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it pubblica nel suo sito il libro :

Jacques Neirynck e Tariq Ramadan

Possiamo vivere con l'Islam?


il confronto fra la religione islamica e le civilizzazioni
laiche e cristiane.

Titolo originale dell’opera: " Peut-on vivre avec l’ Islam"

scheda introduttiva :

Due studiosi, due uomini di fede e di profonda onestà intellettuale, Tariq Ramadan e Jacques Neirynck, affrontano
con vivacità e immediatezza e le grandi questioni connesse alla presenza in Europa di alcuni milioni di musulmani.

Un passato di cui vengono enfatizzate solo le fasi di scontro e di rapina e un’allarmismo mediatico tanto fittizio quanto
ingiusto pesano come macigni sul presente di coloro che in Europa si trovano a dover convivere con l’islam quotidiano
di uomini e donne, in buona parte immigrati, che lo rivendicano come identificazione culturale e spirituale.

Il dibattito attraversa ormai tutta la società europea a partire da paesi come Francia e Germania, che per primi si
sono confrontati, e talvolta scontrati, con il fenomeno.

Snobbata fino alla metà degli anni ’80 dai grandi flussi migratori, buona ultima anche l’Italia e gli italiani hanno
cominciato ad interrogarsi sul loro futuro nella società vieppiù multietnica e multiculturale.

La specificità del caso Italia, con la presenza del Vaticano sul suo territorio e del cattolicesimo nel vissuto
collettivo degli italiani, ha dato vita, tra i cristiani a due fenomeni contrastanti: da un lato prassi di grande apertura e
reale sostegno a favore delle situazioni e dei soggetti più demuniti o a rischio, dall’altro diffidenza, sindrome di
invasione, alte grida a favore di una maggiore purezza culturale e spirituale anche selezionando i candidati
all’immigrazione.

Sul versante islamico, tramontata (o quasi) la teoria che tutto quello che non è territorio islamico sia territorio di
guerra, è iniziata una profonda riflessione, sulla maniera di essere musulmani nelle società laiche dell’Occidente,
sempre più considerate come territori di testimonianza e di partecipazione.

Sgombrando il campo da molti equivoci e malintesi, questo libro vuole dare un contributo al dibattito e al progresso
di quella conoscenza reciproca che deve tradursi in arricchimento, rispetto e speranza di armonica convivenza nel
futuro.

Gli autori :

Tariq Ramadan insegna filosofia (in un liceo di Ginevra) e islamologia (all’Università di Friburgo).

Figlio di Said Ramadan, pioniere dell’organizzazione islamica in Europa e nipote di Hassan al Banna, il
fondatore dei Fratelli Musulmani, è l’ideale anello di congiunzione tra la grande tradizione islamica araba e la nuova
realtà dell’Islam in Europa.

Partecipa come esperto ai lavori di alcune commissioni del Parlamento Europeo ed è l’autore, tra l’altro, di una
storia della rinascita islamica durante gli ultimi due secoli (Aux source du renouveau musulman).
Il suo Essere un musulmano europeo, di prossima pubblicazione anche in Italia,è la prima organica riflessione
sulla condizione del musulmano in Europa..

Jacques Neirynck , insegnante, ricercatore, giornalista e scrittore è autore di diversi libri, tra cui Le Manuscrit du
Saint Sépulcre e si è particolarmente interessato alle problematiche relative alla fede e alla cultura cristiana.

Sommario
Introduzione
Ci si può battere in nome di Dio?

I termini di un conflitto

Non c’è pace tra i popoli senza pace tra le religioni

Capitolo 1
Una fede comune in Dio condivisa da tre religioni

L'unità fondamentale delle tre religioni monoteiste

Le divergenze fra le tre religioni monoteiste

Il ruolo eminente del Corano nella fede musulmana

Il lavoro d'interpretazione del Corano

Il rapporto tra le religioni: l'islam vittorioso

Il mito cristiano della colpa universale

Nell'islam tutto ciò che non è proibito è lecito

La radice teologica della discordanza

Tre religioni strettamente legate dalla storia

Non c'è costrizione nella religione

La fonte del conflitto attuale tra l'Occidente e l'islam

L'islam guardato con sospetto

Capitolo 2
La pratica dell'islam
Una pratica unanime

Il primo pilastro: la testimonianza fede

Il secondo pilastro: la preghiera

Il terzo pilastro: la zakah

Il quarto pilastro: il digiuno

Il quinto pilastro: il pellegrinaggio

La mancanza di pratica religiosa

L'islam, religione senza sacramenti

Le altre prescrizioni dell'islam

L'ossessione del puro e dell'impuro

La proibizione dell'alcol

Le droghe ed il tabacco

I sacrifici rituali

Un'applicazione ragionevole delle prescrizioni

Capitolo 3
La posizione della donna nell'islam

Un argomento di contraddizioni e di malintesi

La tragicommedia laica del foulard islamico

L'istruzione delle ragazze nell'islam

La poligamia

La Turchia e la Tunisia: esempi di transizioni riuscite?

L'evoluzione mancata dell'Iran

Il divorzio ed il ripudio nel diritto islamico

Le sanzioni dell'adulterio

La pena di morte nel diritto islamico

L'occidentalizzazione rampante

A proposito dell'aborto
L'atteggiamento nei confronti della contraccezione

L'assenza di una norma unica

La donna nella moschea

Il matrimonio misto

La pratica dell'escissione

La sessualità come adorazione del Creatore

L'interdizione dell'omosessualità

Capitolo 4

Il diritto e l'islam

La percezione inquietante della shari’ah

L'uguaglianza dei diritti

La schiavitù

Le punizioni fisiche

Il diritto di partecipare al jihad armato

Capitolo 5
Al centro del dibattito
Il mito singolare di Prometeo

Il paradosso dello sviluppo occidentale

La stagnazione storica dell'islam

Il concetto di banca islamica

Il rapporto attrazione-repulsione tra Occidente ed islam

Le due situazioni dell'islam

Non sottovalutare i regimi politici

La dinamica transnazionale dell'islam


L'islam in stato di guerra potenziale?

Ciascuno è responsabile della sua riuscita o della sua sconfitta

Le debolezze storiche dei musulmani

L'Occidente senza parapetto

Per superare la diatriba di famiglia

Capitolo 6
L'islam in Occidente
Una situazione nuova in seno agli Stati di diritto

Tre livelli d'integrazione

La mancanza di rappresentazione

Priorità alla rappresentazione locale

Il rispetto della comunità

Lo spazio di guerra non esiste più

Il conflitto tra poligamia e diritto europeo

I conflitti di coscienza

La paura della criminalità e del terrorismo

Scuole musulmane?

Una laicità rispettosa delle religioni

Dalla laicità alla secolarizzazione

Il duro nocciolo delle fedi monoteiste

L'insegnamento della religione

Il mistero delle differenti religioni

INTRODUZIONE

Ci si può battere in nome di Dio?


Bisogna osar affrontare le relazioni tra l'islam e la società occidentale che, a dir la verità, sono state spesso cattive nel
passato e che non cessano di aggravarsi in questi ultimi anni. L'islam, considerato allo stesso tempo come religione e
come cultura, viene messo a confronto con questa entità molto più vaga che si chiama “società occidentale” e che
esitiamo a definire cristiana perché essa è entrata in un processo di laicizzazione e di secolarizzazione in cui la religione
sembra non aver più un gran ruolo da svolgere. I due mondi diffidano l'uno dell'altro e non esitano a utilizzare la
violenza per esorcizzare questa paura.

Partiamo da uno scontro concreto che è stato vissuto recentemente. Ciascuna delle parti in causa si è comportata nel
peggior modo possibile, sprezzando i propri principi col pretesto di difenderli.

Ci riferiamo ai due attentati che hanno avuto luogo nel 1998 contro le ambasciate americane a Kampala ed a Dar
as-Salaam, immediatamente seguiti dalle misure di ritorsione degli Stati Uniti, che hanno preso di mira due paesi,
l'Afghanistan ed il Sudan, non direttamente implicati nell'attentato ma colpiti per un atto di punizione collettiva nei
riguardi dell'islam.

Le due parti rinnegano completamente i loro principi. I terroristi musulmani se la sono presa con innocenti. Questa
aggressione cieca, perpetrata in nome del Corano, sicuramente va a loro danno. Anche se alcuni paesi musulmani
possono sentirsi aggrediti dagli Stati Uniti, prendersela con diplomatici viola il diritto internazionale e va al di là della
legittima difesa. Non solo le vittime erano innocenti, ma la maggior parte non aveva nulla a che fare col conflitto,
poiché si trattava di africani. E forse alcuni di loro erano essi stessi musulmani.

In senso opposto, anche le forze aeree americane se la sono presa con innocenti in Afghanistan e nel Sudan, due
paesi il cui torto principale è la loro appartenenza all'Islam. E, all'interno dell'Islam, al movimento che rifiuta di piegarsi
ai diktat politici dell'America e che resiste all'iniziativa di occidentalizzazione che seduce altri paesi musulmani. Ben
ottanta missili da crociera hanno colpito obiettivi più simbolici che reali. Il costo totale dei missili ammonta a sessanta
milioni di dollari. Lanciare questo tipo di armi su paesi così poveri costituisce un crimine che grida vendetta al Cielo.
Con sessanta milioni di dollari che cosa non si sarebbe potuto fare per nutrire le persone che soffrono la fame nel Sudan
e per istruire gli analfabeti in Afghanistan? Gli Stati Uniti hanno violato il diritto internazionale, proprio loro che si
considerano in un certo senso la norma morale del mondo ed i gendarmi del pianeta. Si sono impegnati in atti di guerra
sul territorio di paesi con i quali non sono in conflitto.

Tuttavia questo episodio non è che l'ultimo in ordine di tempo. E sicuramente lo è solo per il momento. Esso fa
parte di una lunga catena di atti di violenza. Gli episodi più drammatici sono le guerre in Libano, in Afghanistan, in
Bosnia, in Kosovo, in Iraq, che hanno contrapposto e contrappongono ancora cristiani e musulmani. Allo stesso modo le
persecuzioni aperte o latenti contro le minoranze cristiane sono molteplici: nel Sudan, nel Pakistan, in Indonesia, nelle
Filippine. Il massacro in Algeria di alcuni religiosi europei (nel 1984 due suore e cinque frati, nel 1995 quattro suore,
nel 1996 i sette monaci trappisti di Tibéhirine ed il vescovo di Orano) ha disonorato i GIA (Gruppi Islamici Armati) ed
ha dimostrato come il governo algerino sia incapace di garantire la sicurezza interna. Purtroppo le vittime algerine sono
state ancora più numerose: è diventata una banalità sapere che un villaggio è stato circondato da assassini del GIA e che
decine di vittime sono state sgozzate, senza altro motivo che quello di spargere il disordine ed il terrore.

La violenza si riversa anche nel mondo occidentale. Lo scrittore Salman Rushdie è stato oggetto di una fatwa
iraniana che autorizzava la sua esecuzione con una ricompensa per l'assassino. Nel 1993 un attentato contro il World
Trade Center a New York ha causato tre morti: lo scopo era di far crollare uno degli edifici più alti del mondo nel cuore
della finanza mondiale. Durante la festa di Natale del 1994, un Airbus dell'Air France è stato dirottato, i passeggeri presi
in ostaggio (tre di loro giustiziati) finché non è scattato l'assalto del GIGN francese che ha ucciso i terroristi
all'aeroporto di Marsiglia, sotto gli occhi di tutta la Francia incollata agli schermi della televisione che trasmetteva in
diretta. Nel 1995 e 1996 il terrorismo algerino ha messo Parigi in stato d'assedio per parecchi mesi. Il 17 agosto un
attentato sulla Avenue de Friedland provoca diciassette feriti. Il 28 agosto il deragliamento del TGV Parigi-Lione viene
evitato giusto in tempo. Il 29 settembre uno dei terroristi, Khaled Kelkal, viene giustiziato quasi in diretta sugli schermi
televisivi. Il 6 ottobre un attentato alla stazione della metropolitana Maison-Blanche provoca tredici feriti. Il 3 dicembre
1996, alla stazione di Port-Royal, all'ora di punta, quella dell'uscita dagli uffici, un'esplosione provoca ottantadue feriti
gravi, due dei quali moriranno.

Pattuglie del CRS e di paracadutisti hanno setacciato i posti strategici per lunghi mesi. I cassonetti dell'immondizia
sono stati inchiodati e resi inutilizzabili, le borse perquisite all'entrata dei negozi. Parigi è stata messa in uno stato
d'assedio come se la violenza della guerra civile algerina avesse il diritto di imporsi all'antica potenza coloniale,
considerata responsabile della sofferenza dell'Algeria fino alla fine dei tempi. Albert Camus, abitante di Orano, tanto
algerino quanto i musulmani, aveva già predetto alla fine de “La Peste” che un giorno i topi sarebbero usciti di nuovo
dalle fogne e che la peste sarebbe tornata nelle città felici. Non credeva che sarebbe stato proprio così. Sembra di essere
ritornati alle guerre di religione, alle crociate ed al jihad.

Meno drammatica ma altrettanto pericolosa è l'atmosfera di sospetto che cresce intorno alle comunità musulmane
insediate in Europa. I conflitti legati al velo islamico nelle scuole pubbliche francesi si ripetono al punto che il
Ministero dell'istruzione nazionale retribuisce una mediatrice specializzata per risolverli. Abbandonati a loro stessi,
incapaci di inserirsi nel mondo del lavoro, alcuni giovani musulmani trasformano le periferie in isole senza legge che i
dipendenti dei trasporti pubblici rifiutano di servire. Tutto diventa occasione di conflitto: la costruzione di una moschea
in Occidente (che non è mai facile anche se ce ne sono molte in Francia ed in Europa) o il divieto formale di costruire
una chiesa in Arabia Saudita; la proibizione dell'alcol per gli occidentali che vivono in certi paesi della penisola araba;
la richiesta di cimiteri musulmani in Europa; il sacrificio rituale dei montoni al di fuori del circuito autorizzato dei
mattatoi. Su questo terreno propizio, i partiti di estrema destra, razzisti e xenofobi, hanno buon gioco nel reclutare
aderenti: in una Francia che ha una minoranza importante di oltre quattro milioni di musulmani, spesso concentrati in
veri e propri ghetti alla periferia delle grandi città, risorge la vecchia paura di un gruppo inassimilabile, che minaccia la
cultura del paese, le sue tradizioni ancestrali e le istituzioni della Repubblica. I musulmani, molto spesso di nazionalità
francese, giocano il ruolo molto scomodo che era già stato quello dei protesanti o degli ebrei.

La stessa situazione prevale in Belgio dove un partito neo-nazista ha ottenuto il 28% dei voti nel grande porto di
Anversa, sulla base di un programma xenofobo, che del resto sacralizza lo stesso odio per musulmani, ebrei e
francofoni, tutti coloro che non rientrano nel canone del buon tedesco biondo dagli occhi blu. La Germania è sempre
reticente all'integrazione di una minoranza di circa tre milioni di turchi rendendo meno rigide le regole per la
naturalizzazione. La Svizzera attua una politica selettiva dell'immigrazione che praticamente esclude l'entrata dei
musulmani: come di consueto essa risolve elegantemente un problema evitando di porselo.

Non serve a nulla allungare questa lista. L'Occidente si sente minacciato dall'islam che prova del resto un
sentimento reciproco. Tutte le condizioni per un malinteso o un conflitto sono costantemente riunite. Tutto si svolge
come se le due culture non avessero altra risorsa che contraddirsi, denigrarsi e temersi.

Davanti ad una tale incomprensione, ad un tale diniego del diritto dei popoli e ad una tale caricatura delle religioni,
la cosa più importante è interrogare la fede stessa. Che cosa dice la fede dell'islam di fronte a queste manifestazioni di
violenza inaudita? Che cosa dice la fede dei cristiani di fronte a queste aggressioni reciproche? Qual è la relazione tra la
fede dell'islam e la fede dei cristiani? Queste religioni sono forse per natura opposte su punti fondamentali che
innescano conflitti inevitabili e ricorrenti? Non esiste alcun terreno d'intesa? Ci si può battere in nome di Dio
pretendendo ciascuno di esserne il proprietario, obbedire alla sua volontà massacrando e disporre della sua benedizione
perfino nell'omicidio?

I termini di un conflitto

Questo è un libro di buona fede e buona volontà. Prende in contropiede l'atteggiamento di diffidenza e di ostilità
che è diventato la norma. Si sforza di promuovere una comprensione ed un rispetto reciproci tra le due culture cristiana
ed islamica, che si dividono il bacino del Mediterraneo, le loro vecchie terre di civilizzazione, bagnate da tante lacrime
e tanto sangue, fonti allo stesso tempo di saggezza e di follia. Senza dimenticare la terza cultura, l'ebraismo, che ha
costituito la matrice originale degli altri due monoteismi. Poiché gli scontri avvengono in nome di religioni concorrenti,
parliamo di queste religioni, prendiamole sul serio, cerchiamo di risalire alle loro più profonde radici.

Dopo il crollo del marxismo, l'Occidente vincitore non ha altro da temere che i propri eccessi e sembra non
incontrare altra contraddizione che quella dell'islam, allo stesso tempo religione e cultura, indissociabili l'una dall'altra.
La vera opposizione non è in realtà tra due religioni concorrenti e divergenti. Si tratta piuttosto di un faccia a faccia tra,
da una parte, l'Occidente praticamente ateo, razionalista, scientista, mercantile, fedele alla religione del consumo e del
benessere, del hic et nunc, che nega ogni trascendenza, che riduce la morale allo stretto indispensabile al fine di
assicurare in modo pragmatico la stabilità delle società e, dall'altra, l'islam rimasto massicciamente credente in un Dio
unico che parla agli uomini per mezzo dei profeti e, soprattutto, tramite l'ultimo di loro, Muhammad. Società che
prendono la fede sul serio al punto che ne impregnano tutta la vita e che non concepiscono una morale, un'economia,
una politica che non abbia la propria fonte negli insegnamenti del Libro rivelato, il Corano.

Questi i termini di un possibile confronto. Non tra cristiani e musulmani, ma tra due universi, uno che praticamente
nega la trascendenza e l'altro in maggioranza legato alla fede. Difficilmente si possono pensare condizioni peggiori per
una incomprensione radicale. Nel primo ogni credo religioso espresso collettivamente è considerato alla stessa stregua
di un delirio, una manipolazione da parte del clero, il retaggio di una mentalità arcaica. Nel secondo è difficile riuscire a
capire che sia possibile non credere e si sospetta che l'Occidente voglia imporre dappertutto una rivolta luciferina, allo
stesso tempo lucida e odiosa.

Non c’è pace tra i popoli senza pace tra le religioni.

Questo libro è fatto in buona fede e con buona volontà poiché utilizza una scappatoia, l'unica possibile. I due autori
sono entrambi credenti impegnati, perciò il fossato si rivela meno difficile da superare. Ciascuno prende sul serio la
fede dell'altro e capisce che bisogna partire da lì per capire tutto l'essere umano fino alle sue manifestazioni più strane.
Tale è stato il motore di questa impresa: ridurre pazientemente le incomprensioni, valutare con lucidità le scelte che
uniscono e le sfumature che separano. L'augurio più caloroso dei due autori è che l'amicizia nata durante il lavoro in
comune faccia scuola. Sperano entrambi che un giorno vicino o lontano si ritrovino a Gerusalemme tutti i figli di
Abramo - ebrei, cristiani e musulmani - per difendere fraternamente tutto ciò che li unisce contro tutto ciò che li
minaccia. Si associeranno a tutti gli uomini di buona volontà che, in nome della loro coscienza, difendono il senso della
vita, la giustizia, il diritto, l'uguaglianza ed il dialogo. Allora - e soltanto allora! - saremo fedeli alla fede in Dio
misericordioso, Che ci insegna non la vendetta ma l'amore ed il perdono.

Una fede comune


CAPITOLO 1

Una fede in Dio condivisa da tre religioni


L'unità fondamentale delle tre religioni monoteiste.

JACQUES NEIRYNCK. Preparando questi incontri mi è parso che ciò che unisce ebrei, cristiani e musulmani sia
molto più forte di ciò che li separa. E ciò che li unisce è la fede in un solo Dio. Ma la cattiva conoscenza reciproca
costituisce la regola piuttosto che l'eccezione.

A titolo d'esempio quasi caricaturale, il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992 sotto l'egida del
Vaticano, è un grosso volume di settecento pagine dove si trovano riferimenti al giudaismo, all'ateismo, al materialismo
ma nessuno all'islam che è semplicemente ignorato, come se questa non fosse la religione più diffusa nel mondo dopo il
cristianesimo, come se non ci fosse alcun legame storico tra le due religioni. Non c'è neppure una sola citazione del
Corano o del nome di Muhammad. Inutile ricordare che l'atteggiamento reciproco non è vero e che l'islam ha una
grande venerazione per la persona di Gesù, abbondantemente citato nel Corano.

All'inizio, il Dio unico sorge in seno alla liberazione dal politeismo, rappresentato dalle religioni tribali animiste che
esistevano in Medio Oriente e che sono state soppiantate dai tre grandi monoteismi. L'affermazione di un Dio
trascendente ed unico merita oggigiorno di essere ripetuta di fronte agli idoli moderni, che non sono più piccole divinità
animiste, rurali e folkloriche, ma che si chiamano soldi, tecnologia, competizione, velocità, moda, redditività.

Lei è d'accordo su questo punto di partenza?

TARIQ RAMADAN. La ringrazio per aver posto i termini del dibattito e del dialogo sul terreno delle basi
fondamentali. Credo che, in effetti, rispetto a tutti gli eccessi che si possono constatare nel mondo d'oggi, ed in
particolare rispetto all'islam, si abbia l'obbligo di ritornare ai principi fondamentali. Uno studio approfondito di ciò che
è l'islam nella sua formulazione primaria, nella sua traduzione letterale, nel fatto di essere sottomissione al Dio unico, ci
permette di ritrovare il respiro di tutti i monoteismi. La rivelazione coranica si presenta come l'unione e la realizzazione
di tutti i monoteismi delle genti del Libro (ebrei nella persona di Mosè e cristiani nella persona di Gesù), riconosciute
dalla tradizione coranica. Considerare questa dimensione della fede evidenzia ciò che ci unisce, per quanto riguarda la
presenza del Creatore e la visione del mondo che ne deriva, ma allo stesso modo ciò che concerne la percezione della
responsabilità umana di fronte al mondo e di fronte agli uomini. E' il nocciolo intangibile di tutti i monoteismi. Andrei
ancora oltre affermando che è il tronco comune di tutte le spiritualità viventi e attive che donano dignità all'uomo nella
sua intimità e/o nella sua fede.
J.N. Prima di procedere bisognerebbe forse mettersi d'accordo su che cos'è la fede. Vorrei citare una definizione che
proviene tra l'altro da un teologo cristiano, Hans Kung: "Per gli ebrei, i cristiani ed i musulmani aver fede significa che
l'uomo qui ed ora, con tutto ciò che è, con tutte le risorse del suo spirito, s'impegna in modo incondizionato e si affida
totalmente a Dio ed alla Sua parola." I musulmani possono aderire a questa definizione?

T.R. Le parole di Hans Kung corrispondono esattamente al respiro della fede ed al suo impegno davanti al Creatore.
La fede non è semplicemente un sentimento vago, è un sentimento che è nutrito da una necessità nei confronti di Dio.
Noi siamo dunque, su questo punto, in completa armonia.

J.N. Potremmo ora entrare più profondamente nell'argomento ricordando che questo Dio unico al quale credono tutte
le genti del Libro - con questo termine intendiamo tutti i figli d'Abramo: ebrei, cristiani e musulmani- non è il dio dei
filosofi.

Non è il dio che scopre Platone, per esempio, al termine di una riflessione filosofica. Il dio dei filosofi è un principio,
una metafora, un postulato, tutto quello che si vuole ma non una Persona.

Blaise Pascal ha fatto molto bene la distinzione nel suo celebre Memoriale dove dice:-"Dio d'Abramo, Dio d'Isacco, Dio
di Giacobbe- non dei filosofi e dei sapienti". Questo incontro di un Dio vivente e personale ha segnato Pascal, filosofo e
matematico, al punto che aveva cucito un pezzo di carta recante questo testo nel suo vestito. Un musulmano
preferirebbe forse questa variante:"Il Dio d'Abramo, d'Isacco e di Ismaele", ma a parte questo dettaglio, la formulazione
dovrebbe essere accettabile.

Ciò che hanno in comune le tre grandi religioni monoteiste è che si rivolgono ad un Dio storico, un Dio che ha preso le
Sue responsabilità nella storia, che si è manifestato attraverso i Suoi diversi profeti. Non è il risultato di una
elaborazione intellettuale da parte di persone sapienti, non è il tappabuchi delle nostre ignoranze scientifiche, egli “ è ”e
basta. Non è inventato dall'uomo, Egli va verso l'uomo e Gli si manifesta. L'uomo scopre Dio nella misura in cui gli si
rivela. E' Dio che per primo gli va incontro.

T.R. In quanto musulmano la formulazione pascaliana del Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe mi va perfettamente
bene ed essa compare proprio così nel Corano. Per ciò che riguarda la distinzione tra il dio dei filosofi ed il fatto della
rivelazione, essa è assolutamente appropriata e traduce perfettamente l'approccio islamico. Per il musulmano la
rivelazione è fondamentale. Dio Si manifesta e Si presenta all'uomo tramite il Libro rivelato. La fede inizia o piuttosto
si scopre attraverso l'atto della rivelazione e tutti i Libri, secondo la tradizione musulmana, fanno parte del ciclo della
profezia, una rivelazione che Dio decide di fare in un momento della storia degli uomini per orientarne le responsabilità.

Ciò che si deve sottolineare è che noi ammettiamo in quanto musulmani - e la cosa vale per tutte le altre tradizioni- che
ci sono state delle modificazioni ed evoluzioni nelle leggi rivelate. L'elemento centrale che non è mai cambiato è il fatto
che, secondo la tradizione musulmana, tutti i profeti sono venuti con il messaggio dell'unicità divina, at-Tawhid. E'
detto: "E Noi non abbiamo inviato prima di te Profeti ai quali non abbiamo rivelato: non c'è altro Dio all'infuori di Me,
adorateMi". E' questo ciò che unisce per natura i tre monoteismi. Non si tratta dunque di una pura costruzione
intellettuale, ma di una rivelazione che confermerà, a posteriori, la facoltà razionale dell'uomo. Il Corano ne parla in
continuazione: la rivelazione viene a confermare l'intuizione intellettuale e questo in particolare tramite i segni presenti
in noi e attorno a noi. L'elaborazione razionale conferma successivamente la verità della suddetta intuizione.

L'idea contenuta nella formula il "Libro del mondo" o il "Libro manifestato" davanti ai nostri occhi, che ritroviamo del
resto nella tradizione filosofica medievale, esiste nell'islam fin dall'inizio. C'è in effetti il "Libro rivelato", quello che noi
riceviamo, e c'è il "Libro manifestato", che è la manifestazione della presenza del Creatore per mezzo dei segni che
provengono dalla creazione e contemporaneamente dal più profondo del nostro essere. Infatti il termine arabo ayat, che
vuol dire segno, indica allo stesso tempo i "segni" dell'intimità e del mondo ed i versetti del Corano: è lo stesso termine.
In realtà la corrispondenza tra i due Libri è quasi immediata e comunque naturale. Tutto partecipa a ricordare all'uomo,
tramite le due rivelazioni, che qualche cosa lo abita e gli da forma.

J.N. Nelle tre tradizioni: ebraica, cristiana e musulmana, Dio è anche un Dio Creatore, il che significa che è all'origine
di tutto. Ma non solo come qualcuno che ha creato il mondo e poi se n'è disinteressato. Dio mantiene il mondo. Lo
mantiene in esistenza. In un certo senso agisce continuamente in questo mondo. Egli è, se vogliamo utilizzare una
formula, coautore di tutte le azioni dell'uomo. Resta inteso che essendo l'uomo libero e responsabile, può non fare
quello che ci si aspetta da lui. E' così?
T.R. Esattamente, anche se l'idea specifica di un "Dio coautore delle azioni umane" è estranea all'islam. La tradizione
musulmana ha subito affermato l'idea della continuità della creazione con la presenza costante di Dio tanto che la
ritroviamo più tardi ad esempio nella filosofia cartesiana. Dio accompagna la Sua creazione. In questo senso, per il
musulmano ed il credente - da un punto di vista generale - questa relazione tra Dio ed il mondo stabilisce un doppio
rapporto di responsabilità e fiducia. Coscienza della propria responsabilità e fiducia nella Sua bontà e nel Suo amore.

Le divergenze fra le tre religioni monoteiste

J.N. Poiché abbiamo scoperto i punti di convergenza, occupiamoci ora dei punti di divergenza. All'interno di ciascuna
delle tre religioni, c'è un punto di disaccordo, un'idea sulla quale i fedeli si irritano: a loro pare che rinunciarvi
corrisponda a perdere la propria identità. E questa idea è assolutamente inaccettabile per le altre due religioni.

Per il giudaismo, la particolarità è costituita dall'affermazione che il popolo d'Israele è un popolo eletto. Dio si rivela
attraverso una discendenza umana ed il resto dell'umanità è escluso da questa rivelazione. Ciò non vuol dire che i non-
ebrei siano dannati o perduti, ma resta il fatto che un goy non può diventare ebreo. La conversione di un non-ebreo al
giudaismo è un'impresa estremamente difficile. Del resto, gli ebrei non hanno mai cercato di fare un'attività missionaria
di una certa portata anche se ci sono state delle conversioni isolate.

Il concetto di popolo eletto, di legame privilegiato tra Dio ed un gruppo umano non è ovviamente accettabile per gli
altri, gli esclusi dall'Alleanza. Certamente non per l'islam che raggruppa arabi e persiani, tuareg e sudanesi, indiani e
indonesiani, turchi e albanesi, poiché ci sono anche musulmani europei. L'esclusività di un popolo eletto è ancor meno
accettabile per i cristiani, visto che il cristianesimo è nato da un movimento di conversione in cui pagani greci, romani e
celti hanno aderito almeno in parte alla tradizione giudaica. I cristiani si sono appropriati del monoteismo di Israele
affermando che essi compivano la promessa fatta ai profeti e che Gesù di Nazareth era il Messia che Israele continuava
ad attendere.

Se consideriamo la fede cristiana, scopriamo anche qui un punto centrale che costituisce un argomento di disaccordo.
Dio incarnato nella persona di Gesù è un concetto inassimilabile ed inaccettabile per le altre due religioni. Dio incarnato
in un uomo è una bestemmia per gli ebrei, bestemmia per la quale Gesù è stato denunciato agli occupanti romani che
l'hanno condannato e messo a morte. Ed è una bestemmia anche per un musulmano: Gesù di Nazareth è un profeta ma
non di natura divina.

Se cerchiamo il punto centrale dell'islam che costituisce il pomo della discordia con cristiani ed ebrei, ho l'impressione
che esso ruoti intorno al posto preminente che ha il Corano, parola testuale di Dio, alla quale nulla si può togliere o
aggiungere. Sarebbe questo, a suo avviso, il punto sul quale lei, in quanto musulmano, non transigerebbe? Il punto sul
quale lei si sentirebbe il più diverso rispetto agli altri credenti nel Dio d'Abramo.

T.R. Lei ha ben interpretato le rispettive posizioni delle religioni sui punti di divergenza fondamentali. Certo, si
potrebbe andare oltre nei dettagli dei disaccordi ed in particolare tra l'islam, il giudaismo ed il cristianesimo sulle
questioni importanti legate ai Testi stessi, alla Legge, alla Trinità, alla grazia, ecc. Ma l'essenziale è proprio quello che
lei ha citato.

Aggiungerei, comunque, che c'è un concetto che, per i musulmani, costituisce un problema: mi riferisco al peccato
originale, che ha un legame diretto con la concezione dell'uomo e con la rappresentazione della persona di Gesù nella
tradizione cristiana. La questione è fondamentale perché entra in conflitto con il principio dell'innocenza, il cuore della
concezione islamica dell'uomo: da innocente, l'uomo diventa responsabile; non si considera colpevole dell'errore di un
altro, in particolare di quello d'Adamo.

In quanto musulmani, è vero che oggigiorno gli elementi sui quali siamo maggiormente interpellati -per quello che
riguarda la mia esperienza personale- riguardano il posto che ha il Corano nella nostra religione poiché per noi è la
Parola di Dio così com'è stata rivelata, non solo nei significati, ma anche nella forma, il che significa che è sacro sotto
tutti i punti di vista (la stessa cosa vale per il modo in cui trattiamo il libro vero e proprio nella vita quotidiana). Un
rispetto profondo scaturisce dal nostro legame con il Libro, con il contenuto, con la forma, ed anche con la lettura e
anche lei può constatare che i musulmani hanno un grande riguardo nei confronti del Libro rivelato.

Qui si pone la questione dell'esegesi critica e scientifica che, tutto sommato, è un dibattito fondamentale. Mi è capitato
qualche volta, durante le discussioni che ho avuto con amici cristiani, di sentirmi punto sul vivo al culmine di un
dibattito molto interessante. Cioè ad un certo punto, la critica cosiddetta "moderna e scientifica" che si vorrebbe io
facessi al testo, presupporrebbe che rinnegassi uno degli elementi fondamentali della mia fede, quello di credere che il
testo coranico sia rivelato e che sia la parola di Dio.

Il che non significa - ed è quello che cerco sempre di spiegare - che s'impone una lettura statica e letterale. Al contrario,
la Parola rivelata esige una lettura ed una comprensione continuamente rinnovata attraverso i secoli. Il testo resta
comunque il riferimento nel senso che necessariamente orienta e circoscrive la lettura. Ripeto, questa non è statica ed
ecco perché ogni secolo ci sono nuovi commenti del Corano: uno, due, tre o anche più ma non si arriva a riconsiderare
lo statuto della parola rivelata. Questo, per proseguire, mi spinge anche a parlare delle interpretazioni che ho avuto
modo di sentire da un buon numero di cristiani e che li portano ad affermare: nel cristianesimo, l'incarnazione è
avvenuta nell'uomo; nell'islam, l'incarnazione è avvenuta nel Libro. Lo stato di libro nell'islam non ha nulla a che
vedere con lo stato dell'incarnazione di Gesù nel cristianesimo. E' meglio non confondere i riferimenti, anche se si
ammette che il modo in cui viene considerato il Corano può creare qualche problema nel dibattito interreligioso.

Il ruolo eminente del Corano nella fede musulmana

J.N. Forse è il momento di provare a presentare il Corano, poiché i lettori probabilmente hanno idee assai imprecise a
riguardo. La forma definitiva del testo del Corano è stata fissata da uno dei primi califfi, che l'ha fatta mettere per
iscritto e che ha fatto distruggere tutte le copie precedenti.

T.R. Secondo la tradizione musulmana il testo del Corano è stato elaborato principalmente in tre tappe. La prima fase
di costituzione del testo è stata realizzata all'epoca del Profeta. Si trattava all'inizio di una trasmissione orale, ma già
allora, secondo le raccomandazioni del Profeta, alcuni scribi scelti da lui trascrivevano i versetti rivelati su tutti i
materiali a disposizione, scapole di cammello o altro supporto.

Per ventitre anni l'angelo Gabriele ha trasmesso il testo al Profeta ed ogni anno, durante il mese di ramadan, veniva a
fargli recitare tutto il testo rivelato fino a quel momento. Nell'ultimo anno di vita del Profeta l'angelo Gabriele glielo ha
fatto recitare due volte nell'ordine e nella forma che oggi conosciamo.

J.N. In quel preciso momento il Corano è puramente orale?

T.R. Orale, sì, ma accompagnato da testi scritti sui diversi materiali di cui ho già parlato. Alcuni scribi, uno dei più
noti è Zayd Ibn Thabit, si occupavano di trascrivere e conservare i versetti rivelati. Dopo la morte del Profeta ed in
particolare dopo la battaglia di Yamama (nel 633, un anno dopo la scomparsa del Profeta), nella quale morirono più di
settanta persone che conoscevano a memoria il Corano, su suggerimento di 'Umar, fu deciso di riunire i fogli sparsi e
costituire un testo completo. Questo sarà il primo mushaf ("riunione dei fogli"), che verrà depositato presso una donna,
Hafsa, figlia dello stesso 'Umar (che diventerà il secondo califfo).

J.N. Ed esiste tuttora?

T.R. C'è ancora una tappa tra questo testo iniziale e quelli che abbiamo noi oggi. Il terzo califfo, Uthman vedendo che,
con la dispersione dei musulmani, le letture cominciavano a divergere, ha fatto copiare esemplari del Corano a partire
dall'originale di Hafsa e le ha fatte distribuire in tutto il territorio musulmano, esigendo che questo testo fosse da quel
momento in poi il riferimento. Siamo dunque nel 653, vent'anni dopo la morte di Muhammad. Il testo che abbiamo noi
oggi è nato da queste copie fondate esse stesse sull'originale di Hafsa.

J.N. A quest'epoca, tra il 650 ed il 660, vengono diffuse un certo numero di copie. Intendiamoci, queste copie sono
manoscritte.

T.R. L’affermazione del testo scritto inizia a partire già dal 633 e la sua diffusione, in effetti, prosegue fino al 660 e
anche oltre in tutto il territorio musulmano.

J.N. Quali sono attualmente i manoscritti più antichi che abbiamo a disposizione?

T.R. I pareri sono diversi. Esiste la copia detta "dell'Imam" che sarebbe appartenuta a Uthman stesso, ucciso, secondo
la tradizione, mentre lo leggeva. Si trova oggi in Turchia e porterebbe la data degli anni 650. Gli esperti hanno
confermato la plausibilità di questa data. Esiste un'altra copia, quella della Biblioteca nazionale egiziana che porterebbe
la data dell'anno 688, cioè cinquantasei anni dopo la morte del Profeta, e che deve esser stata basata sul manoscritto di
Uthman. Altri frammenti antichi si trovano sparsi nei musei di tutto il mondo, in Siria, in Egitto, nell'Africa del Nord,
ecc.
J. N. Chi ha attualmente l'incarico di conservare questo manoscritto? Gli Stati, l'autorità religiosa, l'università?

T.R. Sono gli Stati che, tramite le loro istituzioni religiose e/o i loro musei, preservano il patrimonio musulmano. A
partire dall'epoca ottomana, si è lavorato molto per la conservazione di questo patrimonio.

J.N. Dunque, con molta rapidità si ha a disposizione una testimonianza scritta, materiale, un manoscritto, da trenta a
quarant'anni dopo la morte del Profeta, che avviene nel 632. La coincidenza è perfetta tra tutte le copie che sono state
fatte di questo manoscritto originale?

T.R. Fin dall'origine la possibilità di copiare il Corano veniva concessa con estrema cautela. E' così anche oggi: nessun
Corano può essere pubblicato senza aver ricevuto l'imprimatur e questo dopo una rilettura scrupolosa da parte delle
istituzioni specializzate. Il testo oggi è dunque lo stesso e le differenze che si possono constatare riguardano la grafia, la
trascrizione, la presenza dei segni diacritici ma, a parte questo, il testo è lo stesso.

J.N. La coerenza dei testi disponibili è un risultato, quindi, della rapidità con la quale il testo è stato fissato. Per fare un
paragone, i migliori manoscritti del libro di Isaia nella Bibbia erano datati VII o VIII secolo della nostra era, finché non
si è scoperto un manoscritto a Qumran che risaliva al 200 a.C. Si sono scoperte delle differenze notevoli tra queste due
versioni manoscritte di Isaia. Non c'è niente di strano quando si confrontano due copie fatte a mille anni di distanza.
Copiare e ricopiare un testo comporta inevitabilmente delle infedeltà, volontarie o no. Siamo talmente abituati alla
fotocopiatrice che c'è la tendenza a dimenticare questa limitazione nella trasmissione dei testi con i metodi
dell'antichità.

T.R. In effetti può essere una questione di rapidità della trasmissione. Comunque il musulmano trova nel Corano l'idea
che Dio ha fatto scendere il "ricordo" (adh-dhikr) - uno dei nomi del Corano - e che lo ha fatto in modo tale che si
conservi nella sua forma originale. Per noi questo è uno dei segni che il Corano è l'ultimo testo rivelato, confermato
nella sua forma originale e tale resterà per sempre. Il testo e la sua forza evocatrice, come dire, confermano la fiducia
nata dalla fede.

J.N. Del resto ritroviamo un atteggiamento identico tra i fondamentalisti cristiani che prendono alla lettera il testo della
Bibbia e si rifiutano di interpretarlo. Sono estremamente stupefatti quando si dice loro che non solo ci sono delle
varianti tra i diversi manoscritti ma, confrontando le copie, ci sono anche aggiunte che talvolta sono importanti.

Addirittura l'unico testo nominato dal Vangelo dove Gesù dice esplicitamente di essere il Figlio di Dio è considerato
apocrifo dagli esegeti contemporanei. Non faceva parte dei Vangeli originali. La cosa è di una certa importanza se si
considera che questo è proprio il punto di scontro tra cristiani da una parte e ebrei e musulmani dall'altra.

T.R, Quando lei fa il parallelo con la tradizione fondamentalista, è importante precisare un punto centrale. Qui c'è una
differenza radicale che ci impone di allontanarci un pò dalla storia del cristianesimo e del suo rapporto col testo. La
posizione rigida che si può trovare tra certi musulmani non è funzione dell'affermazione: è un testo sacro che non si
tocca. Su questo punto c'è all'interno della comunità musulmana il consenso generale. Ciò non significa che ci
asteniamo di interpretarlo anzi, numerosi ‘ulema’ dicono: è un testo rivelato, ma abbiamo il dovere di farne
un'interpretazione, certi passi del resto ci obbligano a farlo. Si devono stabilire delle norme interpretative.

Qui si avverte una differenza rispetto alla tradizione fondamentalista cristiana. Il carattere assoluto non impedisce la
relatività ed il rinnovamento dell'interpretazione, al contrario, tende a fare della fedeltà al testo un'imperativo.
L'interpretazione non è certo libera, ma essa non può trascurare il contesto della vita degli uomini che lo studiano. E'
dunque un lavoro sul rapporto permanente tra il testo e il contesto che non troviamo tra i fondamentalisti cristiani e
neppure tra alcuni musulmani che effettivamente fanno una lettura molto tradizionalista e letterale.

J.N. Nella tradizione musulmana c'è un grande rispetto per le scienza e per il lavoro intellettuale. La fede nell'islam è
tutt'altro che irrazionale. C'è invece un'espressione iperbolica della fede cristiana che consiste nel dire "credo quia
absurdum" o ancora "credo perché quello mi sembra assurdo". Un'argomentazione del genere è inammissibile per un
musulmano. Non credo perché la fede è assurda ma perché è praticabile e ragionevole. Sui punti di morale o di diritto
dove il Corano non prescrive nulla, sta all'intelligenza umana agire in analogia con i grandi orientamenti trasmessi dal
Profeta. Questi sono i principi fondamentali della lettura del Corano.

Parliamo ancora brevemente della lingua utilizzata. Da un capo all'altro è l'arabo, ovviamente, l'arabo classico, che
determina le regole linguistiche. Dopo il VII secolo si è frantumato e da esso sono derivati tutta una serie di dialetti che
rendono talmente difficoltosa una conversazione tra un tunisino ed un saudita: rischiano spesso di finire col discutere in
inglese.

E' comunque sorprendente scoprire che un autore destreggi una lingua così perfetta dal momento che non è un
intellettuale. Di mestiere Muhammad è carovaniere, l'equivalente all'epoca di quello che sarebbe oggi un padroncino, un
uomo dalla vita difficile e pericolosa, non un letterato chiuso nel suo studio. La qualità del testo è certo stupefacente.
Secondo la tradizione, Muhammad ha imparato a memoria le parole dettategli da un messaggero celeste. Si tratta
dunque all'inizio di una letteratura orale che in seguito è stata messa per iscritto da scribi poiché il Profeta non sapeva
scrivere. E' lui l'autore del testo o è semplicemente colui che trascrive?

T.R. Egli non fa che ripetere quello che riceve. Non è l'autore, è Dio che parla attraverso la forma ed il contenuto del
testo ed è per questo motivo che a volte ci sentiamo in imbarazzo, nei dialoghi interreligiosi per esempio, quando i
nostri interlocutori dicono, riferendosi al Corano, "Maometto ha detto". Dà fastidio, ma è comprensibile alla luce della
tradizione dell'altro. Per noi il testo è stato rivelato così com'è ed il Profeta non è stato altro che il suo depositario e
trasmettitore.

Tutte le tradizioni e scuole islamiche sono d'accordo su questo: il miracolo dell'islam è essenzialmente il Testo,
considerato nella sua forma, nel suo contenuto, nel suo ritmo e nell'energia spirituale che da esso si sprigiona. E' un
testo che dispone di una lingua perfetta. Sul piano grammaticale è il riferimento della lingua araba classica e di tutti i
dialetti che ne sono derivati. Il riferimento dell'arabo classico in materia di morfologia e grammatica è il testo coranico.
Inoltre, ciò che emana sul piano emotivo e spirituale, quando è salmodiato, conferma al credente il miracolo della sua
rivelazione.

Il lavoro di interpretazione del Corano

J.N. Da due secoli la Bibbia è oggetto di numerosi studi filologici che hanno permesso di comprendere meglio come è
stata compilata. Anche all'interno di un libro presentato come l'opera di Isaia o di Giovanni si è scoperto che c'erano più
autori. Confrontando i manoscritti, affidandosi all'analisi linguistica, si sa meglio oggi ciò che fa veramente parte del
testo originale e ciò che è stato aggiunto in seguito. Questa grande impresa d'esegesi ha profondamente modificato il
rapporto che i cristiani hanno col loro libro santo. Uno studio di questo tipo è concepibile per il Corano?

T.R. Qui si arriva al nocciolo della questione. Cioè quello che lei afferma viene considerato da un musulmano come
mettere in discussione uno degli elementi della sua fede: l'ho detto, il testo rivelato è di origine divina. Esistono certo
studi sulla lingua, sulla contestualità delle rivelazioni e su molti altri argomenti, ma mai al punto di arrivare a supporre
l'intervento di più redattori poiché fa parte della fede fondamentale del musulmano considerarlo l'espressione della
rivelazione del Dio unico. Dunque non si arriva fin là. Tuttavia bisogna dire che il lavoro d'interpretazione, di
comprensione e di analisi continua al fine di rendere il testo accessibile, udibile, presente all'intelligenza degli uomini
che lo leggono attraverso i secoli. E' su questo punto che si può parlare di rinnovamento e dinamismo permanente in
rapporto al testo. Sul piano sociale, come sul piano morale, come ancora sul piano delle scienze.

J.N. Che differenza rispetto al testo del Nuovo Testamento! La versione originale è redatta in koiné, un tipo di greco di
qualità pessima, una specie di sabir che si usa nel Medio Oriente per comunicare con le diverse culture. Il testo del
Vangelo di Marco, secondo quello che mi hanno detto, è scritto da un uomo del popolo che ignora certi modi e tempi
delle coniugazioni, proprio come il congiuntivo che oggi non è più utilizzato nella lingua popolare francese.

Si può forse ricordare anche che il Corano è intraducibile per definizione, sebbene si pubblichino delle traduzioni che
non fanno assolutamente testo. Nei suoi libri per esempio utilizza sempre l'originale in arabo seguito da una traduzione
in francese. Non è forse una sorta di purismo nei confronti di un testo sicuramente prezioso e rispettabile ma che, in
ultima analisi, altro non è che un mezzo tra tanti per attestare la fede? Dio non parla né ebraico, né greco, né arabo.
Parla a uomini che cercano poi di trasmettere il messaggio che hanno ricevuto utilizzando parole umane, poverissime ed
insufficienti.

T.R. E' vero che una traduzione non è "il Corano". Tuttavia la possibilità di tradurre il testo c'è e bisogna provarcisi. E'
un lavoro che è stato incoraggiato sin dai primordi nella tradizione musulmana ed in particolare con l'espansione
islamica. Si deve però riconoscere un punto fondamentale: la traduzione non è il Corano, essa ne è già l'interpretazione,
poiché tradurre significa interpretare. Ogni traduzione deve far presente il proprio margine interpretativo, ragione per la
quale mi attengo al metodo che consiste nel porre i versetti in arabo davanti alla traduzione in francese o in inglese. Mi
sembra un buon ricordo per il lettore.
Pertanto non bisogna essere rigidi. Le citazioni immediate in una lingua europea non hanno niente di sacrilego e spesso
mi capita, negli articoli o anche nelle opere, di fare la traduzione immediata. L'importante resta la fedeltà puntigliosa al
senso e ricordare che le deficienze sono dovute ai traduttori, non al testo originale. Oggi ci sono numerose traduzioni
francesi. Nessuna è veramente perfetta ma ci si può riferire ad esse per accedere al testo: permettono un primo
approccio e sono necessarie.

J.N. E, in particolare, un aiuto indispensabile alla diffusione ed alla conservazione della fede, perché non si può
supporre che tutti i musulmani padroneggino perfettamente l'arabo. Non parliamo dell'Indonesia o della Bosnia, ma
persino nel Maghreb si fanno ripetere nelle madaris ai bambini versetti coranici in arabo classico, che sono quindi in
grado di leggere, ma la loro lingua orale, usata tutti i giorni in famiglia, è molto lontana dall'arabo classico.

T.R. Ci sono effettivamente grandi difficoltà per quanto riguarda la capacità di interpretare o di comprendere i testi.
Più ancora oggi di ieri. Si deve ricorrere alla spiegazione ed al commento. Il testo si comprende nella sua globalità ma
molti elementi di dettaglio sfuggono alla comprensione. Quello che commuove fortemente è il ritmo e la salmodia, che
non si trovano nelle traduzioni. Nella lingua araba questo è evidente e la tradizione musulmana tiene in grande
considerazione i lettori del Corano che hanno la capacità di restituire la forza emotiva che in esso risiede.

J.N. Esistono, nella tradizione cristiana, almeno due testi analoghi: da una parte la Bibbia di Lutero, che è servita da
norma per la lingua tedesca; dall'altra, in inglese, la versione di Re Giacomo, che tutti gli anglofoni usano. In francese è
il lavoro che si è cercato di intraprendere con la Bibbia di Gerusalemme, dove ci si è rivolti a dei poeti per avere
finalmente un testo comprensibile, leggibile e bello. Ma è già stato sostituito dalla TOB (Traduzione ecumenica della
Bibbia).

Ricapitolando: davanti al testo del Corano, l'atteggiamento del musulmano è un lavoro d'interpretazione, ma mai di
critica storica, che sarebbe considerato blasfemo? Ci si può spingere fino a qui?

T.R. Sì, ma bisogna far attenzione alla formulazione. Come ho già detto, si tratta di un elemento fondamentale della
fede ma il termine "blasfemo" è connotato all'interno di una tradizione specifica. E' difficile esportarlo così com'è.
Credo che, in effetti, il tipo di analisi critica che togliesse o negasse al testo il carattere di rivelazione divina metterebbe
l'autore ai margini dei fondamenti della tradizione musulmana. E' questo il punto essenziale.

J.N. Questo rapporto reverenziale nei confronti del testo ha costituito la regola anche nell'Occidente cristiano. La
prima persona che ha cercato di fare critica biblica, un prete dell'Oratorio, Pierre Richard, si è scontrato con un prelato
assai noto come Bossuet. A quell'epoca è chiaro che i libri sacri, non tradotti ed intraducibili, costituiscono la base del
potere monarchico: meno il popolo è in grado di accedere al testo, più questo serve per circondare di un'aura di mistero
un potere sacralizzato. Luigi XIV è investito del potere direttamente da Dio. Nello stesso periodo i cristiani riformati
hanno accesso al testo tradotto in lingua volgare. Dalla seconda metà del XIX secolo Adolf von Harnack e poi Rudolf
Bultmann si dedicheranno alla rilettura della Bibbia alla luce dell'esegesi storica e critica. Ma la cosa viene accolta
molto male sia dai fondamentalisti protestanti che dagli integralisti cattolici: molte persone ci tengono a prendere la
Bibbia alla lettera.

Davanti a questa situazione ci si domanda se non sarebbe importante - e, comunque, la cosa comincia già a presentarsi-
che ci fossero contemporaneamente islamisti cristiani, cioè dei cristiani che cercano di conoscere a fondo l'islam, che
facessero uno studio del Corano con occhi cristiani, e in senso inverso, cristologi musulmani, cioè intellettuali
musulmani che cercassero di penetrare la Bibbia ebraica e poi il Vangelo.

In un modo o nell'altro, bisogna costruire un ponte, perché non si può organizzare una società vivibile senza la
conoscenza ed il rispetto reciproci.

T.R. Il suo intervento mi spinge a precisare due o tre punti. Il primo nasce da una situazione che affronto molto spesso.
Vorrei dunque rispondere in modo chiaro. Essa sostiene l'opinione che le differenze altro non sono che un ritardo nei
tempi. Del tipo:"Anche per noi c'è stato un tempo in cui non si metteva in discussione lo statuto del testo rivelato poi ci
siamo ricreduti. Oggi conta solo lo studio scientifico." Quest’opinione lascia intendere che in realtà, in campo religioso
e culturale, l'islam e i musulmani sono in ritardo, devono ancora evolversi verso quest’atteggiamento critico che pare sia
diventato la norma universale della modernità. Posso capire, tenuto conto della storia di ogni civiltà, che si abbia ques-
t’atteggia-mento. E' naturale ed umano ma non è, esso stesso, molto scientifico. Bisogna che le basi del dialogo siano
chiare e se, per esempio, dico che un concetto è parte fondamentale della mia fede, sarebbe inaccettabile ed ingiusto,
dire che ciò che io credo non è altro che l'espressione del mio ritardo e che mi devo evolvere. Come se la norma
dell'unica buona "convinzione moderna" fosse nelle mani di una storia particolare, in questo contesto, quella
dell'Occidente. Non bisogna confondere la situazione del mondo musulmano sul piano economico, che rivela
chiaramente un sottosviluppo, con l'idea di un sottosviluppo religioso e culturale. La deduzione è pericolosa ed
infondata e tende a far credere che la discussione sarà possibile solo quando i musulmani avranno vissuto ciò che noi,
occidentali, abbiamo vissuto. E' una sorta di universalizzazione di una storia particolare e, a valle, dei suoi valori e dei
suoi metodi.

Credo che sia necessario capire che abbiamo qui due sfere di civiltà, due religioni, se si parla del cristianesimo e
dell'islam, che hanno fondamenti diversi e storie specifiche. L'una non è parametro dell'altra anche se economicamente
è più avanzata. Ciascuna deve riuscire a trovare le modalità che le permetteranno di far fronte alla modernità senza che
ciò significhi rimettere in causa un elemento della sua fede, del suo essere, della sua identità. Spesso ho spiegato ai miei
amici cristiani, ebrei e laici: “Attenzione! Voi non state toccando un elemento che si evolve con la storia, state toccando
un elemento che è l'essenza di una fede”. Il problema è sapere se i musulmani possono, avendo fede in un testo rivelato,
affrontare le sfide del mondo moderno e del pluralismo e questo anche se ritengono che il loro riferimento sia assoluto.
Questo è il primo punto.

Il secondo elemento che lei puntualizza - ovvero lo scambio che dovrebbe esserci - mi sembra un passo fondamentale.
Ho l'impressione che, sfortunatamente, ci sia stato un tempo in cui questo dialogo era più avanzato di quanto non lo sia
oggi e questo per due ragioni. Da una parte, gli orientalisti che abbiamo conosciuto all'inizio del secolo
padroneggiavano la lingua araba ed avevano un'ottima conoscenza del mondo musulmano. Personaggi come
Massignon, Berque, Laoust o Gardet erano intellettuali che conoscevano la lingua araba e comprendevano la logica
interna dei riferimenti musulmani ad un livello che purtroppo non ha più nulla a che fare con quello di coloro che io
chiamo oggi "i nuovi specialisti dell'islam". Questi ultimi, ahimè, sono troppo occupati ad analizzare esclusivamente
l'aspetto sociale e politico dei movimenti musulmani. Resta il fatto che abbiamo urgentemente bisogno di questo
dialogo e ben a monte delle logiche sociali: bisogna prima assicurarsi di una mutua buona comprensione dei riferimenti
religiosi e culturali (del resto è proprio quello che noi stessi stiamo facendo). Iniziare un'opera come la nostra, significa
farlo dall'inizio, il vero inizio, il vero dialogo, se no ci si perde troppo rapidamente in analisi derivate e già troppo
orientate verso la politica o il sociale.

Credo che, allo stesso modo, i musulmani farebbero bene a procedere in questo senso. Nel corso di un mio recente
soggiorno in Inghilterra, ho avuto l'occasione di constatare che tre o quattro studenti musulmani si sono dedicati ormai a
studi teologici cristiani. E' relativamente poco ma interessante perché i musulmani hanno una visione della teologia e
dell'approccio cristiano a volte molto caricaturale, come se non si trattasse d'altro che di una rassegnazione di fronte
all'ideologia modernista, come se non restasse più niente della fede cristiana. Impressione alla quale bisogna aggiungere
un'interpretazione della Trinità che non ha più molto a che vedere con quella di cui parla un cristiano. Credo che il
minimo che si debba fare quando ci si rispetta è sapere ciò che l'altro dice della sua fede, poiché si gradirebbe che lui
ascoltasse ciò che abbiamo da dire, noi, della nostra. Lei ha dunque perfettamente ragione. Bisogna mettere in evidenza,
e con forza, la mancanza di un dialogo profondo e costruttivo... perché il dialogo che si limita ad analizzare solo le
situazioni politiche non può portare al rispetto.

Il rapporto tra le religioni: l’islam vittorioso

J.N. Propongo di chiudere il capitolo sul Corano: si tratta, certo, di un punto di scontro, dal momento che l'islam
considera come la verità più preziosa che questo libro è stato dettato da Dio stesso a Muhammad e che nulla può essere
cambiato al testo i cui precetti devono essere rigorosamente seguiti.

Di fronte a questa roccaforte della fede musulmana si trovano le altre due fedi monoteiste che si sentono minacciate.
L'islam è una religione monoteista centrata sulla vittoria del Profeta. Il cristianesimo ha la sua fonte nella morte di
Gesù, anche se questa è in seguito cancellata dalla resurrezione di Pasqua. Il popolo ebraico ha percorso una lunga
storia di sconfitte e d'esilio: la sua attuale vittoria è altrettanto precaria poiché si basa sullo scontro col popolo
palestinese, in maggioranza musulmano ma anche cristiano. Da una parte, dunque, il successo terreno, dalle altre due, il
fallimento perpetuo.

Ricordiamo il quadro storico: il Profeta è nato nel 570; nel 610 inizia la sua missione; nel 622 ha luogo l'Egira, l'esilio
dei musulmani perseguitati alla Mecca e partiti per rifugiarsi a Medina; il Profeta muore nel 632; l'espansione dell'islam
è assolutamente prodigiosa, poiché nel 732 avviene la battaglia di Poitiers.

Un secolo dopo la morte del Profeta, c'è già un esercito musulmano nel centro della Francia. In quel momento, in capo a
un secolo, tutta l'Africa del Nord è diventata musulmana. Non tutti gli abitanti si sono già convertiti, ma lo faranno poco
a poco. Allo stesso modo tutta la Spagna è sotto il potere dell'islam anche se numerosi Spagnoli restano cristiani o ebrei.
Gerusalemme, la Palestina e la Siria sono conquistate da eserciti arabi.
Resta, comunque, quello che oggi sono la Turchia e l'Anatolia, sempre nelle mani di Bisanzio, erede dell'Impero
romano. Resta l'Impero persiano, ancora totalmente zoroastriano (religione di Zarathustra, profeta vissuto intorno al 600
a.C.). Ma il mondo musulmano è gigantesco, più o meno la metà del bacino del Mediterraneo e si organizza in un
secolo. Qual'è la ragione di questa rapida espansione?

Secondo una visione caricaturale della storia, essa viene spesso rappresentata come il risultato di una conquista di
guerra fatta di massacri, saccheggi e conversioni forzate. Ciò fa parte dell'immagine di un islam conquistatore e
violento.

Questa immagine sommaria non ha fondamento. Impossibile immaginare che qualche tribù di beduini e qualche città
della penisola araba siano riuscite a conquistare la metà dell'antico Impero romano contro il sentimento delle
popolazioni. Molto rapidamente l'islam converte le popolazioni locali, i cristiani ma non gli ebrei. Minoranze cristiane
sono rimaste da allora in tutto il Medio Oriente e in Egitto, il che prova come le conversioni non siano state imposte
sistematicamente. C'è dunque un enigma: perché i cristiani a contatto con l'islam si sono così facilmente convertiti? Che
cosa li rendeva così fragili?

L'epopea dell'islam nel VII secolo ha quindi più aspetti: è allo stesso tempo religiosa e politica oltre che militare. Il
Profeta è un vincitore. Se guardiamo invece il fondatore del cristianesimo, si può dire che la vita di Gesù sia un
fallimento. Muore in modo infamante e ciò è insopportabile per l'islam. Gesù fa parte dei Profeti, lo stesso rango di
Noè, Mosè e più tardi Muhammad. Il Corano spiega infatti che gli ebrei credono di aver messo a morte Gesù, in realtà
egli è elevato al Cielo da Dio.

T.R. Sì, proprio così. L'episodio della crocefissione e della morte di Gesù, così come viene raccontato nella Bibbia,
non è per nulla confermato dal Corano, al contrario. A loro appare (shubbiha lahum, secondo la formula coranica) di
aver ucciso Gesù, ma non è così. Nella tradizione musulmana l'episodio della crocefissione non riguarda la persona di
Gesù. Il Corano conferma la sua condizione di Profeta e Inviato di Dio, ma non quell'episodio, né la tesi della sua natura
divina. Inoltre il grido di Gesù sulla croce "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?" riportato dal Vangelo, rivela un
paradosso in totale opposizione al messaggio coranico.

J.N. C'è qualcosa di fondamentalmente ottimista nell'islam, in opposizione ad un certo pessimismo cristiano.

Il mito cristiano della colpa universale

Veniamo a quello che lei ha accennato prima, il mito del peccato originale. Ribadisco mito del peccato originale perché
si può cercare in tutta la Torah, ma da nessuna parte viene utilizzata l'espressione "peccato originale". Secondo il
racconto, Adamo ed Eva commettono un errore, che in fondo è il simbolo di tutti gli sbagli che commetteranno gli
uomini in seguito. Ciò significa fondamentalmente che l'umanità è debole e peccatrice. Nella Torah Adamo ed Eva
vengono espulsi dal Paradiso Terrestre, Dio li caccia, li maledice e non lascia neppure intendere sul momento che ci
sarà un riscatto da parte di Gesù.

Il riscatto per mezzo della morte di Gesù è comunque anche per i cristiani difficilmente comprensibile con la mentalità
attuale. Pare assurdo oggi che Dio voglia la morte sia di un Profeta, sia del proprio Figlio, per placare la Sua ira. Un
tale Dio si comporta come un tiranno dell'antichità. All'epoca della redazione dei Vangeli, la colpa non era mai
individuale, ma collettiva. Tutta la famiglia pagava per l'errore di uno dei suoi membri. Nelle regioni più arretrate del
Mediterraneo questa tradizione è stata mantenuta, in Corsica, in Sicilia, nella montagna del Libano.

Nelle cerimonie e nei testi cristiani si trovano molte allusioni al mito del peccato originale, un mito assolutamente
orribile. Nel Corano, che racconta la stessa storia del peccato di Adamo ed Eva, prototipo del peccato di tutti gli uomini,
Dio li perdona subito. I cristiani e gli ebrei dicono sì che Dio è misericordioso, ma ha l'aria d'essere un pò più
misericordioso nell'islam che con i cristiani.

T.R. Il modo in cui ha raccontato le rispettive storie che risalgono ad Adamo ed Eva è del tutto corretto. Andando più a
fondo nell'analisi comparativa, si può affermare che qui si tocca un punto fondamentale sul quale insisto molto. Si tratta
anche della nozione del tragico che nasce dall'incomprensione che non si può non provare di fronte al racconto della
Bibbia. Viene quasi naturale chiedersi: ma come Dio ha potuto volere ciò? Rispetto alla tradizione musulmana, a monte
della storia di Adamo ed Eva, mi paiono importanti due elementi che spiegano che cosa si lega all'ottimismo dell'islam
del quale lei parla e che associo, in opposizione al tragico cristiano, alla fiducia ed alla serenità interiore.
Nella tradizione musulmana all'origine della creazione tutta l'umanità, tratta dalle reni di Adamo, è presente e testimonia
la realtà di un patto originale tra Dio e l'umanità. Dio fa attestare agli uomini: "Non sono io il vostro Signore?" E tutta
l'umanità risponde: "Certo, noi lo attestiamo". Questo episodio della creazione è molto importante per capire tutto ciò
che accade in seguito. Perché? Perché secondo la tradizione musulmana esiste nel cuore di ogni creatura un'aspirazione
naturale verso il trascendente (fitra in arabo). Potrebbe accostarsi all'idea di Mircea Eliade, anche se solo
incidentalmente, quando afferma che la dimensione spirituale fa parte della struttura della coscienza umana. Nell'islam
questa dimensione esiste nel cuore di ognuno, anche di colui che più tardi la negherà. L'aspirazione verso il trascendente
resta. In altri termini, la fede non è qualcosa che si aggiunge ma qualcosa che preesiste e che può essere velato. E' un
punto fondamentale sul quale non si insiste molto ma che mette in evidenza una concezione molto particolare
dell'uomo.

La fede originaria può dunque essere velata e, infatti, scoprire la fede significa svelare, ritrovare. E' in opposizione
totale con la tradizione filosofica razionalista fino a Camus che dice: la fede è un salto, dalla ragione ad altra cosa. Kant
non diceva diversamente quando affermava di dover lasciare il sapere per occuparsi del credere. Nell'islam la geografia
delle facoltà è diversa e non si tratta mai di "saltare" più lontano in una sfera della conoscenza intrinsecamente e
qualitativamente diversa; al contrario, si tratta di rivisitare, di ritornare alla natura profonda del cuore che "spira
qualche cosa" prima che la ragione ne elabori una qualche costruzione scientificamente vera. La differenza è di qualità.

