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schermi/screens

Mauro Carbone
LO SCHERMO, LA TELA, LA FINESTRA
(E ALTRE SUPERFICI QUADRANGOLARI NORMALMENTE
VERTICALI)

Abstract
Though the image of vision still dominant is that of the window, my hypothesis is
that the optical apparatus we implicitly refer to nowadays has become the screen, which
shows many differences from the window.
Therefore I believe that to understand how we conceive our present experience of
screens, it would be helpful to comprehend our present experience of seeing. I think also
that our present screens experience is the result of the screens experience that cinema
taught us, even if many differences separate nowadays those two experiences.
On this subject, we know that the opaque surface of the screen has traditionally
been considered to hamper vision and therefore to conceal truth. On the contrary, the
advent of cinema has shown how the opacity of such a surface can actually make us see,
thus reminding us that light and shade – traditionally opposed by our culture – simply
cannot be separated. But this is not enough: it shall be added that such a surface has
always solicited and oriented the desire of he or she who contemplated it. If such a desire
used to coincide with the possibility of seeing beyond the screen, today the screen surface
rather envelops us in a reversible visibility, inviting us to dwell in it.
We may then connect the century of cinema – that has just ended – to a progressive
affirmation of a different way of conceiving the giving of our encounter with the world.
Such a way shall slip from a theatrical apparatus like that of the window (that is, par
excellence, a representative apparatus opening up through the opening of a curtain) to a
cinematographic apparatus, of which I try to outline a few characteristics in my essay.

Si confronti lo schermo su cui si svolge il film con la tela su cui si trova il dipinto.
L’immagine sul primo si modifica, quella sulla seconda no. L’ultima invita l’osservatore
alla contemplazione; davanti a essa può abbandonarsi alla sua sequenza di associazioni.

Rivista di estetica, n.s., 55 (1 / 2014), LIV, pp. 21-34 © Rosenberg & Sellier

21
Davanti alla ripresa cinematografica non può farlo. Nel momento in cui l’ha colta con
lo sguardo, questa si è già modificata. Non può esser fissata1.

Con tali parole, già nel primo dattiloscritto de L’opera d’arte nell’epoca della
sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin ci esorta a operare il confronto che
occuperà la maggior parte di questo mio saggio. Prima di tentare tale confron-
to – e proprio per poterlo fare – occorrerà però domandarsi che tipo d’immagine
lo spettatore stia osservando sulla tela che l’invita alla contemplazione. Sembra
poco probabile che si tratti di un quadro del Novecento. Se infatti sulla tela nul-
la – nessun choc – deve disturbare la possibilità dello spettatore di «abbandonarsi
alla sua sequenza di associazioni», si tratterà piuttosto di un dipinto composto
secondo canoni più tradizionali. Questi canoni rinvieranno allora a un certo modo
di vedere il mondo che è tuttora considerato dominante nella cultura occidentale,
quello di cui Leon Battista Alberti pone le basi nel De Pictura, la cui redazione
in volgare spiega:

Dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io
voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà
dipinto2.

Come abbiamo sentito, Alberti sta esponendo qui una ben precisa tecnica
pittorica: quella che ci è nota, tra gli altri, col nome di «prospettiva rinascimen-
tale», la tecnica che fa convergere verso un unico punto di fuga tutte le linee che
risulterebbero perpendicolari al piano del dipinto. Per secoli – la convenzione
dice: fino alla fine del diciannovesimo – questa tecnica sarà osservata quale legge
fondamentale della pittura occidentale. A questo proposito, è significativo che,
novant’anni dopo il De Pictura, il pittore e grafico tedesco Albrecht Dürer abbia
voluto contribuire a diffondere la conoscenza della tecnica teorizzata da Alberti
pubblicando a sua volta un trattato, noto col titolo L’insegnamento della misura
(Underweysung der Messung, mit dem Zirckel und Richtscheyt, in Linien, Ebenen
unnd gantzen corporen), nel quale incluse alcune incisioni che mostrano come il
pittore possa disegnare in prospettiva servendosi di un’apposita finestra, magari
affiancata da un altro dispositivo che mantenga fermo il suo sguardo. Ecco la
celebre incisione cui mi riferisco, che ben sottolinea il principio della separazione
e della contrapposizione tra la rigida postura dell’artista e il corpo contorto dal
desiderio della modella3.

