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parte)
Siamo in fondo contenti così, va bene così, proprio perché
non sappiamo reagire, non sapremmo far vibrare l’arco e
scoccare la freccia verso orizzonti più lontani, perché
abbiamo disimparato a desiderare.
Riflessioni su Nietzsche
Autore: Cottini, Giampaolo
Fonte: Tracce
Il destino dell'uomo sull'abisso della vita
"Quei pensatori in cui tutte le stelle si muovono in orbite cicliche non sono i più
profondi; chi scruta entro se stesso come in un immenso spazio cosmico e porta in sé
vie lattee sa anche come siano irregolari tutte le vie lattee: esse conducono dentro al
caos e al labirinto dell'esistenza" (Gaia scienza 322).
Affascinante e sconcertante, la figura di Nietzsche ci colpisce per una radicale
problematizzazione, irriducibile ad una semplice posizione intellettuale, perché
drammaticamente coinvolgente la sua stessa vita.
Nato a Röcken in Sassonia il 15 ottobre 1844 nella famiglia di un pastore luterano, a
soli cinque anni vive l'esperienza della perdita del padre, sperimentando la mancanza
della figura paterna nella fase più delicata della formazione della sua personalità e non
potendo certo colmare tale vuoto con l'educazione tutta "al femminile" di cui si
occupano la madre e la sorella, che gli saranno sempre, spesso ossessivamente,
vicine lungo tutta la vita.
Compie gli studi classici a Bonn, dimostrandosi allievo brillante e sensibilissimo, e poi
a Lipsia al seguito del noto filologo Ritschl, finché nel 1869 è nominato professore di
filologia classica a Basilea. La lettura de "Il mondo come volontà e rappresentazione"
di Schopenhauer e l'incontro con Wagner gli aprono orizzonti nuovi, orientandolo dagli
originari interessi filologici ad una visione della cultura più filosofica che si esprime
nella sua prima opera importante "La nascita della tragedia dallo spirito della musica"
(1872), che suscita scalpore tra gli specialisti di filologia per la novità dell'analisi
dell'apollineo e del dionisiaco come elementi costitutivi della cultura greca, e per
l'identificazione dell'intellettualismo socratico come origine della decadenza della
razionalità occidentale. Già questa lettura del significato della tragedia rivela una
modalità anticonformista nell'affronto delle questioni culturali, ulteriormente
sottolineata nelle quattro "Considerazioni inattuali" (1873-1876), che con lo stile della
"filosofia a colpi di martello" inaugurano l'esercizio sistematico del "sospetto" come
scuola di temerarietà e di disprezzo. Questo mutato atteggiamento si documenta
anche nella novità del linguaggio che, lasciata la freddezza impersonale
dell'esposizione scientifica tipica del filologo, assume lo stile dell'aforisma e
dell'oracolo come nella "Gaia scienza" (1882) e in "Così parlò Zarathustra" (1883-
1885).
Nel 1879 è costretto a lasciare l'insegnamento universitario a causa del continuo
peggiorare delle condizioni di salute e della crescente inquietudine che lo conduce a
vagare per tutta Europa e soprattutto per l'Italia, alla ricerca di una quiete e di una
serenità che non riuscirà più a trovare.
Nell'agosto del 1881, durante una passeggiata sulle rive del lago di Silvaplana nell'alta
Engadina, Nietzsche viene folgorato dall'intuizione quasi mistica dell'"eterno ritorno
dell'Eguale", ossia dell'eterno ripetersi dell'esistenza come senso della Storia (secondo
l'immagine della "Gaia Scienza" per cui "L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre
di nuovo capovolta"), e configura, come in un'apparizione, i tratti di Zarathustra, colui
che incarna i caratteri dell'"oltre-uomo". Da queste visioni inizia, in una sorta di
trasfigurazione del reale, il periodo di maggiore instabilità psichica, accompagnata dal
progressivo peggioramento dello stato di salute, in un continuo alternarsi di momenti
di ebbrezza creativa e di stati di profonda depressione.
