Вы находитесь на странице: 1из 15

Anniversario della morte di Papa Wojtyla:

lo speciale dell'Osservatore Romano

I sacerdoti e la Chiesa in Polonia agli inizi degli anni Settanta in


un'intervista al cardinale Karol Wojtyla arcivescovo metropolita di Cracovia

A tempo pieno per una vita diversa

La libertà è l'elemento costitutivo della dignità della persona


ininterrottamente proclamato e difeso dal pensiero cristiano

Anticipiamo in esclusiva il testo di un'intervista all'arcivescovo metropolita di


Cracovia, cardinale Karol Wojtyla, che esce nel numero speciale dedicato a
Giovanni Paolo II da "Palabra" e che la stessa rivista aveva pubblicato nel
numero 86, dell'ottobre 1972. Il futuro Giovanni Paolo II rispose sul
sacerdozio - di cui l'assemblea del Sinodo dei vescovi si era occupata un anno
prima - e sulla situazione della Chiesa in Polonia. Inedito è il testo
manoscritto in polacco delle risposte, dove all'inizio di ogni pagina il
porporato trascrisse versi del Veni sancte Spiritus e altre espressioni in
latino: nihil est in homine, nihil est innoxium, lava quod est sordidum, et
omnia mea tua sunt, totus tuus.

di JOAQUÍN ALONSO PACHECO

La Polonia è uno dei Paesi che ha registrato negli ultimi anni un maggiore
incremento di vocazioni al sacerdozio. In questo fenomeno svolge un ruolo
indubbiamente importante l'immagine del sacerdote che i cittadini polacchi
desiderano per la loro Chiesa. Potrebbe spiegare, Eminenza, quali aspettative
ha la Chiesa in Polonia in tal senso? Prima di tutto devo dire che dobbiamo
all'ultimo Sinodo dei vescovi il fatto che si sia intensificata e sistematizzata la
riflessione sul tema del sacerdozio ministeriale e che tale riflessione abbia
coinvolto tutta la Chiesa, passando dalle Conferenze episcopali alle Chiese
locali e a tutti i fedeli. In tal modo abbiamo affrontato uno dei punti
fondamentali della coscienza della Chiesa. A questa coscienza della Chiesa
ravvivata dal Sinodo si pone anche, per quanto riguarda la Polonia, il
problema delle aspettative dei cattolici rispetto alla figura del sacerdote.
È vero che la forte carenza di organizzazioni cattoliche nel nostro Paese ci ha
impedito molte volte di consultare tutti i settori del laicato nella fase
preparatoria del Sinodo; tuttavia altri eventi ci hanno permesso di prendere
nota in modo diretto dei suoi sentimenti riguardo al problema del sacerdozio.
La celebrazione nel 1970 del cinquantesimo anniversario dell'ordinazione
sacerdotale di Paolo VI, vissuta con particolare intensità in Polonia, il
venticinquesimo anniversario della liberazione dei 250 sacerdoti dai campi di
concentramento di Dachau, e, lo scorso anno, la preparazione della
beatificazione di Massimiliano Kolbe - il sacerdote cattolico che diede la
propria vita ad Auschwitz in cambio di quella di un padre di famiglia - hanno
rappresentato per i nostri fedeli una sorta d'introduzione spirituale al Sinodo
e, per noi, un'occasione per constatare che la figura del sacerdote si trova al
centro della coscienza della Chiesa in Polonia.
Lo dimostrano anche le risposte date dai nostri sacerdoti, la scorsa primavera,
alle domande formulate dalla Segreteria del Sinodo nella fase preparatoria.
Tali risposte si attengono a questa coscienza, ossia definiscono la figura del
sacerdote nelle sue convinzioni proprie e allo stesso tempo in conformità con
le esigenze concrete del resto del Popolo di Dio. In Polonia è un elemento
confortante la stretta relazione che esiste fra la vita sacerdotale concreta - il
modo in cui il sacerdote vede se stesso - e le esigenze della fede viva della
Chiesa: il sensus fidei del Popolo di Dio per il quale egli è stato chiamato al
ministero. Da quelle risposte si deduce che per i cattolici polacchi la
problematica del sacerdozio verte soprattutto sul momento stesso della
vocazione sacerdotale. Viene giustamente concepita come una
particolarissima chiamata personale di Cristo, come il prolungamento naturale
della chiamata rivolta da Gesù agli Apostoli. Tutti i fedeli, nelle diverse forme
dell'esistenza umana, cercano di condurre una vita in sintonia con la speciale
intenzione di Dio contenuta nel Battesimo, ma la vocazione sacerdotale
s'intende proprio nella sua peculiarità. A questo nuovo "vieni e seguimi"
pronunciato in modo imperativo da Cristo, corrisponde, nella sensibilità dei
nostri fedeli, la certezza che, al carattere personale di tale chiamata, deve
seguire un impegno totale della persona. Riassumendo, si vive, letteralmente,
l'espressione con la quale la lettera agli ebrei descrive il sacerdote, ossia ex
hominibus assumptus (Ebrei, 5, 1).
Ciò spiega come, nonostante le difficoltà obiettive, i seminari siano oggetto di
particolare attenzione da parte di tutti e vengano mantenuti grazie,
esclusivamente, alle donazioni dei fedeli. E spiega anche la straordinaria
partecipazione con cui - specialmente nelle comunità di provincia ma anche
nelle grandi città - si seguono le ordinazioni sacerdotali e le celebrazioni delle
prime Messe.
Possiamo continuare a servirci del modello del testo paolino per illustrare un
secondo aspetto importante di questa coscienza dei cattolici polacchi relativa
al sacerdozio: pro hominibus constituitur. I fedeli vedono nel sacerdote il
sostituto e il seguace di Cristo, che sa affrontare con piacere qualsiasi
sacrificio personale per la salvezza delle anime che gli sono state affidate.
Hanno fiducia in lui e apprezzano soprattutto il suo zelo apostolico concreto e
il suo instancabile spirito di sacrificio per il prossimo, realizzato nello spirito
di Cristo. Ed è proprio insistendo su queste dimensioni dell'esistenza
sacerdotale che penso si possa superare qualsiasi "crisi d'identità". Il sacerdote
è utile alla società se riesce a utilizzare tutte le sue capacità fisiche e
spirituali nello svolgimento del suo ministero pastorale. I fedeli non hanno
bisogno di funzionari della Chiesa, o di efficaci dirigenti amministrativi, ma di
guide spirituali, di educatori (fra la mia gente regna la convinzione che il
cristianesimo possieda principi morali e possibilità educative insostituibili).
Tornando al documento sinodale, per vedere riflessa in esso la situazione
polacca, sarebbe necessario apportare una lieve correzione: più che insistere
sulla crisis identitatis, sarebbe bene mettere in evidenza la identificatio per
vitam et ministerium che costituisce l'elemento più importante del modo in
cui i nostri fedeli considerano il sacerdozio, alla luce di tutto ciò che hanno
già sottolineato alcuni documenti conciliari come la Lumen gentium, e il
Presbyterorum ordinis. Ciò non significa che i sacerdoti polacchi non guardino
con gratitudine al compito realizzato dal Sinodo.

