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Quaderni del Gruppo di Ur

XII
I FEDELI D'AMORE
I Ediz. Gennaio 2006 - II Ediz Ottobre 2006 - III Ediz. Settembre 2007

Dante Gabriel Rossetti - Dantis Amor - 1860

Ogni quaderno del Gruppo di Ur raccoglie, in forma organica e sintetica, quanto emerso
nell'omonimo forum, in relazione ad un determinato argomento. In esso si trovano, perci, sia
citazioni degli autori studiati, sia commenti. I quaderni si devono considerare in continuo
aggiornamento, dal momento che l'emergere di nuovo materiale sull' argomento trattato pu
rendere opportuna una nuova edizione.

Questo Quaderno non ovviamente esaustivo dell'immensa materia, relativa ai Fedeli d'Amore.
Attraverso gli esempi forniti, si cercato di far emergere soprattutto il significato
anagogico dei loro scritti. Non si troveranno in questa sede quei brani che, pur riguardando i
Fedeli d'Amore, costituiscono parte organica di altri quaderni: ad es. quello del nostro Ekatlos,
nel quale si dimostra che Dante era a conoscenza della falsit della cosiddetta "Donazione di
Costantino" (vedi quaderno "Sul Papato"). Nella II ediz. stata aggiunta l'analisi della Canzone
"Donne Ch' avete" e sono stati corretti alcuni refusi di stampa. Nella III ediz. stata ampliato il
dialogo su "Maometto e Al all'Inferno".
Il presente Quaderno perci suddiviso nelle seguenti sezioni:
1) Ida La Regina: Introduzione
2) )A cura di P.Negri: Due Saggi Anteriori a Ur di Arturo Reghini
2a) Arturo Reghini: L'allegoria esoterica in Dante
2b) Arturo Reghini: Il Veltro
3) Ercole Quadrelli: I Fedeli d'Amore
4)A cura di P.Negri: Luigi Valli e Il Gruppo di Ur
4a) Luigi Valli: Testimonianze di Studiosi delle Tradizioni
5) AAVV: Per una Determinazione del Significato Anagogico
5a) J. Evola: Sulle Esperienze Iniziatiche dei Fedeli d'Amore
6) A cura di Fabritalp ed Ea: Dante e Pitagora di Vinassa de Regny
6a) Fr. Petrus: Ciclo Vitale dell'Uomo secondo Dante
7) Sipex: Quadro Generale della Commedia
8) Afrodite U. e Fr. Petrus: Datazione del Viaggio Dantesco
9) AAVV: Maometto ed Al all'Inferno
10) Fr. Petrus: Nicol de Rossi e Guido Cavalcanti
10a) Sipex: La canzone dantesca Donne ch'avete
11) Fr. Petrus: Il Filostrato di Boccaccio
12) Fr. Petrus ed Altri: Il Filocolo di Boccaccio
12a) Appendice: Sogni Inventati e Sogni Reali
13) Venvs G. e Fr. Petrus: Fedeli d'Amore e Via del Sacro Amore.

1) INTRODUZIONE
di Ida La Regina
Col termine Fedeli d'Amore vengono generalmente intesi gli aderenti ad una confraternita
iniziatica, presente nel XIII secolo in Italia, Francia (particolarmente in Provenza) e Belgio.
Essi veneravano la Donna (o Dama) Unica, una figura simbolica simile alla gnostica Pistis
Sophia, di cui la Beatrice dantesca l'esempio probabilmente pi noto. Simbolicamente affine
alla Vergine Maria Nera e isiaca, che adorna tante cattedrali europee (come la Madonna Nera
di Loreto o quella di Czestochowa), descritta da Guido Cavalcanti, come "una giovane donna
di Tolosa", citt che non pu non far pensare a connessioni con Catari e Albigesi.
Da: "Rime" di Guido Cavalcanti
XXIX - Una giovane donna di Tolosa
(sonetto)
Una giovane donna di Tolosa,
bell'e gentil, d'onesta leggiadria,
tant'e dritta e simigliante cosa,
ne' suoi dolci occhi, della donna mia,
che fatt' ha dentro al cor disiderosa
l'anima, in guisa che da lui si svia
e vanne a lei; ma tant'e paurosa,
che non le dice di qual donna sia.
Quella la mira nel su' dolce sguardo,
ne lo qual face rallegrare Amore
perch v' dentro la sua donna dritta;
po' torna, piena di sospir', nel core,
ferita a morte d'un tagliente dardo
che questa donna nel partir li gitta.
Un altro dei Fedeli d'Amore, Francesco da Barberino (che ebbe, come maestro, lo stesso di
Dante, cio Brunetto Latini), nell'opera "Del Reggimento e de' Costumi delle Donne", la
descrive invece con questi versi:
Ella colei, ch' compagno il figliuolo
Del Sommo Iddio, e sua Madre con esso:
Ell' colei, che con molte siede in cielo,
Ell' colei, che in terra ha pochi seco.
Il valore iniziatico del simbolo della Donna confermato dal fatto che Beatrice, nella Divina
Commedia, ha la funzione di condurre Dante in Paradiso, da vivo e non da morto.
I Fedeli d'Amore si esprimevano in un linguaggio segreto, il "parlar cruz", atto a non farsi
comprendere dagli altri, la "gente grosa". Una parte del loro stesso nome, "Amor", cela

probabilmente il termine composto "A-mor(s)" (= senza morte), a significare che la loro pratica
iniziatica aiuta a non morire spiritualmente. Lo stesso Dante del resto afferma esplicitamente
che il significato vero delle proprie parole nascosto, ora molto, ora poco. Ad es., in Purgatorio,
VIII, 19-21 dice:
aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
che 'l velo ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro leggiero
Non a caso, in un sonetto toscano del quattrocento, attribuito al Boccaccio (ad es da Francesco
De Sanctis nella Storia della Letteratura Italiana), Dante paragonato ad una "Minerva
oscura", delle cui opere necessaria "temporale e spiritual lettura".
Dante Alighieri son, Minerva oscura
d'intelligenza e d'arte, nel cui ingegno
l'eleganza materna aggiunse al segno,
che si tien gran miracol di natura.
L'alta mia fantasia pronta e sicura
pass il tartareo e poi il celeste regno,
e il nobil mio volume feci degno
di temporale e spirital lettura.
Fiorenza gloriosa ebbi per madre,
anzi matrigna a me pietoso figlio,
colpa di lingue scellerate e ladre.
Ravenna fummi albergo del mio esiglio;
ed ella ha il corpo, e l'alma il sommo Padre,
presso cui invidia non vince consiglio.

2) A

cura di P. Negri

DUE SAGGI ANTERIORI A UR DI ARTURO REGHINI


Prima del saggio "Il Linguaggio Segreto dei Fedeli d'Amore", pubblicato su Ur come Pietro
Negri, Arturo Reghini aveva scritto altri saggi sull'argomento. Il primo dei due che proponiamo
venne pubblicato nella rivista Nuovo Patto del Settembre-Novembre 1921. A differenza della
monografia di Ur, non mai nominato Luigi Valli. Questi, pur essendosi segnalato gi nel 1906
per una "Lectura Dantis" dedicata al canto XIX del Paradiso, inizi a essere veramente noto
solo dopo che, nel 1922, cominciarono ad apparire le prime opere di pi ampio respiro quali: "Il
Segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia" e "Il Simbolo Centrale della Divina
Commedia: La Croce e L'Aquila". Seguirono, nel 1925, "La Chiave della Divina Comedia" e, nel
1928, "Il Linguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore".

2a) ARTURO REGHINI

L'ALLEGORIA ESOTERICA IN DANTE


Sotto il senso letterario della Commedia, ossia sotto la peregrinazione di Dante attraverso i tre
regni delI'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, si nasconde senza alcun dubbio una allegoria.
Non c' bisogno delle esplicite dichiarazioni di Dante in proposito per esserne certi. Questa
allegoria non semplice, ma molteplice e dai commentatori ne vengono di solito riconosciuti
due aspetti, quello morale e quello politico. L'interpretazione morale, o filosofico-morale, vede
allegoricamente raffigurata nella Commedia la via che l'uomo deve percorrere per superare il
peccato e raggiungere la virt in modo da sfuggire all' inferno ed al purgatorio e da guadagnare
colla perfezione morale il paradiso.
Questa allegoria, come del resto il senso letterale del poema sacro, ha innegabilmente un
aspetto nettamente cristiano pure abbondando di elementi pagani; e sulla scorta di Aristotile, di
S. Tommaso e della scolastica stato profondamente penetrato dai commentatori.
L'allegoria polltica ha per base la lotta tra l'impero ed il papato, e vi figura largamente anche la
persecuzione dei templari da parte di Fillppo il Bello e di Clemente V. Naturalmente vi sono dei
passi suscettibill della sola interpretazione morale, altri rivestiti del solo simbollsmo politico, ed
altri ancora che comportano una doppia interpretazione morale e polltica.
L'allegoria politica quasi sempre trasparentissima e molte volte Dante fa addirittura a meno di
ogni velo e fa manifesta tutta la sua visione lasciando pur grattar dove la rogna. L'allegoria
morale ha una apparenza talmente cristiana da autorizzare tutti i cristiani e tutti i frettolosi nel
concludere ad attribuire a Dante una ortodossia cattollca, mentre l'allegoria politica ci rivela con
tutta sicurezza un Dante partigiano dell'impero e nemico acerrimo della Chiesa, difensore a viso
aperto di quell'ordine dei Templari condannato e ferocemente perseguitato per eresia dalla
Chiesa, un Dante che esalta Cesare, l'Impero romano, la civilt classica, e che elegge a propria
guida, maestro e signore Virgilio pitagorico ed imperialista.
I motivi che hanno indotto Dante a servirsi dell'allegoria non sono dunque di natura politica,
inerenti alla sua posizione nella lotta tra guelfi e ghibelllni, perch in tal caso sarebbe naturale di
trovare pi fitto il velo nei passi che trattano di politica, mentre invece il velo si fa pi spesso nei
passi che trattano argomenti di morale, di filosofia, di religione, di metafisica; e talora per quanto
i commentatori aguzzino gli occhi non riescono a chiarire il senso, oppure ognuno di essi finisce
coll'intendere diverso dagli altri.
Quale dunque la ragione che ha spinto Dante all'uso dell'allegoria, anche a costo di non farsi
facilmente capire?
Fantasia di poeta? Passione per l'enimmistica? No certo, perch noi sappiamo che una dottrina
si asconde sotto il velame delli versi strani. E se l'apparenza cristiana non potrebbe la scelta
differire dall'apparenza? Non potrebbe la dottrina cos gelosamente nascosta essere
eterodossa, molto eterodossa? Sicch Dante puzzerebbe forte di eresia e sarebbe un nemico
della Chiesa anche sul terreno religioso oltre che su quello polltico?
Le professioni di fede cristiana che egli fa ripetutamente non bastano ad eliminare il dubbio. Se
egli infatti era eretico o pagano e non voleva finire arrosto, era forzato a professarsi cristiano. E
specialmente volendo levarsi il gusto di esaltare Virgillo, Cesare, Roma che il buon mondo feo, il
latin sangue gentile, e gli imperatori che avevano aspetto gentile ossia pagano, occorreva in
qualche modo tranquillizzare i sospetti facendo anche l'apologia del cristianesimo. Bisogna
ricordare che in quei tempi la carit cristiana poteva sbizzarrirsi a suo piacimento; i numerosi
seguaci di quel S.Domenico che negli sterpi eretici percosse animato dal santissimo zelo di
salvare le anime (nonch la Chiesa pericolante) andavano per le spiccie e Dante stesso aveva
umani corpi gi veduti accesi. A che pr fare la fine che poi tocc a Cecco d'Ascoli, quando era
possibile dedicare la vita, e l'enorme ingegno e sapienza ad un grandioso disegno polltico e
religioso? Nonostante le sue professioni di fede cattolica, Dante aveva amici che andavan

cercando come Dio non fosse, ed eretici dello stampo di Sigieri egli ficca tranquillamente in
paradiso, mentre popola di papi l'inferno. Dante stesso fu accusato di eresia secondo risulta da
antichi documenti, e secondo narrano i suoi primi commentatori. L'eresia pagana di Dante fu
sostenuta dal Foscolo, e poi dal Rossetti con enorme copia di argomenti, ed infine dal prete
cattolico Aroux. Un gesuita che volle fare la critica delle opere del Rossetti si ebbe da questi
tale esauriente replica che pi non fiat.
Non si pone mente che anche nell'apparenza Dante non segue sempre pedissequamente San
Tommaso; ne differisce apertamente in questioni importantissime; p.e., nella dottrina
escatologica (Purg. XXV 88-102) per adottare una teoria delle ombre dei defunti che in
perfetto accordo colla concezione pagana. Egli fin da principio si inspira a Virgilio, da cui solo
prende lo bello stile che gli ha fatto onore. Il suo poema non che una commedia; e comunque
si intende la parola, nel senso moderno od in quello dionisiaco, si sempre condotti lontano
dall'apparente senso cristiano. Nelle grandi llnee la Commedia uno sviluppo del VI canto
dell'Eneide, e Dante ripete quanto Virgilio fa fare ad Enea. Enea scende vivente nell'Ade,
rinviene nella selva il ramoscello di mirto degli iniziati, ed apprende de visu la verit dei misteri
orfico-pitagorici sopra l'uomo e la immortallt condizionata. Ed anche Dante corruttibile ancora,
ricalca la medesima strada collo stesso scopo e facendo uso del medesimo simbollsmo. Scopo
fondamentale, come oramai noto e provato, dei misteri orfici, pitagorici, eleusini, isiaci, era
quello di conferire all'iniziato la conoscenza vera dei principii della vita (Cicerone -De Lege II,
14), la beatitudine, l'immortallt privilegiata. Ci si otteneva mediante la iniziazione che constava
di prellminari pratiche catartiche, di cerimonie simboliche e di vere e proprie estasi come ci
affermano Plutarco, Apuleio, ed altri antichi scrittori e come oramai si viene riconoscendo dai
moderni (Vedi p.e. Macchioro-Zagreus). Per tal modo l'uomo veniva rigenerato e dopo la morte
lo attendevano i campi Elisii.
Il soggetto della Commedia l'uomo, o meglio la rigenerazione dell'uomo, la sua metamorfosi
in angelica farfalla, la Psiche di Apuleio. dunque il medesimo soggetto dei misteri.
Non le sole qualit morali cambiano; Dante si purifica di grado in grado, passa per crisi e
coscienze varie e numerose, cade come corpo morto, sviene, rinviene, si addormenta, si
ravviva nell 'Euno, la sua mente esce di s stessa, si illuia, si india, si interna, s'infutura,
s'insempra, passa al divino dall'umano, all'eterno dal tempo; e finalmente dislega l'anima sua da
ogni nube di mortalit. Questo non un perfezionamento morale, una vera pallngenesi di tutto
l'essere che si attua nel simbolico viaggio. Il velame asconde non soltanto delle disquisizioni
morali sopra i peccati e le virt, ma l'esposizione di mutamenti interiori nella coscienza del
pellegrino.
I due fiumi del paradiso terrestre sono un evidente imprestito ai misteri orfico-pitagorici.
Scoperte archeologiche recenti han fatto rinvenire le cos dette laminette auree di Turii, che
venivano sepolte insieme al defunto orfico, cui dovevano servire di viatico, quando arrivava
nell'Ade. Quivi egli incontrava due fonti, quella del Lete e quella di Mnemosine, ossia quella
dell'oblio e quella della memoria. Bevendo all'acqua del Lete, il defunto perdeva ogni memoria,
e finiva, miserabile larva incosciente nel fango. Bevendo alla fresca sorgente di Mnemosine si
salvava, ed andava tra gli immortali, nei campi elisii. La formula contenuta nella laminetta orfica
affermava: Son figlio della terra e del cielo stellato. Fammi dissetare alla fresca sorgente di
Mnemosine, perch io possa essere nume divino e non pi mortale. Questo il senso della
formula invocatoria orfica; e questa concezione orfico-pitagorica analoga alla concezione
escatologica dei misteri eleusini, ed svolta nella teoria platonica delle anime e della
conoscenza. Dante, a meglio affermare il carattere pagano delle catarsi del purgatorio, da cui
esce puro e disposto a sallre alle stele, introduce alla fine della cantica non solo il Lete, ma il
meno familiare Euno (Purg. XXVIII, 131; XXXIII, 127-145), come egli lo chiama, che la
tramortita sua virt ravviva, ossia che d a chi morto la resurrezione, la seconda nascita.
Dante vorrebbe pur cantare in parte lo dolce ben che mai non l'avria sazio; ma si d la
combinazione che ei non ha pi lungo spazio, sono piene tutte le carte ordite a questa cantica
seconda; e sopra tutto non lo lascia pi ir lo fren dell'arte. Adelante, Pedro, con juicio. Siamo in
pieno mistero pagano.
E chi consideri quale sia stata la guida di Dante capisce che doveva condurlo proprio l. Dante
smarrito nella selva selvaggia ed aspra e forte dei pregiudizi e dell'ignoranza cristiana, incontra

fmalmente in Virgilio, la personificazione della sapienza esoterica, questa voce che per lungo
silenzio (dieci secoli di era volgare) pareva fioca; e Virgilio si presenta immediatamente nella
sua qualit di iniziato, che ha trasceso la natura umana:
Non uomo, uomo gi fui; ed per questo che Dante lo prende per duca, maestro e signore
che lo inizii e lo renda immortale.
Ora la concezione pagana non accordava alle anime umane una vera e propria sopravvivenza;
conducevano nell'Ade una vita immemore di larve incoscienti; e solo gli iniziati, gli eroi e quei
che Giove rapiva al sommo concistoro erano immortali. Ed il Cristianesimo ebbe il sopravvento
sopra i misteri, perch mise democraticamente la salvezza e l'immortalit la porte de tout le
monde.
Bast andare a farsi battezzare e credere che Ges era risuscitato per essere salvato. Una vera
cuccagna per tutti i poveri di spirito, e per tutti i delinquenti cui i misteri chiudevano la porta.
Arnobio p.e. spiattella pari pari di essersi fatto cristiano perch il cristianesimo a differenza dei
misteri garantiva a tutti l'immortalit.
Dante, che prende a guida Virgilio, e che tratta paganamente tutta la questione della
pallngenesi, pensava dunque anche egli che non tutti gli uomini potevano eternarsi? che le
credenze cristiane non erano sufficienti allo scopo? che le pecore matte ed i superbi cristiani
non avevano diritto di cittadinanza nella citt eterna, e dovevano finire tra la perduta gente?
Parrebbe di s, posto che non dai preti ma da Brunetto Latini egli apprese "come l'uom si
eterna". Esaminando l'opera di Dante senza preconcetti e partiti presi, si arriva a riconoscere
nella rinascita spirituale mediante la metamorfosi operata dall'iniziazione il soggetto
fondamentale della Commedia, la dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani.
L'allegoria dantesca ha dunque un importantissimo aspetto mistico, metafisico, veramente
esoterico. Aspetto che ancora non stato riconosciuto. Esso sfugge anche al Rossetti ed all'
Aroux, i quali pure riconducendosi per l'interpretazione dell'allegoria ai misteri classici, si
riferiscono sempre alla parte cerimoniale di essi. Ed naturale che sia cos, perch per
potere accorgersi ed intendere le allusioni ed i riferimenti convenzionali od allegorici occorre
conoscere l'oggetto dell'allusione o dell'allegoria; ed in questo caso occorre conoscere le
esperienze mistiche per le quali passa il mistero e l'epopta della vera iniziazione.
Per chi ha una qualche esperienza del genere non vi ha dubbio sopra l'esistenza nella
Commedia e nell'Eneide di una allegoria metafisico-esoterica, che vela ed espone le successive
fasi per cui passa la coscienza dell'iniziando per divenire immortale. Il simbollsmo di cui pi
frequentemente si serve Dante quello della navigazione, della peregrinazione. Egli un
pellegrino per la diserta piaggia, per lo stretto passo, per l'aspro diserto, prende un'acqua che
mai non vi corse, un navigante pel mar dell'essere. Specialmente il simbollsmo del mare, della
nave, della vela sempre adoperato per trattare dei fatti interiori.
questo velame che egli alza per correr migliore acqua; e come egli stesso dice sotto questo
velame che si asconde la dottrina.
un simbollsmo arcaico, mediterraneo, pagano, gi usato da Virgilio e da Ovidio. Esso usato
anche dai cristiani che di navi e navate parlano nei loro templi riferendosi alla navicella di S.
Pietro. Ma questa navicella frutto di una delle tante appropriazioni compiute dai seguaci del
profeta asiatico; non altro che la navicella di Giano; di un dio cio prettamente romano, sposo
di Venilla, la dea del mare e delle sorgenti, ed inventore della costruzione dei navigli. Si vede
che cosa diventa l'impresa di Ulisse nella Commedia. Ulisse, il navigatore per eccellenza, ha un
tale ardore a divenir del mondo esperto, e delli vizi umani e del valore che non vinto dalle
dolcezze del figlio, dalla piet dl vecchio padre, e dal debito amore di Penelope; e perci si
mette per l'alto mare aperto; e dopo averne navigato tanto da divenire vecchio e tardo viene
finalmente a quella foce stretta, ov'Ercole segn li suoi riguardi acciocch l'uom pi oltre non si
metta. Ma Ullsse ed i suoi compagni non tornano indietro per questo; anzi ricordano che non
sono stati fatti a viver come bruti ma per seguire virtute e conoscenza; e quindi si avventurano
con folle volo nell'alto passo per ottenere l'esperienza del mondo senza gente, di retro al sol;
cio di quella condizione in cui la coscienza vive di vita tutta interiore, al di l e fuori di ogni
celebrazione dovuta ai sensi umani, ed in cui non c' n gente n sole.
Ma questa un'acqua assai perigliosa e non tutti possono trarsi a riva e volgersi a guardare lo
passo che non lasci giammai persona viva, e che pu superare solo chi muore di morte

mistica. un varco folle (Parad. XXVII), un'impresa assai ardua, non pileggio da piccola barca
(Parad. XXIII), e c' da rimanere travolti e sommersi dal mare dell'essere che si richiude sopra il
temerario. Questo dice Dante, dopo avere premesso: (Inf. XXVI, 21) pi l'ingegno affreno ch'io
non soglio.
Ma Dante non va come Ulisse alla ventura; egli guidato da Virgilio, pi savio che ei non
intenda, e per ascoso cammino giunge a riveder le stelle. Per correr migliore acqua alza la vela
la navicella del suo ingegno; e dopo le varie pratiche e cerimonie che subisce nel purgatorio, si
purga ritualmente e ravvivatosi nel fonte di Euno, ne esce rinnovellato di novella fronda, puro e
disposto a salire alle stelle (Purg. XXXIII). Dopodich opportuno invocare il buon Apollo
all'ultimo lavoro (Parad.I). All'aspetto di Beatrice ci "si fa tale dentro", qual si f Glauco nel
gustar dell'erba che il f consorte in mar degli altri dei (Parad. I, 69-70), ossia si sente morire e
divenire immortale come Glauco, quel Glauco che dice di s: Ante tamen mortalis eram, sed
scilicet altis deditus aequoribus (Ovid. Met.) Dante non sa proprio dire altro e si scusa dicendo
che: Trasumanar significar per verba Non si poria; per l'esempio basti a cui esperienza grazia
serba (Parad. I, 70-72). Per verba non si pu, ma per erba s.
Egli non ha pi l'illusione del mondo materiale, ha un altro senso della realt: tu non se' in
terra, s come tu credi ma tu siedi al tuo proprio sito; giacch come dice nel Conv. IV, 28: la
nobile anima ritorna a Dio, siccome a quello posto, ond'ella si parti a quando venne a entrare
nel mare di questa vita.
Cosa accade delle anime non nobili non detto.
Ed ora che si sente del mortal mondo remoto (Par. II) si sente a sua volta in grado di far da
guida non agli altri che sono in piccioletta barca, ma a quei pochi che drizzano il collo per tempo
al pan degli angeli, l'ambrosia che rende immortali come l'erbetta di Glauco. vero che l'acqua
che ei prende giammai non si corse; ma egli ci ha tutta la sapienza pagana che lo assiste:
"Minerva spira, e conducemi Apollo e nove muse mi dimostran l'Orse" e Dante incoraggia questi
pochi navigatori a mettere tranquillamente per l'alto sale il loro naviglio, servando s'intende il
suo solco dinanzi all'acqua che ritorna eguale; e promette loro meraviglie da stare a pari di
quelle che videro quei gloriosi argonauti che seguirono quell'altro navigatore ardito che
conquist il vello d'oro (Parad. II, 1-18). Ed infatti, giunto alla fine della navigazione, e giunto
l'aspetto suo col valore infinito (Parad. XXXIII), arriva a vedere che nel suo profondo si
interna, legato con amore in un volume ci che per l'universo si squaderna. Crede di
avere visto la forma universal di questo nodo, e ne resta ammirato quanto rimase ammirato
Nettuno, quando vide l'ombra d'Argo ossia la nave Argo, la prima nave che solc i mari. I pochi
che han servato suo solco sino alla fine vedono dunque che Dante mantiene la promessa fatta
loro nel canto 11.
Cos si spiega questo passo che uno dei pi oscuri di tutto il poema. Ma, intendiamoci, una
vera spiegazione si pu dare solo a quelli che passano per consimili esperienze; giacch questo
un mistero che intender non lo pu chi non lo prova; ed io non posso che ripetere le parole
di Apuleio dopo l'iniziazione: "Ecce tibi rettuli, quae, quamvis audita, ignores tamen necesse
est" (Apuleio - Metam. XI, 23).
***
Un'altro saggio di Arturo Reghini su Dante, pubblicato prima di quello apparso in Ur, "Il
Veltro", comparso nel giornale Impero del 24 aprile 1923. Si possono notare diversi accenni a
quell'Imperialismo Pagano, che Reghini, aveva teorizzato gi nel 1914 ("Imperialismo Pagano"
in Salamandra del Gennaio-Febbraio 1914) e che, per un certo periodo, sogn potesse esere
attuato dal fascismo. Ne 1928, Evola ne forn una sua variante in un opera dall'identico titolo
(Imperialismo pagano, Atanor, Todi-Roma) che fu la causa principale del deplorevole dissidio
tra i due personaggi. Dissidio storicamente inutile, visto il Concordato tra Stato e Chiesa del
1929, che faceva diventare utopica la realizzazione a breve di quell'idea, per mai
abbandonata da Reghini. Il presente saggio anche utile per riflettere sul concetto tradizionale
di "vaticinio", che non mai stato concepito come previsione di un evento ineluttabile (che
toglierebbe agli uomini la bench minima libert), ma come percezione di una favorevole
"tendenza" verso certi eventi, che sta pur sempre agli uomini attuare o contrastare.

2b) ARTURO REGHINI

Il VELTRO
I classici dell'Imperialismo, filosofi, politici, profeti insieme, sono quattro: Virgilio, Dante,
Machiavelli, Mazzini; italiani tutti. Coloro che con maggiore coscienza hanno tradotto in atto
l'Idea son due: Cesare e Napoleone, Italiani pur essi. Virgilio, il cantore delle origini, il foggiatore
di versi perfetti, credette vedere intorno a s i segni precursori dell'ultima et predetta dai Libri
sibillini, e vaticin la discesa dal cielo di un fanciullo che avrebbe dovuto instaurare l'Et
dell'Oro.
Sembr avverarsi la profezia colla nascita di Ges, ed il Poeta pagano parve dare la mano al
profeta ebraico, "teste Davide cum Sybilla".
Diciamo parve, in quanto che, se a Ges si volesse applicare il vaticinio virgiliano, bisognerebbe
ammettere che non si ancora tutto attuato, perch ben vero che Ges nato (ed anche
morto), ma l'Et dell'Oro ancor da venire. vero che non bisogna aver furia!
Ma ogni dubbio ci sembra scompaia quando si ricordi che Virgilio era un Pitagorico, e che
l'avverarsi di tale profezia, ad un Pitagorico, in quel momento, doveva apparire sicura ed
imminente. Infatti la Filosofia pitagorica, che tutto riduce e somma nella Monade universale,
porta direttamente alla concezione monarchica; all'unit della Monade corrisponde l'unit del
potere, la monarchia; ed il Fondatore della Scuola Italica attu, come pot, nel suo Sodalizio di
Crotone, il concetto sociale unitario. Or quando Virgilio scriveva, l'unit politica era stata attuata
sulla maggior parte del mondo conosciuto da quell'immenso Genio di Cesare, che seppe
correre l'alea, ed a tempo debito, marciare su Roma. La concezione pitagorica, l'antica profezia
della Sibilla e la pienezza dei tempi dicevano naturale e quindi fatale che a coronare l'opera
scendesse di cielo in terra una divina progenie. Questo il Veltro virgiliano.
Dante, per cui Virgilio duca, maestro e signore, ha tutta l'aria di essere similmente inspirato
quando, a pi riprese, profetizza ed invoca la venuta del Veltro, a fare morire di doglia la lupa,
ed in attesa a fare penare assai i commentatori.
La concezione politica imperialista ha nell'uno e nell'altro altissimo poeta la stessa impostazione
pitagorica. Intorno a questa Idea centrale ruotano secoli e secoli di storia italiana ed europea.
Il Veltro dantesco non in modo speciale Arrigo Imperatore, n alcun altro personaggio
determinato; il Veltro l'uomo divino che, data la costituzione del mondo, deve fatalmente
manifestarsi presto o tardi. Dante con ardente affetto il sole aspetta, fiso aspettando pur che
l'alba nasca; il suo cuore palpita affrettandone, invocandone la venuta, ma la sua mente sa che
cosi scritto. La sua fede nell'avvento fatale di un vero Imperatore poggia sulla prodigiosa sua
conoscenza metafisica, sociale, scientifica. Come Virgilio, egli un Vate nel senso classico
della parola.
A questa coscienza del divenire politico si accoppia la piena, sicura coscienza del diritto
naturale del Popolo Romano a tenere l'Impero.
Virgilio afferma che spetta al Popolo Romano il "regere imperio populos"; Dante lo ripete;
Mazzini lo ripeter poi con l'uno e con l'altro. La Romanit era ancora cosi viva nel mondo che
anche se fosse stato un tedesco, come Alberto, l'Imperatore sarebbe stato sempre romano. Ma
Dante vuole che in Roma tenga la sede dell'Impero e da Roma tragga il prestigio; perch Roma,
e solo Roma, possiede, quasi per magia, carattere universale ed eterno. E questa
predestinazione naturale all'Impero, questa virt del Popolo Romano, potentemente sentita da
Mazzini, esule e povero, alimentava la sua tenacia e fede nei destini della terza Italia, quando il
sacro romano imperio pareva acquisito per sempre a casa d'Asburgo.
Le virt romane, quelle autoctone, presentano i requisiti necessari per un ufficio d'imperio.
Prima la fortezza, la virt del guerriero, la salda tempra del popolo che non piega ai rovesci,
oggi ed allora come a Canne; poi la virt della misura, dell'equilibrio; la prudentia politica di

governo, la giustizia, virt sociale del cittadino, la temperanza, la virt dell'uomo nella condotta
privata. Virt congenite, sane, indipendenti dalle credenze e da sanzioni extra-sociali. VIrt di
tutti e per tutti, e non dei pochi come la fede, la speranza e la carit, virt dei santi e per santi,
intese a scopi ultra-umani se non inumani. Queste le basi del diritto naturale del Popolo
Romano; queste le virt che necessita avere. L'Imperatore, quello auspicato da Dante, il Veltro,
non ciber terra n peltro, ma Sapienza, Amore e Virtute. Le virt umane e nemmeno quelle
ordinarie dei santi non bastano. Occorre la diretta inspirazione divina, bisogna che, come il
divo Giulio, si immedesimi con Giove, con quell'lmperador che lass regna. La suprema
potest terrena deve sentire la sua unit colla Monade. Egli deve imperare per volere divino e
per diritto divino. Sissignori, per diritto divino, o inconsolabili cortigiani del popolo sovrano! "Vox
populi non est vox Dei". Che la potest imperiale, del resto, debba derivare e derivi direttamente
da Dio non soltanto un corollario di Filosofia pitagorica; lo afferma anche la religione
dominante per bocca dell'apostolo Paolo: "Omnis potestas a deo est". E senza dubbio questo
pensiero inspir Napoleone quando, nel giorno della incoronazione a Re d'Italia, tolti di mezzo
gli intermediari, si pose in capo da s la corona. E ben fece perch se, come il Manzoni afferma,
Iddio stamp in lui pi vasta orma del suo spirito creatore, da Dio stesso fu suscitato e
predestinato. Il Veltro quindi perfettamente al suo posto al sommo della gerarchia.
Quando la gerarchia non sussiste, l'assetto sociale precipita. Quando l'Imperatore indulge a
sentimenti personali o pretende volgere l'Impero a beneficio di popolo non predestinato, il Fato,
cui sottostanno gli Dei, si abbatte su di lui e sull'opera sua. Carlo V esce di senno, una
incredibile testardaggine determina Waterloo, sulla Marna e sul Piave si noveran miracoli.
Oggi l'Italia sta risanando. Affiorano le antiche virt. Il suolo sacro della Patria esprime le
superbe legioni che Augusto amava; e le masse van ripulendosi del morbo asiatico. "Roma
locuta est"; ed i popoli gi tendon l'orecchio alle parole di rinsavimento, gi figgon lo sguardo ai
segni precursori della nuova aurora. Ed in verit, il popolo sapr vivere austeramente,
virtuosamente, se il Duce avr la fede e la reverenza romana per gli Iddii della Patria; sia lecito
a noi, nel giorno natale di Roma, leggere i segni secondo il costume dei Padri e dichiarare fausti
i presagi.

3) ERCOLE QUADRELLI
I "FEDELI D'AMORE"
Quel che segue un saggio di Ercole Quadrelli sui Fedeli d'Amore, estratto da "Il progresso
religioso" n2, Rivista bimestrale del movimento contemporaneo, Citt di Castello, 1929. E' un
saggio molto importante per svariati motivi:
- E' del 1929 e perci contemporaneo alla rivista Krur. Segue di un anno il saggio di Pietro Negri
"Il Linguaggio Segreto dei Fedeli d'Amore", uscito nella seconda annata di Ur e a cui Quadrelli
fa un brevissimo riferimento finale.
- Mostra il vero stile letterario di Quadrelli (che usa ad es. abitualmente l'accento, all'inizio di
parola, al posto della lettera h) e conferma perci che gli scritti firmati Abraxa erano s
insegnamenti dati oralmente da Quadrelli, sulla base del Corpus Philosophorum Totius Magiae
(*) di Kremmerz, ma trascritti da Evola col suo stile.
- Ridimensiona infine certe pretese di Guenon nel campo degli studi danteschi e soprattutto
alcune critiche guenoniane a L.Valli.
(*) Quello autentico e non quello spesso storpiato gi nel titolo (da taluni trasformato in Corpus
Philosophicum Totius Magiae).

L'ineffabile Essere primissimo - s difficilmente pensabile senza immediato rischio di


blasfemamente confonderlo col Nulla - Lui, s pienissimo, con il Nulla vuotissimo - che cosa ab
aeterno e in eterno lo mosse, e move, a perennemente uscire dall'unit sua semplicissima, per
dirompersi in molteplici densit innumerabili? Mistero, a cui non escogitabile nome alcuno
adeguato; attivit ineffabile d'ineffabile Agente; necessit libera, nudit sovrabbondante,
coerenza di scissione, immobilit di propulsione, slancio dell'uno verso il diverso, impeto della
Realt ad anche parere ci che Ella gi . Amore? Mistero. Amore di esuberanza, caso mai:
traboccamento di plenitudine, effusione di magnificenza: dono. Amori di bisogno - di
invocazione, di dedizione - dopo: dal diverso che riaspira a unit , dal piccolo che brama
ampliamento, dal crepuscolare che scongiura pi luce: pi calore, pi forza, pi vita. E cos
l'Ineffabile va, della Sostanza, perennemente facendo a s stesso un tramite di cui Egli stesso
la sede e il viandante; della Energia, facendo a s stesso un palpito di cui Egli stesso il ritmo
ed il musico; della Luce, un ammanto di cui Egli stesso la contenuta contenenza,
l'unimolteplice vibrazione, la visibile e l'invisibile fiamma, l'immateriale olio, l'occulto Accensore;
della Vita, un innumeriforme prorompere di singole affermazioni e di voraci assorbenze, traverso
cui Egli stesso il divorato e il divorante, il sacrificatore e la vittima. Triangolo, che, nel
salomonico esagramma, scende, si immerge, s'involve: traverso alla nebulosit , alla fluenza,
alla liquidit , al colloide, al solido, al compattissimo: all'indiscomponibile ione, sedici volte,
dicono, pi denso del pl tino: e, dunque, sedici volte pi complicato, pi scomponibile, pi
inaccessibile, all'infinito: nell'infmito al di dentro: al di dentro di tutto ci che altro non , di Lui, se
non esteriorit . Scende, Egli, e si involve: e, naturalmente, n si perde, n si depaupera o
ltera, Egli che dovunque e comunque non mai fuori di s: in cui tutto morendo nasce e
nascendo muore e vivendo dilegua, in Lui che persiste in tutto quanto da Lui emerge od in Lui si
sommerge. Non si perde, non s'altera: non c' essere che possa agire a depauperazione di s,
se non fosse per incapacit o costrizione. E, come dalla nebulosa al sole - al pianeta, al fluido,
alla selce, al metallo - si va Egli pi e pi immateriando, cos dal fango alla mucillagine
all'ameba, al vegetale all'animale all'uomo, si va Egli - triangolo, che, nel salomonico
esagramma, riascende - riliberando, rievolvendo, ridisimpacciando. Tra l'uomo e Lui, quante
altre forme di esseri? E attorno all'uomo, tra gli animali e tra gli alberi - nella terra, nell'acqua,
nell'aria - proprio null'altro di vivo? Nulla, nei mari, di pi di fano che le meduse? Nulla,
nell'aria, di pi sottile e pi vasto che non le nubi? E, gl'interminabili spazi dell'etere, disabitati?
E non altrettante o pi, le sue forme, che quelle dei gas? E la enorme gamma delle vibrazioni
note alla Scienza - ignote ai nostri sensi - proprio nessun essere che le percepisca? Quanti
interrogativi di cui non Shakespeare e non il suo Amleto avrebber sorriso; di cui non, per
millenni, sorrisero o sorrideranno le umane stirpi. Prima ancora - e fosse pur questa una
convenzionale priorit di non pi che natura - prima ancora di esprimersi in plasmi di materie energie meccaniche, si sarebbe Egli espresso in forme di sostanze-potenze. E, curiose di
esperienze anche all'in gi, tante e tante di queste avrebbero anch'esse tentata la sfinge della
discesa - questo, il peccato originale? di ciascuno di noi? di un'adamica anima universale? - n
troppo si chiesero se altrettanto agevole sarebbe stata poi la riascesa. Pitagorico-platonici
sussurri, rintracciabili un po' in tutte le ampie civilt , e sui quali non ha voluto dirci Dante, che
cosa realmente ei pensasse, o avesse talvolta pensato, o talvolta fosse ancora tentato a
pensare (Par. IV, 49-63). Sussurri, non di disperazione: difficile la riascesa, ma non impossibile;
esistente anzi, per questo, un'apposita tecnica, pazientemente studiata da collegi sacerdotali,
traverso a secoli di dominio pacifico, nei penetrali di certi lor templi famosi. Ne abusarono
perfino; ci ch'era dato a redenzione dell'Umanit , ne fecero strumento di privilegio, a
dominazione di casta; n la punizione si far gran tempo aspettare.
***
Fu Cristo a voler esteso il privilegio, a tutti i semplici di cuore. Fu Paolo, che, cuori ancor pi
semplici, volle andarne sopratutto a cercare dove la carnalit era massima. E, tutti

indistintamente, gli Apostoli e i primi Discepoli, non davano semplicemente parole di


edificazione: imponevano anzi le mani, e trasmettevano lo Spirito: uno spirito non gi
immateriale e impercettibile, ma fluidico, ma sentito, ma trasformante anche i fisici lineamenti,
ma raddrizzante le organiche deformit , ma fenomenicamente avvertibile, spesso, anche a tutti
i presenti: credenti che diventassero, miscredenti che rimanessero, o immaginantisi magari
diabolicit . Non sono pochi i testi in cui tutto ci chiarissimamente detto, e poco importa se
nessuno ci abbia ancora pensato: chiarissimamente detto, come si trattasse insomma e su per
gi - per ben pi nobili motivi, su ben pi vasta scala intensiva, e con effetti ben pi duraturi d
quella fenomenologia prodigiosa, a cui attende finalmente, con scientifici intenti, la
metapsichica. Ma non senza motivo aveva ammonito il Maestro, Non vogliate buttar
margarite dinanzi ai porci. Nelle propagande a masse, tanto difficile diventava il passare al
vaglio il buon grano, quanto facile lo era invece stato nelle lunghe discipline dei templi. Infatti,
una prima ardua impresa degli epscopi, fu appunto il metter freno a cotesto anarchico
visionarismo dei troppo semplici, a coteste apocalittiche glossolale da pitonesse incontrollate. E
le trasmissioni dello Spirito furon nuovamente ristrette ad un clero, e, tra questo stesso, a delle
lites direttive: le tante scuole gnostiche, contro cui se la sarebbe presa Plotino, n ci fece loro
gran male; ma contro cui sempre pi se la prese la enorme massa dei - prima ammessi e
adesso esclusi - cristiani medesimi, il che condusse al disastro. Il disastro - sin dove ci
concepibile e possibile sia - per lo Spirito Santo medesimo. Ch, messa ormai su una via
d'inconfessabile diffidenza, drizzava pronte e minacciose orecchie la dirigente Chiesa ufficiale,
ad ogni sussurrata eco di Pneuma, di Spirito, di Paracleto. E senza ufficial tempio n
riconosciuto altare, rimase lo Spirito Santo per secoli e secoli; e quando per primo Abelardo,
verso il 1123 - a futuro, imprevisto rifugio di luce per la sua Eloisa - os intitolare dal "Paraclte"
un semidesertico oratorietto di pace vanamente inseguita, ebbe ancora a difendersi, contro
teologi, con argomenti teologici. E, in Abelardo, sfioramenti molti di eresie molteplici, ma - a
scanso di possibili equivoci un po' pi innanzi - nessun sentore, fosse pur minimo, di tradizioni
iniziatiche. Due secoli ancora dovr per aspettare la stessa ineffabile Trinit , a che una sua
speciale festa sia ufficialmente sancita (1333) da Giovanni XXII (1). Sbanditi intanto dalla
direzione i trasmissori dello Spirito, non eran rimasti - per far Chiesa - che gli accanimenti
dialettici sulle dottrine, e il consolidamento delle gerarchie esteriori: due forze ancora enormi, in
quanto attinte dalla Grecia la prima, e la seconda da Roma. Anche rimasero, a dir vero, i riti:
quasi tutti i pi importanti riti. Ridotti a valori prevalentemente simbolici, ma spieganti, anche
cosi, la vitalit della Chiesa cattolica, di fronte a quelle che, pur appellandosi a una pi astratta
spiritualit , nno sempre pi rinunziato a quelle ultime riconnessioni pratiche, con l'antica
Chiesa Vivente. La quale, dicono, non per mai del tutto; e ne vanno ancora cercando il filo,
traverso alla storia delle cristiane eresie. E se del tutto non per mai, bisogna pur riconoscere
che, per secoli parecchi, dovette vivere piuttosto male: anche esotericamente. Contaminazioni
di tradizioni le pi varie - caldaico-egizie, siro-fenicie, manicheo-mitriache, ellenico-celtiche,
neoplatonico-gnostiche, ebraico-arabiche - fecero si che nessuna manifestazione
eretico-iniziatica risultasse riannodabile a un dato ceppo indiscusso. In quelle a diffusioni
momentaneamente trionfanti (Albigesi), il peso bruto delle masse avide risoffoc l'interna
fiamma spirituale. In altre, potentemente organizzate (i Templari), la conquista del mezzo - la
ricchezza - fece dimenticare la nobilt
dello scopo. Bisogna giungere ai Lulliani, ai
Rosa-Croce,. alla linea degli hermetisti benedettini, alla fiorita mistico-platonica,
pitagorico-cabalistica, alchimistico-terapeutica, in Italia e in Europa, per avere un qualcosa di cui
anche le forme esteriori appaiano meritevoli di riconnessione alle antiche misteriosofie pi pure.
(1) Cfr. ABELARDO e ELOISA, Lettere; Roma, Formggini.1927; pagg. 46-50, e specialmente
pag. 48.
[n.d.u. : Prima Traduzione Italiana dal Testo Latino di Ercole Quadrelli. Prefazione di Antonio
Bruers]
***
E invece, secondo un genialissimo fra i nostri studiosi (2), ecco una insospettata reviviscenza di

esse, anche nella scuola dei Fedeli d'Amore. Insospettata sino ad un certo punto: dimenticata
e negletta, piuttosto, dall'ultima generazione di letterati positivisti; qualcosa di quasi identico fu
anzi gi sostenuto dall'obliato Gabriele Rossetti; qualcosa di molto prossimo, dal Foscolo e dal
Pascoli; e appunto a questi tre dedicato il libro che sar pietra miliare. Qualcosa di
variamente non remoto fu detto, per i romanzi cavallereschi, dall'Aroux: per la Vita Nova, dal
Perez; per il Cavalcanti, dal Salvadori: per l'Acerba dell' Ascolano, dal Crespi: un po' da tutti, per
la Donna del Guinizelli, o per la Beatrice di Dante: assolutamente da tutti, per
l'amorosa madonna Intelligenza
di Dino Gompagni, indiscussa e indiscutibile donna non di carne e non d'ossa. E insospettata
convien dir la cosa sino a un certo punto soltanto, anche per l'esser stato ormai vasto il
consenso dei critici: specialmente quello degli insieme poeti e filologi, i pi competenti, cio,
nella fattispecie (3). Il dissenso, da tutti e soli gli ostili per motivi tutt'altro che critico-storici:
sentimentalismi femminccei, quietovivere da cristallizzati, preoccupazioni pseudoortodossiche,
gelosiucce di scuole e chiesuole. Miserevolissima manifestazione di un po' tutto questo, la
recensione del Giornale storico della Letteratura Italiana (n 271-72). Per un tema d'una siffatta
importanza letterario-filologica e religioso-civile-politica, proprio di l doveva venire una
trattazione pi ampia, un'approvazione o un'opposizione pi documentata; una discriminazione,
insomma, pi diligente. Invece, adunatosi, pare, un concilietto d'illustri redattori, fu affidato al
Bertoni l'incarico di lavarsene le mani. Il quale se la cavava infatti con una paginetta di ti vedo
(cara) e non ti vedo; ma s, come no?, per, chiss , su bazzecolette culminanti
nell'insinuazione che ancidere significhi anche altre cose che uccidere. Le quali altre cose
(asserite nell'Enciclopedia di quel benemerito Scartazzini che, l'italiano, non era insomma
obbligato a saperlo pi che tanto) contraddirebbero addirittura a Dante, nel commento al sonetto
VII della Vita Nova; ma se una il Bertoni ne avesse saputa di suo - e si fosse degnato di dircela ecco ci sarebbe stato, nella sua eiaculazioncella, almeno un protozoo, meritevole
di...microscopio. Certo, non insospettata, la cosa, all'umile (ma non poi tanto) sottoscritto. Il
quale, un quindici anni fa, sospettando che nelle antiche nostre rime il futuro endecasillabo
fosse (e, nella poesia popolare, rimanesse) un variabilissimo verso doppio, or tetra-esatonico ed
or esa-tetratonico - variabile perci dalle 10 sillabe alle 14 - e normallizzato non gi da una
metrica, ma da un pausato ritmo musicale entro cui fosse adagiabile - ne ricercai le prove in un
po' tutti i relativi codici pi antichi; e ve le trovai. Ma che notai strani ritorni di forme o formule da
convenzione segreta: da cos dicibile gergo massonico (1913), stranamente in anticipo. A fianco
dei miei estratti ritmicometrici, notai persino, talvolta, qualche interrogativo in tal senso; ma
credetti la cosa una ristretta singolarit eccezionale, n sospettai possibile ritrovarne la chiave.
Sapevo il gran concetto in cui eran stati tenuti - come savi quelli che i nostri professori ci avevan
ridotti a letterati; ma contro l'esautorazione non protestava neanche il mio cuore: ci che di loro
interessava anche me, era proprio il lor esser anche stati dei talvolta genialissimi perdigiorno; in
armoniose fanfaluche, talvolta anche elevate. - Il pi delle volte, per... - Ma, nella stragrande
maggioranza, ahim... - Come mai tanta gente s'era sobbarcata a tramandarci anche tante cos a occhio e croce scempiaggini?
E la chiave - o la principal chiave - doveva ecco invece ritrovarla il Valli: i pretesi perdigiorno
erano, anche in rima, dei combattenti; e, anche le scempiaggini, erano invece documenti
strategici. Salute ai sedentari poltroni, che n potuto non restarne commossi: alle femminette in
brache e barbe pi o meno tremu1e, che se ne son sentite montar le bizze negli evirati
precordii; ma, da personcine posate, non nno osato portarle in pubblico; un universitario, che
a Firenze - s, dico! - ai suoi (sperabilmente inobbedienti) pupilli, proibisce lettura e discussioni
del libro; ma insomma, forse questo l'unico, disgustoso, mucillaginoso caso del genere;
dell'universitario anzi dimenticato, e non voglio certo pi chiedere, il nome. O che d'altronde a
Firenze ( gi pensato il Filologo) c' forze, neanche, Universit ?
(2) VALLI LUIGI, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore; Roma, Biblioteca di
Filosofia e Scienza, n 10, pagg. 454, in 4, 1928.
(3) Senza far torto a nessuno - e s per informazioni che impressioni mie - mi sia lecito

menzionare, honoris causa, il Mazzoni, il Cesareo, il Panzini, l'Orvieto, il Bruers, e una


maggioranza grande fra i pi valenti dei giovani.
***
Ma che gran porta spalancata oramai, e che nessuno chiuder pi; grande porta oltre cui
balzare - sperabilmente, in folla - i futuri studiosi, sopratutto italiani, dietro a una letteraria
iniziativa finalmente italiana. Tutti quegli antichi canzonieri, da ripubblicare: scrupolosamente
rispettandone anche i ritmi, e nelle redazioni pi antiche. Tutti quegli aggruppamenti da studiarsi
ex novo, non tanto come di rime, quanto come d'intenzioni (4).Tanti oscuri da metter in luce
come uomini di fede e di azione che per un'idea lottavano - e bene o male a rimare
s'industriavano poich questo era il convenuto mezzo di darsi notizie, ammonimenti,
incoraggiamenti - e anche lavate di capo - senza rischiar troppo da presso la scomunica o il
rogo. E un'epoca eroica scopriranno, naturalmente, gli studiosi; poi un'epoca di rilassamento, di
formulario, d'inflazione, di moda; e riprese, ridecadimenti, risurrezioni, scomparse: come in ogni
umano movimento di anime. Tutte intese, le alte gerarchie ecclesiastiche, - alla salvaguardia dei
lor privilegi, delle loro agiatezze, dei loro ozi, s raramente studiosi. Tutto chiuso, il Monachismo,
nell'isolamento suo splendido, e generalmente grasso, e spesso spesso scostumato: vecchio e
durevole bersaglio a tutta la novellistica neolatina, ed, episodicamente, anglosassone. Scarso e
inascoltato il basso clero, povero e ignaro quanto le sue pecorelle. E perfino esiliatosi adesso il
Papa, l in Avignone: n maggiormente curante dell'italico giardino in convulsione, di quanto
occorra a che un pseudo-romano imperatore non vi si stabilisca. Dunque proprio
morta-impietrita la Chiesa? Dunque ancora e ancora vacante,
nella presenza del Figliuol di Dio,
il saggio di Pietro? Ma poich invece immortale la Chiesa, dov' dunque mai tra gli uomini, la
occulta Ecclesia vivente? E poich il Seggio non deve possibilmente vacare pi a lungo, chi
dunque vi insedier un successore legittimo? E chi, nell'Italia contro s stessa armata da citt
a citt , da quartiere a quartiere - da torre a torre, o da palagio a palagio - rimetter pace e
unit ? - L'Aquila riporr sull'altare la Croce, si era gi detto il Valli che si fosse detto Dante (5);
e questo, in sostanza, ridice egli qui che si fossero detto i pi illustri fra i Fedeli d'Amore.
Romano Giure, per la cristiana Speranza. Quindi, serrata di alcuni spiriti eletti, intorno a quanti,
di quel Giure, rivestissero almeno, ancora, una vistosa ed armata parvenza. Gruppo, perci, di
ufficialmente eretici, perch, il papato visibile, lo credevano ormai nulla pi che adulterio. Non si
vede, anzi, donde la legittima imperiale autorit avrebbe tratto il legittimo insediabile, se non dal
senso della legittima Chiesa: quella stessa, cio, dei Fedeli d'Amore. Ne avrebbe fatto parte,
per caso, qualche dignitario ecclesiastico? Ai tempi del Petrarca, certamente s: un cardinale
Colonna; e si estendeva tale Chiesa, quanta ne abbracciarono i petrarcheschi viaggi, dalle
bighellone apparenze ai petrarchisti carissime. Non parrebbe, invece, ai tempi di Dante; n a
Dante poteva risultare (e infatti poi, a dir vero...) niuno pi adatto di s. Sicch la spiegazione
legittima del Cinquecento Dieci e Cinque = DXV , rischia proprio di esser quella che pareva
la pi abnorme: Dantes Xristi Vrtragus (Veltro), o, secondo altri, Vicarius. Spiegazioni
ormai antiche, e, in ogni modo, non del Valli, che si accortamente sempre trattenuto dallo
spingersi a coteste conseguenze particolari. D'altronde, nulla di eterodosso, stavolta, e neanche
quasi di nuovo, per Dante. Se il suo Arrigo VII fosse davvero riuscito a coronarlo e mitrarlo in
terra, come sopra s - sopra al suo stato di laico - lo aveva fatto San Pietro in cielo, e se fra
Roma e Avignone fosser poi corse scomuniche - e il definitivo trionfo storico fosse rimasto a
Roma - un diverso capitolo esteriore, ecco tutto, avrebbe scritto quella ecclesiastica Historia che
ne conosce ben altri.
(4) Cfr. EGIDI FRANCESCO, in La Scuola Superiore, Anno 111, 3-4; pagg. 48-52, in fine. E
segnaliamolo doverosamente, questo filologo - uno - che non stato "al ver timido amico"; non
avuto paura di compromettere la sua seriet .
(5) L'allegoria di Dante, Secondo il Pascoli; Bologna Zanichelli, 1922 - Il segreto della Croce e

