe tharrensi del British Musem458, ma per uno solo, il n. 21/47, è indicata la misura
del lato di 5 mm, prossima al nostro, nonostante l’interpretazione come conchiglia del
materiale utilizzato non consenta una corretta identificazione. Mentre gli altri sono in
“egyptian blue” o faïence e in minor misura di lapislazzuli. Per quanto possibilista sia
l’affermazione, quelli in faïence potrebbero essere attribuiti alla stessa produzione del
nostro. Il totale delle indicazioni cronologiche portate a confronto rientra nel pieno VI
secolo per cui pensiamo che il vago della tomba 1 PGM BLV possa essere ascritto agli
oggetti più antichi della sepoltura (forse del primo ventennio del V secolo).
Ma vediamo ora i vaghi negli altri materiali che, come detto prima, non è
escluso potessero ricorrere nelle stesse collane insieme a quelli in vetro.

DIMENSIONI
TIPOLOGIA TOMBA/DEP. CATOLOGO INV. MATERIA
(mm)

CILINDRICO 1 PGM BLV 14 a, b, q, r n.i. (83) Ø8 Osso

SFERICO 1 PGM BLV 14 c, p n.i. (83) Ø5 Pietra

BARILOTTO 1 PGM BLV 14 s n.i. (83) lungh. 9 Ambra

CILINDRICO 10 AR/5 69 a-d 143938 Ø 6, lungh. 10/17 Ambra

CILINDRICO 10 AR/5 69 e-n 143938 Piccoli frammenti Ambra

BARILOTTO 1 PGM BLV 14 g n.i. (83) Ø 10, lungh. 9, Ø foro 5 Corniola

BARILOTTO 9 AR 55 a 143060 Ø 5/6, largh. 5 Corniola

BARILOTTO 9 AR 55 d 143060 Ø 5/5,5, largh. 5 Corniola

SFERICO 9 AR 55 b 143058 Ø 9, largh. 7 Corniola

SFERICO 9 AR 55 c 143058 Ø 10, largh. 7 Corniola

Tabella 2. Vaghi in altro materiale.

Come accennato all’inizio di questa sezione, collane polimateriche non erano


inconsuete e alcuni di questi pezzi potevano essere, anzi dovevano, essere associati tra
loro: frequente a Cartagine è l’associazione di oro e corniola459 che troverebbe

458
Tharros BM 1987, nn. 21/47 (in “shell”), 22/16 (uno in egyptian blue e uno in lapislazuli), 26/16 (3 in
egyptian blue e uno in lapislazuli), 28/18 (3 in egyptian blue).
459
Quillard 1979, nn. 3, 4, 15 (gia menzionato più sopra: v. nota 454), 16-18 datati tra VII e VI secolo e 26-27
tra IV e III. v. anche Pisano 1988, p. 48, cit. in Bernardini 1991, p. 194, nota 33, per la ricomposizione delle
collane a scopo didattico ed espositivo. Tra i corredi del British Museum solo 16 vaghi su 32 sono associati
all’oro e in una collana ricomposta soltanto: Tharros BM 1987, n. 12/26, p. 174.
- 109 -
conferma qui nella presenza dei due materiali nella tomba 1 PGM BLV (n. 14 g),
anche se non è possibile attribuire i due tipi di vaghi alla medesima deposizione, ma
non nella situazione della 9 AR i cui vaghi (55 a-d, dalla deposizione n. 9) non sono
appartenuti allo stesso inumato che portava al collo i vaghi in oro (n. 53, dalla
deposizione n. 2).
Alcune parole possono essere spese sui vaghi cilindrici in osso (n. 14 a, b, q e
r), materiale decisamente umile come costituente di collane o bracciali: potevano
assolvere un’altra funzione poco comprensibile ed è da notare come uno dei quattro (n.
14 r) non poteva essere infilato in un filo dal momento che manca di perforazione.
Ugualmente umili sono i due vaghi in pietra o pasta (n. 14 c e p) che potevano
essere rivestiti della lamina d’oro dei nn. 10 e 11 della stessa tomba.
In ambra i nn. 69 a-n pertinenti ad alcuni vaghi cilindrici (almeno 5) che
componevano una collana, insieme a due vaghi in pasta vitrea con occhi, indossata
dall’inumato della deposizione 5 nella tomba 10 AR. Il vago 14 s nello stesso
materiale testimonia invece la presenza, seppure isolata, della tipologia a barilotto
nella collana ricomposta della tomba 1 PGM BLV.
In lamina d’oro sono invece i vaghi presentati nella seguente tabella:

DIMENSIONI
TOMBA/DEP. n. CATOLOGO n. INVENTARIO DECORAZIONE
(mm)

1 PGM BLV/1 10 n.i. (69) Ø 12, largh. 8 Reticolo a maglie strette

1 PGM BLV 11 a-g n.i. (85) Ø 11/12, largh. 7/9 Reticolo a maglie larghe

6 PGM/2 37 a-n n.i. Ø 9/10, largh. 4,5/5,5 No

9 AR 53 a-l 143058 Ø 10/12, largh. 6,5/7 Reticolo a maglie strette

Tabella 3. Vaghi in lamina d’oro.

Anche i presenti vaghi si prestano ad alcune considerazioni. Tutti gli esemplari


appartengono alla tipologia del vago in lamina d’oro su anima in materiale deperibile.
Questa poteva essere composta da materiale più resistente come nel caso di un vago
cartaginese460 e di tre tharrensi461, ed in particolare di pasta vitrea.

460
Quillard 1979, n. 15.
461
Tharros BM 1987, nn. 12/26 (1 caso), 28/18 (2 casi), definito “composition core”.
- 110 -
I confronti, più o meno puntuali in ambito sardo non mancano ma sono
purtroppo privi di indicazioni di origine462, ad eccezione di quelli appartenenti ai
corredi delle tombe tharrensi acquistati dal British Museum463. La relativa
pubblicazione tuttavia non offre quei dati metrici e fotografici sufficienti a stabilire
confronti puntuali e ragionati e tanto meno datazioni affidabili.
Qualche indicazione la fornisce invece B. Quillard che nel suo studio sulle
collane e i pendenti cartaginesi in oro individua non meno di 23 tipi di vaghi in oro, tra
i quali i nostri rientrerebbero nel tipo B del primo gruppo, quello dei vaghi privi di
decorazione, per il n. 37, e nel tipo J del secondo, quello con decorazione incisa, per
quanto riguarda i nn. 10, 11 e 53. Indicazioni cronologiche precise rimandano alla
seconda metà del VI secolo per il tipo B e al IV secolo per il tipo J464, anche se va
notato che le dimensioni di tutti i pezzi analoghi ai nostri sono di poco inferiori e le
incisioni sembrano essere sostituite dalla lavorazione a sbalzo che conferisce ai solchi
maggiore profondità. Tenuto conto del divario cronologico tra i reperti cartaginesi e i
nostri ben si spiegano le evidenti divergenze tecnico-stilistiche. Insufficiente è quanto
detto ai fini della localizzazione della una bottega artigiana che li ha prodotti, ma e va
tenuto conto anche della presenza, già segnalata in precedenza, di vaghi di questo tipo
nei corredi inediti delle tombe di Via Castello465, che indica in Sulcis un centro di
particolare ricezione di questa tipologia466.
Per ultimo va considerato un frammento argenteo (n. 54 a) composto da quattro
piccole sfere saldate a formare parte di una vera in origine forse composta da sei, del
diametro di 10 mm circa. Il vago così costituito è tipologicamente attestato nei corredi
delle tombe della necropoli fenicia di Monte Sirai, con datazione compresa nel VI

462
Vedi ad esempio Pisano 1974, bracciale n. 131, tav. XI, e collana n. 132., tav. XII.
463
Tharros BM 1987, nn. 1/39 (9 vaghi in oro), 1/40 (3 in argento), 4/24 (30 in argento di cui alcuni con
decorazione a reticolo), 9/24 (12 in argento tra cui molti con decorazione a reticolo), 15/18 (3 in argento),
20/23 (uno in argento), 28/18 (14 in oro di cui 10 con decorazione e 4 senza), figg. 23 e 40. Nulla è
affermabile di sicuro sulla datazione di questi, essendo andate perse le associazioni con il corredo ceramico,
anche datazioni basate su elementi più riconoscibili cronologicamente come i pendenti non sono accreditabili
perché l’assemblaggio delle collane è avvenuto dopo il rinvenimento: cfr. ad es. p. 129, per la datazione a VI-
IV secolo del n. 1/39 e p. 236, per la datazione del n. 32/47 sulla base di quella al IV secolo del pendente
principale della collana.
464
Quillard 1979, tipo B: collana n. 17 dalla tomba 327 della necropoli di Ancona databile alla seconda metà del
VI secolo; tipo J: collana n. 28-30 dalle tombe 20, 1 e 4 di Utica datate tutte al IV secolo.
465
V. § 2.1.
466
Bernardini 1991, p. 194.
- 111 -
secolo a.C.467, e da un esemplare della necropoli di Pani Loriga della prima metà dello
stesso secolo468. Il tipo è presente anche nei corredi delle tombe di Tharros al British
Museum469 e tra i gioielli di probabile origine tharrense al Museo di Cagliari,
purtroppo privi di indicazione cronologica470.

4.1.3. PENDENTI

I pendenti potevano entrare nella composizione delle collane come semplice elementi
o esserne quello principale, oppure ancora far parte di orecchini.
La tomba 1 PGM BLV ci ha consegnato tre preziosi pendenti (nn. 7-9) in oro o
in una lega di oro e argento in quantità e natura che solo un analisi tecnico-scientifica
ci potrà dire con precisione.
Il n. 7 è di un tipo noto come “rettangolo con arco centinato” (tipo XI) nel
catalogo della Pisano471 e come “niche cintrée” nello studio della Quillard472 e noto
anche tra gli amuleti in pasta vitrea o faïence e derivati dalla c.d. “tavoletta da
scrittura” egiziana, o meglio “stela-shaped pendants”473, raramente rinvenuti in
contesti del mediterraneo occidentale. Viceversa esemplari di questo tipo in metallo
non sono frequenti nel mediterraneo orientale474, mentre conoscono una relativamente
maggiore diffusione in quello occidentale: in Sardegna, Sicilia e Nord Africa475. La
maggior parte degli esemplari finora editi, correttamente e non, proviene dalla
Sardegna, in particolare da Tharros, ed è omogenea dal punto di vista stilistico. Qui
troviamo due delle tre varianti iconografiche sinora note su questo tipo di pendente:

467
Campanella 2000, p. 134, nn. 3 (MSN 7, dalla tomba 2 del terzo quarto del VI sec.), 94 (MSN 138, dalla
tomba 32 del primo quarto del VI sec.); Bartoloni 2000a, p. 22, tav. IV, b (MSN 322, dalla tomba 88 del
secondo quarto del VI sec.).
468
Tore 1975, p. 370, nota 18; Tore 2000, p. 344, fig. 8, f.
469
Tharros BM 1987, p. 182, fig. 29.
470
Pisano 1974, 178, nn. 540-574, tav. XXVI.
471
Ibidem, p. 32.
472
Quillard 1979, p. 55 e segg.
473
Vercoutter 1945, p. 278, nn. 902-904; Culican 1985, p. 122-123.
474
Quillard 1979, p. 64., note 317-319; Culican 1985, p. 122, per tale assenza propone un prestito diretto della
tipologia dall’Egitto.
475
Sono noti circa 40 esemplari, per la maggior parte considerati in Quillard 1979, p. 55 e segg.
- 112 -
• raffigurazioni egittizzanti con il cosiddetto “idolo a bottiglia” (con corpo in risalto
e ricoperto di granuli) affiancato da due urei, sopra altare modanato a gola egizia,
su esemplari in oro e argento476;
• raffigurazioni semplici di tipo geometrico a decoro granulato con losanga centrale
e triangoli con base tangente il bordo, prevalentemente su esemplari in argento,
rinvenuti esclusivamente in Sardegna477;
• campo figurativo privo di decorazione, su esemplari in argento di provenienza
prevalentemente siciliana e nordafricana478.
Sulla base di pochi confronti datati con sicurezza le due autrici hanno
individuato per questa tipologia un periodo di diffusione compreso tra fine VII e VI
secolo, accordando preferenza all’ultimo dei due secoli, e non escludono possibilità di
attardamenti, peraltro riconoscibili qualitativamente. La grande concentrazione in
Sardegna, e in particolare a Tharros, unita alla omogeneità stilistica prima accennata,
non offrono particolari dubbi sull’attribuzione della produzione al centro
dell’Oristanese, attribuzione comune a diverse altre tipologie di gioielli. Non è escluso
comunque che potessero esistere altri centri di produzione e che la stessa Cartagine
ricoprisse una tale funzione, lasciando a Tharros quella di grande centro di
smistamento.
L’analogia di questa tipologia con la stele del tophet notata dalla Quillard479 e
dalla Pisano480 pare evidente non tanto per la sommità arcuata quanto per la
condivisione, tra le due categorie artigianali, dei medesimi temi iconografici
rappresentati all’interno del campo figurativo. Infatti solo tra III e II secolo compare in
Sardegna, ma limitatamente a Sulcis, il tipo di stele ad arco centinato481, che
costituisce la tipica forma egizia. Ciò indicherebbe come la forma arcuata della stele
egizia, nota peraltro anche nel Levante482, sia passata al pendente fenicio per il tramite

476
Per gli esemplari sardi provenienti da Tharros: Pisano 1974, nn. 162, 411-412; Pisano 1987a, nn. 4/24, 6/29,
9/27 e 16/22; Rulli 1950, p. 11, tav. B, n. 5, cit. in Quillard 1979, p. 57, nota 265. Per quelli di Pani Loriga v.
ibidem, p. 57, nn. G, H e J, per i quali dava già notizia Tore 1975, p. 367, nota 8, p. 370, nota 18.
477
Quillard 1979, p. 65.
478
Ibidem; per un’esemplare sardo v. Pisano 1974, p. 169, n. 416, fig. 14, tav. XXIV.
479
Quillard 1979, p. 64.
480
Pisano 1988b, p. 35.
481
Moscati 1988a, pp. 49-52, tavv. XVI, 1-4; ancora in Moscati 1993a, p. 23, tav. XI, in cui vengono menzionate
due stele affini di Sousse che indicano in questo caso l’origine nordafricana della tipologia.
482
Si citano i due noti esempi della stele di Bar-Hadad, re di Damasco, eretta nel IX sec. e quella di Shadrafa da
Amrit della metà del VI sec.: Matthiae 1997, pp. 233-236.
- 113 -
dell’amuleto egiziano. Diverso è il discorso per quanto concerne i simboli utilizzati
all’interno del campo figurativo del pendente che nulla hanno a che fare con
iconografie di tipo egizio.
La comparsa ad esempio del rombo nelle stele avviene non prima della fine del
VI e l’inizio del V secolo483, mentre appena precedente sembra quella dell’idolo a
bottiglia. Entrambi i motivi non sono però attestati a Sulcis né Monte Sirai484, che dalla
prima dipendeva nell’ambito della produzione lapidea, per cui il rapporto tra questa e
quella dei pendenti può dirsi inesistente, in quanto risulti legato alla sola sommità degli
oggetti che compare a Sulcis in un momento in cui i pendenti addirittura non sono
attestati. Incoraggiata è quindi l’ipotesi di una produzione tharrense del nostro
pendente: a Tharros infatti sarebbe stata possibile una tale connessione tra diverse
categorie artigianali, come già proposto tra stele e coroplastica in merito allo stesso
motivo iconografico del rombo485.
I nn. 8 e 9 appartengono invece ad un tipo più diffuso in occidente: si tratta di
due pendenti discoidi che presentano disco e crescente sovrapposti, dei quali
quest’ultimo con le punte rivolte verso il basso. L’iconografia cui si riferiscono è tra le
più note e semplici rappresentazioni dei due astri presenti in ambito orientale e si è
prestata nella gioielleria fenicio-punica a diverse elaborazioni486, tra la quali la nostra
rientra nel tipo IXB della Pisano487 e si avvicina ai nn. 2(D) e 4(C) del catalogo della
Quillard488, ma in particolare all’ultimo di uguali dimensioni. La tecnica di
decorazione è la medesima: il campo dei due astri è contornato da minuscoli granuli
d’oro e inizialmente doveva risaltare per la lavorazione a sbalzo.

483
Tore 1972a, pp. 191-192, sulla scorta di Bisi 1967, pp. 234-235; più di recente v. Moscati 1987, pp. 49-51 e
121.
484
Moscati 1987, p. 50.
485
Moscati 1987, p. 51.
486
Per la diffusione in occidente del tipo v. Botto 1995 e Botto 1996 con bibliografia; ancora utili le
classificazioni, che rispettiamo in questo lavoro, di Quillard 1979; Pisano 1974 e Pisano 1987a.
487
Pisano 1974, p. 31, cui appartengono nella collezione del museo cagliaritano i nn. 150-151 (p. 107, fig. 6, tav.
XIV), entrambi in oro, differenti dal nostro per le diverse proporzioni dei due elementi: le punte del falce
lunare si allontanano dal disco, qui relativamente più piccolo, sebbene le dimensioni generali (8/10 mm. di
larghezza) e la tecnica di lavorazione non si discostino dai nostri; Pisano 1987a, p. 89, per i due esemplari di
sicura origine tharrense 4/24 e 6/29. Il primo in argento è analogo ai due cagliaritani, mentre il secondo in
oro, dalle proporzioni analoghe ai nostri due pendenti, è privo della decorazione a granuli lungo il bordo
esterno, presente solamente lungo la metà superiore del disco dove avviene la tangenza dei due simboli
astrali. Per quest’ultimo v. anche: Moscati 1988b, p. 43, fig. 13, e.
488
Quillard 1979, p. 2, tav. III, n. 2(D), e pp. 6-7, tavv. VI-VII, n. 4(C), cfr. le pp. 87-91 per lo studio
comparativo dell’intera tipologia.
- 114 -
Due interessanti e stretti confronti si trovano in due pendenti provenienti uno
dalla necropoli ad incinerazione di Bithia e datato all’ultimo quarto del VII secolo489 e
l’altro da quella di Pani Loriga490. Gli esemplari, entrambi in argento491, sono prossimi
ai nostri per forma e dimensioni, sebbene lo stato di conservazione non permetta di
apprezzarne la tecnica e la disposizione dei grani. Tuttavia, prescindendo da questi
confronti seppur di poco più antichi, il richiamo dimensionale e la medesima tecnica di
produzione del n. 7, nonché il medesimo contesto di rinvenimento suggeriscono per i
nostri pendenti una datazione e origine analoga. Il centro di Tharros non può che
essere anche in questo caso il primo candidato nell’individuazione del luogo di
produzione. Tuttavia non si può non rilevare l’appartenenza ad una tipologia che trova
i più stretti confronti in siti della stessa regione e in un ambito cronologico che predata
quello della stessa tomba 1 PGM BLV. Già per il bracciale in vetro della medesima
tomba si è rilevato un link con la produzione etrusca attiva nella generazione
precedente492 ed una circostanza simile a quella dei pendenti in esame la si noterà per
gli orecchini ad arco ellittico493.
Tema ancora non sufficientemente chiarito è invece quello relativo al
significato del simbolo astrale in essi rappresentato. Se la sua origine è da collocarsi
nella Mesopotamia del III millennio494, nel mondo punico e neo-punico costituisce uno
dei motivi più diffusi tra diverse categorie artigianali: sulle stele, come nella glittica,
nei rasoi in bronzo e nelle monete, etc. Se sui rasoi, così come nella glittica, partecipa
ad evidenziare la sacralità rituale delle scene di offerta o di adorazione495, la presenza
sulle stele o come attributo di divinità sulle statuette di terracotta ibicenche non
consente di considerarlo come simbolo esclusivo di una sola divinità496, tanto meno

489
Marras 1996a, p. 131, 181-182, n. 151, tav. XI, 6 (lungh. 14 mm) dalla tomba 20 ad incinerazione.
490
Tore 1975, p. 370, nota 18 (n.i. 55412, dalla tomba 23) in cui l’autore propone per il settore della necropoli ad
incinerazione scavato entro il 1973 una datazione alla prima metà del VI sec.: p. 371; Tore 2000, p. 338, nota
38, fig. 8, b.
491
Culican 1985, p. 124, tav. Vd, aggiunge un interessante analogo pendente in oro da Mozia (n.i. 1686), per il
quale non si possiedono tuttavia indicazioni cronologiche; anche in Marras 1996a, p. 131.
492
V. § 4.1.1.
493
V. § 4.1.4: questi scarni dati indiziano una continuità della facies degli athyrmata sulcitani che quindi non
conosce soluzione a discapito della conquista cartaginese avvenuta alla fine del VI sec.
494
Acquaro 1971, p. 113.
495
Ibidem, pp. 113-114.
496
Del Vais 1993, che costituisce uno studio statistico della presenza del simbolo sulle stele di Mozia, attraverso
il quale non è stato possibile neppure riconoscere un’evoluzione stilistica del motivo; San Nicolás Pedraz
1987, p. 60, in cui figura tra gli attributi di Baal Hammon come allusione alla sua natura celeste, ma non
risulta suo simbolo esclusivo, essendo in altre occasioni associato alla dea Tanit.
- 115 -
risulta chiaro se rappresenti il sole, la luna nei due aspetti di quarto e plenilunio o
l’insieme dei due astri, o ancora la luna e venere497.
Tra i pendenti andrà necessariamente annoverato lo scarabeo n. 50 della tomba
6 PGM, almeno per quanto concerne la sua montatura498. La gemma in corniola è
infatti provvista di una montatura “a staffa” in oro con anello ottenuto per torsione che
ne permetteva la sospensione al collo. La tecnica di realizzazione è stata ben illustrata
dalla Quillard che ne ha altresì riconosciuto una non lontana origine orientale499: un
unico filo d’oro, lungo non più di 10/15 cm, e ispessito al centro per avvolgere
probabilmente un’anima di bronzo, veniva ritorto in modo da formare l’anello e le due
estremità erano infilate attraverso il foro dello scarabeo e successivamente intrecciate
intorno all’altra parte del filo. In tal modo la gemma diveniva versatile e, impugnando
l’anello con le dita, rendeva possibile l’impressione del sigillo.
Questa tipologia di montatura, realizzata in una tecnica comune ad altri tipi di
gioielli punici come gli anelli crinali o orecchini del nostro stesso catalogo (nn. 35-36
e 75-76), è attestata su un numero notevole di scarabei correttamente editi. La Quillard
lo classifica come tipo II(b)2500 e lo riscontra su solo due scarabei in corniola,
conservati nel Museo del Bardo e datati al V secolo a.C. 501, e su almeno 17 scarabei
sardi502. Ad un esame più attento delle singole fonti usate dalla autrice, possiamo
notare l’esistenza di diverse sotto-varianti del tipo, individuabili sulla base dello
spessore del filo in corrispondenza dell’anello di sospensione o della larghezza
dell’anello stesso503. Al di là di queste sottili differenze, che potrebbero risentire della
realizzazione ad opera di botteghe diverse, l’incrocio dell’analisi di questo tipo di
montatura con la seriazione su base stilistica delle raffigurazioni alle basi delle gemme

497
Ibidem.
498
Per l’analisi dello scarabeo v. § 4.3.3.
499
Quillard 1987. Tecnica di assemblaggio denominata “ligature” p. 79, per l’analisi comparativa p. 114 e segg.
500
Ibidem, p. 114 e segg.
501
Ib., p. 21, nn. 67 e 68 provenienti rispettivamente da Utica (tomba non identificata) e dalla necropoli di Bordj-
Djedid (tomba 307).
502
Ib., p. 121, nota 572. L’autrice non distingue tra i tipi II(b)1, 2 e 3, ma afferma una maggiore rappresentatività
del tipo II(b)2 nei confronti degli altri, rispettivamente caratterizzati da un anello prodotto da una strozzatura
del filo e da una giustapposizione di un anello saldato al filo. Le gemme sono state studiate dai relativi autori
prevalentemente su base antiquaria e datate a non prima del VI secolo (v. anche ibidem, Tableau Recapitulatif
V), datazione che la Quillard abbassa almeno alla fine di tale secolo. Tra i materiali editi successivamente si
cita Acquaro 1987b, n. 45, p. 235, scarabeo in corniola attribuito alla prima metà del VI secolo.
503
V. ad es. Acquaro 1976, p. 168, tav. XXIV, 1, che presenta un anello molto più grande rispetto ad altri dello
stesso tipo.
- 116 -
consentirebbe di circoscrivere la datazione per quegli scarabei montati in questo modo,
che al momento risulta piuttosto ampia e coprire tutto l’arco di tempo dell’attività delle
botteghe tharrensi. L’attenzione a questo aspetto dell’analisi servirebbe a comprendere
e verificare l’ipotesi che l’incisione e la montatura non avvenissero nello stesso luogo
o centro504.
Va comunque aggiunto alla serie sarda un altro filo, montato in questo caso su
un vago cilindrico di corniola e conservato al Museo Sanna505. I suoi editori ne hanno
messo in evidenza la analogia con il sigillo di tipo cilindrico, per lo più sconosciuto nel
mediterraneo occidentale, fatto che legato alla sua presenza sul più diffuso sigillo
occidentale non fa che suggerire nuovamente l’origine della tipologia da Oriente.
A questo riguardo506, nella ripartizione geografica identificata dalla Quillard in
Oriente, il tipo di montatura in esame è rappresentato da due soli esemplari ciprioti507,
i quali invece presentano come castone due amuleti: una testa di pecora e un udjat
entrambi in oro. Il primo è stato datato al VI secolo da Marshall508, datazione poi
confermata dal Boardman509, il secondo invece all’inizio del V dal Karageorghis510. I
due hanno relazione cronologica molto stretta tra loro, con gli esemplari cartaginesi e
con il nostro, potrebbero essere quindi gli immediati predecessori della più larga
diffusione in occidente della tipologia511, oppure il segno di contatti tra Sardegna e
Cipro e forse di una mediazione cartaginese tra le due isole.
Per quanto concerne la datazione in ambito occidentale, la mancanza già notata
di precise indicazioni del contesto di provenienza per molti anni ha indotto gli studiosi
a fornire datazioni molto dilatate agli scarabei, onde per cui anche per questo tipo di
montatura ne consegue una datazione tra prima metà del VI512 e corso del IV secolo,
che la Quillard dal canto suo restringe al solo V secolo, datazione verosimile almeno

504
Come già proposto per gli scarabei cartaginesi: Quillard 1987, p. 129.
505
Iocalia punica 1987, D 24, tav. XXXII e datato dalla Pisano al VI secolo: Pisano 1988a, p 391, figura in alto a
sinistra.
506
V. anche Boardman 2003, p. 8 (type B), in cui traspare un certo dubbio sulla maggiore rappresentatività
occidentale di questa tipologia, forse risultato di uno stato parziale della ricerca.
507
Quillard 1987, p. 122.
508
Marshall 1911, n. 1599, fig. 46, tav. XXVI, cit. in ibidem.
509
Boardman 1968, pp. 154-155, n. 589, tav. XXXVII.
510
Salamis II 1970, tav. A, 1 e CLIII, 13.
511
Quillard 1987, p. 124.
512
Cfr. nota precedente 502.
- 117 -
per i soli due esemplari del Museo del Bardo, di cui solo uno proveniente da contesto
noto513.
Il nostro esemplare, da contesto di V secolo sembrerebbe appartenere agli
esemplari più antichi, ed a tale datazione portano i confronti iconografici della gemma
che saranno trattati nel relativo capitolo. Lo stesso vale per quanto riguarda la
montatura che, lungi dal cimentarci in seriazioni tipologiche che meriterebbero uno
studio approfondito, trova puntuali confronti nella ben nota gemma tharrense
raffigurante alla base una barca di papiro con edicola al di sotto della quale è un
personaggio regale su trono affiancato da leoni514, in uno scarabeo in alabastro con
raffigurazione di rana da Tharros conservato nel Museo Sanna di Sassari515 ed in un
esemplare ibicenco, conservato al Museo Arqueologico Nacional di Madrid e
appartenente alla collezione Vives y Escudero, e perciò supposto provenire dalla
necropoli di Puig del Molins516. La datazione di quest’ultimo ad età ellenistica è
proposta acriticamente per la prossimità con il numero successivo della sequenza
catalogica517, ma non può trovare conferma data la mancata conservazione della
gemma e dell’indicazione del luogo di rinvenimento. Ancora a fine VI – inizi V secolo
rimanda uno scarabeo in corniola con montatura identica alla nostra rinvenuto nella
stessa necropoli ibicenca518.
Alla serie si possono aggiungere il n. 67 del catalogo di B. Quillard sempre in
corniola e con datazione al V secolo519 e uno scarabeo in diaspro conservato al Museo
Civico di Como datato anch’esso allo stesso secolo520. Insignificanti differenze nei
confronti del nostro sono i giri di spirale del filo d’oro della montatura: nel primo
raggiunge l’anello e ci si avvolge per 3/4 volte, mentre nel secondo non raggiunge

513
Cfr. nota precedente 501. Lo scarabeo era datato dal Vercoutter al V sec.: Vercoutter 1945, p. 238, n. 654,
tav. XVIII.
514
Acquaro 1994, pp. 2-3, 6, n. 1, in cui propone una datazione a fine VI – inizi V secolo e avanza dubbi
sull’importazione dalla Fenicia (p. 3).
515
Acquaro 1987b, n. 53, p. 236, tav. XIV, l’autore indica il VI secolo come datazione per il legame con la
glittica arcaica e nota la mancanza di confronti che, insieme al materiale impiegato, potrebbe indicare una
produzione greca, così come supposto dal Boardman per il motivo del nostro scarabeo.
516
Almagro Gorbea 1986, p. 210, n. 267, tav. LXXII, n. 267.
517
Ibidem, p. 210, nn. 267-268.
518
Fernandez, Padró 1982, n. 46, pp. 136-137, fig. a p. 169.
519
Quillard 1987, p. 21, n. 67, tav. VIIb.
520
Pisano 1978, n. 4, pp. 44-45, tav. VI, 1
- 118 -
neanche l’anello, indicando che la misura di partenza del filo fosse maggiore nel primo
caso e non nel secondo.
Per quanto concerne il luogo di produzione, se di uno solo si dovesse parlare,
per questa tipologia, la localizzazione dei rinvenimenti non permette di esprimersi con
sicurezza. Minimi dettagli, anche chimici o semplicemente metrici, potrebbero fornire
differenze per ora non riscontrabili nei soggetti appartenenti a questa tipologia che,
come già riscontrato da B. Quillard, è diffusa tra Cartagine, Sardegna e Spagna (Ibiza
e Villaricos)521, ma con maggior quantità di attestazioni nella seconda. Il luogo dove
veniva realizzata la montatura poteva inoltre e giustamente non coincidere con quello
dello scarabeo, per cui anche in questo caso un dato si sottrae all’analisi. Appare
piuttosto evidente invece che, almeno nel caso di scarabei con montatura, questi
dovessero seguire gli stessi percorsi dell’oreficeria, condividere gli intermediari, o per
lo meno confluire nelle mani di questi nel luogo dello smistamento. La montatura
tuttavia, costituita da un semplice filo, poteva essere avvolto attorno allo scarabeo al
momento della vendita522 e non richiedeva probabilmente l’intervento di un artigiano
particolarmente esperto. Data la mancanza di omogeneità stilistica o iconografica dei
soggetti delle gemme montate in questo tipo, ma di un livello qualitativo elevato,
l’ipotesi è che si potesse trattare di commercianti di gioielli e di scarabei realizzati
anche molto lontano (Levante o anche Grecia, ma nel nostro caso acquistati a
Tharros). Questi al momento della vendita al dettaglio avrebbero provveduto a
montare le gemme con montature, acquistate o realizzate in un primo momento,
aggiungendovi in collane, a seconda dei casi, anche altri vaghi o amuleti.

4.1.4. ORECCHINI

Possiamo comprendere entro questa categoria tre pezzi provenienti da tre diverse
tombe: i numeri 2, 34 e 52. Provenienti rispettivamente dalle tombe 1 PGM BLV, 6
PGM e 9 AR.

521
Quillard 1987, p. 121-122.
522
Secondo un opinione condivisa da diversi autori ad eccezione della Quillard in merito agli scarabei
cartaginesi: ibidem, p. 129.
- 119 -
I numeri 2 e 52 appartengono ad un tipo noto con diversi nomi523 tra i quali
preferiamo quello di “orecchino ad arco ingrossato” aperto su di un lato, largamente
diffuso in ambito fenicio-punico per la semplicità della sua forma. Essa costituisce
infatti la base per gli orecchini compositi rinvenuti in maggior parte a Tharros e dotati
di decorazione o anello di sospensione saldati alla base dell’arco ingrossato524.
Lo scarso dettaglio dedicato all’esame della documentazione disponibile ha
portato le studiose, che hanno dato un contributo all’analisi di questa tipologia, a
limitarsi ad attestarne l’ampia diffusione sia nel mediterraneo orientale525 che in quello
occidentale, includendo in essa sia esemplari in oro, argento e bronzo che tra loro
dimensionalmente e formalmente difformi526. Per limitare il discorso al Sulcis-
Iglesiente, questa tipologia è attestata da esemplari in argento a San Giorgio di
Portoscuso datati al primo periodo arcaico527, in argento dalla necropoli fenicia di
Bithia528 e in oro da quella di Monte Sirai529, nonché da uno in bronzo di età tarda del
tempio di Antas530. A Sant’Antioco la tipologia è presente da diversi esemplari tra i
quali in particolare spiccano due orecchini rinvenuti recentemente nel tophet in
contesto di fine VII – fine VI secolo531 e due in oro appartenenti alla collezione
Biggio532. Gli esemplari del Sulcis in oro (tab. 4) tuttavia offrono la possibilità di
cogliere certe caratteristiche che non si riscontrano nel resto della documentazione
mediterranea.

523
Quillard 1987, p. 142, con bibliografia.
524
V. Pisano 1974, nn. 1-44, 210-280; Pisano 1987a, pp. 78-81, (orecchini dei tipi I-IV).
525
L’uso di questo tipo di orecchino è attestato ad Ur dal III millennio: ibidem, p. 144. La sua diffusione vicino-
orientale è stata oggetto di uno studio dettagliato (Les boucles d’oreilles en forme d’Aiskos) da parte di B.
Van den Driessche in una tesi di dottorato inedita ma riassunta in Revue des Archèologues et Historiens d’Art
de Louvain vol. III (1970), pp. 217-218, cit. in Quillard 1987, p. 142, nota 710.
526
V. ad es. Quillard 1987, p. 143; Pisano 1990, p. 61; Montis 2005.
527
Cinque orecchini in argento provengono dalla tomba 4 ad incinerazione di VIII secolo: Bernardini 1997a, pp.
55-57, n. 48 del catalogo generale, p. 237.
528
Marras 1996a, pp. 130, 181-182, n. 151 (BTH 591), tav. XI, 6. Si tratta di 6 esemplari, appartenenti al corredo
della tomba 20 databile entro l’ultimo quarto del VII secolo, incompleti in argento, per i quali l’autrice rifiuta
la possibile appartenenza al tipo “a canestrello”, per la mancanza di tracce del caratteristico pendente (p. 130).
529
Campanella 2000, p. 124, n. 95 (MSN 139), tav. XLIII, c (tomba a incinerazione 32 del primo quarto del VI
sec.); Bartoloni 2000a, MSN 323, p. 22, tav. II, b (tomba 88 degli scavi condotti nel 1997 e datata al secondo
quarto del VI sec.
530
Antas 1997, pp. 105-113, n. 207 del catalogo generale, p. 272, in bronzo datato a IV-III secolo.
531
Montis 2005, n. 8, tav. III, in oro (dall’urna SATH/U50), n. 24, tav. V, in argento (dall’urna SATH/U190),
entrambi di dimensioni miniaturistiche.
532
Uberti 1977b, pp. 51-53, nn. 2 e 3, tav. XXIII, 2 e 3.
- 120 -
PROVENIENZA TOMBA LUNGH. LARGH. SPESSORE PESO DATAZIONE BIBLIOGRAFIA

SULCIS ? 41 mm 16 mm 3 mm 4,8 g ? Uberti 1977b, n. 2

SULCIS ? 27 mm 11 mm 1 mm 1,7 g ? Uberti 1977b, n. 3


1 PGM
SULCIS 87 mm 24 mm 1-2,5 mm inizio V ns. cat. n. 2
BLV
SULCIS 9 AR 75 mm 23 mm 1-4 mm 4,9 g inizio V ns. cat. n. 52

SULCIS SATH/U50 12 mm fine VII - fine VI Montis 2005, n. 8


Campanella 2000,
M. SIRAI 32 res. 15 mm 15 mm 2 mm primo quarto VI
MSN 139
Bartoloni 2000a,
M. SIRAI 88 secondo quarto VI
MSN 323

Tabella 4. Orecchini ellittici ad arco ingrossato in oro dal Sulcis.

La forma dell’ellisse è particolarmente lunga533 ed il loro rinvenimento, quando noto, è


singolo all’interno della tomba e limitato ad un periodo compreso tra VI – prima metà
del V secolo. La maggior parte inoltre sembra essere realizzata tramite laminazione e
trafilatura, tecniche che permettevano di ottenere un filo di metallo pieno, ma
probabilmente senza anima di bronzo534. Nel caso del n. 52 inoltre sembra
riconoscibile una linea di sutura al centro dell’arco inferiore, ad indicare quindi che qui
venivano saldati due fili. Che l’interno del filo nella parte ingrossata non fosse cavo è
suggerito, oltre che dalle stesse dimensioni, dal peso degli oggetti così misurati535.
Indizi di una differente tecnica di esecuzione si hanno nel piccolo orecchino del tophet,
che presenta un’ingrossatura più pronunciata forse cava all’interno, e nel n. 2 del
nostro catalogo, per lo stato di conservazione si induce a credere composto da oro e
altro metallo, forse placcato, o così degradato per via di una non conseguita
compattezza della lamina arrotolata.
Per l’individuazione del luogo di produzione il riconoscimento delle tecniche
non offre particolari suggerimenti, essendo sia l’espediente della lamina cava, sia il

533
Quillard 1987, p. 143, nota 712.
534
Campanella 2000, p. 124, ritiene l’orecchino MSN 95 ottenuto a getto, ovvero tramite fusione entro matrice, e
menziona due confronti cartaginesi ottenuti con due tecniche diverse (moulage e façonnage): Quillard 1987,
n. 101-102, pp. 99-100, tav. X, per le tecniche v. pp. 75-76. Notare la confusione in Uberti 1977b, p. 52, per
la quale i due orecchini sulcitani sarebbero ottenuti con entrambe le tecniche: “dalla sutura di due laminette
cave, ingrossate verso il basso, verosimilmente lavorate per fusione a stampo”.
535
V. in particolare il n. 2 della collezione Biggio, che per dimensioni di molto inferiori ha peso solo di poco
inferiore al nostro n. 52, e che l’editrice ritiene cavo all’interno: cfr. nota precedente.
- 121 -
filo pieno usati per l’arco ingrossato tanto negli orecchini compositi di Tharros536 che
in quelli semplici e compositi di Cartagine537.
Tuttavia appare evidente come il tipo ben attestato nel VI secolo, e
caratterizzante la facies degli athyrmata del Sulcis, indizi la continuità della stessa
ancora nei primi decenni del V.
L’altro orecchino (n. 34) rinvenuto nella tomba 6 PGM invece, per la tipologia
notevolmente semplificata, risulta maggiormente diffuso. La tecnica di realizzazione è
la medesima dei due precedenti ma differisce, oltre che per le dimensioni
estremamente ridotte, per l’apertura tra le estremità collocata questa volta in alto, fatto
questo che ne ha fatto supporre una differente utilizzazione: come nezem. L’uso di
anelli nasali è menzionato in alcuni passi Biblici538 e in ambito più strettamente
punico, tra VI e V secolo, è attestato dalla loro presenza su maschere maschili539,
ghignanti540 e protomi femminili541, ma continua ancora tra IV e III secolo come
testimoniato dalle piccole maschere in pasta vitrea542. In realtà riteniamo che una
siffatta apertura dovesse renderne possibile lo scivolamento dal foro nella pelle tanto al
naso quanto al lobo dell’orecchio, tale quindi da non precludere questo o quell’uso. In
Sardegna, a differenza del resto del mondo punico, sono noti in questa sola forma e
dimensione, gli unici esemplari documentati provengono da Tharros e sono conservati
al Museo “G. A. Sanna” di Sassari543, che sebbene di poco più grandi presentano lo
stesso spessore. Singolare quindi risulta la scarsa ricezione sarda nei confronti di
questa tipologia che Cartagine rappresenta con 11 esemplari di dimensioni variabili544
e la Spagna, per fare un esempio, con dodici provenienti da un tesoretto nel sito di

536
Pisano 1974, nn. 1-2, 4-5, 13 (tipi I a-b, IV a, con sanguisuga composta da due lamine saldate lungo i bordi),
nn. 6-10, 14-43 (tipi I c-e, II a, IV b-c, filo assottigliatesi alle estremità); Pisano 1987a, pp. 78 e segg.: solo i
tipi Ia-b, presenti con solo 3 orecchini, hanno sanguisuga cava, mentre i restanti tipi hanno filo pieno.
537
Quillard 1987, nn. 72-84, 85-93, 95- 98, (orecchini di vari tipi con spessore dell’arco non elevato, ma per i
quali l’autrice non esprime giudizio sulla tecnica), 94, 101-102, (orecchino composito con pendente a ghianda
e due semplici, i quali ultimi sarebbero eseguiti rispettivamente per fusione in stampo e sagomatura per
martellatura: v. nota precedente 534).
538
Antico Testamento: Genesi 24,47, Isaia 3,21, Ezechiele 16,12. I portatori sono tanto uomini quanto donne.
539
Quillard 1987, p. 144, tav. XXXIV, fig. 1. Datata al VI secolo.
540
Moscati 1990, p. 124, fig. in basso a destra. Maschera ghignante da San Sperate (CA) datata tra VI e V
secolo.
541
Quillard 1987, p. 157, tav. XXXIV, fig. 2.
542
Seefried 1976, cit. in Quillard 1987, nota 157. Per ulteriori monumenti v. pp. 157-158.
543
Iocalia Punica 1987, p. 111, nn. D39-41, tav. XXIX. I tre anellini hanno diametro compreso tra i 12 e 13 mm,
e spessore di 2 mm.
544
Quillard 1987, nn. 105-115, tav. X, nn. 108 e 110.
- 122 -
Tutugi-Galera nella provincia di Granada545. Altri siti contribuiscono, sebbene in
misura minore alla rappresentatività di questa tipologia che deve sottostare a dei limiti
editoriali notevoli. Nel presente discorso abbiamo tenuto infatti conto dei soli
esemplari aurei, che ci rendono possibile restringere il campo di indagine, ma bisogna
tener presente l’esistenza di innumerevoli esemplari in argento o materiali meno nobili
che, per questo motivo, sovente non sono considerati nelle edizioni e parimenti posso
sfuggire all’occhio dello scopritore o ancora superare le ingiurie dei secoli. Consci di
questa situazione, sulla base del relativo campione statistico a disposizione si può
avanzare un’ipotesi con beneficio di dubbio: la Sardegna punica dovette essere
scarsamente interessata da questa usanza, che sembra riscuotere maggiore successo a
Cartagine, forse centro propulsivo di questa moda o maggiormente rappresentativa
perché più popolata; nel primo caso il tesoretto di Tutugi potrebbe essere stato raccolto
e sepolto da un nucleo di genti provenienti direttamente da Cartagine. In secondo
luogo si può supporre che la scarsa diffusione di questa tipologia tra gli oggetti in oro
sia un segno di una relativa diffusione tra le classi sociali più elevate.

4.1.5. ANELLI CRINALI

Tra gli anelli crinali o fermatrecce, comprendiamo in questa sede i numeri 35 e 36,
dalla tomba 6 PGM, e 75 e 76 dalla tomba 11 AR, sebbene con qualche riserva. I
nostri quattro esemplari, sebbene in dimensioni leggermente diverse, sono realizzati
con la medesima tecnica: un filo d’oro ottenuto tramite laminazione e trafilatura
presenta le estremità assottigliate, sovrapposte per circa un quarto di giro e avvolte a
spirale attorno al corpo per formare un anellino di circa 13, nella prima coppia, e 15
mm nella seconda. Ulteriore differenza è l’anima di bronzo nella seconda coppia resa
evidente dall’apertura del rivestimento aureo.
Gli anelli in questione rientrano tra gli orecchini del tipo V della Pisano546,
ampiamente diffuso in tutto il mediterraneo punico occidentale547, e fanno la loro

545
Almagro Gorbea 1987, pp. 83-85, nn. 51-62, tav. XIV. In particolare il n. 58 che misura 11 mm di diametro è
pressoché identico al nostro. I dodici anelli, chiamati qui “pendientes” sono datati al V-IV sec. dagli altri
oggetti del tesoretto.
546
Pisano 1974, pp. 49-50. In particolare i nostri appartengono ai sottotipi Va e Vb, distinti in base alla forma
della sezione del corpo ingrossato: circolare nel primo caso e a D nel secondo. I limiti di questa distinzione
sono espressi in Quillard 1987, nota 744, che invece li comprende nel type D1 – Anneaux à ligatures à simple
révolution, pp. 146-148.
- 123 -
comparsa nelle tombe cartaginesi alla fine del VI o all’inizio del V secolo e rimangono
in uso sino alla distruzione della città. Per questo lungo periodo di quasi quattro secoli,
secondo P. Gauckler548, venendo a sostituire il tipo fenicio dell’orecchino con croce
ansata549, evolvono in maniera molto limitata: aumentano leggermente le dimensioni,
il corpo ingrossato tende ad assottigliarsi e all’uso esclusivo o quasi dell’oro si
sostituisce il rivestimento o la placcatura di un anima di argento o bronzo.
I nostri esemplari sono tutti di dimensioni relativamente ridotte, ma in
quest’ottica un elemento di orientamento cronologico può essere l’anima di bronzo,
sicuramente presente nella coppia della tomba 11 AR550, e dal corpo meno ingrossato
della medesima. Indizi questi che suggeriscono la seriorità di questa coppia in
confronto a quella della tomba 6 PGM, senza che si possa desumere una datazione più
precisa551.
Quanto alla funzione di questi oggetti occorre qui esprimere chiaramente le
riserve accennate più sopra. Abbiamo qui definito i presenti esemplari come
fermatrecce per via dell’evidente difficoltà di una loro montatura all’orecchio552, che
tuttavia non dovette risultare impossibile. B. Quillard sostiene che anelli à ligatures
simili ai nostri potessero essere montati nel foro del lobo, in virtù del fatto che sugli
oggetti da lei studiati solo un’estremità avvolta risultava saldata, e descrive come
potessero essere inseriti e poi infine chiusi con l’avvolgimento della restante
estremità553. Anellini del nostro tipo potevano rendere necessaria una procedura
analoga con la differenza che nel nostro caso le estremità del bastoncello dovevano
essere avvolte entrambe dopo l’inserzione, oppure in alternativa una poteva essere
avvolta precedentemente. Sarebbe stato poi sfilato il bastoncello dal suo interno ancora

547
V. bibliografia in ibidem, pp. 147-148, e in Moscati 1988b, p. 48.
548
Gauckler P., (1915). Necropoles puniques de Carthage, vol II. Parigi, p. 533, cit. in Quillard 1987, p. 153.
549
Analogo nel corpo ai nostri numeri 2 e 52, ma completato da una croce ansata sprovvista del braccio
superiore e saldata all’estremità inferiore.
550
Il perfetto stato di conservazione della coppia della tomba 6 PGM non permette di riconoscervi il bronzo
all’interno. Qualche informazione in più potrebbe venire dalla pesatura, che non è stato possibile operare.
551
Della stessa opinione è lo scavatore delle due tombe: Bernardini c.p. La tomba 6 PGM dovette essere in uso
nel secondo quarto del V secolo, mentre la 11 AR, dalla quale provengono i nn. 75 e 76 da due distinte
deposizioni, le più antiche della tomba, era in uso tra fine del V e inizi del IV secolo.
552
Seguiamo la definizione data a questo tipo di orecchini dal loro scopritore, ad esempio: Bernardini 1991, p.
193, nota 27; v. anche Iocalia Punica 1987, p. 95, cui si deve la messa in dubbio della funzione come
orecchini. In realtà alcuni esemplari ivi pubblicati si adattano molto bene a questa funzione essendo le
estremità del bastoncello avvolte per non più di un giro di spirale, tav. XXXIV, nn. D 49-51.
553
Quillard 1987, pp. 161-162, tav. XXXV, 2.
- 124 -
rigido per essere reinserito di seguito al foro del lobo: restava in questo caso solo la
seconda estremità da avvolgere direttamente à demeure, di cui un segno potrebbe
essere la meno accurata chiusura di una delle spirali del n. 36554. Un tale procedimento
poteva risultare macchinoso e poco pratico, ma assicurava la tenuta dell’orecchino che
diventava in questo modo un elemento permanente (o quasi) di ornamento, è poteva
essere inteso con un significato simbolico quale quello dato ad esempio ai tatuaggi. Ad
una ricostruzione siffatta non osta la documentazione iconografica e letteraria, per
quanto sappiamo silenziosa riguardo all’uso di anelli crinali, e la circostanza che,
almeno nella tomba 6 PGM, siffatti anelli vengano ritrovati frequentemente in coppia.
Dobbiamo aggiungere inoltre che per nostra stessa osservazione il filo d’oro che
costituisce questi anelli, nel punto di massimo assottigliamento, non doveva essere
tanto rigido555, ed infine che su tutti gli esemplari noti di questa tipologia lo spazio
lasciato tra i due avvolgimenti a spirale è sempre di qualche mm tale che vi potesse
alloggiare il lobo dell’orecchio o qualche altra membrana del corpo forata.

4.1.6. ANELLI DIGITALI

Tra gli anelli digitali rientrano con certezza due esemplari: il frammento n. 3 della
tomba 1 PGM BLV ed il n. 77 della tomba 11 AR. Si tratta di due anelli in argento
molto simili, per lo meno per quanto riguarda il castone: il n. 3 è infatti privo del suo
corpo. Quanto lascia osservare il n. 77 è che si tratti della tipologia di un anello di
grandi dimensioni, con corpo a sezione circolare ingrossato e assottigliantesi alle
estremità, saldate queste ultime ad un castone di forma rettangolare con gli angoli
arrotondati imitante la forma del cartiglio egizio. Le dimensioni dei due castoni sono
di poco dissimili: appena tre mm di differenza, il che lascia intendere che pure i corpi
dei due anelli dovessero esserlo. Il frammento della tomba 1 PGM BLV che si
avvicina maggiormente a questa descrizione è il n. 4, un grosso anello dal corpo a
sezione circolare e con un’estremità ingrossata. Questo frammento tuttavia poteva
benissimo essere la montatura ad anello di uno scarabeo: in questo caso il n. 16.
Tornando all’anello con castone, la tipologia cui appartengono i nostri due
anelli corrisponde al tipo Id degli anelli della Pisano: “gold or silver rings with a

554
Cfr. nota precedente 552.
555
Osservazione eseguita sul n. 52 della tomba 9 AR, che si lascia piegare a mani nude.
- 125 -
rectangular bezel with rounded corners; the hoop to which the bezel is soldered is
elliptical or round, and is made from e rod that is usually elliptical in section”556. A
questa tipologia appartengono 40 esemplari di origine tharrense conservati a
Cagliari557 e otto conservati a Londra558. Il tipo è meno diffuso nel Nord Africa e in
Spagna559, tra le quali il centro più rappresentativo è Cartagine con 24 esemplari560. Sia
la Pisano che la Quillard convengono su una datazione ad epoca fenicia, in particolare
quest’ultima afferma che l’anello non doveva essere più in uso dall’inizio del V
secolo561. Se una tale datazione è già di per se contraddetta dalla datazione dei contesti
dei nostri due esemplari562, alcuni elementi non considerati inducono cautela e
possibilità di abbassamento della cronologia: in principio l’affermazione del Cintas,
menzionata e ricusata dalla Quillard563, del rinvenimento di anelli di questo tipo in
ferro presso le tombe più recenti del settore dell’Odeon e del Teatro di Cartagine564 e
in secondo luogo l’evidenza che, ad una più attenta osservazione, i nostri esemplari
presentano una differenza rispetto ai trends più comuni della forma del castone. La
gran parte degli oggetti editi infatti presenta un castone che “de profil, c’est un épais
massif trapézoïdal de métal plein offrant une large échancrure destinée à épouser
l’arrondi du doigt.”565, e questo vale pure per la maggior parte degli anelli tharrensi
correttamente illustrati566, mentre i nostri nn. 3 e 77 presentano un castone costituito da
una semplice placchetta sotto la quale sono saldate le estremità del corpo dell’anello,
caratteristica che la stessa Quillard attribuisce ad un tipo più tardo di anelli in uso tra
IV e III secolo567.

556
Pisano 1987a, p. 83, tav. 39k.
557
Pisano 1974, p. 25, n. 110 in oro, fig. 3, tav. VIII, nn. 288-326 in argento, figg. 10-12, tav. XXI.
558
Tharros BM 1987, nn. 3/15, 10/16, 11/12, 19/16 (tav. XXXIX, k), 20/14, 28/11, 32/16-17.
559
Quillard 1987, p. 174-175.
560
Ibidem, pp. 42-44 e 171, nn. 268-271 in oro, tav. XVI, v. nota 910 per quelli in argento non analizzati.
561
Ib., p. 175.
562
La tomba 11 AR da cui proviene il n. 77 era in uso a cavallo tra V e IV secolo, in particolare la deposizione n.
6 che lo conteneva è la più recente.
563
Quillard 1987, nota 910.
564
Cintas 1976, p. 387.
565
Quillard 1987, p. 171, tav. XXXIX, fig, 1.
566
Si fa eccezione per i nn. 293 e 298: cfr. Pisano 1974, figg. 10-12. I nn. 300-323 e 325-326, a causa del cattivo
stato di conservazione non sono provvisti di illustrazione e la descrizione nel catalogo non ci è di aiuto per
questo particolare.
567
Quillard 1987, p. 172. Si tratta del tipo B3 (a) cui si avvicina il n. 312, appartenente al invece al tipo B1 (c)
(p. 171), con castone quadrato ad angoli arrotondati e raffigurazione di Horus infante, non estraneo al
repertorio della glittica.
- 126 -
Di nessun aiuto sono purtroppo le superfici dei castoni, troppo ossidate e
corrose per conservare tracce della originaria raffigurazione, sebbene nel n. 3 si
riconosca una semplice linea di contorno che in un lato potrebbe formare un neb molto
alto. Raffigurazioni incise su questi anelli sono la dimostrazione che potevano risultare
alternativi rispetto agli scarabei, con i quali condividevano il repertorio iconografico, e
le grandi dimensioni che talvolta raggiungono indicano che, al pari degli scarabei, non
sempre erano portati al dito.

- 127 -
4.2. AMULETI
Il secondo gruppo di oggetti di adorno personale frequentemente rinvenuti nei corredi
delle tombe fenicio-puniche è costituito dagli amuleti. Questi oggetti in ambito punico
riflettono per la maggior parte tipologie e iconografie già note in Egitto, con un
margine relativamente scarso di rielaborazione a seconda del tipo.
I 29 amuleti rinvenuti in cinque delle sei tombe scavate rientrano nei tipi
dell’ureo, dell’occhio udjat e dello Ptah-pateco, e con una sola attestazione del leone
accovacciato, note da simili reperti egiziani. Un solo amuleto (n. 15), in osso, a forma
di mano presenta un iconografia, che sebbene all’origine egiziana, è probabilmente
oggetto di rielaborazione in ambito fenicio-punico.

4.2.1. AMULETO A FORMA DI MANO

Il n. 15 del catalogo è l’unico amuleto proveniente dalla tomba 1 PGM BLV. In osso,
esso è mutilo della parte superiore e di quella inferiore, ma ciononostante le
dimensioni e le incisioni sul dorso permettono di riconoscerne il tipo. Trattasi di una
raffigurazione della mano in forma allungata, ma all’interno di tale tipologia si
distingue per l’appartenenza ad una variante ben riconoscibile. Rappresenta infatti una
mano destra definita nel solo dorso, in quanto il palmo è lasciato piatto e liscio, dalle
dita particolarmente lunghe e affusolate separate da profonde incisioni, il pollice è reso
quasi a tutto tondo e leggermente estroflesso. Negli esemplari integri di questa variante
il polso è impreziosito da un bracciale realizzato tramite due coppie di incisioni
parallele. I confronti per il nostro amuleto sono ben dodici: quattro provengono dalla
Sardegna568, di cui due da Tharros, tre rinvenuti in Sicilia a Palermo e nella medesima
sepoltura569, altri quattro vengono inoltre da Utica570 e uno da Ibiza571. Le dimensioni
oscillano tra i 20 e i 25 mm di larghezza, tra i 5 e i 6 mm di spessore e tra i 70 e i 95
mm di lunghezza. Per lo stato frammentario del nostro esemplare possiamo asserire
che solo le prime due misure sono rispettate e tra valori di limite alto (largh. 24 mm,
spessore 6 mm).