La follia si manifesta in modo irreversibile all'inizio del 1889 a Torino, riducendolo in
uno stato di totale apatia e di incosciente demenza destinata a durare sino alla morte
(1900), ma fino al crollo psichico definitivo egli rimane lucido quanto enigmatico
interprete di se stesso, incarnando il ruolo del distruttore di ciò che può passare al
setaccio del sospetto e della critica, secondo un discorso che volutamente si mantiene
al di qua di ogni logica formale e perfino della sintassi, in un'ideale collocazione "al di
là del bene e del male": pubblica diverse cose, senza però poter concludere la
progettata opera sulla "volontà di potenza" che rimane solo abbozzata, e che oggi
conosciamo nella accurata edizione critica comparsa con il titolo di "Frammenti
postumi", che restituisce l'autentica intenzione di Nietzsche rimasta stravolta dalla
collazione di frammenti ed appunti predisposta dalla sorella, che ne accreditava
un'immagine deformata.
Certamente tutto il suo pensiero si presenta come un'esasperata polemica contro ogni
forma di conformismo borghese, in un attacco soprattutto al mito nazionalistico della
necessità del progresso lineare, ma vuole essere anche risposta agli incontri che più lo
hanno provocato (da Schopenhauer a Wagner), fino al serrato confronto col
cristianesimo, di cui Nietzsche avverte il fascino non tanto degli aspetti dogmatici
quanto della persona stessa di Cristo.
Già nella prima opera, La nascita della tragedia, emerge il giudizio di Nietzsche sulla
parabola della razionalità occidentale, quale si costituisce a partire da Socrate. Mentre
nella tragedia la vita è affrontata nella sua tremenda complessità, fatta insieme di
dolore e di ebbrezza gioiosa, l'"uomo teoretico" da Socrate in poi si sottrae a quella
visione affascinante e terribile pretendendo di imbrigliare la realtà nella rete
rassicurante dei concetti.
Con La nascita della tragedia Nietzsche inaugura un metodo interpretativo delle forme
del sapere umano, che le riconduce ad un atteggiamento vitale, una genealogia del
sapere che faccia emergere "ciò che sta dietro" all'apparente neutralità della cultura e
della scienza. Il soggetto può quindi costruire una pluralità di significati, nessuno dei
quali può dirsi assolutamente vero in sé, ma al massimo solo significante a partire
dalla prospettiva da cui il singolo lo ricrea: così l'essere non è più considerato come
retto da un "logos", traducibile nella rigorosa sintassi del discorso concettuale, ma
appare solo come una miriade di frantumi in cui può riflettersi la molteplice attività
interpretativa del soggetto.
Questa posizione si consolida nell'incontro con l'irrazionalismo di Schopenhauer che
proclama l'essenza irrazionale della realtà (dominata dalla volontà cieca).
L'esasperata reazione al razionalismo finisce ad amplificare la distanza tra la realtà e
la sua apparenza, negando ogni possibilità di razionalità del reale, e sostituendo a Dio
(origine del tutto) il cieco impulso della volontà. Ma una volta privato del logos, il
mondo diventa senza senso e si apre lo spazio solo per una "filosofia negativa", per
una "mistica dell'assenza", in cui l'uomo è abbandonato alla tragicità.
Qualcosa di questa tragica grandezza dell'umano Nietzsche ritrova in un primo tempo
nella musica di Wagner, originale interprete dell'eroismo dell'anima tedesca attraverso
un ideale aristocratico della vita contro la grettezza della mentalità borghese; ma ben
presto anche Wagner delude questi entusiasmi rivelandosi ai suoi occhi solo come un
presuntuoso opportunista.
Ma il vero grande interlocutore che occupa costantemente l'attenzione di Nietzsche
rimane il cristianesimo, assimilato fin dalla tenerissima età nell'ambiente familiare,
verso cui sente un duplice sentimento: di fascino ed attrattiva per la figura di Cristo, e
di disgusto per le implicazioni morali, giudicate proprie di una "morale del gregge".