1
 Benjamin 2012: 45, nota dell’autore.
2
 Alberti 1436: I, § 19 (corsivo mio).
3
 A proposito di tale incisione, cfr. le precisazioni fornite da Damisch (1993: 58-60).

22
A. Dürer, Griglia (illustrazione, xilografia),
in Quattro libri sulle proporzioni umane (1528).

Ma la fortuna della formulazione di Alberti è stata tale da non caratterizzare


soltanto un certo modo di concepire il quadro. Più in generale, essa riprende
«l’antica metafora dell’occhio come “finestra dell’anima”»4 e la promuove a
«modello»5, dicevo prima, di una certa maniera di vedere il mondo, secondo cui
noi guarderemmo quest’ultimo come attraverso una finestra. E proprio «attra-
verso» – il prefisso per- del latino perspectiva – è il termine su cui, malgrado certe
sue riserve filologiche, insiste anche Panofsky commentando la formulazione
albertiana6.
A partire da Alberti, dunque, la finestra diventa il «dispositivo» assunto come
modello del nostro modo di vedere il mondo da parte di quell’epoca che chia-
miamo moderna7. Certo, come ha sottolineato Marc Richir8, nella seconda delle
Meditazioni metafisiche (1641) Descartes tende piuttosto a descriversi nell’atto
di distogliere lo sguardo dalla finestra, ma lo fa solo perché – come spiega lui
stesso – «mediante la facoltà di giudicare che risiede nella mia mente, comprendo
ciò che prima credevo di vedere con gli occhi»9 guardando appunto dalla finestra.
Né, secondo Richir, sarà molto diverso l’atteggiamento di Husserl: «Per lui il
mondo è un quadro che si ritaglia nel telaio della finestra»10.

4
 Belting 2010: 146.
5
 Belting 2010: 145 (corsivo mio).
6
 Panofsky 1924-25: 31, 71 n. 5.
7
 Per questa considerazione della finestra, cfr. anzitutto Wajcman 2004. Cfr. inoltre Charbonnier
2007, con particolare riferimento al capitolo intitolato «Cadre et fenêtre, un dispositif pour la
vision» (ivi: 73 ss).
8
 Cfr. Richir 1971: 31-42.
9
 Descartes 1986: 222. Esplicita Richard Rorty: «Nel modello cartesiano l’intelletto indaga entità
modellate sulle immagini retinali. […] Nella concezione cartesiana – quella che divenne la base
della gnoseologia “moderna” – sono le rappresentazioni a essere nella “mente”» (Rorty 1979: 99,
Citato da Jay 1988: 5).
10
 Richir 1971: 32.

23
Nell’epoca che chiamiamo moderna, insomma, anche la filosofia si unisce
alla pittura assumendo a modello del nostro modo di vedere il mondo proprio
quel «dispositivo».
Quest’ultimo termine non va dunque inteso qui semplicemente quale siste-
ma tecnico più o meno complesso, quale Apparatur, per dirla con Benjamin11.
Il «dispositivo» va piuttosto assunto, con Foucault, anzitutto quale «insieme
risolutamente eterogeneo»12 che, ricorda Deleuze, intrattiene un nesso intrin-
seco non solo con l’enunciazione, ma anche con la visibilità. In particolare, il
seguente passaggio deleuziano suona ricco di risonanze con ciò di cui stiamo
parlando:

I dispositivi sono in effetti […] macchine per far vedere e far parlare. La visibilità
non rinvia a una luce in generale che illumini oggetti preesistenti, ma è fatta di linee
di luce che formano figure variabili, inseparabili da questo o da quel dispositivo. Ogni
dispositivo ha il suo regime di luce, la maniera in cui essa cade, si smorza e si diffonde,
distribuendo il visibile e l’invisibile, facendo nascere o scomparire l’oggetto che non
esiste senza di essa. […] Se c’è una storicità dei dispositivi, è quella dei regimi di luce,
ma anche dei regimi di enunciato13.

Per quanto riguarda i «dispositivi» che in specifico orientano la nostra perce-


zione, la tesi della loro storicità risulta del resto chiaramente formulata già da
Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dove
egli li chiama media e sottolinea che

il modo in cui si organizza la percezione umana – il medium in cui essa ha luogo –, non
è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico14.