568
Mendleson 1987b, p. 111, n. 23/23, tav. LXVIII, i; Acquaro 1977b, p. 44, nn. 64-66, tav. III.
569
Palermo Punica 1998, p. 154-155, p. 193, nn. 185-187.
570
Cintas 1970, tav. IV, fig. 13, rinvenuti in due diverse tombe (13 e 18).
571
Vives Y Escudero 1917, fig. 72.
- 128 -
Può essere interessante soffermarsi sulla datazione dei confronti, dal momento
che questa tipologia di amuleto, in questo aspetto stilistico, può essere discretamente
delineata anche a livello cronologico. Se per i tre esemplari conservati al Museo
Nazionale di Cagliari non disponiamo di dettagliate informazioni del contesto di
rinvenimento, al di là di una generica origine tharrense per uno di essi572, l’esemplare
sempre da Tharros conservato al British Museum proviene da una tomba di età punica
che rimase in uso sino al I-II sec. d.C. circa, ma sicuramente non più antica della metà
del VI secolo573. Tuttavia che la tomba fosse in uso solo dalla metà del V secolo è
indicato dalla presenza nel corredo ceramico di un askos a figure rosse (430 a.C.) e di
un amphoriskos in vetro (secondo/quarto quarto del V secolo a.C.), mentre al VII-V
secolo rimandano solo indicativamente i numerosi gioielli574. Con più precisione
invece si possono datare i tre esemplari della sepoltura palermitana, il cui corredo
ceramico, attribuibile al cinquantennio a cavallo tra VI e V secolo, indica una chiusura
della tomba avvenuta sicuramente nei primi decenni del V secolo575. Poco più tardo il
nostro caso: il corredo ceramico permette di datare la tomba di Via Belvedere (1 BLV
PGM) alla prima metà del secolo (comunque non oltre il 460), sebbene i monili
possano attribuirsi alla fase più antica di utilizzo (500-480 circa)576. Datazione quindi a
metà strada tra quella della tomba tharrense e di quella palermitana, per cui la prima
metà del V secolo come ambito di diffusione dell’amuleto in Sicilia e Sardegna
sembra la più plausibile. Difficile invece è stato ritrovare conforto a tale datazione
negli altri cinque esemplari noti di questa categoria perché non correttamente editi: le
informazioni disponibili sulle tombe 13 e 18 della necropoli “de l’île” di Utica577, da
cui quattro amuleti di questo tipo provengono, indicano una datazione tra la fine del
VII e l’inizio del VI secolo, dati che ci riserviamo di mettere in dubbio alla luce di
quanto detto sinora. Il dubbio sulla datazione delle tombe di questa necropoli è stato
già espresso da Colette Picard578, alla quale sembra però sia sfuggita la pubblicazione

572
Acquaro 1977b, p. 44, n. 64, tav. III; Tharrica 1975, p. 83, n. C3, tav. XXVIII.
573
Cfr. Bartoloni 1981, pp. 13-30.
574
Tharros BM 1987, p. 208, nn. 23/8-10 e lo scarabeo 23/12 attribuito alla XXVI dinastia (VII-VI secolo).
575
Palermo Punica 1998, p. 112, p. 152-155.
576
Bernardini c.p., non fa testo il nostro amuleto che è stato rinvenuto in fase di setacciatura.
577
Cintas 1970, p. 305-306; Cintas 1954, pp. 89-154, p. 113 e 116, fig. 42. Ogni sepoltura ha fornito due
amuleti.
578
Picard 1995, pp. 289-295. p. 290.
- 129 -
dei dati di scavo del 1954579. Infatti la presenza di un aryballos protocorinzio nel
corredo della tomba 13, sebbene dallo stesso Cintas ritenuto più antico degli altri
oggetti, sostanzialmente non cambia di tanto la datazione che abbiamo riportato. Tutto
ciò porta ad accettare il VI secolo come periodo di diffusione nel mediterraneo di
questo tipo di amuleto, i cui limiti andranno necessariamente sfumati: quello alto alla
fine del VII e quello basso alla prima metà del V.
Un’ulteriore annotazione va fatta a proposito della funzione di questi amuleti. In
Egitto amuleti a forma di mano580, così come raffiguranti altre parti del corpo, iniziano
a comparire nelle tombe dell’Antico Regno581 e sono considerati “amuleti di
assimilazione”, come tali si riteneva conferissero a chi li indossava i poteri di cui era
dotato l’oggetto, e in questo caso la parte del corpo, che rappresentavano. Le tipologie
che si riscontrano sono diverse, dalla mano provvista di braccio e avambraccio alle
sole due dita582, dal doppio braccio (ka) alla mano singola, aperta o chiusa (in pugno,
con il pollice tra indice e medio o nell’atto di indicare). Tra tutte queste tipologie la
cultura punica, in regime di sostanziale dipendenza iconografica da quella egiziana, ne
adotta solo alcune. Le ragioni di questa selezione riposano, sostiene E. Acquaro, su
fattori di certo culturali, ben tenendo conto della duplice articolazione degli amuleti
punici: quella della produzione locale e quella delle importazioni583. Ma va anche
tenuto conto che la nostra conoscenza del corpus degli amuleti egiziani, oltre che
ancora parziale, è generica soprattutto nei confronti della particolare articolazione
cronologica che dovette possedere. In sostanza l’acquisizione di modelli egizi dovette
avvenire in modi e tempi che siamo ancora lontani dal riconoscere correttamente.
Per quanto concerne la nostra categoria sono noti in ambito punico i seguenti
tipi:
(1) mano aperta con porzione più o meno lunga dell’avambraccio584;
(2) la “mano che fa le fiche”, ovvero con pollice serrato tra indice e medio585, nelle due
varianti: con intero avambraccio e con il solo polso.

579
Qui già menzionata alla nota 577, nella quale pubblicazione manca l’edizione del restante corredo vascolare.
580
De Chanteloup 1986, pp. 7-22; v. anche il capitolo relativo agli amuleti nel più ampio Sourdive 1984, pp.
437-460.
581
Andrews 1994, p. 70.
582
Hölbl 1986, p. 156.
583
Acquaro 1977b, p. 31.
584
Ibidem, p. 16, p. 44-45, nn. 65-69.
- 130 -
Mentre per il tipo (2) il significato magico è assicurato dal richiamo all’unione
dei due organi sessuali, con lo scopo di proteggere dal malocchio, per via del legame
intimo tra nascita e vita eterna insito in questo gesto586, il reale valore magico del
primo non si coglie così facilmente. Secondo Petrie questo amuleto conferiva un
generico “potere di azione”587 e la capacità di riuscire in azioni con destrezza e
abilità588, nonché simbolo di generosità e liberalità secondo Wallis Budge, per il quale
la “mano di Fatima” non sarebbe che un residuo589. Non ci pare tuttavia che tali
interpretazioni, proposte ormai un secolo fa, si basassero su di una conoscenza precisa
degli aspetti culturali di tale simbolo, e sembrano tutt’al più poggiare su scarsi
confronti etnologici, se non addirittura osservazioni personali. L’argomento d’altronde
non ha goduto tutt’oggi di uno studio approfondito, né ci sentiamo di tentarne uno in
questa sede. Ci limiteremo invece ad aggiungere un elemento al dibattito con lo scopo
di fornire un interpretazione alternativa dell’oggetto in questione.

Il termine egiziano che indica la mano ( drt) deriva dalla stessa radice (dr)
utilizzata in parole con il significato intensionale o di “limite” e “limitare”590. Con la
funzione di porre un limite e di allontanare le forze del male poteva quindi essere usato
questo amuleto, e probabilmente per questo la parte sovente rappresentata non era il
palmo ma il dorso591. L’oggetto appeso e disteso sul corpo perciò mostrava alla vista la
sola parte esterna (il dorso), che, in analogia con il gesto naturale di allontanare
qualcosa con il dorso della mano, simbolicamente scacciava le forse negative, mentre
tratteneva celando con il palmo quelle positive ed il corpo stesso che proteggeva592. Ed
anche nella sfera protettiva dell’infanzia rientrava per gli egiziani l’amuleto a forma di

585
Ibidem, p. 16, p. 45, nn. 70-77. Da Sulcis proviene un prezioso esempio in oro di questa tipologia: Uberti
1977c, p. 57-58, tav. XXIV, n. 2.
586
Vàzquez Hoys 2000, p. 70.
587
Petrie 1914, p. 11. Nella classificazione di Petrie la mano, come quelli raffiguranti altre parti del corpo,
rientra tra gli amuleti homopoieici, le cui capacità spiegava con la “teoria del simile”, per mezzo della quale
l’amuleto conferiva al possessore il potere dell’oggetto rappresentato (p. 2), un principio noto anche come
“magia simpatetica” o “omeopatica”: v. al riguardo Frazer 1998, § 3.
588
Andrews 1994, p. 70.
589
Wallis Budge 1901; De Chanteloup 1986, p. 19, sebbene la «mano di Fatima», oltre ad un generico amuleto
contro il malocchio, rappresenti un simbolo di serietà e autorevolezza. Questa fu dimostrata, secondo la
leggenda, dalla sorella di Maometto che si bruciò la mano senza mostrare sofferenza nell’apprendere che lo
sposo Alì aveva sposato un'altra donna; v. anche Sourdive 1984, p. 459.
590
Gardiner 1927, p. 604.
591
Medesimo motivo per cui non potrebbe essere simbolo di generosità: il gesto del “dare” si effettua con il
palmo e non con il dorso.
592
Ulteriore significato intensionale è quello di “stringere”, che designerebbe meglio il carattere pratico di questo
“utensile umano”: voce Hand in LÄ, vol. 5, coll. 938-943.
- 131 -
mano: è quanto si apprende da un papiro della XVIII dinastia, una raccolta di rimedi
per infanti contro mali visibili e invisibili, nel quale si prescrive di unire vari amuleti
(sfere d’oro, anelli di ametista, uno scarabeo, un coccodrillo e una mano) con un filo
da appendere al collo del fanciullo593.
Nel mondo fenicio e punico tuttavia la sfera infantile non viene investita da una
tale credenza: lo dimostra la totale assenza degli amuleti così configurati nei tophet594.
D’altronde la frequenza di amuleti del nostro tipo nelle necropoli stesse non è
altissima. Difficile credere che al di là del suo uso si nascondesse una particolare
simbologia595, tanto meno possedesse una qualsivoglia finalità funeraria, per lo meno
in quanto amuleto. Risulta attestata invece nei santuari, ma nella tipologia del pugno
chiuso o “che fa le fiche”, ad indicarne la funzione “per i vivi”, in relazione ad una
qualche natura legata alla sfera del culto596.
Intendiamo in questa sede invece proporre una ipotesi alternativa per la quale la
funzione di tali oggetti, o della tipologia del nostro in particolare, potrebbe essere stata
diversa da quella di amuleto vero e proprio. A questa ipotesi ci hanno spinto alcune
caratteristiche dell’oggetto. In primo luogo la forma stessa: la fine lavorazione del
dorso non trova corrispettivo nel palmo, che infatti risulta non decorato e talmente
liscio da far pensare dovesse aderire ad una superficie altrettanto liscia. Insolito è
anche il foro di sospensione, troppo largo per il passaggio di un filo597 nonché
scomodo: gli esemplari egiziani, che erano amuleti per certo, dal momento che ne sono
stati trovati alcuni sulle mummie598, presentano un foro trasversale passante per il
polso, mentre nel nostro caso essendo frontale avrebbe consentito la sospensione
soltanto a mezzo di un nodo, situazione che rarissimi tipi di amuleti condividono. In
secondo luogo le circostanze di rinvenimento di almeno due rinvenimenti indicano che

593
De Salvia 1978, p. 1043, nota 80. Si tratta del papiro Ieratico di Berlino n. 3027 (“Incantesimi per la madre
ed il bambino”), in particolare il rimedio P = Rs. 2, 2-7, che si intitola: “Formula (da pronunciare) quando si
lega (l’amuleto) per il bambino, giovane uccello”.
594
Ferrari 1994, pp. 83-115.
595
Di diverso avviso è S. Verga (Verga 1998, p. 413), la quale nel commentare i tre esemplari palermitani,
attribuisce la mano, quale simbolo apotropaico, alla dea Iside/Tanit di Cartagine, probabilmente sulla base
della frequenza di questo simbolo sulle stele del tophet.
596
Antas 1969, p. 110, p. 113, nn. 7, 9-10; per altri amuleti rinvenuti presso il santuario v. Antas 1997.
597
Negli esemplari Palermitani è stato misurato risultando di 8 mm: Tamburello 1969, p. 277.
598
De Chanteloup 1986, p. 18. I vivi potevano portarlo appeso al collo, ma sulle mummie viene rinvenuto presso
il polso, come sorta di sostituzione della mano nell’oltretomba.
- 132 -
non fossero indossati dal defunto599 ma che si trovassero ben distanti da esso ed
insieme ad altri oggetti del corredo. Come abbiamo già detto il rinvenimento del nostro
oggetto durante la setacciatura non permette di verificare questa condizione, che si
presenta in soli due contesti, ovvero la totalità di quelli correttamente conservati e
documentati.
Le circostanze sin qui presentate inducono quindi a credere che si trattasse di un
oggetto costitutivo di una pisside o di una scatola in materiale deperibile, e comunque
diversa da quella formalmente amuletica. In questo caso avrebbe condiviso la funzione
riservata in genere ad altri oggetti e elementi decorativi nello stesso materiale. Ed
inoltre con tali tipi di oggetti condivide anche l’iconografia: è nei lotti di avori vicino-
orientali infatti che troviamo iconografie che comprendono mani dalle dita allungate e
con bracciali al polso600, riscontri più puntuali di quelli appartenenti al corpus degli
amuleti egiziani o egittizzanti. La stessa G. Scandone Matthiae in una nota relativa ad
un motivo iconografico che completa i manici di alcune coppe metalliche rinvenute in
Spagna, Egitto, Cipro ed Ebla601, richiama l’evidente continuità stilistica di queste
realizzazioni, sebbene sulla lunga durata, con quelle del Palazzo Reale G di Ebla
Protosiariana602. Ma nell’economia del discorso queste coppe realizzate in bronzo o in
argento sono per noi molto importanti per alcune analogie: dal punto di vista
cronologico le coppe coprono lo stesso periodo che abbiamo delineato per la nostra
categoria. Le coppe più antiche rinvenute in Spagna ed Egitto risalgono infatti alla fine
del VIII – VII secolo, mentre le più recenti al V603. Dal lato pratico inoltre presentano
un foro al polso necessario all’innesto del manico di cui fanno complemento, e da
quello funzionale perché elementi decorativi di recipienti. Nello stesso arco
cronologico i nostri oggetti si rendevano mediatori di iconografie di origine orientale,

599
Le due mani della tomba 13 di Utica erano contenute insieme agli altri oggetti del corredo dentro ad una
grande giara interrata distante dal sarcofago (Cintas 1954,. p. 113), e i tre oggetti della tomba 1/1966 di
Palermo si trovavano sulla copertura del sarcofago, come un piatto per le offerte e tre coppiglie bronze
(Tamburello 1969, p. 277) del tipo rinvenuto nella stessa tomba 1 PGM BLV.
600
Decamps De Mertzenfeld 1954, tav. III, n. 16: elemento decorativo proveniente da Tell Ed-Duweir; tav.
XXXIII, n. 299: cosmetic spoon a figura femminile distesa che sostiene una coppa con bracciali alle mani e
tav. XXX, n. 336: elemento decorativo, provenienti da Megiddo. Barnett 1975, tav. L, n. S 91 a, b: doppia
figura femminile che regge una coppa con tre bracciali per polso; tav. LI, n. S 93: come la precedente ma con
due bracciali. È singolare e confortante che un oggetto simile a questi ultimi sia stato trovato nel XIX secolo
proprio a Tharros: Hölbl 1986, pp. 400-402, fig. 76; Vagnetti 1993, pp. 29-33.
601
Scandone Matthiae 1982.
602
Ibidem, p. 4.
603
Ib., p. 2.
- 133 -
e come queste coppe erano probabilmente prodotti nel Levante. Il foro dell’“amuleto”
probabilmente non serviva alla sospensione ma era attraversato da un chiodo, ligneo o
bronzeo, che non consentiva di fissarlo fermamente ad una superficie, ma forse di farlo
ruotare, e l’estremità arrotondata del polso si conforma a questa azione. L’oggetto
quindi potrebbe essere stato uno strumento per chiudere un cofanetto ligneo, che per la
deperibilità del materiale che lo costituiva non si è mai conservato. A questa
spiegazione si confà anche la quantità dei rinvenimenti in alcuni dei contesti: tre nella
tomba palermitana, e due in ognuna delle due tombe uticensi604, spiegabile col fatto
che per una scatola di dimensioni più grandi una sola chiusura non potesse bastare. Ad
ulteriore conforto di questa ipotesi va aggiunto anche il rinvenimento, insieme alle due
mani della tomba 18 di Utica, di un manico di cofanetto in bronzo605 e di coppiglie
bronzee simili a quelle usate per i sarcofaghi lignei nella tomba palermitana, le quali
non appartenevano di certo al sarcofago litico della sepoltura606, ulteriori complementi
del cofanetto.
Un semplice strumento per chiudere un cofanetto quindi, e non un amuleto
rivelatore di complesse credenze e superstizioni. Ma nell’immaginario del fruitore
quale sarebbe stata la forma da dare ad un oggetto che avrebbe dovuto proteggere i
suoi beni e allontanare eventuali curiosi o ladri se non quella propria di un amuleto con
le medesime caratteristiche simboliche? In questo contesto l’oggetto è pur sempre un
amuleto, al quale è aggiunta la funzione pratica di assicurare la chiusura.

4.2.2. SERPENTI UREI

Dalla deposizione n. 1607 della tomba 5 PGM provengono cinque amuleti che
propongono il tipo dell’ureo (nn. 23-27). Il motivo iconografico è, come la maggior
parte degli amuleti punici, di origine egiziana608: è rappresentato un serpente
incedente, o strisciante, nei due profili e frontalmente, il cui lato era quello a vista dal
momento che l’amuleto è forato nel senso dello spessore. Sui due lati quindi il
serpente è ripiegato in tre segmenti e frontalmente è descritto il petto dai cofani poco o

604
V. note 2, 8 e 27 precedenti.
605
Cintas 1954, p. 116.
606
Tamburello 1969, p. 277.
607
Fa eccezione il n. 27 che è stato rinvenuto durante la setacciatura, ma niente impedisce di credere che facesse
gruppo con gli altri quattro analoghi amuleti.
608
Petrie 1914, p. 18, n. 58.
- 134 -
nulla dilatati nell’atteggiamento tipicamente aggressivo di questo animale, e sulla
superficie alcuni tratti incisi obliquamente convergono su una doppia linea verticale
che indica il corpo. L’intero corpo dell’animale poggia inoltre su di una base
parallelepipedica. Le misure sono comprese tra i 12,5 mm del n. 26 e i 14,5 mm del n.
24 di altezza, la profondità è di 9/10 mm e lo spessore massimo della parte frontale del
serpente compreso tra i 3,5 mm del n. 26 e i 5,5 mm del n. 27. L’aspetto stilistico trova
particolare confronto in due esemplari della collezione cagliaritana: i nn. 158 e 163609.
Mentre il secondo non ha indicazioni di provenienza, il primo è stato acquistato in
Egitto in tempi moderni, fatto che subito suggerisce per i nostri, se non si tratta di
importazioni egiziane, come almeno siano stilisticamente molto prossime ai prototipi
da cui derivano.
Riassumiamo nella seguente tabella le caratteristiche dei cinque amuleti:
CAT. TOMBA DEPOSIZIONE DESCRIZIONE MATERIA MISURE

23 5 PGM 1 AMULETO UREO PIETRA DIPINTA DI VERDE 13x10x5

24 5 PGM 1 AMULETO UREO PIETRA DIPINTA DI VERDE 14,5x9x4

25 5 PGM 1 AMULETO UREO PIETRA DIPINTA DI VERDE 13,5x10x4

26 5 PGM 1 AMULETO UREO PIETRA DIPINTA DI VERDE 12,5x9x3,5

27 5 PGM SETACCIO AMULETO UREO PIETRA DIPINTA DI VERDE 14x10x5,5

Tabella 5. Amuleti a forma di ureo.


Nella classificazione di G. Hölbl essi rientrano nel tipo 28.A.1.2 degli amuleti in
faïence ed a quello 28.B.3.2 di quelli in steatite610. Per essi già E. Acquaro aveva
notato la caratteristica “componente canina” nella resa del capo e la mancanza di
copricapo hathorico611, che invece caratterizza la maggior parte degli urei rinvenuti in
Sardegna e nel restante mondo punico. Il tipo al quale appartengono i nostri cinque
amuleti quindi non è frequente tra gli amuleti-urei, fatto sorprendente vista la grande
diffusione e presenza di questa categoria nella Sardegna punica, e in proporzione a
Sant’Antioco612. Oltretutto gli esemplari di questa categoria sinora editi della necropoli

609
Acquaro 1977b, pp. 52-53, nn. 158 e 163, tav. VIII.
610
Hölbl 1986, pp. 92 e 131, tav. LXIV, 4 (in steatite).
611
Acquaro 1977b, p. 33, per i nn. 160-168.
612
Nel Museo Comunale di Sant’Antioco, secondo le stime di E. Acquaro, gli urei erano al terzo posto per
frequenza con 10 esemplari: Acquaro 1987a, p. 179. I rinvenimenti della tomba 5 PGM aumentano già solo
del 50 % questo dato allora provvisorio.
- 135 -
sulcitana613 sono di un tipo che può datarsi ai secoli IV-III a.C. secondo quanto ha
dimostrato T. Redissi per questo tipo “schematizzato”614. I due spazi verticali tra le
spire, modellati a giorno e dai bordi smussati nei nostri, nelle varianti più tarde sono
sostituiti da fori circolari indistinguibili da quello di sospensione secondo
un’“evoluzione” che trova riscontro anche negli amuleti raffiguranti lo Ptah-pateco.
Il nostro tipo trova un confronto più puntuale quindi nell’esemplare proveniente
dal tophet sulcitano ed edito da P. Bartoloni con il n. 26615. Sulcis così con soli sei
amuleti si pone al primo posto tra i siti da cui si possono con certezza attribuire
pendenti di questa variante. Nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari sono
presenti infatti solo undici urei di questo tipo616, ma se si esclude il n. 158 della
numerazione di E. Acquaro617 acquistato in Egitto in tempi moderni, ed i nn. 162 e
166, provenienti rispettivamente dalle tombe 117 e 109 della necropoli cagliaritana di
Tuvixeddu618, otto di questi non posseggono indicazione di origine619.
Come abbiamo notato in altri casi, il dato è troppo esiguo per effettuare
conclusioni, ma, tenuto conto di tale provvisorietà, possiamo notare come a Sulcis nel
V sec. si diffonda, intensamente ma non estensivamente620, una tipologia che avrà
fortuna nelle rese compendiarie dei secoli successivi, ma che in questo momento stenta
ad imporsi. Ibiza ad esempio, su 52 amuleti-urei621, non ne ha restituito uno solo di
questo tipo e Sulcis doveva probabilmente usufruire di un canale privilegiato. Perciò
comprendere quale fosse il centro di produzione di questi oggetti ci permetterebbe di
conoscere in dettaglio con quali centri il nostro fosse in maggior contatto. Il discorso
in questo momento non può tuttavia che restare inconcluso.

613
Savio, Lega, Bontempi 2004, pp. 137-140, nn. 53-60, figg. 71-78.
614
Redissi 1991a, p. 109-110.
615
Bartoloni 1973, p. 191, n. 26, tav. LVII, 13. Nella media dei nostri 5 anche il riscontro dimensionale: 14 x 9,5
x 5,5 mm.
616
Acquaro 1977b, pp. 52-53, nn. 158-168, tav. VIII.
617
Ibidem, p. 52.
618
Ib., p. 53, tav. VIII; il secondo in Hölbl 1986, tav. LXIV, 4.
619
Se infatti può essere proposta la provenienza da Tharros, sede di intensi ma non documentati scavi nel XIX
secolo, non può essere esclusa anche altra provenienza, come la stessa Sulcis o la necropoli di Nora, per fare
due esempi.
620
I sei amuleti sulcitani, cinque dalla tomba 5 PGM e uno dal tophet, sono appartenuti a solo due individui in
tutto.
621
Fernandez, Padró 1986, pp. 68-73, nn. 194-225.
- 136 -
4.2.3. OCCHI UDJAT

Gli amuleti in forma di udjat sono undici e provengono da quattro diverse tombe: i nn.
28-30 (tomba 5 PGM, i primi due dalla deposizione 1), 39-42 (deposizione 1 della
tomba 6 PGM), 60-61 (tomba 9 AR, deposizione 9) e i nn. 70-71 (unica deposizione
del vano destro della tomba 10 AR).
Il motivo dell’udjat, o occhio di Horus, al pari del suo nome è di nota origine
egiziana, e dallo stesso Egitto ha origine la sua realizzazione in forma di amuleto622.
Secondo il mito più diffuso esso rappresenterebbe l’occhio “sano” di Horus ferito nella
lotta contro Seth, uccisore del padre nel mito Osiriaco. L’enorme importanza di questo
simbolo nella sua patria di origine costituisce un ottimo presupposto per la sua
diffusione nel mondo fenicio e punico d’occidente. E in quest’ultimo, come consueto
per altre tipologie amuletiche, non compaiono se non in minima parte, e segno quindi
di produzione allogena, i tipi più complessi come composti da più occhi udjat o
completati da altri elementi quali urei o altri simboli magici egizi623.
I caratteri essenziali con i quali si presentano i reperti del mondo fenicio-punico
sono i tratti caratteristici del simbolo egizio che ne permettono il riconoscimento senza
possibilità di fraintendimento: un occhio in prospettiva frontale sovrastato dal
sopracciglio, sovente campito da tratti obliqui, e al di sotto un appendice
subrettangolare campita da tre o più solchi verticali, che per alcuni rappresenta una
lacrima624. Dal punto di innesto di questa appendice con l’occhio si diparte un listello
diagonale arcuato in direzione divergente rispetto alla coda dell’occhio, terminante con
un ricciolo nei migliori esemplari, che starebbe ad indicare secondo la comune
interpretazione il residuo piumaggio del falco Horus o la macchia presente sul volto
del Falco Lanario (Falco Biarmicus)625. Qui si lega ad un pilastrino verticale che
chiude l’amuleto ed al quale si legano anche la coda dell’occhio e il sopracciglio.
Come nei nostri esemplari l’udjat è rappresentato su entrambi i lati, in modo tale da
poter essere utilizzato all’occorrenza come occhio destro o sinistro. Le tipologie
diffuse in Occidente, nella generale semplicità del motivo, si distinguono per l’uso del

622
Petrie 1914, p. 32-34.
623
Cfr. ad es. Andrews 1994, fig. 46, a e j; Petrie 1914, p. 33-34, nn. 139-142, tav. XIV, definiti dall’autore
“unusual types”, “multiple”, “with gods” e “inscribed”.
624
Martini 2004, p. 41 (che cita Kakosy, Roccati 1991, p. 82).
625
Andrews 1994, p. 43.
- 137 -
traforo o della semplice incisione nella resa degli spazi tra i vari elementi del simbolo,
cosicché si possono trovare splendidi amuleti intagliati a giorno nei minimi dettagli626
o semplici sagome i cui tratti, spesso solo la pupilla e il sopracciglio, sono incisi o
anche solo dipinti627. Il foro di sospensione è ricavato nello spessore dell’amuleto, che
ne è attraversato all’altezza della pupilla, ma negli esemplari di miglior fattura, e forse
per questo motivo più antichi, che si possano ragionevolmente attribuire a produzione
punica, questo è ricavato all’interno di un’appendice rettangolare al di sopra del
sopracciglio.
I nostri 11 esemplari non presentano particolari differenze tra loro e
appartengono a quella tipologia piuttosto diffusa dell’udjat realizzato a traforo e
incisione628, ma presentano un elemento che discrimina l’appartenenza a due distinte
tipologie, cui nella mole degli studi su questo tipo di amuleto è stato dato risalto dal
solo G. Hölbl629. Trattasi di un’appendice posta al di sotto del globo oculare presso la
sua estremità nasale. Nella sua schematizzazione tipologica l’autore distingue infatti
all’interno delle due varianti in faïence e steatite (49.A e -B), tra tipologia con
“Uräeus” e senza (49.A.1 e -2, 49.B.1 e -2) interpretando così tale appendice come la
testa dell’ureo evidente in taluni esemplari e legata all’appendice centrale, che può
assumere un aspetto a fisarmonica tale da riconoscerne le spire del serpente630. Non ci
sentiamo qui di consentire con l’interpretazione dell’autore tedesco né tanto meno di
accettare la conclusione di D. Ferrari che ritiene “questa scelta iconografica […], più
che strutturalmente meditata, […] voluta solo come un arricchimento decorativo del
motivo a traforo”631. Se infatti gli elementi presenti sui nostri amuleti presentano una
forma a volte squadrata o appuntita, che suggerisce l’aspetto della protome animale,
ma che in nessun caso per motivi di proporzioni farebbe pensare a quella di un
serpente, crediamo di poter notare un suggerimento in un amuleto siciliano632.
Conservato nel museo J. Whitaker di Mozia l’udjat è in osso ed è lungo 18 mm, per

626
Cfr. ad es. Hölbl 1986, tav. LXXX, 2, da Olbia; seppur frammentario è degno di interesse l’amuleto della
Collezione Lai e forse proveniente dal tophet di Sant’Antioco: Martini 2004, tav. XIII, 87.
627
Cfr. ad es. Montis 2005, tav. V, 25, nel quale non è rimasta traccia di pittura. Il tipo è comunque già attestato
in Egitto, v. ad es. Petrie 1914, tav. XXV, 138, r e s.
628
Ferrari 1995, p. 54; v. in particolare la nota 23 per la diffusione in ambiente nordafricano.
629
Hölbl 1986, p. 100-103, n. 49 (“Udjatauge ohne einfassung”).
630
Cfr. gli esemplari a nota 626, nonché ibidem, tav. LXXX, 3.
631
Ferrari 1995, p. 54.
632
Fresina 1980, p. 38, n. 20, fig. III, 8, tav. IV (miss. 18x14x5).
- 138 -
cui relativamente grande rispetto ad altri esemplari della stessa tipologia, come i nostri
ad esempio. L’appendice ha forma per lo più triangolare con una leggera incisione
diagonale che mette in risalto l’aspetto uncinato. L’impressione è che si possa trattare
di una testa di falco, la forma ad uncino è talvolta suggerita dalla stessa estremità
dell’occhio, laddove privo di tale appendice633. Quale miglior complemento di un
occhio di Horus d’altronde se non la testa dell’animale di cui il dio prende le
sembianze?
Segue nella tabella l’elenco degli amuleti rinvenuti nelle tombe sulcitane
oggetto di questo lavoro:
CAT. TOMBA DEPOSIZIONE DESCRIZIONE MATERIA MISURE

28 5 PGM 1 amuleto udjat faïence smaltata e dipinta di verde 11x9x4

29 5 PGM 1 amuleto udjat faïence smaltata e dipinta di verde 12x9,5x4,5

30 5 PGM SETACCIO amuleto udjat faïence smaltata e dipinta di verde 11x5,5x2

39 6 PGM 1 amuleto udjat faïence smaltata verde 12x11

40 6 PGM 1 amuleto udjat faïence smaltata verde 12x11x4

41 6 PGM 1 amuleto udjat faïence smaltata verde 11x9x4,5

42 6 PGM 1, PIATTO 4 amuleto udjat faïence smaltata verde 13x11x5

60 9 AR 9 amuleto udjat faïence senza smalto 12x9x4

61 9 AR 9 amuleto udjat faïence senza smalto o steatite 9,8x7x3

70 10 AR vano dx amuleto udjat faïence smaltata verde 13x9x3,5

71 10 AR vano dx amuleto udjat faïence smaltata verde 13x9x4

Tabella 6. Amuleti udjat.


Come già accennato tutti e undici gli esemplari appartengono alla variante a traforo e
incisione. Si distinguono all’interno di questo gruppo i nn. 28-29, 61 e 70-71 privi
della suddetta appendice a testa di falco e dal globo oculare entro il quale i dettagli
sono incisi. Tale tipologia (tipo 49.A.2.2.1 di G. Hölbl634) risulta non priva di
confronti: in particolare l’autore propone tre amuleti sulcitani provenienti dal settore
della necropoli di proprietà Don Armeni635, nonché altri tre conservati al museo di
Cagliari ed appartenenti alla collezione Castagnino636, ma l’enorme quantità di altri
esemplari analoghi impedisce qui di renderne nota: basti accettare che per l’estrema

633
Cfr. ibidem, tav. IV, 21.
634
Hölbl 1986, p. 100, tav. LXXXII, 1-2 e 4-6. L’autore descrive così: “Pupille nur eingravierte, schräg
schraffierte Braue”. Tali caratteristiche non sembrano riscontrate su amuleti in steatite: v. pp. 102-103.
635
Ibidem, p. 100, 220, tav. LXXXII, 1 (n.i. 2630, dalla tomba 8DA, miss. 16x12x4), 82,2 (n.i. 2695, dalla
tomba 12DA, miss. 12x10x5) e p. 100; Uberti 1971, p. 308, tav. XVII, 11 (collezione privata Don Armeni, da
tomba imprecisata, miss. 14x11x10).
636
Hölbl 1986, p. 100, tav. LXXXII, 4-6; Acquaro 1977b, nn. 280, 273 e 320, tav. XII-XIII.
- 139 -
semplicità formale esso appartenga ad uno dei tipi maggiormente diffusi nel
mediterraneo637.
I quattro esemplari della tomba 6 PGM invece furono indossati dall’inumato
della deposizione 1 ed appartengono allo stesso tipo. L’appendice a testa di falco e la
resa dei dettagli all’interno del globo oculare (a giorno), li qualificano come tipo
49.A.1.2-3 degli esemplari in faïence638 e come il 49.B.1.1-2 di quelli in steatite639. Il
giusto riconoscimento di questa tipologia consente di distinguere un congruo numero
di esemplari sardi, che sebbene privi di datazione e indicazioni di provenienza potrà
servire in futuro a più complete analisi stilistiche e tipologiche e, perché no, a più
precise datazioni640. Per il momento la datazione fornita dal corredo ceramico della
tomba 6 PGM, al secondo quarto del V secolo, è il contributo più rilevante che sia
stato dato alla datazione di questa tipologia, per cui senza eccessive relativizzazioni, si
può proporre tutto il V secolo come periodo di diffusione del tipo. La definizione
geografica di questa diffusione, sebbene da ritenersi ancora incompleta nella sua
conoscenza, indica tuttavia un dato difficilmente ribaltabile: due soli esemplari
analoghi sono per ora noti a Mozia641 e Ibiza642, fatto che indicherebbe la Sardegna
come luogo di produzione. Come già rilevato la mancanza di sicure attestazioni di
provenienza per gli amuleti conservati al museo di Cagliari643 non consente in questo
caso di confermare l’opinione, condivisa in gran parte della letteratura scientifica,

637
Dissentiva G. Hölbl che al di fuori della Sardegna proponeva un solo esemplare Cartaginese conservato al
Louvre: Hölbl 1986, p. 145, nota 543.
638
Ib., p. 100, tav. LXXXI, 1; non riteniamo che le differenze tra i due tipi (-2 e -3) siano rilevanti: si limitano al
fatto che la pupilla sia più o meno distinta. I dettagli all’interno del globo oculare sono in entrambi i casi a
giorno, cosicché ci sembra sia più da accettare la distinzione che l’autore compie tra dettagli interni solo
incisi o a giorno, come nel caso dei tipi 49.A.2.2.1 e -2.
639
Ib., p. 102, tav. LXXXIV, 4 e 5; cfr. nota precedente per la differenza tra i due tipi. Per quanto concerne le
due denominazione date dall’autore per il diverso uso del materiale, nonostante costituisca un tema che
inerisce lo status dell’individuazione corretta di esso nelle pubblicazioni, si risolve tuttavia con
un’indifferenza da parte del produttore dell’amuleto. Proprio riguardo al confronto tra i tipi 49.A.1.3 e
49.B.1.1-2 l’autore riconosce l’affinità e interdipendenza che in questo caso emblematico travalica la
differenza di materiale (p. 144).
640
Cfr. Acquaro 1977b, nn. 213 (dalla necropoli occidentale di Cagliari), 251, 254, 261, 292, 307, 326, 337-338,
342, 344: Le dimensioni sono comprese tra i 8/16 mm di lungh., altezza tra 7/13 mm, spessore 4/5 mm;
Acquaro 1982, pp. 23-24, nn. 45 (miss. 15x12x4) e 53 (miss. 10x8x3), tav. III, provenienti entrambi da
Tharros; Tharros BM 1987, nn. 10/40, dalla tomba 10 in uso dalla metà del VI secolo.
641
Fresina 1980, n. 20. Cfr. nota 632, per le maggiori dimensioni rispetto alla serie cagliaritana questo amuleto
potrebbe rappresentare il prototipo della tipologia.
642
Fernandez, Padró 1986, p. 43, n. 96, tav. VII (n.i. 6700, miss. 13x10x4). Cfr. anche Hölbl 1986, pp. 145-146.
643
Cfr. nota 636: tra i quattro amuleti di cui sia documentato il sito di rinvenimento tre provengono da Tharros e
uno da Cagliari. I nostri quattro, più l’esemplare della tomba 9 AR, costituiscono la maggior parte degli
amuleti sardi di questo tipo per i quali sia nota l’origine.
- 140 -
secondo cui il primo centro di produzione in Sardegna sarebbe stato Tharros644. Anche
ammettendo che Sulcis possedesse botteghe capaci di concorrere con i prodotti
tharrensi, nel presente caso gli amuleti non presentano differenze sostanziali rispetto
agli altri verosimilmente prodotti a Tharros, tale che questo assunto non sembra al
momento confermabile.
Gli ultimi due amuleti del tipo udjat provengono dalla tomba 9 AR e
appartenevano all’inumato della sepoltura 9. La datazione di questo sepolcro, che
conteneva ben 10 deposizioni è compresa entro tutta la prima metà del V secolo,
sebbene sia stata proposta per le deposizioni prossime all’ingresso (tra le quali rientra
la 9), una datazione più vicina al limite inferiore di questo periodo, cosicché la
datazione dei due udjat dovrà porsi entro il secondo quarto del secolo. Questo dato
cronologico, al pari di quello tipologico, accomuna i due amuleti a quelli rinvenuti
nelle tombe 5 e 6 PGM. Il n. 60 infatti rientra nella variante a traforo e incisione, con i
dettagli del globo oculare a giorno e con l’appendice “a testa di falco”, alla quale
appartengono i quattro amuleti udjat della tomba 6 PGM; uniche differenze sono la
qualità della materia impiegata e alcuni tratti orizzontali sul pilastrino verticale, che
qualificano l’oggetto come eseguito da altra mano. Il n. 61 appartiene invece alla
variante dai dettagli del globo incisi e priva di appendice, al pari dei due (o tre) amuleti
della tomba 5 PGM. La somma di queste circostanze fornisce il prezioso dato della
sostanziale contemporaneità delle due varianti.

4.2.4. PTAH - PATECI

Undici sono anche gli amuleti che ripropongono il tipo dello Ptah-Pateco, trattasi dei
nn. 31 (dalla tomba 5 PGM), 43-48 (tomba 6 PGM), 63-64 (tomba 9 AR) e 72-73
(tomba 10 AR). Con questo nome è chiamata la divinità cui si riferisce Erodoto nel
capitolo 37 del III libro delle sue storie645 nel quale descrive l’ilarità di Cambise
suscitata da questa divinità egizia nel suo tempio a Menfi. È Erodoto infatti a
descriverne le sembianze paragonandole a quelle dei Pigmei che gli stessi Fenici
rappresentavano sulle prore delle proprie navi. Sebbene altre diciture siano state usate,

644
Moscati 1988a, pp. 114-115.
645
Erodoto Storie III, 37.
- 141 -
come quella di Ptah-Sokar o di Sokaris, o ancora di Pateco-panteo646 e “Divinità sui
coccodrilli”647, il termine Ptah-Pateco, oltre ad essere il più frequente dal principio
degli studi su questa iconografia648, appare giustificato in parte dalle iscrizioni che si
incontrano sulla base di alcuni originali egiziani. Esso designa una figura umana di
nano nudo e deforme con gambe piegate e piedi rivolti verso l’interno, sul capo è
generalmente rappresentato uno scarabeo e sotto i piedi calpesta due coccodrilli.
Ulteriori attributi sono due falconi sulle spalle e le divinità Iside e Nephtys ai lati.
Se in ambito punico e in Sardegna non manca la versione priva di tali
attributi649, di sicuro le tipologie e le varianti rappresentate non sono che un saggio di
quelle disponibili nella produzione egiziana650. Quella con attributi, il “Pateco-panteo”,
è senz’altro la più attestata e, nelle dimensioni ridotte, con un altezza media di 15 mm.
G. Hölbl nel suo studio sugli Aegyptiaca fenici e punici rinvenuti in Sardegna651,
distingue nell’ambito di questa sola tipologia, entro due principali suddivisioni in
“Pateco su un solo lato” e/o con Iside pterofora sul retro e in “Pateco a doppia figura”,
alcune decine di sottotipi individuati dalla presenza di attributi o su base stilistica652:
naturale presupposto per uno studio crono-tipologico ancora lungi dall’essere
effettuato. Sino a poco tempo fa d’altronde poteva essere ancora arduo operare una
distinzione netta tra importazioni egiziane o egittizzanti e produzioni fenicie, difficoltà
non del tutto superata e comune al resto degli amuleti egittizzanti. Hölbl stesso ha
recentemente proposto alcuni tratti distintivi tra le due categorie653: maggiore sarebbe
la geometrizzazione e lo schematismo, a volte estremo, negli esemplari punici
unitamente all’uso di un materiale, la Glassy Faïence, ben distinguibile dalla faïence
egiziana654. La banalizzazione e lo schematismo non erano d’altronde ignoti
all’Acquaro, cui si deve la pubblicazione del corpus degli amuleti conservati nei due

646
Fernandez, Padró 1986, pp. 16-17.
647
V. ancora di recente Mendleson 1987b, p. 110. La diversa definizione è qui utilizzata per distinguere il tipo di
figura isolata da quella con attribuiti.
648
Per una disamina bibliografica v.: Kition II 1976, p. 124, n. 6.
649
V. ad esempio i nn. 578-598 della collezione cagliaritana: Acquaro 1977b, p. 22, tavv. XXV-XXVI.
650
Manca al momento uno studio esaustivo sulla categoria, mentre è in preparazione un corpus dei pateci
conservati nelle collezioni egizie in Italia: Amenta 2002; per una recente indagine iconografica dell’essere
divino v. Dasen 2006.
651
Hölbl 1986.
652
Ibidem, pp. 80-85.
653
Cfr. anche il lavoro di Redissi: Redissi 1991.
654
Hölbl 2004, p. 67.
- 142 -
principali musei Sardi655, senza il quale il lavoro dell’Hölbl sarebbe stato impossibile.
Alla scuola dell’Acquaro è inoltre da attribuire un altro punto fermo della evoluzione
tipologica dello Ptah-Pateco, nonché un primo interesse nei confronti degli aspetti
materici costitutivi degli amuleti656: gli amuleti di Sulcis recentemente pubblicati
permettono infatti di riconoscere una linea evolutiva tra quattro gruppi stilistici, i primi
due in cui prossima è la realizzazione a tutto tondo troverebbero confronti in esemplari
di VI-V secolo657, mentre gli ultimi, in cui maggiore è invece lo schematismo e
vengono a mancare i fori che conferiscono volume alla figura, apparterrebbero ad un
momento successivo di IV-III secolo658. Si auspica in futuro di poter arrivare ad una
datazione più precisa, cui questo lavoro può dare il suo contributo. I nostri nove Ptah-
Pateci infatti, stilisticamente omogenei, presentano grande affinità con il primo659 e il
secondo gruppo660 e in particolare con i nn. 1-8 provenienti da tombe diverse (T. 11, 3
A, 4 DA, 6 DA, 8 DA, 12 DA).
Segue la tabella con le caratteristiche di ogni singolo reperto:

CAT. TOMBA DEPOSIZ. DESCRIZIONE MATERIA MISURE

31 5 PGM 1 pateco, iside sul retro, geroglifici alla base faïence o steatite dipinta di verde 19x11x9,5

43 6 PGM 1 pateco, iside sul retro faïence smaltata e dipinta di verde 14,5x9x7

44 6 PGM 1 pateco, iside sul retro faïence friabile 13x8x6

45 6 PGM 1, PIATTO 4 pateco, iside sul retro, croce alla base faïence smaltata verde 13x9x7

46 6 PGM 1 pateco bifronte, croce alla base faïence smaltata verde 15x11x8

47 6 PGM 1 pateco bifronte, croce alla base faïence smaltata verde 13x9,5x7

48 6 PGM 2 pateco bifronte faïence smaltata verde 15x9x8

63 9 AR 1 pateco bifronte faïence smaltata 12x7x7

64 9 AR NC base di pateco con geroglifici faïence o steatite 7x6,5

72 10 AR vano dx pateco, iside sul retro faïence smaltata verde 13x8x7

73 10 AR vano dx pateco, iside sul retro faïence smaltata verde 13x10x7

Tabella 7. Amuleti Ptah-Pateco.

655
Acquaro 1977b; Acquaro 1982.
656
Savio, Lega, Bontempi 2004.
657
V. anche il contributo di L.I. Manfredi: Manfredi 1986, pp. 163 e 165.
658
Savio, Lega, Bontempi 2004, p. 149.
659
Ibidem, pp. 127-128 e 130, nn. 1-6, figg. 18-23.
660
Ib., pp. 128-131, nn. 7-10, figg. 24-27.
- 143 -
Come si può rapidamente osservare le dimensioni dei reperti integri permettono di
individuare un gruppo omogeneo costituito dai nn. 43-48 e proveniente dalla
medesima tomba (6 PGM). In questo le misure sono comprese tra i 13 e i 15 mm di
altezza e tra gli 8 e gli 11 mm di larghezza. Isolati i nn. 31 e 63: il primo è l’unico
amuleto di questo tipo proveniente dalla tomba 5 PGM e il più grande di tutta la serie,
il secondo è invece il solo Ptah-Pateco integralmente conservato della tomba 9 AR e al
tempo stesso il più piccolo della serie. Dalla stessa tomba proviene un frammento di
Ptah-Pateco costituito dalla sola base e piedi della figura, che non essendosi conservata
non permette di valutare i dati dimensionali o stilistici. Distinti inoltre i nn. 72-73 dalla
tomba 10 AR per la particolare condizione di conservazione che ci ha preservato degli
ottimi prodotti di faïence punica.
Tornando a parlare del gruppo della tomba 6 PGM è doveroso distinguere tra
esemplari del Pateco su entrambi i lati (nn. 46-48) e quelli che sul retro presentano
invece le divinità pterofora Iside (nn. 43-45). Il nano, pressoché identico quando
rappresentato su entrambi i lati, ha arti stilizzati e composti da masse geometriche
spigolose: gli avambracci portati al petto sono due parallelepipedi separati sul piano
mediano da un solco che in alcuni esemplari interessa anche il busto del dio (nn. 43 e
47). Gli arti inferiori ugualmente spigolosi non appaiono deformi nella prospettiva
frontale, ma in quella laterale è evidente l’eccessiva sporgenza delle ginocchia (come
nei nn. 46-47, altrove alla stessa altezza la sporgenza interessa il ventre). Il sesso del
dio è rilevato da due incisioni convergenti più o meno profonde e il volto presenta due
grossi occhi globulari ai lati di un ancora più grosso naso sub-triangolare, sotto il quale
nei migliori esemplari un lieve solco individua la bocca. La fronte è bassa, sporgente e
spigolosa, coincide con il contorno dello pseudo-scarabeo che come abbiamo detto è
un attributo quasi immancabile negli amuleti di migliore fattura e quindi
probabilmente più antichi. Nella serie della tomba 6 PGM sembra invece avere
raggiunto il limite della stilizzazione al punto di essere confuso con la capigliatura
stessa del dio: questa risulta schiacciata e ripartita longitudinalmente in quattro bande
da tre solchi e trasversalmente da un ulteriore solco a circa la metà/un terzo della
superficie, residuo della distinzione tra protorace ed elitre dello scarabeo. La dea
pterofora, sui tre esemplari in cui è presente (nn. 43-45), è invece appiattita e
rappresentata linearmente di profilo rivolta verso destra. Il corpo è un volume verticale
- 144 -
e stretto senza particolari definizioni degli arti, da esso all’altezza delle spalle parte
obliquamente e verso il basso l’ala destra campita da tratti ravvicinati quasi verticali,
mentre quella sinistra alzata si lascia solo intuire dalla superficie ondulata dello sfondo
di fronte al volto della dea. Il volto non presenta definizione né particolari rilevanti se
non che nel n. 44 è separato tramite un solco verticale dal resto corpo e nel n. 45 il
solco individua rozzamente un grosso occhio appiattito in senso orizzontale. Sopra il
capo è riconoscibile un disco solare, attributo frequente della dea Iside, sebbene non
particolarmente delineato nei nn. 43 e 44 e schiacciato e spigoloso nel n. 45. Le figure
laterali, originalmente le dee Iside e Neftys, risentono della schematizzazione che le
porta a confondersi con l’andamento curvilineo dei serpenti e a formare un unico
corpo indefinito con i falconi sulle spalle661. Il livello di stilizzazione ha qui raggiunto
il punto limite: se i volti delle dee non sono neppure intuibili, i due solchi verticali
nella metà inferiore del corpo, retaggio di arti inferiori e superiori distesi ai lati, sono
appena percettibili ma mai assenti.
Interessanti inoltre le incisioni alla base. In tre casi (nn. 45-47) notiamo lo
stesso motivo: una croce o una stella ottenuta dall’intersecazione di quattro linee, due
perpendicolari e due oblique, esso rappresenta un elemento di chiara origine orientale
e si ritrova su sigilli babilonesi del I millennio662. Interessante soprattutto è notare
come il motivo faccia da ulteriore trait d’union tra Pateci a doppia figura e con Iside
sul retro. Si distingue invece l’amuleto della seconda deposizione (n. 48) per una croce
costituita dall’incrocio delle sole diagonali della base.
Gli amuleti di questo gruppo costituiscono, come abbiamo visto, un insieme
omogeneo con minime differenze: tra tutti il n. 44 si distingue per il materiale
dall’aspetto farinoso (faïence non perfettamente vetrificata) e dal peggiore stato
conservativo che tuttavia lascia notare una minore stilizzazione, notevole per le
dimensioni inferiori al resto della serie. Per i restanti è attestata la faïence rivestita di
smalto, lucido e verde quando meglio conservato (ad es. n. 45).
Il n. 44 differisce anche per un altro particolare: la figura del nano è contornata
da sette fori circolari. Ad esclusione del foro di sospensione visibile solo di profilo e

661
Acquaro 1977b, p. 35.
662
Invernizzi 1996, p. 806, fig. 9; per un esempio sulla base di uno scarabeo in pasta di Cartagine v. Vercoutter
1945, p. 172, n. 317, tav. XXII.
- 145 -
passante per le tempie del dio, gli amuleti di questo tipo presentano, in conseguenza
della realizzazione a traforo, degli spazi che in relazione alla minore qualità esecutiva
si presentano come dei fori circolari. Non è escluso che avessero parte nel valore
simbolico o rituale di questi oggetti: è stato notato da tempo ormai come una classe di
amuleti simile alle tavolette da scrittura egizie sia derivata dall’amuleto Ptah-Pateco, e
costituite unicamente da una serie di fori663. Nella serie della tomba 6 PGM i fori sono
cinque: due sempre circolari si trovano ai lati del collo del dio disposti
simmetricamente, uno anch’esso sempre circolare è tra le gambe, e due
simmetricamente posti ai lati dei fianchi. Questi ultimi solitamente allungati in
verticale si trovano dall’aspetto circolare nel solo n. 45. È in questa posizione che il n.
44 presenta quattro fori in luogo di due, fatto legato alla diversa conformazione del
ventre: tondeggiante in questo caso e squadrato negli altri664.
Nel complesso i nostri sei amuleti rientrano nei tipi 5.1.A.4.2.2-3 dell’Hölbl
relativi agli esemplari in faïence e con Iside sul retro665, e a metà strada tra i tipi
5.2.A.1.1.1-2 per quanto riguarda i doppelte Patäken sempre nello stesso materiale666.
Gli esemplari con iscrizioni rispettano inoltre i parametri dei “Patechi raddoppiati” in
steatite per quanto riguarda le croci alla base e la stilizzazione delle figure laterali dei
tipi 5.2.B.2.2 e successivo667. Già l’Hölbl notava una maggiore diffusione in occidente
del tipo stilizzato dello Ptah-pateco, nel quale i nostri amuleti rientrano. L’assenza in
Oriente di alcuni tipi può essere imputata alla condizione di minoranza dell’edito, ma
non è da escludere la possibilità di una produzione locale in occidente668 che nel nostro
caso sarà da individuare in Tharros, il centro che tutt’oggi fornisce il massimo delle
evidenze di questa classe. Non mancano tuttavia esemplari dei tipi sopra menzionati a
Cartagine e Ibiza669, ulteriori candidate al ruolo di centri di produzione. In Sicilia, nella
generale scarsità di amuleti, cui non fa eccezione il pateco, troviamo un amuleto che
con i nostri nn. 46-48 presenta forti analogie. Rinvenuto in una tomba punica di

663
Cintas 1946, pp. 97-100. che le chiama “placchette divinatorie” o “domino”. È da notare tuttavia che nei
nostri amuleti non tutti i fori risultino passanti da parte a parte.
664
7 fori caratterizzano il tipo 5.1.A.4.2.3, nonché il tipo 5.1.A.4.4.
665
Hölbl 1986, p. 82.
666
Ibidem, p. 83.
667
Ib., p. 84.
668
Ib., p. 112.
669
Ib., pp. 110-111, tabella 1.
- 146 -
Solunto670, con essi condivide l’aspetto formale, la resa dello scarabeo sul capo (più
prossima al n. 46), e l’incisione cruciforme della base, identica a quella dei nn. 46-47.
L’amuleto proviene da una tomba (n. 173) il cui corredo vascolare è in corso di studio,
ma ci resta la datazione generale al periodo tra fine VI-V secolo del settore della
necropoli punica da cui proviene671.
Il n. 31 della tomba 5 PGM rientra più puntualmente nei parametri del tipo
5.1.A.4.2.2 sopra menzionato, in virtù anche della forte analogia, ad eccezione delle
dimensioni, con un esemplare tharrense, datato dall’Acquaro tramite confronti al VI
secolo, con ammissione di possibili attardamenti672. Se il tipo corrisponde né più né
meno a quello degli amuleti 43-45 della tomba 6 PGM, alcuni dati stilistici indicano
una leggera distinzione: il corpo del dio è curato nel dettaglio, il volto e naturalistico,
ben visibile la bocca e due grosse orecchie ai lati. Ben staccate sono le forme
costitutive dell’amuleto e intuibili, anche se non più descritti, i due coccodrilli.
Se le dimensioni maggiori possono aver agevolato la cura dei dettagli673 come
la maggior naturalezza delle forme, di sicuro la delineazione dello scarabeo sul capo
non è un caso: ben distinto è il protorace a semicerchio dalle elitre rettangolari. Anche
la dea pterofora è descritta in maniera naturalistica e rivela una sapiente realizzazione
su piani diversi e sovrapposti a rilievo. Così il volto è a metà tra capelli e braccio che
regge l’ala destra e lo sfondo su cui ben si riconosce l’ala sinistra. Impossibile è invece
distinguere le dee laterali. Con l’amuleto tharrense condivide anche la scelta dei segni
incisi alla base, geroglifici: nel nostro caso una piuma shw e il segno s. Il secondo
segno è rivolto a sinistra e indica un errore ortografico compiuto evidentemente da un
non-egiziano.
Sulla base di questi elementi che crediamo discriminanti e tenendo conto della
sostanziale contemporaneità delle due sepolture, nell’ambito del secondo quarto del V
secolo, si può proporre qui una deposizione dell’amuleto della tomba 5 PGM all’inizio

670
Termini 1995, n. 4, pp. 102-103, tav. I, 4.
671
Ibidem, p. 104, nota 60.
672
Ib., p. 82, tav. XIII, 2; Acquaro 1975, p. 79, p. 88, tav. XXXI, inv. 476; Acquaro 1977b, p. 91, n. 612, tav.
XXVII. Dimensioni: 16 x 9 x 8 mm.
673
Il n. 31 è alto 4,5 mm in più del n. 43 e 6 mm dei nn. 44-45.
- 147 -
di questo periodo e di quelli della 6 PGM alla fine, intorno all’anno 450, opinione
condivisa dallo stesso scavatore674.
Lo Ptah-Pateco della tomba 9 AR (n. 63) è come abbiamo visto il più piccolo
degli amuleti di questo tipo in catalogo675; ciò anche in questo caso può essere il
motivo di una minor cura nei dettagli, tuttavia sono di nota alcune scelte iconografiche
non trascurabili. Il tipo propone la divinità nella doppia rappresentazione, il volto è
piccolo e tondo ma volutamente teso allo scimmiesco, le braccia sono portate come di
consueto al petto ma i pugni risultano a contatto con le spalle come spinte in avanti. Le
figure laterali sono indiscernibili ma ben delineato è lo scarabeo sul capo, ancor più
che nel n. 31: uno spesso listello leggermente arcuato divide il protorace dalle elitre,
queste ultime campite da linee parallele ravvicinate. Scarse tracce del colore verde
originario sono visibili sulla base dove troviamo il geroglifico della dea seduta con
ankh sulle ginocchia accuratamente inciso.
La tomba 9 AR era in uso durante tutta la prima metà del V secolo, ma non è
escluso che questo amuleto vi fosse finito all’inizio di questo periodo.
Se l’interpretazione dei dati è corretta si profilerebbe un elemento importante e
discriminante ai fini della datazione degli amuleti raffiguranti lo Ptah-pateco: lo
scarabeo sul capo andrebbe scomparendo, tramite una forte stilizzazione, nel corso
della prima metà del V secolo, e in particolare nel corso del secondo quarto. Ulteriore
elemento sarebbe il passaggio dalla incisione di geroglifici ai segni geometrici alla
base di questi amuleti. La parzialità dei nostri dati e la possibilità di una pluralità di
centri di produzione inducono tuttavia ad accettare con riserva queste considerazioni.
Difficilmente determinabile in ottica evolutiva è invece l’uso di segni alfabetici,
cui forse corrispondono le incisioni del n. 64, sempre dalla tomba 9 AR. Va notato
come lettere alfabetiche non siano frequenti alla base di amuleti e per lo Ptah-pateco in
particolare: gli unici due casi menzionati dall’Hölbl sono entrambi sardi e tharrensi676.
Uno è conservato al British Museum, con numero di inventario 133457677, e il secondo
pubblicato per primo dallo Spano nel 1856678. All’occhio dell’Hölbl le iscrizioni

674
Bernardini c.p.
675
Misura appena 12 mm di altezza.
676
Hölbl 1986, p. 84, nota 6.
677
Tharros BM 1987, n. 10/31.
678
Spano 1856, pp. 72-74.
- 148 -
parevano identiche in ogni particolare, ma in quest’ultimo il canonico vi notava le
lettere klb, che leggeva come Kalev, il termine che significa “cane” o un nome proprio
di persona, lettura già messa in dubbio dalla Guzzo Amadasi che proponeva hlb o
hlr679. D’altra parte l’iscrizione presente sul secondo è interpretato da C. Mendleson
come deformazione di yld (infante)680.
Quanto al nostro è difficile esprimersi: due sono le lettere di cui la prima simile
ad un aleph, mentre la seconda potrebbe essere un ’ayn.
Sempre in linea con l’attribuzione della sepoltura alla prima metà del V secolo
sono gli amuleti 72-73 della tomba 10 AR. Lo stato di conservazione e la tecnica di
esecuzione li rende partecipi delle stesse caratteristiche degli udjat 70-71 della stessa
deposizione, secondo una circostanza che caratterizza ad esempio gli urei e gli stessi
udjat della tomba 5 PGM o ancora gli udjat e i pateci della 6 PGM. Una simile
osservazione consente all’interno di una seriazione crono-tipologica di riconoscere
importanti dati di correlazione stilistica.
Dal punto di vista tipologico gli ultimi due presentano scarsi elementi che li
distinguano dai summenzionati pateci, tuttavia un elemento di recenziorità devono
essere considerati i fori passanti cui è affidata la delimitazione delle masse della figura,
questi sono 5 nel n. 72 e ben 7 nel n. 73, dato che lo imparenta con il n. 44 della tomba
6 PGM, del quale tuttavia non possiede la stessa morbidezza dei volumi ma con cui
condivide la datazione al secondo quarto del V secolo.

