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A cura di :
ELIO SGRECCIA
DOCUMENTI CORRELATI
Comunicato Finale
Rev. Prof. ANDRZEJ SZOSTEK, La questione antropologica: esiste la verità assoluta sull' uomo?
Prof. WOLFGANG WALDSTEIN, La capacità della mente umana di conoscere il diritto naturale.
Prof. JOHN FINNIS, Natura e legge naturale nel dibattito filosofico e teologico contemporaneo:
alcune osservazioni.
Rev. Prof. CHARLES MOREROD, Natura e legge naturale nel cattolicesimo e nel protestantesimo.
1
Rev. MARTIN RHONHEIMER, La legge morale naturale: conoscenza morale e conscienza.La
struttura cognitiva della legge naturale e la verità della soggettività.
Prof. FRANCESCO VIOLA, Il diritto naturale: stabilita ed evoluzione dei suoi contenuti.
Prof. FRANCESCO D'AGOSTINO, Il diritto naturale, il diritto positivo e le nuove provocazioni della
bioetica.
Prof. JOSEPH SEIFERT, Il diritto alla vita e la quarta radice della dignità umana.
Prof. MARIA DOLORES VILA- CORO, I diritti umani e il diritto alla vita.
2
JUAN
DE
DIOS
VIAL
CORREA,
ELIO
SGRECCIA
PRESENTAZIONE
Il
tema
dell'esistenza
della
legge
naturale
e
della
sua
definizione
nell'uomo
con
la
necessaria
connessione
con
il
suo
fondamento,
nella
natura
umana,
e
i
conseguenti
riflessi
sul
diritto
naturale
è
argomento
che
s'impone
in
modo
sempre
più
pressante.
Anzitutto,
perché
tutti
i
problemi
che
si
dibattono
oggi
nell'ambito
della
bioetica
e
del
biodiritto
chiedono,
per
una
loro
valida
soluzione
che
si
chiarisca
questa
preliminare
domanda:
se
esiste
o
no
un'istanza
inerente
all'uomo
in
quanto
tale,
sulla
quale
si
possa
fondare
il
giudizio
di
liceità
o
illiceità
dell'intervento
scientifico-‐sperimentale
sull'uomo.
Le
discussioni
sull'aborto,
sull'eutanasia,
sul
diritto
alle
cure,
sulla
sperimentazione
sull'uomo
-‐a
partire
dalla
fase
embrionale-‐
e,
più
recentemente
sull'impiego
delle
cellule
staminali
embrionali
e
sulla
clonazione,
riproduttiva
e
terapeutica,
ripropongono
la
definizione
dell'inizio
della
vita
umana,
della
sua
fine
e,
quindi
dell'interrogativo
ultimo:
che
cosa
definisce
l'uomo
e
la
sua
natura
e
su
che
cosa
si
fonda
il
suo
diritto.
Nella
stessa
Dichiarazione
Universale
dei
Diritti
dell'Uomo
e
in
tutti
i
documenti
che
fanno
appello
al
concetto
dei
"diritti
dell'uomo"
quelli
cioè
che
ineriscono
all'uomo
in
quanto
uomo,
è
soggiacente
la
stessa
domanda
L'evoluzionismo,
come
teoria
interpretativa
della
storia
dell'universo,
e
la
sensibilità
storica
e
sociologica
consentono
ancora
di
parlare
di
una
natura
umana
che,
comunque,
definisce
l'uomo
come
anima
et
corpore
unus,
unus
per
l'anima
spirituale
che
lo
struttura
e
lo
vivifica?
La
questione
antropologica
condiziona
e
fonda
anche
la
domanda
etica
su
ogni
intervento
sull'uomo:
qual
è
il
bene
vero
dell'uomo
e
quale
azione
compiuta
dall'individuo
umano
o
a
carico
dell'individuo
umano,
è
conforme
alla
sua
istanza
connaturale?
Ugualmente
ci
s'interroga
sul
piano
giuridico:
quale
legge
può
conseguire
il
bene
comune
nel
rispetto
del
bene
di
ognuno?
Per
rispondere
a
questa
domanda
occorre
definire
la
natura
umana,
la
sua
"oggettività"
e
"conoscibilità".
D'altro
canto
lo
stesso
dialogo
tra
le
diversi
correnti
culturali
non
può
essere
condotto
se
non
sulla
base
di
una
ricerca
di
un
fondamento
comune,
il
bene
vero
dell'uomo,
la
verità
dell'uomo.
Se
si
parla
dal
contrattualismo
e
dall'utilitarismo
non
esiste
terreno
comune
o
valori
oggettivi,
ma
soltanto
i
compromessi
sulla
logica
degli
interessi
e
ogni
decisione
finisce
di
sottostare
all'interesse
del
più
forte.
Pertanto
il
discorso
sulla
legge
morale
naturale
e
sul
diritto
naturale
diventa
un
discorso
di
libertà
e
di
giustizia.
Smarrire,
occultare,
questo
discorso
pone
la
premessa
per
ogni
prevaricazione
dà
corso
alla
logica
della
guerra
del
più
forte
contro
i
più
deboli
specialmente
nel
settore
della
biomedicina,
ove
l'essere
umano
è
oggetto
di
distruzione,
di
sperimentazione
e
di
commercio.
Togliere
i
fondamenti
del
pensiero
intorno
alle
questioni
della
verità,
del
bene
della
giustizia
e
del
diritto
vuol
dire
esporre
al
crollo
tutto
l'edificio
sociale.
La
sensibilità
per
questo
fondamento,
legge
morale
naturale-‐diritto
naturale,
sta
per
altro
riemergendo
dopo
il
crollo
delle
ideologie,
e
dopo
l'inondazione
del
pensiero
debole
e
del
relativismo
morale.
Un
grande
aiuto
per
questa
riflessione
è
venuto
dal
Concilio
Ecumenico
Vaticano
II,
(in
particolare
nella
Gaudium
et
Spes)
dalle
Encicliche
Veritatis
Splendor(6.8.1997)
e
Fides
et
Ratio(14.9.1998).
Di
quest'ultima
Enciclica
ci
piace
ricordare
la
condanna
del
nihilismo,
che
riassume
in
sé
gli
esiti
anche
di
altre
visioni
relativiste
come
l'utilitarismo
e
il
contrattualismo:
"il
nihilismo"
prima
ancora
di
essere
in
contrasto
con
le
esigenze
e
i
contenuti
propri
della
parola
di
Dio,
è
negazione
dell'umanità
e
della
sua
stessa
identità.
Non
si
può
3
dimenticare,
infatti,
che
l'oblio
dell'essere
comporta
inevitabilmente
la
perdita
di
contatto
con
la
verità
oggettiva
e,
conseguentemente
col
fondamento
su
cui
poggia
la
dignità
dell'uomo.
Si
fa
così
spazio
alla
possibilità
di
cancellare
dal
volto
dell'uomo
i
tratti
che
ne
rivelano
la
somiglianza
con
Dio,
per
condurlo
progressivamente
o
a
una
distruttiva
volontà
di
potenza
o
alla
disperazione
della
solitudine.
Una
volta
che
si
è
tolta
la
verità
dell'uomo,
è
pura
illusione
pretendere
di
renderlo
libero"
(Fides
et
Ratio,
n.
90).
Il
Santo
Padre
a
conclusione
dell'Assemblea
Generale
di
cui
riportiamo
gli
Atti
ha
voluto
richiamare
-‐citando
la
Gaudium
et
Spes
e
l'Enciclica
Veritatis
Splendor-‐
l'istanza
imprescindibile
di
"fare
sempre
riferimento
alla
natura
propria
e
originale
dell'uomo,
alla
natura
della
persona
umana,
che
è
la
persona
stessa
nell'unità
di
anima
e
di
corpo,
nell'unità
delle
sue
inclinazioni
di
ordine
sia
spirituale
che
biologico
e
di
tutte
le
altre
caratteristiche
specifiche
necessarie
al
proseguimento
del
suo
fine"
(Discorso
ai
partecipanti
alla
VIII
Assemblea
Generale
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
L'Osservatore
Romano,
1
marzo
2002,
p.5).
In
questo
stesso
Discorso
il
S.Padre,
dopo
aver
criticato
il
presunto
conflitto
fra
legge
naturale
e
libertà,
chiarisce
e
respinge
l'accusa
di
"fissismo"
ed
"essenzialismo
fissista"
che
spesso
viene
pronunciato
riguardo
alla
legge
naturale
a
motivo
di
una
profonda
incomprensione
della
sua
stessa
nozione:
compiere
il
bene
ed
evitare
il
male
vuol
dire
mettere
in
atto
una
dinamica
perfettiva
che
coinvolge
tutto
l'uomo
e
tutti
gli
uomini,
vuol
dire
proporre
compiti
storici
in
avanti
e
in
alto
all'umanità
dietro
la
luce
sapienzale
della
legge
morale.
Un'erronea
analogia
con
il
concetto
di
natura
proprio
delle
realtà
fisiche
ha
ingenerato
forse
l'accusa
di
"fissismo",
vocabolo
usato
come
utile
strumento
da
chi
insegue
concetti
evoluzionisti
e
il
relativismo
della
morale.
Il
diritto
alla
vita
che
è
al
centro
dell'insegnamento
dell'Evangelium
Vitae
(1995)
non
potrebbe
avere
slancio
né
sostegno,
se
non
fosse
ancorato
sul
fondamento
della
verità
dell'uomo
e
della
legge
naturale.
Il
S.Padre
nel
Discorso
citato,
dopo
aver
ricordato
che
"i
diritti
dell'uomo
debbono
essere
riferiti
a
ciò
che
l'uomo
è
per
natura
e
in
forza
della
propria
dignità,
e
non
già
alle
espressioni
delle
scelte
soggettive
proprie
di
coloro
che
godono
del
potere
di
partecipare
alla
vita
sociale
o
che
ottengono
il
consenso
della
maggioranza"
ricorda
che:
"Tra
i
diritti
dell'uomo
la
Chiesa
cattolica
rivendica
per
ogni
essere
umano
il
diritto
alla
vita
come
diritto
primario.
Lo
fa
in
nome
della
verità
dell'uomo
e
a
tutela
della
sua
libertà,
che
non
può
consistere
se
non
nel
rispetto
alla
vita
(E.V.,
n.6)".
Il
volume
che
presentiamo
porta,
oltre
al
prezioso
Discorso
del
S.Padre,
una
serie
di
contributi
che
si
compattano
in
una
trattazione
integrata
che
comprende
tre
momenti
di
riflessione.
La
riflessione
parte
dal
riferimento
alla
dignità
della
persona
umana
e
per
approfondire
il
discorso
antropologico
inteso
come
verità
essenziale
sull'uomo
e
la
capacità
dell'uomo
a
conoscere
il
diritto
naturale.
In
un
secondo
momento
il
volume
riporta
gli
approfondimenti
indispensabili
relativi
al
significato
di
"natura"
in
senso
cosmologico,
biologico,
antropologico
ed
ecologico;
seguono
i
capitoli
sulla
natura
e
diritto
naturale
nel
dibattito
filosofico
e
teologico
attuale,
sul
rapporto
tra
legge
morale
naturale,
conoscenza
morale
e
coscienza;
su
diritto
naturale
e
diritto
positivo;
sulla
concezione
protestante
e
la
concezione
cattolica
e
la
concezione
protestante
della
natura
e
della
legge
naturale.
Infine
si
affronta
il
tema
del
"diritto
alla
vita"
in
rapporto
alla
dignità
della
persona,
in
relazione
ai
diritti
dell'uomo
e
nelle
conseguenze
che
si
prospettano
in
ordine
alla
famiglia
e
alla
procreazione.
Siamo
convinti
di
aver
raccolto
e
predisposto
un
contributo
valido
e
stimolante
per
una
riflessione
seria
in
ambito
morale,
giuridico
e
più
ampiamente
culturale.
4
GIOVANNI
PAOLO
II
DISCORSO
Ancora
una
volta
si
rinnova
il
nostro
incontro,
cari
e
illustri
membri
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
un
incontro
che
sempre
costituisce
per
me
motivo
di
gioia
e
di
speranza.
Il
mio
saluto
giunga
con
viva
cordialità
a
ciascuno
di
voi
personalmente.
Ringrazio
in
particolare
il
Presidente,
Professor
Juan
de
Dios
Vial
Correa,
per
la
amabili
parole
con
cui
ha
voluto
farsi
interprete
dei
vostri
sentimenti.
Uno
speciale
pensiero
rivolgo
anche
al
Vice-‐Presidente,
Mons.
Elio
Sgreccia,
animatore
solerte
dell'attività
della
Pontificia
Accademia.
State
celebrando
in
questi
giorni
la
vostra
ottava
Assemblea
Generale
e
a
questo
scopo
siete
qui
convenuti
numerosi
dai
rispettivi
Paesi,
per
confrontarvi
su
una
tematica
cruciale
nell'ambito
della
più
generale
riflessione
sulla
dignità
della
vita
umana:
"Natura
e
dignità
della
persona
umana
a
fondamento
del
diritto
alla
vita.
Le
sfide
del
contesto
culturale
contemporaneo".
Avete
scelto
di
trattare
uno
dei
punti
nodali
che
stanno
a
fondamento
di
ogni
ulteriore
riflessione,
sia
essa
di
tipo
etico-‐applicativo
nel
campo
della
bioetica,
o
di
tipo
socio-‐culturale
per
la
promozione
di
una
nuova
mentalità
a
favore
della
vita.
Per
molti
pensatori
contemporanei
i
concetti
di
"natura"
e
di
"legge
naturale"
appaiono
applicabili
al
solo
mondo
fisico
e
biologico
o,
in
quanto
espressione
dell'ordine
del
cosmo,
alla
ricerca
scientifica
e
all'ecologia.
Purtroppo,
in
tale
prospettiva,
riesce
difficile
cogliere
il
significato
della
natura
umana
in
senso
metafisico,
come
pure
quello
di
legge
naturale
nell'ordine
morale.
A
rendere
più
arduo
questo
passaggio
verso
la
profondità
del
reale,
ha
certamente
contribuito
l'aver
smarrito
quasi
del
tutto
il
concetto
di
creazione,
concetto
riferibile
a
tutta
la
realtà
cosmica,
ma
che
riveste
un
particolare
significato
in
rapporto
all'uomo.
Ha
avuto
in
ciò
un
suo
peso
anche
l'indebolimento
della
fiducia
nella
ragione,
che
caratterizza
gran
parte
della
filosofia
contemporanea,
come
ho
rilevato
nell'Enciclica
Fides
et
ratio
(cfr
n.
61).
Occorre
pertanto
un
rinnovato
sforzo
conoscitivo
per
tornare
a
cogliere
alle
radici,
ed
in
tutto
il
suo
spessore,
il
significato
antropologico
ed
etico
della
legge
naturale
e
del
connesso
concetto
di
diritto
naturale.
Si
tratta,
infatti,
di
dimostrare
se
e
come
sia
possibile
"riconoscere"
i
tratti
propri
di
ogni
essere
umano,
in
termini
di
natura
e
dignità,
quale
fondamento
del
diritto
alla
vita,
nelle
sue
molteplici
formulazioni
storiche.
Soltanto
su
questa
base
è
possibile
un
vero
dialogo
ed
un'autentica
collaborazione
fra
credenti
e
non
credenti.
L'esperienza
quotidiana
evidenzia
l'esistenza
di
una
realtà
di
fondo
comune
a
tutti
gli
esseri
umani,
grazie
alla
quale
essi
possono
ri-‐conoscersi
come
tali.
E'
necessario
fare
sempre
riferimento
"alla
natura
propria
e
originale
dell'uomo,
alla
"natura
della
persona
umana"
che
è
la
persona
stessa
nell'unità
di
anima
e
di
corpo,
nell'unità
delle
sue
inclinazioni
di
ordine
sia
spirituale
che
biologico
e
di
tutte
le
altre
caratteristiche
specifiche
necessarie
al
perseguimento
del
suo
fine"
(Veritatis
splendor,
50;
cfr
anche
Gaudium
et
spes,
14).
Questa
natura
peculiare
fonda
i
diritti
di
ogni
individuo
umano,
che
ha
dignità
di
persona
fin
dal
momento
del
suo
concepimento.
Questa
dignità
oggettiva,
che
ha
la
sua
origine
in
Dio
Creatore,
è
fondata
nella
spiritualità
che
è
propria
dell'anima,
ma
si
estende
anche
alla
sua
corporeità,
che
ne
è
componente
essenziale.
Nessuno
può
toglierla,
tutti
anzi
la
devono
rispettare
in
sé
e
negli
altri.
E'
dignità
uguale
in
tutti
e
che
permane
intera
in
ogni
stadio
della
vita
umana
individuale.
Il
riconoscimento
di
tale
naturale
dignità
è
la
base
dell'ordine
sociale,
come
ci
ricorda
il
Concilio
Vaticano
II:
"Benché
tra
gli
uomini
vi
siano
giuste
diversità,
l'uguale
dignità
delle
persone
richiede
che
si
giunga
ad
una
condizione
più
umana
e
giusta
della
vita"
(Gaudium
et
spes,
29).
5
La
persona
umana,
con
la
sua
ragione,
è
capace
di
ri-‐conoscere
sia
questa
dignità
profonda
ed
oggettiva
del
proprio
essere,
sia
le
esigenze
etiche
che
ne
derivano.
L'uomo
può,
in
altre
parole,
leggere
in
sé
il
valore
e
le
esigenze
morali
della
propria
dignità.
Ed
è
lettura
che
costituisce
una
scoperta
sempre
perfettibile,
secondo
le
coordinate
della
"storicità"
tipiche
della
conoscenza
umana.
E'
quanto
ho
rilevato
nell'Enciclica
Veritatis
splendor,
a
proposito
della
legge
morale
naturale,
la
quale,
secondo
le
parole
di
san
Tommaso
d'Aquino,
"altro
non
è
che
la
luce
dell'intelligenza
infusa
in
noi
da
Dio.
Grazie
ad
essa
conosciamo
ciò
che
si
deve
compiere
e
ciò
che
si
deve
evitare.
Questa
luce
e
questa
legge
Dio
l'ha
donata
nella
creazione"
(n.
40;
cfr
anche
Catechismo
della
Chiesa
Cattolica,
nn.
1954-‐1955).
E'
importante
aiutare
i
nostri
contemporanei
a
comprendere
il
valore
positivo
e
umanizzante
della
legge
morale
naturale,
chiarendo
una
serie
di
malintesi
e
di
interpretazioni
fallaci.
Il
primo
equivoco
che
occorre
eliminare
è
"il
presunto
conflitto
tra
la
libertà
e
la
natura",
che
"si
ripercuote
anche
sull'interpretazione
di
alcuni
aspetti
scientifici
della
legge
naturale,
soprattutto
sulla
sua
universalità
e
immutabilità"
(Veritatis
splendor,
51).
Infatti
anche
la
libertà
appartiene
alla
natura
razionale
dell'uomo
e
dalla
ragione
può
e
deve
essere
guidata:
"Proprio
grazie
a
questa
verità,
la
legge
naturale
implica
l'universalità.
Essa,
in
quanto
iscritta
nella
natura
razionale
della
persona,
s'impone
ad
ogni
essere
dotato
di
ragione
e
vivente
nella
storia"
(ibid.).
Un
altro
punto
che
deve
essere
chiarito
è
il
presunto
carattere
statico
e
fissista
attribuito
alla
nozione
di
legge
morale
naturale,
suggerito
forse
per
una
erronea
analogia
con
il
concetto
di
natura
proprio
delle
realtà
fisiche.
In
verità,
il
carattere
di
universalità
e
obbligatorietà
morale
stimola
e
urge
la
crescita
della
persona.
"Per
perfezionarsi
nel
suo
ordine
specifico
la
persona
deve
compiere
il
bene
ed
evitare
il
male,
vegliare
alla
trasmissione
e
conservazione
della
vita,
affinare
e
sviluppare
le
ricchezze
del
mondo
sensibile,
coltivare
la
vita
sociale,
cercare
il
vero,
praticare
il
bene,
contemplare
la
bellezza"
(San
Tommaso,
Summa
Theologica,
I-‐II,
q.
94,
a.
2;
cfr
CCC,
51).
Di
fatto,
il
Magistero
della
Chiesa
si
richiama
all'universalità
e
al
carattere
dinamico
e
perfettivo
della
legge
naturale
in
riferimento
alla
trasmissione
della
vita,
sia
per
mantenere
nell'atto
procreativo
la
pienezza
dell'unione
sponsale,
sia
per
conservare
nell'amore
coniugale
l'apertura
alla
vita
(cfr
Humanae
vitae,
10;
Istruzione
Donum
vitae,
II,
1-‐8).
Analogo
richiamo
il
Magistero
fa
in
tema
di
rispetto
della
vita
umana
innocente:
qui
il
pensiero
va
all'aborto,
all'eutanasia,
alla
soppressione
e
sperimentazione
distruttiva
degli
embrioni
e
dei
feti
umani
(cfr
Evangelium
vitae,
52-‐67).
La
legge
naturale,
in
quanto
regola
le
relazioni
interumane,
si
qualifica
come
"diritto
naturale"
e,
come
tale,
esige
il
rispetto
integrale
della
dignità
dei
singoli
individui
nella
ricerca
del
bene
comune.
Un'autentica
concezione
del
diritto
naturale,
inteso
come
tutela
dell'eminente
e
inalienabile
dignità
di
ogni
essere
umano,
è
garanzia
di
uguaglianza
e
dà
contenuto
vero
a
quei
"diritti
dell'uomo"
che
sono
stati
posti
a
fondamento
delle
Dichiarazioni
internazionali.
I
diritti
dell'uomo,
infatti,
debbono
essere
riferiti
a
ciò
che
l'uomo
è
per
natura
e
in
forza
della
propria
dignità,
e
non
già
alle
espressioni
delle
scelte
soggettive
proprie
di
coloro
che
godono
del
potere
di
partecipare
alla
vita
sociale
o
di
coloro
che
ottengono
il
consenso
della
maggioranza.
Nell'Enciclica
Evangelium
vitae
ho
denunciato
il
pericolo
grave
che
questa
falsa
interpretazione
dei
diritti
dell'uomo,
come
di
diritti
della
soggettività
individuale
o
collettiva,
sganciata
dal
riferimento
alla
verità
della
natura
umana,
possa
portare
anche
i
regimi
democratici
a
trasformarsi
in
un
sostanziale
totalitarismo
(cfr
nn.
19-‐20).
In
particolare,
tra
i
diritti
fondamentali
dell'uomo,
la
Chiesa
cattolica
rivendica
per
ogni
essere
umano
il
diritto
alla
vita
come
diritto
primario.
Lo
fa
in
nome
della
verità
dell'uomo
e
a
tutela
della
sua
libertà,
che
non
può
sussistere
se
non
nel
rispetto
della
vita.
La
Chiesa
afferma
il
diritto
6
alla
vita
di
ogni
essere
umano
innocente
ed
in
ogni
momento
della
sua
esistenza.
La
distinzione
che
talora
viene
suggerita
in
alcuni
documenti
internazionali
tra
"essere
umano"
e
"persona
umana",
per
poi
riconoscere
il
diritto
alla
vita
e
all'integrità
fisica
soltanto
alla
persona
già
nata,
è
una
distinzione
artificiale
senza
fondamento
né
scientifico
né
filosofico:
ogni
essere
umano,
fin
dal
suo
concepimento
e
fino
alla
sua
morte
naturale,
possiede
l'inviolabile
diritto
alla
vita
e
merita
tutto
il
rispetto
dovuto
alla
persona
umana
(cfr
Donum
vitae,
1).
Carissimi,
in
conclusione
desidero
incoraggiare
la
vostra
riflessione
sulla
legge
morale
naturale
e
sul
diritto
naturale,
con
l'augurio
che
da
questa
possa
scaturire
un
nuovo,
sorgivo
slancio
di
instaurazione
del
vero
bene
dell'uomo
e
di
un
ordine
sociale
giusto
e
pacifico.
E'
sempre
ritornando
alle
radici
profonde
della
dignità
umana
e
del
suo
vero
bene,
è
poggiando
sul
fondamento
di
ciò
che
esiste
di
intramontabile
ed
essenziale
nell'uomo,
che
si
può
avviare
un
dialogo
fecondo
con
gli
uomini
di
ogni
cultura
in
vista
di
una
società
ispirata
ai
valori
della
giustizia
e
della
fraternità.
Ringraziandovi
ancora
per
la
vostra
collaborazione,
affido
le
attività
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita
alla
Madre
di
Gesù,
Verbo
fatto
carne
nel
suo
grembo
verginale,
perché
vi
accompagni
nell'impegno
che
la
Chiesa
vi
ha
affidato
per
la
difesa
e
la
promozione
del
dono
della
vita
e
della
dignità
di
ogni
essere
umano.
Con
questo
auspicio
imparto
a
voi
ed
ai
vostri
cari
la
mia
affettuosa
Benedizione.
(Da
L'Osservatore
Romano,
venerdì
1
marzo
2002,
p.5)
7
COMUNICATO
FINALE
Si
è
svolta,
dal
25
al
27
di
febbraio,
la
VIII
Assemblea
Generale
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
presso
l'Aula
Vecchia
del
Sinodo
in
Vaticano.
Per
l'occasione,
come
di
consuetudine,
sono
convenuti
dai
loro
diversi
Paesi
di
appartenenza
i
membri
dell'Accademia,
per
condividere
la
loro
esperienza
di
testimoni
della
vita,
attraverso
una
pluridisciplinarità
di
competenze,
a
servizio
della
Chiesa
e
dell'intera
comunità
umana.
Nell'ambito
delle
finalità
specifiche
dell'Accademia
per
la
Vita,
vale
a
dire
studiare,
formare
ed
informare
circa
le
tematiche
della
vita,
quest'anno
si
è
scelto
di
dedicare
l'Assemblea
Generale
allo
studio
del
tema
"Natura
e
dignità
della
persona
umana
a
fondamento
del
diritto
alla
vita.
Le
sfide
del
contesto
culturale
contemporaneo".
A
nessuno
sfugge
come
nel
contesto
culturale
odierno
siano
presenti
diverse
correnti
di
pensiero
che
tendono,
più
o
meno
esplicitamente,
a
negare
l'esistenza
stessa
di
una
natura
umana
o
della
capacità
di
conoscerla,
con
la
conseguenza
di
non
ammettere
che
la
dignità
della
persona
abbia
un
valore
incondizionato
e
indisponibile,
specialmente
all'inizio
e
alla
fine
della
vita
umana,
quando
essa
necessita
maggiormente
di
cura
e
protezione.
Infatti
-‐come
ha
ricordato
il
Papa
nel
discorso
ai
partecipanti
all'Assemblea-‐
"per
molti
pensatori
contemporanei
i
concetti
di
natura
e
di
legge
naturale,
appaiono
applicabili
al
solo
mondo
fisico
e
biologico
o,
in
quanto
espressione
dell'ordine
del
cosmo,
alla
ricerca
scientifica
e
all'ecologia.
Purtroppo,
in
tale
prospettiva,
riesce
difficile
cogliere
il
significato
della
natura
umana
in
senso
metafisico,
come
pure
quello
di
legge
naturale
nell'ordine
morale"(n.2).
Di
fronte
a
tali
paradigmi
culturali,
l'Accademia
per
la
Vita
ha
sentito
l'esigenza
di
confrontarsi
con
queste
nuove
istanze,
alla
ricerca
di
una
continuità
con
gli
imprescindibili
contenuti
della
plurisecolare
Tradizione
della
Chiesa,
e
più
in
generale
del
pensiero
filosofico
classico,
nello
sforzo
di
individuare
possibili
novità
di
linguaggio,
per
favorire
il
dialogo
col
mondo
contemporaneo,
così
come
ha
auspicato
il
Concilio
Vaticano
II
(cf.
Gaudium
et
Spes,
n.3).
Inoltre,
tale
tematica
si
presenta
oggi
di
fondamentale
rilevanza
per
indagare
il
rapporto
che
intercorre
tra
l'elaborazione
dei
vari
codici
legislativi,
ai
diversi
livelli,
e
i
valori
umani
a
cui
essi
dovrebbero
fare
riferimento.
A
tal
fine,
l'Assemblea
Generale
ha
seguito
un
itinerario
articolato
in
tre
aree
tematiche:
la
questione
antropologica;
il
tema
della
legge
morale
naturale
sotto
il
profilo
della
sua
esistenza
e
conoscibilità;
la
tematica
del
diritto,
con
particolare
riferimento
al
diritto
alla
vita.
Riguardo
la
questione
antropologica,
riprendendo
l'insegnamento
della
Gaudium
et
Spes
(n.14),
l'assemblea
ha
voluto
riaffermare
una
visione
unitaria
dell'uomo,
"corpore
et
anima
unus",
rifiutando
ogni
dualismo
o
riduzionismo,
sia
di
stampo
spiritualista
che
materialista.
L'autentico
rispetto
di
ogni
soggetto
umano,
infatti,
trova
il
suo
fondamento
in
tale
identità
corporeo-‐
spirituale,
dove
la
dimensione
della
corporeità
è
parte
costitutiva
della
persona,
che
attraverso
di
essa
si
manifesta
e
si
esprime
(cf.
Donum
Vitae,
n.3),
così
come
lo
è
la
dimensione
spirituale,
nella
quale
l'uomo
si
apre
a
Dio,
trovando
in
Lui
il
fondamento
ultimo
della
sua
dignità.
Un
aspetto
problematico
riguarda
il
riconoscimento
dell'esistenza
di
una
natura
umana
universale
dalla
quale
derivare
la
legge
morale
naturale.
A
tal
proposito,
le
relazioni
succedutesi
hanno
rilevato
come,
nella
cultura
contemporanea,
alcune
correnti
di
pensiero,
insistendo
esclusivamente
sulla
dimensione
storico-‐evolutiva
dell'uomo,
giungano
a
negare
l'esistenza
di
una
natura
umana
universale.
Tuttavia
essa,
intesa
come
"natura
razionale"
è
apparsa
agli
Accademici
-‐
in
continuità
con
l'insegnamento
della
Chiesa
-‐
come
un
principio
irrinunciabile
per
comprendere
pienamente
la
legge
morale
naturale.
Infatti,
che
cosa
può
fondare
la
dignità
della
persona
umana
se
non
le
sue
dimensioni
ed
esigenze
essenziali,
vale
a
dire
la
sua
natura?
Il
Papa
stesso
ha
voluto
ribadire
ai
membri
dell'Accademia
che
"la
persona
umana,
con
la
sua
ragione,
è
capace
di
ri-‐conoscere
sia
la
dignità
profonda
ed
oggettiva
del
proprio
essere,
sia
le
8
esigenze
etiche
che
ne
derivano.
L'uomo
può,
in
altre
parole,
leggere
in
sé
il
valore
e
le
esigenze
morali
della
propria
dignità.
Ed
è
lettura
che
costituisce
una
scoperta
sempre
perfettibile,
secondo
le
coordinate
della
"storicità"
tipiche
della
conoscenza
umana"
(GIOVANNI
PAOLO
II,Discorso
ai
partecipanti...,
n.3).
Sulla
base
di
questa
visione
antropologica,
la
riflessione
degli
Accademici
si
è
quindi
incentrata
sul
tema
della
legge
morale
naturale.
Essa
"altro
non
è
che
la
luce
dell'intelligenza
infusa
in
noi
da
Dio.
Grazie
ad
essa
conosciamo
ciò
che
si
deve
compiere
e
ciò
che
si
deve
evitare.
Questa
luce
e
questa
legge
Dio
l'ha
donata
nella
creazione."
(Veritatis
Splendor,
nn.12;
40).
Dunque,
la
sua
esistenza
è
diretta
conseguenza
dell'esistenza
della
natura
umana.
Più
in
particolare,
richiamando
la
dottrina
di
S.
Tommaso
d'Aquino
sulla
legge
morale
naturale,
si
è
voluto
sottolineare
il
fatto
che
ogni
uomo
è
naturalmente
capace
di
conoscere
con
chiarezza
i
dettami
fondamentali
(principi
primi)
di
tale
legge,
che
risuonano
nel
suo
cuore
chiamandolo
sempre
a
fare
il
bene
e
ad
evitare
il
male
(cf.
Gaudium
et
Spes,
n.16).
Appartiene
alla
natura
dell'uomo
la
capacità
di
conoscere
anche
le
norme
morali
derivate
-‐
tali
sono
le
norme
etiche
che
riguardano
la
tutela
della
vita
umana
-‐,
anche
se
la
loro
determinazione,
in
qualche
caso,
appare
più
difficoltosa
a
causa
degli
inevitabili
condizionamenti
culturali
e
personali
che
segnano
la
storia
di
ogni
individuo.
Per
ciò,
sia
in
ordine
alla
conoscenza
che
all'agire,
di
grande
aiuto
risulta
la
pratica
delle
virtù
morali,
intese
come
l'abitudine
acquisita
a
compiere
un
determinato
bene,
mentre
i
vizi,
al
contrario,
rappresentano
un
ostacolo
ulteriore
al
compimento
del
bene.
Le
esigenze
che
appartengono
alla
legge
morale
naturale,
come
dimostra
chiaramente
la
storia
dei
popoli,
richiedono
anche
di
essere
riconosciute
e
tutelate
nella
vita
sociale
attraverso
il
diritto.
In
questo
senso,
si
può
parlare
di
"diritto
naturale",
con
le
conseguenti
codificazioni
legislative,
i
cui
fondamenti
non
risiedono
in
un
mero
atto
di
volontà
umana,
bensì
nella
stessa
natura
e
dignità
della
persona.
È
per
questa
ragione
che,
nella
storia
del
diritto,
quasi
costantemente
fino
alla
fine
del
diciottesimo
secolo,
i
diritti
fondamentali
dell'uomo
sono
stati
considerati
come
inviolabili
e
non-‐
negoziabili,
sottratti
quindi
all'arbitrarietà
di
ogni
patto
sociale
o
del
consenso
della
maggioranza.
Successivamente,
al
contrario,
si
assiste
ad
un
progressivo
cambiamento,
contrassegnato
da
una
esasperazione
della
rivendicazione
del
diritto
alla
libertà
individuale,
per
cui
molte
forme
di
attentati
alla
vita
nascente
e
terminale,
"presentano
caratteri
nuovi
rispetto
al
passato
e
sollevano
problemi
di
singolare
gravità
per
il
fatto
che
tendono
a
perdere,
nella
coscienza
collettiva,
il
carattere
di
delitto
e
ad
assumere
paradossalmente
quello
di
diritto"
(Evangelium
Vitae,
n.11).
Una
parte
dell'opinione
pubblica,
partendo
da
un
tale
presupposto,
ritiene
addirittura
che
lo
Stato
debba
non
soltanto
rinunciare
a
punire
tali
atti,
ma
debba
anzi
garantirne
la
libera
pratica,
anche
attraverso
il
supporto
delle
sue
strutture.
Di
fronte
a
tali
mutamenti,
tra
tutti
i
diritti
fondamentali
dell'uomo,
"la
Chiesa
cattolica
rivendica
per
ogni
essere
umano
il
diritto
alla
vita
come
diritto
primario.
Lo
fa
in
nome
della
verità
dell'uomo
e
a
tutela
della
sua
libertà,
che
non
può
sussistere
se
non
nel
rispetto
della
vita.
La
Chiesa
afferma
il
diritto
alla
vita
di
ogni
essere
umano
innocente
ed
in
ogni
momento
della
sua
esistenza.
La
distinzione
che
talora
viene
suggerita
in
alcuni
documenti
internazionali
tra
essere
umano
e
persona
umana,
per
poi
riconoscere
il
diritto
alla
vita
e
all'integrità
fisica
soltanto
alla
persona
già
nata,
è
una
distinzione
artificiale
senza
fondamento
né
scientifico
né
filosofico:
ogni
essere
umano,
fin
dal
suo
concepimento
e
fino
alla
sua
morte
naturale,
possiede
l'inviolabile
diritto
alla
vita
e
merita
tutto
il
rispetto
dovuto
alla
persona
umana"(cf.Donum
Vitae,
n.1;
GIOVANNIPAOLO
II,
Discorso
ai
partecipanti...,
n.6).
9
Pertanto,
l'assemblea
degli
Accademici
si
appella
ai
legislatori
di
ogni
Paese,
perché
si
sforzino
di
elaborare
norme
giuridiche
coerenti
con
l'autentica
verità
dell'uomo,
soprattutto
riguardo
al
primario
diritto
alla
vita.
In
conclusione,
questo
documento
finale
vuole
fare
proprio
l'auspicio
del
Santo
Padre,
che
ha
incoraggiato
l'Assemblea
a
continuare
la
sua
"riflessione
sulla
legge
morale
naturale
e
sul
diritto
naturale,
con
l'augurio
che
da
questa
possa
scaturire
un
nuovo,
sorgivo
slancio
di
instaurazione
del
vero
bene
dell'uomo
e
di
un
ordine
sociale
giusto
e
pacifico.
E'
sempre
ritornando
alle
radici
profonde
della
dignità
umana
e
del
suo
vero
bene,
è
poggiando
sul
fondamento
di
ciò
che
esiste
di
intramontabile
ed
essenziale
nell'uomo,
che
si
può
avviare
un
dialogo
fecondo
con
gli
uomini
di
ogni
cultura
in
vista
di
una
società
ispirata
ai
valori
della
giustizia
e
della
fraternità"
(GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
ai
partecipanti...,
n.7).
(Da
L'Osservatore
Romano,
mercoledì
6
marzo
2002,
p.6)
10
JULIÁN
HERRANZ
LA
DIGNITÀ
DELLA
PERSONA
UMANA
E
IL
DIRITTO
11
Tutta
questa
grande
tradizione
giuridica
è
stata
possibile
per
quasi
trenta
secoli
-‐
fino
al
moltiplicarsi
nella
seconda
metà
del
secolo
XX
delle
legislazioni
permissive
dell'aborto
-‐,
perché
il
rispetto
di
ogni
vita
umana
innocente,
in
ogni
momento
del
suo
sviluppo,
si
era
andato
solidamente
formando,
anche
se
non
sempre
tutelato,
sulla
base
della
ontologia
dell'essere
umano,
della
persona
-‐
della
sua
singolare
dignità
e
superiorità
nei
confronti
degli
altri
esseri
o
creature
-‐,
e
non
delle
semplici
considerazioni
accidentali
di
ordine
politico,
pragmatico
o
psicologico.
L'avvento
poi
del
Cristianesimo
e
la
sua
diffusione
nel
mondo
non
soltanto
ha
rispettato
tutte
queste
acquisizioni
della
"recta
ratio"
nella
filosofia
morale
e
nella
scienza
giuridica
della
grande
cultura
greco-‐romana,
ma
le
ha
confermate
ed
arricchite
ulteriormente.
Per
il
Cristianesimo
-‐
e
in
qualche
modo
anche
per
le
altre
religioni
monoteistiche
-‐
l'essere
umano,
la
persona,
non
è
soltanto
l'essere
più
alto
nella
scala
degli
esseri
a
ragione
dell'intelligenza
e
della
libertà
di
cui
gode,
ma
è
anche
l'unica
creatura
che
Dio
abbia
creato
per
se
stessa
.
Ogni
essere
umano
è
creato
a
immagine
e
somiglianza
di
Dio.
In
ogni
essere
umano,
anche
se
debole,
malato
o
handicappato,
c'è
un
riflesso
divino,
una
vita
che
tende
all'eternità.
Infatti,
"la
ragione
più
alta
della
dignità
dell'uomo
consiste
nella
sua
vocazione
alla
comunione
con
Dio"
.
Perciò
ha
proclamato
Giovanni
Paolo
II
nell'Evangelium
Vitae:
"In
Cristo,
infatti,
è
annunciato
definitivamente
ed
è
pienamente
donato
quel
Vangelo
della
vita
che,
offerto
già
nella
Rivelazione
dell'Antico
Testamento,
ed
anzi
scritto
in
qualche
modo
nel
cuore
stesso
di
ogni
uomo
e
donna,
risuona
in
ogni
coscienza
«dal
principio»,
ossia
dalla
creazione
stessa"
.
I
DIRITTI
INVIOLABILI
NELLE
LEGISLAZIONI
MODERNE
L'ordinamento
civile
democratico,
affermatosi
progressivamente
a
partire
delle
rivoluzioni
borghesi
della
fine
del
secolo
XVIII
-‐
prima
in
America
e
poi
in
Europa
-‐,
si
basa
su
due
principi
imprescindibili:
il
principio
democratico,
che
assicura
la
partecipazione
di
tutti
i
cittadini
nella
formazione
delle
leggi
e
delle
relative
decisioni
politiche,
e
il
principio
costituzionale
che
limita
giuridicamente
il
potere
politico
nel
nome
dei
diritti
soggettivi
fondamentali,
considerati
come
preesistenti
o
anteriori
ad
ogni
istituzione
politica
o
potere
sociale.
È
classica
la
"Dichiarazione
dei
Diritti"
dello
Stato
di
Virginia,
del
12
giugno
1776,
che
affermò
nell'art.
1º:
"tutti
gli
uomini
sono
per
natura
ugualmente
liberi
e
indipendenti
e
possiedono
certi
diritti
innati
dei
quali,
all'atto
di
costituirsi
in
società,
non
possono
privare
se
stessi
né
la
propria
posterità;
e
tali
diritti
sono
il
fondamento
della
vita
e
della
libertà,
con
i
mezzi
di
acquistare
e
possedere
beni
in
proprietà
e
la
ricerca
e
il
conseguimento
della
felicità
e
della
sicurezza".
Gli
stessi
concetti
si
ritrovano,
con
termini
più
o
meno
simili,
nelle
Dichiarazioni
di
Diritti
della
Pennsylvania
(art.
1),
del
Massachusetts
(art.
1),
ecc.,
che
affondavano
le
loro
radici
storiche
nei
movimenti
politico-‐religiosi
dell'Inghilterra
dei
secoli
XVI
e
XVII
ed
alla
sua
autentica
tradizione
del
diritto
consuetudinario
o
comune
(common
Law).
È
stato
rilevato
dai
costituzionalisti
che
la
valenza
dei
diritti
fondamentali
della
persona
umana
è
stata
interpretata
in
chiave
diversa
in
queste
Dichiarazioni
dei
diritti
anglo-‐americane
e
nei
successivi
sistemi
costituzionali
europei-‐continentali.
Nel
primo
caso
l'anteriorità
e
la
conseguente
inviolabilità
dei
diritti
fondamentali
rispetto
ad
ogni
potere
statale
positivo,
compreso
quello
costituzionale,
ha
sempre
rappresentato
la
pietra
miliare
su
cui
è
stato
costruito
l'intero
edificio
costituzionale.
Invece,
negli
ordinamenti
giuridici
dell'Europa
continentale,
a
cominciare
della
Rivoluzione
francese,
l'anteriorità
e
l'inviolabilità
dei
diritti
fondamentali,
pur
affermate
in
linea
di
principio,
sono
state
frequentemente
relativizzate
sul
piano
del
diritto
positivo
e
dell'attività
politica.
12
Nel
caso
dei
primi
sistemi
costituzionali
il
concetto
di
"diritti
soggettivi"
introdotto
nella
dogmatica
giuridica
liberale,
pur
evidenziando
un
cambio
di
impostazione
dottrinale
riguardo
al
"realismo
giuridico"
(il
"suum
quique
tribuere",
la
res
iusta
)
proprio
della
cultura
giuridica
classica,
non
ha
rappresentato
una
"rottura"
con
il
passato.
Infatti,
i
due
grandi
movimenti
ideali
-‐
il
giusnaturalismo
e
il
contrattualismo
-‐
coincidevano
nel
riconoscere
due
cose:
1º)
che
l'inviolabilità
dei
diritti
soggettivi
fondamentali
risiede
nel
loro
carattere
di
diritti
innati,
radicati
cioè
nella
stessa
natura
umana;
2º)
che
tali
diritti
innati
e
inviolabili
sono
per
principio
beni
nonnegoziabili,
quindi
non
sottoponibili
ai
patti
sociali
che
stabiliscono
le
regole
della
convivenza
e,
tanto
meno,
ai
poteri
politici
costituiti
in
base
ai
medesimi
patti.
Nei
sistemi
giuridici
invece
successivi
alla
Rivoluzione
francese,
la
chiamata
"volontà
generale
del
popolo"
(o,
nella
versione
tedesca,
il
concetto
di
Stato-‐persona
o
ente
politico
sovrano)
l'inviolabilità
dei
diritti
fondamentali
è
stata
alquanto
relativizzata,
se
non
a
livello
di
legge
costituzionale,
sì
mediante
leggi
ordinarie
tendenti
a
regolare
e
talvolta
a
limitare
e
perfino
sospendere
l'esercizio
di
tali
diritti.
Questo
fenomeno,
conseguenza
nel
secolo
XIX
del
positivismo
giuridico
e
della
sua
concezione
relativista
della
razionalità
delle
leggi,
si
è
ulteriormente
aggravato
nel
secolo
XX,
per
i
due
ben
noti
motivi:
le
aberrazioni
giuridiche
contro
la
dignità
della
persona
umana
proprie
dei
regimi
politici
totalitari
e,
nei
regimi
democratici,
il
crescente
influsso
di
ideologie
filosofiche
e
politiche
improntate
al
relativismo
morale
e
al
permissivismo
libertario
.
Così
è
avvenuto
riguardo
concretamente
al
diritto
alla
vita.
LA
VIOLAZIONE
DEL
DIRITTO
ALLA
VITA
Nell'anno
1948,
quando
dalle
rovine
materiali
e
morali
della
2ª
Guerra
mondiale
emergeva
il
bisogno
di
riaffermare
la
dignità
della
persona
umana
e
i
suoi
diritti
inalienabili
fu
solennemente
approvata
dall'ONU
la
"Dichiarazione
universale
dei
diritti
dell'uomo".
È
ben
saputo
che
in
essa,
all'Art.
3º,
si
legge:
"ogni
individuo
ha
diritto
alla
vita,
alla
libertà
ed
alla
sicurezza".
Alcuni
anni
dopo,
nel
1959,
la
"Dichiarazione
dei
diritti
del
bambino",
sempre
delle
Nazioni
Unite,
stabiliva
nel
suo
preambolo
che:
"il
bambino
ha
bisogno
di
una
protezione
speciale,
e
concretamente
giuridica,
tanto
prima
della
nascita
che
dopo".
Dal
canto
suo
l'Assemblea
Medica
Internazionale,
del
1948,
rielaborando
il
giuramento
d'Ippocrate,
faceva
promettere
a
tutti
i
medici:
"Io
osserverò
il
rispetto
assoluto
della
vita
umana
dal
momento
stesso
della
concezione".
Da
queste
ed
altre
solenni
dichiarazioni
ed
accordi
internazionali,
nonché
dall'esame
dei
diritti
costituzionali
e
civili
delle
nazioni
più
progredite,
è
stato
giustamente
dedotto
che
fino
alla
metà
del
secolo
XX
c'era
nel
mondo
una
rilevante
omogeneità
legislativa
di
fronte
alla
tutela
della
vita
umana,
anche
del
concepito
non
ancora
nato:
sia
nella
sfera
del
diritto
romano-‐germanico
che
nel
sistema
della
common
law
delle
legislazioni
anglosassoni,
l'aborto
e
l'eutanasia
erano
valutati
e
proibiti
come
delitti.
"Jusqu'alors,
aussi
bien
dans
la
sphère
du
droit
romain
germanique
que
de
la
common
law
les
législations
européennes
et
américaines
interdisaient
l'avortement,
sauf
en
cas
de
danger
pour
la
mère,
ainsi
que
l'euthanasie.
La
premier
grande
rupture
avait
été
produite
en
1920
par
l'URSS
de
Lénine,
suivie
de
la
parenthèse
du
régime
nazi,
avec
ses
lois
eugéniques
et
le
génocide"
.
A
questa
prima
grande
negazione
in
Russia
del
carattere
inalienabile
del
diritto
alla
vita
seguirono,
negli
anni
'50,
le
legislazioni
abortiste
delle
altre
nazioni
dell'est
europeo
sottomesse
al
comunismo.
Nel
mondo
occidentale
invece,
dove
l'influsso
del
materialismo
pratico
non
ha
avuto
l'impeto
rivoluzionario
del
materialismo
dialettico
come
dottrina
filosofica
dello
Stato,
la
legislazione
permissiva
dell'aborto
arrivò
solo
47
anni
dopo
l'Unione
Sovietica,
con
l'Abortion
act
inglese
del
1967.
Successivamente
tale
legislazione
si
è
andata
diffondendo
a
poco
a
poco
in
altre
13
nazioni,
non
senza
trovare
forti
opposizioni
dottrinali
e
popolari:
nel
1973
negli
USA,
Germania
e
Danimarca;
nel
1974
in
Svezia;
nel
1975
in
Francia;
nel
1978
in
Italia,
Lussemburgo
e
Grecia;
nel
1984
in
Portogallo;
nel
1985
in
Spagna;
nel
1990
in
Belgio,
ecc.
Vale
a
dire:
nella
seconda
metà
del
secolo
XX
si
è
consumato
il
più
grande
capovolgimento
immaginabile
-‐
giuridico
ma
anche
etico
-‐
del
diritto
alla
vita:
la
perdita
-‐almeno
nella
prassi
legislativa
di
molti
Stati
talvolta
in
sorprendente
contrasto
con
le
loro
Costituzioni
-‐
del
suo
carattere
di
diritto
inalienabile.
Anzi,
nell'Enciclica
Evangelium
vitae
ha
fatto
notare
Giovanni
Paolo
II
che
gli
attentati
contro
la
vita
nascente
e
terminale
"presentano
caratteri
nuovi
rispetto
al
passato
e
sollevano
problemi
di
singolare
gravità
per
il
fatto
che
tendono
a
perdere,
nella
coscienza
collettiva,
il
carattere
di
'delitto'
e
ad
assumere
paradossalmente
quello
del
'diritto',
al
punto
che
se
ne
pretende
un
vero
e
proprio
riconoscimento
legale
da
parte
dello
Stato"
.
Ma:
quali
sono
state,
in
concreto,
le
cause
di
questo
capovolgimento
giuridico
che
sta
portando
le
legislazioni
di
molti
Stati
alla
legalizzazione
dell'aborto
e,
successivamente,
anche
dell'eutanasia
e
di
altri
attentati
contro
la
dignità
della
persona
umana?
Si
sa
che
la
legalizzazione
dell'aborto
in
Russia,
nel
1920,
ubbidì
ad
una
ragione
totalitaria
di
natura
socio-‐politica:
facilitare
l'inserimento
della
donna
nel
lavoro
extra-‐domestico,
a
beneficio
dell'economia
socialista.
La
sentenza
della
Corte
Suprema
degli
USA
("Roe
v.
Wade")
che
nel
1973
aprì
le
porte
in
quella
Nazione
all'aborto
legale
lo
fece,
invece,
sotto
una
apparente
ragione
democratica
di
difesa
della
libertà
personale
della
donna:
"la
Corte
-‐
si
legge
nell'opinione
maggioritaria
dei
giudici
-‐
non
deve
risolvere
la
difficile
questione
di
quando
la
vita
comincia"
(need
not
resolve
the
difficult
question
of
when
life
begins)
e,
pertanto,
fu
permesso
alla
donna
di
abortire
e
negato
conseguentemente
all'embrione
e
al
feto
il
relativo
diritto
alla
vita.
La
ragione
data
in
Russia
-‐
in
uno
stato
comunista
-‐
e
la
ragione
data
negli
USA
-‐
in
uno
stato
democratico
-‐
furono
motivazioni
apparentemente
diverse,
ma
in
realtà
ubbidiscono
ambedue
alla
medesima
concezione
agnostica
del
diritto,
quella
cioè
dello
stretto
positivismo
giuridico,
basato
sulla
negazione
della
legge
naturale
e
sul
conseguente
divorzio
morale
tra
libertà
e
verità.
Si
potrebbe
dire
che
l'intero
Magistero
sociale
della
Chiesa
nel
secolo
scorso
è
stato
guidato
soprattutto
dalla
necessità
di
difendere
le
coscienze
dei
cristiani
e
la
stessa
dignità
della
persona
umana
contro
due
grandi
utopie
ideologiche
diventate
anche
sistemi
politici
a
scala
mondiale:
l'utopia
totalitaria
della
giustizia
senza
libertà
e
l'utopia
libertaria
della
libertà
senza
verità.
Ha
detto,
infatti,
il
Papa:
"Totalitarismi
di
opposto
segno
e
democrazie
malate
hanno
sconvolto
la
storia
del
nostro
secolo"
.
La
prima
utopia
e
con
essa
i
sistemi
politici
che
in
varie
forme
l'avevano
incarnata
in
Europa
e
in
altri
continenti
è
ormai
in
via
di
declino
e
di
estinzione,
ma
non
senza
aver
lasciato
dietro
di
sé
un
immenso
cumulo
di
rovine
spirituali
e
sociali.
La
seconda
utopia,
invece,
quella
della
libertà
senza
verità,
è
purtroppo
in
fase
di
crescente
espansione.
Essa,
maturata
nell'habitat
filosofico
dell'illuminismo
e
del
relativismo
agnostico,
ha
trovato
il
suo
grande
strumento
legislativo
(e
quindi,
sociale
e
politico)
nello
stretto
positivismo
giuridico.
Infatti,
per
questo
sistema
che
esplicitamente
o
implicitamente
nega
i
postulati
della
legge
naturale
non
è
la
verità
oggettiva
che
assicura
la
razionalità
giuridica
e
la
legalità
morale
della
norma
o
delle
sentenze,
ma
soltanto
la
verità
relativa
o
convenzionale,
frutto
pragmatico
del
compromesso
statistico
o
politico.
Non
a
caso
il
massimo
esponente
del
positivismo
giuridico,
Hans
Kelsen,
commentando
la
domanda
evangelica
di
Pilato
a
Gesù:
«Cos'è
la
verità?»
(Giov.
18,
38),
scriveva
che
in
realtà
questa
domanda
del
pragmatico
uomo
politico
conteneva
in
se
stessa
la
risposta:
la
verità
è
irraggiungibile;
perciò
Pilato,
senza
attendere
la
risposta
di
Gesù
si
indirizza
alla
folla
e
domanda:
«Volete
che
liberi
il
re
dei
giudei?».
Agendo
così
conclude
Kelsen
Pilato
si
comporta
da
perfetto
democratico:
affida
cioè
il
problema
di
stabilire
il
vero
e
il
giusto
all'opinione
della
maggioranza,
nonostante
che
egli
fosse
convinto
della
completa
innocenza
del
Nazareno
.
14
LA
DIGNITÀ
UMANA
VALORE
UNIVERSALE
Mary
Ann
Glendon,
investigando
l'origine
e
l'elaborazione
della
"Dichiarazione
Universale
dei
Diritti
dell'Uomo"
ha
illustrato
bene
la
chiarezza
di
pensiero
che
guidò
i
lavori
di
Charles
Malik,
relatore
di
questa
Magna
Carta
presso
l'Assemblea
Generale
delle
Nazioni
Unite.
Malik,
cristiano
libanese
di
confessione
greco-‐ortodossa,
seguì
dal
principio
sino
alla
fine
l'intero
iter
di
preparazione
del
documento:
prima
come
estensore
e
successivamente
come
relatore
del
primo
progetto
sui
diritti
umani,
e
dopo
come
presidente
del
Comitato
per
gli
Affari
sociali.
Cosciente
dei
molti
problemi
di
ordine
politico
e
culturale
che
implicava
l'elaborazione
di
una
Carta
di
diritti
umani
che
potessero
essere
universalmente
accettati
come
inviolabili
e
inalienabili,
Malik
prospettò
sin
dal
principio
ai
suoi
colleghi
della
Commissione
una
questione
previa
e
pregiudiziale.
Quando
si
tratta
di
diritti
umani
-‐
disse
loro
-‐
si
pone
"l'interrogativo
fondamentale:
cos'è
l'uomo?"
.
Da
qui,
dall'attenta
considerazione
storica,
filosofica,
sociologica
e
ética
della
natura
della
persona
umana
e
della
dignità
che
le
è
propria
-‐
comunemente
riconosciuta
dalle
diverse
culture
umane
degne
di
tale
nome
-‐,
scaturirono
e
furono
tecnicamente
formulati
i
diritti
fondamentali
di
questa
Dichiarazione
Universale,
una
delle
più
alte
espressioni
della
coscienza
e
della
cultura
giuridica
del
nostro
tempo.
Si
legge,
infatti,
nel
Preambolo
della
Dichiarazione:
"Il
riconoscimento
della
dignità
personale
e
dei
diritti
uguali
e
inalienabili
di
tutti
i
membri
della
famiglia
umana
costituiscono
il
fondamento
della
libertà
e
della
pace
nel
mondo".
Giovanni
Paolo
II,
nel
messaggio
indirizzato
al
Segretario
Generale
delle
Nazioni
Unite
nel
XXXº
anniversario
della
stessa
Dichiarazione
scrisse
sul
fondamento
dei
diritti
umani
fondamentali:
"Indiscutibilmente
questa
base
è
la
dignità
della
persona
umana.
Papa
Giovanni
XXIII
lo
spiegava
nella
Pacem
in
terris:
«
In
una
convivenza
ordinata
e
feconda
va
posto
come
fondamento
il
principio
che
ogni
essere
umano
è
persona
[...];
e
quindi
è
soggetto
di
diritti
e
doveri,
che
scaturiscono
immediatamente
e
simultaneamente
dalla
sua
stessa
natura:
diritti
e
doveri
che
sono
perciò
universali,
inviolabili,
inalienabili
»
(n.
158)"
.
In
questi
diritti
inalienabili
se
riflettono
le
esigenze
obiettive
e
i
valori
imprescindibili
di
una
legge
morale
universale,
i
cui
primi
principi
e
conclusioni
immediate
non
ammettono
frontiere
geografiche
o
condizionamenti
riduttivi
di
ordine
culturale,
politico
o
ideologico.
"Questi
diritti
ci
ricordano
anche
-‐
ha
detto
Giovanni
Paolo
II
all'Assemblea
Generale
delle
Nazioni
Unite
-‐
che
non
viviamo
in
un
mondo
irrazionale
o
privo
di
senso,
ma
che,
al
contrario
vi
è
una
logica
morale
che
illumina
l'esistenza
umana
e
rende
possibile
il
dialogo
(...)
La
legge
morale
universale,
scritta
nel
cuore
dell'uomo,
è
quella
sorta
di
«grammatica»
che
serve
al
mondo
per
affrontare
questa
discussione
circa
il
suo
stesso
futuro"
.
Però
fu
ed
è
molto
significativo
che
il
Papa
abbia
voluto
aggiungere
immediatamente
dinnanzi
alle
massime
Autorità
civili
del
mondo
ivi
riunite:
"Sotto
tale
profilo,
è
motivo
di
seria
preoccupazione
il
fatto
che
oggi
alcuni
neghino
l'universalità
dei
diritti
umani,
così
come
negano
che
vi
sia
una
natura
umana
condivisa
da
tutti".
Nel
dire
questo
non
sfuggiva
a
Giovanni
Paolo
II
-‐
anzi,
lo
riconobbe
-‐
che
culture
differenti
ed
esperienze
storiche
particolari
danno
origine
a
forme
istituzionali
e
giuridiche
diverse,
ma
aggiunse:
"una
cosa
è
affermare
un
legittimo
pluralismo
di
«forme
di
libertà»,
ed
altra
cosa
è
negare
qualsiasi
universalità
o
intelligibilità
alla
natura
dell'uomo
o
all'esperienza
umana"
.
Con
queste
parole
il
Papa
ha
certamente
voluto
mettere
in
evidenza
il
pericolo
che
la
"Dichiarazione
Universale
dei
Diritti
Umani"
-‐
non
legge
internazionale,
ma
sì
"ideale
comune
per
la
cui
realizzazione
tutti
i
popoli
e
nazioni
devono
sforzarsi"
-‐
venga
progressivamente
svuotata
di
autorità
morale
e
di
forza
vincolante,
a
causa
15
della
crescente
diffusione
del
pensiero
filosofico
e
politico
di
individualismo
libertario.
Con
un
falso
concetto
di
libertà
disgiunta
dalla
verità,
tale
individualismo
libertario
non
riconosce
alcun
limite
etico
obiettivo
alla
condotta
personale
e
sociale
e,
in
ultima
analisi,
nemmeno
ammette
l'esistenza
di
valori
obiettivi
e
universali
moralmente
e
giuridicamente
vincolanti.
Quest'aberrazione
ideologica,
che
nega
il
carattere
univoco
e
universale
della
natura
e
dignità
umana
e
dei
suoi
conseguenti
diritti
inviolabili,
ci
obbliga
a
considerare
che
ciò
che
qui
viene
messo
in
giuoco
non
è
solo
il
Magistero
della
Chiesa
al
servizio
della
dignità
umana
e
sopranaturale
dell'uomo
-‐
ciò
che
potrebbe
interessare
ai
soli
cristiani
-‐,
bensì
è
in
causa
-‐
e
ciò
riguarda
tutti
-‐
la
stessa
legittimità
morale
del
Diritto.
LA
CENTRALITÀ
DELLA
PERSONA
NEL
DIRITTO
Non
c'è
alcun
dubbio
che
il
fenomeno
più
positivo
della
moderna
scienza
giuridica
e
delle
costituzioni
democratiche
è
stato
lo
sviluppo
dottrinale
e
normativo
sui
diritti
fondamentali
dell'uomo,
ciò
che
ha
contribuito
a
mettere
al
centro
della
realtà
giuridica
il
suo
vero
protagonista:
la
persona
umana,
con
la
sua
inalienabile
dignità
e
libertà.
Infatti,
il
Diritto
in
quanto
ordinamento
è
rappresentato
dall'insieme
di
norme
e
di
rapporti
che
organizzano
gli
uomini
in
comunità
sociale.
Si
è
però
avuta
una
progressiva
presa
di
coscienza
che
tale
ordinamento
si
deve
strutturare
e
continuamente
perfezionare
tenendo
presente
che
è
proprio
la
persona
umana
il
fondamento
e
il
fine
della
vita
sociale.
Questo
è
stato
l'alveo
in
cui
si
è
sviluppato
il
diritto
contemporaneo,
a
dispetto
delle
deviazioni
-‐
quando
no
aberrazioni
legislative
-‐
dei
vari
regimi
totalitari
e
la
mancanza
di
onestà
intellettuale
con
cui
non
pochi
fautori
del
positivismo
giuridico
hanno
ceduto
alla
pressione
sociale
di
queste
ideologie
politiche.
Ciononostante,
parallelamente
allo
sviluppo
della
centralità
della
persona
nel
diritto,
dell'antropologia
giuridica
-‐
chiamiamola
così
-‐,
se
è
prodotto
un
altro
fenomeno
che
preoccupa
seriamente
non
solo
il
Magistero
ecclesiastico,
ma
anche
i
sociologi
e
i
filosofi
del
diritto,
nonché
semplice
cittadino.
Mi
riferisco
al
progressivo
impoverimento
etico
delle
leggi
civili
-‐
disprezzo
dell'indissolubilità
del
vincolo
matrimoniale
e
perfino
del
concetto
stesso
di
famiglia
come
istituzione
naturale;
liberalizzazione
dell'aborto,
dell'eutanasia,
della
droga;
insufficiente
tutela
dell'obiezione
di
coscienza
e
del
diritto
alla
libertà
religiosa,
ecc.
-‐
e,
pertanto,
all'impoverimento
anche
del
valore
pedagogico
di
queste
stesse
leggi,
e
perfino
alla
perdita
della
sua
legittimità
morale.
Purtroppo,
l'etica
cosiddetta
laica,
fondamento
del
diritto
agnostico
o
libertario,
non
ammette
questi
concetti
di
"amoralità"
o
di
"immoralità"
in
base
a
valori
e
verità
oggettivi
che
siano
al
di
sopra
delle
leggi
positive.
Perciò,
essa
propugna
la
separazione
tra
"morale
privata"
ed
"etica
pubblica"
nell'ambito
del
cosiddetto
«pluralismo
etico».
La
morale
privata
si
fonderebbe
sui
principi
filosofici
o
le
convinzioni
religiose
dell'individuo
e,
perciò,
essa
è
da
circoscrivere
all'ambito
ed
al
giudizio
della
sola
coscienza
personale
di
ciascun
cittadino;
l'etica
pubblica,
invece,
sarebbe
quella
che
viene
determinata
esclusivamente
dal
consenso
maggioritario
della
comunità,
cioè
da
quella
verità
convenzionale
che
viene
concretizzata
nella
legge.
Ovviamente
si
moltiplicano
le
leggi
"permissive"
("antiproibizioniste")
anche
in
materie
e
istituzioni
che
per
un
motivo
od
un
altro
sono
importanti
per
il
bene
comune
e
l'ordine
pubblico,
come
sono
il
diritto
di
famiglia,
l'educazione,
la
moralità
pubblica,
ecc.
"I
problemi
della
vita,
della
procreazione
ivi
compresi
quelli
dell'aborto
e
dell'eutanasia
vengono
affidati
alla
coscienza
privata
e
la
legge
dovrebbe
soltanto
garantire
in
merito
la
libertà
di
coscienza
e
di
comportamento,
la
scelta
individuale.
Si
tratta
dunque
oggi
non
soltanto
di
meglio
definire
e
fondare
il
rapporto
tra
bioetica
e
biodiritto,
ma
anche
di
rivendicare
la
legittimità
di
un
discorso
etico
in
ambito
sociale
e
16
la
sua
rilevanza
in
ambito
giuridico"
.
"Oggi
-‐
ha
detto
Giovanni
Paolo
II
-‐
in
non
poche
società
non
è
raro
assistere
a
una
specie
de
«regresso
de
civiltà»,
frutto
di
(...)
una
concezione
soggettivistica
della
libertà,
svincolata
della
legge
morale"
.
Bisogna,
perciò,
dire
chiaramente
e
con
forza
-‐
per
difendere
il
diritto
inalienabile
alla
vita,
ma
anche
per
prevenire
le
intelligenze
oneste
contro
i
sofismi
dei
falsi
democratici
-‐
che
questa
riduzione
meramente
soggettivista
e
agnostica
della
libertà
e
del
diritto
è
contraria
non
soltanto
alla
dottrina
sociale
cristiana
ma
anche
al
concetto
tradizionale
e
sano
di
Diritto
e
di
Democrazia.
A
questo
punto
del
nostro
discorso
qualcuno
potrebbe
obiettare,
valutando
le
precedenti
affermazioni
in
chiave
moralista
e
perfino
fondamentalista:
ma
non
ci
si
accorge
che
parlando
così
si
confondono
pericolosamente
la
Morale
e
il
Diritto?
Non
ci
si
accorge
che
il
precetto
morale
si
appella
alla
coscienza,
mentre
la
norma
giuridica
riguarda
invece
i
rapporti
esterni,
la
condotta
sociale
dell'uomo?
Non
ci
si
accorge
che
in
tutto
questo
ragionamento,
oltre
a
detta
commistione
concettuale,
traspare
una
certa
nostalgia
dello
Stato
confessionale
cristiano,
opposto
alla
libertà
religiosa?
Non
ci
lasciamo
impressionare
dal
subdolo
sofisma
nascosto
sotto
queste
domande.
A
prescindere
del
fatto
-‐
già
ricordato
-‐
che
prima
del
Cristianesimo
la
preminenza
della
legge
naturale,
della
recta
ratio,
sulla
legislazione
positiva,
era
patrimonio
giuridico
della
cultura
giuridica
classica
ed
anche
del
costituzionalismo
moderno,
è
anche
l'attuale
concezione
personalistica
della
sociologia
e
della
scienza
del
Diritto
quella
che
richiede
che
tutti
gli
ordinamenti
giuridici
rispettino
i
postulati
del
diritto
naturale
.
Infatti,
è
vero
che
la
Morale
e
il
Diritto
sono
due
scienze
diverse,
che
riguardano
l'uomo
da
prospettive
e
con
finalità
differenti.
La
Morale
si
occupa
primariamente
dell'ordine
dell'uomo
come
persona:
riguarda
cioè
l'insieme
di
esigenze
emananti
dalla
struttura
ontologica
dell'uomo
in
quanto
essere
creato
e
dotato
di
una
particolare
natura,
dignità
e
finalità.
Il
Diritto,
invece,
si
occupa
primariamente
dell'ordine
sociale:
riguarda
cioè
-‐
stiamo
parlando
del
Diritto
come
ordinamento
-‐
l'insieme
di
strutture
che
ordinano
la
comunità
civile,
la
società.
Ma
se
il
fatto
più
rilevante
e
positivo
del
progresso
della
scienza
del
Diritto
nel
secolo
XX
è
stato
proprio
quello
di
mettere
al
centro
della
realtà
giuridica
il
suo
vero
protagonista,
l'uomo,
fondamento
e
fine
della
società,
è
ovvio
che
il
Diritto
di
una
sana
democrazia
-‐
nell'ordinare
le
proprie
strutture
sociali
-‐
deve
tenere
conto
di
quale
sia
la
struttura
ontologica
della
persona
umana:
la
sua
natura
di
essere
non
soltanto
animale
e
istintivo
ma
intelligente,
libero
e
con
una
dimensione
trascendente
e
religiosa
dello
spirito
che
non
può
essere
ignorata,
né
mortificata.
Qualora
si
negasse
questa
verità
universale
sulla
natura
e
la
dignità
della
persona
umana
-‐
una
verità
che
non
può
essere
convenzionale
né
dipendere
dalla
opinione
della
maggioranza
-‐,
non
solo
si
indebolirebbe
pericolosamente
il
concetto
di
libertà
religiosa
-‐
e
degli
altri
diritti
fondamentali
dell'uomo
-‐,
ma
ci
si
troverebbe
dinanzi
ad
un
diritto
antinaturale
essenzialmente
immorale,
strumento
di
un
ordinamento
sociale
totalitario,
anche
se
lo
si
volesse
chiamare
democratico.
QUANDO
SI
HA
LA
DIGNITÀ
DI
PERSONA?
Si
sa
che
nella
Dichiarazione
Universale
dei
Diritti
dell'Uomo
non
appare
con
precisione
giuridica
chi
è
il
soggetto
a
cui
va
attribuita
la
titolarità
dei
diritti
umani.
Nel
Preambolo
viene
designato
come
tale
ogni
"membro
della
famiglia
umana"
e
si
adopera
anche
il
termine
"persona
umana".
Invece
all'Art.
1
si
dice
che:
"tutti
gli
esseri
umani
nascono
liberi
e
uguali
in
dignità
e
diritti",
mentre
agli
Artt.
2
e
3
si
parla
rispettivamente
di
"persona"
(come
soggetto
di
diritti
in
genere)
e
di
"individuo"
(come
soggetto
concretamente
del
diritto
alla
vita).
La
Dichiarazione
non
ha
chiarito
il
dubbio
-‐
posto
anche
nell'ambito
filosofico
e
biologico
-‐
su
quando
si
può
adoperare
la
17
categoria
giuridica
di
"persona"
(con
conseguente
"dignità
personale")
per
applicarla
all'essere
umano
come
soggetto
dei
suoi
diritti
fondamentali.
Si
tratta
di
una
questione
terminologica
problematica
-‐
presente
in
non
pochi
codici
civili
e
costituzioni
-‐
che
riflette
l'altra
questione
di
fondo
prima
accennata:
quale
sia
la
verità
sull'uomo.
Mi
sembra
doveroso,
a
chiusura
di
questa
mia
relazione
fare
qualche
modesta
considerazione
in
merito,
lasciando
ad
altri
più
specifici
e
qualificati
interventi
gli
ulteriori
approfondimenti
sul
problema.
Non
c'è
dubbio,
infatti,
che
nell'attuale
crocevia
della
storia
ha
acquistato
una
particolare
importanza
ed
urgenza
la
necessità
di
mettere
ben
in
chiaro
quale
sia
la
natura
della
persona
umana,
radicalmente
diversa
da
tutti
gli
altri
esseri
esistenti.
Perché
questa
questione
ha
le
più
gravi
e
decisive
conseguenze
per
il
futuro
dell'umanità:
sia
nel
campo
della
scienza
e
specialmente
della
biologia
e
della
genetica,
che
in
quello
del
diritto,
della
sociologia
e
della
politica.
Per
i
credenti
la
"verità
sull'uomo"
non
è
una
questione
problematica
ma
una
verità
pienamente
acquisita,
rivelata.
"Qual
è
dunque
l'essere
che
deve
venire
all'esistenza
circondato
da
una
tale
considerazione?"
domandava
San
Giovanni
Crisostomo
considerando
la
grandezza
di
questo
essere
singolare
creato
da
Dio
"a
sua
immagine"
(Gen.
1,27)
e,
perciò,
intelligente
e
libero,
cosciente
e
responsabile;
redento
dal
peccato
e
dalla
morte
mediante
il
sacrificio
dello
stesso
Dio
fatto
uomo;
elevato
alla
condizione
di
figlio
adottivo
di
Dio
e
chiamato
a
condividere,
nella
conoscenza
e
nell'amore,
la
vita
del
suo
Creatore.
E
rispondeva
lo
stesso
San
Giovanni
Crisostomo:
"È
l'uomo,
grande
e
meravigliosa
figura
vivente,
più
prezioso
agli
occhi
di
Dio
dell'intera
creazione;
è
l'uomo,
è
per
lui
che
esistono
il
cielo
e
la
terra
e
il
mare
e
la
totalità
della
creazione"
.
Glossando
questa
nozione
biblica
dell'uomo,
l'antropologia
cristiana
spiega:
"Essendo
ad
immagine
di
Dio,
l'individuo
umano
ha
la
dignità
di
persona;
non
è
soltanto
qualche
cosa,
ma
qualcuno"
.
Perciò
:
l'essere
umano
"va
rispettato
e
trattato
come
persona
fin
dal
suo
concepimento"
.
Infatti,
ormai
non
c'è
dubbio
anche
per
le
scienze
positive
che
l'embrione
non
è
solo
un
individuo
ben
definito
della
specie
umana,
ma
abbraccia
anche
tutte
le
potenzialità
biologiche,
psicologiche,
culturali,
spirituali,
ecc.
che
l'uomo
svilupperà
nel
corso
della
sua
esistenza.
Perciò,
ha
ribadito
Giovanni
Paolo
II
a
conclusione
del
Simposio
internazionale
"Evangelium
vitae
e
Diritto":
"Non
possiamo
non
assumere
come
punto
di
partenza
lo
statuto
biologico
dell'embrione
che
è
un
individuo
umano,
avente
la
qualità
e
la
dignità
propria
della
persona.
L'embrione
umano
ha
dei
diritti
fondamentali,
cioè
è
titolare
di
costitutivi
indispensabili
perché
l'attività
connaturale
ad
un
essere
possa
svolgersi
secondo
un
proprio
principio
vitale.
L'esistenza
del
diritto
alla
vita
quale
costitutivo
intrinsecamente
presente
nello
statuto
biologico
dell'individuo
umano
fin
dalla
fecondazione
costituisce,
pertanto,
il
punto
fermo
della
natura
anche
per
la
definizione
dello
statuto
etico
e
giuridico
del
nascituro"
.
Per
avere,
infatti,
«
la
qualità
e
la
dignità
propria
della
persona
»
non
si
richiede
che
questa
abbia
già
sviluppato
in
maggior
o
minor
grado
le
sue
potenzialità.
Ma:
qual
è
per
i
non
credenti,
per
le
intelligenze
non
illuminate
ancora
dalla
fede,
la
"verità
sull'uomo"?
La
risposta
a
questa
pressante
domanda
-‐
da
parte
della
filosofia
e
delle
scienze
biologiche
-‐
comporta
gravi
e
decisive
conseguenze
per
il
futuro,
non
solo
del
diritto
e
della
democrazia
ma
dell'intera
umanità.
Perciò,
è
proprio
su
questa
primaria
questione
dove
sembra
che
sia
più
urgente
-‐
come
Giovanni
Paolo
II
auspica
nella
Fides
et
Ratio
-‐
il
dialogo
sereno
e
costruttivo
tra
la
filosofia
e
la
Rivelazione,
tra
Atene
e
Gerusalemme,
tra
la
ragione
e
la
fede
.
In
questo
orizzonte
della
"circolarità
tra
fede
e
filosofia",
del
loro
dialogo
cioè
nella
ricerca
umana
della
verità,
si
colloca
certamente
la
primaria
questione
giuridica
-‐
ma
non
solo
-‐
della
"verità
sull'uomo",
cioè
sulla
dignità
della
persona
umana.
Lo
ha
ricordato
espressamente
Giovanni
Paolo
II:
"Anche
la
concezione
della
persona
come
essere
spirituale
è
una
peculiare
originalità
18
della
fede:
l'annuncio
cristiano
della
dignità,
dell'uguaglianza
e
della
libertà
degli
uomini
ha
certamente
influito
sulla
riflessione
filosofica
che
i
moderni
hanno
condotto"
.
Pensando
alla
necessità
di
sviluppare
ulteriormente
questa
riflessione
filosofica
-‐
metafisica
-‐
in
dialogo
costruttivo
con
il
messaggio
biblico
sulla
dignità
dell'essere
persona,
ma
anche
in
ascolto
delle
scoperte
apportate
dalle
scienze
biologiche
e
genetiche
sull'origine
e
lo
sviluppo
dell'essere
umano,
mi
sembra
che
si
ponga
in
modo
pregiudiziale
una
sfida:
quella
di
superare
appunto
i
pregiudizi.
Senza
questo
primario
requisito
metodologico,
il
dialogo
"circolare"
e
costruttivo
tra
fede,
filosofia
e
biologia
non
sarebbe
possibile.
Eppure
deve
essere
possibile.
Perché
-‐
giova
ripeterlo
-‐
la
nozione
di
persona
umana,
la
"verità
sull'uomo"
non
è
una
questione
meramente
accademica
ma
un
acuto
problema
esistenziale,
senza
la
cui
soluzione
-‐
sul
piano
della
ragione
-‐
non
sarebbe
possibile
ricuperare
il
senso
ed
il
valore
dell'etica
e
del
diritto.
Nel
passato
-‐
al
tempo
delle
eresie
e
delle
controversie
sui
dogmi
della
Trinità
e
dell'Incarnazione
del
Verbo
-‐
il
dialogo
in
proposito
tra
teologia
e
filosofia
è
stato
particolarmente
intenso,
attesa
la
necessità
di
precisare
il
significato
e
i
relativi
rapporti
fra
i
termini
"natura",
"sostanza",
"ipostasi"
e
"persona"
(anche
perché
la
nozione
filosofica
di
"persona",
introdotta
nella
nota
definizione
di
Boezio
non
esisteva
nella
filosofia
greca).
E
si
sa
bene
che
questo
dialogo
è
continuato
dopo,
specie
nell'epoca
moderna,
a
proposito
tra
l'altro
della
distinzione
o
meno
-‐
funzionale
solo
oppure
ontologica
-‐
tra
i
termini
"individuo"
e
"persona"
(Hegel,
Kierkegaard,
Feuerbach,
M.
Bubber,
Mounier,
ecc.).
Dal
canto
suo,
Giovanni
Paolo
II,
nella
stessa
enciclica
Fides
et
Ratio
incoraggia
i
filosofi
ad
approfondire
il
concetto
di
persona
prestando
maggiore
attenzione
all'antropologia
relazionale
della
Bibbia
.
Comunque
dove
l'auspicato
dialogo
"circolare"
sembra
che
dovrà
essere
intrapreso
con
maggiore
dedizione
e
pazienza
è
nei
rapporti
della
teologia
e
della
filosofia
del
diritto
con
le
scienze
biologiche.
Questo
dialogo
costruttivo
-‐
di
mutuo
arricchimento
-‐
forse
appare
oggi
più
difficile
che
nel
passato,
attesa
la
notoria
tendenza
di
una
buona
parte
del
pensiero
moderno
a
rifiutare
la
metafisica,
ad
emarginare
l'essere.
A
ragione
è
stato
detto
che
nel
progetto
culturale
moderno
"l'uomo
è
visto
sdoppiato:
c'è
un
livello
in
cui
lo
si
considera
soggetto
inalienabile
(la
persona
interpretata
come
titolare
di
diritti),
e
un
altro
livello
nel
quale
è
oggetto,
cioè
parte
della
natura
fisico-‐biologica,
sulla
quale
mette
le
sue
mani
la
scienza"
.
Ovviamente
questo
livello,
puramente
empirico,
delle
scienze
biologiche
la
dignità
della
persona
come
soggetto
inalienabile
diventa
molto
problematico.
Pertanto,
forse
sarà
consigliabile
che
il
primo
approccio
al
dialogo
della
filosofia
del
diritto
con
le
scienze
biologiche
-‐
e
più
concretamente
con
la
biogenetica
umana
-‐
non
lo
si
faccia
con
"postulati"
personalisti
introdotti
"ex
abrupto".
"Si
dovrebbe
piuttosto
iniziare
-‐
suggerisce
un
filosofo
-‐
con
l'analisi
e
l'osservazione
ontologica
della
realtà
-‐
la
vita
e
l'essere
dell'uomo
-‐,
a
partire
dalla
quale
verrà
alla
luce
l'originalità
ed
il
carattere
specifico
del
suo
essere
persona"
.
Allo
stesso
tempo,
da
parte
della
biologia
si
dovrebbe
evitare
di
usare
impropriamente
il
termine
"persona",
che
viene
infatti
adoperato
da
alcuni
non
più
come
un
confine
trascendente
tra
l'universo
umano
e
quello
non
umano,
ma
soltanto
all'interno
dell'universo
umano
per
operare
una
arbitraria
discriminazione
tra
una
fase
e
l'altra
del
suo
sviluppo:
"persona"
sarebbe,
secondo
loro,
soltanto
il
bambino
nato
ma
non
il
feto
né
l'embrione.
In
questo
modo,
e
contrariamente
alla
visione
teologica
e
filosofica,
la
persona
non
viene
definita
per
quello
che
è
ma
per
quello
che
è
in
grado
di
fare
o
di
apparire,
con
le
conseguenze
normative
-‐
sul
piano
etico
e
giuridico
-‐
che
di
questa
discriminazione
si
deducono:
chi
non
è
ancora
"persona"
-‐
ma
soltanto
una
realtà
o
cosa
"potenzialmente
umana"
-‐
non
può
avere
"personalità
giuridica",
non
può
essere
cioè
titolare
di
veri
diritti,
come
il
diritto
alla
vita
.
Ed
è
questa
una
chiusura
intellettuale
che
né
la
fede
né
la
scienza
possono
ammettere.
19
(1)
Cfr.,
tra
gli
altri,
A.
BAUSOLA,
£Il
fondamento
del
diritto
alla
vita":
in
TARANTINO
A.
(a
cura
di),
Per
una
Dichiarazione
dei
diritti
del
nascituro,
Milano
1996,
pp.
113-‐114.
(2)
Cfr.
J.
HERVADA,
Escritos
de
Derecho
Natural,
Pamplona
1986,
pp.
420-‐443;
W.
WALDSTEIN,
Diritto
naturale,
Diritti
umani
e
Democrazia,
comunicazione
presentata
al
XI
Colloquio
Internazionale
Romanistica-‐Canonistico
(Roma,
22-‐25.V.1996),
promosso
dalla
Pontificia
Università
Lateranense.
(3)
Basta
considerare
che
la
giurisprudenza
romana
cercò
sempre
di
proteggere
il
nascituro.
Per
esempio:
l’esecuzione
della
pena
capitale
contro
una
donna
incinta
va
differita
a
dopo
il
parto;
una
donna
incinta
non
può
essere
sottoposta
a
interrogatorio
con
tortura
(ULPIANO,
D.1.5.18;
48.19.3;
PAUL.
Sent.
1.12.4)
ecc.
Cfr.
CATA-‐LANO
P.,
«
Vigenza
dei
principi
del
Diritto
Romano
riguardo
ai
£Diritti
dei
nascituri"
»:
in
TARANTINO
(a
cura
di),
Per
una
dichiarazione
dei
nascituri,
o.c.,
pp.134-‐135.
(4)
Cfr.
CONC.
ECUM.
VAT.
II,
Cost.
past.
Gaudium
et
spes,
n.
24.
(5)
Cost.
past.
Gaudium
et
spes,
n.
19.
(6)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Lett.
enc.
Evangelium
vitae
(25.III.1995),
n.
29;
cfr.
Cost.
past.
Gaudium
et
spes,
n.
16;
Dich.
Dignitatis
humanae,
n.
3.
(7)
Cfr.
A.
BALDASSARRE,
Diritti
inviolabili:
in
Enciclopedia
Giuridica
Treccani,
Vol.
XI,
Roma
1989,
pp.
1-‐7.
(8)
Cfr.
Ulpiano
(Regularum
in
Digesto,
lib.
I,
10,
1);
Giustiniano
(Institutiones,
Lib.
I,
tit.
I,
1),
S.
Tomma-‐so
(S.
Th.,
II-‐II,
q.
57,
a.
1).
(9)
Cfr.
J.
HERRANZ,
«
L'agonia
del
Diritto
agnostico
»:
in
Studi
Cattolici,
aprile
1994,
pp.
166-‐171.
(10)
R.
MINNERATH,
«
Le
rôle
des
traditions
juridiques
dans
les
débats
internationaux
sur
les
droits
à
la
vie
»:
in
A.
LOPEZ
TRUJILLO,
J.
HERRANZ,
E.
SGRECCIA
(a
cura
di),
Evangelium
vitae
e
Diritto,
Città
del
Vaticano
1997,
p.
269.
(11)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Evangelium
vitae,
n.
11.
(12)
GIOVANNI
PAOLO
II,
«Discorso
al
mondo
della
cultura
nell’Università
di
Vilnius»,
5.IX.1993:
in
L’Osservatore
Romano,
6.IX.1993,
p.
1.
(13)
Cfr.
V.
POSSENTI,
Le
società
liberali
al
bivio.
Lineamenti
di
filosofia
della
società,
Genova
1991,
pp.
345
e
ss.
(14)
Cfr.
M.
A.
GLENDON,
«
Il
laico
nell’agone
pubblico
»:
in
Studi
Cattolici,
465,
novembre
de
1999,
pp.
741-‐748.
(15)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Messaggio
«
The
signal
occasion
»
a
S.
E.
il
Dr.
Kurt
Waldheim,
Segretario
Ge-‐nerale
delle
Nazioni
Unite,
2.XII.1978:
aas,
71
(1979),
pp.
122-‐123.
Cfr.
W.
KASPER,
«
The
theological
Foundation
of
Human
Rights
»:
in
Jurist,
50,
1/90,
pp.
146
ss.
(16)
GIOVANNI
PAOLO
II,
«
Discorso
alla
Assemblea
Generale
delle
Nazioni
Unite,
in
occasione
del
50º
an-‐niversario
della
fondazione
dell’ONU
»,
5.X.1995,
n.
3:
in
Insegnamenti
di
Giovanni
Paolo
II,
v.
XVIII/2,
Città
del
Vaticano
1998,
p.
732.
(17)
Ibidem.
(18)
NAZIONI
UNITE,
Dichiarazione
Universale
dei
Diritti
dell’Uomo,
Preambolo.
(19)
E.
SGRECCIA,
«
Le
legislazioni
sulla
corporeità.
Il
saluto
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita
»:
in
A.
LÓPEZ
TRUJILLO,
J.
HERRANZ,
E.
SGRECCIA
(a
cura
di)
£Evangelium
vitae
e
Diritto",
o.c.,
pp.
28-‐29.
Cfr.
anche
R.
NAVARRO
VALS,
«
Ley
civil
y
ley
moral:
la
responsabilidad
de
los
legisladores
»:
in
La
Causa
della
Vita,
Città
del
Vaticano
1995,
pp.
84-‐104.
(20)
GIOVANNI
PAOLO
II,
«
Discorso
al
Simposio
Internazionale
£Evangelium
vitae
e
Diritto"
»,
n.
3:
aas,
88
(1996)
940.
(21)
Da
diverse
prospettive
e
con
varie
sfumature
coincidono
in
questa
idea
di
fondo,
tra
gli
altri:
J.
MARITAIN,
L’homme
et
l’Etat,
Paris
1953,
pp.
69
ss.;
A.
DEL
NOCE,
I
caratteri
generali
del
20
pensiero
politico
contempora-‐neo,
Milano
1972;
V.
POSSENTI,
Le
società
liberali
al
bivio.
Lineamenti
di
filosofia
della
società,
Genova
1991,
pp.
281-‐314;
J.
HERVADA,
£Derecho
natural,
democracia
y
cultura":
in
Persona
y
Derecho,
6
(1979),
pp.
200
ss.;
S.
COTTA,
«
Diritto
naturale:
ideale
o
vigente?
»:
in
Iustitia,
1982
(2),
pp.
119
ss.;
J.
FORNÉS,
«
Pluralismo
y
fundamentación
ontológica
del
derecho
»:
in
Persona
y
Derecho,
9
(1982),
pp.
109
ss.;
M.
NOVAK,
«
Dignité
humaine
et
liberté
de
les
personnes
»:
in
Liberté
Politique,
mayo
1998,
pp.
155-‐166;
M.
SCHOOYANS,
«
Démo-‐cratie
et
Droits
de
l’homme
»:
in
Liberté
Politique,
ottobre
1998,
pp.
57-‐66;
A.
M.
ROUCO
VARELA,
Los
fun-‐damentos
de
los
derechos
humanos:
una
cuestión
urgente,
Madrid
2001,
pp.
20-‐61.
(22)
S.
GIOVANNI
CRISOSTOMO,
Sermones
in
Genesim,
2,1:
PG
54,
587D–588A.
(23)
Catechismo
della
Chiesa
Cattolica,
n.
357.
(24)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Lett.
enc.
Evangelium
Vitae,
n.
70;
cfr.
Istruzione
della
(25)
Congregazione
per
la
Dottrina
della
Fede
Donum
vitae,
I.1.
Communicationes
28
(1996)
16.
(26)
Cfr.GIOVANNI
PAOLO
II,
Lett.
enc.
Fides
et
ratio,
n.
76.
(27)
Ibidem,
n.
76.
(28)
Persona
est
rationalis
naturae
individua
substantia
(BOEZIO,
De
duobus
naturis,
cap.
3:
PL
64,1343).
(29)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Fides
et
Ratio,
n.
80.
(30)
V.
POSSENTI,
Sobre
el
estatuto
ontológico
del
embrión
humano
:
in
El
derecho
a
la
vida,
AA.VV.,
Pamplona
1998,
p.
117.
(31)
Ibidem,
p.
118.
(32)
Si
tratta,
ovviamente,
di
una
tesi
che
il
Magistero
ecclesiastico
non
ammette.
Ma
anche
la
bioetica
la
con-‐sidera
sprovvista
di
valore
scientifico,
atteso
che
£è
ormai
biologicamente
e
geneticamente
certo
che
appena
avvenuta
la
fusione
dei
gameti
inizia
l’esistenza
di
un
nuovo
soggetto
umano
il
quale,
sotto
il
controllo
del
pro-‐gramma
iscritto
nel
proprio
genoma,
esegue
autonomamente
e
teleologicamente,
in
una
rigorosa
unità
funzio-‐nale,
il
proprio
piano
di
sviluppo
in
modo
coordinato,
continuo
e,
per
legge
generale,
graduale":
E.
SGRECCIA,
«
Identità
e
statuto
dell’embrione
umano
»:
in
Per
una
dichiarazione
dei
diritti
del
nascituro,
Milano
1996,
pp
24-‐25.
21
ANDRZEJ
SZOSTEK
22
In
secondo
luogo,
l'evoluzionismo
livella
un
importante
differenza
tra
gli
esseri
umani
ed
il
resto
dell'Universo,
e
nel
fare
ciò
mette
in
dubbio
la
legittimità
di
attribuire
all'Uomo
una
dignità
particolare,
dal
momento
che
l'Uomo
è
un
elemento
di
quella
totalità
che
è
l'evoluzione
dell'Universo.
Inoltre,
poiché
ogni
essere
umano
è
legato
in
vari
modi
agli
altri
ed
all'intero
Universo,
non
ci
sono
motivi
in
base
ai
quali
si
dovrebbe
considerare
qualunque
essere
umano
come
'quello'
particolarmente
meritevole
di
rispetto
e
tutela
della
sua
vita.
Per
di
più,
l'immensità
dell'Universo,
la
summenzionata
predisposizione
a
formare
strutture
sempre
più
complesse
(processo
già
osservabile
al
livello
della
materia
inanimata),
e
la
relativa
giovane
età
del
sistema
solare
(quasi
5
miliardi
di
anni)
hanno
spinto
molti
sostenitori
della
teoria
dell'evoluzione
a
supporre
che
l'Universo
sia
'popolato'
di
esseri
coscienti
simili
all'uomo
o
ancor
più
progrediti.
A
causa
di
motivi
tecnici
ed
al
'carattere
locale'
dei
sentieri
presi
dall'evoluzione,
che
sono
adeguati
alle
condizioni
di
un
determinato
luogo
nell'Universo,
un
incontro
tra
le
civiltà
terrestre
ed
extraterrestri
forse
non
avverrà
mai,
tuttavia
ciò
non
vuol
dire
che
queste
ultime
non
esistano.
Il
summenzionato
Ditfurth
ci
mette
in
guardia
contro
una
frettolosa
identificazione
tra
intelligenza
e
cervello
(ancora
un
altro
esempio
di
antropocentrismo).
Secondo
Ditfurth,
molte
sbalorditive
meraviglie
della
natura
conducono
piuttosto
a
presumere
che
già
nel
nostro
mondo
ed
ancor
di
più
in
altre
parti
dell'Universo
esista
qualche
tipo
di
intelligenza,
diversa
dal
cervello,
che
è
piuttosto
situata
in
qualche
sorta
di
'struttura
specie-‐specifica'
(2)
.
Difatti,
nell'intero
Universo
noi
siamo
solo
i
'bambini
dell'Universo',
che
stiamo
accumulando
solo
una
piccola
parte
della
sua
ricchezza,
solo
la
parte
relativa
alla
sua
intelligenza.
Infine,
la
terza
conseguenza
dell'evoluzionismo,
più
strettamente
legata
all'etica
evoluzionistica,
è
il
relativismo
naturalistico
che
trova
espressione
nella
convinzione
che
le
norme
morali
siano,
in
realtà,
le
varianti
delle
regole
con
cui
gli
organismi
di
classe
inferiore
-‐
animali
e
piante
-‐
vengono
governati,
come
anche
l'intero
Universo.
Viene
considerato
un
relativismo
in
quanto
rende
il
contenuto
e
la
forza
vincolante
di
tutte
le
norme
dipendenti
da
elementi
variabili
che
determinano
una
specifica
fase
di
sviluppo
della
società
e
della
'natura'
umana.
E'
il
cosiddetto
relativismo
naturalisticoper
il
modo
in
cui
riduce
il
senso
delle
norme
morali
a
regole
che
governano
il
mondo
degli
animali
(un
tale
approccio,
che
viene
chiamato
paralogismo
naturalistico,
sarà
più
avanti
materia
per
le
nostre
riflessioni).
Un
tale
modo
di
interpretare
le
norme
morali
spinge
a
presumere
che
sebbene
i
cambiamenti
nelle
strutture
della
vita
e
dei
comportamenti
sociali
possano
avere
un
andamento
alterno,
l'evoluzione
dell'umanità
fondamentalmente
segue
la
via
del
progresso,
perché
l'umanità,
al
livello
che
le
compete,
mira
a
raggiungere
il
suo
'avanzamento
biologico',
che
include
anche
il
miglioramento
delle
forme
di
vita
sociale.
Società
diverse
possono
seguire
strade
diverse,
tanto
indipendenti
l'una
dall'altra
da
portare
alla
formazione
di
differenti
gruppi
di
valori
tra
loro
incompatibili
ed
incomunicabili.
Vale
la
pena
di
mettere
in
evidenza
che
benché
l'origine
del
postmodernismo
non
abbia
molto
in
comune
con
la
teoria
dell'evoluzione,
la
critica
al
razionalismo
ed
il
trattamento
di
vari
gruppi
di
valori
come
fossero
uguali
l'uno
con
l'altro,
entrambi
caratteristici
del
postmodernismo,
guadagnano
del
terreno
anche
con
l'evoluzionismo.
Naturalmente,
una
tale
visione
del
mondo,
ispirata
dalla
teoria
dell'evoluzione,
si
ripercuote
in
modo
significativo
non
solo
sulla
scienza,
ma
anche
sulla
riflessione
teologica.
Secondo
alcuni
teologi
dovremmo
di
conseguenza
staccarci
da
una
tradizionale
visione
del
mondo:
una
visione
statica,
che
enfatizza
l'importanza
della
sostanza
immutabile,
ed
allo
stesso
tempo
mette
in
ombra
gli
elementi
variabili,
come
ad
esempio,
il
tempo
e
la
storia.
Al
contrario,
occorre
adottare
una
visione
storica
del
mondo,
in
cui
l'Universo
e
l'essere
umano
siano
trattati
come
realtà
dinamiche
ed
in
cui
la
storia
sia
di
fondamentale
importanza.
Queste
due
visioni
del
mondo
richiedono
differenti
metodologie:
quella
classica
opta
per
l'astrazione,
l'apriorismo
e
la
deduzione,
mentre
quello
storico
è
caratterizzato
dalla
concretezza,
l'aposteriorismo
e
23
l'induzione
empirica.
Per
quanto
attiene
all'etica,
ciò
vuol
dire
che
non
bisogna
più
cercare
di
comprendere
le
norme
morali
immutabili
a
favore
della
formazione
di
norme
approssimative,
il
cui
contenuto
e
la
cui
forza
vincolante
possono
essere
determinate
solo
dal
dialogo
con
le
scienze;
occorre
anche
essere
favorevoli
alla
necessità
di
mettersi
al
corrente
dei
molti
elementi
mutevoli
della
vita
sociale.
(3)
Dunque,
l'evoluzionismo
sembra
implicare
che
non
esistano
verità
assolute
e
moralmente
significative
sull'Uomo.
Peraltro,
comunque,
gli
stessi
autori
che
si
oppongono
con
così
tanto
vigore
a
qualunque
forma
di
ingiustificato
antropocentrismo,
spesso
ammettono
che
l'apparizione
dell'Uomo
sia
un
punto
di
svolta
nell'evoluzione.
Finora,
il
mondo
intero
è
stato
del
tutto
sottomesso
alla
teoria
dell'evoluzione,
governato
dalle
leggi
di
natura
in
qualche
modo
'dal
di
fuori'.
L'Uomo,
a
sua
volta,
è
capace
di
comprendere
il
mondo
e
le
leggi
che
lo
governano;
è
inoltre
in
grado
di
distanziarsi
come
soggetto
sia
da
se
stesso
che
dal
mondo
esterno.
La
sua
intelligenza
gli
permette
di
influenzare
sia
il
destino
del
mondo
sia
quello
proprio,
e
per
di
più,
gli
permette
di
farlo
di
sua
propria
volontà.
Lo
possiamo
notare
oggigiorno
su
scala
mondiale:
è
nei
poteri
dell'Uomo
o
preservare
l'equilibrio
ecologico
del
mondo
oppure
turbarlo
con
disastroso
detrimento
per
sé
e
per
gli
altri
esseri
viventi.
Una
tale
possibilità
di
pilotare
liberamente
il
destino
della
terra
non
è
e
non
può
essere
detenuta
da
esseri
viventi
privi
di
libertà
razionale.
Gli
astrofisici,
riflettendo
sul
destino
dell'umanità
e
del
mondo,
si
inoltrano
su
un
sentiero
a
metà
strada
tra
scienza
e
fantasia
nel
tentativo
di
trovare
risposte
su
come
e
se
l'umanità
possa
prolungare
l'esistenza
della
propria
specie
o
anche
influenzare
il
cammino
delle
stelle.
(4)
Il
sopracitato
H.
von
Ditfurth
sottolinea
che
il
nostro
compito
è
di
garantire
che
lo
sviluppo
del
mondo
non
termini
con
la
nostra
epoca
ed
a
causa
nostra,
mentre
il
futuro
dell'Uomo
e
del
mondo
dipendono
dall'unione
con
il
solo,
potente,
super-‐organismo
galattico,
fornito
di
coscienza.
Per
Ditfurth,
questa
coscienza
onnicomprensiva
fissa
il
punto
supremo
dello
sviluppo
dell'Universo
-‐
punto
supremo
che
l'Uomo,
malgrado
la
relativa
giovane
età
della
terra
e
dell'intera
galassia,
ha
apparentemente
già
raggiunto.(5)
Comunque,
una
seducente
ipotesi
che
suppone
l'esistenza
dell'intelligenza
in
altre
parti
dell'Universo,
ad
un
più
attento
esame,
incappa
in
problemi
piuttosto
considerevoli.
S.W.
Hawking,
che
per
inciso
è
considerato
un
ateo,
concorda
con
il
cosiddetto
debole
principio
antropico,
in
base
al
quale
la
comparsa
dell'intelligenza
umana
richiede
il
soddisfacimento
di
alcune
specifiche
condizioni,
nella
cui
creazione
l'Universo
ha
impiegato
circa
15
miliardi
di
anni.
(6)
Il
credito
innegabile
della
tendenza
evoluzionista
deriva
dal
prestare
una
particolare
attenzione
ai
legami
tra
l'Uomo
e
l'ambiente,
legami
che
ora
sono
considerati
in
qualche
modo
essere
più
stretti
di
quanto
si
pensasse
prima.
Questi
legami
pervadono
la
dimensione
biologica
dell'essere
umano;
pertanto,
l'evoluzionismo
aiuta
a
mostrare
più
completamente
il
carattere
specifico
di
tale
sfera
(sorprendentemente
simile
geneticamente
all'intero
mondo
degli
esseri
viventi,
come
è
stato
dimostrato
dalle
più
recenti
ricerche
in
questo
campo).
Più
di
tutto,
questa
tendenza
ci
ha
resi
sensibili
al
fatto
che
l'Uomo
appartiene
al
mondo,
che
è
soggetto
al
profondo
processo
dell'evoluzione.
Così,
è
necessario
comprendere
il
significato
della
storia
del
mondo
e
quello
dell'Uomo
in
essa,
e
fare
attenzione
alla
tentazione
di
considerare
frettolosamente
come
immutabile
ciò
che
appare
essere
transitorio
su
scala
cosmica.
Peraltro,
comunque,
si
deve
fare
attenzione
ad
una
comprensione
troppo
primitiva
dell'evoluzione,
che
metta
sullo
stesso
piano
in
modo
alquanto
dogmatico
l'Uomo
ed
il
resto
dell'Universo.
La
riflessione
sull'importanza
dell'intelligenza,
di
cui
l'Uomo
è
fornito,
induce
molti
sostenitori
della
teoria
dell'evoluzione
ad
ammettere
che
l'Uomo
in
effetti
giochi
un
ruolo
rilevante
nel
processo
evolutivo.
Per
di
più,
qualunque
sia
l'ulteriore
storia
della
specie
'homo
sapiens',
non
perderà
mai
la
sua
specificità
e
superiorità
sul
mondo.
B.
Pascal
non
aveva
cognizione
dell'evoluzione
dell'Universo,
eppure
colse,
straordinariamente
bene,
la
differenza
tra
l'Uomo
e
l'Universo
e
le
caratteristiche
grazie
24
alle
quali
l'Uomo
si
distingue:
'Il
mondo
mi
abbraccia
nel
suo
spazio
e
mi
assorbe
come
un
punto,
io
lo
abbraccio
con
il
pensiero'(7).
Fisici
e
biologi
non
sono
competenti
nel
parlare
del
valore
(dignità)
dell'essere
umano,
ma
ciononostante
le
loro
teorie
non
sono
esenti
da
congetture
assiologiche.
Una
superficiale
fascinazione
per
la
teoria
dell'evoluzione
fa
sì
che
alcuni
dei
suoi
divulgatori
appianino
la
specificità
dell'essere
umano
e
considerino
l'Uomo
una
rotella
in
un
Universo
che
si
evolve
in
modo
dinamico.
Comunque,
gravando
l'umanità
di
responsabilità
per
il
proprio
futuro
e
per
il
futuro
del
mondo,
come
anche
incoraggiandola
ad
agire
in
un
modo
da
garantire
questo
futuro,
questi
scienziati
cedono
il
passo
alla
basilare
intuizione
assiologica,
che
suggerisce
come
il
mondo
stesso
sia
prezioso,
degno
di
esistere,
ed
ancor
di
più
è
l'Uomo
degno
di
attenzione
in
questo
mondo.
In
tal
senso,
essi
accordano,
sebbene
indirettamente,
una
posizione
speciale
all'Uomo,
che
deriva
dalla
sua
inalienabile
razionalità.
IL
LIBERALISMO
Una
tale
posizione
è
certamente
accordata
all'Uomo
dal
liberalismo,
che
considero
non
come
una
dottrina
economica,
ma
come
una
concezione
che
reputa
la
libertà
come
il
principale
attributo
della
grandezza
dell'Uomo
e
come
una
condizione
e
l'unico
modo
per
raggiungere
la
completa
felicità.
Una
tale
descrizione
del
liberalismo
non
è
esauriente;
tuttavia
è
impossibile
racchiuderlo
in
una
definizione
concisa
perché
intendiamo
usare
il
termine
liberalismo
per
includere
una
ricca
e
variegata
tendenza
del
pensiero,
presente
in
molte
teorie
filosofiche,
teologiche,
politiche
ed
economiche.
Tra
i
principali
rappresentanti
del
liberalismo,
gli
esistenzialisti
sono
sicuramente
degni
di
essere
citati,
specialmente
i
discepoli
di
J.P.
Sartre,
la
cui
comprensione
e
difesa
della
libertà
non
consente
di
accettare
né
la
natura
immutabile
dell'uomo,
né
le
norme
morali.
Ricordiamoci
che
l'esistenzialismo
deve
il
suo
nome
ad
una
tesi,
in
base
alla
quale
nell'Uomo,
diversamente
dal
circostante
mondo
degli
esseri
privi
della
libertà,
l'esistenza
precede
l'essenza,
al
punto
che
la
vita
(esistenza)
di
altri
esseri
viene
determinata
dalla
loro
natura
(essenza).
L'Uomo
dovrebbe
solo
iniziare
a
definire
la
sua
natura:
creare
da
solo
la
propria
identità
(esistenza),
'definire'
la
sua
essenza.
Per
Sartre
soggiacere
a
qualunque
norma
è
sinonimo
di
malafede;
significa
tradire
se
stessi
e
la
propria
libertà,
che
merita
di
essere
chiamata
libertà
solo
quando
è
del
tutto
priva
di
restrizioni.(8)
Il
fascino
della
libertà
considerata
una
dimensione
strettamente
morale
che
distingue
l'Uomo,
per
mezzo
della
quale
l'Uomo
realizza
se
stesso
nella
sua
natura
umana,
trova
la
sua
espressione
non
solo
nella
filosofia
esistenzialista.
Si
potrebbe
anzi
sostenere
che
la
filosofia
tenti
di
comprendere
e
di
sottoporre
a
riflessione
questa
esperienza
e
'sapore
di
libertà',
che
è
divenuta
parte
dell'umanità,
specialmente
nelle
nazioni
euro-‐atlantiche,
a
cominciare
dalla
Rivoluzione
Francese,
dalla
nascita
degli
Stati
Uniti
d'America,
per
passare
attraverso
la
Rivoluzione
del
1848
(La
marea
delle
nazioni),
fino
alle
esperienze
delle
due
guerre
mondiali
e
alla
decolonizzazione,
ed
infine
ha
dato
origine
alla
diffusione
della
libertà
in
filosofia
e
in
letteratura;
ciò
ha
anche
permesso
alla
democrazia
(con
una
stampa
libera
dalla
censura)
ed
all'economia
del
libero
mercato
di
conquistare
uno
stabile
punto
d'appoggio.
Non
sorprende
che
le
tendenze
liberali
abbiano
avuto
anche
un
riflesso
in
teologia,
che
per
secoli
ha
difeso
la
verità
circa
la
libertà
dell'Uomo
ed
ha
indicato
il
suo
significato
nella
natura
dell'essere
umano
da
una
prospettiva
teologica.