Questa tesi serve a Benjamin per sostenere quella affermata nella frase imme-
diatamente precedente, che dichiara la storicità, celeberrima, del nostro stesso
modo di percepire il mondo:

Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività
umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione15.

Non altrettanto evidenziato è che, poco oltre, alla storicità della nostra perce-
zione e a quella dei dispositivi che l’orientano, Benjamin ne connetta anche una
terza, utilizzando un termine che fa riferimento all’area semantica del desiderio:

11
 Cfr. Benjamin 2012.
12
 Foucault 1994: 299.
13
 Deleuze 2007: 13-14.
14
 Benjamin 2012: 21.
15
 Benjamin 2012: 21 (corsivo dell’autore).

24
“Portarsi più vicino” le cose è per le masse attuali un desiderio [Anliegen] vivissimo,
quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione
della sua riproduzione16.

Questa storicità del desiderio, dicevo, non risulta di solito altrettanto evi-
denziata, né lo è il suo nesso intrinseco con le altre due. Per questo mi pare
particolarmente importante porvi l’accento: per Benjamin la percezione non si
modifica senza il desiderio, né il desiderio senza la percezione.
A tutto ciò vorrei collegare ancora una concezione avanzata da Gilles Deleuze,
secondo cui

noi viviamo di una certa immagine del pensiero, e questo significa che, prima di pen-
sare, abbiamo già una vaga idea di ciò che significa pensare, dei mezzi e degli scopi17.

Per Deleuze, insomma, l’operazione di pensare risulta condizionata dall’im-


magine di questa operazione che ci viene trasmessa dalla cultura in cui viviamo.
Ma ciò non vale forse anche per l’operazione di vedere? Ovvero, se per Deleuze
noi abbiamo una certa immagine del pensiero che condiziona il nostro modo di
pensare, non possiamo aggiungere che noi abbiamo anche una certa immagine
della visione – un’immagine di come vediamo – che condiziona il nostro modo
di vedere? È questa una delle idee che andranno emergendo dal mio discorso.
Non solo, dunque, che il vedere si sia andato trasformando nel corso della storia
umana, insieme con il desiderio di vedere. Ma anche che immagini differenti del
vedere abbiano potuto affermarsi in epoche diverse della storia occidentale e,
inoltre, che ogni epoca abbia avuto la tendenza a eleggere un certo dispositivo
ottico a modello dominante di come, a suo avviso, noi vediamo il mondo. In
altre parole, ogni epoca ha concepito il modo in cui gli esseri umani vedono
il mondo secondo le caratteristiche di quel dispositivo ottico da lei assunto a
modello dominante: così la modernità ha fatto appunto con la finestra.
Ovviamente ciò non esclude che talune caratteristiche di un certo dispositivo
ottico si trasmettano da un’epoca all’altra. Questo sembra essere il caso della
forma quadrangolare che abbiamo sentito Alberti assegnare alla finestra da lui
indicata a modello della rappresentazione pittorica improntata ai canoni della
prospettiva rinascimentale. È appena il caso di sottolineare come tale forma – la
forma quadrangolare e, più precisamente, rettangolare – venga tuttora assegnata
alle nostre immagini (e quindi ai loro dispositivi di produzione e riproduzione) in
misura talmente predominante da risultare un’ovvietà, anziché quel ben preciso

16
 Benjamin 2012: 22, trad. modif. (corsivo dell’autore). Per una disamina della composita rifles-
sione benjaminiana sull’aura secondo la diade vicino/lontano, cfr. Pinotti 2013.
17
 Deleuze 1968: 304.

25
«costrutto culturale»18 di cui si tratta. Certamente questo costrutto culturale
rimanda a quello della prospettiva rinascimentale, che concepisce il quadro come
sezione perpendicolare della piramide visiva dello spettatore. Ma nel cercare
precedenti storici non ci si può fermare qui.
Riferendosi alla formulazione latina del passo di Alberti prima ricordato, lo
storico dell’arte francese Daniel Arasse ne traduce col verbo «contemplare» il
termine contueatur, che corrisponde all’«io miri» della redazione volgare alber-
tiana. E commenta:

La parola “contemplare” mi ha sempre affascinato, è d’una logica estrema, perché in


contemplare vi è “tempio”. E il templum che si contemplava era il quadrato o il rettangolo
che gli aruspici romani disegnavano con il loro bastone nel cielo per aspettare di vedere
come vi sarebbero passate le aquile. A seconda della direzione, del numero di aquile,
della loro velocità, l’aruspice poteva dare tale o talaltra interpretazione di quanto era
detto da quei segni19.

