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Lectura Dantis

Lupiensis
vol. 2 – 2013
a cura di
Valerio Marucci e Valter Leonardo Puccetti

LONGO EDITORE RAVENNA


Il volume è pubblicato grazie al contributo
della Fondazione del Monte dei Paschi di Siena
e col patrocinio dell’Università del Salento

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ISBN 978-88-8063-794-3
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Printed in Italy
FRANCESCO SOMAINI

Dante e il quadro politico italiano.


Lettura di Purgatorio VI

Mi accingo non senza qualche imbarazzo a questa lettura dantesca, cui


gli amici e colleghi Valter Leonardo Puccetti e Valerio Marucci hanno avuto
la cortesia, o forse la temerarietà, di invitarmi. Tuttavia, essendomi da qual-
che tempo venuto ad occupare del tema degli equilibri e degli assetti politici
e geopolitici della Penisola tra gli ultimi secoli del Medio Evo e gli inizi del-
l’età moderna, mi auguro di poter mettere a frutto con qualche utilità quelle
poche competenze che sono venuto maturando su tale argomento, al fine di
ragionare con qualche costrutto sul modo in cui Dante poteva percepire ed in-
tendere la realtà dell’Italia del suo tempo.
Proprio per questo ho scelto dunque di affrontare il canto VI del Purga-
torio – il canto della celeberrima apostrofe sulla «serva Italia, di dolore
ostello» (Purg. VI 76) – perché questo è forse il luogo della Commedia che
meglio di ogni altro si presta a farci cogliere l’aspetto del giudizio di Dante
sugli assetti geopolitici peninsulari, o quanto meno a fornirci utili spunti di
riflessione in merito1.

1
Il canto VI del Purgatorio vanta naturalmente una lunga serie di importanti lecturae. Tra
le più suggestive, e le più vicine al punto di vista che cercherò di sostenere in questa sede, ho
trovato quella di Aurelio Roncaglia, che riprendeva a sua volta alcune intuizioni a mio avviso
assolutamente pregnanti di Ernesto Giacomo Parodi: cfr. A. RONCAGLIA, Il canto VI del Pur-
gatorio, in «La rassegna della Letteratura Italiana», LX (1956), pp. 409-26; E. G. PARODI, La
data della composizione e le teorie politiche dell’’‘Inferno’ e del ‘Purgatorio’. Primo articolo
[1905], in ID., Poesia e storia nella ‘Divina Commedia’, a cura di G. FOLENA e P.V. MEN-
GALDO, Vicenza, Neri Pozza, 1965 [1a ed. Napoli, 1921], pp. 235-62; e ID., la data della com-
posizione e le teorie politiche dell’‘Inferno’ e del ‘Purgatorio’. Secondo articolo [1908], ivi,
pp. 263-324. Un’altra ficcante lettura mi è sembrata quella di Francesco Ercole (del 1919) :
F. ERCOLE, Il canto dell’Italia [1919], in ID., Il pensiero politico di Dante, Milano, Alpes,
1927-1928, vol. I, pp. 109-56. Suggestive, in alcuni passaggi, ma nel complesso più scontate
nell’interpretazione o comunque meno vicine al mio punto di vista mi sono parse invece altre
celebri letture novecentesche come quelle di Francesco Novati, di Isidoro Del Lungo, di Gio-
vanni Gentile e di Tommaso Gallarati Scotti: F. NOVATI, Il canto VI del Purgatorio letto nella
sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, Sansoni, 19312 (1a ed. 1901); ID., Sordello da Goito,
in ID., Freschi e minii del Dugento, Milano, Cogliati, 1923, pp. 115-41; I. DEL LUNGO, I tre
8 Francesco Somaini

Comincerò innanzitutto con alcune considerazioni di ordine generale sul


tema dell’operatività dei discorsi politici in Dante. Passerò quindi a svolgere
canti di Sordello (Purg. VI, VII, VIII) commentati da Isidoro Del Lungo, Firenze, Le Monnier,
1933; G. GENTILE, Il canto di Sordello, Firenze, Le Monnier, s. d. [ma 1939]; T. GALLARATI
SCOTTI, Il canto VI del Purgatorio, Torino, SEI, 1964. Altre interpretazioni, più recenti, che mi
sono parse significative sono invece quelle di Francesco Gabrieli, di Ottavio Panaro e di Al-
berto Barbaro, risalenti agli anni Sessanta e Settanta del Novecento, così come quelle di Leo-
nardo Sebastio, Maurizio Perugi e Maria Picchio Simonelli degli anni Ottanta e Novanta: cfr.
F. GABRIELI, Il canto VI del Purgatorio, in Nuove letture dantesche, Firenze, Le Monnier,
1969, pp. 333-49; O. PANARO, Lettura del VI canto del Purgatorio, Bologna, Leonardi Editore,
1970; A. VARVARO, il canto VI, in Purgatorio. Letture degli anni 1976-’79; a cura di S. Zen-
naro, Roma, Casa di Dante in Roma/Bonacci, 1981, pp. 123-33; M. PERUGI, Il Sordello di
Dante e la tradizione dell’invettiva, in «Studi Danteschi», LV (1983), pp. 23-135; L. SEBASTIO,
Un itinerario di storia e poesia: Purgatorio, canto VI, in ID., Strutture narrative e dinamiche
culturali in Dante e nel Fiore [1988], Firenze, Olschki, 1990, pp. 9-54; M. PICCHIO SIMONELLI,
Il giuoco della zara e i mali d’Italia: lettura del canto VI del Purgatorio, in «Italianistica», XXI
(1992), pp. 331-41. Fra i commenti al testo ho trovato particolarmente significativi per lo meno
quello di Robert Hollander (ora disponibile anche in traduzione italiana) e quello di Giorgio
Inglese (cfr. D. ALIGHIERI, La Commedia. Con il commento di Robert Hollander, vol. II, Pur-
gatorio, Firenze, Olschki, 2011 [traduzione italiana di S. Marchesi – titolo originale Purga-
torio, New York, 2003]; ID., Commedia, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, vol.
II, Purgatorio, Roma, Carocci, 2011, pp. 90-102). Tra i grandi commenti novecenteschi, si
dovrà comunque certamente tenere conto anche di quelli di Attilio Momigliano, di Natalino
Sapegno, e di Emilio Pasquini ed Antonio Quaglio: cfr. D. ALIGHIERI, La Divina Commedia,
a cura di A. MOMIGLIANO, Firenze, Sansoni, vol. II, Purgatorio, 1946, pp. 301-9; ID., Divina
Commedia, a cura di N. SAPEGNO, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957, pp. 57-72; ID., Commedia,
vol. II, Purgatorio, a cura di E. PASQUINI ed A. QUAGLIO, Milano, Garzanti, 1982, pp. 93-116.
In generale, per quanto riguarda i commenti ai singoli passaggi del canto, mi sono servito del-
l’impareggiabile supporto fornito dal grande database americano del Darmouth Dante Pro-
ject, sviluppato a partire dal 1982 per iniziativa di Robert Hollander, Stephen Campbell e
Simone Marchesi, e che ad oggi raccoglie più di 75 commenti della Commedia, da quello più
antico di Jacopo Alighieri, risalente al 1322 (cfr. J. ALIGHIERI, Chiose alla Cantica dell’In-
ferno di Dante Alighieri, a cura di Jarro [G. Piccini], Firenze, Bemporad, 1915, in Dante Dar-
thmout Project, ad indicem), fino a quello di Nicola Fosca e Robert Hollander degli anni
2003-2006 scritto direttamente per il Darthmout Project (ivi, ad indicem). Tutti questi com-
menti sono agevolmente consultabili on line sul sito <dante.dartmouth.edu>. Va poi anche ri-
cordato, naturalmente, che il canto VI, per le sue rilevanti implicazioni politiche, è stato spesso
preso in esame anche da tutti quegli studiosi che con diversi approcci si sono occupati del pen-
siero politico di Dante (o di singolari aspetti di esso come il rapporto con la realtà italiana). Ba-
sterà qui menzionare, tra i contributi più significativi, interventi come quelli di Francesco
Ercole, di Arrigo Solmi, di Michele Barbi, di Alessandro Passerin d’Entrèves e di Charles Till
Davis: F. ERCOLE, L’unità politica della nazione italiana e l’Impero nel pensiero di Dante
[1917], in ID., Il pensiero politico, cit., vol. I, pp. 9-77; ID., Dante e l’unità nazionale italiana
[1927], ivi, vol. I, pp. 79-87; ID., Il sogno italiano di Dante [1917], ivi, vol. I, pp. 89-107; ID.,
Le tre fasi del pensiero politico di Dante [1921], ivi, vol. II, pp. 271-407; A. SOLMI, Il pensiero
politico di Dante, in ID., Il pensiero politico di Dante. Studi storici, Firenze, La Voce, 1922,
pp. 1-70; ID., L’Italia nel pensiero politico di Dante, ivi, pp. 193-218; M. BARBI, L’Italia nel-
l’ideale politico di Dante, in «Studi danteschi», XXIV (1939), pp. 5-37; A. PASSERIN D’EN-
TRÈVES, Dante politico, in ID., Dante politico e altri saggi, Torino, Einaudi, 1955, pp. 37-128
(edizione originale del saggio in inglese Dante as a Political Thinker, Oxford, 1952); C. T.
Dante e il quadro politico italiano 9

delle brevi riflessioni sul contenuto politico del VI canto del Purgatorio, cer-
cando di argomentare come esso possa essere considerato – proprio alla luce
del nodo della sua operatività – come uno dei canti della Commedia dalla più
spiccata impronta politica (anche in confronto ai canti sesti delle altre due
cantiche del poema, che passano generalmente come i canti politici par ex-
cellence). A tale riguardo, mi soffermerò, in particolare, proprio sulla que-
stione del contenuto del canto in relazione al tema degli assetti politici della
Penisola italiana. E in questa sede proporrò anche – in via congetturale, ma
poggiando su una serie di significativi elementi indiziari – un’ipotesi di da-
tazione del canto stesso, alla luce di alcuni passaggi suggeriti dal testo e op-
portunamente contestualizzati nella loro cornice storica. Procederò poi con
un’analisi più puntuale del testo stesso, e con una rapida trattazione di alcuni
dei temi posti da singoli versi o gruppi di versi. Infine, concluderò il mio in-
tervento con la ricapitolazione di alcune delle questioni evidenziate, e con un
tentativo di mettere a fuoco alcuni corollari che le considerazioni svolte po-
trebbero in effetti suggerire2.

1. Il nodo dell’operatività

Venendo al primo punto – quello sull’operatività dei discorso politico


dantesco – vorrei dunque prendere le mosse da un passo del 2° capitolo del
I libro della Monarchia, là dove si legge che «[..] manifestum est quod ma-
teria praesens non ad speculationem per prius, sed ad operationem ordinatur»
(Mn, I, II, 6)3. ‘È evidente’ – traduco un po’ liberamente, ma spero non troppo

DAVIS, L’Italia di Dante, in ID., L’Italia di Dante, Bologna, Il Mulino, 1984 (titolo originale
Dante’s Italy and Other Essays, Philadelphia, 1984 – traduzione italiana di R. Librandi), pp.
31-55. Infine, per quanto riguarda il testo del canto cfr. qua sotto la nota successiva.
2
Per il testo del canto, ho seguito sostanzialmente l’edizione di Giorgio Inglese (di cui ho
ritenuto in particolare più convincente, rispetto a quella celebre di Giorgio Petrocchi, la lezione
sul controverso verso 111 su Santafiora, che Inglese rende con com’è sicura, laddove Petrocchi
aveva preferito la forma com’è oscura). Si vedano in ogni caso: D. ALIGHIERI, Commedia,
revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, cit.; D. ALIGHIERI, La Commedia secondo
l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, vol. III, Purgatorio, Firenze, Le Lettere, 1994 (per
il canto VI cfr. le pp. 87-103). Per tutti gli altri riferimenti al poema, mi sono invece servito,
per mia comodità, dell’edizione Garzanti del 1982, curata da Emilio Pasquini ed Antonio
Quaglio: cfr. D. ALIGHIERI, Commedia, a cura di PASQUINI e QUAGLIO, voll. I, II e III.
3
Ho ritenuto di seguire il testo della Monarchia nell’agile, ma accurata edizione
Bur/Rizzoli curata da Maurizio Pizzica e con introduzione di Giorgio Petrocchi del 1988 (D.
ALIGHIERI, Monarchia, a cura di M. PIZZICA, Milano, Rizzoli, 1988). Tra le edizioni critiche
più accreditate occorre naturalmente richiamare quella a cura di Pier Giorgio Ricci e quella a
cura di Prue Shaw, entrambe per i tipi dell’Edizione Nazionale della Società Dantesca Italiana:
cfr. ID., Monarchia, a cura di P.G. RICCI, Milano, Mondadori, 1965; e ID., Monarchia, a cura
di P. SHAW, Firenze, Le Lettere, 2009 (con doppia introduzione in inglese e in italiano nella
10 Francesco Somaini

arbitrariamente – ‘che questo trattato non è rivolto in via prioritaria alla spe-
culazione, bensì all’azione in vista di un obiettivo’.
Mi soffermerò tra breve su come debba essere a mio avviso propriamente
inteso questo concetto di operatio, che qui ho reso in italiano con la perifrasi
‘azione in vista di un obiettivo’. Per ora limitiamoci a constatare che la Mo-
narchia fu espressamente concepita da Dante come un trattato politico con
immediate finalità pratiche. Esso, in altre parole, non era, e non voleva essere,
una pura riflessione astratta, bensì lo svolgimento di un discorso teorico pro-
fondo, avente però lo scopo di produrre risultati ben concreti, e di fornire ar-
gomenti efficaci in vista di una precisa battaglia politica4.
Per comprendere con esattezza quale fosse la natura di questa battaglia
sarebbe in realtà necessario poter risolvere, almeno con sufficiente approssi-
mazione, l’annosa e tuttora controversa questione di quale possa essere stata
la data di stesura del trattato politico5. Tenendo infatti per fermo che il fon-
damentale punto polemico della Monarchia restava in ogni caso l’idea di
smontare in radice – sulla base di serrati argomenti filosofici, storici e scrit-
turali – la tesi di impronta curialista circa la dipendenza dell’autorità degli im-
peratori da quella dai papi, si tratterebbe di capire quali potessero essere le
finalità più immediate dell’intervento dantesco.
Se ad esempio si dovesse propendere – in linea con la testimonianza di
Giovanni Boccaccio – per una datazione del trattato al 1312-1313, gli obiet-
tivi di Dante sarebbero evidentemente da riconnettere all’intenso dibattito
politico e teorico di quegli anni6. Si dovrebbe cioè presumere che l’intento più

traduzione di T. Peruzzi). Il passo da cui è tratta la citazione riportata nel testo, nel suo
svolgimento completo risulta così formulato: «Cum ergo materia presens politica sit, ymo
fons atque principium rectarum politiarum, et omne politicum nostre potestati subiceat,
manifestum est quod materia presens non ad speculationem per prius, sed ad operationem
ordinatur». Ed ecco la traduzione di Pizzica (che in parte differisce da quella da me sopra
suggerita): ‘Poiché pertanto la presente trattazione concerne la scienza politica, o meglio, la
fonte e il principio dei retti ordinamenti statuali, e tutto ciò che concerne la materia politica
rientra nelle nostre facoltà, è chiaro che essa non ha come scopo prioritario, la speculazione,
ma l’azione’.
4
Si può in questo senso cogliere un primo ed immediato segno di distinzione del trattato
dantesco rispetto ad altri celebri trattati politici più o meno coevi, a cominciare naturalmente
dal De regimine principum (o De Regno) di Tommaso d'Aquino, il quale, come è stato
osservato, era in realtà connotato da una forte «accentuazione speculativa, lontana dalla prassi»
(cfr. J. MIETHKE, Le teorie politiche nel Medio Evo, Milano, Marietti, 2001 [titolo originale
Politische Theorien im Mttelalter, in Politische Theorien von der Antike bis zur Gegenwart, a
cura di H.J. LIEBERT, Bonn, 1991 – traduzione italiana di M. Conetti], p. 93).
5
Per una rassegna delle diverse posizioni critiche in ordine al tema della datazione della
Monarchia si può rimandare ad E. MONGILLO, Sulla datazione della Monarchia, in «Le parole
e le idee», XI (1969), pp. 290-324; P.G. RICCI, Monarchia, in Enciclopedia Dantesca, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970-1978, vol. III (1971), pp. 993-1004, alle pp. 1000-02;
E. MALATO, Dante, Roma, Salerno Editrice, 1999, pp. 179-84.
6
Su questa linea interpretativa si sono ad esempio collocati Gustavo Vinay (curatore del-
Dante e il quadro politico italiano 11

prettamente operativo della Monarchia dovesse essere quello di contrastare


le pretese di impianto teocratico rilanciate dagli ambienti della curia avigno-
nese di Clemente V (in particolare dopo la sostanziale rottura tra quel ponte-
fice ed Enrico VII nell’estate del 1312), confutando nel contempo anche le
contestazioni che nei riguardi dell’autorità imperiale erano state levate dagli
ambienti vicini a Roberto d’Angiò, interessati ovviamente ad affermare l’il-
legittimità della celebre sentenza di lesa maestà con cui il re di Napoli era
stato solennemente condannato dall’imperatore il 26 aprile 13137.

l’importante edizione critica del trattato nel 1950), Michele Maccarrone (che però poi rivide
in parte le sue posizioni) ed Aldo Vallone; e più di recente la stessa ipotesi è stata ripresa da
Carlo Dolcini (che tuttavia non ha escluso la possibilità di una sorta di work in progress pro-
trattosi per più anni) e da Diego Quaglioni (anche sulla base della scoperta di un nuovo ma-
noscritto del trattato): cfr. G. VINAY, Introduzione, a D. ALIGHIERI, Monarchia, testo,
introduzione, traduzione e commento a cura di Gustavo Vinay, Firenze, Sansoni, 1950, pp. V-
XXXVIII, alle pp. XXIX-XXXVIII; M. MACCARRONE, Il terzo libro della ‘Monarchia’, in
«Studi Danteschi», XXXIII (1955), pp. 5-142; ID., Papato e Impero nella ‘Monarchia’ (1976),
in Romana Ecclesia cathedra Petri, a cura di P. ZERBI, R. VOLPINI e A. GALLUZZI, Roma, Her-
der, 1991, pp. 1063-135; A. VALLONE, Dante, Firenze, Vallardi, 1973, p. 233; C. DOLCINI, Il
pensiero politico, in La crisi del Trecento e il Papato avignonese (1274-1378), a cura di D.
QUAGLIONI (vol. XI della Storia della Chiesa, a cura di A. FLICHE, A. MARTIN, J. B. DUROSELLE
e E. JARRY, edizione italiana a cura di G. PELLICCIA, G. GASTONE e G. GUERRIERO), Cinisello
Balsamo, Edizioni San Paolo, 1994, pp. 411-46; ID., Per la cronologia del trattato politico
dantesco. Una risposta a Enrico Fenzi, in «Pensiero politico medievale», V (2007), pp. 145-
50; e D. QUAGLIONI, Un nuovo testimone per l’edizione della ‘Monarchia’ di Dante: il Ms.
Add. 6891 della British Library, in «Laboratoire Italien. Politique et societé», XI (2011), pp.
231-80. Per quanto riguarda l’attendibilità delle testimonianze di Giovanni Boccaccio, ossia
circa il valore da attribuire al contenuto informativo del suo Trattatello in laude di Dante, cfr.
infra l’ultimo corollario a conclusione di questo intervento.
7
Per quanto concerne gli eventi sopra evocati del 1312-1313, si potrà ricordare che dopo
la rottura con Enrico VII, intervenuta nell’estate del 1312 (vedasi infra la nota n° 95), negli
ambienti della curia di papa Clemente V si determinò una netta ripresa di idee e dottrine di
carattere ierocratico, Tali dottrine, dopo la morte dello stesso Enrico (nell’agosto del 1313), si
tradussero nelle celebri costituzioni papali Romani Principes e Pastoralis cura (entrambe del
marzo 1314), con le quali fu espressamente ribadita la tesi della dipendenza dell’autorità
imperiale da quella del papa. Nello stesso torno di tempo, tesi fortemente anti-imperiali, che
arrivavano a mettere in discussione l’esistenza stessa dell’Impero (negandone il carattere
“romano” ed universale, e denunciandone l’inutilità giuridica e politica), erano state formulate
anche fra i giuristi della corte napoletana e angioina di Roberto I d’Angiò (e il sovrano stesso
intervenne personalmente sulla questione scrivendone a papa Clemente V), al fine in
particolare di contestare la fondatezza e la legittimità della sentenza di condanna dell’aprile
1313, con cui Enrico VII aveva proclamato la confisca di tutti i feudi di Roberto in terra
d’Impero (le contee di Provenza, di Forcalquier nel Regno di Arles e la contea di Piemonte nel
Regno d’Italia) ed anche la sua deposizione dal trono napoletano in quanto principe che aveva
osato sfidare l’autorità di Enrico quale imperatore universale, ledendone la maestà. Su questi
temi cfr. W. BOWSKY, Henry VII in Italy. The Conflict between Empire and City-States, Lincoln
(Nebraska), University of Nebraska Press, 1960, alle pp. 168-69; F. COGNASSO, Arrigo VII,
Milano, Dall’Oglio, 1973, alle pp. 298-306 e 344-58; L. SALVATORELLI, L’Italia comunale.
Dal secolo XI alla metà del secolo XIV, Milano, Mondadori, 1940, alle pp. 766-75; R.
12 Francesco Somaini

Viceversa, se si dovesse accogliere l’ipotesi di una datazione del trattato


non anteriore al 1317 (e più facilmente collocabile al 1318, o perfino più
tardi), si dovrebbe concludere che lo scopo di Dante – oltre a quello di ritor-
nare comunque su tutti i temi di dibattito già emersi negli anni precedenti –
potesse anche essere significativamente diverso8. In questo caso, infatti, l’ur-
genza più pressante sarebbe stata probabilmente quella di rintuzzare le esor-
bitanti rivendicazioni della curia papale di Giovanni XXII e di dimostrare
l’infondatezza di tutte le premesse teoriche, storiche e teologiche del pro-
gramma anti-imperiale ed anti-ghibellino di quel pontefice. Da tale confuta-
zione sarebbe infatti discesa anche la dimostrazione dell’assoluta illegittimità
dei gravi atti che da quel programma papale erano stati fatti discendere: dalla
nomina di Roberto d’Angiò a vicario generale per i territori imperiali in Ita-
lia (nel luglio del 1317), alla sentenza di scomunica con cui nell’aprile del
1318 era stato colpito tra gli altri anche Cangrande Della Scala (presso cui
Dante era nel frattempo venuto a prendere dimora), fino ai grandi processi ca-
nonici per eresia che a partire dal novembre del 1318 vennero aperti contro i
maggiori leaders ghibellini di Lombardia9.

CAGGESE, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze, Bemporad e Figlio, 1922-1930, vol. I
(1922), pp. 181-89; E. LÉONARD, Gli Angioini di Napoli, Milano, Dall’Oglio, 1967 (titolo
originale Les Angevins de Naples, Paris, 1954 - traduzione italiana di R. Liguori), pp. 270-73;
S. MENACHE, Clement V, New York, Cambridge University Press, 1998, pp. 167-72; e K.
PENNINGTON, Henry VII and Robert of Naples, in Das Publikum politischer Theorie im 14.
Jahrhundert, a cura di J. MIETHKE e A. BÜHLER, München, Oldenbourg, 1992, pp. 81-92
(articolo ripreso anche in ID., The Prince and the Law. 1200-1600. Sovereignty and Rights in
the Western Legal Tradition, Berkeley-Los Angeles, University of California, 1993, pp. 166-
94); e S. KELLY, The new Solomon. Robert of Naples (1309-1343) and Fourteenth Century
Kingship, Leiden, Brill, 2003, alle pp.194-200.
8
Tra i sostenitori di una datazione della Monarchia al 1317-1318 si potranno qui a titolo
d’esempio richiamare Francesco Ercole (che peraltro propendeva per una data compresa tra il
1314 ed il 1317), Nicola Zingarelli, Pier Giorgio Ricci, Giorgio Petrocchi, Gennaro Sasso ed
Enrico Fenzi. È da segnalare peraltro anche la posizione di Francesco Mazzoni, che tendeva
a collocare il trattato in una data a metà strada tra quelle delle due ipotesi principali (il 1314):
cfr. ERCOLE, Le tre fasi, cit., pp. 394-407; N. ZINGARELLI, Dante, Milano, Vallardi, 1931, vol.
II, pp. 683-84; P.G. RICCI, L’ultima fase de pensiero politico di Dante e Cangrande vicario
Imperiale, in Dante e la cultura veneta. Atti del Convegno di Studi organizzato dalla
Fondazione ‘Giorgio Cini’ in collaborazione con l’Istituto Universitario di Venezia, l’Università
di Padova, il Centro Scaligero di Studi Danteschi, e i Comuni di Venezia, Padova, Verona, 30
marzo - 5 aprile 1966, a cura di V. BRANCA e G. PADOAN, Firenze, Olschki, 1966, pp. 367-371;
G. PETROCCHI, Vita di Dante, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 192-93; G. SASSO, Dante,
l’imperatore e Aristotele, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2002, p. 93; E.
FENZI, È la Monarchia l’ultima opera di Dante? (A proposito di una recente edizione), in
«Studi Danteschi», LXXII (2007), pp. 215-38; F. MAZZONI, Teoresi e prassi in Dante politico,
introduz. a D. ALIGHIERI, Monarchia, Epistole politiche, Torino, 1966, pp. IX-CXI.
9
Riguardo a questi fatti del 1317-1318, gioverà ricordare che quel biennio fu in effetti
connotato dalla messa in atto da parte di Giovanni XXII (salito al soglio papale nell’agosto del
1316), di quello che Giovanni Tabacco ebbe a suo tempo a definire come un vero e proprio
Dante e il quadro politico italiano 13

Personalmente, io tenderei in effetti a privilegiare questa seconda linea


interpretativa (pur senza volermi addentrare nella discussione dei singoli ar-

«programma antighibellino». Il papa aveva potuto in particolare trarre profitto della situazione
di divisione che era intervenuta nel Regno tedesco sin dall’ottobre del 1314. In quell’occasione,
di fronte alla necessità di scegliere il successore di Enrico VII, morto nell’agosto dell’anno pre-
cedente, il collegio dei principi elettori (già lacerato al proprio interno da alcune contestazioni
in ordine all’identificazione degli effettivi titolari dei diritti elettorali) si era di fatto spaccato
in due, ed aveva di conseguenza proceduto all’elezione di due sovrani rivali, nelle persone dei
due cugini Ludovico di Wittelsbach (alias Ludovico il Bavaro), dal 1294 duca dell’Alta Ba-
viera, e di Federico d’Absburgo (alias Federico il Bello), dal 1308 duca d’Austria e di Stiria.
Il papa a quel punto si era mosso con alcuni atti di inusitato decisionismo, e a fronte di que-
sta spaccatura, che, al momento della sua ascesa al pontificato si protraeva ormai da quasi due
anni, aveva ritenuto di poter prendere l’iniziativa di stroncare il ghibellinismo politico in Ita-
lia e in Europa. Così, con la costituzione Si fratum del 31 marzo 1317, egli aveva dichiarato
di non riconoscere nessuno dei due pretendenti alla guida dell’Impero ed aveva viceversa for-
malmente proclamato lo stato di Impero vacante, affermando il principio della devoluzione del-
l’autorità imperale (in assenza di un legittimo titolare) alla stessa Sede Apostolica, che le era
comunque superiore per diritto divino. In quella stessa circostanza, il pontefice aveva inoltre
deciso (e successivamente ordinato) la revoca di tutti i titoli vicariali a suo tempo concessi dal
defunto Enrico VII nel Regno Italico, con particolare riferimento ai vicariati di Matteo Vi-
sconti (signore di Milano), di Passerino Bonacolsi (signore di Mantova) e di Cangrande Della
Scala (signore di Verona). Nel luglio del 1317, inoltre, sempre in virtù dell’autorità imperiale
di cui si pretendeva depositario, egli aveva provveduto ad affidare al re di Napoli Roberto
d’Angiò il vicariato generale per tutti i territori dell’Impero in Italia (o meglio a ribadirgli un
incarico che già egli aveva ricevuto da Clemente nel marzo del 1314); mentre nel gennaio del
1318 il papa aveva poi fulminato con la scomunica il Della Scala ed il Bonacolsi, i quali ave-
vano rifiutato di rinunciare ai loro titoli vicariali, e se li erano anzi fatti confermare – sin dal
marzo del ’17 – da Filippo d’Absburgo (uno dei pretendenti alla guida dell’Impero). Con la
stessa censura (mirante a sgretolare la forza dei maggiori leaders ghibellini di Lombardia) era
stato peraltro già colpito anche il Visconti, che pure, per parte sua, nel maggio del 1317 aveva
invece rinunciato al proprio vicariato (essendosi però già fatto attribuire, sin dal settembre del
1313, tutta una serie di poteri e di balìe straordinarie direttamente dal Comune di Milano). Su
tutti questi fatti, si possono vedere J.P. CUVILLIER, Storia della Germania medievale, Firenze,
Sansoni, 1984 (titolo originale L’Allemagne médievale, Paris, 1982 – traduzione italiana di
M. Salemi Cardini), vol. II, pp. 169-74; W.T. WAUGH, Germania: Ludovico il Bavaro, in Sto-
ria del Mondo Medievale, Milano, Garzanti, 1978-1983, vol. VI, Declino dell’Impero e del Pa-
pato e sviluppo degli Stati nazionali (1980) (titolo originale, Germany: Lewis the Bavarian in
Cambridge Medieval History, vol. VII, Cambridge, 1932), pp. 372-400, alle pp. 372-75; L. SI-
MEONI, Le signorie, Milano, Mondadori, 1950, vol. I, pp. 90-97; G. TABACCO, La casa di Fran-
cia nell’azione politica di papa Giovanni XXII, Roma, Istituto Storico per il Medio Evo, 1953.
alle pp. 152-69; ID., Un presunto disegno domenicano-angioino per l’unificazione dell’Italia,
in «Rivista Storica Italiana», LXI (1949), pp. 489-525; ID., La politica italiana di Federico il
Bello, re dei Romani, in «Archivio Storico Italiano», CVIII (1950), pp 3–77; ID., Programmi
di politica italiana in età avignonese, in Aspetti culturali della società italiana nel periodo avi-
gnonese, Todi, 1981, pp. 49-75; GUILLEMAIN, Il papato ad Avignone, in La crisi del Trecento
e il Papato avignonese, cit., pp. 233-80, alle pp. 236-40; ID., I papi di Avignone, Cinisello Bal-
samo, Edizioni San Paolo, 2003 (titolo originale Les papes d’Avignon. 1309-1376, Paris, 1998
– traduzone italiana di B. Pistocchi), pp. 52-53; I. WALTER, Bonacolsi Rainaldo detto Passe-
rino, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960
14 Francesco Somaini

gomenti filologici su cui si fondano le tesi dell’una o dell’altra delle due ipo-
tesi più accreditate)10. In ogni caso però, anche a prescindere da questa que-
– [...], vol. XI (1969), pp. 478-82, a p. 481; G.M. VARANINI, Della Scala Cangrande, ivi, vol.
XXXVII (1989), pp. 393-406, a p. 398, e ancora E. LÉONARD, Gli Angioini, cit., pp. 281-282;
CAGGESE, Roberto d’Angiò, cit., vol. II, pp. 23-27; e F. COGNASSO, Le basi giuridiche della si-
gnoria di Matteo Visconti a Milano, in «Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino», LIII
(1955), pp. 79-89; F. BOCK, Processi di Giovanni XXII contro i ghibellini italiani, in «Archi-
vio della Regia Deputazione Romana di Storia Patria», LXIII (1940), pp.129-43. Quanto a
Dante, sarà bene ricordare che al più tardi dal 1315-1316 (cioè dopo la morte di Moroello Ma-
laspina, avvenuta nell’aprile del 1315), o forse già dalla fine del 1313 o dai primi del 1314 –
cioè dopo la morte di Enrico VII (avvenuta nell’agosto del 1313) – o addirittura già prima,
come voleva ad esempio Giorgio Petrocchi che si spinse a parlare del 1312, doveva essersi in
vero portato a Verona, ove aveva già soggiornato tra la primavera del 1303 e quella del 1304,
ed ove poteva ora contare sulla rispettosa ospitalità e la generosa accoglienza di Cangrande
Della Scala. Nella città sull’Adige, egli si sarebbe poi trattenuto a quanto pare fino al 1318 (cfr.
ZINGARELLI, Dante, cit., vol. I, pp. 284-88; S.A. CHIMENZ, Alighieri Dante, in Dizionario Bio-
grafico degli Italiani, cit., vol. II [1961], pp. 385-451, a p. 422; N. SAPEGNO, Dante Alighieri,
in La letteratura italiana, a cura di E. CECCHI e N. SAPEGNO, vol. III, Dal Duecento al Trecento,
Milano, RCS-Corriere della Sera, 2005 (edizione speciale con nuova impostazione ed impa-
ginazione rispetto all’edizione originaria della Storia della Letteratura Italiana, vol. II, Il Tre-
cento, Milano Garzanti 200110 [1a ed. 1965]), pp. 121-331, a p. 140; A. VALLONE, Dante, cit.,
p. 21; G. PETROCCHI, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, in ID., Itinerari danteschi, a
cura di C. OSSOLA, Milano, Franco Angeli, 19942 [1a ed. 1969], pp. 88-163; e ID., Vita di Dante,
cit., pp. 189-93; G. GORNI, Dante. Storia di un visionario, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 185).
10
Fondo questo mio giudizio – che è puramente congetturale e che non vuole essere nulla
più che una semplice opinione – sulla base della semplice constatazione che la Monarchia,
come già argomentava Francesco Ercole nel 1921, sembrerebbe, dal punto di vista del
ragionamento politico, un’opera concettualmente successiva al Purgatorio (o quanto meno ai
primi 24 canti). Inoltre sempre Ercole osservava, in modo a mio parere piuttosto persuasivo,
che il trattato sembrerebbe in effetti successivo alla morte di Enrico di Lussemburgo, in quanto
parrebbe ispirato, più che alla fede «in un determinato imperatore» (quale sarebbe stato
ovviamente lo stesso Enrico se ancora fosse stato in vita) da una fede più generale «nell’idea
dell’Impero» (cfr. ERCOLE, Le tre fasi, cit., p. 399). Una datazione al 1317-1318, in tal senso,
mi parrebbe più compatibile con questa impressione che io trovo condivisibile. In aggiunta a
ciò, mi limiterò poi ad osservare che la datazione al 1317-18 non escluderebbe, ovviamente,
il fatto che Dante – nello scrivere i tre libri del grande trattato – avesse comunque dovuto aver
ben presenti davanti a sé gli eventi degli anni precedenti, e al di là delle ragioni più contingenti
che potevano aver costituito il pretesto immediato del suo intervento (cioè la necessità di
smontare alla base le pretese papali), doveva avere ben chiare alla mente tutte le tesi di coloro
che in passato, e non solo al tempo di Enrico VII, ma anche prima di allora, avevano preteso
di sminuire l’autorità dell’Impero con tesi e dottrine che a lui parevano errate: che si trattasse
delle teorie curialiste sulla plenitudo potestatis del papa sostenute per esempio nel celebre De
potestate ecclesiastica di Egidio Romano, risalente al tempo di Bonifacio VIII, o delle tesi di
impronta municipalistica dei guelfi (legati all’idea di una sostanziale condizione di sovranità
delle singole città-stato), o ancora delle dottrine di stampo regalistico di chi propugnava la
sovranità dei regni particolari (e segnatamente della monarchia francese) di contro alle istanze
universalistiche dell’Impero. Intendo dire, cioè, che tutte le ragioni che potevano sussistere, sul
piano delle polemica intellettuale, nel 1313, restavano in ogni caso ben vive anche nel 1317 o
negli anni successivi. Per questo, ad esempio, a differenza di quel che pensava Gustavo Vinay,
ripreso di recente da Carlo Dolcini (cfr. VINAY, op. cit., pp. XXXIV-XXXVI; e C. DOLCINI, Il
Dante e il quadro politico italiano 15

stione – pur essenziale – della data di composizione, ciò su cui mi permetto


di insistere è comunque il fatto della spiccata propensione del trattato dante-
sco ad un’immediata operatività. Quale che sia l’anno della sua composi-
zione, la Monarchia deve cioè essere vista non soltanto come un trattato di
eccezionale profondità teoretica, ma nel contempo anche come un testo chia-
ramente votato ad una concreta performatività politica11.
Per la Commedia mi sembra però che occorra svolgere un discorso ne-
cessariamente diverso. A me non pare, infatti, che si possa davvero sostenere
– per lo meno parlando in termini generali (e dunque prescindendo da alcuni
casi particolari, come appunto quello del VI canto del Purgatorio di cui poi
diremo) – che il grande poema risulti connotato da preoccupazioni di urgenza
operativa altrettanto stringenti e pressanti di quelle del trattato politico.

pensiero politico, cit., p. 412), non mi pare che si possa considerare come una prova
significativa a sostegno di una datazione del trattato agli anni di Enrico VII il riferimento alla
coalizione anti-imperiale di «populos», «reges et principes» usato con verbi al congiuntivo
presente («cum doleam», «cum videam», «ut adversentur») (Mn, II I 3). Infatti Dante, pur
scrivendo nel 1317 o nel ’18, avrebbe comunque avuto assolutamente ben viva davanti agli
occhi, quasi rivivendola, la situazione ed i nodi, dell’intenso triennio enriciano, il che poteva
giustificare i verbi non al passato (al riguardo, sul fatto che la situazione degli anni di Enrico
fosse comunque costantemente presente alla mente di Dante si veda del resto quanto osservava
già nel 1957 Charles Till Davis: C.T. DAVIS, Dante and the Empire, in ID., Dante and the idea
of Rome, Oxford, Clarendon Press, 1957, pp. 139-94, a p. 142). Viceversa, vale forse la pena
di notare che un’eventuale datazione del trattato al 1317-1318 sarebbe ovviamente del tutto
compatibile (senza dover chiamare in causa l’ipotesi di interpolazioni a posteriori) con il
celebre riferimento al V canto del Paradiso che si trova nel I libro del trattato (Mn, I XII 6).
Come ho detto, però, queste sono solo delle banali impressioni, mentre non è mia intenzione
intervenire su tutte le problematiche di natura filologica legate all’interpretazione di singoli
passi del trattato che potrebbero fornire (ed hanno fornito e forniscono) argomenti per l’una o
l’altra ipotesi di datazione. Al riguardo mi limito a rimandare ai testi indicati supra nelle note
n° 5, n° 6 e n° 8.
11
Per vero dire, anche questa affermazione, che a me pare in realtà difficilmente
contestabile proprio sulla base del passo che abbiamo sopra citato, non può dirsi in realtà
condivisa da tutti. Natalino Sapegno, per esempio, ravvisava nel trattato politico una
«impostazione severamente dottrinale e dolorosamente religiosa come nella Commedia, e non
immediatamente politica e strumentale»: cfr. SAPEGNO, op. cit., p. 224). E sulla medesima
linea interpretativa si era collocato già negli anni Venti anche Gioele Solari per il quale la
Monarchia non sarebbe segnata da preoccupazioni politiche contingenti e non potrebbe
definirsi uno «scritto d’occasione», legato «a particolari avvenimenti della vita e dei tempi di
Dante», e sarebbe invece un’opera più crepuscolare (per questo di datazione tarda), opera di
un uomo ormai «ammaestrato dagli errori e dai disinganni»: G. SOLARI, Il pensiero politico di
Dante. Rassegna critica delle pubblicazioni del secentenario, in «Rivista Storica Italiana», XL
(1923), pp. 375-455, a p. 408. Io propendo evidentemente per una lettura differente e, senza
nulla togliere alla potenza dell’argomentazione speculativa del trattato, mi ritrovo di più in
un’osservazione come quella di Joan M. Ferrante, secondo cui Dante scrisse la Monarchia «in
response to a particular political situation»: J.M. FERRANTE, Dante and Politics, in Dante:
Contemporary Perspectives, a cura di A.I. IANNUCCI, Toronto, University of Toronto Press,
1997, pp. 181-94, a p. 184.
16 Francesco Somaini

Per meglio inquadrare questo assunto può forse valere la pena di riflettere
con qualche attenzione su un passo dell’Epistola a Cangrande Della Scala, in
cui, sempre sul tema dell’operatività, si ritrovano in effetti alcune parole che,
sebbene riferite alla Commedia, sembrerebbero apparentemente ricordare
piuttosto da vicino quelle della Monarchia che abbiamo sopra richiamato.
Ora, come è noto, nella lunga lettera al signore di Verona (che qui assume-
remo a priori come un testo autentico, anche se la cosa non è per vero dire
pacificamente ammessa da tutti), dopo una prima breve parte con l’annuncio
della dedica della terza cantica allo stesso Cangrande, Dante intese soffer-
marsi in modo piuttosto articolato anche su un’analisi dei caratteri del Para-
diso e di quelli della Commedia nel suo complesso12. E così, parlando del
tipo di filosofia (genus philosophiae) proposto nel poema, egli precisò espres-
samente che «non ad speculandum, sed ad opus inventum est totum et pars»
(Ep., XIII 16 [40])13. Traducendo, potremmo dire cioè che ‘il tutto e la parte’,
ossia il Poema nel suo insieme e la terza cantica in particolare, ‘non sono
stati concepiti per la speculazione ma per un fine compiuto (ad opus)’.
Come si vede, la somiglianza con il passo della Monarchia è invero piut-
tosto rilevante14. Il punto però è che questo opus cui si riferiva la lettera al si-
gnore di Verona è in realtà qualcosa di ben differente dall’operatio che
avevamo trovato nel I libro del trattato politico. In entrambi i casi, certo, è evi-
dentemente riscontrabile una chiara valenza di ordine finalistico; ma la natura
delle due differenti finalità non può in effetti essere confusa. Opus ed opera-
tio, infatti, ancorché entrambi qualificabili come dei fini, non costituivano
due concetti equivalenti15. La loro distinzione si ritrova già espressa in modo
esplicito nelle più antiche traduzioni latine del I libro dell’Etica Nicomachea

12
La tesi della non autenticità dell’Epistola fu a suo tempo sostenuta con particolare vigore
da Bruno Nardi (B. NARDI, Il punto sull’Epistola a Cangrande, Firenze, Le Monnier, 1960)
per essere successivamente ripresa negli anni Ottanta del Novecento anche da altri studiosi. Per
un aggiornamento sullo status quaestionis mi limiterò però a rimandare a R. HOLLANDER,
Dante’s Epistle to Cangrande, s. l., University of Michigan Press, 1993.
13
La citazione completa del passo è la seguente: «Genus vero philosophie, sub quo hic in
toto et parte proceditur, est morale negotium, sive ethica; quia non ad speculandum, sed ad opus
inventum est totum et pars». Per il testo dell’Epistola cfr. D. ALIGHIERI, Epistola a Cangrande,
a cura di E. CECCHINI, Firenze, Giunti, 1995.
14
L’oggettiva somiglianza tra i due passaggi della Monarchia e dell’Epistola, che per parte
sua viene solitamente datata tra il 1315 e il 1317, potrebbe costituire in effetti un ulteriore ele-
mento indiziario per pensare ad una composizione relativamente ravvicinata dei due testi, il
che potrebbe forse costituire un ulteriore argomento a sostegno della tesi di una stesura tarda
tanto dell’Epistola quanto del trattato politico (per lo meno nella sua versione definitiva, qua-
lora si volesse ipotizzare, come pure si è sostenuto, che la Monarchia possa essere stata pre-
parata anche in più tempi).
15
Sul significato dei due concetti in Dante si vedano B. BERNABEI, Opera, in Enciclopedia
Dantesca, cit., vol. IV (1973), pp. 161-63; e P. MUGNAI, Operazione, ivi, vol. IV (1973), pp.
165-66. Vale la pena di ricordare anche Convivio, IV IX 5-7.
Dante e il quadro politico italiano 17

di Aristotele (come ad esempio quella di Roberto Grossatesta, risalente agli


anni Quaranta del XIII secolo), ove appunto si erano scelti questi due termini
per tradurre le parole greche ergai ( = opera) ed energeiai (= operationes)16.
I grandi commentatori latini dello Stagirita, come Alberto Magno e soprat-
tutto Tommaso, avevano poi ulteriormente riflettuto su questa distinzione in-
tendendo appunto gli opera come dei fini compiuti (res perfectae o res
generatae, secondo la definizione dell’Aquinate) e le operationes come delle
azioni volte al conseguimento di un obiettivo particolare (e come tali a loro
volta distinguibili, sempre secondo Tommaso, in actiones e factiones, cioè in
attività intellettive, come il pensare o il volere, e in attività materiali, volte ad
agire concretamente su sostanze esterne al soggetto agente, per usarle o per
trasformarle)17.
Dante, che considerava cosa sua l’Etica di Aristotele (Inf., XI 80), aveva
fatto sostanzialmente proprie queste distinzioni dell’Aquinate, apportandovi
semmai degli elementi di ulteriore precisazione18. Dunque il diverso richiamo
ad opus e ad operationem va inteso propriamente come un’indicazione pre-
cisa sulle differenti finalità del grande poema e del trattato politico. Nella
Monarchia, infatti, si inseguiva, come si è visto, un obiettivo politico circo-
scritto e particolare, quale quello di portare argomenti a sostegno di un pro-
getto di immediata prassi (ancorché di grande portata). Nella Commedia
invece vi era l’intento di raggiungere un fine ben più generale, ovvero – come