4.2.5. LEONE

L’unico amuleto riproducente il tipo del leone accovacciato proviene dalla tomba 9
AR e porta nel nostro catalogo il n. 62, apparteneva all’inumato della deposizione 1,
così come anche il Pateco bifronte n. 63, lo scarabeo n. 65 e i vaghi n. 56, con i quali
probabilmente componeva una collana. Il materiale si presenta alla vista come una
compatta faïence celeste tendente al verde e dalla superficie particolarmente consunta.
L’esame tipologico non offre purtroppo sicuri dati di confronto: l’unico a noi noto, ma
neppure tanto prossimo, è un amuleto conservato al Museo Archeologico Nazionale di

679
Hölbl 1986, p. 84, nota 6; Guzzo Amadasi 1967, Sard. 8, p. 90, fig. 13.
680
Tharros BM 1987, p. 167.
- 149 -
Cagliari edito dall’Hölbl681. Questo è l’unico oggetto proposto dall’autore che
appartenga al tipo da lui indicato come “geometrisierter Typus” (32.1.A.3)682. Tuttavia
anche le dimensioni e il materiale di cui è composto non presentano grandi analogie
con il nostro683. La più forte sta sicuramente nella posizione del foro di sospensione: se
nel generale trend degli amuleti a forma di leone accovacciato il foro è ricavato in un
appiccagnolo posto al di sopra del dorso dell’animale684, nei due presenti casi esso
attraversa il corpo di quest’ultimo nel senso dello spessore in prossimità del ventre.
Questa circostanza, unita alla presenza del pilastrino posteriore, avvicina il nostro
amuleto a simili rinvenuti dal Petrie a Naukratis negli anni 1884-85685, ma provvisti di
iscrizioni alla base. Il centro del Delta doveva d’altronde essere per tutto il VI secolo il
principale produttore di amuleti di tutto il Mediterraneo e non dovrebbe stupire che
ancora agli inizi del V secolo se ne potessero trovare nelle tombe puniche d’occidente.
La presenza anche a Cartagine in contesti tombali di VII-VI secolo di oggetti di
fabbrica naukratita, e di questo tipo in particolare, non fa che aggiungere validità a
questo discorso686.

681
Hölbl 1986, tav. LXVII, 2; v. anche Redissi 1990, p. 186, portato a confronto dell’esemplare a tav. II, 16.
682
Hölbl 1986, p. 94.
683
Ibidem, vol. 2, p. 214: miss. 18,8x11x5,8, “Fayence mit kräftig grüner, ganz leicht blasiger Glasur”.
684
Cfr. ib., tavv. LXVI, 5-6, LXVII, 1, 3-5, che riproducono i tipi 32.1.A.1 e -2, -B.1, e 32.2.1.1; a questa
caratteristica si conforma anche l’amuleto pubblicato dal Redissi (cfr. supra nota 681) che si attribuisce alla
fine del VII – inizio del VI sec. per la provenienza dalla tomba 61 di Dermech, ma manca tuttavia il piastrino
posteriore: Redissi 1990, p. 186, tav. II, 16.
685
Petrie 1886, tav. XXXVII, nn. 69 e 104.
686
V. infatti Vercoutter 1945, pp. 206-207, nn. 510-512, tav. XIV, con prime tre lettere di psmtk (Psammetico), il
terzo dalla tomba 216 di Dermech I (VI secolo); Feghali Gorton 1996, p. 105, nn. 155-157, che li include nel
type XXVIII B.
- 150 -
4.3. SCARABEI
Lo scarabeo è il tipico amuleto egizio che riprende in più o meno ridotte dimensioni la
forma del coleottero scarabaeus sacer. Sin dall’origine del suo utilizzo nel periodo
Predinastico le materie impiegate sono diverse: da quelle più semplici come la pietra
tenera e la faïence a quelle semipreziose come l’agata, il lapislazzuli e la corniola. La
funzione dello scarabeo non è sempre stata univoca e nel corso della sua evoluzione ha
saputo raccogliere per chi lo portava al collo utilizzi diversi: da quello propriamente
talismanico, al sigillo e all’oggetto votivo687.
È prima che smettano di essere prodotti in Egitto dopo la XXVI dinastia, che i
fenici e le altre popolazioni levantine adottano intorno al IX secolo lo scarabeo o
scaraboide, in luogo del sigillo cilindrico di origine mesopotamica688, acquisendo al
pari la simbologia legata a questo tipo di amuleto-sigillo nel corpus delle credenze
magico-religiose. Con la “diaspora fenicia” in occidente scarabei in pasta e faïence
raggiungeranno tutte le coste mediterranee conoscendo grande apprezzamento negli
empori di Etruria, Iberia e Magna Grecia. Da questi intensi contatti con le popolazioni
levantine nel corso del VI secolo Greci e poi Etruschi, adotteranno, seppur per poco
tempo, la forma dello scarabeo per la produzione di gemme689 senza tuttavia
apprezzarne a fondo l’originario valore magico-religioso690.
Per quanto riguarda le materie prime impiegate nelle colonie fenicie in
occidente l’uso di materiali più semplici quali pasta e steatite sembrano prevalere nella
fase arcaica per poi lasciare il passo alle pietre semipreziose in epoca punica691. Si è
distinta così in Sardegna una iniziale fase fenicia, in cui erano preponderanti le
importazioni dall’Egitto dei prodotti finiti, e una seconda fase punica in cui la
produzione locale, in centri come Tharros, Cartagine e Ibiza, poteva esaurire sul
mercato almeno la gran parte della richiesta di questi oggetti. Il dibattito sulla
produzione tharrense di tutti o gran parte degli scarabei rinvenuti ivi e nel resto delle

687
Vercoutter 1945, pp. 44 e segg.
688
Matthiae 1997, pp. 246-7, 280-1.
689
Boardman 1968, p. 169.
690
Cfr. Feghali Gorton 1996, che si riferisce agli scarabei in pasta, la cui situazione non doveva essere dissimile
da quella di quelli in pietra.
691
Vercoutter 1945, p. 62-67.
- 151 -
città puniche di Sardegna è ancora aperto692: da ultimo J. Boardman, che ha consacrato
una vita allo studio delle gemme greche e negli ultimi anni si è dedicato a quelle
“greco-fenicie”, ritiene che i principali centri di produzione siano da localizzare nel
mediterraneo orientale, il che comunque non esclude che Tharros potesse assolvere la
funzione produttiva e di smistamento, come già proposto per i gioielli.
Non meno degne di interesse, benché attestate da minor numero di esemplari,
sono le altre materie utilizzate nella produzione glittica di questo periodo: il
calcedonio, il serpentino e la corniola. Tutte varianti del quarzo, l’ultima delle quali è
la pietra privilegiata nella produzione Etrusca.
La produzione tharrense quindi, sebbene non perfettamente distinta e
individuata nella sua articolazione in scuole e botteghe, ma specializzata
prevalentemente nella lavorazione del diaspro verde e operante tra fine del VI e III
secolo a.C., avrebbe trasposto sulla base degli amuleti iconografie note in ambito
punico da altri supporti e di più o meno lontana origine egiziana e vicino-orientale.
Avrebbe inoltre presto adottato, al pari delle tecniche, iconografie greche diffuse anche
esse sulla glittica come su altri supporti (pittura parietale e vascolare). Nel 1978 G.
Pisano proponeva a titolo ipotetico693 una scansione cronologica dell’attività di queste
correnti o scuole, con la comparsa di poco più tarda di quella greca. L’anno seguente
Enrico Acquaro in una nota694 esprimeva la necessità di riporre la questione della
glittica “nel più vasto ambito artigianale punico”, in cui, come per gli amuleti,
l’utilizzo di tematiche eterogenee era sottoposto ad un processo di integrazione o
elaborazione originale e autonoma. È da rigettare perciò qualsiasi “indagine che parta
da rigide filiazioni delle esperienze occidentali puniche da quelle orientali, quando il
Mediterraneo centrale offre nella sua varietà culturale e nelle sue convergenze
commerciali la possibilità di comprendere e di quantificare in prima istanza i fenomeni
in esse prodotti”695. Impossibile è anche superare la semplice analisi iconografica per
raggiungere quella stilistica, un problema comune a tutta l’arte fenicia o della
disciplina che la studia. Ciononostante l’analisi iconografica, consci di questi suoi
limiti, può fornire un contributo essenziale agli studi e maggiormente se integrata

692
V. § 5.2.2.
693
Pisano 1978.
694
Acquaro 1979, cit. in Acquaro 1984.
695
Ibidem. p. 90.
- 152 -
dall’analisi iconologica, con lo scopo di definire il contesto culturale in cui un motivo
o un tema iconografico era realizzato e recepito dal fruitore del prodotto artigianale.
Per quanto riguarda la tipologia dei dorsi in questa sede si rispetterà la
consuetudine degli studi di glittica punica nell’utilizzare la classificazione del
Newberry696 nonostante superflua: G. Matthiae Scandone697 ha infatti da tempo notato,
e J. Vercoutter prima di lei698, come la scarsa caratterizzazione delle morfologie non
consenta una classificazione che aiuti più dell’analisi delle iconografie alla base. Già
in ambito egiziano si ritiene come dal Nuovo Regno quella di rappresentare un
qualsiasi elemento dorsale fosse una scelta arbitraria dell’artigiano699.
Questi sono i termini dell’analisi che sarà tentata sui nove scarabei rinvenuti
nelle sei tombe, dopo un cenno sulle caratteristiche della produzione cui afferiscono
gli altri esemplari provenienti da Sulcis.
In un lavoro del 1988 sulla produzione artigianale Sulcitana700 Sabatino Moscati
contava 18 scarabei provenienti da due collezioni di antichità rinvenute a Sant’Antioco
(Don Armeni701 e Biggio702) ai quali andavano aggiunti i 4 rinvenuti nel tophet e
pubblicati da Piero Bartoloni nel 1973703. Le osservazioni tratte da questi 22 oggetti704,
di cui 14 in diaspro verde o altra pietra dura e 8 in steatite o pasta, confrontati con la
più larga documentazione tharrense, non permettevano di riconoscere una produzione
locale e non contraddicevano una origine tharrense per tutti gli oggetti. La scarsa
quantità di materiali e la mancanza di caratteristiche proprie inducevano quindi a
ritenere gli scarabei sulcitani importati “nell’ambito di un vasto circuito di cui Tharros
era il principale punto di riferimento”705.

696
Newberry 1907, cit. in Vercoutter 1945, p. 49 e 71-74. A differenza di altre classificazioni, come quelle di
Petrie e di Rowe, quella di Newberry presenta un minor numero di categorie, la sua praticità è il motivo della
sua fortuna negli studi di glittica punica. È da dire che la stragrande maggioranza degli scarabei in materia
semipreziosa rinvenuta nei siti punici, e dei nostri ad eccezione del n. 32 (tipo IVa), rientra nel tipo V per la
resa del protorace arrotondato.
697
Matthiae Scandone 1975, p. 15.
698
Vercoutter 1945, p. 49, nota 2.
699
Andrews 1994, p.52.
700
Moscati 1988a, pp. 117-120, tavv. XXXI, 4-5.
701
Uberti 1971, pp. 277-312, tavv. XXXIX-XVII.
702
Biggio 1977.
703
Bartoloni 1973.
704
Probabilmente per una dimenticanza, o perché incompleti, il Moscati non considerava i 4 scarabei del tofet,
che tuttavia non avrebbero contraddetto le conclusioni tratte dagli altri esemplari.
705
Moscati 1988, p. 119.
- 153 -
Una tale affermazione anche se non definitiva non può essere ribaltata, ma solo
in parte confermata, dai 9 scarabei provenienti dalle tombe puniche scavate nei 15 anni
seguenti quella pubblicazione e oggetto di questa tesi. Gli scarabei presentati nel
catalogo con i numeri 16, 32, 49-50, 65-68 e 74 sono eterogenei quanto a materiale
con una quasi paritaria attestazione della steatite e faïence, smaltata o dipinta di verde
(nn. 16, 32, 68 e 74) e del diaspro verde (nn. 65-67), questi ultimi costituenti un
gruppo omogeneo proveniente dalla medesima tomba (9 AR); restano isolati i nn. 49 e
50, rispettivamente in pietra bianco-grigia e in corniola, entrambi dalla tomba 6 PGM,
ma da due distinte deposizioni. Le materie prime sono in linea di principio quelle già
note nell’edizione del 1988, se si ipotizza una identità della pietra bianco-grigia del n.
49 con la pietra dura cinerognola del n. 7 della collezione Biggio706.
Passiamo ora all’esame morfologico dei reperti e delle iconografie
rappresentate alla base di questi:

4.3.2. SCARABEI IN FAÏENCE E STEATITE

Il n. 16, in pessimo stato di conservazione, è stato rinvenuto all’interno di una lucerna


(la n. 49 della documentazione di scavo), l’accensione della quale, attestata peraltro da
resti di terra e altro materiale combusto al suo interno, può aver causato la corrosione e
la deformazione dello scarabeo, rendendone così difficile e dubbiosa la lettura. La
superficie del dorso è infatti assente così come metà di quella della base e a malapena
su di un fianco si riconosce una zampa poggiante su alta base. Sulla base sembra
riconoscersi l’avancorpo di un animale accosciato rivolto a destra, ne rimane solo la
parte più profonda dell’incisione e per cui la sola sagoma, ma sembrerebbe trattarsi di
un leone. È questo infatti il soggetto tipico, insieme alla sfinge, di raffigurazioni di
animali in riposo, ma la difficoltà nel riconoscere il materiale e il pessimo stato di
conservazione non permettono di affermare altro. L’iconografia di animale accosciato
non è infatti una delle più diffuse sulle gemme puniche e la si ritrova su tre esemplari
di cui uno da Tharros, uno da Cipro e uno di provenienza sconosciuta707. Quest’ ultimo
è privo di altre indicazioni, mentre i primi due sono entrambi in corniola. Tutti e tre

706
Acquaro 1977a, p. 46, tav. XXI, 7. L’esemplare è analogo al nostro n. 49 anche per altri elementi che
verranno considerati più avanti.
707
CPSC, tipo 38 D, nn. 38/X8-10.
- 154 -
presentano elementi di caratterizzazione ambientale come una foresta di papiri per gli
ultimi due ed una palma nel primo sullo sfondo dell’animale. La sola presenza
dell’esergo non è elemento sufficiente per un confronto quand’anche la tecnica e lo
stile, perché irriconoscibili, non sono utili al fine di una datazione. Lo stesso arco
cronologico fornito dai tre esemplari è troppo ampio e incerto per fornire una
conferma alla datazione della tomba.
Maggiore affidabilità di lettura presentano invece gli altri tre scarabei. Il n. 32
proveniente dalla deposizione 3 della tomba 5 PGM e realizzato in una steatite bianca,
dall’aspetto gessoso, e dipinta di verde. Esso presenta uno schema dorsale
corrispondente al tipo IVa di Newberry708. Una semplice linea separa il basso e piatto
protorace dalle elitre, a loro volta divise da una linea singola. Tra di esse in alto lo
scutellum e indicato da una V.
Il motivo alla base propone una combinazione di motivi o segni geroglifici su
tre registri a creare una iconografia di tipo rappresentazionale: nel primo registro è un
disco alato con corna, al centro un ureo e una civetta, o falco, rivolti verso destra, e in
quello inferiore, in esergo, un neb. Iconografia e stile non trovano puntuale riscontro
nel resto della documentazione sarda, cartaginese, orientale e tanto meno egizia, ma
combinazioni di questo tipo sono presenti su di una classe di scarabei in pasta e steatite
individuata da Andrée Feghali Gorton709 e ben rappresentata in siti punici. A conforto
di questa assegnazione possiamo addurre le analogie con il n. 12 del catalogo710,
conservato al Museo Nazionale di Cagliari, con il quale condivide i motivi del primo e
terzo registro, la profondità dell’intaglio e la resa dorsale.
Allo stesso tipo XII della Feghali Gorton possiamo attribuire anche gli altri due
scarabei in faïence (nn. 68 e 74), provenienti da due diverse tombe (rispettivamente
dalla 9 e dalla 10 AR) in una pasta color crema, grossolana nel primo caso e più fine
nel secondo. Entrambi presentano il cartiglio con il nome reale Men-kheper-Re,
sebbene nel primo in lettura orizzontale e affiancato da due piume shu e due neb,
mentre nel secondo in lettura verticale nel secondo registro affiancato dalle sole piume
shu. Identica nei due scarabei è la resa calligrafica del segno men, con tre tratti

708
Vercoutter 1945, p. 72.
709
Feghali Gorton 1996, p. 34-38, tipo XII, cfr. in particolare il n. 12, da Tharros.
710
Edito anche in Scandone Matthiae 1975, p. 81, G12, tav. XXII.
- 155 -
verticali invece di sette711, e la semplificazione dello scarabeo kheper, più simile al
segno ib nel n. 74, così come la tecnica incisoria con la campitura a tratti delle piume
shu.
In questo caso l’attribuzione al tipo è confortata per il nostro n. 74 dal puntuale
confronto con il n. 10712 conservato anch’esso a Cagliari, assolutamente identico anche
nelle dimensioni e nella resa dorsale, ad eccezione dello scutellum assente nel nostro.
Meno puntuale per il peggiore stato conservativo è il confronto con un altro scarabeo
conservato nello stesso Museo sardo713, nel quale un segno nfr sostituisce il cartiglio
reale. Come è noto i tre scarabei qui addotti a confronto non posseggono indicazioni di
provenienza, ma contribuiscono a notare la diffusione in ambito sardo di questa
tipologia714.
Differente la situazione del n. 68 per il quale la studiosa non ci propone puntuali
confronti in questo tipo, sebbene i singoli elementi siano usati in differenti
composizioni a lettura sia verticale che orizzontale715. Una identica composizione, ma
con un diverso nome reale nel cartiglio (Men-ka-Re, in cui il segno ka sostituisce
kheper), la offre uno scarabeo rinvenuto a Cartagine716 e datato al V secolo; esso
rientra nel tipo XX della Feghali Gorton717, probabilmente opera di una bottega
cipriota e diffuso in occidente dal VI secolo in poi. Di poco dissimile è un altro
scarabeo sardo718, in cui al cartiglio si sostituisce un ankh e al neb di destra un nefer,
incluso nel tipo IX dalla Feghali Gorton719, di incerta origine e diffuso tra la seconda
metà del VIII e il VI secolo. Ma di sicuro il confronto più stretto lo abbiamo con uno
scarabeo appartenente alla collezione Matouk, i cui pezzi sono molto probabilmente di
origine levantina720. La mancanza di informazioni di provenienza, dimensionali,
materiali e della resa dorsale rendono il dato limitato nella validità, sebbene

711
Gardiner 1927, p. 534, Y 5.
712
Feghali Gorton 1996, p. 36, n. 10 senza illustrazione. Già edito in Scandone Matthiae 1975, tav. I, A4.
713
Scandone Matthiae 1975, tav. XXIII, G14.
714
Una altro interessante scarabeo sulcitano in steatite, sebbene di elevate dimensioni (40x28x19 mm) condivide
gli stessi motivi del tipo XII: Uberti 1977a, n. 1, tav. XVI, 1.
715
Cfr. Feghali Gorton 1996, p. 36, nn. 20 e 24.
716
Vercoutter 1945, p. 97, n. 22, tav. I. Rinvenuto nella tomba 328 di Douimes.
717
Feghali Gorton 1996, p. 58-59, n. 24.
718
Hölbl 1986, tav. 99/1.
719
Appartenente al gruppo 2 (“Late Egyptians Types and Local Imitations”), nel quale rientra anche lo stesso
tipo XII.
720
Matouk 1971.
- 156 -
l’immagine che ci fornisce l’editore fornisca il confronto più puntuale sinora721. Lievi
le differenze: la grafia del segno kpr, sebbene alquanto stilizzato, lo rende più simile al
modello e il cartiglio presenta il consueto segmento orizzontale alla base. Restano
identiche le due piume e i due neb ridotti a puri riempitivi.
La tipologia cui pensiamo di poter attribuire i nostri tre scarabei comprende
prodotti di diversa qualità e dimensioni, sebbene tutti caratterizzati dall’uso di motivi
di ispirazione egiziana classica, come lo stesso nome Menkheperre, appartenuto a
Thutmosis III della XVIII dinastia. Il valore apotropaico di questo nome in particolare
sottostava alla sua scelta per essere rappresentato su scarabei e amuleti, e a questa va
aggiunta la fortuna che ebbe tra i faraoni dalla XXI alla XXVI, che, adottando il nome
di uno dei più potenti faraoni della storia egizia, della sua stessa gloria desideravano
essere partecipi722.
Gli esemplari della stessa tipologia che possono datarsi con certezza indicano
un periodo di diffusione tra VIII e inizio del VII secolo723, eccessivamente alto per i
nostri tre. Più che di un fenomeno di tesaurizzazione, riteniamo che i nostri tre scarabei
possano essere oggetto di una produzione locale, sarda o cartaginese, ad imitazione di
tipi egiziani classici.
Quanto alla tecnica di produzione si ritiene che gli scarabei in faience fossero
realizzati a stampo, specie quelli prodotti in massa nelle botteghe del Delta del Nilo,
dove matrici sono effettivamente state trovate724. Queste tuttavia venivano utilizzate
per conferire l’aspetto dorsale dell’animale o dello scaraboide, mentre il confronto tra
il nostro n. 74 e l’esemplare Cagliaritano inducono a pensare si potesse trattare almeno
in questo caso di un’impressione anche del motivo alla base. La steatite del n. 32
invece, per la consistenza gessosa, facilmente si adatta alla lavorazione a mano, ma il
fine delineamento delle figure non è seguito dalla rifinitura del fondo delle incisioni,
lasciato all’aspetto ruvido e grezzo, per cui non sembra possa essere stato l’oggetto
sottoposto a cottura.

721
Ibidem, p. 209, n. 274.
722
Un esempio della diffusione e sproporzione di questo nome reale sugli scarabei, egizi e non, si può notare in
Jaeger 1982.
723
Feghali Gorton 1996, p. 37-38.
724
Ibidem, p. 179, fig. 35.
- 157 -
Tutti e tre gli esemplari inoltre conservano tracce di un rivestimento di pittura
verde (che nel n. 68 sembra trattarsi di smalto), perché conferisse all’amuleto un
aspetto verde smeraldo ad imitazione del diaspro verde o per una particolare
simbologia magico-religiosa legata a questo colore.
Va infine considerata la lettura crittografica dei geroglifici rappresentati su
questi scarabei: se infatti i motivi possono generalmente costituire formule di buon
augurio o composizioni acritiche di segni, disposti per lo più simmetricamente allo
scopo di poter essere letti sul sigillo e sulla sua impronta come un ancestrale
palindromo, un ulteriore significato nascosto si cela tra questi segni. E. Drioton per
primo ha compreso il significato di queste composizioni che celano generalmente lodi
e invocazioni al dio Amon, un giusto omaggio al suo nome che significa “colui che è
nascosto”725. Va notato ad ogni modo, come ha già fatto G. Matthiae Scandone che la
lettura crittografica non è argomento sufficiente per sostenere un origine egiziana degli
oggetti, dal momento che l’artigiano fenicio poteva copiare fedelmente un modello
egizio senza comprenderne il significato.
Il n. 32 può leggersi Amon-Ra (’Imn-R‘) dalla combinazione dei segni ¯ (iniziale

di ¯‘rt “ureo”), m rappresentato dal monolittero civetta, n (primo fonema del bilittero

neb) e dal disco solare che possiamo leggere R‘.


Il n. 68 offre la lettura di un invocazione neb Amon neb (nb ’Imn nb), da
tradurre come “signore Amon signore”, per la lettura invariata dei segni neb, tra i quali
la piuma shw si legge ¯ per analogia con il monolittero “foglia di giunco”, il cartiglio si

legge m (iniziale di mnš “cartiglio reale”) e la seconda piuma si legge n dall’iniziale di


nÓrt, la “dea” Maat che porta sul capo questa piuma come attributo. Sul principio della

specularità del palindromo sono basate le letture proposte per l’esemplare levantino
addotto a confronto: nmImn, ImnmI e non dissimile dalla nostra la lettura Imn nb¯

(Amon due volte signore?)726

725
Cfr. Scandone Matthiae 1975, p. 16, e relativa bibliografia a nota 5.
726
Matouk 1971, p. 56.
- 158 -
Il n. 74 invece sui due registri il nome Amon (’Imn), per la lettura della piuma
alternativamente leggibile ¯ o n per i motivi sopra indicati, tra le quali nel primo

registro la civetta e nel secondo il cartiglio offrono la m727.

4.3.3. SCARABEI IN PIETRA DURA

Gli scarabei in pietra rinvenuti nelle sei tombe sono cinque e realizzati in tre differenti
pietre semipreziose: una pietra bianca e cenere, corniola e diaspro.
Il primo di questi materiali, non identificato e perciò non noto se utilizzato per
la realizzazione di amuleti e quanto diffuso in ambito punico, ci ha offerto lo scarabeo
n. 49 proveniente dalla seconda deposizione della tomba 6 PGM. Il dorso come
consueto presenta schema di tipo V del Newberry, il protorace qui particolarmente
arrotondato e delineato da una fine incisione, un’ulteriore incisione più profonda lo
separa dalle elitre, distinte a loro volta da una linea singola e delineate anch’esse da
una linea più sottile. Le zampe sono sommariamente incise così come la testa: nel
complesso si presenta di fattura ottima, considerate anche le dimensioni ridotte: con i
sui 11,5 mm è il più piccolo della serie.
Alla base presenta un motivo noto come “leone rotolante”, termine coniato da
Sir. John Boardman per giustificare la posizione di un leone rappresentato con zampe
posteriori divaricate e la testa con fauci spalancate rivolta indietro728 in lettura
orizzontale. Il felino è rappresentato sul nostro esemplare retrospiciente a destra, con le
fauci spalancate e la coda rivolta verso il basso, la criniera è resa con sette brevi tratti
incisi sul contorno della testa. Singolare è poi l’occhio disegnato con un ampio cerchio
inciso. Fanno da cornice due ovali concentrici riempite da trattini obliqui dalla
composizione non troppo fine: l’ovale interno è irregolare, inciso intorno all’animale
di modo da ridurre al massimo lo spazio vuoto.
Già il Boardman riteneva questo motivo insolito nel panorama della glittica
greca, in cui compare nella seconda metà del VI secolo, per essere poi ripetuto dagli

727
Cfr. ibidem, p. 19-20, A4, la cui lettura è confermata dal nostro esemplare in migliore stato di conservazione.
728
CPSC, tipo 38 E.
- 159 -
artigiani fenici729. Nelle gemme greche arcaiche una tale postura è più spesso utilizzata
per rappresentazioni di cavalli, paragonata dal Boardman alla “Knielauf ” (corsa in
ginocchio) umana, e ritenuta la convenzione arcaica per la raffigurazione di un
animale in corsa730.
Gli esemplari “fenici” individuati dal Boardman su cui compare questo motivo
sono quattro, di cui tre in diaspro verde e uno in corniola731, ma nessuno sembra
prossimo stilisticamente al nostro. L’espediente della criniera a tratteggio invece trova
riscontro, oltre che nello scarabeo greco, in diversi esemplari che ritraggono il grande
felino in altre posizioni732 o in composizioni nell’atto di azzannare un cervide o un
cinghiale733, rinvenuti per la maggior parte in Sardegna. Questa grande
rappresentatività sarda a nostro parere suggerisce la possibilità di una realizzazione
sull’isola, ma va aggiunto un altro confronto: tra gli scarabei che la documentazione
sulcitana ci fornisce abbiamo individuato uno scarabeo che, non per iconografia, ma
per una serie di motivi si avvicina al nostro e potrebbe essere stato realizzato dalla
stessa mano. Si tratta di uno scarabeo in una pietra cinerognola, di cui abbiamo fatto
cenno sopra, leggermente più piccolo del nostro (11 x 8 x 6 mm) e con un animale
interpretato come un cavallo marino alla base734. L’amuleto, appartenente della
collezione Biggio, è stato datato da E. Acquaro su base stilistica al V-IV secolo735. Le
dimensioni estremamente vicine, e la scelta della taglia piccola, l’identica trattazione
del dorso, la resa approssimativa della cornice alla base e la scelta del motivo animale
su una pietra non comunemente usata nella glittica736, nonché l’abbinamento di stile e
tecnica che produce corpi arrotondati in pose innaturali e piccoli elementi sferici per
tradurre zampe, spalle del leone e muso del cavallo, ci sembrano elementi sufficienti

729
Boardman 1968, p. 128, n. 401, tav. XXIX, scarabeo in agata conservato al Louvre (Bj 1023). Le zampe del
leone sono rappresentate come viste dal basso ed il motivo è descritto qui come “leone che si ispeziona il
sedere”.
730
Ibidem p. 147, nn. 502-505.
731
CPSC, n 38/50 da Ibiza, 38/51-52 da Tharros e 38/X11 dalla Sardegna.
732
Ibidem, nn. 38/26 e 38/28 seduto di profilo, 38/32 nell’atto di azzannare, rinvenuti in Sardegna, e 38/45 da
Agia Irini (Cipro). Tutti in diaspro.
733
Ibidem, nn. 39/31 e 39/33 da Ibiza, 39/36, 39/39, 39/42 da Tharros, 39/X7 da Tharros in corniola. Tutti in
diaspro verde eccetto dove indicato.
734
Come bovide in CPSC, n. 40/19, del tipo 40.B (Bulls, alone).
735
Acquaro 1977a, p. 46 e 49, tav. XXI, n. 7.
736
Insolito, più che il tipo di pietra utilizzata, è il colore. Un esame scientifico degli scarabei tharrensi conservati
al British Museum ha rilevato che non tutte le pietre verdi utilizzate sono diaspro. Caratteristiche compositive
delle gemme non erano note agli antichi, i queli le utilizzavano principalmente per il loro colore e non
coglievano sottili e inutili differenze chimiche.
- 160 -
per il confronto. Non abbiamo conoscenza di altri esemplari che possano rientrare
nella stessa tipologia, ma non è possibile azzardare per questi scarabei l’ipotesi della
produzione locale, verosimile è comunque la loro realizzazione in Sardegna.
L’unico scarabeo in corniola (n. 50) proviene anch’esso dalla tomba 6 PGM,
compreso nel corredo della deposizione 3. Provvisto di montatura in oro a staffa di cui
abbiamo trattato nel capitolo 4.1.3, presenta una resa dorsale estremamente
semplificata, pur rientrando nel tipo V del Newberry. Un linea singola distingue
protorace dalle elitre e le medesime, non fluida e curvilinea come nei migliori
esemplari di questa serie bensì apparentemente affrettata e poco profonda. Le zampe
sono poco rilevate ed uno spesso listello fa da base. Nel complesso appare piuttosto
alto, in linea con la produzione etrusca nello stesso materiale.
Il motivo alla base ci fornisce la figura ellenizzante di un efebo nella tipica
posizione di “corsa in ginocchio” verso destra. Il giovane protende la mano sinistra
verso un oggetto, forse un fiore, legato ad una corda (o un ramo), che tiene con la
mano sinistra dietro la schiena, e che gli passa sopra la testa lungo il contorno interno
della cornice. La postura e la resa anatomica permettono subito di individuare
l’influenza dell’arte greca arcaica e quindi della glittica greca di questo periodo.
Il tipo di motivo rappresentato, atleta in corsa, non è sconosciuto alla glittica
punica che ci ha tramandato diversi esemplari con questo soggetto737, e a quella
greca738, ma un solo esemplare presenta un soggetto identico al nostro, talmente simile
da far ritenere opera dello stesso artigiano. Lo scarabeo in diaspro verde è stato
rinvenuto ad Ibiza ed è conservato al Museo Arqueologico Nacional di Madrid739.
Lievi sono le differenze: più sottile la forma del “fiore” e stretto nella mano del
giovane, mancanti i riccioli davanti e dietro la capigliatura a casco nel pezzo ibicenco.
In sede della sua prima pubblicazione furono apportati confronti che non ci sentiamo
di riproporre740, ma che comportano una datazione intorno all’anno 500 e che
condividiamo.
In diaspro verde sono realizzati tre scarabei (nn. 65-67) provenienti dalla tomba
9 AR, per l’ultimo dei quali l’assenza di indicazioni contestuali precise non permette

737
CPSC, tipo 30 A (Komasts).
738
Cfr. come esempio Boardman 1968, p. 82, n. 214, tav. XIV, in “Dry Style”.
739
Blazquez 1971, p. 319, n. 19, tav. III; Boardman 1984, n. 230.
740
Rimandiamo alla bibliografia in Blazquez 1971, nota 56.
- 161 -
di comprendere a quale deposizione appartenesse, sebbene sia ben verosimile per tutti
una provenienza da tre distinte inumazioni.
Il primo di questa serie (n. 65) presenta una fattura accurata del dorso nel tipico
schema V e dal profilo piatto. Il protorace finemente modellato a giorno e
ulteriormente sottolineato da una sottile incisione ellittica aperta sul lato superiore, e
diviso dalle elitre da un ulteriore linea. Ancora una singola linea, ma più profonda
divide queste ultime. Nel complesso è il migliore della serie.
Raffinata è anche l’incisione del motivo ellenizzante alla base: la figura di un
arciere inginocchiato verso sinistra che esamina la propria freccia. Concorrono ad
impreziosire il motivo l’arco, in secondo piano dietro il ginocchio destro, e l’elmo,
provvisto di cresta e coda, alzato sul capo del guerriero.
Il motivo non è sconosciuto alla glittica punica741 benché nessuno scarabeo
attribuibile a mano sarda o levantina presenti i due elementi sopra menzionati.
Particolarmente fine e inimitabile è la resa della muscolatura delle gambe e del busto,
sebbene quest’ultimo denunci qualche esitazione nella composizione: le spalle sono
rappresentate di 3/4 mentre l’addome di profilo, scelta che conferisce alla schiena
aspetto sproporzionato e asimmetrico. Ma è proprio tale scelta che avvicina il nostro
esemplare al prototipo greco ed è presente su una sola gemma fenicia con figurazione
di arciere rinvenuta ad Atlit742. Il prototipo greco è rappresentato da tre gemme opere
di due diversi maestri incisori Greci che firmavano le loro pietre negli ultimi decenni
del VI secolo: Epimenes e Onesimos. Il primo è sicuramente uno dei più capaci
esponenti della glittica arcaica ed operava intorno al 500; una gemma in calcedonio a
lui attribuita è conservata al Metropolitan Museum di New York e proviene
probabilmente da Naukratis743, questa condivide con il nostro scarabeo la presenza
dell’arco e in parte la posizione della schiena, rappresentata qui completamente di ¾
con l’addome leggermente di profilo ma coerente con la verosimiglianza della postura.
Differisce invece per l’assenza dell’elmo, il braccio in secondo piano è coperto
dall’arciere ad eccezione della mano, e per le cosce ravvicinate e quindi sovrapposte su
due diversi piani. Inoltre l’arco è qui sapientemente inciso come appeso al polso. Tutto

741
CPSC, tipo 28 C (Bowman tests arrow).
742
Ibidem n. 28/X16 in corniola, che differisce tuttavia per l’assenza dell’elmo, di arco e frecce e la posizione
delle gambe: la sola postura in generale suggerisce l’identificazione con un arciere.
743
Boardman 1968, p. 93, n. 248, tav. XVI.
- 162 -
ciò fa pensare all’opera virtuosistica di un abile artista nel copiare un modello non
originale già impresso sull’argilla, o che per dimostrare le proprie capacità capovolge
specularmente l’immagine qui rivolta a destra.
Più conforme al nostro modello è invece lo scarabeo di Onesimos in steatite
verde744: il guerriero ha elmo e gambe divaricate, l’arco è in secondo piano ma non
sembra poggiare sul polso; uniche differenza sono la postura del busto che è qui di
profilo, il che permette di vedere entrambe le braccia nella loro estensione, e l’elmo
provvisto di cresta ma senza coda. L’attività di Onesimos anticipa quella di Epimenes
ed è da porre alla fine del VI secolo, ma per le poche e lievi differenze pensiamo di
trovarci ancora al di qua della prima comparsa di questo motivo, che, se non di tanto,
doveva essere comunque più antica.
Il n. 66 ha dorso di tipo V ma con profilo carenato in corrispondenza del
protorace. Questo appare ben modellato con i fianchi spioventi e svasati in basso, per
quanto la divisione delle parti con una profonda singola linea appaia frettolosa. Ben
visibili qui, unico tra i nostri nove scarabei, sono due profonde incisioni verticali, una
su ogni fianco, che dividono zampe anteriori da quelle posteriori in corrispondenza
della cesura tra protorace e elitre. Elemento presente soprattutto su scarabei greci e di
incerta funzione745.
Alla imperfetta grafia dorsale corrisponde un motivo alla base di scarso livello
qualitativo: entro una cornice lineare un personaggio, apparentemente maschile,
schematicamente inciso in stile egittizzante è inginocchiato verso destra aprendo le
mani in alto tra le quali è un oggetto di difficile comprensione. Lo precede a destra un
ureo e in alto sovrasta la scena un crescente lunare con corna verso l’alto. L’alto
esergo è campito da tratti obliqui incrociati. La tecnica è mediocre e l’uso del trapano
grossolano: usato per creare grandi parti anatomiche come la testa e il bacino
dell’uomo, la testa e il collo del serpente e nell’oggetto tra le mani.
L’iconografia per la sua anonimità è ricca di confronti, tuttavia inutili a
comprendere l’oggetto tra le mani e l’identità del personaggio, sia perché non ci è noto
tra i confronti un oggetto paragonabile, sia perché tanti oggetti su simili iconografie
risultano ancora incomprensibili. È possibile comunque fare alcune ipotesi:

744
Ibidem p. 116-118, n. 346 (v. anche n. 347 senza illustrazione), tav. XXV.
745
Boardman 1968, p. 14-15, fig. 1.
- 163 -
• Oggetto tra le mani: la gamma di oggetti rappresentati tra le mani di personaggi
inginocchiati sugli scarabei noti746 è molto varia, da fiori di loto a udjat, da animali
(scimmie e uccelli) a figure umane sedute (dea Maat) che difficilmente possono
caratterizzare allo stesso modo tutti i personaggi rappresentati in iconografie di
questo tipo. D’altro canto oggetti sferici dal significato oscuro sono frequenti e
vicini, almeno nella resa, al nostro.
• Identità del personaggio inginocchiato: se l’oggetto tra le mani e la mancanza di
attributi sul capo non ci permettono di identificare il personaggio, per lo meno
possiamo notare che uno o due urei sono rappresentati su otto scarabei con
iconografia simile. Cinque di questi hanno come figura un uomo a testa di falco e,
tra questi, quattro con un solo ureo. La testa di falco identifica generalmente nella
mitologia egizia il dio Ra o Horus e non è impossibile che il modello utilizzato per
il nostro scarabeo fosse una raffigurazione di questo dio.
• Identità e funzione dell’ureo: l’ureo compare nella glittica punica come elemento
principale con ali spiegate in atteggiamento di protezione747 e con disco solare sul
capo. In ciò sembra ricoprire la medesima funzione delle divinità femminili Iside e
Nephtys, raffigurate sovente nel medesimo atteggiamento nei confronti di Horus.
In posizione secondaria, oltre ai casi sopramenzionati, accompagna la sfinge
accovacciata senza ali e quella seduta con ali748, per la quale è stata proposta
l’identificazione con il dio levantino Horon e per il quale è noto il sincretismo con
Horus749.
Prescindendo dall’iconografia, che sembra seppur dubitativamente indicare il
personaggio inginocchiato come Horus, il livello tecnico e l’imprecisione qualificativa
di forme e personaggio non consentono di ritenere che si sia trattato di un opera di
prova o di uno scarto. Lo stesso contesto di rinvenimento indicano che l’opera fosse
stata correttamente commercializzata. Inoltre lo stile del presente scarabeo è

746
CPSC, tipo 7 (Kneelers) A (Falcon-headed), B (with other animal heads), C (with human heads). 54 scarabei,
prevalentemente in diaspro verde: 7/1-42, 7/X1-11.
747
CPSC 13 (“uraei”).
748
Ibidem, 14/6, 14/X1-4, 15/25 e segg.
749
Gubel 2002.
- 164 -
genericamente definito a globolo dal Boardman, che ne rileva la origine orientale e la
non necessaria connessione con il più tardo stile della glittica etrusca750.
Il n. 67 in diaspro verde ripropone sul dorso la morfologia del tipo V del
Newberry come i precedenti scarabei dello stesso materiale, ma con una resa grafica
dei contorni. Il dorso, dal profilo carenato, è infatti marginato da una incisione ovale e
diviso tra protorace ed elitre da due linee parallele, il che avvicina il nostro esemplare
alla resa dorsale degli scarabei orientali. Lo stesso si può dire per le zampe che
appaiono disegnate da profonde incisioni più che modellate. La testa sporgente verso
l’alto e il clipeo invece lo riportano alla comune produzione in diaspro, per la forma
arrotondata e incisa da brevi tratti nel margine anteriore.
La raffigurazione a lettura verticale alla base ripropone un tema caro alla glittica
punica di Sardegna: due divinità stanti di cui una femminile, con un ala tesa verso il
basso porge con la mano destra il seno all’altra maschile. Attributi divini di quella
femminile sono il disco solare sul capo e di quella maschile la doppia corona dell’alto
e basso Egitto. La scena è generalmente interpretata come l’allattamento di Iside (Isis
Lactans) al figlio Horus e rappresenterebbe un episodio della mitologia egiziana751
relativa alla triade tebana, in cui Iside dopo essere stata miracolosamente fecondata dal
marito ormai morto e mummificato, cresce il figlio tra le foreste di papiro del delta
egiziano e al riparo dall’ira di Seth, fratello e assassino di suo marito. Il giovane Horus
così cresciuto sarà capace poi di vendicare la morte del padre uccidendo lo zio.
Diversamente dall’ambito fenicio-punico, nel quale come diremo gode di
grande fortuna, in Egitto questo motivo è diffuso su una grande varietà di supporti752,
ma con una scarsa attestazione della presente variante iconografica. Pertanto quella
fenicia sarebbe una variante selezionata tra le tante disponibili nel fecondo corpus
iconografico egiziano. I motivi di questa scelta possono essere ricercati nella origine
levantina di una loro prima diffusione, presupposto necessario alla dispersione in
occidente, sebbene nulla contraddica un contatto diretto con l’Egitto. Le varianti

750
Boardman 2003, p. 10; per alcuni esempi di stile a globolo vicino al nostro v. CPSC, nn. 6/32, 38, 40, 46, 63,
67, 77, 11/17, 49, 15/40, 17/31, 19/19, 39, 42, 27/08, di varia e ignota provenienza, ma per la maggior parte
levantina.
751
La più recente traduzione letteraria di questo episodio è in Plutarco, De Iside et Osiride; accenni ad esso nella
letteratura egiziana sono nei testi delle piramidi (Pyr. 734b, 1375a, 2089a, citt. in Tran Tam Tinh 1973, p. 4) e
nei più tardi testi drammatici della stele Metternich: Bresciani 1999, pp. 498-506.
752
Tran Tam Tinh 1973, pp. 1-9, figg. 1-14.
- 165 -
diffuse in ambito fenicio-punico orientale e occidentale possono essere raggruppate in
tre gruppi fondamentali, tutti noti dalla glittica: Iside e Horus in forma di vacca e
vitello, Iside in forma umana su trono con Horus infante tra le braccia e quello che li
raffigura entrambi stanti, come nel nostro caso. Mentre il primo gruppo è una
trasposizione simbolica chiaramente identificata sulla base dei confronti con analoghe
raffigurazioni egiziane, le altre due, anch’esse non prive di confronti in Egitto,
potrebbero rappresentare due stadi di crescita del dio: neonato prima e fanciullo poi, e
quindi due momenti distinti dello stesso episodio. A questi tre gruppi andrebbe inoltre
aggiunto un quarto che conosce una grandissima serie di varianti: quello che raffigura
come personaggi base la dea con due ali, tese una verso il basso e l’altra verso l’alto,
ad invitare o proteggere il giovane Horus. Le varianti possono andare dall’inclusione
di oggetti, come thymiateria, personaggi spettatori e urei ai lati della scena, alla
duplicazione simmetrica o meno della dea alata dall’altra parte del fanciullo che
occupa il centro. In questo caso viene interpretata come la dea Nephtys, sorella di
Iside, sposa di Seth e partecipe dell’allevamento di Horus. Tra le varianti descritte non
isolata si presenta quella in cui Horus è raffigurato nell’atto della nascita. Tale
iconografia, nota anche singolarmente nella glittica punica, presenta il giovane Horus
seduto su un fiore di loto e ci porta di conseguenza all’episodio iniziale della sua vita.
Emergono così quattro episodi della vita di Horus: nascita, protezione da parte della
madre (e della zia), allattamento e svezzamento. Episodi e iconografie che, come si
diceva in precedenza. non sono sconosciute ad altri supporti artistici fenici e punici: le
coppe in argento dell’orientalizzante, di produzione cipriota e occidentale, presentano
sovente nel tondo centrale scene tratte da questa saga e possono aver contribuito, sin
dalla prima fase della diaspora fenicia, alla diffusione di questi temi e tematiche
iconografiche753.
Tornando al nostro tema particolare, quello dell’allattamento in posizione
stante, abbiamo sottoposto le incisioni classificate sotto questa tipologia754 ad una
selezione accantonando tutte quelle varianti che comprendono elementi secondari che
di fatto nel nostro scarabeo non sono presenti. All’interno di questo nucleo abbiamo

753
Markoe 1985, pp. 43-45, e pp. 87-89, per il rapporto con la glittica “cipro-fenicia”.
754
CPSC, Tipo 11 C (Isis faces Horus, protecting him with a lowered wing, both standing); cfr. anche Hölbl
1986, Motiv VI.2 (Beide Gotthheiten stehen), che include nello stesso motivo le due iconografie in cui Iside è
priva di ali o con un ala sola.
- 166 -
riconosciuto tre ulteriori gruppi: i primi due sono stati individuati in base alla
differente posizione delle braccia della dea e sono attestati in Sardegna, mentre il terzo
a cui afferisce un solo esemplare ibicenco755 presenta una restrizione del campo visivo
limitata alla sola parte superiore delle divinità, inoltre non sono visibili le braccia: l’ala
di Iside inizia dalla spalla e cinge il busto di Horus non lasciando vedere il seno tanto
da poter mettere in dubbio la stessa rappresentazione dell’allattamento. Si tratta in
questo caso di una iconografia che non gode di confronti in Sardegna e porterebbe a
pensare ad una realizzazione concorrenziale locale. I primi due gruppi rappresentano
varianti di ambientazione per lo più sarda, anche se il secondo è costituito da due soli
esemplari di cui uno di provenienza ignota. La variante del primo gruppo è
caratterizzata da una distinzione dell’ala destra della dea dal braccio corrispondente ed
è incisa sul dorso di quattro scarabei sardi contro uno gibilterrano e uno di provenienza
ignota. In questi il braccio è piegato ad angolo leggermente acuto e la mano è portata
alla base o al fianco del seno dal quale Horus beve o ne è di poco distante. La variante
del secondo invece propone un braccio destro teso parallelo e tangente l’ala, e ci
sembra poter leggere dalle immagini che il braccio sinistro, dopo aver cinto il collo di
Horus, ritorna al seno lasciando inalterato l’azione di allattamento. Infine bisogna
notare come in entrambe le varianti l’ala ha inizio nel gluteo della dea e aderente ad
esso.
Da queste osservazioni appare evidente che un motivo come quello che
raffigura una dea dotata di una sola ala, di per se non originario e di certo frutto di
derivazione, dovette essere il risultato di una sperimentazione e di una ricerca:
nell’esigenza di rappresentare una sola ala e disponendo di due modelli, come due
immagini mentali (la dea con doppia ala e quella senza ali che allatta), la
preoccupazione principale dovette essere per l’artigiano quella di gestire il rapporto
con il braccio che sostiene l’ala e quello che porge il seno. La seconda variante
presentava un azione concettualmente comprensibile ma graficamente innaturale, cosa
che unita al fatto che di essa disponiamo solo di due gemme che sembrerebbero per lo
più identiche e perciò contemporanee, indicherebbe la scarsa fortuna goduta da questa
soluzione e il suo rapido abbandono.

755
Boardman 1984, n. 47 (Madrid 36981); CPSC, n. 11/54.
- 167 -
Il nostro n. 67 apparterrebbe al primo gruppo, per la soluzione dell’arto
distaccato dall’ala, e con uno di questi scarabei avrebbe particolari analogie: il n. 11/68
del corpus del Boardman756 che purtroppo ha provenienza ignota ed è conservato al
Victoria & Albert Museum di Londra757. Ne è pubblicato il solo calco ma alcuni
importanti elementi sono pur sempre riconoscibili: la dimensione del seno ed il
piumaggio dell’ala reso con linee parallele radianti ma risparmiate lungo una fascia
nella parte superiore, nonché l’aspetto generale della testa della dea ed il volto non
curato ma reso con alcuni fori di trapano poco profondi. Comuni sono anche il basso
esergo costituito dalla sola linea del piano e la cornice cordonata. Poche le differenze
come la diversa inclinazione dell’ala e l’assenza del flabello come attributo di Horus
nell’esemplare londinese. Inesprimibile con sicurezza il tipo di corona sul capo del
dio: forse doppia sul nostro come sull’altro, almeno per quanto sostiene il
Boardman758.
La tecnica di esecuzione dei due esemplari è la stessa: frequente uso di linee
incise profondamente e uso del trapano tondo (drill holes) per limitate parti del corpo
come il mento di Horus, almeno nel nostro esemplare, il seno e il disco solare della
dea. Nel complesso tuttavia il nostro sembra essere più accurato e preciso, senza che
ciò escluda l’esecuzione dei due scarabei da parte della stessa mano o per lo meno
della stessa officina.
In mancanza di dati cronologici per l’esemplare londinese, come per esemplari
raffiguranti lo stesso tema, non si può cercare conferma cronologica per il nostro
scarabeo ma al più il contrario: fissata una possibile linea evolutiva dei cartoni e degli
intagli possiamo collocare il n. 67 in una posizione che gode di una sicura datazione e
che può contribuire alla datazione degli altri scarabei.
Quanto all’eventuale significato religioso espresso da questo tema iconografico
la dea protagonista del motivo è stata identificata sia con Tanit759 che con Astarte760,
nella prospettiva insomma di considerare l’elemento egizio come aspetto esteriore di
una scena e di una mitologia puramente fenicia.

756
CPSC, n. 11/68.
757
Rings V&AM 1930, n. 10, n.i. 408-1871.
758
CPSC, n. 11/68.
759
Picard 1969.
760
Garbini 1994, pp. 31-43, tavv. II-VI (cap. V, La dea di Tharros).
- 168 -
4.4. VARIA
Entro questa categoria rientrano, per nostra scelta e per necessità di rispettare come
argomento principale di questo lavoro gli athyrmata, quegli oggetti che non soddisfano
pienamente questa denominazione. Appartengono tuttavia alla sfera degli ornamenti
personali due dei tre tipi qui presentati: i bottoni, per i quali proporremo tuttavia
un’altra funzione, e i frammenti d’ocra rossa, mentre strettamente funzionali, e quindi
non ornamentali, le coppiglie e gli altri frammenti di bronzo. A margine va solo
ricordato quanto proposto per il n. 15 che, nel caso non si trattasse di un amuleto,
dovrebbe trovare spazio in questo capitolo.
Gli undici oggetti che compongono il n. 17, hanno forma di calotta emisferica
con un foro alla base, non passante ad eccezione di un solo caso761. Sono tutti in osso e
appartennero verosimilmente ad un solo oggetto o deposizione, sebbene il
rinvenimento in setacciatura non permetta attribuzione alcuna. L’interpretazione
secondo la quale questi oggetti sarebbero stati dei bottoni è quella proposta dagli stessi
scavatori, sebbene a nostro parere non risulti ancora confermata dall’edito, si cercherà
perciò in questa sede di proporre alcuni confronti che possano illuminarci sulla loro
effettiva funzione.
Innanzi tutto occorre notare che, a discapito di quanto si evinca dall’edito, ci
troviamo di fronte ad un tipo di reperto estremamente frequente nelle tombe puniche di
Sardegna. Lo dimostra la grande quantità emersa dall’edizione dei corredi delle tombe
tharrensi conservati al British Museum762, onde per cui anche il Museo Archeologico
Nazionale di Cagliari ne dovrebbe essere provvisto in grande numero, sebbene l’unica
edizione di materiali in osso e avorio conservati in tale museo non ne comprenda
alcuno763. Ma se osserviamo più attentamente il lotto del British Museum764, ciò che
subito sorprende è la quantità di oggetti per tomba all’apparenza costante: in
particolare, se si escludono la tomba 12 e la 20 nelle quali ne è stato rinvenuto uno
solo, questa è compresa tra i 5 esemplari della tomba 30 e i 19 della tomba 24, con una

761
Nostro catalogo n. 17 j.
762
Tharros BM 1987, si sono contati 112 esemplari rinvenuti nei corredi delle tombe 11-13, 19-20, 22-25, 27 e
30.
763
Uberti 1975a, che contiene per scelta editoriale solo materiali inediti di sicura provenienza tharrense.
764
Grafico 3 in Appendice.
- 169 -
media aritmetica di circa 12 per tomba765, numero che si avvicina a quello della tomba
1 PGM BLV. Pensiamo che oltre all’appartenenza alla medesima tipologia anche
questo dato concorra ad indicare per i gruppi di oggetti un medesimo aspetto
funzionale, ma c’è di più. Il grafico 3 in Appendice propone degli insiemi di oggetti
ravvicinati in base alla loro dimensione (in questo caso è stato possibile utilizzare il
solo dato del diametro fornito dall’edizione inglese), per cui si può notare che ogni
gruppo sia costituito da oggetti di diversa misura, ma che all’interno di ognuno dei
gruppi più consistenti si distacchi un sottogruppo dalla più densa concentrazione in cui
i valori dimensionali sono compresi tra gli 11 e i 13 mm di diametro. I 12 mm di
diametro sono infatti la misura che offre più attestazioni all’interno di tutto il lotto, con
ben 40 esemplari su 112, e qui si coglie la seconda analogia con il gruppo sulcitano le
cui dimensioni sono comprese tra gli 11 e i 13 mm766.
Tutto ciò contribuisce ad accentuare il confronto con i nostri esemplari ma non
fornisce dato alcuno in relazione alla funzione di questi oggetti. Tanto meno gli editori
anglosassoni hanno mostrato univocità nella loro definizione che nell’interpretazione
funzionale: vengono utilizzati infatti i termini inlay767, stud768 o semplicemente bone
disc769, dimostrando una diversa attenzione redazionale a seconda della tomba. In certi
casi è risultato difficile distinguere tra l’osso e l’avorio770 dal momento che, come i
nostri, presentano la superficie convessa polita. Caratteristica costante e discriminante
per il riconoscimento tipologico è il foro alla base, che in qualche caso attraversa
l’intera calotta771 come nel nostro 17 j. Se quest’ultima caratteristica può in certi casi
giustificare un’interpretazione come vago di collana772, dovrà ritenersi del tutto casuale
ed in un solo caso ricercata col tentativo di praticare un foro nel verso opposto773.