dell'Aquila; idem, idem, - La chiave della Divina Commedia; idem, 1926. - Note sul segreto
dantesco...; in Giorn. dant., I serie, XXVI, 4; II, XXVII, 1; III, XXXIII, 3; IV, XXIX, 4. - Per la Croce
e l'Aquila; in Logos, 1924; e in qualche Lectura Dantis.
***
Ma eran tutti di questo parere, i Fedeli d'Amore? Os niun altro di quei laici, sinch laico rimase
- e del solo Folchetto ricordo un'ecclesiastica assunzione, se pur non fu conversione - pensare
altrettanto per s? E come mai il Cavalcanti, iniziatore di Dante, abbandon a un certo punto
la partita, e i due amicissimi divennero, in sostanza, nemici? E, quella parola iniziatore, quanta
estensione aveva di significati concreti? quanto profondamento nella tradizione iniziatica? Un
cui costante cardine in Occidente - dalla alchimia egizio-greca alla arabo-europea - si che tre
siano le umane sostanze psichiche: la lunare-sensitiva, la mercuriale-razionale, la
solare-angelica. Obnubilata e traviata la seconda, dalla prima; avviluppata e generalmente
dimenticata la terza, da entrambe le altre. E iniziazione era ammissione a pratiche di liberazione
della minore e della maggior prigionieria. Tritemiano scioglimento dell'uno in tre, a
ricomposizione del tre in un nuovo uno, dove il predominio sia ormai dell'angelico: del meno
remoto della Deit stessa suprema. Se al di sotto si faccia entrare in cmputo il corpo fisico, e
se, al disopra, una universal Quintessenza; o se anzi si faccia dell'anima lunare e della
mercuriale un'unica psiche, chiaro risulter con quanto varie, e apparentemente contraddittorie
numerazioni, abbian potuto gli Alchimisti complicare un mistero abbastanza semplice. Ma se,
venendo a noi, mi faccio, di tutti cotesti Fedeli citati dal Valli, a ristudiare pazientemente il
linguaggio, non trovo sicuri riflessi di ci, fuorch appunto nel Cavalcanti (p. 34 e 224).
Cosa m'avien, quand'i' le son presente,
ch'i' no la posso a lo 'ntelletto dire:
Veder mi par da la sua labbia uscire
una s bella donna, che la mente
comprender no la pu: ch 'mmantenente
ne nasce un' altra di bellezza nova;
da la qual, par ch' una stella si muova,
e dica: La salute tua apparita .
Si cerchino pure - di questi versi strani quant'altri mai - interpretazioni le pi varie possibili; la
pi immediatamente adesiva sar ormai questa sola: che dal corpo fisico si sprigiona l'anima
lunare, e da questa la mercuriale: da cui eromper ultima l'angelica stella cavalc ntea, molto
analoga all' angelica farfalla di Dante. E moltissimi invero i riflessi di carattere iniziatico,
rintracciabili anche nel sommo nostro Vate: specialmente nel suo Fiore (6), nella Vita Nova, nel
Convivio e in qualcuna delle Epistolae, nonch magari delle Eclogae. Per nessuna sicura
allusione, mai, a qualcuno di quei caratteristici fenomeni concreti, inconfondibilmente saltanti
agli occhi, dove siano anche rarissimi e inattesi, come per esempio nel Don Chisciotte. O,
meglio, uno di essi, s, anche in Dante: ma proprio nel Fiore, e poi mai pi: e riguardante una
cosa subito nota ad ogni primo avviato ai tentativi della Grande Opera. Poi stranissimo, s,
anche il fatto del non esserci quasi stucco nella pitagorica Basilica di Porta Maggiore (7), che
non sia commentabile con qualche verso della Divina Comedia; stupefacentissima la
coincidenza che quasi al centro di questa stia un dantesco ratto alla Ganimede come, nel bel
mezzo del central soffitto di quella, si dianzi, di quel ratto, riscoperto lo stucco. Ma insomma,
qui e quasi ovunque, non altro che riflessi dottrinali: evidentemente attinti da buona fonte, ma
non mai intarsiati d'una qualche concretezza di personali esperienze; simbologie, molte; realt
specifiche, quasi mai nulla. Temperamento enormemente passionale, fin forse a sgomentarsi
perfino lui, degli anche sconcertanti fenomeni, a cui dovette probabilissimamente dar luogo lo
sprigionamento dell'anima lunare, e dei quali potrebb'esser riverbero la men castigata parte del
Fiore. Spirito orgogliosissimo, forse pi ancora s'impazient e irrit d'un troppo lungo durare
d'alternative incessanti; e riput pi savio il rinnegare la Beatrice sua prima, per la filosofica
Donna Gentile. E quando a Beatrice torn, se la era rifoggiata a suo modo: la aveva

ortodossissimamente teologizzata e cattolicizzata, facendo parte per s stesso anche in ci; e


fece indubbiamente cosa personalmente bellissima. Per? Per, ecco:
Guardaci ben! Ben sem, ben sem Beatrice.
Stranissimo verso, che mai pi gli si sarebbe neanche affacciato alla mente per quegli istanti
divini, se qualche dubbio su quella reale identit , non fosse, talvolta, andata turbando anche lui.
Odiosa, poi, quasi stupidamente, la paternale che subito ei si fa rifilare da Lei, se non gli fosse
premuto di giustificarsi e riautenticarsi presso terzi, che non tutti gli vollero ancor credere,
nonostante tutto. Sin dove gli credettero il Boccaccio e il Petrarca? Sui quali due, i non molti
accenni del Valli sono quasi pi impressionanti che gran parte di tutto il resto; ma ben altro
rimane ancora a scavare da entrambi: specialmente dal Filcolo e dal Bucolicon del primo,
nonch dal Secretum e dalle Epistolae del secondo. Fra quelli che intanto a Dante non vollero
credere, fu proprio quell'Ascolano che - rinascituro Bruno? - prefer giungere, per la Donna sua,
al papato del Rogo. Per lui (p. 257), n Dante divinizz mai il suo corpo (mai lo rese albergo e
strumento di liberata anima angelica), n mai fu in Paradiso con quella sua Beatrice; fu, s gi in
inferno e in purgatorio; ma,
fondando li soi pedi - en basso centro,
l lo condusse - la sua fede poca,
e so ch'a noi - non fe' mai ritorno.
Bellssima cosa, che un inferno e un purgatorio iniziatici li abbia percorsi anche un Dante;
bruttissima, che, proprio il paradiso, si riducesse per fede poca a cercarselo altrove. Ma, se cos
, cosa farci? Nulla da vantarsene pi del giusto, e nulla da rammaricarsene pi del dovere;
verit da indagarsi con precisa freddezza obiettiva, senza preconcetti di sorta. E, senza
preconcetti di sorta, dimostratissima riesce la risollevata e innovata tesi che tutti in genere i
Fedeli d'Amore fossero dunque una segreta fratellanza filosofico-religioso-politica: a basi
certamente mistiche, non per sempre n ovunque iniziatiche. Era semplicemente la Tradizione
Iniziatica, ad attingere, anche tra loro, i pi promettenti per acceso cuore, saldi nervi e mentale
equilibrio. Chi avrebbe mai detto, che, dinanzi al proteiforme Guardiano della Soglia,
indietreggerebbe un Dante, dove il Cavalcanti era invece passato? Ma neanche questi
precisamenti interessano ancora il Valli. I cui rammodamenti del movimento, alla mistica
persiana, non mi sembrano a proposito, che per le esteriorit di dettaglio. Ma neanche
strettamente a proposito mi sembrano i raccostamenti che un dotto storico ecclesiastico
avrebbe piuttosto voluti, con Gioachino da Fiore. Fiore, s, infatti, anche lui; e, di spirito
profetico dotato. Ma sembra che, per quei Gioachimiti, fosse il monaco puro e semplice a
dover prendere una sia pur ascetica - ma completa, assoluta, esclusiva - direzione dell'Umanit
, in tutti quanti i poteri: dal papale all'imperiale, e dal dottrinale all'economico. Non bastano
dunque coincidenze di qualche terminologia, e nemmeno comunanze di qualche generico
programma a cui accenneremo da ultimo. I Fedeli d'Amore erano, credo, tutti un po' troppo gai,
per sognarsi una universale malinconia di quel genere, tra le accese lor rose e i variopinti lor
fiori, i lor verdi lauri ed i freschi lor mirti: magari selvaggi talvolta, ma non lungi, mai - non solo in
Poliziani, ma neanche in Marsilii Ficini - da chiare acque e da misteriali fontane. E il pi
personale, e pi meritorio sforzo filologico, del Valli? Quello di un ottimo metodo statistico
induttivo: cercare quale senso, per certe singole ritornanti parole soddisfacesse non in questo o
quel passo, ma in tutto un blocco di estratti dagli autori pi vari. E, per esempio, cos trovato
che se per Amore di Madonna s'intenda quello della Sapienza Santa, tutto ci che pareva s
spesso metaforico e artificioso, freddo ed enfatico, diventa appropriato e naturale, caldo e
commosso. Ovvio, d'altronde, che Amore e Madonna significassero anche, talvolta, la stessa
segreta fratellanza, o locale o totale. Che, oltre alla morte di errore e peccato con la meretrice
chiesa dirigente, ci fosse in quelle rime una morte mistica: quella che dagli antichi Misteri pass
anche in Paolo (8) e in Agostino, e via via in altri ed in altri, sino a Riccardo da San Vttore:
quella che rinascita in excessu mentis, e principio d'una superior vita; morte di sensitiva e
razional Rachele, per apparizione d'un'angelica Beatrice intuitivi-unitiva; niuna meraviglia pi, se

Dante non ne voglia parlare (Vita Nova, XXVIII) anche perch converrebbe essere, me,
laudatore di me medesimo . Che le Donne aventi intelletto d'Amore non erano, dunque, che gli
stessi occulti condiscepoli della Sapienza Santa; non consta infatti che le vere e proprie donne
di allora, avessero, generalmente, maggior intelletto d'Amore, che poco prima o poco dopo di
quei lor strani Fedeli. E cos via, per tante e tante interpretazioni novelle, sino a quella che il
piangere significasse costrizione a simulare; che saluto alludesse a promozione di grado; che
pietra sasso, marmo fosse la Chiesa, promiscuamente or corrotta ed or santa, e spesso
imprigionante e imprigionata come in sepolcro; donde una luce quasi sempre convincente sulle
tante rime or petrose, or antipetrose, ed ora insieme l'una cosa con l'altra.
(6) D'accordo col Valli - e con egregi assai - in cotesta attribuzione, non posso consentire con
loro per la cronologia. Se non giovanilissima, fu certo, il Fiore. primissima opera un po' vasta
della futura gran Musa; opera di quando il futuro creatore d'una lingua italiana, si era
semplicemente assunta, anche lui, l'impresa di nobilitare con forme d'una lingua illustre,- col
Francese - il suo dialetto fiorentino: come, per il suo dialetto bolognese, aveva fatto il Guinizelli.
Ma, per constatar questo, bisogna tenersi al testo del Fiore cos com' nel manoscritto; e, per il
Guinizelli, alle redazioni pi antiche: non gi alle man mano sempre pi toscanizzate e
italianizzate, dagli stessi successori immediati.
(7) Cfr. CARCOPINO JEROME, La basilique pythagoricienne de la Porte-Majeure; Paris, 1926.
Il Carcopino non per pensato a richiami danteschi.
(8) Cfr. testo e rimandi di GUIGNEBERT CH. Quelques remarques sur... le Mystre paulinien
(Rev. d'hist. et de philos. relig.; sept-oct. 1928). Ma ralisant la vrit dans d'Amour (p. 424)
[- ??? (IV, IS) -] sono proprio espressioni da prendersi in tutta la forza della felicissima
traduzione novella, se si voglia penetrare anche il recondito legame fra Sapienza e amore in
qualsiasi genere di Fedeli d'Amore. Fra i rimandi. cfr. specialmente MACCHIORO VITTORIO,
Orfismo e Paolinismo; Montevarchi, Cultura Moderna, 1922; pp. 311.
***
Quali le resistenze ancor possibili? Quelle dei competenti prosuntuosi e pigri: i quali si credono
sapientissimi essi soli, e suppongono possibile che un autore di nuova tesi non sia passato egli
stesso traverso alle difficolt, ai dubbi, alle obiezioni che subito si presentano a chiunque, su
non controllate genericit , o in isolati dettagli. E poi quelle dei prima di tutto esteti - e cio poi
sensuali: quali pi, quali meno - che mal sopportano dedicate ad astrazioni, certe soavi
musiche, come "Tanto gentile"; o certe calde scene, come "Guido, vorrei"; o certe realistiche
irruenze, come "Cos nel mio parlar" (pp. 351-55). E infatti anch'io avrei talvolta voluto escludere
dall'allegoricit, divampamenti e fremenze d'una potenza siffatta. Ma chi vieta, anzitutto, che
nell'allegoria complessiva siano introdotti episodici riverberi di vita reale e realistica?
Non si fanno, anche oggi, opere di tutta invenzione, materiate, qua e l, di vita vissuta e
osservata? E che ne sa la moderna mentalit nostra - scientifica e scettica - delle gamme di
carit e di odio, in medievali passioni di tutt'insieme fede-pensiero-politica? O chi negherebbe,
a chi realissimo vedr un suo volo su Gerione, la capacit di rappresentarsi nemica viva e
presente, una odiatissirna casta minacemente incombente ovunque e da ovunque? - E poi, non
vedete?
lo mi vendicherei di pi di mille .
O chi era mai dunque
questa scherana micidiale e latra ?
questa traditrice di pi che mille amanti? una qualche vecchia sgualdrina? E infatti poi, s:
meretrice e omicida, man mano pi e pi, da ormai un millennio: da Ahi, Costantin. E alle
osservazioni, almeno io, non seppi pi che rispondere. Neanche al Valli invece riuscito di
avere elementi sufficienti ad una soluzione defmitiva , per quell'enigma forte delle "Tre

donne intorno al cor" (395-65). Quante volte stancatavi sopra, anch'io, la mia multisiziente
curiosit ! E, altrettante volte, riconosciuto infrangibile quel superbo divieto:
Canzone, a' panni tuoi non ponga uom mano.
E mano dovrebbe infatti, adesso adesso, avercela posta un qualche mio eccelso buon Angelo,
poich semplice, aderentissima, unica, la spiegazione che mi qui balenata inattesa. La
eccelsa fra le eccelse canzoni dantesche, non che una pi sublime trasposizione della favola
dei Tre anelli. Sorella a quella ormai onnipresente Sapienza che madre ad Amore, Drittura
cio la Legge Mosaica, direttamente data da Dio. Su mistico fonte di mistico Nilo, gener essa
poi la Religione Cristiana, che procre, per riflesso, la Metafisica Musulmana. specificato
cos, come ai tempi di Dante lo avrebbe fatto ogni uomo di pensiero; e non mi opporr n
consentir a chi, specificando pi ancora, volesse pensare ai tre contenuti esoterici:
precabalistico, gnostico, alchimico. Ch tali cose - indistintamente tutte - non mi sembrano che
transitorie maschere della Tradizione Iniziatica, essenzialmente esperienza dapprima e
conoscenza dappoi; poi, ancora una volta, non credo che, neanche al puro e semplice
unionismo esteriore, si sia mantenuto fedele il maturo Dante definitivissimo. Ma, che
l'identificazione di Drittura sia indubbia, risulta anche da quello strano contegno di Amore: pi
interessantesi, persino lui, alle due altre, e, con lei, pietoso, s, ma anche fello, da quando per
la rotta gonna (la pi sbrindellata lei fra le tre, e la pi lontana, per tante ragioni, dalla terza),
la vide in parte che il tacere bello.
Fellonera che pareva insomma un po' trivialuccia, e che diventa semplicemente obiettiva e
realistica, in quanto allusiva alla circoncisione. E, identificata l'una, seguono spontaneamente le
altre. E poich i tre grandi aggregati spirituali - che, figli d'uno stesso Dio, avrebber dovuto esser
uno - erano invece nientemeno che ostili, non era davvero possibile pi di cos, udire al mondo,
... nel parlar divino, consolarsi e dolersi.
cos alti dispersi.
Ed eran dunque le tre chiese, che anche i Fedeli d'Amore speravano conciliabili in unica
sapienzial Chiesa d'Amore. Non forse, alla corte del lor Federico, se ne eran date superior
convegno le tre civilt ? E anche frate Elia vi si era un d rifugiato. Onde, qui s, potevano - in
questo programma pratico - veramente allearsi e confluire i pi vari indirizzi: a tendenze sia
eretiche che ortodosse, a programmi s ascetici che attivi, a riti tanto greci quanto latini, a
organizzazioni vuoi monacali o vuoi laiche, e, forse primi fra tutti, i francescani in genere e i
gioachimiti in ispecie - donde, pi addietro, un inciso non previsto nella mia prima stesura -; ma,
quasi al centro di tutti non tanto per intima vita specifica, quanto per episodico programma di
occasionale beneficit anche, s, la Tradizione Iniziatica. Niente bisogno di giungere al Pico, al
Reuklin, al Kunrath; basta gi allora, per tutti, Raimondo Lullo - cotesto infaticabile e
immarcescibile atleta di tante e s varie battaglie - il quale, proprio in quegli anni e per quella
unione (9), percorreva e moveva terre e mari; ma non riusciva a smovere n un papa n un
altro n ancora un altro, sinch, per il suo unicattolico sogno, trovava, ottantatreenne, lo sfidato
e risfidato martirio.
Tutte cose, mi pare, che definitivamente troncano la testa al toro, se pur qualche vrtebra
cervicale potesse ancora resistere, in cotesto sfiancatello toro della opposizione antivalliana.
Sfiancato che non fosse, pessime ausiliarie sarebbero alla battaglia, certe iniziatiche recensioni
come quella, fresca fresca, di Voile d'Isis. Nella quale, sbito Ren Gunon riconosce al
volume del Valli une documentation formidable (109), ma, non meno subito, al Valli
rimprovera de n'avoir pas la mentalit initiatique qui convient (110). Cosa per cui, tanti errori
avrebbe il Valli commessi: - 1 non essersi accorto che il guenoniano Esotrisme de Dante (io
non l' letto ancora) una portata proprement initiatique (111); - 2 aver creduto il Rossetti
appartenente a quei Rosa-Croce che erano invece assai prima spariti dal mondo... occidentale;
proprio cos: du monde occidental (111). Come se gli aurei Anelli Iniziatici non fasciassero

ormai pi tutta quanta la Terra, magari allargandosi a tutto il cosmo planetario-solare: per chi,
anche cos, se ne contenti; - 3 non aver capito i veri significati di tradizionale (per quella che fra
noi oggi la tradizionale interpretazione dantesca), n di cuore in genere e di cuor gentile in
specie (110-11); - 4 aver creduto autori autorevoli un Mead, un Saunier, un Taxil (cos in
fascio) e aver citato di seconda mano un segreto Recueil non potuto citare di prima (111-12); 5 aver, in conclusione, mescolato l' sotrique et l' exotrique (112), confuso i punti di vista
initiatique e mystique, e assimilato le cose iniziatiche une doctrine religieuse (113).
Fortunatamente il Gunon passa subito ad asserire che une tradition vraiment initiatique ne
peut pas etre htrodoxe. Consolantissimo evento. Il Gunon si riconferma, cio, di quei tali rispettabilissimi - occultisti spiccatamente francesi, che non contenti di accaparrarsi un vero
iniziatismo propio, fabbricano anche un vero ortodossismo agli ortodossi, per poi trionfalmente
concluderne le ortodossie di cui sopra. Ed inutile perseguire l'egregio critico su queste vie,
dietro ad appunti, appuntucci e appunterelli, fatti con pur evidenti intenzioni di simpatia. Il Valli
non bisogno che glie lo dica io, di non lasciarsi impressionare da coteste lezioncelle
importune. Continui, in una seconda edizione, cio che gli benissimo riuscito nella prima.
Riduca magari, ancor pi, la pur gi discreta e sempre dignitosa polemica, e poi faccia pur
sempre e soltanto opera di critico puro, di storico puro, di puro esegeta. Fin dove arrivassero
gl'intenti eretici, e donde venissero le riconnessioni iniziatiche, le son cose che debbono
sbocciare, man mano, da s. E quando un K, che fra altre iniziali di medaglia voleva
probabilissimamente dire Katholicus, glie lo si voglia far leggere Kadosch (119), si riservi pure il
diritto di chiedere, non dico il diploma originale, ma una qualsiasi ragione che elimini gli
anacronismi. Il che non vuole affatto dire che il Gunon non sia un iniziato e magari un Adepto ancora una confusione rimproverata (112) - ma ch'egli potrebbe semplicemente far a meno di
cogliere ogni occasione per riasserire che, iniziato, egli lo , ma che gli altri occidentali in
genere, e certi suoi nemici in ispecie - a scanso di equivoci, non mi consta affatto che mi siano
punto amici - h, poveretti! quelli, no, non lo sono; sicch, pour une fois o una volta tanto,
contro cotesti odiati nognostiques, perfino la critique (quella profana) a raison (117, nota).
Non si potrebbe, tra noi fuori-soglia, sulla soglia, a mezza soglia, smetterla una buona volta di
guardarsi in cagnesco? e credere, invece, che anche nel mondo iniziatico ci sia posto per tutte
le buone volont ? che tutte le strade conducono proverbialmente qui a Roma? - Roma e Amor,
s (113-14), ma anche (Vergilius) Maro, e anche Orma (10) -? E badare ognuno, per conto
proprio, a fare quei tanti passi innanzi che non guastano mai - n mai sono troppi - pur nessuno.
E agli altri, augurare che magari ci sorpassino - e cos pur fosse che molti ci sorpassassero per il gran meglio di loro, e di tutti.
Con sollievo si pu quindi ripensare a un'analoga recensione ormai vecchia e con indirizzi
magari affini, ma di tutt'altro tono (11). Italiana, questa, e rispecchiante una iniziatica cultura
amplissima, occidentalissima, e senza toni maggiori su noterelle minori. Basata talvolta su quei
dottrinali raffronti a cui mi duole di non poter dare altrettanta importanza, ma anche insistente,
pi spesso, su utili dettagli, quasi sempre documentabili.
(9) Cfr. Dr. LUCIEN - GRAUX, Le Docteur lllumin; Paris, Fayard, 1927; un ben informato e
complessivamente assai cauto lavoro,
(10) Un ORMA in cui son certo che "O" non vuoi dire n Occidente n Oriente - n grande n
piccolo - ma per la cui "R" un vago sospetto di riferibilit a quei Rosa-Croce che il Gunon
crede rifugiati in ...oriente.
(11) PIETRO NEGRI, Il linguaggio segreto..; nella rivista romana UR, anno II (1928), fasc. 3-4,
pp. 71-80.

4) A cura di P. Negri

Luigi Valli e il Gruppo di Ur


Luigi Valli fu un attento lettore della rivista Ur. Nel I vol. della sua opera principale "Il Linguaggio
Segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", cap. 9, cita ad es. il saggio "Un codice alchemico
italiano" di Pietro Negri (Ur I/9). Il saggio che qui riportiamo, intitolato "Testimonianze di
Studiosi delle Tradizioni", si trova invece nel II vol. della medesima opera. In esso, oltre agli
interventi sulla sua opera di Pietro Negri, Ercole Quadrelli e Ren Guenon, sono considerati
anche quelli di Antonio Bruers e Sebastiano Arturo Luciani.
Antonio Bruers (Bologna 1887-Roma 1957), segretario di Gabriele d'Annunzio, ricopr le
cariche di vicecancelliere dell'Accademia d'Italia e poi dell'Accademia dei Lincei. Fu redattore
capo dal 1908 e poi direttore (1931-1939) della rivista di ricerca psichica "Luce e Ombra", ove
conobbe, tra gli altri, Emilio Servadio. Oltre a molte opere su D'Annunzio e sulla letteratura
italiana e straniera, scrisse opere su Vico, Croce, Beethoven, Mozart, Vivaldi. Si interess in
particolare a Tommaso Campanella: infatti il curatore dell'opera "Del senso delle cose e della
magia", Laterza 1925 e autore dei saggi "Per il monumento a Tommaso Campanella in Stilo"
Roma S.A.P.I. 1922 e "Roma nel pensiero di Tommaso Campanella", Istituto di studi romani
1940. Frequent Ercole Quadrelli. Fece parte del Gruppo dei Romanisti, una vera comunit di
"Vestali" della memoria dell'Urbe, che ne ravviva il fuoco dal 1940 a tutt'oggi. Tra le altre
iniziative, consuetudine che durante la cerimonia che si svolge il 21 Aprile in Campidoglio per
la celebrazione del Natale di Roma, ricorra la presentazione al Sindaco delle prima copia
dell'annuario la "Strenna dei Romanisti", un volume, ogni anno nuovo, di scritti su Roma, relativi
alla sua storia, alla sua arte, ai suoi personaggi.
Rispondendo a Vittorio Fincati (messaggio n 190 di questo forum), diremo che a questo
"Natale", che cade nel segno dell'ariete, e non al Natale a noi abituale, che Ekatlos si riferisce
nel saggio apparso nel 1929 su Krur.
Sebastiano Arturo Luciani (Acquaviva 1884-1959), figlio del fisico Michele Luciani, visse
soprattutto a Roma, si occup di arte, letteratura, filosofia, scrivendo alcune centinaia tra libri e
articoli pubblicati in quotidiani e riviste. E' probabilmente da considerarsi il primo critico italiano
del cinema. Fu tra i firmatari di uno dei manifesti del futurismo "Le sintesi visive della musica"
(1924). Esperto musicologo suscit particolare interesse con la sua nota "Una nuova
interpretazione del fenomeno degli armonici" del 1913, nella quale per la prima volta la
assonanza considerata come base naturale di tutta l 'armonia e della tecnica musicale antica
e moderna (A. De Angelis). Studi e pratic la falconeria, producendo scritti come "Dante
falconiere", "Il trattato di falconeria dell 'imperatore Federico II", "La caccia col falcone". Scrisse
su Dante Alighieri anche "Leggere Dante" e "Saggi sulla Divina Commedia".

4a) LUIGI

VALLI

TESTIMONIANZE DI STUDIOSI DELLE TRADIZIONI


Molte altre testimonianze mi sono venute naturalmente da coloro che, pur occupandosi di
letteratura, non hanno disprezzato sistematicamente, come si usa nelle scuole, gli strati pi
profondi del pensiero che molte volte la letteratura nasconde.
Pongo primo tra questi Antonio Bruers (Dolce stil nuovo, Il Lavoro d'Italia, 30 dicembre 1927).

Egli tra coloro che hanno dato alla mia tesi l'appoggio di una approvazione molto calda e
molto autorevole. Dir di pi, egli ricorda nel suo articolo di avere augurato dopo la
pubblicazione del mio libro Il segreto della Croce e dell'Aquila nella Divina Commedia che io
approfondissi le opere rossettiane che egli, a differenza della enorme maggioranza dei nostri
letterati, aveva lette. Devo in realt a lui l'essermi accostato al Rossetti e mi caro
riconfermargli qui la mia gratitudine per il suo prezioso consiglio. Il Bruers espone un dubbio
sulla eccessivit della mia tesi simbolica e scrive: Il Valli, afferrato e quasi rapito dalla sua
mirabile scoperta, tenderebbe ad escludere, in una misura che mi sembra eccessiva, i valori
poetici dei Fedeli d'Amore., valori che a mio parere, si identificano nelle figurazioni femminili e
naturali . Riconosco volentieri che il problema del quanto di donna vera o meglio di vere
impressioni amorose e terrene sia rimasto nella poesia dei Fedeli d'Amore, problema non
facile a risolversi con precisione assoluta. Secondo me (come secondo l Perez) quando Dante
nella Vita Nuova dice che i poeti devono rimare su materia amorosa, questa "materia"
contrapposta alla "forma" nel senso scolastico. La materia amorosa (cio i ricordi, le
impressioni, le parole dell'amore) costituivano, diremmo noi, il materiale al quale l'idea iniziatica
dava forma, col quale cio costruiva la vera poesia. Ora io non ho mai negato (Il Linguaggio
Segreto, pag. 417 e seg.) che questa gente sia stata innamorata, il che vuol dire che la materia
amorosa l'abbia tratta da esperienza diretta e personale oltre che da ricordi letterari e da
imitazione di altri. Ma quando era esperienza personale e quando ricordo letterario e
imitazione? Difficile dirlo ed cosa da sentire caso per caso. E certo che Dante nel suo sonetto
Guido vorrei esprimeva un'idea segreta (come dimostrano la risposta di Guido e il momento
in cui i sonetti sono scambiati) ma ugualmente certo che l'idea gli venuta da un vero sospiro
che deve aver fatto un giorno sognando una passeggiata in barca con amici e donne gentili,
come, per qnanto abbia adombrato il saluto rituale (cantato dagli altri poeti del dolce sti1 nuovo
e da essi soli) nel sonetto Tanto gentile , il sonetto nato, come io ho gi scritto, da un'
impressione vera di adorazione per una bella donna che passava pel via tra l'ammirazione
commossa di tutti.
Io non escludo dunque la presenza di donne vere e non escludo che in qualche caso si sia
avuto lo spunto da ispirazioni realistiche immediate, impressioni d'amore che poi la convenzione
mistica o il pensiero segreto inform di s. Ma non solo l'ispirazione diretta sub l'elaborazione
del pensiero convenzionale, ma per la maggior parte dei casi la presenza di questa ispirazione
diretta non appare menomamente e l'evidente convenzionalismo testimonia che si elaboravano
elementi letterari.
Un altro dei pochi che non arrivano completamente nuovi a questo argomento S. A. Luciani
(Dolce stil nuovo, Tribuna, 22 febbraio 1928). La conoscenza che egli ha dei precedenti gli fa
trovare naturalmente la mia tesi molto ovvia. Dopo riassunte le mie idee egli scrive: "Da quanto
si appena accennato si pu facilmente argomentare quale importanza oltre che letteraria,
filosofica e storica abbia il 'Linguaggio' del Valli, libro geniale e suggestivo, che pu essere
l'inizio di una nuova e pi esatta valutazione di tutta l'arte del Medio Evo". Egli fa due riserve,
l'una sulla possibilit . che la Pietra sia una donna reale (ma di questo non d nessun
argomento), l'altra sulla possibilit che ci possano essere poesie originariamente erotiche,
ridotte poi a significato mistico, cosa che io sono lontano dal negare in modo assoluto: per il
famoso sonetto Tanto gentile la mia tesi molto simile alla sua. Importante e lucidissima mi
sembra la formula riassuntiva del Luciani , secondo la quale si tratta qui come in tutta l'arte
medioevale della incarnazione di una idea, non della idealizzazione di una realt. Egli conclude
accennando ad eventuali attenuazioni della mia tesi: Il Valli ha dato in realt un colpo di
timone troppo brusco alla nave della critica ufficiale, perch essa non dovesse sbandarsi.
cosa' inevitabile tuttavia che questa nave muti rotta una buona volta .
Pietro Negri ('Ur' Marzo 1928) un profondo conoscitore di tradizioni. Considera il mio libro
come uno spezzone di gelatina. gettato in mezzo alle solite idee della scuola e mi indica, come
argomentazioni nuove, alcuni ricollegamenti abbastanza importanti per quanto poco noti, di fatti
e di idee del mondo iniziatico. Certo importantissimo, a proposito del ricollegamento posto dal
Rossetti tra l'amor platonico del Medioevo e gli antichi nsteri, il fatto che la Rosa sia anche nel
libro di edificazione iniziatica di Apuleio quella che deve salvare l'uomo imbestiato e che sia
appunto la mta di tutta la sua avventurosa ricerca, la quale rappresenta indiscutibilmente la

rigenerazione spirituale coronata dalla iniziazione. Il Negri ritiene con me che il Rossetti sia
stato condotto alla sua interpretazione dalla conoscenza di antiche tradizioni. Il Mistero
dell'amor platolonico del Rossetti non dedicato come gli par di ricordare a un B. L. che
sarebbe Bulwer Lytton, erudito di esolerismo, bens a un S... K. . . Questi Seymour Kirkup che
era per anche lui un erudito di esoterlsmo (I). Ritengo notevolmente importanti anche i molti
raffronti che egli fa del simbolismo dei Fedeli d'Amore con quello che era diffuso in altri
movimenti iniziatici e specialmente nell'alchimia. Torner io stesso sulla importanza del raffronto
tra la figura del 'rebis' alchemico da lui riesumata e la figura moglier e marito di Francesco
da Barberino.
(I) Dall'epistolario ancora inedito del Rossetti si pu rilevare che mentre Hookam Freer che
aveva dato il danaro per la stampa del 'Mistero dell'Amor Platonico' ne chiese poi la
distruzione, il Rossetti chiedeva al Seymour Kirkup che evitasse questo disastro. Per alcuni anni
il libro fu tenuto in casa Rossetti e non diffuso. Morti il Rossetti e i due suoi amici, altri persuase
la vedova Rossetti a distruggerlo.
Ercole Quadrelli (Progresso Religioso, marzo 1929) non solo ha accolto con grande fervore la
mia interpretazione, ma ha vivacemente polemizzato contro qualcuno dei miei oppositori della
tradizione scolastica e col Guenon al quale rimprovera di fabbricare una ortodossia iniziatica
artificiosa per suo conto, ma io desidero soprattutto di fissare un emendamento che egli ha
proposto a una mia interpretazione e che mi sembra ottimo.
Cecco d'Ascoli nel suo sonetto a Dante scrive:
Usa cautela e spesso la ricapita,
e sappiti mostrar Francesco e Rodico.
Va, come ti convien, diritto e clodico.
Capiterai, come quei che ben capita. . .
E evidente che qui il consiglio di usare per prudenza un linguaggio o una condotta doppia.
Posta la lotta tra i 'franceschi' (di Filippo il Bello) ed i Templari avevo immaginato che quel
Rodico potesse alludere a Rodi invece della vicina Cipro, sede dei Templari. Il Quadrelli mi fa
osservare che Rodico potrebbe benissimo ricollegarsi invece. a 'rdon' (Rosa) e quindi
significare semplicemente 'seguace della Rosa'. L'interpretazione molto pi chiara e pi
ragionevole della mia e merita senz'altro di sostituirla.
R. Guenon, studioso ben noto delle tradizioni iniziatiche, ha dedicato al mio libro un lungo
articolo nella rivista Le Voile d'Isis (fvrier 1929). Egli l'autore del libretto 'L'esoterismo di
dante' (Paris 1925). E' naturale che egli consenta con me perch da lungo tempo le tradizioni
iniziatiche avevano rivendicato a s Dante e i Fedeli d'Amore, io anzi ho espresso il dubbio che
il Rossetti, che ebbe le prime idee sul contenuto segreto dell'opera di Dante a Malta, dove era
entrato in rapporto con un gruppo di Rosa-Croce, abbia avuto da loro notizia di questi contenuti
segreti che poi ricerc pi o meno disordinatamente per via critica. Il Guenon trova che la mia
argomentazione basata su testi precisi che ne costituiscono tutto il valore e riconoscendo la
solidit del mio metodo e l'importanza della mia dimostrazione, mi espone cortesemente alcune
obbiezioni e alcune conferme. Le obbiezioni si concretano in questo, che io parlo un linguaggio
inesatto quando mi riferisco alle tradizioni iniziatiche perch non le conosco.
E' verissimo. Non ho mai avuto contatti con tradizioni iniziatiche di nessun genere. La mia
formazione spirituale e mentale nettamente critica e finch il Pascoli e il Rossetti non mi
hanno aperto gli occhi, la tradizione scolastica era riuscita a impormi le sue interpretazioni. Ma
debbo dichiarare che io insisto nel tenermi al mio metodo critico e storico. La mia frase 'far la
storia per la storia' che al Guenon dispiace, semplicemente l'insegna di un metodo critico
positivo e il fatto che i grandi spiriti del Medioevo dei quali io mi occupo agissero diversamente,
come egli mi ricorda, non mi tange appunto perch essi erano uomini del Medioevo e io sono un
uomo del secolo xx.
Pu anche darsi, come egli dice, che il Rossetti non possa essere stato Rosa-Croce "perch i
veri Rosa-Croce erano spariti dal mondo occidentale assai prima ", ma ognuno comprende che

questi problemi interni delle tradizioni iniziatiche, chi siano i Rosa-Croce veri e chi i falsi,
rappresentano per me problemi secondari e quasi insolubili. Riconosco perfettamente che alla
chiarificazione di tutto il problema che io ho posto sar utilissimo il concorso di coloro che
seguono quelle tradizioni; per se io prima di citare uno o un altro storico di tradizioni occulte
dovessi aspettare da non so quale autorit la lista degli storici accettati e non accettati,
ortodossi e non orlodossi, credo che il mio lavoro non potrebbe mai andare avanti. So di certo
che c' della gente che si d il titolo di Rosa-Croce anche oggi. Anche chi sa pochissimo degli
ambienti iniziatici sa che in essi ogni gruppo si attribuisce il titolo di ortodosso e di erede
legittimo vero ed unico dell'antichissima tradizione. Ecco perch non ci troviamo d'accordo
sull'uso della stessa parola ortodosso, che per me naturalmente significa la dottrina della Chiesa
di Roma e per il Guenon significa altra cosa. Sono quelle "mprises que les profanes manquent
rarement de commettre" come egli dice ed io riconosco che, essendo profano, parlo
evidentemente un linguaggio diverso dal suo; ma dove non posso consentire l dov'egli dice
che io faccio una confusione tra punto di vista mistico, e punto di vista 'iniziatico'. Non so da
quali mie parole possa essere sorto questo equivoco. La confusione sarebbe stata certo grave,
perch tutti sanno quanto misticismo niente affatto iniziatico abbia pervaso il Cristianesimo e il
Cattolicismo.
Ma il Guenon accenna a molti fatti che possono affiancare la mia argomentazione, alcuni dei
quali non privi d'importanza, per esempio quello che non soltanto nel titolo di Rosa Mystica ma
anche sotto altri aspetti la Vergine stata avvicinata alla figura della Sapienza e con essa
confusa. Altra nota importante: a proposito della terza novella del Boccaccio nella quale
Melchissedec afferma con la parabola dei tre anelli che tra Giudaismo, Cristianesimo e
Islamismo 'nessuno conosce quale sia la vera fede', egli mi dice che secondo la tradizione
iniziatica Melchissedec sarebbe appunto il rappresentante della tradizione unica nascosta sotto
tutte queste forme esteriori. Mi ricorda, a proposito dei probabili rapporti fra i Fedeli d'Amore e i
Templari, che il grido di guerra dei Templari era 'Vive Dieu Saint Amour!'.
Naturalmente non posso che consentire col Guenon quando egli accenna ai moltissimi punti
della mia trattazione che avrebbero bisogno di ben altro sviluppo.
Concludo. L'incontro delle mie constatazioni con quelle di qualche tradizione iniziatica incontro
di due ordini di pensieri che vengono da vie diverse, con diversi intenti, con diversissima
valutazione forse dei fatti storici che si hanno sott'occhio. Mi compiaccio delle concordanze sui
fatti, mi spiego le discrepanze sui termini e sui giudizi, sono ben lieto di apprendere dati di fatto
nuovi, continuo nel mio metodo e nel mio intento che puramente storico. Cosi quando il
Guenon, accennando anche alla mia scoperta delle simmetrie della Croce e dell' Aquila e a
questo venire alla luce del segreto di Dante dopo sei secoli, dice che questo accaduto "parce
qu'il tait prvu que le secret devait etre gard pendant six sicles (le Naros chalden)", io per
mio conto continuo a credere che la cosa si vada chiarendo oggi soltanto perch oggi l'abbiamo
studiata senza preconcetti, con molto pi materiale a disposizione e con buon metodo.

5) Per Una Determinazione Del Significato Anagogico

Tullio Quasimodo: Ritengo che uno dei nodi da sciogliere, riguardo alla dottrina dei Fedeli
d'Amore, decidere a che cosa si riferisca esattamente il significato anagogico e perci
iniziatico delle loro opere. Mi sembra infatti che i vari studiosi, riguardo a questo pi alto livello di
significato (e perci non considerando altri significati di livello pi basso come ad es. il
significato etico-politico), abbiano sostanzialmente suggerito le seguenti soluzioni:
a) il linguaggio "amoroso" dei Fedeli d'Amore nasconde delle pratiche esoteriche genericamente

concepite e perci non necessariamente basate sull'uso iniziatico dell'amore.


b) il linguaggio "amoroso" indica proprio l'uso iniziatico dell'amore, ma inteso quale "amor
platonico", cio senza contatto fisico. Per intenderci si tratterebbe di pratiche analoghe a quelle
indicate nel primo dei due saggi di Abraxa, dedicati alle "operazioni a due vasi".
c) il linguaggio amoroso indica l'uso iniziatico dell'amore richiedente il contatto fisico, come
avviene per le pratiche del secondo saggio di Abraxa.
d) il linguaggio amoroso ha pi significati iniziatici tra quelli citati, ad es. b) e c) o addirittura a),
b) e c).
EA: Penso non vi sia alcuna difficolt ad ammettere tutti e tre i significati anagogici
suggeriti (cio la soluzione d=a+b+c). Riguardo al primo, si pu notare che la pratica esoterica
ha degli aspetti comuni, qualunque sia la metodologia adoperata, aspetti che perci si ritrovano
sempre in qualunque scritto esoterico. Tuttavia la scelta di un linguaggio amoroso come gergo
non pu essere casuale. Infatti altri linguaggi tradizionalmente usati (e perci collaudati)
nell'esprimere contenuti esoterici erano a disposizione, a es. il linguaggio epico e mitologico.
Perci l'uso del linguaggio amoroso si spiega con la necessit di utilizzare (pena un'eccessiva
vaghezza di significato) espressioni non troppo diverse dalla metodologia effettivamente
utilizzata. Riguardo a quest'ultima, tutte le tradizioni esoteriche indicano che, dal punto di vista
dell'esperienza interiore, non vi sostanziale differenza tra le pratiche senza o con contatto
fisico, cos che i testi relativi (non solo quelli dei Fedeli d'Amore) sono applicabili ad entrambe.
Tuttavia, dato il periodo storico (dominato dal cattolicesimo exoterico e sessuofobico) e le
vicissitudini politiche alle quali furono soggetti diversi rappresentanti di questa corrente (a
cominciare da Dante), reputo non facili pratiche sistematiche con contatto fisico e perci ritengo
che siano state prevalenti quelle senza contatto fisico.
Frater Petrus: Come mai nonostante i numerosissimi studi su Dante e le molteplici "chiavi della
Divina Commedia", proposte da illustri commentatori, la principale opera di Dante rimane
ancora, per molti studiosi, un enigma?
Il pi esoterico tra i grandi commentatori, e cio Gabriele Rossetti (1), aveva soprattutto come
obiettivo di mostrare agli scettici come nell'opera dantesca vi fossero degli evidenti influssi degli
ambienti iniziatici. In ci egli pienamente riuscito e le conferme venute poi da altri autori, come
lo stesso R.Guenon, non aggiungono proprio nulla alle argomentazioni di Rossetti, n i loro
opuscoli sono lontanamente paragonabili alle monumentali opere del Nostro. Questi tuttavia non
volle o forse non ebbe tempo di affrontare direttamente il significato pi intimo della Commedia.
Luigi Valli, dal canto suo, sulle orme di Rossetti, ma anche di Giovanni Pascoli, illustr s delle
importanti simmetrie, ma pi idonee a disvelare i risvolti politico-religiosi dell'opera, che non
quelli esoterici propriamente detti. Valli, infatti, pur geniale nelle sue intuizioni e meticoloso nei
suoi studi, disponeva pi di uno "sguardo" religioso che esoterico.
Un autore piuttosto trascurato e che meriterebbe maggiore attenzione Pietro Magistretti, uno
dei primi membri della Societ Storica Lombarda, che individu nei simboli del "Fuoco" e della
"Luce" un aspetto essenziale della Commedia, giacch come egli stesso dice, nella prefazione
della sua opera principale (2), "ove si sottraessero alla Divina Commedia la luce e il calore, essa
ne morrebbe, per cos dire, come l'albero cui fossero tolti tali elementi che l'aria gli trasmette".
(1) Gabriele Rossetti [Vasto (Chieti), 28 febbraio 1783 - Londra, 26 aprile 1854] non da
confondersi con il figlio Dante Gabriel Rossetti (Londra 1828 - Birchington 1882) fondatore della
Fratellanza Preraffaelita.
(2) P. Magistretti, Il Fuoco e La Luce nella Divina Commedia, Milano - Dumolard, 1888.
EA: In relazione agli studi sui Fedeli d'Amore, e agli studiosi un po' dimenticati, D. di Mambro ,
che saluto, mi ha giustamente ricordato il nome di Carlo Vecchione, le cui opere sono citate
anche da Gabriele Rossetti. Attualmente una di esse, Della Sapienza Riposta Della Letteratura
Antica Seguita Da Dante, Napoli 1850, viene pubblicata gradualmente per capitoli, con una nota
introduttiva
di
G.Lo
Monaco,
all'indirizzo
Internet:
http://it.geocities.com/tidelar/Introduzionesr.htm
Se Pietro Magistretti ha evidenziato l'importanza de "Il fuoco e la Luce nella Divina Commedia",

Guglielmo Bilancioni ha sottolineato la corrispondente importanza del suono, nel suo studio "A
Buon Cantor Buon Citarista", Formiggini, Roma, 1932.
Sagittario: Per quanto riguarda in specifico la Divina Commedia, si pu anche dire,
analogamente a quel che si gi detto in questo forum per l'Apocalisse, che essa sia un libro
magico, veicolo di una duplice magia: se si considerano gli episodi narrati come situati nel
"tempo sacro" la descrizione di un itinerario interiore. Se si considerano, invece, situati
all'epoca di Dante, allora le apparenti profezie sono altrettanti sortilegi, atti al ripristino di un
certo tipo di tradizione. Sortilegi che gli studiosi di Dante, consapevolmente o
inconsapevolmente, alimentano e rinnovano, come una vera e propria ininterrotta catena di
maghi, operante dall'epoca di Alighieri ad oggi.
[n.d.u. : Questo tema stato approfondito da Sipex nel suo "Quadro Generale della
Commedia": vedi, in questo stesso quaderno, la sezione 7.]
Quirino_Spqr: Da tutti gli autori, che abbiamo riletto assieme finora, viene semplicemente
affermata o confermata l'esistenza di un generico significato anagogico, nelle opere dei Fedeli
d'Amore. Il primo autore che abbia fatto un passo oltre probabilmente J. Evola, che ha
collegato il significato anagogico a pratiche inerenti la Metafisica del Sesso. Dalla sua
opera omonima, trascrivo il seguente brano. Qualche perplessit mi ha destato la frase "Il
significato del nove di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, di esserne la
potenza perfetta (33)". Penso si tratti di un refuso di stampa e che si possa correggere la frase
(eliminando la parentesi) in "Il significato del nove di essere la prima potenza del tre; quello
dell'ottantuno, di esserne la potenza perfetta".

5a) J. EVOLA
Da Metafisica del Sesso:
"Sulle esperienze iniziatiche dei FEDELI d'AMORE"
L'affiorare della donna iniziatica attraverso quella reale chiaramente esposto in alcune
rime di Guido Cavalcanti, il quale sembra essere stato uno dei capi principali
dell'organizzazione: Veder mi pare da le sue labra uscire una s bella donna, che la mente
comprender non la pu; che nmantinente ne nasce un'altra di bellezza nuova da la qual par
ch'una stella si muova e dice: la saluta tua apparita Sia Cavalcanti, sia Dante sia Cino da
Pistoia dicono essere per la virt che li dava la mia immaginazione, cio attraverso il fatto
evocativo di cui si parlato, che Amore prende dominio sull'anima del suo fedele. Va poi
rilevata l'anfibologia semantica propria ai termini salute e saluto in quasi tutta la poesia dello Stil
Novo. Il saluto della misteriosa donna, indicato quale il fine dell'amore, sempre di nuovo tale
da conferire anche la salute a chi lo riceve; esso, cio, propizia una esperienza e provoca una
crisi delle quali pu procedere la salute in senso spirituale, per un suo potere che mette alla
prova la forza di chi l'ottiene e che spesso perfino la eccede. Dante dice appunto: Qual soffrire
di starla a vedere diverr nobil cosa, o si morria e quando trova alcun degno che sia di
veder lei, quei prova sia virtude;- che gli avvien ci che dona salute. Si pu riportare allo stesso
contesto la visione, nella quale Amore si presenta nei tratti inconsueti, tutt'altro che arcaici e
sentimentali, di un Signore di pauroso aspetto. Nelle sue braccia, dice Dante mi parea di
vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in un drappo sanguigno
leggermente; la quale io riguardandoconobbi che era la donna della salute, la quale mi aveva
il giorno innanzi degnato di salutare. Attivare attraverso l'amore questa donna vista nuda e
dormente, cio latente quella che i testi ermetici chiamano la nostra Eva occulta significa
lasciar agire su s un potere capace di uccidere, di provocare la morte iniziatica. Il tema
ricorrente fino alla monotonia in tutta questa letteratura che all'apparire della donna nella
mente il cuore morto. Al veder la donna e al riceverne il saluto Lapo Gianni dice Allora mi
rafforzai per non cadere il cor divenne morto, ch'era vivo. Guido Guinzinelli parla di un saluto

e di uno sguardo mortali e si paragona a colui che sua morte vide. Per gli occhi passa, come
fa lo tuono, che ferisce per la finestra de la torre, - e ci che dentro trova, spezza o fende
Amore mette in guardia chi vuole vedere la donna, dicendo Fuggi, se l perir t' noia. In una
tale esperienza non si deve dunque temere la morte; una profonda frattura interiore pu essere
infatti la conseguenza. Una canzone, che forse dello stesso Cavalcanti, parla di una passione
nuova tal ch'io rimasi di paura pieno;- ch'a tutte le mie virt fu posto un freno subitamente, si
ch'io caddi in terra- per una luce che nel cor percosse, e se libro non erra, lo spirito maggior
trem si forte che parea ben che morte per lui in questo mondo fosse giunta. In non diversi
termini Dante descrive questa esperienza di folgorazione: al percepire l'improvvisa vicinanza
della donna del miracolo, per la forza d'Amore tutti gli spiriti sente distrutti, sussistendo soltanto
quelli della vista, ma staccati dagli organi fisici, come in un raptus estatico. Cos a Dante sembra
di cadere per terra e dice Io tenni li piedi in quella parte della vita di l dalla quale non si puote
ire pi per intendimento di tornare, pi oltre si parla di una trasfigurazione; in un altro passo egli
torna sul motivo della distruzione operata dall'amore. Peraltro, nel cabbalismo si parlava del
mors osculi, della morte data dal bacio, e espressioni analoghe si ritrovano anche fra i poeti del
sufismo persiano.
Considerando nel loro insieme gli scritti dei Fedeli d'Amore, appare che a produrre codesti effetti
talvolta l'azione diretta della donna (il suo apparire), talaltra una sua azione indiretta: la sua
immagine, il suo saluto la sua idea porta Amore dalla potenza all'atto, nei termini di una forza
che desta terrore e che uccide iniziaticamente. A tale azione Cavalcanti parla anche di un
azione sull' intelletto possibile termine, questo, tolto all'aristotelismo averroista ove esso
disegna il vos, il principio intellettuale nel suo aspetto trascendente che nell'uomo comune
esiste appunto al solo titolo di una possibilit. Secondo la via seguita dal vero Fedele d'Amore
dunque mediante la donna-vita che tale possibilit viene ad atto, cio che si fa realt nella sua
coscienza, trasformandolo. Cavalcanti scrive Voi che per gli occhi mi passate il core e
destate la mente che dormia, e aggiunge che amore prende loco e dimoranza nel possibile
intelletto come un subietto. Guinzelli indica il core come sede della nobilt che viene ad atto
per effetto della donna. Nello sviluppo dell'esperienza il momento emotivo-traumatico sembra
dunque trapassare in un puro intelletto (la rinascita nella mente, di cui parla il Corpus
Hermeticum). La nobilitate di cui a tale riguardo spesso si parla (indicando l'Amore come il
Signore de la nobilitate), portata ad atto dalla donna nell'estasi che essa provocava, una
perfezione ontologica non priva di relazione con tale risveglio dell'essenza intellettuale; in tutte
le cose, dice Dante citando anche Aristotele, la nobilitate la perfezione della loro natura, e a
tale proposito si parla anche di denudamento, si usa di nuovo il simbolismo della nudit: Amore
potenza capace di far uscire lo spirito dal suo albergo di farlo volare nudo, senza scorza.
In genere, il tema ricorrente una crisi a cui segue il principio di una vita nuova o
trasformata, per il che non mancano talvolta espliciti riferimenti al mistero androginico. Il da
Barberino fa dire a Amore Li colpi pe' son di cotal natura, - che qual si crede di quegli esser
morto, - allora in vita maggiore si ritrova. In una tavola egli ordina i gradi dell'esperienza, di cui
si tratta, in una specie di gerarchia. In questa illustrazione si vedono delle figure maschili e
femminili simmetriche che, come abbastanza evidente e come il Valli aveva gi notato, vanno
prese a coppie, a paia. Uomini e donne sono colpiti dai dardi d'Amore, in modo pi o meno
grave; da principio cadono a terra, ma via via che ci si avvicina a una figura centrale sono in
piedi e hanno delle rose, simbolo della rinascita iniziatica. Dopo l'ultima coppia, che reca la
didascalia Da questa morte seguir vita, non vi sono pi un uomo e una donna separati ma vi
un'unica figura androginica, al disopra della quale Amore, tendendo lui stesso delle rose,
spicca il volo su un cavallo bianco. La figura androginica ha una didascalia con le parole Amore
ci hai di due facta una cosa, con superna virt per maritaggio. I significati-chiave non
potrebbero essere dati in modo pi chiaro: dopo la crisi, che anche nei primi gradi ferisce,
atterra, uccide, il congiungimento con la donna e la suprema vert per maritaggio conducono
all'androgine (che nell'illustrazione raffigurato esattamente come il Rebis ermetico), stato di l
del quale Amore svilupper verso l'alto, in un volo o rapimento, in una direzione trascendente,
l'esperienza. E in effetti un altro Fedele dell'Amore, Nicol de' Rossi, trattando dei gradi e della