Tra
i
teologi
che
pongono
una
particolare
enfasi
sulla
libertà,
intesa
come
ciò
che
differenzia
la
dimensione
personale
dell'esistenza
dell'Uomo,
c'è
certamente
K.
Rahner.
E'
sua
opinione
che,
"sulla
base
della
dualità
spirituale-‐materiale
dell'Uomo,
occorre
distinguere
tra
Uomo
come
persona
dotata
di
intelligenza
e
Uomo
come
natura.
Una
persona
è
ritenuta
un
Uomo,
in
quanto
è
capace
di
controllare
liberamente
se
25
stesso
(come
natura)
ed
in
effetti
lo
fa.
La
natura
è
intesa
come
tutto
ciò
che
condiziona
la
possibilità
delle
libere
azioni
dell'Uomo
(come
persona),
ed
allo
stesso
tempo
costituisce
una
norma
che
limita
l'autonoma
indipendenza
della
libertà".(9)
Nello
stesso
spirito,
Rahner
prosegue
sottolineando
che
il
valore
morale
di
un'azione
deve
essere
valutato,
non
solo
dal
criterio
oggettivo
della
sua
giustezza,
ma
ancor
di
più
se
e
fino
a
che
punto
questo
valore
morale
esprime
e
rafforza
la
libertà
di
un
soggetto.
(10)
Per
di
più,
nello
spirito
del
liberalismo,
alcuni
teologi
tendono
a
sminuire
l'importanza
di
tipici
atti
di
scelta,
mirati
al
raggiungimento
di
un
certo
fine
-‐
e
pertanto
tematici
-‐
a
favore
della
cosiddetta
sottostante
opzione
fondamentale,
che
differisce
da
loro
per
la
sua
profondità
e
per
il
suo
carattere
unico
ed
atematico,
che
rende
difficile
la
sua
valutazione
morale.(11)
Inoltre,
questi
teologi
tenderanno
a
negare
l'esistenza
delle
cosiddette
assolute
(ovverosia,
sempre
valide)
ed
operative
(cioè,
definite
dal
loro
contenuto)
norme
morali.(12)
Tali
norme
si
riferiscono
ad
una
natura
umana
immutabile
e
moralmente
vincolante
che
appare
meno
immutabile
di
quanto
si
pensasse.(13)
Certamente,
il
carattere
unico
ed
il
dinamismo
della
natura
umana,
nel
modo
in
cui
K.
Rahner
la
intende,
non
dovrebbe
essere
ignorata,
ma
questa
natura
non
stabilisce
nessuna
rigida
norma
priva
di
eccezioni.
"Esiste
la
necessità",
come
scrive
J.
Fuchs,
"'di
abbandonare
il
tentativo
di
distinguere
con
precisione
tra
ciò
che
è
variabile
e
ciò
che
non
lo
è.
Anche
i
costituenti
dell'essenza
dell'umanità,
e
pertanto
immutabili,
in
quanto
appartengono
alla
natura
umana
ed
alle
sue
strutture
immutabili,
fondamentalmente
sono
sottoposti
a
cambiamenti.
La
variabilità
è
parte
dell'invariabilità
della
natura
umana.
La
sola
realtà
immutabile
(tautologia!)
è
che
l'Uomo
è
l'Uomo".(14)
Invece
di
cercare
una
natura
umana
immutabile,
si
dovrebbe
ammettere
un
sempre
nuovo
modo
di
intenderla
e
comprenderla,
un
sempre
nuovo
senso
di
legame
sociale,
sessualità,
ecc.
Il
loro
significato
dipende
da
come
l'Uomo
comprende
tali
elementi,
quale
senso
intende
assegnare
loro
all'interno
di
un
'progetto
di
vita'
individuale,
'autocomprensivo',
che
'si
inserisce
nella
sua
natura
in
modo
determinante'.(15)
Pertanto,
la
ragione
stessa
è
dotata
di
prerogative
creative
ed
in
quanto
schöpferische
Vernuft,
non
riconosce
passivamente
una
norma
morale
oggettiva,
ma
la
stabilisce
nello
spirito
della
libera
autodeterminazione
.(16)
In
un
modo
simile
a
quello
con
cui
l'evoluzionismo
ha
contribuito
ad
una
più
profonda
comprensione
della
dimensione
biologica
dell'Uomo
e
delle
sue
dinamiche,
il
liberalismo
ha
contribuito
alla
percezione
della
libertà
ed
alla
sua
importanza
per
la
piena
realizzazione
personale.
L'analisi
della
libertà,
mostrando
la
sua
profonda
dimensione
personale,
aiuta
a
percepire
la
dignità
dell'essere
umano,
che
lo
distingue
dagli
altri
esseri
proprio
a
motivo
della
libertà
stessa.
Tuttavia,
si
dovrebbe
ricordare
che
è
una
libertà
razionale,
che
i
liberisti
non
insidiano
direttamente,
ma
di
cui
non
sempre
notano
le
conseguenze.
La
libertà
razionale
è
la
libertà
guidata
da
una
verità
di
cui
si
viene
a
conoscenza,
e
l'Uomo
in
quanto
essere
razionale
dovrebbe
rispettare,
nei
suoi
atti
di
libero
arbitrio,
questa
dipendenza
della
libertà
dalla
verità.
E'
perfino
Sartre
che
sembra
enfatizzare
l'importanza
morale
di
questa
regola,
sebbene
il
modo
che
propone
di
intendere
i
termini
filosofici
classici
offuschi
leggermente
la
comprensione
di
questo
argomento.
Egli
deriva
il
postulato
guida
-‐
che
l'Uomo
dovrebbe
formare
la
sua
identità
(essenza)
grazie
ad
un
atto
di
libera
scelta
-‐
dalla
libertà,
che
lo
identifica
e
lo
distingue
da
altri
esseri.
Col
pretesto
di
rispettare
questa
verità,
egli
ha
condannato
l'atteggiamento
di
ubbidienza
a
qualunque
norma
imposta
come
manifestazione
di
mala
fede
(un'altra
questione
è
se
la
sua
comprensione
della
libertà
sia
corretta).
L'obiezione
di
mala
fede
sollevata
contro
altri
esseri
(che
non
sono
liberi)
non
ha
senso.
Comunque,
ciò
che
identifica
l'individuo
nella
filosofia
di
San
Tommaso
viene
indicato
come
la
sua
essenza
(natura).
In
questo
modo
si
potrebbe
dire
che
l'etica
di
Sartre,
malgrado
la
sua
retorica
iconoclasta,
è
parte
della
tradizione
classica
in
quanto
richiede
il
rispetto
della
regola:
agere
sequitur
esse.
Similmente,
I.
26
Kant,
che
vide
nella
volontà
di
legiferare,
identificata
con
la
ragion
pratica,
la
sola
fonte
della
legge
morale
(17),
deriva
la
seconda
formula
dell'imperativo
categorico
(18)
dal
credo
che
"la
natura
razionale
esiste
come
fine
a
se
stessa"
(19)
.
Di
nuovo,
la
norma
morale
di
base
deve
essere
in
relazione
a
ciò
che
l'essere
umano
è
come
soggetto
e
oggetto
(destinatario)
di
un'azione,
è
la
verità
su
di
lui
e
sulla
sua
più
profonda
natura
(nel
significato
tradizionale
di
questo
termine).
Kant
è
stato
un
pioniere
della
tendenza
trascendentalista
in
filosofia,
la
cui
influenza
è
percettibile
nella
teologia
moderna.
Un
importante
elemento
di
questa
filosofia
è
l'offuscamento
della
differenza
tra
l'attività
della
ragione
e
quella
della
volontà,
specialmente
una
tendenza
a
concedere
prerogative
creative
alla
ragione,
mentre
la
ragione
è
caratterizzata
da
una
trascendenza
ricettiva,
ma
non
spontanea,
come
è
nell'atto
di
volontà
.(20)
La
conoscenza
è
il
solo
modo
della
propria
trascendenza
purché
in
un
atto
intenzionalmente
mirato
ad
un
oggetto,
il
soggetto
"accetti"
questo
oggetto
come
esso
è
nella
realtà.
In
questo
senso,
il
soggetto
afferra
la
verità
nell'atto
della
cognizione
intenzionale.
I
limiti
che
derivano
dalla
aspettabilità*
e
dall'imperfezione
della
nostra
percezione
non
negano
la
ricettività
di
base
della
conoscenza.
Difatti,
eliminarla
significa
chiudere
il
soggetto
nel
suo
io
interiore
e
rendere
la
sua
reale
trascendenza
cognitiva
impossibile.
Con
la
positiva
valutazione
della
libertà
nella
vita
e
nella
piena
realizzazione
dell'Uomo
(anche
nella
sfera
della
conoscenza),
questa
differenza
non
deve
essere
ignorata.
E
casomai
-‐
se
la
conoscenza
così
intesa,
costituisce
la
base
per
formulare
norme
morali
-‐
queste
norme,
in
particolare
la
loro
importanza
e
il
loro
ambito,
non
possono
essere
rese
dipendenti
solo
da
una
opzione"atematica"
di
base,
cognitivamente
elusiva
e
dunque
ambigua.
ESISTONO
VERITA'
MORALMENTE
VINCOLANTI
SULL'UOMO
CHE
SONO
INDUBITABILI?
In
questo
modo
torniamo
alla
domanda
presente
nel
titolo
della
mia
relazione:
esistono
verità
sull'Uomo
che
siano
sicuramente
indubitabili
e
che
possono
essere
rese
in
norme
morali
concrete
e
sempre
vincolanti
(assolute);
e
se
esistono,
quali
sono?
L'argomentazione
svolta
fino
ad
ora
sembra
andare
verso
una
risposta
affermativa.
Anche
punti
di
vista
o
tendenze
di
pensiero
quali
il
naturalismo
ed
il
liberalismo,
che
chiaramente
non
favoriscono
il
riconoscimento
di
tali
verità,
sembrano
confermare
-‐
per
opposita
-‐
la
distintiva
razionalità
dell'Uomo
e
la
sua
dignità
basata
su
tale
razionalità.
Essa
deve
essere
rispettata
per
il
modo
in
cui
ogni
essere
umano
dovrebbe
essere
trattato
come
il
fine
di
tutte
le
azioni,
e
mai
come
un
semplice
mezzo
per
il
raggiungimento
degli
scopi
dello
stesso
soggetto.(21)
Il
fondamento
di
una
norma
personalistica
,
così
intesa,
si
trova
nella
razionalità
dell'essere
umano.
Ad
esse
ha
fatto
riferimento
il
summenzionato
I.
Kant,
ed
ancora
prima
la
sua
natura
fu
più
dettagliatamente
espressa
da
San
Tommaso
d'Aquino,
per
il
quale
persona
est
perfectissimum
in
tota
natura,
scilicet
in
rationali
creatura,(22)
in
quanto
la
razionalità
determina
che
le
persone
habent
dominium
sui
actus
(23)
sono
la
ragione
causativa
dei
loro
atti
intenzionali,
e
che
alla
fine
portano
a
Dio
stesso.
Si
deve
sottolineare
che
l'Uomo
è
in
grado
di
esperire
questa
dignità
umana
(in
se
stesso
e
negli
altri)
come
moralmente
vincolante,
e
questa
straordinaria
cognizione
è
la
fonte
dell'intera
serie
di
doveri
morali.
Questi
doveri
non
devono
essere
considerati
solamente
come
istinti
animali
lievemente
modificati
(come
viene
sostenuto
dai
fautori
dell'etica
evoluzionistica)
o
come
particolarizzazione
fondamentale
-‐
caratteristica
di
ogni
persona
umana
-‐
nella
ricerca
per
la
felicità
(come
è
sostenuto
dagli
eudemonisti).
(24)
Entrambi
i
casi
recano
il
cosiddetto
paralogismo
naturalistico,
che
consiste
nel
trarre
ingiustificate
conclusioni
normative
da
premesse
descrittive,
contro
cui
ha
ammonito
D.
Hume.(25)
La
conseguenza
del
paralogismo
naturalistico
è
l'assunto
che
il
giudizio
e
le
norme
morali
siano
descrizioni
di
obiettivi
e
di
comportamenti
umani
celati
dietro
una
facciata
normativa,
e
che
l'etica
si
riduca
alla
psico-‐
27
sociologia
della
morale.(26)
L'unicità
della
cognizione
morale
è
un'altra
difficile
questione;
una
soluzione
più
semplice
a
questo
problema,
tuttavia,
conduce
all'abbandono
del
carattere
razionale
e
normativo
dell'etica
stessa.
Dalla
norma
personalista
di
base
derivano
molte
dettagliate
deduzioni.
Comunque,
c'è
soprattutto
l'obbligo
di
rispettare
la
vita
umana.
L'Uomo
è
un
essere
imperfetto
e
fragile;
dunque,
la
vita
umana
non
è
un
valore
'equivalente
ad'
altri
valori,
come
l'istruzione,
il
benessere,
o
il
potere,
ma
è
un
valore
fondamentale,
la
cui
salvaguardia
e
tutela
è
una
condizione
per
l'attuazione
di
qualunque
altro
valore,
compresi
anche
quelli
che
sono
attribuiti
specificatamente
alla
persona
umana.
Per
l'Uomo
'vivere'
semplicemente
vuol
dire
'esistere'.
Perciò,
San
Tommaso
ci
ha
messo
in
guardia
consigliando
di
non
trattare
la
vita
come
una
categoria
dell'azione
(operatio),
perché
vivere
nihil
aliud
est,
quam
esse
in
tali
natura,
quindi
il
termine
'vita'
è
solo
una
versione
astratta
di
questo
esse
degli
esseri
viventi,
come
'una
corsa'
è
la
versione
astratta
dell'azione
del
correre.
(27)
Pertanto,
se
la
norma
personalista
non
deve
restare
un
termine
vuoto,
si
deve
ammettere
che
l'obbligo
a
rispettare
la
vita
umana
è
la
sua
prima,
concretamente
definita
ed
assolutamente
valida
conclusione.
Conseguentemente,
è
impossibile
giustificare
atti
legati
alla
diretta
uccisione
di
un
essere
umano,
specialmente
se
innocente.
Un
tale
atto
priva
la
vittima,
oltre
che
della
sua
vita
di
qualunque
altro
valore
e
possibilità
di
piena
realizzazione.
Quindi,
non
ci
dovremmo
sorprendere
per
le
condanne
straordinariamente
ferme,
quasi
dogmatiche,
di
atti
quali
l'aborto
e
l'eutanasia
formulate
nell'Enciclica
Evangelium
vitae.
(28)
Ne
consegue
che
anche
il
Papa
inequivocabilmente
incoraggia
l'abbandono
della
pena
di
morte.
(29)
Quindi,
questo
è
un
esempio
di
verità
su
se
stesso
che
l'Uomo
può
apprendere
(L'Uomo
è
un
essere
razionale
che
merita
un
trattamento
disinteressato)
e
può
'tradurre'
in
norma
morale
('Non
ucciderai
mai
un
innocente').
Non
è
la
sola
conclusione
etico-‐antropologica
della
cognizione
dell'Uomo
(la
sua
natura).
Se
l'unicità
e
la
dignità
dell'essere
umano
è
determinata
dalla
sua
spiritualità,
qualunque
caso
di
assoggettamento
della
mente
dovrebbe
essere
giudicato
come
moralmente
sbagliato,
ovverosia,
lo
sono
quelle
azioni
che
rendono
difficile
o
impossibile
compiere
atti
razionali
ed
autonomi.
L'esame
di
tali
problemi,
come
anche
del
significato
della
sessualità
dell'Uomo,
darebbe
inizio
ad
un
nuovo
dibattito
su
questioni
etico-‐antropologiche.
Per
rispondere
alla
domanda
presente
nel
titolo,
comunque,
è
sufficiente
indicare
almeno
una
di
queste
verità,
che
l'Uomo
è
capace
di
apprenderne
e
di
mostrarne
le
conseguenze
etiche
concretamente
determinate.
Per
questo
ci
siamo
concentrati
solo
sulla
verità
circa
la
razionalità
e
la
dignità
dell'Uomo
come
anche
sul
comandamento:
"Non
uccidere".
Questo
solo
esempio
è
sufficiente
a
manifestare
la
immutabilità
di
base
della
natura
umana,
la
sua
capacità
normativa
ed
una
possibilità
di
derivare
da
essa
conseguenze
normative
chiaramente
e
concretamente
definite
e
sempre
vincolanti.
L'etica
non
può,
ovviamente,
essere
limitata
a
tali
elementari
norme
e
verità;
tuttavia,
non
le
può
neanche
ignorare
.
In
particolare,
non
può
ignorare
il
suo
significato
metafisico
ed
epistemologico.
28
[1]
DITFURTH
H.
von
,
Wir
sind
nicht
nur
von
dieser
Welt.
Naturwissenschaft,
Religion
und
die
Zukunft
des
Menschen,
Hamburg,
Hoffmann
und
Campe
Verlag,
1981:
"Die
Entdeckung
der
Evolution
schliesst
die
Einsicht
mit
absoluter
Sicherheit
nicht
das
Ende
(oder
gar
das
Ziel)
der
Entwicklung
sein
kann",
p.
20.
Sebbene
non
ci
sia
spazio
per
approfondire
la
teoria
dell'evoluzione,
è
utile
menzionare
alcuni
dei
suoi
fondamenti,
in
particolare
quelli
relativi
all'evoluzione
in
senso
stretto
-‐
l'evoluzione
degli
esseri
viventi
-‐
perché
essi
riflettono
i
mezzi
per
comprendere
l'Uomo
e
la
moralità
anche
dalla
prospettiva
teologica.
Ne
consegue
che
tutte
le
forme
viventi
sono
caratterizzate
da
un'espansione
bidimensionale:
estensiva
(che
si
manifesta
nella
predisposizione
propria
delle
forme
viventi
ad
espandere
il
proprio
habitat
ed
a
occupare
l'intero
ambiente
circostante
disponibile)
ed
intensivo
(evidenziato
da
una
propensione
al
rinnovamento
-‐
mediante
l'adattamento
all'ambiente
e
una
specifica
'risposta'
a
tutte
le
sfide
-‐
di
tutte
le
capacità
di
sviluppo
interne,
tipiche
di
una
data
forma
vivente).
Entrambi
i
tipi
di
espansione
hanno
luogo
durante
il
processo
di
sostituzione
delle
generazioni:
le
generazioni
successive
di
una
determinata
specie
occupano
un
territorio
perfino
più
vasto
ed
evolvono
internamente,
adattandosi
ancor
più
efficacemente
all'ambiente.
Queste
propensioni
sono
il
segno
di
una
più
fondamentale
caratteristica,
tipica
della
vita
e
della
sua
dinamicità
in
tutte
le
varietà,
vale
a
dire
il
bisogno
naturale
di
un
progresso
biologico.
Questo
bisogno
naturale
costituisce
il
requisito
necessario
ad
una
determinata
specie
per
sopravvivere
(a
dispetto
dell'esistente
minaccia
proveniente
dal
mondo
esterno,
che
comprende
anche
la
competizione
con
altri
esseri
viventi),
generando
quindi
lo
sviluppo
di
una
determinata
specie
(o
in
una
prospettiva
più
ampia:
uno
sviluppo
tra
più
specie).
Ho
fatto
riferimento
a
questi
fondamenti
della
teoria
dell'evoluzione,
perché
sebbene
suggeriscano
che
sia
difficile
stabilire
un
parallelo
tra
evoluzione
e
progresso,
i
meccanismi
dell'evoluzione
fanno
ritenere
che
ciò
che
è
nuovo
sia
anche
migliore.
Vedi:
BRÖKER
W.,
Aspekte
der
Evolution,
"Concilium.
Internationale
Zeitschrift
für
Theologie"
6-‐7
(1967)
p.
433-‐441.
[2]
Vedi:
DITHURTH
H.
von,
Im
Anfang
war
der
Wasserstoff,
Hamburg,
Hoffmann
und
Campe
Verlag,
1972.
ID.,
Kinder
des
Weltalls,
Hamburg,
Hoffmann
und
Campe
Verlag,
1970.
[3]
Vedi:
tra
gli
altri,
GRÜNDEL
J.,
Wandelbares
und
Unwandelbares
in
der
Moraltheologie.
Erwägungen
zur
Moraltheologie
an
Hand
des
Axioms
'agere
sequitur
esse',
Düsseldorf
1967;
CURRAN
C.,
Themes
in
Fundamental
Moral
Theology,
Notre
Dame
1977.
Ho
molto
approfondito
questo
tema
nel
mio
studio:
Natur
-‐
Vernnuft
-‐
Freiheit.
Philosophische
Analyse
der
Konzeption
"Schöpferische
Vernunft"
in
der
zeitgenössischen
Moraltheologie,
Frankfurt
am
Main-‐Bern-‐New
York-‐Paris,
Peter
Verlag
1992,
pp.50-‐60.
[4]
Vedi:
DAVIES
P.,
The
Last
Three
Minutes.
Conjunctures
about
the
Ultimate
Fate
of
the
Universe,
London
1994.
[5]
Vedi:
DITFURTH
H.,
Im
Anfang...
[6]
Vedi:
HAWKING
S.W.,
A
Brief
History
of
Time.
From
the
Big
Bang
to
Black
Holes,
London,
1988.
[7]
PASCAL
B.,
Pensées,
Parigi,
Latour-‐Maurbourg,
a
cura
di
Francis
Kaplan,
1982,
[302],
p.212;
vedi:
[301],
p.212.
[8]
Per
un
breve
profilo
della
concezione
sartriana
di
libertà,
vedi
per
esempio:
GAŁKOWSKI
J.,
Z
historii
pojęcia
wolności
[La
storia
del
concetto
di
libertà:
Duns
Scoto,
Kant,
Sartre],
"Roczniki
Filozoficzne
KUL"
v.
19
(1971),
n.
2,
p.
59-‐101.
[9]
RAHNER
K.,
Die
Gliedschaft
in
der
Kirche
nach
der
Lehre
der
Encyklika
Pius
XII
'Mystici
Corporis',
K.
Rahner
Schriften
zur
Theologie,
Bd
II,
Einsiedeln
1955,
p.86
(trad.
di
T.K.).
Vedi
anche:
le
voci:
'Natur'
(p.
294),
'Natürliche
Sittengesetz'
(pp.295-‐296),
'Person'
(pp.325-‐328)
in
RAHNER
K.,
VORGRIMLER
H.,
Kleines
Theolgisches
Wörterbuch,
Freiburg
im
Breisgau,
Verlag
Herder
1980.
29
[10]
Vedi:
RAHNER
K.,
Würde
und
Freiheit
des
Menschen,
in:
ID.
Schriften
zur
Theologie,
Bd.
II,
Einsiedeln
1958,
pp.
261-‐267.
[11]
Per
le
caratteristiche
della
'opzione
fondamentale'
vedi:
SZOSTEK
A.
Szostek:
Natur
-‐
Vernnuft
-‐
Freihei...,
pp.
83-‐109.
Vale
la
pena
ricordare
che
il
concetto
di
opzione
fondamentale
è
stato
anche
formulato
da
D.
von
Hildebrand
e
J.
Maritain,
ma
quest'ultimi
non
le
hanno
attribuito
l'interpretazione
trascendentalista,
come
invece
fanno
K.
Rahner
e
J.
Fuchs.
[12]
Ibid.,
pp.164-‐197.
[13]
Qui
i
teologi
citano
con
entusiasmo
i
raggiungimenti
delle
scienze
e
il
carattere
evolutivo
dell'intero
mondo,
incluso
l'essere
umano.
[14]
FUCHS
J.,
Absolutheitscharakter
sittlicher
Handlungsnormen,
in
Für
eine
menschliche
Moral.
Grundfragen
der
theologischen
Ethik,
Bd.
I.,
Freiburg
i.Ue/
Freiburg
i.Br.
1988,
pp.
219-‐257
(trad.
di
T.K.).
Vedi:
RAHNER
K.,
VORGRIMLER
H.,
alla
voce:
'Natürliche
Sittengesetz'
in
Kleines
Theolgisches...,
pp.
295-‐296.
[15]
PIANA
G.,
O
hermeneutykę
decyzji
etycznej
[Sull'ermeneutica
della
decisione
etica],
"Communio.
Międzynarodowy
Przegląd
Teologiczny"
1(1981)
no.
3,
p.
24.
[16]
Una
profonda
preoccupazione
circa
le
tendenze
liberali
della
contemporanea
teologia
morale
è
stata
espressa
da
Papa
Giovanni
Paolo
II,
Enciclica
Veritatis
splendor,
cap.
II,
p.
28-‐83.
[17]
KANT
I.,
Foundations
of
the
Methaphysics
of
Morals
and
What
is
Enlightenment?
,
Indianapolis-‐New
York,
The
Bobbs-‐Merrill
Company,
Inc.,
1959,
p.
36,
71.
[18]
"Agisci
in
modo
da
trattare
l'umanità,
sia
nella
tua
persona
o
in
quella
di
un
altro,
sempre
come
un
fine
e
mai
solo
come
un
mezzo",
p.
47.
[19]
Ibid.
[20]
SEIFERT
J.,
Erkenntnis
objektiver
Wahrheit.
Die
Transzendenz
des
Menschen
in
der
Erkenntnis,
Salzburg-‐
München
19762,
p.
83-‐88.
[21]
WOJTYLA
K.
(PAPA
GIOVANNI
PAOLO
II),
Love
and
Responsibility,
London
1981,
p.
41.
[22]
San
Tommaso
d'Aquino,
S.
th.
I
q.
29,
a.
3.
[23]
Ibid.
I
q.
29,
a.
1.
[24]
Una
dettagliata
e
critica
esposizione
delle
caratteristiche
dell'eudemonismo
è
presente
in:
STYCZEŃ
T.,
Etyka
niezależna?
[Etica
indipendente?],
Lublin
1980,
p.
15-‐32.
[25]
HUME
D.,
A
Treatise
on
Human
Nature,
vol.
2,
London,
Dent,
1911.
[26]
STYCZEŃ
T.,
Problem
możliwości
etyki
jako
empirycznie
uprawomocnionej
i
ogólnie
ważnej
teorii
moralności.Studium
metaetyczne
[Il
problema
delle
prospettive
dell'etica
come
teoria
della
morale
empiricamente
giustificata
e
sempre
pertinente.
Uno
studio
metaetico],
Lublin
1972,
pp.
63-‐78.
[27]
SAN
TOMMASO
D'AQUINO,
S.
th.
I
q.
18,
a.
2.
[28]
GIOVANNI
PAOLO
II,
Enciclica
Evangelium
vitae,
no.
58-‐67.
[29]
Ibid.,
no.
56.
30
WOLFGANG
WALDSTEIN
31
È
chiaro
che
tutto
ciò
che
io
stesso
sto
dicendo
caderebbe
su
questi
giudici
se
siano
vere.
Per
questa
ragione
penso
di
avere
il
obbligo
di
citare
un
paragrafo
della
enciclica
Fides
et
ratio
che
è
decisivo
per
la
mia
posizione.
La
parte
più
importante
per
quello
che
sto
dicendo
dalla
Fides
et
ratio
72
dice
così:
"Spetta
ai
cristiani
di
oggi,
innanzitutto
a
quelli
dell'India,
il
compito
di
estrarre
da
questo
ricco
patrimonio
gli
elementi
compatibili
con
la
loro
fede
così
che
ne
derivi
un
arricchiamento
del
pensiero
cristiano.
Per
questa
opera
di
discernimento(11),
che
trova
la
sua
ispirazione
nella
Dichiarazione
conciliare
Nostra
aetate,
essi
terranno
conto
di
un
certo
numero
di
criteri.
Il
primo
è
quello
dell'universalità
dello
spirito
umano,
le
cui
esigenze
fondamentali
si
ritrovano
identiche
nelle
culture
più
diverse.
Il
secondo,
derivante
dal
primo,
consiste
in
questo:
quando
la
Chiesa
entra
in
contatto
con
grandi
culture
precedentemente
non
ancora
raggiunte,
non
può
lasciarsi
alle
spalle
ciò
che
ha
acquisito
dall'inculturazione
nel
pensiero
greco-‐latino.
Rifiutare
una
simile
eredità
sarebbe
andare
contro
il
disegno
provvidenziale
di
Dio,
che
conduce
la
sua
Chiesa
lungo
le
strade
del
tempo
e
della
storia.
Questo
criterio,
del
resto,
vale
per
la
Chiesa
di
ogni
epoca,
anche
per
quella
di
domani".
Io
penso
che
non
è
solo
permesso,
ma
è
anche
un
obbligo
prendere
questi
chiarimenti
sul
serio.
Oltreciò
questo
non
è
solo
vero
per
la
Chiesa,
ma
anche
per
ogni
onesta
ricerca
scientifica,
perché
ogni
verità
scoperta
una
volta
rimane
vera
per
sempre.
E,
come
Aristotele
dice
nell'Etica
Nicomachea,
"Infatti
le
cose
reali
concordano
in
tutto
con
la
verità,
mentre
il
falso
tosto
avverte
la
sua
discordanza"(12).
Per
questa
ragione
la
"opera
di
discernimento"
fra
verità
ed
errore
è
nel
nostro
contesto
culturale
indubbiamente
una
delle
più
grandi
sfide.
John
Finnis
nel
suo
contributo
ha
mostrato
quanto
sono,
per
esempio,
insostenibili
le
tesi
dell'opera
"post-‐Vatican
II"
di
Lonergan.
Nonostante
questo
fatto
"*il
testo
italiano
dovrebbe
essere
inserito
qui*"(13).
ALCUNI
DEI
PRINCIPALI
ARGOMENTI
CONTRO
IL
DIRITTO
NATURALE
Una
delle
forme
più
influenti
dello
scetticismo
e
dell'agnosticismo
è
stata
sviluppata
fra
altri
da
Christian
Thomasius
(1655-‐1728).
Esso
è
partito
come
uno
degli
specialisti
del
diritto
naturale
del
secolo
dei
lumi,
ma
voleva
allontanarlo
da
ogni
dipendenza
teologica
per
fondarlo
su
una
ragione
umana
autonoma.
Come
Stefan
Buchholz
in
un'analisi
magistrale
ha
dimostrato
la
ragione
umana
resa
autonoma
conduce
all'autodistruzione.
La
premessa
fondamentale:
"voluntas
semper
movet
intellectum"
conduce
nelle
sue
conseguenze
l'"animal
rationale"
al
"servus
passionum
suarum"(14).
L'intelletto
umano
e
la
libera
volontà
vengono
negati.
Come
conseguenza
di
questa
premessa
la
conoscenza
umana
diventa
un
prodotto
di
costrizioni
e
per
questo
fatto
si
autocancella.
Secondo
Christian
Thomasius
le
passioni
forgiano
la
volontà
e
la
volontà
impone
i
suoi
pregiudizi
sulla
ragione
("voluntas
praeiiudicium
facit
intellectui")(15).
In
questo
modo
la
conoscenza
individuale
è
del
tutto
esclusa.
Da
questo
segue
che
tutti
gli
uomini
sono
degli
stolti(16).
Possono
essere
guidati
soltanto
dal
diritto
positivo,
che
ai
suoi
tempi
viene
creato
dal
"princeps
absolutus"
("exinde
necessitas
iuris
positivi").
Il
soggetto
che
in
quanto
stolto
è
ritenuto
essere
perennemente
minorenne
deve
accettare
i
commandamenti
della
legge
senza
aver
a
disposizione
i
criteri
per
giudicare
la
giustezza
e
la
giustizia
di
una
legge.
Sottomettendosi
giova
allo
scopo
unificante
dello
stato(17).
Ma
proprio
dai
tempi
di
regimi
tirannici
come
il
nazionalsocialismo
in
Germania
o
il
comunismo
la
sottomissione
dell'individuo
allo
scopo
unificante
dello
stato
è
apparsa
in
tutta
la
sua
utopicità.
Per
quel
che
riguarda
il
principio
"voluntas
praeiudicium
facit
intellectui"
non
ci
può
essere
alcun
dubbio
che
il
fenomeno
effetivamente
esiste.
Ma
ugualmente
non
ci
può
essere
alcun
dubbio
che
le
conseguenze
dedotte
da
Thomasius
da
questo
fatto
non
corrispondono
perfettamente
alla
verità.
La
completa
negazione
della
ragione
umana
e
della
libera
volontà
è
in
vista
di
tutte
le
32
conoscenze
umane
fin
dall'antichità
semplicemente
assurda.
È
la
conseguenza
di
un
concetto
aberrante
della
natura
umana.
Thomasius
dimentica
soltanto
di
spiegare
perché
ed
in
che
modo
lui
stesso
non
fa
parte
della
schiera
degli
stolti.
Lui
si
arroga
però
la
facoltà
di
identificare
come
stolti
tutti
coloro
che
osano
contradirlo(18).
Un
argomento
all'apparenza
più
scientifico
si
basa
sull
supposto
dualismo
tra
"essere"
e
"dover
essere"
con
la
conseguenza
che
da
un
"essere"
non
può
risultare
un
"dover
essere".
Secondo
questo
argomento
ogni
tentativo
di
derivare
un
diritto
naturale
dalla
natura
come
un'
"essere"
è
stato
marcato
come
"fallacia
naturalistica"
o,
come
dice
Rhonheimer
nel
suo
contributo,
"fallacia
dualista"(19).
Questo
argomento
che
trova
le
sue
origini
in
David
Hume
è
stato
sviluppato
nel
campo
della
teoria
del
diritto
sopratutto
da
Hans
Kelsen
nella
sua
teoria
pura
del
diritto.
In
più
l'esperto
di
logica
del
diritto
tedesco
Ulrich
Klug,
ha
cercato
dio
confermare
la
posizione
di
Kelsen
con
i
mezzi
della
logica
formale.
Io
stesso
ho
analizzato
questi
argomenti
molte
volte
dettagliatamente(20).
Klug
pensa
che
le
parole
"logica
formale"
bastano
per
provare
l'uso
di
un
metodo
scientifico
che
garantisce
risultati
inconfutabili
e
definitivi.
In
breve:
L'unico
risultato
che
gli
argomenti
di
Klug
potevano
effettivamente
raggiungere
è
la
logica
cosa
ovvia
che
da
un
presupposto
che
riguarda
un
"essere"
che
non
contiene
un
elemento
normativo,
una
conclusione
che
contiene
un
elemento
normativo
non
può
essere
dedotta.
Ma
ciò
che
esso
non
ha
mai
provato
con
questo
argomento
né
sarebbe
mai
capace
di
provare
è
la
presupposizione
tacita
che
le
norme
non
esistono
realmente
come
un
"essere"
da
cui
può
derivare
un
"dover
essere".
Semplicemente
presuppone
che
il
concetto
positivista
di
realtà
è
l'unico
possibile.
Ma
se
ciò
fosse
vero
nessuna
legge
potrebbe
esistere,
e
neanche
il
diritto
positivo.
Se
fosse
vero
che
nessuna
norma
possa
appartenere
al
regno
del
"essere"
l'idea
di
aver
diritti
di
qualsiasi
genere
in
ogni
significato
possibile
dovrebbe
essere
abbandonata.
Ma
lo
stesso
Kelsen
afferma
che
le
norme
esistono.
La
loro
forma
di
esistenza
è
la
loro
vigenza(21).
Nella
prima
edizione
della
sua
"Reine
Rechtslehre"
ha
addirittura
detto:
"Non
si
può
negare
che
il
diritto
in
quanto
norma
è
una
realtà
spirituale
e
non
naturale
(materiale)"(22).
Nel
1965
ha
rielaborato
la
sua
opinione
originale
rispetto
a
questo
aspetto
in
modo
rimarchevole
con
una
chiarificazione
della
relazione
fra
diritto
e
logica.
In
questo
importante
contributo
è
giunto
alla
seguente
affermazione:
"Il
vero
ed
il
non-‐vero
sono
attributi
di
una
affermazione,
il
fatto
della
vigenza
non
è
al
contrario
un
attributo
della
norma
ma
della
sua
esistenza,
della
sua
esistenza
ideale.
Che
una
norma
è
in
vigore
significa
che
esiste"(23).
Se
una
norma
esiste
si
tratta
senza
dubbio
di
un
"essere"
con
un
contenuto
normativo.
E
da
un
"essere"
con
un
contenuto
normativo
può
derivare
senza
dubbio
un
"dover
essere".
Questa
scoperta
ha
distrutto
del
tutto
gli
argomenti
di
Ulrich
Klug.
E
Kelsen
stesso
non
poteva
basarsi
più
sull'argomento
contro
il
diritto
naturale,
che
prima
aveva
ritenuto
assolutamente
inconfutabile
e
cioè
che
da
un
"essere"
non
può
derivare
un
"dover
essere".
Se
questo
"essere"
è
una
norma
allora
da
questo
"essere"
può
derivare
senza
dubbio
un
"dover
essere".
Per
mantenere
la
sua
negazione
del
diritto
naturale
doveva
rifugiarsi
ad
altri
argomenti.
Secondo
la
teoria
di
Kelsen
le
norme
positive
sono
create
da
un
atto
di
volontà.
Ammette
che
le
norme
non
devono
essere
necessariamente
risultati
della
volontà
umana,
ma
che
non
possono
esistere
norme
che
non
sono
state
create
da
un
atto
di
volontà.
Solleva
in
un
momento
successivo
la
domanda
decisiva
che
si
basa
sul
concetto
positivista
della
natura:
"Da
dove
una
tale
volontà
può
entrare
nella
natura,
la
quale
da
un
punto
di
vista
della
conoscenza
empirico-‐razionale
è
una
aggregazione
di
esseri
fattivi
legati
fra
di
loro
da
causa
ed
effetto?"(24).
La
risposta
di
Kelsen
è
che
questa
volontà
può
essere
"soltanto
la
volontà
di
una
divinità
giusta
la
cui
volontà
non
è
solo
trascendente
riguardo
la
natura
creata
da
essa,
ma
anche
immanente".
Per
questo
egli
pensa
che
il
diritto
naturale
può
essere
accettato
soltanto
sulla
premessa
della
fede
in
una
tale
divinità.
33
Siccome
lui
stesso
non
crede,
è
capace
di
accettare
questo
presupposto,
neanche
può
accettare
le
conseguenze
e
soprattutto
il
diritto
naturale.
In
più
egli
pensa
che
una
discussione
razionale
riguardo
la
questione
della
verità
di
questa
credenza
è
senza
speranza(25).
Non
è
evidentemente
possibile
discutere
qui
tutti
i
dettagli
degli
argomenti
di
Kelsen,
che
derivano
dai
suoi
presupposti
positivistici.
Posso
menzionare
qui
soltanto
la
chiara
conoscenza
che
già
Aristotele
era
capace
di
raggiungere.
Egli
dice
che
su
una
base
di
questo
genere
"il
conseguimento
della
verità
sarà
come
cacciare
gli
uccelli
in
aria".
E
poi
continua:
"Ma
la
ragione
per
cui
questi
uomini
hanno
quest'opinione
è
che
benché
abbiano
studiato
la
verità
relativa
alla
realtà
presumono
che
la
realtà
è
confinata
alle
cose
percepibili
attraverso
i
sensi...
Per
questo
motivo
le
loro
affermazioni
anche
se
plausibili
non
sono
vere"(26).
Dimostra
inoltre
che
ogni
essere
contingente
comporta
per
via
di
una
necessità
logica
ad
una
prima
causa
non
contingente,
senza
la
quale
nessuna
conoscenza
sarebbe
possibile(27).
A
questo
punto
devo
aggiungere
al
mio
testo
originale
che
sono
molto
lieto
di
poter
esprimere
il
mio
pieno
consenso
colle
affermazioni
di
prof.
Rhonheimer
concernente
il
vero
carattere
del
diritto
naturale,
che,
secondo
un
"testo
leonino"
"è
lastessa
legge
eterna,
insita
negli
esseri
dotati
di
ragione"(28).
Esattamente
questo
fu
anche
la
comprensione
del
diritto
naturale
di
Cicerone
e
dei
giuristi
romani.
Per
mostrare
questo
devo
citare
di
nuovo
un
testo
di
Cicerone
che
ho
citato
interamente
già
quattro
anni
fa(29),
ed
anche
un
testo
proveniente
dai
giuristi
romani.
Il
testo
di
Cicerone
si
legge
così:
"È
propriamente
la
vera
legge
la
retta
ragione(30),
in
armonia
con
la
natura,
estesa
a
tutti,
costante,
sempiterna,
(...).
Questa
legge
sarebbe
empio
mutarla
con
altra,
né
sarebbe
lecito
derogarvi
in
alcuna
sua
parte,
né
potrebbe
in
tutto
abrogarsi,
né
d'altronde,
o
dal
senato
o
dal
popolo,
potremmo
essere
sciolti
da
questa
legge,
e
non
è
necessario
a
esegeta
o
interprete
(qualcuno
fuori
di
noi,
nel
testo
riferimento
è
fatto
al
giurista
Sesto
Elio);
né
sarà
una
legge
a
Roma,
altra
ad
Atene,
una
ora,
altra
in
avvenire,
ma
un'unica
legge
e
sempiterna
e
immutabile
vincolerà
e
tutte
le
genti
e
in
ogni
tempo,
e
Dio
sarà
l'unico
maestro,
per
dir
cosi,
universale
e
imperatore
di
tutti:
lui
l'inventore
di
questa
legge,
lui
il
giudice,
lui
il
proponente
(in
questo
contesto
lator
significa
il
legislatore):
al
quale,
chi
non
obbedirà,
ricuserà
sé
stesso,
e
per
aver
ripudiato
la
natura
dell'uomo,
sconterà
per
ciò
stesso
le
piú
gravi
pene,
ancorché
abbia
sfuggito
tutti
quegli
altri
che
si
reputano
castighi"(31).
L'altro
testo,
secondo
ricerche
recenti
"stato
ripreso
da
un
brano
classico"
e
tramandato
nelle
istituzioni
di
Giustiniano
1,
2,
11,
dice
semplicemente:
"Le
leggi
naturali,
che
presso
tutte
le
nazioni
sono
egualmente
osservate,
stabilite
dalla
divina
provvidenza,
restano
sempre
ferme
ed
immutabili"(32).
Ambedue
i
testi
rendono
evidente
che
il
diritto
naturale
non
è
stato
compreso
come
qualcosa
derivata
da
una
natura
non
normativa
e
fattuale,
come
Kelsen
pensava,
ma
è
inteso
di
essere
introdotto
dal
dio
stesso
o
dalla
divina
provvidenza.
Questa
comprensione
fu
comune
alla
intera
giurisprudenza
romana.
In
questo
la
opinione
di
Kelsen
ha
ragione
che
in
diritto
naturale
non
ptrebbe
essere
altro
che
"la
volontà
di
Dio
nella
natura
da
Lui
creata".
Ma
la
asserzione
che
un
diritto
naturale
potrebbero
essere
ammesso
soltanto
in
base
al
presupposto
della
fede
"in
una
divinità
giusta"
non
è
vera.
Infine
neanche
è
vero
che
la
discussione
razionale
sull'esitenza
di
Dio
sarebbe
senza
speranza
come
afferma
Kelsen.
Sin
dai
tempi
dell'antichità
sono
state
trovate
delle
risposte
ben
fondate
relative
alla
questione
in
merito.
Non
devo
dimostrare
tutto
ciò
qui
in
dettaglio.
Vorrei
però
citare
un
solo
passo
dal
de
legibus
di
Cicerone.
Avendo
sostenuto
"che
la
mente
divina
è
la
suprema
legge"
continua
il
discorso:
"Infatti
cosa
è
più
giusta
del
fatto
che
nessuno
potrà
essere
così
arrogante
da
credere
che
benché
la
ragione
e
l'intelletto
esistano
in
noi
stessi
non
esistono
nel
cielo
e
nel
universo
o
che
tutte
le
cose
che
possono
essere
capite
difficilmente
dal
più
acuto
intelletto
umano
siano
dirette
da
nessuna
ragione"(33).
Se
quest'affermazione
è
vera
come
34
innumerevoli
altre
sull'esistenza
di
Dio
nei
millenni,
allora
l'ultimo
argomento
di
Kelsen
contro
il
diritto
naturale
e
soprattutto
che
possa
essere
accettato
solo
col
presupposto
della
fede
in
Dio
non
può
essere
vero
in
base
alla
legge
della
contradizione.
Dio
come
anche
il
diritto
naturale
erano
e
sono
conoscibili
come
realtà
indipendenti
da
ogni
presupposto
della
fede(34).
Questo
è
anche
affermato
giustamente
da
Rhonheimer,
quando
dice
nella
sua
relazione:
"L'idea
non
è
che
per
conoscere
il
bene
la
ragione
umana
abbia
bisogno
di
essere
istruita
da
Dio
nel
senso
di
una
rivelazione
che
si
aggiungesse
a
ciò
che
la
ragione
umana
è
capace
di
conoscere"(35).
COME
IL
DIRITTO
NATURALE
È
STATO
CONOSCIUTO
SIN
DALL'ANTICHITÀ
Nel
mio
contributo
alla
sesta
assemblea
due
anni
fa
relativo
al
diritto
naturale
e
alla
difesa
della
vita
in
Evangelium
vitaeero
già
costretto
a
dire
qualcosa
sulla
"Realtà
storica
e
giuridica
del
diritto
naturale"(36).
Non
ripeterò
ciò
che
avevo
detto
allora.
Per
dimostrare
la
capacità
della
mente
umana
di
conoscere
il
diritto
naturale
dovrò
concentrarmi
sulla
questione
come
in
effetti
venne
conosciuto.
Ho
discusso
la
questione
più
accuratamente
nel
mio
libro
sulla
teoria
generale
del
diritto(37).
Qui
posso
dare
solo
un
breve
sommario
di
quel
che
ero
riuscito
a
dimostrare
in
quella
sede.
Nonostante
fossero
circondati
da
teorie
scettiche
e
relativiste
tutti
i
grandi
filosofi
sono
d'accordo
sul
fatto
che
la
mente
umana
è
capace
di
conoscere
la
verità.
Proprio
all'inizio
dell'Etica
Nicomachea
Aristotele
dimostra
che
esistono
diversi
metodi
per
conoscere
delle
realtà
diverse.
Ammonisce
che
"la
stessa
precisione
non
deve
essere
richiesta
in
tutti
i
campi
della
filosofia
in
egual
misura"(38).
Poco
più
avanti
dice:
"corrisponde
ad
una
mente
erudita
richiedere
la
misura
di
precisione
riguardo
la
natura
del
soggetto
particolare"(39).
Quanto
ai
diversi
metodi
per
giungere
alla
conoscenza
per
gli
adepti
della
verità
afferma:
"I
principi
vengono
studiati
alcuni
per
induzione,
altri
per
percezione
(sensazione),
altri
per
via
di
certe
forme
di
abitudine,
ed
altri
per
altre
vie
ancora"(40).
Qui
iniziano
le
difficoltà
della
traduzione.
Per
"studiati"
il
testo
greco
è
Jewrou=ntai.
Qewre/w
significa
in
greco
fra
altre
cose
di
riflettere
su
una
realtà
spirituale
in
un
modo
spirituale.
Per
questo
Qew/rhma
è
qualcosa
che
è
stato
visto.
Per
percezione
il
testo
greco
ha
ai)sJh/sei.
Viene
tradotto
nella
versione
tedesca
da
Dirlmeier
correttamente
con
intuizione,
parola
la
quale
nel
originale
significato
latino
significa
una
visione
immediata
e
spirituale
di
una
realtà
spirituale.
Tutto
ciò
diventa
ancora
molto
più
chiaro
quando
Aristotele
indica
il
parallelismo
fra
ai)/sJhsij
e
nou=j.
Il
testo
più
importante
è
tradotto
alla
seguente
maniera:
"Anche
l'intelligenza
ha
per
oggetto
i
termini
ultimi,
in
entrambi
i
sensi
-‐
infatti
sia
i
termini
primi
che
i
termini
ultimi
costituiscono
il
dominio
dell'intelligenza
e
non
del
ragionamento
-‐
vi
è
infatti
un'intelligenza
che,
per
le
dimostrazioni,
apprende
i
termini
immobili
e
primi
ed
un'intelligenza
che
nelle
dimostrazioni
di
ordine
pratico
apprende
il
termine
ultimo
e
contingente,
vale
a
dire
la
seconda
premessa.
Infatti
queste
premesse
sono
principi
del
fine
a
cui
tendere.
È
infatti
dai
particolari
che
si
perviene
agli
universali.
Di
questi
particolari
si
deve
dunque
avere
una
percezione
(ai)/sJhsij),
ed
essa
è
l'intelligenza"
(nou=j)(41).
Nella
Metafisica
dimostra
per
esempio
che
la
legge
della
contraddizione
può
essere
riconosciuta
solo
attraverso
la
percezione
immediata
o
l'intelligenza.
Continua:
"Alcuni
infatti
esigono
che
la
legge
venga
provata,
ma
questo
dipende
dal
fatto
che
manca
loro
l'erudizione,
dimostra
la
mancanza
d'erudizione
non
sapere
quali
cose
hanno
bisogno
di
essere
provate
e
quali
non
ne
richiedono
questa
esigenza"(42).
Questa
affermazione
è
estremamente
importante
perché
oggi
come
oggi
si
ragiona
spesso
che
solo
ciò
che
può
essere
provato
con
i
mezzi
della
logica
può
essere
accettato
come
conoscenza
scientifica(43).
Per
questo
motivo
quanto
alla
capacità
generale
di
conoscere
devo
menzionare
come
ultimo
aspetto
che
Aristotele
ha
anche
dimostrato
che
le
leggi
della
logica
35
stesse
non
possono
essere
provate
per
deduzione
logica
-‐
come
si
potrebbe
fare
senza
conoscerle
prima
-‐
ma
che
possono
essere
percepite
soltanto
attraverso
l'intelligenza
(nou=j)(44).
Con
questo
sottofondo
dobbiamo
prendere
in
esame
adesso
il
problema
come
il
diritto
naturale
è
stato
in
effetti
conosciuto
sin
dall'antichità.
Da
innumerebvoli
fonti
può
essere
dimostrato
che
il
diritto
naturale
è
stato
fin
dai
tempi
più
remoti
da
quando
disponiamo
di
fonti
scritte
ovviamente
evidente
alla
ragione
come
il
§
16
dell'ABGB
austriaco
afferma.
Questo
fatto
è
in
particolar
modo
importante
per
lo
sviluppo
dell'antico
diritto
romano
e
per
il
successivo
sviluppo
della
cultura
giuridica
europea
fino
ai
nostri
tempi.
La
giurisprudenza
romana
non
ha
esposto
teorie
sul
diritto
naturale,
ma
i
giuristi
lo
applicavano
quando
dovevano
risolvere
i
casi
pratici.
Perciò
si
può
capire
dalle
fonti
attraverso
quali
metodi
acquistarono
la
conoscenza
di
questo
diritto.
Uno
dei
massimi
studiosi
di
diritto
romano,
Max
Kaser,
ha
dedicato
una
ricerca
al
metodo
dei
giuristi
romani
relativo
alla
conoscenza
del
diritto(45).
Sulla
base
di
intensi
studi
sulle
fonti
del
diritto
romano
condotti
per
tutta
una
vita
ha
potuto
formulare
i
seguenti
risultati:
"Se
si
esaminano
i
modi
grazie
ai
quali
i
giuristi
romani
nella
loro
casuistica
giunsero
al
loro
diritto
non
si
trova
in
primo
luogo
il
metodo
razionale
dell'induzione
o
della
deduzione.
Seguendo
le
impressioni
che
la
tradizione
giuridica
offre
in
maniera
inconfutabile
troviamo
al
primo
posto
l'intuizione,
vale
a
dire
di
trovare
la
giusta
soluzione
attraverso
la
percezione
immediata,
che
non
richiede
un
ragionamento
razionale"(46).
Kaser
stesso
per
propria
ammissione
non
era
un
esperto
dell'antica
filosofia
greca.
Descrive
solo
ciò
che
empiricamente
ha
trovato
nelle
fonti.
Ma
non
ci
possono
essere
dubbi
che
la
percezione
immediata,
l'intuizione
che
egli
descrive
è
in
principio
ciò
che
abbiamo
visto
in
Aristotele.
I
pregiudizi
delle
teorie
moderne
della
scienza
non
accettano
l'intuizione
come
un
modo
razionale
di
conoscenza
senza
una
prova
scientifica
addizionale
che
si
aspetta
dalla
deduzione
logica.
Ma,
come
abbiamo
visto,
la
logica
stessa
può
essere
conosciuto
solo
attraverso
la
percezione
diretta
come
ha
dimostrato
Aristotele.
Perciò
la
percezione
immediata
non
è
in
contrasto
con
un
ragionamento
razionale,
ma
il
suo
presupposto.
Aggiunge
riguardo
la
percezione
immediata
della
legge
della
contraddizione:
"Alcuni
infatti
esigono
che
questa
legge
venga
provata,
ma
questo
per
mancanza
di
erudizione,
perché
è
prova
di
mancanza
di
erudizione
non
sapere
dove
bisogna
esigere
una
prova
e
dove
non
lo
si
deve
fare".(47).
Questo
è
di
estrema
importanza
per
capire
il
metodo
ed
i
risultati
delle
opere
dei
giuristi
romani.
Horak
ammette
che
l'intuizione
gioca
un
ruolo
importante
nel
processo
scientifico
della
scoperta
ma
non
può
fornire
alcuna
prova
scientifica.
Dice:
"Grande
che
possa
essere
l'importanza
dell'intuizione
nel
processo
della
scoperta
non
ha
niente
a
che
fare
col
procedimento
del
ragionamento
e
della
prova.
Chiunque
affirmi
che
non
solo
ha
trovato
la
sua
conoscenza
per
intuizione
ma
può
provare
questa
conoscenza
solo
con
l'intuizione
stessa,
non
verrà
ascoltato
dal
foro
della
scienza."(48).
Horak
ovviamente
non
si
rende
conto
del
fatto
che
per
esempio
Hans
Kelsen
che
è
ritenuto
da
Horak
come
uno
a
cui
il
foro
della
scienza
presta
ascolto,
può
fondare
tutta
la
teoria
della
teoria
pura
del
diritto
sulla
conoscenza
trovata
attraverso
la
percezione
immediata.
Dice
espressamente:
"La
differenza
fra
essere
e
dover
essere
non
può
essere
spiegata
ulteriormente.
È
data
immediatamente
alla
nostra
conoscenza."(49).
Kaser
stesso
giustamente
ha
difeso
i
propri
risultati
anche
dopo
le
critiche
all'intuizione
proposte
da
Horak
sulla
base
della
moderna
teoria
della
scienza.
Nonostante
abbia
chiamato
il
lavoro
di
Horak
fondamentale
nella
sua
parte
relativa
a
ragionamento
e
topica(50),
Kaser
continua
ad
affermare:
"I
giuristi
trovano
il
loro
diritto
per
via
deduttiva
da
leggi
esistenti
e
altre
fonti
del
sapere,
ma
allo
stesso
tempo
per
via
dell'intuizione
percettiva
dei
problemi
del
caso
avendo
preparato
questa
intuizione
con
lo
studio
attento
di
soluzioni
precedenti
in
altri
casi"(51).
Già
all'inizio
della
sua
magistrale
opera
sul
Diritto
privato
romano
Kaser
afferma
che
i
giuristi
romani
trovano
la
strada
della
conoscenza
giusta
del
diritto
per
via
della
loro
geniale
intuizione
grazie
alla
loro
sicura
filosofia
della
vita(52).
Perciò
uno
dei
più
grandi
giuristi
romani,
Ulpiano,
può
36
affermare
nel
primo
frammento
del
digesto
che
i
giuristi
nel
loro
travaglio
di
realizzare
la
giustizia
lottano
per
la
vera
filosofia
e
non
per
una
filosofia
fittizia
(veram
nisi
fallor
filosofiam,
non
simulatam
affectantes)(53).
Kaser
aggiunge
alla
sua
affermazione
riportata
qui
pocanzi
relativa
alla
intuizione(54)
che
questa
percezione
spontanea
ha
due
fondamenta
strettamente
collegati
fra
di
loro
e
cioè
un
forte
e
raffinato
senso
per
le
realtà
giuridiche
ed
una
grande
esperienza
acquistata
grazie
ad
un
lavoro
meticoloso.
Questo
mi
ricorda
un
passo
di
Aristotele,
dove
in
continuazione
di
un
testo
già
citato(55)
dice:
"Di
conseguenza,
anche
se
non
sono
dimostrate,
occorre
tenere
in
considerazione
le
parole
e
le
opinioni
delle
persone
d'esperienza
e
dei
vecchi
o
dei
saggi,
non
meno
delle
dimostrazioni.
Essi
infatti
dall'esperienza
hanno
occhi
che
permettono
loro
di
vedere
correttamente."(56).
È
un
fatto
innegabile
che
nel
loro
travaglio
per
trovare
delle
soluzioni
giuste
per
i
casi
concreti
i
giuristi
romani
hanno
percepito
il
diritto
naturale.
Citerò
qui
un
passo
scritto
da
Fritz
Schulz
nel
1936
che
ho
riportato
anche
due
anni
fa.
Avendo
descritto
diversi
problemi
del
diritto
privato
romano
dice:
"In
tutte
queste
vicende
può
essere
osservato
che
gli
autori
giuridici
non
sono
soddisfatti
di
descrivere
il
diritto
positivo
dei
Romani
in
vigore
ai
loro
tempi,
ma
che
con
grande
impegno
cercano
di
sviluppare
un
diritto
naturale.
Questo
è
la
ragione
determinante
per
il
modo
così
peculiare
in
cui
la
scienza
giuridica
viene
presentata;
non
cerca
infatti
di
provare
le
regole
messe
in
evidenza,
ma
le
fa
derivare
direttamente
dalla
ratio
iuris"(57).
Non
è
possibile
qui
discuterec
la
questione
relativa
al
significato
di
ratio
iuris
in
Schulz,
ma
è
evidente
che
in
ultima
analisi
si
rifa
al
diritto
naturale.
Per
mostrare
come
il
diritto
naturale
opera
nella
prassi
posso
fornire
soltanto
un
esempio
da
un
materiale
immenso.
Ulpiano
riferisce
che
uno
schiavo
era
stato
affrancato
nel
testamento
sotto
la
condizione
di
pagare
10
all'erede.
In
un
aggiunta
al
testamento
era
stato
manomesso
senza
alcuna
condizione.
Non
sapendo
questa
novità
pagò
10
all'erede.
Una
volta
che
l'errore
era
stato
scoperto
fu
sollevata
la
questione
se
poteva
pretendere
la
restituzione
di
10.
Il
padre
del
famoso
P.
Giuvenzio
Celso
negò
la
possibilità
in
base
ad
una
interpretazione
severa
del
diritto
formale.
Quanto
alla
decisione
di
Celso
figlio
Ulpiano
dice:
sed
ipse
Celsus
naturali
aequitate
motus
putat
repeti
posse.
Aggiunge
lo
stesso
Ulpiano:
quae
sententia
verior
est.
Qui
possiamo
intravedere
chiaramente
che
Celso
figlio
che
aveva
definito
il
diritto
come
ars
boni
et
aequi,
la
scienza
del
bene
e
del
giusto(58),
non
contempla
il
formalismo
dello
ius
civile,
ma
si
rifa
all'equità
naturale
ciò
che
significa
al
diritto
naturale
decidendo
il
caso
di
conseguenza.
Questo
è
il
diritto
naturale
di
cui
il
giurista
romano
Paulo
disse
in
D.
1,
1,
11
che
è
sempre
aequum
ac
bonum,
equo
e
buono.
Cicerone
ha
potuto
dire:
"Pertanto
la
stessa
legge
naturale
(...)
conserva
e
implica
il
vantaggio
generale
dell'umanità".
Utilitatem
hominum
nel
testo
latino
non
significa
semplicemente
"vantaggio"
in
un
senso
ristretto
o
materiale,
ma
il
vero
bene
del
uomo(59).
Anche
il
fondamento
dello
stesso
diritto
civile
è
stato
riconosciuto
nel
diritto
naturale,
che
nel
processo
di
creare
diritto
civile
è
stato
modificato
in
casi
specifici(60).
Queste
modificazioni
nel
formalismo
del
vecchio
e
rigoroso
ius
civile,
come
nel
esempio
citato,
sono
progressivamente
stati
riconosciuti
di
essere
ingiusti.
I
giuristi
romani
hanno
cercato
di
correggere
queste
ingiustizie
ed
arrivare
a
decisioni
giuste(61)
Questo
lavoro
dei
giuristi
romani
è
stato
sviluppato
per
quasi
500
anni.
Il
risultato
di
tutto
ciò
venne
codificato
nel
533
dall'imperatore
Giustiniano
nel
suo
digesto.
Nella
costituzione
introduttiva
al
digesto
Giustiniano
chiama
la
compilazioneiustitiae
Romanae
templum(62).
Come
ho
sottolineato
già
due
anni
fa
esattamente
la
riscoperta
della
compilazione
nel
medioevo
ed
il
suo
studio
alla
scuola
delle
arti
a
Bologna
in
un
primo
momento
ha
portato
al
mutamento
della
summenzionata
scuola
nel
senso
della
prima
vera
università
e
poi
aprì
la
strada
a
tutto
lo
sviluppo
della
cultura
giuridica
europea.
Su
queste
basi
il
codice
civile
austriaco
(ABGB)
può
affermare
nel
suo
§
16:
"Ogni
uomo
ha
dei
diritti
innati
percepibili
attraverso
la
ragione"(63).
37
Perciò
la
conoscenza
del
diritto
naturale
non
è
soltanto
una
quastione
riguardante
delle
teorie
filosofiche
più
o
meno
certe,
ma
una
realtà
per
la
cultura
giuridica
non
solo
europea
ma
di
tutto
il
mondo.
Solo
su
queste
basi
le
dichiarazioni
e
le
convenzioni
sui
diritti
umani
possono
acquistare
un
significato
sostanziale.
CONCLUSIONI
Sin
dall'antichità
il
uomo
è
stato
capace
di
conoscere
il
diritto
naturale.
Con
questa
capacità
è
stata
sviluppata
una
cultura
giuridica
che
per
più
di
2000
anni
ha
forgiato
l'Europa
avendo
una
grande
importanza
per
il
mondo
intero
in
quanto
ha
reso
possibile
cose
come
la
dichiarazine
generale
dei
diritti
umani
nel
1948
e
molt'altro.
Il
fatto
che
questa
capacità
viene
messa
in
discussione
continuamente
sotto
l'influenza
di
idee
scettiche,
relativiste,
positiviste
e
scientiste
non
può
avere
alcuna
influenza
sull'esistenza
del
diritto
naturale
in
quanto
tale
né
può
cancellare
in
linea
di
principio
la
capacità
della
mente
umana
di
conoscerlo.
Nonostante
tutti
questi
fatti
evidenti
uno
scienziato
moderno
era
capace
di
affermare
"che
non
abbiamo
mai
avuto
una
conoscenza,
ma
solo
un'illusione
di
conoscenza
del
diritto
naturale"(64).
Ma
questo
rivela
sotto
il
pretesto
del
sapere
scientifico
un'ignoranza
totale
della
realtà
dello
sviluppo
giuridico.
Gli
argomenti
di
questo
presunto
scienziato
devono
essere
ritenuti
delle
sciocchezze.
Ma
è
una
vera
tragedia
che
argomenti
di
questo
genere
siano
potuti
entrare
nella
teologia
morale
cattolica.(65)
Questo
è
un
esempio
tragico
nell'ambito
dell'affermazione
di
Thomasius
"voluntas
praeiudicium
facit
intellectui",
che
avevo
riportato
prima(66).
Se
l'umanità
cerca
onestamente
di
liberarsi
da
ogni
specie
di
pregiudizio,
in
particolar
modo
della
volontà
e
delle
teorie
scientifiche
all'apparenza
moderne,
allora
la
capacità
di
conoscere
il
diritto
naturale
le
permetterà
anche
oggi
di
conoscerlo
nella
realtà.
Posso
aggiungere
con
grande
gratitudine
che
il
Papa
Giovanni
Paolo
II
nel
suo
discorso
del
mercoledì,
27
febbraio
2002,
ai
partecipanti
all'Assemblea
Generale
della
Pontificia
Accademia
per
la
Vita
ha
incorraggiato
"un
rinnovato
sforzo
conoscitivo
per
tornare
a
cogliere
alle
redici,
ed
in
tutto
suo
spessore,
il
significato
antropologico
ed
etico
della
legge
naturale
e
del
connesso
concetto
di
diritto
naturale"(67).
Con
riferimento
alle
"natura
della
persona
umana"
il
Papa
dice:
"Questa
natura
peculiare
fonda
i
diritti
di
ogni
individuo
umano,
che
ha
dignità
di
persona
fin
dal
momento
del
suo
concepimento."
Dopo
altre
affermazioni
importante
dice
il
Papa:
"La
persona
umana,
con
la
sua
ragione,
è
capace
di
riconoscere
sia
questa
dignità
profonda
ed
oggettiva
del
proprio
essere,
sia
le
esigenze
etiche
che
ne
derivano.
L'uomo
può,
in
altre
parole,
leggere
in
sé
il
valore
e
le
esigenze
morali
della
propria
dignità."
La
"legge
morale
naturale"
è
riconoscibile
con
la
"luce
dell'intelligenza
infusa
in
noi
da
Dio"(68).
Come
mostra
la
storia
fin
dall'antichità,
questa
"luce
dell'intelligenza"
era
presente
anche
in
quelli
che
non
ancora
hanno
avuto
la
luce
della
rivelazione
cristiana.
(1)
V.
Hossenfelder
M.,
Die
Philosophie
der
Antike
3,
Stoa,
Epikureismus
und
Skepsis,
in:
Geschichte
der
Philosophie,
hrsg.
von
RÖD
W.,
Bd.
III,
München:
C.
H.
Beck,
1985:
157
e
195
-‐
200.
(2)
Aristot.
metaph.
2,
1;
993
b
19
-‐
20.
(3)
V.
Waldstein
W.,
Teoria
generale
del
diritto,
Dall'antichità
ad
oggi
(STUDIA
ET
DOCUMENTA,
Sectio
Iuris
Romani
et
Historiae
Iuris
-‐
6,
Direttore
G.
L.
Falchi),
Roma:
Pontificia
Università
Lateranense,
2001:
31
-‐
38.
(4)
V.
Waldstein,
Teoria
...
p.
38
-‐
45.
(5)
V.
Cic.
Tusc.
4,
6;
Ulp.
D.
1,
1,
1,
1;
see
Waldstein,
Teoria
...
99
-‐
100.
(6)
V.
Evangelium
vitae
70.
38
(7)
V.
Fides
et
ratio
22
-‐
35
e
80
-‐
90.
Si
può
dire
che
quest'
Enciclica
ristabilisce
in
contrapposizione
ad
ogni
specie
di
errore
moderno
nella
sua
plenitudine
la
capacità
umana
di
conoscere
la
verità.
(8)
V.
Cic.
rep.
3,
33:
...,
sed
et
omnes
gentes
et
omni
tempore
una
lex
et
sempiterna
et
immutabilis
continebit,
unusque
erit
communis
quasi
magister
et
imperator
omnium
deus,
ille
legis
huius
inventor,
disceptator,
lator;cui
qui
non
parebit,
ipse
se
fugiet
ac
naturam
hominis
aspernatus
hoc
ipso
luet
maximas
poenas,
...;
5,
5:
summi
iuris
peritissimus,
sine
quo
iustus
esse
nemo
possit;
and
leg.
1,
42:
est
enim
unum
ius,
quo
devincta
est
hominum
societas,
et
quod
lex
constituit
una;
...
quam
qui
ignorat,
is
est
iniustus,
sive
est
illa
scripta
uspiam
sive
nusquam.
(9)
V.
Wieacker
F.,
Privatrechtsgeschichte
der
Neuzeit,
Göttingen:
Vandenhoeck
&
Rupprecht,
21967:
322
-‐
347;
Klippel
D.,
Legitimation,
Kritik
und
Reform.
Naturrecht
und
Staat
in
Deutschland
im
18.
und
19.
Jahrhundert.
In:
Zeitschrift
für
neuere
Rechtsgeschichte
22
(2000)
3
-‐
10
con
ulteriori
riferimenti
(10)
Fikentscher
W.,
Methoden
des
Rechts,
Tübingen:
J.
C.
B.
Mohr,
vol.
I,
1975:
32.
Il
testo
originale
dice:
"Einen
Angelpunkt
allen
Rechtsverständnisses
in
historischer
Entwicklung
stellt
die
bei
Hume
und
Kant
begründete
These
dar,
aus
einem
Sein
könne
kein
Sollen
folgen.
Diese
Aussage
ist
so
wichtig,
daß
man
mit
Fug
die
gesamte
Entwicklung
der
Rechtsmethodik
in
eine
vor-‐kantische
Periode
und
in
eine
nach-‐kantische
einteilen
kann".
(11)
Messo
in
rilievo
da
me.
(12)
Aristot.
eth.
Nic.
1,
8;
1098
b
11
-‐
12;
trad.
di
Plebe
A.,
Aristotele,
Etica
Nicomachea,
Roma-‐
Bari:
Editori
Laterza,
1993:
16.
(13)
Finnis
J.
M.,
Nature
and
Natural
Law
in
Contemporary
Philosophical
and
Theological
Debates:
Some
Observations,
draft-‐text
esp.
p.
19
-‐
23
con
molti
ulteriori
riferimenti;
il
testo
citato
dalla
p.
19.
In
questo
vol.
p.88-‐111.
(14)
V.
Buchholz
St.,
Recht,
Religion
und
Ehe,
Orientierungswandel
und
gelehrte
Kontroversen
im
Übergang
vom
17.
zum
18.
Jahrhundert,
Frankfurt
am
Main:
Vittorio
Klostermann,
1988:
36
-‐
37.
(15)
V.
Buchholz,
Recht
...
159.
(16)
V.
Buchholz,
Recht
...
161.
(17)
V.
Buchholz,
Recht
...
181
-‐
182.
(18)
V.
Buchholz,
Recht
...
161.
(19)
Rhonheimer
M.,
La
legge
morale
naturale:
conoscenza
naturale
e
coscienza,
testo
della
sua
conferenza
p.
2.
V.
a
ciò
Waldstein,
Teoria
...
p.
21
-‐
27:
"Che
cosa
è
la
fallacia
naturalistica?"
(20)
V.
Waldstein,
Teoria
...
p.
118
-‐
136
con
ulteriori
riferimenti.
(21)
Kelsen
H.,
Reine
Rechtslehre,
Wien:
Franz
Deuticke,
21960,
Unv.
Nachdruck
1967,
9.
(22)
Reine
Rechtslehre
11934,
12.
(23)
Kelsen
H.,
Recht
und
Logik,
in:
Klecatsky
H.,
Marcic
R.,
Schambeck
H.,
Die
Wiener
rechtstheoretische
Schule,
Wien
et
al.:
Europa
Verlag,
Salzburg-‐München:
Universitätsverlag
A.
Pustet,
1968:
vol.
2
p.
1472.
(24)
Kelsen,
Recht
...
p.
1474.
Il
testo
originale
tedesco
dice:
"Nun
kann
man
vielleicht
zugeben,
daß
Normen
nicht
notwendig
der
Sinn
menschlicher
Willensakte
sein
müssen.
Keinesfalls
kann
man
aber
zugeben,
daß
es
Normen
gibt,
die
nicht
der
Sinn
eines
Willensaktes,
wenn
auch
nicht
gerade
eines
menschlichen
Willensaktes,
sind.
Einer
Natur,
der
Normen
immanent
sind,
muß
auch
ein
Wille
immanent
sein,
dessen
Sinn
diese
Normen
sind.
Woher
kann
aber
ein
solcher
Wille
in
die
Natur
kommen,
die,
vom
Standpunkt
empirisch-‐rationaler
Erkenntnis,
ein
Aggregat
von
als
Ursache
und
Wirkung
miteinander
verbundenen
Seinstatsachen
ist?"
(25)
Kelsen
H.,
Die
Grundlage
der
Naturrechtslehre,
in:
Das
Naturrecht
in
der
politischen
Theorie,
Hrsg.
Schmölz
F.-‐M.,
Wien:
Springer,
1963:
p.
1.
39
(26)
Aristot.
metaph.
4,
5;
1009
b
38
-‐
1010
a
5.
English
translation
by
Tredennick
H.,
Aristotle
The
Metaphysics
I
-‐
IX,
The
Loeb
Classical
Library,
Cambridge
(Mass.):
Harvard
University
Press,
London:
Heinemann,
1980:
189.
(27)
V.
per
esempio
Aristot.
metaph.
2,
2;
994
b
16
-‐
31.
Molti
altri
testi
dovrebbero
essere
aggiunti.
(28)
Rhonheimer,
La
legge
...
p.
7.
In
questo
vol.
p.125-‐158.
(29)
Nel
mio
contributo
alla
Quarta
Assemblea
Generale,
v.
Human
Genome,
Human
Person
and
the
Society
of
the
Future,
Proceedings
of
the
Fourth
Assembly
of
the
Pontifical
Academy
for
Life,
Ed.
by
Vial
Correa
J.
de
D.
and
Sgreccia
E.,
Città
del
Vaticano:
Libreria
Editrice
Vaticana,
1999:
398.
(30)
La
ampia
nota
22,
con
cui
Cancelli
nella
sua
traduzione
(Ed.
del
Centro
di
Studi
Ciceroniani,
Firenze
1979,
p.
408)
esplica
questa
espressione,
rende
ciaro,
che
"ragione"
in
questo
contesto
significa
infatti
"la
legge
eterna
divina
(...),
fondamento
inconcutibile
(così)
dell'etica"
con
ulteriori
riferimenti.
A
ciò
anche
Waldstein,
Teoria
...
p.
95.
(31)
Trad.
di
Cancelli
F.,
v.
n.
precedente.
(32)
V.
Waldstein,
Teoria
...
p.
107
con
ulteriori
riferimenti.
(33)
Cic.
leg.
2,
11
and
2,
16.
English
translation
by
Keyes
C.
W.,
Cicero
De
re
publica,
De
legibus,
The
Loeb
Classical
Library,
London:
Heinemann,
1966:
383
e
389.
(34)
La
Costituzione
dogmatica
sulla
rivelazione
divina
del
Vaticano
II
conferma
la
definizione
del
primo
Concilio
Vaticano
che
all'
articolo
6
recita:
"Questo
sacro
sinodo
afferma:
»Dio
principio
e
fine
di
tutte
le
cose
può
essere
conosciuto
con
certezza
dalla
realtà
creata
grazie
alla
luce
della
ragione
umana«,
ma
il
sinodo
insegna
che
è
attraverso
la
sua
rivelazione
»che
le
verità
religiose
che
sono
per
la
loro
natura
accessibili
alla
ragione
umana
possono
essere
conosciute
da
tutti
gli
uomini
con
facilità,
con
solida
certezza
e
senza
traccia
di
errore
anche
allo
stato
attuale
del
genere
umano«".
(35)
Rhonheimer,
La
legge
...
p.
7.
In
questo
vol.
p.125-‐158.
(36)
Evangelium
Vitae,
Five
Years
of
Confrontation
with
the
Society.
Proceedings
of
the
Sixth
Assembly
of
the
Pontifical
Academy
for
Life,
Ed.
by
Vial
Correa
J.
de
D.
and
Sgreccia
E.,
Città
del
Vaticano:
Libreria
Editrice
Vaticana,
2001:
225
-‐
230.
(37)
Waldstein
,
Teoria
...
31
-‐
52.
(38)
Aristot.
eth.
Nic.
1,
1;
1094
b
12
-‐
13.
English
translation
by
Rackham
H.,
Aristotle,
The
Nicomachean
Ethics,
The
Loeb
Classical
Library,
Cambridge
(Mass.):
Harvard
University
Press,
London:
Heinemann,
1975:
7.
(39)
Aristot.
eth.
Nic.
1,
1;
1094
b
23
-‐
25.
(40)
Aristot.
eth.
Nic.
1,
7;
1098
b
3
-‐
4.
(41)
Aristot.
eth.
Nic.
6,
12;
1143
a
35
-‐
b
5.
(42)
Aristot.
metaph.
4,
3
-‐
4;
1005
b
5
-‐
1006
a
11.
Nella
continuazione
del
testo
dice:
"Perché
è
assai
impossibile
che
tutto
possa
avere
una
prova,
il
procedimento
andrebbe
fino
all'infinito
di
modo
che
anche
così
non
ci
sarebbe
una
prova.
Tutto
il
testo
seguente
dovrebbe
essere
letto
anche."
(43)
Così
per
esempio
Horak
F.,
Rationes
decidendi,
Entscheidungsbegründungen
bei
den
älteren
römischen
Juristen
bis
Labeo
I,
Aalen:
Scientia,
1969:
20.
(44)
Aristot.
an.
post.
2,
19;
100
b
12
-‐
15.
Per
dettagli
v.
Waldstein,
Teoria
...
p.
132
-‐
133
e
199.
(45)
Kaser
M.,
Zur
Methode
der
römischen
Rechtsfindung,
Nachr.
d.
Akad.
d.
Wiss.
Göttingen,
Phil.-‐
hist.
Kl.
Nr.
2,
Göttingen:
Vandenhoeck
&
Rupprecht,
21969:
47
-‐
78.
(46)
Kaser,
Zur
Methode
...
p.
54.
Il
testo
tedesco
di
difficile
traduzione
recita:
"Fragt
man
sich
nun
nach
den
Wegen,
auf
denen
die
Römer
in
dieser
kasuistischen
Manier
ihr
Recht
gefunden
haben,
so
wird
man
entgegen
den
Erwartungen,
die
etwa
Cicero
erwecken
könnte,
nicht
sogleich
auf
die
40
rationalen
Methoden
der
Induktion
oder
Deduktion
verwiesen.
Nach
den
Eindrücken,
die
die
juristische
Überlieferung
zuverlässig
vermittelt,
steht
vielmehr
im
Vordergrund
die
Intuition,
also
die
Gewinnung
der
richtigen
Entscheidung
durch
ein
unmittelbares
Erfassen,
das
des
rationalen
Argumentierens
nicht
bedarf."
Per
ulteriori
dettagli
vedi
Waldstein,
Teoria
...
p.
45
-‐
52.
(47)
Aristot.
metaph.
4,
3
-‐
4;
1005
b
5
-‐
1006
a
11.
Vedi
alla
nota
42.
(48)
Horak,
Rationes
...
p.
20.
(49)
Kelsen,
Reine
Rechtslehre
p.
5.
(50)
Horak,
Rationes
...
p.
45
-‐
64.
V.
Kaser
M.,
Das
römische
Privatrecht
I,
München:
C.
H.
Beck,
21971:
212
nota
17.
(51)
Kaser,
Privatrecht
...
p.
212.
(52)
Kaser,
Privatrecht
...
p.
3.
(53)
Ulp.
D.
1,
1,
1,
1.
(54)
V.
alla
nota
46.
(55)
V.
alla
nota
41.
(56)
Aristot.
eth.
Nic.
6,
12;
1143
b
11
-‐
14.
(57)
Schulz
F.,
Principles
of
Roman
Law,
Oxford:
Clarendon,
1936:
35
-‐
36.
V.
anche
Evangelium
vitae
...
(sopra
nota
36)
p.
229.
(58)
Ulp.
D.
1,
1,
1
pr.:
Iuri
operam
daturum
prius
nosse
oportet,
unde
nomen
iuris
descendat.
est
autem
a
iustitia
appellatum:
nam,
ut
eleganter
Celsus
definit,
ius
est
ars
boni
et
aequi.
V.
Waldstein,
Teoria
...
p.
17
e
specialmente
p.
249.
(59)
V.
Cic.
off.
3,
31;
a
ciò
Waldstein,
Teoria
...
p.
88.
(60)
V.
Ulp.
D.
1,
1,
6
pr.:
Ius
civile
est,
quod
neque
in
totum
a
naturali
vel
gentium
recedit
nec
per
omnia
ei
servit:
itaque
cum
aliquid
addimus
vel
detrahimus
iuri
communi,
ius
proprium,
id
est
civile
efficimus.
(61)
Il
testo
Ovidio,
Metamorphoses
10,
329
ss.,
citato
dal
prof.
D'Agostino
F.
nel
suo
contributo
alla
n.
1,
potrebbe
forse
in
questa
prospettiva
essere
letto
anche
in
un
senso
diverso.
Ma
se
significherebbe
veramente
eludere
leggi
che
in
realtà
sono
buone,
non
avrebbe
a
che
fare
con
il
concetto
romano
del
diritto
naturale.
(62)
Const.
Tanta
20.
(63)
Per
la
importanza
attuale
di
questo
§
v.
Klecatsky
H.,
Unvergeßbare
Erinnerungen
an
§
16
ABGB,
in:
Pro
iustitia
et
scientia,
Festgabe
zum
80.
Geburtstag
von
K.
Kohlegger,
hrsg.
von
Ebert
K.,
Wien:
Verlag
Österreich,
2001:
275
-‐
300.
(64)
Leinweber
A.,
Gibt
es
ein
Naturrecht?
Beiträge
zur
Grundlagenforschung
der
Rechtsphilosophie,
Hamburg:
Cram,
de
Gruyter
&
Co.,
31972:
285.
(65)
V.
Böckle
F.,
Das
Naturrecht
im
Disput.
Drei
Vorträge
beim
Kongreß
der
deutschsprachigen
Moraltheologen
1965
in
Bensberg,
Düsseldorf:
Patmos
Verlag,
1966,
e
la
recensione
al
libro
di
Messner
J.,
Ethik
und
Gesellschaft,
Aufsätze
1965
-‐
1974,
Köln:
Bachem,
1975:
324
-‐
335.
(66)
Sopra
alla
nota
15.
(67)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Discorso
del
Santo
Padre
Giovanni
Paolo
II,
(27.2.2002),
in
questo
volume
alle
pp.
11-‐14.
(68)
Ibid.,
con
citazione
di
San
Tommaso
d'Aquino.
41
SERGIO
BELARDINELLI
42
l'uomo
"interpreta
il
mondo
secondo
la
sua
immagine,
e
viceversa
se
stesso
secondo
immagini
del
mondo"(7).
Ma,
e
ritorno
alla
domanda
da
cui
sono
partito,
che
cosa
pensiamo
noi
abitanti
del
XXI
secolo
quando
pensiamo
alla
natura
del
cosmo?
In
primo
luogo
direi
che
il
cosmo
ci
fa
pensare
oggi
più
al
caos
che
all'ordine.
Se
Platone
pensava
che
"questo
mondo
è
davvero
un
essere
vivente
fornito
d'anima
e
d'intelligenza,
creato
dalla
provvidenza
divina"(8);
per
una
parte
dominante
della
nostra
cultura
non
c'è
più
alcun
Dio,
quindi
alcun
principio
razionale,
all'origine
di
tutto.
C'è
piuttosto
il
caso
(si
pensi
a
Monod)
oppure
il
caos.
Per
usare
una
nota
immagine
weberiana,
il
mondo
tende
a
configurarsi
ormai
come
una
"infinità
priva
di
senso"(9).
"The
more
the
universe
seems
comprehensible,
the
more
it
also
seems
pointless":
così
si
esprime
il
cosmologo
Steven
Weinberg
in
un
suo
famoso
libro(10).
Che
vi
sia
un
nesso
di
senso
tra
il
moto
dei
pianeti
e
la
nostra
vita
di
uomini,
che
entrambi
rientrino
ad
esempio
in
uno
stesso
progetto
(razionale
e
d'amore),
che
Dio
nella
sua
imperscrutabile
onnipotenza
e
onniscienza
ha
deciso
di
mettere
in
opera,
è
un
pensiero
che
sembra
interessare
poco
perfino
noi
cristiani.
Oggi
amiamo
molto
parlare
di
solidarietà,
giustizia
e
cose
simili,
ma
la
stessa
passione
non
la
mettiamo
certo
nello
spiegare
ai
nostri
figli
che
il
mondo,
l'universo
sono
stati
creati
da
Dio
ed
è
Dio
che
li
mantiene
nell'essere.
Sembra
che
certi
nessi
unificanti,
capaci
di
dare
un
senso
"razionale"
a
tutto
ciò
che
è,
interessino
ormai
(in
modo
irrazionale!)
soltanto
l'astrologia
e
magari
certa
religione
di
marca
new
age.
Quanto
alla
cosmologia,
direi
che
essa
conserva
certo
l'idea
di
un
"ordine"
(e
non
è
poco),
ma
questo
ordine
viene
interpretato,
per
un
verso,
in
modo
talmente
"necessario"
da
far
impallidire
persino
l'antica
idea
greca
di
"ananche",
e,
per
un
altro
verso,
come
se
si
trattasse,
mi
si
passi
l'espressione,
di
una
"necessità
casuale",
priva
di
una
qualsiasi
ragione.
Prendiamo
come
esempio
Stephen
Hawking,
uno
dei
più
autorevoli
e
suggestivi
cosmologi
contemporanei.
Convinto
che
"l'universo
non
sia
arbitrario,
ma
sia
governato
da
leggi
ben
precise",
questi
mira
a
costruire
niente
meno
che
una
"teoria
quantistica
della
gravità",
capace
di
mettere
insieme
teoria
della
relatività
e
meccanica
quantistica
e
di
offrire
così
una
"teoria
unificata
completa"
in
grado
di
descrivere
"ogni
cosa
dell'universo"
e
"presumibilmente
di
determinare
anche
le
nostre
azioni"(11).
Soprattutto
tale
teoria
dovrebbe
dimostrare
l'"autosufficienza"
dell'universo;
vanificare
cioè
l'idea
stessa
che
l'universo
possa
avere
avuto
un
principio
e
che
possa
avere
una
fine.
Se
infatti
supponiamo
che
l'universo
abbia
avuto
un
"inizio",
noi
possiamo
sempre
supporre,
secondo
Hawking,
che
esso
abbia
avuto
un
"creatore".
Se
invece
riusciamo
a
dimostrare
che
lo
spazio
e
il
tempo
formano
"una
superficie
chiusa
senza
confini",
allora
non
c'è
più
bisogno
di
Dio.
Teoria
della
relatività
e
meccanica
quantistica
diventano
sufficienti
a
spiegare
non
soltanto
l'espansione
e
la
contrazione
dell'universo,
ma
anche
la
"formazione
di
galassie,
di
stelle,
e
infine
persino
di
creature
insignificanti
come
noi
stessi"(12).
Senza
nulla
togliere
al
fascino
che
indubbiamente
suscita
l'idea
di
una
"teoria
quantistica
della
gravità",
colpisce
invero
la
pretesa
che
con
essa
si
possa
finalmente
dimostrare
scientificamente
l'inesistenza
di
Dio.
Anche
posto,
infatti,
che
il
nostro
universo
faccia
parte
di
una
catena
infinita
di
universi
che
si
espandono
e
si
contraggono,
che
nascono
e
muoiono,
non
mi
sembra
che
il
senso
vertiginoso
di
questa
infinità
spazio-‐temporale
sia
da
confondere
col
senso
in
cui
diciamo
la
"trascendenza"
di
Dio,
il
suo
essere
infinitamente,
anzi,
assolutamente,
"altro"
rispetto
alla
sempre
più
manifesta
contingenza
dell'universo
o
degli
universi.
In
altre
parole,
l'idea
di
Hawking
di
vanificare
quello
che
potremmo
definire
il
problema
dell'inizio
non
è
detto
che
sia
poi
tanto
ostile,
come
egli
crede,
all'idea
di
Dio.
Semmai,
stando
almeno
ai
continui
spostamenti
all'indietro
cui
ci
costringono
i
cosmologi
e
i
teorici
dell'evoluzione
-‐siamo
ormai
arrivati
a
collocare
l'inizio
a
quindici
miliardi
di
anni
fa-‐,
colpisce
che
una
tale
idea
venga
ancora
presa
tanto
sul
serio.
In
fondo
Tommaso
D'Aquino
ci
aveva
già
messi
in
guardia:
"che
il
mondo
abbia
avuto
inizio
è
43
oggetto
di
fede,
ma
non
oggetto
di
dimostrazione
o
di
scienza"(13).
E
come
più
tardi
puntualizzerà
Agostino(14),
la
creazione
di
Dio
riguarda
non
soltanto
il
mondo,
ma
anche
il
tempo.
Vano
è
dunque
cercare
l'inizio
della
creazione
"nel"
tempo,
rallegrandosi
magari
all'idea
delBig
Bang,
interpretata
come
una
sorta
di
conferma
scientifica
dell'intervento
divino.
Ma
altrettanto
vano
è
supporre
che
l'eventuale
"chiusura"
dell'orizzonte
spazio-‐temporale
possa
liquidare
l'idea
stessa
di
creazione.
"In
principio
era
il
Verbo":
ecco
quello
che
il
Cardinale
Ratzinger
definisce
il
"resoconto
della
creazione"
alla
luce
di
una
"forza
portatrice
di
senso"(15).
In
fondo
si
potrebbe
anche
dire
che
ciò
che
la
fede
vuole
soprattutto
indicare
tramite
l'idea
di
creazione,
non
è
tanto
l'"inizio"
del
mondo,
quanto
la
sua
"bontà",
la
sua
sensatezza
e
l'assoluta
onnipotenza
del
suo
Creatore.
Ritornando
alla
teoria
di
Hawking,
per
certi
versi
essa
sembra
rappresentare
una
sorta
di
radicalizzazione
dell'"ordine"
che
regnava
nel
cosmo
greco.
Ma
ciò
di
cui
precisamente
non
c'è
più
traccia
è
l'idea
che
questo
ordine
possa
essere
considerato
una
cosa
"buona",
nel
senso
in
cui
ne
parla,
non
soltanto
il
libro
della
Genesi,
ma
anche
il
Timeo
platonico;
l'idea
cioè
che
il
telos,
la
conformità
a
uno
scopo,
a
una
legge,
possa
rappresentare
un
fondamento
razionale
per
l'esistenza
del
cosmo
stesso.
Ci
troviamo
di
fronte
a
un
"ordine"
che
non
ha
ragione,
non
ha
senso.
"L'universo
-‐scrive
Hawking-‐
dev'essere
cominciato
esattamente
col
minimo
di
disuniformità
consentito
dal
principio
di
indeterminazione"(16).
In
questo
modo
la
"teleologia"
che
regnava
sul
cosmo
greco
tende
a
diventare
"teleonomia",
quasi
che,
come
direbbe
Aristotele,
la
conformità
a
uno
scopo
di
tutto
ciò
che
è
si
sia
prodotta
"per
caso"(17).
Questa
tendenza
"teleonomica"
mi
sembra
ancora
più
marcata
se
guardiamo
al
modo
in
cui
viene
considerata
la
natura
in
senso
biologico.
Il
celebre
libro
di
Monod,
Il
caso
e
la
necessità,
ne
è
la
prova
più
lampante.
Con
la
parola
"teleonomia"
Monod
esprime
"una
delle
proprietà
fondamentali
(l'altra
è
"l'invarianza
riproduttiva")
caratteristiche
di
tutti
i
viventi,
nessuno
escluso:
quella
di
essere
oggetti
dotati
di
un
progetto,
rappresentato
nelle
loro
strutture
e
al
tempo
stesso
realizzato
mediante
le
loro
prestazioni"(18).
Ma
riguardo
al
"progetto"
di
una
data
specie,
poniamo
l'uomo,
o
della
vita
in
generale,
per
Monod
si
tratta
semplicemente
di
"un
numero
uscito
alla
roulette"(19).
Come
si
può
vedere
siamo
di
fronte
a
una
conformità
a
un
progetto
che
però,
fatta
salva
l'autoconservazione,
non
ha
a
sua
volta
un
fine.
Dello
stesso
parere
sembra
essere
un
altro
"Premio
Nobel",
l'italiano
Renato
Dulbecco.
"La
vita
-‐
egli
dice-‐
è
l'attuazione
di
istruzioni
codificate
nei
geni"(20);
di
qui
"il
progetto
della
vita".
Ma
guai
a
parlare
di
un
progetto
che
è
tale
perché
in
quel
modo
è
stato
progettato.
Ciò
potrebbe
condurre
infatti
all'idea
di
un
"creatore"
e
la
cosa
sarebbe
quanto
meno
disdicevole,
visto
che
"il
creazionismo
può
essere
sostenuto
solo
se
si
accettano
molte
assurdità"(21).
C'è
solo
un
modello
dentro
il
quale
il
"progetto
della
vita"
può
trovare
la
sua
spiegazione
adeguata:
quello
evoluzionistico.
Se
qualche
dubbio
può
sorgere
in
proposito,
ciò
è
da
imputare,
secondo
Dulbecco,
al
fatto
che
"i
modelli
attuali
per
l'evoluzione
sono
approssimati".
Ma
"chiunque
sappia
che
cosa
è
un
processo
scientifico,
dà
per
scontato
che
questa
approssimazione
non
invalida
il
concetto
base
dell'evoluzione.
Nella
scienza,
nessuna
teoria
è
mai
definitiva,
ma
continua
a
evolversi
a
mano
a
mano,
che
nuovi
dati
si
rendono
disponibili
e
nuovi
perfezionamenti
sono
possibili"(22).
Già.
Ma
un
epistemologo
come
Thomas
Kuhn
direbbe,
ad
esempio,
che
sono
i
cambiamenti
di
"paradigma",
non
i
"perfezionamenti"
di
una
medesima
teoria,
che
portano
avanti
la
conoscenza
scientifica.
A
insistere
troppo
su
una
medesima
teoria
c'è
infatti
il
rischio
di
fare
un
po'
come
Tolomeo
con
la
sua
cosmologia
geocentrica,
che,
come
è
noto,
ad
ogni
scoperta
di
un
nuovo
astro,
si
limitava
ad
aggiungere
un
cielo.
La
cosa
andò
avanti
per
un
certo
periodo
di
tempo,
finché
finalmente
qualcuno
disse:
"è
la
teoria
generale
che
non
va;
la
terra
non
è
il
centro
dell'universo".
44
E
si
cambiò
strada.
Qualcosa
del
genere
sta
avvenendo,
avverrà
sicuramente
anche
per
la
teoria
evoluzionistica,
almeno
per
quanto
riguarda
certe
sue
pretese
riduzionistiche(23).
A
questo
proposito
vorrei
presentare
molto
schematicamente
la
critica
che
del
funzionalismo
evoluzionistico
è
stata
data
da
un
biologo
del
secolo
XX,
il
quale
cercava
in
ultimo
di
combinare
evoluzionismo
e
creazionismo:
Adolf
Portmann
(1897-‐1982).
In
uno
dei
suoi
libri
più
affascinanti,
intitolato
Aufbruch
der
Lebensforschung
(1965),
tradotto
in
italiano
col
titolo
Le
forme
viventi,
egli
scrive:
"Per
vistose
che
siano
presso
certi
esseri
viventi
le
strutture
che
servono
alla
conservazione
della
vita,
esse
sono
sempre
parti
di
un
tutto,
che
non
può
venir
inteso
come
somma
di
queste
strutture
e
delle
loro
funzioni"(24).
La
forma,
le
innumerevoli
forme
dei
viventi,
il
loro
essere
fatti
per
apparire
alla
luce,
secondo
Portmann,
non
possono
essere
ricondotti
a
semplici
ragioni
funzionali
di
utilità
o
di
vantaggio
selettivo.
Il
senso
delle
innumerevoli
forme
di
vita
"non
è
in
primo
e
più
alto
luogo
la
conservazione
individuale
e
della
specie,
come
si
legge
in
certe
definizioni
della
vita,
ma
l'autopresentazione,
l'apparire
alla
luce"(25).
Finora
la
biologia,
questa
la
tesi
di
Portmann,
ha
trascurato
i
caratteri
vitali
che
non
si
lasciano
ricondurre
immediatamente
all'autoconservazione
della
specie
o
al
metabolismo
dell'individuo;
ha
guardato
alla
vita
e
agli
esseri
viventi
facendosi
guidare
"troppo
esclusivamente
da
premesse
metodologiche
e
non
dalla
natura
dell'oggetto"(26);
ma
converrà
che
essa
"ponga
rimedio
a
questa
trascuranza
per
far
prevalere
un'idea
più
comprensiva
del
vivente"(27),
"evitando
di
tirare
in
ballo
il
caso
ogni
volta
che
un
certo
dato
di
fatto
ci
appare
incomprensibile"(28).
Da
questa
biologia
delle
forme
esce
un'immagine
della
natura
che
certamente
è
molto
più
ricca
di
quanto
l'evoluzionismo
funzionalista
vorrebbe
far
credere.
I
colori
dei
fiori
o
delle
farfalle,
le
loro
forme
non
sono
riconducibili
in
toto
alla
loro
funzione
evolutiva;
hanno
una
sorta
di
valore
in
sé;
rispondono
a
un
impulso
speciale,
l'autopresentazione;
fanno
della
natura
e
del
mondo
una
realtà
bella.
Ecco
un
punto
che
nel
nostro
contesto
mi
sembra
piuttosto
importante.
La
natura
che
esce
da
una
considerazione
rigorosamente
evoluzionista
è
infatti
una
pura
materia,
una
sorta
di
natura
naturans
priva
di
scopo,
al
limite,
un
gigantesco
processo,
una
lotta
per
l'autoconservazione,
dove
in
realtà
domina
lamors
immortalis
di
cui
parlava
Lucrezio;
gli
esseri
viventi
non
sono
altro
che
macchine
costituite
di
atomi.
Mi
sembra
dunque
di
grande
significato
che
nell'ambito
della
biologia
si
faccia
posto
anche
alla
bellezza
della
natura;
una
bellezza
che
non
appare
semplicemente
come
effetto
accidentale
di
una
funzione
evolutiva,
ma
come
caratteristica
della
natura
in
quanto
tale.
Non
siamo
ancora
al
"buono",
ma
non
è
di
poco
conto
il
fatto
che
si
riscopra
quanto
meno
il
"bello".
Una
concezione
riduttivistica
di
tipo
biologico-‐funzionale
a
sfondo
evoluzionista
sembra
dominare
anche
l'idea
che
la
nostra
epoca
si
va
facendo
della
natura
umana
e
conseguentemente
della
società.
A
questo
proposito
trovo
piuttosto
significative
le
cosiddette
posizioni
"sistemiche",
alla
Humberto
Maturana
o
alla
Niklas
Luhmann,
per
intenderci.
"Che
cosa
sono
gli
esseri
viventi?"
-‐domanda
Maturana.
Ecco
la
risposta:
"
Gli
esseri
viventi,
uomini
compresi,
sono
sistemi
strutturalmente
determinati"(29);
"sistemi
autopoietici",
ossia
sistemi
alla
"continua
riproduzione
di
se
stessi
attraverso
la
continua
riproduzione
e
il
continuo
scambio
dei
propri
elementi
costitutivi"(30);
sistemi
chiusi
l'uno
rispetto
all'altro,
i
quali
si
costituiscono
esclusivamente
rispetto
ad
un
"ambiente".
In
questa
prospettiva
tutto
diventa
descrivibile
come
un
sistema:
dal
batterio,
all'uomo,
alla
società.
In
ultimo
si
tratta
sempre
e
soltanto
di
un
"sistema"
che,
in
virtù
di
un
particolare
"medium"
(ad
esempio,
il
DNA
per
un
organismo,
il
linguaggio
per
l'uomo
e
per
la
società)
si
costituisce
rispetto
al
proprio
"ambiente",
in
vista
di
una
ben
precisa
istanza
funzionale.
In
una
società
differenziata
come
la
nostra
-‐questa,
ad
esempio,
la
tesi
di
Luhmann-‐
i
diversi
sistemi
sociali
(la
scienza,
la
tecnica,
la
politica
o
l'economia)
funzionano
ormai
ciascuno
secondo
un
proprio
codice
funzionale
che
li
rende
sistemi
45
chiusi
l'uno
rispetto
all'altro
-‐"sistemi
autopoietici",
appunto-‐,
all'interno
dei
quali
l'uomo
non
è
altro
se
non
un
"destinatario
del
processo
di
comunicazione"(31).
L'uomo
è
ciò
che
rende
possibile
il
gioco
comunicativo
in
cui
consistono
i
diversi
sistemi
sociali,
ma
ciò
che
qualifica
questi
ultimi
è
soltanto
il
loro
codice
funzionale,
il
loro
modo
di
selezionare
le
informazioni
provenienti
dall'"ambiente"
e
di
costituirsi
in
questo
modo
come
un
sistema
particolare.
Il
sistema
politico
non
è
altro
che
il
risultato
di
una
selezione
della
complessità
ambientale
secondo
il
codice
della
politica;
il
sistema
religioso
non
è
altro
che
il
risultato
di
una
selezione
della
complessità
ambientale
secondo
il
codice
della
religione,
e
via
di
seguito.
L'uomo,
in
quanto
"polo
della
comunicazione",
è
necessario
al
costituirsi
di
tutti
i
diversi
sistemi
sociali,
ma,
in
quanto
uomo,
non
appartiene
a
nessuno
di
essi;
appartiene
piuttosto
al
loro
"ambiente".
Di
conseguenza
non
c'è
nulla
di
più
obsoleto
che
cercare
di
far
valere
all'interno
di
un
qualsiasi
sistema
sociale
determinate
istanze
"umane".
Di
fronte
ai
problemi
sollevati,
poniamo,
dalle
cosiddette
tecnologie
della
riproduzione,
il
monito
di
Luhmann
è,
non
a
caso,
quello
di
"far
lavorare
in
pace
chi
è
molto
occupato",
ossia
gli
scienziati,
senza
"disturbarli"
con
discorsi
sull'uomo,
la
sua
natura
o
la
sua
dignità,
i
quali,
nella
migliore
delle
ipotesi,
appartengono
a
un
altro
"sistema"
(l'etica)
e
sono
quindi
tra
loro
incommensurabili(32).
Per
farla
breve,
"l'uomo
non
è
più
il
metro
di
misura
della
società"(33).
In
quanto
uomo,
egli
è
a
sua
volta
un
"sistema",
un
"sistema
psichico",
funzionante
e
chiuso
come
tutti
gli
altri
sistemi
e
il
cui
"ambiente"
è
rappresentato
dalla
società.
Se
ho
fatto
questi
brevi
riferimenti
al
riduzionismo
"sistemico"
è
perché,
per
alcuni
versi,
lo
ritengo
uno
degli
esiti
più
sofisticati
e
radicali
del
nichilismo
contemporaneo,
dove
uomo
e
società
non
hanno
altra
"misura"
se
non
quella
della
loro
evoluzione
biologico-‐sociale.
In
ultimo
si
tratta
sempre
e
soltanto
di
reagire
"autopoieticamente"
a
una
determinata
"complessità
ambientale";
per
l'uomo
e
per
la
società,
al
pari
di
una
cellula,
il
problema
principale
è
l'autoconservazione
in
quanto
"sistemi".
Niente
di
strano,
dunque,
se
oggi
la
cosiddetta
"biosociologia"
incontra
tanto
successo.
Su
questa
strada
ci
si
è
spinti
in
effetti
molto
avanti.
Non
ci
si
limita
più
a
concepire
la
società
in
analogia
con
un
organismo
vivente,
secondo
l'organicismo
aristotelico
o
quello
di
Durkheim,
tanto
per
fare
qualche
esempio;
la
società
stessa,
le
forme
socio-‐culturali
vengono
interpretate
come
esito
ultimo
di
un
processo
di
evoluzione
biologica,
dove
il
"gene"
è
stato
affiancato
da
un
motore
evolutivo
di
tipo
socio-‐culturale:
il
"meme".
Come
scrive
ad
esempio
Freeman
Dyson,
"Quasi
tutti
i
fenomeni
dell'evoluzione
genetica
e
della
speciazione
hanno
i
loro
analoghi
nella
storia
della
cultura
con
il
meme
che
assume
la
funzione
del
gene.
Il
meme
è
un'unità
di
comportamento
che
si
autoreplica
come
il
gene.
Il
meme
e
il
gene
sono
parimenti
egoisti"(34).
Tuttavia
i
"duplicatori
genetici"
sono
soltanto
una
componente
dell'evoluzione;
l'altra
è
rappresentata
dall'
"omeostasi",
ossia
dalla
capacità
di
reagire
e
adattarsi
alla
complessità.
La
storia
della
vita
diventa
da
questo
punto
di
vista,
sono
sempre
parole
di
Dyson,
"un
contrappunto
musicale,
un'invenzione
di
due
parti
con
due
voci,
la
voce
dei
duplicatori
che
tentano
di
imporre
i
loro
scopi
egoistici
all'intero
sistema,
e
la
voce
dell'omeostasi
che
tende
a
massimizzare
la
diversità
delle
strutture
e
la
versatilità
delle
funzioni"(35).
Tutto
ciò
mitigava
ieri
la
"tirannia
dei
geni",
durata
tre
miliardi
di
anni,
e
mitiga
oggi
quella
dei
"memi",
affermatasi
negli
ultimi
centomila
anni,
grazie
all'homo
sapiens
e
al
suo
linguaggio
simbolico.
Come
dice
Dyson,
"i
nostri
modelli
di
comportamento
sono
ora
in
gran
parte
prodotti
culturalmente,
anziché
essere
determinati
geneticamente"(36).
La
cultura
non
è
altro
che
l'ultimo
stadio,
lo
stadio
più
elevato
dell'evoluzione
biologica.
Questo
schema
biologico-‐funzionalista,
entro
il
quale
possono
stare
posizioni
variamente
articolate,
ma
accomunate
dalla
tendenza
a
risolvere
in
"natura"
la
dimensione
culturale
dell'uomo,
non
esaurisce
comunque
lo
scenario
del
nichilismo
contemporaneo.
Esiste
infatti
anche
uno
schema
opposto,
che
definirei
radical-‐culturalista,
tendente
invece
a
dissolvere
il
46
discorso
sulla
"natura"
in
un
discorso
sulla
"cultura".
La
natura
è
una
"categoria
sociale"
diceva
il
filosofo
marxista
Gyorgy
Lukacs
(1885-‐1971);
più
che
i
naturali
bisogni
dell'uomo
conta
il
modo
con
cui
egli
li
soddisfa.
Il
discorso
sulla
natura
dell'uomo,
quindi
sul
rapporto
tra
natura
e
cultura,
ha
rappresentato
da
sempre
un
problema
per
la
filosofia.
In
fondo
anche
la
teleologia
greca
trovava
nell'uomo,
non
soltanto
l'essere
più
perfetto,
perché
dotato
di
ragione,
ma
anche
una
sorta
di
zona
d'ombra.
A
differenza
di
una
ghianda,
il
cui
telos
la
determina
a
diventare
una
quercia,
l'uomo
sembra
infatti
non
avere
un
telos
altrettanto
ben
definito;
stando
a
Platone
e
Aristotele,
esso
dovrebbe
diventare
un
buon
cittadino
della
polis
oppure
un
buon
filosofo,
ma
esiste
pur
sempre
la
consapevolezza,
come
avvertiva
Aristotele
(37),
di
avere
a
che
fare
con
un
essere
che
sta
a
mezza
strada
tra
la
divinità
e
le
bestie.
In
ogni
caso,
anziché
prendere
lo
spunto
da
questa
ambivalenza
per
cercare
di
capire
qualcosa
di
più
del
telos
dell'uomo,
gran
parte
della
filosofia
moderna,
come
sappiamo,
ha
finito
per
accantonarne
l'idea.
La
natura
dell'uomo
consiste
in
ultimo
nella
sua
gratuita
libertà,
alla
quale
si
possono
certo
porre
dei
"limiti",
ma
non
certo
perché
questi
siano
da
ritenersi
conformi
alla
"natura
umana",
bensì
semplicemente
perché
ci
piace,
ci
è
utile,
ci
troviamo
d'accordo
a
farlo.
So
di
semplificare
oltremodo
un
problema
letteralmente
immenso;
mi
sembra
tuttavia
che
le
odierne
discussioni
in
materia
di
bioetica
riflettano
bene
questo
atteggiamento.
L'idea
che
nella
natura
possa
essere
reperibile
una
qualche
"normatività"
viene
rifiutata
a
priori
come
"mito"
o
come
"bioteologia"(38);
per
usare
un'espressione
di
Juergen
Habermas,
la
nostra
ragione
"riconosce
ormai
soltanto
quei
limiti
che
sono
accettati
dalla
volontà
degli
interlocutori"(39).
