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Estratti da:

Michele Lomuto Augusto Ponzio

Semiotica della musica


Introduzione al linguaggio musicale

© Graphis, Bari, 1997

1
Prefazione

I. Quale semiotica per la musica?


1. I segni e le cose. La sfida della semiotica della musica
2. Gli oggetti dell’ascolto
3. Critica della ragione musicale

II. Musica e materialità semiotica


1. L'eccedenza musicale
2. Il corpo, il gesto, lo spazio
3. Musica e ospitalità

III. Musica come scrittura


1. Il testo
2. Composizione e interpretazione
3. La musicologia

IV. Musica e tempo


1. Il tempo e l'esperienza musicale
2. Musica d'insieme: andare a tempo
3. La contemporaneità

V. Musica e modellazione
1. Musica e modellazione primaria
2. Musica e realtà
3. Musica e ideologia

Riferimenti bibliografici
Prefazione

Nei confronti della semiotica e delle altre scienze del


linguaggio la musica ha rappresentato fin ora un territorio a sé stante,
resistente fino all’irriducibilità all’inglobamento nella visione
generale di ciò che è segno e linguaggio. Il “linguaggio della musica”
si è prestato ben poco ad essere trattato alla stregua di ciò che le
scienze dei segni hanno definito come linguaggio. La semiotica della
musica non può più prescindere dalla questione “quale semiotica per
la musica?”, disponendosi alla messa in discussione di se stessa di
fronte a questo “linguaggio” refrattario alle proprie categorie. Una
decostruzione e ricostruzione dei modelli semiotici si impone. Al
punto che una semiotica della musica non può essere la semiotica
applicata alla musica, ma una semiotica che sia della musica, nel
senso che le appartenga, che verifichi la sua possibilità di
ricostruzione a partire dalla sua prospettiva. Si tratta dunque di
riconsiderare secondo questa prospettiva i concetti stessi di
“linguaggio”, di “significato”, di “segno”, di “interpretazione”, di
“comprensione”, di “comunicazione”. Questo libro è dunque due
cose insieme: una riflessione sulla scienza dei segni che si misuri con
l’alterità della musica, e una riflessione sulla musica che renda
possibile il parlarne senza sottometterla al potere del segno verbale e
alla semiotica costruita in funzione di esso. Esso dunque si presenta
come doppio trattato: di musica e di semiotica generale.

Pur essendo il libro il risultato di un progetto e di un lavoro unitario, si


precisa che i paragrafi 1 e 2 del capitolo I, i paragrafi 1 e 2 del capitolo II, il
capitolo III, i paragrafi 1 e 2 del capitolo IV sono stati scritti da Michele Lomuto;
tutto il resto è stato scritto da Augusto Ponzio.
I. Quale semiotica per la musica?

1. I segni e le cose. La sfida della semiotica musicale


[...]
2.Gli oggetti dell'ascolto
La pratica musicale si descrive attraverso un gran numero di
verbi transitivi: si suona qualcosa, si ascolta qualcosa, si interpreta
qualcosa. Anche il linguaggio più specifico abbonda di "qualcosa":
qualcosa che si stacca o si lega, si stecca o si centra, si articola, si
appoggia, si fa vibrare, si sostiene, si trasporta, si trasforma o si
ripropone. Ciò che si ascolta, si legge, si interpreta, in generale si
suona, è quindi articolato al suo interno e le unità di articolazione,
che si stratificano a più livelli, sono anch'esse qualcosa. Tutto ciò
non ci meraviglia per nulla, perché rientra perfettamente
nell'atteggiamento moderno che pone a fondamento del reale
l'esperienza di una coscienza, e l'esperienza non si può descrivere
altrimenti che come esperienza di qualcosa. Al fine di avviarci sulla
strada della comprensione del qualcosa di cui ci stiamo occupando, è
opportuno aggiungere un'altra osservazione. La pratica musicale è
sempre e comunque una pratica sociale. In realtà non siamo mai
veramente soli quando pensiamo, perché il pensiero non ci
appartiene mai completamente (chi sa, forse non ci appartiene
affatto); men che mai siamo soli con la musica. Il fatto che riusciamo
a parlarne, a scriverne, a nominarla e a nominarne perfino le più
intime articolazioni interne, ci suggerisce l'ipotesi che il qualcosa
della mia esperienza musicale possa corrispondere in qualche modo
al qualcosa dell'esperienza musicale degli altri: l'esperibile per me è
esperibile per ognuno.
Tanto basta perché il qualcosa di cui ci stiamo occupando
rivendichi il suo diritto a una assunzione in ruolo, diritto alla stabilità
non solo di fronte a una coscienza, ma anche di fronte a ogni
coscienza. Questa assunzione in pianta stabile può aver luogo perché
"qualcosa" ha superato un processo di oggettivazione. Non è più
"qualcosa in generale", ma l'oggetto musicale.
A questo punto, però, è necessario fronteggiare un'obiezione:
non stiamo confondendo l'esperienza musicologica, che come
esperienza tematizzante si esplica nelle strutture del giudizio
apofantico, con l'esperienza musicale diretta, esperienza innanzi tutto
di ascolto? La musicologia inevitabilmente, per il solo fatto di
nominare, opera delle astrazioni rispetto a un'esperienza concreta e
viva, traduce l'esperienza in concetti connessi nel giudizio
predicativo, nella forma: S è P. Ora noi possiamo ipotizzare una
continuità fra una esperienza musicale che è già evidenza di oggetti e
il giudizio predicativo che su questa si fonda, oppure un tradimento
da parte del giudizio, che nel descrivere l'esperienza ne occulterebbe
il senso. L'oggetto musicale sarebbe, nella seconda ipotesi, un
prodotto della lingua, espressione dell'attività analitica separante e
decomponente di quella facoltà che la tradizione filosofica chiama
intelletto. L'esperienza musicale sarebbe quindi un'esperienza pre-
linguistica, inaccessibile all'intelletto formalizzante, accessibile
soltanto attraverso qualche forma di intuizione; non soltanto estranea
alla lingua, ma estranea perfino al linguaggio. L'articolazione
temporale della musica così intesa è l'articolazione stessa della durata
fluida e indivisibile di Bergson, in cui v'è il cambiamento ma non vi
sono cose che cambiano, in cui gli oggetti sono mere astrazioni,
semplici "istantanee" che immobilizzano la continuità in una
successione discreta. Nel tempo della durata all'oggetto manca il
tempo, manca il presente nell'evanescenza degli istanti. Nella sua
instabilità è inaffidabile, così come ambigua è la sua relazione
rispetto all'ordine del discorso.
Questa opposizione fra tempo dell'intelletto e tempo
dell'intuizione è un aspetto moderno dell'antica opposizione fra
ordine del discorso e disordine delle passioni e dei sentimenti. Prima
che nell'etica, essa trova fondamento nell'ontologia ed è quindi,
rispetto alla musica, fondamentale. Da qui l'assunto fino ad oggi
indiscusso della temporalità della musica come modello del
continuo. Lo scorrere del tempo musicale è topologicamente
equivalente al fluire continuo dei sentimenti. Il legame fra il logos e
la phonè viene così tenuto al sicuro dalla minaccia della durata, in
cui nulla può con-figurarsi. Il continuo, spazio della musica e del
sentimento, è lo spazio dell'irrazionale: la musica è censurata da
Platone così come i rapporti irrazionali, che solo nel continuo hanno
luogo, scandalosamente, erano stati mantenuti segreti da Pitagora. La
sconvenienza dell'armonia mixolidia — nel seguente passo della
Repubblica di Platone — non consiste innanzi tutto nell'essere
lamentosa, né il rifiuto dell'armonia sintonolidia dipende dalla sua
languidezza. Piuttosto esse sono lamentose e languide perché sono
irrazionali.

— Sicuramente — feci io — tu sei in grado di riconoscere questo primo punto: la


melodia si compone di tre elementi, parole, armonia e ritmo.
— Questo sì - rispose.
— Ora, quel che in essa è costituito dalle parole, non differisce affatto, nevvero?,
dalle parole non cantate, visto che lo si deve esprimere secondo quei medesimi
modelli che poco fa abbiamo stabilito, e nella stessa maniera.
—E' vero — disse.
— E armonia e ritmo debbono accompagnare le parole.
— Come no?
— Eppure, dicevamo, nelle composizioni letterarie non c'è bisogno alcuno di
lamenti e pianti.
— No davvero.
—Ebbene, quali sono le armonie lamentose? Dimmelo, tu che sei esperto di
musica.
- La mixolidia, - rispose - la sintonolidia e altre simili (398d).

Un punto nodale dell'edificio teorico di Platone, cui ci


conviene prestare la nostra attenzione non soltanto per un interesse
storico, ma innanzi tutto perché in parte è l'edificio che ancora noi
oggi abitiamo. L'arte è un gioco di segni, quindi di scarti e di rinvii:
imitazione. Ma in particolare che cosa imita la poesia?

A noi invece, che abbiamo di mira l'utile, serve un poeta e mitologo più
austero e meno piacevole, che imiti il linguaggio della persona dabbene.. (398b).

Si tratta ora di passare ad esaminare l'armonia e il ritmo. Se


osserviamo la struttura formale delle due sezioni ci accorgiamo
subito che la simmetria che, come lettori moderni, ci aspetteremmo
forse di trovare, manca del tutto. La parola poetica imita la parola
della lingua comune, è accettabile se imita "il linguaggio della
persona dabbene", altrimenti va bandita. Ma che cosa imita
l'armonia?

Io non m'intendo di armonie — replicai: — ma tu devi lasciare l'armonia


che imiterà convenientemente parole [phthongos: suono] e accenti [prosodia:
modulazione della voce, pronuncia, accento] di chi dimostra coraggio in guerra e
in ogni azione violenta; e pur se è sconfitto o ferito o in punto di morte o vittima di
qualche altra sciagura, sempre reagisce alla morte con fermezza e sopportazione
(399a).
Dunque queste due armonie, la violenta e la spontanea, lasciale: esse
offriranno la migliore imitazione degli accenti di gente sventurata e fortunata,
temperante e coraggiosa (339c).

Se vogliamo comprendere la portata della carica eversiva che


l'esperienza musicale può esercitare nell'edificio della semiotica e in
generale della metafisica, e quindi del suo necessario occultamento
teorico, dobbiamo continuare ancora un po' a soffermarci su questo
passaggio platonico, che rappresenta un punto nodale rispetto
all'intero sistema della filosofia.
L'armonia ci conduce alla stessa voce alla quale eravamo stati
condotti dalla parola poetica: anch'essa imitazione della parola, ma
nei suoi aspetti che eccedono la razionalità, la chiarezza del sistema.
La musica imita quei tratti della parola che oggi chiamiamo
soprasegmentali, e quindi non pertinenti. Come non pertinenti
rispetto all'ordine della parola, essi appartengono al disordine, al caos
che si oppone all'ordine cosmico. Se la parola è segno della traccia
che la cosa produce nell'anima, quindi segno di segno, la musica è
segno ancora più differito, ancora più lontano dalla presenza
dell'oggetto. Ma è ancora più pericolosa della scrittura — segno di
segno anch'essa — perché a differenza della scrittura alfabetica non
rappresenta, seppur in maniera inaffidabile, l'articolazione sintattica
della parola, che per l'ontologia logocentrica greca è la stessa
articolazione del reale, ma le sue tonalità emotive.
Platone, quindi, non riconosce la musica come pratica
artistica autonoma: armonia e ritmo sono il musicale della parola.
Non deve trarci in inganno, però, il piano di questo
disconoscimento. Parlando di armonie e ritmi, Platone sembra
riconoscere loro una certa dignità di concetti. Nella possibilità di una
tematizzazione dello specificamente musicale, riconoscerebbe
all'esperienza musicale quel carattere di esperibilità per ognuno che
ne fa un'esperienza di qualcosa di oggettivo. L'oggetto musicale non
può essere negato nella sua datità fenomenologica. Ciò che di fatto si
nega è la sua legittimità etico-politica. In realtà, proprio il senso del
fenomenico, dell'apparire, con Platone comincia a separarsi dal senso
dell'essere. Non c'è un oggetto musicale che rivendica un suo
apparire nel senso greco del venire alla luce: la condanna etico-
politica è una conseguenza della condanna ontologica. L'oggetto
musicale, come segno di segno al massimo grado, non permette
scienza ma soltanto opinione: se alcune armonie sono ammissibili,
questo avviene perché sono ancora tracce, se pur sbiadite, di un
ordine, che, come è esposto principalmente nel Timeo, non è ancora
l'ordine delle idee ma l'ordine degli enti matematici. Qui incontriamo
il motivo pitagorico che, sotto diversi aspetti, sarà presente in tutta la
filosofia della musica occidentale. Gli enti matematici sono, infatti, il
medium di cui il Demiurgo si serve per realizzare le copie sensibili
dell'intellegibile puro. Essi partecipano del sensibile nella loro
molteplicità, mentre come incorruttibili non generati partecipano
dell'idea. Le armonie consentite sono allora quelle in cui il sensibile
è ancora segno dell'intelligibile, in un differire di tracce che però non
si cancelleranno mai in una presenza, ma solo in un termine di
mediazione, in un neutro.
Abbiamo così in Platone per la prima volta un chiaro
delinearsi di un'opposizione che non sarà mai risolta completamente.
Come tonalità emotiva della parola la musica apparterrà per sempre
all'ordine dei sentimenti e, quindi, tendenzialmente dell'irrazionale;
come traccia dell'ordine matematico sarà manifestazione sensibile
dell'intelligibile.
L'autonomia del musicale è così riconosciuta proprio dalla
sua condanna. Questa opposizione fra melodia — intesa come sintesi
di parola, armonia e ritmo — e musica pura, è una di quelle
opposizioni del pensiero greco verso cui Platone è obbligato a
prendere posizione. Essa è già presente nell'opposizione fra le figure
mitologiche di Orfeo e Dionisio. Il canto di Orfeo attesta del potere
magico-religioso e incantatorio della parola poetica, della melodia. E'
la perfetta integrazione fra ritmo, intonazione e parola, rappresentata
appunto dalla melodia, che riesce a vincere la morte sovvertendo
l'ordine naturale. Il segno musicale, che i Greci nominavano
nell'armonia e nella prosodia, non è segno di un oggetto musicale,
perché si cancella nella phonè, anticipando la cancellazione della
phonè nella presenza. In Dionisio, al contrario, la musica cancella
l'ordine del discorso, lo nega liberandosene, per installarsi
direttamente sul corpo vivente. La musica non appartiene al
movimento della parola, ma al movimento del corpo: a Orfeo,
raffigurato nella convenzione iconografica in atteggiamento
controllato, si oppone Dionisio raffigurato in atteggiamento di danza.
Lo strumento di Dionisio, il flauto, contrariamente alla lira di Orfeo,
non permette di cantare: mette a tacere la parola e proprio per questo
è scagliato lontano da Atena che aveva provato a suonarlo, con un
gesto che per Aristotele significa "la nessuna efficacia pedagogica
che lo studio del flauto ha sul pensiero. Infatti ad Atena noi
attribuiamo la scienza e l'arte." (Politica VIII 6b).
Anche per Aristotele il problema potrebbe essere posto negli
stessi termini: come è possibile una musicologia? Ovvero, come è
possibile che il piano dell'espressione appartenga all'ordine del
discorso mentre il piano del contenuto appartiene al disordine delle
passioni? Ma porre il problema nei termini dell'opposizione ordine /
disordine per i Greci significava porlo in termini di opposizione
essere / non-essere. Ecco che la musica, attraverso la mediazione
svelante e per ciò stesso occultante della lingua, trova il fondamento
del suo statuto nell'ontologia. Ed ecco perché oggi non possiamo
porci lo stesso problema negli stessi termini: il richiamo della
domanda ontologica è sempre un richiamo storico. Ancora di nuovo,
dopo Cartesio e Husserl, l'ontologia va messa fra parentesi per
rivolgersi "alla cosa stessa", non per sbarazzarsi dell' oggetto teorico,
né per ridurre l'alterità della "cosa" all'identità di una coscienza, ma
per rifondarlo continuamente nella pratica musicale, come
l'oggettivabile storicamente.
Ritorna così in primo piano il problema centrale: l'esperienza
musicale è esperienza di oggetti, degli oggetti è possibile una
descrizione; o è un'esperienza ineffabile? La durata del tempo della
musica permette l'autodatità di oggetti di esperienza, o dissolve nel
suo fluire qualunque tentativo di ipostasi? Non si tratta,
naturalmente, di chiedersi se l'esperienza musicale viene nominata,
perché è evidente che essa viene nominata continuamente, nelle
nostre conversazioni come negli scritti di musicologia; si tratta
piuttosto di scoprire la natura di questo nominare che si attua nel
giudizio musicologico; di valutarne, in particolare, la relazione
rispetto a ciò che è nominato; di valutare se il processo di astrazione
che il nominare comporta costituisce buona o cattiva astrazione,
astrazione che ci permette di cogliere un'essenziale nascosto o che ci
fa perdere il singolare in uno schema vuoto. La domanda, però, può
anche essere ribaltata. L'astrazione costituisce infatti un problema
antico e sarebbe certo ingenuamente arrogante porselo qui come per
la prima volta. Più interessante potrebbe essere chiedersi quale
contributo può dare l'esperienza musicale, sia come pratica che come
teoria, a una riconsiderazione del senso dei processi di nominazione
e di astrazione.
La musicologia, e più in generale la costituzione non solo di
un di un apparato teorico, ma anche di un senso comune e di un
lessico, che permettono di esprimere giudizi sull'esperienza musicale,
nascono da un interesse conoscitivo. L'oggetto musicale come
oggetto teorico, appartiene all'ordine del medesimo: "[...] nostro
possesso di cui possiamo da ora in poi disporre, che noi possiamo
rievocare in ogni tempo e di cui possiamo dar notizioa agli altri"
(Husserl 48: 179). Forse nessuna teorizzazione riesce a cancellare la
sua eccedenza rispetto all'ordine del discorso, nessuna definizione ad
eliminarne completamente il mistero, ma la volontà conoscitiva
risponde comunque ad una volontà di fissare il conosciuto una volta
per tutte. "Ogni passo della conoscenza è guidato da un impulso
attivo della volontà di mantenere nel futuro della vita il conosciuto
come identico e come sostrato delle sue note determinanti, di porlo in
relazioni etc. La conoscenza è azione dell'io, lo scopo della volontà è
la prensione dell'oggetto nella sua determinatezza identica, la
fissazione 'una volta per tutte' del risultato della percezione
osservativa." (ivi: 180). La conoscenza è concettuale, cioè
possidente.
L'oggetto della pratica musicale, al contrario, appartiene
all'ordine dell'immagine, rientra nel movimento dell'icona. Quando si
dice che la musica è ritmo non si intende privilegiare l'ordine del
tempo rispetto all'ordine delle frequenze, né si intende svalutare il
timbro. "L'idea del ritmo, che la critica d'arte invoca così
frequentemente, pur lasciandola nella condizione di vaga nozione
suggestiva e buona per tutti gli usi, indica il modo in cui l'ordine
poetico esercita la sua azione su di noi, piuttosto che una legge
interna a quast'ordine. Dalla realtà si svincolano insiemi chiusi, i cui
elementi si riecheggiano vicendevolmente come le sillabe di un
verso, ma che si riecheggiano soltanto nell'atto di imporsi a noi. Ma
si impongono a noi senza che noi possiamo assumerli. [...]
L'automatismo particolare della marcia o della danza a suon di
musica è un modo d'essere in cui nulla è inconscio, ma in cui la
coscienza, paralizzata nella sua libertà, esegue, tutta assorbita in
questa esecuzione [inserire l'originale]. Ascoltare la musica è, in un
certo senso, trattenersi dal danzare o dal marciare." (Levinas 76:
177).
Questa opposizione fra il possesso e l'essere posseduti, fra
attività e passività, descrive, naturalmente, situazioni estreme, quasi
dei limiti teorici. In realtà non si verifica mai né una attività pura, né
una assoluta passività: non ci si lascia andare mai al tempo
dell'ascolto senza riservarsi un frattempo per la riflessione. Se si
ascolta solo per essere aggiornati sull'ultimo lavoro del tale maestro,
o per valutare qualcuno in un concorso, perfino se si tratta di assolute
porcherie, non si può fissare nel concetto "una volta per tutte" ciò
che si è ascoltato. Né il nome riesce mai a cancellare completamente
ciò che nomina, né l'orizzonte di tipicità in cui ciò che si ascolta
viene inserito riesce ad assorbire completamente ogni sorpresa.
L'oggetto dell'ascolto non si offre mai come se fosse dato per la
prima volta, ma non viene neanche completamente ri-conosciuto. A
meno che non sia stata eliminata qualunque tensione estetica nel
progetto stesso di produzione musicale, e la musica sia stata prodotta
per appartenere all'ordine della merce anzicché alla deriva dell'opera.
La pratica che produce "la cosa stessa" nella sua
oggettivazione è l'esperienza dell'esperibilità per ognuno. Essa ha
luogo nel confronto più serrato fra l'oggetto teorico e l'oggetto che si
offre in autodatità evidente come "presente in carne ed ossa",
semioticamente materiale. L'ascolto, comunque, non può essere
assimilato a una struttura noesi - noema. Manca la separazione
definitiva fra ascoltatore e ascoltato: per quanto l'ascolto sia attivo, si
svolge in qualche misura in una dimensione di passività. La
comprensione della musica è in realtà sempre una comprensione
rispondente, e la risposta può assumere tanto l'aspetto del gesto
musicale, del respiro, quanto del gesto musicologico, gesto di
scrittura-iscrizione. L'opposizione esperienza musicale - esperienza
di analisi musicale non è rigidamente esclusiva.