Un'espressione di questa religiosità è reperibile nella giovanile poesia del 1864,
dedicata a Dio:
Ancora una volta, prima che m'avvii
con lo sguardo rivolto innanzi
io levo solitario a te le mani,
chiedendoti rifugio,
a te cui alzo nel profondo cuore
grandi altari solenni
perché la voce tua sempre mi chiami,
lassù risplende profondamente incisa la parola:
al Dio sconosciuto.
Ed io son suo, anche se son rimasto
fino a quest'ora fra le schiere empie;
io son suo, e sento le catene
che mi voglion portare alla battaglia,
sicché, se fuggo, mi costringono a servirlo.
Ti voglio conoscere, o Sconosciuto,
che afferri la mia anima,
che la mia vita sconvolgi come una tempesta,
o Inafferrabile, eppure a me congiunto,
voglio conoscerti e servirti.
Del cristianesimo Nietzsche coglie dunque il senso di totale apertura al mistero, ma
non riesce a tollerare quella che considera la degenerazione della fede paolina, cioè
quella negazione della vita e quella mortificazione del desiderio che vedeva
testimoniata da tanti cristiani, permeati del pessimismo luterano, così venato dalla
sfiducia verso l'uomo e così lontano dalla percezione della grandezza della
misericordia di Dio. Del cristianesimo egli conosce un volto quasi femmineo, privo di
un rapporto virile al Dio sconosciuto, in cui il sentimento di grandezza dell'uomo viene
mortificato in una posizione pietistica e moralistica di devozione ad una divinità
dispensatrice solo di premi e castighi o al massimo di certezze banali.
Bisogna però rendersi lucidamente conto che questo evento coincide con la perdita di
ogni punto di riferimento, con l'assenza di un orizzonte veritativo capace di fornire
l'orientamento necessario all'esistenza, conducendo così alla follia testimoniata in
questa pagina della "Gaia Scienza", dedicata all'uomo folle che annuncia l'assassinio di
Dio da parte dell'umanità:
Non avete mai udito parlare di quel pazzo che in pieno giorno accese una lanterna,
corse al mercato e gridò senza tregua: "Io cerco Dio! Io cerco Dio!"? Poiché si
trovavano colà molti di quelli che non credono in Dio, il pazzo provocò una grande
risata, "Dio è dunque andato perduto?" chiese un uomo. "Si è smarrito come un
bambino?" chiese un altro. "O si tiene nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? Ha
emigrato?". Così gridavano e ridevano tra loro. Il pazzo saltò in mezzo a loro ficcando
in loro lo sguardo. "Dove è andato Dio?" egli gridò. "Io ve lo voglio dire. Noi lo
abbiamo ucciso, voi ed io! Noi tutti siamo i suoi uccisori! Ma come abbiamo fatto ciò?
Come potemmo bere tutto il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare tutto
l'orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando staccammo la Terra dalla catena del suo
Sole? In quale direzione ci muoviamo noi? Lontano da tutti i soli? Non precipitiamo noi
continuamente? Indietro, da un lato, in avanti, da tutte le parti? C'è ancora un alto e
un basso? Non voliamo noi come attraverso un nulla senza fine? Non soffia su di noi lo
spazio vuoto? Non fa forse più freddo? Non sopraggiunge continuamente la notte,
sempre la notte? Non si devono accendere le lanterne di mattina? Non udiamo ancora
nulla del rumore dei becchini che seppelliscono Dio? Non sentiamo alcun odore della
putrefazione divina? Anche gli dei si putrefanno! Dio è morto! Dio resta morto! e noi lo
abbiamo ucciso! Come possiamo consolarci noi gli assassini di tutti gli assassini? Ciò
che di più santo e più potente possedette finora il mondo fu dissanguato dai nostri
coltelli. Chi cancella da noi questo sangue? Con quale acqua potremo purificarci? Quali
solenni espiazione quali giochi sacri dovremo inventare? La grandezza di questo fatto
non è troppo vasta per noi? Non dobbiamo noi stessi diventare Dei, per sembrare
degni di quella grandezza? Non ci fu mai un fatto più grande, e chi nascerà dopo di noi
apparterrà, a causa di quel fatto, ad una storia più grande di quanto sia stata fatta
finora, qualsiasi storia!"...