765
Per l’esattezza 12,2 periodico.
766
Non è possibile cogliere gli effetti cronologici di questa comparazione dal momento che le tombe di Tharros
non godono di una precisa datazione, sia per le modalità di rinvenimento che per l’uso continuato sino ad età
romana degli ipogei. Per quanto caotica la datazione dei corredi ceramici indica che le 11 tombe tharrensi
fossero già in uso durante il V secolo.
767
Cfr. Tharros BM 1987, p. 171, n. 11/36.
768
Cfr. ibidem, p. 195, n. 19/52.
769
Cfr. ib., p. 177, n. 13/38.
770
Ib., p. 199, n. 20/46.
771
Ib., nn. 12/33, 24/42 e 49, 25/31, 33 e 37, 27/39, 30/32.
772
Come per ib., p. 222, n. 27/32.
773
Ib., p. 216, n. 25/37.
- 170 -
La proposta identificazione come pedina da gioco774, non essendo confortata dal
rinvenimento di alcuna tavola ludica, circostanza giustificabile dall’eventuale
materiale deperibile di cui poteva essere costituita, non è accettabile dal momento che
non offre alcuna giustificazione del foro alla base. Le pedine da gioco potevano inoltre
essere accompagnate da uno o due dadi, che servivano a completare la strumentazione
del gioco, mentre nelle tombe tharrensi in esame non ne era conservato alcuno775.
L’interpretazione corrente come bottoni, nel senso di accessori di
abbigliamento, pone invece il problema della nostra effettiva conoscenza di questa
categoria della cultura materiale fenicia e punica. Le fonti iconografiche disponibili
non fanno riferimento alcuno a questo tipo di oggetti776 mentre maggiori informazioni
sono disponibili ancora per il mondo greco ed etrusco, presso il quale erano presenti
sin dalla fine del VI secolo in forme e materiali differenti777. Erano tuttavia utilizzati in
numero ben inferiore allo scopo di chiudere sulle spalle o sotto le ascelle i lembi del
peplo e del chitone ionico. L’evidente disparità numerica e materica impone in questa
sede, seppur a titolo propositivo, la considerazione di una funzione alternativa per i
nostri oggetti.
Nella ricerca dei possibili confronti non è stato possibile ignorare, per l’identità
del materiale, quella classe artigianale diffusa nel Vicino Oriente e considerata
caratteristica dell’arte fenicia. Le pubblicazioni degli avori fenici e siriani, conservati a
loro tempo nei palazzi assiri, ed in particolare dalla stanza 37 del Forte Salmanassar778,
offrono infatti alcuni utili e non sottovalutabili confronti. Quattro elementi presentano
le stesse caratteristiche formali e dimensionali dei nostri e di quelli tharrensi779 ma in

774
Ib., p. 171, n. 11/36. Analoghe calotte, ma non forate, in vetro o pietra erano diffuse nell’Occidente greco ed
etrusco, ma erano in minor numero ed in diverse varietà di colori per servire al gioco: v. ad esempio le tre
calotte in pietra e pasta vitrea rinvenute nella tomba 30 di Castel d’Asso (VT), di metà III – metà II sec., per
le quali è proposta una simile funzione: Barbieri G., (2000). Castel d’Asso (Viterbo). – Recenti rinvenimenti
di scavo nella necropoli. In ANLNS vol. IX-X, serie IX (1998-1999), p. 171, n. 42, non sembra tuttavia che
siano provviste di foro alla base.
775
Alcuni sono noti al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (Uberti 1975a, nn. D41-45, tav. XL) e tre
provengono anche dal tophet di Sulcis: Bartoloni 1973, nn. 82-84. Non si può escludere una tale funzione per
alcuni elementi simili ai nostri ma in vetro e solo in qualche caso forati: Tharros BM 1987, nn. 8/41
(genericamente definito counter = calcolo), 11/34 (boss), 13/31 (inlay), 21/46 (counter), 23/29, 24/30 (forato
e interpretato come whorl = fusaiola), 27/29-30 (in agata e conchiglia, forse castoni di anello), come si può
notare però non ricorrono che raramente più di uno per tomba.
776
V. ad es. San Nicolás Pedraz 1983; San Nicolás Pedraz 1984.
777
Lippolis 1984.
778
Herrmann 1986.
779
Ibidem, p. 258, nn. 1561-1562 (Ø 14 e 13 mm, alt. 9 e 6 mm), 1563-1564 (Ø 31 e 31 mm, alt. 11 e 8 mm),
tav. CDXV, il 1562 inoltre presenta un piccolo foro sulla sommità del lato convesso.
- 171 -
particolare un frammento di gamba di arredo presenta sette dowel holes di cui tre
conservano ancora in situ la testa del perno che nell’immagine appare identica ai nostri
oggetti780. Vista la datazione relativamente alta del lotto di Nimrud (metà IX – VIII
secolo)781, si potrebbe ritenere che la tecnica di utilizzare piccoli perni con teste a
calotta fosse in questo periodo non particolarmente apprezzata quanto lo sarebbe stata
nei secoli successivi in occidente.
Per quanto concerne il resto della Sardegna Monte Sirai ha fornito un lotto
piuttosto consistente di calotte in osso, sebbene il foro alla base di queste si presenti
leggermente più piccolo782, la superficie convessa non si presenti polita e le misure
siano comprese tra i 15 e i 34 mm. di diametro (oltre la media dei nostri e di quelli di
Tharros). I 116 “bottoni” furono rinvenuti nei pressi del sacello urbano, purtroppo
fuori contesto stratigrafico, insieme ad altri frammenti di lastrine in osso, tra le quali il
ben noto “Bes” ed una a forma di palmetta, nonché ad alcune terrecotte votive783. A
detta dello scopritore tutto il lotto proveniva da una ristrettissima area784, che poteva
costituire il residuo di una favissa o altro cumulo di ex-voto, per cui si potrebbe
proporre per tutti gli oggetti una datazione simile, che più recentemente è stata portata
al VII - VI secolo per le due note placchette785. Ma al di là della datazione, più alta dei
nostri oggetti, ciò che dimostra l’interpretazione corrente è il ritrovamento in un
contesto cultuale, nel quale non meglio si spiegherebbe la presenza di complementi di
vestiario, e l’accostamento ad oggetti come le lastrine per le quali non si potrebbe
proporre altro che la funzione di rivestimento per pissidi o altri elementi di arredo.
Altri due contesti inoltre forniscono una nuova conferma alla tesi proposta. La
tomba 59 della necropoli di Tuvixeddu a Cagliari conservava agli occhi dello
scopritore, ancora in buono stato di conservazione, il letto funebre composto da
diverse assi e tavole intarsiate, una di queste in particolare presentava ancora sparsi dei

780
Ib., p. 258, n. 1566, tav. CDXVI, non sono indicate le misure dei singoli “bottoni” ma solo quelle della gamba
(lungh. 256 mm, largh. 35 mm, spess. 5 mm). Non appare pertinente invece il confronto con i dischi in avorio
posti a decorazione del trono e sgabello ∆ della tomba 79 di Salamina in Barnett 1987b, p. 46, i quali non
sono del tipo piano-convesso, ma piani su entrambi i lati, e tanto meno forati: v. Salamis III 1974, p. 92, nn.
125-126, 520-529, tav. LXIV.
781
Ma conservati qui sino al VII secolo: Uberti 1988, p. 412.
782
Monte Sirai II 1965, p. 56, tav. XXX, 2.
783
Ibidem, p. 56.
784
Ib., pp. 52-53.
785
Moscati 1996b, pp. 47-50, fig. 7, tav. IX; per una datazione a VI – V sec. v. Uberti 1988, p. 418.
- 172 -
“bottoncini d’osso”786. A Tharros invece il canonico G. Spano, nella seconda tomba
scavata nel 1850, rinveniva ai piedi di uno dei due inumati (forse una donna) diversi
oggetti tra cui 12 placchette d’avorio intarsiate e traforate e altrettanti bottoni
emisferici787. In entrambi i casi l’accostamento con altri elementi eburnei o di legno, e
nel secondo caso la posizione rispetto al corpo, indicano una funzione diversa da
quella dell’estetica personale.
Da questa serie di confronti ci sembra di poter ritenere, considerando possibili
eventuali smentite o proposte alternative, che le piccole calotte in osso o avorio, così
frequenti nelle sepolture puniche, costituissero borchie o teste di perni in materiale
deperibile788 utili al completamento o assemblaggio di elementi di arredo anch’essi
non conservati, condizione che quindi condividerebbe con la mano in osso (n. 15)
dalla medesima tomba 1 PGM BLV, secondo quanto proposto nel § 4.2.1. La scarsità
delle associazioni di “bottoni” con mani in osso non consente tuttavia di attribuire i
due allo stesso oggetto, ma la possibilità non è comunque da escludere789.

Probabile funzione ornamentale ebbero anche i frammenti di ocra: i due del n. 20,
rinvenuti in fase di setacciatura nella 1 PGM BLV, e quelli del n. 51 ancora all’interno
di un piatto della 6 PGM. Il termine ocra viene solitamente attribuito a tutte le terre
coloranti di colore rosso a base di ferro. La presenza di questo materiale nei contesti
funerari punici790, nel nostro caso allo stato di grumi informi, può essere spiegato con
la necessità di decorare, col colore rosso, le pareti della camera funeraria, il sarcofago
o anche il volto dello stesso defunto. Un recente studio791 ha apportato nuovi dati,
soprattutto sulla composizione chimica di questi reperti, utili in futuro alla conoscenza
dei modi di utilizzo e produzione, nonché dei percorsi di scambio, che non dovette

786
Taramelli 1912, col. 190, in effetti la descrizione risulta ambigua, rendendo plausibile l’idea che i
“bottoncini” fossero scivolati dalle vesti del defunto con la decomposizione e depositatisi sul fondo della
bara. V. anche i 4 rinvenuti insieme ad un dado in pietra nella tomba 91: coll. 199-200, fig. 55.
787
Barnett 1987a, p. 31: vi erano inoltre un flauto terminante a zampa leonina, due orecchini di bronzo (forse
occhielli di coppiglie), un piatto a vernice nera contente una vertebra di pesce, un amuleto in faïence di
cinocefalo seduto ed un altro piatto contenente un cosmetico rosso (minio o cinabro).
788
Per alcuni esemplari tharrensi il perno poteva essere in metallo per le tracce di corrosione o colore verde
rimasti alla base delle calotte: Tharros BM 1987, 19/64-65, 23/35-37, 24/35.
789
Dalla tomba 23 di Tharros infatti proviene una mano in osso e 15 “bottoni”, ma sono 11 quelli compresi tra
gli 11 e i 13 mm. di diametro: ibidem, nn. 23/23 (mano), 23/30-44 (“bottoni”), pp. 209-210, tav. CXIX.
790
Per quanto riguarda Cartagine v. Bénichou-Safar 1982, p. 266.
791
Alatrache 2001.
- 173 -
senz’altro mancare, tanto sulla breve quanto sulla lunga distanza. Su undici campioni
selezionati e provenienti da diversi contesti tombali tunisini di epoca punica, sottoposti
ad analisi microscopiche e spettrografiche, cinque sono risultati essere cinabro, ovvero
una sostanza selezionata e realizzata allo scopo di servire alla cosmesi del defunto,
ridandogli quel colorito sanguigno proprio dei viventi792 o per altri fini pittorici793.
L’ocra, riconosciuta in sei degli undici campioni, è costituita da sostanze mescolate in
una composizione reperibile in natura e pertanto non è che una materia prima, non
soggetta a preparazione alcuna794. La sua presenza in contesti funerari non può
comunque essere casuale e può essere spiegata solo con la necessità di preparare in
loco i coloranti795.

Ancora la tomba 1 PGM BLV ci ha fornito un tipo non insolito di reperto che di sicuro
non possedeva funzione ornamentale. I nn. 18 e 19 sono infatti costituiti da vari
frammenti bronzei, alcuni troppo piccoli e informi per comprenderne la forma
originaria, dato anche l’avanzato stato di ossidazione di tutti gli oggetti. Ciononostante
se gli occhielli (nn. 18 a-c, 19 b-c) dovevano far parte di coppiglie bronzee frequenti
nelle tombe puniche sulcitane e non solo796, gli altri piccoli frammenti potevano
verosimilmente costituire i fili a sezione circolare o circolare appiattita che formavano
le alette di queste coppiglie. La loro presenza nelle tombe a camera di età punica è
spesso associata a resti di sarcofaghi lignei797, per il cui assemblaggio si deduce
fossero destinati798. Più semplice, ma in effetti non alternativa alla prima, è l’ipotesi
che gli occhielli permettessero l’inserzione di maniglie799. La conservazione di
coppiglie e maniglie bronzee ancora in connessione fornisce validità alla

792
Pratica d’altronde tutt’ora comune; più remota la possibilità che venissero tracciati sul volto segni apotropaici
volti a spaventare gli spiriti dell’oltretomba.
793
Ibidem, p. 296.
794
Ib.
795
Sulla funzione delle uova di struzzo come contenitori di questa sostanza v. Savio 2004, p. 115.
796
Che si tratti di coppiglie almeno nel caso del n. 18 c è assicurato dalla conservazione di almeno metà
dell’oggetto, ma non è certo per gli altri quattro occhielli, seppur molto verosimile.
797
Taramelli 1908, p. 155, tratta verosimilmente della tomba 2.
798
Bartoloni 1987a, p. 60, descrive una possibile ricostruzione di questo assemblaggio dedotta dai resti lignei
della tomba 2 AR; Bartoloni 1989, p. 73-74, nota 49, spiega come la presenza delle coppiglie a Sulcis avesse
portato in passato a credere che servissero alla sospensione dal soffitto dei letti funebri (Pesce 1961, p. 160).
799
Bénichou-Safar 1982, p. 251, fig. 127, 4.
- 174 -
ricostruzione800 e la mancanza di queste ultime ha indotto a ritenere che si utilizzassero
più spesso al loro posto delle corde801. La prima possibilità è nella gran parte dei casi
da escludere per la mancanza di maniglie e dal momento che il numero delle maniglie
menzionato per le tombe cartaginesi, quattro per feretro802, presupporrebbe l’utilizzo, e
se possibile la presenza, di due coppiglie per maniglia, per un totale di otto. Se questa
circostanza non può essere verificata nel caso sulcitano per una carenza di
documentazione archeologica (solo cinque provengono dalla tomba 1 PGM BLV803 e
una “palesemente manomessa” era all’interno della tomba 2 AR804) o dell’edito,
ancora una volta sarà necessario dedicare attenzione all’edizione inglese dei corredi
tharrensi conservati al British Museum805. Il catalogo del 1987 comprende un totale di
57 coppiglie, due sole delle quali ancora connesse con una maniglia806, e in numero
compreso tra 1 e 7 esemplari per tomba, ma generalmente in gruppi di due o tre807. Si
nota quindi che non solo sono pochi i casi in cui il numero di esemplari per tomba è
pari, ma oltretutto non viene in nessun caso raggiunto quello di otto. Tenendo conto
della duplice possibile funzione di questi oggetti, quella relativa all’assemblaggio e
all’attacco di strumenti per il trasporto, nonché il mancato riconoscimento di essi
durante lo scavo, si può ritenere che il numero delle coppiglie per feretro non potesse
essere comunque fisso e che come ultima possibilità, menzionata solo genericamente
dalla stessa H. Bénichou-Safar808, le coppiglie potessero essere inserite lungo i fianchi
della bara a distanza irregolare per l’inserzione di funi. Questa spiegazione fornisce di
sicuro la giustificazione del numero variabile delle coppiglie ma non trova tuttavia
pieno conforto in quanto noto, o desumibile dai dati archeologici, del rituale funebre
punico. Le funi avrebbero costituito lo strumento per il trasporto del feretro, ma la

800
Ibidem; ma v. anche: Tharros BM 1987, n. 19/42, tav. CXI, n. 29/33, tav. CXXX; Padró 1980, vol. III, tav.
LXX, 13 (103), da Villaricos; per Sulcis v. Mingazzini 1948b, fig. 2, si notano 6 delle 8 maniglie ancora
provviste di coppiglie appartenenti alla particolare deposizione della tomba 2 scavata dal Puglisi in Via
Belvedere: Puglisi 1942b, p. 109.
801
Bénichou-Safar 1982, p. 251.
802
Ibidem, l’autrice riferisce genericamente l’uso di “cordages”.
803
Nn. 18-19, vari frammenti appartenenti ad almeno 5 coppiglie, come desumibile dal numero dei frammenti di
occhiello preservati; peraltro solo il n. 18 è con sicurezza attribuibile ad una sola deposizione: la n. 2.
804
Bartoloni 1973, p. 62, tav. X, b.
805
Barnett 1987b, p. 44 e segg.; è da notare come i 12 esemplari conservati al Museo Archeologico Nazionale di
Cagliari appartengano alla collezione Cara, autore degli scavi delle tombe i cui corredi furono acquistati dal
British Museum nel 1851: Uberti 1975c, n. F 16, p. 128, tav. LI.
806
V. nota 800.
807
Barnett 1987b, p. 44.
808
Bénichou-Safar 1982, p. 251.
- 175 -
pratica di questa operazione non doveva costituire la norma, per lo meno non sempre
l’ultimo giaciglio del defunto coincideva con il supporto utilizzato per il trasporto
all’interno della sepoltura: ciò è evidente nel caso dei sarcofagi litici e di un tipo di
sarcofago riscontrato per ora solo nel Nord Africa, sprovvisto del fondo e che ricopriva
il cadavere come una sorta di campana809. Inoltre in alcuni casi la ridotta larghezza del
portello di ingresso in certi casi difficilmente poteva consentire il transito del feretro:
in quello della tomba 2 AR infatti P. Bartoloni misurava un sarcofago di 90 cm di
larghezza e un ingresso di appena 65 cm810. Per quanto si possa dubitare della misura
del feretro, effettuata in avanzato stato di disfacimento del legno, quella dell’ingresso
rende difficile il passaggio di una stessa persona. In generale tuttavia la larghezza dei
varchi non doveva essere fissa e tanto meno quella dei feretri811, come dimostrato dalla
tomba 12 AR il cui portello era largo ben 90 cm812, e poteva ben consentire il
passaggio di letti o sarcofagi anche di poco più stretti. Ogni caso va quindi valutato
come unico senza escludere un eventuale altra funzione per le coppiglie, come
potrebbe il caso della tomba 2 AR: rinvenuta distante dal sarcofago, in una nicchia
laterale813, e divelta dal suo luogo originario poteva anche essere appartenuta ad un
cofanetto.
Una ricostruzione del rito funebre in uso nella necropoli punica di Sulcis è stata
avanzata ancora da P. Bartoloni in tempi relativamente recenti814. L’autore nota
innanzi tutto come il corpo del defunto disteso sopra il letto funebre non potesse essere
portato lungo la scalinata del dromos per l’eccessiva ristrettezza nel suo tratto iniziale,
ma dovesse essere calato dall’alto del piano di campagna nel pianerottolo antistante il
portello di ingresso. In questo modo le coppiglie erano indispensabili per
l’alloggiamento e lo scorrimento delle funi815. In qualche modo la barella era poi
introdotta all’interno della camera sepolcrale e qui se vi fosse stata l’esigenza poteva
essere assemblato il sarcofago con la medesima, anche riciclando le coppiglie, le cui
alette potevano essere ripiegate a mani nude.

809
Cintas 1970, vol. 2, p. 377; Bénichou-Safar 1982, p. 252.
810
Bartoloni 1987a, p. 60.
811
Bénichou-Safar 1982, p. 250, riporta le misure fornite da A.L. Delattre di una testata di bara larga appena 39
cm, il che la porta a valutare al più come pertinente ad un inumato infantile.
812
Tronchetti 2002, p. 143, tavv. II-III.
813
Bartoloni 1987a, p. 62.
814
Bartoloni 1995, p. 8 e segg.
815
A questo scopo erano funzionali anche le eventuali maniglie: ibidem, p. 8, fig. 1, B.
- 176 -
5. ASPETTI DI USO, PRODUZIONE E SCAMBIO
Terminata l’analisi dei materiali inediti tenteremo ora di fornire un’immagine del
contesto a cui questi appartenevano. L’indagine sarà ora condotta seguendo i tre ambiti
disciplinari della storia della cultura materiale: i tre aspetti dell’uso, della produzione e
dello scambio816, fortemente interrelati tra loro.

5.1. USO
Definire l’ambito di utilizzo di gioielli e amuleti significa tentare di comprendere le
motivazioni principali e secondarie che portavano gli antichi fruitori ad indossarli,
muovendoci in questo caso tra le due possibilità del fine pratico, estetico e di quello
simbolico o magico-religioso. Sarà inoltre necessario ritornare alla distinzione
arbitraria già utilizzata tra le tre categorie di gioielli, amuleti e scarabei perché gli studi
precedenti non hanno potuto prescindere da questa suddivisione nella comprensione
degli aspetti funzionali.

5.1.1. GIOIELLI

Per quanto concerne i gioielli una funzione che andasse al di là dell’aspetto estetico
non è mai stata messa in dubbio, seppur quasi sempre sottaciuta. Nelle società
caratterizzate da un minor grado di complessità rispetto alla nostra, e tra queste quelle
antiche, la scelta di indossare gioielli non era dettata dalla sola esigenza di “apparire”,
ma anche da necessità di ordine simbolico. Alle caratteristiche estetiche, iconografiche
e materiche insieme, degli oggetti preziosi erano attribuite credenze proprie di un
popolo, di una società articolata nelle sue classi e di un determinato periodo della sua
storia.
Gli stessi termini moderni utilizzati per questa classe di materiali (gioielli,
bijoux e jewels) mostrano una derivazione dal latino iocalia, che traduce pienamente il
greco athyrmata col significato di “trastulli”, “giocattoli”, “ornamenti”. E già nelle
fonti relative alle civiltà classiche si coglie l’afferenza di questi oggetti alla sfera
simbolica ed il passaggio da elemento di significazione molteplice ad oggetto

816
Francovich, Manacorda 2000, pp. 99-104, voce “Cultura Materiale”.
- 177 -
puramente decorativo817. Tale processo appare giunto alla sua compiutezza già nella
prima età imperiale, secondo quanto si evince dalle testimonianze di Plinio818 e
Macrobio819. Ma per quanto meglio riguarda il periodo in esame e la civiltà fenicio-
punica la scarsità e la qualità dei testi scritti relativi a quest’ultima ci è di poco aiuto. Il
glossario desumibile dai testi dell’Antico Testamento, spesso portato a supporto della
lacuna letteraria fenicia, presenta due termini principali per designare gli ornamenti:
‘ădî, traducibile con “oggetto da indossare” e kĕlî zāhāb o kesep che significano
“oggetto realizzato in metallo prezioso”820. Meno in generale i termini usati per ogni
singolo tipo di oggetto tendono a ridurlo alle sue specifiche caratteristiche materiche,
formali, di realizzazione, di funzione, di valore o di simbolismo821, e tra queste non
irrilevante dovette essere quella pertinente alla sfera religiosa e sacrale822.
L’aspetto materico impone ed ha imposto negli studi tipologici un ulteriore
distinzione in seno a questa categoria di athyrmata: gioielli in metallo e in materiale
non metallico. Se i metalli preziosi possono essere, e difatti lo erano, indicatori di uno
status sociale elevato non di meno erano attribuiti loro valori in virtù delle loro
proprietà chimiche o fisiche. Così da sempre l’oro è simbolo dell’incorruttibilità e
della purezza, al pari dell’argento che si presenta bianco nel suo stato naturale. Per gli
stessi motivi i due metalli possono trovarsi uniti in una lega, l’elettro, che conferiva
all’oggetto le due diverse caratteristiche823, o nella tecnica della placcatura, per cui
solo l’aspetto del metallo più nobile sarebbe risaltato. Inoltre quei gioielli che si
univano in maniera “forte” al corpo, tramite foratura del lobo o del naso, dovevano
possedere un altrettanto forte significato che ne giustificasse le motivazioni per cui
erano portati. Così ecco presentarsi l’aspetto rituale del gioiello: in tutte le culture,
anche le più complesse, i riti che segnano i passaggi da uno stato ad un altro (età,
condizione sociale, etc.) per rendere riconoscibile a tutti l’avvenuto passaggio possono
prescrivere l’uso di segni tra i quali rientrano tatuaggi e gioielli. Se per questi ultimi ci

817
Guaitoli 1997, p. 22.
818
Plinio Naturalis Historia, XXXIII, 8-41, sull’origine degli anelli e sul passaggio dalla destinazione funzionale
a quella di qualificazione dello sfarzo e del lusso, cit. in Guaitoli 1997, p. 22,.
819
Macrobio Saturnalia, VII, 13, 11-13, in cui si riporta per voce di Cecina Albino un frammento del giurista
Ateio Capitone, console nel 5 d.C., di argomento analogo al succitato passo di Plinio, cit. in Sfameni
Gasparro 2003, p. 20.
820
Bénichou-Safar 1996, p. 525.
821
Ibidem.
822
Ib., p. 23.
823
È forse il caso del pendente n. 9.
- 178 -
sono in qualche modo utili ed indicative le circostanze del rinvenimento archeologico,
la insufficiente nozione dei primi824 è di scarso aiuto nel tentativo di ricostruire le
modalità e le circostanze in cui questi riti potevano occorrere. La morte è senz’altro un
momento contrassegnato in tutte le culture dal rito e l’archeologia ce ne da l’evidenza,
nella provenienza quasi esclusivamente funeraria dei gioielli. La destinazione
esclusivamente funeraria degli ornamenti è un argomento che per essere formulato
dovrà tener conto anche delle caratteristiche degli altri tipi di oggetti, come amuleti e
scarabei, per i quali si rinvia alle pagine successive. Tuttavia nel 1994 G. Garbini in un
contributo dedicato all’escatologia funeraria dei fenici d’Occidente825, dopo aver
lamentato l’insufficienza dell’analisi storico-religiosa sino a quel momento condotta
sugli oggetti di ornamento fenicio-punici826, proponeva una destinazione “quasi”
esclusivamente funeraria in relazione ai gioielli827. L’analisi del Garbini era fondata
sul riconoscimento di alcune iscrizioni, su gioielli e non solo, che permettono di
riconoscere l’accettazione da parte dei cartaginesi, e così anche dei territori coloniali
da loro controllati, di credenze escatologiche di origine egiziana. I due gioielli da
questi analizzati erano costituiti da laminetta d’argento arrotolata entro un astuccio
rinvenuto in una tomba non identificata di Tharros e di un anello in oro con castone
circolare appartenente ad una collezione privata. Il primo oggetto828 appartiene ad una
tipologia ben nota nel mondo fenicio e punico829 e riportava, oltre all’iscrizione
fenicia830, secondo una prassi usuale su questo tipo di lamine un corteo di divinità
egiziane noti come “decani”. La recezione di queste figure e del loro significato da
parte dei fenici d’Occidente è stata recentemente analizzata da R. Ben Guiza831 che ha
riconosciuto la funzione di protezione per i vivi dai pericoli provocati dalla dea

824
Faccenna 1996.
825
Garbini 1994, pp. 83-118 (cap. XI: Iscrizioni funerarie ed escatologia).
826
Ibidem, p. 107.
827
Ib., p. 108.
828
Ib., pp. 93-96; Garbini 1982, pp. 462-463; per la bibliografia completa v. Ben Guiza 2005, pp. 65-66 (argent-
I).
829
Si v. da ultima Quillard 1987, pp. 86-110.
830
Se ne riporta qui la traduzione: “proteggi ‘bd’ figlio di Šmšy davanti ai possessori della bilancia”: Garbini
1994, p. 95.
831
Ben Guiza 2005.

- 179 -
Sekhmet832. La destinazione “terrena” di questa tipologia di materiali è assicurata
inoltre dalla presenza di tracce di usura sulla superficie degli astucci833.
L’anello esaminato dallo studioso834 presenta invece nella metà superiore del
castone l’iscrizione tzk lr‘ ’yt tb šl (“illuminerai a Ra la sua venuta”835) ed in quella
inferiore una nave. L’iscrizione unitamente alla nave raffigurata sembrano tradire
un’elaborazione fenicia del culto solare e del pensiero escatologico egiziano836, inoltre
sul presente oggetto il Garbini notava la mancanza di tracce di uso a riprova di una
destinazione funeraria della categoria. L’anello tuttavia pone alcuni problemi già in
parte sollevati dalla Pisano allo scopo di metterne in dubbio l’autenticità837: per quanto
l’iscrizione assegni una datazione al 650-550 a.C., la tipologia dell’anello impone una
cronologia ben più tarda, da porre forse entro la prima metà del IV secolo838. L’oggetto
pare infatti composto di due parti distinte: il tondo su cui è l’iscrizione sarebbe stato
inserito successivamente nel castone dell’anello, la cui paternità della stessa oreficeria
punica è messa in dubbio dalla Pisano839, e potrebbe spiegare l’assenza di tracce
d’usura.
Queste considerazioni rendono pertanto molto debole un tentativo di ascrivere i
gioielli fenicio-punici alla sola sfera funeraria, quand’anche una seppur inferiore
presenza nei santuari sarebbe contraddittoria840, tentativo che costituirebbe un
completo rifiuto del significato “terreno” e della funzione decorativa che non può
comunque esser messa in dubbio per questi oggetti.
Peraltro durante la vita dovevano essere numerose le occasioni e le festività in
cui potesse esser prescritto l’uso di gioielli. H. Bénichou-Safar ha proposto, sulla base
di una personale lettura delle fonti bibliche e delle iscrizioni puniche, di individuare
nel tophet il luogo in cui il cittadino, o l’aspirante tale, si sarebbe “sottoposto al giogo”

832
Ibidem, p. 63.
833
Ib., p. 58; Quillard 1987, p. 103.
834
Garbini 1983, pp. 95-99; Garbini 1989; Garbini 1994, pp. 96-105, tav. VIII.
835
Ibidem, p. 101.
836
Ib., pp. 104-105.
837
Pisano 1995d, pp. 58-60, tav. VII
838
Pisano 1974, nn. 122-123 in argento e oro, 124 in oro (anelli tipo III b, con motivo della palmetta in
filigrana), v. anche p. 54 in cui menziona l’unico confronto datato in bronzo della I metà del IV sec. da
Ampurias; il tipo è attestato anche a Sulcis da un anello in oro che presenta sul castone una rosetta a otto
petali e intarsi in pasta vitrea: v. § 2.1.1; Bernardini 1991, tav. V, 1.
839
Pisano 1995d, p. 60.
840
Garbini 1994, p. 108, la quale attestazione giustifica il “quasi” nel testo: v. supra.
- 180 -
della divinità841. Questo atto di profonda sottomissione sarebbe stato sancito
dall’indossare un giogo simbolico, come un gioiello: una collana, un orecchino o un
nezem842. In seguito a quanto detto a proposito degli orecchini ad estremità avvolte a
spirale843 e della modalità di inserzione nel lobo (o nel naso), pensiamo di poter
proporre questi come possibili protagonisti di questa cerimonia. La tesi dell’autrice, è
necessario notare, non ha goduto di particolare fortuna in ambito accademico, e il tema
dei riti praticati nei tophet è da tempo vexata questio dell’archeologia fenicio-
punica844, motivo per cui discutiamo qui il tema solo a scopo di completezza senza
prendere posizione in merito.
Tra i gioielli in materiale non metallico i vaghi in pasta vitrea con decorazione
“a occhi”, ottenuta dalla inserzione a strati di gocce di vetro di diverso colore,
possedevano un presunto valore apotropaico845. Il motivo dell’occhio è una costante
che ricorre nella cultura materiale di numerose civiltà846 e trova giustificazione nella
credenza che il potere dello sguardo di determinate divinità, forze ultraterrene o
comuni mortali (malocchio), potesse essere dannoso e che a questo potessero fare da
deterrente uno o più occhi sostitutivi847. Quali fossero i principali destinatari di tale
tipo di protezione non è possibile stabilire sulla base della documentazione sulcitana:
la maggior parte proviene infatti dalla necropoli punica e sembra così indicare una
prevalente componente di età adulta, d’altro canto lo stato di conservazione dei vaghi
rinvenuti nel tophet, e destinati a fruitori di età infantile, non consente spesso una
corretta identificazione. Peraltro la documentazione di Ibiza, seppur parzialmente
analizzata in maniera scientifica, indica come non esistesse una “marcada división a
nivel simbólico entre adultos y niños a pesar de la mayor riqueza aparente de los
ajuares de los primeros”848.

841
Bénichou-Safar 1993.
842
Bénichou-Safar 1996, in particolare pp. 530-531; e contestualizzazione nell’ambito del tophet: Bénichou-
Safar 2004, p. 54, nota 279.
843
NN. 35-36.
844
V. Bernardini 2006 come ultimo contributo edito al riguardo.
845
Ruano Ruiz 1996, pp. 79-81, relativamente alla situazione iberica in cui si riscontra una maggiore presenza
nelle sepolture infantili di età punica.
846
Vàzquez Hoys 2000, § 1.2; sul valore apotropaico dell’occhio di Horus (udjat) v. più avanti.
847
Ruano Ruiz 1996, p. 80.
848
Gomez Bellard C., Gomez Bellard F., (1989). Enterramientos infantiles en la Ibiza fenicio-púnica. In
Cuadernos de Prehistoria y Arqueologia Castellonenses vol. 14, pp. 211-239, p. 230, cit. in ibidem, p. 79.
- 181 -
Sull’aspetto funzionale di alcuni gioielli illuminano il n. 3 del catalogo (da
integrare probabilmente con il n. 4) e quello rinvenuto nella tomba 11 AR (n. 77), i
quali testimonia l’uso di anelli “sigillari”. Per le loro dimensioni però difficilmente
potevano essere portati al dito, più facilmente invece al collo dimostrandosi così del
tutto analoghi agli scarabei, sui quali ritorneremo più avanti. Sarà solo doveroso
ricordare che nella glittica, così come sugli anelli, siano quasi sempre solo raffigurate
scene o iconografie, egittizzanti o greche, mentre siano ben più rare iscrizioni in
caratteri fenici: proporzionalmente queste sembrano essere più numerose sugli anelli,
si citano qui i due esempi sardi di un anello dalla tomba 26 di Nora849 e di quello
rinvenuto nel 1862 da A. Roych in località Villaperuccio (forse l’insediamento fenicio
di Pani Loriga)850.

5.1.2. AMULETI

Ulteriori e più numerosi spunti di discussione sono forniti invece dalla categoria degli
amuleti, sebbene in mancanza di fonti scritte il discorso rimanga per lo più ipotetico.
Partendo dall’etimologia si nota come il termine amuletum compaia per la prima volta
in Plinio851 derivato da una radice semitica ancora presente nell’arabo moderno
hamulet, usato per designare genericamente qualcosa “che viene indossato”852. Già il
Petrie proponeva di attribuire ai fenici, per il tramite di Cartagine, la diffusione del
termine in Occidente853, il quale avrebbe verosimilmente accompagnato gli oggetti che
designava.
In un ottica macroscopica le opinioni degli studiosi nei riguardi di questa
categoria artigianale si limitano nel riconoscere una più o meno forte valenza
magica854 se non addirittura a postulare un “somero conocimiento del valor
profiláctico de la imagen o el símbolo”855. Ma questa generale afferenza alla sfera
magico-religiosa non può che essere subordinata alla funzione di ogni singola
tipologia e iconografia. Se infatti gli amuleti egiziani ed egittizzanti rivelano la

849
Guzzo Amadasi 1967, sard. 33, p. 112, tav. XLIII; Chiera 1978, p. 76-77, tav. V, 3 (nome: ’zb‘l )
850
Guzzo Amadasi 1967, sard. 11, p. 93, fig. 13; Garbini 1983, pp. 461-462 (nome: Bst’drt ).
851
Plinio Naturalis Historia, XXIX,4.
852
Per primo Petrie 1914, p. 1; da ultima Martini 2004, p. 15.
853
Petrie 1914, p. 1, in cui giustifica la deduzione sostenendo come questi fossero “l’unica fonte di termini
semitici nei mari occidentali prima del periodo romano”.
854
Scandone Matthiae 1988, p. 22.
855
Marin Ceballos 1998.
- 182 -
diffusione di credenze magiche egiziane nel mondo punico, quelli legati invece alla
tradizione figurativa punica sono rivelatori di credenze autonome e proprie di tale
cultura. La fortuna della magia egizia in ambito punico è dovuta al fascino che questa
civiltà suscitò e suscita nel corso del tempo, e giustificabile, come spiega
esemplarmente S. Ribichini, con la frequente provenienza “estera” della magia in
numerose civiltà antiche e moderne856. In un tale assunto riteniamo tuttavia risieda un
duplice difetto: oltre al fatto di generalizzare in merito ad una categoria che conosce
una duplice articolazione di tipo tipologico-iconografico e di tipo spazio-temporale, ha
scoraggiato a lungo l’analisi particolareggiata delle valenze che sottostavano ad ogni
singolo tipo, simbolo o divinità rappresentata. È doveroso partire in questa analisi dalle
valenze che caratterizzano il singolo tipo nell’ambito di provenienza, tenendo conto di
differenti ambientazioni di classe sociale, età e sesso; considerare inoltre eventuali
contesti di transizione e infine quelli di destinazione857: in ambito occidentale, vista la
carenza di fonti scritte, i dati disponibili sono di tipo archeologico e prevalentemente
funerario. Ci troviamo quindi di fronte ad un vero e proprio fenomeno di
acculturazione858 particolarmente articolato, che probabilmente non raggiungeva le
sole classi privilegiate, ma anche strati più umili della popolazione. È perciò plausibile
che a differente livello sociale del fruitore corrispondesse una equivalente
consapevolezza delle caratteristiche dell’amuleto: una profonda conoscenza delle
formule profilattiche egiziane è riconoscibile negli astucci porta-amuleti e in
particolare nelle lamine di oro e argento che essi contenevano. Queste infatti
presentano iscrizioni in lingua punica che rispettano formulari egiziani, il che
presuppone un contatto diretto con la cultura egiziana e un’intima conoscenza delle
sue credenze859. Tali manufatti sono tuttavia realizzati in metallo prezioso, tale da
renderne possibile l’accesso ai soli personaggi abbienti860. I tipi di amuleti in materiali

856
Ribichini 1976, p. 150. Per la presenza di pratiche magiche in ambito punico v. anche: Ribichini 1987b. Per la
definizione di “magia” v.: Ribichini 1998; Brelich 1976.
857
De Salvia 1978, p. 1015, nota 24, in cui l’autore distingue il processo di questa particolare acculturazione in
una dinamica orizzontale o geografica e in una verticale o cronologica.
858
Per una definizione del concetto di “acculturazione” v. Signorini 1992, pp. 58-61.
859
Ribichini 1987b, p. 36; per la tipologia degli astucci porta-amuleto v. Quillard 1987, pp. 1-11, 86-110; per la
destinazione funeraria di questi come di altri tipi di gioielli v. supra; per le tracce di contatti diretti tra
cartaginese ed egiziani fornite dall’epigrafia v. più avanti § 5.3.
860
Ben Guiza 2005, p. 58.
- 183 -
meno pregiati, e disponibili anche nella versione aurea861, erano altresì portati dagli
stessi ma accessibili a più strati della popolazione. Sebbene questi amuleti siano per lo
più “muti” non mancano tuttavia iscrizioni alla base che oltre ad indicarne il generale
ambito di provenienza, quando redatte in geroglifici egiziani, gettano luce sulla
funzione stessa dell’amuleto862 e sull’acquisizione diretta dalla fonte egiziana della
credenza a quella funzione correlata. Iscrizioni presenti su importazioni egiziane, così
come su prodotti occidentali, riportano brevi formule augurali e nomi, sia regali che
privati, a testimonianza della conoscenza del valore benaugurale ad essi attribuito in
Egitto. Non mancano poi geroglifici riportati in maniera apparentemente acritica,
indiziari di una produzione extraegiziana, come nel n. 31 del nostro catalogo il cui
significato magico era garantito dal solo essere geroglifici, e la loro associazione,
frutto di una giustapposizione, non trova confronti nella lingua egiziana. Ad un terzo
livello, inteso in senso concettuale ma con una probabile corrispondenza cronologica,
sono da attribuire gli amuleti in cui gli attributi, iconografici e geroglifici, sono oggetto
di schematizzazione o sono resi in maniera geometrica. Ad essi si può attribuire una
deriva del significato intrinseco originario: nei nostri pateci ad esempio la perdita degli
attributi panteistici è la spia di un allontanamento dal pieno valore originario della
divinità863; ne fa da corollario la progressiva sostituzione delle iscrizioni geroglifiche
con motivi geometrici864 e occasionalmente qualche iscrizione in lingua fenicia865.
Un merito si deve riconoscere invece all’autrice di recenti pubblicazioni, che
nello studio di amuleti e gioielli rinvenuti nelle recenti indagini a Monte Sirai866 e di
quelli appartenenti ad una collezione sulcitana, ha focalizzato l’attenzione sulle
caratteristiche sensibili dell’ultimo fruitore di ogni singola tipologia, individuando
quelle maggiormente funzionali alla sfera infantile e femminile. Si illumina quindi un
aspetto importante e non scontato dell’uso di questa categoria: principali destinatari di

861
Per un esemplare in oro di pateco da Cadice v. per primo Marin Ceballos 1976; un altro cartaginese in
Quillard 1978; un pateco in avorio con appiccagnolo in oro in Vercoutter 1945, p. 294, n. 822, tav. XXII.
862
Conti 2000a.
863
Di diversa opinione è E. Acquaro (Acquaro 1984, p. 115) il quale ritiene che l’evoluzione figurativa trovi
“corrette ipotesi interpretative […] (in) una fenomenologia esclusivamente figurativa”. All’artigiano insomma
al termine di questo processo sarebbero bastate poche incisioni per richiamare l’iconografia originaria, che
non sarebbe andata persa nella mente del fruitore.
864
Conti 2000a.
865
Ibidem, p. 25-26; più attinenti il n. 64 del nostro catalogo e l’amuleto tharrense pubblicato dallo Spano in
BAS, anno II (1856), pp. 72-74; v. inoltre § 4.2.4.
866
Martini 2000.
- 184 -
protezione dovevano essere quelle categorie di individui maggiormente soggetti a
pericoli come la mortalità infantile e quella per parto. L’associazione di amuleti e
gioielli, di cui abbiamo ricordato il valore profilattico, a sepolture infantili e femminili,
quando riconosciute come tali, parla chiaramente. Il fenomeno è documentato in
Sardegna867, in Spagna e a Cartagine868 sia in epoca arcaica che pienamente punica,
per quanto riguarda le sepolture infantili. La frequenza di athyrmata nel tophet
conferma questo status anche a Sulcis, ma la mancata conservazione dei resti ossei
nelle sepolture di individui adulti nella necropoli non consente di verificare la
destinazione ad individui di sesso femminile.
Ne risulta quindi un panorama che conosce una forte articolazione, la quale per
la maggior parte può essere solo presupposta. A questo problema di definizione dei
destinatari si aggiunga inoltre l’opinione di alcuni studiosi che interpretano le divinità
rappresentate dagli amuleti, o da alcuni di loro, come oggetto di culto o venerazione,
ma con atteggiamenti leggermente diversi:
• Alcune divinità egizie come Iside, Osiride, Horus, Bastet869, Apis e Ptah, sarebbero
state oggetto di un culto “individuale”, popolare o elitario, loro tributato870,
testimoniato dall’onomastica: i nomi teofori di divinità egiziane che attualmente
risultano generalmente diffusi solo nel Levante e a Cartagine871.
• L’ingresso di divinità egiziane a livello ufficiale nel pantheon fenicio-punico si
spiega con il carattere eclettico di questa religione, sebbene attenda ancora di
essere dimostrata la venerazione di divinità egiziane tout court in piena epoca
classica872.

867
Taramelli 1912, coll. 150-154.
868
Padró I Parcerisa J., (1981). Las divinidades egipcias en la Hispania Romana y sus precedentes. In AA.VV.,
(1981). La religión romana en Hispania. Madrid, p. 341-343, cit. in Martini 2000, p. 130, nota 28.
869
Nella presente ottica potrebbe essere considerata la diffusione levantina tra amuleti e avori dell’iconografia
della sfinge con testa umana. E. Gubel ne attribuisce la propagazione ai fenici impegnati nella costruzione del
tempio di Bastet a Bubastis nel Delta egiziano, o comunque alla loro attività in questa regione: Gubel 1998,
pp. 638, 644, per un esempio tra gli amuleti v. fig. 5.
870
Ribichini 1975, p. 13,
871
Per il Levante: ibidem; Lamaire 1984; per Cartagine: Halff 1965, p. 74; per la Sardegna si cita il nome teoforo
(Bst’drt = “Bastet è potente”) inciso sul castone di un anello aureo proveniente da Villaperuccio (sic = Pani
Loriga?) e ormai perduto: v. Garbini 1983, pp. 461-462; Guzzo Amadasi 1967, Sard. 11, p. 93, fig. 13; cfr.
nota 850.
872
È eloquente l’interpretazione del dio Sid (= Djed) venerato ad Antas proposta da Lipinski 1995, pp. 332-350,
e la critica mossa in Minunno 2005, p. 276, nota 76. Per le altre divinità egizie v. Lipinski 1995, pp. 319 e
segg. Più contenuta l’opinione di J. Padrò (Padrò 1999), che ammette per gli oggetti di adorno una
giustificazione di “carattere magico o religioso” (p. 95) e si limita a riscontrare la continuità di presenza di
alcune divinità in epoca romana-ellenistica come Bes, Amon (= Giove), e gli dei del ciclo di Osiride (p. 96).
- 185 -
• Le iconografie egiziane rivelerebbero solamente l’aspetto esteriore di divinità
propriamente fenicie: un caso è quello di Iside/Astarte e forse quello del giovane
Horus873. L’Egitto insomma avrebbe messo “a disposizione le proprie iconografie
religiose”874.
Le tre opinioni proposte da eminenti autori sono rivelatrici di atteggiamenti
differenti nei confronti del rapporto tra la religione egizia e quella fenicia, in cui
potrebbe avere parte questa categoria artigianale, atteggiamenti che possono avere la
loro ragion d’essere se applicati a tipi, iconografie e situazioni o ambiti culturali
distinti. In questo momento più che mai è auspicabile un’analisi che verifichi le
caratteristiche di ogni singolo tipo amuletico, come abbiamo denunciato più sopra. In
questo lavoro tuttavia non è previsto un tale approfondimento, sarà invece data
attenzione ai tre tipi amuletici maggiormente rappresentati nel mondo punico,
sulcitano e delle ultime tombe scavate dello stesso centro: l’occhio udjat, lo Ptah-
pateco e il serpente ureo, nello specifico interesse di individuare un’eventuale funzione
funeraria per questi tipi.
L’udjat è uno dei simboli più noti dell’antico Egitto e la particolare frequenza
con cui incorre tra gli amuleti, e non solo, fenicio-punici ha senz’altro contribuito alla
sua fortuna e diffusione. Il significato del termine udjat (o wd3t) è quello di “occhio
sano di Horus”875: secondo il mito egiziano infatti durante la lotta con Seth, Horus
avrebbe perso l’occhio sinistro, miracolosamente salvato e “riempito” da Thot, dio
della luna876. Il carattere solare del dio Horus nella sua forma più antica è coerente con
una prima valenza magica dell’amuleto in funzione dei vivi: l’amuleto donava forza,
vigore fisico, buona salute, etc. al suo portatore, così come il sole, nell’immaginario
egiziano, forniva forza motrice al falco, animale del quale il dio Horus prendeva le
sembianze877.
In una versione più recente il mito vedeva Horus figlio di Osiride, dio dei morti,
vendicare la morte del padre nella consueta lotta contro Seth. L’aiuto del dio nei
confronti del padre, in coincidenza con la diffusione dell’osirizzazione a partire dal

873
Hölbl 2004, p. 78.
874
Ibidem.
875
Verga 1981, p. 23, nota 2.
876
Ibidem, p. 15.
877
Ib., pp. 15-16.
- 186 -
Medio Regno, processo evolutivo religioso per quale il defunto si identificava con il
dio Osiride, avrebbe contribuito all’emergere della funzione funeraria dell’amuleto e
del simbolo rappresentato. Da questo momento il morto riponeva in esso le proprie
speranze per l’ascesa al mondo ultraterreno, a tal scopo il “Libro dei morti” al capitolo
CXL prescrive la realizzazione di un amuleto in lapislazzuli e oro, e di un secondo in
corniola. Al primo dovevano essere fatte offerte di “tutte le cose buone e pure”, mentre
l’ultimo andava posto su una parte del corpo878.
Un’ulteriore più semplice interpretazione vedrebbe nell’udjat la luna, l’occhio
sinistro di Horus, così come il destro rappresenta il sole. Così il carattere speculare
degli amuleti egiziani, e dei nostri punici incisi sui entrambi i lati, si adatta a tale
ambivalenza assicurando un più ampio spettro di protezione. In generale infatti,
prescindendo dalle complesse speculazioni e mitologie egiziane, che possono aver
suscitato curiosità nei non egiziani ed aver accompagnato la fortuna di questi amuleti,
si ritiene l’occhio rappresentato su amuleti e vaghi di collana879, ma anche sulla
ceramica880 e sulle uova di struzzo881, possegga un particolare valore apotropaico di
difesa dal malocchio, secondo il principio omopoietico della magia: contra similia
similibus882. Allo scopo di costituire un aiuto nel prevedere pericoli non altrimenti
visibili, gli occhi venivano anche dipinti o scolpiti sulla prua delle navi883.
La grande frequenza nelle tombe puniche degli udjat non deve trarre in inganno
su un carattere esclusivamente funerario, non mancano infatti attestazioni nei santuari,
sia orientali884 che occidentali885.
Il pateco invece, come già accennato nell’analisi tipologica dei nuovi esemplari
sulcitani886, è una divinità o genio protettore le cui individuazione si basa su un passo
delle Storie di Erodoto (III, 37) in cui l’autore descrive il disprezzo con cui Cambise
derise le immagini del dio Ptah-Efesto, simili a quelle dei “pateci fenici, che i fenici

878
Bresciani 2001, pp. 666.
879
V. supra.
880
Campanella, Martini 2000, p. 46, nota 54.
881
V. il recente studio in Savio 2004.
882
Vázquez Hoys 2000.
883
Bartoloni 2000b, p. 92.
884
Kition II 1976, tavv. XVI-XIX.
885
Antas 1997, p. 106; Phoinikes 1997, pp. 278-279, nn. 234-241.
886
V. supra.
- 187 -
portano sulle prore delle triremi”887. Aggiunge inoltre che, per chi non li avesse visti,
somigliano ai pigmei888.
Un interesse non meramente tipologico ha mosso V. Dasen nell’intraprendere
uno studio sulla figura del pateco in Egitto889. L’autrice ne ha delineato lo sviluppo
iconografico e storico-religioso in Egitto, presupposto minimo per comprendere la
possibile funzione degli amuleti che lo rappresentano nel mondo fenicio occidentale890.
Una primo argomento di studio riguarda il nome: il termine pateco può risultare
scorretto. La sua etimologia non è del tutto chiara: l’ipotesi più affermata è che si tratti
di un diminutivo del nome del dio Ptah891, mentre non viene presa in considerazione la
possibilità che si tratti di una sua vocalizzazione alla greca. Un ulteriore ipotesi di
interpretazione vedrebbe il termine provenire da una radice fenicia e presente in greco
nel verbo πατασσω, col significato di “colpire” e “percuotere”, in riferimento
all’azione della prua della nave, sulla quale il pateco aveva funzione di polena892. Il
nome Ptah invece è giustificato dalle iscrizioni geroglifiche presenti sulle sue
rappresentazioni, nelle occasioni in cui fanno il nome della divinità893, ma non
mancano menzioni di Sokar894 e del dio Atum, che si celerebbe dietro i cosiddetti
“trigrammi panteistici” spesso presenti sulle basi895.
L’evoluzione iconografica è altrettanto poco definita, ma si avverte dal Terzo
Periodo Intermedio (1069-702 a.C. circa), sino a tutta la bassa epoca, un aumento della
complessità rappresentazionale nell’aggiunta di elementi e attributi quali la corona
atef, eventuali ali, i coccodrilli e i falconi sulle spalle, e dalla dinastia Saita in
particolare l’associazione alle divinità della triade Horus-Iside-Nephtys896. Più precisa
è invece la ricostruzione della sua evoluzione storico-religiosa dalla quale si

887
Erodoto Storie, III, 37.2.
888
Ibidem.
889
Dasen 1993; v. il più recente e sintetico contributo in Dasen 2005.
890
Cfr. la menzione di questo studio nel recente intervento di D. Gomez Lucas: Gómez Lucas 2004.
891
Ibidem p. 130.
892
V. Elayi, Elayi 1986, p. 4-5, nota 17. Secondo gli autori il termine pateco designerebbe la polena e non
l’oggetto rappresentato.
893
Gomez Lucas 2004, p. 130, nota 2. v. anche Koenig 1992, p. 127, nota 15, per il quale la relazione con il dio
Ptah si dimostra secondaria ai fini dell’interpretazione delle figurine.
894
Gomez Lucas 2004, p. 130; Amenta 2002, p. 164.
895
Ibidem; per i “trigrammi panteistici” v. Koenig 1992, p. 127; Ryhiner 1977. Questi rebus tuttavia sembrano
costituire un fenomeno di sincretismo che farebbe la sua comparsa in piena età ellenistica e che non pare
comunque noto alle popolazioni fenicie occidentali.
896
Gomez Lucas 2004, p. 131-132.
- 188 -
comprende come immagini di nani, presenti sin dall’epoca predinastica e connesse con
concetti di fertilità e protezione, vadano scomparendo nel Nuovo Regno per la
comparsa dello Ptah-pateco ed il sorgere a rango di divinità di Bes, prima relegato
esclusivamente alla sfera domestica ed al quale il pateco pare spesso associato. Al
concetto di fecondità si vanno ad aggiungere quindi quelli di rigenerazione del dio Ra,
del quale ad esempio porta lo scarabeo sul capo897, nonché di altre divinità del mondo
funerario quali Osiride, Min e Sokar898. Quali intermediari di queste divinità gli dei
nani svolgono infine una funzione apotropaica, come apprendiamo da un papiro del
Nuovo Regno che riporta la formula da recitare sopra un nano di terracotta in
occasione del parto di una donna899. Il valore apotropaico dello Ptah-pateco è
d’altronde sempre rimasto soffuso negli studi fenicio-punici sugli amuleti perché
affiancato da altre possibili funzioni di tale amuleto: non ultima quella che lo vuole
protettore dai morsi di serpenti o altri animali nocivi e quella che lo interpreta come
patrono di categorie artigianali, come orefici, metallurghi o minatori900. Per quanto
quest’ultima possibilità appaia suggestiva per l’ambientazione sarda e cipriota della
tipologia amuletica e non solo901, è in contrasto con quanto esposto da V. Dasen, la
quale argomenta con una casuale e precoce associazione tra i nani e le attività
artigianali nell’Egitto durante l’Antico Regno, associazione che non avrà fortuna nei
tempi successivi902. La possibilità non può essere del tutto accantonata tuttavia essendo
il pateco un’ipostasi di Ptah, il dio artigiano903. La prima invece trova riscontro in un
ambientazione nordafricana, nella cui regione serpenti e scorpioni costituivano un vero
flagello a detta di Plinio904, ma andrà ricusata sulla semplice osservazione che in
Sardegna, in cui è grande la frequenza di amuleti raffiguranti lo Ptah-pateco, di
serpenti, scorpioni o altri animali velenosi non vi è mai stata traccia.
Va notato che la presenza di questa divinità tra gli amuleti nella fase precedente
l’inizio della dominazione cartaginese in Sardegna non è cospicua come nella fase
successiva. La fine del VI secolo, e più in generale il V, in Sardegna, come nel resto

897
Ibidem, p. 138 e 141.
898
Ib., p. 142-143.
899
Papiro Leiden I, 348, cit. in ib. p. 140.
900
Kition II 1976, n. 6, p. 125.
901
Cfr. le figurine in terracotta diffuse a Cipro e in Fenicia: ibidem, p. 126.
902
Gomez Lucas 2004, p. 134.
903
Riteniamo si tratti comunque di un carattere secondario nella valenza profilattica dell’amuleto.
904
Plinio, Naturalis Historia, V, 7 e XI, 30, cit. in Ribichini 1987, p. 36, nota 6.
- 189 -
del mondo fenicio-punico905, segna un notevole incremento nella presenza, e
naturalmente della richiesta, di questa tipologia così come di tutta la categoria
artigianale906. Il caso della necropoli arcaica di Monte Sirai, in generale e per quanto
concerne il Sulcis in particolare, è emblematico: tra i non numerosi amuleti rinvenuti
nelle sepolture sinora scavate i pateci figurano con un solo esemplare907. Delle
tipologie di pateci maggiormente diffuse in Etruria sino alla fine del VI secolo, quelli
con ventre prominente, braccia separate dal corpo, tempie sporgenti e con serpenti ai
lati908, e presenti anche a Cipro909, ad esempio non vi è traccia nelle collezioni sarde910.
Cartagine dovette avere quindi una certa responsabilità in questo cambiamento di
gusto: nel momento in cui si può riconoscere una produzione locale in Occidente, in
autonomia rispetto alle importazioni dall’Egitto o anche da centri vicino orientali, nella
ricca gamma delle tipologie egiziane disponibili vengono selezionati i tipi che più
rispondevano alle necessità di protezione richiesta a questo tipo di oggetti911. La nuova
madrepatria in sostanza impone, non dichiaratamente e senza coercizione si intende, il
proprio marchio all’offerta e alla domanda di oggetti profilattici della sfera personale,
così come in altri aspetti della cultura materiale912 e il pateco in questo ambito ha un
ruolo di primissimo piano. Alla base di questa selezione potrebbe essere un processo
che avrebbe portato all’ascesa di questa divinità o genio nella stessa madrepatria, e la
sua diffusione in Sardegna sarebbe avvenuta con lo spostamento di quegli stessi
individui che la veneravano, o meglio le dimostravano devozione, a Cartagine. A
verifica di tale ipotesi si potrebbe cercare di individuare se a Cartagine la massiccia
presenza di questi amuleti si riscontri gia prima dell’inizio della sua politica

905
Padró 1999, p. 94.
906
Campanella, Martini 2000, p. 51, nota 86.
907
Cfr. ibidem; Martini 2000; per il solo esemplare noto da contesto fenicio v. Bartoloni 2000a, tav. II, d, dalla
tomba 88 del secondo quarto del VI sec.
908
V. ad es. Principi Etruschi 2000, p. 136-137, n. 91: collana composta da 38 pateci di probabile origine
vulcente e datata al VII secolo.
909
Kition II 1976, p. 145, n. 772, p. 150-151, nn. 1015-1016, p. 162-163, n. 3361, tav. X. I primi tre amuleti
provengono da uno strato di VI-metà V secolo, il quarto è molto più antico: seconda metà del IX secolo (p.
11). Non è escluso si possa trattare di prodotti egiziani, almeno per quanto riguarda il n. 772, per via dei
geroglifici alla base.
910
V. per la loro consistenza quella di Cagliari (Acquaro 1977b) e quella Sassarese (Acquaro 1982)
911
Campanella, Martini 2000, p. 51, nota 86.
912
V. la sostituzione del rito di inumazione a quello dell’incinerazione e la diffusione delle maschere virili e le
protomi femminili, nuove forme ceramiche e importazione di ceramiche attiche in luogo di quelle etrusche,
nonché diffusione nel repertorio delle stele di iconografie e tipologie Cartaginesi. Sulla presenza cartaginese
in Sardegna v.: Bartoloni, Bondì, Moscati 1997, p. 63 e segg.; in particolare per i cambiamenti nella cultura
materiale dell’isola: ibidem, p. 71-72.
- 190 -
espansionistica913 e quale livello avesse raggiunto l’Egitto contemporaneo nella loro
elaborazione, così da capire quali aspetti di questa divinità fossero noti ai loro fruitori
occidentali. Sembra per il momento evidente che in Occidente sfuggissero quelle
elaborazioni complesse che in Egitto portano ad intendere il pateco come una “divinità
‘pantea’”, o almeno i punici non si spinsero così lontano, “vale a dire frutto di
speculazioni alla ricerca dell’Uno e della sua manifestazione nella dimensione terrena,
tale da racchiudere la totalità delle manifestazioni del divino”914. Il disinteresse nei
confronti di complesse speculazioni teologiche è stato già messo in evidenza nella
sfera degli amuleti per l’assenza di altre particolari tipologie, come gli organi animali,
il segno sm3, il nodo isiaco, la squadra e la livella, o per la subordinazione di simboli
regali come la corona bianca e quella rossa915.
Ancora lontani siamo quindi dal definire l’ambito specifico di questa tipologia e
divinità, senza poter affermare più che un generale carattere apotropaico e profilattico.
Degli stessi fruitori ci sfugge la caratterizzazione sociale e il sesso. Esso compare tanto
nelle sepolture infantili916 che di adulti, nonché in contesti santuariali917, a riprova
della sua fortuna, evidente non solo dal numero delle presenze ma da quello dei
contesti stessi di presenza. È presumibile tuttavia che ad una così grande fortuna
portasse la capacità di soddisfare più esigenze e più categorie di fruitori, motivo per il
quale risulta difficile riconoscere una specifica sfera di profilassi.
A queste qualità potrebbe essere anche aggiunta una valenza funeraria,
richiamata in Egitto dall’associazione con Osiride, Min e Sokar918 e dallo stesso passo
di Erodoto sopra citato con i Cabiri919, divinità venerate sotto forma di nani a Tebe, ma
i cui santuari principali erano a Lemnos e Samotracia. Queste divinità erano oggetto di
culti misterici ed avevano numero variabile, quando più il loro numero verrà fissato in

913
Purtroppo i dati su Cartagine sono ancora sommari e non godono di datazioni affidabili, rimane ancora
insuperato il lavoro di Vercoutter (Vercoutter 1945) ad eccezione dell’articolo di T. Redissi (Redissi 1991)
che propone tuttavia un’analisi stilistica non fondata su datazioni fornite dal contesto.
914
Amenta 2002, p. 163.
915
Ferrari 1998, p. 88.
916
Ferrari 1994, p. 85 e relative note. L’autrice fa riferimento ad esemplari rinvenuti nei tophet di Cartagine,
Tharros e Sulcis. Per quest’ultimo v.: Bartoloni 1973, p. 192, nn. 28-29, tav. LX, 2 e 9. Va aggiunto il pateco
rinvenuto durante le campagne di scavo 1995-1998: Montis 2005, n. 43.
917
Ci si riferisce in questo caso al santuario cipriota di Kition (Kition II 1976, nn. 771, 1015-1016, 3361, cit.) e a
quello di Antas nel Sulcis Iglesiente (Antas 1997, pp. 275-276, nn. 222-227).
918
V. supra.
919
Erodoto Storie, III, 37.3 in cui lo storico accosta nella narrazione, ma tiene distinte allo stesso tempo, le
immagini di Cabiri, figli di Ptah-Efesto, e (37.2) di Ptah-Efesto, simile ai pateci fenici.
- 191 -
due, avverrà l’assimilazione con i Dioscuri. Come questi ultimi proteggevano i
naviganti dai pericoli del mare, ma inizialmente erano connessi con aspetti della
fertilità920. L’aspetto embrionale dei pateci d’altronde richiama concetti di
rigenerazione, reincarnazione e alla fecondità del suolo e della natura921. Ai primi due
concetti richiama per certo lo scarabeo che porta sul capo e sul cui argomento
ritorneremo più avanti nel trattare gli amuleti che portano questa forma.
Alle divinità ctonie, legate per definizione e competenze alla terra, poteva
essere richiesto di accompagnare i defunti, che in essa dimorano, nel viaggio verso
l’aldilà e di proteggerli dai pericoli del percorso. In virtù di questa probabile ulteriore
competenza i pateci trovavano un posto d’onore negli ornamenti personali dei defunti,
ai quali venivano posti indosso dopo essere loro appartenuti in vita.
L’ureo è il terzo tipo di amuleto che per frequenza incontriamo nelle tombe
sulcitane, condizione che condividono quelle cartaginesi922 e quelle ibicenche923. Il
motivo, come nel caso dell’occhio udjat si presta a diverse interpretazioni. In primo
luogo la divinità rappresentata può essere la dea Renenutet (Rnnwtt, la greca
Hermoutis), in origine protettrice delle messi e per estensione, dalla XVIII dinastia,
preposta all’allattamento dei bambini, che continua a proteggere anche dopo la nascita,
sebbene la dea cobra più popolare fosse Uadjet (W3dt), non dissimile dalla precedente.
Come Renenutet appare nel mito proteggere e allattare il giovane Horus nelle paludi di
Khemnis, dove è stato nascosto all’ira di Seth924. Come indica il suo nome (“la Verde”
o “la Vigorosa”925) è preposta anch’essa alla protezione del raccolto, ma in senso più
lato della vegetazione. Ma importante è nella sua figura il carattere regale, in quanto
protettrice della corona rossa del Basso Egitto, insieme alla paredra Nekhbet che
proteggeva invece la corona bianca dell’Alto Egitto. Entrambe le dee sul capo del
Faraone rappresentavano il dominio sulle due regioni unite.

