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Il

libro

L a scena, accuratamente allestita, sembra perfetta. Circondato dagli amici e con


accanto la moglie pronta a seguirlo nell’ultimo viaggio, Seneca va incontro alla
morte con la serenità del saggio stoico che ha trascorso tutta la vita in attesa di
questo momento. Ma la cicuta e il taglio delle vene non bastano, e nulla procede secondo
il copione prestabilito. L’atto finale, lungi dall’essere un esempio – modellato su quello
socratico – da consegnare ai posteri, assume i contorni del fallimento. O del compromesso.
Lo stesso che aveva caratterizzato l’intera esistenza dell’intellettuale romano,
perennemente combattuto fra ideale e realtà, tra filosofia e politica, virtù e denaro.
Nell’istante supremo, l’imperium, cioè il controllo di sé a lungo cercato e faticosamente
praticato, sembra venir meno. Nella morte, Seneca trova il suo ultimo scacco. L’ennesimo
paradosso.
Perché ricca di paradossi e di contraddizioni, secondo Emily Wilson, docente di studi
classici all’Università della Pennsylvania, era stata la vita di Lucio Anneo Seneca. Da
provinciale salito ai vertici della società romana del I secolo d.C. – un’epoca di
straordinari mutamenti politici, culturali ed economici –, era stato condannato all’esilio in
seguito a uno scandalo sessuale ed era caduto in disgrazia, per diventare poi, come
precettore, consigliere, amico e speechwriter di Nerone, uno degli uomini più influenti di
Roma. Tuttavia, né la vicinanza alla corte neroniana né i favori della madre
dell’imperatore Agrippina lo avevano protetto dagli abusi del potere. Anzi. Sempre più
insofferente agli eccessi nefasti del principe e convinto che nulla ormai ne potesse arginare
gli istinti peggiori, aveva tentato più volte, ma inutilmente, di sottrarsi all’abbraccio
mortale della politica per dedicarsi allo studio e alla scrittura. Infine, sospettato di
cospirare contro l’imperatore, aveva pagato con la vita l’illusione che un intellettuale, per
quanto pragmatico, potesse modificare il regime esistente.
Ricchissimo e ambizioso, dedito allo sfarzo e al tempo stesso consapevole della vacuità
del lusso, partecipe degli intrighi di corte ma ossessionato dal pensiero della propria
reputazione, Seneca aveva scelto, secondo i dettami dello stoicismo, di cui fu uno dei
massimi esponenti, di impegnarsi nel mondo senza però rinunciare alla propria integrità
morale: questo conflitto tra vita buona e vita di successo, questa tensione continua verso
una perfezione e un rigore irraggiungibili, questa ricerca inappagata e priva di risposte
definitive, costituiscono ancora oggi alcune delle tante ragioni per cui non solo i suoi
scritti letterari e filosofici, ma anche la sua biografia, hanno ancora moltissime cose da
dirci.
L’autore

Emily Wilson è Associate Professor presso il Dipartimento di studi classici dell’Università


della Pennsylvania. Laureata in Lettere classiche a Oxford, ha conseguito una seconda
laurea in Lettere classiche e letteratura comparata a Yale. Tra le sue opere ricordiamo
Mocked with Death: Tragic Overliving from Sophocles to Milton (2003) e The Death of
Socrates: Hero, Villain, Chatterbox, Saint (2007).
Emily Wilson

SENECA
Biografia del grande filosofo della classicità
SENECA

Il dominio di se stessi è il massimo dominio.


(Imperare sibi maximum imperium est)

SENECA , Lettera 113, 30


L’impero romano al tempo di Seneca.
La Spagna romana.
L’Italia romana.
La città di Roma al tempo di Nerone.
Introduzione
«QUASI IMPRATICABILE È LA VIA DEL PIÙ ALTO
PRESTIGIO» a

Lucio Anneo Seneca morì in modo estremamente drammatico nel 65 d.C. 1


Accusato di essere coinvolto in un complotto per uccidere l’imperatore Nerone,
fu costretto a togliersi la vita. Alcuni decenni dopo, lo storico Tacito ricostruì
con grande efficacia la scena del suicidio: circondato dagli amici, Seneca va
incontro alla morte insieme alla moglie, pronta a uccidersi al suo fianco. Aveva
fra i sessantacinque e i settant’anni, un corpo forte, allenato all’esercizio fisico,
ma magrissimo, perché nutrito frugalmente di pane e frutta, e minato da asma e
bronchiti croniche, di cui aveva sofferto per tutta la vita. Si tagliò le vene dei
polsi, ma non bastò, e non bastò neppure la tradizionale dose di cicuta. Si spense
soltanto quando si immerse in un bagno caldissimo e fu soffocato dal vapore.
La sua morte è lo specchio dei tanti enigmi e paradossi della sua vita. Volle,
nelle sue ore finali, seguire l’esempio di Socrate, così come lo racconta Platone
nel Fedone, che trascorre l’ultimo pomeriggio sulla terra discutendo di filosofia
con gli amici, prima di ingerire con calma la cicuta e chiudere quietamente gli
occhi. 2 Ma a Seneca non riuscì altrettanto bene. Non ce la fece a morire con il
veleno e neppure con il meno filosofico taglio delle vene; fu costretto a ricorrere
a uno strumento inconsueto per fermare il soffio vitale: un bagno di vapore, una
fine lontana dal modello socratico, ma più adatta a un uomo che aveva problemi
di respirazione fin dalla nascita. Seneca, d’altra parte, era un Socrate cui
mancava un Platone, pronto a tramandarne la storia. Intorno a sé aveva un
gruppetto di anonimi «amici», chiamati ad ammirare la morte di quel grande
intellettuale e a trasmetterne ai posteri le parole e gli atti. Per la sua uscita di
scena, egli aveva allestito una coreografia che era lo specchio della corte
imperiale romana, con il filosofo nel ruolo dell’imperatore. Tacito si rifiuta di
inserire nella sua narrazione le ultime parole di Seneca, perché, dice
scaltramente, sono già note, essendo contenute nelle sue opere, quasi a
sottintendere che quell’atto finale di autopromozione rischiava di rendere il
defunto meno ammirevole del suo modello ateniese.
La vita e la morte di Socrate sono intrecciate con la sua attività di filosofo.
Aveva inventato nuove divinità e corrotto i giovani con il suo insegnamento: di
questo era accusato. Anche Seneca affermava che il saggio «deve imparare a
morire per tutta la vita» (La brevità della vita 7, 3), e tuttavia perì per ragioni che
non solo è difficile definire filosofiche, ma che si direbbero antitetiche alla sua
pretesa intellettuale. Seneca era profondamente invischiato negli intrighi di
corte: di Nerone era stato il precettore e per Nerone componeva i discorsi.
L’imperatore lo voleva morto, perché sospettava, probabilmente non a torto, che
l’antico maestro volesse la sua, di morte: nella fine di Seneca c’entrava poco o
niente la filosofia. Le cause erano politiche, anche se egli riuscì a tramutarle in
filosofiche. Il paradosso del suo essere «un filosofo in politica» e «un politico
filosofo» è al centro della sua vita (fig. 1). 3
Nel racconto di Platone la morte di Socrate comunica un senso di calma, di
controllo e di coerenza. Non c’è una sola parola, un solo gesto, un movimento
delle membra che sia fuori posto: la scenografia è perfetta e splendidamente
armoniosa. La morte di Seneca si rivela invece abborracciata e zeppa di errori.
Niente va secondo i piani. Il filosofo non riesce a morire nel modo prescelto,
dissanguandosi, e fallisce di nuovo al secondo tentativo. La sua è una fine piena
di esitazioni, di scacchi e giravolte. Se la si confronta con quella di Socrate, la
morte di Seneca assume i contorni del fallimento. Egli non riesce a morire con
pacatezza, neppure dopo lunghi anni di preparazione: i magri, esili tendini
restano in tensione fino all’ultimo istante. Pieter Paul Rubens, che di Seneca era
un grande ammiratore, rende visceralmente percettibile questa sua fatica nel
famoso quadro della morte del filosofo. 4 Seneca era in lotta con i poteri costituiti
del suo tempo, e il tentativo di darsi la morte con filosofica calma impegna ogni
suo nervo e ogni suo muscolo. «La vita è una milizia» aveva scritto all’amico
Lucilio (Lettere morali a Lucilio 96, 5), e anche morire richiese un
combattimento e un lungo processo di tentativi ed errori.
1. Seneca ha modellato la sua morte, e in una certa misura la sua vita, su quella di Socrate.

Anche la sua eredità è ambigua, in senso sia letterale sia metaforico. Seneca
aveva promesso di lasciare dietro di sé, come sua opera migliore, l’«immagine
della propria vita». Ma aveva anche giurato di affidare nel suo testamento del
denaro agli amici, come segno di gratitudine per i «servigi» che gli avevano
reso. L’immagine di un filosofo ricco come Creso, ossessionato dal pensiero
della propria reputazione dopo la morte (anziché, poniamo, dal pensiero
dell’immortalità dell’anima), sembra assai lontana dall’ideale socratico. E, fra
l’altro, Nerone avrà poi rispettato le ultime volontà del suo vecchio maestro? È
più probabile che si sia ripreso le terre e le ville che gli aveva regalato. La
moglie di Seneca, che avrebbe voluto sacrificarsi accanto al marito, fu salvata
dai soldati dell’imperatore e gli sopravvisse. Non sappiamo quali siano state le
parole pronunciate dal filosofo agonizzante: non ci sono state tramandate, per lo
meno non da Tacito, che è la nostra unica fonte. Il tempo del potere e
dell’influenza di Seneca fu breve. La sua fu una morte di compromesso, con
prime, seconde, terze soluzioni; una morte che seguiva una vita di compromessi
e complessi negoziati fra ideale e realtà, fra filosofia e politica, fra virtù e
denaro, fra motivazione e azione.
La storia della sua vita pone un interrogativo di portata più ampia, addirittura
universale, che assume una particolare rilevanza nel nostro tempo. Il successo,
che cos’è? Questa domanda percorre come un filo rosso tutta la produzione
letteraria di Seneca. Egli mette costantemente in scena i conflitti fra i modelli
antitetici della buona vita e della vita di successo. Il provinciale Seneca era salito
in alto, era stato esiliato ed era caduto in disgrazia, ma nella sua età di mezzo si
era trovato all’improvviso a essere uno degli uomini più potenti di Roma e infine
il braccio destro dell’imperatore. In questo ruolo si sentiva sempre più
intrappolato, alienato e terrorizzato. Dopo avere supplicato invano Nerone di
concedergli il permesso di ritirarsi, gli aveva restituito una parte delle ricchezze
ricevute in dono, e nel 64 d.C. si era allontanato dalla corte. La distanza non era
stata sufficiente a salvarlo. La condanna per cospirazione fu la sentenza
definitiva che l’imperatore pronunciò contro il suo maestro, consigliere e amico
di un tempo.
Seneca, che era uno studioso profondo della filosofia stoica, sapeva che il
saggio ideale doveva essere sempre libero, sereno e felice fino alla morte, anche
nell’agonia, nella sofferenza più lancinante, nell’umiliazione e nel lutto. Era però
anche consapevole della distanza che lo separava dal modello stoico. Di sé
diceva di essersi soltanto incamminato sulla via della sapienza (proficiens), mai
di avere raggiunto il traguardo. La coscienza della propria imperfezione
costituisce probabilmente il lato più amabile di questo personaggio dal fascino
infinito. Tacito ci mostra un filosofo che anche nei suoi ultimi istanti è alla
ricerca della pace interiore, non un uomo che ha già trovato tutte le risposte. Nei
suoi trattati Seneca immagina la morte come una facile via d’uscita, una porta
sempre aperta: «Fra tutte le esperienze ... non ne ho resa nessuna più accessibile
della morte» (La provvidenza 6, 7). Il saggio, ribadisce continuamente, dovrebbe
mostrarsi sempre superiore alla sorte, buona o cattiva che sia, e con la forza di
volontà saper superare facilmente qualsiasi sfida: non perché siano difficili non
facciamo le cose, afferma, ma le cose «sono difficili perché non osiamo farle»
(Lettera 104, 26). Eppure per Seneca, nonostante il coraggio, furono difficili
tanto la vita quanto la morte.

Le fonti
Un libro incentrato sulla vita di Seneca va incontro a difficoltà particolari.
Alcune sono all’ordine del giorno per qualsiasi biografia che si occupi di un
personaggio della storia antica o premoderna. Il biografo non dispone di nessuna
delle tante prove documentali – lettere, diari, fotografie, oggetti, testimonianze
orali di amici, studiosi, nemici, amanti, sposi, editori o studenti – di cui può
spesso disporre chi si occupa di persone scomparse più di recente. Quanto a
Seneca, oltre la metà della sua enorme produzione letteraria è andata perduta,
compresi i discorsi politici, le lettere private, gran parte degli scritti in versi, i
saggi sull’India e l’Egitto, un trattato giovanile sui terremoti, un libro sul padre e
un dialogo sul matrimonio. Sulla prima parte della sua vita sappiamo
pochissimo, di conseguenza questa biografia ha inevitabilmente poco da dire
sull’infanzia e la giovinezza dello scrittore latino, e si concentra in particolare su
un paio di decenni della piena maturità, quelli in cui egli compose quasi tutte le
opere tramandateci e per i quali, a causa del suo coinvolgimento con Nerone,
abbiamo riferimenti in altri autori.
Le difficoltà, però, non derivano soltanto dalla scarsa documentazione: anche
la natura dei riscontri è problematica. Gli scritti superstiti di Seneca sono
voluminosi, assai più consistenti di quelli di gran parte degli autori antichi.
Abbiamo le tragedie, saggi su svariati argomenti, le lettere filosofiche, una satira
politica e un ampio trattato su temi scientifici (Questioni naturali). A differenza
di quasi tutti gli autori del lontano passato, Seneca usa spesso la prima persona e
parla a lungo e dettagliatamente della quotidianità e di come viverla. Eppure,
nessuna delle opere appena elencate ha un rapporto diretto e semplice con la vita
dell’autore. Nessuna è così prossima all’autobiografia quanto le lettere private di
Cicerone all’amico Attico. Quelli senecani sono scritti rivolti a un pubblico,
attentamente costruiti a questo scopo, anche quelli all’apparenza più personali,
come la lettera di consolazione alla madre sul proprio esilio. Ogni accenno a fatti
che possono sembrare autobiografici è sfuggente e spesso inaffidabile. Nelle
composizioni letterarie, come ci capiterà di constatare più volte in questo libro,
Seneca sembra giocare a rimpiattino con il desiderio del lettore di saperne di più
sul suo vissuto. Per esempio: egli fu esiliato e scrisse molto sull’esilio in
generale e anche sul proprio. Ma i pochi dettagli che ci regala sulle condizioni
materiali della sua vita durante il soggiorno coatto in Corsica sono tutti, dal
primo all’ultimo, costruzioni letterarie, sul modello di un altro, famoso,
predecessore romano, Ovidio. 5 Problemi ancora più complessi sorgono quando
si cercano nei suoi scritti notizie utili a ricostruire la sua vita familiare (genitori,
mogli e figli) e le amicizie, per non parlare poi delle informazioni più ambite (e
al tempo stesso più elusive), quelle sui suoi rapporti con Nerone. Gli scritti
possono tutt’al più aprire qualche spiraglio su come Seneca vedeva la propria
vita, ma non dobbiamo mai dimenticare quanto sia ardua l’impresa.
Possiamo almeno sperare di ricostruire attraverso le opere una serie di princìpi
coerenti su argomenti filosofici astratti o magari anche su questioni più pratiche,
come, per esempio, se sia bene partecipare alla vita politica e se la salute
contribuisca alla felicità umana. Oppure, supponendo che la concezione
senecana del mondo sia cambiata nel corso del tempo, possiamo sperare di
ricostruire la sua opinione su questa o quella questione in un determinato
periodo. 6 Ebbene, anche questo risulta a volte un compito impossibile. Di molte
delle sue opere superstiti non possiamo stabilire con precisione la data. Ci sono
contraddizioni fra uno scritto e l’altro, e persino contraddizioni e tensioni interne
a ciascuno scritto. E, come se non bastasse, molte delle posizioni che l’autore vi
assume sono incompatibili con ciò che sappiamo della sua vita. E allora perché
sorprendersi se lo storico Cassio Dione (dell’inizio del III secolo d.C.) lo accusa
di ipocrisia?
Di solito gli studiosi moderni non attribuiscono molta importanza a questo
genere di accuse, ritenendole il frutto di aspettative semplicistiche e persino
anacronistiche fondate su un supposto nesso fra vita e letteratura e sul significato
della coerenza. 7 Assoluzioni così rapide, tuttavia, sono spesso superficiali e
basate talvolta su premesse ancora più semplicistiche, quale quella, per esempio,
che un bravo scrittore non possa non essere una brava persona. La domanda più
interessante non è perché Seneca non sia riuscito a mettere in pratica i princìpi
che predicava, ma perché predicasse quei princìpi con tanta inflessibilità ed
efficacia, vivendo come viveva. Le opere superstiti rivelano una tensione
affascinante e prolungata verso la coerenza, concepita come la capacità di restare
immobili, mentre tutt’intorno il mondo continua a girare. I concetti di constantia
e inconstantia che Seneca utilizza hanno un significato alquanto diverso dai
concetti moderni, postromantici, di «integrità» e «ipocrisia». Mentre il termine
«ipocrisia», derivante dal greco hypokrisis, che significa «recitazione»,
suggerisce uno sfasamento – in un momento specifico – fra il comportamento
esteriore di un individuo e la sua realtà interiore, l’«incostanza» suggerisce
invece l’incapacità a restare identici a se stessi in ogni momento del tempo. In
che cosa consiste la saggezza?, si chiede Seneca in una lettera a Lucilio. La
saggezza, si risponde, consiste «nel volere sempre le stesse cose e, viceversa, nel
rifiutare sempre le stesse cose» (Lettere morali a Lucilio 20, 5). L’ideale stoico
della constantia, su cui Seneca scrisse un trattato che ebbe una grande influenza,
coincide con la capacità del saggio di restare immobile, sempre uguale, sempre
stabile, in un mondo in cui tutto cambia. Seneca aspirava ad avere un’identità
coerente, che si mantenesse invariata, sia che egli banchettasse a corte, sia che
marcisse in esilio su un’isola rocciosa, lontano dal centro del potere. Sapeva,
però, quanto fosse difficile raggiungere questo ideale.
L’ambizione politica e l’aspirazione a diventare una guida filosofica
scaturivano dalle medesime profondità della sua psiche: dal desiderio di sentirsi
al sicuro in patria e di controllare il mondo mutevole che lo circondava, anziché
trovarsi costantemente scagliato ai suoi margini opposti. Seneca fu per tutti i suoi
anni un vero outsider e un vero insider. Come un pendolo, la sua vita si
avvicinava e si allontanava costantemente da Roma e dal centro del potere: dalla
Spagna a Roma; da Roma all’Egitto e ritorno; da Roma alla Corsica e ritorno, e
poi una lunga e dolorosa serie di vacillamenti e tentativi di sottrarsi alla corte
neroniana, fosse pure per rifugiarsi nella sicurezza della tomba.
Questo libro rintraccia i paradossi derivanti dal suo tentativo di conquistare
l’imperium, che è a un tempo «controllo», «dominio» e «impero», sia nella sfera
pubblica sia nella sfera personale: il tentativo, cioè, di esercitare la propria
influenza sugli altri nella società e insieme di trovare la stabilità al proprio
interno. La frase citata in esergo – «Il dominio di se stessi è il massimo dominio»
– è tratta da una delle Lettere morali a Lucilio (113, 30), nella quale Seneca
esamina il rapporto problematico fra i due tipi di imperium. Coloro che cercano
di conquistare il mondo e ottenere il potere politico, militare ed economico
valgono molto meno di coloro che riescono a conquistare il dominio di sé
(imperare sibi maximum imperium est); detto in altri termini: il massimo del
potere è l’autocontrollo. L’attività di scrittore e filosofo consentiva a Seneca di
proiettarsi verso un’alternativa alla politica e all’ambizione, per cercare di creare
un modello interamente suo del «vero» potere: un impero dentro la propria
mente.
Ma significherà pur qualcosa il fatto che l’immagine cui ricorre per descrivere
tale alternativa appartenga al mondo dell’esteriorità? Il controllo di sé è definito
nei termini del controllo politico, e di un controllo politico di una specie
particolare: l’impero. I suoi tentativi di contrapporre all’impero di Nerone
l’impero della filosofia non furono mai coerenti fino in fondo: tra l’uno e l’altro
si verifica sempre una forma di osmosi. Per esempio, l’acuta percezione che
Seneca ha della vacuità del lusso non può essere scissa dalla sua esperienza di
vita fastosa. Egli sapeva bene di che cosa parlava. Aveva toccato con mano
l’impossibilità di comperare la pace dell’anima con la ricchezza: se non fosse
stato così ricco, non avrebbe avuto la stessa consapevolezza dei pericoli e dei
vantaggi del denaro. Seneca non era né un mostro né un santo: era un uomo di
talento, ambizioso, con un carattere profondamente meditativo, un uomo che si
dibatteva alla ricerca di un difficile compromesso fra i suoi ideali e i poteri
costituiti, costantemente teso verso il raggiungimento di un equilibrio fra
aspirazioni e realtà. Come creare un Sé autentico, come dimorarvi pienamente e
che cosa si intenda per autenticità: sono temi, questi, che occupano un posto
centrale nei suoi scritti, e sarebbero di per sé sufficienti per capire quanto le sue
opere tocchino da vicino le ansie e le preoccupazioni del nostro tempo.
Seneca avrebbe voluto essere l’uomo più famoso e potente di Roma, ma anche
vivere in uno stato di calma perfetta, in pace con se stesso, senza l’assillo della
paura e dei sensi di colpa che lo accompagnarono per tutta la vita adulta. La sua
intelligenza e il suo peso letterario e politico furono eccezionali, ma non
altrettanto eccezionali furono i suoi desideri, apparentemente contraddittori e per
molti versi tipici delle forti pressioni cui erano sottoposte le élite romane del
tempo. Dopo una lunga ed estenuante fase di guerre civili, la repubblica era
morta definitivamente con la battaglia di Azio (31 a.C.) e con la vittoria e
l’ascesa di Ottaviano, poi Augusto, come unico reggitore dell’impero. Augusto,
tuttavia, non si proclamò re (per i romani rex fu sempre un termine
problematico), ma «primo fra eguali», princeps, termine da cui derivò
«principato», il nome dato al regno suo e dei suoi successori. Era l’unico uomo a
tenere in mano le redini dell’impero, ma si proclamava il «restauratore della
repubblica». Sotto Augusto e i suoi successori della famiglia Giulio-Claudia –
Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone – divenne tuttavia sempre più evidente che il
Senato, che era stato l’organo di governo durante la repubblica, aveva ormai
perso gran parte del suo potere, passato all’imperatore, alla corte e all’esercito,
senza il quale l’impero sarebbe collassato. Le antiche famiglie dell’aristocrazia
romana, tuttavia, esprimevano ancora un rispetto del tutto formale all’ideale
repubblicano e cercavano in ogni modo di persuadersi di detenere ancora un
potere reale. Il conflitto tra le istituzioni concrete e l’immaginazione politica
poneva le élite in una posizione di profonda contraddizione. Fra la realtà e le
forme di discorso accettate si era creato uno scollamento, che produceva una
cultura della dissimulazione: la finzione era un prerequisito del successo
politico. 8 I patrizi aspiravano ad affermare la propria virilità (da virtus, una virtù
tutta maschile) in un sistema politico che li aveva spogliati dei vecchi poteri.
Parlavano e scrivevano ricorrendo a un linguaggio ambiguo, che si prestava
sempre a più interpretazioni. Lo stile in voga, nei discorsi e negli scritti, era un
impasto di levigate arguzie aforistiche, una cascata di frasi che del vero avevano
soltanto il suono, quasi a compensare la sottostante paura della falsità. La
retorica non era più soltanto uno stile, ma un modo di stare al mondo. Di questo
stile Seneca fu maestro, e questa fu una delle sue eredità letterarie più
importanti. In un qualsiasi elenco delle citazioni latine più famose troveremo
sicuramente parecchi suoi aforismi, alcuni famosissimi, quali «La costrizione
solitamente ha più potere della devozione» (Le troiane v. 581); «A sé rivendica
tutti natura» (Fedra v. 352); «Il crimine si nasconde con il crimine» (Medea v.
721). Spesso gli aforismi manifestano preoccupazioni ricorrenti: la fortuna e i
suoi molti rovesci («Colui che il giorno, giungendo, vede superbo, / costui il
giorno, fuggendo, vede prostrato», Tieste vv. 613-614); i pericoli e la futilità
della ricchezza e dell’avidità («Non fanno re i tesori», v. 344); i temi della
regalità e dell’autorità («È re chi non temerà nulla», v. 388); i meccanismi
dell’ambizione e del potere («Chi domanda da timido suggerisce il rifiuto»,
Fedra vv. 593-594); la virtù e la forza di volontà («A dirigersi ai buoni costumi
non è mai troppo tardi», Agamennone v. 243); e la morte («Chi può esservi
costretto non sa morire», Ercole Furioso v. 426).
Queste preoccupazioni – e lo stile epigrammatico e incisivo con cui sono
espresse – erano tipiche dell’epoca, ma nessuno seppe formularle meglio di
Seneca. Per farsi un’idea di quanto fosse cambiata Roma dai tempi della
repubblica, è sufficiente dare anche soltanto uno sguardo a uno scrittore la cui
vita e le cui opere possono essere paragonate a quelle di Seneca: Cicerone. 9
Entrambi ebbero una formazione retorica e furono autori prolifici, entrambi
scrissero in versi e in prosa, comprese alcune opere filosofiche, ed entrambi
furono protagonisti sulla scena politica del loro tempo. L’uno e l’altro furono
figure controverse, accusate di doppiezza (Cicerone di indecisione e improvvisi
voltafaccia, Seneca di predicare bene e razzolare male); due uomini che
suscitarono profonda ostilità ma anche profonda amicizia. Entrambi furono
mandati in esilio e poi richiamati a Roma. E quando il vento politico non soffiò
più a loro favore, a tutti e due non restò che la morte: Seneca fu costretto a
suicidarsi per ordine di Nerone; Cicerone fu ucciso dai sicari di Antonio nel 43
a.C. La morte di Cicerone coincise con l’inizio della fine per la repubblica,
quella di Seneca con la fine del sogno che un intellettuale potesse guidare la
politica romana.
Le somiglianze e le differenze tra le due vite ci aiutano non soltanto a capire la
trasformazione subita da Roma nell’arco di soli cent’anni, ma anche quali
fossero le caratteristiche delle lealtà intellettuali e politiche di Seneca. L’uno e
l’altro appartenevano all’ordine equestre, ossia alla classe dei cavalieri, avevano
studiato retorica e filosofia e, dopo aver ricoperto la carica di console (il
consolato era l’ufficio più alto della carriera pubblica), erano entrati
automaticamente a far parte delle élite romane. La loro vita però fu molto
diversa. Cicerone era un celebre avvocato e aveva percorso a passo di carica
tutto il cursus honorum, salendo da un gradino all’altro non appena raggiunta
l’età richiesta. Seneca aveva intrapreso la carriera pubblica in età più matura, in
parte a causa della salute cagionevole e in parte forse perché meno interessato
alla vita politica, specialmente nel clima poco congeniale del regno di Tiberio.
La sua più grande aspirazione era dedicarsi allo studio della filosofia. Cicerone
declamava i suoi discorsi in tribunale e in Senato, e si considerava un oratore,
non soltanto un retore. Seneca scriveva i discorsi per Nerone, ma non ambiva a
pronunciarli di persona, forse anche perché, come lamentano le antiche fonti, il
suo era il tempo della «morte dell’oratoria», un’arte che, dopo Cicerone e il
tramonto della repubblica, aveva perso ogni potere di modificare gli assetti
politici. 10
Le differenze non finiscono qui. Cicerone e Seneca si situano agli estremi
dello spettro politico. Il primo, nonostante le tante indecisioni e i compromessi,
si batté a favore delle antiche istituzioni repubblicane. Il secondo apparteneva
all’impero e all’imperatore. Benché fosse animato da una profonda ostilità verso
alcuni sovrani come Caligola e Claudio (manifestata però soltanto dopo la loro
morte), e da una resistenza sotterranea nei confronti di Nerone, suo pupillo e
mecenate, Seneca era del tutto disinteressato alla restaurazione della repubblica e
non era pregiudizialmente avverso al principato in quanto istituzione.
Cicerone e Seneca avevano una visione diversa anche dell’importanza della
filosofia e della politica. Il primo componeva scritti filosofici soltanto negli
intervalli fra un impegno politico e l’altro e considerava la filosofia un mezzo e
non un fine: il suo scopo ultimo era la rinascita della repubblica. Per il secondo,
la filosofia era un fine in sé: con la sua abilità retorica, egli ambiva a trasformare
la forma mentis dei suoi lettori, non il sistema di governo. Al tempo di Cicerone
vi era ancora la percezione di poter mutare la realtà con l’azione politica, e il
grande oratore sperava davvero di provocare la caduta di Cesare e Antonio.
Seneca invece aveva perso ogni speranza di poter minimamente modificare il
regime esistente, opponendosi in modo diretto a qualcuno dei tre imperatori sotto
cui visse. Poteva tutt’al più sperare di arginare alcune delle tendenze peggiori di
Nerone e di rafforzare il più possibile la propria autonomia.
Sul piano letterario, invece, Cicerone fu un precursore fondamentale per
Seneca, il maggiore fra quanti avevano tentato di tradurre il pensiero filosofico
greco nella lingua latina. I riferimenti filosofici di Cicerone erano tuttavia molto
diversi da quelli di Seneca. Cicerone era un eclettico, interessato a varie scuole, e
nei tempi più bui, come durante il disperato dolore per la morte della figlia
Tullia, aveva setacciato tutti i movimenti del pensiero greco alla ricerca di
consolazione. E ogni tanto si diceva deluso che nessuna filosofia sembrasse in
grado di risolvere i problemi più gravi che lo affliggevano. Le sue simpatie
andavano principalmente all’Accademia, la scuola fondata in origine da Platone,
che si era evoluta ai tempi di Cicerone in una forma di scetticismo. Egli
effettuava però anche incursioni in altri campi, nell’epicureismo e nello
stoicismo. Le Tusculanae disputationes (Conversazioni di Tuscolo) sono una
vivace sintesi delle argomentazioni di derivazione stoica a favore della
tranquillità dell’animo, il cui scopo è aiutare il lettore, e l’autore, a superare il
lutto, il dolore e la paura della morte. Nel De officis (I doveri) Cicerone segue la
versione dello stoicismo mista a platonismo elaborata da Panezio nel II secolo
a.C. La sua analisi più ampia dello stoicismo e dell’epicureismo si trova nel De
finibus (Dei fini) trattato nel quale sintetizza, e critica, il pensiero degli epicurei e
degli stoici prima di esporre la propria visione.
Cicerone considerava totalmente irrealistica l’etica stoica: l’ideale dell’uomo
perfetto, cui ambiva la Stoà, non aveva alcun nesso con la realtà, come si
desume dall’orazione Pro Murena e da altri testi. E in fondo non era neppure un
ideale, perché il saggio non aveva nessun coinvolgimento emotivo con il mondo
in cui viveva. Cicerone era assolutamente contrario al raggiungimento
dell’apatheia, ossia l’assenza di passioni. Nelle Tusculanae (libri 3 e 4) sostiene
con forza la tesi che non è possibile, e neppure desiderabile, liberarsi dei
sentimenti del dolore, della rabbia e della paura.
Seneca, invece, riteneva lo stoicismo un modello prezioso per un politico
pragmatico situato al centro del potere romano, un altro segno di quanto fossero
cambiati radicalmente i tempi. In un mondo in cui la pace dell’animo era così
spaventosamente difficile da conquistare, era più che mai vitale aggrapparsi a un
ideale di tranquillità.
Lo stoicismo
Lo stoicismo, il movimento nel quale Seneca più si riconobbe, si proponeva di
offrire una prospettiva di felicità individuale in un periodo di grandi
sconvolgimenti sociali. L’uomo ideale, nella teoria stoica, è il sapiens, il saggio
in grado di comprendere pienamente la verità che nulla, tranne la virtù, conta
davvero. Raggiungere questa meta significa vivere in perfetta armonia con la
natura dell’universo.
Come movimento intellettuale, lo stoicismo esisteva già da oltre tre secoli
quando nacque Seneca, e in quei trecento e più anni aveva subìto vari
cambiamenti e conosciuto sviluppi importanti. Anche la storia della Stoà, come
quella di molte altre scuole, comincia con Socrate, in particolare con il Socrate
che indossava lo stesso mantello in estate e in inverno, era guidato da un segno
divino (daimonion), insegnava che era meglio subire un torto che infliggerlo e
sosteneva che nessuno compiva volontariamente il male. I concetti di ascetismo
(o «semplicità volontaria»), di provvidenzialismo (essere guidati da una forza
divina misteriosa ma del tutto affidabile) e una sorta di intellettualismo (tutte le
azioni malvagie sono dovute a errori di pensiero), accompagnati dall’insistenza
sulla bontà come componente primaria, e anzi unica, della felicità umana, furono
tutti coniati da Socrate e poi sviluppati dagli stoici.
Il secondo contributo lo diedero i cinici (termine che significa «simili a cani»),
chiamati spregiativamente così perché vagavano di villaggio in villaggio come
cani randagi. Il promotore di questa corrente fu, nel IV secolo a.C., Diogene, che
si dice abitasse dentro una botte e non possedesse nulla se non una ciotola di
legno. La leggenda vuole che un giorno, dopo avere visto un ragazzo povero
bere acqua dalle mani, egli gettasse via anche la ciotola, essendosi reso conto
che era anch’essa superflua. I cinici si presentavano come seguaci di Socrate e
praticavano ed esaltavano la povertà, sostenendo che i beni materiali distolgono
dalla vita virtuosa. La vera felicità e la pace dell’animo si possono conquistare
soltanto con l’autosufficienza, la quale è raggiungibile solo attraverso
l’indifferenza per le cose materiali e le false regole sociali. Il filosofo cinico,
come il fondatore della sua scuola, Diogene, trascorreva la vita nudo o vestito di
stracci, e defecava e fornicava in strada senza vergogna. Un giorno, racconta
un’antica leggenda, Alessandro Magno andò a visitare Diogene e gli chiese se
potesse esaudire qualche suo desiderio. «Sì, che tu ti tolga dal mio sole», replicò
il saggio. Alessandro non si offese: nel filosofo riconobbe uno spirito affine,
capace di ignorare le convenzioni umane. E il conquistatore del mondo
commentò: «Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene».
Il cinismo non attrasse folle di seguaci, e per ovvie ragioni: non erano molti
quelli che desideravano condurre la vita randagia di Diogene. Ma il nucleo
centrale della dottrina – la consapevolezza che le ricchezze materiali e lo status
sociale non portano sempre la felicità – affascinava un numero crescente di
persone. Nel III e II secolo a.C., con la caduta delle poleis greche e l’ascesa dei
grandi imperi (prima quello macedone e poi quello romano), quando il paesaggio
culturale, militare e politico nell’area mediterranea subì sconvolgimenti enormi e
terrificanti, le persone colte anelavano sempre più alla pace dell’animo e
cercavano conforto non nei grandi cambiamenti sociali bensì nella guarigione
spirituale. Tutti i grandi movimenti filosofici dell’epoca – cinismo, stoicismo,
epicureismo e scetticismo – promettevano ai propri adepti il raggiungimento
dell’atarassia, della serenità imperturbabile. La felicità (eudaimonia, in greco)
non consisteva nella gioia o nell’allegria estreme, né in conquiste o avvenimenti
esteriori, ma nella capacità individuale di mantenere una disposizione calma in
qualsiasi circostanza.
Lo stoicismo, rispetto al cinismo, può essere considerato una versione
socialmente più accettabile, intellettualmente più profonda e più compatibile con
i comportamenti non soltanto degli schiavi e dei diseredati, ma anche delle élite
ellenistiche e romane, costituite da persone che non volevano vivere seminude
dentro una botte, ma erano alla ricerca della pace dello spirito, dell’autostima,
della virilità e dell’autonomia in un mondo sempre più grande e sconcertante.
Non sorprende perciò che la dottrina stoica si diffondesse ampiamente.
La scuola stoica fu fondata intorno al 301 a.C. da un greco di nome Zenone,
che viveva ad Atene e in gioventù aveva avuto come maestro il cinico Cratete. In
che cosa consistesse con precisione il suo insegnamento è difficile dirlo, perché
di questo filosofo – come degli altri stoici greci – non possediamo nessuno
scritto. Fu comunque da Zenone che il movimento prese nome, o più esattamente
dal luogo in cui insegnava, la Stoa Poikile, il portico dipinto eretto nella parte
settentrionale dell’agorà di Atene.
Lo sviluppo sistematico dello stoicismo si deve a un filosofo di poco
posteriore, Crisippo, 11 il cui pensiero discende chiaramente dal cinismo. Gli
stoici, come i cinici, ritenevano che niente avesse valore tranne la virtù, che la
virtù fosse necessaria e sufficiente per la felicità e che per essere felici
bisognasse vivere in armonia con la natura. Essi, tuttavia, differivano dai cinici
su due punti fondamentali: attribuivano grande importanza alla ragione e
all’azione, compreso l’impegno politico. Mentre il cinico Diogene si era liberato
immediatamente di Alessandro, lo stoico Crisippo avrebbe discusso con lui e gli
avrebbe dato consigli sulla vita pubblica.
Dello stoicismo, come di tanti altri grandi movimenti intellettuali
dell’antichità, si parla come di una «scuola». Il termine «scuola» implica una
tradizione di credenze e pratiche condivise, non necessariamente un luogo fisico
comune, e non comporta un accordo totale su tutti i punti dottrinali. La
documentazione, frammentaria e insufficiente, che possediamo sullo stoicismo
greco induce a ritenere che il movimento, nel corso della sua storia, abbia subìto
numerosi cambiamenti. Gli studiosi distinguono di solito fra la prima Stoà, la
Stoà media (anche se fra i due periodi il divario è meno grande di quanto si
ritenesse un tempo) e infine lo stoicismo romano, caratterizzato da un interesse
crescente per l’etica. Spesso, comunque, anche in uno stesso periodo, i pensatori
avevano posizioni diverse. Seneca era un eclettico e, pur riconoscendosi
primariamente nello stoicismo, si abbeverava a varie altre fonti. L’adesione a una
scuola non comportava l’accettazione di tutti gli aspetti dottrinari tramandati
dalla sua tradizione: un movimento filosofico non era una fede. Seneca fu un
pensatore originale e creativo, e diede contributi nuovi e significativi alla
psicologia stoica.
Alcune nozioni fondamentali, tuttavia, furono condivise durante tutta la storia
del movimento dalla maggior parte dei suoi seguaci, incluso Seneca. Gli stoici
ritenevano che il mondo fosse governato da una ragione universale (fato, dio o
provvidenza), che guidava l’intera natura, si identificava anche con Giove o
Zeus ed era associata al fuoco primordiale. A questo principio «si addice
qualsiasi appellativo. Se vuoi chiamarlo fato non sbaglierai», scrive Seneca
(Questioni naturali 2, 45, 2). Nella fisica stoica il cosmo segue un modello
ciclico: a intervalli regolari tutto viene distrutto dal fuoco (ekpyrosis) e poi
ricostruito (palingenesis). La natura non è inerte né priva di un fine: l’intero
universo segue un modello fisso, predeterminato e sempre benevolo. È dunque
nell’interesse dell’umanità seguire la natura, che è sempre buona. Tuttavia,
nonostante la ferma credenza nel fato, gli stoici attribuivano grande importanza
alle decisioni individuali, ritenendo che gli esseri umani avessero sempre la
facoltà di scegliere se conformarsi alla volontà dell’universo, oppure opporvisi.
Nella visione di Seneca, il saggio che adegua i propri desideri a quelli di dio
diventa seguace di dio; lo sciocco, che non si adegua a ciò che non può non
essere, è semplicemente suo schiavo (La provvidenza 5, 6-7).
Virtù e conoscenza sono dunque strettamente connesse. Molti movimenti
filosofici dell’antichità, fra cui il platonismo, ritenevano che l’anima dell’uomo
contenesse elementi sia razionali sia irrazionali. Non così gli stoici, per i quali
gli esseri umani erano un tutto unico, non una collezione di parti diverse, e quel
tutto era totalmente razionale. Ovviamente, essi erano soggetti a falsi
ragionamenti e a credenze errate, ma era proprio il fallimento della ragione a
condurli all’infelicità e alle azioni malvagie. In una simile concezione, la logica
non poteva che occupare un posto preminente. Gli stoici ritenevano l’umanità
perfettamente in grado di comprendere l’universo ed erano convinti che la
felicità dipendesse dalla nostra capacità di ragionare correttamente. Il pensiero
ideale era quello capace di conformare la mente alla volontà razionale che
governava l’universo. Gli stoici erano logici sofisticati e fecero grandi progressi
nel settore della logica formale: i loro avversari li deridevano spesso per i
ragionamenti astrusi e l’amore per il paradosso.
L’etica era, ed è, la sfera più discussa della filosofia stoica, la più stimolante o
la più irritante, a seconda dei punti di vista. Il modello è il «saggio»: al maschile,
naturalmente, perché quasi tutti gli stoici e i loro simpatizzanti, compreso
Seneca, partono dal presupposto che l’essere umano ideale sia uomo e
stabiliscono una correlazione fra virtus e vir, fra virtù e virilità, anche se alcuni
pensatori, e in particolare Gaio Musonio Rufo, un giovane contemporaneo di
Seneca, ritenevano le donne perfettamente in grado di diventare filosofe. 12
Il saggio è sempre pienamente consapevole che la sola virtù è sufficiente a
rendere felici: tutto il resto, compresi il piacere, il dolore, la salute, la ricchezza e
la libertà, appartiene agli «indifferenti». O tutto o niente: non ci sono vie di
mezzo. Il saggio agisce sempre, in ogni istante, in modo virtuoso, e possiede
tutte le virtù. È sempre guidato dalla sapienza, anche nel compiere gesti
apparentemente normali, che possono apparire non particolarmente virtuosi,
come nutrirsi o lavarsi, e i suoi atti sono sempre dettati dalla saggezza, dal
coraggio, dalla temperanza e dal senso di giustizia. Al contrario, coloro che
saggi non sono non possono mai agire in modo virtuoso, neppure quando
compiono atti all’apparenza buoni, come per esempio salvare un bambino dal
fuoco, oppure neutri, come mangiare, perché sono sempre in uno stato di vizio.
Non solo: il saggio è il solo a essere libero e autosufficiente; tutti gli altri, anche
quando sembra che compiano delle scelte, in realtà si trovano costantemente in
uno stato di schiavitù metafisica (Cicerone, De finibus). Per illustrare questo
paradosso gli stoici ricorrevano alla metafora dell’annegato: non occorre un
oceano d’acqua per annegare, dicevano, bastano pochi centimetri d’acqua sopra
la tua testa per impedirti di respirare.
Si tratta, naturalmente, di affermazioni paradossali, e non è difficile capire
perché l’etica stoica suscitasse tanta derisione. Del resto gli stessi stoici
ammettevano che il vero saggio è una rara avis, forse non esiste neppure: non è
facile essere perfettamente virtuosi e perfettamente saggi. Qual era dunque lo
scopo pratico di questo ideale? Se dal punto di vista della virtù un malvagio reale
non è peggiore di chi compie qualche piccolo fallo, per quale ragione dovremmo
cercare di migliorarci? Che significato ha la parola «progresso», se la virtù è
qualcosa che si ha o non si ha?
Gli stoici, in realtà, riservavano molto spazio al percorso verso la virtù e
all’educazione necessaria per proseguire il cammino. Essi operavano una netta
distinzione fra lo svolgimento di una «funzione corretta» (kathekon) e
l’esecuzione di «un’azione totalmente corretta» (katorthoma). Alla prima
categoria appartiene qualsiasi atto che sia in accordo con la natura (mangiare,
respirare, eseguire esercizi fisici appropriati e così via), e le funzioni corrette
possono essere compiute non solo da tutti gli umani, ma anche dalle piante e
dagli animali. Chi non è saggio può addestrarsi, magari con l’aiuto di un
maestro, a eseguire in modo corretto un numero crescente di funzioni e avanzare
così verso la piena consapevolezza della reale natura dell’universo. Forse non
raggiungerà mai la saggezza, ma già il provarci è di per sé uno sforzo degno.
Molti, come faceva scherzosamente notare il poeta satirico Luciano,
accusavano gli stoici di essere completamente fuori dal mondo. 13 In teoria,
dicevano, si può ammettere che sia più importante essere buoni che ricchi, ma
quanti, messi di fronte alla scelta fra ricchezza e miseria, preferirebbero la
seconda? Gli stoici affrontarono teoricamente il problema e introdussero una
categoria intermedia, quella delle cose non del tutto buone né del tutto cattive:
«gli indifferenti» (adiaphora). Non avevano difficoltà ad ammettere che, a parità
di valore, era preferibile non essere torturati, imprigionati, resi schiavi, ridotti in
miseria, disonorati, morire, veder morire i propri cari o subire una malattia
dolorosa o debilitante. Dice Epitteto: «Delle cose, alcune sono buone, altre
cattive; beni sono le virtù e ciò che partecipa delle virtù; mali sono i contrari;
indifferenti sono la ricchezza, la salute e la fama» (Diatribe 2, 9, 15). Le cose
indifferenti non sono commensurabili con il valore della virtù: non si può dire
che una quantità x di tortura sia meglio di una quantità x di vizio. Ma per gli
stoici il saggio, anche sotto tortura, anche mentre viene mutilato, reso schiavo o
sottoposto alle peggiori umiliazioni, è libero e felice, e, finché la sua virtù resta
integra, conduce la vita ideale.
La promessa dello stoicismo, cui si deve gran parte della sua attrattiva, è che
chiunque riesca a formarsi un approccio corretto all’universo godrà di una vita di
gioia pura. Lo stoico non reprime l’ansia, la rabbia o il dolore, come si ritiene
comunemente; egli non si lascia turbare, o meglio ledere, da nessuno di questi
sentimenti. «L’invulnerabilità non consiste nel non essere colpiti, ma nel non
restare feriti» (La costanza del saggio 3, 1-4).
Nel movimento stoico esistevano posizioni significativamente diverse sulla
valutazione da attribuire agli «indifferenti preferiti». 14 La questione crebbe
d’importanza a mano a mano che aumentava il numero degli stoici attivi nella
vita pubblica e nella politica, e costituì uno dei temi fondamentali per Seneca.
Panezio di Rodi, che scriveva nel II secolo a.C., apportò alcune modifiche
importanti allo stoicismo tradizionale greco, rendendolo più flessibile, più
eclettico, più incentrato sugli aspetti pratici del comportamento e meno sulle
astrazioni logiche e metafisiche. Egli insegnò per un certo periodo a Roma e fu
uno dei pensatori che più influirono sugli stoici latini, compresi Cicerone e
Seneca, il cui stoicismo differisce dalle forme precedenti per l’interesse (tipico di
Panezio) per le scelte pragmatiche, la psicologia e gli impulsi naturali.
Per Seneca lo stoicismo non era un’attività intellettuale astratta, bensì una
guida pratica non solo nelle decisioni importanti, ma anche nelle piccole
abitudini quotidiane. Nella sua vita egli scelse più volte fra gli indifferenti
preferiti e gli indifferenti non preferiti: preferì Roma all’esilio, la grande
ricchezza a un benessere modesto, un altissimo prestigio a corte alla vita umile
di provincia. Nei suoi scritti risuona ossessivamente la domanda se indulgere
«agli indifferenti preferiti», quali il denaro e gli onori, sia d’ostacolo al cammino
verso il valore vero, che è la virtù. Lo stoicismo gli consentiva di giustificare la
sua preferenza per cose indifferenti quali la salute, la ricchezza e il lusso in
contrapposizione all’esilio, alla tortura o alla morte, ma il timore che le cose
indifferenti potessero intorbidare il pensiero, perché troppo facilmente
confondibili con il bene vero, non lo lasciò mai.
Al tempo di Seneca, lo stoicismo non era l’unica corrente filosofica a
disposizione delle élite romane, e non era neppure la scelta più ovvia. C’erano i
peripatetici (i seguaci di Aristotele); c’era l’Accademia (fondata da Platone);
c’erano i cinici (citati con ammirazione da Seneca); c’erano i pitagorici e la
scuola indigena dei Sestii, con i quali Seneca sentiva un’affinità particolare. Era
molto influente anche l’epicureismo (dal nome del fondatore, Epicuro), secondo
il quale il valore essenziale per gli esseri umani non era la virtù ma il piacere. A
differenza però degli edonisti – detti anche cirenaici, dal loro fondatore,
Aristippo di Cirene – con i quali venivano spesso ingiustamente confusi, gli
epicurei non proponevano una vita dedita all’appagamento dei sensi. Epicuro
insegnava anzi che il modo migliore per raggiungere il piacere fisico era una vita
di moderazione, perché l’eccesso, per esempio nel mangiare e nel bere, finiva
per provocare più dolore che piacere. E insegnava anche che i piaceri e i dolori
più forti non sono fisici, ma mentali. L’acme del piacere e la liberazione dalla
sofferenza psichica si raggiungono soltanto superando la paura della morte,
comportandosi con gentilezza e giustizia verso il prossimo ed evitando le
turbolenze della vita pubblica. L’ideale epicureo è una vita tranquilla in
compagnia degli amici più intimi, trascorsa nella contemplazione dei moti
casuali dell’universo atomico.
L’adozione del pensiero stoico ebbe per Seneca implicazioni politiche
importanti, perché gli stoici, a differenza degli epicurei che propugnavano il
distacco dalla vita pubblica, avevano una lunga tradizione di impegno civico.
Epicuro diceva: «Nasconditi mentre vivi la tua vita». Seneca scelse invece
l’impegno, ma aveva letto Epicuro (e gli altri epicurei) e ne teneva in grande
considerazione le idee, che spesso cita con apprezzamento nelle Lettere morali a
Lucilio, composte in un periodo in cui era alla disperata ricerca di un modo per
ritirarsi a vita privata.
L’approccio di Seneca allo stoicismo è, per certi versi, peculiare. Egli parla
costantemente di suicidio, di morte e di brevità della vita, molto più spesso e più
a lungo di quanto non avessero fatto i filosofi greci. E rispetto ai greci accentua
il côté pratico, più che teoretico, del pensiero stoico. Seneca diede un contributo
notevole e originale all’analisi della psicologia, tracciando per esempio una
distinzione netta fra gli impulsi involontari e le emozioni vere e proprie. I suoi
scritti sono importanti anche perché non furono composti in greco, che era la
lingua tradizionale della filosofia, ma in latino, e lo sono anche per la grande
abilità letteraria e retorica con cui egli esplora le idee filosofiche e
semifilosofiche. Seneca era uno scrittore non meno che un filosofo.