In numerosi Paesi occidentali, dove con l'industrializzazione si è diffusa


una mentalità sempre più tipica della società secolarizzata, si parla di
sacerdozio part-time, e di attività professionali dei sacerdoti. Come
considera, Eminenza, questo problema rispetto a quello della scarsità del
clero?

Il documento finale del Sinodo risponde a questa domanda in termini


essenziali. Nella parte dedicata ai principi dottrinali si legge: "La permanenza
per tutta la vita di questa realtà che imprime un segno, la quale è dottrina di
fede e, nella tradizione della Chiesa, prende il nome di carattere sacerdotale,
serve ad esprimere il fatto che Cristo si è associata irrevocabilmente la Chiesa
per la salvezza del mondo, e che la Chiesa stessa è consacrata a Cristo in
modo definitivo, affinché la sua opera abbia compimento. Il ministro, la cui
vita reca il suggello del dono ricevuto attraverso il sacramento dell'Ordine,
ricorda alla Chiesa che il dono di Dio è definitivo". In accordo con tutta la
tradizione, il Sinodo ha affermato che il sacerdozio ministeriale, come frutto
della particolare vocazione di Cristo, è un dono di Dio nella Chiesa e per la
Chiesa; e questo dono, una volta accettato dall'uomo nella Chiesa, è
irrevocabile. In effetti, il Sinodo ha riaffermato che "questa peculiare
partecipazione al sacerdozio di Cristo non scompare in alcun modo, sebbene il
sacerdote sia dispensato o rimosso dall'esercizio del ministero per motivi
ecclesiali o personali". Nella pratica è la Chiesa che, attraverso il vescovo,
chiama determinati individui al sacerdozio e lo trasmette loro in modo
sacramentale, ma questo non deve far dimenticare che l'autore del dono,
colui che ha istituito il sacerdozio, è Dio stesso. "Attraverso l'imposizione delle
mani viene comunicato il dono indelebile dello Spirito Santo (cfr. 2 Timoteo,
1, 6). Tale realtà configura e consacra a Cristo sacerdote il ministro ordinato
e lo rende partecipe della missione di Cristo nel suo duplice aspetto, di
autorità e di servizio. Questa autorità non è propria del ministro: essa è,
infatti, la manifestazione della exousìa, cioè della potestà del Signore, in
virtù della quale il sacerdote svolge il ruolo di ambasciatore nell'opera
escatologica della riconciliazione (cfr. 2 Corinzi, 5,18-20)". Che dire pertanto
del sacerdote part-time? Anche qui la risposta ce la dà il documento finale del
Sinodo: "come norma ordinaria, si deve attribuire tempo pieno al ministero
sacerdotale. Per nulla, infatti, è da considerare quale fine principale la
partecipazione alle attività secolari degli uomini, né può essa bastare ad
esprimere la specifica responsabilità dei presbiteri". Si tratta pertanto di
fornire una risposta adeguata alla domanda: che cos'è il sacerdote? e in tale
ottica il Sinodo riprende le parole della Presbyterorum ordinis: i presbiteri,
senza essere del mondo e senza avere il mondo come esempio, devono
tuttavia vivere nel mondo (cfr. Presbyterorum ordinis, 3, 17; Giovanni, 17, 14-
16) come testimoni e dispensatori di un'altra vita diversa da questa vita
terrena (cfr. Presbyterorum ordinis, 3). Solo partendo da queste premesse si
può trovare una soluzione realistica e conforme alla fede. Il Sinodo non ha
dimenticato che anche in epoche passate della storia della Chiesa ci sono stati
sacerdoti che si sono dedicati ad attività extra-sacerdotali, ma esercitandole
sempre in stretta connessione con la specifica missione pastorale; per questo,
"per determinare, nelle circostanze concrete, quale convenienza vi sia tra le
attività profane ed il ministero sacerdotale, bisogna chiedersi se e come
quelle funzioni e attività servano sia alla missione della Chiesa, sia agli uomini
non ancora evangelizzati, sia, infine, alla comunità cristiana, a giudizio del
Vescovo locale col suo presbiterio, e dopo aver consultato, in quanto è
necessario, la Conferenza Episcopale". La decisione del vescovo o della
Conferenza episcopale dovrebbe quindi tener conto di queste premesse.
Infine, per quanto riguarda lo svolgimento delle attività propriamente extra-
sacerdotali, il Sinodo lo consente, ma con alcune importanti precisazioni:
"Quando codeste attività, ordinariamente di spettanza dei laici, siano
richieste dalla stessa missione evangelizzatrice del presbitero, devono essere
poste in armonia con le altre attività del ministero, dal momento che si
possono considerare, in quelle circostanze, come modalità necessarie di un
vero ministero (cfr. Presbyterorum ordinis, 8)". Il Sinodo si è pertanto assunto
la responsabilità di proteggere la Chiesa dal rischio di sminuire il dono divino
del sacerdozio. Conforme a questo stesso senso di responsabilità, ritengo che
si debba inquadrare nelle sue giuste dimensioni il problema della scarsità del
clero; non si può pensare di risolvere le difficoltà derivanti dalla quantità
rinunciando alla qualità. Si tratta di migliorare l'impiego del sacerdote nella
Chiesa, senza però dimenticare che solo "il Signore della Messe" può
moltiplicare questo dono e che agli uomini spetta accoglierlo con la
disposizione che per sua natura esso richiede.