Eppure
proprio
le
sfide
della
bioetica
stanno
rimettendo
in
circolazione
discorsi
sull'uomo
meno
prometeici,
meno
culturalisti;
discorsi
che
effettivamente
ripropongono
il
tema
di
una
natura,
la
quale,
per
il
fatto
di
esprimersi
in
termini
di
libertà,
quindi
di
cultura,
non
per
questo
cessa
di
essere
"natura",
quindi
"limite",
ma
anche
"fine",
"telos",
il
cui
rispetto
soltanto,
come
direbbe
Robert
Spaemann,
può
consentire
all'uomo
di
essere
ciò
che
egli
è
"per
natura"(40).
A
questo
proposito
mi
sembra
che
qualcosa
si
stia
movendo
sia
in
campo
sociologico,
sia
in
campo
filosofico.
L'interesse
per
la
cosiddetta
"sociologia
relazionale"(41),
la
riproposizione
di
un'idea
di
"vita
buona"
che
ritroviamo
in
autori
come
Amartya
Sen
o
Martha
Nussbaum
(42),
oppure
il
rinnovato
interesse
per
l'idea
di
"seconda
natura"
da
parte
di
un
autore
come
John
McDowell(43)
sono
esempi
che
potrebbero
anche
indicare
una
possibile
svolta.
In
fondo
si
tratta
pur
sempre
di
ristabilire
una
differenza,
quella
tra
natura
e
cultura,
in
modo
tale
che,
anziché
opposizione
o
soltanto
opposizione,
possa
esserci
armonia.
Con
le
parole
di
McDowell,
potremmo
dire
che
si
tratta
di
distinguere
tra
"il
movimento
dei
pianeti
o
il
volo
di
un
passero",
espressioni
della
"natura",
e
noi
stessi,
un'opera
d'arte
o
un'azione
umana,
espressioni
della
"seconda
natura"(44).
"Dobbiamo
riappropriarci
dell'idea
aristotelica
che
un
normale
essere
umano
adulto
è
un
animale
razionale,
ma
senza
abbandonare
l'idea
kantiana
dell'operare
libero
della
razionalità
nella
propria
sfera"(45).
E
ancora:
"Siamo
alla
ricerca
di
una
concezione
della
nostra
natura
che
includa
la
capacità
di
entrare
in
sintonia
con
la
struttura
dello
spazio
delle
ragioni.
Dal
momento
che
ci
opponiamo
al
crudo
naturalismo,
dobbiamo
ampliare
il
concetto
di
natura
al
di
là
di
quanto
sanzionato
dal
naturalismo
del
regno
della
legge.
Ma
questa
espansione
è
limitata
dalla
prima
natura,
per
così
dire,
degli
animali
umani,
e
dall'evidenza
dei
fatti
su
ciò
che
accade
agli
animali
umani
durante
la
loro
crescita"(46).
Di
qui
laBildung,
la
"seconda
natura",
come
il
luogo
privilegiato
in
cui
l'uomo,
secondo
MacDowell,
può
veramente
venire
a
capo
della
sua
propria
"natura".
Non
nego
che,
leggendo
questo
autore,
qualche
volta
ho
la
sensazione
che
la
"seconda
natura"
venga
interpretata
troppo
liberamente,
quasi
che
i
"limiti"
della
"prima",
che
pure
vengono
47
riconosciuti,
alla
fin
fine
siano
spostabili
ad
libitum,
e
quindi
tolti
in
quanto
"limiti".
Ciò
ha
forse
a
che
fare
con
la
preferenza
da
parte
di
McDowell
per
la
"ragione
kantiana".
In
ogni
caso
la
sua
riproposizione
dell'idea
aristotelica
dell'uomo
come
"un
animale
il
cui
essere
naturale
è
permeato
di
razionalità"
mi
sembra
significativa.
Occorre
forse
rafforzare
la
convinzione
che
"la
seconda
natura
non
galleggia
indipendente
dalle
potenzialità
che
appartengono
al
normale
organismo
umano"(47).
Se
a
questo
riusciamo
poi
ad
aggiungere
che
la
condizione,
affinché
una
persona
venga
rispettata
come
soggetto
libero,
è
quella
di
"sacralizzare",
come
dice
Robert
Spaemann,
la
sfera
nella
quale
essa
appare,
ossia
la
sua
esistenza
come
essere
naturale
vivente(48),
ecco
che
allora
ci
avviciniamo
a
una
definizione
ancora
più
adeguata
della
natura
umana.
"Ogni
uomo
è
un
pensiero
di
Dio",
ha
scritto
il
Cardinale
Ratzinger(49).
Qualcuno
ha
affermato
di
recente
che
"la
natura
umana,
un
tempo
principio
guida
dell'attività
umana,
ora
ne
è
diventata
il
progetto"(50).
L'affermazione
mi
sembra
illuminante
riguardo
a
una
posizione
teorica
oggi
assai
diffusa,
ma
proprio
per
questo
il
compito
che
abbiamo
davanti
è
quello
di
tematizzare
o
ritematizzare
il
mix
di
"datità"
e
"progetto"
in
cui
consiste
la
natura
umana.
Con
linguaggio
heideggeriano,
si
potrebbe
dire
che
la
natura
dell'uomo
non
è
come
quella
di
un
sasso,
di
un
albero
o
di
un
uccello;
è
una
natura
che
implica
la
realizzazione
di
sé,
della
propria
esistenza,
della
propria
libertà
e
dignità.
Riflettendo
su
se
stesso,
l'uomo
si
rende
conto
non
soltanto
di
essere
qualcuno,
unico
e
irripetibile,
ma
anche
di
dover
essere,
di
dover
assumere
cioè
la
propria
esistenza
come
un
compito
da
realizzare.
"Diventa
ciò
che
sei",
direbbe
Giovanni
Paolo
II.
Riguardo
al
concetto
di
natura
in
senso
ecologico,
vorrei
prendere
le
mosse
da
un'affermazione
di
Vittorio
Hoesle:
"L'ecologia
è,
letteralmente,
la
dottrina
della
casa;
tra
le
varie
dimore
materiali,
concrete,
nelle
quali
l'uomo
vive,
essa
prende
in
considerazione
la
più
grande,
la
nostra
Terra,
che
costituisce
oggi
un'inscindibile
unità
di
elementi
naturali
e
culturali"(51).
Se
dunque
oggi
si
parla
molto
di
crisi
ecologica,
vuol
dire
che
siamo
di
fronte
a
una
crisi
che
interessa
allo
stesso
modo
sia
la
natura
che
la
cultura
e
che
pertanto
va
affrontata
su
entrambi
i
fronti.
Non
a
caso
lo
stesso
Hoesle
scrive
che
"una
filosofia
della
natura
volta
a
coniugare
l'autonomia
dello
spirito
e
l'assoluta
dignità
della
natura
mi
sembra
una
delle
istanze
fondamentali
del
nostro
tempo"(52).
Pur
senza
condividere
l'ispirazione
di
fondo
del
discorso
di
Hoesle,
la
sua
riproposizione,
per
certi
versi
anche
affascinante,
dell'idealismo
oggettivo,
mi
sembra
di
poter
dire
che
egli
imposti
bene
la
nostra
questione
fondamentale.
La
moderna
scienza
della
natura
poggia
in
ultimo
su
una
contrapposizione
dualistica:
quella
tra
uomo
e
natura,
tra
res
cogitans
e
res
extens,
come
direbbe
Cartesio.
Ciò
ha
indubbiamente
facilitato
il
dominio
tecnico
sulla
natura
che
abbiamo
conosciuto
dai
secoli
moderni
fino
a
oggi.
L'odierna
"crisi
ecologica"
ci
obbliga
tuttavia
a
rivedere
il
nostro
armamentario
concettuale.
Chi
più
chi
meno,
tutti
ci
rendiamo
ormai
conto
che
la
nostra
cultura
non
può
continuare
a
considerare
la
natura
un
puro
oggetto
di
dominio
senza
che
questo
dominio
si
rivolga
in
ultimo
contro
la
stessa
cultura,
distruggendo
entrambe.
Parlare
di
natura
in
senso
ecologico
ci
obbliga
quindi
a
parlare
di
"ecosistema"
e
questo
potrebbe
aiutarci,
tra
l'altro,
a
tematizzare
l'essere
umano
(dall'inizio
alla
fine)
non
soltanto
nel
sistema
delle
"relazioni
sociali",
e
quindi
dei
valori
culturali,
ma
anche
in
riferimento
alla
sua
naturalità.
L'ecosistema
è
qualcosa
che
riconduce
l'uomo
a
un
ambiente
(naturale
e
culturale)
che
non
dipende
da
lui,
sul
quale
egli
influisce,
ma
ne
è
anche
influenzato,
rappresentando
in
un
certo
senso
la
condizione
e
quindi
il
condizionamento
della
sua
vita
e
della
sua
libertà.
Come
emerge
in
modo
assai
significativo
nell'opera
di
Hans
Jonas
(53),
la
riflessione
ecologica
ripropone
oggi
in
forma
eclatante
il
senso
della
natura
come
"limite"
della
nostra
libertà;
un
limite
che
ha
in
sé
una
dignità
che
non
va
calpestata.
Hegelianamente
potremmo
dire
che
la
cosiddetta
"natura
esterna"
è
certamente
una
natura
"per
noi",
qualcosa
di
cui
possiamo
disporre
per
i
nostri
scopi;
ma
è
anche
"natura
in
sé",
ossia
qualcosa,
il
cui
telos
non
si
esaurisce
48
nell'essere
a
nostra
disposizione
e
che
quindi,
proprio
per
questo,
chiede
anche
di
essere
rispettato.
La
riappropriazione
dell'idea
di
una
"natura
umana"
come
"fine
in
sé",
ossia
come
qualcosa
di
assolutamente
indisponibile,
più
o
meno
nel
senso
in
cui
Kant
diceva
che
occorre
considerare
l'uomo
sempre
come
"fine"
e
mai
come
"mezzo",
passa
indubbiamente
attraverso
l'estensione
di
certi
margini
di
non
disponibilità
anche
alla
"natura
esterna".
Recentemente
questo
senso
del
"limite"
incomincia
ad
essere
avvertito
anche
all'interno
della
cosiddetta
"teoria
dell'agire
comunicativo"
di
Juergen
Habermas,
il
quale
si
sta
cimentando
sempre
più
spesso
con
tematiche
bioetiche
e
di
filosofia
della
natura(54).
Come
ha
però
indicato
Spaemann
già
qualche
anno
addietro(55),
è
proprio
la
riflessione
ecologica
a
mostrare
le
insormontabili
difficoltà
del
paradigma
comunicativo.
Mai
come
oggi,
di
fronte
alle
sfide
drammatiche
che
ci
vengono
poste
dalla
crisi
ecologica,
è
stato
tanto
evidente
come
il
criterio
della
verità
delle
nostre
risposte
dipenda
dai
fatti
più
che
dai
discorsi.
5.
Un'ultima
considerazione.
Poiché
le
riflessioni
fin
qui
sviluppate
cercano
in
fondo
di
condividere
la
sollecitudine
della
Chiesa
per
l'uomo,
mi
sembra
che
una
maggiore
consapevolezza
circa
il
posto
che
l'uomo
occupa
nel
cosmo(56)
si
riveli
oggi
di
fondamentale
importanza
proprio
per
l'uomo
stesso.
E'
molto
più
utile,
intendo
più
utile
per
l'uomo,
per
la
sua
dignità
e
libertà,
che
si
riesca
a
riabilitare
a
questo
livello
il
senso
più
profondo
dell'antica
"filosofia
prima",
che
insistere
tanto
su
"filosofie
seconde",
le
quali,
per
quanto
animate
da
buoni
propositi,
si
rivelano
spesso
astratte
e
lontane
proprio
da
quell'uomo
che
vorrebbero
servire.
Ma
non
sarà
un'impresa
facile.
In
questi
ultimi
anni,
contrassegnati
sul
piano
filosofico
non
a
caso
dalla
cosiddetta
"riabilitazione
della
filosofia
pratica"
-‐"filosofia
seconda",
appunto-‐,
abbiamo
pensato
erroneamente
che
i
discorsi
sui
valori,
sulla
morale
o
sull'etica
potessero
essere
condotti
guardando
esclusivamente
all'autonomia
e
alla
libertà
degli
individui,
come
se
la
"natura
umana"
non
esistesse
o
fosse
in
ultimo
riducibile
a
libertà
e
autonomia.
Nel
frattempo,
soprattutto
sul
piano
delle
scienze
biologiche,
si
è
andata
sviluppando
una
concezione
opposta,
tendente
a
ridurre
tutto
l'umano,
quindi
anche
l'intelligenza
e
la
libertà,
a
formule
biologiche.
Ebbene
trovo
assai
preoccupante
e
insieme
curioso
che,
sul
piano
normativo,
queste
due
opposte
tendenze
siano
finite
col
produrre
uno
stesso
esito:
la
mancanza
di
un
valido
criterio
in
grado
di
giustificare
veramente
il
valore
incondizionato,
assoluto,
della
persona
umana.
Ritornando,
per
concludere,
al
discorso
che
abbozzavo
all'inizio,
si
potrebbe
dire
che
queste
tendenze
stanno
ad
indicare
il
fallimento
di
una
ragione
e
di
una
natura
che
non
sono
più
in
grado
di
"illuminarsi"
reciprocamente.
Se
poi
aggiungiamo
che
siamo
entrati
ormai
in
una
fase
in
cui
anche
il
peso
normativo
delle
consuetudini
sociali
ha
preso
a
vacillare,
ecco
che
lo
scenario
si
presenta
in
tutta
la
sua
inquietante
problematicità.
Non
c'è
più
alcun
limite;
e
nel
frattempo
continuiamo
ad
accrescere
a
tutti
i
livelli
un
potere,
la
cui
unica
"misura"
sembra
essere
soltanto
se
stesso
e
i
propri
automatismi.
Astrattamente
separate
l'una
dall'altra,
natura
e
ragione
perdono
il
loro
carattere
normativo
e
rischiano
di
diventare
semplicemente
l'ambiente
di
"sistemi
sociali"
che
operano
indiscriminatamente
(senza
limiti)
alle
spalle
e
sulla
testa
degli
uomini.
E'
per
colpa
di
questa
astratta
separazione
che
oscilliamo
tra
la
Scilla
che
ci
impedisce
di
distinguere
tra
la
natura
dell'uomo,
quella
di
un
animale
e
quella
di
una
pianta,
quindi
di
conferire
a
ciascuna
forma
di
natura
il
suo
grado
di
dignità,
e
la
Cariddi
che
ci
impedisce
di
comprendere
in
che
senso
uomini,
piante
e
animali
partecipano
di
una
medesima
natura.
Sia
chiaro
comunque
che
soltanto
al
di
fuori
di
questa
astratta
separazione
può
avere
senso
parlare
di
"Natura"
in
senso
cosmologico,
biologico,
antropologico
ed
ecologico.
49
(1)
Significativa
in
proposito
la
posizione
del
fisico
Freeman
Dyson.
Cfr.
DYSON
F.,
Infinito
in
ogni
direzione.
Le
origini
della
vita,
la
scienzae
il
futuro
dell'umanità,
Milano:
Rizzoli,
1988.
(2)
Un
atteggiamento
analogo
mi
sembra
che
si
possa
assumere
anche
nei
riguardi
del
rapporto
tra
naturale
e
soprannaturale.
Cfr.
SCOLA
A.,
"Naturale"
e
"Soprannaturale":
per
una
visione
integrata,
in
questo
stesso
volume.
(3)
LEOPARDI
G.,
Zibaldone,
n.
2,
in
LEOPARDI,
Tutte
le
Opere,
vol.
II,
Firenze:
Sansoni,
1969:
15.
(4)
HOELDERLIN
F.,
Der
Rhein,
in
HOELDERLIN
F.,
Poesie,
Milano:
Mondadori,
1971:
205.
(5)
Per
quanto
riguarda
la
tragicità
di
questo
ordine,
si
pensi
al
celebre
frammento
di
Anassimandro,
dove
la
vita
è
vista
come
una
"caduta"
da
pagare
con
la
morte,
grazie
alla
quale
si
torna
"colà
donde
si
è
venuti",
ripristinando
così
l'ordine.
Per
quanto
riguarda
l'ordine
cosmico
come
armonia
e
giustizia,
e
quindi
come
misura
dell'ordine
umano,
si
pensi
al
frammento
di
Eraclito:
"il
sole
non
oltrepasserà
le
sue
misure;
altrimenti
le
erinni
ministre
della
giustizia,
lo
costringeranno
a
rispettarlo".
(6)
PLATONE,
Timeo,
IV,
26/27.
(7)
GEHLEN
A.,
L'uomo
nell'era
della
tecnica,
Milano:
Sugar,
1967:
25.
(8)
PLATONE,
Timeo,
VI,
30.
(9)
WEBER
M.,
L'"oggettività"
conoscitiva
della
scienza
sociale
e
della
politica
sociale,
in
WEBER
M.,
Il
metodo
delle
scienze
storico-‐sociali,
Torino:
Einaudi,
1958:
96.
(10)
WEINBERG
S.,
The
first
three
Minutes,
New
York:
Basic
Books,
1977:
154.
(11)
HAWKING
S.,
Dal
Big
Bang
ai
buchi
neri,
Milano:
Rizzoli,
1988:
25-‐26.
(12)
Ibid.,
165
(13)
TOMMASO
D'AQUINO,
Summa
Theologiae,
I,
q.
46,
a.2.
(14)
AGOSTINO,
Confessioni,
in
Opere
di
Sant'Agostino,
Roma:
Città
nuova,
1965:
381.
(15)
RATZINGER
J.,
Dio
e
il
Mondo.
Essere
cristiani
nel
nuovo
millennio.
In
colloquio
con
Peter
Seewald,
Torino:
San
Paolo,
2001:
101.
(16)
HAWKING,
Dal
Big
Bang....,
165.
(17)
Cfr.
ARISTOTELE,
Fisica,
II,
198
b.
(18)
MONOD
J,
Il
caso
e
la
necessità,
Milano:
Mondadori,
1974:
22.
(19)
Ibid.,
141.
(20)
DULBECCO
R.,
Il
progetto
della
vita,
Milano:
Mondadori,
1989:
30.
(21)
Ibid.,
502.
(22)
Ibid.
(23)
A
questo
proposito
trovo
molto
importante
la
critica
dell'evoluzionismo
elaborata
sul
piano
filosofico
come
ripresa
dell'antica
idea
teleologica
da
Robert
Spaemann
e
Reinhard
Loew.
Cfr.
SPAEMANN
R,
LOEW
R.,
Die
Frage
Wozu.
Geschichte
und
Wiederentdeckung
des
teleologischen
Denkens,
Muenchen:
Piper,
1981.
(24)
PORTMANN
A.,
Le
forme
viventi.
Nuove
prospettive
della
biologia,
Milano:
Adelphi,
1969:
39.
(25)
Ibid.,
52.
(26)
Ibid.,
37.
(27)
Ibid.,
73.
(28)
Ibid.,
71.
(29)
MATURANA
H.
Biologie
der
Sozialitaet,
in
SCHMIDT
S.J.,
Der
Diskurs
der
radikalen
Konstruktivismus,
Frankfurt:
Suhrkamp,
1987:
288.
(30)
Ibid.,
289.
(31)
LUHMANN
N.,
Ethik
als
Reflexionstheorie
der
Moral,
in
LUHMANN,
Gesellschaftsstruktur
und
Semantik,
vol.
III,
Frankfurt:
Suhrkamp,
1989:
367.
50
(32)
Cfr.
LUHMANN
N.,
E'
lecito
tutto
ciò
che
è
possibile,
in
"Bollettino
dell'Università
degli
Studi
di
Bologna",
1993,
2:
5-‐7.
Ho
approfondito
questi
aspetti
del
pensiero
di
Niklas
Luhmann
in
BELARDINELLI
S.,
Una
sociologia
senza
qualità.
Saggi
su
Luhmann,
Milano:
Angeli,
1993.
(33)
LUHMANN
N.,
Sistemi
sociali,
Bologna:
Il
Mulino,
1990:
354.
(34)DYSON,
Infinito
in
...,
92.
(35)
Ibid.
(36)
Ibid.,
91.
(37)
Cfr.
ARISTOTELE,
Politica,
I,
2.
(38)
E'
quanto
fa
ad
esempio
G.
E.
Rusconi;
cfr.
RUSCONI
G.E.,
Come
se
Dio
non
ci
fosse,
Torino:
Einaudi,
2000.
(39)
Come
è
noto,
è
questo
uno
dei
presupposti
più
importanti
della
cosiddetta
"etica
del
discorso",
della
quale
Habermas
è
uno
dei
principali
ispiratori.
Per
una
critica
di
questa
teoria
etica
rinvio
a
BELARDINELLI
S.,
Il
progetto
incompiuto.
Agire
comunicativo
e
complessità
sociale,
Milano:
Angeli,
1996.
(40)
Cfr.
SPAEMANN,
LOEW,
Die
Frage...,
287.
(41)
Cfr.
DONATI
P.,
Teoria
relazionale
della
società,
Milano:
Angeli,
1991.
(42)
SEN
A.,
La
disuguaglianza.
Un
riesame
critico,
Bologna:
Il
Mulino,
1994;
NUSSBAUM
M.
C.,
Human
Capabilities,
Female
Human
Beings,
in
NUSSBAUM
M.
C.,
GLOVER
S.
(a
cura
di),
Women,
Culture,
and
Development:
A
Study
of
Human
Capabilities,
Oxford:
Clarendon,
1995:
61-‐104.
(43)
Cfr.
McDOWELL
J.,
Mente
e
mondo,
Torino:
Einaudi,
1999.
(44)
Cfr.
Ibid.,
71-‐92.
(45)
Ibid.,
91.
(46)
Ibid.,
118-‐119.
(47)
Ibid.,
91.
(48)
SPAEMANN
R.,
Il
significato
del
naturale
nel
diritto,
in
SPAEMANN
R.,
Per
la
critica
dell'utopia
politica,
Milano:
Angeli,
1994:
196.
(49)
RATZINGER,
Dio
e
Mondo...,
67.
(50)
Si
tratta
di
David
Roy,
Direttore
del
"Centre
de
Bioétique"
in
Canada.
Cfr.
Fondazione
Lanza,
Vent'anni
di
bioetica.
Idee
Protagonisti
Istituzioni,
Padova:
1991:
101.
(51)
HOESLE
V.,
Filosofia
della
crisi
ecologica,
Torino:
Einaudi,
1992:
11.
(52)
Ibid.,
10.
(53)
Cfr.
JONAS
H.,
Il
Principio
responsabilità,
Torino:
Einaudi,
1990;
ID.,
Materie,
Geist
und
Schoepfung,
Frankfurt:
Suhrkamp,
1988.
(54)
Interessante
a
questo
proposito
il
testo
dell'intervento
presentato
da
Habermas
nei
gg.
25
ottobre
e
1
novembre
2001
alle
"New
York
University
Law
School",
dal
titolo
On
the
way
to
liberal
eugenics?
The
dispute
over
the
ethical
self-‐understanding
of
the
species.
(55)
Cfr.
SPAEMANN
R.,
Ende
der
Modernitaet?,
in
KOSLOWSKI
P.,
SPAEMANN
R.,
LOEW
R.
(a
cura
di),
Moderne
oder
Postmoderne?,
Weinheim:
Acta
humaniora,
1986:
38.
(56)
A
questo
proposito
mi
permetto
di
rinviare
a
due
titoli
ormai
classici:
Die
Stellung
des
Menschen
im
Kosmos
di
Max
Scheler
e
Der
Mensch,
seine
Natur
und
seine
Stellung
in
der
Welt
di
Arnold
Gehlen.
51
JOHN
FINNIS
52
dibattito
o
un
dialogo,
attività
consistente
nell'individuare
se
ci
sono
(e
che
cosa
sono
in
linea
di
principio)
il
giusto
e
lo
sbagliato
nei
modi
umani
di
scegliere,
di
agire
e
di
vivere.
Infatti,
nonostante
la
grande
varietà
di
opinioni
e
di
abitudini,
la
tesi
secondo
cui
ci
sono
in
realtà
alcuni
modelli
di
condotta
giusta
che
sono
veri
e
validi
per
tutti
(per
tutti
gli
esseri
della
nostra
natura)
fu
articolata
filosoficamente
per
la
prima
volta
da
Platone
nel
Gorgia,
credo.
Proprio
nella
dialettica
con
gli
scettici,
nel
Gorgia,
Platone
reputa
utile
recuperare
da
loro
le
parole
"natura"
e
"naturale".
Gli
scettici
sostenevano,
ovviamente,
il
predominio
del
forte
e
dell'egoista
su
coloro
che
sono
deboli
o
che
si
indeboliscono
per
amore
altrui,
per
promesse
fatte
o
per
ciò
che
la
società
presenta
senza
dubbio
come
loro
responsabilità.
La
risposta
di
Platone,
brillante,
piena
di
risorse
e
nello
stesso
tempo
molto
pertinente,
è
che
cercare
di
vivere
"naturalmente"
o
"secondo
natura"
perseguendo
implacabilmente
propri
desideri
di
potere
e
di
altre
soddisfazioni
è
autocontraddittorio,
incoerente
e
irragionevole.
Per
natura
un
desiderio,
sia
dell'intelligenza
(come
la
conoscenza
o
l'amicizia),
sia
di
emozioni
primarie
(come
un
cibo
gustoso,
il
sesso,
il
potere,
la
reputazione,
ecc.),
ha
bisogno
di
essere
governato
e
moderato
secondo
i
criteri
della
ragione.
Questi
criteri
richiedono
che
si
metta
ordine
nella
propria
psiche,
e
ciò
implica
anche
la
necessità
di
stabilire
e
mantenere
un
ordine
buono
nei
rapporti
con
il
prossimo.
Nonostante
le
apparenze
(il
fascino
del
male),
la
"legge
di
natura"
degli
scettici
-‐
legge
del
forte
e
dello
spietato-‐
è
innaturale,
proprio
perché
irragionevole.
Il
fatto
che
sia
irragionevole
non
è
semplicemente
affermato
da
Platone,
ma
è
mostrato,
soprattutto
nella
sua
riflessione
sulle
condizioni
per
ottenere
la
verità
nel
dialogo.
Tali
condizioni
sono
sinteticamente
poste
allorché
Socrate
articola
la
relazione
formale
fra
verità
e
consenso.
Afferma
infatti
che
a
determinate
condizioni,
del
genere
che
oggi
chiameremmo
"ideali",
le
persone
impegnate
in
un
discorso
saranno
d'accordo.
(1)
Quali
sono
queste
condizioni?
"Conoscenza,
buona
volontà
e
sincerità"
(2)
-‐
(i)
una
solida
e
ampia
formazione,
(ii)
buona
volontà
verso
le
altre
posizioni
nel
discorso/discussione
(in
realtà,
la
cortese
considerazione
che
si
ha
verso
gli
amici)
e
(iii)
la
volontà
di
parlare
sinceramente
(anche
quando
ciò
vuol
dire
ammetter
i
propri
errori,
le
auto-‐contraddizioni
e
le
auto-‐confutazioni)
invece
di
simulare
l'accordo
(3)
.
Laddove
queste
condizioni
non
siano
soddisfatte,
persino
l'assenso
universale
ad
una
proposizione
non
darebbe
l'evidenza
(per
non
parlare
della
garanzia)
della
sua
verità
(4)
;
e
quando
le
condizioni
sono
soddisfatte,
la
convergenza
degli
interlocutori
non
costituisce
un
criterio
di
verità,
al
cui
modello
ci
si
possa
appellare
per
distinguere,
all'interno
dell'argomentazione,
i
giudizi
fondati
da
quelli
infondati.
È
piuttosto,
un
marchio
di
verità,
una
conseguenza
gradita
e
confermativa
della
comune
disponibilità
ad
occuparsi
di
ciò
che
ogni
discussione
in
cerca
della
verità
dovrebbe
avere
come
suo
obiettivo:
ciò
che
"così
è"
(5)
,
"che
cosa
è
vero
e
che
cosa
è
falso
riguardo
agli
argomenti
di
cui
si
parla
-‐
poiché
è
un
bene
per
tutti
che
divengano
manifeste
le
cose
in
se
stesse"
(6)
.
Ma
ciò
a
cui
corrispondono
le
proposizioni
vere
non
è
qualcosa
di
accessibile
o
intelligibile
(meno
ancora
è
adeguatamente
immaginabile)
se
non
mediante
domanda-‐risposta,
il
pensiero
coeso
e
coerente
con
se
stesso,
l'attenzione
a
tutte
le
prove
rilevanti
e
a
tutte
le
considerazioni
pertinenti.
Pertanto,
non
ci
può
essere
una
base
alternativa
a
questa
per
affermare
o
negare
razionalmente
la
corrispondenza
in
relazione
ad
ogni
particolare
argomento-‐materia
di
indagine
discorsiva
o
riflessiva
(7)
.
Le
condizioni
indispensabili
perché
valga
la
pena
affrontare
qualunque
discussione/dibattito/dialogo/,
allora,
si
possono
ridurre
al
rispetto
e
all'interesse
per
i
due
beni
umani
che
Socrate/Platone
porta
instancabilmente
alla
nostra
attenzione
nelGorgia:
la
verità
(e
la
sua
conoscenza)
e
l'amicizia
(la
buona
volontà
nei
confronti
delle
altre
persone
umane).
Queste
condizioni
sono
ricche
e
impegnative.
Tuttavia,
sebbene
gli
interlocutori
di
Socrate,
Polo
e
Callicle,
siano
notevolmente
carenti
di
buona
volontà,
Socrate
è
ragionevolmente
desideroso
di
persistere,
fintantoché
essi
vogliano
ascoltarlo,
nel
cercare
di
illustrare,
mostrare
e
spiegare,
a
53
loro
come
ad
ogni
ascoltatore
di
buona
volontà,
il
valore
-‐
la
desiderabilità
-‐
di
un'amicizia
(anche
di
una
politica
pubblica)
basata
sulla
condivisione
della
conoscenza
e
dell'ammirazione
per
beni
umani
intrinseci
come
la
verità
e
la
(vera)
amicizia,
beni
che
possono
rappresentare
elementi
di
un
bene
comune
intelligibile.
Il
fatto
che
il
bene
della
verità
-‐
e
il
muoversi
alla
sua
conoscenza
per
amor
suo
-‐
sia
uno
dei
principali
aspetti
di
tale
realizzazione/prosperità/benessere
umana
-‐
aspetti
che
si
possono
ben
ritenere
comuni
(koinon
agathon)(8)
-‐
è
una
verità
che
Socrate
afferma
in
un
sacco
di
modi
(9)
.
La
sua
strategia
si
può
ricostruire
come
segue.
Considerata
come
il
beneficio
da
ottenere
o
da
perdere
in
una
discussione
(o
nel
corso
di
una
riflessione),
la
verità
è
una
proprietà
dei
giudizi
che
devono
emettere
coloro
(o
colui)
che
sono
impegnati
nella
comune
(o
solitaria)
ricerca.
Pertanto,
esistenzialmente,
si
tratta
del
bene
della
comprensione
e
della
conoscenza.
La
sua
bontà
intelligibile,
il
suo
carattere
non
di
semplice
possibilità
ma
di
opportunità,
può
essere
in
pratica
colto
da
tutti,
in
primo
luogo
dai
bambini,
capaci
di
capire
che
la
connessione
fra
domanda
e
risposta,
e
fra
domande
e
risposte
successive,
è
quella
possibilità,
quell'obiettivo,
quel
risultato
generale
e
inesauribile
che
chiamiamo
conoscenza.
Questa
comprensione
di
un
luogo
della
possibilità
comeluogo
dell'opportunità
dà
origine
ad
un
atto
che
appartiene
a
quel
tipo
di
comprensione
indeducibile
(per
quanto
non
scevra
da
dati!)
che
C.S.
Peirce,
in
linea
con
la
tradizione
platonica,
chiama
insight
(intuito,
penetrazione,
perspicacia)(10)
.
Cogliere
le
possibilità
come
tali
è
essenzialmente
teoretico,
mentre
cogliere
le
possibilità
come
opportunità
è
essenzialmente
pratico
-‐
è
il
momento
originante,
mai
soppiantato,
della
comprensione
e
del
ragionamento
pratici,
della
deliberazione
e
della
scelta
razionale.
Usando
il
termine
"intelligibile"
per
indicare
il
contenuto
dell'intuito,
diciamo
che
questa
comprensione
della
possibilità
come
opportunità
è
la
comprensione
dei
beni
intelligibili.
Se
si
inizia
a
sostenere
-‐
discutendo
in
un
discorso
o
nelle
proprie
riflessioni
-‐
che
la
verità
(e
la
sua
conoscenza)
non
è
un
bene
intelligibile
e
intrinseco,
desiderabile
per
se
stesso
così
come
l'evitare
e
il
vincere
l'ignoranza,
la
confusione
e
l'errore,
si
entra
in
contraddizione
con
se
stessi(11)
.
Una
negazione
argomentativa
(seriamente
affermata)
sarebbe
incoerente
dal
punto
di
performativo;
ciò
che
viene
affermato
sarebbe
incoerente
con
ciò
che
viene
realizzato
in
e
attraverso
l'atto
di
affermarlo
seriamente,
di
discuterlo,
di
proporlo
come
accettabile
(12)
.
Portare
alla
luce
questa
incoerenza
performativa
auto-‐referenziale
è
uno,
ma
solo
uno,
dei
tipi
di
confutazione
(elenchos)
che
Socrate
impiega
e
che
vanamente
Callicle
lo
esorta
ad
abbandonare
(13)
.
Confutazioni
di
questo
particolare
tipo
non
sono
per
la
verità
dimostrazioni
in
senso
stretto
della
verità
che
le
affermazioni
auto-‐confutatorie
negano(14)
;
sono
piuttosto
cogenti
difese
di
quella
verità
-‐
in
questo
caso
particolare
la
verità
rappresentata
dal
fatto
che
la
conoscenza
è
un
bene
umano
fondamentale
-‐
contro
ogni
sua
seria
negazione.
E
si
tratta
di
una
forma
di
difesa
particolarmente
e
decisamente
sconvolgente
per
lo
scettico
che
si
auto-‐confuta
(15)
,
poiché
ciò
che
confuta
la
sua
affermazione
è
situato
nel
suo
stesso
atto
(sia
esso
interiore
o
volto
all'esterno).
Non
si
tratta
di
una
semplice
autocontraddizione
nel
senso
più
usuale
del
termine,
cioè
un'affermazione
di
proposizioni
contraddittorie
(sarebbe
una
contraddizione
da
cui
si
potrebbe
sfuggire
semplicemente
abbandonandone
una
o
entrambe).
È
piuttosto
l'incoerenza
fra
ciò
che
uno
afferma
(o
nega)
e
i
dati
forniti,
volenti
o
nolenti,
dalla
scelta
stessa
di
asserirli
(16)
.
La
propria
posizione
diviene
ridicola
(17)
,
assurda
(18)
;
diviene
un'evidente
manifestazione
di
quel
"disaccordo
con
se
stessi"
(19)
che
ogni
incoerenza
in
qualche
misura
comporta,
e
che
Callicle
-‐
dimostrando
così
la
sua
inaccettabilità
-‐
spera
di
evitare
attraverso
una
brutale
franchezza
(20)
.
54
Nel
dominio
logico
dell'argomentazione,
l'auto-‐confutazione
(sia
essa
autocontraddizione
o
incoerenza
performativa)
è
una
modalità
di
confutazione,
un
modo
per
essere
confutati.
Nel
dominio
esistenziale
della
praxis,
essa
è
come
una
qualunque
altra
situazione
di
chiusura
nei
confronti
della
verità:
una
situazione
indegna
di
troncamento
nell'appropriazione
dell'opportunità,
una
forma
di
auto-‐mutilazione,
un
modo
palese
per
lasciare
se
stessi
"zoppicanti
e
curvi"
nella
psiche
"a
causa
della
falsità
e
della
finzione"(21)
.
Il
Gorgia
insiste
strenuamente
sulla
portata
morale
della
scelta
esistenziale
fra
la
preoccupazione
per
la
solidità
dell'argomentazione
-‐
nella
speranza
di
vincere
la
propria
ignoranza,
la
propria
incoerenza
o
la
propria
cecità
verso
ciò
che
è
così
-‐
e
la
preoccupazione
per
il
successo
nelle
questioni
(diciamo
così)
erotico/politiche
(22)
.
Invece,
nel
cogliere
la
bontà
e
il
valore
intrinseco
della
verità
e
della
sua
conoscenza,
si
comprende
come
essa
sia
un
bene
essenziale
non
solo
per
noi
stessi
ma
per
chiunque
altro
come
noi,
cioè
come
sia
un
bene
umano
fondamentale.
Inoltre,
la
conoscenza
non
è
l'unica
possibilità
umana
che,
per
intuito
dei
dati
emergenti
dalle
proprie
inclinazioni
e
capacità,
si
identifica
come
opportunità
e
come
bene
intrinseco,
valido
per
se
stesso.
L'amicizia,
la
condivisione
dei
beni
con
un
altro
o
con
altri
per
amor
loro(23)
,
sono
altri
beni
di
quel
tipo.
Per
queste
ragioni,
non
si
può
ragionevolmente
cercare
una
realizzazione
che
sia
solo
propria.
E
per
il
fatto
che
c'è
più
di
un
bene
intrinseco,
nonché
per
il
fatto
che
la
ricerca
di
un
bene
fondamentale
è
minacciata
da
desideri,
antipatie
e
inerzia
"licenziosità"
(24)
subrazionali
più
o
meno
caotici,
si
ha
bisogno
di
stabilire
e
confermare
l'ordine
nella
propria
anima:
si
ha
cioè
bisogno
di
una
volontà
e
di
un
carattere
temperati(e
ciò
include
il
coraggio)
(25)
.
Dal
momento
che
la
ricerca
della
propria
realizzazione
sarebbe
irragionevole
e
auto-‐mutilante
se
fosse
indifferente
all'amicizia
e
al
valore
della
instillazione
dei
beni
umani
nella
vita
di
altre
persone,
si
ha
bisogno
di
mettere
ordine
nelle
relazioni
con
gli
altri
e
con
la
comunità.
Il
nome
di
questo
ordine,
nonché
della
costante
preoccupazione
per
esso,
è
giustizia.
Il
riconoscimento
dell'uguaglianza
umana
che
(come
chiarisce
Platone/Socrate)
è
il
nucleo
della
volontà
giusta
non
è
altro
che
il
riconoscimento
del
fatto
che
i
beni
umani
fondamentali
sono
realizzabili
tanto
nella
vita
di
altri
esseri
umani
quanto
nella
propria.
Rifiutare
questo
riconoscimento
significa
sprofondare
nella
falsità.
Nessuno
che
sia
così
schiavo
dell'errore
potrebbe
intelligentemente
ritenersi
felice;
pensare
in
tal
modo
vorrebbe
dire
sprofondare
in
una
falsità
più
profonda,
cioè
la
falsità
riguardo
al
significato
della
propria
realizzazione.
Se
ben
comprese
(razionalmente),
la
conoscenza,
l'amicizia,
la
realizzazione
e
la
giustizia
si
definiscono
reciprocamente.
(Questa,
in
senso
astratto,
è
l'essenza
della
risposta
platonica
a
Callicle,
ed
ugualmente
alla
provocazione
di
Glaucone,
che
non
ha
nulla
a
che
vedere
con
la
domanda
se
qualche
principio
o
norma
della
giustizia
possa
valere
senza
eccezioni).
Di
conseguenza,
non
si
può
avere
ordine
nella
propria
anima
(volontà)
senza
prevedere
e
compiere
ciò
che
ragionevolmente
è
possibile
per
promuovere
e
rispettare
un
ordine
di
giustizia
e
di
uguaglianza
nella
società,
nella
relazione
o
nella
comunione
con
il
prossimo.
Sarebbe
folle
aspettarsi
che
la
giustizia
e
l'amicizia
esistessero
in
una
società
i
cui
membri
non
si
preoccupano
di
promuovere
e
conservare
tale
ordine
razionale
nelle
loro
anime
(volontà),
un
ordine
che
incorpori
i
desideri.
Inoltre,
così
come
nessuno
potrebbe
intelligentemente
chiamare
buona
una
società
in
cui
i
membri
si
trattano
l'un
l'altro
come
i
ladri
trattano
le
loro
vittime,
nessuno
potrebbe
intelligentemente
chiamare
buona
la
vita
di
un
individuo
che
è
schiavo
dei
suoi
desideri
subrazionali
di
gratificazione,
e
che
per
questo
si
taglia
anche
fuori
dalla
realtà
dell'amicizia,
limitandosi
a
spurie
imitazioni.
In
ognuno
di
questi
casi
-‐
nel
caso
dell'individuo
e
in
quello
della
società
-‐
l'ordine
in
questione
è
buono
perché
è
intelligente
e
ragionevole,
e
le
forme
corrispondenti
di
disordine
sono
tanto
più
irragionevoli
e
cattive.
Questa
convenienza
del
buon
ordine
nell'individuo
e
nella
società
non
è
qualcosa
che
inventiamo;
piuttosto,
è
qualcosa
che
ci
55
diventa
chiaro
attraverso
l'esperienza,
l'esercizio
del
pensiero,
la
discussione,
il
giudizio
razionale.
Pertanto,
sia
perché
la
sua
desiderabilità
è
più
da
scoprire
più
che
costruire,
sia
perché
l'essere
ragionevoli
è
fondamentale
per
ciò
che
ci
troviamo
ad
essere
(in
potentia)
e
vogliamo
comprensibilmente
diventare
e
restare
(in
atto),
possiamo
chiamare
questo
ordine
ragionevole
nell'anima
e
nella
società
"naturale",
cioè
qualcosa
di
naturalmente
buono.
E
poiché
in
ognuno
dei
due
casi
l'ordine
buono,
ragionevole
e
perciò
naturale
può
e
deve
essere
colto
nella
forma
delle
proposizioni
normative,
che
dirigono
verso
scelte
individuali
e
sociali
di
promozione
e
di
rispetto
del
buon
ordine,
le
proposizioni
direttive
rilevanti
sono
opportunamente
chiamate
leggi.
(Dal
momento
che
qualunque
legislazione
governa
precisamente
attraverso
direttive
nell'ambito
delle
decisioni
dei
soggetti).
Questo
è
in
sostanza
il
modo
in
cui
Socrate/Platone
trasforma
l'opposizione
di
Callicle
fra
natura
(physis)
e
legge/convenzione
(nomos)
nel
riconoscimento
di
una
legge
naturale,
cioè
di
un
insieme
di
proposizioni
che
colgono
(i)
i
beni
da
perseguire
(come
la
conoscenza
e
l'amicizia)
(28)
e
(ii)
i
principi
di
ragionevolezza
nella
realizzazione
dei
beni
nella
vita
propria
e
in
quella
altrui
-‐
la
giustizia
e
le
altre
virtù
(29).
Come
il
dialogo
si
prefigge
di
chiarire,
la
proposta
callichea/nietzschiana
(30)
di
considerare
naturale
e
perciò
degna
di
scelta
(giusta
per
natura)
(31)
la
regola
del
più
forte,
facendo
ciò
che
viene
spontaneo
(naturale)
-‐
secondo
l'inesorabile
sequela
dei
desideri
che
accade
di
provare
(32)
-‐
,
finisce
inevitabilmente
nell'incoerenza
e
nell'auto-‐confutazione.
Infatti
i
deboli,
presi
insieme,
sono
naturalmente
più
forti
dei
forti
e
li
piegano
alle
loro
leggi
e
alla
saggezza
convenzionale
della
giustizia
basata
sul
criterio
dell'uguaglianza
(33).
Ma
la
loro
forza
naturale
li
autorizza
a
comandare?
Autorizza
qualcuno?
Platone
si
aspetta
che
noi
capiamo
senza
difficoltà
che
qualunque
tentativo
di
inferenza
dall'
"essere"
al
"dover
essere"
è
fallace.
Di
nuovo,
il
"principio"
secondo
cui
una
vita
degna
consiste
nella
libertà
dalla
sottomissione
ad
altri
si
dimostra
incoerente
dal
punto
di
vista
performativo
e
auto-‐referenziale,
poiché
(come
Callicle
viene
condotto
a
riconoscere)
suggerisce
implicitamente
di
vivere
attraverso
la
lusinga
e
la
demagogia,
il
che
significa
conformarsi
in
maniera
più
o
meno
servile
(anche
solo
per
sicurezza
personale)
ai
desideri
dei
più(34).
Analogamente,
il
"principio"
secondo
cui
la
contentezza
della
vita
emancipata
consiste
nella
ricerca
della
soddisfazione
di
tutti
i
propri
desideri
priva
Callicle
di
qualunque
base
per
giudicare
quanto
sia
indegna
la
patetica
schiavitù
ai
desideri
(35).
Inoltre,
l'incompatibilità
di
questo
"principio"
con
le
condizioni
di
un
discorso
(discussione)
ragionevole
si
rende
evidente
ad
un'attenta
lettura
del
dialogo
platonico,
attraverso
vari
elementi:
la
costruzione
del
discorso,
la
scontrosità,
l'abdicazione
accigliata
dalle
altalenante
(gli
"avanti
e
indietro")
del
dibattito,
l'avvertimento
non
troppo
velato
che,
al
di
fuori
della
discussione
e
dopo
un
processo
basato
sulla
retorica
e
non
sulla
verità,
la
proprietà
di
Socrate
potrebbe
facilmente
essere
confiscata
e
lui
stesso
sterminato.
Il
lettore
sa
che
di
fronte
a
simili
minacce
Socrate
fu
degno
della
verità
secondo
cui
è
meglio
soffrire
un'ingiustizia
che
commetterla:
come
Socrate
raccontò
al
suo
processo,
i
Trenta
Tiranni
chiamarono
lui
e
altri
quattro
a
partecipare
all'assassinio
di
Leone
di
Salamina,
"e
quando
ce
ne
andammo
dal
palazzo
del
governo,
gli
altri
quattro
si
recarono
a
Salamina
e
portarono
Leone,
mentre
io
me
ne
andai
a
casa"
-‐
sapendo
che
l'oligarchia
lo
avrebbe
probabilmente
ucciso
per
questo.
(Ma
egli
sfuggì
al
suo
destino,
in
quell'occasione,
perché
l'oligarchia
crollò).
Forse
i
quattro
che
andarono
a
prendere
Leone
perché
fosse
eliminato
razionalizzarono
la
loro
complicità
all'omicidio
attraverso
un'etica
"della
situazione"
o
della
"proporzionalità"(36).
O
forse
attraverso
il
gusto
dell'assassinio
proprio
di
Polo;
o
semplicemente
attraverso
una
più
nobile
alzata
di
spalle
alla
Callicle.
Forse,
invece,
erano
gente
onesta
che
si
vergognava
di
quel
che
stava
facendo,
che
si
rendeva
conto
fra
sé
e
sé
(sebbene
non
nei
"discorsi"
con
altri)
56
dell'ingiustizia,
della
falsità,
del
male
insiti
nella
loro
scelta
-‐
questa
condizione
di
consapevolezza
è
parte
di
ciò
a
cui
si
riferisce
San
Paolo
con
la
metafora
della
legge
naturale
che
è
scritta
nei
nostri
cuori.
E
poiché
le
conseguenze
della
scelta
socratica
di
andare
a
casa
persistono,
in
modo
abbastanza
forte,
fino
ad
oggi
(attraverso
il
cuore
dei
lettori
di
tante
epoche),
possiamo
giudicare
quanto
sia
irragionevole
cercare
di
condurre
il
giudizio
morale
(etico)
sostenendo
"un
bilanciamento
generale
finale"
delle
conseguenze
pre-‐morali
buone
e
cattive,
conseguenze
"promesse"
da
ciascuna
delle
opzioni
disponibili
nella
"situazione"
-‐
una
situazione
che
in
realtà
include
la
nostra
situazione,
pur
così
distante
e
così
tanti
secoli
dopo.
Un'etica
della
"legge
naturale"
(dei
principi
razionali)
non
può
abbracciare
alcuna
metodologia
morale
del
tipo
di
quelle
proposte
dall'utilitarismo/consequenzialismo/proporzionalismo
o
dall'"etica
situazionale".
Platone,
nel
Gorgia
e
altrove,
dice
molto
di
quel
che
intende
rivelare
sulla
dignità
della
persona
e
sulle
perfezioni
più
significative
dell'individuo,
come
pure
sui
fallimenti
come
persona,
quando
parla
dell'anima
e
dei
relativi
ordine
e
disordine.
Ciò
è
in
continuità,
almeno
in
larga
parte,
con
quell'unità
personale
di
anima
e
corpo
che
Aristotele,
e
più
risolutamente
Tommaso
portarono
esplicitamente
alla
luce
(anche
Platone
lo
fece
certamente,
anche
se
in
modo
non
esplicito)
attraverso
la
riflessione
sull'esperienza,
sull'interiorità-‐esteriorità
dell'essere
in
azione.
Nell'atto
di
parlare
al
mio
interlocutore
nel
discorso,
comprendo
le
mie
espressioni
come
un
portare
avanti
una
scelta
che
ho
fatto,
e
con
il
medesimo
atto
sono
consapevole
dell'udibilità
delle
mie
espressioni,
vedo
che
gli
ascoltatori
le
registrano
e
capiscono,
percepisco
sicurezza
o
ansia,
ricordo
un'incomprensione
passata
e
spero
che
la
mia
argomentazione
mi
dia
ragione.
Questa
esperienza
di
unità
(inclusa
la
continuità)
del
mio
essere
-‐
intesa
come
sentire,
volere,
osservare,
ricordare,
capire,
che
è
fisicamente
attiva
e
che
è
motore
effettivo
o
causa
di
effetti
fisici,
come
pure
destinataria
di
tali
effetti
-‐
è
un
dato
che
l'indagine
filosofica
della
realtà
umana
e
di
altre
realtà
naturali
può
adeguatamente
giustificare
solo
a
fatica
e
con
molte
cadute.
Tuttavia,
prima
di
qualunque
sua
spiegazione,
questa
presenza
intelligibile
a
me
stesso
del
mio
io
agente
con
le
sue
numerose
sfaccettature
è
un
dato
di
comprensione;
lo
stesso
io
-‐
questo
essere
umano
-‐
che
sente,
che
capisce,
che
sceglie,
che
porta
avanti
le
sue
scelte,
ecc.
è
una
realtà
che
comprendo
già
veramente,
benché
ancora
non
pienamente
(in
maniera
esplicativa,
con
l'elaborazione).
(Invero,
solo
allorché
è
data
questa
prima
comprensione
del
proprio
capire,
del
proprio
volere,
e
così
via,
si
può
dare,
e
tipicamente
si
dà,
valore
a
tali
comprensione,
libertà,
volontà,
unità
dell'essere,
ecc.).
Così,
come
Aristotele
e
soprattutto)
Tommaso
più
o
meno
esplicitamente
sostengono(37),
ogni
ricostruzione
che
si
proponga
di
spiegare
queste
realtà
deve
essere
coerente
non
solo
con
i
dati
complessi
che
cerca
di
spiegare,
ma
anche
con
l'esecuzione,
interiore
ed
esteriore,
di
colui
che
la
propone
e
nell'atto
di
proporla.
L'unica
spiegazione
che
soddisfa
tali
condizioni
sarà
quella
conforme
a
quanto
essi
sostengono:
l'autentica
forma,
l'atto
(attualità)
che
dura
tutta
la
vita
e
di
cui
è
costituita
la
materia
della
mia
costituzione
corporea,
il
soggetto
unificato
e
attivo
(io
stesso)
è
un
fattore,
una
realtà,
che
Aristotele
(dopo
Platone)
chiama
psiche
e
Tommaso
anima
(anima).
Nell'animale
umano
-‐
proprio
lo
stesso
animale
i
cui
interessi,
nell'etica
platonica,
vanno
tenuti
ugualmente
in
considerazione
nei
casi
specifici
-‐
dal
sorgere
stesso
dell'esistenza
in
quanto
uomini,
è
questo
fattore
essenziale
e
immutabile,
unico
in
ogni
individuo,
che
spiega
1)
l'unità
e
la
complessità
delle
attività
dell'individuo,
(2)
l'unità
dinamica
nella
complessità
-‐
in
una
parola,
il
programma
-‐
dello
sviluppo
individuale
come
embrione,
feto,
neonato,
bambino...
e
adulto,
(3)
la
comprensione
individuale
piuttosto
matura
degli
oggetti
immateriali
universali
(generici)
del
pensiero
(classi,
vero
e
falso,
fondatezza/infondatezza
del
ragionamento)
e
4)
l'unità
generica
di
questo
individuo
unico
con
ogni
altro
membro
della
specie.
Nei
membri
della
nostra
specie
il
fattore
unificante
e
attivante
della
realtà
vitale
di
ogni
individuo
è
allo
stesso
tempo
vegetativo,
57
animale
(senziente
e
dotato
di
movimento
autonomo)
e
intellettivo
(la
comprensione,
l'auto-‐
comprensione
e,
anche
nel
pensiero,
l'autodeterminazione
attraverso
il
giudizio
e
la
scelta).
Sebbene
le
varie
attivazioni
di
queste
potenze
corporee
e
razionali
dipendano
dalla
maturità
fisica
e
dalla
salute
degli
individui,
sembra
che
l'essenza
e
le
potenze
dell'anima
siano
date
in
modo
completo
ad
ogni
individuo
(come
capacità
radicali
che
non
sono
soggette
a
sviluppo)
all'inizio
dell'esistenza
in
quanto
tale.
Questa
è
la
radice
della
dignità
che
tutti
abbiamo
come
esseri
umani.
Senza
di
essa
le
rivendicazioni
di
uguaglianza
dei
diritti
sarebbero
indifendibili
a
fronte
dei
molti
modi
in
cui
le
persone
sono
fra
loro
diverse.
Questa
metafisica
dell'attività
del
dibattito
o
discorso
è
ciò
che
abilita
una
teoria
della
legge
naturale
a
consolidare
e
chiarire
la
comprensione
non
deduttiva,
da
parte
della
ragione
pratica,
di
principi
primi
aventi
forme
come
"la
conoscenza
[l'amicizia,
ecc.]
è
un
bene
per
me
e
per
ciascuno
(ciascun
essere
come
me)".
La
stessa
metafisica
è
la
base
indispensabile
per
affermare
razionalmente
il
secondo
elemento
che
caratterizza
ogni
teoria
della
legge
naturale,
e
cioè
la
considerazione
dei
diritti.
Infatti
tale
considerazione,
ordinata
in
modo
esplicativo,
inizia
con
il
principio
fondamentale
dell'etica
per
cui
le
scelte
e
gli
altri
atti
e
disposizioni
della
volontà
devono
essere
sempre
aperti
alla
realizzazione
umana
integrale,
ovvero
alla
realizzazione
di
tutte
le
persone
e
le
comunità
umane.
Mi
soffermo
dunque
sull'etica
e
sulla
metafisica
del
dibattito,
nonché
sul
Gorgia
in
quanto
rappresenta
un'esplorazione,
un'articolazione
e
un'affermazione
filosoficamente
critica
e
responsabile
ancora
attuale
di
quell'etica
e,
in
certa
misura,
di
quella
metafisica.
Il
dialogo,
all'origine
della
"teorizzazione
della
legge
naturale",
illustra
che
cosa
significa
per
una
teoria
della
legge
naturale
essere
viva,
non
morta.
La
teoria
è
viva
se
può
aiutare
qualcuno
a
impadronirsi
o
re-‐impadronirsi
di
quelle
intuizioni
delle
possibilità
conosciute
che
Tommaso
chiama
conoscenze
pratiche
-‐
atti
di
intuito,
intellectus
-‐
con
cui
si
aggiunge
alla
conoscenza
della
possibilità
l'intuizione
dell'opportunità,
del
bene,
dello
strumento
di
perfezionamento
per
sé
e
in
linea
di
principio
per
tutti.
Una
teoria
della
legge
naturale
non
può
essere
viva
se
non
è
assolutamente
pratica,
cioè
se
non
pensa
ai
beni
come
a
facienda
et
prosequenda,
oggetti
da
perseguire
e
da
fare,
degni
di
essere
perseguiti
e
di
essere
scelti,
nel
senso
che
il
pensiero
"questo
è
buono
da
perseguire
e
fare"
è
direttivo,
cioè
normativo.
Siamo
qui
alle
radici
di
ogni
normatività
morale,
cioè
di
ogni
normatività
(incluso
il
dovere
morale
nei
suoi
vari
tipi
e
forze),
esattamente
per
la
sua
attinenza
con
le
scelte
su
come
spendere
una
porzione
della
propria
vita,
scelte
su
ciò
che
Tommaso
chiama
"la
vita
come
un
tutto".
La
teoria
di
Tommaso
sulla
legge
naturale,
nelle
sue
linee
essenziali,
è
viva,
perché
riconosce
e
afferma
risolutamente
che
quelli
che
egli
chiama
in
modo
interscambiabile
i
principi
primi
della
legge
naturale
e
i
principi
primi
della
ragione
pratica
sono
principi
che
balzano
agli
occhi
e
ci
dirigono
verso
le
fonti
primarie
del
bene
umano
-‐
beni
primari
come
la
vita
stessa,
la
conoscenza,
l'amicizia,
il
matrimonio,
la
stessa
ragionevolezza
pratica
(il
bonum
rationis).
Questi
principi
sono
verità.
Sono,
come
egli
dice
spesso,
indimostrabili,
cioè
autoevidenti,
per
se
nota
-‐
naturalmente
non
intuizioni
(intuitions)
senza
dati,
ma
intuizioni
(insights)
dell'esperienza
del
desiderare
(curiosità)
e
della
conoscenza
delle
possibilità
(domande
a
cui
si
può
rispondere
e
risposte
che
possono
essere
coerenti
in
quanto
conoscenze
della
verità
e
della
realtà).
In
quanto
intuizioni
isolate
la
loro
direttività
non
è
ancora
morale,
ma
diventa
morale
quando,
guidate
dal
principio
secondo
cui
la
stessa
ragionevolezza
pratica
è
un
bene
da
perseguire
e
da
fare,
si
considera
che
cosa
scegliere
alla
luce
della
direttivitàcombinata
di
tutti
i
principi
che
riguardano
sia
il
proprio
bene
individuale
che
il
bene
di
ciascun
altro.
(Infatti
occorre
ricordare
che
l'intuizione
non
è
un
bene,
come
la
vita
o
la
conoscenza
o
l'amicizia,
che
sono
beni-‐solo-‐per-‐me,
ma
è
buona,
intelligibile
come
un
bene,
per
tutti).
Il
contenuto
proposizionale
della
direttività
combinata
di
tutti
i
principi
primi
si
può
esprimere
-‐
lo
hanno
fatto
i
nuovi
teoremi
classici
dai
primi
anni
58
Ottanta
-‐
come
un
principio,
che
si
può
considerare
quello
fondamentale
della
moralità,
cioè
il
principio
per
cui
si
dovrebbe
scegliere
e
volere
quelle
e
solo
quelle
possibilità
la
cui
volontà
è
compatibile
con
la
volontà
della
realizzazione
umana
integrale.
La
realizzazione
umana
integrale,
va
ripetuto
-‐
perché
qui
la
storia
della
tradizione
ha
creato
un
tenace
covo
di
fraintendimenti
e
di
rifiuti
di
interpretazione
-‐
,
è
il
bene
di
tutte
le
persone
e
le
comunità
umane.
La
teoria
della
legge
naturale,
qui,
rompe
decisamente
con
l'equivoco,
letteralmente
vergognoso,
che
è
così
comune
nei
filosofi
neoscolastici,
e
cioè
che
la
mia
realizzazione
(la
mia
Felicità)
è
per
me
il
telos
o
l'ultimus
finis,
il
criterio
supremo
della
ragionevolezza
pratica
nel
mio
pratico
ragionare.
In
Tommaso,
questo
principio
centrale
della
moralità
si
dispiega
in
ciò
che
egli
chiama
un
"primo
precetto
comune
della
legge
della
natura",
cioè
che
si
dovrebbe
-‐
si
deve
-‐
"amare
il
prossimo
come
se
stessi";
si
tratta
di
un
principio
autoevidente
da
cui
tutti
(altri)
principi
morali
e
norme
possono
(date
ulteriori
premesse)
essere
inferiti
implicitamente
o
come
conclusioni.
Nonostante
tutte
le
deformazioni
operate
dalla
concezione
kantiana
senza
vigore
della
ragione
pratica,
il
vero
principio
fondamentale
ha
in
essa
un
confuso
appoggio,
e
precisamente
nella
concezione
del
Regno
dei
Fini,
intendendo
i
Fini
come
persone
umane,
come
suggerisce
una
delle
formulazioni
alternative
degli
Imperativi
Categorici,
quella
che
richiede
di
trattare
l'umanità
(Menschlichkeit)
in
se
stessi
e
negli
altri
sempre
come
un
fine
e
mai
come
un
semplice
mezzo.
Il
"Regno
dei
Fini"
kantiano
è
un'eco
filosofica
vagamente
articolata
dell'ingiunzione
rappresentata
dalla
suprema
norma
o
principio
dell'etica
di
Gesù
Cristo,
del
Vangelo,
dei
mores
cattolici:
"Ricercate
prima
il
Regno".
Una
trattazione
viva
della
legge
naturale
deve
tenere
seriamente
in
considerazione
la
tesi
fondamentale
che
Tommaso
affermò
ma
non
spiegò
mai
né
esemplificò,
e
cioè
che
tutte
le
norme
morali
non
vanno
viste
come
autoevidenti
ma
comeconclusioni
a
partire
dal
principio
morale
fondamentale,
a
sua
volta
specificazione
del
principio
assolutamente
primo
della
ragione
pratica
per
cui
bisogna
cercare
e
fare
il
bene.
Per
i
presenti
scopi
il
principio
morale
fondamentale,
così
come
Tomamso
lo
comprende,
è
che
si
deve
amare
il
prossimo
come
se
stessi.
Per
quanto
breve
sia
ora
la
via
che
porta
alle
conclusioni,
occorre
mostrare
alcune
ulteriori
premesse,
che
Tommaso
trascura
di
presentare
in
modo
discernibilmente
sistematico.
La
specificazione
del
principio
morale
fondamentale
attraverso
la
Regola
d'Oro
coglie
un
elemento
della
direttività
integrale
di
tutti
i
beni
essenziali,
cioè
di
ciascuno
dei
principi
primi
pratici
che
balzano
agli
occhi
e
ci
dirigono
verso
quei
beni.
Le
altre
regole
morali
di
contorno,
che
specificano
i
diritti
umani
e
le
responsabilità
fondamentali,
contribuiscono
a
fornire
una
direzione
morale
stabilendo
i
modi
con
cui
tipi
di
scelta
più
o
meno
specifici
sono
mediatamente
o
immediatamente
contrari
ad
alcuni
beni
di
base.
Tutto
ciò
equivale
a
mettersi
attentamente
al
lavoro
attraverso
l'intuizione
pratica
-‐
dei
beni
intelligibili
della
conoscenza,
dell'amicizia,
e
di
altri
beni
primari
-‐
che
nel
Gorgia
viene
ri-‐attivata
e
rappresentata.
I
principali
elementi
si
possono
leggere
in
Tommaso
d'Aquino.
Ma
tutto
ciò
suonava
e
suona
sorprendente
e
nuovo
per
coloro
che
lavoravano
e
lavorano
con
teorie
della
legge
naturale
che
definirei,
pur
con
rincrescimento,
più
o
meno
morte.
Alcune
di
queste
teorie
morte
-‐
cioè
più
o
meno
false
e
sterili
-‐
si
trovano
in
quella
che
possiamo
chiamare
la
tradizione
della
"moderna"
teoria
della
legge
naturale,
emblematicamente
rappresentata
da
Pufendorf
e
da
Locke,
e
desunta
da
Grozio
e
da
Hobbes.
Altre
si
trovano
in
quella
che
si
può
chiamare
la
tradizione
neoscolastica.
Proverò
ad
avanzare
alcune
riflessioni
su
entrambe
le
tradizioni.
È
da
Grozio
che
Locke
e
Pufendorf
traggono
l'idea,
che
suona
bene
ma
è
alquanto
opaca,
che
la
moralità
e
i
principi
essenziali
della
legge
sono
questioni
di
"conformità
alla
natura
razionale".
Ma
questi
autori
non
considerano
mai
attentamente
come
si
conosca
la
natura,
né
perché
debba
essere
per
tutti
normativa.
Tali
questioni
fondamentali
vennero
affrontate
e
risolte
da
Hobbes,
59
ma
le
sue
risposte
trattarono
il
ragionare
pratico
come
fosse
completamente
a
servizio
delle
passioni
sub-‐razionali,
come
la
paura
della
morte,
il
desiderio
di
prevalere
sugli
altri
-‐
motivazioni
del
tipo
di
quelle
identificate
dalla
tradizione
classica
come
bisognose
di
direzione
da
parte
della
comprensione
della
ragione
verso
fini
più
fondamentali
e
migliori,
verso
beni
veri
ed
intrinseci,
verso
ragioni
veramente
intelligenti
per
l'azione.
Hobbes
proclama
il
suo
disprezzo
per
la
ricerca
classica
dei
fini
ultimi
e
delle
ragioni
intrinseche
per
l'azione.
Di
conseguenza,
non
ci
può
essere
per
lui
possibilità
di
trovare
la
fonte
del
dovere
e
della
legge
in
quel
tipo
di
necessità
che
identifichiamo
quando
notiamo
come
alcuni
specifici
mezzi
siano
richiesti
da
un
fine
e
per
amore
di
un
fine,
che
sarebbe
irragionevole
non
giudicare
desiderabile
e
degno
di
essere
perseguito.
Invece,
il
dovere
e
la
legge
sono
definiti,
da
Hobbes
e
da
Pufendorf,
come
questioni
di
volontà
superiore.
"Non
c'è
legge
senza
legislatore".
Non
c'è
obbligo
senza
sottomissione
alla
"volontà
di
un
potere
superiore".
"La
definizione
formale
della
legge
è:
la
dichiarazione
di
una
volontà
superiore".
"La
regola
delle
azioni
è
la
volontà
di
un
potere
superiore".
Queste
definizioni
e
assiomi
vanno
applicati,
secondo
i
fondatori
della
teoria
moderna
della
legge
naturale,
alla
legge
naturale,
al
principio
stesso
della
moralità
e
alle
leggi
positive
degli
Stati.
In
questo
modo
il
dovere
viene
ad
essere
apertamente
"dedotto"
dal
fatto
che
un
superiore
ha
voluto
in
un
certo
modo.
A
dire
il
vero,
quando
è
in
gioco
la
legge
naturale
(la
moralità),
si
presume
che
il
superiore,
cioè
Dio,
sia
saggio.
Ma
all'idea
della
saggezza
divina
non
è
dato
un
ruolo
positivo
quando
si
tratta
dispiegare
perché
i
comandi
di
Dio
creano
dei
doveri
ad
una
coscienza
razionale.
Il
diritto
di
Dio
a
legiferare
viene
invece
spiegato
attraverso
l'analogia
con
il
mero
potere.
Dice
Locke:
"infatti,
chi
negherà
che
l'argilla
è
soggetta
al
volere
del
vasaio
e
che
il
vaso
può
essere
distrutto
dalle
stesse
mani
che
lo
hanno
formato?".
Locke,
come
Hobbes,
si
rende
conto
con
inquietudine,
per
quanto
debolmente,
che
il
"dover
essere"
non
si
può
inferire
dall'"essere"
senza
qualche
altro
"deve".
Che
è
quanto
dire:
si
rende
conto
con
inquietudine
di
come
il
fatto
che
un
certo
comportamento
sia
stato
voluto
da
un
superiore,
piuttosto
che
dalla
stesura
di
un
contratto,
non
spiega
perché
quel
comportamento
sia
ora
obbligatorio,
o
non
lo
sia
mai.
Allo
stesso
modo,
pensa
talora
di
integrare
il
suo
nudo
volontarismo
(i
doveri
sono
spiegati
come
atti
di
volontà)
con
la
razionalità
della
coerenza
logica:
i
principi
morali
fondamentali
sono
tautologici,
sono
norme
che
sarebbe
autocontraddittorio
negare.
Hobbes
tentò
un'analoga
spiegazione
dell'obbligatorietà
del
suo
contratto
sociale
fondamentale
a
proposito
della
sottomissione
al
sovrano.
La
sua
importante
spiegazione
ufficiale
fu
della
forma
"clubs
are
trumps"
(le
carte
di
fiori
vincono,
cioè
la
volontà
e
il
potere/forza
del
superiore).
Tuttavia,
a
chi
non
fosse
abbastanza
colpito
dalla
assimilazione
diretta
del
diritto
con
la
possibilità
e
del
dovere
con
l'essere,
egli
offre
un'altra
spiegazione:
è
autocontraddittorio
non
mantenere
una
promessa.
La
strategia
di
assimilare
le
norme
della
legge
naturale
(della
moralità)
con
quelle
della
logica
ha
il
suo
massimo
esponente
in
Kant,
la
cui
Metafisica
dei
costumi
(1797)
rappresenta
in
qualche
modo
la
più
sofisticata
esposizione
della
teoria
moderna
della
legge
naturale.
Rifiutando
ufficialmente
ogni
riduzione
del
dover
essere
all'essere
della
volontà,
Kant
sostiene
che
la
sola
ragione
domina
sulle
decisioni
e
sulle
azioni
coscienti.
La
necessità
razionale
che
risulta
decisiva
per
questo
dominio
è
la
necessità
logica
della
non-‐contraddizione,
e
tutti
gli
sforzi
kantiani
per
spiegare
i
tipi
particolari
di
doveri
(promissori,
patrimoniali,
politici,
coniugali,
ecc.)
sono
rivendicazioni
del
fatto
che
procedere
da
qualsiasi
altra
"massima
d'azione"
vorrebbe
dire
entrare
in
auto-‐contraddizione.
Le
induzioni
kantiane
della
razionalità
morale
alla
logica
falliscono
tutte.
Non
poteva
essere
altrimenti,
perché
nella
sua
teoria
manca
il
concetto
di
ragione
sostanziale
per
l'azione
-‐
una
ragione
che
non
è
né
un
vero
giudizio
sui
fatti
naturali
né
un
requisito
logico,
e
nemmeno
una
60
necessità
tecnica
dei
mezzi
efficienti
per
definire
e
realizzare
i
fini.
La
sua
proposta
teoretica
e
pratica
è
quella
di
salvare
il
contenuto
della
civiltà
dalla
devastazione
dell'utilitarismo
e
dello
scetticismo.
Egli
articola
con
rinnovato
vigore
il
principio
radicalmente
anti-‐utilitaristico
per
cui
si
deve
sempre
trattare
l'umanità,
in
se
stessi
e
negli
altri,
come
fine
e
mai
come
semplice
mezzo.
Ma
la
sua
definizione
ufficiale
di
"umanità"
priva
questo
imperativo
categorico
della
sua
pregnanza.
Infatti,
se
l'umanità
è,
come
egli
dice,
la
razionalità,
e
la
razionalità
non
ha
un
contenuto
direttivo
tranne
la
coerenza,
si
resta
senza
una
motivazione
razionale
e
una
direzione
intelligente
che
possano
avere
un
peso
nella
decisione.
Infine,
come
Locke
e
Hume,
Kant
rimane
inesorabilmente
vittima
della
premessa
secondo
cui
ciò
che
ci
sprona
verso
lo
scopo
sono
le
passioni
subrazionali
e
non
altro.
Manca
quasi
completamente
di
costruire
gli
elementi
basilari
di
una
teoria
classica
della
legge
naturale,
cioè
i
principi
primi
sostanziali
-‐
le
ragioni
principali
dell'azione
-‐
che
ci
dirigono
verso
la
vita
corporea
e
verso
la
salute,
verso
il
matrimonio,
l'amicizia,
la
conoscenza
e
così
via,
in
quanto
rappresentano
beni
umani
intrinseci
che
forniscono
le
ragioni
(intelligenti,
non
solo
passionali)
per
l'azione,
e
che,
come
aspetti
della
nostra
umanità
di
persone
di
carne,
vanno
trattati
sempre
come
fini
e
mai
come
semplici
mezzi.
Non
rende
ragione
dei
doveri
e
delle
istituzioni
che
pure
cerca
di
giustificare,
per
non
parlare
di
quelli
che
tralascia,
come
il
dovere
di
giustizia
che
impone
di
impiegare
la
gran
parte
delle
ricchezze
per
andare
incontro
ai
bisogni
degli
altri.
Il
rifiuto
ufficiale
di
Kant
di
ridurre
il
dover
essere
all'essere
della
volontà
subisce
così
un
capovolgimento
a
causa
delle
ambiguità,
che
inevitabilmente
sorgono
per
l'assenza
di
ogni
fine
sostanziale
(o
ragione
per
l'azione)
nella
sua
concezione
di
ciò
che
la
ragione
pratica
comprende.
Nella
tradizione
neoscolastica
relativa
ai
fondamenti
della
moralità
e
della
legge
naturale,
che
è
apparentemente
viva
ma
in
realtà
più
o
meno
morta
-‐
come
possiamo
vedere
nel
1960
-‐
ci
fu
un
simile
fallimento
nel
prendere
sul
serio
-‐
a
dire
il
vero
nella
maggior
parte
dei
casi
anche
nel
notare
-‐
ciò
che
Tommaso
aveva
reso
ragionevolmente
chiaro.
Alcuni
neoscolastici
pensavano
che
i
principi
primi
della
legge
naturale
erano
già
norme
morali
pienamente
specificate,
della
forma
"non
bisogna
uccidere
un
essere
umano
innocente",
o
"non
commettere
adulterio".
Assunsero
queste
norme
come
autoevidenti
e
indimostrabili,
in
spregio
alla
chiara
e
corretta
tesi
tomista
per
cui
esse
rappresentano
le
conclusioni
derivate
da
principi
più
alti,
attraverso
una
forma
di
inferenza
che
questi
neoscolastici
lasciarono
totalmente
inesplorata.
Altri
pensavano
che
i
principi
della
legge
naturale
si
trovano
ispezionando
la
natura
umana
come
viene
esposta
in
qualche
ontologia
o
antropologia
o
in
qualche
metafisica
della
natura
umana,
rivelando
così
verità
come
quella
secondo
cui
la
conoscenza
è
una
forma
di
esistenza
più
alta
della
vita,
da
cui
si
dovrebbe
dedurre
-‐
chissà
come
-‐
che
la
contemplazione
è
la
meta
finale
dell'uomo,
ma
non
(e
perché
no?)
che
la
gente
può
essere
messa
a
morte
per
amore
del
progresso
nella
conoscenza.
Questi
pensatori
erano
indifferenti
alla
questione
del
perché
si
dovrebbero
considerare
le
verità
presupposte
dall'ontologia
ecc.
come
portatrici
di
doveri
morali,
e
invero
di
qualunque
normatività
o
direttività
per
la
ragione
pratica;
oppure
rispondevano
facendo
appello
ad
un
presunto
imperativo
divino
della
forma
"Rispetta
la
natura",
rifiutando
di
produrre
evidenza
del
fatto
che
tale
imperativo
è
stato
emanato
o
rivelato,
di
darne
giustificazione
in
modo
da
poterlo
trattare
come
saggio,
di
fornire
principi
ragionevoli
per
discernere
quali
tipi
di
scelte
siano
da
escludere,
quali
siano
richieste
e
che
cosa
in
qualche
modo
ci
dia
un
orientamento
fra
esse.
Lasciano
inoltre
sotto
completo
silenzio
il
principio
metodologico
ed
epistemologico
ampiamente
illustrato
da
Tommaso,
secondo
cui
si
capisce
la
natura
di
ogni
realtà
dinamica
attraverso
la
comprensione
delle
sue
capacità,
e
si
capiscono
le
sue
capacità
attraverso
la
comprensione
dei
suoi
atti,
e
si
capiscono
gli
atti
attraverso
la
comprensione
dei
suoi
oggetti.
Chiaramente
gli
61
oggetti
di
tutti
gli
atti
umani,
che
sono
espressioni
della
volontà
(del
portare
avanti
le
scelte),
sono
i
beni
intelligibili
che
si
identificano
con
i
principi
primi
e
indimostrabili
della
ragione
pratica,
e
ad
essi
si
dirigono.
In
questo
modo,
la
natura
umana
non
può
essere
adeguatamente
conosciuta,
come
nella
metafisica,
senza
prima
conoscere
ciò
che
è
noto
per
primo
(non
dimostrato
e
non
bisognoso
di
dimostrazione)
nella
comprensione
pratica
dei
beni
umani
primari
in
quanto
per
noi
normativi.
Questi
pensatori
trascurarono
anche
l'analisi
di
Tommaso,
che
si
situa
precisamente
all'inizio
del
suo
Commentario
sull'etica,
in
cui
egli
distingue
tutte
le
scienze
della
natura,
inclusa
la
metafisica,
come
diversae,
e
per
implicazione
irriducibilmente
diverse,
dalle
scienze
logiche
e
da
quelle
morali,
che
non
trattano
della
realtà
ordinata
come
essa
già
è,
indipendentemente
dal
nostro
pensiero,
ma
piuttosto
con
l'ordine
che
non
è
ancora
realtà,
e
che
deve
essereimmesso
nelle
nostre
decisione
e
azione
attraverso
il
pensiero
di
ciò
che
si
deve
fare.
Interrogati
su
come
si
passi
dall'"essere"
delle
proposizioni
vere
nell'ontologia,
nell'antropologia,
nella
metafisica,
ecc.
al
"dover
essere"
della
normatività
verso
la
praxis,
essi
davano
e
danno
risposte
che
sono
in
fondo
tanto
volontaristiche
ed
errate
quanto
quelle
della
tradizione
"moderna
della
legge
naturale":
qualche
genere
di
atto
di
volontà
del
soggetto
deliberante,
o
qualche
"scintilla
di
desiderio",
dovrebbero
trasformare
la
ratio
speculativa
in
pratica.
In
realtà
la
categoria
della
verità
pratica
viene
in
questo
modo
abolita,
almeno
dall'ambito
dei
fini
e
da
quello
dei
principi.
Al
suo
posto
viene
messo
qualcosa
che,
indipendentemente
dal
fatto
che
possa
o
meno
rendere
ragione
della
motivazione,
non
giustifica
la
normatività.
Un
terzo
gruppo
di
neoscolastici
cercò
e
in
alcuni
casi
cerca
ancora
di
porre
a
fondamento
del
ragionamento
pratico,
al
posto
dei
principi
che
si
dirigono
ai
beni
intelligibili
come
veri,
delle
inclinazioni
che
per
(loro)
ipotesi
vengono
prima
della
comprensione
pratica.
Ma
questo,
di
nuovo,
rende
la
normatività
subrazionale
e
inintelligibile,
per
non
dire
gravemente
lesiva
della
dignità
umana,
assimilando
i
principi
della
libera
scelta
all'automatismo
animale.
Queste
scuole
di
"teoria
della
legge
naturale"
mostrarono
abbastanza
chiaramente
di
essere
morte
anche
in
un
altro
modo,
ossia
quando,
nel
1960
e
oltre,
dovettero
rispondere
alle
domande:
l'uccisione
intenzionale
dell'innocente
è
davvero
sempre
sbagliata?
I
rapporti
sessuali
prematrimoniali
sono
sbagliati?
È
sbagliato
produrre
bambini
attraverso
la
fecondazione
artificiale
o
la
clonazione?
Su
questi
temi
i
grandi
nomi
della
tradizione
neoscolastica
del
XX
secolo
non
mi
pare
abbiano
avuto
nulla
di
interessante
da
dire,
nessuna
spiegazione
e,
filosoficamente
parlando,
nessuna
risposta
da
offrire.
Coloro
che
cercarono
di
usare
l'etica
neoscolastica
del
XX
secolo
come
modello
euristico
per
rileggere
la
tradizione
del
pensiero
morale
e
teologico
furono
incapaci,
tal
fu
la
loro
distorsione,
perfino
di
capire,
figuriamoci
di
valutare
criticamente,
tale
tradizione.
Ecco
un
eloquente
esempio:
il
pericoloso
stravolgimento
nella
lettura
dell'etica
di
Tommaso
su
sesso
e
matrimonio,
effettuato
da
John
Noonan,
fu
seguito
incautamente
fino
ai
nostri
giorni
da
molti
che
dovevano
conoscere
meglio
la
questione
e
che,
per
quanto
abbia
potuto
vedere,
hanno
criticato
poco
o
nulla,
sia
al
momento
della
sua
apparizione
che
in
seguito,
tale
interpretazione
errata
di
Tommaso.
Oltre
alla
mancanza
di
una
teoria
dei
veri
principi
pratici,
e
di
una
coerente
trattazione
riguardante
la
connessione
del
nostro
ultimus
finis
con
la
correttezza
di
specifici
tipi
di
scelta,
le
teorie
della
legge
naturale
dei
neoscolastici
del
XX
secolo
furono
notevolmente
indeboliti,
mi
pare,
da
una
considerazione
acritica
e
incoerente
dell'atto
umano
e
del
modo
in
cui
i
vari
tipi
di
atto
umano
sono
"specificati"
dal
(dai)
loro
oggetto(i).
Gli
atti
che
si
riferiscono
ai
principi
e
alla
norme
della
legge
naturale
sono
tipi
di
atti
che
compiono
scelte
di
proposte
per
l'azione,
proposte
forgiate
nel
processo
di
deliberazione
su
ciò
che
bisogna
fare.
L'enciclica
Veritatis
Splendor,
che
si
presenta,
non
senza
ragione,
come
"la
prima
occasione
in
cui
il
Magistero
della
Chiesa
spiega
dettagliatamente
gli
elementi
fondamentali"
dell'insegnamento
della
morale
cristiana
(n.115),
62
rompe
decisamente
con
la
trattazione
neoscolastica
della
legge
naturale,
non
solo
insegnando
che
i
principi
e
le
norme
morali
principali
della
legge
naturale
ci
pongono
in
relazione
con
"il
bene
della
persona...difendendo
i
suoi
beni"
(n.13),
beni
che
nel
corso
dell'enciclica
vengono
chiamati
"beni
fondamentali"
(nn.48
e
50;
si
veda
anche
n.67),
ma
anche
insegnando
che
per
poter
cogliere
l'oggetto
di
un
atto,
che
caratterizza
l'atto
moralmente,
è
necessario
porsi
nella
prospettiva
della
persona
agente.
Attraverso
l'oggetto
di
un
certo
atto
morale,
dunque,
non
si
indica
un
processo
o
un
evento
di
ordine
meramente
fisico,
suscettibile
di
valutazione
in
base
alla
sua
capacità
di
realizzare
un
determinato
stato
di
cose
nel
mondo
esterno.
Piuttosto,
l'oggetto
è
il
fine
prossimo
di
una
decisione
deliberata
che
determina
l'atto
volontario
da
parte
della
persona
che
agisce
(n.78).
Grisez,
Boyle
ed
io
abbiamo
di
recente
esplorato
alcune
implicazioni
insite
nel
comprendere
l'azione
dal
punto
di
vista
della
deliberazione,
dell'intenzione
e
della
scelta
di
adottare
una
proposta,
invece
di
comprenderla
(l'azione)
come
un
insieme
di
comportamenti
intesi
come
eventi
o
cause
di
ordine
puramente
fisico.
Una
parola
sulle
virtù.
Ogni
teoria
viva
della
legge
naturale
deve
essere
un'etica
delle
virtù,
dal
momento
che
le
virtù
non
sono
nient'altro
che
le
disposizioni
a
prendere
e
a
concretizzare
decisioni
giuste
e
ragionevoli,
e
ad
evitare
quelle
sbagliate
e
irragionevoli.
Le
virtù
corrispondono
all'aspetto
intransitivo
delle
nostre
scelte
e
della
nostra
azione,
la
cui
importanza
non
risiede
solo
nel
fatto
di
plasmare
transitivamente
il
mondo
al
di
fuori
della
volontà,
ma
anche
nel
fatto
di
plasmare
il
carattere,
le
disposizioni
e
perciò
l'io,
dal
momento
che
le
scelte
perdurano
nella
volontà
se
e
fintantoché
non
sono
rovesciate
da
un
atto
contrario
della
volontà
(il
pentimento,
per
quanto
informale).
Ma
va
da
sé
che
non
si
può
compiere
alcun
progresso
giustificando
il
proprio
giudizio
secondo
cui
questa
è
una
scelta
virtuosa
e
quest'altra
non
lo
è,
se
non
si
identificano
i
criteri,
i
principi
e
le
norme
che
caratterizzano
alcuni
tipi
di
atti
come
ragionevoli
e,
a
determinate
condizioni,
giusti,
mentre
altri
tipi
di
atti
come
irragionevoli
e
sbagliati,
in
determinate
circostanze
o
in
generale.
Il
sogno
di
un'etica
della(delle)
virtù
in
opposizione
ad
un'etica
della
legge
naturale
e
dei
principi
della
ragionevolezza
pratica
è
appunto
un
sogno,
tanto
sbagliato
-‐
ne
sono
certo
-‐
quanto
pensare
che
esista
una
differenza
rilevante
e
fondamentale,
in
Platone
o
altrove,
fra
una
teoria
del
diritto
naturale
e
una
teoria
della
legge
naturale.
LA
NATURA
UMANA
E
LA
STORICITA'
IN
ALCUNI
PENSIERI
TEOLOGICI
RECENTI
È
stato
detto,
con
qualche
ragione,
che
"le
critiche
di
Karl
Rahner
e
di
Bernard
Lonergan
hanno
portato
molti
studiosi
cattolici
a
rifiutare
le
cosiddette
teorie
classiche
della
legge
naturale".
Se
ciò
è
storicamente
fondato,
e
credo
lo
sia,
questi
studiosi
hanno
riposto
la
loro
fede
di
teologi
in
una
discussione
filosofica
e
storica
assai
difettosa
sia
in
quanto
storica
che
in
quanto
filosofica.
Rahner,
acriticamente
seguito
in
ciò
da
Lonergan,
diede
per
scontato,
in
linea
con
il
suo
maestro
Kant,
che
non
esistono
beni
umani
intelligibili
primari
o
fondamentali
che
possano
tratteggiare
nelle
linee
essenziali
l'emergere
dell'umano
e
perciò
della
natura
umana,
e
restrinse
così
le
"strutture
oggettive
della
natura
umana"
a
quelle
che
sono
"implicitamente
affermate
da
una
necessità
trascendentale
anche
nell'atto
di
negarle".
Sia
egli
che
Lonergan
intesero
male
la
natura
delle
argomentazioni
a
partire
dall'incoerenza
auto-‐referenziale
(argomentazioni
del
tipo
che
ho
mostrato
precedentemente
in
questo
lavoro).
La
spiegazione
filosofica
delle
implicazioni
insite
nel
costruire
asserzioni
non
prevede
un
metodo
particolare,
e
le
verità
che
si
possono
in
tal
modo
ottenere
o
sostenere
non
hanno
una
speciale
necessità
metafisica
o
"trascendentale",
nemmeno
se
la
loro
difesa
è
particolarmente
facilitata
da
una
speciale
prossimità
(per
così
dire)
dei
fatti
che
si
danno
nell'azione
di
negarli.
Conseguentemente,
la
concezione
di
Rahner
della
natura
umana
63
(che
Lonergan
promuove)
è
fondata
sulla
fallace
estrapolazione,
a
partire
dal
fraintendimento
dell'incoerenza
auto-‐referenziale,
di
una
divisione
fra
una
natura
umana
"trascendentale"
presumibilmente
immutabile,
che
comprende
solo
quei
tratti
necessitati
dal
concetto
stesso
di
pensiero
e
di
azione
(pertanto
dall'atto
stesso
dello
scetticismo)
e
la
semplice
natura
"categoriale"
e
"concreta",
che
-‐
senza
dare
spiegazioni,
ma
indubbiamente
basandosi
su
una
delle
scuole
neoscolastiche
moribonde
della
"teoria
della
legge
naturale"
-‐
Rahner
trattò
come
la
fonte
della
maggior
parte
delle
norme
morali.
A
questo
aggiunse
che
affermazioni
solidamente
empiriche
come
quella
secondo
cui
"oggigiorno
l'uomo
nella
sua
natura
concreta"
è
"soggetto
a
rapido
mutamento",
invero,
"nella
direzione
di
un
processo
di
cambiamento
di
grande
portata".
A
coloro
che
cercano
l'evidenza,
ad
esempio,
egli
non
ne
offre,
per
quel
che
ne
so,
nemmeno
una.
In
verità,
le
discussioni
sulla
mutevolezza
della
natura
umana
non
contrasterebbero
con
i
fondamenti
della
moralità,
della
legge
naturale,
se
non
si
dirigessero
verso
alcune
classi
di
esseri
umani
per
le
quali
non
sarebbero
vero
che
vita
e
salute,
conoscenza
della
verità
e
bellezza,
eccellenza
nelle
opere
d'are
e
nella
musica,
armonia
dell'amicizia
verso
altri,
amicizia
procreativa
nel
matrimonio,
ecc.
rappresentano
motivazioni
basilari
per
l'azione,
sono
forme
o
aspetti
fondamentali
della
realizzazione
dell'uomo
che
è
desiderabile
condividere,
e
senza
i
quali
non
vale
in
fondo
la
pena
di
perseguire
alcun
vantaggio
o
meta.
Come
ho
accennato,
Rahner
non
ha
un
metodo
etico,
salvo
il
fantasma
di
qualche
concezione
neoscolastica
per
cui
si
arriva
ad
una
sorta
di
ontologia
teoretica
della
natura
umana
e
poi,
per
darle
rilevanza
pratica
o
normatività,
si
postula
un
ipotetico
imperium
divino
"Segui
la
natura
(o
la
natura
umana)".
Anche
Lonergan
non
ebbe
un'etica
di
cui
valga
la
pena
parlare.
Lottò
per
trovare
una
concezione
dei
principi
della
ragione
pratica
nel
suo
Insight,
ma
senza
risultato.
Nel
suoMethod
and
Theology,
apparve
chiaramente
come
egli
avesse
interamente
trascurato
il
tipo
di
intuito
che
è
trattato
nei
principi
primi
pratici
di
Tommaso,
e
che
ci
dirige
verso
i
beni
intelligibili
che
interessarono
Platone
e
Aristotele
come
veri
beni
per
ciascuno.
Lonergan
si
volse
ad
una
specie
di
aggregazione
o
sistematizzazione
quasi-‐utilitarista
dei
valori,
intesi
non
come
intelligibili,
ma
come
oggetti
di
sentimento
-‐
una
strana
resa
all'empirismo
da
parte
di
uno
dei
più
accesi
critici
della
metafisica
e
dell'epistemologia
empiriste
nell'ambito
della
ragione
speculativa.
Ma
l'opera
postconciliare
di
Lonergan
ha
avuto
un
impatto
esteso
e
dannoso
sui
teologi
cattolici
non
tanto
per
la
sua
idea
di
etica,
non
sviluppata
e
inapplicabile,
ma
per
la
sua
tesi
antistorica
che
esiste
una
profonda
distinzione
fra
"coscienza
storica
e
"visione
classica
del
mondo",
nonché
per
le
sue
allusioni
e
insinuazioni
(talora
da
lui
negate,
ma
accolte
e
promosse
entusiasticamente
come
tesi
incondizionate
da
molti
teologi
successivi)
che
molta
della
teologia
del
Concilio
Vaticano
II
(se
non
tutta)
è
deplorabilmente
classica
e
perciò
manca
di
coscienza
storica,
con
conseguente
bisogno
di
una
sostanziale
sostituzione
-‐
soprattutto
per
quanto
riguarda
la
natura
umana
e
la
moralità
delle
azioni
umane.
Altrove
ho
analizzato
per
esteso
i
lavori
di
Lonergan
e
di
alcuni
suoi
successori
in
merito
a
tale
pretesa
distinzione
e
alle
sue
applicazioni
alla
fede
e
alla
teologia
cattoliche.
Non
posso
riprendere
qui
tali
analisi.
Segnalerò
soltanto
due
punti:
Pio
XII,
nel
Divino
Afflante
Spiritu
(1943),
non
esagerò
dicendo
che
molte
cose,
"soprattutto
in
ambiti
che
riguardano
la
storia,
rimasero
quasi
del
tutto
inesplicate
da
parte
dei
commentatori
delle
epoche
passate
[delle
Sacre
Scritture],
poiché
trascurarono
quasi
tutta
l'informazione
che
era
necessaria"
per
un'esposizione
accurata
di
questi
argomenti
(cronologia,
sequenza,
antecedenti,
e
così
via).
Ma
ciò
non
significa
che
in
tutti
i
campi
i
pensatori
del
passato
fossero
privi
di
ciò
che
era
necessario
ad
una
solida
comprensione.
Pensare
questo
significa
compiere
un'estrapolazione
dal
particolare
al
generale
o
all'universale
fondamentalmente
antistorica
e
filosoficamente
vacillante.
Lonergan,
ad
esempio,
ci
dice
che
il
nome
"mentalità
storica"
-‐
il
nome
che
egli
preferiva
per
il
suo
pensiero
-‐
nacque
dal
teologo
anglicano
Alan
Richardson.
Omette
di
64
rilevare
che
Richardson
in
realtà
adottò
l'espressione
da
un
passaggio
in
cui
lo
storico
illuminista
americano
Karl
Becker,
miscredente
e
laicista,
spiega
alla
Scuola
di
Legge
di
Yale,
nel
1931,
il
motivo
per
cui
né
lui
né
alcun
uomo
moderno
possono
capire
la
definizione
tomista
di
legge
naturale.
Ora,
questo
fatto
riguardante
la
storia
di
quell'espressione
non
indebolisce
affatto
la
validità
storica
o
filosofica
della
tesi
di
Lonergan.
Ma
la
spiegazione
di
Richardson
della
mentalità
storica,
ispirata
a
Becker,
è
questa:
Poiché
oggi
abbiamo
una
mentalità
storica,
possiamo
capire
un'idea
o
una
dottrina
solo
quando
la
mettiamo
in
relazione
con
la
sua
storia;
possiamo
identificare
un
concetto
solo
considerando
non
come
qualcosa
di
statico...
ma
come
un'entità
vivente,
in
via
di
sviluppo.
Richardson
compie
qui
un'estrapolazione
dai
particolari
ad
un'affermazione
universale
(..solo
quando...solo
considerando...),
che
è
auto-‐confutatoria:
posiamo
capire
una
dottrina
solo
quando
la
mettiamo
in
relazione
con
la
sua
storia,
e
possiamo
identificare
un
concetto
solo
considerandolo
in
evoluzione.
Se
queste
dottrine
di
Richardson
e
Becker
(e
Lonergan?)
potessero
essere
comprese
solo
mettendole
in
relazione
con
la
loro
storia
(cosa
che
né
Richardson
né
Becker
si
sforzarono
di
fare),
tale
relazione
o
spiegazione
storica
potrebbe
solo
ricondurci
ad
altre
dottrine,
che
invero
potrebbero
essere
capite
solo
tornando
indietro
ad
altre
dottrine
ancora,
che
potrebbero
essere
capite
solo
...
e
così
via:
un
regresso
doppiamente
vizioso.
E
se
un
concetto
si
potesse
identificare
solo
considerandolo
in
evoluzione,
non
potremmo
identificare
adesso
ciò
che
Richardson
intese
quando
pronunciò
questa
affermazione
trentacinque
anni
fa,
o
Becker
la
sua
analoga
affermazione
altri
trentacinque
anni
prima.
E
naturalmente
tale
affermazione
è
incoerente
non
solo
rispetto
alla
sua
pretesa
di
intelligibilità,
ma
anche
rispetto
a
molte
altre
cose
nella
pratica
della
scienza
e
della
filosofia.
Per
quanto
riguarda
il
particolare
esempio
di
Becker
sull'intelligibilità
del
concetto
tomista
di
legge
naturale,
esso
risulta
totalmente
falso
-‐
dal
momento
che
il
concetto
tomista,
per
quanto
spesso
mal
compreso,
può
essere
capito
bene
da
chi
legge
la
sua
opera
con
attenzione
-‐
e
anche
auto-‐confutatorio:
infatti,
Becker
non
può
sapere
che
ogni
interpretazione
dall'affermazione
tomista,
da
parte
dei
moderni
interpreti,
riguardo
alla
legge
naturale
risulta
fraintesa
se
non
si
capiscono
quelle
affermazioni.
La
mia
seconda
osservazione
sul
tentativo
di
Lonergan
di
distinguere
fra
classicismo
e
mentalità
storica
è
che
essa
sostanzialmente
fraintende
la
storia
della
filosofia
classica
e
della
teologia
cattolica.
Lonergan
dichiara
che
"i
classici
credevano
di
poter
evitare
la
storia,
di
poter
incapsulare
la
cultura
nell'universale,
nel
normativo,
nell'ideale,
nell'immutabile...",
e
che
per
i
classici
tutta
la
scienza
"procede
da
principi
necessari
e
auto-‐evidenti".
Nella
stessa
pagina
dice:
"Ogni
buon
aristotelico
sa
che
non
c'è
scienza
dell'accidente
(Aristotele,
Metafisica,
VI,
2,
1027
a
19
f)".
Tuttavia,
per
Aristotele
e
per
Tommaso,
"necessità"
e
"scienza"
sono
termini
analoghi,
non
univoci,
e
pertanto
chi
si
cura
di
consultare
la
pagina
della
Metafisica
in
questione
imparerà
che
la
scienza
si
estende
all'ut
in
pluribus,
cosa
che
avviene
non
necessariamente
(strictu
sensu)
ma
per
lo
più.
Dalla
pagina
successiva,
poi,
si
imparerà
che
l'accidentale
di
cui
non
c'è
scienza
non
è
nient'altro
che
ciò
che
non
ha
causa,
che
non
ha
affatto
spiegazione.
Ma
persino
negli
eventi
unici
("concreti",
"storici")
c'è,
secondo
Aristotele
(sempre
nello
stesso
punto
della
Metafisica),
una
spiegazione
che,
sebbene
non
mostri
che
gli
eventi
siano
accaduti
per
necessità
strictu
sensu,
danno
una
genuina
conoscenza
attraverso
le
cause
del
perché
siano
accadute
(o,
se
si
riferiscono
al
futuro,
le
basi
per
una
ben
fondata
previsione).
Se
a
qualcuno,
per
considerare
l'esempio
stesso
di
Aristotele,
avesse
sete
perché
ha
mangiato
del
cibo
piccante,
e
dunque
uscisse
a
bere
qualcosa,
ma
andasse
incontro
a
morte
violenta
perché
assalito
da
dei
ladri
che
erano
in
agguato,
potremmo
dare
numerose
valide
spiegazioni
in
termini
di
cause
non
accidentali
per
la
sete
derivata
dal
cibo
piccante,
e
potremmo
spiegare
il
suo
carattere
non
accidentale
per
se,
in
qualunque
modo
lo
si
intenda.
Così,
la
scienza,
la
conoscenza
autentica
come
la
intendono
i
filosofi
e
i
teologi
classici
come
Aristotele
e
Tommaso,
si
estende
al
di
là
della
necessità
in
senso
65
stretto
e
dell'ut
in
pluribus,
al
per
se
che
abbraccia
l'intenzione
delle
azioni
uniche,
eccezionali
e
intenzionali.
Si
può
estendere
cioè
a
fondare
un'intera
scientia,
la
teologia,
principalmente
su
una
identificazione
del
sensu
litteralis
sensu
historicus,
sull'insieme
di
proposizioni
che
la
testimonianza
della
rivelazione
e
la
sua
trasmissione
nella
storia
intendono
effettivamente
affermare
come
vere.
Per
Tommaso
tale
scienza,
nonostante
abbia
un
oggetto
immutabile
e
a-‐
storico,
cioè
Dio,
riporta
tutto
alla
relazione
con
Dio,
e
così
avviene
anche
per
la
storia
della
salvezza:
la
caduta,
la
praeparatio
evangelica,
l'incarnazione
e
la
vita
di
Gesù,
l'istituzione
dei
sacramenti
e
la
fondazione
della
Chiesa...sono
tutte
cose
che
implicano
il
cambiamento,
una
radicale
concretezza,
eventi
unici,
la
necessità
di
intenzioni
liberamente
scelte...
La
grande
questione
che
è
stata
eliminata
dai
tentativi
programmatici
di
distinguere
fra
mentalità
classica
e
mentalità
storica
è
quella
della
verità.
Anche
se
i
moderni
dalla
mentalità
storica
sono
consapevoli
della
diversità,
dello
sviluppo
e
del
decadimento
delle
culture
(qualcosa
che
era
assai
ben
noto
ad
Erodoto,
a
Platone,
ad
Aristotele
e
ai
loro
lettori),
e
se
l'idea
classica
di
cultura
non
è
"empirica"
ma
"normativa",
la
questione
resta
tuttavia
da
affrontare.
Non
c'è
davvero
alcuna
classificazione
delle
culture,
e
dei
loro
ordini
politici
e
giuridici?
O
ancora:
non
c'è
davvero
alcuna
chiesa
cattolica,
e
la
Chiesa
Cattolica
non
ha
creato
alcuna
cultura
universale,
allo
stesso
tempo
"normativa"
ed
"empirica",
attraverso
le
scelte
storicamente
fatte
da
suoi
fondatori
(come
vediamo
nella
preghiera
del
Signore,
o
nella
Messa,
in
cui
si
offre
lo
stesso
vero
sacrificio
che
fu
offerto
un
giorno
sul
Calvario)?
Distinguendo
il
classicismo
dalla
mentalità
e
dalla
coscienza
storiche,
Lonergan
e
altri
come
lui
tentano
di
descrivere
un
mutamento,
ma
ci
sollecitano
anche
ad
unirci
a
loro
nell'abbracciare
l'ultima,
migliore
(e
più
elevata),
prospettiva.
La
loro
distinzione
è
contemporaneamente
empirica
e
normativa.
Ha
bisogno
di
argomentazione,
e
nella
sua
principale
esposizione
di
tale
distinzione,
Lonergan
ne
offre
una,
nella
forma
di
un
resoconto
di
ciò
che
chiama
dialettica
ed
esperimento
della
storia.
(Va
osservata
l'antistoricità
delle
metafore
"dialettica"
ed
"esperimento",
a
cui
egli
sottomette
la
comprensione
del
corso
storico).
Ciò
procede
nei
termini
di
una
successione
di
livelli
di
significati
umani
in
evoluzione,
dove
il
primo
livello
riguarda
il
fare,
il
secondo
(in
cui
si
trova
la
nozione
classica
di
coscienza)
soprattutto
il
parlare
e
il
terzo
"la
comprensione
umana
da
cui
si
originano
le
evoluzioni";
questo
livello
supremo,
che
rappresenterebbe
anche
la
coscienza
storica
nella
sua
pienezza,
sembra
essere
precisamente
raggiunto
con
la
spiegazione,
da
parte
dell'autore
stesso,
del
"metodo
empirico
generalizzato"
-‐
il
metodo
annunciato
nel
suo
libro
Insight,
come
egli
lascia
intendere.
Vinciamo
la
tentazione
di
aprire
ora
una
parentesi
sulla
posizione
autenticamente
hegeliana
e
comtiana
delle
riflessioni
di
Lonergan
riguardanti
il
significato
storico-‐mondiale
della
sua
propria
opera.
Il
punto
che
conviene
notare
è
piuttosto
come
l'intero
processo
sia
tale
da
"avere
le
sue
origini
nelle
tensioni
della
coscienza
umana
adulta".
Naturalmente,
"la
coscienza
umana
adulta"
è
una
categoria
quanto
mai
"classica",
già
indagata
con
notevole
profondità
dalla
tradizione.
Secondo
la
tradizione,
è
fondamentale
per
lo
sviluppo
individuale
e
sociale
la
tensione
fra
la
ragione
e
il
sentimento,
fra
l'intelligenza
e
l'emotività
o
affettività.
La
virtù,
nella
tradizione,
non
è
la
soppressione
o
il
dominio
dispotico
della
propria
affettività.
Ogni
azione
buona
e
intelligente
deve
essere
sostenuta
da
qualche
emozione,
e
in
una
persona
ben
ordinata
anche
le
emozioni
conflittuali
e
dissonanti
hanno
il
posto
loro
proprio
all'interno
di
un'armonia
o
di
una
decisione
interiore.
Ma
l'intelligenza
coglie
i
beni,
i
valori,
i
benefici,
gli
aspetti
emergenti
dell'uomo,
che
l'affettività
in
quanto
tale
non
può
apprendere,
e
questi
principi
appartengono
ad
ogni
decisione
razionale.
Lonergan
utilizzò
assai
poco
questo
tema
centrale
della
tradizione,
poiché,
come
ho
già
detto
altrove,
pervenne
all'idea
che
l'apprensione
dei
valori
debba
rimanere
nell'affettività,
che
"l'apprensione
dei
valori
e
dei
disvalori
non
sia
un
compito
della
comprensione
ma
della
risposta
intenzionale",
cioè
della
66
"sensibilità"
e
dei
"sentimenti".
Potrei
continuare
a
tratteggiare
queste
visioni
decisamente
discutibili
del
fondamento
dell'etica
e
della
radice
del
peccato,
ma
il
mio
intento
qui
è
semplicemente
quello
di
far
vedere
come
la
questioni
pertinenti
che
egli
solleva
si
ritrovino
tutte
perfettamente
all'interno
del
metodo
filosofico
"classico",
e
siano
trattate
da
Lonergan
con
uno
stile
del
tutto
classico,
utilizzando
esattamente
il
tipo
di
strumenti
filosofici
che
egli
assegnò
al
secondo
livello
della
storia
della
dialettica.
Il
metodo
impiegato
da
Lonergan
o
da
Rahner,
o
dai
loro
molti
epigoni,
non
mi
pare
più
cosciente
o
più
storicamente
critico
di
quello
impiegato
da
Aristotele
nel
tracciare
i
vari
percorsi
dello
sviluppo
sociale,
politico
e
filosofico
nella
Politica
e
nella
Metafisica.
In
realtà,
per
alcuni
rilevanti
aspetti,
i
metodi
usati
da
Lonergan
e
da
Rahner
sono
storicamente
meno
coscienti
e
critici
di
quello
di
Aristotele.
Ad
esempio,
Lonergan
assegna
al
terzo
livello
lo
studio
dello
sviluppo
intellettuale
e
del
metodo,
non
in
virtù
di
una
conoscenza
e
di
un
ragionamento
storico,
ma
attraverso
una
forma
di
argomentazione
che
è
eminentemente
classica,
cioè
l'estrapolazione,
alla
maniera
di
Rahner,
dell'argomento
dell'incoerenza
auto-‐referenziale
-‐
una
forma
di
argomentazione
utilizzata,
come
ho
già
ricordato,
da
Platone,
e
più
tardi
da
Aristotele,
dagli
Stoici,
estesamente
da
Agostino,
e
meno
estesamente
da
Tommaso.
Lonergan
non
studiò
attentamente
questa
forma
di
argomentazione,
e
il
suo
tentativo,
piuttosto
maldestro,
di
utilizzarlo
nel
suo
Insight
rappresenta
uno
dei
punti
più
deboli
di
un
libro
che
contiene
molto
di
buono.
Come
ho
detto
riguardo
alle
dichiarazioni
di
Rahner
sulle
interpretazioni
"trascendentali",
sugli
aspetti
"trascendentali"
della
natura
umana,
ecc.,
la
spiegazione
filosofica
di
ciò
che
implica
l'atto
di
asserire
non
prevede
un
metodo
particolare,
e
le
verità
che
si
possono
ottenere
non
hanno
una
particolare
necessità
metafisica,
né
una
necessità
"trascendentale",
anche
se
la
loro
discussione
è
particolarmente
facilitata
dalla
speciale
prossimità
dei
fatti
che
sono
dati
nell'atto
scettico
di
negarli.