virt del vero amore, considera come culminazione di essi tutti l'estasi quale dicitur excessus
mentis (si aggiunge: sicut fuit raptus Paulus), il che vale quando dire l'apertura dello spirito a
stati superindividuali e superrazionali dell'essere.
In particolare interessante che Dante riferisca all'azione di Amore anche un vincolamento e
soggiogamento dello spirito vitale, cio della parte naturalistica, o parte yin, dell'essere, alla
quale fa esclamare Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi. E' come se per il
risveglio di un superiore principio (l'intelletto possibile passato all'atto, la nobilitate in termini
ind: il principio luminoso Shiva) una gerarchia nuova si stabilisce fra i vari poteri dell'essere
umano. Nel Convivio pur predominando una interpretazione pi allegorico-sapienzale che non
anagogica e iniziatica ( alla prima, che Dante dice esplicitamente di arrestarsi), la miracolosa
donna di vertude detta destare il dritto appetito quello che disf e distrugge lo suo
contrario; da lei promana un fuoco che rompe li vizi innati, cio connaturali avendo potestade
in riconseguita natura in coloro che la mirano, ch' miracolosa cosa. La salute conseguita
attraverso il risveglio e questa nuova situazione interiore delle potenze dell'essere assicura la
partecipazione all'immortalit iniziatica. Abbiamo gi menzionato l'etimologia convenuta,
servendosi della quale un esponente provenzale della stessa corrente, Giacomo di Baisieux,
identifica l'amore al senza morte, alla distruzione della morte, per cui egli parla degli amanti
come di coloro che non muoiono e che vivranno in un altro secolo di gioia e di gloria. In ogni
caso resta ben ferma, nei Fedeli d'Amore, la concezione della donna a cui si uniti, come del
principio possibile di una vita superiore s che al suo distaccarsi si affaccia nuovamente l'ombra
della morte. Cecco d'Ascoli dice appunto Io sono al terzo cielo trasformato in questa Donna,
ch'io non so chi fui. Per cui sento ognora pi beato. Di lei forma il mio intelletto,
mostrandomi salute agli occhi suoi, - mirando la virt nel suo cospetto. Dunque io sono Ella: e
se da me si sgombra allor di morte sentiraggio l'ombra.
Circa i Fedeli d'Amore concluderemo accennando ancora a due punti. Il primo riguarda il
simbolismo numerico. Si sa della parte che il numero tre coi suoi multipli ha sia nell'opera
principale di Dante che nella Vita Nova. In questa, specialmente la prima potenza, o quadrato,
del tre, ossia il nove, ad aver risalto. Nel primo incontro la donna ha nove anni (il che, dati gli
effetti traumatici prodotti dalla visione di essa, dovrebbe gi far escludere l'interpretazione
realistica di Beatice come bambinetta di tale et). E' all'ora nona che avviene il saluto, come
pure una delle visioni pi significative narrate dal poeta. Il nome della donna dice Dante non
soffre di stare in altro numero se non il nove. Il numero riappare come durata di una certa
dolorosa malattia di Dante. Come spiegazione Dante si limita a dire che lo numero tre la
radice del nove, per che, senza numero altro alcuno, per s medesimo fa nove. Quanto al tre,
egli, riferendosi alla Trinit cristiana, lo chiama lo fattore per se medesimo de li miracoli e
conclude dicendo Questa donna fu accompagnata da questo numero del nove, a dare ad
intendere che elle era uno nove, cio uno miracolo, la cui radice, cio del miracolo, solamente
la mirabile Trinitade. Questo in fondo, un parlare a met, mentre negli ambienti a cui Dante
apparteneva si doveva certamente conoscere un aspetto pi preciso e universale del
simbolismo del tre e delle sue potenze. Abbiamo gi ricordato come il tre sia il numero dello
yang e come esso abbia anche significato ci che nasce dall'aggiungersi dell'Uno al numero
femminile, al Due, per ricondurre, di l da esso, all'unit. Nell'antico Egitto il tre era il numero
della folgore, ma anche quello della forza vitale e dell'ente-vita invisibile chiuso dentro il corpo, il
kha. Peraltro, allo yang fu anche associato il nove e, infine, l'ottantuno, tanto che quest'ultimo
numero ha una parte curiosa, cui accenneremo, perfino in un dettaglio delle tecniche sessuali
taoiste. Il significato del nove di essere la prima potenza del tre; quello dell'ottantuno,
di esserne la potenza perfetta (33). Quest'ultimo numero porta, in un certo modo, di l dalla
stessa esperienza della donna del miracolo - e non senza significato il fatto che lo stesso
Dante, nel Convivio, ne parli dandolo come l'et di una vita perfetta e compiuta; egli ricorda
anche che tale fu l'et di Platone e giunge a dire che il Cristo avrebbe raggiunto tale et se non
fosse stato ucciso. Ma questa et simbolica figura anche in altre tradizioni non diversa et, fra
l'altro, fu attribuita a Lao-Tze. Nel complesso, si tratta di cicli di compimenti dell'Uno che ritrova
s stesso attraverso la Diade, il Due, il femminile, sviluppandosi come l'atto, la potenza di s

stesso fino ad essere identico a questa sua stessa potenza a stabilirsi nella nobilitade. Ora,
Dante che fa morire Beatrice il giorno 9 del mese di Giugno, nota peraltro che in Siria il giugno
il nono mese e, per ultimo, egli aggiunge che tale morte avvenne quando lo perfetto numero
nove era compiuto, cio nell'81 del XIII secolo.
Il secondo punto, su cui volevamo dire, riguarda proprio la morte della donna, di Beatrice. Gi
dal Perez, poi dal Valli, tale morte stata messa in relazione con quella della Rachele biblica,
ricordando come da Agostino e da Riccardo di S. Vittore la morte di Rachele fosse stata
assunta a simbolo dell'estasi, dell'excessus mentis. Il Valli pensa che anche nella Vita Nova la
morte della donna sia una figurazione del trascendere della mente sopra se stessa nell'atto
della contemplazione pura: mistica rappresentazione della mente che si perde in Dio. Ma
questa interpretazione ci sembra poco adeguata; non solo essa verte sul piano semplicemente
mistico, piano che non quello dei Fedeli d'Amore, ma, secondo noi, inverte addirittura la
situazione di cui si tratta. Di certo, la morte della donna contrassegna la fase ultima della
esperienza che s'inizia col saluto sui lei, e a tale riguardo nel c. XXVII della "Vita Nuova" si
trovano espressioni enigmatiche. Dopo aver riferito della morte di Beatrice, Dante aggiunge le
misteriose parole: Non convenevole a me trattare di tale evento, perch trattando
converrebbe essere me laudatore di me stesso: quasi che l'evento, la morte di Beatrice,
tornasse a sua gloria. L'interpretazione mistica del Valli non calza, perch se si fosse trattato
della morte della mente (l'uccisione del mentale, del manas, secondo la terminologia yoghica
ind) si sarebbe avuto semplicemente a che con uno deglii effetti della donna e d'Amore
sull'amante; a tacere che il morire, interpretato come un mistico naufragare, riguarderebbe
allora non la donna, bens il Fedele d'Amore: mentre detto il contrario, la donna a morire, a
gloria del Fedele d'Amore.. a noi non sembra troppo arrischiato l'idea opposta, cio che il
termine ultimo dell'esperienza sia rappresentato dal superamento della donna nella
reintegrazione completamente attuata. E' ci che nell'ermetismo corrispondente all'Opera al
Rosso dopo l'Opera al Bianco (cui precede l'Opera al Nero, la morte o dissoluzione),
ossia una condizione di virilit ristabilita di l dell'apertura estatica; stato finale, questo, per il
quale, sempre nell'ermetismo, si parlava talvolta di un uccidere colei da cui era stati uccisi ma
altres generati (rigenerati). E, come si visto, oltre al nove, proprio l'ottantuno Dante fa
intervenire per la morte della donna.
Verso una tale interpretazione conduce anche un punto che, ci sembra, non stato mai messo
sufficientemente in risalto, ossia che mentre nel misticismo cristiano l'anima fa da femina quale
fidanzata dello sposo celeste, in tutta questa letteratura, ma altres nella variet del
simbolismo della donna, precedentemente ricordate nella saga e nel mito, le parti in genere si
invertono, perch il soggetto dell'esperienza ad avere la qualit maschile. N ci si poteva
attendere altro, se i Fedeli d'Amore erano una organizzazione iniziatica e non mistica. Un
ultimo dettaglio non privo di significato: con una apparente anomalia Guido Cavalcanti, il quale,
come si detto, deve essere stato uno dei capi di quella organizzazione, afferma che Amore
deriva e prende dimora non nel cielo di Venere bens in quello di Marte lo qual da Marte vene
e fa dimora; e Dante, tacitamente, sembra che condividesse tale veduta. E', questo, un punto,
di cui a nessuno sfuggir il valore segnaletico.
Ci siamo soffermati alquanto sui Fedeli d'Amore perch con essi si stabilisce in un certo modo
un raccordo fra alcuni dei principali motivi da noi messi in rilievo nel corso del presente studio,
anche nel campo dell'eros profano. In questo campo, un Knut Hamsun ha potuto parlare, per
l'amore, di un potere di annientare l'uomo e poi di nuovo innalzarlo e segnarlo col suo marchio
rovente. Stendhal riporta le seguenti espressioni per un caso reale del cosiddetto
coup-de-forude : Una forza superiore di cui ho terrore mi ha tolta a me stessa e alla ragione.
Nel sentire l'alito di Lotte, Werther dice: Credo di precipitare come colpito da un fulmine.
Devesi ritenere che fra i Fedeli d'Amore esperienze consimili, mediate dalla donna, venissero
sviluppate e integrate, fuor da tutto ci che letteratura e iperbole. Nello loro composizioni lo
stesso tema preciso e ricorrente, cos come sono ricorrenti, e stanno ben in evidenza, altri
temi da noi sporadicamente raccolti studiando i fenomeni di trascendenza dell'amore profano:

raptus e morte, significato profondo del cuore, trauma nel cuore considerato come luogo
occulto (la segretissima camera del cuore di Dante) e luogo da purificare (il cuore gentile)
perch in esso prender inizio il mistero folgorante del Tre per effetto della donna-miracolo e del
Segnore di nobilitate.
Concludendo, nel riguardo dei Fedeli d'Amore vanno dunque respinte sia le interpretazioni
estetiche e realistiche che vogliono riferire il tutto a donne reali e ad esperienze di un
semplice amore umano trasposte, sublimate e iperbolizzate dal poeta, sia le
interpretazione puramente simboliche che fanno entrare in giuoco mere astrazioni
sapienzali o anche personificazioni di una Gnosi (la Sapienza Santa) come potere
illuminante, per senza nessuna relazione effettiva con la forza della femminilit. Il secondo
stato il punto di vista seguito dall'esegesi non solo del Valli, ma anche del Guenon e del
Reghini; se pu essere accettabile nel caso di ambienti mistici di derivazione pi o meno
neoplatonica (includendo Bruno), e anche della poesia arabo-persiana fiorita tra il IX e il XIV
secolo, esso, secondo noi, risulta incompleto nel caso dei Fedeli d'Amore. Se ci si riferisce ad
essi, l'alternativa va superata, e come fondo essenziale si deve considerare la possibilit di
evocazioni e di contatti a fini iniziatici col principio occulto della femminilit in una regione
liminale, immateriale, pi in l della quale non vi sono pi che le forme della magia sessuale
vera e propria come estremo sviluppo delle possibilit dell'eros sul piano non profano. Questo
il dominio che avremo ancora da trattare dopo aver fatto cenno alla terza delle soluzioni
elencate all'inizio, a quella delle trasmutazioni ascetiche e yoghiche delle forza del sesso.
Ci a parte, nel complesso di tutto quanto evocazione e partecipazione possono venire
distinte due vie che, rispettivamente, stanno nel segno dei due archetipi femminili
fondamentali: Demetra e Durga. La prima via si basa sul principio femminile-materno
considerato come scaturigine del sacro, e conduce verso una immortalit, una pace e una luce
quasi sulla stessa linea di ci che nello stesso ambito profano e umano pu venire a chi prende
rifugio presso la donna materna; in questo contesto il pitagorismo pot riconoscere alla donna
una particolare sacrit e si pot parlare perfino della madre iniziatrice. L'orientamento di tale
corrente, data qui come un esempio, risultando chiaro dal fatto che la casa di Pitagora, dopo la
sua morte, fu trasformata in un sacrario di Demetra. La stessa figura di donna si potenzia nel
mito nei termini della Vergine celeste e della Madre divina mediatrice. L'altra via passa invece
per Durga, il femminile afrodisiaco abissale, e pu essere tanto via di perdizione quanto via di
superamento della Madre nel segno di quelli che noi abbiamo chiamato i Grandi Misteri in senso
proprio.
EA: Soffermiamoci dunque sulla frase del testo evoliano "Il significato del nove di essere la
prima potenza del tre; quello dell'ottantuno, di esserne la potenza perfetta (33)".
Presa in un senso letterale e matematico, la frase contiene due errori:
- nove non la prima potenza del tre, bens la seconda; la prima potenza infatti il tre
medesimo;
- ottantuno non la terza potenza del tre (pari invece a ventisette) bens la quarta potenza.
Se, come ha proposto Quirino, si togliesse il 33 tra parentesi, permarrebbe pur sempre il primo
errore.
La frase tuttavia corretta, se interpretata "ad sensum". Evola intendeva infatti dire: "Il
significato del nove di essere il quadrato del tre; quello dell'ottantuno e di esser, a sua volta, il
quadrato del nove." Infatti Seneca, a proposito della perfezione dell'ottantuno, scriveva:
"perfectum numerum quem novem novies multiplicata componiunt".
Frater Petrus: Credo anch'io che Evola volesse esprimere il fatto che nel nove il tre stato
moltiplicato una sola volta per se stesso, mentre nell'ottantuno stato moltiplicato tre volte per
se stesso. Ha solo utilizzato in modo inesatto il termine potenza. Che la perfezione sia
indicata da tre alla quarta (ottantuno), piuttosto che da tre alla terza (ventisette) si ricollega a
quanto ha detto Massimo sulla maggior perfezione simboleggiata dal tetraskele rispetto al

triskele. Se infatti poniamo un tre in corrispondenza di ciascun braccio di questi due simboli e
poi li moltiplichiamo tra loro, nel caso del triskele il prodotto sar ventisette , che perci (dato il
significato complessivo del triskele) potr s esprimere un certo grado di perfezione, ma che non
esce dai limiti della Natura. Nel caso del tetraskele i quattro tre daranno per prodotto ottantuno,
che indicher perci il sovrannaturale (l'atto perfetto dello Spirito) che si aggiunge alla
perfezione naturale. Si tratta, come dice Evola nel seguito del brano proposto da Quirino, del
compimento dello Spirito, che nel rapporto con la Natura ritrova s stesso; ma si ritrova ( bene
sottolinearlo) "potenziato". In altri termini, non si tratta di uno svincolarsi dello Spirito dalla
Natura, per rientrare semplicemente in s stesso; tale disidentificazione potendo servire solo in
via preliminare. Poi lo Spirito deve, per cos dire, "sposare" la Natura (nozze alchimiche) e infine
volgersi a dominarla. Il simbolismo occidentale delle "potenze" del Tre (cio dello Spirito=Uno
sommato alla Natura=Due), ha un suo equivalente nella nota frase del Tantrismo shivaita che
"lo Spirito (simboleggiato da Shiva) come un cadavere (shava) senza la sua Potenza
(Shakti)".
EA: Se si tiene presente quanto gi stato detto, nel Quaderno dedicato alla Porta Magica di
Roma, appare chiaro il significato delle potenze del Tre, in relazione all'Opus alchimicum.
Nell'uomo comune che, per la sua preponderante dipendenza dalla Natura, pu dirsi "Uomo
Naturale", il connubio tra Spirito e Natura ha dotato lo Spirito (Sole) di tre corpi di
manifestazione nella Natura (Mercurio, Luna e Saturno), che con lo Spirito medesimo
costituiscono i "quattro corpi" dell'Ermetismo. Le tre qualit della Natura (Prakriti) e cio albedo
(sattva), rubedo (rajas) e nigredo (tamas) non sono mai isolate, ma sempre mescolate, in varia
proporzione: nel Mercurio prevale l'albedo, nella Luna rubedo, nel Saturno nigredo. Si tratta del
primo Tre, "base" di tutte le successive eventuali "potenze". Se l'uomo rimane a questo stadio,
pur essendo perfetto (trino) in quanto uomo, alla sua morte lo Spirito ritorna in s stesso,
abbandonando i tre corpi di manifestazione, che seguono destini inerenti alle rispettive qualit,
cos che non permane, nella Natura, alcunch che possa dirsi (se non con scarsa motivazione e
limitatamente al corpo mercuriale) appartenente a quell'individuo.
Il primo passo dell'opus consiste nell'assumere il dominio del corpo mercuriale (trasformazione
del mercurio in oro). Nel Mercurio predomina albedo, tuttavia in misura diversa nei suoi tre
aspetti principali. Nella lunula superiore del simbolo del mercurio (intelletto ricettivo) albedo
prevale nettamente. Nel cerchio col punto centrale (Egoit e Mente quale Sensorio comune)
rubedo, pur seconda rispetto ad albedo, in elevata proporzione. Nella croce sottostante
(Elementi Elementanti o Elementi Sottili) nigredo ad essere seconda ad albedo.
Il dominio di queste tre mescolanze mercuriali costituisce il secondo Tre, che moltiplicato per il
primo (la "base") produce il Nove, simbolo perci, in tale ambito, del primo e pi semplice
nucleo di individualit, in grado di sopravvivere alla morte. Nel reincarnarsi o, pi in generale,
nel trasmigrare, questo nucleo (sole-mercurio) dipender ancora dai servigi della Natura, che
dovr fornirgli, tramite le comuni modalit, i corpi lunare e saturnio, ai quali non ancora in
grado di sopperire da solo.
Il secondo passo consiste nell'assumere il dominio del corpo lunare (trasformazione dell'argento
in oro). Nella Luna predomina rubedo ma, anche in questo caso, in diverse proporzioni, a
seconda dei cicli ai quali sottoposta la vitalit. La Luna crescente simbolo di fasi, nelle quali
albedo cresce progressivamente, pur rimanendo seconda rispetto a rubedo. La Luna calante
simbolo di fasi nelle quali nigredo cresce, pur rimanendo seconda rispetto a rubedo. La Luna
Piena e la Luna Nera sono simboli di momenti di "transito" nei cicli della vitalit, nei quali
rubedo, che sempre dominante, inibisce la qualit che stava crescendo, stimolando la
ricrescita dell'altra che era in diminuizione. Il dominio della crescita, della diminuizione e del
transito degli aspetti vitali antagonisti costituisce il terzo Tre che, moltiplicato per il precedente
Nove, produce il Ventisette. Questo secondo grado di realizzazione ancora "nei limiti della
Natura", in quanto il praticante non ancora capace di darsi da s un corpo grossolano di
manifestazione (ma solo uno "sottile", cio sole+mercurio+luna), cos che, per assumerne uno,
deve ancora prenderlo tra quelli prodotti normalmente dalla Natura.
Il terzo passo consiste appunto nell'assumere il dominio del corpo saturnio (trasformazione del
piombo in oro). In Saturno prevale nigredo, anche qui in diverse proporzioni. A questo livello
grossolano, le mescolanze delle tre qualit vengono chiamate, dalla Tradizione, "Umori". In

Occidente gli umori sono chiamati: Flegma, Bile e Sangue; in India sono detti Flegma, Bile e
Aria. Aria e Sangue si corrispondono simbolicamente, basti pensare che il secondo veicolo
della prima. I tre umori non vanno confusi con il concetto che ha di essi la medicina profana
contemporanea. Per fare un esempio, l' "Aria", simboleggiando tutto ci che ha natura
vibratoria, comprende anche le oscillazioni elettromagnetiche e le trasmissioni nervose. Non
possiamo, per, qui soffermarci sulle submodalit di questi umori, ci limiteremo a ricordare che,
qui in Occidente, una delle pi note la distinzione tra "bile gialla" e "bile nera". Pi importante
osservare che, nel flegma, prevale nettamente nigredo; nella bile, rubedo seconda a nigredo;
nel "sangue-aria", albedo seconda a nigredo. Il dominio di questi tre Umori costituisce il
quarto Tre che, moltiplicato per il precedente Ventisette, produce l'Ottantuno. L'adepto, giunto a
questo punto, "al di l della Natura"; non nel senso che staccato da essa, ma nel senso che
per manifestarsi, in uno qualunque dei suoi "corpi", non pi soggetto agli automatismi della
Natura.

6) DANTE E PITAGORA
di Paolo Vinassa De Regny

Fabritalp: Volendo approfondire l'uso del simbolismo pitagorico nell'opera di Dante, potrebbe
essere utile leggere o rileggere assieme alcuni brani di "Dante e il simbolismo pitagorico" di
Paolo Vinassa De Regny, F.lli Melita Editori, Milano, 1988.
EA: Benissimo, ti aiuter nella trascrizione. Si tratta dell'ultima edizione dell'opera: Paolo
Vinassa de Regny- Dante e Pitagora - Gioacchino Albano, Milano,1956. Su questo autore
segnalo la seguente nota di A. Boni, "Ricordo di Paolo Vinassa De Regny", in Bollettino
Societ Geologica Italiana, LXXVII (1958), fasc.1, pp. 237 - 240.
Paolo Emilio Vinassa De Regny, nacque a Firenze nel 1871. Studi Scienze Naturali
all'Universit di Pisa, allievo del Canavari, fu attratto dallo studio della geologia e paleontologia.
Nel 1902 divenne professore straordinario di Mineralogia e Geologia presso la Scuola Superiore
Agraria di Perugia; fu poi a Catania dal 1908 al 1911 e a Parma dal 1911 al 1924. Vulcanologo
durante l'eruzione dell'Etna del 1910 e volontario negli Alpini durante la prima guerra mondiale,
dal 1924 fu a Pavia, alla stessa cattedra che fu dell'abate Antonio Stoppani (1824 - 1891) e di
Torquato Taramelli (1845 - 1922), uno dei fondatori della Societ Geologica Italiana. De Regny
rest a Pavia dal 1941. Fu rettore dell'Ateneo di Pavia, socio dell'Accademia dei Lincei,
dell'Accademia d'Italia e di altre importanti associazioni scientifiche; fu anche senatore del
Regno. Ma De Regny fu soprattutto un geologo rilevatore, stratigrafo e tettonista. Esercit la
sua attivit in Montenegro, in Libia e in Dancalia, regione di cui tracci una prima carta
geologica. Fondamentale la sua opera di paleontologo, tanto da essere richiesta anche
all'estero, nello studio della fauna fossile di Timor e del Karakorum, scrisse un manuale di
paleontologia (edito da Hoepli) su cui hanno studiato generazioni di studenti; dal 1897 al 1941
diresse, inoltre, la Rivista Italiana di Paleontologia. In campo geologico si dedic alla
geochimica, elaborando una teoria sulle relazioni fra le strutture atomiche e la frequenza e
distribuzione degli elementi. E' ricordato dai molti geologi che furono suoi allievi come un grande
divulgatore. Mor a Cavi di Lavagna nel 1957.

Estratti da
VINASSA DE REGNY PAOLO
"Dante e Pitagora"

1. - Il Numero
Numeris quos in Scripturis
esse sacratissimos
et mysteriorum plenissimos
dignissime credimus.
AGOSTINO - Qust. in Genesim - I, CIII
Il concetto di numero fondamentale nell'uomo, anche il meno evoluto. L'idea numerica pi
semplice quella di avvertire una modificazione nella quantit di oggetti che cadono sotto i
nostri sensi. Sembra che anche taluni animali, come certi uccelli in rapporto alla quantit delle
uova, abbiano un vago concetto di numero come quantit , qualora questa venga cambiata. Ma
esclusiva dell'uomo la facolt di contare. Il primo metodo di conteggio si basato certamente
sugli arti, specialmente le mani; cos si arrivati al dieci, base del sistema decimale. Se l'uomo
avesse avuto sei dita per mano certamente avrebbe prevalso la numerazione duodecimale che,
tra parentesi, sarebbe stata assai pi comoda. La numerazione duodecimale rimasta nel
concetto di dozzina. Taluni popoli, ad esempio gli Esquimesi, si direbbe abbiano introdotto nel
conteggio anche le dita dei piedi, arrivando cos ad una numerazione vigesimale. Traccia di tale
numerazione rimasta anche nel francese. Ci che d
un'inutile complicazione
nell'espressione di un numero; ad esempio 92 in francese implica una moltiplicazione ed una
somma: esso difatti quatrevingtdouze, cio: 4x20+12. Quando fu scoperta e introdotta la
scrittura, i numeri, che prima erano indicati con semplici segni, vennero poi identificati con
lettere alfabetiche; cos, ben noto, fecero ad esempio i Romani. Anzi la numerazione romana
perdur sino al secolo XV, bench, gi poco dopo il 1200, il mercante pisano Fibonacci, che fu
anche valente matematico, avesse portato dall'Oriente la numerazione indiana, impropriamente
detta araba. La scienza del numero difatti, nata forse in Grecia, pass in India e dall'India agli
arabi. Questi ebbero anzi grandi matematici e diedero il nome all'algebra, parola la cui
derivazione dall'arabo (art. al) chiarissima. Fu questa numerazione che diede modo di
sviluppare in modo straordinario specialmente l'aritmetica. Infatti coi numeri letterali romani
perfino le operazioni fondamentali erano di una difficolt enorme. E' noto un aneddoto relativo
ad un mercante olandese del Medio Evo, che voleva far studiare il figlio, e che chiese consiglio
ai dotti del tempo.
Se volete che vostro figlio impari l'addizione e la sottrazione - gli fu risposto - potete
mandarlo in un'Universit
germanica; ma se pretendete che sappia fare anche la
moltiplicazione e la divisione occorre che lo mandiate in un'Universit italiana .
Dal quale aneddoto risulta non solo la stima di cui, nel Medio Evo, godevano le Universit
italiane, ma anche la grande difficolt che presentavano le due ultime operazioni, che oggi i
nostri bimbi eseguiscono nelle prime classi elementari (1).
Nell'antichit dunque l'aritmetica, per noi assai facile, era una scienza alta ed astrusa, tanto che
rimase riservata solo ad alcuni ingegni superiori ed in modo speciale alla casta sacerdotale.

Nell'India, che forse fu erede della scienza aritmetica italo-greca, detenevano i misteri del
numero i sacerdoti brahmani. Vedremo presto che lo stesso era avvenuto in Egitto.
Retaggio dunque spesso esclusivo del sacerdozio, il numero assunse quindi, sino dall'inizio, un
significato sacro, divino; ed al numero ed ai suoi simboli venne cos dato un contenuto mistico.
Come si accennato, i cosiddetti numeri arabi, la cui introduzione in Europa si deve al
Fibonacci, tardarono molto ad essere adottati dal pubblico. Ed anche per questo sistema di
numerazione perdur il mistero. Il sistema aritmetico moderno, detto di posizione, si origin per
la scoperta, forse di un ignoto indiano, che rese facili tutte le operazioni introducendo il simbolo
dello zero. Fu questa una delle pi grandi scoperte dell'umanit . Lo zero, che ha vari significati
in aritmetica, pel pubblico grosso sta a rappresentare il nulla. E invece non affatto cos. Lo
zero fu destinato, all'inizio, a segnare un vuoto. Era cio il segno che indica come sul
pallottoliere (uno dei pi antichi strumenti di calcolo, usato per anche oggi dai popoli orientali)
una determinata fila era vuota. Facciamo un esempio. Se su di un pallottoliere risultavano su
cinque file le cifre 8, 3, 5, non si sapeva come scriverle, in modo da dare un concetto della loro
posizione. Poteva aversi 83005, oppure 80305 o anche 80035. L'indicazione, mediante una
linea o un circoletto delle file vuote del pallottoliere, segnava la posizione in esso delle varie
cifre, e quindi il valore diverso del numero ottenuto. Nacque cos l'aritmetica detta appunto di
posizione, per merito della quale le operazioni, che colle lettere numeriche risultavano
complicatissime, si resero alla portata di tutti.
Questo zero port, come si detto, la rivoluzione nell'aritmetica e cos apparve come qualcosa
di miracoloso. Da questo concetto mistico si ebbero una quantit di espressioni rimaste nel
linguaggio, e che appunto accennano ad un che di segreto, di misterioso. Gli arabi chiamarono
lo zero siphr, che nel latino divenne zephr (da cui zero); per altre lingue "siphr" divenne invece
"cifra". Che poi il nuovo sistema di numerazione, che facilitava le operazioni aritmetiche, fosse
qualcosa di misterioso si rileva dalle locuzioni derivate da siphr, cio: in cifra, decifrare ecc., le
quali tutte indicano qualcosa di segreto. E questo tanto pi che, come si visto, la numerazione
araba fu ostacolata dai misoneisti, dai tradizionalisti e perfino proibita dalla Chiesa. Fu in un
Consiglio di Cardinali del 1299 che venne espressamente proibito l'uso delle cifre arabe. Anche
l'Arte maggiore dei commercianti di Calimala nello stesso anno emise un analogo
provvedimento. Ma certo che molti mercanti usavano il nuovo sistema in segreto. Queste
proibizioni contribuirono ad aumentare il misterioso nel numero. Dante, tradizionalista come tutti
i sapienti del suo secolo, bench gi da tempo taluni seguissero la nuova numerazione, forse la
ignorava; certo non ne tenne mai conto, mantenendosi costantemente fedele alla numerazione
romana.
A proposito di questa numerazione occorre una breve digressione. All'inizio quasi certamente le
indicazioni numeriche si fecero non con lettere ma con segni. naturale che il segno uno fosse
dato da un tratto pi o meno verticale. Dopo l'uno veniva la decina, che si segnava con due tratti
incrociati. Anche oggi i contadini analfabeti segnano i sacchi, i barili, in questo modo. Il centinaio
era indicato con tre segni angolari e il migliaio con quattro segni a zig-zag. Oltre il migliaio non si
andava. I segni quindi erano quelli indicati nella figura 1:

fig. 1

Se osserviamo tali segni si vede chiaramente che l'uno analogo alla lettera I, il dieci alla X, il
cento, arrotondato, alla lettera C ed il mille alla M. Sono dunque quattro le lettere numeriche
fondamentali. Ma tutti sanno che esistono anche le lettere V, L e D, per 5, 50 e 500, che sono la

met di dieci, di cento e di mille. Tali lettere sono pure derivate dai segni precedenti. Difatti,
dividendo meccanicamente per mezzo di un tratto orizzontale il segno del dieci, vien fuori una
V, che il dimezzamento della X; e tagliando ugualmente un cento, C, angoloso, vien fuori una
L. Tagliando invece verticalmente il segno delle migliaia ne riesce una specie di gancio, che,
arrotondato, si pu identificare con una D.
Risulta dunque che le vere lettere numeriche sono quattro e solamente quattro, poich le altre
sono il dimezzamento meccanico di esse. Ora queste quattro lettere, I, X, C e M, occupano
nell'alfabeto una posizione che ha un valore numerico sacro, mistico. La I la nona lettera
dell'alfabeto. E poich l'uno , come meglio vedremo, il logos, il numero non-numero ma origine
di tutti i numeri, poich quello che moltiplicato o diviso per se stesso o elevato a qualsiasi
potenza resta sempre uno, il simbolo di Dio. Molti casi abbiamo che confermano questa idea.
Il Valli (2) cita una figura di Francesco da Barberino, che si fa raffigurare inginocchiato davanti
ad una lettera iniziale di un suo capitolo, che appunto una I. E Dante ci dice che: I si
chiamava in terra il Sommo Bene . E ci in opposizione a quanto scrisse nel "De Vulgari
Eloquentia " ove il nome di Dio indicato con El. Ma El l'ebraico Eli, mentre la lingua usata da
Adamo scomparsa. La scelta di I per il nomen Domini si deve al fatto che tale lettera, come
si detto, anche l'Uno, cio Dio. Ubertino da Casale afferma che I giustamente il nomen
Domini perch la mediana delle vocali e simboleggia quindi il Verbo tra il Padre e lo Spirito.
N si deve dimenticare che coll'I si forma il Triunus, il III, simbolo, secondo Agostino, del Dio
Uno e Trino. Pu interessare il fatto che anche Laotseu, 600 anni prima di Cristo, dava grande
importanza all'1.
La X la ventunesima lettera dell'alfabeto, cio tre volte il misterioso sette. Appunto perch il
sette il mistero, in matematica l'incognita si indic con x. Il centinaio ha colla C la terza lettera,
e finalmente l'ultima, la M, occupa il dodicesimo posto e vedremo quanto il 12 sia numero
mistico.
Dante queste lettere usava nei suoi computi e ad esse dava somma importanza. Quando si
voglia parlare di numerismo dantesco bisogna sempre tener presente la numerazione letterale
romana e non la nostra araba, che Dante non conosceva, o che non volle forse conoscere.
(1)Se ne pu dare un esempio. Se si dovesse moltiplicare 1001 per 288 (cio in cifre romane MI
per CCLXXXVIII) o dividere l'uno per l'altro detti numeri, ci troveremmo davanti ad un problema
per noi oggi, se non assolutamente, certo difficilmente solubile.
(2)Valli, Il linguaggio segreto dei Fedeli d'Amore. Note aggiunte, pag. 121.
2. - Pitagora e i Pitagorici
Una delle pi alte manifestazioni filosofico-scientifiche si affermava, seicento anni prima di
Cristo, a Crotone per merito di Pitagora. Si impose difatti allora la filosofia del numero-idea,
vanto della solare, armonica civilt mediterranea, italica. Non si trattava pei pitagorici di
reconditi e cervellotici significati cabalistici. Fu gloria di Pitagora di fare assurgere quasi a
religione il numero.
Pitagora, il filosofo scienziato un po' mitico, che i suoi seguaci considerarono un semidio,
celebre per s e pi che altro per la sua scuola, che continu a lungo dopo la sua morte; e che
fu mistica, iniziatica, retta dal giuramento della sacra tetractis, la quaternit . I pitagorici
adoravano difatti questa divina tetrade, costituita da 1, 2, 3, 4, la cui somma dava 10. Riporto
dal Dantzig (3) la preghiera dei pitagorici alla Tetractis: Benedici a noi, o numero divino, tu da
cui derivano gli dei e gli uomini. O santa, santa Tetrade, tu che contieni la radice, la sorgente
dell'eterno flusso della creazione. Il numero divino si inizia coll'unit pura e profonda, e
raggiunge il quattro sacro; poi produce la matrice di tutto, quella che tutto comprende, che tutto
collega; il primo nato, quello che giammai devia, che non affatica, il sacro dieci, che ha in s la

chiave di tutte le cose.


Oltre alle speculazioni filosofiche sul numero si deve ai pitagorici la fondazione del metodo
sperimentale, duemila anni prima di Galileo; e inoltre il concetto di fisica-matematica, l'idea di
infinitesimo, il teorema detto appunto di Pitagora, e, nella teoria delle proporzioni, la sezione
aurea, base dell'architettura e delle arti figurative sino a Leonardo almeno. Non certo oggi. un
pitagorico, Parmenide, che dimostr sferica la Terra. E un altro pitagorico, Filolao, insegna che
la Terra non al centro dell'Universo. Aristarco nel 300 a.C. lo segue. Ma questa esatta
opinione dei grandi pitagorici viene sommersa dalla dottrina geocentrica di Tolomeo.
Occorreranno i gen di Copernico e di Galileo per farla rivivere.
Pitagora fu dunque uno scienziato pei suoi tempi veramente sommo, ma fu anche il filosofo che
applic il numero all'Universo. Il numero nel pitagorismo non una quantit astratta ma una
virt intrinseca ed attiva dell'Uno Supremo, Dio, sorgente dell'armonia universale. Il numero pei
pitagorici era perci l'essenza delle cose, poich il numero dovunque. L'Universo esiste in
grazia del numero; il Cosmos (nome proposto da Pitagora) non solo ordine (4) matematico ma
altres bellezza, armonia, poich armonia e ordine sono inseparabili.
La scuola pitagorica ha portato l'armonia dei suoni anche nei cieli. I pianeti distano, pei
pitagorici, dello stesso intervallo proporzionale, che la scuola pitagorica aveva dimostrato
sperimentalmente esistere tra le note musicali. Le sfere celesti perci risuonavano di una
perfetta armonia. E all'idea pitagorica accede Dante, il quale appena iniziata la sua salita ai cieli
resta attonito non solo per l'enorme luce ma anche per la magica armonia musicale dovuta a
Colui che tutto muove. E per tutto il Paradiso si avr sempre luce, canto, suono, armonia fuori
dell'umano.
Pitagora non lasci alcun trattato: difatti la sua scuola si basava solo sull'insegnamento orale
agli iniziati. Fu primo Filolao, discepolo di Pitagora, che coi suoi scritti svel una parte almeno
degli insegnamenti del maestro. Filolao afferma che armonia e numero non sopportano n
comportano errori. Si deve a Filolao il concetto di concordia discors, avendo egli asserito che
l'armonia l'unit del multiplo, l'accordo del discordante, il nostro contrappunto musicale. Lo
stesso autore scrive che tutte le cose che sono a nostra conoscenza hanno un numero;
poich impossibile che qualsiasi cosa possa esser conosciuta o immaginata senza numero .
Pei pitagorici ogni cosa fisica decadica, poich, come dice Teone Smirneo, la decade
racchiude in s pasan fsin; ogni propriet ed essenza fisica. Ne riparleremo. E Temisto
asserisce che i dieci numeri erano eideitikoi, formativi. Secondo Porfirio poi era dovere
dell'uomo di combattere sempre l'ametrion, la mancanza di simmetrie nelle cose.
La scuola pitagorica ha pure un altro vanto: quello di avere identificato aritmetica e geometria
eguagliando l'unit , origine di tutti i numeri, al punto, origine di tutte le figure. Da ci
l'importanza dei primi quattro numeri e corrispondenti punti, per cui si potevano costruire tutte le
figure, e la cui somma dava il perfetto dieci.
I pitagorici, che avevano trovato sperimentalmente il rapporto dei suoni, trovarono pure che le
figure geometriche soggette al tatto ed alla vista erano perfezione di numero. Circolo, sfera e
figure poligonali regolari, tutte costruibili con squadra e compasso, erano gli elementi con cui il
Dio Supremo aveva costruito armonicamente l'Universo (5).
Grandioso pertanto il concetto dei pitagorici di far significare al numero un'idea. Da essi venne
appunto il concetto di numero-idea, concetto che pure di Platone. Queste concezioni sono la
vera grandezza della scuola pitagorica, poich, come dice lo Chaignet, concepire la propriet
dei numeri matematica, ma scorgere il rapporto tra numero ed essere profonda filosofia. Ed
un altro ammiratore dei pitagorici, Barthelemy Saint Hilaire (6), chiama gloria della scuola l'idea
pitagorica, che la natura fisica si riduca tutta a figure geometriche e queste a numeri, scoprendo

in tutte le armonie della Natura le armonie musicali, i cui rapporti si risolvono con numeri
proporzionali.
In Italia per lungo tempo non si data quasi importanza a Pitagora, questo colosso del nostro
pensiero mediterraneo, tutti occupati come eravamo a correr dietro ai nebulosi filosofi nordici.
Fortunatamente oggi si torna a lui. E ne fanno fede il volume dell'Alessio e pi che altro un
poderoso studio del Capparelli, di cui comparso da non molto il primo volume; indicati
entrambi nell'elenco bibliografico.
Ma torniamo adesso all'argomento che pi interessa, quello cio numerico, relativo alla
Tetractis. Dato il concetto pitagorico dell'uno-punto, la tetractis si rappresentava anche con un
triangolo perfetto; come indica l'annessa figura 2. Da ogni angolo si sale da 1 a 4; la somma dei
punti 10, numero che tutto comprende.

fig. 2

L'indicazione del numero coi punti rimasto anche nel nostro linguaggio matematico col termine
che noi diciamo quadrato, cubo ecc. Cos 3 uguale a 9; ma segnato coi punti risulta
precisamente un quadrato, come indica la figura 3. Lo stesso si dica del cubo. Il quadrato per
aveva anche un altro nome; era la dnamics, la potenza, nome che rimasto anche nella
nostra nomenclatura aritmetica.

fig. 3

Quanto al valore dei componenti la tetractis, possiamo osservare che l'uno non un numero;
esso il principio di tutto; en arch pinton ha in s tutto ed pur sempre uno: la normale
immateriale, l'idea, il logos. Ma insieme anche il punto, origine ed inizio di tutte le figure piane
e solide. Nell'Uno e nel Punto adombrato il Creatore. Dice Severino Boezio ( "Ars geometrica
", pag. 397): Primus autem numerus est binarius; unitas enim... numerus non est, sed
fons et origo numerorum.
Un verso di Dante (Par. XV, 57) parrebbe banale: esso dice: raia da l'un, se si conosce, il
cinque e il sei . Sembra un'asserzione senza scopo: ma essa pitagorica: ogni numero deriva,
raggia, dall'uno, se ben si considera, se ben si conosce. Son quasi le parole di Boezio. Ma
questa idea diffusa. E la troviamo anche negli antichi filosofi cinesi, vari secoli prima di Cristo.
Per Hoi-nan-tseu l'uno la radice di tutte le cose; per Wei-kiao esso la sostanza della ragione;
mentre per Lao-tseu la ragione che produce l'uno. Per molti altri filosofi cinesi l'uno la
monade che tutto produce.
Il due perci il vero primo numero: da esso sia con la sua somma 2+2, sia colla
moltiplicazione 2x2, sia colla sua potenza 2 si genera sempre il perfetto 4. Ma
contemporaneamente il 2 da questi generato (4-2=4:2=radice di 4=2). Il due la lunghezza,
la linea terminata da due punti opposti; esso perci l'origine delle antinomie, dei contrari dello
stesso tipo: bene e male, caldo e freddo ecc.
Il tre il primo numero dispari (poich, come si visto, l'uno non vero numero). Ma il tre

anche la pi semplice superficie chiusa in un'area, il triangolo coi tre punti ai vertici. Ora il
triangolo l'origine delle figure piane, che tutte possono risolversi in tanti triangoli; in essi
abbiamo lunghezza e larghezza. Ed esso pure la faccia della prima e pi semplice figura
solida, il tetraedro, connesso al quattro.
Il quattro, generato dal due e generatore dello stesso due, il prodotto di due fattori uguali
(2x2) e cio l'isos isachis; geometricamente ci d il tetraedro (il tetragono di Dante) con tre
punti in un piano e il quarto fuori. Il tetraedro la figura geometrica pi semplice che chiuda lo
spazio a tre dimensioni. Esso, formato da quattro triangoli, l'origine delle figure solide che tutte
si possono risolvere in tetraedri. In esso abbiamo le tre dimensioni del nostro mondo fisico:
altezza, lunghezza, larghezza. La figura 4 d un'idea di questi fatti:

fig. 4

La somma dell'uno, del due, del tre e del quattro d il dieci, la decade perfetta, che comprende
l'Universo fisico. Si ha cos la sacra tetractis su cui giuravano i pitagorici, e che non era il
quattro, come alcuni hanno supposto, ma il complesso dei primi quattro numeri, nei quali era
compreso il punto, la linea, il triangolo e il tetraedro, che andavano cio dal punto immateriale
sino ai corpi con altezza, larghezza e spessore: pasan fsin.
Nel giuramento pitagorico questa perfetta tetractis, che si assommava nella decade, detta
sorgente dell'inesauribile natura . E nel commento di Jeroele ai versi aurei (Ed. Carabba, pag.
47) si dice che la quaternit la fonte dell'eterno ordine delle cose . Bisogna poi ricordare
che pei pitagorici la decade non era formata da dieci numeri successivi come la nostra decina,
ma era la somma dell'unit coi tre numeri fondamentali, ed era essa stessa unit . Ogni
numero superiore al dieci era formato da varie decadi a s stanti; difatti pei pitagorici, come
unit di misura, non si andava oltre il dieci, la tetractis. Nel gi citato commento di Jeroele
(pag. 122) si dice che l'intervallo finito del numero la decade...; ma il valore, la virt della
decade la sua quaternit .
Dante pure accede a questa idea del dieci, poich dice nel Convivio (2, XIV, 3) dal diece in su
non si va se non esso diece alterando (nel senso latino) cogli altri nove e con s stesso.
Ma con questo non terminato il numerismo pitagorico. Pitagora, difatti, da un suo probabile
viaggio in Egitto port un altro principio geometrico, che anzi quello che lo ha reso celebre
anche al pubblico mediamente clto. Ed il noto triangolo rettangolo, che porta il suo nome, e
che venne considerato mistico, sacro. Questo triangolo a lati speciali non per una sua
scoperta. Gi gli Assiro-babilonesi, duemila anni avanti Cristo, ma specialmente gli Egiziani lo
conoscevano. Vi era anzi in Egitto una casta sacerdotale, gli Arpedonapti, addetti all'ufficio di
tracciare perpendicolari e contorni geometrici esatti per edifici e propriet . Dalla storia della
matematica sappiamo in qual modo essi riuscirono a tracciare un triangolo esattamente
rettangolo. Una corda veniva divisa in dodici parti uguali ed i suoi due capi assicurati ad un
piolo. Si poneva poi un secondo piolo in corrispondenza della divisione 3, e quindi un terzo alla
divisione 7 in modo che la corda risultasse tesa. Il triangolo cos formato risultava
perfettamente rettangolo.
Se Pitagora conosceva, come certamente conosceva, questo procedimento egiziano, sembra
per esclusivamente opera sua l'aver notato che i tre numeri consecutivi 3, 4 e 5 dei due cateti
e dell'ipotenusa erano i soli che sussistessero appunto cos consecutivi. Sua pure la
constatazione delle relazione: 3 +4 = 5 . Cio il ben noto teorema detto appunto di Pitagora,

che cio la somma dell'area dei due quadrati costruiti sui cateti uguale all'area del quadrato
costruito sull'ipotenusa. La dimostrazione geometrica, che mette in figura la relazione numerica,
pare sia dovuta ad Euclide. Ora da questa relazione sussiste pure che un triangolo rettangolo,
che abbia un lato (cateto) lungo 3 e l'altro cateto lungo 4, ha necessariamente il terzo lato
(ipotenusa) lungo 5. Questo triangolo coi lati 3, 4 e 5 un triangolo speciale, sacro; e Platone lo
pose ad emblema della sua Repubblica. Plutarco, pitagorico esso pure (7), dice (De Iside et
Osiride) che la Trinit egizia era rappresentata da questo triangolo. Il cateto 4 era la base,
Osiride, il cateto verticale, 3, era Iside e l'ipotenuta, 5, Oro (8). In altro passo lo stesso Plutarco
chiam questo triangolo: il pi bello di tutti. Sussiste anche il fatto che non esiste altra serie di
numeri consecutivi per le lunghezze dei lati di un triangolo rettangolo all'infuori di questa serie 3,
4 e 5. Non possono perci aversi serie come 4, 5, 6 oppure 5, 6, 7 ecc. (9). Da ci l'essenza
filosofica mistica di questi tre numeri la cui somma 12 , come il 10 della Tetractis, numero di
alta perfezione (10).
Per la scoperta di questa relazione dei tre numeri 3, 4, 5 e delle loro propriet , Pitagora
espresse la sua gratitudine alla Divinit , che gli aveva manifestato questa verit straordinaria,
sacrificando, secondo Apollodoro, un'ecatombe. Ma poich Pitagora era vegetariano, la
leggenda non regge. Ha quindi maggior valore l'affermazione di Porfirio che il sacrifizio fu
simbolico mediante una figura di bue composta da farina di farro. L'influenza pitagorica si rileva
anche dalla numerazione latina. Il due il numerus binarius; il tre il ternarius; poi si ha il
quaternarius... il denarius ecc. Ma per l'Uno si ha unitas e non unarius. Ci che conferma, col
documento eminente probatorio della lingua, come l'uno fosse considerato quale entit a s e
diversa dal rimanente dei numeri.
I numeri del triangolo sacro hanno un significato non solo nella loro successione e nella loro
somma totale, ma anche sommati due a due. Cos il 3+4 d 7. Il sette l'ebdomade, il
numerus virginalis, quello cio che non generato e non genera. Non ha madre perch
numero primo, indivisibile. Non genera, verginale, perch, moltiplicato per il numero minore
possibile, il 2 d il 14, che oltre la decade, cio la decade pi quattro. La stessa propriet di
non generare ha anche il 6, che moltiplicato per 2 d 12, oltre la decade; ma il 6 generato dal
2 e dal 3; non quindi senza madre e non cos misterioso come il 7, che fu sempre, in
parecchie religioni, ed anche nella nostra, considerato appunto come misteriale.
Sommando il 3 col 5 si ha 8. Ora 8 il doppio del perfetto 4, anche il primo numero cubico
possibile (2 =8); cio il primo numero che esprime potenza di potenza. Ma anche l'unione
dell'origine dei numeri, l'uno, col numero vergine, il sette. pertanto numero sacro e vedremo
come lo abbiano adoperato i numeristi cattolici, come Sant'Ambrogio.
Sommando finalmente il 4 col 5 si ha il perfetto nove, che la dinamis, la potenza del gi
perfetto tre.
Abbiamo cos, da tempi antichissimi, un complesso di numeri di un significato speciale mistico,
accolto da numerosi adepti, i quali si sono continuati sino a noi. E posso dire sino a noi, poich
anche il D'Annunzio era talvolta numerista. Lo prova la stesura della Laus Vit ove predomina il
misterioso sette. Sono difatti 8400 versi (7x1200) distribuiti in 21 (3x7) canti e in 400 strofe
ciascuna di 21 versi. Ma torniamo agli antichi.
(3)Dantzig, Le nombre. Payot, Paris 1931, pag. 127.
(4)Dice Eustachio (Ad Iliad., I, 16): Kosmos gar e taxis: il mondo ordine.
(5)Il fatto che la scuola pitagorica era iniziatica e segreta fece s che col tempo si ebbero una
quantit di stte, continuatesi poi per secoli, affermatesi anche a Roma, come ne fa fede la
Basilica di Prima Porta. Esse terminano poi con gli epigoni frammassoni, seguaci solo
formalmente dei numeri mistici, della squadra, del compasso, come pure del grande architetto.
Dato il periodo che questo misticismo portava in s, la Chiesa cattolica sempre stata contraria

a queste stte nascoste, di tradizione, non di essenza, pitagorica. Tale opposizione era viva
specialmente al tempo dei dicitori in rima, quali erano i Fedeli d'Amore , di cui faceva parte,
ma poi parte per s stesso anche Dante. Sui Fedeli, sulla loro opera, sul loro linguaggio si
consulti la magistrale opera del Valli e i recenti e documentati lavori del Ricolfi, pubblicati
specialmente nella Biblioteca della Nuova Rivista storica.
(6)Phytagore et la phylosophie pytagoricienne, Paris, 1875.
(7)Non si potrebbe, anche oggi, da un fisico esprimere una pi perfetta definizione della
monade, l'elemento fisico elementare costituente, che non quella data dai pitagorici. Questa
monade, questo quid integrante il punto immateriale posto in una determinata posizione .
Si potrebbe dire senz'altro: il punto situato. E da ci pure si rileva che fu Pitagora a stabilire la
discontinuit della materia.
(8)Bisogna ricordare che l'Universo pitagorico, retto dal numero intero, l'Universo sensibile,
quello della vita quotidiana dei nostri sensi, della realt comune. Le quantit irrazionali,
secondo i pitagorici, appartengono al mondo dell'Infinito.
(9)Plutarco, Opuscoli morali. Iside e Osiride. Trad. Adriani, VI, 310, Firenze, Piatti, 1821.
(10)Boezio segna altri numeri interessanti per questi lati come: 6, 8, 10; 15, 20, 25; ma essi
rientrano tutti nell'espressione generale: n3, n4, n5, cio multipli del 3, 4, 5. interessane notare
che anche in talune chiese si mantenuto, forse avendone per dimenticato il significato
originario, questo numero 12 diviso in 3+4+5. Si suona l'alba con dodici rintocchi, e certe volte
separati nei tre numeri sacri. Cos in Santa Maria sopra Minerva, a Roma, l'alba viene appunto
suonata con tre, poi quattro, poi cinque colpi di campana.
3.-Virgilio e i Latini
Le linee fondamentali sin qui accennate del pitagorismo son chiare in Platone (11), il cui
profondissimo dialogo Timeo ne tutto permeato. Ma di questo non occorre parlare per non
fare inutile sfoggio di erudizione. Ricorderemo tra i pitagorici, come si gi detto, il nome di
Plutarco, che, nei suoi opuscoli morali, prettamente numerista. Tra i latini imbevuti di
pitagorismo ricordiamo Cicerone. L'eclettico filosofo fu pitagorico, forse in seguito al suo periodo
di governatorato a Tarso; poich a Tarso confluiva tutto quanto aveva rapporto alla mistica
orientale. Furono pitagorici numeristi Ovidio, che mette spesso in evidenza il tre e nei Fasti
segnala il dieci e i suoi multipli come fausti per Roma. Fu numerista Apuleio che dice del Sette:
Eum numerum prcipue religionibus optissimum divinus ille Pythagoras prodidit. L'idillio di
Ausonio verte tutto sul tre e anche Orazio (Odi III; 19) canta: Tribus aut novem miscentur
cyathis pocula commodis. E Seneca, a proposito dell'81, scriveva: perfectum numerum quem
novem novies multiplicata componiunt. Basterebbe il VI dell'Eneide per rilevare tutto il
pitagorismo di Virgilio; ma egli fu anche il pi perfetto numerista tra i latini. In modo speciale
appare in Virgilio il sette, diviso spesso in tre e quattro. Il terque quaterque beati (Eneide, 1, 94)
ben noto. Ma una espressione analoga si ha anche nelle Georgiche (1, 410) col ter gutture
voce aut quater ingeminat, e ancora nell'Eneide (IV, 587) si legge: "Terque quaterque manu
pectus percussa ". Questa divisione del 3 e 4 era rimasta anche nel Medio Evo nel Trivio e
Quadrivio della cultura.
Del numerismo in Virgilio non so che alcuno si sia espressamente occupato, bench esso sia
manifesto. Vi accenno sommariamente. Dodici, numero sacro, sono i libri del poema. Dodici gli
avvoltoi visti da Romolo. Nel testo predomina in modo assoluto il 3 coi suoi multipli: tre volte tre,
tre volte quattro, tre volte cinque, tre volte dieci, tre volte cento. Il 30 indicato dal numero dei
porcellini che Enea vede l dove sar costruita Roma. Pi raro il quattro, sia come tale, sia
quattro pi quattro. Ma il numero del mistero, il sette, viene spesso ripetuto, anzi il primo a
comparire nel poema. Sino dal primo libro ci si presentano sette e sette leggiadre ninfe e belle
. Enea si ricovera coi sette compagni superstiti, combatte cogli avversari delle sette navi e tutti
e sette distende a terra. I profughi vanno raminghi, secondo la profezia, per sette anni. Ai
funerali di Anchise il serpe, animale simbolico e mistico, per sette volte e con sette giri si
avvolge al tumulo. Sette sono i non domi giovenchi . Nel nono libro compaiono i sette rami
del Nilo; sette e sette sono i Rutuli, capitani egregi. Nel decimo libro troviamo i sette figli di