Dalle sue parole si può desumere che la crisi che ha coinvolto il sacerdozio
deriva soprattutto da difficoltà di fede e dalla mancanza di una genuina
spiritualità sacerdotale nella Chiesa di oggi. Le sembra tuttavia che, al di là
di questa crisi, agisca anche una cultura enormemente scristianizzata? Il
Sinodo, a cui lei ha fatto riferimento, ha affrontato anche questo aspetto:
qual è la sua opinione al riguardo?

Durante i lavori sinodali si parlò molto di crisi d'identità del sacerdote,


inquadrandola in una crisi d'identità più essenziale della Chiesa stessa. Certe
espressioni però mi sembra che restino vaghe: è chiaro che più che a una crisi
obiettiva, in esse si alludeva a una coscienza soggettiva di crisi. Chiarito ciò,
passo a rispondere direttamente alla sua domanda. Il documento finale sul
sacerdozio, sebbene abbia evitato l'espressione "Crisi d'identità" - usata invece
nel documento preparatorio - proprio nei punti dedicati a illustrare tale crisi,
evoca questa idea. Ecco un esempio: "Dinanzi a tale realtà in alcuni nascono
queste inquietanti domande: Esiste o non esiste una ragione specifica del
ministero sacerdotale? È o non è necessario questo ministero? È permanente
questo sacerdozio? Che cosa vuol dire oggi essere sacerdote? Non sarebbe
sufficiente per il servizio delle comunità poter contare su alcuni presidenti
designati per servire il bene comune, senza che debbano ricevere
l'ordinazione sacerdotale e che esercitino il loro incarico temporaneamente?".
Si può senza dubbio affermare che domande come questa sono nate
storicamente nell'ambito teologico, facendo appello a presupposti teorici
elaborati sistematicamente da alcuni teologi come forma di contestazione alla
metodologia teologica tradizionale. Ma una volta formulati e comunicati
all'opinione pubblica ecclesiale, esprimono un atteggiamento di contestazione
esistenziale più profonda. Il testo si preoccupa proprio di ricostruire la genesi
di questo secondo tipo di contestazione e a tale riguardo continua a riferirsi
all'ambito globale della cultura contemporanea. "Le questioni anzidette, che
in parte sono nuove ed in parte erano già note da tempo, ma che si
presentano oggi in forma nuova, non possono esser comprese fuori dal
contesto globale della cultura moderna, la quale dubita molto del suo stesso
significato e valore. I nuovi ritrovati della tecnica suscitano speranze
eccessivamente entusiastiche ed insieme profonde ansietà. Ci si domanda,
giustamente, se l'uomo potrà essere capace di dominare la sua opera e di
indirizzarla verso il progresso. Alcuni, soprattutto i più giovani, hanno una
concezione pessimistica intorno al significato di questo mondo e cercano
salvezza in sistemi puramente meditativi, o in paradisi artificiali e appartati,
estraendosi da quello che è lo sforzo comune dell'umanità. Altri, animati da
una grande speranza utopistica senza alcun riferimento a Dio, si impegnano
nella conquista di uno stato di liberazione totale e trasferiscono dal presente
al futuro il significato di tutta la loro personale esistenza. In tal modo,
risultano profondamente scompaginate l'azione e la contemplazione, il lavoro
e lo svago, la cultura e la religione, l'aspetto immanente e quello
trascendente della vita umana".
Il problema è: è giusta questa diagnosi? O meglio: spiega veramente tutto?
Ossia, questo contesto della cultura contemporanea è veramente globale? I
membri dell'Episcopato polacco, che devono affrontare difficoltà di ogni
sorta, tendono a sostenere che il documento generalizza un insieme di sintomi
caratteristici del mondo occidentale con grande sviluppo tecnologico: la
situazione della Chiesa in altri Paesi presenta aspetti molti diversi.
Il Sinodo, certamente, non ignorò questa realtà: "Sappiamo bene che esistono
regioni del mondo, nelle quali fino ad ora meno si avverte quella profonda
trasformazione culturale, e che le questioni, che sono state sopra richiamate,
non si pongono dappertutto, né da parte di tutti i sacerdoti, né dallo stesso
punto di vista". Ebbene, in Polonia, forse per l'influenza di un regime politico
e socioeconomico diverso, la trasformazione culturale non solo si avverte
meno, ma anche in modo abbastanza diverso. Dai sondaggi condotti di recente
fra i sacerdoti polacchi si desume che fra noi non si può parlare né di crisi
d'identità del sacerdote, né di crisi d'identità della Chiesa. Nell'impatto con
l'ideologia marxista e il suo ateismo programmato e diffuso in modo
propagandistico, la Chiesa non ha perso la propria identità. Le crisi, quando ci
sono, sono individuali; e qui torniamo al problema della fede e della
spiritualità. La fede è una grazia soprannaturale che si sviluppa nelle
circostanze più diverse e contraddittorie. In questo tempo, posto che
l'incremento del progresso materiale comporta forti tensioni nella vita
spirituale, penso che si debba sottolineare che la sua risoluzione radicale
dipende da un incremento proporzionale della vita della fede. È stata sempre
questa, al di là delle diagnosi, la risposta fondamentale del Sinodo.

Parallelamente alla missione di promuovere e di garantire la fede


(Magistero) c'è la funzione di orientare i credenti, trasmettendo loro
fedelmente le indicazioni magisteriali. Potrebbe in tal senso spiegare
l'allusione fatta poco fa alla teologia?