Non
esistendo
così
uno
status
metafisico
peculiare
per
le
verità
che
si
sostengono
attraverso
l'argomentazione
secondo
cui
i
tentativi
di
negarle
cadono
nell'incoerenza
auto-‐referenziale,
scompare
non
solo
la
possibilità
di
affermare
una
natura
umana
trascendentale
di
tipo
rahneriano,
ma
anche
la
possibilità
di
affermare
un
terzo
livello
lonerganiano
nella
dialettica
della
storia
in
generale
o
del
ruolo
della
storia
della
filosofia,
o
della
teologia
in
specifico.
In
breve,
i
molti
teologi
che
sono
stati
colpiti
dalle
idee
di
natura
umana
e
di
storicità
di
Lonergan
e
di
Rahner
sono
stati
comprensibilmente
depistati
da
teologi
deboli
come
German
Grisez,
credendo
di
potere
in
tal
modo
riappropriarsi
e
sviluppare
autenticamente
la
tradizione,
e
di
prendere
seriamente
in
considerazione
Tommaso
con
la
sua
intuizione,
a
lungo
trascurata
(I),
per
cui
la
normatività
o
direttività
della
legge
naturale
è
interamente
coincidente
con
la
normatività
e
la
direttività
dei
beni,
(ii)
che
"la
virtù
umana,
che
rende
buone
sia
le
persone
umane
sia
le
loro
opere,
è
in
accordo
con
la
natura
umana
proprio
in
quanto
(tantum...inquantum)
è
in
accordo
con
la
ragione..."(85),
e
(iii)
che
la
natura
umana,
la
quale
per
disposizione
originaria
di
Dio
è
perfettibile
e
perfezionata
dalla
realizzazione
di
questi
beni
attraverso
le
azioni
di
persone
umane
che
colgono
questi
beni
come
prosequenda
et
faccenda,
è
una
natura
conoscibile
in
modo
adeguato
e
critico
solo
con
l'aiuto
di
alcune
possibilità,
ma
non
di
altre,
intese
come
opportunità,
cioè
come
beni
intelligentemente
desiderabili.
67
(1)
Platone,
Gorgia,
48e
5-‐6;
487e;
513d.
Sui
"tratti
della
verità"
si
veda
la
discussione
di
Wiggins
in
J.M.
Finnis,Fundamentals
of
Ethics,
Oxford:
Oxford
University
Press,
1983:
63-‐64.
(2)
Platone,
Gorgia,
487a
2-‐3:
episteme,
eunoia,
parresia.
(3)
Ibid.,
487a-‐e;
si
veda
anche
473a-‐e,
492a,
500b-‐c,
521a.
(4)
Si
veda
ibid.,
472
a,
475e.
Si
deve
aggiungere
un
aspetto
che
spesso
non
è
stato
notato
da
coloro
che
parlano
del
"peso
del
giudizio"
e
del
"pluralismo
di
fatto",
e
cioè
che
in
condizioni
non-‐
ideali
(ovvero
tutte
le
condizioni
attuali
e
prevedibili)
l'assenza
dell'assenso
universale
ad
una
proposizione,
insieme
all'esistenza
di
un
vasto
dissenso
su
di
essa,
non
danno
l'evidenza
della
sua
falsità.
(5)
Ibid.,
509b
1.
(6)
Ibid.,
505e
4-‐6.
(7)
"L'illusione
che
sottostà
alla
maggior
parte
delle
negazioni
dell'oggettività
dell'etica
è
questa:
ciò
per
cui
i
giudizi
veri
hanno
verità
secondo
corrispondenza
("i
fatti",
"il
mondo",
"la
realtà"...)
in
qualche
modo
lascia
aperta
la
possibilità
di
un'introspezione
svolta
con
mezzo
diverso
dal
raggiungimento
razionale
dei
giudizi
veri
del
tipo
in
questione
(scientifici,
storici,
crittografici,...
e,
perché
no?,
valutativi...).
Tale
illusione
è
la
radice
di
tutti
programmi
riduttivisti
che
chiamiamo
empirismo
filosofico
-‐
programmi
come
quello
di
Hobbes
e
di
Hume
e
dei
loro
successori..."
(M.J.
Finnis,Fundamental...cit.,
p.
64
(trad.
mia,
n.d.t.)).
Fra
i
successori
c'è,
a
suo
modo
e
a
dispetto
delle
sue
intenzioni,
Kant
(cfr.ibid.,
pp.
122-‐124).
(8)
Platone,
Gorgia,
505c
6,
citato
alla
nota
6.
(9)
Se
le
sue
affermazioni
lasciano
Polo
e
Callicle
poco
colpiti,
non
mancano
però
di
commuovere
il
vecchio
sofista
Gorgia
(vedi
ibid.,
506a).
In
verità,
come
Platone
presume
e
per
certi
versi
prevede,
tali
affermazioni
sono
appelli
che
passano
sopra
le
teste
(e
sotto
il
livello
di
attenzione)
delle
persone
irragionevoli,
per
dirigersi
a
chiunque
sia
desideroso
di
ascoltare
(la
divisione
fra
persone
ragionevoli
e
irragionevoli
si
ritrova
anche
all'interno
del
sistema
mente-‐volontà
proprio
di
ciascuno
-‐
cioè
di
tutti).
(10)
Si
veda
in
J.
Buchler,
The
Philosophy
of
Peirce,
London:
Routledge
&
Kegan
Paul,
1940:
3041,
un
passaggio
in
cui
Peirce,
mettendo
in
corsivo
la
parola
"insight"
parla
di
"suggestione
adduttiva
(che)
ci
viene
come
un
flash,
come
un
"atto
d'intuizione"".
L'enfasi
di
Peirce
sulla
fallibilità
del
pensiero
che
così
emerge
è
del
tutto
compatibile
con
la
tesi
aristotelica
(si
veda
Tommaso
d'Aquino,
Summa
Theologiae,
I,
q.
85
a.
6)
per
cui
l'intuito
(nous,
intellectus)
è
intrinsecamenteinfallibile,
dal
momento
che
in
ogni
istante
particolare,
ciò
che
ci
sembra
puro
e
semplice
intuito
(che
non
potrebbe
non
farci
capire
le
cose
come
sono)
può
di
fatto
essere
una
semplice
"idea
brillante",
distorta
da
una
svista,
da
fantasia
immaginativa
e/o
da
un
precedente
o
successivo
ragionamento
fallace.
In
ogni
caso,
tenendo
in
mente
questa
possibilità
di
errore,
si
deve
andare
oltre
il
semplice
intuito
del
giudizio
(in
sé
materia
di
intuito
per
quanto
riguarda
la
realizzazione
delle
condizioni
di
adeguatezza
ai
dati,
la
validità
argomentativa,
ecc.).
Perfino
l'intuito
basilare
dei
primi
principi
viene
opportunamente
rivisto
e
discusso
da
ciò
che
la
tradizione
chiama
"dialettica".
In
questo
modo,
la
"saggezza"
non
consiste
solo
nel
trarre
correttamente
conclusioni,
ma
anche
nel
formulare
giudizi
sui
principi
primi
indimostrabili
e
confutando
(disputando)
coloro
che
li
negano:
cfr.
Tommaso
d'Aquino,
Summa
Theologiae,
I-‐II,
q.
66
a.
5
ad
4;
J.M.
Finnis,
Aquinas:
Moral,
Political,
and
Legal
Theory,
Oxford:
Oxford
University
Press,
1998:
88.
A
sottolineare
l'abbandono
kantiano
del
concetto
aristotelico
di
giudizio
troviamo
"l'impronta
empirista
così
spesso
denunciata
nel
pensiero
kantiano":
cfr.
B.J.F.
Lonergan,
Insight,
London:
Longmans,
1958:
154,
339-‐342;
cfr.
J.M.
Finnis,
"Historical
Consciousness"
and
Theological
Foundations,
Toronto:
Pontifical
Institute
for
Medieval
Studies,
1992:
16.
R.
E.
Allen
(ed.),
The
Dialogues
of
Plato,
vol.
1,
New
Haven:
Yale
University
press,
19++:
68
220,
pone
chiaramente
le
radici
della
questione
-‐
per
quanto
"insight"
sia
un
termine
migliore
di
"intuizione":
"assumendo
senza
obiezioni
la
non
esistenza
dell'intuizione
intellettuale,
su
cui
si
basa
la
tradizione
classica
della
metafisica,
(Kant)
trascurò
di
provare
che
ciò
che
chiamava
ragione
teoretica
è
vano
nella
metafisica
e
nell'etica...".
(11)
J.M.
Finnis,
Scepticism,
Self-‐refutation
and
the
Good
of
Truth,
in
P.M.
Hacker
e
J.
Raz
(eds.),
Law,
Morality
and
Society:
Essays
in
honour
of
H.L.A.
hart,
Oxford:
Oxford
University
Press,
1977:
247-‐267.
(12)
Ibid.,
p.
251,
alla
base
di
cui
si
trova
G.
Isaye,
La
justification
critique
par
rétorsion,
«Revue
philosophique
de
Louvain»,
52,
1954:
205;
J.L.
Mackie,
Self-‐refutation
-‐
A
Formal
Analysis,
«Philosophical
Quarterly»14,
1964
:
195-‐196
;
J.M.
Boyle,
Self-‐referential
Inconsistency,
Inevitable
Falsity
and
Metaphysical
Argumentation,
"Metaphilosophy",
5,
1972.
Si
veda
anche
J.M.
Finnis,
Natural
Law
&
Natural
Rights,
Oxford:
Oxford
University
Press,
1980:
73-‐75;
J.M.
Boyle,
G.G.
Grisez,
O.
Tollefsen,
Free
Choice:
A
Self-‐referential
Argument,
Notre
Dame,
Indiana:
University
of
Notre
Dame
Press,
1976:
122-‐138.
(13)
"Caro
amico
(Socrate),
lasciati
persuadere
da
me.
Smettila
con
la
confutazione
(elenchon)
ed
esercita
la
musica
dei
fatti
(pragmaton).
Esercita
ciò
che
ti
farà
apparire
saggio
(doxeis
phronein).
...
Non
emulare
gli
uomini
che
praticano
la
confutazione
(elenchontas)
in
queste
questioni
insignificanti,
ma
piuttosto
coloro
che
possiedono
vita,
gloria
(fama)
(doxa)
e
molti
altri
beni"
(Platone,
Gorgia,
486c-‐d).
(14)
Si
veda
Tommaso
D'Aquino,
Sentienta
super
metaphysicam
IV,
6,
n.
14
(609):
l'elenchus
o
argumentatio
(che
Tommaso
pensa
sarebbe
stato
meglio
chiamare
redarguitio,
auto-‐
confutazione:
n.
13
(608))
non
"la
dimostrazionesimpliciter".
(15)
La
loquacità
di
molti
"post-‐modernisti"
cerca
di
nascondere
l'irrazionalità,
l'arrendevolezza
la
male,
implicate
dal
perdurare
in
tali
incoerenze
performative.
(16)
È
tale,
in
ultima
analisi,
una
negazione
dell'evidenza
(dei
dati),
e
perciò
non
si
tratta
tanto
di
una
questione
di
incoerenza
logica,
quanto
di
allontanarsi
o
di
rendersi
ciechi
rispetto
a
ciò
che
così
è,
cosa
da
cui
Socrate
implorò
di
salvarsi,
perfino
quando
ciò
non
implicasse
alcuna
incoerenza
logica:
"se
a
qualcuno
di
voi
sembra
che
io
sia
d'accordo
con
me
stesso
in
qualcosa
che
non
è
come
credo,
dovete
approfittarne
e
confutarmi"
(Platone,
Gorgia,
506a2-‐2).
L'illogicità
non
è
il
solo,
e
forse
nemmeno
il
più
pericoloso,
ostacolo
alla
verità.
(17)
Cfr.
ibid.,
509
a7.
(18)
Ibid.,
519
c4.
(19)
Si
veda
ibid.,
482
b6.
(20)
Ibid.,
482
d
-‐
483
a.
(21)
Si
veda
ibid.,
525
a2-‐3.
(22)
Così
Callicle
ama
e
adula
sia
il
popolo
(demos)
che
il
suo
amante
Demos
(ibid.,
481
d,
513
b-‐
d),
mentre
Socrate
si
preoccupa
di
non
lasciare
che
le
opinioni
mutevoli
del
suo
amato
Alcibiade
lo
distolgano
dagli
argomenti
immutabili
della
filosofia,
suo
più
grande
amore
(482
d).
Oppure,
come
dice
Callicle,
si
dovrebbe
(e
Socrate
alla
fine
lo
farà,
pensa
egli
fiduciosamente
-‐
e,
noi
sappiamo,
erroneamente
-‐
)
abbandonare
la
filosofia
("spendere
la
vita
bisbigliando
in
un
angolo
con
qualche
bimbo":
485
e)
in
favore
di
"libere,
importanti,
sufficienti"
fatti
delle
corti,
affari
pubblici
e
privati,
"piaceri
e
desideri
umani",
insomma
dell'intera
voluttuosa
"musica
dei
fatti":
484
d,
485
e,
486
c.
Si
consideri
inoltre
l'ammissione
strappata
all'anima
di
Callicle,
più
avanti
nel
discorso:
"non
so
perché,
ma
mi
sembri
sensato,
o
Socrate.
Tuttavia
provo
affetto
per
la
folla.
Non
sono
affatto
d'accordo
con
te":
513
c.
(23)
Da
non
confondere
con
l'unilaterale
"altruismo"
introdotto
da
Comte.
Poiché
l'amico
A
vuole
il
bene
dell'amico
B
per
amore
di
B,
e
B
il
bene
di
A
per
amore
di
A,
A
deve
anche
volere
il
suo
stesso
bene
(per
amore
di
B)ce
B
il
suo
stesso
bene
(per
amore
di
A),
cosicché
ciascuno
viene
69
innalzato
ad
una
nuova
prospettiva,
cioè
la
preoccupazione
per
un
autentico
bene
comune.
Si
veda
J.M.
Finnis,
Natural
Law...cit.,
pp.
142-‐144,
158;
Idem,
Aquinas...
cit.,
pp.
111-‐117.
(24)
507
d.
(25)
507
b-‐c.
(26)
"È
così
che
io
stabilisco
queste
cose,
e
sostengo
che
sono
vere.
E
se
sono
vere,
chi
vuole
essere
felice
deve,
a
quanto
pare,
ricercare
e
coltivare
la
temperanza,
fuggire
la
dissolutezza
con
quanta
forza
ha
nelle
gambe...
Questo
mi
pare
che
sia
il
riferimento
a
cui
dobbiamo
guardare
e
puntare
nella,
tendendo
tutte
le
proprie
forze
e
quelle
della
città
a
questo
scopo:
che
vi
siano
giustizia
(dikaiosyne)
e
temperanza
(sophrosyne)
in
colui
che
vuole
essere
felice.
Non
bisogna
lasciare
sopravvivere
i
propri
desideri
sfrenati
cercando
di
soddisfarli,
il
che
sarebbe
un
male
senza
fine,
producendo
una
vita
da
ladrone...
né
amico
di
un
altro
uomo
né
di
un
dio,
perché
incapace
di
condividere
(koinonein);
e
non
può
esserci
amicizia
se
non
c'è
condivisione
(koinonia)
con
alcuno"
(ibid.,
507
c-‐e).
(27)
Si
veda
ad
esempio
489
b1
(dikaion
to
ison);
e
508
a6
sull'uguaglianza
geometrica
come
principio
informante
della
giustizia.
(28)
Sui
tentativi
di
identificare
un
elenco,
più
o
meno
esaustivo,
dei
beni
umani
fondamentali
e
delle
ragioni
dell'azione,
si
veda
J.M.
Finnis,
Natural
Law...cit.,
pp.
59-‐99;
Idem,
Aquinas...cit.,
pp.
80-‐86;
G.G.
Grisez,
J.M.
Boyle,
J.M.
Finnis,Practical
Principles,
Moral
Truth,
and
Ultimate
Ends
"American
Journal
of
Jurisprudence",
1987,
32,
99,
pp.
106-‐115.
(29)
"...La
disposizione
appropriata
e
il
buon
ordine
dell'anima
portano
il
nome
della
legittimità
e
del
diritto,
per
cui
le
anime
diventano
rispettose
della
legge
e
ordinate;
e
questo
corrisponde
alla
giustizia
e
alla
temperanza
..
(e)
alle
altre
virtù...":
Platone,
Gorgia,
504
d,
e.
"...
C'è
senz'altro
un
ordino
appropriato
in
ogni
cosa,
e
affine
ad
esse,
che
genera
un
bene
naturalemente
adatto
ad
esse...".
Ogni
esercizio
autentico
della
ragione
pratica,
come
la
vera
arte
(techne)
della
medicina
in
opposizione
alla
mera
abilità
orientata
al
piacere
(empeiria),
come
la
pasticceria
(500
e
5),
la
cosmetica
o
la
politica
di
adulazione
retorico-‐sofistica
(463
b),
"considera
la
natura
(physin)
della
persona
che
serve
a
la
causa
(e
natura
(physin):
465
a
4)
di
ciò
che
fa
e
di
cui
sa
dare
ragione
(logon)"
(501
a
1-‐3).
(30)
Per
un'attenta
documentazione
della
stretta
relazione
fra
Callicle
e
Nietzsche,
si
veda
E.R.
Dodds
(ed.),
Plato:
Gorgias:
A
Revised
Text
with
Introduction
and
Commentary,
Oxford:
Oxfrod
University
Press,
1959,
pp.
387-‐391.
Per
un
breve
ma
profondo
commento
delle
pagine
di
Dodds,
e
sulle
differenze
che
caratterizzano
il
post-‐kantismo
di
Niezsche,
si
veda
Allen,
Dialogues
of
Plato,
vol.
I,
pp.
220-‐221.
(31)
Kata
physin...dikaiou:
Plato,
Gorgias,
483
e1
(e
perciò
kata
nomon...physeous:
e3);
inoltre
484
b1
(physeos
dikaion),
488
b2-‐3.
(32)
482
e
-‐
484
b.
(33)
488
d.
(34)
521
a-‐b
insieme
a
518
a-‐d.
(35)
494
c-‐e.
(36)
Per
una
critica
delle
metodologie
etiche
che
suggeriscono
di
sottomettere
tutte
le
regole,
negative
e
positive,
ad
un
"test"
di
appropriatezza
"alla
situazione",
si
veda
ad
esempio
J.M.
Finnis,
Moral
Absolutes,
Washington,
DC:
Catholic
University
of
America
Press,
1993,
pp.
16-‐24;
Idem,
Fundamentals...cit.,
pp.
80-‐108;
J.M.
Finnis,
J.M.
Boyle,
G.G.
Grisez,Nuclear
Deterrence,
Morality
and
Realism,
Oxford:
Oxford
University
Press,
1987,
pp.
238-‐272.
(37)
Si
veda
Tommaso
d'Aquino,
De
Unitate
Intellectus,
III.3
(79);
J.M.
Finnis,
Aquinas...cit.,
pp.
177-‐179.
(38)
Tommaso
d'Aquino,
Summa
Theologiae
I-‐II
100,
3
ad
1;
11
c.
Si
veda
J.M.
Finnis,
Aquinas...cit.,
pp.
115-‐131,
soprattutto
p.
126.
70
(39)
Tommaso
d'Aquino,
Summa
Theologiae.,
I-‐II
95,
2
c;
100,
1
c;
3
c
&
ad
1;
6
c;
11
c
&
ad
1;
94,
6
c;
J.M.
Finnis,Aquinas...
cit.,
p.
125.
(40)
Tommaso
d'Aquino,
Summa
Theologiae,
I-‐II
95,
1
ad
2;
100,
3
ad
1;
100,
11
c;
II-‐II
q.
44
a.
2.
Negli
ultimi
tre
riferimenti
questo
principio,
o
precetto,
o
comando,
è
unito
al
comando
di
amare
Dio,
mentre
in
II-‐II
99,
1
ad
2
e
in
II-‐II
44,
2
c
&
ad
4
il
comando
di
amare
Dio
è
implicitamente
contenuto
nel
precetto
di
amare
il
prossimo
(come
il
fine
è
implicito
in
ciò
che
è
relativo
al
fine
(quod
est
ad
finem)).
Si
veda
anche
J.M.
Finnis,
Aquinas...cit.,
pp.
126
e
314.
(41)
Si
veda
ibid.,
pp.
138-‐143
e
124-‐129.
(42)
Può
qualcosa
essere
più
o
meno
morto?
Sì.
Si
considerino,
ad
esempio,
certi
grandi
alberi
caduti,
dal
cui
ramo
possono
crescere
alcuni
rimanenti
germogli.
(43)
Il
significato
di
tale
fine
"obbligante-‐esplicante"
è
in
ultima
analisi
considerato
più
sotto,
nella
sezione
7.
(44)
J.
Locke,
Questions
concerning
the
Law
of
Nature
(1660-‐1665),
ed.
R.
Horwitz,
J.S.
Clay,
D.
Clay,
Ithaca:
Cornell
University
Press,
1990,
pp.
192-‐193.
(45)
Ibid.,
pp.
158-‐159,
166-‐167.
(46)
Si
veda
ibid.,
pp.
102-‐103.
(47)
Si
veda
ibid.,
pp.
204-‐205.
(48)
Si
veda
ad
esempio
S.
Pufendorf,
Elementorum
Jurisprudentiae
Universalis
Libri
Duo,
Vol.
2,
The
Translation,
a
cura
di
W.A.
Oldfather,
Oxford
University
Press,
1931:
I
def.
12
sez.
17:
"infatti,
se
hai
allontanato
da
Dio
la
funzione
di
amministrare
la
giustizia,
tutta
l'efficacia
dei
...
patti,
all'osservanza
dei
quali
le
parti
contraenti
non
possono
obbligare
l'altro
con
la
forza,
si
spegne
immediatamente,
e
ognuno
misurerà
la
giustizia
secondo
il
suo
vantaggio
particolare.
E
sicuramente,
se
vogliamo
ammetterlo,
allorquando
la
paura
della
vendetta
divina
è
venuta
meno,
non
si
vedono
ragioni
sufficienti
per
cui
si
dovrebbe
essere
obbligati,
una
volta
mutate
le
condizioni
che
mi
davano
un
vantaggio,
a
fornire
ciò
per
cui
mi
ero
legato
all'altra
parte
quando
i
miei
interessi
mi
conducevano
in
quella
direzione;
ciò
vale,
naturalmente,
se
non
devo
temere
alcun
vero
male,
almeno
da
un
uomo,
in
conseguenza
di
quell'atto".
(49)
J.
Locke,
Questions...cit.,
pp.
165-‐166:
"patet...
posse
homines
a
rebus
sensibilibus
colligere
superiorem
esse
aliquem
potentem
sapientemque
qui
in
homines
ipsos
jus
habet
et
imperium.
Quis
enim
negabit
lutum
figuli
voluntati
esse
subjectum,
testamque
eadem
manu
qua
formata
est"
(corsivi
aggiunti).
(50)
Si
veda
ibid.,
pp.
178-‐179
(passaggio
cancellato
da
Locke
nel
1664).
(51)
Si
veda
T.
Hobbes,
De
Corpore
Politico
(1650),
parte
I,
cap.
3;
Idem,
Leviathan,
cap.
14;
J.M.
Finnis,
Natural
Law...cit.,
pp.
348-‐349
(in
cui
si
citano
e
si
analizzano
i
passaggi
più
rilevanti,
additando
alle
fallacie
date
dagli
equivoci
temporali
e
dalle
preferenze
cronologiche
inesplicate
inerenti
alla
sua
strategia).
(52)
Si
veda
J.M.
Finnis,
Natural
Law...cit.,
p.
349.
(53)
Per
un
elenco
dei
beni
primari
si
veda
J.M.
Finnis,
Is
Natural
Law
Theory
Compatible
with
Limited
Government?,
in
R.P.
George
(ed.),
Liberalism
and
Morality,
Oxford:
Oxford
University
Press,
1996,
pp.
1-‐26,
specialmente
p.
4;
più
in
dettaglio,
si
veda
Idem,
Aquinas...cit.,
pp.
79-‐86;
prima,
Idem
Natural
Law...cit.,
pp.
59-‐99.
(54)
Si
veda
J.M.
Finnis,
Legal
Enforcement
of
Duties
to
Oneself:
Kant
versus
Neo-‐Kantians,
Columbia
law
Review,
1987,
87,
pp.
433-‐456,
sosprattutto
pp.
443-‐445
e
pp.
454-‐456.
(55)
Si
veda
J.M.
Finnis,
Aquinas...cit..,
pp.
29-‐34.
(56)
Ibid.,
pp.
90-‐94,
102.
(57)
Sui
tre
livelli
di
inclinationes
a
cui
fa
riferimento
la
Summa
Theologiae,
si
veda
J.M.
Finnis,
Aquinas...cit.,
pp.
92-‐93.
Il
tipo
o
livello
decisivo
di
"inclinazione
naturale"
sono,
specie
in
Summa
Theologiae
I-‐II
94,
2
c,
le
inclinazioni
connaturali
alla
nostra
volontà,
le
quali,
come
71
tutte
le
operazioni
della
volontà,
seguono
la
comprensione
che
l'intelletto
ha
dei
beni
intelligibili
-‐
essi
rappresentano
le
nostre
risposte
naturali
a
tale
primaria
comprensione
pratica,
e
la
loro
normatività
nei
nostri
confronti
è
implicata
dalla
bontà
intelligibile,
dall'intrinseca
desiderabilità,
dei
beni
intesi
come
beni
attraverso
l'intuizione
pratica.
Rendere
primarie
le
inclinazioni
significa
sfidare
e
rovesciare
la
comprensione
più
profonda
di
Aristotele,
e
cioè
che
noi
desideriamo
le
cose
perché
sono
(o
ci
sembrano)
desiderabili:
Metafisica
XII,
7:
1072
a
29-‐30.
(58)
Si
veda
J.M.
Finnis,
The
Good
of
Marriage
and
the
Moralità
of
Sexual
Relations:
Some
Philosophical
and
Historical
Observations,
"The
American
Journal
of
Jurisprudence",
1997,
42,
pp.
97-‐134,
soprattutto
pp.
102-‐114.
(59)
J.M.
Finnis,
G.G.
Grisez,
J.M.
Boyle,
"Direct"
and
"Indirect":
A
Reply
to
Critics
of
Our
Action
Theory
"The
Thomist",
2001,
65,
pp.
1-‐44.
(60)
Si
vedano
le
citazioni
in
J.M.
Finnis,
Moral
Absolutes...cit.,
p.
73.
(61)
J.
Porter,
Nature
and
Divine
Law,
Ottawa-‐Novalis,
Grand
Rapids:
Eedermans,
1999,
p.
54.
(62)
K.
Rahner,
Natural
Moral
Law,
in
K.
Rahner
e
H.
Vorgremler,
Concise
Theological
Dictionary,
Fribourg:
Herder,
1965,
p.
305.
Lonergan
parla
favorevolmente
di
questo
contributo
in
B.
Lonergan,
The
Transition
from
a
Classicist
World-‐View
to
Historical
Mindedness,
in
B.
Lonergan,
A
Second
Collection,
London:
Darton,
Longman
e
Todd,
1974,
p.
6.
(63)
Si
veda
J.M.
Finnis,
Historical
Consciousness...cit.,
pp.
12-‐16,
24-‐29.
(64)
K.
Rahner,
Basic
Observations
on
the
Subject
of
the
Changeable
and
Unchageable
Factors
in
the
Church,
in
K.
Rahner,
Theological
Investigations
XIV,
New
York:
Crossroad,
1976,
p.
15.
Per
ulteriori
riferimenti
e
critiche,
si
veda
J.M.
Finnis,
The
Natural
Law,
Objective
Moralità,
and
Vatican
II,
in
W.E.
May,
Principles
of
Catholic
Moral
Life,
Chicago:
Franciscan
Herald
Press,
1980,
pp.
113,
139-‐142,
158-‐149;
G.G.
Grisez,
Christian
Moral
Principles,
Chicago:
Franciscan
Herald
Press,
1983,
p.
869
n.
62.
(65)
Si
veda
J.M.
Finnis,
Fundamentals...cit.,
pp.
42-‐45.
(66)
Si
veda
Idem,
Historical
Consciousness...cit.,
pp.
1-‐3.
(67)
Ibid.
(68)
Enciclica
Divino
Afflante
Spiritu,
Acta
Apostolicae
Sedis,
1943,
35,
pp.
309,
313.
(69)
A.
Richardson,
History,
Sacred
and
Profane,
London:
SCM
Press,
1964,
p.
253;
C.
Becker,
The
Heavenly
City
of
the
Eighteenth-‐Century
Philosophers,
New
Haven:
Yale
University
Press,
1932,
p.
19.
(70)
Naturalmente,
come
indica
l'influsso
che
ha
avuto
la
tesi
di
Lonergan,
ebbe
alcune
basi
di
verità
significative.
J.M.
Finnis,
Historical
Consciousness...cit.,
pp.
6,
17,
offre
diversi
esempi
a
supporto
di
quelli
a
cui
si
riferisce
Pio
XII;
cfr.
sopra
n.
68.
(71)
B.
Lonergan,
Second
Collection...icit.,
p.
112.
(72)
Ibid.
(73)
Aristotele,
Metafisica
VI,
2-‐3,
1027
a
19
-‐
b
16;
Tommaso
d'Aquino,
ad
loc.;
Idem,
In
Peri
Hermeneias
I
lett.
1
q
4,
nn.
187,
194.
(74)
Idem,
Summa
Theologiae
I,
1,
10
c;
Idem
In
epistolam
ad
Galatas
c.
4
lett.
7;
cfr.
Vaticano
II,
Dei
Verbum
12:
"...
interpretes
Sacrae
Scripturae
...
attente
investigare
debet,
quid
hagiographi
reapse
significare
intenderint...".
(75)
F.E.
Crowe
(ed.),
A
Third
Collection:
Papers
by
Bernard
J.F.
Lonergan
S.J.,
London:
Geoffrey
Chapman,
1985,
p.
181.
(76)
Ibid.,
p.
177.
(77)
Ibid.,
pp.
176-‐178,
soprattutto
l'ultimo
paragrafo
di
p.
177.
(78)
Si
veda
ibid.,
le
ultime
tre
linee
di
p.
177.
(79)
Ibid.,
p.
178.
72
(80)
B.
Lonergan,
Method
in
Theology,
London:
Darton,
Longman
e
Todd,
1972,
pp.
247,
67,
115:
si
veda
anche
Idem,Third
Collection...cit.,
pp.
173,
141
("L'apprensione
dei
valori
risiede
nell'affettività").
(81)
Si
veda
J.M.
Finnis,
Fundamentals...cit.,
pp.
42-‐45,
54-‐55.
(82)
Si
veda
J.M.
Finnis,
Self-‐refutation
and
the
Good
of
Truth,
in
P.M.
HACKER,
e
J.
RAZ,
(eds.),
Law,
Morality,
and
Society,
Oxford:
Oxford
University
Press,
1977,
pp.
247-‐67,
soprattutto
pp.
257-‐8.
(83)
Si
veda
J.M.
Finnis,
'Historical
Consciousness'...cit.,
pp.
15-‐16,
e
B.
Lonergan,
Insight...cit.,
p.
342.
(84)
Principalmente
(per
larga
parte
della
sua
opera),
G.G.
Grisez,
The
Way
of
the
Lord
Jesus
vol.
1,
Christian
Moral
Principles;
vol.
2,
Living
a
Christian
Life,
Quincy,
Illinois:
Franciscan
Press,
1993;
vol.
3,
Difficult
Moral
Questions,Quincy:
Franciscan
Press,
1998.
(85)
Tommaso
d'Aquino,
Summa
Theologiae
I-‐II,
71,
2
c.
73
CHARLES
MOREROD
74
cercherebbe
in
realtà
nel
suo
stesso
atto
di
rifiuto.
L'oggetto
del
libero
arbitrio
non
è
il
fine
ultimo,
ma
i
mezzi
per
ottenerlo:
"L'uomo
per
necessità
vuole
la
beatitudine,
e
non
può
volere
l'infelicità,
o
miseria.
Ma
l'elezione
non
ha
per
oggetto
il
fine,
bensì
i
mezzi...;
non
riguarda
il
bene
perfetto,
cioè
la
beatitudine,
ma
gli
altri
beni
che
sono
beni
particolari.
Perciò
l'uomo
non
compie
un'elezione
necessaria,
ma
libera."
La
legge
naturale
non
è
sempre
percepita
con
chiarezza,
a
causa
della
limitatezza
della
nostra
intelligenza
e
del
peccato.
Così
Aristotele
considerava
la
schiavitù
naturale
.
Forse
nel
futuro
la
pena
di
morte
sarà
considerata
opposta
alla
legge
naturale.
Ma
il
fatto
che
noi
non
siamo
sempre
capaci
di
riconoscerla
non
vuol
dire
che
la
legge
naturale
non
esista:
"La
legge
e
la
conoscenza
della
legge
sono
due
cose
differenti...È
per
dimenticanza
di
questa
distinzione
così
semplice
che
molte
perplessità
sono
nate
riguardo
alla
legge
non
scritta"
.
Anche
se
in
alcuni
casi
la
maggioranza
agisce
contro
la
legge
naturale,
questa
rimane
naturale:
"Dunque
si
devono
detestare
e
punire
dappertutto
e
sempre
i
vizi
contrari
alla
natura,
per
esempio
i
vizi
dei
sodomiti,
che
se
pure
tutti
i
popoli
della
terra
li
praticassero,
la
legge
divina
li
coinvolgerebbe
in
una
medesima
condanna
per
il
loro
misfatto,
poiché
non
ha
creato
gli
uomini
per
un
tale
uso
di
se
stessi.
...
quando
è
Dio
stesso
a
dare
un
ordine
contrario
a
un'usanza
o
a
un
patto
qualsiasi,
bisogna
metterlo
in
pratica,
anche
se
in
quel
luogo
non
fu
mai
praticato;
e
se
fu
trascurato,
bisogna
restaurarlo,
se
non
fu
stabilito,
bisogna
stabilirlo."
LEGGE
NATURALE
E
RIVELAZIONE
Secondo
la
comprensione
cattolica
d'armonia
fra
natura
e
grazia
(gratia
supponit
naturam
),
la
legge
naturale
conosciuta
dalla
ragione
naturale
e
la
morale
rivelata
non
si
oppongono
l'una
all'altra.
Al
contrario,
la
rivelazione
presuppone
la
natura:
"...A
proposito
della
sua
relazione
[del
cristianesimo]
con
la
natura.
Come
l'ho
detto,
il
cristianesimo
è
una
semplice
addizione
ad
essa,
non
la
sostituisce
né
la
contraddice,
la
riconosce
e
ne
dipende,
e
questo
necessariamente:
perché
come
può
provare
le
sue
pretese
se
non
riferendosi
a
quello
che
gli
uomini
hanno
già?
Per
miracoloso
che
sia,
non
può
dispensare
dalla
natura;
questo
sarebbe
tagliare
l'erba
sotto
i
suoi
piedi;
perché
quale
sarebbe
il
valore
di
testimonianze
a
favore
della
rivelazione
che
negherebbero
l'autorità
di
quel
sistema
di
quel
sistema
di
pensiero,
e
di
quei
correnti
di
pensiero
a
partire
dei
quali
queste
prove
necessariamente
sono
cresciute?"
L'Enciclica
Fides
et
Ratio
riassume
i
motivi
per
i
quali
non
ci
si
può
essere
nessun
opposizione
fra
natura
e
rivelazione:
The
Encyclical
Fides
et
Ratio
summarizes
the
reasons
why
there
can't
be
an
opposition
between
nature
and
Revelation:
"La
fede
chiede
che
il
suo
oggetto
venga
compreso
con
l'aiuto
della
ragione"
;
perciò,
"È
necessario,
dunque,
che
la
ragione
del
credente
abbia
una
conoscenza
naturale,
vera
e
coerente
delle
cose
create,
del
mondo
e
dell'uomo,
che
sono
anche
oggetto
della
rivelazione
divina;
ancora
di
più,
essa
deve
essere
in
grado
di
articolare
tale
conoscenza
in
modo
concettuale
e
argomentativo"
.
"Se
non
fosse
così,
la
parola
di
Dio,
che
è
sempre
parola
divina
in
linguaggio
umano,
non
sarebbe
capace
di
esprimere
nulla
su
Dio"
.
Se
ci
fosse
una
rottura
fra
natura
e
grazia,
la
rivelazione
non
sarebbe
comprensibile,
e
dunque
non
sarebbe
per
niente
una
rivelazione.
Visto
che
questa
rivelazione
è
rivolta
a
tutti
gli
uomini
di
tutti
i
tempi,
per
la
loro
salvezza,
essa
presuppone
una
permanenza
della
natura
umana
.
Possiamo
conoscere
la
nostra
natura
e
la
sua
legge.
Ma
il
peccato
rende
tale
conoscenza
più
difficile
e
incerta.
Perciò,
la
rivelazione
ci
aiuta
a
rendere
sicura
questa
conoscenza:
"I
precetti
della
legge
naturale
non
sono
percepiti
da
tutti
con
chiarezza
ed
immediatezza.
Nell'attuale
situazione,
la
grazia
e
la
rivelazione
sono
necessarie
all'uomo
peccatore
perché
le
verità
religiose
e
morali
possano
essere
conosciute
"da
tutti
e
senza
difficoltà,
con
ferma
certezza
e
senza
alcuna
mescolanza
di
errore"
[Pio
XII,
Lett.
enc.
Humani
generis:
Denz.
-‐Schönm.,
3876].
La
legge
75
naturale
offre
alla
Legge
rivelata
e
alla
grazia
un
fondamento
preparato
da
Dio
e
in
piena
armonia
con
l'opera
dello
Spirito."
Per
questo
motivo
il
Magistero
a
volte
deve
spiegare
la
legge
naturale.
Non
perché
questa
legge
sarebbe
conosciuta
soltanto
per
la
fede
o
sarebbe
valida
soltanto
nella
vita
dei
credenti,
ma
perché
la
fede
da
una
lucidità
spirituale
su
quello
che
è
umano:
"Nessun
fedele
vorrà
negare
che
al
Magistero
della
chiesa
spetti
di
interpretare
anche
la
legge
morale
naturale.
È
infatti
incontestabile,
come
hanno
più
volte
dichiarato
i
nostri
predecessori,
che
Gesù
Cristo,
comunicando
a
Pietro
e
agli
apostoli
la
sua
divina
autorità
e
inviandoli
a
insegnare
a
tutte
le
genti
i
suoi
comandamenti,
li
costituiva
custodi
e
interpreti
autentici
di
tutta
la
legge
morale,
non
solo
cioè
della
legge
evangelica,
ma
anche
di
quella
naturale.
Infatti
anche
la
legge
naturale
è
espressione
della
volontà
di
Dio,
l'adempimento
fedele
di
essa
è
parimenti
necessario
alla
salvezza
eterna
degli
uomini."
RIASSUNTO
C'è
una
natura
comune
a
tutti
gli
uomini,
c'è
una
'legge
naturale'
che
dice
quello
che
è
buono
o
male
secondo
questa
natura
umana.
La
legge
naturale
dipende
dal
Creatore
ed
è
sopra
ogni
legge
umana
positiva.
La
legge
naturale
può
essere
conosciuta
per
la
ragione,
ma
tale
conoscenza
è
resa
più
difficile
dal
peccato.
La
rivelazione
divina
ci
aiuta
a
conoscere
con
certezza
la
legge
naturale.
La
rivelazione
divina
è
trasmessa
dalla
Chiesa,
e
dunque
il
magistero
può
spiegare
che
cosa
è
la
legge
naturale.
LE
TENDENZE
DELLA
RIFORMA
A
PROPOSITO
DELLA
LEGGE
NATURALE
Che
autori
protestanti?
Non
c'è
soltanto
un
protestantesimo.
Ci
sono
almeno
due
correnti
maggiori:
gli
autori
protestanti
"classici":
i
principali
riformatori
e
i
loro
discepoli
contemporanei;
i
protestanti
liberali,
che
hanno
mantenuto
l'aspetto
individualistico
della
Riforma
ma
hanno
abbandonato
la
maggior
parte
della
sua
teologia.
Dipendono
fondamentalmente
dalla
filosofia
del
loro
tempo.
Oggi,
queste
filosofie
sono
spesso
opposte
all'idea
di
legge
naturale
,
o
almeno
alla
sua
determinazione
o
al
suo
uso
nei
campi
etici
e
politici
.
Dobbiamo
dunque
fare
una
scelta
sul
modo
di
trovare
se
qualsiasi
punto
è
comune
a
questi
correnti
protestanti,
sul
nostro
tema.
Studieremo
i
due
maggiori
riformatori,
Lutero
e
Calvino,
cercando
un
elemento
fondamentale
che
rimanga
fino
ai
nostri
tempi
dentro
i
diversi
correnti.
Da
Lutero
e
Calvino,
cercheremo
quel
che
dicono
specificamente
a
proposito
della
legge
naturale.
Poi
studieremo
il
ruolo
di
queste
affermazioni
nella
globalità
dei
loro
sistemi.
UNA
LEGGE
NATURALE
DA
LUTERO
E
CALVINO
Lutero
Per
Martino
Lutero,
c'è
una
legge
naturale
(possiamo
considerare
che
qui
diritto
naturale
e
legge
naturale
abbiano
lo
stesso
senso),
che
è
comune
a
tutti
gli
uomini:
"Tutto
questo
si
dice
del
diritto
divino
e
naturale,
che
anche
i
pagani,
Turchi
e
Ebrei
devono
tenere,
se
qualche
pace
e
ordine
devono
rimanere
nel
mondo."
Secondo
Rom.
2,15,
questo
diritto
è
scritto
nei
nostri
cuori,
e
il
suo
conteno
è
fondamentalmente
76
espresso
dalla
regolo
d'oro
o
nel
Decalogo:
"Questa
legge
non
è
stata
promulgata
prima
nel
Decalogo,
ma
è
iscritta
nelle
anime
di
tutti
gli
uomini.
È
contro
di
essa
che
Caino
combatte".
Calvino
For
John
Calvin,
natural
law
exists
and
is
given
by
God:
"Ora
non
essendo
la
legge
di
Dio,
che
definiamo
morale,
se
non
una
testimonianza
della
legge
naturale
e
della
coscienza
che
nostro
Signore
ha
impresso
nel
cuore
di
ogni
uomo,
non
c'è
dubbio
che
in
essa
sia
pienamente
manifesta
quella
giustizia
di
cui
discorrevamo."
Calvino
definisce
la
legge
naturale
e
il
suo
fine,
che
è
di
mostrare
che
l'uomo
non
la
può
osservare
e
ha
bisogno
della
grazia:
"Dobbiamo
peraltro
esaminare
a
qual
fine
questa
conoscenza
della
Legge
sia
stata
data
agli
uomini...
Possiamo
ricavare
questo
dalle
parole
di
San
Paolo
considerando
l'andamento
del
passo...Fine
della
legge
naturale
è
dunque
rendere
l'uomo
inescusabile.
Potremo
dunque
definirla:
una
dimensione
della
coscienza
che
le
permette
di
discernere
tra
il
bene
e
il
male,
tanto
da
togliere
all'uomo
la
scusa
dell'ignoranza,
essendo
rimproverato
dalla
propria
testimonianza
stessa."
Vediamo
che
i
due
maggiori
riformatori
accettano
la
legge
naturale.
Persino
Karl
Barth,
convintissimo
nemico
della
teologia
naturale,
ha
dovuto
riconoscere
che
i
riformatori
avevano
accettato
qualche
teologia
naturale
sul
piano
morale
.
Ma
si
uno
può
accettare
l'esistenza
della
legge
naturale
senza
affermare
la
possibilità
d'osservarla.
LA
LIMITAZIONE
FONDAMENTALE
DEGLI
ATTI
UMANI
La
legge
naturale
tratta
degli
atti
umani.
La
comprensione
di
quello
che
gli
atti
umani
sono
e
possono
essere
sarà
il
contesto
in
cui
si
capirà
il
vero
significato
della
legge
naturale.
Per
Lutero
e
Calvino,
il
principio
della
sola
fide
implica
una
limitatezza
radicale
degli
atti
umani
nella
loro
relazione
con
Dio
(e
non
in
altri
campi).
L'idea
centrale
è
che
ogni
cosa
che
si
afferma
a
proposito
delle
azioni
umane
in
relazione
alla
salvezza
è
come
preso
da
Dio.
Questo
è
il
motivo
per
il
quale
Lutero
rifiuta
il
libero
arbitrio:
"Vorrei
qui
avvertire
i
difensori
del
libero
arbitrio
onde
sappiano
quanto
segue:
essi,
affermando
che
il
volere
degli
uomini
è
libero,
negano
Cristo."
La
stessa
struttura
si
trova
chiaramente
anche
da
Calvino:
"Se
l'uomo
si
attribuisce
qualcosa
nella
volontà
o
nell'esecuzione,
sottrae
qualcosa
a
Dio."
"Se
l'uomo
si
gloria
di
se
stesso,
una
parte
della
gloria
di
Dio
è
annullata...Poiché
tutti
coloro
che
si
illudono
di
possedere
qualcosa
di
per
sé,
si
ergono
contro
Dio
e
ne
oscurano
la
gloria."
"Bisogna
concludere
che
l'uomo
non
si
può
attribuire
un
sol
briciolo
di
giustizia
senza
essere
sacrilego;
visto
che
sarebbe
come
sminuire
e
abbassare
la
gloria
della
giustizia
di
Dio."
Questa
forma
mentis
si
applica
alla
teologia
sacramentale,
perché
nessuna
realtà
creata
può
essere
davvero
usata
per
la
trasmissione
della
grazia.
Ecco
quello
che
Calvino
dice
dell'Eucaristia:
"Dobbiamo
ora
dare
una
definizione
della
presenza
di
Gesù
Cristo
nella
Cena
che
non
la
vincoli
al
pane,
lo
rinchiuda
in
esso,
non
pretenda
insomma
situarlo
in
terra
in
questi
elementi
corruttibili
recando
così
offesa
alla
sua
gloria
celeste...Manteniamo
dunque
decisamente
questi
due
punti:
non
permettere
che
venga
recata
offesa
alla
gloria
celeste
di
nostro
Signore
Gesù
Cristo,
il
che
vi
verifica
ogniqualvolta
lo
si
localizza
quaggiù
in
elementi
corruttibili
del
mondo..."
Lutero
e
Calvino
presuppongono
che
ogni
azione
attribuita
ad
una
creatura
non
possa
essere
totalmente
l'opera
di
Dio.
Si
deve
scegliere
fra
Dio
e
le
sue
creature,
soprattutto
fra
Dio
e
l'uomo.
I
riformatori
hanno
scelto
Dio,
più
tardi
alcuni
sceglieranno
d'uccidere
Dio
per
il
bene
dell'uomo;
ambedue
i
correnti
portano
alla
secolarizzazione.
Comunque,
il
fatto
che
non
ci
sia
nessun
armonia
fra
dimensione
divina
e
dimensione
umana
toglie
ogni
reale
importanza
alla
legge
77
naturale.
Ma
tale
opposizione
fra
azione
divina
e
azione
umana
non
è
necessaria.
San
Tommaso
mostra
che
una
stessa
azione
può
essere
pienamente
azione
di
Dio
e
azione
d'una
creatura,
ambedue
a
100%:
"Come
niente
impedisce
che
un'azione
sia
prodotta
da
un
soggetto
agente
e
dalla
sua
virtù,
così
niente
impedisce
che
l'identico
effetto
sia
prodotto
da
un
agente
inferiore
e
da
Dio:
e
da
entrambi
immediatamente
sebbene
in
maniera
diversa.
È
poi
evidente,
che
sebbene
le
cose
naturali
producano
i
loro
effetti,
non
è
superfluo
che
li
produca
anche
Dio:
perché
le
cose
naturali
non
li
producono
che
per
la
virtù
di
Dio.
E
neppure
è
superfluo,
dal
momento
che
Dio
può
produrre
da
se
stesso
tutti
gli
effetti
naturali,
che
vengano
prodotti
da
cause
naturali.
Ciò
infatti
non
è
dovuto
all'insufficienza
della
virtù
di
Dio,
ma
all'immensità
della
sua
bontà,
con
la
quale
volle
comunicare
alle
cose
la
propria
somiglianza,
non
solo
comunicando
loro
l'esistenza,
ma
anche
conferendo
ad
esse
la
causalità
verso
altri
esseri:
poiché
è
in
questi
due
modi
che
le
creature
conseguono
la
comune
loro
somiglianza
con
Dio...
E
questo
serve
a
mostrare
nelle
cose
create
la
bellezza
dell'ordine.
Inoltre
è
evidente
che
l'identico
effetto
viene
attribuito
sia
alle
cause
naturali
che
a
Dio,
non
nel
senso
che
in
parte
viene
prodotto
da
Dio
e
in
parte
dall'agente
naturale;
ma
esso
derive
tutto
e
dall'uno
e
dall'altro,
però
in
maniera
diversa:
ossia
come
l'identico
effetto
è
attribuito
tutto
intero
allo
strumento
e
tutto
intero
all'agente
principale."
Per
i
cattolici,
tale
dottrina
aiuta
a
capire
il
Nuovo
Testamento,
dove
Gesù
da
veri
compiti
ai
suoi
discepoli:
ciò
vuol
dire
che
gli
uomini
possono
lavorare
per
la
trasmissione
della
salvezza
senza
ridurre
l'opera
di
Cristo.
Ma
Lutero
e
Calvino
non
hanno
visto
questa
possibilità
d'evitare
la
rivalità
fra
azione
divina
e
azione
umana.
Ci
sembra
che
Lutero
dipenda
d'una
comprensione
semplificata
dell'univocità
dell'essere
scotista
:
se
c'è
soltanto
un
tipo
d'essere,
allora
due
autori
d'una
stessa
azione
(per
esempio
due
uomini
portando
un
oggetto)
devono
necessariamente
condividere
l'azione,
in
tal
modo
che
nessuno
dei
due
faccia
tutto.
Se
questo
si
applica
alla
relazione
fra
Dio
e
l'uomo,
Dio
non
è
più
l'autore
di
tutta
la
nostra
salvezza.
Ma
tale
conclusione
dipende
delle
premesse
della
teoria.
Lutero
non
poteva
essere
veramente
cosciente
della
sua
dipendenza
da
una
teoria
filosofica,
perché
si
rifiutava
di
prendere
in
considerazione
la
filosofia,
soprattutto
la
filosofia
aristotelica
,
e
riconosceva
soltanto
una
pura
autorità
della
Scrittura,
considerata
non
contaminata
da
presupposti
filosofici.
In
genere,
tali
punti
non
sono
presi
in
considerazione
nel
dialogo
ecumenico,
perché
i
cattolici
tendono
ad
accettare
di
non
includere
la
metafisica
nel
loro
dialogo
con
i
protestanti
.
Anche
la
recente
Dichiarazione
congiunta
fra
cattolici
e
luterani
sulla
giustificazione
,
per
utile
che
sia
nell'espressione
delle
convergenze
teologiche,
non
prende
in
considerazione
i
presupposti
filosofici
e
si
espone
dunque
ad
una
diversità
interpretativa.
I
DUE
REGNI
DI
LUTERO
L'opposizione
fra
le
azioni
divine
e
umane
si
limita
a
quello
che
a
da
vedere
immediatamente
con
la
salvezza.
Lutero
distingue
un
altro
livello,
o
altro
regno,
che
è
più
o
meno
sconnesso
dal
livello
della
salvezza
(benché
sia
raccomandato
d'agire
in
modo
cristiano
anche
a
questo
livello,
quando
è
possibile).
Lutero
lo
spiega
per
esempio
quando
parla
dei
principi:
"Un
principe
può
essere
cristiano,
ma
non
deve
governare
come
cristiano:
e
in
quanto
regna
non
è
un
cristiano
ma
un
principe...Perché
in
quanto
è
un
cristiano,
il
Vangelo
gli
insegna
di
non
fare
del
male
a
nessuno,
di
non
punire
né
parlare,
ma
di
perdonare
a
tutti,
e
lui
deve
soffrire
le
pene
e
ingiustizie
che
gli
accadono.
Questa
dico
che
è
una
lezione
cristiana,
ma
non
farebbe
un
buon
governo
se
la
volessi
predicare
anche
al
principe;
invece
[il
principe]
deve
dire:
lascio
il
mio
cristianesimo
fra
Dio
e
me...Ma
sopra
o
accanto
[al
essere
cristiano]
ho
nel
mondo
un
altro
statuto
o
dovere:
il
fatto
d'essere
un
principe"
.
78
I
DUE
REGNI
NEL
CONTESTO
CONTEMPORANEO
La
teologia
dei
due
regni
mostra
precisamente
come
una
cattiva
connessione
fra
il
divino
e
l'umano
porta
ad
una
divisione
nella
vita
dei
cristiani.
Questo
si
può
ancora
vedere
oggi
nell'azione
politica
di
gruppi
protestanti.
Di
solito,
non
c'è
nessuna
posizione
delle
comunità
protestanti
sul
piano
politico
(eccetto
a
volte
a
proposito
della
giustizia
sociale).
Quando
c'è
una
presa
di
posizione
di
gruppi
protestanti
sul
piano
politico,
per
esempio
nel
caso
di
gruppi
che
combattono
l'aborto
o
criticano
il
contenuto
dell'insegnamento
nelle
scuole,
gli
argomenti
sono
presi
di
solito
direttamente
nella
Bibbia
-‐spesso
in
un
modo
fondamentalista
che
esprima
una
sconnessione
con
le
scienze
umane-‐
e
non
sulla
base
della
legge
naturale.
Il
P.
Congar
vedeva
tale
divisione
addirittura
nella
cristologia
di
Lutero,
che
era
in
un
certo
senso
monofisita
perché
soltanto
la
natura
divina
di
Cristo
era
davvero
efficiente
nell'opera
di
salvezza
.
La
divisione
fra
due
regni
o
due
campi
della
vita
non
significa
come
tale
che
non
ci
sia
una
legge
naturale.
Si
potrebbe
pensare
ad
un
sistema
che
non
faccia
bene
la
connessione
fra
due
realtà
accettate:
legge
naturale
e
morale
rivelata.
Ma
in
realtà
la
situazione
che
tende
a
diventare
sempre
più
frequente
è
la
divisione
fra
alcuni
protestanti
che
fondano
la
loro
azione
sulla
Bibbia
sola
e
la
maggioranza
che
-‐
pur
mantenendo
forse
una
religiosità
privata
-‐
agiscono
nella
vita
pubblica
mirando
ad
una
efficienza
nel
ambito
della
legge
positiva.
Nei
due
casi,
la
referenza
alla
legge
naturale
è
per
lo
meno
marginale.
AUTORI
PROTESTANTI
DOPO
LA
RIFORMA
Che
cosa
hanno
detto
gli
autori
protestanti
dopo
Lutero
e
Calvino
a
proposito
della
legge
naturale
come
tale?
Degli
autori
come
Melanchthon
(1497-‐1560),
durante
la
stessa
Riforma,
Grotius
(1583-‐1645),
Johannes
Althusius
(1557-‐1683),
o
più
recentemente
Emil
Brunner
(1889-‐1966)
hanno
visto
la
legge
naturale
come
buona
e
utile.
Ma
sono
dei
protestanti
tipici
su
questo
punto?
Risponderemmo
negativamente
a
questa
domanda.
E
qui
dobbiamo
trovare
quello
che
è
tipicamente
protestante
(o
cattolico).
Un
atteggiamento
tipicamente
protestante
a
proposito
della
possibilità
di
riferirsi
alla
natura
nel
campo
etico
si
trova
da
Eric
Fuchs,
Professore
d'etica
alla
Facoltà
Autonoma
di
Teologia
Protestante
dell'Università
di
Ginevra:
il
protestantesimo
ha
un
atteggiamento
ambivalente
davanti
alla
natura.
D'una
parte
la
rifiuta
in
quanto
fonte
della
normatività
etica.
A
differenza
della
morale
cattolica
che,
seguendo
in
questo
Aristotele
e
San
Tommaso
d'Aquino,
si
fonda
sulla
permanenza
e
l'universalità
della
'legge
naturale',
la
teologia
protestante
non
crede
che
si
possano
tirare
delle
norme
etiche
a
partire
d'una
conoscenza
delle
leggi
di
funzionamento
della
natura
(qui
definita
come
insieme
degli
esseri
viventi).
Quello
che
fa
la
natura
non
è
né
buono
né
male,
è
l'uomo
che
lo
deve
giudicare
a
partire
d'altri
criteri
che
coinvolgono
la
sua
libertà.
Parimenti,
se
si
parla
della
natura
per
indicare
l'insieme
delle
condizioni
oggettive
che
determinano
l'esistenza
umana
(essere
un
corpo
sessuato
mortale),
si
descrive
un
ordine
di
realtà
che
non
implica
di
per
sé
alcun
obbligo
morale.
Anche
se
la
morale
deve
ovviamente
tener
conto
di
questa
realtà
per
non
cadere
in
un
idealismo
ingannatore.
Questo
punto
è
dunque
chiaro:
la
natura
non
può
essere
una
norma
etica.
Quello
che
l'autore
dice
dopo
è
anche
interessante:
"Dall'altra
parte,
in
quanto
è
l'espressione
della
creazione
buona
di
Dio,
offerta
al
godimento
dell'uomo,
la
natura
è
stata
esaltata
nei
paesi
di
tradizione
protestante
più
di
altrove.
E
questo
da
Calvino
come
da
Rousseau.
Perché
se
il
peccato
danneggia
gravemente
ogni
opera
umana,
la
natura
rimane
la
traccia
visibile
della
bontà
dell'opera
di
Dio.
Ecco
perché
è
79
possibile
meravigliarsene
e
risentire
frequentandola
un
sentimento
religioso.
Un
segno
di
questo:
uno
dei
rari
oggetti
di
pietà
che
si
trovino
spesso
nelle
famiglie
protestanti
è
un
quadro
o
una
fotografia
d'un
bel
paesaggio,
con
un
testo
biblico
in
sottotitolo,
di
cui
il
senso
è
spesso
senza
relazione
con
l'immagine
ma
che
ricorda
che
ammirazione
della
natura
e
fede
in
Dio
vanno
insieme
nella
sensibilità
popolare
protestante."
Quest'ultimo
testo
illustra
molto
bene
la
situazione:
l'uomo
è
in
relazione
con
la
natura
-‐
visto
che
comunque
questo
non
si
può
evitare
-‐
ma
ogni
trattativa
d'esprimere
con
la
Bibbia
questa
relazione
uomo-‐natura
fallisce.
Il
protestante
è
quindi
in
relazione
con
la
Bibbia
e
con
la
natura,
ma
queste
due
relazioni
non
sono
connesse.
Tale
è
l'impatto
culturale
a
lungo
termine
della
sconnessione
a
radice
filosofica
fra
le
azioni
divine
e
umane.
RIASSUNTO
C'è
una
certa
presenza
della
legge
naturale
dai
Riformatori
e
da
alcuni
autori
protestanti
più
recenti.
Ma
fondamentalmente,
visto
che
la
natura
è
corrotta,
le
opere
dell'uomo
naturale
non
possono
essere
buone.
Nella
relazione
con
Dio,
ogni
bontà
delle
opere
umane
sarebbe
un'offesa
a
Dio;
questa
affermazione
dipende
da
presupposti
filosofici
incoscienti.
Dunque
la
dimensione
naturale
non
è
connessa
col
livello
della
salvezza,
e
la
natura
non
è
un
criterio
etico.
Non
c'è
una
posizione
ecclesiastica
ufficiale
sulla
legge
naturale
nelle
società
protestanti:
non
soltanto
perché
non
c'è
un
magistero,
ma
anche
perché
i
presupposti
della
Riforma
rendono
difficile
una
connessione
fra
fede
e
natura.
Le
posizioni
morali
di
alcuni
gruppi
protestanti
(aborto...)
sono
tipicamente
fondate
sulla
Scrittura,
non
sulla
legge
naturale,
e
suggeriscono
che
quello
che
si
difende
è
una
posizione
specificamente
religiosa.Tale
situazione
si
esprime
nella
teologia
luterana
dei
due
regni
e
nelle
sue
conseguenze
storiche:
la
fede
nella
vita
personale,
l'efficienza
nei
campi
'seculari'.
Nella
linea
tipica
del
protestantesimo,
che
non
accetta
la
legge
naturale,
il
campo
della
natura
c'è
ancora,
ma
tende
ad
essere
sconnesso
dalla
Rivelazione,
e
di
conseguenza
quello
che
è
cristiano
tende
ad
essere
sconnesso
dalla
vita
'civile'.
80
(1)
Per
un
riassunto
della
posizione
cattolica
con
gli
elementi
chiavi
della
storia
della
filosofia,
cf.
Georges
COTTIER,Nature
et
nature
humaine,
in:
Nova
et
Vetera
74/4,
1999,
p.57-‐74.
(2)
Catechismo
della
Chiesa
cattolica,
§
1952.
Cf.
anche
S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Summa
theologiae,
Ia-‐IIae,
q.91.
(3)
MARITAIN,
J.,
I
diritti
dell'uomo
e
la
legge
naturale,
traduzione
di
Guglielmo
Usellini,
Vita
e
Pensiero,
Milano,
1977:56.
(4)
Cf.
Catechismo
della
Chiesa
cattolica,
§
1954,
(5)
Ibid,
§
1955.
(6)
Ibid,
§
1956.
(7)
Ibid,
§
1958.
(8)
Cf.
S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Summa
Theologiae,
Ia-‐IIae,
q.94,
a.5.
(9)
Cf.
Catechismo
della
Chiesa
cattolica,
§
1957.
(10)
S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Summa
Theologiae,
IIa-‐IIae,
q.60,
a.5,
ad
1.
(11)
Ibid,
Ia-‐IIae,
q.1,
a.7.
(12)
Ibid,
Ia-‐IIae,
q.13,
a.6.
(13)
Cf.
soprattutto
ARISTOTELE,
Politica,
I.5.
(14)
MARITAIN,
J.,
I
diritti
dell'uomo...:57.
(15)
S.
AGUSTINO,
Confessioni,
III.8.15.
(16)
Cf.
STOECKLE,
B.,
"Gratia
supponit
naturam",
Geschichte
und
Analyse
eines
theologischen
Axioms,
"Studia
anselmiana"
49,
Herder,
Roma,
1962.
(17)
"as
to
its
[Christianity's]
relation
to
nature.
As
I
have
said,
Christianity
is
simply
an
addition
to
it;
it
does
not
supersede
or
contradict
it;
it
recognizes
and
depends
on
it,
and
that
of
necessity:
for
how
possibly
can
it
prove
its
claims
except
by
an
appeal
to
what
men
have
already?
Be
it
ever
so
miraculous,
it
cannot
dispense
with
nature;
this
would
be
to
cut
the
ground
from
under
it;
for
what
would
be
the
worth
of
evidences
in
favour
of
a
revelation
which
denied
the
authority
of
that
system
of
thought,
and
those
courses
of
reasoning,
out
of
which
those
evidences
necessarily
grew?"
(NEWMAN,
J.
H.,
An
Essay
in
aid
of
a
Grammar
of
Assent,
II.X,
Longmans,
Green,
and
Co.,
London,
New
York
and
Bombay,
1930:388;
nostra
traduzione).
(18)
Cf.
GIOVANNI
PAOLO
II,
Enciclica
Fides
et
Ratio
(14
settembre
1998),
§
42.
Questo
viene
confermato
dall'argomento
del
§
82:
"La
Sacra
Scrittura,
infatti,
presuppone
sempre
che
l'uomo,
anche
se
colpevole
di
doppiezza
e
di
menzogna,
sia
capace
di
conoscere
e
di
afferrare
la
verità
limpida
e
semplice".
(19)
Fides
et
Ratio,
§
66.
(20)
Fides
et
Ratio,
§
84.
(21)
Fides
et
Ratio,
§
95.
(22)
Catechismo
della
Chiesa
cattolica,
§
1960.
(23)
PAOLO
VI,
Enciclica
Humanae
Vitae
(25
luglio
1968),
no.4.
(24)
Cf.
per
esempio
Sartre
:
«
Je
la
vois,
moi,
cette
nature,
je
la
vois...
Je
sais
que
sa
soumission
est
paresse,
je
sais
qu'elle
n'a
pas
de
lois
:
ce
qu'ils
prennent
pour
sa
constance...
Elle
n'a
que
des
habitudes
et
peut
en
changer
demain
»
(SARTRE,
J.-‐P.
La
nausée,
"Le
Livre
de
poche",
Gallimard,
Paris,
1963:222).
(25)
Nella
linea
di
Immanuel
Kant.
(26)
Cf.
FLORES
D'ARCAIS,
P.,
Dio
esiste?,
MicroMega
2/2000:40:
La
pietra
d'inciampo
per
il
cristiano
è
la
tentazione
di
dettare
legge
(in
nome
di
una
presunta
‘legge
naturale'
che
coincide
sempre,
guarda
caso,
con
la
parola
ex
cathedra).
In
un
ambiente
diverso,
cf.
Karl
Popper
che
esprime
questo
giudizio
generale
in
un
contesto
di
filosofia
politica::
"The
choice
of
conformity
with
‘nature'
as
a
supreme
standard
leads
ultimately
to
consequences
which
few
will
be
prepared
81
to
face;
it
does
not
lead
to
a
more
natural
form
of
civilization,
but
to
beastliness"
(POPPER,
K.,
The
Open
Society
and
its
Enemies,
vol.
1,
The
Spell
of
Plato,
Routledge
&
Kegan
Paul,
London
and
Henley,
1980,
5th
edition
reprinted:71.
(27)
Testo
originale:
Dis
ist
alles
gesagt
von
gemeinen
göttlichen
und
natürlichen
recht,
das
auch
Heiden,
Türcken
und
Juden
hallten
müssen,
soll
anders
fride
und
ordnung
in
der
wellt
bleiben
(LUTERO
M.,
Ermahnung
zum
Frieden
auf
die
zwölf
Artikel
der
Bauerschaft
in
Schwaben,
1525,
WA
18:307,
l.23-‐25).
Nostra
traduzione.
(28)
Testo
originale:
Haec
enim
lex
non
in
Decalogo
primum
promulgata
sed
omnium
hominum
animis
inscripta
est.
Contra
hanc
Cain
pugnat
(Vorlesungen
über
1.
Mose
Kap.4.9,
1544,
WA
42:205,
l.23-‐25).
Nostra
traduzione.
Cf.
anche
Ein
Sermon
Mart.
Luther
Über
das
Euangelion
Matth...
(1529),
WA
29:564.
(29)
Traduzione
presa
da:
CALVINO,
G.,
Istituzione
della
religione
cristiana,
2
vol.,
Unione
Tipografico-‐Editrice,
Torino,
1971.
Citiamo
i
paragrafi,
che
sono
comuni
a
tutte
le
edizioni
in
diverse
lingue.
(30)
CALVINO,
Istituzione...
IV.XX.16.
(31)
CALVINO,
Istituzione...
II.II.22.
(32)
Cf.
BARR,
J.,
Biblical
Faith
and
Natural
Theology,
The
Gifford
Lectures
for
1991
Delivered
in
the
University
of
Edinburgh,
Clarendon
Press,
Oxford,
1994:8.
(33)
LUTERO,
De
servo
arbitrio
(777),
in:
ERASMO
DA
ROTTERDAM,
Il
libero
arbitrio
(testo
integrale),
Martin
LUTERO,
Il
servo
arbitrio
(passi
scelti),
Editrice
Claudiana,
Torino,
1993
(ristampa
della
seconda
edizione):245.
(34)
CALVINO,
Istituzione...
II,
III.9.
(35)
CALVINO,
Istituzione...
III,
XIII.1.
(36)
CALVINO,
Istituzione...
III,
XIII.2.
(37)
CALVINO,
Istituzione...
IV,
XVII.19.
(38)
S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Summa
contra
Gentes,
libro
III,
cap.70.
(39)
Cf.
DUNS
SCOTUS,
Ordinatio
I,
dist.
3,
pars
1,
q.2,
Opera
Omnia,
vol.
3:18,
no.26:
"Secundo
dico
quod
non
tantum
in
conceptu
analogo
conceptui
creaturae
concipitur
Deus,
scilicet
qui
omnino
sit
alius
ab
illo
qui
de
creatura
dicitur,
sed
in
conceptu
aliquo
univoco
sibi
et
creaturae.
Et
ne
fiat
contentio
de
nomine
univocationis,
univocum
conceptum
dico,
qui
ita
est
unus
quod
eius
unitas
sufficit
ad
contradictionem,
affirmando
et
negando
ipsum
de
eodem;
sufficit
etiam
pro
medio
syllogistico,
ut
extrema
unita
in
medio
sic
uno
sine
fallacia
aequivocationis
concludantur
inter
se
uniri".
(40)
I
suoi
giudizi
a
proposito
del
"blinde
Heide
Aristoteles"
(Adventspostille,
WA
10,
1.2,
116,
l.11,
1522)
sono
molto
duri:
"...
ut
impiissimi
Aristotelis,
publici
veritatis
vel
ex
professo
hostis,
sententias
quantumlibet
Christo
adversarias..."
(WA
6,
186,
ll.14-‐15,
1520).
(41)
Cf.
CONGAR,
Y.,
Un
unique
médiateur
(excursus),
in:
COMMISSION
INTERNATIONALE
CATHOLIQUE-‐LUTHERIENNE,
Face
à
l'unité,
Tous
les
textes
officiels
(1972-‐1985):279
:
"
La
Réforme
voulait
substituer
un
monde
de
relations
personnelles
à
un
monde
de
qualités
ontologiques
hiérarchiquement
ordonnées.
Elle
combattit
ainsi
une
scolastique
qui
fut,
finalement,
laissée
à
ses
querelles
internes.
L'effort
de
l'Eglise
catholique
pendant
et
après
le
second
concile
du
Vatican
a
consisté,
pour
une
grande
part,
à
dépasser
la
scolastique
pour
tendre
ardemment
vers
ce
qu'on
pourrait
appeler,
sans
idéalisation
irréelle,
I'Eglise
indivise".
(42)
Cf.
Il
Regno-‐Documenti
n.812,
1998/7:250-‐256.
(43)
Testo
originale:
"Ein
Fürst
kan
wol
ein
Christ
sein,
aber
als
ein
Christ
mus
er
nicht
regieren:
und
nach
dem
er
regiret,
heisst
er
nicht
ein
Christ
sondern
ein
Fürst...
Denn
nach
dem
er
ein
Christ
ist,
leret
ihn
das
Euangelium
das
er
nieman
sol
leid
thun,
nicht
straffen
noch
reden,
sondern
idermann
vergeben,
und
was
im
leid
odder
unrecht
geschicht
sol
er
leiden.
Das
ist
(sag
ich)
eines
82
Christen
lectio,
Aber
das
würde
nicht
ein
gut
regiment
machen,
wenn
du
dem
Fürsten
woltest
also
predigen,
Sondern
so
mus
er
sagen:
Meinem
Christenstand
lasse
ich
gehen
zwischen
Gott
und
mir...
Aber
über
odder
neben
dem
habe
ich
inn
der
welt
einen
andern
stand
odder
ampt:
das
ich
ein
Furst
bin"
(Wochenpredigten
über
Matt.
5-‐7,
1530/2,
Druck
1532,
WA
32:440).
Nostra
traduzione.
(44)
Cf.
CONGAR,
Y.,
Martin
Luther,
Sa
foi,
sa
Réforme,
"Cogitatio
Fidei"
119,
Cerf,
Paris,
1983:105-‐
133.
(45)
"Le
protestantisme
a
une
attitude
ambivalente
à
l'égard
de
la
nature.
D'une
part,
il
la
récuse
en
tant
que
source
de
la
normativité
éthique.
A
la
différence
de
la
morale
catholique
qui,
suivant
en
cela
l'enseignement
d'Aristote
et
Thomas
d'Aquin,
se
fonde
sur
la
permanence
et
l'universalité
de
la
loi
naturelle,
la
théologie
protestante
ne
croit
pas
qu'on
puisse
tirer
de
la
connaissance
des
lois
de
fonctionnement
de
la
nature
(définie
ici
comme
l'ensemble
des
êtres
vivants)
des
normes
pour
une
éthique.
Ce
que
‘fait'
la
nature
n'est
ni
bon
ni
mauvais,
c'est
l'homme
qui
est
appelé
à
en
juger
à
partir
d'autres
critères
qui
engagent
sa
liberté.
De
même,
si
l'on
parle
de
la
nature
pour
désigner
l'ensemble
des
conditions
objectives
qui
déterminent
l'existence
humaine
(être
un
corps
sexué
mortel),
on
décrit
un
ordre
de
réalité
qui
n'implique
ne
soi
aucune
obligation
morale.
Même
si
la
morale
doit
évidemment
prendre
en
charge
cette
réalité
sous
peine
de
succomber
à
un
idéalisme
trompeur"
(FUCHS,
E.,
art.
Nature,
in
:
Encyclopédie
du
protestantisme,
GISEL,
P.,
directeur
d'édition,
Cerf
-‐
Labor
et
Fides,
Paris
-‐
Genève,
1995:1066).
Nostra
traduzione.
(46)
"D'autre
part,
en
tant
qu'elle
est
l'expression
de
la
création
bonne
de
Dieu,
offerte
à
la
jouissance
de
l'homme,
la
nature
a
été
plus
qu'ailleurs
exaltée
dans
les
pays
de
tradition
protestante.
Et
ce,
aussi
bien
par
Calvin
que
par
Rousseau.
Car
si
le
péché
affecte
gravement
tout
œuvre
humaine,
la
nature
reste
la
trace
visible
de
la
bonté
de
l'œuvre
de
Dieu.
C'est
pourquoi
on
peut
s'en
émerveiller
et
ressentir
à
sa
fréquentation
un
sentiment
religieux.
C'est
ainsi
qu'un
des
rares
objets
de
piété
qu'on
trouve
souvent
dans
les
familles
protestantes
est
un
tableau
ou
une
photographie
d'un
beau
paysage,
sous-‐titré
d'un
texte
biblique,
dont
le
sens
est
souvent
sans
rapport
avec
l'image,
mais
qui
rappelle
que
dans
la
sensibilité
populaire
protestante
l'admiration
de
la
nature
et
la
foi
en
Dieu
vont
volontiers
de
pair"
(Encyclopédie
du
protestantisme:1066).
Nostra
traduzione.
83
MARTIN
RHONHEIMER
LA
LEGGE
MORALE
NATURALE:
CONOSCENZA
MORALE
E
CONSCIENZA.
LA
STRUTTURA
COGNITIVA
DELLA
LEGGE
NATURALE
E
LA
VERITÀ
DELLA
SOGGETTIVITÀ
LA
"FALLACIA
DUALISTA"
ED
IL
CARATTERE
ESSENZIALMENTE
COGNITIVO
DELLA
LEGGE
NATURALE
Una
reminiscenza
storica:
la
dicotomia
"natura-‐ragione"
Nel
libro
Lex
naturae,
pubblicato
circa
mezzo
secolo
fa
e
diventato
prima
del
Concilio
Vaticano
II
opera
di
riferimento
obbligatorio,
il
teologo
morale
Josef
Fuchs
raccolse
le
formulazioni
del
Magistero
ecclesiastico
sulla
legge
morale
naturale.(1)
L'autore
ritenne
di
rintracciare
nei
documenti
del
Magistero
"due
categorie"
di
formulazioni
della
legge
naturale.
Una
prima
categoria
fa
riferimento
al
"fondamento
ontologico"
della
legge
naturale,
alla
"natura
delle
cose":
queste
formulazioni
identificano
la
legge
naturale
con
"la
natura
corporeo-‐spirituale
dell'uomo"
e
quindi
la
intendono
come
natura,
norma
per
l'agire
umano.
La
legge
naturale
è
perciò
equiparata
ad
un
ordine
normativo,
insito
nella
natura
delle
cose.
Una
seconda
categoria
di
formulazioni
fa
riferimento
a
ciò
che
Fuchs
chiama
"l'aspetto
noetico
della
legge
naturale,
il
suo
esser
scritta
nel
cuore,
la
sua
riconoscibilità
naturale
da
parte
dell'uomo"
(2)
.
Con
questa
classificazione,
Fuchs
riprese
un'opinione
diffusa
in
vasti
settori
della
teologia
e
della
filosofia
neoscolastica
del
tempo,
che
influenzò
anche
il
linguaggio
di
molti
documenti
del
Magistero.
Ossia,
la
"legge
naturale"
sarebbe
un
ordine
della
natura
che
l'uomo
può
conoscere
e
che,
una
volta
conosciuto,
si
impone
immediatamente
come
norma
dell'agire
morale.
(3)
Tale
schema,
in
effetti,
è
dualistico,
si
basa
sulla
dicotomia
tra
"natura"/"ordine
naturale"
(aspetto
"oggettivo")
e
"ragione"/"conoscenza
morale"
(aspetto
"soggettivo").
La
legge
naturale
riguarda
la
natura,
mentre
spetta
alla
ragione
leggere
l'ordine
morale
insito
nella
natura
e
seguirlo
attraverso
il
libero
arbitrio;
ne
deriverebbe
quindi
che
la
legge
naturale
"è
scritta
nel
cuore
dell'uomo"
unicamente
in
quanto
ordine
naturale
normativo
oggettivo
conosciutosoggettivamente
ed
applicato
all'agire.
Secondo
questa
concezione,
ciò
che
sarebbe
"scritto
nel
cuore
dell'uomo"
non
è
la
legge
naturale
in
senso
oggettivo,
ma
solo
la
conoscenza
soggettiva
di
questa
legge.
La
legge
naturale
sarebbe
invece
un
codice
di
norme
morali,
trovato
nella
natura
come
"oggetto"
di
conoscenza,
nel
suo
essere
"legge",
però,
indipendente
da
ogni
atto
cognitivo
dell'uomo.
Questa
posizione
si
basa
su
ciò
che
definirei
la
"fallacia
dualista".
Ritengo
che
parlare
della
legge
naturale
in
questi
termini
non
sia
in
linea
con
la
tradizione
della
dottrina
sulla
lex
naturalis,
di
cui
San
Tommaso
d'Aquino
non
solo
è
un
testimone
privilegiato,
ma
è
forse
il
più
consapevole
ed
originale
continuatore.
Per
questa
tradizione,
la
legge
naturale
non
era
semplicemente
un
"ordine
naturale",
oggetto
della
conoscenza
del
soggetto
che
solo
attraverso
questa
conoscenza
diventerebbe
qualcosa
di
"scritto
nel
cuore"
dell'uomo,
ma
un
modo
particolare
di
conoscenza
morale
-‐
cioè
una
conoscenza
naturale
del
bene
e
del
male
-‐.
Secondo
questa
tradizione,
la
legge
naturale
avrebbe
quindi
un
carattere
essenzialmente
cognitivo:
è
"scritta
nel
cuore
dell'uomo",
non
solo
come
"qualcosa
di
conosciuto",
ma
in
quanto
la
stessa
apertura
intellettiva
del
soggetto
umano
al
bene
morale
è
per
gli
atti
umani
una
"legge";
e,
poiché
quest'apertura
si
sviluppa
in
modo
naturale,
può
essere
definita
una
legge
naturale.
Sant'Ambrogio,
circa
mille
anni
prima
di
84
San
Tommaso,
parafrasando
il
celebre
passaggio
della
lettera
di
San
Paolo
ai
Romani
(2,
14
ss),
chiama
la
legge
naturale
la
"parola
di
Dio"
iscritto
nel
nostro
cuore,
e
aggiunge:
"opiniones
queaedam
nobis
boni
et
mali
pullulaverunt,
dum
id
quod
malum
est
naturaliter
intellegimus
esse
vitandum
et
id
quod
bonum
est
naturaliter
nobis
intellegimus
esse
praeceptum":
"per
questo
sono
germogliate
in
noi
le
idee
del
bene
e
del
male,
mentre
comprendiamo
per
natura
che
ciò
che
è
male
va
evitato,
e
parimenti
per
natura
sappiamo
che
ci
è
stato
prescritto
ciò
che
è
bene"
(4)
.
La
legge
naturale
è
questa
conoscenza
pratica
e,
perciò,
normativa
del
bene
e
del
male
morale
(5)
.
Così
intesa,
la
legge
naturale
sta
dalla
parte
del
soggetto
e,
perciò,
è
veramente
"soggettiva".
La
sua
oggettività
-‐
e
quindi
l'oggettività
delle
norme
morali
fondate
su
di
essa
-‐
è
data
dal
fatto
che
in
questa
conoscenza
naturale
del
bene
umano
si
manifesta
la
verità
della
soggettività.
Come
vedremo
più
in
particolare,
la
legge
naturale
è
il
principio
intrinseco
di
verità
della
ragion
pratica.
Nella
comunicazione
quotidiana
e
nel
linguaggio
pastorale,
il
più
delle
volte,
è
sufficiente
e
persino
utile
esprimersi
nei
termini
dello
schema
dualistico.
Lo
schema
può
bastare
anche
per
difendere
un
diritto
naturale,
ossia
il
principio
che
alla
base
di
qualsiasi
norma
giuridica
positiva
vi
è
un
ordine
normativo
oggettivo
del
bene
e
del
giusto;
ed
inoltre,
per
affermare
che
per
la
soggettività
-‐
per
la
conoscenza
morale
del
soggetto
agente-‐
vi
è
una
regola
oggettiva
di
verità
che
non
si
identifica
con
ciò
che
il
soggetto
di
fatto
ritiene
vero
e
buono.
In
quest'ultimo
senso,
la
legge
naturale
è
la
norma
morale
che
stabilisce
la
verità
della
soggettività,
in
modo
che
non
debba
affermare
come
veramente
buono
ciò
che
è
buono
solo
secondo
le
apparenze.
Lo
schema
dualistico
rischia
però
di
travisare
il
discorso
sulla
legge
naturale
e
sulle
conseguenze
etico-‐normative,
fino
a
renderlo
non
intelligibile
e
razionalmente
poco
convincente.
La
contrapposizione
tra
"natura"
("ordine
naturale")oggettiva
e
"ragione"
("conoscenza
morale")
soggettiva,
favorisce
un'interpretazione
"fisicista"
della
legge
naturale
che
viene
identificata
con
strutture
e
finalità
meramente
naturali,
alle
quali
è
attribuita
immediatamente
una
normatività
morale
Un'alternativa:
l'antropologia
dell'unità
essenziale
fra
"natura"
e
"ragione"
La
fallacia
dualista
porta
a
nascondere
che
anche
la
ragione,
quale
facoltà
conoscitiva,
e
quindi
la
stessa
soggettività
dell'agente
morale,
fa
parte
di
ciò
che
chiamiamo
"natura
dell'uomo".
Sono
proprio
gli
atti
intellettivi,
di
cui
la
ragione
è
la
parte
discorsiva,
che
aprono
il
soggetto
umano
all'intelligenza
del
bene
secondo
la
verità
del
suo
"essere
persona"
-‐
unità
corporeo-‐spirituale
-‐,
bene
che
si
rivela
come
"bene
della
persona"
solo
rispetto
alla
conoscenza
intellettiva.
Questo
bene
non
è
puro
"oggetto"
che,
come
puro
"dato
naturale",
starebbe
dinanzi
al
soggetto
che
conosce,
ma
è
anche
parte
del
soggetto
che
conosce,
in
quanto
è
manifestato
e,
in
un
certo
senso,
costituito
nella
sua
intelligibilità
negli
atti
cognitivi.
Questo,
mi
sembra,
sia
un
dato
antropologico
e
metafisico
particolarmente
decisivo
per
una
corretta
fondazione
della
filosofia
morale:
non
è
pensabile
un
concetto
di
"natura
dell'uomo"
senza
la
parte
intellettiva
ed
i
relativi
atti
dell'intelletto
e
della
ragione.
Come
ho
illustrato
altrove
più
in
dettaglio(6)
,
l'agire,
secondo
San
Tommaso,
segue
sempre
e
manifesta
l'essere
di
ogni
cosa
(agere
sequitur
esse);
ma
allo
stesso
tempo
l'essere
delle
cose,
cioè
la
loro
essenza
o
natura,
di
cui
gli
atti
sono
la
conseguenza,
non
ci
è
nota;
la
conosciamo
conoscendo
le
facoltà
di
ogni
natura;
conosciamo
le
facoltà
attraverso
i
loro
atti,
gli
atti
però
attraverso
i
loro
oggetti.
(7)
L'oggetto
della
libertà
umana
-‐
che
è
nella
ragione
e
nella
volontà
come
appetitus
in
ratione
-‐
è
proprio
il
bene
nelle
sue
molteplici
manifestazioni.
Perciò,
per
conoscere
la
natura
dell'uomo
dobbiamo
prima
conoscere,
per
quanto
possa
sembrare
paradossale,
il
bene
specificamente
umano.
Questo,
in
linea
di
principio,
è
vero
anche
per
gli
animali
non
razionali;
ma
in
questo
caso
possiamo
conoscere
il
loro
bene
solo
attraverso
l'osservazione
del
loro
comportamento,
cioè
di
alcune
regolarità
e
normalità
tipiche.
85
Nell'uomo,
che
agisce
con
libertà,
ciò
che
avviene
regolarmente
e
con
"normalità"
non
è
però
un
criterio
per
stabilirne
il
bene.
L'uomo
agisce
in
base
alla
ragione
e
quindi
con
libertà,
perché
la
ragione
è
"aperta
a
molte
cose"
e
può
avere
"diverse
concezioni
del
bene",
anche
false.(8)
Di
qui
il
problema
dell'etica.
L'etica
non
è
una
filosofia
della
natura,
non
descrive
un
comportamento
regolare
e,
perciò,
naturale.(9)
La
natura
umana,
che
stiamo
cercando
di
porre
a
fondamento
dell'agire
umano
e
la
cui
espressione
è
il
bene
morale,
la
possiamo
trovare
solo
se
già
conosciamo
il
bene
umano.
La
conoscenza
della
natura
umana
non
è
il
punto
di
partenza
dell'etica,
e
tanto
meno
della
ragion
pratica
di
ogni
soggetto
agente,
ma
il
suo
risultato.
Dobbiamo
già
conoscere
il
bene
umano
per
interpretare
rettamente
la
"natura"
ed
arrivare
così
al
concetto
di
natura
umana,
pieno
di
contenuto
normativo.
Conosciamo,
infatti,
il
bene
umano
attraverso
la
legge
naturale
intesa
come
principio
conoscitivo,
ossia
come
conoscenza
morale.
Il
bene
umano,
perciò,
non
è
un
oggetto
"dato"
agli
atti
intellettivi;
la
natura
dell'intelletto
-‐
avendo
origine
dall'anima
spirituale
che
è
forma
sostanziale
e
perciò
principio
di
vita
della
sua
corporeità
-‐
fa
sì
che
solo
negli
atti
intellettivi
sia
stabilito
ed
enunciato
ciò
che
per
l'uomo
è
veramente
buono.
Il
bene
umano
e
morale
è
essenzialmente
un
bonum
rationis:
un
bene
della
ragione,
per
la
ragione,
formulato
dallaragione.(10)
Solo
alla
luce
di
questo
bene,
come
appare
per
gli
atti
intellettivi
dell'anima,
la
"natura
umana"
si
rivela
nel
suo
significato
normativo.
Perciò,
anche
se
può
sembrare
paradossale,
la
conoscenza
del
bene
umano
precede
la
retta
intelligenza
della
natura
umana;
non
può
rivelarne
il
carattere
normativo
prima
che
tutto
ciò
che
è
naturale
nell'uomo
sia
stato
interpretato
alla
luce
di
quel
bene
che
è
oggetto
degli
atti
dell'intelletto,
dell'intelletto
pratico,
non
speculativo,
da
cui
emana
la
legge
naturale.
Di
conseguenza,
non
è
opportuno
in
filosofia
morale,
e
tanto
meno
in
un
discorso
sulla
"legge
naturale",
considerare
la
ragione
umana
come
la
facoltà
"che
conosce"
contrapposta
ad
una
natura
come
"ciò
che
si
conosce".
Questo
schema
è
troppo
semplicistico,
come
le
teorie
neoscolastiche
che
semplificano
il
concetto
di
legge
naturale
e
ne
offuscano
la
vera
natura.(11)
Occorre
riscoprire
la
ragione
umana
anche
in
quanto
"natura",
cioè
la
ragione
che
naturalmente
(naturaliter)
conosce
il
bene
da
compiere
ed
il
male
da
evitare.
LA
PROSPETTIVA
DI
SAN
TOMMASO
D'AQUINO:
OLTRE
LA
FALLACIA
DUALISTA
Un
testo
a
lungo
dimenticato
È
sintomatico
che
Fuchs,
nel
libro
citato,
non
consideri
un
testo
del
Magistero
sulla
legge
naturale,
che
mi
sembra
sia
l'unico
in
cui
la
nozione
di
legge
naturale
è
tema
dell'insegnamento
papale
e
non
serve
solo
ad
esporre
un
determinato
tema
di
morale.
Si
tratta
dell'enciclica
Libertas
praestantissimum
di
Leone
XIII,
in
cui
è
esposta
in
sintesi
la
dottrina
sulla
legge
naturale,
nel
contesto
più
ampio
dell'insegnamento
sulla
libertà
umana
e
sulla
legge
morale.(12)
Fuchs
cita
questo
testo
in
modo
incompleto,
senza
attribuirgli
particolare
importanza
e,
a
quanto
sembra,
senza
afferrarne
il
profondo
significato:
non
riuscì
ad
attribuirlo
a
nessuna
delle
due
"categorie"
del
suo
schema.
È
però
da
rilevare
che
il
testo
non
è
stato
ripreso
in
nessun
documento
successivo
del
Magistero!
Si
è
dovuto
attendere
l'enciclica
Veritatis
splendor
di
Giovanni
Paolo
II
del
1993,
per
trovarlo
di
nuovo
citato
e
messo
in
rilievo
in
un
documento
del
Magistero,
insieme
ad
un
altro
testo
importante
di
San
Tommaso
sulla
legge
naturale.
Secondo
la
dottrina
di
San
Tommaso
d'Aquino,
mirabilmente
sintetizzata
nell'enciclica
leoniana,
il
concetto
di
legge
naturale
sfugge
alla
predetta
alternativa
alquanto
semplicistica.
Per
San
Tommaso
la
legge
naturale
riguarda
sia
il
soggetto
che
conosce
sia
l'oggettività
della
verità
della
"natura".
Secondo
questa
concezione,
la
legge
naturale
è,
innanzitutto,
per
l'uomo
la
forma
86
naturale
di
conoscere
in
modo
pratico
e
imperativo
il
bene
umano
secondo
verità,
una
conoscenza
che
manifesta
l'ordine
morale
che
di
solito
chiamiamo
"ordine
naturale".
La
legge
naturale,
una
praescriptio
rationis
Il
testo
di
Leone
XIII,
ripreso
nel
n.
44
della
Veritatis
splendor,
afferma
innanzitutto
che
la
legge
naturale
"è
scritta
e
scolpita
nell'animo
di
tutti
e
di
ciascun
uomo,
poiché
essa
non
è
altro
che
la
stessa
ragione
umana
che
ci
comanda
di
fare
il
bene
e
ci
intima
di
non
peccare."
Queste
parole
sono
una
definizione
formale
o
essenziale
della
legge
naturale:
non
è
"la
natura
umana"
o
un
"ordine
della
natura";
neppure
è
una
norma
insita
nella
natura
delle
cose,
ma
qualcosa
di
"scritto
e
scolpito
nell'animo
di
tutti
e
di
ciascun
uomo".
È
"la
stessa
ragione
umana"
che
comanda
di
fare
il
bene
e
vieta
di
peccare.
La
legge
naturale,
quindi,
è
proprio
la
ragione
pratica,
più
esattamente,
l'insieme
di
determinati
giudizi
della
ragione
pratica,
quei
giudizi,
cioè,
che
naturalmente
ci
fanno
fare
il
bene
e
fuggire
il
male.
Perciò,
nella
frase
seguente,
il
testo
leoniano
definisce
la
legge
naturale
come
praescriptio
rationis,
una
"prescrizione
della
ragione",
termine
vicino,
se
non
identico,
alla
terminologia
di
San
Tommaso
per
il
quale
la
legge
naturale,
come
ogni
legge,
è
una
ordinatio
rationis(13).
La
legge
naturale
ha
quindi
carattere
di
una
"legge".
Non
è
una
legge
nel
senso
delle
leggi
fisiche
o
naturali
della
scienza
moderna.
Questo
modo
di
parlare
di
"leggi
naturali"
come
di
regolarità,
di
finalizzazione
e
di
strutture
naturali,
conoscibili
da
parte
dell'uomo
e,
poi,
praticamente
applicabili,
è
un
uso
derivato
ed
improprio
del
termine
"legge",
che,
pur
avendo
radici
nel
pensiero
stoico,
è
nato
con
la
scienza
moderna.
Quando
Keplero
parla
delle
"leges
celeritatis
et
tarditatis"
della
terra
e
Newton
formula
le
"leges
motus",
non
parlano
di
un
principio
razionale
che
ordina
degli
atti,
ma
di
strutture
e
di
regolarità
che
sono,
appunto,
natura.
Tali
"leggi"
in
quanto
sono
natura,
sono
un
effetto
della
ragione
ordinatrice
del
Creatore,
ma,
considerate
in
sé,
restano
una
struttura
naturale
semplice
oggetto
di
conoscenza
speculativa.(14)
Sarebbe
anacronistico
voler
interpretare
testi
sulla
legge
naturale,
come
quelli
di
San
Tommaso,
con
l'ottica
delle
scienze
naturali
moderne.(15)
Quando
San
Tommaso
parla
di
"legge",
ne
parla
in
senso
giuridico-‐politico,
in
analogia
con
le
leggi
umane,
con
la
legge
divina
e
con
la
legge
eterna,
che
è
la
ragione
ordinatrice
di
Dio.
Perciò,
la
"legge"
è
una
ordinatio
rationis
o
prescrizione
razionale,
cioè
un
atto
imperativo
della
ragione
che
dirige,
in
un
determinato
ambito,
gli
atti
umani
al
loro
fine
che
è
sempre
un
bene
concreto.(16)
La
"natura",
in
quanto
natura,
non
ha
carattere
di
legge.
"Legge"
è
semprealiquid
pertinens
ad
rationem(17):
le
leggi
possono
essere
stabilite
dalla
ragione
eterna
di
Dio,
dalla
ragione
di
un
legislatore
umano,
ma
anche
naturalmente
dalla
ragione
naturale
di
ogni
singolo
uomo
che
conosce,
in
modo
naturale
e
normativo
-‐
cioè
pratico
-‐
il
bene
da
compiere
ed
il
male
da
evitare,
ordinando
così
il
suo
agire
al
fine
dovuto.
Per
San
Tommaso,
perciò,
il
primo
principio
della
ragion
pratica
e
il
primo
precetto
della
legge
naturale
sono
la
stessa
cosa:bonum
est
faciendum
et
prosequendum
et
malum
vitandum(18).
Il
carattere
formalmente
razionale
e
conoscitivo
della
legge
naturale
è
confermato
da
un
testo
di
San
Tommaso,
citato
due
volte
nell'enciclica
Veritatis
splendor
(nn.
12
e
40),
per
il
quale
la
legge
naturale
"non
è
altro
che
la
luce
dell'intelligenza
infusa
in
noi
da
Dio.
Grazie
ad
essa
conosciamo
ciò
che
si
deve
compiere
e
ciò
che
si
deve
evitare"(19).
Questa
espressione
spiega
in
modo
categorico
e
chiaro
il
carattere
razionale
e
conoscitivo
della
legge
naturale.
Come
ogni
legge,
anche
la
legge
naturale
è,
come
dirà
San
Tommaso
nella
Summa
Theologiae,
"qualcosa
di
costituito
dalla
ragione"
(aliquid
a
ratione
constitutum(20))
e
un'
"opera
della
ragione"
(opus
rationis(21)).
La
legge
naturale,
infatti,
procede
dalla
luce
dell'intelletto
che
Dio
ha
dato
all'uomo
al
momento
della
sua
creazione.
La
legge
naturale
è
un
insieme
di
atti
conoscitivi
che
ci
fanno
percepire,
in
modo
imperativo,
cioè
pratico,
il
bene
da
compiere
ed
il
male
da
evitare.
Questa
legge
si
chiama
legge
naturale
"perché
la
ragione
che
la
promulga
è
propria
della
natura
87
umana"(22),
allo
stesso
modo
in
cui
è
proprio
della
natura
umana
l'intelletto
che
il
Creatore
ha
dato
all'uomo.
È
una
legge
che
l'uomo
attraverso
i
suoi
atti
intellettivi
stabilisce,
formula
o
promulga
naturalmente(23).
La
legge
naturale
come
"partecipazione
nella
creatura
razionale
della
legge
eterna
"
La
seconda
affermazione
del
testo
leoniano,
citato
dalla
Veritatis
splendor
è:
"Ma
tale
prescrizione
della
ragione
umana
non
potrebbe
aver
forza
di
legge,
se
non
fosse
la
voce
e
l'interprete
di
una
ragione
più
alta,
a
cui
il
nostro
spirito
e
la
nostra
libertà
devono
essere
sottomessi".
L'enciclica
Veritatis
splendor
continua,
parafrasando
il
testo
leoniano:
"Infatti,
la
forza
della
legge
risiede
nella
sua
autorità
di
imporre
dei
doveri,
di
conferire
dei
diritti
e
di
dare
la
sanzione
a
certi
comportamenti."
Quindi
citando
il
testo
leoniano:
"Ora
tutto
ciò
non
potrebbe
esistere
nell'uomo,
se
fosse
egli
stesso
a
darsi,
quale
legislatore
supremo,
la
norma
delle
sue
azioni."
Si
dice,
quindi,
che
questi
atti
prescrittivi
della
ragione
umana
hanno
il
carattere
e
la
forza
di
una
legge:
impongono
doveri
e
conferiscono
diritti,
e
sanzionano
determinati
comportamenti.
La
ragione
ha
tale
autorità
perché
è
la
voce
di
un'autorità
più
alta,
dalla
quale
dipende
e
alla
quale
è
sottomessa.
L'affermazione
è
importante
perché
stabilisce
la
sottomissione
della
ragione
umana
a
quella
del
suo
Creatore,
ma
anche
perché
rinvia
la
ragione
umana
a
fondare
la
sua
normatività
non
tanto
sulla
"natura"
o
su
un
"ordine
naturale",
ma
sulla
ragione
divina!
Quest'ultima
è
la
legge
eterna
che
è
la
ratio
della
sapienza
divina,
che
guida
tutti
gli
atti
ed
i
movimenti(24),
ordinando
le
cose
al
fine
dovuto(25).
Nella
legge
naturale
si
manifesta,
in
modo
naturale,
la
provvidenza
di
Dio:
Dio
insegna
all'uomo
in
modo
imperativo,
a
modo
di
legge
cioè,
mediante
i
suoi
atti
conoscitivi
proprii,
il
vero
bene.
La
terza
asserzione
del
testo
leoniano
conferma
quanto
detto:
"Ne
consegue
che
la
legge
naturale
è
la
stessa
legge
eterna,
insita
negli
esseri
dotati
di
ragione,
che
li
inclina
all'atto
e
al
fine
che
loro
convengono;
essa
è
la
stessa
ragione
eterna
del
Creatore
e
governatore
dell'universo."
La
ragione
umana,
dunque,
in
quanto
legge
naturale,
rinvia
non
alla
natura,
ma
a
Dio.
È
importante
non
fraintendere
quest'affermazione.
Per
conoscere
il
bene
la
ragione
umana
non
ha
bisogno
di
essere
istruita
da
Dio,
nel
senso
di
una
rivelazione
che
si
debba
aggiungere
a
ciò
che
la
ragione
umana
è
capace
di
conoscere.
Il
testo
citato
asserisce
il
contrario,
la
legge
naturale
è
la
stessa
legge
eterna:
la
legge
eterna
di
Dio
si
manifesta
nella
legge
naturale
e,
proprio
con
questa,
raggiunge
il
suo
scopo
di
dirigere
l'agire
umano
al
fine
dovuto.
La
legge
eterna
è
dunque
conosciuta
nella
misura
in
cui
la
legge
naturale
si
realizza
e
diventa
efficace,
cioè
mediante
la
ragione
naturale
dell'uomo.
In
altre
parole:
la
legge
naturale
è
una
partecipazione
della
legge
eterna,
ne
costituisce
il
possesso
in
modo
conoscitivo
ed
attivo.
"Teonomia
partecipata":
il
compito
normativo
della
ragione
umana
La
ragion
pratica,
in
quanto
legge
naturale
e
in
quanto
procede
da
essa,
è
realmente
guida
normativa
dell'agire,
impone
doveri
e
formula
diritti.
L'uomo
ha
una
vera
autonomia,
perché
la
sua
autonomia
è
"teonomia
partecipata":
partecipazione
ed
autopossesso
della
legge
eterna(26).
San
Tommaso
lo
esprime
in
celebri
formule:
"la
legge
naturale
non
è
altro
che
la
partecipazione
della
legge
eterna
nella
creatura
razionale"(27);
l'uomo,
"attraverso
la
sua
ragione,
partecipa
alla
provvidenza
divina,
provvedendo
per
sé
e
per
gli
altri"(28),
la
legge
eterna,
a
prescindere
da
una
rivelazione
supplementare,
sempre
possibile,
è
rivelata
proprio
attraverso
la
legge
naturale,
cioè
attraverso
la
"ragione
naturale",
che
dalla
legge
eterna
"deriva
come
la
sua
propria
immagine"(29).
Nella
logica
di
San
Tommaso,
questi
testi,
in
particolare
il
più
noto
secondo
cui
la
legge
naturale
è
la
partecipazione
della
legge
eterna
nella
creatura
razionale,
non
pretendono
di
affermare
il
carattere
teonomico
della
legge
naturale,
ma
piuttosto
di
fondare
il
carattere
normativo
della
ragione
umana,poiché
questa
non
è
che
una
"impronta
del
lume
divino
in
noi"
attraverso
cui
possiamo
discernere
il
bene
dal
male;
il
che
è
proprio
ciò
che
fa
la
legge
naturale.(30)
88
Queste
precisazioni
sono
importanti
perché
il
rinvio
alla
legge
eterna,
cioè
l'affermazione
della
sottomissione
ad
una
sapienza
superiore
degli
atti
prescrittivi
della
ragione
umana,
chiamati
"legge
naturale",
non
limita
in
alcun
modo
il
compito
normativo
della
ragion
pratica
della
persona
umana
e
neppure
porta
a
credere
che
per
conoscere
il
bene
umano
è
necessario
ogni
volta
un
esplicito
riferimento
a
Dio.
È
proprio,
infatti,
della
natura
della
ragion
pratica
comandare
e
muovere.
La
ragion
pratica
è
principio
di
prassi
e
muove
l'agente
a
perseguire
o
ad
evitare
ciò
che
ritiene
buono
o
cattivo.
Questo
non
significa
che
la
ragione
umana
è
capace
solo
di
conoscere
le
relazioni
di
adeguatezza
in
modo
indicativo,
ma
non
ancora
imperativo,
dovendo,
invece,
per
diventare
normativa
e
pratica
ricorrere
in
aggiunta
alla
conoscenza
di
Dio
come
autore
di
questo
ordine
di
bene,
e
perciò
come
legislatore
(tesi
sostenuta
all'inizio
del
XVII
secolo
da
Francisco
Suárez(31)).
La
natura
umana
è
già
in
sé
costituita
in
modo
che
la
ragione,
in
quanto
mossa
dalla
volontà
ed
inserita
nel
dinamismo
appettivo
delle
inclinazioni
naturali,
realmente
muove
alla
prassi
e
al
bene.
L'esplicita
conoscenza
del
carattere
partecipato
della
mozione
intellettiva
verso
il
bene
conosciuto
-‐
la
conoscenza,
cioè,
della
sottomissione
della
ragione
umana
a
quella
del
suo
Creatore
-‐
non
è
necessaria
per
spiegare
l'esistenza
della
consapevolezza
di
una
vera
e
propria
obbligatorietà
del
bene
conosciuto.
Essendo,
infatti,
il
"bene"
qualcosa
di
"vero"
-‐
altrimenti
non
sarebbe
intelligibile
-‐,
il
vero
e
il
bene
si
includono
reciprocamente.
I
giudizi
della
ragion
pratica
hanno
come
oggetto
il
bene
relativo
all'agire
sotto
l'aspetto
della
sua
verità.
Anche
l'intelletto
pratico,
come
quello
speculativo,
conosce
la
verità.(32)
Il
bene
conosciuto
è
quindi
una
"verità
pratica"(33).
La
verità
però
s'impone
alla
coscienza
per
il
suo
"essere
vero".
Il
bene
conosciuto
dalla
ragione
obbliga,
quindi,
il
soggetto
che
conosce
allo
stesso
modo
in
cui
la
verità
conosciuta
esige
assenso.
Inoltre,
il
giudizio
della
ragion
pratica
ha
il
carattere
di
un
comando
che
include
in
sé
lavis
obligandi(34).
L'esplicita
conoscenza
della
natura
partecipata
della
legge
naturale
e
dell'ordine
morale
da
essa
stabilito
non
fonda
il
carattere
pratico
e
imperativo
della
ragione
umana,
ma
lo
arricchisce
sì
da
essere
riconosciuta
come
verità
pratica
che
proviene
da
una
fonte
trascendente,
superiore,
che,
in
determinate
circostanze
e
situazioni
limite,
può
essere
il
motivo
decisivo
per
sottomettersi
ai
dettami
della
legge
naturale.
L'esplicita
consapevolezza
della
"sottomissione
partecipativa"
della
ragione
umana
a
quella
divina
prepara
l'esperienza
morale
a
partecipare
anche
ad
un'esperienza
propriamente
religiosa,
esperienza
che
viene
annullata
dall'erronea
affermazione
di
una
assoluta
autonomia
dell'uomo.
La
conoscenza
del
carattere
partecipato
aggiunge
quindi
la
"ratio
legis"
propiamente
detta,
ossia
l'essere
subordinato
e
sottomesso
ad
una
legge
superiore
che
è
quella
di
Dio.
Anche
se
la
legge
naturale,
come
opera
della
ragion
pratica,
ha
il
carattere
di
una
"legge",
la
ratio
legis
non
è
esplicitamente
o
in
concomitanza
manifestata
nel
momento
in
cui
sono
applicati
i
giudizi
pratici
della
legge
naturale.
L'esperienza
morale
fondamentale
dell'uomo
non
è
quella
di
seguire
una
"legge",
ma
è
l'esperienza
della
verità
del
bene,
più
esattamente,
alla
luce
del
primo
principio
pratico,
l'esperienza
delbonum
faciendum,
del
"bene
da
fare".
Conoscendo
esplicitamente
il
carattere
partecipato
di
questi
giudizi
pratici,
l'uomo
è
in
grado
di
percepire
la
sua
autonomia
come
espressione
di
una
teonomia,
di
comprendere
il
bene
conosciuto
non
solo
come
"bene
da
compiere",
ma
anche
come
volontà
di
Dio(35).
San
Tommaso
su
questo
aspetto
della
legge
naturale,
dice
poco;
da
buon
aristotelico(36),
sottolinea
invece
la
natura
normativa
e
motrice
della
ragion
pratica,
che
perciò
è
capace
di
concretizzarsi
come
"legge
naturale".
In
tal
senso
Tommaso
afferma
che
nell'uomo
la
ragione,
che
è
il
principio
della
moralità,
è
in
relazione
al
suo
bene,
ciò
che
il
principe
ed
il
giudice
sono
per
lo
Stato.(37)
89
LA
LEGGE
NATURALE
COME
ORDINATIO
DELLA
RAGION
PRATICA
SECONDO
TOMMASO
D'AQUINO(38)
La
ragione
umana
nell'ambito
delle
inclinazioni
naturali
Per
salvare
l'idea
dell'identità
fra
legge
naturale
ed
"ordine
naturale
da
conoscere
ed
applicare"
si
potrebbe
sostenere
che
Dio
si
rivela
"nella
natura"
e
che
la
ragione
è
partecipazione
della
legge
eterna
di
Dio,
nella
misura
in
cui
conosce
e
fa
suo
un
ordine
insito
nella
natura.