16
Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea. Introduzione, traduzione e commento di Marcello
Zanatta, Milano, Bur, 1986, p. 82-83 (Libro I 1 [1094 a]). Il passo nelle traduzioni latine
risultava così espresso: «Differentia vero finium quaedam videtur. Hi quidem sunt operationes,
hi vero praeter has, opera quaedam. Quorum autem sunt fines quidem praeter operationes, in
his meliora existunt operationes opera». Lo si potrebbe tradurre in questo modo: 'In vero si
riconosce una certa differenza di fini. Alcuni infatti pertengono alle operazioni, altri invece
pertengono a qualcosa che è oltre le operazioni, e cioè alle opere. I fini di queste ultime vanno
al di là delle operazioni, e per questo le opere sono da ritenersi più importanti delle operazioni'
(la traduzione è mia). Sulle prime traduzioni latine di Aristotele cfr. E. VAN STEENBERGH,
Aristote in the West. The Origins of Latin Aristotelism, Louvain, Nauwelaerts Publishing
House, 19702 (1a ed. 1955).
17
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, a cura di L.
PEROTTO, Bologna, ESD, 1998, vol. I pp. 45-46 (Commentarium Ethicorum, I, lectura I, n° 13).
18
Nel Convivio, in effetti, Dante, muovendosi di fatto sulla scorta del pensiero di Tommaso,
aveva a sua volta riflettuto sul concetto di operatio distinguendo «quattro maniere
d’operazioni»: 1) le operazioni puramente intellettuali (esclusivamente contemplative, in cui
la ragione «solamente considera, e non fa né può fare alcuna di quelle»; 2) le operazioni
«razionali» (che davano luogo a comportamenti pratici come il parlare, in cui la ragione
«considera e fa nel proprio atto suo»); 3) le operazioni meccaniche (che si esprimevano su
una materia esterna ai soggetti agenti, in cui quindi la ragione «considera e fa in materia di fuori
di sé»); e infine 4) le operazioni morali o di volontà (che si traducevano nella scelta di
determinati comportamenti, e che come tali potevano essere buone o cattive): cfr. MUGNAI,
op. cit., p. 166. Per il testo del Convivio si veda in generale D. ALIGHIERI, Convivio, a cura di
F. BRAMBILLA AGENO, Firenze, Le Lettere, 1995.
18 Francesco Somaini

si legge in un altro celeberrimo passo della stessa lettera a Cangrande – quello


di «removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum
felicitatis» (Ep., XIII 15 [39]).
Il connotato finalistico delle tre cantiche del Poema non si poneva dunque
sullo stesso terreno di immediata concretezza operativa previsto per la Mo-
narchia. Nel trattato c’era infatti da combattere sul piano teorico una precisa
battaglia politica, mentre nella Commedia si trattava in definitiva di additare
all’umanità intera un arduo percorso di redenzione19. Questo però ci conduce
per l’appunto alla questione dell’operatività politica dei canti del grande
poema. Nella Commedia il discorso politico non appare quasi mai orientato in
modo evidente verso obiettivi pratici immediati; e i vari canti non hanno, in ge-
nere, l’obiettivo di indicare il modo in cui singoli attori o soggetti politici do-
vrebbero agire in rapporto a situazioni specifiche e ben determinate.
Intendiamoci: ciò non significa affatto che la Commedia non sia un’opera
profondamente, se non addirittura interamente, politica. Al contrario! E infatti
il Poema stesso, valutandolo nella sua interezza, esprime un discorso politico
assolutamente chiaro. Poema «della rettitudine» – per usare l’espressione che
Dante stesso, sin dai tempi del De vulgari eloquentia (Dve, II II 9), aveva at-
tribuito al genere di poesia per cui si riteneva particolarmente versato –, la
Commedia è in realtà certamente anche un’opera di denuncia impietosa di una
società che in tutte le sue articolazioni appariva gravemente compromessa con
il peccato. In questo senso Dante si proponeva anzi come il censore ed il de-
nunciatore implacabile delle miserie e delle meschinità dei suoi contempo-

19
Da questo punto di vista, come noto, il viaggio di Dante nell’Oltretomba fu indubbia-
mente pensato non soltanto come un cammino di purificazione personale, ma anche come il
simbolo e la figura di un percorso di salvezza collettiva che doveva essere intrapreso da tutta
l’umanità (cfr. ad esempio M. BARBI, Dante. Vita, opere e fortuna. Con due saggi su France-
sca e Farinata, Firenze, Sansoni, 19523 [1a ed. 1933], p. 96). In realtà è stato anche notato che
tra questi due piani di racconto – quello cioè del Dante singolo peccatore salvato dall’intervento
di Beatrice e sottratto ad un destino personale di perdizione morale e di traviamento intellet-
tuale grazie ad un viaggio ultraterreno dagli abissi del male fino alla diretta contemplazione
di Dio, e quello per contro del Dante profeta morale e civile che riceve direttamente da Dio il
mandato di indicare al mondo intero la strada della salvezza – sussisterebbe in realtà un con-
trasto di fondo difficilmente sanabile. Gennaro Sasso al riguardo ha anzi parlato di un registro
«beatriciano» del riscatto personale di Dante e di un opposto registro «cacciaguidiano» del
Dante disvelatore del degrado del mondo, e ha sottolineato che questi sarebbero in effetti «due
elementi aspramente dissonanti, che non è possibile far riconvergere l’uno nell’altro nel segno
dell’armonia» (cfr. G. SASSO, Le autobiografie di Dante, Napoli, Bibliopolis, 2008, in parti-
colare, per quanto riguarda la citazione, alle pp. 126-27). Quel che è certo – a me pare – è che
questi due distinti registri sono però compresenti nel Poema sin dal principio, cioè dallo smar-
rimento nella selva oscura, che è ad un tempo lo smarrimento di Dante ma anche quello del-
l’umanità tutta (cfr. infra le note n° 22-30 ed il testo corrispondente). Sull’argomento è tornata
di recente, e con dense riflessioni, anche Elisa Brilli: E. BRILLI, Firenze e il profeta. Dante fra
teologia e politica, Roma, Carocci, 2012, alle pp. 324-54.
Dante e il quadro politico italiano 19

ranei, e come l’intransigente fustigatore della realtà civile e politica del suo
tempo (da Firenze alla Toscana, dall’Italia all’intera Cristianità e alle massime
istituzioni universalistiche). Questa opera di denuncia non era evidentemente
fine a stessa, ma rispondeva all’idea di dover additare agli uomini una via di
salvezza, che implicasse necessariamente anche il raddrizzamento delle de-
generazioni politiche che il poeta denunciava ai diversi livelli.
Si è parlato, non per nulla, della Commedia come di un poema con cui
Dante intese trasmettere «un messaggio che fosse ad un tempo monito al-
l’umanità e alla Chiesa tralignante del suo tempo, e testimonianza della giu-
stizia divina punitrice e redentrice»20. Ma in questo senso si potrà allora
affermare che il discorso politico di Dante andava invero ben al di là della
mera indicazione dei mali del mondo, in quanto si caricava di valenze che ine-
rivano precisamente alla prospettiva anagogica della salvezza del genere
umano.
L’umanità si sta perdendo – era questo, in definitiva, uno dei punti chiave
del messaggio dantesco – e perfino la venuta del Redentore, ossia di Cristo,
si sta rivelando inefficace. Le «genti dolorose / c’hanno perduto il ben del-
l’intelletto» (Inf., III 17-18), sono non a caso una schiera infinita ed in con-
tinuo aumento: già solo nell’Antinferno la massa degli ignavi, «che visser
sanza infamia e sanza lodo» (Inf., III 36) è popolata di «sì lunga tratta / di
gente, ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta» (Inf., III
55-57); e coloro che si affollano sulle rive dell’Acheronte nell’attesa di essere
traghettati da Caronte verso l’Inferno vero e proprio sono a loro volta una
massa impressionante di anime, che si rinnova e si accresce di continuo (ivi,
112-20). A queste immagini di un’immane massa di umanità dannata, fa spe-
cularmente riscontro, alla fine del Poema, l’osservazione di Beatrice sul fatto
che la rosa dell’Empireo, cioè lo stesso Paradiso, è ormai quasi piena in ogni
suo rango, mentre tutt’altro che numerose sono le anime che ancora vi si at-
tendono: «“vedi li nostri scanni sì ripieni, / che poca gente più ci si disira”»
(Par., XXX 131-32)21.
Insomma, mentre coloro che si avviano a precipitare nel Regno infernale
sono sterminate legioni, pochi, o quasi più nessuno, sono coloro cui è riser-
vato il Regno dei Cieli; né ingente è in vero la folla di coloro che si trovano
sul Monte purgatoriale o che ad esso sono destinati, se consideriamo che ap-
pena «più di cento spirti» si ritrovano sul «vasello snelletto e leggero» (quella
di Caronte era invece, e non a caso, una «nave») che conduce le anime al Pur-
gatorio (Purg., II 45, 52 e 41; e Inf., III 82)22.

20
Cfr. R. MORGHEN, Dante profeta [1970], in ID., Dante profeta tra la storia e l’eterno,
Milano, Jaca Book, 1983, pp. 139-57, a p. 152.
21
Mi rifaccio per queste considerazioni a quelle, lucidissime, di Francesco Ercole: ERCOLE,
Le tre fasi, cit., pp. 334-35.
22
Questa idea della grande sproporzione quantitativa (con tutte le implicazioni, anche di
20 Francesco Somaini

Ma questo stato di perdizione che sembra gravare sull’intero genere


umano, o quanto meno sulla gran parte di esso, non dipende soltanto da cause
individuali, cioè dalla malvagità e dalla perversione dei singoli, ma anche da
ragioni di natura, per l’appunto, politica. Da un lato vi sono infatti una Chiesa
ed un Papato che sembrano aver smarrito il senso della loro missione, di guida
spirituale del genere umano. E dall’altro vi è il fatto che nel mondo (e in Ita-
lia in modo particolare) non esiste agli occhi di Dante più alcun potere, alcun
«publicum moderamen» – per usare un’espressione dell’Epistola, VI 2 – che
svolga l’indispensabile opera di contenimento rispetto al dilagare delle pul-
sioni egoistiche, e di conseguenza del peccato stesso. Manca cioè l’Impero
come supremo principio d’ordine universale con funzione frenante e conte-
nitiva – o «cateconica» (se vogliamo dirla con le parole di Paolo di Tarso
nella recente rimeditazione di Massimo Cacciari) –, e da questa duplice ca-
renza delle due massime autorità universali discende per Dante l’impossibi-
lità di porre un argine al male ed impedire la dannazione dell’umanità23.
Si badi: al tema dell’assenza dell’Impero, e della portata delle conse-
guenze che da ciò derivavano, l’Alighieri era in definitiva già pervenuto con
la composizione del IV libro del Convivio (che in un certo senso aveva se-
gnato il suo passaggio dall’originaria ideologia municipalistica ad una vi-
sione chiaramente «imperialista»)24. Ma il principio fu poi palesemente
indicato anche nella Commedia, sin dall’inizio della stesura25. Lo si evince,

tipo politico, che da questo argomento si sarebbero potute trarre) tra le anime destinate
all’Inferno e quelle destinate agli altri due regni ultraterreni, era a mio vedere chiaramente
presente in Dante sin dall’inizio della prima cantica, come appunto mi paiono rivelare in modo
inequivoco non soltanto i ricordati versi dei tre canti richiamati nel testo (Inf., III, Purg., II e
Par., XXX), ma anche le precise allusioni di carattere nautico formulate da Caronte sempre nel
III canto dell’Inferno. Non per nulla, nell’accennare al fatto che Dante sarebbe dovuto passare
all’Oltretomba «per altra via» e «per altri porti», il demoniaco traghettatore di Acheronte
faceva allusione (con evidente riferimento alla barca che conduce le anime al Purgatorio) ad
un viaggio da compiersi su un «più lieve legno» (Inf. III 93), con un richiamo che si riferiva
propriamente alle diversità delle imbarcazioni ultraterrene, le quali dovevano differire tra loro
per stazza (e dimensioni) non solo e non tanto perché deputate a trasportare peccatori gravati
dal peso del peccato o alleggeriti dall’esserne stati assolti (come ha sostenuto di recente Nicola
Fosca: N. FOSCA, commento 2000-2003, in Dartmouth Dante Project, cit., ad locum [Inf., III
93]), bensì proprio in ragione del ben diverso numero delle anime da trasportare nel primo o
nel secondo Regno.
23
Il riferimento è a M. CACCIARI, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano,
Adelphi, 2013 (le pp. 96-101 sono espressamente dedicate al pensiero di Dante).
24
Sull’ideologia “municipalista” di Dante cfr. infra la nota n° 66. Per la sua conversione
in senso “imperialista” (espressione da preferire rispetto a quella di una sorta di svolta “ghi-
bellina”) cfr. qua sotto la nota n° 25.
25
Per la datazione dell’inizio effettivo della stesura della Commedia l’opinione dei dantisti
è ancora molto oscillante. Le ipotesi variano infatti dal 1304 fino al 1308: cfr. ad esempio E.G.
PARODI, La data della composizione e le teorie politiche dell’‘Inferno’ e del ‘Purgatorio’.
Primo articolo, cit., alle pp. 235-40; BARBI, Dante, cit., pp. 78-80; N. SAPEGNO, op. cit., pp.
Dante e il quadro politico italiano 21

ad esempio, dalla stessa profezia del Veltro, pronunciata non a caso da Vir-
gilio (cioè da colui che era stato il cantore, e potremmo dire l’esaltatore, del-
l’Impero augusteo) nel canto I della prima cantica (Inf., I 91-111)26.
Forse meno chiara, al momento in cui Dante intraprese la composizione
del Poema, era semmai l’idea che la latitanza dell’Impero fosse determinata
non soltanto dall’assenza degli imperatori o dalla loro inettitudine, ma anche
dall’azione impeditiva (quando non esplicitamente espropriativa) svolta dal
Papato ai danni dell’Impero stesso. Alla piena messa a fuoco di questo con-
cetto, che nel canto XVI del Purgatorio sarebbe però stato comunque illu-
strato in modo cristallino da Marco Lombardo, Dante potrebbe essere infatti
pervenuto solo in un secondo momento, con la prima cantica già completata
e forse anche con alcuni canti della seconda già scritti. In una prima fase del
suo pensiero, il problema del Papato gli doveva essere infatti parso più che
altro quello della sua correzione rispetto alle degenerazioni morali che lo sta-
vano drammaticamente corrompendo, anche in forza della sua crescente mon-
danizzazione e progressiva “carnalizzazione”27. In questo senso si può dunque

246-47; VALLONE, op. cit., p. 288; G. PETROCCHI, Intorno alla pubblicazione dell’Inferno e
del Purgatorio, in ID., Itinerari danteschi, cit., pp. 63-87, a p. 64; ID., Vita di Dante, cit., p. 102.
MALATO, op. cit., p. 150; GORNI, op. cit., p. 231. È però opinione ormai pressoché
unanimemente condivisa che Dante si sia gettato nell’impresa della Commedia, interrompendo
di fatto la prosecuzione del Convivio (al quale egli avrebbe in sostanza smesso definitivamente
di lavorare al più tardi nel 1308). Ma, com’è noto, nell’ultimo libro del Convivio che fu portato
effettivamente a termine (e cioè il IV sui 15 originariamente previsti), Dante aveva affrontato
proprio il tema dell’Impero, giungendo alla conclusione della sua inderogabile necessità quale
unico fattore (razionalmente necessitato e storicamente legittimato dalla provvidenza divina)
in grado di impedire il sorgere di discordie e di guerre tra le diverse aggregazioni umane e
quindi di assicurare la pace nel mondo e di rendere possibile agli uomini il perseguimento del
loro fine naturale, ossia il raggiungimento, su questa terra, della felicità. Al momento di
intraprendere la stesura della Commedia la svolta “imperialista” di Dante era dunque già
pienamente compiuta (per lo meno sul piano intellettuale), anche se l’assenza di un imperatore
chiaramente interventista, quale si sarebbe poi rivelato Enrico VII (i cui propositi di venire in
Italia non si palesarono prima del 1309) rendeva inizialmente quei convincimenti filo-imperiali
di Dante ancora privi di un chiaro referente politico (sull’argomento cfr. ad esempio ERCOLE,
Le tre fasi, cit., pp. 313-14; PASSERIN D’ENTRÈVES, op. cit., pp. 61-66; CHIMENZ, op. cit., p.
410; anche SAPEGNO, op. cit., p. 247).
26
Cfr. in proposito A. SOLMI, L’Impero universale a l’allegoria del Veltro [1913], ora in
ID., Il pensiero politico di Dante. Studi storici, Firenze, La Voce, 1922, pp. 71-105.
27
Riguardo alle considerazioni che Dante fa pronunciare a Marco Lombardo si rileggano
in particolare i celeberrimi versi 106-112 del canto XVI del Purgatorio: «Soleva Roma ch’el
buon mondo feo, / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo.
/ L’un l’altro ha spento, et è giunta la spada / col pasturale, e l’un con l’altro insieme / per viva
forza mal convien che vada; / però che, giunti, l’un l’altro non teme» (vv. 106-12). In merito
invece al tema dell’evoluzione del pensiero politico di Dante (in particolare alla messa a fuoco
delle responsabilità storiche del Papato in rapporto alla crisi dell’istituzione imperiale) mi
paiono particolarmente pregnanti le osservazioni di Francesco Ercole (cfr. ERCOLE, Le tre fasi,
cit., in particolare alle pp. 338-93). Non considero viceversa persuasive le obiezioni che
22 Francesco Somaini

riconoscere nel pensiero di Dante anche uno svolgimento di tipo dinamico,


che nel corso della scrittura del Poema lo dovette portare ad una migliore
precisazione di alcuni importanti nodi concettuali28.
Ma questo non toglie che la Commedia nacque programmaticamente
come un poema fortemente politico, perché appunto vi si riconosceva il pro-
posito di far aprire gli occhi agli uomini sulla necessità urgente del ripristino
delle grandi istituzioni universali, con la restaurazione dell’Impero ed il ri-
torno del Papato ai compiti che gli erano propri29. In questa prospettiva il di-
scorso politico soggiacente all’ordito del Poema era perciò ad un tempo
chiaro ed altissimo, e davvero non si può dire che si trattasse di un elemento
secondario o relativamente marginale30. Né d’altro canto, tale discorso si li-
mitava semplicemente all’esposizione di questo disegno di ordine generale
(che pure già sarebbe stato moltissimo). In realtà infatti la politica è ovunque
nella Commedia; e pressoché in ogni canto si ritrovano giudizi politici, o po-

all’Ercole furono mosse, ad esempio, da Bruno Nardi: B. NARDI, Tre pretese fasi del pensiero
politico di Dante, in ID., Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 276-
310. Sul tema dell’evoluzione del pensiero politico di Dante si veda comunque anche qua
sotto la nota n° 28.
28
L’idea che il pensiero politico di Dante espresso nella Commedia fosse in vero soggetto
a significative trasformazioni e precisazioni nel corso del tempo non fu espressa soltanto da
Francesco Ercole nell’intervento che si è qui più volte richiamato (cfr. ERCOLE, Le tre fasi,
cit., pp. 271-407), ma era già stata colta con notevole chiarezza anche da altri studiosi, come
ad esempio Ernesto Giacomo Parodi (PARODI, La data della composizione e le teorie politiche
dell’Inferno e del Purgatorio. Primo articolo, cit.,pp. 253-62). Di recente il concetto è stato
ripreso anche da Gennaro Sasso, che ha però giustamente osservato come una costante della
Commedia debba comunque essere riconosciuta nel richiamo di Dante alla necessità di
ripristinare la pace (cfr. SASSO, Dante, cit., pp. 103-14). Elisa Brilli, a sua volta, ha sottolineato
le trasformazioni dei giudizi e degli atteggiamenti di Dante in rapporto a Firenze, pur nel
quadro del frequente ricorso, nella Commedia, alla categoria della civitas diaboli (cfr. BRILLI,
op. cit., pp. 121-270).
29
Per dirla con le parole di Michele Barbi, Dante si mise insomma a scrivere la Commedia
perché si sentiva chiamato «a mostrare i disastrosi effetti della mancanza delle due guide
stabilite da Dio per la salute degli uomini» (BARBI, Dante, cit., p. 79).
30
Mi permetto a questo proposito di dissentire piuttosto radicalmente da Giorgio Petrocchi,
il quale postulò a suo tempo l’esistenza di due grandi «linee conduttrici» del Poema – una
ascetico-morale ed una stilistico-linguistica – relegando invece le valenze politiche della
Commedia ad una dimensione se non proprio trascurabile certo secondaria e non essenziale,
e descrivendo i temi politici solo come una delle numerose «correnti di sviluppo» connesse ai
«due indiscutibili propositi di perfezionamento dell’uomo di fede e del letterato». In altri
termini, se non interpreto male le parole del grande dantista, il discorso politico di Dante – al
pari dei suoi giudizi sulla «cronaca contemporanea», o del «rapporto con i classici latini» o
dell’«esperienza teologica» – sarebbbe stato secondo Petrocchi solo uno dei molti contrappunti
svolgentisi attorno ai due temi principali, o tutt’al più un «movente» per spunti di riflessione
o per moti di indignazione (cfr. PETROCCHI, Vita di Dante, cit., pp. 123-24; ID., Itinerari nella
‘Commedia’ [1964], in ID., Itinerari danteschi, cit., pp. 9-20, in particolare alle p. 10 e 16-17).
A me pare invece di riconoscere nel tema politico un’importanza fondamentale in rapporto al
significato ed al fine dell’intera Commedia.
Dante e il quadro politico italiano 23

litico-morali, o storico-politici.
Già solo la scelta di collocare all’Inferno, in Purgatorio o in Paradiso per-
sonaggi di un passato anche recentissimo comportava delle forti implicazioni
politiche (che divenivano ancor più significative in quei casi in cui Dante si
spinse fino a profetizzare il destino ultraterreno di individui ancora viventi nel
momento stesso in cui egli scriveva: tanto più se si trattava di personaggi di
grande rilievo politico, come il pontefice Clemente V del canto XIX dell’In-
ferno). Inoltre, e al di là di questo, si dovrà naturalmente ricordare che nel
Poema si ritrovano in gran quantità parole di condanna, di biasimo, di irri-
sione, di denuncia, o magari di elogio o di giustificazione all’indirizzo tanto
di singoli personaggi quanto di gruppi ed aggregati più estesi (famiglie, di-
nastie, città, regni, istituzioni). E ancora vi sono poi le numerose e diverse pro-
fezie politiche – aperte o chiuse, esplicite o ambigue, post eventum o ante
eventum – inerenti a fatti ed eventi che Dante prevedeva, auspicava o paven-
tava potessero accadere in futuro, o che, più spesso, egli già sapeva essere
accaduti (e che potevano essere presentati come futuri in virtù della fictio
poetica che collocava lo svolgimento della fabula nell’anno 1300). Sempre in
tema di giudizi politici, nel Poema vi sono poi anche molte invettive e male-
dizioni nei riguardi di ciò che a Dante sembrava più disdicevole, così come
non mancano invocazioni ed incitamenti (magari in forma di riprovazione
del contrario) a favore di ciò che il poeta poteva ritenere giusto, auspicabile
o necessario in rapporto a particolari contesti, che si trattasse del suo chiodo
fisso, Firenze, o di altre realtà locali o sovra-locali italiane od europee, come
pure di altri ambiti, spazi o situazioni particolari: dagli ordini religiosi agli
schieramenti fazionari... Onnipresenza della politica, quindi.
E tuttavia – come si diceva – quello che nel Poema solitamente manca
sono invece delle indicazioni o dei suggerimenti di carattere pratico su ciò che
singoli attori (individuali o collettivi) dovrebbero concretamente “fare” in re-
lazione a specifiche congiunture o per risolvere particolari problemi. Nel di-
scorso del poema dantesco, infatti, questo tipo di sollecitazioni sono in vero
assai rare; ed è proprio in questo senso che si può dire che la Commedia non
fosse un’opera particolarmente ricca di proposte o consigli di tipo immedia-
tamente operativo.
Il canto VI del Purgatorio sfugge tuttavia, come già si è accennato, a que-
sta caratteristica più o meno generale del Poema, e si presenta invece come
un vero e proprio testo ad operationem, nel senso che abbiamo sopra indicato.
Si tratta infatti di un canto decisamente militante, che esprime intenti opera-
tivi concreti e che, tra le altre cose, si ripropone per l’appunto anche di indurre
attori particolari a compiere azioni specifiche al fine di favorire il consegui-
mento di risultati effettivi in rapporto ad uno scopo preciso o, se si preferisce,
ad una precisa battaglia politica31.

31
Questo connotato fortemente “militante” del VI canto del Purgatorio non era sfuggito
24 Francesco Somaini

In particolare, a me sembra di poter dire senza incertezze che l’interlocu-


tore precipuo cui Dante intendeva rivolgersi con quel canto era l’imperatore
designato Enrico VII di Lussemburgo (segnalo qui che come imperatore En-
rico dovrebbe essere in realtà chiamarlo Enrico VI, perché il primo degli En-
richi, e cioè Enrico I di Sassonia, fu solo re di Germania, quando il Regno
teutonico ancora non era stato formalmente associato alla funzione impe-
riale)32. E la battaglia politica cui l’Alighieri intendeva chiamare quel sovrano
era precisamente quella relativa alla risistemazione del quadro italiano, su
cui Dante, nel momento in cui scriveva questo canto, doveva avere evidente-
mente l’idea che fosse possibile intervenire in modo fattivo.

2. Il contenuto politico del canto (e la sua possibile datazione)

Il canto VI del Purgatorio – in linea con quella che è stata definita come
la mentalità «naturaliter matematica» di Dante e con le sue propensioni a de-
finire simmetrie ed elaborare una precisa «geometria del testo»33 –, si pone
per molti versi in diretta relazione con gli altri canti sesti del Poema, che, se-
condo la tradizione, vengono solitamente indicati come i canti più segnata-
mente politici dell’intera Commedia34. Va detto infatti che se la politica si

al Parodi, che arrivò anzi a qualifcare quello stesso canto come «una vera lirica d’occasione»
(PARODI, La data della composizione e le teorie politiche dell’Inferno e del Purgatorio.
Secondo articolo, cit., p. 285). Allo stesso modo Aurelio Roncaglia lo definì persuasivamente
come una tipica prova di «littérature engagé» (RONCAGLIA, op. cit., p. 417).
32
Enrico di Lussemburgo (alias Henri de Luxembourg-Limbourg) fu in effetti VII come
re di Germania (o addirittura VIII se consideriamo anche Enrico di Svevia, imposto sul trono
tedesco dal padre Federico II); ma fu soltanto VI come re d’Italia, come re dei Romani e come
imperatore; e addirittura soltanto V come re di Borgogna o di Arles. Come conte di
Lussemburgo, titolo a cui peraltro egli abdicò in favore del figlio Giovanni nel 1310, alla vigilia
di scendere nella Penisola, egli era invece egualmente Enrico VII, essendo stato in effetti il
settimo con quel nome ad assurgere (nel 1288) alla dignità comitale. Riguardo invece ad Enrico
I di Sassonia, alias Enrico l’Uccellatore, gioverà ricordare che egli fu re di Germania dal 918
al 936, prima quindi che il figlio Ottone I (alias Ottone il Grande) si assicurasse il controllo
della corona italica (nel 951), e quindi di quella imperiale (nel 962), di fatto associandole, da
quel momento, in un rapporto di unione, ma non di fusione, con la corona del Regno tedesco.
In conseguenza di ciò, come imperatore (e come re d’Italia) il vero Enrico I fu in effetti colui
che abitualmente viene indicato come Enrico II, ossia Enrico di Franconia (1024-1037).
Dunque l’intera serie degli imperatori e re d’Italia di nome Enrico – e cioè Enrico III (1039-
1056), Enrico IV (1056-1106), ed Enrico V (1106-1125) di Franconia; Enrico VI di Svevia
(1190-1197), e appunto il nostro Enrico VII di Lussemburgo (1308-1313) – a rigore andrebbe
in realtà indicata scalando di un’unità il numero ordinale di riferimento.
33
Cfr. GORNI, op. cit., pp. 60-61.
34
Si vedano ad esempio le osservazioni di Pasquini e Quaglio a commento del VI canto
dell’Inferno e del VI del Paradiso (ALIGHIERI, Commedia, a cura di E. PASQUINI e A. QUAGLIO,
cit., vol. I, Inferno, p. 66; e vol. III, Paradiso, p. 81).
Dante e il quadro politico italiano 25

affaccia pressoché ovunque nel poema dantesco – il quale anzi, come si diceva,
è esso stesso opera (anche) fondamentalmente politica – si può comunque ri-
conoscere che nei tre canti sesti di Inferno, Purgatorio e Paradiso il tema si
dipani con una linearità di svolgimento particolarmente riconoscibile.
In particolare – come ha ribadito di recente Giorgio Inglese – si può rile-
vare che i tre canti siano unificati in fondo da un nesso comune, che è poi
quello della «polemica contro lo spirito di fazione»35. Nel VI canto dell’In-
ferno, che è poi il canto di Ciacco, si affrontano infatti i contrasti interni a Fi-
renze, «la città partita» (Inf., VI 61); mentre le divisioni che lacerano l’intera
Penisola sono il tema del VI del Purgatorio. Infine, nel VI del Paradiso, ossia
nel canto di Giustiniano, si tocca la questione delle divisioni fra guelfi e ghi-
bellini in relazione al simbolo imperiale, osteggiato ed insultato dai primi
(che gli preferiscono i gigli di Francia) e sporcato e deturpato dai secondi
(che se ne servono per perseguire i loro fini particolari)36.
Una seconda, ben nota, osservazione che si può poi avanzare riguarda la
progressiva dilatazione della prospettiva spaziale e del focus geografico dei
tre canti37. Dante, infatti, alza progressivamente lo sguardo dall’orizzonte ci-
vico fiorentino del canto VI dell’Inferno a quello della realtà italiana che pre-
domina nel VI del Purgatorio, fino a giungere, nel VI del Paradiso, a
considerare il tema politico (e segnatamente il problema dell’Impero) nella
sua valenza più propriamente universalistica e dunque su una scala che po-
tremmo definire mondiale38. A questo ampliamento della prospettiva corri-
sponde peraltro anche una progressiva dilatazione sul piano prettamente
quantitativo della parti propriamente politiche di ciascun canto39. Soprattutto
però è sul piano dell’approfondimento problematico che i tre canti sesti ri-
velano, in modo certamente voluto, un progressivo ampliarsi degli elementi
di giudizio considerati.

35
Cfr. ALIGHIERI, Commedia, cit., a cura di G. INGLESE, vol. II, p. 100. Ma si veda anche,
ad esempio, il commento di Umberto Bosco e di Giovanni Reggio: U. BOSCO e G. REGGIO,
Commento 1979, in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Par. VI 97-111.
36
Si veda, a mero titolo esempio, anche il commento di Giorgio Padoan al VI canto
dell’Inferno: G. PADOAN, commento 1967, in Dartmouth Dante Project, it. con riferimento a Inf.,
VI, conclusione.
37
Cfr. ad esempio il commento di Francesco Mazzoni al VI canto del Paradiso: F. MAZZONI,
commento 1965-1985, in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Par., VI, Nota.
38
Si vedano ad esempio le osservazioni di Attilio Momigliano al VI canto del Paradiso: A.
MOMIGLIANO, commento 1946-1951, Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Par., VI,
1-111.
39
La parte politica del VI canto dell’Inferno, dedicata a Firenze, si mantiene entro un’esten-
sione piuttosto contenuta: 33 versi su 115, pari a meno di un terzo del totale. Nella seconda
cantica i versi della sezione politica del canto VI sono invece 76 su 151, pari dunque alla metà
della lunghezza complessiva del canto. Infine nel VI del Paradiso (il canto di Giustiniano) il di-
scorso politico o storico-politico arriva ad estendersi in realtà per 111 versi su 142, superando
dunque i tre quarti del totale.
26 Francesco Somaini

Nel VI dell’Inferno la descrizione dei mali che colpiscono Firenze si basa


infatti su una lettura limitata ancora ad un livello esclusivamente morale. In
risposta a Dante, che lo interroga sulla causa delle discordie civili fiorentine,
il goloso Ciacco afferma infatti che «superbia, invidia e avarizia sono / le tre
faville c’hanno i cuori accesi» (Inf., VI 74-75). E pochi versi prima, lo stesso
dannato aveva esclamato che la città sull’Arno «è piena / d’invidia, sì che già
trabocca il sacco» (Inf., VI 49-50). Certamente si può dire che cominci già qui
quel percorso di associazione di Firenze all’immagine della civitas diaboli
che Dante avrà poi modo di sviluppare ed approfondire lungo tutto il corso
della Commedia, arricchendolo via via di sfumature e significati diversi40.
Ma in ogni caso quelle di Ciacco sono parole in cui l’elemento emotivo, an-
corché parte di un giudizio morale che Dante/personaggio mostra in realtà di
condividere senza riserve, paiono senz’altro far premio sull’analisi razionale:
se Firenze, infatti, è lacerata ed è preda di sanguinose divisioni, è perché vi do-
mina il peccato. Non c’è bisogno, a fronte di una spiegazione del genere, di ra-
gionamenti esplicativi più articolati. Il richiamo a «superbia, invidia e avarizia»
(quest’ultima da intendersi naturalmente come “avidità” e dunque anche come
libido e cupiditas dominandi) spiegano in fondo già tutto quanto41.
Nel VI del Purgatorio, invece, il discorso si fa decisamente più complesso,
e all’elemento di giudizio morale – che pure è presente ed anzi conferisce
alle parole di Dante un tono ad un tempo addolorato ed indignato per le sorti
della Penisola – si aggiungono in realtà anche degli elementi di valutazione
di tipo indubbiamente più analitico, che per l’appunto permettono al Dante/io-
narrante di formulare giudizi di carattere non soltanto emotivo e morale, ma
anche più propriamente razionale e politico. Nella disamina dei guasti ita-
liani infatti Dante si sforza davvero di cogliere alcuni elementi strutturali
della crisi degli assetti della Penisola e si spinge anche ad additare delle pos-
sibili via d’uscita. All’immediatezza del sentimento morale sembrano quindi
affiancarsi l’analisi razionale, l’osservazione attenta della realtà ed anche l’in-
dividuazione di possibili risposte efficaci (seppure espresse nelle forme del-
l’invettiva, del sarcasmo e della deprecazione)42.

40
Su questo tema rimando alle recente e ben meditate considerazioni di Elisa Brilli: BRILLI,
op. cit., in particolare per i riferimenti al VI dell’Inferno, pp. 74-75, 99, 102, 177-78, 218-19,
41
Sul concetto di «avarizia» in Dante si veda E. BONORA, Avarizia, in Enciclopedia Dan-
tesca, cit., vol. I (1970), pp. 463-64.
42
Leonardo Sebastio sottolineò a suo tempo il fatto che in realtà Dante con questo canto
si assunse consapevolmente il ruolo di «poeta della palingenesi razionale della storia del
mondo» (SEBASTIO, op. cit., p. 39): il che implicava evidentemente anche la capacità di
analizzare la realtà, di coglierne le storture e di indicare le strade per porvi rimedio. Non per
nulla Benedetto Croce, che pure non amava in modo particolare questo canto, osservò
acutamente che Dante nella parte più propriamente argomentativa del canto stesso «non
dimentica nulla di quanto gli sta a cuore di dire per l’effetto politico che si propone di
raggiungere» (B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 19223 [1a ed.1920], p. 113).
Dante e il quadro politico italiano 27

Infine, nella grande e sontuosa digressione di Giustiniano, nel cielo di Mer-


curio, la prospettiva muta ulteriormente e i toni del discorso si spostano verso
una dimensione storico-provvidenziale, in cui le cose vengono ormai descritte
su una scala di secoli e secoli, trascendendo le stesse possibilità di percezione
(e dunque di comprensione) dei singoli individui. Nel VI del Paradiso, in altre
parole, il giudizio prettamente umano è in un certo qual modo superato dalla
profondità dello sguardo di chi ha accesso alla contemplazione della mente
divina e del disegno provvidenziale in tutto il suo svolgimento43. Per questo nel
canto di Giustiniano il discorso da prettamente politico si fa, in realtà, meta-
politico o teologico, e si eleva su un piano escatologico e trascendente44. E in-
fatti, ad illustrare la natura dell’Impero di Roma come istituzione voluta da Dio
per rendere manifestamente universale il significato salvifico del sacrificio di
Cristo ed anche per offrire agli uomini il modello di un ordine mondano di
giustizia che richiami, almeno in parte, quello divino, Giustiniano ripercorre,
attraverso il ricorso all’immagine allegorica dell’aquila imperiale – l’«uccel di
Dio» (Par., VI 4) ed il «sacrosanto segno» (Par., VI 32) – tutte le grandi tappe
della storia romana dai tempi di Enea45. Solo nel finale della sua lunga narra-
zione, prima cioè di cambiare parzialmente discorso e di additare la figura
esemplare di Romeo da Villanova quale modello di umiltà e di indifferenza alle
passioni mondane, Giustiniano riporta il proprio sguardo dai tempi lunghi e
plurisecolari della storia e della Provvidenza alla realtà politica più contingente
rispetto a Dante. E così le difficoltà dell’Impero del 1300 vengono in effetti at-
tribuite a fattori accidentali più immediati, quali appunto l’appropriazione per
fini di parte dell’immagine imperiale ad opera dei ghibellini e l’ostilità pre-
concetta che a quella stessa immagine veniva riservata dai guelfi e dalla Casa
d’Angiò (e gioverà qui ricordare che proprio Roberto d’Angiò all’epoca in cui
lo scontro con Enrico VII era divenuto incandescente, dopo la sentenza impe-
riale di condanna dell’aprile 1313, era stato colui che si era spinto fino a ne-
gare l’idea che l’Impero stesso avesse ancora una qualche funzione e che
potesse davvero considerarsi come la continuazione diretta dell’Impero ro-
mano). Nel finale del canto, dunque, il discorso di Giustiniano da teologico
e di lungo periodo torna a farsi politico in senso stretto e orientato sull’at-
tualità; ma ciò appunto accade solo in quella chiusa finale, laddove prima, al

43
Si veda ad esempio A.M. CHIAVACCI LEONARDI, commento 1991-1997, in Dartmouth
Dante Project, cit., con riferimento a Par., VI Nota.
44
Si possono qui riprendere le parole di Natalino Sapegno, per il quale Dante nel VI del
Paradiso affronta in effetti il tema politico «secondo uno spirito che si può ben definire
teologico, sollevato cioè in un’atmosfera che trascende le vicende della cronaca, ricondotto alle
linee esemplari di un processo provvidenziale che attua nel tempo, oltre la corta veduta
dell’uomo, un ordine stabilito ab aeterno»: N. SAPEGNO, commento 1955-57, in Dartmouth
Dante Project, cit., con riferimento a Par., VI 35-36.
45
Cfr. P. BREZZI, Il volo dell’aquila romana (Par. VI), in «Studi Romani», XII (1964), pp.
151-63.
28 Francesco Somaini

pari della “sua” aquila, Giustiniano aveva invece volato molto più alto46.
A queste osservazioni se ne deve poi aggiungere ancora un’altra, e cioè
che i tre canti sesti, oltre che per gli aspetti ora richiamati, differiscono fra di
loro anche per le diverse modalità comunicative che li contraddistinguono47.
Nel VI dell’Inferno c’è di fatto, come noto, un dialogo tra Dante e Ciacco:
Dante pone a Ciacco degli interrogativi sulle vicende recenti e meno recenti
di Firenze, e Ciacco risponde48. Il VI del Paradiso, invece, è tutto un monologo
del solo Giustiniano, che risponde, ma per tutta la distensione del canto, ad una
domanda che Dante si era posto nel canto precedente49. Quanto al VI del Pur-
gatorio, la sezione più propriamente politica è in realtà affidata ad un lungo in-
tervento di Dante stesso; e – si badi – non già del Dante/personaggio, bensì di
Dante/autore, o per meglio dire del Dante/io-narrante, il quale, sull’onda del-
l’emozione suscitatagli dall’aver appena descritto l’episodio dell’abbraccio
tra Sordello e Virgilio, sospende di colpo il proprio racconto e prende in prima
persona la parola per lanciarsi in una lunga exclamatio di natura politico-mo-
rale, che è di fatto una vibrata perorazione sui mali dell’Italia50.