Non si tratta solo della teologia, bensì in generale, della formazione


dell'opinione pubblica nella Chiesa. In questo settore svolgono un ruolo
determinante i mass media, che, come è noto, si strutturano in base a leggi
proprie. Questi, naturalmente, non possono agire a detrimento della loro
fedeltà al messaggio. Il problema è così reale che lo stesso Sinodo se ne fece
eco nel documento sulla giustizia con queste parole: "La coscienza del nostro
tempo esige la verità nei sistemi di comunicazione sociale, il che include
anche il diritto all'immagine obiettiva diffusa dagli stessi mezzi e la possibilità
di correggere la sua manipolazione". La Chiesa ha trattato la problematica
della comunicazione in modo sempre più positivo e fiducioso (basti pensare al
decreto conciliare Inter mirifica e all'istruzione Communio et progressio), ma
allo stesso tempo non si può occultare l'esistenza oggettiva del rischio che i
mezzi di comunicazione ledano il diritto alla verità e diventino uno dei
principali centri d'ingiustizia nel mondo contemporaneo. Per questo,
assegnando ai mass media la loro giusta finalità, il testo sinodale afferma
esplicitamente: "Questo tipo di educazione, dato che rende tutti gli uomini
più integralmente umani, li aiuterà a non continuare ad essere in futuro
oggetto di manipolazioni, né da parte dei mezzi di comunicazione, né da
parte delle forze politiche, ma, al contrario, li renderà capaci di forgiare il
proprio destino e di costruire comunità veramente umane".
Questi testi toccano il nostro tema, anche se in un certo senso lo trascendono:
aiutano a dissipare gli equivoci che nascono quando si passa dal piano della
vita della Chiesa - al quale pastori e teologi apportano il loro specifico
contributo, rimanendo fedeli al ministero pastorale e sacerdotale - al piano
della comunicazione e della creazione di un'opinione pubblica. Ritengo
pertanto giustificate le preoccupazioni dei padri sinodali per evitare che, nel
passaggio delle comunicazioni sociali, si deformino elementi che sono
fondamentali per la vita della Chiesa. Si tratta di porre in atto un movimento
di sensibilizzazione che promuova nei responsabili della comunicazione una
maggiore consapevolezza della loro responsabilità nell'edificazione della
Chiesa secondo la volontà di Cristo, individuando con realismo quei fattori che
- per interessi di parte e per un diffuso spirito di divismo - influiscono in modo
negativo.
Fra le raccomandazioni rivolte ai sacerdoti dal Magistero ecclesiastico
recente, spicca, per la su frequenza, la messa in guardia contro la
tentazione di adattare l'annuncio della parola e i criteri di azione pastorale
alla mentalità mondana. Visto che questa mentalità si mostra sempre più
intrisa d'ideologia permissiva, tanto che si parla già apertamente di
"teologia permissiva", ritiene che sia necessario estendere tale monito
anche ai teologi?

Il permissivismo e le sue manifestazioni nell'ambito teologico sono fenomeni


tipici della società occidentale che, in Paesi come la Polonia, hanno
un'influenza per ora piuttosto relativa. Come osservatore dal di fuori posso
quindi solo limitarmi a fare considerazioni generali.
In primo luogo è chiaro che all'origine del permissivismo c'è una concezione
esclusivamente orizzontale - e per questo un po' riduttiva - della libertà. La
libertà è l'elemento costitutivo della dignità della persona ininterrottamente
proclamato e difeso dal pensiero cristiano. Occorre però anche tener presente
che la libertà cristiana non è mai un fine in se stesso. È piuttosto
forzatamente finalizzata: è il mezzo per il conseguimento del vero bene.
L'errore di prospettiva del permissivismo consiste nel capovolgere l'obiettivo:
il fine diviene la ricerca della libertà individuale, senza alcun riferimento al
bene con cui la libertà s'impegna. La conseguenza pratica è che, al di fuori
della finalizzazione del bene, la libertà si trasforma in abuso, e invece di
fornire alla persona l'ambito per la sua autorealizzazione, determina il suo
svuotamento e la frustrazione. Della libertà non resta altro che lo slogan. È
indubbio che una simile impostazione sia da considerare assolutamente
contraria ai criteri che devono orientare una retta teologia e una efficace
azione pastorale. Teologi e pastori devono, in tale situazione, interrogarsi
incessantemente sui veri valori cristiani. L'uomo porta la norma della sua
libertà - secondo l'espressione paolina - in "vasi di creta" (2 Corinzi, 4, 7). Le
tentazioni sono molte, ma altrettante sono le possibilità di recuperare. Si
potranno evitare molte confusioni non chiudendosi ai problemi della società
permissiva, ma piuttosto ricordando che deve essere il messaggio cristiano - il
suo radicamento nella coscienza naturale - e non il permissivismo, a dettare
le leggi della lotta per l'autentica libertà, che è anche sempre una delle
componenti indispensabili nella missione della Chiesa.

Qual è, a suo giudizio, Eminenza, l'insegnamento che i sacerdoti di oggi, e


in particolare i sacerdoti polacchi, possono trarre da una figura come
quella di Massimiliano Kolbe?

Il fatto che Massimiliano Maria Kolbe sia stato beatificato durante i lavori del
Sinodo attribuisce alla sua figura - come ha sottolineato il cardinale Duval,
presidente di turno dell'assemblea sinodale - un significato che valica i confini
nazionali e fa di lui un esempio per tutti i sacerdoti: il simbolo di un tempo
segnato da crudeltà disumane, ma anche da consolanti episodi di santità. Poi,
per noi polacchi, la sua beatificazione acquista chiaramente un carattere
particolare: ai più anziani fra noi sacerdoti ricorda i tormenti subiti con il
resto della popolazione nei campi di sterminio, dove il dolore e la solidarietà
prepararono la Chiesa in Polonia a nuove prove. Ma per i più giovani, padre
Kolbe rappresenta un'indicazione di quanto il sacerdote deve esigere a se
stesso nel servizio agli altri.
Si possono anche considerare paradigmatici altri aspetti della sua personalità
(basti pensare alla sua devozione a Nostra Signora e alla sua azione apostolica
nella stampa). Tutta la sua figura, tanto intimamente raffigurata dalla croce,
è un appello pressante alla finalità apostolica della vocazione cristiana e alla
totale rinuncia a se stessi, che costituisce una dimensione costante
dell'esistenza sacerdotale.