3. Critica della ragione musicale


[...]
II. Musica e materialità semiotica

1. Materialità semiotica ed eccedenza musicale


Non è il l'imporsi di un autore o di una scuola, ma un
confluire partendo spesso da posizioni e interessi lontani, con il
carattere di necessità di una determinazione epocale: la nozione di
linguaggio si estende fino a comprendere ogni pratica umana, ma in
questo suo estendersi viene assorbita completamente dalla nozione di
scrittura. Non più significante del significante verbale,
mnemotecnica e strumento di trasmissione della voce in assenza
dell'anima, la scrittura afferma il significante del significante come
istituzione stessa del movimento della semiosi. Si tratta di
atteggiamenti generalmente non assimilabili, ma che si indirizzano
comunque verso il definitivo superamento della concezione
tradizionale di segno come relazione a due facce
significante/significato, implicando o postulando la non totale
disponibilità del linguaggio da parte dell'uomo, se non la sua totale
indisponibilità. L'articolazione del mondo per differenza e
differimento si presenta come l'atto di istituzione della sapientia
dell'homo sapiens sapiens, atto umano originario, diremmo, se questa
nozione di scrittura non ponesse in crisi proprio questa dialettica
dell'originario e del differito. L'articolazione istituita del mondo
renderebbe quindi possibile l'articolazione del linguaggio, ma in
quest'ottica l'articolazione del mondo può essere pensata come
un'operazione già linguistica, perché è impensabile sia un mondo
senza linguaggio che un linguaggio senza mondo. Il fatto che la
mondità si manifesti come articolazione dà un senso nuovo alla
definizione aristotelica di uomo come animale dotato di linguaggio,
mentre il linguaggio non è più innanzi tutto strumento di
comunicazione. Non è un caso se, sia in Sebeok che in Heidegger, la
secondarietà, che Platone, Aristotele e tutta la tradizione filosofica
assegnavano alla scrittura rispetto alla lingua parlata dall'uomo,
venga ora assegnata alla lingua parlata rispetto al linguaggio,
procedura di modellazione primaria e dimora dell'essere. Questo
confluire non cancella certo gli ambiti culturali di partenza, né i
sentieri percorsi, ma fornisce un'ulteriore testimonianza
dell'internazionalizzazione della civiltà. La razionalizzazione totale
del logos esige la cancellazione di quel metà, quell'oltre che lascia
alla metafisica ancora uno spazio per la trascendenza come
significazione e come telos, che concede all'uomo un margine di
eccedenza rispetto al processo di identificazione nell'economia del
lavoro alienato-astratto e nelle economie del consumo, della
salvezza, dell'erotismo. Che lascia al telos un orizzonte più vasto di
quello offerto dall'idolatria del Prodotto Interno Lordo e dalla
teologia del consumo. Ma proprio l'occupazione occidentale del
pianeta, la realizzazione del progetto, fa sì che il progetto si mostri, o
almeno mostri a noi, che ancora l'osserviamo dall'interno, la sua
chiusura. Si comincia così a scorgere il carattere occultante del
privilegio della funzione comunicativa. Mentre gli spazi per la
musica si restringono, si chiariscono i motivi epocali della sua
eccentricità.
Il linguaggio, dunque, non è più innanzi tutto sistema di
comunicazione nel mondo, ma istituzione della mondità. Per valutare
la portata di questa torsione è opportuno ricordare le implicazioni che
il primato della funzione comunicativa comporta nella metafisica
classica. Per cominciare, che cosa comunica il linguaggio? La
risposta è data lapidariamente nel celebre incipit del De
interpretatione di Aristotele: il linguaggio comunica i moti, le
affezioni dell'anima. Questa risposta, che sarà la risposta
dell'Occidente, riducendo la significazione a comunicazione, esige
un'opposizione fondante, l'opposizione interno/esterno. Un evento
che si verifica nell'interiorità dell'uomo, effetto del fuori sul dentro,
viene trasmesso all'esterno per provocare un evento analogo in
un'interiorità altra. Entrambe le affezioni, perché la comunicazione
abbia un senso, devono essere adeguate, diremmo oggi isomorfe, alle
strutture del reale. Le strutture del pensiero, rappresentate nel
linguaggio, sono le strutture del reale. L' adaequatio rei et intellectus
opera a senso unico, perché la res a cui l'intelletto si adegua non è
ancora correlato intenzionale o utilizzabile per un progetto gettato.
Se l'attività modellizzante è adeguazione alla struttura del reale, i
linguaggi, come copie del sistema del reale, saranno necessari
soltanto alla comunicazione.
In questo quadro concettuale la musica non avrà alcuno
spazio per sottrarsi a un ruolo subordinato rispetto al sistema della
lingua, privilegiato perché più prossimo al sistema del reale. Come
espressione dei moti dell'anima che sfuggono al controllo del logos,
non potrà essere altro che imitazione imperfetta, sospetta,
potenzialmente pericolosa, più pericolosa della scrittura perché
irriducibile e intraducibile. Si profila così un'opposizione fra il
piacere sensibile dell'ascolto, la musica come cosa del corpo, e il
piacere soprasensibile che si produce nella razionalità, la musica
come cosa dell'anima. Alla sensualità della materialità fonica si
oppone la scientia, che per Agostino è scientia bene modulandi: della
musica: è buono e degno ciò che è riducibile all'ordine del discorso.
Sia il Socrate dell'Apologia (7b), sia il Magister del De Musica di
Agostino (1, 4, 5), sottopongono l'artista a interrogatorio. Il primo
chiede ai poeti "che cosa volevano dire" . La poesia, si sa, è oscura,
ambigua, e Socrate — non ci è stato forse presentato a scuola come
l'inventore del concetto? — chiede loro la chiarezza: "Va bene,
queste sono belle parole, ma qual è il significato?" Che per lui voleva
dire: "Esprimiti per concetti". Agostino è meno ironico, la musica lo
commuove, come egli stesso ci racconta nelle Confessioni, ma è
spaventato di fronte alla voluptas, di fronte a un piacere che non
riesce a cancellare la materialità del corpo in cui risuona la
materialità del suono: che dire di quelli che cantano ritmicamente e
armoniosamente — numerose ac suaviter — ma che, "quamvis
interrogati de ipsis numeris, vel de intervallis acutarum graviumque
vocum, respondere non possint?" E che dire dei loro ascoltatori che
"sine ista scientia libenter audiunt?" La risposta è molto complessa,
ma ciò che è interessante notare in questa sede sono le coincidenze
nell'approccio con l'artista: in entrambi i dialoghi l'artista viene
interrogato, gli viene chiesto di tradurre la sua pratica artistica in
linguaggio verbale, di sublimare la materialità del suo suono nella
materialità della phonè. Non che questa appartenga al soprasensibile,
ma gli è più prossima, la sua materia è più sottile, perché prima di
risuonare all'esterno risuona all'interno e all'interno in parte
appartiene. Certo in Socrate, che ai suoi tempi tutti consideravano
ancora un sofista, il logos non è ancora decaduto in ratio: "Logoi in
quanto discorso, significa piuttosto qualcosa come deloun rendere
manifesto ciò di cui nel discorso "si discorre"" (Heidegger 1927:
§7,b). La sfida socratica è una sfida al dialogo, mentre Agostino
ormai pretende, come si direbbe oggi, "la risposta esatta". Comunque
all'artista, che nella sua incapacità di dialogare dimostra di essere
posseduto da una "naturale disposizione e ispirazione, come gli
indovini e i vaticinatori", o da "aliquid voluptatis", si oppone il
sapiente, colui che possiede la verità nella conoscenza razionale, che
non si abbandona alla pratica musicale ma ne sa parlare. Si rivela
così un apparato concettuale potente come una macchina da guerra
per la connessione totalizzante dei suoi termini. Il prezzo che questa
potenza richiede per il suo dispiegamento è l'occultamento della
musica nella cancellazione della sua materialità. Occultamento che si
mantiene ancora oggi, se Levinas ha bisogno di aprire La realtà e la
sua ombra in questi termini:

Si ammette generalmente come un dogma che l'Arte ha la funzione di


esprimere e che l'espressione artistica si fonda su una conoscenza. L'artista dice,
persino il pittore, persino il musicista. Dice l'ineffabile. [...] Pur screditato come
canone estetico, il realismo conserva il suo prestigio. In fondo, lo si rinnega solo in
nome di un realismo superiore. Surrealismo è un superlativo.
A Socrate, che continua a chiedere al poeta che cosa voglia
dire, è ancora necessario rispondere:

Interpretare Mallarmé non significa forse tradirlo? Interpretarlo


fedelmente non significa forse sopprimerlo? Dire chiaramente ciò ch'egli dice in
maniera oscura significa svelare la vanità del suo parlare oscuro. (Lévinas 1948:
174)
La cancellazione della materialità del suono si manifesta
anche come feticismo strutturalista, nel tentativo estremo di
cancellazione della materialità semiotica nella scrittura. Se il
linguaggio è scrittura in quanto articolazione, perché la scrittura
assimili a sé completamente il linguaggio è necessario che il
linguaggio non sia altro, che sia cioè puro sistema di articolazione,
puro significare riempiendo attraverso lo stesso numero finito di
elementi un numero finito di posizioni vuote. Non siamo più costretti
a negare la natura linguistica della musica per evitare l'agghiacciante
domanda di Socrate al poeta. L'aliquid pro aliquo non ci costringe a
cercare il qualcos'altro al di fuori del vuoto della differenza a cui si
riduce il linguaggio musicale: il valere per, il rimando, lo slittamento
in cui consiste la semiosi, possono esercitarsi completamente
all'interno del sistema, che già appare articolato per l'esercizio di
questa funzione. Come sistema storicamente già articolato in
sottosistemi, delle altezze, del ritmo, della dinamica, la musica si
mostra già come sistema posizionale-opposizionale: la semicroma è
la metà della croma e nient'altro; la pratica del trasporto e la prassi
dello slittamento dei coristi antichi ci mostrano il sistema delle
altezze come sistema di altezze relative e quindi di intervalli; la
pratica musicale insegna che i segni dinamici non hanno alcun valore
assoluto.
La musica sarebbe così ancora, nel pieno rispetto della
tradizione logocentrica, totalmente comprensibile, totalmente
riducibile alla coscienza e totalmente comunicabile nel linguaggio
della musicologia.
Ma un trombone ha un suono pieno, che risuona kath' autò,
che non sta disciplinatamente al suo posto come suono di un non-
contrabbasso o di un non-pianoforte. La voce di Louis Armstrong
non si lascia ridurre in termini oppositivi rispetto alla voce di Caruso:
nessun dispositivo elettronico, come nessun sistema formale, riuscirà
mai ad analizzarla completamente, a negare la sua unicità; la grana
della voce non si consegna alla parola che annienta ciò che nomina
per farlo rientrare nell'essere appiattito sull'ente. La struttura formale,
che appartiene all'intelletto senza resistenza perché per modum
continentis contenitur, ospita al suo interno l'assolutamente altro.
L'ileticità del corpo proprio fonda e condiziona la materialità del
segno che, come eccedenza e residuo non interpretato, resiste alla
conoscenza-assimilazione. La materialità semiotica del suono non ne
permette la riduzione totale a cosa del pensiero, non ne permette
scientia in senso esaustivo. Come infinitamente eccedente, il suono,
come la parola letteraria di Bachtin, è sempre suono dell'altro,
sempre già ascoltato dallo strumento dell'altro, nell'altrui contesto.
Pur non possedendo, forse, il carattere della compiutezza, prefigura
già i caratteri fondamentali dell'opera, nel suo destino estraneo al
contesto, agli scopi e all'autore che l'ha prodotto. Il suono veramente
musicale non è mai suono totalmente proprio: la tensione estetica
nasce proprio dallo scarto incolmabile fra il concepibile e
l'inconcepibile, fra l'attività del controllo razionale e la passività della
voluptas. Au-delà de l'essence, parafrasando Lévinas, può essere
ospitato, ma soltanto nel rispetto della sacralità dell'ospite, che
impone la meraviglia al cospetto della sua alterità di straniero;
meraviglia che nei successivi lavori di Levinas si andrà sempre più
drammatizzando, fino a diventare inquietudine, ossessione,
sostituzione. Musicista è chi sa contenere più di quanto può
contenere. L'angoscia di Agostino di fronte alla seduzione della
sensualità del suono è l'ossessione per l'Ineinandersein, il noi della
Paarung originaria di Husserl, l'inquietudine del Medesimo per
l'invasione dell'Altro; seduzione, sensualità, ossessione e
inquietudine che avvertiamo più o meno chiaramente come relazione
intercorporea.
In questo radicare la materialità semiotica nell'ileticità del
corpo proprio, la filosofia della musica si riscatta da un passato di
subordinazione, così come riscatta la musica dal sospetto e
dall'imbarazzo che l'ineffabile suscita in una cultura logocentrica. Il
genitivo di "filosofia della musica", finora genitivo oggettivo, pretesa
subordinazione fortunatamente inattuata della musica alla filosofia, si
trova oggi nelle condizioni di affermarsi anche come genitivo
soggettivo. L'esperienza musicale, se le viene garantita la possibilità
di manifestarsi al di fuori della copertura ideologica, può contribuire
a mostrare le chiusure di una metafisica dalla quale sentiamo il vivo
bisogno di liberarci. La materia della materialità semiotica non è più
la materia come caduta dello spirito o come prigione dell'anima.
L'esperienza musicale non è, infatti, esperienza di corpi vibranti, non
è esperienza del paesaggio sonoro degli indizi del mondo. Il musicale
nasce nella sospensione del mondo e dell'ontologia.
Ciò che udiamo è la tempesta che sibila nel camino, il rombo del motore
della Mercedes nella sua evidente diversità dalla Adler. Ciò che ci è più vicino non
sono le sensazioni, ma le cose stesse. In casa udiamo sbattere la porta, e non
udiamo mai sensazioni acustiche o anche semplici rumori. Per poter udire un
semplice rumore dobbiamo non udire le cose, distogliere da loro il nostro orecchio,
cioè ascoltare astrattamente." (Heidegger 1950: 11 - 12)

Ascoltare astrattamente è ascoltare musicalmente, o meglio, è


questo modo di ascolto che istituisce la musica. La materialità che si
manifesta come inadeguazione, eccedenza, resistenza al concetto, è
fondamentalmente un fenomeno semiotico, è resistenza dell'oggetto
(nel senso di Peirce) nei confronti dell'interpretante, disponibilità che
non si concede mai del tutto, preservando un residuo non
interpretato, garanzia per il mantenimento dell'apertura semiosica.
Non è più la materialità un attributo della cosalità, perché in senso
fenomenologico la materialità e più originaria. Questo
capovolgimento motiva in parte anche l'intricato radicarsi nel corpo
proprio di musicalità come tensione estetica, materialità e alterità.