LO SCRITTORE, L’UOMO

Nella storia culturale e intellettuale dell’Occidente, Seneca sarebbe una figura


eminente anche se non fosse vissuto a contatto con Nerone. La sua capacità di
essere profondamente originale, in una gamma di generi letterari molto più
ampia di quella di gran parte degli autori antichi, ha del prodigioso. Il suo stile è
inconfondibile, ricco di arguzie e paradossi, e così flessibile da adattarsi a
molteplici mutamenti e punti di vista. La sua versione pragmatica, di grande
acutezza psicologica, dello stoicismo e i suoi eroi tragici, ossessionati
dall’ambizione e dallo spirito di vendetta, esercitarono un’influenza profonda
sulla cultura occidentale dei secoli successivi.
Certo, anche se non avesse scritto una sola parola, Seneca sarebbe ugualmente
passato alla storia per il ruolo di precettore e consigliere di Nerone. Pochi
intellettuali hanno goduto di un potere e di un prestigio politico pari al suo. Il
rapporto fra la produzione letterario-filosofica e l’ascesa vertiginosa – e fragile –
fino all’apice del successo costituisce uno degli aspetti più affascinanti della sua
vita, condotta all’insegna di una lotta strenua per conciliare l’attività intellettuale
con l’impegno politico e sociale. La sua era una situazione irta di pericoli,
paradossi e compromessi, ed egli ne ebbe sempre piena consapevolezza.
Questo libro si propone di dipanare il complesso rapporto fra la produzione
letteraria di Seneca e gli eventi e gli atti della sua vita. Chi scrive è ben
consapevole del rischio di cadere in un circolo vizioso, deducendo la vita
dall’arte o ricorrendo all’arte per illustrare o investigare la vita. La speranza è di
riuscire a mostrare come ciascuna componente di questo binomio getti luce
sull’altra. Negli scritti di Seneca si coglie costantemente l’eco di avvenimenti
biografici, un’eco, però, che non ci restituisce mai un’immagine perfetta. Il
contesto sociale, storico e personale in cui i suoi testi furono concepiti ne rende
più ricca la lettura. Essi, a loro volta, consentono di vedere con maggiore
chiarezza che cosa significasse vivere al tempo in cui visse Seneca, patire l’esilio
e l’esclusione sociale, salire ai gradini più alti della società imperiale ed essere
ogni giorno alle prese con i pericoli e le sfide che quell’altezza comportava.
Il capitolo I del volume ricostruisce le origini di Seneca nella provincia
iberica, il trasferimento nei suoi primi anni di vita a Roma e l’ambiente
familiare, con una madre colta e un padre autore di scritti sulla retorica e
l’educazione. Alcune pagine del capitolo sono dedicate proprio al lavoro di
Seneca il Vecchio, perché esso getta luce sul rapporto di questa figura dominante
con i tre figli maschi e sull’educazione ricevuta dal «nostro» Seneca, fondata
sullo studio della letteratura e della retorica, ma anche della filosofia. In queste
pagine si analizzeranno le influenze esercitate dai suoi maestri di filosofia e si
accennerà brevemente ai problemi di salute e alle difficoltà di respirazione che lo
tormentarono soprattutto in gioventù.
Il capitolo II illustra una serie di viaggi compiuti da Seneca: prima in Egitto,
per trascorrervi una lunga convalescenza dopo numerose gravi crisi di
respirazione, poi il ritorno a Roma e l’avvio della carriera politica sotto Tiberio,
Caligola e Claudio, quindi l’accusa di una relazione adulterina con Giulia
Livilla, lo scandalo e l’esilio in Corsica.
Il capitolo III ci riporta a Roma: Seneca, ormai sulla soglia dei cinquant’anni,
viene richiamato nella capitale da Agrippina, che gli affida l’educazione del
figlio Nerone. In queste pagine si esaminano le tante tensioni e contraddizioni
del suo ruolo di precettore del giovane principe, e in particolare il paradosso di
un filosofo che predica l’ascetismo e accumula enormi ricchezze alla corte
imperiale.
Il capitolo IV esamina la vita e le opere degli ultimi anni di Seneca, i ripetuti
tentativi di ritirarsi a vita privata e infine la morte a lungo attesa. L’Epilogo
evidenzia alcuni momenti cruciali della fortuna di questo scrittore-filosofo-
politico nella tradizione occidentale. Mostra come la sua brama di ricchezza e
saggezza, di potere e gentilezza, di flessibilità e costanza anche nelle circostanze
più tempestose e atroci, abbia suscitato scandalo, censure e desiderio di
emulazione, non solo nel cristianesimo delle origini e nel Rinascimento, ma
anche nei secoli successivi fino ai nostri giorni.
La vita e le opere di Seneca sono sempre state, fin dalla sua morte, una fonte
di attrazione, anche se non sempre accompagnata da altrettanta ammirazione. La
sua Roma, come oggi la Gran Bretagna, l’Europa e in particolare gli Stati Uniti,
era un luogo di grandi diseguaglianze sociali. Le popolazioni di quei primi
decenni dell’impero erano, proprio come noi, prese nel vortice di enormi
cambiamenti politici, culturali ed economici. Roma era da poco riemersa da una
serie di devastanti guerre civili ed era nel pieno travaglio della difficile
transizione dalla repubblica al governo di un uomo solo, sostenuto dall’esercito.
I rapidi e straordinari successi militari avevano reso il mondo molto più
centralizzato. Il divario fra i ricchi e i poveri era spaventoso, le classi alte
avevano acquisito ricchezze inimmaginabili per i loro antenati e avevano a
disposizione un’infinità di prodotti di lusso, importati dai quattro angoli
dell’impero. Contemporaneamente, però, le élite avevano perso quasi tutto il
potere politico di cui avevano goduto ai tempi della repubblica e con esso anche
il senso di sicurezza e di identità. Lo sfarzo esibito non era un buon surrogato
dell’autostima. Seneca esprime con grande efficacia le pressioni esercitate dal
consumismo trionfante: «Povero non è chi possiede poco, ma chi desidera di
più» scrive nelle Lettere morali a Lucilio (2, 6). Questo è uno dei temi centrali
della sua opera: chi si circonda di un eccesso di ricchezze materiali, in una
cultura come quella romana, caratterizzata dalla competizione per lo status
sociale, rischia di lottare ossessivamente per procurarsi «beni» che sono irreali,
quando non nocivi; nuove vesti, nuovi mobili, nuove case, pietanze elaborate,
divertimenti eccitanti e violenti, titoli onorifici, promozioni, potere sociale,
ammirazione e altro ancora non danno né vera felicità né vera soddisfazione. E
tuttavia la fame di queste cose insoddisfacenti non è mai sazia ed è quasi
impossibile da placare. La soluzione, però, sostiene Seneca, non sta nel ritirarsi
completamente dal mondo. Da stoico pragmatico qual era, egli cercò
costantemente di impegnarsi nel mondo senza perdere la propria integrità. Della
difficoltà di questa sua ricerca era perfettamente consapevole, e questa è una
delle tante ragioni per cui i suoi scritti e la sua biografia hanno ancora tante cose
da dirci.

a. Confragosa in fastigium dignitatis via est (Lettera 84, 13).


I
«SAGACE È LA SOLLECITUDINE DEI GENITORI» a

Tradizione vuole che una biografia cominci dal luogo di nascita, dalla famiglia e
dall’infanzia del protagonista. Tutte cose, afferma Seneca, che non hanno alcuna
importanza:

Considera il valore che ha in sé e per sé il fatto che io sia nato: ti accorgerai che è qualcosa di
poco conto e indeterminato, una materia per il bene o per il male, senza dubbio è il primo
passo per ogni sviluppo, ma non è il più importante perché è il primo.
(I benefici 3, 30, 2)

Con queste parole, pronunciate nel contesto di un dialogo sui favori e la


gratitudine, Seneca mette in discussione la convenzione greco-romana secondo
cui i genitori – in particolar modo i padri –, per il solo fatto di averli concepiti,
godono nei confronti dei figli di un credito tale che quel primitivo dono
parentale non potrà mai essere interamente ripagato, qualsiasi cosa essi facciano
nella vita. Non è così, dice Seneca; i figli possono anche superare i padri e
regalare ai genitori e al mondo molto più di quanto hanno ricevuto: «I semi sono
la causa di tutte le cose, e tuttavia sono una parte piccolissima di ciò che
generano» (3, 29, 4). Nessuna legge di natura prescrive che il figlio debba
necessariamente vivere all’ombra del padre. Dopotutto, non sempre i primi anni
di vita sono i più significativi: «C’è una grande differenza fra ciò che è primo
cronologicamente e ciò che è primo per importanza» (3, 34, 1).
Il biografo potrebbe prenderlo in parola e giudicarlo soltanto in base alla sua
vita pubblica e professionale, calando un velo sopra la sua infanzia e
adolescenza. Ma commetterebbe un errore, perché dietro tale retorica si
intuiscono chiaramente ragioni biografiche e psicologiche. Secondogenito di un
uomo agiato, di successo, con un carattere forte, e di una donna di buona
famiglia e istruita, con due fratelli brillanti e colti, Lucio Anneo Seneca aveva
buoni motivi non solo per volere essere considerato uno che si era fatto da sé, ma
anche per proclamare che tutti gli esseri umani sono il prodotto di qualcosa di
diverso dal retaggio familiare. Seneca figlio era uscito dall’ombra del padre e dei
fratelli attraverso lo studio, il pensiero e gli scritti filosofici. Questo discendente
di una famiglia facoltosa ma provinciale aveva conquistato una fama
straordinaria e aveva perciò tutto l’interesse a ridimensionare il ruolo che la
famiglia e l’educazione svolgono nella vita di un individuo. Nei suoi scritti egli
critica più volte il concetto romano di nobilitas, in base al quale l’eccellenza si
eredita dai padri e dagli antenati. Il modello di eccellenza che egli propone ha un
carattere molto più egualitario: ogni individuo, o meglio, ogni individuo di sesso
maschile, è responsabile del proprio successo. Nei suoi scritti filosofici
l’autonomia è un tema ricorrente. Il sapiente stoico, che è l’ideale senecano, non
dipende dagli altri, è sempre libero, sempre felice, e non ha bisogno di niente e
di nessuno.
E tuttavia l’importanza che egli attribuisce alla possibilità che un figlio sia
superiore al padre in termini morali, sociali ed economici è rivelatrice del suo
modo di rappresentarsi sulla scena pubblica nella tarda maturità e forse anche
della sua autorappresentazione. La sua ascesa fulminea era da un canto
irrilevante – «nascere è una cosa di poco conto» –, ma dall’altro era motivo di
orgoglio e di ansia.
Seneca il Giovane – così chiamato per distinguerlo dal padre, Seneca il
Vecchio – nacque intorno all’1 a.C. (o poco prima) a Cordova, nel sud della
penisola iberica, una città lontana dal centro del potere romano. I biografi più
antichi esaltano la strepitosa carriera di questo provinciale, che sale fino ai
vertici della società romana, diventa precettore, consigliere e autore dei discorsi
dell’imperatore Nerone, sotto il quale accumula enormi ricchezze. In realtà
Seneca non era il primo scrittore latino a provenire dalla periferia dell’impero.
Quasi tutti gli autori più famosi del periodo classico (I secolo a.C. - I secolo
d.C.) non erano nati a Roma: Virgilio era di Mantova, Ovidio di Sulmona,
Orazio di Venosa e Cicerone, più vecchio di una generazione, era nato ad
Arpino, una cittadina collinare a sud della capitale. E non era neppure l’unico a
provenire dalla Spagna: erano iberici il suo contemporaneo Columella e il poeta
epico Lucano (nipote di Seneca), e nella generazione successiva arrivarono a
Roma l’epigrammista Marziale e il retore Quintiliano.
Per i suoi contemporanei, la scalata sociale di un uomo che, partito da
condizioni relativamente modeste, era arrivato fino alla corte imperiale, era
motivo d’orgoglio. 1 In una delle sue Controversiae, Seneca il Vecchio inserisce
una nota per spiegare che Roma stessa era di umili origini e che gli uomini
provenienti dal contado e approdati fra le élite di governo svolgevano un ruolo
fondamentale. Nella diatriba, in cui si discute se un aristocratico possa sposare
una donna non appartenente alla sua stessa classe, si cita come esempio la storia
di un gentiluomo che, catturato dai pirati, sposa la figlia del capo dei bucanieri,
con la disapprovazione del padre.

Che cosa pensate di coloro che dall’aratro vennero a glorificare la repubblica? Svolgete il
rotolo della vita di un qualsiasi aristocratico e arriverete alle sue umili origini. Perché parlare
di singole persone, quando posso mostrarvi la città stessa?
Un tempo questi colli erano spogli e fra le ampie mura non c’era niente di più grandioso di
una piccola capanna. Ora su di essa splende il Campidoglio, con tetti spioventi e lucente di
oro puro. Potete biasimare i romani se esaltano le loro umili origini, anche quando potrebbero
celarle? Niente che non appaia sorto da qualcosa di piccolo sembra loro grande. 2
(Controversiae 1, 6, 4)

«Svolgete il rotolo della vita» dice l’autore, così come si srotolava un papiro
per leggere un testo a partire dalla prima riga. Le biografie delle élite –
suggerisce la metafora – sono sempre facili da raccontare, perché sono tutte
identiche. Il rotolo di papiro della vita di un nobile narra sempre la stessa storia:
l’ascesa da origini umili ai gradini più alti della società.
Tutte le città sono nate dal nulla, anche se molte non amano ricordarlo. Nella
Roma del I secolo a.C., invece, l’idea della mobilità sociale era un tema
ricorrente. Roma era diventata una potenza mondiale con straordinaria rapidità e,
con la conquista improvvisa di un impero, il cambiamento sociale era la norma
per i suoi cittadini. Accanto all’orgoglio, però, nel passo citato delle
Controversiae si percepisce anche una punta d’ansia. Gli «uomini nuovi»
tendevano non tanto a vantarsi della propria rapida ascesa sociale, quanto delle
umili origini. Il narratore sa che potrebbero levarsi voci critiche verso quei
parvenu che non riuscivano a nascondere le proprie radici contadine. Il menarne
vanto può essere dettato dall’orgoglio, ma anche dall’apprensione. I romani,
sembra dire Seneca il Vecchio, rivendicano le loro origini modeste, non come
accade in altre culture più ipocrite. Non sono come i greci, che sono campioni di
doppiezza: i romani dicono la verità sui propri antenati. In questo modo, egli
riesce ad affermare un principio e il suo contrario: da un lato sostiene che i
romani sono buoni (cioè onesti), perché risoluti a non nascondere la propria
provenienza, potenzialmente vergognosa, dall’altro, che essi non hanno niente di
cui vergognarsi, nessuno scheletro nell’armadio. Anzi, quelli che dall’aratro
sono «venuti a fare il bene della repubblica» sono i personaggi più illustri del
canone politico e morale romano, primo fra tutti Cincinnato, il nobile del V
secolo a.C., che lavorava i suoi campi quando fu chiamato a governare da solo
Roma per sconfiggerne gli invasori e, dopo essere stato al comando per appena
sedici giorni, era tornato ad arare la terra. 3 Arrivare al centro del potere
imperiale partendo dal basso era dunque un modello profondamente radicato
nell’immaginario culturale romano. Pochi, però, conobbero un’ascesa tanto
vertiginosa come quella di Seneca il Giovane e furono così profondamente
immersi nel cuore stesso dell’impero.
Lucio Anneo Seneca – il suo nome era identico a quello del padre – trascorse
l’infanzia in una Roma dove la cultura dominante relegava al margine la sua
lingua e cultura nativa, quella celtica. Fu per lui sicuramente un’esperienza
formativa. 4 I suoi scritti comunicano infatti tensione e dialogo fra voci
molteplici, una caratteristica, questa, che alcuni studiosi hanno definito
essenzialmente «teatrale». Si potrebbe però altrettanto giustamente parlare di una
profonda consapevolezza della presenza di differenze ideologiche e culturali, che
con ogni probabilità si era sviluppata in lui durante l’infanzia. Nel I secolo a.C.
Cordova era attraversata da varie linee di faglia, fra cui la divisione fra i romani
e i nativi ispanici (chiamati rispettivamente Hispanienses e Hispani) e la
divisione fra i sostenitori di Giulio Cesare e i sostenitori di Pompeo. Le guerre
civili ebbero infatti un impatto enorme sulla regione.
Cordova, però, non era un sonnolento angolo provinciale: per molti versi era
vicina ai centri del potere quanto un piccolo borgo italico. Nel I secolo a.C. la
città era una fiorente colonia romana (fig. 2) e, anzi, era la principale città della
Spagna Ulteriore e una delle prime colonie romane fondate nella penisola
iberica. 5 Aveva grandi risorse naturali: sorgeva ai piedi della catena montuosa
della Sierra Nevada, sul fiume Guadalquivir, ed era circondata da una pianura
fertile, ideale per l’agricoltura. Situata nell’estremo sud della Spagna, poco più a
nord dello stretto di Gibilterra e dell’antica città di Cartagine, era anche un
importante centro di commerci.
Cordova non era nata come colonia provinciae, bensì come colonia latina,
una definizione che comportava un diverso statuto giuridico: gli abitanti di una
colonia latina non godevano della cittadinanza romana. Ma al momento della
nascita di Seneca la città era salita di grado, e le élite, come la famiglia degli
Annei, erano cittadini romani a tutti gli effetti, con gli stessi diritti di tutti i
cittadini dell’impero. 6
2. Cordova oggi. La sua principale attrattiva turistica è la Grande Moschea, costruita nel X secolo, quando
la penisola iberica era sotto il dominio islamico. La lunga occupazione romana è testimoniata dal ponte e
dai resti del tempio.

I cordovani erano in parte iberici e in parte romani; questi ultimi erano i


veterani dell’esercito di Roma. Una città fondata da un governo imperiale
assoluto potrebbe far pensare a un luogo di grandi tensioni sociali, in cui i nativi,
gli Hispani, godevano presumibilmente di uno status più basso rispetto agli
Hispanienses, che provenivano dall’Italia. I documenti, invece, suggeriscono una
mescolanza sorprendentemente armoniosa fra le due popolazioni, per lo meno al
livello delle élite. I turdetani (l’antica popolazione stanziata nella valle del
Guadalquivir) si erano completamente romanizzati, scrive lo storico greco
Strabone, e avevano persino dimenticato la loro lingua. I nomi che compaiono
nelle iscrizioni più antiche di Cordova sono latini e iberici in proporzione più o
meno identica, tanto da far supporre che i nativi e i loro dominatori si spartissero
il potere, e i matrimoni misti fossero frequenti. 7 La famiglia degli Annei, cui
apparteneva Seneca, era probabilmente il frutto di un matrimonio di questo tipo:
il nome Annaeus pare non sia romano. 8 Il compromesso fra gruppi sociali
diversi era dunque una prassi consolidata nella storia di questo nucleo familiare.
La Spagna fu un paese difficile da conquistare. Giulio Cesare aveva
soggiogato la Gallia in appena dieci anni, ma ce ne vollero quasi duecento prima
che i romani detenessero il pieno controllo della penisola iberica. Secondo lo
storico Simon J. Keay, essa fu per gran parte di questi due secoli «una zona di
guerra». Il suo territorio ricco di risorse era molto appetibile. «Subito dopo
l’Italia» scrive Plinio «io metterei la Spagna con tutte le sue regioni circondate
dal mare. Sebbene in parte sia aspra e incolta, là dove produce è però feconda di
cereali, di olio, di vino, di cavalli e di miniere di ogni genere.» Confrontandola
con la Gallia, egli afferma che la quantità di olio e di vino prodotta è più o meno
la stessa, ma «la Spagna è superiore per lo sparto prodotto dai suoi deserti, per la
pietra speculare, e anche per le sue tinture lussuose, per il fervore nella fatica,
per l’attività dei suoi schiavi, per la durezza fisica degli uomini, per la
passionalità del loro cuore» (Plinio, Storia naturale 37, 77). La Spagna
contribuiva perciò in misura consistente allo sfarzo ostentato dalle élite romane.
I suoi abitanti, naturalmente, potevano godere in modo più diretto delle sue
ricchezze naturali, dall’agricoltura alla viticoltura. Columella, che fu quasi
contemporaneo di Plinio (4-70 d.C.), nacque e crebbe nella città di Gades –
l’attuale Cadice – e dopo avere servito per un certo periodo nell’esercito, tornò
nelle campagne della sua terra e scrisse uno dei manuali di agricoltura più
influenti nell’impero romano, il De re rustica, che ci è stato tramandato. È
probabile che Columella e Seneca si conoscessero e condividessero la passione
per la viticoltura; Columella elogia Seneca (uomo di eccezionale talento ed
erudizione) e la sua abilità nel dirigere le coltivazioni della sua villa: «La zona di
Nomento è molto famosa, soprattutto la parte posseduta da Seneca, sulle cui
terre abbiamo saputo che ogni iugero di vigna produce di solito quaranta ettolitri
di vino». 9 Seneca stesso trascorse forse la sua prima infanzia in un podere che
produceva olive e uva, sotto l’abile direzione della madre Elvia. 10 La passione
per l’agricoltura lo accompagnò per tutta la vita, e negli anni della maturità
coltivò la vite nei suoi possedimenti italiani.
I cordovani potevano essere orgogliosi dei successi riportati dai giovani Annei
a Roma, dove studiarono e divennero famosi. Un epigramma in latino lamenta
l’esilio di Seneca il Giovane come la peggiore catastrofe abbattutasi sulla città in
tutta la sua storia, una catastrofe peggiore persino delle guerre civili di Pompeo,
Cesare e altri ancora:

Cordova, sciogli i tuoi capelli, triste sia il tuo volto,


piangi e invia doni per le mie ceneri.
Cordova, ora leva fin lungi il lamento per il tuo poeta,
Cordova, questo è il più triste di tutti i tuoi giorni. 11

Il sentimento di lealtà verso Seneca, ammesso che fosse davvero sentito dai
cordovani, forse non era del tutto ricambiato. Nei suoi scritti sono rari i
riferimenti alla Spagna, ma di tanto in tanto egli accenna a una particolare
nostalgia per la provincia in cui è nato. Nella lettera 66 ricorda l’assedio,
condotto dal generale romano Scipione, della città di Numanzia, rasa al suolo nel
133 a.C. durante la terza guerra punica: «Grande è Scipione ... ma grande è
anche il coraggio degli assediati» (Lettera 66, 13). Seneca avrebbe avuto buoni
motivi per schierarsi con le popolazioni delle province, che i romani spremevano
con i tributi e, a volte, come durante l’assedio di Numanzia, sterminavano senza
pietà. Ma egli trascorse buona parte della sua vita al servizio dei dominatori, e
soltanto qua e là nelle sue opere compare un cenno di empatia. Seneca si scrollò
alla svelta dai sandali la polvere cordovana e fu in seguito accusato di abusi
finanziari per avere prestato ai britanni denaro a tassi altissimi e averne poi
richiesto all’improvviso la restituzione. Ammesso dunque, e non concesso, che
nell’intimo egli parteggiasse per le province, una cosa è certa: non permise mai
ai suoi sentimenti di interferire con il profitto.
Madre e figlio

Dov’è quella gioia di bimbo che si rinnovava ogni volta che vedeva sua madre?

(Consolazione alla madre Elvia 15, 1)

Sull’infanzia di Seneca non abbiamo nessuna notizia certa. Si suppone che sia
cresciuto come molti altri figli delle classi alte del suo tempo. Che abbia
trascorso gran parte della giornata giocando con i fratelli: erano tre,
probabilmente molto vicini per età. Che abbia avuto dei giocattoli: bambole,
cubetti di legno, statuette, perline, carri e armi finte (fig. 3). I bambini amano
molto i balocchi, osservava da vecchio Seneca, citando questo amore come
esempio della vanità dei desideri umani: «I fanciulli ... apprezzano qualsiasi
giocattolo, tanto da anteporre ai genitori e ai fratelli collanine da quattro soldi»
(Lettere morali a Lucilio 115, 8). Noi, si domandava altrove, che siamo ancora
lontani dalla perfetta saggezza, non siamo forse come tanti marmocchi che si
trastullano con i loro gingilli? Qual è la differenza?

Se i fanciulli sono avidi di gettoni, noci e monetine, costoro [gli adulti] invece sono avidi di
oro, argento e città; se i fanciulli gestiscono fra di loro le magistrature e imitano la pretesta, i
fasci e il tribunale, costoro fanno sul serio il medesimo gioco nel Campo, al foro e nella curia.
(La costanza del saggio 12, 2)
3. Seneca bambino aveva probabilmente giocattoli simili a questo cavallo di legno dipinto.

In un passo precedente dello stesso trattato Seneca aveva evocato


l’aggressività innocente e inconsapevole dei bambini verso il padre e la madre:

I fanciulli colpiscono i genitori sul volto e il pargolo tante volte spettina la mamma e le
strappa i capelli o le sputa addosso, oppure scopre le sue vergogne davanti alle persone di casa
e dice senza riguardo parole oscene: eppure non chiamiamo offesa nessuno di questi atti.
(11, 2)

L’infanzia è un’età della vita che merita indulgenza: i piccoli non possono
evitare di essere maldestri o di sbavare. Ma Seneca non si abbandona mai al
sentimentalismo: la fanciullezza è uno stato da cui si deve cercare di uscire al più
presto, con l’aiuto della filosofia.
Chi era la persona che il piccolo Seneca graffiava e bagnava di saliva? Le cure
e le attenzioni quotidiane dei più piccoli erano affidate agli schiavi: nutrici, balie,
insegnanti, musici, intrattenitori e medici. Sarà stato uno schiavo o un liberto a
insegnargli a leggere, probabilmente con le tavolette di cera e forse con dei
modelli per tracciare le lettere dell’alfabeto. E siccome soffriva già di attacchi di
bronchite e forse di asma, sarà stato probabilmente seguito da uno o più medici,
che di solito erano schiavi o liberti greci. L’esperienza della malattia fu uno dei
tanti fattori che favorirono la sua propensione alla filosofia, soprattutto nelle
forme più ascetiche. Si abituò sicuramente fin da bambino ai regimi di vita tipici
dei malati cronici: vigilanza costante e grande attenzione alla dieta, esercizio
fisico, e la routine quotidiana che nell’antichità era, ancora più di oggi, una
componente cruciale della pratica terapeutica. L’abitudine a prestare una
particolare cura a se stesso e a cercare ogni giorno di procedere verso un ideale
irraggiungibile di sanità perfetta lo accompagnò per tutta la vita. Negli scritti
della maturità, l’attenzione si sposta dalla salute del corpo alla salute spirituale,
che è l’aspirazione del filosofo stoico. Ma il metodo, basato sull’autocontrollo,
su un’accurata gestione dell’attenzione e del tempo, e infine sull’esercizio
quotidiano, è molto simile.
Nei suoi primi anni Seneca passò sicuramente molto tempo con la madre: i
padri lasciavano in genere alle donne di casa la cura dei bambini, finché non
fossero usciti dalla prima infanzia e non avessero avuto l’età per iniziare la
«vera» educazione, fondata sulla retorica e la filosofia. Elvia probabilmente
allattò il figlio al seno, perché questa pratica era considerata una delle antiche
virtù delle matrone romane, anche se si era appena diffusa la moda di affidare i
neonati alle balie. La madre fu una figura fondamentale per Seneca nella prima
fase della sua vita e continuò ad avere un’influenza importante anche in
seguito. 12
Forse Elvia era una romana proveniente dall’Italia, conosciuta da Seneca il
Vecchio durante uno dei suoi frequenti viaggi nella capitale. O forse, ed è più
probabile, apparteneva all’élite ispano-romana di Cordova. Era una donna di
buona famiglia, benestante e con ottime relazioni, ed era piuttosto istruita. La
madre di Elvia era morta dando alla luce la figlia, che perciò era cresciuta con
una matrigna, ma aveva saputo farsi voler bene, tanto che quel rapporto
notoriamente difficile si era trasformato in un rapporto filiale. Si presume che la
donna avesse almeno una figlia biologica, una sorellastra che sarebbe stata per
Elvia una sorella a tutti gli effetti; solo così si spiegherebbe quello che sembra un
vero e proprio enigma: Seneca infatti la definì «figlia unica» e affermò tuttavia
che aveva una sorella, zia dello stesso Seneca. Questa zia, come vedremo, ebbe
un ruolo importante nella vita del nipote, diventando la sua protettrice negli anni
della gioventù. Elvia era cresciuta in una famiglia «antiquata e rigida», scrive il
figlio, e quei princìpi la guidarono per tutta la vita. All’epoca della sua nascita le
famiglie delle classi alte avevano cominciato a impartire un’educazione letteraria
alle fanciulle. La prassi era controversa: il protagonista di una delle satire di
Giovenale – di una generazione più giovane di Seneca – proclama che «le donne
non dovrebbero conoscere tutta la storia». «Odio» dichiara «la donna che si rifà
di continuo al Metodo di Palemone, senza sbagliare mai una regola di lingua e,
ostentando le sue anticaglie, cita versi a me sconosciuti» (Satire 6, 451-454).
Come succede spesso nelle satire di Giovenale, i versi, più che contro
l’apparente bersaglio, vanno a discredito del narratore, che fa la figura
dell’idiota, lamentandosi che le donne sono capaci di un rigore intellettuale di
cui lui è privo. Ma battute antifemministe del genere erano tutt’altro che rare.
Certo, questo non era il caso di Seneca, che aveva un grande rispetto per
l’intelligenza e la tempra della madre, e per tutta la vita ebbe per amiche donne
forti e istruite, come Agrippina, la madre di Nerone, e sua sorella Giulia Livilla.
Il legame con la madre e la zia educò Seneca a considerare le donne, se non alla
pari, almeno come persone degne di profondo rispetto. Era stata probabilmente
Elvia a introdurlo allo studio della storia e della poesia, gettando così i semi di
un amore, durato per tutta la vita, per Virgilio e Ovidio, i cui versi egli non si
stancò mai di citare. Seneca si dispiace che alla madre non sia stato permesso di
proseguire gli studi, manifestando un sentimento di critica implicita al padre
ormai morto.

Magari mio padre, che pure fu ottimo marito, non si fosse arreso del tutto alle consuetudini
degli antichi e avesse voluto che tu approfondissi i precetti della filosofia e non ne avessi
soltanto una infarinatura!
(Consolazione alla madre Elvia 17, 4)

Elvia si sposò probabilmente giovanissima: fra le élite romane, le fanciulle si


maritavano subito dopo la pubertà. Al momento del matrimonio, la giovane
sapeva probabilmente già leggere e scrivere e aveva una conoscenza di base
della letteratura e della storia. Da questa sua educazione limitata Elvia seppe
trarre il massimo: «Il tuo ingegno, avido di apprendere, ti ha aiutato a ricavarne
più di quanto il tempo non permettesse» (ibid.).
Quasi tutto quello che sappiamo di Elvia proviene dall’unico scritto dedicatole
dal figlio, la Consolazione alla madre Elvia, il quale lo compose per confortarla
al momento del suo esilio. Naturalmente si tratta di una creazione letteraria,
destinata a un pubblico, ed è cosa ben diversa da una lettera privata ai familiari,
come quelle di cui oggi può spesso disporre un biografo. Il testo senecano
appartiene al genere ben radicato della «consolazione», una composizione in cui
i lettori si aspettano che l’autore esponga i rimedi tradizionali per elaborare il
lutto e altri turbamenti emotivi, e così facendo dia prova della propria maestria
retorica, un compito che Seneca esegue sicuramente alla perfezione. Fra l’altro,
egli aveva anche motivi personali per presentare nella luce più favorevole la
madre e il suo rapporto con lei. Con questa Consolazione Seneca si proponeva di
rassicurare i propri lettori sull’integrità morale – e soprattutto sessuale – sua e di
tutta la famiglia, dopo lo scandalo per adulterio in cui era stato coinvolto e di cui
si parlerà nel capitolo II. Si comprende così perché insista tanto sulla dirittura
morale della madre, della quale tesse il panegirico, esaltandone non soltanto le
doti intellettuali, ma anche la straordinaria castità. Elvia era sempre modesta nel
vestire, mai tentata «da gemme e pietre preziose ... Non ti sei mai vergognata
della tua fecondità» nascondendo la gravidanza sotto ampie vesti, «non ti sei
imbrattata il volto con colori e belletti ... Come tuo massimo onore hai scelto la
pudicizia» (16, 3-4). Tutti questi elogi vanno presi con le pinze. Quello della
madre è un ritratto stilizzato, che segue i canoni tradizionali della casta matrona
romana.
Detto questo, non c’è ragione di dubitare che Elvia fosse una donna
intelligente, istruita, rispettabile e rispettata, che vestisse con sobrietà, fosse
devota ai figli e desiderosa di vederli affermarsi nel mondo. Forse Seneca aveva
con la madre un rapporto particolarmente stretto, che si nutriva non soltanto di
una corrispondenza emotiva, ma anche di uno scambio intellettuale. Elvia amava
molto stare in sua compagnia ed egli era il suo confidente e consolatore, il figlio
al quale si rivolgeva nei momenti più bui, e del quale apprezzava molto gli studi
e le opere (15, 1-4). Altrettanto grande era il piacere che la compagnia di Elvia
dava al figlio, un piacere che egli sottolinea, rievocando «quella sua gioia di
bimbo, che si rinnovava ogni volta che vedeva la madre» (15, 1). Sono parole
che parlano di una continuità fra la fanciullezza e la maturità, alimentata
attraverso un legame forte fra madre e figlio.

Il padre e i fratelli

Non impariamo per la vita, ma per la scuola.

(Lettera 106, 12)


Il rapporto con il padre non fu all’insegna della gioia – un sentimento che non
compare mai in relazione alla figura paterna – ma delle pressioni. Seneca il
Vecchio sperava ovviamente che tutti e tre i suoi figli si affermassero nella vita
pubblica (conseguendo ricchezza e prestigio) e aderissero ai valori romani
tradizionali. E fu lui a volere un’educazione precoce del suo secondogenito e ad
avviarlo allo studio della retorica e della filosofia.
Il figlio scrisse una biografia del padre, che però è andata perduta. Di lui
sappiamo comunque molto, perché ci è stata trasmessa buona parte delle sue
opere. Seneca il Vecchio proveniva da un’agiata famiglia dell’ordine equestre.
L’élite romana era suddivisa in classe senatoriale e classe equestre: gli equestri,
vale a dire i «cavalieri», appartenevano al rango inferiore dell’aristocrazia, non
alla borghesia, che non esisteva nella Roma antica, dove un divario enorme di
ricchezza e status sociale separava non soltanto i senatori ma anche i cavalieri
dai lavoratori manuali e dai mercanti. Gli Annei non appartenevano ai vertici
della società romana, ma erano comunque benestanti e privilegiati, ancora prima
dell’ascesa stratosferica di Seneca il Giovane, che salì fino a insediarsi nel cuore
della corte imperiale.
Il padre si chiamava Lucio Anneo come il suo secondogenito, o forse Marco
Anneo Seneca. Nato intorno al 54 a.C. e morto a più di novant’anni verso il 38 o
39 d.C., fu testimone delle guerre civili e dei primi anni del principato. Era
ancora bambino al tempo del cruciale conflitto fra Cesare e Pompeo, culminato
con la vittoria di Cesare e il suo breve periodo di dittatore a vita, prima che fosse
assassinato nel 44 a.C. All’inizio la famiglia degli Annei si schierò
probabilmente con Pompeo, ma poi cambiò in fretta schieramento e, negli anni
seguenti, tenne ben celate le precedenti lealtà politiche. Le guerre non ne
intaccarono comunque le finanze. Il giovane Seneca imparò presto a piegarsi a
seconda di come cambiava il vento della politica: era un’abilità che scorreva
nelle vene del suo ceppo.
Per tradizione i ricchi provinciali mandavano a Roma i figli maschi in
giovanissima età, perché studiassero retorica e filosofia. Seneca il Vecchio aveva
cominciato un po’ più grandicello, perché durante le guerre civili era pericoloso
viaggiare, ma nel 44 a.C., quando aveva una decina di anni – era puer, dice, cioè
preadolescente –, era già nella capitale. Qui studiò retorica e ascoltò i più grandi
oratori dell’epoca, un’esperienza che lo segnò profondamente, tanto che, quasi
ottant’anni dopo, sosteneva di essere ancora in grado di recitare parola per parola
i discorsi che aveva ascoltato da ragazzo e di ricordare persino i dibattiti cui
aveva assistito. Nel primo paragrafo della prefazione alle Controversiae egli
sostiene di poter estrarre dalla sua memoria tutto quello che vi aveva depositato
decenni prima. L’affermazione ha suscitato non poca incredulità, ma, anche se
non la si prende alla lettera, rivela comunque chiaramente che il clima
intellettuale dei dibattiti, animati da personalità affascinanti, aveva impressionato
molto il giovane, modellandone le idee sull’educazione fino alla maturità e alla
vecchiaia. Il suo idolo era Cicerone: Seneca il Vecchio detestava lo stile asiano,
ampolloso ed esuberante, che cominciava proprio allora ad affermarsi.
La sua carriera, tuttavia, non si svolse nel campo della retorica, ed è quindi
fuorviante chiamarlo Seneca il Retore, come accade spesso. Non sappiamo
esattamente di che cosa si sia occupato, ma è probabile che sia vissuto con i
proventi dei suoi possedimenti terrieri, con i prestiti di denaro a interesse (come
avrebbe poi fatto il figlio) e con il commercio. Godeva di una ricchezza
ereditaria, che in seguito incrementò grazie alla sua abilità commerciale, e fu
probabilmente perché era ricco che poté sposare Elvia, appartenente a una
famiglia che si suppone più prestigiosa. Seneca padre aveva anche ambizioni
letterarie, tanto che al momento della morte era intento a scrivere un libro di
storia. Oggi possediamo due sue opere sulla retorica, o meglio sulla
declamazione, dedicate ai tre figli maschi, ma in realtà rivolte a un pubblico più
ampio. In esse, intitolate Suasoriae e Controversiae («Persuasioni» e
«Dibattiti»), egli rievoca le declamazioni che più lo avevano affascinato in
gioventù.
La declamazione (declamatio) era un esercizio cui venivano sottoposti gli
aspiranti retori: un gruppo di ragazzi di buona famiglia o di adulti si addestrava a
trovare il giro di frase migliore e l’argomentazione più idonea per dibattere su un
argomento a piacere. La declamazione era al centro del sistema educativo
romano, perché preparava i giovani alla carriera politica e all’avvocatura, ma
veniva praticata anche in età più matura per puro divertimento (come usava fare
Cicerone) oppure come addestramento. Qualcosa di analogo avviene ancora oggi
in alcune scuole superiori e università statunitensi e britanniche, anche se al
tempo di Roma la declamazione era la disciplina culturale predominante. La sua
funzione era chiaramente pedagogica e sociale, un importante tirocinio alla vita
pubblica e all’esercizio della professione forense, perché nella Roma antica, non
diversamente da oggi, gli avvocati e i politici godevano di grande potere, e per
avere successo avevano bisogno di apprendere l’arte della persuasione.
La declamazione aveva anche una funzione più ampia. In un mondo in cui non
esistevano i moderni mezzi di comunicazione, essa era una forma di
intrattenimento per le persone di cultura media e possedeva alcuni dei tratti tipici
delle moderne soap opera. Più che alle «Cronache dal parlamento», assomigliava
ai dibattiti processuali televisivi e attirava il pubblico con gli stessi ingredienti,
mettendo in scena crimini sensazionali e violenti. Il suo successo era dovuto
probabilmente non soltanto agli argomenti dibattuti, che erano necessariamente
molto stereotipati, ma anche alla maestria degli oratori. Alcuni declamatori erano
vere e proprie celebrità, in grado di avvincere gli spettatori non solo con
l’eloquio ma anche con la capacità di improvvisare e recitare come attori
professionisti. 13
Un gruppo di oratori, tutti probabilmente ben noti al pubblico romano, si
riuniva al centro del Foro, il luogo d’incontro nel cuore della città in cui si
svolgevano quasi tutti gli affari pubblici. Fra il chiasso e il trambusto dei
venditori ambulanti, degli intrattenitori, degli avvocati, dei politici e dei
compratori, andava in scena la declamatio. Si iniziava con il prologo, che
esponeva in breve l’argomento del dibattito. Per esempio:

Una moglie viene torturata da un tiranno che vuole scoprire se sa qualcosa del complotto del
marito per ucciderlo. La donna continua a negare. Poi il marito uccide il tiranno. L’uomo
divorzia dalla moglie perché non è riuscita a dargli un figlio in cinque anni di matrimonio. La
donna lo querela per ingratitudine.
(Controversiae 2, 5)