46
Cfr. ad esempio A. MOMIGLIANO, Commento 1946-1951, in Dartmouth Dante Project,
cit., con riferimente a Par., VI 97-111; oppure D. ALIGHIERI, Commedia, a cura di E. PASQUINI
e A. QUAGLIO, cit., vol. III p. 85.
47
Su questo aspetto si vedano ad esempio le osservazioni di Leonardo Sebastio: SEBASTIO,
op. cit., pp. 45-46.
48
Come noto, nel VI canto dell’Inferno il personaggio Dante interroga Ciacco sull’esito
del conflitto tra guelfi Bianchi e guelfi Neri che lacerava Firenze nel 1300 (cioè al tempo del
viaggio ultramondano della fabula), quindi sull’eventuale presenza di giusti nella città
sull’Arno, e infine sulle ragioni che hanno portato Firenze a cadere in preda delle lotte civili.
Ciacco risponde profetizzando la vittoria effimera dei guelfi Bianchi (nel giugno del 1300) e
quindi il successivo ribaltamento della situazione, con la loro cacciata da parte dei Neri (Inf.,
VI 65). Al secondo quesito Ciacco risponde, con un possibile riferimento allo stesso Dante, che
di giusti in Firenze non ve ne sono che due «e non vi sono intesi» (Inf., VI 73); dopodiché
chiarisce che «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cuori accesi» (Inf., VI
74-75). Dante a quel punto chiede notizie sul destino post mortem di alcune delle grandi
personalità politiche della Firenze del secondo Duecento, (Farinata degli Uberti, Tegghiaio
Aldobrandi, Iacopo Rusticucci, Mosca dei Lamberti e un Arrigo) e la risposta fulminante di
Ciacco – che sembra mettere in crisi l'idea di Dante sulle figure più insigni della storia
fiorentina delle due o tre generazioni che lo avevano preceduto – è che tutti costoro si trovano
in realtà nell’abisso infernale: «“Ei son tra l’anime più nere”» (Inf., VI 85).
49
Come osservava ad esempio Anna Maria Chiavacci Leonardi, il VI del Paradiso fu in
effetti l’unico canto della Commedia interamente occupato, dall’inizio alla fine, dalle parole
di un solo personaggio. La cosa non era evidentemente un fatto casuale, ma un espediente per
dare enfasi «al significato provvidenziale dell'Impero come mediatore della divina giustizia
nella storia»: A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Commento 1991-1997, in Dartmouth Dante Project,
cit., con riferimento a Par., VI Nota.
50
Proprio per il suo carattere di lamento/denuncia sui mali della Penisola (non privo di
chiari riferimenti biblici alle Lamentationes di Geremia) Gennaro Sasso ha definito questo
lungo inserto discorsivo come una lamentatio (cfr. SASSO, Dante, l’imperatore e Aristotele, cit.,
Dante e il quadro politico italiano 29

In realtà, come noto, questo non fu certo l’unico caso nel corso della Com-
media in cui l’Alighieri ritenne di dover dare direttamente voce al suo io-nar-
rante, per fargli assumere in prima persona una posizione o per esprimere un
suo commento su fatti, personaggi o situazioni. Ma a parte il fatto che in que-
sto caso la presa di parola da parte di Dante è decisamente la più lunga e più
articolata di tutto il Poema, ciò che merita di essere preso particolarmente in
considerazione è proprio la costruzione di questa exclamatio, da Dante defi-
nita propriamente come una «digression» (Purg., VI 128)51.
Si tratta infatti di un intervento che appare impostato in una serie di apo-
strofi successive, a loro volta costruite come una sorta di sirventese politico52.
Dapprima, l’io-narrante dantesco si rivolge all’Italia (versi 76-90). Poi, il poeta
passa ad interloquire con la «gente» che dovrebbe «esser devota», ossia con
il Papato e le gerarchie ecclesiastiche e forse, più in generale, anche con quella
pars Ecclesiae, cioè i guelfi, che asserivano di riconoscere nel Papato il pro-
prio punto di riferimento politico (versi 91-96). Quindi la parola viene indi-
rizzata al Re dei Romani Alberto I d’Absburgo, immaginato come ancora vivo
(versi 97-117); dopodiché è direttamente Cristo in persona ad essere chiamato
in causa (versi 118-126). Infine, il discorso si chiude con una coda decisa-
mente sarcastica, indirizzata naturalmente a Firenze (versi 127-151)53.
Si tratta in definitiva di una serie di adlocutiones, che possono essere in-
terpretate anche come un vero e proprio esercizio di ars dictaminis in versi. La
costruzione retorica di questa parte del canto è in effetti indiscutibilmente ela-
borata, e la cosa non sfuggì a Benedetto Croce che non a caso (alla luce delle
sue concezioni sul valore della poesia) giudicò severamente questa parte, bol-
landola come un mero «pezzo oratorio, con partizioni, trapassi, esclamazioni,
esortazioni, ironie, sarcasmi»54.

p. 118). In ragione del celebre incipit del verso 76 («Ahi serva Italia, di dolore ostello») la
definizione di exclamatio non appare in effetti assolutamente fuori luogo (cfr. L. SEBASTIO, op.
cit., p. 40 n.).
51
Per parte sua Giorgio Inglese ha fatto notare che l’espressione «digression» utilizzata da
Dante al verso 128 sarebbe a ben vedere del tutto corretta anche sul piano strettamente tecnico,
poiché corrispondente all’esatto termine teorico utilizzato «per indicare il temporaneo
abbandono dell’argomento principale» di un discorso, come in effetti era accaduto in questo
caso (cfr. ALIGHIERI, Commedia, a cura di G. INGLESE, cit., vol. II p. 100).
52
L’analogia della digressione dantesca ai modelli di un sirventese politico fu sottolineata
ad esempio da Francesco Gabrielli: GABRIELLI, op. cit., p. 339.
53
Cfr. VARVARO, op. cit., alle pp. 127-31.
54
CROCE, op. cit., p. 113. Leonardo Sebastio ha sottolineato come il discorso di Dante sia
costruito «secondo i modelli della téchne poetica delle artes dictandi»; e poi osserva che «un
confronto con il ‘Documentum de arte versificandi’ di Geoffroi de Vinsauf dimostra con
sorprendente evidenza la voluta pedissequa imitazione di essi» (SEBASTIO, op. cit., pp. 39-40).
Anche le prescrizioni di Mathieu de Vendôme sarebbero state tenute presenti da Dante (ibid.,
p. 40 nota). Sull’argomento si veda anche PERUGI, op. cit., pp. 80-86. Sul normanno Geoffroy
de Vinsauf (detto Anglicus), vissuto tra XII e XIII secolo ed autore di una rinomata Poetria
30 Francesco Somaini

In generale sembra in effetti di poter dire che Dante avesse qui optato vo-
lutamente per una postura comunicativa non troppo distante, in buona so-
stanza, da quella delle dotte Epistolae politiche in prosa latina, che del resto,
come cercheremo di argomentare tra breve, dovettero essere composte (in par-
ticolare la V) più o meno in quel medesimo torno di tempo55.
Il vero dato da sottolineare, in ogni caso, è che con questa sua «digres-
sione» Dante non si limitò a dare sfogo ad un particolare moto di indigna-
zione, ma dovette effettivamente sentire il bisogno di dire con urgenza
qualcosa (e di dirlo nelle forme e nei modi di una dimostrazione di eloquenza
pubblica in versi). Lo scopo di questa serie di adlocutiones non doveva cioè
essere semplicemente quello di commuovere, stupire o impressionare i lettori,
quanto, e soprattutto, quello di convincere. Per questo entrò in gioco una co-
struzione retorica così elaborata. E proprio per questo, come già si notava, il
canto presenta degli elementi di indubbia peculiarità in rapporto al resto del
poema56.
Del resto, questa lunga prova oratoria non voleva certo essere un mero
sfoggio di abilità nelle tecniche dell’ars dictaminis, ma era invece un espe-
diente precisamente funzionale allo scopo argomentativo e persuasorio del
canto stesso (il che ci riporta di nuovo al tema dell’operatività su cui ci siamo
già soffermati). Dante voleva infatti trasmettere un messaggio politico ben
preciso che doveva giungere innanzitutto ad un interlocutore altrettanto ben in-
dividuato. Per questo il testo venne dunque costruito secondo le modalità di
un vero discorso di retorica pubblica (appunto in linea con gli insegnamenti
dell’ars dictaminis, e non privo, come si è visto, di toni talora sarcastici, in
conformità con la cifra stilistica dei sirventesi politici provenzali ed italici): per

Nova; e su Mathieu de Vendôme, abate di Saint-Denis, consigliere di Luigi IX e di Filippo III,


morto nel 1286 ed autore di una celebre ars versificatoria si vedano D. KELLY, Theory of
Composition in Medieval Narrative Poetry and Geoffrey of Vinsauf's Poetria Nova, in
«Medieval Studies», XXXI (1969), pp. 117-48; e F. MUNARI, Matteo di Vendôme, Ars I, 111, in
«Studi Medievali», XVIII (1976) pp. 293-305.
55
Sulle epistole di Dante, in particolare le epistole politiche, si vedano V. RUSSO, Le
Epistole politiche (tra Monarchia e Commedia) in ID., Impero e stato di diritto. Studio su
«Monarchia» ed «Epistole» politiche di Dante, Napoli, Bibliopolis, 1987, pp. 59-73; R.
MORGHEN, Le lettere politiche di Dante. Testimonianza della sua vita in esilio, in ID., Dante
profeta tra la storia e l’eterno, Milano, Jaca Book, 1983, pp. 89-107; A. MONTEFUSCO, Le
Epistole di Dante: un approccio al corpus, «Critica del testo», XIV/1 (2011), pp. 401-457; e
C. E. HONESS, Introduction. Rome once had two suns, in D. ALIGHIERI, Four Political Letters,
a cura di C. E. HONESS, London, Modern Humanities Research Association, 2007, pp. 5-44.
Per il testo delle epistole si veda invece D. ALIGHIERI, Epistolae, in ID., Tutte le opere, a cura
di L. BLASUCCI, Firenze, Sansoni Editore, 1965, trad. a cura di G. VINAY.
56
Cito ancora da Leonardo Sebastio, secondo cui la costruzione retorica di questa seconda
parte del VI canto del Purgatorio rispondeva all’intenzione di Dante di manifestarsi in una
nuova «nascente dimensione poetica»: quella del poeta della virtù (che si veniva in un certo
senso ad affiancare a quella del vate della salvezza): SEBASTIO, op. cit., p. 40.
Dante e il quadro politico italiano 31

assolvere questa precisa funzione57. Ma qual era dunque il senso di questo


messaggio politico? E chi era questo interlocutore privilegiato cui Dante in-
tendeva rivolgersi in via prioritaria?
Riguardo al senso del messaggio la risposta a me sembra piuttosto chiara.
Il tema centrale di questa lunga parte politica del canto VI è infatti costituito,
come si diceva, da una disamina piuttosto serrata dei guasti dell’Italia del
tempo. Dante in effetti individuò con esattezza alcuni elementi centrali per cui
il sistema politico della Penisola (e più precisamente il sistema degli stati cit-
tadini) non era a suo giudizio più in grado di reggere, né tantomeno di ga-
rantire livelli minimi di vivibilità. Era in particolare proprio l’Italia delle città
ad essere presa espressamente di mira. Infatti, anche se il discorso di Dante-
personaggio, sin dal verso iniziale («Ahi serva Italia [...]», v. 76) apparve vo-
lutamente rivolto all’intera Penisola, fu in realtà soprattutto sull’Italia degli
stati cittadini, e dunque sull’area centro-settentrionale dello spazio italiano,
che si concentrarono gli strali danteschi.
I Regni del Mezzogiorno continentale e insulare (cioè il Regno angioino
di Sicilia/Napoli e quello aragonese di Sicilia/Trinacria, così come la Sarde-
gna e la Corsica) non furono in effetti chiamati in causa in questa lunga serie
di invettive: il che peraltro non significa che il richiamo generale all’Italia
non fosse inteso da Dante come rivolto anche a quelle realtà; né che si debba
pensare che non fossero considerate come egualmente italiche anche quelle
altre parti d’Italia in cui il fenomeno delle città-stato non sussisteva58.

57
La tecnica retorica seguita in questa parte del canto sarebbe in particolare quella della
amplificatio: e quindi vi si troverebbero exclamationes, perifrasi, comparazioni, apostrofi, ana-
fore (o conduplicationes), subiectiones (cioè domande retoriche su cosa stesse facendo l’in-
terlocutore), dubitationes, prosopopee, digressioni, descrizioni e sarcasmi (cfr. PERUGI, op.
cit., p. 81; SEBASTIO, op. cit., p. 40; N. FOSCA, Commento 2003-2006, in Dante Dartmouth
Project, cit., con riferimento a Purg., VI, 76-78). E vi è naturalmente un corredo abbondante
di riferimenti e di citazioni classiche e bibliche (vetero e neo-testamentarie) (cfr. su questo
RONCAGLIA, op. cit., pp. 423-424).
58
È bene ricordare che in generale, ogni qual volta Dante (in ognuna delle sue opere) si
venne a riferire all’Italia, magari servendosi anche di sinonimi o di espressioni equipollenti
(come ad esempio «Ausonia», «Esperia», «Latium», «Terra Latina» o simili), il suo orizzonte
di riferimento fu sempre costituito dalla Penisola nel suo insieme dalle Alpi alla Sicilia, dalla
Liguria al Carnaro, «ch’Italia chiude e suoi termini bagna» (Inf., IX 114). L’Italia, in altre
parole, è per l’Alighieri sempre una, ed è l’Italia tutta, di fatto coincidente con l’Italia augustea,
l’Italia di Virgilio e della tradizione classica (cfr. al riguardo G.A. SCARTAZZINI, Enciclopedia
dantesca, continuata dal prof. A. Fiammazzo, Milano, Hoepli, 1905, vol. II, p. 1087; e vol. III,
p. 326; A. CECILIA, Italia, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. III [1971], pp. 529-531; F.
BRANCUCCI, Italia. Storia, ivi, pp. 531-533; e DAVIS, L’Italia di Dante, cit., pp. 31-53; inoltre
si vedano i testi citati supra nell’ultima parte della nota n° 1). Tutto ciò era in realtà già
chiarissimo nel De Vulgari Eloquentia, laddove Dante aveva analizzato i volgari italici
costruendo una precisa geografia linguistica che comprendeva l’intera Penisola divisa dalla
dorsale appenninica, così come l’area cisalpina e le isole di Sicilia, di Sardegna e di Corsica
(anche se quest’ultima non venne in effetti mai menzionata da Dante). Questa stessa nozione
32 Francesco Somaini

Diciamo, semmai, che quella che venne compiuta fu una scelta di carat-
tere metonimico (per cui Dante intendeva parlare dell’Italia tutta, discorrendo
però in realtà solo di una parte di essa). Tale scelta peraltro non fu, a mio
modo vedere, un fatto casuale. Ma su questo aspetto e sulle sue possibili mo-
tivazioni torneremo tra breve. Per l’intanto limitiamoci ad osservare che ri-
spetto all’Italia comunale, su cui più si concentrò la sua attenzione, Dante si
erse in effetti a critico severissimo ed implacabile.
I suoi versi fulminanti colgono con particolare lucidità uno dei punti no-
dali su cui si stava consumando la crisi strutturale del sistema delle civitates
indipendenti o semi-indipendenti: quello, cioè, delle lotte sanguinose e con-
tinue, dei conflitti generalizzati ed incontrollabili, delle lacerazioni insanabili
che pervadevano il mondo delle città, e che non si limitavano naturalmente a
porre un centro urbano contro l’altro, o i governi delle città contro i nuclei di
poteri signorile delle campagne. ma arrivavano a dilaniare fra loro gli stessi
concittadini, ossia «quei ch’un muro ed una fosse serra» (v. 84)59.
Che quello fosse davvero uno dei fattori su cui si stavano delineando ele-
menti di tensione insostenibile per gli assetti geopolitici complessivi del-
di Italia – «il bel paese dove’l sì suona» (Inf., XXXIII 80) – si ritrova indiscutibilmente anche
nella Commedia, senza eccezioni. Ciò vale anche per questo canto, dove il richiamo all’Italia
deve dunque essere considerato come rivolto all’intera realtà spaziale italiana, anche se poi,
in effetti, la disamina dei mali italiani su cui il poeta si sofferma si concentra in realtà, come
ora si diceva, sulla sola realtà centro-settentrionale, ossia sulla sola Italia delle città e di quelle
realtà signorili-feudali che con quell’Italia a predominanza urbana e comunale dovevano
volenti o nolenti interagire. Riguardo alla Corsica è stato giustamente argomentato che Dante
– in conformità con la geografia politica dell’Italia augustea – doveva considerare quest’isola
(cui in effetti non dedicò particolare attenzione) come una dipendenza della Sardegna (che è
invece menzionata tanto nel De Vulgari Eloquentia, quanto in più di un passo della Commedia)
(cfr. A. CECILIA, Corsica, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. II [1979], pp. 222; F. ALZIATOR
e P.V. MENGALDO, Sardegna, ivi, vol. V (1976), pp. 31-35.
59
Il tema delle divisioni – è stato notato giustamente da Aurelio Roncaglia – predomina
in effetti in tutta l’estensione del canto. Già la struttura del canto stesso appare in realtà divisa
esattamente in due parti: una sezione narrativa (dal verso 1 al verso 75) ed un’altra sezione
occupata per l’appunto dalla serie delle adlocutiones politiche (dal verso 76 al verso 151). Ma
oltre a questo, è poi da notare che lungo tutto il canto sono disseminate in realtà parole ed
immagini che rimandano al tema della divisione e dell’abbandono: dalla similitudine iniziale,
con l’immagine divisiva del verso 1 («quando si parte il gioco della zara») alla successiva
contrapposizione tra il perdente ed il vincitore del gioco di dadi (versi 2-4); dai versi 18-19 su
Pier della Broccia («l’anima divisa dal corpo suo») al verso 42 sull’inutilità delle preghiere dei
pagani («perch’el priego da Dio era disgiunto»); dal celebre verso 77 della «nave sanza
nocchiero» al verso 89 («la sella è vota»); dal verso 97 su «Alberto Tedesco ch’abbandoni»,
ai versi 112-113 su «Roma che piange vedova e sola»; dal verso 114 su «Cesare mio, perché
non m’accompagne?» ai versi 122-123 su «alcun bene in tutto da l’accorger nostro scisso». È
insomma tutto un ripetersi di verbi, preposizioni, e aggettivi che rimandano al tema della
separazione. A tutto ciò si contrappone, esattamente al centro del canto, solo l’immagine
improvvisa e toccante dell’abbraccio tra Sordello e Virgilio («l’un l’altro abbracciava»), che
fa in effetti da cesura tra le due sezioni del canto, e che offre lo spunto per l’irrompere di
Dante-io narrante con le sue invettive (cfr. RONCAGLIA, op. cit., p. 419).
Dante e il quadro politico italiano 33

l’Italia delle città era un dato di cui molti ai primi del Trecento dovevano in-
vero già essere largamente consapevoli60. Dante, che naturalmente ben co-
nosceva le amarezze dell’esilio, aveva una percezione vivissima del problema,
ed era in grado di valutarlo in tutta la sua ampiezza. Egli aveva cioè ben chiara
la dimensione dei conflitti in essere, e ne coglieva la portata, la vastità e la dif-
fusione, così come percepiva con grande chiarezza la varietà delle tipologie
di lotte e di contrasti che si intersecavano fra loro e si complicavano vicen-
devolmente61. Nei versi 106-111 del canto, ad esempio, con pochi rapidi tratti,

60
A tale riguardo basterà menzionare le reazioni entusiastiche e di grande attesa che furono
destate in larga parte d’Italia dalle grandi ambascerie della primavera-estate del 1310, inviate
da Enrico VII di Lussemburgo ad annunciare la propria venuta nella Penisola in vista della sua
duplice incoronazione (a re d’Italia e ad imperatore). L’annuncio che il sovrano si sarebbe
infatti presentato come pacificatore dei numerosi conflitti che dilaniavano l’Italia Superiore
suscitò, almeno inizialmente, grandi speranze, non solo tra i ghibellini (per definizione filo-
imperiali) o tra i fuoriusciti di vario colore (che potevano sperare in un intervento dall’alto per
rientrare in patria), e nemmeno tra i soli signori e principi territoriali, ma anche tra le semplici
popolazioni tanto delle città quanto delle campagne (cfr. ad esempio BOWSKY, op. cit., pp. 28-
34 e 51-52). In proposito si veda ad esempio la lettera che gli ambasciatori regi inviati in
Lombardia (Gerhard vescovo di Costanza [Konstanz], Siegfried von Gelhausen vescovo di
Coira [Chur], Ugolino di Vico ed Enrico di Ralvengo scrissero ad Enrico VII nell’agosto del
1310 (cfr. Monumenta Germaniae Historica, Legum Sectio IV, Constitutiones et acta publica
imperatorum et regum, vol. IV, p. I, a cura di J. SCHWALM, Hannover-Leipzig, Bibliopoli
Hahniani, 1906, doc. n° 379 alle pp. 325-31). Oppure si potrebbe fare riferimento a quanto
scrissero anni dopo, cioè tra l’aprile e l’agosto del 1317, i nunzi papali ad pacem reformandam
Bernard Gui e Bertand de La Tour nella loro informatio de statu Lombardie, in cui
raccontavano dell’accoglienza della loro missione «magno cum gaudio et reverencia» da parte
di popolazione esasperata dalle «incommodatibus guerrarum», anelante alla pace ed alla
possibilità di avere un «regem suum proprium» (Vatikanische Akten zur Deutschen Geschichte
in der Zeit Kaiser Ludwigs des Bayern, a cura di S. RIEZLER, Innsbruck, Wagner, 1891, doc.
50/I-V [1317 aprile 18 - 1317 agosto 20], pp. 23-39).
61
Cenni interessanti sul tema, e in particolare sul fatto che a partire dagli ultimi decenni del
Duecento si fosse determinato un allargamento «a dismisura» del ventaglio delle tipologie con-
flittuali, con il delinearsi di «una fitta trama di conflitti» della più diversa natura si possono tro-
vare nel recente lavoro di sintesi di Jean Claude Maire Vigueur e di Enrico Faini. Vi sono così
descritti gli scontri tra guelfi e ghibellini a livello locale e nei loro coordinamenti sovralocali,
gli scontri tra intrinseci ed extrinseci, e quelli politici e sociali tra magnati e popolani oppure
tra singole frazioni e componenti del Popolo, così come gli scontri, le faide e le divisioni tra fa-
miglie e famiglie, o le lotte – non di rado violentissime – all’interno di singole consorterie pa-
rentali, tanto di tradizione antica quanto di affermazione recente. E tutto questo senza
considerare i conflitti e le guerre tra città e città, quelli tra governi cittadini e piccoli o grandi
signori territoriali, e le contrapposizioni, spesso violente, tra leghe ed aggregazioni fazionarie
sovra-locali e pluri-cittadine. Cfr. J.C. MAIRE VIGUEUR e E. FAINI, Il sistema politico dei comuni
italiani (secoli XII-XIV), Milano, Bruno Mondadori, 2010, in particolare alle pp. 101-05. Ma
si vedano anche, per la polarizzazione tra guelfi e ghibellini, S. RAVEGGI, L’Italia dei guelfi e
dei ghibellini, Milano, Bruno Mondadori, 2009, in particolare alle pp. 7-26; e per quella tra
magnati e popolani R. MUCCIARELLI, Magnati e popolani. Un conflitto nell’Italia dei Comuni
(secoli XIII-XIV), Milano, Bruno Mondadori, 2009, in particolare alle pp. 4-15. Si vedano inol-
tre i testi segnalati infra nella nota n° 63.
34 Francesco Somaini

egli seppe disegnare varie manifestazioni di questa conflittualità diffusa: dalle


lotte tra antichi partiti, alle divisioni interne alle singole città; non senza tra-
scurare l’oppressione (la «pressura», v. 109 e le «magagne», v. 110) di cui sof-
frivano le grandi case dell’antica nobiltà feudale di tradizione comitale o
palatina (i «gentili» del verso 109), le quali parevano a loro volta incapaci di
un’iniziativa politica di qualche consistenza, in quanto frantumate ed indebo-
lite da profonde divisioni intestine, non di rado provocate dalle ripercussioni
dell’espansionismo urbano (quando non dai disegni politici di altri potentati
non cittadini, come potevano essere ad esempio gli interessi nepotistici di una
Chiesa Romana sempre più compromessa nelle cose mondane)62.
Insomma, Dante vedeva con grande nitore come in forza di tutto questo
imperversare inarrestabile di lotte, contrasti, conflitti, esili, espropri, violenze,
morti e lutti senza fine, il quadro politico italiano fosse di fatto pervenuto ad
una condizione di assoluto caos63. L’Italia, in poche parole, gli si presentava

62
In realtà quella nobiltà feudale e quelle grandi stirpi aristocratiche palatine (come i Guidi od
i Malaspina) cui pure Dante si era venuto rapportando in misura crescente negli anni dell’esilio –
soprattutto dopo la rottura con gli altri esuli guelfo-bianchi e prima della vicenda enriciana e del
successivo approdo presso le corti signorili urbane della Verona scaligera e della Ravenna
polentesca –, non gli dovevano sembrare nella condizione di esprimere una vera capacità di
iniziativa politica che in qualche modo le rilanciasse ad un ruolo non marginale. Certo, nei riguardi
di quel mondo aristocratico di signori territoriali un tempo mangnanimi, potenti e temuti e ora
culturalmente non meno che politicamente in declino, Dante doveva avere per qualche tempo
anche coltivato l’idea di potersi affermare come una sorta di mentore intellettuale e morale, in
particolare allorquando tra il 1304 ed il 1308 aveva lavorato alla stesura del Convivio e del De
vulgari eloquentia, o quando aveva composto alcune canzoni come Tre donne intorno al cor mi
son venute o Doglia mi reca ne lo core ardire. In breve però l’Alighieri doveva anche essersi
persuaso che la prospettiva di trovare in queste aristocrazie le energie morali del loro riscatto ed
il vigore per un’iniziativa politica “alta” non parevano in realtà realistiche, così come del resto
doveva aver maturato il convincimento che fosse destinata a rivelarsi senza prospettiva anche
l’idea che quel mondo potesse tornare ad alimentarsi di quella cultura illustre, aulica, cardinale, e
curiale di cui egli aveva lamentato l’assenza, e della quale aveva probabilmente sperato – pur con
le sue idee originali sulla nobiltà come frutto della virtù e non come portato della nascita – di
poter nutrire quel mondo (riprendo su questo punto le osservazioni che mi sono parse assai
pertinenti di Umberto Carpi: U. CARPI, La nobiltà di Dante, Firenze, Polistampa, 2004, vol. II, pp.
514-18, 554-55, 582, 626-27). Di fatto, dunque, anche quelle case che vantavano antiche tradizioni
e che si potevano ammantare di solenni titoli imperiali (e che quindi potevano dirsi a buon diritto
“palatine” proprio in quanto riconosciute ab imperiali palatio) erano in realtà in preda ad una
profonda debolezza: dilaniate dalle loro divisioni e spesso succubi della forza attrattiva e del
condizionamento politico dei centri urbani. Nel canto VI del Purgatorio, per esempio, si ritrova
un esplicito riferimento al caso degli Aldobrandeschi, usciti da poco da una guerra voluta dal
Papato bonifaciano e dal Comune di Siena, che appunto aveva portato alla dissoluzione di buona
parte dell’antico dominatus di quella storica stirpe maremmana (cfr. infra la nota n° 98).
63
Cfr. ad esempio SIMEONI, op. cit., vol. I pp. 4-6; E. ARMSTRONG, L’Italia al tempo di Dante,
in Storia del mondo medievale, cit., vol. VI (titolo originale [1932]), pp. 235-96, alle pp. 236-
38 e 295-96; e W. BOWSKY, Dante’s Italy: a Political Dissection, in «Historian», XXI (1958), pp.
82-100. Si vedano anche le indicazioni che si possono ricavare dai testi citati qua sotto nella nota
n° 64.
Dante e il quadro politico italiano 35

davvero come un «bordello» (v. 78), o una «nave sanza nocchiero in gran tem-
pesta» (v. 77). Doveva essere un giardino («il giardin de lo ’mperio»), ma era
in realtà ridotta a «diserto» (v. 105).
E non è tutto. Perché in questo scenario di desolazione e di crisi genera-
lizzata, le città erano anche precipitate verso quelle degenerazioni oblique
delle forme politiche di cui aveva parlato il grande Aristotele. Dante era di
questo era particolarmente consapevole, perché sapeva come molti Comuni
italiani avessero ormai visto affermarsi regimi dittatoriali di tipo signorile, in
cui gli inconsistenti presupposti di legittimità e la natura largamente arbitra-
ria del potere dei nuovi signori si presentavano ai suoi occhi con tutti i carat-
teri della tirannia. Per questo egli poteva quindi affermare amaramente che
«le città d’Italia / tutte piene son di tiranni» (vv. 124-125); così come poteva
constatare – anche in virtù di quello spirito tendenzialmente élitario che ani-
mava le sue concezioni politiche – che quei Comuni che ancora si reggevano
su forme di governo relativamente largo o su regimi di Popolo erano spesso
guidati, almeno secondo il suo punto di vista, da demagoghi cialtroni e di
bassa lega, che si atteggiavano a salvatori della patria: «e un Marcel diventa
/ ogni villan che parteggiando viene» (vv. 125-126)64. Quelle dittature di spre-
giudicati signori che si erano posti, senza averne titolo, alla guida di nume-
rose città, e quelle derive verso la demagogia tribunizia di certi regimi a
carattere popolare dovevano insomma apparirgli come un altro drammatico
segno di una crisi non più reversibile65.

64
Sull’origine delle signorie e sulle evoluzioni dei regimi di Popolo tra la fine del Duecento
ed i primi del Trecento si può rimandare G. CHITTOLINI, Introduzione a La crisi degli
ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1979, pp.
7-50; J. LARNER, L’Italia nell’età di Dante, Petrarca, Boccaccio, Bologna, Il Mulino, 1982
(titolo originale Italy in the Age of Dante and Petrarch. 1216-1380, London, 1980 – traduzione
italiana di R. Machiavelli), pp. 185-260; T. DEAN, The rise of signori, in The New Cambridge
Medieval History, vol. V, 1198c-1300, a cura di D. ABULAFIA, Cambridge, Cambridge
University Press, 1999, pp. 458-78; G. MILANI, I comuni italiani, Roma-Bari, Laterza, 2005,
in particolare alle pp. 108-58; E. CROUZET-PAVAN, Inferni e Paradisi. L’Italia di Dante e Giotto,
Roma, Fazi, 2007 (titolo originale: Enfers et Paradis. L’Italie de Dante et de Giotto, s. l., 2001
- traduzione di A. Bramati), in particolare alle pp. 64-101; G. CHITTOLINI, ‘Crisi’ e ‘lunga
durata’ delle istituzioni comunali in alcuni dibattiti recenti, in L. LACCHÉ, C. LATINI, P.
MARCHETTI e M. MECCARELLI, Penale, giustizia, potere. Per ricordare Mario Sbriccoli,
Macerata, Edizioni Università di Macerata, 2007, pp. 124-54; F. MENANT, L’Italia dei comuni
(1100-1350), Roma, Viella, 2011 (titolo originale L’Italie des communes (1100-1350) –
traduzione di E.I. Mineo), in particolare alle pp. 77-117; e F. FRANCESCHI e I. TADDEI, Le città
italiane nel Medioevo. XII-XIV secolo, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 143-64. Utile, perchè
accompagnata da una serie di richiami documentari è infine A. ZORZI, Le signorie cittadine in
Italia (secoli XIII-XV), Milano, Bruno Mondadori, 2010.
65
La storiografia contemporanea tende oggi a sottolineare un connotato stabilizzatore a
quegli esiti signorili e a quei maturi reggimenti di Popolo che a Dante parevano invece forme
politiche completamente degenerate. Si tende del resto a sottolineare come l’avvento di un
singolo dominus o di una sola famiglia potesse non di rado produrre degli effetti di significativo
36 Francesco Somaini

Certo, in linea con la sua matrice culturale guelfa, Dante doveva in realtà
ancora pensare che quella della civitas fosse pur sempre la più nobile ed alta
delle espressioni possibili di vita associata. Ce lo confermano in modo elo-
quente i versi che Dante stesso avrebbe poi dedicato, nel canto VIII del Pa-
radiso, al vivere cittadino: «“Or dì:”» – gli chiederà infatti Carlo Martello
nel cielo di Venere – «“sarebbe il peggio per l’omo in terra, se non fosse
cive?”. “Sì” rispuos’io, “e qui ragion non cheggio”» (Par., VIII 115-17)66.

contenimento rispetto alle più cruente lotte civili della metà del Duecento, in quanto la
concentrazione del potere nelle mani di una persona sola (o di una sola parentela di co-signori)
finì molto spesso per mettere un freno ai conflitti partigiani ed anche al dilagare della violenza
privata (benché naturalmente potessero sempre esservi degli oppositori pronti ad approfittare
della prima occasione utile per cercare di ribaltare a proprio vantaggio la situazione). Allo
stesso modo (sia pure attraverso soluzioni di segno politicamente diverso) anche le perduranti
esperienze di “governo largo” di carattere popolare poterono favorire esiti in qualche misura
analoghi, ad esempio attraverso l’impulso che indubbiamente fu dato alle istituzioni e alle
pratiche giudiziarie, spesso pensate ed immaginate come strumenti istituzionali in grado di
favorire forme di governo più impersonali e perfino il perseguimento di un ideale di bene
comune (bonum commune). Si è parlato non per nulla di «cultura delle istituzioni» dei regimi
di Popolo (come pure dei regimi oligarchici che ad essi finirono per subentrare); e nel
contempo di situazioni di «pace faziosa» indotta dalle signorie (si vedano i testi segnalati qua
sopra nella nota n° 63, e la bibliografia che da essi potrà essere ricavata). Resta il fatto in ogni
caso che Dante coglieva comunque una delle ragioni forti delle difficoltà degli stati cittadini,
ed individuava, nell’instabilità endemica delle incessanti lotte intestine, uno di quei fattori di
crisi che nel giro di pochi decenni avrebbero in molti casi portato diverse città-stato al collasso
politico e perfino alla perdita della loro stessa indipendenza (soprattuto allorquando le
lacerazioni interne, come accedeva sempre più spesso, si fossero saldate a conflitti fazionari
più vasti, come avvenne per esempio 1306 per la guelfa bianca Pistoia che finì per essere
assoggettata dalla guelfa nera Firenze). In proposito, sulla crisi delle città-stato, mi permetto
comunque di rimandare ad un mio recente intervento: F. SOMAINI, La crisi delle città-stato, in
ID., Geografie politiche italiane tra Medioevo e Rinascimento, Milano, Officina Libraria, 2012,
pp. 13-51. E si veda anche ID. The collapse of city states and the role of urban centres in the
new political geography of Renaissance Italy, in The Italian Renaissance State, a cura di A.
GAMBERINI e I. LAZZARINI, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 239-60, a p.
244.
66
Per Dante, scriveva Alessandro Passerin d’Entrèves, la civitas continuava nonostante
tutto a «denotare la forma fondamentale e “tipica” dell’associazione fra uomini». Ma l’idea di
civitas che Dante aveva in mente non era una «civitas superiorem non recognoscens» (secondo
la formula che sarebbe poi divenuta famosa con Bartolo da Sassoferrato) bensì una civitas ben
consapevole dei propri limiti, e come tale disponibile a collocarsi entro ordinamenti politici su-
periori, che nel caso delle civitates italiche dovevano poi coincidere con l’Impero universale
(PASSERIN D’ENTRÈVES, op cit., pp. 42-57). Questa visione si precisò in modo ancora più espli-
cito nel canto XVI del Paradiso, laddove Dante – nel colloquio con Cacciaguida – mostrò in
effetti di riconoscersi in modo ancora molto forte nella sua antica ideologia municipalistica e
confermò ancora una volta la sua «predilezione per la dimensione civica comunale», pur
avendo nel contempo ben chiara anche l’idea che occorresse rifarsi ad un’idea di città che
stesse nei propri limiti, ed anzi individuando proprio nell’espansionismo territoriale la causa
primaria delle degrado politico e morale della sua Firenze (cfr. BRILLI, op. cit., pp. 99-112 e
128-29).
Dante e il quadro politico italiano 37

Sta di fatto però che, pur senza negare quest’impostazione di fondo, e


senza disconoscere necessariamente l’ideologia municipalista in cui si era
formato, Dante si era anche venuto ormai pienamente persuadendo – al tempo
della Commedia – del fatto che le civitates non potessero più essere viste
come quei dignitosi ordinamenti politici autarchici, in cui egli stesso aveva un
tempo creduto67.
Né più credibili gli erano parsi i tentativi del Papato post-bonifaciano di ac-
creditarsi quale possibile promotore di politiche pacificatrici. I clamorosi fal-
limenti dei tentativi di pace di legati pontifici quali i cardinali Niccolò da Prato
(nel 1304-1305) e Napoleone Orsini (nel 1306-1308) – tentativi ai quali Dante
aveva pure prestato a suo tempo credito ed attenzione – lo avevano infatti ab-
bondantemente istruito sull’inconcludenza della «gente» che avrebbe dovuto
«esser devota» e sull’inanità dei loro sforzi di assumere in prima persona la
guida degli affari italiani68. Agli occhi di Dante insomma, il Papato, anche

67
In questo senso Dante aveva in realtà compiuto durante l’esilio una decisa revisione
politica rispetto ai tempi precedenti alla sua stessa condanna. Tra il 1300 ed il 1301, infatti,
quando aveva avuto un ruolo non trascurabile nel determinare gli orientamenti politici
fiorentini, egli era stato, da guelfo bianco, un deciso difensore dell’indipendenza delle città
toscane di contro ai progetti egemonici di papa Bonifacio VIII. Egli aveva cioè fieramente
avversato l’idea sostenuta da quel pontefice secondo cui sarebbe stato necessario superare la
frammentazione politica della Toscana facendo emergere, al di sopra della rete delle città e
degli altri poteri territoriali, un’autorità superiore che fungesse da elemento regolatore ed
equilibratore (e va da sé che per quel papa teocratico e nepotista quell’autorità superiore doveva
ovviamente essere quella della Chiesa di Roma e quindi la sua). Ora però, alla luce della sua
lunga esperienza di esule, Dante non si doveva più riconoscere nelle posizioni che aveva
sostenuto al tempo del Priorato o della sua militanza più attiva come membro ascoltato
dell’establishment della pars Alborum. Ormai infatti egli si doveva essere persuaso che il mito
dell’autosufficienza degli stati cittadini, e l’idea di città che non riconoscessero alcun superiore
non funzionava. E così egli si era quindi accostato proprio a quel genere di argomenti a suo
tempo sostenuti da Bonifacio VIII, anche se quel potere superiore che doveva contenere
l’anarchia delle città-stato doveva evidentemente consistere, dal punto di vista di Dante, nel
ritorno in Italia degli imperatori, e non certo nell’assunzione di un ruolo di leadership
temporale da parte dei papi (argomenti persuasivi in tal senso sono stati svolti da Passerin
d’Entrèves e da Umberto Carpi: cfr. PASSERIN D’ENTRÈVES, op. cit., pp. 55-58; e CARPI, op. cit.
vol. II, pp. 528-30).
68
Sui fallimentari tentativi di pacificazione delle città emiliane e toscane compiuti dai
cardinali Niccolò da Prato (al tempo di papa Benedetto XI) e Napoleone Orsini (all’inizio del
pontificato di Clemente V), con le aperture politiche che essi compirono a favore del rientro
dei fuoriusciti, anche allo scopo di introdurre dei correttivi rispetto agli orientamenti di quegli
arci-guelfi (come i guelfi neri di Firenze) che si erano legati in modo molto stretto al
programma politico di Bonifacio VIII, si può rimandare ad ARMSTRONG, op. cit., pp. 257-60;
a SALVATORELLI, op. cit., pp. 751-52; e soprattutto a R. DAVIDSOHN, Storia di Firenze, vol. IV,
Le ultime lotte contro l’Impero, Firenze, Sansoni, 1973 (titolo originale Geschichte von
Florenz, Berlin, 1896-1908), pp. 369-86 e 459-76. Dante come noto aveva seguito con grande
attenzione quelle vicende, immaginando che quei tentativi papali potessero avere l’effetto di
dischiudere anche a lui la possibilità del rientro in patria. Per questo il fallimento di quei
tentativi si rivelò poi per lui una delusione tanto più amara (cfr. PETROCCHI, La vicenda
38 Francesco Somaini

dopo aver abbandonato i grandi disegni egemonici dell’età di Bonifacio VIII


(rivelatisi peraltro clamorosamente illusori), non godeva di alcuna reale cre-
dibilità politica come elemento stabilizzatore, ed anzi appariva fatalmente de-
stinato ad essere fomentatore di ulteriori divisioni e lacerazioni. Esso quindi
non appariva in alcun modo in condizione di poter davvero prendere in mano
le redini (cioè la «predella») della politica peninsulare (v. 96): cosa che del
resto, almeno dal punto di vista di Dante, non sarebbe nemmeno dovuta rien-
trare nelle sue competenze di guida spirituale della Cristianità69.
All’Alighieri quindi lo scenario italiano appariva in realtà in continuo, pro-
gressivo ed inarrestabile peggioramento. L’Italia era infatti ridotta alla condi-
zioni di una bestialità «indomita e selvaggia» (v. 98); e la geografia politica

biografica, cit., pp. 91-95; MALATO, Dante, cit., pp. 52-53; CARPI, op. cit., vol. II, pp. 497-
498, 509, 514, 519, 624, 631-633, 636, e 648-649).
69
Un esempio evidente della scarsa credibilità del Papato come soggetto stabilizzatore e
super partes si ebbe tra il 1308 ed il 1313 con la cosiddetta crisi di Ferrara. La vicenda si aprì
proprio nel mezzo della legazione “pacificatrice” del cardinal Orsini, che teoricamente avrebbe
dovuto dimostrare la serietà dell’impegno papale nella composizione delle lotte faziose (cfr.
qua sopra la nota n° 68). I fatti si svolsero in questo modo: alla morte di Azzo VIII d’Este, nel
gennaio del 1308, si determinò a Ferrara una crisi di successione tra i fratelli del marchese
defunto (Francesco e Aldobrandino) ed il nipote di lui Fresco d’Este (figlio legittimo di Folco
d’Este che era a sua volta un figlio naturale di Azzo VIII). Fresco, grazie all’appoggio di
Venezia (a sua volta interessata ad estendere la propria sfera d’influenza sull’area del basso
corso del Po), riuscì in effetti a prevalere, ma a quel punto nella vicenda si inserì, in modo
piuttosto inopinato e brusco, papa Clemente V, il quale nell’aprile del 1308 proclamò
solennemente, da Avignone, la diretta dipendenza di Ferrara dall’autorità pontificia. Il doge ed
il Maggior Consiglio nel marzo del 1309 vennero fulminati con la scomunica, mentre
nell’agosto seguente contro la signoria di Fresco d’Este venne addirittura bandita la crociata.
Per assecondare i disegni temporalistici del pontefice (perseguiti per l’appunto anche con un
ricorso spregiudicato alle censure spirituali) il cardinale Napoleone Orsini, che si trovava ad
operare come legato in Romagna e in Toscana, dovette ad esempio rinunciare ad ogni forma
di pressione sull’élite guelfo-nera di Firenze, per raggiungere con quest’ultima un accordo
che ne assicurasse il sostegno finanziario alla campagna ferrarese del papa. La crisi di Ferrara
sul piano militare si risolse poi con la disastrosa sconfitta veneziana di castel Tedaldo e con la
vittoria delle forze “crociate”, coordinate dal cardinal Ainaud Pélagrue, nipote di Clemente V.
La fase più incandescente del conflitto si venne a quel punto allentando, ma la pace tra Venezia
ed il papa (con la revoca delle censure ecclesiastiche che erano state ovviamente scagliate), non
venne comunque raggiunta che all’inzio del 1313, mentre fino ad allora il presunto
“pacificatore” Clemente V continuò a mostrare sulla questione ferrarese la più assoluta
intransigenza. A Ferrara, peraltro, il restaurato governo papale, affidato al vicariato di Roberto
d’Angiò, si sarebbe poi protratto solo fino al 1317: dopodiché si sarebbe assistito al ritorno al
potere degli Este. Sulla vicenda cfr. ad esempio SALVATORELLI, op. cit., pp. 752-53; e
ARMSTRONG, op. cit., pp. 270-72; e MENACHE, op. cit., pp. 142-50. Sulle ambiguità della
politica papale, in particolare negli anni di Clemente V, si possono trovare valutazioni
interessanti anche in D. ABULAFIA, I regni del Mediterraneo occidentale dal 1200 al 1500. La
lotta per il dominio, Roma-Bari, Laterza, 1999 (titolo originale The Western Mediterranean
Kingdoms. 1200-1500. The Struggle for Dominion, London, 1997 – traduzione italiana di F.
De Luca), alle pp. 133-37.
Dante e il quadro politico italiano 39

dello spazio peninsulare nel suo complesso pareva ormai disegnare un vero e
proprio quadro di «dolore» (v. 76) in cui nessuno poteva dirsi «sanza guerra»
(v. 82) e nessuno poteva godere «di pace» (v. 87).
Il canto VI del Purgatorio ci pare esprimere dunque in modo assolutamente
eloquente questo stato d’animo e queste valutazioni.
Ma il punto interessante risiede nel fatto che accanto a questa impietosa e
demolitoria pars destruens, indubbiamente molto corrosiva e apparentemente
senza speranza, vi era in realtà, in quel medesimo canto, anche una vera e
propria pars construens, che appunto costituiva la parte più propriamente
propositiva ed operativa del canto stesso, e che racchiudeva anche il cuore
del vero messaggio politico che il canto intendeva trasmettere. Già: perché per
i gravi mali italiani per Dante esisteva in vero una soluzione.
Nella parte centrale del sirventese, là dove l’io-narrante indirizza la pro-
pria adlocutio al Re dei Romani Alberto I d’Absburgo (vv. 97-117) – si ripete
un’anafora insistita e martellante, con l’invito pressante al sovrano perché
non trascuri il proprio dovere, e non esiti a venire in Italia. Venga il re dei
Romani nella Penisola a rimettere in piedi le cose; venga a vedere in che con-
dizioni si trova quella terra che dovrebbe essere il cuore dell’Impero; e venga
quindi a ripristinare l’ordine politico perduto, ad essere il «nocchiere» (v. 77)
deputato a portare la nave italica fuori dalle tempeste dell’anarchia, ed il «ca-
valcatore» che potrà salire in «sella» (v. 92), inforcare «gli arcioni» (v. 99),
riprendere le redini e tirare «il freno» (v. 88) del cavallo italico ormai fuori
da ogni controllo70. «Vieni», «vien», «vieni», «vieni», «vieni», «vien»! L’in-