Una
tale
concezione
della
legge
naturale
e
del
suo
rapporto
con
la
legge
eterna
è
nota
come
dottrina
stoica
ed
ha
influito
sulla
tradizione
del
diritto
naturale
pervenutoci
attraverso
il
diritto
romano.
Il
concetto,
tipico
per
la
Stoa,
che
la
legge
eterna
s'identifica
con
l'ordine
cosmico
e
che
perciò
è
decifrabile
attraverso
la
conoscenza
della
natura,
di
cui
l'uomo
è
una
parte,
apre
la
via
ad
una
nozione
di
legge
e
di
diritto
naturale
che
ha
avuto
grande
importanza
nella
tradizione
occidentale.
In
questa
tradizione
stoica
vi
è
una
parte
di
verità.
La
maggior
parte
dei
Padri
della
Chiesa,
influenzati
dallo
stoicismo,
pose
però
l'accento
sul
carattere
razionale,
intellettivo
e
conoscitivo
della
legge
naturale,
introducendo
nella
filosofia
stoica
una
significativa
trasformazione(39).
I
Padri
percepivano
la
natura
come
creazione
di
un
Dio
e
come
proveniente
da
una
legge
eterna
trascendenti
e
che
perciò
non
si
identificano
con
l'ordine
naturale.
Per
gli
stoici,
la
ratio
umana
non
è
partecipazione
ed
immagine
di
una
ratio
trascendente,
ma
di
un
logos
insito
nella
stessa
natura.
La
ratio
umana
diventa
così
un
riflesso
di
ciò
che
la
natura
già
contiene
come
inclinazioni
e
fini;
l'uomo,
nella
oikeiosis,
assimila
razionalmente
quest'ordine
naturale.(40)
Si
spiegano
le
celebri
espressioni
di
Cicerone,
che,
lette
in
un
contesto
post-‐stoico
e
persino
cristiano,
risultano
ambigue
o
almeno
insufficienti:
la
legge
sarebbe
"somma
ragione,
insita
nella
natura
che
ci
comanda
ciò
che
si
deve
fare
e
vieta
il
contrario"(41);
"legge
non
scritta,
ma
naturalmente
data
...
che
afferriamo,
cogliamo,
strappiamo
alla
natura"(42),
la
legge
naturale
sarebbe
la
"retta
ragione,
concordante
con
la
natura"(43).
Per
i
Padri
della
Chiesa,
la
imago
di
questo
Dio
nel
mondo
non
è
né
la
natura,
né
l'ordine
cosmico:
l'immagine
del
Creatore
è
presente
solo
nell'anima
spirituale
dell'uomo,
in
particolare
nel
suo
intelletto
e
perciò
anche
negli
atti
della
ragion
pratica.
La
ragion
pratica
non
riflette
semplicemente
"la
natura",
ma
essendo
partecipazione
attiva
dell'intelletto
divino,
illumina
la
natura,
rendendola
pienamente
intelligibile.
Si
spiegano
così
le
affermazioni
sulla
legge
naturale
come
quella
citata
di
Sant'Ambrogio,
che
concorda
con
la
nozione
tomista
di
legge
naturale
perché
ne
sottolinea
il
carattere
conoscitivo:
Id
quod
malum
est
naturaliter
intellegimus
esse
vitandum
et
quod
bonum
est
naturaliter
nobis
intellegimus
esse
praeceptum.
È
evidente
che
l'autore
concepisce
la
legge
naturale
come
modo
di
conoscenza
morale:
la
conoscenza
pratica
e
naturale
del
bene
e
del
male,
che
secondo
Ambrogio
è
"la
parola
di
Dio"
in
noi:
il
logos
divino,
non
lo
troviamo
né
nella
natura,
né
"su
tavole
di
pietra",
ma
"impresso
nei
nostri
cuori,
in
virtù
dello
Spirito
del
Dio
vivo.
Quindi
il
giudizio
della
nostra
coscienza
si
fa
legge
a
se
stessa"(44).
La
natura,
come
"ordine
naturale
dato"
e
"oggetto"
della
ragione,
rientra
nel
concetto
di
legge
naturale
in
un
altro
modo:
poiché
la
legge
naturale
è
il
modo
naturale
della
conoscenza
pratica
del
bene
umano,
sorge
il
problema
di
come
tale
conoscenza
pratica
naturale
del
bene
si
possa
realizzare.
È
necessario
tener
presente
che
l'uomo,
pur
avendo
una
facoltà
intellettiva,
non
è
il
suo
intelletto.
Analogamente,
gli
atti
teoretici
e
pratici
dell'intelletto
o
della
ragione
non
sono
compiuti
dalla
sola
potenza
intellettiva.
Actus
sunt
suppositi:
gli
atti
non
sono
delle
singole
facoltà,
ma
del
soggetto
concreto
nella
totalità
del
suo
essere.
Non
è
la
ragione
che
conosce,
ma
è
la
persona
nell'insieme
del
suo
essere
corporeo-‐spirituale
che
conosce
mediante
la
ragione.
L'uomo
è
un
insieme
di
tendenze
e
di
inclinazioni
vitali,
sensuali
e
spirituali.
La
"persona"
è
tutto
ciò.
90
L'uomo
è
"persona"
grazie
alla
sua
spiritualità;
ma
la
"persona"
è
il
tutto
formato
da
spirito
e
corpo
in
unità
sostanziale.
L'uomo
non
è
uno
spirito
incarnato,
poiché
non
appartiene
al
genere
degli
spiriti.
L'uomo
appartiene
al
genere
degli
animali,
prima
di
tutto
è
un
animal(45).
La
persona
è
essenzialmente
un
corpo
vivente,
animato
da
un'anima
spirituale
che
permette
al
corpo
vivente,
a
questo
animale,
di
realizzare
non
solo
atti
spirituali,
ma
tutti
gli
altri
atti
della
sua
animalità
impregnati
della
vita
dello
spirito
e
perciò
sotto
la
guida
della
ragione:
l'unità
sostanziale
di
corporeità-‐animalità
e
spiritualità
trasforma
il
senso
ed
il
contenuto
della
corporeità
e
della
animalità.
Conferiscono
all'essere
spirito
dell'uomo
il
carattere
specificamente
umano
e
mondano,
il
carattere
cioè
di
un'esistenza
spirituale
che
non
si
realizza
mai
al
margine
della
corporeità
e
della
animalità
naturale
dell'uomo
e
del
suo
ambiente
naturale
che
è
il
mondo,
ma
attraverso
di
esso.
Ciò
vale
per
gli
atti
dell'intelletto
speculativo,
che
non
sono
possibili
senza
corpo,
e
anche
per
quelli
dell'intelletto
pratico,
che
non
potrebbe
essere
pratico
e
muovere
all'agire
senza
le
inclinazioni
naturali.
Queste
funzioni
ed
inclinazioni
naturali,
in
particolare
quelle
dell'essere
corporeo
ed
animale
dell'uomo,
come
devono
essere
intese?
Indubbiamente,-‐
se
pensiamo
ad
esempio
alla
tendenza
a
conservare
se
stessi
o
all'inclinazione
sessuale
-‐
sono
ovviamente
pratiche,
cioè
spingono
l'agente
a
perseguire
il
bene
e
il
fine
loro
proprio
e
perciò
muovono
all'agire.
Ogni
inclinazione
naturale
ha
per
natura
un
bene
e
un
fine
proprio
(bonum
et
finis
proprium).
Rispetto
alla
loro
naturalità,
seguire
la
tendenza
a
conservare
se
stessi
o
l'inclinazione
sessuale
significa
anche
perseguire
il
bene
e
il
fine
dovutoall'uomo?
Al
momento
di
seguire
queste
inclinazioni
come
possiamo
sapere
non
solo
cosa
è
proprio
di
queste
inclinazioni
secondo
la
loro
natura
particolare,
ma
anche
ciò
che
è
dovuto
alla
persona,
cioè,
ciò
che
è
bene
per
l'uomo
in
quanto
uomo?(46)
Se
esaminiamo
la
struttura
ed
il
"funzionamento"
della
legge
naturale,
vedremo
come
la
legge
naturale
fa
parte
dell'ordine
della
natura,
lo
esprime
e
in
certo
senso
lo
costituisce.
Quest'ordine
naturale,
torniamo
a
ripeterlo,
non
è
però
una
entità
di
fronte
a
cui
l'uomo
sta
come
soggetto
conoscente
ed
agente;
ma
è
un
ordine
naturale
di
cui
fanno
parte
gli
stessi
atti
conoscitivi
naturali
-‐
atti
naturali
della
ragion
pratica
-‐.
Si
scopre
così
una
ragione
che
è
anch'essa
natura
("ratio
ut
natura");
perciò
la
legge
naturale
si
può
definire
una
legge
"interiore
all'uomo"
e
"scolpita
nella
sua
anima".
La
legge
naturale,
intesa
come
ragione
pratica
che
naturalmente
muove
al
bene,
come
si
può
dire
che
costituisce
l'ordine
morale?
Proprio
perché
il
lumen
rationis
naturalis,
di
cui
parla
San
Tommaso,
è
creato
ad
imaginem
della
ragione
divina(47).
Poiché
la
legge
naturale
è
partecipazione
della
legge
eterna
-‐
e,
nel
caso
della
creatura
razionale,
in
modo
attivo
-‐,
la
legge
naturale
può
essere
considerata
costituita
dalla
ragione
naturale,
così
come
tutto
l'ordine
del
bene
è
originariamente
costituito
dalla
ragione
divina,
che
è
la
legge
eterna(48).
La
partecipazione
si
mostra
non
solo
nella
sottomissione
alla
legge
eterna,
ma
anche
nella
partecipazione
alla
funzione
ordinatrice
della
legge
eterna
che
è
quella
dicostituire
l'ordine
morale,
anche
se
la
ragione
umana,
come
lume
conoscitivo
solo
partecipato
e
creato,
lo
fa
non
creando
la
verità,
ma
conoscendola
e
trovandola
nel
proprio
essere,
essenzialmente
costituito
dalle
inclinazioni
naturali.(49)
Un
testo
decisivo:
Summa
Theologiae
I-‐II,
q.
94
a.
2
Il
locus
classicus,
dove
San
Tommaso
espone
la
genesi
e
la
struttura
conoscitiva
della
legge
naturale,
è
il
noto
articolo
2
della
Quaestio
94
della
Prima
secundae.
San
Tommaso
afferma
che
:
(1)
la
legge
naturale
è
opera
della
ragion
pratica,
la
quale
ha
un
proprio
punto
di
partenza
e
non
deriva
i
suoi
princìpi
dalla
ragione
speculativa;
(2)
la
legge
naturale
è
una
conoscenza
pratica
e
precettiva
del
bene
umano
che
si
spiega
perché
la
ragione
umana
s'inquadra
nel
dinamismo
delle
inclinazioni
naturali;
91
(3)
colti
dalla
ragion
pratica,
i
beni
e
i
fini
delle
inclinazioni
naturali
sono
confermati
nel
loro
carattere
costitutivo
del
bene
umano;
allo
stesso
tempo,
sono
regolati
e
ordinati
dalla
ragione,
cioè
integrati
nell'insieme
dell'essere
corporeo-‐spirituale
della
persona,
e
quindi
anche
trasformati.
Solo
in
quanto
tali,
essi
fanno
parte
della
legge
naturale
e
sono
la
legge
naturale.
La
legge
naturale
è
opera
della
ragion
pratica,
la
quale
ha
il
proprio
punto
di
partenza
e
non
deriva
i
suoi
princìpi
dalla
ragione
speculativa(50)
I
precetti
della
legge
naturale,
afferma
l'Aquinate,
stanno
alla
ragion
pratica
come
i
primi
princìpi
dimostrativi
stanno
alla
ragione
speculativa
(o
teoretica).
I
precetti
della
legge
naturale
sono,
quindi,
dei
princìpi
-‐
princìpi
pratici
-‐,
perciò
non
derivati
da
altre
conoscenze.
I
princìpi
pratici
o
precetti
della
legge
naturale
non
sono
applicazioni
di
conoscenze
speculative
della
natura
umana;
ma
atti
in
cui
originariamente
si
manifesta,
razionalmente,
come
ordo
rationis,
l'ordine
naturale
del
bene
umano.
I
princìpi
pratici,
avendo
un
proprio
punto
di
partenza
non
derivato,
sono
immediatamente
intuiti
(altrimenti
non
sarebbero
dei
princìpi,
come
afferma
San
Tommaso).
Come
l'intelletto
speculativo
ha
il
suo
punto
di
partenza
nell'esperienza
dell'essere
e
nell'evidenza
della
antinomia
assoluta
fra
ente
e
non-‐ente,
e
perciò
può
formulare
il
primo
principio
di
non-‐contraddizione,
così
la
ragion
pratica,
in
modo
non
consecutivo
o
derivato
ma
parallelo,
parte
da
un'esperienza
originaria
ed
irriducibile
ad
altre
esperienze,
cioè
dall'esperienza
del
"bene"
come
correlato
e
contenuto
formale
di
ogni
tendere
(bonum
est
quod
omnia
appetunt).(51)
Da
ciò
deriva,
in
modo
immediato
e
non
dimostrabile,
il
primo
principio
della
ragion
pratica
che
è
anche
il
primo
precetto
della
legge
naturale:
bonum
est
faciendum
et
prosequendum,
et
malum
vitandum.
Come
il
principio
di
non
contraddizione
non
è
un
principio
a
parte,
da
cui
sarebbero
dedotte
altre
conoscenze,
ma
un
principio
fondante
implicito
in
ogni
altra
conoscenza
dell'essere,
così
dal
primo
principio
della
ragion
pratica
non
si
può
dedurre
nulla
di
più
concreto.
Esso
è
il
fondamento,
implicito
e
sempre
presente,
di
ogni
ulteriore
conoscenza
pratica
universale
e
particolare.
Tale
principio
conferisce
ai
giudizi
della
ragion
pratica
la
dinamica
operativa
della
prosecutio
oppure
della
fuga.
Questi
ultimi
sono
ciò
che
potremmo
chiamare
la
"copula
pratica"
che
non
è
l'affermazione
e
la
negazione
teoretica
("è",
"non
è"),
ma
un
tipo
di
affermazione/negazione
specificamente
pratico
che
muove
a
"fare
il
bene"
(affermazione)
e
a
"fuggire
il
male"
(negazione).
Il
primo
principio
della
ragion
pratica
non
è,
quindi,
un
principio
puramente
logico,
una
"struttura
logica"
dei
precetti
pratici,
ma
il
primo
principio
della
prassi
e,
al
tempo
stesso,
il
principio
primo
della
moralità(52).
Questo
primo
principio
della
ragion
pratica,
che
San
Tommaso
identifica
con
il
primo
precetto
della
legge
naturale,
costituisce
l'uomo
soggettopratico
e
soggetto
morale.
Parteciperanno
di
questa
duplice
funzione
anche
tutti
i
successivi
princìpi
formulati
dalla
ragion
pratica,
cioè
tutta
la
legge
naturale.
La
legge
naturale,
infatti,
ha
il
duplice
significato
di
essere
principio
della
prassi
e
principio
di
moralità.
La
legge
naturale,
nel
suo
significato
originario
e
più
profondo,
non
è
una
norma
che
dall'esterno
regola
l'agire
umano,
ma
è
lo
stesso
principio
intrinseco
della
prassi
umana:
fa
sì
che
l'uomo
agisca.
L'agire
umano
è,
però,
sin
dal
primo
momento
un
agire
morale,
ossia
in
virtù
della
stessa
legge
naturale
si
sviluppa
sin
dall'inizio
nell'antitesi
morale
"buono/cattivo".
La
legge
naturale
è
una
conoscenza
pratica
e
precettiva
del
bene
umano
che
si
spiega
perché
la
ragione
umana
si
inquadra
nel
dinamismo
delle
inclinazioni
naturali
Il
secondo
punto
di
I-‐II
94,
2
spiega
la
genesi
degli
altri
precetti
della
legge
naturale
(ossia
degli
altri
princìpi
della
ragion
pratica),
che
hanno
un
contenuto
più
specifico.
Non
sono
dedotti
dal
primo
principio,
ma
si
costituiscono
attraverso
un
processo
naturale
e
spontaneo,
in
cui
la
ragion
pratica
-‐
sotto
l'influsso
della
"copula
pratica"
che
comanda
di
fare
e
di
perseguire
il
bene
ed
evitare
il
male-‐
coglie
i
singoli
fini
delle
tendenze
o
inclinazioni
naturali
del
proprio
essere.
È
92
un'esperienza
originale
del
soggetto
umano,
un'esperienza
soprattutto
pratica,
non
derivata
da
altra
conoscenza.(53)
È
l'originaria
esperienza
di
sé
come
essere
che
tende
al
bene,
nella
molteplicità
delle
inclinazioni
naturali
proprie
dell'uomo
ed
è,
quindi,
di
carattere
pratico
e
morale.
È
anche
costitutiva
di
ogni
altra
esperienza
della
propria
natura
umana
e
punto
di
partenza,
attraverso
la
speculazione
teoretica,
per
ulteriori
approfondimenti.
Perciò
la
metafisica
dell'uomo
(l'antropologia
filosofica)
presuppone
l'esperienza
pratica
della
legge
naturale;
e
la
legge
naturale
come
conoscenza
originaria
del
bene
è
il
presupposto
per
la
conoscenza
della
natura
umana.(54)
La
legge
naturale
è,
pertanto,
una
conoscenza
pratica
e
precettiva
del
bene
umano
che
si
spiega
perché
la
ragione
umana
si
inquadra
nel
dinamismo
delle
inclinazioni
naturali.
La
ragion
pratica
ha
il
carattere
di
un
imperium,
ossia,
è
una
ragione
che
comanda
e
muove,
perché
è
una
ragione
che
opera
all'interno
di
un
"ambiente
orientato
a"(55).
Le
tendenze
ed
inclinazioni
naturali,
attraverso
la
ragion
pratica,
diventano
un
bene
per
la
ragione,
sono
razionalmente
ordinate
e,
nell'ambito
della
ragione
-‐
ma
solo
a
tale
livello
intellettivo
-‐
affermate
come
beni
umani.
In
questo
secondo
passo
San
Tommaso
afferma
che,
in
base
alla
dinamica
del
primo
principio
pratico,
tutto
ciò
che
la
ragione
pratica
naturalmente
coglie
come
bene
umano,
fa
parte,
come
bene
da
fare
o
male
da
evitare,
dei
precetti
della
legge
naturale.(56)
Risulta
quindi
evidente
che
la
legge
naturale
è
costituita
dall'ordinamento
della
ragion
pratica
nella
dinamica
delle
inclinazioni
naturali.
Perciò,
San
Tommaso
può
affermare
che
"la
ragione
afferra
naturalmente
tutto
ciò
verso
cui
l'uomo
ha
un'inclinazione
naturale
considerandoli
come
beni
e,
quindi,
come
qualcosa
da
perseguire
con
le
opere,
ed
il
loro
contrario
come
male
da
evitare.
L'ordine
dei
precetti
della
legge
naturale
segue,
perciò,
l'ordine
delle
inclinazioni
naturali"(57).
San
Tommaso,
partendo
da
queste
tendenze
dei
precetti
della
legge
naturale,
prosegue
argomentando
sulle
singole
inclinazioni
naturali,
senza
entrare
nei
dettagli
della
struttura
razionale.
Non
ne
parla
per
motivi,
a
mio
parere,
molto
ovvi.
Perché,
innanzitutto,
scopo
di
questo
articolo
è
dimostrare
che
la
legge
naturale
non
è
un'unica
norma,
ma
ve
ne
sono
una
pluralità(58).
Una
volta
spiegato
che
la
genesi
dei
precetti
della
legge
naturale
si
deve
al
rapporto
costitutivo
tra
ragione
pratica
ed
inclinazioni
naturali,
e
che
nell'uomo
vi
sono
una
pluralità
di
inclinazioni,
lo
scopo
è
raggiunto.
Il
secondo
motivo
è
che
San
Tommaso,
in
questa
sede,
non
ha
bisogno
di
entrare
nei
dettagli
perché
gli
altri
aspetti
relativi
alla
natura
della
legge
in
generale
e
a
quella
naturale,
nonché
la
dottrina
sulla
ragione
come
misura
e
regola
della
moralità
degli
atti
umani,
li
ha
già
trattati
in
articoli
precedenti.(59)
San
Tommaso,
tuttavia,
accenna
a
questa
dottrina
nella
risposta
alla
seconda
obiezione.
Conosciuti
dalla
ragion
pratica,
i
beni
e
i
fini
delle
inclinazioni
naturali
sono
confermati
nel
loro
carattere
di
costitutivo
del
bene
umano;
allo
stesso
tempo
sono
regolati
ed
ordinati
dalla
ragione,
cioè
integrati
nell'insieme
dell'essere
corporeo-‐spirituale
della
persona
e,
quindi,
anche
trasformati.
Solo
in
quanto
tali
fanno
parte
della
legge
naturale
e
sono
la
legge
naturale.
In
questa
risposta
alla
seconda
obiezione,
San
Tommaso
afferma
che
"tutte
le
inclinazioni
di
qualsiasi
parte
dell'umana
natura,
cioè
la
concupiscibile
e
l'irascibile,
in
quanto
regolate
dalla
ragione,
fanno
parte
della
legge
naturale..."(60).
Le
inclinazioni
naturali
nella
loro
naturalità
non
sono
ancora
"legge
naturale".
Ne
fanno
parte
in
quanto
sono
regolate
dalla
ragione;
ciò
che
formalmente
è
la
legge
naturale
sono
i
giudizi
della
ragion
pratica,
che
hanno
come
oggetto
i
singoli
beni
ed
i
fini
propri
delle
inclinazioni
naturali.
In
questi
giudizi,
pratici
e
normativi,
i
beni
e
i
fini
propri
sono
giudicati
dalla
ragione
come
ciò
che
è
dovuto,
cioè
come
fini,
beni
ed
atti
dovuti.
Questa
è
la
terminologia
usata
da
San
Tommaso:
l'uomo,
partecipando
attraverso
il
possesso
del
lumen
rationis
naturalis
alla
legge
eterna
-‐
la
ragione
ordinatrice
di
Dio
-‐,
non
è
guidato
dalle
diverse
inclinazioni
semplicemente
verso
gli
atti
e
i
fini
propri
di
queste,
ma,
a
livello
razionale,
ha
un'inclinazione
naturale
propria
ad
debitum
actum
et
finem.(61)
93
Il
che
è
in
perfetta
sintonia
con
la
dottrina
di
San
Tommaso
sulla
struttura
razionale
dell'oggetto
morale.
Infatti,
la
fondazione
razionale
del
bene
umano
nell'ambito
dei
beni
e
dei
fini
propri
delle
singole
inclinazioni
naturali
e
dell'oggetto
morale,
a
differenza
dell'oggetto
nel
puro
genus
naturae,
sono,
a
livelli
diversi,
processi
analoghi.
La
similitudine
si
spiega
perchè
"negli
atti
umani
il
bene
ed
il
male
si
definiscono
in
relazione
alla
ragione"(62).
Quest'analisi
della
fondazione
del
bene
umano
concorda
con
l'affermazione
dell'Aquinate,
per
il
quale
gli
atti
morali,
nella
loro
specie,
"sono
costituiti
da
forme
in
quanto
sono
concepiti
dalla
ragione"(63).
La
ragione,
infatti,
sta
alle
inclinazioni
naturali
-‐
in
quantonaturali
-‐
come
la
forma
sta
alla
materia.
Insieme
formano
un'unità
complessa
(ciò
vale
anche
per
l'oggetto
morale,
composto
dalla
materia
circa
quam
e
dalla
parte
formale,
che
proviene
dalla
ragione.(64)).
La
naturalità
del
bene,
espressa
nella
legge
naturale,
non
può
essere
però
ridotta
alla
pura
naturalità
delle
singole
inclinazioni
naturali
ed
ai
loro
beni,
fini
ed
atti
propri.
Questo
equivarrebbe
a
ridurre
il
genus
moris
di
un
atto
al
genus
naturae,
a
confondere
"oggetto
morale"
e
"oggetto
fisico"
di
un
atto
umano.
La
legge
naturale,
come
afferma
il
testo
citato
di
Leone
XIII,
inclina
l'uomo
ad
debitum
actum
et
finem
e
in
questo
modo
rende
efficace
la
stessa
legge
eterna.
Il
che
non
sarebbe
possibile
senza
l'atto
regolante
ed
ordinatore
della
ragione.
La
legge
naturale
come
conoscenza
pratica
del
bene
umano
Per
San
Tommaso
la
legge
in
generale
è
ciò
che
regola
gli
atti
umani.
Il
che,
però,
è
compito
della
ragione:
spetta,
infatti,
alla
ragione
ordinare
al
fine.
Perciò,
la
legge
è
aliquid
pertinens
ad
rationem(65).
In
concreto,
per
"legge"
s'intendono
"i
giudizi
("proposizioni")
pratici
universali
della
ragion
pratica,
ordinati
all'agire"(66).
Anche
la
legge
naturale,
quindi,
est
aliquid
per
rationem
constitutum
e,
come
ogni
giudizio,
un
opus
rationis(67).
La
legge
naturale
è
un
insieme
di
giudizi
naturali
della
ragion
pratica
che
in
modo
normativo
o
imperativo
indicano
il
bene
da
fare
e
il
male
da
evitare,
nell'ambito
delle
finalità
indicate
dalle
inclinazioni
naturali.
L'insieme
delle
inclinazioni
naturali,
ordinate
dalla
ragione,
costituisce
e
definisce
l'identità
umana
e,
perciò,
anche
l'ordine
morale
naturale
dell'uomo.
È
dunque
la
legge
naturale
che
manifesta
"la
natura
umana"
e
quell'ordine
della
ragione,
che
è
norma
per
l'agire.
Il
manifestarsi
delle
fondamenta
dell'ordine
morale
oggettivo
presuppone
la
presenza
cognitiva
della
legge
naturale.
Questa
non
può
essere
dedotta
da
tale
ordine,
poiché
è
la
stessa
legge
naturale
che
lo
rende
manifesto.
La
legge
naturale
è,
quindi,
l'insieme
dei
giudizi
della
ragion
pratica
che
contengono
ciò
che
è
"per
natura
ragionevole".
In
realtà,
questi
giudizi
si
caratterizzano
per
una
certa
complessità:
alcuni
sono
immediatamente
evidenti
e
attuati
con
naturale
spontaneità
(i
primi
principi
o
principi
comuni,
come
ad
esempio
la
regola
aurea(68)),
altri
derivano
dai
primi
principi
come
frutto
di
un
processo
logico
e
non
come
pura
deduzione
(i
precetti
secondari
della
legge
naturale,
che
si
riferiscono
ad
azioni
come
"rispettare
la
proprietà
altrui",
"non
uccidere",
ecc.(69)).
Questi
giudizi
pratici,
normativi,
imperativi
(ad
esempio,
a
livello
di
giudizi
particolari,
i
giudizi
della
prudenza)
muovono
all'agire
(o
distolgono
dall'agire).
I
precetti
della
legge
naturale
non
sono,
perciò,
propriamente
delle
"norme"
che,
applicate
dalla
coscienza
morale,
regolano
la
libertà
della
persona
ed
il
suo
agire.
Questi
giudizi
pratici
della
ragione
naturale,
che
costituiscono
una
legge
naturale,
sono
piuttosto
fondamento
e
punto
di
partenza
dell'agire
in
quanto
agire
morale.
I
giudizi
o
le
conoscenze
pratiche
costituiscono
la
persona
come
soggetto
pratico
e
morale,
sia
a
livello
generale
che
nei
diversi
ambiti
dell'agire
umano,
corrispondenti
alle
diverse
virtù
morali.
San
Tommaso,
perciò,
afferma
che
"il
primo
orientamento
delle
nostre
azioni
al
fine
si
realizza
mediante
la
legge
naturale"(70).
Vale
a
dire,
senza
legge
naturale
non
ci
sarebbe
alcun
agire,
poiché
ogni
agire
persegue
un
fine,
e
senza
questo
perseguire,
non
si
agisce.
La
legge
naturale
è
anche
un
insieme
di
giudizi
sui
fondamentali
beni
umani
da
realizzare,
beni
che
definiscono
l'ordine
del
bene
morale
che
è
un
ordo
rationis.
La
legge
naturale,
perciò,
non
è
94
conosciuta
o
dedotta
in
base
ad
un
ordine
morale,
ma
è
la
legge
naturale
che
costituisce
e
realizza
l'ordine
morale
come
ordo
rationis.
È
quest'ordine
che
manifesta
ciò
che
è
la
"natura
umana"
nel
senso
moralmente
normativo.
L'ordine
della
ragione
non
è
altro,
però,
che
l'ordine
della
legge
eterna,
che
si
manifesta
attraverso
e
nella
legge
naturale:
la
legge
naturale
infatti
è
la
legge
eterna,
presente
nella
ragionevolezza
pratica
dell'uomo.
Legge
naturale
e
coscienza
morale
È
da
sottolineare
che
l'intelletto,
come
facoltà
spirituale,
ha
la
capacità
di
riflettere
in
modo
illimitato
sui
propri
atti.
L'intelletto
umano
riflette
sui
giudizi
naturali
della
ragion
pratica,
scoprendo,
quindi,
l'ordine
morale
naturale
come
oggetto
dell'intelletto
speculativo
e
la
"natura
umana"
come
realtà
antropologica
piena
di
significato
normativo.
Si
badi
bene,
però,
che
questa
normatività
non
è
dedotta
o
scoperta
in
una
natura
esterna
all'uomo
che
conosce;
al
contrario,
è
la
normatività
originaria
della
ragion
pratica
che,
essendo
inserita
nella
dinamica
delle
inclinazioni
naturali,
fornisce
giudizi
naturali
sul
bene
umano.
Questi
ultimi
formano
un'esperienza
morale
originaria,
irriducibile
e
fondamentale.
È
un'esperienza
in
cui
allo
stesso
tempo
si
manifesta
l'essere
umano,
l'identità
antropologica
del
soggetto
e
l'aspetto
normativo
di
questa
identità
umana.
L'analisi
di
questa
esperienza
morale
porta
ad
un
secondo
concetto
di
"legge
naturale",
intesa
in
senso
materiale
e
non
formale.
Tale
concetto
si
riferisce
solo
ai
contenuti
propositivi
dei
giudizi
della
ragion
pratica
e
della
relativa
esperienza
morale,
che,
in
senso
proprio
e
originario,
sono
la
legge
naturale.
L'intelletto
riflettendo
sui
propri
atti
pratici
e
normativi
forma
un
habitus
di
conoscenze
morali
normative,
che
è
la
legge
naturale
come
habitus
dei
princìpi
e
fondamento
della
"scienza
morale"
(questo
habitus
dei
primi
principi
è
chiamato
anche
synderesis(71)).
Queste
conoscenze
sono
enunciati
normativi,
ossia
norme
morali,
che,
per
il
modo
naturale
in
cui
si
manifestano
nei
primi
giudizi
della
ragion
pratica,
appaiono
nella
coscienza
come
la
voce
di
una
verità,
cui
il
soggetto
deve
sottomettersi,
e
che
sono
applicate
all'agire
concreto
mediante
il
giudizio
della
coscienza.
Mi
limito
a
questo
breve
cenno,
rinviando
ad
altri
scritti
per
un'esposizione
più
dettagliata.(72)
Legge
naturale
e
diritto
naturale
Abbiamo
visto
che
la
legge
naturale
è
un
insieme
di
giudizi
della
ragion
pratica
che,
in
modo
normativo
o
imperativo,
mostra
il
bene
da
fare
e
il
male
da
evitare
nell'ambito
dei
fini
espressi
dalle
inclinazioni
naturali.
Le
inclinazioni
sono
molte
e
hanno
origine
dalla
complessa
natura
della
persona
umana.
San
Tommaso,
rispetto
all'inclinazione
a
conservare
se
stessi,
dice
che
è
una
tendenza
fondamentale,
ma
nell'ordine
della
ragione
è
perseguita,
ad
esempio,
in
relazione
alle
esigenze
di
giustizia,
di
benevolenza
verso
il
prossimo,
di
rispetto
del
bene
comune,
ecc.
"Conservare
se
stessi",
in
quanto
contenuto
della
legge
naturale,
non
è
solo
l'inclinazione
naturale
nella
sua
pura
naturalità.
L'uomo
è
capace
anche
di
sacrificare
la
propria
vita
per
il
bene
altrui.
Ciò
vale
anche
per
l'inclinazione
sessuale
tra
uomo
e
donna,
altro
esempio
citato
da
San
Tommaso.
Questa
inclinazione,
colta
dalla
ragione
come
bene
umano
e
trasformata
nel
contenuto
di
un
giudizio
pratico,
è
molto
più
di
una
inclinazione
che
si
trova
nella
natura.
Essa
è
molto
più
di
ciò
che,
con
parole
del
giurista
romano
Ulpiano,
"la
natura
ha
insegnato
a
tutti
gli
animali"(73).
L'inclinazione
naturale,
colta
dalla
ragione
e
perseguita
nell'ordine
della
ragione
-‐a
livello
personale-‐
diventa
amore
tra
persone,
amore
con
esigenza
di
esclusività
(unicità)
e
di
indissolubile
fedeltà
tra
persone(non
è
pura
attrazione
di
corpi),
persone
che
si
comprendono
come
unite
nel
compito
di
trasmettere
la
vita
umana.
Il
matrimonio,
fedele
ed
indissolubile,
tra
persone
di
diverso
sesso,
unite
nel
compito
comune
di
trasmettere
la
vita
umana,
è
proprio
la
verità
della
sessualità;
è
la
sessualità
concepita
come
bene
umano.
Come
tutte
le
altre
forme
di
amicizia
e
di
virtù,
il
matrimonio,
questo
specifico
tipo
di
amicizia,
non
si
trova
"nella
natura".
Esso
è
proprietà
e
norma
di
un
ordine
morale,
cui
l'uomo
ha
accesso
mediante
la
legge
naturale
95
come
ordinatio
rationis.
Ciò
che
secondo
Ulpiano
"la
natura
avrebbe
insegnato
a
tutti
gli
animali",
è
presupposto
anche
dell'amore
umano,
ma
non
esprime
adeguatamente
l'ordinemorale
naturale
al
quale
quest'amore
appartiene.
Per
l'uomo,
ciò
che
"la
natura
ha
insegnato
a
tutti
gli
animali"
non
è
sufficiente
neppure
per
fondare
una
qualsiasi
norma
o
dovere.
Se
l'animale
fa
ciò
che
la
sua
natura,
dotata
di
istinti,
gli
impone
compie
la
sua
funzione.
Si
può
affermare
la
stessa
cosa
per
l'uomo?
Le
inclinazioni
più
importanti
sorgono
direttamente
dalla
natura
spirituale
dell'uomo.
San
Tommaso
cita
l'inclinazione
naturale
a
conoscere
la
verità,
in
particolare
la
verità
su
Dio,
e
l'inclinazione
naturale
a
vivere
in
società.
L'uomo
di
per
sé
fugge
l'ignoranza
e
cerca
di
non
offendere
gli
altri
uomini.
Infatti,
è
la
legge
naturale
che
fonda
le
prime
nozioni
di
giustizia
-‐
come
di
ogni
altra
virtù
-‐
e
che
rende
possibile
la
nozione
di
"diritto
naturale",
cioè
di
qualcosa
che
è
"giusto
per
natura".
Qualsiasi
nozione
di
diritto
naturale
presuppone
la
presenza
attiva
nel
soggetto
della
legge
naturale.
Se
la
legge
naturale,
e
con
essa
la
ordinatio
della
ragion
pratica,
non
formasse
dei
princìpi
di
giustizia,
nulla
potrebbe
essere
percepito
come
"naturalmente
giusto".
Qualunque
nozione
di
"giusto"
deriverebbe
da
una
legge
positiva
o
divina
(rivelata)
o
umana.
La
nozione
di
"giusto",
come
dice
Trasimaco,
non
sarebbe
altro
che
l'interesse
ed
il
vantaggio
del
più
forte.(74)
Sarebbe
impensabile
non
solo
la
nozione
di
un
"diritto
naturale",
ma
lo
stesso
concetto
di
"giusto"
come
"bene"
e
come
"dovuto
a
qualcuno".
I
termini
"legge
naturale"
e
"diritto
naturale",
talvolta,
sono
usati
indistintamente
e
come
sinonimi
causando
non
poca
confusione.
Per
la
tradizione
pre-‐moderna,
lo
ius
naturale
è
identico
allo
iustum
naturale,
vale
a
dire
il
"diritto"
è
qualcosa
che,
in
base
ad
una
certa
convenienza,
è
dovuto
a
qualcuno
(ad
esempio,
in
una
compravendita,
ogni
merce
ha
un
suo
prezzo,
ma,
secondo
l'Aquinate,
il
prezzo
concreto
può
essere
stabilito
per
convenzione;
che
una
merce
abbia
un
prezzo
ènaturale
e,
quindi,
è
naturale
il
rapporto
"merce-‐prezzo";
pagare
un
prezzo
è
conforme
quindi
allo
ius
naturale(75)).
Da
un
punto
di
vista
semantico,
il
concetto
moderno
di
"diritto"
è
alquanto
diverso:
è
soprattutto
diritto
soggettivo,
cioè
"pretesa"
(claim,
right),
"diritto
a
qualcosa"(76).
Così
s'intendono
i
diritti
di
libertà
e,
in
genere,
i
diritti
umani.
Lo
ius
naturale
della
tradizione
tomista
è
un
dato,
una
convenienza
secundum
naturam,
fondamento
dell'ordine
della
giustizia.
Lo
ius
è
proprio
l'oggetto
della
virtù
della
giustizia
(ossia,
"ferma
e
costante
volontà
di
dare
a
ciascuno
il
suo").
Inoltre
bisogna
distinguere
tra
"legge
naturale"
e
"diritto
naturale"
perché
la
legge
naturale
non
si
riferisce
solo
alla
giustizia
degli
atti
in
rapporto
ad
altre
persone;
ma
regola
tutte
le
virtù
morali,
anche
gli
atti
che
riguardano
lo
stesso
soggetto
agente,
come
gli
atti
della
temperanza
o
della
forza.
È
da
sottolineare,
che
la
nozione
di
"ius"
non
si
auto-‐fonda
e
non
è
"data"
in
natura;
come
tutte
le
nozioni
morali,
si
forma
all'interno
della
legge
naturale.
Ciò
che
è
"naturale",
rilevante
per
alcuni
aspetti
e
presupposto
per
la
formazione
della
legge
naturale,
sono
specifiche
relazioni
di
convenienza
(ad
esempio,
la
nota
coniunctio
maris
et
feminae
come
relazione
naturale
di
adaequatio,
o
la
relazione
fra
"merce"
e
"prezzo",
e
altre
convenienze,
Sachverhalte,
intuitivamente
afferrabili
"dalla
natura
delle
cose",
come
insegnano
i
giuristi
romani
dell'epoca
del
Principato(77)).
La
normatività
di
queste
"convenienze"
o
adaequationes
e
la
stessa
nozione
di
dovuto
(debitum)
derivano
però
dalla
ragion
pratica,
che
è
la
sola
capace
di
ordinare
queste
convenienze
verso
il
fine
della
virtù,
che
è
il
bene
della
persona
umana.
Tali
nozioni
provengono
dalla
ragione
naturale
e
sono
anche
naturali,
come
lo
sono
la
legge
naturale
e
la
ragione.
Attraverso
la
ragione
pratica
sono
costituite
tutte
le
nozioni
relative
all'ordine
della
giustizia.
Quanto
affermato
da
San
Tommaso
per
la
relazione
fra
legge
e
diritto,
può
essere
applicato
anche
alla
relazione
fra
legge
naturale
e
diritto
naturale,
cioè,
lex
non
est
ipsum
ius,
proprie
loquendo,
sed
aliqualis
ratio
iuris:
"la
legge
non
è,
in
senso
proprio,
il
diritto,
ma
piuttosto
ciò
che
fa
sì
che
ciò
che
è
diritto
sia
'diritto'"(78).
96
Il
diritto
naturale,
dunque,
non
è
propriamente
una
norma
dedotta
dalla
natura
o
"letta"
in
essa,
ma
il
risultato
di
una
lettura
delle
strutture
naturali
alla
luce
dei
princìpi
della
legge
naturale.
È
importante
tenerlo
presente
per
non
cadere
in
un
circolo
vizioso
o
rendersi
colpevoli
di
una
petitio
principii,
quando
si
argomenta
basandosi
sul
diritto
naturale.
Nozioni
quali:
"qualcosa
di
dovuto"
al
prossimo,
"non
offendere",
"non
nuocere",
la
stessa
nozione
di
reciprocità
espressa
dalla
Regola
aurea,
e
di
uguaglianza,
di
cui
ogni
forma
di
giustizia
è
una
forma
specifica,
discendono
dall'inclinazione
naturale
a
vivere
in
società
con
gli
altri
uomini,
a
comunicare
e
a
rapportarsi
con
loro
con
azioni
di
scambio,
di
distribuzione,
ecc.
Senza
legge
naturale,
non
ci
sarebbe
alcuna
nozione
di
"diritto"
o
di
"giusto",
perché
mancherebbe
nelle
relazioni
tra
gli
uomini
qualsiasi
nozione
di
norma
o
di
dovere,
perciò
è
più
che
mai
valida
l'affermazione:
lex
non
est
ipsum
ius,
proprie
loquendo,
sed
aliqualis
ratio
iuris.
La
nozione
di
"dovuto"
e
di
"diritto"
(ius),
propria
di
ogni
relazione
di
giustizia,
non
è
però
ancora
sufficiente.
Perché
ciò
che
è
dovuto
possa
rientrare
nel
primo
principio
della
legge
naturale
(bonum
faciendum
ecc.),
il
"giusto"
deve
manifestarsi
come
"bene".
San
Tommaso
dice,
infatti,
che
"rendere
a
qualcuno
ciò
che
è
dovuto
ha
caratteristica
di
bene"(79).
È
necessario,
quindi,
ricondurre
la
nozione
di
giusto
e
di
dovuto
alla
nozione
di
bene
o
di
bonum
humanum.
Perché
il
"giusto"
è
un
bene
umano
per
chi
si
mette
in
relazione
con
un
altro?
Lo
è
per
la
Regola
aurea,
che
fa
parte
dei
primi
principi
della
legge
naturale
ed
implica
il
fondamentale
riconoscimento
dell'altro
come
"uguale
a
me".
Questo
riconoscimento,
fondamento
di
ogni
giustizia,
è
di
nuovo
frutto
della
ragione.(80)
LA
LEGGE
NATURALE
NEL
CONTESTO
DI
UN'ETICA
DELLE
VIRTÙ
Ritengo
che
dalla
concezione
tomista
della
legge
naturale
derivino
conseguenze
importati
e
feconde
per
la
filosofia
morale,
sia
per
i
suoi
fondamenti
che
per
la
sua
intrinseca
struttura.(81)
Qui
mi
soffermerò
solo
su
alcuni
aspetti.
Legge
naturale
ed
etica
delle
virtù
Potremmo
comprendere
meglio
che
la
legge
naturale
è
realmente
"scritta
e
scolpita"
nell'anima
umana,
se
abbandonassimo
l'idea
piuttosto
semplicista
che
la
legge
naturale
è
solo
un
insieme
di
norme
da
leggere
in
un
ordine
naturale
che
è
"dinanzi
ai
nostri
occhi",
e
ci
rendessimo
conto,
invece,
che
la
legge
naturale
è
qualcosa
di
insito
nei
giudizi
naturali
della
ragion
pratica
di
ogni
uomo
e,
perciò,
conoscenza
di
ciò
che
è
"ragionevole
per
natura".
Allora
arriveremmo
a
conoscere
la
legge
naturale
anche
nel
suo
significato
ontologico,
cioè
come
espressione
della
natura
umana
e
dell'ordine
morale
fondato
su
questa
natura.
Questa
legge
emanata
dalla
ragion
pratica
del
soggetto
è
proprio
la
natura
umana
nella
sua
dinamica
normativa:
è
nello
stesso
tempo
auto-‐
possesso
del
soggetto
-‐vera
autonomia,
che
è
teonomia
partecipata
-‐
e
norma
oggettiva
che,
dinanzi
alla
coscienza
morale,
si
impone
con
la
forza
e
l'autorità
della
verità.
Concepire
la
legge
naturale,
in
sintonia
con
San
Tommaso,
come
l'insieme
dei
princìpi
naturali
della
ragion
pratica,
apre
la
strada
per
comprendere
l'intimo
legame
che
c'è
tra
i
precetti
della
legge
naturale
e
le
virtù
morali.
Infatti,
anche
le
virtù
morali
sono
un
tipo
di
ordinatio
rationis:
come
habitus
sono
l'ordine
della
ragione,
"sigillata
ed
impressa"
nelle
inclinazioni
concupiscibili
(temperanza)
ed
irascibili
(forza)
e
nell'appetito
razionale
che
si
chiama
"volontà"
(giustizia).(82)
Poiché
l'uomo
è
essenzialmente
formato
da
un'anima
razionale,
ha
anche
"un'inclinazione
naturale
ad
agire
secondo
la
ragione";
il
che
equivale
a
vivere
le
virtù,
i
cui
atti
sono
dunque
imposti
dalla
legge
naturale.(83)
Le
virtù
morali
sono
il
compimento
della
legge
naturale
a
livello
dell'agire
concreto,
poiché
sono
l'habitus
di
scegliere
ciò
che
è
bene
per
l'uomo
in
concreto.(84)
Perciò,
i
precetti
della
legge
naturale
sono
i
princìpi
della
prudenza.(85)
La
"verità
della
soggettività",
di
cui
la
legge
naturale
è
il
fondamento
a
livello
dei
princìpi,
è
97
garantita
dal
possesso
delle
virtù
morali,
la
cui
funzione,
come
ha
insegnato
Aristotele,
è
far
sì
che
al
soggetto
appaia
come
buono
ciò
che
lo
è
anche
secondo
verità.(86)
Le
singole
virtù
fanno
ciò,
disponendo
gli
"appetiti"
dell'essere
umano,
le
tendenze
sensibili
e
la
volontà,
secondo
le
esigenze
della
ragione.
Così,
il
secundum
rationem
agere(87),
fondato
sulla
legge
naturale,
si
compie
nelle
virtù
morali,
che
però
manifestano
anche
la
loro
funzione
di
dare
piena
efficacia
e
validità
alla
legge
naturale:
lo
stretto
legame
tra
legge
naturale
e
virtù
morale
spiega
come
il
vizio
sia
una
delle
cause
principali
dell'offuscamento
della
legge
naturale
nell'uomo.
La
concezione
tomista
apre
la
strada
ad
un'etica
e
ad
una
teologia
morale
fondata
non
tanto
sulla
"legge",
ma
anzitutto
sulle
virtù.
Permanenza
della
legge
naturale
e
problemi
attuali
relativi
al
rispetto
della
vita
umana
Attualmente
molti
sostengono
che
la
legge
naturale,
e
con
essa
il
rispetto
del
diritto
naturale,
è
diventata
irrilevante
o
è
stata
messa
da
parte
dalle
persone,
dalla
società
politica
e
dalle
leggi
su
cui
si
fonda.
Secondo
quest'opinione,
il
mancato
rispetto
e
persino
la
negazione
della
legge
naturale
sono
rintracciabili
nella
grande
diffusione
delle
pratiche
contraccettive,
dell'aborto,
delle
tecniche
riproduttive,
alle
quali
è
connesso
il
grave
problema
degli
embrioni
umani
congelati
"in
attesa"
di
divenire
"utili",
come
cellule
staminali
per
la
ricerca
medica,
per
la
clonazione
terapeutica,
ecc.
Ritengo
che
questa
diagnosi,
secondo
cui
i
fenomeni
citati
segnalino
la
perdita
o
l'oblio
della
legge
naturale
nel
cuore
degli
uomini,
non
sia
del
tutto
corretta.
Mi
sembra
importante
fare
una
buona
diagnosi
per
non
sbagliare
la
terapia
da
applicare.
Infatti,
se
ci
si
limitasse
ad
argomentare
che
la
legge
naturale
è
un
dato
facilmente
decifrabile
nella
"natura
delle
cose",
ne
seguirebbe
che
chi
non
è
in
grado
di
cogliere
o
nega
l'esistenza
di
una
tale
"legge
della
natura",
negherebbe
una
verità
evidente,
e
l'unica
terapia
sarebbe
cercare
di
piegare
questi
ostinati
negatori
della
verità
con
l'insistente
affermazione
del
contrario.
Sarebbe
logico:
a
chi
nega
ciò
che
è
evidente
ed
è
intuitivamente
conoscibile,
non
si
deve
rispondere
con
argomenti,
ma
con
biasimo
ed
indignazione.
Sono
convinto
che
le
cose
siano
più
complesse;
non
credo
che
alcuni
neghino
ciò
che
è
evidente
ed
intuitivamente
conoscibile,
e
quindi
i
principi
fondamentali
della
legge
naturale.
Anzi,
su
ciò
che
è
evidente,
vi
è
al
giorno
d'oggi
un
sorprendente
consenso
che
testimonia
la
presenza
della
legge
naturale
nelle
coscienze
degli
uomini.
Se
così
non
fosse,
risulterebbe
incomprensibile
che
siano
considerati
disonesti
comportamenti
quali
l'uccidere
l'innocente,
l'adulterio,
la
menzogna,
il
furto,
l'odio
per
il
prossimo,
l'invidia,
i
giudizi
temerari,
la
diffamazione.
Ovviamente,
ciò
non
impedisce
che,
di
fatto,
l'innocente
sia
ucciso,
la
menzogna
sia
usata
per
fini
privati
e
pubblici,
i
furti,
l'odio,
la
diffamazione
e
molti
altri
tipi
di
ingiustizia
siano
all'ordine
del
giorno.
Questi
comportamenti,
a
causa
della
cattiveria
e
della
debolezza
umana,
ci
sono
sempre
stati,
ma
sono
sempre
stati
disapprovati
dalle
persone
con
retto
giudizio.
Senza
l'effettiva
presenza
della
legge
naturale
nei
cuori
degli
uomini
questo
non
sarebbe
possibile
e
non
sarebbero
neppure
comprensibili
le
stesse
nozioni
di
"adulterio",
"assassinio",
"menzogna",
"furto"
ecc.,
tutte,
infatti,
implicano
che
si
abbia
un
concetto
di
"giustizia",
anche
questo
frutto
della
legge
naturale.
Nella
cultura
odierna
vi
è
una
tendenza
molto
diffusa
a
non
accettare,
per
principio,
una
morale
"oggettiva"
ed
universale.
A
questo
fenomeno
di
individualismo
e
soggettivismo
etico
a
livello
personale,
paradossalmente,
non
corrisponde
il
fenomeno
opposto:
oggi,
come
mai
prima
nella
storia,
sono
considerati
punto
di
riferimento
obbligatorio,
per
la
vita
pubblica
e
la
valutazione
dell'agire
umano
individuale
ed
istituzionale,
in
campo
sociale,
politico
ed
economico,
quelle
norme
morali
designate
come
"diritti
umani",
che
sono
proclamati
come
universali
e
si
impongono
con
la
forza
del
loro
valore
oggettivo.
Altro
indice
questo
che
la
legge
naturale
è
lungi
dall'essere
caduta
nell'oblio.
98
Tra
i
sostenitori
dell'esistenza
di
una
legge
naturale
vi
sono
però
opinioni
discordanti
sul
contenuto,
cioè
su
ciò
che
la
ragione
umana
ci
indica
come
"buono"
e
"doveroso".
C'è
consenso
solo
sui
principi
più
importanti,
mentre
c'è
una
grande
diversità
di
opinioni
tra
credenti
e
non-‐
credenti
sui
cosiddetti
precetti
"remoti"
che,
secondo
lo
stesso
San
Tommaso,
possono
essere
compresi
senza
errore
solo
dai
"più
sapienti"(88).
Problemi
come
la
contraccezione,
il
divorzio,
l'aborto
in
alcuni
suoi
aspetti
(quando
è
adoperato
con
mentalità
contraccettiva(89)),
il
divieto
della
clonazione
terapeutica
o
la
fertilizzazione
in
vitro,
sono,
dal
punto
di
vista
della
"legge
naturale",
materie
piuttosto
remote,
di
cui
spesso
è
difficile
percepire
l'intrinseco
carattere
morale.
È,
invece,
per
tutti
facile,
anche
oggi,
comprendere
il
carattere
disordinato
dell'uccidere,
dell'adulterio,
della
menzogna,
del
furto,
dell'odio
per
il
prossimo,
dell'invidia,
dei
giudizi
temerari,
della
diffamazione,
ecc.,
comportamenti
ed
atteggiamenti
interiori
ai
quali
si
riferiscono
i
principali
precetti
della
legge
naturale.
Con
il
progresso
tecnologico
aumentano
continuamente
le
possibilità
d'intervento
sulla
natura,
su
ciò
che
è
"dato"
e
presupposto.
Il
potere
dell'uomo
si
estende
su
ciò
che,
in
epoche
passate,
bastava
semplicemente
accettare
come
"naturale"
o
come
immutabile
e
si
presentava
all'uomo
sotto
forma
di
destino
cui
piegarsi
docilmente.
Siamo
arrivati
ad
avere
il
potere
di
cambiare,
almeno
in
molti
aspetti,
la
"condizione
umana",
di
poterla
modificare
in
funzione
delle
nostre
aspettative,
non
necessariamente
illecite,
di
felicità
e
di
benessere
(si
pensi
alle
tecniche
riproduttive,
alla
genetica.
ecc.).
Nella
società
moderna,
l'autonomia
dell'individuo
è
ampliata
come
non
mai.
L'identità
delle
persone
non
è
più
ineluttabilmente
definita
secondo
determinati
ruoli
sociali,
preordinati
dall'inserimento
in
un
determinato
contesto
storico,
sociale,
familiare.
Ritengo
che
questa
evoluzione
si
debba
valutare
come
una
grande
conquista.
È
logico,
però,
che
tale
sviluppo,
se
non
altro
per
quanto
riguarda
l'utilità
sociale,
renda
meno
intelligibili
alcuni
divieti
morali
assoluti.
Dove
il
contesto
sociale
non
pre-‐definisce
più
determinati
ruoli
per
ogni
singola
persona
o
per
gruppi
di
persone
(definite
ad
esempio
per
il
loro
sesso),
diventa
più
difficile
comprendere
alcuni
valori
e
norme
morali
che,
in
passato,
erano
tutelati
dai
processi
di
socializzazione
e
dalla
generale
struttura
della
società
e
dai
limiti
imposti
dalle
circostanze
comuni
della
vita.
Consideriamo
un
esempio
attuale:
la
sperimentazione
sulla
vita
umana
per
motivi
filantropici,
come
curare
le
malattie,
è
sempre
stato
un
sogno
degli
uomini,
non
solo
degli
scienziati.
Oggi
sembra
che
siamo
in
grado
di
farlo,
e
la
pressione
aumenta,
non
perché
la
legge
naturale
non
sia
più
riconosciuta,
ma
perché
il
potere
dell'uomo
sulla
natura
è
cresciuto,
il
che
genera,
per
l'intrinseca
intelligibilità
dell'ordine
morale
stabilita
da
questa
legge,
sfide
fino
ad
oggi
sconosciute.
Chi
opta
per
la
sperimentazione
con
embrioni
umani
ed
afferma
che
un
embrione
non
è
ancora
un
essere
con
la
dignità
ed
i
diritti
di
una
persona,
non
nega
la
legge
naturale,
ma
implicitimamente
la
conferma:
infatti,
non
vuole
strumentalizzare
una
persona
a
fin
di
bene
e
perciò
è
costretto
a
negare
lo
status
di
persona
dell'embrione.
L'errore
non
è
in
materia
di
legge
naturale,
non
è
proprio
un
errore
di
conoscenza
pratica,
ma
anzitutto
un
errore
di
tipo
teoretico;
si
tratta
di
una
affermazione
erronea
sulla
realtà,
un
errore
di
antropologia
metafisica
che
determina
una
grave
ingiustizia:
la
strumentalizzazione
di
alcuni
individui
umani
per
il
bene
di
altre
persone.
Nessuno
sostiene
che
si
possa
violare
la
dignità
di
alcuni
esseri
umani
per
il
beneficio
della
maggioranza;
ciò
sarebbe
chiaramente
contrario
alla
legge
naturale.
Invece,
si
nega
a
certi
esseri
umani
la
dignità
di
persona
in
modo
da
sostrarli
al
precetto
della
legge
naturale
che
vieta
di
utilizzare
delle
persone
esclusivamente
come
strumento
per
soddisfare
gli
interessi
di
altri
esseri
umani.
In
altri
casi,
tale
errore
è
dovuto
ad
una
vera
e
propria
discriminazione,
che
nasce
da
una
volontà
non
retta
che
cerca
soprattutto
il
proprio
benessere,
l'autodeterminazione,
la
realizzazione
di
99
progetti
personali,
spesso
leciti,
ma
perseguiti
a
spese
di
altre
persone.
In
tale
contesto
di
ingiustizia,
l'errore
di
non
riconoscere
la
dignità
ed
i
diritti
degli
esseri
umani
non
ancora
nati,
persino
nella
forma
embrionale
della
vita
umana,
si
manifesta
come
autentico
errore
pratico,
cioè
come
ingiustizia.(90)
Essere
abitualmente
in
un
simile
errore
causa
un
progressivo
offuscamento
della
legge
naturale
nel
proprio
cuore,
e
rende
la
luce
della
ragione
naturale
sempre
meno
capace
di
guidare
il
proprio
comportamento
verso
il
vero
bene
dell'uomo.
In
questa
situazione
fare
appello
all'evidenza
della
legge
naturale,
ossia
al
diritto
naturale,
non
è
di
grande
aiuto
per
chi
è
coinvolto
nel
male.
Invece,
per
chi,
in
buona
fede
o
per
semplice
ignoranza
dovuta
anche
alle
pressioni
dell'ambiente,
ha
bisogno
di
essere
istruito
nella
verità,
non
sono
sufficienti
i
richiami
ad
evidenze
che
in
determinate
condizioni
non
si
dànno.
Oggi
molti,
forse
la
maggioranza,
dei
problemi
morali
riguardano
materie
che
rientrano
nell'ambito
dei
precetti
"remoti"
della
legge
naturale,
dove
non
c'è
evidenza.
Il
processo
conoscitivo
della
ragione
naturale
può
essere
seriamente
fuorviato
dai
condizionamenti
concreti
ai
quali
il
soggetto
è
esposto
nel
suo
ambiente
sociale,
dal
contesto
biografico
e
culturale,
dalle
pressioni
ed
imposizioni
materiali
del
mondo
del
lavoro.
Si
pensi,
ad
esempio,
ai
bambini
e
ai
giovani
che
crescono
in
una
società
in
cui
il
divorzio,
e
quindi
le
famiglie
"articolate"
("bambini
con
quattro
genitori"
ecc.)
sono
diventate
la
normalità.
In
questa
situazione
gli
appelli
alle
evidenze
non
potranno
servire
molto;
sono
necessari
da
un
lato
dimostrazioni,
argomenti,
e
dall'altro,
per
chi
è
disposto
ad
accettarla,
direttive
da
parte
di
un'autorità
riconosciuta.
Bisogna
anche
ricordare
che
l'evidenza
di
specifiche
esigenze
della
legge
naturale
può
trovare
una
motivazione
solo
nel
contesto
della
fede
cristiana
e
attraverso
la
grazia
che
è
data,
nell'ambito
di
una
vita
cristiana,
per
vivere
nella
prospettiva
del
mistero
della
Croce
tutte
le
esigenze
dell'ordine
morale
naturale.
Quest'ordine,
anche
se
in
sé
intelligibile
per
tutti,
ha
per
l'uomo
concreto
delle
difficoltà
e
spesso
un
carattere
paradossale
che
rende
inintelligibile
il
bene
umano.
Solo
alla
luce
della
fede
anche
la
legge
naturale
recupera
tutta
la
sua
intelligibilità
ed
umanità.
Non
perché
in
sé
non
sarebbe
razionalmente
conoscibile,
ma
perché,
fuori
dall'ordine
della
redenzione,
quest'intelligibilità
può
apparire
spesso
illusoria
e
persino
un
peso,
che
richiede
delle
esigenze
disumane
e
non
compatibili
con
il
desiderio
di
felicità
insito
nel
cuore
dell'uomo.(91)
Perché
anche
la
legge
naturale
possa
rivelarsi
parte
di
quella
verità
che
rende
liberi,
è
necessario
un
paziente
lavoro
di
diffusione
del
bene,
della
luce
della
fede,
sì
da
permeare
le
strutture
sociali
con
lo
spirito
di
Cristo.
(1)
J.
Fuchs,
Lex
Naturae.
Zur
Theologie
des
Naturrechts,
Düsseldorf
1955.
Si
veda
per
maggiori
dettagli
M.
Rhonheimer,Legge
naturale
e
ragione
pratica.
Una
visione
tomista
dell'autonomia
morale,
Armando,
Roma
2001,
pp.
36
ss.
(testo
originale:
Natur
als
Grundlage
der
Moral.
Die
personale
Struktur
des
Naturgesetzes
bei
Thomas
von
Aquin.
Eine
Auseinandersetzung
mit
autonomer
und
teleologischer
Ethik,
Tyrolia
Verlag,
Innsbruck-‐Wien
1987,
pp.
30
ss.)
(2)
Ibid.,
pp.
13-‐16.
(3)
Cf.
ibid.:
"Così
l'essere,
l'essente,
la
natura
corporeo-‐spirituale
dell'uomo
stesso
appare
come
la
norma
del
comportamento
morale
e
del
diritto
...
la
ragione
legge
il
diritto
naturale
a
partire
dalla
natura
delle
cose
e
dell'uomo".
Non
è
corretta
l'affermazione
di
Fuchs,
che
questo
schema
riporti
l'opinione
della
tradizionale
teologia
morale.
Cf.
Rhonheimer,
Legge
naturale
e
ragion
pratica,
pp.
36
s.
(4)
Sant'Ambrogio,
De
Paradiso,
8,
39,
in
Sancti
Ambrosii
Episcopi
Mediolanensis
Opera
(Tutte
le
Opere
di
Sant'Ambrogio,
ed.
bilingue),
2/I,
recensuit
Carolus
Schenkl,
introduzione,
traduzione,
note
e
indici
di
P.
Siniscalco,
Biblioteca
Abrosiana,
Milano
/
Città
Nuova
Editrice,
Roma
1984,
p.
98/99.
Cf.
anche
A.
Trapé,
L'universalità
e
l'immutabilità
delle
norme
morali
e
l'oggettività
del
giudizio
morale
secondo
i
Padri
latini,
in
particolare
secondo
Sant'Agostino,
in
Universalité
et
100
permanence
des
Lois
morales,
édité
par
S.
Pinckaers
et
C.
J.
Pinto
de
Oliveira,
Éditions
Universitaires,
Fribourg
/
Éditions
du
Cerf,
Paris
1986,
pp.
90-‐101.
(5)
Cf.
anche
Sant'Agostino,
che
nel
De
libero
arbitrio
I,
6,
15,
48
parla
di
"illa
lex
quae
summa
ratio
nominatur,
cui
semper
obtemperandum
est
et
per
quam
mali
miseram,
boni
beatam
vitam
merentur..."
(6)
La
prospettiva
della
morale.
Fondamenti
dell'etica
filosofica,
Armando,
Roma
1994,
pp.
159
ss.
(7)
San
Tommaso
d'Aquino,
De
Veritate
10,
1:
"Quia
vero
rerum
essentiae
sunt
nobis
ignotae,
virtutes
autem
earum
innotescunt
nobis
per
actus..."
(8)
Id.,
Summa
Theologiae
I-‐II,
17,
1
ad
2:
"Ex
hoc
enim
voluntas
libere
potest
ad
diversa
ferri,
quia
ratio
potest
habere
diversas
conceptiones
boni".
(9)
Cf.
Aristotele,
Fisica,
II,
8.
(10)
Per
un'esposizione
più
ampia
della
nozione
di
bonum
rationis
si
veda
M.
Rhonheimer,
Praktische
Vernunft
und
Vernünftigkeit
der
Praxis.
Handlungstheorie
bei
Thomas
von
Aquin
in
ihrer
Entstehung
aus
dem
Problemkontext
der
aristotelischen
Ethik,
Akademie
Verlag,
Berlin
1994,
pp.
124
ss.
(11)
Ritengo
che
la
non
corretta
fondazione
della
cosiddetta
"morale
autonoma"
ha
le
sue
radici
proprio
nella
fallacia
dualista
e
nella
conseguente
interpretazione
"fisicista"
della
legge
naturale,
da
cui
ci
si
è
voluto
"liberare"
invertendo
i
termini,
dichiarando
la
ragione
"autonoma"
rispetto
alla
natura,
in
un
modo
però
che
non
si
supera,
ma
anzi
continua,
in
termini
opposti,
il
tradizionale
dualismo.
Questo
aspetto
l'ho
analizzato
ampiamente
nel
mio
studio
Legge
naturale
e
ragione
pratica,
cit.
(12)
Cf.
Rhonheimer,
Legge
naturale
e
ragione
pratica,
pp.
39
ss.
(13)
I-‐II,
90,
1
e
4.
(14)
È
vero
che
S.
Tommaso
chiama
"legge"
non
solo
ciò
che
regola,
ma
anche
ciò
che
è
regolato
da
qualche
legge,
come
le
inclinazioni.
Questo
però
non
si
chiama
legge
"essentialiter,
sed
quasi
participative",
ma
in
senso
proprio,
cioè
di
ciò
che
regola,
"lex
est
in
ratione
sola"
(I-‐II,
90,
1
ad
1).
(15)
Così,
ad
esempio,
Johannes
Messner
voleva
assimilare
il
concetto
di
"legge
naturale"
in
campo
morale
a
quello
delle
scienze
naturali;
cf.
J.
Messner,
Das
Naturrecht,
Tyrolia
Verlag,
Innsbruck-‐Wien
61966,
pp.
55.
A.
F.
Utz
nella
recensione
critica
al
mio
libro
Natur
als
Grundlage
der
Moral
(Legge
naturale
e
ragione
pratica),
si
rifa
esplicitamente
alla
posizione
del
Messner,
definendola
l'autentica
posizione
di
San
Tommaso
d'Aquino:
"Naturgesetz
ist
bei
Thomas
zunächst
ein
Gesetz
im
natur-‐wissenschaftlichen
Sinn,
d.h.
ein
Gesetz
des
Seins..."
(A.
F.
Utz,
Wonach
richtet
sich
das
Gewissen?
«Die
neue
Ordnung»,
Heft
2
(1988),
pp.
152-‐156;
155.
La
critica
di
Utz
si
fonda
però
su
un
grave
malinteso,
cf.
il
"Postscriptum"
di
Legge
naturale
e
ragione
pratica,
pp.
521
ss.
(16)
Si
spiega
perchè
la
definitio
legis,
che
contiene
tutti
gli
elementi
essenziali
in
senso
proprio,
è
quella
della
legge
civile;
cf.
I-‐II,
90,
4:
"...definitio
legis,
quae
nihil
est
aliud
quam
quaedam
rationis
ordinatio
ad
bonum
commune,
ab
eo
qui
curam
communitatis
habet,
promulgata".
Per
l'origine
pratico-‐politico
della
nozione
di
legge
in
San
Tommaso
si
veda
W.
Kluxen,
Philosophische
Ethik
bei
Thomas
von
Aquin
(1964),
Felix
Meiner,
21980
e
31998,
pp.
230
ss.
(17)
I-‐II,
90,
1.
(18)
I-‐II,
94,
2.
(19)
"...lex
naturae
(...)
nihil
aliud
est
nisi
lumen
intellectus
insitum
nobis
a
Deo,
per
quod
cognoscimus
quid
agendum
et
quid
vitandum.
Hoc
lumen
et
hanc
legem
dedit
Deus
homini
in
creatione"
(In
duo
praecepta
caritatis
et
in
decem
legis
praecepta
expositio,
Prologus
I).
(20)
I-‐II,
94,
1.
(21)
Ibid.
(22)
Veritatis
splendor,
42.
101
(23)
"...promulgatio
legis
naturae
est
ex
hoc
ipso
quod
Deus
eam
mentibus
hominum
inseruit
naturaliter
cognoscendam"
(I-‐II,
90,
4
ad
1).
(24)
I-‐II,
93,
1:
"lex
aeterna
nihil
aliud
est
quam
ratio
divinae
sapientiae,
secundum
quod
est
directiva
omnium
actuum
et
motionum."
(25)
Ibid.:
"...ratio
divinae
sapientiae
moventis
omnia
ad
debitum
finem,
obtinet
rationem
legis."
(26)
Cf.
Veritatis
splendor,
41.
Si
veda
su
questo
argomento
l'eccellente
articolo
di
J.
De
Finance,
Autonomie
et
théonomie,
in
M.
Zalba
(a
cura
di),
L'agire
Morale
(Atti
del
Congresso
Internazionale
Roma-‐Napoli
-‐
17/24
Aprile
1974:
Tommaso
d'Aquino
nel
suo
settimo
centenario,
Vol.
5),
Edizioni
Domenicane
Italiane,
Napoli
1974,
pp.
239-‐260.
Questo
articolo
mi
è
stato
di
grande
profitto
per
il
mio
libro
Legge
naturale
e
ragione
pratica,
pp.
308
ss.
(27)
I-‐II,
91,
2:
"lex
naturalis
nihil
aliud
est
quam
participatio
legis
aeternae
in
rationali
creatura."
(28)
Ibid.:
"fit
providentiae
particeps,
sibi
ipsi
et
aliis
providens."
(29)
I-‐II,
19,
4
ad
3:
"licet
lex
aeterna
sit
nobis
ignota
secundum
quod
est
in
mente
divina;
innotescit
tamen
nobis
aliqualiter
vel
per
rationem
naturalem,
quae
ab
ea
derivatur
ut
propria
eius
imago;
vel
per
aliqualem
revelationem
superadditam."
(30)
I-‐II,
91,
2:
"...quasi
lumen
rationis
naturalis,
quo
discernimus
quid
sit
bonum
et
malum,
quod
pertinet
ad
naturalem
legem,
nihil
aliud
sit
quam
impressio
divini
luminis
in
nobis."
(31)
Cf.
M.
Bastit,
Naissance
de
la
loi
moderne.
La
pensée
de
la
loi
de
saint
Thomas
à
Suarez,
P.U.F.,
Paris
1990,
pp.
338
ss.
(32)
I,
79,
11:
"...
verum
et
bonum
se
invicem
includunt:
nam
verum
est
quoddam
bonum,
alioquin
non
esset
appetibile;
et
bonum
est
quoddam
verum,alioquin
non
esset
intelligibile
(...)
obiectum
intellectus
practici
est
bonum
ordinabile
ad
opus,
sub
ratione
veri.
Intellectus
enim
practicus
veritatem
cognoscit,
sicut
et
speculativus;
sed
veritatem
cognitam
ordinat
ad
opus."
(33)
Per
il
concetto
di
"verità
pratica",
in
questo
contesto,
si
veda
M.
Rhonheimer,
Praktische
Prinzipien,
Naturgesetz
und
konkrete
Handlungsurteile
in
tugendethischer
Perspektive.
Zur
Diskussion
über
praktische
Vernunft
und
"lex
naturalis"
bei
Thomas
von
Aquin,
«Studia
Moralia»
39
(2001),
pp.
113-‐158.
(34)
Cf.
I-‐II,
104,
1:
"...praeceptorum
ciuscumque
legis
quaedam
habent
vim
obligandi
ex
ipso
dictamine
rationis,
quia
naturalis
ratio
dictat
hoc
esse
debitum
fieri
vel
vitari.
Et
huiusmodi
praecepta
dicuntur
moralia:
eo
quod
a
ratione
dicuntur
mores
humani."
Cf.
per
questa
tematica
Rhonheimer,
Praktische
Vernunft
und
Vernünftigkeit
der
Praxis,
cit.,
pp.
531
ss.
(35)
In
questo
senso,
e
solo
in
questo,
la
legge
naturale
può
essere
intesa
come
"principium
exterior"
degli
atti
umani
(cf.
I-‐II,
90,
Prooemium):
la
legge
naturale
in
quanto
partecipazione
della
legge
eterna,
"viene
da
fuori";
ma
in
quanto
legge
naturale,
è
un
principio
intrinseco
dell'agire.
È
necessario
prendere
in
considerazione
anche
il
contesto
biblico
della
teologia
morale
di
San
Tommaso
che
inserisce
la
ragion
pratica
aristotelica
in
un
contesto
teologico
profondamente
caratterizzato
dalla
tradizione
biblica
della
legge.
(36)
Per
la
struttura
profondamente
aristotelica
della
teoria
morale
di
San
Tommaso
d'Aquino
cf.
K.
L.
Flannery,
Acts
Amid
Precepts.
The
Aristotelian
Logical
Structure
of
Thomas
Aquinas's
Moral
Theory,
The
Catholic
University
of
America
Press,
Washington
D.
C.,
2001,
e
anche
il
mio
libro
Praktische
Vernunft
und
Vernünftigkeit
der
Praxis.
(37)
I-‐II,
104,
1
ad
3:
"ratio,
quae
est
principium
moralium,
se
habet
in
homine
respectu
eorum
quae
ad
ipsum
pertinent,
sicut
princeps
vel
iudex
in
civitate."
(38)
Per
ulteriori
chiarimenti,
rinvio
il
lettore
ai
miei
lavori
sopra
citati
(Legge
naturale
e
ragione
pratica;
La
prospettiva
della
morale;
Praktische
Vernunft
und
Vernünftigkeit
der
Praxis)
in
cui
ho
sviluppato
questa
tematica.
Inoltre,
precisazioni
e
aggiunte
sono
state
inserite
nell'edizione
spagnola
di
La
prospettiva
della
morale
(La
perspectiva
de
la
moral.
Fundamentos
de
la
ética
filosófica,
Rialp,
Madrid
2000)
e
ancor
di
più
nell'edizione
tedesca
(Die
Perspektive
der
Moral.
102
Philosophische
Grundlagen
der
Tugendethik,
Akademie
Verlag,
Berlin
2001).
Per
evitare
equivoci
può
essere
utile
il
mio
articolo
Praktische
Vernunft
und
das
"von
Natur
aus
Vernünftige".
Zur
Lehre
von
der
Lex
naturalis
als
Prinzip
der
Praxis
bei
Thomas
von
Aquin,
«Theologie
und
Philosophie»,
75
(2000),
pp.
493-‐522.
(39)
Alcuni
aspetti
sono
trattati
da
M.
Spanneut,
Les
normes
morales
du
stoïcisme
chez
les
Pères
de
l'Église,
inUniversalité
et
permanence
des
Lois
morales,
cit.,
pp.
114-‐135.
(40)
Sulla
dottrina
della
oikeiosis
cf.
M.
Forschner,
Die
stoische
Ethik.
Über
den
Zusammenhang
von
Natur-‐,
Sprach-‐
und
Moralphilosphie
im
altstoischen
System,
Klett-‐Cotta,
Stuttgart
1981,
pp.
142
ss.
(41)
"lex
est
ratio
summa,
insita
in
natura,
quae
iubet
ea
quae
facienda
sunt,
prohibetque
contraria"
(De
Legibus,
I,
6,
18.)
(42)
"non
scripta,
sed
nata
lex
...
verum
ex
natura
ipsa
adripuimus,
hausimus,
expressimus..."(Pro
Milone,
IV,
10;
in:
M.
Tulli
Ciceronis
Orationes,
ed.
A.
C.
Clark,
e.
typ.
Clarendoniano,
Oxonii
1964).
(43)
"recta
ratio
naturae
congruens"
(De
Re
publica
III,
22,
33).
(44)
"Dei
autem
praeceptum
non
quasi
in
tabulis
lapideis
atramento
legimus
inscriptum,
sed
cordibus
nostris
tenemus
impressum
spiritu
dei
vivi.
Ergo
opinio
nostra
sibi
legem
facit"
(De
Paradiso
8,
39,
cit.,
p.
98).
(45)
Per
un'ottima
impostazione
cf.
D.
Braine,
The
Human
Person.
Animal
and
Spirit,
University
of
Notre
Dame
Press,
Notre
Dame,
Ind.,
1992.
(46)
La
fondamentale
e
significativa
distinzione
fra
"actus
et
finis
proprius"
e
"actus
et
finis
debitus"
(o
"conveniens"),
spesso
tralasciata
dagli
interpreti,
è
in
I-‐II
91,
2
ossia
in
In
Quattuor
Libros
Sententiarum,
IV,
33,
1,
1.
Ho
cercato
di
mettere
opportunamente
in
rilievo
questa
distinzione
in
Legge
naturale
e
ragion
pratica,
pp.
89
e
98;
cf.
anche
G.
Abbà,Felicità,
vita
buona
e
virtù.
Saggio
di
filosofia
morale,
Las,
Roma
1989,
p.
183.
(47)
I-‐II,
19,
4
ad
3.
È
molto
interessante
il
commento
di
Tommaso
al
Vangelo
di
San
Giovanni,
i
cui
principali
testi
sono
raccolti
in
Legge
naturale
e
ragion
pratica,
pp.
261
s.
(48)
Perciò,
come
già
citato,
l'Aquinate
non
esita
a
definire
la
lex
naturalis
in
I-‐II,
94,
1
"aliquid
per
rationem
constitutum:
sicut
etiam
propositio
est
quoddam
opus
rationis".
(49)
Anche
le
inclinazioni
naturali,
nel
loro
essere
naturale,
sono
partecipazione
della
legge
eterna,
ma
in
modo
meramente
passivo,
come
qualcosa
che
è
regolato
dalla
legge
eterna,
non
come
ciò
che
regola,
come
nel
caso
dell'uomo
(cf.
I-‐II,
91,
2),
ossia,
utilizzando
un'altra
terminologia,
per
modum
principii
motivi,
e
non
in
modo
attivo,
cioè
per
modum
cognitionis
(I-‐II,
93,
6).
Il
tema
è
trattato
con
molta
chiarezza
in
G.
Abbà,
Lex
et
virtus.
Studi
sull'evoluzione
della
dottrina
morale
di
San
Tommaso
d'Aquino,
Las,
Roma
1983,
260
s.
(50)
Per
una
migliore
comprensione
di
questo
punto
devo
molto
a
G.
Grisez,
The
First
Principle
of
Practical
Reason:
A
Commentary
on
the
Summa
Theologiae,
1-‐2,
Question
94,
Article
2,
«Natural
Law
Forum»
10
(1965),
pp.
168-‐201;
una
versione
ridotta
(ma
non
autorizzata
e
non
del
tutto
soddisfacente)
è
in
A.
Kenny
(a
cura
di),
Aquinas:
A
Collection
of
Critical
Essays,
London
-‐
Melbourne
1969,
pp.
340-‐382.
(51)
Questo
è
il
testo
completo:
"Sicut
autem
ens
est
primum
quod
cadit
in
apprehensione
simpliciter,
ita
bonum
est
primum
quod
cadit
in
apprehensione
practicae
rationis,
quae
ordinatur
ad
opus:
omne
enim
agens
agit
propter
finem,
qui
habet
rationem
boni.
Et
ideo
primum
principium
in
ratione
practica
est
quod
fundatur
supra
rationem
boni,
quae
est,
'Bonum
est
quod
omnia
appetunt'.
Hoc
est
ergo
primum
praeceptum
legis,
quod
bonum
est
faciendum
et
prosequendum,
el
malum
vitandum.
Et
super
hoc
fundantur
omnia
alia
praecepta
legis
naturae..."
-‐
L'impronta
profondamente
aristotelica
di
questo
testo
è
ancora
più
evidente
se
lo
si
legge
alla
luce
del
commento
di
San
Tommaso
al
De
Anima
di
Aristotele,
dove
afferma
che
il
punto
di
partenza
dell'intelletto
pratico
è
"l'appetitible":
"ipsum
appetibile,
quod
est
primum
consideratum
ab
intellectu
practico..."
(In
de
Anima
III,
lect.
15).
103
(52)
Ho
cercato
di
dimostrarlo,
contro
l'interpretazione
di
L.
Honnefelder
e
di
G.
Wieland,
nel
mio
saggio
Praktische
Vernunft
und
das
"von
Natur
aus
Vernünftige".
Zur
Lehre
von
der
Lex
naturalis
als
Prinzip
der
Praxis
bei
Thomas
von
Aquin,
«Theologie
und
Philosophie»,
75
(2000),
pp.
493-‐522.
La
mia
interpretazione
differisce
anche
da
quella
di
G.
Grisez,
per
il
quale
il
primo
principio
non
è
in
tutti
i
riguardi
un
principio
morale,
ma
in
certi
aspetti
pre-‐morale,
tesi
che
ho
difficoltà
di
comprendere
bene.
(53)
Molti
adducono
come
prova
che
la
ragion
pratica
dipende
nei
suoi
atti
da
quella
speculativa
o
teoretica,
negandole
un
punto
di
partenza
proprio
ed
indipendente,
l'affermazione
di
I,
79,
11
(sed
contra)
"Intellectus
speculativus
per
extensionem
fit
practicus"
(parafrasi
di
De
Anima
III,
10
433a
15,
nel
corpo
dell'articolo
correttamente
citato
come
"(intellectus)
speculativus
differt
a
practico,
fine").
Come
ho
cercato
di
mostrare
in
Legge
naturale
e
ragion
pratica,
pp.
53
ss.,
la
citata
affermazione
di
San
Tommaso
si
riferisce
solo
all'intelletto
come
potenza
intellettiva:
ossia,
gli
atti
dell'intelletto
pratico
non
provengono
da
una
altra
potenza
intellettiva,
ma
per
estensione
di
questa
all'agire
dello
stesso
intelletto
che
è
quello
speculativo.
Questa
extensio,
che
si
riferisce
alla
facoltà,
non
si
verifica
però
nei
giudizi
di
questa
facoltà:
l'affermazione
che
la
ragion
pratica
ha
un
suo
punto
di
partenza
si
riferisce
solo
ai
giudizi
pratici,
che
comunque,
come
dice
esplicitamente
San
Tommaso,
non
sono
derivati
da
giudizi
teoretici
previ.
Il
che
non
impedisce
di
mantenere,
a
livello
della
potenza
e
dell'essere
della
persona,
la
profonda
unità
fra
intelletto
teoretico
e
pratico.
Nello
stesso
ragionamento
pratico
(il
"sillogismo
pratico")
sono
necessarie
delle
premesse,
che
sono
semplici
affermazioni
sulla
realtà,
cioè
giudizi
di
tipo
"speculativo";
cf.
la
mia
analisi
in
La
prospettiva
della
morale,
pp.
98
ss.
(54)
Ho
trattato
ampiamente
questo
tema
in
Legge
naturale
e
ragion
pratica,
pp.
51
ss.
Nella
stessa
linea
cf.
J.
Finnis,Fundamentals
of
Ethics,
Georgetown
/
Oxford
University
Press,
Georgetown
/
Oxford
1983,
pp.
10
ss.;
20
ss.,
anche
se
non
mi
sembra
giustificato
chiamare,
come
lo
fa
Finnis,
la
dottrina
aristotelica
sull'ergon
idion
un
"erratic
boulder"
(cf.
la
mia
critica
in
Praktische
Vernunft
und
Vernünftigkeit
der
Praxis,
pp.
53
ss.).
Le
osservazioni
critiche
invece
di
R.
McInerny,Aquinas
on
Human
Action.
A
Theory
of
Practice,
The
Catholic
University
of
America
Press,
Washington
D.C.
1992,
pp.184
ss.,
mi
sembrano
basate
sulla
confusione
fra
"riflessione
etica"
e
"conoscenza
pratica"
(cf.
p.
188).
La
"riflessione
etica"
già
presuppone
quella
conoscenza
pratica
in
cui
originariamente
nasce,
in
ogni
soggetto,
l'esperienza
del
bene
umano
e
della
propria
natura
umana.
Il
tema
di
Finnis
(e
il
mio)
è
appunto
questa
conoscenza
pratica
originaria
del
soggetto
agente,
non
la
riflessione
etica
susseguente.
Perciò,
nell'esposizione
di
McInerny
del
pensiero
di
Finnis,
quest'ultimo
viene
non
poco
falsificato.
(55)
Cf.
I-‐II,
17,
1:
"Unde
relinquitur
quod
imperare
sit
actus
rationis,
praesupposito
actu
voluntatis."
Questa
struttura
"imperativa"
vale
per
la
ragione
pratica
a
tutti
livelli;
cf.
il
commento
al
De
Anima,
III,
lect.
15:
"Quia
enim
ipsum
appetibile,
quod
est
primum
consideratum
ab
intellectu
practico,
movet,
propter
hoc
dicitur
intellectus
practicus
movere,
quia
scilicet
eius
principium,
quod
est
appetibile,
movet."
(56)
"...
ut
scilicet
omnia
illa
facienda
vel
vitanda
pertineant
ad
praecepta
legis
naturae,
quae
ratio
practica
naturaliter
apprehendit
esse
bona
humana."
(57)
"Quia
vero
bonum
habet
rationem
finis,
malum
autem
contrarii,
inde
est
quod
omnia
illa
ad
quae
homo
habet
naturalem
inclinationem,
ratio
naturaliter
apprehendit
ut
bona,
et
per
consequens
ut
opere
prosequenda,
et
contraria
eorum
ut
mala
et
vitanda.
Secundum
igitur
ordinem
inclinationum
naturalium,
est
ordo
praeceptorum
legis
naturae."
(58)
Il
titolo
dell'articolo
2
infatti
è
"Utrum
lex
naturalis
contineat
plura
precepta,
vel
unum
tantum".
(59)
L'ha
messo
in
rilievo
J.
Tonneau,
Absolu
et
obligation
en
morale,
Inst.
d'études
médiévales
-‐
J.
Vrin,
Montréal-‐Paris
1965,
pp.
89
s.
104
(60)
"...
omnes
inclinationes
quarumcumque
partium
humanae
naturae,
puta
concupiscibilis
et
irascibilis,
secundum
quod
regulantur
ratione,
pertinent
ad
legem
naturalem
..."
(I-‐II,
94,
2
ad
2).
(61)
I-‐II,
91,
2.
(62)
"In
actibus
autem
humanis
bonum
et
malum
dicitur
per
comparationem
ad
rationem"
(I-‐II,
18,
5).
Che
questo
principio
di
San
Tommaso
vada
inteso
alla
lettera,
l'ha
dimostrato
anni
fa
con
chiarezza
e
in
modo
ancora
oggi
valido
L.
Lehu,
La
raison,
règle
de
la
moralité
d'après
Saint
Thomas,
J.
Gabalda
et
Fils,
Paris
1930.
(63)
"species
moralium
actuum
constituuntur
ex
formis
prout
sunt
a
ratione
conceptae"
(I-‐II,
18,
10;
cf
anche
In
Sent.
II,
39,
2,
1).
(64)
Poiché
gli
atti
umani
sono
atti
volontari,
l'oggetto
è
sempre
un
oggetto
della
volontà.
Però
è
fondamentalmente
e
unicamente
la
ragione
a
presentare
alla
volontà
il
suo
oggetto;
perciò
la
bontà
della
volontà,
in
quanto
dipende
dal
suo
oggetto,
dipende
proprio
dalla
ragione
(I-‐II,
19,
3);
il
tendere
della
volontà
non
può
riferirsi
a
qualcosa
di
buono
senza
che
questo
non
sia
previamente
afferrato
dalla
ragione
(ibid.,
ad
1);
giustamente,
il
tendere
verso
il
fine
dovuto
(finis
debitus)
dipende
del
tutto
dalla
conoscenza
del
fine,
di
cui
solo
la
ragione
è
capace.
E
ancora:
qualsiasi
oggetto
appartiene
al
genus
moris
ed
è
atto
a
causare
la
bontà
morale
nell'atto
della
volontà
nella
misura
in
cui
cade
sotto
l'ordine
della
ragione:
"Ratio
enim
principium
est
humanorum
et
moralium
actuum..."
(I-‐II,
19,
1
ad
3).
(65)
I-‐II,
90,
1.
(66)
Ibid.,
ad
2:
"...
propositiones
universales
rationis
practicae
ordinatae
ad
actiones..."
(67)
I-‐II,
94,
1.
(68)
Cf.
In
duo
Praecepta
caritatis
et
in
decem
legis
praecepta,
Prologus
I:
"Nullus
enim
ignorat
quod
illud
quod
nollet
sibi
fieri,
non
faciat
alteri,
et
cetera
talia."
(69)
Per
la
inventio
dei
precetti
secondari
rimando
a
Legge
naturale
e
ragione
pratica,
pp.
265
ss.
Il
testi
di
San
Tommaso
sui
precetti
primi
e
secondari
della
legge
naturale
si
trovano
utilmente
raccolti
in
R.
A.
Armstrong,
Primary
and
Secondary
Precepts
in
Thomistic
Natural
Law
Teaching,
Martinus
Nijhoff,
Den
Haag
1966.
-‐
La
inventio
dei
principi
secondari
non
è
un
processo
deduttivo
e
immediato,
ma
presuppone
l'esperienza
concreta
e
si
svolge
nel
tempo,
cioè,
in
un
certo
senso
possiede
una
struttura
narrativa.
Rimando
a
miei
lavori
Praktische
Vernunft
und
das
"von
Natur
aus
Vernünftige",
pp.
511
ss.;
Die
Perspektive
der
Moral,
pp.
253
ss.
(o
La
perspectiva
de
la
moral,
pp.
301
ss.).
(70)
"nam
omnis
ratiocinatio
derivatur
a
principiis
naturaliter
notis
(...)
Et
sic
etiam
oportet
quod
prima
directio
actuum
nostrorum
ad
finem,
fiat
per
legem
naturalem
(I-‐II,
91,
2
ad
2).
(71)
Cf.
I-‐II,
94
1
ad
2:
"synderesis
dicitur
lex
intellectus
nostri,
inquantum
est
habitus
continens
praecepta
legis
naturalis,
quae
sunt
prima
principia
operum
humanorum.".
Cf.
anche
I,
79,
12.
(72)
Cf.
ad
esempio
La
prospettiva
della
morale,
pp.
255
ss.
Quest'ottica
è
in
linea
con
il
noto
passo
della
Gaudium
et
spesn.
16:
"Nell'intimo
della
coscienza,
l'uomo
scopre
una
legge
che
non
è
lui
a
darsi,
ma
alla
quale
invece
deve
obbedire
e
la
cui
voce
lo
chiama
sempre
ad
amare
e
a
fare
il
bene
e
a
fuggire
il
male
...
una
legge
scritta
da
Dio
dentro
il
suo
cuore...".
Nell'enciclica
Veritatis
splendor
n.
60
è
ulteriormente
spiegato
il
nesso
fra
coscienza
e
legge
naturale:
quest'ultima
è
la
norma
di
verità
della
prima:
"Il
giudizio
della
coscienza
non
stabilisce
la
legge,
ma
attesta
l'autorità
della
legge
naturale
e
della
ragion
pratica
in
riferimento
al
bene
supremo...".
Inoltre,
nel
n.
61
viene
affermato:
"La
verità
circa
il
bene
morale,dichiarata
nella
legge
della
ragione,
è
riconosciuta
praticamente
e
concretamente
dal
giudizio
della
coscienza
..."
(il
corsivo
è
mio).
Il
giudizio
della
coscienza
è
una
"norma
normata":
è
normata
dalla
legge
naturale
che
per
la
coscienza
è
la
regola
di
verità.
(73)
Nel
primo
libro
delle
Institutiones
(D.
I,
I,
I,
3):
"Ius
naturale
est,
quod
natura
omnia
animalia
docuit".
Un
esempio
(citato
da
San
Tommaso
in
I-‐II,
94,
2)
è
per
Ulpiano
la
"maris
atque
feminae
105
coniunctio,
quam
nos
matrimonium
appellamus..."
(cit.
secondo
M.
Bretone,
Geschichte
des
römischen
Rechts.
Von
den
Anfängen
bis
zu
Justinian,
C.
H.
Beck,
München
21998,
pp.
232
e
337;
orig.:
Storia
del
Diritto
Romano,
Laterza,
Roma-‐Bari
1987).
(74)
Platone,
Repubblica,
338
E
-‐
339
A.
(75)
Cf.
II-‐II,
57
2:
"ius
sive
iustum,
est
aliquod
opus
adaequatum
alteri
secundum
aliquem
aequalitatis
modum.
Dupliciter
autem
potest
alicui
homini
aliquid
esse
adaequatum.
Uno
quidem
modo,
ex
ipsa
natura
rei:
puta
cum
aliquis
tantum
dat
ut
tantum
recipiat.
Et
hoc
vocatur
ius
naturale."
Il
secondo
modo
è
chiamato
ex
condicto,
e
può
essere
privato
o
publico.
Il
privato
corrisponderebbe
alla
lex
dicta,
conosciuta
nel
diritto
romano
e
che
appartiene
allo
ius
privatum,
da
distinguere
dallo
ius
publicum;
distinzione
diversa
da
quella
moderna
fra
diritto
pubblico
e
privato
(cf.
G.
Dulckeit,
F.
Schwarz,
W.
Waldstein,
Römische
Rechtsgeschichte,
C.
H.
Beck,
München
91995,
p.
49
s.).
(76)
Secondo
Michel
Villey,
la
genesi
del
concetto
moderno
di
diritto
soggettivo
risale
ad
Occam:
M.
Villey,
Droit
subjectif
I
(La
genèse
du
droit
subjectif
chez
Guillaume
d'Occam),
in
Villey,
Seize
Essais
de
Philosophie
de
Droit
dont
un
sur
la
crise
universitaire,
Paris
1969,
pp.
140-‐178.
Tuttavia,
le
differenze
vengono
a
volte
esagerate.
Per
una
visione
contrastante
si
veda
J.
Finnis,
Natural
Law
and
Natural
Rights,
Oxford
University
Press,
Oxford
1980
(cap.
VIII.3
e
nota
a
pagina
228).
(77)
Cf.
W.
Waldstein,
Naturrecht
bei
den
klassischen
römischen
Juristen,
in
Das
Naaturrechtsdenken
heute
und
morgen.
Gedächtnisschrift
für
René
Marcic,
a
cura
di
d.
Mayer-‐Maly
/
P.
M.
Simons
,
Duncker
&
Humblot,
Berlin
1983,
pp.
239-‐253;
dello
stesso
autore
l'ampio
studio
Entscheidungsgrundlagen
der
klassischen
römischen
Juristen,
in
Aufstieg
und
Niedergang
der
römischen
Welt.
Geschichte
und
Kultur
Roms
im
Spiegel
der
neueren
Forschung,
a
cura
di
H.
Temporini
e
W.
Haase,,
II:
Principat,
Fünfzehnter
Band,
a
cura
di
H.
Temporini,
Walter
de
Gruyter,
Berlin,
New
York
1976,
pp.
3-‐100.
(78)
II-‐II,
57,
1
ad
2.
(79)
"reddere
debitum
alicui
habet
rationem
boni"
(II-‐II,
81,
2).
(80)
Cf.
M.
Rhonheimer,
Sins
against
Justice
(IIaIIae,
qq.
59-‐78),
in
S.
J.
Pope
(a
cura
di)
Essays
on
the
Ethics
of
St.
Thomas
Aquinas,
Georgetown
University
Press,
Washington
D.
C.,
2002,
pp.
287-‐
303;
290.
Per
la
"nascita
del
principio
di
'giustizia'"
si
veda
inoltre
La
prospettiva
della
morale,
pp.
242
ss.
(81)
Cf.
l'introduzione
di
La
prospettiva
della
morale,
e
in
particolare
l'introduzione
dell'edizione
tedesca
Die
Perspektive
der
Moral.
Philosophische
Grundlagen
der
Tugendethik,
Akademie
Verlag,
Berlin
2001.
(82)
Cf.
De
virtutibus
in
communi,
q.
un.,
9:
"virtus
appetitivae
partis
nihil
est
aliud
quam
quaedam
dispositio,
sive
forma,
sigillata
et
impressa
in
vi
appetitiva
a
ratione."
(83)
Cf.
I-‐II,
94,
3:
"Unde
cum
anima
rationalis
sit
propria
forma
hominis,
naturalis
inclinatio
inest
cuilibet
homini
ad
hoc
quod
agat
secundum
rationem.
Et
hoc
est
agere
secundum
virtutem.Unde
secundum
hoc
omnes
actus
virtutum
sunt
de
lege
naturali:
dictat
enim
hoc
naturaliter
unicuique
propria
ratio,
ut
virtuose
agat."
(84)
Si
veda
A.
Rodríguez
Luño,
La
scelta
etica.
Il
rapporto
fra
libertà
e
virtù,
Edizioni
Ares,
Milano
1988.
(85)
Cf.
Rhonheimer,
Praktische
Vernunft
und
Vernünftigkeit
der
Praxis,
cit.
pp.
530
ss.
(86)
Aristotele,
Etica
Nicomachea
III,
4,
1113a
29
s.:
"Chi
è
virtuoso,
infatti,
giudica
rettamente
ogni
cosa
ed
in
ciascuna
gli
appare
il
vero."
Per
l'importanza
di
questo
principio
nell'ambito
dell'etica
aristotelica,
si
veda
G.
Bien,
Die
menschlichen
Meinungen
und
das
Gute.
Die
Lösung
des
Normproblems
in
der
aristotelischen
Ethik,
in
M.
Riedel
(a
cura
di),
Rehabilitierung
der
praktischen
Philosophie,
I,
Verlag
Rombach,
Freiburg/Br.
1972,
pp.
345-‐371
(87)
Cf.
I-‐II,
94,
3
(citato
sopra).
106
(88)
Cf.
I-‐II,
100,
1.
(89)
Cf.
M.
Rhonheimer,
Contraccezione,
mentalità
contraccettiva
e
cultura
dell'aborto:
valutazioni
e
connessioni,
in
R.
Lucas
Lucas
(a
cura
di),
Commento
interdisciplinare
alla
«Evangelium
vitae»
(Pontificia
Accademia
per
la
Vita,
Ed.
italiana
a
cura
di
E.
Sgreccia
e
R.
Lucas
Lucas),
Libreria
Editrice
Vaticana,
Città
del
Vaticano
1997,
pp.
435-‐452.
Si
veda
anche
il
mio
studio
Sessualità
e
responsabilità
in
Rhonheimer,
Etica
della
procreazione.
Contraccezione
-‐
Fecondazione
artificiale
-‐
Aborto,
Edizioni
PUL-‐Mursia,
Milano
2000,
in
particolare
pp.
95
ss.
(90)
Rinvio
al
mio
articolo
Diritti
fondamentali,
legge
morale
e
difesa
legale
della
vita
nello
stato
costituzionale
democratico.
L'approccio
costituzionalistico
all'enciclica
Evangelium
vitae,
«Annales
Theologici«
9
(1995),
pp.
271-‐334;
ristampato
con
il
titolo
La
difesa
legale
della
vita
nello
Stato
costituzionale
democratico
e
la
legge
morale,
in
Rhonheimer,
Etica
della
procreazione,
cit,
pp.
195-‐
250.
(91)
Cf.
M.
Rhonheimer,
Is
Christian
Morality
Reasonable?
On
the
Difference
Between
Secular
and
Christian
Humanism,
«Annales
Theologici»,
15
(2001),
pp.
529-‐549;
Über
die
Existenz
einer
spezifisch
christlichen
Moral
des
Humanums,
«Internationale
katholische
Zeitschrift
'Communio'»
23
(1994),
pp.
360-‐372;
Legge
naturale
e
ragion
pratica,
pp.
509
ss.
107
FRANCESCO
VIOLA
IL
DIRITTO
NATURALE:
STABILITÀ
ED
EVOLUZIONE
DEI
SUOI
CONTENUTI
Nel
contesto
di
questo
scritto
considererò
la
legge
naturale
e
il
diritto
naturale
sostanzialmente
come
sinonimi.
Anche
se
si
vuole
distinguere
l'una
dell'altro,
collegando
la
"legge
naturale"
alla
problematica
dell'obbligo
(debitum
morale)
e
il
"diritto
naturale"
a
quella
di
un
ordine
giuridico
virtuale
(debitum
legale),
che
in
nome
dell'umanità
e
in
assenza
di
un
potere
giuridico
internazionale
potrebbe
essere
reso
effettivo
in
casi
eccezionali
da
autorità
giudiziarie
ufficiali,
e
persino
da
singoli
individui
(1)
,
ai
fini
del
tema
dei
contenuti
e
della
loro
evoluzione
non
vi
sarebbe
alcuna
differenza.
Infatti,
se
-‐
seguendo
Tommaso
d'Aquino
-‐
consideriamo
il
diritto
naturale
la
ipsa
res
iusta
(2)
,
cioè
come
l'atto
giusto
quanto
al
suo
oggetto,
allora
esso
è
determinato
dalla
legge,
sia
essa
naturale
o
positiva.
Il
contenuto
del
diritto
naturale
è
la
conclusione
tratta
dall'uso
dei
princìpi
della
ragionevolezza
pratica
(3)
.
Potremmo
dire
à
la
Wittgenstein
che
il
senso
dei
princìpi
della
legge
naturale
riposa
tutto
nel
loro
uso.
AMBIGUITÀ
DELLA
PRESENZA
DEL
DIRITTO
NATURALE
OGGI
Nella
lunga
storia
delle
concezioni
del
diritto
naturale
molteplici
sono
stati
i
tentativi
di
mostrarne
l'attualità
e
la
permanenza
nelle
concrete
vicende
storiche.
Alcuni
di
questi
tentativi
si
sono
spinti
ad
ipotizzare
un'apertura
dello
stesso
diritto
naturale
alla
storicità
e
alla
mutevolezza
delle
credenze.
Ricordo
che
Leo
Strauss
(4)
ha
enfatizzato
la
differenza
tra
la
concezione
aristotelica,
che
-‐
a
suo
parere
-‐
sarebbe
stata
favorevole
ad
un
diritto
naturale
mutevole,
e
quella
di
Tommaso
d'Aquino
che
ne
riafferma
l'immutabilità
(5).
Più
sensibile
alla
mutevolezza
del
diritto
naturale
è
Michel
Villey,
influenzato
dall'uso
romanistico
e
sostenitore,
per
questo,
di
una
più
netta
distinzione
tra
diritto
naturale
e
legge
naturale
(6).
Altri
hanno
parlato
di
"diritto
naturale
a
contenuto
variabile",
di
"diritto
naturale
storico"
e
di
"diritto
naturale
vigente"
(7).
Ma
non
credo
che
questo
sia
il
modo
più
felice
per
mostrare
la
permanenza
dei
contenuti
del
diritto
naturale.
Ovviamente
la
questione
dell'evoluzione
del
diritto
naturale
assume
una
sua
rilevanza
teorica
se
significa
in
certo
qual
modo
un
suo
mutamento
sostanziale.
Infatti,
che
si
evolva
la
coscienza
morale
dell'umanità
non
fa
problema,
ma
diventa
un
problema
se
si
afferma
che
mutano
i
contenuti
fondamentali
della
morale.
Pertanto
il
problema
della
mutevolezza
del
diritto
naturale
o
è
un
falso
problema
oppure
si
pone
solo
per
quelle
concezioni
del
diritto
naturale
che
non
distinguono
tra
princìpi
e
loro
conclusioni.
Mi
riferisco
ovviamente
al
giusnaturalismo
moderno
che,
allontanandosi
dal
senso
della
ragion
pratica,
ha
concepito
il
diritto
naturale
come
un
corpo
di
norme
già
definite,
eterne
e
immutabili.
Ma
per
una
concezione
come
quella
di
Aristotele
o
di
Tommaso
d'Aquino,
per
cui
il
diritto
naturale
è
l'esercizio
della
ragionevolezza
pratica
e
il
suo
risultato,
il
problema
del
mutamento
non
esiste,
poiché
i
princìpi
della
legge
naturale
sono
immutabili
e
sono
conosciuti
da
tutti,
mentre
le
loro
conclusioni
possono
non
essere
conosciute
da
tutti
e
possono
variare
in
una
certa
misura
sulla
base
delle
circostanze.
E
qui
-‐
come
si
sa
-‐
Tommaso
usa
la
distinzione
tra
«ut
in
pluribus»
e
«in
aliquo
particolari,
et
in
paucioribus,
propter
aliquas
speciales
causas
impedientes
observantiam
talium
praeceptorum»
(8).
Una
volta
accettata
l'idea
che
il
diritto
naturale
è
frutto
del
ragionamento
pratico,
allora
diventa
cruciale
la
questione
del
retto
esercizio
della
ragione.
Esso
implica
l'individuazione
dei
princìpi
primi
e
l'argomentazione
delle
conclusioni.
Il
carattere
controverso
dei
primi
e
il
dibattito
sulla
108
correttezza
delle
conclusioni
costituiscono
le
ragioni
principali
dell'instabilità
del
diritto
naturale
nella
coscienza
dell'uomo
contemporaneo.
Un'altra
fonte
di
confusione
è
data
dalla
convinzione,
attualmente
diffusa,
dell'identificazione
del
diritto
naturale
con
i
diritti
umani.
In
realtà
questi
non
possono
di
per
sé
fornire
una
giustificazione
ultima
e
hanno
bisogno
essi
stessi
di
essere
giustificati
sia
nella
loro
attribuzione
sia
nel
loro
esercizio.
Si
può
avere
un
diritto
e
usarlo
male,
cioè
contro
la
legge
naturale,
tant'è
vero
che
le
corti
di
giustizia
giudicano
sul
corretto
uso
dei
diritti
(9).
Nella
coscienza
dell'uomo
contemporaneo
il
diritto
in
senso
soggettivo
s'è
separato
dal
dovere,
cioè
dalla
regola,
e
ciò
ha
reso
instabile
il
diritto
naturale,
a
cui
appartiene
sia
il
diritto
in
senso
soggettivo
sia
la
norma.
I
diritti
sono
attribuiti
sulla
base
del
diritto
naturale,
ma
poi,
quando
sono
usati
male,
contravvengono
ai
princìpi
della
ragionevolezza
pratica
che
pure
appartengono
al
diritto
naturale.
Si
crea
così
un
contrasto
all'interno
dello
stesso
diritto
naturale.
Sulla
base
di
queste
considerazioni
mi
sembra
particolarmente
necessario
oggi
riflettere
sul
modo
d'intendere
la
ragionevolezza
pratica,
sui
suoi
princìpi
e
sulle
sue
articolazioni
con
la
consapevolezza
che
qui
s'incontra
inevitabilmente
la
questione
del
diritto
naturale
e
dei
suoi
contenuti.
Da
questo
punto
di
vista
la
cultura
giuridica
e
politica
contemporanea
attraversa
una
fase
ambigua,
perché,
da
una
parte,
è
particolarmente
propizia
al
diritto
naturale
e,
dall'altra,
non
è
certamente
favorevole
alla
stabilità
dei
suoi
contenuti.
Il
diritto
nasce
come
ragione
e
diventa
volontà.
L'esigenza
di
una
coordinazione
delle
azioni
sociali
fa
sorgere
regole
che
il
tempo
purifica
al
vaglio
della
ragione.
La
stabilità
sociale
conduce
a
preservare
queste
regole
dal
mutamento,
proteggendole
con
il
contrassegno
dell'autorità.
Ciò
che
nasce
come
diritto
della
ragione
viene
riclassificato
come
fonte
del
diritto
in
senso
positivistico
(10).
Ma
in
tal
modo
il
principio
di
autorità
prevale
sul
ragionamento
pratico
e
la
richiesta
di
stabilità
dei
contenuti
del
diritto
positivo
non
sempre
permette
di
adeguarli
alla
complessità
dei
problemi
concreti.
Oggi,
sotto
differenti
punti
di
vista,
assistiamo
ad
una
profonda
trasformazione
dell'assetto
giuridico-‐positivo
del
passato
ed
allora
il
diritto
deve
tornare
a
bussare
alle
porte
della
ragione,
cioè
del
diritto
naturale.