Quindi intervenivano a turno i vari oratori, prima i difensori della donna, poi
quelli del marito. Spesso era una sola persona a ricoprire i diversi ruoli,
immedesimandosi nell’uno o nell’altro personaggio. «Mettetela alla ruota!»
gridavano i torturatori. «Appiccate il fuoco! Il sangue è quasi secco là!
Squartatela, frustatela, strappatele gli occhi – mutilatela perché non soddisfi più
il marito come madre dei suoi figli!» Non è difficile capire perché queste scene
melodrammatiche esercitassero tanto fascino.
L’arte della declamazione latina discendeva dalla tradizione greca dei discorsi
pubblici, che erano nati allo scopo di divertire e istruire i cittadini. Quintiliano
(2, 4, 41) faceva risalire la pratica a Demetrio Falereo (IV secolo a.C.), mentre
Filostrato l’attribuiva ai più antichi sofisti greci come Gorgia di Leontini
(Filostrato 481). In Grecia i secoli d’oro della teoria e della prassi retorica furono
il III e il II a.C., dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), quando le città
greche erano sotto il dominio dell’impero macedone. Greci e romani ritenevano
che l’ascesa della retorica fosse connessa con la perdita di potere politico dei
cittadini. In un’epoca in cui le poleis erano escluse dai veri centri del potere, gli
uomini (non le donne, naturalmente) conservavano, o acquisivano, il senso della
propria virilità e autonomia culturale sviluppando le abilità retoriche e letterarie.
Lo sfoggio oratorio aveva perciò una funzione assimilabile a quella sociale e
psicologica esercitata dalla filosofia stoica, che, non a caso, cominciò a
diffondersi ampiamente proprio nello stesso periodo. L’addestramento, tanto
filosofico quanto retorico, dava alle élite romane, spogliate del potere politico, la
sensazione di controllare le situazioni e ne incrementava l’autostima. I figli
dell’aristocrazia non cercavano più il proprio imperium nel governo, ma in
mondi sociali e intellettuali più piccoli.
I romani imitarono i modelli culturali greci, inclusa la pratica del dibattito a
tema, che divenne una componente essenziale nella formazione dei giovani delle
élite, un tirocinio per la futura carriera politica e giuridica. Cicerone, racconta
Svetonio, declamò in greco fino a quando non divenne pretore e continuò a farlo
fino alla vecchiaia (Dei grammatici e retori 25, 3). Nella Roma imperiale,
tuttavia, la declamazione assunse caratteristiche significativamente diverse dal
modello greco. Seneca il Vecchio ne parla come di un fenomeno del tutto nuovo,
che egli conosce «fin dalla culla perché è nata dopo di me» (Controversiae 1,
Prefazione 12). Benché non del tutto nuova come egli pretendeva, l’oratoria
restrinse parecchio il proprio raggio d’azione: il suo impiego primario divenne
puramente pedagogico e scomparvero i grandi discorsi di carattere pubblico.
Nacquero nuove branche, quali la controversia (o dibattito), un esercizio di
preparazione al ruolo di avvocato difensore o accusatore nei tribunali, e la
suasoria (persuasione), un genere di declamazione volta a consigliare o
sconsigliare una determinata azione pubblica, i cui protagonisti erano talora
personaggi storici famosi, come Alessandro Magno. 14
Una delle ragioni per cui la declamazione acquisì tanto prestigio sotto il
principato fu probabilmente lo svuotamento sistematico delle istituzioni
pubbliche. Con l’accentramento del potere nelle mani di un uomo solo – da
Augusto ai suoi successori della dinastia Giulio-Claudia: Tiberio, Caligola,
Claudio e Nerone – il Senato perse gran parte della sua importanza e, di
conseguenza, anche l’oratoria politica perse il proprio potere. Ormai il diritto di
parola spettava soltanto all’imperatore: si può quindi immaginare quanto peso
avesse il ruolo ricoperto da Seneca il Giovane, che, sulla base del retaggio
educativo paterno, costruì la propria ascesa, diventando l’autore dei discorsi di
Nerone.
Benché la retorica non possedesse più, al tempo di Seneca il Vecchio e dei
suoi figli, il potere politico di cui aveva goduto sotto la repubblica, la
declamazione occupava ancora un posto di rilievo nella cultura romana, non solo
come disciplina curricolare nelle scuole di politica e di diritto, ma anche come
forma di intrattenimento. Le sue tecniche, sosteneva Seneca padre, potevano
giovare a tutte le professioni, compresa quella del filosofo. Lo stile della lingua
scritta, il modo di parlare, la rapidità di pensiero e la capacità mnemonica, tipici
della declamazione, impregnarono tutta la cultura latina dell’epoca. Agli allievi
veniva richiesto di trovare su ogni tema proposto argomentazioni convincenti a
favore e contro, e quasi tutti i giovani delle famiglie altolocate venivano educati
a parlare e pensare secondo queste modalità. Non conoscere i canoni della
declamazione significava essere socialmente esclusi.
Nelle sue opere Seneca il Vecchio ci ha trasmesso le voci dei grandi maestri
che prediligeva. Fra i più ammirati c’era un suo «carissimo amico», Marco
Porcio Latrone, originario anch’egli della Spagna (Controversiae 1, Prefazione
12), un uomo capace di trovare sempre l’approccio migliore per ogni argomento.
Sapeva interpretare qualsiasi ruolo, per lavoro o per divertimento; aveva una
memoria straordinaria e una profonda conoscenza della storia, era in grado di
tenere discorsi magnificamente strutturati, scorrevoli e sempre appropriati,
afferma ammirato Seneca padre, additandolo come esempio ai figli.
Anche Ovidio studiava declamazione, e nelle Controversiae Seneca il Vecchio
ricorda la lotta del compagno di studi per conformarsi ai vincoli del genere
declamatorio: poeta nato, anche quando cercava di imitare le battute migliori di
Latrone, finiva per convertirle in versi (2, 2, 8). Ovidio era un declamatore
straordinario, ma indisciplinato, e rifiutava di esibirsi a meno che non si trattasse
di soggetti amorosi. Nelle sue composizioni poetiche si compiaceva dei propri
errori, di cui era perfettamente consapevole: una volta gli amici gli chiesero di
eliminare tre versi di una sua poesia, ed egli acconsentì a patto che lo lasciassero
a sua volta scegliere tre versi da conservare, che avrebbe trascritto in segreto.
Quando li mostrò, i compagni scoprirono che Ovidio aveva scelto di salvare
proprio i tre versi che essi avrebbero voluto sopprimere (2, 2, 12). Seneca
racconta l’aneddoto senza alcun commento, ma nelle sue parole si coglie una
punta di ammirazione e insieme di disapprovazione per quel giovane che seguiva
così ostinatamente la propria ispirazione. Si intuisce che come padre avrebbe
voluto una maggiore obbedienza dai figli. E invece il poeta Ovidio, esiliato da
Augusto per i suoi versi licenziosi ma anche perché coinvolto nell’adulterio della
figlia, rappresentò sempre per Seneca il Giovane una fonte di ispirazione
letteraria e un modello irraggiungibile di libertà intellettuale, pagata a carissimo
prezzo.
Seneca padre era uno strenuo difensore della declamazione, in cui vedeva un
mezzo per educare i giovani ai valori romani, ma anche uno strumento duttile
per analizzare e raccontare storie. E di un difensore, la declamazione cominciava
in effetti ad avere bisogno, perché a Roma si stavano levando voci sempre più
ostili nei suoi confronti. Un personaggio di Petronio, contemporaneo di Seneca il
Giovane, la definisce un esercizio di suoni «leggeri e vani», e la incolpa di avere
«snervato e messo a terra il corpo del discorso» (Petronio, Satyricon 1). Tacito,
che appartiene a una generazione successiva, lamenta che lo stile declamatorio è
utilizzato per presentare soggetti lontani dalla vita reale (Dialogo sull’oratoria
35), e rimpiange il tempo in cui i giovani imparavano l’eloquenza osservando e
imitando i veri oratori nell’esercizio quotidiano della loro professione in
tribunale o nelle assemblee pubbliche: l’insegnamento avveniva «all’aperto»,
non al chiuso in aule finte, e gli allievi potevano assistere a dibattiti in cui gli
avversari non combattevano «con spade fasulle, ma con armi vere» (Dialogo
34). Anche Plinio ricorda con nostalgia il tempo in cui la retorica aveva un
potere reale in campo pedagogico e oratorio (Storia naturale 8, 14, 8). Giovenale
trovava insopportabilmente noiose le declamazioni, che chiamava «cavoli
riscaldati» (Satire 7, 155). Seneca il Vecchio, perciò, pur affermando che i
migliori oratori, come Latrone, erano da tempo scomparsi, difendeva un modello
di educazione in cui molti vedevano ormai un segno di declino culturale.
D’altra parte, il giudizio secondo cui la declamazione era del tutto sconnessa
dalla realtà, pur cogliendone il carattere teatrale, non era del tutto equo.
Nonostante la scarsa plausibilità degli argomenti trattati, i dibattiti consentivano
di esplorare aspetti importanti delle tensioni culturali del tempo. Osserviamo un
esempio tratto dalle Controversiae di Seneca il Vecchio: «Un padrone malato
chiese al suo schiavo di dargli del veleno, egli rifiutò. Il padrone lasciò scritto
nel testamento che i suoi eredi dovevano crocifiggere lo schiavo. Lo schiavo si
appella ai tribuni» (Controversiae 3, 9). Per poter dibattere su un caso del
genere, gli allievi dovevano cercare di caratterizzare il padrone e lo schiavo, e
perciò erano costretti ad affrontare il complesso nodo etico e giuridico della
schiavitù a Roma e dei rapporti fra l’una e l’altra categoria. La declamazione
offre quindi una lente con cui scrutare le preoccupazioni culturali dell’epoca
imperiale e vedere non soltanto come i romani argomentassero e perorassero una
causa, ma anche quali modelli di comportamento ritenessero plausibili o
ammirevoli.
Scopriamo così che nella vita culturale dell’epoca occupavano un posto
centrale le preoccupazioni riguardanti i rapporti fra padri e figli e la sessualità
femminile, considerata una forza dirompente e potenzialmente distruttrice. Erano
questi i problemi che gli allievi affrontavano nei loro dibattiti. Discutevano di
eredità contese, di comportamenti stravaganti, di tradimenti e spesso di castità,
seduzione e violenza carnale. Del rapporto madre-figlia si parlava molto poco.
La declamazione era un territorio tutto maschile, e le donne compaiono soltanto
come argomento di discussione, mai come partecipanti, e sono quasi sempre
sacerdotesse, prostitute, mogli e vittime di stupri. Le Suasoriae e le
Controversiae sono testi di estrema artificiosità, il cui scopo non è mettere a
nudo i sentimenti profondi di un padre verso la sua famiglia, ma permettere agli
oratori di esibire la loro perizia declamatoria. E tuttavia la lettura di questi scritti
offre qualche indizio sulla concezione che Seneca il Vecchio aveva della
paternità in generale e forse anche della propria.
La prefazione al Secondo libro delle Controversiae offre alcune indicazioni
particolarmente interessanti del rapporto di questo padre con i suoi tre figli. 15 E
lascia anche intravedere in quale considerazione egli tenesse il successo nel
mondo politico, finanziario e sociale, e quale valore attribuisse alla filosofia. Fra
le righe si intuisce che la sua era una famiglia molto competitiva, che i tre
maschi erano sempre in gara non solo fra loro ma anche con quel padre dal
carattere dominante, che cercava, con non poca abilità psicologica, di conservare
il controllo sui suoi eredi anche quando erano ormai adulti.
Quando nei suoi scritti si rivolge ai «ragazzi», questi sono già grandicelli – fra
i trenta e i quarant’anni – anche se il padre finge a scopo retorico che stiano per
intraprendere i primi passi della propria carriera. La dedica è a tutti e tre –
«Seneca, ai figli Novato, Seneca e Mela» – ma l’attenzione dell’autore si sposta
ben presto su uno solo, il più giovane, Mela, che vorrebbe dedicarsi alla
filosofia, anziché alla carriera politica o all’avvocatura. «Vedo che l’animo tuo,
non attirato dalla politica e alieno da ogni ambizione, una sola cosa brama: non
avere brame.» Il padre si affretta a precisare di non essere deluso dalla rinuncia
del figlio ad avere successo nel mondo, e assicura che non eserciterà su di lui
alcuna pressione: «Io non porrò mai ostacoli a nessuna tua valida aspirazione.
Volgiti dove l’animo inclina e, contento del rango di tuo padre, sottrai alla
fortuna la più gran parte di te» (Controversiae 2, Prefazione 3).
La maschera che Seneca padre indossa è quella del patriarca romano del buon
tempo antico, che per legge aveva diritto di vita e di morte su tutta la famiglia,
moglie e figli compresi. Nel momento stesso in cui lascia libero il suo
terzogenito di seguire la propria vocazione, egli sottolinea il suo potere di
concedergli o negargli il permesso di farlo. E la libertà che garantisce a Mela non
è totale: prima di dedicarsi agli studi filosofici, dovrà apprendere la disciplina
prediletta dal genitore, la declamazione. Quella era la via che aveva seguito
Fabiano, un filosofo della cerchia dei Sestii piuttosto noto (che forse ebbe anche
una certa influenza su Seneca il Giovane), il quale, prima di diventare filosofo,
aveva imparato a declamare. La lezione che il padre vuole impartire è chiara:
«Per giungere alle mete che tutto il tuo animo è impegnato a definire, l’esercizio
della declamazione ti sarà utile com’è stato a Fabiano» (2, Prefazione 4).
L’autore ricorre qui a un tipico tropo latino, l’exemplum, che consiste nel
proporre a modello morale qualche personaggio storico o mitico. 16 Quello che
non dice, però, è la ragione per cui la declamazione potrebbe essere uno
strumento utile per un futuro filosofo. E anzi, l’esempio che egli cita sembra
dimostrare esattamente il contrario: la formazione declamatoria era diventata per
Fabiano un ostacolo contro cui era costretto a lottare. Il suo maestro, Aurelio
Fusco, lo aveva educato a uno stile retorico molto fiorito, «effeminato», dal
quale Fabiano aveva cercato con fatica di liberarsi, senza mai riuscirvi
pienamente. E dunque la cattiva declamazione gli aveva nociuto. Nella maturità
era diventato meno prolisso, ma non si era mai spogliato totalmente della
tendenza all’oscurità, inculcatagli dalla scuola di retorica. Nello sforzo di reagire
all’insegnamento ricevuto, Fabiano aveva coltivato uno stile aforistico molto
controllato, che però diventava a volte così conciso da risultare incomprensibile.
Le sue frasi si troncavano spesso così bruscamente da essere monche più che
sintetiche.
L’exemplum di Fabiano si presta a due interpretazioni inconciliabili. La prima:
forse la passione per la filosofia contribuì a renderlo un oratore e un declamatore
migliore. Seneca padre narra infatti come egli sia riuscito a tenere a freno alcuni
vizi retorici appresi a scuola e a diventare un dicitore e uno scrittore meno
ampolloso. Il merito non è dunque della declamazione ma degli interessi e degli
studi filosofici. La seconda: le sue competenze filosofiche non avevano alcuna
relazione con l’abilità declamatoria appresa in gioventù, un’abilità che anzi
costituì un ostacolo per il suo sviluppo professionale successivo. In sostanza,
Fabiano riuscì a diventare un buon declamatore e un buon filosofo, nonostante la
pessima educazione ricevuta da Aurelio Fusco.
Una cosa però è chiara: al narratore non interessa tanto costruire un racconto,
coerente sul piano logico, sul genere di istruzione e di tirocinio intellettuale più
adatto a Mela, quanto promuovere le sue predilezioni. La declamazione in sé e
per sé non portava alla chiarezza del pensiero, ma allenava la memoria e
facilitava l’acquisizione di uno stile nitido e aforistico. E, soprattutto, abituava
l’allievo ad affrontare, da punti di vista diversi e in modo vivido, un’ampia
gamma di storie, senza preoccuparsi troppo della coerenza. L’esempio di
Fabiano serve perciò all’autore per esaltare la declamazione, stabilendo un suo
vago nesso con la filosofia, ma senza la minima intenzione di evidenziare un
collegamento preciso fra le due discipline.
Gli interrogativi sull’eticità della retorica circolavano già nel mondo greco
almeno fin dal tempo di Platone, che nel Gorgia puntava il dito contro l’abilità
oratoria, cui contrapponeva la filosofia. L’oratoria aveva invece trovato a Roma i
suoi difensori, i quali, per respingere gli attacchi dei filosofi, associavano le due
discipline. La virtù era un valore essenziale per gli oratori migliori. L’oratore,
diceva Catone il Vecchio, deve essere un uomo virtuoso, esperto nell’arte del
dire: vir bonus, dicendi peritus. Se non è un uomo dabbene, tutta la perizia del
mondo non basterà a farne un vero oratore. Cicerone, che condivideva questa
concezione, diede un contributo notevole alla creazione di un lessico filosofico
della lingua latina. La filosofia era per lui un rifugio, un’evasione dalle tensioni e
dalle ansie connesse con l’impegno in politica e nei tribunali, ma gli forniva
anche strumenti utili per comprendere e affrontare la vita pubblica. Cicerone
costituiva perciò un esempio di un possibile connubio fra politica attiva e vita
speculativa, un modello sempre presente nella mente di Seneca padre e ancora
più in quella del suo secondogenito.
Un tempo a Roma la filosofia era vista con sospetto: una disciplina importata,
aliena, una minaccia per i buoni valori della tradizione, che era basata su modelli
di vita esemplare e sui costumi degli antenati (mores maiorum). Catone il
Vecchio, detto anche Catone il Censore, aveva invocato la cacciata di tre filosofi,
che erano giunti nel 155 a.C. da Atene per diffondere nella capitale la
conoscenza della filosofia (Plutarco, Vita di Catone). Poi, però, i tempi erano
cambiati, l’ostilità dei romani verso la filosofia si era attenuata, e la disciplina,
pur suscitando ancora qualche diffidenza come potenziale veicolo di corruzione
delle antiche virtù, era diventata un cardine del curriculum scolastico delle élite.
Seneca figlio disegna il ritratto di una figura paterna di vecchio stampo: un
patriarca, religioso, tradizionalista e molto ostile alla filosofia. L’immagine però
è in contrasto con quanto il padre stesso aveva affermato, 17 quando aveva
espresso ammirazione per «gli insegnamenti elevati e virili» dello stoicismo
(Controversiae 2, Prefazione 1). Se Seneca il Vecchio avesse detestato la
filosofia, perché mai avrebbe incoraggiato il suo secondogenito a intraprenderne
lo studio? 18 Curiosamente, fra l’altro, nelle opere tramandateci, il figlio non dice
una parola sulla passione paterna per la retorica e neppure sulle sue abilità nel
mondo degli affari e della finanza. L’unica conclusione possibile è che egli abbia
lavorato di fantasia nel delineare il suo rapporto con il padre, e che l’abbia fatto
soprattutto per due ragioni. La prima: presentandosi come il discendente di un
uomo che era il sale dell’antica terra romana, egli rafforzava la propria
credibilità etica. All’autore delle Lettere morali a Lucilio non conveniva dirsi il
discendente di un parvenu, di un provinciale arricchito, che alimentava
l’ambizione della prole, amava dedicarsi agli esercizi retorici nei momenti di
ozio e si interessava un poco di filosofia (greca, per giunta!) soprattutto come
strumento di promozione sociale.
La seconda ragione di questo ritratto fittizio è di carattere più personale.
Probabilmente dipingersi come il prediletto di un padre devoto era confortante
per Seneca figlio, anche se era uno stravolgimento notevole della realtà, dal
momento che il padre aveva un debole per Mela, il minore dei suoi figli, e forse
non riservava la stessa considerazione agli altri due. Nelle Controversiae c’è un
passo, interessante e complesso, in cui Seneca il Vecchio si diverte a giocare con
l’etimologia del nome Mela, suggerendone la derivazione da melior
(«migliore»), per cui essere «Mela» significa già di per sé essere superiore ai
fratelli:

La tua intelligenza, maggiore di quella dei tuoi fratelli, era pienamente idonea a tutte le buone
arti, ma è prova di una intelligenza superiore anche non lasciarsi sedurre, dalla sua capacità, a
farne un impiego sbagliato. E poiché ai tuoi fratelli piacciono le mete ambiziose e si avviano
al foro e alle cariche pubbliche – dove anche i vantaggi che si sperano sono da temere –
persino io che pure l’avevo esortata e lodata anche se pericolosa, purché percorsa con onore,
ora che due miei figli hanno già preso il largo, cerco di trattenere almeno te nel porto.
(Controversiae 2, Prefazione 4)

L’atteggiamento verso il successo nella vita pubblica che Seneca padre


manifesta in questo passo è decisamente ambivalente. Egli riconosce che la
politica e la professione forense nascondono insidie di ogni genere, palesi e
sotterranee. Persino «i vantaggi che si sperano sono da temere», afferma: parole
che acquistano una risonanza inquietante, se si pensa alle vicende del suo
secondogenito come precettore e consigliere di Nerone. Un desiderio che si
avvera potrebbe anche essere una paura che si avvera: il padre aveva intuito fin
dall’inizio, con lucidità, i pericoli insiti nella carriera pubblica. Da un lato, egli
ricorda ai figli che il successo, per lo meno in politica, può costare molto caro e
comportare la perdita della propria identità etica e sociale. Dall’altro lato,
proprio mentre lancia il suo monito, spinge i figli su quella via così irta di
insidie.
Come interpretare il giudizio che Seneca il Vecchio dà delle capacità
intellettuali di Novato, Lucio e Mela? Non è sorprendente che attribuisca il
maggior talento, almeno in filosofia, non al più geniale dei tre, il secondogenito,
ma al minore? E se Mela avesse davvero avuto doti filosofiche innate e il padre
se ne fosse accorto? In questo caso, Lucio potrebbe essere stato spinto a uno
studio sistematico della filosofia dal desiderio di competere con il fratello
minore e conquistare finalmente l’approvazione paterna. Nei suoi scritti Seneca
il Giovane non nomina mai Mela, il futuro padre del poeta Lucano, sicché risulta
impossibile stabilire quale fosse il rapporto fra i due; il fatto però che non gli
dedichi alcuna sua opera e non lo citi mai per nome, mentre parla spesso, in
termini elogiativi, del fratello maggiore, Novato, sembra suggerire che non
nutrisse per lui un grande affetto. Chissà che anche il pensiero ricorrente di
ritirarsi dalla vita pubblica nella quiete della filosofia non nascesse dal desiderio
di essere più simile a Mela?
Nel passo delle Controversiae appena citato, il padre pone i due figli maggiori
di fronte a un dilemma irrisolvibile: da un canto, egli confessa di averli spinti a
dedicarsi alla magistratura e alla politica; dall’altro, attribuisce un valore morale
e intellettuale più elevato a colui che se ne tiene lontano. Quello paterno è un
imperativo impossibile da rispettare. Il talento di Mela, che rifiuta di applicarsi
ad altro che non sia la filosofia, è incorruttibile, osserva il padre. Di
conseguenza, gli altri due figli hanno già contaminato la propria purezza etica,
perseguendo (sotto il pungolo del padre stesso) la carriera pubblica. Sono
pressioni complesse e contraddittorie quelle esercitate da Seneca il Vecchio, che,
probabilmente, lasciarono un segno profondo nella formazione del
secondogenito, nei cui scritti si incontrano ovunque la paura e la colpa, così
come la tensione verso ideali etici e sociali sempre più elevati, irraggiungibili e
incompatibili fra loro.
Non è escluso, però, che il padre faccia anche buon viso a quello che potrebbe
sembrare un fallimento, difendendo Mela e ponendo le sue doti naturali al di
sopra di quelle dei fratelli. Quell’elogio lascia un poco perplessi, anche perché la
Prefazione alle Controversiae fu scritta verso la fine degli anni Trenta, quando le
capacità di Lucio e Novato erano ormai più che evidenti. Non resta allora che
una deduzione: affermando che il terzogenito era il più brillante dei suoi figli,
Seneca il Vecchio stava in realtà difendendo l’onore della famiglia. Quanto a
Mela, egli non era poi così totalmente votato alla filosofia come vorrebbe darci a
intendere il padre. Tacito lo definisce uno stratega più che un intellettuale. Mela
si era tenuto lontano dalla politica perché pericolosa; ne voleva i vantaggi ma
non i rischi: «Aveva evitato di partecipare alla corsa verso le alte cariche
pubbliche per una sorta di ambizione rovesciata, quella di eguagliare in potenza,
lui, semplice cavaliere romano, uomini di rango consolare» (Annali 16, 17),
convinto che la via più rapida per arricchirsi fosse diventare procuratore, cioè
amministratore dei beni del principe. Dei tre fratelli, soltanto il maggiore,
Novato, ebbe una carriera politica regolare (fu anche governatore dell’Acaia); gli
altri due, Lucio e Mela, divennero ricchi e potenti con mezzi meno
convenzionali. Le loro biografie costituiscono due risposte differenti
all’atteggiamento ambiguo verso la vita pubblica che il padre aveva inculcato nei
figli.
Seneca il Giovane esprime affetto e ammirazione per i fratelli in vari momenti
della vita, benché chiami per nome soltanto il maggiore, Novato. D’altronde non
è raro che il secondogenito, stretto fra il più grande e quello più piccolo, si trovi
a cercare di imitare entrambi. Come Mela, Lucio desiderava essere un filosofo
distaccato dalle cose del mondo, al di fuori e al di sopra della mischia politica, e
conquistarsi la stima di quel padre dominante. Ma, come Novato (che assunse in
seguito il nome di Gallione dal senatore che lo adottò), desiderava farsi strada in
politica: un altro modo per conquistare il plauso paterno e, probabilmente, anche
materno. E, come Novato, sperava di riuscire a coniugare il successo nella vita
pubblica con l’integrità morale. Nelle sue opere egli esprime spesso
ammirazione per il fratello maggiore. Scrive per esempio a Lucilio: «Ero solito
dirti che mio fratello Gallione, che tutti, compresi quelli che non potrebbero
amarlo di più, amano troppo poco, gli altri vizi non li conosce, e questo lo odia»
(Questioni naturali 4, Prefazione 10). E ne esalta il fascino straordinario e
l’onestà assoluta. Nella descrizione di questa personalità perfetta, che non scende
mai a compromessi, ed è impermeabile alle lusinghe e al biasimo, si coglie una
lieve traccia di invidia. Se qualcuno tentasse di adularlo, dice in un altro punto
delle Questioni naturali, Novato non gli rimprovererebbe la dissimulazione, ma
lo «respingerebbe» (Prefazione 12). Forse tante lodi nascondono anche una certa
preoccupazione, il timore che l’adorato fratello maggiore potesse non ammirare
l’eccezionale rango politico ed economico di cui Lucio godeva, lo giudicasse e,
dentro di sé, lo condannasse per i mezzi con cui aveva raggiunto i suoi fini.
Nella Consolazione alla madre Elvia egli ricorda la lunga strada percorsa da
Novato e Mela: «Uno, con la sua attività, si è fatto una carriera nello Stato,
l’altro, per saggezza, non se ne è dato pensiero» (18, 2). Entrambi, però, hanno
effettuato le proprie scelte anzitutto per onorare la madre: Novato ha optato per
la vita pubblica per darle lustro, Mela ha preferito una vita ritirata per trascorrere
più tempo con lei. E perciò «la dignità del primo ti è di difesa, la libertà del
secondo ti dà gioia. Andranno a gara nel servirti, ed il rimpianto che hai per un
figlio sarà ben ripagato dall’affetto degli altri due. Posso dirti in tutta sicurezza:
avvertirai soltanto la diminuzione del numero» (18, 3). Ora che egli è in esilio,
Novato e Mela faranno a gara per colmarla d’amore, e la perdita di un figlio sarà
compensata dalla vicinanza degli altri due. E così, con il suo virtuosismo
letterario, Seneca riesce ad assicurarsi, anche mentre è al confino, l’attenzione
materna.

L’educazione, la filosofia, la malattia

Gli studi furono per me la salvezza.

(Lettera 78, 3)

Seneca figlio fu condotto a Roma da piccolo, fra le «braccia» della zia, la


sorellastra di Elvia (Consolazione alla madre Elvia 19, 2). Probabilmente con
loro c’era anche lo zio, anche se non viene menzionato. Il padre doveva già
essere nella capitale e forse aveva portato con sé il figlio maggiore, Novato. Le
parole con cui Lucio Anneo descrive il suo viaggio inducono a pensare che
avesse pochi anni, tanto che viaggiò sulle ginocchia della zia; era già, invece,
abbastanza grande, quando il padre gli presentò il grande oratore, poeta e
politico Pollione, che morì intorno all’anno 5 d.C. Zia, o zii, e nipote partirono
quasi certamente in primavera e percorsero le solide strade romane, che da
Cordova conducevano al Mediterraneo con la raeda, un carro coperto, robusto e
capiente, trainato da una muta di cavalli, di muli o di buoi, che aveva una portata
di mille libbre romane (327 kg) e poteva trasportare diverse persone e parecchi
bagagli (fig. 4). Al loro seguito, mentre percorrevano le strade montane, diretti
verso uno dei porti della costa orientale della Spagna (forse Tarraco o Barcino,
ora Tarragona e Barcellona), avevano sicuramente un folto gruppo di schiavi. La
sera i viaggiatori sostavano in qualche squallida locanda, infestata dai pidocchi e
dalle pulci, finché, arrivati al porto, si imbarcavano. Forse la nave faceva scalo
per una notte in Sardegna o in Corsica, prima di approdare finalmente a Ostia, il
porto più vicino a Roma. Il viaggio durava quasi tre settimane. 19

4. Seneca compì probabilmente il suo primo viaggio a Roma insieme al padre e ad altri familiari su un carro
analogo a questo.

Agli occhi di un bambino nato in provincia Roma dovette apparire magnifica


e immensa. Sotto Augusto la sua popolazione si aggirava intorno al milione,
anche se è impossibile stabilire il numero esatto. 20 Imperatore dal 27 a.C.,
Augusto aveva varato un ambizioso programma di opere pubbliche: nelle Res
Gestae Divi Augusti, un elenco delle sue imprese redatto da lui stesso, perché
venisse inciso sui marmi della sua tomba, il princeps proclamava
orgogliosamente di avere trovato una città di mattoni e averla lasciata di marmo.
L’Ara Pacis, il grande altare dedicato alla Pace, per celebrare le vittorie di Roma
in Spagna e in Gallia, fu consacrato nel 9 a.C. (fig. 5). Durante il suo principato
furono costruite nuove terme (le terme di Agrippa, così denominate dal
consigliere e amico prediletto di Augusto), nuovi teatri e molti splendidi templi,
fra cui il Pantheon. Perpendicolarmente al Foro di Cesare fu eretto un nuovo
grande centro civico, il Foro di Augusto. Che si sentisse la necessità di creare un
altro vasto spazio è il segno di quanto fosse animata in quel periodo la vita
pubblica nella capitale. Gran parte degli affari di governo si svolgeva ancora
nell’antico Foro, ma quello nuovo era utilizzato per le cerimonie e i processi: la
legge era un’industria in grande sviluppo a Roma. Il Foro di Augusto si
articolava intorno al nuovo tempio di Marte, dio della guerra e padre del popolo
romano.

5. L’Ara Pacis (Altare della Pace) fu eretta nel 13 a.C. per celebrare il ritorno di Augusto a Roma in trionfo
dopo le campagne di Spagna e Gallia.
Fu qui, quasi certamente, che Lucio Anneo Seneca indossò la toga virilis, con
un rito di passaggio paragonabile al Bar mitzvah ebraico. La toga era una lunga
veste, sovrapposta a una tunica leggera, che si portava piegata a metà su una
spalla. Non era certo un indumento comodo: rischiava continuamente di
penzolare, impediva di correre e di svolgere una qualsiasi attività manuale, e il
tessuto, che era di lana candida, doveva essere molto spesso lavato e stirato. Ma
era proprio la scomodità a renderla un simbolo: la toga rappresentava la
ricchezza e il potere delle élite maschili, era un segno che distingueva i romani
dai forestieri (nessun’altra cultura adottò un modello così stravagante), ed era
anche la veste del tempo di pace: nessuno sarebbe potuto salire su un cavallo e
andare in guerra così abbigliato. I ragazzi romani deponevano la toga praetexta
con la banda purpurea intorno all’orlo e indossavano la toga virile – tutta bianca
– intorno ai quattordici-quindici anni. La cerimonia segnava il passaggio
dall’adolescenza alla maturità e l’ingresso fra le élite.
Per Lucio Anneo Seneca la vestizione fu sicuramente uno dei momenti più
emozionanti. Ripensando a quella cerimonia giovanile, in una lettera composta
quand’era ormai vecchio, Seneca scrive all’amico Lucilio: «Certo ti ricordi
quanta gioia provasti quando, deposta la toga pretesta, indossasti la toga virile e
fosti accompagnato come in corteo fino al foro». Subito, però, si affretta a
precisare che la toga virile è un simbolo di maturità puramente esteriore, che la
vera maturità è tutt’altra cosa: «Aspettati una soddisfazione anche più grande,
quando avrai dismesso un abito mentale puerile e la filosofia ti avrà iscritto nel
ruolo degli uomini tutti d’un pezzo. Fino a questo momento persiste non la
fanciullezza, ma, ciò che è più grave, la puerilità» (Lettera 4, 2). Molti, prosegue
la lettera, consumano il corpo e anche la toga inseguendo cose che non hanno in
realtà alcuna importanza: «Si suda per avere il superfluo. È questo il
comportamento che logora la toga, che ci fa invecchiare sotto la tenda, che ci
sospinge su lidi stranieri» (4, 11). Quanto alla toga, precisa nella lettera
successiva, deve essere semplice, né di un bianco abbagliante né visibilmente
sporca, perché la saggezza è dentro la persona, non nel suo abito. E tuttavia
riconosce che l’abito può anche essere un’indicazione importante dello stato
interiore.
Due furono le discipline che più contribuirono alla crescita intellettuale di
Seneca dall’infanzia alla maturità: la retorica e la filosofia. Egli cominciò
sicuramente da fanciullo ad ascoltare le declamazioni che tanto piacevano al
padre, e imparò ben presto a comporne di suo pugno e a recitarle. Sulla sua
formazione retorica non sappiamo nulla, perché – e la cosa non è priva di
significato – egli non vi fa mai cenno. Ci tiene a presentarsi come filosofo
(anche se un filosofo con uno stile latino fortemente retorico ed elegantemente
costruito) e non come un retore che casualmente scrive qualcosa su un
argomento filosofico. Eppure Seneca seppe utilizzare come pochi l’educazione
retorica che aveva ricevuto, modificando e amplificando i tropi arguti amati dal
padre e dai suoi insegnanti per creare uno stile spigoloso, acuminato,
punteggiato di frecciate continue. L’esercizio declamatorio lo addestrò anche a
vedere le questioni da molteplici punti di vista e a introdurre nelle sue prose una
polifonia di voci. Anche il desiderio di parlare di filosofia in latino, e non in
greco, che era il veicolo tradizionale di questa disciplina, potrebbe essergli stato
ispirato dai primi contatti, che aveva avuto nelle sale di declamazione, con la
forza e la potenza della lingua nativa, capace di trasformare in un idolo della
grande capitale persino un provinciale come Latrone. Seneca conosceva il greco,
l’aveva imparato da piccolo, presumibilmente con un precettore greco,
sicuramente uno schiavo, ma non ebbe mai la tentazione di scrivere in questa
lingua.
Fra le élite non era affatto inconsueto che gli adolescenti frequentassero le
scuole di filosofia. Molti patrizi mandavano i figli a studiare ad Atene, ma non
Seneca il Vecchio, forse perché era troppo costoso oppure perché voleva che i
figli imparassero a conoscere la cultura latina mentre entravano a contatto con
l’eredità intellettuale greca. L’atteggiamento dei romani verso la filosofia era
molto cambiato da Cicerone in poi. 21 Mentre prima si tendeva a considerarla una
disciplina frivola se non addirittura nociva, in seguito essa aveva cominciato a
radicarsi nella capitale, in parte per merito di Cicerone stesso, che, soprattutto
nei periodi in cui era costretto a tenersi lontano dalla politica attiva, si dedicava a
scrivere ampi sommari della filosofia greca e a esprimere giudizi sulle varie
scuole, con l’obiettivo di creare una sintesi fra la teoria greca e la prassi etica
romana. Al tempo di Seneca la filosofia era ormai un campo di studi molto
apprezzato e persino una professione: la carriera del filosofo era diventata
un’alternativa possibile a quella politica, come dimostra il caso di Mela.
Al silenzio sui suoi studi retorici, Seneca contrappone una descrizione molto
viva dell’entusiasmo con cui egli si tuffò nello studio della filosofia, entusiasmo
persino eccessivo, come commenta con la saggezza del poi. Era «il primo ad
arrivare e l’ultimo ad andare» di tutti gli allievi della sua classe, ricorda,
tratteggiando un quadro delicatamente umoristico e autoironico del rapporto che,
adolescente esigente e ossessivo qual era, intratteneva con il suo paziente
maestro di filosofia. Seneca padre aveva scelto per il figlio lo stoico Attalo, sulla
cui eloquenza e intelligenza egli ci ha lasciato molti commenti ammirati. Di
Attalo non ci è giunto nessuno scritto, ma si presume che i suoi interessi si
estendessero anche alle scienze naturali, perché, a quanto pare, scrisse un trattato
sui fulmini.
Il giovane Seneca era entusiasta delle sue lezioni e non ne era mai sazio. Lo
tormentava, racconta, con continue domande e richieste di altre spiegazioni, e
Attalo reagiva con un misto di incoraggiamento e rimprovero. Come tutti gli
allievi, gli diceva, anche tu hai bisogno di procedere adagio, un passo alla volta,
senza la pretesa di conoscere tutto e subito. A Lucilio, nelle lettere, Seneca
rivolgerà uno dei consigli che aveva ricevuto dal maestro Attalo: «Devi attingere
non ciò che vuoi, ma quanto sei in grado di recepire. Basta che tu abbia un poco
di coraggio: prenderai secondo una misura che ben si equilibra con i tuoi
desideri. Quanto più l’animo ha ricevuto, tanto più aumenta la sua capacità
ricettiva» (Lettera 108, 2).
Fin qui siamo nell’ambito del buon senso: ai giovani discenti viene spesso
ricordato che occorre imparare a camminare prima di poter correre. Ma nella
stessa lettera Seneca scrive di avere ricevuto da Attalo anche stimoli più
specifici, verso mete più ardue, per esempio il monito a condurre una vita sobria,
soprattutto nel mangiare e nel bere. «Quando udivo Attalo inveire contro i vizi,
gli errori, i mali della vita, ho provato spesso compassione per il genere umano e
ho creduto che egli fosse un uomo sublime e superiore a ogni umana grandezza.
Definiva se stesso un re, ma, ancor più che un re, mi sembrava un uomo munito
della facoltà di censurare i regnanti» (Lettera 108, 13). L’affermazione che il
saggio è un re era quasi un cliché dello stoicismo, ma essa acquista una
risonanza particolare nel contesto della vita dello scrivente. Seneca si sarebbe
infatti trovato a tentare di conciliare due modelli di controllo o di potere quasi
regale (imperium) diversi fra loro e apparentemente incompatibili: da un lato
l’imperium del principe romano e dall’altro l’imperium del saggio stoico.
Nella stessa lettera Seneca ricorda l’impressione profonda che gli aveva
lasciato l’elogio di Attalo della povertà, della moderazione e dell’ascetismo, e
con quanto ardore egli avesse immediatamente cominciato a rifiutare gli sprechi
e i lussi tipici delle élite romane del suo tempo. La vera chiave della felicità, gli
aveva insegnato Attalo, era essere liberi dai desideri. Quell’ideale Seneca lo
rincorse per tutta la vita, ed è un punto su cui ritorna spesso. Con tono
lievemente autoironico racconta all’amico di avere introiettato a tal punto gli
insegnamenti di Attalo da avere conservato alcuni dei suoi ambiziosi propositi di
sobrietà anche quando si era ormai allontanato dagli studi filosofici per dedicarsi
alla carriera politica:

Dopo questi incontri mi sono rimaste, o Lucilio, talune consuetudini ... Ricondotto alla prassi
della vita cittadina, ben poco riuscii a conservare dei miei buoni inizi. Di qui la rinuncia per
tutta la vita alle ostriche e ai funghi, che, per la verità, non sono propriamente cibi, ma
stuzzichini che inducono a mangiare chi è sazio fino al collo ... È roba che va giù facilmente e
facilmente torna su. Di qui la decisione di astenerci per tutta la vita dall’uso di profumi,
perché il miglior profumo che si può avere sul corpo è nessun profumo. Di qui uno stomaco
che fa a meno del vino. Di qui il tenersi lontano per tutta la vita dalle terme: siamo convinti
che far cuocere il corpo fino a rinsecchirlo ed esaurirlo a furia di sudorazioni è pratica inutile
e da smidollati. Le altre abitudini, che avevo eliminato, sono tornate ma in un modo da
consentirmi di osservare una certa misura per quelle da cui avevo cessato di astenermi, ed è
una limitazione piuttosto vicina all’astinenza e non so se ancora più difficile di questa, perché
certe consuetudini dell’animo è più facile sradicarle che moderarle.
(Lettera 108, 14-16)

Le lezioni apprese da Attalo, di cui Seneca sente ancora il bisogno di vantarsi


in vecchiaia, riguardano tutte le scelte della vita quotidiana, anche le più banali:
«Attalo era solito dire un gran bene di quel tipo di materasso che non cede al
peso del corpo; ne uso anch’io uno simile pur essendo in là con gli anni, tant’è
vero che non vi può rimanere alcuna impronta» (Lettera 108, 23). Seneca fu
sempre orgoglioso delle proprie abitudini ascetiche, della misura nel mangiare e
nel bere. La moderazione occupava un posto centrale nella sua visione di sé.
L’essere filosofo non coinvolgeva semplicemente l’intelletto, la sfera teorica, ma
si ripercuoteva prima di tutto sulla vita quotidiana, e, in particolare, sul cibo. La
domanda che egli si pone è se l’esterno e l’interno siano nell’uomo totalmente
separabili e se le pratiche fisiche siano soltanto esteriorità, cose del tutto
indifferenti, o non abbiano invece anche un valore etico. Il filosofo non deve
dare spettacolo, indossando una toga sporca o tenendo incolta la barba, come
fanno quelli che cercano di esibire la «filosofia», ma Seneca è orgoglioso della
propria capacità di comportarsi con sobrietà e rifiutare le ostriche anche a corte.
Seneca, e questo è un suo tipico tratto, mescola le motivazioni speculative più
alte con nozioni dall’apparenza più estetica che etica, e con aspetti assolutamente
concreti. Presenta, per esempio, la rinuncia ai funghi come un vero e proprio
trionfo «filosofico». E tuttavia questa sua scelta ha anche un aspetto molto
pragmatico: serve a evitargli il mal di stomaco. I lunghi bagni e le saune sono
inutili ed effeminati: anche in questo caso accosta considerazioni pratiche ad
altre quasi etiche. In questa sua lettera ciò che egli tace non è meno importante di
ciò che dichiara. Seneca non specifica quali «altre risoluzioni» non abbia
mantenuto: preferisce soffermarsi sulla fermezza con cui ha evitato per tutta la
vita i profumi, i funghi e le ostriche, quei segni tipici del lusso romano.
Concentrarsi sui consumi gli permette di schivare abilmente l’altro tema
sollevato da Attalo: quello politico. Chi è il vero re e da che cosa discende la sua
autorità? Se il filosofo stoico può definirsi un «re» e giudicare quanti sono
sovrani soltanto di cose mondane, questo insegnamento non comporta qualche
implicazione sul rapporto di Seneca con l’imperatore Nerone, il cui potere
andava ben al di là di quello di un re? L’interesse che egli mostra nel pattugliare i
confini del proprio corpo fisico discende dal riconoscimento implicito che nel
«corpo politico» le relazioni di potere sono ben più difficili da controllare.
Nella stessa lettera Seneca riprende il tema dei propositi non mantenuti,
parlando del suo secondo maestro di filosofia, Sozione di Alessandria, un
seguace della scuola dei Sestii, fondata da Quinto Sestio e dal figlio. Gli
insegnamenti di questa scuola furono per Seneca una fonte di ispirazione
continua; a Lucilio egli racconta quanto trovi ancora edificante leggere gli scritti
del fondatore: «Sestio è vivo, vigoroso, libero, si trova su un piano più alto di
quello umano: quando mi allontano da lui sono pieno di enorme fiducia»
(Lettera 64, 3). Come gli stoici, i Sestii sostenevano che la virtù e la frugalità
erano indispensabili per la felicità, ma avevano un indirizzo più pratico e
ironizzavano sulle teorie più oscure e astratte, amate in particolare dagli stoici
greci. A distinguerli era comunque soprattutto il rifiuto della politica.
I Sestii respingevano la corsa ai consumi e allo sfarzo imperanti fra i ricchi
romani. Gli adepti della loro scuola erano vegetariani: mangiare carne non era
necessario né salutare, affermavano, dando ancora un volta prova del
pragmatismo di cui andavano orgogliosi. Seneca lesse Sestio con attenzione e
ammirazione, e ne seguì la prassi dell’autoanalisi quotidiana. I seguaci di questo
movimento si ritenevano completamente diversi dagli stoici (ma Seneca
amalgamò le due scuole): non solo restavano lontani dall’arena politica, ma, a
differenza degli stoici greci, non avevano nessun interesse per la logica e le
astrusità del pensiero astratto, e non accettavano l’idea che l’uomo non potesse
mai raggiungere la perfezione. Da maestri della scuola sestia come Fabiano,
Seneca mutuò il suo modello di filosofia radicata nel senso comune, un modello
che egli considerava specificamente romano. 22 L’altro suo maestro, Sozione,
aveva probabilmente scritto un trattato sull’ira, che forse fu di stimolo per il
saggio senecano sullo stesso argomento.
Seneca tendeva a sfocare le differenze fra i suoi due insegnanti, al punto di
considerare il sestio Sozione una sorta di stoico. Entrambi, comunque, gli
inculcarono il senso dell’importanza di una vita vissuta all’insegna della filosofia
e il rispetto per le molteplici forme che una simile ricerca poteva assumere.
Seneca utilizzava tranquillamente argomentazioni che non erano stoiche e che
anzi, a volte, erano addirittura antistoiche, e accoglieva anche concetti che non
provenivano da nessuna scuola filosofica, ma appartenevano al buon senso e alla
saggezza popolare.
Intorno all’età di ventidue anni, Seneca divenne per un breve periodo
vegetariano, dopo avere ascoltato Sozione portare a esempio Pitagora e Sestio,
che non mangiavano carne. Pitagora rifiutava di cibarsene perché convinto
dell’esistenza di una connessione fra tutti gli esseri viventi e della trasmigrazione
delle anime dagli animali agli esseri umani e viceversa. Sestio, che Seneca
prediligeva, raccomandava il vegetarianismo per ragioni del tutto diverse, tipiche
della sua scuola: il consumo di carne, affermava, alimenta «l’abitudine alla
crudeltà», perché induce a non considerare importante la sofferenza e la morte di
un’altra creatura. Da buon pragmatico, a Sozione non interessava quale delle due
motivazioni spingesse il singolo individuo a diventare vegetariano: anche se la
teoria pitagorica della trasmigrazione delle anime fosse stata falsa, la dieta
vegetariana sarebbe stata comunque un bene, perché distoglieva gli esseri umani
dalla brutalità e li spingeva a coltivare la purezza con il rifiuto a condividere il
«nutrimento dei leoni e degli avvoltoi». E infine c’era anche un’altra ragione:
una dieta senza carne è meno costosa. Il pragmatismo e l’attenzione di Sozione
al benessere della psiche, connesso con il rifiuto di abitudini crudeli, furono due
lezioni che Seneca non dimenticò mai, anche quando la sua fase vegetariana si
era ormai conclusa.
Il giovane Seneca non toccò carne per un anno intero: il nuovo regime gli fu
di giorno in giorno più facile da seguire, fino a diventare piacevole. Poi, però,
sorse un ostacolo, che lo spinse ad abbandonarlo.

In quel tempo (19 d.C.) venivano messi al bando i culti stranieri e tra le prove di superstizione
si poneva l’astinenza dalla carne di certi animali. Allora, per espresso desiderio di mio padre,
che non temeva le false accuse, ma detestava la filosofia, tornai alle mie precedenti abitudini,
ed egli non trovò difficoltà nel persuadermi a nutrirmi meglio.
(Lettera 108, 22)

I culti stranieri di cui parla Seneca prescrivevano regole dietetiche egizie e


giudaiche. Nel 19 d.C., si legge in Tacito, il Senato decretò che quattromila
liberti, «guastati da quelle superstizioni e in età idonea per il servizio militare»,
fossero deportati in Sardegna «a combattervi il brigantaggio; se poi fossero morti
per l’insalubrità del clima, sarebbe stato poco danno». Tutti gli altri adepti
furono espulsi dall’Italia o ricevettero l’ordine di rinunciare alle pratiche vietate
(Annali 2, 85).
L’episodio rivela quanto fosse stretto in quel periodo l’intreccio fra politica e
filosofia. Persino una decisione apparentemente del tutto personale come quella
di non cibarsi di carne assumeva una connotazione politica e diventava
pericolosa. Qualsiasi culto o gruppo – anche di tipo religioso e filosofico – che
comportasse una forma di lealtà percepita come «più alta» rispetto a quella
dovuta all’imperatore rischiava di essere vista come una minaccia. Seneca non
praticava certo il vegetarianismo per simpatie giudaiche, ma il padre temeva che
nel clima politico di quegli anni il figlio potesse essere in pericolo, se fosse sorto
il sospetto di una sua simpatia per quei culti alieni. Per gli Annei era
particolarmente importante apparire integrati e rispettosi dei costumi romani:
dopotutto, erano anch’essi forestieri, o comunque provinciali.
Seneca scrive che il padre «odiava la filosofia», una frase che, come si è visto,
non può essere presa alla lettera. Il brano citato sopra, in cui egli traccia un
quadro autocritico della facilità con cui si era lasciato persuadere a tornare alle
vecchie abitudini carnivore, è soffuso di autoironia. E l’ironia, lieve, si estende
anche al padre: appellarsi all’odio astratto per la filosofia è ciò che qualsiasi
persona rispettabile, che tema la persecuzione, addurrebbe come motivo della
sua decisione. E poi è più facile mangiare tutto quello che si desidera senza
preoccuparsi delle regole e ancora più facile nutrirsi senza temere di essere
processato, esiliato, torturato o ucciso.
I problemi di salute angustiarono continuamente il Seneca adolescente e
ventenne. Egli soffrì per tutta la vita di disturbi respiratori non specificati,
tormentato spesso dal catarro e da febbriciattole accompagnate da lunghi
raffreddori (Lettera 78, 1). Con ogni probabilità era affetto da tubercolosi: si
spiegherebbe così perché continuava a dimagrire e a indebolirsi con l’avanzare
della malattia, tanto da far ritenere che non sarebbe vissuto a lungo. La
convivenza con un’affezione cronica contribuì sicuramente a infondergli il senso
della presenza costante della morte. Se non fosse deceduto per mano
dell’imperatore o di un sicario, l’avrebbero comunque ucciso i polmoni. Ogni
suo respiro gli ricordava che il suo tempo sulla terra era limitato.
La malattia, che a quanto pare era sopportabile nell’infanzia e nella prima
adolescenza, peggiorò con l’arrivo della maturità, forse anche a causa del
trasferimento dall’aria più pura di Cordova a quella più inquinata della metropoli
romana, densamente abitata, polverosa e sporca. Poco prima dei vent’anni ci fu
un momento in cui le sue condizioni divennero così insopportabili che pensò al
suicidio. E ancora una volta fu il pensiero del padre a fermarlo:

Poi dovetti cedere e giunsi al punto di sciogliermi io stesso, riducendomi a una forma estrema
di deperimento. Più volte presi di slancio la decisione di spezzare la mia vita, ma ne fui
distolto dal pensiero della vecchiezza del mio tenerissimo padre. Considerai infatti non quanto
coraggiosamente potessi morire, ma fino a che punto gli potesse mancare il coraggio di
reggere alla mia scomparsa. E così ordinai a me stesso di vivere. 23
(Lettera 78, 1-2)

Era dunque arrivato più volte al punto di volersi dare la morte, sembra dire
con vanto, e se non l’aveva fatto fu non per mancanza di coraggio, ma per non
far soffrire il padre. La relazione padre-figlio è anche in questo caso
profondamente ambivalente. Da un lato il padre è «tenerissimo», «gentilissimo»,
«indulgentissimo», e il figlio fa affidamento sulla sua amorosa protezione.
Dall’altro, però, lo protegge soltanto con la sua debolezza, non con la sua forza:
non è il padre a impartirgli ordini, ma è il figlio stesso a darseli. È il segno
dell’ingresso nella virilità: «Ordinai a me stesso di vivere».
Poi però, nonostante quello che ha appena detto, Seneca afferma che a
impedirgli di suicidarsi non fu tanto il padre, quanto la filosofia: «Gli studi
furono per me la salvezza. Attribuisco alla filosofia il merito di avermi rimesso
in piedi e della mia convalescenza. Le devo la vita, nulla di meno» (Lettera 78,
3). La filosofia soppianta il padre biologico come ispirazione e fonte di
guarigione. La debolezza del vecchio genitore gli impedisce di morire
fisicamente, ma è la filosofia, madre adottiva, a infondergli il soffio vitale.
Come spesso succede con gli scritti in prosa di Seneca, quando il lettore pensa
di essere finalmente giunto a una conclusione, si trova davanti a uno scarto. Non
è soltanto per amore della filosofia, dichiara, che egli ha superato la crisi: un
grande aiuto gli è venuto dall’amicizia. «Nulla, o Lucilio, può riconfortare e
aiutare un ammalato quanto l’affetto degli amici; nulla ci toglie furtivamente con
pari efficacia l’attesa e il timore della morte» (Lettera 78, 4). Tre, dunque,
sarebbero le ragioni, diversissime fra loro, che lo hanno aiutato a superare la
malattia: al dovere verso il vecchio padre si affiancano con uguale forza gli studi
filosofici e la gioia di trascorrere il tempo con gli amici più cari. Ma la filosofia
torna a essere il conforto decisivo, quando Seneca tira le conclusioni. La
migliore ricetta per guarire è il disprezzo della morte: è questa la vera cura di
tutti i mali (Lettera 78, 3), perché, quando si supera la paura della morte, tutto il
resto diventa secondario. Ma è proprio vero? Come dimenticare che all’inizio
della lettera egli aveva raccontato all’amico Lucilio di avere desiderato di
togliersi la vita per non soffrire più? Si stenta a capire quanto possa essere di
aiuto il disprezzo della morte, se la morte è agognata, ma non è disponibile.
Da questa auto-rappresentazione emerge un Seneca in preda a una paura
indefinita, la cui natura e risoluzione mutano di continuo, persino nello stesso
paragrafo. La morte passa da cura a malattia e poi torna a essere cura, ma la
costante è la paura. In termini freudiani, l’atteggiamento di Seneca verso la
morte è una forma di «paura nevrotica», in cui l’affetto negativo è connesso
soltanto simbolicamente, non empiricamente, con l’oggetto della paura. 24 Le
manifestazioni patologiche di un’ansia dalle motivazioni oscure sembrano
alludere a un desiderio disperato di trovare una zona di sicurezza e di conforto
psicologico in molteplici luoghi – nella famiglia, negli amici, nella filosofia (e in
seguito, come vedremo, nel potere politico, nel denaro e nello status sociale) –,
benché ognuno di essi offra forme di rassicurazione incompatibili con gli altri
rimedi.
La sensazione di una paura non localizzata emerge con forza in numerose
opere di Seneca. Forse l’espressione più memorabile si trova nelle tragedie,
alcune delle quali potrebbero essere state composte quando l’autore era ancora
piuttosto giovane. Il senso della paura lo accompagnò per tutta la vita. Il suo
Edipo dichiara:

Questo timore fu che mi cacciò via dal paterno regno;


per questo io, profugo, abbandonai i miei Penati:
io, di me stesso poco fidandomi, al sicuro
le tue leggi riposi, o Natura. Quando di grandi mali hai terrore,
ciò che non credi possa avvenire devi comunque temerlo:
di tutto quanto ho terrore e non mi affido a me stesso.
(Edipo vv. 23-27)

Le paure specifiche di Edipo, al quale l’oracolo ha profetizzato che è destinato


a uccidere il padre e sposare la madre, non erano le stesse di Seneca: nonostante
l’evidente ammirazione per Elvia e il difficile rapporto con il padre, nulla induce
a pensare che egli soffrisse del complesso di Edipo, o per lo meno che ne
soffrisse più della norma. Ma lo stato psicologico di una paura continua, che non
può essere pienamente articolata, che comporta la sfiducia in se stessi tanto
quanto verso gli altri, fu una componente essenziale dell’esperienza di Seneca.
Come il suo Edipo, egli cercava costantemente di allontanarsi, di ritirarsi, di
trovare un rifugio sicuro da un orrore senza nome. Come Edipo, si direbbe che
Seneca abbia più volte avuto il sospetto che, anche se fosse andato in capo al
mondo, avrebbe portato con sé le sue paure.

a. Sagax parentum est cura (Fedra v. 152).