70
Le immagini del «nocchiero» e del «cavalcatore» si ritrovano in effetti nel canto VI, ove
si parla dell’Italia come «nave sanza nocchiere in gran tempesta» (v. 77) e appunto come di
un cavallo, o una «fiera», ingovernabile in quanto lasciata completamente a se stessa. Ma
entrambe le immagini erano state però utilizzate come metafore da Dante anche del Convivio,
in particolare nel IV libro. La figura del «cavalcatore» in particolare era stata proposta, come
nel canto VI del Purgatorio, proprio con riferimento al potere imperiale e alla situazione
italiana: «sì che quasi dire si può de lo imperadore, volendo lo suo ufficio figurare con una
imagine, che elli sia lo cavalcatore de la umana voluntade. Lo quale cavallo, come vada sanza
lo cavalcatore per lo campo, assai è manifesto, e specialmente ne la misera Italia, che sanza
mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa» (Conv., IV IX 10). Lo stesso dicasi per
l’immagine del «nocchiere» di cui Dante si era servito con riferimento alla necessità
dell’Impero per assicurare l’ordine della società: «Questo vedemo ne le religioni, ne li esserciti,
in tutte quelle cose che sono, come detto è, a fine ordinate. Per che manifestamente vedere si
può che a perfezione de la universale religione de la umana spezie conviene essere uno, quasi
nocchiero, che, considerando le diverse condizioni del mondo, a li diversi e necessari offici
ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di comandare. E questo officio per
eccellenza Imperio è chiamato, sanza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri
comandamenti comandamento. E così chi a questo officio è posto è chiamato Imperadore,
però che di tutti li comandamenti elli è comandatore, e quello che esso dice a tutti è legge, e
per tutti dee essere obedito e ogni altro comandamento da quello di costui prendere vigore e
autoritade» (Conv., IV IV 6-7). La figura del «nocchiero» (in latino «nauclerus») sarebbe poi
stata ripresa, di nuovo come immagine dell’Impero (in riferimento alla situazione italiana),
40 Francesco Somaini

vito ad «Alberto Tedesco» a scendere nella Penisola è reiterato per ben 6 volte
nello spazio limitato di appena 12 versi (vv. 106-17)71. «Vieni e vedi» (ad es-
sere ancora più precisi) è anzi il messaggio che viene insistentemente ripe-
tuto; il che fa naturalmente pensare che mancasse solo il «vinci!» finale per
completare il chiaro riferimento al celeberrimo motto cesariano (veni, vidi,
vici), cui il sovrano avrebbe dovuto evidentemente ispirarsi.
Alberto I d’Absburgo è colui che pur senza essere mai stato formalmente
incoronato imperatore, si trovava alla guida dell’Impero al tempo delle due
cronologie fittizie del Poema: quella del Dante-personaggio e quella del Dante-
io-narrante. Egli infatti era stato eletto re di Germania, e dunque re dei Romani
(ovvero sovrano designato alla guida dell’Impero), nel luglio del 1298, e sa-
rebbe rimasto sul trono fino alla morte, avvenuta nel maggio di dieci anni
dopo72. Dante dunque si rivolge a lui, perché è lui il sovrano in carica nel mo-
mento in cui avviene la sua immaginaria presa di parola. Con tutta evidenza
(sebbene qualcuno sia invero caduto in errore) non si deve pensare che Al-

anche nella VI Epistola agli scellerati Fiorentini intrinseci del 31 marzo 1311: «Hoc, etsi divinis
comprobatur elogiis, hoc, etsi solius podio rationis innixa contestatur antiquitas, non leviter
tamen veritati applaudit quod, solio augustali vacante, totus orbis exorbitat, quod nauclerus et
remiges in navicula Petri dormitant, et quod Ytalia misera, sola, privatis arbitriis derelicta
omnique publico moderamine destituta, quanta ventorum fluentorumve concussione feratur
verba non caperent, sed et vix Ytali infelices lacrimis metiuntur» (Ep.. VI 1). In proposito si
vedano ad esempio ERCOLE, Le fasi, cit., pp. 306-07, 313 e 335; e.ID., Il canto all’Italia, cit.,
p. 148 e nota.
71
«Vieni a veder Montecchi e Cappelletti» (Purg., VI 106), «Vien crudel, vieni e vedi la
pressura» (109), «Vieni a veder la tua Roma che piagne» (112), «Vieni a veder la gente quanto
s’ama» (115), «E se nulla di noi pietà ti move, / a vergognar ti vien de la tua fama» (116-17).
72
Alberto I d’Absburgo, nato nel 1255, era figlio di Rodolfo IV d’Absburgo (che sarebbe
poi divenuto re di Germania e re dei Romani nel 1273), e di Gertrud von Hohemberg. Dopo
la decisiva vittoria di Markfeld riportata dal padre sul re di Boemia Ottocaro II nel 1278,
Alberto venne investito dal padre, nel 1282, dei ducati di Austria e di Stiria, dapprima in
condivisione col fratello Rodolfo, e quindi l’anno seguente come unico titolare. Nel luglio del
1298, dopo avere sconfitto nella battaglia di Göllheim Adolfo di Nassau, che nel 1291 era
riuscito a strappargli l’elezione a re di Germania (e dei Romani) in luogo del padre defunto, e
che nel maggio 1298 era stato però proclamato deposto dagli elettori, Alberto fu a sua volta
eletto alla guida del Regno tedesco; e nel 1303 fu riconosciuto anche dal pontefice Bonifacio
VIII (che sperava di potersene avvalere come di un contrappeso rispetto allo strapotere della
monarchia capetingia). Alberto tentò anche, sia pure senza successo, di trasformare in senso
ereditario la corona germanica, ma dovette scontrarsi con la resistenza dei grandi principi
tedeschi. Invece nel 1306 sarebbe riuscito a collocare il figlio Rodolfo (che però sarebbe poi
morto nel 1307) sul trono di Boemia (cfr. infra, la nota n° 81). Il 1° maggio del 1308 Alberto
I fu assassinato a Brugg-am-Rheuss da un complotto di baroni del regno, guidati dal duca di
Svevia Giovanni d’Absburgo (che era peraltro suo nipote). Su di lui si possono vedere le voci
biografiche di F.X. VON WEGELE, Albrecht I (römisch-deutscher-könig), in Allgemeine Deutsche
Biographie, Leipzig, Ducken & Humboldt, 1875-1910, vol. I (1875), pp. 224-27; e A. GAUERT,
Albrecht I, in Neue Deutsche Biographie, Berlin, Ducken & Humboldt, 1953 – [...], vol. I
(1953), pp. 152-54. Sull’atteggiamento di Dante nei suoi confronti cfr. invece. E. PISPISA,
Alberto I d’Asburgo, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. I (1970), pp. 99-100.
Dante e il quadro politico italiano 41

berto I fosse ancora in vita quando Dante ebbe a scrivere il canto, né che po-
tesse essere lui l’interlocutore politico cui il messaggio del canto stesso era
effettivamente rivolto73. Questo interlocutore, come ora argomenteremo, era in-
vece il successore di Alberto sul trono tedesco, e cioè, naturalmente, Enrico VII
di Lussemburgo, eletto Re dei Romani dai prìncipi elettori il 27 novembre del
1308, e poi rimasto sul trono fino alla morte il 24 di agosto del 1313, dopo es-
sere stato incoronato imperatore a Roma il 29 giugno del 131274.
Vale la pena a tale proposito di soffermarsi ancora per un istante sul pro-
blema delle cronologie fittizie del grande poema dantesco. La Commedia,
come è noto, racconta un viaggio oltremondano che grazie ad alcuni precisi
riferimenti disseminati in vari passaggi del Poema possiamo collocare con
relativa certezza nella settimana santa dell’anno 1300: dunque dalla notte tra
il giovedì ed il venerdì santo di quell’anno (cioè tra il 7 e l’8 aprile, quando
avviene lo smarrimento del poeta nella selva) fino alla mezzanotte del 14
aprile 1300 (allorché ebbe termine il viaggio paradisiaco)75. È questa la prin-
cipale fictio cronologica, che tutti conoscono, del Poema. Ma c’è invero una
seconda fictio, su cui si pone di solito minore attenzione, ed è appunto quella
relativa al Dante-io-narrante: cioè alla voce che racconta le vicende del Dante-
personaggio, e che parla sempre in prima persona, usando per tutto il Poema
i verbi al passato remoto, a cominciare naturalmente dal celeberrimo «mi ri-
trovai per una selva oscura» con cui la Commedia si apre. Ora, quale sia con
esattezza questo secondo tempo fittizio, cioè il tempo della voce narrante,

73
Leonardo Sebastio ricorda che vi sono stati in effetti non pochi critici che avrebbero
considerato plausibile l’ipotesi di una stesura del canto VI anteriore alla morte di Alberto I, e
questo sulla base del presupposto che Dante si rivolse ad «Alberto Tedesco» come ancora vi-
vente (SEBASTIO, op. cit., p. 22).
74
Una delle migliori biografie che si possano trovare su Enrico VII rimane ancora a mio
avviso quella di Francesco Cognasso: COGNASSO, Arrigo VII, cit. Puntuale e ben fatta è anche
la voce di Ovidio Capitani per l’Enciclopedia Dantesca: O. CAPITANI, Enrico VII di
Lussemburgo, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. II (1970), pp. 682-88.
75
Cfr. GORNI, op. cit., p. 86. In realtà anche per questa cronologia fittizia relativa al viaggio
oltramondano di Dante-personaggio esiste un’ipotesi alternativa. Ci si è chiesti infatti come
interpretare il cenno di Malacoda, in Malebolge, nel canto XXI dell’Inferno (111-14), al fatto
che il ponte su cui Dante e Virgilio contavano di passare dalla quinta bolgia alla sesta fosse in
realtà crollato 1266 anni, un giorno e 5 ore prima del loro arrivo (cioè in occasione della discesa
di Cristo agli inferi, al momento della sua morte). I più ritengono che tale calcolo sia da mettere
in rapporto alla data della Pasqua Romana del 1300 (che cadeva in quell’anno il 10 di aprile);
ma si è anche ritenuto che si potesse piuttosto fare riferimento alla data della presunta morte
di Gesù (che la tradizione collocava in effetti al 25 di marzo dell’anno 34). In questo secondo
caso il viaggio oltramondano di Dante non andrebbe più collocato a partire dalla notte che
precedette l’alba dell’8 aprile 1300, bensì alla notte precedente l’alba del 23 marzo di quello
stesso anno, con conclusione alla mezzanotte del 31 marzo (ibid., p. 120). Per un
approfondimento di tema, e anche di tutti i diversi riferimenti astronomici contenuti nella
Commedia, si vedano comunque le osservazioni condotte con particolare acribia da Aldo
Vallone: VALLONE, Dante, cit., pp. 281-82.
42 Francesco Somaini

non è in effetti ricavabile con precisione. Dante al riguardo rimane infatti


sempre nel vago. Nel Paradiso, per vero dire, ci sono delle osservazioni, come
quella del canto XXV sulla fatica della stesura del Poema e sulla condizione
di esule di Dante, da cui si dovrebbe inferire che il tempo dell’io-narrante
debba sostanzialmente essere fatto coincidere con quello dell’effettiva ste-
sura del testo (ossia il tempo di Dante-autore)76. Ma a me non pare si possa
dir questo, e che queste del XXV del Paradiso siano da considerare delle pic-
cole e trascurabili eccezioni inserite verso il finire della Commedia.
Viceversa, mi pare che si dovrebbe riflettere sulle numerose profezie che
si trovano disseminate nelle tre cantiche, molte delle quali sono, come noto,
profezie post-eventum, riferite cioè a fatti che Dante già sapeva essere acca-
duti. Ora, se non erro, in nessun passaggio del Poema il Dante-io-narrante
lascia mai capire di aver potuto effettivamente verificare (una volta tornato
sulla Terra) la fondatezza ex post di qualcuna di queste profezie.
Ma se è così, si deve allora necessariamente presumere che nella fictio del
Poema (e nelle intenzioni di Dante-autore), il Dante-io-narrante debba essere
collocato in una dimensione temporale anteriore a quella dell’effettivo veri-
ficarsi degli eventi profetizzati dai defunti. Ebbene, a tale riguardo, mi sem-
bra che l’evento più antico di cui al pellegrino Dante venga rilasciata una
profezia debba essere identificato con la vicenda degli incidenti fiorentini del
1° maggio 1300. A quegli incidenti tra guelfi Bianchi e guelfi Neri, seguì la
condanna all’esilio (nel giugno di quello stesso anno) di alcuni capi dei due
partiti rivali: condanne che però si rivelarono in realtà particolarmente puni-
tive nei riguarda dei soli guelfi Neri che si ritrovarono di fatto decapitati po-
liticamente, finché nel novembre del 1301 essi non riuscirono a rientrare in
città grazie al sostegno di Bonifacio VIII e di Carlo di Valois. A quel rientro
dall’esilio fece a sua volta seguito la cacciata dei guelfi Bianchi (tra i quali lo
stesso Dante) a partire dal gennaio del 1302. Le profezie che trattano di que-
sti fatti sono naturalmente quelle del canto VI dell’Inferno, pronunciate da
Ciacco77. Tale indizio ci offre dunque la possibilità di asserire che la seconda
cronologia fittizia della Commedia, quella cioè della voce-narrante che rac-
conta la fabula del viaggio oltremondano del Dante-personaggio, dovrebbe

76
Nell’incipit di quel canto, come noto, Dante ricorda in effetti che la stesura della Com-
media lo ha reso «per molti anni macro» (Par., XXV 3) e per di più vittima de «la crudeltà che
fuor mi serra del bell’ovile ov’i dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra» (Par., XXV
4-6). In questo caso, cioè, la voce dell’io-narrante viene di fatto a coincidere (anche sul pianto
temporale) con quella dell’autore (cfr. GORNI, op. cit., p. 120).
77
Ecco la profezia di Ciacco, al quale Dante aveva chiesto «a che verranno li cittadin de
la città partita» (Inf., VI 60-61): «Dopo lunga tencione / verranno al sangue, e la parte sel-
vaggia / caccerà l’altra con molta offensione. / Poi appresso convien che questa caggia / infra
tre soli, e che l’altra sormonti / con la forza di tal che testè piaggia. / Alte terrà lungo tempo le
fronti, / tenendo l’altra sotto gravi pesi, / come che di ciò pianga o che n’aonti”» (64-72). Sui
fatti in questione si può rimandare a R. DAVIDSOHN, op. cit., vol. IV, pp. 144-60 e 227-84.
Dante e il quadro politico italiano 43

essere a sua volta collocata in un tempo successivo al ritorno del pellegrino


dal Paradiso (15 aprile 1300), ma anteriore a quegli eventi del 1° maggio
1300 descritti dalla profezia78.
Se questo ragionamento è corretto, anche il Dante-io-narrante che prende
la parola nel canto VI del Purgatorio va dunque collocato in quella cronolo-
gia, il che significa che egli doveva necessariamente considerare come tito-
lare vivente della funzione di guida nominale dell’Impero il Re dei Romani
dell’epoca, e cioè appunto «Alberto Tedesco», ovvero Alberto I d’Absburgo
(e ciò non già perché questi fosse vivo mentre Dante scriveva, ma appunto
perché era in vita al tempo della fictio in cui si collocava la voce narrante).
Naturalmente, l’Alighieri in quanto tale, intendo dire Dante-autore, non
aveva per questo sovrano particolare considerazione e rispetto. Non amava del
resto nemmeno suo padre Rodolfo I (morto nel 1291), che pure verrà poi da
lui collocato nella Valletta dei Principi negligenti del canto VII del Purgato-
rio. Nel Convivio (Conv., IV III 6) Dante aveva anzi scritto – in termini peraltro
tecnicamente corretti – di non poter considerare i due Absburgo, al pari di
Adolfo di Nassau, quali veri imperatori (non essendo in effetti mai stati in-
coronati), ma solo dei sovrani «eletti»79.. I motivi della poca considerazione
verso questi sovrani absburgici erano proprio quelli esplicitati nell’apostrofe
del canto che qui stiamo considerando: «ch’avete tu e ’l padre tuo sofferto, /
per cupidigia di costà distretti, / che ’l giardin de lo ‘mperio sia diserto» (vv.
103-05). Avere trascurato lo spazio politico italiano, che nella visione di
Dante doveva in realtà costituire il cuore dell’Impero universale, costituiva per
Dante stesso un vero e proprio tradimento, tale da giustificare, sempre in que-
sto canto, la maledizione sanguinosa scagliata contro l’intera casa dei von
Habsburg: «giusto giudicio da le stelle caggia / sovra ’l tuo sangue, e sia novo
e aperto, / tal ch’el tuo successor temenza n’aggia» (vv. 100-02).
Mi soffermerò tra breve su quest’ultimo celebre verso, su cui i dantisti si
sono a lungo arrovellati. Qui intanto mi preme innanzitutto rilevare come sus-
sista una differenza non banale tra questa maledizione anti-absburgica (che
in realtà era poi a sua volta una profezia post eventum) e l’invito ripetuto a
scendere in Italia rivolto ad «Alberto Tedesco». La maledizione, infatti, in-
vestiva effettivamente le responsabilità storiche (gravissime agli occhi di
Dante) di Rodolfo I ed Alberto I. Essa è dunque rivolta al passato e alle colpe
di chi avrebbe potuto agire e non l’aveva fatto. Ma l’invito a venire in Italia

78
In proposito cfr. anche R. HOLLANDER, Commento 2000-2007, in Dartmouth Dante Pro-
ject, cit., con riferimento a Inf., VI 64-66, che sottolinea la grande vicinanza temporale tra i
fatti indicati dalla profezia e il viaggio oltramondano del pellegrino.
79
In effetti né Rodolfo I d’Absburgo (1273-1291), né Adolfo I di Nassau (1291-1298), né
Alberto I d’Absburgo (1298-1308) vennero in Italia a farsi incoronare imperatori. Tecnica-
mente essi furono perciò soltanto re di Germania e re dei Romani, sicché Dante non sbagliava
nel considerare «Federigo di Soave», ovvero Federico II di Svevia (1216-1250) come «l’ul-
timo imperadore de li Romani [...] per rispetto al tempo presente» (Conv., IV III 6),
44 Francesco Somaini

è invece proiettato verso il futuro, ed era dunque necessariamente rivolto al


re dei Romani del momento in cui Dante scriveva. Su questo, come notarono
i più attenti lettori del canto quali Parodi e Roncaglia, non possono invero
sussistere dubbi80.
Del resto, Alberto I d’Absburgo morì assassinato il 1° maggio 1308 a
Brugg-am-Rheuss (oggi Königsfelden, nel cantone svizzero dell’Aargau),
per mano del nipote Giovanni d’Absburgo, duca di Svevia, e di altri nobili te-
deschi a lui ostili. Nel luglio del 1307 era venuto a mancare (per morte natu-
rale) anche il figlio primogenito di Alberto, Rodolfo d’Absburgo junior, al
quale il padre – nel quadro di quella politica di spregiudicato consolidamento
dinastico che Dante tanto criticava – aveva cercato di procurare nel 1306 il
trono regio di Boemia, resosi disponibile a seguito della morte dell’ultimo re
della dinastia premyslide, Venceslao III (1301-1306), di cui Rodolfo aveva
sposato la vedova, ovvero la principessa polacca Elzbieta Ryksa81.
Dunque, quando Dante scrisse il VI del Purgatorio, questi eventi (come
ora cercheremo di provare) erano certamente già accaduti e ben noti. Dante
cioè già conosceva la sorte di Alberto I e quella del suo primogenito morto
prima di lui. Se egli si rivolse ad Alberto, è perché doveva rispettare quella se-
conda fictio cronologica (il tempo dell’io-narrante) che abbiamo sopra po-
tuto collocare tra il 15 aprile ed il 1° maggio 1300. Ma questo, naturalmente,

80
Cfr. PARODI, La data della composizione e le teorie politiche dell’Inferno e del Purga-
torio. Secondo articolo, cit., pp. 285; RONCAGLIA, op. cit., p. 417. Intuizioni significative al ri-
guardo ebbe anche Francesco Ercole (ERCOLE, Il canto all’Italia, cit., pp. 142-44; e ID., Le tre
fasi, cit., pp. 342-43). Altri commenti da apprezzare in tal senso (sia pure talvolta con qualche
incertezza) sono poi quelli di Giacomo Poletto, Enrico Mestica, Ernesto Trucchi, Attilio Mo-
migliano, e Robert Hollander (G. POLETTO, Commento 1894, in Dartmouth Dante Project,
cit., con riferimento a Purg., VI 97-105; E. MESTICA, Commento 1921-1922 [1909], ivi, con
riferimento a Purg., VI 97; E. TRUCCHI, Commento 1936, ivi, con riferimento a Purg., VI 97-
105; A. MOMIGLIANO, Commento 1946-1951), ivi, con riferimento a Purg., VI 97-105; R. HOL-
LANDER, Commento 2000-2007, ivi, Purg., VI 97-102).
81
Per una scheda su di lui si può vedere H. DOPSCH, in Neue Deutsche Biographie, cit., vol.
XXII (2005), pp. 178-79. Qui gioverà forse ricordare che Venceslao III Premyslid, oltre che re
di Boemia (1305-1306) era stato in realtà anche re di Polonia (1305-1306), nonché pretendente
(dal 1301) al trono di Ungheria. Rodolfo d’Absburgo, con l’appoggio del padre Alberto I re
di Germania, cercò in realtà di succedere a Venceslao solo sul trono boemo, mentre le corone
ungherese e polacca presero un’altra strada. In Boemia Rodolfo fondò le sue pretese sul fatto
di avere sposato (dopo essere a sua volta rimasto vedovo della prima moglie Bianca di Francia)
la vedova di Venceslao Elisabetta (Elizbieta) Ryksa. Egli però dovette vedersela con la rivalità
del conte di Carinzia, nonché conte del Tirolo e conte di Gorizia Enrico di Gorizia (Heinrich
von Gortz), che a aveva a sua volta sposato Anna Premyslid, sorella di Venceslao. Tra Enrico
e Rodolfo, sostenuti da opposti schieramenti della nobilità boema, si era dunque aperta una
guerra di successione, che venne interrotta dalla morte dello stesso Rodolfo nel 1307. Enrico
di Gorizia sarebbe a quel punto salito al trono, ma presto avrebbe trovato sulla propria strada
un nuovo rivale: Giovanni di Lussemburgo, figlio di Enrico VII (e a sua volta sposo di un’altra
sorella di Venceslao III) (cfr. infra, la nota n° 100).
Dante e il quadro politico italiano 45

gli dette anche la possibilità di scagliare i propri strali (con una vera e propria
maledizione sul «sangue» degli Absburgo) contro la politica di disimpegno
dal teatro italiano che Alberto I e suo padre avevano messo in atto, rinun-
ciando ad un vero intervento negli affari della Penisola82. Per contro, l’invito
a venire in Italia (con quella serie di anafore che abbiamo sopra richiamato),
per quanto rivolto fittiziamente allo stesso Alberto, era in realtà chiaramente
indirizzato al suo successore Enrico VII (eletto, come si diceva, re dei Romani
nel novembre del 1308, con un pronunciamento dei principi elettori che aveva
tra l’altro mandato in fumo le ambizioni imperiali del re di Francia Filippo
IV il Bello, il quale aveva invero fortemente premuto perché risultasse eletto
il proprio fratello Carlo di Valois, che Dante aveva ben conosciuto)83. È dun-
que Enrico VII colui che deve venire a prendere atto dei mali della realtà ita-
liana, e che deve porvi con urgenza rimedio.
Se non si coglie questo aspetto, e cioè il fatto che il canto VI sia stato pen-
sato come un testo in stretto dialogo con il nuovo sovrano lussemburghese,
non si coglie, a me pare, il vero contenuto performativo – almeno nelle in-
tenzioni di Dante – del canto stesso, e cioè il suo essere stato pensato per
l’appunto come un testo «ad operationem»; ed anzi come il canto forse più
politicamente connotato, in questo senso, dell’intera Commedia84. Tutto ciò

82
Riguardo al «sangue» degli Absburgo, sarà bene ricordare che Alberto I, oltre al primo-
genito Rodolfo (morto nel 1307), aveva avuto in realtà diversi altri figli: Anna, Agnese, Fede-
rico, Leopoldo, Caterina, Alberto junior, Elisabetta, Enrico, Mainardo, Ottone e Jutta. Uno di
questi, e cioè Federico (alias Federico il Bello), come si è già ricordato sarebbe in seguito anche
stato eletto re dei Romani (ma in contrapposizione a Ludovico di Wittelsbach) nella contro-
versa elezione dell’ottobre 1314, seguita alla morte di Enrico di Lussemburgo nell’agosto del
1313. Gli altri figli e figlie di Alberto – ad eccezione di Mainardo, nato nel 1300 e morto in gio-
vane età, erano ancora in vita al momento della morte del padre nel maggio del 1308, e sareb-
bero tutti sopravvissuti oltre al 1321, cioè oltre la morte di quel poeta che li aveva maledetti (si
vedano i testi indicati supra nella nota n° 72). Invece in relazione al tema del sostanziale di-
simpegno di Alberto d’Absburgo dal teatro italiano bisognerà ricordare che in realtà qualche ini-
ziativa riguardo all’Italia era stata anche presa. Nel 1299 ad esempio Alberto I conferì un titolo
vicariale al signore di Milano Matteo Visconti, legittimandone dunque la posizione e nel con-
tempo individuandolo come un possibile interprete di una politica di difesa degli interessi del-
l’Impero in Lombardia. Nel 1303 quando Bonifacio VIII (alla ricerca di alleati contro il re di
Francia) lo riconobbe come re dei Romani (cosa che in precedenza aveva rifiutato di fare) Al-
berto I accettò di buon grado questo riconoscimento, ma rifiutò di concedere al Papato diritti di
alta sovranità sull’area toscana. Più che di un totale disinteresse per le cose italiane, bisogne-
rebbe dunque parlare di una sorta di cauta strategia di non-intervento, che faceva certamente i
conti con la limitatezza dei mezzi politici, militari finanziari a disposizione e che nel contempo
non pareva però incline ad atteggiamenti completamente rinunciatari (cfr. ad esempio AR-
MSTRONG, op. cit, pp. 248 e 265).
83
Sulla vicenda dell’elezione di Enrico di Lussemburgo a re di Germania e re dei Romani, e
sulle pressione di Filippo IV il Bello a favore dell’elezione del fratello Carlo di Valois cfr.
COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 28-46; J. FAVIER, Philippe le Bel, Paris, Fayard, 1976, pp. 418-19.
84
Si veda supra la nota n° 32.
46 Francesco Somaini

può essere confermato anche alla luce di diversi elementi indiziari che con-
sentono in realtà di attribuire – in via certamente congetturale, e pur tuttavia,
a me pare, con ragioni abbastanza fondate – una data piuttosto precisa alla
composizione di questo canto. Io credo infatti che la stesura del canto VI del
Purgatorio possa essere ragionevolmente collocata tra il settembre del 1309
e l’ottobre del 1310 (cioè tra la Dieta di Spira con cui Enrico VII annunciò la
sua intenzione di scendere nella Penisola, e l’effettiva comparsa di Enrico al
di qua delle Alpi). Anzi io credo di potermi spingere fino ad un’ipotesi di da-
tazione ancora più circoscritta, attribuendo in realtà la composizione del canto
ad una data compresa tra l’agosto 1310 e il successivo mese di ottobre.
Gli elementi su cui ritengo di poter fondare questa ipotesi sono i seguenti:
A) Ben 5 delle 6 anime di morti ammazzati che si affollano all’inizio del
canto intorno a Dante-personaggio per implorare l’intervento del pellegrino
sui viventi, affinché, pregando per loro, questi ne possano accelerare la per-
manenza nell’Antipurgatorio (si vedano i versi 12-24), sono figure che ri-
mandano all’area appenninica casentinese: l’area cioè su cui insistevano le
signorie ed i castelli dell’antico e ramificato consortile dei conti Guidi85. Di
più: si tratta di personaggi che presentano legami, anche molto diretti, con il
conte Guido II Guidi di Battifolle (signore di Poppi) e con sua moglie la con-
tessa Gherardesca della Gherardesca (figlia del conte Ugolino)86. Questo fa

85
I personaggi in questione erano i seguenti: Benincasa da Laterina, Guccio Tarlati, Fe-
derico Novello dei conti Guidi di Bagno; Gano degli Scornigiani; e Orso degli Alberti di Man-
gona. Su di loro si vedano infra le note n° 143; n° 144, n° 145; n° 146; n° 147 ed il testo ad
esse corrispondente. Il sesto personaggio del gruppo era invece un francese, Pierre de la Broce,
e la sua vicenda non aveva legami con i conti Guidi. La sua presenza nel canto non era tutta-
via priva di significati politici (cfr. infra le note n° 149, n° 150, n° 151 e n° 152 con il testo cor-
rispondente). Sui conti Guidi, che all’inizio del Trecento si dividevano in circa 10 rami (alcuni
guelfi altri ghibellini), cfr. La Lunga storia di una stirpe comitale. I conti Guidi tra Romagna
e Toscana. Atti del Convegno di studi (Modigliana – Poppi, 28-31 agosto 2003), a cura di F.
CANACCINI, Firenze, Olschki, 2009 (in particolare i saggi di J.P. DELUMEAU, I conti Guidi e
Arezzo: un riavvicinamento incompiuto?, ivi, pp. 105-18; G.P. SCHARF, Le intersezioni del po-
tere: i Guidi e la città di Arezzo nella seconda metà del Duecento, ivi, pp. 119-38; F. CANAC-
CINI, I Guidi e Bonifacio VIII, ivi, pp. 139-56; P. PIRILLO, I castelli dei conti Guidi nel Casentino
tra dinamiche di lignaggio e poteri territoriali, ivi, pp. 267-90); inoltre Ch.-M. DE LA RON-
CIÈRE, Fidélités, patronages, clientèles dans le contado florentin au XIVe siècle. Les seigneu-
ries féodales. Le cas des comtes Guidi, in «Ricerche Storiche», XV (1985), pp. 35-60; e
soprattutto (in particolare per le connessioni con Dante) CARPI, op. cit., vol. II, pp. 468-564
(con le preziose genealogie in calce al volume).
86
Dei cinque personaggi, il primo, Benincasa da Laterina – proveniente da una località
del Valdarno Medio-Superiore non lontano da Arezzo e da Battifolle – era un giurista di una
certa fama, che negli anni Ottanta del Duecento aveva tra l’altro fatto parte della familia di
Guido II Guidi, quando questi era stato, nel 1285, podestà di Siena (vedasi infra la nota n° 143).
Guccio Tarlati apparteneva invece alla famiglia ghibellina degli aretini Tarlati, signori di
Pietramala (nonché futuri vescovi e signori di Arezzo), i quali erano di fatto una delle case con
cui i casentinesi Guidi avevano continuamente a che fare (cfr. R. PIATTOLI, Tarlati, ivi, vol. V
Dante e il quadro politico italiano 47

pensare che il canto VI del Purgatorio dovette essere scritto quando Dante si
trovava nel Casentino ospite di Guido II. Fu infatti evidentemente lì, nel ca-
stello di Poppi o nelle altre rocche dei conti di Battifolle, che Dante dovette
verosimilmente ascoltare molte di quelle storie violente di aristocrazia ca-
strense che poi egli scelse di richiamare nella prima parte del canto. Del resto,
nei riguardi del conte e della contessa Dante doveva aver preso a svolgere
apprezzate funzioni di segretario-cancelliere e di consulente politico-culturale
(come provano le tre lettere che nel corso del 1311 egli ebbe a scrivere a Mar-
gherita di Brabante, moglie di Enrico VII, proprio a nome della contessa Ghe-
rardesca)87. In quelle stesse circostanze l’Alighieri dovette dunque anche
immaginare di poter in qualche modo attirare l’attenzione dei suoi lettori sui
signori di Poppi, al fine di favorirne la messa in luce al cospetto di quel so-
vrano cui il canto era destinato88. E tuttavia, come ha di recente spiegato in

[1976], pp. 523-534) (vedasi infra la nota n° 144). Federico Novello dei Guidi di Bagno (la
cui madre era una figlia di re Manfredi, il che conferiva alla sua causa una certa qual aura
“imperiale”) era invece un primo cugino di Guido II dei Guidi di Battifolle (vedasi infra la nota
n° 145). Il pisano Gano degli Scornigiani era stato una vittima delle lotte che avevano lacerato
la Pisa di fine Duecento tra Visconti e della Gherardesca ed era stato fatto a suo tempo uccidere
su mandato del conte Ugolino della Gherardesca (il conte Ugolino), il quale, oltre che dei figli
fatti rinchiudere con lui dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini nella «orribile torre» dei
Gualandi, ossia la torre «de la fame» (Inf., XXXIII 47 e 23), era in realtà anche il padre di
Gherardesca della Gherardesca, moglie dello stesso Guido II dei Guidi di Poppi e di Battifolle
(vedasi infra la nota n° 146). Infine Orso degli Alberti, ennesima (e peraltro nemmeno ultima)
vittima della torva e sanguinosissima faida che aveva lacerato la nobile casa mugellana degli
Alberti di Mangona, era un cugino di terzo grado di Guido II (vedasi infra la nota n° 147). Con
ogni evidenza i cinque personaggi, le cui morti rimandavano ad eventi sanguinosi compresi tra
gli anni Ottanta e Novanta del Duecento, avevano dunque tutti a che fare con il conte e la
contessa di Battifolle. Un ipotetico lettore (o ascoltatore) del canto – poniamo ad esempio un
Enrico VII? – che avesse cercato o chiesto notizie o informazioni sulle vicende dei personaggi
qui nominati, avrebbe sempre avuto risposte che avrebbero fatto emergere il nome del conte
di Battifolle o della sua consorte contessa di Donoratico; mentre nei castelli casentinesi e più
in generale negli ambienti della nobiltà appenninica di Toscana e di Romagna (e non solo),
molti di quei riferimenti sarebbero stati probabilmente di immediata riconoscibilità e avrebbero
egualmente fatto pensare alla coppia dei conti Guidi. Come tecnica di sottile pubblicità politica
a favore del signore di Poppi non si trattava certo di un cattivo espediente.
87
Per le lettere di Dante scritte a nome della contessa di Battifolle (cioè appunto di
Gherardesca della Gherardesca, moglie di Guido II Guidi) cfr. F. CHIAPPELLI, Osservazioni
sulle tre epistole dantesche a Margherita imperatrice, in «Giornale Storico della Letteratura
Italiana», CXL (1963), pp. 558-65. Delle tre lettere (VIII, IX, X) solo la X reca una data topica
e cronica, essendo datata Poppi 18 maggio 1311. Francesco Chiappelli ha peraltro
persuasivamente argomentato che l’ordine cronologico delle tre epistole dovrebbe essere in
realtà IX, X, VIII, e che le tre missive sarebbero comunque da collocare in un arco di tempo
compreso tra la primavera e l’autunno del 1311 (ibid.).
88
Per quanto solidamente guelfo, e a lungo alleato di Firenze (cfr. qua sotto la nota n° 89),
Guido II di Battifolle, essendo ben consapevole della propria posizione di membro di un’alta
aristocrazia di rango palatino, non dovette tardare troppo per mostrarsi decisamente favorevole
– almeno nei primi tempi – rispetto all’ipotesi della venuta in Italia del Re dei Romani. In tal
48 Francesco Somaini

modo chiarissimo Umberto Carpi, questo soggiorno di Dante presso Guido II


non può essere fatto in alcun modo risalire ad una data anteriore all’estate del
1309, né ad una data posteriore all’autunno del 1311, il che costituisce un primo
ambito cronologico entro cui circoscrivere la datazione del canto89.

senso anzi non è difficile capire che una personalità come quella di Dante, nel frattempo a sua
volta divenuto, già dai tempi del Convivio, un convinto “imperialista”, dovesse essere risultata
assai gradita al conte ed alla contessa, ed anzi addirittura funzionale alla loro strategia di av-
vicinamento al sovrano lussemburghese. E per parte sua, Dante, doveva essersi persuaso di
poter far valere il peso del suo prestigio di intellettuale, filosofo, poeta e perfino profeta, per
assumere il ruolo di possibile intercessore nei riguardi dei suoi protettori presso il nuovo so-
vrano (cfr. U. CARPI, op. cit., vol. II, pp. 564-73).
89
Guido II era stato sin dagli anni Ottanta del Duecento un leale aderente politico del
Comune fiorentino, al quale era rimasto legato anche nelle fasi di più esplicito orientamento
ultra-guelfo (come quella affermatasi dopo l’avvento dei guelfi Neri nel 1301, o dopo la crisi
intervenuta tra questi ultimi (a seguito della rottura tra Corso Donati e Rosso Della Tosa). È
dunque semplicemente impensabile – ha notato con acume Umberto Carpi – che l’esule Dante,
su cui pendeva una condanna a morte da parte delle autorità di Firenze, potesse ardire, prima
dell’estate del 1309, di trovare ospitalità presso il guelfo Guido II. Né si può pensare che questi
(a differenza degli altri rami del consortile guidingo, di orientamento ghibellino) potesse essere
a sua volta disposto od interessato, prima di quella data, ad accogliere e dare ricetto ad un
personaggio scomodo come l’Alighieri. Le cose però cambiarono radicalmente dopo l’estate
del 1309, allorquando papa Clemente V riconobbe Enrico VII come legittimo re dei Romani,
autorizzandone e benedicendone la discesa in Italia. A quel punto infatti tutta la nobiltà palatina
(con i Guidi di Battifolle in prima linea) si riscoprì improvvisamente filo-imperiale, e
prendendo le distanze dalla stessa Firenze (peraltro inizialmente incerta sull’atteggiamento
più opportuno da tenere in proposito), si orientò verso un atteggiamento di grande apertura
verso Enrico VII, con la speranza, evidentemente, di poterne ricevere riconoscimenti, favori e
privilegi, o magari anche incarichi politici o militari all’altezza del proprio rango e della propria
fama. Fu solo a quel punto che Dante, divenuto nel frattempo un convinto assertore della
necessità dell’Impero, sarebbe potuto diventare una pedina preziosa di questo gioco; e anche
un personaggio come Guido II avrebbe avuto tutto l’interesse ad avere una figura come quella
di Dante tra i propri collaboratori. Fu allora, quindi, che a Dante dovette essere offerta ospitalità
a Poppi e negli altri castelli casentinesi di Guido II: offerta che Dante dovette certamente
accettare, anche perché il rapporto con il conte di Battifolle gli offriva evidentemente una
posizione da cui poter sperare di svolgere un qualche ruolo. Questa collaborazione coi signori
di Poppi non poté peraltro protrarsi oltre l’autunno del 1311, perché a quel punto, con il
radicalizzarsi dello scontro tra Enrico VII ed il guelfismo fiorentino, il conte di Battifolle
dovette abbandonare la causa enriciana, ritornando prudentemente ad assecondare gli
orientamenti politici del vicino (e potente) Comune di Firenze. Umberto Carpi, che pure con
il suo paziente lavoro ha reso possibile questa ricostruzione, non aderisce in realtà all’ipotesi
di una datazione a questa fase del canto VI del Purgatorio, perchè, non volendo rinunciare
alla non credibile e fantasiosa testimonianza di Giovanni Boccaccio sulla presenza di Dante a
Parigi nel periodo che qui stiamo considerando (cfr. infra l’ultimo corollario di questo
intervento), si vede in realtà costretto a postulare che Dante non possa essere giunto nel
Casentino se non nel corso del 1311. Ma questa è un’ipotesi che a mio modo di vedere non
regge mentre se si accolgono i dati preziosissimi che lo stesso Carpi fornisce, e li si interpreta
correttamente, la datazione che qui si propone mi pare possa risultare solidamente argomentata
(cfr. CARPI, La nobiltà di Dante, cit., vol. II, pp. 569-73).
Dante e il quadro politico italiano 49

B) L’apostrofe rivolta alla «gente» che dovrebbe «esser devota», cioè al Pa-
pato e alle gerarchie ecclesiastiche (vv. 91-96), contiene indiscutibilmente degli
elementi di critica forte nei riguardi della politica temporalistica del Papato,
accusato di aver preteso di dirigere gli affari italiani in luogo degli imperatori
e di aver in tal modo contribuito a rendere l’Italia del tutto ingovernabile. La cri-
tica è indubbiamente severa, ma il rimprovero mosso alla Chiesa – per ritrovarsi
in un testo che è comunque costruito come una lamentatio – è impostato in
modo tutto sommato ancora costruttivo. Certo, il Papato era invitato a cessare
di interferire negli affari temporali della Penisola ed a lasciare al potere impe-
riale la possibilità di riprendere il controllo della bestia italica, attenendosi con
ciò al precetto evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare... Ma per
quanto severe potessero essere queste ingiunzioni, esse non escludevano ne-
cessariamente la possibilità di essere comunque recepite. Perché il Papato, per
quanto responsabile, in passato, di gravi errori, poteva ancora rimediare alle
sue mancanze, per esempio non ostacolando il progetto enriciano e anzi favo-
rendolo con la luce della benedizione apostolica («luce apostolice benedictio-
nis»), come si legge nell’Epistola V (Ep., V 10)90. Ancora, quindi, non siamo
all’amara constatazione che Marco Lombardo svolgerà più avanti (nel canto
XVI del Purgatorio), quando Dante gli farà dire che la «Chiesa di Roma, / per
confondere in sé due reggimenti, / cade nel fango, e sé brutta e la soma» (Purg.,
XVI 127-29): ossia il coinvolgimento del Papato nelle cose politiche svergogna
la Chiesa e la stessa autorità temporale di cui esse si è voluta far carico91. Né
siamo, evidentemente, ai toni velenosissimi del canto XXXII del Purgatorio,
in cui la Chiesa Romana sarà ormai descritta – con chiare allusioni al linguag-
gio apocalittico giovanneo – come «la puttana sciolta» (Purg., XXXII 149) che
tresca e fornica scompostamente con il «gigante» (immagine della monarchia
francese; Purg., XXXII 152). E certo, a maggior ragione, non siamo alla ma-
ledizione suprema che Dante farà poi pronunciare a S. Pietro nel XXVII del Pa-
radiso contro il papa «“ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo
mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio”» (vv. 22-24). Insomma, col
VI nel Purgatorio gli accenti della polemica anti-papale, a ben vedere, sono
tutto sommato moderati, il che significa che la composizione del canto è da
porre evidentemente in una fase precedente al clamoroso “tradimento” del pon-
tefice nei riguardi di Enrico VII. Tale “tradimento” si verificò nell’estate del
1312, allorquando Clemente V abbandonò l’iniziale politica di sostegno ad En-
rico e si lasciò trascinare – soprattutto dietro le pressioni di Filippo IV di Fran-
cia – sul fronte dei nemici dell’imperatore92. Questo canto è dunque certamente