Se torniamo ad Adamo, si chiarisce un'altra cosa: la fede, originaria e confermata, non impedisce l'errore. Ma chi ha
fiducia, dopo l'errore, trova il perdono. La fiducia è onnipresente perché il tendere verso Dio è un impulso naturale e
perché l'uomo conosce allo stesso tempo la sua primigenia responsabilità e la sua fragilità. C'è un legame indissociabile
tra il sentimento di responsabilità e la fiducia verso Dio ed il Suo perdono: per via della natura stessa dell'uomo, e
questo fin dall'origine. Qui si può parlare del secondo elemento fondamentale derivante da questa percezione:
l'umanismo islamico è fondato sulla concezione dell'innocenza originaria dell'uomo. Egli è innocente per essenza e
diventa responsabile solo a partire dall'età della ragione, l'età della coscienza. Fino ad allora egli è in armonia con il
creato come lo sono l'uccello e la natura. E' una partecipazione ed una sottomissione naturale all'ordine della creazione
che precede la sottomissione della coscienza e della volontà dell'essere che si distingue per la sua libertà. Nei due casi si
utilizza lo stesso termine nel Corano, islam (letteralmente, "sottomissione").

E' una religione che fonda la responsabilità sulla fiducia e quest'ultima sull'umiltà, mai sulla colpevolezza. Questo
rapporto con la colpevolezza originaria non esiste nell'islam.

J.N. Il cristianesimo ha funzionato per secoli come una religione della colpevolezza. Oggi questo atteggiamento è
divenuto difficilmente accettabile. Forse a causa della secolarizzazione, che sembra rappresentare una sorta di
rivelazione all'interno della rivelazione cristiana, un risultato tardivo col quale i cristiani finiscono per perdonarsi a loro
stessi di esistere. Oggi non si colpevolizza più molto. La confessione viene utilizzata raramente.

Comunque ci sono state, fin dall'inizio, due interpretazioni cristiane della venuta di Gesù. Secondo l'interpretazione
maggioritaria essa è il riscatto di uno sbaglio cosmico, riscatto che deve essere cruento e che è soltanto parziale. C'è poi
un'interpretazione più ottimista, quella di Irene da Lione per esempio, secondo la quale Gesù è venuto per completare la
creazione e per portare un messaggio. La sua funzione non è di essere vittima, egli avrebbe potuto benissimo non morire
sulla croce, non era indispensabile. Su questo punto, forse, l'islam può dare qualcosa in più ai cristiani nella percezione
della loro fede.

Ovviamente la differenza di atteggiamento dei cristiani e dei musulmani sul mito fondatore dell'umanità implica un
atteggiamento diverso nella vita di tutti i giorni. Si potrebbe riassumere il tutto dicendo che nell'islam tutto ciò che non
è proibito è autorizzato?

Nell’islam tutto quello che non è proibito è lecito

T.R. Dipende, perché nell'islam esistono due campi che esigono due metodologie specifiche.

Per ciò che riguarda il rapporto con Dio, il culto, le uniche pratiche autorizzate sono quelle prescritte nel Corano o nei
testi della tradizione del Profeta. Le preghiere canoniche, l'imposta sociale purificatrice (la zakah), il digiuno, il
pellegrinaggio seguono regole molto precise. Per tutto il resto, ovvero gli affari sociali, la morale in senso lato, tutto è
permesso salvo ciò che è esplicitamente proibito. Il campo della proibizione è molto ristretto e la creatività trova qui un
ampio spazio di espressione che è molto importante. E' questo che ha permesso all'islam dei primi secoli di raggiungere
l'apogeo in campo legislativo, scientifico, culturale, ecc. I musulmani sono incoraggiati ad essere intraprendenti, creativi
e curiosi. Questa dinamica positiva si è fermata ad un certo punto della storia a causa di circostanze sociali e politiche.
Esse non hanno nulla a che vedere con il messaggio islamico che, come lei ha detto, permette tutto ciò che non è
contraddetto da un precetto rivelato. E nel Testo ci sono poche proibizioni.

J.N. In particolare le mortificazioni, l'ascesi, la penitenza, il celibato, il monachesimo, che costituiscono l'ideale del
cristianesimo, un'espressione della perfezione religiosa, non sono per niente raccomandati nell'islam. I giovani cristiani
che entrano in un ordine religioso, soprattutto se è contemplativo, abbandonano la loro famiglia. Essi non sono più
tenuti a prendersi cura del sostentamento dei loro anziani genitori o, più semplicemente e più umanamente, a far loro
compagnia nei giorni della vecchiaia e nei loro ultimi momenti. Essi abbandonano letteralmente la propria famiglia. E
ciò per seguire un consiglio che è ripetuto in tre riprese nel Vangelo. Gesù dice: "Se tu non abbandoni tuo padre, tua
madre, i tuoi fratelli, le tue sorelle per seguirmi e prendere la tua croce, non fai veramente parte di coloro che mi
seguono".

Confrontiamo queste parole con il versetto del Corano sui genitori:"Mio Signore, sii Misericordioso con loro poiché mi
hanno allevato quando ero bambino". Sicuramente c'è un rispetto infinito verso i genitori, ma anche per tutta la
famiglia. Nell'islam non si darà mai il consiglio: abbandonate la vostra famiglia, partite definitivamente e non rivedetela
mai più.

T.R. No, è vero. Nell'islam la relazione di carità verso i genitori viene subito dopo l'affermazione dell'unicità di Dio; la
formula coranica dice:"Il tuo Signore ha decretato di non adorare altri che Lui e di trattare bene i vostri genitori ". Il
senso della formula torna più volte nel Corano sotto forme diverse ma l'insegnamento è lo stesso. E' proprio la seconda
dimensione dell'essere: essere con Dio e poi rispettare i propri genitori.

Bisogna dire che nel Corano si trova anche l'idea che la famiglia, i bambini, i beni, possono diventare una tentazione
rispetto a Dio, quando la relazione con la famiglia diventa esclusiva, egoista e fa dimenticare la responsabilità di fronte
al Creatore ed all'umanità. In quanto esseri umani, siamo sempre messi nella condizione di riferirci alla nostra
coscienza. Amare la propria famiglia è un'esigenza, non dimenticare mai Dio e gli uomini è un'altra, è necessario perciò
trovare l'equilibrio che ci permetta di amare la propria famiglia all'interno dell'esigenza dell'amore verso Dio e della
fraternità verso i propri simili. Esiste un rapporto intimo e sottile tra la verticalità e l'orizzontalità.

E tutto ciò di cui lei ha parlato, la mortificazione, il fatto di liberarsi del mondo, ecc. non esiste poiché la prova degli
uomini non è nella fuga dal mondo. La prova della fede è al contrario la vita nel mondo, nutrita ed armata della
coscienza della padronanza e del limite. E questo in tutte le circostanze. Non c'è mai l'idea, per esempio, di mettere un
termine alla vita sessuale come non c'è mai l'idea di mettere un termine alla vita sociale. L'idea centrale è di vivere con
la coscienza delle proprie responsabilità e dominando la propria persona.

Al cuore di questo cammino c'è il lavoro della spiritualità, la lenta iniziazione che mira a donare vita intensa al soffio
che è in noi. La mistica musulmana vive esattamente alla luce di questo insegnamento che è la fonte dell'islam stesso.
L'islam esige una mistica quotidiana anche alla base della vita sociale e di partecipazione. La pratica dei musulmani n’è
un esempio, come il digiuno del mese di ramadan. Colpisce il fatto che i musulmani, nel nostro mondo moderno, restino
così in massa attaccati alla pratica del digiuno anche se questa non è facile. Essi mantengono nella loro vita, anche se
non fanno le preghiere quotidiane, un momento di distacco, di raccoglimento, di ricordo del Creatore e di vicinanza ai
poveri.

J.N. La sofferenza d'essere che è alla base del cristianesimo non è conforme a quello che i Vangeli dicono di Gesù: egli
partecipa alle feste, si fa profumare, lo si trova in compagnia di persone poco raccomandabili come i pubblicani
(collettori d'imposte che collaboravano con gli occupanti romani) e le prostitute. Ma quando si guarda un'icona o un
quadro, egli non sorride mai: il Salvatore è infelice o tragico. Non ci sono rappresentazioni del Profeta Muhammad e il
paragone sarebbe quindi difficile. Ma il Gesù severo e triste, il Cristo Pantocratore della Chiesa ortodossa, il sofferente
sanguinante dell'iconografia tedesca è totalmente diverso dall'iconografia buddista. Buddha sorride. Per un cristiano è
inquietante, ripugnante a vedersi. Come si può sorridere pregando?

Il cristianesimo è una religione triste nelle sue manifestazioni, anche se moltissimi cristiani sono persone amichevoli,
conviviali e sorridenti. In quanto cristiano ed in quanto cristiano praticante, mi aspetto dal contatto con le religioni che
questa inclinazione della mia religione a mio parere perversa venga corretta.

T.R. Non ci sono immagini che rappresentano il Profeta Muhammad. Le tradizioni autentiche ci riportano che egli non
rideva mai in modo sguaiato o arrogante, ma sorrideva, scherzava, si divertiva, giocava molto spesso e non dimenticava
mai di far star bene coloro che erano insieme a lui. Si distaccava dalla vita con la meditazione ed il raccoglimento, una
serenità, una gioia nella fraternità, una semplicità nel voler bene, una convivialità, un umorismo dignitoso ed una
costante giovialità. Voleva che una festa fosse una festa per chi avesse bisogno di vivere la festa... E' proprio il senso di
questo versetto coranico:"Cerca con i beni che Allah ti ha concesso, la Dimora ultima e non dimenticare la tua parte in
questo mondo, sii benefico come Allah lo è stato con te e non corrompere la terra ".

La radice teologica della discordanza

J.N. Vorrei continuare la discussione sulle differenze di tipo teologico. L'islam non è appassionato di teologia, nel senso
che non si passa il tempo a speculare interminabilmente sulla natura di Dio: Dio è Dio, è unico e questo è tutto. Un
musulmano non cerca di inventare Dio. Certi teologi cristiani sono della stessa opinione. Nicola di Cusa, per esempio,
predicava la teologia negativa: l'unico discorso sensato che si può fare riguardo a Dio consiste nel dire ciò che Egli non
è. Non è un idolo fabbricato dagli uomini. Asteniamoci dal definirLo, dal circoscriverLo, dal singolarizzarLo perché è
sempre un modo per appropriarci di Lui.

La teologia cristiana tradizionale ha fatto esattamente il contrario. A partire dal IV secolo il cristianesimo diventa
religione ufficiale dell'Impero romano. Esso nasce da violente tensioni tra, da una parte, la Chiesa d'Occidente, che è
allo stesso tempo greca e romana, tormentata da una tendenza filosofica e giuridica, organizzata a immagine dell'Impero
romano, e dall'altra i cristiani orientali, stranamente i giudeo-cristiani, ovvero gli ebrei convertiti, ed anche molti arabi.
Gli Orientali non sono per nulla attratti dalla formulazione classica della Trinità, cioè, Dio è una natura e tre persone, il
Padre, il Figlio e lo Spirito, mentre Gesù unisce due nature, divina ed umana, in una persona.

Questa concezione filosofica costituisce forse uno dei punti più deboli del cristianesimo. Una volta all'anno si celebra la
domenica della Trinità. La predica di questo giorno è sempre molto imbarazzante. L'uditorio sta col naso per aria e
pensa ad altre cose. I preti insegnano ai cristiani che è importante credere alla Trinità secondo questa formulazione
filosofica, di tipo ellenistico, che chiaramente non interessa più a nessuno perché la differenza tra natura e persona non
vuole dire niente e ciò non cambia il comportamento di un cristiano nella vita di tutti i giorni.

I teologi cristiani oggi insistono piuttosto sul cuore della fede cristiana: il fatto principale è credere in un solo Dio.
Come articolare questa fede fondamentale con l'espressione della Trinità?

Credere in Dio Padre significa credere nel Dio UNO, quello dell'ebraismo, del cristianesimo e delll'islam, che
condividono la stessa fede nel Dio UNO. La parola Padre non viene utilizzata nel Corano per precauzione contro il
politeismo. Nelle mitologie antiche gli dei hanno rapporti con le donne mortali e generano dei figli. Se si vuole
predicare il monoteismo nel contesto dell'epoca, è necessario insistere sul fatto che Dio non è generato e non genera. E'
chiaro che non si può utilizzare la parola "Padre". Quindi si può perfettamente comprendere che l'uso della parola Padre
da parte dei cristiani sia inammissibile nella tradizione islamica ed allo stesso modo bisognerebbe che l'islam
comprendesse che la parola Padre è utilizzata in modo assolutamente simbolico. Sarebbe potuto essere benissimo
Madre, come non mancano di far notare certe femministe americane.

Credere al Figlio di Dio significa credere alla rivelazione del Dio UNO nell'uomo-Gesù. Credo che questa formulazione
sia allo stesso tempo cristiana ed ammissibile per un musulmano. Gesù è l'inviato, il Messia, la Parola del Dio eterno
sotto figura umana. C'è qui una differenza?

T.R. Nello stesso senso dell'interpretazione che lei dà, devo dire che ho sentito dalla bocca dei cristiani molti modi di
tradurre la Trinità. In tutti, l'idea centrale - e da questo punto di vista credo che molti musulmani debbano ascoltare ciò
che dicono i cristiani della loro fede - che noi crediamo in un Dio unico che non è rappresentato sotto forma umana o
sotto altra forma. E' in questa prospettiva che il Corano ci insegna e ci ordina di rispettare il monoteismo cristiano. In
quanto alla Trinità, l'imbarazzo che lei nota e che certi teologi a volte traducono è effettivamente inquietante. Difficile
perciò andare al di là di questa inquietudine.

La mia esperienza di dialogo interreligioso mi ha insegnato che i discorsi razionali sulla Trinità vanno a finire nella
formulazione del suo "mistero". Mi attengo perciò alla dimensione di rispetto del "mistero della Trinità". Mi sembra
l'unica posizione onesta rispetto a ciò che i cristiani dicono di loro stessi. Ci ritroviamo sul principio che Dio è unico e
che ha inviato dei profeti. Difficile dire di più: il principio della Trinità non rientra nell'ordine della logica razionale,
bisogna quindi rispettare il fatto che per i cristiani ci siano altre cose. E' necessario prendere atto e riconoscere un punto
fondamentale di disaccordo tra l'islam e la tradizione cristiana oggi maggioritaria (la questione del riconoscimento di
Muhammad, certo, resta ugualmente problematica).

J.N. Proverò a definire ciò che rappresenta la terza persona della Trinità per i cristiani. Credere nello Spirito Santo
significa credere nella forza di potenza efficace di Dio nell'uomo e nel mondo. Anche per l'islam Dio è la guida ed il
soccorso, vicino e presente ai credenti ed alla comunità dei credenti, invisibile e nondimeno potente, inafferrabile e
nondimeno indispensabile per la vita più di quanto lo sia l'aria, il vento, il respiro, il soffio di vita. La parola utilizzata in
ebraico per designare lo spirito è assolutamente concreta, rhua in ebraico; pneuma in greco; esprit in francese. Ma come
ben si vede, quando si arriva al termine esprit in francese, a quel punto gli occidentali hanno tendenza ad astrarre. E'
così, a me pare, che l'affermazione della vicinanza di Dio all'uomo, come nella citazione del Corano "Gli è più vicino
della sua stessa vena giugulare", della sua presenza nello spirito per mezzo dello spirito, come spirito, abbia senso
anche per il musulmano. Questa presentazione dello spirito di Dio è accettabile per lei?

T.R. Sì, in effetti l'espressione di questa vicinanza traduce bene la percezione della presenza del divino, di Dio per noi.
Mai nella confusione o nel panteismo, ma proprio nella vicinanza al cuore e all'intimità. Vicinissimo a noi, dunque,
secondo questo significato di vicinanza. Lei ha citato una formula coranica; ce n'è un'altra che dice:"Se i miei servi ti
fanno domande su di Me, sicuramente Io sono vicino". Capita spesso che sentiamo un cristiano parlare della sua fede
nella vicinanza, tramite questa energia spirituale... Non c'è assolutamente alcuna divergenza tra di noi riguardo alla
vicinanza del divino e della fede. In realtà è la formulazione razionale e il nocciolo della Trinità che costituiscono un
problema. La questione è certo essenziale ma non penso che a valle, nelle conseguenze che ci possono essere nell'atto di
colui che crede alla presenza del Creatore, ci siano delle divergenze così importanti. Il dibattito teologico non è chiuso
o, se lei vuole, si arriva ad un limite nell'interpretazione degli uni e degli altri, ma alla fine, ciò che deve interessare
anche noi in questo rapporto tra l'islam ed il cristianesimo o tra l'islam, il cristianesimo, e il giudaismo, è quello che la
fede fa di noi nella vicinanza che noi abbiamo col Creatore. Da questo punto di vista condividiamo profondamente
l'esigenza del dialogo con Dio e dell'azione coerente davanti agli uomini.

Tre religioni strettamente legate dalla storia

J.N. E' necessario ricordare al lettore che le tre fedi monoteiste si succedono, che c'è una filiazione tra di loro e che non
si sono sviluppate indipendentemente. L'origine comune si situa quaranta secoli indietro con l'errare di Abramo, un
beduino nomade, insieme alla sua gente tra l'Irak e l'Egitto: è il primo a scoprire la fede monoteista in modo confuso e
contraddittorio. L'origine comune si trova anche nella storia di Mosè, quando le tribù d'Israele escono dall'Egitto ed un
popolo per la prima volta preferisce la vita dura del deserto alla sicurezza della schiavitù in un paese ricco. Infine, la
stretta relazione tra l'islam ed il cristianesimo, al di fuori del giudaismo, ha la sua fonte in Gesù di Nazareth.
Muhammad, nel VII secolo, è il Profeta dei popoli che non erano stati toccati fino a quel momento dalla predicazione
del monoteismo. Potrebbe spiegarci brevemente il contesto religioso, politico e sociale nel quale inizia la sua missione?
La terra della sua missione è la penisola araba.

T.R. Certo. Al momento in cui inizia la rivelazione, il Profeta ha quarant'anni e vive nella penisola araba, più
precisamente a La Mecca. Essa aveva al suo centro la Ka‘bah ("il cubo") ed era allora un luogo di pellegrinaggio e di
fiere per le tribù politeiste che vivevano nei dintorni e che adoravano idoli. Esistevano anche dei monoteisti e delle
piccole comunità cristiane ed ebraiche. Sarà soprattutto nel contesto di Medina che la vicinanza di questi ultimi
diventerà importante.

Il Profeta è dunque a contatto con ebrei e cristiani e con individui che vivono in quella regione e praticano un
monoteismo naturale, rifiutando il politeismo locale; nella tradizione musulmana si chiamano hanif, lo stesso termine
impiegato per descrivere Abramo. L'emergere, in quel momento, di questo monoteismo semplice, naturale, puro,
s'identificherà immediatamente con gli insegnamenti dell'islam appena rivelato con, in più, l'istituzione della chiara
filiazione, annunciata molto rapidamente dalla rivelazione coranica, dell'islam dal giudaismo e dal cristianesimo.

Molto presto la persecuzione diventerà la regola. I primi credenti subirono, pazientarono e resistettero passivamente per
circa tredici anni, poi furono costretti all’esilio verso Medina nel 622. E' l'ègira. Da questo momento il messaggio si
diffonderà ampiamente. Lei ha ragione quando dice che il monoteismo musulmano risale direttamente al Profeta
Abramo, espressione forte del monoteismo sincero, avendo egli riposto la sua fede totalmente nelle mani di un solo Dio
(anche se per noi il monoteismo si manifesta già con Adamo, Abramo non è il "primo" monoteista). L'insieme degli altri
profeti da Adamo a Noè, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe e tanti altri, sono compresi nella tradizione musulmana. E'
questa tradizione monoteista che con il messaggio dell'islam si risveglia nella penisola araba contro il politeismo.

Lei ha sottolineato, or ora, che Muhammad viene inviato ad un popolo che fino a quel momento non aveva avuto profeti
(cosa che per noi è molto relativa se teniamo conto della genealogia che risale ad Ismaele e ad Abramo: il Corano cita il
fatto di questo primo profeta ma con un significato molto preciso). L'importante per i musulmani è la fede e la
convinzione che si tratta dell'ultimo messaggio. E' una convinzione che traduce un rapporto con l'universale perché ci si
trova di fronte alla rivelazione. A volte questo viene frainteso ma è un punto centrale della dottrina del musulmano. Il
che non vuol dire negare le altre fedi ed il pluralismo, assolutamente, ma anzi che il messaggio non è indirizzato
esclusivamente agli arabi, contrariamente a quello che credeva Chateaubriand nel XVIII secolo, quando diceva "la
religione degli arabi" per parlare dell'islam. Questa rappresentazione è in totale opposizione con la convinzione dei
musulmani e non corrisponde più alla realtà delle cifre poiché gli arabi rappresentano oggi meno di un quarto dei
musulmani del mondo.

J.N. Il popolo musulmano più numeroso è costituito dagli Indonesiani e non dalle nazioni arabe.

T.R. Esattamente.

J.N. Agli albori dell'epopea islamica, che in un secolo porta gli eserciti musulmani da La Mecca fino a Poitiers, i
giudeo-cristiani scompaiono. Non ne restano più oggi, se non qualche decina di famiglie ebraiche che vivono in Israele
e praticano il cristianesimo in un'atmofera di sospetto e disapprovazione, come ben possiamo immaginare. Questa
scomparsa di una componente della cristianità è davvero stupefacente. Simultaneamente, i cristiani orientali
d'ispirazione greca vivono ancora non solo nei territori dove Bisanzio li protegge, ma anche in Egitto, in Palestina, nel
Libano, in Siria e in Irak. A Gerusalemme, invece, i giudeo-cristiani scompaiono completamente. E' forse il momento di
chiedersi che cosa è successo, perché una comunità sia stata così radicalmente cancellata dalla storia.

Nei primi secoli della cristianità si sono tenuti una serie di Concili nei quali si è cercato di definire la natura del Cristo -
quello che ha portato alle discussioni sulla Trinità menzionate sopra. Violente opposizioni si manifestano tra orientali ed
occidentali, semiti e greci. La volontà di definire la natura di Dio e di Gesù deriva da uno spirito filosofico e giuridico
intollerabile per gli orientali.

Si può quindi supporre che i giudeo-cristiani siano diventati musulmani semplicemente perché non condividevano
queste discussioni filosofiche. Non solo non le comprendono, ma trovano che l'affermazione di un Dio unico è
abbastanza forte per non correre il rischio di andare oltre. Il successo iniziale dell'islam deriva dal fatto che recupera
metà della cristianità, cristianità che è attraversata da scismi. A parte i cristiani uniti a Roma, c'è un rigoglio di sette:
ariani, nestoriani, monofisiti, doceti, pelagiani. Una sorta di insalata teologica dove ciascuno afferma, in opposizione
agli altri, la propria visione particolare di Gesù, del quale si pretende ora che non era veramente uomo ora che non era
veramente Dio, con tutte le varianti possibili ed immaginabili. Tutti questi eretici hanno in comune il fatto di essere
soprattutto orientali che, per tradizione, non sopportano né la filosofia greca, né il diritto romano, né l'arroganza
occidentale nell'appropriarsi dell'eredità spirituale di Gesù.

Da questo punto di vista, si può considerare Muhammad come un riformatore radicale del giudeo-cristianesimo. Più
tardi nella storia, nel XVI secolo nasceranno dei nuovi riformatori, questa volta in Occidente: Calvino, Zwingli, Lutero,
ecc., come se fosse necessario tornare all'essenziale ad intervalli regolari con una correzione spesso violenta. Questo
modo di presentare il sorgere dell'islam le sembra accettabile per un musulmano?

T.R. L'interpretazione musulmana della storia delle religioni è che Dio ad intervalli regolari invia dei profeti per
riformare e riorientare la fede degli uomini in rapporto all'essenziale. L'analisi che farebbe un cristiano dicendo: "Può
darsi che Muhammad sia venuto per riportare la tradizione al suo centro", corrisponde alla nostra interpretazione, con la
differenza che, qui, lei lo presenta come un caso specifico per un dato movimento. Per i musulmani è cosa certa che
Muhammad, il Profeta dell'islam, è venuto per riformare e riorientare verso l'essenziale, e ciò in particolare nel caso del
cristianesimo (che è percepito come una deviazione dal messaggio originario fondato sull'assoluta unicità divina). E'
chiaro che un certo numero di cristiani, in particolare i giudeo - cristiani, si sono totalmente riconosciuti in questo
messaggio essenziale, presentato e vissuto lontano dalle dispute teologiche, che a loro sembravano molto oscure, e delle
quali, infatti, pareva non ne comprendessero i termini, neppure i significati nelle loro formulazioni greche.

La referenza ellenistica ha ugualmente costituito un problema per i sapienti musulmani influenzati dal modo di
elaborare i riferimenti e le nozioni astratte. Un musulmano non è scioccato dal fatto che si presenti il Profeta dell'islam
come un riformatore. E' così che egli stesso viene presentato, come un riformatore ed un continuatore. Nel Corano gli
viene ordinato di dire:"Non sono un innovatore tra gli inviati". E' vero in rapporto a certi movimenti cristiani che
sentirono il richiamo della semplicità dell'islam, ma più generalmente è una posizione di principio di fronte a tutte le
religioni precedenti.

J.N. Insomma, ci sono due componenti nella costituzione dell'islam primitivo. Da una parte i pagani della penisola
araba che si sono convertiti dal politeismo al monoteismo; dall'altra, questa fagocitosi della metà del mondo cristiano,
quella che derivava dalla conversione dal giudaismo. E' sorprendente che, negli stessi territori in cui il giudeo-
cristianesimo scompare, si trovino delle comunità che praticano il giudaismo, le quali non si sono convertite all'islam.
Del resto il conquistatore musulmano non li forza.

Non c’è costrizione nella religione


Un versetto del Corano afferma:"Non c'è costrizione nella religione". Per principio, l'islam chiede un'adesione
volontaria, impegnando l'individuo con la sincerità del suo cuore. Per principio non si obbliga alla conversione con la
spada. Ciò non significa che in pratica potentati locali non abbiano esercitato delle pressioni considerevoli. Ma l'aspetto
sorprendente è fino a che punto gli ebrei si siano mostrati resistenti alla conversione. Forse perché l'islam non portava
loro nulla di nuovo, nulla che li potesse sorprendere e sedurre.

T.R. In effetti, forse è così. Senza dubbio bisognerebbe, per spiegare questa specificità, fare uno studio un pò
approfondito sul tipo di rapporto che gli ebrei hanno potuto avere e hanno con la loro religione e che è stato e resta
diverso dal tipo di rapporto che i cristiani hanno sviluppato con la loro. Mi pare evidente che gli ebrei si siano ritrovati
nel monoteismo esigente che praticavano i musulmani e che non vi era nulla di nuovo per loro riguardo a questo
elemento essenziale della fede. Il riferimento al sangue ed il carattere particolare del legame sociale che il giudaismo ha
ben presto generato nel mondo, ha senza dubbio provocato questo tipo di resistenza. Non bisogna dimenticare le
circostanze storiche: ci sono stati ben presto conflitti e problemi di alleanza politica tra musulmani ed ebrei, già a
Medina. A dir la verità, per entrambe le tradizioni, dovrebbe esistere tolleranza, accettazione e rispetto per le rispettive
fedi. Molti cristiani sono rimasti cristiani. Non bisogna più idealizzare la storia dell'islam che è la storia dei musulmani,
dunque di esseri umani, che non sempre sono stati fedeli agli insegnamenti della loro religione e che a volte hanno
ingiustamente costretto, vessato, umiliato, perfino ucciso. Non c'è dubbio sulla realtà di questi fatti che furono
l'eccezione più che la regola ma dei quali bisogna ricordarsi per denunciarli.

J.N. La conquista iniziale dell'islam è dunque in parte di tipo missionario. Non è l'azione di qualche beduino uscito dai
deserti d'Arabia che arriva a crearsi un impero. Sono mercanti, sono commercianti, sono carovane, certamente sono
anche eserciti, è chiaro, poiché il potere politico è nelle loro mani dall'Arabia alla Spagna.

Un'altra spiegazione del successo dell'islam, che può del resto coesistere con la prima, è che i giudeo-cristiani ed i
cristiani orientali in generale avevano fatto parte dell'Impero Romano. Nel momento in cui si installa un nuovo potere,
essi hanno fatto quello che spesso fanno i notabili: si mettono dalla parte di chi comanda. Gli ebrei, loro, erano abituati
a sopravvivere al di fuori del potere o contro il potere. Hanno sempre avuto un rapporto difficile con i governanti:
talvolta servivano il potere come collettori d'imposte, talvolta si offrivano ai principi e, di quando in quando, sono stati
perseguitati soltanto perché erano divenuti ricchi facendo il mestiere di finanzieri.

La costituzione di un grande impero nel Nord Africa determina la conversione spontanea dei cristiani, tanto che nel
Maghreb non resta più nessuna comunità cristiana mentre restano delle comunità ebraiche. A Marrakech o a Djerba si
possono ancora trovare comunità di questo tipo a volte vecchie di venti o trenta secoli.

Queste considerazioni hanno lo scopo di mostrare al lettore occidentale che la relazione tra le religioni monoteiste non è
stata sempre inscritta in un rapporto di forza.

Se si vuole parlare di conversioni forzate, queste ci sono state soprattutto nel XVI secolo in Spagna durante la
riconquista da parte dei re cattolici Fernando ed Isabella.

T.R. La ringrazio per aver ricordato verità troppo spesso dimenticate. Questo permette di fare giustizia di una visione
monca dell'islam che si sarebbe diffuso solo con la sciabola e la spada, in poche parole con la forza. Bisogna
identificare in questa storia un certo numero di fattori oggettivi che hanno permesso una così rapida espansione ed è ciò
che lei ha appena fatto. Pretendere che tutto sia stato fatto con la violenza, la guerra, la colonizzazione omicida è una
falsità che non regge all'analisi dei fatti, poiché non lo si può fare in cento anni solo con la spada ed imponendosi con la
forza. C'è stato un interesse religioso, è evidente, ma anche politico, economico, sociale e talvolta culturale. Si sono
verificate situazioni di guerra, ed anche questo è certo, ma non sono state affatto la chiave del successo e
dell'accettazione dell'islam in blocco da parte di popolazioni straniere.

Quest'altra visione ci permette di ridimensionare enormemente l'idea di un islam conquistatore e guerriero di natura.
Spero che il modo in cui lei ha presentato le cose permetta al lettore di ridimensionare questo approccio e, in ogni caso,
di rivederlo.

J.N. Mi sono permesso di insistere sul contesto storico lontano per distruggere l'immagine da epinicio di un islam
conquistatore e intollerante. Al termine del secondo millennio cristiano, l'Occidente ha trionfato sul suo grande nemico
tradizionale, il comunismo. L'ultimo "nemico" che resiste all'impresa culturale dell'occidente è l'islam. Per definizione,
un musulmano non si converte, non solo perché la cosa è considerata un abominio nel suo ambiente, ma anche perché
non ne ha molta voglia. La presenza francese nel Maghreb per più di un secolo, con tutto il prestigio che poteva avere
l'occupante francese, non ha causato una conversione massiccia degli algerini, a parte casi isolati, rarissimi, malgrado
tutto l'interesse che una tale conversione avrebbe potuto avere per beneficiare della compiacenza dell'occupante.
La fonte del conflitto attuale tra l’occidente e l’islam

L'Occidente si sforza di convertire tutte le culture alla mondializzazione, al dominio del denaro, alla produttività, alla
diffusione di una sotto-cultura audiovisiva a base di violenza, sesso, bramosia di beni materiali, rifiuto di ogni norma
trascendentale. La Cina, il Giappone, la Thailandia, le Filippine si sono lasciati sedurre. Ma questo non porta loro la
ricchezza che si aspettavano come dimostra la crisi attuale. La resistenza all'Occidente secolarizzato, mercantile,
incolto, l'unica resistenza organizzata viene dall'islam, che è in un certo senso inassimilabile. Ci sono stati momenti
molto forti in questa resistenza. Il popolo iraniano si è rivoltato contro lo scià Reza Pahlavi, perché questi voleva
un'eccessiva occidentalizzazione.

La nostra conversazione proseguirà ora focalizzandosi sul rapporto singolare che lega due religioni cugine, le quali
hanno dato vita a due culture opposte. Cerchiamo di liberare il terreno dalle mine, di far vedere che l'islam non è il
nemico dell'Occidente, che in alcune sue peculiarità, in certi suoi irrigidimenti, esso tenta di preservare qualche cosa di
essenziale, non solo essenziale per il mondo arabo o per l'islam, ma essenziale per l'umanità.

Questa resistenza costituisce forse una possibilità per l'umanità di fronte al politeismo d'oggi, cioè il denaro, il potere, la
tecnica, il sesso, la violenza, il rumore, la negazione astuta o brutale di ogni spiritualità, di ogni morale, di ogni
trascendenza. Questi sono gli idoli d'oggi. L'Occidente vive in uno stato di ateismo pratico. La sua fede tradizionale sta
morendo per esaurimento interno, nelle sue contraddizioni, per incapacità di prendere le distanze dal potere economico
e politico.

T.R. Lei ha utilizzato una formula sulla quale convengo, se ha la precauzione di dire "un certo Occidente". La visione
di un Occidente che si troverebbe di fronte l'islam come nemico può essere foriera di connotazioni pericolose e bisogna
essere prudenti. Ho trascorso tutta la mia vita in Occidente e so che questo "Occidente" non è uno solo, ma ha molte
sfaccettature e che vi sono una pluralità di prese di posizione. Rifiuto la semplificazione in un senso come nell'altro,
quando si presenta l'islam superficialmente e gli viene attribuito tutto ciò che viene commesso dai gruppi radicali ed
estremisti.

L'Occidente, così come si offre attraverso l'ideologia del modernismo, per esempio, con il culto del solo rendimento,
della produttività, del successo immediato, della competizione cieca e disumana, del predominio della tecnologia e del
progresso a qualsiasi costo, tutte queste constatazioni, che esprimono effettivamente uno dei volti dell'Occidente, sono
sì in totale contraddizione con i valori della civiltà islamica. L'islam per natura e per essenza è inassimilabile a questo
modo di vivere e di pensare, perché il principio avrà sempre la preminenza sull'efficacia.

Ma sottolineare questo, riguardo all'islam, vuol dire anche che i musulmani incontreranno molti partners che, come lei
stesso ha spiegato, subiscono passivamente e si lasciano trascinare dagli eccessi di una civilizzazione a corto di punti di
riferimento. Ci sono tantissimi uomini e donne in Occidente, sia cristiani, laici, o di tutt'altra tradizione religiosa, che,
rispetto alla situazione attuale, denunciano il loro malessere ed organizzano una vera e propria resistenza. E' troppo
semplice dire l'Occidente contro l'Islam. E' vero, il mondo musulmano manifesta oggi una resistenza forte e quasi
generale. Ma non è solo contro tutti, e le donne e gli uomini di coscienza e di buona volontà non mancano in entrambe
le sfere, purché prendano la parola e si riconoscano compagni ed amici nella stessa lotta per la dignità.

Amo molto ricordare le parole di un uomo di fede, di coscienza, d'umiltà e di grande rigore intellettuale che mi ha dato
tanto nella vita: Pierre Dufresne, che è stato redattore capo del giornale Le Courrier, a Ginevra. Egli aveva l'abitudine di
dire: non bisogna sbagliare nemico. Voleva sempre che il dialogo andasse più in là fino al coinvolgimento comune, per
lo meno alla concertazione, tra gli uomini di fede e di coscienza. E' vero, bisogna agire e non sbagliare nemico. Penso
che dobbiamo resistere insieme contro tutti i nuovi profeti del rendimento, dell'efficacia, di questo nuovo apparato
idolatra nella sua espressione moderna, all'altare del quale sono sacrificate la dignità e la vita nella sofferenza e
nell'esclusione. L'Occidente è questo ma non solo. L'Occidente è anche fatto di resistenze, di cristiani impegnati, di
ebrei con la coscienza viva, di laici. Bisogna penetrare in queste sfumature e profondità per poter sviluppare un dialogo
che sia coerente. Ho molti amici di diverse sensibilità religiose e tendenze politiche, ai quali mancherei di rispetto
lasciandomi andare alla semplificazione e all'esagerazione. Sono François, Alain, Marco, Philippe, Michèle, Jean, Erica,
Serge, Christian, Elisabeth, Pierre e tanti altri... Ciascuno con una coscienza, un cuore, determinati a resistere, per Dio,
per la loro idea dell'uomo e contro le sue follie. Sono i miei compagni di strada.

Essere contro l'Occidente non vuol dire granché. Essere contro gli eccessi dell'Occidente e della sua violenza simbolica,
a proposito del modello di vita che vuole imporre, mi sembra un indice di buona salute spirituale, intellettuale e morale
che molti esprimono oggi. Le alleanze costruttive sono possibili, tutte insieme diventano un imperativo.
J.N. Affinché non ci siano fraintendimenti, precisiamo subito che questa alleanza non è stata fatta tra integralisti,
tradizionalisti e fondamentalisti di entrambe le religioni. Ad un certo punto, in determinate circostanze, i membri
dell'Opus Dei o la setta integralista di Mgr Lefebvre potrebbero forse finire per capirsi con quello che c'è di più
integralista nell'islam, per esempio i talibani.

T.R. Lei ha ragione a mettere in evidenza il fatto che si potrebbe immaginare, e soprattutto quando si utilizza il termine
"alleanza", che si tratti di un gruppo degli ultimi convinti radicalizzati.

In realtà l'avvicinamento che noi proponiamo qui è tutt'altro. Si tratta di avvicinare persone, esseri, che in nome della
loro fede o della loro coscienza, hanno l'esigenza di un'umanità dignitosa. L'Occidente ha prodotto una coscienza della
dignità umana che troverebbe eco tra gli intellettuali ed i credenti musulmani, se soltanto dedicassero una parte del loro
tempo a discutere insieme. Purtroppo ci si ferma troppo spesso da entrambe le parti alle rappresentazioni caricaturali
dell'altro. Dovremmo avere l'intelligenza di non cadere nella trappola.

La forza del sistema dominante attuale sta nella sua capacità di dividere i nemici e dar loro l'impressione che non
possano collaborare insieme. E' una strategia elementare che resta molto efficace. Gli stessi che sviluppano, ad esempio,
un atteggiamento critico rispetto ai media - quando questi giocano il ruolo del modello ultraliberale- cadono nella sua
trappola e si lasciano influenzare dalla logica sommaria ed uniformatrice degli stessi media quando descrivono il mondo
"oscurantista" dell'islam. La logica di difesa del sistema e dei suoi interessi è pertanto la stessa, alla fine bisognerebbe
rendersene conto. Questo fenomeno funziona a più livelli ed è nostra responsabilità comune distruggere i modelli di
rappresentazione ed i discorsi approvati dal sistema dominante e disumano per arrivare allo scopo della nostra
resistenza e sviluppare una collaborazione responsabile.

Purtroppo, quante donne e quanti uomini sono aperti e difendono posizioni di tolleranza e di rispetto nella loro società e
si fermano quando si tratta dell'islam? Osiamo suggerir loro che il sistema al quale non vogliono sottomettersi rivela, in
modo sottile e loro malgrado, la sua formidabile efficacia ritorcendosi contro loro stessi? Resistendo al sistema, ne
diventano inconsapevolmente i guardiani per via delle rappresentazioni semplificatrici e pericolose che essi hanno
rispetto a ciò che non è "occidentale" e in primo luogo all'islam. Efficacia temibile e machiavellica di un sistema che
riesce a fare dei suoi più ardenti oppositori interni degli alleati nei confronti di ciò che è percepito come "esterno". Per
riuscire in questa impresa, alla "megamacchina", per parlare come Latouche, è sufficiente manipolare la
rappresentazione che si ha di coloro che gli fanno resistenza -ma all'esterno del campo di riferimento occidentale- per
farne un pericolo inquietante. Forse dovremmo imparare, gli uni e gli altri, a non cadere nella trappola che consiste nel
considerare gratuite ed innocenti le rappresentazioni superficiali e monche che ci propone l'enorme macchina contro la
quale diciamo di voler resistere.

L'islam guardato con sospetto

Vorrei che mi fosse concesso di raccontare un'esperienza personale. Per molti anni sono stato impegnato in progetti
umanitari ed avevo fondato con alcuni insegnanti un'associazione per la promozione della "pedagogia della solidarietà"
all'interno di un'istituzione scolastica ginevrina. La nostra funzione - eravamo allora insegnanti delle scuole superiori -
esigeva che non ci dessimo alcuna etichetta, né religiosa, né politica, e, in quanto presidente, mi attenevo strettamente e
scrupolosamente a questa regola. Il progetto era stato accolto in modo così straordinario che ne restammo sorpresi e, da
parte mia, continuavo a ricevere manifestazioni di rispetto, simpatia ed incoraggiamento.

Dopo dieci anni di intensa attività volta a difendere la fondatezza della pedagogia della solidarietà e della responsabilità,
ho deciso di orientare il mio impegno in una direzione che era il prolungamento naturale di questo lavoro educativo. Ho
dato le dimissioni dal posto di presidente e allo stesso tempo dal posto di docente che occupavo a quell'epoca con l'idea
di continuare una missione simile. Avevo passato il tempo ad insegnare ai giovani a rispettare gli altri, i giovani, gli
anziani, i bisognosi, gli emarginati, ecc.; a sviluppare in loro la coscienza solidale e responsabile; ad aprire i loro cuori e
i loro occhi sulla realtà della pluralità delle civilizzazioni, delle religioni e delle culture. Avevo organizzato incontri,
visite, viaggi in India, nell'America del Sud, in Africa. Abbiamo incontrato Dom Helder Camara, Sorella Emmanuelle,
Madre Teresa di Calcutta, il Dalai Lama, Edmond Kaiser, Hubert Reeves, Albert Jacquard, l'abbé Pierre e tanti altri
uomini e donne... Con ciascuno di loro ho allacciato relazioni amichevoli e spesso profonde.

Non avevo anche, in quanto musulmano di origine egiziana, una ricchezza da condividere? Non essendo più legato a
livello della vita pubblica dalle necessità della mia funzione, mi è parso normale fare lo stesso lavoro ma dall'interno e
di spiegare la mia religione e la mia civiltà, che vedevo così mal conosciuta e maltrattata. Ma da allora tutto è cambiato.
Alcuni, qualche amico e qualche vecchio collaboratore hanno capito che il mio cammino era lo stesso, che non ero
cambiato e che mi animavano la stessa esigenza umanitaria e la stessa apertura di spirito; ma moltissimi sono caduti
nella caricatura, nella semplificazione, nel rifiuto. Il compagno di resistenza di ieri era diventato un "integralista", un
"fondamentalista", un "estremista" astuto. I fantasmi sull'islam erano presto riapparsi fino a diffondere il dubbio sulle
attività passate che, fino a ieri, erano state ben accolte. Ho persino visto colleghi che mi proibivano di parlare. Ho capito
che la strada sarebbe stata lunga, che il lavoro di informazione e di spiegazione era enorme perché i pregiudizi ed i
sospetti erano profondi anche tra coloro che professavano idee progressiste ed umanitariste.

Le loro stesse idee diventavano la garanzia della fondatezza della loro chiusura di spirito rispetto all'islam, poiché, tutto
sommato, non li si poteva sospettare di essere reazionari chiusi ed intransigenti. Donne e uomini che non avevano
smesso di pronunciare parole come "dialogo", "pluralità", "tolleranza", "rispetto", "solidarietà" si irritavano,
diventavano chiusi e a volte stranamente ottusi di fronte all'islam considerato attraverso il prisma di tanti luoghi comuni
conservati... I rifiuti che ho dovuto affrontare allora mi hanno ferito ma mi hanno insegnato molto: alla fine, tutte le
belle parole dette sopra non significano nulla se sono pronunciate da spiriti che non si lasciano penetrare dalla
profondità della loro esigenza. E' un lavoro quotidiano che ci deve spingere ad analizzare ed a valutare i nostri
atteggiamenti rispetto all'altro in modo profondo e sempre ponderato. Con cuore e lucidità.

In sostanza è un'alleanza di esseri umani che si impongono questo cammino che io chiamo delle mie aspirazioni. E'
possibile, ne sono convinto. Non mi voglio più fermare solo ai buoni sentimenti perché ho visto troppi uomini e donne
parlare d'amore, di attenzione e di solidarietà e considerare gli esseri umani che avevano di fronte solo attraverso
pregiudizi e luoghi comuni mediatici deplorevoli e pericolosi. La collaborazione di cui parliamo non può essere un
legame solo superficiale, ma la realtà di un incontro esigente, di un dialogo nel quale nessuna domanda è proibita tanta
è la preoccupazione di capirci per meglio accompagnarci reciprocamente. Non conosco oggi un altro atteggiamento
veramente rispettoso di quello che è l’uomo. La nostra fede e le nostre rispettive coscienze ci invitano a ciò, credo, ed è
questo l'oggetto del presente lavoro.

CAPITOLO 2

LA PRATICA DELL'ISLAM
JACQUES NEIRYNCK La nostra prima conversazione era arrivata ad una constatazione. Le tre religioni monoteiste, il
giudaismo, il cristianesimo e l'islam hanno molte più cose in comune che differenze, più somiglianze di quanto pensino,
al punto che ci si dovrebbe chiedere perché esse siano sempre vissute in uno stato di antagonismo larvato o dichiarato. Il
punto di convergenza è la fede in Dio UNO, anche se a volte ci sono stati dei malintesi sulla formulazione di questa
fede, i cristiani facendo un gruppo a parte nel sostenere che Dio si è incarnato, il che è inaccettabile per i musulmani o
per gli ebrei.

Tuttavia è ancora piuttosto facile accordarsi su questo punto, che è abbastanza astratto da non provocare conflitti di
interesse materiale. Diventa invece difficile stabilire relazioni tra le diverse culture quando non ci si occupa della fede
nella sua purezza, ma della pratica religiosa.

Esiste una diversità nelle pratiche religiose che riflette, ovviamente, le diversità di cultura, ciò che si chiama
acculturazione di una fede. Questo è vero per l'islam come per il cristianesimo. L'islam praticato in Afghanistan non è
l'islam dell'Indonesia. Esistono differenze profonde. In questa seconda conversazione parleremo specificatamente delle
pratiche, sapendo che esse sono importanti nel caso dell'islam.

Si potrebbe con una formula un pò astratta dire che l'islam non è un'ortodossia, è un'ortoprassi. Il problema non è avere
la giusta dottrina. Il problema è avere la giusta pratica. Ed in questo senso l'islam è radicalmente diverso dal
cristianesimo dove le diatribe tra ortodossi ed eretici hanno costituito l'essenza della storia. Ci si è sgozzati
reciprocamente per dimostrare che ci sono tre persone in Dio oppure no, che le anime sono predestinate o meno alla
salvezza. Dunque, per l'islam non c'è eresia nella dottrina, anche tra diverse confessioni, ad esempio tra sunniti e sciiti.
E' vero, allora, che sunniti e sciiti sono d'accordo sull'essenziale?

Una pratica unanime

TARIQ RAMADAN Sì, certo. Ci sono divergenze dottrinali tra le diverse correnti dell'islam ma non hanno la stessa
importanza che nel cristianesimo, per esempio. La differenza nella pratica- come lei ha messo in evidenza- è veramente
essenziale. Ci sono stati, nella tradizione musulmana, dibattiti - a volte influenzati anche dalle tradizioni greche e
cristiane - sui fondamenti della religione, in particolare su quella che si chiama 'aqidah, che tratta infatti del contenuto
della fede in quanto tale, ed anche su ciò che riguarda i nomi e gli attributi divini.
Ci sono stati dibattiti che hanno portato a volte a separazioni tra coloro che si chiamano Ahl as-Sunnah, che sono
considerati i rappresentanti della "ortodossia" maggioritaria, e movimenti divergenti come gli sciiti o i razionalisti che
restano comunque all'interno della referenza e della tradizione islamiche. Queste diatribe molto raramente portano ad
esclusioni. La differenza dottrinale tra sciiti e sunniti non è inizialmente di natura teologica, anche se, dopo la
separazione, posizioni specifiche di sostenitori dell'una o dell'altra parte hanno potuto portare ad una divisione di questa
natura.

All'inizio si trattava di gestire la successione del Profeta: per alcuni Ali, che era allo stesso tempo genero e cugino del
Profeta, avrebbe dovuto naturalmente succedergli per il suo lignaggio ed anche per il suo valore. Per i sunniti la
successione doveva seguire la scelta della comunità ed onorare la persona più competente senza riferimento ai legami di
sangue.

J.N. Affinché sia chiaro, gli sciiti sostengono di essere fedeli alla successione di Ali, i sunniti invece prendono le
distanze da questo tradizionalismo. Ali non è stato che il quarto califfo, mentre i primi tre non appartenevano alla stessa
discendenza del Profeta. Il califfo Ali è circondato da molte leggende che ne fanno il grande assente nell'islam. Talvolta
si dice che tornerà. Gli sciiti lo credono?

T.R. Ci sono diverse scuole nel ramo sciita. Fondamentalmente si conoscono le due grandi tradizioni di coloro che si
chiamano i duodecimani ed i settimani che si riferiscono rispettivamente al numero di imam che essi riconoscono nella
storia, prima che avvenga il fenomeno della "grande occultazione" dell'imam, che segna un periodo di assenza fino ai
tempi del ritorno del Mahdi. Ci sono anche gli zaiditi, presenti oggi nello Yemen. All'interno di queste tradizioni ed ai
loro margini, molti si sono allontanati tantissimo, fino ad idolatrare la persona di Ali. Questi ultimi non sono
riconosciuti dai sunniti. Resta il fatto che, tra la maggioranza degli sciiti ed i sunniti, sul piano dei fondamenti dottrinali,
l'essenziale è il più delle volte conservato.

Esistono divergenze sui testi di riferimento, il posto dei compagni, la questione dell'autorità religiosa e politica,
l'infallibilità dell'imam e l'imamato in generale. La tradizione sunnita segue l'idea che la scelta deve essere fatta dalla
base, mentre gli sciiti difendono la successione di sangue, dall'alto, e questo innesca un sistema vicino a quello della
gerarchia ecclesiastica. Si conosce l'esempio dell'Iran per via delle etichette dei dignitari che formano una sorta di
istituzione religiosa molto gerarchizzata con titoli come ayatollah o mollah.

Comunque sciiti e sunniti si parlano, pregano insieme, si rispettano e difendono fondamentalmente il principio centrale
del Tawhid (unicità di Dio) con le stesse pratiche quotidiane della preghiera, della zakah, del digiuno, e si ritrovano
insieme a La Mecca per il pellegrinaggio. La percezione globale del modo di vita islamico è la stessa.

J.N. Più tardi parleremo della difficoltà di adattare queste pratiche in una società occidentale.

Dunque, sunniti e sciiti osservano un certo numero di pratiche sulle quali sono perfettamente d'accordo e che, in fondo,
costituiscono la distinzione tra chi è musulmano e chi non lo è.

Anche in Occidente se si chiede ad un inesperto, questi può elencare i cinque pilastri della pratica islamica. I cinque
pilastri ricalcano la pratica della maggior parte delle religioni. C'è, ovviamente, l'atto di fede per cominciare, poi la
preghiera, il digiuno, il pellegrinaggio e l'elemosina. Ma nel quadro dell'islam tutte queste pratiche assumono un
significato particolare. Ritornando sui cinque pilastri, potrebbe spiegare di ciascuno che cosa ha di simile alla pratica
corrispondente nella maggior parte delle religioni e, soprattutto, che cosa lo differenzia.

Il primo pilastro la testimonianza di fede

Cominciamo dal primo, La testimonianza di fede, che è in fondo il passo volontario attraverso il quale si entra nella
comunità.

T.R. Sì. E' la shahadah, letteralmente l'attestazione, la testimonianza del fatto che l'essere umano, donna o uomo,
riconosce, attesta che non c'è altro dio all'infuori di Dio. E' il riconoscimento della verticalità fondamentale, il
riconoscimento della presenza del Creatore che lo rende musulmano. Nel suo significato letterale, musulmano vuol dire:
"sottomesso alla presenza del Creatore".

J.N. Il termine islam vuol dire "sottomissione"?

T.R. Esatto, sottomissione.


Due ragioni essenziali rendono importante questa formulazione. Sicuramente il riconoscimento della presenza del
Creatore, ma anche, su un altro piano, la Sua unicità ed il fatto che si affida la propria vita al Creatore. E' la prima parte
della formulazione: attesto che non c'è altro dio all'infuori di Dio, mentre la seconda è: e che Muhammad è Suo inviato.
Si tratta del riconoscimento della presenza nella storia di inviati e profeti l'ultimo dei quali è Muhammad, secondo la
concezione musulmana. I commentatori ed i sapienti musulmani (‘ulema’) hanno messo in evidenza che questa formula
racchiude il riconoscimento del ciclo intero dei profeti, dall'origine fino all'islam, il cui messaggio è considerato
universale, confermando coloro che l'hanno preceduto nell'essenza stessa della fede nel Dio unico. L'ultimo Profeta,
l'abbiamo già detto, reca un messaggio di conferma, di riforma e di completamento.

Sono queste due sfere, una della verticalità, l'altra dell'orizzontalità, con la testimonianza dei profeti attraverso la storia,
che entrambe fanno entrare l'essere umano ed il suo cuore in un rapporto spirituale ed intimo con il Creatore,
associandolo alla comprensione del senso della storia.

Quest'ultimo punto è fondamentale, perché non è sufficiente vivere un rapporto intimo con Dio. Il legame interiore con
Dio, essenziale nell'islam, proietta una luce particolare sulla storia degli uomini, cioè: essere con Dio nell'istante è
comprendere la storia nel suo progetto, è elaborare una visione della storia che ha una finalità, che ha un senso.

J.N. Il primo pilastro che attesta la fede è in fondo il più importante. E' questo che è decisivo?

T.R. Dà senso a tutti gli altri, il che vuol dire che non c'è preghiera senza testimonianza, non c'è digiuno senza
testimonianza. E', secondo il consenso esplicito della comunità musulmana, ciò che rende una persona musulmana
oppure no. Tanto che colui che pronuncia la testimonianza di fede non solo con le labbra, ma anche con sincerità di
cuore, è di fatto musulmano. Dopo, dovrà personalmente rendere conto della sua pratica davanti a Dio rispetto agli altri
quattro pilastri ed alle diverse prescrizioni.

J.N. Allora è l'equivalente del battesimo per i cristiani, essendo il battesimo ciò che fa entrare una persona nella
comunità cristiana. Anche l'atto di fede è quello che fa entrare qualcuno nella comunità musulmana. Questa entrata è
relativamente facile, mentre la conversione al giudaismo è quasi impossibile, perché dipende praticamente da una
questione di sangue. Battezzare un adulto in Europa si può, ma le chiese cristiane battezzano soprattutto bambini ad uno
stadio in cui sono assolutamente incoscienti. Qual è il momento della vita in cui un giovane entra nell'islam? C'è un'età
limite?

T.R. Il paragone che lei ha fatto col battesimo rivela dei limiti uno dei quali è fondamentale. Nell'islam, tutti gli
elementi della natura, anche quelli che non sono dotati di ragione e coscienza, sono musulmani, sottomessi per natura.
Ciò significa che tutti i bambini, di qualsiasi paese e di qualsiasi religione, prima ancora di scegliere, sono naturalmente
sottomessi, musulmani di fatto. Questo vuol dire che il loro essere, ancor prima della comparsa della coscienza, è per
natura sottomesso all'ordine della creazione divina.

La natura, gli uccelli, gli animali ed anche i bambini partecipano in modo naturale a questo riconoscimento. In una
tradizione riferita al Profeta, egli dice di aver fatto un sogno nel quale aveva visto i bambini dei politeisti nel Paradiso
proprio mentre i loro genitori erano in guerra contro Muhammad. Questo aveva stupito i compagni che dissero: "Ma
come! Loro che ci combattono e ci perseguitano! I loro bambini vanno in Paradiso?"

L'insegnamento di questa tradizione è che nessuno paga per lo sbaglio dei suoi genitori e, soprattutto, che la
sottomissione dei bambini è la loro innocenza naturale. Dall'età della ragione, cioè a partire dal momento in cui un
bambino ha chiara coscienza della presenza divina e della sua responsabilità personale, egli conferma col cuore e con la
coscienza ciò che, prima, era nella sua natura.

J.N. In fondo, è quello che si chiama l'età della ragione, all'incirca sette anni. C'è una cerimonia speciale?

T.R. No, nessuna cerimonia particolare anche se a volte, come capita in certe regioni africane, si segna il passaggio. Si
tratta di una caratteristica propria di certe culture ma non dell'islam. Riguardo all'età della ragione, una tradizione del
Profeta dice che faceva abituare i bambini alla preghiera, ma senza alcuna costrizione, a partire dall'età di sette anni. E'
necessario che la preghiera sia più presente nella loro vita dall'età di dieci anni. Queste sono raccomandazioni e per tutti
gli ‘ulema’ la norma è l'età della pubertà che varia secondo gli individui ma che si aggira tra i dodici ed i quattordici
anni. A partire da questa età, ciascuno diventa responsabile dei suoi atti davanti a Dio in modo proporzionale,
ovviamente, al suo livello di maturità.
J.N. L'entrata nella fede è caratterizzata dunque da una grande moderazione nell'islam, rispetto alla circoncisione nel
caso degli ebrei o al battesimo nel caso dei cristiani. Non solo procede per fasi ma è puramente interiore, senza bisogno
di un segno visibile come la circoncisione da una parte o il battesimo dall’altra. Si tratta forse di un modo per prendere
maggior distanza dai culti pagani che abbondano di cerimonie d'iniziazione.

Veniamo al secondo pilastro.

Il secondo pilastro: la preghiera

T.R. Il secondo pilastro evidenzia la vicinanza delle tradizioni monoteiste perché si tratta della preghiera. Ci sono due
tipi di preghiera nell'islam, quella rituale, codificata (il secondo pilastro del quale stiamo parlando, as-salah) ed una più
libera nella forma, che si chiama "invocazione" (ad-du'a).

La preghiera rituale si basa sulle cinque orazioni quotidiane, che scandiscono il ritmo della vita del credente, e che si
devono fare in momenti specifici, ma non nell'istante preciso come si pensa comunemente. Per la preghiera del mattino
il periodo va, più o meno, da un'ora e un quarto a un'ora e mezza prima del sorgere del sole fino al sorgere del sole; è la
preghiera del subh. I musulmani praticanti si alzano prima che sorga il sole per fare questa preghiera.

La seconda preghiera, quella del pomeriggio, comincia subito dopo che il sole ha oltrepassato il suo zenith, fino ai due
terzi del pomeriggio (più precisamente quando l'ombra di un oggetto misura il doppio dell'oggetto stesso); è la preghiera
del dhohr.

La terza preghiera si deve fare tra la fine del periodo precedente ed il tramonto; è la preghiera del 'asr.

La quarta preghiera inizia col tramonto fino all'incirca un'ora e mezza dopo con la forte raccomandazione di compierla
all'inizio del periodo; è la preghiera del maghrib.

La quinta si può fare fino all'inizio del giorno successivo anche se è preferibile compierla a metà della notte; è la
preghiera del 'isha. Come si può osservare esse hanno dei limiti molto precisi all’interno dei quali si può scegliere il
momento in cui si possono compiere.

J.N. Si prega cinque volte all'inizio di ciascun periodo?

T.R. Non necessariamente all'inizio. Durante tutto il periodo anche se esistono delle preferenze per il loro compimento.
E' importante saperlo perché alcuni, quando ci vedono vivere in Europa, pensano che si debba fermare tutto, stendere il
nostro tappeto e pregare subito, non importa dove. Non è il caso. C'è un periodo di tempo e ci si può adattare.

Aggiungiamo che ciascuna preghiera è costituita da cicli (rak'a). Al mattino, per esempio, ci sono due cicli: all'inizio si
è in piedi, poi inclinati, poi prosternati, poi in ginocchio, poi si ricomincia. Questo è un ciclo. Nell'ordine le preghiere
sono costituite da due cicli, poi quattro, poi ancora quattro, poi tre e poi quattro, il che fa, in una giornata, diciassette
cicli. Queste preghiere hanno qualcosa di particolare e si costruiscono intorno alla recitazione del Corano. La prima
surah ("capitolo") del Corano, la fatihah, è obbligatoria per ciascun ciclo mentre si aggiunge una surah o qualche
versetto, a libera scelta, nei primi due cicli di ogni preghiera. Queste prescrizioni fanno sì che un musulmano impari a
memoria brani più o meno lunghi del Corano. In generale l'apprendimento è rapido e ci sono moltissimi musulmani che
conoscono tutto il Corano a memoria: si chiamano huffath (sing. hafiz).

E' tradizione, durante il mese di Ramadan, recitare tutto il Corano nelle preghiere della notte: ogni giorno un trentesimo.
Anche questo spiega il posto importante che occupa il testo sacro nella vita delle musulmane e dei musulmani.

Le preghiere ritmano la vita del musulmano. E sono al contempo pause nella vita quotidiana. Perché? A che cosa
servono? La rivelazione coranica risponde a queste domande: E fa' la preghiera per ricordarti di Me. Il più grande
rischio per un credente, una volta che ha pronunciato la shahadah, è dimenticare, trascurare al punto di finire col fare
della sua relazione con Dio un fatto annesso, secondario, marginale. La preghiera aiuta colui che ha la fede a non
dimenticare. Questa è la funzione primaria della preghiera rituale che esige, quindi, una grande presenza di cuore e di
coscienza. Essa è veramente centrale nella vita del musulmano, a tal punto che il Profeta ha detto che tra la fede e la
negazione della fede c'è l'abbandono della preghiera.

Bisogna dire ancora qualcosa su quello che abbiamo accennato poco prima, cioè le invocazioni (ad-du'a). In effetti, i
credenti sono invitati ad invocare Dio in continuazione, a prendere dei tempi per pregare Dio non codificati. Sono
libere, possono essere espresse come si vuole, nella propria lingua, mentre la preghiera rituale viene fatta in arabo e
presuppone l'apprendimento di qualche breve surah o di alcuni versetti. Tutte le altre invocazioni sono fatte nella lingua
della persona, in un dialogo intimo ed immediato con Dio.

J.N. Ritorniamo un istante sulla preghiera rituale. Deve essere fatta obbligatoriamente in comunità o è solo meglio farla
in comunità?

T.R. E' una buona domanda. La preghiera può essere fatta da soli o in comunità. Ma c'è una tradizione profetica che
dice che la preghiera fatta in comunità vale ventisette volte più che la preghiera fatta da soli. La preghiera come
ciascuno degli altri pilastri della pratica musulmana, ha una doppia dimensione: quella dell'individuo, che risponde nella
sua solitudine alle esigenze della sua fede, ma anche quella della comunità che si realizza nella presenza di sé per l'altro,
in una pratica condivisa, in una fraternità alimentata ogni giorno. E' insomma la verticalità che non è mai realmente
vissuta se non si completa con l'orizzontalità, cioè l'esigenza di comunione con gli uomini.

Il termine moschea letteralmente vuol dire "luogo dove ci si prosterna" (masjid). Nel luogo in cui ci si prosterna, c'è
l'idea della comunità della fede. Perciò si può fare la preghiera da soli, ma è sempre preferibile viverla in comunità. E'
una dimensione molto importante, anche della nostra vita in Europa, ed è necessario che essa partecipi dell'identità del
musulmano: questo sentimento d'appartenenza ad una comunità è intrinsecamente legato al fatto d'essere musulmano.
Tuttavia bisogna far bene la differenza tra una comunità di fede e di spiritualità e la chiusura comunitaria. Dovremo
tornare su questo argomento in una delle nostre future conversazioni.

J.N. Fermiamoci un istante sul ruolo della moschea. Certamente è preferibile fare le preghiere in moschea, a meno che
per una ragione qualsiasi non vi si possa accedere, dato che spostarsi durante i giorni della settimana è sempre difficile.
Invece, il venerdì è il giorno in cui ci si reca alla moschea per dire le preghiere. E' obbligatorio essere presenti?

T.R. Il venerdì (al-jumu'ah) è, letteralmente, il "giorno del raduno", come dice la parola araba. I musulmani sono
invitati a recarsi alla moschea per adempiere alla preghiera dell'inizio del pomeriggio. E' una preghiera particolare:
inizia con un discorso che fa colui che officia e guiderà la preghiera (l'imam). Dopo il discorso, si fa una preghiera
eccezionalmente di due cicli, poiché si considera che il discorso abbia rimpiazzato gli altri due cicli che normalmente
costituiscono questa preghiera. Essa è obbligatoria per la maggior parte delle scuole di diritto islamico ma con
considerazioni che valutano la natura di quest'obbligo in funzione della situazione di ciascuno. Questa preghiera è
davvero la realizzazione della preghiera rituale in comunità.

J.N. Il discorso è, in genere, un commento del Corano?

T.R. Non necessariamente. Può essere di qualsiasi argomento dato che è volto a risvegliare la fede nella vita quotidiana
delle persone ed a risvegliare la loro coscienza ed intelligenza. E' fortemente consigliato, durante il discorso, parlare alle
persone in funzione del loro ambiente e non parlar loro di cose astratte.

J.N. Colui che pronuncia il discorso è un imam. Il nome designa colui che sta davanti all'assemblea. Egli è il capo della
comunità oppure un letterato che viene a parlare? Qual è esattamente la sua funzione?

T.R. Esistono oggi istituti che rilasciano diplomi ed officializzano il ruolo di imam per colui che ha seguito un corso
determinato secondo i paesi. Spesso i governi cercano di generalizzare questo procedimento per avere il diritto di
controllare chi parla nelle moschee. Questa è una realtà molto marginale.

Nella stragrande maggioranza delle situazioni l'imam è colui le cui competenze sono riconosciute dalla comunità. E'
quindi un uomo che ha seguito degli studi ufficiali ha una buona conoscenza dell'islam, del Corano e dei diversi campi
delle scienze islamiche con una buona padronanza linguistica. L'imam non ha una funzione clericale specifica, può
essere indifferentemente studente, ingegnere, medico o di tutt'altra professione purché sia musulmano, pubere, con una
buona reputazione sul piano morale ed ovviamente competente. L'imam è letteralmente "colui che si mette davanti" e
nell'islam deve essere scelto da coloro che stanno dietro. Si ufficializza a volte questo stato ma generalmente la gestione
si fa dall'interno ed in modo informale. Capita, bisogna riconoscerlo, che questa gestione sia anarchica e mal controllata
con, in più, delle lotte d'influenza che a volte portano a non rispettare i principi della competenza e della buona moralità.

J.N. La cosa più stupefacente in questa organizzazione è l'assenza di gerarchia religiosa. Forse esiste in qualche posto o
in certi paesi ma è essenzialmente ogni comunità che sceglie. In un certo senso, l'islam è simile alla pratica dei
protestanti in cui il Consiglio parrocchiale elegge il pastore, contrariamente a ciò che avviene tra i cattolici per i quali la
nomina del parroco è fatta dalla gerarchia. Al contrario, in certi paesi, per esempio nell'Iran che è sciita, la nomina degli
ayatollah dipende da una gerarchia fortemente impegnata nella gestione politica del paese.