II
«CHI È DAPPERTUTTO NON È IN ALCUN LUOGO» a

Gli dei stanno intorno a me e sopra di me con funzione di censori di quanto faccio e dico. 1

Dalle lettere relative al periodo più acuto della malattia e del suo superamento si
desume che furono il padre in ansia, gli amici devoti e l’amore per lo studio a
riportare in vita Seneca quando era ormai sull’orlo della morte. Ma nella
Consolazione alla madre Elvia egli disegna un quadro del tutto diverso. Nel
momento in cui la sua condizione si aggravò pericolosamente, si legge,
intervenne la «gentile» sorella della madre (sorellastra, probabilmente), che lo
prese e lo portò con sé in Egitto, nella speranza che il clima caldo gli giovasse.
La zia, donna colta e ben introdotta, andava a raggiungere il suo futuro sposo, il
prefetto romano Gaio Galerio ad Alessandria.
A quel tempo l’Egitto era in genere ritenuto il paese ideale per la cura delle
malattie polmonari, anche se non da Plinio, il quale sosteneva che la vera
ragione dei miglioramenti era la lunga traversata del Mediterraneo. L’aria
impregnata di acqua salmastra asciugava la congestione dei polmoni e persino il
mal di mare era benefico per la testa, gli occhi e il torace. Plinio raccomandava
anche altri rimedi: il succo di porro (Storia naturale 20, 22) e, soprattutto, il
sangue dei cavalli selvaggi, purtroppo non facile da reperire, che poteva essere
eventualmente sostituito con una pozione di latte d’asina e succo di porro,
integrati da nasturzio e miele. Infine, per l’asma e per tutte le difficoltà
respiratorie erano un vero toccasana il fegato di volpe mescolato con il vino
rosso, o la cistifellea di orso sciolta nell’acqua (28, 55). E chissà che Seneca,
sempre attorniato dai medici più prestigiosi, non abbia provato questi rimedi.
Quando partì per l’Egitto, Seneca aveva circa venticinque anni. Vi rimase per
circa un decennio, probabilmente quasi sempre ad Alessandria, che era allora
una grande metropoli multiculturale, passata sotto il dominio romano dopo la
sconfitta di Cleopatra nel 31 a.C. All’inizio si suppone abbia trascorso parecchio
tempo a letto, ma poi dovette rimettersi a sufficienza per riprendere gli studi e
dedicarsi alla scrittura. La città ospitava la biblioteca più famosa dell’antichità, e
questo non poteva che fargli piacere. L’avevano fondata i Tolomei, la dinastia
macedone di lingua greca che aveva governato l’Egitto dal III secolo a.C.
Correva voce che Giulio Cesare l’avesse incendiata, ma forse il danno fu solo
parziale o forse l’incendio fu semplicemente un’invenzione. Ad Alessandria,
comunque, i libri abbondavano. Seneca studiò la cultura, la storia e i costumi
locali, e compose un trattato sull’Egitto, che è andato perduto. In quegli anni
coltivò anche gli studi filosofici e forse compose diversi scritti, nessuno dei
quali, purtroppo, può essere datato con precisione, perché non sappiamo nulla di
quel periodo così formativo.
A poco a poco Seneca ritrovò le forze, aiutato anche dalle attenzioni
amorevoli della zia: «Sono guarito da una lunga malattia per le sue affettuose
cure materne» (Consolazione alla madre Elvia 19, 2). Nel 31 lasciò l’Egitto per
Roma. Il viaggio per mare durava di solito tre settimane: la nave, partita da
Alessandria, faceva una prima tappa a Creta, poi una seconda nel nord della
Sicilia e di qui raggiungeva la costa tirrenica risalendola fino alla capitale. Non è
escluso che insieme a Seneca ci fosse anche lo zio, che in quello stesso periodo
annegò durante la traversata, ma è più probabile che Lucio viaggiasse su un
vascello più affidabile, e infatti raggiunse Roma sano e salvo insieme alla zia.
Seneca aveva ormai circa trentacinque anni, un’età piuttosto avanzata,
secondo le consuetudini romane, per intraprendere la carriera politica. Per sua
fortuna, però, la zia era abile, poteva contare su relazioni importanti ed era
pronta ad aiutarlo. Come egli ricorda alla madre:

Ha spiegato la sua influenza per farmi riuscire questore e, lei che non ha mai avuto il coraggio
di parlare o salutare a voce alta, per tenerezza verso di me, ha vinto il suo riserbo. La sua vita
sempre appartata, la sua modestia che la opponeva alla villana petulanza di tante donne, il suo
desiderio di tranquillità, i suoi costumi, tenuti in serbo per la casa e la quiete, non le
impedirono per nulla di farsi anche ambiziosa per me.
(Consolazione alla madre Elvia 19, 2)

L’ufficio di questore era il primo gradino del cursus honorum, la carriera


seguita dai rampolli delle classi alte romane. In circostanze normali, per
concorrervi bisognava avere prestato servizio per dieci anni nell’esercito e avere
raggiunto il grado di generale. Seneca non era mai stato sotto le armi, ma ottenne
ugualmente l’incarico, grazie ai buoni uffici della solerte zia materna.
Fino a quel momento egli non aveva mai mostrato alcun interesse per la vita
pubblica. Forse negli anni precedenti la malattia lo aveva così debilitato che si
era convinto di non poter aspettarsi alcun futuro, se non la morte. Ma può anche
darsi che da giovanissimo avesse aspirato a condurre un’esistenza tranquilla,
scrivendo di filosofia e insegnando. E non è escluso che a tenerlo lontano
dall’arena politica avessero contribuito anche i pericoli della vita alla corte di
Tiberio (fig. 6). Comunque, quando ritornò a Roma, era pronto a tuffarsi nella
mischia. La descrizione delle ambizioni della zia per la carriera del nipote ha un
che di paradossale: fu lei a spianargli la strada, ma non era un’arrivista; fu lei ad
aiutarlo ad affermarsi nella grande città, eppure era una donna semplice.
L’intento di Seneca è chiaro: vuole dissipare qualsiasi sospetto non solo intorno
alla zia, ma anche intorno a se stesso. Implicitamente, si autoritrae come un
provinciale timido, privo di ambizioni, e che solo per caso si è trovato fra le
mani una carriera brillante. Naturalmente si tratta di una posa, che non ha niente
a che vedere con la realtà, ma dimostra fino a che punto Seneca avesse già
introiettato i modi sociali indispensabili per avere successo nella vita pubblica.
6. Tiberio, imperatore dal 14 al 37 d.C., fu solitario e feroce; la corte era dominata da un’atmosfera di paura
e sospetto.

La Roma nella quale Seneca approdò nel 31 d.C. attraversava una fase
interessante e insieme terribile della sua storia. L’imperatore Tiberio, figlio
adottivo di Augusto, era salito al potere nel 14, ma non si dava gran pena di
governare: sperava che le ruote del regime continuassero a girare senza il suo
intervento. Nel 26 si stabilì sull’isola di Capri, dove, secondo le malelingue,
passava da un’orgia all’altra. Nel frattempo non mancavano i pretendenti al
trono imperiale. Il più noto era Lucio Elio Seiano, che nel 31 fu nominato
console e sfruttò il prestigioso incarico come una leva per assumere il controllo
dell’impero. Il suo complotto fu però scoperto, e Tiberio inviò al Senato l’ordine
di giustiziare immediatamente il cospiratore. Seiano e i suoi seguaci furono
mandati a morte nel giro di pochi giorni, e nelle settimane seguenti il letargico
Tiberio si svegliò dal torpore quel tanto che bastava per ordinare un’altra strage
di oppositori ed eliminare tutti coloro che erano coinvolti nelle trame.
La vita di Seneca sotto Tiberio si svolse all’insegna della paura. I primi anni
del suo regno furono relativamente buoni, paragonabili addirittura a quelli del
Divino Augusto (La clemenza 1, 1). Negli anni successivi, però, proprio quando
ebbe inizio la carriera pubblica di Seneca, Tiberio divenne paranoico e asociale
fin quasi alla follia. Il filosofo lo descrive brutale e avido, un uomo
assolutamente incapace di generosità: persino i suoi doni erano sempre
accompagnati da rimproveri e lasciavano l’amaro in bocca, tanto da far svanire
nel beneficiario qualsiasi senso di gratitudine (I benefici 2, 7). A un vecchio
amico che gli chiedeva «Ti ricordi...?», l’imperatore aveva subito tappato la
bocca: «Non mi ricordo che cosa sono stato». Tiberio diceva di avere
completamente dimenticato la sua vita precedente. «Aborriva qualunque
rapporto con amici e coetanei … voleva che si guardasse unicamente alla sua
fortuna presente, che si pensasse solo a quella e si parlasse solo di quella:
considerava ogni vecchio amico una spia» (5, 25, 2). Nella Roma di quegli anni
trionfavano la delazione, lo spionaggio e il sospetto: un clima simile a quello
dell’America del maccartismo. Sotto Tiberio Cesare, scrive Seneca, «ci fu una
continua frenesia di accusare, che divenne quasi un’abitudine generale e rovinò
Roma in piena pace più gravemente di qualsiasi guerra civile» (3, 26, 1). Non
solo tutti i discorsi e gli scritti pubblici erano controllati, ma si poteva essere
chiamati a rispondere anche delle azioni all’apparenza più innocenti, dei gesti
più spontanei. Con una sorta di umorismo nero, Seneca racconta l’aneddoto di
un uomo della guardia pretoriana, che portava al dito un anello con l’effigie
dell’imperatore. Una sera si ubriacò e prese in mano un pitale, presumibilmente
per orinare, e toccò quell’oggetto impuro con la mano inanellata (3, 26, 2). Al
banchetto partecipava anche una spia, che, notato il gesto, chiamò i convitati a
testimoni della profanazione. L’uomo sarebbe stato giustiziato, se un suo schiavo
non avesse avuto la prontezza di spirito di far scivolare l’anello sul proprio dito,
appena in tempo per «dimostrare» l’innocenza del padrone. Forse fu per tutto
questo che Seneca si trattenne così a lungo in Egitto anche dopo la guarigione. È
comprensibile che fosse riluttante, non solo per ragioni di salute, a rientrare in
quel mondo di sospetto e paura. Che poi però decidesse di nuotare in quelle
acque torbide e ottenesse un successo significativo sotto Tiberio è anche un
segno del suo coraggio, della sua curiosità e della sua ambizione.
Gli anni trascorsi a Roma sotto Tiberio gli impartirono una grande lezione
sulla necessità che l’imperatore fosse generoso e clemente con i sudditi, un
argomento su cui Seneca avrebbe poi insistito a lungo nei discorsi scritti per
Nerone. Quegli anni gli fecero anche capire chiaramente quali pericoli corresse
un consigliere o un pubblico servitore che avesse cercato di diventare più potente
del principe, com’era accaduto a Seiano. La sua cospirazione aveva avuto quale
unico risultato quello di inasprire ancora di più quell’atmosfera paranoica, in cui
si creavano – o si immaginavano – costantemente complotti e controcomplotti.
La cultura della paura che regnava fra le élite romane di quel periodo fu
sostanzialmente funzionale all’instabilità del sistema imperiale: per tenere
saldamente le leve del potere, l’imperatore aveva bisogno di assicurarsi che
l’aristocrazia, nelle cui mani un tempo era il controllo del governo, restasse
debole. Non è questa, però, la visione che Seneca ci propone. Egli presenta
invece la mancanza di generosità di Tiberio e l’atmosfera di terrore da lui
coltivata semplicemente come difetti personali. E con l’aneddoto del pitale e
dello schiavo fedele sembra dirci che la migliore risposta in quel mondo di
pericolo costante è la vigilanza individuale, l’integrità e la lealtà verso il proprio
gruppo sociale, non l’opposizione esplicita al regime. Furono queste le lezioni
che Seneca apprese sotto Tiberio e che non avrebbe mai rinnegato negli anni
turbolenti che seguirono.
7. Caligola, imperatore dal 37 al 41 d.C., pare avesse deciso di mandare a morte Seneca e avesse desistito,
essendo venuto a conoscenza che sarebbe comunque morto presto di malattia.

Il clima di terrore peggiorò con l’ascesa al trono nel 37 d.C.dell’imperatore


romano più folle di tutti i tempi: Caligola (fig. 7). Le fonti antiche lo dipingono
crudele e pervertito oltre misura, un principe che amava uccidere per il gusto di
farlo, che aveva rapporti incestuosi con le sorelle e dichiarava di essere un dio.
Naturalmente i testi che riportano queste accuse furono scritti sotto gli
imperatori successivi da autori che quindi avevano anche altri motivi per
denigrare i predecessori. Gli storici moderni tendono a ritenere Caligola
probabilmente meno pazzo di quanto suggeriscano le fonti. 2
Seneca, però, non spende una sola parola in difesa di Caligola: lo raffigura
spesso e volentieri come un mostro, divorato e trascinato alla follia dalla rabbia. 3
Nell’Ira riporta un episodio atroce: Gaio Cesare aveva rinchiuso in prigione un
giovane, «perché non ne sopportava la raffinatezza e la chioma troppo ben
curata». Quando il padre andò a implorarlo di risparmiare il figlio, Caligola
diede ordine di uccidere il ragazzo. La sera stessa invitò a cena il genitore e lo
costrinse a sedersi a tavola a banchettare insieme a lui, senza togliergli mai gli
occhi di dosso. Quel padre, scrive Seneca, ebbe la forza di libare, benché gli
sembrasse di «bere il sangue del figlio», e accettò tutto quello che gli veniva
offerto, profumi, ghirlande di fiori e bevande, senza mai mostrare la propria
sofferenza. E sapete perché lo fece? Perché, è la risposta agghiacciante di
Seneca, «aveva un altro figlio» (L’ira 2, 33, 3).
Quell’aneddoto doveva averlo ancora ben impresso nella mente quando
compose il Tieste, la tragedia in cui un tiranno mostruoso, Atreo, costringe il
fratello Tieste a cibarsi, sotto il suo sguardo, della carne dei propri figli e a bere
vino mischiato con il loro sangue. Caligola, come l’Atreo di Seneca, era una
sorta di capocomico, che costringeva i suoi sudditi a recitare nel suo sadico
teatro della crudeltà. La corte romana dell’epoca – con Caligola, Claudio e infine
Nerone, un altro appassionato di teatralità – dava la sensazione, ha osservato
giustamente uno studioso, di volere un mondo popolato da attori, nel quale a
recitare non era soltanto l’imperatore, ma anche tutti i cortigiani, le cui reazioni
venivano scrutate e giudicate dal regista. 4
La corte di Caligola era un luogo particolarmente pericoloso per chiunque
avesse doti intellettuali. Seneca racconta la vicenda del filosofo stoico Giulio
Cano, colpevole di avere suscitato l’invidia del principe. 5 Quando questi gli
comunicò di averlo condannato a morte, il filosofo replicò: «Grazie, principe
ottimo» (La tranquillità dell’animo 14, 4). Il senso della risposta, commenta
Seneca, non è chiaro, ma, qualunque sia il significato, «fu comunque una
risposta magnanima», perché il filosofo uscì di scena come un uomo coraggioso
e integro, pur senza pronunciare nessuna critica esplicita contro il suo aguzzino.
Ciò che Seneca apprezza è proprio la capacità del filosofo di essere ambiguo. In
un mondo in cui dire la cosa sbagliata poteva significare la morte, ma in cui
anche l’adulazione più abietta poteva risultare offensiva quanto una sfida diretta,
coloro che erano a contatto con l’imperatore erano costretti a coltivare un
linguaggio capace di mascherare i propri intenti, o meglio, di dire cose dal
significato non univoco (dissimulatio). 6 Naturalmente poteva sempre capitare
che, pur con tutta l’elusività possibile, si finisse ugualmente ammazzati. Giulio
Cano fu giustiziato poco dopo, ma almeno, così ci assicura Seneca, andò
incontro alla morte con vera dignità filosofica.
Una domanda a questo punto si impone: come avrà fatto Seneca – anch’egli
filosofo stoico nonché oratore e scrittore di talento – a sopravvivere al regno di
Caligola e addirittura, così almeno sembra, a prosperare, guadagnando denaro,
reputazione, potere, e a fare carriera? Se lo chiedevano anche i suoi
contemporanei, e una risposta la troviamo in Cassio Dione. Il quale scrive:

Seneca, che quanto a saggezza superava tutti gli uomini del suo tempo come anche molti altri,
per poco non venne mandato a morte senza che avesse commesso alcuna ingiustizia o che ne
avesse dato l’impressione, ma per il semplice fatto che in Senato aveva perorato bene una
causa in presenza dell’imperatore. Gaio Caligola ordinò quindi che egli venisse mandato a
morte, ma poi lo liberò, poiché credette a una donna che era solito frequentare, secondo la
quale Seneca aveva una malattia che lo stava logorando e di lì a poco sarebbe morto.
(Cassio Dione, Storia romana 59, 19, 7-8)

L’aneddoto potrebbe anche essere vero: Seneca godeva effettivamente di


pessima salute e forse esagerava la gravità delle sue condizioni anche quando
erano ormai sotto controllo. Può anche darsi, però, che fosse davvero convinto di
essere in punto di morte: la morte è una presenza costante in tutti i suoi scritti.
Non si può, d’altra parte, neppure escludere che l’episodio sia stato inventato dai
suoi sostenitori per cercare di spiegare come avesse potuto Seneca far fortuna
sotto Caligola. In entrambi i casi, val la pena di notare che a salvargli la vita fu
anche questa volta una donna, segno evidente che il miele della sua eloquenza
esercitava un grande fascino sul genere femminile.
Ben diversa è la spiegazione che Seneca offre della sua vita sotto Caligola e
Claudio. Se sopravvisse al regno del primo, afferma, il merito fu della sua
pazienza e della sua lealtà, che lo portarono a non avere fretta, a non cedere
all’attrazione del suicidio e ad aspettare, per amore degli amici, che il vento
cambiasse:

Non mi sono gettato con precipitazione in una decisione disperata per sottrarmi al furore dei
potenti. Vedevo presso Gaio [Caligola] gli strumenti di tortura, vedevo il fuoco, sapevo che
sotto di lui già da molto tempo l’umanità era caduta così in basso che tra le prove di
misericordia era annoverata l’uccisione delle vittime: tuttavia non mi gettai sulla spada né mi
precipitai in mare a bocca aperta, perché non sembrasse che per restare fedeli non si potesse
far altro che morire.
(Questioni naturali, Prefazione 4, 17)

Queste parole sembrerebbero sottintendere un suo coinvolgimento in qualche


complotto contro Caligola, o per lo meno che fosse stato sollecitato a prendervi
parte. Forse la deduzione è esatta, o forse all’autore piaceva alludervi, ora che il
principe era morto e sepolto. Quel che è certo è che i due non si amavano.
Caligola, invidioso della popolarità di Seneca come scrittore, ne criticò lo stile,
definendo le sue opere «semplici tirate teatrali», «sabbia senza calcina»
(Svetonio, Caligola 53, 2) (la sabbia e la calce erano usate per fabbricare
mattoni). La struttura stilistica delle sue opere era, secondo l’imperatore, non più
solida di tanti granelli di sabbia, con tutte quelle frasi brevi, senza nessun
collante che le tenesse insieme. Non è escluso che queste critiche fossero in
realtà dirette a Seneca il Vecchio, ma è più probabile che Caligola volesse
sottolineare le affinità tra lo stile del figlio e quello del padre.
In quegli anni la fama di scrittore di Seneca andava crescendo. La prima delle
sue opere note, la Consolazione a Marcia, risale al 39 o 40 d.C. 7 e rivela molte
cose sul programma letterario, filosofico e sociale dell’autore. La dedicataria è
una nobildonna, amica di Livia, la moglie di Augusto. L’intento dichiarato è
«consolare» Marcia per la perdita del figlio Metilio, morto tre anni prima.
L’argomento consente a Seneca di presentarsi come un uomo maturo, capace di
offrire conforto a una madre in lutto senza lasciarsi trascinare nel gorgo delle
emozioni, ma nel contempo gli offre l’occasione per affermare le sue qualità di
scrittore.
La Consolazione a Marcia contiene diversi elementi tipici degli scritti
filosofici di Seneca. Innanzitutto è in latino. Esprimendo in questa lingua le
dottrine del pensiero greco, l’autore sottolinea che le sue ambizioni non sono
soltanto letterarie ma anche filosofiche. Per di più, Seneca si presenta come un
uomo molto ben introdotto, uno a cui una donna altolocata come Marcia poteva
rivolgersi nel suo dolore.
Il tono distaccato con cui egli parla di un lutto devastante ha suscitato
perplessità in molti lettori: «Seneca è notevolmente privo di empatia verso il
dolore e la perdita di Marcia», ha commentato un critico. 8 Ma è un giudizio non
proprio equo. Il genere letterario della consolatio non aveva come obiettivo
quello di condividere con il destinatario il dolore per una perdita. Il suo scopo,
che i lettori latini avevano ben chiaro, era permettere all’autore di esibire la sua
maestria nel riproporre con modalità nuove e stile brillante i cliché utilizzati per
confortare i dolenti. Nella Consolazione a Marcia Seneca accenna ad alcune doti
del figlio, fra cui la bellezza, ma il suo sforzo è tutto volto a distogliere
l’attenzione della madre dalla morte del bambino, indirizzandola verso altre
relazioni.
Il centro emozionale è situato negli appelli rivolti al padre di Marcia all’inizio
e alla fine del saggio. Il padre era lo storico Cremuzio Cordo, che era stato
accusato di tradimento sotto Tiberio (per avere cospirato insieme all’odiatissimo
prefetto del pretorio Seiano) e costretto a suicidarsi nel 25 d.C. Evocando Cordo,
Seneca dà voce ai propri valori e, implicitamente, difende una vita dedicata alla
ricerca intellettuale, scientifica e filosofica, non contaminata dagli aspetti più
deleteri della corruzione politica, ma si tiene abbastanza sul vago per quanto
riguarda la difesa della repubblica romana effettuata dal padre di Marcia.
L’esempio che Cordo ci offre, sembra dire Seneca, non è che si debba sempre e
comunque lottare per cambiare la situazione politica, anche a costo della morte,
ma piuttosto che gli intellettuali possano sempre trovare nella scrittura e nella
contemplazione dell’immensità dell’universo una via per sottrarsi ai terrori e alle
limitazioni del proprio tempo. Chissà se questo messaggio consolò Marcia
(probabilmente no), ma la lezione offerta da Cordo era importante per Seneca ed
egli non la dimenticò mai nella sua vita e nel suo lavoro.
La consolazione si apre con l’invito a Marcia a ricordare il coraggio da lei
sempre dimostrato al tempo della persecuzione del padre e a fare appello a
quella stessa forza per affrontare il lutto che ora l’affligge. E si conclude con
un’immagine confortante della vita nell’oltretomba: il padre e il figlio di Marcia
sono stati accolti nei «liberi e immensi spazi dell’eternità, non sono divisi tra
loro dall’interporsi di mare, da alte catene di monti, da valli impervie o dalle
secche infide della Sirti: tutto per loro è piano e, con naturale agilità e scioltezza,
si compenetrano reciprocamente e si confondono con le stelle» (Consolazione a
Marcia 25, 3). Infine interviene Cordo, spiegando che la nuova consapevolezza
cosmica – filosofica – dei cicli dell’universo, di cui ora egli gode nel mondo
ultraterreno, costituisce uno sviluppo della conoscenza storica e insieme il suo
superamento:

Mi piaceva raccogliere gli avvenimenti di una sola epoca, che s’erano svolti in una parte
infinitesima del mondo e tra pochissimi uomini; ora è possibile vedere l’intera sequenza e
l’intreccio di tanti secoli, di tante età, di tutti gli anni; si possono vedere i regni che attendono
di sorgere e quelli che stanno per crollare, la caduta delle grandi città e il futuro fluire del
mare.
(26, 6)

Cordo aveva scritto una storia del periodo repubblicano, che il Senato aveva
dato ordine di bruciare quando l’autore era caduto in disgrazia. Ora Seneca
mostra un Cordo che si eleva al di sopra delle sue disgrazie personali e della città
che ha tentato di mandarlo in rovina. Dall’alto dei cieli, la stessa Roma, in un
periodo che molti ritenevano ancora glorioso, gli appare come una parte remota
del mondo. Da quelle altezze, egli scorge non soltanto il passato ma anche il
futuro, e vede il crollo delle città, dei poteri e degli imperi; e vede inoltre non
soltanto l’estinzione dell’umanità – un evento piccolo nella scala infinita del
tempo cosmico – ma anche grandi sommovimenti geologici. E preconizza la fine
del mondo in un grande incendio:

Quando poi verrà il tempo in cui il mondo dovrà estinguersi per rinnovarsi, codesti esseri si
distruggeranno con le loro stesse forze, le stelle si scontreranno con le stelle e, in una
universale conflagrazione dell’essere, arderanno d’un sol fuoco tutti i corpi celesti che ora
splendono in buon ordine. Anche noi, anime felici che abbiamo avuto in sorte l’eternità,
quando parrà a dio che sia il momento della ricostruzione, divenendo, nella distruzione di
tutto, una piccola aggiunta al crollo immenso, ci trasformeremo negli elementi primordiali.
Felice tuo figlio, o Marcia, che già conosce questo!
(26, 6-7)

Queste righe, le ultime del dialogo, dicono poco o nulla sul dolore della
madre, come se lo stato emotivo di Marcia non interessasse più all’autore. Ma la
loro retorica è possente e mira a distogliere la mente della donna dal lutto,
volgendola in un’altra direzione. In questa, che fu una delle sue prime opere,
Seneca mostra già di padroneggiare un tipo di scrittura capace di passare
agilmente da una visione individuale a una visione cosmica, per rivelare che il
mondo è ben più grande e ben più vasto della nostra stessa capacità
immaginativa e va oltre ciò che gli esseri umani sono in grado di visualizzare o
raggiungere. Attraverso l’elogio agiografico di Cordo, Seneca trasmette anche il
messaggio che la scrittura è la via per conquistare una fama e un riconoscimento
duraturi.
L’amore legittimo
Con il ritorno a Roma, Seneca fu nelle condizioni di crearsi un ambiente
domestico più stabile: una moglie e un figlio, contatti più stretti con i fratelli, la
madre, i nipoti. Sappiamo che si sposò ed ebbe un figlio, che però morì da
piccolo, nel 41 d.C. (Consolazione alla madre Elvia 2, 5). Seneca accenna
soltanto brevemente a questo lutto e sembra voler dire che la scomparsa del
bambino è un dolore soprattutto per la nonna Elvia, che ha visto morire in rapida
successione non uno, ma tre nipoti, presumibilmente figli di Novato e Mela (2,
4). Sul figlio scomparso Seneca non manifesta alcuna emozione, né qui, né
altrove, né accenna quale sia stato il suo ruolo di padre. Il figlioletto fu sepolto
dalla nonna Elvia e non sappiamo neppure se Seneca abbia partecipato al
funerale di quello che, a quanto ci è dato sapere, fu il suo unico figlio.
Di fronte alla tranquillità con cui Seneca parla della morte del figlio,
potremmo essere indotti a credere che sia stato un uomo di una insensibilità
mostruosa. Forse, però, faremmo meglio a non emettere sentenze precipitose: la
mortalità infantile a quel tempo era molto più frequente di quanto non lo sia ora
nel mondo occidentale. Questo non significa che non causasse dolore e lutto,
naturalmente, ma la morte di un infante era un evento meno inatteso e quindi
meno sconvolgente di quanto non lo sia oggi.
Fra l’altro, l’unica testimonianza che abbiamo della perdita di questo figlio è
contenuta nella Consolazione alla madre Elvia, che, si è visto, è un’opera
altamente letteraria: non è affatto l’espressione delle emozioni e dei sentimenti
più profondi dell’autore, bensì una composizione retorica e filosofica formale di
tipo virtuosistico. Ciò che Seneca si propone è ridurre l’intensità del dolore di
Elvia, e difficilmente ci sarebbe riuscito se avesse ricordato il suo lutto di padre.
Nella consolazione, Seneca indossa la maschera del filosofo e del saggio stoico,
capace di spiegare a una madre addolorata e troppo umana perché deve mettere
da parte il suo dolore. Dal punto di vista della dottrina stoica la morte di un
bambino appartiene al novero delle «cose indifferenti»: non è preferibile, ma non
è neppure tale da turbare la tranquillità del saggio. È questo il «personaggio» di
cui Seneca veste i panni, e pertanto è impossibile stabilire quanto esso
corrisponda alla realtà. Ciò non toglie che si possa considerare crudele anche la
semplice pretesa di vedere gli altri, inclusi i figli, come «cose indifferenti». In
ogni caso, non possiamo trarre nessuna conclusione chiara sui sentimenti di
Seneca riguardo alla morte di suo figlio. Possiamo soltanto essere certi che
aveva un figlio e che quel figlio morì.
La Consolazione alla madre Elvia contiene altri due passi indicativi del
rapporto di Seneca con l’infanzia. Alla madre egli rivolge un invito pressante:

E guarda ai nipoti che ti hanno dato: Marco è un piccino simpaticissimo, vedendo il quale se
ne va ogni tristezza. Non c’è dolore grande o recente, che incrudelisca in un cuore, che egli
non riesca a addolcire con le sue carezze. Quali lacrime non asciuga la sua gioia; quale cuore,
serrato dall’ansia, non riapre la sua arguzia? Chi non si sentirà invitato al gioco dalla sua
spensieratezza? E quel suo chiacchierio, che non ci si stanca di ascoltare, chi non attirerà,
strappandolo ai pensieri che l’imprigionano? Mi ascoltino gli dei e ci concedano che questo
bimbo sopravviva!
(18, 4-6)

Il piccolo dall’incessante cicalio era probabilmente Marco Lucano, il futuro


poeta, figlio del fratello minore di Seneca, Mela. È difficile stabilire quanto
corrisponda al vero il fascino che esercitava su di lui quel piccino con il suo
continuo cinguettio. Sappiamo però che, non appena fu abbastanza grande,
Seneca lo prese sotto la sua ala per insegnargli la letteratura, la retorica, la
politica e la filosofia... E per presentarlo a Nerone.
Nello stesso passo della Consolazione alla madre Elvia Seneca parla con
grande affetto della nipote Novatilla, figlia del fratello maggiore Novato. È per
lui come una figlia adottiva, benché suo padre sia ancora vivo. E ragiona su
come un adulto, in questo caso la madre Elvia, possa con i suoi comportamenti
essere un modello, un esempio morale per una fanciulla:

Irrobustisci e modella il suo comportamento. I princìpi che ci vengono impressi nella prima
giovinezza sono quelli che penetrano più a fondo. Lascia che si abitui alla tua conversazione,
che venga formata dalla tua autorità. Tu le darai molto, anche semplicemente con il tuo
esempio.
(18, 7-8)

L’idea che sia così facile insegnare l’etica a una adolescente è alquanto
ottimistica, di un ottimismo che forse non fu estraneo alla decisione di Seneca di
accettare il ruolo di precettore di Nerone. Noi, purtroppo, non abbiamo modo di
sapere se Elvia abbia avuto successo con Novatilla.
Veniamo infine alla questione della moglie di Seneca. 9 È probabile che le
nozze siano avvenute subito dopo il suo ritorno a Roma e l’avvio della carriera
politica. Intorno al 40 d.C. Seneca era sicuramente già sposato, perché nel 41
ebbe un figlio legittimo. Un cenno alla moglie si trova nel Terzo libro dell’Ira, in
cui l’autore scrive che la donna, essendole da tempo familiare la sua abitudine
all’autoanalisi notturna, resta con tatto in silenzio affinché il marito possa
procedere all’esame della sua giornata senza essere disturbato. Purtroppo, però,
della loro vita coniugale non sappiamo nulla. Sulla moglie Paolina abbiamo
alcune informazioni al momento della morte di Seneca, e alcuni studiosi
sostengono che sia stata l’unica sua sposa. È invece molto probabile che ci sia
stato un matrimonio precedente con una donna di cui non conosciamo né il nome
né la storia, morta in un momento imprecisato degli anni Quaranta, forse di
parto, e che il vedovo si sia poi risposato. Queste, però, sono soltanto illazioni,
perché né Seneca né nessuna delle nostre altre fonti fornisce qualche
informazione.
Sappiamo invece molto di più riguardo a ciò che Seneca pensava del
matrimonio in generale, perché all’argomento dedicò un trattato, scritto
probabilmente intorno al 38-39 d.C. o poco più tardi e intitolato appunto Sul
matrimonio, di cui purtroppo sopravvivono soltanto alcune citazioni. 10 Da queste
si desume che Seneca contestava la concezione epicurea, secondo la quale è
quasi sempre un errore sposarsi e avere figli, perché moglie e prole metterebbero
a repentaglio la tranquillità del filosofo. 11 Seguendo invece il modello stoico,
Seneca riteneva l’amore fra i sessi non una fonte di delusione e frustrazione,
bensì una necessità naturale e spirituale, che deve fondarsi sulla ragione e non
sulla passione. Il matrimonio viene quindi presentato come una componente
della vita ideale, ma, fedele alla dottrina stoica, Seneca lo colloca fra le cose
«indifferenti», non fra quelle di valore come la virtù. Si tratta tuttavia di un
«indifferente preferibile», il che significa che una buona moglie è meglio di
nessuna moglie. Gli epicurei, dichiara, avevano una visione troppo negativa
dell’istituzione matrimoniale:

Epicuro ... sostiene che solo in rari casi un saggio debba convolare a nozze, poiché molti
fastidi sono connessi con il matrimonio. E come le ricchezze, gli onori, la salute del corpo e
quant’altri noi chiamiamo «indifferenti» non sono né beni né mali, bensì, trovandosi in una
posizione mediana, divengono beni o mali secondo l’uso e l’esito che hanno, così anche le
mogli sono situate sul confine tra i beni e i mali. È però grave per un saggio arrivare a
dubitare se stia per sposare una donna buona o una cattiva.
(Sul matrimonio fr. 5, 45)

Anche in questo caso Seneca è alla ricerca di un compromesso fra gli ideali
della vecchia Stoà e la realtà della Roma del suo tempo. Ancora una volta tenta
di mediare fra la nozione stoica, secondo cui soltanto la virtù è essenziale per la
felicità, e la realtà sociale e psicologica per la quale la maggior parte delle
persone, compreso lui stesso, tende a volere nella vita qualcosa di più della sola
virtù. E in quel «di più» rientra anche il matrimonio. Inoltre, in uno spirito che
potrebbe essere considerato niente affatto stoico, egli aggiunge che a fare o
disfare un matrimonio non è tanto il comportamento del marito, quanto il tipo di
donna che egli sceglie. Tutto dipende dunque dalla condotta della moglie: una
posizione in contrasto con l’ortodossia della Stoà, per la quale ciò che conta è
l’atteggiamento del singolo individuo, non quello altrui. Per Seneca, la
responsabilità del successo o dell’insuccesso di un matrimonio è tutta femminile.
E qual è il pericolo morale più grande per un uomo sposato? Non è avere delle
amanti e tradire i voti matrimoniali, ma, sorprendentemente, amare troppo la
moglie. Seneca ironizza, per esempio, su un «tizio», sul quale pare circolassero
numerose battute, che viveva in simbiosi con la moglie:

Né lui, né sua moglie bevevano se prima il bicchiere non era stato toccato dalle labbra
dell’altro, per non dire di altri comportamenti ridicoli, indizi evidenti di una passione ardente
incapace di frenare la propria inopportuna violenza. Certo, l’amore al suo nascere è un
sentimento onorevole; è piuttosto il suo eccesso a renderlo disgustoso; e tuttavia conta poco,
una volta caduti nella follia, se all’origine di tale follia ci fosse una causa onorevole.
(fr. 26, Haase 1852)

Seneca allarga ancora il discorso: «Nei confronti della moglie di un altro


l’amore è sempre vergognoso, ma lo è anche nei confronti della propria, quando
è eccessivo» (fr. 27). Inoltre se la prende con i matrimoni nati da una relazione
adulterina e poi legittimati dopo il divorzio di uno dei coniugi. Tutti questi non
sono legami destinati a durare; una moglie non è, né potrà mai essere, una
tentazione come un’amante: «Non c’è nulla di più brutto infatti che amare la
propria moglie come se fosse un’amante» (fr. 28).
Il matrimonio, ripete instancabilmente Seneca, non deve fondarsi sulla
passione ma su qualcos’altro. Quel «qualcos’altro» non è la riproduzione perché,
come abbiamo visto, i figli appartengono alla categoria degli «indifferenti»,
anche se «indifferenti preferibili». La ragione principale per cui vale la pena
sposarsi è creare un contesto familiare che sia più idoneo alla vita virtuosa, più
facile da perseguire con al fianco una donna onesta. Un’altra buona ragione per
sposarsi è che il matrimonio può risultare utile anche nella vita quotidiana.
Seneca, stando ai frammenti del trattato che ci sono pervenuti, non sottolinea il
ruolo che il legame coniugale può svolgere nell’ascesa sociale, anche se questo
era un aspetto fondamentale nelle unioni del suo tempo. Con ogni probabilità la
sua prima moglie e anche la seconda erano donne di buona famiglia con
entrature importanti, tali da spianargli la strada verso i centri del potere
imperiale.
Il trattato sul matrimonio non mirava semplicemente a celebrarne le forme
legittime, ma anche a criticare la legislazione vigente che premeva affinché i
romani, volenti o nolenti, si sposassero. «Che cosa dire poi dei poveri che in
larga parte si sposano soltanto per scansare i rigori della legge contro i celibi?
Come potranno costoro guidare il comportamento della moglie, insegnarle a
essere casta, esercitare la loro autorità di mariti in una casa in cui è la donna a
portare i pantaloni?» (fr. 29).
Nel trattato Sul matrimonio Seneca si propone come guida politica e morale,
una voce etica, che parla con forza, soprattutto in campo sessuale, in un periodo
di incertezza e rivolgimenti sociali. Come molti altri suoi scritti, anche questo
non ha probabilmente alcun nesso con la biografia dell’autore: è un
componimento artificioso, altamente retorico, dettato da ragioni filosofiche,
letterarie e personali. Non è escluso che, scrivendolo, Seneca si proponesse di
difendere il proprio onore dopo lo scandalo in cui era stato coinvolto.

«LA FORTUNA HA MESSO ALLA PROVA LA MIA FEDELTÀ»

Sotto Caligola, a quanto pare, Seneca non se l’era poi passata tanto male: aveva
intessuto una solida rete di contatti fra l’aristocrazia e a corte, che comprendeva,
forse, il principe stesso. Ma nel 41 d.C. l’odiato autocrate fu assassinato nel
corso di una congiura, cui parteciparono numerosi senatori. Caligola non aveva
eredi maschi e i pretoriani (le guardie del corpo che proteggevano il palazzo
imperiale) imposero la nomina di Claudio (fig. 8). Il Senato, pur riluttante,
acconsentì. Claudio discendeva dalla famiglia Giulio-Claudia, era nipote di
Ottavia, la sorella dell’imperatore Augusto, e perciò aveva tutti i titoli per
aspirare al trono. Ma era claudicante e balbuziente, ed era ritenuto un idiota, per
cui raramente era stato preso in considerazione come possibile candidato.
In realtà, una volta asceso al potere, Claudio fu molto attivo, realizzò diverse
grandi opere pubbliche e ampliò i confini dell’impero rimasti invariati dalla
morte di Augusto. La sua conquista più importante fu la Britannia, che si era più
volte ribellata al dominio di Roma. Successivamente Seneca trasse un vantaggio
finanziario dalle opportunità concesse da quella nuova ala dell’impero. Gli
storici Svetonio e Tacito affermano che Claudio non possedeva le competenze
necessarie per governare l’impero ed era uno strumento nelle mani di mogli e
liberti. 12 Ma il loro giudizio non è condiviso da diversi studiosi moderni – e
neppure da Robert Graves nel suo romanzo storico Io, Claudio – che
considerano Claudio tutt’altro che uno sciocco. L’imperatore, essi affermano,
indossava la maschera di una persona debole e dipendente per poter
sopravvivere in un mondo in cui esibire una qualsiasi abilità significava andare
incontro alla morte.

8. Claudio, imperatore dal 41 al 54 d.C., esiliò Seneca in Corsica per adulterio.


Esiste anche un’altra teoria, non del tutto incompatibile con la precedente: per
Claudio il vero problema, dicono i suoi sostenitori, era costituito dalla struttura
del principato, in una cultura che ideologicamente era ancora fedele alla
repubblica. 13 L’impero era una formazione piuttosto recente e i suoi primi anni,
quelli della dinastia Giulio-Claudia, furono precari tanto sul piano istituzionale
quanto su quello politico. Augusto aveva svolto un complicato esercizio di
equilibrismo: si era definito princeps inter pares, cioè primo fra pari grado, e
insisteva nel dichiararsi un cittadino come tutti gli altri e non un re. L’idea che
Roma non fosse una monarchia costituiva uno degli elementi essenziali
nell’autodefinizione delle élite romane: i re erano stati cacciati con l’avvento
della repubblica e relegati nella leggenda, nei tempi bui di Tarquinio il Superbo.
Gli imperatori si trovavano dunque in una posizione difficile: dovevano
esercitare il potere senza tuttavia presentarsi come autocrati, e lo stesso assetto
giuridico del principato, così come era stato organizzato da Augusto, aveva delle
difficoltà intrinseche. Il Senato e il patriziato romano amavano considerarsi
ancora sotto un governo repubblicano, ma l’impero era ormai molto diverso
dalla repubblica: il potere vero era detenuto dall’esercito e dal sovrano. Per poter
governare efficacemente gli imperatori si trovarono, uno dopo l’altro, a lottare
con un Senato che ne contrastava le iniziative. Nel 41 d.C., quando salì al potere,
Claudio ricompensò la coorte pretoriana, che aveva contribuito alla sua ascesa, e
tenne sempre alta la guardia per timore di possibili oppositori: durante il suo
regno represse almeno sei congiure e mandò a morte trentacinque senatori con
una sentenza che sconvolse le élite romane.
In questo contesto, uno dei suoi primi atti fu quello di esiliare Seneca in
Corsica. Seneca era diventato una voce politica e letteraria importante e aveva
allacciato una rete di amicizie potenti, in particolare con le sorelle di Caligola,
Agrippina (fig. 9) e Giulia Livilla, che esercitavano ancora una certa influenza a
corte. Claudio aveva buone ragioni per temere che lo scrittore potesse capeggiare
una congiura. Secondo la versione che ci è stata tramandata, ad accusare Seneca
fu Messalina, ma non è affatto escluso che l’iniziativa sia partita dallo stesso
imperatore, il quale poi avrebbe scaricato la responsabilità sulla moglie. Seneca
fu accusato di avere commesso adulterio con Giulia Livilla, la sorella minore di
Caligola e nipote dell’imperatore. Giulia Livilla era stata appena richiamata a
Roma dal luogo in cui era stata relegata insieme ad Agrippina con l’accusa di
avere tentato di detronizzare Caligola.
Si trattava davvero di adulterio? Lo storico greco Cassio Dione – la cui
narrazione è spesso contraddittoria e inaffidabile – insinua che in realtà
Messalina era invidiosa di Giulia (Storia romana 60, 8, 5). Ma poco più avanti
egli lascia intendere che Seneca fosse non solo l’amante di Giulia Livilla, ma
anche di Agrippina. La relazione con Agrippina è sicuramente un’aggiunta
posteriore, che serviva a rendere ancora più sensazionale una vicenda già
piccante. Sui fatti veri e propri gli storici forniscono versioni contrastanti.
Messalina aveva motivi politici per liberarsi di Giulia Livilla e dei suoi amici e
sostenitori più importanti, uno dei quali era Seneca, il quale, essendo amico del
marito di Agrippina, Crispo Passieno, 14 aveva forti legami con la famiglia di
Germanico, che era il padre di Agrippina e di Giulia. Messalina era una giovane
ambiziosa, e forse vedeva nel marito di Giulia Livilla, Marco Vinicio, una
minaccia al proprio potere. L’uomo, che era amico di Seneca, era stato coinvolto
nell’assassinio di Caligola e non è escluso che avesse veramente mire
imperiali. 15 Con ogni probabilità, perciò, lo scandalo era stato sollevato per il
timore che Giulia Livilla e Seneca complottassero contro Claudio. Il liberto
Narciso, consigliere fidato di Claudio, si dice abbia avuto un ruolo importante
nella denuncia.
9. Agrippina minore, nipote e quarta moglie di Claudio, madre di Nerone, protesse Seneca e si adoperò per
il suo ritorno a Roma.