920
La stessa introduzione del loro culto nell’Egeo era inizialmente attribuita ai primi frequentatori fenici (v. ad
es.: Mazzarino 1947, p. 259-260; ma soprattutto Pettazzoni R., (1909). Le origini dei Kabiri nelle isole del
Mar Tracio. ANL Memorie, serie 5, anno CCCV (1908), Roma, cit. in Jesi 1962, p. 262, nota 5), ora
proveniente dalla Frigia.
921
Kition II 1976, p. 125, nota 6.
922
Vercoutter 1945, p. 274. L’autore pone questo tipo al secondo posto nella sua trattazione, ma senza dichiarare
il numero degli esemplari.
923
Fernandez, Padró 1986, p. 93. La collezione del Museo di Ibiza e Formentera possedeva all’epoca 51
esemplari.
924
Tran Tam Tinh 1973, pp. 13-14.
925
Da w3d = papiro, la cui pianta è verde.
- 192 -
Che gli aspetti della regalità egiziana e vicino-orientale fossero noti e apprezzati
nell’arte fenicia è fatto che non può essere messo in dubbio926, ma in quale misura e
modo fossero rappresentati sugli amuleti è ancora da chiarire. La difesa del raccolto e
dell’infanzia sono motivi sufficienti per spiegare la fortuna di questo amuleto, ma
secondo una proposta di J. Vercoutter l’ureo sarebbe un’ipostasi dell’udjat: secondo
una alternativa versione del mito riportato in precedenza927 Ra avrebbe trasformato il
proprio occhio in un serpente928 per difendersi dai propri nemici929. La grande quantità
di amuleti dei due tipi è sufficiente per permettere all’autore di notare che i cartaginesi
non importassero “au hasard” amuleti in Egitto, ma c’è di più: la proposta di
Vercoutter trova una conferma, seppur per quanto ci è noto isolata, nella collana della
tomba 5 PGM. Gli amuleti nn. 23-26 (e forse il 27 rinvenuto in setacciatura) in forma
di ureo e i nn. 28-29 (e forse il 30 rinvenuto in setacciatura), forse in posizione
alternata, componevano una collana appartenuta al defunto della deposizione 1. A
completamento della collana era un solo pateco e tre vaghi in vetro con decorazione ad
occhi. Gli amuleti più diffusi del mondo punico in una sola collana o su un solo
corpo930 dovevano costituire un sistema ormai collaudato contro i pericoli di ogni
sorta.
Sotto un’altra prospettiva l’ureo non è una ipostasi dell’udjat, ma tutt’al più il
contrario: secondo la studiosa spagnola A. M. Vázquez Hoys il cosiddetto “occhio di
Horus” è invece un aspetto complementare della dea-serpente, che a prescindere dalle
forme e denominazioni che assume, a partire dal Nuovo Regno è influenzata dal culto
solare. L’udjat sarebbe il “complemento femminile” di una divinità androgina, né
maschile né femminile, pura energia931.
La stessa autrice, da tempo dedita ad indagare gli aspetti religiosi e magici di
questo rettile, ha presentato una serie di aspetti sotto i quali era considerato nel mondo

926
V. al riguardo: Ciafaloni 1995b. In particolare p. 545 per il motivo dell’allattamento legato al culto del re.
927
V. supra.
928
L’associazione deve essere stata suggerita, o alla base, dalla analogia tra wd3t (= occhio di Ra) e w3dt (=
cobra).
929
Vercoutter 1945, p. 285.
930
Non è escluso infatti che l’inumato portasse più di una collana o che amuleti e vaghi entrassero nella
composizione di braccialetti.
931
Vázquez Hoys 2002; l’identificazione tra la dea Bastet/“occhio del sole” e l’ureo è anche nel testo del
racconto post-tolemaico intitolato I dialoghi filosofici della Gatta Etiopica e del Piccolo Cinocefalo o anche
noto come Il mito dell’Occhio del Sole: Bresciani 2001, pp. 71-92, in particolare p. 76.
- 193 -
vicino orientale e occidentale in età preromana932, per cui si comprende come in
generale potesse significare “tanto la vida como la muerte”933 ed il tema
dell’ouroboros, il serpente che si morde la coda rappresentava secondo Macrobio934 la
concezione fenicia dell’universo: simbolo del mondo che si nutre della propria
sostanza e ritorna su se stesso935.
Una dea serpente nota precedentemente da un’epigrafe ugaritica936, è stata
inoltre identificata in una tabella defixionum cartaginese937, la dea Hwt (da hiwia =
serpente) dal carattere ctonio e infernale938. Il serpente appare legato anche al dio
Horon, divinità cananea il cui culto era diffuso in Levante e in Egitto dal II millennio.
Il dio è invocato negli incantesimi contro i serpenti incisi su due tavolette ugaritiche,
nei due amuleti di Arslan Tash939, e noto per assicurare la protezione dagli animali
selvaggi in Egitto940. Sulle sue capacità terapeutiche illumina anche l’iscrizione
scolpita sulla base di una statua offerta al dio Sid nel santuario di Antas, cui farebbe da
pendant in epoca tarda la fascetta in argento trovata al dito di una donna, sepolta nei
pressi del tempio. L’anello reca inciso il disegno di un serpente tra le cui spire si legge,
in caratteri latini, il nome della divinità cui era tributato il culto nel santuario, ed alcuni
monogrammi di difficile interpretazione, forse cristiani941. L’aspetto salutare del
serpente non era sconosciuto nella religiosità greca perché legato al dio Asclepio,
presente ad esempio nel caduceo di Hermes, ma risulta essere comunque una costante
etnologica942: per il principio omeopatico della magia il serpente poteva proteggere dai
morsi di animali altrettanto velenosi; la loro assenza in Sardegna non può tuttavia
giustificare, perlomeno in maniera esclusiva, la presenza e la fortuna degli amuleti,
così come abbiamo segnalato a proposito del pateco.

932
Vázquez Hoys 1991.
933
Ibidem p. 426.
934
Macrobio Saturnalia, I.9, 12.
935
Ribichini 1995, p. 337. In un mito fenicio tramandato da Eusebio di Cesarea (Preparazione Evangelica I 10,
45, 53) era il dio serpente Ophion a sfidare l’armata di Kronos, in un conflitto primordiale assimilabile alla
teomachia greca (ibidem).
936
Vázquez Hoys 1991, p. 428, frammento NK 12-201.
937
CIS I, 6068 in Ribichini 1976.
938
Critica la più recente posizione del Ribichini (Ribichini 1995b, pp. 19-20, e relativa bibliografia) che
considera opinabile la lettura del frammento epigrafico.
939
Vázquez Hoys 1991, p. 429. Sugli incantesimi di Arslan Tash v. anche Garbini 1981; da ultimo: Zamora
2003.
940
Xella 1972, p. 276.
941
Ibidem, p. 277, nota 26. Sulla fascetta di Antas v.: Cecchini 1969a, p. 158, tav. LXIII, 1.
942
Xella 1972, p. 284, nota 58.
- 194 -
La difficoltà di identificare il carattere di ogni singolo amuleto è complicata
dall’assenza di specifiche fonti, sia epigrafiche che strettamente letterarie, inerenti
questa sfera della cultura punica. Se gli amuleti portano raramente sulla loro superficie
iscrizioni che ne suggeriscano l’identità e le caratteristiche, questo è perché si tratta di
oggetti che dovevano risultare eloquenti intrinsecamente, non necessitando di ogni
ulteriore specificazione. Si può d’altronde spiegare questa circostanza con la loro
appartenenza a individui, o ad una classe di individui, non particolarmente letterata: i
bambini appunto, e forse anche le donne. La difficoltà di trovare una funzione
specifica può essere invece non solo il riflesso di una scarsa documentazione, o della
sua oscurità, ma di una pluralità di funzioni, la quale meglio si addice a spiegare la
fortuna di queste tre tipologie appena esposte.

5.1.3. SCARABEI

Gli scarabei appartengono anch’essi ad una tipologia di amuleto egizio, senz’altro la


più diffusa entro e fuori l’Egitto. È nota la relazione dello scarabeo con il culto delle
divinità solari in Egitto, ispirata dal comportamento dello scarabaeus sacer943, che
avvolge le proprie uova in una pallina di escrementi paragonata all’astro solare944,
notizia riportata da autori classici come Plutarco e Horapollo945, i quali aggiungono la
convinzione della sua natura asessuata e che il periodo di incubazione delle uova fosse
di ventinove giorni, nel tentativo di collegarlo al ciclo lunare.
Le possibili funzionalità dello scarabeo sono state introdotte nell’ambito degli
studi fenicio-punici dall’opera del Vercoutter946 che, sulla scorta degli studi e dati
archeologici al tempo disponibili si muoveva tra le tre funzioni in una scansione
cronologica così schematizzabile:

943
F. De Salvia nota come, nonostante le fonti parlino del culto tributato ad almeno tre diversi tipi di coleottero
(Scaraboidi, Lucanidi e Rincofori), ogni tentativo di risalire al tipo rappresentato non abbia dato risultati
rilevanti, sennonché risulti metodologicamente scorretto “desumere la natura dall’arte”:De Salvia 1978, p.
1009, nota 15.
944
Andrews 1994, pp. 50-51. L’autrice precisa che la forma sferica era data al cibo, mentre le larve crescevano
all’interno di un agglomerato di escrementi ovini piriforme (p. 50).
945
Ibidem, p. 51.
946
Vercoutter 1945, pp. 44-49.
- 195 -
Periodo Predinastico –
amuleto funerario anepigrafo;
VI Dinastia:

VI Dinastia – XVIII
sigillo a valore amuletico;
Dinastia:

amuleto per i vivi,


XVIII Dinastia in poi: amuleto per i morti, sigillo, e alternativamente
oggetto votivo947;

Lo studioso notava come progressivamente lo scarabeo assommasse su di se sempre


più prerogative, che almeno in parte dovettero transitare nel mondo fenicio ed essere
note al fruitore.
Una recente analisi delle caratteristiche emiche di questo tipo di manufatto ha
evidenziato come alla ricchezza delle possibilità incisorie della base faccia da pendant
una pluralità di funzioni, intese come finalità di produzione e interpretazioni
ricettive948. Le basi iscritte degli amuleti propongono iconografie variamente
classificabili come regali, apotropaiche e divine, nomi e titoli personali e
rappresentazioni di tipo vicino-orientale, adottate e rielaborate, nonché motivi
geometrici, floreali e astratti. A queste iconografie difficilmente associabili ad una
univoca funzione si applicano due tipi di lettura: quella letterale/fonetica (nel caso si
tratti di geroglifici o di immagini di animali e personaggi leggibili come tali) e quella
crittografica949, entrambe non sempre univoche. La concomitanza di più fattori
suggerisce una “multi-layered function”, generata dallo spazio limitato del campo
figurabile che impone effetti di miniaturizzazione, abbreviazione e astrazione950.
Dal punto di vista produttivo si è riconosciuta la possibilità che alcuni oggetti,
specie quelli con iconografie regali, possano essere stati opera di botteghe regali a
scopo propagandistico. La faïence, materiale comune, ma di qualità e lavorazione ad
elevato livello tecnico, soddisfa infatti produzioni di massa difficilmente conducibili in

947
Ibidem, p. 47.
948
Cooney, Tyrrell 2005, pp. 2-12.
949
Proposta da E. Drioton (cit. in Scandone Matthiae 1975, p. 16, nota 5), si basa sul riconoscimento di lodi e
nomi divini, principalmente di Amon, rappresentati in base a principi di acrofonia e analogia tra segni
geroglifici monolitteri.
950
Cooney, Tyrrell 2005, p. 4.
- 196 -
botteghe private951. Questa produzione, specializzata in iconografie regali, poteva
influenzare e soddisfare una richiesta privata, ed essere apprezzata ed interpretata
senza scopi di propaganda: in altre parole dal punto di vista del fruitore poteva venire
frainteso il valore regale e apprezzato in quanto mediatore nei confronti della divinità,
per diventare simbolo di pietà personale.
Dal punto di vista semiotico lo scarabeo è un simbolo di rigenerazione: la
lettura fonetica (hpr) dello scarabeo è la stessa del verbo che significa “divenire”.
Rigenerazione del sole che sorge ogni mattina, del cuore del defunto che lo scarabeo
protegge nelle sale del giudizio oltremondano, e del potere politico nella persona del
faraone che succede a se stesso al trono952. Dal punto di vista antropologico è un
amuleto e come tale uno strumento di comunicazione tra l’individuo e le diverse sfere
dell’esistenza: i rapporti con il sovrano, la natura, la società, gli dei e le altre potenze
sovrannaturali, quali demoni e spettri953. Mentre psicologicamente è uno strumento di
guarigione per mezzo di intime emozioni e opera come una sorta di effetto placebo954.
In questa prospettiva lo scarabeo propone molteplici significati allo scopo di
ricoprire molteplici funzioni allo stesso momento955, tra le quali quella sigillare o più
propriamente glittica è del tutto secondaria. La sua considerazione deve essere
comunque valutata alla luce del discorso presentato sinora, immaginando che la
protezione che si richiedeva alla persona che indossa l’amuleto, nel caso del sigillo, si
richiedeva all’oggetto sigillato.
Quali di questi aspetti fossero noti e accolti dai fenici e dai cartaginesi in
particolare è cosa che può essere in parte compresa dai dati archeologici, qualora
disponibili. È d'altronde impensabile che questi avessero importato e prodotto un tale
tipo di amuleto “acriticamente”: essi dovevano infatti essere a conoscenza dei poteri e
significati di cui si faceva portatore lo scarabeo, senza però entrare nel dettaglio956.
Il ritrovamento frequente in contesti tombali di questi oggetti non dovrebbe
trarre in inganno, come abbiamo proposto per gli amuleti, in merito ad una

951
Ibidem, p. 5.
952
Ib., p. 8.
953
Ib., p. 9.
954
Ib., p. 10.
955
Ib., p. 12.
956
Sino a che punto di questo approfondimento arrivassero i Cartaginesi è cosa difficile da stabilire, ma si
forniranno alcuni spunti di ricerca in seguito.
- 197 -
destinazione esclusivamente funeraria: il loro rinvenimento suggerisce infatti che
dovessero essere portati in vita. La distanza tenuta dai fenici nei confronti
dell’escatologia funeraria egizia, non era è vero eccessiva, e viene fornito a titolo di
esempio l’assenza nei corredi di oggetti egizi tipicamente funerari come lo scarabeo
del cuore, il peseshkef, pettorali naoformi, etc.957. Il rito dell’incinerazione infatti,
praticato in età arcaica, si adatta difficilmente a concetti di rigenerazione e vita eterna,
sebbene sia stato avanzato che il rito della cremazione sia legato alla purificazione dei
vivi, più che dei morti958. È nota d’altronde la grande complessità delle credenze
funerarie egizie959, ma di queste i fenici, sebbene ne potessero ben essere a
conoscenza, non sembra fossero arrivati ad emularle960. La conoscenza di formulari
connessi in Egitto al rituale funerario è generalmente messa in relazione con le
credenze magiche, ma potrebbe indicare una “forte impronta egiziana nelle concezioni
escatologiche fenicie”961.
La presenza in contesti santuariali è per ora relativamente scarsa e limitata a
Cipro, dove si rinvengono ad Agia Irini e Kition in età arcaica962, e alla Grotta di
Gorham nello stretto di Gibilterra, la cui funzione, santuario o necropoli, rimane
tuttora incerta963. Lo stato delle conoscenze non ci permette di trarre conclusioni, ma si
potrebbe supporre che lo scarabeo nel mondo punico assolvesse una funzione di tipo
principalmente “civile” e relativamente poco caratterizzata a livello religioso. Per
quanto riguarda il periodo arcaico la stessa Feghali Gorton nota una differenza di
utilizzo tra il mondo greco e quello fenicio-punico evidente sotto tre aspetti: la tecnica
di produzione di massa, l’iconografia e i luoghi di rinvenimento. Se quest’ultimo
indica un principale contesto templare per il mondo greco e funerario per quello

957
Vercoutter 1945, pp. 287 e 359; Cintas 1946, p. 115; Fresina 1980, p. 27.
958
Cfr. Hertz 1907; per la pratica della cremazione nel Levante e delle possibili implicazioni igieniche,
economiche o demografiche v. Bieńkowski 1982; per il mondo fenicio occidentale v. Gras, Rouillard,
Teixidor 2000, pp. 187-195; per la Sardegna fenicio-punica v. Bartoloni 1981; Bartoloni 1989.
959
L’individuo per gli egizi è costituito da cinque elementi: l’ombra (doppio immateriale di ogni forma che
l’uomo assume in vita), l’akh (principio solare che consente l’ascesa alle stelle alla morte), il ka (forza vitale
che deve essere alimentata dalle offerte), il ba (altro doppio immateriale indipendente dal corpo) e il nome
che trae vita dal solo essere nominato: v. Grimal 1988, pp. 138-139.
960
Cfr. quanto esposto al § 5.1.1.
961
Garbini 1982, p. 463.
962
Feghali Gorton 1996, pp. 175-176. Gli scarabei di Kition provengono dal Bothros 1, i cui depositi sono datati
fra il 600 e il 450 a.C.: Kition II 1976, pp. 9-10.
963
Feghali Gorton 1996, p. 153. L’uso della grotta è documentato dal VII al V secolo. Per il lotto di scarabei ivi
rinvenuti v. Culican 1972, pp. 110-120 e 134-136, figg. 1-5.
- 198 -
fenicio, ma potrebbe derivare da uno stato parziale della ricerca, i primi due forniscono
un ulteriore spunto di antinomia. La produzione di massa degli scarabei greci infatti
predilige formule di buon augurio, nomi di divinità e motivi fondamentali dell’arte
egizia, mentre quelli di produzione punica presentano prevalentemente
rappresentazioni di divinità del pantheon egiziano, nomi comuni, reali e di divinità,
dimostrando una maggiore comprensione di ciò che veniva copiato e riflettendo quello
che sembra essere “a more personalized religious and magical significance”964.
Un aspetto spesso trascurato degli scarabei nel mondo punico, così come in
quello egiziano965, è stato richiamato ormai da qualche tempo da E. Acquaro ed appare
limitato dalla casuale mancanza di documentazione: la funzione sigillare966. Il
rinvenimento di un cospicuo lotto di cretule, impresse con temi propri della glittica
greco-fenicia, presso il Tempelarchiv di Cartagine967 si aggiunge a quelle gia note
provenienti dalla città e conservate in parte al Musée Lavigerie della stessa968, oltre
che a quelle rinvenute nell’acropoli di Selinunte ed edite dal Salinas nell’ultimo
ventennio del 1800969. Il fenomeno, non insolito a quanto pare, di sigillare i rotoli di
papiro con cretule di argilla su cui veniva impressa un’immagine incisa alla base del
sigillo è documentato in Egitto e in Palestina in età persiana e potrebbe costituire “the
sealing-type commonly used on documents belonging to the Persian administration in
Phoenicia”970. La comparsa dello scarabeo in Siria e Palestina è un fenomeno tutt’altro
che religioso: il suo avvento nel IX secolo971 è strettamente legato alla applicazione
della scrittura alfabetica al papiro come supporto972, il quale una volta arrotolato
veniva avvolto da un filo cui veniva apposta una cretula d’argilla di piccole

964
Feghali Gorton 1996, p. 185.
965
V. supra.
966
Acquaro 1994; Acquaro 1995a. La menzione di Salinas 1883 in Hölbl 1986, vol. 2, p. 106, nota 1, potrebbe
essere passata in osservata per la inaccessibilità dell’opera e per il richiamo in nota, sino all’osservazione di
Acquaro.
967
Redissi 1991b (studio preliminare); Redissi 1999.
968
Vercoutter 1945, pp. 257-263; Vercoutter 1952.
969
Salinas 1883; Salinas 1898. Vanno aggiunte per completezza anche un’impronta su peso da telaio da Mozia
(Spanò Giammellaro 2000, p. 1381, tav. IX) e due bullae cipriote rinvenute nel deposito votivo di Kition,
datato ad un periodo compreso tra 600 e 450 a.C.: Kition II 1976, pp. 114-116, nota 1 (cui si rimanda per una
lista di referenze bibliografiche inerenti rinvenimenti in ambiente levantino). Da contesto funerario
provengono tre cretule della tomba 76 di Rachgoun (Vuillemot 1955, p. 36 e 56) e due di una tomba
Cartaginese nel settore di Santa Monica (Delattre A.L., (1905). La nécropole des Rabs, Prêtres et Prêtresses
de Carthage, Deuxième année de fouilles. Parigi, p. 10, cit. in Vercoutter 1952, p. 39, nota 2).
970
Culican 1968, pp. 57-58.
971
Matthiae 1997, p. 246.
972
Ciafaloni 1995a, p. 501.
- 199 -
dimensioni, e rese presto desueti i sigilli cilindrici che richiedevano di essere applicati
su superfici più ampie973.
Benché il gruppo selinuntino non possa godere, a causa delle circostanze di
rinvenimento, di dati stratigrafici né contestuali precisi974 l’analisi stilistica non
contraddice una datazione dei motivi ad un ampio arco cronologico: tra fine VI e IV
secolo975. I motivi rappresentati sono per la maggior parte di ispirazione greca, fatto
comprensibile in un insediamento di fondazione ellenica, e per la restante di
ispirazione egittizzante come consueto nella glittica punica976. Questa circostanza, per
altro analoga alla stessa presenza di motivi di diversa origine nella glittica “greco-
fenicia”, ha portato A. M. Bisi, sulla scorta di una proposta interpretativa delle cretule
cretesi del II millennio, ad interpretare i due diversi stili come indicatori della lingua
usata nel testo sigillato. In altre parole secondo l’autrice sigilli con impronta di stile
grecizzante avrebbero sigillato testi scritti in greco, quelli in stile egittizzante testi
scritti in fenicio977. La scomparsa della studiosa siciliana è una delle cause del mancato
approfondimento di questa linea di ricerca, sebbene a prima vista la proposta appaia di
difficile verificabilità. Infatti gli scarabei, se utilizzati con questa finalità, rivelerebbero
la diffusione in tutto il mondo punico del bilinguismo greco-fenicio, non altrimenti
dimostrabile.
Più semplicemente, seguendo l’Acquaro, possiamo intendere i motivi alla base
degli scarabei come “figurazioni che dovrebbero trovare […] una lettura più
squisitamente disegnativa e in sé conchiusa, meno debitrice di complesse
rappresentatività mitiche e testuali”978. Un fenomeno che si rende quindi precursore,
senza soluzione di continuità, della sfragistica romana. A verifica di tale approccio
possiamo suggerire la mancata coincidenza tematico-iconografica con una categoria
come quella degli amuleti indiscutibilmente carica di significato magico-religioso.

973
Questi tuttavia rimarranno in uso in Mesopotamia per tutta l’età achemenide, rivelandosi lo strumento di
sigillatura ufficiale dell’impero, in contrasto con quanto supposto dal Culican (v. supra): Matthiae 1997, pp.
261-263.
974
È nota la provenienza come dai dintorni del tempio C: Bisi 1986, p. 299.
975
Acquaro 1994, p. 4. La datazione non si accorda con le distruzioni della città avvenute nel 409 a.C. ad opera
dei cartaginesi e nel 249 a.C. ad opera di Siracusa, per cui l’incendio dell’archivio sarebbe potuto avvenire
per cause non militari o militari non tramandate dalle fonti.
976
E. Acquaro propone confronti iconografici fra le cretule e gli scarabei sardi: Acquaro 1994, pp. 2-4; i motivi
grecizzanti non sono tuttora stati fatti oggetto di indagine approfondita.
977
Bisi 1986, p. 302.
978
Acquaro 1995a, p. 186.
- 200 -
Sebbene il differente supporto imponga di per se ben altre rappresentazioni, con
maggiori possibilità narrative negli ovali degli scarabei, quando si presentano figure
isolate quasi mai queste propongono divinità frequenti negli amuleti. Divinità tra le più
frequenti tra gli amuleti come il pateco non trovano spazio nella glittica se non nelle
gemme gnostiche ben più tarde979, e occhi udjat e urei non ricoprono che un ruolo
secondario e spesso riempitivo, come sembra logico per la loro natura di simbolo. Le
altre divinità come Iside e Horus, fanciullo o ieracocefalo, nonché Bes, trovano nella
glittica una frequenza che supera quella negli amuleti, mentre altre come il leone o la
sfinge alata possono considerarsi proporzionalmente paritarie, fatto che trova
giustificazione nella comune appartenenza alla medesima matrice culturale e
iconografica. Si potrebbe anche proporre una diversa attinenza magico-religiosa,
nonché un livello più colto, all’origine si intende visto che i destinatari delle due
categorie artigianali coincidono, fatto di per se evidente. Tuttavia dal punto di vista
iconografico i due tipi di “amuleti” differiscono se si pensa al filone al quale
appartengono: gli amuleti punici, egittizzanti e non, sono debitori degli amuleti egizi e
dei simboli religiosi e apotropaici fenici980, mentre nella glittica punica, la cui
produzione prende avvio alla fine del VI secolo, transitano motivi e iconografie
mutuati dagli ovali delle coppe orientalizzanti e dai complementi di arredo in avorio,
che a loro volta nel V secolo saranno acquisiti dalla numismatica981. La fonte e il
successivo destinatario iconografico sono “civili” per natura, ma mentre le coppe e gli
avori sono ornamentali per funzione, le monete sono uno strumento prodotto a scopo
amministrativo. Ma quest’ultimo aspetto sarà stato introdotto ex novo in esse o era in
parte presente nelle gemme? Ecco qui un altro indizio della funzione amministrativa
propria dello scarabeo nella sua eredità lasciata alle monete: dalla metà del V secolo le
città della costa fenicia e Cartagine adottano questo importante strumento, assumendo
ognuna un motivo che le contraddistingua nel ricco repertorio della glittica, senza
limitarsi esclusivamente ad uno solo. Le ragioni di questa selezione non sono evidenti,
non si può pensare che questa fosse già realizzata a monte nella glittica e tanto più per
il valore comunitario della moneta e individuale del sigillo. Ma se la funzione sigillare

979
In qualche modo rapportabile al pateco è il tema del Pantheos: una figura iconograficamente più assimilabile
a Bes o al giovane Horus delle stele con i coccodrilli: SGG 2003, pp. 227-242.
980
Come il simbolo di Tanit e la maschera ghignante etc.
981
Gubel 1992; Markoe 1985, pp. 87-89; v. anche più di recente Acquaro 2003, p. 15.
- 201 -
fosse stata la principale, l’iconografia sarebbe stata unica al punto da poterne garantire
l’irripetibilità e appartenenza al solo proprietario? La frequenza di immagini molto
vicine tra loro può essere uno dei motivi che hanno fatto dubitare per lungo tempo che
gli scarabei potessero assolvere la funzione sigillare, contrariamente a quanto accade
nel Vicino Oriente, dove i sigilli cilindrici per la maggiore ampiezza del campo
figurativo possono ospitare iconografie e scene di grande varietà, negli scarabei la
ristrettezza del campo impone iconografie molto simili tra loro, per di più in certi casi
il lapicida non sembra intenzionato a realizzare elementi evidenti di
differenziazione982. Così è poco probabile che una uguale iconografia su due scarabei
designi due componenti dello stesso gruppo familiare come ha proposto P. Bartoloni
per l’età arcaica983. In due diverse tombe a fossa di Monte Sirai, ma di uno stesso
agglomerato tombale che potrebbe rappresentare topograficamente rapporti di
parentela, furono infatti rinvenuti due scarabei di importazione egiziana con medesima
figurazione alla base984. Il carattere di routine, e la provenienza estera, come nota
l’autore, attenuano il dato proposto985. L’importazione infatti costituisce un grande
ostacolo alla definizione sigillare dello scarabeo: in età arcaica infatti praticamente
tutti gli scarabei diffusi nel Mediterraneo occidentale erano di provenienza egiziana,
levantina o rodia, per cui nel mondo greco e fenicio-punico il loro utilizzo come sigillo
è discutibile: la personale conoscenza della fonte di produzione è il logico presupposto
per il suo utilizzo, perché sola poteva fornire la garanzia che il prodotto fosse
irripetibile. In età propriamente punica invece botteghe artigianali sono state proposte
per i centri di Tharros, Ibiza e Cartagine, fatto che per Sulcis almeno avvicina il centro
di produzione e la possibilità per gli acquirenti di conoscere di persona la bottega, ma
si potrebbe anche ipotizzare l’esistenza di lapicidi itineranti che realizzavano ad hoc e
ad personam ogni singolo pezzo.
Tuttavia un ulteriore elemento si sottrae all’analisi: la mancanza o almeno la
grande scarsità di iscrizioni. Il nome unito al patronimico è il vero strumento per
designare l’individuo nel mondo fenicio-punico, come da sempre nel resto del mondo.
La sua presenza nei sigilli levantini non fornisce possibilità di dubbio sulla loro

982
Abbiamo notato come il n. 50 del nostro catalogo presenti una figurazione identica ad uno scarabeo ibicenco.
983
Bartoloni 1989, p. 71.
984
Studiati recentemente in Bondì 2000.
985
Bartoloni 1989, p. 72.
- 202 -
funzione, mentre in Occidente la differenziazione sarebbe stata affidata unicamente
alle immagini. Nel caso del n. 50 del nostro catalogo abbiamo notato una assoluta
somiglianza con uno scarabeo in diaspro verde rinvenuto ad Ibiza e conservato a
Madrid986. L’esecuzione è da attribuirsi alla stessa mano, vista anche la mancanza di
ulteriori confronti iconografici, tuttavia la proprietà può associarsi alla stessa persona o
a due individui in grado di parentela tra loro? Ma perché ipotizzare un grado di
parentela su una così lunga distanza quand’anche nella stessa tomba non si trovano
mai due scarabei con figurazione simile987? È il caso infatti della tomba 9 AR, in cui
tre scarabei in diaspro, di cui almeno due provenienti da due differenti deposizioni,
presentano distinte incisioni, e della tomba 6 PGM, per la quale lo stesso può dirsi dei
due scarabei ivi rinvenuti e appartenenti a due distinte deposizioni. Lo scarabeo poteva
quindi al più designare un individuo, ma non il gruppo familiare: l’iconografia non era
uno stemma di famiglia, non apparteneva all’individuo, ma alla sua matrice culturale,
e per questo non poteva essere ereditato, così come non veniva ereditato lo scarabeo
stesso che accompagnava il defunto sino al suo letto di morte.
Ma non abbiamo risposto al perché manchino le iscrizioni. Si può ritenere che,
come per gli amuleti veri e propri, questi oggetti fossero intrinsecamente eloquenti: il
loro essere parlava da sé. La qualità dell’incisione era rappresentativa del costo
dell’oggetto, della accessibilità del possessore all’acquisto di tali beni, e garante quindi
del suo status sociale. In secondo luogo si può ritenere che dovendo sigillare solo testi
scritti, il nome del redattore del testo/possessore del sigillo non fosse necessario
essendo già presente sul foglio di papiro.
Che tipo di documentazione costituissero questi testi è difficile dirlo, tuttavia la
loro presenza negli archivi templari sembra indicare gli atti che accompagnavano
donazioni a vantaggio del tempio. Suggestiva è invece l’ipotesi del Vercoutter che si
possa trattare in certi casi, o perlomeno in quello da questi descritto, di documenti che
attestassero le necessarie caratteristiche possedute dalle vittime destinate ai sacrifici988.
Il lotto di cretule pubblicato dallo studioso presentava la caratteristica di essere
composto per circa la metà da impronte tra loro simili e per la restante da dissimili.

986
V. supra.
987
Si presuppone per assunto che le tombe a camera di età punica ospitassero membri dello stesso gruppo
parentelare: Bernardini 1991, p. 195.
988
Vercoutter 1952, p. 42 e segg.
- 203 -
Quelle simili erano a decoro egittizzante con cartiglio di Men-kheper-re e le altre per
lo più con immagini di ispirazione greca989. Lo studioso francese ricollegava questa
circostanza ad un passo erodoteo in cui si descrive la pratica del sacrificio di bovini in
Egitto: una volta appurata la validità dell’animale lo si “contrassegna[va] con un
papiro, avvolgendoglielo attorno alle corna e poi, applicatagli la creta vi [si]
imprime[va] il sigillo”990. Lo studioso riteneva tuttavia che a Cartagine questa pratica
fosse applicata ai sacrifici dei fanciulli, così come tramandata dalle fonti classiche991.
Queste ultime non sono infatti in disaccordo sulla possibilità di una uccisione dal
carattere circostanziale, come sembra indicare questo lotto di cretule, realizzate in un
breve lasso di tempo. Tenuto conto infatti che il “sacrificio di fanciulli” avvenisse in
un area ad esso dedicata, il tophet, nulla osta che un’uccisione rituale potesse avvenire
al di fuori di questo spazio, e quindi la proposta del Vercoutter non possiede elementi
che ne impediscano la validità o la verosimiglianza992. Va tenuta tuttavia come
semplice proposta dal momento che nulla esclude che a Cartagine si svolgessero anche
altri tipi di sacrifici, e che si trattasse anche in questo caso ad esempio, come in quello
egiziano descritto da Erodoto, di un’ecatombe di bovini.
Ad ogni modo la comparsa dei sigilli in pietra dura, solo con l’età persiana in
Oriente e con l’avvio della politica imperiale cartaginese993 in Occidente avviene in un
momento ben preciso per le due metà del Mediterraneo. Da una parte, come proposto
da W. Culican994, gli scarabei sigilli erano uno strumento per le comunicazioni tra
membri dell’amministrazione imperiale, mentre dall’altra essendo lo sfruttamento
agricolo delle regioni conquistate l’interesse principale della madrepatria cartaginese,
si può associare questa comparsa alla nascita di una classe dirigente di ricchi
proprietari terrieri.
Ma a differenza dei Greci, che nel V secolo davano già diverse forme ai propri
sigilli, i fenici non abbandoneranno la forma dello scarabeo sino alla vigilia della

989
Ibidem pp. 43-44.
990
Erodoto Storie II, 38.3.
991
Vercoutter 1952, p. 43. Per una sintesi dei passi di autori classici sul sacrificio dei fanciulli nel mondo
fenicio-punico v. Ribichini 1987a, p. 28 e segg.
992
Usiamo qui la terminologia proposta da S. Ribichini (in Ribichini 1989, p. 48), e desunta dalle fonti dirette,
che distingue tra “sacrificio umano”, dal carattere regolare, e “uccisione rituale”, connessa a situazioni di
particolare crisi (ibidem).
993
Il termine “imperiale” si usa qui con l’accezione più latamente espansionistica di tipo coloniale, essendo noto
che Cartagine sino alla distruzione operata da Roma possedeva un ordinamento repubblicano.
994
Culican 1968, p. 57-58.
- 204 -
distruzione di Cartagine. Per più di trecento anni, dalla fine del VI al III secolo, il
sigillo punico sarà sempre inciso sul dorso ad assumere la forma del coleottero
coprofago, ed il perché di questa fortuna risiede almeno in parte nel valore magico-
religioso di questo insetto995. La sua quasi assoluta associazione al diaspro verde e in
minor misura alla rossa corniola deve essere stata anche dovuta alle concezioni che
sottostavano a questi due colori, e non solo alla relativa reperibilità della materia prima
o alle proprietà fisiche delle pietre tramandate da autori classici996.
Un approfondito studio di F. De Salvia edito ormai diverse decadi fa, oltre a
dimostrare come l’evidenza del dato archeologico imponga un interpretazione critica
delle valenze magiche e culturali in generale di un amuleto, spiega la valenza attribuita
a questo amuleto nel contesto arcaico di Pitecussa, dove per un fenomeno di
“mischkultur ellenico-semitica” si rinvenivano scarabei in steatite e pasta nelle
sepolture infantili, oltre che in quelle femminili997. La validità della tesi dell’autore è
incoraggiata da alcune formule magiche egiziane che prescrivevano l’uso di scarabei,
o parti di essi, nella costituzione di rimedi per pericoli cui era soggetta l’infanzia o per
i dolori del parto998. Credenze connesse a queste formule, che in Egitto ricoprivano un
ruolo senz’altro secondario, avrebbero trovato un terreno fertile e forse già permeato di
credenze locali analoghe nella colonia euboica. Per quanto concerne il mondo punico
la sfera infantile non sembra sensibilmente interessata da questa prospettiva. Gli
scarabei infatti non mancano nelle sepolture infantili e nei tophet, ma vi sono attestati
in misura senz’altro minoritaria. Si limitano tra questi ultimi a soli 4 esemplari
provenienti proprio dall’area santuariale sulcitana999, mentre mancano totalmente a
Cartagine1000, Mozia e Tharros, nonché in quello di minor durata di Monte Sirai1001.
Circostanza che, previa possibile smentita, indicherebbe la destinazione di questo tipo

995
Lagarge 1976, pp. 167-171: pone invece l’accento esclusivamente sul valore magico-religioso e sul ruolo
cultuale a Cipro, legato verosimilmente alla dea locale della fecondità.
996
Plinio (Naturalis Historia, XXXVII, 105 e segg.) afferma che la corniola era la sola pietra cui non si
attaccava la cera quando vi si apponeva il sigillo: cit. in Vercoutter 1945, p. 75.
997
De Salvia 1983b; De Salvia 1978, p. 1028 e segg..
998
Ibidem, p. 1041-1048.
999
Bartoloni 1973, nn. 123-126, tav. LXIII, 9-12. Cui forse si dovrà aggiungere un altro scarabeo in diaspro:
Hölbl 1986, p. 300, n. 120, tav. CLIV, 1.
1000
Bénichou-Safar 2004, p. 53-54: unica attestazione è uno scarabeo datato dal Cintas all’VIII secolo (Cintas
1970, p. 451). Più che per la prova di una credenza antica poi abbandonata, preferiamo in questo caso optare
per un rinvenimento isolato e casuale.
1001
Mancano nelle edizioni degli scavi di questi ultimi tre tophet menzioni di rinvenimenti di scarabei tra gli
amuleti.
- 205 -
di amuleti ad un fruitore di età adulta1002. La frammentarietà dei quattro in diaspro del
tophet di Sant’Antioco potrebbe spiegarsi con una rottura rituale o come ex voto, un
fenomeno limitato quindi ad una particolare circostanza tale da non determinarne un
fatto generalizzabile. La rottura e più in generale la deformazione di un oggetto
costituisce un elemento ricorrente nelle offerte ai defunti e alla divinità1003, onde per
cui nel caso del tophet non costituisce un elemento utile per comprendere la sua
funzione come santuario o necropoli infantile. Dovrà essere tenuto conto tuttavia che
gli oggetti di corredo personale rinvenuti in associazione alle urne risultano
prevalentemente integri, e nel caso dei gioielli le dimensioni ridotte, più che un aspetto
rituale1004, assecondano più probabilmente la proporzione con il loro possessore
terreno, il bambino. Se intesi come oggetti di accompagno del defunto invece, gli
scarabei intenzionalmente infranti avrebbero perso le proprie capacità magiche1005: in
sostanza nell’eventualità che lo scarabeo fosse inteso dai fenici come simbolo di
rigenerazione nella vita ultraterrena, ai fanciulli sepolti nel tophet sarebbe stata negata
questa possibilità. Per quanto concerne il presunto tophet di Tiro inoltre il
rinvenimento di undici scarabei in pasta1006 potrebbe costituire un ulteriore argomento
per la sua identificazione come necropoli ad incinerazione di individui adulti1007.
Il contesto di rinvenimento per questi oggetti è quindi sostanzialmente di tipo
funerario, tale da non precludere un’analoga destinazione per essi. Tuttavia come in
Egitto la funzione funeraria non era esclusiva, né tanto meno predominante sulle altre,
così possiamo ritenere che a Cartagine e nelle sue colonie accadesse lo stesso.
L’affermazione di P. Gauckler secondo cui lo scarabeo, a volte l’unico elemento di
corredo nelle sepolture cartaginesi, costituisse una “sorte de carte d’identitè du
mort”1008 va rivalutata alla luce di quanto abbiamo esposto in precedenza a proposito
della funzione sigillare e della rappresentazione dello status sociale. Una tale
affermazione può assumere validità se ammesso che avesse una funzione analoga per

1002
Montis 2005.
1003
Segarra Crespo 1997.
1004
Ibidem, pp. 291-298.
1005
In analogia con quanto ritenuto per le armi in contesti tombali, per le quali si imponeva al defunto una
proibizione dell’uso nel mondo ultraterreno (ib., p. 295). Oppure più semplicemente si voleva con la rottura
impedirne l’utilizzo ai vivi che successivamente avrebbero potuto impossessarsene.
1006
Ward 1991, pp. 89-93.
1007
Cfr. Moscati 1993b; Bartoloni 1993b.
1008
Cit. in Vercoutter 1945, p. 41, nota 1.
- 206 -
l’individuo in vita. Inoltre la sua presenza costante nelle tombe puniche, ma non
assoluta, induce a ritenere che nei confronti degli altri amuleti occupasse una posizione
di rilievo, ma che al pari di essi non costituisse un elemento essenziale del corredo
funerario.
Pare quindi impossibile, oltre che metodologicamente scorretto, presupporre
una dicotomia nell’uso degli scarabei, tra funzione “pratica”, o sigillare, e “amuletica”,
o rituale e simbolica1009. Tali funzioni, oltre ad essere solo alcune tra le tante possibili,
potevano coesistere allo stesso tempo.

5.1.4. I DESTINATARI

Per quanto riguarda i destinatari finali di questi oggetti, risulta difficile allo stato
attuale individuare differenti classi sociali o di età allo scopo di capire tra quali di
queste fossero maggiormente diffusi. Si può presumere tuttavia che le tombe a camera
della necropoli punica di Sulcis fossero appartenute ai membri più importanti della
comunità, e per il corredo di indubitabile valore economico e per il valore della tomba
stessa, la cui realizzazione non doveva essere certo alla portata di tutti1010. Il metallo
prezioso, in specie l’oro e le pietre dure, di cui si componevano alcuni tra i gioielli
presentati in questo catalogo è un sicuro indizio di agiatezza economica, e doveva
esserlo a nostro avviso anche l’argento. Sebbene gran parte di quest’ultimo possa
essere stato estratto nelle vicine miniere dell’Iglesiente non condividiamo la posizione
per cui la vicinanza della fonte riduca il valore economico dell’oggetto1011, non in
modo eccessivo comunque. I costi di estrazione, trasformazione e lavorazione
potevano infatti rendere il metallo di fatto inaccessibile. L’oro d’altronde è quasi
completamente assente nelle tombe di età arcaica, quindi realmente inaccessibile, e
non può essere considerato come metro di agiatezza economica, ruolo che dovrà essere
ricoperto dall’argento. In età punica invece, con l’aprirsi degli orizzonti economici,

1009
Come riconosce lo stesso F. Poole in merito agli scarabei di Pontecagnano: Poole 1993, pp. 408-411.
1010
La ricerca archeologica in Sardegna non ha individuato per il momento differenze rituali funerarie attribuibili
a distinzioni di censo o classe sociale. È quindi da ritenere, sebbene poco verosimilmente, che la necropoli
ipogeica di Sulcis fosse democraticamente aperta a tutti i cittadini e che quindi eventuali ruoli di indicatori
sociali fossero riservati ad altre componenti del rito funebre, quali ad esempio proprio gli ornamenti o il
corredo vascolare, o ancora altri oggetti di arredo e la decorazione della camera funeraria stessa.
1011
Campanella, Martini 2000, p. 50-51; Campanella 2000, p. 120-122.
- 207 -
l’oro fa la sua comparsa in massa nelle tombe sulcitane1012, come anche in quelle
tharrensi, prendendo il posto dell’argento, ma senza sostituirlo completamente, nel
ruolo di status symbol. Lo scarabeo, anch’esso in particolare, riteniamo possa
rappresentare un segno distintivo dello status sociale, secondo quanto abbiamo tentato
di comprendere più sopra.
Per quanto concerne il sesso invece abbiamo sopra menzionato come infanti e
donne siano indicati come i principali possessori, nelle sepolture, di amuleti e gioielli
in generale: ciò si può spiegare con il fatto che queste fossero le categorie di individui
maggiormente soggette a pericoli quali la morte infantile, le insidie del parto e del
post-parto. Ma si può affermare che fossero i soli ad utilizzare questi oggetti? Da
quando gli archeologi hanno iniziato, più o meno scientificamente ad indagare le
necropoli fenicie e puniche in Occidente, ovvero da più di 100 anni a Cartagine e da
circa 150 in Sardegna, l’interesse antropologico fisico, sviluppato allo scopo di
conoscere semplicemente il sesso del defunto, è stato raramente dimostrato. A ciò si
aggiunga il disagio creato da terreni la cui acidità disintegra totalmente i resti ossei,
come è il caso della stessa necropoli di Sulcis. Ultimamente invece, raggiunta una
maggiore sensibilità nei confronti di queste tematiche, i tempi per lo svolgimento delle
analisi, resesi più complesse allo scopo di determinare non solo il sesso ma anche l’età
e le cause della morte, eventuali patologie sofferte in vita, le composizione della dieta
etc., nonché della successiva pubblicazione dei risultati rendono indisponibili i dati.
Ora, come da un secolo a questa parte, si corre il rischio di determinare il sesso del
defunto dal corredo, mentre lo stato degli studi non permette ancora di farlo. Al fine di
disporre di dati che consentano una maggior consapevolezza in questo senso
proponiamo di seguito una serie di sepolture, e delle singole deposizioni, che hanno
conservato oggetti di ornamento e del cui defunto sia conosciuto il sesso:
Sardegna: Senorbì, Monte Luna1013: TP. III, cella A (scavi 1981-82). La camera
ospitava quattro inumati adulti di cui due donne, le sole a possedere
ornamenti: un diadema, due orecchini e un anello digitale in argento per la

1012
Bernardini 1991, p. 193.
1013
Costa 1983, p. 228. Tutte le sepolture della necropoli punica scavate nella stagione 1981-82 possono essere
datate entro il V secolo (p. 230). Solo per la tomba TP. III è dichiarato il sesso degli inumati. Gli esami
osteometrici e paleopatologici, affidati a due docenti dell’università di Cagliari non risultano ancora editi (p.
221).
- 208 -
prima, un altro diadema, due orecchini e uno scarabeo montato in argento
per la seconda.
Monte Sirai: Tomba 95 della necropoli fenicia (scavi 1998)1014. La sepoltura
a fossa conteneva un inumato di sesso femminile accompagnato, oltre il
consueto corredo ceramico, da un amuleto udjat e un vago in vetro
policromo portati al collo e da un diadema in lamina d’argento rinvenuto
presso la scatola cranica1015.
Sicilia: Palermo, Vivai Gitto (scavi 1980)1016:
Tomba 111017. La tomba ospitava una sola deposizione di donna adulta entro
sarcofago monolitico1018, il quale presentava all’interno una parure composta
di numerosi orecchini con pendente a cestello, pendenti e bracciali argento, un
orecchino a croce isiaca e un pendente a ghianda in oro, nonché un collare a
maglia d’argento con capsule alle estremità in oro, legate ad un pendente
lenticolare in argento placcato in oro1019.
Tomba 631020. All’interno erano due sarcofagi: il primo (A) ospitava due
deposizioni, un uomo e una donna1021, il secondo (B), una donna1022 con
indosso una collana1023. Ulteriori oggetti di ornamento erano all’interno di una
brocca1024 che conteneva altresì i resti di un altro defunto infantile incinerato
di sesso indeterminato1025.
Palermo, Caserma Tuköry (scavi 1989)1026:
Tomba 1. La tomba a fossa scavata nella roccia conteneva un sarcofago litico
al cui interno era una inumazione infantile di sesso femminile1027,

1014
Bartoloni 1999b. La sepoltura è datata a prima della metà del VI secolo e ritenuta appartenere ad una donna
di origine cartaginese: pp. 193-194.
1015
Ibidem, pp. 199-200, MSN 345, 352, 351, tav. IX, b e c.
1016
Vivai Gitto 1998.
1017
Ibidem, pp. 196, 207-211, tomba a camera del 560-550 a.C..
1018
Di Salvo 1998a, p. 244.
1019
Vivai Gitto 1998, pp. 207-209, 234-5, nn. VG 44-61; Spanò Giammellaro 1998, pp. 384, 386.
1020
Vivai Gitto 1998, pp. 197-198, 200-206. Tomba a camera in uso dalla seconda metà del V sec. al IV secolo.
1021
Di Salvo 1998a, p. 244.
1022
Ibidem.
1023
Vivai Gitto 1998, p. 205, n. VG 35.
1024
Ibidem, p. 203, n. VG 21 (elementi di collana) e VG 19 (brocca cinerario).
1025
Di Salvo 1998a, p. 244.
1026
Di Stefano 1998; Sarà 1998.
1027
Di Salvo 1998b, p. 262. La tomba è datata alla fine del VI – inizi del V secolo (Sarà 1998, p. 255).
- 209 -
accompagnata da due vaghi di collana e da un amuleto in forma di figura
femminile stante in osso1028.
Tomba 41. Tomba a fossa contenente i resti di un inumato infantile di sesso
indeterminato1029, insieme al resto del corredo erano presenti tre amuleti udjat
in osso del tipo traforato come i nostri in catalogo1030.
Tomba 63 (scavi 1997)1031. Tomba a fossa con sarcofago monolitico che
conteneva i resti di un inumato di circa cinque mesi1032. Al collo erano 29
elementi di collana, di cui 12 vaghi e 17 amuleti di produzione punica1033
Ai fini dell’esposizione presso la mostra tenutasi a Palermo negli anni 1995-
1996, il materiale proveniente dagli scavi palermitani è stato selezionato, non abbiamo
quindi notizia di eventuali altri oggetti di ornamento rinvenuti durante gli scavi1034 ad
eccezione di due presentati in occasione di una precedente mostra tenutasi nello stesso
Museo Archeologico Regionale A. Salinas1035. Si tratta di due scarabei in faïence
rinvenuti in due differenti tombe dell’area della Caserma Tuköry: la tomba 15 e la
381036. Per il primo non è nota la deposizione di provenienza, data la presenza
all’interno della tomba di due inumazioni adulte, maschile e femminile, e un
incinerazione infantile1037, ma per il secondo è interessante rilevare come provenga da
una tomba a camera che conteneva una sola deposizione adulta maschile1038.
Come gli scarabei fossero portati sia da uomini che da donne, oltre al contributo
dato dalla coroplastica e dalla statuaria, fonte già menzionata per i destinatari di altri
gioielli1039, lo rivela la stessa Cartagine, per la quale la Quillard propone in nota alcuni
esempi di coppie seppellite che portavano scarabei al collo1040.

1028
Ibidem, p. 256, nn. CT 54-56.
1029
Di Salvo 1998b, p. 262.
1030
Sarà 1998, p. 252-253 e 257, nn. CT 22-24. Il resto del corredo concorre a datare la sepoltura agli inizi del V
secolo.
1031
Di Stefano 2002.
1032
Ibidem, p. 189.
1033
Ib., catalogo a p. 197 e segg. Lo scarno corredo vascolare consente una datazione tra fine VI e inizi V secolo
(p. 190).
1034
Gli scavi presso le due aree cimiteriali dei Vivai Gitto e della Caserma Tuköry non sono ancora stati editi
esaustivamente: raro caso di disponibilità dei dati antropologici e insufficienza di quelli archeologici.
1035
Catalogo della mostra: Di terra in terra 1993.
1036
Ibidem, p. 307, nn. 409 e 408.
1037
Di Salvo 1998b, p. 262.
1038
Ibidem.
1039
V. supra; per gli scarabei: Quillard 1987, p. 125, tav. XXX, 6, e XXXI, 5.
1040
Ibidem, p. 125, nota 602; non ci è stato possibile accedere ai resoconti di A.L. Delattre e P. Gauckler a cui si
devono i principali scavi delle necropoli cartaginesi a cavallo tra 1800 e 1900.
- 210 -
Sebbene riteniamo che maggiore consapevolezza di questi dati debba essere
ancora acquisita, possiamo confermare a titolo ricostruttivo e parziale che principali
portatori di gioielli amuleti e gemme fossero le donne, almeno in contesti tombali di
individui adulti. Ad esse dovevano appartenere le parures più ricche e gran parte pure
degli amuleti. Così orecchini e anelli non dovevano essere insoliti indosso agli uomini.

Alla luce di quanto esposto sinora cercheremo di interpretare i dati archeologici


offerti dalle tombe puniche sulcitane oggetto di questo lavoro.
La tomba 5 PGM, come tutte le tombe sinora note a Sant’Antioco a camera
scavata nella roccia, ospitava tre deposizioni affiancate presso un angolo di fondo.
Ognuno dei tre feretri presentava delle caratteristiche proprie: posa di pietre sopra il
primo, sopraelevazione su blocchi di pietra per il secondo e su sostegni lignei per la
terza, le quali autorizzano a individuare un trattamento diversificato alla luce “di un
ruolo di particolare valenza sociale del defunto nella sua vita privata e pubblica”1041. I
monili provengono per la quasi totalità dalla prima sepoltura, quella prossima alla
parete laterale: i nn. 21, 23-26, 28-29 e 31. A questi possono aggiungersi gli amuleti
rinvenuti in fase di setacciatura nn. 27 e 30 per analogia con essi, e per ulteriore
analogia con i vaghi il n. 22, vago isolato attribuito alla deposizione 2 e forse
accidentalmente slittato in questa posizione. Questa deposizione si vedrebbe quindi
priva di ornamenti, fatto non desueto nelle tombe puniche, mentre dalla terza
deposizione, quella centrale e “fuoco centrale dello spazio funerario”1042, proviene lo
scarabeo in pasta n. 32. Tenendo conto della mancata conservazione dei resti ossei si
può tentare di conciliare il fatto rituale con la presenza dei monili: la prima
deposizione, quella cui era riservato il rito più semplice seppur caratteristico, sarebbe
appartenuta ad una donna, quella mediana forse ad individuo di sesso maschile, e la
terza e principale deposizione ad un uomo: il capo-famiglia, dalla parure
essenzialmente ridotta allo scarabeo.
La tomba 6 PGM pone un interessante problema ermeneutico: tre deposizioni in
una piccola camera sono addossate lungo i tre lati liberi senza particolari differenze di
corredo e di rito, ad eccezione di due pilastri rastremati, interpretati come betili dello

1041
Bernardini 2004, p. 144.
1042
Ibidem.
- 211 -
scavatore1043, che inquadrano la deposizione 2 sulla parete di fondo, e della ceramica
che accompagna la sola deposizione 1: un piatto, brocca con orlo circolare espanso e
un anfora1044. I monili non offrono particolari indicazioni sebbene presenti in tipologie
diverse nelle tre deposizioni: il primo inumato portava un bracciale in argento (n. 33) e
una collana di nove amuleti (nn. 39-47: udjat e pateci), il secondo un’altra collana, ma
composta stavolta di vaghi in lamina d’oro e di vetro con decorazione “ad occhi” (nn.
37-38), un amuleto pateco (n. 48) e uno scarabeo in pietra dura con figura ellenizzante
di leone alla base (n. 49). La deposizione 3 infine presenta il restante corredo aureo
della tomba composto da due orecchini (nn. 35-36), un anello da naso (n. 34) e un
prezioso pendente costituito dallo scarabeo in corniola n. 50 con montatura a staffa. Ci
troviamo quindi davanti a tre inumazioni dal corredo omogeneo seppur con differenze
tipologiche, tra cui spicca la terza per la materia prima, presente comunque nei vaghi
della seconda. Nessuna connotazione sessuale sembra ricavarsi dagli oggetti, sebbene
gli amuleti delle prime due suggeriscano il sesso femminile, e quelli della terza non
contraddicano un analoga interpretazione. La suggestione degli elementi decorativi
della parete di fondo che ci si trovi di fronte a “personaggi importanti della
comunità”1045, e forse legati al culto ufficiale, induce la azzardata ipotesi che la tomba
ospitasse le deposizioni di tre sacerdotesse.
Poco permette di capire la situazione della tomba 1 PGM BLV, per la mancata
conservazione dei resti ossei e delle associazioni con i monili. Dei tre/quattro inumati
ospitati al suo interno uno (deposizione 1) possedeva di sicuro un armilla in vetro blu
(n. 1) e una collana di cui rimane un solo vago in lamina d’oro (n. 10)1046, e un altro
(deposizione 2) indossava un orecchino in oro a corpo ellittico (n. 2), forse un altro
orecchino in argento (n. 5) e una collana di vaghi in vetro con decorazione ad occhi (n.
12). La cospicua quantità di gioielli rinvenuti in fase di setacciatura non attribuibili, e
la mancanza di amuleti1047, non permettono di fare considerazioni sul rituale o sul
sesso dei defunti, sebbene si possa propendere per il sesso femminile della deposizione
2.