2. Il corpo, il gesto, lo spazio.

La musica mette finalmente a tacere la parola. E' talmente


sicura della sua autonomia che può concedersi talvolta di dialogare
con essa, di collaborare o addirittura di farle da sfondo, ma sempre
all'interno del suo orizzonte. Se la parola è accolta, è perché è già
musicale, è, come ci avverte Platone, phtongos e prosodia,
intonazione e ritmo: il musicale della parola. Ma rispetto al suo
ordine, che è ordine del discorso e ontologia, la parola è sempre e
comunque messa a tacere dalla musica.
Fra musicisti che provano un quartetto di Beethoven, fra
direttore, solista e orchestra che provano un concerto, fra maestro e
allievi, accanto a una comunicazione musicale in senso stretto, quella
comunicazione che si attua ascoltandosi l'un l'altro ma anche
respirando insieme, si pratica una forma di comunicazione che si
potrebbe definire metamusicale. Si tratta di situazioni — la prova, la
lezione — in cui è consentito abbandonare la temporalità musicale
per il tempo della parola. La musica si nomina: il suggerimento, la
proposta, l'insegnamento, assumono anche la forma della parola, ma
si mantengono fondamentalmente estranei al suo ordine. La parola,
tendenzialmente proiettata fuori dalla sua sintassi, dalla sua logica,
dalla sua ontologia, si fa invito, comando, principalmente deissi.
Parola che non pretende di definire o spiegare, di ridurre a concetto,
ma semplicemente di indicare ciò che le è estraneo, ma che è
comunque presente come esperienza musicale, pratica performativa.
Ecco un'eccezione alla teoria secondo cui tutte le forme verbali sono
derivate rispetto al giudizio predicativo. Guai se "Secondi violini, più
piano" fosse interpretato come: "Io desidero che i secondi violini
suonino più piano". Offriremmo un pericoloso spiraglio all'invadenza
dell'io e dell'identità, del cogito e della coscienza. I violini devono
suonare più piano perché lo richiede la musica, alla quale in quel
momento il direttore, se ne è capace, se sa ascoltare, riesce a dar
voce. Partecipando a una prova si ha la chiara percezione della
solennità del momento in cui, messa a tacere la parola, si lascia che
la musica si produca. Se il ricorso alla parola è consentito, è
comunque considerato dai musicisti come una capitolazione, sintomo
di una incapacità di ascoltare musicalmente, che obbliga la musica a
ricorrere a mezzi impropri per farsi sentire. Se proprio si deve fare, si
faccia alla svelta, senza perdersi in chiacchiere.
Di tutt'altra considerazione gode il gesto. La sua necessità
non dipende da un difetto di ascolto, non mette a tacere la musica
perché la sua temporalità non è quella del concetto, non è un atto
linguistico metamusicale che pretende di impartire ordini alla musica
dal di fuori, o di darne ragione. Il gesto non comunica la musica ma
la produce: cantare e suonare uno strumento sono già in sé gesti. Nel
gesto la musica svela la sua natura di esperienza di un corpo vivente,
non racconta le vita dall'alto di un mondo di idee, perché è essa
stessa gesto come atto vitale, respiro. E il respiro musicale, più che
inerire a un corpo, è il corpo stesso non ancora coinvolto nella
struttura soggetto-predicato, sostanza-accidente. Se provoca
sentimenti e pensieri, è perché la musica è essa stessa atto di vita di
un corpo senziente e pensante. Se sviluppa strutture formali di
complessità spesso inaudita, si tratta comunque di strutture che
nascono musicali e non dimenticano che il loro impianto si radica nel
corpo e non nel suo concetto. In questo senso la musica è comunque
danza, purché si riesca a concepire l'inaudito di una danza che pensa
in un campo gravitazionale, in cui lo slancio dell'arsi e il
rilassamento della tesi non si lasciano espropriare della loro
intelligenza, della loro algebra, della loro topologia, del loro ordine.
Ma esaminiamo meglio la prima di queste osservazioni: il
gesto non gode presso i musicisti del discredito di cui gode la parola:
la parola, come detto, non è mai musicale — non ci si riferisce qui al
musicale della parola, ai toni e ai ritmi del dire — e quando pretende
di spiegare ai musicisti la pratica musicale si svela in tutta la sua
arroganza. Accettarla come indicazione significa accettare un atto di
nominazione discreto, rispettoso, che non uccide ciò che nomina
riducendolo ad astrazione. Ma riesce la parola, rimanendo confinata
nel suo ordine, ad indicare i processi concreti che si producono
nell'ordine musicale senza distendere il suo potere di
concettualizzazione all'interno della pratica musicale? Evidentemente
a questa domanda non si potrà rispondere in sede teorica, ma soltanto
verificando la resistenza della materia musicale, la sua eccedenza
come inadeguazione, che dipende poi dalla musicalità dei musicisti
situazionalmente coinvolti. Quello che ora ci interessa capire è la
fenomenologia del gesto: perché il gesto è più musicale della parola,
perché non suscita la stessa diffidenza fra i musicisti che non hanno
tempo da perdere? Finora abbiamo osservato di sfuggita che la
temporalità del gesto non è quella del concetto. Certo non possiamo
appiattire né elevare la parola al concetto. La parola che si consegna
nel detto, significato identico a sé, è certo dalla parte del concetto,
ma la parola si esprime anche nel dire, si può coniugare secondo la
grammatica dell'etica al di là dell'ontologia, nel senso platonico del
Bene al di là dell'Essere, luce che illumina la luce della verità. Può
essere parola letteraria, che sfugge la presa dell'identità. E poi la
parola è anche musicale, come ci ricorda ancora Platone: phtongos e
prosodia, voce e modulazione di una grana. E' chiaro, quindi, che qui
non si vuole crocifiggere la parola. Si hanno ben chiari i pericoli
delle suggestioni vitalistiche, che nel nostro discorso potrebbero
presentarsi sotto forma di opposizione retorica fra una temporalità
autentica, un fluire vitale, e una temporalità razionale inautentica. E'
che il gesto-corpo ha una vocazione musicale quasi incontaminata.
Al momento del distacco platonico dell'idea dalla physis, non segue
la secessione che si verifica nell'Essere. All'ingiunzione di schierarsi
oppone un "gran rifiuto". E continua a sottrarsi a tutti i progetti di
assimilazione rispetto alle successive forme che l'originaria
opposizione platonica andrà assumendo: anima/corpo,
essere/divenire, razionale/irrazionale, fenomeno/noumeno, res
cogitans/res extensa, soma/psiche. Rimarrà, di conseguenza, corpo
vivo rispetto all'opposizione corpo/anima, divenire che non divora i
suoi figli, rispetto all'opposizione divenire/essere, essere al mondo
rispetto all'opposizione interno/esterno. E dalla parte di un corpo che
non si è separato dalla vita dobbiamo aspettarci che non si sia
separato neanche dalla razionalità. Solo un corpo pensante sa
emozionarsi di fronte alle congetture di Hilbert, sa commuoversi al
cospetto della purezza della matematica "pura", nello stesso modo in
cui, come corpo che non si è lasciato ridurre a cosa, sa pensare i suoi
bisogni alimentari e la sua sessualità. Gli oggetti musicali si
manifestano — sia nel loro orizzonte interno, sia nel loro orizzonte
esterno — articolati in strutture che proliferano su se stesse secondo
procedure di ricorsione, di confronto, di concatenamento, di
sviluppo, ma che fondamentalmente si possono ridurre alle strutture
generative della matematica: strutture algebriche, di ordine e
topologiche. Queste strutture, che il pensiero matematico
assiomatizza, sono già presenti e operative nella percezione,
nell'abitudine e nei meccanismi sensorio-motori elementari.
L'identificazione della razionalità con la logica del giudizio
predicativo, della struttura S è P, ha bisogno di assegnare l'esperienza
musicale all'area dell'estatico, del sentimentale, per salvare il suo
impianto metafisico, ma la musica è una continua rivendicazione
della sua razionalità. Una razionalità che permette alle costruzioni
formali più ardite di una fuga di Bach di non dimenticare i
meccanismi oscuri della cinestesi non ha bisogno di liberarsi dal
peso del corpo per volare alto.
Il gesto non sarà mai un significato pieno, finché sarà
rivendicato da un corpo che non si lascia significare: come atto di
comunicazione non godrà, quindi, del privilegio della phonè. Non ci
si intende gesticolare così come ci si intende parlare: mentre in
questo intendersi, nella forma dell'ascoltarsi, la voce che mi risuona
all'interno è già per il mondo e può essere oggettivata, può perfino
manifestare la sua alterità nel tempo esteriore dell'eco, il gesto, pur
estraneo a qualsiasi interiorità, non lascerà mai la presa del corpo che
lo trattiene a sé. Il gesto respira con il corpo, lo stesso respiro, anzi, è
già gesto. Il corpo vivente è un corpo gesticolante, non nel senso in
cui diremmo che gli accade di gesticolare, ma in un senso che
identifica il gesto con la vita stessa. Il gesto è così il corpo nelle sue
funzioni vitali, corpo polimorfo e ambivalente che non conosce
ancora l'individuazione di un principio unificatore — anima, psiche,
io — che ne permetta la tematizzazione. Achille non è una coscienza
che possiede e in qualche modo controlla un corpo, che a sua volta è
fornito di membra per utilizzare le cose del mondo: non c'è ancora in
Omero né coscienza, né corpo; l'essere al mondo si mantiene là dove
si esplica, nella mano che afferra, nella voce che parla, nel piè veloce
che corre. Achille, così, non è mai qualcos'altro che si serve di
membra per vivere, ma la vita stessa delle membra. Solo
nell'immobilità della morte il corpo — che in vita era gesto, membra
mai completamente identificate in una totalità o totalizzate in
un'identificazione — acquista la sua unità di oggetto del mondo,
esperibile per ognuno come intero, oggetto fra gli oggetti, soma,
cadavere. Il gesto può accarezzare o uccidere, ma soltanto ciò che è a
portata di mano in carne e ossa. "Accarezzare un'idea" acquista la sua
tensione di metafora per uno scarto incolmabile fra la fissità
dell'idea, non generata e incorruttibile, sempre identica a sé, e
l'irreversibilità del gesto. Il gesto è consumo, non può essere ripetuto
perché non è, come l'idea, identico a sé, si gioca sempre di nuovo. La
sua temporalità non concede repliche: ecco il senso della sua
musicalità, che si può dire anche gestualità della musica. Ed ecco
perché il compositore che scrive partiture non scrive musica: finché
può cancellare, correggere, riscrivere, fermarsi a pensare, il suo
tempo non è quello che la musica temporalizza. Il gesto è consumo:
ecco perché non si può mai parlare propriamente di linguaggio del
corpo. Certo alcuni gesti possono essere codificati, ma si tratta
comunque di funzioni segniche isolate: proprio perché irreversibilità
e consumo, il gesto si sottrae a quella identità nella ripetizione che lo
ridurrebbe a valore di articolazione di un sistema posizionale-
opposizionale, di una sintassi, di un sistema dell'espressione.
Sottraendosi alla riduzione a valore, nessuna filosofia del neutro o
dell'equivalente generale riuscirà ad impossessarsene. "Il corpo è una
continua contestazione del privilegio, attribuito alla coscienza, di
'dare senso' ad ogni cosa." (Levinas 1961: 130)
Il movimento gestuale, quindi, non si costruisce prima sul
piano dell'espressione per designare poi unità di contenuto, non si
temporalizza in disparte per decostruirsi in una temporalità non
conforme. Lo stesso deittico in nessun senso "significa" ciò che
indica, se non nella testimonianza della non mondanità del corpo
proprio. Nell'indicazione esso si mostra come non significante e non
significato, ma, come "qui assoluto", "punto zero", condizione di
possibilità di ogni spazialità esistenziale. Il corpo che si è sottratto
all'ingiunzione dell'ontologia di separarsi dalla sua anima, dalla sua
intelligenza, non è interpretabile, non riceve senso da alcun codice
perché è in esso che ogni senso si genera proiettandosi su un mondo
aperto dal linguaggio. E' alterità assoluta, anteriore a qualsiasi
riconoscimento. Non può esserci una grammatica del gesto perché il
movimento del corpo è il presupposto di ogni scrittura, di ogni
modellazione, di ogni grammatica, e solo in conseguenza di ciò, di
ogni comunicazione. Il corpo è il crocevia delle grammatiche di tutte
le ontologie regionali, è la sua materialità quell'operatore di scambio
che permette lo slittamento dell'inadeguazione fra interpretato e
interpretante grazie al quale gli universi del discorso trovano la
possibilità di intaccare le loro chiusure.
Innegabilmente il gesto è espressivo, ma questa constatazione
non è sufficiente per postulare un linguaggio del corpo. Vedere un
linguaggio in tutti i casi in cui si osserva comunicazione significa
perdere l'essenza del linguaggio, che è innanzi tutto assunzione del
reale, procedura di modellazione della specie homo sapiens sapiens,
nella quale l'uomo è già sempre collocato senza possibilità di scelta.
Analizzando i tentativi di scoprire nel gesto una grammatica
nascosta, si intravede soltanto il pallido configurarsi di un abbozzo di
articolazione che perde sul nascere il suo slancio: il gesto è troppo
pesante per cancellarsi in un sistema astratto di posizioni vuote cui
solo la leggerezza del gramma e della voce riescono ad adeguarsi. La
voce è il significante più prossimo, si confonde quasi col corpo entro
la cui cavità risuona, ma non è il corpo. Il gesto, al contrario, è il
corpo stesso: né interno, né esterno perché non conosce ancora —
forse perché si rifiuta di conoscere — né l'ontologia, né quella
ontologia dei poveri che è il senso comune.
Scoprire nel gesto una grammatica nascosta, ovvero assumere
la gestualità e il corpo come struttura linguistica: di questo progetto
ci sembra il caso di esaminare brevemente uno degli esempi più
interessanti. David Efron (Efron 1941, trad. it 1974) si propone in
realtà con la sua ricerca di smantellare le tesi dei teorici nazisti
secondo le quali le tipologie del gesto si fonderebbero sull'eredità
razziale. L'interesse maggiore del lavoro di Efron, comunque, non
consiste tanto nella dimostrazione della insostenibilità delle tesi
contestate, tesi che per la loro grossolanità si smentiscono da sole,
quanto nella elaborazione di un metodo di ricerca, ed è questo il
punto che attira il nostro interesse in questa sede. Efron ha un'ipotesi
da dimostrare: le differenze di comportamento gestuale non sono
determinate da fattori biologici — "razziali" secondo i teorici nazisti
— ma dall'ambiente socioculturale. A tal fine elabora un metodo che
gli permette di confrontare, sia all'interno della comunità ebraica, sia
di quella degli Italiani meridionali di New York, il comportamento
gestuale degli immigrati "tradizionali", con quello degli "assimilati".
Perché il confronto produca dei risultati rigorosamente misurabili,
accanto agli aspetti qualitativi come il "giudizio di osservatori non
sofisticati" e "l'osservazione diretta", il metodo esige la
segmentazione della continuità del gesto in unità di articolazione. Si
analizzano circa millecinquecento metri di filmati

studiati in base [...] a grafici e tabelle, unitamente alla misurazione e tabulazione


degli stessi.
I grafici sono stati ottenuti nel modo seguente: ciascun film, ripreso a velocità che
variavano da sedici a sessantaquattro fotogrammi al secondo, veniva proiettato,
fotogramma dopo fotogramma, su carta millimetrata. La posizione delle parti
mobili del corpo, come il polso, il gomito o la testa, veniva contrassegnata per ogni
fotogramma successivamente proiettato. Prese insieme, queste posizioni
sequenziali fornivano una precisa rappresentazione dell'effettivo movimento
gestuale. (ivi: 84)

Lo studio delle curve così ottenute, insieme alle risposte ottenute


attraverso l'osservazione qualitativa — "osservazione diretta" —
viene quindi sottoposto a ulteriore analisi.

I gesti di ciascun gruppo saranno considerati separatamente da un duplice


punto di vista: (a) prima con riferimento ai loro aspetti spazio-temporali, vale a
dire considerando il gesto semplicemente come "movimento"; (b) poi dal punto di
vista dei loro aspetti referenziali, considerando cioè il gesto come "linguaggio".
(ivi: 86).

Le articolazioni del sistema sembrano identificarsi con le


articolazioni — "parti mobili", come le chiama Efron — del corpo. E'
la marcatura di questi punti di articolazione che permette l'iscrizione
del foto-gramma come dia-gramma. Ma proprio questa
identificazione fra spazio esistenziale del corpo vivente e spazio di
iscrizione della differenza, impedisce a quest'ultimo di isolarsi come
sistema formale di posizioni vuote. L'articolazione linguistica,
aderendo senza scarto all'articolazione fisiologica, non riesce più a
liberarsi dall'ambiguità e dall'ambivalenza del corpo, che rimane
presente nel gesto con tutto il peso della sua alterità. Certo,
l'operazione riuscirebbe se fosse possibile, nel dispiegamento
assoluto dei poteri sul corpo, sostituire al corpo il suo valore astratto,
il suo concetto. Ma è proprio questo il punto critico: laddove questa
neutralizzazione fosse completamente attuata, tutto sarebbe
intercambiabile e assorbito senza resistenza dall'economia
dell'alienazione, secondo l'alternarsi disgiuntivo dell'economia
politica, dall'economia della salvezza, dall'economia erotica,
dell'economia della pena. Il gesto musicale si ridurrebbe
sdoppiandosi in strumento tecnico di produzione e strumento tecnico
di comunicazione.
Efron è consapevole del fatto che il paradigma comunicativo
non esaurisce assolutamente il movimento infinito della
significazione e, nonostante il suo progetto metodologico sia
principalmente finalizzato a un confronto di dati (fra "tradizionali" e
"assimilati") che richiede necessariamente un modello quantitativo,
non è disposto a confondere il metodo con l'esperienza vissuta.
Sebbene la gestualità di cui egli si occupa è studiata in un contesto
conversazionale, le osservazioni di Efron possono aiutarci ad
inquadrare anche la fenomenologia del gesto musicale.

Un movimento gestuale può essere "significativo" in virtù (a) dell'enfasi che dà al


contenuto del processo verbale e vocale che accompagna e (b) della connotazione
(deittica, pittorica o simbolica) che possiede indipendentemente dal linguaggio
parlato, di cui può essere o non essere un aggiunto. Nel primo caso il suo
"significato" ha carattere logico o discorsivo, essendo il movimento, per così dire,
una sorta di rappresentazione non dell'oggetto di referenza o del "pensiero", ma
dell'andamento dello stesso processo ideazionale, in altre parole una
reinterpretazione corporale delle pause logiche, delle intensità, delle inflessioni
ecc., della corrispondente sequenza verbale. (ivi: 119).

L'indipendenza del gesto dalla parola come reinterpretazione


corporale dell'esperienza, comporta un recupero della stessa
esperienza su basi non metafisiche. Pensiero e significato, come
esperienze che non si fondano più sulla cancellazione del corpo,
assumono un senso nuovo, non possono che scriversi fra virgolette
come "pensiero" e "significato". Ciò che Efron avverte è
l'inadeguatezza della lingua, che non può essere assunta come se
fosse filosoficamente neutra. Non disponiamo che di una lingua
inadeguata e tendenziosa, che ci costringe a parlare con riserva. In
questo senso le virgolette di Efron richiamano la barratura, la
kreuzweise Durchstreichung, che Heidegger appone sulla parola
essere in Zur Seinsfrage, cancellazione che non ne impedisce la
lettura. Le cautele di Efron — questo giustifica lo spazio che gli
abbiamo dedicato — saranno per lo più ignorate in seguito, nella
istituzionalizzazione della cinesica, sempre più orientata alla
definizione di un codice gestuale, che prende corpo principalmente
con l'opera di Ray Birdwhistell, ispirata alla linguistica americana.
Il gesto musicale, nella riduzione della significazione a
comunicazione, diventa uno strumento tecnico. L'azione di soffiare
in un trombone, pizzicare le corde di un'arpa o percuotere la pelle di
un timpano si chiamerebbe "gesto" solo per un fortuito caso di
omonimia con il gesto del direttore d'orchestra o con il gesto
direttoriale del solista: la prima azione finalizzata alla produzione, la
seconda alla comunicazione. In alternativa, si chiamano entrambe
"gesto" perché entrambe movimenti di un corpo-strumento; non
gesto musicale, comunque, ma gesto al servizio della musica. E'
questo lo scenario in cui si rappresenta la resa del gesto vivo al suo
equivalente generale. La tecnica del gesto, come tecnica direttoriale e
tecnica strumentale, è così funzionale alla sottomissione servile del
corpo all'idea, della materia allo spirito. Lo studio tecnico, se non
evoca la ridicola immagine dell'aspirante direttore che si innamora
del suo gesto davanti allo specchio, diventa per il concertista una
sorta di autoflagellazione, un cilicio che si adotta per piegare
l'oscurità del corpo alla luce dello spirito. Risultati? Straordinari
nell'economia della mortificazione della carne, ovvero,
assolutamente antimusicali. La musica non può essere solo
elevazione, è necessario che allo slancio verso il cielo segua una
ricaduta verso la terra. La musica non può appartenere a un pensiero
che si è liberato dal corpo assimilando a sé tutto il razionale. Per
questo il pensiero metafisico è essenzialmente antimusicale, come
antimusicale è qualsiasi discorso che cerca di descrivere la pratica
musicale senza cautelarsi criticamente dall'uso ingenuo di parole-
trappola come "tecnica", "mente", "corpo".

Così come la tecnica dell'esecuzione in orchestra è subordinata alla


rappresentazione mentale dell'immagine sonora che si desidera produrre, e questa è
colei che dà forma al suono e regola la maniera di portare l'archetto negli strumenti
a corda o la maniera d'attaccare il suono negli strumenti a fiato, [...] nello stesso
modo si colloca, anche, l'immagine ideale della rappresentazione mentale
dell'opera al di sopra del corpo, come norma che regge i suoi movimenti e genera il
gesto, anziché essere questo ad influire sulla musica. (Scherchen 1981: 37)

Per sua fortuna Scherchen non seguiva sempre i suoi consigli:


se avesse veramente collocato "l'immagine ideale della
rappresentazione mentale dell'opera al di sopra del corpo", avremmo
perso un grande direttore e guadagnato, forse, un musicologo.