Il racconto che Seneca ci ha lasciato del suo processo e della condanna è


suggestivo ma vago:

Ho rischiato la mia testa per conservare la mia fedeltà; non mi è stata strappata nessuna parola
che non potessi pronunciare mantenendo pura la coscienza; ho temuto tutto per gli amici, per
me niente, se non di non essere stato abbastanza un buon amico. Non ho versato lacrime come
una donna; non mi sono mai messo, supplicando, nelle mani di nessuno; non ho fatto niente di
indegno di un uomo buono né di un uomo vero. Superiore ai miei pericoli, pronto ad
affrontare ogni minaccia, ho ringraziato la fortuna che aveva voluto mettermi alla prova ... se
fosse meglio che morissi io per salvare la fedeltà o venisse meno la fedeltà per salvare me.
(Questioni naturali 4a, Prefazione 15-16)

È chiaro che si tratta di un’autodifesa. Seneca indossa le vesti di colui che ha


agito nel modo più corretto e ha sofferto soltanto per le più nobili delle ragioni.
Si è rifiutato di parlare per non coinvolgere gli «amici», ai quali doveva lealtà.
Forse quegli amici erano in particolare Giulia Livilla e il marito, che avrebbero
potuto benissimo tramare contro Claudio. Seneca era consapevole, dice, di
rischiare non soltanto l’esilio o la morte, ma anche la tortura, e tuttavia non
aveva tradito, non si era lasciato piegare dalla paura della punizione né dalla
speranza di un qualche beneficio. Una ventina di anni dopo, però, ripercorrendo
gli eventi di allora ammette che la sua autodifesa forse non era del tutto sincera:
«Dopo di che, consultati con te stesso, per vedere se quello che hai menzionato è
vero o falso» (18). Ammette, cioè, che potrebbe avere fatto qualcosa di
sbagliato, ma rifiuta di dire a chiunque, tranne che a se stesso, quale sia stato
l’errore.
Nulla ci autorizza a scartare la possibilità che Seneca fosse immischiato in un
complotto politico, in un adulterio o in entrambe le cose. Nella consolazione che
dall’esilio rivolge alla madre Elvia, egli sembra proclamare la propria innocenza,
ma, come si è detto, anche quello scritto era un documento pubblico, benché
rivolto alla madre, sicché non c’era da aspettarsi che contenesse una confessione
dettagliata di una relazione adulterina. Seneca, cioè, non poteva che presentarsi
come un figlio coraggioso, ingiustamente punito. Ma l’altra consolazione, che
egli scrisse in esilio al liberto di Claudio, Polibio, sembra suggerire almeno la
possibilità della colpevolezza e forse anche qualcosa di più. 16 Nella supplica che
egli rivolge a quell’uomo potente perché venga revocato il suo esilio, Seneca
non dice nulla che suggerisca la falsità delle accuse, anzi, implicitamente, elogia
la straordinaria clemenza dell’imperatore che, anziché ucciderlo, l’ha
semplicemente bandito da Roma. Non ammette esplicitamente di avere
commesso i crimini imputatigli, né si presenta come un colpevole, ma soltanto
come la vittima della fortuna. E tuttavia l’assenza di qualsiasi rivendicazione di
innocenza non è priva di significato. Egli invita l’imperatore (supremamente
misericordioso, dice) a trattarlo come un innocente, senza però affermare di
esserlo. «Ora giudichi, valuti la mia causa come meglio crede: essa sia
riconosciuta buona dalla sua giustizia o dichiarata tale dalla sua clemenza.
L’innocenza sarà ugualmente un suo dono per me, derivi essa da un suo
riconoscimento o da un suo decreto» (Consolazione a Polibio 13, 3). La
possibilità che Claudio «sappia» che Seneca è innocente può voler dire che la
sua innocenza è un dato di fatto (e perciò conoscibile), ma il discorso è
formulato in modo tale da non escludere neppure la possibilità della
colpevolezza.
Secondo alcuni storici, se Seneca non protesta la propria innocenza è per
proteggersi, perché farlo avrebbe significato accusare Claudio di avere
commesso un’ingiustizia. Sostenere che l’imperatore aveva esiliato un innocente
avrebbe gettato un’ombra su di lui, facendolo apparire deliberatamente ingiusto
oppure ingenuamente fuorviato. 17 Ma il ricorso a una sintassi circospetta, piena
di subordinate e di alternative che si bilanciano, rende difficile leggere le sue
parole come una proclamazione di innocenza e non scorgervi invece un modo
cauto per evitare una confessione diretta. Molte delle argomentazioni di coloro
che respingono la colpevolezza di Seneca sono piuttosto deboli. Questi studiosi
ricordano che Seneca fu per tutta la vita un uomo morigerato, senza eccessi nel
mangiare e nel bere, e probabilmente – a parte qualche schizzo di fango lanciato
da quel pettegolo di Cassio Dione – non particolarmente promiscuo. 18 Ma chi ha
detto che tutti gli adulteri siano promiscui? Anche se Seneca non avesse avuto
decine di avventure con donne maritate (e, come insinua maliziosamente Dione,
con bei giovinetti), avrebbe potuto benissimo avere almeno una tresca amorosa.
Strategia politica e sesso non sono incompatibili. A Roma l’accusa di adulterio
veniva spesso usata contro le donne coinvolte in trame politiche. Le donne,
anche fra le élite della capitale imperiale, in cui contavano sempre di più, erano
ancora viste come oggetti sessuali e non come protagoniste della vita politica ed
etica. Tutto questo non esclude però che ci fosse un briciolo di verità nella
percezione comune che gli intrighi politici con la partecipazione di ambo i sessi
comportassero spesso anche un coinvolgimento sessuale. 19
Seneca e Giulia Livilla furono accusati di adulterio e condannati nel 41 d.C.
Per prima fu esiliata la donna, in un luogo diverso da quello di Seneca, e Claudio
ne ordinò la morte per fame alla fine del 41 o all’inizio del 42. L’esilio di Seneca
fu probabilmente preceduto da un lungo dibattito, prima che egli fosse confinato
in Corsica in un momento imprecisato del 42, quando aveva circa quarantasei
anni. Si racconta che Messalina lo volesse morto, ma che l’imperatore ne
mitigasse la condanna, relegandolo sull’isola.
FRA LE ROCCE DEL MARE DI CORSICA

La prassi di punire i trasgressori spedendoli su qualche isola era diventata


comune durante i regni di Augusto e Tiberio. 20 Ma, contrariamente a quanto si
potrebbe credere, la scelta del luogo non dipendeva dal fatto che un’isola fosse
considerata una prigione di massima sicurezza. Un’isola infatti era molto meno
sicura di una cittadella. Presidiare una costa è di gran lunga più difficile che
presidiare la cima di un monte. In realtà gli imperatori prediligevano questo tipo
di punizione per il suo simbolismo flessibile, che permetteva loro di calibrare la
manifestazione della propria ira in base al luogo prescelto. L’isolamento forzato
o l’esilio su un’isola anziché sulla terraferma suonava come una punizione
peggiore. Per i crimini più gravi c’erano le isole più remote, per i più lievi quelle
più vicine. E dunque il verdetto di Seneca fu abbastanza mite, perché fu spedito
su un’isola grande, popolosa e vicina alla terraferma. Il viaggio per mare da
Roma a Olbia, la città più a nord della Sardegna, e da Olbia alla Corsica
richiedeva appena due giorni. 21
Nel diritto romano, la relegatio in insulam comportava conseguenze
significativamente diverse dall’esilio vero e proprio. 22 L’exilium o deportatio
implicava infatti non soltanto l’allontanamento dalla propria residenza, ma anche
la perdita dei diritti civili e la confisca dei beni, denaro incluso. La relegazione
consisteva invece nell’essere semplicemente banditi da Roma in un luogo
particolare e poteva anche essere temporanea. Per questo, molti romani confinati
lontano da Roma – come Ovidio prima di Seneca – insistevano nel definire la
propria condizione un soggiorno obbligato e non un esilio. Da un punto di vista
concettuale, e forse anche giuridico, era più facile tornare dalla relegazione che
non dall’esilio. Nel caso particolare di Seneca, però, la punizione per adulterio
comportò forse anche una confisca parziale dei suoi beni: probabilmente metà
del patrimonio. 23
Seneca, in teoria, aveva un atteggiamento positivo nei confronti dell’esilio. 24
Nella Consolazione a Marcia, composta prima che questa punizione lo
riguardasse direttamente, egli trattava l’esilio come una delle tante traversie che
capitano nella vita, insieme ad altre quali il naufragio, l’incendio, la prigione e la
schiavitù, tutte disavventure che il saggio deve saper affrontare con equanimità.
Anche nelle opere scritte dopo la relegazione in Corsica, egli considera
l’allontanamento forzoso dalla propria città non solo un’esperienza con cui si
deve riuscire a convivere, ma anche un’occasione per mettersi virilmente alla
prova. 25 In una lettera all’amico Lucilio, situa l’esilio fra gli «indifferenti», vale
a dire fra quelle cose che non sono «né beni né mali» – come «la malattia, il
dolore, la povertà ... la morte» –, cose che non appartengono alla categoria della
virtù (Lettere morali a Lucilio 82, 10). Elogia più volte la forza d’animo
dimostrata da Publio Rutilio Rufo, spedito sull’isola di Mitilene dai suoi nemici
al tempo di Silla nel 92 a.C., il quale, agli amici che cercavano di consolarlo
ricordandogli che le guerre civili sarebbero presto terminate ed egli sarebbe
tornato a Roma, rispondeva con fierezza: «Preferisco che la mia patria si
vergogni del mio esilio, piuttosto che debba soffrire per il mio ritorno» (I
benefici 6, 37, 2). E Seneca, ammirato, scrive a Lucilio: «Forse che Rutilio non
fu grato al proprio destino e non accolse l’esilio a braccia aperte?» (Lettera 79,
14). In un’altra missiva ribadisce che l’esilio può essere un prezzo piccolo da
pagare per dimostrare la propria gratitudine agli amici. «Se vuoi ricambiare un
favore, devi essere pronto ad andare in esilio» (81, 27), afferma, con parole in
cui si coglie un’eco della sua esperienza personale: la vicinanza a Giulia Livilla e
alla sua famiglia era infatti stata la spinta propulsiva della sua carriera. L’unica
ragione per avere amici, spiegava in una lettera precedente, è aiutarli e soffrire
per loro, «avere qualcuno per il quale io possa dare la vita ... qualcuno da seguire
in esilio» (9, 10).
Ci aspetteremmo dunque che Seneca, da buon filosofo, considerasse il suo
esilio un fatto positivo, uno degli «indifferenti» preferibili e non il contrario. Ci
aspetteremmo che reagisse come il personaggio idealizzato che porta il suo
nome nel dramma apocrifo Ottavia, composto quando il Seneca reale era già
morto. Lamentando le costrizioni cui è sottoposto sotto il regime tirannico di
Nerone, il «Seneca» teatrale proclama:

Meglio se fossi stato nascosto, lontano dai mali dell’invidia,


remoto, tra gli scogli del mare di Corsica,
dove l’animo, libero e padrone di sé,
sempre mi era disposto al raccoglimento degli studi.
(Ottavia vv. 381-384)

Seneca rimase in Corsica per otto anni. Non sappiamo come li abbia trascorsi.
Possiamo supporre che abbia impiegato buona parte del tempo scrivendo e
studiando, e forse anche componendo alcune delle tragedie e una parte del
trattato L’ira, sul quale torneremo più avanti. Due sono le opere scritte con
certezza sull’isola, perché entrambe sono concepite come strumenti per facilitare
la fine dell’esilio: la Consolazione a Polibio e la Consolazione alla madre Elvia.
Diversissimi per tono e contenuto, entrambi questi testi hanno però come
obiettivo comune quello di promuovere il ritorno a Roma del loro autore, non
quello di consolare il dedicatario: anzi, sotto questo profilo le due consolazioni
non possono che essere considerate un completo fallimento. Tuttavia, entrambe
rivelano la grande abilità retorica del loro compositore e, di conseguenza,
riescono a perorarne con efficacia la causa.
La Consolazione alla madre Elvia è una variante assai originale del genere
consolatorio. Convenzionalmente, la consolatio era indirizzata a una persona in
lutto per la morte di un proprio caro: il defunto, ovviamente, non poteva esserne
l’autore. Seneca si propone invece di confortare la madre per la perdita del suo
secondogenito, cioè di lui stesso. E lo fa scindendosi. Da un lato interpreta il
ruolo del saggio, del filosofo che consola la madre dolente nel momento del
bisogno. Dall’altro è l’esiliato, colui che subisce una condizione implicitamente
equivalente alla morte. Seneca è consapevole di imprimere una torsione al
genere della consolatio: «Consultando tutte le opere composte dai più illustri
ingegni per frenare e moderare i dolori, non ho trovato esempio di persona che
avesse consolato i suoi cari, mentre essi lo stavano compiangendo»
(Consolazione alla madre Elvia 1, 2). L’opera rivela dunque la stupefacente
abilità retorica del suo autore.
Nel suo duplice ruolo, Seneca può proporsi da un lato come l’uomo dotato di
una eccezionale forza morale di fronte ai patimenti, dall’altro come l’uomo che
soffre in circostanze terribili, senza tuttavia autocommiserarsi. Egli insiste sui
cliché dello stoicismo: ciascuno di noi è autore della propria felicità, per il
saggio la sfortuna non è «cattiva» e così via (4, 3-5, 1; 6, 1). L’esilio non è che
una delle cose «indifferenti», e, in quest’ottica, si riduce soltanto a un
cambiamento di residenza. Ma proprio mentre rivendica la sua capacità di essere
superiore a tutte le forme puramente materiali di sofferenza, elencandole a una a
una, egli sottolinea anche le privazioni alle quali è sottoposto sull’isola,
tracciando un quadro estremamente efficace dei lussi inutili di cui l’esiliato viene
privato, con il risultato di evidenziare la superfluità dello sfarzo e insieme la
propria forza intellettuale, che gli permette di coglierne la vacuità:

Ma colui che rimpiange la sua porpora, stracarica di tinta, intessuta d’oro, cosparsa di fregi
variopinti, è povero per colpa sua, non della fortuna ... Gli mancherà sempre di più, rispetto ai
suoi desideri ... Brama mobili splendenti di vasi d’oro, pezzi d’argenteria marcati con i nomi
di artisti antichi, bronzi diventati preziosi in seguito alla follia di pochi ... una folla di schiavi
che faccia sembrare stretta anche una casa ampia, animali messi a pastura e costretti a
ingrassare, marmi provenienti da tutte le parti del mondo: anche se gli si accumula tutto
questo, un’anima insaziabile non si sentirà mai sazia, così come non ci sarà mai acqua
bastante a placare chi è assetato, non per naturale esigenza, ma per una febbre che gli brucia le
viscere, perché quella non è sete, è malattia.
(11, 2-3)

E al paragrafo 5 conclude: «È l’animo che ci fa ricchi».


Il fatto che la madre abbia bisogno di conforto per le grandi sofferenze patite
dal figlio induce a pensare che quel figlio soffrisse davvero, almeno nel senso
non filosofico del termine. La Corsica è una «petraia cosparsa di rovi» (7, 9), che
Seneca accosta alle lande più deserte e alle isolette più desolate dell’Egeo, come
Sciato, Serifo, Giaro e Cossura (6, 4). Quali altri luoghi, chiede, sono altrettanto
spogli e scoscesi da ogni lato? Quali sono meno fertili? Dove si trovano abitanti
altrettanto incolti? Quale terra è più impervia di questa? Quale ha un clima
peggiore? (6, 5) L’idea che Seneca abbia trascorso il confino in un ambiente
particolarmente inospitale riecheggia in un epigramma a lui attribuito, ma scritto
probabilmente da un autore più tardo e ispirato a vari passi della Consolazione
alla madre Elvia. È un’invettiva contro l’isola:

La Corsica è un‘isola barbarica, chiusa da scogliere a precipizio,


orrenda, enorme, sospesa ovunque sul vuoto.
Qui non porta frutti l’autunno, non porta raccolto l’estate,
il bianco inverno non porta l’olivo, dono di Atena.
Mai la primavera è gioiosa con la nascita della pioggia,
non un filo d’erba cresce su quello sfortunato suolo.
Non pane, non un sorso d’acqua, non l’ultima pira per la cremazione;
qui ci sono solo due cose: un esiliato e il luogo in cui è bandito. 26

Un epigramma analogo recita:

La Corsica è orrenda, quando arriva il primo caldo d’estate,


e ancor più brutale quando Sirio mostra il suo volto.
Risparmia quanti soffrono la relegazione qui, ossia i morti.
Che la tua terra sia lieve sulle ceneri dei vivi! 27

I versi riprendono il tema della Consolazione alla madre Elvia: essere esiliati
in Corsica è come essere morti. I corsi detestano ancora Seneca, e, dato il ritratto
che ha fatto della loro isola, non è difficile capirne il motivo. Secondo una
leggenda locale lo scrittore ebbe una relazione con una ragazza del posto, la
quale poi lo frustò con rami di ortica. E proprio l’ortica circonda ancora il luogo
in cui si dice che egli sarebbe vissuto, benché sia stato dichiarato monumento
storico dalla Francia (fig. 10). 28
Delle sue condizioni di vita sull’isola, Seneca traccia un quadro a tinte fosche,
quasi del tutto fittizio. Nello stesso passo in cui lamenta che la Corsica è solo
roccia sterile, abitata esclusivamente da barbari, osserva anche che alcuni vi si
trasferiscono spontaneamente, inclusi i romani. Sull’isola infatti c’era una vivace
colonia romana, con una élite raffinata. Seneca stesso era forse accompagnato da
amici e parenti, compreso il fratello Novato, ed è probabile che anche la moglie
lo avesse seguito.
A prendersi cura di lui erano numerosi schiavi; sebbene esiliato, ammette,
aveva più servitori dei grandi scrittori e filosofi dei tempi andati: «Sappiamo con
certezza che Omero ebbe un solo schiavo, Platone tre, Zenone nessuno, e fu il
fondatore della vigorosa e virile filosofia stoica» (12, 4). Una vita in compagnia
di familiari e amici, con almeno quattro o cinque servitori, non assomiglia molto
a un confino solitario. E anche le condizioni materiali non dovevano poi essere
così cattive come vorrebbe farci credere. La Corsica era separata da Roma da
appena una striscia di mare e il suo clima mite non era molto diverso da quello
della capitale: le lagnanze di Seneca sul clima sono dunque un’invenzione. E
l’isola non era affatto spoglia: secondo Plinio i suoi pini erano i più belli del
mondo, e i suoi porti, afferma Diodoro, erano ottimi. 29
10. Nei suoi otto anni di esilio in Corsica, Seneca visse in questa torre. Nonostante il quadro a tinte fosche
che egli traccia dell’isola, la Corsica aveva un buon clima e ospitava una fiorente comunità romana.

Ma allora perché Seneca ci consegna un’immagine così fuorviante della sua


vita sull’isola? Per due ragioni. La prima: la sua visione è modellata su quella
del poeta romano più famoso, Ovidio, che prima di lui aveva sofferto l’esilio e
ne aveva descritto le durezze nelle lettere inviate a Roma. 30
Ovidio era stato bandito da Augusto nell’8 d.C. per «un carme e un errore»
(Tristia): per essere stato coinvolto nell’adulterio della figlia dell’imperatore,
Giulia (in realtà, afferma il poeta, per avere visto qualcosa che non avrebbe
dovuto vedere), e per avere scritto l’Ars amatoria, che aveva scandalizzato il
principe. Era stato esiliato a Tomi (oggi Costanza) sul mar Nero, un luogo assai
più lontano e aspro della Corsica, ed è sulla falsariga di Tomi, che Seneca
raffigura l’isola in cui è relegato, con la differenza che, mentre la descrizione di
Ovidio è realistica, quella di Seneca è tutta letteraria. Tomi, dove la lingua latina
era pressoché sconosciuta, era davvero fredda, desolata, arida e remota; la
Corsica, al contrario, era vicina, era abitata da molti coloni romani, aveva un
clima gradevole e un paesaggio lussureggiante e fertile. Seneca, invece, la
dipinge come un’altra Tomi. Si guarda bene dal citare Ovidio ed evita qualsiasi
nesso esplicito con il poeta «ribelle», che non fu mai richiamato dall’esilio,
nonostante le sue numerose suppliche. Nel contempo è però attento a creare nel
lettore una connessione subliminale con un poeta i cui versi conosceva e
ammirava.
La seconda ragione della finzione letteraria è che serve a enfatizzare la sua
sofferenza. Dipingersi perfettamente felice non l’avrebbe di certo aiutato a
rientrare a Roma. Pertanto si ritrae come un uomo che coraggiosamente sopporta
gli assalti della fortuna, guidato dal buon senso e dalla filosofia. Non dice di
avere in realtà ben pochi motivi per lagnarsi, cosa molto più verosimile. Sceglie
un espediente retorico che gli consente di attribuire il dolore per il suo esilio alla
madre, evitando così l’autocommiserazione, pur alludendo costantemente alla
realtà della propria sofferenza. «Ti dichiaro che non sono misero e aggiungerò,
per tua maggior sicurezza, che non è neppure possibile che diventi misero»
(Consolazione alla madre Elvia 4, 3). L’insistenza con cui afferma di non essere
infelice è il suo modo per ribadire, più e più volte, che egli vive fra difficoltà che
piegherebbero un uomo più debole di lui. Una finzione molto utile.
La seconda consolazione, scritta durante la relegatio sull’isola, è rivolta a
Polibio, favorito, liberto e consigliere fidato di Claudio, per il quale svolgeva le
funzioni di segretario privato. Lo scritto, composto dopo due anni di esilio,
intorno al 43 o 44 d.C., è stato considerato per molto tempo una delle opere più
imbarazzanti del corpus senecano, per le abiette adulazioni rivolte all’imperatore
e al suo aiutante. 31 Cassio Dione parla di una lettera servile inviata a Messalina e
a Polibio dalla Corsica, di cui Seneca aveva tale vergogna che in seguito la
soppresse. 32 Su questa «lettera» gli studiosi hanno versato fiumi di inchiostro,
nel tentativo di stabilire se coincida con la Consolazione a Polibio, cosa molto
probabile. Se così fosse, Seneca evidentemente non era riuscito nell’intento di
distruggerla, anche se non è difficile capire perché possa avere tentato di farlo.
Polibio aveva perso un fratello, e in quell’occasione Seneca gli invia uno
scritto in cui compendia tutte le figure retoriche della letteratura consolatoria,
inframmezzandole però con lamenti sulla sua condizione di esiliato in Corsica e
con lodi smaccate all’imperatore. Drammatizza, come al solito, lo squallore e la
solitudine della sua vita sull’isola e si congeda dichiarando, esattamente come
aveva fatto Ovidio, di non riuscire quasi più a scrivere in latino, circondato
com’è da una comunità di barbari:

Questo scritto l’ho composto come ne sono stato capace, con mente intorpidita e indebolita
dalla lunga inazione. Se ti parrà che esso non sia degno del tuo genio o non basti a rimediare
al tuo dolore, pensa quanto è inetto a consolare gli altri chi è prigioniero dei suoi mali, pensa
con quanta difficoltà sovvengono le espressioni latine a un uomo attorno al quale strepita un
rozzo parlare di barbari, insopportabile anche per quei barbari che hanno un minimo di
istruzione.
(Consolazione a Polibio 18, 9)

Mescolando adulazione e consolazione, l’autore dice a Polibio che egli


supererà sicuramente il suo lutto, rivolgendo la mente al meraviglioso principe
che ha la fortuna di servire. Quanto a lui, prega perché gli dei regalino lunga vita
a Claudio, così che possa liberare il mondo dalle sofferenze di cui l’ha gravato il
suo folle predecessore, Caligola (12, 4-5). Del resto, Claudio gli ha già mostrato
la sua clemenza, condannandolo all’esilio anziché alla morte. Ringrazia il cielo
di vivere sotto un imperatore che rende la vita degli esiliati più serena di quella
dei principi sotto Caligola: un’affermazione, questa, che toglie non poca
credibilità alla descrizione del suo terribile soggiorno in Corsica.
Come giudicare i passi più deplorevoli della Consolazione a Polibio? Non è
un giudizio facile. In alcuni momenti l’elogio dell’imperatore è così iperbolico
che si è tentati di interpretarlo come una provocazione. A un certo punto, per
esempio, Seneca invita Polibio a non invidiare la possibilità che ora ha il fratello
defunto di essere finalmente libero, sereno, al sicuro, eterno (9, 7). Dal che si
deduce, ovviamente, che tutti i vivi – cioè tutte le élite romane che vivono sotto
il governo di un autocrate, per quanto benevolo – non sono mai liberi dal terrore,
mai sereni, mai al sicuro. Una supplica è sempre uno scritto difficile da
comporre: se il supplicante non distorce a sufficienza la realtà, fallisce il
bersaglio, che è quello di rabbonire il destinatario, ma se carica troppo le tinte
rischia di renderlo diffidente. La Consolazione a Polibio non raggiunse
evidentemente lo scopo per cui era stata composta: Seneca fu lasciato in Corsica
per altri sei anni.
La domanda cui è davvero difficile rispondere non è tanto perché Seneca si sia
piegato a adulare l’imperatore per ottenere la grazia, quanto perché mai volesse
andarsene dalla Corsica. In fondo, la vita sull’isola non era poi così brutta:
Seneca viveva probabilmente in uno stato di semisolitudine, scrivendo e
studiando, in compagnia di un gruppetto di familiari e di amici. Con la
Consolazione a Polibio è come se egli supplicasse il leone di lasciarlo tornare
dentro la sua tana. Un desiderio così forte di riprendere il proprio posto nel cuore
della società romana testimonia un’ambizione irrefrenabile, un bisogno acuto di
essere al centro delle cose per esercitare un’influenza benefica sui potenti e di
essere circondato da una grande cerchia di amici, ammiratori, colleghi, studenti,
patroni e clienti.
Se gli appelli politici cadevano nel vuoto, gli restava pur sempre la filosofia,
che gli offriva la promessa dell’autonomia, della virilità e del controllo totale
sulla propria vita, a dispetto degli assalti della fortuna. Il pensiero della costanza
del saggio deve essergli stato di conforto in tutti quegli anni trascorsi in Corsica.
Forse fu proprio in questo periodo che egli compose due dei suoi trattati più
importanti sul tema della tranquillità nelle avversità: La provvidenza e La
costanza del saggio. Il primo, dedicato all’amico Lucilio, cui in seguito
indirizzerà le Lettere morali, affronta un argomento classico: se la provvidenza
governa il mondo, come si spiega che anche i buoni siano colpiti da tanti mali?
(La provvidenza 1, 1) Dio, risponde Seneca, è come un padre buono e severo
(come Seneca il Vecchio), non come una madre indulgente. Egli ci mette alla
prova, e così facendo ci fortifica. Di conseguenza, a un uomo virtuoso non può
mai succedere niente di male. Ogni apparente difficoltà è in realtà un cimento
che lo irrobustisce e lo aiuta a conoscersi meglio: «Infelice l’uomo che non ha
mai subìto una disgrazia ... perché quell’uomo non ha mai avuto modo di
mettersi alla prova» (3, 2). Un uomo buono, anche se esiliato, ridotto in povertà
(com’era capitato a Seneca), può essere considerato infelice, ma non esserlo mai
davvero (3, 1). A ostacolare la felicità non sono i pericoli o le avversità, ma le
comodità e gli sprechi: «Chi ha sempre avuto i vetri che lo riparano dagli
spifferi, chi ha sempre avuto i piedi intiepiditi da scaldini continuamente
rinnovati, chi ha avuto sale da pranzo continuamente riscaldate da tubature
disposte sotto il pavimento e attorno ai muri, costui non sarà sfiorato senza
pericolo dalla prima corrente d’aria» (4, 10). Chi invece subisce gli assalti della
fortuna (compresi l’esilio e la solitudine) può trovare conforto nel pensiero di
non essere mai realmente lontano dal centro di tutte le cose e mai realmente solo
finché la sua volontà è in sintonia con quella della natura: «È grande
consolazione sentirsi ghermiti insieme con l’universo» (5, 8).
La costanza del saggio si occupa di un argomento analogo. Lo scritto è
dedicato a un altro amico, Sereno Anneo, forse un parente, divenuto poi molto
potente a Roma, presumibilmente con l’aiuto dello stesso Seneca. Il nome
Serenus significa «calmo», e Seneca potrebbe averlo scelto come dedicatario
anche per questo, perché lo scritto ruota intorno al modo in cui il saggio riesce a
conservare la calma e la risolutezza di fronte alle disgrazie. Qualunque cosa gli
accada, Sereno non muterà, resterà «costante». Su un concetto in particolare
insiste l’autore: lo stoicismo è la risposta più virile alla sfortuna. Gli stoici, a
differenza di altri filosofi, indirizzano gli uomini verso il sentiero che porta alla
virtù, o meglio, alla virtus, che significa letteralmente «virilità». Ispirandosi
anche ai cinici, Seneca sostiene che il saggio non può mai perdere nulla, neppure
nelle circostanze che si potrebbero considerare le peggiori, perché «il suo unico
possesso è la virtù, e da essa non potrà mai venire escluso» (La costanza del
saggio 5, 5). Colui che non dà peso alla speranza né alla paura non resterà mai
deluso e non soffrirà mai alcuna vera perdita (9, 3). Non solo: il saggio, anche se
esiliato, è al servizio del bene di tutto il corpo politico di cui fa parte; «difende la
posizione che la natura gli ha assegnato», e pertanto la sua condizione è sempre
«quella di un uomo», indipendentemente dallo status sociale, che appartiene al
mondo delle apparenze. Così facendo, il saggio svolge quindi un servizio civico:
«Che esista un essere invincibile, che esista l’uomo contro il quale la sorte non
può nulla, giova alla civile convivenza del genere umano» (19, 5).
Il saggio non si lascia scalfire da nessun oltraggio: le ingiurie non lo toccano.
Perché dovrei offendermi, chiede Seneca (aprendo un breve squarcio sul suo
vero aspetto fisico), se qualcuno ironizza «sulla mia testa liscia, sulla mia vista
debole, sulle mie gambe stecchite o sulla mia bassa statura? Ma che offesa è
udire quello che tutti vedono?» (16, 4). Se questa descrizione corrisponde al
vero, Seneca non doveva essere particolarmente bello, ma la sua bravura sta nel
trasformare in un vantaggio – retorico, letterario e filosofico – anche un aspetto
fisico non proprio allettante.

DOVE CONDUCE L’IRA

Gli scritti composti da Seneca durante la relegatio, pur non sortendo l’effetto
immediato di garantirgli il ritorno a Roma, non passarono inosservati, anzi, gli
consentirono di continuare a raccogliere onori e ammirazione per le sue abilità
retoriche e la sua cultura, e prepararono il terreno per la sua nomina a precettore
di Nerone. Ebbero tuttavia anche un’altra funzione importante: lo aiutarono a
elaborare i sentimenti di dolore, noia, impotenza e in particolare, forse, a
superare la rabbia che in alcuni momenti deve essere stata fortissima in quella
sua reclusione forzata.
L’ira è un argomento su cui Seneca discetta con particolare efficacia. Il trattato
dedicato a questo tema non può essere datato con certezza; 33 non si può
escludere che sia stato composto immediatamente prima dell’esilio, ma è molto
più probabile che sia posteriore alla condanna. L’ipotesi più credibile è che i
primi due libri risalgano al periodo corso e il terzo a dopo il ritorno a Roma:
quest’ultimo, infatti, appare più tardo e scritto chiaramente nella capitale. 34
L’ira doveva riguardarlo da vicino: un soggetto utile su cui meditare durante la
relegatio. Seneca non poteva non avere provato l’impulso a dare sfogo alla sua
collera nel vedersi accusato e condannato, cacciato da Roma e privato di parte
dei suoi beni. E per di più per un reato che forse non aveva commesso. Ma anche
se fosse stato colpevole di cospirazione o di adulterio, una condanna pubblica
così umiliante e una privazione così forte non poterono non suscitare in lui un
risentimento profondo. Nel trattato sull’ira, però, Seneca affronta le proprie
emozioni soltanto in modo indiretto. Non c’è un solo riferimento esplicito alla
sua esperienza personale e alle terapie da lui adottate per superarla.
Di quale ira si parla dunque nel trattato? Il libro è dedicato al fratello Novato,
che, così dice Seneca, lo aveva invitato a scrivere sui rimedi per placare l’animo
esacerbato. Forse Novato considerava il fratello minore particolarmente irritabile
o forse era egli stesso soggetto ad attacchi di collera che ne sconvolgevano la
calma interiore. L’ipotesi più probabile, però, è che Seneca volesse persuadere
l’imperatore a non essere più adirato con lui e a farlo tornare a Roma. Lo scritto
mette a fuoco l’ira dei potenti, e inizia con l’affermazione iperbolica che
«nessuna calamità è costata più cara al genere umano» dell’ira, che ha provocato
spargimenti di sangue, avvelenamenti, incendi, distruzioni di città, morti
violente, assassinii e guerre, in cui «interi popoli sono stati mandati a morte
senza distinzione alcuna» (L’ira 1, 2, 3). Un’analisi di questo genere attribuisce
un grande peso alle passioni umane e molto poco all’economia o all’ideologia
politica. Seneca tralascia il grande quadro politico per concentrarsi su una tessera
assai più piccola della società, il singolo individuo. Il suo punto di vista
corrisponde perfettamente alla posizione delle élite romane dell’epoca, ormai
prive di vero potere, ma ci consente anche di cogliere la sua situazione personale
di vittima della collera di un autocrate.
Sarebbe tuttavia riduttivo pensare che Seneca abbia concepito L’ira soltanto
come un mezzo per persuadere l’imperatore a perdonarlo oppure per attrarre il
pubblico dei lettori e alimentare così la sua popolarità. L’interpretazione migliore
è forse quella che considera questo trattato una meditazione rivolta a tutti coloro
che sono tentati di cedere alle emozioni eccessive, ossia a noi tutti. Qui, come in
altre occasioni, Seneca riesce a trascendere la propria situazione di esiliato e a
guardare le cose dall’alto, parlando della condizione umana in generale. Il tema
delle «passioni», vale a dire delle emozioni eccessive (e quindi negative), fu
importante per tutte le varie scuole filosofiche romane, così come lo era stato per
le scuole ellenistiche che ne rappresentavano il modello. Gli stoici non erano i
soli a ragionare sui turbamenti emotivi. Dopo l’annessione della Grecia operata
da Alessandro Magno e la scomparsa, nel IV secolo a.C., della polis, in cui tutti i
cittadini (maschi) delle classi alte partecipavano attivamente al governo della
città, la vita intellettuale si era sempre più concentrata sull’individuo, e la
filosofia etica si era sempre più spesso dedicata a quella che noi chiameremmo
psicologia. Nel periodo ellenistico i filosofi avevano cominciato a interrogarsi su
come potesse un essere umano conquistare l’imperturbabilità, l’atarassia. Il
contributo maggiore in questo campo era venuto dagli stoici, che avevano
indagato con particolare profondità, e catalogato, i vari modi in cui un individuo
può lasciarsi turbare da falsi pensieri, che, in base alla loro teoria, sono la causa
delle emozioni negative, vale a dire delle «passioni». 35
Gli stoici suddividevano le passioni in quattro categorie: il piacere, il dolore, il
desiderio e la paura, che, con i loro eccessi, impedivano di raggiungere la giusta
tranquillità spirituale. Ma non tutti i sentimenti sono negativi: quelli che
collimano perfettamente con la realtà, così come viene intesa dagli stoici, sono
positivi. Il vero saggio, per esempio, proverà «gioia» nel constatare la propria
bontà. 36 Questi sentimenti, però, sono affatto diversi dalle «passioni», che,
provocate da falsi concetti della realtà, hanno la capacità di mettere a tacere il
pensiero retto. Così, per esempio, chi vive nell’ansia per timore della morte è
convinto che la morte sia davvero un male anziché una cosa indifferente (anche
se a volte non preferibile).
Di tutte le passioni, la peggiore è proprio l’ira, perché totalmente aggressiva e
distruttiva. Se le altre passioni «hanno, a dire il vero, una componente di
tranquillità e calma», l’ira invece «è tutta eccitazione e impulso a reagire, è
furibonda e disumana brama di armi, sangue e supplizi, dimentica se stessa pur
di nuocere all’altro, è pronta a precipitarsi immediatamente sulle armi ed è avida
di una vendetta destinata a coinvolgere il vendicatore» (1, 1). A scatenare l’ira
sono la percezione di avere subìto un’ingiuria e il desiderio di vendicare
un’offesa, che l’adirato ritiene di avere ricevuto o di essere sul punto di ricevere
(2, 1, 3). Seguendo la dottrina stoica classica, Seneca afferma che l’ira è un
male: nemica della pace interiore, è priva di qualsiasi utilità politica e sociale e
non serve neppure per governare o fare la guerra. Possono esserci momenti in
cui un soldato deve combattere e uccidere, in cui un governante deve condannare
un criminale, ma queste azioni dovrebbero essere sempre eseguite secondo i
dettami della ragione, mai secondo i capricci della passione. La legge, non l’ira,
deve essere l’arma primaria dello stato.
L’accento posto da Seneca sul fatto che è responsabilità del leader controllare
le proprie emozioni ha un evidente significato politico in quella prima fase
dell’impero. La transizione dalla repubblica – un regime in cui il potere era
condiviso da un’ampia classe di pubblici ufficiali appartenenti alle varie
istituzioni, quali il tribunato, l’esercito e il Senato – al principato, in cui il potere
ultimo era nelle mani di un uomo solo, era piuttosto recente. L’abito mentale,
politico e culturale dei romani non si era ancora messo al passo con la nuova
realtà. 37 Le élite continuavano a concepire se stesse come membri di una vera
classe di governo, benché non godessero più di un reale potere politico, ma
facessero ormai anch’esse parte del novero dei sudditi. A ciò si aggiunga che il
potere del principe poggiava in maniera preponderante sulla sua capacità di
mantenere buoni rapporti con l’esercito, per cui non era più, come ai tempi della
repubblica, la legge ad avere l’ultima parola, bensì l’imperatore con il sostegno
dei militari. Era quindi più che mai importante che il principe sapesse mediare
fra i due poli opposti dell’ira e della clemenza. Seneca cita con orrore le terribili
parole di Caligola, Oderint dum timeant: «Che mi odino pure purché mi
temano». 38 Un simile grado di aggressività esula dai limiti dell’autorità per
diventare semplicemente una mostruosità, dichiara.
Ma non sono soltanto i governanti a dover essere consapevoli dei propri moti
dell’animo. Nell’Ira Seneca affronta uno dei suoi temi principali: come dotarsi
di un senso di sicurezza in un mondo incerto e come conquistare il vero potere
senza inseguire false promesse che si dimostrano sempre illusorie. L’ira è una
tentazione per tutti, egli afferma, perché può sembrare affine a beni reali quali la
giustizia e la sicurezza. Ma, come tutte le passioni, è una falsa amica che ci
alletta per spingerci a trasgredire: «Solo la virtù è sublime ed elevata, e non c’è
mai la grandezza dove non c’è anche la compostezza» (1, 21, 4).
Uno dei contributi più originali di Seneca all’indagine stoica delle emozioni è
l’attenzione che egli riserva ai sentimenti involontari. 39 Questa indagine lo
conduce a una visione molto più sfumata e plausibile dell’ira e delle altre
passioni. Occorre, egli afferma, saper distinguere fra gli «impulsi» (motus), che
sono risposte preconscie e non richiedono l’assenso della mente, e le vere
passioni (affectus) che implicano di necessità una serie particolare di credenze. 40
Se ci rovesciano sulla testa un secchio di acqua fredda, rabbrividiamo; se
veniamo insultati, arrossiamo; e a teatro possiamo provare rabbia, pietà o dolore
per i personaggi sul palcoscenico, pur sapendo benissimo che non sono reali.
Tutte queste emozioni però, dichiara Seneca, non sono vere «passioni», a meno
che non acconsentiamo a dare loro credito.
Le metafore cui egli ricorre nell’analizzare l’ira sono tratte molto spesso dal
linguaggio medico. Lo stato d’ira è incompatibile con la felicità ed è perciò
simile a una malattia, che va curata con la filosofia. Chi è sano, moralmente e
psicologicamente, è felice: «Costitutivo e specifico della virtù è il godere e
rallegrarsi» (2, 6, 2). Il saggio non si infurierà mai per il comportamento sciocco
degli altri. Se si adirasse ogni volta che si imbatte in una condotta negativa, tutta
la sua «vita trascorrerebbe nell’ira e nella tristezza» (2, 7, 1). Egli perciò si
considera un terapeuta, circondato da malati (2, 10, 7): proverà pietà per gli
sconsiderati e desidererà curarli, perché sa che i loro atti non potranno mai
ferirlo.
Particolarmente interessante è la descrizione della genesi e dello sviluppo
dell’ira, e i consigli su come modificare i nostri comportamenti. È molto più
difficile eliminare del tutto l’ira che controllarne le manifestazioni, dicono
alcuni. Seneca dissente; piuttosto è vero il contrario: «È più facile eliminare le
passioni rovinose», come richiede la via stoica, «che controllarle» (1, 7, 2). Altri
potrebbero sostenere che in talune circostanze sia giusto adirarsi ed esigere, per
esempio, la punizione di colui che ha commesso il male («l’ira è avida di
punire»). Ma la scelta migliore, dichiara Seneca, è fingere di essere adirati, non
esserlo davvero: una messa in scena, al contrario della vera ira, può sempre
essere tenuta sotto controllo (2, 16 sgg.).
Il saggio non si limita a indicare il metodo di autoeducazione più idoneo, ma
si occupa anche della formazione dei bambini e degli adolescenti, ai quali
occorre insegnare l’approccio corretto verso le passioni. Forse la madre di
Nerone, Agrippina, aveva letto i primi libri dell’Ira, in cui si dimostra
chiaramente quanto sia importante la formazione dei giovani, e forse fu anche
per questo che scelse Seneca come precettore del figlio dodicenne:
«L’educazione esige la massima diligenza per poter dare il frutto più abbondante.
È facile infatti adattare le anime ancora tenere, è difficile recidere i vizi che sono
cresciuti con noi» (2, 18, 2).
Seneca ha una visione molto pessimistica degli effetti sconvolgenti, debilitanti
e brutalizzanti dell’ira (e di altre emozioni negative) sugli esseri umani, ma è
convinto che con la giusta forma di esercizio essi possano migliorare fino a
eliminarla completamente. Quando siamo in preda all’ira, scrive, sarebbe
sufficiente guardarsi allo specchio per capire che è una malattia odiosa, e
chiunque voglia essere sano e felice deve liberarsene interamente.
La concezione delle passioni come mali facilmente curabili, che Seneca
espone nelle opere filosofiche, è in netto contrasto con la rappresentazione delle
emozioni violente che egli propone nei drammi. Non sappiamo quando siano
state composte le otto tragedie giunte fino a noi sotto il suo nome: Edipo,
Agamennone, Fedra, Medea, Ercole furioso, Le troiane, Tieste e Le fenicie,
quest’ultima incompiuta, 41 ma è probabile che siano state scritte nel corso di
molti anni. L’analisi stilistica induce a ritenere che alcune siano state composte
relativamente presto, forse sotto Caligola o negli anni dell’esilio, mentre altre (il
Tieste e probabilmente Le fenicie) potrebbero appartenere al periodo neroniano.
Sul rapporto fra le tragedie e le opere filosofiche i critici hanno discusso a lungo.
Alcuni studiosi sostengono che i drammi esemplificano ciò che accade quando
non si riesce a controllare le passioni: le tragedie sarebbero cioè delle moralities
stoiche, drammi allegorico-pedagogici raffiguranti la caduta di quanti si lasciano
sopraffare dall’ira, dalla lussuria o dalla paura.
Questa analisi, però, non rispecchia l’esperienza che si ha leggendo o vedendo
le tragedie, perché le passioni sono dipinte in modo troppo vigoroso, vivido e
godibile per essere allegorie. Ciò non significa che i drammi non abbiano alcuna
relazione con le meditazioni senecane sulle passioni e sui loro effetti negativi:
più che illustrazioni delle prose, le tragedie, nella loro cupezza, sembrano la loro
immagine speculare. Il Seneca drammaturgo indossa le vesti e la voce di
personaggi resi folli da desideri incontenibili e si diletta della loro ampollosa
retorica.
Durante l’esilio Seneca compose probabilmente non soltanto i primi libri
dell’Ira, ma anche la Medea. Basata sullo stesso mito della tragedia omonima di
Euripide, in quella senecana Giasone ha già recuperato il vello d’oro con l’aiuto
della principessa della Colchide, Medea, i due sono sposati da diversi anni e
hanno dei figli. Ora vivono a Corinto, e Giasone medita di risposarsi con la
principessa Creusa per consolidare la sua posizione in Grecia. Furibonda, Medea
prepara la vendetta. Progetta di uccidere prima la principessa con un abito e una
corona avvelenati, poi i figli che ha avuto da Giasone, e, commessi gli omicidi,
fugge su un carro trainato da draghi, che le viene offerto dal nonno, il dio del
sole Elio.
Medea è una donna esiliata dalla sua terra, rosa dall’ira, decisa a vendicarsi
del suo nemico e insieme a conservare la propria dignità e autonomia; in lei si
coglie un’eco oscura della vita in esilio di Seneca. La sua furia è immaginata con
grande maestria; a volte Medea sembra citare frasi tratte dall’Ira, come quando
parla della difficoltà del re di Corinto, Creonte, a controllare le proprie passioni:

Quanto difficile sia distogliere dall’ira un animo


già eccitato e quanto degno di un re creda chiunque
agli scettri le mani superbe abbia accostato
andare per la via che ha intrapreso, nella mia reggia l’ho imparato.
(Medea vv. 202-206)

Medea sa che l’ira può accecare la mente e corrompere l’animo dei potenti.
Alcuni versi della tragedia anticipano le meditazioni in prosa di Seneca sul
dovere che hanno i governanti di essere compassionevoli (La clemenza):

... Questo i re possiedono


di magnifico e immenso, tale che nessun giorno abbia a sottrarlo:
giovare ai miseri, proteggere in fido asilo i supplici.
(Medea vv. 223-225)

Medea assomiglia agli imperatori di cui Seneca era consigliere, ma anche a


Seneca stesso. Accusa Giasone di trasformarla in un’esiliata, non una, ma due
volte: «Andammo, e andiamo, Giasone, in esilio – novità / non è mutare sede:
nuovo è invece il motivo dell’esilio» (vv. 447-448).
Il vero fascino di questo dramma, così come di molte tragedie senecane, sta
nel vigore stupefacente con cui Medea esprime la sua autonomia, il suo io e la
forza di continuare a essere se stessa, indipendentemente dalle circostanze.
Quando progetta di uccidere i figli, dichiarandosi pronta a crimini peggiori di
quelli già commessi (come l’assassinio del fratello), Medea è una donna che ha
maturato una propria identità (mitica ed eroica), così che ora, finalmente, è
degna del nome che porta:

... Con questi finora si è solo


esercitato il nostro rancore. Cosa di serio avrebbero potuto
osare queste mie inesperte mani, questo furore di fanciulla?
È adesso che sono Medea.
(vv. 907-910)

La sofferenza l’ha resa capace di azioni che sono frutto del suo io adulto. Ha
soppresso la famiglia e i vecchi amici, e così facendo si è spogliata del suo io
passato, più debole: ora può realizzare tutto il suo potenziale, lei che è nipote del
Sole, una figura la cui ubiquità e il cui potere ricordano quelli dell’imperatore.
La tragedia contiene echi sorprendenti delle esperienze che Seneca andava
compiendo nel periodo in cui essa fu composta.
Come tutti gli eroi tragici del teatro senecano, Medea ha un bisogno disperato
di spettatori. Ha appena ucciso uno dei figli, ma lo considera un delitto inutile,
perché Giasone non vi ha assistito:

Che, sciagurata, ho fatto? Sciagurata? Mi penta io pure,


l’ho commesso. Un gran piacere si insinua in me contro mia voglia,
ed ecco che si accresce. Questo soltanto mi mancava:
costui in veste di spettatore. Nulla considero commesso ancora:
andò sprecato qualsiasi crimine abbia commesso senza costui.
(vv. 990-994)

Forse il bisogno di avere un pubblico in carne e ossa era anche per Seneca una
delle ragioni principali per cui desiderava tornare a Roma, pur sapendo quanto
fosse pericoloso salire sul carro del drago.
Purtroppo non abbiamo nessuna testimonianza su chi fossero gli spettatori dei
suoi drammi, né dove o come essi fossero rappresentati. In passato molti studiosi
ritenevano che le tragedie fossero destinate alla sola lettura, ma oggi quasi tutti
concordano nell’affermare che erano concepite per essere rappresentate sulla
scena. Può darsi che qualcuna sia stata recitata quando l’autore era ancora in
esilio, e questo spiegherebbe perché la sua fama abbia continuato a crescere
negli otto anni in cui egli rimase relegato in Corsica.