1043
Ib.
1044
Ib., p. 151, nota 53.
1045
Bernardini c.p..
1046
Gli altri vaghi (n. 11) presentano una lieve differenza nella decorazione, che induce a pensare provenissero
da un’altra deposizione.
1047
Abbiamo proposto in precedenza di intendere la mano in osso n. 15 come complemento di arredo.
- 212 -
5.2. PRODUZIONE
Gli aspetti produttivi, oggetto di questo capitolo, rientrano nella sfera di
competenza dell’archeologia della produzione, il cui fine ultimo è quello di ricavare “il
rapporto fra gli uomini e fra gli uomini e le cose”, occupando così un posto importante
nella storia della cultura materiale1048. Scopo ben più umile di questo capitolo è invece
quello di presentare l’aspetto della produzione degli oggetti rinvenuti nelle tre tombe
sulcitane, allo scopo di comprendere in quale contesto fosse collocato il centro punico
di Sulcis. A tal fine arriveremo presentando gli oggetti, suddividendoli nuovamente,
stavolta non per base tipologica, ma per materia impiegata, per ognuna di queste verrà
proposto uno o più possibili bacini di raccolta e centri di produzione, allo scopo di
comprendere quali tra questi fossero localizzati a Sulcis o nelle sue immediate
vicinanze. Il tema delle importazioni, ovvero di quei materiali, finiti o no, che non
potevano essere rimediati nella zona, verrà trattato in un capitolo specifico (§ 5.3).
La suddivisione tipologica adottata nel catalogo (§ 3) e nella precedente sezione
(§ 5.1)1049, si rivela inutile in questo momento dell’analisi, perché permette di
esaminare, e risponde meglio a, quegli aspetti funzionali che si è cercato di individuare
su base etica ed emica. La suddivisione su base materica che adottiamo in questo
capitolo risponde ad un’esigenza, esclusivamente etica, di razionalizzare l’oggetto
dello studio perché sia confrontabile con le risorse ambientali, che solo in tale maniera
possono essere studiate. Solo in un secondo momento dell’analisi, al termine di questo
capitolo, sarà possibile ritornare all’interpretazione emica, con lo scopo precipuo di
chiedersi se una distinzione su criteri chimico-fisici fosse nota e apprezzata dagli
antichi fruitori.
I materiali utilizzati nella produzione degli athyrmata sulcitane sono i seguenti:
• osso o avorio;
• pietra dura semipreziosa;
• faïence e steatite;
• vetro o pasta vitrea;

1048
Mannoni, Giannichedda 1996, pp. XVIII-XIX.
1049
Ovvero: Gioielli, Amuleti e Scarabei.
- 213 -
• oro, argento e altri metalli1050;
• altri materiali.
È necessario inoltre premettere che l’approccio da noi utilizzato è il frutto di
un’attenzione accordata agli aspetti materici che costituisce una conquista recente
nell’ambito degli studi fenicio-punici, specie per talune categorie artigianali come per
gli amuleti e i vaghi di collana in vetro. Alcuni studi e analisi di laboratorio compiuti
negli ultimi anni1051 anticipano quella che potrebbe diventare una nuova stagione di
ricerca sulla civiltà e l’arte fenicio-punica, un nuovo atteggiamento analitico che possa
portare più rapidamente ad una nuova “età della sintesi”.
La sintesi operata da Sabatino Moscati ed edita in diversi lavori sino alla sua
scomparsa offrono un quadro che, per necessità espositiva, evidenziava una
caratterizzazione per classi artigianali dei centri fenicio-punici di Sardegna, laddove
questi mostrassero evidenti caratteri di autonomia e innovazione1052. In questa
prospettiva il centro di Sant’Antioco poteva ben dirsi produttore di ben poche classi,
quali quella scultorea e quella ceramica. Nella prima rientrano a pieno titolo le stele in
tufo trachitico per le quali il numero elevato rinvenuto (oltre 1500) e i caratteri di
originalità, e autonomia rispetto ad altri centri come Tharros e Nora, indicano la
produzione avvenuta in loco ed in un caso anche l’esportazione1053. Più isolati invece
gli altri prodotti scultorei tra i quali spiccano due statue colossali leonine, un tempo
poste a guardia di un complesso templare sull’acropoli, e l’altorilievo funerario
raffigurante un personaggio maschile egittizzante, con gonnellino e copricapo a klaft,
scolpito sul tramezzo di una tomba della necropoli punica1054. Questi ben si possono

1050
Il bronzo ricorre raramente nella composizione degli athyrmata: ne costituisce un elemento secondario, come
anima per rivestimento in metallo più nobile, o primario nella realizzazione dei gioielli più tardi o più poveri.
Come il ferro era utilizzato per gli strumenti di uso quotidiano o funerario, v. ad es. le coppiglie bronzee di
cui abbiamo qualche esempio nel nostro catalogo.
1051
Si citano alcune delle pubblicazioni utilizzate nel presente lavoro: Pisano 2000, contiene i dati sulle analisi
compiute su alcuni gioielli di Ibiza; Savio, Ferrari, Croce 2004, su vetri e scarti di fornace di Tharros; Savio,
Lega, Bontempi 2004, su alcuni amuleti di Tharros.
1052
V. in particolar modo Moscati 1996a, p. 10 sul metodo espositivo e di ricerca; Moscati 1993a,
esclusivamente per l’età punica.
1053
Moscati 1986a, pp. 219, 247; Moscati 1988a, pp. 83-85, tav. XXVI, 1-2.
1054
Sui leoni v. Bernardini 1988, e datazione a metà del VI secolo (p. 20); per l’altorilievo funerario v. ibidem,
pp. 19-21, con datazione al 500 a.C.; da ultima Mattazzi 1996. Ma forse la cronologia dovrà essere abbassata,
per la tipologia tombale a non prima della seconda metà del V secolo (Sulcis 1989, p. 44 e segg.). Un’altra
lodevole esecuzione sulcitana è l’“Astarte” di Monte Sirai (Bernardini 1988, p. 17 e segg.), ritenuta di poco
anteriore ai leoni, mentre il dubbio rimane circa la protome leonina in alabastro conservata presso il Museo
Barracco di Roma e datata al IV secolo: Bartoloni 1999a, in particolare p. 125.
- 214 -
tuttavia includere tra i prodotti eccezionali di botteghe attive nel centro e più
costantemente dedite alla realizzazione di prodotti di più largo utilizzo quali erano le
stele.
Anche la ceramica, come è logico supporre, godeva di ateliers stabili a Sulcis e
possedeva di un certo grado autonomo di sviluppo sin dalla fondazione della città1055.
Per gli athyrmata invece, sebbene una produzione locale non venisse e non
possa essere scartata a priori, rimaneva salda l’ipotesi di una sostanziale dipendenza
dalle importazioni dal centro punico di Tharros1056.

5.2.1. OSSO E AVORIO

Nella composizione di gioielli, amuleti e scarabei, ma anche di altri oggetti


come i bottoni1057, è frequente incontrare l’osso. Questa materia di origine organica era
alla portata di chiunque e reperibile quotidianamente, potendo essere ricavata dagli
stessi scarti del cibo. Viene generalmente valutata come indicatore di una produzione
locale, e nella fattispecie degli amuleti1058, essendo difatti naturale pensare che non ci
fosse motivo per importare da lontano un oggetto, od anche una serie di oggetti, che
fossero realizzati senza particolari abilità tecniche o capacità tecnologiche. Tale
deduzione, oltre che intrinsecamente debole, dovrà essere volte per volta valutata alla
luce di particolarità dell’oggetto in esame, essenzialmente di tipo stilistico, e del
corretto riconoscimento della materia prima, che può variare tra l’avorio vero e proprio
(zanne di elefante), l’osso (endoscheletro animale), il dente di ippopotamo e il corno di
cervide. Il caso dell’amuleto n. 15 del nostro catalogo può essere emblematico: tenuto
conto della possibilità che ad un’analisi chimica non si tratti di osso, ma di avorio in
cattivo stato di conservazione, e che si ritenga da parte nostra non trattarsi di amuleto
vero e proprio, la totalità dei confronti per esso disponibili in ambiti fenicio-punici
mediterranei è costituita da soli oggetti in avorio. Si dovrà optare in questo caso per
un’importazione, nonostante la facile reperibilità della materia prima. In presenza di
una non elevata qualità stilistica dell’oggetto in osso e in mancanza di puntuali

1055
Moscati 1988a, p. 125; Bartoloni 1983, pp. 21-54.
1056
Moscati 1988a, pp. 115 (per gli amuleti), 119-120 (per gli scarabei), 126 (note conclusive e in relazione ai
gioielli).
1057
V. § 4.4.
1058
Vercouttter 1945, cit. in Bartoloni 1973, p. 184.
- 215 -
confronti sulla lunga distanza, si può allora giustamente supporre una produzione
locale. Non è d’altronde da escludere che anche a Sulcis, centro di una certa rilevanza
economica nel quadro della Sardegna punica, potesse aver luogo una bottega
specializzata nella produzione di oggetti di apprezzabile qualità e destinati alla
fruizione in loco, e non necessariamente all’esportazione1059.
Ma dopo questa premessa metodologica vediamo quali sono gli oggetti in
questo materiale provenienti dai corredi di Sulcis. Si tratta come abbiamo detto di
oggetti classificabili entro le quattro categorie precedentemente utilizzate: gioielli,
amuleti, scarabei e varia. In particolare tra i primi si annoverano quattro vaghi in osso
(n. 14 a-b, q-r1060), caso al momento unico nella documentazione sulcitana e non solo,
fatto che potrebbe trovare una motivazione nel disinteresse per l'edizione e studio di
materiale analogo proveniente da altri contesti archeologici. Tenendo in sospeso il
discorso si potrebbe comunque avanzare una plausibile esecuzione a Sulcis dei quattro
vaghi in questione e giustificare l’assenza nel corpus dei gioielli di elementi in osso
come una priorità di scelta accordata ad altri materiali ben più apprezzabili
esteticamente1061.
Tra gli amuleti sono invece da annoverare due udjat: il primo è in avorio e
proviene dalla necropoli, in particolare dalla tomba 4 A, mentre il secondo è in osso e
proviene invece dal tophet. G. Hölbl menziona entrambi gli amuleti, di tipo
schematico occorre dirlo, nel suo lavoro del 19861062, componendo una apposita
tipologia (49.C: “Kompakte Typen aus anderen Materialien”) per includere i due
amuleti che non possiedono confronti conosciuti negli stessi materiali1063. Questa
condizione, anche senza piena corrispondenza tipologica fra i due udjat, depone a
favore di una loro possibile esecuzione locale.
Dal tophet proviene inoltre il resto, nonché il massimo, delle attestazioni di
amuleti in osso. Si tratta per lo più di amuleti di tipologie poco o nulla diffuse, come

1059
Ibidem, p. 184; Martini 2004, p. 68.
1060
Per questi abbiamo già espresso il dubbio circa la loro effettiva funzione, a causa della mancata perforazione
del n. 14 r.
1061
A margine di questo discorso possiamo aggiungere che se si attribuisce anche ai gioielli una notevole
valenza profilattica (presupponendo per un momento che questa distinzione fosse accettata anche dall’antico
fruitore), il materiale in cui fossero eseguiti i singoli elementi di una collana, in mancanza di un riferimento
ad una iconografia specifica quale è il caso dei vaghi, avrebbe avuto la sua importanza, cosicché all’osso e
all’avorio non sarebbe stato attribuito nessun potere magico o profilattico particolare.
1062
Hölbl 1986, p. 103, tav. LXXXIV, 2-3.
1063
Ibidem, p. 146.
- 216 -
tavolette a forma di animale o di vegetale, o tipicamente puniche come il pendente a
ghianda, il cippo e la “mano che fa le fiche”, fatto che ancora una volta testimonia
quella tendenza, popolaresca e non standardizzata, della scelta di tipologie propria del
santuario di Sulcis. Le prime due di queste ultime sono anche notevolmente
rappresentate nella collezione Lai insieme al “simbolo di Tanit” e alla trasposizione in
osso dell’astuccio porta amuleti, che rientrano anch’essi nell’ambito delle tipologie
propriamente puniche1064. L’elevato numero delle attestazioni, ora reso disponibile
dalla recente pubblicazione di D. Martini, consente anche per questi amuleti di
considerare una produzione in loco ad opera di una bottega artigianale
specializzata1065. Nella medesima sede si propone inoltre di attribuire alla medesima
bottega anche l’esecuzione dei cosiddetti bottoni, dei quali numerosi esemplari fanno
parte della stessa collezione Lai1066. Sebbene di questi non sia data una descrizione è
ragionevole supporre che si tratti di oggetti dello stesso tipo di quelli appartenenti al
corredo della tomba 1 PGM BLV (n. 17)1067 e per i quali si sono forniti gli elementi
per un’identificazione come complementi di cofanetti lignei1068. Se quest’ultima
risultasse corretta, la produzione dei “bottoni” a Sulcis dovrebbe essere compresa tra le
fasi della produzione o assemblaggio di questi contenitori. Come per gli indumenti, il
mancato reperimento di questi non permette però di apprezzare la diffusione e gli
aspetti legati alla produzione, come la qualità stilistica che consente in certi casi di
riconoscere il centro di produzione. Tuttavia il mancato riconoscimento delle seppur
piccole tracce della loro presenza, in questo caso le calotte ossee, è un ulteriore
elemento che accentua la deriva documentaria riconoscibile, e al contempo provocata,
dalle condizioni di partenza del rinvenimento archeologico.
Ad ogni modo una produzione locale dei questi bottoni non è inverosimile1069,
sia che li si consideri come appartenenti ad indumenti o come elementi di cofanetti

1064
Si acquisisce così un’ulteriore indiretta conferma della provenienza dal tophet degli oggetti della collezione.
1065
Martini 2004, p. 68.
1066
Ibidem, pp. 7, 68, degli oggetti e di vaghi in pasta vitrea è indicata la prossima pubblicazione a cura di S.
Poveromo: p. 7, nota 1.
1067
La presenza nel tophet di questi oggetti ci è stata riferita dagli stessi scavatori del sito, ma in particolare la
provenienza di questi dal “luogo di arsione” del santuario ha dato l’idea che i fanciulli fossero vestiti nel
momento del “passaggio per il fuoco”.
1068
V. § 4.4.
1069
Di altri numerosi oggetti di uso corrente in osso, che S. Moscati menzionava ormai più di trent’anni fa
(Moscati 1982, p. 554), ma tutt’oggi inediti, si dovrà tenere conto per completare il discorso qui solo
affrontato in maniera preliminare.
- 217 -
lignei, dal momento che per entrambe le categorie artigianali si può supporre
operassero botteghe specializzate nella loro produzione. In linea di massima l’arredo e
il vestiario sono prodotti per i quali non è difficile immaginare che un centro
importante come quello di Sulcis possedesse i presupposti per una realizzazione in
loco, quali la disponibilità delle materie prime ed una cospicua domanda, ma
importazioni anche di una certa consistenza di prodotti di elevata qualità potevano
completare il quadro degli scambi. Ebbene che i “bottoni” appartenessero a prodotti
locali o importazioni non è un’informazione che si possa acquisire al momento, dato
che anche l’estrema semplicità formale dei pezzi non ci consente di attribuirli con
certezza a questo o a quel centro di produzione.
Solo un cenno in conclusione va dedicato alle tecniche di produzione che in
qualche caso possono risultare utili ai fini del riconoscimento del contesto di
produzione e degli strumenti utilizzati. Nel nostro caso le tecniche sono quelle più
utilizzate1070: dalla segatura con lame dentate per ottenere un nucleo su cui intagliare
maggiori dettagli con un coltello, alla levigatura con pietre o polveri abrasive1071 e alla
rifinitura a tocchi di trapano1072. Per il traforo delle basi delle stesse calotte invece
sappiamo che venivano usati trapani con punte di diametro compreso tra i 4 e i 5 mm.,
mentre in mancanza di misurazioni dei fori di sospensione sugli amuleti del tophet e
della collezione Lai non è possibile esprimere alcun giudizio. La mano della tomba 1
PGM BLV (n. 15) invece non consente di verificare il tipo di trapano utilizzato perché
frammentaria, anche se l’unico confronto misurato è quello delle tre mani palermitane
il cui foro presuppone una punta di circa 8 mm di diametro1073, ma il dato non ci
sarebbe comunque di alcuna utilità dal momento che l’oggetto è verosimilmente un
prodotto allogeno.

5.2.2. PIETRA DURA SEMIPREZIOSA

Le principali materie semipreziose utilizzate nella produzione di athyrmata rinvenuti a


Sulcis sono il diaspro verde e la corniola, le quali appaiono strettamente legate alla
realizzazione di scarabei e, per la corniola solamente, anche ai vaghi di collana. Questa

1070
Mannoni, Giannichedda 1996, p. 109.
1071
Pacini 2004, p. 74.
1072
Martini 2004, p. 73.
1073
Tamburello 1966, p. 277.
- 218 -
condizione è condivisa anche dalla documentazione archeologica di Tharros dove
secondo la tradizione degli studi era collocato il massimo centro di produzione di
scarabei in diaspro verde del mediterraneo antico1074. L’opinione comunemente
condivisa che vuole in Sardegna il centro produttore degli scarabei greco-fenici è
basata su due dati, uno quantitativo e l’altro qualitativo. Il primo è costituito dal fatto
che nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari sia conservato più di un migliaio di
scarabei1075, anche se non tutti in diaspro, appartenuti a collezioni costituite nel corso
del 1800 e per i quali si suppone un’origine da Tharros, nella quale scavarono i
costitutori di quelle collezioni. Ma il numero degli scarabei sicuramente attribuibili a
questo sito, per i quali sia infatti stato possibile individuare un riscontro editoriale o
inventariale, è notevolmente inferiore: appena 34 esemplari1076. Tuttavia la
provenienza sarda di questi non è dubitabile, tanto più che lo Spano registrava nel
1851 un numero di quattro volte superiore per quelli rinvenuti presso questo sito
archeologico in quegli anni1077 e poi in gran parte dispersi. Più affidabile, anche se
quantitativamente di molto inferiore, è invece il dato del British Museum, dal quale nel
1856 furono acquistati i corredi di più di trenta tombe scavate da Gaetano Cara a
Tharros: i più di 70 scarabei in pietra dura1078 conservano oltre all’indicazione del sito
anche quella della tomba di provenienza1079. A questo si aggiunge poi quello degli
scarabei conservati al Museo Nazionale Sanna di Sassari, in cui su 105 ben 85
presentano indicazione di origine tharrense1080. Queste tre stime, se confrontate con
quella degli scarabei di cui sia noto il rinvenimento nel Levante, in cui sarebbe da

1074
Da primo Vercoutter 1945, p. 344; Moscati, Costa 1982.
1075
Stima di quasi 1100 esemplari effettuata sui numeri di inventario forniti in Boardman 2003, p. 4.
1076
Acquaro 1975a, p. 52, nn. B 1, 3-26, 28-36, di cui il B 1 in pietra nerastra, il B 4 in pietra verde-chiaro, il B
31 in agata, il B 36 in giada. La cifra di 41 in Moscati, Costa 1982, p. 204, tiene conto di quelli anche in altri
materiali.
1077
Spano G., (1851). Notizie sull’antica città di Tarros. Cagliari, cit. in Boardman 1987, p. 98, nota 1, la cifra
sembra però riferirsi a tutti gli scarabei, compresi quelli in faïence, e la percentuale di quelli conservati al
British Museum calcolata dal Boardman (meno del 10 %) non corrisponde con la somma di quelli editi nel
catalogo del 1987, che sono in tutto 125.
1078
Anche in questo caso la maggior parte è in “diaspro”, sebbene le analisi chimico-fisiche abbiano individuato
l’inesattezza della definizione materiale di cui si parlerà più avanti.
1079
Mendleson 1987b, per gli scarabei egittizzanti in faïence o vetro; Boardman 1987, per quelli egittizzanti e
grecizzanti punici; analisi scientifiche in Baynes-Cope, Bimson 1987, in cui dall’elenco si evince che in 33
tombe gli scarabei, ad eccezione della 8 che ne era sprovvista, erano presenti in numero variabile da 1 a 10
per tomba.
1080
Moscati, Costa 1982, p. 205; cui va aggiunta la successiva pubblicazione degli scarabei in pasta: Iocalia
Punica 1987, pp. 54-80, tavv. XXI-XXIX; Acquaro 1987b, per quelli in pietra dura, che sono in tutto 58, di
cui 49 in diaspro verde: p. 229.
- 219 -
collocare il più probabile alternativo centro di produzione, non offrono dubbi sulla
localizzazione anche in Occidente di botteghe.
Il dato qualitativo che permette di individuare in Sardegna il centro produttivo
si fonda sul confronto delle iconografie ricorrenti alla base delle gemme appartenenti
ai due maggiori gruppi di rinvenimenti: quello sardo e quello cartaginese. J.
Vercoutter, editore della prima sintesi sugli scarabei della metropoli nordafricana, nel
1945 notava infatti che se tutti i motivi cartaginesi si riscontravano su quelli sardi,
viceversa lo stesso non poteva dirsi per questi ultimi1081.
Nonostante i due dati godano di un forte valore probatorio, la loro validità è
stata e continua ad essere messa in dubbio in ambito anglosassone, da prima da D.
Harden1082 e in tempi recenti da J. Boardman. Quest’ultimo ha dedicato nel 2003 il
risultato di una ricerca, per sua stessa ammissione ancora allo stato iniziale1083, nel
quale ripropone la questione degli scarabei “greco-fenici”. Paragonando questa al caso
dei cosiddetti sigilli “Lyre Player”, per i quali il maggior numero di rinvenimenti
proviene dalla colonia euboica di Pitecoussa e ne è stata dimostrata la produzione
siriana1084, mostra scetticismo anche nei confronti del rinvenimento in Sardegna di
nuclei di diaspro e strumenti per la lavorazione1085, e della validità della stessa analisi
compiuta nel 1982 su due campioni di pietra grezza rinvenuti nel Mogorese e nell’area
del Monte Arci1086. Lo studioso inglese è infatti incline all’attribuzione di quasi tutta la
fabbrica in diaspro verde ad uno o più centri levantini, concedendo alla Sardegna un
solo gruppo di scarabei in serpentino il cui stile e motivi iconografici non sono attestati
al di fuori dell’isola1087.
L’intera questione appare quindi ancora aperta ed a questa solo la
localizzazione di una bottega, tramite materiale mobile che analisi scientifiche possano
attribuire ad un vicino bacino di raccolta, potrà fornire una seppur parziale
conclusione. A tenere la questione inconclusa contribuisce infatti l’insufficienza delle
analisi chimico-fisiche disponibili. Quella compiuta su due campioni rinvenuti

1081
Vercoutter 1945, p. 344; Moscati, Costa 1982, p. 203.
1082
Per una sintesi dello status questionis aggiornato al 1982 v. ibidem, pp. 203-206.
1083
Boardman 2003, p. 1.
1084
Ibidem, p. 14.
1085
Moscati 1975, p. 130; Moscati, Costa 1982, p. 204; citt. in Boardman 2003, p. 14.
1086
Moscati, Costa 1982.
1087
Boardman 1987, p. 99, tav. LIV, a-d; Boardman 2003, p. 14; tra i quali indica Acquaro 1977a, n. 7, tav. XXI,
della collezione Biggio ed ai quali forse è da attribuire il n. 49 del nostro catalogo .
- 220 -
nell’entroterra di Tharros dimostra che il materiale è diaspro per la maggioritaria
presenza di silice o biossido di silicio (SiO2) e di provenienza da giacimento sardo, se
il rinvenimento non fosse sufficiente a dimostrarlo, per relativamente elevata
concentrazione di argento1088. Ma come auspicato allora purtroppo non è stata
compiuta l’analisi su pezzi finiti e tanto meno su eventuali giacimenti nei pressi di
Cartagine, per risolvere la disputa tra i due probabili centri occidentali1089. D’altro
canto le analisi effettuate sui 133 scarabei tharrensi del British Museum1090 hanno
indicato invece che di diaspro non si può parlare, data la forte impurità dei composti
pur sempre a base di silice, ma di Greenstone Facies, a sua volta suddivisa in due
gruppi a seconda della forma microcristallina dei silicati (come la cristobalite nel
gruppo (a) e come il quarzo nel (b)). Il Boardman, come abbiamo già affermato
piuttosto scettico nel localizzare in Sardegna i giacimenti di provenienza di queste
pietre1091, ritiene che le due varietà di pietra verde possano rappresentare insignificanti
differenze locali1092. Ma quel che colpisce maggiormente è la sua posizione nei
confronti delle registrazioni, ad opera di studiosi della seconda metà dell’ottocento
(“overanxious in their attempts to demonstrate local production”1093), di materiali non
finiti e strumenti per la lavorazione a Tharros e Cagliari, considerate da lui troppo
vecchie e non verificabili1094. Lungi dal portare un termine a quella che sembra
diventare una ricerca senza termine, che solo indagini scientifiche più precise potranno

1088
Moscati, Costa 1982, p. 209, il SiO2 è presente in percentuale del 95,66 % e 92,28 % nei due campioni, e
l’Ag rispettivamente 0,0018 e 0,0020 %.
1089
Ibidem, p. 210, A.M. Costa annuncia in questa sede il prossimo (ma non realizzato) compimento di analisi, a
cura dell’Istituto di Mineralogia dell’Università di Cagliari, su di un frammento di scarabeo rinvenuto nella
necropoli punica Monte Luna di Senorbì; Moscati 1987, p. 114.
1090
Baynes-Cope, Bimson 1987.
1091
Acquaro 1975a, pp. 52-53, ricorda come i filoni più noti dell’antichità siano localizzati in Egitto (v. il più
recente Aston, Harrell, Shaw 2000, p. 29), dal quale proveniva diaspro verde utilizzato nella produzione di
sigilli nell’area fenicia del Tardo Bronzo (Boardman 2003, p. 6, bibliografia a nota 9) e a Cipro, dove Plino
registrava una varietà duram glaucoque pingui (Plinio Nat. Hist. XXXVII, 115). Nello stesso luogo l’autore
menziona l’etimologia semitica del termine greco ’ίασπις: Acquaro 1975a, p. 53; Acquaro 1984, p. 91;
Pacini 2004, p. 91. Sarà necessario includere a scopo di completezza la notizia, data dallo Spano, della
presenza di giacimenti di diaspro rosso nell’isola di S. Pietro, distante pochi km di mare a nord di
Sant’Antioco: Spano 1857, p. 53, nota 2; Moscati, Costa 1982, p. 208, nota 18.
1092
Boardman 1987, p. 99.
1093
Ibidem, p. 100.
1094
Ib., p. 100, 104, nota 24; le fonti sono: Pais E., (1881). La Sardegna prima del dominio romano. Roma, p.
91; Perrot G., Chipiez C., (1885). Histoire de l’art dans l’antiquité. Vol. III. Parigi, p. 660; Elena P.F., (1868).
Scavi nella necropoli occidentale di Cagliari. Roma, p. 36, menziona uno scarabeo non terminato e uno
strumento in ossidiana da Cagliari ed un pezzo simile da Tharros; Spano G., (1855). Intaglio degli scarabei.
In BAS vol. 1, p. 83 e segg., per non terminati pezzi in corniola e altri materiali; Crespi V., (1868). Catalogo
della raccolta di antichità sarde del signor Raimondo Chessa. Cagliari, p. 131, cit. in Acquaro 1975a, p. 52,
nota 11.
- 221 -
aiutare a completare, sarà doveroso riportare la tesi, condivisa dallo stesso
Boardman1095, per cui nuclei di materia grezza potevano essere importati anche da
lontano, specie viste le minime dimensioni dei pezzi finiti, di modo che i giacimenti
non indicano necessariamente il luogo di produzione. Schegge di lavorazione in
contesto di IV secolo sono note anche a Cartagine da una comunicazione di P. Cintas,
purtroppo non edita correttamente1096, ma considerata dall’autrice che la raccoglie
come la traccia dello spostamento degli ateliers a Cartagine dopo la conquista della
Sardegna.
Prescindendo anche da questo ultimo dato tutto da verificare, l’analisi sugli
aspetti produttivi degli scarabei in pietra dura è condotta praticamente solo su base
stilistica. Lo studio oltre-trentennale condotto da E. Acquaro sulle basi dei sigilli
punici porta ad individuare nei tre maggiori centri fornitori di questi oggetti
(Cartagine, Tharros e Ibiza) gli unici tre probabili ateliers del mediterraneo
occidentale1097. La sua attività di studio delle gemme puniche, disseminata in un
notevole numero di interventi1098, ha portato negli ultimi anni all’individuazione
dell’attività di botteghe sulla base di comuni elementi stilistici e tecnici1099. Le
botteghe afferenti ai tre macro-centri risultano esser state autonome quanto a stile e
tecnica, ma in una generale interdipendenza e scambio di iconografie. Una
osservazione fatta ormai diverso tempo fa da S.F. Bondì, sulle differenti tecniche di
lavorazione impiegate nei centri di Tharros e Cartagine1100, sembra poter godere
tutt’oggi di una certa validità1101: l’uso del trapano tondo nella tecnica definita drill-
hole, ovvero la pratica di fori della grandezza desiderata allo scopo di rendere le parti

1095
Boardman 1987, p. 100, confronta con l’importazione della corniola utilizzata per la coeva produzione
etrusca.
1096
Quillard 1987, p. 129.
1097
Acquaro 2003. Le più ampie sintesi sui materiali di questi centri sono Vercoutter 1945 per Cartagine,
Fernandez, Padró 1982 e Boardman 1984 per Ibiza, mentre manca il materiale di Tharros, disseminato nei
musei di Cagliari, Sassari e Londra e altre numerose collezioni pubbliche e private è stato oggetto di
puntiformi pubblicazioni, e tanto meno è auspicabile un catalogo omnicomprensivo. I materiali del Museo
Nazionale A. Sanna di Sassari sono pubblicati in Acquaro 1987b, e quelli del British Museum in Tharros BM
1987, analizzati dal Boardman: Boardman 1987.
1098
V. bibliografia per quelli citati in questo lavoro.
1099
V. ad es. Acquaro 2003; nonché i vari interventi in Transmarinae Imagines 2003.
1100
Bondì 1975, p. 89 e segg.
1101
Ancora una volta la voce del dissenso viene dal Boardman secondo il quale la “greenstone facies”, rilevata
dalle analisi degli scarabei londinesi, rivela una considerevole varietà di durezza, per cui alcuni si sarebbero
potuti lavorare con il solo coltello o con una punta appuntita, senza perciò l’uso del trapano, necessario invece
per il diaspro (Boardman 2003, p. 6), che come il quarzo ha durezza 7.
- 222 -
anatomiche o i dettagli, appariva precipua della produzione sarda e di quella della
madrepatria fenicia. Questa condizione potrebbe essere la prova della diretta filiazione
della prima dalla seconda, senza il concorso di Cartagine e quindi di una
subordinazione di questa nel quadro della produzione occidentale1102, o più
semplicemente, per dare ragione al Boardman, la prova della provenienza orientale dei
sigilli sardi. Posizioni sicure in merito non sembrano per il momento raggiungibili,
tanto meno appare prossima la possibilità di storicizzare l’intero fenomeno della
produzione glittica occidentale. Per raggiungere tale obiettivo dovrà essere continuata
l’analisi stilistica per l’individuazione delle botteghe e per ottenere seriazioni più
precise, magari supportate dai dati provenienti da nuovi rinvenimenti archeologici in
contesti stratigrafici più affidabili, quali quelli presentati in questo lavoro.
Un ulteriore elemento utile all’individuazione delle botteghe, e sovente
tralasciato nelle edizioni grafiche dei reperti, è il dorso degli scarabei. Il Boardman
non ritiene dal canto suo che possa essere un migliore indicatore di cronologia,
provenienza o magari di bottega, data la conservatività di quest’arte, pur tuttavia
qualsiasi discrepanza con i tipici trends della produzione può essere indizio di
contraffazione1103. Egli ricorda infatti come la produzione etrusca sia caratterizzata
dalla decorazione ai lati del plinto su cui poggia il coleottero, quella greca da un dorso
dal profilo molto sporgente o piano1104, mentre su gran parte di quelli punici ha
riscontrato quello che definisce il “pinched-back”, una piccola sporgenza ottenuta
attraverso due piccoli tagli ai lati della linea mediana che separa le elitre1105. Questo
elemento, sebbene non osservabile per carenza di rappresentazione fotografica, è stato
dallo studioso stesso riscontrato su alcuni scarabei orientali quale elemento comune
della produzione. Per questo motivo, e allo scopo di poter riscontrare ulteriori elementi
di confronto o dettagli utili ma non ancora individuati, si può ritenere che la maggior
disponibilità immagini possibili renda una edizione più completa e apprezzabile dalla
comunità scientifica. Con questo intento sono presentate le immagini fotografiche
degli scarabei sulcitani in questo lavoro.

1102
Bondì 1975, pp. 96-97.
1103
Boardman 2003, p. 7.
1104
Per la tipologia dei dorsi degli scarabei greci ed etruschi v. Boardman 1968, pp. 13-17.
1105
Boardman 2003, p. 7.
- 223 -
Per quanto concerne lo sviluppo delle indagini future anche la ricognizione
degli aspetti dorsali degli scarabei potrà offrire un contributo all’indagine, pur sempre
subordinata a quella delle figurazioni alla base. Il corpus degli scarabei fenici classici
curato dal Boardman, presso il dominio web dell’Archivio Beazley dell’Ashmolean
Museum di Oxford1106, offre un facile accesso ad una documentazione altrimenti
dispersa, ma manca nella stessa progettazione delle immagini dei dorsi.

Il secondo materiale per frequenza utilizzato nella glittica punica in pietra semi-
preziosa è la corniola, una pietra traslucida rosso-arancio, come il diaspro variante del
calcedonio a sua volta forma microcristallina di quarzo1107. Il colore rosso è dato dalla
presenza in traccia di ossidi o idrossidi di ferro, mentre una tonalità più intensa poteva
essere ottenuta riscaldando la pietra, procedimento già noto agli antichi1108. Della
fortuna di questa pietra nella glittica Plinio dava una giustificazione sostenendo che
fosse la sola alla quale non rimaneva attaccata la cera dopo l’apposizione del
sigillo1109. Presso gli egizi era ritenuta preziosa al pari dell’argento, del lapislazzuli e
del turchese. Questi sfruttavano giacimenti presenti in Nubia e nel deserto orientale1110
e la chiamavano herset (= tristezza)1111.
La presenza minoritaria della corniola tra le pietre utilizzate nella glittica
punica1112 è senz’altro motivo dello scarso interesse nei confronti della ricerca di
possibili luoghi di approvvigionamento. D’altronde lo stesso scarso utilizzo della
pietra suggerisce che la materia prima non dovesse essere a facile portata, onde per cui
l’importazione di essa, magari dallo stesso Egitto, se non addirittura di prodotti finiti,
sembra un’ipotesi plausibile. In questa condizione la produzione punica troverebbe un
parallelo in quella etrusca coeva che importava lo stesso materiale per farne un uso

1106
CPCS.
1107
Baynes-Cope, Bimson 1987, p. 106.
1108
Aston, Harrell, Shaw 2000, p. 27; Pacini 2004, p. 92.
1109
Plinio Naturalis Historia, XXXVII, 105 e segg, cit. in Vercoutter 1945, p. 75.
1110
Aston, Harrell, Shaw 2000, p. 27.
1111
Gardiner 1927, p. 582. Il termine assume un doppio significato in età tarda a causa della dicotomia che per
gli egizi era insita nel colore rosso: legato da una parte al sangue e all’energia positiva e dall’altra al dio della
tempesta e del disordine Seth: Andrews 1994, p. 102.
1112
Si forniscono alcune cifre indicative: tra gli scarabei di Tharros al British Museum la corniola figura con 8
esemplari contro i 62 in “diaspro” (Baynes-Cope, Bimson 1987), mentre tra quelli del Museo Sanna di
Sassari, per la quasi totalità tharrensi il rapporto è di 4 : 49, e risulta sempre la seconda per frequenza:
Acquaro 1987b, p. 229. Un rapporto simile d’altronde si evince dai pochi scarabei rinvenuti a Sant’Antioco
(tab. 8): 2 in corniola contro 16 in diaspro.
- 224 -
quantitativamente ben più rilevante1113. La corniola d’altronde percorreva traffici a
lunghissima distanza già nel III millennio, partendo da centri di produzione e
smistamento localizzati nella valle dell’Indo e in Iran1114, e una dimostrazione che gli
stessi lapicidi operassero su due diverse pietre, diaspro e corniola nel nostro caso, è
confermato dal confronto del n. 50 del nostro catalogo in corniola con uno scarabeo in
diaspro di Ibiza1115: i due sono stati eseguiti dalla stessa mano.
Un ulteriore indizio della preziosità presso i punici di questa pietra possono
essere considerati i vaghi di collana, realizzati in una gamma ridotta di forme
(principalmente a barilotto, sferici e cilindrici) a volte montati singolarmente con un
filo d’oro come fossero semplici pendenti o amuleti1116. Il fatto che venissero utilizzati
gli stessi vaghi usati altrove in collane e che la montatura non sia certo di elevato
livello tecnico dimostra da un lato come questi circolassero sotto forma di pezzo finito,
essendo ragionevole pensare che, se vi fosse stata la possibilità, sarebbe stata scelta
un’altra forma, e dall’altro come questi pendenti “improvvisati” fossero oggetto di un
artigianato di secondo livello, senz’altro diverso da quello degli scarabei, e magari
anche di un mercato di seconda mano.

Il serpentino è la pietra alla quale dubitativamente assegniamo il n. 49 del nostro


catalogo, per analogia con il tema iconografico e aspetto stilistico di una classe
riconosciuta dal Boardman1117, alla quale egli attribuisce, pur in mancanza di analisi
chimiche ed esame autoptico, lo scarabeo in pietra cinerognola della collezione
Biggio1118. Per la precisione gli esemplari tharrensi al British Museum appartengono
ad una varietà di serpentino chiamata clinocrisotile, un idrossido di silicato di
magnesio (Mg3 Si2 O5 (OH)4)1119. Il serpentino è tuttavia di colore verde, pur nelle sue
varianti, e deve il suo nome alla credenza che curasse dai morsi di serpenti: già dal
periodo tardo in Egitto era la principale pietra con cui erano realizzati i “cippi di

1113
Boardman 1987, p. 100.
1114
Pacini 2004, p. 93. Per i traffici di pietre rosse tra Cartagine e l’interno dell’Africa v. Desanges 1978, p. 57,
nota 38.
1115
Cfr. § 4.3.2.
1116
Per alcuni esemplari sardi v. Iocalia Punica 1987, nn. D 24-26, tav. XXXII; Pisano 1987a, n. 29/9, p. 82, tav.
XXXIX; da Ibiza: Almagro Gorbea 1986, nn. 237-238, pp. 194-195, tav. LXXIII.
1117
Boardman 1987, p. 99, tav. LIV, a-d; Boardman 2003, p. 14.
1118
Ibidem; Acquaro 1977a, n. 7, tav. XXI; CPSC, n. 40/19.
1119
Baynes-Cope, Bimson 1987. Il serpentino è particolarmente tenero: ha durezza compresa tra 2,5 e 4.
- 225 -
Horus”, tipi di stele magiche che proteggevano dai morsi di animali velenosi1120. Il
basso grado di durezza di questa pietra (2,5 – 4) la rende inoltre facilmente lavorabile.
Per quanto concerne Sant’Antioco sarà necessario tenere conto della seguente
tabella che comprende gli scarabei editi e inediti:
n. Pietra Provenienza Motivo alla base Bibliografia
Uberti 1971, tav.
1. Diaspro Necropoli Bes con due serpenti
XLIV, 5-6
Acquaro 1977a,
2. Diaspro ? Personaggio regale su trono
tav. XIX, 1
Acquaro 1977a,
3. Diaspro ? Vacca con vitello
tav. XIX, 2
Acquaro 1977a,
4. Diaspro ? Guerriero in difesa con scudo, lancia e clamide
tav. XIX, 3
Guerriero inginocchiato in difesa con scudo a Acquaro 1977a,
5. Diaspro ?
faccia di Bes, lancia, elmo crestato e clamide tav. XX, 4
Acquaro 1977a,
6. Diaspro ? Atleta appoggiato ad asta con aryballos
tav. XX, 5
Acquaro 1977a,
7. Diaspro ? Personaggio incedente che porta coppa alle labbra
tav. XXI, 6
Personaggio femminile orante inginocchiato con Acquaro 1977a,
8. Diaspro ?
sfera tra le mani tav. XXII, 8
Acquaro 1977a,
9. Serpentino? ? Bovide o equide inginocchiato
tav. XXI, 7
Acquaro 1977a,
10. Corniola ? Centauro con ramo
tav. XXII, 9
Bartoloni 1973, tav.
11. Diaspro Tophet Sistro hathorico con corona e urei discofori
LXIII, 9
Bartoloni 1973, tav.
12. Diaspro Tophet Testa di negro
LXIII, 10
Bartoloni 1973, tav.
13. Diaspro Tophet Parte posteriore di leone accovacciato
LXIII, 11
Bartoloni 1973, tav.
14. Diaspro Tophet Non leggibile
LXIII, 12
Hölbl 1986, tav.
15. Diaspro Tophet ? Personaggio su trono con scettro e thymiaterion
CLIV, 1
Tomba 6 Nostro catalogo n.
16. Serpentino? Leone rotolante e retrospiciente
PGM 49
Tomba 6 Nostro catalogo n.
17. Corniola Efebo in corsa con ramo e fiore
PGM 50
Nostro catalogo n.
18. Diaspro Tomba 9 AR Arciere che testa la sua freccia con arco ed elmo
65
Nostro catalogo n.
19. Diaspro Tomba 9 AR Orante inginocchiato con oggetto tra le mani
66
Nostro catalogo n.
20. Diaspro Tomba 9 AR Iside che allatta Horus con ala destra abbassata
67

Tabella 8. Scarabei in pietra dura da Sulcis.

1120
Osiris 1984, n. 52, p. 68. Per le fonti di approvvigionamento in Egitto v. Aston, Harrell, Shaw 2000, p. 56.
- 226 -
La tabella evidenzia nella prima colonna le materie utilizzate nella produzione
degli scarabei in pietra dura rinvenuti a Sant’Antioco. Da ciò si nota la maggioritaria
frequenza del diaspro verde, o più cautamente della pietra verde: ben 16 su 20 oggetti.
Questo rapporto si conforma all’evidenza fornita da Tharros, suggerendo se non
proprio l’importazione degli oggetti da questo centro almeno la preferenza accordata
agli stessi materiali di un’analoga facies culturale. Il giudizio di S. Moscati espresso
quasi vent’anni fa sull’importazione, in particolare da Tharros, di oggetti di questa
classe artigianale1121 appare ancora valido per una serie di motivi: il numero quasi
irrilevante di attestazioni se confrontato con le cifre note o presunte di Tharros; il
riscontro delle stesse iconografie e, se non bastasse, degli stessi attributi stilistici
nell’ambito della produzione sarda. Unico caso, nello specifico di un motivo
estremamente insolito, è quello dello scarabeo in corniola della tomba 6 PGM (tab. 8,
n. 17), che trova riscontro in una sola gemma di Ibiza1122, ma la cui montatura a staffa
in oro suggerisce il passaggio per Tharros. In due casi invece (tab. 8, nn. 4-5) è
possibile riconoscere l’appartenenza ad una medesima bottega, i cui prodotti si trovano
anche a Tharros in pari numero1123.
Ancora dalle scoperte più recenti e dalle menzioni di autori del secolo XIX1124,
pur nella ragionevole dubitatività1125, appare l’evidenza di Sulcis come un centro che
di scarabei facesse un uso estremamente limitato. In linea con questa evidenza si pone
anche Monte Sirai1126, che con Sulcis doveva essere in rapporto di dipendenza
commerciale, e non solo. Onde per cui la localizzazione di una bottega lapicida
nell’antica Sulcis non può essere ancora minimamente affermata.

5.2.3. FAÏENCE E STEATITE

La faïence è un materiale ceramico non-argilloso invetriato costituito principalmente


di silice (SiO2), ossido di calcio (CaO) e alcali. Il suo uso è noto in Egitto già dal
periodo Predinastico (ante 3150 a.C.), da cui il nome Egyptian faience per distinguerlo

1121
Moscati 1988a, pp. 117-120;
1122
Cfr. § 4.3.2.
1123
V. § 2.1., nota 233.
1124
Spano 1857, p. 54, nota 1.
1125
Ibidem, pp. 53-54, lo Spano nota la grande quantità di pietre incise (di cui fornisce un esempio grafico,
rappresentante forse una gemma romana), ma asserisce anche la mancanza di scarabei che nello stesso tempo
affioravano copiosamente dagli scavi di Tharros: v. quanto menzionato in § 1.2.
1126
Bondì 1975.
- 227 -
dalla più tarda ceramica di Faenza, meglio nota come maiolica, il cui rivestimento era
costituito da un vetrina a base di stagno ed il nucleo di consueto materiale argilloso1127.
I suoi componenti principali coincidono, sebbene in quantità differenti, con quelli del
vetro (di cui si tratterà più avanti) e di un altro composto noto come blu egizio
(egyptian blue), nella composizione del quale poteva essere presente un’alta
concentrazione di rame. I tre materiali sono comunque da tenere distinti e da non
considerare come fasi di una stessa lavorazione1128, sebbene piccole variazioni nella
composizione potessero portare a materiali molto simili tra loro.
La faïence è costituita da un nucleo ottenuto cuocendo insieme silice, ossido di
calcio e soda. La prima forniva la massa del nucleo ed era ottenuta dalla macinazione
di cristalli di quarzo o dalla sabbia del deserto, abbondante in Egitto ma contenente al
suo interno anche altre sostanze, utili al processo di vetrificazione, o impurità dannose.
L’ossido di calcio o calce poteva essere ricavato dall’arenaria e dal gesso, o essere
inconsciamente aggiunto perché incluso tra le impurità della sabbia, mentre la soda
(Na2O) forniva gli alcali utili ad abbassare il punto di fusione del composto e
permetterne una lavorazione a basse temperature ed era ricavata dal natron, un
composto naturale disponibile nello wadi Natrun, un’oasi naturale a ovest del delta, e
nell’area di Elkab, a sud di Tebe nell’Alto Egitto1129. Sia la calce che la soda avevano
lo scopo di cementare insieme i grani di quarzo al momento della seccatura del
composto. Il processo di lavorazione, come sperimentato in laboratorio e sintetizzato
dagli studiosi, prevedeva il conferimento al nucleo della forma desiderata tramite
modellazione a mano libera, impressione in matrice o tramite tornitura, e successiva
abrasione a freddo della superficie1130. Ottenuta la forma seguiva l’invetriatura
proposta nei tre possibili e non alternativi procedimenti di efflorescenza, cementazione
e applicazione. Il primo metodo era ottenuto mescolando ai quarzi del nucleo sali
alcalini, che durante l’essicazione avrebbero raggiunto la superficie dell’oggetto
formando uno strato biancastro e, dopo la cottura, l’invetriatura supeficiale1131. Sul
pezzo finito il procedimento è riconoscibile dall’assenza di invetriatura lungo i bordi o

1127
Nicholson, Peltenburg 2000, p. 177.
1128
Ibidem, p. 178.
1129
Ib., p. 187.
1130
Ib., pp. 188-189.
1131
Ib., p. 189.
- 228 -
nelle zone concave e ancora nel punto sul quale questo era poggiato ad asciugare1132.
La cementazione era invece ottenuta immergendo il nucleo in una polvere invetriante,
che sottoposta ad alta temperatura si fondeva all’oggetto per reazione chimica tra la
polvere e la superficie di esso. Sebbene il procedimento richieda un maggior tempo di
esposizione al fuoco si otteneva un rivestimento costante su tutta la superficie1133. Il
terzo metodo è l’applicazione di un impasto fluido, composto di silice, calce ed alcali
misti ad acqua, sul pezzo tramite immersione, gocciolatura o pennello.
La materia così ottenuta era impiegata in Egitto principalmente per la
produzione di vasellame, piccole statuette, amuleti e scarabei. Dal Terzo Periodo
Intermedio in poi (circa 1000 a.C.) erano attivi almeno tre centri di produzione e tutti
localizzati nel Delta: Naukratis, Memphis e Buto, individuati per la presenza di forni e
di altre tracce di lavorazione1134. L’ultimo sito tuttavia ha fornito queste ultime solo in
relazione alla produzione di vasellame.
In ambito fenicio-punico la faïence, oltre ad essere di una qualità ben inferiore,
è attestata nella sola produzione di amuleti, e per lo più solo di quelli egittizzanti.
L’osservazione delle tipologie e della loro distribuzione non offre dubbi che anche in
Occidente fosse localizzato un centro di produzione di faïence, ma la terminologia in
uso nelle pubblicazioni di amuleti sino a tempi molto recenti non consente di operare
una sintesi completa delle tecniche utilizzate o note agli artigiani punici1135. Solo nel
2004 è infatti stato introdotto il termine faenza silicea, come traduzione di faïence e
compromesso tra questo e il termine “pasta silicea”, in occasione dell’edizione di
alcuni amuleti conservati presso il Museo Comunale di Sant’Antioco e delle prime
analisi microscopiche compiute su amuleti punici1136. Gli oggetti sottoposti ad analisi
sono di provenienza tharrense mentre per quelli di Sulcis non è stato possibile ricorrere
all’osservazione scientifica, per cui nel catalogo si fa esclusivo riferimento

1132
Ib..
1133
Ib., p. 190.
1134
Ib., p. 185-186.
1135
Si può tuttavia ragionevolmente ritenere che i termini “pasta silicea”e “pasta di talco” o “talcosa”, utilizzati
nelle principali edizioni italiane di amuleti (v. ad es. le principali: Acquaro 1977b; Acquaro 1982),
corrispondano a faïence o faenza silicea e alla steatite (sebbene sia spesso usato anche il termine steatite).
Meno utili sono le indicazioni in Vercoutter 1945, pp. 288-301, che usa “pate dure” e “pate friable”, mentre
più affidabilità offre il catalogo degli amuleti di Ibiza (Fernandez, Padró 1982), che opera distinzione tra
“pasta vidriada” e “esteatita”. L’analisi microscopica sarebbe tuttavia necessaria per dare coesione a questo
patrimonio terminologico.
1136
Savio, Lega, Bontempi 2004, p. 141.
- 229 -
all’eventuale presenza di smalto, ma nonostante ciò il contributo rimane di estremo
interesse. Questo ha permesso infatti di riconoscere entro 16 amuleti di produzione
punica, o per lo meno fenicia orientale1137, due gruppi distinti in base alla materia
utilizzata1138: il primo è costituito interamente da prodotti in faïence o faenza silicea,
per i quali si propone la foggiatura a stampo senza che però siano state indagate
ulteriormente le tecniche di invetriatura, ad eccezione del n. B, nel quale una macchia
di colore azzurro costituisce una traccia di “autosmaltatura” (v. efflorescenza sopra
descritta), non perfettamente riuscita1139. Il secondo gruppo è costituito invece da
oggetti in materiale lapideo, composti principalmente da silicati di magnesio,
assimilabile all’ensteatite o alla clinosteatite. Il primo di questi è solitamente ottenuto
tramite cottura della steatite, una pietra tenera disponibile in natura, allo scopo di
renderla più tenace o a seguito del processo di invetriatura1140. Per questi motivi
l’applicazione della vetrina sul corpo dell’amuleto o dello scarabeo, tramite
gocciolatura o con pennello, sembra il procedimento più adatto ad entrambi i tipi di
manufatti, quelli in faïence e in steatite. A questi poteva in definitiva anche essere
applicato del semplice colore non invetriante.
Gli scarabei egiziani o egittizzanti diffusi in tutto il mediterraneo nel corso del I
millennio sono per la maggior parte eseguiti in faïence e secondariamente in steatite e
fritta1141. Tra la Sardegna e Cartagine è stata riconosciuta l’attività di botteghe puniche
che trasponevano su scarabei in faïence motivi sia egittizzanti e geroglifici che di
ispirazione greca1142, trovando quindi un pendant alla coeva produzione in pietra dura.
I tre tipi individuati (types XXXVII-XXXIX) sono ampiamente attestati in Sardegna,

1137
Il n. Q (ibidem, n. Q, p. 127, fig. 15) è a nostro avviso di fabbrica levantina perché appartenente ad una
tipologia ivi diffusa e scarsamente attestato in Sardegna e Cartagine, dove si rinviene in contesti arcaici,
quando riconoscibili.
1138
Ib., p. 141, primo gruppo: nn. B-F, H, O-Q e secondo gruppo: A, G, I-N, R.
1139
Ib., p. 141, fig. 25. Altri punti analizzati nel dettaglio hanno permesso di riconoscere di materiali amorfi,
come la fritta nei campioni D-F (p. 146), che potrebbe indicare ancora un non perfetto utilizzo delle tecniche
di invetriatura.
1140
Baynes-Cope, Bimson 1987, p. 106, per gli scarabei di Tharros al British Museum; proposto anche in Savio,
Lega, Bontempi 2004, p. 141.
1141
Feghali Gorton 1996, pp. 2-3. Nota l’uso nel testo di composition per faïence. Secondo l’autrice circa il 25%
degli scarabei rinvenuti in Occidente erano realizzati in fritta o coloured pastes (p. 3).
1142
Ibidem, pp. 132-137, “Group 7, Late Punic Workshops”.
- 230 -
ma gli ultimi due in particolare, e molto limitatamente, anche a Sulcis o nelle sue
vicinanze1143.
Fonti di approvvigionamento dei materiali utili alla produzione di amuleti e
scarabei in faïence o pietra erano senz’altro presenti nell’isola ma non sono state
oggetto di ricerca particolare per quanto concerne il periodo che stiamo trattando. In
età tardo-antica, quando si può riconoscere in Sardegna l’attività di botteghe
specializzate nell’arte vetraria, le materie utilizzate provenivano o dovevano essere
reperite nei pressi1144. La facile disponibilità della materia prima o la grande richiesta
di questo tipo di beni, o le due possibilità insieme, ben giustificano il sorgere di una
produzione sul luogo e in Sardegna nel nostro caso.
La steatite, varietà compatta del talco (Mg3 Si4 O10 (OH)2)1145, era senz’altro
disponibile nell’isola e poteva essere reperita presso cave di talco note nel nord
dell’isola, in due località non meglio precisate: una presso il Monte Plebi
nell’entroterra di Olbia e l’altra a Poglina (SS), lungo la costa nord-occidentale,
qualche km a sud di Alghero1146. Queste tuttavia, sulla base della distribuzione di
manufatti di varia natura nel comprensorio, non sembrano essere state attive nel
periodo che ci interessa, ma limitatamente al neolitico e non oltre l’eneolitico finale
per il secondo1147. Una cava di talco è anche presente sulla costa meridionale presso
Capo Teulada e quindi nel Sulcis a qualche decina di km da Sant’Antioco1148. Sulla
base del criterio utilizzato per i due precedenti giacimenti non sembra fosse nota in età
preistorica, mentre in età fenicio-punica la distribuzione dei manufatti in steatite indica
nel Sulcis la maggiore concentrazione e quindi l’utilizzo di un giacimento in esso
compreso per l’approvvigionamento della materia prima. Si può notare la debolezza di
una tale deduzione quando fosse dimostrata la funzione di Tharros come unico o
almeno principale centro di irradiazione di manufatti in steatite, seppure in posizione

1143
Ib., p. 135, type XXXVIII, n. 10 (da Monte Sirai), e type XXXIX, n. 8 (da Tharros), con motivo identico a
Uberti 1971, n. 20, p. 296 e segg., in “pasta silicea smaltata, fine e compatta, turchese”.
1144
V. § 5.2.4.
1145
Baynes-Cope, Bimson 1987, p. 106.
1146
Canino 1998, pp. 151-152, fig. 4, B-C.
1147
Ibidem, pp. 151-152, fig. 2, a-b.
1148
Ib., p. 144, 153, fig. 4, D. Dava notizia della presenza di cave di marmo sfruttate dai romani in località
Zafferanu gia G. Spano in BAS vol. 2 (1856), p. 16; cave puniche di materiale non indicato in località Piscini
in Barreca 1986, p. 322; sulla presenza di resti pertinenti ad un centro di probabile fondazione fenicia v.
Barreca 1974, pp. 23-24, 226-227; sui resti di sepolture e strutture sicuramente attribuibili ad età punica v. da
ultima Cecchini 1969b, pp. 100-101 (Capo Teulada).
- 231 -
decentrata nei confronti del Sulcis. In questo periodo infatti, e in generale durante tutto
il corso della storia antica della Sardegna, il principale luogo di approvvigionamento di
questa materia prima pare siano state le cave presenti nel territorio di Orani (NU). A
capo di questo comprensorio, ancora durante tutto il I millennio a.C., il nuraghe
Nurdole ospitava “un’aristocrazia militare e religiosa [che] controlla[va] la produzione
primaria e secondaria [e tra questa quella dello sfruttamento delle cave di talco], ne
centralizza i frutti esibendo pubblicamente tale capacità e dirigendo processi di
redistribuzione e circolazione della ricchezza […]1149”. Tharros sembra naturalmente
privilegiata nei contatti con questa regione tramite la via diretta del Tirso, ma non
dovrà essere sottovalutata la possibilità dello sfruttamento della cava di Teulada per
l’eventuale localizzazione a Sulcis di botteghe: d’altra parte la calce ivi reperita poteva
assumere largo impiego nell’edilizia per i rivestimenti di muri e pavimenti, cosa che ne
giustificherebbe la conoscenza e lo sfruttamento per uso diverso da quello della
produzione di amuleti.
Per quanto concerne gli altri amuleti e scarabei da Sulcis, si rileva la grande
varietà di tecniche e risultati che normalmente ci si aspetterebbe da una produzione
che copre un arco di tempo di quasi quattro secoli (dal VI al III) ed alla quale non può
essere assegnato un unico centro. Nella generale appartenenza, per lo più, alla classe
della faïence o pasta silicea si possono distinguere diversi risultati tecnici che
meriterebbero senz’altro di un analisi microscopica approfondita. Quanto desumibile
dalle immagini da noi realizzate a grande risoluzione sugli amuleti e scarabei allora
conservati presso i locali della Soprintendenza a Sant’Antioco e provenienti dalle
tombe recentemente scavate nello stesso centro, si realizza qui in alcune osservazioni
preliminari.
Gli amuleti-ureo della tomba 5 PGM (nn. 23-27) presentano un nucleo
compatto apparentemente in materiale lapideo rivestito da un’invetriatura, ormai
opacizzata e bianca o incolore, fortemente legata al nucleo. Alcuni lacerti sui nn. 23-24
indicano che gli amuleti dovessero essere inizialmente coperti di colore verde,
applicato però secondariamente al rivestimento. I tre udjat (nn. 28-30) che con i
precedenti componevano una collana presentano le stesse identiche caratteristiche e

1149
Madau 1997, p. 74.
- 232 -
possono molto probabilmente attribuirsi alla stessa bottega. Il pateco (n. 31),
appartenuto alla stessa deposizione, presenta colorazione verde opaca su tutta la
superficie, ma non siamo in grado di stabilire se il nucleo sia in faïence o pietra,
sebbene gli spigoli, quando sia netti che smussati, possano suggerire il lavoro di un
intagliatore di pietra molto preciso. Diverso invece è il discorso per lo scarabeo n. 32
con geroglifici alla base. Questi sono ben delineati, pur nel generale corsivismo, così
come l’intaglio del dorso che si presenta molto vicino agli originali egizi, ai quali non
è escluso possa appartenere. Il materiale lapideo gessoso non è smaltato ma presenta
labili tracce di pittura verde in più punti scolorita, la mancata esposizione al fuoco può
quindi spiegare l’apparente tenerezza della pietra.
Analoghe considerazioni potrebbero essere affrontate per gli altri oggetti da noi
esaminati e rinvenuti nelle altre tombe sulcitane, ma alcuni amuleti emergono per
particolari caratteristiche tecniche. In particolare l’amuleto a forma di leone
accovacciato dalla tomba 9 AR (n. 62), che per motivi stilistici abbiamo imparentato
con simili amuleti di fabbrica naukratita diffusi anche a Cartagine, appare composto di
faïence, o forse anche fritta, molto consunta di colore turchese che ricorda da vicino
quella egizia. I due dati non fanno che confermare l’ipotesi che si tratti di un prodotto
di importazione. Diverso è invece il caso dei quattro amuleti della tomba 10 AR (nn.
69-73), appartenenti al corredo dell’unica deposizione del vano di destra dell’ipogeo,
raffiguranti due udjat e due pateci. Sebbene non presentino particolari divergenze
tipologiche con gli altri da noi esaminati, si presentano alla vista come composti di una
faïence verde brillante ottimamente riuscita. La superficie è perfettamente invetriata su
tutto il corpo, tale da far ritenere che in questo caso la tecnica di rivestimento utilizzata
possa essere stata la cementazione.
L’ipotesi di una localizzazione a Sulcis della produzione di amuleti è stata
espressa anche se non compiutamente da P. Bartoloni nel 19731150. In occasione della
pubblicazione dei primi amuleti rinvenuti nel tophet di Sant’Antioco lo studioso
rilevava la scadente qualità della gran parte degli oggetti e, in uno stadio delle
conoscenze che non consentiva di distinguere tra amuleti egiziani e tra quelli
egittizzanti punici, deduceva che data la facile accessibilità alla produzione egiziana,

1150
Bartoloni 1973, p. 183.
- 233 -
dove i mercanti fenici avrebbero avuto grandi possibilità di scelta, difficilmente
avrebbero ivi acquistato prodotti di così basso livello qualitativo1151. Il confronto delle
tipologie puniche, ora sufficientemente note, con quelle di sicura produzione egizia, da
ragione a questo assunto fornendo la visione generale di una produzione punica
occidentale debitrice dei modelli egizi ma fondamentalmente autonoma quanto a
realizzazione. L’aggettivo “locale” nella preposizione di P. Bartoloni stava quindi a
rappresentare questa autonomia nei confronti di quanto proveniva dall’Egitto ed il
riferimento “ad un commercio e ad un consumo interni”1152, senza che si potesse dare
una fisionomia precisa al centro di produzione e tanto meno un’indicazione
cronologica dell’inizio di questa. Si ritiene oggi che una produzione propriamente
punica di amuleti abbia inizio con il V secolo e forse anche con la fine del precedente,
come dimostrato dalle tipologie riscontrate in Spagna1153 e dai recenti scavi in
Sardegna1154, in coincidenza quindi con l’inizio del controllo politico e commerciale di
Cartagine nel mediterraneo occidentale e della produzione sarda di scarabei. Per
analogia con quest’ultimo dato si è teso ad individuare in Tharros anche l’origine di
questa classe di ornamenti e così, una volta edita la documentazione del centro
oristanese (o almeno quella attribuita ad esso)1155, e fatto salvo il gusto popolaresco
della documentazione sulcitana nota, il termine “locale” ha assunto un’accezione più
ristretta, designando la possibilità che alcuni amuleti in faïence e steatite di tipo
egittizzante fossero realizzati a Sulcis1156.
Nel complesso gli amuleti da noi esaminati, nonché gli scarabei, con datazione
compresa nel V secolo, si allineano ai trends della produzione attribuita a Tharros1157 o
altro centro del mediterraneo occidentale, e non sono immuni da una certa generale
rozzezza e schematismo. Ma caratteri difformi sembrano risultare dai reperti più tardi,
e che per aspetti tipologico-stilistici sono stati datati ai secoli IV e III. Ci riferiamo in
particolar modo agli amuleti della collezione Lai provenienti dal tophet e recentemente

1151
Ibidem.
1152
Ib.
1153
Padró 1991, p. 72.
1154
Campanella, Martini 2000, p. 51.
1155
Acquaro 1975b; Acquaro 1977b; Acquaro 1982.
1156
Moscati 1986a, p. 257; più esclusivo il giudizio in Moscati 1988a, pp. 114-115, in cui rimanda
tassativamente a Tharros come centro di produzione, o almeno di raccolta e smistamento, e dato il carattere
marginale delle eventuali produzioni sulcitane asserisce come queste non meritino neppure la definizione di
officine locali.
1157
Ad es. Moscati 1996a, p. 121.
- 234 -
editi1158 ed a quelli provenienti dalla necropoli, anch’essi editi di recente seppur non
integralmente1159. Facendo specifico riferimento alla tipologia più rappresentata, quella
dei pateci, la collezione Lai offre diversi esemplari “frutto delle più profonde
schematizzazioni del tipo” che trovano quantitativamente scarsi confronti nella
collezione del Museo di Cagliari e ad Ibiza1160. Lo stesso dato acquisisce maggior
forza se vi si aggiungono gli amuleti della necropoli1161: qui il tipo del pateco dalla
resa schematica, i cui volumi sono conferiti dall’incrocio di solcature senza fori
passanti, è presente con ben 36 esemplari. Anche il tipo dell’udjat, tra i più frequenti in
assoluto tra gli amuleti, nella sua resa compendiaria trova una forte attestazione nella
collezione Lai1162 e quasi nulla nel museo cagliaritano1163. Il dato quantitativo qui
esposto andrà confrontato con quello fornito da altre tipologie, il quale potrebbe
risultare meno indicativo data la loro minore attestazione. Quanto tuttavia sembra
emergere da questi dati è che la maggiore concentrazione a Sulcis degli amuleti più
tardi, perché frutto di “evoluzione” in direzione compendiaria, contro la localizzazione
a Tharros del principale centro di produzione, almeno nella fase iniziale, potrebbe
indicare lo spostamento o la nascita a Sulcis di una o più botteghe in grado di
rivaleggiare con esso nel corso del IV o del III secolo1164. In tale modo si
manifesterebbe ulteriormente quella differenza di gusto e committenza che era colta e
di alto livello a Tharros e più popolare a Sulcis. L’ipotesi di lavoro qui proposta
necessità comunque di essere verificata da un esame puntuale sugli oggetti1165, il quale
possibilmente faccia ricorso ad analisi di laboratorio.