Forco e sette sono i dardi avvelenati. Poi nel dodicesimo libro il rinforzato scudo trapassato
nei suoi sette doppi. Cos l'Eneide comincia col sette e si chiude col sette.
Ma questa ebdomade torna predominante nella celebre Egloga quarta, su cui tanto si scritto,
e di cui l'opera del Carcopino (12) forse l'illustrazione migliore. Tale Egloga un
riecheggiamento dell' Anno grande della tradizione pitagorica e sibillica. I cristiani
interpretarono invece quell'Egloga come canto messianico; per essa Virgilio nel Medio Evo fu
considerato profeta.
L'Egloga nettamente ebdomadica nella sua stesura, ed in essa si ha anche la ripartizione in
trivio e quadrivio. La bella poesia comincia difatti con tre versi, cui seguono due strofe di sette
versi ciascuna, poi un gruppo di altri ventotto (4x7) versi. Vengono poi quattro versi, che coi
primi tre (terque quaterque) formano ancora sette e finalmente la poesia si chiude con altre due
strofe di sette versi ciascuna. In tutto si hanno cio 63 versi. Ora il 63 dato da nove volte
sette. Esso un numero mistico, che aveva un suo aggettivo speciale. Questo aggettivo,
perduto per il suo significato numerico mistico, dura anche oggi nella nostra lingua:
l'aggettivo climaterico. Applicato alla vita umana, il 63, anno climaterico (13), era un anno
mistico, che occorreva superare per aver lunga vita. Augusto, scrivendo al nipote, si rallegra
difatti con s stesso per aver ormai superato l'anno climaterico. Si vede dunque quanta
influenza il pitagorismo avesse nel mondo romano e come Virgilio ne sia stato uno dei principali
rappresentanti.
Dante riconosce in Virgilio il suo maestro e il suo autore e dice che da lui ha ripreso lo bello
stilo che gli ha fatto onore. Su questo bello stilo si scritto e discusso con risultati assai
meschini. Si pu considerare la questione anche sotto il nuovo punto di vista numeristico.
L'analogia tra Virgilio e Dante nell'espressione ermetica, numeristica, potrebbe far ritenere che
lo bello stilo sia da riportare a questo modo di esprimersi. Ma sarebbe un'osservazione forse
troppo sottile.
Tutti i commentatori si sono lambiccati il cervello per trovar modo di accordare lo stile di Virgilio
e quello di Dante, che difficilmente si potrebbe immaginare pi diverso, qualora per stile si
intenda il modo di esprimersi scrivendo.
Chi asserisce, come lo Scartazzini, che Dante con quelle parole voglia alludere alla sua opera
Monarchia; chi invece, e sono i pi, dopo aver ricordato le parole del De Vulgari Eloquentia,
vuole che lo bello stilo sia quello tragico, che Dante adopr nelle sue canzoni.
Vediamo per prima cosa quale tra le opere di Dante gli abbia fatto onore, naturalmente prima
della Commedia. Mi sembra che il trattato politico Monarchia sia assolutamente da escludere. In
ogni caso riterrei piuttosto che si tratti della "Vita nova " con le canzoni, che gli procurarono
risposte pi che onorevoli e lusinghiere da parte dei dicitori in rima e dei Fedeli d'Amore , e
che anche Bonagiunta ricorda a lode nel Purgatorio. Quindi lo bello stilo dantesco che gli ha
fatto onore, se si tratta di modo di scrivere, potrebbe essere il suo parlare chiuso, sottile,
diciamo pure senz'altro, il suo modo di esprimersi in un linguaggio mistico, numeristico,
ermetico. Sebbene il numerismo e il parlare sottile non sia cos completo e perfetto nelle altre
opere dantesche come nella Commedia, pure esso innegabile nella prosa della Vita nova, che
tutta ispirata, mistica ed ermetica, e anche nelle canzoni, e specialmente in quelle a cui nato
lo stil novo .
Vediamo ad esempio come siano disposte le composizioni nel misterioso libretto della Vita
nova. Si hanno prima dieci sonetti e brevi ballate, poi una canzone, poi altri quattro sonetti,
infine una canzone mediana di importantissimo argomento; ad essa seguono, simmetrici, altri
quattro sonetti, poi ancora una canzone e finalmente, per terminare, un'altra serie di 10 sonetti o
brevi componimenti. Si ha cos la successione: 10+1+4+1+10, assolutamente simmetrica. E
questo nessuno credo vorr dire che sia un caso. N credo possa attribuire a caso che le

visioni della Vita nova sono precisamente sette. Perci l'ipotesi di riportare l'espressione bello
stilo al modo di esprimersi ermetico cui abbiamo accennato potrebbe trovare una conferma.
Ma non credo affatto che col bello stilo Dante abbia voluto alludere solo allo stile letterario.
Nella nostra lingua (e anche nella francese) stile pure modo di vita, modo di comportarsi.
Ora Dante segu, da adulto, uno stile di vita analogo a quello di Virgilio. Onesti, dignitosi,
austeri e soprattutto alieni dalla volgarit : schivi di onori, entrambi i poeti riconobbero una sola
superiorit politica, quella dell'Impero. Come Virgilio, anche Dante fu tremendamente solo,
isolato non tanto nel modo di pensare ma anche in quello di comportarsi. Come Virgilio, anche
Dante ebbe altissimo il concetto della moralit della vita. E fu Virgilio che col suo
insegnamento, il suo esempio allontan Dante da certe forme di volgarit , come la tenzone con
Forese, e lo port su di una nuova via, gli fece assumere uno stile pi adeguato all'austerit ,
alla signorilit nella vita.
(11) Sulle idee platoniche a questo riguardo interessante: Robin, La thorie platonicienne des
ides et des nombres. Paris, Alcan, 1918.
(12) Carcopino, Virgile et le mysthre de la IV clogue. Paris, Artisan du livre, 1930.
(13) Vi era pure un altro climaterico di minore importanza, cio il primo climaterico, il 35, che
dato da 5x7, e che compare anche in Dante.
Prima di passare agli scrittori cattolici numeristi ricordiamo cos di passata che furon pitagorici:
Marsilio Ficino e, pi ancora, Pico della Mirandola: a lui si deve la definizione dell'unit , come
punto infinito di tutti i numeri e completamento di qualsiasi cosa. Anche il Cardinale Cusa (De
docta ignorantia, I, 5) asserisce: non potest autem unitas esse numerus; sed est principium
omnis numeri. Dicendo Uno Dio (dicono Ambrogio e Tommaso, Summa, I, 30, 3) non si vuole
esprimere un valore quantitativo ma un valore assolutamente qualitativo. Furono pitagorici
inoltre il Campanella, ferocemente antiaristotelico, e Giordano Bruno, che fu deciso numerista e
dimostr la perfezione della decade, basandosi sulla considerazione che la somma degli
estremi successivi dei numeri dava sempre come risultato 10 (9+1=10; 8+2=10 ecc.). Egli
anche ricorda la perfezione del sei. Furono dunque pitagorici i neoplatonici ed naturale
essendo stato Platone un pitagorico. Furono pitagorici Galileo, Copernico, Leonardo,
ammiratore ed applicatore della sezione aurea . E fu Leonardo che scrisse: La vera opera
d'arte risulta dall'accordo di quei certi elementi che formano una divina simmetria .
4. - I Padri della Chiesa
Col mistero del sette connessa la fondazione dell'Ordine dei Certosini. Narra il Puteus (Vita S.
Brunonis, 41) che il santo vescovo di Grenoble Ugo sogn sette stelle che lo conducevano nella
deserta landa della Chartreuse. La mattina successiva giungeva Bruno con sei compagni, che
gli chiedevano un luogo remoto per fondare il loro Cenobio. Per questa ragione nello stemma
dei Certosini sono sette stelle attorno alla Croce e al Globo. Alessandro VIII fece coniare una
medaglia con l'effigie di San Bruno e sette stelle. Un numero mistico pitagorico, l'8,
cristianamente diventa il numero delle beatitudini, come ce lo prospetta Sant'Ambrogio in questa
frase: Quatuor tantum beatitudines sanctus Lucas dominicas posuit, octo vero sanctus
Mathus... Ille in illis octo mysticum numerum reseravit . A tutti questi padri, che Dante
conosceva benissimo, si deve aggiungere un altro autore ammirato da Dante: e fu Severino
Boezio. Si potrebbe anzi asserire che egli avesse ripreso da Boezio un suo profondo
convincimento: accordare cio le due filosofie, quella scolastica aristotelica e quella mistica
pitagorica. Boezio difatti nei suoi scritti cerca e trova questo accordo. Ma le preferenze di Boezio
nel campo scientifico sono per i pitagorici. Gi vedemmo come egli consideri l'unit
identicamente ai pitagorici. Per quanto non faccia eccessivo misticismo numerico, pure il suo
trattatello di aritmetica tutto pervaso da un senso generale di armonia, di profondit e di
intima essenza del numero, in cui egli sente quasi sempre un senso divino. In un suo trattato
(Institutiones arithmetic) sono ad esempio frasi come questa: Omnia qucumque... natura
constructa sunt numerorum videndum ratione formata (pag. 12); egli afferma poi (pag. 41) che
i numeri perfetti hanno idea della virt, e nel numero trova un che di admirabile

profundissimumque (pag. 52). Il suo trattato sulla Musica squisitamente pitagorico. N poteva
essere altrimenti, quando si ricordi che Pitagora e la sua scuola hanno fondato
sperimentalmente la scala numerica dei suoni. Tutto ci che si scritto sull'acustica e gli
intervalli dei suoni sino ai giorni nostri non che ampliamento e precisazione delle scoperte
pitagoriche. Di altri numeri cristiani mistici possiamo citare il XXX, tre volte il perfetto X, il XXXIII
che contiene tre volte il perfetto dieci e tre volte il perfetto uno e che altres simboleggia
Cristo-Uomo nei suoi anni di vita mortale cos accettati dopo l'Opus majus di Bacone. Si hanno
poi il C, potenza del perfetto X, ed M dato dal moltiplicare per dieci il numero cento potenza del
dieci.L'idea pitagorica del numero, come armonia divina, venne ripresa in pieno dai numeristi
cattolici, i quali per modificarono il concetto del numero-idea secondo la credenza ortodossa.
Dei Padri della Chiesa il pi gran numerista Agostino (ammiratore di Platone) da cui deriva
direttamente il Doctor seraphicus Bonaventura, maestro a Dante di mistica francescana. Il
grande per quanto un po' troppo trascurato Bonaventura fu profondo studioso del vescovo
ipponate. L'ammirazione sua per Agostino dimostrata dal fatto che esso si appoggia a lui con
grande frequenza. Il Padre Faccin, devoto indagatore della vita del serafico, ha pazientemente
contato che egli cita Agostino ben 2.625 volte. Ammiratori delle solari armoniche teorie
pitagoriche, questi nostri grandi filosofi cristiani non potevano non essere seguaci del numero
come suprema armonia dell'ordine divino. N va dimenticato che Agostino arriva a Dio anche
per mezzo del numero e dell'armonia. Il primo collegium con regole a tipo cenobiale fu fondato
dal grande santo, che volle cos quasi rinnovare le riunioni pitagoriche. Tanto imbevuto di
pitagorismo Agostino che egli definisce il bello come unit , ordine, armonia. Dice difatti Omnis
pulchritudinis forma unitas est. E d tanta importanza al numero che lo considera l'essenza
delle cose. Per Agostino l'essere essere uno e tutto quanto tende ad essere tende all'ordine,
al numero. L'albero albero in quanto un albero; l'uomo uomo in quanto un uomo. Cito
solo qualche passo del grande ipponate tra i pi interessanti (14). Nel De libero arbitrio il
numero considerato in tutta la sua eccellenza e son citati anche i salmi che alla perfezione del
numero si riferiscono. Cos (pag. 278) egli afferma l'incorruptibilis numeri veritas. E dal salmo
146 riporta: Sapienti conjunctus est numerus. Dal salmo 176 cita il versetto: Circuivi cor meum
ut scirem est considerarem et qurerem sapientiam et numerum. Inoltre il capitolo XI del Libro
II tutto in lode della Sapienza e del Numero. Nel De Ordine (II, 146) egli dice ancora: Pulchra
numero placent. Ratio sentit nihil aliud sibi placere quam numerus. E continua: Tutto in
natura vuol realizzare il numero e l'unit , che il numero per eccellenza... Se l'uomo
superiore al bruto perch conosce e produce i numeri; perch l'anima piena di forme
(idee!), cio di numeri; forma, numero la stessa cosa. Sopra i numeri sensibili e cangianti ci
sono i numeri spirituali, eterni, intelligibili e invariabili, che l'Unit perfetta ed assoluta domina .
E nel De quantitate anim (pag. 252) mette in evidenza l'eccellenza del punto geometrico;
come nell'opuscolo De musica (pag. 133) avverte che tutto l'ordine sta nel numero. A sua volta
Bonaventura eminentemente fedele al concetto mistico numerista; si pu dire che non vi sia
opera del Serafico che non contenga qualche accenno alla santit del numero. Egli, nello
sviluppare i suoi temi d'ordinario, preferisce il numero tre, e lo stesso numero adopra per le
divisioni; anche per le gerarchie egli ha sempre una tripartizione e complessivamente ne conta
nove. Nel mirabile Itinerarium mentis in Deum (II) egli dice: Poich ogni bellezza e diletto non
possono sussistere senza proporzione e la proporzione sta principalmente nel numero, occorre
che ogni cosa sia secondo numero, e perci il numero l'esemplare precipuo dell'animo del
Creatore e nelle cose il principale vestigio per condurle alla sapienza . Come i pitagorici
avevan dato importanza filosofica a certi numeri, cos anche i numeristi cristiani ne pongono in
evidenza altri: ma come ben naturale, a tali numeri annettono un senso cristiano. Sono cio
quei numeri che Agostino ha chiamato spirituali, eterni, intelligibili e invariabili dominati dall'Unit
. Naturalmente l'importanza massima data all'1 e al 3. Scrive Agostino (De musica, 138, 2):
Ternarius primus est et totus impar . Ma continua poi pi esplicitamente: Quare in ternario
numero quadam esse perfectionem video; quia totus est, habet enim principium, medium et
finem . Dobbiamo ricordare ancora una volta che si tratta di numeri romani, e che quindi il tre si
deve scrivere III. Esso ha dunque principio, mezzo e fine tutti uguali tra loro e ciascuno l'unit
. Nel tre insieme il tre e l'uno; il simbolo della Trinit -Unit perci in esso ben manifesto.
La decade per Agostino pure numero perfetto. Egli dice (De musica, pag. 138): In denario

numero prfinitum est . Ed pure perfetto il 12: Numerus duodenarius magnum continet
sacramentum . Esso difatti, come si detto, la somma dei numeri sacri 3+4+5. Il concetto di
somma dei numeristi platonici abbastanza diffuso. Dice Filone d'Alessandria ( "De vita
contemplativa ") che il 50 il pi santo e il pi naturale dei numeri perch la somma delle
potenze del triangolo sacro: 3 +4 +5 =50. D molta importanza alle potenze dei numeri
anche Bonaventura. Tutta la sua opera, come si detto, basata sul 3, ma anche sul suo
quadrato 9. In modo particolare il Dottor Serafico si occupa del valore dei numeri nel suo
Hexameron. Egli dice del 9: Secundum hunc numerum (il 9) habent illuminationes Trinitatis
esse . (Hexameron, XXI, 1). E subito dopo, per il 10, osserva: Novenarium completur et
perficitur per additionem unitatis . Il 7 spesso citato da Bonaventura come il numero del
mistero: l'ebdomade sempre misteriale. Egli riporta da San Gregorio, che: Septenarius,
secundum Gregorium, est numerus universitatis in majori mundo et in minori et in Deo
(Hexameron, XVI, 5). E poco dopo aggiunge: Septenarius autem magnum mysterium habet
. E conferma e rinforza subito dopo: Iste numerus... est mysterialis . Naturalmente hanno
valore anche i multipli del 7 (2x7; 5x7). Le potenze, per Bonaventura, sono specialmente quelle
del tre. Egli dice infatti (Psalterium David, 88): Sunt tria, ter tria novem, ter novem
vigintiseptem, ter vigintiseptem octuagintaunum (15). Solo nel Sermo XV del suo
Hexameron, dopo aver parlato della perfezione del 12, parla anche della sua dinamis, la sua
potenza: 12 =144. interessante notare che anche Confucio diede somma importanza al
numero 81, potenza della potenza della potenza del mistico 3. Un numero su cui hanno posto la
loro attenzione i cristiani il sei. Agostino lo considera una perfezione geometrica. Difatti col 6 si
forma l'esagono iscritto al circolo e i cui lati sono uguali al raggio. San Beda (Hexameron, II, 1)
dice: Senarium numerum constat esse perfectum, quia primus suis partibus expletur, sexta
videlicet, quod est unus, et tertia qu sunt duo, et dimidia qu sunt tria. Unum enim et duo et
tria faciunt sex . Bonaventura considera il 6 altamente degno, basandosi al solito sull'autorit
di Agostino. Egli dice (Psalterium David, 128): Tanta est dignitatis huius numeri (senarii) quod,
dicit Augustinus, opera perfecta sunt, qu facta sunt sub senario. Inde dicitur perfectus
numerus senarius . Anche Nicomaco, nella sua Theologia aritmetica, d al 6 un grande
valore. L'idea della perfezione del 6 rimasta anche nel nostro linguaggio: noi difatti diciamo
assestare, mettere in sesto per mettere in ordine; ed anche al compasso diamo il nome di
seste. Il sei dunque un numero mistico, relativo specialmente all'uomo; divenne perci
simbolo della perfezione della vita umana, cio della giustizia. Tanto questo concetto era diffuso
che le citt si divisero in sestieri; il Villani difatti nella sua Cronaca (III, 2) dice: la citt ... si
resse in sei sestieri siccome numero perfetto. Fuori della vita il numero dell'Uomo perfetto per
Agostino il misterioso 7; difatti il settimo periodo della vita la morte, grande mistero; e il
settimo periodo della storia del mondo il misterioso sabato eterno.
Col mistero del sette connessa la fondazione dell'Ordine dei Certosini. Narra il Puteus (Vita S.
Brunonis, 41) che il santo vescovo di Grenoble Ugo sogn sette stelle che lo conducevano nella
deserta landa della Chartreuse. La mattina successiva giungeva Bruno con sei compagni, che
gli chiedevano un luogo remoto per fondare il loro Cenobio. Per questa ragione nello stemma
dei Certosini sono sette stelle attorno alla Croce e al Globo. Alessandro VIII fece coniare una
medaglia con l'effigie di San Bruno e sette stelle.
Un numero mistico pitagorico, l'8, cristianamente diventa il numero delle beatitudini, come ce lo
prospetta Sant'Ambrogio in questa frase: Quatuor tantum beatitudines sanctus Lucas
dominicas posuit, octo vero sanctus Mathus... Ille in illis octo mysticum numerum reseravit.
A tutti questi padri, che Dante conosceva benissimo, si deve aggiungere un altro autore
ammirato da Dante: e fu Severino Boezio. Si potrebbe anzi asserire che egli avesse ripreso da
Boezio un suo profondo convincimento: accordare cio le due filosofie, quella scolastica
aristotelica e quella mistica pitagorica. Boezio difatti nei suoi scritti cerca e trova questo
accordo. Ma le preferenze di Boezio nel campo scientifico sono per i pitagorici. Gi vedemmo
come egli consideri l'unit identicamente ai pitagorici. Per quanto non faccia eccessivo
misticismo numerico, pure il suo trattatello di aritmetica tutto pervaso da un senso generale di
armonia, di profondit e di intima essenza del numero, in cui egli sente quasi sempre un senso
divino. In un suo trattato (Institutiones arithmetic) sono ad esempio frasi come questa:
Omnia qucumque... natura constructa sunt numerorum videndum ratione formata (pag. 12);

egli afferma poi (pag. 41) che i numeri perfetti hanno idea della virt, e nel numero trova un che
di admirabile profundissimumque (pag. 52). Il suo trattato sulla Musica squisitamente
pitagorico. N poteva essere altrimenti, quando si ricordi che Pitagora e la sua scuola hanno
fondato sperimentalmente la scala numerica dei suoni. Tutto ci che si scritto sull'acustica e
gli intervalli dei suoni sino ai giorni nostri non che ampliamento e precisazione delle scoperte
pitagoriche.
Di altri numeri cristiani mistici possiamo citare il XXX, tre volte il perfetto X, il XXXIII che
contiene tre volte il perfetto dieci e tre volte il perfetto uno e che altres simboleggia Cristo-Uomo
nei suoi anni di vita mortale cos accettati dopo l'Opus majus di Bacone. Si hanno poi il C,
potenza del perfetto X, ed M dato dal moltiplicare per dieci il numero cento potenza del dieci.
Il numerismo cattolico, dopo Bonaventura, continu per secoli. San Bernardino che divide
sempre gli argomenti delle sue pratiche secondo i numeri. E pi recentemente ne fa fede l'opera
del P. Atanasio Kircher, "Arithmologia, sive de abditis numerorum mysteriis " stampata nel
1665, la quale col solo suo titolo indica bene il contenuto mistico. Il Kircher parla dei numeri
secondo le idee pitagoriche; riporta poi, si pu dire, parola per parola, certe indicazioni di
Agostino che per non cita affatto. Anche per l'erudito gesuita la tetractis si trova in tutte le
cose. Del III dice che il numerus triunus; ed anche per lui misteriale il 7. Dice difatti (pag.
272): Septenarius numerus arcana continet mysteria .Si vede dunque che sino quasi all'inizio
del 1700 imperavano tuttora, anche nel clero, le idee sulla mistica del numero, modificate per e
dir cos cristianizzate dai numeristici cattolici medioevali. Su questi autori familiari a Dante, egli
si basato per la mistica dei numeri, che appare in tutte le opere dantesche ma in modo
speciale nella Commedia (16).
(14) Mi son servito dell'edizione Plantin di Anversa del 1576. Opera D. A. Augustini hippon.
episcopi per theologos lovanienses repurgata.
(15) A proposito di questo 81 da notare che Dante (Convivio, 4, XXIV, 6), parlando dei periodi
della vita umana, gli d una grande importanza tutta cristiana: Io credo, se Cristo non fosse
stato crocifisso e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli
sarebbe alli LXXXI anno di mortale corpo in eterno trasmutato . E questa una secca smentita
a tutti quanti asseriscono che secondo Dante la vita naturale umana sia di 70
anni.
(16) Anche il Bossuet (Apocalypse, 14, 4) dice, a proposito dei 144 mila signati (12x12):
Bisogna intendere nei numeri dell'Apocalisse una certa ragione mistica, a cui lo spirito ci vuole
attenti .
EA: Il capitolo che ora presentiamo di "Dante e il simbolismo pitagorico" di fondamentale
importanza per capire l'atteggiamento spirituale di Vinassa de Regny. Egli, non senza analogie
al Papini successivo alla "conversione", una sorta di "pitagorico cattolico". Pur cio
riconoscendo che in Dante vi sia un influsso pitagorico, nega che Dante sia un
esoterista, giacch il suo pitagorismo sarebbe perfettamente "ortodosso", essendo accettato e
veicolato dagli stessi "Padri" della chiesa. L'atteggiamento di De Regny sintomatico di quel
che avveniva in certi ambienti di Firenze dagli Anni Venti in poi, ma che fin con l'influenzare
anche personalit non fiorentine, come ad es. Girolamo Comi e Guido de Giorgio (Vedi in
proposito il Quaderno "Papini e il Gruppo di Ur").
5. - Il Numero in Dante
Scopo della Commedia di giungere o, meglio, di far giungere l'Umanit dalla selva del
peccato e del marasma politico sino al Dio cattolico Uno e Trino, nel quale si assomma anche,
come vedremo, il supremo quesito aritmetico e geometrico che affannava da secoli l'umanit :
la quadratura del circolo. Questa struttura armonica, numeristica, geometrica di tutte le opere di
Dante, ma specialmente della Commedia, fu detta, da coloro che poco intesero Dante e i tempi
suoi, una cabbala; e con ci dimostrarono di non conoscere la diversit tra la strampalata
cabbala giudaica e la mirabile armonia pitagorica del numero. Chi poi parla di cabbala pitagorica
fa una contraddizione in termini.

A dimostrare l'assoluta ignoranza sul valore delle credenze numeristiche nel Medio Evo e in
Dante basterebbero le parole (17) del D'Ancona. Dice infatti questo autore: Dante era
ossequiente alla dottrina scientifica dell'et sua, anche nella parte pi vacua e superstiziosa...
Alla stessa dottrina dei tempi appartengono anche queste fantasticherie del Poeta sul numero
nove... Vi una reminiscenza evidente delle dottrine pitagoriche e neoplatoniche da un lato,
delle mistiche e cabalistiche dall'altro, e qualche cosa che giunge a lui per superstizione e
volgare tradizione . Quindi Dante nella Vita nova (e pi ancora nella Commedia) aveva per la
testa reminiscenze, fantasticherie vacue e superstiziose e tradizioni volgari accolte senza
critica. Il Poeta ben servito da taluni dei suoi pi illustri commentatori! Ben diversamente disse
il Carducci: Questa cabala fu il freno dell'arte che fece cos proporzionata, armonica, direi
quasi matematica, l'esecuzione formale dell'immensa epopea . Il Carducci, toscano, etrusco
(gli etruschi erano pitagorici), ha assai meglio intuito e giudicato questa mirabile forma, che,
come ad un concetto di perfezione, obbedisce al numero, suprema armonia.
Nel precedente capitolo abbiamo veduto come Dante visse in un ambiente ove il misticismo dei
numeri, trasmesso da Pitagora sino a Bonaventura, era diffuso tra i laici ed i religiosi; perci non
lecito parlare di fantasticherie superstiziose n di tradizioni vacue e volgari.
Dante non si limita ad accettare il ben noto tre e il nove che da tutti i commentatori ammesso;
ma molti altri numeri adopra in un determinato significato. Egli parla spesso del modo sottile
di interpretare i numeri in rapporto alle cose. Nel Convivio (8, V, 5-7), dopo aver parlato della
divisione degli Angeli in tre gerarchie e ciascuna in tre ordini, aggiunge: Ed potissima
ragione de la loro speculazione lo numero in che sono le gerarchie e quello in che sono gli
ordini. E poco dopo (7-9) osserva che la Trinit in tre Persone e ciascuna Persona si pu
triplicemente considerare . E, sempre nel Convivio (XIII, 17), dice: Li princpi delle cose
naturali son tre... Non solamente tutti insieme ma anche in ciascuno numero... per che
Pittagora poneva li princpi de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose
esser numero . E finalmente ricordiamo le osservazioni (Convivio, 2, XIV, 2, 3) sulle stelle della
Via Lattea che sono per lui 1022, cio 2, 20 e 1000 come Dante stesso dice e sulle deduzioni
sottili che si possono fare su questo numero, su cui torneremo.
Dante dunque numerista ed anzi segue i numeri pitagorici, resi per sottilmente cristiani dai
Padri della Chiesa, da Ambrogio, Agostino e pi che altri da Bonaventura: tutti quanti grandi
suoi maestri. Dante per non segue tutta la numeristica cristiana. Molti altri numeri mistici cita
ad esempio Agostino; ma Dante non li considera, limitandosi a quelli pitagorici cristianizzati.
Si disse e si continua a dire che Dante un tomista. L'affermazione, nel senso di credere che
Dante sia un puro scolastico, inesatta. Egli anche tomista; ma quando occorre si distacca
dall'Aquinate. Baster , a conferma di questo, ricordare il Purgatorio in cui tutto procede
secondo la dottrina francescana e pi specialmente bonaventuriana, che in contrasto con
quanto afferma l'Aquinate.
Inoltre la scolastica non d alcuna importanza al misticismo del numero. Nel grande Doctor
angelicus difatti la parte mistica numeristica non appare. Invece essa prevalente in
Bonaventura, il Doctor seraphicus. Il Righi, profondo conoscitore di Bonaventura, ripete quanto
da tempo aveva detto l'Ozanam. Questi difatti aveva osservato che Bonaventura convertiva in
dottrina ci che era narrato dall'estasi e dai rapimenti di Francesco . Il Righi a sua volta dice
che l'esegesi di Bonaventura ha carattere prevalentemente mistico: Negli scritti teologici egli
cerca la Verit , ma pi che altro inculca la Bont , fa tutto illuminare dalla Luce divina,
tenendosi per sempre stretto alla guida ed al lume della Rivelazione. Da qui la fonte della sua
mistica che appare ogni volta che ne capiti l'occasione.
Una leggenda ci narra che Tommaso chiese al suo grande amico e antagonista Bonaventura
quale fosse la sua biblioteca. E il Serafico rispose mostrandogli il Crocefisso. La leggenda,
come tutte quelle francescane, bella; ed ha una parte di vero, come tutte le leggende.
Bonaventura non avr avuto una sua biblioteca propria, poich la regola francescana imponeva
di non aver propriet di sorta. Tutto gli veniva dall'amore della Croce; ma Bonaventura aveva
per letto tutto quanto si riferiva alla teologia e alla filosofia del suo tempo. Sembra esatta la
notizia che egli avesse di propria mano ricopiato tutta la Bibbia e per due volte; le sue letture dei
Santi Padri sono certo state complete e numerose. Come gi si detto, Agostino appare
l'autore preferito; e tale preferenza facile a comprendere per la somiglianza dei due grandi nel

loro sentimento. Giustamente Bonaventura poteva accennare al Crocefisso come suo ispiratore.
Nel Serafico si ha il mirabile connubio tra la profonda dottrina dogmatica e il calore del
misticismo francescano, derivato dall'amore a Dio, alla passione di Ges, alla Vergine madre.
Mentre (dice il Righi, pag. 84) i commenti al libro delle Sentenze gli meritano uno dei primi
posti tra i pensatori cristiani e lo rendono uno dei prncipi della scolastica , pure giustamente
pot Leone XIII, nell'allocuzione al Generale dei Minori dell'11 novembre 1890, dire: Dopo che
ha salito le vette della pi alta speculazione parla con tanta perfezione della mistica, che, senza
esagerazione, lo si pu ritenere uno dei primi maestri di mistica .
Dante fu perci, pi che tomista, bonaventuriano; cio scolastico e mistico insieme come fu
Agostino. Giustamente l'Ozanam dice che accanto al misticismo dell'Ipponate si deve ricercare
il suo dogmatismo. Come fu eclettico Agostino, cos Dante. Esso pure batte tanto alla porta di
Aristotele quanto a quella di Pitagora e di Platone. Non si pu per negare a Dante una
preferenza pei mistici.
A questo proposito si possono rilevare alcuni fatti di un certo interesse. Quando parla di
Francesco nel Paradiso lo chiama serafico, mentre Domenico cherubico. Ora i Serafini, nella
gerarchia angelica, sono superiori ai Cherubini. Inoltre di Domenico si parla, s, nei ben noti
canti X e XII del Paradiso; ma esso non viene mai pi incontrato da Dante. Nell'Empireo invece
ci sono presentati alcuni santi che stanno presso Dio: Dante ne cita solamente tre: Francesco,
Benedetto ed Augustino . Sono tre mistici: manca Domenico e primo fra tutti Francesco. Pu
anche esservi nell'elencazione un'omissione involontaria; ma in Dante nulla lasciato al caso, e
si deve perci ammettere che la citazione dantesca dei tre santi stia a indicare una preferenza
ed una superiorit pei mistici. Inoltre la sola santa di cui si parla, in perifrasi, nella Commedia
Chiara, la mistica sorella di Francesco (18).
Si disse che Dante sia stato francescano o almeno abbia voluto rendersi tale in giovent; i
documenti mancano; ma certo che egli sent fortemente la mistica francescana. Il suo animo,
spesso esacerbato e sdegnoso, non era certo quello mite, semplice, ingenuo, entusiasta di
Francesco. La mistica di Dante perci quella di Bonaventura, la quale, come sappiamo, lo
sviluppo scientifico della mistica francescana. Dante pertanto, come si detto, altrettanto
tomista quanto bonaventuriano.
Il grande Poeta eclettico, come lo era Agostino, e sembrerebbe impossibile con quanto si
conosce della sua personalit a prima vista intransigente. un ingegno perfettamente
conciliante. Insofferente, quasi fazioso in certi argomenti, cerca invece l'accordo per le grandi
questioni religiose e politiche. Suo il sogno della conciliazione tra le due grandi potest , la
religiosa e la politica, nell'unit della Chiesa purificata, rinnovata e dell'Impero ricostituito in
nazioni (Imperium et Nationes, il detto di Federico di Svevia); sua la dimostrazione che si possa
essere insieme mistici francescani e scolastici tomisti. E lo prova, come vedremo, l'ultimo canto
del poema, ove imperano entrambe le dottrine.
N va dimenticato che egli un italiano, un toscano, mediterraneo. Nel suo sangue, nel suo
modo di sentire, di pensare, si era trasfusa la millenaria civilt etrusca, che tutto ordiva secondo
numero e armonia. Un altro esempio ci sta a indicare questa predilezione di Dante per la
regolarit armonica pitagorica. Tra gli scultori egli cita soltanto Policleto (Purg., X, 32): Ora
questi era noto come autore di uno scritto (il Regolo) sulla proporzione del corpo umano come
prototipo dell'armonia secondo il numero e nel Medio Evo era considerato maestro del calcolo
della misura, era cio un perfetto pitagorico.
Epigoni del numerismo furono e sono i frammassoni. Per questo taluni, e primi tra tutti il
Rossetti e l'Aroux, hanno voluto vedere in Dante un settario, un illuminato, quasi un protestante,
comunque un anticattolico. Nulla di tutto questo. Dante invece un perfetto cattolico; non solo
dal punto di vista dogmatico, ma anche come credente e praticante. Egli veramente, come lo
chiama San Pietro, un buon cristiano . Su questo argomento occorre una breve digressione.
Si dice per tradizione che Dante fosse sottoposto a processo per eresia; ma la leggenda non
affatto confermata. Una sola cosa sicura; che egli era assai mal visto dagli inquisitori del
tempo e su questo ritorneremo. Date le contingenze politiche in quei burrascosi momenti, il suo
trattato, Monarchia, venne condannato e pubblicamente bruciato. Ma i tempi mutarono. Un
grande Pontefice, Leone XIII, fece cancellare il Monarchia dall'indice dei libri proibiti. Ma vi di
pi. Un altro Pontefice, di cui tutti ammirammo la piet e l'alto ingegno, Benedetto XV,

proclam la Divina Commedia il quinto Vangelo e pel centenario dantesco, il 30 aprile 1921,
pubblic un breve discorso, che, dopo quello di Leone XII per Cristoforo Colombo (19), fu il
secondo esempio di un discorso pontificale al mondo, non per chiarire verit , ma per
prospettare la gloria, anche cattolica, di un uomo, che, se non fu un santo da altari, fu certo un
uomo provvidenziale, mandato da Dio, e dal Suo Amore ispirato.
Come si pu spiegare questo rovesciamento di posizioni per cui di un uomo sospetto e di
un'opera creduta eretica si fa rispettivamente un messo provvidenziale ed un quinto Vangelo?
Dante, cos profondamente ortodosso, fu certo un feroce nemico di taluni pontefici. Ma questo
fatto si pu riportare alla sua fervente anima di cristiano, che avrebbe voluto vedere la Chiesa
tornare al suo primitivo splendore, anche per la virt dei suoi sacerdoti. Opinione questa molto
diffusa tra i fedeli del tempo. Ma i sacerdoti di allora a questo non pensavano. Ci volle Lutero
perch venisse Trento!
Quelle animule timorate che si scandalizzarono per le roventi parole dantesche contro i pontefici
e il clero del suo tempo, e che pertanto vorrebbero far passare Dante per un eretico, un
frammassone, uno scomunicato, dovrebbero meditare su quanto scrivevano allora
sull'argomento non dei laici come lui ma papi e santi. Lasciamo pur da parte San Pier Damiano
in confronto al quale gli attacchi di Dante alla Curia possono passare per complimenti. Baster
ricordar che questo gran santo dice chiaramente che la Chiesa era divenuta la bottega di
Simone. Ma gli stessi pontefici intervenivano.
Nel 1254 Papa Innocenzo IV pubblic una bolla in cui si leggono queste gravi parole: Intanto i
nostri uomini di chiesa, divenuti gente di legge, cavalcando superbi destrieri, vestiti di porpora,
coperti di gioielli, d'oro, di seta, riflettendo i raggi del Sole, scandolezzato dal loro
acconciamento, fanno da per tutto mostra orgogliosa di s; e nelle persone loro, in luogo del
Vicario di Cristo, si danno a conoscere eredi di Lucifero, ed eccitano le ire del popolo, non solo
contro s stessi, ma contro la sacra autorit che indegnamente rappresentano. Sara dunque
schiava ed Agar si fatta padrona . E lo stesso Pontefice aveva proclamato: La corruttela
del popolo proviene principalmente dalla corruttela del clero .
Ma non solo i pontefici; anche i santi parlavano al modo stesso. attribuita a San Bernardo una
tremenda orazione contro il clero al Concilio di Reims. Il Mabillon, editore degli scritti del grande
mistico chiaravallese, la pone nel Vol. II delle opere suppositicia; ma con tutta questa sua
prudenza non pu onestamente esimersi dall'osservare che, se anche non si tratta di opera
genuina, certamente un centone di frasi riprese da altre opere di San Bernardo. In questa
diatriba feroce contro il clero e specialmente contro i vescovi si dice tra l'altro: Dicimini
pastores dum sitis raptores. Paucos habemus pastores, multos excommunicatores. Quare,
Domine Jesu, elegisti diabolum episcopum? Plus nitent calaria quam altaria. Non sunt pastores
sed traditores . E continua chiamandoli superbi, nepotisti, nemici dei poveri, peggiori di Giuda
che si content di poco, mentre essi pretendono molto. Sono pure attribuiti a Bernardo attacchi
ai pontefici tali che quelli di Dante sono complimenti. Il gran santo dice che Roma Babilonia e
il papa l'Anticristo. Rivolgendosi poi direttamente al Pontefice esclama: Costui Pietro, che
non si sa che sia stato mandato in giro ornato di gemme e di seta, coperto d'oro, portato da un
bianco palafreno, seguto da una turba di soldati e assiepato di ministri attorno a lui; eppure
senza tutto questo cred potersi adempiere il salutare comandamento: Se mi ami pasci le mie
pecore. In questa cosa tu, pastore, succedesti a Pietro non a Costantino .
Anche Sant'Antonio, in una delle sue prediche, esclamava: L'avarizia rode alcuni preti anzi
mercanti. Salgono su questo Monte Tabor che l'altare, e tendono reti per pescare l'oro; e del
Sacramento della Salute fanno letame di cupidigia .
Ma sentiamo quello che pi tardi dir una santa, la grande Caterina da Siena: La inflata
superbia regna nella sposa di Cristo... i prelati non attendono altro che a delizia a stati di
grandissime ricchezze... fatti lupi e rivenditori della Divina Grazia .
Il pio frate Cavalca, nel suo Specchio di vera penitenza, dice dei prelati che si pu dire santo
non quel prelato che dia del suo, ma che non rubi l'altrui .
Non vi dunque alcuna ragione di accusar Dante di irreligiosit ; egli ha scritto n pi e forse
meno di quello che scrivevano e predicavano Pontefici e Santi. Ma egli teneva ben distinta la
contingenza delle condanne politiche dal fatto religioso, dogmatico, indiscusso e indiscutibile.
Dante un politico che disprezza i vili, quali il Papa Caorsino, ma quando trova dei personaggi

degni di lui li onora della sua riprovazione. Cos fa pel grande Bonifacio, che destina all'Inferno
anche prima della sua morte. Ma Dante cattolico inveisce contro l'attentatore di Anagni, contro
lo schiaffeggiatore dello stesso Bonifacio. Qui difatti non si tratta del Papa ostile ma dell'alta
dignit pontificia. Bonifacio, per Dante, degno dell'Inferno, ma sempre il Supremo Pontefice,
il successore del maggior Pietro.
Questa distinzione tra Curia politica e Papato religioso, che tanto ha fatto adirare nel recente
passato e fa adirare anche oggi gli intransigenti, ha dunque, come si vede, un'origine antica ed
illustre. Vediamo ora un poco pi estesamente la figura religiosa del grande fiorentino. Sulla sua
ortodossia dottrinale non si possono affacciare dubbi. Suoi maestri ed autori sono i grandi santi
dottori cattolici. Ma Dante non solo il teologo, non solo il padrone delle Scritture e loro esatto
e ortodosso interprete; il sapiente che sa e pu rispondere a Pietro sulle verit della Fede ed
essere approvato; ma , Dante, buon cristiano, come lo chiama l'apostolo stesso; il cattolico
per sentimento, il credente persuaso e dotto, ed anche il piamente orante colle preghiere degli
umili: l'Ave Maria, il Pater noster. Occorre dir questo per ritrovare intera la personalit di Dante.
Oggi purtroppo si usa confondere la cultura religiosa colla religione, colla fede, ed male;
perch, se per un cristiano necessaria una cultura, la religione non si deve limitare ad una
credenza intellettualistica, filosofica. Come ben dice il Papini, non si deve avere in s un Dio
teologico; ma occorre un Dio vero, personale, sentito. La cultura religiosa necessaria: ma la
religione vera un'infanzia del cuore, da cui la verit : Se non vi farete come pargoli non
entrerete nel Regno dei Cieli .
Ora Dante fu s un coltissimo teologo, ma altres un umile credente in un suo Dio personale. E
ben il Carducci pot confrontarlo col Petrarca dicendo mirabilmente che il cantore di Laura fu un
devoto mentre Dante fu un credente. Nella Commedia non mancano, anzi abbondano, i
richiami alla religione semplice, alla credenza umile, all'abbandono a Dio, come potrebbe fare il
pi semplice e il pi pargolo dei cristiani. Dante quello che ai troppo sapienti chiede: Chi
sei tu che vuoi sedere a scranna e giudicare delle cose divine colla tua vista umana?
E' colui che consiglia di star contenti al quia, che indica che a nostro salvamento bastano le
Scritture e il pastore della Chiesa che ci guida.
Prettamente religioso, ligio alla forma pi ortodossa anche il comportamento di Dante rispetto
a due grandi peccatrici, Francesca e Cunizza. Quanta piet per Francesca! Ma essa morta in
flagrante peccato mortale senza possibilit di pentimento; dannata. Sembra, ed anzi , che
Dante uomo sia profondamente commosso e addolorato cantando di essa; ma, come cattolico
rigidamente credente, la deve condannare. Cunizza certamente fu peccatrice, ma essa ebbe
modo di pentirsi e di terminare in virt la sua vita. Per quanto sian gravi i peccati commessi, la
Bont divina accoglie i penitenti quando il pentimento sia totale e sincero; basta il pentimento a
redimere dal peccato.
Ma vi un altro esempio, che ha dato tanto da fare ai commentatori. Capeto, in un mirabile
punto della storia di Francia, inveisce contro quel Carlo, pieno di magagne, che per abbiamo
trovato salvo nella Valletta amena. Nessuna contraddizione. Carlo, al letto di morte, si pent
sinceramente dei propri misfatti; egli dunque perdonato; orribili furono i peccati suoi, come
quelli di Manfredi, ma la Bont divina accoglie chiunque si rivolge a lei. Non si pu essere pi
ortodossi, direi quasi catechistici, di cos.
E a questo proposito ricordiamo che Dante ha fatto salvo Rifeo, pagano. Perch allora non ha
voluto fare altrettanto per il maesto suo, Virgilio, per il quale si permette solo una nascosta
speranza, non di salute eterna ma di mitigazione di pena? Credo che si debba trovare una
spiegazione di questo. San Paolo, secondo la leggenda, ha deplorato di non esser giunto in
tempo per salvare il Poeta latino. noto un inno che faceva parte della liturgia della messa di
San Paolo, che pare si continuasse a cantare sino a tutto il 1400. In questo inno si dice che
l'Apostolo, dinanzi al mausoleo di Virgilio, piangendo, cos si esprimesse:
Quem te, inquit, reddidissem,
si te vivum invenissem,
ptarum maxime!
Dove non era riuscito San Paolo non poteva sostituirsi Dante! Egli ha dunque potuto permettersi

(in perfetta ortodossia!) il salvataggio di Rifeo ma non poteva, come cattolico credente, andar
contro San Paolo e sostituire il proprio al giudizio dell'Apostolo.
Profonda la religiosit di Dante quando nel XIV del Paradiso parla della resurrezione della
carne. Vi un anelito profondo alla vita futura; poich il Poeta canta che non si deve piangere
n temere la morte, sapendo che lass si vive e si ha il refrigerio della beata pioggia eterna. Ed
affettuoso il pensiero che il riprender la carne possa esser di gioia per le mamme e per i padri;
e qui la parola mamma (rima sottile) rende affettuosamente umano il concetto della resurrezione
dei corpi.
Veramente dunque, quando Beatrice chiede a Pietro di interrogare il suo fedele sulle verit
cattoliche, osserva che non ce ne sarebbe bisogno, poich il santo vede certamente nell'interno
di Dante. Ed forse per questo, per la conoscenza che Pietro ha di lui e della sua semplice
fede, che lo invita a s colla paterna parola buon cristiano (20).
***
Dante, col suo numerismo, non fu dunque un eretico, un ribelle, n il suo numerismo va confuso
con quello delle stte eterodosse. Egli aveva, direi, una quasi istintiva mentalit numeristica ed
armonica. Questa del resto si trova dal pi al meno in tutti noi. Basta mettersi a indagare sul
modo di scrivere di molti autori, anche modernissimi, per rilevare come sia diffusa, ad esempio,
l'espressione ternaria anche ripetuta.
Alfredo O'Rahilly, membro del Parlamento irlandese, nella sua bibliografia del Padre Guglielmo
Doyle (21), cappellano militare morto in Fiandra nel 1917, ricorda come questo gesuita tenesse
nota e contasse esattamente, giorno per giorno e mese per mese, le aspirazioni a Dio che egli
soleva fare. Dunque questo desiderio e questa inconsapevole attrazione al numero diffusa. E
Dante questo numerismo, questa armonia tenne sempre presente nell'orditura di ogni canto e di
ogni cantica, orditura preordinata a cui, come dice lo stesso Poeta, il freno dell'arte non
permetteva di trasgredire.
Come osserva acutamente il Giusti nel suo saggio sulle Opere del Parini, i forti ingegni, mentre
sono audacissimi nell'infrangere i ceppi imposti dagli altri, sono poi durissimi ad imporsene dei
nuovi e terribili.
Il numerismo dantesco non ha dunque alcuno scopo ermetico, iniziatico o, per dirla con una
parola espressiva per quanto poco esatta, anticattolico. In questo particolare di un eventuale
ermetismo eterodosso dantesco non mi trovo quindi d'accordo col Valli. Questi, ad esempio, ha
creduto che Dante volesse nascondere la simmetria Croce-Aquila, come se si trattasse di un
segreto pericoloso a svelarsi, dato il temo, lo dir col Giusti, agli arrosti propizio . La mirabile
simmetria Croce-Aquila rilevata dal Pascoli che il Valli ha magistralmente posta in rilievo non
dice altro, per quanto nascosta alla gente grossa , se non quello che Dante ripeteva sempre
assai chiaramente; che cio non poteva aversi giustizia e pace se non con l'accordo tra
l'autorit religiosa e quella civile, che per Dante non poteva essere che quella imperiale. Non
poteva certo l'Inquisizione bruciare per questo la Commedia e il suo autore. Certo il Monarchia
fu condannato; ma si tratt di condanna contingente, in rapporto cio ai tempi e alle condizioni
speciali della Chiesa di allora; su per gi come fu per la condanna di Galileo. Ma poich il
Monarchia non conteneva errori dogmatici venne cancellato dall'indice dei libri proibiti, come
accadde per l'opera di Copernico, che per venne tolta dall' Indice solo nel 1758. Assai pi
pericolosa appariva la Beatrice , che poteva somigliare troppo alle Donne degli Eretici,
tipo Cecco d'Ascoli, che si collegava alla Donna degli Orfici. Perci, come vedremo, Dante
mette bene in chiaro che la sua donna ben diversa da quella degli altri Fedeli.
Dante dunque, adoperando il numero, non ebbe affatto l'idea di nascondere in esso qualcosa di
meno che ortodosso. Egli, invece, che era tutto, anche uno scienziato, amava, come tutti i
sapienti dei suoi tempi, di scrivere per la gente sottile . Quelli che erano in piccioletta barca
non potevano comprenderlo: la gente grossa , quelli che, come dice il Boccaccio,
intendevano alla melanese , erano esclusi dalla possibilit di entrare nel senso volutamente
recondito, ma non eterodosso, della parola dantesca. Questo vezzo degli scienziati si
continuato per lungo tempo: essi scrivevano pei dotti, anzi pei doctissimi. Quando l'astronomo
Huygens, ed eravamo dopo Galileo, volle comunicare ai colleghi la sua scoperta circa la forma
dell'anello di Saturno, adopr un anagramma, che poi dovette decifrare lui stesso. Leonardo
scriveva a rovescio e spesso anagrammava le parole pi importanti e segrete. Nel mondo

artigiano (e intendo con questo anche gli artisti) si avevano regole segrete, come quelle degli
architetti (22), seguaci essi pure del mistero del numero; regole che il maestro rivelava solo ai
discepoli pi quotati. Dante quindi non vuol parlare in chiare note, ma avviluppa le sue idee in
enigmi e concetti sottili in modo da esser compreso solo dai dotti: Odi profanum vulgus. Al volgo
profano contrapposto, come qualcosa di sacro, di iniziatico, il mondo dei sapienti.
***
Dante fu eminentemente geometrico, perch egli ricordava che
sempre la Divinit
geometrizza e tutto il poema compose secondo una mirabile geometria. Egli anzi dice
chiaramente:
le cose tutte quante
hanno ordine tra loro e questo forma (idea!)
che l'Universo a Dio fa simigliante.
Ora il numero ordine, armonia; e pertanto il Poeta adopra il numero, che perfezione. Dante
non usa che i numeri mistici sacri usati anche dai Padri della Chiesa: solamente d molta
importanza al gruppo pitagorico 3, 4, 5 su cui i Padri meno hanno insistito; e un numero poi crea
suo, speciale, sul quale torneremo parlando dell'ultimo canto. In conclusione, non Dante
numerista. Numerista Dio: e Dante lo segue devotamente.
Vi sono taluni che non vogliono accogliere i risultati di questi nuovi studi sul numero in Dante,
obiettando che si tratterebbe di un artifizio indegno del grande Poeta. Occorre intenderci su
questa parola artifizio. I dantisti ufficiali, quelli che appartengono all'hortus conclusus
validamente guardato contro gli intrusi, quelli che riproducono da anni gli stessi dischi
fonografici, non sembrano avere un esatto concetto dell'artifizio. Artifizi stucchevoli son quelli di
taluni modesti dicitori in rima del tempo, artifizio quello di talune rime del Petrarca, dei secentisti,
degli arcadi, di gente senza ispirazione che si sbizzarrita in mille giocarelli. L'artifizio in questi
casi palese e l'artifizio nega la poesia. Ora non si considera in Dante un artifizio la terzina
ferreamente legata, la struttura ternaria prevalente, i cento canti costituiti da 1+33+33+33 ecc.;
e dovrebbe essere artifizio non adoprare la stessa rima nello stesso canto e pi ancora fare
imperare, come vedremo, anche nella rima, l'armonica legge pitagorica? E si pu dire artifizio
questa mirabile prassi dantesca, soggetta ad innumeri freni dell'arte, che viene scoperta
soltanto oggi? L'artifizio si svela subito. Cos, ad esempio, tutti vedono l'artifizio dell'acrostico
del XII del Purgatorio, colle terzine che tutte cominciano con: Vedea, O, Mostrava. Ma l dove
nulla appare a prima vista, e dove son occorsi sei secoli per scoprirlo, non si tratta pi di artifizio
ma di arte sovrana.
Quando si ammette la struttura ternaria, il 3, il 33, il 10, il 100, allora, come dice giustamente il
Petrocchi, illogico non fare il passo completo ed accettare anche gli altri numeri, che
chiaramente appaiono quando si analizzi accuratamente la stesura della Commedia. Dante ha
costruito la sua mirabile cattedrale al Dio Uno e Trino secondo i dettami dell'armonia, cio del
numero e della geometria. Numero, armonia, geometria eran connaturati nella mente fuor
dell'umano grande di Dante, come eran connaturati il verso, la terzina, la rima regolata. Si
ammetta, come necessario ammettere, che il freno dell'arte dantesca non si riferisca solo alla
terzina, alla rima non mai ripetuta nello stesso canto, alla struttura ternaria di tutto il poema, ma
anche ai numeri che son perfezione, armonia e avremo un Dante che sovrasta di mille cubiti gli
altri, per aver sottoposto al fren dell'arte anche la struttura numerica della sua epopea. Non
si deve per credere che Dante scrivesse secondo un suo prontuario numeristico. L'armonia,
la simmetria, il numero erano connaturati in lui. Quando un popolo crea una lingua e un grande
scrittore la codifica, la grammatica non esiste ancora. I grammatici vengono dopo e ricercano a
posteriori le leggi della lingua che studiano. Cos facciano noi ricercando nella prassi dantesca
le leggi del numero, che Dante possedeva nella sua anima.
Quelli che non possono negare certi dati di fatto relativi al numero ricorrono a quel comodissimo
concetto di caso . Il caso la scappatoia degli infingardi e dei presuntuosi. Infingardi che non
vogliono sobbarcarsi alla fatica di una pi profonda ricerca; presuntuosi perch non vogliono
riconoscere la propria inferiorit . Per Dante non si d mai che si possa parlare di caso . E
del resto basta ricorrere ad un facile calcolo delle probabilit per eliminare questa idea errata.