90
Sull’Epistola V – che io considero composta sostanzialmente in contemporanea con il
canto VI del Purgatorio – si veda infra la nota n° 104.
91
Si veda in proposito quando già osservato supra nella nota n° 27 e nel testo
corrispondente.
92
La lettera del 19 giugno 1312 con cui papa Clemente V invocò una tregua tra Roberto
50 Francesco Somaini

anteriore a quel momento. Ma c’è anche dell’altro: i toni di Dante, infatti, non
sono soltanto meno accesi di quelli che egli avrebbe utilizzato in futuro, ma
sono anche decisamente più blandi di quelli che egli aveva adoperato in passato.
Nel XIX canto dell’Inferno, dedicato al tema dei papi simoniaci ed alla corru-
zione della Chiesa, Dante aveva infatti già detto cose terribili su papa Clemente
V – cose da rogo, verrebbe da dire –, preannunciandone addirittura la danna-
zione nel pozzo della terza cerchia di Malebolge. Il guascone Bertrand de Got
(cioè appunto papa Clemente) era stato infatti definito come una «laida opra di
ver ponente» e un «pastor sanza legge» (Inf., XIX 82-83), e la Chiesa romana
(con evidente riferimento ai cedimenti post-bonificiani compiuti nei confronti
della monarchia francese, per esempio sull’affare dei Templari o sul processo
postumo allo stesso Bonifacio), era stata impietosamente accusata di «putta-
neggiar coi regi» (Inf., XIX 108)93. Erano, quelle parole, di grande forza pole-
mica, che ci mostravano un Dante vicino al tipo di riflessioni sulla Ecclesia
carnalis che erano state per esempio proposte dalla Postilla in Apocalipsim di
Pierre Olieu (alias Pietro di Giovanni Olivi), che Dante aveva forse anche co-
nosciuto di persona, dato che egli aveva in effetti insegnato allo Studium fran-

d’Angiò e Enrico VII può essere considerata come il momento in si venne consumando il
cosiddetto “tradimento” papale. Enrico era infatti esasperato dall’atteggiamento delle truppe
angioine in Roma che gli stavano impedendo di accedere alla basilica di S. Pietro per farsi
incoronare imperatore dai cardinali che erano con lui, tanto che il 29 giugno, a dispetto della
tradizione, egli dovette rassegnarsi a farsi incoronare in S. Giovanni in Laterano. Enrico, a
quel punto, si aspettava dal papa che questi censurasse con forza il comportamento angioino,
ma il papa, cedendo alle pressioni francesi, assunse una posizione neutrale, che equivaleva ad
abbandonare il sostegno alla causa enriciana. A quel punto, per reazione a questi sviluppi,
Enrico VII decise infatti di alzare i toni dello scontro. Il 4 luglio 1312 fu in particolare
sottoscritto un formale trattato di alleanza tra il neo-incoronato imperatore ed il re di Sicilia
Federico d’Aragona, al quale fu anche riconosciuto (in contrasto con quanto disposto dalla
pace di Caltabellotta dell’agosto 1302) il diritto di assicurare alla propria discendenza la corona
siciliana. Il 12 settembre 1312 venne quindi fatta partire dal tribunale imperiale la citazione nei
confronti di Roberto d’Angiò perchè si sottoponesse a giudizio per la sua condotta ostile nei
riguardi dell’imperatore stesso cfr. CAGGESE, op. cit., pp. 167 e 181; LÉONARD, op. cit., pp.
270-72; S. FODALE, Federico III (II) d’Aragona, re di Sicilia (Trinacria), in Dizionario
Biografico degli Italiani, vol. XLV (1995), pp. 682-94.
93
Per quanto riguarda la vicenda dei Templari, gioverà ricordare che papa Clemente V, nel
novembre-dicembre del 1307 si era piegato alle istanze di Filippo IV di Francia, il quale sin
dall’ottobre precedente aveva provveduto ad ordinare l’arresto, nel territorio del suo Regno,
di tutti i monaci-cavalieri dell’Ordine del Tempio nonché il sequestro del loro ricco tesoro. Nel-
l’agosto del 1308 il papa aveva quindi ordinato che tutti i Templari fossero sottoposti ad in-
dagini inquisitoriali nelle diocesi in cui sorgevano le loro domus, e il 22 marzo del 1312 sarebbe
infine addivenuto a proclamare l’abolizione dell’Ordine, cosa che fu poi ufficializzata con la
bolla Vox in excelso del 3 aprile successivo. Quanto al processo postumo contro Bonifacio
VIII (processo insistentemente voluto da Filippo IV sin dal 1305), Clemente cercò a lungo di
dilazionare la cosa, ma nel marzo del 1310 dovette cedere alle pressioni francesi, ed autoriz-
zare il processo canonico contro il papa defunto (cfr. MENACHE, op. cit., pp. 191-245).
Dante e il quadro politico italiano 51

cescano fiorentino di S.ta Croce tra il 1287 ed il 128994. Qui, invece, nel VI del
Purgatorio, gli accenti sono ben lungi dall’essere così aspri. Pur severo nel-
l’ammonire la Chiesa a non impedire all’imperatore di rimettere ordine negli
affari italici, Dante sembrava avere aver ben presente il fatto che nel luglio del
1309 Clemente V, ispirato dalla volontà di trovare un contrappeso allo stra-
potere francese, aveva in realtà accordato il proprio sostegno ad Enrico VII,
e che il 1° settembre del 1310 – con gran smacco degli ultraguelfi (i quali
avevano sperato in un suo atteggiamento molto intransigente nei riguardi dei
disegni enriciani) – aveva addirittura inviato un’enciclica in cui aveva esor-
tato le genti d’Italia ad accogliere benignamente il sovrano che si presentava
come pacificatore95. Una datazione del canto al 1310 è dunque del tutto com-

94
Sull’argomento si vedano R. MANSELLI, La ‘Lectura super Apocalypsim’ di Pietro di
Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medievale, Roma, Istituto Storico Italiano per il
Medio Evo, 1955, in particolare alle pp. 177-236; ID., Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da
Casale, in «Studi Medievali», VI (1965), pp. 95-133; E. PASZTOR, Le polemiche sulla ‘Lectura
super Apocalypsim di Pietro di Giovanni Olivi fino alla sua condanna, in «Bullettino Storico
dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo», LXX (1958), pp. 365-424. Sui rapporti tra
l’Olieu e Dante è stato per la verità osservato che l’epoca in cui il frate occitano fu attivo in
Firenze non coincise con gli anni in cui Dante si dedicò all’assidua frequentazione degli stu-
dia conventuali di S.ta Croce, di S.ta Maria Novella e di S.to Spirito: anni che avrebbero ri-
guardato soprattutto il periodo 1291-1294 (cfr. ad esempio MALATO, Dante, cit., pp. 39-40).
Era di questa opinione anche Charles Till Davis, che faceva peraltro notare come le dottrine
dell’Olieu avessero comunque avuto una grande influenza – come è del resto ben noto – sul-
l’opera dello spirituale intransigente Ubertino da Casale e sul suo celebre Arbor vitae cruci-
fixae (del 1305), che era un testo che Dante certamente conosceva ed anche citava con una certa
frequenza (cfr. C.T. DAVIS, Roma e Babilonia, in Studi americani su Dante, a cura di G.C.
ALESSIO e R. HOLLANDER, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 261-95, alle pp. 285-89). Quello
che a me sembra di poter dire è che posizioni alla Olivi, che insistevano sulla degenerazione
in senso “carnale” della Chiesa, come effetto della spasmodica propensione al possesso, erano
molto vicine alle idee che avevano ispirato il canto XIX dell’Inferno, mentre nel VI del Pur-
gatorio, come già notava anche Ercole, si sarebbe cominciata ad affacciare con nettezza alla
mente di Dante l’idea che la degenerazione della Chiesa fosse da attribuire, ancor più che alla
sua brama di ricchezze, al suo coinvolgimento negli affari politici (segnatamente italiani). Elo-
quente è in tal senso il giudizio sulla Donazione di Costantino, che nel XIX dell’Inferno era
semplicemente additata (secondo una visione peraltro già presente nella tradizione gioachimita
e nelle tesi del francescanesimo spirituale) come la causa delle cupidigie ecclesiastiche e delle
degenerazioni della Chiesa, mentre in seguito (in particolare con il canto VI del Paradiso),
essa venne effettivamente individuata come il principio metastorico della rovina dell’umanità,
in quanto avrebbe appunto illegittimamente preteso di traslare l’autorità imperiale nelle mani
del Papato, spingendo con ciò la Chiesa ad occuparsi impropriamente della sfera temporale e
quindi ostacolando la possibilità per gli uomini di raggiungere la salvezza. Era la posizione che
poi Dante avrebbe più diffusamente argomentato nella Monarchia (cfr. ERCOLE, Le tre fasi, cit.,
pp. 386-93). Su questi temi si veda anche G.L. POTESTÀ, Dante profeta e i vaticini papali, in
«Rivista di Storia del Cristianesimo», I (2004), pp. 67-88.
95
Nell’estate del 1310, Clemente V vagheggiava in effetti una politica di rafforzamento del-
l’autorità imperiale in Italia da compiersi sotto tutela papale. L’enciclica del 1° settembre 1310,
che invitava tutti i cristiani d’Italia a favorire l’azione di Enrico, andava evidentemente in que-
52 Francesco Somaini

patibile con questi elementi cronologici esterni (mentre non lo sarebbe qua-
lunque ipotesi di datazione che pretendesse di collocare il VI del Purgatorio
ad una fase anteriore all’estate del 1309 o posteriore al giugno/luglio del 1312).
C) Un altro argomento interessante in ordine alla cronologia (ed alla com-
prensione del messaggio politico del canto) ci viene dall’invettiva ad «Al-
berto Tedesco». Infatti, nell’invitare Alberto/Enrico a scendere nella Penisola,
Dante, – ai versi 106-17 – propone al sovrano di venire a vedere alcune delle
realtà che esemplificano i mali d’Italia. Vengono chiamati in causa i «Mon-
tecchi e Cappelletti», cioè i veronesi Monticoli e i cremonesi Cappelletti,
espressione di vecchi partiti di un tempo (e ormai «già tristi»), quando le lotte
politiche urbane si intersecavano con le lotte della nobiltà delle campagne96.

sta direzione. E lo stesso dicasi per la lettera di tenore analogo che il pontefice fece emanare
in data 8 ottobre 1310 (si vedano più in generale i testi indicati supra nella nota n° 7). Del resto
sin dal luglio del 1309 il papa aveva riconosciuto come assolutamente legittima l’elezione di
Enrico VII ed aveva garantito il proprio benestare all’ipotesi dell’incoronazione imperiale di
Enrico. Questa politica papale incontrava la contrarietà assoluta dei guelfi italiani, che a lungo
non furono però in grado di convincere il pontefice ad un atteggiamento diverso (cfr. R. CAG-
GESE, op. cit., pp. 117-18 e 123-25; COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 186-87).
96
I Montecchi, ma più propriamente Monticoli, erano una stirpe veronese di origine mer-
cantile salita nel corso del XII secolo a notevole ricchezza e potenza, tanto da acquisire nella
giro di pochi decenni una posizione di preminenza in seno al Comune di Verona, radicandosi
nel contempo anche nel territorio circostante, con l’acquisizione di castelli e signorie. Entro
gli anni Ottanta del secolo XII essi si posero alla testa di un vero e proprio partito cittadino (la
Pars Monticulorum) che cercava di sfidare (in città come nel territorio) l’egemonia dei conti
di San Bonifacio (e della cosiddetta Pars Comitis che ad essi faceva capo). Cacciati da Verona
dai loro rivali nel 1207, i Monticoli riuscirono a rientrare in città nel 1213, per esserne nuo-
vamente espulsi nel 1228 ad opera dell’organizzazione di Popolo e della sua politica di sop-
pressione delle partes. In seguito essi si vennero legando ad Ezzelino da Romano (impostosi
nel frattempo come il grande interlocutore di Federico II nella Marca Trevigiana), e nel 1232
riuscirono in effetti a riprendere il controllo della città (da dove nel 1239 fecero espellere in
via definitiva i loro antichi rivali: con un atto che nel contempo segnò però anche il pieno av-
vento della signoria ezzeliniana). E proprio l’avvento di Ezzelino, che i Monticoli avevano
propiziato, finì per segnare anche la loro rovina. Negli anni Quaranta del Duecento infatti Ez-
zelino consolidò in senso personalistico il proprio potere in Verona, sbarazzandosi delle fazioni
preesistenti e anche i Monticoli finirono a quel punto per essere liquidati, tanto che di loro si
perdette notizia dalla documentazione veronese. Più tardi, caduto Ezzelino, nel 1259, a Verona
venne rapidamente affermandosi l’ascesa dei Della Scala (che un tempo erano stati membri
della clientela politica dei Monticoli). Parlando dunque di «Montecchi», Dante più che alla fa-
miglia che portava questo nome (e che aveva anticamente dato origine alla Pars Monticolorum)
intendeva riferirsi per l’appunto a quell’antico partito, la pars, in cui si erano in effetti rico-
nosciute diverse famiglie veronesi tanto di origine capitaneale (come i Visconti, gli Avvocati,
i Turrisendi, i da Nogarole e i da Lendinara) quanto di origine più propriamente cittadina
(come appunto gli stessi Della Scala); cfr. L. SIMEONI, Il comune veronese fino a Ezzelino e il
suo primo statuto, in ID., Studi su Verona nel Medioevo, a cura di V. CAVALLARI, Verona, Isti-
tuto per gli Studi Storici Veronesi, 1959, vol. II, pp. 5-129, alle pp. 26-35; A. CASTAGNETTI, La
Marca Veronese-Trevigiana (secoli XI-XIV), in G. CRACCO, A. CASTAGNETTI, A. VASINA e M.
LUZZATI, Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, To-
Dante e il quadro politico italiano 53

Poi vengono citati «Monaldi e Filippeschi», fazioni della Orvieto di inizio


Trecento, che rimandavano alle nuove forma di conflittualità faziosa di tipo
propriamente urbano. E si noti che quei partiti della città umbra erano indi-
cati, al v. 108, come viventi «con sospetti», e questo non soltanto per con-
trapporli alla coppia precedente, che riguardava partiti ormai scomparsi («già
tristi»), ma anche perché Dante sapeva che sulla vita politica del lacerato Co-
mune di Orvieto incombeva invero la possibilità che si imponesse una più
stretta tutela papale (come si era in effetti verificato almeno fino agli anni di
Bonifacio VIII), oppure che un regime di Popolo (come pure era accaduto a
partire dagli anni Ottanta del Duecento) si proponesse come un potere rego-
latore interno, che finisse di fatto per estromettere tutte le élites cittadine dalla
vita del Comune stesso97. Di seguito, dopo Orvieto, viene invece evocata San-

scana, vol. VII, tomo I della Storia d’Italia a cura di G. GALASSO, Torino, Utet, 1987, pp. 161-
357, alle pp. 206, 213-14, 233-36, 239, 256 e 274-75; e G. M. VARANINI, Il comune di Verona,
la società cittadina ed Ezzelino III da Romano, in Nuovi studi ezzeliniani, a cura di G. CRACCO,
Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1992, vol. I, pp. 115-60, alle pp. 115-18,
121, e 148-49). I Cappelletti erano invece i guelfi di Cremona, banditi dalla città al tempo di
Federico II ma rimasti radicati nelle loro basi del contado. Anch’essi erano in realtà una coa-
lizione di famiglie nobili (Cavalcabò, Amati, Soncini, Oldonandi, da Persico, Confalonieri,
ecc.). Negli anni Quaranta del Duecento, il loro organizzarsi come un partito armato di ex-
trinseci provocò lo strutturarsi dei loro rivali ghibellini in un analogo fronte unitario, cui fu dato
il nome di Barbarasi. Questi ultimi, dopo la fine della vicenda federiciana, si appoggiarono ad
Oberto Pallavicino, che nell’aprile del 1250 sconfisse in effetti i Cappelletti in una battaglia
in campo aperto, presso Piadena, assicurandosi in questo modo il pieno controllo della città.
A Oberto subentrò poi nel 1266 il suo ex-collaboratore Buoso da Dovara, che passò sulle po-
sizioni del blocco guelfo (cosa che permise ai Cappelletti di risollevare in modo significativo
le loro sorti). Di lì a breve, nel 1267, Buoso venne peraltro inquisito da un intervento di legati
papali, che lo costrinse a lasciare Cremona (facendolo tornare su posizioni ghibelline, alla
testa di una nuova pars a lui fedele che prese il nome di Troncaciuffi). I Cappelletti manten-
nero comunque le loro posizioni, finché all’avvento del regime di Popolo nel 1270 non si ar-
rivò ad un netto ridimensionamento delle componenti aristocratiche. A quel punto anche i
Cappelletti uscirono praticamente di scena, anche se alcune famiglie di tradizione cappelletta,
come i Cavalcabò, continuarono invece ancora per diverso tempo ad avere un ruolo politico
di notevole peso sulla scena locale (cfr. F. MENANT, Un lungo Duecento (1183-1311). Il Co-
mune fra maturità istituzionale e lotte di parte, in Storia di Cremona, vol. II, a cura di G. AN-
DENNA, Dall’alto Medioevo all’età comunale, Cremona, Comune di Cremona/Bolis Edizioni,
2004, pp. 282-363, in particolare alle pp. 321-33).
97
Sulla Orvieto medievale si dovrà rimandare naturalmente agli studi di Daniel Waley e
di Jean-Claude Maire Vigueur: D. WALEY, Orvieto medievale. Storia politica di una città-stato
italiana. 1157-1334, Roma, Multigrafica, 1985 (titolo originale Mediaeval Orvieto. The poli-
tical history of an Italian City-State. 1157-1334, Cambridge, 1952); J.C. MAIRE-VIGUEUR, Co-
muni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, in Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e
centrale: Lazio, Umbria e Marche, Lucca (vol. VII, tomo 2 della Storia d’Italia, a cura di G.
GALASSO) Torino, Utet, 1987, pp. 321-606; e ID., La rupe della discordia, in «Medioevo», XII/6
(giugno 2008), pp. 42-53. Si vedano inoltre le voci di Renato Piattoli nell’Enciclopedia Dan-
tesca: R. PIATTOLI, Filippi, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. II (1970), pp. 872-73; e ID., Mo-
naldi, ivi, vol. III (1971), p. 993. Monaldi e Filippi, entrambi di origine urbana, erano emersi
54 Francesco Somaini

tafiora, antico dominio dei conti Aldobrandeschi, che offrì a Dante l’oppor-
tunità di rappresentare – con un chiaro riferimento alla recente “guerra di
Maremma”, di cui pure egli si era personalmente occupato quando aveva
avuto un ruolo nelle vicende politiche fiorentine – il declino della grande ari-
stocrazia territoriale di rango superiore, incapace di resistere alla pressione
degli stati cittadini e dell’interventismo papale98. Infine viene menzionata di-
rettamente Roma, «che piagne vedova e sola» (vv. 112-13), nell’assenza del
suo sposo (l’imperatore che latita). Ora, il punto è che queste cinque località
– Verona, Cremona, Orvieto, Santafiora e Roma – oltre ad essere additate
come emblemi dei mali italiani (cioè di un’Italia che pare irrimediabilmente

come famiglie leaders del gioco politico del Comune di Orvieto già nel corso del XII secolo,
in forza della consistenza del loro patrimonio fondiario e della loro capacità di aggregazione
clientelare. I Filippi nel XIII secolo si riconobbero come ghibellini (e furono a lungo filo-se-
nesi), mentre i Monaldi ostentarono orientamenti guelfi e tendenzialmente filo-fiorentini. Negli
ultimi decenni del Duecento il peso politico dei partiti riconducibili a queste due case sembrò
in vero destinato a contrarsi in un’apparente situazione di calma, garantita dal regime di Po-
polo e dalle sua politiche di contenimento degli odi faziosi. Dante però doveva essere in realtà
al corrente di come sotto la cenere di una calma apparente aleggiasse in Orvieto un clima di
grande tensione: un odio latente ma vivo, che sarebbe improvvisamente riesploso nell’estate
del 1313, allorquando la città avrebbe in effetti conosciuto scontri armati di particolare ed
inaudita violenza, che arrivarono a superare perfino i più cruenti standards del tempo. Nel
contempo – e anche questa era cosa a Dante ben nota – la città di Orvieto era anche stata fatta
oggetto, a partire dalla seconda metà del Duecento, di massicci interventi papali (non soltanto
sul piano della costruzione di palazzi e residenze pontificie, ma anche su quello dell’oggettivo
condizionamento della politica interna e della politica “estera” locale); e anche questo doveva
sembrare a Dante un dato da valutare con qualche preoccupazione ai fini del ripristino di una
vera concordia interna.
98
Sulle vicende degli Aldobrandeschi tra fine Duecento ed inizio Trecento si può riman-
dare a A. CIRIER, La fine dei conti Aldobrandeschi: il crollo di un mito (secc. XIII-XV), in Gli
Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma toscana. Atti del convegno (S.
Fiora, 26 maggio 2001), a c. M. ASCHERI e L. NICCOLAI, Santa Fiora - Arcidosso, C&P, 2002,
pp. 173-209. In particolare sulla guerra di Maremma del 1300-1302, voluta da Bonifacio VIII
contro la contessa Margherita Aldobrandeschi di Santa Fiora, e combattuta contro la grande
consorteria da Senesi, Orvietani e Fiorentini che infine costrinsero gli Aldobrandeschi ad una
pace umiliante cfr. A. LISINI, La contessa palatina Margherita Aldobrandeschi e il suo matri-
monio con il conte Guido di Monforte, in «Bollettino senese di storia patria», XXXIV (1932),
pp. 1-48; EAD., La Margherita Aldobrandeschi e la dissoluzione della grande contea di S.
Fiora e di Sovana, ivi, XXXIX (1932), pp. 323-57; EAD., La Margherita Aldobrandeschi e il
cavaliere Nello da Pietra, ivi, pp. 249-83. Vale la pena di ricordare che della vicenda della
guerra aldobrandesca si era a suo tempo occupato anche Dante, ai tempi in cui lo si poteva an-
cora considerare un esponente emergente del ceto dirigente del Comune di Firenze. Nel giu-
gno del 1301 egli era intervenuto in particolare al Consiglio fiorentino dei Cento per opporsi
alla richiesta di Bonifacio VIII in merito ad un prolungamento del coinvolgimento di Firenze
nella guerra contro Santafiora. Dante guidò in quell’occasione il fronte (guelfo bianco) di chi
cercava di resistere alle pressioni papali. Ma la sua posizione risultò battuta (cfr. DAVIDSOHN,
op. cit., vol. IV, pp. 197-98; e G. PETROCCHI, Biografia. Attività politica e letteraria, in Enci-
clopedia Dantesca, cit., vol. VI [1978], pp. 1-53, alle pp. 27-28).
Dante e il quadro politico italiano 55

lacerata e divisa e che risente in modo drammatico dell’assenza di un supe-


riore potere frenante e regolatore), erano in vero anche le tappe del tradizio-
nale Romzug degli imperatori. Quando infatti scendevano in Italia, i sovrani
tedeschi abitualmente prendevano la cosiddetta via Teutonica o via Regia
(detta anche Romerstrasse): ossia l’antica via Claudia Augusta che dal passo
del Brennero o dal Passo Resia si immetteva sulla valle dell’Adige e giungeva
appunto a Verona. Da qui ci si spostava sul tratto centrale della antica via Po-
stumia, che veniva percorso in direzione Sud-Ovest, fino a Cremona, ove si
superava il Po. Si scendeva quindi sulla via Aemilia, dopodiché si trattava di
passare l’Appennino attraverso un ventaglio di possibili valichi, di cui uno dei
più frequentati era quello del passo Serra, che dalla Romagna (all’altezza di
Forlì) piegava verso le montagne e permetteva di transitare nel Casentino
(dove appunto si trovava Dante), sbucando nell’alta Valle dell’Arno all’al-
tezza di Bibbiena (a pochi chilometri da Poppi). Da lì ci si andava poi ad in-
serire sul percorso dell’antica via Cassia, che passava per Orvieto. A quel
punto si potevano raggiungere, con una piccola deviazione, le terre degli Al-
dobrandeschi (conti di Sovana e di Santafiora). La meta finale era quindi
Roma99. In altre parole, nell’invitare «Alberto Tedesco» a scendere attraverso
gli orrori della macabra geografia politica del dolore italico, Dante stava in
realtà invitando Enrico a percorrere le tappe del proprio Romfahrt: il viaggio
verso Roma, che avrebbe dovuto portarlo al ripristino dell’autorità imperiale
in Italia (e di conseguenza nel mondo). E però si badi: Enrico VII in realtà non
sarebbe poi giunto nella Penisola attraverso quel percorso. All’ultimo mo-
mento il sovrano scelse infatti di prendere una via più sicura, e di evitare i ter-
ritori tirolesi di Enrico di Gorizia, che nel 1310 contendeva a suo figlio
Giovanni di Lussemburgo la successione al trono di Boemia100. Fu presa così

99
Cfr. R. STOPANI, La ‘via Teutonica’. L’alternativa germanica alla via Francigena, Fi-
renze, Le Lettere, 2010. Il tratto meridionale del percorso in questione era stato ad esempio de-
scritto negli Annales Stadenses. di Albert von Stade del 1250 circa (cfr. A. von STADE, Annales
Stadenses, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, vol. XVI, Annales aevi Suevici, a
cura di G.H. PERTZ, Stuttgart-New York, Hiersemann/Klaus Reprint Corporation, 1963 [ri-
stampa anastatica dell’edizione berlinese del 1859], pp. 335-40. Per i percorsi che conduce-
vano nel Casentino (accanto al passo di Serra, vi erano soluzioni alternative, come il passo dei
Mandrioli o il valico del Monte Coronare) cfr. CARPI, op. cit., nota alle pp. 751-52.
100
Giovanni di Lussemburgo, figlio di Enrico VII, all’età di 14 anni venne proclamato dal
padre re di Boemia il 31 agosto 1310, e il giorno successivo formalizzò il proprio matrimonio
con Elisabetta Premyslid, sorella di Venceslao III Premyslid, ultimo re di quella dinastia morto
nel 1306. A contendergli il trono boemo si ergeva però il conte di Carinzia, nonché conte del
Tirolo e conte di Gorizia Enrico di Gorizia (Heinrich von Görtz), il quale era a sua volta spo-
sato con un’altra sorella di Venceslao III (Anna Premyslid) e che già negli anni precedenti
aveva già lottato per il trono boemo contro Rodolfo d’Absburgo (il figlio di Alberto I morto
nel 1307; cfr. supra la nota n° 81). Enrico di Gorizia si era fatto riconoscere come re dalla no-
biltà boema, ma Enrico di Lussemburgo, avvalendosi di alcune contestazioni circa la nascita
legittima di Enrico, il 12 luglio 1310 fece formalmente invalidare la sua elezione dalla Dieta
56 Francesco Somaini

la decisione di entrare in Italia da Ovest, passando per le terre di Amedeo di


Savoia, cognato di Enrico, e di arrivare perciò al di qua delle Alpi attraverso
il valico del Moncenisio, sbucando quindi in Piemonte101. Si è anche arguta-
mente osservato – per esempio da parte di William Bowsky – che quella de-
cisione si rivelò forse fatale per il successo della causa enriciana102. Fatto sta
in ogni caso che Enrico VII decise di evitare la strada del Brennero (e dun-
que la via Verona-Cremona-Orvieto) solo nel settembre del 1310103. Dante,
quando scrisse il canto VI del Purgatorio, evidentemente non era al corrente
di questa decisione. Immaginò perciò un itinerario costruito sulle tappe che
egli pensava che Enrico avrebbe effettivamente toccato. Questo indizio spo-
sta, secondo me in modo piuttosto persuasivo, alle settimane comprese tra
l’agosto e l’ottobre (o addirittura il settembre) del 1310 la data della compo-
sizione del canto. È quello tra l’altro lo stesso periodo in cui Dante dovette
attendere alla stesura della Epistola V ai potentati italiani, ovvero agli «Uni-
versis et singulis Ytalie Regibus et Senatoribus alme Urbis, necnon Ducibus,

imperiale di Francoforte, fecendo poi decretare l’assegnazione della corona boema ad Elisa-
betta Premyslid e combinando il matrimonio di questa con il proprio figlio Giovanni. Enrico
di Gorizia naturalmente non intese accettare questo verdetto, il che determinò, per Giovanni
di Lussemburgo, la necessità di una conquista della Boemia per via militare. Come signore del
Tirolo, peraltro, Enrico di Gorizia aveva il controllo dei passi alpini, ed Enrico VII cominciò
naturalmente a temere che la sua spedizione in Italia, se fosse transitata per la via del Bren-
nero, potesse andare incontro a spiacevoli sorprese (cfr. W. BOWSKY, Henry VII, cit., p. 43; e
COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 72-74, 84-85 e 96-97).
101
Cfr. F. CARDINI, La Romfahrt di Enrico VII, in Il viaggio di Enrico VII in Italia, a cura
di M. TOSTI CROCE, Città di Castello, Edimond, 1993, pp. 1-11. Enrico il 29 settembre 1310
era a Berna. Si portò a Murten l’8 di ottobre. Il 10 giunse a Losanna. L’11 sera arrivò a Nyon.
Il 12 era a Ginevra e il 13 si avviò verso il Moncenisio. Il 23 ottobre arrivò a Susa, al di qua
delle Alpi (cfr. BOWSKY, Henry VII, cit., p. 227 n.).
102
Osserva in effetti Bowsky che uno dei motivi che contribuì a creare da sùbito un clima
di difficoltà nei riguardi della politica enriciana fu costituito dal fatto che, essendo sceso in
Italia dalla via del Moncenisio, il sovrano trovò inizialmente sul suo cammino una serie di
Comuni di orientamento guelfo: quali Chieri, Asti, Vercelli, Novara, Milano... Poiché la sua
politica era rivolta a pacificare le discordie civili delle diverse città e a favorire il rientro dei
fuoriusciti, ciò si tradusse in una serie di provvedimenti in favore del rientro di esuli ghibellini
(il caso più clamoroso fu come noto quello di Matteo Visconti, che venne da Enrico
reintrodotto in Milano dopo 8 anni di esilio). Ora, tutti questi interventi furono avvertiti dai
guelfi come il segno di una politica che, dietro l’apparenza di una neutralità super partes,
ostentata con fierezza dal sovrano, si connotava in realtà per un contenuto fortemente filo-
ghibellino. Ciò indubbiamente contribuì a rinsaldare la diffidenza dei guelfi nei suoi confronti,
e favorì il maturare di atteggiamenti a lui ostili. Se viceversa Enrico VII fosse sceso in Italia
dalla via del Brennero, il primo comune che avrebbe trovato sulla sua strada sarebbe stata la
ghibellina Verona, controllata dagli Scaligeri. E se il primo intervento politico del sovrano
fosse stato quello di pretendere il rientro in Verona dei guelfi locali, ciò avrebbe avuto
probabilmente l’effetto di disinnescare fra i guelfi del resto d’Italia quel clima di diffidenza che
invece si venne fatalmente a produrre (cfr. BOWSKY, Henry VII, cit., p. 75).
103
Ivi, p. 55.
Dante e il quadro politico italiano 57

Marchionibus, Comitibus atque Populis»: epistola che fu scritta evidente-


mente dal Casentino sempre entro la fine di ottobre del 1310104. Canto ed epi-
stola – viene anzi da pensare – dovettero essere immaginati come le parti di
una sorta di pamphlet unitario da destinare ed offrire al sovrano quando
Dante, al seguito dei conti Guidi, gli si fosse presentato incontro (come poi
effettivamente avvenne, presumibilmente a Milano, in occasione dell’inco-
ronazione di Enrico con la corona ferrea di re d’Italia, avvenuta il 6 gennaio
del 1311)105. In vista di quell’incontro con colui che sembrava davvero in-
carnare la profezia del Veltro, Dante doveva avere in altre parole predisposto
un congruo omaggio (canto + epistola) che lo accreditasse agli occhi del so-
vrano come poeta/profeta, nonché come retore raffinatissimo e consulente
politico di gran vaglia (magari con la possibilità, come già si diceva, di pe-
rorare un poco anche la causa dei signori di Poppi suoi attuali protettori, i
quali ormai dovevano aver ben riconosciuto in lui un elemento centrale nella
loro strategia, mirante ad entrare nelle grazie dell’imperatore designato).
D) C’è poi, ancora, la questione del celebre verso 102 («tal che ’l tuo suc-
cessor temenza n’aggia»), inserito, come si è visto, sempre nella parte dedi-
cata ad «Alberto Tedesco», a chiusura della maledizione scagliata da Dante
contro la stirpe di Alberto I. Quel verso è stato variamente interpretato, in
quanto sembrerebbe contenere un’inverosimile minaccia proprio contro En-
rico VII. Esso dice infatti che il severo giudizio divino invocato contro il san-
gue degli Absburgo per la loro negligenza nello scendere nella Penisola dovrà
essere così chiaro ed esplicito – «novo e aperto» (v. 101) – da intimorire e pre-
occupare anche il successore dello stesso Alberto I, cioè appunto Enrico:
tremi, cioè, questo successore, e sappia cosa gli potrà accadere se a sua volta
non adempirà al proprio dovere. Ma è mai possibile, si sono chiesti in molti,
che Dante intendesse davvero rivolgersi in questo modo al suo eroe? E se si
pensasse – come taluno ha pur fatto – di attribuire il verso ed il canto ad una
data successiva alla morte di Enrico VII (24 agosto 1313), sarebbe stato pos-
sibile che Dante arrivasse a compiere un atto di così pessimo gusto come
quello di minacciare la punizione divina sull’anima di colui cui egli stesso
avrebbe poi riservato un posto nell’Empireo? No, è la risposta. Non è possi-
bile. Ma se appunto si assume che quella minaccia sia stata invece formulata
in una data prossima o di poco precedente all’ottobre del 1310 (cioè all’ef-
fettiva comparsa in Italia del sovrano lussemburghese), allora quel verso di-

104
Cfr. HONESS, Four political Letters, cit., pp. 45-56. Per la datazione dell’Epistola, che
è senza data, mi paiono del tutto condivisibili, per esempio, le osservazionie di Guglielmo
Gorni, che ritiene l’Epistola successiva alla bolla Exultet in gloria di papa Clemente V del 1°
settembre 1310 e antecedente all’arrivo di Enrico VII al di qua delle Alpi, nella seconda metà
del successivo mese di ottobre (cfr. GORNI, op. cit., p. 223).
105
Cfr. H. ZUG TUCCI, Henricus coronatur corona ferrea in Il viaggio di Enrico VII, cit.,
pp. 29-42.
58 Francesco Somaini

venta d’un tratto assai meno incomprensibile. Infatti – è questa per lo meno
la mia opinione – Dante qui non sta davvero minacciando Enrico di Lus-
semburgo, ma solo fingendo di minacciarlo, perché in realtà sin dal settem-
bre del 1309 Enrico VII ha già pubblicamente annunciato alla Dieta di Spira
la sua intenzione di scendere nella Penisola per assumere in Roma la corona
imperiale, e nella primavera del 1310 egli ha quindi provveduto ad inviare al
di qua delle Alpi delle solenni ambascerie itineranti per informare tutti i di-
versi governi urbani e signorili d’Italia della sua imminente venuta come
grande pacificatore, e anche per prendere informazioni sulle diverse situa-
zioni locali e farsi rilasciare promesse anticipate di obbedienza106. Nel luglio
del 1310, gli ambasciatori inviati verso la Toscana (il signore del Vaud Lu-
dovico di Savoia, i vescovi di Basilea e di Eichstädt Gerhard von Wippingen
e Philip von Ratsamhausen, il giurista astigiano Bassano Guasco e l’esule pi-
stoiese Simone de’ Reali) erano stati tra l’altro a Firenze ove avevano dialo-
gato con le autorità cittadine; dopodiché ai primi di agosto si erano portati ad
Arezzo, ai piedi del Casentino107. Nell’estate del 1310 la notizia dell’immi-
nente arrivo in Italia del Re dei Romani era dunque di dominio pubblico, e il
conte Guido di Poppi, così come Dante che soggiornava presso di lui, non po-
teva non esserne al corrente, anche perché tutta la grande nobiltà italiana,
tanto di orientamento ghibellino quanto di orientamento guelfo (come era
stato appunto nel caso di Guido II) era in realtà in grande fibrillazione ed at-
tesa. Dante, dal suo osservatorio casentinese, da dove operava come segreta-
rio e consigliere politico di Guido II di Poppi (e di sua moglie Gherardesca),
era evidentemente assai ben informato di quel che stava accadendo, e doveva
per parte sua essere non meno fremente di speranza e carico di aspettative. In
ogni caso, l’imminente venuta di Enrico era cosa che in quell’estate del 1310
poteva dirsi talmente sicura, che Dante avrebbe potuto perfino permettersi (e
a parer mio si permise) di rivolgere una minaccia fittizia ad Enrico, e di inti-
margli, con tono profetico, di aspettarsi una punizione divina qualora egli
non avesse adempiuto ciò che in realtà egli già stava adempiendo. Di fatto,
se collocato in quella cornice temporale, il verso 102, che ha fatto dannare i
critici e tormentato i dantisti, sembra perdere gran parte del suo mistero e di-
venta semplicemente un altro espediente retorico di un canto che, come si è
già detto, era peraltro tutto sapientemente costruito secondo alti modelli re-
torici e di eloquenza (e ora se ne comprende anche il motivo: poiché si trat-
tava dopo tutto di un testo destinato a far colpo su un futuro imperatore!).
E) C’è ancora la questione di Roma che piange. Nel canto VI infatti, ai
versi 112-14, Dante descrisse la città eterna come una vedova in lacrime per

106
Cfr. BOWSKY, Henry VII, cit., pp. 22-33; COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 98-108.
107
Oltre ai testi citati qua sopra, si veda DAVIDSOHN, Storia di Firenze, cit., vol. IV, pp. 524-
529.
Dante e il quadro politico italiano 59

l’assenza del proprio sposo imperiale. Ma se il canto avesse avuto una data-
zione posteriore al 1310, Roma avrebbe dovuto più che altro essere descritta
(magari con qualche escamotage di tipo profetico) come fremente di attesa
per il prossimo arrivo dell’amato, oppure felice per essere di nuovo congiunta
a lui (giacché tra il maggio ed il luglio del 1312 Enrico fu effettivamente nel-
l’Urbe; e il 29 giugno vi si fece anche incoronare imperatore) o magari in
collera contro chi cercava di opporsi a quel connubio. E se poi si volesse ad-
dirittura pensare ad una data posteriore all’agosto del 1312 (cioè successiva
alla partenza di Enrico da Roma), l’Urbe più che piangere, avrebbe dovuto
semmai rimpiangere la durata troppo breve della convivenza con lo sposo108.
Insomma, anche tenendo conto della cronologia fittizia del Poema (per cui
non va dimenticato che Dante stava pur sempre fingendo di parlare alcuni
anni prima dei fatti in questione) resta comunque difficile pensare che il canto
possa essere stato scritto dopo l’autunno del 1310, cioè dopo la comparsa di
Enrico in Italia, perché in quel caso c’è da ritenere che gli accenti sarebbero
stati probabilmente diversi, mentre con una datazione al 1310 essi sarebbero
stati del tutto appropriati (tant’è che l’immagine di Roma piangente si ritrova
anche nell’Epistola V, risalente con ogni probabilità alla stessa altezza cro-
nologica del canto)109.
F) E chiudiamo infine con l’ultima apostrofe del canto, rivolta a Firenze.
I toni qui sono decisamente sarcastici. Anzi irridenti. I Fiorentini sono messi
alla berlina per la loro incapacità di avere una politica coerente e costante,
cosa che li fa assomigliare ad una vecchia malata che si giri e si rigiri nel
proprio giaciglio. Entro i primi mesi del 1311 Firenze si sarebbe in realtà ri-
velata la nemica implacabile del progetto enriciano, e le Epistole VI e VII di
Dante mostrano con chiarezza come l’Alighieri in quelle circostanze consi-
derasse ormai i Fiorentini come vipere da schiacciare. Il tono irridente del

108
Riguardo alla cronologia della presenza in Roma di Enrico VII, gioverà ricordare che
il Re dei Romani, lasciata il 23 aprile 1312 Pisa, sarebbe entrato nell’Urbe il 7 maggio
successivo, trovando peraltro le truppe angioine di Giovanni di Gravina (fratello di Roberto
d’Angiò), intenzionate a sbarrargli la strada, per cui l’ingresso in città fu in realtà possibile solo
forzando il blocco di Ponte Milvio. Nelle settimane successive la situazione rimase di grande
tensione. Il sovrano riuscì a prendere il controllo del Laterano, del Colosseo, di S.ta Maria
Maggiore e di S.ta Sabina. Ma gli Angioini (sostenuti dagli Orsini) che tenevano Trastevere,
il Campidoglio ed il Vaticano (con Castel Sant’Angelo), decisero di impedire al sovrano di
arrivare fino a S. Pietro per l’incoronazione. In più circostanze ci furono combattimenti per le
strade della città (molto cruenti furono quelli del 26 maggio), finché, il 29 giugno, Enrico VII
dovette rassegnarsi a farsi incoronare imperatore in S. Giovanni in Laterano. Più tardi, il 21
luglio, Enrico lasciò Roma per prendere quartiere a Tivoli, ma rientrò ancora una volta
nell’Urbe dopo la metà di agosto del 1312 (più che altro come atto di sfida a Clemente V che
glielo aveva vietato), prima di ripartire alla volta della Toscana per la guerra contro Firenze (cfr.
CAGGESE, op. cit., pp. 158-62 e 166-69; LÉONARD, op. cit., pp. 269-70; BOWSKY, op. cit., pp.
159-70; COGNASSO, Arrigo VII, cit. pp. 272-306).
109
Vd. infra la nota n° 184 con il testo corrispondente.
60 Francesco Somaini

VI canto del Purgatorio non è dunque compatibile con la drammaticità della


situazione del 1311, mentre è del tutto rispondente alla situazione dell’estate
del 1310, quando gli ambasciatori regi erano venuti a Firenze ad annunciare
l’imminente arrivo di Enrico VII. In quell’occasione, certo, vi erano stati, tra
i Fiorentini, anche atteggiamenti polemici. Betto Brunelleschi, uno dei capi
del regime guelfo-nero, prese ad esempio la parola al cospetto degli amba-
sciatori enriciani per replicare con toni di sfida alla richiesta di un formale atto
di sottomissione110. Ma il Comune fiorentino aveva poi optato per una linea
di maggiore circospezione111. Nell’estate del 1310 a Firenze regnava insomma
la preoccupazione circa l’eventualità dell’arrivo in Italia di Enrico, e non si
vedeva certo di buon occhio la cosa (tant’è che fu anche disposta la ripresa
dei lavori per la costruzione delle mura)112. Però non si erano ancora prese de-
cisioni ufficiali che schierassero apertamente la città sul fronte dei nemici ir-
riducibili del sovrano. E Dante poteva dunque permettersi di irridere i
Fiorentini per la loro irresolutezza. Anche questo mi pare contribuisca alla da-
tazione del canto.
Mettiamo insieme tutti questi indizi e avremo dunque un quadro a mio
avviso sufficientemente chiaro. Il canto VI del Purgatorio è scritto da Dante
al tempo del suo soggiorno casentinese presso il conte di Poppi Guido II. È
scritto quando Enrico ancora non è giunto nella Penisola, ma quando Dante

110
Cfr. F. CARDINI, Brunelleschi Betto, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. I (1970), pp.
107-08. Le parole di sfida che il Brunelleschi avrebbe pronunciato al cospetto degli
ambasciatori regi sarebbero state le seguenti: «“Mai per niuno signore i Fiorentini inchinarono
le corna”» (citato in DAVIDSOHN, op. cit., vol. IV p. 524).
111
Firenze deliberò di demandare la risposta da darsi agli ambasciatori regi ad una riunione
del Parlamento della Lega guelfa toscana (la Tallia Tuscie, che era stata rimessa in piedi nel
marzo del 1310) in programma per gli inizi di agosto del 1310. In quell’occasione fu quindi
deciso di consultarsi con papa Clemente V, inviandogli un’apposita ambasceria. Poi si preferì
prendere tempo e aspettare il passaggio da Firenze di Roberto d’Angiò, che giungeva dalla
Provenza diretto alla volta di Napoli. In novembre fu quindi presa la decisione di mandare
degli osservatori presso Enrico VII (che era intanto arrivato in Piemonte), e di valutare che
atteggiamento tenere in base all’analisi della sua condotta. Poi, sempre in novembre, fu
deliberato d’intesa con la Lega Guelfa, di inviare al sovrano un’ambasceria ufficiale, che gli
offrisse una promessa di fedeltà ed anche la disponibilità al versamento di un tributo, in cambio
però di un’espressa conferma di tutti i privilegi concessi dagli imperatori precedenti alle città
della Lega ed anche di un impegno formale del Re dei Romani a garantire alle città toscane il
pieno possesso dei loro contadi. La decisione di inviare questa ambasceria venne però annullata
quando arrivarono le notizie dal Piemonte, che riferivano che Enrico stava imponendo nelle
varie città in cui giungeva il rientro dei fuoriusciti. Fu a quel punto che l’atteggiamento
fiorentino cominciò a divenire risolutamente ostile nei confronti di Enrico VII, anche se ancora
nel dicembre del 1310 venne infine mandata l’ambasceria al papa, precisando che Firenze
sarebbe stata disposta ad un atto formale di sottomissione al sovrano se avesse da questi
ricevuto delle precise garanzie a tutela della propria autonomia (DAVIDSOHN, op. cit., vol. IV
pp. 524-32; COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 108, 183-87).
112
Cfr. DAVIDSOHN, op. cit., vol. IV p. 543.
Dante e il quadro politico italiano 61

sa già con certezza (dagli ambasciatori regi che sono arrivati in Toscana tra
il luglio e l’agosto del 1310) che il viaggio del Re dei Romani è comunque
imminente. È scritto infine in un momento in cui Dante sa anche che il so-
vrano gode dell’appoggio del papa, mentre Firenze ancora non ha assunto in
modo definitivo quelle posizioni estremamente polemiche su cui si sarebbe
invece attestata di lì a breve. Infine, il canto è scritto quando Dante ancora non
sa che Enrico non scenderà in Italia per la via del Brennero, ma preferirà op-
tare per il percorso occidentale del Moncenisio. Tutto questo restringe a mio
avviso l’ambito cronologico della probabile stesura del canto alle date che ho
suggerito: tra l’agosto e l’ottobre del 1310. Nel contempo si comprende che
il canto era in realtà una sorta di manifesto politico, analogo alla Epistola V:
un testo, cioè che dovette essere pensato verosimilmente come una sorta di
dossier da proporre al sovrano per accreditare Dante stesso come intellettuale
di riferimento.
Ma c’è ancora un punto che deve essere preso in considerazione, prima di
chiudere questo ragionamento. Si tratta del fatto che in realtà questo canto
evidenzia anche che tra il programma che Dante immaginava per Enrico VII
e l’effettivo disegno che il sovrano lussemburghese era venuto mettendo a
punto (almeno tra la vigilia del suo intervento in Italia ed i primi mesi tra-
scorsi nella Penisola) sussistevano non soltanto dei forti elementi di sintonia,
ma anche alcuni tratti di divergenza.
In altre parole, l’«alto Arrigo» di Dante, che doveva scendere nella Peni-
sola per restaurare l’Impero universale di Roma e nel contempo per «drizzare
Italia» (secondo l’immagine poi riproposta nel XXX canto del Paradiso, 137),
non può essere completamente sovrapposto all’Henri de Luxembourg che si
apprestava a scendere nella Penisola, per cingere la corona italica e conseguire
il diadema imperiale. Per Dante infatti il sovrano doveva porre rimedio al-
l’abisso dell’anarchia della «serva Italia» (v. 76), come premessa indispen-
sabile non soltanto per risolvere i mali italiani, ma anche per mettere mano a
quella rinascita dell’Impero, la cui mancanza gli pareva il problema che aveva
scatenato la lupa della cupiditas e che rischiava di perdere l’umanità intera.
Per Enrico il problema si poneva invece in termini leggermente diversi. Egli
non era certo privo di una chiara consapevolezza delle alte implicazioni di ca-
rattere universalistico della dignità cui era stato elevato dai principi elettori113.
Il sovrano aveva però anche un programma più concreto: quello di provare a
rimettere in piedi il Regnum Italicum, ridando un contenuto concreto a quella
struttura politica vuota che insisteva sui territori dell’Italia centro-settentrio-
nale e rispetto alla quale proprio la situazione di anarchia che si era venuta a