1158
Martini 2004.
1159
Savio, Lega, Bontempi 2004, pp. 127-140.
1160
Martini 2004, p. 24, nota 23, ricorda che alcuni amuleti conservati a Cagliari, in mancanza di indicazioni
precise, potrebbero essere stati originariamente rinvenuti a Sant’Antioco. Al Museo Sanna di Sassari il tipo
schematizzato senza fori passanti, eccetto quello di sospensione, è rappresentato da un solo esemplare e per di
più senza indicazione di provenienza: Acquaro 1982, n. 119, p. 31, tav. VII.
1161
Savio, Lega, Bontempi 2004, p. 149, nn. 11-46.
1162
Martini 2004, nn. 86, 88-126, pp. 42-43, tavv. XII-XVII.
1163
Acquaro 1977b, n. 442, tav. XVII, unico amuleto paragonabile e senza indicazione di provenienza. A Sassari
il tipo si riscontra invece in 4 esemplari di Tharros: Acquaro 1982, pp. 24-25, nn. 58, 62-64, tav. III. Va
notata la presenza anche a Cartagine di questo tipo di amuleto: Redissi 1991a, pp. 104-105, tav. III, 22.
1164
Mutamenti di produzione sono avvertibili anche in riferimento ad un’altra categoria artigianale di Tharros,
quella delle terrecotte a stampo, che proprio dal IV secolo risente di forti influssi ellenizzanti: Moscati 1993a,
pp. 27-36.
1165
Altra possibilità potrebbe essere la più stretta dipendenza di Sulcis in questa fase da un altro centro
produttore o smistatore di amuleti, come doveva essere al di fuori della Sardegna ad esempio Cartagine: per
quattro pateci schematizzati da quest’ultimo centro v. Gubel 1987, pp. 23-24, nn. 4-7.
- 235 -
5.2.4. VETRO O PASTA VITREA

Il vetro è un composto artificiale composto da tre tipi di gruppi di elementi, che come
per la faïence sopra descritta, sono silicati, ossidi di calcio e alcali con le stesse
proprietà e finalità trattate in precedenza. Gli antichi, e Plinio che ne riporta la
voce1166, attribuivano la sua invenzione proprio ai fenici, ma sebbene tale notizia sia
contraddetta dai dati archeologici che ne registrano la comparsa in Mesopotamia alla
fine del III millennio1167, questa è senz’altro testimonianza del ruolo ricoperto da
queste genti nella produzione e se non altro nella diffusione dei prodotti.
Il tema della produzione di questo materiale ha goduto presso gli studi di
antichità di una maggior fortuna rispetto alla faïence in virtù della sua più vasta
distribuzione sia spaziale che cronologica. Nell’ambito degli studi fenicio-punici
manca tuttavia la disponibilità di un quadro completo che comprenda le varie categorie
di oggetti realizzate in questo materiale e che permetta di riconoscerne i centri di
produzione, le finalità e le modalità di scambio1168. Il motivo di ciò risiede nella
frammentarietà e parzialità della documentazione disponibile, che ha determinato
inoltre la settorialità degli studiosi che ai manufatti vitrei si sono dedicati. I principali
prodotti diffusi in ambito fenicio-punico sono infatti gli unguentari o piccoli
contenitori ad imitazione della più grandi forme ceramiche greche con decorazione
policroma, i grani di collana e le testine umane o animali, interpretate quest’ultime
come amuleti1169. È stato notato come il termine di “vetri preromani” sia il più
indicato1170, a causa della generica comunanza di tecniche utilizzate nel mondo
mediterraneo prima della invenzione della soffiatura nel I sec. a.C., ma soprattutto per
la difficoltà di individuare i centri di produzione di tipologie che conoscono un’enorme
diffusione e non sembrano caratterizzanti di una specifica etnia o facies culturale. La
diffusione mediterranea dei vasetti, suddivisi in tre gruppi a seconda delle forme
vascolari imitate e delle colorazioni adottate, è scandita in tre periodi distinti tra fine
del VI e inizi del I secolo a.C.. Il Primo Gruppo Mediterraneo diffuso tra fine VI e
prima metà del IV secolo aveva i suoi centri di produzione in area ellenica e

1166
Plinio Nat. Hist. XXXVI, 191.
1167
Sternini 1995, p. 11.
1168
V. alcune considerazioni in Ferrari 1996.
1169
Barthélemy 1995.
1170
Ibidem, p. 509, e bibliografia citata.
- 236 -
probabilmente a Rodi o in un qualche centro della Grecia orientale continentale1171
mentre il Secondo e il Terzo, di datazione recenziore, rispettivamente nel
Mediterraneo Occidentale (Italia e area macedone) e nell’area siro-palestinese. Questa
pluralità di luoghi di produzione è la ragione della mancanza di omogeneità della
categoria, ma va anche aggiunto il dato relativo all’altro tipo di prodotto vitreo: i
pendenti configurati a testa animale o umana, studiati nella loro sistemazione
tipologica e diffusione geografica da M. Seefried1172. Anche per essi la scansione
cronologica è accompagnata dallo spostamento dei luoghi di produzione: in Egitto per
i pendenti più antichi, in Fenicia e Cipro, e forse anche a Cartagine per quelli di VII-V
secolo e con un ruolo predominante di Cartagine per quelli più tardi, per i quali
possibili centri erano anche a Rodi, Cipro ed Egitto1173. La distribuzione dei due tipi di
manufatti riproposta da D. Ferrari1174, relativa ai secoli centrali della produzione (VI –
metà del IV secolo), indica chiaramente come solo l’ultima delle due tipologie (quella
dei pendenti) sia ascrivibile all’area e alla cultura fenicia e punica1175. Qualche
ulteriore spunto di indagine potrebbe provenire dalla completa analisi distributiva dei
grani di collana, che mancano ancora di essere studiati in aree diverse da quella
iberica1176 e centro-europea.
Ai pendenti policromi d’altronde avremmo ritenuto di dover associare i vaghi di
collana rinvenuti nelle tombe e nel tophet di Sulcis: con essi infatti condividono la
tecnica di lavorazione e quella di decorazione. La prima è del tipo della “fusione su
barra” (rod-formed glass), concettualmente vicina a quella usata per i vasetti (“fusione
su nucleo” o core-formed glass). Mentre per gli ultimi il materiale vitreo fuso era
disteso sulla superficie di un nucleo dalla forma desiderata e composto di sabbia,
argilla e materiali vegetali1177, nel caso dei vaghi di collana il nucleo era costituito
dalla stessa asta o barra metallica (mandrino) il cui spessore determinava, dopo il
distacco, la larghezza del foro di sospensione1178. Perché dopo un lieve raffreddamento
del vetro il distacco non fosse traumatico, la barra prima dell’operazione di

1171
Ferrari 1996, p. 10.
1172
Seefried 1976; Seefried 1982.
1173
Ferrari 1996, p. 10.
1174
Ibidem, p. 12, fig. 1.
1175
Ib., p. 11.
1176
V. i lavori di E. Ruano Ruiz: ad es. Ruano Ruiz 1996; Ruano Ruiz 1997.
1177
Sternini 1995, pp. 99-100.
1178
Ibidem, p. 100; Silvano 1988, pp. 65-66.
- 237 -
modellazione veniva ricoperta di una sostanza che consentisse la separazione.
Esperimenti e analisi consentono di scegliere tra una certa gamma di sostanze
(prevalentemente calcite o argilla1179), ma solo l’analisi chimica diretta sui campioni
può fornire un’indicazione precisa. La seconda analogia dei pendenti con i vaghi è
costituita senz’altro dalla tecnica di decorazione “ad occhi”, quando presente. Questi
occhi sono costituiti da due o più strati concentrici di vetro di colore diverso
(generalmente blu e bianco) la cui sovrapposizione e inserzione all’interno del nucleo
del vago poteva essere ottenuta tramite colatura a caldo di gocce1180, di volta in volta
di dimensioni inferiori. Perché venissero assorbite completamente dal nucleo era
sufficiente avvicinare ogni volta il vago alla fonte di calore, ma poteva essere operata
una certa pressione sulla goccia o sfera, ottenendo così un risultato ben riconoscibile e
qualitativamente inferiore1181.
L’accostamento dei due tipi di prodotti vitrei è qui proposto solamente su base
qualitativa. Solo un’analisi dei contesti di rinvenimento, e possibilmente anche una di
tipo chimico, potrà indicare se i due tipi fossero prodotti negli stessi centri. La
difficoltà nell’individuazione di questi è senza dubbio accentuata dalla scarsità, e
sostanziale assenza, di indicatori archeologici di produzione del vetro nel mediterraneo
occidentale e in particolare relativamente a questo periodo. Alcune scorie rinvenute a
Tharros nel cosiddetto “quartiere artigianale”, sottoposti recentemente ad analisi
chimica hanno fornito la conferma di attività metallurgiche nel centro, vanificando
tuttavia la possibilità di riconoscervi, almeno per il momento, quelle del vetro1182.
L’archeologia sperimentale e la documentazione etnoarcheologica applicata
all’industria vetraria indica come per produrre perle e pendenti non siano necessarie
strutture di grandi dimensioni come le fornaci, molto ben riconoscibili
archeologicamente1183. La produzione poteva avvenire infatti in due fasi distinte:
produzione di vetro grezzo e successiva lavorazione dei lingotti. I forni per

1179
Ibidem, p. 65; Bellintani 2003, pp. 325, 329, ricorda l’uso in India di strofinare un pezzo di salgemma su un
mandrino d’acciaio riscaldato producendo, per reazione chimica, uno strato di ossido di ferro. Per la
lavorazione delle perle al lume si usa invece verghe di rame trattate con argilla in sospensione liquida
(barbottina).
1180
Ibidem, p. 319.
1181
Stern, Schlick-Nolte 1994, p. 186, n. 33.
1182
Savio, Ferrari, Croce 2004, n. 10, tab. 3, pp. 165-166.
1183
Bellintani 2003, p. 321 e segg..
- 238 -
quest’ultima sono di dimensioni decisamente inferiori1184, ma seppur nella maggior
sfuggevolezza al rinvenimento archeologico, non sono i soli auspicabili indicatori di
attività produttiva: il vetro grezzo e scarti di produzione, ad esempio, mancano per ora
all’appello sia a Tharros che altrove per l’età fenicia e punica.
Il continuo riferimento a Tharros anche in questa sezione è suggerito da altri
indicatori, non tecnici, di provenienza delle classi artigianali comprese negli athyrmata
e dalla mancanza o scarsità di questi stessi indicatori in altri siti della Sardegna1185.
L’individuazione a Tharros di una o più botteghe vetrarie presenterebbe d’altronde i
precedenti in età arcaica di una produzione che possiede una più chiara evidenza in età
tardo-antica a Cornus, già insediamento punico a qualche km a nord di Tharros1186. Va
tuttavia ricordata la presenza di indicatori di produzione in altri due centri fenici e
punici di Sardegna: Nora e la stessa Sant’Antioco. Nel primo centro del Sulcis G.
Pesce riveniva i resti di un piccolo fabbricato interpretato, in base alla presenza di
scorie vitree, come un’“officina fusoria”1187, e quindi come una fornace. La datazione
rientra tuttavia nella tarda età romana repubblicana per l’assenza di ceramica romana
imperiale negli strati di fondazione della struttura1188, ma non è escluso che potesse
anche essere in uso anche tempo prima. Lo scavo dell’area urbana del cronicario a
Sant’Antioco ha fornito invece una matrice in terracotta il cui utilizzo è stato collegato
alla produzione di pendenti in vetro a protome femminile1189. L’oggetto, rinvenuto
durante la campagna di scavi 1987-1988 all’interno di uno strato di colmatura di una
cisterna, era datato preliminarmente intorno al V secolo per l’associazione alla
ceramica punica dipinta a motivi oculari1190. Il reperto e il materiale della cisterna sono
tuttora inediti, ma la presenza di ceramica di IV secolo1191 all’interno del contesto e
l’osservazione antiquaria della capigliatura, a riccioli e raccolta sopra il collo, portano

1184
I forni utilizzati nelle sperimentazioni della produzione di Frattesina sono a cupola e a due piani, ad
imitazione di quelli ipotizzati per l’oreficeria etrusca: ibidem, p. 328, fig. 25.
1185
V. Moscati 1987.
1186
Stiaffini 1993, p. 72, menziona come elementi per la localizzazione della produzione in Sardegna la “vasta
presenza di sabbie” e che in antichità essa dovesse “essere ancora molto boscosa”, e per Cornus in particolare
i “settantacinque frammenti relativi a scorie di fusione”; Sternini 1995, p. 181.
1187
Pesce 1972, pp. 68-69, fig. 28; Sternini 1995, p. 182, riporta la notizia, di seconda mano, limitata ad una sola
rappresentazione fotografica.
1188
Pesce 1972, p. 68.
1189
Bernardini 1991, p. 194, tav. IV, 2.
1190
Ibidem, p. 198, nota 37; per alcuni esemplari di questa classe ceramica v. Bartoloni 1983, p. 45, fig. 2, h-j.
1191
Bernardini c.p.
- 239 -
più prudentemente ad attribuirla almeno alla prima età ellenistica. Considerata anche
l’eventuale appartenenza ad altro tipo di industria della matrice (quella del metallo ad
esempio), non è noto il contesto originale di provenienza, ovvero l’officina vera e
propria che pur doveva trovarsi nelle vicinanze.
Pertanto le tracce della produzione vetraria in Sardegna in età punica sono
alquanto labili e per il momento non arrivano a coprire il V secolo1192, periodo al quale
appartengono i vaghi di collana da noi osservati. Sino a quando non sarà possibile
verificare la presenza di officine di produzione in Sardegna, e nello specifico a Sulcis,
l’ipotesi dell’importazione di oggetti anche così minuti dovrà ritenersi la più valida.

5.2.5. ORO, ARGENTO E ALTRI METALLI

I metalli preziosi era utilizzati tra gli athyrmata quasi esclusivamente per la
realizzazione di gioielli come orecchini, anelli e pendenti, e per la montatura degli
scarabei. Va notato come la definizione di gioiello per i pendenti sia restrittiva quando
va tenuto conto che anche i pendenti dovettero assolvere una funzione simile a quella
degli amuleti egittizzanti1193. Tra i pendenti-amuleti di ascendenza punica, nel caso
specifico di Sulcis, dovrebbero essere considerati ad esempio quelli a ghianda, in
oro1194 o bronzo1195, le campanelle bronzee1196 e la “mano che fa le fiche” in oro della
collezione Biggio1197. Funzione non esclusivamente estetica avevano anche i pendenti
discoidali e quelli ad arco centinato, elaborazione punica in metallo di un tipo egiziano
in faïence1198.
Metalli più umili come il bronzo e il piombo trovavano applicazione anche nella
realizzazione di pendenti e orecchini, destinati con tutta probabilità a consumatori di
inferiore disponibilità economica, ma la loro corretta definizione tipologica spesso non

1192
Il IV secolo invece era stato individuato come un momento di particolare industrializzazione per Cartagine
ed altre città del mediterraneo occidentale: Fantar M.H., (1972). Le verre en Tunisie. In BAIHV vol. 6, pp.
15-27, cit. in Ruano Ruiz 1996, p. 83. Sulla presenza di una bottega e di un forno per il vetro a Cartagine v.
Krandel Ben Younès 1995b, p. 118.
1193
Tra questi sono rari sono i casi in metallo: v. ad es. Marín Ceballos 1976; Pisano 1990, p. 74. Più frequenti
gli astucci porta-amuleti a protome animale, generalmente in oro. Per quelli rinvenuti a Sant’Antioco v. §
2.1.: Sulcis 1989, fig. 55, dalla tomba 13; Bernardini 1991, p. 195, dalla tomba 4A;
1194
V. § 2.1.: Uberti 1977b, n. 5.
1195
V. § 2.2.: Bartoloni 1973, nn. 72-79.
1196
V. § 2.2.: ibidem, nn. 85-88, e i battagli nn. 89-92.
1197
Uberti 1977c, n. 2.
1198
V. § 4.1.2.
- 240 -
è agevolata dalle condizioni di rinvenimento e dallo stato di conservazione. È questo il
caso dei grumi amorfi di massa liquefatta di piombo rinvenuti all’interno delle urne del
tophet, per i quali A. Ciasca propone l’identificazione con pendenti sottoposti al fuoco
dell’olocausto funebre1199, ma che potevano anche essere all’origine oggetti e vasi in
miniatura ben attestati e riconoscibili nei tophet di Nora e Tharros1200. Dalla necropoli
di Sulcis l’unico pendente noto è una piastrella quadrangolare con iscrizione, per la
quale non vi sono tuttavia indicazioni cronologiche e di provenienza precise1201.
Diversi e diversamente caratterizzati erano i luoghi di approvvigionamento
delle materie prime metalliche utilizzate per gli ornamenti fenici e punici. Queste sono
a pieno titolo considerate come uno dei principali motori della espansione fenicia
all’inizio del I millennio1202, come riportato dalle stesse fonti classiche1203, e tra gli
interessi della politica di controllo del mediterraneo da parte di Cartagine a partire dal
VI secolo. I fenici, e dopo di loro i cartaginesi, potevano avere accesso diretto, o per
tramite delle popolazioni locali, alle risorse dei territori toccati dalla loro
espansione1204. L’oro infatti era ricavato dai ricchi giacimenti iberici1205 e in parte
dall’interno del Nord Africa, sebbene sia stata avanzato che queste risorse non
dovessero diventare rilevanti se non dalla fine del IV secolo nel commercio
cartaginese1206. Le fonti sud-sahariane tuttavia potevano e dovevano essere una delle
mete che condizionarono l’esplorazione delle coste atlantiche da parte dei fenici1207.
L’oro d’altronde costituiva una delle merci privilegiate nei commerci patrocinati dal
palazzo di Salomone e del re di Tiro e diretti al paese di Ophir, che recentemente E.
Lipinski propone di identificare con l’Africa centrale, raggiungibile attraverso le vie

1199
V. § 2.2.: Ciasca 1992, p. 143.
1200
Barreca 1986, p. 270: manufatti di questo tipo, ma in ferro, provengono dalla necropoli di Santa Monica a
Cartagine in tombe di IV secolo, e sempre in piombo dai livelli tardo-punici e romano-repubblicani del tophet
di Sousse.
1201
V. § 2.1.: Barreca 1965, pp. 53-54, tav. I.
1202
Bondì 1988, p. 46.
1203
In particolare Diodoro Siculo Biblioteca Storica, V 35, 5, cit. in Zucca 1993, p. 39.
1204
Per quanto concerne il Sulcis-Iglesiente v. Zucca 1993, pp. 39-41.
1205
La penisola iberica è indicata come la maggior fonte di approvvigionamento di questo metallo per il
Mediterraneo occidentale: Pisano 1988a, p. 184. Qui la maggior disponibilità della materia prima ha
contribuito al fiorire in età orientalizzante del ricco artigianato tartessico, per i più lodevoli prodotti
dell’oreficeria v. ibidem, pp. 392-393.
1206
Desanges 1978.
1207
Inestimabile fonte letteraria di tale esplorazione è il Periplo di Annone, redatto nel VI o nel V sec. E
preservato da una traduzione greca del IV. Per una recente considerazione del tragitto che vi viene descritto v.
Lipinski 2004, pp. 435-475.
- 241 -
carovaniere tran-sahariane che partivano dall’Egitto ed eventualmente dall’immediato
entroterra libico1208. Quest’ultima possibilità non presume quindi una dipendenza per
l’approvvigionamento di Cartagine dall’Egitto, per il quale la Nubia ed le altre miniere
del deserto orientale costituivano per millenni una fonte inesauribile d’oro1209.
L’argento poteva essere reperito nella stessa Sardegna ed estratto dal piombo
argentifero delle miniere del Sulcis Iglesiente, presso le quali vi sono sicure tracce del
passaggio di punici per il rinvenimento di due lucerne di V secolo1210. Il rame e lo
stagno, indispensabili per la fusione del bronzo, provenivano ancora dalla Spagna1211,
sebbene fonti di questi metalli siano presenti anche in Sardegna. In mancanza di
documentazione archeologica, come strumenti o altri oggetti lasciati in loco dagli
antichi minatori, o magari di piccole strutture abitative nei pressi dei giacimenti1212,
l’individuazione delle risorse sfruttate in antichità si può fondare agevolmente sulla
base della distribuzione degli insediamenti nel territorio. Così, in modo molto
semplicistico, la maggior distribuzione dei centri abitati di età fenicia e punica del
Sulcis-Iglesiente fornisce la controprova della conoscenza di quei giacimenti da parte
di queste popolazioni.
Che una prima lavorazione dell’argento avvenisse nella regione è poi un dato
che si può desumere dagli stessi procedimenti che seguono l’estrazione. Il fatto che
raramente si rinvenga allo stato nativo, a differenza dell’oro, ma prevalentemente entro
minerali di piombo, come è il caso dei giacimenti sardi, determina una serie di attività
obbligate per la sua estrazione dal minerale meno nobile che lo contiene1213.
L’arrostimento per eliminare lo zolfo, la fusione, l’ossidazione tramite coppellazione
per la separazione del piombo erano procedimenti che andavano effettuati in loco se si
voleva rendere possibile l’esportazione del metallo. Che questi avvenissero a Sulcis,
almeno in età romana, è poi suggerito dal rinvenimento a Sulcis di scorie di piombo1214

1208
Ibidem, pp. 189-223.
1209
Ogden 2000, pp. 161-162.
1210
Zucca 1993, p. 40, ora conservate al Museo Minerario di Iglesias.
1211
Bondì 1988, p. 46.
1212
L’intensa attività di sfruttamento iniziata nel 1800 in Sardegna ci ha di sicuro privato di molta della
documentazione al tempo disponibile.
1213
Francovich, Manacorda 2000, pp. 94-95.
1214
Bartoloni 1999a, p. 116.
- 242 -
e dallo stesso nome dell’isola (Melibodes Nesos) ricavato dalle fonti classiche1215. Il
passaggio dal riconoscimento di attività estrattiva e di prima lavorazione nell’isola a
quello della produzione di piccoli oggetti di gioielleria non è tuttavia scontato, per
quanto verosimile, e necessita quindi di una verifica.
Il discorso relativo ai gioielli è sinora stato basato tuttavia sulla documentazione
in oro, per la maggior riconoscibilità delle tipologie, dovuta alla migliore
conservazione della materia utilizzata. Questa è la sola per cui sia d’altronde
disponibile uno studio complessivo dei materiali di Cartagine1216, necessario
complemento di un’indagine che faccia uso di confronti. Ma la totale esclusione da
questi dei gioielli in argento1217, che non dovevano mancare ed anzi dovevano anche lì
presentarsi in numero proporzionalmente maggiore, rende estremamente limitata la
validità delle teorie proponibili, ad esempio in merito alla dipendenza commerciale di
Sulcis nei confronti di Tharros e Cartagine o addirittura circa la possibilità di
riconoscere a Sulcis la presenza di botteghe locali1218.
Nonostante la limitatezza della documentazione sulcitana un suo esame è stato
condotto qualche tempo fa, in seguito alle posizioni espresse dal Moscati1219, ed è
presente nel fondamentale contributo presentato da P. Bernardini nel 19911220. Sulla
base dei dati disponibili, sensibili ora di aggiornamento, lo studioso rilevava per la fase
punica una scarsa acquisizione di gioielli nella prima metà del V secolo ed una
maggiore e di “particolare raffinatezza e accuratezza” a partire solo dalla seconda metà
di quello successivo1221. Proponeva inoltre una maggiore dipendenza della facies degli
athyrmata sulcitani da Cartagine, pur notando che alcune tipologie dovevano
provenire da Tharros, “come gli orecchini configurati, gli anelli con castone figurato e
gli astucci a protome leonina”1222. Indizi particolari di produzione locale erano
considerati il rinvenimento di una matrice per pendenti a protome femminile in vetro e

1215
Il nome si ricava in Tolomeo, Geografia III, 3, 8, come traduzione del latino Insula Plumbea o Plumbaria:
Zucca 1993, p. 39.
1216
Quillard 1979; Quillard 1987.
1217
Ibidem, p. XVIII.
1218
Non è di ostacolo alla localizzazione in Sardegna delle botteghe orafe di Tharros la scarsa presenza del
metallo nell’Isola, per la quale si veda Ugas 1993, p. 30 e l’addenda bibliografica a p. 35.
1219
V. sopra: Moscati 1988a, p. 126.
1220
Bernardini 1991.
1221
Ibidem, p. 195-196.
1222
Ib., p. 195.
- 243 -
due circostanze: “la concentrazione particolare di orecchini ad arco ingrossato” e la
“presenza […] di monili […] privi di riscontro in ambito sardo”1223.
I dati proposti da P. Bernardini a distanza di quindici anni sono ancora validi,
tanto più perché gli scavi eseguiti nel frattempo non hanno fornito elementi che li
contraddicano. Tuttavia sono necessari alcuni aggiornamenti: da una parte la matrice
rinvenuta nel riempimento di un pozzo durante le campagne di scavo 1987-19881224
può essere forse meglio datata al IV secolo1225, senza che ciò pregiudichi le
conclusioni finali. L’orecchino ad arco ingrossato ancora meglio gode di una maggior
attestazione grazie ai più recenti rinvenimenti1226. Ai nostri due nuovi gioielli sulcitani,
si aggiunge anche quello proveniente dalla necropoli di Monte Sirai, che meglio limita
l’ambito cronologico di diffusione al VI1227 - inizi del V secolo. Tuttavia all’interno
della comune tipologia1228 sono state riscontrate due varianti, distinte dallo spessore
dell’arco ingrossato. La sutura di due lamine cave consentiva un maggior volume, e
contestualmente un minor peso, e si può ipotizzare solo per l’orecchino del tophet, che
per minor definizione cronologica potrebbe essere anche il più antico. La restante
documentazione è costituita da un filo ispessito, ma pieno anche nel punto di massimo
ingrossamento, nel rispetto del trend di produzione delle officine tharrensi. Così
sintetizzato il contributo di questo tipo di orecchini non consente di riconoscere con
sicurezza a Sulcis o nella sua regione una bottega artigianale, dal momento che questi
oggetti non differiscono da quelli tharrensi se non per la mancanza della decorazione o
dell’anello per la sospensione di pendenti compositi. Il fatto indizia invece con
certezza una selezione all’interno del mercato delle tipologie più semplici, ma sui
modi di acquisizione di questi oggetti un altro tipo di orecchino fornisce un indizio. Se
fosse esatta l’inclusione tra gli orecchini degli anelli con le estremità avvolte a spirale,
a volte ritenuti fermatrecce per la complessità della chiusura1229, si dovrebbe pensare
che la loro montatura indosso al lobo del portatore fosse effettuata in loco da un

1223
Ib., p. 194.
1224
Ib., p. 194, nota 37, tav. IV, 2.
1225
V. § 5.2.4.
1226
V. § 4.1.4.
1227
Tende a sollevare il limite alto alla fine del VII sec. l’orecchino del tophet, il cui contesto è datato
indicativamente tra ultimo quarto del VII – fine VI sec.: Montis 2005.
1228
Caratteristica del Sulcis è la forma ellittica allungata data all’intero filo dell’orecchino: v. anche Quillard
1987, p. 143, nota 712.
1229
v. Iocalia Punica 1987, p. 95; Bernardini 1991, p. 193, nota 27.
- 244 -
artigiano o dal commerciante. Vista la grande diffusione della tipologia in tutto il
periodo punico si potrebbe pensare ad artigiani itineranti o commercianti che
viaggiassero con lamine d’oro da trafilare all’occorrenza o fili già tagliati. Questo
presupposto si adatterebbe anche ad altri tipi di gioielli come le montature degli
scarabei, che ad essi potevano essere legate ovunque al momento della vendita, e a
spiegare la scarsa diffusione delle tipologie più complesse, come gli orecchini
compositi. La diffusione nel Sulcis degli orecchini ellittici precederebbe di poco
questo fenomeno, che si iscrive nella piena età punica, e proseguirebbe per altri
cinquant’anni sino alla metà del V secolo circa. Questa lettura si affianca, amplia e
indirettamente verifica quella relativa all’assemblaggio di collane, del tutto verosimile,
proposta da P. Bernardini1230.
La produzione in argento gode invece di un più chiaro sostegno alla sua
localizzazione nella regione, come affermato in precedenza, grazie alla estrema
vicinanza delle fonti di approvvigionamento della materia prima. Appare singolare
quindi il fatto che non si sia faticato ad ipotizzare la presenza di botteghe artigiane
specializzate nella produzione di gioielli in argento quanto quelle in oro1231, sebbene
alcuni dubbi ancora permangano1232. In particolare il presupposto di localizzare nel
medesimo luogo la lavorazione estrattiva e quella artigianale non è supportata dalla
documentazione epigrafica di Cartagine, la sola sufficientemente esplicita, che
distingue tra la posizione di un fonditore (nsk, pron. nousek) e un artigiano o
fabbricante (­rš, pron. ­ouresh e p‘l, pron. pouel)1233. Tuttavia proprio quella stessa

documentazione cartaginese fa scarsa o nulla menzione di lavorazione dell’argento


nella metropoli.
Nel nostro caso l’esame delle tipologie sulcitane non ci è di aiuto, dal momento
che non ne emerge alcuna che possa dirsi con sicurezza locale, per cui si può solo
riconoscere una generale omogeneità di questa classe artigianale nel mondo fenicio e
punico. La maggioritaria presenza di monili d’argento, e quasi nulla d’oro, nelle
necropoli fenicie di Sardegna, sia sud (Monte Sirai, Pani Loriga e Bithia) che a nord

1230
Ibidem, p. 194.
1231
Ib., p. 193; Zucca 1993, p. 40; Campanella 2000, pp. 121-122.
1232
G. Savio infatti attribuisce a Cartagine l’intero monopolio della lavorazione artigianale di questo metallo,
riservando alle province solo quella produttivo-estrattiva: Acquaro, Savio 1999, p. 9.
1233
Sznycer 1995, pp. 18, 25.
- 245 -
(Tharros1234 e Othoca) del bacino minerario dell’Iglesiente non è di per se significativa
poiché qui più intensa è stata la ricerca.
Un caso particolare di concentrazione di orecchini “a canestrello” in argento
non indossati dal defunto è quello rilevato nella tomba 88 della necropoli fenicia di
Monte Sirai, e per la quale è stata proposta una funzione di tipo premonetale1235. Data
la singolarità del rito inumatorio, in una necropoli in cui prevale il rito
dell’incinerazione, e la ricchezza e monumentalità della sepoltura potrebbero ben
indicare il defunto come un personaggio di origine cartaginese. Storicamente il fatto
possiede una certa importanza dal momento che potrebbe essere un segno
dell’interesse di Cartagine nei confronti di una regione alla vigilia della sua
conquista1236. Rimane tuttavia da individuare, per quanto ci riguarda, se gli orecchini
fossero realizzati sul posto e non importati, cosa che potrebbe rappresentare una partita
pronta per l’esportazione o un “gruzzolo” acquistato anch’esso a Cartagine.
Per quanto concerne la fase punica avanzata di Sulcis, attestata dai ritrovamenti
della necropoli1237, i gioielli che hanno destato un certo interesse per la particolare
raffinatezza, e giustamente attribuiti a questo periodo, non possono essere stati eseguiti
a Sulcis1238. Si tratta in particolare di un anello1239 e due orecchini1240 realizzati e
decorati con una raffinatissima tecnica che fa uso della filigrana e della godronatura.
Stile e tecnica richiamano la corrente greco-ellenistica che interessa ora tutto il
mediterraneo, e trovano confronti, anche puntuali in simili oggetti rinvenuti ad Utica e
Cadice1241, mentre da queste caratteristiche pare esclusa la produzione di Tharros.
Sembra poter quindi individuare nei primi due centri i probabili produttori di questa
nuova corrente1242, ma questo giudizio non è tuttavia sufficiente ad escludere la

1234
Zucca 1989, p. 99.
1235
Bartoloni 2000a, p. 23, v. in particolare nota 33, per altre attestazioni di tesoretti di orecchini “a canestrello”
in Nord Africa e a Mozia. Sono forse pertinenti anche i due casi di Bithia: Marras 1996a, nn. 145 (almeno 3
orecchini), 151 (4 orecchini, ma non “a canestrello”), p. 129-130. È da rilevare tuttavia come la coniazione di
moneta non prenda avvio in Sardegna se non dal 300 a.C. in poi come concessione cartaginese, e comunque
mai in argento: Acquaro 1988, p. 225.
1236
La tomba si data al secondo quarto del VI secolo: ibidem, p. 17. Le campagna di Malco in Sardegna si
datano al 545-535 a.C. Per lo scenario di queste come della “battaglia del Mare Sardonio” v. i vari contributi
in Máche 2000.
1237
Bernardini 1991, pp. 195-196.
1238
Pisano 1995a, p. 63.
1239
Da una tomba di P.zza Azuni: v. § 2.1.1
1240
Dalla tomba 2, camera A, aperta dal Puglisi in Via Belvedere: v. § 2.1.
1241
Per i confronti di Utica v. Quillard 1987, nn. 250-255; per quelli Gaditani v. Perea Caveda 1985, tav. III.
1242
Per alcune considerazioni sulla bottega di Cadice v. Perea Caveda 1992.
- 246 -
possibilità che botteghe sulcitane producessero gioielli di non elevata qualità nello
stesso periodo ed in quello precedente.
Non offre particolari ostacoli la localizzazione a Sulcis del luogo di produzione
degli amuleti in bronzo rinvenuti nei vecchi scavi del tophet1243. Sebbene le tipologie
riscontrate (prevalentemente “ghiande” e campanelle) siano già note in altri contesti
fenici e punici, la lavorazione del bronzo doveva godere di sicuro di officine fusorie a
Sulcis per la realizzazione di strumenti di uso quotidiano. Sempre prodotte localmente
devono essere state le coppiglie bronzee, che pur analoghe a quelle tharrensi e
cartaginesi erano elementi costituenti di sarcofaghi e barelle lignei che non potevano
che essere realizzati in loco. Anche in questo caso l’argomento dell’autosufficienza del
centro di Sulcis, se non totalmente probante, possiede una forte validità probatoria.

5.2.6. ALTRI MATERIALI.

Tra i materiali meno utilizzati nella produzione di ornamenti personali rientra l’ambra.
Attestata nelle edizioni di scavo come materia usata esclusivamente per vaghi di
collana tra i corredi delle tombe 2, 3 e 5 del settore A e della tomba 12 del settore
AR1244. Per i primi corredi non si dispone al momento di un edizione dei materiali,
mentre è più affidabile quella dei corredi della tomba 12 AR. I vaghi d’ambra di
quest’ultima compongono una collana, di cui faceva parte anche un pendente discoide
con umbone centrale1245. Tuttavia l’immagine in bianco e nero riportata nell’edizione
non permette di appurare l’effettiva qualità del materiale dichiarato. Interessanti sono
comunque le tipologie, perché poco o nulla note, che potrebbero riferirsi in alcuni casi
a intarsi in pasta vitrea e non a vaghi1246.
I vaghi da noi osservati invece sono quelli della tomba 10 AR (stesso settore
della tomba sopra citata), con n. 69 a-n nel nostro catalogo, ed il frammento di vago
della tomba 1 PGM BLV (n. 14 s). I primi sono riconducibili alla tipologia cilindrica
con i bordi delle basi arrotondati, mentre il vago della tomba 1 è del tipo a barilotto. Le
possibili forme dei vaghi in ambra non differiscono da quelle utilizzate per gli
analoghi in pasta vitrea, e come per essi non si dispone di uno studio che presenti i dati

1243
V. § 2.2.: Bartoloni 1973.
1244
V. § 2.1.
1245
Tronchetti 2002, n. 30.
1246
V. in particolare l’elemento a “piumaggio di Bes” e i due fiori di loto: ibidem, tav. XI, 2.
- 247 -
della loro distribuzione nell’area del Mediterraneo. I traffici che avevano in questo
materiale il loro protagonista sono ben noti e studiati per l’Età del Bronzo
continentale1247, ma meno per l’età del ferro avanzata. Una crisi nel commercio
dell’ambra è attraversata proprio nel V secolo, in concomitanza della crisi dell’Etruria,
in progressiva caduta sotto l’imperialismo romano, e di Atene con la guerra del
Peloponneso1248. Con la crisi di queste potenze vengono meno i meccanismi di
scambio che dagli sbocchi delle vie dell’ambra nell’Italia continentale diffondevano i
manufatti in questo materiale lungo le coste del Mediterraneo. Tuttavia questi
fenomeni sono meglio caratteristici della fine del secolo (la guerra con Sparta occupa
Atene solo nell’ultimo terzo del V secolo), per cui la presenza, anche se non
abbondante, di vaghi in ambra si coglie maggiormente nelle tombe della prima metà di
questo secolo1249.
È difficile, in questo caso ancora di più, esprimersi sulla probabile produzione
locali dei vaghi. Da una parte è noto che i giacimenti più utilizzati in antichità fossero
quelli sulle coste del Mar Baltico, ma ambre cosiddette “simetiti” erano disponibili
anche lungo il corso del fiume Simeto in Sicilia1250. La scarsità dei dati a disposizione
non permette quindi di avanzare ipotesi sulla provenienza dei vaghi che comunque è
improbabile potessero essere stati realizzati in Sardegna, e tanto meno a Sulcis.

1247
Bortolotti 1993.
1248
Ibidem, p.456.
1249
La tomba 10 AR si data alla prima metà del V secolo, ma forse la deposizione 5 è la prima; la 12 AR si data
cautamente alla prima metà anche se il corredo ceramico non scende oltre l’inizio del secolo: Tronchetti
2002, p. 148; la tomba 1 PGM BLV si data entro i primi quarant’anni del V secolo: Bernardini c.p.; per le
tombe del settore A della necropoli non è disponibile una datazione precisa, seppur la tipologia tombale di
quelle in esame, per la presenza del tramezzo centrale, indizi una loro realizzazione in età punica avanzata
(dopo il 450 a.C.): v. § 2.1.
1250
Bortolotti 1993, p. 445.
- 248 -
5.3. SCAMBIO
I processi di scambio di oggetti come gli athyrmata possono essere individuati solo
dopo che si siano riconosciuti con una qualche certezza i centri di produzione. In
sostanza solo una volta noto il punto di partenza si possono analizzare le alternative
vie attraverso le quali i nostri prodotti sono giunti a destinazione, riconoscerne i
mediatori e i centri di smistamento. Per questo motivo il presente capitolo non può che
costituire un argomento aperto e solo futuri studi potranno consentire di riscriverlo.
Si tenterà ad ogni modo, considerato lo stato attuale delle conoscenze, di fare
alcune considerazioni col fine di delineare i processi di scambio e gli interlocutori
impegnati in questi, facendo continuo ricorso ai dati noti relativi ad altre categorie
artigianali, tra cui in primis la ceramica.
Nell’ambito degli athyrmata di Sulcis è difficile individuare gli oggetti più
antichi perché, come abbiamo già avuto modo di dire, non sono disponibili gli
strumenti per una precisa e corretta datazione, tuttavia anche se decontestualizzati
taluni reperti si prestano ad una datazione sulla base dei confronti, che seppur non
affidabile al cento per cento può fornire qualche elemento di discussione.
Per quanto concerne il primissimo periodo della storia di Sulcis, ovvero quello
che segue la sua fondazione ad opera dei fenici intorno alla metà dell’VIII secolo, non
abbiamo fonti archeologiche che ci descrivano correttamente la concezione entro la
quale erano tenuti in conto gli oggetti magico-religiosi, e la realtà dei commerci che li
vedevano protagonisti. Manca per tutta l’età arcaica di Sulcis un contesto di
riferimento, quale può essere ad esempio una necropoli o uno palinsesto stratigrafico,
che ci permetta di seguire nel corso del tempo l’acquisizione di ornamenti personali.
Lo scavo del tophet solo recentemente ha fornito i dati relativi alla provenienza degli
oggetti dall’urna di appartenenza e solo per un periodo compreso tra fine VII e fine VI
secolo1251. Rivestirebbe invece un certo interesse il riconoscimento della primissima
facies culturale fenicia relativa agli athyrmata non solo di Sulcis. Per questo momento
della storia del centro è stato supposto un coinvolgimento di greci euboici nella
formazione della comunità cittadina sulcitana1252. Infatti non solo le ceramiche di

1251
Montis 2005.
1252
Si v. al proposito: Bernardini 1989, p. 101; Bernardini 1997b.
- 249 -
importazione dall’emporio di Pitecussa e dalla madrepatria euboica, ma le stesse
influenze del tardo-geometrico greco sulla cultura materiale ceramica di Sulcis1253
suggeriscono uno stretto rapporto tra il nostro centro e coloni euboici di Pitecussa.
Tuttavia i dati relativi agli athyrmata di questa fase non sono sufficienti a riconoscere
ed istituire confronti utili: i corredi della necropoli dell’isola di Ischia sono ancora in
via di pubblicazione ma il primo volume, relativo agli scavi di più di 700 tombe
realizzati negli anni 1952-1961, è disponibile da diverso tempo1254 e consente
un’ottima panoramica sulla cultura materiale ed i riti funerari che caratterizzavano
l’emporio pitecusano nella sua prima fase di vita. Per quanto riguarda gli ornamenti
personali risulta evidente l’abbondanza di scarabei in steatite e faïence, rinvenuti quasi
esclusivamente in sepolture femminili e infantili1255, la cui circostanza è ritenuta la
risultante dei rapporti commerciali intrattenuti negli empori levantini e in loco tra le
comunità residenti di greci e di orientali nell’isola1256. Circa la precisa provenienza di
questi ultimi il dibattito è ancora aperto e non è da escludere che tra questi vi fossero
anche individui e famiglie di fenici. Sebbene la loro presenza non sia necessaria per
spiegare la presenza di scarabei e altri oggetti egittizzanti nell’isola1257, questa rende
plausibile lo stretto scambio culturale che sarebbe potuto intercorrere tra euboici di
Pitecussa e fenici di Sulcis. Tra le tipologie di scarabei presenti ad Ischia va notato che
la maggior parte è sì presente in Sardegna, ma tutte sono attestate anche a
Cartagine1258. Prima di supporre un ulteriore intermediazione di questa nei rapporti tra
Sulcis e l’emporio euboico sarà necessario attendere il rinvenimento della necropoli
arcaica e dei suoi sepolcri più antichi, dove sarà più facile vedere gli scarabei che, per
le ragioni che abbiamo proposto1259, non potremmo trovare nel tophet. Tra gli amuleti
la Sekhmet dei vecchi scavi1260 può essere confrontata con un analogo di Pitecussa da
una sepoltura infantile a fossa del periodo Tardo Geometrico II1261. Al di fuori di
Sulcis la vicina necropoli fenicia ad incinerazione di San Giorgio di Portoscuso le cui

1253
Bernardini 1989, p. 101.
1254
Pithekoussai I 1993.
1255
Per i reperti egittizzanti dagli scavi 1952-1961 v. De Salvia 1993b.
1256
De Salvia 1978; De Salvia 1983b.
1257
Per la diffusione di prodotti nord-siriani e la frequentazione degli empori della costa levantina da parte degli
euboici v. Boardman 1990, p. 179 e segg.
1258
Feghali Gorton 1996, per le tipologie di Pitecussa pp. 159-160.
1259
V. § 5.1.3.
1260
Bartoloni 1973, n. 24.
1261
De Salvia 1993b, n. 696 – 12, fig. 10.
- 250 -
tombe furono utilizzate negli anni intorno alla metà dell’VIII secolo1262 ha fornito uno
scarabeo rinvenuto purtroppo fuori contesto1263. Il motivo composto da geroglifici alla
base e la peculiare forma del dorso, caratterizzata da due profonde linee parallele di
separazione delle elitre, permettono il paragone con uno scarabeo in steatite dall’area
etrusca conservato ora ai Musei Vaticani1264, ma per quanto meglio ci riguarda ad
un’altro scarabeo, anch’esso in steatite, dalla necropoli di San Montano ad Ischia1265. I
paragoni, isolati in una situazione di generale divergenza delle due facies culturali, da
soli difficilmente possono dar prova di relazioni più strette di quelle di tipo
commerciale, quand’anche si postulasse un comune ambito di riferimento delle
credenze magico-religiose1266. Tuttavia per Pitecussa è già stato proposto che eventuali
tracce di residenti orientali nell’isola vadano cercate nei rituali funerari piuttosto che
nei corredi funerari stessi1267.
Nel proseguo della vita del nostro centro la principale provenienza degli oggetti
arcaici è ancora il tophet, ma solo in pochi casi è possibile asserire una datazione
arcaica, come indicata dai confronti. Tra questi verosimilmente vi sono alcuni amuleti
e in particolare il Bes in faïence edito da P. Bartoloni1268 deve ritenersi prodotto da una
bottega orientale (cipriota o forse anche egiziana)1269, così come per la Sekhmet dagli
stessi scavi, per entrambi i quali G. Hölbl indicava una datazione alla dinastia Saitica
(672-525 a.C.) o addirittura a quella Libica1270 (945-730 a.C.). Se quest’ultima
valorizza il confronto proposto per la Sekhmet con un amuleto pitecusano1271, almeno
per il Bes più cautamente l’attribuzione alla XXVI dinastia sarà da preferire, tuttavia i
reperti con sicurezza attribuibili alla fase arcaica non sono sufficienti ad argomentare

1262
Bernardini 1997a, p. 55; Bernardini 2000a, p. 30.
1263
Bernardini 2004, p. 154, fig. 3, 2.
1264
Hölbl 1979, II, pp. 135-136, n. 551, tav. XCIII, 1, conservato al Museo Gregoriano Etrusco con n.i. 15948,
collezione Falcioni (miss.: 13,5x10x6,8 mm).
1265
Hölbl 1979, II, pp. 190-191, tav. CVII, 1, tav. a colori VIII, 1, datato all’ultimo quarto dell’VIII sec.; De
Salvia 1993b, pp. 802, 804, n. 684-6 (miss.: 12,4x8,6x5,8 mm), fig. 8, tav. CLXXXVI, dalla tomba a
enchytrismos 684 del Tardo Geometrico II: Pithekoussai I 1993, pp. 662-663.
1266
Ad altro tipo di credenze, quelle legate alla sfera del simposio, condivise con il mondo greco ed etrusco,
richiamano le testimonianze archeologiche della fase fenicia in Sardegna e di San Giorgio di Portoscuso in
particolare: Bernardini 2004, pp. 131-141.
1267
Docter 2000, p. 148, nota 43.
1268
Bartoloni 1973, n. 12, tav. LVI, 9.
1269
Appare puntuale il confronto con un Bes e un frammento di copricapo della stessa tipologia rinvenuti a
Kition in contesto stratigrafico di VIII-VII sec.: Kition II 1976, nn. 2952 e 2952A, p. 161, tav. IX.
1270
Hölbl 1986, p. 162.
1271
V. supra.
- 251 -
correttamente con quali interlocutori il centro di Sulcis intrattenesse relazioni
commerciali in questo periodo. Anche il resto della Sardegna fenicia durante la fase
arcaica non conosce di per se una grande concentrazione di athyrmata nei contesti
funerari e santuariali, almeno a confronto con quella di età punica, e se da una parte
per i gioielli in argento può essere valida la tesi di una loro produzione locale, per gli
amuleti e gli scarabei si pone con maggior forza il problema dell’importazione. Per i
primi G. Hölbl rilevava alcune analogie con simili prodotti diffusi anche nell’Italia
peninsulare1272 mettendo così in dubbio l’onnipresenza fenicia e il loro necessario
coinvolgimento nel commercio delle “cianfrusaglie”. D’altra parte il più recente studio
di A. Feghali Gorton sugli scarabei in pasta e steatite nota la maggior diffusione
nell’isola delle tipologie propriamente fenicie, alcune delle quali basate sull’imitazione
di prototipi della XIX dinastia, la scarsità di quelle naukratite e l’assenza di quelle
attribuite a produzione greca di massa1273. L’analisi dell’autrice è basata su un
campione di circa 1400 esemplari, selezionati in base alla migliore attribuzione a
tipologie di facile confronto, ma ciò non è sufficiente ad inficiarne la validità.
Dovranno essere aggiunti ai pochi esemplari censiti i due scarabei di fabbrica
naukratita recentemente editi nel volume sugli scavi della necropoli di Monte Sirai1274
e provenienti da due diverse tombe datate alla metà del VI secolo1275. Alla stessa
fabbrica ci è parso possibile attribuire l’amuleto a forma di leone in faïence (n. 62)
rinvenuto entro la tomba 9 AR, il cui corredo si data però ai primi decenni del V
secolo1276. I suddetti esempi non fanno che aggiungersi ai prodotti di origine greco-
egiziana che nella madrepatria cartaginese si trovano in quantità più cospicua. Se a
questa vi arrivassero direttamente o per tramite greco è un argomento per il quale si è
parlato e si continuerà a discutere: già nel 1945 J. Vercoutter dopo aver passato in
rassegna le possibili vie di acquisizione di oggetti egiziani da parte di Cartagine1277
concludeva ammettendo una pluralità di fonti di importazione. In particolare, tenuto
conto di fornire solo dei trends indicativi, rilevava una rilevanza maggiore

1272
Hölbl 1986, p. 162.
1273
Feghali Gorton 1996, pp. 155-157.
1274
Bondì 2000, nn. 133, 183, giustamente compresi dall’autore nel type XXVIII B: Feghali Gorton 1996, pp.
93-107.
1275
Bondì 2000, tombe 50 e 66 scavate negli anni 1985-1986.
1276
V. § 4.2.5.
1277
Vercoutter 1945, pp. 349-356.
- 252 -
dell’intermediario fenicio nell’VIII – inizio del VII secolo, un accesso diretto di
Cartagine all’Egitto dall’inizio del VII al VI secolo, mentre dal VI in poi il tramite
greco sarebbe stato preponderante1278. Le teorie dell’egittologo francese dovevano
rivelarsi metodologicamente deboli per continuare ad essere accettate, tuttavia a
distanza di quarant’anni un’intuizione “pionieristica” si rilevava di indubbio interesse
in un contributo di S. Moscati: la via che da Naukratis portava a Cartagine passava per
la Sicilia1279. Questa intuizione il Moscati epurava tuttavia dal ruolo dei Greci, della
cui mediazione non era necessario postulare il contributo1280. Più recentemente il ruolo
greco e cipriota è risultato determinante nella diffusione dell’“orientalizzante” e
naturalmente di manufatti egittizzanti nel mediterraneo occidentale1281. Tanto più sarà
determinante il fatto che si ritenga che le più note fabbriche di manufatti vitrei, entro i
quali si comprendono gli amuleti egittizzanti, fossero in mano a maestranze di
nazionalità greca. Naukratis era una città del delta del Nilo presso la quale una
comunità greca molto eterogenea era stanziata dalla fine del VII secolo, e prima di
questa una cipriota1282. Altro centro rilevante nella produzione in faïence durante l’età
arcaica era Rodi1283, la cui attività si riconosce già da prima della metà del VII secolo
ed alla quale si affianca col tempo quella di Naukratis.
La partecipazione dei fenici alla produzione che avveniva nei due centri è in
parte suggerita oltre dalle influenze artistiche, trasmissibili tuttavia altresì attraverso i
canali costituiti dagli empori levantini come Al Mina frequentati da greci1284, anche dai
dati archeologici che indicano una seppur debole presenza fenicia a Rodi1285.