Prendo ad esempio, per un tal calcolo, una delle cose pi mirabili che siano tra le rime della
Commedia. Come abbiam veduto, i tre numeri consecutivi 3, 4, 5 del triangolo pitagorico son
sacri, divini. Orbene: la rima Dio tre volte nell'Inferno, quattro volte nel Purgatorio e cinque
volte nel Paradiso (23). Ed anzi, per non alterare questa mirabile sigla, Dante adopra il latinismo
Deo, non certo per deficienze di rima! Dir questo per Dante, che ne ha una stragrande
ricchezza, sarebbe davvero eresia.
Se ricorriamo al calcolo delle probabilit con riferimenti numerici adatti arriviamo all'espressione
1/70.000.000.000.000.000.000.000.000
espressione che alla nostra piccola mente non pu dir nulla. Bisogna ricorrere ai confronti.
La luce, a percorrere una distanza espressa da un numero di metri uguale al denominatore di
questa frazione (che rappresenta il numero dei casi possibili fra i quali il caso avrebbe scelto
l'unico favorevole dato dal numeratore), impiegherebbe 75 milioni di secoli. Per discendere ad
un paragone pi prosaico si pu dire che la probabilit che abbia agito il solo caso equivale a
vincere 150 quintilioni di volte una quaterna al lotto.
Come ho detto, faccio questo solo esempio per non riempire di formule questo volume. Assicuro
per coloro che hanno poca dimestichezza con questi conteggi, che per qualsiasi altro esempio
numerico che citeremo in seguito, i calcoli possono esser ripetuti; e tutti, dico tutti, escludono
che si possa parlare di caso.
(17) La Vita nuova, II ed., Pisa, Nistri, 1884, pag. 205.
(18) Forse taluni saranno meravigliati di questa asserzione e citeranno il verso38 del Canto
XXI dell'Inferno ove in tutte lettere nominata Santa Zita. Ma questo nome ricordato a scorno
dei quasi idolatri Lucchesi, che avevano di motu proprio fatta santa questa Zita. Essa non fu
santificata che oltre tre secoli dopo Dante!
(19) A proposito di Colombo, ricordiamo che egli pure fu un mistico. Part pieno di fede pi
che di cognizioni scientifiche; perci pot scrivere: Dio mi concesse le chiavi dell'Oceano e il
potere di infrangere le catene del mare, che erano strettamente serrate . Il misticismo non
raro negli scienziati. Newton si pose a studiare l'Apocalisse. Kepler ricerc le sue leggi
nell'armonia divina e si cred destinato da Dio a svelare agli uomini le verit della meccanica
celeste.
(20) Dante e la filosofia cristiana. Loc. cit., pag. 172.
(21) Tip. Baravalle, Torino, 1924.
(22) I magistri comacini eran forse in questo senso una congrega di iniziati pitagorici.
(23)
Nell'Inferno ai canti: III, 122; IV, 38 e XII, 119. Nel Purgatorio ai canti: VII, 5; XI, 88;
XXVII, 24 e XXXII, 59. Nel Paradiso ai canti: VIII, 90; X, 56; XXIV, 130; XXVI, 56 e XXVIII, 128.
Naturalmente non sono rima Dio, n Uccel di Dio, n Figliuol di Dio ecc. che hanno altro
significato da Dio, come dice Dante stesso nel Convivio a proposito della rima e di cui avremo
occasione di parlare.
6. - Gematria Dantesca
Prima di entrare nel vivo del numerismo dantesco necessario dire due parole su di un capitolo
della Cabbala giudaica, la Gematria. Dante ricorre ad essa pochissime volte; e lo fa per imitare
un altro suo grande maestro, Giovanni, nell'Apocalisse, che opera tutta intessuta di
numerismo.
La Gematria , diciamo cos, una scienza, che ricerca l'interpretazione simbolica numerica sia di
singole lettere, sia di intere parole, sia delle prime tre lettere di ciascuna parola. Tale scienza fu
ampiamente coltivata dal rabbinismo. Si dice che vi fossero rabbini che conoscevano il valore
gematrico di quasi tutte le parole della Bibbia. Anche i greci indulgevano a questa moda (24).
Uno degli esempi pi noti e celebri di Gematria si trova, come si detto, nell'Apocalisse di
Giovanni, ove il mostro terribile indicato solo con un numero 666. Su questo numero e sulla

sua interpretazione vi un'intera biblioteca. Dante scrisse pure una sua Apocalisse ed egli pure
come Giovanni indic con un numero, non un mostro ma un Veltro, Messo di Dio, un Salvatore.
il ben noto cinquecento dieci cinque del XXXIII del Purgatorio. Questo numero va scritto
DXV e non, come i commentatori arbitrariamente cambiarono, DVX. Si tratta del numero
gematrico 515, sul cui significato pure si ha un'altra biblioteca facente il paio con quella del 666
di San Giovanni. La sola cosa che risulti sicura la diversit tra i due simboli. Per l'Evangelista il
666 la bestia satanica mandata fuori dall'abisso; per Dante il 515 un inviato celeste che
ricaccer la lupa nell'Inferno. Il primo pessimista, il fiorentino imperiale ottimista
Dante ha per un secondo esempio di Gematria. Nel cielo di Marte le fiamme delle anime
gloriose si dispongono in cinque volte sette (il numero del climaterico minore!) vocali e
consonanti a comporre il versetto: Diligite justitiam qui judicatis terram. Di queste 35 lettere
Dante pone in rilievo, secondo le regole gematriche, le sole prime tre, D, I, L, del DXV. Questo
fatto permette di dedurre che il numero 515 numero per Dante di molta importanza; e questo
conferma le acute investigazioni del Benini (25) su questo numero e sul 666 nella Commedia.
Finalmente si pu osservare che la Gematria DIL si ha nel cielo dei giusti e nel versetto che
impone ai governanti la Giustizia. E il DXV, il Messo di Dio, il Veltro, colui che verr ad
instaurare la Giustizia nel mondo.
A mettere in evidenza l'importanza che Dante ha voluto dare a questo 5. 1. 5. si pu rilevare,
come ha fatto acutamente e logicamente il Benini, che egli si proclamato sesto tra i poeti
imperiali proprio al 515 verso del poema.
Si pu riportare anche a Gematria la figurazione ed interpretazione della M ingigliata, l'ultima
lettera del vocabol quinto, cio terram, del versetto sopraindicato. Su questa M e sulla sua
derivazione si avuto una recente polemica in seguito alla pubblicazione fatta da Mgr. Tondelli
di un Liber figurarum attribuito a Gioacchino da Fiore.
Lascio da parte la questione se il Liber figurarum sia opera di Gioacchino. Francesco Foberti
(26), uno dei pi valenti suoi conoscitori ed uno dei pi fervidi difensori della sua ortodossia,
ritiene che anche questo libro sia da riportare alla letteratura gioachimita, ma non a Gioacchino.
Condivido pienamente l'opinione del Foberti. Si deve difatti pensare all'enorme mole delle opere
che dalle idee, travisate, dell'abate florense ebbe origine. L'idea di una nuova et dello Spirito,
di una fine del mondo, del mille e non pi mille, si continua in tutte le opere pi o meno
ortodosse dei religiosi per parecchi decenni. Ma non il caso di insistere su questo argomento
che esorbita dal mio assunto, il quale si pu riassumere cos: da dove Dante ha preso l'idea di
quel movimento di anime fiammanti, che dopo varie evoluzioni si fermano a formare una M
ingigliata e poi un'aquila?; ma, pi ancora, che cosa significa quella M?
Prima di tutto riprendiamo e riassumiamo la visione dantesca dei canti che ci interessano; e
cominciamo a considerare quello che Dante ci narra del cielo di Marte. Le luminose facelle dei
beati formano varie lettere a combinare una scritta che non dunque continua. Prima una D,
poi una I, poi una L; poi tutto il versetto, che l'inizio del Liber Sapienti, con cui si invitano i
potenti ad amare la Giustizia. Le lettere poi scompaiono, salvo l'ultima lettera di terram, che
una M luminosa d'oro. E su questa M il Poeta vide scendere altre luci sul suo colmo e l
quietarsi cantando.
L'M ha dunque un colmo: essa cio tondeggiante: non la nostra M angolosa, l'M gotica,
curva in alto.
Poi numerose altre faville, altre luci, pi di mille, ad altezze diverse formano la testa e il collo di
un'aquila. E l'anime beate, che sono ingigliate allm, con poco moto prendon parte esse pure
a formare la figura dell'aquila. Come si formata quell'immagine luminosa, quell'aquila a cui si
giunge da una modificazione della M?
Ed eccoci al nodo della questione, cio quel verbo, creato da Dante: ingigliare, che a me
sembra assai importante per chiarire il modello che pu avergli servito per questa figurazione.
Il Gaetani, geniale studioso di Dante, stato il primo a far osservare che la M di Dante doveva
essere l'M gotica. E ne d una figura, che poi viene ingigliata. Ma questa M ha sul colmo un
giglio, mentre Dante dice che sul colmo di essa si posano le luci a formare il collo e la testa
dell'aquila. Inoltre, per aversi poi l'aquila occorre una completa dissoluzione della M. Ma Dante
di questa dissoluzione non parla affatto (27).
necessario dunque ricorrere ad altro tipo di M ingigliata. Effettivamente vi un'altra figura che

arieggia alla M, che ha una base a coda d'aquila stilizzata, che possiede uno stelo su cui pu
formarsi il collo e la testa dell'aquila, che ingigliata sopra la M, e che non ha bisogno di
scomporsi.
Questa figura lo stemma fiorentino, il giglio, degno di essere nel cielo, quando sia formato,
come nel Paradiso, dai giusti e non sia il maladetto fiore della moneta.

Vediamo questo tipico e storico giglio fiorentino (28): i due petali laterali sono le due gambe
dell'm tondeggiante, su cui scendono poi le facelle a formare il collo e la testa di un'aquila. I due
gigli laterali, ingigliati allm, con poco moto, spostandosi di poco, terminano il contorno
superiore delle ali. Dal giglio si formata un'aquila. Non mi sembra che occorra andare a
ricercare altri modelli quando ne abbiamo uno cos noto a Dante, e che con poco moto ci d
la figura dell'aquila, derivandola da una M ingigliata, e senza scomporla.
A questo proposito non si deve dimenticare che, nel precedente canto di Cacciaguida,
Dantericorda espressamene il giglio fiorentino. lecito quindi pensare che egli avesse presente
il giglio, stemma della sua citt.
Si potr forse osservare che Dante, il florentinus natione non moribus, ce l'aveva con Firenze e
quindi non avrebbe dovuto mettere in cielo il suo giglio.

Ma ricordiamo che Dante un amante appassionato delle cose a lui care, principalmente la sua
fede e la sua patria. Come tutti gli amanti intransigenti vorrebbe perfetta la cosa amata. Ecco
perch inveisce contro i pontefici, non pastori ma lupi, contro la Chiesa che si corrompe nei
costumi, mentre detiene la Verit rivelata, a cui Dante crede con tutte le sue forze e con l'umilt
pi profonda. Ecco perch cos aspro verso la sua citt natale, che ama per con affetto
immenso di figlio. naturale quindi che nella visione della futura giustizia egli veda il giglio della
sua citt che si unisce all'Aquila del giusto Impero.
Ritengo dunque che l'm ingigliata di Dante derivi senz'altro dal giglio fiorentino.
Questa per potrebbe considerarsi questione di poca importanza. Piuttosto da vedere che
cosa Dante abbia voluto significare con questa M ingigliata, che prende poi la forma di aquila.
Io credo che a domandare al primo che passa che cosa rappresenti la M ingigliata, questi,
intuitivamente e senza esitazione, risponderebbe che essa non pu essere che la Vergine
Maria.
E cos ho sbito pensato io pure, credendo che l'interpretazione fosse pacifica. Ma mi ero
ingannato. Quella che il buon senso consiglia a noi profani, non l'opinione di molti dantisti di
professione. Difatti i commentatori pi quotati non parlano di Maria. Il vecchio Buti dice, e non si
comprende con qual fondamento, che in quella M Dante ha voluto indicare il Mondo e dal
Mondo nascerebbe l'Aquila. Un commentatore pi recente e tra i pi valorosi, il Parodi,
asserisce che in quella M si deve leggere Monarchia. Ed il giglio di cui infiorata la Monarchia
sarebbe la casa di Francia. Da questo giglio di Francia si passerebbe poi all'Aquila Imperiale.
Secondo il Parodi, dunque, con questa figurazione Dante ha voluto adombrare la sua speranza,
che la Casa di Francia si sarebbe sottomessa all'Impero. Ritengo che tutto sia possibile, meno
che Dante abbia potuto nemmeno lontanamente sognare una simile sottomissione. La Casa di
Francia e il suo giglio sono messi al bando dal Poeta, appunto perch oppositori e nemici

irriducibili dell'Impero.
Il Trucchi, che ha pubblicato recentemente un'esplicazione della Commedia e che molto spesso
ha ottime vedute, per caso strano non d alcuna importanza a questa M, che anche per lui pu
essere Mondo o Monarchia. Il Trucchi per propende piuttosto a ritenerla segno di Monarchia.
Ma non riconosce alcun valore speciale a questa visione. Eppure Dante avverte in modo
esplicito dell'importanza della cosa e ci fa attenti al significato profondo di essa, poich prima di
parlarne si rivolge a tutte le Muse, invocando la fonte a cui esse si dissetano, la Diva Pegasea,
che fa gloriosi e rende longevi gli ingegni.
Chi ha interpretato come Maria quella M stato il Laurenti nel suo opuscolo Ermetica ed
ermeneutica dantesca (pag. 188 e seg.). E con questa interpretazione entriamo in pieno campo
religioso e anzi in quello preferito da Dante per la sua venerazione alla Vergine. Di questa
creatura eccelsa, fiore dell'Umanit, santificata dallo Spirito Divino, Maria, parla la profezia di
Isaia. Rileggiamola: Et egredietur virgo de radice Jesse, et flos de radice eius ascendet.
Germoglier una vergine dalla radice di Jesse e dalla sua radice sorger un fiore. Ecco che si
spiegano quelle parole dantesche: surgono, resurgir, salir che rappresentano l'ascendet
d'Isaia e si spiega pure quell'ingigliarsi all'm, col fiore germogliante dalla radice.
Ma, osserva il Laurenti, vi ha di pi. Isaia continua: Judicabit in justitia pauperes. Ecco che
viene il concetto di giudizio e di giustizia, cio le parole segnate dalle divine facelle: Amate la
giustizia voi che giudicate la Terra.
Pare di veder riprodotta la visione dantesca. Il giglio fiorentino, che, privo del petalo centrale,
una M ingigliata dai due fiori laterali: le luci divine che calano sul colmo dell'M a formare il collo e
il becco dell'aquila, le fiammelle ingigliate che, con poco moto, si dispongono a terminare il
contorno delle ali.
Sarebbe cosa bellissima se nell'aquila si potesse riconoscere un simbolo dello Spirito. Ma in
tutta l'iconografia cattolica lo Spirito non figurato quale aquila.
Occorre allora ricercare se vi sia qualche altro significato sottile, che possa essere invocato a
spiegare questa speciale figurazione della M di Maria coll'Aquila. E lo troviamo in una curiosa
pagina del Convivio (3, V, 2) a cui mi pare non sia stata fatta soverchia attenzione. In questa
pagina Dante, esplicando il verso Non vede il Sol che tutto il mondo gira, della canzone Amor
che ne la mente mi ragiona, ci d la spiegazione della rotazione del Sole attorno alla Terra
immobile. In questa spiegazione il Poeta vuol render conto degli antipodi e vi suppone situate,
simmetriche, due citt. Ma, strano assai, il nome di esse. Una si chiama Maria e l'altra Lucia!
La trasparenza di questi due nomi fittizi chiara e chiarissimo pure il simbolo, quando il Poeta
dice: Li cittadini di Maria tengono le piante contro le piante di quelli di Lucia. Per mostrare
per anche meglio che in Maria personificata la Croce, il nome di Maria ripetuto esattamente
nove volte; mentre per Lucia, l'Impero, la Giustizia (simboleggiati nel sei), il suo nome viene
appunto ripetuto sei volte. Cos, secondo l'idea dominante di Dante, Croce e Impero sono, in
Terra, agli antipodi; e da ci il male dell'Umanit, posta nella selva oscura senza speranza.
Ma nel cielo della Giustizia, l dove si auspica la perfezione umana coll'accordo dei due poteri,
ecco che la M ingigliata, Maria, si dispone non pi agli antipodi ma intimamente legata all'Aquila,
Lucia. L'opposizione assoluta, diametrale del Convivio si cambia cos nell'auspicata unione della
Croce coll'Impero. Ed ecco come la cabalistica gematrica viene riportata alle credenze
cattoliche ed al grande sogno di Dante, religioso e imperiale.
(24) Stratone, in un epigramma, che non occorre tradurre, dice che proctos e chsisos si
equivalgono gematricamente.
(25) Dante nelle bellezze dei suoi enigmi risolti: passim.
(26) Questioni dantesche e storia francescana. Misc. francesc. XXXIX, Gioacchino da Fiore,
Padova, Cedam, 1942.
(27) Esposizione della Divina Commedia, Paradiso, pag. 296.
(28) La figura soprariportata mi stata cortesemente favorita dall'Uff. d'Arte del Comune di
Firenze quale stemma ufficiale, depositato all'Ufficio di Araldica, ed ricavata dai vecchissimi
esemplari esistenti nell'Archivio e risalenti al 1200. quindi certo il Giglio di Dante.
Fabritalp: Concluderei con un breve estratto dalla Parte Terza (Il numero nel testo):

Capitolo I. - L'uno e il tre


[...] Nella Commedia i canti sono cento; numero perfettissimo, perch potenza del perfetto dieci,
nel quale contenuto l'unit e la trinit nella sua potenza. E i cento canti son divisi in tre
cantiche ciascuna di trentatre canti, poich il primo canto non un canto sopranumerario
dell'Inferno, ma il canto proemiale a tutto il poema. Un canto di pi non poteva stare nel
Purgatorio. Poteva forse stare nel Paradiso, come canto riassuntivo: ma allora l'Uno, inizio del
tutto come vogliono i pitagorici, sarebbe stato al termine non al principio come di dovere, e
sarebbe stata impossibile la mirabile successione: 1 + 33 + 33 + 33. [...]

6a)

CICLO VITALE DELL'UOMO SECONDO DANTE


di Frater Petrus

Scrive Vinassa de Regny: "A proposito di questo 81 da notare che Dante (Convivio, 4, XXIV,
6), parlando dei periodi della vita umana, gli d una grande importanza tutta cristiana: Io credo,
se Cristo non fosse stato crocifisso e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo
natura trapassare, elli sarebbe alli LXXXI anno di mortale corpo in eterno trasmutato. E questa
una secca smentita a tutti quanti asseriscono che secondo Dante la vita naturale umana sia di
70 anni".
Come si concilia ci con la precedente affermazione dantesca in Convivio, 4, XXIII 6-10: tutte
le terrene vite (...) convengono essere quasi ad immagine d'arco assomiglianti (...) lo punto
sommo di questo arco (...) io credo che nei perfettamente naturati esso sia nel trentacinquesimo
anno ?
Credo che la cosa migliore sia rileggere per esteso i due capitoli in questione, per poi trarne le
possibili conclusioni.

Dante Alighieri
Convivio - TRATTATO IV
Capitolo XXIII
Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di nobilitade, e
quella per le sue parti, come possibile stato, dichiarata, s che vedere si puote omai che lo
nobile uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia: L'anima cui adorna esta
bontate; ne la quale si mostrano li segni per li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto
. E dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che questa nobilitade luce e
risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente
ne li suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente, soave e vergognosa.
Intorno de la prima da sapere che questo seme divino, di cui parlato di sopra, ne la
nostra anima incontanente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza de
l'anima, secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e
per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte a le loro
perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte de la nostra
anima che mai non muore, a l'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. E questo
dice per quella prima che detta . Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa, mostra
quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni apparenti, che sono, di questa
bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per quattro etadi
diversamente adopera, s come per l'adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo
senio. E comincia la seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E ne la

sua senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la vita. In quest[o] la sentenza di
questa parte in generale. Intorno a la quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto
effetto , riceve la similitudine de la sua cagione, quanto pi possibile di ritenere. Onde, con
ci sia cosa che la nostra vita, s come detto , ed ancora d'ogni vivente qua gi, sia causata
dal cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di quello a
loro si scuopra; e cos conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e]
tutte le [terrene] vite (e dico [terrene], s de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando e
volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti. Tornando dunque a la
nostra, sola de la quale al presente s'intende, s dico ch'ella procede a imagine di questo arco,
montando e discendendo.
Ed da sapere che questo arco [di gi, come l'arco] di su sarebbe eguale, se la materia
de la nostra seminale complessione non impedisse la regola de la umana natura. Ma per che
l'umido radicale [] meno e pi, e di migliore qualitade [e men buona], e pi ha durare [in uno]
che in uno altro effetto - lo qual subietto e nutrimento del calore, che nostra vita -, avviene
che l'arco de la vita d'un uomo di minore e di maggiore tesa che quello de l'altro. E alcuna
morte violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale
chiamata dal vulgo, e che , quel termine del quale si dice per lo Salmista: "Ponesti termine,
lo quale passare non si pu". E per che lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse di
questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che uno salire e
uno scendere: per dice in quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza non
altro se non accrescimento di quella. L dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella
disaguaglianza che detta di sopra, forte da sapere; ma ne li pi io credo tra il trentesimo e
quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo
anno. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo
quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; ch non era convenevole la
divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, n da credere ch'elli non volesse dimorare in
questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia. E ci manifesta
l'ora del giorno de la sua morte, ch volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Luca
che era quasi ora sesta quando morio, che a dire lo colmo del die. Onde si pu comprendere
per quello "quasi" che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade.
Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma, seguendo le
quattro combina[zioni] de le contrarie qualitadi che sono ne la nostra composizione, a le quali
pare essere appropriata, dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si divide,
e chiamansi quattro etadi. La prima Adolescenza, che s'appropria al caldo e a l'umido; la
seconda si Gioventute, che s'appropria al caldo e al secco; la terza si Senettute, che
s'appropria al freddo e al secco; la quarta si Senio, che s'appropria al freddo e a l'umido,
secondo che nel quarto de la Metaura scrive Alberto. E queste parti si fanno simigliantemente
ne l'anno, in primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die, ci infino a la terza, e poi
infino a la nona (lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione che si discerne), e
poi infino al vespero e dal vespero innanzi. E per li gentili, cio li pagani, diceano che 'l carro
del sole avea quattro cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo
quarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. Intorno a le parti del
giorno brievemente da sapere che, s come detto di sopra nel sesto del terzo trattato, la
Chiesa usa, ne la distinzione de le ore, [le ore] del d temporali, che sono in ciascuno die dodici,
o grandi o piccole, secondo la quantitade del sole; e per che la sesta ora, cio lo mezzo die,
la pi nobile di tutto lo die e la pi virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cio da
prima e di poi, quanto puote. E per l'officio de la prima parte del die, cio la terza, si dice in fine
di quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E per si dice mezza
terza, prima che suoni per quella parte; e mezza nona, poi che per quella parte sonato; e cos
mezzo vespero. E per sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare nel
cominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la presente digressione.
Capitolo XXIV Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per quattro etadi. La
prima si chiama Adolescenzia, cio "accrescimento di vita"; la seconda si chiama Gioventute,
cio "etate che puote giovare", cio perfezione dare, e cos s'intende perfetta - ch nullo puote

dare se non quello ch'elli ha -; la terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, s come
di sopra detto .
De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in fino al
venticinquesimo anno; e per che infino a quel tempo l'anima nostra intende a lo crescere e a lo
abbellire del corpo, onde molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote
perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quella
etade l'uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade.
De la seconda, la quale veramente colmo de la nostra vita, diversamente preso lo
tempo da molti. Ma, lasciando ci che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragione
propria, dico che ne li pi, ne li quali prendere si puote e dee ogni naturale giudicio, quella etade
venti anni. E la ragione che ci mi d si che, se 'l colmo del nostro arco ne li trentacinque,
tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa; e quella salita e quella scesa
quasi lo tenere de l'arco, nel quale poco di flessione si discerne. Avemo dunque che la
gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie. E s come l'adolescenzia in venticinque
anni che precede, montando, a la gioventute, cos lo discendere, cio la senettute, [in]
altrettanto tempo che succede a la gioventute; e cos si termina la senettute nel settantesimo
anno. Ma per che l'adolescenza non comincia dal principio de la vita, pigliandola per lo modo
che detto , ma presso a otto anni dopo quell[o]; e per che la nostra natura si studia di salire, e
a lo scendere raffrena, per che lo caldo naturale menomato, e puote poco, e l'umido
ingrossato (non per[] in quantitade, ma p[ur] in qualitade, s ch' meno vaporabile e
consumabile), avviene che oltre la senettute rimane de la nostra vita forse in quantitade di diece
anni, o poco pi o poco meno: e questo tempo si chiama senio. Onde avemo di Platone, del
quale ottimamente si pu dire che fosse naturato e per la sua perfezione e per la fisonomia che
di lui prese Socrate quando prima lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo che
testimonia Tullio in quello De Senectute. E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e
fosse vivuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe a li
ottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato.
Veramente, s come di sopra detto , queste etadi possono essere pi lunghe e pi corte
secondo la complessione nostra e la composizione; ma, come elle siano in questa proporzione,
come detto , in tutti mi pare da servare, cio di fare l'etadi in quelli cotali e pi lunghe e meno
secondo la integritade di tutto lo tempo de la naturale vita. Per queste tutte etadi questa
nobilitade, di cui si parla, diversamente mostra li suoi effetti ne l'anima nobilitata; e questo
quello che questa parte, sopra la quale al presente si scrive, intende a dimostrare. Dov' da
sapere che la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi, s come vedemo
procedere la natura de le piante in quelle; e per altri costumi e altri portamenti sono ragionevoli
ad una etade pi che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata ordinatamente procede per una
semplice via, usando li suoi atti ne li loro tempi ed etadi s come a l'ultimo suo frutto sono
ordinati. E Tullio in ci s'accorda in quello De Senectute. E lasciando lo figurato che di questo
diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidio
eremita ne dice ne la prima parte de lo Reggimento de' Principi, e lasciando stare quello che ne
tocca Tullio in quello de li Offici, e seguendo solo quello che la ragione per s ne puote vedere,
dico che questa prima etade porta e via per la quale s'entra ne la nostra buona vita. E questa
entrata conviene avere di necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene meno
ne le cose necessarie, ne d; s come vedemo che d a la vite le foglie per difensione del frutto,
e li vignuoli con li quali difende e lega la sua imbecillitade, s che sostiene lo peso del suo frutto.
D adunque la buona natura a questa etade quattro cose, necessarie a lo entrare ne la
cittade del bene vivere. La prima si obedienza; la seconda soavitade; la terza vergogna; la
quarta adornezza corporale, s come dice lo testo ne la prima particola. E` dunque da sapere,
che s come quello che mai non fosse stato in una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza
insegnamento di colui che l'hae usata; cos l'adolescente, che entra ne la selva erronea di
questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse
mostrato. N lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e per fu a
questa etade necessaria la obedienza. Ben potrebbe alcuno dire cos: dunque potr essere
detto quelli obediente che creder li malvagi comandamenti, come quelli che creder li buoni?
Rispondo che non ha quella obedienza, ma transgressione: ch se lo re comanda una via e lo

servo ne comanda un'altra, non da obedire lo servo; ch sarebbe disobedire lo re, e cos
sarebbe transgressione. E per dice Salomone, quando intende correggere suo figlio (e questo
lo primo suo comandamento): "Audi, figlio mio, l'ammaestramento del tuo padre". E poi lo
rimuove incontanente da l'altrui reo consiglio e ammaestramento, dicendo: "Non ti possano
quello fare di lusinghe n di diletto li peccatori, che tu vadi con loro". Onde, s come, nato, tosto
lo figlio a la tetta de la madre s'apprende, cos tosto, come alcuno lume d'animo in esso appare,
si dee volgere a la correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. E guardisi che non li dea di
s essemplo ne l'opera, che sia contrario a le parole de la correzione: ch naturalmente
vedemo ciascuno figlio pi mirare a le vestigie de li paterni piedi che a l'altre. E per dice e
comanda la Legge, che a ci provede, che la persona del padre sempre santa e onesta dee
apparere a li suoi figli; e cos appare che la obedienza fue necessaria in questa etade. E per
scrive Salomone ne li Proverbi, che quelli che umilemente e obedientemente sostiene dal
correttore le sue corrett[iv]e riprensioni, "sar glorioso"; e dice "sar", a dare ad intendere che
elli parla a lo adolescente, che non puote essere, ne la presente etade. E se alcuno
calunniasse: "Ci che detto , pur del padre e non d'altri", dico che al padre si dee riducere
ogni altra obedienza. Onde dice l'Apostolo a li Colossensi: "Figliuoli, obedite a li vostri padri per
tutte cose, per ci che questo vuole Iddio". E se non in vita lo padre, riducere si dee a quelli
che per lo padre ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato,
riducere si dee a colui cui la Ragione commette lo suo governo. E poi deono essere obediti
maestri e maggiori, c[ui] in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno tiene,
essere commesso. Ma per che lungo stato lo capitolo presente per le utili digressioni che
contiene, per l'altro capitolo l'altre cose sono da ragionare.

Commento
L'immagine del ciclo vitale umano, che probabilmente Dante aveva in mente nello scrivere
questi due capitoli del Convivio, una ellisse disposta verticalmente, il cui perimetro diviso in
quattro parti da due rette intersecantesi nel pi basso dei due fuochi. Con una tale costruzione,
solo la parte sinistra (da 0 a 25 anni) e destra (da 45 a 70 anni) del ciclo risultano uguali tra loro.

Come si pu notare il trentacinquesimo anno di et si trova effettivamente al vertice del


diametro maggiore ed in tal senso che esso il "mezzo del cammin di nostra vita", la quale ha
una durata perfetta se di anni 81 (= 34)

Dante attribuisce alla prima parte della vita, cio all'Adolescenza ( fino a 25 anni ) l'umido e il
caldo ( perci analogica all'elemento che ha le medesime qualit: l'aria); alla Gioventute ( fino
a 45 anni ) attribuisce il caldo e il secco (analogica al fuoco); alla Senettute ( fino a 70 anni )
Dante attribuisce il secco e il freddo (analogica alla terra); alla Senio ( fino agli 81 anni teorici )
attribuisce il freddo e l'umido (analogica all'acqua). Come indica chiaramente ci che viene
detto sul corpo di Cristo (se non fosse morto in croce), in riferimento all'alchimia interiore, la
quarta et (senio) corrisponde alla realizzazione del "corpo eterno". Esso vissuto
dall'alchimista come uno "sciogliersi" dei vincoli ai quali era soggetto il corpo mortale: perci
simbolicamente della natura dell'acqua.

7)

QUADRO GENERALE DELLA COMMEDIA


di Sipex

Domenico di Michelino (1417 1491)- La commedia illumina Firenze - in Santa Maria del Fiore.

Quel che segue una scheda sintetica della Divina Commedia, destinata ad un primo
inquadramento generale dei problemi, per chi parta da un punto di vista esoterico. Su
suggerimento di Ea, ho riscritto la "scheda" comunicata in un primo tempo. Essa, infatti, era un
semplice canovaccio di partenza, che di fatto non raccoglieva molto di pi delle nozioni
comunemente accettate dalla maggior parte degli studiosi. Tenendo conto sia dei miei scritti
successivi, sia di quanto, pi in generale, emerso in questo Forum, questa volta ho

evidenziato un livello "magico" nella struttura della Commedia, che va a determinare gli
altri livelli via via pi concreti: dottrinale, cosmologico e formale.
Titolo originale: Comedia - Poema in tre cantiche (Inferno - Purgatorio - Paradiso) di Dante
Alighieri.
Genesi e Storia Iniziale
La vera genesi di quest'opera da ricercarsi, come diremo nel seguito, in quella dimensione
magica in cui vissero l'autore e la Confraternita dei Fedeli d'Amore. La discussione relativa ad
opere precedenti, che abbiano potuto fungere da modelli per la Divina Commedia molto
complessa e richiederebbe probabilmente una trattazione a parte. Tuttavia, ai fini pratici,
possono anche essere sufficienti i cenni che faremo alle principali tra esse, parlando della
struttura dottrinale delle tre cantiche.
La datazione dell'opera ancor oggi problematica. I dati oggettivi che abbiamo a disposizione
sono:
- l'Inferno non contiene notizie posteriori al 1309. La prima menzione di copie manoscritte di
questa cantica del 1313. Tuttavia si trova una citazione di Inf. V 103-105 (episodio di Paolo e
Francesca) in una copertina, datata 1404, dell'Archivio di Stato di Bologna.
- il Purgatorio non contiene riferimenti a fatti posteriori al 1313 e fu divulgato separatamente nei
due anni seguenti.
- il Paradiso fu terminato negli ultimi anni di vita del poeta. Se si considera autentica la XIII
epistola, quella a Cangrande della Scala, la cui composizione collocabile, secondo il Mazzoni
"tra il 1315 e il dicembre del 1317", a quell'epoca le prime due cantiche erano gi divulgate e
Dante aveva dato inizio al Paradiso, ma non era ancora in grado d'inviarne parte allo Scaligero,
che della terza cantica era il dedicatario.
Sempre nell'epistola XIII, Dante spiega a Cangrande il motivo del titolo "Comedia". La ragione
del titolo retorica e connessa al tema trattato ed al livello linguistico: l'opera inizia infatti con
una situazione spaventosa e termina felicemente (al contrario, la tragedia pu aver inizio
piacevole ma fine tremenda), e il livello linguistico (la parlata volgare) dimesso e umile per
facilitare la comunicazione. L'aggettivo "divina", usato da Boccaccio nella sua biografia
dantesca, il Trattatello in laude di Dante, fu introdotto solo in un'edizione a stampa del 1555.
Struttura
La commedia racconta un viaggio nei tre regni dell'aldil compiuto da Dante ("simbolo"
esemplare dell'uomo), che si affida a diverse "guide" successive, tra le quali le principali sono
Virgilio (ragione), Beatrice (fede) e S.Bernardo (slancio mistico). Durante il tragitto sono
incontrati numerosi personaggi del passato, le cui svariate situazioni esistenziali sono
conseguenza del male e del bene perseguiti nel mondo terreno.
Il poema, secondo quanto Dante stesso afferma riguardo alle sue opere (Trattato II del
Convivio), ha quattro livelli principali di significato:
- Letterale: il viaggio di Dante nei tre regni oltremondani copre un arco di sette giorni, con
palese riferimento ai biblici sette giorni della creazione del mondo.
- Allegorico: il paragone lo strumento con cui il poeta ritrae il reale, mediante un intreccio di
notazioni varie.
- Morale: redenzione dell'anima del poeta dopo il periodo di traviamento (selva oscura) e
redenzione politica dell'umanit che, con la guida della ragione (Virgilio) e dell'impero e una
ritrovata moralit della Chiesa, raggiunge la felicit naturale (Paradiso Terrestre = giustizia e
pace).
- Anagogico: quello supposto dalla maggior parte degli esoteristi potrebbe essere esposto
sinteticamente cos: la guida della ragione e poi della fede (Beatrice), che muove le montagne
(Magia), applicata allo sviluppo interiore (S.Bernardo, Teurgia) porta alla condizione
soprannaturale (Empireo, Theosis).

A questi quattro livelli di significato, corrispondono, in ordine inverso, quattro livelli strutturali
della Commedia:
a) struttura magica
b) struttura dottrinale
c) struttura cosmologica
d) struttura formale
a) Struttura Magica
Tutti gli studiosi che accettano l'esistenza dell'esoterismo sono andati alla ricerca dei "dettagli"
del significato anagogico che abbiamo sinteticamente enunciato, ma ... non li hanno trovati.
Perch?
In generale, l'esoterismo d luogo a due tipi principali di prodotti (orali o scritto-grafici qui
non importa):
1) racconti di esperienze vissute o procedure da seguire per viverle o riviverle (Riti);
2) formule, o comunque insiemi pi o meno complessi di simboli, che esprimano una volont
magica propria o di gruppo (Sortilegi).
La prima cosa dunque che gli studiosi di esoterismo debbono chiedersi che tipo di prodotto
la Commedia. La maggior parte di loro non lo ha fatto, dando per scontato che l'aspetto
esteriore di "viaggio iniziatico" dovesse per forza corrispondere ad un prodotto del primo tipo,
cio ad un resoconto esperienziale interiore o rituale. Nulla di pi errato, giacch significa
sostanzialmente confondere il significato letterale con quello anagogico. E' infatti la "lettera"
dell'opera che parla di un itinerario iniziatico che culmina, gi in vita, con l'unione con Dio;
dunque il significato anagogico deve essere un altro! Niente da stupirsi dunque che tutti
quegli studiosi non abbiano potuto trovare ci che cercavano. Non hanno tenuto presente
l'ammonimento di Johannes Schrder, condiviso da altri alchimisti, che ancora nel XVII sec.
ammoniva: "Quando i Filosofi parlano senza raggiri, diffido della loro parola; quando si spiegano
per enigmi, rifletto".
Dunque la Commedia non pu essere che un prodotto del secondo tipo: un libro "vivente"
(come sono viventi anche certi quadri, statue, edifici, composizioni musicali) una complessa
formula magica che, anche se pu offrire spunti per riflessioni del primo genere, si propone un
unico scopo: di restare intatta nei secoli e di essere ripetuta e perci rigenerata da quanti
pi esseri possibile.
Si vuole dunque affermare che Dante non ha dato vita a prodotti del primo tipo? Per nulla, lo ha
fatto eccome! alla stessa identica maniera...degli altri Fedeli d'Amore a lui contemporanei, con
canzoni, ballate, sonetti e rime varie, cio con componimenti poetici di pi limitata estensione,
scritti nel "gergo d'amore" (che sostanzialmente assente nella Commedia) e a volte
accompagnati da un commento narrativo (Vita Nova) o dottrinale (Convivio). Sarabbero stati
adatti anche come formule magiche? s, ma molto meno. Certo i componimenti danteschi di
pi limitata estensione sono letti e studiati, come quelli di Guinizelli, Cavalcanti e tutti gli altri, ma
la Commedia... addirittura c' chi la conosce tutta a memoria! Essa , sul piano magico,
quello che, sul piano religioso, il Credo dei cristiani, cio la volont che vi legata, viene
potenziata tutte le numerose volte che viene letta o studiata o ripetuta a memoria. Qual
questa volont? Mi limiter a dire che alcuni effetti magici si mostrarono gi qualche decennio
dopo, ad es. quando il modello della Rosa Mistica, descritto da Dante negli ultimi canti del
Paradiso, si concretizz sul piano umano con la Confraternita dei Rosacroce. Profezia?
precognizione? no, questa roba da contemplativi: i maghi credono solo ... nella magia!
Dunque la struttura magica della Commedia semplicemente la volont magica che
Dante vi leg (legatura delle sorti, sortilegio). Essa il Fuoco dell'arte (volere radiante) che per
concretizzarsi, in un primo effetto condivisibile da tutti, cio l'opera scritta, deve coagularsi,
trasformandosi progressivamente in Aria, Acqua e Terra.

b) Struttura dottrinale
La prima fase di concretizzazione della struttura magica (= Fuoco) si ha nella determinazione
della struttura dottrinale (= Aria, moto delle idee), cio nella scelta di quell'impianto
teologico-filosofico ed esoterico, pi adatto a suscitare l'interesse dei lettori, nei confronti
dell'opera. La complessit degli schemi adottati dal poeta richiede che la materia venga trattata
a parte, in apposite voci di approfondimento. Perci, il lettore veda, nel seguito del testo, i
capitoli:
- Struttura dell'Inferno
- Struttura del Purgatorio
- Struttura del Paradiso
c) Struttura cosmologica
La struttura dottrinale (=Aria) si concretizza, a sua volta, ulteriormente nella scelta di un
ambiente organizzato, di un "cosmos" dove ci che sar narrato acquister senso e
coerenza. In conseguenza delle scelte dottrinali di Dante , la struttura cosmologica (=Acqua,
coesione del contenuto, determinata dall'ambiente scelto) della Commedia coincide in massima
parte con la rappresentazione cosmologica pi diffusa nell'immaginario medievale.
Il viaggio all'Inferno e sul monte del Purgatorio rappresentano infatti l'attraversamento dell'intero
pianeta, dalle sue profondit alle regioni pi elevate; mentre il Paradiso una rappresentazione
simbolico-visuale di un cosmo aristotelico-tolemaico cristianizzato.
L'Inferno era rappresentato all'epoca di Dante come una cavit di forma conica interna alla
Terra, allora concepita come divisa in due emisferi, uno di terre e l'altro di acque. La caverna
infernale era nata dal ritrarsi delle terre inorridite al contatto con il corpo maledetto di Lucifero e
delle sue schiere, cadute dal cielo dopo la ribellione a Dio. La voragine infernale aveva il suo
ingresso esattamente sotto Gerusalemme, collocata a 90 rispetto al semicerchio di 180
formato dalle terre emerse. La met
marina della Terra si estendeva invece su tutta la
semisfera opposta al continente euroasiatico. Agli antipodi di Gerusalemme, e quindi al 90
della semisfera acquea, si ergeva l'isola montagnosa del Purgatorio, composta appunto dalle
terre fuoriuscite dal cuore del mondo all'epoca della ribellione degli angeli. In cima al Purgatorio,
che peraltro era una creazione recente dell'immaginario cristiano legata alla necessit di
giustificare la dottrina delle indulgenze, Dante colloca il Paradiso terrestre del racconto biblico, il
luogo terrestre pi vicino al cielo.
Il Paradiso strutturato secondo la rappresentazione cosmologica aristotelica, rivisitata in
epoca ellenistica da Tolemeo, e risistemata ulteriormente dai teologi cristiani, secondo le
esigenze della nuova religione. Nel suo rapimento celeste dietro l'anima di Beatrice, Dante
attraversa dunque i nove cieli del cosmo astronomico-teologico, al di sopra dei quali si distende,
metafisicamente infinito, l'Empireo - in cui ha sede la Rosa dei Beati, godenti la diretta visione
di Dio. Ai nove cieli corrispondono nell'Empireo i nove cori angelici che, col loro movimento
circolare intorno all'immagine di Dio, provocano il relativo movimento rotatorio del cielo a cui
ciascuno di essi preposto - questo come conseguenza della dottrina dell'Atto Puro e del Primo
Cielo Mobile, desunta dalla Metafisica di Aristotele.
La struttura cosmologica della Commedia dunque strettamente connessa alla struttura
dottrinale del poema, per cui la collocazione dei tre regni, e, al loro interno, l'ordine delle anime ovvero delle pene e delle grazie-, corrisponde a precisi intendimenti di ordine morale e
teologico.
In particolare, la topografia dell'Inferno comprende i seguenti luoghi:
- Un ampio vestibolo o Antiferno, dove vengono puniti coloro che nessuno vuole, n Dio n il
demonio: gli ignavi. - Il fiume Acheronte, che separa il vestibolo dall'inferno vero e proprio.
- Una prima sezione costituita dal Limbo, immerso in una tenebra perenne.
- Una serie di cerchi meno scoscesi in cui patiscono i peccatori incontinenti.

- La citt infuocata di Dite, le cui mura circondano la voragine finale.


- Il cerchio dei violenti in cui scorre il fiume sanguigno del Flegetonte.
- Un burrone scosceso, che d
all'ottavo cerchio, chiamato Malebolge: il cerchio dei
fraudolenti.
- Il pozzo dei Giganti.
- Il lago ghiacciato di Cocito, dove sono immersi i traditori.
La topografia del Purgatorio invece cosi strutturata:
- Un Antipurgatorio, costituito da una spiaggia su cui vengono traghettate le anime dall'angelo
nocchiero che le preleva alla foce del Tevere. Specularmene all'Inferno, in esso subiscono la
loro purificazione i negligenti, i tardi cio a pentirsi.
- Ai piedi del monte, ancora parte dell'Antipurgatorio, c' una valletta fiorita in cui espiano i loro
peccati i principi negligenti.
- Il purgatorio vero e proprio un monte scosceso, formato da ampi dirupi e cerchi rocciosi, a
ciascuno dei quali preposto un angelo guardiano.
- Sulla cima del monte c' il Paradiso terrestre, che ha l'aspetto di una foresta rigogliosa,
popolata di figure allegoriche.
Topografia del Paradiso:
Il Paradiso situato oltre la "sfera dell'aria" e "la sfera del fuoco" ed suddiviso nei seguenti
cieli:
- I cielo o della luna: spiriti che mancarono ai voti (intelligenze motrici: Angeli)
- II cielo o di mercurio: spiriti che operarono il bene ma per desiderio di gloria terrena
(intelligenze motrici: Arcangeli)
- III cielo o di venere: spiriti amanti (intelligenze motrici: Principati)
- IV cielo o del sole: spiriti sapienti (intelligenze motrici: Potest )
- V cielo o di marte: spiriti dei morti per la fede (intelligenze motrici: Virt)
- VI cielo o di giove: principi giusti (intelligenze motrici: Dominazioni)
- VII cielo o di saturno: spiriti contemplanti (intelligenze motrici: Troni)
- VIII cielo o delle stelle fisse: spiriti trionfanti (intelligenze motrici: Cherubini)
- IX cielo o del primo mobile: cori angelici (intelligenze motrici: Serafini)
- X cielo o empireo: la "candida rosa", nove cerchi angelici, Dio.
d) Struttura formale
In base alla struttura cosmologica (= Acqua) viene determinata la struttura formale (=
Terra, forma sensibile del poema), cio il contenuto manifesto dell'opera nella sua peculiare
forma organizzativa e linguistico-espressiva. Da questo punto di vista, la Commedia si presenta
come un poema didascalico, che prende dal poema epico la protasi e l'invocazione per
ciascuna delle tre cantiche. E' composta da versi endecasillabi, distribuiti in 100 canti, che sono
raggruppati in tre cantiche di 33 canti ciascuna pi un canto introduttivo (1+33+33+33 = 100).
Il 3 ricorre anche nella forma metrica, che la terzina o "terza rima", ossia strofe di tre
endecasillabi a rima incatenata (ABA\BCB\CDC). Pi in generale, i numeri, legano le numerose
corrispondenze formali del testo (ad. es, i canti sesti delle tre cantiche sono di tema politico),
legando gli episodi in un'intricata rete di valori dottrinali e simbolici.
Sebene il livello linguistico di una commedia debba essere, come Dante stesso dice, dimesso e
umile, pure facile notare nelle tre cantiche un diverso stile. La norma teorica della
"convenientia" impone che lo stile sia conforme all'argomento trattato, perci lo stile si fa via via
pi elevato passando dalla prima alla terza cantica, con intensificazione anche del linguaggio
metaforico. Comunque, in generale, Dante ama un'espressione sintetica, che evochi immagini
visive e sensazioni acustiche, ogni volta che esse possano sostituirsi proficuamente ai semplici
legami logici. La giustapposizione sintattica (brevi elementi successivi con stacchi e cesure)
ereditata dalla letteratura latina medievale, fa a volte sembrare a noi moderni (abituati ad un
modo espressivo pi legato) il suo linguaggio poco fluido.

Struttura dottrinale dell'Inferno


Nella prima cantica, Dante impiega, per la classificazione delle colpe e la distribuzione dei
dannati, l'Etica Nicomachea (come dice esplicitamente Virgilio nel canto XI dell'Inferno) e la
Retorica di Aristotele con i loro commenti medievali, ma contemporaneamente si avvale di
S.Tommaso per quel che riguarda il cerchio degli eretici, dei Mythologiarum Libri di Fulgenzio
Planciade e del De Officiis di Cicerone per le partizioni della malizia e della frode.
I peccatori pi "vicini" a Dio a alla luce, posti nei primi pi vasti gironi, sono gli incontinenti,
coloro cio che hanno fatto il minor uso della ragione nel peccare. I peccati di incontinenza,
infatti, sono compiuti soprattutto per debolezza o per incapacit di controllo perci, pi che
alla ragione, sono da imputarsi ad un difetto di volont nel contrastare il male e nel fare il bene.
Pi in basso stanno coloro che hanno commesso peccati di malizia, cio azioni legate all'uso
errato della ragione, messa al servizio del male. Essi, a loro volta, possono dividersi in peccatori
di "eresia", peccatori che hanno agito con "forza" (violenti) e peccatori che hanno agito con
"frode". L'eresia il peccato meno grave giacch frutto di un autoinganno della ragione.
Seguono i peccati dei violenti che hanno agito accecati dalla passione e tuttavia ad un livello di
intelligenza maggiore degli incontinenti e degli eretici. I fraudolenti e i traditori sono i peccatori
pi malvagi, perch hanno scientemente voluto e realizzato il male. Si pu frodare chi si non si
fida o chi si fida: ingannare chi si fida (tradimento), cio chi ci legato da particolari vincoli
(parentela, ospitalit , patria comune), certamente pi grave.
L'Inferno digrada a cerchi concentrici. Essi sono in numero di nove, ai quali si aggiunge un
vestibolo (Antiferno) dove le anime sostano in attesa di conoscere la loro sorte e dove trovano
stabile dimora gli ignavi, cio "coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". I primi cinque
cerchi comprendono il Limbo (dove sospirano Dio i giusti che non conobbero la rivelazione o i
bambini che non ebbero il battesimo) e i quattro cerchi degli incontinenti: lussuriosi, golosi, avari
e prodighi, iracondi e accidiosi.
I quattro successivi cerchi sono chiusi entro le mura della citt di Dite, per indicare la gravit
dei peccati. Nel sesto sono puniti gli eretici; il settimo il cerchio dei violenti, diviso in tre gironi:
nel primo sono puniti i violenti verso gli altri - gli omicidi - nel secondo i violenti verso la propria
persona e le proprie sostanze - i suicidi e gli scialacquatori - nel terzo i violenti verso Dio
(sodomiti, bestemmiatori, usurai). L'ottavo cerchio, ove sono puniti coloro che hanno usato la
frode contro chi non si fida, suddiviso in dieci bolge: quelle dei ruffiani e seduttori, adulatori,
simonaci, indovini, barattier, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia,
falsari. Il nono cerchio, ove sono puniti i traditori, cio coloro che hanno usato la frode contro chi
si fida, suddiviso in quattro zone: Caina [traditori dei parenti], Antenora [della patria], Tolomea
[degli ospiti], Giudecca [dei benefattori]). Lucifero, in forma di immenso mostro con tre teste,
dalle ali di pipistrello, collocato al fondo dell'inferno, che coincide col centro della terra. Muove
costantemente le ali per mantenere ghiacciato il fiume Cocito e strazia nelle tre bocche Bruto,
Cassio (traditori e uccisori di Cesare) e Giuda (traditore di Cristo).

Il passaggio dall'Inferno al Purgatorio


Nel canto XXXIV dell'Inferno, Dante incontra Lucifero. Egli ha tre facce: quella davanti rossa, la
destra di colore tra il bianco e il giallo, la sinistra nera. Sotto ciascuna faccia vi sono due ali
senza penne, nerastre e simili a quelle dei pipistrelli, cos gigantesche da generare col loro moto
tre venti.
Le tre qualit della Natura, albedo, rubedo e nigredo, si esprimono dunque sia in Dio, sia in
Lucifero, ma in modo opposto. Le tre persone della Trinit , definite da Dante (canto III, versi
5-6), sulla base degli insegnamenti della teologia, Potestate, Sapienza, Amore, corrispondono
nell'ordine a rubedo, albedo e nigredo. In particolare, riguardo a quest'ultima qualit , occorre
notare che, nella Trinit , ha ovviamente anch'essa un significato positivo. La sua tendenza
"discendente" assume la valenza di amore per tutti gli esseri. I tre colori sono nominati nello
stesso ordine nel caso delle facce di Lucifero. Il rosso della faccia anteriore simboleggia, in

questo caso, il desiderio insoddisfatto (l'impotenza). Il bianco non puro, ma giallastro, della
faccia destra indica l'ignoranza. La faccia nera indica l'odio. E' appena il caso di notare che
desiderio, ignoranza e avversione sono considerati dagli iniziati di ogni epoca come i tre
principali ostacoli alla meditazione. Essi sono la fonte di ogni erroneo "dualismo" intellettivo
(ciascuna faccia mette in moto due ali) e generano tre correnti sottili disarmoniche (i tre venti),
che "gelano" l'uomo nella sua sofferente condizione.

Struttura dottrinale del Purgatorio


Dante passa dall'Inferno al Purgatorio, guidato da Virgilio lungo il corpo di Lucifero, che infisso
al centro della terra, con la testa rivolta verso l'emisfero boreale e i piedi verso quello australe.
La montagna del Purgatorio sorge su un'isola rimasta solitaria nell'emisfero australe, dopo la
caduta di Lucifero. Mentre le altre terre si ritirarono nell'emisfero boreale.
Nella rappresentazione dantesca della caduta di Lucifero (Inferno XXXIV versi 121-126 e
Paradiso canto XXIX, versi 49-51) confluiscono tre elementi:
1) il testo biblico di Isaia (XIV, 12-17), integrato dai passi dell'Apocalisse (XII, 7-16), di Luca (X,
18) e di Matteo (XXV, 41);
2) la cosmologia e cosmografia aristotelica che, per Dante, costituiva la descrizione dell'
"ambiente" nel quale il dramma biblico si svolse;
3) le considerazioni teologico-cosmologiche necessarie per adattare il dramma della caduta di
Lucifero al suddetto ambiente.
La caduta di Lucifero cos presentata in Isaia: "Come cadesti dal cielo Lucifero, stella del
mattino?... Tu che dicevi in cuor tuo: 'In cielo io salir... m'assider sul monte del Testamento
dalla parte dell'aquilone ; salir al di sopra delle nubi, sar pari all'Altissimo'. Ed invece tu sarai
trascinato all'inferno, nella profondit del lago". Il lago, identificato da Dante con il fiume del
pianto di cui parla Virgilio nel libro VI dell'Eneide, , nella Commedia, lo stagno di Cocito.
Aristotele, nel libro II del De Caelo, afferma che la parte pi nobile del mondo quella da cui
comincia il movimento diurno del sole, cio l'Oriente. E poich nell'uomo la destra pi nobile
della sinistra, si deve considerare l'Oriente simbolicamente come la destra del mondo. Se si
inscrive in un cerchio, che rappresenti il mondo, la figura d'un uomo visto di fronte, per far s che
la sua destra sia a Oriente, necessario che la sua testa coincida col polo antartico, e i suoi
piedi col polo artico. Perci il polo antartico simbolicamente il capo del mondo, mentre quello
artico ne rappresenta le estremit inferiori. Nel cielo antartico debbono dunque trovarsi quelle
costellazioni, che mandavano originariamente sulla terra i loro pi benefici e salutari influssi e
che la terra stessa attraevano a s, come magnete il ferro, facendola emergere dalle acque con
la loro virt (o potere).
Dante, accogliendo questa visione cosmologica, attribuisce alla caduta di Lucifero il cataclisma
geologico, che determin il trasferimento delle terre emerse e abitate dall'uomo nell'emisfero
boreale, e il contemporaneo formarsi della montagna del purgatorio, sormontata dal paradiso
terrestre (Caput Mundi) nell'emisfero australe.
Mentre le anime dannate entrano all'inferno dopo aver attraversato l'Acheronte, sulla barca del
demone Caronte, invece le anime espanti giungono alla montagna del purgatorio, dalla foce
del Tevere, su un vascello mosso dalle ali dell'angelo nocchiero. Il piano dell'isola e la prima
parte della montagna costituiscono l'Antipurgatorio. La parte superiore del monte il Purgatorio
vero e proprio . La struttura dottrinaria del Purgatorio segue la classificazione tomistica dei
vizi connessi all'amore mal diretto. Infatti, i peccati degli espanti sono originati da tre cause
fondamentali:
- amore rivolto al male (superbia, invidia, ira),
- amore troppo debole per Dio (accidia) ,
- amore troppo forte per i beni terreni (avarizia e prodigalit , gola, lussuria).

Perci il purgatorio diviso in sette cornici (delimitate dal lato interno dalla parete a piombo sul
monte, e dal lato esterno dal vuoto) in ciascuna delle quali si espia uno dei sette peccati capitali,
nell'ordine gi citato. Essendo il Purgatorio costruito specularmente all'Inferno (la montagna
l'immagine speculare della voragine), anche l'ordine dei peccati risulta capovolto: il cammino di
Dante infatti dal peccato pi grave (superbia) a quello pi lieve (lussuria). L'ingresso in
purgatorio consentito solo dall'angelo guardiano, che apre una pesante porta con due chiavi,
secondo un rito che allude ad un certo livello dell'iniziazione. Ogni cornice ha un custode
angelico, l'angelo della virt contrapposta al peccato, e precisamente gli angeli dell'umilt , della
misericordia, della pace, della sollecitudine, della giustiza, dell'astinenza e della castit .
Disposti al passo del perdono, ognuno di essi cancella una delle sette P, incise sulla fronte di
Dante dall'angelo guardiano della porta del purgatorio.
L'espiazione implica, oltre alla pena fisica che risponde alla legge del contrappasso (ed atta a
colpire pi la natura spirituale e intellettiva degli individui che il loro corpo) anche momenti di
riflessione e di pentimento, passaggio necessario per il termine dell'espiazione e il
raggiungimento dell'estasi propria del Paradiso: perci le anime sentono voci o vedono scene
che ricordano episodi di virt premiata o di colpa punita. Gli espanti, a differenza dei dannati
che restano fissati per l'eternit al luogo in cui devono pagare la loro colpa, percorrono tutte le
cornici purgatoriali, fermandosi in ciascuna, a seconda dell'intensit delle colpe.
Tenendo conto dell'Antipurgatorio, alla base della montagna, e del Paradiso terrestre, collocato
sulla vetta, anche nella divisione del Purgatorio si ripete l'iniziatico numero nove (lo stesso dei
cerchi dell'inferno) che si ritrover una terza volta nel Paradiso.
Nell'Antipurgatorio, camminano mestamente i negligenti, cio coloro che, per pigrizia, hanno
aspettato a pentirsi fino all'ultimo istante della vita. Sono divisi in quattro gruppi:
- Gli scomunicati che devono stare nell'antipurgatorio trenta volte il tempo che dur la
scomunica;
- I pigri;
- I morti di morte violenta;
- Gli amanti della gloria terrena.
Gli ultimi tre gruppi sosteranno nell'antipurgatorio tanti anni quanti vissero.
La sommit della montagna (che si erge verso il cielo, fin oltre la sfera del fuoco) costituita dal
pianoro del Paradiso Terrestre, dove convergono le anime purgate prima di accedere al
Paradiso. Il Paradiso terrestre una foresta rigogliosa, antitesi della Selva oscura. In essa
scorrono i due fiumi Lete ed Euno: il primo ha la funzione di cancellare la memoria del male, il
secondo quella di riaccendere la memoria del bene. Giunto alle soglie del Paradiso terrestre,
Virgilio deve abbandonare il Poeta; alla guida di Dante si pone il poeta latino Stazio (Dante
immagina si sia convertito segretamente), che lo condurr nel giardino celeste, dove sar
accolto da Matelda. Questa , a sua volta, anticipazione dell'apparizione di Beatrice, discesa
per lui dal cielo, ammantata delle tre virt teologali. Si compie, a questo punto, il rito catartico
della personale confessione e purificazione del poeta, che diviene cos "puro e disposto a salire
a le stelle". Proprio negli ultimi canti del Purgatorio, inoltre, viene affidato a Dante il suo compito
di scrittore, che quello di testimoniare agli altri uomini la verit cos come l'ha appresa.