Su tale base, Arasse vede ritornare storicamente

questa nozione di delimitazione di una zona, all’inizio nel cielo, poi al suolo in quanto
templum, luogo del sacro, quindi nella pittura come il quadrangolo albertiano che sta-
bilisce il templum della pittura dove si va a contemplare la composizione20.

Il nesso linguistico ravvisato da Arasse importa insomma per sottolineare la


continuità tra il gesto degli aruspici e quello di Alberti, l’uno e l’altro consistendo
nel circoscrivere la superficie di un «quadrangolo» che la nostra cultura non cessa
d’investire di caratteri peculiari e di uno specifico rapporto con la nostra visione:

Allorché viene depositata sulla superficie del quadro delimitata da bordi rettangolari,
la pittura in quanto materia – quella che si fa uscire dai tubi di pittura – diventa altro:
significante, oggetto d’arte, d’ammirazione, d’interrogazione. La pittura non è soltanto
pittura. L’uomo vi mette qualcosa in più. Al reale aggiunge dell’immaginario e del sim-
bolico. Allorché il pittore posa il suo pennello intriso di pittura sulla tela, egli lascia per
così dire dei segni da indovinare21.

Queste considerazioni non sembrano però opporre la tela pittorica allo schermo
cinematografico, come invece Benjamin pretendeva scrivendo che solo la prima
«invita l’osservatore alla contemplazione [Kontemplation]». Anche lo schermo – e
non solo quello cinematografico – si presenta infatti come una superficie qua-
drangolare che risulta investita dei peculiari caratteri e del rapporto specifico con

18
 Charbonnier 2007: 19.
19
 Arasse 2004: 63-64.
20
 Arasse 2004: 64.
21
 Charbonnier 2007: 30.

26
la nostra visione che Arasse fa risalire al gesto degli aruspici romani: dei caratteri
e un rapporto tali da conferire a quanto appare su quella superficie un valore
che eccede il suo mero apparire. Insomma, per riecheggiare una frase citata qui
sopra, possiamo dire che quanto appare sullo schermo non è solo ciò che appa-
re. Dobbiamo però precisare, come Georges Didi-Huberman suggerisce per la
nozione di «aura», che gli schermi sollecitano l’osservatore a una contemplazione
diversamente declinata da quella cui lo invita una tela pittorica22.
Va d’altra parte aggiunto che l’usanza d’investire di un rapporto privilegiato
con la verità una superficie quadrangolare e normalmente verticale sembra essere
ben più antica della stessa istituzione del templum. La si può infatti rintracciare
già nella tenda che Pitagora eredita dalla tradizione sacerdotale per separare chi
ha il diritto di vederlo da quanti possono solo ascoltarlo, anche se in questo caso
quella superficie non sovrasignifica il visibile, come fa il templum, bensì lo vieta.
Anzi: lo sovrasignifica vietandolo. Forse è proprio così che si apre la tradizione di
quanto Jean-François Lyotard definisce come «la parete speculare in generale», di
cui lo schermo cinematografico sarebbe per lui un caso particolare23, mentre un
altro – pare quasi superfluo precisarlo – non può che essere la finestra.
Ritorna allora la domanda: cosa comporta assumere la finestra a modello
del nostro modo di vedere il mondo, come ha fatto la pittura dell’epoca che
chiamiamo moderna? Comporta anzitutto dividere lo spazio in due parti, ri-
spettivamente di qua e di là da essa, cioè – dicevo prima – poste l’una di fronte
all’altra, cui la finestra stessa assegna caratteri opposti, garantendo, purché sia
aperta, come precisava Alberti, o comunque trasparente, a chi occupa la parte
al di qua di essa il ruolo di vedente e a quanto occupa la parte al di là quello di
essere visto. Assumere la finestra a modello del nostro modo di vedere il mondo
significa dunque concepire la visione come un’operazione caratterizzata dalla
separazione fra lo spettatore e lo spettacolo, dall’apertura o dalla trasparenza di
quanto li separa, dalla loro reciproca frontalità e dalla contrapposizione dei loro
caratteri. Quest’ultimo aspetto, opponendo il vedente e il visto, disloca inoltre
un «qui» e un «laggiù», rispettivamente intesi come «privato» e «pubblico»24, e
implica che il vedente sia, per definizione, non visto, suggerendo – per riprendere
un’altra tradizionale opposizione su cui tornerò più avanti – che egli si trovi in
ombra mentre quanto è visto sia esposto alla luce 25.