La revoca dell’esilio

Umiliata la morte, ora ritorno. 42

Nel 48 d.C. l’artefice dell’esilio di Seneca, Messalina, moglie di Claudio,


superò ogni limite, sposando Gaio Silio, il console designato, mentre il marito
era lontano da Roma. 43 Correva voce che Claudio fosse connivente, tanto che
prima di partire le aveva consegnato i documenti dell’annullamento del
matrimonio. Le fonti antiche raffigurano, com’era prevedibile, Messalina come
una ninfomane; gli storici moderni tendono piuttosto a considerarla una
cospiratrice, politicamente ambiziosa e astuta, che sperava, con l’aiuto di amici,
di approfittare dell’assenza del marito per effettuare un colpo di stato e ottenere
il controllo della città e forse dell’impero. Per sua disgrazia, Claudio si rivelò più
scaltro di quanto avesse dato a vedere ed ebbe sentore del complotto: al suo
ritorno, condannò a morte Silio. A uccidere Messalina provvide invece il liberto
Narciso, il quale temeva che Claudio non avesse il coraggio di andare fino in
fondo. L’imperatore evitò così di apporre la propria firma sull’ordine di
esecuzione della ex moglie. Messalina lasciava un figlio, Britannico, di appena
sette anni.
Il vedovo aveva bisogno naturalmente di risposarsi per garantire la
successione e anche per consolidare le sue credenziali dinastiche, alleandosi,
grazie al matrimonio con un altro ramo della famiglia Giulio-Claudia. Scelse
come sposa l’ambiziosa Agrippina minore, che era sua nipote e sorella
dell’amica morta di Seneca, Giulia Livilla. Secondo Tacito, i due avevano già
una relazione prima delle nozze e Claudio la preferì ad altre candidate per i suoi
modi seducenti e per il lignaggio del figlio. La cerimonia fu però rinviata per
timore della reazione popolare di fronte a quel vincolo incestuoso (Annali 12, 5,
1). Agrippina utilizzò il tempo dell’attesa per organizzare un altro connubio fra
potenti: fidanzò il figlio adolescente con Ottavia, la figlia di Claudio. Agrippina
e Claudio si sposarono nel 49.
Una buona notizia, per Seneca, quel matrimonio, anche se, naturalmente, non
lo sapeva ancora. Racconta Tacito:

Agrippina, per non farsi conoscere solo nel male, ottiene per Anneo Seneca il richiamo
dall’esilio e insieme l’assegnazione della pretura, persuasa che quest’atto avrebbe riscosso
favore in tutti, ciò per la notorietà degli scritti di lui; inoltre si proponeva di far crescere, sotto
la guida di tale maestro, Domizio, ancora ragazzo, e di servirsi dei consigli di Seneca nel suo
progetto di conquistare il potere. Si presumeva infatti che Seneca sarebbe stato fedele ad
Agrippina per il ricordo del beneficio e ostile a Claudio per il dolore dell’offesa.
(12, 8)

Il passo è improntato alla tipica ironia tacitiana. Lo storico conosceva


piuttosto bene le opere di Seneca, e fra le righe del suo racconto si coglie
un’allusione all’ipocrisia del personaggio: il filosofo, che definiva l’ira come
desiderio di vendetta per una ferita subita e sosteneva la necessità di liberarsi da
questa passione, era in realtà spinto, proprio dall’ira contro Claudio, a aderire ai
piani di Agrippina. Un’altra allusione maliziosa è implicita nell’uso della parola
«beneficio» o «favore» (beneficium), perché, come vedremo, Seneca avrebbe poi
scritto un trattato sull’argomento, dilungandosi sull’importanza della gratitudine,
che però, stando a Tacito, egli non ebbe verso la sua benefattrice, Agrippina.
Seneca era «ritenuto» leale, sembra dire lo storico, ma di fatto si dimostrò di
tutt’altra pasta.
Sui sentimenti di Seneca alla notizia che i lunghi anni d’esilio erano finiti
possiamo soltanto azzardare delle ipotesi. Esitò davanti alla decisione di tornare
a Roma? Si chiese se rifiutare la proposta di Agrippina? Una fonte antica
afferma che la sua vera speranza non era di rientrare nella capitale, ma di
ottenere il permesso di trasferirsi ad Atene per vivere fra i suoi filosofi prediletti,
studiando e insegnando; una scelta che non avrebbe più potuto compiere una
volta accettata la generosità dell’imperatrice. 44 La trappola stava per scattare.
Seneca, che era vissuto nel regno di Caligola ed era stato esiliato da Claudio, non
poteva farsi troppe illusioni sulla possibilità di essere libero e al sicuro nel
palazzo. La convocazione a corte dovette sembrargli fin dall’inizio gravida di
spaventosi pericoli. Se acconsentì fu forse anche perché quella di Agrippina era
un’offerta che non poteva rifiutare, o per lo meno non poteva rifiutare senza
inimicarsi ancora di più l’imperatore. La sua situazione, che in Corsica era tutto
sommato tollerabile, poteva sempre peggiorare. Claudio avrebbe potuto relegarlo
su qualche isola che fosse davvero, e non soltanto nella finzione letteraria, arida
e deserta. Oppure Agrippina avrebbe potuto spingere il marito a condannarlo a
morte. E dunque non è escluso che quella di tornare potrebbe non essere stata
affatto una scelta. Nell’anno 50, il dodicenne Nerone fu adottato da Claudio, e
contemporaneamente, così scrive Svetonio, Seneca fu nominato suo precettore.
Forse, però, il pensiero del ritorno a Roma non suscitava in lui soltanto timori,
ma anche speranze: Seneca, come la sua Medea, aveva bisogno di un uditorio, o
per lo meno di interlocutori, se non di amici. Aveva bisogno di elogi, di affetto,
di ammirazione e della soddisfazione che soltanto un incarico prestigioso nella
grande metropoli poteva garantirgli. E aveva bisogno di nuovi stimoli e di nuovi
compiti. E forse la tensione fra la paura e l’ambizione non era così forte come
potremmo immaginare: soltanto quando si arriva alla fine, si ha la certezza che
non può accadere nient’altro. Ma dovette esserci anche un’altra ragione a
spingerlo ad accettare l’offerta di Agrippina: il desiderio autentico di fare del
bene, esercitando un’influenza positiva su un giovane che sarebbe potuto
diventare il futuro principe dell’impero romano. Come l’Ercole della sua
tragedia – l’eroe mitico preferito dagli stoici – Seneca aveva bisogno di sentirsi
utile, di avere la sensazione di giovare all’umanità, impegnandosi nella società e
distruggendo i mostri che minacciavano la civiltà. Il suo vecchio maestro Attalo
sosteneva di essere un re, perché era un filosofo stoico: ora Seneca poteva
sperare di fare anche di più, convertendo alla saggezza stoica un ragazzo che, nel
mondo politico reale, sarebbe diventato imperatore. Quel provinciale, che aveva
trascorso gran parte della sua vita adulta lontano da Roma, prima in Egitto e poi
in Corsica, era finalmente di nuovo nella capitale, dove, nel bene e nel male,
sarebbe rimasto fino alla morte.

a. Nusquam est qui ubique est (Lettera 2, 2): «Ecco quel che capita a chi trascorre la vita spostandosi da un
luogo all’altro: incontra molta gente che lo ospita, ma nessuna amicizia».
III
«NESSUN VIZIO È SENZA RICOMPENSA» a

Meglio per te è l’esilio che un simile ritorno. 1

L’Agamennone, il dramma della caduta di un re-guerriero vittorioso, assassinato


come in Eschilo nel bagno, inizia con l’apparizione del fantasma di Tieste,
riemerso dal regno dei morti per predire la fine tragica dei suoi discendenti. Il
fantasma proclama:

... su questo trono eccelsi


si assidono coloro che impugnano superbi i loro scettri;
questo è il luogo in cui tenere la curia – e questo è quello del banchetto.
Vorrei poter tornare indietro. Non è forse assai meglio
nei tristi laghi dimorare?
(Agamennone vv. 9-13) 2

Il fantasma ricorda gli orrori vissuti, quando era stato costretto a cibarsi dei
propri figli. Ma sa che il peggio deve ancora venire: starebbe sicuramente meglio
agli Inferi, mondo di frustrazioni più che di mostruosità. E tuttavia è costretto a
rivedere quel luogo di orrori. Forse anche Seneca era oppresso da premonizioni
di sventura, quando dalla Corsica tornò a Roma per assumere un incarico alla
corte di quell’imperatore che l’aveva esiliato, della sua nuova moglie Agrippina
(sorella di Giulia Livilla, che forse era stata sua amante ed era morta da tempo) e
del figlio di Agrippina e Tiberio, Nerone. Correva voce, racconta Svetonio, che
la prima notte che egli trascorse a palazzo ebbe un incubo: sognò di essere il
precettore di Caligola (Svetonio, Vita di Nerone 7). Una fonte antica, non molto
affidabile (lo Scoliaste), scrive: «Seneca ci mise poco a capire che Nerone era
nato selvaggio e crudele e lo ammansì, ma diceva spesso alle persone più vicine
che al leone bastava assaggiare anche una sola volta sangue umano per tornare
alla sua innata selvatichezza». 3
Può darsi che all’inizio Seneca sperasse di riuscire a cambiare la natura del
suo giovane allievo: assunse infatti il compito di educare Nerone quando il
principe aveva appena dodici anni, e lo seguì fino all’ascesa al trono all’età di
diciassette (fig. 11). Sui suoi metodi pedagogici non abbiamo molte notizie e non
sapremo mai quando il maestro perse la speranza che il discepolo migliorasse.
Nel contempo, però, egli ricopriva anche l’ufficio di pretore con compiti
amministrativi – un incarico che gli permetteva forse di intervenire nella
gestione della corte –, e non è escluso che fungesse pure da giudice nei processi
penali.
Agrippina lo aveva incaricato di insegnare al figlio la retorica, ma non la
filosofia, che riteneva inadatta a un futuro imperatore (Svetonio, Vita di Nerone
52). Contro la tesi che la filosofia in generale, e quella stoica in particolare, fosse
incompatibile con l’esercizio del potere, Seneca scrisse più volte negli anni
successivi. Agrippina, evidentemente, sperava che egli assumesse il ruolo molto
più ampio di consigliere: il suo proposito non era che il maestro conducesse il
figlio a liberarsi delle emozioni negative e ad avviarsi sul sentiero della
saggezza, ma che gli inculcasse i princìpi della strategia politica e
dell’eloquenza. Lo scopo dell’imperatrice madre era promuovere i propri
interessi oltre a quelli del figlio, ed era quindi disposta a concedere a Seneca
qualche ricompensa.
Seneca adottò con Nerone i metodi didattici che aveva appreso dal padre e dai
suoi maestri di retorica, esercitandolo a perorare cause fittizie alla maniera di un
avvocato difensore in tribunale. Il giovane allievo amava i tratti teatrali
dell’insegnamento retorico e si considerava un grande attore. Seneca però,
racconta Svetonio, non «gli fece conoscere gli antichi oratori», perché voleva
che «ammirasse più a lungo la sua di oratoria» (ibid.). Naturalmente non
sappiamo se questa affermazione corrisponda al vero, ma è probabile che Nerone
volesse dedicarsi alla poesia più che alla retorica. Sulla sua abilità di poeta i
giudizi sono contrastanti. Seneca ne cita ammirato un verso piuttosto ampolloso
– «I colli delle colombe di Citera brillano a ogni movimento» (Questioni
naturali 1, 5, 6) – e chissà che egli stesso, oltre a stimolare la creatività del
pupillo, non recitasse insieme a lui anche qualche scena delle sue tragedie. In
retorica, comunque, o per colpa dell’allievo o per colpa dell’insegnante, i
risultati non furono brillanti. Nerone fece pochi progressi, tanto che, quando
divenne imperatore, fu Seneca a scrivergli i discorsi, mentre tutti i suoi
predecessori se ne erano occupati di persona. Più che mancare di talento, il
giovane era refrattario all’insegnamento: intelligente ma ostinato, non intendeva
sottostare al rigore degli studi retorici e filosofici. Non sappiamo, naturalmente,
con quanta tenacia Seneca abbia cercato di contrastare queste sue tendenze.
Certo è che Nerone aveva altre passioni: amava dipingere, scolpire, cantare,
cavalcare, guidare i cocchi e recitare versi (Tacito, Annali 13, 3, 3).

11. Seneca fu assunto da Agrippina per insegnare la retorica al figlio Nerone, un allievo probabilmente
ribelle, come suggerisce l’immagine.

Forse il filosofo non aveva neppure l’intenzione di impedire al giovane di


coltivare i suoi interessi culturali. Un indizio dell’approccio che egli aveva verso
l’apprendimento etico, suo o degli allievi, si trova nel Terzo libro dell’Ira, scritto
proprio in quegli anni. Seneca sottolinea che prima di agire occorre anzitutto
conoscersi: «Ogni volta che tenterai qualcosa, misura insieme te stesso e l’azione
alla quale ti accingi» (L’ira 3, 7, 2), un messaggio particolarmente importante da
inviare al suo pupillo, cui segue il consiglio di ricercare la compagnia delle
persone virtuose, quelle che ci aiutano a esprimere il meglio di noi stessi (3, 8).
Agli impulsivi, categoria cui apparteneva sicuramente Nerone, Seneca
suggerisce di placare l’animo con la poesia, la storia e la musica (fig. 12).
Il passo più celebre del Terzo libro è quello in cui Seneca racconta la sua
pratica quotidiana – o, piuttosto, notturna – di autoanalisi. Il modello di
autointerrogazione che egli espone è ritenuto una tappa fondamentale nello
sviluppo del moderno concetto di Sé e della volizione, perché nei suoi scritti
l’autoformazione è trattata con più ampiezza, o comunque in modo molto più
esplicito, che nella maggior parte dei pensatori antichi. Il passo contiene anche,
come abbiamo già visto, uno dei pochi riferimenti di Seneca alla moglie, qui
ricordata semplicemente per la sua capacità di restarsene in silenzio, lasciando
libero il marito di attendere ai suoi pensieri. Di quale moglie si sarà trattato?
Impossibile dirlo.
12. Seneca sicuramente sapeva quali rischi correva tornando a Roma e mettendo il suo talento al servizio di
Agrippina e Nerone. L’autore di questo busto medievale stabilisce un legame fra gli scritti di Seneca e il suo
suicidio: la penna diventa il bisturi con cui si recise le vene.

Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io
scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole e azioni, senza nascondermi nulla,
senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire
a me stesso: «Questo, vedi di non farlo più; per questa volta ti perdono. In quella discussione
sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non
vogliono imparare perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva
franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi non guardare soltanto se è vero
quello che dici, ma anche se la persona alla quale parli è in grado di accettare la verità».
L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai
pedagoghi.
(L’ira 3, 36, 3-4) 4

Il testo prosegue con vivaci rievocazioni delle prove cui la quotidianità


sottopone un ricco romano, dalla conversazione volgare con un ubriaco a tavola
all’assegnazione di un posto non sufficientemente prestigioso a un banchetto:
«Pazzo! Che importa su quale parte del letto ti corichi?» (3, 37, 4).
Da un certo punto di vista l’esame della giornata che Seneca effettua ogni sera
precorre le pratiche meditative della letteratura dell’autoanalisi, dalle
Confessioni di sant’Agostino agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, o, in
tempi più vicini a noi, ai diari, alle memorie e al lettino psicoanalitico. Sono tutti
metodi attraverso cui l’individuo tenta di rivivere i momenti passati, come fecero
costantemente Virginia Woolf, Marcel Proust, James Joyce e molti altri.
L’attenzione che Seneca dedica alla propria interiorità può quindi essere
considerata il prototipo dell’autoesame di un Montaigne o di un Descartes
(entrambi influenzati profondamente dal filosofo romano). Ma la versione
senecana è molto diversa dalla prassi moderna, non essendo affatto incentrata
sull’individuo. Nell’esercizio mentale che effettua sera dopo sera, Seneca scivola
via dal Sé – che dovrebbe essere l’oggetto dell’analisi – per coinvolgere il
mondo circostante e tutte le persone incontrate durante la giornata. Quando
racconta, per esempio, di avere aggredito verbalmente un maleducato, «un
ignorante», non si limita ad analizzare i motivi della sua irritazione, ma passa a
spiegare perché persone di quel genere sono ineducabili ed è perciò meglio
starne alla larga. Se era questo il tipo di insegnamento morale che egli impartiva
al futuro imperatore, non è difficile capire come mai l’allievo non abbia
acquisito una grande autoconsapevolezza e capacità di autocritica. Per Seneca,
invece, quell’esercizio notturno fu probabilmente un nutrimento prezioso per
sostenere la sua resilienza alla corte di Nerone: gli offriva infatti uno spazio in
cui meditare sulla propria forza, sul dominio di sé e sui miglioramenti costanti, e
nel contempo gli consentiva di analizzare i comportamenti detestabili e
inemendabili della cerchia in mezzo alla quale viveva.
In quegli anni a Palazzo, Seneca strinse alleanze e amicizie forti. Il suo
principale alleato fu Sesto Afranio Burro, al quale Agrippina aveva affidato nel
51 la guida della guardia pretoriana. Di solito questo corpo militare aveva due
responsabili e quindi la nomina del solo Burro era una novità, il segno della
fiducia che l’imperatrice riponeva in lui, ma anche della volontà di assegnare
tutti i posti di comando ai suoi fedelissimi. Quanto a Seneca, il suo contributo al
potere di Agrippina era essenzialmente culturale. Burro, che controllava una
milizia di importanza cruciale, era esperto di cose militari ma anche di intrighi di
corte, essendo stato al servizio di Livia, la vedova di Augusto, poi di Tiberio e
probabilmente anche di Caligola, prima di salire di grado con Claudio e
Agrippina. Tanto Seneca quanto Burro furono in quegli anni molto vicini
all’imperatrice madre, che faceva affidamento sul loro apporto di consiglieri e
agenti per accrescere il potere suo e del figlio Nerone.
Nel 51 d.C., al compimento del quattordicesimo anno, il ragazzo indossò la
toga virile con una solenne cerimonia pubblica (Tacito, Annali 12, 41, 1-3).
Agrippina approfittò dell’occasione per promuovere la popolarità di Nerone a
detrimento di quella di Britannico, il figlio naturale di Claudio: Nerone percorse
la città sul cocchio «in veste trionfale, mentre Britannico, che gli sedeva accanto,
indossava la pretesta, la semplice toga bianca dei giovani adolescenti». Quando
alcuni centurioni e tribuni espressero pietà per Britannico, l’imperatrice si
proclamò indignata per l’insulto implicito rivolto a suo figlio e colse l’occasione
per liberarsi di tutti gli aiutanti più vicini a Britannico. Secondo Tacito, persuase
Claudio a esiliare o a condannare a morte i suoi precettori migliori e li sostituì
con guardie a lei fedeli. Intorno a sé Britannico non aveva più nessuno di cui
fidarsi (ibid.).
Due anni dopo, nel 53, Nerone sposò Ottavia, la figlia di Claudio. Nello stesso
periodo cominciò a esibire in pubblico le abilità retoriche apprese da Seneca,
tenendo discorsi, gremiti di citazioni mitiche, in difesa di piccole comunità, fra
cui la colonia di Bologna devastata da un incendio e quella di Apamea, distrutta
da un terremoto (12, 58, 1-2).
Quando Britannico si avvicinò al compimento del quattordicesimo anno, ossia
al momento di indossare la toga virile, Claudio cominciò forse a pentirsi del
favore concesso a Nerone a detrimento del proprio figlio. Agrippina percepì
subito che il suo potere sarebbe stato minacciato, a meno che il marito fosse
morto e Nerone fosse asceso al trono. Con Agrippina sarebbe caduta anche tutta
la sua cerchia e, naturalmente, anche Seneca e Burro, troppo legati
all’imperatrice madre perché il nuovo regime li vedesse di buon occhio. Fortuna
volle (o si trattò invece di un intervento molto umano?) che nel 54 Claudio
morisse dopo avere mangiato un piatto dei suoi funghi prediletti. A Roma si
sussurrava che l’avesse avvelenato Agrippina, 5 nel qual caso è possibile, o
addirittura probabile, che Seneca e Burro fossero i suoi complici, ma
naturalmente non ne avremo mai la certezza.
Che avesse o meno assassinato il marito, ora che Claudio era morto,
Agrippina afferrò al volo la possibilità di innalzare il figlio al trono. I funghi
erano davvero il «cibo degli dei», come diceva sarcasticamente Nerone, visto
che erano stati lo strumento della deificazione di Claudio (Svetonio, Vita di
Nerone 33). Burro e Seneca diedero un contributo fondamentale nell’affrettare
l’incoronazione del giovane erede, per prevenire eventuali rivendicazioni da
parte dei sostenitori di Britannico. Nella notte del 12 ottobre del 54, per alcune
ore disperate, le condizioni di Claudio rimasero incerte. L’imperatore vomitò i
funghi fatali, facendo sperare a taluni e temere ad altri che avrebbe superato la
crisi. Poi, però, giunse la fine, con l’aiuto, mormorò qualcuno, del medico
personale di Agrippina, il quale, con la scusa di somministrare al morente un
emetico, gli spalmò di veleno la gola. Claudio spirò.
Quella notte Seneca ebbe forse, sembra suggerire Tacito, un ruolo essenziale
nel consigliare Agrippina. L’imperatrice si mosse con cautela per essere certa
che non si facesse confusione sul legittimo erede al trono. Tenne abbracciato a sé
Britannico, come se cercasse conforto nel suo lutto, gli disse che era il ritratto
del padre e fece di tutto per impedirgli di uscire dalla stanza e assumere il potere.
Non appena fu chiaro che Claudio era davvero morto, Burro, accompagnato
dalla coorte dei pretoriani, spalancò le porte del palazzo e portò in trionfo il
nuovo imperatore, Nerone. «Raccontano che alcuni esitarono, girandosi a
cercare e chiedendo dove fosse Britannico, poi, in mancanza di iniziative
contrarie, si adattarono alla situazione loro proposta» (Tacito, Annali 12, 69, 1-
2). Era difficile contestare un governo che aveva l’esercito al suo fianco.
Seneca e Burro ebbero un ruolo fondamentale nel consigliare Agrippina e
Nerone durante la transizione. 6 Burro sostenne il nuovo imperatore con la spada,
Seneca con la parola. Subito dopo l’ascesa al trono del giovane principe, il
filosofo scrisse il discorso che Nerone tenne alla guardia pretoriana,
confermando tutti i benefici di cui godeva sotto Claudio (Cassio Dione, Storia
romana 61, 3, 1). Seneca compose anche l’orazione funebre per il padre
adottivo: nella versione tacitiana il discorso ha un tono solenne, aulico: «Finché
[Nerone] parlò dell’antichità della stirpe, enumerando consolati e trionfi degli
antenati, la seria tensione dell’oratore si trasmetteva a chi lo ascoltava», ma
quando passò a parlare della «saggezza e previdenza» di Claudio, la cui
insipienza era proverbiale, «nessuno poté evitare di sorridere, benché il discorso,
scritto da Seneca, fosse di fattura pregevole, con il sigillo del suo ingegno
suggestivo e sensibile al gusto contemporaneo» (Tacito, Annali 13, 3) (fig. 13).
Ma Seneca avrà creduto davvero che il suo elogio del defunto sarebbe stato
preso sul serio? I sorrisetti erano il segno di quanto si fosse sbagliato nel
giudicare la reazione del suo uditorio? Conoscendo la sua grande abilità nelle
relazioni pubbliche, è assai più probabile che egli avesse esaltato volutamente
Claudio per delle virtù che nessuno gli attribuiva, per trasformare in una farsa la
sua commemorazione e sottolineare così la superiorità del nuovo detentore del
potere.
Seneca scrisse anche il discorso programmatico che Nerone tenne poco dopo
davanti al Senato. Il neoimperatore proclamò

la sua intenzione di non essere giudice di tutte le cause, con il risultato di lasciar imperversare
la prepotenza di pochi, come quando, entro un’unica casa, stanno accusatori e accusati;
nessuna tolleranza ci sarebbe stata sotto il suo tetto per la venalità e l’intrigo; il palazzo e lo
stato erano due cose diverse. Il Senato poteva conservare le sue competenze, mentre l’Italia e
le province dello stato dovevano ricorrere ai consoli, ai quali toccava dare accesso al Senato;
sua, invece, la responsabilità degli eserciti a lui affidati.
(13, 4; cfr. Cassio Dione, Storia romana 61, 3, 1)
13. Seneca, qui raffigurato con la toga come un oratore romano, scrisse i discorsi per Nerone.

Nerone fu di parola, scrive Tacito, consentendo al Senato di deliberare su


varie questioni, e il suo esercizio del consolato nel 55 ricevette molti consensi. 7
Il principato neroniano iniziò dunque nella speranza che per il Senato, e più in
generale per il governo imperiale, si aprisse un’era più felice che sotto Claudio.
Nel mese di dicembre dello stesso anno Seneca compose l’Apocolocintosi, o
deificazione della zucca, in cui, denigrando Claudio, esaltava la superiorità del
nuovo sistema autocratico. 8 Il testo fu probabilmente scritto per i Saturnali, il
ciclo di feste che ricorreva ogni anno intorno al solstizio d’inverno, fra il 17 e il
23 dicembre, in cui si banchettava, si libava, si scambiavano doni e i padroni
servivano gli schiavi. La satira si inseriva bene nel contesto di un mondo alla
rovescia.
L’Apocolocintosi si apre con un breve prologo, in cui il narratore prega
l’uditorio di lasciarlo parlare liberamente, secondo un cliché della letteratura
satirica, fondamentale nell’atmosfera sfrenata dei Saturnali. Le feste erano
associate mitologicamente al ritorno temporaneo dell’età dell’oro di Saturno. Poi
Giove avrebbe ripreso il suo posto: un retroterra suggestivo per il nuovo contesto
politico.
L’Apocolocintosi – titolo che gioca sull’analogia con «apoteosi» – è un’opera
straordinaria, che non ha eguali in tutta la letteratura antica. Il defunto e
divinizzato Claudio viaggia fino all’Olimpo per prendere posto fra gli dei.
Claudio è diventato sì un dio, ma è una zucca vuota, o meglio, lo è sempre stato.
Il testo è pieno di velenose frecciate: sbeffeggia la zoppia del morto, che saltella
a passi irregolari verso il cielo, e ne irride la balbuzie, con Mercurio che
annuncia l’arrivo di un esemplare subumano, che parla in una lingua
incomprensibile. Il tono generale oscilla fra l’ironia giocosa e il commento
politico più serio. 9
Il ritratto feroce di Claudio che Seneca dipinge nell’Apocolocintosi è così
lontano dall’atteggiamento servile da lui adottato nella Consolazione a Polibio
da indurre alcuni studiosi a dubitare dell’autenticità dell’opera. Seneca, però,
aveva le sue buone ragioni per adulare l’imperatore quand’era vivo e poteva
revocargli l’esilio. Adesso che era morto e sul trono sedeva Nerone, perché mai
avrebbe dovuto incensarlo?
L’irriverenza dell’Apocolocintosi non si riversa soltanto su Claudio, ma su
tutto il processo di deificazione dell’imperatore. Forse il breve testo non era
concepito per un pubblico generico, ma soltanto per un uditorio privato, per il
palazzo: tanta spregiudicatezza avrebbe deliziato Nerone e la sua cerchia.
La parodia aveva anche un altro fine, meno frivolo: mostrando gli errori di
Claudio, offriva a Nerone consigli su come governare. Claudio, una volta
raggiunto l’Olimpo, viene aspramente criticato da Augusto per avere inflitto
condanne a morte senza processo, come era accaduto con Giulia Livilla e
numerosi senatori e cavalieri. L’Olimpo, che è la copia celeste del Senato
romano, processa Claudio perché non ha rispettato la legge. «E dimmi, divo
Claudio», lo interpella Augusto, «perché condannasti ciascuno di coloro che di
volta in volta mandasti a morte, prima di averne esaminato la causa, prima di
averli ascoltati in tribunale? Questo dove accade di solito? In cielo non accade»
(Apocolocintosi 10). Claudio viene infine cacciato negli Inferi e destinato a
servire come schiavo Caligola: la sorte più terribile che si potesse immaginare
per lui.
E tuttavia, nonostante le simpatie che suscita la critica delle ingiustizie
commesse dal defunto imperatore, alcuni passi dell’Apocolocintosi sono difficili
da accettare. Alcune battute, poi, suonano davvero meschine: il morto viene
sbeffeggiato per i suoi difetti fisici, e le sue ultime parole sono: «Povero me!
Forse me la sono fatta addosso!». L’umiliazione inflittagli è giustificata solo in
parte dall’accusa di non avere rispettato il Senato e la legge. E c’è un’altra
battuta, ancora più sgradevole: troppi parvenu hanno cominciato a indossare la
toga romana sotto Claudio, si legge nel testo. Il defunto imperatore aveva infatti
esteso il diritto di cittadinanza a numerosi greci, galli, spagnoli e britanni, tutti
arrampicatori sociali, secondo Seneca, che avrebbero dovuto essere esclusi. È
sorprendente, se non addirittura ripugnante, che queste recriminazioni siano
uscite dalla penna di un ispanico, che – oltretutto – sotto il regime di Claudio
aveva fatto anche fortuna. D’altra parte è risaputo che i più snob sono sempre i
nuovi ricchi. Forse Seneca difendeva con tanto rigore il sangue blu
dell’aristocrazia perché la sua pretesa di appartenere alla stessa cerchia era un
po’ dubbia: una versione romana della sindrome dello zio Tom.
Nell’Apocolocintosi le adulazioni a Nerone si sprecano. Le tre sorelle filatrici, le
parche, dee del destino, hanno reciso il filo della «vita aggrovigliata» di Claudio
per tessere un lungo filo d’oro per il nuovo principe. Apollo, il dio del sole, lo
riconosce suo gemello per bellezza e talento musicale: come Lucifero «che le
stelle in fuga disperde», così quello splendido giovane «luminoso si affaccia sul
mondo ... / così Cesare è giunto, così ormai Roma contemplerà Nerone. /
Limpido splende, con placido fulgore, / il volto e il bel collo cosparso di
chiome» (4). Nerone in realtà non era proprio un Apollo e il suo diritto al trono
era discutibile: vi era asceso soltanto perché figlio adottivo di Claudio, a
discapito del figlio biologico, Britannico.
Il diciassettenne imperatore, ancora suggestionabile, subiva le sollecitazioni di
due forze contrastanti. Da un lato c’era Agrippina, intenta a cercare di
incrementare il proprio potere nel nuovo regime, circondandosi di alleati potenti,
che aveva già coltivato sotto Claudio, uno dei quali era il liberto Pallante, il
consigliere più fidato del defunto marito. Dall’altro lato c’erano Burro e
Seneca. 10
I primi cinque anni
Nel discorso che Seneca aveva scritto per l’incoronazione, Nerone prometteva di
essere diverso da Claudio, che con la sua fama di uomo crudele e l’incapacità di
tenere distinti gli affari del palazzo da quelli dell’impero si era fatto molti
nemici. Il giovane imperatore dichiarava, secondo Tacito, di non essere animato
da alcun desiderio di inimicizia o vendetta verso gli amici del padre adottivo.
Assicurava che si sarebbe fatto guidare dai suoi buoni consiglieri (in particolare
Seneca e Burro), e prometteva al Senato e all’esercito che avrebbero conservato
tutti i loro antichi poteri. Inoltre garantiva che non avrebbe mescolato i suoi
interessi privati con quelli dello stato, perché «il palazzo e lo stato erano due
cose diverse» (Tacito, Annali 13, 3). L’influenza di Seneca e Burro, osserva
Tacito, fu per un certo periodo abbastanza forte da frenare i peggiori impulsi di
Nerone. Fu soltanto quando il giovane imperatore prese a esercitare la propria
autonomia, sottraendosi alla guida morale dei maestri, che cominciò la sua
trasformazione nel mostro della leggenda (fig. 14). I suoi primi cinque anni – in
cui si suppone si lasciasse consigliare da Seneca e Burro – furono, a giudizio di
molti storici, decisamente migliori di quelli successivi, quando si liberò da ogni
tutela, sfuggendo al loro controllo. Quel primo quinquennio è stato denominato
Quinquennium Neronis, ma, come ha dimostrato Miriam Griffin, l’influsso dei
due consiglieri e la differenza tra la prima fase e la seconda non andrebbero
esagerati. Non esistono infatti prove che il nuovo regime abbia prodotto riforme
istituzionali o legislative. Quanto alla separazione tra gli affari dell’imperatore e
quelli dello stato, l’operazione era resa semplicemente impossibile dalla struttura
che il principato aveva in quegli anni. 11
14. Nerone divenne imperatore a soli diciassette anni.

L’unico vero cambiamento prodotto dall’ascesa di Nerone riguardò la classe


sociale cui appartenevano i suoi principali collaboratori. Claudio aveva assunto
come consiglieri fidati diversi liberti, ai quali aveva conferito ricchezze enormi,
ed erano presumibilmente loro a esercitare la maggiore influenza sulle sue
decisioni politiche. Polibio, al quale Seneca aveva rivolto la sua consolazione-
supplica nella speranza che ponesse fine al suo esilio, era uno dei più autorevoli.
Messalina l’aveva mandato a morte per crimini contro lo stato, o, come dicevano
le malelingue, perché era stanca di portarselo a letto. Altri liberti potenti, però,
come Pallante e Narciso, avevano conservato tutto il loro potere. Il Senato aveva
particolarmente in odio il ruolo esercitato da questi schiavi affrancati, la
testimonianza in carne e ossa del fatto che l’imperatore si affidava a consiglieri
privi di qualsiasi posizione ufficiale. Con Nerone, molte delle funzioni esercitate
sotto Claudio dai liberti furono assunte da Seneca e Burro: erano questi due
uomini, ricompensati con ingenti somme di denaro e benefici di vario genere, a
consigliare l’imperatore e a gestirne l’immagine pubblica. Seneca e Burro
appartenevano entrambi alla classe equestre e non a quella senatoriale, dal cui
mondo furono sempre piuttosto lontani. Molti degli amici più fidati di Seneca,
anche nei suoi anni di grande potere a corte, erano cavalieri. I cavalieri, però,
erano molto più abili dei liberti a tenere le comunicazioni con il Senato. Tacito,
che era un esponente della classe senatoriale, esprime un giudizio abbastanza
positivo sulla prima fase del regno neroniano, durante la quale i rapporti fra
l’imperatore e l’assemblea furono piuttosto buoni. Il segreto del successo
percepito in quel quinquennio era frutto dell’abilità di Seneca nelle relazioni
pubbliche.
La cultura greco-romana vantava un’antica tradizione di filosofi-consiglieri di
monarchi e tiranni. Platone aveva svolto per un periodo questo incarico presso
Dionisio di Siracusa, cercando inutilmente di persuaderlo a diventare un re-
filosofo (platonico). Nel periodo ellenistico furono scritti trattati e controtrattati
per spiegare quali fossero i rapporti più appropriati fra il re e i suoi assistenti
filosofi. Gli stoici e altri pensatori dissentivano dalla dottrina epicurea secondo
cui il saggio doveva stare alla larga dal potere: 12 essi ritenevano che la
monarchia fosse la forma naturale di governo e che i re potessero evitare la
tirannia, imparando la virtù dalle labbra del filosofo di corte. Seneca conosceva
bene questa tradizione e contribuì a adattarla al contesto romano.
Nel 56 egli divenne console suffetto, assumendo quindi la più alta carica
politica prevista dal regime, in sostituzione di un magistrato che si era dimesso.
L’incarico durò appena qualche mese, ma, anche se così breve, l’ufficio di
console fu estremamente importante dal punto di vista simbolico e sufficiente
perché Seneca, come già Cicerone, entrasse a far parte a pieno titolo
dell’aristocrazia insieme a tutti i suoi discendenti. Seneca era dunque ormai un
nobile, con lo stesso status delle famiglie romane più antiche. 13
Fu probabilmente in quegli anni che egli sposò Pompea Paolina, figlia di
Pompeo Paolino della classe equestre (a Roma la figlia portava il nome del
padre). Di questo matrimonio sappiamo purtroppo assai poco, anche se abbiamo
ragione di presumere che Seneca fosse molto legato alla moglie: la chiama infatti
«la mia Paolina» (Lettera 104, 1, 2, 5), e in Tacito si legge che l’amava
teneramente (Annali 15, 63, 2). La coppia pare non avesse figli, ma non abbiamo
prove che questa mancanza fosse motivo di dispiacere per Seneca. Con il
matrimonio, egli non trovò soltanto affetto e compagnia, ma consolidò i rapporti
con la componente maschile della famiglia di Pompeo Paolino.
Gli incarichi che Seneca svolgeva a corte erano in gran parte informali. Egli
veniva indicato come «amico», «insegnante» o «consigliere» dell’imperatore;
non aveva alcun titolo legale o amministrativo specifico, ma riuscì ugualmente a
favorire amici e parenti, e a provocare la caduta dei suoi nemici. Il nipote
Lucano, figlio del fratello Mela, che studiava ad Atene, fu richiamato a Roma e
nominato questore – una carica prestigiosa con compiti amministrativi –, benché
gli mancassero ancora cinque anni per avere l’età richiesta e non avesse servito
nell’esercito. Mela stesso divenne procuratore, un ufficio di grado molto più
elevato e altresì connesso con le finanze. Il cognato, Pompeo Paolino, divenne
legato imperiale in Germania, e l’amico Anneo Sereno ottenne il comando della
guardia notturna. Dietro le quinte, evidentemente, Seneca era in grado di tirare le
fila e decidere chi far salire e chi far scendere, e se ne servì per premiare parenti
e amici.
L’élite maschile della Roma del I secolo d.C. dipendeva da un complesso
intreccio di reti, favori e obblighi, che erano oggetto di scambio fra le classi
senatoriale ed equestre. Al suo interno vigeva anche una consuetudine che suona
assai strana oggi, ma che allora rivestiva grande importanza: l’adozione di
giovani adulti che un padre l’avevano già. 14 Era una prassi niente affatto rara: si
stima che riguardasse circa il quattro per cento dei maschi della classe equestre
durante la dinastia Giulio-Claudia. Nella famiglia degli Annei, per esempio, un
vecchio amico di Seneca padre, il senatore Giunio Gallione, aveva adottato
Novato, che da quel momento, assumendone il nome, era diventato Lucio Giunio
Gallione Anneo. Nelle moderne società occidentali le coppie senza figli di solito
adottano bambini molto piccoli per accudirli e averne cura fino all’età adulta.
Nella società romana, invece, lo scopo principale dell’adozione non era
l’accudimento, bensì la trasmissione della rete sociale e la difesa delle proprietà:
i membri delle classi alte desideravano incrementare i legami con i loro pari e
avere un erede al quale lasciare la propria ricchezza, il proprio nome e status.
Gallione era rimasto vedovo piuttosto giovane, non aveva figli maschi e non
aveva intenzione di risposarsi, disattendendo i consigli dell’amico Ovidio. 15
Seneca il Vecchio, che di figli maschi ne aveva tre, poteva concederne uno a un
amico, perché, così facendo, acquisiva un credito sociale presso la cerchia del
padre adottivo e incrementava le fortune del figlio, nonché il prestigio di tutta la
famiglia nell’ambito dell’aristocrazia romana. In termini puramente finanziari,
questo tipo di adozione consentiva alle élite di condividere la propria ricchezza
in modi mutualmente benefici. Ora Novato poteva aspettarsi di ereditare il
patrimonio di Gallione, il quale si era fatto un nome nella generazione di Seneca
il Vecchio come oratore, poeta e declamatore, era stato amico del poeta Ovidio e,
sotto Tiberio, era stato esiliato per un breve periodo sull’isola di Lesbo.
L’adozione di Novato giovò forse non soltanto alle finanze della famiglia degli
Annei, ma anche al prestigio di Gallione nei circoli letterari della capitale.
Seneca, come abbiamo visto, era particolarmente legato al fratello maggiore e
si impegnò molto per promuoverne la carriera, anche se Novato se la cavava già
piuttosto bene per suo conto. Era infatti stato nominato proconsole dell’Acaia ed
è passato alla storia per avere assolto l’apostolo Paolo, accusato dagli ebrei di
diffondere un culto contrario alla legge. Il proconsole, si legge negli Atti degli
Apostoli, non voleva «essere giudice di queste faccende» (At 18, 12-17). Egli
seguiva, evidentemente, la prassi adottata in genere dai governanti romani nelle
province, che evitavano, ogni volta che fosse possibile, di immischiarsi nelle
dispute locali. Novato soffriva come il fratello di un’affezione ai polmoni:
sputava sangue e forse pose termine per questo al suo mandato in Acaia. La
malattia però non doveva essere molto grave, perché in seguito ricoprì altri
incarichi. 16 Al suo ritorno a Roma nel 55 fu nominato console suffetto, forse con
lo zampino del potente fratello, e in seguito pare soggiornasse anch’egli in Egitto
per ragioni di salute. 17
Seneca aveva un legame meno forte con l’altro fratello, Mela, ma nutriva un
grande affetto per il nipote Lucano, che nel suo cuore aveva forse preso il posto
del suo unico figlio morto da piccolo. Lucano era quasi coetaneo di Nerone (era
maggiore di un paio d’anni), e i due giovani pare andassero d’accordo, almeno
all’inizio. Entrambi amavano la poesia e le arti, e a entrambi Seneca insegnò le
abilità retoriche e letterarie. Nel 60 Lucano improvvisò un «Elogio di Nerone»,
per celebrarne il regno, e nella stessa occasione scrisse un poema su Orfeo.
Con la sua mente duttile e il grande tatto, Seneca fu determinante nel ridurre il
potere di Agrippina, la quale ambiva a dirigere gli affari di stato da dietro le
quinte durante il principato del figlio. Al riparo di una tenda, ella soleva spiare le
riunioni di Nerone con gli ambasciatori per carpirne i segreti, nella speranza di
far pesare la propria opinione nella conduzione dell’impero. Nei primi anni del
regno del giovane sovrano, Agrippina tentò di ritagliarsi un ruolo più ufficiale e
uscì dall’ombra, rischiando di suscitare un grande scandalo, perché a Roma non
era ammessa la partecipazione delle donne a quei livelli decisionali. Un giorno,
si racconta, mentre gli ambasciatori dell’Armenia peroravano la causa del loro
paese con il principe, Agrippina stava per salire sulla tribuna imperiale per
presiedere insieme al figlio la riunione: tutti i presenti rimasero paralizzati dalla
paura, tranne Seneca, che con un gesto indicò a Nerone di andare incontro alla
madre. Le apparenze furono salvate da una manifestazione di affetto filiale
(Tacito, Annali 13, 5).
Burro e Seneca riuscirono a tenere a freno la propensione dell’imperatrice
madre a disfarsi di tutti i suoi nemici e conservarono la propria influenza sul
giovane principe assecondandone i piaceri (13, 2). Ufficialmente, Seneca non era
un consigliere politico, ma si occupava dei discorsi di Nerone, era responsabile
delle relazioni pubbliche, dava suggerimenti sulla selezione e il licenziamento
dei funzionari e si adoperava per consolidare la posizione dell’imperatore a
Palazzo, collaborando fra l’altro a contenere le ambizioni di Agrippina.
Il matrimonio di Nerone con la figlia di Claudio, Ottavia, fu una delle tessere
con cui Agrippina aveva costruito il diritto al trono del figlio, il quale, però,
trascurava la sposa e la trattava malissimo. Egli cominciò ben presto, e
pubblicamente, a frequentare una liberta di nome Atte, una relazione scandalosa,
che, come ci ricorda ancora Tacito (ibid.), Agrippina fece di tutto per troncare,
ottenendo però l’effetto contrario. Seneca intervenne a favore del pupillo: un
imperatore, disse, aveva il diritto di decidere come vivere la sua vita personale. I
suoi legami con Nerone si fecero più stretti. 18 Egli trovò persino una soluzione
pratica all’affaire, persuadendo l’amico Anneo Sereno a fingersi l’amante di Atte
e a colmarla di regali, che in realtà provenivano dall’imperatore.
La storia di Atte è emblematica, perché indica con chiarezza che l’influenza
esercitata da Seneca non era prevalentemente di tipo «morale»: la cosa che più
gli premeva era sottrarre Nerone al controllo materno, incrementando nel
contempo il proprio potere sul giovane e sulla cerchia sociale che lo circondava.
Da buon pragmatico, Seneca riteneva poco realistico pretendere dal giovane
imperatore, che aveva ai suoi piedi tutta Roma, fedeltà a una moglie che gli era
stata imposta, e non vedeva niente di male nel ricavare un capitale politico da
circostanze destinate comunque a verificarsi.
Per Seneca, prendere le distanze da Agrippina era indispensabile: doveva
evitare che Nerone lo percepisse come uno strumento della madre, perché, se lei
fosse caduta in disgrazia, lo avrebbe trascinato con sé. Agrippina era stata la sua
benefattrice, lo aveva richiamato dall’esilio e, secondo le malelingue, era stata
pure la sua amante: Seneca perciò doveva dimostrare a Nerone e all’opinione
pubblica di non parteggiare per lei, perché da questo dipendeva la sua
sopravvivenza politica e letteraria.
I primi anni del regno di Nerone furono caratterizzati da un delicato equilibrio
di potere fra l’imperatore, Agrippina e i vari consiglieri. La donna si rendeva
conto che la sua presa sul figlio andava allentandosi e si oppose con forza alla
tresca con Atte e, implicitamente, alla disobbedienza filiale e al potere crescente
dei suoi consiglieri, Seneca e Burro, che si stavano dimostrando meno malleabili
di quanto lei avesse previsto. Agrippina tentò in vari modi di riconquistare il
figlio: circolava persino la voce che se lo fosse portato a letto, mentre altri
sostenevano che fosse stato lui a prendere l’iniziativa. Tutte queste dicerie
potrebbero essere false, oppure qualcuna falsa e qualcuna vera. Non lo sapremo
mai.
La situazione, già tesa, peggiorò allorché Nerone regalò alla madre una veste
raffinata, accompagnata da una parure di gioielli. Agrippina protestò che non si
trattava di un dono adeguato, perché il figlio le regalava una piccola cosa mentre
teneva per sé l’intero tesoro. Ancora una volta non sappiamo se l’aneddoto sia
vero, ma, se lo fosse, sarebbe indicativo del fatto che Agrippina presumeva di
avere diritto a condividere con Nerone la ricchezza e il potere della casa
imperiale, e sarebbe anche un segnale delle tensioni nel rapporto madre-figlio,
strettamente connesse con il dono e la gratitudine. Agrippina era probabilmente
convinta di essere stata lei a conquistare il trono al figlio, e si aspettava di essere
ricambiata per l’immenso dono ricevuto spartendo con lui il potere. Nerone però
intendeva governare da solo e Agrippina cominciava a essere un ostacolo.
Provvide così a ridimensionarne il potere, strappandole il consigliere più fidato,
Pallante, l’ultimo superstite del regime di Claudio e dei suoi potenti
collaboratori-liberti. Di Pallante l’imperatrice madre si fidava, era il suo
sostegno morale e il suo stratega, e, secondo alcuni, anche l’amante. Al suo
servizio, il liberto, che fungeva da tesoriere, aveva accumulato enormi ricchezze,
superiori forse persino a quelle di Seneca, il cui patrimonio, secondo Dione, era
valutato quattrocento milioni di sesterzi (Storia romana 62, 14). Nerone non lo
privò dei suoi averi, garantendogli che la sua contabilità non sarebbe stata
sottoposta al controllo dei revisori, ma lo spogliò di qualsiasi potere politico. 19
Successivamente, Pallante fu processato insieme a Burro per cospirazione: fu
assolto, ma il suo nome divenne ancora più impresentabile (Tacito, Annali 13,
23). Agrippina reagì alla perdita del suo favorito, minacciando di schierarsi con
Britannico. Nerone la cacciò da corte, le tolse tutti gli onori e i poteri, la privò
della guardia del corpo e la minacciò, pare, di seguire l’esempio di Tiberio,
abdicando e ritirandosi sull’isola di Rodi. Agrippina sarebbe così rimasta
totalmente indifesa (Svetonio, Vita di Nerone 34).
Quando il figlio cominciò a rivendicare la propria indipendenza, la madre
reagì. Si scagliò contro Burro e Seneca, «l’invalido e l’esule», «con il suo
moncherino il primo» (Burro aveva perso un braccio) e con la sua «lingua da
professorino il secondo» (Tacito, Annali 13, 14, 3). Ma attaccò anche Nerone e i
suoi alleati, e cominciò a promuovere il diritto al trono di Britannico, che stava
per compiere quindici anni e raggiungere perciò la maggiore età.
Improvvisamente, ma non sorprendentemente, Britannico morì. Spirò il 12
febbraio del 55, alla vigilia del suo quindicesimo compleanno, quando sarebbe
diventato l’ovvio erede al trono. A ucciderlo, secondo la versione ufficiale, fu un
attacco di epilessia, ma a giudizio unanime degli storici antichi, il suo carnefice
fu Nerone. Un’esperta di veleni di nome Locusta preparò una sostanza tossica
che venne versata nell’acqua. Britannico, che temeva di essere avvelenato, aveva
un assaggiatore dei cibi e delle bevande, ma quella sera gli portarono una coppa
di vino bollente ed egli vi versò dell’acqua per raffreddarlo prima di berlo. La
morte fu istantanea.
Poco dopo, Nerone accusò Agrippina di complottare contro Ottavia e la cacciò
dal palazzo, sbarazzandosi così non solo del controllo materno ma anche della
sua unica vera concorrente. Ora era libero di obbedire soltanto ai suoi desideri.