3. Musica e ospitalità
[...]

III. Musica come scrittura

1. Il testo
Diastema: se seguiamo l'indicazione di prestare ascolto alla
parola greca, di lasciare che essa sia messa nelle condizioni di
esprimersi da sé, scopriamo che la prima operazione da compiere è
quella di ritirare la fiducia nella sua traduzione corrente: intervallo.
Traduzione, questa, tanto più inadeguata, quanto più le si associa un
numero, trasformando così l'intervallo in valore numerico di una
distanza e trasformando una parola che potrebbe aprire un orizzonte
sulla fenomenologia della musica in un termine tecnico.
Fondamentalmente la caduta di senso che la traduzione comporta si
manifesta nella sua aderenza alla concezione della musica come arte
dei suoni. La definizione di una distanza presuppone infatti un
insieme di oggetti, ma nulla ci dice sulla sua funzione di entrata, né
sul processo di oggettivazione. Diastema, al contrario, se accostata
senza questo pregiudizio, ci fa assistere alla nascita stessa della
musica, a quell'istante in cui il suono si offre all'ascolto opponendosi
al rumore. Istemi significa collocare, porre, anche nel senso di
stabilire istituendo. Dia significa separazione, ma solo
secondariamente come distanziamento di ciò che è già separato, che
è già pluralità di oggetti, nel nostro caso pluralità di suoni. Innanzi
tutto ci richiama alla rottura di una unità. Il carattere di attività cui
questi sensi rinviano ci suggerisce allora di interrogare a questo
punto il verbo, che svela così il suo significato di azione che
istituisce la differenza. Diistemi significa istituire la differenza
producendo il differire. Così, passando per Aristosseno, la parola
greca ci conduce per mano fin dentro i problemi più attuali, là dove
l'intrigo fra semiotica, filosofia del linguaggio e ontologia si fa più
denso. Gli oggetti della musica non sono quindi note che si offrono
alla misurazione di una distanza, note che producono intervalli, ma
intervalli che producono note, se per intervallo intendiamo differenza
(dia) istituita (istemi). Il riferimento a quest'ultimo senso ci permette
ora di procedere oltre l'ambito del sistema delle altezze, cui la
nozione di diastema è storicamente riferita: possiamo così, seguendo
Aristotele, estendere il significato della parola in direzione del suo
senso di ratio, rapporto. Questo ci permette di considerare la
temporalità della musica come articolazione temporale, rapporto di
durate1. Anche in questo caso diistemi mantiene il senso dell'azione
che istituisce. L'istituito è ancora la differenza, questa volta
all'interno di un orizzonte temporale. Longa significa così, in termini
di ratio, null'altro che un multiplo di brevis, come, più tardi,
semiminima non significherà altro che metà minima.
Lo spazio diastematico, come luogo della differenza è quindi
immediatamente sistema in cui ogni elemento è istituito
esclusivamente dall'insieme degli altri elementi che ne localizzano la
posizione circoscrivendolo come differenza. Il segno si definisce così
come traccia iscritta dagli altri segni del sistema. Ma alla differenza
inscritta nello spazio della scrittura-iscrizione si accompagna una
differenza temporale della scrittura-lettura che è differimento. Questo
è l'insieme di scarti spaziali e ritardi temporali, che da sempre
impedisce al segno di cancellarsi in una presenza, differendo così il
progetto stesso dell'ontologia; è la différance di Derrida: il differire
come discernibilità, distinzione, scarto, spaziamento, e il differire
come ritardo, proroga, riserva, temporeggiamento. Solo su questi
presupposti possiamo dire che la musica è arte dei suoni. Il suono
non è più, infatti, un rumore particolarmente gradevole o fornito di
qualche senso di artisticità: è l'istituito dal diastema. La musica è, in
questo senso, scrittura, indipendentemente dall'evento della sua

1
anche se questo rapporto non esaurisce la temporalità musicale. Cambiando il
metronomo i rapporti rimangono immutati ma la musica non è più la stessa. Lo
stesso problema si pone per le altezze. Nel trasporto è però evidente che cambia il
timbro: nella variazione di metronomo che cosa cambia? Innanzi tutto il rapporto
con la temporalità del corpo, che mantiene i suoi ritmi, e rispetto al quale gli altri
ritmi si confrontano.
visibilità su una superficie di iscrizione; indissolubilmente scrittura
dello spazio e del tempo, differenza e differimento.
Allo stesso risultato giungiamo partendo da un'altra parola
greca, altrettanto importante per la sua centralità teorica: harmonia. I
suoi percorsi di significazione richiamano le azioni di congiungere,
connettere, adattare e quindi scendere a patti, definire e stipulare
una convenzione; il suo significato più antico nell'ambito della
pratica musicale ci rimanda all'atto di accordare uno strumento a
corda. Harmozo significa quindi adattare la tensione delle corde a
qualcosa rispetto a cui si viene a patti stipulando una convenzione, o
rispetto a cui ci si con-forma:

Disse e coi neri sopraccigli il Cronide accennò


e l'armi ad Ettore adottò sopra il corpo
(Iliade 17, 19-20)

Al tempo stesso significa un adattamento reciproco, una


convenzione che le corde stabiliscono fra loro:

Traforò tutti i tronchi e li congiunse l'uno con l'altro


(Odissea 5, 247)

Non è forse un caso che la tradizione attribuisca a Laso di


Ermione — citarodo chiamato ad Atene da Ipparco nel 520 a. C.
circa — l'introduzione di nuove accordature della cetra. Laso è infatti
l'autore del primo frammento2 in cui compare la parola harmonia:
"harmonia eolica dal grave suono". La pratica tecnica
dell'accordatura è nominata, si presenta già in qualche relazione con
la struttura formale del diastema all'interno dell'ottava, le è attribuito
il suo ethos.

2
Poetae melici Graeci, ed. D. L. Page, Claredon Press, Oxford 1962 (1965), fr.
702.
L'adattamento reciproco della tensione delle corde,
accordatura-accordo, è richiesto perché ci sia conformità, ma ciò
rispetto a cui ci si conforma è l'orizzonte esterno del suono, quel
campo vettoriale di tensioni armoniche rispetto al quale il suono si
presenta in primo piano come oggetto localizzato di un ascolto che
ha sospeso l'ontologia. Ora, nulla, se non una ontologia che mostra
ormai la sua chiusura, ci autorizza a dichiarare più originario un
orizzonte rispetto a una pratica, né a ritenere che una pratica
istituisca e apra un orizzonte. Il problema della priorità, della ricerca
del "più originario" fra la pratica significante dell'accordatura e la
struttura formale significata dello spazio diastematico semplicemente
non può porsi se non nell'irriducibilità fra signans e signatum, nella
metafisica del merum signum e del primum signatum. Ma proprio
questo la pratica musicale mostra con più evidenza di qualsiasi altra
pratica significante: signans e signatum sono entrambi provvisori; il
primum signatum è già secondo.
L'ultima parola che ci mostrerà ancor più da vicino l'essenza
scritturale della musica è proprio la parola scrittura, che
assumeremo, però, nei suoi significati più antichi. Grapho significa
in generale scrivere soltanto in senso metonimico. Nella sua radice
indo-europea gerph significa innanzi tutto incidere, raschiare,
intaccare. Evidentemente una superficie non è scritta finché non è
intaccata, finché la sua uniformità in cui nulla si oppone a nulla non è
signata. Non è neanche uno spazio nel senso greco del termine,
perché nulla vi ha luogo. Se ora esaminiamo la tacca incisa sulla
superficie della canna, ci accorgiamo che anch'essa è strettamente
implicata con l'harmonia. L'incisione delle tacche, atto di scrittura
per eccellenza, si produrrebbe infatti per realizzare un'harmonia, per
portare nel mondo sensibile una struttura formale che come sintassi
astratta è forma intelligibile. Anche in questo caso, naturalmente,
potremmo riproporci il problema in termini di signans e signatum,
ovvero il problema dell'originario e del differito: è più originario il
gesto di scrittura-incisione, il graphein che produce i fori dell'aulos o
il modello astratto, la struttura formale a cui il gesto si riferisce?
Naturalmente la risposta non può che contestare di nuovo i termini
della domanda: signans e signatum sono entrambi provvisori là dove
si sospende l'ontologia, e la musica nasce nella dimensione
dell'ascolto solo quando l'ascolto sospende la domanda ontologica.
Con la separazione del sopra-sensibile, le pratiche musicali,
l'accordatura della cetra come l'incisione dei fori dell'aulòs, possono
essere assunte alla dignità della tematizzazione solo se assorbite e
dissolte in quell'equivalente universale che è l'harmonia, struttura
formale dell'intelligenza non soggetta a corruzione e, principalmente,
priva di corpo, grana, materialità e ambiguità. Ma la musica,
sospendendo la domanda ontologica, ne sospende anche la tesi. Il
problema del rapporto fra il gesto di incisione-scrittura e la struttura
formale cui il gesto si ispirerebbe come a modello, si pone per restare
insolubile soltanto in conseguenza della istituzione del dualismo
ontologico. Porre l'autonomia dell'anima, del razionale e del
soprasensibile comporta una inevitabile degradazione del corpo e
della sensibilità, significa sottrarre al corpo la sua intelligenza per
collocarla altrove e gettare la sensibilità in balia del mondo. Ma
nell'ordine del ritmo, che è l'ordine della musica, il corpo che si
muove iscrivendo forme nello spazio mostra che l'intelligenza di
queste forme gli appartiene.

2. Composizione e interpretazione
La scrittura musicale occidentale sembra nascere come
mnemotecnica, o, almeno, questo ci racconta la Storia: tecnica al
servizio della memoria; memoria al servizio della pratica musicale,
pratica musicale al servizio dell'anima, affinché, "purgata atque
exonerata, revolet ad quietem, et intret in gaudium Domini sui" (De
Musica 6, 14, 43). Che dei monaci abbiano sentito il bisogno di
inventare un sistema di tracce iscritte per ricordare il canto liturgico
sembra un evento talmente ovvio, che quasi ci chiediamo come mai
non ci avessero pensato prima. Evidentemente le nozioni di tecnica,
scrittura e memoria non sono affatto ovvie, come non sono ovvie le
relazioni che fra esse si instaurano. Tecnica e scrittura appartengono
entrambe all'ordine dell'esteriorità, del differimento e
dell'inautentico. Sono sempre tecnica e scrittura di qualcosa che è in
sé, in un movimento di subordinazione e di autocancellazione del
segno che possono però anche pericolosamente disattendere. Ciò che
le rende sospette è la loro inaffidabilità; entrambe pericolose perché
possono prenderci la mano, acquistare autonomia, sfuggire al nostro
controllo. I computer sfuggono al loro pro-gramma instaurando, nel
moderno mito fantascientifico, la dittatura delle macchine. Ma la
scrittura a quale controllo tende a sottrarsi? Che cosa esercita il
controllo sulla scrittura affinché essa rimanga al suo posto, strumento
al servizio della comunicazione? Una scrittura affidabile e sotto
controllo è una scrittura ai cui grafemi corrisponde univocamente un
significato, alle dipendenze del quale presta servizio. Il significato è
l'esito non patologico della scrittura perché non appartiene all'ordine
sensibile dell'opinione, ma ha la natura universale dell'intelligibile,
dell'identico a sé. Una scrittura sotto controllo è, quindi, una scrittura
fornita di codice, strumento giuridico che ne prescrive la mansione
servile: l'interpretazione univoca. La sua grammatica è la grammatica
dell'Essere e dell'ontologia; è l'ontologia. Ma l'interpretazione
univoca è anche l'organo della memoria. Come la scrittura e la
tecnica, servi indocili e pericolosi, anche il ricordo, che affiora senza
essere stato richiamato, che si ripresenta di sua iniziativa
provocandomi, al di là della mia volontà di ricordare, anche il
ricordo va posto sotto controllo, neutralizzando il suo disordine
anarchico nell'ordine della memoria. Lo spazio del ricordo è, come lo
spazio della scrittura, acentrato. La sua metrica e la sua topologia
non permettono l'installarsi di un punto di vista che lo domini e lo
sottometta ad un unico sguardo. Il suo ordine è incompatibile con
l'ordine dell'identità. La memoria, invece, è la bandiera, le radici,
l'identità. Il suo organo è la narrazione che rispetta l'ordine del
discorso, ordine sequenziale di un progetto finalizzato alla
riconferma del medesimo, che si conferma così come
autocelebrazione del sopravvissuto. Anche i segni della memoria
sono univocamente codificati: l'identità della memoria garantisce
l'identità dell'individuo e della società.
La scrittura come mnemotecnica nasce per definire l'identità
del canto liturgico: identità del testo che garantisca l'identità
dell'interpretazione. Ciò che il canto esprime deve essere definito nel
segno del potere dell'istituzione religiosa: la sua semiotica è, quindi,
la semiotica del potere, la semiotica del codice. Il segno, identico a
se stesso senza eccedenza è giuridicamente legato a un significato sul
quale il potere esercita il suo dominio attraverso il monolinguismo e
l'univocità.
Ma la nozione di scrittura come tecnica della memoria
nasconde contraddizioni insanabili. Innanzi tutto la nozione di
tecnica non può chiarire la nozione di scrittura senza porre più
problemi di quanti possa risolvere. La scrittura non è, infatti, una
specie del genere "tecnica", e neanche la presuppone perché, come
istituzione della differenza e del differimento, mette in crisi le stesse
condizioni di possibilità dell'opposizione tecnica/scienza. La
memoria, quindi, come progetto di identificazione, non potrà mai
adeguare a sé la scrittura che è inadeguazione ed eccedenza,
eversione che nessun potere riesce a riportare completamente
all'ordine dell'identità. L'aveva perfettamente compreso Platone: in
assenza del padre non è in grado di mantenere la retta via. Lo
sapevano perfettamente gli uomini del potere religioso. Se per
l'identificazione del significato la semiotica del codice non è
sufficientemente adeguata a fronteggiare l'eversione della scrittura, si
interviene sulla scrittura stessa. La preghiera diventa liturgia, al
fedele è consentita soltanto l'adesione per ripetizione in una lingua
che non gli è concesso comprendere: l'incomprensione rafforza così
l'esproprio dell'interpretazione, nel tentativo di garantire il sistema
dai limiti del potere del codice.
L'epicentro della strategia di controllo semiotico si può così
collocare nella nozione di significato. Il suo luogo è il soprasensibile
che, immune dal divenire, appartiene all'ordine dell'Essere,
dell'identico a sé. E' concetto, idea, cosa del pensiero, e rispetto al
pensiero non presenta alcuna resistenza, eccedenza, materialità,
alterità irriducibile. E' il riposo definitivo del segno: per modum
concipientis concipitur.

Questo modo di privare l'essere conosciuto della sua alterità può attuarsi
solo se è intenzionato attraverso un terzo termine - termine neutro - che a sua volta
non è un essere. In esso finirebbe con l'attutirsi lo choc dell'incontro tra il
Medesimo e l'Altro. Questo terzo termine può apparire come concetto pensato.
(Levinas 1961: 40)

Ridurre all'ordine del Medesimo l'interpretazione attraverso la


mediazione del termine neutro riproduce la stessa dinamica della
riduzione dei prodotti, e dell'uomo stesso, a merce, attraverso la
mediazione dell'equivalente generale nel modello marxiano. Il
significato, per unificare e riportare all'ordine le differenze, per
contrastare la forza centrifuga dell'interpretazione, è necessario che
sia un'astrazione. E' la stessa necessità che esige dall'equivalente
generale delle merci, il denaro, che non sia esso stesso una merce,
che sia un valore.
Il pensiero moderno ha trasferito l'idea, il neutro,
l'equivalente generale, all'interno della coscienza. Il cogito cartesiano
è ora il luogo di rivelazione dell'ente, luogo della verità: la
determinazione epocale del senso dell'essere come presenza si
definisce come presenza a sé del pensiero, coscienza come identità. Il
pensiero come coscienza del medesimo sarà quindi lo spazio del
significato, il luogo di residenza in cui il significato della scrittura si
determina definitivamente, il limite raggiunto il quale il movimento
dell'interpretazione si arresta. Il significato si riscatta dal significare,
non è soltanto un processo intellettuale, ma si identifica
completamente come cosa del pensiero. Nel significato il processo
della significazione si oggettiva, il sostantivo si sostituisce al verbo
al fine di arrestare un movimento tendenzialmente eversivo e
inarrestabile. Si ricostituisce così nella coscienza il termine neutro
che permette l'identificazione, la reductio ad unum degli infiniti
processi interpretativi sotto il segno di un equivalente generale. "Il
pensiero dell'autore", che nella sua variante etico-giuridica si
presenta come "la volontà dell'autore", è la moneta che permette lo
scambio nel mercato delle esecuzioni. Come equivalente generale è
necessario che esso non sia a sua volta un'esecuzione, come ad
esempio potrebbe essere un'esecuzione di riferimento, ma un valore,
e a ciò si presta la sua definizione in termini di pensiero o volontà.
Nella semiotica del codice applicata all'interpretazione
musicale i teoremi si legano fra loro per un'intima necessità
sistematica, per cui sostenere una posizione implica la necessità di
sostenere l'intero sistema. Se il pensiero/volontà dell'autore è
l'epicentro della semiotica della scrittura musicale, la questione si
riduce innanzi tutto a un problema di viabilità: in che modo ciò che è
nel pensiero-interiorità dell'autore riesce, transitando per la scrittura
ed eventualmente per l'nteriorità di un interprete, a raggiungere
l'interiorità dell'ascoltatore per installarsi nel suo pensiero. Ma in
questo percorso che attraversa ripetutamente interni ed esterni, questi
ultimi, per rilasciare il loro lasciapassare, ci pongono un secondo
problema: esigono che si compia un processo di transustanzazione, di
materializzazione. Come risulta chiaramente, ci troviamo implicati
nella più classica delle metafisiche. Non ci meraviglieremo, pertanto,
se persino Strawinsky, che negando significato extramusicale alla
musica sembra orientato in direzione delle estetiche dell'opera, sia
poi costretto ad esprimersi in termini aristotelici per sostenere il
primato dell'autore sull'opera:

Bisogna distinguere due momenti, o meglio due condizioni della musica:


la musica in potenza e la musica in atto. Fissata sulla carta o trattenuta dalla
memoria, essa preesiste alla sua esecuzione, in ciò diversa da tutte le altre arti,
dalle quali si distingue anche, come abbiamo visto, per le modalità che presiedono
alla sua percezione.
L'entità musicale presenta quindi questa strana singolarità di assumere due
aspetti, di esistere alternativamente sotto due forme distinte, separate l'una
dall'altra dal silenzio del nulla. (Strawinsky 1942: 107)

La scrittura qui non è più tecnica al servizio della memoria,


perché la musica non è più, come il canto liturgico, qualcosa da
raccogliere e trascrivere per ricordare, ma qualcosa da comporre.
Auctor non è più Isidoro di Siviglia o Pier Lombardo, ma il
compositore che persegue l'individuale. La traccia grafica e la traccia
mnemonica sono quindi sullo stesso piano, segni di una realtà
intelligibile che dimora in una coscienza. D'altro canto, per poter
"assumere due aspetti" ed "esistere alternativamente sotto due forme
distinte", la musica dovrà necessariamente avere una natura diversa
sia rispetto agli "aspetti", sia rispetto alle "forme distinte" che
assume. E' un motivo antico, lo stesso che porta Platone a sostenere
che la caninità, il concetto, non può essere un cane, e Marx — sarà il
caso di ripeterlo — che il valore della merce non può essere una
merce. A questo punto, poiché ciò che più ci interessa sono i limiti di
tenuta dell'intero sistema — la nostra domanda di fondo è sempre:
"quale semiotica per la musica?" — ci conviene continuare a
soffermarci sullo stesso testo di Strawinskij, anzicché raccogliere
citazioni necessariamente isolate dal contesto:

Resta inteso che l'esecutore si trova innanzi una musica scritta, in cui la
volontà dell'autore è esplicita e risalta da un testo correttamente stabilito. (ivi: 109)

Strawinsky, però, non è un professore di semiotica, né un


musicus medioevale, ma semplicemente uno dei maggiori
compositori del Novecento. Sa bene, non ostante la sua adesione ad
una concezione referenzialistica della scrittura musicale, che una
partitura non si può semplicemente "eseguire", così come sa che una
partitura può avere un infinito numero di ottime esecuzioni che non
potrebbero mai essere identiche. E queste si presentano
autorevolmente come un'eclatante eccedenza rispetto
all'identificazione del significato, che, mentre presso il grande
pubblico costituisce l'implicito fondamento dello star system e della
mitologia di primedonne e maghi della bacchetta, nessun musicista
penserebbe mai di contestare. Ma se l'eccedenza semiotica non si può
negare, non si può neanche integrare nello schema teorico fondato su
emittente, messaggio, codice e destinatario. L'eccedenza impone,
infatti, come non patologica, non contingente e non accessoria
l'istanza dell'inadeguatezza come materialità semiotica, materialismo
dell'alterità: istanza anarchica che manderebbe in frantumi lo
strumento giuridico-repressivo del codice.
La denuncia della cattiva interpretazione, genere letterario nel
quale purtroppo tutti i compositori sono stati costretti a cimentarsi,
può così risultare interessante tutt'al più a una lettura storica o
psicologica, ma cade facilmente nel retorico per mancanza di basi
teoriche.