Il passaggio dal Purgatorio al Paradiso


Vorrei soffermarmi (cos come ho fatto per il transito dall'Inferno al Purgatorio) sul transito dal
Purgatorio (e precisamente dal Paradiso Terrestre) al Paradiso. Dante, nell'Eden, si bagna nel
Let e cos dimentica il male commesso, si immerge poi nell'Euno, per ricordare tutto il bene
compiuto, di cui non ha pi coscienza, e si ritrova finalmente "puro e disposto a salire le stelle".
Le spiegazioni riguardanti i due fiumi si trovano in due canti del Purgatorio.
Nel canto XXVIII, Matelda spiega a Dante:
"L'acqua che vedi non scaturisce da una polla che sia alimentata dal vapore acqueo convertito
in pioggia dal freddo, come un fiume (terreno) il quale accresce e diminuisce la sua portata; ma
nasce da una fonte costante e inesauribile, che dal volere di Dio attinge tant'acqua, quanta ne

versa nei due fiumi aperti in due direzioni opposte. Nel fiume che da questa parte l'acqua
scorre con un potere che toglie il ricordo del peccato in chi la beve; nel fiume che dall'altra
parte l'acqua restituisce il ricordo del bene compiuto. Da questo lato il fiume si chiama Let; cos
dall'altro si chiama Euno, e l'acqua non opera il suo effetto se prima non bevuta in entrambi i
ruscelli".
Nel canto XXX, Dante dice: "Gli occhi mi caddero sulla limpida acqua del Let; ma vedendo
rispecchiata in essa la mia confusione, li volsi sull'erba, tanto era il peso della vergogna che mi
fece abbassare la fronte".
Nel medesimo canto Beatrice conclude:
"Un sommo decreto di Dio sarebbe violato, se si oltrepassasse il Let e si gustasse la dolcezza
delle sue acque senza pagarne il prezzo con un pentimento cos profondo da far spargere
lagrime".
Il ricordo di s (1) va di pari passo con lo "sciogliersi" dell'attaccamento egoico ed ha due
aspetti, frutto in realt della medesima pratica. La presenza a s stessi non solo porta a
disidentificarsi dai sentimenti egoici che appaiono nella mente, ma anche dagli avvenimenti
passati e dalla vergogna che proviamo per alcuni di essi. Quella vergogna ci apparsa spesso,
ma ci faceva soffrire, cos la relegavamo per pi tempo possibile nella subcoscienza. La
presenza mentale guarda quella vergogna negli occhi: la chiarezza della visione rende
momentaneamente la sofferenza forte come non mai stata. Ma la presenza mentale continua
nella sua azione: quella stessa sofferenza si fa distante, svanisce assieme all'ego che ha
sbagliato e che ha sofferto e che ora non cosa diversa dalla presenza stessa. Questa non
solo purifica cos dagli errori, ma ci riporta il ricordo di tutto ci che abbiamo fatto di piccolo o
grande per l'ascenso spirituale nostro o altrui. Non importa se quei tentativi erano pi confusi
che efficaci: essi erano sinceri. Svanito il peccato con l'ego che l'ha compiuto, restituitoci il
senso vero di tutto ci che abbiamo fatto, conosciamo cos' la purezza. E' finito il faticoso
"Opus mulierum", sta per iniziare l'agile "Ludus puerorum".
(1) Che forse sarebbe meglio chiamare semplicemente il Ricordo, con la lettera maiuscola.

Struttura Dottrinale del Paradiso


Da un punto di vista dottrinario, nella stesura del Paradiso, Dante si servito della concezione
aristotelica dei cieli, cos come si era venuta a trasformare nei secoli, e come fu accolta
nel mondo cristiano. Egli stesso cos la descrive nel Convivio : "Aristotele credette, ..., che
fossero pure otto cieli, dei quali lo estremo, e che contenesse tutto, fosse quello dove le stelle
fisse sono, cio la spera ottava; (II,3,3); Tolomeo poi, accorgendosi che l'ottava spera si movea
per pi movimenti, ..., pose un altro cielo essere fuori de lo Stellato, lo quale facesse questa
revoluzione da oriente a occidente... (II,3,5) Veramente, fuori di tutti questi, li cattolici pongono
lo cielo Empireo, che a dire cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere
immobile (II, 3, 8). Quest'ultimo il cielo dei beati - Questo loco di spiriti beati, secondo che
la Santa Chiesa vuole, che non pu dire menzogna (II,3,10)".
Se i cieli si muovono, si pone il problema di chi li muove. Sempre nel Convivio, Dante dice che
al loro movimento sono associati "sustanze separate da materia, cio Intelligenze, le quali la
volgare gente chiamano Angeli" (II,4,2). Dante ritiene che la verit su questa questione sia
difficile da vedersi per due ragioni, "e per difetto di ragione e per difetto d'ammaestramento"
(II,4,8). Ritorna successivamente su questo concetto, spiegando: "Detto che per difetto
d'ammaestramento li antichi la veritade non videro de le creature spirituali" (II,5,1); in parte la
raggiunse il popolo d'Israele, ad opera dei suoi profeti. I cristiani, infine, "ammaestrati da colui
che venne da quello, da colui che le fece, da colui che le conserva, cio da lo Imperadore de

l'universo, che Cristo", ebbero completa conoscenza di questa verit.


La struttura del Paradiso perci costruita sulla base di una cosmologia geocentrica, che
pone la Terra al centro di una serie di nove sfere concentriche crescenti, rappresentanti i cieli
della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, dello Zodiaco o delle
Stelle Fisse, e del Primo Mobile o Cristallino. Quest'ultimo, che "non ha altro dove che la mente
divina" (XXVII, 109-110), racchiude l'universo sensibile e, nello stesso tempo, ne al di fuori.
Oltre il Primo Mobile il cielo Empireo, raffigurato come una simmetrica serie di nove sfere
concentriche decrescenti, che sono le sedi di Angeli, Arcangeli, Principati, Potestadi, Virt,
Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini, e il cui centro un punto di luce abbagliante simbolo di
Dio (XXVIII, 16-18). L'universo descritto da Dante si compone perci di due distinte serie di
sfere, una sensibile e l'altra "celeste" (invisibile ai sensi, coelum viene da
coelare=nascondere) i cui centri sono rispettivamente la Terra e Dio. Dante (XXVIII, 46-57)
turbato dall'apparente mancanza di simmetria: le sfere dell'universo sensibile sono tanto pi
perfette quanto pi si allontanano dalla Terra, mentre quelle dell'universo celeste divengono
tanto pi perfette quanto si avvicinano al centro divino. Secondo la spiegazione che mette in
bocca a Beatrice (XXVIII, 61-78), l'ordine inverso delle sfere spirituali solo apparente, e il
centro divino in realt la sfera maggiore. Perci Dio appare "inchiuso da quel ch'elli 'nchiude"
(XXX, 12).
Tra i nove cieli c' dunque una gerarchia di perfezione, dalla luna (pi vicina alla terra e
perci pi lontana da Dio, pi piccola, pi lenta) al Primo Mobile (pi vicino a Dio, pi grande,
pi veloce ). Dante nella sua ascensione incontrer le anime dei beati secondo un ordine di
maggior perfezione e beatitudine, ma anche in una precisa corrispondenza
simbolico-astrologica tra la qualit di ogni pianeta e il tipo di esperienza spirituale compiuta dal
personaggio descritto. E cos, nel Cielo della Luna appaiono gli spiriti che mancarono ai voti; nel
Cielo di Mercurio gli spiriti attivi; nel Cielo di Venere gli spiriti amanti; nel Cielo del Sole gli spiriti
sapienti; nel Cielo di Marte gli spiriti guerrieri; nel Cielo di Giove gli spiriti giusti; nel Cielo di
Saturno gli spiriti contemplanti; nel Cielo delle stelle fisse gli spiriti trionfanti; nel Primo Mobile le
gerarchie angeliche. La collocazione delle anime dei beati per provvisoria, sono "scese" nelle
sfere celesti solo per far capire a Dante le gerarchie interne dei beati, ma il loro vero "luogo" la
Rosa Mistica nell'Empireo, l'anfiteatro spirituale dal quale essi contemplano direttamente Dio.
L'Empireo, la decima sfera, incorporea, immobile, che raggruppa tutte le altre la sede
vera e propria di Dio, anche se Egli in tutte le cose ("Trascendenza Immanente"), come gi
nel primo canto del paradiso, l'incipit chiarisce:
La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte pi e meno altrove.
(Par I, 1-3)
Tutti gli altri cieli ruotano tanto pi velocemente quanto pi sono alti. Dio infonde movimento al
Primo Mobile. Questo movimento passa gradualmente agli altri cieli, che sono presieduti dalle
intelligenze angeliche. Il movimento verso il "basso" in stretta relazione con un simmetrico
movimento verso l'alto: quello delle creature che tendono a tornare a Dio. Tutto ci in armonia
ancora una volta con la dottrina di Aristotele. Questi, in accordo col XII libro della Metafisica,
nel libro VIII della Fisica sostiene che la divinit muove il mondo stando ferma, ovvero
causa il moto dell'universo come causa finale (se fosse causa efficiente, sarebbe essa
stessa in movimento), poich a lei tende - come l'amante verso l'oggetto amato - il "primo cielo",
che per per Aristotele, diversamente da Tolomeo e da Dante, era il Cielo delle Stelle Fisse.
Il movimento dei cieli si trasmette non direttamente ma come conseguenza dell'atto delle
Intelligenze angeliche, che presiedono a ciascun cielo:
Lo moto e la virt d'i santi giri,
come dal fabbro l'arte del martello,
da' beati motor convien che spiri,
(Par II 127-129 )

I beati motori sono appunto le Intelligenze angeliche che, nel presiedere al cielo loro assegnato
dal disegno divino, sono causa efficiente del movimento delle rote celesti , che sono solo cause
strumentali degli effetti prodotti (musica celeste, influssi astrali etc.), allo stesso modo che il
martello solo lo strumento, mentre la causa efficiente il fabbro. Esempio mutuato da
Aristotele, e utilizzato anche nel Convivio (I,XI 11) anche se in negativo, perch l dar la colpa al
martello menzognera scusa di un cattivo fabbro: " s come lo mal fabro biasima lo ferro
apresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e
del mal sonar al ferro e alla cetera, e levarla da s.
In un punto sicuramente Dante si allontana da Aristotele: nel far sua la dottrina pitagorica
dell'Armonia delle Sfere:
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a s mi fece atteso
con l'armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novit del suono e 'l grande lume
di lor cagion m'accesero un diso
mai non sentito di cotanto acume.
(Paradiso, canto I, vv.76-81)
"L'armonia che temperi e discerni" espressione tecnica e musicale: temperare indica qui l'atto
dell'accordatura, tipico soprattutto di uno strumento a corde come la lira: "le sante corde/ che la
destra del cielo allenta e tira" (Par XV, 5-6 ), mentre nell'espressione discerni ravvisabile un
riferimento alla discretezza dei numeri per mezzo dei quali, secondo la teoria pitagorica,
vengono stabiliti i rapporti matematici che organizzano lo spazio sonoro (1) .
(1) Vedi: Nino Pirrotta, Dante musicus: gothicism, scholasticism, and music in: Speculum. A
journal of Mediaeval studies, vol.XLIII, Cambridge Massachusetts, 1968, pp.245-257.
L'origine, perlomeno in ambito occidentale, della teoria nota come armonia delle sfere viene
comunemente ascritta alla scuola pitagorica o a Pitagora stesso, che secondo la testimonianza
di Giamblico (La vita pitagorica, 65-67) poteva udire la musica cosmica.
Aristotele confut tale teoria nel De Caelo. egli stesso a riportare la giustificazione,
attribuita ai pitagorici, del perch non udiamo la celeste armonia: perch un suono o un rumore
non vengono percepiti se non in contrasto con il proprio opposto, il silenzio o meglio l'assenza
del suono medesimo; dal momento che quello prodotto dalla rotazione delle sfere planetarie
un suono che ci presente sin dalla nascita, non possibile riconoscerlo, in quanto ci manca la
percezione del suo contrario. Una saturazione per assuefazione, simile a quella provata dai
fabbri che appaiono indifferenti al rumore provocato dalla propria quotidiana attivit lavorativa.
Invece, Aristotele, alla domanda perch non udiamo la musica delle sfere, risponde che cos,
semplicemente perch non c' nessuna musica. Se esistesse un suono prodotto dalla rotazione
degli astri, sarebbe talmente forte ed intenso da distruggere la vita sulla terra, cosa che non .
Perci, non esiste alcuna musica delle sfere. E perch non esiste? Perch gli astri si muovono
nel medium della propria sfera, e quindi non si produce attrito.
L'ostacolo della confutazione di Aristotele venne aggirato proprio da un aristotelico,
Simplicio (vissuto nel VI secolo d.C.), il cui commento greco al De Caelo venne tradotto in
latino da Guglielmo di Moerbeke, nella seconda met del XIII secolo. Simplicio sposta l'asse del
ragionamento, dall'udibilit della musica in s, allo stato ricettivo in cui necessario si ponga
l'ascoltatore:
"Forte igitur, secundum virorum philosophiam, solvendam instantiam, dicendo quod non omnia
sunt invicem commensurata, neque omne omni est sensibile neque apud nos. Insinuant autem

canes odorantes animalia de longe, quod homines non odorant. Quanto itaque magis, intantum
natura distantibua, quantum incorruptibilia a corruptibilibus et caelestia a terrenis, verum est
dicere quod divinorum corporum sonus terrenis auribus non est audibilis! Si autem aliquis et hoc
corpus terrenum separatum et autoideale ipsius et caeleste sedile et eos quam in ipso sensus
purificatos habeat, aut per bonam sortem, aut per vitae bonitatem, aut adhuc propter
sacerdotalem perfectionem, iste utique videbit quae aliis invisibilia sunt et audiet quae ab aliis
non audiuntur, sicut narratur Pythagoras extitisse. Divinorum autem et immaterialium corporum,
si utique fiat aliquis sonus, neque percussivus neque perimens fit, sed generativorum sonorum
excitat virtutes et operationes et cognatum sensum perficit. Et proportionem quidem habet
quandam ad sonum concurrentem cum motu terrenorum corporum. Operatio autem quaedam
est motus illorum impassibilis soni, qui apud nos fit propter sonativam aeris naturam. Si igitur ibi
aer passivus non est, constat quod neque sonus utique erit. Sed videtur Pythagoras sic dicere
harmoniam illam audivisse tamquam et in numeris harmonicas proportiones intelligens, et quod
in ipsis audibile, audire dicebat harmoniam. -Dubitaret autem utique quis merito, propter quid
ipsa quidem astra visivis nostris sensibus videntur, sonus autem ipsorum auribus nostris non
auditur. Et dicendum quod neque astra ipsa videmus. Neque enim magnitudinem ipsorum aut
figuras neque excellentes pulchritudines, sed neque motum per quem sonus fit, sed velut
illustrationem quandam ipsorum videmus talem, velut et solis circa terram lumen et non ipse sol
videtur. Forsitan autem neque utique erit mirum, visivum quidem sensum veluti immaterialiorem
et secundum actum magis axistentem quam secundum passionem, et mulutm aliis
supereminentem, claritate et fulgore caelestium honorari. Alios autem sensus neque alias
alteras assignet causas probabiliores, amicus sit sed non inimicus habeatur" (2) .
Come si vede, Simplicio fa esplicito riferimento a Pitagora e alle credenze che volevano che il
filosofo udisse l'armonia celeste, essendo in condizione di "perfezione sacerdotale" e cita
esplicitamente la riconoscibilit di proporzioni e numeri all'interno dell'armonia percepita. Per
Simplicio, la musica delle sfere non dunque tanto una vibrazione propagantesi nell'aria e che
colpisca l'udito umano, ma piuttosto un atto intellettivo, con cui l'uomo conosce i rapporti
armonici che regolano la struttura ordinata dell'universo.
Tommaso d'Aquino dissent dalle ragioni addotte da Simplicio, ritornando ai principi
d'indagine puramente fisico-acustici di Aristotele. Ma non poteva certo convincere in questo
modo un Dante, secondo cui "dietro ai sensi/vedi che la ragion ha corte l'ali" (Par II, 56-57) e
che era perfettamente d'accordo, sull'imperfezione dei sensi terreni, con Cicerone, secondo il
quale "tum multo puriora et dilucidiora cernentur, cum, quo natura fert, liber animus pervenerit"
(Tuscolane, 1, XX, 46). Non a caso, proprio nel Somnium Scipionis, episodio del dialogo
De re publica di Cicerone, che si ha una descrizione dell'armonia delle sfere, che forse fu
modello di quella di Dante: Publio Cornelio Scipione Emiliano racconta come il nonno, Publio
Cornelio Scipione l'Africano, gli sia apparso in sogno e, nel descrivergli la via Lattea, sede degli
uomini che hanno servito e amato la patria, gli abbia parlato, fra le altre cose, della musica
meravigliosa prodotta dal movimento delle sfere celesti. "Il suono, - spiega Scipione - per la
rotazione vorticosa di tutto l'universo, talmente forte, che le orecchie umane non hanno la
capacit di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perch la vostra
percezione visiva vinta dai suoi raggi".
(2) "Simplicii, Commentaria in quatuor libros de Coelo Aristotelis", ff.24v-25r (II, ad t.c.37),
riportato in Bruno Nardi, La novit del suono e 'l grande lume, in Saggi di filosofia dantesca
(4. Il pensiero filosofico), Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp.73-80.
Nello scandire i tempi del viaggio paradisiaco, Dante ha tenuto presente lo schema
dell'opera "Itinerarium mentis in Deum" di San Bonaventura da Bagnoregio, teologo
mistico (agostiniano e neoplatonico), che prevedeva tre gradi di apprendimento: il primo
quello "Extra nos", cio della conoscenza sensibile, che culmina in Dante con l'esperienza dei
cieli sensibili (i primi otto); il secondo quello "Intra nos", che "ha per oggetto lo sprito, rivolto in
s e a s" e che corrisponde in Dante all'esperienza del Primum Mobile; il terzo quello
"Supra nos", ed "ha per oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra di s" e che
corrisponde in Dante all'esperienza dell'Empireo.

In quest'ultima fase del viaggio di Dante, Beatrice lascia il posto a S.Bernardo che in vita
"contemplando, gust di quella pace" (Par XXXI, 111), poich per innalzarsi alla visione
suprema della Divinit non basta pi la scienza teologica costruita sulla fede, ma si richiede
"ardore contemplativo" e soccorso di grazia, da impetrarsi con l'intercessione della Vergine.
Ancora una volta, non un caso che, anche nelle opere di S.Bernardo, si ritrovi la teoria
dell'armonia delle sfere:
" [I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d'esso Paradiso], udirono lo suono
della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto
diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta,
tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo!".
(Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo, Venezia,
Mongelli, 1846)

8) DATAZIONE DEL VIAGGIO DANTESCO

di Afrodite Urania e Frater Petrus


Afrodite Urania: Raccolgo qui di seguito i versi sui quali si basano i principali tentativi di
datazione del viaggio dantesco.
1) Inferno, I, 1
"Nel mezzo del cammin di nostra vita ".
2) Inferno, I, 37-43
"Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n s con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
s ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fera a la gaetta pelle
l'ora del tempo e la dolce stagione;".
3) Inferno, XX, 127-129
"... e gi iernotte fu la luna tonda:
ben ten de' ricordar, ch non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda ".
4) Inferno, XXI, 112-114
"Ier, pi oltre cinqu'ore che quest'otta,
mille duegento con sessanta sei
anni compi che qui la via fu rotta ".
5) Purgatorio, I, 19-21

"Lo bel pianeto che d'amar conforta


faceva tutto rider l'oriente,
velando i Pesci ch' erano in sua scorta ".
6) Purgatorio, II, 94-102
"Ed elli a me: "Nessun m' fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
pi volte m'ha negato esto passaggio;
ch di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond'io ch'era ora a la marina volto
dove l'acqua di Tevero s'insala,
benignamente fu' da lui ricolto ".
7) Paradiso, IX, 37-42
"Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che pi m' propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo centesimo anno ancor s' incinqua:
vedi se far si dee l'orno eccellente,
s ch'altra vita la prima relinqua ".
8) Paradiso, XXI, 13-15
"Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto 'l petto del Leone ardente
raggia mo misto gi del suo valore ".
Frater Petrus: Secondo la testimonianza di Ser Piero di Messer Giardino da Ravenna, raccolta
dal Boccaccio, Dante vicino a morire (Settembre 1321) avrebbe indicato la propria et in 56
anni e 4 mesi. In base a questa indicazione, la sua data di nascita si colloca nel Maggio del
1265.
Un'ulteriore indicazione ci viene dal XXII canto del Paradiso:
22.106 S'io torni mai, lettore, a quel divoto
22.107 triunfo per lo quale io piango spesso
22.108 le mie peccata e 'l petto mi percuoto,
22.109 tu non avresti in tanto tratto e messo
22.110 nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno
22.111 che segue il Tauro e fui dentro da esso.
22.112 O gloriose stelle, o lume pregno
22.113 di gran virt, dal quale io riconosco
22.114 tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
22.115 con voi nasceva e s'ascondeva vosco
22.116 quelli ch' padre d'ogne mortal vita,
22.117 quand'io senti' di prima l'aere tosco;

Dante ascende all'ottavo cielo, quello delle stelle fisse, nel quale si trova la costellazione dei

Gemelli, che nello Zodiaco segue quella del Toro. Egli afferma di esser nato nel periodo in cui il
sole in congiunzione con la costellazione dei Gemelli e perci nel periodo tra il 21 maggio e il
21 giugno. Mettendo assieme le due indicazioni precedenti, si ottiene una data di nascita
compresa ta il 21 e il 31 maggio 1265.
Secondo Inferno I/1, il suo viaggio inizia "Nel mezzo del cammin di nostra vita " e cio
considerando, come era d'uso, una durata media di 70 anni, a 35 anni. Questa informazione
per piuttosto ambigua, perch non chiaro se Dante volesse indicare il 35 anno della sua vita
(quando cio aveva 34 anni compiuti) o se invece volesse indicare di aver gi compiuto 35 anni
o infine se volesse indicare il momento esatto in cui compiva 35 anni. Da sola, questa prima
indicazione del poeta perci molto vaga, perch consente solo di collocare l'inizio del suo
viaggio iniziatico nel periodo piuttosto ampio (due anni) compreso tra il 21-31 Maggio 1299 e il
21-31 Maggio 1301.
Consideriamo ora la seconda indicazione che Dante ci fornisce e cio Inferno I/37-43:

1. 37 Temp'era dal principio del mattino,


1. 38 e 'l sol montava 'n s con quelle stelle
1. 39 ch'eran con lui quando l'amor divino
1. 40 mosse di prima quelle cose belle;
1. 41 s ch'a bene sperar m'era cagione
1. 42 di quella fiera a la gaetta pelle
1. 43 l'ora del tempo e la dolce stagione;

La notte era finita e il sole sorgeva in congiunzione con il segno dell'Ariete, proprio come
quando Dio, all'equinozio di primavera, mise in moto per la prima volta il firmamento. Lo zodiaco
dei "Segni" ha, a differenza di quello delle "Costellazioni", l'enorme vantaggio di poter
prescindere dal fenomeno della precessione equinoziale ed perci sempre ad esso che
occorre fare riferimento, quando non vi sia da parte di Dante una esplicita indicazione di fare
diversamente.
Il giorno che stava nascendo non era necessariamente successivo a quello di inizio del poema,
perch si pu benissimo ammettere che la peregrinazione nella selva fosse iniziata esattamente
a mezzanotte.
Questa seconda informazione, che il poeta ci offre riguardo al suo viaggio, ci permette di
escludere che esso sia iniziato nel giorno del suo compleanno, che come abbiamo visto cadeva
nel segno dei Gemelli. Viene invece indicato chiaramente il periodo in cui il sole in Ariete. Non
invece ancora chiaro:
1) se si tratta del 1300 o del 1301;
2) se il poeta intende indicare un giorno esatto: ad es. l'equinozio di primavera (21 Marzo),
quando, secondo la tradizione seguita da Dante, venne messo in moto l'attuale firmamento
(cio il II giorno della Genesi, nel quale il firmamento venne creato) o il giorno della nascita di
Adamo (25 Marzo= VI giorno della Genesi); o se intenda indicare genericamente il periodo in
cui il Sole in Ariete (21 Marzo - 20 Aprile). In ogni caso, l'incertezza sul periodo da
considerarsi per l'inizio del viaggio si ridotta di ben dodici volte, rispetto alla prima
informazione, (da due anni a due soli mesi) essendo tale inizio sicuramente compreso o tra il 21
Marzo e il 20 Aprile del 1300 o tra il 21 Marzo e il 20 Aprile del 1301.
Continuiamo la lettura dell'Inferno, alla ricerca di indicazioni temporali.
II Canto
2. 1 Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
2. 2 toglieva li animai che sono in terra
2. 3 da le fatiche loro; e io sol uno...

Siamo giunti dunque al tramonto.


VII Canto.
7. 97 Or discendiamo omai a maggior pieta;
7. 98 gi ogne stella cade che saliva
7. 99 quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta.

Il fatto che le stelle inizino la discesa, indica che passata la mezzanotte.


XI Canto
11.112
11.113
11.114
11.115

Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace;


ch i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via l oltra si dismonta .

I Pesci si trovano all'orizzonte e, poich precedono l'Ariete, segno in cui, come abbiamo gi
visto, si trova il sole, ci vuol dire che sta per sorgere l'alba.
L'Orsa maggiore in direzione del Coro o Maestrale, vento che soffia da nord-ovest.
XV
15. 49
15. 50
15. 51

L s di sopra, in la vita serena ,


rispuos'io lui, mi smarri' in una valle,
avanti che l'et mia fosse piena.

15. 52
15. 53
15. 54

Pur ier mattina le volsi le spalle:


questi m'apparve, tornand'io in quella,
e reducemi a ca per questo calle .

"Avanti che l'et mia fosse piena" da ritenersi espressione equivalente a " Nel mezzo del
cammin di nostra vita". "Ier mattina" conferma che tutta la narrazione da I/37 a 15/54 da
ritenersi avvenuta in poco pi di una giornata.
E giungiamo cos all'informazione importantissima del XX Canto:
20.124
20.125
20.126

Ma vienne omai, ch gi tiene 'l confine


d'amendue li emisperi e tocca l'onda
sotto Sobilia Caino e le spine;

20.127
20.128
20.129

e gi iernotte fu la luna tonda:


ben ten de' ricordar, ch non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda

Secondo un'antica credenza popolare sulla superficie lunare visibile l'immagine di Caino,
oppresso da un fascio di spine. La luna tocca il mare sotto Siviglia e si trova ora al confine tra i
due emisferi (boreale e australe), cio tramonta. La notte precedente ci fu la luna piena, che fu
pi volte utile a Dante nella selva buia.
Questa informazione di grande importanza, perch riduce da due mesi a due soli giorni il
possibile inizio del viaggio di Dante: Pu infatti trattarsi soltanto:
1) del plenilunio antecedente alla Pasqua del 1300, cio della notte del Marted 5 Aprile: errano

perci di sicuro coloro che lo fanno iniziare il 7 o l'8 Aprile;


2) oppure del plenilunio del 25 Marzo 1301, cio di quel 25 Marzo che, come abbiamo gi
ricordato, , per tradizione, considerato il giorno di nascita di Adamo.
L'informazione temporale successiva si trova nel canto XXI dell'Inferno:
21.112 Ier, pi oltre cinqu'ore che quest'otta,
21.113 mille dugento con sessanta sei
21.114 anni compi che qui la via fu rotta.
Ieri, cinque ore dopo l'attuale, si sono compiuti 1266 anni da che questa via fu interrotta. Il
terremoto che caus le interruzioni (cfr. Inferno XII, 37-45) avvenne alla morte di Cristo.
Nell'interpretazione di questi versi, alcuni critici letterari si sono serviti della data della morte di
Cristo (di per s incerta) fornita da storici o da scienziati o da teologi. Ci avrebbe senso solo se
Dante non avesse chiaramente espresso il suo parere in merito. Poich, invece, egli lo ha fatto,
solo la sua datazione (giusta o errata che sia) deve essere utilizzata nell'interpretazione dei suoi
versi.
Il poeta affronta il problema della morte di Cristo, nel Convivio (IV, XXIII, 10-11):
"10. E muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore Cristo, lo
quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade; ch non era convenevole la
divinitade stare [in] cos[a] in discresc[er]e, n da credere ch'elli non volesse dimorare in
questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era nel basso stato de la puerizia.
11. E ci manifesta l'ora del giorno de la sua morte, ch volle quella consimigliare con la vita
sua; onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che a dire lo colmo del die. Onde
si pu comprendere per quello 'quasi' che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la
sua etade".
Come gi sappiamo Dante considerava la vita media di un uomo pari a 70 anni. Pertanto,
simboleggiando la durata della vita con un arco, il tratto ascendente della vita culmina nel
compimento del 35 anno. Poi inizia il tratto discendente dell'arco, che porta alla vecchiaia e alla
morte. Dante afferma che non era cosa conveniente per la divinit vivere la fase discendente,
sperimentando cos la degenerescenza del corpo ("ch non era convenevole la divinitade stare
[in] cos[a] in discresc[er]e") e che per questo Cristo mor nel suo 34 anno. Ma in che mese e
giorno? Dante aggiunge che, se non volle vivere l'arco discendente della vita, tuttavia non
bisogna credere che egli non volesse neppure raggiungere la sommit dell'arco ("n da credere
ch'elli non volesse dimorare in questa nostra vita al sommo"). Ci significa che, secondo
Dante, Cristo mor un attimo prima di compiere 35 anni, cio nel momento di raggiungere il
sommo dell'arco. Ci si verific anche per l'ora della sua morte. Dante, citando il vangelo di
Luca, dice che "era quasi ora sesta quando morio, che a dire lo colmo del die", cio un attimo
prima di giungere al mezzogiorno.
Bisogna, a questo punto, ricordare che nel corso del Medioevo non era consuetudine iniziare a
contare i giorni dell'anno dal primo giorno di gennaio, come facciamo oggi. I pi comuni criteri di
datazione erano la datazione "a nativitate Domini", cio a partire dal 25 dicembre, e la
datazione "ab incarnatione", cio a partire dal 25 marzo (nove mesi prima della nascita). Il
comune di Firenze, nel XIII e XIV secolo, preferiva questo secondo criterio, ponendo l'inizio
dell'epoca cristiana al 25 marzo dell'anno I dopo Cristo. Quale criterio ha seguito Dante nel suo
poema? Non certo quello "a nativitate", perch, come sappiamo, il suo viaggio non avvenne a
fine Dicembre, bens in Primavera. Perci, secondo Dante, Cristo mor un attimo prima di
compiere 35 anni, calcolati "ab incarnatione". Se a questi 35 anni si aggiungono i 1266 indicati
dai versi del canto XXI, si ottiene la data del 25 Marzo 1301, cio una delle due uniche date di
plenilunio, precedentemente da noi individuate come possibili per l'inizio del suo viaggio. Questa
data , come si pu constatare, simbolicamente importantissima, poich :
1) La data in cui si incarn Cristo e perci il giorno dell'Annunciazione dell'Angelo alla
Madonna.

2) La data (secondo Dante) in cui mor Cristo.


3) La data in cui fu creato Adamo nel Paradiso Terrestre.
L'Ave dell'Angelo alla Madonna un ben noto simbolo dell'iniziazione. La morte di Cristo
simbolo della morte iniziatica. La nascita di Adamo il simbolo della creazione (in virt
dell'iniziazione) del nuovo uomo, che viene a trovarsi in una condizione interiore paragonabile a
quella del Paradiso Terrestre.

9)

Maometto e Al all'Inferno

"Mentre che tutto in lui veder m'attacco,


guardommi, e con le man s'aperse il petto,
dicendo: 'Or vedi com'io mi dilacco!
vedi come storpiato Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Al,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fur vivi, e per son fessi cos."
(Inferno, Canto XXVIII, vv. 28-36)
Tarquinio Prisco: Questi sono una parte dei versi dell'Inferno che Dante dedica a Maometto e
al suo genero Al, fondatore della corrente Sciita. Entrambi si trovano tra i seminatori di
discordie, cio tra coloro che in vita hanno provocato lacerazioni politiche o religiose o familiari.
Maometto ha il corpo dilaniato dal mento al basso ventre. Al ha una pena complementare,
avendo il volto aperto dal mento ai capelli. Entrambi sono puniti nelle parti del corpo che pi
hanno peccato: Al nel cervello, Maometto nella gola, nel cuore e nel ventre.
Gli studiosi arabi si sono in genere scandalizzati e, nelle traduzioni da loro fatte gi a
partire dal 1930, hanno omesso in vario modo i versi dal 22 al 63. Ma non si limitano a questo,
pretendendo che Dante debba molto alla cultura araba e in particolare al Libro della Scala, che
presenterebbe diverse analogie con l'Inferno. Dunque, secondo loro, non solo Dante si
sbaglierebbe riguardo a Maometto, ma sarebbe addirittura un ingrato, visti i suoi pretesi
debiti nei confronti dell'Islam. Che queste amenit le dicano gli islamici in fondo
comprensibile; lo meno che anche qualche europeo ed italiano sembri volerli compiacere.
EA: C' un'unica recente e lodevole eccezione tra gli studi provenienti dall'area islamica: la
traduzione di Kadhim Jihad, poeta iracheno e insegnante di arabo. In una intervista al
quotidiano La Stampa, in data 11 dicembre 2003, si pu leggere:
- Kadhim Jihad ha tradotto la Divina Commedia in arabo. Tutta. E dunque non ha salvato
Maometto dall'Inferno, canto XXVIII, laddove il profeta compare tra i "seminator di scandalo e di
scisma", "rotto dal mento infin dove si trulla". Squartato dal viso al basso ventre. Torturato,
umiliato. Nessun arabo tra i traduttori (parziali) o i divulgatori di Dante finora aveva osato.
Khadim l'ha fatto e ora, ci dice sorridendo, assolutamente "tranquillo".
Ma non teme una "fatwa", una condanna degli imam barbuti, tipo quella che colp Salman

Rushdie per i suoi "versetti satanici"? "No - risponde Khadim -. Io sono soltanto il traduttore.
Semmai la fatwa ricadrebbe su Dante... Ma sono sicuro che lui ne uscirebbe trionfatore". ...
Secondo Kadhim, Dante non anti-Islam e lo prova il fatto che colloca in quella "zona
franca" che chiama Limbo, accanto a Virgilio e Omero, anche due musulmani come il
filosofo Averro (la razionalit ) e il condottiero Saladino, avversario ma non nemico. Tarquinio Prisco: In effetti Kadhim Jihad una lodevole quanto rara eccezione, perch gli
studiosi islamici hanno detto delle vere enormit, spesso basandosi su una conoscenza
piuttosto approssimativa dell'opera dantesca.
Una prova? Il 30 Ottobre 1989, al Consolato Generale d'Italia a Casablanca, in occasione delle
celebrazioni del Centenario della nascita della "Societ Dante Alighieri", Mahmoud Salem
Elsheikh tenne un discorso (piuttosto noto e rintracciabile in Internet) nel quale pretese di
"psicanalizzare" Dante, attribuendogli, come affezione, la "sindrome del debitore". In altri
termini, Dante, debitore nei confronti della cultura islamica, avrebbe odiato il suo creditore, al
punto di mettere Maometto ed Al nell'Inferno. A conferma di ci afferm che:
" Dante comunque non risparmia dal suo Inferno chiunque si sia avvicinato alla cultura
arabo-islamica; basti ricordare la sorte di Michele Scotto (Michael Scott), il filosofo e scienziato
scozzese celebre per le sue traduzioni dall'arabo in latino di parecchi libri dello Stagirita e di un
compendio aristotelico di Avicenna e per i suoi studi di alchimia, condannato alla quarta bolgia
dell'Inferno, quella degli indovini, dove i dannati hanno la testa capovolta e con passi lenti e
stentati camminano all'indietro:
Quell'altro che ne' fianchi cos poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco.
Inf. XX, 115-17
Nemmeno papa Silvestro II (Gerberto il Franco), reo di avere frequentato la cultura araba "fonte
di tutti i mali", sfugge al duro giudizio di Dante, che lo ricorda addirittura come consigliere di
frode:
Ma come Costantin chiese Silvestro
d'entro Siratti a guerir de la lebbre ...
Inf. XXVII, 94-95"
Gli errori di Mahmoud Salem Elsheikh, in questo brano, sono due. Innanzitutto, come ha
indicato chiaramente Kadhim Jihad, riportando gli esempi di Averro e Saladino, non affatto
vero che Dante abbia messo all'Inferno tutti i personaggi appartenenti o vicini alla cultura
arabo-islamica. In secondo luogo, una vera enormit confondere papa Silvestro I, che
secondo la leggenda guar la lebbra dell'imperatore Costantino, con papa Silvestro II
(Gerberto di Aurillac). Qualsiasi studioso di Dante, anche mediocre, sa che il poeta, in quei
versi, fa un arguto accostamento tra la lebbra di Costantino e la febbre di potere di Bonifacio VIII
("ma come Costantin chiese Silvestro d'entro Siratti a guerir della lebbre cosi mi chiese questi
per maestro a guerir della sua superba febbre").
Abraxa: L'immagine di Maometto, punito all'inferno da demoni feroci, avr un certo seguito
nell'arte medievale. Piuttosto noto il particolare dell'affresco di Giovanni da Modena (1410 ca)
nella Cappella Bolognini della chiesa di San Petronio, a Bologna, che oggetto di contestazioni
da parte della Comunit Islamica del capoluogo emiliano.
Pu essere perci utile indagare sul perch della collocazione dantesca di Maometto. Diciamo
subito che riteniamo sia da rigettarsi l'ipotesi avanzata da quei critici e studiosi della Comedia,
che affermano che Dante abbia tenuto presente una leggenda diffusa nel Medio Evo, in base
alla quale Maometto stesso o il suo maestro spirituale era appartenuto alla Chiesa Cristiana e secondo alcune versioni della leggenda - aveva addirittura aspirato invano ad essere eletto
Papa. Non riuscendovi, avrebbe fondato una nuova religione.
Similmente, altri studiosi ritengono che Dante abbia assimilato il giudizio su Maometto espresso
da Giovanni Damasceno, secondo cui egli, partendo dal Vecchio e dal Nuovo Testamento e
influenzato dalla dottrina di Ario, avrebbe creato una sua propria eresia; oppure il giudizio di

Tommaso d'Aquino, che riteneva Maometto un insegnante di verit mescolate a cose


estremamente false - seguto da uomini bestiali, abitanti del deserto - che, con l'aiuto di essi e
con l'uso delle armi, costrinse gli altri all'obbedienza della sua legge (1).
(1) W. E. Phipps, Muhammad and Jesus, 1996, trad. it., Maometto e Ges, di A. Audisio,
Mondadori, Milano 2002, p. 15.
Gli influssi dell'ebraismo e del cristianesimo sull'islamismo non sono certo da
sottovalutarsi, tuttavia ben difficile che Dante si sia rifatto a quel tipo di credenze, per almeno
due motivi:
- Il primo di carattere storico: nei secento anni che vanno dal 632, anno della morte di
Maometto, al 1265 anno della nascita di Dante si colloca un periodo finale, caratterizzato da
forte separazione politica tra Occidente e mondo islamico, ma anche da un enorme incremento
delle conoscenze europee sull'Islam. Questo periodo, che comincia con il 1066 e termina nel
1291 ovviamente quello delle crociate e, in esso, i cavalieri Templari non solo trovarono in
Oriente conferma del loro "Secretvm Templi", riguardante il vero cristianesimo primitivo, ma
recarono anche in Occidente - assieme agli altri Crociati - notizie di prima mano sull'Islam, cos
che impossibile che Dante non sapesse che Maometto, da un punto di vista cristiano, non
cre uno scisma, perch non convert cristiani, ma pagani. Dunque Dante - seguendo Giovanni
Damasceno e Tommaso d'Aquino - avrebbe al pi potuto mettere Maometto tra gli eretici, ma
non tra gli scismatici.
- Il secondo di carattere letterario: Dante tace completamente dello scisma che Maometto
avrebbe causato. Segno evidente che non pu parlarne apertamente. Come mai? perch
il medesimo scisma, nell'ambito della religiosit umana, causato da tutte quelle
religioni - compreso quel cristianesimo fasullo propiziato dai successori di Costantino che pretendono di essere l'unico culto possibile, dividendo ipso facto l'umanit in fedeli
e infedeli. Dunque Dante avrebbe dovuto mettere tra gli scismatici anche i papi cattolici, cosa
che infatti fa con una mirabile allegoria. Maometto chiede a Dante che, quando ritorner nel
mondo dei vivi, rechi a Fra' Dolcino, una raccomandazione. Parafrasando dice: "Di' a Fra
Dolcin che si armi di vettovaglie, se non vuole raggiungermi presto, perch sar bloccato nella
neve. Se non lo fa, offrir al vescovo di Novara una facile vittoria, che altrimenti sarebbe
tutt'altro che facile".
Non ci sono ragioni per cui Maometto avrebbe dovuto preoccuparsi per un eretico del nord
Italia, anche perch, nella stessa bolgia, vi erano altri personaggi occidentali, che avrebbero
potuto pronunciare quelle stesse parole con maggiore collegamento storico o ideologico a Fra
Dolcino. E' chiaro che, con questa stranezza, Dante sta invitando il lettore a soffermarsi
particolarmente sul significato allegorico. Fra Dolcino (che sarebbe stato arso vivo nel giugno
1307 con la compagna Margherita da Trento) fu un seguace di Gherardo Segarelli (Ozzano
Taro, Collecchio (PR), 1240 ca - Parma, 18 luglio 1300) che fond la setta ereticale cosiddetta
degli "Apostoli". Morto sul rogo Segarelli, Fra Dolcino si autoproclam nuovo capo della setta. A
Dante, Dolcino non piaceva, perch alla mistica di Segarelli aveva aggiunto una ideologia
pseudoghibellina - e non meno settaria del cattolicesimo che combatteva - che ammetteva
ruberie e brigantaggi, cos da recar nocumento all'immagine del vero ghibellinismo. Nel 1306, si
ebbe l'episodio che Maometto profetizza a Dante: Fra Dolcino lasci il novarese dove si trovava,
per dirigersi verso i monti ricoperti di neve, giungendo il 10 Marzo nel vercellese presso Trivero
e insediandosi presso il monte Zebello (detto da quel momento Rebello o Rubello, perch
occupato dai ribelli). Dolcino - proprio come Dante mette in bocca a Maometto - avrebbe avuto
bisogno di vettovaglie; non avendole, si diede ancora a rapine e delitti di ogni genere, cos
alienandosi la simpatia della popolazione. Ebbe cos facilmente successo la campagna militare
organizzata dal vescovo di Vercelli, per sconfiggere e catturare l'eretico assieme ai suoi
seguaci.
Fin qui il significato letterale dei versi danteschi. Ma qual quello allegorico? Fra Dolcino si
fece arbitrariamente successore di Gherardo e "Capo degli Apostoli", dunque
allegoricamente rappresenta quei papi che arbitrariamente si proclamarono successori di
Ges e, che - in misura ben pi grande di Dolcino - crearono uno scisma nella religiosit

umana, che il precedente paganesimo, ma anche il primo cristianesimo - ben diverso da quello
raccontato dai cattolici - avevano invece evitato. Perci, da un punto di vista allegorico,
Maometto sta dicendo ai Papi: "Questa bolgia degli scismatici - a meno di non cambiar rotta non solo il mio, ma anche il vostro ineluttabile destino".
Sipex: Il termine "Apostoli" o "Apostolici" si riferiva allo stile di vita rifacentesi alla chiesa
primitiva e al continuo spostarsi per diffondere il loro pensiero. Il processo contro Gherardo
Segarelli si svolse nel 1299 a Modena. Non vi erano appigli concreti perch si potesse
formulare un'accusa di eresia. Per Segarelli l'unica autorit era il Vangelo, ma non ne
proponeva una particolare lettura o interpretazione. Egli riproponeva invece ai suoi seguaci
l'assoluta povert della prima Regola Francescana e come i "francescani spirituali" negava ogni
autorrit civile o ecclesiastica. Era probabilmente questo atteggiamento sociale a dare molto
fastidio e, non essendovi altro da imputargli, lo si accus della libert sessuale che gli "Apostoli"
professavano.
Dice ad es. uno stralcio del verbale del processo: "Richiesto se un uomo possa toccare una
donna che non sia sua moglie, e una donna possa toccare un uomo che non sia suo marito e
palparsi vicendevolmente nelle zone impudiche standosene nudi e che ci possa essere fatto
senza ombra di peccato...rispose che un uomo e una donna, sia pur non uniti in matrimonio, e
un uomo con un uomo e una donna con una donna possono palparsi e toccarsi
vicendevolmente nelle zone impudiche. Disse che ci pu avvenire senza ombra di peccato a
condizione che vi sia l'intenzione di pervenire alla perfezione...non riteneva che tali
palpeggiamenti impudichi e carnali fossero peccaminosi, anzi potevano essere fatti senza
peccato in un uomo perfetto, stando a quanto diceva".
Questa dottrina di Segarelli sembra una forma popolare di quella stessa dottrina che
professavano, ad un livello pi erudito, i Fedeli d'Amore. In particolare si riallaccia a quelle
varianti che - come in Niccol de Rossi - prevedevano il contatto carnale.

10) Nicol De Rossi e Guido Cavalcanti

di FRATER PETRUS

Un Fedele d'Amore trascurato: Nicol de Rossi


E' comprensibile che la critica letteraria profana, occupandosi dei Fedeli d'Amore, abbia a lungo
snobbato Nicol de Rossi. Essa, infatti, prende in considerazione generalmente la sola forma
poetica esteriore ed al massimo i suoi significati allegorici ed etico-politici, trascurandone gli
eventuali significati esoterici.
Per, gli studiosi che si occupano dell'aspetto esoterico dei Fedeli d'Amore dovrebbero
occuparsi non solo dei grandi poeti e scrittori, appartenuti a questa corrente iniziatica, ma anche
di coloro, che, pur non essendo ritenuti eccelsi dal punto di vista letterario, hanno sfruttato

verosimilmente loro particolari condizioni politiche per esprimere pi liberamente proprio


l'aspetto esoterico. Uno di essi appunto il poeta Nicol de' Rossi (ca. 1290 - ca. 1348) il cui
Canzoniere conservato nei MSS: 7.1.32 della biblioteca capitolare colombina di Siviglia e
3953 Vaticano barberiniano latino. Dal punto di vista della sola forma poetica, N. de Rossi
non certo tra i rappresentanti maggiori dei Fedeli d'Amore, ma il discorso cambia
quando si tratta degli aspetti esoterici della sua poesia. Se ne accorse L.Valli, che cita
questo autore ben dieci volte ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d'amore".
N. de Rossi visse in ambiente guelfo. La sua citt, Treviso, era, alla sua epoca, minacciata da
Can Grande della Scala e la protezione del pontefice, nei confronti di tale avversario, era
largamente auspicata. E' in tale contesto politico che deve essere inquadrata la sua opera
poetica e diventano allora comprensibili certe sue poesie rivolte al pontefice. Per invocare aiuto
per la sua Treviso scrisse infatti anche sonetti in lode di Giovanni XXII. Perci, non essendo
minimamente nel mirino della chiesa, egli pot esprimersi pi liberamente, proprio in
relazione a quel quarto livello di significato, che Dante chiama "anagogico", e sul quale gli
altri Fedeli d'Amore dovettero sostanzialmente tacere. Cercheremo di dare qualche indicazione
in merito nel seguito.
Il pi interessante componimento di Nicol (o Niccol) De Rossi probabilmente la
canzone "Color di perla". Essa, che comunemente considerata una "risposta" a "Donna
me prega" di Guido Cavalcanti, seguita da un commento, una expositio in latino, scritta da
De Rossi stesso. Per comprender meglio "Color di perla" perci utile, probabilmente,
esaminare preventivamente la canzone di Cavalcanti, uno tra i maggiori dei Fedeli d'Amore,
anche per l'espressione poetica.

Guido Cavalcanti
DONNA ME PREGA

Parafrasi e Commento della I Stanza


Versi
Donna me prega, - per ch'eo voglio dire
d'un accidente - che sovente - fero
ed si altero - ch' chiamato amore:
s chi lo nega - possa 'l ver sentire!
Ed a presente - conoscente - chero,
05
perch'io no sper - ch'om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ch senza - natural dimostramemto
non ho talento - di voler provare
l dove posa, e chi lo fa creare,
10
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l'essenza - poi e ciascun suo movimento,
e 'l piacimento - che 'l fa dire amare,
e s'omo per veder lo p mostrare.

Parafrasi
Una donna mi invita, per cui parlo di un
fenomeno contingente (accidente), che
spesso selvaggio e cos nobile da chiamarsi
amore: chi nega che sia cos possa
sperimentare quello vero!
Ed ora esigo una persona dotata di
conoscenza, poich non mi attendo che chi
vile di cuore possa comprendere un tale
argomento: infatti, senza una dimostrazione
basata sulla filosofia naturale, non riesco a
provare dove [l'amore] risiede e chi lo fa
produrre, quale sia la sua facolt e il suo
potere, poi la sua essenza, e ogni suo moto e
il piacere che lo fa dire "amare", e se un
uomo pu mostrarlo visibilmente.

Commento: Come ha indicato Luigi Valli ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli
d'Amore", in tale linguaggio le "donne" sono i Fedeli d'Amore stessi. Dunque uno di essi che

invita Guido Cavalcanti a parlare. La prima stanza indica l'argomento della canzone: l'amore.
Definirlo un fenomeno contingente (accidente) non affatto riduttivo, come qualche
commentatore pretende. Un iniziato guarda la realt com' (non la sostanzializza attaccandosi
ad essa) e l'esperienza mostra che l'amore a volte presente nel nostro animo e a volte no.
Quindi l'animo sussiste che l'amore vi sia o meno. L'amore perci da dirsi un sentimento non
necessario, bens contingente. Che il poeta non voglia affatto sminuirlo lo dimostrano gli
aggettivi che usa: selvaggio (fero) e perci affine alchimicamente alla "materia prima", nonch
nobile. Chi nega tali caratteristiche possa sperimentare quello vero, che non l'amore, sia pur
travolgente, dei profani (che non "nobile"), n l'amor di Dio dei mistici (che non "selvaggio"),
ma quello messo in atto dai Fedeli d'Amore. E' infatti un Fedele d'Amore o potenzialmente tale
(persona dotata di conoscenza) che il poeta richiede come uditore. Il termine "di basso core"
indica una persona inidonea a sperimentare il tipo d'amore di cui si parla. Il poeta avvisa quindi
il lettore che si servir di termini presi dalla "filosofia naturale" di Aristotele, comprendente il De
Anima, quali simboli per indicare le caratteristiche di questo speciale amore.

Parafrasi e Commento della II Stanza


Versi
In quella parte - dove sta memora
prende suo stato, - s formato, - come
diaffan da lume, - d'una scuritate
la qual da Marte - vne, e fa demora;
elli creato - ed ha sensato - nome,
d'alma costume - e di cor volontate.
Vn da veduta forma che s'intende,
che prende - nel possibile intelletto,
come in subietto, - loco e dimoranza.
In quella parte mai non ha pesanza
perch da qualitate non descende:
resplende - in s perpetual effetto;
non ha diletto - ma consideranza;
s che non pote largir simiglianza.

Parafrasi
15

20

25

L'amore si manifesta in quella parte dell'anima


dove risiede la memoria - avendo preso
forma, come corpo trasparente dalla luce, da
un'oscurit che procede da Marte - e l
permane; l'amore creato e si denomina in
base alla sensazione, disposizione abituale
dell'anima e volont del cuore.
Esso muove dalla visione di una figura che si
percepisce, che assume stabile dimora
nell'intelletto possibile, cos come nel
soggetto. Nell'intelletto possibile l'amore non
ha potere, poich esso non deriva dalle
quattro qualit elementari: risplende in lui
l'eterna intellezione, non accoglie il piacere ma
lo contempla, cos da non poterlo assimilare.

Commento: Quel che inizia in questa stanza non affatto un trattatello in versi sull'amore
genericamente concepito: comincia invece la descrizione di quell'amore di cui fan uso i Fedeli
d'Amore. Tale amore viene "acceso" nell'anima sensitiva (che , in base alla dottrina
aristotelica, la parte dell'anima dove risiede la memoria). Ma qual lo stato d'animo da cui
partire? La qualit di un corpo trasparente appare grazie alla presenza della luce: al contrario,
condizione perch questo amore si accenda l'assenza (scuritate) della passione contraria,
cio della repulsione e dell'ira (di Marte). Una volta acceso deve essere reso continuo (e fa
demora). Questo amore non dunque spontaneo, ma creato e prende nome in base alla
sensazione interiore. Quali siano i vari gradi dell'amore e come essi si classifichino in base alla
sensazione interiore proprio l'oggetto della canzone di "risposta" di Niccol de Rossi a
Cavalcanti. Questo amore deve diventare una abitudine dell'anima (d'alma costume) e nello
stesso tempo essere sotto il dominio della volont. Con terminologia analoga, A. Crowley
ha detto: "Amore la legge, amore sotto la volont".
Si parte guardando e interiorizzando una figura, che assume stabile dimora nell'intelletto
possibile e nel soggetto (cio nell'intelletto ricettivo e nell'ego) grazie alla ripetizione della
visione o del ricordo. Che tutto rimanga sotto il dominio della volont garantito dal fatto che
sulla presenza mentale (separando di controllo) dell'intelletto ricettivo la passione amorosa non
ha reale potere. Tale intelletto, infatti, pur appartenendo al polo "natura" dell'essere umano, non
possiede le "qualit" degli elementi, n sottili, n tanto meno grossolani [nel simbolo del

mercurio sia la luna dell'intelletto possibile, sia il cerchio solare (ego) con il punto al centro
(sensorio comune) sovrastano la croce degli elementi]. Si ricorda che le quattro qualit
elementari sono: secco e umido , caldo e freddo. Escludendo l'etere o quintessenza, gli altri
quattro elementi posseggono ciascuno due qualit: calda e umida l'aria, caldo e secco il
fuoco, umida e fredda l'acqua, fredda e secca la terra. L'intelletto possibile eterno
specchio della luce dell'intelletto attivo (il polo "sovrannaturale" nell'uomo). Non lui a provar
piacere: semplicemente lo contempla, tanto che gli impossibile assimilarlo a s. Questa
disidentificazione dal piacere ha a che fare con la rettificazione della luna superiore, che si ha
nel simbolo dell'Ermete. Nell'opera "Tecniche della Concentrazione Interiore", Massimo
Scaligero cos espone la XXXIX meditazione: L'accoppiamento sessuale riguarda
esclusivamente i corpi eterico-fisici [cio lunare e saturniano], in s incapaci di brama. La brama
muove unicamente dal corpo astrale [cio mercuriale] che, in quanto corpo-di-brama, kama
rupa, estraneo alle ragioni cosmiche di tale accoppiamento. In realt il corpo astrale
essenziale, o astrale superiore [cio l'intelletto possibile], immune da brama, partecipa
all'accoppiamento come puro potere metafisico. In tal senso la pura forza dell'Amore della
coppia, estranea al sesso". Poi aggiunge: "Questa meditazione contiene in s il germe della
liberazione della psiche dal vincolo alla corrente che dal profondo ltera e distrugge la Vita".

Parafrasi e Commento della III Stanza


Versi
Non vertute, - ma da quella vne
ch' perfezione - (ch si pone - tale),
30
non razionale, - ma che sente, dico;
for di salute - giudicar mantene,
ch la 'ntenzione - per ragione - vale:
discerne male - in cui vizio amico.
Di sua potenza segue spesso morte,
35
se forte - la vert fosse impedita,
la quale aita - la contraria via:
non perch oppost' a naturale sia;
ma quanto che da buon perfetto tort'
per sorte, - non p dire om ch'aggia vita,
40
ch stabilita - non ha segnoria.
A simil p valer quand'om l'oblia.