22
 «Benjamin, com’è noto, parla di “declino dell’aura” nell’epoca moderna; ma declino, per lui, non
significa affatto sparizione, quanto piuttosto spostamento verso il basso, inclinazione, deviazione,
nuova inflessione» (Didi-Huberman 2000: 218). Quella che ho esposto qui sopra mi sembra anche
la conclusione suggerita da Pinotti 2013.
23
 «Bisognerà […] domandarsi come e perché la parete speculare in generale, e quindi lo schermo
cinematografico in particolare, possa diventare un luogo privilegiato di investimento libidico»
(Lyotard 1973: 242).
24
 Belting 2010: 147.
25
 Cfr. G. Teyssot 2010: 1-2. In proposito l’articolo di Teyssot incrocia e sintetizza certi risultati
di Wajcman 2004 e Friedberg 2006.

27
È a questa immagine della visione che si accompagna quella che Deleuze chia-
merebbe una certa «immagine del pensiero»: l’immagine dominante del pensiero
moderno, i cui tratti fondamentali sono stati delineati tra il Quattrocento e il
Settecento e di cui Cartesio è il padre riconosciuto. Analogamente a quella della
visione che prende a modello la finestra, questa immagine del pensiero colloca
da una parte il mondo descrivendolo come spettacolo e definendolo «oggetto»
perché si troverebbe «posto di fronte» a noi, come anche la parola ob-iectum
etimologicamente significa; dall’altra parte colloca noi stessi descrivendoci
come spettatori, definendoci «soggetti» perché, proprio in quanto separati dallo
spettacolo, possiamo farcene una «rappresentazione» ed eventualmente «soste-
nere» – appunto perché «posti sotto» – il suo valore di verità.
Della finestra così intesa si può dire insomma quanto Giorgio Agamben, altro
pensatore contemporaneo che ha ripreso la riflessione di Foucault sui dispositivi,
ha scritto di questi ultimi: «I dispositivi devono sempre implicare un processo
di soggettivazione, devono, cioè, produrre il loro soggetto»26. Detto in termini
fenomenologici, se la coscienza è sempre coscienza-di-qualche-cosa, questa sua
intrinseca relazionalità non può che comportarne un’altrettanto intrinseca sto-
ricità. Insomma, la coscienza, concepita (appunto fenomenologicamente) quale
coscienza corporea, trova la sua specifica forma storica anzitutto nel rapporto
con i media percettivi ed espressivi che in quell’epoca ne assicurano le relazioni
col mondo e con gli altri.
Nel caso specifico, lo conferma del resto Gérard Wajcman: «Disegnando i
territori rispettivi del mondo e dell’io, forse l’invenzione della finestra in ciò fa
lega con l’invenzione della soggettività»27.
Questo esempio indica dunque l’intima compenetrazione tra una certa im-
magine della visione, una certa immagine del pensiero e un certo «processo di
individuazione che si esercita su gruppi o su persone»28, per usare un’espressione
di Deleuze, tratta da Simondon che, diversamente da quella di Agamben, ha il
merito di non fare ancora una volta ricorso al termine “soggetto”, limitandone
perciò l’uso a una specifica forma storicamente connotata d’individuazione,
come del resto fa Wajcman.
L’esempio qui sopra esplorato mostra insomma che il modo in cui crediamo
di vedere condiziona quelli in cui crediamo di pensare nonché di stare al mondo.
E viceversa.
Sullo sfondo di tutte queste considerazioni non può che emergere la questione
seguente: qual è il dispositivo ottico di riferimento della nostra epoca? Benché
l’immagine della visione tuttora dominante nei nostri discorsi sia quella della
finestra, benché anche il cinema si sia spesso pensato secondo quell’immagine29

26
 Agamben 2006: 19.
27
 Wajcman 2004: 14.
28
 Deleuze 2007: 17.
29
 Cfr. per esempio Bazin 1951: 173; più in generale, per i problemi qui trattati, Bazin 1951: 171 ss.