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

In due libri (e nei disegni) di Philipp e Caroline von Ketteler e di don


Marcello Cruciani

Il segreto del parroco del mondo

di SILVIA GUIDI

"A proposito: se uno di voi trovasse la mia canoa, che ho lasciato sui laghi tra
le montagne di Masuren, può usarla fino alla fine della sua vita. Gliela regalo":
la vignetta che conclude L'amico Karol. Giovanni Paolo II, la sua vita
raccontata ai bambini di Philipp e Caroline von Ketteler (Venezia, Marcianum
Press, 2011, pagine 70, euro 13) non raffigura, volutamente, il protagonista
del libro, ma ne sintetizza visivamente il messaggio: la celebre canoa
ormeggiata in tutta fretta sulla riva del lago - la notizia della nomina a
vescovo di Cracovia lo raggiunse durante un'escursione lungo il fiume Lyne -
indica il cammino della vita, diretto verso orizzonti infiniti, ma percorso ogni
giorno grazie ai piccoli, faticosi, apparentemente insignificanti colpi di pagaia
del quotidiano.
L'amico Karol - ma il titolo originale è molto più bello, Karols Geheimnis, il
"segreto di Karol" - racconta ai bambini l'infanzia del piccolo Lolek, il suo
amore per il teatro, la letteratura e lo sport, senza omettere gli aspetti
drammatici di una vita segnata dalla perdita prematura delle persone più
care; la madre, scomparsa quando Karol aveva solo nove anni, la sorella Olga
e l'amatissimo fratello maggiore Edmund: narrando questi episodi, i disegni a
colori vivaci sfumano nel monocromo blu per indicare il dolore di un passato
sereno che si allontana e la durezza della prova presente.
"Leggi, Lolek, prega e leggi! Solo così imparerai a sopportare la tristezza"
ripete il padre al suo bambino, che riesce ad "attraversare" la sofferenza
impegnando tutto se stesso nello studio e lasciandosi sostenere dall'affetto
degli amici: con loro va a nuotare, organizza lunghe gite in bicicletta, gioca a
hockey su ghiaccio, pattina e impara a sciare. Una passione, quella per la
neve, che continuerà anche negli anni della maturità e delle "chiavi pesanti"
del ministero di successore di Pietro; una celebre foto lo ritrae nel 1984
sull'Adamello in perfetta tenuta da sci; altre immagini simili sono state
recentemente raccolte da Roberto e Stefano Calvigioni a corredo del libro Lo
sport in Vaticano appena pubblicato (Città del Vaticano, Libreria Editrice
Vaticana, 2011, pagine 180, euro 16). Philipp e Caroline von Ketteler, gli
autori di L'amico Karol, raccontano in modo sintetico e chiaro anche le ferite
più profonde della storia: le minacce alla Chiesa, le lunghe ombre della
guerra e dell'ideologia totalitaria: "In Polonia la vita era diventata ancora più
difficile. Un uomo di nome Stalin era salito al potere in Russia. Poiché la
Polonia era strettamente legata alla Russia, Stalin decideva quello che doveva
succedere anche in Polonia. Stalin sosteneva che bisognasse togliere tutto agli
uomini, anche la fiducia in Dio e la Verità. Perciò, più nessuno sembrava dare
più importanza alla Verità. E poiché questo era ciò che la Chiesa
rappresentava, i preti furono deportati e uccisi e le chiese vennero chiuse.
Chiunque aveva fiducia in Dio per i comunisti rappresentava un pericolo". La
stessa semplicità e chiarezza di narrazione, unite a una simile scelta di
rappresentare per immagini la vita di Giovanni Paolo II, si possono ritrovare
nell'ultimo libro di don Marcello Cruciani, sacerdote dal 1982 e parroco del
Crocifisso a Todi. Ogni settimana don Cruciani pubblica una sua vignetta sul
settimanale "La Voce" delle diocesi dell'Umbria; tra i volumi che ha
pubblicato, c'è anche una Vita Francisci (Todi, 2010) una sorridente biografia
a fumetti in cui il santo di Assisi dialoga attraverso gli episodi più celebri della
sua vita con i miti della contemporaneità. "Questo piccolo lavoro - si legge
nella quarta di copertina di Don Karol parroco del mondo (Todi, Tau editrice,
2011, pagine 31, euro 1) - presenta in modo semplice ed agile la vita di
Giovanni Paolo II ed è illustrato dallo stesso autore del testo con i fatti
salienti della sua vita; è un opuscolo popolare, adatto alla gente che non ha
molto tempo da dedicare alla lettura ma che senz'altro è affascinata dalla vita
di uno dei più grandi uomini della storia recente".
Il Papa- scrive don Cruciani - "non trova solo applausi; viene più volte
contestato ma tutto questo non lo spaventa, come afferma durante una
catechesi: "Guai se il romano Pontefice si spaventasse delle critiche e delle
incomprensioni". Non è un propagandista, è un innamorato; la preghiera e,
soprattutto, la celebrazione dell'Eucaristia sono il respiro delle sue giornate.
Giornate intense, faticose, dove il colloquio con Dio rimane sempre al primo
posto. I collaboratori sono attenti a non farlo passare durante gli spostamenti
dei suoi numerosi viaggi, di fronte ad un tabernacolo con il Santissimo
Sacramento, perché il Papa si sarebbe prostrato in adorazione, creando ritardi
sulla tabella di marcia. Ha una certezza granitica: il primo compito del Papa
verso la Chiesa e verso il mondo è pregare".