Parafrasi
Affermo che l'amore non virt, ma proviene
da quella perfezione (perch si rende tale)
che non razionale ma sensitiva; rende
insano il giudizio, perch l'intenzione prende il
posto della razionalit: discerne male chi
legato alla passione.
Dal potere di amore deriva spesso la morte,
qualora fortemente sia ostacolata la forza
vitale: non perch sia contronatura, ma perch
quanto pi per destino sviato dal perfetto
bene, non si pu dire che l'uomo viva
veramente, poich non ha ferma signoria di
s.
Lo stesso avviene quando l'uomo lo
dimentica.

Commento: Non l'amore virtuoso (la caritas cristiana) quello di cui l'autore sta parlando, ma
quello che proviene dall'ottenuta ("ch si pone tale") perfezione, non della ragione, ma del
sentimento. Sull'ottenimento di tale perfezione, si confronti il saggio di Agarda "Appunti
sull'azione nelle passioni", nel III vol. di Introduzione alla Magia.
Il sentimento, usato dai Fedeli d'Amore, agisce mettendo fuori gioco il discernimento e
permettendo cos di sostituire al semplice ragionamento la sicurezza della volont
magica (la 'ntenzione): che questa "messa fuori gioco" sia possibile lo si pu arguire,
osservando come gi nell'uomo comune la passione contrasti il discernimento.
Dal potere di amore deriva spesso la morte iniziatica, se viene spossato quell'attaccamento
alla vita, che impedisce il superamento della condizione ordinaria: non perch essa sia
contronatura, ma perch allontanati dal perfetto bene non si vive veramente. Contrariamente a
quanto pensano gli esponenti della critica letteraria non esoterica, che riferiscono quest'ultima
frase all'amore, essa si riferisce invece alla vita banale dell'uomo comune, che non ha ferma

signoria su s stesso. Lo stesso risultato si pu ottenere quando l'iniziato taglia fuori il


giudizio obliandolo: l'autore fa qui un parallelo con i risultati ottenuti con la concentrazione
mentale, perch anche con essa, oltre che con l'amore, si pu metter fuori goco il
chiacchiericcio mentale. Nel citato saggio di Agarda si mette in evidenza come anche certe
situazioni di guerra possano condurre al medesimo risultato.

Parafrasi e Commento della IV Stanza


Versi
L'essere quando - lo voler tanto
ch'oltra misura - di natura - torna,
poi non s'adorna - di riposo mai.
Move, cangiando - color, riso in pianto,
e la figura - co paura - storna;
poco soggiorna; - ancor di lui vedrai
che 'n gente di valor lo pi si trova.
La nova- qualit move sospiri,
e vol ch'om miri - 'n non formato loco,
destandos' ira la qual manda foco
(Imaginar nol pote om che nol prova),
n mova - gi per ch'a lui si tiri,
e non si giri - per trovarvi gioco:
n cert'ha mente gran saver n poco.

Parafrasi
L'essenza dell'amore un volere tanto intenso
che supera i limiti naturali e non si concede
45 mai riposo. Trasforma, mutando il colore del
volto, il riso in pianto e rende timido l'aspetto
per la paura; incostante; lo potrai vedere pi
stabile in persone di valore.
Questa nuova qualit d'amore causa sospiri e
50 esige che l'uomo miri dove l'immagine non ha
ancora preso forma, destandosi l'ira che
infuoca (non pu immaginarlo chi non lo
prova) e che (l'uomo) non si muova
nonostante che lo si attiri e che non si
55 distragga per trovar sollievo: n certo la mente
ricava grande o piccolo sapere.

Commento: L'essenza della tecnica amorosa dei Fedeli d'Amore consiste in un volere cos
intenso che porta l'amore a manifestarsi in maniera da oltrepassare quei limiti naturali
che ha negli uomini comuni e nel non concedersi mai riposo. Questo "amore sotto la volont"
non qualcosa che deve essere trattenuto interiormente: bisogna invece lasciare che la sua
ipernormale intensit (trattenendo la quale si rischierebbero guai psicosomatici), trovi libero
sfogo in conseguenti atteggiamenti del volto o del corpo. Nei proficienti i risultati sono incostanti;
diventano stabili solo nei pi valenti tra i Fedeli d'Amore. Questa superiore qualit d'amore
causa un diverso modo di respirare ("move sospiri") e permette all'iniziato di far
attenzione agli intervalli di pensiero che esistono tra un'immagine e l'altra (" 'n non formato
loco") . In quegli intervalli egli potr notare il destarsi di un fuoco di natura irosa: fenomeno che
non potrebbe mai immaginarsi se non lo sperimentasse. Lo stadio d'amore descritto qui da
Cavalcanti uno stadio avanzato, nel quale l'imagine dell'amata, dopo un volontario inizio, si
riforma continuamente da sola, cos che il Fedele d'Amore ormai libero dalla necessit di
ricrearla con sforzo lui stesso, pu dedicare attenzione anche agli intervalli sia pur minimi tra
una immagine e l'altra. In quegli intervalli, pu cogliere lo stesso fuoco che l'uomo comune
conosce solo quando generato in lui dall'ira. Infatti esso si forma ogni qual volta il nostro ente
si sente in qualche modo racchiuso in uno spazio fisico o mentale ristretto. Ci si verifica
principalmente in due casi:
1) Quando un uomo invaso dall'ira perch si sente oppresso da qualcuno o qualcosa che
restringe il suo campo di azione. Questo evento ha il potere di rendere pi acuta la sua
presenza
mentale nei confronti dell'oggetto della sua collera,
fino a concentrarlo
esclusivamente su di esso.
2) Quando il pensiero costretto volontariamente per poco o per molto tempo sullo stesso
tema e perci in uno spazio mentale ristretto. E' ci che avviene in qualsiasi forma di
concentrazione, compresa quella descritta da Cavalcanti sulla persona amata.
In altri termini il fuoco del "furor" non altro che l'aspetto egoico nel quale si manifesta lo

stesso fuoco della concentrazione.


Se sono permessi come abbiamo visto generici sfoghi corporei come riso e pianto, non sono
invece ammessi sfoghi specificamente erotici ("n mova") nonostante l'attrazione che il
praticante prova ("gi per ch'a lui si tiri"), perch si ritiene che ci incanalerebbe l'eros nei
comuni binari dell'amor profano ( questa la maggior differenza come vedremo con la tecnica
di De Rossi) . Non ci si deve distrarre per trovar sollievo e si deve rinunciare a trarne qualsiasi
sapere astratto grande o piccolo, perch ci rimetterebbe in gioco il comune raziocinare. Una
tecnica consimile, ma praticata in coppia e perci con un partner non immaginato, ma percepito,
chiamata da Kremmerz 'piromagia'. Ne 'Gli Amanti' cos si riferisce al precetto di non
muoversi: "Bada bene, inchioda il tuo corpo su di una seggiola e fa che l'altra, lei, sia inchiodata
alla sua".

Parafrasi e Commento della V Stanza e del Congedo


Versi
De simil tragge - complessione sguardo
che fa parere - lo piacere - certo:
non p coverto - star, quand' s giunto.
Non gi selvagge - le bielt son dardo,
ch tal volere - per temere - sperto:
consiegue merto - spirito ch' punto.
E non si p conoscer per lo viso:
compriso - bianco in tale obietto cade;
e, chi ben aude, - forma non si vede:
65
dungu' elli meno, che da lei procede.
For di colore, d'essere diviso,
assiso - 'n mezzo scuro, luce rade,
For d'ogne fraude - dico, degno in fede,
che solo di costui nasce mercede.
70
Tu puoi sicuramente gir, canzone,
l 've ti piace, ch'io t'ho s adornata
ch'assai laudata - sar tua ragione
da le persone - c'hanno intendimento:
di star con l'altre tu non hai talento.
75

Parafrasi
Da somiglianza di natura [fra due esseri]
l'amore genera lo sguardo, che promette il
piacere: non pu rimaner nascosto quando
60 giunto a questo punto. Le bellezze ritrose non
sono dardo d'amore, perch il volere reso
accorto dal timore: chi ne colpito ne ha
merito. E non si pu riconoscere dal volto: un
pallore impenetrabile (compriso) si trova in
esso; e, per chi comprende correttamente,
l'essere spirituale ("forma") non oggetto
d'apprensione sensibile; e tanto meno l'amore
che procede da esso.
Privo di colore, diviso nell'essere, seduto in un
mezzo oscuro, reca a terra la luce.
Sinceramente affermo, meritevole di fiducia,
che solo da un tale amore nasce ricompensa.
Tu canzone, puoi andartene in tutta sicurezza,
ovunque ti piaccia, poich io ti ho elaborata in
modo tale che la tua argomentazione sia
lodata da chiunque competente in materia:
non hai desiderio di startene con chi non lo .

Commento: Perch nasca l'amore vi deve essere, da un lato, una polarit tra maschile e
femminile, ma d'altro lato anche una certa affinit di natura (simil complessione): questa
somiglianza, sussistente pur nella polarit dei sessi, ci che comunemente si chiama
complementarit. In tal caso pu scoccare tra i due lo sguardo d'amore. Una ragazza ritrosa,
per, non lancia sguardi di questo genere, perch timorosa e accorta: proprio questo tipo di
donna che sceglie il Fedele d'Amore ("consiegue merto spirito ch' punto"). Veniva, infatti,
normalmente scelta una ragazza "irraggiungibile", perch il "modus operandi" di Cavalcanti e
diretti seguaci era prettamente "platonico" e un contraccambio, in termini di amor profano, da
parte della ragazza non sarebbe stato che di intralcio. Al contrario dell'amor profano che non
pu rimaner nascosto ("non p coverto star"), perch rivelato dallo sguardo d'amore, quello del
Fedele d'Amore non pu vedersi sensibilmente. Nessun rossore lo tradisce, il volto rimanendo
di un pallore ieratico. Tale amore dunque invisibile, come lo spirito da cui procede. Il passo
successivo descrive il Fedele d'Amore stesso, nel momento di operare: pallido in volto ("for di

colore"), attuante il separando di controllo ("d'essere diviso"), seduto al buio ("assiso 'n mezzo
oscuro"), porta a manifestazione la luce ("luce rade"). Il poeta usa "radere" nel senso di "far
precipitare al suolo qualcosa di elevato" e perci di farlo divenire alla propria portata, cio, nella
fattispecie, di renderlo manifesto all'occhio interiore. Solo dall'amore cos praticato deriva un
beneficio iniziatico. Nel congedo si ribadisce l'esotericit dello scritto, che perci non destinato
ai profani.

Nicol de Rossi
COLOR DI PERLA
Dopo aver esaminato "Donna me Prega" di Guido Cavalcanti, giunto il momento di esaminare
la "risposta" in versi di Nicol de Rossi e cio la canzone "Color di Perla". Tale componimento
accompagnato da un commento di De Rossi stesso, scritto in tardo latino. Quel che segue
la parte iniziale del commento, ove vengono enunciati i quattro gradi d'amore: liquefacio
(liquefatio, liquefactio), langor (languor), elus (zelus), extasys:
"Ad evidenciam dicendorum premitte quia caritas, dilectio et amor idem est. Dicitur enim caritas
quasi cara unitas; dilectio, duorum ligatio; amor, suavis dulcedo. Et istius veri amoris quatuor
sunt gradus: primus est liquefacio, cuius duo sunt effectus, scilicet anxietas videndi, et eius
signum, propter quod quis potest conoscere in quo statu sit amoris, est impaciencia consorcii in
amato; alius effectus est desiderium loquendi, et eius signum audacia proferendi. Secundus
gradus est langor, cuius est effectus visio amati per trasparenciam, et eius signum effussio
lacrimarum propter cogitationem; alius effectus habitatio in duobus locis, et eius signum
delectabilior quies in amato quam in semet ipso. Tercius gradus est elus, cuius est effectus
timor displicendi, et eius signum delectatio uniuscuiusque operationis amati; alius effectus est
costancia serviendi, et eius signum leticia ipsius virtutis. Quartus gradus est extasys, cuius
est effectus quieta possessio rei amate, et eius signum est securitas ipsius; alius effectus est
suavis degustatio, cuius signum est vitoria contrariorum. Et hoc dicit tota cancio".
Nella canzone, il poeta si propone di dire appunto "i gradi e la virtude del vero amore". I Fedeli
d'Amore sono stati spesso paragonati agli iniziati tantrici dell'Oriente. Proprio questa canzone di
Nicol de' Rossi ci permette di verificare se tale paragone ha un fondamento e in che misura.
Uno dei testi tantrici pi chiari a riguardo e perci pi facilmente confrontabile "La vita di
Naropa", una esposizione del tantra buddhista tibetano. Secondo tale scuola, sia nella pratica
con un partner immaginario (jnana mudra: analoga a quella che, come abbiamo gi visto,
indicava Guido Cavalcanti) sia nella pratica con un partner umano (karma mudra) si
sperimentano quattro livelli di beatitudine, detti rispettivamente:
ananda (felicit) : un gioioso eccitamento dovuto alla graduale scomparsa della grossolana
dicotomia soggetto/oggetto.
paramananda (felicit suprema): un piacere estatico procurato dalla scomparsa dellidea
grossolana del s personale.
vilaksana (assenza di eccitamento), consistente in un benessere - detto anche talvolta
piacere speciale - derivante dall'esperiernza che soggetto e oggetto sono come una cosa sola
(scompare cio l'idea di partner).
sahajananda (felicit simultanea o co-emergente o innata o spontanea), consistente nella
intellezione diretta della non-dualit di beatitudine e vacuit.
I primi tre tipi di beatitudine hanno un carattere determinato, mentre l'ultimo indeterminato e
abbraccia gli altri con cui sempre presente, anche se non notato. Diventati consapevoli di
sahajananda, si pu rimanere in tale consapevolezza, sia mentre si sperimentano le altre tre
forme di beatitudine, sia sperimentandola isolatamente: ci porta l'esperienza delle quattro
beatitudini ad un superiore valore.
Con queste premesse, procediamo ora all'esame della canzone Color di Perla:

Parafrasi e Commento della I Stanza


Versi
Color di perla, dole mia salute,
lo tuo conforto - acorto - mi rende,
quanto si stende - lo meo intellecto,
ch'eo dica gli gradi e la vertute
del vero amore - che nel core - sende, 05
per che risplende - di nobel effecto:
da ch' el non pone quasi passione,
ma cum rasone - cade for dil senso,
compre<n>so - de imainaria fede
e de la spene, che fermo gli crede.
10
L'anema lieta sego lo compone
e d casone - che 'l conserva acenso,
intenso - poi <la> naturale morte:
de lui speciale questa sorte.

Parafrasi
Color di perla, dolce mia salvezza
il tuo consiglio mi rende capace,
nella misura in cui spazia il mio intelletto,
di descrivere i gradi e la virt
del vero amore, che nel cuore scende,
per risplendere di nobile effetto:
dacch esso non punge come una passione,
ma assieme alla ragione cade fuori dalla sfera
sensitiva,
compenetrato di fede immaginativa
e della speranza che crede in esso
fermamente.
L'anima beata con s lo congiunge
e costituisce la causa che lo conserva acceso,
intenso dopo la morte naturale:
questo modo d'essere gli peculiare.

Commento: Nella II stanza di "Donna me prega" Guido Cavalcanti afferma che sull'intelletto
ricettivo la passione amorosa non ha reale potere. Nicol de Rossi, per sottolineare con ancora
pi decisione che l'amore praticato dai Fedeli d'Amore non quello volgare, gli nega
completamente il carattere di passione. Esso invece un modo di manifestarsi della caritas,
che compenetrato dalle altre due virt teologali: la fede e la speranza. Tale tipo d'amore
proprio dell'anima beata, che lo mantiene desto e intenso anche dopo la morte naturale. Si
tratta dunque di quell'amore che "a-mors", senza morte, immortale.

Parafrasi e Commento della II Stanza


Versi
unto primo, lo spirto liquefae:
15
da Marte move - cum Jove - parato,
ch, temperato, - habilitate trova.
Per exencia lo simele plae;
per accidente - nol sente - ordinato,
coagulato - ad anni vera prova;
20
e tremente - mostra anxietate
di prender qualitate - cum veuta,
unde minuta - si cerne la entena,
quando di pari contende potena.
Ancor disidera la voluntate
25
le plu fiate, - sendo conceputa,
isconosuta - parlando largire:

Parafrasi
Al primo grado [d'amore], lo spirito "liquefa":
si origina da Marte se questi preparato con
Giove,
perch, essendone temperato, acquista la
capacit [di generare l'amore].
Si ha piacere di ci che simile in essenza;
ci che simile solo per qualche qualit non
lo si sente conplementare,
n cos solido per [affrontare] ogni vera prova;
e tremando si mostra ansiet
di provar diletto mediante la vista [dell'amato]
onde si avverte una minor intensit [d'amore]
quando tale vista impedita da una forza

de sano seno non crede falire.

contraria.
Inoltre la volont desidera
il pi delle volte, essendo concepita
nascostamente, di manifestarsi con la parola:
di buon cuore non crede di venir meno.

Commento: Il primo grado di amore la Liquefactio (o "liquefacio" nel tardo latino di de


Rossi), cos detta perch la rigidit dell'io sembra liquefarsi, affievolendosi la dicotomia tra
soggetto ed oggetto. Cavalcanti dice che l'amore praticato dai Fedeli d'Amore si origina "d'una
scuritate la qual da Marte vne"; De Rossi chiarisce che per "oscurare" o "temperare" Marte si
pu utilizzare Giove (simbolo della "gioia simpatetica", onde l'aggettivo "gioviale" riferito a chi
manifesta tale qualit). E' bene che il partner prescelto sia effettivamente complementare. In
questo primo grado si dipende molto dalla "vista" dell'amato, altrimenti l'amore si affievolisce.
Nel commento in latino, De Rossi afferma che ci costituisce il difetto di questo grado
("propterea iste gradus nondum est perfectus"). Inoltre forte il desiderio di manifestare il
proprio amore con la parola.

Parafrasi e Commento della III Stanza


Versi
En tale modo vene che omo langue
per lo temere - del piaere - tratto,
30
se en abstratto - lo obietto rebala.
Poi soprabolle lo fervido sangue,
el vil pensero, - dal vero - distratto,
struto ratto, - la mente renala:
s che per transparente vede adeso 35
luni e preso, - non habitata,
la cosa amata - oltra quel' opaco
corpo che lacremando spande laco;
e fa demora ne lo loco enstesso
che, compresso, - la tene animata; 40
glorificata - va plu se posa
dove dimanda pae petosa.

Parafrasi
In tal modo avviene che l'uomo langue
per il timore di esser sottratto dal piacere,
quando l'oggetto [amato] si tramuta in ricordo.
Poi sovrabolle fervido il sangue,
il vil pensiero, allontanato da quello vero,
subito distrutto, la mente si riinnalza:
cos che adesso vede come in trasparenza
lontano e vicino, non come gli solito,
l'oggetto amato oltre i limiti [sensoriali] di
quell'opaco
corpo che va spandendo un lago di lacrime;
e risiede nello stesso luogo
che, circoscritto, la tiene in vita;
piena di gloria di pi si riposa
dove richiede la pace compassionevole.

Commento: Colui che ama passa dal primo al secondo grado d'amore, cio al "Languore" che
, secondo il commento di De Rossi, "obstupefatio de absencia amati per visum vel mentis
excessum in animo iam formati".
Riguardo all'ottenimento della "visione per trasparenza", che propria di questo stadio
dell'amore, non possiamo che rimandare, per la definizione e i dettagli, all'ottima monografia di
Luce, intitolata non a caso "Il Diafano" (Introd. alla Magia II v.). Gli ultimi quattro versi
descrivono (a due a due) i due luoghi ove la mente risiede in questo stadio: in s stesso, ma
ancor pi nell'amato. Ribadendo quanto aveva detto all'inizio del commento, De Rossi cita
Agostino: "Moratur etiam amor penes amatum, unde Augustinus: anima verius est ubi amat
quam ubi animat". Perch il lettore possa comprendere meglio che senso ha parlare di
localizzazione della mente, De Rossi espone anche una interessante dottrina dell'interazione tra
le facolt dell'anima, le tre parti del cevello, il cuore e l'attivit delle membra: " In celebro sunt
tres celule: in prima parte anteriori viget fantasia et ymagynatio, que rem amandam representat;
in medio virtus rationalis, que discernit verum a falso et illud diiudicat; in posteriori parte viget
memoria que iam iudicata reponit: deinde sic repositum descendit ad cor, tamquam ad

conceptorem, et cor postea operantur circa diversa officia membrorum quod conceptum est, ut
in loquela plus circa pulmonem, in ira circa fel, in amore circa iecur, et hoc comotive; in officio
autem lingua loquitur, in ira totus corpus commovetur, sic et amore; et ideo amor ut anima in
omnibus exercet officium".

Parafrasi e Commento della IV Stanza


Versi
Mont'a la beatitudine en elo
a salto a salto - ne l'alto - profondo,
mero e tondo, - per linea ascendente.
45
Radiando come stelato celo
usta sua fora - scora - ascun pondo,
secondo - ch'al dilecto deente.
Solicito se rende tutor troppo,
e d oppo - che la pura amicicia
50
per malicia - de li non si stempre.
Unito et endiviso gola sempre;
sol de disiri se anoda groppo
che fa entoppo - a chiunca vicia
la leticia - ch'el atende per merto:
55
et en parte ne posede experto.

Parafrasi
La beatitudine si eleva a zelo
gradatamente nell'altezza profonda,
pura e sferica, lungo una linea ascendente.
Irradiando come cielo stellato
grazie alla sua forza rimuove ogni ostacolo,
secondo quel che conveniente all'amato.
Si rende continuamente molto sollecito
e fa in maniera che la pura amicizia
per malvagit non sia da lui compromessa.
Unito e concorde sempre prova diletto;
tutti i desideri riunisce in uno
che crea ostacolo a qualunque vizio
la letizia che gli procura la virt:
ed in parte ne possiede esperienza.

Commento: Si giunge al terzo grado della beatitudine: lo Zelo. De Rossi chiarisce che: "non
prout elus est passio, sed prout est pars virtutis, quia ex intensione amoris procedit". La
sollecitudine dovuta soprattutto al timore di dispiacere all'amato: "Inter ceterea que reddunt
amantem sollicitum, est timor displicendi, ut hic et Ovidius: Res est soliciti plena timoris amor.
Nam qui diligit timet et operatur in totum ne propter sui defectum amicicia sauciatur". In questo
stadio si prende diletto di qualsiasi atto dell'amato: "Nota hic delectationem amantis
uniuscuiusque rei facte per amatum. Nam adeo unitur amans cum amato, ut indisolubiliter et
indivisse pro posse circa eius vultum versetur: in eo sitis et in suis actibus inebriatur. Unde
Ovidius: denique quidquid agis, lumina nostra vivant". Un'altro effetto di questo grado d'amore
la costanza di servire accompagnata dal diletto per questa virt in s stessa: "Traditur hic
quedam constancia serviendi. Amans autem nunc constans factus totum suum desiderium in
amato recludit, non solum aborens eum offendere, set etiam propter factum tercii suspicans se
posse ledi, semper resistit cuicumque rei nociture suo gaudio, quod meruisse contendit".
L'ultimo verso esprime il fatto che, a questo punto, essendo ormai impossibile ogni dissonanza
con l'amato, la fede nel proprio amore si tramuta inevitabilmente (e si potrebbe dire
magicamente) in ricambio e perci in prima esperienza d'amore: "Hic ostenditur leticia virtutis
constantie: nam reiectis dissonis ipsius amati virtute amantis experiencia paulisper gaudet
amans quod fide speravit. Si pu notare che De Rossi utilizza una tecnica mista: sfruttando la
fase dell'innamoramento e del corteggiamento, e perci l'amore ancora senza contatto, il
Fedele d'Amore pu ottenere la Liquefactio, il Languor e lo Zelus. Quest'ultimo, se gi ci non si
verificato, rende magicamente attuale il contraccambio dell'amato. Perci nel grado dello
Zelus si ha gi un primo contatto fisico. Come chiarir De Rossi, nella prossima stanza, con il
pieno contatto che si manifesta anche il quarto grado d'amore o Estasi. Si rende finalmente
chiara tutta la differenza con la tecnica puramente interiore di Cavalcanti e perci il motivo,
che rende necessaria una "risposta" a quanto questi espone in "Donna me prega".

Parafrasi e Commento della V Stanza e del Congedo

Versi
Cus atine la soma gerarchia:
le soe lode - gode - sopra natura,
ch dura - nel seraphico ardore.
En estasym on'altra vita oblia;
contempla rapto - e capto - la figura,
sena rancur - palpando amore.
'Perfetto sta en apice di bene;
quieto tene - far di pena guardo
n teme dardo - per cui altri trema:
s 'l fa segur la clara diadema,
Suave gusto, relicta la spene,
gl'adevene; - po' ch' passato 'l cardo,
non reguardo, - ch la beata alma
lue, fronduta de victoria palma.
Canone mia, regraciani madona,
che m' donato - l'ornato - parlare,
per che andare - pi a chi te spogna:
fra l'altre non te fie fata vergogna.

Parafrasi

60

65

70

Cos si raggiunge la somma gerarchia:


le sue lodi gode soprannaturali,
finch rimane nel serafico ardore.
In estasi ogni altra vita oblia;
contempla rapito e catturato la figura,
privo di sofferenza, possedendo pienamente
l'amore.
Perfetto rimane all'apice del bene;
attende quieto, insensibile ad ogni molestia,
n teme la freccia di cui altri ha paura:
cos lo rende sicuro la luminosa aureola,
Soave gusto, messa in quiete la speranza,
gli giunge; dopo che ha superato il culmine,
non ha timore, perch l'anima beata
riluce, incoronata con la palma della vittoria.
Canzone mia, ringraziami la mia signora,
che mi ha fatto dono di un'elegante parola,
per poi giungere a chi ti espongo:
fra le altre non sarai stimata vergognosa.

Commento: Aumentando l'intensit d'Amore si perviene alfine alla suprema gerarchia angelica.
De Rossi spiega nel commento: "Ad cuius intelligentiam est notandum quod Gerarcia dicitur
sacer principatus, et sunt tres: ... Tercie Gerarcie serviunt ordines excelentes, scilicet seraphin,
quod interpretatur amans sive ardens; cherubin, quod interpretatur sciens, troni qui tronus
sedens Deus describitur".
Si giunti cos al quarto e ultimo dei gradi d'Amore: l'Estasi. De Rossi aggiunge, nel commento,
che anche detta "excessus mentis" e ne distingue quattro modalit. L'amore conduce proprio
alla quarta e suprema, durante la quale si dimentichi persino di s stessi: "Primo modo et
comuniter, quamvis non multo proprie, dicitur extasys quando quis abstrahitur, non quantum
ad actum vel usum sensuum, set solum quantum ad intencionem, quam totam confert in
usum superiorum vel amatorum; et hoc est comune omnibus contemplativis. Secundo modo
dicitur proprie quando quis abstrahitur ab istis et ab illis et introducitur in visionem
ymaginariam, ut habetur in actibus apostolorum de Petro: et factus est in extasim mentis etc.
Tercio modo dicitur magis proprie quando quis abstrahitur ab istis et ab illis et introducitur in
visionem intellectualem, ubi videt res intellectuales non per rerum prescentiam set per
revelationem, sicut dicitur de Adam quando Dominus misit soporem in eo. Quarto modo
sumitur proprissime et sic hic per comparationem dicimus, scilicet quando mens ab omnibus
actibus virium inferiorum et nulli nature inter se et Deum interposite intenta, set visione
intelectuali divinam exenciam intuetur, sicut fuit raptus Paulus: et hoc fit tam per intellectum
quam per voluntatem, quorum principalis auctor est amor. Unde dicitur hic quod, quando
amans est in tali gradu raptus, non solum externorum, ut dicit Bernardus, set sui ipsius
obliviscitur. Est enim amor estasym faciens ut non sinat sui esse amatores, set amatorum".
Per un paragone col tantrismo, citiamo lo scrittore buddhista C.M. Chen: "Quando la beatitudine
giunge al culmine ... l'esistenza egoica incorporata nell'ottavo livello della coscienza ed
accumulata dalle vite precedenti viene dimenticata e con questa assenza si realizza
l'identificazione con il grande sunyata". (C.M. Chen Discrimination between Buddhist and Hindu
Tantras, Kalimpong, 1969)
Importantissima la scelta del termine "palpando", indicatrice che De Rossi sta parlando di
una tecnica con contatto fisico. Dice infatti nel commento che l'amato non viene
semplicemente toccato come l'aria, ma toccato e palpato come il legno e come lo fu il corpo di
Cristo : "Et ideo contemplando et intuendo amatum securus non tantum illum tangit, set etiam

palpat amorem et ipsum. Plus enim est palpare quam tangere: nam omne corpus etiam tangenti
non resistibile, ut aer, tangitur set non palpatur; solum autem resistibile, ut lignum, tangitur et
palpatur. Unde Christus: ipse ego sum: palpate et videte, quia spiritus carnem et ossa non
habet sicut me videtis habere".
Effetto di quest'estasi Il possesso "quieto" della persona amata. La concentrazione
rende insensibili ad ogni molestia. Commenta De Rossi: "Atende hic quietam possessionem rei
amate. Cum autem amans realiter illam palpet, perfecti boni appicibus gloriantur, tam quiete
amorem inspitiens, quod ullius sentille molestiam nusquam sentit". E, per un altro paragone con
il tantrismo, si pu citare ancora Chen: "L'ego personale dell'uomo assorbito nell'oggetto
dell'attrazione ... Nulla del mondo intero rimane nella sua mente. Nulla pu disturbare la
concentrazione dell'uomo sugli atti d'amore".
La Vittoria di cui si parla quella sui Contrari, si perci raggiunta la Coincidentia
Oppositorum. De Rossi, che lo aveva gi accennato nella parte iniziale del commento, lo
conferma ancora con le parole: "Postremo hic ostenditur victoria contrariorum. Anima enim sive
intellectus, postquam intravit et excessit cardinem istius gradus, secura nichil timens, victoriosa
lucet et plena deliciis exultat in numero beatorum".

10a)

La Canzone dantesca Donne ch'avete


di Sipex

Dopo la I ediz. del quaderno "Fedeli d'Amore", alcuni, che hanno accolto favorevolmente la mia
interpretazione della Divina Commedia, intesa non come semplice viaggio iniziatico (significato
letterale del poema), ma come immenso cosmogramma magico (significato anagogico), mi
hanno invitato a dar seguito alla mia affermazione che l'iter iniziatico, proposto o affrontato da
Dante, sia descritto invece in alre sue opere. A tal fine, avendo Frater Petrus esaminato "Donna
me prega" di Guido Cavalcanti e "Color di Perla" di Nicol de Rossi,
prender in
considerazione la canzone dantesca, "Donne ch'avete intelletto d'amore". Se Color di Perla
considerata la "risposta" di De Rossi a Donna me prega di Cavalcanti, Donne ch'avete intelletto
d'amore considerata la risposta di Dante. Dante stesso ne "suggerisce" il confronto in un
passo del De Vulgari Eloquentia (II,12,3):
"Fra questi l'endecasillabo, quando vogliamo poetare nello stile tragico, merita assolutamente il
privilegio di prevalere nella testura, per certa sua eccellenza. V' stanza infatti che gode
d'essere intessuta di soli endecasillabi, come quella di Guido da Firenze:
Donna me prega, perch'io volgl[i]o dire;
e anche noi diciamo:
Donne ch'avete intelletto d'amore".
Che non si tratti di un accostamento casuale, riguardante la sola forma esteriore, e che questa
specifica canzone sia invece di importanza fondamentale confermato dal fatto che Dante
(Purg., XXIV, 49-57) si fa dire da Bonagiunta Urbicciani da Lucca d'esser stato lui a trar fuori per
primo "le nove rime", proprio con il componimento Donne ch'avete intelletto d'amore. Sempre
Bonagiunta definisce "dolce stil novo" questa nuovo poetare di Dante, in contrapposizione a
quello di Giacomo da Lentini, di Guittone d'Arezzo e di Bonagiunta stesso.

Ma d s'i' veggio qui colui che fore


trasse le nove rime, cominciando
Donne ch'avete intelletto d'amore.
E io a lui: "I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando".
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!".
Come noto, la canzone "Donne ch'avete intelletto d'amore" fa parte della Vita Nova di Dante.
Secondo una convenzione ottocentesca (detta comunemente "vulgata"), il testo di quest'opera
stato diviso in quarantadue capitoli ed stata mantenuta questa suddivisione anche nelle
edizioni critiche del 1907 e del 1932. Un pi attento riesame dei manoscritti antichi ha
evidenziato invece che codici lontani tra loro e risalenti a testimoni indipendenti concordano nel
dividere l'opera in trentuno paragrafi.
Il numero dei paragrafi pari a quello dei componimenti poetici (venticinque sonetti, una ballata
e cinque canzoni); per non vi corrispondenza completa, dato che tre paragrafi ospitano due
poesie (gli attuali 3, 13 e 17, gi VIII, XXII e XXVI della vulgata) e altri tre nessuna (16, 19, 31,
gi XXV, XXVIII-XXX e XLII).
La canzone "Donne ch'avete", che si trovava nel cap. XIX della vulgata, fa parte del paragrafo
10, comprendente i capitoli XVII-XIX della vulgata.
E' perci il primo testo poetico che si inserisca subito dopo la "conversione" del poeta. Negato
ogni contraccambio esteriore o interiore all'amore del poeta, che soffre fino a "morirne" in
presenza di madonna, egli si decide per un amore gratuito, che si esprima esteriormente
nell'esercizio della poesia di lode.
Si tratta dunque di un "amore senza contatto", sulla stessa linea di G. Cavalcanti e su diversa
linea quindi rispetto a N. De Rossi. Se all'inizio si serve di un supporto del mondo esteriore (la
donna amata, opportunamente scelta affinch sia irraggiungibile), se ne libera quando
abbastanza forte da determinare la morte iniziatica; cio quando l'uomo comune non avrebbe
altra scelta che immalinconire senza rimedio oppure distogliersi.
Per il timore di non esserne all'altezza, Dante rimane diversi giorni con il desiderio di dire e la
paura di cominciare. Come not acutamente A.Onofri (Nuovo Rinascimento come Arte dell'Io),
la nuova poesia, il dolce stil novo, non completamente figlio della volont del poeta, anche se
essa indubbiamente lo prepara. Il nocciolo dell'ispirazione giunge come una "grazia" d'Amore,
che investe non solo la mente, ma contemporaneamente l'organo della fonazione: "la mia lingua
parl quasi come per s stessa mossa e disse: Donne ch'avete intellecto d'amore". La
confezione completa del testo richiede per pi giorni: "pensando alquanti die".
La canzone composta da cinque strofe di soli endecasillabi in rima, secondo lo schema
ABBC, ABBC, CDD, CEE. Per la sua comprensione, Dante fornisce diverse indicazioni. In
particolare dice:
"Questa canzone, acci che sia meglio intesa, la divider pi artificiosamente che l'altre cose di
sopra. E per prima ne fo tre parti. La prima parte proemio de le seguenti parole; la seconda
lo 'ntento trattato; la terza quasi una serviziale de le precedenti parole. La seconda comincia
quivi: Angelo clama [v. 15]; la terza quivi: Canzone, io so che [v. 57]"
Dunque la prima parte o proemio costituita dalla prima delle cinque strofe. La seconda parte
dalle tre strofe centrali. La terza parte o serviziale dall'ultima strofa.
Iniziamo dal proemio:
Donne, ch' avete intelletto d'amore,
io vo' con voi de la mia donna dire,
non perch' io creda sua lauda finire,
ma ragionar per isfogar la mente.

Io dico che, pensando il suo valore, 5


Amor s dolce mi si fa sentire,
che s' io allora non perdessi ardire,
farei, parlando, innamorar la gente.
E io non vo' parlar s altamente,
9
ch' io divenissi per temenza vile;
ma tratter del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui, 13
ch non cosa da parlarne altrui.
La prima parte, dice Dante, deve ulteriormente suddividersi:
"La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu' io dicer voglio de la mia donna, e
perch io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand' io penso lo
suo valore, e come io direi s' io non perdessi l'ardimento; ne la terza dico come credo dire, acci
ch' io non sia impedito da vilt; ne la quarta ridicendo anche a cui ne intendea dire, dico la
cagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi: Io dico (v. 5); la terza quivi: E io non vo'
parlar (v. 9); la quarta: Donne e donzelle (v. 13)".
Dante si rivolge direttamente alle "donne che hanno intelletto d'amore", destinatari della
canzone di lode dell'amata, non perch voglia trattare esaustivamente questo soggetto (v. 3)
ma per dare sfogo ai suoi pensieri (v. 4). Pensando al valore di Beatrice, l'Amore si fa sentire
cos dolcemente che, se il poeta ne avesse l'ardire, parlando l'amore si diffonderebbe tra la
gente (v. 8). Proprio per evitare il timore di parlare, egli rinuncia ad uno stile aulico e ne sceglie
uno pi semplice eppur rispettoso (vv. 9-12). Infine rivolgendosi nuovamente alle "donne"
destinatarie (v. 13), specifica che non avrebbe senso parlarne ad altri.
Similmente al caso di "Donna me prega" di G. Cavalcanti i destinatari della poesia sono
particolari "donne", che posseggono "Intelletto d'Amore". E' appena il caso di ricordare che Luigi
Valli, ne "Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore", ha definitavamente dimostrato
che, in tale linguaggio, vengono chiamati "donne" i Fedeli d'Amore stessi. Nel caso poi in
questione la cosa evidentissima, perch l'intera Vita Nova indirizzata da Dante a "questo
mio primo amico a cui io ci scrivo" (par. 19. 10, gi XXX 3) innamorato di monna Giovanna o
Primavera (par. 15, gi XXIV), cio Guido Cavalcanti che menziona l'amata, con quest'ultimo
nome, nella ballata "Fresca rosa novella".
Se l'amore "senza contatto" come in G. Cavalcanti, tuttavia compare subito un aspetto
aggiuntivo: accesosi nel poeta, esso pu, nel momento stesso di parlarne poetando,
essere irradiato ad altri uomini. Questa tecnica, da un lato ricorda la raccomandazione di
Kremmerz di "orare" non con la sola mente, ma anche con la bocca (l'attenzione alle parole
pronunciate con trasporto determina il "silenzio del pensiero", cio elimina le divagazioni).
D'altro lato ricorda l' "amore irradiante", gi presente nel Buddhismo delle origini, che porta
l'amore a piena potenza, non limitandolo al soggetto-oggetto iniziale.
La sola differenza che nel Buddhismo delle origini l'oggetto iniziale dell'amore
accuratamente scelto come non-erotico (escludendo anche un "eros gentile").
Questo poetare, indicato da Dante, deve essere un semplice "isfogar la mente", niente dunque
preoccupazioni razionali di esaurire l'argomento, niente artificiosi stili dottorali. Unico limite in cui
si muove lo "sfogo" la lode rispettosa dell'amata, visualizzata in uno "stato gentile".
Esaminato il Proemio della canzone, passiamo ad esaminare la parte centrale di essa, nella
quale viene fornito un esempio della teorizzata lode.
Angelo clama il divino intelletto
15
e dice: Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l'atto che procede
d' un' anima che 'nfin qua su risplende.

Lo cielo, che non ha altro difetto


che d'aver lei, al suo Segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola piet nostra parte difende,
ch parla dio, che di madonna intende:
Diletti miei, or sofferite in pace,
che vostra speme sia quanto me piace
l, dov' alcun che perder lei s'attende,
e che dir ne lo inferno: - o malnati,
io vidi la speranza de' beati.
Madonna desiata in sommo cielo:
29
or vo' di sua virt farvi sapere.
Dico: qual vuol gentil donna parere
vada con lei; ch quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che ogne lor pensero agghiaccia e pre;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverra nobil cosa, o si morra:
e quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute;
ch li avvien ci che li dona salute,
e s l'umilia, ch'ogni offesa obbla.
Ancor l' ha dio per maggior grazia dato,
che non pu mal finir chi l' ha parlato.
Dice di lei Amor: Cosa mortale
43
come esser pu s adorna e s pura?
Poi la reguarda, e fra s stesso giura
che dio ne 'ntenda di far cosa nova.
Color di perle ha quasi in forma, quale
convene a donna aver, non for misura;
ella quanto de ben pu far natura;
per esempio di lei bielt si prova.
De gli occhi suoi, come ch' ella li mova, 51
escono spirti d'amore infiammati,
che feron li occhi a qual, che allor la guati,
e passan s che 'l cor ciascun retrova.
Voi le vedete Amor pinto nel viso,
55
l o' non pote alcun mirarla fiso.
Come per il Proemio Dante stesso, nella parte in prosa della Canzone, ad indicare il modo in
cui il contenuto delle stanze va suddiviso:
"Poscia quando dico: Angelo clama, comincio a trattare di questa donna; e dividesi questa parte
in due. Ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei si
comprende in terra, quivi: Madonna desiata [v. 29]. Questa seconda parte si divide in due: ch
ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquante de
le sue vertudi, che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la nobilt
del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, qui: Dice di lei Amor [v. 43]. Questa
seconda parte si divide in due: ch ne la prima dico d'alquante bellezze, che sono secondo tutta
la persona; ne la seconda dico d'alquante bellezze, che sono secondo diterminata parte de la
persona, quivi: De li occhi suoi [v. 51]. Questa seconda parte si divide in due; ch ne l' una dico
de gli occhi, li quali sono principio de l' Amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale fine d'
Amore. E acci che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricordisi chi ci legge, che di sopra
scritto che 'l saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li

miei desider, mentre ch'io lo potei ricevere".


Come si vede, si tratta di una suddivisione dicotomica, nella quale sempre la II parte a
dicotomizzarsi ulteriormente. Dante ammette che avrebbe potuto indicare altre suddivisioni, ma
che non lo ha fatto per riserbo esoterico:
"Dico bene, che a pi aprire lo 'ntendimento di questa canzone si converrebbe usare di pi
minute divisioni; ma tuttavia chi non di tanto ingegno, che per queste che sono fatte la possa
intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ch certo io temo d' avere a troppi
comunicato lo suo intendimento, pur per queste divisioni che fatte sono, s'elli avvenisse che
molti lo potessero audire".
La tre stanze, che costituiscono la lode, seguono sostanzialmente lo schema del trimundio: la
seconda stanza dedicata al cielo, ove risiede il "Divino Intelletto", la terza all'intermundio ove
si manifestano le "potenze" (virt), la quarta infine al mondo fisico, sede della bellezza naturale,
ovvero di ci che "appare".
La seconda stanza ci trasporta dunque sul piano divino. Un angelo, nella sua qualit di
messaggero, annuncia al Divino Intelletto l'agire meraviglioso di Beatrice, che procede dalla
sua animicit luminosa, irradiantesi fino all'Empireo. Il Cielo e i suoi Santi richiedono la
presenza di Beatrice, ma il divino giudice ha compassione di Dante e decide che Beatrice per
ora rester sulla terra, per permetter a lui che, "perder lei s'attende", di dire alle anime
dell'Inferno: "O mal nati, io vidi la speranza de' beati".
Se "Madonna disiata in sommo cielo", viene spontaneo illustrarne le virt: quanto avviene
nella terza stanza, che enumera appunto le virt, cio i poteri, che lei ha sugli esseri umani:
- rende "gentile" ogni donna che le si accompagni;
- al suo passaggio, Amore lancia nei cuori villani come un gelo, a causa del quale i loro pensieri
ghiacciano e muoiono;
- chi soffre alla sua vista pu divenir nobile oppur morire;
- chi degno di vederla sperimenta la sua stessa virt, il suo potere, "ci che li dona salute, e s
l'umilia, ch'ogni offesa obbla". L'umiliazione, lo spossamento (l'ermetica putrefactio) dei limiti
dell'uomo reca cio l'oblio dei medesimi, che prima ne tarpavano le possibilit.
- ma certo "che non p mal finir chi l' parlato". Precisazione importante, perch Dante, come
dice la stanza precedente, andr all'Inferno, ma non per permanervi, giacch " parlato" con
Beatrice, ne ha ricevuto il "saluto", cio "la salute", la salvezza. La sua discesa agli Inferi
dunque transitoria, come quella di Cristo, come quella degli Iniziati.
Nella quarta stanza continua la personificazione di Amore, che si chiede come possa una cosa
mortale essere cos bella e pura. Dante passa quindi alla, prima e unica, descrizione fisica di
Beatrice. Vengono evidenziati:
- il "color di perle", la sua carnagione chiara, che Nicol De Rossi, come sappiamo, sceglie
addirittura come nome della sua donna;
- la sua bellezza suprema in ambito naturale, che la rende modello, archetipo terreno, perch
"per esempio di lei bielt si prova";
- gli occhi da cui "escono spirti d'amore infiammati", che colpiscono chiunque la guardi e che
trovano riscontro in quel "lume pien di spiriti d'amore" della ballata "Veggio negli occhi de la
donna mia" di Guido Cavalcanti;
- "Amor pinto nel viso, l o' non pote alcun mirarla fiso", luogo che l'indispensabile commento in
prosa di Dante chiarisce essere, non gli occhi, ma quella bocca, che proferisce il saluto. Amore
dunque come "il rossetto" di Beatrice.
Terminiamo con l'analisi del congedo, cio dell'ultima strofa della canzone. Dante, nella parte in
prosa, dice che " quasi una serviziale de le precedenti parole". E chiarisce: " Poi quando dico:
Canzone, io so che tu, aggiungo una stanza quasi come ancella a le altre, ne la quale dico
quello, che di questa mia canzone desidero. E per che in questa ultima parte lieve a
intendere, non mi travaglio di pi divisioni".
Canzone, io so che tu girai parlando

a donne assai, quand' io t' avr avanzata;


Or t'ammonisco, perch' io t' ho allevata
per figliuola d'Amor giovane e piana,
che l ove giugni, tu dichi pregando:
Insegnatemi gir, ch' io son mandata
a quella di cui loda io somo ornata.
E se non vuoli andar, s come vana,
non restare ove sia gente villana:
inggnati, se puoi, d'esser palese
solo con donne o con uom cortese,
che ti merranno l per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomandami a lui come tu di.
Questo congedo, apparentemente semplice a comprendersi, viene ovviamente tenuto in scarsa
considerazione dalla comune critica letteraria, che ignora il fatto che gli esoteristi hanno spesso
nascosto intenti profondi, dietro espressioni dal'apparenza banale. Dal punto di vista letterale, la
stanza di congedo costruita nella forma di un'apostrofe alla canzone stessa che, evitando ogni
contatto con la "gente villana", dovr mettersi in cammino per palesarsi solo ai suoi destinatari.
Sappiamo, dall'inizio della canzone, che destinatari sono le donne dotate di "intelletto d'amore".
Proprio in questa stanza, Dante specifica che con tale termine egli non si riferisce solo ad
esponenti del gentil sesso, perch la canzone pu esser palese non solo "con donne", ma
anche con "uom cortese", che la conduca per la via pi breve (tostana) al destinatario ultimo
della poesia, cio alla stessa Beatrice. Si tratta del tradizionale "envoi" o invio del messaggio
poetico, tipico della lirica cortese.
Le pratiche iniziatiche, di alta ascesi, terminano spesso con una "dedica", degli effetti della
pratica stessa, ad un insieme di destinatari pi o meno vasto. In ambito buddhista, ad es.,
sovente la pratica finisce con l'augurio che essa possa recar beneficio a tutti gli esseri senzienti.
Pi riservato, Dante dedica la canzone a tutti i Fedeli d'Amore, con l'auspicio che essi
conducano la canzone a Beatrice, cio, per tramite della canzone, giungano allo stesso
obiettivo dell'autore. Non si tratta di semplice "altruismo", ma di indirizzare la forza complessiva
della "catena" iniziatica verso il medesimo obiettivo. Nel caso del buddhismo la "catena" in
genere estesa a tutti gli esseri senzienti.

11) Il FILOSTRATO di BOCCACCIO

di Frater Petrus

Boccaccio (Firenze? 1313 - Certaldo, 1375), ha trattato la "dottrina d'amore" praticamente in


tutte le sue opere. Tuttavia quella che la sintetizza pi efficacemente probabilmente il
poemetto in ottave (1), denominato Filostrato.
(1) L'ottava (o ottava rima) una strofa composta da otto endecasillabi, i primi sei a rima

alternata e gli ultimi due a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC.


Come indica lo stesso autore, all'inizio dell'opera, il titolo (formato con l'accostamento di un
termine greco, "filos", e di uno latino, "stratus") vuol significare "uomo vinto e abbattuto
d'amore".
Da questo punto di vista, l'amore in fondo un aspetto di quella folgore di Zeus che, secondo il
mito, abbatt la superbia dei Titani. L'Amore, se usato in modo iniziatico, ha la capacit di
trasformare la percezione egoica in percezione d'amore.
Cos Boccaccio esprime, in una strofa del poema, la trasmutazione indotta dall'Amore in Troilo o
Troiolo, ultimo figlio di Priamo, innamoratosi della bella Griseida (l'antica Briseide) figlia di
Calcante:
III, 93
Ed avvegna ch'el fosse di reale
sangue, e volendo ancor molto potesse,
benigno si faceva a tutti eguale,
come ch'alcun talvolta nol valesse.
Cos voleva Amor che tutto vale,
che el per compiacere altrui il facesse;
superbia, invidia e avarizia in ira
aveva, e ci ch'ognun dietro si tira.
Nel proemio in prosa, Boccaccio affronta il problema relativo all'individuazione dell'aspetto
d'Amore, che dona all'amante la pi grande beatitudine. Gli aspetti che prende in
considerazione sono tre:
- pensare a lei nel segreto del proprio cuore,
- parlare di lei coi propri amici,
- essere con la donna amata.
La prima "tecnica", puramente immaginativa, ci che in Oriente viene detto "Sigillo della
Conoscenza" (Jnana Mudra) e prevede l'uso di un partner puramente interiore o interiorizzato.
La seconda tecnica una variante della prima. Il "parlare con gli amici" non significa
ovviamente un semplice chiacchierare, n implica che gli amici siano presenti in quel momento;
indica invece il cantare il proprio amore in poesia. All'immaginazione della prima tecnica si
aggiunge l'esaltazione dello stato poetico, in tutto simile a quella di chi pronuncia un inno
durante un rito:
72
Era contento Troiolo, ed in canti
menava la sua vita e 'n allegrezza;
...
La terza tecnica quella descritta da Abraxa in Ur e pu essere, come sappiamo, con o
senza contatto fisico. Boccaccio afferma che, dopo aver a lungo creduto, come molti altri, che
la beatitudine maggiore si raggiunga pensando segretamente all'amata (I tecnica), ora sa
invece che la beatitudine di essere con l'amante (III tecnica) sorpassa di gran lunga quella
ottenibile nelle altre due situazioni. Nel poema descrive lo stato in cui l'Amore dispone i due
amanti; in esso conoscenza materiale e immaginativa si mescolano indistinguibilmente:
III, 34
Ei non uscir di braccio l'uno all'altro
in tutta notte, e tenendosi in braccio,
si credieno esser tolti l'uno all'altro,

o che non fosse ver che 'nsieme in braccio,


s com'elli eran, fosse l'uno all'altro,
ma sognar si credien d'essere in braccio;
e l'uno all'altro domandava spesso:
- Hotti io in braccio, o sogno, o sei tu desso? Boccaccio simboleggia l'amore cosciente (amor intellectualis) o, come altri dicono, amore
sotto la volont , con la dea Venere. Nell'invocazione a lei dedicata, cos si esprime:
III, 89
Io non ho grazie quai si converrieno
a te da me, o bella luce etterna;
per prima tacer che non appieno
renderle vommi; tu, chiara lucerna,
al disidero mio non venir meno,
prolunga, cela, correggi e governa
il mio ardore e quel di questa a cui
son dato, e fa ch'io non sia mai d'altrui. Pandaro, l'intermediario o messaggero fra Troilo (=Sole) e Criseida (=Luna), un simbolo
dell'Ermete. Del modus operandi di questa evoluzione iniziatica del Mercurio ha parlato
Kremmerz (Scienza dei magi e Fascicoli della Miriam) ed Ea nel quaderno dedicato alla Porta
magica di Roma.
Ma Troilo va poi soggetto ad una triste delusione, perch Griseida l'abbandona per amore di
Diomede. Questo il secondo senso in cui l'amore vince e abbatte l'uomo: procurandogli
sofferenza. Circa un uso iniziatico della sofferenza, attivamente assunta, si veda il capitolo che
Evola dedica alla sofferenza, in Fenomenologia dell'Individuo Assoluto.
La volubilit di Griseida conduce il poeta a porre un nuovo problema: qual il tipo di donna
pi idoneo? In Oriente, gi in testi assai noti come il Kama Sutra, si suole distinguere tra varie
tipologie di donne (e di uomini), ma, ponendosi da un punto di vista pi iniziatico, vengono
distinti soprattutto due tipi, detti rispettivamente "Sigillo dell'Azione" (Karma Mudra) e "Sigillo del
Voto" (Samaya Mudra). Quest'ultimo tipo di partner, avente la pienezza di tutte le qualificazioni,
equivale a ci che, in talune scuole dell'esoterismo occidentale, detto "Binomio
Complemento".
Boccaccio cos descrive la donna perfetta:
VIII, 32
Perfetta donna ha pi fermo disire
d'essere amata, e d'amar si diletta;
discerne e vede ci ch' da fuggire,
lascia ed elegge provvida, ed aspetta
le promission; queste son da seguire,
ma non si vuol per scegliere in fretta,
ch non son tutte sagge perch sieno
pi attempate, e quelle vaglion meno.
Soprattutto i primi versi ricordano moltissimo un passo del testo tibetano "La vita e
l'insegnamento di Naropa":
"Il tipo migliore ... dotato dei segni rilevanti dei tre livelli di comportamento nei loro aspetti
manifesto, nascosto e mistico...quando inebriata del desiderio sessuale non conosce n

vergogne n freni con il partner yogico".