Il peccato contro lo spirito dell'opera comincia sempre con un peccato


contro la lettera e conduce a quagli eterni procedimenti che una lettura di pessimo
gusto e sempre fiorente si affanna ad autorizzare. [...] Si sottilizza sul superfluo, si
ricerca con delicatezza il piano, piano pianissimo; ci si vanta di ottenere la
perfezione nei colori inutili, cura, codesta, che in genere va di pari passo con un
movimento inesatto...
Usanze care agli spiriti superficiali, sempre avidi e sempre soddisfatti d'un
successo immediato e facile che sollecita la vanità di colui che l'ottiene e
pervertisce il gusto di coloro che l'applaudono. Quante fruttuose carriere si sono
fondate su simili consuetudini! (ivi: 110)

C'è da chiedersi se è il caso di andare ad ascoltare le Norton


Lectures per sentire da uno dei maggiori musicisti dell'Occidente che
il cattivo gusto è di cattivo gusto, che non bisogna sottilizzare sul
superfluo, che è meglio essere profondi che superficiali. E' evidente
che con questi strumenti teorici, di una cattiva interpretazione si può
dire soltanto che è una cattiva interpretazione. Strawinsky, infatti,
che come musicista ne percepisce benissimo i limiti, a questo punto
tenta di forzare la gabbia della semiotica del codice opponendo
interpretazione a esecuzione.

La nozione d'interpretazione sottintende i limiti che sono imposti


all'esecutore o che egli stesso s'impone nel compito di sua pertinenza, consistente
nel trasmettere la musica all'ascoltatore.
La nozione di esecuzione implica la rigorosa attuazione d'una volontà
esplicita, la quale si esaurisce in ciò che ordina.
Il conflitto fra questi due principi - esecuzione e interpretazione - è alla
radice di tutti gli errori, peccati e malintesi che s'interpongono fra l'opera e
l'ascoltatore, alterando la buona trasmissione del messaggio. (ivi: 108)

L'interprete è innanzi tutto un esecutore, ma è anche molto di


più. Ma proprio questo molto di più è ciò che più risulta
problematico e che ha contribuito, non solo in relazione
all'esperienza musicale, all'indirizzarsi della ricerca semiotica verso
nuovi modelli teorici. L'insufficienza della mera esecuzione è
determinata da limiti della scrittura musicale che sarebbero limiti del
codice, della sua presa sulla musica-pensiero o musica-volontà.

Ma per quanto una musica possa esser notata scrupolosamente e ben


protetta contro ogni equivoco dall'indicazione dei tempi, coloriti, legature, accenti,
essa contiene sempre degli elementi segreti irriducibili alla definizione, poiché la
dialettica verbale è impotente a definire completamente la dialettica musicale.
Questi elementi dipendono quindi dall'esperienza, dall'intuizione, insomma
dall'ingegno di colui che è chiamato a presentar la musica. (ivi: 109)

La musica, che nasce come cosa del pensiero, si materializza


nel segno grafico, ma in questa caduta verso l'esteriorità non si
concede completamente. L'ineffabilità è, quindi, tutta da una parte, la
parte del pensiero; l'inaffidabilità tutta dall'altra, la parte della
scrittura. L'interprete dovrà quindi essere in grado di leggere
direttamente nel pensiero dell'autore ciò che non può diventare
"messaggio", che non può essere trasmesso dalla scrittura. Oltre a
una tecnica infallibile deve possedere una rara capacità di intuizione,
perfezionata da "senso della tradizione e cultura aristocratica", che
non appartiene più al movimento del codificare-decodificare ma alla
familiarità con l'ineffabile. Oltre a essere in grado di compiere una
"traduzione materiale" perfetta della sua parte, deve essere capace di

una specie di compiacenza amorosa, il che non significa una collaborazione furtiva
o deliberatamente affermata. (ivi: 110)

Chiunque abbia un rapporto vivo con la pratica musicale non


può che sottoscrivere quest'ultima affermazione. Si tratterà ora di
aprire la semiotica alla "compiacenza amorosa" per rimescolare le
carte dell'ineffabile.
3. Musicologia
Si può costruire una musicologia in un luogo riparato dalle
intemperie e dalle sabbiemobili della filosofia? Si tratterebbe di una
musicologia che fornisce risposte, anche se incomplete e non
definitive, di una scienza funzionale comprensione dei fenomeni
musicali, identificati nei loro ambiti e fondata su protocolli di ricerca
ben definiti. La delimitazione dei suoi confini non dovrebbe
intendersi come una limitazione, ma, in senso positivo, come una
chiara definizione dei suoi programmi operativi, finalizzati, a loro
volta, al controllo di un settore circoscritto del reale. Sottolineare la
funzione di controllo sul reale, però, non significa ridurre
semplicemente la scienza a tecnica, ma riconoscere una finalità di
controllo e di dominio nel primato dell'intenzionalità teorica. La
prima operazione da compiere per realizzare questo programma
consiste nella riduzione del linguaggio a strumento tecnico di
comunicazione. In questo modo la musicologia può presentarsi come
un metalinguaggio che ha assunto la musica come linguaggio
oggetto. Il problema della musicologia diventa il problema del
rapporto fra due linguaggi. E' necessario, altresì, che questi teoremi
non siano a loro volta tematizzati e problematizzati, ma restino
soltanto presupposti o premessi come ovvi, perché i problemi tecnici
del linguaggio scivolano facilmente nel problema del linguaggio,
oggi più che mai riconosciuto come problema filosofico per
eccellenza. Fra i primi richiami alla necessità di un'analisi dell'analisi
musicale come metariflessione, ovvero riflessione su un
metalinguaggio, che rimanga circoscritta come ricerca tecnica, al
riparo dalla philosophical dynamite, Charles Seeger si distingue non
solo per l'organicità del suo lavoro, ma anche per una certa cifra di
emblematicità, specialmente in Studies in Musicology (Seeger:
1977). Ed è da quest'ultimo punto di vista, e solo da questo in questa
sede, che riteniamo interessante analizzarne alcune articolazioni
interne.

When we talk about music, we produce in the compositional process of


one system of human communication, speech, a communication "about" another
system of human communication, music, and its compositional process. The core
of the undertaking is the integration of speech knowledge in general and the speech
knowledge of music in particular (which are extrinsic to music and its
compositional process) with the music knowledge of music (which is intrinsic to
music and its compositional process). (ivi: 16)

Questo è l'incipit del primo capitolo di Studies in Musicology,


che ha per titolo Speech, Music, and Speech about Music, e già
possiamo leggervi le tesi di fondo, che non costituiscono, però, il
tema della ricerca, ma, per la necessità che abbiamo già rilevato, ne
sono e ne rimangono i presupposti. Esse corrispondono abbastanza
verosimilmente all'opinione corrente sulla natura del linguaggio, che
per ora sintetizziamo in due teoremi:
1. il linguaggio è un system of human communication;
2. è possibile una speech knowledge.
Il compito della semiotica dell'analisi musicale consisterebbe, quindi,
nell' affrontare i problemi posti dalla musicological juncture fra
linguaggio musicale e metalinguaggio musicologico.
Parlando di musica — continua Seeger — è importante
sapere in anticipo in quale modo si sta utilizzando il linguaggio,
rispetto a una tipologia che distingue un affective mode, un reasoned
mode, che sono modi specifici, e un generalized mode, che è il modo
del senso comune, del discorso quotidiano. Il primo modo (the mode
of feeling), concerne l'identificazione e l'asserzione di valore, ma nel
suo più alto grado il valore diventa inesprimibile per un linguaggio
verbale: l'affective mode è il modo dell'ineffabile. Il reasoned mode
riguarda la scoperta e l'esposizione del percettibile e del concepibile
come reale, nel presupposto dell'adaequatio intellectus et rei: le
parole esprimono le cose del mondo; l'articolazione del discorso
esprime l'articolazione del reale. Più rigorosamente le differenze fra i
modi specifici di utilizzo del linguaggio vengono caratterizzate, più
radicale si presenta l'opposizione intorno alla capacità del linguaggio
di comunicare. Il primo oppone la fiducia nel non verbale e nella
conoscenza dell'esperienza interiore alla sfiducia nella conoscenza
verbalizzabile e comunicabile linguisticamente; il secondo inverte i
termini dell'opposizione. Ed eccoci di fronte all'enigma di una scelta
impossibile. Una fiducia illimitata nell'esperienza non verbale riduce
la lingua a pura illusione. Non vi è, d'altro canto, alcun fondamento
scientifico per affermare che il linguaggio verbale comunichi
realmente stati del mondo.
La strategia che Seeger propone per gestire questo dilemma,
che è il problema della musicological juncture, consiste nel riadattare
le risorse del linguaggio verbale perché corrispondano più
strettamente alle risorse della vita nei due universi dei fatti fisici e dei
valori umani; quindi nell'elaborare i criteri che ne permettano la
conciliazione. Non seguiremo il nostro autore nel suo tentativo di
conciliazione dei modi d'uso della comunicazione verbale "in a
single unified model of their relationship to music and its
communicatory process" (ivi: 19) perché in questa sede non siamo
interessati a ricostruire il suo pensiero — operazione peraltro di cui
contestiamo non soltanto la possibilità, ma lo stesso senso — ma a
leggerne un testo attraverso il filtro della nostra domanda iniziale: si
può costruire una musicologia in un luogo riparato dalle intemperie e
dalle sabbie mobili della filosofia? Le difficoltà di realizzare tale
progetto aumentano, naturalmente, se non ci limitiamo più a
considerare soltanto la pratica musicologica, ma ci eleviamo al rango
della metamusicologia, perché a questo livello le nozioni di
linguaggio, segno, comunicazione, devono necessariamente essere
messe a tema. La difficoltà è ben presente a Seeger ˜questo il motivo
per cui gli dedichiamo una particolare attenzione —, che riconosce
nella musicological juncture i termini di una sfida, di un hazard.

The presentation of the hazards of the musicological juncture may seem to


barge unduly upon the domain of the professional philosopher, rather shortly after
the explicit statement that the musicologist cannot pretend to be a professional
philosopher, much less a professional in each of the dozen or more specialized
philosophies [...] which bear upon musicology. It might be supposed that
application of some existing philosophical system [...] might fill the bill for the
musicological juncture. But no existent philosophical system has left any room for
music as a means of communication on a par with speech in a speech undertaking.
We must, apparently, accept the fact that the philosopher can pretend to no more
competence in dealing with music than can the musicologist in dealing with
philosophy. The conditions of musicological juncture, however, require the
musicologist to proceed by dealing with them all or else quit. To proceed we must
adjust, in one way or another by intuition, imagination, or plain common sense, all
the problems of philosophy, just as the philosopher, if he is to deal with music,
must do the same with all the problems of musicology. [...] For the musicologist
speech is a tool. This granted, the "problems of philosophy" become "dilemmas
met with in the use of a language." Instead of risking "solutions" of them as
"problems" that are full of philosophical dynamite that he may sometimes be
unable to perceive, the musicologist will be wise to adopt purely operational
adjustments of the various [...] problems that he meets as dilemmas inherent in the
linguocentric predicament [in modo che, di fronte ai corni di un dilemma
filosofico, sia possibile assumerli entrambi] as defining a range, gamut, or
paramenter of speech semantic variance between them over the whole of which
both horns bear variably strong or weakly. (ivi: 47)

Le contraddizioni in cui rimane irretito questo discorso


dipendono principalmente dall'illusione di poter tracciare una
barriera di sicurezza che delimiti un al di qua entro cui sia possibile
adottare un "purely operational adjustment" dei problemi. Le
difficoltà dipenderebbero sostanzialmente dalla necessità di
adoperare un linguaggio predicativo, che alla prova si dimostra
inaffidabile. Ciò che sfugge alla percezione di Seeger, e con lui di
tutta la musicologia prevalente, è che l'operazione che egli propone
per tenersi al riparo dalla filosofia rientra organicamente nel progetto
stesso della metafisica, contro i cui pericoli il progetto è finalizzato.
La premessa per cui il linguaggio è fondamentalmente conoscenza e
comunicazione di una conoscenza, e l'illusione per cui il linguaggio
musicologico possa essere un utilizzabile in funzione strumentale
(for the musicologist speech is a tool), sono sufficienti per inscrivere
qualsiasi musicologia e qualsiasi semiotica nell'ambito dell'ontologia
classica, di quella stessa filosofia, cioè, che si è sempre dimostrata
incapace di affrontare l'esperienza musicale (no existent
philosophical system has left any room for music). Lo stesso topos
dell'inaffidabilità del linguaggio-strumento, the bias of the speech,
che si pensa di poter dare per scontata sulla base di un'ovvia
osservabilità, è in realtà uno dei principali nodi di articolazione del
progetto della metafisica finalizzato alla cancellazione del non-
presente e del non-originario, alla sottrazione del senso al movimento
della significazione.
Torniamo ora alle proposizioni iniziali. La musica è un
linguaggio, un sistema di comunicazione umana indipendente dal
sistema della parola. Anteriore alla conoscenza musicologica, che è
una conoscenza mediata, ci sarebbe una immediata conoscenza
musicale della musica. Come nelle celebri proposizioni iniziali del
De interpretatione di Aristotele, si può tracciare un percorso di
allontanamento dalla presenza piena: gli stati d'animo, la phonè, la
scrittura. Ogni passaggio comporta una mediazione e quindi una
mediazione della mediazione; in questo senso una caduta rispetto al
senso pieno della presenza originaria che, essa sola, ha luogo nel
disoccultamento dell'ente. Su queste basi, i rapporti fra linguaggio
musicologico e linguaggio musicale, nonostante il tentativo della
musicologia di istituirsi come tecnica circoscritta di modellazione e
di analisi, e anzi, proprio per questo, rimangono completamente
funzionali al progetto della metafisica greca, senza riuscire ad
intaccarne la chiusura. L'introduzione di un secondo linguaggio
all'interno del processo non ne modifica la struttura generale: l'agente
del pathema en te psykè, dell'affezione dell'anima, è ora un
linguaggio oggetto che replica al suo interno lo stesso processo di
modificazione della presenza. L'unica differenza rilevante è costituita
dallo spostamento del punto zero dello scarto semiotico, a partire dal
quale si misura la distanza dal vissuto autentico e la perdita nella
mediazione del segno: alla presenza della cosa allo sguardo come
eidos, la rivoluzione cartesiana ha intanto sostituito la presenza a sé
del cogito nella interiorità della coscienza. In principio c'è la
presenza originaria dell'esperienza musicale, quindi la conoscenza
musicale della musica, poi, necessariamente, la sua scrittura.
Procedendo ancora nel movimento dello stare pro aliquo, c'è ancora
una conoscenza predicativa della scrittura musicale (più
difficilmente, della conoscenza musicale della musica), la sua
espressione verbale e, infine, la trascrizione della parola. E' evidente
che in questa prospettiva il linguaggio musicologico non può
qualificarsi che come metalinguaggio rispetto al linguaggio musicale
assunto come linguaggio oggetto.

Essendo metalinguaggio, l'analisi musicale non può sostituirsi


all'esperienza vissuta che abbiamo del musicale: se ci riuscisse, questo
significherebbe che essa è il brano musicale stesso. Tra realtà musicale vissuta e
discorso sulla musica, la relazione è necessariamente obliqua. Inoltre, il
metadiscorso sulla musica è sempre lacunoso. (Nattiez 1987: 118)

Soltanto "l'esperienza vissuta" è veramente autentica, perché


soltanto essa è veramente originaria. Il metadiscorso sulla musica,
come espressione più volte mediata di una presenza vissuta, "è
sempre lacunoso" perché costitutivamente incapace di restituire "il
brano musicale stesso", il brano in sé, così come esperito nella forma
della presenza piena. Rispetto al senso originario, la perdita che la
differenza e il differimento del segno comportano è ancora perdita
netta, così come il guadagno di senso è deviazione e inquinamento.
La materialità semiotica, che abbiamo osservato nell'impossibilità
dello scambio uguale interpretato-interpretante, la perdita e
l'inquinamento come messa in opera della significanza, non si
limitano, però, ad intaccare la mediazione del linguaggio
musicologico, che "è sempre lacunoso" e "non può sostituirsi
all'esperienza vissuta", ma minacciano lo stesso privilegio della
forma ideale della presenza della "realtà musicale vissuta".
L'esperienza originaria, per preservare la sua originarietà, deve
mantenersi pura. E' necessario che in principio ci sia una regione pre-
linguistica, incontaminata dal movimento del segno: è necessario che
la pratica musicale, per non perdersi nell'alienazione e
nell'inautenticità, sia preceduta da un ascolto interiore,
immediatamente presente a sé come auto-affezione pura, in cui il
movimento della semiosi trovi il suo fondamento non semiosico.