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

Ricordo di Giovanni Paolo II a sei anni dalla morte

Dove sta il centro del mondo

di KONRAD KRAJEWSKI

Stavamo in ginocchio attorno al letto di Giovanni Paolo II. Il Papa giaceva in


penombra. La luce discreta della lampada illuminava la parete, ma lui era ben
visibile.
Quando è arrivata l'ora di cui, pochi istanti dopo, tutto il mondo avrebbe
saputo, improvvisamente l'arcivescovo Dziwisz si è alzato. Ha acceso la luce
della stanza, interrompendo così il silenzio della morte di Giovanni Paolo II.
Con voce commossa, ma sorprendentemente ferma, con il tipico accento
montanaro, allungando una delle sillabe, ha cominciato a cantare: "Noi ti
lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore".
Sembrava un tuono proveniente dal cielo. Tutti guardavamo meravigliati don
Stanislao. Ma la luce accesa e il canto delle parole che seguivano - "O eterno
Padre, tutta la terra ti adora..." - davano certezza a ciascuno di noi. Ecco -
pensavamo - ci troviamo in una realtà totalmente diversa. Giovanni Paolo II è
morto: vuol dire che egli vive per sempre.
Anche se il cuore singhiozzava e il pianto stringeva la gola, abbiamo ripreso a
cantare. A ogni parola la nostra voce diventava più sicura e più forte. Il canto
proclamava: "Vincitore della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli".
Così, con l'inno del Te Deum, abbiamo glorificato Dio, ben visibile e
riconoscibile nella persona del Papa. In un certo senso, questa è anche
l'esperienza di tutti coloro che lo hanno incontrato nel corso del pontificato.
Chi entrava in contatto con Giovanni Paolo II, incontrava Gesù, che il Papa
rappresentava con tutto se stesso. Con la parola, il silenzio, i gesti, il modo di
pregare, il modo di incedere nello spazio liturgico, il raccoglimento in
sagrestia: con tutto il suo modo di essere. Lo si notava immediatamente: era
una persona ricolma di Dio. E per il mondo era diventato segno visibile di una
realtà invisibile. Anche attraverso il suo corpo straziato dalla sofferenza degli
ultimi anni.
Spesso bastava guardarlo per scoprire la presenza di Dio e, così, cominciare a
pregare. Bastava per andare a confessarsi: non solo dei propri peccati, ma di
non essere santi come lui.
Quando ha smesso di camminare e, durante le celebrazioni, è diventato
totalmente dipendente dai cerimonieri, ho cominciato a rendermi conto che
stavo toccando una persona santa. Forse facevo irritare i penitenzieri vaticani
allorché, prima di ogni celebrazione, andavo a confessarmi, seguendo un
imperativo interiore e sentendone una forte necessità. Avevo bisogno di
ricevere l'assoluzione per stare accanto a lui. Quando si sta accanto a una
persona santa, quando l'uomo in qualche modo tocca la santità, questa si
irradia in tutta la persona. Ma, allo stesso tempo, si sperimenta sulla propria
pelle anche la tentazione: evidentemente allo spirito maligno non piace l'aria
di santità. Quando, verso le 3 di notte, sono uscito dall'appartamento del
Palazzo Apostolico, a Borgo Pio c'era una moltitudine di gente: camminavano
nel silenzio più raccolto. Il mondo si era fermato, si era inginocchiato e aveva
pianto.
C'era chi piangeva solo per il fatto di aver perso una persona amata e poi
ritornava a casa così come era venuto. E c'era chi, alle lacrime esteriori, univa
quelle interiori, che scaturivano dal sentirsi inadeguati e infedeli di fronte al
Signore. Questo pianto era benedetto. Era l'inizio del miracolo della
conversione. Per tutti i giorni successivi, fino al funerale del Papa, Roma è
diventata un cenacolo: tutti si comprendevano, anche se parlavano lingue
diverse.
Sono stato a contatto con il Papa per sette lunghi anni: durante la sua vita,
ma anche quando la sua anima si è staccata dal corpo. Nel momento della
morte restano a noi solo le spoglie che si trasformeranno in polvere: il corpo
svanisce, e la persona è accolta nel mistero di Dio.
Tra i compiti dei cerimonieri c'è anche quello di prendersi cura del corpo del
Papa defunto. L'ho fatto per sette lunghi giorni, fino al funerale. Poco dopo la
sua morte, ho vestito Giovanni Paolo II insieme a tre infermieri che lo avevano
seguito per lungo tempo. Anche se era già trascorsa un'ora e mezza dal
decesso, essi continuavano a parlare con il Papa come se stessero parlando al
proprio padre. Prima di mettergli la tonaca, il camice, la casula, lo baciavano,
lo accarezzavano e lo toccavano con amore e riverenza, proprio come se si
trattasse di una persona di famiglia.
Il loro atteggiamento non manifestava solo la devozione al Pontefice: per me
rappresentava il timido annuncio di una beatificazione vicina.
Forse è per questo che non mi sono mai dedicato a pregare intensamente per
la sua beatificazione, dal momento che avevo già cominciato a parteciparvi.
Ogni giorno celebro l'Eucaristia nelle Grotte Vaticane. Osservo come i
dipendenti della basilica e tutti coloro che si recano al lavoro nei diversi
dicasteri e uffici del Vaticano, i gendarmi, i giardinieri, gli autisti, cominciano
la giornata con un momento di preghiera presso la tomba di Giovanni Paolo II:
toccano la lapide e gli mandano un bacio. È così tutte le mattine.
Dal 2000 il Papa aveva cominciato a indebolirsi sempre di più. Aveva grande
difficoltà nel camminare. Preparando il grande Giubileo con l'arcivescovo
Piero Marini ci auguravamo che almeno potesse aprire la porta santa. Era
quasi impossibile pensare al futuro.
Mentre mi trovavo sulle montagne polacche, una volta ho sentito questa
affermazione: "Ancora non ci conosciamo, perché non abbiamo sofferto
insieme". Con monsignor Marini abbiamo partecipato per cinque lunghi anni
alle sofferenze del Papa, al suo eroico combattimento con se stesso per
sopportare la sofferenza. Mi vengono in mente le parole del salmo 51:
"Purificami con issopo e sarò mondato", che si possono intendere anche così:
"Toccami con la sofferenza e sarò puro".
Essere con Giovanni Paolo II voleva dire vivere nel Vangelo, essere dentro il
Vangelo.