T.R. E' così. E' l'influenza che deriva dal principio di discendenza del quale parlavamo prima, a proposito di Ali, che ha
portato ad una sorta di gerarchia all'interno della tradizione sciita. Non esiste nella tradizione sunnita che, in generale, si
attiene all'idea dell'elezione, della scelta, della cooptazione. Certamente c'è, a livello dei dipartimenti universitari e delle
istituzioni, una gestione dei procedimenti di scelta, ma il principio, quale che sia la forma che assume il modello
d'organizzazione, resta.

J.N. I dignitari ecclesiastici, quelli che vengono chiamati mollah o ayatollah, sono in fondo dei sapienti: letterati,
specialisti di diritto, specialisti del Corano. Ma in teoria non hanno una funzione ecclesiastica?

T.R. Come abbiamo detto, c'è una gerarchia molto forte nella tradizione sciita con statuti specifici per i mollah o per gli
ayatollah, per esempio. Anche se questa gerarchia li avvicina al clero cattolico, è bene sottolineare che il ruolo dei
dignitari religiosi sciiti non corrisponde assolutamente a quello del prete, così come lo si conosce nella tradizione
cristiana. Si sposano, orientano le persone, danno consigli, pubblicano opinioni giuridiche ma non costituiscono il
tramite tra il profano e Dio.

Troviamo altre funzioni nella tradizione musulmana: il mufti, che conosce il diritto ed emette opinioni giuridiche; il
faqih, specializzato nel campo delle prescrizioni del diritto ma non necessariamente con la competenza di formulare un
giudizio come nel caso del mufti; l''alim, il cui plurale è ‘ulema’, il sapiente in senso lato, dell'una o dell'altra scienza
islamica, spesso diplomato in un istituto riconosciuto, il qadi, che è il giudice, ecc. Ma non c'è alcuna gerarchia nella
gestione e nel rapporto di queste diverse funzioni.

J.N. Lasciamo il secondo pilastro per passare al successivo.

Il terzo pilastro: la zakah

T.R. Il terzo pilastro è la zakah, nozione che gli orientalisti hanno tradotto con "elemosina legale". Quanto a me, sono
dell'avviso che i musulmani che vivono in Europa debbano contribuire a precisare le formulazioni e le traduzioni.
"Elemosina legale" è una formula costruita a partire dalla terminologia usuale del cristianesimo. Essa non corrisponde
alla realtà e deve essere rivista.

Nel termine zakah c'è, letteralmente, l'idea di purificazione. E' una tassa, un'imposta che ha una funzione sociale, poiché
essa è prima di tutto destinata direttamente al sostentamento dei poveri, dei bisognosi, dei viaggiatori. Ha anche una
funzione spirituale, quella di purificare i beni, gli averi, come la preghiera purifica l'essere ed il digiuno purifica il
corpo. La zakah è quindi una tassa sociale purificatrice attraverso la quale si purifica ciò che si possiede, proprio come
si deve purificare se stessi attraverso un intenso lavoro spirituale.

Che cosa esprime questa tassa? Da una parte che, anche quando si è con Dio, si deve restare coscienti di quello che Egli
ci dona e non dimenticare mai la relazione che abbiamo con l'Altissimo nella gestione del nostro patrimonio. Non c'è
una frattura tra le due sfere. E' il senso di purificazione del quale parliamo. Esiste, certamente, anche una dimensione
orizzontale, comunitaria. Lei vede che si ritrova sempre questa prospettiva. Io sono solo con Dio sapendo che Egli mi
dà, ma sono con la comunità sapendo che anch'io devo dare. L'imposta sociale purificatrice equivale a ritirare il 2,5%
del valore dei nostri beni (la percentuale è diversa a seconda della natura dei beni, ad esempio i beni agricoli o altro), di
quelli che superano il limite dei soli bisogni necessari. Perciò, se per quello che riguarda il nostro patrimonio in denaro,
non si investe e non si fa fruttare la nostra ricchezza con un'attività economica, il nostro patrimonio si riduce a ben poca
cosa nel giro di qualche decennio.

Due cose si devono mettere in evidenza. La zakah è un incoraggiamento all'investimento economico perché riguarda
l'intero patrimonio di ciascuno. Bisogna dunque produrre ricchezza. Bisogna aggiungere inoltre che la zakah fa nascere
e radica nell'uomo la coscienza di essere un membro molto solidale della società. Questa concezione, ben conosciuta in
Europa, è un elemento fondatore dello spazio sociale islamico: è il diritto del povero. E’ scritto nel Corano che i
credenti sono coloro che sono coscienti del: “ diritto per il povero ed il bisognoso” che c’è nei loro beni. La formula è
chiara ed attribuisce: a colui che possiede, l'esigenza di dare; al povero, la dignità di ricevere e di rivendicare il suo
diritto, e non di restare in attesa solo dell'inclinazione caritatevole dei suoi simili. Alla luce della trascendenza, la
solidarietà si traduce in responsabilità e diritto, non nel valore della sola bontà, commossa dalla mendicità di un suo
simile. Questo può accadere ma rappresenta il margine della solidarietà e non il principio.
Come vede, ritroviamo qui le dimensioni della verticalità esigente e dell'orizzontalità rigorosa e sempre fraterna.

J.N. Questo dono viene fatto di mano in mano, tra il donatore e colui che riceve, oppure è raccolto dalla comunità e
ridistribuito?

T.R. Tutto dipende dal contesto nel quale ci si trova. All'epoca del Profeta e di quelli che gli sono succeduti, a poco a
poco si è costituita un'istituzione a livello statale conosciuta in seguito col nome di Bait al-mal, letteralmente, "la casa
delle finanze", che raccoglieva la zakah e la distribuiva. Questo tipo di gestione era ancora attuale nell'Impero ottomano
e la raccolta era o centralizzata o prelevata localmente.

Oggi, la raccolta della zakah, a livello statale non esiste più, in quanto tale, in moltissimi paesi. Ormai è organizzata e
gestita da associazioni locali o moschee. In queste condizioni, sta al musulmano e alla musulmana, con coscienza e
dopo un esame dell’ambiente, cercare e trovare le vie migliori per versare l'ammontare della sua zakah. Se c’è
un'associazione della quale ci si fida e che fa questo lavoro, le si può versare il denaro. Questo avviene già nel mondo
musulmano, come in Europa o negli Stati Uniti. Alcuni preferiscono dare di mano in mano, il che è anche possibile
poiché è un atto che solleva la coscienza. Bisogna comunque assicurarsi di conoscere veramente le persone o l'ambiente
ai quali si dà il denaro perché bisogna evitare di agire con incoscienza e leggerezza, soprattutto perché si tratta del
diritto dei poveri e non si deve negarglielo per ingenuità o negligenza.

La zakah ha bisogno di associazioni e persone che se ne occupino con una buona conoscenza dell'ambiente e delle
situazioni nelle quali sono attive. E' una grande responsabilità perché uno dei principi della zakah è di essere distribuita
nel momento stesso in cui è prelevata. A valle della sua applicazione, essa è una pratica molto esigente dal punto di
vista umano, ma anche spirituale, intellettuale e, sicuramente, in rapporto alle modalità d'azione di un dato ambiente.

J.N. Lei dice bene; il diritto del povero. Non si tratta di un'imposta ecclesiastica che serve per la manutenzione degli
edifici di culto ed per retribuire il personale permanente?

T.R. Non è questa la sua funzione iniziale. Alcuni sapienti hanno rilevato tuttavia che, alla luce del versetto che nomina
le otto categorie di persone che devono beneficiare della zakah, si può utilizzare questo denaro per le moschee o altri
progetti di benessere pubblico, se sono coperti ed assicurati i bisogni dei poveri, ma questi ultimi hanno la priorità.

Per noi, in quanto musulmani che viviamo in Europa, l'imposta sociale purificatrice deve servire anche al sostentamento
dei musulmani in difficoltà economiche, per aiutarli ad avviare un progetto, a studiare, ad organizzare un lavoro o altro.
La necessità non manca e ci impone di trovare delle vie originali per la distribuzione e, direi, per l'investimento
intelligente delle somme raccolte. Sarebbe grave trasformare la zakah in una semplice donazione di carità mentre, nella
sua essenza, essa è uno strumento per sviluppare l'autonomia dei più bisognosi. Siamo lontani dal gestire le cose in
questo modo in Europa e questo per facilità, per pigrizia o semplicemente per mancanza di spirito d'iniziativa o
d'originalità. Ci si limita a raccolte e distribuzioni che trasformano coloro che si incaricano della raccolta, associazioni o
individui, in semplici intermediari distributori. E' una grave mancanza di responsabilità da parte loro perché dovrebbero,
al contrario, essere promotori dell'azione sociale, dell'iniziativa economica, dello spirito d'impresa e di autonomia.
Prelevare qui per spendere qui significa sviluppare una filosofia dell'azione di solidarietà e di partecipazione economica
che non si riduce a gestire puntualmente un'elemosina ma piuttosto ad elaborare microprogetti economici circostanziati,
destinati a svilupparsi, dinamici. Purtroppo siamo ancora lontani da questo spirito d'iniziativa.

J.N. Questa elemosina obbligatoria non si deve assolutamente confondere con le tasse percepite dagli stati o dai sovrani
che servono per il funzionamento dello Stato?

T.R Certo.

J.N. Allora, la costruzione o la manutenzione di edifici, moschee, madaris ("scuole coraniche") e lo stipendio di
professori universitari, di ayatollah, di mollah sono il più delle volte a carico dello Stato e non sono finanziati da questa
elemosina.

T.R. Esattamente. L'imposta sociale purificatrice è davvero qualche cosa di specifico. E' un'imposta religiosa. Alcuni
giuristi hanno rilevato che c'era una sola imposta nell'islam, la zakah, mentre altri, al contrario, hanno sottolineato che la
zakah non deve essere confusa con la tassa, ad-dariba in arabo, perché la loro natura e la loro funzione sono diverse. Le
cose, secondo me, sono più semplici: da una parte c'è un'imposta, una tassa che il credente versa come atto di fede e che
ha una portata spirituale, è la zakah (l'imposta sociale purificatrice); e poi ci sono imposte che servono a far funzionare
la macchina dello Stato e che corrispondono alle imposte che conosciamo nelle nostre società. Questi due tipi d'imposta
si assomigliano per il loro carattere obbligatorio (è appunto il senso dell'imposta, della tassa) ma differiscono per la loro
natura ed il loro impiego.

J.N. Esiste dunque una netta distinzione tra lo spirituale ed il temporale: questa distinzione è molto rara nei paesi
occidentali. Si preleva un insieme di imposte, che servono a tutti i tipi di funzione, in primo luogo le funzioni precipue
dello stato: l'esercito, la polizia, la giustizia. Ma una buona parte delle imposte che vengono pagate in Occidente oggi
servono alla solidarietà. I due obiettivi sono completamente mescolati, mentre sono ben separati nell'islam.

T.R. Noti che se ci fosse bisogno, come a volte è accaduto, nulla impedisce allo stato di aggiungere un'imposta di
solidarietà che non sarebbe la zakah ma che potrebbe servire per il sostentamento dei poveri se la situazione fosse
troppo grave. Il margine di manovra resta molto importante e gli adattamenti sono molto flessibili.

Il quarto pilastro: il digiuno

J.N. Possiamo forse passare al quarto pilastro.

T.R. Si tratta del digiuno del mese di Ramadan. Anche qui bisogna chiarire le cose. "Ramadan" è infatti il nome del
nono mese lunare del calendario musulmano. La caratteristica dei mesi lunari è che hanno ventinove o trenta giorni,
mentre i mesi solari hanno trenta o trentuno giorni, per cui ogni anno il mese di ramadan anticipa all'incirca di dieci o
dodici giorni. In trentasei anni, più o meno, si fa il giro dell'anno. Durante questo mese i musulmani, da circa un'ora e
un quarto prima del sorgere del sole fino al suo tramonto, si astengono dal bere, dal mangiare e da qualsiasi relazione
sessuale. E' dunque un mese di rottura, rispetto alla vita quotidiana, che mira al risveglio della spiritualità ed alla
coscienza della presenza di Dio.

E’ la volontà, da parte del musulmano, di prendere le distanze dal mondo per avvicinarsi al Creatore dei mondi. Questa
dimensione spirituale è fondamentale, è l'espressione intima della verticalità. Ma la dimensione orizzontale si presenta
come il complemento indispensabile poiché colui che digiuna entra in una sorta di comunione con i poveri della terra.
Senza bere, senza mangiare, è incoraggiato a dare, a condividere ed a partecipare alla vita comunitaria. La privazione
del corpo è la rivivificazione dell'energia spirituale.

Il versetto coranico che parla del digiuno lo inscrive nella storia delle profezie come espressione della fedeltà a tutti i
messaggi precedenti:"O voi che portate la fede, il digiuno vi è prescritto come è stato prescritto a coloro che vi hanno
preceduto".

C'è un segreto nel digiuno, che tutte le tradizioni religiose conoscono o hanno conosciuto. E' il segreto della spiritualità
vivente, sempre col suo doppio aspetto: verticalità, per la solitudine davanti a Dio, ed orizzontalità, per la solidarietà
con gli uomini.

J.N. Si tratta forse della pratica più spettacolare per gli osservatori esterni. Come lei ha detto, il digiuno esiste nelle altre
religioni, ma c'è la tendenza ad abbandonarlo.

Ad esempio, in Occidente, nelle Chiese cristiane, il digiuno e l'astinenza dalla carne, che era di regola tutti i venerdì e
durante tutta la Quaresima, cioè quaranta giorni, sono stati praticamente abbandonati. Nel mondo protestante questa
prescrizione si mantiene astratta e non fa parte di quelle obbligatorie. Tra i cattolici restano solo due giorni di digiuno
all'anno, ma un giorno di digiuno per un cattolico significa semplicemente limitarsi ad un pasto e due spuntini. Non si
tratta assolutamente di astenersi da alimenti e bevande per tutto l'arco della giornata.

La pratica islamica è certo stupefacente per un cristiano. Costituisce una testimonianza di fede singolare. Non c'è alcuna
confessione al di fuori dell'islam che manifesti in modo così forte la sua fede in questa occasione. Le altre religioni o gli
stessi atei potrebbero almeno ispirarsi ad essa, se non praticarla. E' anche chiaro che questa prescrizione non si può
applicare a tutti, ad esempio ai bambini o ai malati.

T.R. Abbiamo parlato poco fa dell'età della pubertà che è il riferimento per la pratica salvo per il pagamento della
zakah, che deve essere prelevata dalla ricchezza di un bambino qualunque sia la sua età. Per il ramadan, oltre ai bambini
che non hanno l'obbligo di digiunare, si trovano dispense o alleggerimenti per le donne mestruate, incinte, per le
persone anziane, i malati o coloro che sono in viaggio. In queste situazioni, o si recupera dopo, o si nutre un povero per
ogni giorni di digiuno non effettuato.
Il principio della non-difficoltà è essenziale nell'islam: Dio non ha voluto disagi per voi nella religione, si dice nel
Corano. Altrove, viene anche precisato che Dio non chiede ad un essere umano più di quello che può sopportare. In
quanto alla pratica ed alla sua percentuale, è vero che per quello che riguarda il digiuno, essa è impressionante. In
Europa, come nel mondo musulmano, si raggiungono tassi di praticanti del digiuno che vanno dal 70% all'80%. Certo,
qui si mescola tutto, la tradizione familiare, il sentimento della festa, ecc., ma resta il fatto che donne, uomini,
adolescenti e bambini praticano il digiuno e che il ricordo di Dio, il sentimento della Sua presenza è conservato e
approfondito in questo periodo.

L’ultimo pilastro: il pellegrinaggio

J.N. Passiamo all'ultimo pilastro.

T.R. E' il pellegrinaggio, per il quale si chiede alla donna e all'uomo che hanno i mezzi, una volta nella vita, di recarsi a
La Mecca per vivere questa esperienza. Il pellegrinaggio, ovviamente, ha la funzione di testimoniare la fede, di esser
presenti nel luogo centrale, la casa di Dio sul piano simbolico, cioé la Ka‘bah. I musulmani vi si recano, se possono, e
seguono un rituale fisso che comprende diverse tappe. In questo pellegrinaggio si ritrovano elementi essenziali sul piano
spirituale e comunitario. Per prima cosa è d'obbligo vestirsi in modo da eliminare ogni segno di differenziazione. Ad
esempio gli uomini si ricoprono con due panni bianchi senza cuciture che non fanno trasparire nulla dello stato sociale
del fedele: il primo cinge i fianchi e scende fino alle caviglie mentre l’altro è intorno alle spalle. In tal modo, davanti a
Dio ognuno è uguale a suo fratello. Le donne si coprono secondo la tradizione musulmana ma sempre con sobrietà e
semplicità per preservare l'uguaglianza assoluta dei fedeli davanti a Dio. Il numero dei musulmani che si ritrovano a La
Mecca durante l'ultimo mese dell'anno lunare, Dhu al-Hijja, è di circa due milioni, perfino di più. Quando si è lì, è
estremamente impressionante. I musulmani vengono da ogni luogo con la stessa semplicità d'abbigliamento.

Il primo insegnamento del pellegrinaggio è l'unione, l'unione della umma nel senso di comunità di credenti di tutto il
mondo, in una visione di uguaglianza. E' la doppia testimonianza dell'individuo che da solo cammina verso Dio in
comunione con i suoi fratelli e sorelle. Ciascuno arriva da un angolo del mondo e, insieme, al centro, ci si ritrova per
rispondere all'appello del Creatore, il Padrone di tutto, l'Amico e l'Amato di ognuno. Insieme compiono i riti, la
preghiera, la circoambulazione intorno alla Ka‘bah, l'andare e tornare tra as-Safa wal-Marwa in ricordo di Hajar, la
moglie di Abramo, che cercava acqua per il figlio Ismaele, ecc.

Il pellegrinaggio è una testimonianza profonda e fondamentale. Se si analizzano i quattro pilastri della pratica, ci
accorgiamo che essi scandiscono il ritmo. La preghiera cinque volte al giorno e la preghiera del venerdì una volta alla
settimana. Il pagamento della zakah una volta all'anno, come per il digiuno di Ramadan. E infine il pellegrinaggio, che
deve essere realizzato una volta nella vita per chi ne abbia i mezzi. Al centro di questo ritmo si trova l'insegnamento
dell'armonia e dell'equilibrio del credente che sa di essere solo nel suo cammino e nella sua ricerca di Dio ma il cui
cuore si attacca alla "comunità delle solitudini" nella comunione di fede, la pratica comunitaria, l'amore, la solidarietà e
il rispetto...

J.N. Queste pratiche mancano al mondo occidentale che ha smesso di testimoniare la sua fede in modo visibile, mentre
l'islam partecipa al ritmo del cosmo. L'unità cosmica è voluta da Dio perché Egli è il Creatore. E' dunque buona pratica
ricordarlo ad intervalli regolari.

Questa preoccupazione si ritrova nella tradizione cristiana: c'è un anno liturgico; c'è un ciclo ebdomadario coronato
dalla domenica; nel caso degli ordini contemplativi, i riti della giornata riproducono in un certo modo lo schema che lei
ha presentato.

La sua esposizione dà una buona idea dei cinque pilastri e dello spirito col quale bisogna considerarli. Tuttavia vorrei
fare qui non delle obiezioni ma delle critiche dal punto di vista dell'occidentale. Egli ammira questa fedeltà alla
religione, ma si sente un pò minacciato da persone che praticano in modo così regolare e in massa. L'occidentale l'ha
abbandonata. Anche se si sente cristiano, spesso fa un discorso confuso ed incerto: cristiano credente sì, ma praticante
no. Considerato l'ateismo pratico degli occidentali, l'atteggiamento è schizofrenico: con le labbra si ammette una fede
che ci si vanta di non praticare.

Un musulmano può essere credente ma non praticante?

La mancanza di pratica religiosa


T.R. Questa domanda è stata oggetto di dibattiti accesi tra i sapienti ed alcuni non hanno nemmeno considerato questa
possibilità tanto sembrava loro che essere musulmano si concretizzasse con la pratica.

Tuttavia bisogna considerare le cose in modo concreto. Troverà pochissimi musulmani che affermano: "Io non sono
credente" ma molti ammettono di non fare le preghiere quotidiane o il digiuno. Nell'islam, dal momento in cui un uomo
o una donna ha pronunciato con consapevolezza la testimonianza di fede, "Attesto che non c'è altro dio che Dio e
attesto che Muhammad è Suo inviato", gli viene riconosciuta la qualità di musulmano e di musulmana e nessun essere
umano può attribuirsi il diritto né il potere di verificare la sincerità di questo atto di fede nel suo cuore.

La pratica è la conferma di questa disposizione della quale ciascuno è responsabile davanti a Dio e nella sua coscienza.
Non si tratta di costringere qualcuno a praticare ma, in una famiglia, ad esempio, la trasmissione del sapere e della
comprensione di ciò che comporta l'attestazione di fede e la pratica sono responsabilità dei genitori, per permettere ai
loro figli di fare la loro scelta con cognizione di causa.

Ci sono oggi musulmani che hanno la fede ma non vivono la pratica: alcuni per ignoranza, altri per negligenza. La
responsabilità della comunità religiosa rispetto a questa situazione, è di promuovere un'educazione religiosa che almeno
permetta a ciascuno di determinarsi con cognizione di causa. Quando la non-pratica è dovuta a ignoranza o ad
analfabetismo religioso, non si tratta di una libera scelta perché non c'è libertà nell'ignoranza.

Tutte le tradizioni religiose condividono questa preoccupazione: è necessario rispettare la scelta di chi decide di non
praticare ma bisogna anche dargli i mezzi per fare questa scelta. Quanti giovani oggi non conoscono la propria
tradizione religiosa e si credono liberi di aver deciso. Ma che cosa hanno veramente deciso? E' come se avessimo
mentito loro.

J.N. E' chiaro che la pratica di una fede, qualunque essa sia - l'islam non fa eccezione - ha diversi scopi. Uno di essi è la
Salvezza, la Salvezza ultima, la Salvezza dopo la morte. Un musulmano, non-praticante o con un certo numero di
peccati gravi a suo carico, non è comunque rifiutato da Dio dopo la morte. Passa per una sorta di purgatorio. Rispetto ai
cinque pilastri, ne esiste uno solo sul quale non si può transigere. Colui che nega la sua fede in Dio commette un
peccato irremissibile. Colui che nega la sua fede commette il peccato inaccettabile che non viene perdonato.

T.R. Il versetto coranico è esplicito su questo punto:"Dio non perdona che a Lui si associ alcunché, ma al di fuori di
ciò perdona a chi vuole (tutti gli altri peccati)". Il principio dell'unicità di Dio (at-Tawhid) è fondamentale nell'islam e
Dio non perdona che Gli si associ un essere o un'altra divinità o che semplicemente si neghi la Sua esistenza. Al di là di
ciò è detto che Egli perdona tutto. In un altro versetto si dice:"Dì ai miei servi che hanno commesso peccato a loro
detrimento:"Non disperate del perdono di Dio poiché Dio perdona tutti i peccati"".

Questa stessa idea si trova nella celebre formula riportata da una tradizione in cui Dio dice:"La Mia misericordia
precede la Mia collera". Il secondo ed il terzo nome di Dio sono "ar-Rahman" e "ar-Rahim" che rispettivamente
significano il "Compassionevole" e il "Misericordioso". La dimensione del perdono è molto importante e centrale
nell'islam. Da essa nasce la speranza direttamente nutrita dal senso della testimonianza dell'unicità divina. Al di là di
questa comprensione, non abbiamo niente da aggiungere in quanto esseri umani: la relazione tra Dio ed il credente non
può essere sottoposta ad alcuna valutazione. Noi chiediamo che Dio accolga i morti, che perdoni i loro peccati ma Egli
è il giudice del Quale tutto ci dice che è il Buono, il Perdonatore, il Dolce, il Generoso, pieno d'amore per le creature.
Questi sono proprio alcuni dei novantanove nomi con i quali è conosciuto.

J.N. Esiste dunque una preghiera per i morti. Quello che diceva poco fa ricalca una formula che è allo steso tempo
ebraica e cristiana e che, a mio parere, deve risalire alla religione d'Abramo:"Dio è lento alla collera e pronto al
perdono". L'autore della dannazione è l'individuo stesso che, fino all'ultimo minuto, rifiuta Dio e Lo allontana. Si danna
da sé. Non è Dio che giudica. Non è Dio che condanna. Questa convinzione è fondamentale. E' stata riscoperta tardi dal
cristianesimo, che ha predicato a lungo la religione del giudizio di Dio, di fronte al quale nulla sta senza tremare.

Forse potremmo parlare brevemente della non-pratica. Che cosa accade ai non-musulmani che costituiscono una
minoranza in un paese musulmano? Non sono considerati in base al primo pilastro, se no diventerebbero musulmani.
Sono considerati in base agli altri pilastri?

T.R. Non vengono tenuti in conto per nessuno dei pilastri che sono prescritti ai musulmani. Nemmeno la zakah poiché
l'imposta purificatrice è un'imposta religiosa, fondata su un atto di fede. Un ebreo, un cristiano, una persona di qualsiasi
altra tradizione non la devono pagare. Dalla redazione della Costituzione di Medina, all'epoca del trasferimento di
Muhammad in questa città, era chiaro che ciascuno è sottomesso alla pratica della sua tradizione religiosa e deve essere
rispettato nella sua identità.

Nelle società musulmane, nel corso della storia, si è pensato a sistemi di tassazione differenziati e compensatori per
tutto quello che riguardava la solidarietà. A più riprese il califfo Umar ha aiutato ebrei e cristiani in difficoltà
economiche con i fondi dello Stato. Il sistema di aiuto e solidarietà fu pensato in funzione del contesto e l'adattamento è
la regola dal momento che rispetta il diritto delle minoranze di veder tenuto in considerazione il loro credo, protette le
loro pratiche religiose e riconosciuti i loro diritti. Questi includono, ovviamente, il diritto alla solidarietà sociale, del
quale ogni cittadino deve poter beneficiare in caso di necessità.

J.N. Ciò significa, in poche parole, che il non-musulmano non paga la zakah ma un'altra imposta dello stesso
ammontare e che servirà ad altro.

T.R. Non paga la zakah, ma si può pensare ad un'altra imposta ai fini della solidarietà sociale. Il Corano e la pratica del
Profeta fanno riferimento ad un'altra tassa chiamata jizyah che maldestramente è stata tradotta con "testatico". E' di
diversa natura rispetto a zakah e corrisponde alla partecipazione finanziaria delle minoranze in cambio della protezione
da parte dello Stato.

J.N. Una sorta di tassa militare per coloro che non prestano servizio nell'esercito?

T.R. Sì, esattamente. I membri di una minoranza religiosa non sono tenuti, in una società a maggioranza islamica, ad
impegnarsi militarmente per difenderla. Viene loro richiesta, quindi, una tassa militare in cambio della loro protezione.
Questo sistema è conosciuto in Europa. Numerosi governi l'hanno applicata in questo senso poiché la prelevano solo per
gli uomini adulti e non per le donne, i vecchi e i bambini.

In due casi l'uomo si vede dispensato dal versamento: o si impegna militarmente e allora la tassa non ha più ragione
d'essere, o lo Stato è incapace di assicurare la protezione dei suoi soggetti e non preleva questa imposta. Si conoscono
diversi casi riportati nella storia del diritto islamico in cui il governatore ha restituito le somme prelevate della jizyah
poiché non era in grado di rispettare il contratto della tassa militare in cambio della protezione.

Islam, religione senza sacramenti


J.N. Vorrei sottolineare una particolarità che non sempre viene percepita: nei cinque pilastri non c'è assolutamente il
concetto di sacramento nel senso in cui si trova in certe confessioni cristiane,un segno sensibile che comporta un
beneficio spirituale purché ci sia comunanza di fede tra colui che lo dà e colui che lo riceve. Questo non può essere un
simulacro.

Si entra a far parte di una Chiesa cristiana col battesimo anche se si è totalmente incoscienti, come lo sono i bambini,
battezzati molto prima dell'età della ragione. Se si confessano i peccati nelle Chiese cattoliche o ortodosse, si viene
immediatamente assolti.

Esistono riti analoghi nella fede musulmana?

T.R. Qui tocchiamo un punto molto sensibile riguardo alla differenza di concezione e di fede che esiste tra la religione
cristiana e quella musulmana. Per essere chiari, si tratta del rapporto tra il sacro ed il profano, del ruolo del sacramento,
appunto. Nell'islam questa distinzione non trova un corrispettivo della concezione cristiana. A partire dal momento in
cui mi ricordo di Dio, io accedo intimamente alla dimensione sacralizzata: il profano è semplicemente l'oblio ed il sacro
non ha bisogno di alcun sacramento. Ogni atto diventa sacro a partire dal momento in cui si fa nel ricordo dell'Altissimo
e non c'è alcuna cerimonia particolare che segna il passaggio dal profano al sacro. Si tratta semplicemente del passaggio
dallo stato naturale alla coscienza della creazione alimentata dall'idea della "sottomissione" di sé e degli elementi: tale è
il segno dell'entrata nel sacro. La linea di demarcazione è esteriormente molto tenue ma segna una disposizione
fondamentale dell'intimità: ogni atto, all'apparenza profano, diventa sacro, tramite lo stato di coscienza che lo produce.

Per quanto sorprendente possa suonare ad orecchie abituate alle categorie della filosofia occidentale, il prodotto della
facoltà della ragione è sacro nell'islam se è accompagnato dalla coscienza della presenza del Creatore. Le antitesi
conservate nella storia delle mentalità occidentali del tipo: fede opposta a ragione o religione opposta a razionalismo,
sono inoperanti nell'islam. L'antitesi fondamentale è qui ricordo opposto ad oblio. La fede o la ragione nell'oblio errano
o si perdono; la fede o la ragione, nell'intimità del ricordo, confermano e sacralizzano. Infatti, ogni atto della ragione o
contratto sociale al quale si è aggiunto il ricordo di Dio diventa sacro, senza bisogno di altro sacramento. Nell'islam non
c'è il sacramento del matrimonio poiché è un contratto tra due esseri i quali, stipulando le loro rispettive condizioni e il
loro accordo nel ricordo di Dio, includono il carattere sacro della sua applicazione.

Così avviene sul piano individuale. Non c'è bisogno di altra testimonianza che la sincerità del proprio cuore per passare
dal profano al sacro. Salutare il prossimo nel ricordo della trascendenza è diverso che salutare un amico nel campo
ristretto di una relazione riconosciuta e confermata. La formula del saluto musulmano, As-salamu alaykum wa
rahmatullahi wa barakatuhu, "Che la Pace, la Misericordia e la Benedizione di Dio siano con te", è un'altra cosa che
"Buongiorno!" o "Ciao!". Essa esprime il saluto-ricordo, il senso di una relazione ormai sacralizzata.

Le altre prescrizioni dell’islam


J.N. Occupiamoci ora delle altre prescrizioni, che non sono pilastri, ma che costituiscono comunque pratiche
importanti. Ne esistono seicentotredici nell'ebraismo. Nel diritto canonico della Chiesa cattolica ci sono
millesettecentocinquantadue articoli. Quante prescrizioni ci sono nel Corano?

T.R. Tutto dipende dai tipi di prescrizioni di cui si parla. Se per prescrizioni intendiamo gli articoli di diritto, ci
accorgiamo che esiste una divergenza tra i sapienti specializzati. Alcuni dicono che non ce n'è più di centocinquanta.
Altri avanzano la cifra di duecentoventi ed i più esaustivi nell'interpretazione dei testi arrivano a cinquecento o seicento.
Tutti concordano nel rilevare che, tutto sommato, il numero delle prescrizioni giuridiche è molto ridotto e che il Corano
prevede soprattutto, oltre alle prescrizioni di culto di cui abbiamo parlato, orientamenti generali che hanno bisogno di
un'intelligenza umana sempre attiva per poterli adattare ai cambiamenti di luogo e di epoca.

J.N. Parliamo di alcune di queste prescrizioni così come vengono percepite dall'esterno, per distinguere a quale livello
si situano. E' prescritto dal Corano? E' ammesso da tutti i musulmani? Oppure è un'espressione locale? Mettiamo da
parte tutto quello che riguarda la condizione della donna e parliamo prima del resto.

La macellazione rituale: c'è una carne che è halal. E' lo stesso sistema della carne kasher, cioè si dissangua l'animale
prima di ucciderlo.

T.R. Non è esattamente la stessa cosa della tradizione ebraica. Nell'islam c'è un rituale che prevede chiaramente che
non si può uccidere un animale senza aver prima invocato il nome di Dio. Si dice quindi: Bismillah, Allahu akbar, che
vuol dire: In nome di Dio, Dio è il più grande. Questo significa che non si uccide di propria iniziativa, senza ragione,
ma davanti a Dio con l'intenzione di nutrirsi. Questo ricordo, ancora una volta, ci pone nell'ordine della sacralità e
indica chiaramente che uccidere un animale, per un motivo diverso dal nutrimento, non è permesso salvo eccezioni,
come per proteggersi, ad esempio.

Rispetto alla prescrizione della carne halal, oggi si trovano, a grandi linee, due pareri giuridici. Alcuni sapienti dicono:
è necessario che i musulmani possano compiere quel tipo di macellazione e si può mangiare solo la carne sacrificata
secondo questo rito, sia che si tratti di manzo, montone, pollo o selvaggina (il maiale è assolutamente proibito in tutte le
sue forme). Altri sapienti, sulla base di un'interpretazione particolare dei versetti che si riferiscono a questa questione,
dicono che i musulmani possono mangiare la carne delle genti del Libro e che, al momento della consumazione, devono
semplicemente dire, Bismillahi ar-Rahman ar-Rahim, "In nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso.

Le divergenze riguardano diversi punti molto precisi: ad esempio il fatto di sapere se le genti del Libro restano genti del
Libro anche se non praticano o non credono in Dio. E' chiaro che esiste un margine d'interpretazione sul sapere ciò che
è prioritario nell'appartenenza. Altri elementi spiegano le divergenze e, di conseguenza, non esiste una posizione unica.

Ciò non ha nulla a che vedere con le dispute alle quali si assiste in diversi paesi riguardo all'etichetta halal apposta sulle
carni e che sono talvolta in relazione alla possibilità di disporre di un mercato economicamente interessante. La regola
qui è chiara: ci sono persone sincere che fanno un lavoro di controllo severo che bisogna incoraggiare ed altri che, per
cupidità o negligenza, gestiscono la situazione con il solo scopo di guadagnare. Dichiarano il falso sulla merce e
bisogna denunciarli.

Una parola ancora per la Svizzera dove si incontrano grandi difficoltà, poiché la macellazione islamica è proibita, per
cui la carne viene dall'estero. In questa situazione, ad esempio, alcuni sapienti hanno detto: poiché la macellazione
rituale non è possibile, a maggior ragione è consentito consumare la carne delle genti del Libro.

J.N. Questa prescrizione è osservata più o meno a seconda del grado di fedeltà del musulmano, un pò come il cibo
kasher presso gli ebrei? Alcuni mangiano kasher ed altri no. E' lo stesso tipo di relazione con la carne halal?
T.R. Alcuni cercano di rispettare le prescrizioni della loro religione e questo mi sembra una cosa buona. Così facendo
seguono l'avviso che a me pare il più appropriato, tanto più che è facile oggi procurarsi la carne halal. Altri decidono di
mangiare la carne di manzo o di altri animali autorizzati recitando la formula che ho ricordato. Ebbene, non sono
trasgressori dell'islam poiché alcuni sapienti ritengono che ne abbiano perfettamente il diritto.

J.N. Abbiamo ricordato poco fa la proibizione della carne di maiale, che avvicina l'islam alla pratica ebraica in questo
campo. Esiste dall'inizio. E' anche una prescrizione coranica. Ed è una proibizione assoluta. Del resto, è una proibizione
perfettamente comprensibile nel Medio Oriente, poiché i maiali si nutrono di rifiuti che trasmettono malattie. E'
evidente che riflettendo così razionalizzo come un occidentale. Lei percepisce qualcos'altro in questo divieto oltre a
quello che ho detto, cioè una ritualizzazione di una prescrizione igienica, un modo per evitare che il popolo si ammali?

T.R. Ogni prescrizione può avere due letture.

C'è una lettura di fede, potremmo dire, che si attiene alla considerazione che "è proibito perché Dio l'ha proibito" senza
alcuna interpretazione razionale. Si tratta, in breve, di riconoscere una prescrizione per quello che è.

Ci si può, del resto, inoltrare in altri tipi di interpretazione che per alcuni hanno un senso ed un valore. E' ciò che hanno
fatto molti sapienti musulmani che, come ha fatto lei, hanno spiegato obblighi ed interdizioni alla luce dell'igiene o
altro. Tuttavia non sono arrivati a sottomettere la prescrizione alla sola lettura razionale permettendo di rendere caduco
un divieto o un comandamento perché, ad esempio, il clima è cambiato. La ragione chiarisce ma non è la procedura che
conferma o smentisce la prescrizione. Quest'ultima non può essere ridotta alla sola razionalità, essa è partecipe di un
"rivelato" che la razionalità può relativamente comprendere ma che la oltrepassa.

L’ossessione del puro e dell’impuro


J.N. Vorrei che lei stabilisse un parallelo con un'ossessione che esiste nel giudaismo e specialmente tra gli integralisti:
l'ossessione del puro e dell'impuro. Hanno una lista interminabile di cose che sono pure e di cose che sono impure, di
gesti che si possono fare e di gesti che non si possono fare. C'è l'impurità della donna che ha partorito, l'impurità della
donna mestruata, l'impurità del morto o del malato. L'impuro implica chiaramente delle prescrizioni igieniche. Quando
qualcuno muore di peste o di lebbra, bisogna passare la calce nella casa.

Ma nella società d'oggi per alcuni ebrei è diventata un'ossessione. Dal punto di vista pratico non ha più molto
significato. Le prescrizioni del cibo kasher sono molto costrittive: anche se gli alimenti sono kasher, non li si può
cucinare in una pentola che ha contenuto cibi non kasher o in una pentola della quale non si è certi se essa abbia mai
contenuto altro che cibi kasher. Si ha la sensazione che le prescrizioni rituali siano totalmente sconnesse dalla realtà
d'oggi e che esse siano il risultato di una fedeltà ossessiva ad una pratica ancestrale. Questo tipo di ossessione si
sviluppa anche nell'islam?

T.R. Certo, c'è la preoccupazione di rispettare quello che è effettivamente proibito e quello che non lo è. Ma
l'ossessione della purezza fino a torturarsi lo spirito non traduce l'orientamento degli insegnamenti dell'islam. Bisogna
restare esigenti ma sempre in equilibrio tra l'intenzione sincera di fare il proprio meglio e la necessità di non appesantire
inutilmente la vita quotidiana con regole insormontabili.

Esiste una raccomandazione del Profeta che giustamente ci insegna a separarci da questa tendenza della tradizione
ebraica evitando le questioni inutili e spesso scabrose. Insomma, un musulmano, nel cuore della sua preoccupazione di
restare fedele, impara che la pace di un'intenzione sincera deve precedere e prevalere sull'ossessione del dettaglio
sospetto.

J.N. Quindi, a parte la proibizione del maiale, non ce ne sono altre che riguardano certi tipi di pesce?

T.R. Il maiale, quello che abbiamo detto sulla carne halal, le carni dalle quali non si sia lasciato uscire tutto il sangue.
Queste sono in concreto le prescrizioni fondamentali dell'islam.

La proibizione dell’alcol
J.N. L'islam ha potuto fare a meno dell'alcol.
Ci sono due modi di considerare l'alcol in Occidente. Prima di tutto è una disgrazia, bisogna ammetterlo. In certi paesi
mediterranei di tradizione cristiana, il fatto che la speranza di vita per gli uomini sia più corta che per le donne deriva
dall'abuso dell'alcol, spesso accompagnato dal tabagismo.

Ma esiste un altro aspetto dell'alcol: specialmente nei paesi latini, è sinonimo di convivialità, sinonimo di buon gusto,
sinonimo di artigianato, anche d'artigianato artistico in alcune rinomate località vinicole. Nel nord del Mediterraneo
esiste una cultura del vino. Vino, che è qualcosa di simbolico poiché per i cristiani in particolare, nel sacramento
dell'Eucaristia o nella Cena, rappresenta il sangue di Cristo.

Nel sud del Mediterraneo troviamo una cultura che adotta un atteggiamento esattamente opposto, con il beneficio
evidente che non vi è alcolismo. Per me, in quanto occidentale e in quanto cristiano, astenermi dal vino coinciderebbe
con una, per così dire, perdita della gioia di vivere. Faccio fatica a conciliare questa astinenza con l'immagine che mi
faccio dell'islam così concentrato sulla gioia di vivere e così poco incentrato sull'austerità.

T.R. L'islam non si oppone al benessere e alla gioia di vivere. Riguardo all'alcol la prescrizione è chiara, è nel Corano.
La proibizione è stata fatta in modo pedagogico nel corso di una decina d'anni. Dapprima è stato messo in evidenza il
fatto che ci sono più svantaggi che vantaggi nella consumazione dell'alcol. Il secondo versetto rivelato dice:"Non
avvicinatevi alla preghiera se siete ebbri, finché non siate in grado di capire quello dite". Infine la terza tappa, che è
l'ultima, introduce chiaramente la proibizione della consumazione. Per tutti i musulmani questa proibizione è chiara e
definitiva.

Dio solo sa se oggi, osservando quello che accade nel mondo, capisco ciò che significa il messaggio della prima fase:
per l'uomo, il bere reca più svantaggi che vantaggi. Inoltre si aggiunge un concetto fondamentale per il musulmano:
benessere non è sinonimo di oblio, di negligenza e di perdita della lucidità. Al contrario. La gestione sensata della vita
dovrebbe orientare l'uomo verso una gioia di vivere serena, dignitosa, umana. Insomma si tratta di esprimere, al fondo
della gioia, una certa idea che si ha dell'uomo. Trovare la gioia e il buonumore nell'oblio di sé e nella perdita della
lucidità è riconoscere una concezione molto povera, molto triste della vita, della gioia e del benessere interiore.

J.N. Lei ha enunciato i due punti di vista in base ai quali ci si può astenere dall'alcol. Ma, in un certo senso, è un gesto
di penitenza, un gesto di astinenza, un gesto di digiuno. E' una sorta di digiuno perpetuo?

T.R. No, assolutamente. Vorrei soprattutto sottolineare il fatto che c'è un'atteggiamento fondamentale nella percezione
islamica della vita, che si pone al livello dello stato di lucidità. Ciò che comunemente si può concepire come due stati
opposti, cioè la lucidità e la gioia di vivere, non hanno assolutamente questa connotazione nella tradizione musulmana.
Si può esser felici di esistere, senza dimenticare che si esiste e senza dimenticare questa lucidità dell'essere. Infine, la
sfida della gioia di esistere è di restare lucidi e di gustare intimamente e profondamente il piacere di essere qui. La
nostra concezione della vita si oppone al divertimento estremo in cui, poiché non si sopporta più di essere un uomo, si
finisce col cercare il piacere fine a se stesso, col rischio dimenticare anche i tratti fondamentali della nostra umanità e di
agire nel modo più insensato e più folle. Non soltanto come bestie, poiché bisogna dire che gli animali hanno più
dignità che certi nostri simili nel loro modo di vivere e di concepire il piacere e la gioia di vivere. Certi eccessi sono
spaventosi.

Preservare la propria coscienza, la propria lucidità, la propria profondità di cuore e dell'essere non vuol dire opporsi ai
divertimenti, alla gioia, al piacere. La Rivelazione e Muhammad ci insegnano a non dimenticare la nostra parte di
benessere in questa vita. Infine, direi che la dignità del divertimento sta nel fatto di non essere oblio pur producendo
benessere.

J.N. Vorrei citare un aneddoto che mi è stato raccontato da Jean Crettenand, un esperto enologo svizzero, a proposito di
un collega tunisino che egli stima molto e che lo va a trovare di tanto in tanto. Il rituale della degustazione del vino,
anche qui per un enologo occidentale, è un rituale in cui non si assimila vino: lo si mette in bocca, lo si annusa e poi lo
si sputa. E' una procedura assolutamente rigorosa e che permette di valutare la qualità di un vino proprio come se lo si
bevesse. Se al termine di una seduta di degustazione condotta in questo modo, si facesse un prelievo di sangue, non vi si
troverebbe alcol. Il collega tunisino, che ha un atteggiamento molto purista in questo campo, annusa, ma si rifiuta di
mettere addirittura l'alcol in bocca. E' lì la frontiera? Il peccato inizia nel momento in cui si mette l'alcol in bocca, anche
se non si deglutisce, per avere semplicemente il gusto?

T.R. Bisogna stabilire un limite. Il consumo di alcol è proibito nell'islam ed è chiaro che c'è un rischio a mettere in
bocca un liquido il cui consumo è severamente proibito. L'uomo in questione agisce dunque con saggezza e logica.
J.N. Allo stesso modo in cui lei ha misurato il grado di fedeltà rispetto ai pilastri, qual è il grado di fedeltà del
musulmano riguardo alla proibizione dell'alcol, sia in un paese musulmano che qui in Europa?

T.R. Bisogna distinguere le situazioni. Nei paesi a maggioranza musulmana si osserva una grande fedeltà a questa
prescrizione, per il fatto che il commercio del vino è molto circoscritto. Si trova in alcune regioni dei paesi musulmani,
in particolare nell'Africa del Nord, ma non è la maggioranza.

Tra i giovani della seconda, terza, perfino quarta generazione che vivono in Occidente, la percentuale di consumo è più
elevata. Questo aumenta ovviamente nelle periferie e nei quartieri dove i giovani non hanno un inquadramento sociale
né un'educazione religiosa. Vi si trova anche un consumo notevole di droga. Alcuni che evitano l'alcol non evitano la
droga.

J.N. Vorrei ricordare lo stato del non-musulmano in un paese a maggioranza musulmana. Conosco la situazione in
Marocco e in Tunisia, dove la cosa non costituisce un problema. Ci sono vigneti ed il turista straniero può bere vino,
che tra l'altro è eccellente. Al contrario, in Arabia Saudita, c'è la repressione più totale. Il non-musulmano che consuma
alcol, subisce una punizione.

T.R. Lei cita l'Arabia Saudita: bisogna dire che la gestione politica di questo paese è tutto quello che c'è di più torbido
nei confronti di tutti gli stranieri e tra loro i musulmani, in particolare i Filippini ed i Pakistani; ciò non tocca soltanto le
minoranze religiose, non dimentichiamocelo. Facendo riferimento ad una tradizione del Profeta che dice:"Non ci
saranno due religioni nella penisola arabica", il governo applica una gestione a suo dire fedele alla lettera della
suddetta tradizione ma che in realtà, applicata in tal modo, è un tradimento dell'insegnamento fondamentale dell'islam.

In città come La Mecca e Medina, che sono centri religiosi particolarmente sacri, è legittimo rispettare la specificità del
culto musulmano. Ma dal momento che si fanno arrivare stranieri di altre religioni altrove nel paese, che li si installa per
vivere e lavorare, è islamicamente inconcepibile che si impedisca loro di praticare la propria religione. E' il minimo di
libertà che è loro dovuta. E questo per quanto riguarda il quadro generale. Quanto al consumo d'alcol, non si può
impedire a donne e uomini di consumarlo in forma privata ed è inconcepibile punirli per uno sbaglio che non è tale per
la loro coscienza. Dal momento che rispettano la società in cui vivono, hanno diritto alla loro libertà di coscienza, di
pratica e di consumo con la clausola, conosciuta nelle società europee, di non disturbare l'ordine pubblico secondo i
criteri della suddetta società.

Per l'alcol, come per tante altre cose, il governo saudita rivela le sue contraddizioni e le sue ipocrisie. Reprime e punisce
i più poveri e gli stranieri, Pakistani, Filippini o altri, applicando una chiara discriminazione di fronte alle altre religioni
per legittimare la sua apparente gestione "islamica", mentre certi principi continuano ad avere un vero e proprio
commercio immorale, dove l'alcol, la prostituzione ed i video più osceni contendono il posto alle trattazioni finanziarie
più dubbie ed oscure. Una vergogna taciuta da molti regimi in Occidente che la tollerano e, addirittura, la sostengono, in
nome di interessi economici e politici. Noi tutti, sia musulmani che occidentali, non ne usciamo bene ed il silenzio non è
il migliore esempio della nostra dignità. Quanto alla sua domanda, bisogna essere chiari: è escluso nell'islam, sul piano
della pratica religiosa, proibire a una persona di una data confessione di consumare una bevanda o un alimento che non
è proibito dalla sua religione.

Le droghe e il tabacco
J.N. Lei ha accennato poco fa al problema della droga. L'atteggiamento del musulmano riguardo alla droga è uguale per
estensione a quello riguardo all'alcol?

T.R. Sì. I sapienti sono andati per analogia. Dapprima hanno desunto dal testo coranico i principi essenziali sui quali si
fonda l'insieme delle prescrizioni islamiche legate alla proibizione e all'obbligo.

Sono stati messi in evidenza cinque principi: la protezione della religione, la protezione dell'integrità della persona, la
protezione del suo spirito, la protezione della sua famiglia (figli, genitori, eredità, ecc.) e infine la protezione dei suoi
beni. Sulla base di questi principi e dei loro orientamenti si è potuto legiferare sulle situazioni nuove, sconosciute
all'epoca del Profeta. La proibizione dell'alcol dipende dai danni che questa bevanda può produrre sullo spirito e sulla
salute, ed è chiaramente anche il caso della sigaretta e delle droghe: per analogia e per estensione, sono quindi
considerate proibite. I giuristi hanno a volte avuto opinioni divergenti sul grado della proibizione: certi hanno usato il
termine haram, "proibito", altri makruh, "detestabile", poiché esiste un certo timore tra i sapienti ad utilizzare il termine
haram. E' piuttosto una questione di terminologia, ma il punto è che sia la sigaretta che la droga sono considerate
proibite. Ciascuno è debitore davanti a Dio del modo in cui mantiene il suo corpo e la sua salute, doni che il credente ha
il dovere di rispettare. Sul piano legislativo dunque, questo modo di procedere esige un'applicazione fedele e razionale
per ogni nuova situazione, per ogni nuovo prodotto.

J.N. Comunque questa prescrizione è recente, perché anche in Occidente trenta o quarant'anni fa, nessuno si rendeva
conto dei danni provocati dalla sigaretta. Quando all'epoca, ho visitato la Turchia, il Maghreb, il Libano, ho visto che la
gente fumava, e molto.

T.R. Certo. E' un costante lavoro di analisi e adattamento. La scienza e la medicina ci informano sui nuovi prodotti e le
loro conseguenze sul piano umano o fisico; bisogna dunque legiferare con cognizione di causa. Non ci si deve fermare
solo alla droga o alla sigaretta. Il discorso si amplia anche alle medicine, che sono sottoposte alla stessa metodologia,
sia che si tratti di neurolettici, antidepressivi, sonniferi, ecc. Ogni prodotto si vede attribuire un valore etico riguardo
alle sue diverse utilizzazioni e conseguenze. Sapienti e medici musulmani lavorano insieme, come nel caso dei diversi
campi delle scienze e del sapere per orientare verso il benessere e premunirsi dagli eccessi.

I sacrifici rituali

J.N. I sacrifici di animali per l'Aid-el-kabir pongono regolarmente dei problemi in Occidente, perché l'animale deve
essere ucciso dal padre della famiglia. C'è un conflitto con le esigenze di igiene imposte all'estero ai mattatoi. Che cosa
ne pensa?

T.R. Il sacrificio è un atto raccomandato (sunnah) e non è obbligatorio in senso stretto. Non è per forza il padre che
deve sacrificare e del resto capita molto spesso che sia la donna ad occuparsene

Si incontrano effettivamente dei problemi in Francia o in Belgio, mentre le cose sono meglio organizzate in Inghilterra.
Molti musulmani insistono sul fatto di poter praticare il sacrificio del montone in memoria del sacrificio d'Abramo, e
vorrebbero farlo in condizioni dignitose e igieniche. Non trovando luoghi appropriati, alcuni lo fanno in modo
disordinato e senza tante precauzioni. Nell'islam è proibito far soffrire gli animali ed è necessario compiere questo
rituale con ponderazione, dignità e ordine. Bisogna individuare le condizioni migliori per farlo e perciò promuovere un
dialogo tra i musulmani e le collettività locali per gestire a dovere il problema. E' triste e grave vedere esponenti di
partiti di estrema destra, come in Francia con le proposte di Brigitte Bardot, strumentalizzare questo disordine per
cercare di confermare il fatto che i musulmani sono dei veri e propri "macellai" avidi di mattanze e di sangue.

Le associazioni che difendono i diritti degli animali hanno ragione su un punto: non si possono lasciar fare le cose
nell'anarchia. Ma vanno troppo lontano quando affermano che è una pratica da bandire.

Quanto ai musulmani, hanno a volte il torto di percepire dalla critica solo il fatto che, ai loro occhi, "la gente non ama
l'islam". La realtà è che bisogna garantire i diritti dell'animale, gestire il sacrificio a livello locale e fare in modo che, nel
pieno rispetto della pratica islamica, vengano garantite le condizioni di igiene e di buona organizzazione.

Secondo me solo il dialogo permetterà di fare dei progressi e credo che le responsabilità ricadano su tutti quanti. Si può
allo stesso tempo rispettare la convinzione dei musulmani e il diritto degli animali. E' soprattutto una questione di
volontà politica.

Un’applicazione ragionevole delle prescrizioni


J.N. Insomma, lei enuncia qui un grande principio: lasciando da parte i cinque pilastri, le altre pratiche, la sunnah,
obbligano il musulmano nella misura in cui ci si può conformare, nella misura in cui la società è pronta ad accettarla.
Perciò non deve mostrarsi intransigente su queste prescrizioni. E' giusto?

T.R. In ogni situazione la misura è sempre quella della necessità e questo vale anche per i cinque pilastri. Abbiamo
visto che ci sono delle estensioni nell'adattamento. Nella nostra pratica è un principio che esige, in ogni cosa, il fatto di
restare ragionevole. E' la coscienza dell'uomo che gli permette di sapere in quale momento bisogna essere ragionevoli.
La necessità detta legge nell'islam; ad esempio, se si è in pericolo di morte, diventa obbligatorio mangiare maiale o bere
alcol se questo ci può salvare la vita. La protezione della vita ha priorità sul rispetto delle prescrizioni, se questo rispetto
può portare alla morte.

Ci è chiesto di cercare di rispettare tutti gli obblighi ma dobbiamo sempre tener conto del contesto della vita, e questo
per rispettarli nel modo migliore. Allo stesso tempo si cerca di adattarli se necessario o di pensare a ordinarli per fasi.
Ciò non vuol dire che si corre il rischio di rinunciare alla pratica, cosa che certi musulmani, a volte, possono essere
spinti a fare. No. Si tratta di essere coscienti dell'importanza della prescrizione, rispettando il contesto ed il quadro nei
quali si vive. Con il dialogo le cose si aggiustano. Non riesco ad immaginare un contesto, se non in un sistema di
dittatura intransigente, nel quale non si arriva a trovare un terreno d'intesa. Bisogna dialogare. Bisogna conoscersi
reciprocamente.

J.N. Sono molto colpito da quello che lei dice sul carattere ragionevole che si deve adottare nell'osservare le
prescrizioni. Anche nel primo pilastro, la testimonianza di fede? Se un musulmano cade nelle mani di un pagano, può
scegliere tra abiurare ed essere ucciso? O è tenuto ad accettare il martirio?

T.R. No. Deve, anche in questa circostanza, fare atto di "ragionevolezza", se così si può dire. In pericolo di morte, sotto
la persecuzione, può dire con la bocca ciò che non è nel suo cuore, per preservare la sua vita. Ciò facendo, non
commette peccato e quello che ha dovuto dire per salvarsi non conta davanti a Dio. Ogni atto fatto sotto costrizione non
è considerato da Dio per ciò che appare. "Egli conosce il contenuto dei cuori".

J.N. Questo è contrario alla pratica del cristianesimo ai suoi albori, quando numerosi martiri sono morti in circostanze
atroci per aver rifiutato di osservare il culto dovuto agli imperatori romani. La stessa situazione è stata vissuta anche nel
giudaismo. Al tempo dell'occupazione di Israele da parte dei Greci durante gli ultimi due secoli prima della nostra era,
ebrei sono stati martirizzati solo per aver rifiutato di mangiare maiale e questa fedeltà alla fede nel suo aspetto più
rituale è stato considerato esemplare.

Nell'islam non c'è un desiderio di martirio? Un musulmano non diventa perfetto essendo martire? Non è questo
l'obiettivo?

T.R. Non c'è il culto del martirio fine a se stesso e non per quello che riguarda la sola pratica.

Il martirio resta comunque una dimensione importante nell'islam nel quadro della resistenza contro l'oppressione, contro
la tirannia, per la protezione del proprio essere e/o della propria terra. Questa è la testimonianza vera della fede.
Dapprima si devono prendere in considerazione tutti i mezzi pacifici e tutte le soluzioni possibili, ma quando non ci
sono altre vie d'uscita bisogna accettare di difendere la propria fede, la giustizia, la libertà a costo della vita. Il martirio
fine a se stesso è proibito perché, in fondo, si tratta di una forma di suicidio; ma il martirio per difendere la propria
convinzione quando è oppressa, la libertà quando è negata, la giustizia quando è conculcata, allora sì. Questa è la vera
testimonianza, ash-shahada, il segno della sincerità e della profondità.

J.N. Per fare un contrasto, vorrei ricordare una delle grandi personalità del cristianesimo, Teresa d'Avila, una grande
santa ed una delle quattro donne dottori della Chiesa cattolica. Quando ha compiuto tredici anni, aveva una sola idea in
testa: andare con suo fratello in Marocco per farsi martirizzare.

Esiste nel cristianesimo soprattutto latino un'attrazione per il martirio. Si cerca il martirio perché in esso si ha almeno la
certezza di essere salvati. Nella mentalità cristiana l'incertezza sulle condizioni della salvezza personale è molto pesante
se raffrontate alla mentalità musulmana.

CAPITOLO 3

LA POSIZIONE DELLA DONNA NELL'ISLAM

Un argomento di contraddizione e di malintesi


argomento che non si può aggirare. In qualsiasi società l’esame di questa condizione permette di scoprire i punti di
forza e di debolezza, sia perché la metà degli esseri umani sono donne, sia perché la posizione della donna permette di
capire la famiglia, che resta la struttura fondamentale di tutte le società. Permette di verificare in quale misura
l'uguaglianza di tutti gli esseri umani è enunciata e rispettata.

Nel caso dell'islam l'argomento è particolarmente delicato perché l'Occidente nutre un sospetto generalizzato sulla
condizione nella quale è tenuta la donna musulmana. Certo, si dovrà fare la distinzione fra quello che raccomanda il
Corano, la sua applicazione concreta nelle diverse società islamiche e infine l'immagine che l'Occidente si fa di questa
condizione.

In partenza ci sono certamente una serie di malintesi, di contraddizioni e di paradossi. A titolo d'esempio l'islam gode
della curiosa reputazione di essere allo stesso tempo lassista e rigoroso in materia di sessualità.

Quando l'Occidente riscopre l'islam nel XVIII secolo, la spedizione di Napoleone in Egitto è stata un appuntamento
mancato. Ufficiali e sapienti riportano un'immagine della donna tale che i viaggiatori scapoli possono sperimentarla.
Questa esperienza limitata ha creato in Occidente l'idea di un paese di sogno in cui le donne sono seduttrici e
voluttuose. Tutta la pittura del XIX secolo, Ingres ad esempio, fa allusione a questo Oriente mitico e voluttuoso. Non è
più di moda scegliere i temi della mitologia greco-romana: l'Oriente serve da mito di sostituzione.

Durante questo secolo, man mano che i paesi arabi acquistano la loro indipendenza e la loro autonomia, l'Occidente
stupefatto scopre che i paesi islamici sono al contrario molto severi. Di là nasce un atteggiamento di dubbio e di
sorpresa: l'islam è più o meno repressivo nella sessualità che il cristianesimo? I musulmani sono libertini o puritani?
L'eccesso stesso delle qualificazioni, l'oscillazione tra due estremi mostra la difficoltà di farsi un'idea semplice e chiara.

Prendiamo il caso della poligamia, che rappresenta nell'immaginario degli occidentali la grande differenza tra cristiani e
musulmani per quanto riguarda la condizione della donna. Consideriamo Luigi XIV, il re cristianissimo, sposato a una
sola donna alla quale, si deve pensare sia fedele, ma che mantiene una serie di favorite, con le quali ha figli riconosciuti
e nobilitati secondo un costume ben stabilito: essere di sangue blu ha la priorità sulle condizioni di legittimità. I bastardi
di re e nobili cristiani occupano dappertutto posizioni importanti nel governo, nell'esercito e nel clero. In pratica Luigi
XIV mantiene un harem che non è molto diverso da quello del suo collega d'Istanbul, il sultano degli Ottomani. L'unica
differenza è che da parte turca è ufficiale e da parte francese è ufficiosa, cioè è allo stesso tempo fuori legge e conforme
ai costumi. Nessun sultano ha mai immaginato che il fatto di avere un harem potesse costituire un peccato morale. Al
contrario Luigi XIV soffriva grandi angosce. In occasione dei suoi spostamenti l'accompagnava un prete per confessarlo
nel caso avesse un incidente. Sul letto di morte, una delle sue ultime parole al suo erede, il futuro Luigi XV, è stata di
dire che soffriva molto, ma che desiderava soffrire ancor più per espiare tutti i peccati di vanità e di sensualità che aveva
commesso. Un discorso del genere sarebbe inconcepibile sulle labbra di un sultano: egli muore rimpiangendo i piaceri
di cui la morte lo ha privato.

Riassumendo, si può dire che l'Occidente cristiano proclama un grande rigore ma consente tutte le eccezioni che lo
rendono sopportabile mentre nell'islam le esigenze sono più realiste ma più rigide? La posizione cristiana è
massimalista, quella islamica è minimalista; la legge è considerata nel primo contesto come il soffitto e nel secondo
come il pavimento.

Gli occidentali fraintendono questo realismo islamico unito ad una fedeltà ferrea. E' questo paradosso che rappresenta la
grande differenza d'atteggiamento delle due culture di fronte alla donna?

TARIQ RAMADAN Se si giudica in base al testo del Corano e in base a come vivono effettivamente i musulmani, la
relazione tra l'uomo e la donna è all'insegna del rigore. Ma non ci si può fermare a questa sola constatazione. Quando si
tratta l'argomento della donna nell'islam, bisogna far la differenza tra quanto si trova nei testi, e che costituisce il
riferimento per i musulmani, e le cose che avvengono nelle società a maggioranza islamica e che spesso non sono, ed è
il meno che posso dire, in accordo con le fonti scritte.

Ci sono spesso gravi equivoci nel dibattito sulla donna nell'islam a causa di questa confusione che lascerebbe credere
che le società musulmane sono l'esatta riproduzione degli insegnamenti del Corano e della sunnah. Come lei può ben
immaginare sono spesso interpellato a questo proposito ed accade che, quando parlo dei riferimenti, mi si chieda della
condizione nella società e a sua volta, quando propongo un'analisi più sociologica, si citi un testo tratto dal Corano...
Bisogna dunque separare i problemi e sapere di che cosa si parla esattamente.

E' necessario portare avanti i due procedimenti in modo complementare e allora si avrà una visione più chiara della
questione della donna nell'islam in quanto tale e delle società islamiche oggi. Bisogna aggiungere che, a monte di questa
questione fondamentale, il dibattito si apre sulla concezione specifica dell'essere, della coppia, della famiglia e più
ampiamente della società.

J.N. Attraverso tutti gli aspetti che si considereranno ora, sarà necessario far la distinzione tra ciò che l'islam richiede e
ciò che gli uomini ne fanno. Nell'Occidente cristiano esiste la stessa differenza. Può anche darsi che l'abisso tra l'ideale
cristiano e la realtà sia più grande che nell'islam.
La tragicommedia laica del foulard islamico
Proporrei di affrontare questo argomento partendo da un particolare, che ha fortemente colpito l'opinione pubblica
occidentale: il fatto di portare il foulard islamico ed indossare più in generale abiti molto coprenti, obbligatori in certi
paesi islamici. Non in tutti, comunque. Ma l'abbigliamento bizzarro delle donne afghane è chiaramente considerato
umiliante e degradante: non possono uscire dalle loro case se non bardate da una sorta di garitta di tessuti, orientandosi
nel loro cammino attraverso una griglia che permette loro giusto di respirare e di vedere, il che deve essere
particolarmente opprimente in un paese caldo. E questo lascia intendere che i talibani, che pretendono di essere studenti
di teologia, considerano la donna come un essere pericoloso al punto che il solo aspetto possa minare le basi della
società islamica.

D'altra parte devo dire che il dibattito fatto in nome della laicità sulle giovani musulmane che portano o desiderano
portare il foulard nelle scuole francesi, non lo condivido. Anzi. Questa intransigenza è specifica della laicità francese
mentre c'è maggior tolleranza in altri paesi dove nessuno pone questo tipo di problemi. Se si vuole introdurre alla laicità
e alla modernità una giovane maghrebina, non è con l'espulsione scolastica che ci si arriva, al contrario. Anche là c'è un
atteggiamento intollerante da parte francese, simmetrico a quello dei talibani. Né gli uni, né gli altri permettono alle
giovani di vestirsi come vogliono.

Consideriamo ora la posta in gioco del conflitto: una famiglia maghrebina sa che dovrà vivere definitivamente in
Francia, non ha alcuna speranza di ritornare. La ristrettezza di spirito della società francese impedisce di integrare le
giovani nella scuola accettando che esse portino il foulard come la famiglia musulmana desidera. Anche se
l'aggressione iniziale proviene dalla società francese, la reazione della famiglia maghrebina resta inquietante. Si
rassegna a non dare un'istruzione alla figlia piuttosto che transigere su un dettaglio, che ha comunque un'aria un pò
formalista. La salvezza spirituale di una donna musulmana non dipende dal velo. E' proprio necessario trasformare
queste giovani in martiri per un'attenzione esagerata ad una pratica rituale secondaria? Che cosa ne pensa?

T.R. La questione del foulard pone diverse problematiche. Prima di tutto precisiamo la terminologia: facendo
riferimento al testo coranico e tenuto conto della comprensione che bisogna avere dell'abbigliamento della donna, mi
sembra che il termine più appropriato sia "foulard". Il termine "velo" porta con sé una connotazione molto negativa,
mentre chador è il riferimento persiano (sul piano terminologico come su quello dello stile) del modo di portare il
foulard.