28
e a essa faccia eco persino il nome del sistema operativo per computer più uti-
lizzato al mondo, la mia ipotesi è che il nostro dispositivo ottico di riferimento
sia diventato lo schermo, che molte differenze presenta rispetto alla finestra.
A ben guardare, con Rear Window (1954) anche Alfred Hitchcock accetta di
confrontare il cinema col dispositivo ottico della finestra soltanto per mostrare
come l’essenza del primo – incarnata per lui dal montaggio30 – sfugga all’impo-
stazione del secondo: il protagonista del film, immobilizzato davanti alla propria
finestra in una posizione che sembra alludere a quella dello spettatore cinemato-
grafico, risulta talmente coinvolto nello «spettacolo», che il principale elemento
di quest’ultimo – l’assassino che egli sta smascherando – dapprima lo vede e poi
irrompe nello spazio privato e buio del suo «qui» abolendolo perciò come spazio
separato, al punto che lo spettatore alla finestra finisce letteralmente defenestrato31.
Ecco, io penso che, nel suo differenziarsi dalla finestra, lo schermo incarni
oggi, più o meno consapevolmente, la nostra immagine della visione. Perciò
ritengo che comprendere la nostra attuale esperienza degli schermi possa aiutarci
a comprendere come concepiamo la nostra attuale esperienza del vedere. Ritengo
inoltre che la nostra attuale esperienza degli schermi sia figlia di quella che ci
è stata insegnata dal cinema, malgrado le molte differenze che ormai separano
questa da quella.
Malgrado tali differenze, occorre ricordare, anzitutto, che è stato proprio il
cinema a insegnarci a considerare lo schermo come una superficie la cui opacità,
anziché nascondere, ci permette invece di vedere, ponendo così le basi per sciogliere
l’ambiguità – nascondere da una parte, mostrare dall’altra – che si era andata via
via inscrivendo nel significato delle parole, accomunate dalla medesima etimolo-
gia, che designano tale superficie in italiano, in francese e in inglese32. «Schermo»,
infatti, non diversamente da «scherma», deriva dal verbo longobardo skirmjan che
significa «proteggere». Perciò Erkki Huhtamo, nei suoi Elements of Screenology,
può annotare che l’Oxford English Dictionary, sulla base delle prime occorrenze da
esso registrate, spiega che «lo schermo era inteso soprattutto come una superficie
che protegge una persona creando una barriera contro qualcosa di fastidioso o di

30
 Hitchcock descrive a Truffaut l’andamento di Rear Window con le parole qui di seguito citate,
al cui termine egli richiama la celebre sequenza dell’effetto Kulesov: «Abbiamo l’uomo immobile
che guarda fuori. È una parte del film. La seconda parte mostra ciò che vede e la terza la sua
reazione. Questa successione rappresenta quella che conosciamo come la più pura espressione
dell’idea cinematografica» (Hitchcock in Truffaut 1967: 180-181, corsivo mio).
31
 Ho discusso questo e altri punti del mio saggio con Marta Nijhuis, che voglio qui ringraziare
per aver condiviso con me le sue riflessioni.
32
 «Questa ambiguità non si ritrova in tedesco (per esempio), in cui Abschirmung, che si avvicina
per il senso a Wand, “parete”, non si confonde con Schirm, che, apparentato a screen e a écran,
designa oggetti di protezione. Ma i composti Leinwand (letteralmente “parete, schermo di lino”)
o Bildschirm (Bild significa immagine) segnano un’evoluzione analoga» (Rey, Tomi, Hordé, Tanet
1998: II, 303).