Webern, potrei dire con Husserl, sottopose l'esperienza sonora all'epoché, alla
"sospensione del giudizio", riducendo quindi anche la soggettività, nel suo
rapporto con l'oggettività costruttiva, alla intenzionalità diretta verso l'essenza reale
del campo sonoro: essenza originaria se si vuole, Urton, ma eideticamente, non
materialmente intesa. Webern (e non lo Strawinsky del Sacre, la cui tendenza quasi
"ad un diretto contatto con la materia prima della musica" viene da Adorno
inspiegabilmente connessa con la "riduzione al puro fenomeno"; il che rivelerebbe
una "incontestabile affinità con la fenomenologia filosofica che nasce proprio
contemporaneamente"...) rende possibile, attraverso la Weltvernichtung, un
radicale rinnovamento musicale che porta alla positività dell'essenza reale del
suono nella Lebenswelt husserliana: solo intenzionando nel futuro una purificata
visione eidetica, il dualismo fra esperienza e linguaggio formale si risolve in un
nuovo processo dialettico, quindi in un reale progresso nella storia. La musica
ritrova allora se stessa, in una dimensione nella quale il campo tecnico coincide
con quello spirituale, anziché annullarsi nella saturazione della materia preformata.
(Rognoni 1974: 53)

Siamo messi, a questo punto, di fronte ad un'ulteriore scelta


obbligata: l'Urton, l'essenza originaria, non può determinarsi che
come idealità, è necessario che sia intesa "eideticamente, non
materialmente". La musica, per ritrovare se stessa, per non
"annullarsi nella saturazione della materia preformata", avrà bisogno
di fondarsi sulla purezza di un'essenza originaria intesa
eideticamente. Ma perché mai la musica correrebbe il rischio di
"annullarsi nella saturazione della materia preformata"? Quale
impurità porta con sé la materia signata? Si tratta evidentemente
dell'impurità dell'inadeguazione: prima che sporgenza
dell'interpretante sull'interpretato, inadeguazione dell'oggetto alla
coscienza, dell'altro al medesimo. Il residuo eidetico della riduzione
alla Lebenswelt appare così come pura rappresentazione, pura
intelligibilità esposta al riparo della deriva semiotica. Si attuano le
condizioni perché la pratica musicale possa fondarsi in una coscienza
padrona di sé, nell'istanza metafisica del "pensiero dell'autore", nella
piena adeguazione del pensato al pensante. Nella equiparazione
totale delle dodici note della scala cromatica, l'inventio dodecafonica
si esercita su un materiale che non porta traccia alcuna di forma, non
vi è predeterminata alcuna tensione, alcuna polarizzazione, in questo
senso, alcuna alterità. Si tratta quindi di un elemento privo di
materialità perché privo di resistenza: se lo pensiamo come
"materiale musicale", dobbiamo essere in grado di pensare
l'impensabile di un materiale immateriale. La soggettività libera non
incontra più nel materiale la resistenza della sua opacità di traccia e
può così esercitare la sua signoria nella Sinngebung. L'offrirsi
dell'Urton senza riserve al conferimento di senso significa offrirsi
nella presenza del presente vivente. Torniamo così all'utopia di un
fondamento non segnico del movimento del segno, nella sola
dimensione in cui la mediazione potrebbe aver luogo. La nozione
stessa di "presente vivente", che Husserl ha portato all'estrema
chiarezza e alle estreme conseguenze, è il tentativo ultimo di
concepire una coscienza al riparo della deriva del linguaggio, capace
di impadronirsene riducendolo al rango di strumento. Ma è anche il
luogo in cui questo tentativo mostra la sua impossibilità.

Ci accorgiamo allora molto in fretta che la presenza del presente percepito


può apparire come tale solo nella misura in cui essa si compone continuamente con
una non-presenza ed una non-percezione, cioè il ricordo e l'attesa primari
(ritenzione e protenzione). Queste non-percezioni non si aggiungono, non
accompagnano eventualmente l'adesso attualmente percepito, esse partecipano
indispensabilmente ed essenzialmente alla sua possibilità. [...] Così nella
ritenzione, la presentazione che si dà a vedere fornisce un non-presente, un
presente-passato e inattuale. [...] Dal momento che si ammette questa continuità
dell'adesso e del non adesso, della percezione e della non-percezione nella zona di
originarietà comune all'impressione originaria e alla ritenzione, si accoglie l'altro
nell'identità a sé dell'Augenblick: la non-presenza e l'inevidenza nel batter d'occhio
dell'istante. Questa alterità è perfino la condizione della presenza, della
presentazione e dunque della Vorstellung in generale, prima di tutte le
dissociazioni che potrebbero produrvisi. (Derrida 67: 99 - 101)

Accogliere l'altro "nell'identità a sé dell'Augenblick" non è,


quindi, una contingenza, né una scelta volontaria: l'altro insidia
"indispensabilmente ed essenzialmente" la possibilità di
identificazione del medesimo nel processo stesso in cui
l'identificazione si compie; non gli lascia il tempo per incontrarlo a
cose fatte. Qualunque identità a sé è così radicalmente distrutta. Ma
allora non avrà più senso considerare, come fa Nattiez, lacunoso il
metadiscorso sulla musica perché "non può sostituirsi all'esperienza
vissuta [cioè all'identità del presente] che abbiamo del musicale". Ma
chi glie l'ha chiesto? L'utopia di una fondazione eidetica del musicale
nella propria sfera di appartenenza — esorcismo dell'ossessione per
l'altro — si rivela infondata: l'Urton è già secondario, è già
linguaggio. Ma allo stesso titolo, allora, non ha più senso la nozione
di metalinguaggio, a meno di non considerare metalinguistica
l'essenza di ogni linguaggio. Riconoscere che l'esteriorità e la
secondarietà del segno non sono una limitazione ma il senso stesso
della semiosi, comporta infatti una rinuncia a qualsiasi gerarchia
nella rete infinita dell'interpretazione. Se respingiamo la nozione di
metalinguaggio, non ha più senso riconoscere quella di linguaggio
oggetto, se per oggetto si intende, evidentemente, oggetto di
conoscenza. Il pensiero di Heidegger rappresenta, su questa
questione, uno spartiacque: indipendentemente dal nostro grado di
adesione al suo pensiero (ma il pensiero serio è quello che continua a
far pensare, non quello in cerca di seguaci), non possiamo più
ripetere alla leggera i due teoremi che avevamo attribuito a Seeger, in
rappresentanza dell'opinione generale:
1. il linguaggio è un sistema umano di comunicazione;
2. è possibile una conoscenza del linguaggio.
Ridurre il linguaggio a strumento di comunicazione del quale l'uomo
può disporre non è che una determinazione epocale della metafisica.
Senza allontanarci troppo geograficamente, possiamo dire che non è
questa la concezione ebraica del linguaggio, né quella pre-platonica.
Come determinazione epocale, così come è sorta, può anche
tramontare e forse sta volgendo al tramonto. E' proprio questo
insignorirsi dell'uomo nel linguaggio per piegarlo al suo progetto di
dominio sul mondo che Heidegger analizza attraverso tutta la sua
opera.

Se si fissa l'attenzione esclusivamente al parlare umano, se si considera


questo semplicemente come la manifestazione dell'interiorità dell'uomo, se si
considera il parlare così concepito come la vera realtà del linguaggio, certo allora
l'essenza del linguaggio può continuare ad apparire soltanto come espressione e
attività dell'uomo. Ma il parlare umano, in quanto parlare dei mortali, non ha il
proprio fondamento in se stesso. Il parlare dei mortali ha il suo fondamento del
parlare del linguaggio. [...]
Il linguaggio parla.
L'uomo parla in quanto corrisponde al linguaggio. Il corrispondere è
ascoltare. L'ascoltare è possibile solo in quanto legato alla Chiamata della quiete da
un vincolo di appartenenza.
Non ha alcuna importanza proporre una nuova concezione del linguaggio.
Quel che solo conta è imparare a dimorare nel parlare del linguaggio. (Heidegger
59: 42-43).
Sede dell'evento dell'essere, il linguaggio non può in nessun modo
considerarsi oggetto di conoscenza: di esso di può soltanto fare esperienza,
lasciandosi prendere dal suo appello.
La ricerca linguistica scientifica e filosofica mira, da qualche tempo, in
modo sempre più deciso, a costruire ciò che viene chiamato "metalinguaggio".
Giustamente, pertanto, la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale
superlinguaggio intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona
come metafisica; non soltanto suona come, ma è. La metalinguistica è infatti la
metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice strumento
interplanetario d'informazione. Metalinguaggio e Sputnik, metalinguistica e tecnica
missilistica sono la stessa cosa. (ivi: 128)

Il processo interpretativo neanche in casi estremi può limitarsi


all' identificazione: esso, specialmente di fronte a un testo estetico
come quello musicale, esige una risposta. Se la storia del
metadiscorso è la storia di un'illusione, la stessa illusione si genera in
un percorso interpretativo, possiamo cioè considerarla come
interpretazione rispondente. La musicologia non è, allora, una
conoscenza che assume la musica a oggetto, non dice della musica
ciò che la musica non è in grado di dire da sola. E' piuttosto una
pratica generata dalla pratica musicale, una modalità di fare
esperienza del linguaggio musicale lasciandosi prendere dall'appello
della musica. Né, d'altra parte, il rapporto può essere considerato a
senso unico, dalla musica alla musicologia, perché, come la
musicologia è risposta all'appello della musica, così la musica è
risposta all'appello della musicologia, presa di posizione nei suoi
confronti. La pratica musicologica non fornisce il significato
musicale standosene alla finestra: come esperienza linguistica è essa
stessa coinvolta nel processo semiotico generato dalla musica.
Linguaggi verbali e non verbali non sono sistemi chiusi, ma piuttosto
spazi di polarizzazione interni all'universo infinito della semiosi.
L'intrigo, radicato nell'impurità della presenza a sé del presente, non
può essere dipanato.
IV. Musica e tempo

1. Il tempo e l'esperienza musicale


Da Talete a Husserl il pensiero dell'essere si pone in termini
di presenza. Il passato, non essere più, e il futuro, non essere ancora,
sono appunto non essere, in quanto non essere presente, non essere
più e non essere ancora nella presenza. Pensati come ricordo,
ricostruzione, ovvero presagio, previsione, si consegano al presente
come traccia. Ma un non essere che lascia tracce, che si lascia
scovare nel buio del suo passato o del suo futuro, non si consegna
senza resistenza alla luce che istituisce la filosofia, luce della formula
parmenidea: l'essere è, il non essere non è. La traccia, come
testimonianza della relazione che passato e futuro intrattengono
ancora o già col presente, impedisce loro quella purezza di non
essere necessaria perché l'essere possa istituirsi nell'identità. I giganti
del pensiero occidentale, che mai hanno truccato i risultati delle
ricerche per far quadrare i bilanci delle ipotesi, hanno scritto le loro
pagine più inquietanti proprio su questa resistenza del non essere a
non essere assolutamente, a desistere da ogni intrigo con l'essere. Il
non essere che non desiste esercita una certa signoria, impedendo
all'essere di totalizzarsi in una chiusura e indicando la direzione
dell'altrimenti che essere, della trascendenza, dell'alterità, dell'etica al
di sopra della verità. La filosofia rinuncia così a rispondere per
istituirsi in un domandare. Domandare che non può non prendere
l'avvio dalla più ovvia delle osservazioni: ciò che ci è più vicino è
per ciò stesso il più lontano.

Quid est enim tempus? Quis hoc facile breviterque explicaverit? Quis hoc
ad verbum de illo proferendum vel cogitatione conprehenderit? Quid autem
familiarius et notius in loquendo commemoramus quam tempus? Et intelligimus
utique, cum id loquimur, intelligimus etiam, cum alio loquente id audimus. Quidest
3
ergo tempus? Si nemo ex me querat, scio; si querenti explicare velim nescio.
(Agostino, Confessioni, 11, 14, 17)

Il più vicino (familiarius et notius) è il più lontano perché, in


quanto ovvio, è il più mondano. La precomprensione ontica (si nemo
ex me querat, scio) è il presupposto ma non una garanzia di
comprensione ontologica (si querenti explicare velim nescio). Ma ha
un senso perseguire una comprensione ontologica del tempo? La
prensione in cui il comprendere si esplica sembra orientarci in
direzione di un possesso; ma il senso del tempo non è forse, almeno
in parte, in un essere posseduti? In ogni caso, il fatto che so cos'è ma
non so spiegarlo, dimostra che il problema del tempo non riguarda
l'esperienza temporale ma la cultura, la philosophia, non la sophia:
dal punto di vista dell'ontologia riguarda l'ontologia; dal punto di
vista della semiotica riguarda la semiotica. La nostra domanda di
fondo è infatti: quale semiotica per la musica? Non è la musica,
infatti, che ci preoccupa, ma la semiotica; non l'esperienza musicale
immediata, che nel senso della parola agostiniana appena letta
"sappiamo cos'è", ma il pericolo che possa essere rivestita di idee ed
occultata si querenti explicare velim, ovvero nell'assimilazione
all'universo del discorso e nei processi di teorizzazione. E' alla
pratica musicale che dobbiamo quindi rivolgerci sempre di nuovo,
per contrastare il movimento ineliminabile del pregiudizio che
sempre di nuovo tende a riformarsi, e per giudicare il valore dei
modelli teorici perché l'astrazione non si sviluppi nell'oblio
dell'esperienza immediata su cui si è fondata. La ricerca del tempo
dell'ascolto diventa allora ricerca del presente immediato
3
Che cosa è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe
formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole?
Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre
conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche
quando ne udiamo altri parlare. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo
so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so.
dell'esperienza musicale, rispetto al quale ogni semiotica, come ogni
astrazione teorica, va continuamente rimessa alla prova.
La pratica musicale, sia come produzione che come ascolto,
non può aver luogo nella luce del puro svelarsi di oggettività ideali
che si servono di un supporto materiale assunto come spedizioniere.
La didattica della musica — non tanto quella scientifica, né
certamente quella burocratico-ministeriale, ma quella che si attua
artigianalmente mandando l'allievo "a bottega" dal maestro
musicista — in fondo lo ha sempre saputo: la più musicale analisi
musicale si fa mentre si sta provando. La musica si impara così come
si pratica, producendola e ascoltandola, o meglio, in una pro-duzione
che si ascolta, perché nasce e si mantiene gesto musicale, tocco,
respiro. Il gesto musicale che pro-duce è lo stesso gesto musicale che
ascolta. Un buon musicista non pratica né la comunicazione, né la
significazione, ma la significanza. Il suo interlocutore non è il
destinatario di un messaggio: né una razionalità pura, né un corpo più
o meno disciplinato al servizio di un pensiero: che musicalità può
avere una pura razionalità che nello slancio dell'arsi non è trattenuta
dal peso di una tesi; come potrebbe, d'altro canto, un corpo servile
dare corpo, peso, spessore alle forme astratte del Wohltemperierte
Klavier? La musica testimonia dell'usura della parola "corpo". La
musicalità del gesto non può pensarsi come musicalità di un corpo
che prima è stato vampirizzato del suo essere vivente, del suo essere
razionale, e poi è stato riavvicinato alla sua vita e alla sua razionalità
in un rapporto che non può che rimanere rapporto di estraneità. La
musica, in altri termini, come pratica musicale, è una continua
contestazione del dualismo ontologico, contestazione della pretesa
dell'anima di dare senso al corpo e contestazione del corpo
nell'offrirsi come immacolata superficie di scrittura. Da qui
un'ulteriore valorizzazione dell'esigenza di un'unica parola, Leib, che
identifica vita e corpo, che rinunzia in partenza a fondere insieme
un'anima che viene dal cielo con un corpo che appartiene alla terra
perché non ha assistito alla nascita della loro separazione. Il Leib
della fenomenologia di Husserl è già musicale; il complesso anima e
corpo dell'ontologia rimarrà inevitabilmente e irreparabilmente
incompatibile con l'esperienza musicale immediata. Tornare immer
wieder alle operazioni degli organi percettivi del Leib, alla cinestesi,
per dare e mantenere un fondamento temporale alle astrazioni
teoriche, vuol dire tutelarne una razionalità non imbarazzata dal
musicale. In questa direzione, quella che Heidegger chiama,
nell'apertura di Sein und Zeit, gigantomakia peri tes ousias, va riletta
innanzi tutto come atto inaudito di porre il problema del tempo
indipendentemente dall'orizzonte totalizzante dell'essere. Perché
l'essere si mantenga nella totalità è necessario che nulla sia fuori di
esso: il mostrarsi dell'essere non può che avvenire al suo interno. E'
necessario che lo stesso ascoltare appartenga all'essere che, in questo
modo, sarà essere in ascolto di sé. Il tempo è allora necessario perché
il diastema dell'identico abbia luogo. E' necessario, però, nella
prospettiva ontologica, che il movimento dell'identico verso il suo
sfasamento temporale, la temporalizzazione del tempo, sia
recuperato nel movimento del ritorno al medesimo,
dell'identificazione del diastema. La cancellazione del Leib, il cui
gesto è sempre consumo e irreversibilità, è quindi indispensabile ad
assicurare che in questo movimento di differimento e ricomposizione
nell'identità nulla vada perduto, che l'essere, conoscendosi, non si
modifichi. L'esperienza temporale, all'inizio della filosofia, si risolve
completamente nel movimento spaziale degli astri, in cui lo
sfasamento temporale dell'essere-totalità viene esorcizzato in una
incorruttibile ciclicità. Il tempo dell'essere e dell'ontologia si
definisce così totalmente nella dimensione del soprasensibile,
dimensione alla quale non appartiene soltanto l'oggettività ideale
dell'orbita nella sua perfezione geometrica, ma la stessa
incorruttibilità del corpo celeste. Messo in luce, il tempo viene
sottratto all'ascolto che consuma i suoi oggetti.

Gli uni dicono che è il movimento del tutto, gli altri la sfera stessa.
Pitagora diceva che il tempo è la sfera di ciò che avvolge le cose.
(58 B 33 Diels - Kranz).

In base a tale ragionamento del Dio intorno alla generazione del tempo,
ossia affinché il tempo si generasse, furono fatti il sole e la luna e cinque altri astri,
che hanno nome di pianeti, per la distinzione e la conservazione del tempo. (Timeo,
38 c).

L'astrazione dell'esperienza temporale in direzione della


cancellazione del Leib comporta un pensare il tempo in termini
geometrico-aritmetici, cioè in termini di oggettività soprasensibili,
incorruttibili, in opposizione al consumo del gesto. Il tempo, se
osservato dal punto di vista dell'uomo, assume una topologia
inquietante, che, permettendo, dopo la scoperta scandalosa degli
irrazionali, l'infinita divisibilità degli intervalli, riduce il presente a
stigmè, punto senza spessore in cui nessuna soggettività può
installarsi con i suoi bisogni e con il suo invecchiare. Se passato e
futuro sono non essere più e non essere ancora che trapassano
istantaneamente l'uno nell'altro, non resta spazio che per una pura
razionalità incorruttibile che contempla pure essenze incorruttibili in
un mondo soprasensibile, spazio in cui nulla può risuonare. Nelle
Confessioni di Agostino l'incompatibilità assoluta fra l'essere
dell'ontologia greca, l'essere-totalità, e il tempo dell'uomo, è ormai
avvertita con una lucidità che non potrà mai più essere offuscata.
L'insussistenza del presente è drammaticamente vissuta come
insussistenza dell'uomo, la temporalizzazione dell'essere misura
l'abisso che separa l'uomo da Dio. Ma l'uomo, non ostante la sua
miseria, rimane ens creatum, non può ridursi a non essere. Ha quindi
bisogno di allargare lo spazio infinitesimo dell'istante cui il non
essere del passato e il non essere del futuro non concedono respiro. E
sono la memoria e la expectatio, queste tensioni verso il passato e
verso il futuro, che creano quell'intervallo temporale entro il quale
una coscienza può installarsi permettendo all'umano di prendere
dimora.