Essere chiari sulla terminologia è importante perché si percepisce subito, anche quando si parla con giornalisti e
provveditori scolastici, che spesso questi termini vengono confusi... Portare lo chador significa sostenere il potere
iraniano, difendere il "velo" che per estensione "velerà" e "nasconderà" tutto delle donne, come avviene in Afghanistan.
Il termine utilizzato dice molto della rappresentazione che si ha di ciò che le donne portano per nascondere i loro capelli
e che in francese è comunemente chiamato foulard.

La questione del foulard ha rivelato, a mio avviso, due cose. La rappresentazione, l'immagine che si ha dell'islam e delle
donne musulmane è al centro dell'attenzione e particolarmente in questi ultimi anni in cui vedere musulmani in Europa,
ed in particolare in Francia, è una novità. Su questo punto le responsabilità sono di entrambi: c'è una chiara mancanza di
comunicazione da parte dei musulmani riguardo alla spiegazione della loro religione e delle loro pratiche, ma esiste
anche nelle società europee una grande ignoranza, mescolata a tanti a priori e pregiudizi... Questi due fenomeni
impediscono il dibattito profondo e circostanziato del quale abbiamo bisogno oggi.

I musulmani devono rendersi conto che, nel loro nuovo contesto che è l'Occidente, devono raddoppiare le spiegazioni.
La secolarizzazione ha provocato una sorta di oblio di ciò che può significare un atto di fede ed infatti la sola pratica ha
tendenza ad essere considerata fuori norma o al limite del comportamento "normale", ossia abituale perché divenuto
maggioritario. E' il caso del foulard che indossato è talmente inusuale che diventa in sé l'espressione di una sensibilità e
di una pratica radicali, perfino estremiste dell'islam. Nell'ardore del dibattito è stata dimenticata e trascurata la
dimensione dell'atto di fede, la dimensione spirituale dell'essere. Si assiste ad una sorta di rappresentazione unica di che
cosa è la libertà: le nostre società, a furia di rappresentazioni sofisticate del "benessere", ci hanno insegnato che questa
libertà risiede nel "fa' quello che ti piace". La fede, la spiritualità ci orientano verso una dimensione esigente della
libertà che è ancorata nell'intimità al "sii quello che ti piace". S’incontrano dunque due rappresentazioni che devono
trovare i mezzi di una comunicazione rispettosa ed egualitaria. Non è semplice.

In Francia alcune giovani contro il parere dei loro genitori dicono: è quello in cui credo ed è l'espressione della mia
fede. Chi dunque, al mondo, può arrogarsi il diritto di giudicare un atto che ha le sue radici nel cuore e nella coscienza
di un essere umano? Sono sorpreso che in nome di una concezione di libertà ci si possa arrogare il diritto di diventare
un dittatore intransigente della coscienza altrui. Qui si toccano questioni delicate. Si deve impedire di giudicare un altro
solo attraverso la rappresentazione che ci si è fatti di lui. Bisogna ascoltare le donne che decidono di coprirsi da loro
stesse e per propria scelta. E' da questo punto di partenza che comincia il vero dialogo pluralista ed egualitario in una
società.

Penso che i termini del dibattito sul foulard siano mal posti dall'origine. Si sono scontrate due rappresentazioni
caricaturali. Da una parte, c'era la rappresentazione di un islam fortemente integralista poiché offriva un tipo di pratica
visibile in totale contrasto con le società nelle quali la percentuale media dei praticanti non oltrepassa il 10%. Dall'altra,
alcuni musulmani si sono irrigiditi nella certezza di vivere in un ambiente ostile che rifiuta la loro religione e che li
considera sempre come stranieri. Bisogna risalire a questo livello per comprendere il carattere emotivo e passionale che
ha assunto questo dibattito, per esempio, in Francia.

E' necessario dunque tornare all'essenza del problema. Le posizioni si sono irrigidite e bisogna impegnarsi in un lavoro
profondo di pedagogia e di educazione. E' necessario andare oltre gli atteggiamenti passionali e spesso ciechi. Non si
può accettare e legittimare l'atteggiamento di certi musulmani e di certe musulmane che demonizzano il loro ambiente
sulla base di quest'unico problema. Non vogliono più sentir parlare di scuola, di partecipazione, di concertazione.
Rifiutano il dialogo ed il loro silenzio conferma la rappresentazione che si ha di loro: "Sono chiusi, duri, integralisti".
Non si può più tacere di fronte a certi atteggiamenti arroganti, nel cuore delle società europee, di certe correnti di
pensiero persuase di detenere il monopolio della modernità, della libertà e del giusto in nome del loro concetto di
universale. Questi atteggiamenti impediscono il dialogo ancor prima di iniziarlo. E' anche una questione di psicologia
sociale riguardo all'incontro di due universi religiosi e culturali che devono familiarizzarsi o, in ogni caso, rispettarsi, e
il rispetto passa attraverso la conoscenza dei principi dell'altro.

Molti si sono impegnati in questo lavoro; bisogna riconoscere che le iniziative per il dialogo sono numerose. Esse
partono da una posizione di principio che deve essere condivisa: imporre ad una giovane o ad una donna di portare il
foulard non è né accettabile né islamico; imporre ad una giovane e ad una donna di toglierlo è allo stesso modo
inaccettabile, e in disaccordo con i diritti dell'uomo.

La cosa è semplice. Il dialogo deve poi impegnarsi in profondità sulle rappresentazioni ed i significati che si danno
rispettivamente alle nostre pratiche. Bisogna occuparsi anche del campo del diritto che, quasi sempre, è più aperto e
rispettoso delle libertà individuali e collettive di quanto abbiano a dire alcuni che leggono le leggi del loro paese
attraverso il prisma della loro raffigurazione di ciò che è "accettabile" o no dell'altro. Confondono i campi, perciò
dobbiamo distinguere in modo chiaro il dibattito sul diritto della riflessione religiosa e filosofica. Siamo andati molto
avanti in questo senso, in particolare nella commissione “Laicità ed Islam” della Lega dell'Insegnamento francese della
quale faccio parte. Le cose avanzano lentamente, ed è normale, ma nella giusta direzione.

J.N. Del resto bisogna ricordare che in Francia non era mai stato impedito né alle giovani cristiane di portare una
collana con la croce, né alle giovani ebree di portare la stella di David. Nel 1994, François Bayrou, ministro
dell'Istruzione in Francia, ha raggiunto il ridicolo pubblicando una circolare che faceva la distinzione tra "segni religiosi
ostentati" che erano proibiti e "segni discreti" che venivano ammessi. Nel 1996 il Consiglio di Stato ha annullato questa
distinzione troppo soggettiva per costituire una base giuridica valida ed ha autorizzato il foulard. Questo non impedisce
ad alcuni insegnanti di continuare una guerriglia contro le giovani musulmane velate. Dunque, si manifesta, sotto le
sembianze della neutralità e della laicità, una forma di discriminazione nei confronti di una testimonianza religiosa, che
è assolutamente sorprendente. In pratica, questo significa che una ragazza francese può mostrare di essere cristiana,
eventualmente ebrea, ma non musulmana. O ancora, che un segno di appartenenza religiosa è tollerato purché sia così
discreto da non notarsi: va bene per una catenina al collo con appesa una croce, una stella o la mano di Fatima. Al
contrario, la minigonna aggressiva viene accettata perché costituisce una dichiarazione di libertà di costumi: essa è
politicamente corretta nei confronti della laicità.

In quanto cristiano, ogni volta che ho visto una ragazza perseguitata in nome della sua testimonianza dell'islam, il fatto
ha interrogato la mia cattiva coscienza di cristiano troppo discreta. Ma io mi manifesto abbastanza come cristiano?
Oppure mi infilo per viltà nello stampo della secolarizzazione, che diventa una specie di muto consenso in cui tutte le
religioni si equivalgono perché nessuna va veramente a fondo? Si sa ancora che sono cristiano?

Per il resto, mi unirei volentieri alla sua conclusione. Dopo tutto, sta alle ragazze ed alle donne di vestirsi come credono,
purché non siano indecenti o provocanti al di là dell'uso socialmente accettato del loro fascino. In una delle scuole che
professano la laicità e fanno a gara in intolleranza religiosa, se una ragazzina viene in classe con i capelli tinti di verde,
un anello al naso e una minigonna cortissima, non si osa fare il minimo rimprovero per timore di sembrare retrogrado.
Se si presenta con un foulard sui capelli, la si caccia via. Il colmo è stato raggiunto nel febbraio 1999, quando alcune
ragazze espulse per via del foulard, hanno beneficiato di un'eccezione: potevano tornare in classe con i capelli coperti da
un berretto ma non da un foulard. L'odioso qui contende il posto al grottesco.

Alla fine la laicità stessa diventa una religione che non tollera la concorrenza con le altre religioni. Sotto la parvenza
della tolleranza, essa diviene totalmente intollerante. Senza neppure rendersene conto, opera discriminazioni tra le
religioni tradizionali nella società, il cristianesimo ed il giudaismo, in qualche modo religioni normali, e una religione
importata, l'islam, la cui visibilità è accentuata dalla sua novità.

L’istruzione delle ragazze nell’islam


Dopo la parentesi del foulard, veniamo a questioni più importanti. Parliamo dell'istruzione. Qual è l'atteggiamento
dell'islam riguardo all'istruzione femminile? C'è una discriminazione tra l'istruzione data ai ragazzi e quella data alle
ragazze? Nelle scuole coraniche che ho visitato in Marocco, dove ho effettivamente scoperto ragazzini ripetere il
Corano per impararlo a memoria, le ragazze sono ugualmente ammesse?

T.R. E' in un campo importante come questo che bisogna davvero fare la distinzione tra quello che dicono i testi e
quello che accade nella realtà. In molti paesi musulmani - ma direi che non è per il fatto che sono musulmani che
accadono queste cose - la percentuale di alfabetizzazione delle donne è molto inferiore a quella degli uomini.

Dal punto di vista islamico è chiaramente inaccettabile. I testi fondamentali dell'islam non possono suffragare in nulla
questo stato di fatto, tanto essi sono espliciti sulla necessità di istruire le donne. L'istruzione, il sapere, l'intelligenza
fanno parte dell'identità della musulmana e del musulmano. Il Profeta dell'islam è molto chiaro a questo proposito: La
ricerca del sapere è un obbligo per ogni musulmano ed ogni musulmana. Inoltre ha affermato che colui o colei che
educherà sua figlia allo stesso modo che suo figlio, sarà protetto dal castigo dell'altra vita. Le tradizioni che
confermano ciò sono numerose e rientrano tutte nell'idea globale, per l'uomo come per la donna, che un sapere vasto è
la condizione per una fede profonda.

Il testo coranico è chiaro: Coloro tra i servitori di Dio che Lo temono di più (nel senso di timore reverenziale) sono i
sapienti. L'uomo e la donna devono seguire lo stesso cammino di conoscenza rispetto al Creatore. L'istruzione è
fondatrice dell'identità musulmana ed il miglior esempio è proprio la moglie di Muhammad, Aisha, che ha trasmesso
molte tradizioni, istruito tante generazioni e che, durante la sua vita, è rimasta un punto di riferimento in materia di
conoscenza religiosa.

Resta il fatto che, tra questo insegnamento fondamentale e la realtà delle società islamiche oggi, il divario è immenso.
L'ignoranza delle donne così come è diffusa e a volte mantenuta oggi, è uno dei più grandi tradimenti del messaggio
dell'islam. E' del resto il campo in cui la discriminazione delle donne è più forte. Non si può negare questo fenomeno e
certamente bisogna impegnarsi per opporsi e riformare i sistemi educativi e le rappresentazioni sociali. Molte donne
musulmane si battono oggi per i loro diritti con questa particolarità, ancora poco compresa in Occidente, che consiste
nel dire:"E' in nome dell'islam e dei diritti che ci dà, è in nome della nostra identità di musulmane, che noi lottiamo
contro le discriminazioni delle quali siamo oggetto nelle nostre società".

J.N. Da quello che so, nelle università egiziane ci sono molte studentesse. Troviamo donne professori di università in
proporzione forse più grande che in Occidente. All'estremo opposto, in Afghanistan, la regola è la negazione totale
dell'educazione e dell'istruzione per le donne. Esiste tutta una panoplia di atteggiamenti ma tutti stanno all'interno
dell'islam. L'atteggiamento riguardo alle donne dipende dall'acculturazione che è estremamente diversa tra una civiltà
antica come quella egiziana e tribù sperdute tra le montagne come in Afghanistan.

T.R. Ha ragione quando mette in evidenza le differenze del contesto sociale. Se si considera, ad esempio, la percentuale
di accesso all'istruzione e quella di successo scolastico delle giovani musulmane in Occidente, non si può che esserne
sorpresi. Praticamente in tutti i campi, le ragazze riescono meglio dei ragazzi. In particolare nella scuola primaria e nel
primo ciclo della secondaria.

Ma l'Occidente non è l'Afghanistan. Bisogna essere chiari e non giustificare, in nome della cultura e delle tradizioni
locali, ingiustizie caratterizzate. Lei mi dà la possibilità di dire con molta chiarezza: il modello sociale ed educativo
proposto dall'Arabia Saudita o il modello educativo messo in piedi dai talibani sono in opposizione con i principi
dell'islam perché entrambi negano alle donne l'accesso alla conoscenza, mentre questo è un diritto inalienabile: bisogna
denunciare questi sistemi arcaici.
Accanto a questi estremi, ci sono effettivamente paesi in cui l'accesso offerto alle donne permette loro di avere posti
molto importanti in tutti i campi universitari. Si può quindi constatare che non è l'islam che decreta la discriminazione
ma piuttosto una cultura o una strumentalizzazione politica del religioso, spesso a fini negativi. E' questa ignoranza
mantenuta che bisogna combattere e il riferimento autentico all'islam è più un alleato di questa resistenza che un
ostacolo, contrariamente a quello che si lascia intendere.

La poligamia
J.N. Affrontiamo un'altra differenza radicale tra l'islam e la cristianità: poligamia o monogamia. Certo, non c'è da
stupirsi che alla comparsa dell'islam la poligamia sia stata accettata e normalizzata secondo la regola: quattro spose
legittime e tante concubine quante si vuole. La poligamia rappresentava semplicemente lo stato normale della società in
cui l'islam è nato. Questo stato era del resto identico a quello dei patriarchi di Israele. Tutti i grandi patriarchi, a
cominciare da Abramo, Mosè, Davide, Salomone, erano poligami. E' una struttura sociale che deve essere apprezzata in
un certo contesto economico e sociale.

La poligamia non rappresenta, come troppo spesso si pensa in Occidente, una testimonianza di perversità sociale,
l'accaparramento delle donne da parte dei ricchi a scapito dei poveri, ma la preoccupazione, in certe società, di non
lasciare mai una donna sola semplicemente perché morirebbe di fame con i suoi bambini. Tale è il senso profondo della
poligamia. Il Levitico, uno dei libri della Thora, rende obbligatorio, quando una donna è vedova, che suo cognato la
prenda con sé. E' in fondo una forma elementare di sicurezza sociale.

Da allora, la situazione attuale è molto diversificata secondo il livello economico del paese considerato. Alcuni paesi
come la Tunisia proibiscono la poligamia. Altri, come l'Arabia Saudita ne fanno praticamente una regola. E' forse
l'applicazione dello stesso Corano a situazioni diverse o c'è qualche cosa di più profondo? In altre parole, la poligamia è
tutt'altro che una tolleranza provvisoria destinata a scomparire o meglio una distorsione fondamentale tra la condizione
dell'uomo al quale tutto è permesso e quella della donna asservita alla fedeltà?

T.R. Il testo coranico è chiaro da questo punto di vista: la poligamia è permessa nell'islam fino a quattro mogli, ma è
ricca di condizioni non meno esplicite. E' un permesso, quasi all'unanimità i sapienti musulmani affermano che
l'orientamento generale dell'insegnamento islamico tende alla monogamia. Circostanze sociali particolari o situazioni
specifiche in una coppia possono portare a considerare la soluzione della poligamia. Si devono considerare tutte le
prospettive: quando, ad esempio, è stata imposta la monogamia in una società come quella di Burkina Faso, negli anni
ottanta, il rifiuto è venuto dalle donne che non concepivano di sopportare da sole il peso del lavoro in famiglia e in
campagna. Situazioni di donne sole, come lei ha accennato, esistono e possono trovare qui una prospettiva di soluzione.

La questione centrale resta l'educazione. Molte donne musulmane subiscono la pressione della cultura che le circonda e
non conoscono i diritti che la religione concede loro. Non sanno, ad esempio, che la prima sposa, può inserire nel suo
contratto di matrimonio la clausola che il marito non sposi un'altra donna. Se egli accetta di sposarsi con la suddetta
donna, l'uomo non avrà altra scelta che piegarsi a questa richiesta. Quanto alla donna che dovrebbe diventare la seconda
sposa, bisogna ugualmente ricordare che il matrimonio nell'islam si deve fare con il suo consenso e che può dunque
rifiutarsi di sposare un uomo già sposato.

J.N. Anche in un paese come l'Arabia Saudita?

T.R. Il sapiente che è stato più esplicito sulla questione della clausola che rifiuta la poligamia, da aggiungere al
contratto di matrimonio, è Ahmed ibn Hanbal, il fondatore della scuola giuridica maggioritaria in Arabia Saudita, la
scuola hanbalita. Il problema oggi non è la clausola del diritto, è quanto essa sia veramente rispettata in una società che
mantiene la donne in uno stato di ignoranza, confondendo la tradizione essenzialmente beduina del deserto, con
l'applicazione dell'islam. La maggioranza delle donne musulmane non conosce i diritti loro concessi dalla religione e le
società nelle quali vivono non forniscono loro le occasioni, né le condizioni per accedere agli insegnamenti
fondamentali. Questa è la cosa più grave.

Oggi in Arabia Saudita, come nella maggior parte dei paesi musulmani, il problema dell'educazione e dell'istruzione è
fondamentale. Ci accorgiamo, del resto, che moltissime donne si stanno mobilitando oggi in nome dei loro riferimenti
religiosi per lottare contro l'arcaismo e l'oscurantismo delle società, perché sanno che l'islam non può giustificare i
modelli di società che i paesi a maggioranza musulmana presentano nella nostra epoca, addirittura esige che ci si
opponga. Sono istruite, consapevoli dei loro diritti e parlano dall'interno del campo di riferimento islamico.
In Occidente le si comprende pochissimo perché sembra che le sole vere femministe, che l'unica liberazione delle
donne, sia a misura del modello occidentale. Si potrebbe rendere questa percezione molto riduttiva con la formula "più
una donna è occidentalizzata, più essa è libera..." Si confonde l'immagine, il modello culturale con il diritto, il principio
universale. In altri termini, si dice alle musulmane"Voi sarete libere solo quando sarete diventate occidentali, solo
quando sarete meno musulmane". Il discorso è riduttivo e pericoloso perché sottintende un vero e proprio imperialismo
culturale.

Quanto a me, preferisco restare ad ascoltare queste donne che ho potuto incontrare in Europa, nel mondo musulmano e
in Africa, le quali si impegnano nello studio e si mobilitano per far rispettare i loro diritti. In occasione di un recente
viaggio nell'Africa occidentale, ho avuto l'occasione di esprimermi sulla questione delle donne e di incontrare numerosi
gruppi di militanti fieramente decise a farsi ascoltare e a lottare contro tutte le distorsioni delle loro società, falsamente
giustificate in nome dell'islam.

Queste donne sono numerose in Africa, in Asia e in Occidente e ciò che viene fuori dal loro impegno è un messaggio di
fondamentale importanza: "Io posso essere libera e rispettata senza essere occidentalizzata". Il che significa: "Senza
sottomettermi al modello occidentale di rappresentazione della donna". Si può oggi sinceramente, profondamente,
capire questo messaggio in Occidente? Non ne sono sicuro, tanto siamo troppo naturalmente convinti, quasi
"intuitivamente", per non dire inconsciamente, di detenere il modello di società più avanzato, l'unico coerente.

Di fatto, per tornare alla sua domanda, direi che oggi le società a maggioranza musulmana rivelano una conseguente
mancanza di educazione che non permette un'applicazione fedele degli insegnamenti dell'islam.

La Turchia e la Tunisia, esempi, esempi di transizioni riuscite?


J.N. Si può dire che i paesi che godono di un diritto civile che proibisce la poligamia - la Turchia e la Tunisia - siano
andati fino in fondo al cammino dell'islam? Allo stesso modo, c'è stato bisogno di un certo periodo di tempo affinché i
cristiani andassero fino in fondo alle esigenze del cristianesimo. All'inizio, la posizione della donna nella cristianità non
è assolutamente stata quella che avrebbe dovuto essere. E c'è voluto molto tempo per scoprire i doveri fondamentali del
cristianesimo a questo riguardo: le saudite hanno avuto il diritto di voto prima delle svizzere; le donne non possono
ancora diventare preti nella Chiesa cattolica. E' d'accordo con questa affermazione, la Tunisia, la Turchia come modelli
di un islam del futuro?

T.R. No, assolutamente. Intanto la ringrazio di avermi posto questa domanda poiché mi permette di rispondere in modo
chiaro a taluni ricercatori ed intellettuali che lascerebbero supporre che, chi non sostiene i modelli della Turchia e della
Tunisia, è necessariamente sospetto e ambiguo. Bisogna essere chiari, cercherò quindi d'esserlo. Tre ragioni,
essenzialmente, mi impediscono di andare nella sua direzione.

La prima è di ordine storico: le legislazioni applicate in questi paesi sono il prodotto dell'epoca coloniale. Si sono presi
a prestito articoli legislativi da paesi occidentali, Francia, Svizzera, Bulgaria o altri, e sono stati imposti a questi paesi.
Non è stata, si sa, la scelta di un popolo, ma l'imposizione, a volte molto aggressiva, degli stati coloniali e dei loro
sostenitori.

La seconda ragione è la natura degli stati che lei presenta come modelli per il futuro: si tratta chiaramente di dittature
sanguinarie, nelle quali i prigionieri politici si contano a decine di migliaia. I popoli sono tenuti sotto una cappa di
piombo. Il regime militare turco è spietato e Ben Ali, eletto regolarmente col 97% dei voti, è un presidente che applica
la tortura senza ritegno Bisogna, dunque, che i musulmani siano governati da despoti, come avviene oggi, affinché le
loro società diventino dei modelli?

La terza ragione, infine, è la strumentalizzazione che si fa oggi della questione della "modernità" e della "questione
della donna".

Si ha il diritto di giudicare lo stato di una società sulla base di questi unici due parametri, machiavellicamente esibiti dai
despoti? E' sufficiente che dicano all'Occidente: "Guardate come siamo progressisti, le nostre donne sono libere, noi
siamo moderni, abbiamo associazioni per la difesa dei diritti dell'uomo, ecc." per vedere il loro regime sostenuto,
credibile, rispettato.

Ebbene, bisogna dire chiaramente che questa non è che polvere negli occhi: i poteri dittatoriali hanno saputo
strumentalizzare le donne, i diritti dell'uomo e la modernità giocando sul timore che ha l'Occidente dell'islam e
dell'islamismo. La realtà è tutt'altra e sarebbe ora che ce ne rendessimo conto in Europa. In quei paesi le istituzioni di
difesa dei diritti dell'uomo sono quasi tutte al servizio del potere e, quando non lo sono, i veri difensori sono sottoposti a
trattamenti degradanti: arresti, torture, sparizioni. In nome della modernità, si perseguitano tutti i sospetti per la buona
causa: i musulmani praticanti, i potenziali oppositori e le donne che decidono di portare il velo, sono tutti sottoposti a
maltrattamenti da parte della polizia: arresti, sorveglianza, pressioni sui datori di lavoro affinché perdano l'impiego e
così via. E' sufficiente far finta di lottare contro i "barbuti" e le "velate" per ricevere carta bianca nel compiere orrori e
disumanità?

La Turchia e la Tunisia non sono modelli di società e le leggi a protezione delle donne non dicono nulla dello stato reale
della società in materia di educazione, di diritto e di non-discriminazione. Ci si può illudere, in Europa, pensando che si
stia andando nella giusta direzione ed avendo una lettura in fondo parziale della realtà di queste società. Bisogna
considerare l'insieme ed allora ci si accorge della gravità del problema. Lottare per i diritti delle donne non può
legittimare i regimi più arbitrari. A che serve la libertà delle donne nel cuore di popoli soffocati e negati?

Il vero modello, a mio parere, è quello di una società che si dà l'esigenza ed il tempo per l'educazione, che gestisce il
proprio pluralismo e che non rifiuta mai di pensare dall'interno dei suoi riferimenti religiosi, della propria civiltà e
cultura perché non vuole conformarsi all'egemonia di un'unica visione della modernità. E' anche questo messaggio che
dovrebbe essere compreso dagli uomini di buona volontà in Occidente: rifiutare gli alibi ed i pretesti dei governi
riguardo a " la donna", "i diritti", "la democrazia" e "la laicità", che troppo spesso hanno giustificato il silenzio davanti
alla repressione, la tortura e le esecuzioni sommarie che abitualmente avvenivano nei paesi musulmani.

Bisogna dire con forza e severità:"Non chiediamo ad un musulmano di tradire i suoi riferimenti, ma di comprenderli in
funzione del contesto e di far fronte alla sua epoca". Se è veramente questo il messaggio che si vuol far intendere, allora
bisogna porre fine alle valutazioni semplificatrici che costituiscono altrettante garanzie per le peggiori dittature.

L'evoluzione mancata dell’Iran


J.N. L'evoluzione attuale in Tunisia e in Turchia riproduce dunque ciò che è accaduto in Iran, quando l'ultimo shah,
Reza Palevi, ha tentato di forzare l'entrata del suo paese nella modernità. Ha suscitato, per reazione ad un ritmo
precipitoso, una levata di scudi ed ha prodotto una regressione. Dunque, in questa evoluzione, bisogna dar tempo al
tempo.

T.R. Sì. Certo. Lei ha fatto un esempio estremamente interessante. Se noi facciamo un'analisi acuta e tralasciamo
l'immagine che abbiamo delle rappresentazioni dello chador delle Iraniane, che cosa si può osservare? Durante gli
ultimi vent'anni, l'evoluzione della condizione delle donne iraniane è stata particolarmente impressionante. Certamente
bisogna criticare gli eccessi, come l'imposizione dello chador e altre restrizioni di diritto.

Bisogna comunque riconoscere che l'Iran è senza dubbio uno dei paesi musulmani che ha fatto più progressi negli ultimi
vent'anni riguardo all'evoluzione dei diritti della donna: il numero di donne presenti al Parlamento è superiore a quella
di molti paesi, anche europei; le donne partecipano alla vita sociale e sono presenti in diversi campi dell'attività
culturale e sportiva. L'evoluzione, lenta, difficile, ma reale si fa dall'interno del campo di riferimento musulmano.

Lo stesso fenomeno si è visto in Bangladesh. Molte donne avevano attaccato Taslima Nasreen affermando che non era
criticando la religione, i valori e la cultura che si facevano evolvere le cose. Erano naturalmente e giustamente contro la
sua condanna a morte, ma allo stesso tempo prendevano le distanze dai suoi discorsi riduttivi e totalmente
occidentalizzati. Esse pensano che le cose si possano modificare meglio dall'interno che tramite questa specie di lotta,
percepita come l'unica "progressista" in Occidente, che per essere legittimizzata e riconosciuta spinge i suoi partigiani a
gettare tutto, il bene e il male. Lo shah d'Iran, come tanti altri governanti "progressisti", ha cozzato contro la realtà di
tutte le società umane. Non si può far evolvere mentalità imponendo a martellate valori venuti da fuori o comunque
percepiti come tali. Bisogna privilegiare l'educazione, il lavoro dall'interno e a lungo termine.

J.N. Una situazione simile si è sviluppata anche nel cristianesimo. La repressione di diversi governi comunisti contro le
Chiese ortodosse non ha assolutamente soppresso la fede cristiana assai tradizionale degli ortodossi. Al contrario, questa
repressione ha fatto stagnare l'ortodossia e le ha impedito di evolversi come le altre confessioni cristiane.

Il divorzio e il ripudio nel diritto islamico


Per tornare più precisamente alla donna, potrebbe precisare allo stesso tempo il principio, il riferimento coranico, e la
pratica in materia di divorzio e di ripudio? L'immagine un pò facile che regna in Occidente è questa: il marito ha il
diritto di ripudiare la donna senza dare alcuna giustificazione. E la sicurezza delle donne è dunque estremamente fragile.
Al contrario, essa non può chiedere il divorzio, anche se il marito abusa di lei, la picchia, la maltratta. Qual è il principio
e come viene applicato?

T.R. La questione del divorzio ci impone di tornare ai testi fondamentali. Un giorno una donna è andata dal Profeta
affermando che non le piaceva il marito e che temeva di agire contro la morale. Muhammad le ha domandato se
accettava di restituirgli l'equivalente della dote che suo marito le aveva versato al momento del matrimonio (si trattava
di un giardino); ella disse di sì e furono quindi divorziati (in certe circostanze, e secondo certi giuristi, non è obbligata a
rendergli la dote, a seconda se egli è nel torto oppure no).

L'idea di pensare che una donna non ha il diritto di separarsi o di chiedere la separazione dal marito è falsa e non
corrisponde agli insegnamenti dell'islam. Una donna può anche esigere che i suoi diritti riguardo alla separazione
vengano chiaramente stipulati nel contratto di matrimonio. Evita così interpretazioni estese o l'applicazione specifica di
una scuola di diritto che potrebbe, in una data situazione, essere più restrittiva di un'altra.

Il divorzio, tra le cose permesse, è la più detestata da Dio, ci dice una tradizione del Profeta. Non è dunque un atto da
farsi con leggerezza, quasi gratuitamente, che ci si potrebbe permettere di fare senza ragione. E' un atto grave che per
l'uomo come per la donna deve essere giustificato. Purtroppo oggi non è sempre così. E' ancora e sempre una questione
di educazione.

Gli uomini del resto non sono da meno e i casi di divorzio, di talaaq secondo il termine arabo, rivelano da parte di
questi ultimi esagerazioni con trattamenti assolutamente discriminatori e disumani nei confronti della sposa. Certi
uomini credono veramente che tutto sia loro permesso e del resto già 'Umar, il secondo successore di Muhammad,
aveva dovuto intervenire perché gli uomini pronunciavano la tripla formula del divorzio in modo sconsiderato. Bisogna
riconoscere queste gravi deviazioni e rimediarvi al più presto con un doppio lavoro: educazione degli uomini e delle
donne riguardo ai loro rispettivi doveri e responsabilità nel matrimonio e in seno alla famiglia, e promovendo riforme
legali che, per tappe, permettano di lottare contro le discriminazioni e i maltrattamenti che subiscono le donne, tanto sul
piano del diritto come su quello puramente fisico.

Bisogna anche aggiungere che, nelle società a maggioranza musulmana, il matrimonio non riguarda solo due esseri. E' il
matrimonio di due esseri e l'unione di due famiglie. La donna musulmana mantiene il legame con la propria famiglia e
non prende mai il nome di suo marito. Ciascuno conserva la propria identità e inoltre resta legato alla sua famiglia
d'origine. La cosa vale per il matrimonio come per il divorzio: lasciare la moglie o il marito, significa ritrovare la
propria famiglia. Non ci si ritrova mai completamente soli.

L'applicazione del diritto deve anche tener conto delle realtà del contesto sociale nel quale si concretizza. E' oggi un
problema profondo, poiché le strutture sociali e familiari delle società musulmane subiscono gravi disfunzioni a causa
della povertà, delle condizioni di vita, delle famiglie smembrate. Spesso in casi di separazione, la donna si ritrova sola,
isolata, con a carico molti bambini. Non si può in questi casi plateali nascondersi dietro un'applicazione letterale dei
principi della giurisdizione islamica perché allora si sosterrebbe un'ingiustizia.

Tant'è vero che la più giusta delle leggi applicata in un contesto ingiusto e/o inadeguato diventa essa stessa una legge
ingiusta e discriminatoria. Tener conto del contesto, pensare agli adattamenti e alle fasi di applicazione delle leggi è un
esercizio che non si può aggirare per qualsiasi società musulmana che voglia restare fedele al senso del suo messaggio.
Senza questo lavoro, si cade in un letteralismo ristretto che crede di aver conservato la fedeltà al testo mentre avalla
l'ingiustizia. Ma l'islam richiama, nei suoi principi e nella sua essenza, alla giustizia. E' questo che bisogna dire ai
musulmani. Non si può, in nome di un principio, dimenticare il contesto nel quale lo si applica perché allora, lo ripeto,
il principio giusto diventa ingiusto nella sua applicazione.

Bisogna trasformare la società, ciò che i riformisti musulmani sono venuti a ricordare: attenzione, ci sono doveri e
responsabilità per la donna come per l'uomo, che si devono considerare alla luce sia delle fonti che del contesto per
pensare di realizzare un adattamento a tappe. A questo lavoro di riforma il 90% delle società musulmane non si è ancora
realmente impegnato. Da ciò è derivato disordine e strumentalizzazione della religione a fini elettorali.

L'esempio dello statuto personale imposto in Algeria fa testo: il governo che l'ha ratificato non era "islamista", si
proclamava laico e cercava in quel modo di darsi una garanzia e una legittimità religiose. Come se fossero caduti dal
cielo, gli articoli di legge riguardanti lo statuto personale fanno della donna un minore senza diritti e non corrispondono
per nulla alla realtà della società algerina. Le conseguenze sono ingiuste e discriminatorie, quale che sia la veste di
legittimità religiosa che gli si vuole affibbiare.
I musulmani devono dirlo e devono impegnarsi veramente per una riforma che non sia un'applicazione populista
dell’islam, per sedurre popolazioni ingannate e credulone. La fedeltà al messaggio è molto esigente, richiede tempo ed è
l'esatto opposto della parata a fini elettorali. Ci si presentano due sfide: il lavoro di adattamento per fasi alla luce dei
nostri riferimenti islamici e l'impegno per una reale riforma sociale, l'unica che permetterà alla società di andare verso
una maggiore giustizia. Restare fedeli richiede l'accesso alla padronanza di questa dialettica che è il costante andirivieni
tra l'intelligenza dei testi e l'intelligenza del contesto.

J.N. Lei ha accennato alla condizione di inferiorità della donna in Algeria. Questo significa che non può chiedere il
divorzio, che non ha questo diritto?

T.R. Le si riconosce questo diritto solo in casi estremamente gravi e specifici. Il codice dello statuto personale è una
lettura riduttrice, letterale (si riferisce solo ad una scuola di diritto sunnita) e che, soprattutto, non tiene conto dello stato
della società algerina. E' grave e preoccupante nel senso che, per certi sapienti e certi musulmani, è proprio il suo
carattere restrittivo, limitativo e letteralista che ne fa una vera conquista islamica. Essi non pensano all'applicazione
degli insegnamenti dell'islam in sé, nell'apertura e nella flessibilità che le sono proprie (soprattutto riguardo al contesto)
ma piuttosto contro la cultura dei coloni, contro l'occidentalizzazione e si arriva a questa equazione:"Meno libertà,
significa più islam" poiché "maggior libertà significa maggiore occidentalizzazione". Ragionamento binario pericoloso
e grave perché toglie alle donne la maggior parte dei diritti che Dio ha loro concesso: nessun timore può legittimare una
così grave trasgressione.

J.N. Almeno nel principio - che non è applicato, come lei ha appena detto - il divorzio per incompatibilità di carattere,
impossibilità di continuare a vivere insieme, è riconosciuto. Ma non ha ricordato la cosa più grave, il divorzio a causa di
adulterio. C'è una simmetria perfetta? L'adulterio dell'uomo è grave quanto quello della donna, sia in teoria che in
pratica? E' tollerato o punito?

Le sanzioni dell’adulterio
T.R. L'idea diffusa in Occidente - e non so su che cosa ci si basi per avanzarla - è che ci sarebbe una pena diversa per
l'uomo e per la donna in caso di adulterio: non c'è nessuna corrispondenza nella realtà e neppure nei testi. Una parte
delle pene è citata nel Corano e la lapidazione, nel caso dell'adulterio, è nominata nelle tradizioni del Profeta (ahadith).
Quando lo stato civile delle persone è lo stesso (celibi o coniugati), non c'è differenza tra l'uomo e la donna a questo
proposito. E quando, in situazioni specifiche della coppia, i due congiunti devono testimoniare sulla verità delle loro
affermazioni, lo fanno su una base assolutamente egualitaria: numero di giuramenti, formulazione, riconoscimento, ecc.

Parlando di questo argomento non ci si può fermare qui. Certo, queste pene sono menzionate nei testi di riferimento, ma
sono accompagnate da clausole di condizionalità che determinano la loro applicazione in modo molto preciso e
rigoroso. Lo stato della società circostante è di capitale importanza per l'applicazione delle regole del diritto: una società
nella quale l'educazione ed il comportamento non hanno raggiunto un grado di coscienza etica non può neppur pensare
di orientare la sua legislazione in questo senso.

Inoltre, anche supponendo di aver raggiunto il livello richiesto di organizzazione e di educazione, le condizioni, in
materia di fornicazione e di adulterio, sono draconiane: quattro testimoni devono aver visto le persone durante l'atto
sessuale, in flagrante delitto, e testimoniare quindi quello che hanno visto. L'applicazione di queste pene è quasi
impossibile tenuto conto delle condizioni che si devono riunire per farle rispettare. Tuttavia, ciò che sottolineano come
insegnamento, è che la fornicazione e l'adulterio sono cose gravissime davanti a Dio, allo stesso modo che sul piano
sociale. L'enunciazione delle pene ha una finalità essenzialmente educativa e dissuasiva. Esistono nei testi, non lo si può
negare o nascondere e si devono applicare per capire il senso del loro insegnamento: l'importanza della vita sessuale
all'interno di un quadro chiaro, il matrimonio, che è l'espressione di un dono condiviso del proprio essere. Questi testi
parlano allo stesso modo della gravità della menzogna, del tradimento, dell'inganno. E' un insegnamento morale molto
forte che le società musulmane devono trasmettere e proteggere a monte e non limitarsi alla repressione e alla caccia ai
"colpevoli", che ancora una volta è un mezzo per legittimare le chiusure mentali sotto la copertura di questa falsa parola
d'ordine: più si proibisce, più si reprime, più è islamico. Atteggiamento reattivo e reazionario gravemente infedele, nella
lettera e nello spirito, all'insegnamento dell'islam, che ci dice, al contrario, che più si educa, più è islamico. Ciò richiede
un approccio più profondo, più ponderato, più spirituale del rassicurante "reprimere tutto". Non si tratta di essere lassisti
o negligenti o apparentemente "moderni". No, si tratta di esser profondamente ed intimamente in accordo con i principi
dell'islam che ci orientano verso un rapporto di intelligenza e responsabilità con noi stessi e con gli altri. E' difficile ma
necessario.

Molte società a maggioranza musulmana fanno riferimento al religioso solo sul piano della legittimazione apparente
della loro struttura e della loro organizzazione, allo stesso modo in cui stabiliscono delle differenze di trattamento tra le
donne e gli uomini. L'islam è il più delle volte dimenticato in questo tipo di approccio molto segnato dal punto di vista
culturale, un pò del resto come si vedono forti segni di identità se si scende nel sud dell'Italia o della Spagna.

J.N. Quindi il principio è applicato in modo molto diverso secondo le società. Ecco quello che so della situazione nelle
oasi del sud della Tunisia per esempio, dove la popolazione è costituita da beduini che sono più o meno stabili e che
sono diventati coltivatori. Se una donna tradisce il marito, può essere punita con la pena di morte. Ma una donna non ha
il diritto di chiedere al marito se ha commesso o no un adulterio. Questo semplicemente non la riguarda. Ecco come il
principio è vissuto da un beduino.

T.R. E' qui che prevale il tratto culturale che non ha nulla a che vedere con l'islam. Al contrario, è contro questi tipi di
discriminazione caratterizzata che l'islam deve trovare la garanzia della fedeltà al suo messaggio.

La pena di morte nel diritto islamico


J.N. Veniamo alla pena di morte che lei ha accennato e che si continua ad applicare. In società rigide come l'Arabia
Saudita, il Sudan e l'Afghanistan la sanzione dell'adulterio è la pena di morte. La pena di morte per lapidazione è ancora
applicata. Esiste un riferimento che giustifica questa punizione nel Corano?

T.R. Questa punizione è effettivamente menzionata nei testi come ho detto e si tratta, per la natura specifica della pena,
di tradizioni profetiche.

J.N. Israele ha esattamente la stessa tradizione. Gesù di Nazareth pone fine a questa pratica. Portato davanti ad una
donna adultera che doveva essere lapidata enuncia la regola: colui che non ha mai peccato scagli la prima pietra. Il testo
dice che se ne andarono tutti a cominciare dai più anziani.

Si tratta dunque di una tradizione arcaica che interessa tutto il Medio Oriente e che oltrepassa alla lunga l'islam. Ma essa
è accettata? E' scritta nella shari’ah, cioè nel corpus di regole di diritto civile attinte dal Corano? Questa definizione
sommaria ci può servire provvisoriamente prima di tornare sull'importante questione del diritto islamico.

T.R. In effetti sarà necessario tornare sulla definizione di questa nozione poiché, basandosi sulle definizioni
convenzionali adottate da certi giuristi, si è data una definizione molto restrittiva e riduttrice. Penso che sarà
l'argomento del prossimo incontro.

Ebbene, per quanto riguarda la legislazione propriamente detta, che è una parte degli insegnamenti dell'islam, vengono
effettivamente nominate una serie di pene nel Corano e nella sunnah. Come abbiamo visto, c'è unanimità nel
considerare che i riferimenti vengano rispettati ma ci sono divergenze significative tra alcune scuole di pensiero e tra i
sapienti riguardo alle modalità di questo rispetto e all'ampiezza di interpretazione e di adattamento che è offerto agli
uomini secondo il contesto in cui vivono.

Le condizioni che accompagnano queste pene, l'ho già detto, le rendono praticamente inapplicabili di fatto e la loro
enunciazione orienta la coscienza del credente verso le sue responsabilità personali e collettive, tanto gli sbagli
enunciati sono considerati gravi: bisogna dunque costruire uno spazio sociale che permetta all'essere umano di vivere in
coerenza con i suoi principi e sviluppare in ciascuno il senso dell'esigenza personale sul piano etico. Il Profeta ha
perdonato molto e ci ha insegnato a perdonare ma ha accompagnato questo perdono, come tutta la Rivelazione coranica,
con un appello alla coscienza, all'esigenza e all'umiltà prima e dopo l'errore.

Certi sapienti non sono d'accordo con l'approccio che ho presentato. Essi fanno una lettura più direttamente letterale: ai
loro occhi bisogna applicare le regole indipendentemente dal contesto. Basta l'applicazione delle punizioni per provare
la fedeltà. Mi oppongo, come tanti altri sapienti musulmani, a questo approccio riduttivo e pericoloso. La vera fedeltà al
testo non consiste nel privarci dell'intelligenza della sua lettura e della sua profonda comprensione. Il senso stesso di
tutto l'apparato legislativo islamico è orientato verso la giustizia; ora, l'approccio letterale, che pretende di aver esaurito
tutto il campo della comprensione, può essere una vera e propria infedeltà all'insegnamento coranico. Obnubilati
dall'aspetto repressivo, certi sapienti rivendicano la loro fedeltà sul piano legale fondandosi su una lettura totalmente
astratta dalla società e dalla sua evoluzione. Né la Rivelazione, insegnata in ventitrè anni con l'integrazione della
dinamica della storia e dei luoghi, né Muhammad, né i suoi compagni hanno agito in tal modo...

Senza dimenticare, oltretutto, la costante propensione di Muhammad ad alleggerire, rifiutare la durezza e la pena. A
volte girava la testa dall'altra parte, facendo finta di non capire quando giungevano a lui taluni accusandosi e chiedendo
l'applicazione della pena contro loro stessi. E' successo a uomini e donne e Muhammad ha sempre cercato di evitare
l'applicazione delle pene... Ed oggi ci troviamo di fronte a queste manifestazioni di rigidità mentale di certe persone che
vorrebbero quasi perseguitare gli esseri umani fin nella loro intimità. Tutto ciò non corrisponde per nulla all'esempio del
Profeta.

J.N. Il Profeta si unisce alla posizione di Gesù di Nazareth che dice: "Se voi stessi siete senza peccato potete applicare
la pena." Quello che vuol dire tramite un'abile perifrasi è che la pena non può essere applicata da uomini che sono tutti
peccatori, mentre Dio, che è senza peccato, perdona.

T.R. Sì, il messaggio di bontà è lo stesso. Ma bisogna dire chiaramente che il messaggio musulmano di bontà e perdono
non si confonde con una sorta di lassismo o di diminuzione della responsabilità e delle esigenze sociali e personali che
ne derivano. Il perdono non può garantire tutto e tutti come capita nelle nostre società.

I tre pilastri dell'azione nell'islam sono chiari: la coscienza davanti a Dio, l'orientamento al bene, l'equità di fronte agli
uomini. Quando tutto questo non è rispettato, l'uomo può trovarsi in due situazioni: o il malfatto è rimasto invisibile agli
occhi dei suoi simili e allora è un affare tra Dio e lui; o lo sbaglio commesso è visibile e riguarda la vita comunitaria ed
allora sarà necessario il concorso di tutte le condizioni stabilite per poter applicare la pena. La porta del perdono è
sempre aperta ma, in casi estremi, per i quali ricorrono tutte le condizioni, sarà richiesta la fermezza.

Alla fine, il lavoro educativo a monte resta l'essenziale. Esso è la vera fedeltà al messaggio poiché insegna a ciascuno ad
armarsi contro le proprie deviazioni e ad essere in grado di assumersi il peso delle proprie azioni. L'universo dell'islam,
la società dei musulmani, è un progetto che consiste nel far nascere una comunità di spiritualità e responsabilità e non
edificare uno spazio del timore perpetuo della repressione alimentato da un pesante e costante sentimento della
potenziale colpevolezza. Alcuni sapienti si sentono a proprio agio in questo secondo modo di procedere. Di sapienti così
ce ne sono nel mondo musulmano e dobbiamo dire chiaramente che non aderiamo al loro approccio e rifiutiamo la
strumentalizzazione che certi poteri fanno dell'islam, traendo profitto dal timore che fa nascere nel popolo la sua
applicazione repressiva: preferiscono assicurarsi l'autorità piuttosto che individuare percorsi verso la fedeltà agli
insegnamenti islamici.

Mentirei se dicessi di rappresentare tutte le correnti di pensiero, ma ciò che posso affermare con certezza, è che la
maggior parte dei musulmani condivide queste idee. Nel mondo musulmano come in Occidente. La maggior parte vuol
restare fedele alle fonti, ma sono consapevoli che questo non si può fare senza tener conto di tutti i parametri: prima di
tutto le condizioni che sono nei testi stessi, e poi l'evoluzione della storia e la diversità dei luoghi e della cultura.

Alla luce delle nostre valutazioni, non dimentichiamo questa immensa maggioranza di musulmani e non lasciamoci
accecare, nelle nostre analisi del mondo, dalle affermazioni di qualche teologo o di questo o quel gruppuscolo radicale
ed estremista.

J.N. Se la grande maggioranza dei musulmani si pone al di fuori di questa repressione brutale e violenta dell'adulterio,
pur continuando a biasimarlo nel principio, si può dire che paesi moderati nell'applicazione dell'islam come il Marocco,
l'Egitto, la Siria non applicano più queste pene?

T.R. Sì. Non sono applicate. Ma ancora una volta stiamo attenti a non leggere le situazioni politiche facendo di una
mosca un elefante. Parlando francamente, io resto personalmente molto distante da questi paesi.

J.N. Quali?

T.R. Tutti quelli che lei ha citato.

L'occidentalizzazione rampante
Ci si può fermare al fatto oggettivo che le pene non sono applicate, ma bisogna andare più in là nell'analisi. Se quello
che vogliamo è conservare per i popoli la specificità della loro identità e la fedeltà al messaggio etico dell'islam, allora
bisogna formulare una critica radicale della gestione di questi paesi. La questione si deve porre a monte, esattamente al
livello di questa politica di sottomissione e di accettazione della cultura e dei valori esogeni. Ciò a cui assistiamo in
questi paesi è un lento processo di alienazione religiosa e culturale, una occidentalizzazione rampante che ha
colonizzato una parte importante della produzione simbolica di queste società.
E', certo, una fortuna che non si applichino freddamente le pene corporali in queste condizioni (da notare che ciò non
impedisce la feroce repressione e le torture all'ombra delle carceri), ma bisogna mettere in discussione la gestione di
questi paesi nei quali il lavoro di educazione, di risveglio della coscienze, di sviluppo nella coerenza di una identità
rivendicata ed equilibrata è totalmente assente. Non ci sono apparenti punizioni corporali, ma culturalmente non ci sono
più molti limiti all'occidentalizzazione. Popoli immersi in serial televisivi del tipo Dallas o McGyver, e così in tutto il
resto, perdono la loro anima. Questo significa essere progressisti o piuttosto decidere di compiere delle scelte alla luce
di quello che si è e di quello che si vuole essere? Sul piano legale, il contrario di una politica repressiva non è una
politica lassista e sottomessa alla legislazione e ai modelli altrui.

Senza contare che i popoli sono tutti perdenti: i popoli d'Occidente, per l'immagine degradata e menzognera che dà di
loro questa cultura d'esportazione abbrutente, e i popoli musulmani perché si vedono divisi tra le fonti della loro
identità, dalle quali traggono ispirazione e alle quali desiderano restare fedeli, e miraggi culturali che, naturalmente, li
attraggono.

J.N. Vuol dire che i costumi occidentali corrompono la pratica sociale trasmettendo ciò che hanno di peggiore? Non si
tratta dunque di un'evoluzione ragionata dell'islam, ma piuttosto della corruzione portata dai costumi occidentali. Si
tratta del lasciar fare, secondo lei?

T.R. Dei costumi occidentali, rappresentati in ciò che la produzione intellettuale e culturale dell'Occidente ha di più
caricaturale ed alienante. Queste influenze nefaste sono distruttrici. Infatti, se si vuole restare giusti col proprio popolo
tentando sempre di proteggere la sua identità religiosa e culturale, le autorità politiche si trovano di fronte ad una
alternativa: o un'applicazione formale dell'islam, detta shari’ah, accompagnata dal più intransigente apparato
repressivo; o l'impegno in un lavoro di riforma della società che passa attraverso l'educazione, stabilendo regole etiche,
producendo una cultura alternativa endogena.

La prima soluzione è ingiusta e tradisce il messaggio che dice di difendere. Resta dunque la riforma. Oggi le società
musulmane sono governate in due modi; o con la repressione in nome della lettura letterale e ristretta delle fonti; o con
un lasciar fare a livello delle influenze culturali esterne che producono una visibile alienazione nelle popolazioni,
sempre accompagnata da una repressione d'altro tipo che si abbatte su tutti gli oppositori che osano criticare queste
politiche di sottomissione e compromesso di fronte alla cultura dominante.

Risultato: nei due casi si ha ingiustizia e repressione. Nel Nord, non si esauriscono le critiche sulle gestioni sanguinarie
del primo modello, ma si resta silenziosi davanti alle atrocità delle gestioni del secondo tipo perché, per l'essenziale,
essi difendono gli interessi occidentali. Come se l'assassinio dell'identità e dell'intelligenza culturale di un popolo,
accompagnato da una repressione terribile, silenziosa ed invisibile degli intellettuali, fossero accettabili...

Noi dobbiamo gridare a gran voce che ci opponiamo a tutte le forme di repressione, ma questo non può voler dire che
accettiamo senza dire una parola un'invasione culturale distruttrice. Questo tipo di distruzione non è meglio della
repressione e penso che dobbiamo ascoltare tutti gli intellettuali e tutti i movimenti che, nei paesi musulmani, rifiutano e
resistono tanto all'ingiusto apparato repressivo che alla non meno ingiusta colonizzazione dei cuori e delle menti.

A proposito dell’aborto
J.N. Qual è il principio e la pratica a proposito dell'aborto.

T.R. Questa domanda permette di presentare in modo abbastanza chiaro le modalità d'applicazione delle prescrizioni
islamiche.

Prima c'è l'enunciazione del principio generale, poi c'è lo studio preciso, approfondito e specifico dei casi particolari
che, all'occorrenza, potrà portare all'enunciazione di un parere giuridico in apparente contraddizione col principio
generale. Quest'ultimo nell'islam dichiara che l'aborto non è autorizzato salvo situazioni nelle quali i sapienti hanno
convenuto che la vita della madre è in pericolo. Vengono poi i casi particolari che portano i sapienti ad interpretazioni
più specifiche e più precise dei testi di riferimento che riguardano la vita in generale, la vita dell'embrione, le situazioni
personali ed anche i contesti sociali ecc. I pareri giuridici potranno allora essere molteplici e divergere riguardo alle
possibilità di abortire.

Alcuni sapienti si attengono al principio generale che ho appena citato e non fanno deroghe in nessun caso; altri
affermano che è necessario tener conto di tutti i parametri per enunciare un parere giuridico e, nei casi specifici,
autorizzare l'aborto.
Faccio un esempio preciso: il caso degli stupri in Bosnia. Le donne violentate avevano o no il diritto di abortire? Alcuni
sapienti hanno risposto di no in nome del principio generale. Altri, come è stato enunciato dalla maggioranza del
Consiglio degli ulema del Kuwait, erano di parere opposto, rispondendo che l'aborto in questi casi precisi era
autorizzato alla luce dei testi. Ci sono quindi delle divergenze tra i sapienti.

Ciò è vero del resto per casi più particolari, quando una donna o una coppia affermano in coscienza di non poter far
fronte ai bisogni futuri del bambino, che gli scogli sono insormontabili, come può a volte accadere in una situazione di
handicap prevedibile. Si trovano pareri guridici (fatawa) che autorizzano in casi singolari, specifici o estremi, il ricorso
all'aborto. Nel momento in cui il sapiente o il consiglio degli ‘ulema’ che enuncia la fatwa è riconosciuto competente e
fonda il suo parere su riferimenti provati e coerenti, allora questo è considerato conforme all'insegnamento dell'islam.

Bisogna aggiungere, come del resto avviene per numerosi consigli aventi la funzione di emettere pareri giuridici, che è
richiesto anche il parere di specialisti. Per l'aborto i medici partecipano ai dibattiti e apportano elementi di informazione
che permettono agli ‘ulema’ di avere una comprensione profonda dei casi in questione. Come lei vede, al di là del
principio generale, l'applicazione del diritto è molto dinamica e impone uno studio razionale e approfondito di ciascun
caso, al fine di enunciare un parere caso per caso se circostanze particolari ci obbligano a ciò.

J.N. Questo atteggiamento è davvero rimarchevole. Si avvicina in un certo senso a quello dei protestanti. La morale
cattolica o ortodossa rifiuta l'aborto. Il rifiuto è assoluto, anche quando la vita della madre è in pericolo. Tranne se, a
quel punto, si prendono le misure necessarie per salvare la vita alla madre e così facendo si uccide il bambino. Ci si
persuade che non si è commesso un aborto perché non si aveva l'intenzione di farlo. Si è prodotto da solo. Non si ha
colpa.

A titolo di illustrazione di questa condotta goffa, fatta di grandi principi e pratiche opposte, potrei testimoniare quello
che ho vissuto nel luglio del 1960 all'epoca dell'indipendenza del Congo. Nel giro di una settimana le truppe congolesi
si sono ribellate e hanno violentato a catena le mogli di ufficiali e sottufficiali belgi dell'esercito congolese nel campo di
Thysville. Sono state evacuate all'ospedale dell'università di Lovanio, dove in quel momento lavoravo, una università
cattolica. Senza tante discussioni si è proceduto sistematicamente al raschiamento. Ovvero non si è neppure atteso di
vedere se l'aborto era necessario, si è fatto in modo di sbarazzarsi di tutti gli embrioni che sarebbero stati concepiti in
quell'occasione. Era molto curioso, perché i medici lo raccontavano nella sala dei professori dove si trovavano teologi
che non protestavano. Grazie a questo episodio mi sono reso conto che i cristiani in certe situazioni si astraggono dalla
teoria e iniziano ad applicare una regola pratica evidente in quella situazione. Tanto più che c'erano delle religiose tra le
donne violentate.

L'atteggiamento riguardo alla contraccezione


Un pò in disparte rispetto al problema dell'aborto, c'è la contraccezione. Non discutiamo dei mezzi tecnici. Andiamo
all'essenziale: vorrei parlare della scelta davanti alla quale si trovano dei genitori che possono ragionevolmente educare
e nutrire un certo numero di bambini. Dal momento che non possono averne più di quelli che hanno già, ricorrono a
mezzi contraccettivi. Qual è la condotta dell'islam in questo caso?

T.R. La presentazione fatta poco fa del principio generale e dei casi specifici è anche qui una griglia di lettura
chiarificante: il principio generale tenderebbe ad opporsi alla contraccezione, ma i casi particolari che la permettono
sono numerosi. Dico "tenderebbe" al condizionale perché alcuni sapienti hanno rilevato che il Profeta aveva lasciato
fare ai compagni che praticavano la contraccezione naturale tramite il coito interrotto.

Per questi teologi era chiaro che lo scopo dell'atto sessuale non è solo la procreazione ma anche il piacere. Il principio
generale, quando è enunciato, non dovrebbe certo concedere un'autorizzazione de facto della contraccezione, ma
dovrebbe ai loro occhi, comportare un possibile ampliamento del suo uso, per lo meno quando è naturale.

Abbiamo poi le situazioni specifiche, studiate caso per caso. Troppi bambini, impossibilità di sopperire ai loro bisogni,
la salute, la situazione della società circostante, ecc. Tutte le situazioni in cui esistono circostanze particolari che
portano una coppia a porsi la questione della contraccezione devono essere studiate in modo specifico. Quando i fatti
sono quelli e non si tratta di garantire atteggiamenti egoisti, frivoli o che escono dal quadro dell'etica, si potrà porre il
problema e la contraccezione potrà essere autorizzata. I casi di cui lei parla ne sono un esempio. La decisione deve
essere presa in due. Molti sapienti hanno messo in evidenza il fatto che l'uomo non può praticare il coito interrotto senza
l'autorizzazione della sposa poiché corre il rischio di non rispettare almeno due dei diritti della donna: prima,
certamente, quello del suo piacere e poi quello di vivere la sua maternità. Il dialogo e la concertazione tra lo sposo e la
sposa devono arrivare fin là.
J.N. Sui due argomenti dell'aborto e della contraccezione, io come cattolico praticante sono molto colpito da questo
spazio di libera discussione del quale dispongono i teologi musulmani. I cattolici sono per principio legati a regole
enunciate da un organo, la Congregazione per la dottrina della fede, che non cessa di ricordare la sua opposizione alla
contraccezione artificiale. Non esiste nessuna istituzione di questo tipo nell'islam? O magari un'università prestigiosa
come al-Azhar in Egitto ha, di diritto o di fatto, questo attributo?

L'assenza di una norma unica


T.R. L'istituzione di al-Azhar, al Cairo, è un luogo di formazione di sapienti che possono essere portati ad emettere
pareri giuridici. Ma la particolarità dell'islam è di non avere un'unica istituzione di riferimento. Ci sono diversi consigli
di sapienti e di specialisti e a volte un sapiente, riconosciuto per il suo sapere e la sua competenza, può diventare il
riferimento in campo giuridico. E' il caso oggi come lo è stato in tutto il corso della storia.

In tutto il mondo musulmano e in Occidente esistono spazi per i dibattiti tra sapienti nei quali si discute dell'aborto,
della procreazione artificiale, della donazione d'organi e anche di economia, di diritto e di problemi della società. Si
fanno ricerche, si emettono giudizi unanimi o a maggioranza. Esiste una fioritura intellettuale impressionante nella
nostra epoca, ma non sempre ci si rende conto di ciò dall'Europa.

J.N. Ma allora è un sistema liberale?

T.R. Sì, è un sistema di gestione del diritto molto aperto e molto dinamico che la fedeltà ai riferimenti non deve mai
soffocare, al contrario incoraggiare e vivificare.

Alcuni mi dicono: "Il suo atteggiamento è questo perché lei vive in Europa". Come se il dinamismo intellettuale, la
libertà di pensiero e di proposte fossero proprie esclusivamente dell'Europa e che in ogni altro luogo i musulmani
avessero smesso di riflettere! Questo è tenere in scarsa considerazione il fermento di pensiero che sta attraversando tutto
il mondo musulmano. In ogni paese del mondo si pongono questioni e si cerca, dall'interno dei nostri riferimenti
musulmani, di trovare le vie per fare gli adattamenti. E' ciò che avviene sia in Malesia, sia nel Medio Oriente, sia in
Occidente: si pongono dei problemi e si formulano pareri giuridici tenendo conto delle situazioni particolari. Le risposte
di Kuala Lumpur non saranno tutte appropriate per New York e non saranno completamente esportabili a Parigi, la cui
situazione differisce da quella di Losanna o di Ginevra. La riflessione è allo stesso tempo generale e localizzata in
funzione dei luoghi, delle legislazioni e dei costumi.

J.N. Allora ciò significa che - ed è assolutamente umano - in una determinata università, sia in Egitto, in Algeria, o in
Afghanistan, ci sono pressioni sui sapienti, pressioni politiche piuttosto che religiose. Il potere politico può interdire
l'insegnamento al tale sapiente perché ciò che dice non va nella direzione del potere.

T.R. Proprio così. Si sa che su alcune decisioni i Consigli di sapienti, ad esempio in Arabia Saudita, sono totalmente
legati al potere. La pressione e l'orientamento non lasciano dubbi. E' una cosa comune e alla quale ci si è
sfortunatamente abituati.

I poteri danno legittimità a taluni sapienti i cui pareri, sinceramente o per amore del prestigio, garantiscono la politica
degli stessi poteri. Nel corso della storia musulmana questa condotta dei governanti è stata una costante. E' il caso
dell'Arabia Saudita e di numerosi paesi del Golfo, dell'Egitto, della Tunisia, dell'Algeria, del Marocco. La lista è lunga,
troppo lunga...

La separazione delle competenze e dei poteri è un principio islamico ed è necessario che i sapienti si distacchino da
queste influenze e conservino la loro totale indipendenza ed autonomia. Oggi, grazie a Dio, c'è un'esplosione degli spazi
di concertazione ed alcuni di loro sono al sicuro dai poteri repressivi. E' un buon segno, come lo è il fatto che i sapienti
che appoggiano il potere siano conosciuti per quello che sono. Tutti sanno che lo sheikh Tantawi, attualmente a capo di
al-Azhar è stato scelto dal presidente Mubarak e che molti dei suoi pareri giuridici sono più "politicamente corretti" che
islamicamente fondati. La sua legittimità e la sua credibilità sono molto intaccate oggi.

La donna nella moschea


J.N. Torniamo ancora alla posizione della donna nell'islam vissuta nella pratica religiosa. Quello che mi ha sempre
colpito è che, quando si vedono dei musulmani pregare, sono sempre uomini. Mi ricordo che, ma lei può forse
correggermi, uomini e donne sono separati nelle moschee, gli uomini davanti e le donne dietro. Ma uomini e donne
hanno gli stessi obblighi, le stesse esigenze in materia di partecipazione alla preghiera comunitaria.

T.R. Per ciò che riguarda il legame con Dio e la pratica religiosa in generale, gli obblighi per le donne e per gli uomini
sono esattamente gli stessi, con un alleggerimento per le donne mestruate e le puerpere. La pratica è la stessa e le
esigenze legate alla spiritualità, al raccoglimento e alla vita interiore sono identiche.

Quanto alle moschee, ci sono diverse situazioni: a volte gli uomini sono davanti e le donne dietro, a volte c'è una
separazione tra due spazi contigui, a volte ci sono due piani. L'obiettivo, nella moschea, è di concentrare totalmente il
proprio essere, il proprio cuore e la propria coscienza verso Dio: la separazione degli uomini dalle donne permette di
evitare le preoccupazioni umane che potrebbero disturbare, tenuto conto della natura degli uomini, l'aspirazione verso il
trascendente. La moschea, luogo della prossimità, richiede di proteggersi dalla distrazione.

Da notare che a La Mecca, durante il pellegrinaggio, uomini e donne pregano l'uno accanto all'altra, espressione, in
questo momento di intensa spiritualità, di una eguaglianza totale degli esseri al Centro: uomini e donne, insieme,
davanti al Creatore. Alla luce di ciò che accade a La Mecca si comprende che la filosofia generale della separazione non
ha nulla a che vedere con una discriminazione di fatto ma piuttosto con un riguardo particolare alle esigenze di una
spiritualità profonda, concentrata, esclusivamente attenta alla presenza dell'Unico.

Bisogna tuttavia dire che, in certi paesi, in Asia o nelle regioni sotto influenza indo-pakistana, le moschee sono chiuse
alle donne. Questa lettura della tradizione non è fedele all'insegnamento del Profeta che aveva detto:"Non impedite alle
vostre spose di recarsi in moschea". La frase è chiara e non c'è possibilità di fraintendimenti. Sono stato recentemente
in Pakistan, all'isola Maurice e La Réunion dove le moschee il più delle volte sono interdette alle donne. Si tratta di
tradizioni che non sono fedeli alle due fonti sulle quali si basa l'islam le sole che fanno fede.

La moschea è un luogo di vita, di studio e di preghiera per le donne come per gli uomini. Quando uomini e donne sono
presenti per la preghiera questa è diretta da un uomo, ma per le donne tra loro è una donna che riveste il ruolo di imam
(la scuola malikita, maggioritaria nell'Africa del Nord, non lo permette e neppure alcuni sapienti della scuola hanafita).
Per la maggioranza dei musulmani la donna ha il diritto di dirigere la preghiera e di essere imam. Alcuni le riconoscono
il diritto di dire anche il sermone del venerdì e sono riportati esempi storici che confermano questa possibilità.

J.N. Se facciamo un paragone con la cristianità, si scoprono due atteggiamenti. Da parte dei cattolici, le donne non
hanno assolutamente alcuna funzione rituale: il sacerdozio è loro interdetto, malgrado le domande pressanti fatte in
questo senso dal popolo cristiano. Tra i protestanti, al contrario, i pastori sono indifferentemente uomini o donne. Se
consideriamo ora i sapienti, i teologi, i mollah o gli ayatollah, qui c'è una discriminazione?

T.R. Nella storia musulmana sono stati certamente gli uomini ad essere in maggioranza investiti del sapere. Ma fin
dall'origine le donne hanno svolto un ruolo che riconosceva loro la condizione di referente. E' il caso di Aisha, moglie
del Profeta, che ha riportato tradizioni e che era continuamente interpellata e consultata in materia di diritto e di
tradizione. Molte donne che vissero all'epoca del Profeta hanno avuto un ruolo nell'edificazione del sapere. Si trovano
qua e là nel corso della storia donne sapienti, mistiche, ma è più l'eccezione che la regola. Oggi assistiamo ad
un'evoluzione interessante: molte università che insegnano scienze islamiche (teologia, diritto, ecc.) hanno aperto le
porte alle donne che si contano a migliaia ormai nel mondo musulmano e in Europa, dove il fenomeno è recente ma
promettente.