113
Sull’argomento credo possa essere sufficiente rimandare al lavoro di Malte Heidemann:
M. HEIDEMANN, Heinrich VII. (1308-1313). Kaiseridee in Spannugsfeld von staufischer
Universalherrschaft und frühneuzeitlicher Partikularautonomie, Warendorf, Fahlbusch Verlag,
2008.
62 Francesco Somaini

determinare sembravano offrire delle chances non irrealistiche di inter-


vento114. Nominare vicari, riconvocare diete, pacificare le parti in lotta, far
rientrare i fuoriusciti, ripristinare l’ordine pubblico, sopire lo spirito fazioso,
amministrare la giustizia, rilanciare strutture di governo (un consiglio regio,
una cancelleria, una Camera, una tesoreria), rimettere in piedi una fiscalità,
creare un demanio reale (anche rimettendo in dicussione gli assetti territoriali
esistenti e l’assoggettamento dei contadi da parte delle città)...115. Un Regno
che si era ridotto col tempo ad una scatola vuota e ad un relitto giuspubblici-
stico del passato, completamente privo di qualunque sussistenza politica ed
istituzionale, doveva insomma essere riportato in vita, secondo un vero e pro-
prio progetto di ricostruzione ex nihilo di statualità116.
Non era un’utopia o un piano velleitario, perché un disegno del genere
aveva dalla sua due rilevanti elementi di forza117. Da un lato vi era infatti la

114
Su questo tema mi permetto di rimandare a F. SOMAINI, Henri VII et le cadre italien: la
tentative de relancer le Regnum Italicum. Quelques réflexions préliminaires, in Europäische
Governance in Spätmittelalter. Heinrich VII. von Luxembourg und die grossen Dynastien in
Europas – Gouvernance européenne au bas moyen âge. Henri VII de Luxembourg et l’Europe
des grandes dynasties, Actes des 15es journées lotharingiennes. 14-15 octobre 2008. Université
de Luxembourg, a cura di M. PAULY, Luxembourg, Publications de la Section historique de
l’Institut Grand Ducal – Publications du CLUDEM, 2010, pp. 397-428. Si vedano inoltre
SIMEONI, op. cit., vol. I, pp. 12-13; e G. ANDENNA, Enrico VII e il suo progetto politico per le
“tre valli del Capitolo di Milano” e per il “Regnum Italiae”, in ID., Linea Ticino. Sull’unità
culturale delle genti del fiume nel Medioevo, Bellinzona, Humilibus Consentientes, 2002, pp.
29-59; nonché ID., Henri VII et son projet politque pour le “Regnum Italiae”, in Le rêve italien
de la maison de Luxembourg aux XIVe et au XVe siècles, a cura di P. MARGUE et V. COLLING-
KERG, Luxembourg, Amis de l’histoire de Luxembourg/Amitiés italo-luxembourgeoises, 19982
[1ere ed. 1996], pp. 43-48.
115
Si seguano gli atti di Enrico VII in Italia anche semplicemente attraverso lavori prege-
voli come quelli di William Bowski e di Francesco Cognasso e i tratti di questo disegno si di-
paneranno con una certa immediata riconoscibilità: COGNASSO, Arrigo VII, cit.; BOWSKY,
Henry VII, cit.
116
Cfr. ad esempio B.H. SUMNER, Dante and the Regnum Italicum, in «Medium Aevum»,
I (1932), pp. 2-23, alle pp. 16-21; SIMEONI, op. cit., vol. I pp. 5-36; G. DE VERGOTTINI, Il di-
ritto pubblico italiano nei secoli XII-XV. Lezioni di storia del diritto italiano, Milano, Giuffré,
19933 (1ere édition 1960), pp. 119-27; e SOMAINI, Henri VII et le cadre italien, cit., pp. 415-16.
117
Sulla tendenza della storiografia contemporanea a liberarsi della vecchia idea di un Enrico
VII sognatore e velleitario cfr. C.D. DIETMAR, Heinrich VII., Graf von Luxemburg, römischer
König und Kaiser, dans Balduin von Luxemburg, Erzbishof von Trier, Kürfurst des Reiches.
1285-1354. Festrschrift aus Anlass des 700. Geburtsjahres, a cura di J. MÖTSCH et F. J. HEYEN,
Mainz, Verlag der Gesellschaft für Mittelrheinische Kirchengeschichte, 1985, pp. 43-53; e J.K.
HOENSCH, Die Luxemburger. Eine Spätmittelalterliche Dynastie gesammteuropäischer
Bedeutung. 1308-1437, Stuttgart-Berlin-Koln, Kohlhammer, 2000, in particolare alle pp. 48-50.
Ma la riprova più significativa del fatto che Enrico VII andrebbe preso sul serio, risiede nel
fatto che sul serio lo presero i suoi contemporanei. Come infatti già notava molti anni or sono
Arrigo Solmi, se si analizza la documentazione del periodo compreso tra il 1310 ed il 1313, tanto
di parte filo-enriciana quanto di orientamento guelfo, si scorge «che l’impresa d’Enrico, pur tra
molti travagli e in mezzo a diverse fortune, eccitava sempre la meraviglia, il timore, la
Dante e il quadro politico italiano 63

situazione di oggettivo disordine ed insostenibile caos dell’Italia, per cui da


parte di molti ci si era venuti persuadendo, al pari di Dante, della necessità di
un «publicum moderamen» (Ep., VI 2)118. Dall’altro c’era il fatto che un di-
segno del genere sembrava poter contare sul decisivo appoggio politico del
Papato. Dopo lo scontro tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello il Papato era fi-
nito di fatto nell’orbita monarchia francese. Ma la pressione francese sulla
Chiesa Romana era pesante. I casi della soppressione dell’Ordine dei Tem-
plari e del processo postumo contro Bonifacio VIII, su cui Filippo il Bello
pretendeva di impartire al papa le proprie direttive, avevano fatto nascere
negli ambienti papali, e nello stesso Clemente V, una consapevolezza abba-
stanza chiara della necessità di controbilanciare con urgenza lo strapotere
della monarchia capetingia, creando dei validi contrappesi119. Il progetto di
Enrico VII veniva ad inserirsi in questo contesto, e dunque l’ipotesi di un re-
cupero degli «iura Imperii in Italia» – recupero che appunto si sostanziava
nell’idea del rilancio della funzione regia nello spazio del Regnum Italicum
–, incontrava la sostanziale approvazione papale120.
Di più: negli ambienti pontifici si era concepita l’idea che non solo si po-
tesse sostenere l’ipotesi di ridare una qualche consistenza al Regnum Italicum,
ma che si potesse immaginare di sottrarre l’intero spazio italiano all’inge-
renza francese, prospettando una convergenza – da compiersi sotto l’egida
del Papato stesso – tra questo ripristinato Regno d’Italia (affidato al sovrano
lussemburghese) ed il Regno angioino del Mezzogiorno. Non a caso, fu pro-
prio presso la curia di Clemente V – e con un preciso significato politico anti-
francese – che a partire dal 1309 venne concepito il disegno di un’alleanza
matrimoniale angioino-lussemburghese: un’alleanza di cui si sarebbe conti-
nuato a discutere a lungo (fino alla primavera del 1312), e che tra l’altro
avrebbe dovuto prevedere che il principe angioino (Carlo d’Angiò, figlio di
re Roberto) sposasse la figlia di Enrico VII (Beatrice di Lussemburgo) e ve-
nisse investito dall’imperatore della corona dell’antico Regno di Arles (tra le
Alpi e il Rodano), riportando così in vita non soltanto il Regnum Italicum ma

commozione, le ire e le speranze dei contemporanei». Che piacesse o non piacesse, Enrico VII
venne in altre parole preso sul serio da tutti gli osservatori. E fino alla fine non venne
assolutamente escluso da nessuno che egli potesse uscire vincitore dalla partita (A. SOLMI, Le
basi realistiche del pensiero politico di Dante [1913], in ID., Il pensiero politico di Dante, cit.,
pp. 157-92).
118
Si veda quanto osservato supra, nella nota n° 60.
119
Sulle vicende del processo postumo a Bonifacio VIII e della soppressione dei Templari
si veda quanto già rilevato sopra nella nota n° 93. Peraltro, l’idea di arginare lo strapotere
francese, appoggiandosi ad un potere imperiale rimesso parzialmente a nuovo non era in realtà
affatto inedita agli ambienti papali. Ci avevano già pensato Gregorio X (1271-1276) e Niccolò
III (1277-1280) – quest’ultimo non a caso nel 1278 riconobbe Rodolfo I come re dei Romani
– e ci pensò di nuovo Bonifacio VIII (cfr. ad esempio ARMSTRONG, op. cit., p. 248).
120
Cfr. supra la nota n° 95.
64 Francesco Somaini

anche quel Regnum Burgundiae egualmente ridotto alla condizione di “regno


scomparso”121.
Il progetto di Enrico VII in merito alla restaurazione del Regnum Italicum
– progetto della cui plausibilità egli si venne in realtà persuadendo tra il 1309
ed il 1310, in parte anche in ragione dei segnali che gli arrivavano dalla curia
papale – aveva dunque argomenti non banali da far valere122. Chi ancora si
ostina a dipingere Enrico VII come una sorta di romantico sognatore, inna-
morato del sogno irrealizzabile (e sconfitto in partenza) di riportare in vita
l’Impero universale, non considera che la proposta enriciana aveva una sua
forza oggettiva, e che quella degli equilibri geopolitici complessivi della Cri-
stianità occidentale (perché anche di questo in definitiva si trattava) era una
partita ancora aperta ad una gamma decisamente ampia di sviluppi possibili.
Un progetto come quello di Enrico, nella misura in cui si nutriva anche di
idealità e di temi di impronta imperiale, aveva ovviamente molti punti di con-
vergenza con i sogni di Dante. È certo però che l’idea di Dante, che a sua
volta si alimentava di meditazioni sulla storia romana (veicolate in partico-
lare attraverso la lente virgiliana), non contemplava il Regnum Italicum. L’Ita-
lia (e, si badi bene, tutta l’Italia) doveva essere infatti uno spazio politico
direttamente connesso all’Impero universale: il cuore dell’Impero stesso, o se
si vuole il «giardin de lo’mperio» di cui si parla proprio in questo canto (al
v. 105). Per Dante, quindi, l’Italia non poteva essere un regno a sé, un regno
particulare come potevano essere gli altri regni della Cristianità, e men che
meno un regno territorialmente ridotto soltanto ad una parte della Penisola,
come era il caso del Regnum Italicum123. No: l’istituzione sulla cui rinascita

121
Il primo ideatore di questo progetto matrimoniale angioino-lussemburghese (cui era
associata anche l’idea di favorire una generale pacificazione tra guelfi e ghibellini in Italia) fu
a quanto sembra il cardinale Jacopo Stefaneschi. Tale progetto incontrò una grande attenzione
tanto da parte di Enrico VII quanto da parte di Roberto d’Angiò e ancora fino al maggio del
1312, alla vigilia della rottura definitiva, pur a fronte di crescenti difficoltà, i due sovrani
continuarono a tenere su questo progetto delle trattative (cfr. CAGGESE, op. cit., pp. 114-15, 120-
22, 125, 136, 140, 142, 147-51, 155-56, e 161; LÉONARD, op. cit., pp. 263-65 e 270-72;
BOWSKY, Henry VII, cit., pp. 23-24, 38, 58, 63-64, 69, 120-21, 137-39, 155, 161, 169-70;
COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 59-60, 182, 191, 194-95, 254, 259-61; FAVIER, op. cit., pp.
418-19)
122
Inizialmente sembra che Enrico VII non avesse concepito che il disegno di procurarsi
l’incoronazione imperiale, per poter godere di un sovrappiù di autorità politica in riferimento
al Regno tedesco. A partire dal 1309 però, le notizie che gli arrivarono dall’Italia circa la
grande domanda di pace e di ordine che si levava un po’ da ogni dove, e la consapevolezza di
godere dell’appoggio papale, dovettero persuadere Enrico della possibilità di concepire un
disegno più ambizioso e di presentarsi nella Penisola come grande pacificatore (Rex Pacificus)
in grado di far rinascere il Regnum Italicum (cfr. BOWSKY, Henry VII, cit., pp. 21-26).
123
Non a caso, come notava significativamente Michele Barbi, Dante del Regnum Italicum
non si interessò mai, in nessuna delle sue opere (cfr. BARBI, L’Italia, cit., pp. 7-8).
Nell’incoronazione di Enrico VII a re d’Italia, avvenuta a Milano il 6 gennaio 1311, Dante
tendeva non a caso a vedere una sorta di riconoscimento della «imperatoria maiestas» del suo
Dante e il quadro politico italiano 65

occorreva puntare era l’Impero stesso, e l’Italia che ad esso doveva far capo non
poteva essere, agli occhi di Dante, che l’Italia imperiale di Augusto e di Virgi-
lio. Questa era la realtà politica che si doveva resuscitare, e non certo la piccola
Italia dei Berengari e degli Ottoni (limitata di fatto alla sola Lombardia, con
l’appendice della Toscana)124.
D’altra parte, Dante non era politicamente un ingenuo. Anche nel suo caso
bisognerebbe quindi essere cauti prima di liquidarlo troppo sbrigativamente
come un utopista o come un visionario125. Dante aveva infatti sogni grandiosi,
ma sapeva anche tenere gli occhi ben aperti. Dunque sapeva perfettamente che
la partita principale che Enrico VII si apprestava a giocare era in via prioritaria
quella del rilancio del Regno Italico con l’avallo del Papato e solo in subordine
quella del ripristino dell’Impero universale. E analogamente doveva aver ben
compreso che questa partita si sarebbe dovuta giocare cercando non soltanto di
poter contare sull’appoggio del papa, ma se possibile anche su quello del re di
Napoli. In questo senso occorreva dunque far sì che non si pensasse che il ri-
lancio del ruolo politico del Re dei Romani dovesse significare una sorta di can-
cellazione delle realtà politiche particolari. Non a caso l’Epistola V, che dovette
essere scritta praticamente in contemporanea col canto VI del Purgatorio, aveva
per primi destinatari gli altri “re” d’Italia (e cioè Roberto d’Angiò re di Sici-
lia/Napoli e Federico d’Aragona re di Trinacria/Sicilia), seguiti dai Senatori di
Roma, e dai vari duchi, marchesi, conti e popoli della Penisola. Doveva infatti
essere chiaro che se tutti costoro (a cominciare dai due re) venivano per un verso
caldamente invitati a riconoscere in Enrico VII il loro superiore politico, per un
altro verso erano comunque riconosciuti nella loro posizione di re e di principi
autonomi: a sottolineare quindi che l’esistenza dei loro Stati particolari non era
revocata in dubbio dall’arrivo del Re dei Romani (futuro imperatore), né che
l’auspicato ripristino dell’Impero dovesse significare la dissoluzione delle loro
entità politico-territoriali od il loro assorbimento nell’Impero stesso126.

Re dei Romani, come si legge nell’epistola VII (9) e non – come invece era – la formale
incoronazione a re di quel Regnum Italicum che Dante sostanzialmente misconosceva (cfr.
SOLMI, L’Italia nel pensiero politico, cit., pp. 205-07; SUMNER, op. cit., pp. 10-14).
124
Cfr. ERCOLE, Il sogno italico di Dante, cit., pp. 91-101; SUMNER, op. cit., pp. 10-22;
PASSERIN D’ENTRÈVES, op. cit., pp. 53-54; DAVIS, Dante and the Empire, cit., p. 184.
125
Penso che in un certo senso si possa anche condividere l’opinione di Antonio Gramsci,
quando affermava che Dante «è un vinto della guerra delle classi che sogna l’abolizione di
questa guerra sotto il regno di un potere arbitrale», e anche la sua affermazione secondo cui
l’Alighieri voleva «superare il presente [...] con gli occhi rivolti al passato» (A. GRAMSCI, Il
comune medievale come fase economico-corporativa dello Stato moderno. Dante e Machiavelli
[Quaderno 6 (VIII) - § 85], in ID., Quaderni del carcere, a cura di V. GERRATANA, Torino,
Einaudi, 1975, vol. II pp. 758-60, a p. 760). Trovo però imprecisa l’idea che quel disegno fosse
di necessità «un’utopia politica» (ivi, p. 759). Al riguardo sono semmai da apprezzare le
osservazioni di segno opposto che su questo aspetto furono a suo tempo proposte da Michele
Barbi: BARBI, Dante, cit., p. 73.
126
Bene fece da questo punto di vista Michele Barbi a smontare le tesi di Ezio Flori, che
66 Francesco Somaini

Ed è per lo stesso motivo, io credo, che in questo canto del Purgatorio,


Dante, oltre a cercare – lo abbiamo visto – di rendere un po’ meno brucianti
di quanto avesse fatto in altre occasioni le sue parole di critica nei riguardi del
Papato, scelse accuratamente, come si diceva, di non fare alcun riferimento
all’Italia del Sud. Se cioè nell’elenco dei mali italiani ai quali Enrico VII
(alias Alberto Tedesco) avrebbe dovuto porre rimedio non vennero citati
esempi e casi che potessero essere ricondotti alla situazione del Mezzogiorno,
è perché Dante non voleva offrire argomenti che potessero far pensare che
l’impresa di Enrico VII dovesse compiersi anche con degli atti di ingerenza
nell’affare dei regni meridionali (e del Regno di Napoli in particolare). La
scelta insomma di dipingere un quadro tutto incentrato su situazioni ricon-
ducibili all’Italia delle città, nacque, io credo, principalmente da questa con-
siderazione.
Su un punto importante, però, Dante ed Enrico VII non potevano pensarla
allo stesso modo: e cioè sul ruolo di Roma. Per Dante, al riguardo non c’era
possibilità di discussione. Se Enrico veniva a rilanciare il ruolo politico del-
l’Impero in Italia, Roma doveva essere il suo obiettivo. Perché essa era –
come Dante scriverà nell’Epistola XI – il «caput pie cunctis Italis diligen-
dum» e il «commune principium» della civiltà italica (Ep., XI 10). L’Impero
di Roma senza Roma per Dante dunque non si dava. Sarebbe stato un con-
trosenso127. E invece Enrico VII, nel giuramento che aveva pronunciato ad
Hagenau il 17 agosto 1310, proprio a questo si era dovuto impegnare. I di-
ritti del papa su Roma non sarebbero stati messi in discussione, e una volta
ricevuta la corona imperiale il sovrano si sarebbe dovuto rapidamente allon-
tanare dall’Urbe. Tale giuramento fu anzi ribadito, in forma ancora più chiara
ed esplicita, l’11 ottobre 1310 a Losanna, quando ormai Enrico già si stava
dirigendo alla volta del Moncenisio per calare nella Penisola128.
Enrico VII, insomma, si era detto disposto, nel quadro di un disegno mi-
rante a ripristinare con l’avallo del Papato i diritti imperiali in Italia, a rinun-
ciare ad ogni pretesa circa il governo di Roma. Ma per Dante questo era

aveva immaginato che Dante pensasse ad una sorta di Impero assolutistico e monocratico,
tendente a sopprimere ed abrogare tutte le istituzioni particolari ad esso subordinate (cfr. e
BARBI, L’Italia, cit., p. 6 e E. FLORI, Dell’idea imperiale di Dante con un’appendice sulla data
di composizione del ‘De Monarchia’, Bologna, Zanichelli, 1921). Sulla Epistola V si veda
supra la nota n° 104. In realtà, come ha scritto di recente Umberto Carpi, Dante «non si
sognava neppure di revocare in dubbio la legittimità delle monarchie venutesi assestando a
Napoli e in Sicilia dopo Benevento e dopo i Vespri» e il rilancio dell’autorità imperiale «non
comportava affatto [per lui] che l’imperatore dovesse tornar a regnare (a reggere) in Italia
come aveva fatto Federico II [...] o tanto meno che dovessero venir annullate le autonomie
comunali affermatesi fin dai tempi del Barbarossa)» (CARPI, op. cit., vol. II, p. 655).
127
Cfr. ERCOLE, L’unità politica, cit., p. 58; DAVIS, Dante and the Empire, cit., p. 139 e 192;
ID., Roma o Babilonia, cit., pp. 270-93.
128
Cfr. COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 82-89.
Dante e il quadro politico italiano 67

inammissibile, e nel canto VI egli ribadì appunto che Roma era lì, piangente
e in attesa del proprio sposo (vv. 112-14). Se dunque il canto VI – come io
penso – aveva lo scopo di presentare Dante agli occhi del sovrano come un
possibile vate politico, la questione di Roma costituiva un punto delicato e un
elemento di divergenza non trascurabile129.

3. L’analisi del testo

Ciò detto, non resta a questo punto che addentrarci più direttamente nella
lettura del canto. Cominciamo innanzitutto con i fatti della fabula nella geo-
grafia e nella cronologia della Commedia. Siamo nel terzo giorno del viag-
gio oltramondano di Dante. Dunque è il 10 aprile del 1300, giorno di Pasqua
(o al limite è il 27 di marzo, se vogliamo accogliere l’ipotesi difficilior so-
stenuta da alcuni)130. Dante e Virgilio – risaliti dalle profondità dell’Inferno
attraverso «la via [...] lunga» e «il cammino malvagio» della «natural bu-
rella», cioè dello stretto cunicolo scavato dal «ruscelletto» (Inf., XXXIV 95,
98 e 130) che dal Purgatorio scende verso il centro della Terra ove è confic-
cato Lucifero – sono infine sbucati sullo spiaggione ai piedi del monte pur-
gatoriale poco prima dell’alba australe del giorno di Pasqua, e a questo punto
si trovano nel nuovo regno ultraterreno ormai già da alcune ore131. Ora, infatti,
è da poco passato mezzogiorno: il sole, è alto nel cielo e anzi ha già superato
lo zenith, tanto che dai piedi della grande isola-montagna (dal lato in cui si
trovano i due pellegrini, che è evidentemente il versante orientale del monte)
esso non è in realtà già più visibile (come ci viene detto chiaramente al verso
51). La cosa non è priva di un certo rilievo. Essendo infatti quel lato del Pur-
gatorio entrato nel cono d’ombra proiettato dalla cima della monte, il corpo

129
Le cose sarebbero ovviamente cambiate in modo radicale dopo la definitiva rottura,
nell’estate del 1312, tra Enrico VII e Roberto d’Angiò: rottura che a sua volta comportò quella
tra Enrico VII e Clemente V, giacché il papa – anche per effetto delle crescenti pressioni
francesi – finì per abbandonare il Lussemburghese, e schierarsi sostanzialmente in difesa
dell’Angioino. A quel punto infatti, Enrico VII, che nel frattempo era anche stato formalmente
incoronato imperatore, non si sentì più tenuto ad usare toni prudenti, e prese a rivendicare con
maggiore forza e maggiore autorevolezza la propria autorità di monarca universale, al quale
gli altri sovrani cristiani dovevano obbedienza (cfr. supra la nota n° 7).
130
Cfr. supra, la nota n° 75.
131
Si ricorderà che la risalita dal fondo dell’Inferno verso il Purgatorio era cominciata al
tramonto del sabato santo (8 aprile 1300), corrispondente però all’alba di quello stesso giorno
nell’emisfero australe (cfr. Inf., XXXIV 68, 105 e 118). Dunque Dante e Virgilio hanno
impiegato un po’ meno di 24 ore per ritornare verso la superficie del globo terrestre (agli
antipodi rispetto alla selva oscura da cui avevano cominciato il loro viaggio). Questa lunga
risalita attraverso il cunicolo che scende verso il lago ghiacciato del Cocito, si trova solo
rapidamente descritta, come noto, negli ultimi versi dell’ultimo canto dell’Inferno (Inf.,
XXXIV 133-39).
68 Francesco Somaini

vivo di Dante, che è, ovviamente, l’unico vivente che si trovi da quelle parti,
non proietta più la propria ombra al suolo. Ciò lo rende non più immediata-
mente riconoscibile da parte dei defunti, il che spiega come il personaggio di
Sordello – con cui Dante e Virgilio si imbatteranno a breve – non si accorgerà
della condizione del fiorentino come vivente: lo capirà in realtà solo nel canto
VIII, quando sarà Dante stesso a rivelarsi a Nino Visconti come non ancora
morto, con ciò suscitando nello stesso Nino e, appunto, anche in Sordello,
presente alla scena, una grande sorpresa come di «gente di subito smarrita»
(Purg., VIII 63).
Dal punto di vista spaziale, il canto VI si svolge ancora nell’Antipurgato-
rio, cioè in quella parte della grande montagna dell’espiazione che costitui-
sce la base del monte stesso, prima delle sette cornici concentriche che
costituiscono più propriamente il regno del pentimento e della lenta purga-
zione dal peccato. Dante e Virgilio hanno in realtà ormai lasciato lo spiag-
gione ai piedi dell’isola, e si sono inerpicati per le ripide balze che conducono
verso l’alto, alla ricerca dell’ingresso del Purgatorio vero e proprio (al quale
peraltro giungeranno solo nel canto IX, grazie al provvidenziale intervento
notturno di Santa Lucia). Qui dunque ci troviamo più esattamente nella se-
conda balza antipurgatoriale, ove si affollano le anime penitenti di alcuni
«peccatori infino a l’ultima ora», che furono «per forza morti», ma che prima
di spirare ebbero comunque modo di pentirsi, uscendo con ciò dalla vita «a
Dio pacificati» (Purg., V 53, 52 e 56). Sono anime che ancora attendono di
varcare la soglia del Purgatorio, e che dovranno recitare il «‘Miserere’ a verso
a verso» (Purg., V 24), per un tempo pari alla durata della loro vita pecca-
minosa (cfr. Purg., IV 131-34). Le preghiere dei viventi possono però acce-
lerare questa loro attesa. Per questo i penitenti premono con insistenza su
Dante (che hanno riconosciuto come vivo) perché riporti nel mondo notizia
di loro, e solleciti orazione in loro favore.
La scena con cui si apre il canto VI, da questo punto di vista, è in realtà
una diretta prosecuzione di quella del canto precedente, che era stato il canto
di Jacopo del Cassero, di Buonconte da Montefeltro e della Pia. Tra un canto
e il seguente, sul piano del racconto, non c’è una vera soluzione di continuità
temporale. Dante e Virgilio sono sempre nello stesso punto e tra gli stessi pe-
nitenti, che ora, semplicemente, si sono fatti loro intorno sempre più nume-
rosi.
Ma se la scena dei due canti è di fatto la stessa, l’atmosfera ora cambia de-
cisamente. Là infatti i racconti di Jacopo, di Buonconte e della Pia si erano
distesi sui toni tragici, epici ed elegiaci, sempre dalla forte intensità dram-
matica ed emotiva. Qui invece Dante esordisce volutamente con un registro
comunicativo ispirato più che altro alle tinte di un umile realismo132. Questo

132
Questo cambio repentino di atmosfera tra V e VI canto naturalmente è stato spesso
sottolineato dai commentatori. Si vedano ad esempio GENTILE, op. cit., pp. 5-7; A. MOMIGLIANO,
Dante e il quadro politico italiano 69

brusco cambio di tono fu certamente voluto. Il canto VI – che come ormai


sappiamo doveva perseguire una sua forte intenzionalità di messaggio poli-
tico – richiedeva evidentemente di poter stare in qualche modo da sé, senza
doversi trascinare il ricordo delle toccanti atmosfere del canto precedente.
Da qui l’esigenza per Dante di creare una brusca cesura tonale133.
In effetti il canto VI si apre con un’insolita (e piuttosto irriverente) simi-
litudine, che rimanda ad una scena di tipo iper-realistico e di sapore quasi
guittoniano134. Dante è circondato da una folla di anime postulanti, e quasi fa-
tica a liberarsi di loro; e così si sente come il vincitore del «gioco della zara»
(v. 1) – un gioco di dadi che si svolgeva nell’Italia dell’epoca – circondato da
una folla di importuni che cercano di estorcergli qualche piccola mancia.
Leggiamo i primi 12 versi :

Quando si parte il gioco della zara,


colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara. 3
Coll’altro se ne va tutta la gente:
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual da lato li si reca a mente; 6
el non s’arresta, e questo e quello intende:
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così dalla calca si difende. 9
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa. 12

Questo gioco della zara prendeva nome dall’arabo «zahr» (= dado), che
nella versione articolata diventa poi «az-zahr», da cui sono a sua volta deri-
vati il francese «hasard», l’italiano «azzardo», il castigliano (ed il proven-
zale) «azar», ecc.135. Il gioco in questione era appunto, come si diceva, un
gioco di dadi con varie regole. Si giocava solitamente con 3 dadi, e i gioca-
tori dovevano indovinare le combinazioni uscenti dai lanci, ossie «le volte»
(v. 2), oppure realizzare con i loro tiri le combinazioni più rare (3, 4, 17 e 18)
che costituivano appunto la cosiddetta «zara». Vi si giocava naturalmente del
denaro136.

Commento 1946-1951, in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Purg., VI 1-12; N.
SAPEGNO, Commento 1955-1957, ivi, con riferimento a Purg., VI 1; ALIGHIERI, Commedia, a
cura di E. PASQUINI e A. QUAGLIO, cit., vol. II p. 106; VARVARO, op. cit., p. 126; e ALIGHIERI,
Commedia a cura di G. INGLESE, cit., vol. II, p. 90.
133
Cfr. SEBASTIO, op. cit., pp. 11 e 20.
134
Cfr. PANARO, op. cit., p. 29.
135
Cfr. ALIGHIERI, La Commedia secondo l’antica vulgata, cit., vol. III, p. 97; ID.,
Commedia a cura di G. INGLESE, cit., vol. II, p. 90.
136
Cfr. I. TADDEI, Gioco d’azzardo, ribaldi e baratteria nelle città della Toscana tardo-
70 Francesco Somaini

L’aspetto interessante della similitudine è peraltro costituito dal suo ca-


rattere asimmetrico. Mentre infatti Dante paragona se stesso al vincitore del
gioco, assillato dagli astanti, non è chiaro a chi debba essere riferita l’imma-
gine dei versi 2-3 relativa alla figura dello sconfitto che «si riman dolente»,
e su cui il poeta più non si sofferma. Margherita Frankel propose qualche
anno fa una semplice, eppure originale ipotesi interpretativa (mai suggerita
in precedenza), secondo cui questo perdente che rimane da lato non possa
che essere identificato con la figura di Virgilio137. Virgilio, osservava la Fran-
kel, è in effetti «il dannato che accompagna Dante fra i futuri beati e che, alla
fine di quella parte del viaggio, dovrà tornare in Inferno»138. Dante, invece,
arriverà fino alla contemplazione di Dio, e poi potrà tornare sulla Terra ed
aiutare i penitenti dell’Antipurgatorio sollecitando preghiere per loro, men-
tre per i vivi potrà svolgere una fondamentale opera di testimonianza, se non
addirittura di mediazione, del progetto divino139. In un certo senso Dante-per-
sonaggio sta quindi cominciando a comprendere che il suo «viaggio ultra-
mondano non ha solo un fine legato alla sua persona, ma è connesso ad una
missione in funzione degli altri uomini», e questo lo porta ad una sorta di
presa di coscienza del suo ruolo, e anche del suo avere un compito che in
qualche modo lo antepone a Virgilio, il quale, per parte sua, si rende ben
conto che tutto questo gli è di fatto precluso140.
Nei canti precedenti, oltre tutto, Virgilio aveva esortato anche un po’ bru-
scamente Dante a non trattenersi troppo con le anime in cui i due pellegrini
si imbattevano: nel canto IV ad esempio il poeta latino aveva interrotto con
una certa impazienza il dialogo tra Dante e il negligente Belacqua (Purg., IV
136-39), e nel V era stato ancora più sbrigativo: «”Perché l’animo tuo tanto
s’impiglia [...] che l’andare allenti? / Che ti fa ciò che quivi si pispiglia? /
Vien dietro a me e lascia dir le genti» (Purg., V 10-13). Con i «morti per
forza», è vero, egli era stato più indulgente; ma se aveva acconsentito a che
Dante prestasse attenzione ai loro racconti, aveva chiesto comunque che per
lo meno non si fermasse: «”però pur va, e in andando ascolta”» (v. 45). Ma
ora Dante è letteralmente circondato da anime che lo trattengono e li tirano
a sé, e Virgilio è impotente a fermare questa ressa di postulanti, e sembra dav-

medievale, in «Quaderni Storici», XXXI (1996), pp. 335-62; L. ZDEKAVER, Il gioco in Italia nei
secoli XIII e XIV, in «Archivio Storico Italiano», XVIII (1886), pp. 20-74, in particolare alle
pp. 24-26; N. TAMASSIA, Una nota dantesca, in «Giornale storico della letteratura italiana»,
XXI (1893), pp. 456-57; e RONCAGLIA, op. cit., p. 413.
137
M. FRANKEL, La similitudine della zara (Purgatorio, VI, 1-12) e il rapporto fra Dante
e Virgilio nell’Antipurgatorio, in Studi Americani su Dante, a cura di G.C. ALESSIO e R.
HOLLANDER, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 113-43. Ora si veda però anche R. HOLLANDER,
Commento 2000-2007, in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Purg., VI 1-12.
138
FRANKEL, op. cit., p. 115.
139
Cfr. SEBASTIO, op. cit., pp. 17, 20, 37.
140
Ivi, p. 38.
Dante e il quadro politico italiano 71

vero uno sconfitto. Il poeta della ragione pare in qualche caso soccombere di
fronte all’immagine del poeta della speranza e della fede, che Dante sembra
incarnare141. Il tema del rapporto Dante-Virgilio, che nel Purgatorio comin-
cia a rendersi indiscutibilmente più complesso rispetto all’Inferno, è certa-
mente uno degli aspetti più interessanti che il canto VI rivela a latere del
messaggio politico (che resta comunque il tratto più rilevante del canto
stesso). E in effetti l’incipit sul perdente del gioco della zara va certamente
in questa direzione.
Per tornare alla dimensione politica del canto, va d’altra parte anche os-
servato che l’immagine di Dante vincitore del gioco sembrava attagliarsi ab-
bastanza efficacemente anche alle sensazioni che il fiorentino doveva
verosimilmente provare al tempo in cui scriveva questi versi. Le sue profezie
sembravano infatti sul punto di avverarsi con l’imminente arrivo di Enrico VII
nella Penisola, e anche questo doveva dare a Dante una sorta di sicurezza che
lo faceva probabilmente sentire un vittorioso.
Come che sia, i versi successivi alla similitudine d’esordio sono quelli in
cui vengono elencate alcune vittime di morte violenta:

Quiv’era l’aretin che dalle braccia


fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia. 15
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fè parer lo buon Marzucco forte. 18
Vidi conte Orso, e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa: 21
Pier de la Broccia dico, e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia. 24

I primi cinque sono quelle anime che già abbiamo ricordato precedente-
mente, e che a vario titolo rimandano alle figure del conte Guido II di Batti-
folle e della contessa sua moglie142. Il primo – «l’aretin che dalle braccia fiere
di Ghin di Tacco ebbe la morte» (vv. 13-14) –, è quel Benincasa da Laterina,

141
Può forse essere letto in questa stessa chiave, del resto, anche il passo del canto III,
laddove alla ricerca di una via più agevole per ascendere sui ripidi pendii rocciosi della base
della montagna, Virgilio si era posto vanamente a ragionare «tenendo ‘l viso basso», mentre
Dante, che «mirava suso», vide delle anime verso cui poter tendere (Purg., III 55-57). Era in
un certo senso l’idea dell’insufficienza della ragione e della sua debolezza in rapporto alla
fede (cfr. U. BOSCO e G. REGGIO, Commento 1979, in Dartmouth Dante Project, cit., con
riferimento a Purg., III 46-56).
142
Si veda supra, la nota n° 85.
72 Francesco Somaini

giurista del circondario di Arezzo, che era stato collaboratore di Guido II al-
l’epoca della sua podesteria a Siena nel 1285. Proprio in quell’occasione,
operando come giusdicente, egli fece a quanto sembra condannare a morte
per brigantaggio il nobile senese Tacco dei Cacciaconti, per la qual cosa il fi-
glio di lui Ghino (ossia il famoso Ghino di Tacco) volle vendicare la morte
del padre, e nel 1286, allorché Benincasa si era nel frattempo trasferito con
un incarico giudiziario a Roma, fece irruzione nell’aula di tribunale in cui
egli sedeva, e lo uccise tagliandogli la testa143.
«L’altro ch’annegò correndo in caccia» era egualmente aretino. Si trattava
di Guccio (o forse Chiuccio, o anche Cione, Ciacco, Lucio) Tarlati, dei Tarlati
signori di Pietramala (futuri vescovi e signori di Arezzo). Guccio morì a
quanto sembra annegato nell’Arno, nei pressi di Laterina, intorno al 1290,
mentre fuggiva – «in caccia» è qui da intendersi nel senso di «in fuga» –
dall’inseguimento di alcuni guelfi aretini (probabilmente dei Bostoli). O forse
cadde nel 1289, inseguito dai Bostoli dopo la disfatta di Campaldino144.
Il terzo, «Federigo Novello», ossia Federico Novello dei Guidi di Bagno,
era un acceso ghibellino (come suo padre Guido Novello, che era stato uno
dei protagonisti della vittoria ghibellina a Montaperti, nel 1260). Sua madre
era del resto niente meno che una figlia di Manfredi. Federico morì nel 1289,
o forse nel 1291, combattendo nel Casentino contro i suoi congiunti guelfi del
ramo dei Guidi di Dovadola145.
«Quel da Pisa / che fè parer lo buon Marzucco forte» era il pisano Gano (o
secondo altri Farinata) degli Scornigiani, signori di Scorno. Legato al partito
pisano dei Visconti, fu ucciso, a quanto sembra, nel 1288 da Nino della Ghe-
rardesca, detto il Brigata, parente del conte Ugolino. Il padre di Gano, Mar-
zucco degli Scornigiani, era stato un rispettato cavaliere, giudice e poeta, ma
si era poi fatto frate nel convento francescano di S.ta Croce di Firenze. Quando
apprese della morte del figlio, pare che riuscisse a commuovere il conte Ugo-
lino per la grande dignità ed umiltà con cui chiese che gli venisse consegnata
la salma di Gano per poterlo seppellire (secondo altri dimostrò invece la pro-
pria forza convincendo gli esponenti della sua casa a rinunciare ai propositi di
vendetta)146.
Infine, Orso degli Alberti di Mangona, figlio di Napoleone, fu un’ennesima
vittima della torva e sanguinosissima faida che aveva lacerato la nobile casa

143
Cfr. R. PIATTOLI, Benincasa da Laterina, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. I (1970),
pp. 587-88. E su Ghino di Tacco cfr. ID., Ghino di Tacco, ivi, vol. III (1971), p. 141.
144
Cfr. RONCAGLIA, op. cit., 410; S. SAFFIOTTI BERNARDI, Tarlati Guccio, ivi, vol. V [1976],
p. 524; R. PIATTOLI, Tarlati, ivi, vol. V [1976], pp. 523-34.
145
Cfr. G. RAGONESE, Federico (Federigo) Novello, ivi, vol. II (1970), pp. 828-29; CARPI,
op. cit., vol. II, pp. 560-62.
146
Cfr. R. PIATTOLI, Scornigiani Gano, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. V (1976), p. 87;
ID., Scornigiani Marzucco, ivi, vol. V (1976), pp. 87-88; F.P. LUISO, Per un’allusione della
Divina Commedia, in «Bullettino della Società Dantesca Italiana», XIV (1907), pp. 44-78.
Dante e il quadro politico italiano 73

mugellana degli Alberti di Mangona. Suo padre Napoleone era stato collocato
da Dante nella Caina, prigioniero del ghiaccio insieme al fratello Alessandro:
i due si erano infatti uccisi vicendevolmente (Inf., XXXII 55-60). Orso fu a
sua volta ammazzato intorno al 1286 da un primo cugino, Alberto Alberti,
figlio di Alessandro147.
Tutti questi personaggi sono presentati in modo decisamente (e voluta-
mente) sbrigativo, senza troppo insistere sui dettagli delle loro storie, ma
come a voler compilare una sorta di arido elenco di morti (su cui i lettori cu-
riosi avrebbero semmai avuto modo di lambiccarsi), con l’idea di preparare
il clima su cui si sarebbe inserita la seconda parte del canto, dedicata, come
sappiamo, proprio alla descrizione delle violenze e delle lacerazioni italiane,
di cui quei morti erano in fondo un esempio eloquente148.
Da questo gruppo si distingue peraltro l’ultima delle sei figure menzionate,
non solo per il fatto di poter contare su un numero di terzine più significativo
(i vv. 19-24), ma anche per la sua diversa provenienza geografica e per il di-
verso contesto politico cui rimanda. Non si trattava infatti di un toscano e
nemmeno di un italico, ma di un francese: Pierre de la Broce, personaggio di
nobiltà assolutamente minore (un piccolo cavaliere che era però divenuto chi-
rurgo di Luigi IX), il quale nella seconda metà del Duecento era stato tutta-
via protagonista di un’incredibile ascesa politica, che lo aveva portato a
conquistarsi la fiducia di San Luigi fino a divenirne il ciambellano ed uno
dei più ascoltati consiglieri (un tipico esempio, ed uno dei primi in ordine
cronologico, di quella nobiltà minore salita a grande responsabilità politiche,
che la monarchia capetingia, impegnata nel proprio robusto consolidamento,
si compiaceva di promuovere ed esaltare). Sotto Filippo III la sua autorità ed
il potere si erano ulteriormente accresciuti (così come le signorie ed i feudi
di cui egli era stato investito), e si arrivò a dire che egli potesse disporre del
re a suo piacimento («il fasait du roi tout ce qu’il voulait», si legge ad esem-
pio in una cronaca coeva). Contro di lui si creò però anche un partito di corte,
cui si appoggiò tutta la grande aristocrazia del Regno (con in testa lo zio del
sovrano, ovvero Carlo I d’Angiò, re di Sicilia, conte di Provenza e conte
d’Anjou): un partito che trovò poi il proprio punto di riferimento nella se-
conda moglie di Filippo III, la giovane e ambiziosa regina Maria di Brabante,
che il sovrano aveva sposato nel 1274. Il de la Broce cadde dunque improv-
visamente in disgrazia: gli amici della regina riuscirono a comprometterlo in
un’accusa di spionaggio (la trasmissione di lettere riservate ad Alfonso X di
Castiglia, con cui Filippo III era in guerra), fino a farlo arrestare ed impiccare
senza processo nel 1278149. Soffermiamoci però un po’ più nel dettaglio della