Sed quomodo minuitur aut consumitur futurum, quod nondum est, aut
quomodo crescit praeteritum, quod iam non est, nisi quia in animo, qui illud agit,
tria sunt? Nam et expectat et adtendit et meminit, ut id quod expectat per id quod
adtendit transeat in id quod meminerit. Quis igitur negat futura nondum esse? Sed
tamen iam est in animo expectatio fufurorum. Et quis negat praeterita iam non
esse? Sed tamen adhuc est in animo memoria praeteritorum. Et quis negat praesens
tempus carere spatio, quia in puncto praeterit? Sed tamen perdurat adtentio, per
quam pergat abesse quod aderit. Non igitur longum tempus futurum, quod non est,
sed longum futurum longa expectatio futuri est, neque longum praeteritum tempus,
4
quod non est, sed longum praeteritum longa memoria praeteriti est. (Confessioni
11, 28, 37).

La adtensio, memoria e attesa come tensione orientata,


introduce nell'essere una volontà che si esprime sempre più come
prendere tempo, differimento della totalità che, allontanandosi da sé,
non riesce più a ritrovare la via del ritorno all'ordine dell'identità.
L'essere contiene allora in sé un tempo che non gli appartiene
totalmente, che si sottrae alla sua presa, un'alterità irriducibile, una
materia vivente. Non si tratta di un affare di una coscienza pura: al

4
Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come
crescerebbe il passato, che non è più, se non per l'esistenza dello spirito, autore di
questa operazione, dei tre momenti dell'attesa dell'attenzione e della memoria?
Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto dell'attenzione passa nella memoria. Chi
nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l'attesa del
futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito
la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione,
essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l'attenzione, davanti alla quale corre
verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è
lungo, ma un lungo futuro è l'attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato,
inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato.
tempo degli astri il Leib oppone il tempo del godimento e del
bisogno, del consumo e dell'invecchiamento, della irreversibilità; un
tempo che impedisce alla coscienza di esercitare pienamente la sua
funzione di attribuzione di senso a uomini e cose per assorbirne e
neutralizzarne l'alterità. L'opposizione del corpo è opposizione alla
sua cancellazione, cioè alla sua identificazione e alla sua riduzione: il
corpo è la continua rivendicazione della sua materialità e della sua
temporalità. Tutta la storia della filosofia ha dovuto fare i conti con
questa resistenza: il progetto platonico di edificazione di un mondo
soprasensibile non è riuscito a isolare la materia come residuo puro
perché, fra essere e non essere, non poteva darle una collocazione.
L'impossibilità di una risposta ha trasformato quindi la filosofia, già
sul nascere, in un continuo domandare. Resistenza innanzi tutto
rispetto a un progetto filosofico — e quindi anche semiotico,
musicologico, di semiotica della musica —, dunque, ma anche
resistenza rispetto a una coscienza, a un ordine, a un soggetto, la
materia si presenta in ogni caso sempre resistenza rispetto a
un'identità, che va ad insidiare nel processo stesso di identificazione.
Il progetto teorico che non procede in direzione di una feticizzazione
ideologica non intenderà, quindi, l'astrazione come cancellazione
della resistenza della complessità, della quale accetterà la sfida.
L'astrazione può osservare, così, la materia da un punto di vista
teorico senza sostituirsi ad essa, senza sostituire la temporalità
incorruttibile delle oggettività ideali alla temporalità della materia
vivente. I livelli più profondi della vita del Leib non oppongono,
però, una passività di puro consumo, di perdita assoluta, al
movimento attivo della coscienza come puro guadagno, acquisizione
stabile. L'esperienza immediata, antepredicativa, si mostra già di
notevole complessità e già in essa si possono descrivere tutte le
strutture che resteranno a fondamento dei livelli più alti della
conoscenza,

come quella della predatità passiva e dell'attivo volgersi dell'io, quella


dell'interesse, della ricettività e della spontaneità. Si deve però ricordare che queste
distinzioni non sono limitate al dominio della percezione, né in generale a quello
dei vissuti dossici, ma che qui si tratta di strutture che si devono ritrovare in
maniera analoga in tutti gli altri domini della coscienza. (Husserl 48: 65)

L'esperienza musicale, non essendo essenzialmente rivolta —


se non da un interesse musicologico — al possesso stabile attraverso
l'identificazione, riesce, anche ai livelli di elaborazione più astratta, a
mantenersi legata al livello della sensazione, al peso del corpo.
Ballare un valzer di Strauss non è viverlo ai livelli più bassi, perché il
gesto della danza, senza attendere l'attribuzione di senso della
coscienza, è già interpretante di comprensione rispondente che non
conosce ancora — non per stupidità ma per disinteresse — le
opposizioni del dualismo ontologico: alto/basso, materiale/spirituale,
somatico/psichico. La negazione di questa continuità fra evidenza
dossica ed evidenza logico formale, fra il dominio della percezione e
quello del giudizio predicativo, è nata sulla censura del corpo ed è
stata, quindi, censura del musicale. Ma l'escluso ha continuato a
reclamare i suoi diritti, svelando la degenerazione ideologica del
progetto ontologico attraverso la sua pratica di vita, fuori dalle
accademie e fuori dall'ordine del discorso. Escluso dalla grammatica
dell'essere, ha continuato di tanto in tanto e mettere a tacere la parola
che cancella il tempo di ciò che nomina. E' proprio dalla resistenza
dell'escluso e del neutralizzato che nasce la percezione del carattere
feticistico dell'ideologia, che l'inquietudine si manifesta come
desiderio di ritorno a un'evidenza originaria, immediata. Desiderio
che, nella consapevolezza del carattere sempre parziale e provvisorio
dell'evidenza, si pone come compito, tensione teleologica. Questo è
il tono che avvertiamo nella ricerca di Agostino sul tempo, questa è
la tensione della fenomenologia che, prima di essere una scuola o
una corrente filosofica, è un metodo che nasce da un atteggiamento
sempre presente in ogni ricerca radicata nell'inquietudine.

Noi cominciamo di nuovo, ciascuno per conto proprio e in sé medesimo,


con la decisione di filosofi che si pongono in un cominciamento radicale, di porre
innanzitutto fuori causa tutte le convinzioni finora ritenute valide, comprese tutte le
nostre scienze. (Husserl 1950: 43)

Quello che, una volta messo "fuori causa" non può venire
reintrodotto se non rinnegando di nuovo l'esperienza musicale, è il
dualismo ontologico, sotto qualsiasi forma si ripresenti. Con esso la
sua semiotica, che è la semiotica della comunicazione. Lo schema
emittente-messaggio-codice-destinatario è equivalente, nel senso che
implica ed è implicato, alla bipartizione del segno come significante-
significato e a tutte le opposizioni binarie dell'ontologia: essere-
divenire, essere-apparire, essere-pensare, essere-dover essere. La
musica ci obbliga ora a pensare insieme lo statuto del segno e il
senso della presenza al di fuori delle categorie dell'essere, che si sono
rivelate categorie dell'identità. E ci invita a riconsiderare, ancora di
nuovo, il diastema dell'identico, che permette che la musica si giochi
sempre di nuovo, consumandosi in ogni esecuzione, e che sia "al
tempo stesso", però, familiare, riconoscibile: il problema cui la
metafisica non riesce a dare una risposta riguarda la possibilità che
ciò che si è consumato si ripresenti. Solo una semiotica
dell'inadeguazione, dello slittamento infinito dello stare pro aliquo
riesce a sostenere la prova della temporalità della musica.
Pensare diversamente la ritenzione e la protensione, rispetto
alla memoria e alla expectatio — è questa l'operazione che Husserl
propone, specialmente in Esperienza e Giudizio — significa in un
certo senso temporalizzare il presente, permetterci di dimorare in un
presente che la tensione dell'ascolto salva dalla corrosione del
passato e del futuro, che tendono a ridurlo a stigmè, punto
inabitabile. Il presente vivo dell'ascolto musicale offre così lo spazio
per un'articolazione interna, un respiro tanto più ampio quanto più è
intensa la concentrazione delle energie dell'attenzione e
dell'interesse, rivolte a mantenere sotto presa tutto ciò che appare in
questo varco della ritensione-protensione. Tenere sotto presa
l'apertura del presente vivo significa scongiurare la sua ulteriore
suddivisione:

Si quid intelligitur temporis, quod in nullas iam vel minutissimas


momentorum partes dividi possit, id solum est, quod praesens dicatur; quod tamen
ita raptim a futuro in praeteritum transvolat, ut nulla morula extendatur. Nam si
extenditur, dividitur in praeteritum et futurum: praesens autem nullum habet
5
spatium. (Agostino Confessioni, 11, 15, 20)

Ciò che qui Agostino cerca di superare è proprio questo


tempo paradossale, che svanisce appena lo si esplica in linguaggio. Il
tempo dell'esperienza musicale non si concilia col tempo del giudizio
predicativo, il tempo della filosofia e della scienza. Del presente
dell'esperienza musicale non può dirsi che nullum habet spatium.
Non può neanche dirsi, però, che è il tempo del corpo e della
sensibilità in opposizione al tempo delle essenze ideali.
Nell'esperienza musicale, resa possibile ora in un presente che
l'intenzionalità come attenzione di ascolto tiene aperto in tutto il suo
spessore, l'umano agisce a tutto campo. Nello stesso presente
possiamo subire passivamente le sintesi degli oggetti musicali che
emergono da uno sfondo ed inserirli nelle strutture che la nostra

5
Solo se si concepisce un periodo di tempo che non sia più possibile suddividere in
parti anche minutissime di momenti, lo si può dire presente. Ma esso trapassa così
furtivamente dal futuro al passato, che non ha una pur minima durata. Qualunque
durata avesse, diventerebbe divisibile in passato e futuro; ma il presente non ha
nessuna estensione.
cultura musicologica, attraverso il giudizio predicativo, ci permette
di possedere come conoscenza stratificata, cioè sempre disponibile
alla rimemorazione. Possiamo "sapere" che stiamo rubando il tempo
per sottolineare una cadenza, vivendo sia il tempo del concetto, che è
il tempo dell'identità, sia il tempo del consumo e dell'irreversibilità.
Possiamo perfino avere il tempo di pensare che ci stanno scivolando
gli occhiali sul naso e, senza "perdere il tempo", attendere una pausa
che ci permetta di riaccomodarli. La coscienza interna del tempo
musicale continua a vivere un tempo che, con uno sforzo di
concentrazione delle energie dell'attenzione, può perfino avere
qualche commercio col tempo oggettivo del mondo. Questo
stratificarsi di temporalizzazioni del presente è reso possibile dalla
continuità con cui le strutture dell'esperienza precategoriale evolvono
in direzione di una maggiore complessità, edificando di nuovo su se
stesse.
Sintomo del prevalere di interessi logocentrici, anche al di là
delle intenzioni teoriche, il livello dell'esperienza più immediata
viene spesso chiamato "antepredicativo". Indubbiamente si tratta di
un piano di esperienza autonomo rispetto al linguaggio, e questo è
dimostrato dal fatto che il linguaggio predicativo non è l'unico
risultato della sua evoluzione. Se "antepredicativo" o
"precategoriale" significa una disponibilità al giudizio apofantico,
l'anteriorità dell'"ante" dovrebbe riferirsi a ulteriori risultati, fra cui
senz'altro al linguaggio musicale, che non è certamente strutturato
secondo lo schema soggetto-predicato, ma non per questo è articolato
in maniera meno complessa, né in alcun senso è meno razionale delle
lingue parlate. I motivi per cui queste ultime sono l'organo della
metafisica mentre la musica ne è la costante contestazione vanno
ricercati innanzi tutto nei modi in cui si temporalizzano. Nell'ambito
della ricettività, la conoscenza non è ancora sorretta da una volontà
di identificazione. E' questo che determina il carattere specifico della
conoscenza predicativa come volontà di mantenere il conosciuto in
un senso che diremmo patrimoniale, disponibile sempre identico
come sostrato di determinazioni. Anche la coscienza puramente
percettiva, a partire dalla ritenzione, ha la funzione e la virtù di
conservare ciò che è stato dato nell'esperienza, ma tale conservazione
è più aperta all'alterità e all'infunzionalità, e non costituisce un vero e
proprio possesso di ciò che è stato esperito. La musica, radicandosi
nei livelli più profondi dell'esperienza percettiva, evolve fino ai più
alti livelli dell'astrazione, ma non interrompe mai i legami col suo
radicamento. Se le lingue sembrano nate già con il segreto intento di
consentire a Platone la costituzione del soprasensibile, ciò si deve
alla temporalizzazione del nominare.

All'ontologia, all'esposizione dell'essere nella sua anfibologia di essere ed


ente, appartengono tempo e linguaggio, in quanto il linguaggio, raccogliendo in
nomi e in proposizioni la dispersione della durata, lascia intendere essere e ente.
(Lévinas 78: 33)

Nessun Heidegger e nessuna Seinsfrage sarebbero apparsi


nella storia se "Essere" non fosse un nome: la domanda del "voi
sareste" o del "se essi fossero stati" sarebbe certo un bel domandare,
ma non sarebbe ontologia. Nella musica l'oggetto ideale non assorbe
a sé, cancellandola, la temporalizzazione del Leib. Come abbiamo
visto, si può pensare di suonare una sesta napoletana, ma senza
abbandonarsi troppo all'idea, senza lasciarsi assorbire dalla sua
perennità, senza "perdere il tempo".

2. La musica d'insieme: andare a tempo


Il presente vivente, in carne e ossa, che abbiamo raggiunto
con Husserl, è la frontiera ultima oltre la quale non ci è più dato
spingerci? Collocato in una regione che è più originaria di ogni nesso
logico di causalità, di esso si potrebbe dare soltanto una descrizione.
Al linguaggio non resterebbe che indicare ciò che gli è estraneo, che
si può cogliere soltanto come originario e apodittico. Ciò che ci ha
frenato dall'arrenderci al flusso della durata bergsoniana è stato
principalmente il fatto del riconoscimento nella ri-produzione: certo,
la musica si gioca sempre di nuovo, due esecuzioni non possono che
essere diverse, ma resta il fatto che un blues rimane un blues, e come
tale viene riconosciuto; che le Goldberg rimangono le Goldberg,
anche se ogni volta si rimettono completamente in gioco. Nella
musica, non ostante il tentativo di mettere fra parentesi i nostri
preconcetti metafisici, si ripresenta così l'antico problema delle
opposizioni della metafisica — opposizioni istituite dalla metafisica;
opposizioni che istituiscono la metafisica: sensibile/soprasensibile,
materia/forma, ecc., ma il tutto aggravato da un'inquietudine in più,
quella di un modo del tutto specifico di temporalizzarsi dell'oggetto
eidetico nel suo commercio con la sensibilità. Il presente vivente,
comunque, sembra descrivere con maggior aderenza, si direbbe in
maniera più autentica, il punto focale, l'elemento generatore
dell'esperienza musicale. Nel presente vivente, infatti, trovano
finalmente collocazione quelle operazioni di ascolto che nel presente
astratto dell'istante ridotto a stigmè non avevano il tempo di
svolgersi. In quest'ultimo, infatti, anche la memoria, a cui erano
costrette a far ricorso le operazioni di ascolto, aveva bisogno di uno
spazio in cui collocarsi, spazio che, ancora, l'istante puntuale non
poteva assicurare. Esso permette, appunto, di pensare in termini
temporali quella spazializzazione del tempo della quale il nostro
discorso sembra non poter fare a meno:
At the same time that a piece moves forward, it creates a
shape in our memories to which its later movement inevitably
relates, just as the motion of a figure skater leaves a tracing of visible
arabesques on the ice when the movement has passed far away. It is
the first task of style analysis to explain as far as possible both the
character of movement and the enduring shape of music. (La Rue 70:
1)

Ciò che risulta immediatamente evidente è che finora il


progresso che, rispetto alla temporalità astrale di Platone e rispetto
alla distentio di Agostino, ha portato un barlume di vita nel presente
vivente, attraverso la ritenzione-protenzione del tenere-sotto-presa di
Husserl, si è giocato tutto per rimanere ancora nell'ambito
dell'identità del presente. Affinché il gesto musicale possa sempre di
nuovo produrre l'identificabile, il riconoscibile, è necessario che la
ritenzione si ripresenti come rappresentazione, come correlato di
un'intenzionalità oggettivante. Ridurre l'attività musicale alla
struttura noesi-noema significa considerarla attività di una coscienza
teorica, nella quale il tempo scandisce il rapporto fra l'identico e se
stesso nella presenza a sé di una coscienza. Ma il tempo di una
coscienza che si riproduce sempre identica è un tempo in cui la
materialità dell'oggetto è cancellata nel possesso, come disponibilità
patrimoniale che non oppone resistenza alla ripresentazione; oppure
è il tempo dell'estasi, in cui è la coscienza che, per cancellare la sua
inadeguazione a sé, il suo sporgere su se stessa, si cancella
nell'identità dell'oggetto. Comunque un tempo che non offre alcuna
possibilità all'irruzione della meraviglia, perché ha cancellato ogni
motivo di tensione: non è certo questo il tempo della musica.
La musica d'insieme non si riduce a uno scambio di
informazioni, in cui il segno si cancella nell'epifania del significato.
Il dialogo che vi si pratica non è finalizzato ad aggirare la sua traccia
nella scoperta immediata della verità. E' buona norma che
l'esecuzione sia nitida, che le articolazioni appaiano chiaramente, ma
la luce che chiarisce l'esecuzione non è la luce della aletheia, del
disoccultamento come verità della filosofia. Certo, anche la filosofia,
come ci ricorda Platone, nasce nel segno della meraviglia, della
passione che non teme l'ignoto.