12) Il FILOCOLO di BOCCACCIO

Introduzione
Frater Petrus: Il Filocolo un romanzo in sette libri, che contiene la storia d'amore di Florio e
Biancifiore (o Biancofiore) due giovani che, cresciuti insieme e reciprocamente innamorati,
vengono separati dalla volont contraria dei genitori di Florio. Questi intraprende una lunga
peregrinazione per ritrovare l'amata. Filocolo, nel greco approssimativo del Boccaccio,
dovrebbe significare fatica d'amore, ed il nome che Florio assume nell'accingersi alla
ricerca faticosa di Biancifiore. L'etimologia cos presentata dall'autore (Libro III cap.75):
"Filocolo da due greci nomi composto, da "philos" e da "colon"; e "philos" in greco tanto viene
a dire in nostra lingua quanto "amore" e "colon" in greco similemente tanto in nostra lingua
risulta quanto "fatica": onde congiunti insieme, si pu dire, trasponendo le parti, fatica d'amore".
Ma, in greco, il miglior equivalente di "fatica" "ponos". Perci, nell'edizione veneziana del
1527, il curatore rinascimentale Tizzone Gaetano di Posi ritenne utile correggere il titolo in
"Filopono". Questo termine (gi usato dagli studiosi quale appellativo di un commentatore
ellenistico di Aristotele) significa per "Amante della Fatica" e non "Fatica d'Amore".
Marco Guazzo, nel 1530, propose Filocopo, dal momento che "copos" in greco significa
"sofferenza" e ipotizzando che Boccaccio l'avesse confuso con "cholos" = "rabbia". Vista
l'incertezza, gli editori moderni preferiscono generalmente mantenere il titolo originario di
Boccaccio.
L'anacronismo, che pervade questo romanzo, deve subito mettere in guardia il lettore. La
leggenda di Florio e Biancifiore era diffusissima ai tempi del Boccaccio, sia in virt della
tradizione orale, sia grazie ad alcune versioni popolari scritte. Da un punto di vista temporale,
essa era collocabile, come le leggende in genere, in quel "tempo mitico o archetipico", i cui
eventi possono riattualizzarsi in qualsiasi momento della storia. Ed proprio Boccaccio a
riattualizzare la leggenda dei due innamorati, fondendola con episodi, in parte veri, in parte
immaginari, della sua epoca.
I Libro
Frater Petrus: Nel prologo, in parte epico, in parte autobiografico, del I libro, Giunone,
l'antica nemica dei Troiani, si reca dal papa per esortarlo ad abbattere la potenza degli Svevi,
ultimi discendenti della stirpe romana, a sua volta discesa da Enea. Poi la dea scende
nell'Averno, per chiedere aiuto alla furia Aletto contro Manfredi, novello Enea. Il papa si rivolge a
Carlo d'Angi, che scende in Italia, sconfigge Manfredi e fonda il regno di Napoli.
Ai tempi di Roberto, discendente del suddetto Carlo I, "un giorno, la cui prima ora saturno avea
signoreggiata, essendo gi Febo co' suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone
pervenuto, e nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone
si celebrava" (Pasqua), l'autore scorge, in un tempietto di Partenope (Napoli), una giovane
donna di mirabile bellezza, che diviene subito la signora del suo cuore. Qualche giorno dopo,
l'autore rivede la sua donna in compagnia di altre, in un tempio denominato "dal principe dei

celestiali uccelli" (identificato nella chiesa del monastero di Sant'Arcangelo a Baiano). Ella
manifesta il desiderio che la storia dell'amore di Florio e Biancifiore non sia "lasciata solamente
ne' fabulosi parlari degli ignoranti" e che venga composta su di essa un libretto in lingua volgare.
Accogliendo la richiesta come un imperativo, l'autore si mette all'opera.
Ha cos inizio la storia vera e propria: Giulia Topazia ed il marito Quinto Lelio Africano, nobile
romano discendente degli Scipioni, intraprendono un pellegrinaggio al santuario di San Jacopo
di Compostella in Galizia, per chiedere la grazia di avere un figlio. Ottenutala, intraprendono un
secondo viaggio di ringraziamento, ma il diavolo, con l'inganno, scatena contro i pellegrini, che
partecipano al viaggio, Felice, re pagano di Spagna, che governa anche Marmorina, cio
Verona, cos chiamata per le sue famose cave di marmo (1). All'agguato sopravvive solo Giulia
Topazia, che accolta, per riparazione, alla corte di Felice. Tuttavia ella muore, dando alla luce
una bambina, Biancifiore. Nello stesso giorno, la regina partorisce Florio.
Floro o Florio, variante maschile di Flora, significa "fiore". In alchimia, il "fiore" per eccellenza
quello di zolfo, ossia lo zolfo purissimo di prima emissione vulcanica. Biancifiore o Biancofiore
invece simbolo di altrettanto puro mercurio.
Essi hanno diversa nascita: il primo di stirpe regale per indicare la sua origine celeste; la
seconda, pur nobile, per di una nobilt inferiore, ad indicare la sua origine tutta naturale.
Il nome Topazia indica, ovviamente, una "sostanza", che ha le propriet della corrispondente
"pietra". Perci, di per s trasparente e incolore ma, a causa della presenza di impurit
metalliche, pu assumere, in natura, i pi svariati colori. Il colore pu poi modificarsi per
riscaldamento o irradiazione. Il discendente di Scipione l'Africano egli stesso un valoroso
condottiero ed indica lo "hegemonikon" degli Stoici, il sovrano interiore, pur avente ancora tutti
i suoi limiti umani. Il pellegrinaggio a Compostella il simbolo della strada da seguire per
giungere all'illuminazione. Il pellegrinaggio doppio, giacch il primo serve a chiedere ed
ottenere l'iniziazione, la "grazia" che genera il "feto immortale". Il secondo pellegrinaggio indica
l'opus vero e proprio, che inizia con la prima operazione alchimica, la morte o putrefazione,
che permette al mercurio di "venire alla luce". Anche la scelta di Verona non casuale, perch
era sede della Signoria Scaligera (= portatrice della scala). Essa dunque paragonabile,
simbolicamente, a quella localit di Luz-Bethel, ove Giacobbe sogn la famosa scala, che gli
permise di giungere in cielo.
Pietro Negri: L'utilizzo delle cave del veronese risale all'epoca romana (probabilmente al I sec.
a.C) e prosegu sino al V sec. d.C. Si interruppe poi per gli elevati costi, dovuti alle difficolt di
estrazione del marmo dalle cave (o "preare") e di trasporto. Riprese con l'avvento della Signoria
Scaligera (dal 1262 al 1387). Le numerose opere architettoniche in marmo, innalzate o
restaurate, procurarono a Verona il nome di citt marmorina o citt marmorea. I marmi estratti
nel veronese sono di vario genere: dal famoso "Rosso Verona" al "Nembro Rosato" e al "Giallo
Reale". Per diversi secoli, molto famosi e richiesti anche all'estero furono gli scalpellini e i
lapicidi di questa area geografica, autentici artisti e "Massoni Operativi", ora quasi
completamente scomparsi.
Sipex: Figura simbolicamente assai significativa sicuramente il "gran re Felice, reggitore de'
regni di Speria, nipote di Atalante, sostenitore de' cieli, governava vicino a' colli d'Appennino una
citt chiamata Marmorina." (Lib. I, cap. X). Volutamente Boccaccio fa di lui una figura
storicamente impossibile e anacronistica, perch il lettore ne intuisca il significato simbolico.
Felice nome di origine latina (felix), che significa "fertile, favorito dagli dei". Per i cristiani
nome augurale, che significa "colui che spiritualmente beato". In India il corpo di beatitudine
(ananda maya kosha) il pi elevato dei cinque involucri (kosha) che formano l'individuo.
Hesperos significava, presso i Greci, "Occidente", per questo essi chiamavano Esperia tanto
l'Italia quanto la Spagna, entrambe poste ad occidente della Grecia . Volendo distinguere l'una
dall'altra, chiamavano la Spagna col titolo di Esperia ultima. Essendo la vicenda ambientata
prevalentemente in Italia, Boccaccio usa Speria, da un punto di vista letterale, soprattutto nel
senso di Spagna, ma, da un punto di vista simbolico, indica con tale termine la tradizione
occidentale.
Atalante o Atlante era un gigante mitologico, figlio del titano Giapeto e di Climene. Per aver
lottato contro gli dei dell'Olimpo, Zeus lo condann a reggere eternamente il mondo sulle spalle.

Boccaccio sottolinea che egli in particolare "sostenitore dei cieli", identificandolo cos, di fatto,
con un attributo del Dio ebraico-cristiano, che non solo creatore, ma anche sostenitore o
conservatore di ci che ha creato. In Neemia 9:6, si trova scritto:
Tu, tu solo sei il Signore, tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli e tutte le loro schiere, la terra e quanto
sta su di essa, i mari e quanto in essi; tu conservi in vita tutte queste cose e l'esercito dei cieli
ti adora.
In India questa funzione sostenitrice-conservatrice della divinit esercitata in particolare dalla
seconda persona della Trimurti, Vishnu, a cui si debbono periodiche e dirette manifestazioni nel
mondo creato (Avatara). Anche il cristianesimo ha assegnato questa funzione soprattutto alla
seconda persona della Trinit , come chiaramente indicato dall'Epistola agli Ebrei, 1:1-4 :
[1] Dio, che aveva gia parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo
dei profeti, ultimamente, [2 ]in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha
costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. [3] Questo Figlio,
che irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutte le cose con la
potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si assiso alla destra
della maest nell'alto dei cieli, [4] ed diventato tanto superiore agli angeli quanto pi
eccellente del loro il nome che ha ereditato.
Ci sono dunque tutti gli elementi per identificare re Felice, nipote di Atalante, con quel Corpo
Solare, che costituisce il pi elevato dei corpi ermetici. La sua sposa o "potenza"
semplicemente indicata (a differenza di tutti gli altri personaggi) non con un nome proprio, ma
semplicemente con l'appellativo di "reina", ad indicare che si tratta di una potenza ad uno stato
ancora indifferenziato.
Come ha detto Frater Petrus, significativo che la capitale dei regni di Felice sia proprio Verona
o Marmorina. Al simbolismo della scala a cinque pioli dello stemma degli Scaligeri, si
riconnette quanto ha detto Pietro Negri riguardo alla presenza della Massoneria Operativa nel
veronese. Sempre a questo proposito, Ea, in un passato messaggio, ha indicato che i gradi veri
e propri ("interni al tempio") della Massoneria Operativa erano cinque. Il primo grado e il settimo
essendo "fuori dal tempio".
Afrodisia: Riguardo al duplice pellegrinaggio vorrei riportare i seguenti passi del Filocolo [Lib.
I, cap. 5]:
Risuona per Roma, com' detto, la gran fama nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il
quale si chiamava Quinto Lelio Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore
dell'africana Cartagine. ... avea, secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una giovane romana
nobilissima, nata della gente giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legittima sposa, ...
e ancora di lei niuno figliuolo avea potuto avere, ... essendo Lelio un giorno intorno a quel disio
molto pensoso, ud narrare di quello Iddio, che sopra gli sperii liti dimorava lontano,
maravigliose cose per lui fatte; le quali poi ch'egli ebbe udite, se n'and in uno santo tempio, l
dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della quale disse cos:
O grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo, l'anima renduta al
sommo Giove, ...
Io sono giovane d'eccellentissima fama, e di famosi parenti disceso, e nella presente citt
copioso di ricchezze e di congiunti parenti, accompagnato di nobilissima e bella giovane, con la
quale io sono stato tanto tempo ch' io veggio incominciare la sesta volta al sole l'usato
cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, ... Ond'io divotamente ti priego che nel
cospetto dello onnipotente Signore grazia impetri, ... , che Egli uno solamente concedere me ne
deggia ...La qual cosa se Egli me la concede, io ti prometto e giuro per l'anima del mio padre e
per la deit del sommo Giove che i tuoi lontani templi saranno da me visitati personalmente, e i
tuoi altari di divoti fuochi saranno alluminati.
Due cose mi sembrano particolarmente degne di rilievo:

- Sembrerebbe che il primo dei due pellegrinaggi sia avvenuto in un S. Jacopo di Compostella
"nostrano", una chiesa italiana, "sostitutiva" dell'originale spagnola, perch vi si trovava
l'immagine del santo. Ma quale? L'espressione "nella presente citt " indica chiaramente che si
tratta di una chiesa di Roma, nodo centrale dei pellegrinaggi dalla Terra Santa alla Galizia e
viceversa. Una identificazione precisa tuttavia impossibile, dal momento che il Catalogo di
Torino delle Chiese di Roma, risalente al sec. XIV (Ms. Torino, Biblioteca dell'Universit , cod.
E. V. 17, cc. 1r-16v), riporta sette tra chiese e ospedali dedicati a S. Jacopo (o Jacobo).
- E' poi interessante che Boccaccio dia al santo il titolo di "Iddio", testimonianza di quella
Deificatio Hominis (stadio superiore alla semplice Santificatio), perseguita anche dalle
organizzazioni contemplative cristiane, presenti a quell'epoca in Occidente.
Frater Petrus: Trovo eccellente la tua interpretazione di questo passo del Filocolo, giacch,
oltre ad essere pienamente aderente "alla lettera" del testo, chiarifica anche il significato
simbolico. Stabilito infatti che il primo pellegrinaggio si riferisca simbolicamente all'iniziazione e il
secondo al successivo opus realizzativo, la maggior brevit e fatica del primo rispetto al
secondo corrisponde bene alla diversa difficolt esistente tra l'iniziazione e la piena
realizzazione.
Nel medesimo brano, altrettanto evidente e significativo l'identificazione di Giove con il Geova
ebraico-cristiano, segno probabile di una integrazione, esistente in certi ambienti dell'epoca, tra
esoterismo politeista e cristiano.
II Libro
Frater Petrus: Uno dei capitoli fondamentali del II Libro del Filocolo, e dell'intera opera, il III
cap. In esso, Boccaccio aiuta sensibilmente il lettore a comprendere il significato anagogico del
Filocolo. L' "abile mezzo" , come si direbbe in Oriente, da lui adoperato quello di narrare un
sogno profetico, donato da Venere a re Felice. Tale sogno, da un lato, costituisce una
allegoria dell'intera opera e, dall'altro, ne fornisce la chiave anagogica. Riporto, per la sua
importanza, integralmente il suddetto capitolo:
S tosto come Amore dalla sua madre fu partito, cos ella nella lucida nuvoletta fendendo l'aere
pervenne a' medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il port in una camera sopra un
ricco letto, dove d'un soave sonno l'occup. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: che a
lui pareva esser sopra un alto monte, e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la
quale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suo
corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanza
alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender gi dal cielo
uno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le proprie mani il leoncello nel
petto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli
pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva.
Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da s: e
di ci pareva che l'uno e l'altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna un
lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele parava
davanti; ma il leoncello correndo subitamente torn alla difesa della cerbia, e co' propii unghioni
quivi dilacer s fattamente il lupo, che egli il priv di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui che
dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all'usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli parea
vedere uscir de' vicini mari due girfalchi, i quali portavano a' pi sonagli lucentissimi sanza
suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da' piedi i detti sonagli, e dava loro la
cerbia cacciandogli da s. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d'oro, e
tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro cos
legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi
alquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n'andavano l ove ella era; e quivi gli parea
che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Ma
poi avedendosi il veltro di questo, l'uno e l'altro parea che divorar volesse co' propii denti. E
subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava l onde partiti s'erano. Ma inanzi che al monte
tornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello

uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia


simigliantemente d'una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta la
letizia la quale egli con loro facea, che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave
sonno. E stupefatto delle vedute cose si lev, molto maravigliandosi, e lungamente pens sopra
esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell'ora che Amore
s'era da' suoi nuovi suggetti partito.
Da un punto di vista semplicemente allegorico, le concordanze degli elementi del sogno di re
Felice sono le seguenti:
Montagna= Marmorina, la capitale che re Felice "governava vicino a' colli d'Appennino". (1)
Cerbia bianca= Biancifiore, allevata alla corte di re Felice.
Leoncello= Florio, figlio di re Felice.
Spirito luminoso= Cupido, che fa innamorare reciprocamente Florio e Biancifiore.
Lupo= Il siniscalco Massamutino, al quale re Felice assegna il compito di ordire una trama per
accusare ingiustamente e poter cos giustiziare Biancifiore. Egli viene per ucciso, in un
"giudizio di Dio", da Florio, agente in incognito, che dimostra cos l'innocenza di Biancifiore.
Girfalchi (2)= Mercanti orientali di Alessandria d'Egitto ai quali re Felice vende Biancifiore, visti
inutili gli altri tentativi di allontanarla da Florio.
Veltro= L'Ammiraglio di Alessandria che tiene prigioniera Biancifiore in una torre. Florio,
nascosto in una cesta di fiori, riesce a penetrare in essa e trascorre una notte d'amore con
Biancifiore. Scoperti dall'Ammiraglio, che vorrebbe farli uccidere, si salvano grazie ad interventi
divini e umani. L'Ammiraglio (che fratello della madre di Florio) scopre che Florio suo nipote,
celebra egli stesso le nozze dei due giovani e facilita il loro ritorno in patria.
Fontana= Fonte Battesimale di Roma, ove Florio, convertito da Ilario, personaggio "all'ordine de'
cavalieri di Dio (3) scritto", viene battezzato assieme al suo seguito, dal sommo pontefice Vigilio.
(1) Appennino Veronese.
(2) Il girfalco o gerfalco un uccello di rapina, il pi grande tra le varie specie di falchi.
(3) Cos erano soprannominati i Templari, ma l'Ordine del Tempio fu fondato nel 1118-1119 e
soppresso nel 1312, non poteva perci esistere all'epoca di Vigilio, che fu papa dal 537 al 555.
Che si tratti proprio del Vigilio storico e non di personaggio di fantasia confermato dai
riferimenti a Giustiniano, che fu imperatore nel medesimo periodo, e ad Agapito I, uno degli
immediati predecessori di Vigilio. Il termine "cavalieri di dio", oltre che per i "monaci guerrieri"
degli ordini cavallereschi, si trova per anche usato per i semplici monaci. Nel 18 cap dei
"Fioretti di S.Francesco", il termine viene riferito agli oltre cinquemila frati ("lo esercito de'
cavalieri di Dio") intervenuti ad un Capitolo generale, presso Santa Maria degli Angeli. Ma
l'ordine francescano fu fondato nel 1210, cos ancora una volta le date non concordano. O
Boccaccio fa riferimento ad uno degli ordini monastici esistenti gi all'epoca di Vigilio, oppure
sta usando, come anche in altri punti del Filocolo, un anacronismo, per sottolineare l'importanza
simbolica dei personaggi.

Significato Anagogico del Sogno di Re Felice


Gli Ambienti Naturali
Frater Petrus: Veniamo ora ad esaminare, brevemente, la chiave anagogica, fornita dal sogno
di re Felice, con il che si render anche evidente tutta la differenza che passa tra il livello
allegorico dell'interpretazione (il secondo, stando al Convivio di Dante) e quello anagogico (il
quarto e pi elevato).
Iniziamo dai due ambienti naturali, che compaiono nel sogno: la montagna e il mare. Inutile
mettersi a discettare su tutti i significati simbolici che questi due ambienti possono avere. Far
sfoggio di erudizione non serve nell'esoterismo, dove invece occorre capire, deducendolo dal
contesto, ma anche dalla propria esperienza interiore, quale tra i possibili significati corretto

nel caso specifico, che si sta esaminando. Si potr notare ad es. come, in questo sogno, la
montagna non ha affatto il significato, altrove frequente, di "luogo di ascesa". Ha invece il
significato di luogo originario, dove l'evento narrato ha l'inizio, ma anche la fine. Mentre il
mare il luogo della peregrinazione intermedia. Paragonando questo sogno all'Odissea, in
esso la Montagna ha la stessa funzione di Itaca.
La montagna, per la sua relativa immutabilit , uno dei simboli del S. Se il Sole simbolo
della chiara consapevolezza del S , la Montagna lo del suo aspetto "immutabile", cio
immortale. Al contrario il Mare, per le sue correnti, un ovvio simbolo della Natura e del suo
Divenire. L'ascesi spirituale non pu che avere origine dal S, che per all'inizio non
conosciuto nella sua vera essenza, velato com' dall'ego di tutti i giorni . D'altro canto l'ascesi
medesima non pu che dipanarsi temporalmente nel divenire (il mare). E' solo confrontandosi
con il divenire che l'ascesi spirituale pu giungere a vera stabilit . Chi sa meditare in un
romitaggio, ma non in grado di permanere nello "stato naturale della mente", quando si trova
in mezzo alla folla, ancora lontano dalla meta. E' solo quando la vera essenza del divenire
compresa, che anche quella del S lo (il ritorno alla montagna).
Un famoso discorso del maestro Ch'ing yuan Wei-hsin (Seigen I shin, in giapponese), della
dinastia T'ang, ci offre un ottimo paragone: "Trent'anni fa, prima di iniziare lo studio dello Zen,
dissi: -Le montagne sono montagne, le acque sono acque-. Dopo aver avuto un'intuizione sulla
verit dello Zen ..., dissi: -Le montagne non sono montagne, le acque non sono acque-. Ma
ora, avendo raggiunto la dimora del riposo finale [cio, l'illuminazione], dico: -Le montagne sono
realmente montagne, le acque sono realmente acque-".
Per chi non ha ancora praticato, il S semplicemente il proprio Ego, legato alla presente
esistenza e il Divenire coincide con la descrizione del mondo, dettata dal senso comune
collettivo (il "buon senso") della propria epoca e del proprio ambiente. Quando si inizia la propria
ascesi, essa inevitabilmente influenzata dalle provvisorie descrizioni del S e del Divenire, che
i maestri forniscono alla sete di sapere dei discepoli, per far loro abbandonare la precedente
descrizione mondana. Se essi si fissano in tali nuove descrizioni, vuoi razionali, vuoi anche
simboliche (2), finiranno con avere una visione "manierata" ed artificiale della realt . Ad es.,
come spesso avvenne in India (3), l'immutabilit del S potr essere erroneamente concepita,
come effettivamente simile all'immobilit di una montagna, dimenticando quindi l'aspetto attivo
di questa "immobilit" (4). Andando al di l della semplice speculazione ed immaginazione,
coltivando l'esperienza diretta e non egoica della realt (Intuitio Intellectualis), finalmente si
avr una visione effettiva di entrambi i poli della realt .
(1) Nel caso di Itaca, la posizione relativamente immutabile dell'isola rispetto alle altre terre ad
avere analogo significato.
(2) Avent mera funzione indicatrice, come quella del "dito che mostra la luna".
(3) Suscitando, per reazione, l'opposta dottrina buddhista del "Non-S" (Anatta).
(4) "Motore Immobile" lo defin Aristotele, "Agire senza Agire" i filosofi dell'Estremo Oriente.
Gli Animali simbolici
La Cerva
Frater Petrus: Nel sogno di re Felice, appaiono cinque specie animali: la cerva bianca, il
giovane leone, il lupo, i due girfalchi e il veltro. Iniziamo con l'indagare il significato anagogico
della cerva bianca.
"Come la cerva anela ai rivi d'acqua, cos l'anima mia a Te anela, o mio Dio".
Cos inizia il salmo 42. La cerva che anela alle fonti di acqua pura il simbolo di quell'aspetto
dell'anima umana che anela al S, al "Dio in noi". Ma di quale aspetto si tratta? Fin dall'epoca
dei cacciatori Paleolitici del grande Nord, il cervo fu venerato come il principale obiettivo dei riti
di caccia. Sul simbolismo del cervo, ha scritto Adriano Romualdi (1): "Al toro - simbolo della
cieca forza generatrice, connesso con l'ideologia della fecondit , rozzamente raffigurato

insieme con la Dea Nuda nelle pi antiche culture agricole europee - si contrappone il cervo,
l'animale dei cacciatori del Nord, Seelentier des nordischen Menschen, e, secondo Weisweiler,
'animale della civilt artica'. Il cervo significativamente associato col simbolismo del sole e
della luce".
Il cervo dunque non , come il toro, simbolo della forza primigenia e scatenata del caos, bens
della vita in un senso superiore, imperniato secondo Romualdi nella concezione metafisica
dell'ordine, il "kosmos" greco, la "ratio" romano-italica, l' "orlog" germanico. Secondo autori
come il Weisweiler (2) si pu ritenere che, in epoca remota, nel centro Europa, si siano
sovrapposti due diversi flussi culturali, quello del toro mediterraneo e quello del cervo artico.
Questo spiegherebbe le, sia pur parziali, sovrapposizioni simboliche dei due animali, attestate
ancora in epoca celtica e romana. Ci vero, in particolare, per il noto simbolo del cerchio
sormontato dalla falce lunare, stilizzazione della testa del toro-cervo, ma anche parte superiore
del simbolo alchimistico del Mercurio. In questo forum, parlando della Porta Ermetica di Roma,
Ea ha indicato che la falce lunare (3) di tale simbolo equivale all'intelletto ricettivo (scr:
buddhi), aspetto animico in cui prevale come qualit albedo (sattva) e che perci riceve
direttamente la luce dell'Intelletto Attivo (Purusha). L'intelletto ricettivo, talvolta paragonato ad
"un occhio nel buio", anela, come indica il salmo, alla luce del "Dio in Noi" .
Nella preistoria greca, la religione pelasgica aveva una principale divinit detta la Grande
Madre o Dea Bianca o Triplice Dea, o semplicemente "l'Ineffabile". Suprema reggitrice di tutte
le cose, si manifestava nella trina immagine di madre-ninfa-vergine. A livello cosmico, infatti,
l'Intelletto ricettivo ha tre aspetti che, nella societ patriarcale Ind, costituito dalla
corrispondente Trimurti. In Grecia, arrivarono poi gli Achei e sostituirono alla Grande Madre il
figlio Zeus. Gli aspetti della Triplice Dea furono assunti dalla moglie Era, dalla bella Afrodite e
da dee vergini come Artemide e Atena. Nella religione ellenica, la cerva (e spesso, per
estensione, il cervo) era attributo costante di Artemide e, in quella romana, di Diana, divinit
lunari ("dee bianche") e cacciatrici. La caccia ad essa era in rapporto con il tempo notturno e
con la ricerca della saggezza. Lo dimostra anche il mito di Eracle. Tra le sue celeberrime
fatiche, vi infatti la cattura della cerva di Cerinea (monte tra l'Arcadia e l'Acaia), che aveva le
corna d'oro e gli zoccoli di bronzo ed era sacra ad Artemide. Per questo motivo doveva essere
catturata viva ed Eracle ci riusc solo dopo averle dato la caccia per un anno, inseguendola fino
alla terra degli Iperborei.
Anteriormente al Filocolo del Boccaccio, da segnalarsi "l'Erec et Enide", romanzo arturiano
scritto nella seconda met del XII secolo da Chrtien de Troyes. In esso l' "avventura della
cerva bianca" apparentemente un gioco di corte a contenuto erotico, alludendo alla conquista
della donna; ma in realt ha significato iniziatico. Dopo Boccaccio, analogo simbolismo stato
utilizzato nella "Cerva bianca", poemetto allegorico in ottave, diviso in sette canti, pubblicato
per la prima volta a Milano nel 1510, dove il Fregoso racconta la vicenda della ninfa Mirina,
tramutata da Diana in cerva, e del cacciatore Fileremo, che la insegue con i cani Desio e
Pensiero, nel tentativo di restituirle figura umana, attraverso i regni di Diana, d'Antero e
d'Amore.
(1) Di Adriano Romualdi (1940-1973), si veda:
"Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni", Edizioni di Ar, Padova 1978 ed anche
"Sul problema d'una Tradizione Europea", edizioni di Vie della Tradizione, Palermo 1996.
(2) Weisweiler Josef: storico e archeologo, autore, negli anni quaranta e cinquanta, di numerosi
saggi in tedesco sulla preistoria indoeuropea e sui Celti.
(3) Ea ha anche indicato che il cerchio solare, sottostante la falce lunare, il comune ego (scr:
ahamkara).
I Girfalchi
Frater Petrus: Anche nel caso di questo simbolo, perfettamente inutile enumerare i disparati
significati che il falco ha avuto fin dalla pi remota antichit . Occorre invece indicare il
significato specifico che assume nel sogno di re Felice, tenendo conto che i falchi sono due e
che non sono falchi qualunque, bens girfalchi. Bisogna inoltre tener presente il rapporto che

essi hanno con la cerva bianca:


"Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de' vicini mari due girfalchi, i quali portavano
a' pi sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da'
piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da s. E questi, presa la cerbia, la
legavano con una catena d'oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e
quivi ad un grandissimo veltro cos legata la lasciavano".
Abbiamo gi identificato, nelle onde del mare, il flusso del divenire e, nella Cerva, l'Intelletto
ricettivo (Buddhi), cio la lunula che sormonta il simbolo del mercurio. Genericamente il falco
simbolo degli dei solari. Qui per non si tratta del sole a s stante (Intelletto Attivo, Purusha),
ma del sole sottostante la lunula nel simbolo del mercurio, cio dell'Ego o mente dualistica
(Ahamkara), che valuta gli oggetti in relazione all'interesse del presunto soggetto. Il dualismo
sottolineato simbolicamente proprio dal fatto che i girfalchi sono due e dall'etimologia del loro
nome. In italiano pu dirsi sia gir(i)falco, sia gerfalco. Le etimologie proposte sono pi d'una e
si lumeggiano a vicenda. La pi generica fa derivare i prefissi "gir" e "ger" dal greco
"hieros=sacro". Secondo questa etimologia, il girfalco (nome scientifico: falcus rusticolus)
sarebbe perci una variante nordica del "Falco Sacro" degli Egizi. In effetti il girfalco anche
nella sua forma ricorda il Falco Sacro, ne tuttavia pi grande, con una lunghezza di circa
60cm e un'apertura d'ali di m1,30-1,40, ed quindi la specie di mole maggiore, fra quelle
appartenenti al genere Falco. Questa etimologia, da un punto di vista simbolico, conferma
semplicemente il fatto che questo falco costituisce un importante simbolo sacro.
Una seconda etimologia tiene conto del fatto che l'uso di adoperare i falconi nella caccia
soprattutto di provenienza germanica e che, in tale lingua, si trovano i termini corrispondenti:
"girfalc" o "grfalko" (ant. ted.), "girvalke" (med. ted.), "geierfalk" (mod. ted.). Probabilmente
derivano dal sostantivo che, nel medesimo linguaggio, significa "cupidigia, ingordigia": ant. ted.
"giri", med. ted. "gir" o "gr", mod. ted. "gier". La supposta
radice indoeuropea
"gar=inghiottire", da cui deriverebbe anche il sanscrito "gara=ingoiare", l'anglosassone
"garfalca=avvoltoio" e il latino, ed anche italiano, "grassare=predare". Simbolicamente, questa
etimologia sottolinea la cupidigia tipica della mente egoica.
La terza etimologia fa derivare il nome dal tardo latino "gyrare", perch questo uccello di rapina
persegue la preda con lunghi giri e facendo la ruota con la coda. Questa terza etimologia
sottolinea il vagare della mente egoica attorno ai propri oggetti di desiderio, come anche la sua
vanit (far la ruota).
In natura, i girfalchi rimangono spesso nelle vicinanze di stormi d'uccelli marini, che sono tra le
loro prede preferite. Inoltre, fanno le uova in nidi posti sulle sporgenze delle scogliere. Nel
sogno di re Felice, essi sorgono dal mare a sottolineare la connessione tra la comune visione
del divenire (il mare) e l'ego (i girfalchi), che la principale causa di tale visione. L'ego trascina
l'intelletto ricettivo (la cerva) nei flutti del divenire. Ci connesso con una visione erronea
del S (o Intelletto Attivo) e con l'abbandono della dimora della "sede mediana", ove il S si
manifesta per mezzo di "luci" e dei cosiddetti "suoni inaudibili" (simboleggiati dai sonagli
lucenti e silenziosi).
Oltre che dall'Europa Settentrionale, i girfalchi giunsero in Italia dall'Oriente, portati dagli Arabi e
dai crociati.
Nel Milione, Marco Polo ricorda i girfalchi delle isole dell'Asia Settentrionale, utilizzati dal Gran
Khan.
Fu Federico II ad unificare le due scuole di falconeria nordica e orientale. Nel sogno di re Felice,
i girfalchi trascinano la cerva in Oriente, simbolo del sole nascente e che, poich nasce,
destinato anche a tramontare e a scomparire. Non a caso il Dio dei Morti egizio, Sokar o
Sokaris, era rappresentato con la testa di falco. L'Oriente vale perci, nel nostro caso
specifico, come ulteriore simbolo dell'ego transeunte. Accenniamo al fatto che il veltro (1) a cui
la cerva viene saldamente legata il corpo fisico o saturnio, che ne limita la ricettivit durante
la vita terrena. La catena, con cui i girfalchi trascinano la cerva e la legano al veltro, d'oro per
simboleggiare l'aspetto attraente, che ha per l'ego, questo legame.
(1) Del veltro parleremo pi diffusamente nel seguito.

Il Lupo
Frater Petrus: Come molti altri simboli, il lupo ha perlomeno un duplice significato. Ci reso
evidente gi dalle favole di Esopo e di Fedro che presentano il lupo come un animale malvagio,
feroce e ingannatore, ma a volte anche giusto e rispettoso della parola data. Si tratta di due
possibilit insite in chi ha natura guerriera e perci il lupo associato simbolicamente ad
Ares-Marte. Non a caso, nel mito della fondazione di Roma, Romolo e Remo, figli di Marte e
Rea Silvia, furono allevati da una lupa.
Per comprendere meglio il valore anagogico specifico che il Lupo ha nel sogno di Re Felice,
occorre per esaminare altri due miti. Nella religione ellenica, il lupo non associato solo ad
Ares, ma anche ad Apollo. Questi fu partorito da Latona, che aveva assunto sembianze di lupa,
e per questo ad Argo era chiamato Apollo Liceo [Lykaios (gr.) o Lyceius (lat.), cio "Lupesco"].
Sotto forma di lupo, animale connesso etimologicamente con la luce (Lykos, la parola greca per
lupo, ha la stessa radice di Lyke, luce), ingoia il toro, simbolo del caos selvaggio e il suo gesto
archetipico ripetuto poi, con le opportune varianti del caso, da molti eroi solari che uccidono o
catturano tori o esseri taurimorfi: Eracle, Teseo, Mitra. Se a questo punto ci ricordiamo quanto
gi stato detto, riguardo alla sovrapposizione e sostituzione simbolica tra Cervo e Toro,
verificatasi in un certo periodo della storia europea, ci ritroviamo immediatamente nella stessa
situazione del sogno di Re Felice, dove un lupo "con ardente fame correva sopra la cerbia per
distruggerla". Sappiamo gi che la cerva simboleggia l'Intelletto Ricettivo (Buddhi) e i due
Girfalchi il dualistico Ego (Ahamkara). Il Lupo simboleggia allora la mente nell'aspetto specifico
di Sensorio Comune (Manas). Esso riunisce in unit le varie impressioni sensoriali e perci,
assieme alla luce dell'Intelletto Attivo (Purusha), concausa di quei processi di astrazione che
hanno sede nell'Intelletto Ricettivo. Contribuisce dunque a "gettar luce" sull'Intelletto Ricettivo
(la cerva), ma nello stesso tempo lo "divora". Infatti, il Sensorio Comune al servizio dell'Egoit
e perci non compie un unione neutrale delle varie impressioni sensoriali, ma le smembra in
una parte importante per l'Ego (la "Figura") e in una parte, ben pi vasta, ma egoicamente
meno importante (lo "Sfondo"). Poich, nell'uomo comune, il Sensorio Comune taglia fuori la
massima parte delle impressioni materiali e sottili, annichila gran parte delle immense possibilit
percettive dell'Intelletto Ricettivo.
Nella mitologia nordica, Fenrir (o Fenris) era un lupo gigante, figlio di Loki. Quando Fenrir apriva
le fauci, con una toccava la terra, con l'altra il cielo. Il Sensorio Comune infatti "a contatto" da
una parte con i sensi materiali e sottili, dall'altra con l'insieme intellettuale dell'uomo. Il mito
narra che il dio Tyr, per incatenare definitivamente il malvagio animale, lo sfid a rompere un
laccio sacro e indistruttibile. Fenrir fiut l'inganno e disse di accettare, solo se qualcuno avesse
posto la mano tra le sue fauci. Il lupo non riusc a rompere il magico laccio, ma Tyr perse l'arto.
L'incatenamento della, di per s formidabile, energia del Sensorio Comune, per metterla al
servizio dell'Ego, implica una menomazione delle nostre capacit generali. Fenrir destinato ad
ingoiare il Dio supremo Odino il giorno del Ragnarok. Quest'ultimo, essendo un tempo mitico,
non coincide con un periodo di tempo particolare. Si verifica in qualsiasi momento, in qualsiasi
uomo in cui la luce dell'Intelletto Attivo divorata da un sensismo totalmente assorbente e
materialisticamente orientato.
Il Leone
Frater Petrus: Il Leone anch'esso un simbolo polivalente, prova ne che nella religione
Ellenica era associato a disparate divinit come Artemide, Apollo, Efesto, Dioniso e Rea e, in
quella romana, a Giunone e Fortuna. Cos, ancora una volta, non esistendo un significato
generico, si tratta di individuare il significato specifico che assume il leone nel sogno di Re
Felice. Essendo gli animali simbolici, gi visti, equivalenti ad aspetti dell'essere umano, c' da
aspettarsi che sia cos anche per i rimanenti. Abbiamo gi indicato che il leoncello equivale
come personaggio a Florio e che questi a sua volta ha relazione con i fiori di Zolfo. Ma di quale
zolfo si tratta? Chimici e alchimisti ne conoscono perlomeno due variet. Ad es. ne "I Secreti
della Signora Isabella Cortese", opera alchimica del XVI sec. (1) si legge:

" E per sappi che tutti i metalli sono composti di mercurio e zolfo, cio di materia e forma. Il
mercurio la materia et il zolfo la forma, secondo la purit et l'impurit del mercurio e dello
zolfo, mediante l'influenza che pigliano. E per questo l'oro generato di argento purissimo e
zolfo rosso puro mediante il Sole, e per il pi perfetto metallo di tutti e l'argento fatto di
mercurio e di zolfo bianco, mediante l'influenza della Luna, e per pi perfetta degli altri
cinque, e non habbiam bisogno se non di zolfo con l'influenza del Sole, overo della Luna.
Il qual zolfo forma et anima dei metalli, et il resto materia grossa dell'argento vivo".
Analogamente nell'anonimo Rosarium Philosophorum (2) si trova:
"Poich stato detto che lo Zolfo dei Filosofi rosso nel Sole per la pi grande digestione, e lo
Zolfo, bianco nella Luna, per minore digestione".
Il leone associato sia ad Apollo, sia ad Artemide si presta bene a rappresentare sia il solare
zolfo rosso, sia il lunare zolfo bianco. Deve dunque trattarsi di un aspetto dell'essere umano
che si basa su una polarit sole-luna. Questo aspetto sappiamo essere il corpo "eterico" o vitale
(forma corporis), agente proprio tramite la polarit insita nel "soffio" o "pneuma", che quella
tra il solare "prana" e il lunare "apana" (3). Si spiega cos perch, nel folclore medievale, si
credeva che i cuccioli del leone nascessero senza vita e che il genitore donasse loro la vita
soffiandoci sopra. Inoltre, sebbene fosse considerato re degli animali, si pensava avesse paura
degli scorpioni, del veleno dei serpenti e degli incendi, tutti simboli di ci che distrugge la vita.
(1) Esistono dodici edizioni veneziane di questo testo, stampate tra il 1561 ed il 1677. Ne esiste
anche una traduzione tedesca: Verborgene heimliche Kunste und Wunderwerke in der
Alchymie, Medicin und Chyrurgia Hamburg 1592, 1596 e Frankfurt 1596.
(2) Si tratta di un testo alchimico del XIII secolo, attribuito ad Arnaldo da Villanova (1235-1315).
La prima pubblicazione a stampa del Rosarium probabilmente la miscellanea pubblicata a
Francoforte sul Meno nel 1550, intitolata "Alchemia Opuscula complura veterum
philosophorum...", di cui esso costituiva la II parte.
(3) Per maggiori dettagli si veda quanto detto da Ea nel quaderno dedicato alla Porta Ermetica
di Roma.
Il Veltro
Frater Petrus: E veniamo al simbolo del Veltro (o levriero) pregno di significato presso i Fedeli
d'Amore. Gli studiosi si sono concentrati per lo pi sul significato politico che ha in Dante,
identificandolo in un virtuoso principe, forse un imperatore, capace di ristabilire l'impero romano
e di riformare il mondo corrotto. Taluni lo identificano con Cangrande della Scala. Ed anche nel
sogno di re Felice si parla di un "grandissimo veltro" (cio di un Cane Grande). Ma noi ci stiamo
occupando del livello anagogico del significato e perci dobbiamo mettere da parte tutti i livelli
inferiori di interpretazione. Nel III Dialogo de "Lo spaccio della bestia trionfante", Giordano
Bruno fa dire a Sofia:
Lascia l'ombre ed abbraccia il vero.
Non cangiare il presente col futuro.
Tu sei il veltro che nel rio trabocca,
mentre l'ombra desia di quel c'ha in bocca.
Aviso non fu mai di saggio o scaltro
perdere un bene per acquistarne un altro.
A che cerchi si lungi diviso
se in te stesso trovi il paradiso?
Anzi, chi perde l'un mentre nel mondo,
non speri dopo morto l'altro bene.
Perch si sdegna il ciel dare il secondo

a chi il primiero non caro non tenne;


cos, credendo alzarti, vai a fondo;
ed ai piacer togliendoti, a le pene
ti condanni; e con inganno eterno,
bramando il ciel, stai ne l'inferno.
Dunque il Veltro indica quel che nell'uomo lo rende completo, pi completo di quanto non lo sia
da morto, perfino se in paradiso. Si tratta di un motivo comune a tutta la tradizione iniziatica, che
fa affermare, ad es. a Pico della Mirandola (De Hominis Dignitate), la superiorit dell'uomo
rispetto agli stessi angeli, per la presenza in lui di aspetti oltre che "celesti", anche "terreni".
Nella Tavola Smeraldina infine si legge:
"Il padre di ogni telesma, di tutto il mondo qui. La sua forza intera se essa convertita in
terra".
Crediamo non sia necessario altro per identificare il veltro con il corpo fisico o saturnio, che
rende completo l'uomo anche sul piano terreno. Nel sogno di Re Felice, il veltro
"grandissimo" sia nel senso fisico di "molto grosso" (= grossolano), sia per l'importanza che ha
nell'opus alchimico. A questo proposito, si pu rivedere utilmente il capitolo de La Tradizione
Ermetica di Evola, intitolato "Saturno, Oro inverso".
Nella tecnica iniziatica indicata dal sogno, si fa uso del leone (= forza vitale, prana-apana) per
"liberare" la cerva, riportare cio l'intelletto ricettivo a tutta la sua potenza, facendone specchio
perfetto (non pi deformato dall'egoit) dell'intelletto attivo (purusha). Ma cosa simboleggia
l'intelletto attivo nel sogno? Ovviamente, come ha gi indicato Sipex, colui che, pur
corporeamente immobile, sottilmente agisce e, nella "sostanza" mentale (prakriti), provoca il
sogno ... Re Felice.
Sperando di aver chiarito, per quel che mi possibile, la chiave anagogica del Filocolo, che lo
stesso Boccaccio ci fornisce, lascio al lettore il compito di servirsene nell'eventuale studio
dell'opera completa.

12a) Appendice

Sogni Inventati e Sogni Reali


Luca Malagrida: a proposito di animali simbolici nei sogni vorrei che gentilmente qualcuno mi
desse una interpretazione di un sogno che recentemente mi ha molto colpito.
Premessa: mi piaciuto molto un film che si chiama "pulp fiction", ma ho sempre avuto
difficolt a ricordarne il titolo perch prima mi veniva sempre in mente il nome"deep purple".
Successivamente ho visto un altro film, "fight club", in cui il protagonista, durante una seduta di
meditazione collettiva veniva invitato a entrare con la mente nella propria caverna interiore per
scoprire qual'era il suo animale guida (nella fattispecie un pinguino); mentre guardavo la scena
mi divertivo a pensare a quale potesse essere il mio (eventuale) animale guida e mi
chiedevo come avrei fatto a scoprirlo. Il film mi piacque molto e vi trovai alcune analogie con
l'altro che ho citato, tanto che lo definii un "pulp fiction" in chiave esoterico-psicanalitica (e per

me, come ho detto, il nome "pulp fiction" per qualche motivo strettamente associato a un
altro:"deep purple").
La mattina dopo all'alba, immerso in un dormiveglia che durato vari minuti avevo in mente un
nome che andava e veniva quasi pulsando: "deep turtle", non "deep purple"(pi o
meno:"porpora scura"), ma "deep turtle": "tartaruga profonda"; e insieme al nome mi sembrava
di vedere la testa di una tartaruga dalle scaglie smeraldine e uno sguardo che veramente mi
sembrava venire da antichit insondabili. Ho pensato che questa fosse la risposta alla mia
domanda su quale potesse essere il mio animale guida. Mi farebbe molto piacere che qualcuno
mi dicesse qualcosa sulle modalit cos "linguistiche" di questo sogno (e tra l'altro non ricordo di
aver sognato in inglese prima d'ora) e sul fatto che abbia "visto" proprio una tartaruga.
Ea: Si narra che un maestro Zen, per mettere alla prova un discepolo, una mattina gli disse:
"Sai, stanotte ho fatto un sogno..."
"Ah s?"- rispose il discepolo - "allora beviti una tazza di the!"
"Bravo!" - concluse il maestro - "se tu mi avessi risposto diversamente, ti avrei
cacciato!"
Luca Malagrida: per io non sono un maestro zen e non stavo mettendo alla prova nessuno.
Pensavo che piuttosto che limitarsi solo all'esegesi di assolutamente tutto ci che stato detto
scritto e sottinteso da una congerie un po' eterogenea di maestri pi o meno riconosciuti,
sarebbe stato interessante capire come si "fa" su s stessi (se volete "in corpore vili"dato che vi
sto contraddicendo) questa ricerca; come si intraprende con le proprie gambe questo cammino
sulla "via"; e per farlo ovviamente serve una guida che, per l'appunto,"guidi" facendosi capire.
Ricordo infine, naturalmente sorridendo, che in un racconto del libro di "mu mon" (ossia: la porta
che non una porta") un maetro zen si becca 500 reincarnazioni sotto forma di volpe delle
montagne per aver dato una risposta troppo secca a un allievo.
Frater Petrus: A scanso di ogni equivoco, vorrei precisare (ma pensavo fosse evidente) che il
Sogno di Re Felice ovviamente creazione fantastica di Boccaccio, nel quale gli animali
rappresentano volutamente aspetti della struttura interiore dell'uomo, cos come la cultura
medievale (influenzata soprattutto dall'aristotelismo) la concepiva. Non tento affatto, perci, n
una interpretazione psicanalitica, che non avrebbe senso, trattandosi di sogno razionalmente
creato dall'autore e non nato dalle latebre dell'anima, n interpretazioni sciamaniche o
new-age, del tutto estranee all'Italica Schola, all'epoca di Boccaccio come oggi. Rammento che
questo un forum dedicato al Gruppo di Ur e ne vuole idealmente proseguire gli studi. Quanto
alla psicanalisi, allo sciamanesimo e al new-age esistono forum sicuramente pi "attrezzati", in
tali specialit , ai quali rivolgersi (1).
Aggiungo che, in magia, la pratica sul sogno ha sostanzialmente due fasi:
a) Consapevolezza dei sogni: che nulla ha a che fare con una qualsivoglia "interpretazione"
degli stessi. Si tratta solo di rendere il sogno "lucido".
b) Trasformazione volontaria dei sogni (ormai resi lucidi) in stati di assorbimento
magico-meditativo.
Il discepolo dello Zen (disciplina solare quanto la magia), a cui faceva riferimento la "storiella"
narrata da Ea, era perfettamente consapevole di ci ed per questo che non risponde al
maestro: "Cosa hai sognato?".
Il contenuto essendo ininfluente rispetto alla lucidit da mantenersi. Il consiglio "Beviti una
tazza di the" si deve al fatto che da un maestro ci si aspetta che sia pervenuto al II stadio di
pratica (la trasformazione volontaria dei sogni) e perci il ricadere nel I stadio, ancora
involontario, indicato dalla frase "Sai stanotte mi capitato di fare un sogno..." pu essere frutto
solo di un turbamento momentaneo del maestro, superabile (nell'augurio del discepolo) con una
comune tazza di the. Niente di offensivo dunque da parte di nessuno dei due.
(1) [n.d.u. : E' perlomeno singolare che una persona che pratica una "via", certo non consigliata
da noi, alla prima incertezza chieda consiglio proprio a noi. Non dovrebbe chiederlo a chi quella
via gli ha indicato? (In una lettera privata, Malagrida accenna ad una specie di iniziazione da
parte di un musicofilo)].

Deo_Ame: Fr. Petrus ha ben evidenziato che il lavoro sul sogno, proprio dell'alta magia,
basato sulla lucidit e sulla susseguente possibilit di controllo. Ci differenzia l'alta magia da
qualsiasi scienza tradizionale o moderna, che propugni una tecnica basata sull'interpretazione,
come l'oniromanzia o la psicoanalisi. Il mago apprezza il sogno cos com', ritenendolo una
forma spontanea del "pensiero libero dai sensi", della quale occorra soltanto assumere il
controllo, per avere a disposizione un potente strumento operativo, non ostacolato dalle
impressioni sensoriali dello stato di veglia. Chi "interpreta" svaluta un po' il sogno cos com',
preferendo ritenerlo come una sorta di codice che debba esser tradotto. Questo crea un
mucchio di problemi:
1) Che si tratti veramente di un codice in cui si trasforma qualcos'altro solo un'ipotesi
suggestiva finch si vuole, ma mai veramente provata. Si dir che lo dimostrano gli
oniromanti oppure Freud. Ma l'unica dimostrazione possibile sarebbe quella di fornire un codice
di interpretazione effettivamente valido sempre. Purtroppo gli oniromanti spesso si sbagliano e il
codice proposto da Freud non fu accettato neppure da discepoli diretti come Jung o Adler, che
ne proposero altri. E anche la psicoanalisi, proprio come l'oniromonzia, se a volte pu avere
qualche effetto positivo sul paziente, altre volte non ce l'ha.
I successi, in entrambi i casi, possono spiegarsi diversamente. Se un oniromante azzecca una
previsione, ci pu essere dovuto semplicemente alla sua sensibilit o capacit intuitiva e
pertanto la previsione pu benissimo non esser affatto contenuta nel sogno. Se uno psicanalista
ha un effetto positivo sul suo paziente, ci pu esser semplicemente dovuto al suo influsso
suggestivo o alla sua capacit di dialogo, senza che l'interpretazione del sogno c'entri un bel
niente. Del resto le libere associazioni di parole, fornite dal paziente a partire dagli elementi del
sogno, condurranno inevitabilmente, prima o poi, a simboli interpretabili in base alla libido (se
l'analista freudiano) o alla volont di potenza (se adleriano) o alla necessit di armonia
interiore (se junghiano) etc. Dunque il lavoro sul sogno pu essere solo una scusa per
generare la catena di libere associazioni (che si sarebbe generata comunque a partire anche da
un altro sogno o da una semplice parola stimolo) e non contenere minimamente il significato
che gli si attribuisce.
2) Chi ritiene di dover "interpretare" corre perci il rischio di smarrirsi semplicemente nei
meandri delle proprie ... "interpretazioni", assai pi illusorie del sogno, che perlomeno, in s
stesso, costituisce una forma sottile di percezione diretta.
Taluno dir
che i metodi basati sull'interpretazione siano di carattere maggiormente
mistico-contemplativo, dal momento che vanno in cerca di un "messaggio" vuoi dell'inconscio,
vuoi di qualcosa di superiore. Temo per che i veri mistici non sarebbero d'accordo.
Ad es. S.Giovanni della Croce ritiene che se le immagini oniriche o di altra provenienza
possono venire da Dio, possono per avere anche altre provenienze e venire pure dal
diavolo. Il suo metodo consiste nel non attaccarsi ad esse: cos facendo si avrebbe un doppio
vantaggio: se le immagini provengono dal demonio, non attaccandosi ad esse si elimina il
possibile influsso malefico; se invece vengono da Dio esse influiranno positivamente,
soprattutto se il mistico, non arrovellandosi inutilmente su di esse, mantiene quieto il suo animo.
Anche nell'alta mistica quindi: nessuna interpretazione! (1)
L'alta magia si distingue dall'alta mistica solo perch alla semplice fase di lucidit (opera al
bianco) fa seguire una fase attiva di controllo (opera al rosso).
(1) S. Giovanni della Croce, Opere, Postulazione generale dei Carmelitani Scalzi, Roma, 1975.

13) Fedeli d'Amore e Via del Sacro Amore

Venvs Genitrix: In Eros e Spagiria (1), Massimo Scaligero scrive: "Abbiamo altres rilevato
come il Sacro Amore non sia identificabile con l'eros mistico, n con la bhakti, n con la
devozione della Philocalia, n con l'emozionalismo sufico, n con l'esperienza dei 'Fedeli
d'Amore', essendo l'Assolutamente Nuovo: la relazione pura dell'Io, possibile nell'epoca
dell'Anima Coscente, la radicale volont ritrovata nella coscienza di s, come coscienza
dell'essere dell'altro: il fondamento del puro pensiero realizzato nell'incontro dell'Io dell'altro".
Questa affermazione, che coinvolge anche i Fedeli d'Amore, aggiunge, al gi difficile compito
degli studiosi di individuare dottrine e metodi di questa scuola iniziatica, anche quello di
adeguarne eventualmente i metodi all'uomo attuale.
(1) Il saggio si trova in M.Scaligero "Yoga, Meditazione, Magia", Teseo Roma 1971.
Frater Petrus: E' mia impressione che Scaligero abbia tratto questa deduzione dal fatto
che Dante e i Fedeli d'Amore, vivendo sul finire della cosiddetta IV epoca postatlantidea, si
servissero di un metodo iniziatico, che non pu ancora definirsi rosacrociano. Tuttavia
non bisogna dimenticarsi che soprattutto i "tardi" Fedeli d'Amore, come Boccaccio, da un punto
di vista temporale e ideologico, sembrano "passare il testimone" proprio ai Rosacroce. Siamo
perci convinti che le loro tecniche iniziatiche si avvicinassero gi molto a quelle adatte all'uomo
contemporaneo. In questo forum abbiamo cercato di dare un piccolo contributo a dissuggellare
tali tecniche e abbiamo anche indicato, in specifico, una di esse che, rivelata da Cavalcanti,
assai affine ad una meditazione di Scaligero.
Siamo altres consapevoli dell'importanza assoluta che, in relazione alla "via a due vasi", hanno
i pur sintetici scritti di Introduzione alla Magia, firmati Abraxa. Tali saggi sono stati il punto
di partenza sia di Evola, sia di Scaligero, che per hanno proceduto in due direzioni diverse:
Evola, in Metafisica del Sesso, si servito degli scritti di Abraxa come chiave (2) per una visione
retrospettiva di tutti i passati aspetti magico-religiosi della sessualit. Scaligero invece partito
da quei saggi, per additare una via del Sacro Amore all'uomo futuro. Non stupisca questa
affermazione: Scaligero soleva affermare che R.Steiner non si era mai espresso direttamente
sulla via del Sacro Amore, ma che tuttavia nel suo insegnamento c'erano tutti gli strumenti
necessari per delinearla. Scaligero dunque partito dalla sintetica esposizione di Abraxa, per
saggiarla in tutti i suoi dettagli, grazie agli strumenti forniti da Steiner. Non l'unico campo in cui
ha proceduto cos: ad es., partendo dalle "Istruzione per la Conoscenza del Respiro" di Abraxa,
l'unico scrittore che abbia saputo aggiungere importanti dettagli a quell'opus, non ultimi quelli
relativi all'esperienza dell' "Arcangelo dell'Aria". Forse un particolare non a tutti noto che
Scaligero fu membro della Miriam, prima di dedicarsi all'ascesi steineriana (3). In questo forum
sono gi stati presentati alcuni suoi scritti sull'argomento del Sacro Amore, stesi in un'epoca di
collaborazione con il cognato Paolo Virio. Altri scritti attendono di essere esaminati.
(1) M. Scaligero, "Forma Attuale della Conoscenza Metafisica", in La Via della Volont Solare,
Tilopa, Roma, 1986.
(2) Nel cap. "La Miriam e la Piromagia" afferma infatti: "Le due monografie ora citate sono forse
quelle in cui gli insegnamenti segreti di magia sessuale a finalit iniziatiche sono esposti con un
minimo di veli".
(3) In relazione al periodo immediatamente precedente a quello antroposofico cos si esprime in
Dallo Yoga alla Rosacroce (Perseo, Roma, 1972): "Evola ... con cordiale correttezza mi indirizz
a Colazza e a Bonabitacola: quest'ultimo gi lo conoscevo per la mia precedente appartenenza
alla Miriam. Da Colazza sarei andato pi tardi. Riaccostai Giulio Parise, Arturo Reghini, taluni
valorosi amici della Miriam come Ciccio Modugno e Salvatore Merg ..."

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