Tuttavia,
se
ci
poniamo
da
un
altro
punto
di
vista,
che
è
quello
del
pluralismo
contemporaneo,
del
rifiuto
diffuso
di
accettare
che
vi
siano
modelli
di
comportamento
validi
per
tutti
gli
uomini,
persino
solo
per
quelli
appartenenti
ad
una
stessa
comunità
politica,
e
di
ritenere
che
le
soluzioni
ai
problemi
di
oggi
possano
valere
per
quelli
di
domani,
allora
il
ricorso
alla
ragione
e
alla
ragionevolezza
assumerà
un
carattere
puramente
contingente
non
solo
riguardo
alle
conclusioni,
ma
persino
riguardo
agli
stessi
principi.
E
questo
non
è
favorevole
al
diritto
naturale
e
alla
stabilità
dei
suoi
contenuti.
Non
basta,
pertanto,
il
ritorno
alla
ragione
per
ritrovare
il
senso
del
diritto
naturale,
poiché
questo
è
legato
ad
un
determinato
uso
della
ragione
e
della
ragionevolezza
pratica.
Credo
che
un
sostenitore
del
diritto
naturale
debba
oggi
assolvere
due
obblighi:
il
primo
è
quello
di
mostrare
che
il
ragionamento
giuridico
di
fatto
praticato
dalle
corti
di
giustizia
dal
punto
di
vista
della
struttura
argomentativa
non
è
in
contrasto
con
l'uso
della
ragionevolezza
proprio
del
diritto
naturale;
il
secondo
è
quello
di
mostrare
che
la
tradizione
del
diritto
naturale
è
in
grado
di
fornire
la
giustificazione
più
adeguata
dei
princìpi
della
ragionevolezza
pratica.
Qui
cercherò
di
indicare
in
modo
sommario
e
molto
generale
come
-‐
a
mio
parere
-‐
questi
due
compiti
dovrebbero
essere
assolti.
IL
PRINCIPIO
DI
RAGIONEVOLEZZA
NEL
DIRITTO
POSITIVO
È
un
dato
di
fatto
che
il
principio
della
ragionevolezza
pratica
ha
ormai
assunto
il
rango
di
valore
costituzionale.
La
costituzionalizzazione
dei
diritti
umani
implica
necessariamente
la
109
considerazione
della
ragionevolezza
come
valore
costituzionale,
anche
se
esso
non
è
esplicitamente
formulato.
Con
ciò
si
vuol
dire
qualcosa
di
più
della
constatazione
che
l'attributo
della
ragionevolezza
risulta
prescritto
per
l'esercizio
di
tutte
le
pubbliche
funzioni
(e
quindi
anche
di
quelle
della
Corte
Costituzionale)
(11).
Si
vuol
dire
che
la
costituzione
non
è
una
tavola
di
valori
e
di
princìpi
da
applicare
nel
modo
automatico
della
sussunzione,
che
è
l'idea
direttiva
della
razionalità
giuridica,
ma
è
un
insieme
di
orientamenti
che
solo
nel
concreto
assumono
un
volto
definito
e
una
composizione
organica.
Proprio
il
linguaggio
dei
princìpi
suggerisce
l'idea
di
un
processo
che
ha
l'inizio
e
l'avvio
con
il
testo
costituzionale,
ma
che
si
compie
solo
nell'applicazione,
di
cui
la
legge
ordinaria
è
a
sua
volta
il
primo
passo
e
la
sentenza
costituzionale
l'ultimo.
L'applicazione
della
costituzione
non
è
la
stessa
cosa
dell'applicazione
di
una
legge.
I
metodi
tradizionali
interpretativi
di
tipo
letterale
e
logico
non
bastano
al
giudice
costituzionale.
Sono
necessari
riscontri
sostanziali
di
conformità
alla
legge
e
forme
di
giudizio
nettamente
orientate
alla
valutazione
delle
conseguenze
dell'atto
legislativo
e
alla
verifica
della
razionalità
materiale
della
prescrizione
normativa,
cioè
della
sua
capacità
di
realizzare
obiettivi
di
benessere
sociale
e
di
collegare
in
un
ragionevole
rapporto
mezzi
e
fini
dell'azione
statale.
Ebbene,
in
questo
processo
la
regola
generale
è
proprio
la
ragionevolezza.
Per
questo
essa
è
concetto
ben
più
comprensivo
e
fondativo
di
quello
giuridico
di
razionalità
sussuntiva.
È
insieme
-‐
secondo
la
giurisprudenza
costituzionale
-‐
un
concetto-‐mezzo
e
un
concetto-‐fine,
una
tecnica
e
una
meta
verso
cui
i
processi
giuridici
devono
tendere.
La
ragionevolezza
è
un
mezzo
per
la
soddisfazione
dei
valori
ed
un
valore
essa
stessa
senza
il
quale
neppure
gli
altri
valori
potrebbero
realizzarsi
in
modo
adeguato
(12).
Appartiene
allo
spirito
del
costituzionalismo
l'esigenza
che
la
dignità
umana
non
sia
soltanto
proclamata
in
astratto,
quanto
soprattutto
sia
rispettata
nei
casi
concreti
nella
misura
massima
del
possibile.
Ed
allora,
in
queste
condizioni,
la
ragionevolezza
è
necessaria,
sia
per
lo
statuto
di
"fine
ultimo"
(cioè
non
subordinato)
dei
diritti
fondamentali,
sia
per
l'esigenza
di
andar
incontro
alle
attese
dei
particolari
accadimenti
della
vita,
alla
giustizia
del
caso
concreto
(13).
In
un
regime
etico-‐giuridico
governato
dalla
morale
dei
diritti,
qual
è
quello
attuale,
il
principio
del
dovere,
necessario
per
la
praticabilità
di
ogni
etica
e
inteso
come
misura
e
come
ordine,
in
una
parola
come
"regola",
è
tutto
concentrato
nella
ragionevolezza
(14).
Questa
trasforma
i
princìpi
in
regole.
Questo
valore
esprime
per
l'individuo
l'esigenza
di
dare
alle
proprie
azioni,
abitudini
e
pratiche
un
ordine
generale
nel
rispetto
dell'integrità
e
dell'autenticità
(15)
e,
per
le
comunità,
è
l'istanza
di
armonizzare
le
aspettative
dei
consociati
in
modo
da
garantire
insieme
la
certezza
e
la
giustizia.
Alla
fin
dei
conti
tutta
l'impresa
giuridica
si
giustifica
sulla
base
della
ragionevolezza
pratica,
cioè
della
necessità
di
coordinare
le
azioni
sociali
non
in
qualsiasi
modo,
ma
secondo
equità
e
giustizia.
La
dottrina
costituzionale
dei
paesi
europei
e
non
si
sta
industriando
in
forme
diverse
per
definire
con
maggiore
precisione
in
cosa
consista
il
"giudizio
di
ragionevolezza"
nel
presupposto
che
esso
abbia
una
sua
identità
rispetto
agli
altri
processi
decisionali
usati
dai
giudici
costituzionali
(16).
L'evoluzione
del
giudizio
costituzionale
di
ragionevolezza
registra
in
modo
evidente
la
sua
progressiva
autonomia
dal
giudizio
di
eguaglianza
quando
ci
si
rende
conto
che
quest'ultimo
non
è
meramente
formale
e
implica
necessariamente
giudizi
di
valore
che
necessitano
di
essere
giustificati.
Di
conseguenza
ci
si
accorge
che
il
giudizio
di
ragionevolezza
in
senso
stretto
non
ha
più
un
carattere
intra-‐sistematico,
cioè
interno
alla
normativa
già
stabilita,
ma
ha
un
carattere
extra-‐sistematico,
in
quanto
valuta
la
norma
sulla
base
di
parametri
in
qualche
modo
"esterni",
che
possono
essere
sia
giuridicamente
rinvenibili
nei
valori
costituzionali,
sia
legati
a
giudizi
di
funzionalità,
di
idoneità
e
di
proporzionalità,
come
anche
di
equità.
110
Un
passo
ulteriore
in
questa
direzione
viene
fatto
quando
occorre
operare
un
bilanciamento
dei
diritti
ed
allora
è
particolarmente
evidente
che
ad
una
tecnica
di
giudizio
di
tipo
interpretativo
si
affianca
un
processo
di
tipo
prevalentemente
argomentativo.
Il
bilanciamento
è
esso
stesso
una
forma
di
decisione
che
non
deriva
da
un
sillogismo
giudiziario,
ma
al
contrario
è
diretto
a
formulare
quei
giudizi
di
valore
che
sono
necessari
per
la
selezione
delle
premesse
del
sillogismo
stesso.
Qui
la
ragionevolezza
raggiunge
il
massimo
d'indipendenza
dalle
funzioni
meramente
applicative
solitamente
attribuite
ad
un
giudice.
In
realtà
la
tecnica
del
bilanciamento
messa
in
opera
dal
giudice
costituzionale
ha
la
sua
legittimità
solo
a
patto
che
si
possa
mostrare
che
i
percorsi
della
ragionevolezza
praticati
sono
ben
diversi
dalle
logiche
della
convenienza
politica
e
dalle
scelte
ideologiche.
Come
ha
notato
Bickel,
le
corti
di
giustizia
non
entrano
in
concorrenza
con
le
regole
della
rappresentanza
democratica
solo
nella
misura
in
cui
offrono
ad
essa
l'apporto
di
ciò
che
solo
esse
possono
dare,
cioè
l'apporto
di
argomentazioni
legate
ad
una
storia
istituzionale
e
non
già
alla
contingenza
politica
(17).
Tali
ragioni
fanno
diretto
riferimento
a
valori
ampiamente
accettati
e
assolutamente
indispensabili
per
la
convivenza
civile
e
sono
profondamente
sensibili
all'uguale
rispetto
per
la
dignità
delle
persone
senza
il
quale
gli
stessi
procedimenti
della
rappresentanza
democratica
non
potrebbero
funzionare
correttamente.
Un'evoluzione
simile
del
concetto
di
"ragionevolezza"
sarebbe
possibile
dimostrare
in
relazione
al
diritto
internazionale
e
all'uso
di
tale
principio
da
parte
della
Corte
Internazionale
di
Giustizia
e
nella
pratica
interpretativa
dei
trattati
internazionali.
Non
posso
soffermarmi
molto
sull'argomento
(18),
ma
si
può
dire
che
anche
qui
la
forza
attrattiva
dell'idea
di
ragionevolezza
induce
a
ricercare
il
raggiungimento
del
massimo
di
giustizia
possibile
nelle
concrete
circostanze
segnate
dall'eguaglianza
normativa
degli
Stati.
Sono,
quindi,
ragionevoli
tutte
quelle
soluzioni
che
rendono
la
società
internazionale
più
rispettosa
dei
diritti
individuali
e
collettivi,
il
meno
possibile
conflittuale,
e
che
accrescono
le
possibilità
di
cooperazione
e
d'intesa.
Infatti
non
sono
rare
le
pronunce
della
Corte
Internazionale
di
Giustizia
in
cui
si
parla
di
intenzioni
che
si
possonoragionevolmente
attribuire
agli
Stati
in
funzione
delle
circostanze.
Più
in
generale
si
parla
di
prendere
in
considerazione
lo
scopo
ragionevolmente
perseguito
dallo
Stato.
Ma
evidentemente
questa
è
una
costruzione
giuridica:
è
più
lo
scopo
che
lo
Stato
avrebbe
dovuto
perseguire
che
quello
che
di
fatto
ha
perseguito.
Certamente
questo
"avrebbe
dovuto"
non
rinvia
ad
un
modello
ideale
di
comportamento
quanto
piuttosto
a
ciò
che
ci
si
sarebbe
potuto
aspettare,
date
le
attuali
condizioni
dell'ordinamento
internazionale.
E
tuttavia
ciò
non
indica
un
mero
adattamento
alla
situazione
di
fatto
dominata
dalla
sovranità
degli
Stati,
perché
indubbiamente
oggi
crescono
nel
diritto
internazionale
i
vincoli
oggettivi
superiori
alla
volontà
degli
Stati.
Lo
jus
cogens
è
uno
dei
frutti
dell'esercizio
della
ragionevolezza
nella
pratica
giuridica
internazionale.
Esigere
che
questo
metodo
della
ragionevolezza
s'ispiri
(o
si
debba
ispirare)
a
parametri
pur
sempre
giuridici
e
non
extra-‐giuridici
ha
un
senso
solo
a
condizione
di
non
rispolverare
la
vecchia
disputa
tra
giusnaturalismo
e
giuspositivismo
(19)
e
a
patto
di
rendersi
conto
che
la
giuridicità
internazionale
non
risiede
nell'empirica
volontà
degli
Stati,
ma
nella
lettura
che
dà
di
questa
una
prassi
giuridica
già
segnata
da
valori
fondamentali
e
garanzie
specifiche.
In
mancanza
del
consenso
sociale
di
una
comunità
determinata
(nazionale
o
internazionale)
si
può
ritenere
che
vi
siano
risorse
interne
alla
pratica
giuridica
per
la
determinazione
del
concetto
di
ragionevolezza.
Vi
sono,
infatti,
beni
propriamente
giuridici
in
quanto
possono
essere
raggiunti
solo
attraverso
il
diritto
e
fruiti
nel
diritto,
cioè
all'interno
della
pratica
della
giuridicità.
111
LE
FORME
DELLA
RAGIONEVOLEZZA
NEL
DIRITTO
POSITIVO
Se
poi
gettiamo
uno
sguardo,
anche
sommario,
alle
forme
dell'argomentazione
giuridica
adottate
dalla
giurisprudenza
costituzionale,
che
in
questo
per
ovvie
ragioni
è
molto
più
avanzata
di
quella
internazionale,
ci
accorgiamo
che
si
vanno
individuando
alcuni
vincoli
tipici
comuni.
Non
si
tratta
propriamente
di
"tecniche
argomentative",
poiché
ognuna
di
esse
si
prefigge
un
obiettivo
che
potrebbe
essere
raggiunto
da
procedimenti
tecnici
differenti.
In
generale,
tutti
riconoscono
che
vi
sono
modi
ragionevoli
di
fare
certe
cose
e
modi
irragionevoli.
E
si
potrebbe
anche
aggiungere
che
ciò
che
è
in
questo
senso
"irragionevole"
appare
anche
"innaturale",
cioè
contrario
alla
"natura
delle
cose".
Ciò
significa
che
le
forme
della
ragionevolezza
devono
tener
conto
dei
contesti
sociali
e
storici
entro
cui
operano.
Se
ci
poniamo
in
quest'ottica
molto
comprensiva,
ci
accorgeremo
che
un
confronto
tra
la
giurisprudenza
delle
varie
corti
costituzionali
mette
in
luce
«una
certa
koiné
degli
strumenti
argomentativi»
(20).
Certamente
ci
sono
anche
notevoli
differenze,
perché
la
pratica
costituzionale
della
ragionevolezza
dipende
dalla
concezione
culturale
di
"costituzione".
Ad
esempio,
i
percorsi
argomentativi
sono
indubbiamente
influenzati
dalla
questione
se
una
determinata
costituzione
abbia
voluto
formulare
i
valori
secondo
una
gerarchia
di
priorità
o
no.
Tuttavia,
nonostante
tutte
le
varianti
possibili,
possiamo
individuare
alcune
massime
di
"buon
senso"
che
sono
presenti
nella
pratica
costituzionale
di
vari
paesi.
Posso
solo
qui
indicarne
alcune
in
modo
molto
approssimativo
e
incompleto:
Non
è
ragionevole
una
decisione
legale
che
senza
alcuna
giustificazione
accettabile
danneggi
un
valore
fondamentale
o
ne
impedisca
la
realizzazione
(criterio
della
legittimità).
È
ragionevole
limitare
un
diritto
fondamentale
solo
se
ciò
è
giustificato
dalla
necessità
di
proteggere
un
interesse
pubblico
essenziale
(21)
o
un
altro
diritto
fondamentale
(criterio
della
necessità).
È
ragionevole
una
misura
restrittiva
dei
diritti
fondamentali
se,
oltre
essere
necessaria,
è
l'unico
mezzo
praticabile
o
il
più
mite
tra
quelli
praticabili
(criterio
del
minor
danno)
(22).
È
irragionevole
formulare
una
misura
restrittiva
dei
diritti
fondamentali
in
termini
vaghi
sì
da
permettere
interpretazioni
estensive
(criterio
della
determinatezza)
(23).
È
irragionevole
limitare
un
diritto
fondamentale
sino
al
punto
da
vanificarlo
nella
sostanza
(criterio
del
contenuto
essenziale).
È
ragionevole
esigere
che
i
mezzi
legislativi
predisposti
siano
idonei
(o
non
palesemente
inadeguati)
al
raggiungimento
del
fine
(criterio
dell'idoneità)
(24).
Ora
è
interessante
constatare
la
somiglianza
tra
questi
vincoli
argomentativi
giurisprudenziali
con
quelle
esigenze
metodologiche
della
ragionevolezza
pratica
a
cui
ha
posto
attenzione
la
riflessione
filosofica
di
tutti
i
tempi.
La
loro
presenza
mostra
che
la
stessa
ragionevolezza
pratica
è
un
valore
fondamentale
necessariamente
presente
nel
momento
del
raggiungimento
e
della
realizzazione
degli
altri
valori.
Si
tratta
nella
sostanza
del
valore
della
regola
e
della
misura
senza
il
quale
anche
la
partecipazione
agli
altri
valori
sarebbe
falsata
o
impossibile.
Non
basta
mirare
ad
un
bene
fondamentale,
ma
bisogna
farlo
con
misura
e
ordine,
altrimenti
si
sarà
in
balìa
della
"tirannia
dei
valori"
con
effetti
devastanti.
Finnis
ha
parlato
di
«basic
requirements
of
practical
reasonableness»,
riconoscendovi
il
«metodo
del
diritto
naturale»,
cioè
il
modo
specifico
in
cui
dai
primi
princìpi
pratici
si
traggono
i
princìpi
morali
del
diritto
naturale
(25).
Non
voglio
dire
che
vi
sia
una
piena
corrispondenza
tra
queste
massime
della
giurisprudenza
costituzionale
e
le
esigenze
della
ragionevolezza
pratica
individuate
dai
filosofi
e,
tuttavia,
non
ci
si
può
sottrarre
dal
giustificare
in
qualche
modo
la
somiglianza
tra
le
une
e
le
altre.
112
I
princìpi
da
cui
il
giudice
trae
le
conclusioni
sulla
base
della
ragionevolezza
non
sono
i
primi
princìpi
della
legge
naturale,
ma
diritti
costituzionali,
cioè
princìpi
già
in
certo
qual
modo
positivizzati,
essi
stessi
a
loro
volta
conclusioni
tratte
da
princìpi
più
fondamentali.
Ma
a
questo
punto
il
giudice
costituzionale
giuspositivista
si
ferma,
non
risale
ai
princìpi
della
legge
naturale
e
invoca
come
suo
vincolo
il
consenso
sociale,
cioè
la
moralità
positiva,
interpretando
i
valori
costituzionali
come
l'etica
pubblica
di
fatto
accettata
dai
consociati.
Il
consenso
sociale
svolge
lo
stesso
ruolo
dei
primi
princìpi
del
diritto
naturale
con
la
differenza
che
è
(o
almeno
si
crede
che
sia)
un
fatto
empirico.
Ciò
che
per
il
momento
mi
preme
mostrare
è
la
vicinanza
tra
la
struttura
argomentativa
del
ragionamento
giuridico,
applicato
ai
diritti
e
ai
valori
costituzionali,
e
quella
della
tradizione
del
diritto
naturale.
Ma
la
differenza,
che
non
è
certamente
poca
cosa,
sta
nel
modo
di
considerare
i
princìpi
e
d'intendere
il
loro
contenuto.
Ognuno
vede
quanto
questa
differenza
sia
importante
ai
fini
della
permanenza
e
stabilità
del
contenuto
del
diritto
naturale.
PLURALISMO
E
GIUSTIZIA
Ora
io
non
intendo
certamente
qui
affrontare
il
difficile
problema
della
giustificazione
e
della
fondazione
dei
primi
princìpi
della
legge
naturale,
poiché
non
voglio
perdere
di
vista
il
riferimento
alla
pratica
giuridica
e
politica
esistente.
Mi
limito
a
constatare
che
la
sostituzione
del
consenso
sociale
ai
primi
princìpi
del
diritto
naturale
non
è
di
per
sé
convincente
e
non
è
più
accettabile
nel
contesto
attuale.
Il
criterio
del
consenso
sociale
non
funziona
più
come
vincolo
univoco
per
il
giudice.
Infatti,
le
corti
costituzionali
di
tutto
il
mondo
sono
accusate
di
decidere
sulla
base
di
propri
criteri
politici
ed
etici..
Le
società
politiche
hanno
perso
la
compattezza
della
loro
cultura
di
fondo
e,
conseguentemente,
il
consenso
sociale
intorno
ad
un
nucleo
di
valori
condivisi
e,
soprattutto,
intorno
al
modo
d'interpretarli
è
in
decomposizione.
Anche
il
richiamo
concorde
ai
diritti
si
rivela
come
una
fragile
unità
quando
si
constata
quanto
diversamente
questi
siano
interpretati
e
praticati.
Si
rafforza,
dunque,
la
convinzione
che
solo
con
la
ragionevolezza
dei
fini
(e
non
solo
dei
mezzi)
si
potrà
affrontare
il
pluralismo.
In
questo
senso
s'impone
un
ritorno
al
diritto
naturale
in
senso
compiuto.
Ma
a
questo
punto
debbo
passare
dalla
filosofia
del
diritto
alla
filosofia
politica
e
morale,
per
quanto
valore
possano
avere
queste
distinzioni
interne
al
sapere
pratico.
È
significativo
che
il
dibattito
attuale
della
filosofia
politica
sia
fortemente
attratto
dalla
problematica
della
ragionevolezza
e
della
ragione
pubblica.
La
ragionevolezza
oggi
è
generalmente
intesa
come
la
disposizione
a
tener
conto
delle
conseguenze
delle
proprie
azioni
per
il
benessere
degli
altri,
cioè
un
atteggiamento
che
predispone
a
partecipare
ad
una
cooperazione
equa,
rispettosa
dell'altro
come
libero
ed
eguale
e
segnata
dalla
reciprocità.
Essere
ragionevoli
significa
riconoscere
che
gli
altri
hanno
gli
stessi
diritti
a
perseguire
i
propri
fini
e
che,
quindi,
bisogna
cercare
condizioni
tali
che
siano
accettabili
da
tutti
(26).
La
persona
ragionevole
percepisce
come
valore
fondamentale
e
fine
in
sé
un
mondo
sociale
nel
quale
tutti
possano
cooperare
da
individui
liberi
ed
eguali,
a
condizioni
accettabili
da
tutti,
in
piena
reciprocità
e
con
mutuo
beneficio
(27).
Che
senso
dobbiamo
dare
a
questo
modo
d'intendere
la
persona
ragionevole?
Di
per
sé
ne
potrebbe
avere
molti
e
non
tutti
compatibili
fra
loro.
Ma
indubbiamente
esso
esprime
un
orientamento
generale
ben
chiaro,
che
è
ottimamente
espresso
dalle
parole
di
un
costituzionalista
italiano:
«"ragionevole"...
è
colui
che
si
rende
conto
della
necessità,
in
vista
della
coesistenza,
di
addivenire
a
"composizioni"
in
cui
vi
sia
posto
non
per
una
sola,
ma
per
tante
"ragioni".
Non
l'assolutismo
di
una
sola
ragione
e
nemmeno
il
relativismo
rispetto
alle
tante
113
ragioni
(una
o
l'altra,
pari
sono),
ma
il
pluralismo
(le
une
e
le
altre,
per
quanto
possibile,
insieme)»
(28).
Il
fatto
del
pluralismo
è
inteso
come
il
kantiano
"fatto
della
ragione",
cioè
come
l'istituzione
di
una
nuova
condizione
di
verità
tra
l'assolutismo
e
il
relativismo,
tra
l'unica
verità
e
nessuna
verità.
L'assolutismo
mortificherebbe
il
pluralismo
in
quanto
renderebbe
illegittime
tutte
le
opinioni
non
conformi
all'unica
verità;
il
relativismo
destituirebbe
il
pluralismo
di
ogni
dignità
epistemica.
A
ognuno
non
basta
poter
soddisfare
le
proprie
preferenze,
ma
tutti
vogliono
che
le
loro
preferenze
siano
riconosciute
come
vere
e
giuste.
E
lo
si
comprende
bene,
in
quanto
in
tal
modo
tali
preferenze
hanno
una
dignità
sociale
e
non
sono
un
capriccio.
Ma
è
impossibile
che
sia
contemporaneamente
vero
o
giusto
A
e
non
A,
così
come
c'insegna
il
principio
di
non
contraddizione
della
metafisica
classica.
Non
è
un
caso
se
la
concezione
della
giustizia
che
cerca
di
dare
spessore
filosofico
a
questa
pretesa
abbia
una
chiara
matrice
hegeliana.
Michel
Rosenfeld
ha
così
definitivo
il
suo
"pluralismo
comprensivo":
«in
a
contemporary
pluralistic
society
there
are
many
competing
conceptions
of
the
good,
each
good
in
itself,
but
none
good
enough
to
be
embraced
by
all.
Under
these
circumstances,
it
becomes
imperative
to
imagine
an
overriding
conception
of
the
good
which
would
encompass
all
others
in
the
context
of
an
elaboration
of
a
community
of
communities.
While
working
on
breaking
free
from
the
impasse
resulting
from
clashing
visions
of
the
good,
it
should
become
apparent
that
there
is
no
escape
from
plurality,
but
the
plurality
of
conceptions
of
the
good
can
itself
become
a
good-‐or,
more
precisely,
the
good
that
may
bind
together
other
goods.
And
once
this
becomes
accepted,
all
that
can
be
done
is
to
embark
on
a
dialectical
quest
to
harmonize
the
plurality
of
goods»
(29).
È
proprio
della
dialettica
hegeliana
pretendere
di
abbracciare
in
un
processo
unico
e
in
una
sintesi
suprema
tutte
le
contrapposte
concezioni
della
verità
e
del
bene,
ma
questo
è
possibile
proprio
sulla
base
di
un
"sapere
assoluto"
che
non
è
certamente
l'esito
desiderato
dal
pluralismo
contemporaneo.
Per
questo,
più
accortamente,
Rawls
lascia
fuori
dalla
porta
della
giustizia
politica
la
questione
della
verità
e
del
bene
(30).
A
suo
parere
non
è
la
filosofia
politica
che
deve
risolvere
le
difficoltà
epistemologiche
del
pluralismo.
Il
suo
compito
è
solo
quello
di
disegnare
istituzioni
giuste
nelle
condizioni
culturali
attuali.
Ora
mi
chiederò
se
questo
è
possibile
senza
prendere
in
considerazione
i
princìpi
del
diritto
naturale.
Prenderò
come
caso
paradigmatico
il
pensiero
di
John
Rawls.
IL
PRINCIPIO
DI
COOPERAZIONE
L'uso
rawlsiano
della
ragionevolezza
riposa
integralmente
sul
"principio
di
cooperazione"
senza
il
quale
nessuna
convivenza
civile
potrebbe
mai
sorgere
(31).
Anche
in
una
società
plurale,
in
quanto
propriamente
"società",
non
basta
la
mera
coordinazione
delle
azioni
che
potrebbe
essere
realizzata
dall'agire
strategico
o
dalla
scelta
razionale.
Questa
non
basta,
perché
una
società
ha
bisogno
di
una
qualche
comunanza
per
essere
qualcosa
di
diverso
da
un
mero
modus
vivendi.
Ma
non
v'è
alcuna
comunanza
quando
si
agisce
semplicemente
sulla
base
delle
aspettative
di
come
probabilmente
agiranno
gli
altri.
Occorre
in
più
un
atteggiamento
cooperativo,
che
però
in
ragione
del
pluralismo
non
può
consistere
in
una
previa
condivisione
dei
fini.
Nessuno
può
rifiutare
sia
la
necessità
della
cooperazione
sociale,
sia
l'idea
di
un
equo
sistema
di
cooperazione
sociale.
Ma
c'è
da
chiedersi
se
quest'idea
può
assumere
di
per
sé
e
da
sola
il
ruolo
di
principio
della
giustizia
senza
alcuna
presupposizione.
Come
possiamo
giudicare
se
un
sistema
di
cooperazione
è
equo
senza
presupporre
le
caratteristiche
dei
soggetti
che
cooperano
e
dei
beni
che
devono
essere
distribuiti?
Eppure
stranamente
nel
pensiero
di
Rawls
l'idea
di
cooperazione
equa,
cioè
ragionevole,
viene
prima
del
concetto
di
persona
e,
anzi,
è
proprio
l'idea
dei
giusti
114
termini
della
cooperazione
a
dar
forma
alle
caratteristiche
dei
soggetti
che
partecipano
ad
essa
(32).
In
tal
modo
la
teoria
politica
si
chiude
in
se
stessa
e
non
ha
bisogno
di
rivolgersi
a
princìpi
"esterni"
di
carattere
antropologico
o
etico.
Cos'hanno
in
comune
persone
"libere
ed
eguali"
in
quanto
tali?
Verrebbe
da
rispondere:
niente
del
tutto!
L'uguaglianza
nelle
cose
fondamentali
non
implica
per
ciò
stesso
la
comunanza
e
l'aiuto
reciproco.
Su
questa
sola
base
non
si
potrebbe
comprendere
il
perché
della
cooperazione.
Perché
mai
persone
che
si
pongono
le
une
nei
confronti
delle
altre
come
"libere
ed
eguali"
dovrebbero
cooperare?
Ma
queste
domande
non
hanno
senso
per
Rawls
in
quanto
le
persone
possono
essere
pensate
in
tal
senso
solo
già
presupponendo
l'idea
dell'equa
cooperazione
sociale,
in
una
parola
queste
persone
sono
già
"cittadini"
o
persone
politiche,
cioè
forniti
di
atteggiamenti
cooperativi.
Ma
questo
ha
tutta
l'aria
di
una
petitio
principii:
qui
la
natura
della
società
non
si
trae
dal
modo
di
essere
delle
persone,
ma
al
contrario
sono
esse
a
configurarsi
sulla
base
di
un'idea
presupposta
di
equità.
Ma
da
dove
è
tratta
quest'idea
di
equità?
Un
sostenitore
del
diritto
naturale
farebbe
ricorso
ad
un
principio
primo
della
legge
naturale,
ma
per
Rawls
si
tratta
di
un
postulato
della
teoria
politica.
E
non
si
tratta
di
punti
di
vista
che
alla
fin
dei
conti
potrebbero
essere
compatibili,
perché
dal
modo
di
derivazione
del
principio
di
cooperazione
si
inferisce
anche
la
sua
interpretazione
e
l'uso
al
suo
interno
delle
esigenze
della
ragionevolezza
pratica,
come
apparirà
evidente
da
un'analisi
più
attenta.
Un
elemento
centrale
del
principio
rawlsiano
di
cooperazione
è
dato
dall'idea
di
reciprocità,
per
cui
tutti
coloro
che
cooperano
secondo
le
regole
stabilite
devono
ricavarne
un
beneficio
adeguato
(33).
Quindi
bisogna
riconoscere
che
a
monte
del
principio
rawlsiano
di
cooperazione
c'è
pur
sempre
un
interesse
personale.
Si
precisa
subito
che
quest'idea
di
reciprocità
è
intermedia
fra
quella
altruistica
d'imparzialità
e
quella
egoistica
del
vantaggio
reciproco.
Abbiamo,
pertanto,
tre
modelli
di
giustizia
politica:
quello
imparziale,
che
consiste
-‐
come
ha
sottolineato
Barry
-‐
nel
tener
conto
del
punto
di
vista
di
ognuno
e
di
agire
senza
tener
conto
del
self-‐interest
(34);
quello
del
vantaggio
reciproco,
che
tiene
conto
dei
vincoli
che
inducono
una
persona
guidata
dal
self-‐
interest
a
pagare
il
minor
prezzo
possibile
per
ottenere
la
cooperazione
degli
altri;
quello
della
reciprocità
rawlsiana,
che
non
guarda
allo
scambio
in
particolare,
ma
ad
un
sistema
generale
di
cooperazione
che
assegna
a
tutti
gli
stessi
diritti
e
doveri
fondamentali
e
stabilisce
le
regole
per
una
distribuzione
equa
dei
benefici
prodotti
dagli
sforzi
di
tutti.
Quest'ultima
è
differente
dal
mutuo
vantaggio,
perché
non
è
motivata
egoisticamente,
cioè
anche
a
costo
del
danno
altrui,
ed
è
differente
dall'imparzialità,
perché
non
elimina
l'interesse
personale
in
quanto
nessuno
sosterrebbe
un
ordine
sociale
senza
aspettarsi
da
ciò
qualche
guadagno.
Essa
si
configura,
pertanto,
come
uninteresse
disinteressato
nel
senso
di
Adam
Smith
(35).
È
importante
notare
che
quest'idea
di
reciprocità
persegue
due
obiettivi:
quello
di
non
rinunciare
all'amore
di
sé
e
quello
di
trovare
una
qualche
comunanza
tra
le
persone.
Queste
esigenze
mi
sembrano
entrambe
apprezzabili.
È,
invece,
molto
discutibile
il
modo
in
cui
Rawls
cerca
di
perseguirle
e
il
modo
della
loro
giustificazione.
È
proprio
sotto
questo
aspetto
che
vorrei
mostrare
la
superiorità
dei
princìpi
del
diritto
naturale.
Per
dirla
in
breve,
la
strategia
usata
da
Rawls
è
quella
di
elaborare
un
concetto
di
persona
politica
che,
pur
mirando
al
proprio
interesse,
si
volga
verso
princìpi
d'azione
che
possono
essere
accettati
da
tutti.
Sembra
a
Rawls
che
ciò
richieda
una
concezione
della
persona
distaccata
dai
propri
fini
(unencumbered
self)
e
da
una
propria
identità
(36).
Solo
chi
ha
il
potere
morale
di
sospendere
il
punto
di
vista
che
lo
identifica
può
difendere
princìpi
che
tutti
possono
accettare.
Questa
è
anche
una
concezione
della
ragionevolezza
nell'ambito
della
vita
politica.
Una
persona
è
ragionevole
quando
è
pronta
a
proporre,
e
a
riconoscere
quando
proposto
da
altri,
i
princìpi
necessari
a
specificare
ciò
che
può
essere
accettato
da
tutti
come
i
termini
equi
della
cooperazione
sociale
(37).
La
ragionevolezza
consiste
nell'essere
sensibile
a
ciò
che
gli
altri
sono
115
in
grado
di
accettare.
Non
possiamo
chiedere
agli
altri
sacrifici
che
non
sono
in
grado
di
accettare.
In
mancanza
del
consenso
sociale
a
causa
del
pluralismo,
allora
bisogna
costruire
le
condizioni
del
"consenso
ideale"
attraverso
la
neutralizzazione
di
tutti
i
punti
di
vista
personali.
Ciò
che
è
in
gioco
qui
è
evidentemente
l'idea
del
bene
comune,
cioè
di
un
convenire
su
princìpi
che
possono
(e
debbono)
essere
accettati
da
tutti.
Come
faccio
a
sapere
ciò
che
può
essere
accettato
anche
dagli
altri?
Si
potrebbe
chiederlo
a
loro
nel
discorso
che
s'intreccia
nelle
piazze
della
città.
Ma
questa
via
sarebbe
-‐
secondo
Rawls
-‐
troppo
empirica
e
contingente,
comunque
inadeguata
ai
fini
dell'edificazione
di
una
teoria
politica.
Neppure
si
può
perseguire
l'idea
di
Kant
per
cui
ognuno
può
discernere
la
legge
morale
grazie
alla
ragion
pratica,
che
soddisfa
pretese
rigorosamente
cognitive,
poiché
per
Rawls
dalla
parte
contraente
ci
si
può
aspettare
solo
decisioni
razionali
rispetto
allo
scopo.
Non
resta
che
isolare
all'interno
della
persona
la
ragionevolezza
dalla
razionalità
in
modo
che
sulla
base
della
prima
si
possa
proporre
agli
altri
equi,
e
per
ciò
stesso
accettabili,
termini
di
collaborazione.
Ma
in
tal
modo
ciò
che
resta
oscuro
e
ingiustificato
è
il
tipo
di
legame
che
le
persone
hanno
tra
loro.
Certamente
dalla
cooperazione
ognuno
spera
più
benefici
di
quelli
che
potrebbe
ottenere
da
solo,
ma
ciò
non
basta
a
giustificare
in
modo
adeguato
le
relazioni
e
i
legami
che
hanno
le
persone
fra
loro.
Conseguentemente
anche
l'idea
del
bene
comune
è
meramente
strumentale
agli
interessi
delle
persone
singolarmente
considerate
(38).
Insomma,
il
principio
primo
da
cui
Rawls
deriva
la
cooperazione
sociale
è
sempre
e
soltanto
quello
del
vantaggio
reciproco
e
da
esso
si
trae
una
concezione
della
giustizia
come
reciprocità,
che
resta
all'interno
di
questo
paradigma
e
non
è
certamente
un
modello
ad
esso
alternativo.
La
potremo
chiamare
la
concezione
del
"mutuo
vantaggio
lungimirante".
LA
REGOLA
D'ORO
Ora
io
vorrei
mostrare
che
la
giusta
istanza
di
coniugare
l'amore
di
sé
con
il
bene
comune,
certamente
presente
nel
pensiero
di
Rawls,
potrebbe
essere
più
adeguatamente
realizzata
facendo
riferimento
ad
un
principio
tradizionale
del
diritto
naturale,
quello
della
Regola
d'oro.
Sia
nella
sua
formulazione
negativa
("non
fare
agli
altri
ciò
che
non
vorremmo
fosse
fatto
a
noi),
sia
in
quella
positiva
("fai
agli
altri
ciò
che
vorresti
fosse
fatto
a
te")
la
regola
aurea
è
nella
sostanza
il
principio
"ama
il
prossimo
come
te
stesso"
(39).
Questo
principio
è
ampiamente
presente
in
quasi
tutte
le
culture
e
religioni
tanto
da
potersi
annoverare
tra
gliéndoxa
dell'umanità,
cioè
tra
quelle
intuizioni
morali
radicate
nella
pratica
generale
della
vita
sociale
(40).
Tuttavia
il
suo
ruolo
normativo
è
stato
sottoposto
a
tali
critiche
da
indurre
a
pensare
che
esso
sia
al
più
una
massima
di
buon
senso
oppure
che
possa
avere
una
validità
solo
in
dipendenza
da
una
qualche
fede
religiosa
(41),
ma
in
ogni
caso
da
escludere
che
da
esso
possa
dipendere
una
teoria
etica
e
politica.
Queste
critiche
sono
state
riassunte
da
Hans
Kelsen
sulla
scia
di
Kant
(42),
ma
sono
del
tutto
infondate
in
quanto
sono
basate
su
un
fraintendimento.
Da
una
parte
s'è
affermato
che
la
regola
aurea
conduce
a
risultati
contraddittori
fino
al
punto
da
essere
rovinosi
per
il
diritto
e
per
la
morale
e,
dall'altra,
s'è
sostenuto
che
essa,
anche
ammettendone
la
validità,
è
tautologica
e
vuota,
sicché
non
può
fornire
di
per
sé
alcuna
vera
e
propria
direttiva
morale.
Tuttavia
solo
il
secondo
ordine
di
obiezioni
è
degno
di
essere
preso
in
considerazione.
Infatti
la
regola
aurea
conduce
a
risultati
contraddittori
solo
qualora
s'intende
che
bisognerebbe
desiderare
per
gli
altri
ciò
che
si
desidera
per
sé
senza
qualificare
in
senso
propriamente
normativo
questo
desiderio.
Non
si
possono
trasformare
le
proprie
preferenze
personali
in
preferenze
anche
degli
altri
(vedi
l'esempio
del
masochista)
e,
conseguentemente,
ritenersi
obbligati
in
tal
senso.
È
ovvio
che
qui
non
si
tratta
di
preferenze
e
di
gusti
personali.
Il
significato
116
della
regola
aurea
è
senza
dubbio
il
seguente:
il
bene
che
vorrei
fosse
fatto
a
me,
cioè
ciò
che
desidero
come
bene
per
me,
come
mio
bene,
deve
anche
essere
desiderato
come
bene
per
gli
altri,
cioè
come
bene
per
tutti
o
bene
in
sé.
Già
s.
Agostino,
nel
suo
commento
a
Mt
7.12,
aveva
notato
che
nella
formula
tradizionale
della
regola
aurea
si
deve
sottintendere
il
termine
"buono",
cioè
bisogna
fare
agli
altri
ciò
che
è
buono,
e
che
ciò
è
implicito
nel
riferimento
alla
volontà,
che
è
la
facoltà
del
bene,
mentre
non
la
volontà,
ma
la
cupidigia
sarebbe
propria
delle
azioni
malvage
(43).
È
proprio
a
questa
specificazione
della
formulazione
della
regola
aurea
che
si
rivolge
la
seconda
critica,
ben
più
consistente.
Essa
è
diretta
a
mostrare
l'inutilità
della
regola
aurea
ai
fini
della
determinazione
delle
regole
e
dei
comportamenti
morali.
Infatti,
se
solo
i
desideri
moralmente
giustificati
sono
rilevanti,
allora
-‐
si
obietta
-‐
si
presuppone
l'esistenza
di
un
ordinamento
normativo
che
determini
quali
desideri
siano
moralmente
giustificati
e
quali
no.
Ed
allora
non
sarà
la
regola
aurea
il
primo
principio
della
vita
morale,
ma
questo
ordinamento
normativo
presupposto.
Di
conseguenza,
la
regola
aurea
diventa
puramente
tautologica
o
vuota,
in
quanto
finisce
soltanto
per
affermare
che
devo
trattare
gli
altri
come
gli
altri
devono
essere
trattati,
cioè
nell'applicare
in
modo
imparziale,
ovvero
senza
fare
eccezioni,
norme
generali.
Ma
di
per
sé
la
regola
aurea
non
dice
quale
debba
essere
il
contenuto
di
queste
norme
generali,
ma
solo
che,
una
volta
presupposte
tali
norme,
bisogna
applicarle
a
tutti
senza
eccezioni.
Sulla
base
della
sola
regola
aurea
non
si
potrebbe
scrutinare
il
contenuto
delle
norme
morali,
ma
solo
riaffermare
le
modalità
della
loro
applicazione,
cosa
peraltro
ridondante.
Che
la
regola
aurea
non
intervenga
in
alcun
modo
nella
determinazione
del
contenuto
delle
norme
morali
non
è
vero,
poiché
nessuno
può
negare
che
almeno
escluda
come
valide
tutte
quelle
norme
che
discriminino
fra
le
persone.
Essa
sostiene
che
il
soggetto,
a
cui
si
rivolge
l'imperativo,
e
gli
altri
(tutti
gli
uomini),
a
cui
è
diretto
il
suo
comportamento,
appartengano
alla
medesima
categoria
di
esseri
e
che
sia
vietato
fare
discriminazioni
all'interno
di
questa
categoria.
Essa
afferma
la
sostanziale
uguaglianza
di
tutti
nei
confronti
del
bene
e,
al
contempo,
la
loro
comunanza
nel
bene.
Il
fatto
è
che
la
regola
aurea
non
deve
essere
intesa
né
come
una
norma
determinata
che
detti
un
comportamento
tipico,
né
come
una
norma
generale
da
cui
dedurre
il
contenuto
di
norme
particolari.
Non
è
a
questo
modo
che
bisogna
intendere
i
princìpi
del
diritto
naturale,
ma
come
orientamenti
generali
che
aiutano
a
scrutinare
la
validità
morale
delle
regole
morali,
sociali,
giuridiche
e
politiche.
Se
formuliamo
la
regola
aurea
in
questo
modo:
"devo
fare
(o
non
fare)
agli
altri
ciò
che
giustificatamente
desidero
(o
non
desidero)
per
me
stesso",
allora
risulterà
più
evidente
la
differenza
rispetto
al
principio
kantiano
di
universalizzazione.
Quest'ultimo,
infatti,
prescinde
completamente
dal
riferimento
ad
una
soggettività
desiderante
il
bene
per
concentrarsi
sul
fatto
che
si
possa
accettare
che
la
massima
della
propria
azione
divenga
una
prescrizione
valevole
per
tutti
in
circostanze
simili,
cioè
una
legge
universale.
Ma
così
si
separa
il
desiderio
dalla
sua
giustificazione
e
il
bene
diventa
il
dovere
(44).
Perché
ci
sia
il
bene
occorre
che
ci
sia
un
soggetto
desiderante,
così
come
il
senso
del
valore
sta
nella
partecipazione
ad
esso.
Ebbene,
la
regola
aurea
è
criticata
proprio
perché
non
ammette
questa
separazione
tra
desiderio
e
sua
giustificazione
normativa,
ma
è
proprio
qui
che
risiede
il
suo
significato:
il
desiderio
universale
e
comunicativo
del
bene.
La
misura
di
questa
comunanza
è
data
dall'amore
di
sé
se
esso
è
inteso
non
già
come
attaccamento
alle
proprie
preferenze
e
ai
propri
particolari
piani
di
vita
e
neppure
come
la
possibilità
di
una
separazione
del
sé
dal
me
per
enucleare
un
io
distaccato
e
neutrale,
ma
come
l'attenzione
per
tutti
gli
aspetti
fondamentali
dell'umano
che
ogni
uomo
trova
innanzi
tutto
in
se
stesso
ed
è
per
questo
che
deve
essere
-‐
come
si
esprime
Aristotele
-‐
"amico
di
se
stesso".
117
Il
controllo
dell'amore
di
sé,
cioè
la
verifica
della
sua
rettitudine,
è
dato
dal
fatto
che
esso
non
si
opponga
all'amore
per
l'altro.
Se
in
sé
l'uomo
ama
l'umano,
allora
anche
l'amore
del
prossimo
è
una
cosa
naturale
(45).
Non
posso
amare
l'altro
per
quello
che
è
se
non
sulla
base
dell'amare
se
stessi
per
quello
che
si
è
nell'orizzonte
della
similitudine.
L'amico
è
«un
altro
se
stesso»
(46).
La
similitudine
permette
la
connessione
fra
la
stima
di
sé
e
la
sollecitudine
per
l'altro.
Non
posso
rettamente
stimare
me
stesso
senza
stimare
l'altro
come
me
stesso.
E
qui
abbiamo
l'idea
della
reciprocità
propria
della
regola
aurea:
ciascuno
ama
l'altro
«per
quello
che
egli
è
per
se
stesso»
(47).
Amare
l'altro
per
quello
che
l'altro
è
corrisponde
all'amare
se
stessi
per
quello
che
si
è,
che
è
l'amore
di
sé
proprio
della
regola
aurea.
È
possibile
mettersi
dal
punto
di
vista
dell'altro
solo
sulla
base
della
possibilità
della
comunicazione
delle
prospettive.
S'è
fatta
una
distinzione
tra
la
«mera
reciprocità»,
per
cui
si
riconosce
l'altro
come
un
sé
dotato
di
un
proprio
punto
di
vista,
e
la
«reciprocità
reversibile»,
per
cui
ci
si
immedesima
nella
prospettiva
dell'altro
(48).
Questa
distinzione
non
si
pone
sul
piano
della
regola
aurea
che
sostiene
la
comunicazione
delle
prospettive
nell'ambito
dei
valori
fondamentali
dell'umano.
Essa
introduce
la
nozione
di
umanità
come
termine
mediatore
tra
la
diversità
delle
persone,
superando
il
carattere
dissimetrico
della
relazione
intersoggettiva
dovuto
all'alterità.
In
ogni
caso
per
la
regola
aurea
"reciprocità"
non
significa
"mutuo
vantaggio",
anche
se
a
lungo
termine.
Essa
non
dice:
"fai
agli
altri
quello
che
vorresti
fosse
fatto
a
te
a
condizione
che
gli
altri
facciano
lo
stesso".
In
questo
senso
prescrive
l'amore
di
benevolenza
e
prefigura
relazioni
sociali
fra
"datori
di
doni"
(49).
Nella
regola
aurea
c'è,
dunque,
l'amore
di
sé
e
il
principio
della
benevolenza.
Ma
questo
è
un
orizzonte
molto
generale
e
comprensivo
che
riguarda
tutta
la
vita
morale
e
la
molteplicità
delle
relazioni
intersoggettive.
Sul
piano
della
morale
sociale
e
politica
la
regola
aurea
introduce
il
principio
della
solidarietà
e
del
mutuo
aiuto.
Poiché
c'è
una
comunanza
di
tutti
a
proposito
dei
beni
umani
fondamentali,
promuoverli
per
gli
altri
è
la
stessa
cosa
che
promuoverli
per
sé.
I
singoli
individui
diventano
parti
di
un
insieme
che
contribuiscono
ad
alimentare
e
da
cui
traggono
le
loro
risorse
(50).
La
loro
stessa
realizzazione
è
parte
costituente
di
questa
comunità.
Non
si
tratta
ancora
di
una
comunità
politica,
ma
di
quella
comunità
morale
di
tutti
gli
esseri
umani
che
è
immanente
in
ogni
comunità
concreta,
quella
per
cui
ogni
persona
ha
diritto
ad
essere
trattato
come
"uno
dei
nostri"
(51).
È
qui
evidente
che
senza
il
principio
di
solidarietà
non
potrebbe
aversi
il
concetto
generale
di
bene
comune,
che
quindi
precede
quello
di
giustizia.
Abbiamo
considerato
la
regola
aurea
come
un
principio
primo
del
diritto
naturale
e
come
tale
esso
precede
qualsiasi
teoria
della
giustizia,
fornendo
a
questa
un
orizzonte
generale
di
concetti.
Poi
si
dovrà
procedere
per
successive
determinazioni,
anche
in
considerazione
delle
circostanze
storiche
concrete.
La
ragionevolezza
è
il
mezzo
per
trattare
tali
questioni
in
modo
da
non
violare
la
regola
aurea,
ma
sarebbe
errato
ritenerle
già
risolte
dalla
regola
aurea
stessa.
Ho
voluto
solo
mostrare
che
essa
non
è
una
formula
vuota
e
che
è
indispensabile
per
fondare
il
principio
di
cooperazione.
CONCLUSIONE
Se
ora
ritorniamo,
in
conclusione,
a
considerare
la
teoria
della
giustizia
di
Rawls,
possiamo
notare
che
essa
viola
la
regola
aurea
sotto
alcuni
aspetti
decisivi.
Innanzi
tutto,
Rawls
pensa
che
sia
possibile
conferire
al
principio
di
cooperazione
il
ruolo
di
principio
primo,
anche
rispetto
alla
nozione
di
persona
politica,
e
questo
è
impossibile
in
quanto
esso
è
con
tutta
evidenza
subordinato
al
principio
di
benevolenza
e
a
quello
di
solidarietà.
Questi
finiscono
per
essere
implicitamente
presupposti
senza
essere
tematizzati,
sottraendosi
all'onere
di
una
loro
interpretazione
e
giustificazione.
118
In
secondo
luogo,
Rawls
ritiene
possibile
separare
all'interno
della
persona
e
tra
le
persone
l'amore
di
sé
dall'atteggiamento
cooperativo
e
dalla
ragionevolezza,
ma
in
tal
modo
la
giustapposizione
degli
interessi
impedisce
all'idea
di
giustizia
di
elevarsi
ad
un
riconoscimento
vero
e
ad
una
solidarietà
in
cui
ciascuno
si
sente
in
debito
verso
ognuno
(52).
In
terzo
luogo,
nel
pensiero
di
Rawls
manca
una
vera
e
propria
idea
della
solidarietà.
Un'uguaglianza
normativa,
che
non
è
una
similitudine
esistenziale,
non
basta
a
motivare
degli
esseri
umani
a
cooperare
fra
loro
e
a
giustificare
il
principio
di
cooperazione.
Ciò
non
significa
che
il
principio
di
cooperazione
non
porti
un
contributo
importante
per
l'evoluzione
del
diritto
naturale
e
alla
ricerca
della
verità
pratica.
Il
rispetto
dei
diritti
degli
altri
è
un
rispetto
della
verità,
poiché
appartiene
al
bene
di
una
persona
non
solo
aver
credenze
vere,
ma
anche
credenze
consapevoli
e
raggiunte
in
piena
libertà.
Il
modo
autentico
di
praticare
la
benevolenza
non
esige
di
far
propri
gli
scopi
degli
altri,
ma
di
far
valere
la
loro
possibilità
di
essere
se
stessi
in
una
società
giusta.
In
quarto,
e
ultimo,
luogo
in
tal
modo
la
questione
del
pluralismo
non
è
affrontata,
ma
evitata.
L'eliminazione
dell'identità
della
persona
politica
mette
tra
parentesi
il
pluralismo.
L'idea
rawlsiana
di
cooperazione
esige
la
neutralizzazione
del
pluralismo,
mentre
in
realtà
la
sfida
di
oggi
è
come
si
debba
e
si
possa
cooperare
nelle
condizioni
del
pluralismo.
In
questo
senso
un
concetto
estremamente
ricco
di
bene
comune
aiuta
a
comprendere
e
ad
affrontare
il
pluralismo
contemporaneo
molto
più
di
una
sua
indebita
restrizione.
Non
è
forse
la
società
globale
e
plurale
il
luogo
più
ampio
e
più
adatto
per
cercare
la
verità
senza
pregiudizi
e
preclusioni?
Ritengo
che
il
ricorso
alla
regola
aurea
avrebbe
potuto
dare
alla
stessa
teoria
rawlsiana
più
solidi
fondamenti.
Certamente
vi
sono
in
questa
aspetti
non
compatibili
con
quella,
soprattutto
a
proposito
dell'ampiezza
del
concetto
di
"bene
comune".
Tuttavia
vi
sono
anche
implicite
e
inconsapevoli
conferme
della
perenne
attualità
di
questo
principio
primo
del
diritto
naturale.
Mi
si
potrà
far
notare
che
non
ho
trattato
della
stabilità
e
dell'evoluzione
dei
contenuti
del
diritto
naturale,
ma
solo
dell'attualità
dei
suoi
princìpi
primi
e
della
permanenza
della
sua
struttura
argomentativa.
Ma
confido
sul
fatto
che
questi
elementi
siano
ben
più
importanti
dei
valori
fondamentali,
perché
ne
condizionano
la
giustificazione,
l'interpretazione
e
la
realizzazione.
119
(1)
Cfr.
MARITAIN
J.,
La
loi
naturelle
ou
loi
non
écrite,
Fribourg:
Éditions
Universitaires,
1986:47-‐
51.
(2)
TOMMASO
D'AQUINO,
Sum.
Theol.,
II-‐II,
57,
1,
ad
1m.
(3)
Ibid.,
I-‐II,
94,
2.
(4)
STRAUSS
L.,
Natural
Right
and
History,
Chicago:
Chicago
U.P.,
1953.
(5)
Per
una
critica
cfr.
KALINOWSKI
G.,
Notions
de
Nature.
Sur
la
muabilité
du
concept
de
nature
et
l'immuabilité
de
la
loi
naturelle,
in
MAYER-‐MALY
D.
e
SIMONS
P.M.
(a
cura
di),
Das
Naturrechtsdenken
heute
und
morgen.Gedächtnisschrift
für
René
Marcic,
Berlin:
Duncker
&
Humblot,
1983:52
ss.
(6)
Cfr.
KALINOWSKI
G.
e
VILLEY
M.,
La
mobilité
du
droit
naturel
chez
Aristote
et
Thomas
d'Aquin,
Archives
de
Philosophie
du
droit
1984,
29:190-‐199.
(7)
Per
la
presenza
di
questa
tendenza
nella
filosofia
giuridica
italiana
cfr.
VIOLA
F.,
Italian
Natural
Law,
in
Law
and
Politics
between
Nature
and
History,
European
Journal
of
Law,
Philosophy
and
Computer
Science,
1998,
2:355-‐367.
(8)
TOMMASO
D'AQUINO,
Sum.
Theol.,
I-‐II,
94,
5c.
(9)
Mi
sono
occupato
di
tale
questione
in
VIOLA
F.,
Etica
e
metaetica
dei
diritti
umani,
Torino:
Giappichelli,
2000:137-‐158.
(10)
VIOLA
F.
e
ZACCARIA
G.,
Diritto
e
interpretazione.
Lineamenti
di
teoria
ermeneutica
del
diritto,
III
ed.,
Roma-‐Bari:
Laterza,
2001:407.
(11)
Per
questo
cfr.
PALADIN
L.,
Ragionevolezza
(principio
di),
in
Enciclopedia
del
diritto,
Agg.,
I,
Milano:
Giuffrè,
1997:
899
ss.
(12)
RUGGERI
A,
Ragionevolezza
e
valori,
attraverso
il
prisma
della
giustizia
costituzionale,
Diritto
e
società
2000,
4:569-‐570.
(13)
Zagrebelsky
G.,
Su
tre
aspetti
della
ragionevolezza,
in
BARILE
P.
et
al.,
Il
principio
di
ragionevolezza
nella
giurisprudenza
della
Corte
costituzionale.
Riferimenti
comparatistici,
Milano:
Giuffrè,
1994:189-‐190.
(14)
Cfr.
VIOLA,
Etica
e
metaetica...,
pp.
107-‐136.
(15)
Cfr.,
anche
per
le
radici
filosofiche
della
ragionevolezza
pratica,
FINNIS
J.,
Natural
Law
and
Natural
Rights,
Oxford:
Clarendon
Press,
rep.
1992:
88.
(16)
Cfr.,
in
generale,
SCACCIA
G.,
Gli
"strumenti"
della
ragionevolezza
nel
giudizio
costituzionale,
Milano:
Giuffrè,
2000.
(17)
Cfr.
Bickel
A.,
The
Least
Dangerous
Branch:
The
Supreme
Court
at
the
Bar
of
Politics,
II
ed.,
New
Haven:
Yale
U.P.,
1986.
(18)
Rinvio
a
Corten
O.,
L'utilisation
du
"raisonnable"
par
le
juge
international,
Bruxelles:
Bruylant,
1997.
(19)
Come
fa
CORTEN
O.,
L'interprétation
du
"raisonnable"
par
les
juridictions
internationales:
au-‐
delà
du
positivisme
juridique?,
R.G.D.I.P.
1998,
1:5-‐43.
(20)
CERRI
A.,
I
modi
argomentativi
del
giudizio
di
ragionevolezza
delle
leggi:
cenni
di
diritto
comparato,
in
BARILE
et
al.,
Il
principio
di
ragionevolezza...,
p.
135.
(21)
È
ciò
che
la
Corte
Suprema
degli
Stati
Uniti
ha
chiamato
«compelling
public
interest»
e
il
tribunale
costituzionale
tedesco
«überwiegende
Interesse
der
Allgemenheit».
Per
la
Corte
costituzionale
italiana
si
deve
trattare
di
un
interesse
pur
sempre
costituzionalmente
protetto.
(22)
Si
può
ritenere
che
in
senso
lato
il
secondo
principio
di
giustizia
di
Rawls
s'inscriva
in
questa
esigenza
di
equità
per
cui
le
aspettative
di
coloro
che
si
trovano
in
una
situazione
più
favorevole
sono
protette
nella
misura
in
cui
ciò
serva
a
migliorare
coloro
meno
avvantaggiati.
In
ogni
caso
questo
criterio
è
servito
a
giustificare
provvedimenti
di
tipo
compensativo.
(23)
La
Corte
Suprema
americana
ha
parlato
di
«vagueness
test».
120
(24)
Mi
riferisco
ovviamente
al
sindacato
di
Verhältnismassigkeit
del
Tribunale
costituzionale
tedesco.
(25)
FINNIS,
Natural
Law...,
p.103.
(26)
Rawls
J.,
Political
Liberalism,
New
York:
Columbia
U.
P.,
1996:48-‐54.
(27)
Segnalo
che
il
primato
della
comprensione
rende
l'ermeneutica
particolarmente
predisposta
a
sostenere
questo
senso
della
"ragionevolezza".
Cfr.
il
fascicolo
della
Revue
de
Métaphysique
et
de
Morale
dedicato
a
Équité
et
interprétation,
2001:1.
(28)
Zagrebelsky
G.,
Il
diritto
mite,
Torino:
Einaudi,
1992:203.
Sul
concetto
attuale
di
ragionevolezza
cfr.
anche
Viola
F.
e
Zaccaria
G.,
Diritto
e
interpretazione...,
pp.
41-‐43.
(29)
ROSENFELD
M.,
Comprehensive
Pluralism
is
neither
an
Overlapping
Consensus
nor
a
Modus
Vivendi:
A
Reply
to
Professors
Arato,
Avineri,
and
Michelman,
Cardozo
Law
Review
2000,
21:1997.
Più
in
generale
cfr.
ID.,
Just
Interpretations.Law
between
Ethics
and
Politics,
Berkeley:
University
of
California
Press,
1998.
(30)
Per
questo
tema
rinvio
a
VIOLA
F.,
Giustizia
e
verità,
Filosofia
e
Teologia
2001,
15:
490-‐503.
(31)
«The
most
fundamental
idea
in
this
conception
of
justice
is
the
idea
of
society
as
a
fair
system
of
social
cooperation
over
time
from
one
generation
to
the
next
(Theory,
§1:
4).
We
use
this
idea
as
the
central
organizing
idea
in
trying
to
develop
a
political
conception
of
justice
for
a
democratic
regime».
RAWLS
J.,
Justice
as
Fairness.
A
Restatement,
ed.
by
E.
Kelly,
Cambridge,
Mass.:
The
Belknap
Press
of
Harvard
U.P.,
2001:5.
(32)
«Since
we
begin
from
the
idea
of
society
as
a
fair
system
of
cooperation,
we
assume
that
persons
as
citizens
have
all
the
capacities
that
enable
them
to
be
cooperating
members
of
society».
RAWLS,
Political...,
p.20.
(33)
«Fair
terms
of
cooperation
specify
an
idea
of
reciprocity:
all
who
are
engaged
in
cooperation
and
who
do
their
part
as
the
rules
and
procedure
require,
are
to
benefit
in
appropriate
way
as
assessed
by
a
suitable
benchmark
of
comparaison».Ibid.,
p.16.
(34)
«The
desire
to
act
in
ways
that
can
be
defended
to
oneself
and
others
without
appealing
to
personal
advantage».
BARRY
B.,
Theories
of
Justice,
Berkeley
and
Los
Angeles:
University
of
California
Press,
1989:7-‐8,
361-‐364
e
cfr.
anche
GIBBARD
A.,
Constructing
Justice,
Philosophy
&
Public
Affairs
1991,
20:264-‐279.
(35)
Il
self-‐interest
smithiano
non
è
l'egoismo,
cioè
l'acquisizione
di
vantaggi
personali
a
danno
degli
altri,
ma
propriamente
un'indifferenza
nei
confronti
degli
altri
e
un'incapacità
di
mettersi
dal
punto
di
vista
degli
altri,
abbandonando
il
proprio.
(36)
Sono
ben
note
le
critiche
che
a
questa
concezione
della
persona
muove
SANDEL
M.
J.,
Liberalism
and
the
Limits
of
Justice,
Cambridge:
Cambridge
U.
P.,
1982.
Cfr.
anche
Political
Liberalism,
reviewed
by
M.J.Sandel,
Harvard
Law
Review
1994,
107:1765-‐1794.
(37)
RAWLS,
Justice
as...,
pp.6-‐7.
(38)
Qui
non
discuto
la
teoria
rawlsiana
dei
beni
primari
(primary
goods),
cioè
delle
condizioni
sociali
e
dei
mezzi
necessari
per
tutti
i
fini,
che
rendono
possibile
ai
cittadini
di
sviluppare
ed
esercitare
i
loro
poteri
morali
e
perseguire
la
loro
particolare
concezione
del
bene.
Da
una
parte,
questa
concezione
esile
(thin)
del
bene
comune
impedisce
che
la
socialità
umana
sia
intesa
come
un
valore
in
sé;
dall'altra,
credo
che
un'analisi
più
attenta
di
questi
beni
primari
potrebbe
condurre
ad
implicazioni
che
rendono
questa
concezione
ben
più
spessa
(thick)
di
quanto
appare.
(39)
Tommaso
d'Aquino,
pur
non
chiamandola
mai
così,
fa
esplicito
riferimento
ad
essa
(I-‐II,
94,
4
ad
1)
e
afferma
che
tutti
i
princìpi
e
le
norme
morali
sono
implictamente
in
essa
contenuti
(I-‐II,
91,
4;
99,
1
ad
2;
100,
2
e
3).
Cfr.
anche
FINNIS
J.,
Aquinas,
Oxford:
Oxford
U.
P.,
1998:138.
(40)
Cfr.,
da
ultimo,
WATTLES
J.,
The
Golden
Rule,
Oxford:
Oxford
U.P.,
1996.
(41)
Diversa
dalla
dipendenza
dalla
prospettiva
etico-‐religiosa
è
la
tesi
della
convergenza
tra
ciò
che
detta
la
ragione
e
ciò
che
insegna
la
fede.
In
questo
senso
cfr.
D'AGOSTINO
F.,
La
«regola
121
aurea»
e
la
logica
della
secolarizzazione,
in
LOMBARDI
VALLAURI
L.
e
DILCHER
G.,
Cristianesimo,
secolarizzazione
e
diritto
moderno,
vol.
II,
Milano:
Giuffrè,
1981:941-‐955.
(42)
Cfr.
KELSEN
H.,
Das
Problem
der
Gerechtigkeit,
Wien:
Franz
Deuticke,1960.
(43)
AGOSTINO,
De
Sermone
in
monte,
II,
sec.
74.
(44)
Per
questo
non
condivido
la
tesi
di
Ricoeur
per
cui
Kant
avrebbe
dato
una
formulazione
più
rigorosa
della
regola
d'oro.
In
realtà
il
principio
di
universalizzazione
è
un'altra
cosa.
Cfr.
RICOEUR
P.,
Soi-‐même
comme
un
autre,
Paris:
Éditions
du
Seuil,
1990.
(45)
«Est
autem
omnibus
hominibus
naturale
ut
se
invicem
diligant.
Cuius
signum
est
quod
quodam
naturali
instinctu
homo
cuilibet
homini,
etiam
ignoto,
subvenit
in
necessitate,
puta
revocando
ab
errore
viae,
erigendo
a
casu,
et
aliis
huiusmodi:
ac
si
omnis
homo
omni
homini
esset
naturaliter
familiaris
et
amicus».
TOMMASO
D'AQUINO,
Contra
Gent.,
3,
117.
(46)
ARISTOTELE,
Et.Nic.,
IX,
4,
1166
a
32.
(47)
Ibid.,
VIII,
3,
1156
b
9.
(48)
ROSENFELD
M.,
Affirmative
Action
and
Justice.
A
Philosophical
and
Constitucional
Inquiry,
New
Haven:
Yale
U.P.,
1991:
247-‐249
e,
per
la
distinzione
tra
diritto
(mera
reciprocità)
e
morale
(reciprocità
reversibile),
ID.,
Just
Interpetations...,
69
ss.
(49)
Cfr.
HITTINGER
R.,
Razones
para
la
sociedad
civil,
in
Alvira
R.
et
al.
(a
cura
di),
Sociedad
civil.
La
democracia
y
su
destino,
Pamplona:
Eunsa,
1999:27-‐42.
(50)
FINNIS,
Aquinas,
p.118.
(51)
Cfr.
Habermas
J.,
Justice
and
Solidarity,
in
KELLY
M.
(ed.),
Hermeneutics
and
Critical
Theory
in
Ethics
and
Politics,
Cambridge,Mass.:
Mit
Press,
1990:47.
(52)
Questo
è
notato
da
RICOEUR
P.,
Liebe
und
Gerechtigkeit
-‐
Amor
et
Justice,
Tübingen:
Mohr,
1990.
122
FRANCESCO
D'AGOSTINO
123
attivare
nel
diritto
stesso
le
necessarie
dinamiche
di
innovazione
normativa.
(Altra
questione
-‐in
questo
contesto
non
rilevante-‐
se
tale
matrice
venga
poi
letta
e
teorizzata
come
psicologica,
etica,
politica,
o
comunque
pre-‐giuridica:
resterebbe
fermo
in
ogni
caso
il
necessario
appello
del
diritto
positivo
a
tale
matrice
come
ad
un
altro-‐da-‐sécome
a
un
motore,
a
un
carburante
o
ad
un
principio
di
dotazione
di
senso
del
sistema
positivo).
Nel
dibattito
bioetico
attuale,
o
almeno
in
gran
parte
di
esso,
lo
schema
appena
presentato
si
è
pressoché
dissolto.
Molte
tra
le
più
forti
e
diffuse
istanze
bioetiche
(3)
appaiono
in
genere
caratterizzate
da
pulsioni
libertarie,
che
si
trasformano,
sul
piano
del
diritto
positivo,
in
istanze
di
delegalizzazione,
volte
al
limite
a
creare
quello
che
la
dottrina
tedesca
chiama
"uno
spazio
libero
dal
diritto",
un
rechtsfreier
Raum.
Si
sostiene
che,
in
campo
bioetico
(ma
non
solo
in
questo),
il
miglior
diritto
sarebbe
nessun
diritto;
o,
in
subordine,
che
la
migliore
fonte
di
diritto,
cui
si
potrebbe
concedere
una
qualche
legittimazione,
sarebbe
quella
abilitata
a
produrre
meri
decreti
amministrativi.
Dovrebbe
essere
precluso
al
legislatore
-‐a
colui
cioè
che
tradizionalmente
è
pensato
come
il
soggetto
chiamato
istituzionalmente
a
orientare
in
modo
controfattuale,
cioè
generale,
astratto
e
assiologicamente
vincolante
i
cittadini,
il
diritto
di
sindacare
istanze
ed
esperienze
che
qualificano
in
radice
il
rapporto
dei
cittadini
con
la
vita;
al
legislatore
si
potrebbe
al
più
-‐come
appena
ricordato-‐
riconoscere
una
funzione
meramente
tecnica,
quella
cioè
di
potenziare
la
fluida
dinamicità
di
prassi
sociali
autoreferenziali
mediante
decreti,
mediante
cioè
norme
caratterizzate
da
un
rango
puramente
pragmatico
e
quindi
in
chiave
valoriale
significativamente
poco
elevato
(4).
Su
quali
presupposti
teorici
e/o
simbolici
si
fondano
queste
pretese?
Non
credo
che
esse
vadano
ricondotte
ad
orizzonti
di
senso
particolarmente
strutturati;
chi
le
elabora
non
le
inserisce
in
genere
nel
quadro
di
più
complesse
argomentazioni
politico-‐ideologiche
(ne
è
prova
la
trasversalità
parlamentare
di
molte
iniziative
in
questi
campi).
Né
molto
numerosi
sono
coloro
che
ritengono
che
in
bioetica
si
possano
risolvere
gli
hard
cases
ricorrendo
a
criteri
meramente
procedurali;
mi
sembra
altresì
che
nemmeno
le
prospettive
utilitaristiche
diano
adeguato
fondamento
a
queste
pretese,
dato
che
in
molte
di
queste
situazioni
è
dubbio
che
la
permissività
auspicata
corrisponda
all'ottimizzazione
dell'interesse
del
maggior
numero
dei
consociati
o
ad
altri
dei
classici
canoni
delle
diverse
scuole
utilitaristiche.
Ritengo
che
ci
troviamo
piuttosto
di
fronte
ad
una
imprevista
variante
del
paradigma
giusnaturalistico,
a
un
rinnovato,
anche
se
confuso
e
ben
poco
esplicitato,
appello
al
codice
simbolico
della
natura.
La
natura,
cui
qui
si
fa
riferimento,
non
viene
intesa
in
modo
sempre
univoco.
A
volte
viene
identificata
con
le
dinamiche
pre-‐logiche
(e
in
certo
senso
impersonali)
del
desiderio
soggettivo:
si
arriva
in
questi
casi
abbastanza
rapidamente
a
vere
e
proprie
forme
di
sacralizzazione
bioetica
del
principio
di
autonomia,
come
quando
ad
es.
si
difende
come
vero
e
proprio
diritto
fondamentale
quello
al
c.d.
suicidio
razionale.
Altre
volte
l'appello
alla
natura
viene
fatto
coincidere
con
quello
alla
difesa
di
quello
specifico
bene
che
è
la
soggettività
femminile
(si
pensi
alla
rivendicazione
della
insindacabilità
della
decisione
abortiva).
Il
bene
biologico
della
specie,
come
bene
naturale,
viene
sempre
più
spesso
invocato
per
giustificare
pratiche
eugenetiche
(di
tale
carattere
peraltro
sono
molti
aborti).
E
sempre
più
si
diffonde
l'appello
a
combattere
per
la
difesa
della
biosfera,
vista
come
l'unico,
autentico
orizzonte
ultimo
di
valore
(queste
posizioni
e
posizioni
analoghe
sono
frequentemente
riscontrabili
anche
negli
animalisti).
Anche
le
richieste
di
riconoscere
come
decisione
privata
e
insindacabile
quella
della
sterilizzazione
volontaria
non
terapeutica
si
radica,
in
ultima
analisi,
in
una
curiosa
motivazione
di
carattere
naturalistico:
la
sessualità
umana
potrebbe
compiutamente
estrinsecarsi
nella
sua
dimensione
più
autentica,
l'unica
quindi
veramente
"naturale",
solo
se
(tecnologicamente!)
liberata
da
ogni
rischio
procreativo.
"Ingannando"
la
natura,
procurando
cioè
una
sterilità
"artificiale",
si
consentirebbe
insomma
alla
natura
di
riconquistare
se
stessa.
Con
considerazioni
analoghe,
peraltro,
sono
stati
elaborati
124
diversi
paradigmi
di
confutazione
del
carattere
innaturale
dell'omosessualità.
Bioetica
e
appello
alla
natura
sembrano
quindi
saldarsi,
secondo
modalità
oggettivamente
sconcertanti.
E
poiché
l'appello
alla
natura
è
sempre
coinciso
-‐almeno
psicologicamente-‐
con
un
appello
alla
giustizia,
non
ci
si
deve
meravigliare
del
fatto
che
molte
nuove
richieste
libertarie
in
bioetica
vengano
formulate
con
rimarchevole
intensità
passionale,
da
soggetti
che
si
sentono
moralmente
nel
giusto,
perché
non
pretendono
che
i
loro
desideri
soggettivi
siano
socialmente
gratificati,
ma
che
non
sia
soffocata
la
voce
della
natura
che
si
fa
strada
in
loro
e
attraverso
i
loro
desideri.
Nel
contesto
della
diatribe
bioetiche,
tra
diritto
naturale
e
diritto
positivo
sembrano
instaurarsi
pertanto
nuove
e
inedite
tensioni.
La
pretesa
del
"neogiusnaturalismo
libertario"
bioetico
non
è
tanto
quella
di
costituire
il
fondamento
di
legittimità
e
di
giustificazione
del
diritto
positivo
(secondo
i
moduli
del
giusnaturalismo
"tradizionale"),
bensì
quella
di
operare
sul
diritto
positivo,
facendolo
ritrarre
progressivamente
dalla
sua
funzione
di
normatività
sociale,
per
ridurlo
a
mero
ed
estrinseco
garante
di
nuove
dimensioni
di
autonomia.
Perché
questo
progetto
divenga
credibile
e
possibile,
bisogna
che
il
"neogiusnaturalismo"
elabori
nei
confronti
del
diritto
positivo
una
strategia
adeguata
di
attacco.
Questa
strategia
si
sostanzia,
con
sempre
maggiore
evidenza,
in
una
accusa:
l'
indifferenza
o
peggio
ancora
l'ostilità
nei
confronti
delle
nuove
pretese
bioetiche
di
carattere
libertario
sarebbe
la
prova
della
inaccettabile
volontà
del
diritto
positivo
di
ignorare
e
di
ferire
indebitamente
le
esigenze
della
"vita
materiale".
Sottoposto
a
un
simile
-‐e
per
lui
inaspettato
attacco-‐
il
sistema
del
diritto
positivo
reagisce
goffamente;
precipita
nelle
spirali
dell'
indecidibilità
-‐emblematico
il
caso
italiano
della
mancata
regolamentazione
della
fecondazione
assistita
(5)
-‐
o
tende
comunque
ad
entrare
in
una
situazione
di
instabilità
e
di
contraddizione,
di
cui
danno
prova
le
oscillazioni
giurisprudenziali
di
tanti
paesi,
quando
i
giudici,
sollecitati
a
risolvere
complesse
e
inedite
controversie
di
natura
bioetica,
utilizzano
(né
saprebbero
o
potrebbero
fare
altrimenti)
il
loro
tradizionale
e
antiquato
armamentario
concettuale.
A
quali
forze
attinge
questo
paradigma
"neogiusnaturalistico"?
La
domanda
non
risponde
ad
una
generica
curiosità
di
tipo
storiografico
(peraltro
legittima),
ma
a
precise
esigenze
teoretiche.
Non
è
di
certo
irrilevante
verificare
dove
storicamente
si
radichi
questo
nuovo
paradigma,
ad
es.
se
trovi
le
sue
radici
nel
libertinismo
sadista
(6),
o
comunque
nello
spirito
della
"modernità".
Avanzo
però
l'ipotesi
che
mere
indagini
storiografiche
siano
insufficienti
per
comprendere
ilnovum
che
dobbiamo
fronteggiare.
Penso
che
attraverso
il
"neogiusnaturalismo
libertario"
inaspettatamente
ci
si
trovi
di
fronte
all'emergere,
nella
cultura
attuale,
di
dinamiche
che
vanno
riferite
non
ad
un'epoca
specifica
della
Weltgeschichte,
ma
al
costituirsi
stesso
della
identità
umana
in
generale
-‐e
conseguentemente
della
coscienza
etica
e
giuridica-‐
([7]);
dinamiche
ricostruibili
più
attraverso
il
lavoro
dei
filosofi
che
quello
degli
storici;
e
più
ancora
che
attraverso
il
lavoro
dei
filosofi,
mediante
l'analisi
del
linguaggio
dei
miti
o
dell'espressività
della
psiche
(8).
Si
tratta
insomma
di
dinamiche
avvicinabili
in
quelle
regioni
ctonie,
telluriche,
della
soggettività,
la
cui
esplorazione
non
può
essere
affidata
alle
sole
forze
della
ragione
calcolante
e
che
rinviano
ad
un
inizio
che
non
va
confuso
con
un
punto
di
partenza,
ma
con
un'arché,
che
non
possiede
cioè
carattere
cronologico,
bensì
ontologico
(9).
In
queste
dinamiche
archeologiche
non
è
possibile
cogliere
la
natura
come
fondamento
del
diritto;
e
tra
ius
naturale
e
ius
civile
non
si
dà
né
continuità
né
correlazione
(secondo
la
linea
dominante,
come
si
è
detto,
nella
storia
dell'Occidente),
ma
né
più
né
meno
che
conflitto.
Lo
ius
naturale
esprime
-‐in
questo
orizzonte-‐
le
esigenze
della
vita
materiale,
una
vita
calda
e
irriflessa,
caratterizzata
dalla
ripugnanza
nei
confronti
di
vincoli,
norme
e
istituzioni
-‐si
tratta
della
dimensione
alla
quale
si
allude
parlando,
a
seconda
dei
casi,
di
"principio
femminile"
di
"codice
materno",
o
psicoanaliticamente
del
mondo
dell'
Es-‐,
mentre
lo
ius
civile
esprimerebbe
quelle
della
vita
spirituale,
fredda
e
riflessiva,
aperta
al
sacrificio
della
spontaneità
naturale
e
125
all'accettazione
delle
regole
e
delle
istituzioni,
nel
nome
delle
superiori
esigenze
della
vita
civile
-‐
psicoanaliticamente
il
mondo
dell'
Ich,
che
deve
occupare,
costi
quel
che
costi,
lo
spazio
magmatico
dell'inconscio:
wo
Es
war,
soll
Ich
werden
(10);
o,
se
così
ci
si
vuole
esprimere,
il
"principio
maschile"
il
"codice
paterno"
(11)
-‐.
Immaginare
una
conciliazione
-‐se
non
provvisoria
e
occasionale-‐
tra
i
due
mondi,
non
è
possibile:
la
loro
antinomia
può
essere
rimossa
o
nascosta,
ma
è
nel
suo
principio
insanabile.
Una
splendida
esemplificazione
di
questa
antinomia
ci
viene
offerta
attraverso
il
nitore
ineguagliato
delle
parole
di
un
grande
poeta
latino,
attento
indagatore
dei
miti.
La
natura
ha
posto
in
Mirra
un
amore
invincibile
per
il
padre
Cinira;
la
donna
è
ben
consapevole
che
la
sua
passione
incestuosa
realizza
unnefas,
ma
non
può
non
chiedersi
se
davvero
essa
possa
essere
ritenuta
un
delitto
(si
tamen
hoc
scelus
est),
dato
questo
amore
la
natura
(il
diritto
naturale)
lo
consente
a
tutti
gli
animali,
mentre
solo
agli
uomini
le
leggi,
che
essi
stessi,
e
non
la
natura,
si
sono
dati,
lo
proscrivono:
humana
malignas/cura
dedit
leges,
et
quod
natura
remittit/invida
jura
negant
(12).
Con
forza
espressiva
minore,
ma
con
gli
stessi
intendimenti
si
esprime,
a
secoli
e
secoli
di
distanza,
Michel
Foucault:
"Quale
desiderio
potrebbe
essere
contro-‐natura
dacché
esso
è
stato
immesso
nell'uomo
dalla
natura
stessa,
dacché
gli
è
stato
insegnato
da
essa
nella
grande
lezione
di
vita
e
di
morte
che
il
mondo
non
cessa
di
ripetere?"
(13).
Va
fronteggiato
il
paradigma
neogiusnaturalistico?
Assolutamente
sì.
Va
fronteggiato
per
una
ragione
fondamentale:
perché
il
suo
imporsi
(eventualmente
anche
contro
le
intenzioni
di
chi
se
ne
lascia
affascinare),
l'imporsi
cioè
di
un
siffatto
jus
naturale
sullo
jus
civile,
toglierebbe
alla
soggettività
umana
la
possibilità
di
conquistare
se
stessa,
di
assumere,
direbbe
Hegel,
la
posizione
eretta
(14).
Va
fronteggiato
nel
nome
della
dignità
specifica
conquistata
dall'uomo
nel
corso
della
sua
storia
e
che
si
è
strutturata
nel
principio
del
diritto,
in
quello
jus
civile,
attraverso
il
quale
l'essere
umano,
senza
rinnegare
la
sua
natura
tellurica,
si
innalza
al
riconoscimento
della
sua
identità
di
zoon
politikón,
di
civis,
cioè
di
soggetto
relazionale,
vincolato
dai
doveri
oggettivi
della
relazionalità
interpersonale.
L'intuizione
antichissima
per
la
quale
il
biosdell'uomo
ha
bisogno
della
polis,
perché
in
essa
soltanto
si
dà
il
nomos
(15),
riassume
efficacemente
tutta
questa
tematica.
Con
quali
strategie
va
fronteggiato
il
paradigma
neogiusnaturalistico?
Esse
possono
essere
significativamente
diverse.
Una
prima
possibile
strategia
si
caratterizza
per
il
carattere
specificamente
filosofico.
Mettendo
in
luce
l'equivocità
della
categoria
di
natura
(16),
e
sottolineando
la
necessità
di
un
rigoroso
controllo
teoretico
sulle
sue
emergenze
tematiche,
si
può
cercare
di
sottrarre
il
fondamento
al
"neogiusnaturalismo",
cioè
il
suo
vincolo
costitutivo
con
la
natura.
In
questa
linea
è
possibile
giungere,
sia
pure
con
lessici
diversi,
a
mostrare
la
distanza,
se
non
la
contraddizione,
tra
la
naturaempiricamente
rilevabile
e
la
natura
metafisicamente
tematizzabile;
ne
seguirebbe
che
l'intero
della
questione
verrebbe
poi
modulato
secondo
le
critiche
che
ad
un
giusnaturalismo
teoreticamente
"cattivo"
possono
essere
mosse
da
parte
di
un
giusnaturalismo
teoreticamente
"buono".
Questa
strada
possiede
a
mio
avviso
interessanti
potenzialità
teoretiche,
ma
sembra
poco
efficace,
nei
limiti
in
cui
nei
dibattiti
bioetici
odierni
il
"neogiusnaturalismo"
non
è
il
frutto
di
vittorioseelaborazioni
teoretiche,
ma
rappresenta
piuttosto
l'emergere
collettivo
di
vere
e
proprie
forme
private
di
sensibilità,
che
qualificano
con
forza
la
cultura
oggi
dominante
e
che
si
esprimono
attraverso
codici
simbolici
anziché
attraverso
paradigmi
speculativi.
Un
solo
esempio
basterà
a
far
capire
la
portata
della
questione.
Il
lungo
dibattito
sull'aborto,
esploso
a
livello
mondiale
una
trentina
di
anni
fa,
era
iniziato
ponendo
in
questione
lo
statuto
ontologico
della
vita
prenatale,
cui
veniva
negato
carattere
propriamente
umano.
Rigorose
fatiche
speculative
e
intensi
dibattiti
hanno
condotto,
senza
ombra
di
dubbio,
e
con
il
decisivo
aiuto
della
ragione
scientifica,
a
mostrare
(o
meglio
a
confermare)
con
chiarezza
il
carattere
autenticamente
umano,
individuale
e
personale
della
vita
126
prenatale.
Se
ne
sarebbe
dovuto
dedurre
un
rafforzamento
di
quella
sua
tutela
giuridica,
che
tradizionalmente
faceva
parte
degli
ordinamenti
positivi
di
pressoché
tutti
i
paesi
del
mondo,
anche
se
con
strutturazioni
"tecniche"
diversificate.
Così
non
è
avvenuto:
ha
vinto,
in
un
arco
molto
condensato
di
anni
la
logica
della
liberalizzazione,
in
forme
più
o
meno
esplicite
(o
più
o
meno
ipocrite,
come
sarebbe
corretto
dire).
Come
è
potuto
avvenire?
Con
un
opportuno
mutamento
di
strategia:
il
neogiusnaturalismo
non
ha
chiesto
più
(come
richiedeva
agli
inizi
del
dibattito)
la
liberalizzazione
dell'aborto,
negando
il
carattere
di
autentica
vita
umana
alla
vita
fetale,
ma
semplicemente
postulando
l'insindacabilità
della
scelta
abortiva
materna,
come
scelta
non
riconducibile
ai
parametri
della
legge
(17).
Non
è
difficile
mostrare
l'imporsi
della
medesima
falsariga
dialettica
in
pressoché
tutte
le
altre
questioni
brucianti
della
bioetica.
Il
paradigma
neogiusnaturalistico
si
è
imposto
come
nuovo
e
potente
codice
simbolico
di
interpretazione
e
gestione
di
quanto
attiene
alla
vita.
Se
si
vuole
percorrere
una
strada
alternativa,
si
deve
assumere
coscienza
che
è
indispensabile
procedere
alla
elaborazione
di
nuovi
codici
simbolici.
Nel
contesto
dei
simboli,
il
nuovo
non
è
detto
però
che
debba
apparire
come
l'irriducibilmentealtro,
in
una
logica
antagonistica;
nuovo
è
ciò
che
ha
la
potenzialità
di
veicolare
significati
che
il
vecchio
non
è
più
in
grado
di
esprimere.
Né
è
necessario
ipotizzare
o
insistere
sulla
antinomicità
dello
jus
naturale
rispetto
allo
jus
civile:
un
conflitto
aperto
dei
due
principi
confermerebbe
e
al
limite
fomenterebbe
ciò
che
è
già
sotto
gli
occhi
di
tutti,
e
cioè
laprevalenza
fattuale
del
primo
sul
secondo.
Bisogna
piuttosto
rilevare
che
lo
jus
civile
non
falsifica
lo
jus
naturale,
né
va
pensato
come
tale
da
portare
di
necessità
alla
sua
delegittimazione
o
alla
sua
demistificazione,
bensì
ad
un
suo
superamento/inveramento.
Lo
jus
naturale
ha
una
sua
presa
autentica
sulla
realtà
ed
è,
sotto
un
certo
profilo
almeno,
incapace
di
mistificarla
(così
come
è
incapace
di
legittimarla);
ma
è
altresì
incapace
di
comprenderla:
e
ciò
avviene
per
la
semplice
ragione
che
la
realtà
che
esso
giunge
a
percepire
è
spiritualmente
cieca
ed
ottusa.
Lo
jus
civile
non
si
fa
portatore
di
un
bene
alternativo
a
quello
di
cui
si
fa
portatore
lo
jus
naturale,
perché
la
loro
antinomia
non
consiste
nella
percezione
e
nella
difesa
di
beni
diversi,
ma
nella
capacità
dell'uno
(lo
jus
civile)
di
percepire
il
bene
umano,
a
fronte
della
totale
incapacità
dell'altro
(lo
jus
naturale)
di
percepire
il
bene
in
generale.
L'antinomicità
delle
due
dimensioni
del
diritto
è
reale,
ma
solo
nel
senso
che
è
impossibile
elaborarle
contestualmente.
Essa
però
ammette
(o
addirittura
esige)
una
sorta
di
sintesi
dialettica:
infatti,
la
forza
normativa
e
fredda
del
principio
dello
jus
civile,
pur
se
sembra
recare
violenza
al
calore
del
principio
dello
jus
naturale,
in
realtà,
all'interno
delle
sue
forme,
ne
garantisce
la
sopravvivenza;
mentre
l'espansione
indifferenziata
dello
jus
naturale
a
scapito
dello
jus
civile
può
sì
dare
sulle
prime
l'illusione
del
giusto
trionfo
della
spontaneità
sull'artificio,
della
libertà
individuale
sul
vincolo
sociale,
dell'amore
sulla
legge,
ma
alla
lunga
produce
piuttosto
indifferenziazione,
cioè
negazione
della
soggettività.
Nella
famosa
metafora
di
Aristotele,
l'anima
(la
natura)
avverte
il
peso
del
corpo
(le
leggi)
con
la
stessa
ripugnanza
con
cui
un
corpo
vivo
avvertirebbe
il
vincolo
che
lo
tenesse
incatenato
ad
un
cadavere
(18).
Ma
l'uomo
è
anima
incarnata;
e
quel
vincolo,
che
sembra
al
neogiusnaturalismo
libertario
ripugnante,
è
in
realtà
l'unica
condizione
di
possibilità
per
la
vita
stessa,
per
la
vita
del
bios
così
come
per
quella
dell'anima
(19).
Se
questa
sintesi
dialettica
tra
jus
naturale
e
jus
civile
resta
inoperante,
si
attivano
esperienze
di
contraddizione
irresolubile:
lo
jus
naturale,
così
caldamente
rivendicato,
anziché
aprire
le
porte
all'abolizione
o
alla
sublimazione
del
diritto
-‐secondo
i
sogni
costantemente
risorgenti
nell'umanità
(20)-‐
si
rivela
o
si
trasforma
in
una
utopia
regressiva
(21);
e
lo
jus
civile,
nella
sua
incapacità
di
resistere
alle
pressioni
libertarie
del
neogiusnaturalismo,
assume
rapidamente
un
doppio
volto
ipocrita,
o
per
dirla
con
André
Gide,
inizia
a
"mentire
con
assoluta
sincerità",
alterando
e
distorcendo
il
significato
delle
pratiche
che
liberalizza
(22).
L'aborto
liberalizzato
si
è
storicamente
rivelato
non
solo
come
la
pratica
sostitutiva
dell'abbandono
dei
neonati
(23),
ma
come
una
vera
e
propria
forma
di
infanticidio
127
anticipato(per
usare
un'espressione
ruvida,
ma
oggettivamente
corretta).
La
liberalizzazione
dell'eutanasia,
perorata
e
approvata
come
misura
di
paradossale
soccorso
per
malati
terminali,
ha
condotto,
in
quel
grande
laboratorio
di
esperienze
libertarie
che
sono
i
Paesi
Bassi,
all'avallo
legale
della
soppressione
di
anziani
privi
di
specifiche
patologie,
ma
semplicemente
depressi
o
"stanchi
della
vita"
(24).
L'incapacità
di
continuare
a
qualificare
in
modo
oggettivo
la
sessualità
umana,
e
la
sostituzione
della
categoria
del
sesso
con
quella
di
genere
(25),
ha
portato
effetti
a
catena,
tra
i
quali
basti
menzionare,
in
ordine
crescente
di
problematicità,
quelli
concernenti
l'avallo
a
pratiche
di
sterilizzazione
volontaria
(26),
la
giustificazione
di
pratiche
di
manipolazione
e
al
limite
di
mutilazione
del
corpo
umano
(27),
l'indebita
omologazione
dei
rapporti
omosessuali
con
quelli
eterosessuali
-‐con
i
conseguenti
incredibili
pasticci
in
ordine
alla
definizione
dello
status
giuridico
della
vita
di
coppia
(28)-‐
e
last
but
not
least
il
significativo
vuoto
argomentativo
che
si
sta
diffondendo
in
tema
di
pedofilia
(vuoto
che
i
politici
colmano,
per
ora,
con
dichiarazioni
di
intenti
sufficientemente
confortanti
nella
sostanza,
ma
deprimenti
quanto
alla
loro
scarsissima
robustezza
logica).
Se
è
doveroso
auspicarne
l'elaborazione,
non
è
però
agevole
percepire,
nel
dibattito
bioetico
attuale,
i
segni
di
un
possibile
emergere
di
quei
nuovi
codici
simbolici
cui
ho
fatto
sopra
accenno
e
che
ritengo
essenziali
per
fronteggiare
il
neogiusnaturalismo
libertario.
E'
però
possibile
individuare
alcuni
segnali,
alcune
tracce
sui
cui
è
utile
richiamare
l'attenzione.
E'
agevole
percepire
che
lo
sgomento
indotto
nell'opinione
pubblica
da
pratiche
biomediche
estreme
non
tende
a
diminuire,
col
passare
degli
anni,
come
pure
molti
avevano
frettolosamente
ipotizzato
che
dovesse
avvenire,
ammonendo
a
dare
tempo
al
tempo,
sì
da
far
riassorbire
quello
che
si
riteneva
in
definitiva
essere
null'altro
che
un
mero
shock
culturale.
A
fronte
di
tante
patetiche,
e
a
loro
modo
(come
si
è
già
osservato)
autentiche
e
convulse
rivendicazioni,
il
comune
intelletto
umano,
cui
giustamente
Kant
dava
tanto
credito,
non
si
placa;
continua
a
ribellarsi,
anche
se
quasi
mai
riesce
ad
esprimere
in
termini
esatti
le
ragioni
della
sua
istintiva
ribellione,
né
a
fronteggiare
in
modo
adeguato
quelle
istanze
che
tanto
lo
turbano.
È
che
le
questioni
bioetiche
generano
spaesamento,
angoscia,
non
paura.
Se
soltanto
dipaura
si
trattasse
-‐cioè
di
quel
provvidenziale
meccanismo
di
difesa
di
cui
siamo
tutti
biologicamente
provvisti
per
attivare
difese
contro
pericoli
prevedibili
e
determinati-‐
non
c'è
alcun
dubbio
che
le
stesse
scienze
biomediche
che
l'
attivano
sarebbero
parimenti
in
grado
di
gestirla
e
al
limite
dominarla
(29).
Ma
poiché
ciò
che
è
in
gioco
non
è
la
paura,
ma
l'angoscia
-‐cioè
la
consapevolezza
ontologica
della
nostra
finitudine,
che
si
esprime
anche
nella
nostra
assoluta
vulnerabilità
di
fronte
all'imprevedibilità
strutturalmente
insita
nella
possibilità
(30)-‐
nessuna
risposta
"scientifica"
che
provenga
dalla
biomedicina
e
dalle
scienze
ad
essa
connesse,
per
quanto
ragionevolmente
rasserenante,
potrà
mai
essere
adeguata.
Essa
potrà
aiutarci
efficacemente
a
dominare
la
nostra
ansia,
ma
sarà
inerme
di
fronte
all'emergere
della
nostraangoscia.
Né
il
codice
simbolico
del
progresso
né
quello
della
rivendicazione
soggettiva
possono
dare
una
risposta
all'angoscia.
Il
codice
del
progresso
entra
infatti
in
contraddizione
con
quella
che
dell'angoscia
è
la
stessa
essenza:
essendo
il
progresso
biomedico
apertura
indifferenziata
al
futuro,
esso
fomenterà,
anziché
ridurla,
l'angoscia,
dato
che
propria
dell'imprevedibilità
di
un
futuro
aperto
essa
soffre.
Ma
neanche
il
codice
della
rivendicazione
soggettiva
potrà
fornire
una
risposta
adeguata
all'angoscia
bioetica,
perché
la
rivendicazione
presuppone
un
soggetto
rivendicante,
stabile
nella
sua
identità,
forte
nelle
sue
pretese,
determinato
nell'ottenerne
la
realizzazione:
esattamente
il
contrario,
cioè,
della
soggettività
odierna,
debole,
incerta,
frantumata,
sgomenta
di
fronte
al
moltiplicarsi
delle
possibilità,
"multipla"(31).
Se
quanto
detto
ha
un
senso,
si
può
ipotizzare
che
un
nuovo
codice
simbolico
della
bioetica
riuscirà
ad
emergere
e
ad
imporsi
solo
se
con
uno
sforzo
che
dovrà
essere
nello
stesso
tempo
teoretico,
culturale
e
spirituale,
saprà
prendere
sul
serio
che
ciò
di
cui
va
alla
ricerca
l'uomo
128
contemporaneo
non
è
solo
una
risposta
pragmatica
alle
proprie
paure,
ma
una
risposta
sapienziale
alla
propria
angoscia:
una
risposta
che
può
anche
non
possedere
alcun
carattere
operativo,
ma
che
deve
assolutamente
avere
un
carattere
rivelativo.
Rivelativo
di
che
cosa?
Del
fatto
che
quando
giunge
alla
consapevolezza
della
propria
finitudine
(in
termini
esistenzialistici,
di
quel
nulla
che
attraverso
l'angoscia
viene
alla
luce)
l'uomo
esprime
il
tutto
di
se
stesso
in
una
unica
grande,
indeterminata
domanda
di
aiuto.
Chi
arriva
a
comprendere
lo
spessore
di
questa
domanda
e
riesce
a
non
confonderla
con
la
banale
esigenza
dell'individuo
di
vedersi
sollevato
dalle
proprie
ansie,
acquisisce
ben
presto
la
consapevolezza
che
di
fronte
a
questa
grande,
indeterminata
domanda
di
aiuto
il
pensiero
scientifico,
come
già
si
è
detto,
è
disarmato:
il
suo
codice
simbolico
è,
di
necessità,
oggettivante,
e
non
lo
pone
in
grado
né
di
percepirla
adeguatamente,
né
tanto
meno
di
gestirla.
Il
nuovo
codice
simbolico
che
auspichiamo
dovrà
muoversi
piuttosto
in
quell'
ambito
teoreticamente
non
ben
definibile,
ma
psicologicamente
ben
percepibile
che
è
il
conforto:
una
sintesi
di
comprensione,
solidarietà,
prossimità,
sollecitudine,
cura,
condivisione,
sostegno,
aiuto,
amicizia
disinteressata.
Non
so
se
il
conforto
possa
aiutare
chi
soffre
dello
spaesamento
indotto
dall'angoscia
a
ritrovare
un
suo
luogo.
Ma
immagino
che
questo
sia
il
suo
vero
compito
e
che
già
l'assumerlo
con
consapevolezza
equivalga
al
fornire
un
orientamento
a
chi
si
stesse
muovendo
senza
mappa
in
un
territorio
assolutamente
sconosciuto.
129
(1)
Posso
rinviare
a
FINNIS
J.,
Natural
law
-‐
positive
law,
in
LOPEZ
TRUJILLO
A.,
HERRANZ
J.,
SGRECCIA
E.
(a
cura
di),
Evangelium
Vitae
e
Diritto.
Città
del
Vaticano:
Libreria
Editrice
Vaticana,
1997:
pp.
199-‐212.
(2)
Su
questo
problema
sono
già
intervenuto
diverse
volte:
mi
permetto
di
rinviare
ad
alcuni
miei
scritti
Medicina
e
Diritto:
riflessioni
filosofiche,
in
"Iustitia",
40,
1987,
pp.
69-‐71,
Etica
e
diritto
in
bioetica,
in
Quando
morire?
Bioetica
e
diritto
nel
dibattito
sull'eutanasia,
a
cura
di
VIAFORA
C.,
Padova,
Gregoriana,
1996,
pp.
69-‐86,
La
bioetica
come
problema
giuridico:
brevi
analisi
di
carattere
sistemico,
in
Le
radici
della
bioetica,
Atti
del
Congresso
Internazionale,
a
cura
di
SGRECCIA,
MELE,
MIRANDA,
Milano,
Vita
e
Pensiero,
1998,
pp.
203-‐211.
Tutti
questi
scritti
sono
ora
raccolti
in
D'AGOSTINO
F.,
Bioetica,
nella
prospettiva
della
filosofia
del
diritto,
Torino,
Giappichelli,
19983.
(3)
Alludo
alle
richieste
di
liberalizzazione
dell'aborto,
della
sterilizzazione,
dell'
eutanasia,
della
fecondazione
assistita,
del
cambiamento
di
sesso,
ma
anche
alle
istanze
per
modificare
opinioni
consolidate
in
tema
di
eugenetica,
per
predeterminare
il
sesso
dei
nascituri
o
per
non
ostacolare
le
ricerche
in
tema
di
clonazione,
nonché
alla
rivendicazione
del
risarcimento
di
una
wrongful
life,
ecc.
(4)
Si
apre
qui
una
questione
articolata
e
complessa,
già
avvertita
da
tempo
dai
più
sottili
sociologi
del
diritto.
Cfr.
ad
es.
CARBONNIER
J.,
Flessibile
diritto,
tr.it.,
Milano,
Giuffrè,
1997.
(5)
Cfr.
le
considerazioni
di
BUSNELLI
F.D.,
nel
capitolo
Procreazione
assistita
del
suo
Bioetica
e
diritto
privato.Frammenti
di
un
dizionario,
Torino,
Giappichelli,
2001,
pp.
181
ss.
ed
il
mio
contributo
The
Italian
Experience
of
Legislation
on
artificial
Fertilization,
in
Evangelium
Vitae.
Five
Years
of
confrontation
with
the
society.
Proceedings
of
the
Sixth
asembly
of
the
Pontifical
Academy
For
Life,
ed.
By
Vial
Correa
J.
and
Sgreccia
E.,
Città
del
Vaticano,
Libreria
Editrice
Vaticana,
2001,
pp.
257-‐261.
(6)
)
Sul
carattere
sadista
della
moderna
rivendicazione
della
liberalizzazione
dell'aborto,
ha
scritto
uno
studio
esemplare
LOMBARDI
VALLAURI
L.,
Abortismo
libertario
e
sadismo,
in
"Jus",
1975
e
anche
in
volume,
Milano,
Scotti
Camuzzi
Editore,
1976.
Va
ricordato
che,
con
sincero
rincrescimento
di
molti
(tra
cui
chi
scrive),
il
Lombardi
sembra
avere
smarrito
la
lucidità
teoretica
che
possedeva
nella
sua
piena
maturità.
(7)
Alcuni
autori
ritengono
che
tale
arché
si
prolunghi
nel
presente
e
assuma
concretizzazioni
storico-‐empiriche.
Descrivendo
quella
che
a
suo
avviso
è
una
dimensione
dello
spirito
indiano,
Pannikar
scrive:
"L'uomo
qui
non
è
pura
coscienza,
né
vive
delle
sue
idee
chiare
e
distinte;
si
direbbe
che
le
sue
reazioni
e
le
sue
decisioni
non
siano
motivate
da
idee
pragmatiche,
né
da
convinzioni
espresse,
ma
da
istinti
cosmici,
se
si
vuole,
da
forze
telluriche,
da
fattori
ctonici,
L'uomo
per
gli
indù
è
una
cosa
tra
le
altre
cose,
è
un
essere
di
più
nella
creazione
e
forma
un
tutt'uno
con
l'universo...non
è
soltanto
la
sua
ragione,
e
neppure
il
suo
interesse,
ciò
che
lo
guida
o
che
lo
rende
uomo,
ma
è
uomo
con
tutto
il
suo
essere
e
accetta
il
dono
della
sua
semplice
vita
e
della
sua
totale
e
indivisa
esistenza.
Non
ha
raggiunto
una
prospettiva
di
fronte
alla
natura,
né
si
crede
re
del
creato,
con
signoria
di
servizio
divino.
Perciò
non
è
neppure
spettatore
della
natura,
ma
parte
della
natura
stessa"
(PANNIKAR
R.,
La
India.
Gente,
cultura
y
creencias,
Madrid,
Rialp,
1960,
tr.it.,
L'India.
Popolazione,
cultura,
credenze,
Brescia,
Morcelliana,
1964,
pp.
104-‐105).
(8)
Di
cui
può
fornirci
ottimo
esempio
il
lavoro
di
NEUMANN
E.,,
Ursprungsgeschichte
des
Bewusstseins,
Zürich,
Rascher
Verlag,
1949,
tr.it.
Storia
delle
origini
della
coscienza,
Roma,
Astrolabio,
1978.
(9)
Ho
già
lavorato
in
questa
direzione
nel
mio
libro,
D'AGOSTINO
F.,
Per
un'archeologia
del
diritto,
Milano,
Giuffrè,
1979.
130
(10)
Come
è
noto,
questa
è
la
straordinaria
e
densissima
formula
con
la
quale
FREUD
riassume
le
dinamiche
di
maturazione
archeologica
della
soggettività
(cfr.
Neue
Folge
der
Vorlesungen
zur
Einführung
in
die
Psychoanalyse,
in
Gesammelte
Werke,
Frankfurt
a.M.,
1940-‐1953,
vol.
XV,
p.
86;
tr.it.
Introduzione
allo
studio
della
psicoanalisi,
Roma,
Astrolabio,
1948,
p.
426).
(11)
Sulla
dialettica
dei
due
principi,
o,
se
si
preferisce,
sulla
antinomia
tra
diritto
materno
e
diritto
paterno,
si
deve
sempre
ripartire
da
BACHOFEN
J.J.,
le
cui
opere
principali,
il
Versuch
über
die
Gräbersymbolik
der
Alten
ed
il
Mutterrecht
sono
ormai
disponibili
in
italiano
(cfr.
Il
simbolismo
funerario
degli
antichi,
Napoli,
Guida,
1989
e
Il
matriarcato,
2
voll.,
Torino,
Einaudi,
1988).
Su
Bachofen,
cfr.
Uwe
WESEL,
Der
Mythos
von
Matriarchat.
Über
Bachofens
Mutterrecht
und
die
Stellung
von
Frauen
im
fruehen
Gesellschaften,
Frankfurt
a.M.,
1999
e,
nella
letteratura
italiana,
CASCAVILLA
M.,
Johann
Jakob
Bachofen:
dalla
parte
del
diritto
femminile,
in
"Hermeneutica",
1989,
pp.
163-‐200.
Essenziali
in
merito
le
considerazioni
di
MANCINI
I.,
Filosofia
della
prassi,
Brescia,
Morcelliana,
1986,
pp.
229-‐280.
(12)
OVIDIO,
Metamorfosi,
10,
321
e
ss.
e
in
part.
329
ss.:
"L'umana
inquietudine/emanò
leggi
malvage
e
ciò
che
la
natura
concede/lo
negano
invide
leggi".
(13)
FOUCAULT
M.,
Histoire
de
la
folie
à
l'âge
classique,
Paris
1961,
p.
296.
Quali
che
siano
stati
gli
specifici
intendimenti
teoretici
foucaultiani
(che
qui
poco
interessano),
c'è
da
rilevare
che
nelle
sue
osservazioni
si
dà
quanto
basterebbe
per
giustificare
appieno
quello
che
Hegel
ebbe
una
volta
a
chiamare
der
ungeheuerste
Unglaube
an
die
Natur,
la
sfiducia
più
smisurata
nella
natura
(Der
Geist
des
Christentums
und
sein
Schicksal,
in
HEGEL,
Theorie
Werkausgabe,
vol.
I,
Frühe
Schriften,
Frankfurt
a.M.,
Suhrkamp,
1971,
p.