TEETETO. In verità, o Socrate, io sono straordinariamente meravigliato di


quel che siano queste "apparenze"; e talora, se mi fisso a guardarle, realmente, ho
le vertigini.
SOCRATE. Amico mio, non mi pare che Teodoro abbia giudicato male
della tua natura, Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di
meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride
fu generata da Taumante, non sbagliò, mi sembra, nella genealogia. (Teeteto, 155
c-d)

Iride, che come messaggera ci mette in contatto con il divino,


come la filosofia si genera nel thaumazein, nella meraviglia; ma
proprio con Platone il progetto della filosofia si delinea chiaramente
come progetto di superamento di questo trauma dell'inadeguazione.
La filosofia prende il largo già come abbandono della sua origine.
Progetto mai realizzato, perché la meraviglia non è una modalità
della conoscenza: è al cospetto dell'ignoto, infatti, del
cominciamento di ogni pensare, che meraviglia e conoscenza
immediatamente divergono per prendere direzioni opposte. La
conoscenza approda all'ordine del terzo termine, del neutro,
dell'equivalente generale. Il faccia a faccia viene evitato attraverso la
mediazione del concetto, che trasforma l'alterità dell'altro
riducendola ad astrazione, cosa del pensiero, che così può assorbirla.
La conoscenza non apre un rapporto con cose e persone, ma con la
loro astrazione, che è la loro assimilabilità all'economia del
medesimo. L'altro, privato della sua alterità, ha perso il suo segreto
perché completamente adeguato e catturato in questo movimento del
medesimo verso la sua identità a se stesso. La conoscenza è
transitiva: si conosce qualcosa, che come oggetto si lascia cogliere.
In questo movimento di assimilazione da parte di una coscienza
autosufficiente e solitaria, il tempo è stato soltanto uno spiacevole
contrattempo. Se c'è stato lo sfasamento di una diacronia, il ritorno
all'unità assicura la ricomposizione della dispersione nell'identità. La
forma di questo processo di identificazione dell'identico è il presente.
In quest'ottica "andare a tempo" ha il senso della sincronia in un
tempo oggettivo.
Ma la diacronia della musica è irriducibile. Il suo tempo non è
una contingenza, un leggero difetto determinato dalla limitatezza
umana, che non riesce a cogliere l'eternità nell'istante. E' la tensione
dell'altro, che si è installato nel medesimo nel processo stesso della
sua immedesimazione; dell'altro del quale nessuna identificazione
può attenuare l'incombenza: per questo la musica è sempre,
comunque, musica d'insieme, anche quando si pratica in solitudine;
per questo è sempre tensione e inquietudine.
Ecco che, tornando alla nostra domanda di fondo – quale
semiotica per la musica? — ci appare più evidente l'improponibilità
di un modello teorico fondato su relazioni di identità non disposte a
mettersi in gioco nel momento stesso del loro prodursi. Il tempo della
musica intacca e trasforma il soggetto, non lascia il tempo
all'emittente e al destinatario di confermarsi nei rispettivi ruoli, non
lascia il tempo al segno di identificarsi definitivamente come merum
signum, non lascia il tempo al movimento dello stare pro aliquo di
istituirsi in codice.
Il tempo della musica è innanzi tutto diacronia non
ricomponibile nelle istanze di autore e opera, che, pensate
metafisicamente, hanno svolto la funzione di istanze di riduzione
all'ordine della presenza, tributo pagato al privilegio del presente. La
tensione determinata dall'irriducibilità di questo contrasto è essa
stessa la sua temporalizzazione. E' universalmente riconosciuto, nel
senso che nessun pregiudizio teorico può sovrapporsi a tale evidenza,
che la pratica d'insieme è una pratica dialogica, una pratica, cioè,
fondata sull'interazione, sull'ascolto reciproco. Questa essenza
dialogica non viene minimamente limitata da quelle che abbiamo
chiamato istanze unificatrici, principalmente non viene limitata dal
fatto che ciascuno in fondo si limita a "fare la sua parte" (che nel
nostro contesto culturale significa attenersi a ciò che la partitura
assegna al proprio leggio). Queste tensioni interne, che scongiurano
il pericolo di una chiusura totalizzante, non mandano, però, tutto il
processo in frantumi. Fra l'assimilazione del tempo dell'altro nel
tempo del medesimo e l'assimilazione del tempo di ciascuno in una
temporalità economica, si offrono alternative. E' necessario scorgere
in questo dibattito sulle nozioni di autore e opera il problema della
scrittura come problema della temporalizzazione della traccia. Il
movimento della scrittura come deriva verso l'alterità è stato definito
nei termini in cui ancora oggi viene problematizzato: problema del
senso dell'essere come presenza. Ancora una volta è il mito platonico
di Theuth e Thamus a richiamarci all'urgenza di una risposta. Il testo
di scrittura, incapace di difendersi da solo, avrebbe sempre bisogno
dell'aiuto del padre; ma il padre è sempre già morto, perché l'atto di
scrittura nasce proprio nel segno del parricidio: la condanna
platonica di questo crimine rimane legata al suo progetto di
costruzione del soprasensibile come spazio dell'assoluta idealità-
identità, ma la definizione dei termini del problema è un'acquisizione
che rimane per noi riferimento obbligato. Esso riguarda il senso di
quella tutela — funzione paterna per eccellenza — che oggi ci
appare, alla luce della semiotica della significanza, difesa contro il
movimento infinito della semiosi, difesa contro l'inquietudine
dell'alterità, pretesa di assimilare l'altro alla propria temporalità,
come orizzonte di possibilità dell'identico. In questo senso il
parricidio della scrittura è il parricidio operato dal movimento
dell'opera. Il movimento dell'opera è lo stesso movimento della
scrittura. In questo senso la pratica musicale, come pratica di ascolto
e di produzione, è già comunque una pratica di scrittura,
indipendentemente dall'iscrizione su una superficie che si offre come
fenomeno di luminosità. E' il comune carattere di opera, cioè di
scrittura, cui partecipa sia la partitura che si offre alla lettura, sia il
dialogo interpretativo, che rende possibile la musica d'insieme. E' in
esso che il problema dell'interpretazione trova una collocazione che
gli permette di superare i paradossi del dualismo ontologico. Le
opposizioni materia/forma, tempo dell'esecuzione/tempo della
partitura, spaziatura/temporalizzazione, non si collocano più nello
spazio dell'ontologia come opposizioni nei cui confronti il soggetto è
chiamato a prendere posizione, ma si sviluppano all'interno dello
stesso soggetto. Nel riconoscimento della natura dialogica dell'io,
l'alterità viene ritrovata operare all'interno del medesimo, come
impedimento alla chiusura in un'identità che tenta poi, senza
riuscirci, di incontrare l'altro nell'assimilazione o nell'omicidio.
Prima che il suono diventi proprio, interno al proprio progetto
musicale, esso è già stato suono dell'altro, e su questa base si
sviluppa quella forma dialogica che è la pratica musicale.

Questo infrangersi dell'Altro sul Medesimo, questa pulsazione dell'Altro


in seno al Medesimo si deve comprendere come il tempo stesso, e cioè in senso
eminente. Non è il tempo che scorre in un flusso, il tempo che passa e fa sì che non
mi bagni mai due volte nello stesso fiume, ma la temporalità stessa di questo
tempo, la sua temporalizzazione, ciò che lo produce come tempo [...]. (Rolland
1983: 126)

Non assistere alla propria manifestazione, abbandonare la


propria traccia a un sistema di segni ai quali non si può prestare
soccorso, essere assente dal proprio fenomeno: questo è il destino
dello scrittore, sia in rapporto alla scrittura letteraria, sia in rapporto
alla scrittura musicale. Ma è anche il destino dell'esecutore in
rapporto all'esecuzione. Sembra che non possa dirsi dell'esecutore
che non assiste alla propria manifestazione, che è assente dal proprio
fenomeno. Ma se torniamo ancora al senso platonico della presenza
paterna, vi leggiamo che essa non si esplica in un semplice assistere,
ma in una tutela. In questo senso l'assenza dello scrittore che si è
consegnato alla scrittura, al giudizio in contumacia, è la stessa
assenza dell'esecutore di musica, assenza come impossibilità di
prestare soccorso. La dialogicità della musica d'insieme è apertura
all'alterità, ascolto dell'altro; non è, però, possibilità di rispondere per
trattenere la deriva dell'interpretaizone, per rimettere le cose a posto,
perché il tempo della musica non concede tempo alla replica. Non è,
infatti, la risposta — che è semmai un potere sul suono dell'altro —
ma la replica, che permette di esercitare la funzione di controllo sul
proprio fenomeno. Ma nella musica il proprio suono è sempre già
passato, non si concede alla presa della replica, che è sempre un'altra
esecuzione. Ancora una volta si mostra che il tempo della musica
non è un contenitore: non è lo scorrere del tempo che impone
l'impossibilità della replica, quanto piuttosto l'impossibilità della
replica che temporalizza il diastema determinando la differenza come
differimento, che proprio in questa impossibilità si istituisce come
musicale. La deriva verso l'alterità che la scrittura musicale istituisce
come iscrizione, quindi, è la stessa deriva che istituisce l'esecuzione.
Entrambe partecipano del movimento dell'opera, e in questo senso
possiamo dire che entrambe vi partecipano in quanto scrittura. Le
relazioni fra iscrizione, lettura, interpretazione, ascolto, sono
relazioni in cui nulla è propriamente originario per un'intuizione,
nulla è presente, quindi, alla rappresentazione. Nulla è
definitivamente segno o non-segno, compresi i giocatori umani di
questa partita.
Questo movimento, che coinvolge uomini e cose, è reso
possibile e trova il suo fondamento nel fatto che la dialogicità
costitutiva del musicale è la stessa dialogicità costitutiva dell'io. Il
suono musicale, anche se prodotto e ascoltato in solitudine, è
sempre, al tempo stesso, suono del medesimo e suono dell'altro.
Poiché nessun suono è musicale in sé, per qualche proprietà sua
intrinseca, la sua musicalità si definisce in relazione a un ascolto. Più
propriamente dovremmo dire che il musicale è un carattere
dell'ascolto, che assume come musicale l'evento acustico mettendo
fuori gioco l'ontologia che lo caratterizzava come indizio mondano,
sintomo o segnale. Ma nemmeno l'evento acustico si può considerare
come originario, perché anch'esso assorbito in una rete di rimandi, in
cui qualsiasi nodo può stare pro aliquo. Una differenza infinita che
tutto irretisce perché, in virtù della sua struttura, non ha inizio e non
ha fine, non ha fondante e non ha fondato. Il suono è, quindi, sempre
il già ascoltato musicalmente, perché siamo ascoltatori gettati nel
linguaggio, prima ancora che in una lingua e in una civiltà musicale,
e questo presuppone sempre l'altro come colui che ha ascoltato. Il
suono è sempre tratto dai contesti dell'altro, e ne porta traccia.
Di fronte a questa traccia, la metafisica si è trovata impotente
ad esercitare completamente il suo mandato di cancellazione del
differire. La traccia già iscritta, come ascolto dell'altro (nel doppio
senso del genitivo: si parla di musica d'insieme) nel mio stesso
suono, non risolve il passato nell'identità della presenza come
presente-passato della ritenzione, né risolve la protenzione
nell'orizzonte di possibilità di una coscienza — qui più che altrove
cosienza-voce, coscienza-soffio — che fa musica in solitudine.
L'affiatamento che la musica d'insieme richiede non è
l'autodissolvimento estatico in un unico respiro, ma un respirare il
respiro dell'altro entro il proprio respiro. Il tempo musicale è, ancora,
l'inquietudine dell'intersoggettività, inquietudine della domanda:
come potrei, nella solitudine di una coscienza non insidiata,
presentificare il passaggio dalla ritenzione alla rimemorazione?
Se non si affronta il movimento della temporalizzazione
insieme alle insidie della costituzione dell'intersoggettività, la pratica
della riduzione eidetica e fenomenologica, la ricerca dell'evidenza
originariamente offerente, rimangono iscritte nel progetto metafisico
di cancellazione della scrittura. E' questo il limite delle analisi di
Alfred Schutz, il quale, in un rapporto con la luminosità della
fenomenologia che ne occulta le inquietudini, fa incontrare i partners
troppo tardi. E' costretto così ad attribuire non solo la partitura, ma la
stessa esecuzione all'ordine della tecnica, dell'esteriorità e della
secondarietà, rispetto alla presenza eidetica dell'opera musicale
nell'identità del "pensiero dell'autore". Il problema della musica
d'insieme si riduce così a problema di comunicazione di oggetti
identici fra soggetti identici.

In realtà, la partitura, l'esecuzione, il libro, la lezione, sono mezzi


indispensabili per comunicare il pensiero musicale o scientifico. Essi non sono,
tuttavia, questo pensiero stesso. Un'opera musicale o un teorema matematico hanno
il carattere di oggetto ideale. (Schutz 1976: 36).
Il sistema di notazione musicale è semplicemente un mezzo tecnico,
secondario rispetto alla relazione che s'instaura tra gli esecutori. (ivi: 113).
I due condividono non solo la durée interna, nella quale si realizza il
contenuto della musica eseguita; ciascuno, simultaneamente e nell'immediato,
condivide nel presente vivido il flusso di coscienza dell'altro. (ivi: 111)
[...] questa condivisione dell'altrui flusso di esperienza nel tempo interno,
quando vive in comune nel presente vivido, costituisce ciò che nel paragrafo
introduttivo abbiamo chiamato relazione di mutua sintonia, l'esperienza del "Noi",
che sta a fondamento di ogni possibile comunicazione.(ivi: 108)
[in riferimento alla relazione fra compositore e ascoltatore] quest'ultimo
partecipa con quasi simultaneità al flusso di coscienza del primo, eseguendo con
lui, passo dopo passo e mentre si compie, l'articolazione del suo pensiero musicale.
Lo spettatore, in questo modo, si trova unito al compositore da una dimensione
temporale comune a entrambi, che non è altro che una forma derivata del presente
vivido condiviso dai partners di un'autentica relazione faccia a faccia. (ivi: 106)

Sulla base di queste premesse, diventa necessaria una unione


tra i partners nella totalizzazione di una "dimensione temporale
comune": il senso dell'essere come presenza non può che pensarla in
termini di presenza e modificazione della presenza.
La risposta, nel dialogo musicale, è interpretante per
eccellenza, e l'interpretante è l'unica comprensione possibile, ma
queste limitazioni non vanno intese come una patologia. Nel
frangente in cui l'iscrizione dell'alterità nel suono stesso del
medesimo impedisce il dispiegamento di qualunque percezione o
intuizione originaria, in carne e ossa, così come impedisce la
cancellazione del non-originario, non-presente, non-appropriabile,
che è l'irriducibile della traccia all'ordine del presente, si impone,
sulla questione del segno, un allargamento della base del dibattito.
Se, infatti, la questione del segno è la questione del tempo, pensata
come privilegio della forma del presente, tenendo fuori dal dibattito
il tempo della musica si rischia di indebolirsi di fronte alle seduzioni
del logocentrismo. E' nella pratica musicale che la semiotica della
comunicazione, più facilmente che in altre pratiche, dimostra tutta la
sua marcatura ontologica. E' qui che la relazione con l'altro è messa a
nudo come relazione non fondata sulla appropriabilità della
conoscenza; l'intenzionalità che riduce il rapporto interpersonale alla
struttura di adeguazione noesi-noema non ha, sulla pratica musicale,
alcuna presa. La relazione di ascolto musicale rispondente,
incomprensibile se letta attraverso le categorie dell'essere, è
refrattaria alla riflessione della luce della verità: epekeina tes ousias,
non può essere illuminata perché, come relazione erotica, essa è

la relazione con l'alterità, con il mistero, cioè con l'avvenire, con ciò che, all'interno
di un mondo dove tutto è presente, non è mai presente, con ciò che può non esser
presente quando tutto è presente. (Levinas 79: 57).
Ciò che si dà — il tempo, l'attacco (che è un altro modo di
dire il tempo), ma anche il temporalizzato, il suono —, proprio per
questa assenza dell'altro al suo segno, per il suo essere sempre in
ritardo rispetto al presente del suo suono, non può appartenere ad
alcuna economia, è un dare in pura perdita, infunzionale. Nella
musica d'insieme sia chi dà, sia chi riceve, sono sempre in ritardo o
in anticipo rispetto al dono, non riescono ad aderirvi. Il dono, a sua
volta, è esso stesso nell'impossibilità di essere contemporaneo a se
stesso; sfugge, cioè, a ogni tentativo di identificazione. Chi dà
l'attacco può dare il tempo solo a condizione di cancellarsi
nell'impersonale, perché nessuno, di cui possa dirsi che è, può dare
ciò che non è: es gibt Zeit, ci invita a pensare Heidegger, perché il
tempo, come l'essere, non è nulla, ovvero, non è presente.

Se l'altro lo percepisce, se lo conserva come dono, il dono si


annulla. Ma nemmeno colui che dona deve vederlo o saperlo,
altrimenti comincia sin dall'inizio, sin dal momento in cui ha
l'intenzione di donare, a ripagarsi di un riconoscimento simbolico, a
felicitarsi, ad approvarsi, a gratificarsi, a congratularsi, a restituirsi
simbolicamente il valore di ciò che ha appena donato, di ciò che
crede di avere donato, di ciò che si appresta a donare. La
temporalizzazione del tempo (memoria, presente, anticipazione;
ritenzione, protensione, imminenza del futuro; estasi, ecc.) avvia
sempre il processo di una distruzione del dono: nella conservazione,
nella restituzione, nella riproduzione, nella previsione o
nell'apprensione anticipatrice, che prende o comprende in anticipo.
(Derrida 91: 16).

Ma allora questo dare il tempo in pura perdita è


un'impossibilità di dare, a condizione che l'impossibilità non sia
intesa qui come un difetto della possibilità. Pensare la relazione fra
musicisti che suonano insieme come relazione erotica che eccede
l'economia dello scambio uguale vuol dire pensarla come relazione
etica, relazione in cui i termini eccedono la presa della conoscenza.
Al di fuori, naturalmente, della morale e della religione, che nella
norma e nel comandamento ripropongono un'economia di scambio,
una ragioneria del bene e del male, del premio e della punizione. La
musica, al contrario, come l'etica, non si lascia iscrivere in un conto
profitti e perdite dell'anima; sa che l'attesa di un corrispettivo
distrugge il dono perché sa che il suo tempo non è quello
dell'economia. Il gesto che dà il tempo e il respiro che dà il suono li
affidano alla deriva della significanza, in cui nulla si presenta come
presente perché nulla è riconvocabile a sé dalla sua identità e tutto è
intaccato dalla non-presenza della sua stessa alterità. Il gesto
musicale, allora, diventa lo spazio in cui l'intersoggettività sottrae il
medesimo alla limitazione di ruolo della sua responsabilità di
identico: rispondere all'altro non si distingue dal rispondere dell'altro;
non c'è comandamento che possa adempiersi nella solitudine
dell'economia della salvezza, così come non c'è suono che possa
ascoltarsi nell'economia dell'identità. Questo movimento di
sostituzione è ciò che i musicisti chiamano umiltà nei confronti della
musica, umiltà che svanisce appena si assume nell'ordine giuridico di
un codice. Umiltà che neppure la Torà, in cui tutti i comandamenti
sono iscritti, presenta come comandamento. In un racconto hassidico
raccolto da Martin Buber, alla domanda sul senso di questa
omissione, Rabbi Jehiel Michal, il Magghid di Zloczow, risponde:

Se uno volesse esercitare l'umiltà per adempiere a un comandamento, non


raggiungerebbe mai la vera umiltà. Credere che l'umiltà sia un comandamento è
solo suggestione di Satana. Questi gonfia il cuore dell'uomo; gli dice che egli è
dotto e giusto e timorato di Dio e maestro in tutte le opere buone, e avrebbe il
diritto di credersi da più degli altri, ma questo significherebbe essere orgoglioso e
non agire piamente, e che è comandato di esercitare l'umiltà e trattare tutti da pari a
pari. E l'uomo adempie a questo che egli crede un comandamento e insieme
alimenta il proprio orgoglio. (Buber 46: 115).
Questo doppio legame rivelato da Rabbi Jehiel Michal — se
vuoi essere umile sei orgoglioso — riproduce lo stesso paradosso del
dono denunciato da Derrida: se vuoi donare non doni. Manifestano
entrambi l'impossibilità di pensare il rapporto etico all'interno di un
flusso temporale che ne totalizza i termini adeguandoli in una
sincronia: non si può allo stesso tempo voler essere umili ed essere
umili; voler donare e donare. Mantenere l'inquietudine, dalla quale la
filosofia ha cercato invano di prendere le distanze nel momento
stesso del suo cominciamento, significa mantenere l'eticità della
relazione. Nella pratica musicale significa mantenerne la musicalità:
evitare il calo di tensione sempre in agguato nella performance.

3. La contemporaneità

Ma Liberty non si rende conto che quando, riferendosi alla


musica contemporanea (al di là di insopportabili sue elucubrazioni
psicoanalitiche stereotipate a cui l'"oggetto musica" è sottoposto),
osserva che "mi sembra che il filo d'Arianna che collega l'opera all'Io
che l'ha concepita sia perduto per il creatore stesso"; l'opera è "non
opera" dell'Io; l'invenzione, l'opera, "hanno bisogno dell'Altro per
esistere"(ivi; 245-248), non sta dicendo nulla che non sia estensibile
a qualsiasi prodotto artistico in quanto tale e, semmai, la specificità
della musica contemporanea, come dell'arte contemporanea, è l'aver
preso coscienza di ciò e d'aver eletto a metodo, secondo una poiesi
che è al tempo stesso metapoiesi, questa verità.
VI. Musica e modellazione

1. Musica e modellazione primaria


[...]
2. Musica e realtà
[...}
3.Musica e ideologia
[...]

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