29
minaccioso»33. Così, almeno, dalla fine del xiii secolo34 agli inizi del xix, quando
quel dizionario registra – datandola 1810 – la prima occorrenza del vocabolo
riferita a una «fantasmagoria», ossia alla proiezione di immagini in movimento,
prodotte da una lanterna magica, appunto su di uno schermo bianco. Huhtamo
sottolinea che questa occorrenza «rappresenta un chiaro allontanamento dalla
sfera domestica e un ingresso nel mondo dell’intrattenimento pubblico»35. Quel
che Huhtamo non esplicita è che tale occorrenza segnala inoltre l’inscriversi, nel
significato della parola «schermo», dell’ambiguità che prima indicavo: nascon-
dere da una parte, mostrare dall’altra. Letteralmente. Lo schermo, infatti, da un
lato – un lato non solo semantico, ma anzitutto spaziale – continua a porsi come
«superficie che protegge», nel senso che «nasconde agli sguardi» degli spettatori la
lanterna magica, ossia la fonte luminosa delle immagini e quindi il «trucco» che
le produce, di cui, dall’altro lato, può dunque «mostrare», in maniera tanto più
spettacolare, gli effetti. Huhtamo osserva peraltro che, anche prima di iscriversi
nel significato del termine «schermo», questa ambiguità risultava all’opera in certe
screen-practices come quella esercitata dal teatro delle ombre, il quale «divenne
popolare in Europa nel xvii e nel xviii secolo» e nel quale «il pubblico siede di
fronte allo schermo, mentre gli attori fanno agire le loro marionette dietro di
esso, tra lo schermo e la fonte luminosa. Il pubblico vede solo le ombre che si
muovono sullo schermo, non il “trucco” che le crea»36.
Mi sembra allora importante sottolineare come «l’emergere del cinema»37 segni
il progressivo affermarsi di un significato del termine «schermo» in cui, dicevo,
l’ambiguità sin qui rintracciata tende a venir meno, in quanto la superficie che
quel termine designa cessa di «proteggere» dagli sguardi la fonte luminosa delle
immagini mostrate, ossia cessa di separare uno spazio al di qua da uno al di là di
essa, dove il secondo custodirebbe, metafisicamente, la segreta verità del primo.
Inoltre, se il modello della finestra affermava proprio tale separazione condi-
zionando la possibilità di attraversarla con lo sguardo – comunque sempre e solo
in una direzione – all’apertura o alla trasparenza del dispositivo ottico, il cinema
sfrutta invece l’indissolubile complementarità di luce e ombra, sia nelle immagini
che produce sia nella relazione che fonda tra il fascio luminoso e l’opacità dello
schermo. Quest’ultimo, allora, né è ritenuto ostruire la visione, né si lascia at-
traversare da essa, ma riflette – ossia, letteralmente, «volge indietro» – il fascio
luminoso che l’investe, inaugurando così uno spazio che non istituisce alcun meta-
fisico «al di là». Esso mostra perciò che le immagini non sono affatto – avvertiva

33
 Huhtamo 2004: 35.
34
 Cfr. Rey, Tomi, Hordé, Tanet 1998: II, 302. Si ricordino al proposito le «donne dello schermo»
nella Vita Nova di Dante Alighieri, opera composta probabilmente tra il 1292 e il 1293.
35
 Huhtamo 2004: 35.
36
 Huhtamo 2004: 39 .
37
 Traggo questa espressione dal titolo del libro di Musser, The Emergence of Cinema (Musser 1990).

30
Merleau-Ponty – «un ricalco, una copia, una seconda cosa»38, che da una prima
dipenderebbero e discenderebbero. Proprio dell’introvabilità di quanto verrebbe
prima parla, del resto, la duplice e incompossibile tendenza, diffusa dal cinema,
a oscillare continuamente tra le affermazioni «sembra vero!» e «sembra un film!».
Dicevo che l’emergere del cinema ci ha ricordato come luce e ombra – dalla
nostra cultura, tradizionalmente, opposti – semplicemente non si possano dare
l’uno senza l’altra. Non basta: occorre aggiungere che, se la superficie opaca di
uno schermo ha sempre sollecitato e orientato il desiderio di chi la contemplava,
un tempo quest’ultimo consisteva eminentemente nel poter vedere al di là di essa.
Appunto l’emergere del cinema sembra invece aver esplicitato e potenziato un
altro elemento: il desiderio di vedere – usiamo ancora qualche parola di Merleau-
Ponty – «secondo o con» lo schermo39, al punto da arrivare persino a entrarvi.
Se insomma la finestra disponeva alla frontalità della rappresentazione, lo scher-
mo cinematografico e postcinematografico sempre più dispone all’avvolgimento
della visione, da intendersi ovviamente in senso pienamente audiovisivo. In questa
prospettiva, se in un certo senso si può dire che lo schermo è specchio, ciò accade
perché, più profondamente, esso è parte costitutiva di quel ripiegamento del
visibile su se stesso che è la visione.
Riprendendo l’idea, che prima suggerivo, dell’intima compenetrazione tra una
certa immagine del vedere e una certa immagine del pensiero, potremmo allora
collegare il secolo del cinema – quello da poco terminato – al progressivo affermar-
si di una peculiare concezione del nostro incontro col mondo. Pur conservando
la tendenza a investire una superficie quadrangolare e normalmente verticale di
un rapporto privilegiato – vuoi positivo vuoi negativo – con quell’incontro, tale
concezione passa da un dispositivo sostanzialmente teatrale su cui è ricalcato anche
quello della finestra40 – ossia un dispositivo, per antonomasia, rappresentativo,
che s’inaugura con l’istituirsi, l’aprirsi o lo squarciarsi della superficie di fronte
allo spettatore – a quello cinematografico di cui qui sopra ho cercato di delineare
alcuni caratteri41.
Certo, la nostra attuale esperienza dello schermo non è più semplicemente
quella del cinema. A modificarla è intervenuta anzitutto la televisione, col suo