J.N. Le donne sono studentesse e possono essere anche insegnanti?

T.R. Certo. Le studentesse, come ho detto, si contano oggi a migliaia. Ci sono anche insegnanti nei diversi campi delle
scienze islamiche. Mia zia era professoressa di economia islamica. E' una specialista tra tante altre donne, alcune delle
quali hanno proposto commenti al Corano, spiegazioni di tradizioni profetiche, ecc. Il numero resta ristretto ma si sta
delineando una tendenza che favorisce il loro impegno in questa direzione. La stragrande maggioranza delle scuole
musulmane ha oggi ammesso questa realtà, anche se i bastioni tradizionalisti continuano a pensare che questo non sia il
ruolo delle donne.

Per quanto riguarda l'impegno delle donne in posti di responsabilità sul piano religioso ci sono opinioni giuridiche
divergenti. Tuttavia alcuni sapienti difendono l'idea che le donne possono studiare ed insegnare le scienze islamiche,
che devono potere, una volta riconosciuta la loro competenza, partecipare ai consigli giuridici ed essere giudici: il
dibattito su quest'ultima questione è aperto ma la possibilità esiste ed è riconosciuta da sapienti ai quali ci si rivolge per
le consultazioni. In Europa, i luoghi di formazione, come quello di Chateau-Chinon, metà degli studenti sono donne. Il
loro dinamismo è evidente e promettente.

J.N. Considerando la comunità che ci circonda, la Francia, il Belgio o la Svizzera, le bambine imparano il Corano come
i bambini, esattamente nello stesso modo. Non ci sono discriminazioni?

T.R. Dipende dalle mentalità, certo, ma l'affermazione del Profeta è chiara. In un periodo in cui si uccidevano le
bambine alla loro nascita, egli ha detto: Il Paradiso è promesso a chi non uccide sua figlia, non l'insulta e non fa
differenza (nella sua educazione) tra lei e suo fratello. Si può forse essere più espliciti? Posso prendere il mio caso: ho
una figlia che ha dodici anni, un figlio che ne ha dieci e l'ultimo ne ha sette. I due più grandi seguono esattamente lo
stesso insegnamento, con le stesse esigenze e le stesse aspettative. Il più piccolo riceve ovviamente un'educazione adatta
alla sua età.

Il matrimonio misto
J.N. Affrontiamo ora un problema grave, il matrimonio misto. Questo tipo di matrimonio si sfalda troppo spesso su
problemi che sorgono quando Francesi o Svizzere sposano dei musulmani. Poco importa qui la nazionalità del marito,
algerino o francese, il risultato è lo stesso. Ciò diventa drammatico al momento del divorzio, perché alla donna è
proibito l'affidamento dei bambini e il diritto di visitarli. Questa penosa situazione umana pone un persistente problema
diplomatico tra la Francia e l'Algeria. Può dire qualcosa a questo proposito? Una donna non musulmana che sposa un
musulmano non ha per definizione alcun diritto sui suoi bambini?

T.R. Il problema che lei solleva è effettivamente drammatico. La questione dei matrimoni misti merita tutta la nostra
attenzione. Si deve fare un vero e proprio lavoro a monte dei matrimoni. Dedico molto tempo ad informare le coppie
che si formano sul fatto che bisogna mettersi d'accordo sulle modalità e sulle condizioni del matrimonio. Certo, c'è
l'amore, ma nell'islam il matrimonio è un contratto i cui termini devono essere chiaramente stipulati e le aspettative di
ciascuno esplicitamente enunciate, in particolare per quello che riguarda i bambini, la loro educazione e la loro custodia.
Val più frenare gli ardori dell'inizio, piuttosto che dover constatare il peggio dopo qualche anno.

L'islam esige che un musulmano non lasci mai i suoi bambini e in particolare che faccia in modo di poter dar loro
un'educazione in accordo con la sua religione. Questo non significa che la donna non musulmana non abbia alcun diritto
sui suoi bambini. Anche se il principio islamico è chiaro, esso non può giustificare qualsiasi cosa ed ogni situazione
deve essere regolata caso per caso. Bisognerà sempre evitare la strumentalizzazione della religione sia per giustificare
una custodia malgrado i maltrattamenti del padre, sia per demonizzarlo e fare in modo che i bambini vengano tolti al
loro padre malgrado la condotta dubbia della madre. Le due situazioni esistono e in ogni caso l'islam ci impone di
considerare la giustizia il più oggettivamente possibile.

Che drammi si hanno oggi perché non ci si è presi il tempo di metter le cose in chiaro! A volte l'evoluzione di uno dei
due coniugi provoca situazioni nuove che nulla lasciava presagire. Bisogna allora dar prova di psicologia; ascoltare,
dialogare, cercare soluzioni umane, dignitose e giuste come in tutte le situazioni simili.

J.N. Il matrimonio misto, almeno con le genti del Libro, ebrei o cristiani, è perfettamente accettato dall'inizio? Non è
necessario convertirsi? La situazione è simmetrica tra uomini e donne, nel senso che una musulmana potrebbe sposare
un non musulmano?

T.R. La questione del matrimonio misto per i musulmani deve essere considerata nella prospettiva della concezione e
della filosofia della famiglia così come sono trasmesse nell'insegnamento dell'islam. Il principio nel matrimonio è
l'uguaglianza degli esseri e la complementarietà dei ruoli e delle funzioni.

L'uomo ha il dovere di sovvenire ai bisogni della famiglia e, in questo senso, ha la responsabilità di mantenerla. La
donna ha il diritto di non preoccuparsi dei suoi bisogni materiali: è un diritto, non un dovere (come viene presentato a
volte da certi musulmani) e nulla impedisce a una donna di lavorare. Nello spazio familiare c'è nell'islam l'idea di un
diritto della donna che la può mettere sul piano finanziario in una situazione di dipendenza più o meno relativa.

Questa situazione spiega, a livello di filosofia generale, perché nell'islam un uomo musulmano può sposare una donna
delle genti del Libro, cristiana o ebrea, poiché per lui è un dovere rispettare la fede e la pratica di sua moglie e di
provvedere ai suoi bisogni. L'inverso non è possibile; una donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra
religione poiché essa potrebbe trovarsi in una situazione in cui il responsabile del focolare domestico non riconosce la
sua fede, la sua pratica e le esigenze generali e particolari della sua religione. Il grado di possibile dipendenza è
maggiore in questo senso con, in più, il fatto che il musulmano riconosce la fede ebraica e cristiana ma un cristiano o un
ebreo non considerano la rivelazione dell'islam autentica.

Ciò nonostante numerose musulmane sposano oggi non-musulmani in Europa, non rispettando questo principio
islamico stabilito sulla base del consenso generale (ijma'). A volte queste coppie miste, come le altre, sopravvivono ma
molto spesso si assiste a situazioni drammatiche. L'evoluzione dell'uno o dell'altro coniuge, a volte la riscoperta tardiva
dell'identità religiosa, rimette in discussione aspetti profondi che perturbano la vita di coppia. Alcuni finiscono col
separarsi.

Le donne o gli uomini non musulmani non sono i soli responsabili di questi cambiamenti: le musulmane ed i musulmani
non sono da meno. A volte, del resto, non si può parlare di errori, si tratta semplicemente di cambiamenti che il tempo e
la vita impongono ad un essere umano. In previsione di ciò, si deve fare un lavoro di informazione e comprensione
prima dei matrimoni. I buoni sentimenti, allo stesso modo che il solo enunciato dei principi islamici, non può essere
sufficiente. Quando si incrociano due religioni o due culture nello spazio dell'intimità familiare, solo la conoscenza, la
comprensione, il dialogo, la delicatezza e la pazienza permettono di risolvere i problemi. Dire "è colpa dell'islam,
dell'ebraismo, del cristianesimo" è un non-senso, una valutazione superficiale che cerca di confermare pregiudizi
preesistenti per i problemi delle coppie miste. Questa valutazione è come un circolo vizioso.

Il problema è profondo. Bisogna evitare il formalismo rigido e apparentemente confortante che troncherebbe a colpi di
principi decretati senz'anima né psicologia, come bisogna opporsi alle messinscene che vedono, ad esempio, uomini
convertirsi solo per potersi sposare. Questo tipo di soluzione "per oggi" è l'annuncio quasi sicuro di problemi
drammatici "per domani".

Una conversione senza la disposizione del cuore e dell'essere è nulla e non avvenuta. Si può provare ad ingannare se
stessi ma non si può ingannare il Creatore e domani lo sfaldarsi delle coppie ricorderà agli innamorati di ieri l'esigenza
di sincerità di un atto di fede autentico. L'unico che sia degno di un essere umano.

J.N. Se viene pronunciata una sentenza di divorzio in Francia e uno dei coniugi è tedesco, la Germania applicherà la
decisione della giustizia francese secondo la legge francese. Se il coniuge tedesco fugge coi bambini in Germania,
questo paese applicherà al suo cittadino una decisione presa da un tribunale straniero. Al contrario, è noto che tra la
Francia e l'Algeria questa situazione non è rispettata. E ciò provoca ulteriori drammi!

T.R. Bisogna fare un lavoro d'informazione accanto agli psicologi, agli avvocati, ai giudici e agli assistenti sociali in
Europa che cadono troppo velocemente nella semplificazione quando hanno a che fare con situazioni di conflitti
familiari e di divorzi, dal momento che è implicato un musulmano. L'idea che si fanno dell'islam e delle donne li spinge
a dar più rapidamente credito a ciò che dicono le donne. A volte lo fanno con molta sincerità, quasi senza rendersene
conto.

Pertanto la giustizia deve restare vigile, a maggior ragione quando si toccano rappresentazioni culturali degli uni e degli
altri. Purtroppo accade anche che certe donne ne traggano vantaggio. Non basta essere un marito musulmano per aver
torto, non basta essere una donna, musulmana o no, per aver ragione. Parrebbe stupido ricordarlo, ma ho dovuto farlo
tante volte durante procedimenti giudiziari. Ho dovuto ricordare con fermezza a uomini musulmani che non dovevano
nascondersi dietro un "non amano l'islam" o "mi attaccano perché sono un uomo musulmano" per non riconoscere le
loro responsabilità ed i loro errori. La strumentalizzazione delle rappresentazioni funziona nei due sensi e bisogna
restare, in ogni circostanza, equilibrati, vigili, meticolosi, intellettualmente onesti ed oggettivi.

La pratica dell’escissione
J.N. Visto che si parla della donna, non possiamo ignorare quello che forse non è che un dettaglio se vogliamo, ma un
dettaglio orribile. Può confermare che la pratica dell'escissione non ha nulla a che fare con l'islam? In tutta l'Africa del
Nord la pratica dell'escissione è qualche cosa di assolutamente sistematico, nel Senegal, nel Mali, nel Sudan o in Egitto.
Qual è la relazione tra questa pratica e l'islam, se ce n'è una?

T.R. Non ce n'è. Bisogna essere chiari una volta per tutte. Alcuni sapienti hanno potuto a volte far riferimento a detti
del Profeta che avrebbero lasciato una porta aperta a questo tipo di pratica (in rispetto di pratiche culturali in corso alla
sua epoca in certe regioni della penisola). In realtà l'islam non favorisce l'escissione e non ne fa assolutamente un atto
raccomandato, come invece avviene per la circoncisione maschile. Si può del resto essere musulmani senza essere
circoncisi (non si tratta di un obbligo). L'escissione è una pratica culturale che non ha fondamento religioso. L'idea di
negare alla donna la sua sessualità e/o il suo piacere nella sessualità è, l'abbiamo detto, in totale disaccordo con
l'insegnamento islamico.

L'islam riconosce le pratiche culturali purché queste non si oppongano ad un obbligo o una proibizione enunciate nelle
fonti scritte. Alcuni sapienti musulmani hanno dunque fatto mostra di tolleranza di fronte a queste pratiche ma la loro
lettura è specifica e discussa. Il caso dell'infibulazione non ha possibilità di discussione e si oppone chiaramente agli
insegnamenti dell'islam. Su questo argomento bisogna promuovere l'informazione, l'educazione e l'istruzione: è il vero
mezzo per opporsi a pratiche di questo tipo. Reprimere non porterà a granchè se questo non è accompagnato da una
campagna d'informazione che ricorda alle musulmane e ai musulmani che l'islam non esige nulla del genere, in nessuna
circostanza.

J.N. Abbiamo passato in rassegna una serie di problemi che creano tensioni tra il cristianesimo e l'islam e che, tutte,
sono centrate sulla relazione uomo-donna. La sessualità vissuta diversamente dalle due religioni non è alla radice di
questi problemi?

La sessualità come adorazione del creatore


All'interno della cristianità, dalle sue origini, dopo i due padri fondatori della Chiesa, Paolo di Tarso e Agostino
d'Ippona, si nota una diffidenza della sessualità e del piacere. Paolo di Tarso, del resto, fa un'apologia del celibato; il
matrimonio è solo uno stato di vita accettabile per soddisfare i bisogni sessuali se non si arriva a dominarli. Da parte dei
cristiani più integralisti, il piacere è solo tollerabile poiché difficilmente ci si può riprodurre e conservare come setta, se
ci si astiene completamente dalle relazioni sessuali. La posizione ufficiale della Chiesa cristiana è oggi molto più aperta,
più da parte dei protestanti che dei cattolici o degli ortodossi. Ma resta il fatto che l'obbligo del celibato per il clero
cattolico manifesta sempre, che si voglia o no, una forma di diffidenza. La vita monastica riposa su tre voti: obbedienza,
povertà e castità.

Da parte dell'islam la sessualità è considerata sana e normale?

T.R. Oserei dire che la sessualità è considerata molto più che semplicemente "sana e normale". C'è da stupirsi, e i
musulmani per primi, a leggere certi testi giuridici del XIII e XIV secolo, nei quali gli autori non esitano ad affrontare
apertamente la questione della sessualità ed a determinare ciò che in questo campo è permesso o no secondo
l'insegnamento dell'islam. I loro argomenti sono in avanti rispetto a quello che ci offre il discorso freddo, impacciato e
un pò a disagio della maggior parte dei sapienti contemporanei. Ponendosi, ovviamente, all'interno del quadro del
matrimonio, questi antichi testi parlano del piacere, dei preliminari, dei corpi, e descrivono le posizioni possibili
dell'amore, e tutto ciò in modo esplicito. Ricordano in questo l'insegnamento di Aisha, moglie del Profeta, che
benediceva le donne di Medina, il cui pudore non impediva loro di porre tutte le domande delicate legate all'intimità. A
questo proposito dunque tutto è permesso eccetto la sodomia: dolcezza, sensualità, preliminari, ecc. nel rispetto delle
aspettative e del piacere dell'uomo e della donna.

In una tradizione (hadith) riportata, il Profeta associa l'atto sessuale, purché vissuto nel quadro lecito, ad una elemosina,
nel senso che diventa espressione di un atto di adorazione di fronte al Creatore. La sessualità è dunque l'espressione
dell'essere che accetta tutto del dono di Dio, nel suo cuore come nel suo corpo e che ha coscienza della propria
responsabilità nel dominare le sue pulsioni ed i suoi istinti per permettere loro di vivere totalmente nella trasparenza e
nel dono, con l'essere che l'accompagna davanti a Dio. Gli uomini che circondavano il Profeta furono meravigliati da
questo insegnamento che incoraggiava a vivere la vita dei loro corpi e dei loro desideri.

L'islam si presenta come la religione dell'equilibrio ed il suo messaggio in materia è che un essere umano senza
sessualità non è equilibrato. E sempre si delinea la via del giusto mezzo: nessuna sessualità o una sessualità sfrenata
sono entrambe premesse di squilibrio.

La proibizioni dell’omosessualità

J.N. Ma sono illecite, come lei dice, un certo numero di pratiche ed in particolare l'omosessualità. L'omosessualità non è
incoraggiata, tutt'al più è tollerata?

T.R. L'omosessualità non è permessa nell'islam e la sua legalizzazione pubblica, come viene rivendicata in Europa, non
può essere considerata né sul piano del riconoscimento sociale, né sul piano del matrimonio, né sotto altra forma. Lì c'è
un limite riguardo all'espressione della norma che si applica allo spazio sociale e pubblico.
Il dibattito sull'omosessualità è complesso e mette in evidenza in ogni caso due concezioni dell'uomo: per l'islam,
l'omosessualità non è naturale, essa esce dalla via e dalle norme della realizzazione degli esseri umani davanti a Dio.
Questo comportamento rivela un turbamento, una disfunzione, uno squilibrio. Non si tratta di sviluppare un discorso di
rifiuto, di condanna di "questi malati" che ci circondano. Alcuni musulmani, sapienti o meno sapienti, parlano in questo
modo, ma non mi associo a questo discorso.

Oggi ci sono un'analisi ed una riflessione da sviluppare a monte: il limite, l'ho detto, è chiaro riguardo alla proibizione,
ma l'applicazione deve tener conto della società, dell'ambiente, della storia personale degli esseri. Non si tratta di
colpevolizzare, ma di accompagnare, di orientare, di riformare, per accedere all'equilibrio della spiritualità, dell'intimità
e della vita del corpo.

J.N. Nella pratica è tutto diverso. In certi paesi musulmani esiste ancora la repressione legale della sessualità, come
abbiamo visto con l'ex vice Primo Ministro di Malesia che è effettivamente perseguitato per fatti di omosessualità.

T.R. Ogni giorno nuove rivelazioni mettono in evidenza che le accuse contro l'ex vice Primo Ministro, Anwar Ibrahim,
sono state inventate di sana pianta dal Primo Ministro e dal suo personale, al fine di eliminare un uomo che stava
prendendo troppo spazio nel cuore del popolo e agli occhi dei governi del mondo. In un paese molto sensibile alla
morale ed al comportamento, un'accusa che si basa sui costumi sessuali segna la fine di un uomo pubblico.

J.N. E' un buon pretesto.

T.R. Sì, ma bisogna ancora attendere che queste illazioni vengano confermate. Nel caso della Malesia la menzogna è
palese e Ibrahim si trova chiaramente di fronte ad una macchinazione. L'uomo che avrebbe avuto una relazione
omosessuale con lui si è contraddetto durante il processo. Le accuse di sodomia e omosessualità non hanno alcun
fondamento. Credo che si debbano leggere gli avvenimenti della Malesia attraverso la lente della lotta politica e non con
l'idea di una repressione della sodomia e dell'omosessualità proibite nell'islam.

J.N. Ancora una volta, per essere equi, bisogna ricordare che all'inizio del secolo l'omosessualità tra adulti consenzienti
era considerata un delitto in una società relativamente liberale e permissiva come l'Inghilterra. Lo scrittore Oscar Wilde
è stato in prigione per omosessualità, sottoposto a lavori forzati degradanti, poi esiliato e tagliato fuori. E' difficile
spazzare davanti alla porta del vicino quando la propria soglia è sporca. Riassumendo, ciò che abbiamo scoperto della
donna musulmana è molto diverso da quello che si pensa in Occidente. Secondo il Corano il principio è l'uguaglianza
tra uomini e donne, ad eccezione della situazione matrimoniale in cui l'islam tiene conto della situazione di fatto. In
questa relazione l'uomo e la donna sono complementari, non identici; l'islam ha una concezione della famiglia che
implica l'educazione dei bambini alla religione. Per questo motivo i matrimoni misti, nell'unico caso autorizzato, quello
tra marito musulmano e moglie cristiana o ebrea, costituiscono avventure rischiose. Su questo punto sensibile, si
sperimenta tutta la differenza tra l'Occidente laico e l'islam profondamente religioso. L'atteggiamento attuale dell'islam
non è del resto molto diverso da quello della Chiesa cattolica di un secolo fa. In altre parole quando la religione
impregna tutta la vita, essa ha una forte influenza sulla concezione del matrimonio. Al di fuori del contesto di una fede
religiosa, il matrimonio non è altro che un contratto sociale con clausole giuridiche e finanziarie. Tale è l'ambito esatto
della differenza.

Nel mondo musulmano ci sono altre pratiche sociali di fronte alle quali l'islam emette pareri giuridici diversi. Abbiamo
parlato della poligamia che è autorizzata ma con condizioni molto restrittive. L'escissione in quanto tale non ha
fondamento islamico. Non si può rendere l'islam responsabile di queste pratiche ma penso che dispiaccia che la lotta per
porvi termine non sia stata più vigorosa.

CAPITOLO 4

IL DIRITTO E L'ISLAM
La percezione inquietante della shari’ah

JACQUES NEYRINCK Un musulmano può sottomettersi ad un diritto che non sia quello coranico? Il dibattito tra le
due culture riguarda, a quanto pare, una concezione diversa del diritto: nei paesi islamici questo diritto deriva dal
Corano e raggruppa le prescrizioni giuridiche in esso contenute, le quali sono considerate imprescrittibili. Nell'opinione
illuminata dell'Occidente si comincia a percepire l'esistenza della shari'ah, il diritto di origine coranica. Tra i timori che
un occidentale prova rispetto al diritto così come lo concepisce l'islam, ce ne sono due principali.

Il primo timore deriva dall'origine della shari’ah. Un diritto di origine divina è radicalmente diverso da un diritto
fondato sui diritti dell'uomo come lo sono attualmente la maggior parte delle costituzioni e dei codici di diritto civile. La
shari’ah non è essenzialmente distinta dalla morale religiosa. Non esiste questa separazione tra Chiesa e Stato, che è in
fondo divenuta la regola un pò dappertutto, anche se essa subisce tutti i generi di distorsione. Un diritto di origine
religiosa non può che imporsi a fedeli di una sola religione mentre i diritti contemporanei basati sulla filosofia laica
possono costituire un compromesso accettabile per tutti, in una società pluralista. E' la radice del conflitto: in una
società tradizionale c'è una sola religione, cemento della solidarietà nazionale o tribale; nella società occidentale la
regola è la pluralità delle religioni, ivi compreso l'ateismo.

La seconda inquietudine deriva dal carattere arcaico della shari’ah. E' perfettamente comprensibile che la shari’ah,
elaborata nel VII secolo, fosse probabilmente molto avanzata per l'epoca. Da un punto di vista storico essa ha costituito
forse un avanzamento, garantendo una serie di diritti dell'uomo che erano ignorati all'epoca. Ma si ha l'impressione che
la shari’ah non cambi, proprio perché è di origine divina. Al contrario del diritto laico dell'Occidente, che si adatta ai
costumi a mano a mano che essi si evolvono, un diritto fondato sul Corano non evolverà per definizione.

Questo solleva una grande questione sulla quale vorrei sentire il suo parere. Qual è la fonte del diritto? Nel Corano si
trova un certo numero di prescrizioni che possono essere considerate giuridiche. Non ce ne sono tantissime, da duecento
a trecento. Ma ad esse si sovrappone un'enorme giurisprudenza che si chiama sunnah. Come si può definire il concetto
di diritto nell'islam?

TARIQ RAMADAN Qui affrontiamo una questione particolarmente sensibile. Solo nell'enunciato della sua domanda,
appaiono questioni di terminologia che bisogna assolutamente definire prima di entrare nel dibattito sul diritto.
Sussistono oggi profondi malintesi nel campo della legislazione islamica a causa della comprensione parziale che di
essa si ha in Occidente.

La colpa non è solo degli orientalisti o degli intellettuali europei, ma anche e soprattutto dei musulmani stessi che
manifestano una reale mancanza nello spiegare, comunicare e mettersi nella prospettiva dei loro interlocutori. La
mancanza di comunicazione è gravissima in materia, perciò le propongo di fissare qualche punto di riferimento per
meglio entrare nella discussione. Bisogna prima di tutto sottolineare che la prima scienza islamica è il diritto e la
giurisprudenza. Non si tratta mai, per il Profeta dell'islam ed i suoi compagni, di impegnarsi in discorsi teorici di
teologia speculativa. La loro attenzione, nel cuore stesso del loro cammino spirituale, si è immediatamente orientata
verso l'organizzazione pratica della vita quotidiana dell'individuo e della comunità. E' stato così anche per le prime
generazioni di sapienti.

Il primo termine da definire è quello di shari’ah. Lo si trova oggi in tutte le salse, se così posso dire, ma non si sa molto
bene che cosa significhi questa parola. Letteralmente si tratta della "via", del "cammino verso la fonte" e nel Corano si
trova la radice del termine utilizzato per esprimere il fatto che nel corso della storia ogni religione ha ricevuto la sua
"via": A ciascuno abbiamo dato una via ed una prassi (un metodo, una metodologia).

I commentatori hanno dato interpretazioni diverse sulla definizione del termine in questione e ciò in funzione, molto
spesso, del loro campo di specializzazione. Taluni giuristi, i fuqaha, l'hanno limitato solo al diritto, altri gli hanno
attribuito un'accezione più ampia, tenendo conto del fatto che la categorizzazione delle scienze non esisteva all'epoca
del Profeta e che si doveva restare fedeli a questa dimensione globalizzante.

Molti sufi hanno espresso la stessa opinione ed hanno affermato che la shari’ah ingloba allo stesso tempo il legame col
Trascendente, il cammino spirituale e l'organizzazione della città. Essa è "la via" che esprime la fedeltà della coscienza,
del cuore e dell'intelligenza. Siamo lontani, come lei vede, dalla pura applicazione di un codice penale riduttivo: si tratta
del concetto della vita e della morte, del senso e dei comportamenti.

Bisogna andare ancora oltre perché, all'orecchio europeo, mescolare così i campi dell'intimo e del pubblico riporta alla
mente pessimi ricordi: la teocrazia col suo corteo di deviazioni e di oppressione. E' dunque necessario che il lettore si
decentri dai propri punti di riferimento ed in particolare dal suo concetto di "religioso" per comprendere la logica
interna del pensiero musulmano.
Ciò di cui dobbiamo occuparci qui è il diritto, che ci fa proseguire il nostro lavoro di chiarificazione: abbiamo già detto
che i due punti di riferimento dell'islam sono il Corano, testo considerato rivelato, e la sunnah, compilazione delle
tradizioni che riportano ciò che ha detto, fatto o approvato il Profeta dell'islam. In materia di diritto, la shari’ah è
l'insieme delle prescrizioni legali che si trovano in questi due referenti.

Ora, che cosa si può constatare? Nei testi si trovano pochissime prescrizioni di questa natura e, soprattutto, queste sono
molto generiche ed insufficienti per elaborare una costituzione o per organizzare completamente una città. Certo, esse
espongono un orientamento al quale il musulmano deve cercare di restare fedele, sapendo che la sua fedeltà sarà
necessariamente fondata su un lavoro di razionalizzazione e di contributo umano elaborati alla luce del suddetto
orientamento generale.

Dobbiamo ora dire qualcosa sul fiqh che è in realtà il diritto islamico. Letteralmente la parola vuol dire "la
comprensione profonda" ed è proprio di questo che si tratta. Il lavoro di elaborazione del diritto si fa a partire da una
lettura normativa delle fonti al fine di estrarne le prescrizioni giuridiche e di permetterne la classificazione.

Sono stati specificati due campi essenziali: il campo del culto e della pratica (al-ibadat) ed il campo degli affari sociali
in senso ampio (al-mu'amalat). E' fondamentale capire che, se questi due campi si fondano entrambi sulle fonti scritte, è
stata stabilita una metodologia diversa per ciascuno di loro: nel campo del culto le prescrizioni sono molto spesso chiare
e precise ed il musulmano deve attenersi alla lettera ai testi. In questo campo che riguarda la preghiera, la zakah, il
digiuno ed il pellegrinaggio, gli è consentito fare solo quello che si basa sull'autorità di un testo.

Avviene tutt'altra cosa nella sfera degli affari sociali, la cui metodologia è improntata ad una logica diversa: cioè, negli
affari sociali il campo del possibile è aperto, tanto che non si ha un testo che proibisce di agire in un dato modo.
Contrariamente al culto, il principio fondamentale qui è il permesso. Potremmo dire che tutto è permesso salvo quello
che è esplicitamente proibito.

Una volta specificate così le due sfere, si comprende meglio qual è il ruolo della terza fonte del diritto musulmano,
l'ijtihad, lo sforzo di elaborazione giuridica che il sapiente intraprende alla luce delle fonti. Si tratta infatti di promulgare
pareri giuridici per situazioni che i testi scritti non considerano direttamente. Questo lavoro sarà quasi inesistente per
quello che riguarda il culto poiché questo è stato fissato una volta per tutte. Non è la stessa cosa per gli affari sociali per
i quali un conseguente lavoro deve essere elaborato dall'intelligenza umana. A partire dagli orientamenti generali
contenuti nelle fonti, i sapienti devono trovare risposte fedeli ai testi ed adatti al loro contesto.

Il diritto islamico è dinamico, evolutivo, e soprattutto fondato sull'esigenza di razionalità ed elaborazione umane. Non
ha niente a che vedere con l'idea di un diritto fisso, totalmente disumanizzato perché rivelato: al contrario, la rivelazione
esige che la ragione umana svolga il suo ruolo. Essa è un dono divino che permette la comprensione di ciò che è rivelato
e, per estensione, è il riferimento dell'uomo quanto alla sua capacità di restare fedele seguendo la via. Non c'è fedeltà
senza intelligenza. Nessun pensiero dogmatico qui, perché il Profeta stesso aveva concesso il diritto all'errore,
affermando:"Chiunque compia uno sforzo di elaborazione giuridica e trova una buona risposta riceve due ricompense;
chiunque compia uno sforzo di elaborazione giuridica e si sbaglia avrà una ricompensa". E' non solo un diritto
all'errore ma anche un incoraggiamento alla ricerca, allo spirito d'iniziativa, se lo sforzo è sincero e ricerca la fedeltà
nell'evoluzione.

J.N. Si potrebbe dire che la shari’ah occupa la stessa posizione, rispetto al diritto così come è praticato nell'islam, della
Dichiarazione dei diritti dell'uomo rispetto al diritto civile o penale nei paesi occidentali. E' una dichiarazione di
intenzioni, è un insieme di grandi orientamenti?

T.R. Si tratta effettivamente del riferimento che orienta il pensiero e l'intelligenza umana verso un lavoro permanente di
lettura, di applicazione, di prolungamento e di adattamento.

J.N. Tali sono i grandi principi. Bisognerà separarli bene, in tutti gli argomenti che discuteremo, dalla loro applicazione
più o meno riuscita.

L’eguaglianza dei diritti

Prendiamo, ad esempio, l'uguaglianza dei diritti tra i cittadini, che è un principio generale nei paesi occidentali, dove
tutti gli uomini sono uguali purché, ben inteso, abbiano il passaporto giusto. Tra i cittadini di un paese non c'è, per
principio, nessuna discriminazione.
Com'è la situazione in un paese a maggioranza musulmana, a proposito dell'uguaglianza dei diritti tra musulmani e non-
musulmani, considerando separatamente le genti del Libro e dopo i pagani?

T.R. Sulla base del principio enunciato, si deve ritornare alle fonti ed in particolare all'esempio del Profeta per
conoscere l'orientamento generale di cui abbiamo parlato poco fa. Quando Muhammad arriva a Medina, si trova in un
contesto del tutto particolare in cui coesistono diverse tribù e tradizioni religiose ed in particolare ebrei e cristiani.

Egli organizza la sua società tenendo conto di questi parametri al punto che la Costituzione di Medina, elaborata,
ricordiamocelo, all'inizio del VII secolo, considera gli ebrei ed i cristiani come membri a tutti gli effetti della società
islamica sulla base del principio: essi hanno gli stessi nostri diritti e doveri. A questo principio il Profeta non mancherà
mai ed affermerà chiaramente: “Nel giorno del Giudizio testimonierò contro chiunque avrà maltrattato o sarà stato
ingiusto con un non-musulmano che avrà stabilito un patto con noi”. Il termine mu'ahid vuol dire "un individuo che ha
stabilito un contratto" e ciò che deriva da questo concetto è proprio l'idea di un contratto sociale e politico che si fonda
fin dall'inizio sul riconoscimento della pluralità e del suo rispetto. Quando più tardi si presentarono altre comunità
(come gli zoroastriani) il Profeta richiese di applicare lo stesso principio che per le Genti del Libro, il che fu fatto.

Nel corso dei secoli, questo principio è stato codificato ed applicato in diversi modi. A volte con un gran rispetto e
un'apertura che ha permesso la costituzione di spazi sociali e politici molto aperti ed egualitari; a volte, bisogna
riconoscerlo, con la sola vernice dell'apparenza, poiché le minoranze non-musulmane hanno potuto subire
discriminazioni reali e gravi. La condizione del dhimmi, del "protetto", l'altro nome per i non-musulmani nelle società
musulmane, non è sempre stato lo stesso: a volte è stato elevato al rango di vero cittadino, in base all’orientamento
islamico, e a volte ne è stata fatta una lettura restrittiva e chiaramente discriminante, e ciò ne è il tradimento.

Resta il fatto che, fino alla recente epoca dell'Impero ottomano, si sono viste società pluraliste che non si sono
accontentate del solo pluralismo di opinioni ma anche del rispetto della diversità delle religioni e delle culture. Si cita
spesso l'esempio andaluso, ma si dimentica di far riferimento a tutte quelle società musulmane che, nell'Africa del Nord
e dell'Ovest, in Turchia, in Egitto, in Asia hanno permesso una coesistenza diversificata. Lo testimoniano secoli di
presenza ebraica e cristiana in territori musulmani ed il loro impegno oggi in posti chiave del potere,
dell'amministrazione e della sfera economica lo provano malgrado le mancanze che bisogna comunque riconoscere e
denunciare.

Sulla base delle distinzioni metodologiche che abbiamo presentato tra il culto e gli affari sociali, il rispetto dei principi
suddetti deve portare i musulmani a cercare l'organizzazione sociale e politica che, sempre restando fedele ai principi,
permette loro di realizzare l'uguaglianza dei diritti e dei doveri nella nostra epoca. Non c'è un unico modello ma
esistono principi inalienabili: rispetto della persona e della sua pratica, accesso ad una cittadinanza ugualitaria ed equa,
pagamento di una tassa militare dal momento che non si partecipa alle esigenze della protezione militare. Alcuni
sapienti e alcuni intellettuali non esitano ad affermare che i termini mu'ahid o dhimmi sono l'equivalente di "cittadino"
oggi, per i doveri e i diritti che dall'origine si associavano a queste nozioni.

Il caso dell'ateismo in territorio musulmano non è stato studiato a dovere. Alcuni sapienti hanno affermato senza
sfumature che non poteva essere accettato: cioè, nessuna espressione di ateismo in terra musulmana. Altri sono stati più
possibilisti, ammettendo in certi limiti la presenza di atei in una società musulmana. Bisogna dire che questo tipo di
argomentazione, nei termini nei quali è stata posta oggi, è molto recente. Per molto tempo l'ateismo filosofico è rimasto
molto marginale nelle società a maggioranza musulmana, in ogni caso nella sua espressione pubblica.

Oggi si deve far fronte a queste evoluzioni e attenersi ad un principio fondamentale: in una società a maggioranza
islamica, la costituzione dovrebbe stabilire il riconoscimento del riferimento religioso degli uni e degli altri. La parola e
l'ideologia restano libere dal momento che non si riferiscono ai credo religiosi, ai valori fondamentali e alle sensibilità
degli esseri umani, nel rispetto dell'ordine costituzionale. Questo è un modello conosciuto in Occidente.

J.N. Tale è il principio. Ma come tutti i principi è violato in diversi luoghi. Quando i sudanesi del Nord si dedicano a
massacrare e a condurre una guerra civile contro quelli del Sud, che siano animisti o che siano cristiani, essi si pongono
completamente al di fuori di questo principio. Lo violano palesemente.

Non si può biasimare allo stesso modo l'atteggiamento rigorista dell'Arabia Saudita dove i cristiani non hanno
assolutamente alcun diritto di praticare il loro culto, persino in locali privati? Il pretesto è che si considera tutta l'Arabia
Saudita come una moschea e all'interno di una moschea non si può costruire una chiesa. L'Arabia Saudita, pur essendo
guardiana della città santa di La Mecca, non si pone al di fuori dell'islam per via di questa prescrizione meschina e
odiosa? Non viola il principio col pretesto di meglio difendere la fede? A titolo di paragone, si può citare la recente
costruzione a Roma di una magnifica moschea. Solo per reciprocità, si dovrebbe costruire una chiesa a Riyad.
T.R. La politica dell'Arabia Saudita è dettata in materia da una tradizione di Muhammad nella quale egli dice,
riferendosi al dopo-rivelazione: Non ci saranno due religioni nella penisola. Questo testo è autentico e solleva delle
questioni riguardo alla sua applicazione.

Il solo enunciato del testo non può far dimenticare i principi superiori dell'islam che sono il rispetto della fede altrui, la
sua libertà di coscienza e di pratica ed il rifiuto di qualsiasi costrizione in materia di religione. Se è chiaro che non si
possa immaginare una chiesa a La Mecca o a Medina propriamente dette poiché sono spazi musulmani che portano una
dimensione sacra per natura, non è la stessa cosa per le altre città e regioni del paese.

Se si tiene conto, per di più, del fatto che è il governo stesso che fa venire i cristiani per lavorare nel proprio territorio, si
ha l'obbligo di dire che in nome di un testo molto specifico, il governo saudita tradisce i principi superiori dell'islam in
materia di diritto. Si attiene ad una lettura chiusa e letterale che in fondo si rivela assai ipocrita: non è vietando la
costruzione di chiese dove si sono stabiliti i cristiani che si applica l'islam. Al contrario, i nostri principi ci impongono
di considerare queste situazioni e di porci il problema. No, la vera applicazione dell'islam consiste nel combattere tutto
quello che avviene di nascosto, corruzioni, favoritismi, traffici di stupefacenti e di videocassette immorali! Non si ha
vergogna di proibire alle persone devote di pregare mentre si possono fare i peggiori commerci con i peggiori rapaci
senza morale, senz'anima, senza coscienza.

Quanto al Sudan, non semplifichiamo troppo in fretta il problema. Tanto per cominciare non si tratta di un problema di
minoranze religiose, "animiste" o cristiane che siano. Qui abbiamo a che fare con una guerra civile di natura politica le
cui cause risalgono alle origini della gestione inglese della regione. Esistono dei problemi, senza alcun dubbio, ci sono
delle discriminazioni, è vero, e devono essere denunciate chiaramente come devono essere denunciati tutti i derapage
gravi e volti alla repressione, del potere di Khartoum. Ma ciò non può giustificare qualsiasi analisi orientata
ideologicamente: mi sono recato sul posto e non posso dar credito a quanto affermano americani e missioni cristiane,
che cercano, per ragioni politiche, di demonizzare il potere sudanese. Il regime di Khartoum, con tutto quello che si può
e si deve dire chiaramente, è molto meno repressivo di quello egiziano e di quello dell'Arabia Saudita.

Allora perché ci si accanisce contro gli uni e si passano sotto silenzio gli altri? La verità è che il Sudan è un elemento di
disturbo a causa del suo rifiuto di sottomettersi ai diktat americani nella regione, mentre l'Egitto e l'Arabia Saudita sono
palesemente al soldo degli Stati Uniti. Non posso in alcun modo farmi garante delle valutazioni selettive che ci vengono
imposte: in realtà, il vero criterio di denuncia oggi non riguarda l'orrore di un regime ma piuttosto la "qualità" del
proprio infeudamento. Per salvare il regime dell'Arabia Saudita non si esiterà a chiedere al capitano Baril di diventare
musulmano per una settimana allo scopo di annientare migliaia di insorti, come è avvenuto nel 1979[1]. Se un regime è
sottomesso, anche se è dittatoriale, i suoi nemici diventano i nostri nemici, anche se sono democratici. Basta saper
presentare le cose.

La schiavitù

J.N. Evochiamo un'altra dimensione, la schiavitù, che costituisce il limite estremo della discriminazione, dal momento
che esseri umani vengono trattati come animali. Ancora una volta, la schiavitù non è stata condannata o soppressa
dall'inizio, nel VII secolo, questo va da sé. Era praticamente di regola in tutto il mondo. Il servaggio, presente all'inizio
del feudalesimo in Europa, di fatto non era molto diverso dall'antica schiavitù. Si ha l'impressione che si tratti di una
tara sociale legata inevitabilmente a certe condizioni economiche. L'obiettivo di una fede religiosa dovrebbe essere
quello di proclamare, anche in anticipo sui propri tempi, il fatto che si tratta di un'anomalia.

Che cosa dice il Corano riguardo alla schiavitù? Il Corano, la tradizione o la giurisprudenza hanno portato a poco a poco
a limitare la schiavitù, o addirittura a sopprimerla, cosa che avviene già in un certo numero di paesi ma non in altri. La
situazione di fatto dei collaboratori domestici stranieri in Arabia Saudita non sarebbe paragonabile ad una forma
moderna di schiavitù?

T.R. Al momento in cui viene rivelato il Corano, nell'VII secolo, la schiavitù esiste nella penisola araba. A partire da
questa realtà, è chiaro che l'insieme delle prescrizioni coraniche, come pure l'esempio del Profeta dell'islam, sono volte
a riformare questo stato di fatto, senza proibire arbitrariamente ed improrogabilmente, ma stabilendo delle tappe in
modo molto esplicito per la realizzazione di questo progetto sociale. Molte prescrizioni coraniche seguono questo
modello di riforma appoggiandosi all'orientamento generale e alle fasi della sua realizzazione.

Il messaggio coranico e la sunnah parlano dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani. I compagni liberavano gli schiavi e
le prescrizioni legate all'espiazione delle colpe stabiliscono per legge la liberazione degli schiavi. Le cose sono molto
esplicite ed i giuristi continuano a ricordarlo: se la schiavitù è stata una realtà delle società preislamiche, essa diviene
un'anomalia nella costituzione della società musulmana. Tutto conferma questa lettura quando ci si sofferma sull'analisi
della città di Medina. La rivelazione coranica si deve comprendere a partire da un contesto per apprendere in seguito
quali sono gli insegnamenti fondamentali: in essa non c'è mai la garanzia dello schiavismo. Al contrario i giuristi
sottolineano che l'islam è un messaggio di liberazione in base al quale ciascun essere umano, uomo o donna, si impegna
in un processo che gli permette di accedere all'autonomia ed alla libertà.

Quanto alla sua domanda sullo schiavismo in Arabia Saudita e in altri paesi del Golfo, non c'è possibilità di
barcamenarsi e fare contorsioni intellettuali a riguardo: il modo in cui vengono trattati i filippini, i pakistani o altri
asiatici è schiavismo moderno, un grave tradimento dei principi islamici. La mia condanna è totale, in nome della mia
fede, dei principi della mia religione e della mia coscienza.

J.N. Su quanto ha detto riguardo all'uguaglianza, vorrei dei chiarimenti. Forse uno schiavo non poteva convertirsi
all'islam, oppure doveva essere liberato prima di potersi convertire ed essere considerato musulmano?

T.R. No, poteva convertirsi e molti schiavi l'hanno fatto all'epoca della rivelazione e poi nel corso dei secoli successivi.
Ma la realizzazione della loro fede e della loro capacità di diventare autonomi e liberi fa parte della realizzazione di loro
stessi. La pienezza della loro fede presupponeva questo cammino verso la liberazione. E' ciò che hanno capito
moltissimi compagni che hanno liberato i loro schiavi, sia per espiare un loro errore, sia per dare giustamente la
possibilità a questa società di diventare una società di esseri liberi.

J.N. In pratica, resta un certo numero di paesi, la Mauritania, il Sudan, l'Arabia Saudita in cui continua ad esistere di
fatto una schiavitù dichiarata o larvale. Ma le autorità religiose, i mollah, biasimano il governo a questo riguardo? Una
autorità religiosa dovrebbe chiedere alle autorità civili e politiche di abolire la schiavitù.

T.R. E' vero che nelle società afflitte dalla miseria e da un sottosviluppo quasi endemico, si trovano situazioni in cui la
schiavitù persiste in un modo o nell'altro. E' necessario fare un discorso molto chiaro: la condizione nella quale sono
tenute certe popolazioni è una condizione di schiavitù. Detto questo, non bisogna dimenticare che, per molti popoli,
anche se non si parla di schiavitù, la situazione è comunque quella di una schiavitù di fatto, anche se non di diritto.
Certe autorità musulmane denunciano queste realtà ma sono solo un'eccezione. I regimi sono duri e lasciano pochissimo
spazio alla libera espressione.

Sta dunque a noi, dall'Europa, dire la verità e denunciare gli orrori che vengono commessi a volte in nome dell'islam. Il
modo in cui vengono trattati i filippini o i pakistani nei paesi del Golfo, i maltrattamenti, le punizioni fisiche, il
commercio degli esseri è inumano e contrario all'insegnamento islamico. Si aggiunga anche che l'ordine del mondo
riduce ad uno stato di quasi schiavitù circa due terzi del pianeta e che anche in questo caso non si può tacere.
Denunciare lo schiavismo degli uni ci impone anche di condannare un sistema globale di promozione insidiosa dello
schiavismo moderno: entrambi sono indegni. Basti ricordare l'orrore del lavoro infantile nel mondo...

J.N. Se ritorniamo a considerare il Profeta come riformatore del giudeo-cristianesimo, questo è forse ciò in cui è riuscito
meglio: liberare la tradizione giudaica dal suo contesto strettamente nazionalista senza cadere nell'ellenismo che ha
contaminato il cristianesimo occidentale.

Dal momento in cui si esce da questo contesto - convertire persone che praticamente lo sono già - ci si scontra con
difficoltà considerevoli. Convertire popoli politeisti, animisti, incolti, è molto difficile. Ci vogliono secoli per dissolvere
un substrato pagano che riaffiora da tutti i pori della società. Per il Profeta era molto più facile partire da una base
giudeo-cristiana. Dunque, l'islam ha effettivamente potuto in Iraq o in Egitto arrivare ad un risultato completamente
diverso da quello che ha potuto ottenere con i Beduini o i Tuareg. Questo spiega - senza giustificarlo - il ritardo della
Mauritania, del Sudan o della penisola arabica.

Le punizioni corporali

Affrontiamo il capitolo delle sanzioni. L'occidentale resta sempre inorridito dalle sanzioni che vede applicare non solo
in teoria ma anche in pratica. Penso alla testimonianza di un mio nipote che ha lavorato in un Hotel di Riyad. Un
ragazzo filippino, che faceva le camere, ha rubato del denaro dalla borsa di una hostess dell'Air Algerie, che l'ha
denunciato. E, davanti a tutto il personale riunito, è stata tagliata la mano del ladro. Conclusione di mio nipote: ci sono
pochi posti dove si ruba così poco come in Arabia Saudita. Si può lasciare qualsiasi cosa in qualsiasi posto, nessuno la
toccherà.

Si può comprendere questa situazione finché ci si trova nel deserto e chi ruba un oggetto nel deserto può in effetti
rubare la vita di qualcuno. In fondo è la stessa giustizia del Far West dove si veniva impiccati per aver rubato un
cavallo. Era logico, poiché se si rubava un cavallo si rubava la vita di colui che non aveva più il cavallo. Ma nel
contesto delle città modernissime che sono state costruite nella penisola araba, è straordinariamente scioccante.

Allora, che cosa bisogna pensarne? E' questa una sanzione che deve essere applicata? E' una vera espressione
dell'islam? Recentemente il Pakistan ed il Sudan sono stati zelanti ed hanno ristabilito questo tipo di pena, che, ben
inteso, non esiste in altri paesi musulmani. Allora, com'è possibile che, facendo riferimento alla religione, si
raccomandino ancora, a torto o a ragione del Corano, pratiche così barbare?

T.R. La domanda ha il merito di essere chiara, cercheremo di dare un risposta altrettanto esplicita. Alcune sanzioni
corporali, come nel nostro caso quelle che riguardano i ladri, sono effettivamente menzionate nel Corano. Detto questo,
come abbiamo visto per altre questioni, non si può fare una lettura riduttrice e letterale che dimenticherebbe il contesto
della rivelazione e la condizionalità della sua applicazione. Alcuni governanti strumentalizzano questi versetti e li
utilizzano per giustificare le politiche più repressive, ancora una volta in totale contraddizione con l'insegnamento
dell'islam. Affermando di applicare l'islam, iniziano dalle punizioni... E' esattamente il contrario di quello che l'islam ci
insegna.

Ciò che ci viene richiesto è di stabilire la giustizia e di dare il minimo necessario a ciascuno. E' quando una società ha
raggiunto questo livello di giustizia e di equità che il rigore della sanzione ha un senso. L'anno della carestia il secondo
califfo Omar aveva sospeso l'applicazione di queste pene perché sarebbe stata in totale contraddizione con
l'insegnamento dell'islam. In altre parole, il "ladro" si definisce in rapporto al contesto di vita nel quale vivono gli
uomini: un essere umano che ruba per la sua sopravvivenza non è un ladro nel senso coranico del termine. Taluni
infrangono la legge e bisogna intervenire, ma non si può applicare una sanzione corporale.

Ciò vuol dire che l'applicazione di questa pena oggi è in totale contraddizione con l'islam, poiché la prima delle
condizioni oggettive che essa richiede è assente. Del resto, dovremmo dire con una punta d'ironia che, se dobbiamo
veramente pensare ad applicarla, dovremmo iniziare dai re, principi, presidenti e altri notabili che hanno il necessario
per vivere e che derubano allegramente il loro popolo. E' infatti la minaccia che Omar aveva fatto ad un ricco che era
venuto da lui per lamentarsi del suo impiegato che lo aveva derubato. Omar interrogò l'impiegato il quale affermò che il
suo padrone non gli dava abbastanza per vivere e che egli si trovava dunque obbligato a rubare. Omar si voltò verso il
datore di lavoro e lo minacciò di prendersela con lui anzichè col povero e di tagliargli entrambe le mani se non dava il
necessario per vivere al suo impiegato. Si è lontani dall'applicazione mendace con la quale i veri ladri al potere ci
ingannano.

Bisogna ancora aggiungere altre condizioni oggettive che i giuristi hanno sottolineato: il furto deve essere perpetrato
con violenza ed anche superare un valore determinato alla luce dei parametri delle rispettive società. Tutte queste
condizioni sono state stipulate fin dall'inizio e non sono state recise più di sei mani nei primi cinque secoli dell'islam. E
queste furono già eccezioni rarissime in tempi in cui le strutture sociali erano spesso meno squilibrate di quanto lo siano
oggigiorno a causa delle fratture sociali e del doppio processo di marginalizzazione e pauperizzazione.

Le condizioni oggettive oggi, determinano esse stesse le priorità e gli imperativi dell'applicazione di una legislazione
conforme all'insegnamento islamico: lotta contro la povertà, promozione dell'educazione, riforma delle istituzioni e
pratiche finanziarie ed economiche destinate all'applicazione per tappe di una maggiore giustizia sociale. Tutte le altre
applicazioni del diritto a cominciare dalle sanzioni e dalle pene è polvere negli occhi. E' pura manipolazione politica da
parte di poteri in cerca di legittimità popolare.

Il problema da mettere in evidenza è un altro. I governi conoscono l'attaccamento del loro popolo all'islam e spesso
giocano sulla credulità di quest'ultimo in riferimento alla religione. Su un altro piano, questi stessi poteri approfittano
del fosco risentimento antioccidentale condiviso dai popoli, da numerosi intellettuali o movimenti che fanno riferimento
all'islam. La repressione viene legittimata da una lettura semplicistica: poiché si proibiscono e si reprimono
comportamenti che assomigliano a quelli che avvengono in Occidente, allora è "islamico". Peggio ancora, si finisce
addirittura col pensare che, se l'Occidente reagisce in modo così epidermico ed inorridito, è proprio la prova che ci si
trova sulla giusta via. Riflessione binaria che per rigetto dell'Occidente "permissivo" finisce per costruire un progetto
islamico per reazione "repressivo". E' con questa logica binaria, e con la strumentalizzazione della religione, che
bisogna troncare. In breve, ritrovare il respiro di un progetto sociale che si affermi dall'interno nel rispetto degli
insegnamenti di giustizia che gli sono propri.

J.N. Per vederci chiaro, ammettiamo che ricorrano tutte le condizioni necessarie. Innanzitutto ci troviamo in uno stato di
diritto, non corrotto e nel quale regna una certa giustizia sociale. Ciò non toglie che, anche in un tale paese alcune
persone continuino a rubare perché sono lavativi, per vizio, perché è una tradizione del posto. Esistono in tutti gli stati
uomini potenti che, corrotti, derubano lo Stato essendo ossessionati dal potere, ivi compreso quello del denaro.
In questo caso, in uno stato islamico ideale, si applicherebbe la mutilazione come pena per il ladro? Oppure ci si
limiterebbe ad una pena detentiva? Il Corano si oppone ad una tale evoluzione?

T.R. Restiamo nella realtà. Questa società ideale, di diritto e di giustizia, è un obiettivo verso il quale si tende e sulla via
di questa realizzazione bisogna affrontare le fratture che impediscono che ricorrano le tre condizioni che ho menzionato.

Come ho appena detto, all'epoca del Profeta, che è considerata come lo stato ideale della società islamica, ed anche nei
quattro secoli successivi, l'applicazione di questa pena è rimasta obbligatoria ma non venne quasi mai resa effettiva, fu
un'eccezione rarissima. Detto questo, nessuno può, di testa propria, cancellare un versetto rivelato. La sanzione c'è e le
condizioni sono chiare.

Dall'origine della rivelazione e sulla base dell'esempio del Profeta nell'amministrazione della sua società ("ideale" per
noi), si comprende che piuttosto che fare di noi dei carnefici, Dio ci richiama alle nostre responsabilità di riformatori
della società chiedendoci di mettere tutta la nostra energia per realizzare una società di giustizia e di benessere nella
quale rubare diventerebbe un crimine grave, poiché dobbiamo avere la preoccupazione di dare a ciascuno uno spazio
per vivere dignitosamente. La sanzione svolge un ruolo dissuasivo, ma ha anche una virtù mobilizzatrice: nessuna
pigrizia davanti a ciò che è indegno e ingiusto.

Queste pene sono inapplicabili oggi per tutti i popoli del mondo, la cosa è chiara. Ma il Corano ci dice che tutti questi
principi, re ed altri dittatori che derubano i popoli, li sottomettono con atti indegni alla violenza quotidiana
dell'umiliazione e della vergogna, che aprono conti di miliardi in Svizzera ed altrove, tutti questi ladri "civilizzati", "dal
colletto bianco", meriterebbero che venisse loro applicata la sanzione destinata ai veri ladri. Ricorrono tutte le
condizioni.

Noi sappiamo che questa pena è inapplicabile oggi, conosciamo la portata delle menzogne e delle manipolazioni, ma la
rivelazione coranica ci impegna a resistere e rifiutare con determinazione l'ordine imposto da questi "rispettati" ladri: se
la giustizia non è di questo mondo, noi non abbiamo dubbi sulla Giustizia di un altro mondo, di un'altra Vita.

J.N. Lei quindi perviene alla conclusione che si arriverà a costituire stati musulmani moderni nei quali la popolazione
vivrà ad un livello decoroso quale che sia la classe sociale e nei quali si deciderà che in nessun caso si applicheranno
pene di mutilazione. Esistono già paesi musulmani in cui non si applica la pena della mutilazione. Anche nel diritto esse
sarebbero inapplicabili e costituirebbero un delitto. Suppongo che sia il caso di un paese come la Turchia o la Tunisia.

T.R. Abbiamo già parlato della Turchia e della Tunisia. Diciamolo ancora chiaramente: l'apparente stato di diritto di
questi due paesi, come di tanti altri, nasconde la realtà del non-diritto delle donne e degli uomini a tutti i livelli della
scala sociale. La repressione, la tortura e le esecuzioni sommarie che avvengono nel segreto delle carceri sono ben
peggiori dell'esecuzione delle pene di cui noi rifiutiamo l'applicazione menzognera e formalista.

Questi sono modelli solo per coloro che s'illudono o fanno finta di non sapere, come certi governi o intellettuali del
Nord. Non si tagliano mani in pubblico, ma si tortura, si violenta e si uccide in segreto: bella alternativa.

Il dibattito sulle sanzioni è un falso dibattito ed iniziare dalle punizioni è un tradimento come proporre un'alternativa
dittatoriale. Né i Talibani, né l'Arabia Saudita, né la Tunisia, né la Turchia sono dei modelli. Bisogna condannare e
resistere a tutte queste deviazioni. Rispettare l'insegnamento dell'islam significa promuovere delle riforme che rispettino
quattro orientamenti fondamentali: giustizia sociale, partecipazione del popolo e rispetto delle sue scelte, pluralismo ed
un autentico stato di diritto. Tutti i testi fondatori dell'islam ci orientano in questa direzione. E' in questi campi che
bisogna essere esigenti, e rigorosi, e determinati. Il resto non ha senso.

J.N. Veniamo ad un altro tipo di sanzione. In fondo, l'unico peccato irremissibile per un musulmano, è l'abiura, il
blasfemo, l'unico punito con la dannazione, poiché la persona stessa nel segreto del suo cuore rifiuta Dio. La leggenda -
o la verità - che circola in Occidente vuole che ciascun musulmano che abiura merita la pena di morte.

Per prendere un esempio molto concreto e vicino a noi, consideriamo il caso assai noto di Salman Rushdie. Un'autorità
islamica in Iran considera I Versetti Satanici come un'opera contenente affermazioni blasfeme. L'autore è condannato a
una pena di morte in condizioni che sono particolarmente strane per uno spirito occidentale. Prima di tutto, non è
cittadino iraniano, è cittadino inglese. E poi non ha commesso questa eventuale infrazione in territorio iraniano.
Ciononostante, l'Iran proclama una fatwa che non solo dà a chiunque il diritto di eseguire la sentenza, ma in più
promette una ricompensa molto elevata, un milione e mezzo di dollari.
Ciò assomiglia furiosamente alla giustizia del Far West, dove esistevano cacciatori di taglie, la cui presenza era
giustificata dall'assenza della polizia. Ma nel caso di Salman Rushdie, la cosa è davvero curiosa. Si condanna a morte
qualcuno che non ha commesso un vero e proprio delitto ma che ha semplicemente pubblicato un libro. Questa
condanna ha l'aria di una censura assai sgradevole. Viene condannato pur non essendo cittadino del paese che lo
condanna, non si trova nel territorio di questo paese che, quindi, non ha alcuna giurisdizione a riguardo. Chiunque può
applicare la pena, ricevendo una ricompensa straordinaria.

Tutti questi elementi messi insieme danno un'immagine alquanto spaventosa del concetto di diritto in Iran. Tanto più
che l'Iran non è un paese in ritardo. Non si ha a che fare con beduini o tuareg. L'Iran è una civiltà antichissima, forse
una delle più antiche del mondo.

T.R. Le sue domande investono diversi campi che bisogna esaminare uno per uno.

Il primo riguarda l'individuo che cambia religione. Si dice spesso che l'islam lo proibisce, riferendosi al parere di certi
sapienti che fanno un'analisi strettamente letterale di una tradizione del Profeta nella quale afferma: Colui che cambia
religione, uccidetelo. Questo tipo di lettura esiste e non si può negare che certe autorità religiose si siano attenute e/o si
attengano ancora al suo senso primario e letterale. Altri sapienti nel corso dei secoli hanno proposto un'interpretazione
diversa di questo hadith tramite il lavoro di contestualizzazione necessario alla sua comprensione.

Di che cosa si tratta dunque? Nel loro commento al testo, risalgono alla situazione di conflitto nella quale si trovava la
comunità musulmana a Medina. Alcuni individui si convertivano all'islam, si mescolavano alla comunità dei credenti,
raccoglievano informazioni e alla fine rinnegavano la loro religione, trasmettendo le informazioni che avevano raccolto
ai nemici dei musulmani. Si trattava, in effetti, di ipocriti che, per mezzo della religione, praticavano il tradimento di
guerra. Il loro comportamento metteva in pericolo la sopravvivenza della comunità ed è in questo contesto che la
condanna a morte aveva senso per i traditori di guerra.

Bisogna ricordare, inoltre, che intorno al Profeta si muovevano alcuni ipocriti notori che non cessavano di disturbare
l'equilibrio della nascente comunità musulmana. Alcuni suoi compagni volevano affrontarli ed ucciderli per porre fine a
questi intrighi ed è ciò che proposero diverse volte a proposito di uno di nome Ubay. Il Profeta lo proibì perchè il
tradimento non era stato manifestato dal cambiamento di religione e dall'alleanza esplicita col nemico.

In un'altra situazione il Profeta non era intervenuto contro coloro che lasciavano Medina per unirsi agli abitanti di La
Mecca. Secondo il patto di al-Hudaybiyya, coloro che lasciavano Medina per La Mecca potevano restarvi. Da ciò si
capisce che colui o colei che lasciava Medina faceva causa comune con i Meccani e rinnegava la sua fede. Era in tempo
di pace e mai il Profeta ha cercato di colpirli, né quando sono fuggiti, né dopo, quando è tornato vittorioso alla Mecca.

Non posso render conto qui di tutti i dibattiti che ci sono stati tra i sapienti sull'argomento ma, alla luce di queste due o
tre situazioni e d'altre ancora, alcuni sapienti hanno messo in evidenza il fatto che colui o colei che lascia la sua
religione per convinzione personale senza cercare in seguito di tradire l'islam ed i musulmani, in un modo o nell'altro,
questo individuo non rientra nella categoria prevista dal hadith suddetto. Si appoggiano inoltre al versetto coranico che,
su questo punto in particolare, rinvia il giudizio solo a Dio. L'atteggiamento richiesto è quindi solo di un minimo di
rispetto della religione che si lascia e della sensibilità di quelli che continuano a valersene.

Possiamo affrontare ora la sua seconda domanda a proposito di Rushdie. Egli non si considera più musulmano ed è suo
diritto. Il problema si presenta per il modo in cui dopo si esprime a proposito del Profeta dell'Islam e di molti altri
elementi considerati degni di infinito rispetto da parte dei musulmani. Che cosa bisogna dire? Io mi sono opposto
dall'inizio alla fatwa del governo iraniano ed in modo molto chiaro. Questo affare è oggetto di una doppia
strumentalizzazione: da una parte, un governo che legittima il suo carattere "islamico" con una presa di posizione più
politica che islamicamente fondata nella forma e nel contenuto; dall'altra, governi ed intellettuali troppo contenti di
presentarsi come i cantori della libertà d'espressione contro l'islam oscurantista che minaccia l'Occidente liberale.

La decisione del governo iraniano, presa qualche mese dopo l'uscita del libro, è politica. Si tratta chiaramente di un
tentativo di recuperare i dividendi di una mobilizzazione che avveniva in Pakistan, a Bradford in Gran Bretagna o
altrove. A loro sembrava anche di poter mobilitare i popoli musulmani con una reazione epidermica.

Ma nulla, dal punto di vista dell'islam, può giustificare un appello all'esecuzione sommaria, offrendo una ricompensa a
chi l’avesse ucciso, al di fuori di ogni rispetto del diritto. Mai, in nessun modo, gli insegnamenti islamici possono essere
applicati in questo modo.
L'opera di Rushdie vale quel che vale e, se mi sono espresso contro la fatwa, non esito a dire che il libro è di piccola
fattura, una provocazione stupida e poco degna di un uomo che dovrebbe sapere quanto la gente sia pronta ad
infiammarsi quando si tocca ciò che essi venerano. Certo, penso che li si debba educare alla presa di distanza, ma
l'ironia ed il cinismo di Rushdie non utilizzano buoni mezzi.

Non c'è altra via a mio parere che quella del dialogo e della spiegazione: quando uomini e donne si sentono feriti,
persino umiliati, nella loro fede e nella loro identità, spiegare mi sembrerebbe il minimo di una libertà d'espressione ben
compresa e responsabile.

Qualche anno fa a Ginevra, mi ero espresso contro la messa in scena dell'opera di Voltaire Maometto ovvero il
fanatismo. Si è voluto vedere un attentato alla libertà d'espressione mentre il mio intento richiamava il regista a spiegare
le sue intenzioni affinché i musulmani non si sentissero attaccati. Non si trattava di proibire ma semplicemente di
proporre un atto di maturità che consiste, in questi tempi di larvato conflitto tra le religioni e le civiltà, nel prendersi il
tempo di spiegare. Tutti i miei interventi andavano in questa direzione: evitare la provocazione. Era troppo ed alcuni,
alquanto incitati a stigmatizzare l'evidente chiusura di spirito dell'altro, hanno voluto vedervi l'espressione di un islam
fondamentalista, reazionario, "iraniano".

Le etichette sono distribuite velocemente in nome di questa nuova dittatura dell'evidenza: negli ambienti della cultura,
l'equazione non subisce alcuna distorsione: "Se io mi sento aperto e moderno, allora il mio interlocutore è
evidentemente chiuso e reazionario", a fortiori se è musulmano. Quanto a me, l'opera in questione faceva già parte del
corpus di testi di letteratura francese che insegnavo.

Un ultimo punto da sottolineare. L'affare Rushdie ha discretamente confortato i cliché e rinforzato le opposizioni tra le
due civiltà. Alcuni ne godono e non cessano d'alimentare la polemica. La libertà d'espressione è un diritto che bisogna
difendere. Con forza ed energia. Ma vorrei qui ricordare a tutti i cantori della libertà d'espressione che migliaia di
Rushdie marciscono nelle prigioni di tutto il mondo e del mondo musulmano in particolare. Sono sottoposti a
persecuzioni e torture nel buio delle prigioni: sono intellettuali musulmani che muoiono in Siria, in Tunisia, in Egitto, in
Israele e in tanti altri paesi. Hanno utilizzato la loro intelligenza e la loro penna e subiscono addirittura la condanna a
morte. Vorrei da parte mia sentire gli intellettuali difensori di Rushdie battersi con la stessa determinazione per gli
anonimi perseguitati per il loro pensiero. A meno che la loro lotta sia soprattutto ideologica e politicamente orientata.
Vorrei sapere a che cosa ci si attiene, poiché allora si tratterebbe più di una strumentalizzazione del caso Rushdie che di
una vera e propria difesa del diritto. Il che non è molto dignitoso.

Il diritto di partecipare al jihad armato

J.N. Per terminare questa conversazione sulla concezione islamica del diritto, mi par necessario parlare del diritto della
guerra. Alla luce di questa grave decisione che consiste nell'esercitare una violenza organizzata nei riguardi dello
straniero, ogni cultura rivela le sue luci e le sue ombre.

Il concetto musulmano si articola attorno ad una parola fraintesa in Occidente, il jihad, più o meno mal tradotto con
"guerra santa". Il termine guerra santa trascina tutte le immagini di musulmani obbligati dalla loro fede a impegnarsi in
una guerra di conquista, con la promessa, se vengono uccisi, di entrare direttamente in Paradiso dove sono consolati
dalle huri, donne voluttuose che non possono non ricordare le Valchirie della mitologia wagneriana. Questa l'immagine
caricaturale che si ha in Occidente del jihad. Potrebbe, prima di tutto, darci una definizione più corretta?