1278
Ibidem, pp. 356-357.
1279
Moscati 1985a, p. 625.
1280
Ibidem, pp. 626-627.
1281
Al proposito v. Hölbl 1979; De Salvia 1983a; De Salvia 1993; sul ruolo della Sicilia v. De Salvia 1997.
1282
Boardman 1986, pp. 126-143, contrariamente all’affermazione erodotea di una fondazione sotto il regno di
Amasis, sesto faraone della XXVI dinasta stitica (570-526 a.C.), la ricerca archeologica ha attestato la
presenza di un insediamento greco già dal 630-620 a.C.: p. 129. Sulla preesistenza ed il ruolo dei ciprioti
nella produzione in faïence v. De Salvia 1997, pp. 78-79 e relativa bibliografia. Per una panoramica dei
rinvenimenti dai primi scavi inglesi v. Petrie 1886. Per i tipi di scarabei prodotti v. Feghali Gorton 1996, pp.
91-131, 177-180.
1283
Webb 1978; per quanto riguarda gli scarabei in pasta e faïence a produzione rodia è attribuito il type XXII:
Feghali Gorton 1996, pp. 63-72, 171-172, 181 e segg.
1284
Webb 1978, pp. 10-11.
1285
Ci si riferisce nello specifico alle sepolture ad enchytrysmos delle necropoli arcaiche di Camiros e Ialysos ed
al frammento di ceramico con iscrizione fenicia, datato al 630-600 a.C., rinvenuto nella tomba 37 di
quest’ultimo centro: Lipinski 2004, p. 146.
- 253 -
I rapporti diretti tra Cartagine e l’Egitto sono d’altronde testimoniati, al di là
delle influenze artistiche e delle importazioni, anche dalla presenza nell’una e
nell’altro di individui riconoscibili dall’epigrafia. Gli antroponimi Mesry e Mesret,
presenti con una certa frequenza sulle stele di Cartagine, designano individui di
nazionalità, o appartenenti a famiglie di originaria provenienza egiziana1286. Per
contro, anche se in età più tarda, è attestata anche l’evidenza opposta da una dedica di
un cartaginese in caratteri neo-punici incisa sul dorso di una sfinge rinvenuta da
Mariette nel Serapeo di Saqqara1287.
Per quel che riguarda Sulcis abbiamo menzionato la difficoltà di riconoscervi
manufatti naukratiti, ma che seppur non numerosi non mancano di certo. Già lo studio
di A. Feghali Gorton ha messo in evidenza come la distribuzione spaziale di manufatti
attribuibili a botteghe naukratite (Group 6) interessi la Sardegna, o almeno il centro di
Tharros1288. È interessante notare che sebbene tutti i tipi (XXVIII-XXXVI) siano
attestati a Cartagine, solo alcuni (XXVIII, XXX-XXXI, XXXIV-XXXV) raggiungano
la Sardegna.
La produzione rodia era invece specializzata principalmente nell’esecuzione di
contenitori sia in vetro che in faïence. I prodotti erano principalmente unguentari
riproducenti forme vascolari greche o configurati di varie forme. Tra quelli del
secondo tipo sono caratteristici e facilmente riconoscibili gli spargi-profumo che
riproducono un personaggio femminile inginocchiato, con copricapo a forma di papiro,
che tiene le mani sulla spalla di un grosso otre al di sopra del quale è una rana. La
nebulizzazione si otteneva soffiando dentro ad un foro in prossimità del capo del
personaggio, mentre il profumo fuoriusciva dai fori di emissione presso la bocca della
rana. In Sardegna in particolare sono attestati due identici oggetti di questo tipo a
Tharros e proprio a Sulcis1289 che, benché privi dell’associazione con il contesto
stratigrafico da cui provengono, possono essere datati sulla base dei confronti al

1286
Halff 1965, p. 82; Fantar 1994, p. 207 e segg.
1287
Bresciani 1987, p. 73, la testimonianza è tuttavia tarda e rientra tra i ben più riconoscibili contatti intercorsi
in età ellenistica per i quale si rimanda a Huss W., (1979). Die Beziehungen zwischen Karthago und Aegypten
in hellenistischer zeit. In Ancient Society vol. 10, pp. 119-137, cit. in ibidem, p. 78, nota 19.
1288
Ibidem, pp. 91-131.
1289
Webb 1978, nn. 64 e 64a; Hölbl 1986, p. 399, tavv. II (Sulcis) – III (Tharros); quello sulcitano proviene dal
tophet ed edito anche in Tronchetti 1989, p. 14, fig. 7; Sulcis 1989, p. 95, fig. 66, entrambi gli autori danno il
VI sec. come datazione.
- 254 -
periodo tra pieno VII e gli inizi del VI secolo1290. A Rodi è inoltre localizzato uno dei
centri di produzione dei vasetti vitrei del cosiddetto “Primo Gruppo Mediterraneo”1291,
del quale non mancano esemplari in Sardegna1292, ma che copre l’arco di tempo più
recente tra metà del VI e inizi del IV secolo. A questa classe di reperti non sfuggono
l’amphoriskos e l’oinochoe di ottima fattura dalla necropoli punica di Sulcis1293, che
per questo motivo non possono essere più antichi della fine del VI secolo, e
l’alabastron della tomba 12 AR in contesto di primo V secolo1294.
Differente è la situazione per quel che riguarda oggetti rodii di taglia più piccola
come amuleti e scarabei. Dei primi non sono state studiate in particolar modo le
tipologie1295, motivo per il quale non se ne può apprezzare la distribuzione in
Sardegna, ma per gli scarabei si ripete in maniera più accentuata la situazione relativa
alle produzioni naukratite. Dei tre tipi frequenti in siti greci (Group 4, types XXII-
XXIV)1296, solo il primo (XXII), caratteristico di una mass-production, è attestato da
qualche esemplare anche a Cartagine1297 e corrisponde alla prima fase della produzione
rodia individuata dalla Webb1298, entro la quale vanno pure considerati i due
nebulizzatori sopra descritti.
Sembra quindi di poter notare che dovette esistere un mercato “greco” cui
questi prodotti erano destinati, e che solo occasionalmente questi raggiungessero i siti
fenici della Sardegna, passando sicuramente prima per la Sicilia e Cartagine. Per gli
scarabei d’altronde sono stati riconosciuti alcuni tipi distribuiti principalmente nel
mediterraneo occidentale e quindi appartenenti ad un mercato “fenicio”, il che rende
valida l’affermazione che i fenici fossero autosufficienti in merito
all’approvvigionamento di questi oggetti, che dovevano essere appositamente prodotti
e selezionati. Rispondono a queste caratteristiche i tipi del gruppo 3 (“Phoenician
types”, tipi XV-XXI)1299, diffusi tra la fine dell’VIII ed il III secolo. In particolare

1290
Hölbl 1997, p. 51, tav. III.
1291
V. Ferrari 1996, p. 10, nota 13, con bibliografia.
1292
Uberti 1993, pp. 34-35.
1293
Ibidem, pp. 35, fig. 2, n. 5, nota 17 (propone la provenienza da Monte Sirai), fig. 4, n. 3; l’ultimo anche in
Sulcis 1989, p. 91, fig, 52, datazione al V sec.
1294
Tronchetti 2002, pp. 146, 153, n. 28, tav. X, 2.
1295
Webb 1978, p. 9, v. testo a nota 96 per quelli attribuiti alla stessa produzione dei vasi.
1296
Feghali Gorton 1996, pp. 63-79.
1297
Ibidem, pp. 63-71.
1298
Ib., p. 181; Webb 1978, pp. 6-8, fig. 4.
1299
Feghali Gorton 1996, pp. 43-62.
- 255 -
Sulcis è interessata solo indirettamente per quanto riguarda il tipo XV, dalla presenza
di uno scarabeo di questo tipo nella tomba 11 di Monte Sirai1300, e direttamente dallo
scarabeo in steatite della collezione Don Armeni compreso entro il tipo XVI1301.
Lo studio di A. Feghali Gorton ha il merito sicuramente di aver messo un certo
ordine in una documentazione dispersa, tuttavia non tutte le tipologie possono godere
di precisi agganci cronologici. I tipi individuati si profilano quindi come prodotti da
processi della durata di qualche secolo, non valgono quindi probabilmente ad
individuare un unico centro di produzione. Oltretutto l’ultimo oggetto da noi
menzionato rientra in piena età punica ed esula dal discorso sin qui esposto e relativo
al periodo arcaico della presenza fenicia in Sardegna.
Tornando ai manufatti egittizzanti la distribuzione di quelli di origine greca o
naukratita, accomunati qui per la padronanza delle medesime tecniche e stili, indicano
una maggiore attestazione a Cartagine, anche se non analiticamente quantificata.
Inferiore, sia quantitativamente che qualitativamente, è la presenza a Tharros e ancor
più a Sulcis. Emerge così il quadro di una dipendenza della Sardegna da Cartagine
anche per quanto riguarda l’età arcaica, ovvero prima che avvenga la conquista
militare dell’isola. Quanto questo fenomeno vada posto in là nel tempo non è possibile
affermare con certezza, inoltre appare limitato agli oggetti di categorie suntuarie e di
piccola taglia. Se poi il rapporto con Cartagine avvenisse in maniera diretta o per
tramite di Tharros è difficile definire, da una parte la posizione geografica di Sulcis
porterebbe a ritenere valida la prima possibilità, dall’altra la maggior concentrazione di
athyrmata a Tharros non necessariamente qualifica il centro come principale
smistatore dell’isola, a meno che non fosse anche quello produttore, e questo vale in
teoria solo per i manufatti del mercato “fenicio”. D’altra parte la stretta relazione tra
Tharros, la qart-hadasht di Sardegna, e la metropoli africana1302 è un fatto che può
dare una spiegazione ulteriore. Nel Sulcis invece, di un’ingerenza di tipo commerciale
da parte della grande colonia tiria si è già notato qualche probabile indizio nella

1300
Ibidem, p. 47, n. 9.
1301
Ib., p. 50, n. 4, l’autrice rivela l’omogeneità degli esemplari e la datazione compresa entro la metà del VI ed
il IV sec.; v. anche § 2.1.: Uberti 1971, n. 18.
1302
Bernardini 1997c, p. 100; si veda in particolare al riguardo Acquaro 1995b.
- 256 -
presenza di individui di origine cartaginese sepolti nella necropoli fenicia di Monte
Sirai1303.
Una terza area di provenienza di athyrmata doveva essere la costa levantina con
la quale la Sardegna e tutto il mondo fenicio occidentale seguitava a tenere rapporti a
seguito dei primi moti colonizzatori che dalla prima erano partiti. Data la minore
conoscenza della documentazione di quest’area, la sua esistenza può essere più
presunta che reale, e postulata come determinante nell’acquisizione di athyrmata in età
fenicia arcaica per la Sardegna ed il Mediterraneo occidentale. Per quanto concerne gli
scarabei lo studio di A. Feghali Gorton ha rilevato solo tre tipi di produzione nord-
siriana o fenicia (types XV, XVII, XIX)1304, dei quali solo il primo (type XV) conosce
una diffusione capillare in tutto il mediterraneo1305 ed anche a Monte Sirai, con
l’esemplare summenzionato dalla tomba 11 di età punica1306. Il tipo tuttavia è presente
in contesti datati dalla fine dell’VIII sino al IV-III secolo1307, per cui non è escluso
possedesse più centri di produzione. Il type XVII è attestato in Sardegna solo a
Tharros e la datazione è data da un solo esemplare spagnolo su quattro al VII-VI
secolo, ma l’attribuzione alla produzione orientale è data dubitativamente vista la
mancanza di riscontri in quest’area1308. L’ultimo tipo di produzione orientale (type
XIX)1309 rappresenta il cosiddetto “Greco-Phoenician style”, per l’indiscusso rapporto
stilistico con la glittica in diaspro verde, e per i contesti in cui è rinvenuto non può
essere più antico della fine del VI secolo.
Questa scarsità documentaria trova un parallelo ancora più emblematico negli
amuleti: gli oggetti noti in Oriente non differiscono tanto da quelli egiziani ed in
quest’area dovette operare la distribuzione delle botteghe naukratite e rodie.
Ciononostante G. Hölbl ha messo a punto i criteri stilistici per il riconoscimento
individuando uno “stile unitario” (Einheitsstil) che contiene in nuce quegli effetti di
banalizzazione e schematizzazione che caratterizzano la produzione sicuramente

1303
Cfr. § 5.1.4. e 5.2.: tomba 88 (Bartoloni 2000a) e tomba 95 (Bartoloni 1999b).
1304
Feghali Gorton 1996, p. 183.
1305
Ibidem, pp. 43-48.
1306
Ib., p. 47, n. 9, lo scarabeo trova un preciso riscontro nel n. 8 da Tharros. Sulla tomba 11 v. Amadasi,
Brancoli 1965; per gli scarabei il più recente Bondì 1975; per la datazione della tomba ad età punica
Bartoloni 1981, p. 25.
1307
Feghali Gorton 1996, p. 48.
1308
Ibidem, pp. 50-51.
1309
Ib., pp. 55-57.
- 257 -
occidentale1310. Lo stile unitario definito dall’Hölbl non sarà sufficiente comunque a
comprendere tutta la produzione orientale, che pur doveva essere ampia e attende
ancora di essere riconosciuta tra gli amuleti rinvenuti in Sardegna. Tra gli oggetti che
riteniamo esclusi da questo criterio, ma che plausibilmente non erano prodotti in
Occidente è il pateco del tophet caratterizzato da uno scarso sviluppo in profondità1311.
Scarsi i confronti in Sardegna, tra i quali l’analogo del tophet di Tharros1312, uno
conservato al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari1313 ed un altro al Museo
Sanna di Sassari1314. Alla stessa tipologia si conforma anche il pateco dei più recenti
scavi del tophet di Sulcis1315 e quello che accompagnava il defunto della tomba 88 di
Monte Sirai1316, entrambi da contesto arcaico e più precisamente del secondo quarto
del VI secolo per l’ultimo, il quale soffre tuttavia di una pronunciata schematizzazione.
Il tipo si enuclea oltre che per la scarsità di attestazioni, in paragone alla grande
quantità di pateci da contesti funerari fenici e punici sardi, per la già menzionata
proporzione dei volumi e per la costante rappresentazione su entrambi i lati1317.
Evidente è inoltre la conformazione delle braccia della figura che descrivono un
angolo retto tra braccio e avambraccio, mentre l’ipotenusa riecheggia la posizione dei
coltelli ormai irriconoscibili. I confronti in Oriente non sono numerosi1318 ma
qualitativamente indicativi perché testimoniano il grado avanzato di sviluppo verso la
schematizzazione che toccherà i limiti con l’amuleto-domino forse proprio con la
traslazione della produzione in qualche centro occidentale1319.

1310
Hölbl 1986, pp. 159-160; Hölbl 2004, pp. 66-67; per i precedenti studi di E. Acquaro sulla documentazione
sarda v. sintesi in Acquaro 1984, pp. 107-149.
1311
V. § 2.2.: Bartoloni 1973, n. 28.
1312
Acquaro 1978, p. 68, nota 20, tav. XIV, 1.
1313
Acquaro 1977, n. 734, tav. XXXII, con la serie dei nn. 735-738 che offre le ulteriori schematizzazioni del
tipo sino all’“amuleto-domino”.
1314
Acquaro 1982, n. 112, tav. VII, con la serie dei nn. 113-118: cfr. nota prec.
1315
Montis 2005, n. 43.
1316
Bartoloni 2000a, p. 22, tav. II, d.
1317
Manca infatti il tipo con Iside pterofora sul retro.
1318
V. Herrmann 2002, pp. 100-101, 170, n. 84, da Akko ma con datazione a prima età ellenistica (IV-III sec.);
da aggiungere anche Herrmann 1994, p. 461, nn. 635-363, tav. XL, da Akhsiv e Akko, per la conformazione
triangolare di braccia e coltelli e datazione più alta (Ferro II B-C: 925-586 a.C.), sebbene non riproducano la
stessa immagine sui due lati; Tell Keisan 1980, pp. 344, 350, n. 65, tavv. CVI, CXXXVIII; due vengono
anche da Amatunte a Cipro: Clerc 1991, pp. 93-94, nn. 338/7.3-4 (il secondo più stilizzato, ma il primo è
praticamente identico a Bartoloni 1973, n. 28) dalla tomba 338, il cui contesto è indicativamente datato tra
Cipriota Arcaico e Cipriota Classico.
1319
Per le presenze al di fuori della Sardegna in ambito mediterraneo occidentale v. anche Hölbl 1686, p. 111,
che tuttavia suddivideva gli esemplari sardi in due diversi tipi: 5.2.A.1.2 (p. 83), per la presenza da 4 a 5 fori,
e 5.2.A.3.2, entro il quale era compreso l’esemplare dai vecchi scavi del tophet; per gli esemplari cartaginesi
- 258 -
Per quanto riguarda i rapporti con l’Etruria questi solo limitatamente si colgono
nell’ambito degli athyrmata. Andrà richiamata ancora una volta la Sekhmet del
tophet1320, per la quale sono stati trovati cinque confronti appartenenti ad una collana
rinvenuta a Tarquinia in contesto di inizi VII secolo1321, ma che data la fattura rodia
non indica certamente l’esistenza di contatti diretti tra il nostro centro e questa regione,
anzi almeno per questo manufatto si può supporre una mediazione greca. Il quadro
delle importazioni ceramiche nell’isola indica che con l’area etrusca i contatti diretti si
incrementano dalla fine del periodo orientalizzante per risultare assestati negli ultimi
anni del VII secolo. La maggiore articolazione del repertorio vascolare, in crescita sino
al 540, documenta un rapporto diretto tra i centri fenici e le metropoli costiere
dell’Etruria meridionale1322, ed a questa condizione non esula Sulcis1323. Il 540 a.C.
segna tuttavia un’interruzione delle importazioni di bucchero, che solo parzialmente si
spiega con una contrazione del commercio etrusco in questo momento1324 e meglio con
la particolare situazione politica che si delinea nel tirreno tra la battaglia di Alalia e il
trattato di Roma e Cartagine del 509 a.C.1325. A questo periodo e alla presenza di
individui etruschi nelle città fenicie di Sardegna richiama la nota tessera ospitalis in
avorio conformata a leoncino rinvenuta nel santuario di S. Omobono a Roma1326. La
placchetta1327 riporta sul lato non decorato lungo il bordo il nome del possessore, tale
araz silqetenas spurianas (al genitivo), il quale porterebbe un gentilizio interpretato a
suo tempo dal Colonna come “il sulcitano”1328. La datazione invece si pone col
generale consenso intorno al 540-530, anche per l’attestazione del secondo gentilizio a
Tarquinia nel 530 a.C. circa, e potrebbe rappresentare la permanenza di un mercante
Etrusco in Sardegna, da che gli sarebbe derivato il gentilizio, in un quadro in cui
minoritaria doveva essere la partecipazione diretta degli etruschi al commercio con le

v. Vercoutter 1945, nn. 816, 818-820, tav. XXII, tutti con datazione troppo ampia (VII-III sec.). Degna di
nota la presenza del segno ankh inciso alla base degli ultimi tre e non riscontrato su altri: p. 293.
1320
V. supra.
1321
Hölbl 1979, II, p. 43, n. 130, k-o, tav. XXXVII, 4-8; Principi Etruschi 2000, p. 294, n. 390, dalla “tomba di
Bocchoris” con datazione al 700-690 a.C.
1322
Tronchetti 2000, p. 349; v. anche Tronchetti 1988.
1323
Bernardini 1989, p. 102.
1324
Tronchetti 2000, p. 351.
1325
Ibidem.
1326
Ib., p. 350.
1327
Cristofani 1990, p. 21, n. 1.6.
1328
Opinione non unanimemente condivisa: v. ib.
- 259 -
città fenicie di Sardegna1329. Affianco a questa vanno inoltre ricordate la tessera
ospitalis rinvenuta nella necropoli di Santa Monica a Cartagine e l’iscrizione su di un
blocco di arenaria locale rinvenuto a Oristano e databile alla fine del VII – inizi del VI
secolo1330.
È interessante notare che l’unico oggetto di ornamento riferibile all’area etrusca
rinvenuto a Sulcis sia databile tramite confronti alla fine del VI secolo1331, proprio
quando vengono meno i ben più riconoscibili buccheri in Sardegna. L’armilla circolare
in vetro blu da noi esaminata (n. 1) proviene da un contesto di poco più tardo (tomba 1
PGM BLV, inizi del V secolo), ma può essere benissimo esser stata indossata in vita
nei decenni precedenti sino a risalire alla data dei confronti etruschi. Abbiamo inoltre
rilevato come il reperto non sia isolato ma trovi un puntuale riscontro nel Museo
Archeologico Nazionale di Cagliari, sebbene privo di indicazioni di provenienza e
originariamente provvisto di terminazioni auree conformate a protome di leone.
L’oggetto originario è stato scorporato cosicché le protomi leonine risultano edite nel
catalogo dei gioielli “di Tharros” di G. Pisano del 19741332, mentre il corpo vitreo del
bracciale è stato pubblicato in quello dei vetri preromani di M.L. Uberti del 19931333.
La curiosità sta nella sostanziale somiglianza tra le protomi rinvenute in Etruria e le
due sarde, tale da suggerire una realizzazione ad opera della stessa bottega: il tipo di
bracciale sembra essere caratteristico del solo centro di Vulci1334. La tecnica di
decorazione tuttavia differisce tra le due coppie: a filigrana in quella etrusca e a
granulazione in quella sarda. Sebbene quest’ultima tecnica fosse ben conosciuta agli
artigiani etruschi, la maggiore dimensione dei granuli sembra essere più in linea con il
gusto dell’artigianato tharrense, onde per cui ci sembra di poter riconoscere le tracce di
un artigiano etrusco che per accontentare un committente fenicio avrebbe lavorato
seguendo il suo gusto o addirittura operato nel centro dell’Oristanese lontano dalla sua
patria. Ad ogni modo i due bracciali sono rivelatori di una realtà ormai in
cambiamento: di un’estromissione degli etruschi dai contatti diretti con l’isola, di una

1329
Bernardini 2000b, p. 179.
1330
Ibidem, pp. 184-5, nota 34.
1331
V. § 4.1.1.
1332
Pisano 1974, pp. 117-118, nn. 180-181, fig. 8, tav. XVII (nn. inv.: 9337-9338, collezione Spano)
1333
Uberti 1993, n. 119, pp. 105-106, tav. XVII (senza n.i.).
1334
V. § 4.1.1.
- 260 -
circolazione di merci etrusche limitata ai soli oggetti di lusso quali gioielli o avori1335 e
per Sulcis della impossibilità di intrattenere relazioni commerciali in autonomia e
perciò, se l’ipotesi dell’artigiano etrusco a Tharros fosse valida, la riprova della
generale mediazione tharrense nello scambio di athyrmata.
Il periodo punico documenta quindi una situazione di presunta chiarezza:
l’ingresso di Sulcis entro l’orbita di Cartagine nell’ultimo quarto del VI secolo,
avvenuto in maniera affatto pacifica, segna un periodo di crisi economica e di
conseguenza una contrazione delle importazioni1336. Circa cento anni saranno
indispensabili alla ripresa del nostro centro: tra la fine del VI ed i primi venti anni del
V secolo sono infatti rari e circoscritti i casi di importazioni, qualificati come di scarso
pregio e di produzione corrente1337, tra i quali rientrano i due lekythoi e lo skyphos di
fabbrica attica della tomba 12 AR1338, mentre si fanno più abbondanti nel proseguo del
secolo1339. In questo periodo la dipendenza commerciale da Cartagine produce i suoi
evidenti effetti anche sull’acquisizione di ornamenti personali. Per gli amuleti Tharros
sembra essere il punto di riferimento e per i gioielli, data la scarsa ricezione di tipi, non
sorprende che si sia proposta la produzione locale dell’orecchino ellittico ad arco
ingrossato come debole dimostrazione di autosufficienza del centro. In merito a questo
tipo si è supposta da parte nostra l’attività di artigiani itineranti1340, che avrebbero
svolto quindi una prima operazione di selezione degli oggetti commerciabili ed
avrebbero prodotto in loco quelli di minore qualità tecnica. La regola tuttavia sarà di
qui in avanti la mediazione di Cartagine per tutte le importazioni.
Ciò che maggiormente contraddistingue l’età punica da quella precedente
nell’ambito degli athyrmata è tuttavia l’inizio della produzione locale, che consentirà
alla Sardegna e all’Occidente punico di svincolarsi dalle importazioni, ritenute

1335
Martelli 1985, p. 237, figg. 58-60, in cui alcune placchette di rivestimento di scrigni rinvenute a Tharros e
Nora (tomba 26) sono attribuiti al terzo gruppo individuato dall’autrice e di produzione vulcente, per la
datazione del gruppo al primo/secondo quarto del V secolo: p. 235. Condivide inoltre l’opinione di G. Chiera
di una provenienza tharrense degli esemplari norensi: nota 58, p. 245.
1336
Sulcis 1989, p. 17.
1337
Bernardini 1989, p. 102.
1338
Tronchetti 2002, nn. 26, 33 e 35, tavv. IX, 1-2, XI, 3-4. Dallo stesso contesto è l’alabastron di probabile
fabbrica rodia summenzionato: n. 28, tav. X, 2.
1339
Bernardini 1989, p. 103.
1340
V. § 5.2.5.
- 261 -
determinanti in età fenicia1341. Abbiamo già rilevato altrove come il termine locale
debba assumere un’accezione più ampia a comprendere uno o più centri di produzione
siti nel mediterraneo occidentale1342, ma quel che sembra rilevante è la sensibile
diminuzione delle importazioni, si parla principalmente di amuleti e scarabei, come
conseguenza di un’incapacità di reperire all’esterno degli oggetti che una rinnovata
domanda richiedeva in quantità eccessiva. Abbiamo già proposto come l’aumento
della domanda si possa spiegare con il nascere di un ceto sociale che necessitava degli
scarabei come sigilli per fini amministrativi, e che gli amuleti egittizzanti
rappresentino un rinnovato affidamento alle forze occulte della magia e della religione
egizia1343, ma non è da escludere che alcuni dei canali e dei centri di produzione
orientale fossero entrati in crisi in seguito all’inizio della dominazione persiana1344.
Il V secolo, ma più correttamente si dovrà parlare della sua prima metà1345, è
come abbiamo detto per Sulcis un periodo di crisi, il che vale a spiegare la ridotta
acquisizione di gioielli in metalli preziosi e la scelta rivolta a tipologie semplificate
come l’orecchino ellittico ad arco ingrossato ed i vaghi in lamina d’oro su anima in
pasta1346. Per tipologie più complesse, nel complesso rare a Sulcis, e tra le quali sono
da porre i tre piccoli pendenti decorati a granulazione della tomba 1 PGM BLV (nn. 7-
9), si è invocato il ruolo di Tharros. Nel complesso questo periodo presenta una facies
tutto sommato abbastanza definita per Sulcis, con una generale esiguità dei corredi, in
relazione a quelli riscontrati a Tharros nello stesso periodo, per i più ricchi dei quali si
dovrà escludere la produzione locale ed accettare la mediazione di Tharros o della
stessa Cartagine, sia che fossero prodotti in Sardegna, di importazione orientale o
dell’area etrusca.
Il IV secolo segna il momento della ripresa per Sulcis e le altre colonie sarde
che si erano opposte alla politica militare di Cartagine e nel nostro centro l’oreficeria

1341
Sintetizzato in Padró 1991, pp. 67, 72, in riferimento alla situazione ibicenca; ripreso anche in Campanella,
Martini 2000, p. 51, nota 86, per quanto concerne la Sardegna.
1342
V. § 5.2.3.
1343
V. § 5.1.2.
1344
Dopo il 525 a.C. La comunità greca di Naukratis in Egitto, dovette risentire dell’occupazione persiana e se
ne colgono le conseguenze nella crisi delle esportazioni di scarabei verso l’area greca, ma in generale l’uso di
scarabei si riduce sensibilmente a partire da questa data: Feghali Gorton 1996, p. 184. Per la scomparsa di
oggetti egittizzanti in Grecia, Italia peninsulare ed Etruria alla fine del VI sec. v. De Salvia 1983a, p. 139;
Hölbl 1979, I, p. 233.
1345
Bernardini 1991, p. 195.
1346
V. § 5.2.5.
- 262 -
raggiunge, anche se solo con importazioni, il punto di più alto livello. Gli orecchini e
l’anello digitale con decorazione a rosetta con intarsi di pasta vitrea di gusto
ellenistico1347 ancora una volta presuppongono Cartagine come milieu, mentre Tharros
sembra privata del ruolo ricoperto precedentemente. A cominciare da questo periodo
negli amuleti abbiamo riscontrato una maggior presenza a Sulcis, seppure il livello
qualitativo sia inferiore rispetto ai periodi precedenti, ma coerentemente con quello
degli altri centri punici, come Cartagine, Ibiza e la stessa Tharros. In rapporto a
quest’ultima tuttavia il dato quantitativo sembra dare ragione al nostro centro,
lasciando adito ad una maggiore competitività tra i due e di un ormai compiuta ripresa
economica.

Nel rilevare i dati utili al discorso degli scambi in Sardegna relativamente a Sulcis,
abbiamo integrato quando presente la documentazione con quella rinvenuta a Monte
Sirai. Questo risulta corretto data la sostanziale identità di facies, evidente non solo
negli athyrmata ma anche, e soprattutto, nella ceramica1348. Ne deriva nella trattazione
la considerazione come un solo unico centro onde per cui descrivere gli scambi tra
l’uno e l’altro renderebbe il discorso tautologico. Per quanto concerne gli altri centri
del Sulcis-Iglesiente non sono stati espressi dagli scavi quei dati quantitativi che
permettano una decisa ricognizione della facies degli athyrmata1349, ma la posizione
geografica di Pani Loriga e in minor misura Antas e Bithia, più decentrate, permettono
di supporre la funzione di Sulcis come redistributore della ragione.

Una notazione a margine merita anche una classe di materiali che, repertoriata
nell’analisi degli oggetti in catalogo, non è stata considerata ai fini del riconoscimento
dei processi di scambio: i vaghi in pasta vitrea. Nella sezione dedicata agli aspetti della
loro produzione si è proposta una serie di indizi che permetta di riconoscere seppur
dubitativamente un centro di produzione in Sardegna, tuttavia la capillare distribuzione
che oggetti di questo tipo, e nella fattispecie quelli maggiormente presenti a Sulcis

1347
Bernardini 1991, pp. 195-196, tav. V, 1, 3-4.
1348
Bartoloni 1983, pp. 35-54. Un discorso a parte è quello relativo alla produzione locale che, pur in autonomia,
risente di forti influssi dalla vicina Sulcis e in alcuni casi anche di importazioni: Moscati 1993a, p. 87 e segg.
1349
Scavi ad Antas, Pani Loriga e Bithia non hanno messo in luce sequenze di tombe paragonabili a quelle di
Sulcis e Monte Sirai, né quantità di oggetti che permettano reiterabili confronti.
- 263 -
ovvero quelli con decorazione ad occhi, nonché lo stato delle ricerche in aree diverse
da quella iberica e centro europea, non ci hanno permesso di andare oltre una semplice
campionatura1350. Eppure questi tipi di oggetti sono quelli che storicamente, e un po’
semplicisticamente, rappresentavano i primi contatti tra i fenici e le popolazioni locali
delle coste del mediterraneo, attratte dai vivaci colori di quelle che potevano essere
scambiate per pietre preziose. Più analiticamente tuttavia possono essere considerati
come una veloce e facile merce di scambio tra le città fenicie della costa e i villaggi
indigeni dell’interno. Un primo tentativo di classificazione dei manufatti vitrei
rinvenuti in contesti prenuragici e nuragici è stato effettuato diverso tempo fa1351 ma
dovrà essere, oltre che implementato da più recenti dati di scavo e indicazioni
cronologiche, confrontato con i manufatti presenti nei centri fenici e punici dell’isola.

1350
V. § 4.1.3, tab. 1.
1351
Melis 1989.
- 264 -
6. CONCLUSIONI
In conclusione del presente lavoro offriremo una sintesi dei dati rilevati nel corso della
ricerca allo scopo di ottenere un quadro quanto più sinottico dell’intera
documentazione sulcitana e di evidenziare eventuali spunti per la ricerca futura.
Nella prima parte del lavoro abbiamo mostrato a scopo introduttivo le tappe
della storia di Sulcis. In particolar modo è stato messo in risalto il periodo compreso
tra la metà dell’VIII e la fine del III secolo a.C., in cui l’isola di Sant’Antioco ed il
resto della Sardegna conoscono per la prima volta la frequentazione stabile da parte di
genti estranee. A questo periodo è infatti attribuibile una facies archeologica autonoma
distinta a livello cronologico dalla conquista delle precedenti colonie fenicie da parte
della crescente potenza politica cartaginese. Questa conquista appare ormai compiuta
alla fine del VI secolo e permette di distinguere in Sardegna tra una precedente fase
fenicia e una successiva punica. Se per la prima i dati archeologici solo ultimamente
permettono di delinearne lo sviluppo, l’avvio della seconda fase comporta certamente
per il nostro centro un periodo critico in cui verrà meno la sua autonomia. La ripresa di
cospicue importazioni e quindi della stessa economia di Sulcis avviene dopo circa un
secolo e durerà sino alla conquista romana, che interessa tutta l’Isola nel 238 a.C.
Questa data segna il limite temporale della nostra indagine, ma non della presenza di
ornamenti personali a Sulcis, dal momento che lo Spano nel XIX secolo ne rilevava a
Sant’Antioco la cospicua presenza per l’età romana. Questa documentazione ci è
completamente ignota ed andrà ricercata nei magazzini del Museo Archeologico
Nazionale di Cagliari ed altrettanto nelle collezioni private cittadine. Il proliferare di
questo di tipo di collezionismo a Sant’Antioco, di cui sono noti e forniti per gli
athyrmata almeno quattro esempi, può dare un primo e non valutabile conto della
differenza tra il nostro centro e quello di Tharros, vittima per secoli di scavi clandestini
e della dispersione internazionale dei suoi reperti1352. In futuro solo un recupero di
questa documentazione, fortunatamente più alla portata rispetto a quella tharrense,
consentirà un approccio più consapevole nei confronti della questione degli athyrmata
sulcitani.

1352
Uberti 1977b, p. 55.
- 265 -
Allo Spano d’altronde era sfuggita quella di età fenicia e punica, della quale
rilevava semmai l’insufficienza nei confronti dei più cospicui rinvenimenti che nello
stesso periodo interessavano il centro di Tharros. Solamente il secolo successivo, con
l’inizio di ricerche intensive e programmate nell’area occupata dalla necropoli
ipogeica e dal tophet, inizierà a colmare, seppur parzialmente, questa lacuna
documentaria.
Nella seconda parte abbiamo fornito i dati per una quantificazione e
qualificazione di questa documentazione. È stata presentata infatti sotto forma di
elenco tutta la documentazione sinora edita relativa agli athyrmata di Sulcis. Le
motivazioni che sottostanno ad una tale presentazione del materiale sono l’evidente
difficoltà di riprendere in maniera analitica lo studio degli oggetti ormai dispersi, ma
allo stesso tempo di evidenziare i limiti ed il superamento dei dati ottenuti con le prime
pubblicazioni.
La ripresa di tutte le definizioni tipologiche ci ha permesso di completare il
quadro con due tabelle sinottiche che illustrano la presenza delle tipologie,
limitatamente agli amuleti, rinvenute nella necropoli e nel tophet. La suddivisione del
materiale in due gruppi, a seconda dell’area di rinvenimento (necropoli e tophet), ha
senz’altro il vantaggio di permettere di individuare all’interno di ognuno quelle
tipologie che più erano adatte allo specifico fruitore ed esecutore dei riti che nell’area
avevano luogo. Ma ancora più evidente emerge il deficit della documentazione
sulcitana: da una parte motivazioni di ordine pratico non permettono di scavare nella
zona in cui è stata individuata la necropoli arcaica, per cui gli athyrmata necropolitani
appartengono alla sola fase punica dell’insediamento. L’integrazione con la
documentazione arcaica di Monte Sirai sarebbe per contro solo limitatamente
fruttuosa. La necropoli di questo centro interessa infatti un periodo non anteriore alla
metà del VII secolo, per cui il primo secolo di storia di Sulcis non sarebbe coperto, ma
soprattutto la quantità di oggetti di ornamento, eccetto qualche lodevole eccezione, è in
generale alquanto scarna, seppur consona ad altre situazioni evidenziate nelle altre
necropoli della regione sulcitana. L’intera sequenza cronologica dalla metà dell’VIII al
periodo romano, potrebbe d’altronde essere coperta a Sulcis dal tophet, i cui scavi
tuttavia non ci hanno fornito le associazioni degli oggetti di corredo con le urne, più
facilmente databili. A questa situazione fanno eccezione gli scavi del 1995 e del 1998
- 266 -
che hanno interessato un’area del santuario in uso tra fine del VII e fine VI secolo,
sommariamente coincidente con l’insieme delle tombe più antiche di Monte Sirai. Il
confronto delle due facies così forzatamente limitate non consente di andare oltre il
riconoscimento della presenza di poche simili tipologie, come l’orecchino ad arco
ingrossato, e la comune condivisione della scarsa attestazione di monili in oro a fronte
di una stragrande quantità di questi in argento, riscontrata peraltro in altri centri del
Sulcis come Bithia e a Tharros.
Da una siffatta circostanza si chiarisce l’omogeneità della documentazione
necropolitana di Sulcis con una capillare attestazione di tutte le tipologie amuletiche
note nel mondo punico, ma con la predilezione di alcune come il pateco, l’udjat e
l’ureo o ancora la maggior presenza dello scarabeo a fronte della quasi assenza nel
tophet. D’altro canto il tophet fornisce una documentazione piuttosto eterogenea,
quanto a tipologie e qualità di realizzazione. Ciò non può esser solo dovuto alla
conduzione dello scavo, che ci ha fornito un insieme di oggetti non databili con
precisione, ma trova giustificazione più probabilmente nel fatto di dover soddisfare
una committenza di gusto più popolaresco e spiega la presenza di tipologie amuletiche
e di gioielli maggiormente legate alla religione o al simbolismo fenicio-punico.
L’analisi dei reperti inediti e parzialmente editi afferenti a sei tombe di recente
scoperta a Sant’Antioco, la cui disponibilità ha dato lo spunto alla presente ricerca, è
stata proposta nei capitoli 3, sotto forma di catalogo, e 4, che contiene una dettagliata
analisi tipologica. Quest’ultima ha dato ragione alla datazione ottenuta separatamente
tramite lo studio della ceramica, che colloca l’uso delle tombe nel corso della prima
metà del V secolo, ad eccezione della 11 AR, in uso tra seconda metà del V e l’inizio
del IV.
Si è rilevato però come in numerosi casi le tipologie ornamentali di per se,
specie se non criticamente esaminate, non possiedano quei caratteri che consentano
l’attribuzione di una precisa datazione. D’altra parte il conservatorismo, che interessa i
gioielli ad esempio, e la possibilità, sebbene più remota, di una loro trasmissione anche
per alcune generazioni, rende i materiali in esame di per se poco affidabili per una
datazione dei contesti. Quest’ultima necessita di quell’affidabilità che può essere
fornita allo stato attuale solo dalla seriazione delle forme ceramiche.

- 267 -
Un problema a parte è poi quello dell’individuazione dei centri di produzione
degli athyrmata delle sei tombe: se per la maggior parte dei reperti la semplicità
formale non può essere di aiuto, tanto da suggerire in taluni casi anche la realizzazione
locale, per alcuni prodotti di singolare raffinatezza di esecuzione, come i tre pendenti
della tomba 1 PGM BLV, gli scarabei in diaspro della 9 AR o quello in corniola della
6 PGM, non si può non pensare al grande centro produttore e collettore di Tharros. Lo
stesso vale d’altronde per il bracciale in vetro della tomba 1 PGM BLV, per il quale,
sebbene di origine etrusca, alcuni confronti indiretti fanno supporre una mediazione
tharrense.
Alcuni elementi innovativi della presente ricerca emergono proprio dall’analisi
tipologica di alcuni reperti. La provenienza museale della maggior parte dei confronti
disponibili ha imposto infatti un riesame della documentazione relativa a quelle
tipologie e dei dati desumibili dai contesti di provenienza, quando nota. Così per il
pendente con sommità ad arco centinato, tra i tre sopra menzionati della tomba 1 PGM
BLV, appartenente ad una tipologia per la quale era stata già avanzata l’analogia con
le stele del tophet, ma limitatamente al tipo di raffigurazione presente all’interno del
campo figurativo, è emerso ancora più fortemente il rapporto con il centro di Tharros.
Qui il tipo della losanga e dell’idolo a bottiglia figurano sulle stele, mentre risultano
sconosciuti a Sulcis e Monte Sirai. Si auspica pertanto una maggior attenzione in
futuro a tutte le caratteristiche, non solo iconografiche, ma anche metriche, materiche
osservabili ad occhio nudo in mancanza di analisi scientifiche specifiche, e contestuali.
La ricerca di confronti per il bracciale in vetro, ancora dalla tomba 1 PGM
BLV, non limitata ai soli oggetti rinvenuti in contesti fenicio-punici, ci ha permesso di
riconoscere in Etruria il centro di produzione. Altresì ad un analogo oggetto
conservato al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari è stato possibile individuare
l’appartenenza di due protomi leonine auree, che ne costituivano l’ornamento delle
estremità e per le quali si ignorava la precisa funzione.
L’analisi delle caratteristiche formali di un oggetto a forma di mano in osso
della medesima tomba ha inoltre suggerito una funzione alternativa a quella di
amuleto, generalmente accettata per i suoi confronti. Per alcuni di questi infatti le
circostanze di rinvenimento non consentono di ritenere che fossero indossati dal

- 268 -
defunto, ma che avessero una relazione, forse come sistema di chiusura, con
contenitori realizzati in materiale deperibile.
Ad analoga destinazione è stato inoltre attribuito un gruppo di undici calotte
piano-convesse con foro alla base, per le quali è sovente proposta la identificazione
come bottoni. La conoscenza disponibile sull’abbigliamento fenicio-punico, l’evidenza
delle circostanze del rinvenimento di oggetti simili e alcuni confronti in posizione
originaria suggeriscono infatti una funzione di rivestimento di perni per
l’assemblaggio di cofanetti o di altri arredi lignei, e quindi distante da quella
dell’ornamentazione personale.
Gli oggetti analizzati quindi rientrano a pieno titolo tra le tipologie già note in
ambito sulcitano e permettono con maggior convinzione il riconoscimento di una
facies degli athyrmata sulcitana. Alcuni oggetti in particolare come l’orecchino
ellittico ad arco ingrossato si aggiungono ad analoghi già noti da diverso tempo,
durante il quale non sono venuti alla luce in altre parti della Sardegna. Altri gioielli
come i pendenti circolari con crescente e disco solare richiamano, pur nel metallo più
nobile, analoghi oggetti in argento da Bithia e Pani Loriga di VI secolo. Benché con
l’impossibilità di definire con certezza un centro di produzione nella regione sulcitano,
questi elementi contribuiscono ad individuare una facies, ancorché caratterizzata dalle
sole importazioni, che si estende senza soluzione di continuità almeno per tutto il VI e
gli inizi del V secolo, superando quel limite cronologico imposto dagli eventi politici
della fine del VI.
Ma il principale contributo alla ricerca è stato fornito nella sezione successiva
(capitolo 5), col quale le categorie artigianali in esame (gioielli, amuleti e scarabei)
sono state sottoposte ad un’analisi che le osservasse da tre punti di vista differenti e
considerasse al rango di esponenti della cultura materiale fenicia e punica.
Con la parte dedicata all’uso o alla funzione (§ 5.1) si è focalizzata l’attenzione
su quelli che potevano essere i possessori degli ornamenti ed i destinatari delle virtù,
non solo estetiche ma anche simboliche o magico-religiose, che permeavano questi
oggetti. Sappiamo dalle immagini fornite dalla coroplastica e dalla statuaria che i
gioielli, come orecchini e collane, potevano essere indossati tanto da uomini quanto da
donne, e le misure ridotte di quelli del tophet inducono a ritenere che le dimensioni
fossero proporzionate a quelle di colui che li indossava. È altresì probabile che
- 269 -
costituissero elementi fondamentali del rito, così come quello ricostruito
ipoteticamente del tophet e quello ben più reale e tangibile della morte. Non c’è
motivo di ritenere tuttavia che alcuni ornamenti fossero realizzati esclusivamente per
quest’ultimo rito, ma che anzi il defunto fosse sepolto con quelli che aveva indossato
in vita.
Gli amuleti d’altro canto, suddividibili in egiziani o egittizzanti e di ascendenza
punica, mostrano un più chiaro legame con la magia, sia essa egizia o più
genuinamente punica. Tralasciato il problema se si debba parlare di magia o di
religione, dal momento che si ritenga da parte di alcuni studiosi che fossero venerate
nel mondo fenicio-punico alcune divinità egizie, o fosse mostrata ad esse una più
semplice devozione, le tipologie amuletiche di ascendenza egizia selezionate dai fenici
e dai punici presentano un più forte legame con il mondo dei vivi e con la protezione
dalle insidie terrene, che non ultraterrene. Che amuleti fossero portati in vita è
mostrato dalla stessa consunzione, osservata anche su alcuni di quelli sulcitani,
provocata dal continuo contatto del corpo di coloro che li indossavano. Non è stato
possibile tuttavia, data l’esiguità dei dati di scavo sensibili a questa tematica,
individuare quelle tipologie più consone a soddisfare un determinato tipo di
committente o fruitore, ripetendosi anche qui la situazione notata per i gioielli.
Lo scarabeo invece, “amuleto anomalo”, con i suoi contesti di rinvenimento ha
offerto maggiori spunti di riflessione. Da una parte la quasi assoluta assenza nel
tophet, e non solo in quello di Sulcis, di questo tipo di oggetti consente di ritenere un
fruitore privilegiato l’individuo di età adulta. Entro questa categoria di individui
tuttavia non è possibile operare distinzioni di sesso dal momento che Sulcis non ce ne
offre l’occasione e perché questo, dove noto, sia riconoscibile tanto come maschile
quanto femminile. Rimane aperta e valida la differenza di censo, suffragata anche dal
fatto che cospicui rinvenimenti di cretule impresse a Selinunte e a Cartagine
consentono di attribuire allo scarabeo il ruolo principale di sigillo e quindi una
funzione “civile”, per lungo tempo negata o ignorata a vantaggio di una prevalente
funzione amuletica o funeraria. Anche in questo caso quindi l’amuleto con valenze
funerarie in Egitto, si scarica nell’Occidente fenicio di questo ruolo per servire ai vivi
solamente ed accompagnarli sino al letto funebre, ma senza andare oltre.

- 270 -
Un ulteriore sezione dedicata ai destinatari di tutti e tre i tipi di ornamenti ha
permesso di rilevare la carenza documentaria costituita dai rinvenimenti necropolitani.
Se infatti il tophet con l’esclusiva presenza umana di individui di età infantile
perinatale consente di individuare in questi validi fruitori di athyrmata e della
protezione magica ad essi connessa, tra gli individui adulti non è possibile individuare
eventuali differenze connesse al sesso o alla condizione sociale. Solo in parte infatti
questa è desumibile dalla documentazione extra-sulcitana. Sono stati tuttavia effettuati
alcuni tentativi di individuazione del sesso e di altre caratteristiche degli inumati nelle
tre tombe non completamente edite 1 PGM BLV, 5 e 6 PGM.
Nella sezione dedicata agli aspetti produttivi (§ 5.2) abbiamo presentato quegli
indicatori di produzione che facciano riferimento a Sulcis come centro di origine dei
manufatti, o di valutare quelli relativi ad altri, tra i quali in Sardegna Tharros gode di
una posizione di assoluta preminenza negli studi. Suddivisi per materie prime
utilizzate gli athyrmata non hanno fornito però chiare e sicure indicazioni. L’osso per
la sua facile reperibilità poteva esser lavorato sul posto, ma la scarsa caratterizzazione
delle tipologie realizzate non consente distinzioni con la documentazione di altri
centri. La pietra dura utilizzata per le gemme non sembra essere stata disponibile sul
posto e tanto meno il numero e la qualità delle attestazioni di prodotti finiti a Sulcis
consentono di avanzare ipotesi sulla produzione in loco. Per gli scarabei in particolare
la letteratura scientifica è interessata da oltre un secolo dalla disputa riguardante la
localizzazione del centro di produzione, il quale ancora verosimilmente dovrà essere
individuato in Tharros per la notevole quantità delle attestazioni. La faïence e la
steatite sono stati considerati insieme non tanto per la tecnica di lavorazione, a
modellazione o a stampo per la prima e a intaglio per la seconda, quanto per il
medesimo tipo di prodotti finali (amuleti egittizzanti per lo più), e per la comune
materia prima: la steatite o talco è una componente della miscela da cui si ottiene la
faïence. Di questa materia prima è noto come principale bacino estrattivo in Sardegna
il territorio di Orani (NU), il che suggerisce, per la facile via di accesso costituita dal
fiume Tirso, lo sfruttamento da parte di Tharros, ma è nota una cava di talco anche nei
pressi di Teulada, presso il quale era uno stanziamento di età punica individuato in
regime di ricognizione. La facile accessibilità di tale risorsa a Sulcis non è neanche in
questo caso argomento sufficiente all’ambientazione di una produzione locale, pur
- 271 -
tuttavia scarsi indizi, da sottoporre a verifica, potrebbero suggerire il fiorire di botteghe
in età punica avanzata (IV-III secolo) capaci di concorrere con Tharros.
I metalli sono stati considerati invece separatamente. Il piombo e l’argento
erano reperibili nella regione e quindi più a buon mercato, l’oro invece presuppone
l’importazione del prodotto finito e meno probabilmente della materia prima. Se da
una parte il piombo offre maggiori possibilità di produzione locale, perché da esso
doveva essere estratto l’argento e quindi sicuramente oggetto di una prima
lavorazione, l’argento soggetto logicamente alle stesse fasi operative era sottoposto
invece a diverse regole di commerciabilità. Difatti il piombo, come anche il bronzo, si
ritrova con facilità nei corredi del tophet dove costituiva forse pendenti o altri oggetti
funzionali al rito di sostituzione e comunque rispettava quel gusto popolaresco
caratteristico del santuario sulcitano. Ancora l’argento frequente nei gioielli della fase
arcaica dei centri fenici del Sulcis, contro una ben inferiore attestazione dell’oro, non
può essere necessariamente connesso ad una produzione locale per la scarsa
caratterizzazione delle tipologie rappresentate. In età punica inoltre si ritiene che
Cartagine monopolizzasse la produzione artigianale di questo metallo lasciando alla
provincia (in questo modo meritatamente definito il Sulcis) la sola lavorazione
necessaria all’estrazione. L’oro d’altro canto indica, con la tipologia dell’orecchino
ellittico ad arco ingrossato, una diffusione senza soluzione di continuità tra VI e inizi
del V secolo cui potrebbe essere data spiegazione con l’attività di orefici itineranti, che
non avrebbero avuto motivo di stanziarsi saldamente sul posto data la scarsa domanda
di beni. Ma anche in questo caso bisognerà attendere gli eventuali dati della necropoli
arcaica di Sulcis per completare il giudizio.
Tra gli altri materiali è stata considerata l’ambra di cui è nota la provenienza
europea settentrionale e per la quale il rinvenimento in età punica è da associare ai
commerci, anche se non direttamente, intrattenuti tra Cartagine e gli empori del
tirreno etrusco o dell’adriatico settentrionale.
Sebbene quindi non sia possibile nella maggior parte dei casi verificare una
produzione locale di athyrmata, resta salvo il concetto dell’autosufficienza di un
centro che dimostra una certa vivacità economica e che di certo non dipendeva da altri
centri per alcune categorie artigianali come quella ceramica o quella delle stele del

- 272 -
tophet, entro la quale sono noti i caratteri di autonomia delle rappresentazioni e rari
sono gli stessi casi di importazione/esportazione.
Nell’ultima parte analitica del presente lavoro (§ 5.3) abbiamo ripercorso la
storia dei rapporti del centro fenicio-punico con le altre aree o regioni produttrici di
athyrmata seguendo la falsa riga fornita dagli studi sulla ceramica. In una prima fase
corrispondente al periodo tardo-geometrico ed orientalizzante sono cospicuamente
attestati i rapporti con l’area della colonizzazione euboica e con Pitecussa in
particolare, per i quali fanno riscontro l’amuleto raffigurante Sekhmet rinvenuto nel
tophet fuori contesto e lo scarabeo in steatite, anch’esso sporadico ma da un gruppo di
tombe della metà dell’VIII secolo, rinvenuto in località San Giorgio di Portoscuso,
sulla costa sarda antistante Sant’Antioco. Questi elementi non sono sufficienti a
suffragare di certo la possibilità di stanziamenti di Greci nell’insediamento coloniale
fenicio, ma sono testimoni dei diffusi scambi che interessavano il mediterraneo
occidentale e che non si limitavano alle sole merci, ma si estendevano anche a
credenze e rituali come quello del simposio ed ora anche della sfera magico-religiosa.
La successiva fase, quella fenicia avanzata sino alla conquista cartaginese, non
offre particolari dati di diversificazione rispetto ad altri centri fenici della Sardegna, va
anche nuovamente ricordato come pochi siano gli athyrmata con certezza assegnabili a
questo periodo. Tra essi i più cospicui sono quelli di produzione rodia e naukratita, che
a Sulcis, allo stato attuale delle conoscenze compaiono tra VII e inizi del V secolo. In
questo modo ancora Sulcis appare interessata dagli intensi traffici che legavano le due
sponde del mediterraneo, e per i quali un tramite importante doveva essere la Sicilia.
Tuttavia la minoritaria attestazione di tali prodotti, ancora solamente da postulare in
mancanza della documentazione della necropoli fenicia, sembra indicare in Tharros o
in Cartagine stessa i principali centri di smistamento di queste mercanzie e una
posizione soltanto secondaria di Sulcis.
Il successivo periodo della storia sulcitana si apre con la conquista militare della
Sardegna da parte della metropoli africana. I nuovi e vecchi dati sostanzialmente non
contraddicono l’osservazione effettuata sulle importazioni ceramiche, la cui
contrazione è stata attribuita ad una sorta di pena inflitta per l’opposizione alla
conquista cartaginese. Sulcis e la sua regione ricopriranno nel V secolo un ruolo
decisamente marginale nello sviluppo della Sardegna punica, per il quale
- 273 -
maggiormente determinante doveva essere la valle del Campidano. Rispetto ai corredi
delle tombe di Tharros e Caralis, e in minor misura anche Nora, è scarsa la presenza e
la qualità dei gioielli, così come quella degli scarabei, che con il “ruolo civile” già
evidenziato indicano ulteriormente la subordinazione politica ed economica del nostro
centro.
Gli ultimi due secoli di storia presi in esame (IV e III secolo) e immediatamente
precedenti la conquista romana dell’Isola, rappresentano il momento di ripresa di
Sulcis. I gioielli dal punto di vista qualitativo e gli amuleti da quello quantitativo
sembrano indicare anche nei confronti di Tharros che il nostro centro abbia ritrovato
l’antico splendore, ma senza che si possa con certezza individuare una produzione
locale di athyrmata.
È stata così esposta la situazione relativa alla documentazione degli athyrmata
di Sulcis. Sono state messe per essa in evidenza le lacune che si spera possano essere
presto colmate, non tanto da nuovi scavi e scoperte, quanto da una maggiore
attenzione ai dati di contesto e dall’analisi multi-settoriale, qui proposta in maniera
preliminare. Per contro Sulcis possiede una condizione di assoluto vantaggio rispetto
ad altri centri punici della Sardegna e Tharros in particolare: la conservazione intatta di
un lembo della necropoli punica e del tophet, che ancora attendono di essere
interamente scavati e quelle indicazioni di associazione dei reperti con le tombe
puniche scavate negli anni passati, che meriterebbero un’edizione critica complessiva.
Ciononostante Sulcis allo stato attuale della ricerca rivela una facies peculiare e
sufficientemente definita, della quale restano ancora da meglio acclarare le
articolazioni cronologiche. In generale tuttavia, e per quanto riguarda la fase punica
del centro in particolare, non si può che consentire con P. Bernardini il quale
osservava, ormai quindici anni orsono, da parte di Sulcis “una differenza ed
un’articolazione qualitativa (e quantitativa) nella recezione […] di athyrmata”1353 nei
confronti di Tharros, da leggere quindi semmai come una vocazione al consumo di
questa categoria di materiali più che alla produzione finalizzata all’esportazione.

1353
Bernardini 1991, p. 191.
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- 315 -
- 316 -
APPENDICE

mano che fa le fiche


scrofa
Holbl 1986
scarabeo-amuleto
Khnum-Ra
corona del basso Egitto Uberti 1971
bovide
leone accovacciato Biggio 1977
lepre
Horus Arpocrate
astuccio porta amuleti Area AR
Iside
cinocefalo Scavi PGM
Shu
ariete accovacciato
placchetta rettangolare
gatto
Horus-Ra ieracocefalo
Thot
wadj
falcone
Thoeris
ureo
scarabeo
udjat
pateco

0 10 20 30 40 50 60 70 80

Grafico 1. Frequenza delle tipologie amuletiche della necropoli.

tavoletta
altra maschera
Sekhmet Bartoloni 1973
Ibis davanti alla piuma shu
Anubis
Khnum-Ra Martini 2004
cinocefalo
Iside
scarabeo Montis 2005
mano che fa le fiche
Horus-Ra ieracocefalo
ureo
Bes coronato
astuccio porta amuleti
Thot
simbolo di Tanit
scrofa
ariete accovacciato
dente di ovino
anforetta o piccolo vaso
Thoeris
cuore
gatto
cippo
falcone
testa di sileno
ghianda
cypraea lurida
udjat
pateco
0 10 20 30 40 50 60

Grafico 2. Frequenza delle tipologie amuletiche del tophet.

- 317 -
- 318 -
30

tomba 25
25

tomba 11
tomba 22 25
tomba 12
tomba 19 tomba 23 25
11
20 11 22 23
19 23

22 23
22 25
15 tomba 13
13 22
11
13 22 23 tomba 24 tomba 27
11 13
11 13 22 23 24 25 27 tomba 30

diametro in mm.
11
13 tomba 20 22 23 24 25 27 30
11 13
10 19 22 24
13

0
0 20 40 60 80 100 120

quantità

Grafico 3. Presenza e dimensioni dei bottoni in osso nei corredi delle tombe di Tharros al British Museum.

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