Si racconta ancora che quel pazzo entrò lo stesso giorno in diverse chiese ed ivi intonò
il suo "Requiem aeternam Deo".
L'annuncio della morte di Dio segna così la fine della possibilità stessa della verità e
pone un'abissale privazione di qualsiasi punto di riferimento.
Con la distruzione della metafisica come pretesa di costruzione di un universale
mondo di valori, non muore soltanto una tradizione filosofica, ma viene a cessare la
possibilità stessa del significato e quindi si apre lo spazio per la totale assurdità del
reale. Alla caduta dei valori, cioè dei punti di appoggio tradizionali, il superuomo
risponde accettando il destino tragico del non-senso, realizzando la "transmutazione
dei valori" attraverso le metamorfosi dello spirito, che lo riportano all'immediatezza
del "fanciullo" che sa ricreare il significato della realtà nella gioiosa accettazione
dell'eterno ritorno dell'Eguale (Amor Fati proprio della concezione ciclica del tempo
tipica della tragedia greca). Così Nietzsche sostituisce alla figura di perfezione del
Santo cristiano il coraggio dell'eroe tragico, che accetta di porre la sua volontà come
fonte unica dei valori, in una concezione della libertà per la quale il soggetto rimane
sospeso solamente al vuoto della propria "volontà di", senza poter sperimentare la
pienezza di una "volontà per".
Il tempo, non più pensato in senso rettilineo come nella visione ebraico-cristiana,
viene concepito nella circolarità che, esaltando la pienezza dell'attimo eternamente
ritornante, conferisce al soggetto il compito di ricreare il significato delle cose
nell'immediatezza dello spirito dionisiaco, spirito che ridice il proprio Sì alla vita nella
sfrenatezza della danza.
In questa visione vitalistica, è la volontà di potenza dell'oltreuomo a ricreare il senso
della terra, e con ciò Nietzsche segna la fine di una concezione della razionalità come
rispecchiamento della verità delle cose: con la morte di Dio viene meno la pensabilità
stessa della verità, ed emerge la tragica assenza dell'origine, di fronte alla quale
l'uomo è lasciato nella condizione di un "fanciullo" che può solo amare l'istante. Dopo
che l'uomo si è autoproclamato Dio, l'unica strada possibile è quella del nichilismo e
dell'assurdo che la danza di Dioniso esprime, ma che pare avere come unico esito la
follia. Ed in Nietzsche la follia si consuma nella totale apatia dei suoi ultimi anni, che
sembra quasi voler esprimere simbolicamente l'impossibilità di vivere per qualcosa di
meno dell'assoluto: egli finisce così ad interpretare drammaticamente su di sé
l'esperienza di quell'uomo folle della "Gaia Scienza", che non riesce a rassegnarsi
all'assenza del volto divino dall'orizzonte della sua esistenza.
Il problema dell'uomo
L'uomo nietzscheiano, una volta privato della memoria di sé e della permanenza
dell'essere, appare come l'eterno fanciullo che cerca l'ebbrezza adolescenziale dell'"Io
sono" nella propria autoaffermazione dentro l'istante. È un uomo che vive senza
risentimento, ma sospeso tragicamente all'assenza di significato ed imprigionato in
una libertà che gli permette solo di accettare il destino. Questa immagine di uomo
rende impossibile concepire la "libertà per", ma afferma solo la "libertà da" come
negazione della storia e rifiuto di ogni memoria del tempo, e la "libertà di" come
volontà di potenza aristocraticamente affermata.
Tale posizione della volontà di potenza sostituisce alla figura della perfezione
(incarnata nel saggio filosofo o nel santo cristiano), quella dell'eroismo tragico, in cui
tutta la dignità è posta nell'accettazione del flusso degli eventi misurati da un destino
di disperata fedeltà alla terra.
La nascita nel cuore di un affetto potente (amore) ha come primo effetto il desiderio di
morire: tutto è piccolo rispetto alla capacità del cuore.