38
 Merleau-Ponty 1961: 21.
39
 «Più che vedere il quadro, io vedo secondo il quadro o con esso» (Merleau-Ponty 1961: 25).
Esemplifica Žižek riguardo il cinema: «Basta ricordare la nota scena di Psycho nella quale Norman
Bates osserva nervosamente la macchina, con dentro il corpo di Marion, che si immerge nella palude
dietro la casa di sua madre: quando la macchina smette per un momento di sprofondare, l’ansia
che insorge automaticamente nello spettatore – una prova della sua solidarietà con Norman – im-
provvisamente gli ricorda che il suo desiderio è uguale a quello di Norman» (Žižek 1992: 32-33).
40
 Belting 2010: 150.
41
 È noto come anche Benjamin tenda a vedere un’opposizione strutturale tra cinema e teatro:
«Dell’opera d’arte che è affidata senza residui alla riproduzione tecnica, e anzi – come il film – che
da quest’ultima procede, non c’è di fatto una contrapposizione più netta di quella costituita dallo
spettacolo teatrale» (Benjamin 2012: 33).

31
piccolo schermo non più riflettente ma luminescente che, facendo da contrap-
punto a quello cinematografico, anziché nani di fronte a immagini gigantesche,
ci ha reso giganti di fronte a immagini lillipuziane42. Platone, è noto, nella Re-
pubblica condannava le immagini in quanto producono effetti illusori che «fanno
leva» sulla parte «arazionale» (alogistikón) della nostra anima43. È ovvio allora
chiedersi quali mutati effetti quel rovesciamento di dimensioni tra le immagini
e noi abbia provocato: come, insomma, esso abbia operato sul nostro sistema
di valori, miti e desideri. Senz’altro regalandoci «una illusione di controllo»44
sulle immagini che al cinema sembrava smarrita, ammette Huhtamo, ma, egli
precisa, non cancellandone una certa sacralità (a mio avviso ancora erede del
gesto degli aruspici romani), bensì prolungandola, secondo forme peculiari, dalla
sfera pubblica a quella privata.
In seguito la rivoluzione digitale ha prodotto un’evoluzione e una proliferazione
degli schermi che paiono inarrestabili: la nostra esperienza di essi è diventata allora
definitivamente plurale, ma si è arricchita anche di altre novità quali mobilità,
tattilità, interattività, connettività, «carattere immersivo» del tutto particolare45.
Alla luce di queste, gli schermi s’impongono ormai come il decisivo elemento
propulsore non solo delle continue trasformazioni all’opera nel nostro rapporto con
le immagini, ma, più in generale, di quella rivoluzione percettiva che c’incalza
senza che possiamo misurarne altro che gli effetti più immediati.
Per questo sono convinto che interrogare le nostre attuali esperienze degli schermi
consenta di comporre un crocevia inaggirabile per la filosofia da fare oggi.

42
 Il fenomeno della “gulliverizzazione dei media” è così qualificato, nonché ricostruito in alcuni
aspetti della sua “archeologia”, da Erkki Huhtamo nel paragrafo intitolato «Enlarging and Shrinking:
the Gulliverisation of Media» in Huhtamo 2009: 15 ss. in particolare 19-21.
43
 Platone 1991: 1313.
44
 Huhtamo 2009: 20.
45
 Per un panorama di tali novità, cfr. Vancheri 2013: 18 ss e Montani 2007: 110.

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