«NEPPURE UNA GOCCIA DI SANGUE È STATA VERSATA»

Verso la fine di dicembre del 55 o all’inizio del 56 Seneca scrisse un saggio sulla
clemenza, che dedicò al diciottenne Nerone. La qualità più sorprendente del
giovane imperatore, scriveva, è l’innocenza e la ripulsa della violenza:

Tu, Cesare, hai evitato che nella città scorresse sangue, e il fatto che tu ti sia potuto vantare di
non avere sparso una sola goccia di sangue umano in tutto il mondo è tanto più grande e
meraviglioso perché a nessuno fu mai affidata la spada più in giovane età di te.
(La clemenza 3, 9, 3)

Che Nerone fosse il più giovane imperatore nella storia di Roma è senz’altro
vero, ma l’esaltazione della sua gentilezza d’animo mal si concilia con la realtà,
visto che aveva fatto assassinare il fratellastro appena qualche mese prima. La
datazione del trattato è stata a volte messa in dubbio proprio perché molti
rifiutavano di credere che Seneca avesse avuto la sfrontatezza di innalzare lodi
alla mitezza, innocenza e compassione neroniane in un periodo come quello. Ma
le prove che La clemenza fu composta a ridosso della morte di Britannico sono
incontrovertibili. 20 La domanda che viene spontanea è dunque: qual è il rapporto
fra il trattato e il Nerone assassino?
Possiamo leggere questo testo come l’espressione di un’abietta adulazione, la
dimostrazione che Seneca era disposto a incensare quel giovane violento,
pericoloso e potentissimo fino al punto di negare totalmente la realtà dei suoi
comportamenti. È una lettura che può sembrare allettante a un primo approccio;
nel Proemio, Seneca scrive: «Oggi tutti i tuoi cittadini confessano apertamente
che sono felici e che a questi beni non si potrebbe aggiungere nulla, purché siano
duraturi» (Proemio 1, 7). Una simile affermazione poteva non suonare
ridicolmente falsa, dato che nei primi anni del regno di Nerone fra le élite
romane circolava un certo ottimismo. Non si può neppure escludere che
l’omicidio di Britannico le avesse sconvolte meno di quanto si possa pensare
oggi. 21 Dopotutto, le loro più grandi paure riguardavano sicuramente la propria
sicurezza, per cui sapere se l’imperatore fosse o meno disposto ad ammazzare i
suoi familiari era meno importante che sapere se avrebbe ucciso i potenti al di
fuori del palazzo.
Resta però un’ambiguità. Nella Clemenza Seneca sta dicendo a Nerone che
egli possiede già tutte le virtù o che ha bisogno di acquisirle? L’opera si apre con
l’annuncio che l’autore intende scrivere sulla misericordia per porgere a Nerone
uno «specchio» che gli rimandi l’immagine di un imperatore incamminato verso
la più piacevole delle mete:

Ho deciso di scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per poter fare in qualche modo la parte
dello specchio, e mostrarti l’immagine di te stesso, che sei avviato a raggiungere il massimo
dei piaceri.
(Proemio 1, 1)

Il rispecchiamento fra il libro e il suo dedicatario viene qui espresso con


grande delicatezza. Da un lato, la metafora suggerisce che Nerone possiede già
tutte le virtù possibili, compreso un alto grado di clemenza, sicché all’autore-
specchio non resta che rinviargli il riflesso delle cose che egli sta già facendo.
Dall’altro, però, la metafora viene delimitata: lo specchio non è proprio uno
specchio, ma farà «in qualche modo la parte» dello specchio, e l’autore promette
che il suo scritto non rifletterà soltanto quello che Nerone è ora, ma anche quello
che diventerà in futuro. «Il massimo dei piaceri» potrebbe significare che egli ha
raggiunto l’apice del potere, diventando imperatore, e questa interpretazione
sembra in accordo con il discorso che Seneca mette in bocca a Nerone all’inizio
del saggio, in cui il giovane princeps si crogiola nell’enorme potere che esercita
sul mondo intero. Ma il passo potrebbe anche essere letto in un’ottica stoica:
Seneca sta mostrando a Nerone un «Io» che egli non ha ancora acquisito, ma che
può conquistare attraverso la lettura della Clemenza. Lo specchio non è soltanto
uno strumento che riflette, ma anche un’ispirazione al cambiamento.
La clemenza è una sorta di seduta terapeutica d’emergenza, effettuata nella
piena consapevolezza della verità su Britannico. Quello che Seneca sta dicendo a
Nerone è di non trasformare l’assassinio in un’abitudine. Se le sue buone qualità
morali non fossero autentiche, la speranza riposta in lui dal popolo romano
sarebbe scritta sull’acqua: «Nessuno infatti può indossare a lungo una maschera.
Le cose simulate ricadono presto nella loro natura» (Proemio 1, 6). Seneca è
attento a non sciogliere l’ambiguità: Nerone è veramente buono o è un ipocrita
che indossa la maschera della bontà? Paradossalmente (e poco plausibilmente) è
soltanto continuando a indossare quella maschera che egli potrà «dimostrare»
che essa corrisponde al suo vero volto. Il maestro vuole che l’allievo sia ispirato
dall’immagine benevola che il suo «specchio» gli rimanda. Spera che,
presentandogli un’immagine idealizzata, Nerone voglia diventare quello che,
afferma Seneca, egli è già o sarà fra poco.
La clemenza, tuttavia, non fu scritta soltanto per Nerone, ma per un pubblico
più vasto, che di certo attendeva con ansia qualche informazione sulla direzione
futura del nuovo regime. Con l’Apocolocintosi e La clemenza Seneca fornisce un
quadro chiaro dell’ideologia del regno neroniano: entrambe le opere sostengono
infatti che il giovane imperatore sarà di gran lunga migliore dei suoi
predecessori, grazie alla grande influenza esercitata su di lui dal suo maestro. 22 Il
trattato intende rassicurare le élite romane che l’atto sanguinario dell’omicidio di
Britannico non diventerà una costante nel futuro del regno e che il braccio destro
di Nerone, il suo vecchio precettore Seneca, è assolutamente contrario a
qualsiasi forma di crudeltà e ha il pieno controllo sull’educazione morale del
principe. Il suo compito non è di lusingarlo: «Preferirei offendere dicendo la
verità che piacere adulando» (1, 2, 2). I lettori possono stare tranquilli: il giovane
imperatore è in mani sicure, mani etiche.
Molti, e ragionevolmente, dubiteranno che la dottrina filosofica possa essere
una cura così efficace dell’autocrazia. Per quasi tutti i senatori il vero problema
era insito nella struttura stessa del governo imperiale e l’opera senecana non
tenta in alcun modo di tranquillizzare coloro che rimpiangevano i tempi della
repubblica: il libro presenta l’imperatore come il detentore di un potere assoluto,
la cui origine non viene mai né spiegata, né giustificata. 23 Seneca risponde a
questa preoccupazione invocando i valori romani della clemenza e dello
stoicismo, che permetteranno all’imperatore di governare con uno strumento
migliore della giustizia: la virtù.
Il tema della clementia è per certi versi sorprendente per uno scritto che si
proclama stoico. I filosofi della Stoà avevano una considerazione negativa della
compassione, perché il vero sapiente è giusto e dunque impartisce sempre la
punizione adeguata. Comminare una sentenza più lieve di quanto non meriti il
crimine commesso sarebbe stato da parte di un governante un indice di
ingiustizia, il segno che probabilmente egli si era fatto guidare dall’emotività
anziché dalla ragione: un atteggiamento non degno di un vero stoico.
Che Seneca abbia scelto di scrivere sulla clemenza è un segno della sua
originalità all’interno del movimento stoico e anche del suo interesse non per la
teoria ma per le specificità della politica romana. Da quando, dopo Giulio
Cesare, il comando era nelle mani di un uomo solo, gli imperatori si erano
appigliati al concetto di misericordia personale quale strumento per placare la
paura dei sudditi e la loro ostilità alla tirannia. Seneca risolve il conflitto tra la
filosofia stoica e la realtà della politica romana, ridefinendo il significato del
termine clementia, distinguendola dalla «misericordia», che coincide con la
pietà. La pietà, dice Seneca, è fuorviante: è infatti un impulso emotivo che
spinge a perdonare quanti invece non meritano il perdono. Può condurre a
eccessi dannosi anche per coloro nei cui confronti la si esercita e non solo per
l’insieme della società. La clemenza, invece, affonda sempre le radici nella
ragione: essa è «la moderazione dell’animo nell’uso del suo potere di punire;
oppure è mitezza di un superiore nei confronti di un inferiore nell’assegnargli
una pena» (La clemenza 2, 1). La clemenza, dunque, non è l’opposto della
giustizia, bensì l’opposto della crudeltà, ed è una componente essenziale della
concezione stoica di humanitas.
Affermando che il principe agirà con mitezza verso i suoi «inferiori», il
trattato senecano mira a rassicurare quanti avrebbero potuto essere preoccupati
dal nuovo regime. L’insistenza sulla clemenza del principe è un modo per
sottolineare che Nerone non sarà come Caligola e Claudio, non massacrerà
cittadini e senatori. E tuttavia, agli occhi dei nostalgici della repubblica, simili
argomentazioni non erano affatto tranquillizzanti: la clementia è una virtù che
solo un autocrate può esercitare, vale soltanto per il principe, la suprema autorità
giuridica dello stato romano. Il trattato in questione, dunque, fornisce una
cornice teorica a una prassi consolidata: l’imperatore era al di sopra della legge e
perciò non aveva bisogno di giustizia (che avrebbe significato obbedienza a una
legge più alta di Cesare), ma di clemenza verso i sudditi. I quali, non godendo di
nessun diritto nei confronti dell’imperatore, potevano soltanto sperare di essere
trattati con mitezza.
Il testo senecano enunciava in modo esplicito che lo stoicismo non era
necessariamente ostile nei riguardi di un governo autocratico. Un punto, questo,
che andava chiarito, perché diversi pensatori stoici, fra i più noti della
generazione precedente a quella di Seneca, avevano difeso la repubblica, primo
fra tutti Catone il Giovane (95-46 a.C.), che si era suicidato, squarciandosi il
ventre, pur di non sottomettersi al governo di Giulio Cesare. Seneca scrive
spesso con tono ammirato di Catone, ma è evidente che non ne condivideva la
rigida opposizione al principato. Anche alcuni seguaci della Stoà, contemporanei
di Seneca, erano ostili a Nerone e favorevoli ai princìpi repubblicani. Il più noto
era Trasea Peto, su cui torneremo più avanti. Lucano, il nipote di Seneca, pare
fosse del loro novero o per lo meno fosse un compagno di viaggio, e finì col
diventare un avversario inflessibile del regime tirannico. Lo stoicismo veniva
sempre più spesso percepito come un movimento di resistenza politica, tanto che
una trentina di anni dopo, esattamente nel 95, l’imperatore Domiziano espulse
dall’Italia tutti i filosofi, un provvedimento che probabilmente aveva come
bersaglio principale proprio gli stoici. Garantendo che la sua filosofia era così
credibile moralmente da conferire una patina di legittimità al nuovo regime,
senza tuttavia costituire una minaccia politica, Seneca effettuava un’importante
operazione di autopromozione presso la corte e le élite in generale.
Il tema della clemenza viene più volte ripreso nelle tragedie. Sono molti i
tiranni che si dichiarano al di sopra della legge. Nel teatro Seneca mette in scena
il lato oscuro del tema trattato nelle prose, immaginando con precisione e nei
dettagli più cruenti quello che accade quando un tiranno agisce con ferocia verso
i sudditi. Il suo potere suscita sempre e ovunque odio.
«Non vuol regnare chi di essere odioso ha timore», dichiara Eteocle nelle
Fenicie, parole che ricordano quelle di Caligola, citate con ripugnanza da Seneca
nell’Ira: «Che mi odino pure purché mi temano» (1, 20, 4). Uno degli esempi
più sconvolgenti della mancanza di clemenza si trova nelle Troiane. La città di
Troia è caduta: Andromeda, la moglie dell’eroe morto, Ettore, con il figlioletto
fra le braccia, cerca rifugio nella tomba del marito. Supplica il generale
vincitore, Odisseo, di avere pietà di lei o almeno di risparmiare il neonato. Un
vero eroe e un vero re, dice Andromeda, dovrebbe seguire l’esempio di Ercole,
che ebbe compassione del piccolo Priamo. Ma le sue strazianti implorazioni non
commuovono Odisseo. Vorrebbe essere clemente, dice, ma non può: «Oh, se di
te fosse lecito avere pietà!» (Le troiane v. 736). E subito impartisce ordini brutali
ai suoi soldati, che porteranno in schiavitù Andromeda e getteranno il figlioletto
giù dalle mura della città: «Via, strappate, presto, l’indugio dell’argolica flotta»
(v. 813). Troia è caduta e i più innocenti, il piccolo Astianatte e la piccola
Polissena, vengono spietatamente uccisi.
Non sappiamo quando sia stata composta questa tragedia, se prima o dopo
l’ascesa di Nerone, ma poco importa: anche Le troiane possono essere viste
come il lato oscuro, il gemello crudele, del trattato in prosa. Nella Clemenza
Seneca spiega che un regime autocratico può funzionare bene, purché l’uomo al
comando sappia agire con mitezza nei confronti del suo popolo. Nella tragedia
assistiamo invece alla transizione da un governo clemente a un governo
totalmente violento, spietato e ingiusto, in cui si fa strage di innocenti. Forse la
rappresentazione sconvolgente dell’infanticidio era per Seneca, che aveva
contribuito a coprire l’assassinio dell’adolescente Britannico, un modo per
esteriorizzare i suoi sensi di colpa. Una cosa è certa: l’uccisione dei bambini si
aggirava come uno spettro fra i suoi pensieri e trovò un’espressione ancora più
orripilante nel Tieste.
Nerone pare apprezzasse l’operato di Seneca quale primo portavoce
dell’ideologia del regime, tanto che lo ricoprì di denaro, ville e beni di ogni
genere. Dopo l’eliminazione di Britannico, l’imperatore «colmò di doni gli amici
più intimi», commenta Tacito, riferendosi in particolare a Seneca: alcuni infatti
accusavano «uomini che predicavano l’austerità di essersi spartiti in
quell’occasione ville e palazzi», come se si trattasse di una spartizione delle
spoglie (Annali 13, 18). L’Odisseo delle Troiane, l’astuto stratega disposto a dire
e a fare qualsiasi cosa pur di compiacere il re, vincere la guerra e tornarsene a
casa carico di trofei, ha qualcosa del suo creatore.

Le ricchezze di Seneca

Il veleno si beve nell’oro. 24


Le enormi ricchezze accumulate sotto Nerone costituiscono una delle
questioni più controverse della vita di Seneca. 25 Come biografi, riteniamo che tre
siano le domande da porsi. La prima: a quanto ammontavano tali ricchezze? La
seconda: come se le era procurate? La terza: come spiegare la contraddizione fra
quelle enormi fortune e il giudizio quasi interamente negativo che Seneca dà
della ricchezza nei suoi scritti? Rispondere alla prima domanda è relativamente
facile, alla seconda è già più difficile e alla terza è difficilissimo.
Che Seneca fosse una sorta di Creso non ci sono dubbi. Cassio Dione racconta
che sotto Nerone egli accumulò più di quattrocento milioni di sesterzi, una
somma enorme, e molte proprietà, fra cui case a Roma e altrove, e, a quanto
pare, grandi appezzamenti di terreni edificabili nel centro della capitale e in altre
parti d’Italia. E forse possedeva terre anche in Egitto (Lettera 77), che dovevano
rendere bene, perché l’Egitto era allora il principale fornitore di grano
dell’impero. Stabilire quanto varrebbero oggi le sue ricchezze è praticamente
impossibile, perché il valore dei vari tipi di beni e della manodopera era
radicalmente diverso da ora: le proprietà valevano in proporzione meno, mentre,
come in ogni economia preindustriale, le merci prodotte valevano di più. Quanto
ai servizi, l’onnipresenza del lavoro servile rendeva la situazione incomparabile
con quella odierna. Possiamo però farci un’idea della scala delle ricchezze di
Seneca ricordando che con un solo sesterzio si comperavano due pagnotte di
pane o una caraffa di vino, e che un legionario romano guadagnava novanta
sesterzi all’anno. Perciò, anche se misurato con il metro di oggi, Seneca era un
plurimiliardario.
Nella Roma del I secolo d.C. esistevano enormi differenze in termini di
ricchezza e potere: il distacco fra le élite e la massa della popolazione era
spaventoso. Secondo alcuni studiosi non esisteva nulla di paragonabile alla
classe media: fra i super-ricchi, i lavoratori manuali e gli agricoltori c’era il
vuoto. 26 Studi più recenti parlano invece della presenza di un nucleo di cittadini
con un reddito medio, i quali però non superavano il dieci per cento degli
abitanti: la stragrande maggioranza dei romani era a livello di sussistenza o poco
più, mentre l’uno e mezzo per cento controllava circa un quinto del prodotto
interno lordo (una percentuale, in realtà, inferiore a quella degli attuali Stati
Uniti, pur essendo comunque il segno di una grande disparità). 27 Quanto a
Seneca, era uno dei più ricchi fra i ricchi. La sua ricchezza era di gran lunga
superiore alla media delle élite. Secondo stime recenti, il reddito annuale medio
di un esponente della classe senatoriale si aggirava intorno ai trecentomila
sesterzi, quello di un esponente della classe equestre intorno ai trentamila.
Probabilmente si contavano sulle dita di una mano i romani che possedevano una
quantità di denaro e proprietà paragonabile alla sua. 28 Gli unici a poter reggere il
confronto con Seneca erano i favoriti di Claudio, i liberti Narciso e Pallante.
Un episodio raccontato da Dione serve a dare un’idea della straordinarietà dei
suoi mezzi economici. Un giorno Seneca ordinò cinquecento tavoli di legno di
cedro con gambe di avorio, tutti identici, per i suoi banchetti. In un’epoca in cui
la riproduzione meccanica non esisteva e tutto veniva costruito a mano, avere dei
mobili coordinati era indice di enorme ricchezza. E i materiali di quei tavoli
erano fra i più pregiati, dal legno di cedro all’avorio delle zanne degli elefanti.
Naturalmente, soltanto chi organizzava regolarmente grandi banchetti poteva
avere bisogno di una simile quantità di mobili. Dal che si deduce che Seneca non
lesinava denaro per intrattenere gli ospiti allo scopo di incrementare e coltivare il
proprio capitale sociale.
Una parte delle sue ricchezze doveva essere ereditaria, perché la famiglia
degli Annei era già molto agiata prima della proscrizione di Seneca: il padre,
come si è detto, era un uomo d’affari particolarmente abile. I possedimenti
terrieri, fra l’altro, erano redditizi e, quando i proprietari non risiedevano in villa,
venivano dati in affitto, oppure fatti coltivare a vite o a grano dagli schiavi.
Seneca acquisì comunque la maggior parte delle sue ricchezze sotto Nerone, che
lo ripagava con grande generosità per il suo contributo di speechwriter e
portavoce del regime.
Come si conciliano il Seneca super-ricco (praedives) – come lo definisce
Marziale – e il Seneca filosofo, lo stoico austero che considera la ricchezza una
delle cose indifferenti, anche se preferibili? La ricchezza è un argomento di cui
Seneca parla spesso nei suoi scritti, e sempre in modo negativo: eppure egli ne
godette, o perlomeno ne acquisì, tutti gli orpelli (fig. 15). Questa domanda se la
ponevano già i suoi contemporanei: la sollevò, per esempio, Publio Suillio Rufo,
un delatore animato da un astio personale nei confronti di Seneca. La corruzione
finanziaria veniva spesso portata alla luce da informatori di questo genere, che
denunciavano personaggi pubblici dediti a pratiche illegali, come i governatori
che intascavano i fondi riservati alle province: una forma di malversazione allora
piuttosto frequente. 29 Probabilmente i delatori erano malelingue o anche peggio,
ma in un sistema in cui il divario fra ricchi e poveri era così spaventoso e le
occasioni di corruzione finanziaria così frequenti, le gole profonde svolgevano
un ruolo essenziale per porre un freno agli abusi.
Publio Suillio Rufo era stato condannato in base a un’antica legge contro la
corruzione giudiziaria, che i suoi nemici, fra cui pare ci fosse anche Seneca,
avevano riportato in vigore per attaccarlo personalmente. Nel 58 Suillio si era
vendicato, accusando il filosofo di abusi morali e finanziari ben più gravi di
quelli che erano stati imputati a lui. 30 Seneca, denunciava il suo accusatore,
aveva ammassato un’enorme fortuna – tre milioni di sesterzi – in appena quattro
anni al servizio di Nerone e perseguitava chiunque, incluso presumibilmente
Suillio stesso, parlasse in difesa dei suoi concittadini o fosse stato amico di
Claudio, sotto il quale «aveva subìto un esilio più che meritato» (Tacito, Annali
13, 42). Nel suo attacco Suillio mescolava accuse di corruzione sessuale
(dall’adulterio con Giulia Livilla alle tresche con Agrippina, alla seduzione dello
stesso Nerone) ad accuse per il rapido arricchimento: «A Roma aveva teso le sue
reti per catturare i testamenti di uomini senza eredi; l’Italia e le province furono
prosciugate dalla sua insaziabile usura» (ibid.).
15. L’élite romana amava il lusso, di cui sono esempi questi gioielli e la coppa d’argento. La critica dello
sfarzo è uno dei temi prediletti da Seneca.

Seneca era non solo molto ricco, sosteneva Suillio, ma lo era nonostante la
falsa pretesa di essere un «filosofo», e accumulava beni a spese di altri cittadini.
La caccia all’eredità dei «vecchi senza eredi» era una pratica disonesta allora
piuttosto diffusa: nel Satyricon Petronio ne traccia un quadro memorabile. Il
protagonista, Eumolpo, si finge un vecchio nababbo malato e senza figli per far
uscire allo scoperto i cacciatori di lasciti – che fingono di essergli amici – e
smascherarli. La circonvenzione dei vecchi privi di eredi era un topos talmente
abusato dai moralisti romani che Suillio avrebbe potuto inserirlo tranquillamente
nel suo elenco di accuse, anche se la denuncia fosse stata falsa. Certo è che
Seneca coltivava con grande cura le relazioni sociali nella capitale e non è
escluso che qualcuno degli ospiti con cui libava e cenava seduto a quei tavoli
con le gambe d’avorio fosse d’età avanzata, facoltoso e senza figli.
L’accusa di avere «prosciugato le province» è più grave dal punto di vista
etico ed è anche più difficile da confutare. I ricchi romani prestavano spesso
denaro a interesse nei territori conquistati ed è probabile che lo facesse anche
Seneca. Cassio Dione racconta che con l’usura Seneca aveva contribuito alla
sollevazione dei britanni nel 61 d.C., chiedendo l’improvvisa restituzione di un
prestito di quaranta milioni di sesterzi. Forse la cifra è esagerata e il
collegamento fra l’insurrezione e il debito non così stretto, ma non ci sono
elementi per escludere che egli prestasse denaro a interesse, né per ritenere che
se ne vergognasse.
Seneca, scrive Tacito, fu informato subito delle accuse di Suillio e partì al
contrattacco. Il delatore fu sottoposto a una serie di processi per corruzione e
condannato alla confisca di metà dei suoi averi e all’esilio. Seneca si prese
dunque una rivincita più che abbondante su uno dei suoi nemici personali senza
troppi peli sulla lingua. Suillio però seppe sfruttare al meglio la situazione in cui
venne a trovarsi: non chinò la testa durante la condanna e visse senza troppi
patemi il suo lussuoso esilio, guardandosi bene dal tornare a Roma. Non è
escluso che Seneca, infuriato per il coraggio dimostrato dal suo accusatore,
ribollisse ancora di rabbia, perché anche il figlio di Suillio fu processato. A porre
fine allo scontro intervenne Nerone: la vendetta, disse, aveva superato il limite,
dimostrando, in questo caso, più clemenza del suo maestro (13, 43).
Le accuse lanciate da Suillio dovevano avere lasciato il segno, tanto più che
probabilmente non erano le uniche, per cui la cacciata di un nemico non bastava
a chiudere la bocca a tutti gli altri. Nel 59, forse l’anno successivo ai fatti citati,
Seneca compose un lungo trattato autoassolutorio, La vita felice. 31 Dedicato al
fratello maggiore Novato, lo scritto rivela con chiarezza il suo modo di reagire
alle accuse di ipocrisia e di arricchimento eccessivo e molto poco stoico. Egli
affronta di petto il tema del valore dei beni terreni. Comincia esaminando il
rapporto tra la felicità e il piacere (voluptas), e confuta l’idea che il piacere sia
una componente intrinseca della felicità.
Ostenta disprezzo nei confronti di questa concezione assai diffusa, ma
insensata, del problema; la ricchezza, l’eloquenza e il potere non sono garanzie
di una felicità vera e duratura: sono illusioni, che «di fuori splendono, ma dentro
sono misere» (La vita felice 2, 4).
Un attacco più consistente e complesso è riservato ai seguaci
dell’epicureismo, la scuola filosofica che era la principale rivale dello stoicismo
nella Roma del tempo. A differenza di molti detrattori di Epicuro, Seneca non ha
difficoltà ad ammettere che gli epicurei non sono affatto edonisti ed esprime un
rispetto sincero per i veri insegnamenti del maestro. Gli edonisti, invece, «non
sanno valutare la schietta frugalità e asciuttezza del piacere di Epicuro – tale lo
reputo, per Ercole – ma si precipitano sulla parola nuda e cruda, facendone un
pretesto e una maschera delle proprie libidini» (13, 2). Il male, dunque, non sta
in Epicuro, bensì nei suoi falsi epigoni, che si definiscono epicurei, ma si
guardano bene dall’adottare lo stile di vita austero del caposcuola. Resta il fatto,
però, che l’equiparazione epicurea fra piacere e virtù è errata. Il saggio non
disprezza il piacere, ma lo ritiene sempre secondario rispetto all’obiettivo
principale, la virtù. I piaceri del corpo hanno certamente un loro posto nella vita
ideale, ma soltanto se sono come «le truppe ausiliarie e i soldati armati alla
leggera (debbono servire, non comandare)» (8, 2). Anche la virtù è apportatrice
di piacere, ma non la si ricerca per questo, bensì per se stessa. Equiparando
piacere e virtù, come fanno gli epicurei, ci si espone ai rischi della fortuna.
Qualsiasi piacere fisico, anche la gioia più moderata, come quella che un
epicureo prova di fronte a una crosta di pane e a un sorso d’acqua, conditi solo
con la fame e la sete, e mangiati in compagnia di un solo amico, può esserci
strappato.
Queste considerazioni sembrano rinviare alle scelte che l’autore ha effettuato
nella propria vita. Egli non si stanca mai di ripetere che non si deve permettere al
desiderio di benessere fisico di allettarci, spingendoci a compiere passi contrari
non soltanto alla virtù ma anche (che è poi la stessa cosa) alla libertà. Forse
Seneca prova disagio per avere accettato di mettersi al servizio dell’imperatore,
compromettendo la propria libertà, ed è per questo che ribadisce questo punto
con tanta insistenza. Nell’enunciare l’ideale stoico, che consiste nel seguire in
ogni istante dio e la natura, il suo linguaggio si fa politico: «Siamo nati sotto una
tirannide: la libertà è obbedire a dio» (15, 7). Chiaramente, servire Nerone non
significava essere liberi e Seneca ne era consapevole, per cui organizza le sue
argomentazioni in modo tale da presentarsi come colui che serve un potere più
alto di quello terreno, un impegno che, paradossalmente, gli consente una libertà
più elevata, esente dalle costrizioni di un’esistenza meramente fisica.
La vita felice contiene una risposta esplicita a chi lo rimproverava di essere
ipocrita. Seneca immagina un accusatore anonimo, che gli si avvicina e gli
chiede «la solita cosa». E qual è la solita cosa? È un lungo elenco di accuse per
le sue ricchezze e per il coinvolgimento in attività che per lo stoico non
dovrebbero avere alcun valore, ma dovrebbero essere semplicemente
indifferenti:

Perché le tue parole sono più virtuose della tua vita? Perché abbassi la voce di fronte ai
superiori, ritieni il denaro un mezzo necessario, risenti dei danni, piangi alla notizia della
morte di tua moglie o del tuo amico, tieni conto del tuo buon nome e ti senti ferito dalla
maldicenza? Perché il tuo podere è curato più di quanto non lo esiga un reddito normale?
Perché la tua tavola non è imbandita secondo le tue parche massime? Perché hai mobili troppo
ricercati, perché in casa tua si beve vino più vecchio di te, si mantiene un’uccelliera? E pianti
alberi che non ti daranno altro che ombra, e tua moglie porta appeso alle orecchie il
patrimonio di una buona casata, e i tuoi schiavetti son ben forniti di vesti preziose? Perché in
casa tua il servire a tavola è un’arte, non si può disporre l’argenteria a caso o a piacere, ma
s’apparecchia secondo le buone regole e c’è uno scalco al tuo servizio?
(17, 1-2)

L’elenco non finisce qui, ma prosegue con innumerevoli esempi di lussi


assurdi. L’effetto è quasi comico. Se gli esempi fossero stati soltanto tre o
quattro, avrebbero colpito nel segno, ma, dato che la lista si allunga sempre di
più, il lettore comincia a domandarsi se Seneca stia pronunciando un’arringa
contro la ricchezza o non stia invece gioendo nel contemplare lo straordinario
catalogo dei propri beni.
Poi però le domande si fanno più stringenti: perché un filosofo stoico
dovrebbe volere ricchezze superiori non soltanto a quelle di tutti gli altri, ma così
sterminate da non riuscire neppure a tenerne il conto, ricchezze insensate,
irragionevoli?

Perché hai possedimenti di là dal mare, perché ne hai più di quanti tu ne conosca? Vergogna!
O sei tanto sconsiderato che non conosci nemmeno i tuoi pochi schiavi, o sei tanto smodato
nel lusso da averne di più di quanto la tua memoria riesca a ricordare!
(Ibid.)

Con questa lunga sequela di rimproveri Seneca sembra voler dare una risposta
ai suoi critici, ma lo fa in modo ambiguo. Per esempio: il suo immaginario
accusatore lo critica perché mostra un dolore poco filosofico per la morte della
moglie, ma poco più avanti obietta che la consorte – viva, si presume – indossa
gioielli scandalosamente costosi. Seneca aveva con ogni probabilità perso la
prima moglie e, quando scrisse La vita felice, doveva essersi già risposato.
Cassio Dione parla di un «brillante matrimonio» in «questo periodo», ed è
verosimile che si riferisca alle nozze con Paolina. Ma, anche ammesso che la
morte della prima moglie e i preziosi orecchini della seconda corrispondano al
vero, è pur sempre possibile vedere nella contraddizione che gli viene imputata
la volontà di tenersi nel vago, come se dicesse: questo vale per qualsiasi filosofo
non all’altezza dei suoi ideali, che si chiami Lucio Anneo Seneca o in altro
modo.
Lo slittamento disorientante dal particolare al generale e poi di nuovo al
particolare consente a Seneca di mantenere l’ambiguità: questa, sembra dire, non
è una confessione. Anche l’anonimo accusatore passa dall’attacco al singolo a
contestazioni più generali sull’ipocrisia dei filosofi: aliter loqueris, aliter vivis,
«parli in un modo e vivi in un altro», «la tua vita non è coerente con le tue
parole» (18, 1). Ma a essere incoerente non è il solo Seneca, è un’intera
categoria: «I filosofi non mettono in pratica ciò che dicono» (20, 1).
Nelle parole dell’accusatore avviene un ulteriore spostamento, come se ora
criticasse una persona che è, e non è, Seneca. Non si preoccupa molto di
indagare sull’origine di tutta quella ricchezza: nel catalogo delle sue critiche non
figurano domande quali «Perché prosciughi le province?» e «Perché vai a caccia
di eredità?». Né si alza a chiedere: «Perché tu, che ti definisci filosofo, sei al
servizio di un sovrano che ha assassinato il fratello, e gli fai propaganda e ti
arricchisci sotto di lui?». Le accuse si appuntano quasi tutte sui possedimenti
materiali, fra cui gli schiavi sono soltanto una costosa sottocategoria. Non
appena compare un cenno a questioni più spinose e gravi, Seneca se ne allontana
a grande velocità: «Perché abbassi la voce di fronte ai superiori?». La risposta
implicita è che il «filosofo» rischierebbe l’esilio o la morte se alzasse la voce.
Diversa è invece la domanda: «Perché piangi alla notizia della morte di tua
moglie o del tuo amico?». La risposta sottintesa è che il filosofo, il quale
sostiene di essere tanto distaccato da poter sopportare con calma qualsiasi
perdita, in realtà ha, come tutti, i suoi affetti. In sostanza, Seneca riconosce che
anche l’aspirante saggio dipende dagli altri. Ma la distanza fra queste due
debolezze, l’avarizia e l’amore, è per Seneca meno grande di quanto possa
apparire. L’attrazione per i beni materiali, così come egli la presenta, sta
precisamente nel fatto che essi consentono al possessore di conservare e
incrementare il proprio prestigio sociale. Il ricco non desidera cibi raffinati, vini
preziosi o gioielli per la moglie perché è avido, ingordo o perché è un esteta, e
neppure perché queste cose gli piacciono. Non è il profumo dei vini d’annata o
la bellezza degli orecchini a suscitare le sue brame. A tentarlo è ciò che il lusso
rappresenta. La brama insaziabile di ricchezza non è ispirata dagli oggetti in sé,
ma dal desiderio di suscitare ammirazione. L’avidità è perciò una funzione della
falsa coscienza: colui che non sa come diventare veramente buono (e perciò
veramente ammirevole) acquisendo saggezza e virtù secondo la vera via stoica si
aggrapperà a questi falsi beni, che non potranno mai nutrire un vero rispetto di
sé.
Da un certo punto di vista il desiderio di accumulo sembra semplicemente
assurdo: perché desiderare cose che non si vedranno né useranno mai? Il modo
in cui Seneca formula la domanda, però, contiene di fatto anche la risposta.
Quelli appena elencati non sono beni che si desiderano per utilizzarli, ma perché
sono simboli del potere sociale. L’idea che il continuo arricchimento servisse a
risalire lungo la scala sociale apparteneva alla realtà della Roma dell’epoca, in
cui il prestigio si fondava su un insieme di attività politiche, di nobiltà ereditaria
e di ricchezza. Spesso fra queste tre categorie si creavano tensioni, ben visibili
nel caso di Seneca. A volte, il rango basato sulla nascita poteva essere più alto o
più basso della posizione censuaria. Seneca si procurò una quantità di beni che lo
ponevano molto al di sopra della classe equestre cui apparteneva per nascita.
In una tragedia come il Tieste entra in scena un personaggio, Atreo, il cui
desiderio di dominio e di superiorità sugli altri è talmente insaziabile che persino
l’aver costretto l’odiato fratello a cibarsi dei figli non è sufficiente a placarlo:
«Al delitto si deve misura qualora lo si compia, non qualora lo si restituisca.
Anche questo per me è ancora poco» (vv. 1053-1054). Nelle opere in prosa,
invece, Seneca rovescia il cliché tragico per cui la sete di potere è smisurata,
inappagabile, contrapponendovi un’aspirazione illimitata alla virtù, anche se mai
interamente realizzata. La sua prima linea di difesa dall’accusa di ipocrisia è
ammettere che è in parte vera: riconosce di non praticare del tutto quello che
predica. Insiste però anche nel dire che comunque si sforza ogni giorno di
avvicinarsi sempre più alla meta. Ma subito dopo prova a rovesciare l’accusa sul
suo accusatore:

Non sono un saggio e, se questo può ingrassare la tua malignità, nemmeno lo sarò. Non puoi
pretendere da me che io sia alla pari degli ottimi, ma che sia migliore dei malvagi. Mi basta
questo: togliere ogni giorno qualcosa ai miei difetti e rimproverare a me stesso i miei errori.
Non sono ancora arrivato alla buona salute e nemmeno ci arriverò; preparo dei calmanti per la
mia podagra, non una terapia, e mi accontento di sentirne diradarsi gli attacchi e attenuarsi le
fitte; ma se paragono i miei piedi ai vostri, io, debole, mi sento un corridore.
(La vita felice 17, 3-4)
Sorprendentemente, nonostante i tentativi di generalizzazione effettuati nel
ritrarre il filosofo-ipocrita, quando passa al contrattacco Seneca prende di mira
un singolo individuo, che di difetti ne ha tanti. In questo modo il discorso passa
dal piano dei princìpi a quello dei comportamenti specifici. Ma a un’accusa di
ipocrisia non si dovrebbe dare una risposta diretta, indipendentemente da chi l’ha
formulata? Seneca invece presenta la questione in termini molto più personali.
Ancora una volta, però, evita di identificarsi del tutto con la voce del filosofo, sia
pure di un filosofo imperfetto: «Questo non lo dico di me, perché so d’essere
sepolto sotto un cumulo di vizi, ma di chi ha già fatto qualche cosa» (17, 4). Ed è
rapidissimo nel passare dall’autoaccusa all’autodifesa e poi di nuovo
all’autoaccusa.
L’altra sua linea di difesa consiste nel mettere da parte se stesso per parlare di
famosi filosofi del passato e di figure etiche esemplari. Anche Platone, Epicuro,
Zenone e i maggiori pensatori cinici furono accusati di non praticare quello che
insegnavano (18, 1 - 19, 3). Forse anche quei grandi uomini, scrive, non hanno
sempre agito in conformità con i loro princìpi, ma quel che importa non sono i
loro errori, bensì le loro conquiste: «La meditazione sulle proprie aspirazioni al
bene è già lodevole, anche a prescindere dai risultati. È meraviglia se non
raggiungono la vetta, avviati come sono su un sentiero scosceso? Se sei uomo,
ammira il loro generoso tentativo, anche quando li vedi cadere» (20, 2). In un
felice crescendo, Seneca esalta lo sforzo di vivere secondo gli ideali stoici, anche
quando non si riesce a restarvi pienamente fedeli. Sottotraccia, però, si coglie
una certa ansia, il sospetto che l’ambizione, anche quella filosofica, possa essere
pericolosa. L’appello a intraprendere la via della filosofia si conclude con una
frase che riecheggia il passo delle Metamorfosi di Ovidio sulla morte di Fetonte:
«Chi tenterà di attuare questo programma camminerà verso gli dei e, anche se
non li raggiunge, almeno cade nell’ardita impresa» (20, 5). Fetonte, il figlio del
Sole, aveva voluto condurre per i cieli i cavalli del padre, ma non era riuscito a
controllarli ed era morto. Sulla sua tomba, le sorelle, le Eliadi, avevano inciso
queste parole: «Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre: se non seppe
guidarlo, pure egli cadde in una grande impresa».
Seneca torna quindi al tema del perché un filosofo, pur predicando il
«disprezzo delle ricchezze» e di altri beni materiali, se li tenga stretti, e, pur
affermando che la morte, la malattia e l’esilio fanno parte delle cose
«indifferenti», faccia di tutto per evitarli. Il problema, suggerisce Seneca, non
sono le ricchezze, la salute o la vita, ma è il modo di porsi nei loro confronti. Il
filosofo non avrà nulla da obiettare se queste cose gli capiteranno in sorte e, anzi,
ne sarà felice, ma non perderà la sua serenità se per caso le ricchezze, la salute o
la vita lo lasceranno: «Il saggio non si ritiene indegno di nessun dono della sorte,
non ama le ricchezze, però le preferisce» (21, 4). Ma come si giustifica questa
affermazione? Il filosofo, dice Seneca, apprezza in particolare le maggiori
possibilità che la ricchezza offre di praticare la virtù: «La povertà permette di
esercitare un solo genere di virtù, la fermezza e sopportazione, mentre la
ricchezza apre un vasto campo alla temperanza, alla circospezione, all’ordine,
alla magnificenza». E conclude: «Il saggio non disprezzerà se stesso, se sa
d’essere molto piccolo di statura, ma preferirà essere alto» (22, 1-2).
Il discorso prosegue con l’esame della dottrina stoica delle cose che noi
chiamiamo «indifferenti»: ebbene, anch’esse possono avere qualche pregio, e
alcune sono preferibili ad altre. Come richiede l’ortodossia stoica, Seneca non
usa mai l’aggettivo «buono» per parlare delle cose indifferenti: esse sono
pregevoli, ma non buone. La distinzione è importante. Fra indifferenti di egual
valore, le cose pregevoli sono preferibili ad altre, ma non sono di per sé
sufficienti per la felicità dell’uomo, e pertanto non sono veramente buone. Solo
una vita consacrata alla virtù è davvero buona. Ciò non toglie che alcune cose
indifferenti siano migliori di altre, dichiara Seneca in perfetto linguaggio stoico.
L’importante è che si riesca a godere della ricchezza senza lasciarsi turbare
qualora scompaia: «Se le mie ricchezze mi lasceranno, non porteranno via altro
che se stesse», perché, dice al suo immaginario accusatore, «le ricchezze sono
mie, tu, invece, sei delle ricchezze» (22, 5).
Un filosofo può dunque essere ricco in modo giusto o in modo sbagliato.
Perché lo sia nel modo giusto, occorrono tre condizioni. La prima: il saggio non
farà dipendere la sua felicità dalla ricchezza, ma, come il destinatario della
poesia di Kipling intitolata Se, saprà far fronte tanto alla buona quanto alla
cattiva sorte e saprà «trattare allo stesso modo questi due impostori». La
seconda: il saggio deve acquisire le sue ricchezze in maniera onesta, senza
sottrarre illegittimamente niente a nessuno, perché «la ricchezza non deve essere
macchiata del sangue altrui». La ricchezza di Seneca avrebbe superato questo
test? Non è affatto sicuro. Egli divenne ricchissimo mentre era al servizio di
Nerone, ma ricorse anche all’usura, che provocò molte sofferenze nelle province,
e fu almeno complice, se non direttamente responsabile, di alcuni degli atti di
sangue del regime, fra cui l’assassinio di Britannico. Si noti, comunque, che il
discorso sulla maniera onesta di arricchirsi è sempre in terza persona. Seneca
non dice: «La mia ricchezza non è stata tolta a nessun altro e non è macchiata di
sangue», ma dice: «il filosofo può avere abbondanti ricchezze, purché non siano
state sottratte ad altri o lorde di sangue altrui» (23, 1). E su come il «filosofo» –
questa inesistente astrazione – possa riuscire ad accumulare i tesori di cui godrà
senza mai abusare, Seneca si tiene molto nel vago. È un regalo della fortuna,
dice (23, 2), e dunque sarebbe scortese rifiutare i doni di una dea. Si guarda bene
dall’ammettere che la fortuna può operare a volte per mezzo di agenti non
proprio angelici, come Agrippina e Nerone. Ed evita di spiegare in qual modo la
fortuna deponga le ricchezze nel grembo del filosofo senza che egli compia
alcunché di discutibile o, meglio ancora, senza che alzi neppure un dito per
ottenerle. Come il don Giovanni di Byron, che si imbatte ovunque in donne
bellissime, pronte a gettarsi ai suoi piedi, senza il minimo sforzo da parte sua,
così il saggio di Seneca si ritrova ricco per una sorta di caso fortunato.
La terza condizione, essenziale, perché l’atteggiamento del filosofo verso le
ricchezze sia quello giusto è la generosità. Egli si mostrerà benefico e munifico
verso i meno fortunati, donando con costanza e disinteresse, ma con
discernimento. In fondo, una delle principali ragioni per cui la ricchezza è
apprezzabile è che permette a chi la possiede di donare: Ubicumque homo est, ibi
benefici locus est, «Dovunque c’è un uomo, ivi si può collocare un beneficio»
(24, 3). I ricchi hanno più possibilità dei poveri e, in questo senso, sono più
bene-stanti. Il pensiero che i migliori doni possano non essere materiali, che il
beneficium possa consistere anche nell’offrire amore, tempo, lavoro,
sollecitudine o parole gentili, sembra non sfiorare neppure Seneca.
Ci sono due tipi di aspiranti filosofi ricchi: il primo è un peccatore imperfetto,
filosofo solo nel senso che aspira a diventare migliore. Egli non riesce a far
collimare dottrina e vita, ma se non altro ci prova: «Non puoi pretendere che io
risponda a puntino alla regola che professo: io bado soprattutto a farmi, a
plasmarmi e aspiro a un ideale molto elevato; quando avrò raggiunto la meta che
mi sono proposto, potrai pretendere che le mie azioni corrispondano alle mie
parole» (24, 4). Il secondo è più forte e più sicuro di sé. Preferisce essere ricco
piuttosto che un povero che dorme sotto il ponte Sublicio, rifugio di molti
diseredati nella Roma del tempo. E preferisce indossare la toga e i sandali
piuttosto che andare in giro a spalle e piedi nudi, ma può essere ugualmente
felice nell’uno e nell’altro caso (25, 2). Colpisce il cenno ai diseredati della
Roma neroniana, tanto più perché, com’è evidente, il filosofo ideale non è
neppure sfiorato dall’idea di alleviarne la sorte. I poveri fungono soltanto da
metafora di quel che potrebbe un giorno essere lui stesso, non sono persone
concrete nei confronti delle quali egli avverta una qualche responsabilità. 32
Seneca non si raffigura nelle vesti di un uomo che ha raggiunto un rapporto
ideale con la ricchezza. Il sapiente per eccellenza è Socrate, che a questo punto
del trattato prende la parola e dichiara la sua condivisione del punto di vista
stoico. Socrate, che insegnava gratuitamente e aveva un solo mantello per
l’estate e l’inverno, potrebbe non sembrare il personaggio più adatto a difendere
l’idea che al filosofo non dispiacerebbe essere molto ricco, se potesse. Eppure,
afferma Seneca, a ben vedere il filosofo greco è dalla sua stessa parte; coloro che
criticano i pensatori per le loro ricchezze non sono diversi da quanti attaccarono,
imprigionarono e mandarono a morte Socrate dopo lunghe sofferenze:
«Balzateci addosso, attaccate: vi vincerò sopportandovi» (27, 3). Ad accusare i
filosofi di ipocrisia sono proprio gli ipocriti, persone che odono, ma non
ascoltano quello che i filosofi dicono: «Dunque non c’è incoerenza tra il mio
dire e il mio vivere; al vostro orecchio arriva soltanto il suono delle parole, ma
non ve ne chiedete il significato» (25, 8).
La vita felice affronta quindi rapidamente altre questioni etiche sollevate dalla
ricchezza del filosofo. Seneca sfiora appena il tema se l’acquisizione, il possesso
e l’uso della ricchezza da parte di un singolo costituisca o provochi
un’ingiustizia sociale significativa. Ricorda con poche parole che la ricchezza
dovrebbe provenire da fonti lecite, e questo è tutto. Nelle opere che ci sono state
tramandate, Seneca non accenna mai alle sue attività di prestatore di denaro e
agente immobiliare, né forse la cosa sorprende. Così come non sorprende che
non parli mai in modo esplicito dei beni ricevuti da Nerone e dalla casa
imperiale.
Nella Vita felice Seneca si dilunga molto di più sulla destinazione della
ricchezza che sulla sua provenienza. Dedica particolare attenzione a ciò che un
uomo ricco dovrebbe fare con il suo denaro. Ma nei Benefici, in cui l’argomento
viene trattato in modo più esteso, il discorso ruota intorno alle motivazioni del
donatore piuttosto che agli eventuali vantaggi per il beneficiario, ed esamina
soprattutto le relazioni di tipo orizzontale, vale a dire fra pari, più che quelle di
tipo verticale, ossia fra persone di livelli sociali diversi. 33 Seneca non si
domanda se i poveri abbiano diritto a ricevere una parte del denaro accumulato
dai ricchi: il problema della distribuzione della ricchezza, per lui come per quasi
tutti i suoi contemporanei, non sussiste. La giustizia politica non rientra fra i suoi
interessi. Il tema principale è il tipo di debito sociale e gli obblighi in cui incorre
il ricco nel distribuire e nel ricevere ricchezze.
Nella quotidianità della Roma del I secolo d.C. essere danarosi e influenti
comportava una serie di interazioni sociali quotidiane. Seneca era il patrono di
molti individui meno ricchi e importanti di lui, che da lui dipendevano e
aspiravano a ottenerne i favori: la dignitas di un ottimate era strettamente
correlata al numero di clienti che lo attorniava. La sua giornata cominciava con
una folla di visitatori mattutini, che sollecitavano favori, regali, denaro e
riconoscimento. E anche quando egli usciva di casa, aveva al suo seguito un
lungo corteo. A cena doveva intrattenere lautamente i suoi patrocinati: quei
cinquecento tavoli con le gambe d’avorio venivano usati spesso. I clienti erano,
ufficialmente e legalmente, sotto la sua protezione. Era suo compito proteggerli
sul piano finanziario e politico, ed essi, in cambio, si mostravano deferenti verso
il loro mecenate, gli facevano visita, lo seguivano negli spostamenti, ne
promuovevano l’immagine se concorreva a qualche carica pubblica e
contribuivano più in generale alla popolarità, all’onore e alla sicurezza del
patrono. Un esponente importante della clientela di Seneca era Fabio Rustico,
uno scrittore cui viene attribuita una storia della Roma contemporanea o,
alternativamente, una biografia di Seneca, nessuna delle quali ci è pervenuta. Ma
il ritratto tutto positivo da lui tracciato del carattere e della vita del suo patrono
contribuì a forgiare la fama di Seneca presso gli storici successivi, che
utilizzarono i suoi scritti come fonte. In questo, come in altri casi, era il
protettore a essere beneficiato dal protetto. Seneca era un patrono generoso:
Giovenale lamenta che nella sua generazione (alla fine del I secolo d.C.) non se
ne trovavano più di altrettanto munifici. Al suo patrono il poeta satirico dice:
«Nessuno ti chiede i regali che Seneca mandava ai suoi modesti amici, o quelli
del buon Pisone, o quelli che Cotta soleva elargire, allora, infatti, alla gloria dei
titoli o delle cariche si preferiva d’esser chiamati generosi» (Giovenale, Satire V,
vv. 108-111).
Seneca si serviva della sua enorme ricchezza per conservare la sua cerchia di
beneficiati, al cui centro egli sedeva come in un mondo parallelo alla corte
neroniana. 34