“Parla e dì a lei e al suo cuore: la tua salvezza sono io (Sal. 34,3). Diglielo perché lo
senta, ispiraglielo perché lo percepisca, daglielo perché lo abbia, perché tutto quello
che è dentro di lei Ti benedica”[Guglielmo di Saint-Thierry]: il desiderio ultimo che
anima l’uomo che ama davvero una donna è darle Dio. La dedizione è guardare la
persona amata così profondamente da soffrire perché sia felice, desiderare solo che
sia felice. Si amano a tal punto tutti i dettagli e l’insieme della persona da dimenticarsi
completamente di sé. Esisti solo tu, abiti il mio cuore e ne hai preso possesso.
Amandoti si diventa migliori, più intensi - anche nel dolore - più veri e si desidera solo
dare qualcosa del bene che l’altro cerca. Vivere è amare in modo esclusivo, amare in
modo assoluto un essere, pensarlo fa sperimentare un dolce languore, una percezione
di purità, di fresco, di innocente, di autentico, di bello che deriva dalla speranza di
vederlo. Il tempo non è più lo stesso con questo sentimento: è soave, triste, divino.
La speranza è vederlo, il terrore perderlo. Non credo che la vita ci faccia incontrare, ci
faccia affezionare per prenderci in giro, per ingannarci, per ferirci, credo faccia tutto
parte di un disegno buono che si svolge giorno dopo giorno e che dobbiamo imparare
a comprendere. Sarebbe troppo ingiusto rinunciare ad amare, rinunciare ad una cosa
così bella, non avrebbe senso. Amare è la giovinezza, il cuore che respira, il sogno che
fa intravedere la musica degli angeli e l’essere amato è vita della vita, del cuore, dell’
anima.
L’essere un particolare ferisce, pensare di non esserlo sarebbe ingiusto, presuntuoso
ed egoista. La mia personale ricerca del “volto del Signore” ha attraversato questo
scoglio: Egli è dentro il tuo volto, io vorrei che coincidesse con il tuo volto e per
questo devo diventare capace di guardarti con distacco e senza pretesa, perché non
sei mia. E’ evidente: la tua vita, la tua persona, il tuo cuore, il tuo destino, la tua
libertà non sono miei. Niente delle persone ci appartiene, tanto meno la loro libertà.
Dentro l’amore c’è un’assoluta ricerca di quello che è bene per l’essere amato, alla
quale voglio lasciare la prospettiva della vita matura e della bellezza e non una
delusione. Senza andare in profondità, tutte le cose belle della vita si rivelano
inconsistenti. Nessun uomo è il compimento del desiderio di amore del cuore, anche
se lo suscita. Nessuno. C’è una relazione profonda tra l’amore e il divino. Ci si può
arrabbiare ma se si accetta questo, si sperimenta quanto salva i sentimenti umani e si
ama sempre di più, si sperimenta la consistenza dell’amore. Si ama fino
all’adorazione, che letteralmente significa “avvicinarsi al volto”, cioè baciare: si bacia il
mistero della vita e si capisce che la sensazione di incompiutezza non era che il punto
di partenza di un’avventura infinita.
Mi ha sempre colpito in proposito questa affermazione di Giovanni Paolo II: “Non ci
sarà fedeltà se non si troverà nel cuore dell’uomo una domanda per la quale solo Dio
è la risposta”.
“I ricchi impoveriscono e hanno fame/ma chi cerca il Signore non manca di nulla./ C’è
qualcuno che desidera la vita?/E brama lunghi giorni per gustare il bene?” (Salmo 33)
“Il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così siate in grado di comprendere quale
sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che
sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Lettera agli
Efesini)
Al nichilismo si reagisce amando: vivere, vivere, vivere, gustare ogni istante perché è
unico ed è donato per come e’ e non per come lo si immagina.
“La tentazione più grande che il demonio mette nel cuore è di far credere di essere più
utile in qualunque altra parte del mondo fuorché dove ti trovi o che sarebbe più
importante fare qualsiasi altra cosa fuorché quello che stai facendo.” (San Francesco
Sales).
http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=16679