147
Cfr. R. PIATTOLI, Alberti Orso, ivi, vol. I [1970], p. 99); CARPI, op. cit., vol. II, pp. 550-52.
148
Cfr. GABRIELI, op. cit., pp. 335-36.
149
Su Pierre de la Broce si vedano D. MASSON, La Broce ou La Brosse (Pierre de), in Dic-
tionnaire de Biographie Française, a cura di M. PREVOST, R. D’AMAT, H. TRIBOUT DE ME-
74 Francesco Somaini

vicenda, perché se ne può trarre, mi pare, qualche altra utile indicazione in re-
lazione al discorso politico di questo canto. Dante, innanzitutto, menzionando
questo personaggio e questo caso – che certo sembrava presentare non poche
assonanze con la vicenda di Pier delle Vigne (Inf., XIII) e con il tema del-
l’invidia «de le corti vizio» (ivi, 66) –, scagiona il de la Broce da ogni colpa
circa le accuse che lo fecero cadere in disgrazia ed accredita la voce della sua
rovina avvenuta «per astio e per inveggia / e non per colpa commisa», per la
diretta responsabilità di Maria di Brabante, che quindi farà bene a pentirsi
prima di morire (Maria di Brabante sarebbe morta in effetti nel 1321)150. I
commentatori danteschi della seconda metà del Trecento raccolsero la voce,
non saprei dire quanto fondata, secondo cui Maria di Brabante, per far arre-
stare il de la Broce, lo avesse accusato di aver compiuto nei suoi riguardi
delle avances sessuali, o addirittura di aver tentato di violentarla. Qualcuno
– probabilmente forse più sulla scorta del racconto biblico di Giuseppe e della
moglie di Putifarre che non sulla base di notizie precise – arrivò pure a dire
che la regina avesse in realtà tentato di sedurre lei il de la Broce, e che, vistasi
respinta, lo avrebbe poi falsamente accusato del contrario, e di avere attentato
al suo onore151. Quel che è certo è che successivamente alla morte del de la
Broce circolò in Francia la notizia, che poi si diffuse anche in Italia, tramite
gli ambienti della curia pontificia di papa Martino IV (1281-1285), che la

REMBERT e J.P. LOBIES, Paris, Letouzey et Ané, tomo XVIII (1994), coll. 1423-25; C.V. LAN-
GLOIS, Saint Louis, Philippe le Bel. Les derniers Capétiens directs (1236-1328), tomo II, parte
2 della Histoire de la France illustrée depuis les origines à la Révolution, a cura di E. LAVISSE,
Paris, Hachette, 1911, alle pp. 104-06 (a p. 104 la citazione della cronaca, senza dati biblio-
grafci). Sul regno di Luigi IX (divenuto S. Luigi nel 1297, per concessione di Bonifacio VIII
a Filippo IV il Bello, prima che i rapporti fra quel papa e quel re si guastassero) è natural-
mente bene richiamare il noto lavoro di Jacques Le Goff: J. LE GOFF, San Luigi, Torino, Ei-
naudi, 1996 (titolo originale Saint Louis, Paris, 1996 – traduzione italiana di A. Serafini; a p.
613 si accenna rapidamente anche al de la Broce). Sull’esemplarità del suo caso come segno
dell’ascesa di parvenus saliti a grande potere grazie alla monarchia capetingia (e poi magari
altrettanto rapidamente precipitati per le reazioni che questo poteva suscitare) cfr. P. CONTA-
MINE, O. GUYOTJEANNIN e R. LE JAN, Le Moyen Age. Le roi, l’Eglise, les grands, le peuple. 481-
1514, vol. I della Histoire de la France politique, a cura di S. BERSTEIN, P. CONTAMINE e M.
WINOCK, Paris, Editions du Seuil, 2002, a p. 318; e M. BOURIN-DERRUAU, Temps d’équilibres,
temps de ruptures. XIIIe siècle, Paris, Editions du Seuil, 1990 (vol. IV della Nouvelle Histoire
de la France médiévale), p. 258.
150
Su di lei c’è una breve voce di Enrico Pispisa nell’Enciclopedia Dantesca: E. PISPISA,
Maria di Brabante, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. III (1971), p. 834; ed ivi si veda anche
la voce di Eugenio Ragni sul de la Broce: E. RAGNI, Brosse, Pierre de la (Pier de la Broccia),
ivi, vol. I (1970), pp. 703-04.
151
Si vedano per esempio i commenti dell’Anonimo Lombardo e l’Ottimo Commento:
ANONIMO LOMBARDO, Commento 1325 [?], in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento
a Purg., VI 19-24; OTTIMO COMMENTO, Commento 1333, ivi, con riferimento a Purg., VI 19-
24; BENVENUTO DA IMOLA, Commento 1375-1380, ivi, con riferimento a Purg., VI 19-24;
FRANCESCO DA BUTI, Commento 1385-1395, ivi, con riferimento a Purg., VI 19-24.
Dante e il quadro politico italiano 75

condanna del ciambellano e consigliere regio fosse in realtà avvenuta dopo


che questi, per prevenire le trame dei suoi nemici vicini alla regina, avesse in
realtà insinuato nel re il sospetto che Maria di Brabante avesse fatto avvele-
nare il primogenito di Filippo, ovverosia Luigi, nato dal primo matrimonio del
re con Isabella d’Aragona, e morto all’età di 12 o 13 anni nel 1276152. Dante
probabilmente dovette avere notizia di queste voci (che appunto circolavano
anche in Italia) e forse commise anche l’errore – in cui pure molti commen-
tatori recenti sono incappati – di ritenere che Filippo IV, cioè colui che poi era
effettivamente succeduto al trono a Filippo III (nel 1285), e che quindi era
stato il più diretto beneficiario della morte del fratello Luigi, fosse appunto fi-
glio di Maria Brabante (il che non era)153. Se così fosse stato (se cioè davvero

152
Le voci sulle insinuazioni del de la Broce circa le responsabilità della regina Maria di
Brabante nella morte di Luigi, figlio di primo letto di Filippo III, furono raccolte
successivamente alla morte del ciambellano regio in occasione di un’inchiesta postuma nella
quale comparve come testimone anche l’allora cardinale Simon de Brion, che sarebbe poi
divenuto nel 1281 papa Martino IV (1281-1285) (cfr. LANGLOIS, op. cit., p. 104). Questo diretto
coinvolgimento di Martino IV in quelle indagini, lascia intuire che quelle voci che erano a suo
tempo circolate in Francia sulla morte del de la Broce dovettero poi trovare una qualche eco
negli ambienti papali (e probabilmente non solo). C’è anzi da credere che al tempo dello
scontro tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII tali dicerie sui misfatti della corte francese
potessero facilmente avere trovato il modo di circolare di nuovo, soprattutto negli ambienti
ultra-guelfi e filo-papali (come era stata in quegli anni la piccola corte casentinese dei guelfi
conti Guidi). La fondatezza di quelle voci è oggi considerata assai scarsa (cfr. MASSON, op. cit.,
col. 1424)
153
L’affermazione erronea secondo cui Filippo il Bello sarebbe stato figlio di Maria di
Brabante si trova ad esempio nei commenti di Isidoro Del Lungo, di Ernesto Trucchi, di
Natalino Sapegno, di Siro Chimenz, di Robert Hollander: cfr. I. DEL LUNGO, Commento 1926,
in Dartmouth Dante Project, cit. con riferimento a Purg., VI 19-24; E. TRUCCHI, Commento
1936, ivi, con riferimento a Purg., VI 19-24; N. SAPEGNO, Commento 1958, ivi, con riferimento
a Purg., VI 22-23; S.A. CHIMENZ, Commento 1962, ivi, con riferimento a Purg., VI 19-24; R.
HOLLANDER, Commento 2000-2007, ivi, con riferimento a Purg., VI 19-24. Anche Emilio
Pasquini e Antonio Quaglio hanno accreditato questa notizia errata: D. ALIGHIERI, Commedia
a cura di E. PASQUINI e A. QUAGLIO, cit., vol. II, p. 95. In realtà Filippo IV il Bello (nato nel 1268)
era figlio, al pari del fratello Luigi morto nel maggio 1276, così come dell’altro suo fratello
Carlo di Valois (nato nel 1270), di Isabella d’Aragona, la prima moglie di Filippo III, da questi
sposata nel 1262 e quindi morta nel 1271. Maria di Brabante ebbe sì dei figli da Filippo III, ma
questi furono Luigi (che sarebbe poi divenuto nel 1298 conte di Evreux, dando così origine al
ramo capetingio dei Capet-Evreux), Margherita (che nel 1299 sarebbe poi divenuta regina
d’Inghilterra, sposando Edoardo I) e Bianca (che nel 1300 avrebbe a sua volta sposato quel
Rodolfo d’Absburgo, figlio di Alberto I, di cui già ci è capitato di parlare). Questo significa –
come è stato opportunamente sottolineato – che l’accusa di avvelenamento del primogenito di
Filippo III che fu fatta circolare nei riguardi di Maria di Brabante, non aveva in realtà molto
senso, giacché morto Luigi restavano comunque nella linea di successione di Filippo III altri due
maschi nati da Isabella d’Aragona, e cioè appunto Filippo IV e Carlo di Valois. Si aggiunga
inoltre che Luigi d’Evreux (il primo dei figli di Maria di Brabante) venne alla luce solo nel
maggio del 1276, quando l’altro Luigi, l’erede al trono morto prematuramente, era invero già
morto (seppure solo da pochi giorni).
76 Francesco Somaini

Dante, come io credo, avesse commesso un errore circa l’identità della madre
di Filippo il Bello, ritenendolo appunto figlio di Maria), le accuse che circo-
lavano su di lei sarebbero evidentemente risultate ai suoi occhi tanto più plau-
sibili (perché avrebbero costituito un movente sensato per l’eventuale
infanticidio)154. La cosa, inoltre, avrebbe offerto a Dante un ottimo pretesto
per scagliare una freccia avvelenata all’indirizzo di quel Filippo il Bello che
già in questo momento (nel 1310) si poneva come il vero grande avversario di
Enrico di Lussemburgo (la cui elezione a re dei Romani nel 1308 era in effetti
avvenuta a discapito dei disegni imperiali della casa di Francia e del tentativo
proprio di Filippo IV di procurare l’elezione per l’altro suo fratello Carlo di Va-
lois)155. Il polemico riferimento a Maria di Brabante e l’inserimento di «Pier
della Broccia» nel gruppo dei personaggi menzionati sarebbero stati dunque
coerenti – seppure con qualche goffaggine – con l’idea di un canto politica-
mente ammiccante nei riguardi di Enrico VII156.
Lasciata comunque la folla dei personaggi che gli si accalcavano attorno,
Dante riprende il suo cammino con Virgilio (fin qui ancora sarebbero stati
dunque non espressamente nominato nel canto). Il pellegrino è rimasto colpito
dalle pressanti richieste di intercessione delle anime da cui si è appena con-
gedato, ma queste richieste gli paiono in contrasto con con un passo del-
l’Eneide circa l’inutilità delle preghiere per i defunti. Di nuovo, con un
atteggiamento in qualche modo competitivo nei confronti di Virgilio – pur
chiamadolo rispettosamente, ma forse anche con una punta sarcasmo, «luce
mia» (v. 29) – Dante non esita quindi ad esporre il suo dubbio, e ad interpel-
lare la sua guida su questo problema teologico:

154
Questa ipotesi – che a me pare tutto sommato plausibile – smentirebbe quanto affermato
da Benvenuto da Imola, secondo cui Dante sarebbe stato a Parigi ove avrebbe potuto compiere
indagini accurate sulla vicenda del de la Broce (cfr. BENVENUTO DA IMOLA, Commento 1375-
1380, in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Purg., VI 19-24). Al contrario,
sembra di capire che Dante possa essersi sbagliato perfino sull’identità della madre di Filippo
il Bello (confondendo Maria di Brabante con Isabella d’Aragona), il che fa pensare che, se egli
fosse andato realmente in Francia a compiere quelle famose indagini, ciò non sarebbe accaduto.
155
Sulle dinamiche che portarono all’elezione di Enrico VII nel 1308 e sulle reazioni non
positive che la cosa suscitò alla corte di Francia si veda la puntuale ricostruzione di Francesco
Cognasso: COGNASSO, Arrigo VII, cit., pp. 21-58.
156
La goffaggine della cosa risiedeva nel fatto che Maria di Brabante era in realtà zia di
Margherita di Brabante, moglie di Enrico VII. Il padre di Margherita, suocero di Enrico di
Lussemburgo, era infatti il duca Giovanni I di Brabante, che era appunto un fratello di Maria.
Oltre tutto, alla morte del padre di Enrico, nel 1288, Maria di Brabante aveva assunto nei
riguardi del giovane conte di Lussemburgo e futuro imperatore una sorta di tutela, prendendolo
sotto la propria protezione ed introducendolo alla corte del figliastro Filippo il Bello, divenuto
nel frattempo re di Francia (cfr. F. COGNASSO, ivi, p. 15). In altre parole, Dante, per lanciare
uno strale avvelenato contro la casa francese, immaginando forse di fare con ciò cosa non
sgradita ad Enrico VII, stava in realtà rischiando di esporsi ad una non piccola gaffe verso il
sovrano lussemburghese, venendo di fatto a ritirar fuori vecchie storie, probabilmente
calunniose, contro la ex-regina di Francia cui Enrico era invece legato.
Dante e il quadro politico italiano 77

Come libero fui da tutte quante


quell’ombre che pregar pur ch’altri preghi
sì che s’avacci lor divenir sante, 27
io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo,
che decreto del ciel orazion pieghi: 30
e questa gente prega pur di questo;
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?» 33

Il passo in questione, pur non citato direttamente, è un verso del VI libro


dell’Eneide, in cui la Sibilla cumana si rivolge a Palinuro, il nocchiero di
Enea caduto in mare nel sonno, quindi ucciso dalle genti italiche una volta ap-
prodato alla riva e infine lasciato insepolto. Sceso nell’Ade in compagnia
della stessa Sibilla, Enea aveva infatti ritrovato lo spirito di Palinuro; ma alla
richiesta di questi di fare in modo che, invocando con la preghiera l’aiuto di
una divinità, Enea stesso potesse infine ritrovare le spoglie mortali di lui e dar
loro una degna sepoltura così che lo spirito del nocchiero potesse infine pas-
sare l’Acheronte, la Sibilla aveva risposto con parole trancianti: «Desine fata
deum flecti sperare precando» (Eneide, VI 376): ‘Rinuncia a sperare di poter
mutare il destino pregando un qualche dio’.
Il riferimento implicito a Palinuro, cioè al nocchiero del poema virgiliano,
crea un qualche legame tra questo breve inserto letterario-dottrinale e il ce-
leberrimo verso 77 che troveremo all’inizio dell’invettiva politica, in cui si
parlerà dell’Italia come di una «nave sanza nocchiero in gran tempesta». Già
sappiamo del resto come questa immagine del nocchiero avesse una forte
presa sull’immaginario di Dante157. Ma, al di là di questa notazione, il passo
dantesco tocca comunque – come è stato notato – un punto chiave «della teo-
logia e teodicea cristiana (onnipotenza e immutabile volontà divina e capa-
cità dell’uomo di modificarla con l’opera e con la parola»)158. Virgilio era
parso risolvere la questione in termini negativi. Ma l’insistenza di quei defunti
perché con le preghiere si abbrevi – «s’avacci» (v. 27) – la loro attesa con-
traddiceva Virgilio. Del resto le Scritture parlavano chiaro: «Petite et dabitur
vobis» diceva il Vangelo di Matteo (Mt, 7 7). E Tommaso nella Summa Theo-
logiae aveva ben affrontato la questione de suffragiis mortuorum, e nell’arti-
colo 6° era entrato esattamente nel merito di questo punto: utrum suffragia
prosint existentibus in Purgatorio (ST., III Supplementum, quaest. 71, art. 6).
Virgilio d’altronde non era autore cristiano; e con tutta l’autorevolezza che si
poteva attribuire all’Eneide, era improprio pretendere di farle enunciare delle
verità di fede. Il dubbio di Dante – come notava già il Momigliano – era dun-

157
Si veda quanto già osservato supra nella nota n° 70.
158
Cfr. GABRIELI, op. cit., p. 336.
78 Francesco Somaini

que capzioso159. A meno che l’intento non fosse in realtà – come osservava
Margherita Frankel – quello di infliggere a Virgilio una sorta di mortifica-
zione, «ricordandogli l’errore commesso nell’Eneide»160. Questo rimande-
rebbe d’altronde al tema di un Dante che prende consapevolezza della propria
missione poetica/profetica e del Virgilio “perdente” del verso 2: o meglio,
sempre vincente sul piano della ragione, ma «perdente nel mondo di Dio»161.
La risposta un po’ piccata di Virgilio rimetteva però Dante al suo posto, e
mostrava che la sottile partita tra i due (quasi appunto una sfida di abilità al
gioco della zara) era ben lungi dall’essere conclusa. Leggiamo infatti le pa-
role che Dante fa pronunciare al poeta latino:

Ed elli a me: «La mia scrittura è piana,


e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana: 36
che cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ soddisfar chi qui s’astalla; 39
e là dov’io formai cotesto punto
non s’amendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto. 42
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella no ’l ti dice
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto. 45
Non so s’intendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra in su la vetta
di questo monte ridere e felice» 48

Virgilio in effetti non fa che confermare ciò che Dante avrebbe già do-

159
«Questa digressione dottrinale» – scriveva in effetti Momigliano – «sembra oziosa, o
male impostata: Dante sapeva troppo bene che il poema di Virgilio, pagano, non poteva far testo
per un cristiano; era quindi inutile che si facesse dare questa spiegazione» (A. MOMIGLIANO,
Commento 1946-1951, in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Purg., VI 40-42).
Tempo prima Francesco Ercole, riflettendo sulla stessa questione, cioè sul senso di questo
dubbio dantesco, aveva osservato che il passo del poema virgiliano avrebbe potuto essere stato
inteso da Dante non già «come l’affermazione di un dogrma positivo della religione pagana –
nel qual caso sarebbe stato certo assurdo trarne motivo di dubbio sulla verità di un dogma
cristiano –, bensì come un principio puro e semplice di ragione umana» (ERCOLE, Il canto
all’Italia, cit., p. 121).
160
FRANKEL, op. cit., p. 134. Un’ipotesi alternativa, sostenuta per esempio da Aurelio
Roncaglia e da Umberto Bosco e Giovanni Reggio, è che in realtà Dante volesse evitare che
il verso di Virgilio potesse essere assunto come una sorta di avallo alle teorie catare sulla
predestinazione (che rendevano del tutto superflua la pratica delle preghiere): cfr. RONCAGLIA,
op. cit., p. 410; U. BOSCO e G. REGGIO, Commento 1979, in Dartmouth Dante Project, cit., con
riferimento a Purg., VI 25-48.
161
FRANKEL, op. cit., p. 134.
Dante e il quadro politico italiano 79

vuto sapere. Aggiunge peraltro che l’Eneide non sbagliava, perché il dio che
Palinuro voleva che Enea invocasse non era Dio. Perciò la preghiera di Enea
sarebbe stata comunque vana, in quanto disgiunta, appunto, dal vero Dio e ri-
volta agli «dei falsi e bugiardi» (Inf., I 72) dell’antichità pre-cristiana. «Se
ben si guarda con la mente sana» (v. 36) – espressione che conferma quanto
Virgilio continui comunque ad essere figura e simbolo della ragione –, si
comprende come l’altezza del giudizio divino («cima di giudicio») non sia
sminuita («non s’avvalla») dal fatto che l’amore dei vivi per i defunti consenta
a chi si trova in Purgatorio («chi qui s’astalla») di compiere in tempo più
breve quanto sarebbe tenuto ad espiare. Ad ogni modo – prosegue il cantore
di Enea – Dante non si fermi su questo punto (e dunque non presuma di pe-
netrare con le sue sole forze nel grande mistero del nesso tra grazia e opere)
a meno che Beatrice non voglia che sia fatta luce («che lume fia») tra ciò che
è e ciò che la mente può comprendere («tra ’l vero e lo ’ntelletto»). Lei, in
ogni caso, sarà lassù, sulla cima della montagna, ridente e felice (e simbolo
della verità rivelata) e Dante là la potrà vedere.
Nella affettuosa ma non banale schermaglia che si è venuta svolgendo tra
i due pellegrini, Virgilio para dunque con eleganza l’affondo a vuoto di Dante,
e lo infilza a sua volta con una contro-stoccata: quel «non so s’intendi», che
precede il cenno a Beatrice, che qui torna ad essere indicata espressamente
con il suo nome dopo l’unica menzione diretta che Virgilio aveva fatto di lei
nel II canto dell’Inferno162.
Il solo nome della gentilissima fa comunque completamente dimenticare
a Dante la discussione dottrinale in cui si era voluto forse un po’ goffamente
cimentare. Ora il suo unico scopo è salire rapidamente verso la vetta del
monte. Ogni traccia di stanchezza in lui è come dissolta, e se prima era stato
Virgilio ad invitare Dante a non perder tempo, ora è Dante che vorrebbe

162
Beatrice era stata indicata per la prima volta in forma indiretta da Virgilio nel I canto
dell’Inferno: «“anima fia a ciò più di me degna”» (Inf., I 122). Poi nel II canto dell’Inferno, il
suo nome era stato espressamente pronunciato per due volte dallo stesso Virgilio, seppure nelle
forme di discorsi da lui riportati. Virgilio infatti, dopo aver riferito della sua chiamata da parte
di una «donna [...] beata e bella» (v. 53), che l’aveva invitato a soccorrere Dante nella selva,
aveva riportato in discorso diretto le parole di lei, e aveva appunto anche pronunciato il suo
nome: «“I’ son Beatrice che ti faccio andare”» (v. 70). Poco più oltre, e sempre in quel canto,
il nome di Beatrice era poi ritornato anche nelle parole di santa Lucia (anche queste riportate
in discorso diretto) pronunciate dalla stessa Beatrice e riferite da Virgilio: «“Disse: ‘Beatrice,
loda di Dio, vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te da la volgare
schiera?’”» (vv. 103-105). Da quel momento i riferimenti a Beatrice erano sempre avvenuti
senza più farne il nome. Così era stato in particolare nella chiusa del X canto dell’Inferno, al-
lorché Virgilio aveva detto a Dante: «“quando sarai dinanzi al dolce raggio / di quella il cui bel-
l’occhio tutto vede, / da lei saprai di tua vita il viaggio”» (vv. 130-132). E così era stato nel XV
dell’Inferno nelle parole di Dante in risposta a Brunetto Latini: «“Ciò che narrate di mio corso
scrivo, / e serbolo a chiosar con altro testo / a donna che saprà, s’a lei arrivo”» (vv. 88-90). Qui
nel VI del Purgatorio Virgilio pronuncia dunque un nome che era stato a lungo taciuto.
80 Francesco Somaini

ascendere in cima al Purgatorio con il passo di un grimpeur. Lo stesso ap-


pellativo «Signore» con cui egli si rivolge a Virgilio per invitarlo a far presto,
non ha più il tono vagamente derisorio che era parso avere quell’«o luce mia»
del v. 29. Qui è davvero la preghiera di uno spirito fremente. Nel frattempo
però il sole è appunto passato al di là della vetta della montagna, per cui ora
i due pellegrini si trovano nel cono d’ombra di essa. Virgilio fa capire che
l’ascesa alla sommità del monte purgatoriale sarà impresa meno rapida di
quanto Dante, preso dall’entusiasmo, non abbia immaginato, e prevede che
i due dovranno almeno passare una notte prima di arrivare in cima. Egli
scorge quindi un’anima solitaria che li scruta da lontano, e propone di rag-
giungerla per averne informazioni sulla via da percorrere per la loro ascesa:

E io: «Signore, andiamo a maggior fretta,


che già non m’affatico come dianzi,
e vedi ormai che ’l poggio l’ombra getta». 51
«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai,
ma ’l fatto è d’altra forma che non stanzi. 54
Prima che sie là su, tornar vedrai
colui che già si cuopre della costa
sì che suo’ raggi tu romper non fai. 57
Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella n’insegnerà la via più tosta». 60

Il personaggio in questione, come poi apprenderemo al verso 74, è Sor-


dello, poeta mantovano (per vero dire di Goito) del Duecento, autore di liri-
che trobadoriche, anche di argomento politico, in lingua provenzale, e
personaggio dalla vita non poco avventurosa. Coinvolto in modo turbolento
nelle vicende della Marca Trevigiana al tempo delle grandi lotte tra gli Estensi
ed i da Romano negli anni Venti del XIII secolo, egli fu protagonista anche
di un’eclatante avventura erotico-sentimentale con Cunizza da Romano (di
cui organizzò fra l’altro un clamoroso rapimento dalla casa del potente ma-
rito Rizzardo di San Bonifacio, alleato di Azzo VII d’Este). A seguito proba-
bilmente di quel fatto, egli dovette poi fuggire dalla Lombardia orientale, per
vagare per diverse corti d’Europa: dalla Castiglia, al Léon, dal Poitou, alla
Provenza, e forse anche al Portogallo, approdando (o riapprodando) infine in
Provenza nella prima metà degli anni Trenta, e riuscendo a ricostruirsi una po-
sizione di prestigio alla corte del conte di Provenza Raimondo Berengario
IV della casa di Barcellona (1209-1245). Legatosi successivamente agli An-
gioini (che divennero conti di Provenza in virtù delle nozze, nel 1246, tra
Beatrice di Barcellona, figlia ed erede di Raimondo Berengario, con Carlo I
d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX), Sordello si trovò proiettato a
svolgere per conto di Carlo un ruolo politico di alto livello. Si distinse infatti
Dante e il quadro politico italiano 81

come un abile diplomatico, e naturalmente ebbe anche il modo di prendere


parte alla fortunata avventura angioina in Italia, tanto da poter poi terminare,
a quanto sembra, la propria vicenda negli Abruzzi, ove morì (si dice) nel 1269
come titolare di feudi di quel Regno che Carlo d’Angiò aveva infine strappato
a Manfredi nel 1266 (e altri feudi ebbe in Piemonte, nelle Langhe angioine,
in quell’area cioè che di lì a qualche anno sarebbe poi stata eretta da Carlo II
d’Angiò in contea di Piemonte)163.
Qui, nel canto VI, Sordello sarà il protagonista dell’episodio che fungerà
in qualche modo da architrave alla struttura del canto: e cioè il suo improv-
viso e inaspettato moto di affetto nei riguardi di un compatriota (che sarà Vir-
gilio). Quell’episodio offrirà infatti a Dante lo spunto per far esplodere, in
modo altrettanto inaspettato, la propria indignazione sulle condizioni del-
l’Italia, e dunque per svolgere quella serie di adlocutiones di cui già sap-
piamo. La scena chiave – quella appunto dell’abbraccio tra Sordello e Virgilio
– viene però costruita da Dante con una lenta preparazione, che serve a creare
una sorta di effetto suspence, che consenta nel contempo di inquadrare me-
glio questo nuovo personaggio, protagonista della scena.
L’immagine iniziale, lo abbiamo appena visto, è quella di un’anima ap-
partata («sola soletta»), che guarda da lontano i due viandanti. Dante non ci

163
Sulla vicenda biografica di Sordello si veda M. BONI, Sordello, in Enciclopedia Dan-
tesca, cit., vol. V (1976), pp. 328-33; e anche F. NOVATI, Sordello da Goito, cit., pp. 130-33.
Secondo Francesco Novati Sordello apparteneva alla casa mantovana dei Cattanei di Goito: si-
gnori di castello di nobile tradizione, ma impoveriti dalle continue divisioni patrimoniali (ibid.).
La turbolenta vicenda erotico-sentimentale di Sordello con Cunizza da Romano (la protago-
nista del IX canto del Paradiso) animò molti componenti poetici e letterari del secolo XIII (in
proposito vd. imprescindibilmente V.L. PUCCETTI, Fuga in Paradiso. Storia intertestuale di
Cunizza da Romano, Ravenna, Longo, 2010, in particolare alle pp. 9-53). Ma quella storia
poté forse essere conosciuta da Dante non solo attraverso la letteratura, ma anche in modo di-
retto. E se non proprio dalla stessa Cunizza (che non dovette in realtà sopravvivere molto oltre
il 1280), quanto meno dall’amico Guido Cavalcanti, poiché in effetti Cunizza, in età ormai
avanzata, e molti decenni dopo quello scandalo lontano della sua fuga con Sordello dalla casa
del marito (e anche dopo la tragica fine di tutti gli Ezzelini), finì in realtà i propri giorni a Fi-
renze nella casa di Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido (cfr. F. COLETTI, Romano Cunizza
da, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. IV [1973], pp. 1025-1028). Vale del resto la pena di
notare che Cunizza aveva anche dei lontani legami parentali che la ricollegavano ai conti Guidi
di Battifolle (e a tutti gli altri rami del grande consortile guidingo). Cunizza era infatti figlia
di Ezzelino II da Romano (padre tra l’altro anche di Ezzelino III e Alberto da Romano) e di
una Adelaide Alberti di Mangona, il cui fratello Alberto I – padre dei due fratelli reciproca-
mente omicidi Alessandro e Napoleone e nonno del «conte Orso» menzionato in questo stesso
canto al verso 19 (cfr. supra la nota n° 147) – aveva a sua volta sposato una sorella di Guido
I di Bagno, nonno paterno di Guido II di Battifolle, signore di Poppi. Non si può escludere in-
somma che le vicende della clamorosa avventura di Sordello e Cunizza, al pari – come si è
visto – di quelle di molti altri personaggi evocati in questo canto VI fossero giunte (o ritornate)
alla mente di Dante proprio nei castelli dei conti Guidi. Sulle genealogie dei Guidi e degli Al-
berti, cfr. CARPI, op. cit., vol. II pp. 785-90.
82 Francesco Somaini

dice in realtà per quale ragione quest’anima si trovi in quel punto dell’Anti-
purgatorio, e nemmeno che tipo di colpa essa debba scontare164. Sordello è de-
scritto però come calmo, solenne, altero e disdegnoso. La sua figura trasmette
a Dante un senso di grande dignità e di forza, tanto da suggerire l’immagine
maestosa di un leone al riposo (e sarà peraltro un leone pronto a balzare non
appena scoprirà di avere a che fare con un compatriota)165.
Il contrasto tra la compostezza di Sordello ed il cicaleccio della ressa delle
anime dell’esordio del canto è indubbiamente molto marcato166. Questa de-
scrizione ha suggerito ad alcuni commentatori giudizi molto enfatici. Per Be-
nedetto Croce, ad esempio, Sordello sembra «il Farinata del Purgatorio»167.
Per Giovanni Gentile, egli «grandeggia, gigante in solitudine», e rappresenta
una sorta di «raffigurazione classica del magnanimo esaltato da Aristotele»168.
In effetti Sordello segue da lontano i due poeti peregrini con assoluta noncu-
ranza. Non chiede nulla, non prega, non si raccomanda. Cantore dell’ethos ca-
valleresco e fustigatore delle meschinità della politica e del potere – come si
leggeva in un suo celebre componimento, il planh de ser Blacatz, in cui in-
vitava tutti i potenti del suo tempo a trarre esempio dalla cristallina nobiltà di
condotta di questo defunto ser Blacatz, nutrendosi del suo cuore – Sordello
sembrava in effetti incarnare, agli occhi di Dante, un’immagine quasi statua-
ria dei valori della nobiltà e della cortesia169.

164
Molti commentatori si sono anche interrogati su quali possano essere le ragioni per cui
Dante abbia scelto di utilizzare Sordello in questa scena. Considerando che Sordello fu un
poeta di sirventesi politici (e un sirventese sarà di fatto anche la digressione cui Dante intendeva
dedicarsi in questo canto del Purgatorio) e considerando altresì che in un suo componimento
famoso – l’Ensenhamen d’amor – Sordello aveva proposto una sorta di rassegna dei principi
del suo tempo (tema questo che egli aveva ripreso anche anche nel Planh de ser Blacatz, altra
sua celebre lirica) – si è in effetti ipotizzato con buone argomentazioni che Dante possa aver
pensato di dover collocare un personaggio come Sordello in questa parte dell’Antipurgatorio
con la funzione di guardiano della valletta dei principi negligenti, in cui in effetti nel canto VII
egli verrà poi a condurre i due pellegrini (cfr. ERCOLE, Il canto all’Italia, cit., p. 129; e BONI,
op. cit., p. 331). Sulla base delle testimonianze di alcuni trovatori a lui contemporanei – come
Aimeric de Peguilhan e Peire Bremon – sembra anche che il personaggio storico di Sordello
fosse un accanito giocatore di dadi. Questo creerebbe quindi anche un legame tra la sua
raffigurazione in questo canto e la similitudine del gioco della zara in apertura del canto stesso
(cfr. RONCAGLIA, op. cit., pp. 417-18). Si deve comunque considerare che a Dante serviva
soprattutto un mantovano, che potesse dar luogo alla scena dell’incontro con Virgilio e offrire
il pretesto per innescare la grande digressione politica del canto VI, suscitata dal contrasto tra
l’amore tra i due concittadini a paragone delle accecanti lacerazioni dell’Italia del tempo. La
scelta di inserire la figura di Sordello dovette dunque essere presumibilmente dettata da questa
necessità narrativa (cfr. in proposito FRANKEL, op. cit., p. 138, e VARVARO, op. cit., p. 129).
165
A proposito di Sordello, si è parlato di una raffigurazione secondo una «postura di leone
romanico» (cfr. ad esempio RONCAGLIA, op. cit., p. 411).
166
Cfr. ad esempio GALLARATI SCOTTI, op. cit., p. 9.
167
CROCE, op. cit., p. 112.
168
GENTILE, op. cit., pp. 16 e 17.
169
Cfr. ERCOLE, Il canto all’Italia, cit., pp. 129-130.
Dante e il quadro politico italiano 83

Per vero dire, nell’atteggiamento di Sordello, qui come nei due canti suc-
cessivi che lo vedranno al fianco dei due poeti, il personaggio rivela però
anche una certa qual dose di ingenuità, che Dante lascia in qualche modo in-
tuire (senza tuttavia per questo entrare in contraddizione con le parole di in-
dubbia ammirazione che egli pronuncia nei suoi confronti). Certo è che
Sordello – così solenne e altero – sembra anche non cogliere davvero gran che
della situazione che gli si sta per presentare.
Consideriamo rapidamente la cosa sotto questo aspetto. Sordello ha visto
Dante circondato da una folla di penitenti imploranti (alcuni addirittura colle
mani giunte), ma la cosa non lo scuote in alcun modo. Non capisce, poi, che
Virgilio è Virgilio: tant’è che quando lo scoprirà, nel canto VII, si getterà re-
verente ai suoi piedi (vv. 7-18). Neppure si accorge del fatto che Dante è vivo:
lo capirà solo nel canto VIII, e allora sarà colto, di nuovo, da un moto di as-
soluto stupore (vv. 61-63). Certo – si obietterà – il corpo del fiorentino, come
già si è detto, non proiettava più l’ombra, e quindi non era più immediata-
mente riconoscibile come vivente. Però nel II canto del Purgatorio, col sole
non ancora sorto, Dante era stato riconosciuto come vivente dai defunti ap-
prodati allo spiaggione con la barca dell’angelo, per il solo fatto di respirare
(Purg., II 68). Questo dettaglio invece Sordello non lo nota nemmeno. E nep-
pure gli capita, come era invece accaduto al centauro Chirone nel XII del-
l’Inferno, di fare caso allo spostamento di qualche piccola pietruzza (cosa
che «non soglion far li piè d’i morti»: Inf., XII 82): eppure Dante avrebbe
potuto smuovere qualche sassetto, salendo verso Sordello per farglisi incon-
tro. Quanto poi alla domanda di Virgilio sulla strada migliore per salire verso
l’alto, Sordello non si cura nemmeno di rispondere (e forse nemmeno si è
peritato di stare davvero ad ascoltare, perché altrimenti avrebbe forse potuto
già riconoscere in quel momento l’accento lombardo di Virgilio, come era
ad esempio accaduto a Guido da Montefeltro, in Inf., XXVII 19-22). Invece,
con un tono che sembra quasi annoiato, e forse perfino meccanico o fredda-
mente legalitario, Sordello si limita a chiedere ai due viandanti di declinare
le loro generalità e la loro provenienza170. In realtà, vien da pensare che la fi-

170
In realtà in un suo celebre componimento poetico – l’Ensenhamen d’onor – Sordello si
era proposto come una sorta di cantore dei principi di legalità e di ordine, che egli lamentava
in effetti essere palesemente ignorati o violati dai potenti del suo tempo. Il tono un po’ fredda-
mente legalitario con cui egli sembra rivolgersi a Virgilio ed a Dante potrebbe dunque anche es-
sere una sottolineatura di questo carattere di Sordello quale «personificazione della legalità»
(SEBASTIO, op. cit., p. 35-36; ma in fondo anche ERCOLE, Il canto all’Italia, cit., pp. 127-28). È
un tratto, questo, che emergerà del resto in modo più chiaro nel canto VII, per esempio nella
scena in cui il poeta di Goito, per illustrare la legge del Purgatorio che impedisce ai penitenti
di salire verso l’alto dopo il tramonto del sole (quale ovvia allegoria della grazia divina), trac-
cerà una riga sul terreno indicando a Virgilio ed a Dante che dopo il tramonto essi non sareb-
bero stati in grado nemmeno di superare di un sol passo quel segno (cfr. Purg., VII 40-60).
84 Francesco Somaini

gura di Sordello sia stata descritta da Dante come «onesta e tarda» (v. 63)
non solo nel senso della sua imperturbabilità ed autorevolezza, ma anche per
una sorta di lentezza o fiacchezza di comprendonio171. Dante, che del resto era
forse interessato a mettere in risalto se stesso rispetto a quest’altro poeta della
rettitudine, e che già nel De vulgari eloquentia (DVE, I XV 2) aveva aperta-
mente criticato Sordello per la sua scelta di non scrivere in un volgare italico,
potrebbe dunque aver lasciato cadere con nonchalance alcuni piccoli ele-
menti polemici per infondere nei lettori qualche perplessità sulla figura di
questo personaggio172.
Sospendiamo comunque il giudizio su tale questione, e osserviamo come
è descritta tutta la scena:

Venimmo a lei: o anima lombarda,


come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mostrar de li occhi onesta e tarda! 63
Ella non ci dicea alcuna cosa
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa. 66
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita:
e quella non rispuose al suo dimando, 69
ma di nostro paese e della vita
c’inchiese; e ’l dolce duca incominciava
«Mantoa...», e l’ombra tutta in sé romita 72
surse vèr lui del loco ove pria stava,

171
L’aggettivo «tardo», del resto, presenta in effetti in Dante questa duplicità di significati.
In genere, soprattutto se riferito al movimento degli occhi e all’atto del guardare, «tardo» viene
utilizzato per accentuare un elemento di gravità ed autorevolezza nei soggetti cui l’aggettivo
viene riferito. Così è ad esempio nel canto IV dell’Inferno, laddove si dice che nel Limbo «genti
v’eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne’ lor sembianti:/ parlavan rado, con voci
soavi» (Inf., IV 112-14). Ma altre volte «tardo» esprime un significato di fiacchezza, incertezza,
lentezza e ritardo. Così ad esempio nel canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, si era letto « [...]
compagni eravam vecchi e tardi» (v. 106) e nel XIX del Purgatorio Adriano V dirà «La mia
conversione, omè, fu tarda» (v. 106). Nel VI canto del Purgatorio i due significati, riferiti a
Sordello, potrebbero essere in qualche modo compresenti. Sull’argomento si veda comunque
F. TOLLEMACHE, Tardo, in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. V (1976), p. 523.
172
Sulla critica rivolta a Sordello nel De vulgari eloquentia cfr. Z.C. BARAŃSKI, ‘Sordellus...
qui... patrium vulgare deseruit’: A note on ‘De vulgari eloquentia’ I, 15 sections 2-6, in The
Cultural Heritage of the Italian Renaissance. Essays in Honour of T.G. Griffith, a cura di
C.E.J. GRIFFITH e R. HASTINGS, Lewistin [New York], Edwin Mellen Press, 1993, pp. 19-45.
Secondo Marco Boni il passo del De vulgari eloquentia su Sordello che «patrium vulgare
deseruit» non dovrebbe essere inteso come una critica per aver lasciato l’italiano in favore del
provenzale, ma come un elogio per aver cercato di superare i confini linguistici ed espressivi
del mero volgare lombardo-mantovano (BONI, op. cit., p. 329). La polemica contro coloro che
sceglievano di poetare in provenzale fu però ripresa da Dante anche nel Convivio (Conv., I XI
1-14) con toni che erano in effetti di severa critica.
Dante e il quadro politico italiano 85

dicendo: «O mantoano, i’ son Sordello,


della tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava. 75

Le parole che Virgilio stava per recitare a Sordello per presentare se stesso
sono naturalmente quelle del celebre epitaffio virgiliano di Napoli: «Mantua
me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope. Cecini pascua, rura,
duces». Il solo nome di Mantova scuote però Sordello dal suo torpore. Ed
ecco che quell’ombra improvvisamente balza in piedi ed abbraccia vigoro-
samente Virgilio (di cui, si è detto, ancora ignora l’identità) e si dichiara an-
ch’egli come mantovano, rivelando con entusiasmo il proprio nome173.
Ma qui, appunto, al prorompere dell’emozione di Sordello, anche il
Dante-io-narrante, che già non aveva saputo trattenere il proprio slancio nel
rievocare la nobiltà di quell’«anima lombarda», si lascia travolgere dalla com-
mozione della scena, e prende in prima persona la parola. L’aver rievocato
quell’abbraccio tra i due concittadini, prodottosi per aver semplicemente sen-
tito nominare la patria comune, torna infatti a commuovere Dante, che non a
riesce a proseguire nel racconto, e prorompe in uno sfogo in cui sente di dover
esprime tutto il suo dolore e la sua amarezza per la condizione dell’Italia dei
vivi, in cui il fatto di vivere dentro una stessa cerchia di mura non vieta di ro-
dersi e di dilaniarsi. Esplode insomma il grande sdegno di Dante, in cui è ri-
posto il contenuto politico del canto, e su cui ci siamo già ampiamente
soffermati sopra.
Dapprima, come si è detto, l’invettiva si rivolge direttamente all’Italia:

Ahi serva Italia! Di dolore ostello,


nave sanza nocchiere in gran tempesta:
non donna di province, ma bordello. 78
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa, 81
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro ed una fossa serra. 84
Cerca, misera, intorno dalle prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode. 87

173
Secondo Aurelio Roncaglia, Dante, con l’abbraccio tra Sordello e Virgilio, volle
inscenare l’immagine di una possibile riconciliazione italica. Sordello era stato infatti un
consigliere del grande sovrano guelfo Carlo d’Angiò, e Virgilio il cantore del fondatore
dell’Impero di Roma, Ottaviano. Nel loro abbraccio si potrebbe quindi ipotizzare che «si
condensa e s’esalta la determinazione politica di Dante, che, superato definitivamente il
guelfismo, aspira a divenire il consigliere del nuovo Augusto, [ovvero, di Ernico di
Lussemburgo]» (RONCAGLIA, op. cit., p. 417)
86 Francesco Somaini

Che val, perché ti racconciasse il freno


Giustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno. 90

L’invettiva si apre con le immagini celeberrime dell’ostello di dolore, e


della nave senza nocchiero in preda alla tempesta174. E poi, subito, viene il
verso 78 in cui si affaccia l’idea dell’Italia quale «donna di province», e quindi
guida del mondo, secondo una formulazione suggerita dalla Magna Glossa
accursiana (e nel contempo anche dalle Lamentationes di Geremia), cui però
si contrappone con potente forza suggestiva l’immagine cruda ed opposta di
una realtà ridotta a «bordello»175. Vengono quindi evocate le discordie civili,
che non risparmiano «quei ch’un muro e una fossa serra» (v. 84). Dopodiché
Dante invita un’Italia personificata a cercare in se stessa, dapprima lungo i li-
torali delle proprie coste e poi nel seno del proprio entroterra, se vi sia un sola
parte di essa che possa dirsi davvero in pace. Lo stesso diritto romano, voluto
da Giustiniano, è in realtà privo di valore effettivo. Ma allora a che è servito,
«che val» – si chiede Dante al verso 88, con parole che sembrano richiamare
nel suono quell’immagine di un “cavallo” cui poi si riferiranno i versi suc-
cessivi – che Giustiniano mettesse all’Italia il freno delle proprie leggi, se poi
la sella rimane vuota? Meglio sarebbe stato non avere nessun diritto, nessuna
legge, perché la vergogna sarebbe stata minore.