Negli ultimi anni del servizio accanto a lui mi sono reso conto che la bellezza
è sempre legata alla sofferenza. Non si può toccare Gesù senza toccare la
croce: il Pontefice era così provato, si può dire martoriato dalla sofferenza,
ma così estremamente bello, in quanto con gioia ha offerto tutto ciò che ha
ricevuto da Dio e con gioia ha restituito a Dio tutto ciò che da Lui ha avuto. La
santità infatti - come diceva Madre Teresa di Calcutta - non significa soltanto
che noi offriamo tutto a Dio, ma anche che Dio prende da noi tutto quello che
ci ha dato.
L'atleta che camminava e sciava sulle montagne ora aveva smesso di
camminare; l'attore aveva perso la voce. A poco a poco gli era stato tolto
tutto.
Prima di cominciare le esequie, monsignor Dziwisz e monsignor Marini hanno
coperto il volto del Papa con un panno di seta, un simbolo dal significato
molto profondo: tutta la sua vita è stata coperta e nascosta in Dio. Mentre
compivano questo gesto, stavo accanto alla bara e tenevo in mano
l'Evangeliario, un altro segno forte. Giovanni Paolo II non si vergognava del
Vangelo. Viveva secondo il Vangelo. Scioglieva secondo il Vangelo tutti i
problemi del mondo e della Chiesa. Secondo il Vangelo ha costruito tutta la
sua vita interiore ed esteriore.
Il mistero di Giovanni Paolo II, cioè la sua bellezza, si esprime molto bene
attraverso la preghiera di Papa Clemente XI che si trovava negli antichi
breviari: "Voglio tutto ciò che tu vuoi, lo voglio perché tu lo vuoi, lo voglio
come e quando lo vuoi tu". Chi pronuncia queste parole con il cuore diventa
come Gesù che, umile, si nasconde nell'ostia e si offre per essere consumato.
Chi fa proprie queste parole comincia a vivere con lo spirito di adorazione del
Santissimo Sacramento.
Seguendo il Pontefice nei viaggi apostolici, durante le lunghe trasvolate, mi
domandavo spesso: dove sta il centro del mondo?
Tredici giorni dopo l'elezione, con alcuni suoi collaboratori, il Papa si recò
vicino Roma, alla Mentorella, dove c'è il santuario della Madre delle Grazie.
Domandò ai suoi compagni di viaggio: "Cosa è più importante per il Papa nella
sua vita, nel suo lavoro?". Gli suggerirono: "Forse l'unità dei cristiani, la pace
nel Medio Oriente, la distruzione della cortina di ferro...?". Ma egli rispose:
"Per il Papa la cosa più importante è la preghiera".
Nel mio Paese c'è questo detto: "Il re è nudo davanti agli occhi dei suoi servi".
Quanto più cominciavamo a conoscere Giovanni Paolo II, tanto più eravamo
convinti della sua santità, la vedevamo in ogni momento della sua vita. Egli
non oscurava Dio.
Se volessi indicare cosa è più importante per la vita sacerdotale e per
ciascuno di noi, guardando a lui potrei dire: non coprire o offuscare Dio con se
stesso, ma, al contrario, mostrarlo e diventare il segno visibile della sua
presenza. Dio nessuno lo ha visto, ma Giovanni Paolo II lo ha reso visibile
attraverso la sua vita.
Quando pregava, ho avuto l'impressione che si gettasse ai piedi di Gesù.
Quando pregava, sul suo viso era visibile il totale affidamento a Dio. Era
veramente trasparente; era, per usare un'immagine poetica, come
l'arcobaleno che lega il cielo alla terra e la sua anima correva sulle scale dalla
terra al cielo. Torno ora alla domanda: "Dove sta il centro del mondo?".
Pian piano ho cominciato a rendermi conto che il centro del mondo era
sempre dove io mi trovavo con il Papa: non perché stavo con Giovanni Paolo
II, ma perché lui ovunque egli si trovasse, pregava. Ho capito che il centro del
mondo è dove io prego, dove io sono insieme a Dio, nella più intima unione
che c'è: la preghiera. Sono al centro del mondo quando cammino alla presenza
di Dio, quando "in lui infatti vivo, mi muovo ed esisto" (cfr. Atti degli apostoli,
17, 28). Quando celebro o partecipo all'Eucaristia sono al centro del mondo;
quando confesso e mi confesso, nel confessionale c'è il centro del mondo; il
posto e il tempo della mia preghiera costituiscono il centro del mondo perché,
quando prego, Dio respira dentro di me. Il Papa ha permesso a Dio di respirare
attraverso di lui: ogni giorno passava tanto tempo davanti al tabernacolo. Il
Santissimo Sacramento era il sole che illuminava la sua vita. E lui davanti a
quel sole andava a riscaldarsi con la luce di Dio. La vita di Giovanni Paolo II
era intessuta di preghiera. Aveva sempre tra le dita la coroncina del rosario,
con la quale si rivolgeva a Maria confermando il suo Totus tuus.
Una volta, dopo l'infortunio del 1991, il cardinale Deskur portò al Papa un
contenitore di acqua santa da Lourdes e gli disse: "Santità, quando laverà la
parte dolente, dovrà recitare l'Ave Maria". Giovanni Paolo II rispose: "Caro
Cardinale, io dico sempre l'Ave Maria".
Il mio compito nell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche consiste nel curare,
sotto la guida del maestro, le celebrazioni pontificie e non di scrivere articoli
o preparare conferenze. È stato così per tredici anni. Dopo il 2 aprile 2005,
quando qualcuno mi chiede di dare testimonianza su Giovanni Paolo II,
rispondo spesso: "Sì, con grande gioia!". E invito a prendere parte ogni giovedì
alla messa davanti alla sua tomba nelle Grotte Vaticane. Così come invito a
recarsi nella chiesa di Santo Spirito in Sassia, dove ogni pomeriggio si recita la
coroncina della Divina Misericordia seguita dalla Via Crucis. Ogni giovedì sera
si incontrano nel mio appartamento sacerdoti che lavorano o studiano a
Roma, suore e laici. Insieme recitiamo i vespri, preghiamo e ci sediamo alla
tavola comune.
Radunarsi in preghiera e stare insieme per ritrovarsi al centro del mondo: ho
imparato questo da Giovanni Paolo II.
Non mi meraviglia che il Papa sia beatificato nella domenica della Divina
Misericordia, anche se è una sorpresa della Provvidenza il fatto che quest'anno
coincida con il 1° maggio. Così quel giorno si parlerà principalmente di
santità. Benedetto XVI e Giovanni Paolo II trasformeranno quella ricorrenza in
un evento religioso inedito nella storia: una processione di maggio verso la
santità e la preghiera.