T.R. Il concetto di jihad è uno dei più fraintesi in Occidente e, da solo, esprime l'insieme degli equivoci che esistono tra
Occidente ed Islam. Del resto si ha la tendenza in Occidente a comprendere la terminologia delle altre culture alla luce
della storia e dei riferimenti della propria civiltà. Così il jihad sarebbe per l'islam quello che le crociate sono state per il
cristianesimo, la guerra per Dio, la guerra santa. Ebbene, nulla, né nel concetto, né nella storia della civiltà islamica si
trova che si apparenti all'idea di una guerra santa fondata sull'autorità della Chiesa e del dogma e sul fondamento del
proselitismo coatto.

Torniamo all'etimologia della parola. La radice del termine è ja-ha-da che vuol dire letteralmente "fare uno sforzo".
Grandi sapienti hanno sottolineato che questa parola si trovava in circa ottanta accezioni negli insegnamenti dell'islam.
Il primo ambito è quello dell'individuo. Ogni essere umano sente in sé delle forze che si potrebbero definire negative
come la violenza, la collera, la cupidigia, ecc. Lo sforzo che egli o ella compie per lottare contro dette forze si chiama
jihad: questo jihad, chiamato comunemente jihad an-nafs, lo "sforzo dell'essere", è al centro della spiritualità islamica
perché rappresenta lo sforzo continuo che ciascuno deve fare per dominare il proprio essere, per donargli accesso alla
sfera superiore dell'umano che cerca Dio con la costante preoccupazione della dignità e dell'equilibrio.
Un'altra occorrenza è quella che riguarda il jihad nel senso dell'impegno in guerra e che in questo caso particolare si
chiama al-qital. Tutto ciò che abbiamo detto sul jihad an-nafs è fondamentale perché il principio è lo stesso: proprio
come un essere fa lo sforzo e resiste alle tentazioni di violenza e di collera, allo stesso modo una comunità umana deve
resistere agli atti di aggressione dei quali essa potrebbe essere oggetto.

Durante i primi tredici anni della rivelazione, i musulmani hanno resistito alla persecuzione in modo determinato ma
passivo. E' con il loro arrivo a Medina, quando l'aggressione continua e le collusioni si moltiplicano, che i musulmani
ricevono il permesso di difendersi. La formulazione coranica è chiara: A coloro che sono stati aggrediti è stata data
l’autorizzazione di difendersi e più avanti il versetto precisa: …a coloro che senza colpa sono stati scacciati dalle loro
case, il solo perché dicevano: " Allah è il nostro Signore ".

A partire da questi ed altri versetti, e certamente sulla base del comportamento del Profeta si sono tratti alcuni principi
fondamentali riguardanti la guerra. Difficile farne in questa sede un'analisi esaustiva, ma si possono mettere in evidenza
almeno tre direttive:

1. La guerra è autorizzata in caso di legittima difesa, quando tutti i mezzi pacifici non hanno potuto fermare
l'aggressione; il Corano dice: Se essi sono inclini alla pace, siatelo anche voi;

2. Si è autorizzati a difendersi in caso di oppressione, quando le libertà d'opinione e di espressione non sono rispettate,
quando la case o la proprietà vengono violate.

3. Si è autorizzati ad entrare in stato di resistenza per appoggiare coloro che vengono sottoposti agli stessi trattamenti
ingiusti: è il diritto di ingerenza concesso solo se un patto di non aggressione non ci lega all'aggressore del popolo terzo.

Purtroppo non posso fare in questa sede un'analisi esaustiva di ciascun punto, ma da qui si comprende chiaramente che
il jihad è una resistenza. E' proibito a musulmani di entrare in guerra per acqusire ricchezze, territori o potere.
Impossibile anche far guerra a fini di proselitismo; il testo coranico è chiaro: Non c'è costrizione nella religione. Se nel
corso della storia ciò è potuto accadere, quelli sono stati dei casi ma non la regola ed ad ogni modo queste pratiche
erano in contraddizione con gli insegnamenti islamici.

Due cose ancora a questo proposito: il Corano, ed anche le tradizioni, ci invitano costantemente alla pace. Tra le prime
parole del Profeta al suo arrivo a Medina, dopo aver vissuto tredici anni di persecuzione, troviamo: Diffondete la pace,
offrite da mangiare a chi vi sta intorno, mantenete i legami di famiglia, pregate quando la gente dorme, entrerete in
paradiso nella pace! La Pace è uno dei nomi di Dio ed anche del paradiso. Tuttavia, l'islam ci insegna a non essere naif:
gli esseri umani sono inclini al conflitto al punto che l'equilibrio del mondo sembra passare attraverso l'equilibrio delle
forze: “Se Iddio non respingesse gli uni per mezzo degli altri” la terra sarebbe perversa , spiega il Corano. Vuol dire che
bisogna restare vigili e sapere che gli uomini sono capaci di fare il peggio se nulla si oppone alla loro volontà di
potenza. Nell'avversità, il Corano ci incoraggia a rivaleggiare in bontà, ma ci intima di non confondere la pace e la
bontà con la rinuncia ed il lassismo di fronte all'ingiustizia. Non c'è pace senza giustizia e non c'è giustizia senza
resistenza agli oscuri disegni della volontà di potenza e di potere.

Bisogna aggiungere che, se tutti i mezzi non hanno potuto impedire la guerra, questa è comunque sottomessa a severi
principi: attaccare solo l'avversario armato e utilizzare solo i mezzi necessari in base all'ampiezza del conflitto (ciò
significa che le armi nucleari sono di fatto quasi escluse dai mezzi di guerra). Abu Bakr, il primo califfo, in seguito alle
raccomandazioni fatte dal Profeta stesso, aveva ricordato ad Usama, il capo dell'esercito che aveva inviato in
spedizione, di non aggredire mai vecchi, donne, bambini, religiosi, animali e alberi da frutto. Niente, nel momento
peggiore di una guerra inevitabile, permette di giustificare ciò che è indegno. Queste regole sono chiare. La dignità
degli uomini è nella resistenza all'indegnità e al disumano, cose alle quali gli uomini soccombono così facilmente e così
spesso. Il jihad è l'espressione di questa resistenza e non ha nulla a che vedere con la "guerra santa" o la volontà di
proselitismo.

J.N. Ho ancora nelle orecchie le proclamazioni - era un'autorità dell'università al-Azhar o era un ayatollah iraniano? -
che ordinavano da quel momento in poi ad ogni musulmano di impegnarsi nel jihad. Non c'è un'unica autorità
nell'islam, il che significa che non è suffciente che qualcuno proclami il jihad perché tutti i musulmani si sentano
chiamati a farlo. Se ho capito bene sono proclamazioni sia di leader religiosi, sia di leader intellettuali o politici. Ma non
si può mai dire, se ho capito bene le sue parole, che l'islam è in stato di jihad, cioè di guerra santa in cui ogni
musulmano si mobilita.

T.R. Non so dove l'ha sentito, ma è chiaro che questo tipo di posizione non regge alla luce degli insegnamenti islamici.
Questo tipo di affermazione assoluta che vorrebbe "sacralizzare" un'analisi geostrategica non ha mai avuto successo nel
mondo musulmano. Essa è il caso di qualche gruppuscolo radicalizzato che vorrebbe che i musulmani si sottomettessero
al quadro ristretto della loro analisi particolare. Ogni situazione deve essere studiata in modo circostanziato, si devono
valutare le opportunità che permettono di evitare il conflitto. Se queste non ci sono, si determinerà allora la natura della
resistenza da incoraggiare per una data nazione, in un tempo dato, con dati mezzi. Allo stesso tempo si preciseranno le
responsabilità della ummah e della comunità internazionale rispetto al conflitto in questione. Si parte sempre dall'analisi
locale per andare verso le considerazioni internazionali, salvo in casi eccezionali.

Si parla oggi di conflitti di civiltà ed è vero che in primo piano c'è la dimensione globale: non si tratta pertanto di guerre
in senso fisico ma di conflitti in senso ideologico. Il che cambia completamente l'approccio ed i parametri: del resto,
sono due problematiche diverse e gli strumenti giuridici dell'una non possono essere utili per spiegare la realtà dell'altra.
Gruppi radicalizzati vorrebbero portarci su questo terreno nella gestione del diritto islamico per mezzo di vecchi
concetti come dar al-harb e dar al-islam che, esprimendo "lo spazio della guerra" e "lo spazio dell'islam", propongono
una visione binaria del mondo. Questo spostamento di senso è illegittimo, monco e pericoloso. Le prescrizioni
islamiche in materia di "diritto di guerra" non lo permettono.

Di fronte all'invasione culturale dell'Occidente ed al famoso "scontro" di civiltà, la maggior parte dei movimenti
islamici non risponde con le armi e non pensa in termini di guerra armata. Per loro c'è ovviamente il jihad, ma questa
resistenza passa attraverso la promozione dei loro valori, della loro identità, attraverso l'educazione, l'impegno sociale,
l'iniziativa economica. Nel cuore delle nazioni soffocate dal peso della dittatura e del sottosviluppo, resistono lottando
continuamente per il pluralismo, la libertà d'espressione e la solidarietà. Essi parlano veramente di jihad ed è proprio di
questo sforzo e di questa resistenza che si tratta.

J.N. Resta comunque il fatto che l'immagine proiettata dal jihad fa paura all'Occidente. Ciò che colpisce in modo molto
forte sono, certamente, i musulmani che sacrificano la propria vita. Ci sono commandos suicidi, in particolare a Beirut,
contro quartieri militari americani e francesi. In Palestina sono di regola. I combattenti iraniani che si erano uniti al
Hezbollah nel Libano sacrificavano la loro vita. L'esercito iraniano ha utilizzato bambini che, volontariamente, hanno
camminato su campi minati nella guerra tra Iran ed Iraq per liberare la strada. Tutto ciò evidentemente mette a disagio
l'Occidente dove piuttosto si ha la tendenza a non sacrificarsi completamente. Anche un combattente dispone sempre di
una chance per cavarsela. Ogni forma di suicidio rituale interroga violentemente l'Occidente e gli fa molta paura.

T.R. Questa paura è comprensibile perché in effetti è alimentata dalla visione del drammatico quadro che lei ha appena
presentato. Ciò nonostante, bisogna separare i problemi. La prima questione è quella in assoluto di sacrificare la vita in
nome di una causa. In Occidente si è sempre più reticenti a concepire il senso di questa logica. Morire per un'idea
appare desueto.

Su questo punto preciso, due concezioni della vita e della morte esprimono divergenze fondamentali: per i musulmani il
senso della vita si fonda certo sul fatto di trarne piacere, di non dimenticare la propria parte di benessere, secondo la
formula coranica, ma ciò non si può fare a detrimento della giustizia e della dignità. Resistere in nome della propria
fede, della propria coscienza umana, a tutte le oppressioni, a tutti i dittatori e alle colonizzazioni ingiuste e questo fino al
sacrificio della propria vita, se necessario, è una forte raccomandazione del messaggio coranico. Non si tratta di
romanticismo della resistenza, e neppure del culto del martirio, ma proprio del senso della vita in quanto testimonianza
di ciascuno dei valori che si portano con sé: colui che va fino al fondo alla sua resistenza e alla sua lotta si chiama
shahid in arabo, letteralmente "colui che testimonia".

Ciò vuol forse dire che, in nome di questa concezione del possibile sacrificio della propria vita per la fede e la
coscienza, si può fare qualsiasi cosa: commettere attentati suicidi contro innocenti, inviare bambini sui campi di
battaglia? No, assolutamente no. La scelta ha bisogno almeno dell'età della pubertà per colui che vi si impegna e inoltre,
tutte le regole di guerra di cui abbiamo parlato devono essere rispettate nei confronti delle persone non direttamente
legate al conflitto in questione.

Alcuni stati o gruppuscoli possono a volte utilizzare il fervore dei credenti spingendoli a sacrificare la loro vita per una
causa ed in circostanze in sé molto discutibili, è il meno che posso dire. Questo fenomeno è stato frequente nella storia
come lo è oggi. Bisogna quindi distinguere tra la strumentalizzazione e l'impegno sincero degli uni e degli altri nella
difesa delle proprie convinzioni.

Del resto, quanti sono coloro che, lontani dalle immagini catastrofiche che lei ha citato, sotto le dittature, si battono
quotidianamente per maggior giustizia e che sono alla fine sommariamente giustiziati? La loro sincerità ed il loro
coraggio sono la dignità dell'umanità e mi pare che ci si debba limitare a questo tipo di valutazione. Dobbiamo rifiutare
gli eccessi e denunciare gli orrori senza fare semplicistiche confusioni. Capire razionalmente un atto di convinzione non
è per niente facile: ci vuole tempo, un accostamento interiore e, a volte, ammettere i limiti della nostra comprensione e
della nostra logica. A meno che non si decida che tutto ciò che noi non comprendiamo è "assurdo", applicando
un'equazione la cui evidenza nega ed esclude il senso delle speranze altrui.

J.N. Del resto, si troverebbero contraddizioni analoghe nel cristianesimo. Gesù, nel momento in cui viene arrestato e va
verso la morte, chiede al gruppo che sta intorno a lui, a quanto pare abbastanza numeroso e ben armato, di non resistere.
Questo atteggiamento è diametralmente opposto a quello del Profeta che resiste e si batte quando la sua vita è
minacciata. Esiste e sussiste questa differenza essenziale tra l'islam combattente ed il cristianesimo che, per principio, è
una religione della sofferenza, dell'espiazione, della sconfitta mentre in pratica è la religione dei popoli più conquistatori
e più aggressivi che il pianeta abbia generato...

[1] Il capitano Baril, dei servizi segreti francesi, comandava un distaccamento di teste di cuoio che nel novembre 1979 intervenne nel corso di una ribellione
contro il regime al potere a Ryad. Durante il mese di Ramadan, un folto gruppo di insorti aveva occupato parte della grande moschea della Mecca. La zona in
cui si trovano i ribelli fu inondata e poi fu immessa l’alta tensione folgorando quelli che vi si trovavano. Il governo saudita dichiarò 75 morti e 175 prigionieri,
altre fonti parlarono di migliaia di vittime. (n.d.t.).

CAPITOLO 5

AL CENTRO DEL DIBATTITO

il singolare mito di Prometeo


JACQUES NEIRYNCK Leggendo il suo libro “L'islam, le face à face des civilizations” sono rimasto molto colpito da
questo passaggio che, a mio parere, opera la distinzione centrale tra il cristianesimo e l'islam.

"Il cammino in avanti dell'umanità, a parte le epoche buie di oscurantismo e sottomissione, si fa "con la luce di
Prometeo": la figura del titano, in quanto espressione meglio realizzata del rifiuto dell'ordine divino imposto e
l'affermazione dell'autonomia e della grandezza umane, attraversa le età e forma la relazione complessa e tesa che c'è
tra Dio (nella lettura cristiana) e gli uomini".

Abbiamo già ricordato più sopra come il cristianesimo occidentale, cattolico o protestante, sia stato profondamente
influenzato dal pensiero ellenistico, il pensiero greco della decadenza. Il cristianesimo ha la sua fonte originale nel
giudaismo, che è originario del Medio Oriente e che fa parte della grande scoperta del monoteismo. Tuttavia, ha operato
così tanti prestiti dal paganesimo greco-romano che a volte fa fatica a conciliarli.

Tutta una serie di miti greci, che hanno del resto un valore universale, sono stati incorporati nel cristianesimo fino al
punto che non si fa più la distinzione tra ciò che è veramente l'insegnamento di Gesù e il prestito che si è preso
dall'ambiente nel quale questo messaggio si è diffuso. Questi prestiti conferiscono alla tradizione cristiana il suo aspetto
straziante, troppo spesso centrata sul rimorso, la tristezza, l'espiazione, la sofferenza e la morte. A volte si fa fatica a
capire il messaggio di salvezza, di vita e di gioia che costituisce la sua essenza.

Lei evoca nel suo libro il mito di Prometeo e sottolinea che dal punto di vista dei greci, Prometeo ha causato l'irruzione
del male nel mondo. Secondo l'interpretazione di Esiodo che lei cita, lontano dall'essere un benefattore dell'umanità,
Prometeo è il responsabile della decadenza attuale. Egli inventa il fuoco e viene condannato da Zeus ad essere esposto
su una montagna dove un'aquila divora il suo fegato che si riforma incessantemente. Tra Prometeo inchiodato alla
roccia e Gesù crocifisso, si è tentati a fare l'assimilazione.

Si potrebbe del resto evocare il mito parallelo di Dedalo, l'ingeniere che costruisce il labirinto per rinchiudervi il
Minotauro e che fabbrica delle ali affinché suo figlio Icaro ed egli stesso possano fuggire. Icaro si brucia ai raggi del
sole ed annega in mare. I Greci, che furono eccellenti ingenieri, non hanno accolto le loro invenzioni con serenità. Per
loro, ogni tentativo dell'uomo di sfuggire al proprio destino viene ripagato dalle vendette divine.

Sulla civiltà greca, che in fondo è terribilmente pessimista, pesa una maledizione. Gli uomini si contrappongono agli
dei, fondamentalmente cattivi, perversi o volubili e la dignità dell'uomo consiste nel ribellarsi a loro. Si potrebbe
cominciare col Prometeo di Eschilo e continuare fino a L'homme revolté di Camus. C'è una continuità straordinaria tra i
due. Quel mito che è forse il mito fondatore del cristianesimo, si pone completamente al di fuori dell'islam, e del resto
anche del giudaismo.

E' davvero sorprendente. Se si considera Gesù sulla croce, nell'interpretazione classica egli viene distrutto, sacrificato
per soddisfare la vendetta di suo Padre. Si trova nella situazione di Prometeo rispetto a Zeus, con la differenza
essenziale che non si ribella ma acconsente al suo supplizio. Se di fronte a questa immagine della crocefissione poniamo
la scoperta del Dio unico, del Dio buono, del Dio misericordioso, è chiaro che ci troviamo davanti ad una
contraddizione totale. L'interpretazione tradizionale del sacrificio sanguinoso della croce, voluto dal Padre per riscattare
il peccato originale, è molto più vicino al mito greco che alla scoperta giudaica del monoteismo.

A partire da questo retroterra storico si pone un singolare problema. Anche se il cristianesimo è una religione fondata su
una contraddizione interna, questa rivolta non costituisce forse il motore della rivoluzione scientifica ed industriale
degli ultimi secoli? L'uomo ribellatosi agli dei finisce per insorgere contro la natura. Si fissa come scopo di costruire
una tecnonatura, infinitamente superiore alla creazione divina. Tanto peggio per la natura, tanto peggio per l'ecologia.
Non è qui la linea di frattura essenziale tra l'islam ed il cristianesimo?

TARIQ RAMADAN Qui lei tocca davvero il punto cruciale. Lo scopo della riflessione sulle civiltà e sui loro
fondamenti proposta nell'opera da lei citata, era di mettere in evidenza questa differenza fondamentale. E' la figura di
Prometeo e di quello che ne seguirà, proprio all'interno del campo di rappresentazione cristiano.

Se andiamo fino al fondo dell'impresa prometeica, si perviene a quello che lei ha sottolineato: e cioè, l'atteggiamento di
ribellione rispetto ad ogni autorità, perfino rispetto alla natura, che sfocia nella possibilità di dominare quest'ultima in
modo autonomo e illimitato. Significa possedere il fuoco, più precisamente essere "il ladro del fuoco", nel senso in cui
l'intenderà l'indomabile Rimbaud. Questi riferimenti esistono nel profondo della tradizione cristiana, anche in modo
frammentario, ma il prestito è evidente.

Anche la concezione del tragico ne è un esempio. Nel mio libro parlo della storia di Abramo, del passaggio in cui gli
viene rivelato che deve sacrificare suo figlio per compiacere Dio. Il sacrificio è riportato dalle tre tradizioni, ebraica,
cristiana e musulmana con qualche differenza, una delle quali è fondamentale: la dimensione della prova solitaria e
tragica non esiste assolutamente nel Corano. Qui Abramo dice la verità a suo figlio, gli parla e vivono la prova in due: il
figlio confortando il padre ed incoraggiandolo a rispondere alla chiamata di Dio, nell'accettazione del proprio destino.

Questo atteggiamento rende impossibile la tragedia dell'incomprensione e sicuramente impedisce la rivolta esistenziale
davanti al decreto divino. Nulla di questa angoscia o di questa ribellione appare nella tradizione musulmana. Si tratta di
pervenire all'accettazione, testimonianza della vera fede, prova che la luce del cuore ha aperto le porte dell'intelligenza.
Si tratta di giungere a questa armonia, all'accettazione, anche nell'incomprensione. C'è qui l'idea che la ragione umana
non sia la fonte di una ribellione ma la conferma di una fede. Perché la fede nell'islam precede la nascita dello stato di
ragione. Abbiamo già detto qualcosa a questo proposito in una precedente conversazione.

J.N. Con la grande difficoltà per i cristiani di riuscire a conciliare le due. Il cristianesimo occidentale vive un conflitto
perpetuo tra ragione e fede, che finisce regolarmente molto male per la fede.

T.R. Sì. L'islam non ha conosciuto un tale conflitto perché le due facoltà dell'uomo non sono mai state presentate come
antinomiche, al contrario. All'inizio questo ha provocato uno slancio formidabile ed un entusiasmo per la ricerca
scientifica, tanto era chiaro per i musulmani che un maggior sapere equivaleva ad una fede più radicata, più profonda.
Inoltre, molto spesso il sapere si sviluppava in nome e a vantaggio di una migliore pratica religiosa. E' il caso
dell'astronomia, ad esempio, con lo studio dei cicli lunari, importantissimi per fissare i momenti del digiuno.

Nonostante ciò, la spinta iniziale ha conosciuto seri ostacoli nel corso della storia per diverse ragioni socio-politiche.
Ma c'è una cosa che lei sottolinea e che credo sia molto pertinente. E' che l'accesso alla ricerca scientifica in Occidente
si è realizzato contro l'autorità religiosa, cioè, una volta che si è sbarazzato dell'intralcio religioso e morale, il campo era
libero per la sperimentazione: tutto diventava permesso o quasi.

In terra d'islam questa liberazione non si è verificata perché i dati del problema non erano affatto gli stessi. Non c'era
un'autorità religiosa che impediva l'attività scientifica, dal momento che le relazioni tra fede e ragione non erano
conflittuali, come abbiamo visto. Perciò l'attività scientifica non si è mai totalmente separata dalle considerazioni etiche;
in terra d'islam i limiti restavano, mentre l'Occidente, per accedere al dinamismo che conoscevano i musulmani, aveva
dovuto liberarsi di tutto l'intralcio dogmatico e per estensione morale. Questo può spiegare come, a partire dal XII
secolo, ma più chiaramente dal Rinascimento, la scienza conosca un tale progresso in Europa: si sviluppa ormai senza
riferimento religioso o in modo totalmente autonomo davanti ad un mondo divenuto oggetto di conoscenza, oggetto di
dominio.

Mai questo tipo di rapporto è prevalso nell'islam perché il limite dell'etica è rimasto molto radicato e perché il mondo,
certamente "oggetto" di conoscenza, è rimasto comunque "soggetto", testimone di una creazione da rispettare. Non
credo che il mondo musulmano possa vivere lo stesso sviluppo dell'Occidente - a meno che non tradisca tutti i suoi
riferimenti.

Certo, il progresso può essere una buona cosa ma non quando viene esercitato senza limiti né rispetto. Ora, al cuore
della tradizione musulmana, ciò che ieri senza dubbio l'ha un pò frenata rimane una concezione del mondo e dello
sviluppo intimamente legata all'esigenza di senso, di valori, di etica: in breve, di limiti. La disarmonia e la frattura che
esistono oggi tra l'uomo ed il pianeta sono in totale contraddizione con gli insegnamenti dell'islam.

Siamo davanti all'esigenza di trovare le vie di uno sviluppo che si fondi allo stesso tempo sul dominio ma anche su una
concezione etica di questo dominio. Gli insegnamenti islamici ci orientano verso il rispetto di questo equilibrio. Un vero
dialogo di civiltà, che coinvolga anche i musulmani presenti in Europa, dovrebbe includere tali questioni fondamentali:
sarebbe un possibile contributo da parte dei musulmani che non possono fare a meno di riferirsi ad una tradizione del
rispetto dei limiti.

Il paradosso dello sviluppo occidentale


J.N. Bisogna ora affrontare il problema dello sviluppo, perché esso è un'applicazione di quello che lei ha appena detto.
Semplificando eccessivamente, si può dire che dal VII al XII secolo nel confronto tra l'islam ed il cristianesimo, l'islam
è in vantaggio.

Prima di tutto un vantaggio politico: conquista un territorio enorme, si accampa sui luoghi dai quali è partito il
cristianesimo alla conquista dell'Europa e poi del mondo. Politicamente questa vittoria appare scandalosa ai cristiani, il
che del resto scatenerà le crociate. Ma l'islam ha anche ereditato da tutto il mondo ellenistico. Alessandria è in quel
momento il centro intellettuale del mondo. E' il solo luogo in cui sono esistite, sotto l'egida dei Tolomei, l'embrione di
una università, una biblioteca, dei laboratori, un giardino botanico, una facoltà di medicina che praticava la dissezione.
Durante tutto questo periodo quindi, l'islam è il centro scientifico del mondo. Non ci sono università in Occidente. Le
prime fanno la loro comparsa solo nel XII secolo. I giovani europei vanno nei paesi musulmani per apprendere la
medicina, per apprendere il diritto, un pò come gli Africani oggi.

E poi, a partire dall'XI secolo si produce una rottura. L'Occidente diventa conquistatore, scopritore, commerciante e
missionario. Le otto crociate formano una serie di spedizioni estremamente aggressive, attraverso le quali gli Europei
del Nord-Ovest, Franchi, Inglesi e Tedeschi attaccano e saccheggiano questo centro di civiltà che sopravviveva nel
Vicino Oriente. A partire dal XV secolo l'invasione del pianeta non si volge più soltanto verso l'Oriente: i Portoghesi
circumnavigano l'Africa ed iniziano a commerciare con l'Asia, mentre gli Spagnoli invadono le due Americhe e
liquidano le civiltà precolombiane.

Dal XV al XX secolo, fino ad ora, è l'Occidente in vantaggio. Questo costituisce un enigma storico. Che cosa è successo
tra l'XI ed il XV secolo che fa perdere lentamente all'islam la sua forza di espansione e lo fa regredire? I sultani di
Granada perdono tutta la Spagna nel 1492. Gli Ottomani riescono ancora a conquistare i Balcani e ad arrivare alle porte
di Vienna fino al XVII secolo. Ma la situazione dell'islam alla fine della Prima Guerra mondiale, nel 1918, è una
catastrofe totale. O i paesi sono colonie come l'Indonesia, il Pakistan, il Sudan, la Libia, o sono protettorati come la
Tunisia, l'Egitto, la Siria. Quando godono di una indipendenza teorica, come i paesi della penisola araba o l'Iran, questi
sono di fatto dei protettorati petroliferi. Dal 1918 al 1945 l'islam è interamente in balia dell'Occidente.

La grande paura attuale dell'Occidente si cristallizza intorno al fatto che l'islam cerca oggi di riconquistare la sua
indipendenza, non solo formale, dal punto di vista politico, ma anche reale dal punto di vista economico e culturale. Le
rivolte di Mossadegh, di Nasser, di Ben Bella, di Gheddafi, di Khomeini, di Saddam Hussein punteggiano questa
epopea di liberazioni successive che non sono ancora tutte terminate. Il possesso del petrolio costituisce evidentemente
la vera posta in gioco di questa liberazione.

Bisogna affrontare prima di tutto questo enigma storico. Che cosa è successo tra l'XI ed il XV secolo perché si
producesse un'inversione, un capovolgimento? Che cosa ha incitato la civiltà "cristiana" a svilupparsi più velocemente
dell'altra? Le virgolette qui sono d'obbligo perché ci si domanda in quale misura questo sviluppo frenetico si colloca
nella logica del cristianesimo.
T.R. Dobbiamo determinare due tipi di cause per rispondere alla sua domanda: le cause endogene relative alla società
islamica che possono spiegare questo declino e le fratture più direttamente legate all'evoluzione rispettivamente
dell'islam e e dell'Occidente.

Se ci si attiene ad una breve analisi dell'evoluzione della civiltà islamica, ci si accorge che c'è stata una serie di fattori
che hanno dato inizio al declino dopo secoli di rigoglio religioso, intellettuale ed in senso più ampio culturale. Nulla
sembrava fermare, all'inizio, la curiosità dei musulmani ed il loro spirito d'iniziativa. Ma l'ampiezza dei territori da
amministrare, la lenta ma profonda corruzione dei principi, degli emiri e dei sultani in costante conflitto, i nuovi sterili
dibattiti di pura filosofia speculativa, ai quali bisogna aggiungere l'entrata degli ulema nel periodo buio dell'imitazione
(taqlid) e delle interminabili glosse sul piano del diritto e della giurisprudenza, fanno precipitare la sclerosi e la caduta.

Si è anche evidenziato il fatto che l'autorità è passata da una dinastia all'altra, da araba a non araba, dai Mammelucchi ai
Selgiuchidi, con, in particolare, la presa di potere degli Ottomani. Sulla valutazione di quest'ultima credo che l'analisi
sia solo parzialmente fondata, poiché è sotto l'autorità degli Ottomani, in particolare con Sulayman il Magnifico, al-
Qanuni, il "legislatore", che si ritrova nel XVI secolo qualche cosa come il respiro, lo spirito d'iniziativa e soprattutto la
gestione sociale e politica dell'epoca d'oro. Si può anche ricordare la spiegazione di Ibn Khaldun, che, nella sua
Introduzione alla Storia Universale, parla del necessario ed inevitabile declino delle civiltà, per cui sarebbe un fattore
del tutto naturale.

Bisogna anche dire una cosa sull'evoluzione dell'Occidente che ha vissuto un rinascimento riscoprendo una parte del
suo passato precristiano. E' attraverso traduzioni e commentari di autori arabo-musulmani che scopre l'eredità della
cultura greca ed in particolare la figura di Aristotele. Più tardi si è voluto attribuire agli arabi il semplice ruolo di
traduttori, ma ciò non corrispondeva alla realtà: gli occidentali che leggono Aristotele nel Medio Evo, leggono il
pensiero di Aristotele rivisto, commentato, già in qualche modo interpretato da molti pensatori musulmani, tra i quali,
certamente, il celebre Averroè.

Quest'ultimo non fu un "traduttore", né prima di lui furono semplici "commentatori" al-Kindi, al-Farabi o Avicenna:
troppo spesso è stato occultato l'apporto fondamentale dei musulmani alla costruzione del pensiero occidentale. Il loro
contributo è del resto alla base dell'accesso dei filosofi e dei teologi europei alla libertà ed autonomia della razionalità.
Come abbiamo detto poco fa, quello che nella civiltà islamica era rimasto un connubio tra fede e ragione, nella
tradizione cristiana sarà vissuto come un divorzio. Difficile, burrascoso, causa di odio ed esclusione, questo divorzio
permetterà alla ragione di liberarsi, a tappe poi quasi totalmente, dall'influenza del dogma e di elaborare un sistema di
pensiero anch'esso autonomo. Con il razionalismo avviene anche, per dirlo con il titolo dell'opera di Bachelard, La
formazione del pensiero scientifico e, in fondo, del progresso tecnologico.

Questo fenomeno si unisce allo sviluppo della potenza politica, militare ed economica e con le premesse dell'azione
coloniale ed imperialistica. L'Occidente ha preso a prestito dal mondo musulmano gli strumenti ed il metodo del
pensiero libero in un momento della storia in cui, rispetto alla tradizione cristiana maggioritaria ma anche grazie alle
condizioni oggettive riunite, tutto era pronto per permettere lo slancio. Libera da ogni impiccio, la "trasgressione
nell'innovazione" era limitata solo dal possibile o dall'impossibile ed andava ormai ben al di là di ciò che il pensiero
musulmano poteva immaginare, considerata la natura delle relazioni che fede e ragione continuavano ad alimentare.

Questo momento di rottura e capovolgimento è fondamentale. Spiega l'arresto nell'evoluzione del pensiero islamico ed
anche la rivoluzione che ha dato vita al Rinascimento in Europa. Il pensiero razionalista, cartesiano, autonomo che noi
difendiamo oggi in Occidente ha le sue radici in questo terreno, in modo quasi naturale contro il "religioso" percepito
come "autoritario" e "dogmatico". E' questo che porta al pensiero del progresso e dell'evoluzione tecnologica. Si è
potuto pensare che il progresso e l'elaborazione tecnologica non conoscessero fine.

Il paradosso oggi è che si vede tornare, come giustamente afferma il filosofo delle scienze Michel Serre, la
preoccupazione morale. Si può cercare di far riferimento ad una morale razionale o all'etica - il termine greco sembra
più tecnico, meno religioso, forse meno scioccante per certi orecchi - ma il fatto svela la stessa realtà: il bisogno di
limiti. Ci si attribuisce il diritto di arrivare fino a che punto? Ogni giorno il pianeta ci mostra l'insensatezza della nostra
gestione ed il progresso scientifico e medico ci fa tremare al solo pensiero di ciò che domani sarebbe oggettivamente
possibile. Il ritorno alla questione etica interessa in primis il mondo musulmano poiché il senso del limite e della
selezione nell'innovazione fa parte della sua stessa identità. Quello che ieri ha fermato la civiltà islamica potrebbe oggi
permetterle di avanzare di più.

La stagnazione storica dell’islam


J.N. Non anticipiamo le cose. Vorrei prima chiarire la questione sulla grande crisi dell'islam. Uno dei fattori è senza
dubbio lo spostamento del centro politico dell'islam da Baghdad a Istanbul, da arabi, che sono gli inventori dell'islam, a
un popolo che è un pò barbaro, proveniente dalle steppe dell'Asia, come tutti gli invasori e che in particolare non
padroneggia la lingua araba come supporto naturale.

Vorrei formulare delle domande forse da ingegnere. L'Occidente ha conosciuto grazie all'islam tutta una serie di
invenzioni che sono servite al suo sviluppo e che è riuscito a spingere fino al massimo delle loro potenzialità. La
bussola, la polvere da sparo, il timone di poppa, la stampa. Tutte queste tecnologie sono pervenute all'Occidente solo
passando attraverso il mondo musulmano. E' sorprendente vedere il mondo occidentale utilizzarli in modo
assolutamente estensivo mentre il mondo islamico serve solo come intermediario, senza alcuna velleità di sviluppare da
sé queste tecniche.

Vorrei insistere in particolare sul fenomeno delle scoperte geografiche. I popoli che hanno unificato il pianeta sono
occidentali, in particolare i portoghesi e gli spagnoli all'inizio, poi gli inglesi ed i francesi. Si sono lanciati in un'impresa
assolutamente straordinaria anche se gli obiettivi erano estremamente confusi. Certo, c'era molta rapacità. I
conquistadores erano pendagli da forca, ma sulle caravelle si trovavano anche religiosi che si spostavano per ragioni
missionarie, per predicare la fede. Le tecniche con le quali erano state costruite le giunche cinesi permettevano ai
marinai cinesi di percorrere tutto l'Oceano Indiano. Queste tecniche sono state applicate in Occidente in modo molto più
audace, al punto che i Portoghesi hanno fatto il giro del mondo. Quando Vasco da Gama ha circumnavigato l'Africa, ha
incontrato all'altezza di Zanzibar navi arabe e cinesi. Ma mai le navi arabe o cinesi hanno fatto il viaggio in senso
inverso per venire a gettar l'ancora a Cadice o a Lisbona.

Pur considerando lo spirito di violenza e di mercantilismo che hanno accompagnato tutte queste operazioni, non si può
che essere sorpresi dallo sforzo di espansione della fede cristiana che è straordinario rispetto a quello che avrebbero
potuto fare le altre due grandi civiltà dell'epoca, cioè l'islam e la Cina. Lo trovo stupefacente e anche strano. L'islam
aveva dimostrato nel VII secolo di essere in grado di avere un'attività missionaria. Ma improvvisamente, nel momento
in cui si apre il mondo, questa attività non si manifesta più. Dunque, non può trattarsi solo di una crisi politica. C'è
qualche altro fattore?

T.R. Non dimentichiamo che il fervore e l'energia del VII secolo erano nutriti dalla forza della convinzione spirituale.
Si portava testimonianza e si trasmetteva un messaggio, l'ultimo secondo la concezione musulmana, cioè con una
dimensione universale. A poco a poco questo fervore è scomparso ed i problemi interni si sono moltiplicati. E' una delle
cause oggettive di una sorta di accartocciamento.

Bisogna anche notare che i musulmani sono stati grandi viaggiatori e che l'espansione dell'islam spesso è stata fatta con
la presenza di commercianti itineranti, come in numerose regioni dell'Africa dell'Ovest e dell'Asia. Le scoperte, i
progressi, le iniziative non erano determinate da un potere forte e gli sforzi non erano orientati in nome di una politica
ben chiara.

E' esattamente il contrario per l'Europa che ritrova un'energia che gli antichi limiti non possono più ostacolare. O
meglio, il progresso e le scoperte vengono messe al servizio d'una politica di potenza ed espansione coloniale che dà
loro una chiara legittimità agli occhi dei re e dell'autorità ecclesiastica. Le motivazioni dei primi musulmani non erano
fondate su una volontà di potenza e di colonizzazione. Spesso, infatti, le autorità locali mantenevano i loro privilegi.
Questo non ha nulla a che fare con l'espansione europea del Medio Evo le cui motivazioni sono chiare quanto alla
volontà di acquistare potere, ricchezze e terre. Di fronte a questo spiegamento di forze, si ha l'obbligo di constatare,
secondo me, che la civiltà islamica non aveva le risorse religiose, morali, politiche e militari per tener testa o
semplicemente per resistere alle nazioni europee.

J.N. Possiamo arrivare fino al fondo di questo ragionamento. Contemporaneamente alle grandi conquiste, allo sviluppo
tecnologico preso in prestito dall'estero, l'Occidente inventa l'economia moderna.

Non c'è una società anonima, in grado di mobilizzare capitali importanti senza accettare il prestito ad interesse. Ma ha
dovuto farlo! Perché il prestito ad interesse era originariamente interdetto ai cristiani come ai musulmani. Questa attività
è stata affidata agli ebrei, che erano mal visti proprio a causa di ciò. Ogni volta che diventavano troppo ricchi, i cristiani
recuperavano tutti i loro beni ricorrendo a un pogrom. Ma questi rapporti di scontro non costituiscono evidentemente la
base di un'economia dinamica. Non si può uscire da un'economia prevalentemente rurale senza accettare i meccanismi
necessari per accumulare il capitale tra le mani di dirigenti industriali.

Intorno al XII secolo, il cristiano che prestava denaro contro versamento di interessi era sicuramente dannato. La
situazione sembrava irrimediabilmente bloccata. E' allora che in Occidente alcuni teologi inventano il purgatorio.
Questo luogo intermedio tra il cielo e l'inferno permette di salvare dopo un dato termine coloro che fanno prestiti
pagando un'espiazione temporanea. Grazie a questa astuzia teologica, un banchiere può guadagnare tutto sulla Terra
senza perdere tutto nell'altro mondo.

A titolo assolutamente personale, trovo questo approccio non solo astuto dal punto di vista intellettuale, ma anche
positivo dal punto di vista morale. La fede prevede delle prescrizioni morali. Nel momento in cui è utile farne strame, si
escogita un'invenzione pura e semplice. Si può sfogliare tutta la Scrittura, non si trova alcun accenno al purgatorio.

Inventare il purgatorio permette di creare le prime banche italiane che permetteranno di realizzare l'impresa della
conquista del mondo. Armare un vascello con pochissime possibilità di riaverlo, suppone la presenza di un capitale
sufficiente per poter rischiare perdite consistenti. Questo implica la costituzione di società anonime con tutto ciò che
comporta di indifferenza per le conseguenze sociali di certi sviluppi economici. L'islam, al contrario, è rimasto fedele ai
suoi valori, non ha accettato il prestito ad interesse. Una banca islamica funziona con uno spirito totalmente diverso da
quello di una banca occidentale. Potrebbe spiegare allo stesso tempo qual è il significato della limitazione del prestito ad
interesse e qual è il concetto di banca islamica?

Il concetto di banca islamica


T.R. Con l'economia si tocca davvero il cuore della problematica dei limiti. A partire dalla seconda metà del Medio
Evo si tenta di giustificare con invenzioni di natura teologica pratiche che la tradizione cristiana proibisce e che anche
l'ebraismo proibisce quando le transazioni ad interesse si fanno tra ebrei. Lei ha citato l'esempio del purgatorio.

Nella tradizione musulmana i sapienti non hanno cessato di ricordare che l'interesse e l'usura sono severamente proibiti
e quindi certamente la speculazione. Il fondamento di questa prescrizione risiede nel fatto che nell'islam la ricchezza
non può produrre da se stessa altra ricchezza e che la produzione dell'avere si deve ottenere col lavoro e l'investimento
che preservi, in ogni caso, il fattore rischio. Questo è il vero senso della partecipazione economica. Non si può
immaginare di avere una retribuzione usuraia a tasso fisso e predeterminato. Se si aggiunge a ciò l'obbligo di pagare la
zakah sulla totalità dei beni suscettibili di produrre ricchezza, ebbene è chiaro che l'individuo deve impegnarsi ad
investire nell'economia senza alcuna possibilità di vivere di sola rendita. In caso contrario, la sua ricchezza si
esaurirebbe.

Alcuni sapienti hanno tentato, nel corso della storia, di giocare sul significato dei concetti, le loro accezioni e la
comprensione degli strumenti dell'analisi economica. Hanno affermato che l'interesse bancario non è un interesse o che
è autorizzato purché non oltrepassi una certa somma o un certo tasso: arguzie di questo tipo. Ma queste affermazioni
sono state molto criticate e non trovano una eco favorevole nella stragrande maggioranza dei musulmani.

Lei ha citato le banche islamiche che tentano oggi di produrre nuovi modelli evitando l'interesse. Esistono iniziative
interessanti, ma restano molti problemi in sospeso e molte carenze nella gestione di queste istituzioni. Più interessanti
sono le iniziative di cooperative di sviluppo senza interesse, microprogetti di investimento come quelli che sono stati
avviati in Bangladesh, o le società di investimento: tutte queste elaborazioni vanno nella direzione del rispetto della
prescrizione islamica che si oppone alla speculazione ed all'interesse ed esige di pensare ad un commercio più equo ed
una economia a misura d'uomo la cui finalità sia di servire e mai di asservire.

J.N. Proprio alla base del capitalismo si trova la celebre analisi di Adam Smith nel XVIII secolo: non aspettatevi il
pane quotidiano dalla buona volontà del panettiere, ma dal suo interesse; la somma degli interessi egoisti di ciascun
individuo concorre in modo miracoloso al benessere comune.

Questa analisi è estremamente riduttiva. E' vero che il panettiere è mosso dal suo interesse economico, ma ciò non vuol
dire che non tenga alla stima del vicinato, che non ami il lavoro ben fatto, che non comprenda che il suo benessere
particolare dipenda da una prosperità generale. Non c'è più lavoro per il panettiere in una società di disoccupati. Non c'è
più sicurezza per il panettiere se i poveri ricorrono alla violenza per non morire di fame. Le motivazioni del panettiere
sono molto più complesse dell'analisi apparentemente lucida e pragmatica di Adam Smith.

L'efficacia terrificante del mondo occidentale si basa spesso su analisi semplicistiche, schematiche e riduttive. Porta
anche a disfunzioni improvvise e devastanti: crisi economiche, guerre mondiali, disastri ecologici. A partire dal XVIII
secolo, in Occidente si pensa esplicitamente che la religione costituirebbe un freno allo sviluppo economico. Il
cristianesimo viene abbandonato a vantaggio della religione del profitto, dello sviluppo, della potenza, anche se le
forme esterne vengono rispettate.
La relazione tra cristianesimo e capitalismo è del resto molto più complessa di una semplice opposizione, una fagocitosi
del primo da parte del secondo. La conquista dell'America è stata intrapresa all'inizio da persone che fuggivano
dall'Europa, perché perseguitati per via della loro fede religiosa. Il puritanesimo dei Padri fondatori degli Stati Uniti
genera uno spirito d'ascesa, di economia e d'austerità assolutamente straordinario. Per due secoli sono sopravvissute
comunità di quaccheri ma del loro spirito originario non resta più granché oggi. Questo movimento religioso ha
conquistato il pianeta, ma l'America ha dimenticato il suo passato puritano. Tutto lo sviluppo dell'Europa del Nord e del
Centro si è appoggiato all'etica protestante così come è stata analizzata da Max Weber. Ma lo si vuole dimenticare oggi,
in una società centrata sul soddisfacimento immediato degli appetiti più sommari.

Oggi la religione non è più un fattore sociale importante in Occidente. Una delle linee di frattura tra l'Occidente e
l'islam si trova in questa opposizione: gli uni considerano la religione come un fattore negativo, gli altri come un fattore
positivo. Resta il fatto che, allo stato attuale delle cose, l'Occidente ha l'aria di avere più successo. Ma il prezzo è lo
sfruttamento dei popoli che non partecipano a questo successo economico ed anche lo sfruttamento della natura. Si sa
che non si potrà continuare indefinitamente questa crescita che costituisce una necessità politica ed economica.Un pò
come la legge fondamentale del ciclismo: bisogna pedalare per mantenersi in equilibrio. Se ti fermi, cadi.

Il rapporto di attrazione-repulsione tra Occidente e islam


Di fronte a questo apparente successo, i musulmani sono tra due fuochi, per lo meno in certi paesi. Sono sedotti
dall'Occidente e, allo stesso tempo, si rendono conto che soccombere a queste seduzioni significa rinunciare alla loro
anima. Tra l'Occidente e l'islam si tesse una relazione di seduzione, di resistenza, di amore, di odio, che spiega forse
certe reazioni violente. I terroristi algerini, i talibani afghani ne sono l'espressione estrema. Anche questi estremisti non
fanno che reagire all'Occidente. Sono reazionari nel senso etimologico del termine. Se nutrissero una fede perfetta
nell'islam, non arriverebbero alle violenze estreme che li screditano e compromettono l'islam. Farebbero un atto di fede
proclamando la loro fiducia nella via islamica dello sviluppo economico. Un vero credente possiede la pazienza di
attendere un secolo o due per verificare quale economia sopravviverà alla prova dei fatti.

T.R. Sono assolutamente d'accordo con lei. Il problema è proprio in questo rapporto attrazione-repulsione. Per il Sud
essere attratti dai miraggi tecnologici del Nord è quasi normale: c'è qualcosa che ha la stessa forza della magia e del
fascino. Contemporaneamente, la stessa attrazione fa nascere una repulsione quasi epidermica e a volte violenta. Il
sentimento generalmente condiviso è quello di una vera e propria espropriazione di sé, un'alienazione nel senso forte del
termine. Si sente l'attrazione ma non si sopporta di essere anche costretti, "nonostante il cuore", a negare la propria
identità con l'ondata che ci porta via.

La violenza è allora un modo di divincolarsi da ciò che è vissuto come un incatenamento, un imprigionamento. La
risposta è proprio nell'impegno a lungo termine. Quello di credenti determinati, resistenti, saggi e pazienti. Bisogna
superare lo stadio della reazione epidermica e proporre reali progetti alternativi tanto sul piano economico e
commerciale come su quello della gestione sociale ed umana. Tutto ci dimostra oggi che il modello occidentale non può
essere un modello per il pianeta. Bisogna trovare qualcos'altro: credere, significa assumersi la responsabilità essenziale
dell'iniziativa e della creatività. Lontano dai miraggi e dalla magia del progresso e di un modernismo cieco, bisogna che
i musulmani ritrovino la fiducia ed il senso della missione che è la loro: in nome della loro fede portare testimonianza di
una resistenza determinata contro la follia degli uomini, tanto nella gestione del mondo quanto nel modo di trattare i
propri simili.

J.N. Apprezzo molto che, nel suo libro, lei concluda dicendo: in fondo, ci si deve opporre ai rapporti di forza ed alla
volontà disumanizzata dell'universo simbolico dell'Occidente: significa resistere non al suo essere ma al suo modo
d'essere.

Le due situazioni dell’islam


Propongo di passare ad un tema legato al precedente. In questa coabitazione tra l'islam ed il mondo occidentale, che si
può ancora vagamente chiamare cristiano, esistono, in somma, due situazioni. In primo luogo, la situazione dei paesi nei
quali l'islam è maggioritario, nei quali esercita la sua tradizionale tolleranza nei confronti di cristiani od ebrei, tolleranza
che, come abbiamo visto nelle precedenti conversazioni, a volte subisce un certo numero di sbavature. La situazione è
relativamente chiara: in questa società islamica si può costruire un diritto, delle istituzioni, una economia che siano in
armonia con i valori religiosi. Ma si sarà obbligati a mostrarsi estremamente diffidenti rispetto a qualsiasi invasione dei
valori europei. A più riprese nel corso della storia recente, si è percepito questa specie di integralismo tremebondo del
quale abbiamo già parlato e a proposito del quale la rivolta degli ayatollah in Iran è assai sintomatica.
In secondo luogo c'è la situazione dell'islam minoritario, presente in Francia o in Germania con circa il 10% di
musulmani sommersi da una società anticamente cristiana. La difficoltà parrebbe insormontabile. I musulmani sono
certo obbligati a piegarsi a istituzioni, diritto ed economia radicalmente opposti ai loro valori.

Parliamo dei due problemi. Come può l'islam, là dove è maggioritario, accettare certi valori o istituzioni occidentali
senza rinnegarsi? Che cosa può accettare dagli occidentali che si insediano in questo contesto? Come può, in senso
opposto, adattarsi all'interno di una società che gli è sornionamente ostile sotto l'apparenza della neutralità rispetto a
tutte le religioni?

Consideriamo prima l'islam maggioritario. A partire da ora, quale sarebbe il suo desiderio? Prima di tutto, c'è un paese
islamico che si comporta secondo il suo cuore, da questo punto di vista? Esiste un paese che sia vicino all'ideale
auspicabile d'adattamento senza rinnegarsi? Esiste un paese islamico che pratica correttamente il rapporto auspicabile
con le altre fedi religiose?

T.R. Lo sa, sono molto critico rispetto ai paesi musulmani, ma mi rifiuto di esagerare. Abbiamo già parlato di paesi
che sono, a mio avviso, piuttosto antimodelli. L'Arabia Saudita, lo ripeto, è un bastione protetto dall'Occidente: per i
musulmani è tutto salvo un modello di gestione politica. L'Afghanistan è la stessa cosa, malgrado ciò che si vuol far
credere qui: nel silenzio e nei retroscena della gestione politica presentata dai talibani, gli Stati Uniti preparano un
accesso alle risorse petrolifere dell'Asia centrale con l'appoggio del Pakistan e dell'Arabia Saudita. La denuncia è diretta
anche verso altri tipi di paesi come la Tunisia, l'Algeria, la Turchia, la Siria, l'Egitto e tanti altri che sono chiaramente
dittature. Sono ugualmente vigile e critico riguardo all'Iran, la Malesia o il Sudan ma mai nel modo semplicistico e falso
attraverso il quale ci vengono presentati questi paesi dai media occidentali; le esagerazioni e la propaganda sono
costanti e stabiliscono una griglia di lettura ideologica e menzognera.

Non ho un modello da proporre, ma oggi ho delle domande da fare all'Occidente. Perché alla fine bisogna essere chiari
e ammettere che di due cose una sia: o riconoscere il diritto alle società a maggioranza islamica di restare fedeli alle loro
origini e di pensare ad una organizzazione confacente alla loro identità; o si dice, si dichiara, che l'unica motivazione del
Nord consiste nel preservare i propri interessi a qualsiasi costo, anche se si dovesse a tal fine negare la fede dell'altro e
la sua cultura.

La storia ci dice che non si può pensare al futuro del mondo musulmano senza riconoscere la pregnanza del riferimento
religioso e culturale. Il caso della Turchia parla chiaro: dopo oltre sessant'anni di un sistema all'europea imposto a
randellate ed esecuzioni, il riferimento islamico resta solidamente ancorato. Domani gli oppositori al regime potranno
diventare tanto più violenti quanto più si continuerà a negare il "fatto islamico" ed a gestirlo con la repressione e la
morte.

Non sottovalutare i regimi politici


I paesi del Nord, se vogliono preparare l'avvenire, devono operare un radicale cambiamento di gestione cessando di
ricercare solo l'interesse a breve termine. Le mie domande sono le seguenti: si è pronti in Occidente a moderare la
propria volontà di dominio; si è pronti a fare quello che si dice in materia di diritti dell'uomo; si è pronti a non sostenere
più i dittatori e a non nascondersi dietro i più ipocriti discorsi di giustizia ed uguaglianza? Nessuno si lascia ingannare:
chi dunque è pronto a ciò in Occidente? Io sono critico contro i paesi musulmani ma l'ipocrisia dei paesi occidentali ha
finito col nausearmi, nel vero senso della parola. Si vorrebbe che io volgessi lo sguardo verso il mondo musulmano e
che denunciassi gli orrori fatti in nome dell'islam, mentre alle mie spalle, nei retroscena, i poteri che danno lezione
negoziano e collaborano con i peggiori autocrati, i più oscuri criminali.

Ma è ancora peggio, sa. Lei è letteralmente "messo in un sandwich". Io continuo a criticare i poteri, dall'Arabia Saudita
alla Tunisia, passando per la Libia, la Siria e tanti altri. L'ha sentito molte volte dall'inizio dei nostri colloqui. Come
uomo di fede e di buona volontà, lei trova questa posizione giusta ed onesta.

Ma lo sa qual è il nocciolo della faccenda? E' che questi discorsi non si vogliono più sentire in Occidente. Quando
critico le monarchie del petrolio o l'Algeria o l'Egitto, alcuni mi battono sulla spalla e mi incoraggiano, mentre i poteri
francese, inglese, belga fino ad arrivare alle autorità svizzere e dei cantoni vedono molto male la cosa. Queste denunce
li disturbano ed i poteri che io critico intervengono affinché si trovi un mezzo per farmi tacere. Che cosa può valere la
mia parola di fronte ai milioni di dollari di trattazioni finanziarie che esistono tra questi diversi paesi? Non molto...
Niente.
Peggio, si orchestrerà la diceria per fare di colui che alza la voce un integralista mascherato, un fondamentalista dal
linguaggio doppio e si getterà quindi discredito sulla persona stessa. Lo vivo tutti i giorni... Tante e tante pseudo-
rivelazioni e voci diffuse da intellettuali molto perspicaci, difensori della "buona ideologia", o ancora "giornalisti
liberi", informati nelle anticamere dei servizi segreti di stato, i quali sono necessariamente "disinteressati" e li
forniscono di "rivelazioni" piccanti "per puro amore della verità". Certo. Chi è allora oggi che parla in modo doppio?
Colui che denuncia l'orrore e si batte per la giustizia, lo Stato di diritto, le elezioni libere ed il pluralismo o gli stati che,
in nome dei loro interessi economici, si appoggiano qui sulla democrazia e collaborano, là, col terrore?

Non si tratta oggi di imporre un modello unico di gestione politica, economica e sociale. Si tratta piuttosto di difendere
principi inalienabili.

Ne citerei tre sui quali, penso, possiamo essere d'accordo: lo stato di diritto, il diritto dei popoli di scegliere i loro eletti
ed i loro rappresentanti, il principio del pluralismo e della libertà di coscienza. Penso che sia giusto interpellare i
musulmani su questi principi e penso che la loro risposta debba esser chiara: noi ci riconosciamo in questi fondamenti.
L'islam non è responsabile della destrutturazione delle società contemporanee; bisogna smetterla con questa analisi
semplicistica e considerare l'insieme dei fattori che giocano sul piano storico, politico, sociale ed economico. Tuttavia,
bisogna riconoscere che esistono oggi nel mondo musulmano movimenti di opposizione legalitari che rifiutano la
violenza e che, volendo restar fedeli all'islam, si oppongono ai dittatori e vogliono instaurare uno stato di diritto tramite
vere elezioni. Essi sono demonizzati in Occidente perché a tutti i costi si vuol fare di ogni erba un fascio:"Tutti
integralisti, tutti radicali". I poteri occidentali hanno capito che i loro interessi sono più protetti dalle dittature che dai
movimenti popolari, a fortiori musulmani, fossero pure democratici. Nient'altro li interessa. Da quando ci si è resi conto
di ciò, si comprende come i discorsi politici dipendano prima dalla copertura ideologica che da una constatazione
oggettiva.

Quando si osserva il mondo musulmano oggi, c'è di che preoccuparsi, questo va da sé. Ma le cose avanzano un pochino;
lei ha parlato abbondantemente della situazione iraniana e ho detto chiaramente che bisogna essere critici su parti intere
della gestione religiosa, sociale e politica. Ma bisogna essere oggettivi ed onesti: in materia di libertà politica come sul
piano della partecipazione femminile, questo paese è nettamente in vantaggio rispetto all'Egitto, la Tunisia o l'Arabia
Saudita, che sono gli alleati immediati dell'Occidente. Da dieci anni l'avanzata è visibile e fenomenale. E' in corso una
rivoluzione all'interno stesso del processo rivoluzionario. Non è certo sufficiente, ma dobbiamo avere l'onestà di
riconoscere che l'Iran è molto più uno stato di diritto e di partecipazione dei cittadini che la maggior parte degli altri
paesi musulmani. Ed il movimento femminile non ha paragoni.

J.N. Se ho ben capito il suo intervento, lei non cita come esempio nessun paese, perché non c'è nessun paese che si
possa considerare esemplare, perché nessun sistema politico è esemplare. Lei pare privilegiare l'Iran come il meno
peggio approssimativo di quello che si può desiderare per un paese in cui l'islam è maggioritario.

T.R. No, io non ne parlo qui in quanto "modello". Voglio semplicemente sottolineare che il riferimento all'islam non
significa immobilismo, dogmatismo, chiusura. Al contrario, l'Iran è di tutti i paesi della regione quello che ha vissuto, a
diversi livelli, l'evoluzione più spettacolare e che non è assolutamente il paese musulmano meno democratico.

Significa che, anche all'interno del campo di riferimento islamico, le cose si muovono e si evolvono. Oggi sono i paesi
che impongono un modello di società, apparentemente all'europea, quelli nei quali le cose sono statiche e dove le
iniziative sociali, politiche ed economiche sono immancabilmente soffocate sotto la cappa di piombo dei poteri.
Contrariamente a quello che si dice, i paesi che si riferiscono all'islam, con tutti i difetti che obiettivamente dobbiamo
rilevare, non sono i meno dinamici né i meno portatori di progresso.

Bisogna ancora mettersi d'accordo su che cosa si intende per "progresso". E' il grado di penetrazione dei modi di vivere
occidentali oppure l'impulsione di una dinamica popolare e statale che comporta cambiamenti sociali, politici, legislativi
ed economici? Abbiamo parlato dell'Iran, ma parliamo della Malesia o delle mobilitazioni in Indonesia. Anche il Sudan,
che deve essere criticato quanto alla gestione politica (rifiutando comunque le analisi "a spizzichi" nelle quali si ripete
ciecamente la propaganda dell'opposizione ideologica degli Stati Uniti... ) anche questo paese povero è riuscito a
mettere in piedi un progetto di agricoltura ad uso alimentare a livello locale, appoggiata ad istituti universitari regionali,
che ha permesso una crescita di circa il 13%, mantenuta fino all'inizio dell'embargo. Il F.M.I., nei suoi primi rapporti,
aveva elogiato il risultato, che fu subito curiosamente ignorato da quando è stato chiaro che il regime non collaborava
con gli Stati Uniti.

Tutto ciò mi porta a dire che il riferimento all'islam non è un freno in sé; al contrario, può diventare uno strumento
fecondo di mobilitazione popolare e sociale purché siano conservati la libertà ed il diritto. Ancora una volta, il problema
dei paesi musulmani, di quelli che ho citato e di tutti gli altri, non è l'islam, ma l'assenza del rispetto dei principi dello
stato di diritto e del pluralismo politico.

J.N. E ci sarebbe un altro paese più vicino ancora a questo ideale di paese musulmano, a maggioranza islamica, che
allo stesso tempo sia in grado di vivere col resto del mondo in modo corretto? Lei vede un altro paese?

T.R. Ho citato la Malesia, che ho appena visitato e devo dire che ho ridimensionato la mia analisi. Certo, esistono
iniziative sociali ed economiche molto interessanti: il paese si muove, lo sviluppo è impressionante. Ciò che turba, è il
modello di sviluppo che è stato proposto: è chiaramente una "società di consumi", fortemente americanizzata e
"insaporita" da qualche reminiscenza islamica... E' sconcertante e credo che non sia questa la via. Penso invece che si
dovrebbe proporre un progetto in rottura con il modello occidentale fondato sulla produttività ed il consumo.

La dinamica trasnazionale dell’islam


Ragion per cui non parlerei di stati o paesi particolari da considerare come esempio. Ciò che mi interessa oggi è
piuttosto quello che chiamerei la "dinamica transnazionale": in molti paesi musulmani, la mobilitazione popolare e
l'impegno a livello detto "meso" è impressionante. Sono state avviate iniziative di cooperazione di sviluppo davvero
originali, come la creazione di piccole e medie imprese o anche progetti agricoli che mostrano il vigore e l'impegno
degli intellettuali e di intere parti di popolazione musulmana.

Sono stato recentemente nell'Africa occidentale e ho potuto rendermi conto che il tessuto associativo è molto impegnato
nelle città e nelle campagne. A livello locale vengono realizzati progetti endogeni, sociali, educativi ed economici. Si
può notare la stessa dinamica in altri paesi e questo malgrado la repressione, come in Egitto, in Siria o in Indonesia.
Questo fenomeno di mobilitazione transnazionale non è solo interessante ma di capitale importanza perché si allontana
dal modello del consumismo imposto dall'Occidente e si basa su una strategia di rottura in nome dei valori dell'identità
musulmana.

Bisogna anche sottolineare il suo aspetto popolare che lascia presagire un rinnovamento dell'impegno del cittadino.
Oggi bisogna mettere in evidenza queste dinamiche: a mio parere, rappresentano i "modelli" lontani dal falso
barcamenarsi degli stati. E' a questo movimento di iniziativa e di resistenza che mi associo: lo troviamo allo stesso
tempo in diversi paesi e a me pare che sia a questo livello che è necessario impegnarsi oggi. L'avvenire è senza dubbio
questa dinamica popolare di partecipazione a livello di educazione e solidarietà che trascina nella sua scia una profonda
rivoluzione delle mentalità.

Il riferimento islamico è qui allo stesso tempo determinante e dinamico, creativo, fattore di coinvolgimento. Si trovano
anche importanti movimenti di donne che rivendicano i loro diritti e che sono molto attive nel tessuto associativo. Sono
loro che si occupano di progetti agricoli collettivi con rendimenti anche tre volte superiori a quelli degli uomini (come
hanno dimostrato alcuni studi nel sud del Senegal). Sono spesso musulmane praticanti ed impegnate e non esitano a
mettere sottosopra le abitudini falsamente rivestite della legittimità dell'islam. Ci sono là cose molto interessanti: si
tratta di progetti locali di economia alternativa che si collocano in opposizione all'economia liberale opprimente. Inoltre,
sul piano politico, ci sono strutture di concertazione e partecipazione, a mio parere, modelli di cittadinanza sul piano
locale.

J.N. Esattamente. Invece di continuare questo gioco in cui io le pongo domande sulle sue preferenze, lei potrebbe
interromperlo facendomi la stessa domanda. Avrebbe potuto chiedermi se io credo esista una scala tra i paesi che si
dicono cristiani o che sono di tradizione cristiana. C'è qualcuno più vicino all'ideale cristiano?

Non avrei esitato a lungo: sono i paesi europei neutrali, i paesi scandinavi, la Svizzera, i Paesi Bassi, in opposizione a
paesi che hanno utilizzato il cristianesimo a fini politici, come la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, l'Italia di
Mussolini, la Francia di Petain, la Grecia dei colonnelli, l'Argentina di Ongania, il Cile di Pinochet. Per me esistono
paesi di tradizione cristiana più vicini alla fede nelle loro realizzazioni politiche che altri. Ed è anche molto chiaro
quando rifletterà sugli esempi che le do. Esistono regimi che procedono lentamente e penosamente verso ciò che si
chiama il Regno di Dio sulla terra. e ce ne sono altri che se ne allontanano radicalmente. In generale meno si invoca il
cristianesimo come legittimazione politica, più lo si pratica nei fatti. Questa è forse una valutazione globale che si
potrebbe fare per classificare i paesi cristiani in merito alla loro eccellenza.

L'islam in stato di guerra potenziale?


Di fronte all'islam ed ai suoi diversi radicamenti politici, ho sempre molto timore malgrado le sue risposte. Da una
parte un ideale di pace, di fratellanza, di tolleranza nel Corano; dall'altra situazioni patologiche che si sviluppano in tutte
le direzioni. La violenza ed il terrore nel caso dell'Algeria, dell'Afghanistan o del Sudan. In Libia. anche se non c'è
violenza, questo paese sembra esser governato da un pazzo. I paesi che si avvicinano all'Occidente come la Tunisia o la
Turchia sono, secondo lei, lontani dall'esser modelli dal punto di vista politico. Si ha la sensazione che l'islam sia in uno
stato di guerra larvata. Prima si tratta spesso di guerra civile, all'interno di un paese. Poi di guerra tra paesi musulmani,
come tra l'Irak e l'Iran. Il mondo islamico dà l'impressione di essere un nido di vespe, pronte a massacrarsi
reciprocamente o a diffondere il loro veleno all'esterno. Quando ci sono difficoltà all'interno dell'Algeria, e la Francia,
assai imprudentemente del resto, dà lezioni di morale all'Algeria, i terroristi algerini pensano di disporre di una sorta di
diritto morale per mettere bombe sugli Champs-Elysèe. Sono peripezie adatte a creare malintesi permanenti. L'insieme
dell'islam è considerato dal mondo occidentale come un fattore di squilibrio mondiale, forse per ragioni di squilibrio
interno.

T.R. Per trattare questi argomenti bisogna imporsi dei livelli di lettura. Ci sono effettivamente, nel mondo musulmano
di oggi, situazioni conflittuali e problemi irrisolti.

Innanzitutto non bisogna mai dimenticare che la maggior parte dei paesi musulmani vive in una situazione di
sottosviluppo caratterizzato. La povertà, la miseria e la realtà del soffocamento della sfera politica sono di per sé atti a
creare turbolenze. Questo è un primo livello.

Il secondo riguarda l'intervento immediato o mediato dei poteri occidentali con lo scopo di difendere i loro interessi.
Bisogna allora entrare in una analisi geopolitica che sia tutto fuorché semplificatrice. Prendiamo molto rapidamente tre
esempi.