274).
(14)
Che
è
la
prima
cosa
che
l'uomo
deve
apprendere:
das
erste,
was
hier
gelernt
werden
mu² ,
ist
das
Aufrechtstehen(HEGEL,
Enzyklopädie
der
philosophischen
Wissenschaften,
§
396,
Zusatz).
(15)
DEMOCRITO,
fr.
248
(Diels-‐Kranz).
(16)
Ricordo
per
tutti
le
pagine
di
COTTA
S.,
Diritto,
persona,
mondo
umano,
Torino
1989,
in
part.
pp.
95
e
ss.
(17)
Esemplari,
ma
veri
e
propri
Holzwege,
le
sofferte
considerazioni
sull'aborto
di
Natalia
GINZBURG:
"Abortire
è
uccidere,
ma
si
tratta
di
una
uccisione
che
non
può
essere
paragonata
a
nessun'altra...essendo
questa
una
scelta
diversa
da
ogni
altra,
non
vi
possono
entrare
le
nostre
abituali
considerazioni
di
ordine
morale;
esse
appaiono
qui
inservibili.
Noi
sappiamo
bene
che
uccidere
è
male;
ma
qui,
in
presenza
d
'una
possibilità
viva
ma
immersa
nel
buio,anche
l'idea
del
bene
e
del
male
è
immersa
nel
buio.
In
una
simile
scelta,
la
luce
della
ragione,
la
luce
della
logica,
la
luce
abituale
delle
considerazioni
morali
non
possono
entrare;
esse
non
porterebbero
nessun
soccorso,
perché
non
ci
sono
risposte
o
chiarimenti
logici
quando
tutto
è
immerso
nel
buio;
è
una
scelta
in
cui
stanno
uno
davanti
all'altro
l'individuo
e
il
destino,
al
buio.
Tale
scelta
non
può
dunque
essere
che
individuale,
privata
e
buia.
Essa
è,
fra
tutte
le
scelte
umane,
la
più
privata,
la
più
anarchica,
la
più
solitaria.
E'
una
scelta
che
appartiene
di
diritto
alla
madre,
e
soltanto
a
lei;
e
questo
non
perché
esista,
in
ogni
circostanza
della
vita,
un
libero
diritto
di
scelta;
e
non
perché
'la
pancia
è
mia
e
ne
faccio
quello
che
mi
pare':
penso
che
mai
come
in
una
simile
scelta
le
persone
sentono
che
niente
gli
appartiene,
e
meno
che
mai
il
loro
proprio
corpo:
gli
appartiene
soltanto
un'orribile
facoltà
di
scegliere,
per
una
forma
senza
né
voce
né
occhi,
la
vita
o
il
nulla.
E'
una
facoltà
pesante
come
il
piombo,
una
libertà
che
si
trascina
dietro
ferri
e
catene:
perché
chi
sceglie
deve
scegliere
per
due,
e
l'altro
è
muto.
Si
tratta
di
lacerarsi
in
una
parte
di
sé,
ammazzare
una
parte
di
sé,
strappare
dalle
proprie
membra
per
sempre
una
precisa
possibilità
viva
e
ignota;
è
una
scelta
muta
e
buia
come
è
muta
l'intesa
che
intercorre
sotterranea
con
quella
forma
nascosta;
e
il
rapporto
fra
la
madre
e
quella
forma
vivente,
ignota
e
nascosta,
è
in
verità
il
rapporto
più
chiuso
e
più
incatenato
e
più
nero
che
esista
al
mondo,
è
il
meno
libero
fra
tutti
i
rapporti
e
non
riguarda
nessuno.
Una
simile
scelta,
non
riguarda
nessuno
e
meno
che
mai
la
legge.
E
chiaro
che
131
la
legge
non
ha
nessun
diritto
né
di
proibirla
né
di
punirla..."
(Aborto:
la
donna
è
sola,
in
"Corriere
della
Sera",
7.2.1975,
col
titolo
Dell'aborto,
ora
in
GINZBURG
N.,
Non
possiamo
saperlo.
Saggi
1973-‐1990,
a
cura
di
SCARPA
D.,
Torino,
Einaudi,
2001,
p.
28-‐29).
(18)
Protreptico,
10b,
tr.it.
in
ARISTOTELE,
Opere,
vol.
XI,
Costituzione
degli
Ateniesi
e
Frammenti,
Roma-‐Bari,
Laterza,
1973,
pp.
150
e
ss.
(19)
Cfr.
D'AGOSTINO,
Zoé,
bios,
psyché:
fondazione
concettuale
e
conseguenze
pratiche
del
discorso
sulla
vita,
in
Nuove
Frontiere
del
diritto.
Dialoghi
su
giustizia
e
verità,
Bari,
Dedalo,
2001,
pp.
109-‐118.
(20)
Per
tutti
cfr.
BACHOFEN,
Il
matriarcato,
cit.,
vol.
I,
pp.
316-‐317:
"Svincolandosi
da
ogni
zavorra
o
mistura
materiale,
il
diritto
diventa
amore".
(21)
MANCINI,
Filosofia
della
prassi,
cit.
pp.
260
ss.
(22)
Buoni
esempi
di
queste
violenze
(non
solo)
linguistiche
per
quel
che
concerne
la
fecondazione
artificiale
ce
li
fornisce
PALMARO
M.,
La
fecondazione
extra-‐corporea
tra
diritto
naturale
e
diritto
positivo,
in
AA.VV.,
Fecondazione
extra-‐corporea:
pro
o
contro
l'uomo?,
a
cura
di
GARRONE
G.,
Milano,
Gribaudi,
2001,
pp.
69
e
ss.
(23)
Cfr.
l'ampia
e
impressionante
ricerca
di
BOSWELL
J.,
The
Kindness
of
Strangers,
1988,
tr.it.
L'abbandono
dei
bambini,
Milano,
Rizzoli,
1991.
(24)
Si
vedano
i
dati
riportati
da
KIMSMA
G.K.,
La
dolce
morte
e
la
misura
della
sofferenza,
in
"Janus",
anno
I,
n°
1,
2001,
pp.
80-‐92.
(25)
Cfr.
per
tutti
LORBER
J.,
Paradoxes
of
gender,
Yale
University
Press,
1994,
tr.it.,
L'invenzione
dei
sessi,
Milano,
Il
Saggiatore,
1995.
(26)
Cfr.
AMATO
S.,
Tendenze
nichilistiche
del
diritto
moderno:
la
sterilizzazione,
in
"Archivio
Giuridico",
1/2000,
pp.
7-‐22.
(27)
Si
tratta
di
pratiche
di
cui
la
pubblica
opinione
stenta
a
prendere
coscienza
e
che
in
genere
vengono
occultate
come
fenomeni
di
moda,
riconducibili
a
forme
estreme
di
tatuaggio
e
di
piercing.
La
realtà
è
ben
diversa.
Basti
osservare
la
documentazione
fotografica
raccolta
in
un
libro
cult
americano
come
Modern
primitives,
disponibile
da
qualche
anno
anche
in
italiano,
con
un
titolo
(a
mio
avviso
intenzionalmente
e
riduttivamente)
fuorviante:
Tatuaggi,
corpo,
spirito,
Milano,
Apogeo,
1994.
(28)
Cfr.
LEROY-‐FORGEOT
F.,/
MÉCARY
C.,
Le
couple
omosexuelle
et
le
droit,
Paris,
Odile
Jacob,
2001.
(29)
LUHMANN
N.,
Comunicazione
ecologica,
Milano:
Franco
Angeli,
1990.
(30)
Il
tema
al
quale
alludo,
fatto
per
la
prima
volta
emergere
in
modo
esplicito
da
Kierkegaard,
costituisce,
come
è
noto,
una
delle
ossature
del
pensiero
heideggeriano.
Ai
nostri
fini
basti
rimandare
al
classico
Che
cos'è
la
metsifica?
Del
1929,
ora
in
HEIDEGGER,
M.,
Wegmarken,
Frankfurt
a.M.,
Klostermann,
1976,
tr.it.,
Segnavia,
Milano,
Aldephi,
1987,
in
part.
pp.
67-‐68.
(31)
Cfr.
GALZIGNA
M.,
La
sfida
dell'altro.
Per
una
critica
dell'io
unitario,
in
AA.VV.,
La
sfida
dell'altro.
Le
scienze
psichiche
in
una
società
multiculturale,
a
cura
di
M.GALZIGNA,
Venezia
1999,
pp.
11-‐26.
132
JOSEPH
SEIFERT
133
Nonostante
questa
netta
distinzione,
il
diritto
fondamentale
alla
vita,
violato
ogni
qualvolta
una
persona
umana
innocente
è
intenzionalmente
uccisa
da
altri,
è
intimamente
connesso
con
la
dignità
umana
e
trova
in
essa
la
sua
condizione
primaria.
LE
RADICI
DELLA
LOTTA
CONTRO
LA
DIGNITA'
DI
OGNI
ESSERE
UMANO
L'accesa
lotta
teoretica
contro
la
dignità
di
ogni
essere
umano
e
contro
il
diritto
alla
vita
ha
assunto
molte
forme
ed
ha
molte
radici
che
intendo
qui
elencare,
ma
che
non
posso
sottoporre
ad
una
critica
estesa.
Spero
tuttavia
che
le
implicazioni
insite
in
quanto
segue
possano
ovviare
al
problema.
L'attacco
contro
il
diritto
alla
vita
si
radica
in
primo
luogo
nella
negazione
della
distinzione
essenziale
fra
uomo
ed
animale,
a
causa
di
una
concezione
evoluzionista
della
vita.(2)
Spesso
tale
evoluzionismo
ha
le
sue
radici
in
un
ateismo
che
nega
il
carattere
della
persona
umana
come
creatura
ad
immagine
di
Dio,
e
perciò
il
fondamento
metafisico
e
religioso
della
dignità
umana.
Una
terza
ragione
per
rifiutare
la
dignità
umana
risiede
nella
riduzione
dell'essere
personale
a
ciò
che
potremmo
chiamare
le
sue
performance
personali,
assenti
negli
embrioni
e
in
molti
altri
esseri
umani.(3)
La
posizione
attualista
e
la
riduzione
della
persona
alla
sua
attività
cosciente
sono
strettamente
legate
anche
ad
una
quarta
ragione
possibile
di
negazione
del
diritto
universale
alla
vita:
l'introduzione
di
una
distinzione
fra
essere
umano
e
persona
umana,
concedendo
però
l'attributo
di
persona
solo
agli
esseri
umani
coscienti
capaci
di
agire
come
persone,
e
dunque
negando
l'attributo
di
persona
ai
neonati
e
alle
persone
in
coma
irreversibile
che
sono
permanentemente
incoscienti,
come
pure
ai
cosiddetti
morti
cerebrali.
Tale
distinzione
fra
esseri
umani
biologicamente
definiti
e
persone
umane
è
strettamente
connessa
all'attualismo,
in
quanto
negazione
di
un
soggetto
personale
sostanziale,
o
anima.(4)
Altre
negazioni
dell'universalità
della
dignità
umana
e
del
diritto
alla
vita
si
basano
sulla
negazione
della
legge
naturale
e
dei
diritti
umani
fondamentali
che
si
fondano
sulla
natura
dell'essere
e
dei
valori,
accettando
quali
fonti
del
diritto
solo
le
leggi
positive
implementate
dai
legislatori.
Un'ulteriore
teoria
che
si
cela
dietro
la
negazione
della
dignità
umana
è
un
generale
scetticismo
e
relativismo
dei
valori
che
nega
ogni
valore
indipendente
dalle
opinioni
soggettive,
ciò
che
Spaemann
chiama
"revoziebare
Toleranzedikte"
(editto
di
tolleranza
revocabile).(5)
Di
contro
a
questo
sintetico
quadro
di
alcune
fra
i
più
frequenti
motivi
di
negazione
della
dignità
umana
e
del
diritto
alla
vita,
dobbiamo
cercare
di
raggiungere
una
comprensione
teoretica,
così
da
dare
una
spiegazione,
del
valore
unico
della
vita
e
della
dignità
umane
quali
fondamenti
del
diritto
alla
vita
e
di
altri
diritti
umani
essenziali.
Iniziamo
chiedendoci
che
cosa
significhi
"dignità"
della
vita
umana,
per
procedere
poi
a
discutere
le
sue
quattro
fonti.
CHE
COS'E'
LA
DIGNITA'?
La
dignità
è
l'eccellenza
unica
del
valore
In
primo
luogo,
la
dignità
designa
un
valore
oggettivo
e
intrinseco.
Qualità
della
soddisfazione
soggettiva,
come
l'oggetto
dell'atto
"A
me
piace
il
cioccolato"
(che
ad
altri
non
piace),
non
possono
mai
rappresentare
categorie
appropriate
alla
dignità
umana.
Se
qualcuno
volesse
applicare
una
tale
espressione
alla
dignità
umana
e,
mentre
tortura
un
bambino
o
violenta
una
donna,
reagisse
al
nostro
sdegno
dicendo
:
"A
te
questo
non
piace
ma
a
me
sì;
non
ti
immischiare
134
nelle
mie
preferenze
soggettive",
vedremmo
immediatamente
l'errore
categoriale
insito
in
tale
affermazione:
il
valore
chiamatodignità
costituisce
l'intrinseca
preziosità
e
bontà
di
un
essere,
che
non
dipendono
in
alcun
modo
dal
nostro
gradimento.
Se
fosse
solo
una
questione
di
preferenza
soggettiva,
non
si
tratterebbe
neppure
di
dignità.
Al
contrario,
"dignità"
non
solo
indica
il
valore
oggettivo
intrinseco
di
una
persona,
ma
anche
un
valore
molto
alto,
sublime.
E
nemmeno
questo
basta
a
descrivere
tale
valore;
infatti,
quando
ci
troviamo
di
fronte
ad
un'opera
d'arte
come
l'Ultima
Cena
di
Leonardo,
di
alto
e
sublime
valore
oggettivo,
non
le
attribuiamo
la
dignità
in
senso
proprio,
perché
un'opera
d'arte
manca
del
grado
di
realtà
necessario
ad
un
essere
per
possedere
in
senso
proprio
l'attributo
della
dignità.
Il
termine
"dignità",
dunque,
non
designa
tutti
i
valori
sublimi
ma
solo
(ed
è
il
terzo
significato)
il
valore
di
un
essere
realmente
esistente,
come
la
persona.
Il
termine
"dignità"
è
stato
di
recente
applicato
dalla
legislazione
svizzera(6)
a
tutte
le
creature,
inclusi
animali
e
piante,
e
perfino
alle
cose
inanimate(7).
Sebbene
ciò
abbia
qualche
giustificazione,
in
quanto
ogni
essere
realmente
esistente
in
natura
ha
qualche
valore
speciale,
come
il
termine
"Würde
der
Kreatur"
esprime,
tuttavia
le
entità
non-‐personali
non
posseggono
dignità
in
senso
proprio.
In
quarto
luogo,
poi,
il
termine
designa
un
valore
unico
di
cui
non
solo
è
dotata
ogni
persona
avente
un'intrinseca
e
oggettiva
preziosità
-‐
poiché
questo
si
può
dire
anche
degli
animali
e
di
tutti
gli
esseri
viventi,
come
pure
delle
cose
materiali
-‐
ma
che
eleva
le
persone
ad
un
livello
di
valore
incommensurabilmente
più
alto,
non
paragonabile
assiologicamente
a
nessun
altro
valore
che
non
merita
il
nobile
titolo
di
dignità.
La
dignità
è
inseparabile
dall'essere
persona
l'essere
persona
è
inseparabile
dalla
dignità
Dignità
significa
quindi
un'eccellenza
di
valore
che
è
così
strettamente
connessa
alla
natura
della
persona
che
non
si
può
comprendere
senza
cogliere
l'essenza
della
persona
nella
cui
natura
essa
si
radica.
Quando
consideriamo
la
persona
come
un
soggetto
di
natura
razionale
individuale,
unico
e
irripetibile,
cogliamo
la
dignità
che
fondata
in
esso.
Di
qui
la
definizione
di
persona
di
Alessandro
di
Hales
secondo
tale
dignità(8):
"la
persona
è
una
sostanza
che
si
distingue
per
una
proprietà
afferente
alla
dignità".
L'essenza
e
l'esistenza
reale
delle
persone
danno
origine
ad
una
dignità
ontologica
che
capiamo
appartenere
ad
un
soggetto
dotato
di
una
natura
tale
da
renderlo
capace
in
linea
di
principio
di
comprensione,
di
atti
liberi,
di
coscienza
morale,
di
atti
religiosi,
ecc.;
in
una
parola,
ad
una
persona.
E
a
sua
volta
questo
valore,
la
dignità,
sebbene
scaturisca
dalle
caratteristiche
essenziali
di
una
persona,
appartiene
così
intimamente
all'essenza
personale
che
è
proprio
esso
a
distinguere
le
persone
dagli
altri
esseri,
e
per
questo
viene
correttamente
incluso
nella
definizione
assiologia
di
persona
che
citato.
Il
carattere
inalienabile
della
dignità
La
"dignità"
è
anche
chiamata
"inalienabile".
Questo
termine
non
si
applica
in
realtà
a
tutte
le
forme
e
le
dimensioni
della
dignità,
come
vedremo,
ma
si
applica
al
valore
ontologico
della
persona
in
quanto
tale,
che
è
radicata
intelligibilmente
nell'essere
e
nell'essenza
della
persona.(9)
Il
carattere
"inviolabile",
la
"
sacralità"
della
dignità
e
la
sua
natura
non
negoziabile:
la
dignità
come
oggetto
di
rispetto
morale
e
giuridico
incondizionato
(assoluto)
e
come
"intrinsece
malum".(10)
"Dignità"
non
significa
soltanto
eccellenza
di
valore
in
quanto
tale,
ma
è
portatrice
di
una
relazione
intrinseca
con
il
fatto
di
essere
l'oggetto
della
moralità
e
degli
imperativi
morali.
Anzi:
con
il
fatto
di
essere
l'oggetto
di
un
tipo
particolare
di
imperativi
morali
"assoluti"
e
135
incondizionati(x).
Non
significa
solo
un
alto
e
nobile
valore,
come
quello
di
un
animale,
che
deve
essere
rispettato
ma
che
consente
in
determinate
circostanze
di
macellarlo
o
ucciderlo,
di
usarlo
come
cibo
o
per
scopi
estetici.
La
natura
inviolabile
della
dignità
personale
proibisce
qualunque
atto
del
genere.
Si
può
anche
chiamarla
la
"sacralità"
di
tale
valore,
che
già
ai
Romani
fece
dire
"homo
homini
res
sacra
est"
(l'uomo
è
cosa
sacra
per
l'altro
uomo).(11)
Questa
sacralità
comprende
anche
il
corpo
umano
e
la
sfera
sessuale,
così
intimamente
legate
alla
persona
umana
spirituale.
La
dignità
è
pertanto
un
caso
particolare
di
valore
moralmente
rilevante,
la
cui
violazione
costituisce
non
solo
un
atto
immorale
ma
uno
speciale
oltraggio
morale.
Inoltre,
"la
dignità"
indica
un
valore
morale
così
rilevante
che
è
in
grado
di
fondare
un
intrinsece
malum
(male
intrinseco).
Le
azioni
essenzialmente
e
gravemente
dirette
contro
tale
dignità
sono
nello
stesso
tempo
contro
la
moralità,
cioè
sono
essenzialmente
ed
intrinsecamente
dei
mali,
e
non
possono
divenire
buone
o
permesse
a
certe
condizioni
o
se
praticate
con
buoni
propositi.(12)
La
dignità
indica
un
aspetto
"sacrosanto"
della
persona,
che
rende
inviolabile
il
suo
valore,
proibendo
di
agire
contro
tale
dignità,
per
qualunque
ragione.
Kant
dice
che
la
dignità
è
un
valore
che
non
ha
equivalenti
("an
dessen
Stelle"
nicht
"etwas
anderes
als
Äquivalent
gesetzt
werden"
kann),
ossia
che
ha
un
carattere
assoluto,
che
non
ammette
alcuna
negoziazione
o
offesa,
nella
convinzione
che
in
un
bilancio
dei
beni
in
gioco
l'offesa
sia
compensata
da
altri
beni.
Un
essere
che
possiede
dignità,
poi,
non
si
può
violare
per
ragioni
pragmatiche,
nemmeno
per
un
bene
-‐
parlando
in
termini
quantitativi
-‐
maggiore.
Kant
prosegue
dicendo
che
la
dignità
della
persona
eccelle
su
qualunque
cosa
che
abbia
un
prezzo,
configurandosi
come
il
valore
insostituibile
di
un
essere,
che
non
può
subire
negoziazioni
(das
"uber
allen
Preis
erhaben
ist,
mithin
kein
Äquivalent
verstattet").(13)
Dunque
all'uomo
è
dovuto
il
rispetto
(Achtung)
in
modo
assoluto,
un
rispetto
che
vieta
di
usare
un
essere
umano
come
semplice
mezzo.(14)
Ogni
forma
puramente
teleologica
e
consequenzialista
di
fondazione
della
norma
morale
fallisce
nel
riconoscere
questo
aspetto
della
dignità
e
perciò
va
rifiutata.(15)
Il
fatto
che
la
dignità
sia
inviolabile
non
vuol
dire
ovviamente
che
non
può
essere
violato
ciò
che
la
possiede,
ma
che
una
persona
dotata
di
dignità
non
andrebbe
mai
violata
quanto
a
ciò
che
costituisce
questa
dignità.
La
dignità
è
"ciò
di
cui
non
si
può
pensare
il
più
grande"
Le
peculiari
assolutezza
e
inviolabilità
morali
della
dignità
della
vita
e
della
persona
umane
sono
sempre
state
viste
sia
come
conseguenze
che
come
ragioni
del
fatto
che
l'uomo
è
somigliante
in
modo
affatto
speciale
all'id
quo
maius
nihil
cogitari
posse
(ciò
di
cui
non
si
può
pensare
il
più
grande),
per
il
suo
carattere
di
immagine
di
Dio.(16)
Ciò
perché
la
più
grande,
la
suprema
dignità
appartiene
precisamente
a
quell'essere
che
è
pura
e
infinita
perfezione,
a
Dio
come
solo
essere
assolutamente
perfetto,
più
grande
del
quale
nulla
può
essere
immaginato.(17)
San
Tommaso
fa
riferimento
a
questa
relazione
con
l'assoluta
perfezione
divina
nella
sua
spiegazione
della
definizione
di
persona
nei
termini
della
dignità
umana:
"Rispondo
che
persona
sta
ad
indicare
ciò
che
è
più
perfetto
in
tutta
la
natura,
cioè
un
essere
individuale
sussistente
di
natura
razionale.
Così,
poiché
tutto
ciò
che
è
perfetto
va
attribuito
a
Dio,
dal
momento
che
la
Sua
essenza
contiene
ogni
perfezione,
questo
nome,
"persona",
si
applica
convenientemente
a
Dio;
ma
non
nel
modo
in
cui
si
applica
alle
creature,
bensì
in
un
modo
più
eccellente,
come
accade
anche
con
altri
nomi
che,
mentre
li
diamo
alle
creature,
li
attribuiamo
a
Dio.
Lo
abbiamo
mostrato
parlando
dei
nomi
di
Dio
(Q.
13,
a.
2).(18)
Sebbene
il
nome
"persona"
possa
non
appartenere
a
Dio
quanto
alla
sua
origine,
appartiene
a
Dio
in
modo
eccellente
nel
suo
significato
oggettivo.
Anche
agli
uomini
famosi
rappresentati
nelle
136
commedie
o
nelle
tragedie
venne
dato
il
nome
di
"persona"
per
indicare
che
avevano
grande
dignità.
Ugualmente,
coloro
che
ricoprivano
alti
ranghi
nella
Chiesa
furono
chiamati
"persone".
Di
qui
il
fatto
che
alcuni
abbiano
dato
una
definizione
di
persona
come
"ipostasi
distinta
a
causa
della
dignità".
E
dato
che
la
sussistenza
in
una
natura
razionale
è
di
grande
dignità,
ogni
individuo
di
natura
razionale
è
chiamato
"persona".
Ora,
la
dignità
della
natura
divina
eccelle
su
ogni
altra
dignità,
e
quindi
il
nome
"persona"
appartiene
in
modo
sommamente
eminente
a
Dio.(19)
LE
QUATTRO
RADICI
E
FONTI
DELLA
DIGNITA'
UMANA
Ciò
che
l'uomo
è
in
quanto
persona
(e
non
ciò
che
possiede
solo
accidentalmente),
cioè
l'essenza,
l'essere
e
la
sostanza,
come
fonti
della
dignità
umana.
La
prima
fonte
della
dignità
umana
appare
chiaramente
considerando
come
nessuna
esperienza
o
atto
cosciente
dell'uomo
possano
esistere
per
se
stessi,
ma
necessitano
di
un
soggetto.
Tale
soggetto
deve
sussistere
in
sé
nell'essere.
Le
funzioni,
le
qualità
delle
cose,
non
possono
in
alcun
modo
essere
persone.
È
evidente
che
una
proprietà
di
qualcosa,
o
una
funzione
mentale
o
sociale,
non
possono
essere
soggetti
di
esperienze
coscienti,
e
pertanto
non
possono
essere
persone.
Le
esperienze
e
gli
atti
umani
appartengono
sempre
ad
un
soggetto
che
è
di
più
di
queste
esperienze
ed
è
irriducibile
ad
esse;
non
solo,
le
attua,
le
vive,
le
fa
o
le
causa
in
altri
modi.
Tale
soggetto,
inoltre,
che
sussiste
in
sé
ed
è
soggetto
di
atti
razionali,
non
può
essere
un
qualunque
soggetto,
come
un
cervello
composto
di
milioni
di
cellule,
ma
deve
essere
un
soggetto
semplice
e
spirituale.
E
questo
soggetto
è
una
persona
solo
se
possiede
una
natura
razionale.(20)
Coloro
che
cercano
di
restringere
la
dignità
umana
ai
membri
sani
di
mente,
in
salute
e
intelligenti
della
specie
umana
negano
che
le
fonti
della
dignità
siano
proprio
l'esistenza
e
la
natura
sostanziale
della
persona
umana.
Gli
autori
che
negano
la
dignità
della
persona
di
tutti
e
di
ciascun
singolo
uomo,
restringendola
ad
alcuni
esemplari
del
genere
umano,
cercano
di
attribuire
la
dignità
dell'uomo
a
tratti
accidentali,
affrancandola
dall'essenza.
Tuttavia,
vediamo
chiaramente
che
l'essere
personale,
e
dunque
anche
la
dignità
della
persona
in
quanto
persona,
non
risiedono
unicamente
negli
atti
e
negli
accidenti,
ma
nell'essenza
e
nella
natura
sostanziale,
e
dunque
sono
dati
con
l'esistenza
stessa.
L'essere
persona,
non
importa
se
sana
o
malata,
se
maschio
o
femmina,
se
vecchia
o
giovane,
se
cosciente
o
in
coma,
è
la
prima
base
della
dignità
umana,
dal
momento
che
la
libertà,
la
consapevolezza
e
la
conoscenza,
come
pure
il
carattere
diio
e
di
sé
che
appartengono
all'essenza
della
persona,
richiedono
chiaramente
un
soggetto,
che
vive
e
sussiste
in
sé
nell'essere,
e
non
dipende
da
questi
atti
né
inerisce
ad
un'altra
cosa
come
suo
accidente.
Inoltre,
l'essere
personale,
che
è
la
fonte
primaria
della
dignità
umana,
richiede
sia
l'essenza
razionale
e
intellettuale
che
l'esistenza
concreta
e
individuale
del
soggetto
che
chiamiamo
persona.
Le
persone
non
sono
mai
essenze
astratte,
ma
sempre
individui
esistenti
e
incomunicabili.
Ciò
fu
riconosciuto
chiaramente
da
Riccardo
di
San
Vittore,
che
ebbe
a
dire
che
la
persona
è
"l'incomunicabile
esistenza
di
una
natura
razionale"
(persona
est
intellectualis
naturae
incommunicabilis
existentia),
e
che
"esiste
per
sé
soltanto
secondo
una
modalità
singolare
di
esistenza
razionale"
(existens
per
se
solum
juxta
singularem
quendam
rationalis
existentiae
modum).(21)
Dunque,
l'essenza
di
una
natura
razionale,
così
come
l'esistenza
e
la
vita
reali
di
un
insostituibile
individuo
insostituibile
di
tale
natura,
si
compenetrano
nell'origine
della
dignità
personale.(22)
Un
essere
umano
possiede
una
dignità
inalienabile
non
solo
"quando
funziona
come
persona",
ma
la
possiede
in
virtù
del
suo
"essere
persona".(23)
137
In
termini
aristotelici,
è
l'essere
sostanziale
dell'uomo
e
le
sue
potenze
che
fondano
questa
dignità,
non
solo
le
sue
attualizzazioni.(24)
Anche
quando
un
uomo
dorme
possiede
la
dignità;
anche
quando
cade
in
uno
stato
di
incoscienza
o
di
coma
possiede
la
dignità;
anche
l'embrione
che
non
può
ancora
usare
l'intelletto
ma
lo
possiede
come
condizione
di
possibilità
per
usarlo
poi
è
dotato
della
dignità
personale.
Possiamo
chiamarla
quindi
la
"dignità
puramente
ontologica
delle
persone".
LA
SECONDA
FONTE
DELLA
DIGNITA'
UMANA:
COSCIENZA
E
ATTUAZIONE
DELLA
PERSONALITA'.
Blaise
Pascal
dice
che
"tutta
la
nostra
dignità
consiste
nel
pensiero".(25)
Queste
belle
parole
indicano
che
solo
nella
vita
cosciente
e
razionale
la
persona
realizza
il
suo
essere
in
quanto
persona.
La
persona
in
stato
di
incoscienza
è
come
se
dormisse,
quindi
possiede
solo
in
potenza
l'essere
consapevole
della
persona.
Si
potrebbe
quasi
dire
che
nella
persona
l'essere
puramente
ontologico
inconsapevole
e
lo
stato
di
consapevolezza
sono
in
relazione
tra
loro
come
la
potenza
e
l'atto.
La
vita
razionale
cosciente
è
l'atto
dell'esistenza
personale.
Ma
se
tutta
la
dignità
della
persona
consistesse
nel
pensiero,
si
dovrebbe
negare
la
dignità
del
concepito
e
dell'incosciente
che
non
è
in
grado
di
pensare.
Così,
se
Pascal
avesse
ragione,
dovremmo
chiederci:
la
dignità
umana
si
radica
veramente
in
tutti
i
membri
della
specie
umana
o
dobbiamo
ricadere
invece
in
ciò
che
Singer
chiama
"specismo"?(26)
Singer
parla
della
sua
"proposta
di
rifiutare
la
santità
della
vita
umana"(27),
pensando,
apparentemente
come
Pascal,
che
il
valore
degli
esseri
umani
possa
risiedere
solamente
nella
loro
capacità
attuale
di
pensare,
di
volere,
ecc.
Arriva
a
difendere
l'idea
che
i
ritardati
e
i
bambini
disabili
in
genere
sono
meno
dotati
di
dignità
dei
maiali
o
degli
scimpanzé(28).
Pertanto,
il
diritto
alla
vita
andrebbe
ristretto
solo
ad
alcuni
esseri
umani.
Ma
allora,
se
davvero
tutta
la
dignità
dell'uomo
consistesse
nel
pensiero
e
negli
atti
liberi
e
consapevoli,
potrebbe
davvero
essere
permesso
l'aborto?
Mentre
rifiutiamo
totalmente,
per
le
ragioni
esposte,
la
negazione
singeriana
del
primo
e
più
fondamentale
livello
della
dignità
umana,
non
neghiamo
che
la
coscienza
attuale
dia
origine
ad
una
seconda
nuova
dimensione
della
dignità
personale.
Questa
seconda
fonte
della
dignità
della
persona
umana
consiste
nell'attuazione
consapevole
della
persona,
nella
coscienza
personale
risvegliata
che
costituisce
in
un
certo
senso
l'atto
dell'essere
personale.
Questo
tratto
può
essere
assente
o
ridotto
in
persone
gravemente
ritardate
o
in
esseri
umani
in
stato
vegetativo
permanente,
o
in
stato
di
incoscienza.(29)
Anche
nell'essere
coscientemente
risvegliato
della
persona
umana
troviamo
invero
la
radice
di
una
nuova
dimensione
della
dignità,
che
si
esprime
nell'acquisizione
di
quei
diritti
umani
che
non
sono
-‐
come
è
invece
il
diritto
alla
vita
-‐
fondati
sull'essere
stesso
della
persona,
sul
suo
carattere
sostanziale,
ma
sui
differenti
gradi
di
consapevolezza
e
di
maturità.
Ad
esempio,
il
diritto
umano
alla
libertà
di
parola
e
di
movimento,
o
all'istruzione,
non
possono
essere
attribuiti
ad
un
bambino
piccolo,
così
come
il
diritto
umano
al
matrimonio,
o
all'educazione
dei
figli,
ecc.
Questi
diritti,
che
si
trovano
solo
in
una
persona
che
vive
consapevolmente
e
coscientemente
ad
un
certo
livello
di
maturità,
non
sono
come
il
diritto
a
non
essere
sottoposti
ad
assassinio,
a
mutilazioni,
a
trattamento
indegno,
ecc,
che
si
radicano
nella
prima
fonte
della
dignità
umana,
cioè
la
persona
umana
vivente
in
quanto
tale.(30)
Questa
seconda
fonte
della
dignità
umana
e
dei
diritti
umani
può
infatti
andare
perduta
nella
cosiddetta
morte
cerebrale,
nel
coma
irreversibile,
ecc.(31)
Dunque,
questa
seconda
dimensione
della
dignità
della
persona
umana,
con
i
diritti
che
in
essa
si
radicano,
non
sono
inalienabili
come
la
dignità
e
i
diritti
che
si
fondano
semplicemente
sulla
sostanza,
sull'esistenza
e
sull'essenza
della
persona,
in
primo
luogo
sulla
dignità
umana.
Tuttavia,
anche
questa
seconda
dimensione
138
della
dignità
personale
è
inalienabile,
fintantoché
la
persona
ha
una
vita
cosciente.
Non
dipende
da
valori
qualitativi,
se
si
esclude
il
senso
debole
spiegato
sopra:
l'uomo
cattivo
la
possiede
al
pari
del
buono.
Possiamo
chiamarla
dignità
della
personalità
risvegliata
o
dignità
della
consapevolezza
razionale
attuale.
Su
questa
seconda
fonte
della
dignità
personale,
troviamo
oggi
nella
medicina
e
nella
società
una
paradossale
commistione
di
sovrastima
e
sottostima.
La
dignità
è
fortemente
sottovalutata
allorché,
nella
somministrazione
di
sedativi
ad
un
malato
terminale
o
in
altri
atti
diretti
contro
la
vita
cosciente
delle
persone,
si
mettono
semplicemente
le
persone
a
dormire
come
se
si
trattasse
di
animali,
così
da
non
lasciarli
vivere
e
morire
nello
stato
di
veglia
e
attraverso
atti
personali
coscienti.
Solo
allora
la
loro
dignità
ontologica
sarebbe
rispettata,
ma
anche
in
questo
caso
si
trascura
il
fatto
che
essa
non
è
affatto
separata
dalla
seconda
sorgente
della
dignità,
che
costituisce
piuttosto
la
sua
attuazione:
tutte
le
specifiche
caratteristiche
umane
della
mente
e
della
libera
volontà,
dei
sentimenti
e
della
felicità
si
possono
realizzare
unicamente
attraverso
la
vita
cosciente
della
persona.
Perciò,
la
medicina
non
dovrebbe
mai
privare
a
lungo
la
persona
della
coscienza
senza
gravi
motivi.
Non
si
deve
mai
dimenticare
che
la
gravità
di
mali
come
il
cadere
in
uno
stato
di
permanente
incoscienza
o
l'essere
privati
della
possibilità
di
vivere
pienamente
la
vita
personale
cosciente
a
causa
di
un
grave
ritardo
mentale
è
dovuta
precisamente
alla
grande
dignità
che
attiene
alla
vita
razionale
cosciente,
alla
conoscenza
degli
atti
liberi,
ai
sentimenti
dell'amore
e
della
felicità.
La
seconda
fonte
della
dignità
è
assolutamente
sopravvalutata,
tuttavia,
quando
a
persone
senza
o
con
pochissima
consapevolezza
razionale
viene
negata
la
qualità
di
vita
necessaria
per
proteggere
le
loro
vite
dall'aborto
o
dall'eutanasia,
e
quando
la
dignità
della
vita
umana
è
considerata
dipendente
unicamente
dalla
coscienza
personale.
Ma
quel
che
più
conta
è
che
la
seconda
fonte
della
dignità
della
persona,
per
quanto
sublime,
non
può
mai
sostituire
il
primo
e
più
fondamentale
livello
(e
fonte)
della
dignità
personale,
che
resta
la
base
del
diritto
alla
vita
e
della
dignità,
le
quali
ci
proibiscono
di
uccidere
un
essere
umano
innocente.
In
realtà,
la
seconda
dimensione
della
dignità,
in
quanto
dignità
della
coscienza
attuale
della
persona
e
in
quanto
condizione
di
tutti
gli
atti
personali,
è
in
un
certo
senso
più
alta
e
più
evidente
dell'altra
(che
apparterrebbe
anche
ad
un
essere
umano
che
fosse
incosciente
per
tutto
il
corso
della
sua
vita),
mentre
la
prima
dignità
personale,
quella
puramente
ontologica,
resta
il
fondamento
di
ogni
dignità
umana
e
diritto
alla
vita.
Ciononostante,
la
prima
dignità
ontologica
è
tanto
profondamente
ordinata
a
trovare
nella
seconda
la
sua
realizzazione
che
l'idea
di
una
persona
eternamente
inconsapevole
sembra
quasi
una
contraddizione
in
termini.
Eppure,
per
quanto
le
prime
due
dimensioni
della
dignità
personale
siano
elevate
e
cruciali
per
il
diritto
alla
vita
e
per
altri
basilari
diritti
umani,
non
sono
affatto
le
sorgenti
e
le
dimensioni
più
elevate
e
più
importanti
della
dignità
personale.
Non
dobbiamo
scordarlo
mai:
perfino
il
diavolo
o
una
persona
umana
demoniaca
possiede
le
prime
due
dimensioni
e
fonti
della
dignità.
LA
TERZA
FONTE
E
UN
NUOVO
SENSO
DI
DIGNITA'
PERSONALE
QUALITATIVA:
LA
REALIZZAZIONE
DELLA
VOCAZIONE
PERSONALE
ALLA
TRASCENDENZA
E
ALLA
DIGNITA'
MORALE
In
terzo
luogo,
c'è
una
dignità
umana
che
risulta
solo
dalle
buone
attualizzazioni
della
persona
attraverso
la
conoscenza
della
verità,
e
soprattutto
attraverso
le
perfezioni
morali
della
giustizia,
dell'amore
per
la
verità,
della
gentilezza,
ecc.
Questa
realizzazione
auto-‐trascendente
della
persona
comprende
anche
la
relazione
ad
un
"tu",
ad
un
altro,
e
ultimamente
il
dono
di
sé
nell'amore
e
nella
formazione
della
communio
personarum.(32)
La
semplice
attualizzazione
della
139
personalità
non
basta
a
fondare
questo
livello
qualitativo
e
prevalentemente
morale
della
dignità
umana,
che
è
anche
all'origine
di
nuovi
diritti
umani.
Infatti,
senza
il
raggiungimento
di
un
livello
minimo
di
dignità
morale
nel
comportamento,
diventa
legittima
la
privazione
della
facoltà
di
esercitare
certi
diritti
umani,
basati
sull'esistenza
cosciente
della
persona,
ad
esempio
il
diritto
alla
libertà
di
movimento.
È
questo
ciò
a
cui
prima
alludevamo:
un
livello
minimo
di
dignità,
nel
terzo
senso,
è
condizione
della
pienezza
di
possesso
dei
diritti
radicati
nel
secondo
livello
della
dignità
umana.
Per
questa
ragione
il
criminale
può
essere
privato
di
diritti
tanto
elementari
come
il
diritto
alla
libertà
di
movimento,
il
diritto
al
matrimonio,
all'educazione
dei
figli,
e
così
via,
ma
non
potrà
mai
essere
privato
di
altri
diritti
umani,
che
sono
interamente
e
unicamente
radicati
nel
secondo
livello
della
dignità
personale:
ad
esempio
ad
un
giusto
processo,
a
difendersi
davanti
alla
corte,
alla
libertà
di
coscienza
e
di
religione.
Alcuni
diritti
umani
radicati
nella
coscienza
delle
persone
viventi,
pertanto,
sono
assolutamente
inalienabili
per
tutta
la
loro
vita,
qualunque
crimine
abbiano
commesso.
Altri,
che
si
radicano
nel
secondo
livello,
si
possono
perdere,
quando
se
ne
è
gravemente
abusato
e
la
giusta
punizione
lo
richiede.(33)
Ora,
questa
terza
dimensione
della
dignità,
come
pure
la
quarta,
si
può
comprendere
soltanto
nei
termini
dalla
trascendenza
personale.
Abbiamo
altrove(34)
insistito
sulla
concezione
sbagliata
di
uomo
insita
nell'ingegnosa
definizione
aristotelica
dell'animale
vivente
come
entelechia.
Per
quanto
acuta
possa
essere
tale
descrizione
relativamente
alla
piante
e
agli
animali,
così
come
per
molte
dimensioni
della
vita
e
dell'anima
umana,
essa
risulta
completamente
fuorviante
quando
viene
usata
per
descrivere
l'essenza
dell'uomo
in
quanto
persona.
Infatti,
poiché
la
vita
dell'uomo
è
vita
personale
e
mentale,
è
governata
in
ogni
suo
aspetto,
in
senso
vocazionale,
da
un
principio
di
trascendenza,
inteso
in
vari
sensi:
nella
conoscenza
troviamo
una
trascendenza
ricettiva,
grazie
a
cui
l'essere
e
l'essenza
delle
cose
si
dischiudono
alla
mente;
troviamo
cioè
un
prolungamento
della
vita
mentale
al
di
là
della
sua
attualità
immanente,
un'apertura
del
soggetto
a
ciò
che
va
oltre
la
vita
stessa,
una
partecipazione
al
cosa
e
al
come
le
cose
stesse
sono.
Nella
conoscenza
assolutamente
certa
questa
trascendenza,
così
come
la
scoperta
delle
cose
stesse
e
delle
cose
in
se
stesse
dal
momento
che
esistono
indipendentemente
dalla
consapevolezza
dell'uomo,
diviene
indubitabile.(35)
Nell'amore
e
negli
atti
morali
ci
si
trascende
in
tutt'altro
senso,
e
cioè
attraverso
l'uso
corretto
della
libertà,
nella
libera
accoglienza
e
conoscenza
dell'essere
e
del
valore
dell'altro
per
le
sue
intrinseche
preziosità,
dignità
e
importanza(36).
L'atteggiamento
di
rispondenza
al
valore
dell'essere
per
il
suo
valore
intrinseco
culmina
nell'essenza
dell'atto
religioso,
il
cui
nucleo
centrale,
come
Max
Scheler
ha
mostrato
nella
sua
originalissima
filosofia
della
religione,
è
l'adorazione,
cioè
un'affermazione
totalmente
trascendente
dell'assoluta
Bontà.(37)
Riguardo
al
livello
della
dignità
morale
della
persona,
Gabriel
Marcel
ebbe
giustamente
a
dire
che
si
tratta
di
una
conquista
e
non
di
un
possesso.(38)
La
totale
novità
di
questa
dimensione
e
fonte
della
dignità
personale
emerge
con
chiarezza
-‐
nella
sua
irriducibilità
alle
prime
due
sorgenti
della
dignità
-‐
quando
consideriamo
come
essa
dipenda
dal
buon
uso
dell'intelletto
e
della
libertà.
Questa
dignità
non
è
inalienabile,
né
ci
appartiene
automaticamente
in
quanto
persone.
È
piuttosto
il
frutto
degli
atti
morali
buoni
e
perciò
si
distingue
radicalmente
dal
primo
tipo
di
dignità.
Ha
inoltre
una
qualità
distintiva
e
unica
che,
come
nota
giustamente
Kant,
culmina
nella
santità.
Questa
dignità
differisce
dalla
dignità
puramente
ontologica
della
persona,
in
quanto
si
dà
anche
l'opposto:
si
pone
infatti
in
radicale
contrasto
con
l'indegnità
morale
e
la
malvagità,
con
la
malizia
di
un
Hitler
che
con
le
sue
azioni
perde
ogni
dignità
morale.
La
cattiveria,
quindi,
può
far
perdere
temporaneamente
o
permanentemente
ad
una
persona
tale
dignità.
140
Inoltre,
in
virtù
di
questa
terza
fonte
della
dignità
umana
si
deve
alla
persona
un
tipo
totalmente
nuovo
di
stima,
una
stima
intesa
in
un
senso
assai
più
letterale
e
profondo
di
quello
che
rappresenta
l'appropriata
reazione
di
rispetto
dovuta
ad
ogni
essere
portatore
di
una
fisionomia
umana.
Tale
reazione
appropriata
al
terzo
tipo
di
dignità
personale
porta
dalla
stima
alla
venerazione
e,
se
questa
dignità
è
infinita,
all'adorazione.
Rispetto
al
primo
tipo,
corrisponde
ad
un
senso
completamente
nuovo
alla
sacralità
e
alla
santità.
Rispetto
al
secondo
livello
della
dignità
personale,
il
terzo
può
avere
numerosi
gradi.
È
meno
fondativo
dei
primi
due,
ma
di
valore
più
sublime,
in
quanto
costituisce
l'unum
necessarium:
si
tratta
di
quel
valore
che
decide
il
destino
eterno
dell'uomo,
quel
valore
che
rende
ragione
della
distinzione
fra
bene
e
male,
fra
perdere
l'anima
e
salvarla.
Senza
di
esso
la
prima
e
la
seconda
dimensione
della
dignità,
che
possiedono
anche
demoni,
non
servono
a
nulla
per
l'anima
umana.
Da
questo
punto
di
vista
puramente
assiologico,
la
terza
dimensione
della
dignità
personale
è
la
più
importante
ed
è
garantita
dalla
dignità
ontologica
della
persona.
Un
grado
minimo
di
essa
va
presupposto
anche
per
diritti
come
la
libertà
di
movimento,
che
un
criminale
può
conseguentemente
perdere.
Vi
sono
altri
diritti
umani,
come
il
diritto
ad
una
buona
reputazione
morale
e
alla
tutela
del
proprio
onore
di
fronte
alla
società,
che
hanno
le
loro
radici
in
questa
dignità
e
che
non
possono
essere
rivendicati
dove
questa
dignità
in
senso
morale
è
stata
persa
in
parte
o
del
tutto.
LA
DIGNITA'
COME
DONO
UNA
QUARTA
FONTE
DI
DIGNITA'
UMANA:
LE
RELAZIONI
ESTRINSECHE
E
I
DONI
INDIVIDUALI
DI
VARIO
GENERE
Una
quarta
fonte
del
valore
di
una
personalità,
ma
anche
della
dignità
stessa
della
persona
nel
suo
proprio
essere,
non
dipende
dalla
persona,
né
dal
suo
essere
personale
sostanziale
né
dalla
coscienza,
e
neanche
dal
buon
uso
dell'intelligenza
e
della
libertà.
Questa
dimensione
della
dignità
personale,
invece,
procede
dai
quei
doni
che
superano
ciò
che
si
situa
unicamente
nella
persona,
nei
suoi
atti
morali
o
intellettivi;
essa
non
è
posseduta
né
da
ogni
persona
né
allo
stesso
grado
da
tutti
coloro
che
hanno
la
dignità
derivata
dalle
altre
fonti.(39)
Fra
le
persona
umane,
esistono
su
questa
dimensione
della
dignità,
di
contro
alle
prime
due,
molte
differenze
e
nessuna
uguaglianza.
Tuttavia,
l'ineguaglianza
fra
gli
uomini
rispetto
alla
dignità
in
generale
non
è
del
tutto
vera.
In
opposizione
ai
pareri
contrari
di
Marcel
e
di
Scheler,
a
livello
della
prima
fonte
della
dignità
umana
-‐
posseduta
in
virtù
del
carattere
sostanziale
della
persona
umana
-‐
dobbiamo
sostenere
un'uguaglianza
universale
di
tutti
gli
uomini,
poiché
questa
dignità
non
richiede
altre
condizioni
che
la
natura
umana,
e
non
ammette
gradi.
Siamo
obbligati
dunque
ad
opporci
ad
ogni
tentativo
di
negare
questo
livello
di
uguale
dignità
umana
come
fondamento
del
diritto
alla
vita.
Pertanto,
occorre
distinguere
l'essere
ugualmente
persona
proprio
di
tutti
gli
uomini,
che
possiedono
gli
stessi
diritti
fondamentali
e
sono
uguali
a
tutti
gli
altri,
da
altri
aspetti
per
i
quali
semplicemente
non
è
vero
che
tutti
gli
uomini
sono
uguali.(40)
I
doni
che
conferiscono
a
tutti
o
ad
alcuni
particolare
dignità
possono
essere
doni
naturali
immanenti
alla
persona,
come
la
bellezza,
l'intelligenza,
la
genialità,
il
fascino,
la
forza
di
carattere,
ecc.
Questi
ultimi
doni
costituiscono
la
dignità
particolare
del
genio,
dell'artista,
ecc.
Anche
i
ruoli
e
le
funzioni
sociali
possono
dare
alla
persona
ulteriori
dimensioni
di
dignità,
che
generano
nuovi
diritti
umani:
ad
esempio
il
conferimento
della
carica
di
giudice
ad
un
uomo
o
ad
una
donna
da
parte
della
società
dà
origine
ad
una
nuova
dignità
e
ad
un
nuovo
diritto
umano:
il
diritto
dell'indipendenza
del
giudice.
Allo
stesso
modo,
incarichi
di
autorità
come
quello
del
poliziotto,
dell'uomo
di
stato,
del
re,
ecc.
danno
ai
loro
portatori
nuovi
tipi
di
dignità
e
nuovi
diritti.
141
I
doni
da
cui
deriva
questa
ulteriore
dignità
possono
essere
anche
doni
ricevuti
attraverso
la
relazione
con
altre
persone,
come
l'"addomesticamento"
della
volpe
ne
Il
Piccolo
Principe.
La
nozione
di
"être
apprivoise"
di
St.
Exupery
nel
Piccolo
Principe
si
riferisce
all'unicità
che
una
rosa
o
un
animale
ricevono
per
il
fatto
di
essere
amati
da
persone.
Questo
vale
simbolicamente
per
analoghe
virtù
di
unicità
che
gli
esseri
umani
ricevono
quando
sono
oggetto
d'amore
per
altre
persone.
Naturalmente,
l'unicità
personale
già
precede
e
motiva
l'amore
umano,
ma
da
questo
essere
amati
proviene
una
nuova
dimensione
dell'unicità.
A
questa
fonte
della
dignità
appartengono
tanto
il
valore
dell'individuo
per
il
fatto
di
essere
oggetto
di
amore
interpersonale
o
il
valore
di
una
persona
in
quanto
membro
della
comunità,
quanto
l'accettazione
sociale
di
un
bambino
da
parte
dei
genitori
o
della
società.
La
dignità
umana
che
procede
dai
doni
che
superano
la
natura
razionale
immanente
delle
persone
può
anche
riferirsi
ad
una
dimensione
religioso-‐teologica
e
contemporaneamente
ontologica
di
questi
doni,
cioè
alla
più
alta
fonte
di
tale
dignità:
la
dignità
della
persona
amata
e
redenta
da
Dio,
dotata
della
grazie
santificante,
ecc.
Il
"fondamento
esistenzialista"
della
dignità
umana
di
Gabriel
Marcel
si
riferisce
anche
a
questa
quarta
fonte
della
dignità.
Marcel
vede
la
dignità
umana
e
la
fratellanza
fondate
sul
dono
condiviso
della
paternità
(di
Dio,
n.d.t.),
che
anche
i
non
credenti,
ma
difensori
della
dignità
umana,
possono
inconsapevolmente
accettare,
dimostrando
una
fede
più
profonda
delle
loro
effettive
credenze
e
opinioni
ateistiche.
Marcel
pensa
che
solo
un
simile
riferimento
al
padre
comune
renda
intelligibile
il
senso
di
fratellanza
avvertito
anche
da
tanti
atei
nei
confronti
degli
altri
uomini,
percepito
da
Marcel
come
una
tensione
verso
l'uguaglianza.
Pertanto,
sia
la
fratellanza
che
la
fondamentale
dignità
umana
presuppongono
la
relazione
di
colui
che
è
dotato
di
dignità
umana
con
un
Tu.(41)
Questa
nozione
di
dignità
della
persona,
nei
suoi
aspetti
specificamente
religiosi
in
quanto
basati
sulla
rivelazione,
supera
la
capacità
della
conoscenza
filosofica,
e
tuttavia
possiamo
vedere
attraverso
la
filosofia
della
religione
che
questa
più
profonda
fonte
religiosa
della
dignità
personale
è
possibile
e,
se
esiste,
rappresenta
un
tipo
completamente
diverso
di
dignità
rispetto
alla
dignità
che
semplicemente
procede
in
modo
immanente
dalla
natura
della
persona:
è
di
questo
tipo
la
dignità
personale
nell'ordine
della
grazia,
la
presenza
e
l'amore
di
Dio
attraverso
la
grazia
nell'anima.
Inoltre,
la
dimensione
religiosa
di
doni
come
la
redenzione
e
il
rinnovamento
della
natura,(42)
se
davvero
esiste
come
ammettono
i
credenti,
costituisce
una
dimensione
totalmente
diversa
della
dignità
umana
derivata
dai
doni,
rispetto
alla
quale
la
dignità
derivata
dall'accettazione
interpersonale
da
parte
della
società
svanisce
del
tutto.(43)
Come
la
seconda
e
la
terza,
anche
questa
quarta
fonte
della
dignità
umana
ha
diverse
forme
e
si
può
perdere,
dal
momento
che
-‐
almeno
per
molti
suoi
aspetti
-‐
non
è
data
a
tutti
o
necessariamente.(44)
Una
delle
ragioni
principali
della
negazione
del
diritto
alla
vita
nei
confronti
del
concepito
consiste
nella
riduzione
della
dignità
dell'embrione
a
questo
quarto
livello
di
dignità
umana,
interpretata
in
modo
completamente
secolarizzato:
solo
il
valore
attribuito
all'embrione
dall'accettazione
o
dall'amore
dei
genitori
e
della
società
conferisce
valore
al
figlio.
Ciò
tralascia
non
soltanto
la
dimensione
più
profonda
di
questa
quarta
fonte
della
dignità,
ma
anche
il
fatto
che
la
quarta
fonte
della
dignità
presuppone
la
prima
e
si
costruisce
su
di
essa.
Ciò
vale
anche
per
la
dignità
conferita
divinamente,
e
tanto
più
per
quella
conferita
umanamente.(45)
Inoltre,
credendo
che
solamente
se
i
genitori
accolgono
e
amano
un
embrione
come
loro
figlio
tale
embrione
meriti
tutela
giuridica,
e
che
diversamente
sarebbe
consentito
l'aborto,
la
ricerca
con
le
cellule
staminali,
ecc.,
si
identifica
tutta
la
dignità
umana
con
questa
quarta
fonte,
nei
suoi
aspetti
puramente
interpersonali.
Questo
vuol
dire
scambiare
radicalmente
l'interezza
della
dignità
umana
con
una
piccola
parte
della
sua
quarta
dimensione.
Vuole
dire
inoltre
fallire
nel
vedere
che
142
il
fondamento
e
la
condizione
di
ogni
forma
di
dignità
risiede
nella
prima
fonte,
ossia
nella
dignità
puramente
ontologica.
Così,
tutte
e
quattro
le
dimensioni
della
dignità
personale
attingono
alla
prima
inalienabile
dimensione,
che
è
la
più
importante
per
il
diritto
alla
vita
ed
il
valore
della
vita
umana,
violati
negli
atti
umani
diretti
contro
la
vita.
Nello
stesso
tempo,
la
suprema
dignità
della
persona
umana
risiede
nella
perfezione
della
persona
che
a
sua
volta
implica
la
forma
più
profonda,
la
raison
d'être,
della
dignità
umana,
raggiungibile
solo
attraverso
l'autotrascendimento
e
l'amorevole
auto-‐donazione,
che
culminano
nell'amore
di
Dio
e
in
una
santità
in
cui
cooperano
la
libertà
e
la
grazia,
e
quindi
la
terza
e
la
quarta
dimensione
della
dignità
personale.
Privando
il
concepito
o
altri
esseri
umani
della
vita,
li
si
priva
anche
della
possibilità
di
realizzare
questa
dimensione
più
profonda
della
loro
vocazione
ad
una
dignità
più
alta
di
quella
di
semplici
esseri
che
vivono
come
persone.
143
(i)
Una
simile
interpretazione
della
vita
umana
può
avere
altre
conseguenze,
come
il
naturalismo
relativistico.
Si
veda
Josef
Seifert,
Philosophy
and
Science
in
the
Context
of
Contemporary
Culture.
A
Culture
of
Life
Based
on
an
Image
of
Man
as
Persona
Versus
an
Anti-‐Culture
of
Death
Based
on
an
Iimage
of
Man
as
a
Product
of
Matter
and
Chance,
in
Pontifical
Council
for
Culture,
Proceedings
of
the
Jubilee
for
Men
and
Women
from
the
World
of
Learning.
International
Conference
on
Faith
and
Scinece;
The
Human
Search
for
Truth.
Philosophy
-‐
Science
-‐
Faith:
he
Outlook
for
the
3thMillennium,
Roma,
23
Maggio
2000,
i.c.p.;
Idem,
A
Critical
Review
of
the
Theory
of
"Evolution",
in
ibid.,
conferenza
inaugurale.
(ii)
Spesso,
anche
se
non
sempre,
la
seconda
motivazione
va
di
pari
passo
con
la
prima,
come
si
vede
in
Peter
Singer.
Il
programma
esplicitamente
evoluzionista
di
Singer
a
favore
di
una
"desacralizzazione
della
vita
umana"
avvia,
in
forma
abbastanza
radicale,
un
movimento
che
nega
ogni
dignità
essenziale
alla
persona
umana
e
conseguentemente
anche
un
diritto
universale
alla
vita;
ciò
comporta
l'idea
che
la
vita
umana
meriti
tutela
giuridica
solo
a
certi
livelli
di
consapevolezza
e
di
"qualità
di
vita",
e
che
la
vita
di
un
maiale
sano
possa
essere
più
degna
di
tutela
giuridica
rispetto
a
quella
di
un
essere
umano
gravemente
handicappato.
Attribuire
alla
vita
umana
una
vita
e
una
dignità
essenzialmente
più
elevate
viene
definito
"specismo",
cioè
un
infondato
orgoglio
di
appartenenza
alla
specie
umana.
Si
veda
Peter
Singer,
Unsanctifying
Human
Life,
in
P.
Singer,
Ethical
Issues
Relating
to
Life
and
Death,
Melbourne:
editore?,
1979,
pp.
41-‐61;
Idem,
Muss
dieses
Kind
am
Leben
bleiben?,
Erlangen:
Harald
Fischer
Verlag,
1993.
Oltre
a
basarsi
normalmente
sull'evoluzionismo
che
nega
la
distinzione
essenziale
fra
persone
umane
e
animali,
questa
posizione
si
può
basare
anche
sulla
teoria
deflazionista
dell'uomo
e
sulla
negazione
della
soggettività
personale
sottesa
ad
ogni
stato
cosciente
e
superiore
ad
essi.
Tale
negazione
humiana
di
un
sé
sostanziale,
come
pure
altre
forme
di
attualismo
che
riconoscono
l'essere
personale
soltanto
in
atto
e
non
come
soggetto
spirituale
sostanziale,
sono
altrettanto
diffuse,
pur
senza
essere
fondate
sulla
teoria
evoluzionista,
che
Hume
peraltro
non
conosceva
ancora.
(iii)
Su
questo
punto
si
veda
Robert
Spaemann,
Personen.
Verruche
über
den
Unterschieden
zwischen
"etwas"
und
"jemand",
Stuttgard:
Klett-‐Cotta,
1996;
vedi
anche
J.
Seifert,
Is
Brain
Death
actually
Death?,
"The
Monist",
76,
1993,
pp.
175-‐202;
e
D.
Alan
Shewmon,
Is
Brain
Death
Actually
Death?
An
autobiographical
Conceptual
Itinerari,
"Aletheia",
VII,
1997
(1995-‐2001).
(iv)
Si
veda
R.
Spaemann,
Über
den
Begriff
der
Menschenwürde,
in
E.W.
Böckenförde
e
R.
Spaemann
(eds.),
Menschenrechte
und
Menschewürde.
Historische
Voraussetzungen
-‐
säkulare
Gestalt
-‐
christliches
Verständnis,
Stuttgard:
Klett.Cotta,
1987,
pp.
295-‐313,
soprattutto
p.
295.
(v)
Fortpflanzungsgesetz
e
altre
leggi
che
regolano
l'ingegneria
genetica.
(vi)
La
legge
svizzera
parla
di
"Würde
der
Kreatur",
estendendo
così
il
significato
di
dignità
a
tutti
gli
esseri
viventi.
(vii)
Alessander
Hal.,
Glossa,
1,
23,
9.
(viii)
Vedi
anche
J.
Seifert,
Sein
und
Wesen,
Heidelberg:
Universitätsverlag
C.
Winter,
1996;
Idem,
Essence
and
Existence.
A
New
Foundation
of
Classical
Metaphysics
on
the
Basis
of
"Phenomenological
Realism",
"Aletheia",
I,
1977,
pp.
17-‐157;
Idem,
Critical
Investigation
of
"Existentialist
Thomism",
"Aletheia",
I,
2,
1977,
pp.
371-‐459.
(ix)
È
cioè
moralmente
rilevante.
Sulla
distinzione
fondamentale
fra
moralmente
rilevante
e
valori
morali
si
veda
D.
von
Hildebrand,
Ethics,
Chicago:
Franciscan
Herald
Press,
1978II,
capitolo
19.
(x)
Ovviamente,
nelle
fedi
ebraica,
cristiana
e
musulmana
questa
sacralità
della
dignità
si
spiega
con
il
carattere
di
persona
creata
a
"immagine
di
Dio",
tuttavia
-‐
se
ritorniamo
per
un
attimo
a
Cicerone
-‐
la
dignità
della
persona
come
fonte
dei
doveri
morali
era
chiaramente
compresa
anche
dai
Romani.
Cfr.
Cicero,
De
legibus,
I,
vii,,
22:
"animal
hoc
providum,
sagax,
multiplex,
acutum,
144
memor,
plenum
rationis
et
consilii,
quem
vocamus
hominem,
preclare
quidam
condizione
generatum
esse
a
supremo
deo;
solum
est
enim
ex
tot
animantium
generibus
atque
naturis
particeps
rationis
et
cogitationis,
cum
cetera
sint
omnia
expertia.
quid
est
autem
non
dicam
in
nomine,
sed
in
omni
coelo
atque
terra
ratione
divini?
Quae
cum
adolevit
atque
perfecta
est,
nominatur
rite
sapienta.
Est
igitur,
quondam
nihil
est
ratione
melius
nomine
et
in
deo,
prima
homini
cum
deo
societas...".
La
dignità
non
è
soltanto
un
valore
sublime,
ma
è
anche
diversa
dal
valore
sublime
che
troviamo
nell'arte,
che
non
riesce
ad
obbligare
la
nostra
coscienza
morale.
Invece,
la
dignità
sta
ad
indicare
una
preziosità
intrinseca
della
persona,
così
essenziale
per
la
personalità
e
così
imponente
da
emanare
gli
imperativi
morali
per
rispettarla;
di
più:
la
dignità
impone
l'obbligo
categorico
di
rispettare
un
essere
che
ne
sia
dotato
-‐
sia
giuridicamente
che
moralmente
-‐
in
un
modo
essenzialmente
più
alto
e
più
assoluto
rispetto
a
quegli
esseri
che
pure
possiedono
un
valore
moralmente
rilevante
ma
mancano
di
tale
dignità,
come
gli
animali.
Certamente
anche
la
crudeltà
verso
gli
animali
è
moralmente
sbagliata,
ma
non
è
paragonabile
alla
violazione
delle
persone,
dotate
di
questo
valore
così
nobile
e
moralmente
imponente:
la
dignità.
Quindi,
quando
nel
1993
un
comitato
svizzero
per
i
diritti
degli
animali
distribuì
ripetutamente
in
Austria
materiale
contro
il
"maiale
KZ"
del
principe
del
Liechtenstein,
era
davvero
ridicola
l'equazione
implicita
in
questi
volantini
fra
l'indubbio
valore
dei
maiali
e
la
dignità
delle
persone
uccise
ad
Auschwitz
e
negli
altri
campi
di
concentramento.
(xi)
L'enciclica
Evangelium
Vitae
chiarisce
bene
questo
punto:
"l'aborto
procurato
è
l'uccisione
deliberata
e
diretta,
comunque
venga
attuata,
di
un
essere
umano
nella
fase
iniziale
della
sua
esistenza,
compresa
tra
il
concepimento
e
la
nascita""
(n.
58).
Nello
stesso
capitolo
dell'enciclica
si
sostiene
che
nel
caso
"dell'aborto
procurato...
si
riconosce
che
si
tratta
di
un
omicidio".
Questo
sarebbe
falso
se
valesse
l'insegnamento
sull'infusione
ritardata
dell'anima.
Ancora,
il
Papa
cita
il
documento
Donum
Vitae,
che
esprime
con
chiarezza
lo
stesso
concetto:
"l'essere
umano
va
rispettato
e
trattato
come
una
persona
fin
dal
suo
concepimento
e,
pertanto,
da
quello
stesso
momento
gli
si
devono
riconoscere
i
diritti
della
persona,
tra
i
quali
anzitutto
io
diritto
inviolabile
di
ogni
essere
umano
innocente
alla
vita"
(I,
1).
Ma
come
si
potrebbero
"riconoscere
diritti
in
quanto
persona"
se
non
si
trattasse
di
una
persona!
L'Evangelium
Vitae
aggiunge:
"la
vita
uman
è
sacra
e
inviolabile
in
ogni
momento
della
sua
esistenza,
anche
in
quello
iniziale
che
precede
la
nascita"
(n.
61).
Giovanni
Paolo
II
cita
anche
Pio
XII,
Giovanni
XXIII
e
altri
che
pronunciarono
affermazioni
analoghe
(cfr.
ibid.,
n.
62).
Anche
la
condanna
di
ogni
forma
di
aborto
dal
momento
del
concepimento
in
avanti
come
intrinsece
malum,
in
un
passaggio
di
forma
quasi
dogmatica
e
in
tal
caso
infallibile
(cfr.
ibidem),
prova
che
la
dottrina
morale
della
Chiesa
oggi
(non
al
tempo
di
San
Tommaso)
richiede
in
maniera
assoluta
il
riconoscimento
dell'essere
personale
di
ogni
essere
umano
dal
concepimento
in
poi.
Leggiamo
lo
splendido
testo
in
cui
la
bellezza
gloriosa
della
posizione
autentica
del
Magistero
rifulge:
"pertanto,
con
l'autorità
che
Cristo
ha
conferito
a
Pietro
e
ai
suoi
Successori,
in
comunione
con
i
Vescovi
...
dichiaro
che
l'aborto
diretto,
cioè
voluto
come
fine
o
come
mezzo,
costituisccec
sempre
un
disordine
morale
grave,
in
quanto
uccisione
deliberata
di
un
essere
umano
innocente"
(n.
62).
Se
così
non
fosse,
questa
affermazione
non
potrebbe
essere
apodittica,
e
nemmeno
il
papa
potrebbe
asserire
dogmaticamente
in
Evangelium
Vitae
che
anche
in
caso
di
pericolo
per
la
vita
della
madre
(cioè
per
la
vita
di
una
persona)
l'uccisione
del
feto
è
moralmente
riprovevole
(intrinsecamente
e
sempre
sbagliata)!
Questa
posizione,
come
mostra
la
storia
della
Chiesa
al
tempo
della
teoria
universalmente
accettata
del
"feto
non
formato",
mostra
come
non
sia
affatto
evidente,
se
non
addirittura
contrario
all'evidenza,
non
dare
la
precedenza
alla
persona
nel
caso
in
cui
vi
fosse
un
conflitto
fra
una
vita
personale
e
una
vita
non
personale.
(xii)
I.
Kant,
Grundlegung
zur
Metaphysik
der
Sitten,
434:
"In
Reiche
der
Zweke
hat
alles
etweder
einen
Preis,
oder
Würde.
Was
einen
Preis
hat,
an
dessen
Stelle
kann
auch
etwas
anderes
als
145
Äquivalent
gesetz
werden;
was
dagegen
über
allen
Preis
erhaben
ist,
mithin
kein
Äquivalent
verstatten,
das
hat
eine
Würde";
cfr.
EBD.,
436:
"Diese
Schätzung
giebt
also
den
Werth
einer
solchen
Denkungsart
als
Würde
zu
erkennen
und
setzt
sie
über
allen
Preis
unendlich
weg,
mit
dem
sie
gar
nicht
in
Anschlag
und
Vergleichung
gebracht
werden
kann,
o
werden
kann,
ohne
sich
gleichsam
an
der
Heiligkeit
derselben
zu
vergreifen";
cfr
anche
Metaphysik
der
Sitten
VI,
434:
"Allein
der
Mensch,
als
Person
betrachtet,
d.i.
als
Subject
einer
moralisch-‐praktischen
Vernunft,
ist
über
allen
Preis
erhaben;
denn
als
ein
solcher
(homo
noumenon)
ist
er
nicht
blos
als
Mittel
zu
anderer
ihren,
//VI435//
ja
selbst
seinen
eigenen
Zwecken,
sondern
als
Zweck
an
sich
selbst
zu
schätzen,
d.i.
er
besitzt
eine
Würde
(einen
absoluten
innern
Werth),
wodurch
er
allen
andern
vernünftigen
Weltwesen
Achtung
für
ihn
abnöthigt,
sich
mit
jedem
Anderen
dieser
Art
messen
und
auf
den
Fuß
der
Gleichheit
schätzen
kann.
Die
Menschheit
in
seiner
Person
ist
das
Object
der
Achtung,
die
er
von
jedem
anderen
Menschen
fordern
kann;
deren
er
aber
auch
sich
nicht
verlustig
machen
muß".
(xiii)
Si
veda
il
suo
famoso
testo
in
Foundations
B64/65:
"But
suppose
there
were
something
the
existence
of
which
had
itself
absolute
worth,
something
which,
as
an
end
in
itself,
could
be
a
ground
of
definite
laws.
In
it
and
only
in
it
could
lie
the
ground
of
a
possible
categorical
imperative,
i.e.,
of
a
practical
law.
Now,
I
say,
man
and,
in
general,
every
rational
being
exists
as
an
end
in
himself
and
not
merely
as
a
means
to
be
arbitrarily
used
by
this
or
that
will...All
objects
of
inclinations
have
only
a
conditional
worth,
for
if
the
inclinations
and
the
needs
founded
on
them
did
not
exist,
their
object
would
be
without
worth...";
E
l'originale
tedesco,
I.
Kant,
Grundlegung
zu
einer
Metaphysik
der
Sitten,
BA
64,
65:
"Gesetzt
aber,
es
gäbe
etwas,
dessen
Dasein
an
sich
selbst
einen
absoluten
Wert
hat,
was
als
Zweck
an
sich
selbst,
ein
Grund
bestimmter
Gesetze
sein
könnte,
so
würde
in
ihm,
und
nur
in
ihm
allein,
der
Grund
eines
möglichen
kategorischen
Imperativs,
d.i.
eines
praktischen
Gesetzes,
liegen.
Nun
sage
ich:
der
Mensch
und
überhaupt
jedes
vernünftige
Wesen,
existiert
als
Zweck
an
sich
selbst,
nicht
bloß
als
Mittel...Alle
Gegenstände
der
Neigungen
haben
nur
einen
bedingten
Wert;
denn
wenn
die
Neigungen
und
darauf
gegründeten
Bedürfnisse
nicht
wären,
so
würde
ihr
Gegenstand
ohne
Wert
sein";
cfr
anche
I.
Kant,
KpV
61,
62.
(xiv)
Ad
esempio,
la
dignità
della
persona
proibisce
assolutamente
lo
stupro,
anche
nel
caso
in
cui
questa
azione
potesse
salvare
altre
dieci
donne
da
un
analogo
destino,
poiché
un
simile
attacco
contro
l'integrità
della
libertà
e
della
sessualità
è
essenzialmente
un
attacco
contro
l'inviolabile
dignità
umana
sia
delle
donne
che
dello
stupratore,
ed
è
perciò
intrinsecamente
sbagliato.
Questa
inviolabilità
come
inseparabile
dalla
dignità
personale
appartiene
sia
alla
persona
stessa
che
ai
diritti
che
emanano
dalla
persona.
Cfr.
J.
Seifert,
Absolute
Moral
Obligations
towards
Finite
Goods
as
Foundation
of
Intrinsically
Right
and
Wrong
Actions.
A
Critique
of
Consequentialist
Teleological
Ethics:
Destruction
of
Ethics
through
Moral
Theology?,
"Anthropos",
1,
1985,
pp.
57-‐
94.
(xv)
Anselmo
d'Aosta,
Proslogion,
2-‐3.
(xvi)
Su
questo,
si
veda
la
profonda
analisi
dell'unicità
della
dignità
divina
in
Rudolf
Otto,
Das
Heilige.
Über
das
Irrazionale
in
der
Idee
des
Göttlichen
una
sein
Verhältnis
zum
Rationalen,
pp.
14
ss.
e
pp.
66
ss.
Otto
analizza
momenti
come
il
"tremendum",
il
"sanctum",
l'"augustum",
la
maestà
unica
e
altri
misteriosi
valori
che
competono
esclusivamente
a
Dio
e
che
costituiscono
in
modo
archetipico
e
perfettisisimo
la
dignità
personale.
Inoltre,
indaga
la
stretta
correlazione
intenzionale
fra
questi
momenti
del
Santo
e
i
corrispondenti
momenti
dell'atto
religioso.
Cfr.
anche
R.
Otto,
Wert,
Würde
und
Recht,
e
Idem,
Wertgesetz
und
Autonomie.
(xvii)
Thomas
Aq.,
Summa
Theologiae,
I,
Q.
29,
a.
3,
Rp.
1.
(xviii)
Ibid.,
I,
Q.
29,
a.
3,
Ra.
2:
"Ad
secundum
dicendum
quod,
quamvis
hoc
nomen
persona
non
conveniat
deo
quantum
ad
id
a
quo
impositum
est
nomen,
tamen
quantum
ad
id
ad
quod
146
significandum
imponitur,
maxime
deo
convenit.
Quia
enim
in
comoediis
et
tragoediis
repraesentabantur
aliqui
homines
famosi,
impositum
est
hoc
nomen
persona
ad
significandum
aliquos
dignitatem
habentes.
Unde
consueverunt
dici
personae
in
ecclesiis,
quae
habent
aliquam
dignitatem.
Propter
quod
quidam
definiunt
personam,
dicentes
quod
persona
est
hypostasis
proprietate
distincta
ad
dignitatem
pertinente.
Et
quia
magnae
dignitatis
est
in
rationali
natura
subsistere,
ideo
omne
individuum
rationalis
naturae
dicitur
persona,
ut
dictum
est.
Sed
dignitas
divinae
naturae
excedit
omnem
dignitatem,
et
secundum
hoc
maxime
competit
deo
nomen
personae".
Tommaso
parla
anche
di
"Distinctio
supereminentis
dignitatis"
(Thomas
Aq.,
In
Sent.,
pp.
133,
136,
137,
228-‐229).
Cfr
inoltre.
Urs
von
Balthasar,
Zum
Begriff
der
Person,
cit.,
p.
98.
(xix)
Cfr.
J.
Seifert,
Leib
und
Seele.
Ein
Beitrag
zur
philosophischen
Anthropologie,
Salzburg:
A.
Pustet,
1973;
e
Idem,
Das
Leib-‐Seele
Problem
und
die
gegenwärtige
philosophische
Diskussion.
Eine
kritisch-‐systematische
Analyse,
Darmstadt:
Wissenschaftliche
Buchgesellschaft,
1989II.
Lo
stesso
soggetto
della
consapevolezza
deve
essere
un'entità
spirituale,
dal
momento
che
l'uomo
può
essere
persona
solo
in
virtù
dell'anima
razionale;
infatti
l'unità
e
la
singolarità
del
soggetto
di
miliardi
di
esperienze
è
necessariamente
un
soggetto
spirituale,
non
materiale.
E
in
questo
soggetto
di
natura
razionale
scopriamo
la
prima
fonte
della
dignità
personale.
Boezio
lo
vide
chiaramente
quando
disse:
"Persona
est
rationabilis
naturae
individua
substantia"
(la
persona
è
una
sostanza
individuale
di
natura
razionale):
Boethius,
Contra
Eutychen
et
Nestorium,
cap.
3.
(xx)
Riccardo
di
San
Vittore,
Trin.,
4,
22
e
4,
25.
La
realtà
dell'esistenza
individuale,
e
perfino
dell'assoluta
unicità
e
insostituibilità
della
persona
come
soggetto
dotato
di
natura
razionale,
è
condizione
della
dignità
umana
e
di
ogni
dignità
personale.
(xxi)
Potremmo
qui
aggiungere
un
elemento
che
è
più
facilmente
accessibile
da
una
prospettiva
linguistica,
sottolineata
da
Stephen
Schwarz
nel
suo
libro
di
notevole
spessore
sulla
questione
morale
dell'aborto.
Cfr.
S.
Schwarz,
The
Moral
Question
of
Abortion,
Chicago:
Loyola
university
Press,
1990.
(xxii)
Ibid.,
pp.
100-‐113.
Le
radici
della
dignità
della
persona
risiedono
perciò
nella
sua
realtà
sostanziale
ed
escludono
quindi
il
fatto
che
la
persona
possieda
la
dignità
solo
in
termini
di
"funzionamento"
(virgolette
mie,
n.d.t.)
personale.
(xxiii)
Per
questo
è
un
peccato
che
Scheler
ritenga
di
poter
salvare
la
categoria
di
persona
soltanto
negando
l'essere
sostanziale
della
persona
come
sussistente
in
sé
nell'essere.
Così
afferma
in
Die
Stellung
des
Menschen
im
Kosmos,
p.
39:
"Das
Zentrum
des
Geistes,
die
"Person",
ist
also
weder
gegenständliches
noch
dingliches
Sein,
sondern
nur
ein
stetig
selbst
sich
vollziehendes
(wesenhaft
bestimmtes)
Ordnungsgefüge
von
Akten".
(xxiv)
Si
veda
Blaise
Pascal,
Thoughts,
5th
ed.,
trad.
e
intr.
di
A.J.
Krailsheimer,
London:
Penguin,
1973:
"146.
Man
is
obviously
made
to
think.
It
is
his
whole
dignity
and
his
whole
merit;
and
his
whole
duty
is
to
think
as
he
ought.
Now,
the
order
of
thought
is
to
begin
with
self,
and
with
its
Author
and
its
end".
Si
veda
anche,
nella
stessa
opera:
"346.
Thought
constitutes
the
greatness
of
man.
347.
Man
is
but
a
reed,
the
greatest
in
nature;
but
he
is
a
thinking
reed.
The
entire
universe
need
not
arm
itself
to
crush
him.
A
vapour,
a
drop
of
water
suffices
to
kill
him.
But,
if
the
universe
were
to
crush
him,
man
would
still
be
more
noble
than
that
which
killed
him,
because
he
knows
that
he
dies
and
the
advantage
which
the
universe
has
over
him;
the
universe
knows
nothing
of
this.
All
our
dignity
consists,
then,
in
thought.
By
it
we
must
elevate
ourselves,
and
not
by
space
and
time
which
we
cannot
fill.
Let
us
endeavour,
then,
to
think
well;
this
is
the
principle
of
morality.
348.
A
thinking
reed.-‐
It
is
not
from
space
that
I
must
seek
my
dignity,
but
from
the
government
of
my
thought.
I
shall
have
no
more
if
I
possess
worlds.
By
space
the
universe
encompasses
and
swallows
me
up
like
an
atom;
by
thought
I
comprehend
the
world".
E
ancora:
"365.
Thought.-‐
All
the
dignity
of
man
consists
in
thought.
Thought
is,
therefore,
by
its
nature
a
147
wonderful
and
incomparable
thing.
It
must
have
strange
defects
to
be
contemptible.
But
it
has
such,
so
that
nothing
is
more
ridiculous.
How
great
it
is
in
its
nature!
How
vile
it
is
in
its
defects!
But
what
is
this
thought?
How
foolish
it
is!".
(xxv)
Peter
Singer,
Unsanctifying
Human
Life,
in
P.
Singer,
Ethical
Issues
Relating
to
Life
and
Death,
Melbourne,
1979,
pp.
41-‐61.
(xxvi)
Ibid.,
p.
59;
Ebd.,
p.
43
e
p.
50..
(xxvii)
Rifiutando
questa
dignità
fondata
sulla
sostanza
stessa
della
persona,
Singer
sottolinea
un
punto
importante
sull'aborto,
ribadendo
che
la
sua
prospettiva
sarebbe
inammissibile
e
l'aborto
sarebbe
sbagliato
se
la
potenzialità
dell'uomo
lo
rendesse
già
persona,
e
se
possedesse
un'anima.
Si
veda
P.
Singer,
Unsanctifying...,
cit.,
p.
50:
"I
will
only
point
out
that
if
we
believe
it
is
the
potential
of
the
infant
that
makes
it
wrong
to
kill
it,
we
seem
to
be
committed
to
the
view
that
abortion,
however
soon
after
conception
it
may
take
place,
is
as
seriously
wrong
as
infanticide".
(xxviii)
Fichte
ed
Engelhardt
suppongono
lo
stato
attuale
della
personalità
viene
raggiunto
normalmente
dai
bambini
solo
dopo
il
secondo
anno
di
vita;
ma
si
potrebbe
anche
posticipare
o
anticipare
notevolmente
questa
data,
dal
momento
che
l'essere
consapevolmente
risvegliato
della
persona
va
incontro
ad
un'infinità
di
sfumature
e
di
gradi,
dalle
prime
esperienze
prenatali
dello
stato
embrionale
alla
prima
infanzia,
fino
all'età
adulta.
(xxix)
Cfr.
J.M.
Palacios,
ibid.?,
p.
62.
(xxx)
Una
delle
prime
acute
critiche
all'identificazione
della
morte
con
la
morte
cerebrale
fu
Hans
Jonas.
Cfr.
H.
Jonas,
Gehirntod
und
menschliche
Organbank:
Zur
pragmatischen
Umdefinierung
des
Todes
(abbr.
'Gehirntod'),
in:
H.
Jonas,
Technik,
Medizin
und
Ethik.
Zur
Praxis
des
Prinzips
Verantwortung,
Frankfurt
a.M.:
Insel
Verlag,
1985,
pp.
219-‐241.
Cfr.
anche
H.
Jonas,
Philosophical
Essays:
From
Ancient
Creed
to
Technological
Man,
Chicago
and
London:
The
University
of
Chicago
Press,
1974,
e
Idem,
Against
the
Stream:
Comments
on
the
Definition
and
Redefinition
of
Death,
in:
Philosophical
Essays:
From
Ancient
Creed
to
Technological
Man,
Englewood
Cliffs,
N.J.:
Prentice-‐Hall,
1974,
pp.
132-‐140.
Si
veda
anche
la
mia
critica
alla
nozione
di
morte
cerebrale
come
vera
morte
della
persona:
J.
Seifert,
Is
'Brain
Death'
actually
Death?
A
Critique
of
Redefining
Man's
Death
in
Terms
of
'Brain
Death',
in
R.J.
White,
H.
Angstwurm,
I.
Carasco
de
Paola
(eds.),
Working
Group
on
the
Determination
of
Brain
Death
and
Its
Relationship
to
Human
Death,
Pontificia
Accademia
delle
Scienze,
Città
del
Vaticano
1992,
pp.
95-‐143.
Si
veda
anche
il
mio
Hirntod:
Ein
Beitrag
zur
Kritik
der
philosophischen
Korrumpierung
der
medizinischen
Technik,
in
???,
Ethik
und
Technik,
Zürich:
M&T
edition,
1988.
Si
veda
inoltre
il
mio
Is
Brain
Death
Actually
Death?,
"Monist",
estate
1993;
Idem,
Ist
'Hirntod'
wirklich
der
Tod?
in
WMW.
Diskussionsforum
Medizinische
Ethik,
4,
October
1990;
e
Idem,
Erklären
heute
Medizin
und
Gesetze
Lebende
zu
Toten?
In
R.
Greinert
and
G.
Wuttke
(eds.),
Organspende:
Kritische
Ansichten
zur
Transplantationsmedizin,
Göttingen:
Lamuv
Verlag
1991,
pp.
185-‐208.
(xxxi)
Molti
pensatori
del
XIX
e
XX
secolo
hanno
insistito
su
questo
punto:
Feuerbach,
Martin
Buber,
Gabriel
Marcel,
Dietrich
von
Hildebrand,
Hans
Urs
von
Balthasar
e
altri.
(xxxii)
Palacios
ha
espresso
in
modo
eccellente
la
differenza
fra
il
secondo
e
il
terzo
livello
della
dignità
umana:
"La
filosofia
personalista
attribuisce
così
alla
persona
una
dignità
ontologica
che
costituisce
il
fondamento
di
un
parte
della
sua
dignità
morale.
Da
una
parte,
quindi,
la
persona
è
in
parte
dotata
di
dignità
per
il
solo
fatto
di
esistere
come
persona,
e
ciò
lo
rende
meritevole
di
essere
trattato
in
un
certo
modo,
che
si
può
già
considerare
una
forma
di
dignità
moral(ment)e
rilevante.
Per
altro
verso,
tuttavia,
ogni
persona
si
rende
moralmente
degna
o
indegna
in
un
senso
più
proprio,
divenendo
tale
o
tale
altra
persona
-‐
una
buona
o
una
cattiva
persona
-‐in
virtù
degli
atti
morali
che
esegue".
In
originale:
"La
filosofía
personalista
atribuye,
por
tanto,
a
la
persona
una
dignidad
ontológica
que
constituye
el
fundamento
de
una
parte
de
su
dignidad
moral.
De
una
parte,
pues
la
persona
es,
por
una
parte,
ontológicamente
digna
por
el
mero
hecho
148
de
ser
persona,
y
ello
la
hace
acreedora
a
ser
tratada
de
una
cierta
manera,
lo
cual
puede
ya
considerarse
como
una
forma
de
dignidad
moral.
Mas,
por
otra
parte,
cada
persona
humana
se
hace
digna
o
indigna
moralmente
en
sentido
más
propio
al
convertirse
en
tal
o
cual
persona
-‐
en
una
buena
o
una
mala
persona,
como
decimos
los
españoles
-‐
en
razón
de
los
actos
morales
que
realiza"
(J.M.
Palacios,
ibid.,
p.
261).
(xxxiii)
Si
veda
il
mio
Essere
e
persona.
Verso
una
fondazione
fenomenologica
di
una
metafisica
classica
e
personalista,
Milano:
Vita
e
Pensiero,
1989,
cap.
9.
(xxxiv)
Si
veda
il
mio
Back
to
Things
in
Themselves.
(xxxv)
Le
opere
d'arte
o
le
altre
persone
possiedono
il
loro
valore
in
modo
del
tutto
indipendente
dai
nostri
interessi
e
dalla
realizzazione
dei
nostri
desideri,
e
noi
siamo
in
grado
di
rispondere
ad
essi
perché
tale
ammirazione,
rispetto,
o
amore
sono
dovuti
a
questi
esseri
e
a
queste
persone.
Le
fondamentali
scoperte
compiute
con
la
risposta
valoriale
nell'etica
di
Dietrich
von
Hildebrand
e
con
la
filosofia
dell'amore
e
del
principio
personalistico
nell'etica
polacca
spiegano
questo
tratto
essenziale
della
persona.
Si
veda
D.
von
Hildebrand,
Ethics,
capp.
11-‐3
e
17-‐18;
Idem,
Das
Wesen
der
Liebe,
capp.
1-‐5
e
9;
Karol
Wojtyìa,
Love
and
Responsibility,
trad.
di
H.T.
Willetts,
San
Francisco:
Ignatius
Press,
1993;
Tadeusz
Styczeî,
Zur
Frage
einer
unabhängigen
Ethik,
in
Tadeusz
Styczeî,
Andrzej
Szostek,
Karol
Wojtyìa,
Der
Streit
um
den
Menschen.
Personaler
Anspruch
des
Sittlichen,
Kevelär,
1979;
Andrzej
Szostek,
in
ibid.
(xxxvi)
Max
Scheler,
Probleme
der
Religion,
pp.
101
ss.
Si
pensi
alla
bella
"definizione"
scheleriana
dell'essenza
dell'uomo
in
termini
di
trascendenza
e
di
auto-‐trascendenza:
"Thus
the
intention
and
directedness
of
man
beyond
himself
and
beyond
all
life
constitutes
his
essence.
This
precisely
is
the
proper
essential
concept
of
"man":
He
is
a
thing
which
transcends
himself
and
his
life
and
all
life.
His
essential
core
-‐
prescinding
from
his
special
constitution
-‐
is
exactly
that
movement,
that
spiritual
act
of
self-‐transcendence!".
E
continua:
"This
fact,
however,
is
in
equal
measure
misconceived
and
ignored
by
"humanistic"
and
by
"biological"
ethics"
(traduzione
mia).
Per
il
testo
originale
si
veda
Max
Scheler,
Der
Formalismus,
p.
293:
"So
macht
die
Intention
des
Menschen
über
sich
und
über
alles
Leben
hinaus
eben
sein
Wesen
aus.
Das
eben
ist
der
eigentliche
Wesensbegriff
des
"Menschen":
Er
ist
ein
Ding,
das
sich
selbst
und
sein
Leben
und
alles
Leben
transzendiert.
Sein
Wesenskern
-‐
abgesehen
von
aller
besonderen
Organisation
-‐
ist
eben
jene
Bewegung,
jener
geistige
Akt
des
Sichtranszendierens!
Dies
aber
verkennen
die
"humane"
Ethik
und
die
"biologische"
Ethik
in
gleichem
Maße".
Si
veda
inoltre
la
traduzione
ufficiale
inglese
dell'opera
principale
di
Scheler:
M.
Scheler,
Formalism
in
Ethics
and
Non-‐Formal
Ethics
of
Values.
On
man
as
a
trans-‐telechy
rather
than
an
en-‐telechy;
si
veda
anche
J.
Seifert,
Essere
e
persona...cit.,
cap.
9.
(xxxvii)
Questo
non
varrebbe
per
il
primo
livello
ontologico
della
personalità,
e
solo
in
alcuni
ristrettissimi
casi
nel
secondo
livello
e
fonte
della
dignità
personale.
Questa
dimensione
della
dignità
personale
cresce
attraverso
l'educazione,
il
raffinamento
del
pensiero,
ma
molto
più
attraverso
l'acquisizione
dei
valori
morali.
(xxxviii)
Riguardo
a
questi
doni
esistono
fondamentali
disuguaglianze,
cosicché
il
riconoscimento
fraterno
del
valore
di
ognuno
appare
in
contrasto
con
l'esigenza
di
uguaglianza,
come
hanno
sottolineato
pensatori
come
Gabriel
Marcel
o
Erik
Kühnelt-‐Leding.
L'invocazione
alla
fraternità
della
Rivoluzione
Francese
contraddice
in
un
certo
senso
l'invocazione
all'uguaglianza
della
medesima,
puntualizzano
questi
pensatori.
Di
fatto,
come
cerca
di
dimostrare
Max
Scheler,
una
pretesa
di
uguaglianza
che
neghi
le
differenze
esistenti
nei
talenti
e
nei
doni
di
vario
tipo
risulterebbe
da
un
principio
di
risentimento,
più
che
dalla
riflessione
sull'universale
uguaglianza
della
natura
umana.
Infatti,
in
poche
parole,
gli
uomini
non
sono
uguali
rispetto
alla
quarta,
come
pure
alla
seconda
e
terza,
fonte
della
dignità
umana.
Cfr.
Max
Scheler,
Das
Ressentiment
im
Aufbau
der
Moralem.
149
(xxxix)
Pretendere
uguaglianza
di
dignità
su
queste
ineguaglianza
può
essere
frutto
del
ressentiment
e
dell'invidia,
piuttosto
che
della
verità.
Ciò
non
esclude
che
la
quarta
fonte
di
dignità
attraverso
i
doni
intrinseci
possa
essere
in
linea
di
principio
elargita
a
tutti
gli
uomini,
come
ritiene
la
persona
religiosa
per
valori
come
"l'essere
oggetto
della
misericordia
divina"
o
"l'essere
redenti
da
Cristo".
(xl)
Cfr.
Gabriel
Marcel,
The
Existential
Background
of
Human
Dignity;
cfr.
anche
Idem,
Die
Menschenwürde
und
ihr
existentieller
Grund,
pp.
139-‐162
e
163
ss.;
Erik
Kühnelt-‐Leddin,
Liberty
or
Equality.
The
Challenge
of
Our
Time.
(xli)
La
vecchia
preghiera
della
liturgia
tridentina
esprimeva
questa
dimensione
della
dignità
dicendo:
"Deus,
qui
dignitatem
humane
substantiae
mirabiliter
condidisti
et
mirabilius
reformasti...".
(xlii)
Su
questo
dono
religiose
di
una
nuova
dignità
tramite
la
grazia
San
Tommaso
d'Aquino
parla
in
Summa
Theol.,
IIae,
Q.
63,
a.2.
co:
"Et
quia
personarum
acceptio
est
cum
aliquid
personae
attribuitur
praeter
proportionem
dignitatis
ipsius,
considerare
oportet
quod
dignitas
alicuius
personae
potest
attendi
dupliciter.
Uno
modo,
simpliciter
et
secundum
se,
et
sic
maioris
dignitatis
est
ille
qui
magis
abundat
in
spiritualibus
gratiae
donis.
Alio
modo,
per
comparationem
ad
bonum
commune,
contingit
enim
quandoque
quod
ille
qui
est
minus
sanctus
et
minus
sciens,
potest
maius
conferre
ad
bonum
commune,
propter
potentiam
vel
industriam
saecularem,
vel
propter
aliquid
huiusmodi.
Et
quia
dispensationes
spiritualium
principalius
ordinantur
ad
utilitatem
communem,
secundum
illud
I
ad
Cor.
XII,
unicuique
datur
manifestatio
spiritus
ad
utilitatem;
ideo
quandoque
absque
acceptione
personarum
in
dispensatione
spiritualium
illi
qui
sunt
simpliciter
minus
boni,
melioribus
praeferuntur,
sicut
etiam
et
deus
gratias
gratis
datas
quandoque
concedit
minus
bonis
».
(xliii)
Non
neghiamo
che
anche
l'esistenza
e
la
vita
di
un
persona
possono
essere
correttamente
interpretate
come
doni,
ma
non
hanno
il
carattere
peculiare
di
doni
estrinseci
che
qui
intendiamo.
L'esistenza
e
la
vita
della
persona
non
sono
elementi
che
vanno
al
di
là
del
possesso
dell'essere
e
della
natura
umane.
Allo
stesso
modo,
non
sono
soggette
al
potere
dell'uomo
dotato
di
dignità,
come
la
terza
fonte
della
dignità
morale
è
in
larga
parte.
(xliv)
Tommaso
considera
anche
la
dignità
divinamente
donata
con
la
redenzione
come
il
frutto
di
un
certo
riconoscimento
della
dignità
inerente
alla
natura
umana
da
parte
di
Dio.
Si
veda
la
sua
De
rationibuis
fidei,
cap.
5:
"Homo
enim
suam
infirmitatem
cognoscens,
si
ei
promitteretur
quod
ad
beatitudinem
perveniret,
cuius
vix
Angeli
capaces
sunt,
quae
scilicet
in
visione
et
fruitione
dei
consistit,
vix
hoc
sperare
posset,
nisi
ex
alia
parte
sibi
dignitas
humanae
naturae
ostenderetur,
quam
tanti
aestimat
deus,
ut
pro
eius
salute
homo
fieri
voluit.
Et
sic
per
hoc
quod
deus
factus
est
homo,
spem
nobis
dedit
ut
homo
etiam
posset
pervenire
ad
hoc
quod
uniretur
deo
per
beatam
fruitionem".
150
MARIA
DOLORES
VILA-‐CORO
INTRODUZIONE
Le
rivoluzione
scientifica,
iniziata
50
anni
fa,
avanza
sempre
più
rapidamente
ed
ha
prodotto
una
società
diffidente.
Al
giorno
d'oggi,
l'applicazione
delle
biotecnologie
sull'uomo
è
tale
che
può
avere
effetto
sull'essenza
costitutiva
dell'essere
umano,
sulla
struttura
della
famiglia
e
della
società.
Può
perfino
modificare
l'identità
stessa
dell'individuo
e
della
specie
umana,
mediante
trasformazioni
irreversibili
come
la
clonazione,
la
manipolazione
dei
gameti
e
degli
embrioni,
la
sostituzione
dell'ambiente
prenatale
umano
con
uno
animale,
la
fecondazione
tra
specie
diverse.
La
situazione
esige
che
si
assumano
posizioni
nette,
punti
di
vista
e
criteri
che
non
deformino
le
coscienze
morali
e
che
non
diano
luogo
alla
legalizzazione
di
attività
che
sono
contrarie
al
rispetto
della
vita
umana
e
alla
dignità
dell'individuo.
Vale
la
pena
di
mettere
in
evidenza
le
posizioni
errate
prese
da
alcuni
esperti
di
bioetica.
Questi
errori,
in
Spagna,
hanno
portato
all'approvazione
di
alcune
leggi
ed
all'emissione
di
sentenze
da
parte
della
Corte
Costituzionale
che
non
proteggono
il
diritto
fondamentale
alla
vita.
Il
mio
punto
di
partenza
è
quello
di
descrivere,
dalla
prospettiva
dei
diritti
umani,
la
situazione
attuale,
utilizzando
la
Spagna
come
esempio
di
ciò
che
potrebbe
accadere
in
altre
nazioni.
I
DIRITTI
UMANI
Una
riflessione
sull'origine
e
la
formazione
dei
diritti
umani
può
condurre
allo
studio
di
diritti
fondamentali.
Questi
sono
nati
per
consentire
all'uomo
di
sviluppare
ed
usare
la
sua
personalità
al
massimo
delle
sue
potenzialità.
Hanno
una
doppia
prospettiva:
innanzitutto,
attraverso
di
essi
l'uomo
è
autorizzato
ad
esercitare
il
suo
potere
all'interno
del
suo
ambito
odominium
e,
in
secondo
luogo,
grazie
ad
essi
l'uomo
ha
facoltà
di
impedire
che
il
tranquillo
godimento
dello
spazio
in
cui
egli
esercita
il
suo
legittimo
potere
venga
turbato.
La
Legge
deve
concedere
all'uomo
certe
libertà
e
certi
diritti
che
vanno
oltre
e
sono
al
di
sopra
dello
Stato
e
della
comunità
politica.(1)
Secondo
Bodin
"un
diritto
umano
è
un
diritto
che
l'uomo
ha
stabilito
in
conformità
con
la
natura
ed
a
motivo
della
sua
utilità".(2)
L'origine
dei
diritti
umani
può
essere
fatta
risalire,
principalmente,
a
due
fonti
chiaramente
distinte.
Il
giusnaturalismo
Per
i
seguaci
di
questa
teoria,
i
diritti
umani
sono
fondati
sui
valori
e
sui
principi
della
Legge
Naturale.
Questi
sono
concetti
di
una
tale
ovvia
certezza
che
nessuno
può
negarli
se
non
privandoli
del
loro
vero
significato,
della
loro
evidenza
morale
che
è
qualcosa
di
simile
alla
percezione
sensoriale
naturale.(3)
L'espressione
giustizia
naturale
veniva
usata
dai
giuristi
Romani
in
un
senso
molto
ampio:
ciò
che
la
natura
ha
insegnato
a
tutti
gli
animali(4).
Per
quanto
riguarda
specificatamente
l'uomo,
la
giustizia
naturale
rimanda
all'essenza
naturale
dell'uomo.
Presuppone
la
ragione
come
facoltà
di
considerare
una
cosa
in
relazione
a
ciò
che
scaturisce
da
essa:
dunque,
la
capacità
di
trarre
deduzioni
o
conclusioni.(5)
Il
Cristianesimo
ha
sviluppato
e
promosso
i
principi
del
giusnaturalismo
considerandoli
una
caratteristica
essenziale
dell'uomo,
una
conseguenza
naturale
della
sua
condizione
umana
e
connaturata
alla
sua
dignità.
La
loro
origine
si
trova
nella
Legge
Naturale
che
a
sua
volta
151
partecipa
della
Legge
Eterna,
così
i
diritti
naturali
sono
elementi
costitutivi
dell'ordine
universale.
Sono
antecedenti
a
tutto
il
Diritto
positivo.
Il
diritto
positivo
li
cristallizza
in
norme
specifiche
e
li
incorpora
come
fondamento
per
provvedimenti
giuridici.
I
diritti
naturali
coincidono
con
l'uomo
perché
sono
richiesti
dalla
sua
natura
e
dalla
sua
dignità;
sono
di
natura
ontologica.
Nel
XVII
secolo
assistiamo
allo
sviluppo
di
un
nuovo
concetto
di
diritti
naturali.
Tale
concetto
ha
il
suo
fondamento
in
un
sistema
di
valori
morali,
che
è
utilitaristico
ed
individualista,
non
ha
connessioni
con
i
doveri
e
mette
in
evidenza
gli
aspetti
di
rivendicazione.
Lascia
l'uomo
senza
legami
sociali
e
conduce
ad
un'esistenza
conflittuale
con
gli
altri
individui
che
combattono
tutti
per
i
propri
diritti.
Questo
nuovo
concetto
fu
principalmente
opera
di
due
ideologi
inglesi
che
ruppero
con
la
Scolastica,
vale
a
dire
Thomas
Hobbes
e
John
Locke.
La
Scolastica
forniva
una
concezione
globale
in
cui
l'etica
e
la
politica
erano
controllate
dalla
teologia.
I
diritti
erano
subordinati
all'idea
di
dovere,
essendo
l'uomo
una
creatura
di
Dio
che
deve
obbedire
ai
comandamenti.
Le
leggi
della
morale
utilitarista
di
Hobbes
sono
ordini
pragmatici
e
razionali
formulati
con
l'intento
di
raggiungere
una
finalità
stabilita.
Sono,
in
realtà,
una
giustificazione
per
il
più
lampante
e
spietato
egoismo
borghese.
Non
cercano
di
fare
del
bene
di
per
sé,
quanto
piuttosto
di
evitare
i
mali
causati
dal
rimanere
in
uno
stato
naturale.
Locke
modificò
il
modello
hobbesiano
e
basò
i
diritti
umani
sul
concetto
di
proprietà.
Questo
concetto
include
la
vita,
come
anche
la
libertà
e
la
proprietà,
nel
senso
di
dominio
sulle
cose.
L'uomo
che
possiede
è
il
concetto
antropologico
a
base
della
filosofia
liberale.(6)
Per
Millán
Puelles
è
Kant,
con
la
sua
idea
di
legge
rigorosamente
definita,
ad
aprire
le
porte
alla
teoria
giuridica
positivista.
Kant
afferma
che
la
legge
pura
e
semplice
è
correlativa
alla
possibilità
di
usare
strumenti
fisici
di
coercizione.
Per
Kant,
la
legge
rigorosamente
definita
è
quella
che
non
ha
componenti
etiche
di
nessun
tipo.
Quando
Rosseau
pose
le
fondamenta
della
moderna
teoria
della
democrazia,
avanzò
l'opinione
che
i
diritti
esistono
solamente
in
quanto
sono
generati
dalla
volontà
generale
che
è
sia
fonte
che
garanzia
dei
diritti
naturali.
Il
cittadino
esprime
la
sua
volontà
nelle
Leggi
e
queste
leggi
a
loro
volta
esprimono
principi
naturali.
Rosseau
non
prende
in
considerazione
che
il
volere
generale
non
può
essere
estrapolato
perché
sono
i
cittadini
stessi
che
fanno
le
leggi
e
concedono
diritti.
I
seguaci
di
questa
teoria
approvano
il
positivismo
giuridico.(7)
La
bioetica
basata
sul
consenso,
che
oggi
alcuni
cercano
di
imporre,
va
in
questa
direzione.
Il
positivismo
L'altra
fonte
di
diritti
sono
le
stesse
disposizioni
di
legge
che
non
riconoscono
i
diritti
connaturati
dell'uomo,
in
quanto
sono
le
leggi
che
gli
assegnano
tali
diritti.
Questa
è
la
posizione
del
positivismo
giuridico
che
reagisce
fortemente
contro
qualunque
sospetto
di
metafisica
in
materia
di
diritto
-‐
in
effetti
di
Legge
Naturale
-‐
che
potrebbe
affermare
l'esistenza
di
un
ordine
di
valori
extragiuridici.(8)
Sia
la
storica
scuola
tedesca
di
diritto,
influenzata
dal
Romanticismo,
sia
la
scuola
francese
di
esegesi,
un
prodotto
del
razionalismo,
si
dichiarano
contro
la
Legge
Naturale.(9)
Queste
posizioni
positiviste
riconoscono
solamente
i
diritti
stabiliti
da
norme,
con
il
risultato
che
il
cittadino
ha
titolo
a
questi
diritti
solo
se
l'organo
legislativo
considera
giusto
concederli.
Per
riassumere,
possiamo
osservare
che
il
concetto
di
diritti
umani
ha
due
distinte
prospettive.
I
principi
del
Giusnaturalismo
considerano
questi
diritti
appartenenti
all'uomo
e
connaturati
alla
sua
natura.
Essi
sono
oggettivi
ed
universali
perché
si
applicano
a
tutti
gli
uomini,
i
quali
condividono
la
stessa
natura
e
condizione.
Sono,
quindi,
anteriori
allo
Stato
che
semplicemente
li
riconosce
e
li
tutela.
La
posizione
positivista
li
considera
puramente
dalla
prospettiva
della
Legge
152
Positivista.
Ammette
quei
diritti
che
vengono
accordati
in
base
a
delle
norme
sebbene
queste
possano
riconoscere
certi
diritti
connaturati
alla
condizione
umana.(10)
Razionalismo
e
scientismo
hanno
contribuito
alla
formazione
del
pensiero
tecno-‐scientifico
che
rifiuta
qualunque
trascendentalismo
e,
conseguentemente,
non
accetta
nessun
tipo
di
legge
morale
naturale,
essendo
limitata
all'aspetto
quantitativo
della
materia.
Poiché
alla
mente
umana
è
stata
concessa
la
capacità
di
superare
qualunque
tipo
di
frontiera,
la
situazione
è
dunque
matura
perché
il
soggettivismo
presenti
il
suo
punto
di
vista
sull'etica.
"Ciò
che
io
credo
sia
buono,
posso
esprimerlo
in
una
norma".
Al
fine
di
evitare
il
solipsismo,
viene
messo
in
dubbio
il
fatto
che
l'individuo
possa
conoscere
la
verità.
Si
pensa
che
il
Contrattualismo
abbia
trovato
la
formula
perfetta,
dal
momento
che
la
capacità
di
comprendere
"il
conoscere"
è
raggiunta
attraverso
la
contrapposizione
di
opinioni,
al
fine
di
trovare
la
norma
su
cui
si
è
d'accordo
e
che
verrà
accettata
da
tutti
come
valida.
Per
rendere
ciò
più
semplice,
la
bioetica
basata
su
obiettivi
minimi
da
raggiungere,
come
risultato
del
consenso
generale,
viene
promossa.
LA
DIGNITÀ
DELLA
PERSONA
La
Costituzione
spagnola
all'art.