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

La profonda spiritualità mariana di Karol Wojtyla

L'architettura è fatta di amore e correttezza

di GIOVANNI COPPA
Cardinale diacono di San Lino

L'amore di Giovanni Paolo II per la Vergine fu un amore sconfinato. Non ha


mai tralasciato occasione per parlare di Maria. Le ha dedicato l'enciclica
Redemptoris Mater: la redenzione è stata infatti il filo conduttore del suo
magistero petrino. Inoltre l'ha onorata non solo col suo ministero di Sommo
Pontefice, ma anche in tante altre forme.
Fin dall'inizio ha voluto recitare per tanti anni il Rosario ogni primo sabato del
mese, insieme con i fedeli in Vaticano. Con la sua fantasia instancabile ha
arricchito il rosario con i misteri della luce. E ormai quasi alla fine del
pontificato, ha celebrato l'Anno del rosario, che ha avuto tanti frutti di
devozione e di rinnovamento spirituale. Ricordo poi i suoi pellegrinaggi a
Lourdes e a Fátima. In ogni suo viaggio, inoltre, ha programmato una visita ai
più importanti santuari mariani del mondo.
So con quanto desiderio voleva che un'immagine della Madonna campeggiasse
nella basilica Vaticana, dove del resto ci sono stupende cappelle a Lei
dedicate. E volle che almeno il Palazzo Apostolico mostrasse un'immagine
della Madonna, che si leva, alta e materna, su piazza San Pietro.
Tutti sanno che il motto da lui scelto prima della sua ordinazione episcopale è
Totus tuus. Il futuro Papa trasse queste parole dalla preghiera di un grande
santo mariano, Luigi Maria Grignion de Montfort. Ebbene, il Papa non solo
recitava ogni giorno quella preghiera, ma ne scriveva un brano su ogni pagina
dei testi autografi delle sue omelie, dei discorsi, delle encicliche, in alto a
destra del foglio. Nella prima pagina metteva l'inizio della preghiera: Tuus
totus ego sum, "Io sono tutto tuo"; nella seconda, Et omnia mea tua sunt, "E
tutte le cose mie sono tue"; nella terza, Accipio Te in mea omnia, "Ti accolgo
in tutte le cose mie"; nella quarta, Praebe mihi cor tuum, "Dammi il tuo
cuore". E così proseguiva su ogni pagina, ripetendo, se necessario, le singole
invocazioni, finché non aveva terminato di scrivere. Negli archivi della
Segreteria di Stato vi sono migliaia di queste pagine, dove Giovanni Paolo II ha
manifestato in modo così intimo e commovente il suo amore alla Madonna.
Questo amore sconfinato a Maria nasceva dall'amore che egli aveva per Cristo.
Amare Gesù è il fulcro di tutta la nostra vita. E se ciò è vero per ogni
cristiano, tanto più lo è per il Papa. È una cosa tanto ovvia che potrebbe
sembrare inutile sottolinearla. Ma vi accenno, perché ho un ricordo
particolare, che riguarda l'ultima visita apostolica che Giovanni Paolo II compì
nel 1997 nella Repubblica Ceca.
Era già venuto in Cecoslovacchia nel 1990, appena caduto il muro di Berlino,
fermandosi a Praga, Velehrad e Bratislava. Nel 1995 venne per la seconda
volta, sostando a Praga, in Boemia, e a Olomouc, in Moravia. Era già
sofferente. Cominciava a portare il bastone e ci scherzava sopra con i giovani,
sempre entusiasti di stringersi attorno a lui. Ma era ancora in forze, tanto da
fare le scale senza ascensore.
La prima sera, dopo l'arrivo e la cena con i vescovi, sostò in cappella davanti
al Santissimo. Le suore avevano preparato per lui un grande inginocchiatoio,
ma egli preferì pregare nel banco. Io lo accompagnai, attendendo fuori della
cappella. La sera seguente fui trattenuto da impegni e telefonate urgenti, e
non potei accompagnarlo in cappella. Ci arrivai dopo, quando era già
inginocchiato. Prima di entrare avevo udito come una musica indistinta, e
quando aprii silenziosamente la porta, sentii che, inginocchiato nel banco,
cantava sommessamente davanti al tabernacolo. Il Papa cantava sottovoce
davanti a Gesù Eucaristia: il Papa e Cristo nell'Ostia, Pietro e Cristo. Fu per
me una cosa sconvolgente, un fortissimo richiamo alla fede e all'amore per
l'Eucaristia, e alla realtà del ministero petrino. Non ho più dimenticato
quell'esile canto, che era come un colloquio d'amore con Cristo. Ho raccontato
una sola volta questo episodio, in Repubblica Ceca, ma è bene che sia noto,
tanto più ora che si avvicina la sua beatificazione, perché dice
magnificamente che dobbiamo avere un legame sempre vivo, intimo e
profondo con Gesù, vivente nell'Eucaristia. E dimostra, in modo superlativo,
che Giovanni Paolo II è stato veramente un innamorato di Cristo.
Infine, vorrei sottolineare l'amore dei popoli slavi per il Pontefice polacco. Nel
1990 fui inviato in Cecoslovacchia, che due anni dopo si divise pacificamente
in due Stati, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Questo è stato il regalo più
grande che mi abbia fatto Giovanni Paolo II, dopo quello di avermi ordinato
vescovo. Ricordo che, ancora la vigilia della mia partenza per Praga, lo vidi
all'eliporto vaticano, di ritorno da una visita in una diocesi italiana, e gli dissi:
"Padre Santo, domani parto, e finalmente vedrò anch'io, in Slovacchia, i "suoi"
monti Tatra". Ma lui, sorridendo bonariamente, mi disse. "Oh! I Tatry sono
molto più belli dal versante polacco che non da quello slovacco!".
L'esperienza come nunzio apostolico è stata la più intensa che io abbia fatto.
In quegli anni, potei toccare con mano quanto il Papa fosse amato dal popolo
ceco e slovacco, a cominciare dalle autorità. Il presidente Havel mi disse due
volte che Giovanni Paolo II aveva svolto un ruolo fondamentale nella caduta
del comunismo: "Certamente - sosteneva - ci furono anche altre cause per la
vittoria della libertà sul comunismo, ma, senza di lui, il risultato non sarebbe
stato così subitaneo e inatteso". Altre volte mi sottolineò che i suoi colloqui
col Papa erano sempre molto informali e cordiali: "Lui parla in polacco, io in
ceco - diceva - e ci intendiamo molto bene".
Ciò che gli attirava le simpatie di tutti era il fatto che fosse il primo Papa
slavo della storia. La gente, che per quarant'anni era stata frastornata dalla
propaganda ateistica, cominciava a capire che cos'era la Chiesa, quale mistero
di comunione e di fratellanza portasse agli uomini insieme con la fede in Dio e
l'amore di Cristo, negati per così lungo tempo. Anche per questo, Giovanni
Paolo II è stato un grande dono di Dio alla Chiesa e all'umanità.

(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)

Вам также может понравиться