Il caso algerino non è mai stato risolto perché, nel fondo, la relazione storica tra la Francia e l'Algeria non cessa di
segnare le memorie. C'è stato un processo elettorale relativamente pluralista che è stato fermato da un autentico colpo di
stato mascherato. Il giorno dopo le elezioni, deputati eletti si sono visti imprigionati, deportati e torturati davanti agli
occhi di tutto il mondo. I governi sulla scena internazionale non hanno reagito, ed è forse l'Arabia Saudita che ha
riconosciuto per prima il nuovo potere sanguinario. Gli arresti e le torture sono stati la regola ed il governo francese, ad
esempio, ha sostenuto il nuovo potere il quale, si sa, non ha neppure tentato di nascondere il suo carattere repressivo.
Che si sia d'accordo o no a riguardo del FIS, ed io personalmente ho iniziato ben presto un dialogo critico con alcuni dei
suoi partigiani in Europa, non si può tacere davanti ad una manifestazione di ingiustizia e diniego del diritto. Bisogna
essere chiari: denunciare con fermezza ed energia i gruppuscoli armati è fuori discussione, ma con la stessa forza
bisogna criticare la gestione statale di una mafia militare che si basa sul terrore e l'omicidio. Ora che cosa si osserva? I
poteri occidentali si mostrano molto freddi quando si tratta di denunciare il potere politico algerino. La Francia, per
prima, continua ad avere relazioni con certi militari indegni e che hanno al loro attivo numerosi crimini contro
l'umanità.

Chi è dunque responsabile delle turbolenze nel mondo musulmano? I soli musulmani? No, cerchiamo di essere seri e
determiniamo la vera posta in gioco. Come mai gli impianti delle risorse petrolifere non sono mai stati toccati da sei
anni a questa parte? Come mai il F.M.I. sottolinea, mentre i massacri di civili continuano, che "l'Algeria è un buon
allievo" e gestisce, in modo competente e determinato, il programma di riforma strutturale? Stupefacente, per lo meno,
l'oleodotto che attraversa l'Africa del Nord ed in particolare l'Algeria, costruito mentre qualche chilometro più in là si
spargevano il sangue e la morte. Amnesty International e la Federazione delle Leghe dei diritti dell'uomo dubitano delle
vere intenzioni e delle azioni del potere ma si continua a far finta di essere ciechi in Occidente. E' troppo facile
denunciare subito l'islam ed i musulmani senza tener conto del ruolo e della responsabilità dell'Occidente nella gestione
e nel mantenimento dell'orrore.

Che dire dei talibani, sostenuti dai servizi segreti pakistani che sono essi stessi al soldo degli Americani? Anche qui un
oleodotto attraversa il paese fino all'Asia centrale. Chi dunque sostiene questo islam reazionario e chiuso? Chi sostiene
l'Arabia Saudita e la gestione indegna che i principi fanno delle loro ricchezze? Chi sostiene i partigiani dell'islam più
riduttivo? La risposta è semplice: fintanto che preservano i loro interessi finanziari e geostrategici, i poteri occidentali se
ne infischiano del progresso, dell'apertura di spirito, della democrazia e dei diritti dei popoli. Non si può essere
protagonisti e promotori di dibattiti e fingere di essere spettatori rattristati e spaventati al momento della loro
valutazione.

Non si tratta qui di deresponsabilizzare i musulmani, ma bisogna riconoscere almeno che le responsabilità sono
condivise. La violenza visibile della quale lei parla non deve farci dimenticare la vera violenza che oggi la gestione del
pianeta esercita sui paesi sfavoriti. La realtà della violenza non si valuta secondo l'impiego o la pura visibilità delle
armi... ma piuttosto deve essere considerata alla luce della sofferenza e della morte che vengono diffuse. Chi oggi
esercita maggior violenza sulla terra? Attenzione alle illusioni ottiche: le immagini di orrore della televisione sono
insopportabili ed è tempo di porre fine a questi eccessi; ma le conseguenze dei flussi finanziari invisibili, quasi virtuali,
e delle gestioni politiche nascoste quanto sono più drammatiche! La cultura dell'immagine sta uccidendo la profondità
delle nostre analisi. È gravissimo.

Una parola ancora sul Sudan, paese al quale lei fa spesso allusione. Tutto avviene oggi come se si sapesse che cosa sta
veramente succedendo. Ma chi sa che cosa sta succedendo? La propaganda americana dà il tono e si dice tutto e
qualsiasi cosa su questo paese. E' gravissimo: alla fine, è il permesso dato agli aerei americani di distruggere uno
stabilimento farmaceutico, davanti agli occhi di tutto il mondo, per poi permettersi di rifiutare la costituzione di una
commissione d'inchiesta destinata a sapere se vi si nascondevano o no prodotti chimici destinati ad essere usati come
armi. Mi sono recato nel Sudan ed ho fatto delle critiche sulla mancanza di libertà politica ma questo non mi permette di
dire qualsiasi cosa. La situazione nel sud del Sudan non è responsabilità del regime attuale: tutti dovrebbero sapere che
è la Gran Bretagna con la sua gestione coloniale che ha deciso per uno sviluppo differenziato tra Nord e Sud. Quando si
aggiunge che si tratta di una guerra di religione, si dice un'altra falsità: esiste un'alleanza obiettiva tra gli Stati Uniti ed
alcuni movimenti cristiani (che comunque raramente sono chiari sui loro programmi missionari di evangelizzazione)
per denunciare il potere sudanese "islamista".

Che dire infine, se si tratta di una guerra di religione, del sostegno saudita ai partigiani del "cristianissimo" Garang? Chi
è che vogliamo prendere in giro? Gli interessi in ballo sono importanti e il Sudan è in una posizione strategica in Africa.
Per fare un equo paragone, il potere di Khartum è meno poliziesco, meno duro e meno discriminatorio dei suoi vicini,
l'Egitto, la Tunisia o la Siria. E' la sua insubordinazione che costituisce un problema e che giustifica l'embargo attuale.
Bisogna andare a vedere quello che succede veramente sul terreno e smetterla di ripetere analisi semplicistiche e
ideologicamente orientate.

Detto questo, sia ben inteso, non si tratta mai di difendere gli eccessi del potere militare di Khartoum, sia sul piano
politico e/o penale: il clientelismo è molto diffuso, la libertà politica relativa e i poveri e gli sradicati vengono colpiti in
modo inaccettabile. La mia critica è chiara. La questione del numero dei prigionieri politici, posta da fonti ufficiali al
momento della mia visita, affinché la loro gestione politica fosse giustificata ai miei occhi, non mi interessa: anche se ci
fosse una sola donna o un solo uomo in prigione per le sue idee e, soprattutto, fosse torturato, questo sarebbe già
inammissibile. Questo è il caso del Sudan: l'orrore e la disumanità non si valutano alla luce del numero.

Mi permetta di fare ancora una domanda: chi dunque vuole oggi la costituzione di società musulmane pluraliste, aperte,
libere? Chi si batte per lo stato di diritto? Non si possono sostenere carnefici e rimproverare ai popoli di resistere; non si
può restar ciechi davanti agli omicidi di intellettuali esercitati dai poteri e dispiacersi per l'assenza di intellettuali liberi.
Credo che si debbano denunciare tutti i terrorismi, quelli dei gruppi armati e quelli dello Stato, promuovere l'educazione
e la libertà e battersi affinché venga rispettata l'opinione dei popoli anche se questi decidono contro gli interessi
immediati dell'Occidente. Ciò significa anche, ad esempio, prendere posizioni chiare rispetto ad Israele ed alla sua
politica: questo stato e l'ideologia sionista sono fattori di disturbo nel Medio Oriente ed il governo agisce come gli pare
con i suoi vicini, se ne infischia dei Palestinesi (e del mondo) e legalizza la tortura "di bassa intensità". Non c'è niente
da dire su questa realtà, non c'è niente da spiegare? Dobbiamo promuovere insieme una pedagogia della sfumatura e
della resistenza.

Si potrebbe pensare che io non riconosca alcuna responsabilità ai musulmani. Non è così: continuo a sottolineare le
carenze del nostro pensiero, della nostra gestione e del nostro impegno. E' una costante nelle mie opere, nelle mie
conferenze e nei miei articoli. Come ho già detto, secondo me urge rendersi conto che le responsabilità sono condivise.

Ognuno è responsabile della sua riuscita o della sua sconfitta


J.N. Io comunque sono pronto a riconoscere le colpe dell'Occidente. A cominciare dalla vasta opera di colonizzazione
della quale abbiamo appena parlato, che è evidentemente traumatizzante per la cultura vittima della colonizzazione. Ma
essa è nata nel passato a causa della debolezza dei paesi islamici, della loro incapacità di concatenare la rivoluzione
scientifica e quella industriale.

Resta questa sfida. La storia salva solo le civiltà che hanno successo, in un modo o nell'altro, nella cultura, nella
scienza, nella politica o nella religione. Se consideriamo i piccoli paesi neutrali che ho menzionato e che si trovano nel
cuore dell'Europa, la loro indipendenza e la loro prosperità non sono piovute dal cielo. Al contrario, hanno spesso
dovuto battersi.
Gli Svizzeri hanno creato un paese contro tutti i poteri che li circondavano e restando pronti, ancora in questo secolo, a
battersi per preservare la loro neutralità e la loro indipendenza. Stessa sfida per un paese come l'Olanda, paese
pianeggiante, difficile da difendere, che ha rischiato nel XVII secolo di scomparire sotto la pressione degli Spagnoli,
ansiosi di imporre nuovamente il cattolicesimo ai protestanti. Si può ricordare la stessa epopea per la Danimarca o la
Svezia, che nel corso della loro storia, hanno dovuto difendersi armi alla mano. A volte con azioni di resistenza passiva
ammirevole, come i danesi, che hanno salvato fino all'ultimo tutti gli ebrei che vivevano sul loro territorio durante la
Seconda Guerra mondiale. Questi popoli prosperano, hanno dovuto combattere contro aggressioni esterne, sono riusciti
a creare una democrazia pluralista estremamente rispettosa dei diritti dell'individuo.

Tra lo sviluppo politico del cristianesimo e quello dell'islam sembra delinearsi per lo meno uno scarto nel tempo. Lo
scontro, oggi, non è forse dovuto a questo scarto nel tempo? Questa frattura tra l'XI ed il XV secolo in cui l'Occidente si
è appropriato della ragione (o insensatezza) non ha costituito il divario temporale tra le due religioni?

Riflettiamo sull'etica protestante, fondata su una serie di malintesi religiosi sempre più fruttiferi in termini di sviluppo
economico. Secondo la tesi di Calvino, gli uomini sono predestinati fin dalla nascita o alla salvezza o alla dannazione,
qualsiasi cosa essi facciano. Questo non ha assolutamente niente a che vedere col messaggio di Gesù. E' un'idea giusta
("Dio è l'unica fonte di salvezza") divenuta folle ("l'uomo non ha alcuna influenza sul proprio destino"). Un'idea
assurda.

Ma, curiosamente, questa perversione religiosa ha determinato il benessere dei popoli che vi hanno aderito. Perché?
Perché erano angosciati. Perché consultavano i pastori sulle loro possibilità di essere salvati. La risposta dei pastori è
stata di tipo egoterapeutico: lavorate senza sosta per dimenticare le vostre angosce! Questo tipo di consigli virtuosi
lascia sottintendere in modo surrettizio che coloro che lavorano molto hanno molto successo e in un certo senso, questo
successo materiale costituisce, se non una garanzia, almeno un indice della loro salvezza. Soprattutto se praticano
l'ascesi che consiste nel privarsi del piacere di consumare nell'immediato per accumulare un capitale di risparmio. Era
un modo per indovinare se si fossero salvati.

Dal punto di vista religioso, è assurdo: Gesù non ha mai suggerito di lavorare con accanimento, al contrario, e non ha
mai lasciato credere che il successo materiale o il gusto del risparmio potessero essere legati alla salvezza eterna, al
contrario. L'invenzione dell'etica protestante del lavoro e della capitalizzazione costituisce un'operazione simile a quella
dell'invenzione del purgatorio. E' contraria al genio del cristianesimo, ma funziona. Funziona un pò come un vaccino
per cui l'organismo reagisce ad un'aggressione moderata secernendo anticorpi che lo rendono infinitamente più
resistente. Non solo questo funziona dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista politico.

Se si dovesse scegliere tra la Svizzera e l'Afghanistan, la scelta è presto fatta. La differenza tra i paesi non è un
problema geopolitico, è un problema di cultura. Se in un Gedankenexperiment si prendessero gli afghani e li si
mettessero in Svizzera e si prendessero gli svizzeri per trasportarli in Afghanistan, dopo vent'anni l'Afghanistan sarebbe
diventato la Svizzera e la Svizzera sarebbe diventata l'Afghanistan. Ci sarebbero talibani e donne col velo a Ginevra e
banche a Kabul. E' chiaro.

Dunque, in questa dinamica torturata del cristianesimo ereditata dai greci si trova forse la spiegazione. Questa dinamica
è assente nell'islam perché esso non è in stato di ribellione. Non è in rivolta contro Dio. Non è in rivolta contro la
natura. Come comprendere il divario storico tra le due civiltà a partire da questo?

T.R. Non sono assolutamente d'accordo col suo punto di vista. Ho sentito spesso questo tipo di deviazione nell'analisi
e mi sembra pericoloso. Certo si deve riconoscere che esiste un ritardo in termini di sviluppo nei paesi musulmani, ma
non penso che si possa spiegare questo fenomeno con l'idea di un "ritardo culturale" o di una sorta di "sottosviluppo
culturale". Le formule del tipo "Noi ci siamo già passati", "Bisogna che l'islam viva il suo rinascimento come l'abbiamo
vissuto noi", "L'islam sta vivendo il suo Medio Evo" sono estremamente semplificatrici e soprattutto rivelano una
doppia posizione: prima si considera la storia occidentale come l'unico parametro del buon sviluppo (il che è, in sé,
molto discutibile) e poi si lascia perdere la logica interna e l'evoluzione endogena delle altre civiltà, il che è spesso
prova di una totale ignoranza delle dinamiche fondatrici e strutturanti della fede e della cultura dell'altro.

Non si può passare così dalla constatazione oggettiva del ritardo economico alla deduzione del ritardo culturale. Quello
che spiega il sottosviluppo oggi è una somma di fattori che ingloba tanto i fenomeni interni di declino delle società
islamiche di cui abbiamo già parlato, quanto la confisca coloniale che sottometterà i popoli per decenni sul piano
politico come, oggi, su quello economico. Esistono fattori oggettivi che spiegano il capovolgimento del rapporto di
forza a partire dalla fine del Medio Evo e la lenta e radicale presa di potere della civiltà occidentale dovuta
essenzialmente al suo nuovo dominio scientifico e tecnologico.
E' evidente che l'apparato concettuale teologico, che è stato pensato e categorizzato a posteriori, ha permesso di
legittimare l'impresa a tutti i livelli, sociale, politico, economico e scientifico, ma questa non è l'unica fonte di
spiegazione del Rinascimento. Bisogna dire che il progresso e la liberazione della ragione sono state operate in
Occidente soprattutto contro la religione ed il dogma. A partire dal XV e XVI secolo lo si sente già in Montaigne e
Rabelais ad esempio, il discorso religioso è in ritardo rispetto al pensiero autonomo che ben presto diventerà
chiaramente scientifico. Ciò che si percepisce a livello del pensiero si concretizza nelle diverse sfere dell'attività umana.
Il discorso teologico ha dovuto adattarsi ad una evoluzione alla quale prima non era abituato: il suo potere fino a quel
momento si basava sul fatto di promulgare il dogma e fissare la norma. La ribellione del pensiero, da una parte, e la
resistenza e l'incapacità di adattarsi da parte del clero dall'altra, spiegano, all'interno del campo di riferimento
occidentale, come si è stabilito il progresso. Non bisogna più dimenticare le influenze esterne come quella del pensiero
arabo-musulmano. E' una questione di rapporto di forza tra tendenze contraddittorie. Non credo che il substrato
teologico del protestantesimo e del cattolicesimo sia sufficiente per spiegare il fenomeno dello sviluppo, anche se, e lei
ha ragione, ha potuto legittimare ed incoraggiare l'iniziativa privata, come è stato il caso dell'etica protestante.

La civiltà islamica non ha conosciuto questi sviluppi. Aggiungerei anzi che la sua evoluzione è avvenuta all'opposto di
quello che abbiamo appena detto. Durante i primi secoli, quando il riferimento religioso è ancora molto pregnante, si
può constatare un pensiero molto dinamico, innovatore in materia di produzione intellettuale, di prestiti ed adattamenti
culturali o ancora di sviluppi scientifici.

E' per analogia con la storia occidentale che si pensa che il fattore religioso "per forza" frena la scienza e la ricerca. Ma
non è così nella storia musulmana, al contrario... "Sapere è adorare; capire meglio è adorare meglio l'Altissimo"; i
musulmani fin dall'inizio hanno inteso così il messaggio dell'islam. Bisogna aggiungere che la rivolta, che fu un vero e
proprio catalizzatore dello sviluppo nella storia della mentalità occidentale, non è l'unica condizione che permette il
superamento di sé. La nozione centrale di jihad nell'islam, alla base di tutte le elaborazioni dell'azione, associa la fede al
principio dello sforzo e dell'impegno.

Mai nell'islam l'espressione dell'atto di fede ha implicato l'accettazione passiva della condizione di povertà o di
sfruttamento. Se si può comprendere il senso di una ribellione, anche della sua necessità, in una religione che insegna
che gli ultimi qui saranno i primi nell'altra vita (è in questo senso che Marx aveva ragione di parlare di "oppio dei
popoli", dato che il cristianesimo fino alla sua epoca aveva conservato il discorso dell'accettazione e della rinuncia), non
bisogna commettere l'errore di ridurre i discorsi delle altre religioni agli stessi presupposti. E' un grave errore
metodologico e scientifico.

Si dice nella Bibbia che sarà più difficile per un ricco entrare in paradiso che per un cammello passare nella cruna di un
ago. Nel Corano viene impiegata la stessa formula, ma qui non si tratta di un ricco, bensì di un essere umano orgoglioso
ed ingiusto, perché non è sufficiente essere poveri per essere onesti... Il culto della povertà, della rinuncia e della
contemplazione non è islamico: al contrario, si tratta di un messaggio di azione, di testimonianza nell'azione.

In un certo numero di paesi il riferimento islamico è stato molto più un fattore di mobilitazione che qualsiasi altro
appello alla resistenza. All'epoca coloniale, sul piano politico come oggi sul piano economico e sociale, il riferimento
religioso è un moltiplicatore di energie e sinergie. E' una realtà nel mondo musulmano come in Occidente ed i
musulmani sembrano ritrovare, per via della congiunzione di tutti gli scogli dei quali abbiamo parlato, il soffio dei
tempi antichi. E' ancora insufficiente ma il rinnovamento è visibile. In molte società a maggioranza musulmana, l'islam
forma delle coscienze che orientano mobilitazioni in termini di progetti di società. E' una constatazione che qualsiasi
osservatore anche poco obiettivo non sarebbe in grado di tralasciare. Il pensiero riformista musulmano ne è la prova
nell'epoca contemporanea.

Le debolezze storiche dei musulmani


J.N. Lei accenna nella sua opera ad un certo numero di scogli da superare all'interno del mondo musulmano. Li citerò
rapidamente: la settorialità delle competenze, l'assenza di cultura politica, l'assenza di volontà politica, la corruzione.
Ho riflettuto molto su questo punto.

Forse ho qualche altro suggerimento. Proverei a trovarli non nelle manifestazioni di immaturità politica, di arcaismo
culturale come lei dice, ma nell'origine comune di queste manifestazioni. Se mi si chiedesse, con tutto il rispetto e la
simpatia che ho per lui, di determinare il punto debole dell'islam, allo stesso modo in cui ho designato il punto debole
del cristianesimo, mi porrei innanzi tutto la questione dello statuto del Corano.
Non c'è un'esagerazione nel riferimento letterale a un libro, a un testo scritto in una determinata epoca? Non c'è un
attaccamento esagerato al sacro per opposizione al santo? La santità è in verità una proprietà dell'uomo. L'uomo o è
santo o non lo è: questo risale ad un certo atteggiamento nell'esistenza. Il sacro è più ambiguo: una categoria
intermediaria tra la magia e il santo, l'irruzione nel mondo visibile di qualche cosa di radicalmente altro. La debolezza
dell'islam non è nella definizione di una morale molto esigente, certo, ma anche molto codificata, molto fissa nelle
prescrizioni e molto meno fondata sulla coscienza che in Occidente.

Nel cristianesimo, almeno nella pratica che ho appreso in seno al cattolicesimo, c'è un esercizio mentale e spirituale che
si chiama esame di coscienza. E l'esame di coscienza ripetuto, che alla fine ha generato la psicanalisi, è uno strumento
allo stesso tempo molto pericoloso da manipolare ma anche straordinariamente utile. Il cristiano di fronte alla sua
coscienza deve continuamente superarsi e mai limitarsi solo alle prescrizioni.

So che nell'islam c'è anche questo. Ma è percepito nello stesso modo? Non c'è un'assenza di stimolo della coscienza?
Un'assenza di stimolo attraverso il senso del tragico della storia che abbiamo ricordato all'inizio, il mito di Prometeo,
contemporaneamente un mito lacerante e creatore. Il mito di Edipo, che è il mito della colpevolezza: quand'anche lei
non abbia commesso alcun errore o crede di non aver commesso alcun errore, lei è il colpevole della storia. Il poliziotto
finisce con lo scoprire che è lui il colpevole. Questo è un mito fondatore straordinario alla base della civiltà occidentale.

L'occidentale è un personaggio brutale, conquistatore, ma che possiede una forza cosmica. Nel film di Werner Herzog,
Aguirre, la collera di Dio, si scopre questa specie di mercenario spagnolo, interpretato da Klaus Kinski, mentre sta
conquistando un continente, e si ha l'impressione di essere di fronte ad un personaggio posseduto. E posseduto in un
senso molto diverso dal talibano afghano, perché è proiettato verso il futuro piuttosto che arroccato al passato.

Lei critica anche ciò che chiama idealizzazione, cioè una certa visione ideale della società islamica che è venuta fuori
durante queste conversazioni. Si continua a dire allo stesso tempo che non può esserci disoccupazione nell'islam,
dimenticando coscientemente che, ben inteso, la disoccupazione esiste sotto la forma di un sotto-impiego.

Questi sono i diversi punti deboli che vedo dall'esterno, con tutta la simpatia ed il rispetto che devo a fratelli credenti e
tutto il pentimento e la vergogna che provo per il comportamento di certi cristiani. C'è tra tutte le lacune che ho
menzionato un punto che le sembrerebbe derivare da una sbagliata interpretazione dell'islam?

T.R. L'argomento è interessante e devo dire che è la prima volta che mi si presentano le cose da questa angolatura.
Diciamo due cose. La prima riguarda la condizione del Corano. Per il musulmano è un libro rivelato e non lo si può
metter da parte. E' il riferimento, non una prigione. Una tradizione del Profeta ci insegna che ogni cento anni un
riformatore verrà per rinnovare il modo di leggere che i musulmani hanno delle loro fonti scritte. Insomma, si tratta di
un rinnovamento della comprensione.

Il testo rimane con i suoi orientamenti generali ma l'intelligenza evolve, si forma, si adatta, in costante rapporto
dialettico con l'ambiente. Il senso del sacro non è nell'immobilismo e la freddezza del cuore. Nell'islam è sacro tutto ciò
che faccio col ricordo di Dio. Il sacro abita nel cuore e nella memoria e non imprigiona l'azione. Qui ancora, la nozione
di sacro e profano è totalmente differente perché nell'islam la memoria è dappertutto ed il sacramento da nessuna parte.
E' una religione del patto, non del sacro, del sacramento, della sacralità intangibile.

Il secondo appunto riguarda ciò che lei ha detto sulla forza evocatrice dei miti e di quello che hanno permesso
nell'elaborazione del pensiero occidentale. Ciò che lei dice è vero, ma a mio avviso incompleto. Certo, la colpevolezza
forse ha permesso questo risveglio e questa forza della creatività e dell'iniziativa, fino alla trasgressione divenuta norma
e al superamento di sé, come nell'ultima tappa della filosofia nicciana, ad esempio. Il cammello è diventato leone che è
diventato bambino... innocente, autonomo, libero. L'immagine di Nietzche è bella, seducente: la libertà è totale e Dio è
morto...

L'Occidente senza parapetto


Spingiamo il ragionamento fino in fondo e si vedrà, quasi naturalmente, sorgere la questione dei limiti. E' il problema
che si pone oggi in modo cruciale l'Occidente: fin dove andare? Chi determina il senso ed il valore? L'immagine del
bambino è di per sé significativa; certo è innocente e libero ma che cosa orienta la sua azione, chi dunque gli dà un
senso o soltanto la padronanza? Alla fine, per la natura della sua innocenza, ci rivela un'incuranza molto pericolosa: il
mondo diventa un semplice giocattolo del quale egli fa quel che vuole: lo ferma solo la catastrofe o la sua previsione. Il
ritorno dell'etica con la bioetica per esempio, o l'ecologia sono nate da questo sentimento della catastrofe imminente. Il
bambino sembra essere andato troppo lontano. Niente più riferimenti, niente più "radici", niente più tradizioni... e
poiché per lungo tempo la responsabilità è stata vissuta come un sinonimo di colpevolezza, si è finiti col confondere
l'innocenza con la deresponsabilizzazione, una sorta d'incuranza immatura. La trilogia nietzchana è ben più realista e
vera che quella che ci propone Auguste Comte, con la speranza della nascita di un uomo nuovo, che domina l'oggetto
scientifico.

La tradizione musulmana è attaccata ad una referenza forte. Il testo rimane ed esige la maturità di saperlo leggere e
capire. L'innocenza ammessa non può esistere senza responsabilità e se si vuole preservare la spensieratezza del
bambino non possiamo, a causa di questo desiderio, sfuggire alle nostre responsabilità. Il testo coranico e le tradizioni ci
richiamano all'orientamento, al limite, al rispetto intimo e spirituale della creazione: questa non può essere un giocattolo
e non possiamo rimanere bambini responsabili della sua irresponsabile distruzione.

L'Occidente vive oggi appieno il senso di questi interrogativi. Il problema del senso, dei valori e del limite è centrale;
indubbiamente perché la storia di questa civiltà l'ha portata a rivendicare certe nozioni e certi stati dell'essere in
opposizione all'autorità clericale e dogmatica. Ogni referenza, ogni radice, ogni tradizione è diventata sospetta; un
possibile attentato alla mia totale libertà, un freno al progresso. Si arriverebbe allora ad una formula del tipo:"La
referenza uccide la libertà". Non posso aderire al senso di questa formula che è quella che ci dà quotidianamente, in
modo implicito od esplicito, la corrente ideologica dominante. L'immagine è seducente, certo, ma le sue conseguenze
sono pericolose, quanto lo può essere un bambino... con un'arma, o piuttosto una bomba, tra le mani.

J.N. Proprio così. E' sicuramente il deficit più grande dell'Occidente. Sono assolutamente d'accordo.

T.R. Penso che le referenze alle quali continuano ad attaccarsi i musulmani li proteggano dall'errare quanto da
un'innocenza immatura e irresponsabile. Certo se si è protetti dall'errare, si deve ammettere di essere frenati nel
progresso, perché non è possibile avere tutto. I limiti esistono prima delle catastrofi: è un'ecologia che precede
l'ecologia, un'ecologia nata da principi e non dallo shock delle catastrofi. Essa impone un modo diverso d'essere al
mondo diverso, in ogni caso sempre lucido davanti alle proprie responsabilità nei confronti del Creatore e della propria
coscienza.

Il riferimento coranico è severo, questo è certo, impone un atteggiamento lucido e rigoroso ma si avrebbe torto se si
credesse che esso è fisso e dogmatico. Al contrario, l'abbiamo detto, uno dei suoi strumenti è l'intelligenza umana
dinamica, innovatrice, curiosa. Ma non deve perdere la memoria. Il senso della responsabilità spirituale e intellettuale
che il riferimento esige da noi è un freno, ma anche una protezione. Ci protegge da noi stessi prima di tutto e dai nostri
eccessi... ed ognuno di noi sa dove questi ultimi lo possono portare.

J.N. E' un limite che si impone a se stessi.

T.R. Sì. E' il vero senso dell'innocenza, della libertà e della responsabilità umanamente e dignitosamente assunte.

J.N.Il che è inconcepibile per l'Occidente. In Occidente, essendo completamente scomparso il sacro, non c'è più alcun
limite.

T.R. E' effettivamente così che si presenta oggi l'Occidente, con il paradosso di essere costituito da milioni di individui
avidi di senso e di dignità.

J.N. Nei nostri laboratori si finirà col moltiplicare embrioni umani per fabbricare prodotti di bellezza recuperando
cellule non differenziate, capaci di mascherare le rughe. Si comincerà con l'essere riluttanti e col chiamare alla riscossa
tutti i comitati di etica. E si finirà per concludere: se c'è così tanto denaro da guadagnare accettando questo strappo ad
una regola che non ha un vero fondamento nella trascendenza, non c'è nessun motivo per non farlo.

T.R. Sì, si tratta proprio di sapere fin dove si può andare ed in nome di che cosa ci si dovrà fermare. La trascendenza,
nel cuore della vita, dà una risposta ed indica dei limiti. Oltre a ciò: quando dico che il sacro ricopre la totalità della mia
azione nel momento in cui mi ricordo di Dio, pongo un principio fondamentale; mai, davanti alla mia coscienza, il
mondo sarà disincantato. Il ricordo della Presenza è dappertutto e la pura strumentalizzazione della creazione
impossibile. La presenza del sacro è permanente ma in modo sempre molto dinamico ed impegnato: il sacro abita me ed
il mondo se la mia memoria accompagna il minimo gesto della mia vita quotidiana, bere e mangiare, pensare ed amare.

E' necessario ammettere, quando si pensa all'incontro di civiltà, che i riferimenti e le concezioni dell'uomo e della vita,
come pure della creazione, non sono gli stessi. Tutto, del resto, non è riducibile alla sola ragione. A volte bisogna avere
l'umiltà di riconoscerlo e dire: "Non capisco". Ciò non deve permettere di rinviare il pensiero altrui nelle categorie del
"passato" o dell' "assurdo"... Significa ammettere che la concezione è diversa, che non si comprende tutto ma che si
rispetta il punto di vista altrui così come vengono rispettati i diritti fondamentali.

Dopo tutto, il vero problema è sapere che cosa si vuole veramente. Alcuni criticano il sistema e lo confermano ogni
giorno con gli eccessi del modo di vivere che conducono. Criticano l'individualismo e vivono essi stessi traendo
vantaggio da tutto ciò che questo individualismo permette loro. Criticano la follia del mondo, gli eccessi del progresso,
della tecnologia e della scienza, mentre il loro appetito consumista è l'espressione meglio affermata di una follia
ignorata. Non si può volere per sé la libertà totale e senza limiti ed aspettarsi la giustizia dal mondo...

Un versetto del Corano ci orienta: Dio non cambia ciò che è in un popolo, prima che le persone (che costituiscono il
popolo) non cambiano ciò che è in loro stessi. Che cosa si vuole esattamente? Una semplice dichiarazione d'intenti che,
apparentemente, ci scagiona dagli eccessi, o una vera interrogazione, un dibattito sul fondo, che deve portare ognuno di
noi a rivisitare il suo comportamento? E' questo il tipo di incontro di cui abbiamo bisogno, sia a livello individuale che
dei sistemi sociali e politici.

J.N. Significa forzare il grande dibattito. Un dibattito politico in Occidente.

Per superare la diatriba famigliare


Vorrei concludere confidando in questo: il mio sogno è che un giorno tutti i figli di Abramo si ritrovino, ad esempio a
Gerusalemme, poiché Gerusalemme ha un significato per tutti loro. E' un sogno che custodisco. Ad un certo momento si
concluderà davvero la pace tra le religioni. Ed in quel momento si avrà la pace tra i popoli se i politici accettano di
entrare nelle questioni fondamentali di cui abbiamo discusso. Essi tendono troppo a leggere la storia presente come una
successione di complotti terroristici contro i quali solo l'azione della polizia è efficace.

La difficoltà deriva dal fatto che tutti i figli d'Abramo fanno parte della stessa famiglia. Si possono intrattenere relazioni
di simpatia ma distanti con i buddisti. In fondo, questo non ci interessa molto, perché non ci impegna in nulla. Ma qui
abbiamo a che fare con una diatriba familiare. E si sa bene che le diatribe familiari sono interminabili: ciascuno sente di
condividere alcuni valori con gli altri; ciò che l'altro ha e che lui non ha rappresenta ciò che ha perduto del messaggio
iniziale.

L'altro, che è il più vicino, il prossimo nel senso cristiano del termine, gli sta rivolgendo uno straordinario rimprovero
per il solo fatto della sua esistenza. L'apporto più grande che deriva dal contatto tra le due civiltà, è che ciascuna,
vedendosi con gli occhi degli altri, scopra di essere infedele a Dio. Ognuno è per definizione sempre fedele o infedele a
Dio. Ma mai sempre nello stesso modo! Io considero solo la mia fedeltà, ma scopro la mia infedeltà nella fedeltà del
prossimo. Egli diventa letteralmente odioso, mentre dovrebbe essermi così caro quanto un messaggero divino.

T.R. L'altro mi insegna a mettere in discussione il mio cammino, in effetti. E bisogna, certo, avere la preoccupazione
di guardarsi in faccia. Non è facile a dirsi: bisogna che la tua presenza metta in discussione il mio cammino, col rischio
di scoprire delle infedeltà. Ma l'incontro si posa su questa esigenza. Un giorno avevo invitato Pierre Dufresne ad un
colloquio organizzato da noi. Era già molto malato ma era venuto in nome della nostra amicizia. Aveva detto allora
questa semplice formula, della quale ho già parlato ma di cui ogni giorno comprendo meglio e più profondamente il
significato: non bisogna sbagliare nemico. Quante musulmane e musulmani si sbagliano oggi considerando i fedeli
delle altre tradizioni, ebraica, cristiana e più ampiamente umana, come veri nemici con i quali non si deve transigere?
Quanti laici, cristiani ed ebrei si sbagliano vedendo i musulmani come la nuova minaccia che rischia di invadere il loro
mondo e di spargere sangue?

Si sbaglia nemico, nel senso vero e proprio del termine; tutte queste tradizioni, laiche e religiose, portano valori comuni
fondati sulla costante preoccupazione della coscienza e della dignità umane. Ciò che le lega è molto più importante di
ciò che le separa... Non ci dovremmo impegnare insieme a partire da quello che ci unisce e "rivaleggiare
nell'applicazione del bene", secondo una formula coranica, in ciò che ci distingue?

In fondo, a rifletterci bene, i concetti di "civiltà islamica" e di "civiltà occidentale" sono un pò caricaturali e possono
essere utilizzati, l'abbiamo visto in questi ultimi tempi, nel registro del confronto. I figli di Abramo sono perciò in
queste due civiltà, e i ponti e le intersezioni sono molteplici e permanenti. Chi dunque si presenta come nemico della
tradizione abramica: l'ebreo? il cristiano? il musulmano? Il laico?

Certo che no, è piuttosto questo nuovo culto del produttivismo cieco, dell'individualismo accanito, del progresso
disumano, selvaggio, senza meta. Bisogna resistere insieme al regno del non-senso e dell'incoscienza. Gli esseri di fede
e di coscienza sono giustamente chiamati alla loro responsabilità: essa è comune. Insieme devono testimoniare la loro
determinazione a resistere al non-senso, alla morte della spiritualità, alle fratture dell'educazione, nel cuore delle nostre
società... Questa testimonianza dovrà riunire nella grande famiglia, per utilizzare i suoi termini, esseri di fede e di
coscienza, credenti e laici. Il dialogo è e resterà difficile all'interno della famiglia di Abramo e con i laici: i veri dialoghi
ed i dibattiti fondamentali non sono mai facili se sono sinceri. Credo pertanto che dovremmo prendere coscienza non
solo delle divergenze che esistono tra noi, intorno al tavolo, ma in senso più ampio delle pressioni che sono all'esterno
della casa e che la mettono in pericolo.

CAPITOLO 6

L'ISLAM IN OCCIDENTE
JACQUES NEIRYNCK Affrontiamo la situazione più difficile, quella di una comunità islamica minoritaria. In
Francia, ci sono quattro milioni di musulmani, essenzialmente maghrebini. In Germania vivono tre milioni di Turchi.
L'interpretazione tra le culture, la mondializzazione. moltiplicheranno queste minoranze nei paesi cristiani. Anche se la
maggior parte dei cristiani sono apostati, agnostici, indifferenti, i musulmani si troveranno di fronte ad una difficoltà
che non hanno mai incontrato: vivere in un paese che non è loro, non riuscire a far coincidere le richieste dell'islam con
la legge civile, voler realmente praticare una religione esigente in una società irreligiosa. Potrebbe dire quali sono i
paesi nei quali esiste questa situazione e nei quali sorgono problemi? Prendiamo il caso della Francia, per cominciare.

TARIQ RAMADAN Vorrei fare un appunto preliminare perché mi capita spesso di sentire l'analisi che lei propone,
che, però, non corrisponde alla realtà storica. Si afferma che l'attuale situazione dei musulmani, in minoranza in un
paese, sarebbe qualche cosa di nuovo, mentre questa situazione si è presenta diverse volte nel corso della storia, sia
nell'Africa Nera che in Asia. Pensatori musulmani hanno già dovuto considerare la realtà della loro presenza in una
società nella quale non erano in maggioranza. In India, ad esempio, la riflessione giuridica è andata molto in là ed in
modo costruttivo. In tempi assai vicini a noi, negli anni Quaranta e Cinquanta, le prese di posizione contraddittorie di
Mawdudi e di Nadawi sull'argomento ne sono un esempio.

J.N. Se posso interromperla su questo punto in particolare, la divisione dell'Impero britannico tra Pakistan e India è
proprio un risultato delle difficoltà che sono sorte dal giorno dell'indipendenza.

T.R. Lei ha ragione ma quello che volevo mettere in evidenza, come preambulo, è che la riflessione, direi quasi
"l'attitudine intellettuale", che è il prodotto di una situazione di "presenza minoritaria", non è per nulla nuova. Sapienti,
prima di noi, hanno riflettuto a proposito e si sono dedicati a dare accenni di risposte.

Una situazione nuova in seno agli Stati di diritto


Resta il fatto che, tuttavia, c'è qualche cosa di originale nella nostra nuova presenza in Occidente, negli Stati Uniti ed in
Europa. Noi ci iscriviamo tra gli Stati di diritto e diventa necessario pensare non solo al posto dove possiamo trovarci
ma soprattutto alla natura della nostra partecipazione attiva come membri a pieno diritto di queste società.
Riassumendo, bisogna sottolineare che le situazioni sono molto diverse, non foss'altro che in Europa. La Francia che
conta il numero più importante di musulmani, pensa alla loro integrazione in modo molto diverso dall'Inghilterra, dal
Belgio, dalla Svezia o dalla Germania. Questa diversità si fà più complessa per via della natura della popolazioni in
questione. La storia e la cultura maghrebine, della quale sono originari la maggior parte dei musulmani che si trovano in
Francia o in Belgio, sono molto diverse da quelle degli indo-pakistani che abitano in Inghilterra, ed entrambi
differiscono dai tratti culturali turchi che si trovano in grande numero in Germania, ad esempio. Si deve pensare
globalmente, ma si devono differenziare gli approcci. Comunque si avrebbe la tendenza a pensare che la questione è
puramente di ordine religioso e/o culturale. Bene, non lo è, e ancora una volta bisogna fare attenzione alle
semplificazioni.

Tanto per cominciare, si possono distinguere tre livelli d'analisi: il primo riguarda il processo di immigrazione
propriamente detto che esige uno studio specifico tenendo conto della natura delle popolazioni nate dalle immigrazioni.
E' importante classificare in modo molto chiaro la specificità dei problemi legati a questa immigrazione ed alla sua
evoluzione. Credo che non si possa fare a meno di queste analisi differenziate per comprendere la situazione, a meno
che non si voglia continuare a presentare le cose in modo conflittuale, a meno che non si sappia con certezza che è un
problema di scontro di religioni e civiltà. Ora, la questione è molto più complessa. Si tratta sia di una questione sociale
che economica, alle quali vengono ad aggiungersi certamente i problemi dell'identità religiosa e culturale.

Il secondo livello deve riguardare il modo in cui i musulmani stessi considerano il loro ambiente circostante. Un'analisi
approfondita mostrerà che la loro percezione e la loro valutazione sono cambiate nel corso delle generazioni. I primi
migranti si consideravano di passaggio, qualche generazione dopo i loro figli si sentono europei, a casa loro, membri
dell'unica società che conoscono. La memoria dell'esilio non abita più in loro e il loro modo di vedere cambia,
naturalmente.

Il terzo livello dell'analisi è una conseguenza diretta del secondo. Dal momento che lo sguardo sull'ambiente è cambiato
e che non ci si sente più "di passaggio", allora diventa necessario rivisitare le fonti scritte per pensare alle tappe
dell'adattamento giuridico. Si tratta di coordinare una tripla integrazione: dell'identità, per restare fedeli alla propria
coscienza in un contesto nuovo; legale, per determinare il tipo di rapporto che si deve stabilire con la legislazione di un
dato paese; sociale, per fissare le possibilità di un impegno autentico e globale del cittadino. Intendo "sociale" in senso
ampio ed estensivo, includendo il problema della partecipazione politica ed economica. In altri termini, questo terzo
livello pone chiaramente il problema fondamentale: come restare fedeli nell'evoluzione, o formulato in modo diverso,
come evolvere in un contesto nuovo restando fedeli alle prescrizioni della propria fede?

J.N. Riprendiamo uno per uno questi tre livelli.

Tre livelli di integrazione


Il primo sottolinea giustamente in modo forte che le difficoltà di adattamento delle popolazioni maghrebine in Francia
derivano dalle detestabili condizioni nelle quali si è compiuta l'immigrazione. E' una manodopera non qualificata, sotto
pagata, relegata nei ghetti. Parla una lingua diversa e non capisce bene il francese. C'è già a questo livello una differenza
rispetto alle altre immigrazioni in Francia. C'è stata un'immigrazione italiana di lunga data, che si è completamente fusa
al punto che, in Francia, non si sa più che Yves Montand o Colouche erano originariamente italiani. Gli Italiani sono in
verità molto vicini ai Francesi come origine, perchè parlao una lingua latina. Ma si può osservare la stessa assimilazione
per i Polacchi, immigrati in massa prima o dopo la Seconda Guerra, quando sono stati cacciati dall'esercito russo, o per
gli Ungheresi che sono fuggiti nel 1956 dal loro paese. La Francia è per definizione un paese d'immigrazione, aperto a
tutti i venti. Una regola demografca molto semplice dice che un Francese su quattro ha almeno un nonno non Francese.

Tanto gli altri Europei di tradizione cristiana si sono dissolti nella massa rapidamente ed alcune famiglie si sono spinte
nella gerarchia politica - Balladur è di origine armena, Poniatowski è di origine polacca, Sarkozi è di origine ungherese
- tanto la comunità maghrebina pare bloccata nel suo processo di assimilazione dalla sua pratica religiosa. La Francia è
un paese che ha trasformato la laicità in religione e che è dunque estremamente ostile a qualsiasi manifestazione
esteriore della religione. E' solo in Francia che si sono fatti soprusi nei confronti delle giovani musulmane che
portavano il foulard islamico. Altrove, non è nemmeno stato notato. E' quindi il fattore religioso che rende
l'assimilazione più lenta?

T.R. E' chiaro che il fattore religioso rende le cose più complesse ma prima di entrare in considerazioni legate alla
religione, consideriamo oggettivamente un certo numero di fatti. Si guadagnerà molto in chiarezza ricordando delle cose
in fondo molto semplici. La presenza dei musulmani, come noi la conosciamo oggi, è molto recente. Per la stragrande
maggioranza, possiamo stimare che risalga a cinquanta, sessanta o ottant'anni fa al massimo. Quando si tratta di
considerare l'integrazione di un popolo in un nuovo contesto, una sequenza temporale di mezzo secolo è molto breve.
Lei ha parlato degli Italiani o dei Polacchi, si potrebbero aggiungere i Portoghesi o gli Spagnoli. Ci sono volute
generazioni per questi popoli per "integrarsi" e si vorrebbe che la stessa cosa si facesse dall'oggi al domani con i
musulmani per i quali il fattore religioso e culturale è necessariamente un indice di complessità supplementare.

Che dire delle popolazioni protestanti ed ebraiche? Quante generazioni ci sono volute perché "vivere insieme" fosse
possibile? Ricordiamoci di queste cose e vedremo che il fenomeno è malgrado tutto molto recente. Questo ci permetterà
di valutare col giusto metro la rivoluzione che si è compiuta nelle mentalità musulmane negli ultimi quindici anni e che
promette un'evoluzione interessante nel prossimo futuro. Ricordiamo anche un fatto importante: le popolazioni
musulmane che sono venute in Europa, per ragioni essenzialmente economiche, non avevano mezzi, erano povere, poco
istruite. La loro prima reazione era di chiudersi in loro stesse, di proteggersi e di vivere un po’ al margine di una società
che non consideravano come la loro. Un giorno, pensavano, ripartiremo. Spesso ci sono voluti venti o trent'anni
affinché si rendessero conto che la loro vita e quella dei loro figli, sarebbe trascorsa in Europa. Una presa di coscienza
difficile, lunga, spesso lacerante. I primi migranti non hanno cercato inizialmente di spiegare, di interagire col loro
ambiente: essi pensavano a proteggersi e la loro situazione sociale ed economica aumentava il processo di
marginalizzazione già così naturale. Questa prima generazione di musulmani non aveva né la voglia né i mezzi per
spiegare e dialogare. Nulla ve li spingeva: il loro modo di vivere era la discrezione. E poteva essere altrimenti?

Poco a poco hanno cominciato a costruire delle moschee, le famiglie si sono raggruppate ed i figli sono cresciuti. La
discrezione di ieri ha lasciato il posto in modo naturale alla visibilità di oggi. E' a questo punto, del resto, che la
questione dell'islam è diventata un problema: ieri invisibili ed oggi ecco che chiedono luoghi di preghiera, cimiteri,
carne halal e si distinguono per il loro abbigliamento. Il primo malinteso inizia proprio da qui.

Dall'esterno, le nuove richieste dei musulmani sono state considerate come un rifiuto d'integrazione, mentre si trattava,
nel loro spirito, esattamente del contrario: tutte queste richieste coincidevano con la presa di coscienza e l'accettazione,
esplicita o implicita, che dovevano integrarsi nel loro nuovo ambiente e trovare i mezzi per sentirsi bene qui, a casa
loro. Rispondere alle vicissitudini del loro destino voleva dire adeguare uno spazio di benessere per la loro identità
musulmana, nel nuovo contesto europeo. Si trattava di una tappa e di un chiaro avvio all'integrazione. Mi pareva che
dovessimo ricordare questi fatti.

Bisogna anche dire che, quando due popoli si incontrano, nella situazione che descriviamo qui, gli screzi e le tensioni
sono normali. È necesario affrontare il problema con maturità e rifiutare l'angelismo, sia da una parte che dall'altra. Si
deve prendere il tempo di conoscersi, di parlarsi, di avere reciproca fiducia. A voler andare troppo in fretta, rischiamo di
andare indietro e, - nelle nostre speranze irrealiste, saremmo responsabili dell'acredine- amarezze e dei dubbi dai quali il
nostro slancio iniziale ci aveva inizialmente protetti. Bisogna tenere i piedi a terra, tener conto del tempo, delle
evoluzioni delle popolazioni interessate e dei malintesi dei quali nessuno a volte è responsabile. Bisogna vestirsi di una
certa saggezza: essa ricorda le cose semplici e ci evita di cercare dei colpevoli quando, semplicemente, si tratta di
gestire dei problemi umani, molto umani, semplicemente umani. Cioè complessi e delicati.

Consideriamo anche le acquisizioni e vedremo che esse sono numerose. I figli della seconda, terza e quarta generazione
hanno raggiunto livelli di studio importanti, interagiscono col loro ambiente, si sentono a casa loro, lo spiegano e lo
dicono. Sono voci nuove, esistono e promettono un avvenire meno ombroso se sceglieremo, insieme, la via del dialogo
sereno e responsabile. C'è un'acquisizione che, a prima vista, potrebbe essere considerata uno scoglio, la realtà di una
sconfitta: è l'espressione del disagio stesso. Un sempre maggior numero di giovani e meno giovani esprimono in
Francia, in Germania, in Inghilterra e altrove in Europa il malessere. In un modo o nell'altro esprimono la loro
sofferenza ed il loro isolamento. Si sono visti poco i genitori, si vedono troppo i figli e li si giudica. In fretta, troppo in
fretta. Credo che "esprimere il disagio" sia la prima tappa, necessaria, per pensare insieme a risolvere questo malessere.

Le cifre parlano da sé: il 60% dei carcerati di Bruxelles sono di origine maghrebina, sarebbero il 25% su tutto il
territorio francese e siamo a circa il 30% in Inghilterra. Non si può restare ciechi di fronte a queste realtà. Non si tratta
dell'islam propriamente detto, il problema è più complesso perché vi si mescolano il divario sociale, la disoccupazione
endemica, l'esclusione ed il fattore religioso e culturale. Il discorso ambientale in Europa sull'islam ed i musulmani non
fa che aumentare il sentimento di rifiuto e marginalizzazione: "povero, disoccupato, escluso e musulmano" è percepito
come un'addizione, un cumulo di difetti. Bisogna circoscrivere e distinguere ciascuno di loro, questo va da sé, ma si
deve pensare anche ad un approccio globale. Voler regolare l'aspetto sociale negando quello religioso o culturale, voler
fare evolvere le mentalità senza preoccuparsi delle auto-rappresentazioni ferite, accanirsi nel voler integrare
l'abbigliamento disintegrando i cuori è un controsenso. Affrontare i problemi separatamente, rendersi conto che non si
tratta di un problema esclusivamente religioso e culturale, pensare a strategie differenziate di riforma è l'imperativo, ma
ciò non sarà possibile se non quando si sarà capita più globalmente la questione con l'idea di favorire una società che
arricchisca il suo pluralismo politico, già acquisito, con un vero pluralismo religioso e culturale. Tutto sommato si tratta
di pensare ad un progetto di società.

L’assenza di rappresentanza
J.N. Ci si arriverà. Poiché abbiamo parlato di visibilità, bisogna notare una singolarità della comunità musulmana in
Francia. Essa non ha una rappresentanza a livello nazionale. Non che il governo francese rifiuti di riconoscerla, ma si
hanno difficoltà a trovare degli interlocutori. E' una situazione molto diversa da quella della Chiesa cattolica,
completamente legata ad una struttura molto gerarchizzata in cui esiste la Conferenza dei vescovi. Lo Stato francese
può ovviamente rivolgersi al presidente di questa Conferenza nel momento in cui sorgano dei conflitti tra la Chiesa
cattolica ed i poteri pubblici su argomenti come l'aborto, l'accoglimento degli immigrati irregolari o il PACS.[1]

Allo stesso modo le Chiese riformate di Francia sono riuscite a raggrupparsi ed a rappresentare un'unità rispetto al
mondo esterno. La stessa cosa vale per il grande rabbino che rappresenta validamente tutto il giudaismo.
Ma che cosa succede con l'islam? I mezzi di comunicazione prendono generalmente come interlocutore in Francia il
rettore della moschea di Parigi. Ma c'è sempre un'incertezza: questo imam particolare rappresenta bene tutti i
musulmani in Francia o per lo meno la loro maggioranza? Da dove deriva l'incapacità dei musulmani di presentarsi uniti
di fronte al potere, dato che questo rappresenta un fatto di notevole importanza? Sono lotte interne? E' il rifiuto di
volersi organizzare? Ciò che abbiamo scoperto nelle nostre esposizioni precedenti è che l'islam non è una gerarchia
centralizzata. E' una religione estremamente decentralizzata. Ma anche così, non potrebbe organizzarsi meglio in seno
alla Francia laica e repubblicana per affermarsi e difendersi meglio? Non può infischiarsene impunemente del ruolo
delle istituzioni e della concertazione tra notabili. Nessuna religione può impedirlo ai suoi rappresentanti senza scegliere
una forma di suicidio.

T.R. Il problema della rappresentatività è effettivamente un problema centrale e dappertutto in Europa sembra porsi la
questione: i musulmani possono organizzarsi, visto che dappertutto imperversa la divisione e il caos. Bisogna dunque
porre le questioni nel loro ordine e cercare risposte circostanziate.

La questione della rappresentatività preoccupa oggi i poteri che vogliono avere degli interlocutori credibili, come alcuni
musulmani che coltivano "l'attrazione dei vertici" e la voglia di rappresentare i musulmani ed i loro rispettivi paesi. A
mio avviso, tutte queste discussioni, dibattiti e chiacchiere sulla rappresentatività dei musulmani sono malsane e
rivelano intenzioni poco chiare da una parte e dall'altra. Per ciò che mi riguarda, la questione della rappresentatività è
molto importante ma non prioritaria. I musulmani sono lì da qualche decennio e solo recentemente una parte di loro ha
preso coscienza di che cosa sia l'organizzazione dell'islam in Europa, con le sue modalità, le sue tappe, i suoi obiettivi.
E si vorrebbe già che fossero organizzati e che i loro rappresentanti fossero designati. E' illusorio.

Ora, di due cosa l'una è che si pensa che il rappresentante debba essere designato dai musulmani e allora bisogna
attendere che si realizzi la presa di coscienza alla base, la partecipazione locale fino all'organizzazione del vertice (il
principio islamico è chiaro, come lo è il principio democratico: colui che si mette davanti è scelto da coloro che stanno
dietro); l'altra è che per ragioni politiche inconfessabili, si è pressati a risolvere il problema e allora l'alternativa si
risolve in un gioco tra il potere che vuole decidere dei propri interlocutori e alcuni attori musulmani che si proclamano
rappresentativi. Queste ultime due soluzioni sono sicuramente le peggiori; prima di tutto, perché nessun potere deve
immischiarsi negli affari dei musulmani né decidere chi va "bene" e chi no; e poi, perché i rappresentanti auto
proclamati, ed i notabili dell'islam, chiaramente non hanno nessuna legittimità e sono spesso legati a poteri stranieri e
questo non è più accettabile. Su questo punto, i principi devono essere molto chiari: l'islam in Europa è la realtà di una
doppia indipendenza sulla quale non si deve transigere: indipendenza politica e finanziaria. E' il rifiuto esplicito e
definitivo di qualsiasi ingerenza dei poteri stranieri nella gestione dell'islam in Europa, in Marocco, allo stesso modo
che in Algeria, Turchia, Tunisia, Arabia Saudita, Iran o altri. Il denaro che serve a comprare i silenzi ed i compromessi,
dobbiamo rifiutarlo. I musulmani d'Europa devono andare verso questa totale autonomia che, per estensione, è anche
un'esigenza di indipendenza chiara rispetto agli stati europei stessi.

Non mi interessa molto sapere oggi quale musulmano deve stringere la mano del Consigliere di Stato, del Primo
Ministro o del Presidente della Repubblica di questo o quel paese. Tutti sembrano obnubilati da questa domanda in
Francia: chi sarà ricevuto dal presidente al momento della cerimonia dei voti? Personalmente non me ne preoccupo e, a
dir la verità, la questione della rappresentatività è molto più importante di questi aspetti di protocollo.

Priorità alla rappresentanza locale


Penso che oggi si debbano distinguere diversi livelli di rappresentatività e, prima di angosciarsi per il vertice, di
preoccuparsi del livello locale e regionale, perché alla fine è spesso a questo livello che si possono già risolvere
numerose questioni di gestione. Io non vedo che una sola via davvero ragionevole ed onesta sul piano della legittimità:
creare, a livello delle città, piattaforme che comprendano i rappresentanti di diverse moschee e/o associazioni islamiche
attive sul terreno locale e trattare di questioni relative all'islam in un consiglio pluralista ed aperto. Lo scopo di queste
piattaforme o consigli non deve essere la rappresentazione o il "potere". In un primo tempo bisogna cercare di risolvere
insieme problemi molto concreti: luoghi di culto, elemosine, carni, cimiteri ed altri.

Tutto ciò può essere fatto già a livello delle città e delle regioni, non c'è bisogno di una rappresentanza nazionale per
risolvere tutti i problemi dell'islam e la maggior parte delle questioni più urgenti possono risolversi alla base. Bisogna
dunque che le personalità politiche locali si assumano le loro responsabilità e dialoghino con le associazioni attive sul
loro terreno con la preoccupazione di associarle ad una riflessione, non alla scelta dei rappresentanti. Sono i problemi
concreti che devono riunirli attorno ad un tavolo e non il potere e l'interesse finanziario. Sul piano locale, i musulmani
devono allo stesso modo assumersi le loro responsabilità ammettendo di essere raramente gli unici rappresentanti sul
terreno e preoccupandosi soprattutto di risolvere le situazioni specifiche e non di cercare di arrivare al vertice. Noi
dobbiamo passare attraverso questa esperienza di partecipazione e di dibattito a livello locale; è una scuola di
pluralismo e di sana gestione che rispetta il principio fondamentale di scelta della base. La vera legittimità riposa su tre
principi: presenza sul terreno, competenza, riconoscimento da parte della comunità. In un periodo più o meno lungo, si
disegneranno delle tendenze di cui bisognerà tener conto, ma lasciamo tempo che le coscienze si formino, che si pensi
allo spazio locale e ad organizzarsi nel rispetto del pluralismo.

Non si vogliono più guerre tra notabili da parte di Stati immischiati con, soprattutto, il potere locale, francese, tedesco o
belga, che intervengono nei processi di scelta in flagrante contraddizione con i principi della costituzione degli Stati
laici. Si dice una cosa e se ne fa un'altra per preservare gli interessi politici. Bisogna sapere quello che si vuole: una
rappresentazione di musulmani scelta dai musulmani del paese in questione o una messa in scena dietro le cui quinte si
nascondono i poteri e alcuni loro alleati algerini, turchi, marocchini o sauditi. Ancora una volta mi oppongo a questi
giochetti politici e non posso concepire altro che una rappresentazione politicamente e finanziariamente indipendente,
rispettosa del consenso, necessariamente pluralista, della base. Chiedo dunque che ci venga concesso del tempo; non si
organizza un processo elettorale fondato su un autentico pluralismo in "due tempi, tre movimenti". A meno che non lo
si metta in scena. Prendiamo il nostro tempo e prima di tutto responsabilizziamo i musulmani a livello locale. Al
protocollo arriveremo dopo.

Recentemente c'è stata una prima elezione in Belgio. Sono state organizzate in fretta ma una maggioranza di musulmani
si è iscritta nelle liste. Alla fine pare che circa il 50% abbia partecipato effettivamente al voto. Il governo si è assunto
tutte le responsabilità al fine di preservare il diritto di controllare i risultati. Si può considerare questo tipo di procedura
come una prima tappa che parte dalla base ( anche se il potere si è intromesso molto nel corso delle elezioni). Il sospetto
è forte e alla fine si è affermato che gli "integralisti" si erano infiltrati ed avevano pericolosamente vinto le elezioni. Del
resto si sapeva che il potere belga doveva tener in gran conto la sensibilità marocchina e in misura minore Tunisi ed
Algeri. Che cos'è allora questa gestione? Chi decide di che cosa? E a partire da dove? E' sufficiente che qualche politico
agiti lo spettro dell’ "islamismo rampante" perché tutti i musulmani di un paese vengano sospettati rispetto alla loro
scelta e alla loro sincerità. Non credo che si possa arrivare a niente di buono con la fretta. Dobbiamo osservare
l'evoluzione del Belgio. Conserviamo la speranza ma, in ogni modo, questo modello non è "esportabile" perché il
Belgio è un paese piccolo.

Per concludere, penso che dobbiamo cominciare dalla base e riflettere a lungo termine. In ogni circostanza, bisogna
reinstaurare la cultura del dialogo infra-comunitario tra i musulmani. Il piano locale è lo spazio migliore. Se, tuttavia, si
constatasse sul piano nazionale che le decisioni hanno bisogno di una rappresentanza, se non altro temporanea o
circostanziata, non vedo comunque altre vie che quella di creare una piattaforma che riunisca più associazioni di portata
nazionale per risolvere puntualmente i problemi. Domani, i musulmani anche se non saranno totalmente uniti,
riusciranno, penso, a fare una scelta fondata sulla legittimità. Sempre che si rispettino i principi della laicità, ovvero di
non intromettersi nei loro affari e di non cercare continuamente di dividerli... per comandare meglio. I principi pertanto
sono chiari: scelta della base, indipendenza politica e finanziaria, pluralismo rispettato e competente dei rappresentanti.
Ci vuole tempo.

Il rispetto della comunità


J.N. Chiedere una rappresentanza dei musulmani è dunque mettere il carro davanti ai buoi. Quando anche la comunità è
in fase di cambiamento e, poco a poco, si sta adattando al paese, non si può supporre che questo lavoro sia già fatto e
che esistano già dei rappresentanti naturali. Bisogna prima concepire l'inserimento, un inserimento simpatetico e
accettabile dei musulmani nel paese. E' un lavoro che si sta facendo adesso.

T.R. In modo straordinario. Dappertutto, in tutti i paesi europei che ho potuto visitare, la presa di coscienza avanza e le
cose cambiano. In Francia, in Belgio o in Inghilterra, i quadri associativi insistono sulla partecipazione dei musulmani a
tutti i livelli: gestione delle associazioni, progetti di solidarietà ma anche in seno alla partecipazione cittadina. In
Inghilterra è stato elaborato un opuscolo sul voto, su questi obiettivi, sull'importanza di impegnarsi nella vita collettiva;
in Francia e in Belgio se ne parla in continuazione e ci si prepara. Tutte queste iniziative sono volte a forgiare
un'identità musulmana matura, adattata al contesto e pluralista.

Gli interventi dei poteri provocano più divisioni che un reale progresso riguardo alla rappresentatività, al punto che c'è
da chiedersi se non ci sia dietro una strategia politica che consiste nel porre una questione sensibile atta a far perpetrare
la divisione. E a far cadere i musulmani nella trappola. Bisogna sapere quello che si vuole, il potere o l'armonia.
Quest'ultima richiede di essere realizzata a tappe; essa esige soprattutto che noi rispettiamo un certo numero di principi,
al primo posto dei quali c'è il rispetto della comunità. Coloro che vogliono parlare in nome dei musulmani fondandosi
su principi elitari e autodefinendosi sapienti, hanno il difetto di essere staccati dalla base. A che valgono le loro parole
anche se tutte le televisioni del mondo gli aprono i loro palcoscenici? Questi ultimi, che si nascondono dietro i governi,
sono nascosti molto male e nascondono molto male lo scenario della messa in scena. A volte si assiste a dibattiti e
gestioni molto penose. Non ci tengo assolutamente a farne parte. Io so soltanto una cosa oggi: nessuno ha il monopolio
della rappresentazione legittima e val meglio formare, educare, invitare alla partecipazione alla base e localmente
piuttosto che scannarsi per una sedia al vertice.

Le dinamiche associative attuali che ho potuto vedere in un certo numero di paei europei sono molto interessanti, siamo
sulla strada giusta. Sa, credo che alla fine, il processo di rappresentatività accompagnerà la dinamica della cittadinanza;
e non è poi tanto male. I musulmani sempre più prendono coscienza della loro responsabilità di partecipazione. Il caso
recente del Belgio, del quale abbiamo parlato, è una prima tappa che manifesta la realtà del numero e della massa: la
gran parte dei musulmani hanno sentito che la cosa li riguardava. I piani di sviluppo che si sono pensati in
quell'occasione sono un primo passo.

Domani, si dovrà avere per obiettivo la realizzazione della trilogia: presenza, indipendenza, cittadinanza. Anche se la
libertà che un tale progetto ci dà può creare qualche disturbo o sembrare addirittura pericolosa, sia per i poteri stranieri
che per i governi europei che vogliono avere il dominio delle dinamiche di base ( quando invece la loro Costituzione
spesso non gliene dà il diritto... ) ebbene, malgrado tutti questi ostacoli, non vedo altre vie trasparenti e legittime.
L'obiettivo è chiaro, i mezzi per arrivarci non sono meno espliciti e la resistenza, alle ragioni di Stato e ai tentativi di
prezzolare persone che non mancano di presentarsi, deve restare ferma e determinata.

J.N. Dovrebbe essere molto chiaro per i musulmani senza unità che le altre confessioni hanno sempre avuto, grazie alla
loro rappresentanza, influenza sulla politica e che sono state influenzate dalla politica. In Francia, i cattolici, se sono
integralisti, arriveranno a votare persino Le Pen. Al contrario, il partito comunista o, un tempo, il partito socialista sono
partiti nei quali i cattolici non si sentono molto a loro agio. In ogni caso, i cattolici meno dei protestanti. Non ci si può
astrarre da questo legame consustanziale tra religione e politica. E' assolutamente inevitabile. Anche negli Stati Uniti,
benché ci sia una netta separazione tra lo Stato e le Chiese prevista dagli articoli della Costituzione, i democratici
speculano sul voto degli ebrei, che è estremamente importante. Israele semplicemente non esisterebbe se questo voto
non avesse un tale peso. Perciò, la collusione tra poteri politici e religiosi oltrepassa necessariamente l'aneddoto locale,
l'arte surrettizia di pagare il clero e di riparare i tetti dei luoghi di culto. E' una cosa inevitabile della quale bisogna tener
conto. Ed è proprio l'argomento che stiamo trattando. Passiamo al secondo livello di lettura della loro situazione da
parte dei musulmani.

Lo spazio della guerra non esiste più


T.R. Per lungo tempo si è fatto riferimento, negli scritti musulmani, ai testi classici che dividono il mondo in dar al-
islam, la "dimora o spazio dell'islam", nel quale i musulmani erano la maggioranza, del quale possedevano il suolo e sul
quale legiferavano. All'esterno c'era dar al-harb, letteralmente la "dimora o spazio della guerra", che era potenzialmente
lo spazio del nemico in cui il musulmano non era al sicuro. A questa visione binaria si aggiungeva un terzo concetto
che, del resto, non rimetteva in causa la descrizione bipolare del mondo: si tratta di dar al-sulh, lo "spazio della pace"
all'esterno, che prende questa denominazione poiché è stato firmato un patto con uno Stato che impedisce la guerra.
Questa lettura risale al X e XI secolo. E' l'esatta lettura della situazione geostrategica dell'epoca in materia di conflitto e
di sicurezza interna. Di fatto, una separazione di questo tipo era comprensibile e legittima.