10
proclama
"
La
dignità
della
persona,
i
diritti
inviolabili
che
le
sono
connaturati,
il
libero
sviluppo
della
personalità,
il
rispetto
della
legge
e
dei
diritti
altrui
sono
fondamento
dell'ordine
politico
e
della
pace
sociale."
I
diritti
della
persona
umana
derivano
dalla
dignità.
Tra
questi
diritti,
il
diritto
alla
vita
è
stato
definito
fondamentale
e
centrale,
perché
senza
di
esso
nessun
altro
ne
esiste.
Questo
articolo
fu
ispirato
dalla
Costituzione
tedesca:
"La
dignità
dell'uomo
è
sacra
ed
è
dovere
di
tutte
le
autorità
dello
Stato
tutelarla
e
rispettarla".
Le
leggi
spagnole
sono
eredi
della
tradizione
filosofica
greca,
del
diritto
Romano
e
della
cultura
cristiana,
e
qui
per
cristianità
si
deve
intendere
una
concezione
antropologica
dell'uomo
non
semplicemente
nel
suo
aspetto
religioso.
Nel
Codice
Civile
ci
imbattiamo
in
alcuni
concetti
che
non
necessitano
di
ulteriori
spiegazioni
per
essere
compresi.
Tutti
comprendono,
rispettano
e
accettano
tali
concetti
che
fanno
appello
a
principi
morali;
norme
generali
come
bona
fide,
ilprudent
paterfamilias,
ovverosia
l'uomo
assennato,
il
genuino
buon
senso...
che
sono
in
relazione
ad
una
sottostante
moralità
oggettiva
che
chiarifica,
completa
e
soprattutto
pone
le
fondamenta
della
norma.
L'insieme
di
valori
e
principi,
concepito
dalle
nostre
menti,
considera
l'uomo
da
una
angolazione
spirituale
che
mette
insieme
i
valori
ed
i
principi
presenti
in
tutto
il
corso
della
nostra
Storia.
Considerato
che
la
vita
umana
è
superiore,
si
può
dunque
coerentemente
dedurre
che
essa
sia
sacra
per
l'uomo;
cioè,
per
sua
stessa
natura
intrinsecamente
sacra
e
dunque
degna
del
massimo
rispetto.
L'essenziale
dignità
della
persona
è
all'origine
di
tutti
i
diritti
fondamentali,
sebbene
in
alcuni
casi
ciò
sia
più
palesemente
evidente
che
in
altri,
come
nel
caso
del
diritto
alla
integrità
fisica
e
morale,
alla
libertà
ideologica
e
di
religione,
la
libertà
personale,
il
diritto
all'onorabilità,
alla
privacy
personale
e
familiare,
alla
libertà
di
espressione,
all'istruzione
e
all'obiezione
di
coscienza.
Secondo
Lucas,
la
riflessione
antropologica
contempla
l'uomo
da
un'angolazione
corporale-‐spirituale.(11)
Ciò
è
stato
riconosciuto
dalla
Corte
Costituzionale(12)
quando
afferma
che
la
Costituzione
ha
"elevato
la
dignità
della
persona
a
valore
giuridico
fondamentale,
unitamente
al
valore
della
vita
umana,
e
l'ha
messa
in
stretta
relazione
alla
dimensione
morale
di
quest'ultima.
Tale
dignità,
senza
pregiudizio
dei
diritti
connaturati
alla
persona,
è
intimamente
collegata
al
pieno
sviluppo
della
persona
(art.
10),
al
diritto
all'integrità
fisica
e
morale
(art.
15)
ed
alla
privacy
personale
e
familiare
(art.
18.7)...
La
tortura
e
la
mutilazione,
il
trattamento
degradante
e
disumano
sono
attacchi
all'essenza
stessa
della
dignità
e
sottintendono
la
mancata
considerazione
della
condizione
umana
di
coloro
che
li
subiscono".(13)
153
La
formula
che
proclama
la
dignità
umana
come
valore
e
principio
fondamentale
del
Diritto
è
conforme
alla
realtà
dell'uomo
e,
per
tale
motivo,
è
stata
accettata
da
tutte
le
nazioni
che
hanno
sottoscritto
la
Dichiarazione
Universale
dei
Diritti
Umani
delle
Nazioni
Unite.
In
questa
dichiarazione,
la
difesa
della
dignità
viene
dichiarata
principio
fondamentale
ed
alla
base
di
tutti
i
diritti.
Le
Dichiarazioni
dei
Diritti
Umani,
le
costituzioni
degli
Stati
del
mondo
occidentale,
i
numerosi
documenti
ed
i
rapporti
delle
organizzazioni
internazionali,
proclamano
la
dignità
della
persona
ed
i
diritti
fondamentali,
tra
cui
spicca
il
diritto
alla
vita
umana,
che
da
alcuni
viene
considerata
sacra.(14)
Eppure,
come
si
vedrà
più
avanti,
una
serie
di
norme
connesse
all'applicazione
sugli
esseri
umani
dei
progressi
compiuti
dalla
scienza
e
dalla
medicina,
ed
alcune
Sentenze
di
Tribunale
non
rispettano
né
la
dignità
dell'individuo,
né
il
suo
diritto
alla
vita.
L'importanza
antropologica
dell'uomo,
che
va
ben
oltre
la
mera
biologia
perché
è
aperta
al
trascendente,
è
la
chiave
del
dibattito
sulla
dignità
della
persona.
E'
un
approccio
che
non
richiede
necessariamente
una
fede
religiosa,
perché
sebbene
un
avvicinamento
a
Dio
possa
essere
il
supremo
fondamento
del
valore,
c'è
un
altro
fondamento
che
è
ad
esso
simile:
quello
di
non
ridurre
tutto
alla
semplice
biologia.
E'
una
visione
antitetica
a
quella
materialista
della
vita
umana
espressa
da
Engel,
secondo
cui
la
vita
è
semplicemente
una
delle
varie
forme
di
movimento
della
materia.
Da
ciò
deriva
un
concetto
di
Diritto
che
non
rileva
valori
superiori
nell'uomo
e
conseguentemente
non
riconosce
che
egli
abbia
dei
diritti.
Gli
utilitaristi
non
accettano,
e
pertanto
negano,
la
sacralità
della
vita
umana
con
la
qualcosa
noi
intendiamo
che
essa
non
può
essere
soppressa
in
base
alla
propria
volontà;
gli
utilitaristi
accettano
che
della
vita
si
possa
disporre
a
piacimento,
ovvero,
di
essa
si
può
fare
uso.
Non
accettando
che
la
vita
è
un
valore
in
sé,
essi
non
accettano
neanche
che
la
vita
valga
la
pena
di
essere
vissuta
a
meno
che
non
possieda
una
certa
qualità:
la
qualità
della
vita
viene
considerata
più
importante
della
vita
stessa.
Ma
essi
non
si
rendono
conto
che
sia
la
realizzabilità
che
la
qualità
della
vita
hanno
la
loro
origine
ed
il
loro
fondamento
nella
vita
stessa,
da
cui
essi
derivano
il
loro
valore.
In
questo
modo
l'ordine
logico
viene
alterato
e
la
casualità
viene
elevata
al
di
sopra
della
sostanza.
Abbiamo
qui
un
caso
di
paralogismo
categoriale
che
consiste
nell'introdurre
termini
provenienti
da
differenti
categorie
di
ragionamento.
IL
DIRITTO
ALLA
VITA
Il
Diritto
alla
Vita
non
compare
in
nessuna
Costituzione
spagnola
fino
al
1978.
Durante
la
discussione
in
Senato
dell'articolo
10
della
Costituzione
del
1978,
il
Professore
di
Diritto
Sánchez
Agesta
affermò
che
nella
tradizione
spagnola
i
diritti
dell'individuo
risalgono
al
XII
secolo.
Appaiono
nella
Carta
di
Leon
(Fuero
de
León),
che
alcuni
storici
chiamano
la
Magna
Carta,
che
è
precedente
di
un
secolo
alla
Magna
Carta
inglese(15)
che
John
Lackland
(Giovanni
Senzaterra)
concesse
ai
sudditi
inglesi
nel
1215
abolendo
la
pena
di
morte.
Nel
1776
la
Dichiarazione
della
Virginia
proclamò
il
diritto
alla
vita,
che
è
stato
successivamente
incluso
nella
Dichiarazione
di
Indipendenza
degli
Stati
Uniti
e
nella
Dichiarazione
dei
Diritti
dell'Uomo
e
del
Cittadino
del
1789.
Romeo
Casabona
sostiene
che
questo
sia
un
chiaro
riconoscimento
che
non
ha
solamente
un
valore
simbolico.(16)
Sebbene
sia
opinione
di
questo
autore
che
tale
riconoscimento
implichi
un
obbligo
vincolante
e
comporti
un
autentico
dovere
giuridico
per
coloro
a
cui
tale
norma
è
diretta,
alcune
leggi,
come
vedremo
più
avanti,
non
rientrano
nel
sistema
di
riferimento
all'interno
del
quale
la
vita
umana
deve
essere
protetta
e
chiaramente
seguono
la
visione
utilitarista.
La
straordinaria
caratteristica
del
diritto
alla
vita
è
che
costituisce
un
prius
antropologico.
E'
più
di
un
diritto
fondamentale;
è
la
condizione
che
rende
possibile
ogni
susseguente
diritto:
la
vita
è
empirica
e
non
teoretica.
"La
cosa
naturale
è
avere
titolarità
al
diritto
alla
vita".(17)
Ad
essere
154
assolutamente
precisi,
non
possiamo
dire
che
la
vita
umana
sia
solo
un
diritto
perché
in
effetti
è
il
supporto
e
la
raison
d'être
di
tutti
gli
altri
diritti.
Senza
la
vita
non
ci
può
essere
nessun
potere
che
è
il
principio
intrinseco
di
tutti
i
diritti.
"Il
primo
attributo
di
questa
realtà
fondamentale
che
chiamiamo
"la
nostra
vita"
è
il
semplice
fatto
che
esiste
per
sé,
è
cosciente
di
sé,
è
trasparente
a
sé.
Solo
questo
vuol
dire
che
la
vita,
e
tutto
ciò
che
ne
fa
parte,
è
indubitabile
e
proprio
perché
è
la
sola
realtà
indubitabile,
è
anche
fondamentale".(18)
Nella
Costituzione
spagnola,
capitolo
II,
sezione
1
Sui
diritti
fondamentali
e
la
libertà
pubblica,
troviamo
innanzitutto
l'articolo
15
che
rende
inequivocabile
la
sua
posizione
prioritaria
rispetto
ad
altri
diritti...
"Tutti
hanno
diritto
alla
vita
ed
alla
integrità
fisica
e
morale,
ed
in
nessuna
circostanza
si
può
essere
sottoposti
a
torture
né
a
pene
o
trattamenti
degradanti
e
disumani."
La
conservazione
della
vita
è
un
diritto
dell'essere
umano
che
è
tutelato
dalla
Costituzione
perché
contiene
un
valore
fondamentale
che
è
assoluto,
nel
senso
che
è
in
relazione
con
il
mondo
intero.
Sebbene
sia
assoluto
è
limitato
dai
diritti
di
altri
individui.
La
vita
umana
non
consiste
solamente
nel
preservare
l'esistenza;
nascere,
crescere,
svilupparsi.
E'
un
processo
graduale
di
auto-‐formazione,
un
compito
che
si
compie
in
un
ambiente
prestabilito
e
che
determina
se
alcuni
geni
o
altri
vengono
espressi,
un
habitat
in
cui
l'essere
umano
cresce
e
si
sviluppa
nell'esercitare
le
superiori
qualità
che
possiede.
A
questo
riguardo,
è
della
massima
importanza
ciò
che
chiamo
l'habitat
prenatale.
La
protezione
della
vita
include
anche
la
protezione
dello
spazio
chiuso
in
cui
l'essere
umano
si
forma.
Questo
primo
habitat
disposto
dalla
natura
viene
negato
dalla
donazione
di
ovuli
e
dalla
maternità
in
affitto,
quando
il
bambino
deve
crescere
in
un
grembo
diverso
da
quello
della
madre
che
produce
l'ovulo.
L'articolo
45
della
Costituzione
spagnola
stabilisce
che
"Tutti
hanno
il
diritto
di
godere
di
un
ambiente
idoneo
allo
sviluppo
della
persona,
così
come
il
dovere
di
conservarlo".(19)
Il
valore
legalmente
protetto
è
quello
di
un
habitat
idoneo
allo
sviluppo
dell'individuo.
Considerato
che
l'essere
umano
necessita
di
un
ambiente
fisiochimico
e
biologico
appropriato,
ed
anche
di
uno
emotivo,
intellettuale
e
morale,
sono
dell'opinione
che
"ambiente"
debba
riferirsi
a
tutto
ciò
che
attiene
alle
diverse
fasi
dello
sviluppo
umano.
Una
delle
leggi
originate
dall'articolo
45
della
Costituzione
è
la
Legge
4/89
relativa
alla
Conservazione
degli
spazi
naturali
nonché
della
flora
e
della
fauna
allo
stato
naturale.
Questa
legge
è
stata
oggetto
di
un
ricorso
per
incostituzionalità.
Nella
Sentenza
che
ha
risolto
il
ricorso,
la
Corte
Costituzionale
ha
definito
medio
ambiente
l'insieme
di
circostanze
in
cui
una
persona
vive,
l'armoniosa
regolazione
dell'ambiente
in
cui
l'uomo
vive
e
che
condiziona
la
sua
esistenza,
la
sua
identità
ed
il
suo
sviluppo".(20)
Quando
la
nostra
Costituzione
fu
promulgata
nel
1978
nessuno
poteva
immaginare
che
un
essere
umano
avrebbe
potuto
svilupparsi
in
un
utero
che
non
fosse
quello
della
madre.
Ovviamente
l'articolo
45
non
venne
formulato
avendo
in
mente
questa
possibilità.
Ma
è
chiaro
che
esso
debba
includere
questo
primo,
intimo
e
molto
personale
ambiente
che
è
della
massima
importanza
per
la
formazione
e
lo
sviluppo
dell'individuo
durante
le
prime
fasi
della
sua
esistenza.
LaDichiarazione
Universale
sul
Genoma
Umano
dell'UNESCO,
articolo
4,
afferma
che
i
geni
sono
espressi
in
modi
diversi
a
seconda
dall'ambiente
naturale
e
sociale
dell'individuo.
L'influenza
dell'ambiente
è
determinante
perché
influisce
direttamente
sulla
formazione
e
sullo
sviluppo
dell'individuo,
e
dunque
sul
diritto
alla
vita.
Permettendo
ad
una
donna
priva
di
un
partner
di
accedere
alla
inseminazione
artificiale,
il
bambino
viene
privato
della
presenza
del
suo
padre
biologico.
Se
la
donna
ha
una
relazione
omosessuale,
il
bambino
viene
posto
in
un
ambiente
che
va
contro
l'ordine
naturale
delle
cose,
dove
il
ruolo
maschile,
con
i
suoi
connaturati
elementi
di
definizione
e
caratterizzazione,
viene
assunto
da
una
donna.
Lo
stesso
avviene
nell'adozione
di
un
bambino
da
parte
di
omosessuali.
155
Nei
casi
in
cui
la
coppia
ricorre
ad
un
donatore
anonimo,
sia
che
sia
la
madre
o
il
padre,
la
relazione
di
causalità
filogenetica
verrà
rotta,
ed
una
persona
sarà
deprivata
di
un
riferimento
indispensabile
per
la
costituzione
della
sua
identità
personale.
Inoltre,
nascondere
l'identità
del
padre
potrebbe
avere
conseguenze
che
non
sono
state
sufficientemente
valutate;
tra
le
altre
il
rischio
di
unioni
tra
consanguinei.
Il
neurobiologo
Rodriguez
Delgado
spiega
come
le
mappe
genetiche
siano
fondamentali
nelle
fasi
iniziali
della
formazione
cerebrale
e
lo
sviluppo,
e
che
esse
sono
collegate
alla
costituzione
dei
sistemi
e
dei
modi
di
apprendimento,
tuttavia,
e
vorrei
attirare
l'attenzione
del
lettore
su
questo
punto,
"queste
fasi
iniziali
vengono
condizionate
in
modo
considerevole
dall'influsso
delle
percezioni
sensoriali
che
forniscono
le
informazioni..."(21)
In
breve,
scindendo
la
continuità
genetica,
viene
introdotto
un
ambiente
di
apprendimento
estraneo;
l'habitat
del
bambino
è
stato
alterato
con
la
conseguenza
che
egli
riceverà
un
impatto
informativo
estraneo
al
suo
ambiente
che
costituisce
la
sua
naturale
continuità.
Oggigiorno
c'è
una
grande
preoccupazione
per
l'ambiente,
come
risulta
evidente
dal
grande
numero
di
congressi
e
riunioni
che
vengono
organizzati
a
tale
scopo.
In
campo
internazionale
spiccano
gli
incontri
al
vertice
di
Rio
de
Janeiro
nel
1992,
di
Kyoto
nel
1997
e
di
Buenos
Aires
nel
1998.
Il
Trattato
di
Maastrich
include
una
sezione
sulla
protezione
ambientale.
In
Europa
le
norme
si
sono
moltiplicate
a
seguito
delle
direttive
comunitarie
e
delle
raccomandazioni
degli
organismi
e
delle
conferenze
internazionali
ed
includono,
tra
gli
altri
provvedimenti
relativi
ad
aree
naturali,
la
conservazione
delle
specie
minacciate
di
estinzione
(animali
e
vegetali)...
l'inquinamento
atmosferico
ed
acustico,
la
conservazione
dello
strato
di
ozono
e
della
biodiversità.(22)
Dovremmo
mostrare
lo
stesso
interesse
per
lo
specifico
ambiente
dell'essere
umano
durante
le
fasi
iniziali
del
suo
sviluppo.
LA
PERSONA
IN
CONTRAPPOSIZIONE
ALLA
PERSONALITÀ
GIURIDICA
Durante
la
fase
parlamentare
antecedente
l'approvazione
dell'attuale
Costituzione
spagnola
ci
fu
un
dibattito
sulla
possibilità
che
il
diritto
di
"ogni
persona"
includesse
quello
del
bambino
concepito
ma
non
ancora
nato.
Per
evitare
qualsiasi
dubbio
di
interpretazione
fu
scelta
la
formula
"tutti
hanno
diritto
alla
vita".
Tuttavia,
quando
l'aborto
fu
depenalizzato
in
alcune
circostanze,
fu
paradossalmente
asserito
che
il
bambino
concepito
ma
non
nato
non
era
una
persona
e,
quindi,
non
era
incluso
nel
termine
"tutti".
In
base
alla
definizione
del
vocabolario:
Persona:
si
riferisce
ad
un
individuo
della
specie
umana.
Un
essere
umano.
Personalità:
si
riferisce
al
modo
d'essere
di
una
particolare
persona;
le
qualità
che
caratterizzano
quella
persona.
La
Persona
può
esistere
indipendentemente
dalla
personalità.
La
personalità
legale
significa
che
la
Legge
riconosce
lo
status
legale
di
"qualcuno"
che,
dunque,
occupa
un
posto
nell'Ordinamento
Giuridico.
Ciò
è
così
palesemente
vero
che
il
Codice
Civile
afferma
che
lo
status
legale
è
"determinato"
dalla
nascita,
purché
vengano
soddisfatti
i
requisiti
dell'articolo
30,
requisiti
che,
in
base
allo
stesso
articolo,
hanno
effetto
nel
Diritto
Civile.
E'
importante
insistere
su
questo
punto
perché,
per
quanto
riguarda
il
Diritto
Penale,
il
Codice
riconosce
de
facto
lo
status
legale
del
neonato
comminando
delle
pene
a
coloro
che
sono
colpevoli
di
aborto.
Ed
uccidere
un
neonato
entro
le
prime
24
ore,
e
dunque
prima
che
la
personalità
civile
sia
stata
determinata,
costituisce
un
omicidio.
L'aborto
appariva
nella
Rubrica
Crimini
contro
la
Persona
del
Codice
Civile
in
vigore
fino
al
1996
e
costituiva
un
chiaro
riconoscimento
dello
status
di
persona
per
il
nascituro.
Nell'attuale
Codice
questa
dicitura
è
stata
eliminata.
In
base
alla
Convenzione
universale
sui
diritti
dell'infanzia,
il
bambino
è
titolato
ad
avere
la
sua
personalità
legale
dal
momento
della
nascita.
Questa
Dichiarazione
modifica
i
succitati
articoli
29
e
30
perché
è
un
trattato
internazionale
che
la
156
Spagna
ha
ratificato.
Ma
in
pratica,
ai
neonati
non
è
concesso
essere
registrati.
La
loro
personalità
legale
non
è
riconosciuta
perché
ciò
implicherebbe
un
conflitto
nel
caso
di
feti
abortiti
e
nati
vivi
che
vengono
lasciati
morire
con
il
pretesto
che
essi
"non
sono
in
grado
di
vivere",
facendo
ricorso
alle
leggi
35/88
e
42/88.
In
alcune
legislazioni,
come
quella
tedesca
ed
italiana,
il
solo
requisito
per
vedere
riconosciuta
la
personalità
civile
è
quello
di
nascere
vivi.
Accade
così
che
la
donna,
che
intende
rinunciare
al
suo
bambino
per
farlo
adottare,
è
costretta
a
riconoscere
questo
bambino,
registrandolo
a
suo
nome
in
quanto
madre,
ed
aumentando
in
tal
modo
il
rischio
che
lei
opti
per
un
aborto
nel
caso
desiderasse
nascondere
la
sua
gravidanza,
come
prima
è
stato
accennato.
L'ufficio
anagrafico
nazionale
afferma
che
la
precedente
interpretazione
della
legge
che
permetteva
ad
una
madre
di
non
rivelare
la
sua
identità
nella
cartella
clinica
della
nascita
non
è
valida.
La
motivazione
data
è
che
il
bambino
ha
il
diritto
di
conoscere
la
sua
origine
genetica,
un
diritto
che
viene
negato
ai
bambini
di
donatori
anonimi.
Il
fatto
che
il
nasciturus
sia
soggetto
alla
legge
è
dimostrato
da
diversi
articoli
del
Codice
Civile
e
dal
diritto
penale.
Malgrado
tutti
questi
diritti
necessitino
di
un
soggetto,
che
il
codice
legale
stesso
riconosce,
in
alcuni
ambiti
si
dice
che
il
bambino
concepito
ma
non
nato,
non
è
ancora
una
persona
perché
la
personalità
legale
non
è
stata
riconosciuta!
Nell'articolo
16
della
Costituzione
spagnola,
la
libertà
ideologica
e
religiosa
vengono
garantite.
Occasionalmente,
il
conflitto
nasce
tra
certe
norme
religiose
ed
il
diritto
alla
vita.
Negli
ospedali
è
necessario
andare
in
tribunale,
quando
i
genitori,
testimoni
di
Geova,
non
concedono
il
permesso
di
fare
una
trasfusione
di
sangue
che
salverebbe
la
vita
ad
un
minore.
Questo
è
un
esempio
dei
limiti
della
potestà
e
della
tutela
paterna.
Entrambe
devono
essere
esercitate
a
beneficio
del
bambino,
altrimenti
il
diritto
decade.
Tale
è
il
caso
di
embrioni
che
vengono
congelati
in
banche
per
scopi
riproduttivi
e
circa
i
quali
l'autorizzazione
parentale
viene
richiesta
al
fine
di
poterli
utilizzare
nella
sperimentazione.
LEGGI
SPECIFICHE
RELATIVE
ALLE
TECNICHE
BIOMEDICHE(23)
Sull'aborto
e
l'eutanasia
L'aborto
è
ancora
un
crimine
quando
viene
praticato
senza
il
consenso
della
donna
ed
al
di
fuori
dai
casi
contemplati
dalla
legge.Questo
crimine
figurava
nel
Titolo
VIII
Crimini
contro
la
persona
del
Codice
Penale
in
vigore
fino
al
1996.
Nell'attuale
Codice
è
denominato
Sull'aborto
e
la
condizione
di
persona
del
bambino
concepito
ma
non
nato
è
omessa.
All'interno
di
questo
nuovo
Titolo
ci
sono
solo
due
articoli;
l'aborto
commesso
senza
il
consenso
della
donna
e
quello
che
non
rientra
nei
casi
ammessi
dalla
legge.
I
tre
casi
per
la
depenalizzazione
del
precedente
Codice
Penale,
articolo
417,
restano
in
vigore
mediante
un
rapido
adattamento
della
legge
alla
nuova
situazione.
La
pratica
dell'aborto
nei
seguenti
tre
casi
viene
espressamente
dichiarata
non
punibile:
"Serio
pericolo
per
la
vita
e
la
salute
mentale
e
fisica
della
gestante".(24)
"In
caso
di
violenza
carnale",
nelle
prime
12
settimane."Presunzione
che
il
feto
nasca
con
seri
handicap
fisici
o
mentali",
entro
le
prime
22
settimane.La
legge
stabilisce
gli
accertamenti
che
devono
essere
praticati
e
documentati,
l'espresso
consenso
della
donna
in
stato
interessante,
e
richiede
che
l'aborto
venga
effettuato
da
un
dottore
medico,
o
sotto
la
sua
supervisione,
ed
in
centri
pubblici
o
privati
che
siano
autorizzati.L'introduzione
della
dicitura
salute
mentale,
come
motivo
per
la
depenalizzazione,
rende
difficile
determinare
con
precisione
cosa
s'intenda
per
salute
mentale
e
quando
essa
sia
in
pericolo.
Il
risultato
è
stato
quello
di
aprire
la
porta
a
qualunque
tipo
di
aborto.
D'altro
canto,
poiché
non
esiste
limite
di
tempo,
in
caso
di
pericolo
per
la
vita
o
la
salute
della
donna
in
stato
interessante,
molti
bambini
nascono
vivi.
Vengono
lasciati
morire,
facendo
ricorso
alla
legge
35/88,
con
il
pretesto
che
essi
non
sono
in
grado
di
vivere,
che
non
hanno
nessuna
probabilità
di
continuare
a
vivere.
Lo
stato
di
salute
viene
presupposto
e
viene
imposto
un
criterio
soggettivo
che
va
contro
la
realtà
dei
fatti
che
mostra
che
il
neonato
è
vivo.
Le
nascite
dei
157
neonati
non
vengono
registrate
la
qual
cosa
non
è
conforme
a
quanto
stabilito
nella
Dichiarazione
universale
dei
diritti
del
fanciullo,
come
precedentemente
detto.La
sentenza
53/1985,
che
verrà
illustrata
successivamente,
risolve
il
ricorso
per
incostituzionalità
che
allora
fu
intentato
contro
la
depenalizzazione
dell'aborto.
Questa
sentenza,
assieme
alle
due
che
furono
pronunciate
per
risolvere
altri
ricorsi
contro
le
leggi
35/88
e
42/88,
si
spiega
con
l'intento
di
mostrare
la
progressiva
svalutazione
della
vita
umana.L'eutanasia
in
quanto
tale
non
è
presente
nel
nostro
Codice.
L'articolo
143
sezione
4,
concernente
il
reato
di
suicidio
assistito,
descrive
azioni
che
sono
uguali
all'eutanasia
e
la
pena
che
deve
essere
comminata.(25)
Malgrado
le
macchinazioni
di
parte,
tese
ad
ottenere
una
depenalizzazione,
al
momento
attuale
l'eutanasia
è
ancora
considerata
una
condotta
criminosa.
Legge
35/88
sulle
tecniche
di
riproduzione
assistita
Nel
Preambolo
viene
affermato
che
"occorre
garantire
la
libertà
delle
scienze
e
della
ricerca,
in
conformità
con
i
valori
riconosciuti
dalla
Costituzione
come
la
tutela
dell'integrità
fisica
e
della
vita
dell'uomo,
la
capacità
della
persona
malata
di
prendere
decisioni,
e
la
dignità
umana.
L'attività
scientifica,
intrapresa
tenendo
nel
dovuto
conto
le
considerazioni
etiche
e
morali,
è
una
conquista
del
mondo
democratico
e
civile,
in
cui
il
progresso
sociale
ed
individuale
devono
essere
fondate
sul
rispetto
della
dignità
umana
e
la
libertà".Queste
affermazioni
appaiono
molto
attraenti
a
prima
vista.
Ma
il
testo
degli
articoli
dimostra
che
la
parola
dignità
viene
usata
per
dare
prestigio
alla
legge
e
per
predisporre
il
cittadino
a
suo
favore.
Contrariamente
a
quanto
sembra
indicare,
tutto
ciò
che
viene
proclamato
viene
poi
negato
all'interno
degli
articoli
di
legge.
Il
cittadino
comune
non
riesce
a
distinguere
ciò
che
è
permesso
nel
testo
degli
articoli,
perché
ciò
è
celato
in
una
foresta
di
eufemismi.
Le
attività
che
sono
permesse
interferiscono
con
il
diritto
alla
vita
della
persona
e
non
rispettano
la
sua
dignità.
Esse
costituiscono
un'ulteriore
prova
della
manipolazione
della
lingua
a
cui
abbiamo
accennato.A
titolo
d'esempio
possiamo
menzionare
la
scelta
del
sesso
che
è
autorizzata
"per
motivi
terapeutici".
Alcune
malattie,
come
l'emofilia,
colpiscono
solo
i
maschi;
le
femmine
non
soffrono
di
questa
malattia,
ma
la
trasmettono
alle
generazioni
successive.
La
scelta
del
sesso
consiste
nell'eliminare
i
maschi
e
nell'impiantare
nell'utero
della
madre
solo
gli
embrioni
femminili.
Non
c'è
nessuna
funzione
terapeutica
per
la
persona
malata:
non
è
un
atto
medico
perché
non
solo
non
riesce
a
curarla,
ma
la
distrugge...
Non
è
stata
eseguita
nessuna
terapia;
la
comparsa
della
malattia
è
stata
solo
trasferita
alle
future
generazioni.Un
altro
esempio
di
arbitrarietà
viene
alla
luce
sulla
questione
del
diritto
di
ogni
persona
a
conoscere
la
propria
origine
genetica.
In
conformità
con
l'articolo
39
della
Costituzione
ed
il
127
del
Codice
Civile,
i
bambini
hanno
diritto
di
conoscere
la
loro
origine
genetica,
fino
al
punto
di
usare
prove
biologiche.
Questi
due
articoli
costituiscono
un
nuovo
sviluppo
del
nostro
Diritto.
Precedentemente
essi
non
esistevano,
al
fine
di
tutelare
la
famiglia
da
turbamenti
che
potevano
risultare
dal
riconoscere
di
fronte
al
mondo
intero
figli
nati
al
di
fuori
del
matrimonio.
Ora
questo
riconoscimento
è
permesso,
ma
è
negato
a
coloro
che
vengono
concepiti
tramite
la
riproduzione
artificiale,
proteggendo
così
i
donatori
a
detrimento
del
diritto
del
bambino.L'anonimato
dell'identità
del
donatore
è
una
condizione
imposta
da
questa
legge
a
coloro
che
utilizzano
le
tecniche
di
riproduzione
artificiali.
Né
l'anagrafe
consente
alcuna
allusione
che
potrebbe
rivelare
l'identità
del
donatore
o
perfino
le
circostanze
del
concepimento;
la
menzogna
è
stata
istituzionalizzata.
L'articolo
14
della
Costituzione
dichiara
che
tutti
gli
spagnoli
sono
uguali
di
fronte
alla
Legge;
l'articolo
39
garantisce
la
totale
protezione
dei
bambini,
uguali
di
fronte
alla
legge
a
prescindere
dalla
loro
filiazione...
I
bambini
concepiti
mediante
tecniche
di
riproduzione
artificiale
con
un
donatore
anonimo
vengono
discriminati.L'inseminazione/fecondazione
artificiale
con
il
liquido
seminale
di
un
donatore
anonimo
è
previsto
per
le
donne
senza
un
partner
che
poi
danno
alla
luce
un
bambino
senza
158
padre.
La
famiglia
monoparentale,
una
triste
conseguenza
del
divorzio
dei
genitori,
viene
incoraggiata
e
favorita
grazie
a
queste
tecniche.
I
bambini
di
genitori
separati
e
madri
vedove
per
lo
meno
hanno
una
conoscenza
parziale
del
padre:
conoscono
la
sua
identità
e
la
sua
genealogia
che
permette
loro
di
sentirsi
integrati
nel
filum
familiare.
Ma
un'ulteriore
difficoltà
per
i
bambini
concepiti
da
donatori
anonimi
è
che
ad
essi
manca
un
riferimento
paterno
o
materno
(se
sono
il
prodotto
di
una
donazione
di
ovulo).
Peraltro,
il
rischio
di
unioni
tra
consanguinei
non
è
stato
del
tutto
valutato.È
l'articolo
13.2
che
più
chiaramente
e
indiscutibilmente
interferisce
con
la
dignità
ed
i
diritti
fondamentali
della
persona.
"Nell'utero
qualunque
intervento
sull'embrione
o
sul
feto
vivo
o
sul
feto
in
grado
di
vivere
fuori
dall'utero
avrà
solo
un
intento
terapeutico,
quello
di
favorire
il
suo
benessere
ed
agevolare
il
suo
sviluppo".
Si
deve
dare
un'interpretazione
a
sensu
contrario
ed
eliminare
gli
eufemismi
per
cogliere
il
vero
significato
di
questo
articolo.
Esso
autorizza
l'utilizzo
di
feti
vivi
fuori
dall'utero
per
scopi
terapeutici
che
non
favoriscono
il
loro
benessere
se
essi
non
sono
considerati
in
grado
di
vivere,
ad
esempio
trapiantando
i
loro
organi
a
beneficio
di
terze
parti.
La
Sentenza
che
ha
risolto
il
ricorso
di
incostituzionalità
contro
questa
legge
sarà
oggetto
di
una
disamina
più
dettagliata
nel
corso
del
presente
articolo.
Legge
42/1988
sulla
donazione
e
l'uso
di
embrioni
e
feti
umani,
o
delle
loro
cellule,
dei
loro
tessuti
o
dei
loro
organiSulla
stessa
linea
della
legge
precedente,
in
conformità
con
l'articolo
5.4,
"I
feti
espulsi
prematuramente
e
spontaneamente,
e
considerati
biologicamente
capaci
di
vivere,
saranno
trattati
all'unico
scopo
di
favorirne
lo
sviluppo
e
l'autonomia
di
vita".
A
sensu
contrario,
i
feti
non
in
grado
di
vivere
non
saranno
trattati
clinicamente
con
l'unico
scopo
di
favorirne
lo
sviluppo
e
l'autonomia
di
vita:
saranno
lasciati
morire.Nel
capitolo
che
si
occupa
delle
violazioni
e
delle
sanzioni,
l'art.
9.e
considera
che
la
sperimentazione
che
utilizza
embrioni
o
feti
vivi
costituisce
una
violazione
molto
seria,
a
meno
che
essi
non
siano
in
grado
di
vivere
al
di
fuori
dell'utero
e
la
sperimentazione
su
di
essi
sia
stata
approvata
dalle
pertinenti
autorità
pubbliche
o,
se
precedentemente
stabilito
da
regolamento,
dalla
Commissione
Nazionale
(che
non
è
stata
costituita).Nel
risolvere
i
ricorsi
di
incostituzionalità
contro
queste
leggi,
la
Corte
Costituzionale
non
ha
considerato,
stranamente,
che
i
succitati
articoli
erano
incostituzionali,
ovverosia
non
ha
considerato
che
questi
articoli
erano
contrari
al
diritto
alla
vita
tutelato
dall'articolo
15
della
Costituzione
spagnola.
E'
importante
considerare
che
qui
non
abbiamo
a
che
fare
con
embrioni
'in
vitro'
o
bambini
concepiti
e
non
nati,
ma
con
neonati.Regio
Decreto
413/1996
del
1
marzo,
relativo
ai
requisiti
dei
centri
e
dei
servizi
sanitari
connessi
alle
tecniche
di
riproduzione
assistitaQuesta
norma
stabilisce
i
requisiti
operativi
e
tecnici
necessari
per
l'autorizzazione
e
la
uniformazione
dei
centri
e
dei
servizi
sanitari
connessi
alle
tecniche
di
riproduzione
assistita.A
giudicare
dal
suo
titolo,
questo
decreto
fa
riferimento
ad
aspetti
amministrativi,
ma
in
verità
regola
niente
di
meno
che
la
donazione
di
gameti
ed
embrioni
con
una
chiara
mancanza
di
precisione
grammaticale
e
terminologica.Riguardo
agli
embrioni,
all'articolo
12.a
si
afferma
"Essi
non
verranno
utilizzati
a
scopo
di
fecondazionein
vitro
in
un'altra
donna
che
non
sia
quella
della
coppia,
a
meno
che
l'uomo
e
la
donna
concordino
la
donazione
per
iscritto..."
Questo
requisito
dell'autorizzazione
da
parte
dell'uomo
non
viene
stabilito
in
caso
di
aborto,
sebbene
il
bambino
concepito
sia
già
impiantato
nella
donna,
sia
più
sviluppato
e
più
capace
di
vivere.
Questo
permesso
non
viene
richiesto
neanche
quando
si
afferma
che
la
"sola
possibile
alternativa"
per
i
quasi
300.000
embrioni
congelati
è
di
distruggerli
e
di
usarli
per
la
ricerca...Ogni
immaginabile
difficoltà
viene
creata
per
impedire
l'impianto
in
un'altra
donna
che
porterà
la
gravidanza
a
termine,
sebbene
ciò
sia
consentito
per
legge
e
ci
sia
una
lista
di
donne
disposte
all'adozione
prenatale.
159
GIURISPRUDENZA
DELLA
CORTE
COSTITUZIONALE
SPAGNOLA
Sentenze
della
Corte
Costituzionale
sul
diritto
alla
vita
nelle
sue
fasi
iniziali.
In
Spagna
ci
sono
tre
sentenze
che
sono
dirette
a
dirimere
tre
ricorsi
di
incostituzionalità
riguardo
lo
status
giuridico
del
bambino
concepito
ma
non
nato.
Devo
annotare
che
in
nessuno
dei
tre
ricorsi
è
stata
presentata
una
prova
biologica,
da
parte
di
periti,
per
provare
la
natura
biologica
dell'essere
concepito
ma
non
nato
dal
momento
del
concepimento.
Nessun
esperto
in
medicina,
embriologia
o
biologia
è
stato
convocato
per
provare
la
condizione
di
essere
umano
dal
momento
in
cui
l'ovulo
è
stato
fecondato.
La
Corte
Costituzionale
ha
emesso
la
sua
sentenza
da
prospettive
che
non
hanno
tenuto
conto
del
punto
di
vista
biologico
dell'inizio
della
vita
perché
nessuna
affermazione
solenne,
rapporto,
o
nuova
informazione
di
qualsiasi
genere
è
stata
addotta
che
avrebbe
potuto
far
crescere
la
consapevolezza
ed
illuminare
i
magistrati.La
sentenza
53/1985
risolve
un
ricorso
presentato
contro
la
Legge
Organica
9/1985
del
5
luglio
che
depenalizzava
l'aborto
volontario
in
alcune
circostanze.
La
sentenza
212/1996
risolve
quello
contro
la
Legge
42/1988
Sulla
donazione
di
embrioni,
delle
loro
strutture
e
cellule.
La
sentenza
116/1999
si
occupa
della
Legge
35/1988
Sulle
tecniche
di
riproduzione
assistita.
Sentenza
53/1985
Questa
sentenza
stabilisce
un'interpretazione
del
diritto
alla
vita
come
contenuto
nell'articolo
15
della
Costituzione
spagnola.
Nella
ratio
desidendi
n°
5
si
fa
rilevare
che
"la
vita
umana
è
un
lento
processo
di
sviluppo
che
inizia
con
la
gestazione
durante
la
quale
una
realtà
biologica
gradualmente
prende
forma
corporea
e
conformazione
umana
e
che
termina
con
la
morte"
la
vita
del
nasciturus,
in
quanto
incarna
un
valore
fondamentale
(la
vita
umana)
garantito
dall'articolo
15
della
Costituzione
spagnola,
costituisce
un
valore
legalmente
tutelato
conformemente
al
suddetto
precetto
costituzionale...
Questa
tutela
comporta
due
obblighi
per
lo
Stato;
quello
di
astenersi
dall'interrompere
od
ostacolare
il
processo
naturale
di
gestazione
e
quello
di
istituire
una
struttura
legale
che
tuteli
efficacemente
la
vita
e
che,
considerata
la
natura
fondamentale
della
vita,
includa
norme
penali".Come
si
può
osservare,
in
questa
sentenza
la
Corte
riafferma
la
tutela
del
nasciturus
fino
al
punto
da
collegarla
all'articolo
15
che
è
il
primo
tra
i
diritti
fondamentali
e
le
libertà
pubbliche
della
Costituzione
spagnola
ed
in
base
al
quale
"tutti
hanno
diritto
alla
vita".
Ma
è
considerato
semplicemente
un
valore
legalmente
tutelato.
Questa
sentenza
risolve
la
questione
dell'aborto
nel
caso
di
conflitto
tra
la
madre
ed
il
feto,
dando
la
priorità
alla
madre.
In
un
certo
senso,
è
come
se
l'esonero
derivante
dalla
necessità
venisse
applicato
in
modo
molto
permissivo.
Il
problema
diviene
chiaro
quando
consente
l'aborto
di
embrioni
e
feti
con
seri
difetti
fisici,
promuovendo
in
tal
modo
l'eutanasia.
Sentenza
212/1996
La
sentenza
della
Corte
Costituzionale
segna
un
cambiamento
di
direzione
nel
modo
di
considerare
il
valore
della
vita
umana
accordando
meno
tutela
rispetto
alla
sentenza
precedente.
La
gerarchia
dei
valori
viene
alterata
imponendo
il
criterio
della
vitalità
(la
probabilità
della
vita
di
continuare
al
di
là
del
fatto
che
il
bambino
sia
vivo).
La
sentenza
prende
in
considerazione
il
succitato
articolo
5.4
ritenendolo
conforme
alla
legge.
"I
feti
espulsi
prematuramente
e
spontaneamente,
e
considerati
biologicamente
vitali
saranno
trattati
clinicamente
con
l'unico
scopo
di
favorirne
lo
sviluppo
e
l'autonomia
di
vita".
Da
ciò
si
può
arguire
che
un
feto
nato
vivo
che
non
sia
considerato
capace
di
vivere
non
avrà
il
diritto
ad
essere
trattato
clinicamente
allo
scopo
di
favorirne
lo
sviluppo
e
l'autonomia
di
vita;
non
avrà
nessun
diritto
alla
vita.
Occorre
considerare
che
qui
non
abbiamo
a
che
fare
con
un
nasciturus,
come
specificato
160
precedentemente.Vale
la
pena
soffermarsi
ad
esaminare
il
significato
di
vitalità
perché
è
un
criterio
che
è
stato
imposto
al
fine
di
giustificare
la
distruzione
di
embrioni
e
l'utilizzo
di
embrioni
e
feti
a
scopo
di
sperimentazione.
Si
deve
ricordare
che,
in
conformità
con
la
prima
Clausola
supplementare
sezione
e)
della
Legge
42/1988,
il
Governo
avrebbe
dovuto
istituire
entro
sei
mesi
dalla
promulgazione
di
questa
legge,
"I
criteri
di
vitalità
o
di
mancanza
di
vitalità
del
feto
fuori
dall'utero
con
effetto
su
questa
legge".
Il
Governo
non
ha
annunciato
nessun
tipo
di
criterio,
ma
anche
se
l'avesse
fatto,
quando
abbiamo
a
che
fare
con
un
feto
nato
vivo,
la
vitalità
è
semplicemente
una
prognosi,
non
è
un
criterio
oggettivo;
è
un'opinione
soggettiva
che
viene
proiettata
su
un
futuro
incerto.
Se
la
vitalità
viene
giudicata
dal
grado
di
maturità
del
neonato
nato
vivo
non
esiste
nessun
parametro
applicabile
per
tale
misurazione.
La
prognosi
in
medicina
si
basa
su
dati
statistici
e
questi
cambiano
a
seconda
dei
progressi
tecnologici.
Oggi,
bambini
che
non
pesano
più
di
500
grammi
alla
nascita
sopravvivono,
cosa
che
sarebbe
stata
inimmaginabile
fino
ad
alcuni
anni
fa.
La
prognosi
si
contrappone
alla
diagnosi
che
è
la
registrazione
di
un
evento
esistente,
non
la
futura
incertezza
della
prognosi,
ma
una
situazione
effettiva
che
può
essere
verificata
dal
dottore.
Nel
caso
di
un
feto
nato
vivo,
non
è
necessaria
neanche
l'opinione
di
un
professionista
perché
la
prova
del
fatto
che
sia
vivo
si
può
semplicemente
constatare.
Come
il
Magistrato
Gabaldón
ha
dichiarato:
"se
la
vita
deve
essere
tutelata,
la
sola
condizione
di
esclusione
sarà
quella
che
non
c'è
più
vita
nell'organismo".C'è
differenza
tra
un
feto
nato
vivo
ed
un
bambino
prematuro?
Una
tale
differenza
non
esiste.
Né
il
nostro
codice
legale,
né
la
Convenzione
delle
Nazioni
Unite
sui
diritti
dell'infanzia
-‐
sottoscritta
da
157
paesi
inclusa
la
Spagna
-‐
stabiliscono
una
tale
distinzione,
anzi
è
vero
il
contrario.
La
summenzionata
Convenzione
richiede
il
riconoscimento
della
personalità
legale
per
il
bambino
nato
vivo
sin
dal
momento
della
sua
nascita,
senza
porre
alcun
limite
di
peso
o
periodo
di
gestazione.
Dal
momento
che
è
un
trattato
internazionale
è
prioritario
rispetto
all'articolo
30
del
Codice
Civile
che
richiede
che
il
bambino
viva
24
ore
fuori
dall'utero
per
poterne
riconoscere
la
personalità
legale,
come
affermato
prima.La
sentenza
sostiene
che
la
legge
contro
cui
è
stato
fatto
ricorso
è
essenzialmente
conforme
alla
Costituzione.
Una
volta
che
le
gerarchia
dei
valori
è
stata
alterata
e
la
vitalità
viene
prima
del
diritto
alla
vita
non
è
difficile
azzardare
che
la
porta
per
l'eutanasia
sia
stata
aperta.
Perché
non
applicare
questo
criterio
ai
malati
anche
se
non
sono
necessariamente
malati
terminali
o
a
quelli
non
esclusivamente
in
età
molto
avanzata?
Sentenza
116/1999
Questa
sentenza
risolve
il
ricorso
contro
la
Legge
35/1988
sulle
tecniche
di
riproduzione
assistita.
La
Corte
Costituzionale
non
prende
in
considerazione
i
punti
essenziali
del
ricorso.
Insiste
nel
mettere
la
salute
e
la
vitalità
prima
del
diritto
alla
vita.
La
ratio
desidendi
n°
11
ammette
l'utilizzo
degli
esseri
umani
a
fini
di
ricerca
e
di
sperimentazione
scientifica;
afferma
che
"pre-‐embrioni
che
non
sono
stati
impiantati
(...)
non
sono
esseri
umani,
e
pertanto
il
fatto
che
dopo
un
determinato
periodo
di
tempo
essi
siano
a
disposizione
delle
banche
non
può
essere
considerato
contrario
al
diritto
alla
vita
(articolo
15
della
Costituzione
spagnola)
o
alla
dignità
umana
(articolo
10.1
della
Costituzione
spagnola)".La
sentenza
afferma
anche
che
i
pre-‐
embrioni
in
vitro
non
hanno
la
stessa
tutela
di
quelli
che
sono
stati
trasferiti
nell'utero.
È
possibile
sconsigliare
il
loro
trasferimento
nell'utero
(per
distruggerli)
se
sono
portatori
di
malattie
ereditarie.
La
Corte
Costituzionale
ha
"risolto"
la
polemica
sul
destino
di
questi
embrioni
congelati
dichiarando
che
l'embrione
che
non
è
stato
impiantato
non
è
né
una
vita
umana,
né
una
persona
e
non
ha
diritto
alla
vita.
Allora,
sembra
che
non
esista
neanche;
deve
essere
un
"embrione
virtuale".
La
sentenza
afferma
che
"usare
questi
embrioni
a
scopo
di
sperimentazione
non
è
pertanto
una
violazione
dei
loro
diritti"
(perché
nega
che
essi
abbiano
tali
diritti).
Dunque,
i
pre-‐embrioni
sono
tutelati
meno
di
quanto
lo
siano
quelli
già
impiantati,
ma
anche
questi
ultimi,
161
che
sono
già
nell'utero,
possono
essere
distrutti,
se
sono
portatori
di
malformazioni.L'aspetto
più
serio
di
questa
sentenza
è
che
considera
l'articolo
13.2
della
legge
35/88
conforme
alla
Costituzione.
Di
nuovo,
si
può
arguire
che
i
feti
nati
vivi
fuori
dall'utero
(neonati)
che
non
sono
considerati
vitali
possono
essere
utilizzati
per
altri
scopi
terapeutici
che
non
favoriscono
il
loro
benessere;
cioè,
utilizzare
i
loro
organi
e
le
loro
strutture
per
trapianti,
o
per
produrre
medicine.Il
criterio
di
vitalità
non
è
stato
definito,
il
che
porta
a
ritenere
che
possa
riferirsi
al
grado
di
maturità
e
non
a
feti
acefali
con
deformità
teratologiche.Coloro
che
hanno
fatto
ricorso
non
hanno
presentato
nessuna
prova
che
avrebbe
potuto
aiutare
la
Corte,
e
non
hanno
neanche
menzionato
la
raccomandazione
1100
del
Consiglio
d'Europa.
L'articolo
13.3
della
Legge
35/88,
l'oggetto
di
questa
sentenza,
rimane
in
vigore;
non
è
stato
dichiarato
incostituzionale.
Lascia
la
porta
aperta
alla
legalizzazione
della
sperimentazione
su
feti
nati
vivi
che
non
siano
considerati
vitali
a
causa
del
loro
grado
di
maturità,
ma
che
sono,
a
tutti
gli
effetti,
neonati
il
cui
diritto
alla
vita
è
indiscutibile.Che
tutela
rimane
per
gli
embrioni
in
vitro
o
per
quelli
congelati?
Vi
prego
di
notare
che
il
pretesto
di
considerare
se
sia
una
persona
o
meno,
se
si
trovi
nell'utero
o
no,
sono
solo
sottili
distinzioni
che
in
ogni
caso
vengono
superate
dal
criterio
di
vitalità
che
è
un
criterio
soggettivo
che
si
applica
anche
al
feto,
anche
a
quello
nato
vivo,
ed
in
questo
ultimo
caso
fa
riferimento
a
qualcosa
di
impreciso,
variabile
e
dipendente
dai
progressi
tecnologici,
come
nel
caso
del
grado
di
maturità
SULLA
CLONAZIONE
UMANA
La
clonazione
costituisce
una
violazione
del
diritto
alla
vita
in
senso
profondamente
umano
perché
interferisce
con
l'identità
e
l'unicità
della
persona,
senza
tener
conto
del
grande
numero
di
embrioni
che
vengono
perduti
nei
tentativi
di
clonazione.
La
summenzionata
Legge
35/88
proibisce
qualunque
tipo
di
clonazione,
ma
il
nuovo
Codice
Penale,
articolo
161,
punisce
solo
la
creazione
di
esseri
umani
identici
a
scopo
di
selezione
razziale.
Da
ciò
si
può
dedurre
che
la
clonazione
non
costituisce
un
reato
a
condizione
che
non
sia
a
scopo
di
selezione
razziale.
In
questo
caso
specifico
si
è
fatto
un
passo
indietro
rispetto
alla
tutela
garantita
dalla
Legge
35/88.
In
ogni
caso
si
deve
ricordare
che
la
Spagna
ha
ratificato
l'Accordo
del
Consiglio
d'Europa
sulla
Biomedicina
che
respinge
qualunque
tipo
di
clonazione,
specialmente
nel
suo
Protocollo.È
molto
interessante
riflettere
sui
punti
stabiliti
nella
Risoluzione
del
parlamento
europeo
sulla
clonazione
umana.(26)Si
fa
riferimento
all'embrione
come
vita
umana
sin
dai
suoi
primi
momenti
(pre-‐
embrione).
Si
ritiene
che
abbia
dignità
e
che
sia
degno
di
protezione
e
tutela,
e
che
la
sua
distruzione
vada
contro
le
norme
morali.C'è
una
reazione
alla
manipolazione
della
lingua
"una
nuova
strategia
semantica
che
cerca
di
indebolire
la
portata
morale
della
clonazione
umana".Mette
in
evidenza
che
queste
tecniche
sono
contrarie
all'ordine
ed
alla
moralità
pubblica,
e
che
la
clonazione
è
un
attacco
ai
principi
morali
vigenti
in
Europa.In
nessun
punto
si
fa
riferimento
a
norme
religiose
o
a
dogmi
di
fede,
solo
dignità,
moralità
ed
ordine
pubblico.Si
rivolge
ai
Membri
del
Parlamento
del
Regno
Unito
affinché
votino
secondo
le
proprie
coscienze
e
non
si
facciano
influenzare
da
cause
esterne.
In
questo
modo
dimostra
che
la
verità
può
essere
trovata
nella
coscienza
dell'individuo.Considera
che
i
diritti
umani
ed
il
rispetto
della
dignità
e
della
vita
umana
devono
essere
un
costante
scopo
della
politica
legislativa
dei
governi.
162
CONCLUSIONI
Chi
beneficia
della
degradazione
dell'essere
umano?
Come
si
può
osservare,
atteggiamenti
permissivi
o
anche
un
chiaro
sostegno
alla
sperimentazione,
alla
distruzione
degli
embrioni
umani,
all'aborto,
alla
riproduzione
artificiale,
e
all'eutanasia
appartengono
a
determinati
gruppi
politici.
Se
ci
fermiamo
a
chiederci
quali
benefici
si
ottengano
si
potrà
facilmente
notare
che
gli
interessi
economici
sono
al
primo
posto.
Gli
affari
in
questo
campo
muovono
enormi
quantità
di
denaro,
il
che
li
rende
tra
i
più
remunerativi
in
Europa.
Ma
esistono
anche
motivi
politici
che
promuovono
tali
affari.
Coloro
che
difendono
queste
posizioni
permissive
costantemente
alludono
ai
diritti,
alla
libertà
personale,
mai
alla
responsabilità
o
all'impegno;
l'immediato
soddisfacimento
del
desiderio
personale
viene
legittimato.La
soluzione
non
è
quella
di
continuare
a
stilare
altre
Dichiarazioni
di
diritti
umani,
sebbene
sia
un
bene
fare
questo.
Per
migliorare
la
situazione
queste
dichiarazioni
devono
essere
accompagnate
da
un'adeguata
informazione
e
formazione
rivolta
a
tutti
coloro
che
hanno
un
qualche
potere
e
influenza
nella
società,
come
politici,
magistrati,
giornalisti,
insegnanti.
Questo
è
particolarmente
importante
per
i
giovani
che
rappresentano
la
nostra
speranza
per
il
futuro.La
lista
dei
diritti
umani
si
allunga
ogni
giorno
di
più,
ma
questo
aumento
finisce
con
lo
sminuire
la
portata
di
questi
stessi
diritti
perché
li
diluisce
in
un
mare
di
buone
intenzioni.
Oggi,
l'uomo
ha
tutti
i
diritti
immaginabili,
ma
quelli
che
in
realtà
sono
oltraggi
e
violazioni
al
vero
significato
della
dignità
umana
diventano
diritti,
o
viene
richiesto
il
loro
riconoscimento
come
diritti.
Si
può
osservare
che
la
concessione
di
questi
presunti
diritti
porta
sempre
al
danneggiamento
di
qualcun
altro:
gli
esseri
umani
vittime
dell'aborto,
i
bambini
adottati
da
omosessuali,
i
bambini
di
donne
sole
concepiti
da
un
donatore
anonimo,
gli
embrioni
umani
distrutti
a
scopo
terapeutico.Il
17
novembre
una
sentenza
della
Corte
Suprema
francese
ha
suscitato
una
grande
polemica
a
cui
ha
fatto
seguito
un
vivace
dibattito
perché
è
stata
interpretata
come
il
riconoscimento
del
paradossale
diritto
a
non
nascere,
un
autentico
parossismo
dei
diritti
umani.Come
è
risaputo,
malgrado
le
solenni
Dichiarazioni,
i
diritti
fondamentali,
di
fatto,
vengono
troppo
frequentemente
violati.
Ma
l'attuale
situazione
è
più
grave
perché
le
leggi
e
le
sentenze
che
ho
commentato
stanno
istituzionalizzando
queste
violazioni.
Non
sono
vere
norme
giuridiche.
Possiamo
considerare
leggi
solo
quelle
che
sono
inscritte
nell'ordine
naturale.
163
(1)
Legaz
Y
Lacambra
L.,
La
noción
jurídica
de
la
persona
humana
y
los
derechos
de
hombre,
in
Revista
de
Estudios
Políticos,
Madrid,
155,
p.
45.
(2)
Bodin,
J.,
Expose
du
Droit
universel,
Parigi,
Presses
Universitaires
de
France,
1985,
p.
17.
(3)
4
Cfr.
Wieacker
F.,
Historia
del
Derecho
Privado
en
la
Edad
Moderna,
Madrid,
Aguilar,
1957,
p.
249.
(4)
"Quod
natura
omnia
animalia
docuit",
Cd.
Ulpiano,
Digesto,
1,
1,
1,
S3.
(5)
Cfr.
Millán
Puelles
A.,
Léxico
Filosófico,
Madrid,
Rialp,
1984,
pp.
223-‐224.
(6)
Robles
G.,
Los
derechos
fundamentales
y
la
ética
en
la
sociedad
actual,
Madrid,
Civitas,
1992,
p.
37.
(7)
Jellinek
G.,
Savigny,
Stahk
seguono
questa
teoria.
Jelline
nega
l'origine
roussoniana
della
Dichiarazione
dei
diritti
dell'uomo
e
del
cittadino
del
1789,
ponendo
l'origine
nella
Riforma
più
concretamente
nel
Will
of
Right
delle
colonie
americane,
(JELLINE
K.E.,
BOUTMY
E.
ET
AL.,
Orígenes
de
la
Declaración
de
Derechos
del
Hombre
y
del
Ciuddano,Madrid:
Editor
Nacional,
1984:
18.
La
posizione
di
Jelline
è
chiaramente
positivista,
rifiuta
esplicitamente
la
legge
naturale
come
fondamento
dei
diritti
umani.
(8)
Cfr.
Fernández
Galiano
A.,
Lecciones
de
Teoría
del
Derecho
y
Derecho
Natural,
Madrid,
Universitas,
1993,
p.
397.
(9)
Cfr.
Hernández
Gil
A.,
Metodología
de
la
ciencia
del
Derecho,
Madrid,
Antonio
Hernández
Gil,
1971,
p.
89.
(10)
Vila-‐Coro
M.D.,
Introducción
a
la
Biojurídica,
Madrid,
Universidad
Complutense
de
Madrid,
1995,
pp.
173-‐ss.
(11)
Lucas
Lucas
R.,
¿Cuándo
se
inicia
la
persona
humana?
Individualidad
biológica
y
existencia
personal,
in
Lopez
Barahona
M.,
Lucas
Lucas
R.,
El
inicio
de
la
vida,
Madrid,
B.A.C.,
1999,
p.
92.
(12)
Sentenza
n.
53
dell'11
aprile
1985.
(13)
González
Pérez
J.,
La
Dignidad
de
la
Persona,
Madrid,
1986,
pp.
84-‐86.
(14)
Il
Genoma
Umano
e
l'UNESCO.
Il
Comitato
internazionale
di
Bioetica
dell'UNESCO,
istituito
dal
Direttore
Generale
Prof.
Federico
Mayor
Zaragoza,
ha
ideato
la
prima
Dichiarazione
Universale
sul
Genoma
Umano
e
sui
Diritti
Umani
in
cui
viene
dichiarata
l'inviolabilità
del
genoma
umano.
É
il
primo
strumento
universale
nel
campo
della
biologia.
Questa
dichiarazione
è
stata
approvata
all'unanimità
e
plaudita
dalla
Conferenza
Generale
nel
corso
della
sua
XXIX°
sessione.
Costituisce
il
primo
strumento
universale
in
campo
biologico.
La
Conferenza
Generale
delle
Nazioni
Unite
ha
accluso
una
risoluzione
applicativa
a
questa
Dichiarazione,
in
cui
si
chiedeva
agli
Stati
Membri
di
prendere
misure
adeguate
al
fine
di
promuovere
i
principi
in
essa
contenuti
e
di
incoraggiare
la
loro
applicazione.
L'impegno
morale
preso
dagli
Stati
nell'adottare
questa
Dichiarazione
è
un
punto
di
partenza:
mostra
una
consapevolezza
a
livello
mondiale
circa
la
necessità
di
una
riflessione
etica
relativa
alla
scienza
e
alle
tecnologie.
Il
Direttore
(UNESCO,
ICB
Noordwijk
La
Haya
dicembre
1998)
ha
messo
in
evidenza
che
la
più
grande
sfida
del
prossimo
millennio
ha
una
portata
etica.
È
un
punto
di
riferimento
per
le
Nazioni,
come
l'Assemblea
Generale
delle
Nazioni
Unite
ha
riconosciuto
nell'approvare
questa
Dichiarazione.
L'articolo
2
afferma:
"Ogni
individuo
ha
il
diritto
al
rispetto
della
sua
dignità
e
dei
suoi
diritti
qualunque
siano
le
sue
caratteristiche
genetiche".
Questa
dignità
impedisce
che
gli
individui
vengano
ridotti
alle
loro
caratteristiche
genetiche
e
garantisce
che"
il
carattere
unico
e
la
diversità
di
ognuno
vengano
rispettati".
È
mia
opinione
che
il
genoma
umano
debba
essere
definito
prendendo
in
considerazione
l'ambiente
prenatale
quale
elemento
costitutivo
a
motivo
della
sua
estrema
importanza
nel
determinare
il
modo
in
cui
i
geni
vengono
espressi.
164
(15)
Tuck
R.,
Natural
right
theories.
Their
origin
and
development,
Cambridge
University
Press,
1979,
capitolo
1.
(16)
Romeo
Casabona
C.,
El
Derecho
y
la
Bioética
ante
los
límites
de
la
vida
humana,
Madrid,
Ceura,
1996,
p.
66.
(17)
Recasens
Siches
L.,
Filosofía
del
Derecho,
Messico,
Porrúa,
1961,
p.
559.
(18)
Ortega
Y
Gasset
J.,
Qué
es
filosofía,
in
Obras
completas,
Madrid,
Alianza
Editorial,
1983,
Vol.
VII,
p.
425.
(19)
In
Spagna,
la
prima
legge
sulla
Tutela
dell'Ambiente
è
stata
promulgata
nel
1972.
(20)
Vedi
Vila-‐Coro
M.D.,
Huérfanos
Biológicos,
el
hombre
y
la
mujer
ante
la
reproducción
artificial,
Madrid,
San
Pablo,
1997,
pp.
59-‐66.
(21)
Rodriguez
Delgado
J.M.,
La
mente
del
niño,
cómo
se
forma
y
cómo
hay
que
educarla,
Madrid,
Aguilar,
2001,
pp.
46-‐47.
(22)
Fernández
De
Buján
F.,
La
vida
Principio
rector
del
derecho,
Madrid,
Dykinson,
1999.
(23)
La
Legge
Organica
10/1995
del
23
novembre
specifica
i
crimini
per
danno
al
feto:
articoli
157
e
158
del
Codice
Penale
Titolo
IV.
(24)
Questo
primo
caso
è
stato
sempre
in
vigore
in
conformità
col
l'articolo
20.5
del
Codice
Penale
che
esenta
da
responsabilità
penali
la
persona
che,
in
uno
stato
di
necessità
per
prevenire
danni
per
sé
o
per
un'altra
persona,
lede
o
danneggia
i
diritti
legali
di
un'altra
persona
o
contravviene
ad
un
dovere,
a
condizione
che
certi
requisiti
vengano
rispettati.
(25)
Art.143.2:
"La
persona
che
coopera
in
atti
indispensabili
per
il
suicidio
sarà
condannato
a
due
o
tre
anni
di
prigione".
Art.
143.3:
"Se
la
cooperazione
arriva
al
punto
di
causare
la
morte
la
pena
andrà
da
sei
a
dieci
anni".
(26)
PARLAMENTO
EUROPEO,
Risoluzione
sulla
Clonazione
Umana,
(8settembre
2000).
165
CARLO
CAFFARRA
STATUS
QUAESTIONIS
Vorrei
in
primo
luogo
porre
nel
modo
più
preciso
la
domanda
alla
quale
cercherò
nelle
pagine
seguenti
di
dare
una
risposta.
Un
poeta
italiano
scrisse:
"dal
dì
che
nozze,
tribunali
ed
are
dieron
all'umane
belve
d'essere
gentili".
Egli
esprime
una
convinzione
pacificamente
posseduta
da
ogni
popolo
e
presente
in
ogni
cultura:
il
matrimonio,
l'amministrazione
della
giustizia
e
la
religione
segnano
il
passaggio
dal
regno
animale
al
regno
umano.
Gli
animali
non
si
sposano,
non
hanno
tribunali
e
non
costruiscono
templi.
Dunque,
anche
il
matrimonio
e
la
sua
espansione
nella
famiglia
è
un
fattopropriamente
umano:
propriamente
ed
esclusivamente.
La
nostra
presente
riflessione
si
propone
di
individuare
il
significato
preciso
del
"propriamente
ed
esclusivamente
umano"
che
definisce
il
contenuto
dell'istituzione
matrimoniale
e
familiare.
La
domanda
cioè
potrebbe
essere
formulata
almeno
in
prima
battuta
nel
modo
seguente:
in
che
cosa
consiste
l'humanum
del
matrimonio?
Così
formulata
,
la
domanda
sembrerebbe
subalterna
ad
un'altra
domanda,
più
radicale:
in
che
cosa
consiste
l'humanumdella
persona
umana
come
tale?
Il
problema
su
cui
stiamo
riflettendo
ci
porta
dentro
al
grande
dibattito
antropologico
che
ha
caratterizzato
il
percorso
teoretico
della
modernità,
fino
ai
suoi
esisti
nichilisti.
Ed
infatti
tale
percorso
si
è
ripercosso
puntualmente
nella
concezione
del
matrimonio
e
della
famiglia,
fino
all'esito
attuale.
Se
la
definizione
dell'humanum
è
esaustivamente
riconducibile
alla
sua
libertà;
se
quella
definizione
è
opera
della
libertà
stessa,
ne
consegue
che
l'humanitas
del
matrimonio
è
il
suo
essere
semplicemente
e
puramente
creazione
della
libertà
umana:
creato
...
ex
nihilo
sui
et
subiecti,
in
un
certo
senso.
L'introduzione
dentro
alle
legislazioni
europee
del
riconoscimento
delle
coppie
omosessuali;
l'attribuzione
a
queste
o
ai
singoli
del
diritto
di
procreare
(in
vitro!)
o
di
adottare
è
la
traduzione
giuridica
di
questa
prospettiva.
Ma
la
stessa
vicenda
teoretica
e
pratica
della
riduzione
della
verità
intera
dell'uomo
alla
sua
libertà
può
anche
essere
letta
e
compresa
da
un
altro
punto
di
vista,
quello
che
parallelamente
e
consequenzialmente
espunge
la
corporeità
dalla
costituzione
della
persona
umana.
Alla
luce
di
questa
espulsione,
la
diversità
dei
sessi
e
la
procreazione
in
quanto
conseguenza
della
loro
unità
apparterrebbero
alla
dimensione
biologica,
non
propriamente
umana
(del
matrimonio
della)
della
persona
umana:
la
procreazione
può
essere
sostituita
legittimamente
dai
procedimenti
artificiali
procreativi;
la
comunità
coniugale
fondata
sulla
diversità
dei
sessi
può
essere
sostituita
legittimamente
dalla
comunità
"coniugale"
omosessuale.
Che
cosa
resta?
Quale
"residuo
di
humanum"
permane
in
questa
prospettiva?
La
visione
del
matrimonio
come
"relazione
pura".
E'
ciò
che
ha
espresso
A.
Giddens
per
esempio
in
un'opera
del
1992.
(1)
Il
vissuto
coniugale
in
quanto
vissuto
umano
assume
la
figura
di
una
contrattazione
fra
due
ricerche
di
felicità
individuale
che
possono
anche
scontrarsi,
in
cui
l'unica
condizione
decisiva
è
"la
parità
dei
conti
nel
dare
e
nell'avere"
(2).
Il
matrimonio
è
sempre
più
un
fatto
"privato-‐
soggettivo":
un
puro
vissuto
che
la
legge
civile
deve
semplicemente
registrare,
anziché
un
"dover-‐
essere"
che
la
legge
civile
deve
riconoscere.
E
quindi
si
comprende
come
abbiano
potuto
essere
introdotti
modelli
para-‐matrimoniali:
Ley
de
uniones
stables
de
pareja
in
Catalogna
(1998);
Ley
de
parejas
estables
no
casadas
in
Aragona
(1999);
Ley
que
adopta
medidas
de
protecao
de
unido
de
facto
in
Portogallo
(1999);
Pacte
civil
166
de
solidarité
in
Francia
(PACS)
(1999).La
conferma
di
questa
riduzione
tendenzialmente
completa
dell'humanitas
del
matrimonio
e
della
famiglia
ad
una
semplice
negoziazione
delle
parti
la
si
ha
nella
progressiva
giuridizzazione
del
rapporto
genitori-‐figli
e
la
tendenza
ad
ampliare
l'intervento
del
giudice
nella
vita
della
coppia
in
quanto
tutela
dell'individuo.
(3)
In
breve:
da
una
concezione
del
matrimonio
fondato
su
esigenze
di
legge
naturale
si
è
passati
alla
concezione
del
matrimonio
come
fondato
esclusivamente
sul
diritto
di
autodeterminazione
individuale.
Penso
di
non
cadere
in
un
rozzo
semplicismo
teoretico
dicendo
che
lo
status
quaestionis
sotteso
dal
tema:
"Legge
naturale:
matrimonio
e
procreazione"
è
esprimibile
dal
seguente
dilemma:
l'humanitas
della
comunità
coniugale
e
familiare
è
esaustivamente
riconducibile
alla
libera
autodeterminazione
degli
individui
oppure
essa
ha
un
suo
contenuto
che
si
impone
alla
libera
autodeterminazione
degli
individui
come
la
verità
si
impone
alla
libertà?
Un'ultima
premessa.
Non
affronto
la
questione
dal
punto
di
vista
generale,
poiché
lo
fanno
in
sostanza
tutte
le
relazioni
di
questo
Seminario
di
studio.
LA
NATURALITÀ
DEL
MATRIMONIO
Possiamo
dare
inizio
alla
costruzione
della
nostra
risposta,
partendo
dalla
riflessione
su
due
testi
della
Lett.
Enc.
Veritatis
Splendor.
Il
primo
recita:
"Si
può
...
comprendere
il
vero
significato
della
legge
naturale:
essa
si
riferisce
alla
natura
propria
ed
originale
dell'uomo,
alla
natura
della
persona
umana,
che
è
la
persona
stessa
nell'unità
di
anima
e
di
corpo,
nell'unità
delle
sue
inclinazioni
di
ordine
sia
spirituale
che
biologico
e
di
tutte
le
altre
caratteristiche
specifiche
necessarie
al
perseguimento
del
suo
fine"
(4).
E
poco
più
sotto:
"In
realtà
solo
in
riferimento
alla
persona
umana
nella
sua
totalità
unificata,
cioè
anima
che
si
esprime
nel
corpo
e
corpo
informato
da
uno
spirito
immortale,
si
può
leggere
il
significato
specificamente
umano
del
corpo.
In
effetti
le
inclinazioni
naturali
acquistano
rilevanza
morale
solo
in
quanto
si
riferiscono
alla
persona
umana
e
alla
sua
realizzazione
autentica,
la
quale
d'altra
parte
può
verificarsi
sempre
e
solo
nella
natura
umana".
(5).
La
risposta
alla
domanda
sulla
"naturalità"
del
matrimonio
potrebbe
dunque
essere
formulata
nel
modo
seguente:
il
matrimonio
(e
la
procreazione
come
frutto
dell'unione
sessuale
dei
due
sposi)
(6)
si
fonda
sulla
natura
della
persona
umana,
in
quanto
esso
realizza
nell'unità
le
sue
inclinazioni
sessuali
che
sono
di
ordine
sia
spirituale
sia
psicologico
che
biologico,
secondo
la
verità
intera
della
persona
medesima.
Vorrei
ora
nel
seguito
spiegare
punto
per
punto
questa
risposta,
e
dimostrarne
la
verità.
Ho
significato
la
naturalità
del
matrimonio
parlando
di
una
"fondazione"
di
questo
sulla
natura
della
persona
umana.
Ho
voluto
evitare
in
questo
modo
due
errori
opposti
presenti
nella
riflessione
sul
nostro
tema.
L'errore
di
affermare
unaneutralità
o
indifferenza
assiologica
del
matrimonio
nei
confronti
della
realizzazione
della
persona:
il
bene
della
persona
e
il
matrimonio
sono
indifferenti
l'uno
per
l'altro.
Sposarsi
non
è
per
(il
bene
del)
la
persona
né
bene
né
male.
Oppure
un
errore
contrario
(che
troviamo
spesso
in
chi
contesta
il
valore
morale
della
verginità
cristiana):
non
esiste
possibilità
di
una
vera
realizzazione
piena
della
persona
umana
all'infuori
della
vita
matrimoniale.
Parlare
di
fondamento
del
matrimonio
e
della
procreazione
nella
persona
umana
significa
dire
che
essi
trovano
spiegazione
e
ragione
d'essere
nella
natura
della
persona
umana:
è
questa
natura
il
fondamento
e
il
principio
del
matrimonio
e
della
procreazione,
senza
però
che
questa
natura
esiga
per
il
singolo
il
matrimonio.
Ma
che
cosa
si
intende,
nel
contesto
del
discorso
che
andiamo
facendo
"fondamento
e
principio"
con
cui
si
qualifica
la
natura
della
persona
umana
in
ordine
al
matrimonio
e
alla
procreazione?
167
Significa
la
presenza
in
questa
di
inclinazioni
sessuali
di
ordine
sia
spirituale
(7)
sia
psicologico
sia
biologico
che
nella
loro
unità
muovono
la
persona
a
sposarsi
e
a
generare
la
vita.
E'
questo
il
punto
centrale
della
nostra
spiegazione
e
dimostrazione.
La
tesi
dell'unità
sostanziale
della
persona
umana,
che
qui
presuppongo
dimostrata,
ha
conseguenze
teoreticamente
rilevanti
per
la
conoscenza
del
senso
del
dimorfismo
sessuale.
La
persona
umana
è
persona
umana-‐donna;
è
persona
umana-‐uomo.
La
femminilità/mascolinità
strutturano
e
configurano
la
persona
umana.
La
reciproca
attrazione
o
inclinazione
possiede
dunque
un
senso
interamente
umano:
biologico,
psichico
e
spirituale.
E'
unitariamente,
dal
punto
di
vista
strutturale,
attrazione/inclinazione
biologica,
psicologica
e
spirituale.
Il
vero
nodo
teoretico
da
sciogliere
è
questa
unità
nella
tridimensionalità.
Che
cosa
significa:
è
unitariamente
biologica-‐psichica-‐spirituale?
È
ancora
la
tesi
dell'unità
sostanziale
della
persona
umana
che
deve
guidarci
alla
risposta.
L'unità
delle
tre
dimensioni
della
reciproca
attrazione-‐inclinazione
non
può
essere
pensata
teoreticamente
in
termini
di
"dominio"
e
quindi
di
"uso"
di
una
dimensione
nei
confronti
dell'altra.
Sottolineo
"teoreticamente":
è
vero
che
nella
congiuntura
dell'attuale
condizione
umana
(8),
come
ci
viene
spiegato
dalla
fede
cristiana,
l'unità,
meglio
sarebbe
dire
l'unificazione
è
opera
di
un
dominio
(9)
della
dimensione
che
si
giudica
superiore
sopra
quella
inferiore.
Ma
non
stiamo
facendo
per
ora
un
discorso
etico.
D'altra
parte,
si
cadrebbe
nel
più
grossolano
errore
se
si
pensasse
l'unità
nei
termini
di
una
confusione
fra
realtà
ontologicamente
diverse
come
lo
sono
la
materia
e
lo
spirito.
Indivise
et
inconfuse:
verrebbe
da
dire,
desumendo
una
formula
cristologica.
Positivamente,
mi
sembra
che
esista
un
solo
modo
di
pensare
l'unità
di
cui
stiamo
parlando.
Da
un
punto
di
vista
fenomenologico
è
l'unità
che
esiste
fra
il
"segno"
e
il
"significato":
il
corpo
esprime
la
persona
(quae
in
corpore
manifestatur,
cfr.
Veritatis
splendor);(10)
in
questo
consiste
il
significato
specificamente
umano
del
corpo.
Il
corpo
è
il
segno
della
persona;
la
persona
è
significata
dal
e
nel
corpo.
Stiamo
però
parlando
di
inclinazioni,
dunque
del
movimento
del
soggetto
umano
verso
la
sua
realizzazione,
cioè
verso
il
suo
fine,
cioè
verso
il
suo
bene.
Non
un
bene
qualsiasi,
ma
il
bene
della
persona
in
quanto
persona
-‐
maschio
"inclinata"
verso
la
persona-‐femmina,
e
reciprocamente.
Cioè:
stiamo
parlando
della
persona
in
quanto
inclinata
a
con-‐vivere
con
le
altre
persone
nella
forma
specifica
di
societas
coniugalis,
di
consortium
maris
et
foeminae.
In
che
cosa
consiste
il
bene
della
persona
così
considerata?
La
risposta
che
qui
di
seguito
darò
presuppone
la
critica
dell'utilitarismo,
anche
nelle
sue
forme
odierne
più
sofisticate,
come
unica
ragione
o
prevalente
ragione
dell'umano
con-‐vivere.
La
teoria
sociale
dell'utilitarismo
è
conseguenza,
in
sostanza,
della
negazione
della
capacità
della
ragione
di
cogliere
un
bene
puramente
intelligibile.
L'unico
modo
buono
di
realizzare
l'inclinazione-‐attribuzione
uomo-‐donna
è
quello
nel
quale
la
persona
di
ciascuno
in
quanto
tale
è
riconosciuta
nella
sua
dignità,
e
nel
quale
l'una
cessa
di
essere
estranea
all'altro
perché
diventa
l'unadell'altra.
Ora
questa
modalità
è
l'amore
che
si
esprime
e
realizza
nel
dono
di
sé
(non
è
questo
il
luogo
di
fare
una
completa
esposizione
del
concetto
di
amore
come
dono
di
sé).
Il
bene
della
persona
consiste
nel
dono
di
sé.
L'essere
le
persone
"quasi
propter
se
procuratae,
creaturae
vero
aliae
quasi
ad
rationales
creaturas
ordinatae"
(11)
fa
sì
che
si
possono
associare
solamente
nella
giustizia,
e
nell'amore
che
si
esprime
nel
dono
di
sé.
Ritorno
ora
al
problema
dell'unità
delle
inclinazioni
nelle
loro
dimensioni
biologica,
psichica
e
spirituale.
L'unità
consiste
nel
fatto
che
la
dimensione
biologica
e
psicologica
esprimono
la
persona
nella
sua
dimensione
spirituale:
soggetto
chiamato
a
realizzarsi
nel
dono
di
sé.(12)
Ciò
che
è
significato
è
la
persona
che
si
realizza
nel
dono
di
sé.
Vorrei
ora
approfondire
e
chiarire
168
ulteriormente
questa
unità,
poiché
dobbiamo
cercare
di
evitare
due
errori
opposti
e
soprattutto
vedere
nella
verità
questa
unità
di
cui
stiamo
parlando.
L'inclinazione
reciproca
della
mascolinità-‐femminilità
se
considerata
esclusivamente
dal
punto
di
vista
biologico
e/o
psicologico
non
è
ordinata,
meglio,
orientata
al
dono
di
sé.
Usando
l'accurata
distinzione
tommasiana
di
finis
proprius
e
finis
debitus,
diremmo
che
così
considerata
quell'inclinazione
non
muove
l'uomo
e
la
donna
ad
unirsi
nel
dono
di
sé:
non
ha
come
fine
proprio
il
dono
di
sé.
Biologicamente
intesa,
ha
come
fine
proprio
quello
di
porre
le
condizioni
del
concepimento
di
un
nuovo
individuo
della
specie
umana;
psicologicamente
intesa
ha
come
fine
proprio
quello
di
giungere
ad
una
soddisfazione
di
un
bisogno.
In
questo
senso,
così
intesa,
la
natura
della
persona
umana
non
è
principio
e
fondamento
del
matrimonio.
Bisogna
dunque
concludere
che
il
significato
(realizzazione
della
persona
nel
dono)
è
imposto
del
tutto
estrinsecamente
ad
un
dato
del
tutto
neutrale
ed
informe?
Sarebbe
l'errore
contrario
al
primo.
Totaliter
ab
intrinseco
o
totaliter
ab
extrinseco:
per
usare
il
modo
con
cui
S.
Tommaso
qualifica
questi
due
opposti
errori
(13).
La
verità
è
che
l'inclinazione
bio-‐psichica
in
quanto
inclinazione
umana
chiede
di
essere
ispirata
e
governata
dalla
inclinazione
spirituale
della
persona,
ed
in
quanto
il
corpo
è
corpo
umano
possiede
l'attitudine
ad
essere
espressione
della
persona
umana
nella
sua
dimensione
spirituale:
il
modus
rationis
(14)
non
è
semplicemente,
totalmente
imposto
ab
extrinseco,
ma
è
la
modalità
propriamente
umana
con
cui
l'inclinazione
bio-‐psichica
all'unione
dei
sessi
deve
essere
realizzata.
E'
da
notare
infine,
ma
non
dammeno,
che
la
persona
nella
sua
dimensione
spirituale,
in
quanto
soggetto
spirituale
è
naturalmente
inclinata
al
bene:
naturalmente
significa
precedentemente
all'elezione
della
sua
libertà.
Come
scrive
S.
Tommaso:
"in
ratione
hominis
insunt
naturaliter
quaedam
principia
naturaliter
cognita
tam
scibilium
quam
agendorum,
quae
sunt
quaedam
seminalia
intellectualium
virtutum
et
moralium;
et
...
in
voluntate
inest
quidam
naturalis
appetitus
boni
quod
est
secundum
rationem"
(15).
Ripercorriamo
ora
brevemente
il
cammino
teoretico
fin
qui
percorso.
Principio
e
fondamento
del
matrimonio
e
della
procreazione
è
la
natura
della
persona
umana
unità
sostanziale
di
corpo
e
spirito,
in
quanto
il
matrimonio,
inteso
come
unione
fra
uomo
e
donna
costituito
dal
dono
di
sé,
realizza
nella
loro
unità
le
inclinazioni
sia
di
ordine
biologico-‐psichico
che
di
ordine
spirituale
inscritte
nella
persona
umana
in
quanto
uomo-‐donna.
Brevemente:
principio
e
fondamento
del
matrimonio
è
la
persona
umana
stessa
in
quanto
uomo-‐donna.
La
naturalità
del
matrimonio
consiste
in
questo:
nel
suo
essere
il
fine
dovuto
(finis
debitus)
della
reciproca
inclinazione-‐
attrazione
fra
la
persona
umana-‐uomo
e
persona
umana-‐donna.
L'humanitas
della
comunità
coniugale
e
familiare
non
è
esaustivamente
riconducibile
alla
libera
autodeterminazione
degli
individui,
poiché
essa
(humanitas)
ha
un
suo
contenuto
costituito
dalla
natura
della
persona
umana
in
quanto
uomo-‐donna,
e
dall'unità
delle
sue
inclinazioni
sia
di
ordine
biologico-‐psichico
che
spirituale.
Mi
restano
ora
da
fare
alcune
precisazioni
concettuali
e
terminologiche,
a
modo
di
corollario.
Primo
corollario.
La
Cost.
past.
Gaudium
et
Spes
insegna:
"Intima
communitas
vitae
et
amoris
coniugalis,
a
Creatore
condita
suisque
legibus
instructa"
(48,1;
EV
1/1471).
Le
leggi
proprie
di
cui
parla
il
Concilio
sono
costituite
dalla
natura
della
persona
umana
in
quanto
uomo-‐donna
e
dall'unità
delle
sue
inclinazioni
bio-‐psichiche
e
spirituali.
L'affermazione
del
matrimonio
come
istituzione
la
cui
intima
configurazione
non
dipende
dalla
libera
determinazione
di
chi
si
sposa,
è
la
conseguenza
necessaria
della
fondazione
del
matrimonio
nella
natura
della
persona
umana.
Secondo
corollario.
La
comunità
coniugale
non
è
un
mero
dato
di
fatto
che
rimane
fino
a
quando
la
libera
autodeterminazione
delle
parti
la
fa
esistere.
Essa
è
un
fatto
dovuto
(
un
dover-‐essere)
al
bene
della
persona
umana
che
liberamente
ha
voluto
istituirla,
porla
in
essere.
Come
ancora
169
insegna
il
VaticanoII:
"hoc
vinculum
sacrum
intuitu
boni,
tum
coniugum
et
prolis
tum
societatis,
non
ex
humano
arbitrio
pendet"
(17).
E'
in
ragione
del
bene
della
persona
(intuitu
boni)
che
la
comunità
coniugale
è
esigita,
e
non
semplicemente
a
causa
del
fatto
che
è
voluta
e
fin
che
è
voluta.
E'
questo
il
significato
ultimo
della
fedeltà
e
quindi
della
indissolubilità.
In
questo
sta
la
differenza
sostanziale
dalle
"convivenze
o
unioni
di
fatto".
E'
la
struttura
della
relazione
stessa
come
tale
che
è
diversa.
Ed
è
in
questa
direzione
che
deve
muoversi
lo
Stato:
le
due
relazioni
sono
diverse
e
non
possono
essere
in
alcuna
maniera
equiparate.
"Le
relazioni
civili
(civili
in
quanto
produttive
di
civiltà,
e
non
nel
senso
di
appartenenti
al
civis,
cioè
al
cittadino
in
quanto
individuo
che
appartiene
ad
una
comunità
politica)
hanno
i
loro
diritti
para
e
meta-‐
politici
(cioè
che
vengono
prima
e
vanno
oltre
la
cittadinanza
statuale),
i
quali
sono
costitutivi
della
identità
della
famiglia,
e
attraverso
di
essa,
della
persona....
Per
questo,
ad
esempio,
una
relazione
provvisoria
non
ha
gli
stessi
diritti
di
una
stabile"
(18).
Terzo
corollario.
La
relazione
coniugale
e
familiare
non
può
essere
pensata
nei
termini
di
una
"relazione
pura".
Essa
non
si
riduce
alla
ricerca
del
bene
utile
della
persona:
si
fonda
sul
bene
onesto
della
persona
(19)
honestum
dicitur
quod
propter
se
appetitur
appetitu
rationali,
qui
tendit
in
id
quod
est
conveniens
rationi:
ad
1um).
VIDETUR
QUOD
NON:
LE
OPPOSIZIONI
La
riduzione
completa
della
humanitas
del
matrimonio
e
della
famiglia
alla
libera
autodeterminazione
degli
individui
sembra
essere
oggi
largamente
prevalente
nella
cultura
occidentale.
Questa
prevalenza
pone
problemi
di
ordine
sia
pratico
che
teoretico.
Mi
voglio
ora
fermare
sui
secondi.
Nel
corso
della
riflessione
precedente
ho
usato
più
volte
l'espressione
"il
matrimonio
inteso
come
comunione
nel
dono
reciproco
fra
uomo
e
donna
per
il
dono
della
vita",
quando
ho
cercato
di
dimostrare
la
fondazione
del
matrimonio
così
inteso
nella
natura
della
persona
umana.
Ma
è
proprio
in
questo
passaggio
teoreticamente
decisivo
che
si
nasconde
il
nodo
teoretico
centrale
di
tutta
la
nostra
discussione.
Cercherò
di
esprimerlo
nei
suoi
termini
essenziali.
Che
cosa
significa
"il
matrimonio
così
inteso"?
Significa
che
la
definizione
del
patto
coniugale
e
del
matrimonio
quale
è
data
dal
Concilio
Vaticano
II
in
Gaudium
et
Spes
(20)e
nel
Codice
di
Diritto
Canonico
Can.
1055,
§1
e
1057,
§2
è
deducibile
dalla
natura
stessa
della
persona
umana
e
dall'unità
delle
sue
inclinazioni,
mediante
l'uso
della
ragione
(21).
La
"costruzione"
che
la
ragione
fa
della
definizione
di
matrimonio,
è
una
costruzione
che
è
opera
della
ragione,
ma
di
una
ragione
che
è
testimone
di
una
realtà
(quella
della
persona
umana
uomo-‐donna)
che
attraverso
l'esercizio
della
ragione
si
svela,
e
che
non
è
posta
in
essere
dalla
ragione
stessa.
Nell'attuale
crisi
dell'istituzione
matrimoniale
è
giunta
alla
luce
piena
la
divaricazione
teoreticamente
radicale
fra
un'antropologia
coniugale
secondo
la
quale
"l'esperienza
rivela
la
libertà
dell'uomo
e
l'uomo
stesso
come
autodipendenza
del
rendersi
dipendente
dalla
verità
che
non
dipende
da
lui",(22)
ed
un'antropologia
coniugale
che
presuppone
"un'antropologia
che
presenta
la
libertà
dell'uomo
e
l'uomo
stesso
come
autodipendenza
pura,
ossia
come
il
potere
di
determinare
la
verità
su
di
sé,
e
dunque
il
potere
di
costituire
la
sua
propria
essenza,
la
sua
natura"
(23.).
È
possibile
dimostrare
la
infondatezza
ed
illegittimità
della
seconda
posizione,
mostrando
come
essa
conduca
alla
riduzione
completa
della
humanitas
del
matrimonio
e
della
famiglia
alla
libera
autodeterminazione
degli
individui
sacrificando
progressivamente
dati
basilari
dell'esperienza
-‐
conoscenza
che
l'uomo
ha
di
sé.
Questo
"sacrificio"
ha
assunto
la
figura
di
successive
espulsioni
da
ciò
che
si
definiva
la
pura
forma
dell'umanità;
la
figura
di
separazioni
progressive.
Vorrei
ora
percorrere
brevemente
questo
percorso:
esso
porta
al
matrimonio
come
flatus
vocis.
170
La
prima
separazione,
di
gran
lunga
la
più
grave,
è
stata
la
separazione
della
sessualità
dalla
persona,
causata
dalla
separazione
del
corpo
dalla
persona.
Il
risultato
di
questa
separazione
è
stato
che
la
sessualità
ha
perduto
ogni
serietà:
ha
cessato
di
essere
"un
caso
serio"
per
trasformarsi
progressivamente
in
gioco.
Il
processo
della
separazione
del
corpo
dalla
persona
è
stato
un
processo
lungo
e
complesso.
Mi
devo
limitare
solo
ad
alcuni
accenni.
La
tesi
tomista
dell'unità
sostanziale
della
persona
umana
è
rimasta
isolata
nella
cultura
occidentale.
Di
fatto,
essa
non
è
risultata
vincente
nei
confronti
di
una
visione
di
lontane
ascendenze
agostiniane,
secondo
la
quale
il
corpo
manteneva
pur
sempre
una
completa
divisione
dalla
persona.
Una
divisione
sempre
ambiguamente
pensata
in
termine
e/o
metafisici
e/o
etici.
Più
semplicemente:
l'innegabile
esperienza
di
una
scissione
che
ciascuno
vive
in
se
stesso
era
interpretata
non
solo
in
chiave
diciamo
congiunturale,
ma
anche
tendenzialmente
strutturale.
A
causa
di
questa
ambiguità
di
fondo,
il
principio
fondamentale
dell'oggettività
posto
a
base
della
scienza
moderna,
non
trovò
alcuna
resistenza
ad
imporsi
anche
nella
considerazione
del
corpo
umano.
Si
innescò
così
un
processo
di
oggettivazione
del
corpo
in
forza
della
quale
la
persona
ha
fondamentalmente
nei
confronti
del
corpo
la
stessa
relazione
che
ha
colla
natura.
La
considerazione
naturalistica
del
corpo,
la
sua
spersonalizzazione
ha
comportato
la
negazione
che
la
sessualità
abbia
in
sé
e
per
sé
un
suo
senso
proprio,
possedendo
solo
quel
senso
che
le
viene
attribuito
dalla
libertà
creatrice
della
persona.
E
qui
si
innesta
una
grave
ambiguità,
che
è
l'ambiguità
presente
nel
rapporto
uomo-‐natura,
(ed
ormai
la
corporeità
appartiene
alla
natura)
quale
si
è
venuto
configurando
in
questa
cultura
che
chiamerei
della
disintegrazione.
Potrei
esprimere
questa
ambiguità
con
una
formulazione
molto
sintetica:
o
la
ragione-‐libertà
umana
è
una
ragione-‐libertà
senza
natura
o
la
natura
è
una
natura
senza
ragione-‐libertà
umana.
Mi
spiego.
Poiché
la
sessualità
è
un
fatto
eticamente
in
sé
insignificante,
posso
fare
di
essa
ciò
che
voglio.
L'unica
esigenza
è
che
se
nell'esercizio
della
sessualità
è
coinvolto
un
altro,
questi
deve
liberamente
consentirvi.
Non
è
vero
che
solo
l'etero-‐sessualità
è
un
esercizio
umanamente
degno:
l'esercizio
omosessuale
ha
la
stessa
dignità
e
merita
lo
stesso
riconoscimento.
E
qui
si
innesta
una
precisa
corrente
dell'ideologia
femminista.
Essa
si
costruisce
precisamente
su
due
affermazioni.
Il
rapporto
originario
fra
l'uomo
e
la
donna
non
è
un
rapporto
di
reciprocità
nell'assoluta
uguaglianza
della
dignità,
ma
è
un
rapporto
di
conflitto
nell'affermazione
dell'uno
contro
l'altro.
E
secondo:
la
vocazione
originaria
della
donna
non
è
né
la
sponsalità,
né
la
verginità,
né
la
maternità.
La
donna
non
deve
essere
né
sposa,
né
vergine,
né
madre.
Ecco
ciò
che
significa
nell'ambito
umano
di
cui
stiamo
parlando
la
ragione-‐libertà
umana
è
una
ragione-‐libertà
senza
natura.
Ma
esiste
anche
una
visione
opposta.
La
sessualità
è
pura
natura
che
deve
semplicemente
essere
seguita,
pena
l'infelicità
dell'uomo.
In
linea
di
principio,
ogni
"regola"
dell'esercizio
della
sessualità
è
da
considerarsi
contraria
alla
felicità
dell'uomo,
una
indebita
oppressione.
Il
relativismo
della
prima
posizione
si
abbraccia
coll'istintivismo
naturalista
della
seconda
e
generano
quel
permissivismo
sessuale
che
è
caratteristico
della
nostra
cultura.
La
rottura
della
connessione
fra
sessualità
e
persona
legittima
ormai
qualsiasi
esercizio
della
sessualità,
escluso
quello
che
pensa
la
sessualità
come
dono
definitivo
di
sé,
aperto
al
dono
della
vita;
escluso
cioè
l'esercizio
coniugale
della
sessualità.
La
seconda
separazione
procede
sempre
più
all'interno
della
regione
umana
e
rompe
l'unità
fra
eros
ed
amore,
fra
psiche
e
spirito.
Il
terreno
su
cui
questa
separazione
ha
potuto
impiantarsi
e
crescere,
è
stato
l'ingresso
nel
nostro
ethos
occidentale
di
quella
visione
utilitaristica
dell'uomo,
che
formulata
coerentemente
e
compiutamente
per
la
prima
volta
da
T.
Hobbes
è
risultata
di
fatto
vincente.
Per
visione
utilitaristica
intendo
quella
concezione
dell'uomo
secondo
la
quale
l'uomo
non
dispone
di
una
171
ragione
egemone
capace
di
misurare
e
ordinare
i
suoi
desideri
secondo
specifiche
virtù.
Al
contrario:
l'uomo
è
portatore
di
desideri,
passioni,
interessi,
alla
cui
soddisfazione
la
ragione
è
posta
al
servizio.
Richiamarsi
ad
una
verità
scoperta
dalla
ragione
e
quindi
ad
un
bene
intelligibile
secondo
cui
guidare
desideri
e
passioni,
è
di
fatto
una
indebita
ed
infondata
limitazione
dell'uomo.
Nonostante
le
apparenze,
questa
proposta
antropologica
anziché
liberare
l'uomo,
lo
ha
ridotto
ad
un'esistenza
senza
libertà
che
non
fosse
quella
di
seguire
i
propri
istinti.
Lo
ha
cioè
fatto
rinunciare
alla
sua
inesauribile
e
naturale
tensione
alla
verità,
al
suo
desiderio
di
bene,
di
bellezza,
di
giustizia.
Ha
decapitato
la
ragione
umana.
Nel
campo
della
sessualità
significò
e
significa
la
espulsione
della
sua
comprensione
di
ogni
riferimento
alla
verità
del
dono,
cioè
dell'amore.
Rimane
solo
la
dimensione
erotica
come
dimensione
egemone.
La
separazione
dell'eros
dall'amore
ha
così
legittimato
una
visione
edonista
della
sessualità.
Ora
non
c'è
dubbio
che
una
visione
prevalentemente
o
esclusivamente
edonista
lavora
nel
senso
di
una
separazione
della
sessualità
dal
matrimonio
e,
quindi
del
matrimonio
dalla
famiglia.
Per
quale
ragione?
perché
una
visione
edonista
della
sessualità
de-‐responsabilizza
profondamente
la
persona
nei
confronti
della
propria
sessualità
medesima:
è
un
esercizio
individualista.
Resta
comunque
un
fatto
che
nella
sua
"testardaggine"
si
rifiutava
di
essere
integrato
in
questa
antropo-‐doxia,
in
questa
illusione
sull'uomo:
il
fatto
biologico
della
capacità
procreativa
insita
nella
sessualità
umana.
Il
grave
dibattito
attorno
allaHumanae
Vitae
quindi
è
un
momento
centrale
dello
scontro
fra
le
due
posizioni
antropologiche.
La
terza
separazione
ha
rotto
il
rapporto
fra
le
due
capacità
insite
nella
sessualità,
quella
unitiva
e
procreativa,
in
una
duplice
direzione.
La
"nobilitazione"
della
contraccezione
ha
separato
nella
coscienza
(non
solo
nel
comportamento)
la
capacità
unitiva
dalla
capacità
procreativa.
La
"procreatica
artificiale"
ha
separato
la
capacità
procreativa
dalla
capacità
unitiva.
E
così
il
cerchio
si
è
chiuso.
L'amore
coniugale
non
è
più
orientato
al
dono
della
vita
sia
perché
si
è
pensato
possibile
un
amore
coniugale
vero
e
nel
contempo
deliberatamente
chiuso
alla
vita,
sia
perché
esiste
un
modo
di
"produrre"
la
vita,
che
prescinde
completamente
dall'amore
coniugale,
frutto
solo
del
desiderio.
Per
capire
la
portata
culturale
di
questa
distruzione
del
concetto
di
maternità-‐paternità
,
vorrei
richiamare
la
vostra
attenzione
su
due
fatti
accaduti
in
questi
anni.
Il
ricorso
alla
procreazione
artificiale
era
stato
presentato
come
rimedio
ad
una
sterilità
inguaribile,
all'interno
di
una
coppia
legittima.
Esso
è
andato
progressivamente
configurandosi
come
la
possibilità
offerta
a
chiunque
ne
sentisse
il
bisogno,
di
avere
un
figlio.
È
appunto
la
logica
del
"dominio"
sulla
natura
per
il
soddisfacimento
dei
propri
desideri.
L'altro
fatto,
solo
all'apparenza
contrario,
sul
quale
vorrei
attirare
la
vostra
attenzione
è
la
nobilitazione
della
contraccezione.
Se
non
esiste,
se
non
è
inscritto
nella
sessualità
umana
l'orientamento,
la
destinazione
alla
comunione
interpersonale
fra
l'uomo
e
la
donna
per
il
dono
della
vita,
sarà
conquista
di
libertà
avere
la
possibilità
di
togliere
dalla
sessualità
umana
la
capacità
procreativa.
Le
due
attitudini,
"il
figlio
ad
ogni
costo"
e
"il
figlio
come
il
male
da
evitare",
nascono
dallo
steso
spirito:
la
paternità-‐la
maternità
non
sono
dimensioni
costitutive
dell'amore
coniugale.
Vale
a
dire:
paternità-‐maternità,
amore
coniugale
e
sessualità
umana
sono
tre
grandezze
non
connesse
da
alcuna
unità
interna.
Arrivati
a
questa
tappa
del
nostro
percorso,
la
riduzione
dell'humanitas
del
matrimonio
e
della
famiglia
alla
libera
auto-‐determinazione
degli
individui,
è
un
avvenimento
completamente
accaduto.
Se
il
matrimonio
è
"l'unione
legittima
di
uomo
e
donna
per
il
dono
della
vita",
la
separazione
di
"dono
dalla
vita"
dalla
unione
legittima
e
dalla
sessualità
umana
ha
distrutto
la
naturalità
di
matrimonio
e
famiglia.
172
Logicamente
si
è
giunti
al
fatto
forse
più
decostruttivo
del
rapporto
matrimonio-‐famiglia:
la
progressiva
legittimazione-‐equiparazione
al
matrimonio
e
alla
famiglia
di
qualsiasi
tipo
di
convivenza,
anche
fra
omosessuali.
In
vari
paesi
sono
già
stati
riconosciuti
diritti
legati
alle
unioni
fra
omosessuali,
di
conseguenza
si
sta
promuovendo
anche
il
diritto
di
quest'ultimi
ad
avere
figli
mediante
precisamente
procreazione
artificiale.
La
sessualità
non
implica
la
definitività
perché
non
è
dono
della
persona.
La
sessualità
non
implica
alcuna
responsabilità
dell'uomo
verso
se
stesso
e
l'altro.
La
sessualità
è
unitiva
e
procreativa
solo
di
fatto,
non
di
diritto.
Dunque:
ci
può
essere
una
unione
solo
per
gioco
o
piacere;
ci
può
essere
una
unione
omosessuale
che
ha
lo
stesso
valore
di
quella
coniugale;
sessualità
-‐
amore
-‐
procreazione
non
sono
connessi.
Cioè:
ogni
legame
fra
matrimonio
e
famiglia
che
non
sia
un
legame
puramente
di
fatto
è
semplicemente
negato.
La
naturalità
del
matrimonio
e
della
famiglia
così
come
l'intimo
legame
fra
matrimonio
e
famiglia
si
è
oscurato.
CONCLUSIONE
La
ricostruzione
della
comprensione
del
matrimonio
e
della
famiglia,
fondati
sulla
natura
della
persona
umana
è
un'operadel
pensiero
in
primo
luogo
non
più
procrastinabile.
Questa
ricostruzione
può
essere
fondata
sull'antropologia
della
persona
e
del
dono
come
sua
unica
realizzazione
piena,
ed
anche
su
un
approfondimento
dei
criteri
della
communio
personarum.
La
ricostruzione
è
opera
dell'educazione
delle
persone.
Questa
dimensione
dell'impegno
può
essere
fondata
su
una
profonda
teoria
dell'atto
educativo
come
atto
che
introduce
la
persona
nella
realtà:
una
teoria
che
la
comunità
cristiana
sembra
oggi
non
possedere
in
misura
sufficiente.
La
ricostruzione
è
opera
della
testimonianza
della
santità
nel
matrimonio.
Questa
dimensione
della
ricostruzione
è
opera
di
coloro
che
vivono
nel
matrimonio,
guidati
ed
aiutati
dai
pastori
della
Chiesa.
173
(1)
Ecco
come
egli
descrive
la
relazione
pura:
"Una
situazione
nella
quale
una
relazione
viene
costituita
in
virtù
dei
vantaggi
che
ciascuna
delle
parti
può
trarre
dal
rapporto
continuativo
con
l'altro.
Una
relazione
pura
si
mantiene
stabile
fintanto
che
entrambe
le
parti
ritengono
di
trarre
sufficienti
benefici
come
per
giustificarne
la
continuità".
GIDDENS
A.,La
trasformazione
dell'intimità-‐sessualità,
amore
e
matrimonio
nelle
società
moderne,
Bologna:
Il
Mulino,
1995:
68.
(2)
Ibid.
p.
72.
(3)
Su
questa
problematica
si
veda
DONATI
(a
cura
di),
Identità
e
varietà
dell'essere
famiglia.
Il
fenomeno
della
pluralizzazione,
Milano:
San
Paolo,
2001:
323-‐324.
(4)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Veritatis
Splendor,
n.50.
(5)
Ibid.
cf.
ID.,
in
Enchiridion
delle
Encicliche,
Giovanni
Paolo
I,
Giovanni
Paolo
II
(1979-‐
1998),
Bologna:
EDB,
1998,
8:
1531.
(6)
Il
termine
procreazione
sarà
sempre
inteso
come
l'unione
sessuale
di
un
uomo
e
una
donna
uniti
in
legittimo
matrimonio,
capace
di
porre
le
condizioni
del
concepimento
di
una
nuova
persona
umana.
(7)
In
che
senso
parlo
di
spiritualità
dell'inclinazione
sessuale
risulta
evidente
dalla
riflessione
seguente.
(8)
Secondo
la
fede
cattolica
nello
stato
di
giustizia
originale
fra
i
doni
preternaturali
di
cui
era
dotata
la
persona
umana
vi
era
anche
la
integrità,
armonia
fra
le
varie
dimensioni
della
persona
umana
secondo
la
loro
gerarchia
ontologica.
(9)
Al
termine
dominio
va
attribuito
il
significato
etico,
non
tecnologico.
(10)
GIOVANNI
PAOLO
II,
Veritatis
Splendor.
(11)
S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Contra
Gentes,
III,
112,
2856.
(12)
Mi
permetto
rimandare
al
mio:
CAFARRA
C.,
Etica
generale
della
sessualità
umana,
Milano:
Ares,1992:
51-‐66.
(13)
S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Summa
Theologiae,
1,
2
q.
63,
a.
1.
(14)
Ibid.,
2,2,
q.
14,
a.
3.
(15)
Ibid.,
1,
2,
q.
63,
a.
1.
(16)
CONCILIO
VATICANO
II,
Gaudium
et
Spes,
n.
48,
in
Enchiridion
Vaticanum,
Bologna:
EDB,
1993,
1:
1471.
(17)
Ibid.
(18)
DONATI,
Identità
e
varietà
dell'essere...,
p.
479.
(19)
Cf.
S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Summa
Theologiae,
2,2,
q.
145,
a.
3.
(20)
CONCILIO
VATICANO
II,
Gaudium
et
Spes,
n.
48.
(21)
"Aliquid
dicitur
naturale
dupliciter:
uno
modo
sicut
ex
principiis
naturae
ex
ncessitate
causatum
,
ut
moveri
sursum
est
naturale
igni
etcet;
et
sic
matrimonium
non
est
naturale,
nec
aliquid
eorum
quae
mediante
libero
arbitrio
complentur.
Alio
modo
dicitur
naturale
ad
quod
natura
inclinat,
sed
mediante
libero
arbitrio
completur
sicut
actus
virtutum
dicuntur
naturales,
et
hoc
modo
etiam
matrimonium
est
naturale,
quia
ratio
naturalis
ad
ipsum
inclinat...",
(S.
TOMMASO
D'AQUINO,
Sent.,
IV,
dist.
26,
q.
1,
a.
1.).
(22)
STYCZEN
T.,
Essere
se
stessi
e
trascendere
se
stessi,
in
WOJTILA
K.,
Persona
e
atto,
Milano:
Rusconi,
2000:
725.
(23)
Ibid.
174