174
Sulla ricorsività dell’immagine del «nocchiero» in Dante si veda supra, la nota n° 70.
Si trattava in effetti di un’allegoria che a Dante doveva sembrare particolarmente suggestiva
(e che in questo stesso canto era stata evocata, non a caso, come si è visto, anche nel cenno al
passo dell’Eneide su Palinuro).
175
Il riferimento alla Glossa accursiana concerneva in particolare il commento alla Novella
LXIX (Ut omnes obediant praesidibus provinciarum), titolo XXXIV cap. 2, del Corpus Iuris
Civilis. La Novella regolava la materia degli eventuali contenziosi in cui attore e convenuto si
fossero trovati nella medesima provincia dell’Impero e disponeva che in questo caso il processo
non potesse essere trasferito in nessun’altra provincia. Accursio, nel commentare il passo, si
era chiesto se la regola dovesse ritenersi applicabile anche per l’Italia, e aveva quindi risposto
affermativamente, benché, osservava, l’Italia non fosse a rigore una provincia dell’Impero ma
la signora delle province: «idem, licet [Italia] non sit provincia sed provinciarium domina».
Questa formulazione di Accursio aveva goduto di enorme autorità e popolarità, e aveva
superato per autorità la stessa Prammatica Sanzione di Giustiniano, che aveva viceversa
equiparato l’Italia a tutte le altre province dell’Impero. Accursio in altre parole aveva forzato
in senso italo-centrico la stessa formulazione del Corpus Iuris, e Dante vi si era certamente
rifatto per suffragare in questa immagine la propria concezione sulla cosiddetta “egemonia
cosmopolitica” dell’Italia, ossia sull’Italia come centro, vertice, cuore o «giardino» (v. 105)
dell’Impero stesso. L’immagine della «donna di provincie» è però contrapposta con
potentissima efficacia retorica a quella del «bordello», cioè di un’Italia che lungi dall’essere
guida nel mondo, si vende a sé stessa come le prostitute vendono se stesse nei bordelli e nei
chiassi, mentre i loro clienti si abbandonano agli istinti più bassi, e i loro lenoni vendono e
trafficano in carne umana : cfr. D.G. SICHIROLLO, Sul verso di Dante ‘Non donna di provincie,
ma bordello’ (Purg, VI, 78), Venezia, Tipografia Castello, 1891, alle pp. 7-15. Alla stessa
Dante e il quadro politico italiano 87

L’immagine del Diritto Romano come freno posto ad un cavallo indomito


richiama d’altro canto un punto interessante del discorso dantesco: nel declino
dell’istituzione imperiale in Italia, infatti, Dante continua in realtà a vedere un
elemento di possibile vitalità, che è poi appunto la vitalità universale delle
leggi di Roma. Ciò rende per certi versi ancora più drammatica l’assenza di
quel «cavalcatore» di cui Dante aveva già ragionato nel Convivio. Ma se quel
«cavalcatore» fosse arrivato...176.
Le figure del cavallo e del cavalcatore continuano peraltro anche nella se-
conda apostrofe, che come sappiamo viene indirizzata alla «gente» che do-
vrebbe «esser devota» (e forse non lo è), cioè al Papato e alle gerarchie della
Chiesa Romana (e al limite all’intero guelfismo italico):

Ahi! Gente che dovresti esser devota


e lasciar seder Cesare in la sella,
se ben intendi ciò che Dio ti nota; 93
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano alla predella. 96

Abbiamo già chiarito sopra il senso politico di questa parte del messag-
gio. E anche il fatto che la critica nei riguardi del Papato, pur essendo in-
dubbiamente severa, non è in realtà, in questo passo, totalmente demolitoria.
Il Papato, che in questa fase (1310), con Clemente V, pare effettivamente in-
tenzionato a sostenere Enrico VII, deve solo rendersi conto di come sia stata
fallimentare la scelta di voler tenere l’autorità imperiale fuori dal gioco poli-
tico della Penisola. Si tratta dunque di «ben» intendere il messaggio di Dio
(«ciò che Dio ti nota», v. 93), e di meditare sulle parole di Gesù riportate dal
Vangelo di Matteo (Mt, 22 21): «Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari et
quae sunt Dei Deo». Perché – continua la metafora equestre – si sono ben visti
gli effetti dell’aver voluto tenere «la predella» (ossia la correggia con cui si
conduceva un cavallo appiedato) del cavallo italico, e dell’aver impedito al-
l’imperatore di sedere in «sella» e di servirsi degli «sproni». Il risultato è stato

immagine della «domina provinciarum» negata, si richiamava d’altronde anche un altro testo
che Dante aveva certamente ben in mente (come si potrà anche vedere dai versi 112-14,
dedicati a Roma). Si tratta cioè dell’incipit doloroso delle Lamentazioni di Geremia
(Lamentationes, 1,1): «Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua domina
gentium; princeps provinciarum facta est sub tributo»: ‘O come siede solitaria la città tanto
popolosa! È diventata simile a una vedova, lei che era la signora delle genti, la principessa
delle province, è stata posta sotto tributo!’ Il riferimento era in quel caso ovviamente a
Gerusalemme. Qui è invece si parla chiaramente della realtà italiana.
176
Su questo aspetto ha insistito in effetti in modo persuasivo Alessandro Passerin
d’Entrèves: PASSERIN D’ENTRÈVES, op. cit., pp. 59-60. Sull’immagine del «cavalcatore» nel
Convivio si veda quanto già osservato supra, nella nota n° 70.
88 Francesco Somaini

che «esta fiera è fatta fella» (v. 94): l’animale Italia (cioè «esta fiera») è di-
ventato riottoso ed indomabile («fella» significa propriamente ‘traditrice,
malvagia’).
Senza abbandonare del tutto il tema del cavallo da domare, l’allocuzione
di Dante si sposta quindi su «Alberto Tedesco» e sulle responsabilità degli im-
peratori (con tutte le implicazioni che già abbiamo evidenziato su questa
parte: dall’invito reiterato a venire in Italia, alla maledizione anti-absburgica
con relativa profezia, dalla pseudo-maledizione ad Enrico VII, all’illustra-
zione dei mali italici che sono poi anche le tappe di un auspicabile Romzug...).

O Alberto Tedesco, ch’abbandoni


costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li soi arcioni: 99
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal ch’el tuo successor temenza n’aggia! 102
Ch’avete tu e’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che’l giardin de lo’mperio sia deserto. 105
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura –
color già tristi e questi con sospetti. 108
Vieni, crudel, vieni e vedi la pressura
d’i tuoi gentili e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è sicura! 111
Vieni a veder la tua Roma che piagne,
vedova e sola, e dí e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?». 114
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
E se nulla di noi pietà di move,
a vergognar ti vien de la tua fama. 117

Si noti ancora al v. 105 l’espressione «giardin de lo ’mperio». Essa, come


si è detto, esprime con esattezza il ruolo che Dante riteneva si dovesse riser-
vare all’Italia nel contesto dell’Impero universale: uno spazio politico privi-
legiato in cui l’Impero riconoscesse il suo ambito più peculiare e specifico di
azione. Uno spazio in cui fossero comunque possibili forme politiche subor-
dinate all’imperatore (civitates, regni, altre formazioni politico-territoriali mi-
nori), ma con un ruolo forte e alto del sovrano quale forza regolatrice e quale
supremo garante della pace e della giustizia. Questa immagine del «giardino»
aveva certamente anche dei riferimenti vetero-testamentari177. Tuttavia quel-

177
L’espressione «giardin de lo ’mperio» richiama in effetti alcune affini passaggi biblici.
Per esempio nel Liber Genesis compare l’espressione «sicut paradisus Domini» (Gen., XIII
10: ‘come il giardino del Signore’), con riferimento alla valle del Giordano contemplata da Lot
Dante e il quadro politico italiano 89

l’immagine – come è stato notato – traduceva in modo improprio il concetto


giuridico di «pomerium Imperii» (lo spazio politico dell’Impero), che Dante
aveva potuto trovare in alcuni atti imperiali, confondendolo con l’espressione
«pomarium Imperii»178. Una traduzione errata si era di fatto trasformata in
un’efficacissima immagine poetica e anche politica.
Di «Montecchi e Cappelletti» (v. 106), di «Monaldi e Filippeschi» (v. 107)
e di «Santafiora» (v. 111) abbiamo già parlato179. Qui gioverà solo ricordare
che queste due coppie di fazioni rivali hanno in realtà generato un equivoco
alquanto fecondo nella cultura occidentale. Monticoli e Cappelletti infatti, a
differenza di Monaldi e Filippi, non erano in realtà famiglie rivali di una
stessa città (e cioè Orvieto nel caso dei secondi), ma partiti che avevano do-
minato la scena nel XIII secolo in città diverse (e nei relativi territori), e cioè,
come si è detto, a Verona e a Cremona, senza avere tra loro particolari rap-
porti. Il verso di Dante, che intendeva insistere sulle divisioni tra forme di-
verse di aggregazione politica, in tempi diversi e in luoghi diversi, ingenerò
però il mito che «Montecchi e Cappelletti» fossero invece due famiglie tra
loro rivali della stessa città, Verona. Fu Benvenuto da Imola, nel suo com-
mento dantesco degli anni Settanta del Trecento, ad accreditare per primo
quest’idea che Montecchi e Cappelletti fossero entrambe famiglie veronesi fra

prima della distruzione di Sodoma e Gomorra; e soprattutto nel Liber Isaiae si legge:
«Consolatur enim Dominus Sion, consolatur omnes ruinas eius; et ponit desertum eius quasi
Eden et solitudinem eius quasi hortum Domini. Gaudium et laetitia invenietur in ea, gratiarum
actio et vox laudis» (‘Davvero il Signore ha pietà di Sion, ha pietà di tutte le sue rovine, rende
il suo deserto come l’Eden, la sua steppa come il giardino del Signore’) (Is., LI 3). Sono parole
delle Scritture che Dante avrà avuto certamente presenti, e che gli saranno tornate alla mente
soprattutto nell’istituire l’efficace contrasto giardino/deserto.
178
Come dimostrò alcuni or sono Marta Sordi, l’espressione «giardino dell’Impero» aveva
in effetti una genesi tecnica, e nasceva nello stesso tempo da una confusione terminologica e
da un fraintendimento. «Giardino dell’Impero» era infatti un’errata traduzione del termine del
Diritto Romano «pomerium Romae» o «pomerium Urbis», che indicava lo spazio sacro
giurisdizionale-religioso di Roma antica, racchiuso appunto entro le mura dell’Urbe (ossia la
cinta del Pomerio). Tale termine «pomerium» (‘Pomerio’), nel Medioevo venne però spesso
confuso (impropriamente) con il sostantivo «pomarium» (‘giardino con piante da frutto’), e
questa confusione terminologica si ritrovò appunto anche in Dante che la rese in italiano,
traducendo con «giardin de lo ’mperio» il termine «pomerium Imperii» presente peraltro anche
in atti di Rodolfo I ed Alberto I d’Absburgo del 1275, del 1281 e del 1298, in cui l’espressione
veniva riferita agli ambiti della Toscana, della Romagna, del Friuli e dell’Istria. Al riguardo cfr.
M. SORDI, Il pomerium romano e l’Italia giardin dell’Imperio di Dante (1964), in Il pensiero
filosofico e teologico di Dante Alighieri, a cura di A. GHISALBERTI, Milano, Vita e Pensiero,
2001, pp. 123-30; EAD., Cola di Rienzo e le clausole mancanti della ‘Lex de Imperio
Vespasiani’ (1971), in Scritti di Storia Romana, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 223-31, a
p. 226. Sull’argomento si veda anche P. ARMOUR, Dante’s Griffin and the History of the World,
Oxford, Clarendon Press, 1989, alle pp. 97-99.
179
Si vedano supra le note n° 96, n° 97 e n° 98 e il testo ad esse relativo.
90 Francesco Somaini

loro nemiche180. Il tema, agli inizi del Cinquecento, suggerì poi a Luigi da
Porto di costruirvi sopra una novella – la Historia novellamente ritrovata di
due nobili amanti, pubblicata nel 1530 –, riadattando in particolare al conte-
sto veronese dei Montecchi e dei Cappelletti una precedente novella di Ma-
succio Salernitano degli anni Settanta del Quattrocento e di ambientazione
senese. Nel 1554 l’argomento venne ripreso anche da Matteo Bandello, che ne
fece in effetti il tema della sua novella sui Montecchi e Capuleti. Bandello a
sua volta fu poi tradotto in francese intorno al 1560, con ampie rielaborazioni,
e il tema venne infine ripreso tra il 1594 e il 1596 da William Shakespeare per
il suo Romeo and Juliet (The Most Excellent and Lamentable Tragedy of
Romeo and Juliet) dove le due famiglie rivali veronesi divennero nel frattempo
i Montague e i Capulet, consegnandosi al mito181.
Tornando a noi, converrà rilevare che per quanto concerne invece l’imma-
gine di Roma piangente e vedova dei versi 112-13, essa è invece ripresa diret-
tamente dalle Lamentationes di Geremia (Lamentationes, 1 1 e 2). Nel 1314
Dante avrebbe riutilizzato lo stesso riferimento nell’Epistola XI ai cardinali ita-
liani: sia nell’esordio (1 1), in cui in realtà riportò esattamente il passo di Ge-
remia; sia nel corso del testo (par. 10, 21) come un semplice richiamo. Ma già
nell’Epistola V, scritta quasi certamente in parallelo a questo canto, o a breve
distanza da esso, si ritrovava, ad esempio, la rappresentazione del concetto del-
l’imperatore come sponsus d’Italia e di Roma (Ep., V 2, 5). E anche qui, come
si ricorderà, Roma piangeva appunto per l’assenza dello sposo-sovrano182.
A tale riguardo, ci sarebbe in vero da sottolineare il fatto che nel 1310, al
tempo della più che probabile composizione di questo canto, Roma avrebbe
in realtà avuto motivo per piangere non soltanto l’assenza dell’imperatore, ma
anche quella del papa. Dopo l’elezione di Clemente V, avvenuta a Perugia nel
giugno del 1305 (a più di un anno dalla scomparsa del suo predecessore Be-
nedetto XI), il nuovo pontefice non si era infatti ancora deciso a scendere in
Italia; e per vero dire non ci sarebbe mai venuto. Inizialmente, Bertrand de
Got, divenuto Clemente V, si era trattenuto nella sua Guascogna, e cioè di-
rettamente a Bordeaux, la città (sotto dominio inglese) di cui era arcivescovo
dal 1299, o nel territorio di quella diocesi. Nel novembre del 1305 si era

180
Cfr. BENVENUTO DA IMOLA, Commento 1375-1380, in Dartmouth Dante Project, cit., con
riferimento a Purg., VI 106-111. Su Benvenuto Rambaldi da Imola cfr. P. PASQUINO, Benve-
nuto Rambaldi da Imola, in Censimento dei commenti danteschi. 1. I commenti di tradizione
manoscritta (fino al 1480), a cura di E. MALATO e A. MAZZUCCHI, Roma, Salerno Editrice,
2011, tomo I, pp. 86-120.
181
Cfr. C. CHIARINI, Romeo e Giulietta. La storia degli amanti veronesi nelle novelle ita-
liane e nella tragedia di Shakespeare, Firenze, Sansoni, 1906; M.C. ZANIBONI, Un’antica pas-
sione. Romeo e Giulietta dalle fonti a Shakespeare, Imola, Grafiche Galeati, 1988; e Le storie
di Giulietta e Romeo, a cura di A. ROMANO, Roma, Salerno, 1993.
182
Cfr. ERCOLE, L’unità politica, cit., pp. 46-49; e HONESS, Four Political Letters, cit., pp.
83-98.
Dante e il quadro politico italiano 91

spinto fino a Lione (città formalmente ancora in terra d’Impero, ma da tempo


nelle mire del re di Francia, che se ne sarebbe poi impadronito nel 1310), e
quivi il 14 novembre del 1305 si era fatto incoronare papa. Poi però, nel 1306,
era tornato a Bordeaux, ove rimase nei 3 anni successivi, pur compiendo, nel
1307 e nel 1308, ripetuti viaggi in Francia, con lunghi soggiorni in partico-
lare a Poitiers, per affrontare con Filippo IV le delicate questioni del processo
postumo a Bonifacio VIII e della soppressione dell’Ordine dei Templari. Da
ultimo, nel marzo 1309, egli si era infine stabilito ad Avignone, sul Rodano
(in terra di Impero, appartenente formalmente al Regno di Arles, ma asse-
gnata sin dal 1229 al governo papale). L’idea era quella di un soggiorno prov-
visorio, che servisse a preparare il Concilio che era stato nel frattempo
convocato nella vicina Vienne per l’ottobre del 1310, e il cui inizio sarebbe
poi stato posticipato all’ottobre del 1311183. Che Roma fosse dunque stata
abbandonata indefinitamente, per un periodo che si sarebbe poi protratto fino
al 1377 (con un breve rientro papale tra l’ottobre del 1368 e il settembre del
1370), tanto da delineare una vera e propria fase storica, cui oggi si attribui-
sce giustamente il nome di “età avignonese”, era cosa che Dante ovviamente
non poteva ancora sapere quando scriveva. Resta il fatto però che Roma era
ormai senza papa già da qualche anno, e che quindi essa avrebbe potuto ben
dirsi doppiamente sola.
La scelta però di ambientare la Commedia nell’anno 1300, che era stato
l’anno del Grande Giubileo istituito da Bonifacio VIII, esentava in un certo
senso Dante dal doversi preoccupare di questo aspetto. Al tempo in cui era
stato collocato il viaggio del poeta nell’al di là, infatti, il papa a Roma dopo
tutto c’era, e questo risolveva il problema di dover affrontare qui la questione
della doppia vedovanza dell’Urbe. Sta di fatto poi che a Dante in questo canto
interessava rimarcare in primo luogo il legame particolare che doveva a suo
parere unire Roma all’imperatore. E in questo senso non gli importava – per
lo meno non in questa sede, tutta concentrata sul tema della venuta in Italia
di Enrico VII – insistere sulle tergiversazioni del papa nel raggiungere «lo
loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero» (Inf., II 23-24)184.
L’apostrofe successiva era diretta, come si è già ricordato, direttamente a
Gesù Cristo, ed era formulata secondo il modello retorico della dubitatio:

E se licito m’è, o sommo Giove


che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? 120

183
Cfr. GUILLEMAIN, I papi di Avignone, cit., pp. 9-13; ID., Il Papato ad Avignone, cit., pp.
233-36; MENACHE, Clement V, cit., pp. 23-30; A. PARAVICINI BAGLIANI, Clemente V, in
Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol. XXVI (1982), pp. 202-15, alle pp. 202-06.
184
Il tema dell’assenza da Roma del papa sarebbe viceversa ritornato centrale, per esempio,
nell’Epistola XI del 1314 scritta ai cardinali italiani Cfr. HONESS, Four political Letters, cit.,
pp. 83-98.
92 Francesco Somaini

O è preparazion che nell’abisso


del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto dall’accorger nostro scisso? 123
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogni villan che parteggiando viene. 126

Colpisce in questa parte l’utilizzo un po’ stridente dell’appellativo «Giove»


riservato a Cristo (v. 118). Robert Hollander ha sottolineato in proposito che
il nome «Giove» fu usato dall’Alighieri in 9 ricorrenze della Commedia, ma
che questo fu in realtà l’unico caso di tutto il Poema in cui quel nome pagano
fosse utilizzato in senso cristiano, nella fattispecie con riferimento a Gesù185.
A me sembra che la cosa possa essere spiegata per sottolineare il carattere as-
solutamente retorico di quel dubbio, e per rimarcare che Dante non conside-
rava realmente «licito» il fatto di mettere in discussione i disegni divini.
Il punto, semmai, è che egli non vuole prendere seriamente in considera-
zione il fatto che vi possa essere un nascosto disegno divino dietro i mali che
affliggono l’Italia; né è seriamente disposto a pensare che le violenze, le la-
cerazioni, i soprusi che hanno trasformato in un «bordello» la realtà italiana
possano rispondere in realtà ad un «bene» cui la Provvidenza stia lavorando.
In altre parole, Dante non presume affatto di contestare il principio teologico,
sancito per esempio dal Salmo 36 – «Iudicia tua abyssus multa» (‘Molti tuoi
giudizi sono un abisso’, Psal., 36 7) –, dell’imperscrutabilità dei disegni che
si compiono in mente Dei. Tant’è che nel IV trattato del Convivio egli aveva
anzi espressamente ribadito e fatto proprio questo principio: «Non è maravi-
glia se la divina providenza, che del tutto l’angelico e l’umano accorgimento
soperchia, occultamente a noi molte volte procede» (Conv., IV V 1). Resta il
fatto però che Dante spera, e anzi crede e vuole fermamente credere che Dio
sia in realtà davvero in procinto di smentire quel suo terribile dubbio. O quanto
meno, egli confida che esso intenda provvedere alla tragedia italiana, e che
ne voglia anzi punire i responsabili. Non per nulla Jacopo Della Lana, uno
degli autori dei più antichi commenti danteschi, poté dire che Dante «qui
priega vendetta» (con un’espressione felice che venne non a caso ripresa alla
lettera anche dall’Ottimo Commento)186. Insomma, come scriveva con acume
185
Cfr. R. HOLLANDER, Commento 2000-2007, in Dartmouth Dante Project, cit., con rife-
rimento a Purg., VI 118-22. In pratica, in 3 di queste 9 ricorrenze, il nome «Giove» fu riferito
al nome del pianeta (Par.,V 62; XVIII 95; XXII 145). In altre 3 circostanze esso fu riferito
senza incertezze al dio pagano (Inf., XIV 52; XXXI 92; Purg., XXIX 120). In 2 casi esso fu
utilizzato come un’espressione corrispondente in modo tutto sommato generico al concetto di
divinità (Inf., XXXI 45; Purg., XXXII 112). Solo qui, nel VI del Purgatorio, Dante si spinse
a chiamare «Giove» una delle persone della Trinità divina cristiana.
186
J. DELLA LANA, Commento 1324-1328, in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento
a Purg., VI 118-23; e L’OTTIMO COMMENTO, Commento 1333, ivi, con riferimento a Purg., VI
118-23.
Dante e il quadro politico italiano 93

Francesco Ercole, «si sente in questi versi l’aspirazione vaga, ma conscia di


un bene che deve essere tanto più prossimo, quanto più è intollerabile il male
presente»187.
Un altro punto di questa quarta apostrofe, che credo meriti di essere me-
glio chiarito, è poi costituito dai versi 125-126, con quel riferimento un po’
ambiguo a Marcello. Chi è questo «Marcel» in cui si trasformerebbe «ogni
villan che parteggiando viene»? Tra i dantisti si sono affacciate due ipotesi.
La prima è che Marcello sia da identificare con il Marco Claudio Marcello,
console romano di orientamento pompeiano, fieramente ostile a Giulio Ce-
sare (che nel 46 a. C. l’avrebbe peraltro perdonato, consentendogli di rientrare
dall’esilio, grazie anche all’orazione pro Claudio Marcello di Cicerone). Que-
sti sarebbe anche quel «loquax Marcellus», inutilmente verboso, di cui aveva
parlato Lucano (Pharsalia, I 313)188. Ora, accettando questa interpretazione,
avvalorata anche da molti commenti antichi, Marcello sarebbe dunque da in-
tendere come equivalente di ‘oppositore dell’Impero’, per cui il passo dante-
sco dovrebbe essere così spiegato: ‘ogni villano che viene parteggiando
[facendosi portatore di demagogiche politiche di colore popolare] diventa di
per ciò stesso un nemico dell’Impero’. A me però questa attribuzione non
convince. Mi pare infatti più sensata la seconda ipotesi, sostenuta da altri dan-
tisti, secondo cui Dante si sarebbe in realtà riferito a quell’altro Marco Clau-
dio Marcello, antenato del precedente e vissuto nel III secolo a. C. Questo fu
il conquistatore di Siracusa nel 212 a. C., e fu soprattutto colui che prese la
guida dell’esercito romano dopo la disfatta di Canne del 216 a. C., e che come
tale avrebbe in qualche misura salvato Roma dalla catastrofe, tanto da essere
celebrato da Virgilio (Eneide, VI 855), come l’«insignis [...] Marcellus». Il
passo di Dante in questo secondo caso assumerebbe una valenza sarcastica a
mio avviso molto più potente, che oltre tutto si combinerebbe assai meglio

187
ERCOLE, Le tre fasi, cit., p. 343. Nulla mi pare invece più lontano da una corretta inter-
pretazione di questo passo dell’idea che venne a suo tempo suggerita da Giovanni Gentile, se-
condo cui il Dante sognatore dell’Impero medievale sarebbe qui stato colto da una sorta di
breve moto di resipiscenza, e si fosse posto il dubbio che dietro il disordine italico potesse
sussistere in realtà un qualche compimento di carattere progressivo (e dunque divinamente
ispirato), tale per cui le «intestine discordie» dell’Italia di allora potessero comunque essere
guardate come foriere dell’avvento futuro di un’Italia non imperiale, ma che potesse risaltare
«alta [e] splendida agli occhi e al cuore di ogni nazione civile» (cfr. GENTILE, op. cit., p. 31).
Accogliere un giudizio del genere presupporrebbe in realtà assumere costitutivamente come
utopistico, vano e velleitario (perché rivolto inutilmente al passato) il sogno dantesco di una
restaurazione dell’Impero, il che sarebbe già un giudizio viziato di teleologismo, in quanto
equivarrebbe a dare per scontato che le cose non potessero andare diversamente da come sono
effettivamente andate. Ma quel che è peggio è che in questo modo si finirebbe necessaria-
mente per insinuare che Dante stesso, in fondo, non fosse davvero convinto e sicuro delle pro-
prie idee: il che mi sembrebbe una vera e propria mistificazione.
188
Aderisce ad esempio senza troppi dubbi a questa attribuzione Giorgio Inglese: D.
ALIGHIERI, Commedia, a cura di G. INGLESE, cit., vol. II, p. 131.
94 Francesco Somaini

anche con il cenno precedente alla città d’Italia «tutte piene [...] di tiranni».
Dante infatti qui verrebbe a dire grosso modo questo: ‘le città italiane si
stanno riempiendo di tiranni, e il primo cialtrone demagogo che si atteggia a
capo-popolo o capo-parte viene additato come un salvatore della patria’189.
Questa seconda ipotesi ha cioè il pregio concettuale di rispettare l’idea ari-
stotelica secondo cui tirannide e demagogia sarebbero due forme politiche
egualmente degenerate, ovvero due delle possibili politiae obliquae che si
contrapponevano alle politiae rectae190. Essa inoltre contiene anche un ele-
mento indubbiamente molto significativo del pensiero politico dantesco: e
cioè l’indubbia propensione di Dante, certo accresciutasi negli anni dell’esi-
lio, verso sentimenti ti carattere élitistico ed anti-popolaresco, con la sua «in-
superabile repugnanza per «la gente nova e i subiti guadagni»191.
È un giudizio che sembra oltre tutto ben attagliarsi al caso fiorentino, cui
è dedicata come noto la chiusa del canto:

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta


di questa digression che non ti tocca,
mercè del popol tuo che sì argomenta! 129
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio all’arco:
ma il popol tuo l’ha in sommo della bocca. 132
Molti rifiutan lo comune incarco,
ma ’l popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida «I’ mi sobbarco». 135
Or ti fa lieta, che tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ver, l’effetto no ’l nasconde. 138
Atena e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno 141
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobri fili. 144
Quante volte, del tempo che rimembre,
legg’e moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinnovate membre? 147
E, se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume, 150
ma con dar volta suo dolore scherma.

189
Propende per questa lettura Robert Hollander: R. HOLLANDER, Commento 2000-2007,
in Dartmouth Dante Project, cit., con riferimento a Purg., VI 124-26. Ed essa è condivisa da
Charles Till Davis: DAVIS, Dante and the Empire, cit., p. 174 n.
190
Su questo aspetto cfr. A. SOLMI, Il pensiero politico di Dante, cit., p. 21 e nota.
191
ERCOLE, Le tre fasi, cit., p. 276.
Dante e il quadro politico italiano 95

Il canto va a chiudersi in effetti con un finale fortemente sarcastico, che


prende di mira Firenze, ed ironizza ed irride al mito del civismo fiorentino.
Lo spirito che qui anima l’atteggiamento di Dante è simile a quello che aveva
ispirato l’incipit del canto XXVI dell’Inferno, con i rallegramenti rivolti alla
propria città per essere piena di ladri. Si comincia ad esempio con l’alludere
al fatto che tutto quanto detto finora nella «digression» (v. 128) non riguar-
derebbe Firenze, mentre è evidente che è anch’essa parte del problema italico.
Si procede poi con l’affrontare il tema della giustizia: altri, dice Dante, hanno
forse la giustizia nel cuore, ma non riescono ad esprimerla con rapidità, per-
ché devono arrivarci con lente decisioni. A Firenze invece la giustizia è sulla
bocca di tutti, ma non si dice con quali risultati (che si capiscono però disa-
strosi). E poi c’è lo spirito civico: altrove i cittadini sembrano volersi tenere
alla larga dalle cariche pubbliche; ma a Firenze è tutto il popolo a gridare
«“I’ mi sobbarco!”» (v. 135) (ma non si dice con quali secondi fini). Poi si fa
cenno, sempre sarcasticamente, alla prosperità e alla pace, che a Firenze sa-
rebbero di casa.
Viene quindi proposto un ironico paragone con Atene e Sparta («Atena e
Lacedemona» (v. 139), ovvero le due città antiche che con Solone e con Li-
curgo venivano considerate le prime comunità urbane della storia ad essersi
date delle leggi. La loro fama, ci dice Dante, è destinata però ad essere sur-
classata dai saggi provvedimenti fiorentini: talmente saggi che la città conti-
nua a mutare ogni cosa: leggi, monete, istituzioni, costumi. Sulla moneta, va
detto, Dante era stato in fondo un po’ ingeneroso. Dopo tutto infatti la moneta
per eccellenza di Firenze – ovvero il fiorino d’oro, quello che Dante nel IX
del Paradiso definirà poi «il maledetto fiore» – era stato introdotto nell’ormai
lontano 1252 e si era rapidamente imposto in modo trionfale su tutti i mer-
cati europei per la sua grande e riconosciuta stabilità ed affidabilità. «La lega
suggellata del Battista» (Inf., XXX 74), con i suoi 3,5368 grammi di peso, era
anzi una moneta talmente apprezzata che ben presto se ne tentarono anche
delle falsificazioni, come appunto quella di maestro Adamo, l’orafo che Dante
collocò, idropico, rigonfio e immobilizzato, nel decimo cerchio di Malebolge,
e che negli anni Ottanta del Duecento nei castelli dei conti Guidi di Romena
aveva prodotto fiorini falsi con «tre carati di mondiglia» (Inf., XXX 90), ov-
vero con un più basso contenuto aureo rispetto ai 24 carati previsti192. Sui
cambiamenti di indirizzo politico da ottobre a novembre è invece possibile
che Dante intendesse alludere con amarezza ai fatti del 1301, e cioè all’ultimo
priorato di orientamento guelfo bianco, insediatosi appunto nel settembre di
quell’anno, e poi sconfessato nell’ottobre successivo dall’arrivo in città di
Carlo di Valois e dal ritorno dei Neri: sono i fatti che preannunciarono la con-

192
Sull’argomento si veda la bella voce di Federigo Melis: F. MELIS, Fiorino, in
Enciclopedia Dantesca, cit., vol. III (1971), pp. 903-904.
96 Francesco Somaini

danna di Dante, che arrivò come noto nel gennaio del 1302193.
Il canto termina infine con una similitudine, così come con una similitu-
dine esso era cominciato194. Là era Dante vincitore del gioco della zara, e qui
è Firenze, raffigurata come una vecchia, malata, che si gira e si rigira nel suo
letto, senza trovar pace. Nell’estate del 1310, con Enrico VII ormai alle porte,
il papa che lo sosteneva e l’Italia tutta che sembrava attendere l’arrivo del rex
pacificus, Dante, che con il suo veltro quell’arrivo sembrava averlo profetiz-
zato, doveva avere – io penso – la sensazione di poter essere davvero un vin-
citore politico e morale, e che Firenze, che l’aveva cacciato, fosse invece
destinata a cadere preda della confusione. Anche questo dettaglio conferma
dunque l’impressione di un canto VI scritto in un momento ben preciso e
concepito come un testo di battaglia.

4. Alcuni corollari

Da ultimo, a conclusione di quanto argomentato sopra, mi sia consentito


di riassumere brevemente alcuni punti che mi paiono centrali, e di svilup-
pare, di conseguenza, alcuni rapidi corollari. I punti essenziali del ragiona-
mento che ho cercato di svolgere su questo canto sono stati i seguenti:
A) Il canto VI del Purgatorio ha tutta l’aria di essere un canto ad opera-
tionem: un testo cioè di poesia militante, che senza evidentemente alterare il
quadro complessivo del poema e della cantica, dovette tuttavia permettere a
Dante di svolgere un discorso politico che a lui, in quel momento doveva
stare particolarmente a cuore.
B) Il canto – come si è potuto evincere da una serie di elementi indiziari
– fu scritto allorché Dante si doveva trovare nell’alto Casentino presso i conti
Guidi di Battifolle e di Poppi: tra il luglio e il settembre del 1310, quando
ormai potevano darsi per certe le notizie sull’arrivo imminente in Italia di
Enrico VII di Lussemburgo, e quando però ancora non si sapeva, per esem-
pio, attraverso quale percorso egli sarebbe arrivato.
C) Il canto è sostanzialmente da leggersi come un invito di Dante ad En-
rico VII ad intervenire in Italia per sanarne i mali. Esso presenta una sostan-

193
Cfr. BRILLI, op. cit., pp. 186-87. Sugli eventi che accompagnarono quei fatti fiorentini
cfr. DAVIDSOHN, op. cit., vol. IV, pp. 211-82.
194
Nonostante la netta cesura in due parti – la prima parte narrativa, la seconda politica –,
il canto VI conferma anche da questi particolari la propria struttura sostanzialmente unitaria
(con l’episodio centrale dell’abbraccio di Sordello a Virgilio a fungere da cerniera e da ele-
mento portante). O meglio, la divisione in due parti del canto (ma con rimandi non banali tra
una sezione e l’altra) accentua volutamente l’idea di fondo del canto stesso, che è poi quella
di insistere sul tema della divisione, ma anche sulla speranza del suo possibile superamento
(cfr. PANARO, op. cit., pp. 8 e 15-16; e PICCHIO SIMONELLI, op. cit., pp. 331-32.
Dante e il quadro politico italiano 97

ziale analogia di ispirazione con la Epistola V, indirizzata ai potenti d’Italia,


perché accolgano il sovrano, collaborino con lui, e lo sostengano nella sua im-
presa. I due testi – canto ed epistola – sono per certi versi complementari, e
si può ragionevolmente pensare che essi siano stati pensati come una sorta di
pamphlet, che Dante dovette presumibilmente predisporre in vista di quello
che sarebbe poi stato l’incontro con Enrico VII. Di tale incontro siamo certi-
ficati dall’epistola VII, che ce lo presenta come già avvenuto. Esso dovette al-
lora verosimilmente avvenire in prossimità (non molto prima o non molto
dopo) dell’incoronazione di Enrico VII a re d’Italia, la quale ebbe luogo,
come noto, a Milano, nella basilica di S. Ambrogio, il 6 gennaio del 1311. In
quella circostanza Dante potrebbe essersi verosimilmente presentato al co-
spetto di Enrico facendogli omaggio di queste due alte prove, canto ed epi-
stola, appositamente composte per l’occasione, forse con l’intento di riuscire
ad accreditarsi presso Enrico VII come un possibile collaboratore, se non ad-
dirittura come un vero e proprio vate ed ispiratore politico.
D) L’idea di Italia di Dante, peraltro, non collimava perfettamente con quella
di Enrico. Il primo era infatti più che altro interessato, in questa fase, a rimet-
tere in sesto la struttura dell’antico Regno Italico. Per Dante invece il Regnum
Italicum in quanto tale non aveva alcuna importanza, e lo spazio italiano era da
lui concepito come un ambito unitario riguardante l’Italia intera (in particolare
l’Italia di Augusto e di Virgilio), con Roma quale centro naturale.
E) Per realismo politico, e perché aveva ben chiari i termini generali della
grande partita che stava per aprirsi nella Penisola con l’arrivo del Lussem-
burghese, Dante era in realtà probabilmente disposto a non insistere più che
tanto su questi elementi di divergenza nei riguardi del programma enriciano.
C’era però il problema di Roma che costituiva un punto d’attrito non facil-
mente risolvibile. Enrico VII si era infatti impegnato a riconoscere l’autorità
del papa su Roma, e a non trattenersi nell’Urbe dopo essersi fatto incoronare
imperatore. Per Dante invece Roma era la sposa dell’imperatore, e questi non
poteva presumere di abbandonarla. Su questo Dante ed Enrico VII persegui-
vano insomma disegni e progetti che erano oggettivamente non collimanti
(per lo meno in questa fase), e questo potrebbe spiegare le ragioni per cui il
probabile disegno dantesco di essere accolto dal sovrano come vate non sem-
brò in effetti andare a buon fine.
Ma veniamo con ciò ai corollari che si possono ricavare da quanto osservato:
1) Se il canto VI è un canto ad operationem, o una lirica d’occasione,
come ebbe a scrivere a suo tempo Parodi, non ha senso ipotizzare, come pen-
sava Petrocchi, che Dante si sia gelosamente tenuto il Purgatorio nel cas-
setto (e addirittura, secondo lo stesso Petrocchi, anche l’Inferno) fino al 1314
o addirittura il 1315, continuando a correggere i testi e a limarli qua e là195.

195
PETROCCHI, Intorno alla pubblicazione, cit., pp. 63-87, alle pp. 64-83. Per l’osservazione
di Parodi si veda supra la nota n° 31.
98 Francesco Somaini

Ha in realtà molto più senso ritenere, come già aveva ipotizzato Giovanni Pa-
scoli, che i canti di Dante fossero messi subito in circolazione (almeno a pic-
coli gruppi), e che poi girassero di lettore in lettore, così come sostenuto da
Aldo Vallone196. La tesi della pubblicazione tardiva di Inferno e Purgatorio,
anche di recente contestata, a mio modo di vedere insomma non regge197.
2) Se il canto fu composto nel periodo di cui si è detto, mentre Dante sog-
giornava presso i conti Guidi di Battifolle, viene necessariamente meno l’ipo-
tesi – sostenuta viceversa da Giovanni Boccaccio – che Dante, nel periodo
precedente l’arrivo di Enrico VII in Italia, si fosse recato a Parigi (da cui
avrebbe fatto ritorno nel 1311 proprio per presentarsi al cospetto del Re dei
Romani)198. Si deve cioè necessariamente concludere che Dante a Parigi non
ci andò, o che, se ci andò, non ci andò nelle date indicate da Boccaccio199. Ma
se Boccaccio non è affidabile su questo punto, lo si dovrà ritenere poco affi-
dabile in generale. Se ne deve concludere che su ogni questione della bio-
grafia dantesca le indicazioni di Boccaccio debbono essere necessariamente
prese con grande cautela. La credibilità di Boccaccio e del suo Trattatello in
laude di Dante come fonte plausibile sulla vita di Dante devono, in altre pa-
role, a mio avviso essere necessariamente revocate in dubbio200.
3) Se il canto VI è databile al 1310, anche altri elementi della cronologia
dantesca vanno necessariamente ripensati. Per esempio: il successivo canto
VII, non potrà essere collocato ad una data troppo distante rispetto al canto
che lo precede. In quel canto vi sono, fra l’altro, i famosi versi in cui Sordello,
nella valletta dei principi negligenti, nell’indicare a Dante e Virgilio l’anima
di Rodolfo I d’Absburgo (il padre dell’Alberto Tedesco su cui qui ci siamo a
lungo soffermati) lo descrive come colui «che potea / sanar le piaghe c’hanno
Italia morta, / sì che tardi per altri si ricrea» (vv. 94-96). Si è detto da parte di
alcuni che quei versi sarebbero da collocare ad una data successiva alla morte
di Enrico VII (24 agosto 1313) e che anzi sarebbero una sorta di planctus

196
Cfr. A. VALLONE, Nota sul testo e sulla pubblicazione della Commedia [1959], in ID.,
La critica dantesca nel Settecento ed altri saggi danteschi, Firenze, Olschki, 1961, pp. 65-76.
197
Una recente critica delle tesi di Giorgio Petrocchi in relazione all’Inferno si troverà in
J.A. SCOTT, Dante ha rivisto il testo dell’Inferno nel 1314?, in «Studi Danteschi», LXXVI
(2011), pp. 115-28.
198
Cfr. G. BOCCACCIO, Trattatello in laude di Dante, a cura di P. G. RICCI, in Tutte le opere
di Giovanni Boccaccio, a cura di V. BRANCA, Milano, Mondadori, 1974, vol. III, pp. 455-456
(Trattatello XI).
199
Tra coloro che prestano fede all’ipotesi di Boccaccio a Parigi vi è stato Giorgio Pe-
trocchi: PETROCCHI, Biografia, cit., p. 36 e 42. Di recente anche Umberto Carpi ha voluto sal-
vare l’ipotesi di un Dante a Parigi, e questo lo ha costretto a proporre una datazione poco
convincente sulla data d’arrivo di Dante presso i conti Guidi di Poppi, nonostante che proprio
lui abbia invece fornito moltissimi elementi per addivenire ad una datazione più persuasiva (cfr.
CARPI, op. cit., vol. II pp. 757-58).
200
Per la bibliografia sull’attendibilità di Boccaccio cfr. BOCCACCIO, Trattatello, cit., pp.
856-58.
Dante e il quadro politico italiano 99

dantesco per la morte di Enrico201. Questa ipotesi non sta in piedi: non tiene
sul piano del senso (perché se Enrico fosse morto, Sordello non lo potrebbe
accusare di essere in ritardo), e non ha senso sul piano della cronologia, per-
ché si dovrebbe ipotizzare un vuoto di quasi 3 anni tra il canto VI e il canto
VII. Ma in realtà quel passo diventa assolutamente chiaro (e perfettamente
compatibile con la cronologia qui proposta), se lo si immagina scritto nel
marzo-maggio del 1311, quando Enrico VII si stava attardando in Lombar-
dia per reprimere le rivolte guelfe scoppiate a partire dall’insurrezione di feb-
braio a Milano. Dante era allora convinto che il sovrano non dovesse perdere
tempo contro Cremona (cui poi sarebbe del resto seguita la campagna di Bre-
scia) e nella Epistola VII da lui indirizzata allo stesso Enrico (e datata 11
aprile 1311) lo inviterà espressamente a rompere gli indugi e a muovere con-
tro Firenze, ormai diventata il vero cuore della resistenza anti-enriciana. Nel-
l’Epistola VII Enrico sembra dunque essere in ritardo, e appunto di agire
«tardi» lo rimprovera Sordello nel VII del Purgatorio. Anni dopo, con la vi-
cenda di Enrico ormai conclusa, Dante avrebbe certo cambiato quel suo giu-
dizio: Enrico VII non aveva tardato, ma era semmai venuto in Italia troppo
presto, «pria ch’ella sia disposta» (Par., XXX 138). Ma questo ci permette di
ridare un senso alle nostre cronologie. E i canti VI e VII acquistano una li-
nearità ed una coerenza di svolgimento che rischierebbe altrimenti di non es-
sere pienamente intesa.

201
Cfr. ad esempio PERUGI, op. cit., p. 104.
Indice

Presentazione p. 5

FRANCESCO SOMAINI
Dante e il quadro politico italiano:
lettura di Purgatorio VI » 7

GIAIME RODANO
La politica della Chiesa al tempo di Dante » 101

MARCELLO CICCUTO
Cortesia e dismisura: i compagni avversi
di Brunetto Latini (Inferno, XVI) » 117

ROSARIO COLUCCIA
Lettura di Purgatorio XV » 133

FRANCESCO TATEO
Fortuna, fato, provvidenza:
un percorso didattico nella Commedia » 155

Indice dei nomi e dei luoghi notevoli » 167

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