Oggi le cose sono cambiate, la nozione di dar al-harb è caduca e non riflette assolutamente una situazine di insicurezza
per i musulmani. Nel mio libro Essere un musulmano europeo spiego che spesso siamo più al sicuro in un paese
europeo che nei paesi a maggioranza musulmana. Inoltre, la precisa analisi giuridica degli altri criteri, mostra che, per lo
più, non sono più operativi. La visione binaria, che recentemente suffragava il rifiuto, sta dunque per cambiare ed i
musulmani a poco a poco prendono coscienza che è legittimo, islamicamente parlando, essere parte beneficiaria della
loro società europea. Si tratta di una prima rivoluzione delle mentalità che si fonda sulla lettura giuridica poi
sull'apprezzamento psicologico. Non è poco aver superato l'antica divisione!

J.N. Si può dire che anche la cristianità ha vissuto questo stato. Charles Mortel, Jean Sobieski, Don Juan d'Austria
hanno tentato di difendere le frontiere del mondo cristiano a Poitiers, Vienna e Lepanto. Quindi direi che, per
riassumere e semplificare, le due maggiori entità culturali si sono comportate nello stesso modo.

T.R. Sì, ma grazie a Dio le cose sono cambiate. Bisogna dire che i concetti non sono né coranici né tratti dalla
tradizione del Profeta. Nell'analisi del mondo e più che in ogni altro luogo fuori dai paesi di tradizione islamica, l'ijtihad
del quale abbiamo già parlato è necessario e dobbiamo impegnarcisi. Molti musulmani si chiedevano, fino a non molto
tempo fa, se potevano abitare in Europa: oggi le cose sono più chiare e l'elaborazione giuridica si è adattata al nuovo
stato di cose che riguarda ormai milioni di musulmani in Occidente.
Alcuni sapienti hanno pensato a nuovi concetti come dar ad-da'wa, lo "spazio della predicazione", per parlare
dell'Occidente. Da parte mia, ho proposto la nozione di dar ash-shahadah, che vuol dire "la casa o lo spazio della
testimonianza". La nozione è centrale nell'islam e si riferisce in modo chiaro ad un atto fondamentale della presenza
musulmana: essere testimone davanti alla gente, a fortiori nell'epoca della mondializzazione. L'importante è
sottolineare l'evoluzione nella ricerca e nelle mentalità.

L'altra dimensione che è anche più chiara, salvo per certi gruppuscoli radicali, è il fatto di rispettare il quadro legale del
paese nel quale ci troviamo. Il musulmano considera che sia un tacito contratto morale con la società nella quale vive e
non dovrebbe porsi la questione di tradirlo o di barcamenarsi. Facendo un'analisi, si osserva che la maggior parte delle
situazioni problematiche possono essere risolte senza scontri. Per i casi molto specifici nei quali il musulmano è
nell'obbligo di sottomettersi ad una prescrizione che non corrisponde alla sua religione , si dovrà studiare caso per caso
le modalità di un adattamento di tipo giuridico. La flessibilità del diritto musulmano in materia di necessità o di
situazione d'eccezione è importante e si ha il dovere di usare questi strumenti.

Con tutto ciò, la comprensione della nostra situazione si è evoluta notevolmente: si comincia a sentire che ci si può
considerare "a casa propria". La sicurezza è garantita, il diritto è primario e nessuno ci può inpedire di vivere, praticare
e testimoniare la nostra fede. Come ogni cittadino e residente si rispetta la Costituzione ed il quadro legale. Quanto ai
casi marginali per i quali si troverebbe un'opposizione tra il quadro legislativo e la propria coscienza, ebbene, si dovrà
valutare il livello di priorità. Se veramente c'è incompatibilità, perché questo si oppone alla nostra coscienza, allora, al
limite c'è, come del resto per ciascun cittadino, un diritto che si rifà alla "clausola di coscienza" e che permette a
ciascuno di dichiarare: in coscienza, io non posso farlo. Si osserva, a livello di analisi e di esperienza, che una
situazione di questo tipo, rispetto alle costituzioni europee, è praticamente inesistente, in ogni caso per ciò che riguarda
la vita quotidiana.

Il conflitto tra poligamia e diritto europeo


J.N. Prendiamo un esempio preciso per esser concreti. Venendo da paesi in cui la poligamia è legale e nei quali essa è
accettata dal Corano, vivendo effettivamente in situazione di poligamia - può essere il caso dei Malesi o dei Sudanesi -
essi incontrano problemi inestricabili nel momento in cui iniziano a vivere sotto l'impero del diritto civile francese. E
non parlo solo del diritto: si può sempre dichiarare una moglie legittima, diventando l'altra concubina. Ma questo pone
dei problemi di successione che sorgono regolarmente, che diventano irrisolvibili, che sono fonte di gravi ingiustizie,
poiché una o più delle mogli non erediterà assolutamente nulla.

Se è conscio della serietà della situazione, un musulmano che è poligamo in buona fede perché questa è la tradizione
culturale del suo paese, deve rifiutarsi di stabilirsi in Francia? E' necessario che comprenda che la sua fede entra in
conflitto pratico con il diritto del paese d'adozione e che tale conflitto è irriducibile al punto di escludere ogni
compromesso accettabile per le due parti?

T.R. Se è già impegnato, come nel suo esempio, in una vita poligama, deve fare la scelta o di non stabilirsi in Francia o
di chiarire la situazione per essere in regola col diritto del paese in cui risiede. Detto questo, bisogna aggiungere che
alcuni sapienti hanno sottolineato che, se un uomo ha una moglie riconosciuta davanti alla legge del paese e che egli
protegge come si deve l'altra sua sposa ( a livello di contratto islamico, anche se questa è considerata una concubina dal
diritto del paese europeo), la situazione è acettabile poiché si tratta di un adattamento pragmatico che non è un reale
tradimento della legge. Si sono ricordate queste situazioni nel caso di alcuni diplomatici musulmani provenienti da paesi
molto ricchi. Sono spesso avvocati di paesi europei che li hanno consigliati ed orientati verso questo tipo di
adattamento. Alcuni sapienti musulmani hanno elaborato il loro parere sull'ampiezza di interpretazione che questo tipo
di gestione pragmatica permetteva.

Da parte mia, queste situazioni mi creano un pò di imbarazzo e penso che ci si debba mettere d'impegno per trovare
soluzioni che, nel rispetto del diritto, non ledano la persona e comunque, quando la poligamia è già effettiva, né l'una o
l'altra delle mogli. E' in casi del genere che per i musulmani bisogna pensare anche alla formulazione di fatwa, che sono
in effetti disposizioni giuridiche circostanziate. La fatwa, l'elaborazione di un parere giuridico per casi molto specifici, è
lo strumento sul quale si baserà il dinamismo dell'adattamento dei musulmani in Europa. Ma ciò si deve fare con
competenza e circospezione. Bisogna notare, tuttavia, che per l'esempio che lei cita, si tratta di casi eccezionali; prima
di tutto devono interessarci altri campi per trovare soluzioni adeguate che riguardano una maggioranza di musulmani.

J.N. Non si può proprio cambiare la legge in materia di successione. Qui la cosa è estremamente chiara. A meno che un
erede o una erede decida di fare un regalo a qualcun'altro della famiglia. E ancora! I doni manuali per essere legali
devono essere registrati ed entrano a far parte del prelievo d'imposta.
T.R. La situazione di cui lei parla è interessante perché rivela ciò che i musulmani possono e devono intraprendere per
il futuro del loro insediamento in Europa. Il diritto nei diversi paesi europei non è unico né chiuso, offre un margine
d'interpretazione o d'applicazione. Inoltre, esistono disposizioni riconosciute dalla legge alle quali i musulmani possono
ricorrere per gestire le loro rispettive situazioni nel modo più vicino alla loro coscienza. La gestione dell'eredità secondo
il diritto dei paesi europei permette di decidere relativamente alle modalità della distribuzione o del semplice dono. Per
il musulmano questo implica un lavoro di approssimazione e di adattamento nei limiti di ciò che la legge gli permette
fino ad arrivare il più vicino possibile agli insegnamenti della sua fede.

Spesso ci si rende conto che c'è solo una contraddizione apparente e che il lavoro d'adattabilità a partire dalle aperture
offerte dalla legge - in materia d'interpretazione, di applicazione possibile o di stretta giurisprudenza - offre spunti
interessanti. Per il futuro, sarà compito dei giuristi musulmani pensare alle modalità di questi adattamenti particolari
lavorando per tappe e sui diversi campi del diritto: dal contratto di matrimonio, all'eredità, fino al campo della finanza e
del commercio. Siamo solo agli inizi. Si cominicia appena a riflettere sui contratti, di matrimonio per esempio, che
rispondano alle norme islamiche rispettando le leggi del paese di residenza: si lavora alla formulazione, ai termini
dell'accordo, alle clausole ed alle condizioni. E' un'impresa di grande portata che mostra segni molto promettenti per
pensare ad "un'integrazione dal punto di vista giuridico"; questo non potrà mancare di realizzarsi come è avvenuto in
altri continenti quali l'Asia per esempio.

La nostra nuova situazione ha provocato una sorta di entusiasmo sul piano della lettura giuridica, ma necessita di una
buona conoscenza della legge dei rispettivi paesi e siamo ancora molto lontani a questo proposito. Dobbiamo diventare
musulmani, cittadini di uno Stato nel vero senso del termine. Diventeremo allora cittadini come tutti gli altri, cioè
francesi, belgi, svizzeri musulmani. La questione di sapere se siamo prima francesi, inglesi o musulmani non ha senso:
se si parla di cittadinanza, siamo francesi o svizzeri o belgi musulmani e, se affrontiamo la questione filosofica, siamo
allora musulmani belgi, o svizzeri o francesi come qualcun'altro sarebbe laico belga o francese, ecc. Sul piano
dell'identità siamo europei di confessione musulmana e penso che non ci si debba agitare troppo su questo argomento.

Sinteticamente poniamo quattro principi:

1. E' possibile vivere in Europa;

2. Si deve rispettare la costituzione del paese in cui si vive;

3. Ci si deve considerare e si deve vivere come un cittadino che partecipa se si ha la nazionalità del paese;

4. L'adattamento tramite l'elaborazione giuridica (la fatwa) sarà lo strumento di un'integrazione migliore chiaramente
fondata "nel diritto".

Si tratta di promuovere "un'integrazione del diritto", "un'integrazione legale". In breve, stabilire la legalità della
presenza dopo che i fatti ce ne hanno imposto la constatazione. E' così che il diritto islamico ha sempre funzionato, nella
sua essenza è esigente e flessibile. In effetti, direi che esso ha l'esigenza della flessibilità ed è per questo motivo che il
giurista non deve mai mettere a riposo la sua iniziativa o la sua creatività.

J.N. Vorrei sottolineare questo grande principio che lei ha appena enunciato. Se una comunità musulmana è in
minoranza in un paese che è uno Stato di diritto, uno Stato tollerante - non uno Stato che perseguita la fede - come è il
caso della maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, il musulmano deve accettare il diritto così come esiste. Può e
deve utilizzare i margini che esistono all'interno di questo diritto per avvicinarsi quanto più possibile ai concetti
dell'islam.

T.R. Esattamente.

J.N. Ma senza violare il diritto locale! Questa presa di posizione è molto importante. E' un messaggio che gli
occidentali percepiscono molto male.

L'ostilità nei confronti dei musulmani deriva sempre dall'idea che una volta che essi saranno abbastanza numerosi, non
obbediranno più al diritto comune e ci si ritroverà con due comunità, che vivono l'una accanto all'altra, con i loro propri
diritti, con i loro propri tribunali. E la situazione diverrà prima inestricabile, poi conflittuale come in Israele o in Libano.

I conflitti di coscienza
Vorrei affrontare ora delle situazioni limite. Anche se un musulmano sincero può vivere secondo il diritto della
famiglia francese, che procede da un'ispirazione onesta, che protegge la vedova e l'orfano, questo cittadino francese di
religione musulmana può trovarsi in caso di guerra, incorporato come soldato e spedito senza che venga chiesto il suo
parere nel Medio Oriente. E' già successo per l'Irak, ad esempio.

Egli si trova qui in una situazione paradossale, perché diventa mercenario, costretto dalla cristianità, di fronte ai suoi
fratelli musulmani. Ciò ricorda la situazione degli harkis[2] in Algeria durante la guerra d'indipendenza di questo paese.
Che cosa deve fare in questo caso?

T.R. Bisogna distinguere le situazioni.

Il principio primario è quello della giustizia. Se, in effetti, si instaura un conflitto ed il musulmano, che è nel partito
avverso, difende una causa ingiusta, allora la partecipazione a questa guerra può essere legittimata. Il Corano parla del
caso limite in cui due partiti musulmani si oppongono: bisogna allora stare dalla parte della giustizia e dell'equità. Il
Profeta aveva detto:"Aiuta tuo fratello (musulmano) sia che sia giusto o ingiusto". I suoi compagni ne furono
sorpresi:"D'accordo per aiutarlo se è giusto, ma come fare per aiutarlo nella sua ingiustizia". E il Profeta
rispose:"Fategli smettere la sua ingiustizia". La frase è chiara.

Se, al contrario, si tratta di una guerra a fini coloniali, ad esempio, o per espropriare delle terre o per altro motivo, allora
è impossibile per un musulmano prendervi parte. Dovrà qui far valere la clausola di coscienza, l'obiezione di coscienza.
Noti che le cose devono essere chiare: non si tratta di fare obiezione di coscienza solo quando si ritiene che la guerra
che ci oppone a dei musulmani sia ingiusta. L'obiezione di coscienza deve riguardare il coinvolgimento in qualsiasi
guerra ingiusta, quale che sia l'avversario. Non c'è un trattamento selettivo in materia. La posizione di Cassius Clay,
Muhammad Ali, che rifiutò di combattere in Vietnam era l'unica possibile dal punto di vista islamico: l'impresa era
ingiusta ed illegittima ed un musulmano non poteva in nessun modo giustificarla. Cosa che anche molti cristiani hanno
rifiutato di fare. Ancora una volta, ci rendiamo conto che l'analisi deve essere fatta caso per caso. Possiamo qui
enunciare il principio generale, ma è necessario, dopo, considerare ogni situazione per quello che è. L'obiezione di
coscienza a volte è necessaria. Essa non viene fatta solo dai musulmani, anche molti laici e cristiani vi hanno fatto
ricorso.

J.N. A cominciare dall'attuale presidente degli Stati Uniti: Bill Clinton non ha fatto la guerra del Vietnam. Non è stato
in verità un obiettore dichiarato, è stato più astuto. Dal momento che apparteneva ad un ambiente ricco e colto, ha fatto
in modo di andare a studiare in Inghilterra.

T.R. Può darsi... Ma io penso qui a molti uomini che hanno avuto la dignità di dire "io non posso". E' la clausola di
coscienza che esiste nel diritto europeo ed alla quale i musulmani potrebbero, come qualunque altro cittadino, ricorrere.
Non si tratta di rifiutare di affrontare un correligionario, si tratta di rifiutare di difendere l'ingiustizia verso qualsiasi
essere umano su tutta la terra.

J.N. Abbiamo scoperto nuovi principi che potrebbero fondare una coabitazione armoniosa tra musulmani e cristiani
(anche apostati), ma metterli in pratica è estremamente difficile. Bisogna proclamare questi principi, in particolare per
disarmare l'ostilità della quale sono vittime i musulmani in Francia. Sicuramente perché è una comunità importante che
appariva minacciosa in certi posti. Ma la pratica di tutti i giorni è molto
diversa.

La paura della criminalità e del terrorismo


Lei ha ricordato poco fa che circa il 60% dei detenuti nelle prigioni belghe sono musulmani, mentre la comunità
musulmana dovrebbe rappresentare il 10% della popolazione. E' il segno di un stato di malessere. Ma è un malessere
solo sociale? E' chiaro che una popolazione povera, non istruita, fornisca per forza di cose molti delinquenti. E' anche il
caso degli Stati Uniti, benché gli africani, i neri, siano cittadini da molto tempo.

Ma è solo questo? Nell'immaginario degli europei autoctoni, i musulmani che si comportano male, che sono
delinquenti, non sono delinquenti ordinari, ma sono delinquenti che cercano nella loro fede delle scuse e che conducono
una specie di "guerriglia sacra" nei confronti degli autoctoni.

Questo sospetto è stato certamente rafforzato da ciò che è successo a Parigi tre anni fa, quando la capitale della Francia
si è improvvisamente sentita minacciata da terroristi, che erano in effetti terroristi musulmani. Soldati in tenuta da
combattimento pattugliavano i punti nevralgici, tutte i cassonetti dell'immondizia erano stati eliminati, le borse
venivano perquisite all'entrata dei luoghi pubblici: il tutto creava un'atmosfera di stato d'assedio. La Francia non aveva
conflitti interni coi propri cittadini, era vittima di un piccolo gruppo di terroristi. Si inscriveva all'interno di un conflitto
tutto diverso, quello di un paese che non è la Francia, è l'Algeria, ma che prende la Francia in ostaggio. Questa
situazione è stata presa malissimo dalla popolazione, poiché gli attentati hanno provocato dei morti come abbiamo
ricordato nell'introduzione del libro. Questo tipo d'azione fa un grande torto a tutta la comunità musulmana.

Come ha potuto generarsi questa situazione? Altre comunità religiose, penso agli ebrei, ad esempio, non sono mai
arrivati a questo tipo di terrorismo in Francia anche se avrebbero avuto delle ottime ragioni per ricorrere alla violenza...

T.R. Lei ha posto i termini del dibattito in modo molto chiaro. Cerchiamo di distinguerne i piani. Quello che abbiamo
visto, nel corso della nostra conversazione, è che la questione del diritto, dell'integrazione legale, non è il cuore del
problema. Le Costituzioni europee permettono nello Stato, e per l'essenziale, di realizzare una coesistenza positiva e,
per i musulmani, partecipativa. I punti di attrito sono minimi e spesso marginali. Il problema non è dunque qui.

Qual è allora il problema? Dopo aver attraversato l'Europa, discusso con numerosi intellettuali anglosassoni o
francofoni, lavorato sul campo sociale ed educativo, giungo alla conclusione che si tratta, prioritariamente, di una
questione d'immagine, di rappresentazione. L'idea che ci si fa in Europa dell'islam, della musulmana, del musulmano, e
per estensione dell'arabo o dello straniero, è sufficiente per livellare tutte le analisi sulle cause dei processi di
marginalizzazione e di esclusione per non ritenerne che una: questo islam venuto da fuori.

Questa rappresentazione viziosa si nutre di tutti gli alimenti a sua disposizione: la delinquenza nelle periferie e nelle
città, le macchine bruciate, i cognomi stranieri, la differenza d'aspetto, il foulard della vicina, gli ultimi sgozzati in
Algeria, la "preghiera televisiva" di Saddam Hussein, le bombe lanciate alla cieca, i talibani, le donne invisibili e recluse
dell'Afghanistan... E si finisce per mescolare tutto. Essendo percepito l'islam come denominatore comune, esso diviene
la causa di tutto.

Bisogna assolutamente lottare contro queste semplificazioni. Siamo in un'epoca in cui la caricatura può servire per i
progetti più folli e causare la morte di migliaia di esseri umani. L'abbiamo visto durante la guerra del Golfo. La
messinscena ha pagato ed il popolo irakeno continua a pagare. L'unica via, a mio parere, ragionevole consiste nel
distinguere i problemi e classificare le cause.

La frattura sociale esige un approccio circostanziato: sia che si tratti di musulmano, ebreo, cristiano, buddista o
francese, haitiano o polacco, ci sono condizioni oggettive che spiegano l'esclusione, la violenza sociale ed i processi di
marginalizzazione. Quando si sa come è stata pensata (male) la gestione dello spazio urbano per i primi migranti, come
sono stati "parcheggiati" nelle città dormitorio, come si siano aggiunti a questo malessere la disoccupazione, la
discriminazione nell'impiego ed il sentimento di rifiuto; quando si sa tutto questo si comprende l'origine del malessere.
Si è creata una bomba a scoppio ritardato. In Inghilterra si sono creati dei ghetti etnici, in Francia, l'altro modello, si
sono sviluppati ghetti economici. In entrambi i casi, un errore.

Nello spirito delle persone, francesi o europei autoctoni, come si suol dire senza sapere esattamente di che cosa si tratta
veramente, la violenza, nelle vicinanze, sembra una replica della violenza televisiva. Sono gli stessi "attori". La scena
internazionale esercita una costante azione parassitaria a danno delle analisi sulla situazione dei musulmani in Europa.
Ora, anche qui occorre restituire il suo ruolo all'analisi geopolitica, all'approccio differenziato dei processi politici,
economici, religiosi o semplicemente culturali. Bisogna togliere il velo della "differenza religiosa" che semplifica in
modo oltraggioso le valutazioni, per accedere alla complessità dello studio politico e geostrategico.

Allora appaiono nuove questioni direttamente indirizzate ai nostri governi che sostengono in modo molto
contraddittorio i poteri più duri, più tradizionalisti, più disumani. I musulmani, da parte loro, sono responsabili della
mancanza di comunicazione con il loro ambiente. Oggi devono esprimersi di più, spiegare, farsi sentire, diventare
appieno cittadini.

Cittadini, significa interpellare il potere sulla sua politica sociale o internazionale (senza, comunque, essere
immediatamente sospettati di intesa col nemico). Cittadini, significa utilizzare tutti i palcoscenici da cui la propria voce
può essere udita: a livello delle municipalità, del tessuto associativo, degli eletti locali, dei deputati. In breve, essere
presenti e partecipare alla vita della propria società. A tutti i livelli. Farsi sentire e instaurare rapporti di collaborazione.
La chiave è, alla fin fine, guadagnarsi con sincerità la fiducia dei propri interlocutori. Ma bisogna che questi ultimi si
impegnino anche a lottare contro le loro rappresentazioni caricaturali, che si impegnino in un dialogo costruttivo e
soprattutto che accettino di diventare dei veri e propri collaboratori sul terreno. E' necessario che svolgano il ruolo di
interfaccia e diventino intermediari tra i musulmani mal percepiti e le società nelle quali vivono. Sempre più
intellettuali, attivisti sociali e politici sono portati a svolgere questo ruolo e poco a poco le cose avanzano. E' un costante
lavoro di avvicinamento. Non vedo altre prospettive, ad esempio, per pensare ad un intervento nelle periferie.

Attenzione, però, a non confondere il "lavoro di avvicinamento" con il "bricolage sociale": il lavoro di avvicinamento
richiede una visione globale e sintetica, la determinazione di un obiettivo ragionevole e le tappe della sua realizzazione.
La vicinanza nell'accompagnamento richiede che si vada avanti, e non solo che si calmino o che si leniscano
puntualmente le ferite. In molti quartieri inglesi e francesi è come se si avesse un buon metodo ma senza un reale
obiettivo per i giovani musulmani. La mancanza di chiarezza si pone a monte.

J.N. Vorrei intervenire perché questa lacerazione deriva proprio dalla difficoltà per alcuni individui, che sono
sinceramente religiosi ma non sufficientemente istruiti, a fare all'interno della loro fede o dei loro costumi, la differenza
tra quello che è essenziale e che bisogna conservare, e quello che bisogna abbandonare per adattarsi ai costumi ed al
diritto locale. Non ci si inserisce in una comunità se non si accetta un certo numero di costumi.

Ora, questa situazione non è solo dell'islam. Altre comunità vivono in questo modo. Se lei prende il caso del Belgio,
vedrà che ci sono due tipi di insegnamento. Uno ufficiale che è abbastanza laico, in senso aggressivo, nella tradizione
del servizio pubblico dell'Education National in Francia. E poi un insegnamento libero, principalmente organizzato
dalla Chiesa cattolica. All'incirca metà e metà. Si tratta dunque di un paese in cui i cattolici, quando si sono sentiti
aggrediti hanno organizzato una rete scolastica. La stessa situazione esiste in Francia, dove una comunità cattolica certo
più ristretta ha comunque voluto organizzare il suo proprio insegnamento. Si possono trovare scuole in Svizzera per gli
ebrei e scuole cattoliche per gli integralisti dell'Opus Dei.

Scuole musulmane?
Forse, in fondo, la comunità musulmana composta di cittadini francesi non si sentirebbe maggiormente a proprio agio
non solo organizzando istituzioni rappresentative, ma anche gestendo una propria rete di scuole? Quando la delinquenza
sorge nelle periferie diseredate di Lione, Strasburgo o Marsiglia, è perché le barriere tradizionali dell'islam sono state
soppresse. Eppure queste barriere sono forti: Esse fanno sì che in un paese musulmano come l'Arabia Saudita non ci sia
delinquenza, perché le sanzioni vengono immediatamente applicate. Se si toglie questo sistema di sanzioni, certi
giovani musulmani sono completamente disorientati. Ciò che un piccolo musulmano può trovare nella scuola laica, cioè
un corso di morale astratta e filosofica, non l'aiuterà! Allora, perché non ci sono scuole musulmane?

T.R. Ci sono oggi due concezioni tra i musulmani.

Alcuni pensano che l'unica soluzione è la creazione di scuole islamiche che proteggeranno i bambini solo trasmettendo
loro i valori che gli sono propri.

Altri, me compreso, pensano che bisogna fare molta attenzione perché queste scuole, per il modo in cui sono concepite,
possono diventare dei ghetti e creare molti problemi che in realtà non risolveranno le situazioni.

Del resto, tutto dipende da che cosa motiva la costituzione di queste scuole islamiche: se si tratta di ritrovarci tra di noi,
di isolarsi e di tagliarci fuori dal mondo, allora si rischia fortemente di provocare spiacevoli rotture domani, quando i
giovani si ritroveranno abbandonati nella società. Se, al contrario, si tratta di progetti aperti in interazione con
l'ambiente, con la preoccupazione di uno sviluppo armonioso con la società circostante, allora il progetto può essere
interessante.

La valutazione che faccio delle comunità musulmane in Europa oggigiorno mi porta a pensare che siamo molto lontani
dal concepire scuole islamiche dinamiche e aperte. Nella spirito della maggior parte dei pensatori musulmani, si tratta,
come ho detto, di scuole separate, al margine della realtà del paese. E' pericoloso. L'esperienza inglese, con circa
settanta scuole islamiche, è mitigata. Ci sono, certo, cose interessanti, ma i punti deboli sono tanti, in particolare a
proposito dei genitori che a volte si scaricano sulla scuola "perché è islamica". Il progetto tocca famiglie agiate perché,
eccetto due scuole sovvenzionate, le spese di partecipazione sono molto elevate rispetto alle entrate delle famiglie. In
Olanda ed in Svezia le sovvenzioni statali (che arrivano fino al 75% delle spese per il funzionamento degli istituti)
rendono queste scuole più accessibili ma ci si rende conto che i progetti sono gestiti in modo molto discutibile.

Si confondono a volte le scuole islamiche con quelle dei paesi di origine. Non si risponde al vero bisogno, addirittura ci
si sbaglia completamente sulla gestione ed il metodo. Finora ho visitato poche scuole islamiche che offrono progetti
interessanti. In Svezia sono stato piacevolmente sorpreso di vedere un'iniziativa molto originale con insegnanti ed
allievi che non erano tutti musulmani e che, in più, sviluppavano dei veri e propri ponti con l'ambiente circostante.
Resto molto cauto ed anche se, un giorno, si potranno concepire scuole islamiche in modo del tutto innovativo,
dobbiamo constatare che non è così oggi. Bisogna evitare ad ogni costo le scuole-ghetto. A dir la verità, credo che sia
prioritario impegnarsi nel parascolastico. Per due ragioni: prima di tutto perché toccheremo più giovani e in modo, tutto
sommato, più democratico; e poi perché il vero problema dei giovani si trova nell'inquadramento e
nell'accompagnamento. Bisogna organizzare le fasi di un impegno locale con progetti educativi, attività sportive,
iniziative di utilità pubblica.

Il primo passo consiste nel cambiare l'immagine che i giovani hanno di loro stessi. Le fratture cominciano a questo
livello: è necessario valorizzare l'inquadramento e il sostegno affinché forgino nei giovani un'autorappresentazione
positiva e più equilibrata. Bisogna assolutamente restituir loro il triplo sentimento della capacità, della responsabilità e
dell'utilità: sentirsi capaci di riuscire, sentirsi responsabili di un progetto, sentirsi utili agli uomini, tutto ciò forgia una
personalità, forma un'identità. Bisogna passare di là e non giocare a nascondino o a guardia e ladri.

Certi responsabili politici locali vorrebbero che non ci si preoccupasse della dimensione culturale e religiosa perché
bisogna trattare questi giovani "come belgi o come francesi". Comprendo la loro preoccupazione, ma prima di essere
francesi, belgi o altro, questi giovani sono esseri umani e mai si educa un individuo negando la sua memoria, la sua
storia, le sue radici. Cerchiamo di non essere "repubblicani" al punto di esserne accecati e resi stupidi. Non si tratta qui
di predicare un qualsiasi proselitismo, ma piuttosto di tener conto di questo dato oggettivo dei giovani, la loro religione
d'origine e la loro cultura passiva: lavorare per cambiare l'immagine che essi hanno di loro stessi, significa preoccuparsi
di queste dimensioni, necessariamente. In un modo o nell'altro bisogna parlarne, in modo ragionevole, in modo posato,
in modo positivo. Soltanto questo approccio è in grado di dar loro la possibilità di scegliere quello che vogliono essere
con cognizione di causa.

Purtroppo, il modo in cui si agisce oggi, parlandone senza parlarne, girando intorno al nocciolo del problema, perpetua i
disagi e le ferite e, poiché non vengono offerti ai giovani i mezzi per conquistarsi la loro libertà, li si relega in una
doppia marginalità sociale e culturale. La sconfitta parrebbe assicurata.E' necessario riconciliare queste popolazioni con
la loro storia. Questa impresa, per gli attivisti ed i politici locali, è a mio avviso la prima tappa del cammino cittadino.
Non si tratta di dispensare corsi di "catechismo musulmano", bensì di pensare a formazioni che tocchino la storia della
civiltà musulmana, le scienze, l'arte, la lingua, le diverse tradizioni. Bisogna valorizzare questo patrimonio. Allo stesso
tempo occorre occuparsi dell'educazione civica, della conoscenza dell'ambiente e della sua storia. L'uno non impedisce
l'altro, al contrario, per quanto possa apparire paradossale, solo il primo passo può garantire il successo del secondo
nelle popolazioni più toccate dalla frattura sociale. Una volta che saranno più in pace con la loro memoria, sapranno
affrontare meglio le sfide del loro presente: credo davvero che quando i punti di riferimento del passato sono scomparsi,
si affacciano i limiti nel presente, coscientemente o inconsciamente. E' ciò che troppi giovani musulmani stanno
vivendo.

In seguito, diventa coerente e sensato consolidare le fondamenta della partecipazione civile. Si tratterà allora di spiegare
come funzionano le istituzioni, che cosa dice la legge, quali sono i diversi tipi di elezioni e tutto il resto. Un sempre
maggior numero di quadri di associazioni musulmane hanno preso coscienza dell'importanza di questa via. Non esitano
ad andare a incontrare il sindaco della loro città, ad impegnarsi in collaborazioni ed a sviluppare ponti con il loro
ambiente. Il sospetto resta, certo, molto forte ma le cose procedono e dappertutto in Europa si sente che ci si trova in un
periodo di transizione e che le cose cambiano radicalmente. I musulmani stanno cercando il loro posto nelle società
europee - anche se il processo sembra a volte molto lento - e già, in certe circostanze, il loro dinamismo è una promessa
di contributo positivo per l'avvenire. L'educazione alla cittadinanza è uno dei fondamenti della soluzione per il futuro.
Bisogna insistere su questo passo perché ha un doppio obiettivo: forzare i musulmani a ritrovare la cultura del dialogo
che gli è proprio tramite il dibattito intra-comunitario e sviluppare il sentimento di appartenenza alla società. Il lavoro di
prossimità è tanto fondamentale quanto le iniziative di collaborazione.

In Francia oggi si è sviluppata in oltre diciotto città un'iniziativa che mette in relazione le federazioni delle opere laiche
della Lega dell'insegnamento e le associazioni musulmane molto diversificate. Moduli e programmi di formazione
vengono realizzati tanto a proposito dell'islam quanto della laicità o della cittadinanza. E' un lavoro da pionieri, ma di
enorme importanza.Uomini e donne hanno deciso di smettere di osservarsi col binocolo, attraverso il prisma deformante
delle caricature. Hanno deciso di dialogare, di essere collaboratori onesti, cioè esigenti. In due anni i progressi realizzati
sono notevoli. Ieri molti esprimevano i loro dubbi, repubblicani laici o musulmani; oggi sentono che è la via giusta. Gli
stereotipi crollano, la fiducia si instaura tra i dialoganti e, sempre più, ci si sente sulla stessa barca: quella di cittadini
responsabili che vogliono offrire a ciascun cuore e ciascuna coscienza i mezzi per preservare la loro identità, la loro
libertà e la loro indipendenza. Insieme dobbiamo lavorare sugli stereotipi ed oltrepassare i sospetti che paralizzano.

J.N. Proprio così. Tutti quanti non possono che essere d'accordo sul principio. Bisognerà uscir bene da questa
situazione. Se si considerano le comunità musulmane d'Europa, esse sono là per restare e non hanno assolutamente
alcuna voglia di ritrovarsi nei loro paesi d'origine, spesso teatro di conflitti e di persecuzioni. Non vedo un curdo tornare
in Turchia o un kosovaro tornare in Serbia, di sua spontanea volontà, col sorriso sulle labbra, nella certezza di essere
rispettato.

Una laicità rispettosa delle religioni


Adesso, la laicità non è semplicemente una neutralità, una distanza tra lo Stato di diritto e le diverse convinzioni
religiose, come negli Stati Uniti. La separazione tra lo Stato e le Chiese significa paradossalmente una straordinaria
benevolenza da parte dello Stato americano riguardo alle sue confessioni religiose. Ad esempio, tutte le organizzazioni
religiose godono di una totale esenzione fiscale.

Nel caso della Francia, è tutt'altra cosa. La forma della laicità francese può ritrovarsi in altri luoghi più o meno
attenuata, come in Belgio o in certi cantoni svizzeri. Si può dunque trovare in situazioni di conflitto. E di conflitto
fondamentale rispetto a principi, sia del Corano, sia della Bibbia, sia del Vangelo, principi sui quali non si può
transigere.

Citerò un esempio storico significativo: nel momento in cui, in Belgio, è stata votata la legge che legalizzava l'aborto,
colui che doveva firmarla, cioè il re Baldovino, ha fatto valere una clausola di coscienza e non l'ha firmata. Correva un
grosso rischio; facendo passare la sua fede davanti alla sua funzione nell'esecutivo, rischiava proprio di far passare il
Belgio dalla monarchia alla repubblica. Ma ha avuto il coraggio di affrontare questo conflitto. Ho preso un esempio di
parte cattolica, ma se ne possono trovare in altre confessioni.

Negli Stati Uniti, ad esempio, i testimoni di Geova rifiutavano di servire nell'esercito di coscrizione ed un certo numero
di essi sono stati messi in galera per anni a causa di ciò.

Potrebbe ricordare le circostanze in cui si produrrebbe questo tipo di conflitto, rispetto a quello che prescrive il Corano?
Non possiamo vivere in un universo in cui tutto è rose e fiori. I principi religiosi sono là, in certi momenti, per orientare
la società civile e porre degli obblighi. Lei immagina che un musulmano divenuto cittadino di uno di questi Stati di
diritto occidentale debba ribellarsi, da solo o con tutta la comunità, in certe circostanze e quali?

T.R. Avevo tentato di studiare i casi limite nel momento in cui scrivevo il mio libro To be a european muslim[3], perché
volevo soffermarmi sull'approccio giuridico fondamentale. Mi è parso chiaramente che due orizzonti si ricongiungano e
rendano le cose molto meno difficili di quanto non sembri di primo acchito.

Se si considera la legislazione europea, ci si accorge che essa lascia, all'interno di limiti chiaramente definiti, un
margine importante di scelta a ciascun individuo riguardo al suo comportamento ed alla gestione dei propri affari. Non
cade tutto sotto la spada della legge ed il margine di manovra è conseguente.

Se ora ci voltiamo dalla parte del diritto musulmano, osserviamo che la flessibilità e l'adattamento partecipano
dell'essenza stessa della pratica giuridica. Queste due realtà messe vicine e considerate insieme fanno cadere moltissimi
ostacoli che all'inizio ci parevano soggetti a conflitto. Quando la legge di un paese lascia ai cittadini la scelta tra diverse
possibilità, i sapienti dovranno orientare i musulmani verso quella che meglio corrisponde alle loro prescrizioni: può
essere il caso quando ci si trova davanti a diversi tipi di contratti d'assicurazione, per ciò che riguarda le formulazioni
dei contratti di matrimonio o di successione. Ciò richiede uno studio approfondito della legge del paese in questione e
della giurisprudenza al fine di conoscere la latitudine concessa nelle scelte. Non si tratta di sviare la legge o di giocare
col suo senso, si tratta di trovare una soluzione all'interno dei limiti che essa ha prescritto nel rispetto della libertà
concessa a ciascun cittadino.

Quando ci si trova davanti a leggi che stabiliscono degli obblighi secondo la legislazione del paese, come contrarre certe
assicurazioni, e che ci spingono, per caso, ad agire al di fuori delle norme prescritte dall'islam, in questi casi limite,
molto rari del resto, sarà necessario far valere il principio di adattabilità ed enunciare un parere giuridico circostanziato,
una fatwa, che offre una soluzione temporanea o definitiva rispetto a questa precisa situazione, per date persone, in un
paese specifico. La fatwa nasce dallo studio di casi limite molto precisi e non si esporta. Essa deve tener conto del grado
di costrizione delle leggi del paese e cercare, se non c'è compatibilità possibile tra la detta legge secolare ed i principi
islamici, la soluzione che costituisce il male minore. E' una nota regola dei fondamenti del diritto islamico. Cioè, se si
considerano entrambe le sfere, il margine di manovra è notevole ed esistono soluzioni purché si oltrepassino le
apparenze e si studi davvero il diritto come materia. Si tratta di uno studio preciso, circostanziato e sempre ragionevole.
Inoltre, è necessario che da una parte come dall'altra si sappia veramente di che cosa si parla. Non è sempre così. Da un
parte ci sono partigiani della laicità che dicono della laicità quello che ne hanno capito e la modellano secondo la loro
convenienza. Lungi dal vero studio del diritto, il concetto di laicità diventa un'arma contro tutte le visibilità o
manifestazioni religiose. Questo diventa il concetto-ripostiglio di un'ideologia di combattente che vuole venire alle mani
con i "religiosi". Questa deviazione è grave e bisogna assolutamente porre dei limiti.

Se la laicità può esprimere un atteggiamento filosofico che il più delle volte si fonda sull'agnosticismo, questo aspetto
non rientra nel dibattito che ci interessa. Qui si tratta di un quadro giuridico che si fonda su testi, leggi e su una
giurisprudenza: sono questi ultimi che fanno fede e non i ragionamenti mordaci di un certo numero di partigiani della
"laicità da combattimento". Non ci dobbiamo lasciar trascinare sul terreno del rifiuto ideologico. Noi cerchiamo di
risolvere delle questioni di diritto ed è necessario circoscrivere i campi.

Quanto ai musulmani, anche loro non sono da meno a proposito di atteggiamenti discutibili e privi di diritto. Alcuni
conoscono molto male la loro religione e finiscono col mescolare tutto. Nel loro spirito non esiste alcuna sfumatura e
tutte le prescrizioni occupano la stessa posizione e si equivalgono. Pregare avrebbe la stessa importanza della chiamata
alla preghiera, digiunare lo stesso grado di necessità che il diritto di sacrificare durante la grande festa, o ancora il fatto
di vestirsi all'orientale sarebbe della stessa competenza del rispetto delle clausole del matrimonio. Ebbene, non c'è nulla
di meno giusto. Riguardo alle prescrizioni islamiche bisogna considerare i diversi gradi di obbligo: distinguere ciò che è
essenziale da ciò che è secondario, determinare ciò che è definitivamente fissato da ciò che è soggetto ad adattamento.
La giurisdizione islamica è una scienza che suppone una visione globale e precisa, non deve essere sottomessa agli
eccessi emotivi che portano alcuni musulmani a pensare che è impossibile vivere qui tanto il sentimento che predomina
è quello del rifiuto.

E' proprio questo sentimento che spinge alcuni musulmani a lasciar perdere tutto: temendo l'idea che ci si fa di loro,
invitano ad abbandonare quasi tutte le pratiche islamiche. In ogni caso quelle che i loro interlocutori europei
comprendono meno. Agiscono in modo freddo ed arrivano a ripetere a volte quello che i partigiani della "laicità da
combattimento" affermano: "Questo o quel comportamento o abbigliamento è contrario alla laicità, dunque i musulmani
devono astenersene". Ebbene, troppo timorosi o in difetto di conoscenza sociale o politica, ripetono spesso delle contro-
verità e vengono meno alle loro responsabilità: studiando, si renderebbero conto che la laicità di diritto non è quello che
ne dicono coloro che cercano il conflitto e vogliono creare un inutile turbamento, molto spesso per i loro interessi:

Bisogna dunque impegnarsi in un lavoro di fondo. Per il grande pubblico è necessario informare tanto gli Europei
quanto i musulmani di quello che è e di che cosa permette il quadro legale del paese in cui vivono, ma anche di che cosa
è l'islam. E' necessario, oggi, promuovere un'informazione ad ampio raggio che si fondi sulla trasmissione del minimo
di conoscenze necessarie per formare il cittadino di oggi e di domani: conoscenza delle istituzioni e delle leggi del
proprio paese, conoscenza dei propri concittadini nella loro diversità religiosa e costruzione, con lui o lei, della società
nella quale vivranno fianco a fianco i loro figli. Un impegno, fondato su tale approccio, è il mezzo più sicuro per
opporsi ai comunitarismi che noi rifiutiamo. Certo, sappiamo qual è l'importanza e la necessità del preservare il
sentimento della comunità di fede, della comunità spirituale. Un musulmano non ne può fare a meno, ne abbiamo già
parlato. Ma questo non ha niente a che vedere con la costituzione di ghetti sociali, di spazi d'esclusione o di legislazioni
specifiche.

Tutto quello che ho detto sulla necessità di intraprendere un lavoro giuridico molto preciso, e allo stesso tempo
un'ampia informazione volta a diffondersi in un modo o nell'altro presso il grande pubblico, tutto ciò ci orienta all'esatto
opposto del comunitarismo. Noi vogliamo una società di incontro, di scambio, di dialogo nel rispetto e nell'esigenza dei
concittadini che si conoscono e si riconoscono per quello che sono. La convinzione degli uni o degli altri non si oppone
al dialogo e all'apertura. Si è spesso confuso il fatto di essere "convinti" col fatto di essere "ottusi": queste due nozioni
non sono necessariamente sinonime. Essere profondamente convinti e restare aperti è possibile. E' un segno di dignità,
di profonda umanità. Questo dovrebbe essere l'insegnamento offerto alla scuola della fede.

Una parola ancora sui politici che dicono una cosa e fanno esattamente il contrario. Da una parte affermano di opporsi
al "comunitarismo" e va bene. Ma dall'altra, una volta che arrivano le elezioni, ecco che si gioca coi giovani "usciti
dall'immigrazione" e coi musulmani. Si mette un nome dal suono "arabo" sulla lista, si promette di considerare la
situazione dei musulmani, di pensare ad un progetto di moschea ma si arriva a prometterla solo "in caso di vittoria alle
elezioni".

A che gioco giochiamo? La corsa ai voti fa dimenticare il minimo principio di civismo. Come vorremmo, davanti a tali
comportamenti, che i musulmani non si costituissero in una sorta di lobby cosciente della forza del proprio numero. E di
votare per i più "generosi". I doppi discorsi dei politici preparano i dolori di domani. In quanto musulmani non
conosciamo che un principio, una regola in materia di scelta politica: bisogna votare per colei o colui che associa due
qualità, l'onestà e la competenza, musulmano oppure no, cioè non per i "compratori di voti" che si comportano come dei
veri e propri cacciatori camaleontici. Ciascun cittadino onesto deve rifiutare queste deviazioni e soprattutto non
rinunciare perché "questa è la politica". La nostra fede e la nostra coscienza devono tenerci svegli e vigili.

Dalla laicità alla secolarizzazione


J.N. Vorrei riprendere la questione ma da un'angolatura completamente diversa. Si potrebbe dire che non c'è nessun
problema perché gli Stati di diritto europei in generale sono estremamente tolleranti e assolutamente non aggressivi nei
confronti delle comunità religiose. Poco a poco, si arriva ad una situazione in cui il cristiano medio si dice che non ha
più bisogno di religione perché lo Stato colma tutte le funzioni e tutti i servizi che prima ci si aspettava dalla religione.
Lo Stato garantisce l'ordine, assicurato meglio dalla polizia che dall'insegnamento della morale a candidati ladri. Prima
bastava terrorizzare i futuri delinquenti precisando che mettevano in causa la loro salvezza eterna. La solidarietà si
esercita attraverso un enorme meccanismo di redistribuzione delle entrate. Le Chiese non si occupano più, in principio,
dell'insegnamento. Se ne occupa lo Stato. E se ne occupa molto bene. Le istituzioni caritatevoli del tipo ospizi, ospedali
ecc., non sono più necessarie perché fa tutto lo Stato. Dunque, a volte si ha la sensazione che si possa smettere di
occuparsi della carità nel senso tradizionale del termine in tutte le religioni.

La laicità ha cancellato le differenze di appartenenza religiosa.Si è arrivati a società completamente secolarizzate. Una
serie di funzioni che dovevano appoggiarsi ad una fede religiosa, una fede in una certa trascendenza, sono svolte ora,
quotidianamente, dagli Stati. La maggior parte degli europei pensa che la religione non è più necessaria. Ne hanno la
prova, poiché non la praticano più.

Restano all'interno di questa società secolarizzata, una piccola minoranza di credenti. I cristiani praticanti rappresentano
circa il 10% della popolazione in un paese occidentale. Questi cristiani pensano di possedere le regole, di disporre di
criteri per condurre una vita conforme alla volontà di Dio sui quali non possono transigere. Questo è il caso nel diritto
della famiglia: l'alzata di scudi in Francia a proposito del PACS ne è un buon esempio, come per l'aborto, le
manipolazioni genetiche, il clonaggio di esseri umani. Io sono tra coloro che pensano che una società in cui non ci fosse
alcuna religione, alcuna testimonianza della trascendenza, andrebbe alla deriva.

Il nocciolo duro delle fedi monoteiste


Per tutti i credenti di tutte le confessioni esiste un punto ostico sul quale non si può transigere. Questo punto ostico è in
larga misura comune a cristiani, ebrei e musulmani, perché queste sono tre religioni monoteiste sempre imperniate sul
rispetto della dignità di ciascun essere umano. Forse è questo il loro modo di tradurre la propria fede in un Dio unico.
Dal momento che questo è vero e che esistono comunità di credenti praticanti, di ebrei, cristiani e musulmani, queste
possono, a un certo punto, allacciare delle alleanze di fatto per lottare contro talune deviazioni totalmente immorali.

Penso, in particolare, a tutto ciò che può accadere in una civiltà senza fede né legge che disponga di mezzi così potenti
come l'ingegneria genetica. Si finirà per fabbricare prodotti di bellezza a partire da embrioni umani creati appositamente
per l'industria: si sacrificherà una vita virtuale per prodotti antirughe. Potrebbe provare a delineare i contorni del
nocciolo sul quale tutti i credenti potrebbero battersi insieme?

T.R. L'epoca moderna effettivamente ci spinge ad ingaggiare delle sfide comuni. Penso che lei abbia ragione a
ricordarlo e, di fatto, va esattamente nel senso dell'affermazione di Pierre Dufresne della quale ho spesso parlato. Da
parte mia proporrei due sfere sulle quali, insieme, dovremmo concentrare la nostra attenzione e i nostri sforzi.

La prima riguarda la spiritualità. Per una donna ed un uomo desiderosi di proteggere la loro spiritualità, le società
moderne possono essere rudi e crudeli. La questione è semplice: come vivere e proteggere, oggi, una vita spirituale,
l'interiorità, la meditazione, la riscoperta del soffio di vita? Non è facile ed ancor meno lo è l'esigenza della
trasmissione. Come trasmettere ai propri figli il senso della vita interiore, con Dio, tra gli uomini.

Il secondo campo è quello dell'educazione. Dobbiamo impegnarci insieme su questo terreno. L'educazione e l'istruzione
oggi non è un problema che si pone solo ai genitori e agli insegnanti. E' una questione di società che deve associare tutti
i cittadini. I credenti, i laici e tutti gli esseri preoccupati dell'avvenire devono mobilitarsi per pensare ad un'educazione
che risponda alle esigenze della nostra epoca. Si tratta, a casa e a scuola, di formare degli esseri umani. La famosa
distinzione tra la famiglia che educa e la scuola che istruisce non regge più: che cosa abbiamo da proporre? E' un grande
cantiere sul quale si gioca la protezione della libertà di ciascun individuo.
Ci sembra di perder la memoria tanto la velocità ci trascina. La velocità ci sta rubando la nostra libertà. In molti campi, i
"modi" di pensare hanno sostituito la conoscenza: si finisce col credersi liberi nell'ignoranza. L'ignoranza è la peggiore
delle prigioni perché ci illude sull'invisibile realtà delle sue sbarre. E' vero nel campo religioso nel quale le nostre
società producono un vero e proprio analfabetismo religioso, ma ciò vale anche per tanti altri campi. Spesso non si
conosce più la propria storia, la propria cultura, le proprie radici e si vorrebbe spingere gli uomini a conoscere la cultura
dell'altro. Un'illusione. E' nei programmi scolastici che bisogna cercare le prime concessioni fatte all'estrema destra e
non solo nelle periferie sfavorite.

J.N. Dunque, bisogna essere presenti nel processo educativo?

T.R. E' indispensabile. Ma bisogna farlo in modo profondo e costruttivo. I discorsi negativi sulla scuola e
sull'incompetenza degli insegnanti sono le parole dei pigri e dei dimissionari. Si vorrebbe che l'insegnante fosse tutto,
un papà, una mamma, un assistente sociale, un educatore, uno psicanalista, uno psichiatra, a volte un portinaio e spesso
un confidente.

Le nostre società devono trovare oggi cittadini che si assumano le loro responsabilità e si impegnino nelle scuole che
sono tutto fuorché spazi chiusi. L'interazione positiva con la società deve essere pensata dalla collettività - le scuole
sono luoghi di vita al centro di altri luoghi di vita. Le collettività locali, i genitori e gli insegnanti devono lavorare in
concertazione e non rilanciarsi più la palla cercando i "colpevoli". Tutti noi dobbiamo investire nel campo
dell'educazione in senso largo. Dal sostegno delle famiglie all'attività parascolastica, dalla formazione del cittadino
all'impegno nella solidarietà. Ho lavorato dieci anni nell'impegno di vicinanza, non conosco altre vie. Insieme, e non
con gli insegnanti da una parte, i politici dall'altra, i lavoratori sociali in mezzo e gli ebrei, i cristiani, i musulmani in
ordine sparso. Si sbaglia il metodo e la scelta dei partners.

J.N. Un'alleanza reale tra credenti potrebbe esigere una vera formazione religiosa a scuola. Si può ammettere un
insegnamento pubblico, dove i bambini possono ritrovarsi indipendentemente dalla loro estrazione sociale o religione
famigliare. E' una buona cosa insegnar loro a vivere in modo pluralista.

L'insegnamento della religione


Questo non impedisce che, nell'educazione in generale dei bambini, l'educazione religiosa debba avere una parte. Non
può essere soltanto trasmessa a casa, in una pastorale apposita per bambini, ma deve avere il suo posto a scuola, per
essere rispettata dai bambini e affinché i bambini la prendano sul serio. E quindi, si può chiedere che nell'insegnamento
pubblico a tutti i livelli esistano nel programma delle ore dedicate all'insegnamento religioso. Le diverse confessioni
organizzano poi questo insegnamento.

T.R. Il punto è proprio questo, che le religioni, la loro storia, i loro fondamenti siano presi sul serio. Per timore di
proselitismo religioso si impedisce di apportare qualche chiarimento di ogni sorta ai giovani e ai meno giovani. Bisogna
trovare un modo per insegnare queste materie che permetta almeno di avere qualche punto di riferimento. La memoria
si perde, non resta più granché della storia e gli insegnanti di francese e filosofia sono costretti ad arrangiarsi con
commenti ai testi perché i loro allievi non hanno più riferimenti.

La stessa cosa succede a livello universitario: all'inizio ne fui stupito, e quante volte ho dovuto ricordare fatti semplici
che numerosi studenti ignoravano totalmente. La scuola deve rispondere a questa missione, in un modo o nell'altro. Le
nostre società multiculturali esigono questo tipo di formazione che permette il recupero, l'identificazione - in breve, la
comprensione. Ancora una volta non si tratta di catechismo ma piuttosto di uno studio di fatti e riferimenti, il che
significa che coloro che insegnano queste materie devono essere competenti, essere veri pedagoghi e non avere vaghe
conoscenze dell'una o dell'altra religione con le quali continuano, volontariamente o no, a trascinare i fantasmi più
strambi sull'altro.

Si tratta di un insegnamento di natura scientifica e approfondita nel corso del quale non si deve esitare a mettere, a
volte, gli allievi in situazione di dialogo aperto con i fedeli delle religioni o delle confessioni studiate. Si dovrebbe
trattare di uno studio ampio, facente parte del corso di formazione di tutti gli allievi. Oggi si arriva a proporlo a qualche
allievo al di fuori dell'orario scolastico; va bene, ma si sottolinea spesso che i giovani che partecipano a queste
formazioni, oltre gli orari del corso, sono già sensibilizzati a questo riguardo a casa. Senza dubbio non sono loro che ne
avrebbero più bisogno.

Queste formazioni sono estremamente necessarie e coloro che vi si oppongono in nome del rifiuto del "proselitismo" mi
sembrano loro stessi proseliti della "libera ignoranza" menzognera e pericolosa. Quali che siano le nostre ideologie e le
nostre credenze o non-credenze, credo che non ci si possa opporre a "maggiore conoscenza e maggior apprendimento".
La libertà che si invoca ogni volta che si parla di religioso è sorella della conoscenza, mentre noi stiamo "producendo"
dei veri e propri "ignoranti". Si può in seguito fare la critica delle sette, quando l'incoerenza della nostra gestione ed il
vuoto e le lacune delle nostre formazioni ne hanno preparato il giaciglio.

J.N. Forse si vivrebbe meglio il pluralismo religioso se questo pluralismo fosse rispettato nelle scuole. Da una parte ore
di insegnamento religioso in cui i bambini si separano per seguire l'insegnamento della loro religione. Dall'altra, in certi
momenti, li si fa incontrare tutti affinché ciascuno conosca la fede degli altri.

T.R. E' necessario un dibattito di fondo sul contenuto di questa formazione. I pareri sono divergenti e le sensibilità sono
a fior di pelle su tali questioni. Bisogna restare prudenti e rispettare le tappe con un dibattito chiaro sugli obiettivi. Certi
affermano che non si deve trascurare la presentazione dello spirituale "dell'interiorità" e altri vogliono un insegnamento
sulle religioni, cioè presentazioni teoriche di "sistemi di pensiero" e di fatti storici "oggettivi".

J.N. Ma non è sufficiente.

T.R. Per il credente questo è effettivamente insufficiente ma bisogna dividere le cose e proporre degli approcci
complementari. La scuola non può più fare tutto e, come ho già detto, bisogna pensare a spazi di sostegno a partire dalle
famiglie e dalle strutture associative locali. Un discorso "religioso" a scuola non è "la" soluzione ai problemi che vivono
le nostre società; non si tratta di "scaricarci" su una scelta che rappresenterebbe la panacea. Le questioni relative
all'identità sono complesse ed esigono che si pensi ad approcci allo stesso tempo differenziati e complementari
ridistribuendo i ruoli ai diversi collaboratori del tessuto o della struttura sociale. Dall'individuo alla famiglia, poi dalla
famiglia alla collettività. La questione della trasmissione dei valori, della promozione di comportamenti intellettuali e
sociali deve essere trattata a monte.

Che cosa vogliamo? Questioni che abbiamo rifiutato di porci per decenni ci vengono imposte dalla prospettiva di
catastrofi imminenti. Per il credente, tutti questi problemi fanno parte dell'edificazione della sua fede: il senso della vita,
l'etica, lo spirito critico, la presenza solidale. La stessa cosa vale per la coscienza del laico impegnato. Insieme devono
impegnarsi a porre queste questioni, a suscitare il dibattito a intervenire a livello sociale, educativo, politico ed
economico per fare proposte, sviluppare strategie alternative. La nostra situazione non esige arrangiamenti strutturali,
cosa che molto spesso facciamo chiamandoli "riforme". Non sono altro che "sistemazioni" o semplici modificazioni
nella "gestione".

Ebbene, abbiamo bisogno di una riforma fondamentale, profonda, nuova, perché essenzialmente centrata sull'umano e
sulla giustizia. Una riforma, come l'intendo io, richiede che si sviluppi la coscienza della "rottura" in vista di proporre, a
partir dal livello locale, un altro modo di essere, di essere al mondo e di gestire le cose. Ciascuno a partire dai suoi
valori, dalla sua coscienza, dal suo coinvolgimento particolare deve poter apportare il proprio contributo a questa
riforma. Si tratta anche, è chiaro, di rafforzare in noi, insieme, il "dovere di resistere" di fronte alle deviazioni e alle
follie di una gestione senz'anima, senza coscienza.

Non conosco un vero essere cittadini se non nel "rifiuto impegnato" della logica del rendimento e della produttività.
Essere con Dio significa ricordare il posto essenziale dell'uomo, dell'umanità, della fraternità umana, una fraternità
d'essere, anche e soprattutto se ci teniamo a vivere una diversità di pensiero. La fede oggi è un matrimonio tra un'intensa
spiritualità ed una determinata resistenza. E' il senso della "testimonianza", della shahadah per il musulmano, e anche
l'Occidente è "spazio della testimonianza". Di cuore e di intelligenza.

Bisogna rifiutare nella coscienza un mondo senza coscienza. Il senso della nostra resistenza è lì. Il tessuto associativo
musulmano è oggi molto forte in Europa e penso che la sua missione, dopo aver superato la freddezza e l'isolamento, è
di interrogare tutti gli esseri umani, tutti i partners, individui o istituzioni, per partecipare insieme ad un nuovo dibattito
sociale che, in fondo, dovrebbe dar vita ad un progetto di società. Rifiutare il proselitismo - e bisogna farlo in modo
chiaro - non vuol dire rifiutare il dialogo e l'impegno comune. Le fratture sociali, l'esclusione, la marginalità dei giovani
e degli anziani ci rimanda ai nostri rispettivi valori ed alla nostra esigenza di dignità umana e di giustizia sociale.

Dobbiamo anche ricordare che un mondo che confisca l'80% delle ricchezze del pianeta nelle mani del 17% della
popolazione non saprà essere un mondo sereno. Le cifre traducono da sole la violenza, una violenza senza armi, certo,
ma una violenza terribile, distruttrice, inaccettabile. Gli esseri umani soffrono e si lamentano come la natura, del resto,
sottomessa ad un trattamento indegno ed incosciente. Qui inizia la solidarietà degli uomini di buona volontà, di coloro
che comprendono la loro fede, la loro vocazione, la loro presenza nella resistenza. Si tratta di non rinunciare, contro
tutte le semplificazioni, le caricature, le dicerie e le meschinerie.
Ciò che noi portiamo è più nobile di ciò di cui ci insultano. Taluni parlano di chiusura di spirito e non ci hanno mai
rivolto la parola; loro parlano di apertura, chiusi nella loro presunzione. Dobbiamo superare queste "meschinerie",
queste chiacchiere. In nome di tutte le donne e di tutti gli uomini che vivono la discriminazione quotidiana, di tutti
coloro che sono umiliati quotidianamente perché non hanno il necessario per vivere, di tutti i torturati nelle prigioni
della vergogna e delle dittature, in nome di tutti i giovani che vedono nell'avvenire solo il vuoto, non si può continuare a
perdere tempo. Bisogna osare, osare affermare convinzioni forti, senza essere chiusi; determinati, senza essere violenti;
attivi, senza essere oppressivi.

Stiamo vivendo un momento di "piccolo" consenso in cui pare che l'unica apertura mentale passi solo attraverso
l'espressione dei propri dubbi. "Non sapere più veramente", "non dire niente", "non pronunciarsi", viviamo una sorta di
oppressione dell’approssimativo, una moderata dittatura del "forse che sì, forse che no", fondata su una libertà confusa
con l'indecisione. Tutto ciò mi preoccupa perché il regno dell'indeciso istituzionalizzato, è il potere offerto alla rinuncia.
Bisogna osare, oggi, a rischio di sbagliarsi, bisogna dire, chiedere, interpellare, ritrovare il soffio vero dei veri dibattiti
d'opinione in cui ci si rispetta a sufficienza per affrontare le questioni di senso, i problemi di fondo.

Io rispetto i dubbi, le ricerche, le pause che ciascuno deve vivere, si può aver voglia di vivere per essere ed avanzare,
ma sento molta pena quando questo cammino diventa garanzia di pigrizia intellettuale e civica in cui si giudica l'altro,
seduti davanti al televisore e ci si rattrista dello stato del mondo tra il formaggio ed il dessert. Soddisfatti di ciò che si è,
sicuri di ciò che si sarebbe potuto fare senza farlo mai. Ma nulla disturba questi giudici poiché partecipano alla grande
messa della relatività di tutto ed al potere assoluto delle mode.

Mi sembra che l'impresa nella quale ci siamo impegnati con questo libro sia un passo verso tutt'altra cosa. Sa, a volte mi
dà fastidio vedere certi amici cristiani aver talmente paura di essere giudicati al punto che nascondono o relativizzano
tutto quello in cui credono. Non osano più, perché bisogna sembrare "moderni", ed i principi della religione sono così
obsoleti... Non credo che sia questo il modo di assumersi le proprie responsabilità: non bisogna esitare a tradurre le
nostre convinzioni, dire la nostra fede, la nostra vita spirituale, le nostre aspettattive. Vivere le nostre convinzioni,
restare aperti e partecipare a tutte le iniziative che permetteranno alle nostre società di produrre idee affinché vi si
esprimano autentiche convinzioni e sincere prese di posizione.

Se, per non essere giudicati, non bisogna più dire né manifestare nulla, allora si è raggiunto il grado zero dell'umanità,
per dirla come Barthes, il nuovo regno dell'essere umano invisibile. E' meglio sparire per davvero. La tolleranza, in
questa vacuità, è un concetto vuoto, una parola strumentalizzata per darsi una buona coscienza. Credo piuttosto che
l'avvenire si costruirà con gli esseri che sono convinti e rispettosi, convinti di questa convinzione che li spinge a
resistere alle deviazioni. Davanti a Dio o alla loro coscienza, con gli esseri umani.

Il mistero delle differenti religioni


J.N. Esiste un versetto del Corano, profondamente enigmatico, che dice all'incirca questo: Se praticate fedi diverse, è
Dio che l'ha voluto. E' una sorta di pedagogia al fondo della quale vi ritroverete comunque nel momento preciso in cui
Dio l'avrà voluto.

Non siamo ancora arrivati a questo punto. Credo che sia necessario vivere le differenze alleandosi per difendere un
nocciolo duro. Ma ci sono cammini diversi per arrivarci, a questo nocciolo duro. Siamo simili ma non siamo identici. E,
invece di rimpiangerlo, si potrebbe gioirne. Non sarebbe opportuno che le diverse fedi esercitino l'una nei confronti
dell'altra ciò che si chiama nei monasteri cristiani la "correzione fraterna". Dire all'altro, onestamente ed evitando
qualsiasi meschineria, che cosa si trova di eccessivo o di sbagliato nella sua pratica, accettando, ovviamente, che egli
proceda nello stesso modo. Più sopra ho eseguito questa correzione fraterna facendo il mea culpa dei cristiani: questa
fede per troppo tempo è vissuta nella tristezza, nella colpevolezza, nel pessimismo spirituale. Ciò che ho trovato di
costruttivo nelle conversazioni che abbiamo avuto, è proprio il modo di uscirne. E' molto difficile uscire dalle
perversioni della propria fede. Tutte le religioni hanno sempre delle deviazioni. E nessuno pratica la sua fede in modo
ideale e perfettamente puro. Un tale dialogo con un musulmano mi porta a purificare la mia fede su questo punto
preciso in cui il cristianesimo si è allontanato. Lei immagina, per un musulmano, nel contatto con cristiani onesti e
nell'espressione più pura della loro fede, lei immagina un'influenza positiva per i musulmani?

T.R. Sì, certo, perché spesso l'ho vissuto. Quanti lungo il cammino, come lei, mi hanno insegnato a condividere, a
comprendere dall'interno ed hanno effettivamente fondato la nostra relazione sulla correzione fraterna di cui lei parla.
Mi hanno ricordato l'umiltà, la preoccupazione del meglio e poi una nozione che, sfortunatamente, i musulmani
dimenticano troppo spesso di ricordare e trascurano di vivere: quella dell'amore. Il messaggio dell'islam trae la sua forza
dallo stesso soffio d'amore per il Creatore e per l'umanità, ma troppo spesso i musulmani lo trascurano per fermarsi al
discorso normativo. Spesso i miei amici cristiani mi hanno offerto il regalo di uno specchio che mi ricordava il senso di
questo Amore, anche le sue esigenze, e la sua forza.

J.N. La celebre regola di Agostino: Ama e fa' quello che vuoi!

T.R. Più concretamente, mi hanno ricordato a volte il senso dell'amore al cuore dell'esigenza della norma. E' un
messaggio molto forte del cristianesimo e molti cristiani lo testimoniano nella loro vita quotidiana. E' un messaggio di
spiritualità, d'amore, di perdono e di vicinanza al prossimo. E' anche un formidabile specchio per farci crescere
ricordandoci un fondamento essenziale: la norma è al servizio del cuore e non il cuore al servizio della norma. E' uno
dei messaggi essenziali che numerosi amici cristiani mi hanno ricordato sul cammino.

[1]
PACS è la sigla del nuovo strumento di regolarizzazione delle convivenze istituito dallo Stato
francese. Si tratta di un contratto concluso tra due maggiorenni, di diverso o di uguale sesso
finalizzato all’organizzazione della loro vita in comune. (n.d.t.)
[2]
Vennero chiamati “harkis” quegli algerini arruolati nell’esercito francese che parteciparono, da
quella parte, alla guerra che condusse all’indipendenza del loro paese. (n.d.t.)
[3]
“Essere un musulmano europeo” di prossima pubblicazione.

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