La gentilezza e la gratitudine
Seneca non fu del tutto estraneo alle stravaganze edonistiche e teatrali di Nerone
e della sua corte. Secondo un’antica diceria, tramandata da Cassio Dione, egli
ebbe molti rapporti con giovani non più imberbi (nella Roma antica fare sesso
con maschi adulti era ritenuto molto più disdicevole che fare sesso con
adolescenti), «vizio che trasmise a Nerone» (Storia romana 61, 10, 4). Con ogni
probabilità si trattava di una delle tante maldicenze che circolavano sugli
intellettuali più noti: ai filosofi si attribuivano modelli di comportamento «alla
greca» e pertanto censurabili. La stessa fonte suggerisce anche che, nei primi
anni del regno neroniano, Seneca fece il possibile per evitare di partecipare ai
banchetti dell’imperatore, con la «scusa» di dedicarsi agli studi filosofici.
Sicuramente egli avrà desiderato ogni tanto trascorrere qualche ora in solitudine
e tenersi lontano dalle eccentricità e dagli eccessi della vita di corte, ma
altrettanto sicuramente era anche consapevole che troppi rifiuti avrebbero
suscitato le ire di Nerone. E infatti, più che condurre una vita ritirata, egli
partecipò attivamente alle decisioni dell’imperatore, sia personali sia politiche,
per tutti gli anni Cinquanta.
Lo aveva già aiutato, come abbiamo visto, durante la relazione con la liberta
Atte. Ma la vita amorosa di Nerone divenne ancora più complicata quando si
invaghì di una nobildonna, Poppea Sabina, che voleva non soltanto sedurre, ma
anche sposare. Poppea era già maritata con un amico e sodale del principe,
Otone, che in seguito sarebbe stato per breve tempo imperatore. Le fonti antiche
forniscono versioni differenti di questa storia. Dione racconta che Nerone
combinò il matrimonio fra Poppea e Otone per potere essere facilmente a
contatto con lei. In ogni caso, egli sperava di divorziare da Ottavia e sposare
Poppea.
L’unico ostacolo alle nozze era la madre Agrippina, la quale non voleva che il
figlio ripudiasse la moglie che aveva scelto per lui. Dietro la volontà di
divorziare forse non c’era soltanto la passione per Poppea, ma anche, e il tema
emerge con forza nelle fonti antiche, il desiderio di liberarsi una volta per tutte
del potere e dell’influenza materni. Nerone aveva allontanato Agrippina dal
palazzo, relegandola in una villa a sud di Roma, ma era ancora ossessionato
dall’idea di essere tenuto sotto controllo o, come scrive Tacito, dalla convinzione
che Agrippina, «ovunque fosse», sarebbe stata sempre «per lui un peso gravoso»
(Annali 14, 3). E fu così che ne decise la morte.
La sua era una soluzione estrema anche in base al codice di comportamento
non certo scrupoloso della dinastia Giulio-Claudia, e non era facile da realizzare.
Se fosse venuto alla luce, il matricidio ben difficilmente sarebbe stato accettato
dai romani. Era un delitto quasi senza precedenti nella storia, e anche i pochi casi
che si erano verificati non erano tali da incoraggiare l’aspirante assassino.
Qualcosa del genere era avvenuto in Egitto più di un secolo prima (80 a.C.),
quando Tolomeo XI era stato designato erede al trono a condizione che sposasse
la matrigna. Egli l’aveva sposata, ma poi, per ragioni a noi ignote, l’aveva
uccisa: l’omicidio, però, aveva sollevato una rivolta e Tolomeo era stato linciato.
Quanto a Nerone, probabilmente non era del tutto certo di controllare così
saldamente le leve dello stato da poter osare di assassinare la madre senza subire
la medesima sorte. Che abbia preso ugualmente la decisione dimostra non
soltanto un’atroce mancanza di scrupoli e assenza di affetto, ma anche,
implicitamente, la fiducia che egli riponeva nei suoi consiglieri. Senza l’aiuto di
Seneca, di Burro e di altri collaboratori non avrebbe mai potuto condurre a
termine il suo proposito.
Il liberto Aniceto, che era stato il suo precettore prima di Seneca, architettò
uno schema complesso, che prevedeva di portare Agrippina per mare su
un’imbarcazione costruita in modo da affondare durante la navigazione. Nerone
invitò la madre ad accompagnarlo in una gita di piacere su quella fatidica barca.
Agrippina non era un’ingenua ed era consapevole di non essere più nelle grazie
del figlio, ma forse in quell’occasione le fu difficile credere che egli intendesse
davvero ucciderla. E comunque, se avesse tradito i suoi sospetti, non avrebbe
fatto altro che rafforzare la volontà di Nerone. Così, pur temendo di cadere in
una trappola, accettò l’invito. Il piano tuttavia fallì: la barca non si disintegrò
come previsto e Agrippina riportò soltanto lievi ferite (14, 6).
Ormai, però, l’imperatrice madre aveva la certezza che il figlio la voleva
morta. Nerone cercò altri complici per architettare un nuovo piano. Ovviamente,
si rivolse per prima cosa ai suoi consiglieri più fidati, Seneca e Burro, i quali con
ogni probabilità erano già al corrente delle sue intenzioni. Quando li convocò e
rivelò i suoi propositi, i due, così racconta Tacito, da principio tacquero, o perché
troppo sconvolti oppure perché, essendo a conoscenza delle sue mire, avevano
bisogno di tempo per mettere a punto una strategia. Poi, prosegue Tacito, Seneca
ruppe il silenzio: «Guardò Burro in viso e gli chiese se si doveva impartire ai
soldati l’ordine di ucciderla» (14, 7). Fu ciò che fecero: Agrippina fu aggredita
nel suo letto da un manipolo di armati. Sapeva, naturalmente, che il mandante
era il figlio e quando essi presero a infierire su di lei, gridò «Colpite il ventre!»,
indicando il grembo che aveva custodito Nerone (14, 8). Agrippina, racconta
Cassio Dione, aveva sempre sospettato che prima o poi si sarebbe arrivati a
questo; mentre complottava per portare sul trono il figlio, aveva dichiarato: «Che
mi uccida, purché regni» (Cassio Dione, Storia romana 61, 1, 2).
Che giudizio dare del ruolo di Seneca in questa vicenda agghiacciante?
Agrippina era stata la sua grande benefattrice: lo aveva richiamato dall’esilio e
gli aveva assegnato un ruolo prestigioso a corte, nominandolo precettore e poi
primo consigliere del figlio. Eppure, Seneca non solo fu complice del suo
assassinio, ma lo diresse anche, indicando la strategia da adottare e, subito dopo,
scrivendo la lettera per il Senato – attribuita a Nerone, che era nascosto a Napoli
– nella quale giustificava il delitto. Agrippina tramava per assassinare
l’imperatore, recitava il messaggio, e quando un suo liberto fu trovato armato, la
sua morte era diventata inevitabile. E di morire meritava comunque, perché
voleva condividere il potere con il figlio, per cui la guardia pretoriana, il Senato
e il popolo si sarebbero trovati nella situazione umiliante di essere governati da
una donna. Ad Agrippina venivano attribuite tutte le malefatte del regno di
Claudio, ma ora con la sua morte la nazione sarebbe vissuta sotto una stella più
benevola (Tacito, Annali 14, 11-12). Nerone aveva sopportato minacce costanti:
«Che la mia vita sia sicura, fino ad ora non posso né crederlo, né rallegrarmene»,
affermava nella lettera ai senatori (Quintiliano, Istituzione oratoria 8, 18). Anche
in un mondo in cui la dissimulazione era la norma e le dinastie imperiali avevano
spesso le mani lorde di sangue, Seneca si era spinto troppo in là e aveva suscitato
il disgusto del popolo romano, indignato più per il suo comportamento che per
quello del barbaro Nerone, che ormai non scandalizzava più nessuno. Con quella
lettera, conclude Tacito, «Seneca aveva siglato la confessione del delitto» (14,
11). Lo sdegno, però, si risolse in un mormorio privato e quasi tutti, Senato
incluso, si adeguarono alla versione ufficiale. Si celebrò lo scampato pericolo
dell’imperatore e fu decretato un giorno di ringraziamento per la sua salvezza.
Come reagì Seneca al ruolo che egli aveva avuto nell’uccisione di Agrippina?
La sua risposta, complessa, gravida di sensi di colpa, apologetica e difensiva, si
intravede in una delle sue prose più lunghe e impegnative, I benefici, un trattato
in sette libri sugli obblighi sociali. 35 L’opera fu probabilmente composta in un
periodo di tempo piuttosto lungo: i primi libri furono forse scritti poco dopo la
morte di Agrippina e gli ultimi verso il periodo in cui Seneca cercava di
allontanarsi dalla corte. Fra le pagine si colgono squarci del suo stato d’animo e
dei suoi tentativi di districarsi dal groviglio dei suoi rapporti con Nerone e
l’imperatrice madre. Seneca si pone molte domande. Era debitore di qualcosa nei
loro confronti? E, se lo era, di cosa si trattava? Riportandolo a Roma dall’esilio,
favorendone la carriera, ponendolo al proprio servizio ed elevandolo a
consigliere di più alto grado in tutto l’impero, Agrippina aveva creato in lui un
debito di gratitudine? E Nerone non aveva fatto altrettanto, donandogli denaro,
ville, amicizia e prestigio sociale? Che cos’è esattamente il dono? Deve essere
ricambiato e, se sì, in che modo? E viceversa: Seneca aveva dato qualcosa ad
Agrippina e al figlio con il suo servizio intellettuale e politico? Si possono
mettere sullo stesso piano i doni materiali e i doni immateriali? Oppure sono
incommensurabili? Che Seneca rimuginasse su simili questioni non sorprende,
ma è comunque affascinante osservare la minuziosità, per non dire l’ossessione,
con cui se ne occupa nei Benefici, che molti hanno considerato un saggio
curiosamente ripetitivo. L’autore gira in continuazione intorno a poche essenziali
domande, come se fosse sempre insoddisfatto delle risposte.
I benefici sono un’opera molto astratta: le sue considerazioni si possono
applicare a qualsiasi essere umano in grado di poter dare o ricevere qualcosa da
un altro essere umano. Ma sono chiaramente il frutto di una lunga e approfondita
meditazione sulla situazione particolare in cui si trovava l’autore. Come
documento pubblico, quale effettivamente era, il trattato offre una risposta a tutti
coloro che accusavano Seneca di ingratitudine verso l’assassinata Agrippina. Ma
è anche lo strumento con cui Seneca si difende dai sospetti di avere servito
Nerone soltanto per trarne vantaggi materiali e con cui confuta anche la tesi di
quanti sostenevano che egli non avrebbe mai potuto ripagare i suoi benefattori
per i doni ricevuti. L’opera è dunque un congegno sottile ed efficace per mezzo
del quale l’autore poteva fare i conti con i rimorsi e le ansie che lo affliggono,
ma anche con la diffidenza pubblica nei confronti di un filosofo che occupava
una posizione di potere tanto elevata.
In un famoso saggio, intitolato Gifts, Ralph Waldo Emerson scrive che la
legge dei benefici è un canale pericoloso su cui navigare: da un lato, i doni sono
obbligatori sul piano sociale, perché si suppone che cementino i legami
reciproci. Dall’altro, però, l’idea di suggellare un rapporto con un oggetto
materiale è di per sé problematica. Il destinatario può essere felice dell’oggetto
(nel qual caso il rischio è che ami l’oggetto più del donatore) oppure non
curarsene, nel qual caso il regalo è inutile, o peggio. La pratica del dono che
sembra legarci gli uni agli altri può in realtà creare ostilità e rinforzare il senso di
diseguaglianza. Non perdoniamo mai del tutto il donatore, perché accettandone i
doni ci poniamo inevitabilmente in una posizione di dipendenza. Per questo,
afferma Emerson, i doni preziosi sono quelli che non hanno alcuna ovvia utilità,
ma rappresentano ideali di bellezza, come i fiori o i frutti. E il dono migliore in
assoluto è il dono di sé. Un uomo e un dono «non sono in alcun modo
commensurabili», e perciò lo scambio di oggetti materiali non ha nessuna
effettiva correlazione con il dono davvero importante: la reciprocità dei rapporti.
Il dono essenziale non sta nelle cose, ma nell’amore che doniamo. Se non c’è
amore, i doni sono un insulto e non servono a comperare l’unica cosa necessaria:
coloro che li ricevono «divorano i tuoi servigi come mele e ti lasciano fuori»
dalla porta. Il dio dei doni è l’amore. Il valore materiale di qualsiasi dono è
irrilevante: un regno e il petalo di un fiore hanno la stessa importanza.
L’approccio di Emerson alla complessa rete sociale creata dallo scambio di
doni non coincide con quello di Seneca. Ma, come Emerson, anche Seneca è
interessato a esplorare i dilemmi insiti nel potere, nella generosità e nella
dipendenza, e nel ricercare un’alternativa alle relazioni basate esclusivamente sul
profitto e sullo status sociale. Egli apre il suo trattato dichiarando:

Tra i numerosi e diversi errori di coloro che vivono alla leggera e sconsideratamente direi,
mio ottimo Liberale, ce ne sono due tra i quali non si può fare distinzione: il non saper dare e
il non saper ricevere benefici.
(I benefici 1, 1)

Lo stile iperbolico è quello tipico di Seneca, come quando nell’Ira afferma


che questa passione è in assoluto la più distruttiva. Il dedicatario dell’opera,
Ebuzio Liberale, di cui si sa ben poco, apparteneva a una famiglia piuttosto
antica e rispettabile. Si è tentati di credere che una delle ragioni per cui Seneca
gli ha dedicato il trattato sia il suo nome, «Liberale», un nome connesso con la
libertà e anche con il comportamento di una persona libera, l’opposto di uno
schiavo. L’argomento di cui si discute nell’opera è in che modo gli uomini
possano interagire fra di loro senza lasciarsi intrappolare dagli obblighi sociali o
essere sfruttati.
Il termine «beneficio» – beneficium in latino – indica letteralmente una buona
azione. «Che cos’è dunque il beneficio?» chiede Seneca. Il beneficio «è
un’azione benevola che procura gioia e gioisce nel procurarla, accompagnata da
una inclinazione e da una disposizione d’animo a compierla» (1, 6). La pratica
del dare e ricevere benefici (in greco euergesia) si era diffusa nella cultura
ellenistica con lo sviluppo dei grandi centri urbani, in cui i più ricchi esibivano e
incrementavano il loro prestigio donando parte della loro ricchezza alla
comunità, anziché soltanto ai familiari o agli amici intimi. A Roma i benefici
erano associati al sistema della clientela: il patrono, personaggio ricco e potente,
aveva intorno a sé un gruppo di uomini, di solito di status sociale ed economico
un poco inferiore, che egli proteggeva e arricchiva in cambio del sostegno – non
solo – politico. La caratteristica peculiare dei «benefici», sia nel mondo
ellenistico sia in quello romano, era il fatto che venissero distribuiti a persone al
di fuori della cerchia familiare e amicale del donatore. La concessione di favori
era pertanto un importante strumento di coesione sociale nelle grandi città.
Nel discutere dell’argomento Seneca si rifà a fonti ellenistiche stoiche ormai
perdute, 36 ma, a quanto si ritiene, modificandone l’approccio alla generosità e
alla gratitudine in modo del tutto personale. Il suo discorso ruota non tanto
intorno all’ideale etico del saggio – il solo che, secondo la Stoà greca, sa offrire
un vero beneficio ed essere grato per quelli ricevuti – quanto intorno agli aspetti
pratici del comportamento sociale di individui concreti, non ancora
perfettamente saggi, che vivono nelle città contemporanee. Seneca critica
Crisippo, il terzo maestro greco della scuola stoica, quello che più di altri
contribuì a definirne la dottrina. La sua definizione del dono e della generosità
gli appare troppo astrusa e troppo legata al mito anziché agli esempi pratici.
Crisippo era «un grand’uomo, per Ercole, greco, però» (1, 4, 1), e quindi il suo
approccio era diverso da quello romano di Seneca, più interessato alla prassi e
con un carattere più socio-politico. «Bisogna stabilire le regole di una materia
che istituisce i legami più saldi nella società umana» (ibid.), afferma l’autore, e
per far questo le interpretazioni fantasiose dei miti sono del tutto inutili. La
figura del perfetto saggio stoico lo interessa non in astratto, ma come strumento
che può aiutare il lettore a migliorare il suo comportamento verso il prossimo. Le
teorie paradossali dello stoicismo possono andare d’accordo con il senso
comune, afferma Seneca.
La parola «beneficio» ha due significati: fare del bene può voler dire
migliorare la situazione materiale di una persona, la quale a sua volta risponde
con un altro dono, in natura. Ma essa implica anche l’intenzione da parte del
benefattore di agire con benevolenza, indipendentemente dal fatto che il
beneficato riceva un vantaggio materiale, e un atteggiamento grato da parte del
ricevente è già di per sé un modo per contraccambiare. Come vuole la tradizione
stoica, sono i generi di beneficio e contraccambio interiori e immateriali a essere
davvero importanti. In sostanza, quello che conta è la disposizione d’animo: da
una disposizione giusta discendono doni e relazioni sociali giusti, e perciò le
astrazioni dello stoicismo sono perfettamente conciliabili con i bisogni della
società contemporanea.
Ma anche così, non tutte le tensioni fra l’ideale e il reale, fra i bisogni del
donatore e i bisogni del beneficiario, scompaiono. Seneca sa che esistono
differenze significative fra le due categorie. Il beneficiario – soprattutto se riceve
un dono o un favore da un uomo più ricco o potente – non vuole trovarsi in una
situazione di dipendenza e sentirsi umiliato. È questa la ragione per cui Seneca
insiste con forza che le relazioni sociali possono andare al di là dell’aspetto
puramente materiale. Le intenzioni, ribadisce, contano più del vile profitto: il
sentimento di gratitudine è sufficiente perché il beneficato soddisfi al suo
obbligo. Quanto al donatore, è importante che egli continui a offrire un aiuto
concreto anche a coloro che non potranno ripagarlo in natura, perché l’azione
virtuosa contiene in sé la propria ricompensa. Perciò, che gli atti di generosità
«siano un dono, non un prestito a interesse. Merita di essere ingannato chi,
mentre dava, pensava già al contraccambio» (1, 9).
Chi ha «un animo grande e buono», prosegue Seneca, è capace di elevarsi al
di sopra dei rapporti gerarchici di potere e patronato, e instaurare una relazione
ideale, in cui nessuna delle due parti vuole trarre profitto dall’altra. 37 E tuttavia il
linguaggio predominante nei Benefici è proprio quello del debito, dello scambio
e del profitto, tanto che il ricco patrono viene a un certo punto equiparato a una
meretrice, una cortigiana che «sa trovare il modo per far sì che molti si sentano
in debito, ma che ciascuno singolarmente abbia qualche motivo di considerarsi
preferito rispetto agli altri» (1, 14, 4). 38
Anche in molti passi dei Benefici, dunque, come in altri trattati senecani, si
colgono echi della vita dell’autore. Gli argomenti che egli affronta gli
consentono di suggerire interpretazioni positive del servizio prestato presso la
corte neroniana, benché il nesso non sia mai reso esplicito. Per esempio,
l’insistenza nel proclamare che i benefici più importanti non sono di tipo
materiale è una risposta implicita a quanti, come Suillio, lo accusavano di avere
accumulato in pochi anni enormi ricchezze al servizio di Nerone. Un
arricchimento così improvviso potrebbe in effetti indurre a pensare a pratiche
inique e corrotte, quelle di cui lo accusava Suillio, ma l’iniquità scompare se si
accetta l’idea che i benefici materiali non hanno importanza: «Il beneficio non
può essere toccato con mano: è una cosa nella dimensione spirituale» (1, 5, 2).
Un modo magnifico per trarsi d’impaccio: perché mai essere invidiosi o critici
dello straordinario arricchimento di Seneca sotto Nerone? La ricchezza e il
prestigio sociale non sono veri benefici: il vero dono che egli ha eventualmente
ricevuto da Nerone appartiene ai moti dell’animo.
Nel trattato viene lungamente dibattuta la questione se chi è meno ricco e
meno prestigioso debba sentirsi umiliato nel ricevere doni da un patrono. Seneca
era sicuramente visto come un uomo alle dipendenze dell’imperatore, e lo era
davvero da un punto di vista pratico, tanto che continuava a domandarsi se
questa sua dipendenza non lo ponesse in una posizione degradante o non ne
compromettesse la libertà. La nozione che un vero beneficio è qualcosa di
intangibile, una funzione della mente, poteva essergli di sollievo nel suo
dilemma psicologico, perché, in quest’ottica, Nerone, e Claudio e Agrippina
prima di lui, non gli avevano dato più di quanto egli stesso non avesse donato
loro, e forse anche meno.
Da diversi passi dell’opera, tuttavia, si intuisce che Seneca si arrovellava sulla
questione se avesse fatto bene a mettersi nella condizione di dover accettare i
benefici della corte e se avesse avuto a disposizione altre opzioni. A un certo
punto racconta l’episodio di Socrate e Archelao. Il re dei macedoni pregò
Socrate di fargli visita e di ricevere «benefici» da lui, ma Socrate rifiutò, dicendo
che non avrebbe potuto contraccambiare perché era povero (5, 6, 2-7). In realtà,
commenta Seneca, la risposta di Socrate, perfettamente consapevole di poter
offrire al re molto più di quanto il re potesse offrire a lui, fu come al solito
allusiva o ironica, forse perché «temeva di essere costretto ad accettare qualcosa
che non voleva o qualcosa che non era degno di lui» (5, 6, 6). Rifiutava in
sostanza di «rendersi volontariamente schiavo». A questo aneddoto se ne
affianca un altro, raccontato in un libro precedente dei Benefici. Un allievo di
Socrate, Eschine, che era molto povero, non potendo offrire doni al maestro, gli
offrì l’unica cosa che possedeva, se stesso. Con quel dono, commenta Seneca,
«Eschine superò la generosità di Alcibiade, che era pari alla sua ricchezza» (1, 8,
1-2). I due esempi sembrano suggerire in Seneca un’ansia di libertà analoga a
quella di Socrate. Egli fa di tutto per convincere il lettore di non essere al
servizio di Nerone per ragioni mercenarie, ma dietro queste argomentazioni si
percepisce chiaramente la sua paura di essere caduto in trappola, avendo scelto
di lavorare non con un povero come Eschine, ma con un ricco come Archelao,
suo allievo e patrono a un tempo.
In diverse occasioni si ha l’impressione che Seneca contempli la possibilità di
rifiutare il patronato di Nerone. Immagina che qualcuno respinga un beneficio,
dicendo: «Riprenditelo: non lo voglio. Sono soddisfatto di quello che ho ...
Talvolta poi si avrebbe voglia non solo di restituire ciò che si è ricevuto, ma di
gettarlo lontano da sé» (1, 11, 1).
E tuttavia nei Benefici riecheggia anche la difesa implicita della sua decisione
di accettare i favori di Claudio, Agrippina e soprattutto Nerone. Si possono
accettare doni da qualcuno per il quale non si ha pieno rispetto? si domanda
Seneca. E cita come esempio Crispo Passieno, intellettuale e uomo di grande
potere, sposato per breve tempo con Agrippina e poi avvelenato. Ebbene,
Passieno era solito dire che preferiva la stima ai benefici quando si trattava di
persone per le quali aveva rispetto, e i benefici alla stima quando si trattava di
persone che disprezzava: «Del divo Augusto» dichiarava «preferisco la stima, di
Claudio preferisco il beneficio». Seneca però dissente da questa affermazione:
«Non dovremmo desiderare affatto i benefici di una persona la cui stima non
conta nulla per noi» (1, 15, 5-6).
E allora come poteva giustificare il fatto di avere accettato un favore quale la
revoca dell’esilio dal tanto disprezzato Claudio? La risposta di Seneca è molto
arguta: i benefici si possono accettare così come si accettano «i beni della
fortuna, che si sa che può diventare avversa in un attimo» (1, 15, 6). Un’ottima
mossa dal punto di vista psicologico: ogni volta che ti trovi ad avere un debito di
riconoscenza verso qualcuno che disprezzi, immagina semplicemente che quel
dono ti venga dalla sorte. Comodo, non c’è che dire; questo significa che Seneca
non deve sentirsi in alcun modo grato a quanti, come Agrippina, si rivelano
persone poco ammirevoli: «Un’ingente somma di denaro, se è stata donata senza
una scelta razionale e senza la volontà rivolta al bene, più che un beneficio è un
tesoro trovato. Ci sono molte cose che bisogna accettare, ma senza sentirsi in
debito» (ibid.). In base a questo ragionamento, anziché sentirsi in debito di
gratitudine verso i suoi spregevoli donatori, egli è completamente libero da
qualsiasi obbligo nei loro confronti. E non ha alcuna necessità di provare il sia
pur minimo rimorso per la morte della sua benefattrice.
Resta però la domanda se non sia umiliante dipendere troppo dal sostegno
materiale e sociale di un donatore. Seneca torna più volte sulla questione; sa
benissimo che chi riceve favori può sentirsi vulnerabile e ferito: «Ricordare
continuamente i servigi resi tormenta e opprime l’animo del beneficato» (2, 1,
11). Ci sono doni che possono nuocere a chi li riceve (2, 1, 14): si può rovinare
qualcuno anche con l’affetto (2, 14, 5). A volte afferma che una persona è
sempre libera di rifiutare. E ricorda l’ipocrisia di quel filosofo cinico, di cui non
fa il nome, che dichiarava di disprezzare il denaro, ma chiese al re di donarglielo.
D’altra parte, ci sono situazioni in cui è impossibile rifiutare: «Non sempre
posso dire “Non voglio”; talvolta si deve accettare il beneficio anche
controvoglia», se a dartelo, per esempio, è «un tiranno crudele e collerico» (2,
18, 6). In un caso del genere «svanisce la libertà di scelta», perché il beneficato
non compie un atto di accettazione, ma di obbedienza, e può giustificare il
proprio comportamento immaginando che sia un regalo della fortuna e non del
suo disprezzato donatore oppure dicendosi che non si tratta di un beneficio ma di
una coercizione. È «un grave tormento essere in debito con chi non vorresti»,
conclude. Ma il tormento del beneficiario si attenua, se egli è obbligato a dire di
sì (2, 18, 3).
Nessuno quanto il Satana di John Milton esprime la collera e l’orrore che
suscita l’obbligo della gratitudine in chi vuole sentirsi indipendente: «Levato
così in alto / sdegnai la soggezione / e in un attimo solo estinsi il mio / debito
immenso d’eterna gratitudine ancora / così pesante sebbene pagato, e tuttora
dovuto» (John Milton, Paradiso perduto 4, vv. 48-54). Il sentimento di Satana è
per certi versi molto «senecano», e Satana è un eroe decisamente stoico. Il
Seneca filosofo (non quello tragico), però, trova una soluzione al dilemma: non
ci si deve sentire soggiogati da doni all’apparenza troppo munifici; la gratitudine
è già di per sé sufficiente a ripagare il debito spirituale: «Vuoi ricambiare il
beneficio? Accoglilo di buon animo» (I benefici 2, 35, 5).
E l’ingratitudine con cui comincia il trattato? Essa, afferma Seneca, ha tre
cause: l’orgoglio, l’avidità e l’invidia (2, 26, 1). L’analisi che egli conduce di
questi tre vizi richiama alla mente i suoi personaggi tragici, uomini e donne
sopraffatti da ambizioni e desideri irrefrenabili, come l’Atreo del Tieste: «In
preda a sempre nuove brame, guardiamo non a ciò che abbiamo, ma a ciò che ci
manca e cui tendiamo» (3, 1, 3). La vera gratitudine comincia invece dalla
consapevolezza della natura e degli dei da cui proveniamo. Nell’affrontare con
serietà il tema dell’ingratitudine, Seneca implicitamente si difende dall’accusa di
essere ingrato, presentandosi non come colui che ha messo a tacere l’assassinio
della sua benefattrice, ma come un uomo capace di essere veramente grato,
soltanto però quando è davvero il caso. Nel Primo libro della Repubblica Platone
aveva posto un dilemma, poi ripreso da molti pensatori successivi: si devono
sempre saldare i debiti, anche quando il creditore è cambiato? Supponiamo, dice,
che qualcuno ti presti un coltello: devi restituirglielo comunque anche se
quell’uomo impazzisce? Seneca affronta lo stesso dilemma nel Settimo libro dei
Benefici, ma gli conferisce una connotazione politica, immaginando che il
prestatore si trasformi in un essere «non solo selvaggio, ma anche feroce e
bestiale come Apollodoro e Falaride», due tiranni di mostruosa crudeltà (7, 19,
5). La rilevanza personale del problema salta subito agli occhi, perché richiama
il rapporto di Seneca con Claudio, Agrippina e Nerone. Se uno di quei suoi
presunti benefattori fosse diventato malvagio, egli avrebbe ancora avuto
l’obbligo di restituire i benefici ricevuti? La risposta è di uno straordinario
ottimismo. Una cosa del genere non accadrà mai, dice: «Nessuno che abbia
aderito alla saggezza cade mai nel grado più basso della malvagità; se ne è
impregnato troppo profondamente per poterla cancellare completamente e
trasformarla nel colore della malvagità» (7, 19, 6). Seneca cerca così di
rassicurare se stesso e i suoi lettori: l’insegnamento che egli ha impartito al
giovane imperatore è penetrato così a fondo nella sua natura che non potrà mai
essere cancellato.
Sullo sfondo, però, aleggia ancora il pensiero dell’ingratitudine verso
Agrippina. Seneca narra l’aneddoto di un filosofo pitagorico, che aveva
comperato un paio di sandali a credito. Quando era tornato per pagare il conto, il
calzolaio era morto. Lì per lì fu contento di non dover sborsare il denaro, ma poi,
preso da scrupoli, era tornato nella bottega e aveva infilato i soldi in una fessura
della porta, per timore di abituarsi a vivere nei debiti (7, 21, 1-2).
Il succo di questo sorridente episodio è che non importa se il donatore sia vivo
o morto e neppure se sia buono o cattivo. Il beneficiario ha comunque il dovere
di ricordare l’atto di generosità e di ricambiare: «Prima rendi, poi accusa» (7, 22,
1).
Il tentativo di dipingere un quadro ideale dei rapporti sociali, con un donatore
sempre generoso e un ricevente sempre grato e mai umiliato, si scontra
costantemente con la questione del profitto, letterale e metaforico. Seneca
inveisce contro chi con il beneficio mira soltanto al guadagno, o comunque
anche al guadagno, e afferma che la gratitudine è, almeno metaforicamente, il
profitto che il donatore trae dal suo beneficiario, il quale così colma il proprio
debito. Un beneficio è una cosa diversa da un prestito e non deve avere niente a
che fare con «l’usura vergognosa» (1, 2, 4).
Non sempre teoria e pratica vanno a braccetto. Poco dopo la composizione dei
Benefici scoppiarono disordini nelle province, alimentati forse in parte anche
dall’affarismo di Seneca. In Britannia nel 60-61 morì Prasutago, re degli iceni,
lasciando per testamento metà del regno alle figlie. Il magistrato romano ignorò
le sue ultime volontà e si impadronì dell’intero territorio. Le figlie furono
violate. In questo periodo così delicato, racconta Cassio Dione, un manipolo di
finanzieri romani, fra cui Seneca, chiese all’improvviso la restituzione dei grossi
prestiti che aveva imposto ai nativi per trarne rapidi guadagni. La richiesta
provocò un disastro economico e rafforzò lo scontento della popolazione, che già
fremeva sotto il tallone romano. L’episodio potrebbe anche non essere vero:
Tacito non vi fa cenno, forse perché aveva motivo di dubitarne. Ma non si può
escludere che Seneca abbia almeno in parte contribuito a inasprire la sofferenza
e l’ira delle popolazioni di quella lontana provincia dell’impero.
La ribellione britannica costituisce un affascinante contrappunto al dibattito
senecano sulla gratitudine e la generosità, in particolare per quanto riguarda la
questione se i benefici ricevuti da un patrono spregevole non compromettano
automaticamente la libertà del beneficato. La vedova del re degli iceni, Boudicca
(fig. 16), si mise alla testa del suo popolo ribelle e tenne magnifici e commoventi
discorsi contro i conquistatori romani, che esigevano tributi e minacciavano di
privare i vinti della loro libertà e identità: «Facciamo il nostro dovere fintanto
che ci ricordiamo che cosa sia la libertà, affinché lasciamo ai nostri figli non solo
il suo nome, ma anche una traccia concreta di essa ... Andiamo, dunque, contro
di loro, confidando arditamente in una sorte propizia. Dimostriamo loro che non
sono altro che delle lepri e delle volpi che tentano di dominare su dei cani e dei
lupi!» (Cassio Dione, Storia romana 61, 4-5). La ribellione fu domata e
Boudicca morì, forse suicida; ma la sua difesa dell’autonomia e della libertà dal
potere alieno dei romani contrasta in modo netto con il vergognoso
comportamento di Seneca, che assecondava i desideri di Nerone.

Gli spettacoli del potere

«Come un teatro» (e ancor più). 39

La tentazione di Seneca di difendere la sua imbarazzante posizione a corte,


sostenendo che non aveva scelta, è forte. Dopotutto, se avesse condannato il
modo di agire di Nerone, e l’assassinio di Britannico e Agrippina, oppure si
fosse mostrato riluttante a difenderlo in pubblico, non avrebbe goduto di lunga
vita. Liberarsi dalla trappola in cui era andato a cacciarsi avrebbe sicuramente
richiesto un coraggio enorme, ma non sarebbe stata un’impresa impossibile, se
Seneca avesse tenuto fede alla sua parola, per cui ogni uomo aveva sempre a
disposizione una via d’uscita: la morte. Nell’Ercole furioso, Megara, la moglie
dell’eroe che dà il nome alla tragedia, sfida il tiranno Lico, proclamando: «Chi
può essere costretto non sa morire». A Seneca occorse molto tempo per imparare
la lezione.
La sua posizione nei confronti della corte non avrebbe potuto essere più
diversa da quella assunta dall’altro importante personaggio stoico del regime,
Trasea Peto. Trasea non era un filosofo e nemmeno uno scrittore; era un politico
e un aristocratico, un senatore che tanto Tacito quanto Cassio Dione definiscono
un uomo integerrimo. Durante il discorso in Senato, scritto da Seneca in difesa
del matricidio commesso da Nerone, Trasea fu l’unico ad alzarsi e a uscire
dall’aula per protesta (Tacito, Annali 14, 12). Nella versione tramandata da
Dione, Trasea fornì una motivazione molto pratica per il suo rifiuto di inchinarsi
alla volontà di Nerone: dal momento che anche chi lo adulava – disse – rischiava
ugualmente di essere ucciso, perché compromettersi, se la sicurezza non era
comunque mai garantita? «Che bisogno c’è di umiliarsi inutilmente per morire
come uno schiavo, quando invece è possibile pagare il debito con la natura da
uomini liberi? Quanto a me, anche in futuro ci sarà qualcuno che dirà qualcosa
sul mio conto, ma per quel che riguarda costoro (gli adulatori) nessuno dirà mai
nulla, se non semplicemente che sono stati trucidati.» Nerone, aggiunse, «può
uccidermi, ma non può comunque danneggiarmi» (Cassio Dione, Storia romana
61, 15, 3-4). E dunque, come evidenzia il comportamento di Trasea, esisteva
anche sotto Nerone la possibilità di non piegarsi, solo che Seneca non la colse. E
quella non fu l’unica occasione in cui si condusse in modo non proprio nobile.

16. La regina Boudicca guidò il suo popolo contro il dominio romano. La ribellione, fallita, sarebbe
scoppiata perché i ricchi romani, fra cui Seneca, avevano chiesto all’improvviso la restituzione delle ingenti
somme che avevano prestato.

L’integrità di Trasea si manifestò anche nella sua netta opposizione alla


cultura della dissimulazione e della teatralità coltivata alla corte neroniana.
Seneca e Burro avevano tentato invano di arginare le passioni più stravaganti del
principe per lo sport e il teatro, ma, essendosi resi conto che era impossibile
fermarlo, avevano cercato di ridurre almeno il danno. Così, per esempio, quando
Nerone scalpitava per guidare la quadriga e cantare in pubblico
accompagnandosi con la cetra, i due gli avevano consigliato di dedicarsi alle
corse in un luogo appartato, tranquillo, lontano dal pubblico (Tacito, Annali 14,
14). Le corse erano effettivamente molto pericolose, ma Nerone non ebbe mai
incidenti.
Tenere a freno il desiderio di Nerone di cantare e recitare sul palcoscenico era
altrettanto impossibile, ed è poco probabile che Seneca sperasse di riuscirci. Il
principe non si limitava a recitare, ma costringeva tutta la corte, a eccezione di
Trasea, a mettersi in mezzo al pubblico e a interpretare il ruolo di spettatori
soddisfatti. La teatralità era a quel tempo la nota dominante. I romani avevano a
disposizione molte forme spettacolari di intrattenimento, non soltanto le corse
dei carri, il teatro e le manifestazioni di atletica, ma anche i combattimenti nelle
arene, in cui i gladiatori – di solito prigionieri di guerra o criminali già
condannati – erano costretti a lottare fino all’ultimo sangue gli uni contro gli
altri, a scontrarsi con le fiere (leoni, elefanti, tori e tigri) o ad affrontare entrambi
i tipi di combattimento. I giochi erano immensamente popolari e avevano una
loro ritualità, con costumi e attrezzi di scena specifici: il reziario, per esempio,
aveva una rete con cui intrappolare il gladiatore, che era armato di spada.
Per la sua avversione alle lotte fra i gladiatori, Seneca è stato spesso celebrato
come una delle poche voci umane in quell’epoca storica fra le più disumane. In
effetti egli ci ha lasciato racconti vividi e dettagliati della brutalità di quegli
scontri. Gli spettacoli mattutini di gladiatori erano di solito rappresentazioni
teatrali con una coreografia molto accurata, costumi elaborati, attrezzi di scena,
armi per i combattenti e costose belve esotiche contro cui battersi. Ma durante
l’intervallo per il pranzo agli spettatori veniva offerto uno spettacolo molto più
semplice da organizzare: i criminali condannati a morte venivano spinti
nell’arena e costretti a uccidersi a vicenda. Ed è questo l’evento contro cui si
scaglia Seneca:

Al mattino i lottatori sono gettati in preda ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori.
Si ordina a chi ha ucciso di gettarsi in preda a chi lo ucciderà, e si tiene in serbo il vincitore
per un altro massacro: la conclusione è la morte di tutti i combattenti. La faccenda si compie
col ferro e col fuoco. E questo avviene mentre lo spettacolo è sospeso. «Ma costui ha
commesso un delitto, ha ucciso un uomo.» E allora? Perché ha ucciso, ha meritato di subire
questa punizione; ma tu, sventurato, che cosa hai fatto per assistere a questo spettacolo?
(Lettera 7, 4-5)

Quella appena citata è senza dubbio una denuncia della pratica per cui i
criminali venivano costretti a lottare fino all’ultimo sangue per divertire il
pubblico. Ma a suscitare l’indignazione di Seneca non sono le vittime: dalle sue
parole si intuisce che meritano il trattamento che ricevono. A preoccuparlo è
piuttosto l’abbrutimento che un simile spettacolo provoca negli spettatori.
Da Seneca ci saremmo forse aspettati che esprimesse un giudizio più ampio,
di carattere politico, scagliandosi contro un’istituzione che a molti di noi oggi
appare brutale e crudele. Perché non ha invocato la fine dei combattimenti fra
gladiatori anziché assistervi e poi lagnarsi? Perché mostra così poca
comprensione per i plebei che soffrivano e morivano nell’arena, mentre è
particolarmente attento ai bisogni psicologici delle élite che si godevano quei
tormenti? Ma chiedere a chiunque, per quanto amante della filosofia, di
innalzarsi molto al di sopra della cultura del suo tempo è chiedere troppo.
Seneca, come ha ben dimostrato Miriam Griffin, era da cima a fondo un uomo
della sua epoca, forgiato dalla cultura in cui era nato e cresciuto. Le sue idee sui
gladiatori non erano affatto diverse da quelle di altri filosofi e intellettuali suoi
contemporanei. Ciò che lo distingue e continua a suscitare apprezzamento e
ammirazione è lo straordinario vigore con cui egli evoca la sete di sangue degli
spettatori dei giochi nonché la fondatezza psicologica della sua intuizione che
assistere ad atti di sofferenza e crudeltà abbrutisce l’animo umano. Dall’arena
egli torna ogni volta peggiore (Lettera 7, 3). Seneca era invischiato in quel
mondo di crudeltà e teatralità, ma era anche capace di capire quanto possano
nuocere certi consumi culturali.
Nerone non condivideva i dubbi del suo antico precettore sul valore degli
spettacoli nel Colosseo; egli però non voleva essere uno spettatore, bensì un
attore. Alle tensioni e alle pressioni del suo ufficio di imperatore egli reagiva
trasformando il potere in una sorta di performance. Quando si esibiva suonando
la lira, recitando versi o drammi sul palcoscenico, tutti erano costretti ad
applaudire, e nessuno si sottraeva. Nessuno, tranne Trasea. Gli altri accorrevano
in massa ai suoi spettacoli. Seneca e Burro gli stavano di fianco, «proprio come
fanno alcuni maestri, con la funzione di dargli sostegno: essi agitavano le mani e
i mantelli ogni volta che l’imperatore diceva qualcosa e incitavano gli altri a fare
la stessa cosa» (Cassio Dione, Storia romana 61, 20, 39).
Un atteggiamento molto diverso fu quello di Epitteto, un filosofo stoico di
qualche anno più giovane di Seneca. Nato nella città di Ieropoli in Frigia
(nell’attuale Turchia), Epitteto era un liberto e rimase povero per tutta la vita.
Non aveva ricevuto nessuna educazione letteraria o retorica formale e non
coltivava ambizioni politiche: la prima metà dei suoi anni la trascorse da
schiavo. Era zoppo, probabilmente perché un padrone crudele gli aveva spezzato
una gamba in tenera età. Da giovane era stato portato a Roma come suo schiavo
dal liberto Epafrodito, potente segretario di Nerone. Emancipato, aveva studiato
filosofia stoica con il grande maestro Gaio Musonio Rufo ed era diventato a sua
volta un influente insegnante di filosofia. Non lasciò nessuno scritto, ma le sue
conferenze e lezioni furono annotate da un allievo devoto, Arriano di
Nicomedia, che le pubblicò con il titolo Diatribe (o Discorsi), e le riassunse in
un libro intitolato Enchiridion (o Manuale di Epitteto). A differenza di Seneca, e
di molti altri scrittori, Epitteto non si preoccupava di pronunciare frasi ben
tornite, che sopravvivessero a lungo.
In una diatriba (2, 1) il filosofo pone un quesito molto interessante, che può,
fra l’altro, esserci utile anche per riflettere su Seneca. Quello che si chiede è
come si possa conservare la propria dignità in qualsiasi circostanza, anche
quando si è minacciati di morte, di tortura, di schiavitù, di mutilazione o di un
altro qualsiasi degli «indifferenti non preferibili». Fra gli altri esempi, Epitteto
porta quello di un uomo al quale venga chiesto di assecondare Nerone,
partecipando a una sua recita. La risposta è espressa in forma dialogica, con una
serie di rapide battute che evidenziano il conflitto fra le diverse forze in atto: c’è
il dramma del festival letterario di Nerone, il dramma della vita politica in
generale e quello più individuale della vita del singolo, la cui responsabilità è di
recitare la parte giusta in commedia, così come gli è stata assegnata dalla natura.
Scrive Epitteto:

Colui, infatti, che si sia messo anche una sola volta a riflettere su siffatte questioni (come la
partecipazione al festival neroniano), confrontando fra loro il valore degli oggetti esterni e
calcolandolo, è molto simile a coloro che hanno ormai dimenticato il valore della propria
persona. A che scopo, infatti, mi domandi: «È preferibile la morte o la vita?». Io rispondo:
«La vita». «La fatica o il piacere?» Io rispondo: «Il piacere».
«Ma se non faccio la parte nella tragedia mi si taglierà la testa.»
«Allora va pure a fare la tua parte; io per conto mio non la farò.»
(Epitteto, Diatribe 1, 2, 12-17)

Epitteto fornisce dunque un modello che Seneca, come chiunque altro,


avrebbe potuto seguire per sottrarsi alla doppiezza e alla teatralità della corte
imperiale. Le argomentazioni che Epitteto avanza presumono, alla maniera dello
stoicismo classico, che la vera natura dell’uomo sia incompatibile con la finzione
teatrale. L’ostilità per il teatro era del resto un luogo comune nella letteratura
latina dell’epoca. Scriveva Cornelio Nepote:

In quasi tutta la Grecia si considerò onore tra i più grandi l’essere proclamato vincitore a
Olimpia e tra quel popolo non fu mai un disonore per alcuno salire sulla scena e prodursi in
pubblico spettacolo: azioni giudicate tra noi disonoranti o ignobili, o per lo meno, lontane
dalla rispettabilità.
(Cornelio Nepote, Libro dei sommi capitani delle nazioni straniere, Proemio 5) 40

In Epitteto si coglie spesso un certo distacco, quasi un’ostilità, nei confronti


dello stile di vita della corte neroniana. Diventare amico di Cesare non è la
strada che conduce alla felicità: «Chi è così in alto e amico di Cesare teme di
perdere la vita». 41
E Seneca? Con ogni probabilità, non solo prese parte agli spettacoli teatrali di
Nerone, ma si divertì pure. Nerone, scrive Tacito, «costringeva le personalità più
autorevoli di Roma ... a degradarsi sulla scena» recitando versi e passi in prosa
(Tacito, Annali 14, 20). Una di queste personalità «contaminate» fu Lucano.
Quanto a Seneca, non sappiamo se abbia mai recitato, anche se è molto
probabile che l’abbia fatto, così come non sappiamo se abbia mai messo in scena
le sue tragedie. Una cosa però salta agli occhi: quelle tragedie sono meditazioni
drammatiche sulla crudeltà, la corruzione e il disgusto, su comportamenti atroci,
sul potere, sui tentativi falliti di insegnare l’autocontrollo e la moderazione e
sullo spettacolo in generale, tutti temi che richiamano subito alla mente il mondo
della Roma neroniana.
Con i suoi drammi Seneca forniva a Nerone testi della sua arte prediletta,
rispondeva ai suoi bisogni culturali e si poneva come uno spirito affine. Ma
mentre rivaleggiava con l’imperatore, porgeva uno specchio non lusinghiero alla
Roma del suo tempo, l’immagine di un luogo di violenza, di ambizione spietata
e di eccessi di ogni genere. Quello specchio, però, rifletteva anche il volto
dell’autore, non solo quello dell’allievo. Attraverso le tragedie Seneca
contemplava le proprie ambizioni. Esse dimostrano quanto egli fosse
profondamente consapevole delle complessità emotive e del costo pagato da
quanti, con le loro cattive scelte, distruggono la propria vita. Un topos ricorrente
è il lungo elenco di luoghi esotici, che tracciano i lontani confini dell’impero
romano, eppure anche in quel mondo così ampio e ricco i suoi personaggi tragici
sono costantemente imprigionati dentro se stessi. Un altro topos frequente è
l’elenco delle punizioni nell’oltretomba: Sisifo spinge sempre il suo masso,
Tantalo è sempre affamato e assetato, Issione è sempre legato alla ruota di fuoco.
Persino la morte non li libera dalla frustrazione e dalla sensazione di essere
intrappolati per l’eternità.
Dei drammi senecani, almeno uno, il geniale e terrorizzante Tieste, fu
probabilmente scritto sotto Nerone ed è possibile leggerlo come una meditazione
estesa e radicalmente pessimistica sul significato del ruolo svolto da Seneca al
servizio dell’imperatore. Si percepisce che l’autore è cosciente della propria
ambizione, debolezza e paura, e si intravedono i pessimi frutti prodotti dai suoi
tentativi di educare e consigliare Nerone. La grande metafora della tragedia è il
cibo, della specie più orrenda, cannibalistica (un padre si ciba dei figli): questa è
in generale una tragedia di appetiti e di scontento. Il desiderio è totalmente
distruttivo e totalmente ineludibile.
Il Tieste narra la storia di due fratelli, Tieste e Atreo, nipoti di Tantalo.
Tantalo, salito di nascosto in cielo, aveva scoperto e rivelato i segreti degli dei e
aveva colmato la misura della blasfemia, offrendo in sacrificio il corpo del figlio
Pelope, un famoso auriga. Tutti gli dei avevano rifiutato di cibarsene, tranne
Demetra, troppo addolorata dal rapimento della figlia per accorgersi di ciò che si
metteva in bocca. I figli di Pelope si erano contesi il trono di Olimpia; Tieste
aveva sedotto la moglie di Atreo ed era stato esiliato, mentre Atreo aveva preso
il potere.
La tragedia senecana inizia con l’apparizione dell’ombra di Tantalo, che,
come l’ombra di Tieste nell’Agamennone, vorrebbe poter tornare nella sicurezza
degli Inferi. Ma il mondo del Tieste è ancora più tetro. Tantalo è incalzato da una
Furia e costretto a diventare la maledizione del proprio casato. L’incontro fra
l’Ombra e la Furia è una lezione di malvagità, una delle tante contenute nel
testo: all’inizio un personaggio resiste ai tentativi di perversione morale, ma poi
acconsente. Nessuno sembra avere la forza di opporsi al male.
La scena che più ricorda il rapporto fra Seneca e Nerone è quella in cui
l’atroce tiranno Atreo espone a una guardia i suoi piani disumani per vendicarsi
del fratello. La reazione iniziale della guardia è etica: egli rammenta ad Atreo le
pratiche migliori del sovrano ideale e le sue responsabilità. Il buon re, dice, cerca
la lode sincera, non l’adulazione generata dalla paura. Ma è proprio questo che
Atreo vuole, perché l’adulazione è un segno di successo, di cui godono soltanto i
potenti. Quod nolunt velint, «quello che essi non vogliono, lo vogliano!» (Tieste
v. 212), esclama Atreo, esaltando la cultura della dissimulazione. La guardia
resta ancora sulle sue posizioni, ricordando al sovrano che egli dovrebbe essere
d’esempio per il suo popolo: «Voglia il re ciò che è onesto: nessuno vi è che non
vorrà lo stesso» (v. 213). Ma alla fine, dopo che Atreo ha manifestato tutto il suo
odio implacabile per il fratello, la guardia abbandona ogni scrupolo morale e
suggerisce al sovrano il modo per uccidere Tieste: «Trucidato dal ferro, sputi
fuori il suo spirito ostile» (v. 245). Quando Atreo rifiuta i suoi consigli, perché
troppo miti, la guardia sollecita con le sue domande il re a pensare a vari modi
possibili per vendicarsi.
Il pensiero corre immediatamente all’esperienza fatta a corte da Seneca.
Anch’egli, come la guardia, aveva tentato di inculcare l’etica a un tiranno. E
anch’egli aveva finito col diventarne la cassa di risonanza e assisterlo nei suoi
piani per uccidere la madre e il fratellastro. Sulla possibilità di trasformare il
carattere attraverso l’insegnamento regna il pessimismo più totale. Non solo la
guardia non riesce a insegnare niente al tiranno, ma è il tiranno che insegna alla
guardia a diventare complice di un crimine, a fingere e a tradire i propri valori.
La morale che la guardia trae è che l’insegnamento può essere pericolosamente
efficace; le vittime di Atreo potrebbero imparare a vendicarsi di lui: «Sovente i
crimini ricadono sul loro stesso maestro» (v. 311). Perché preoccuparsi delle
influenze corruttrici, obietta Atreo: il maestro del vizio è il potere. Anche se
nessuno mostrasse le vie dell’inganno e del delitto, «sarà il regno stesso a
insegnarle» (v. 313).
In quest’ottica, il tentativo di Seneca di educare Nerone era destinato a fallire
in partenza. Percorrendo nelle tragedie il ciclo vizioso della vendetta, Seneca
esplora il lato oscuro del ciclo virtuoso dei favori, dei benefici e della gentilezza.
Le parole del malvagio Atreo – «al delitto si deve misura qualora lo si compia,
non qualora lo si restituisca» – sembrano riecheggiare, pervertendolo, il discorso
sulla gratitudine espresso da Seneca nelle sue prose.
C’è un’altra scena del Tieste che contiene echi della vita dell’autore e dei
problemi connessi con l’insegnamento della morale. È quella in cui il fratello di
Atreo, Tieste, torna dal lungo esilio. All’inizio, egli manifesta una saggezza
convenzionale, quasi filosofica, nei confronti delle cose «indifferenti», quali il
potere e la ricchezza. Al giovane figlio, che si chiama Tantalo come il nonno,
spiega che la vera felicità sta in una vita semplice e stabile, non contaminata
dalla ricchezza o dal pericolo:

Finché rimasi in alto,


mai cessai di avere paura o di temere
perfino il ferro stesso al mio fianco. O che gran bene è mai
non opporsi a nessuno, assumere cibi tranquilli
restandosene a terra!
(vv. 447-451)

Questi sentimenti, però, evaporano con una rapidità quasi comica non appena
Tieste viene a sapere che il fratello afferma di averlo perdonato e di essere
pronto ad accoglierlo a braccia aperte nella sua reggia. Seneca però suggerisce
che a muovere Tieste non è soltanto l’amore fraterno, ma il desiderio di
riconquistare il potere. «Io faccio conto che sia mia qualsiasi cosa sia, fratello,
tua» (v. 535), dichiara, come a dire che non solo dividerà tutto con Atreo, ma che
Atreo dovrà dividere tutto con lui. Le sue ultime parole prima di entrare nella
reggia sono: «Le leggi e le armi serviranno, come io stesso, a te» (v. 543), quasi
a voler sottintendere non solo che egli condividerà il potere con Atreo, ma che il
fratello avrà il controllo su Tieste oltre che su tutto il resto. Tieste fa atto di
sottomissione ad Atreo sentendo, sia pure confusamente, di commettere un
errore terribile, ma appare anche incapace di resistere alla tentazione.
Se il debole, avido, pomposo Tieste rappresenta il lato non certo lusinghiero
del ritratto che Seneca traccia di se stesso, Atreo, l’artista mostruoso, pungolato
dall’ambizione e da una sete smodata di potere, è l’altro lato. In questo folle
personaggio, una delle creature più riuscite di Seneca, si intravede il volto di
Nerone, ma anche quello del suo creatore. Dettaglio dopo dettaglio la tragedia
porta allo scoperto il desiderio incontenibile di Atreo di compiere un atto
inaudito, eccezionale, qualcosa che vada ben al di là della comune vendetta.
Uccidere i nipoti non gli basta e si dispiace di non avere ideato un piano migliore
e di non avere provveduto a far sì che Tieste sapesse di quale cibo si stava
saziando (vv. 1053-1068). È a Tieste che è rivolto lo spettacolo della pedofagia:
è lui lo spettatore privilegiato di Atreo. La tragedia evoca un mondo in cui la
malvagità e l’avidità non conoscono limiti, e il desiderio di vedere ed essere visti
è infinito e insaziabile. Atreo è un personaggio ben più vivo e interessante del
suo scialbo e ipocrita fratello. Per vie misteriose, il desiderio ossessivo e
incontenibile dei personaggi più terribili delle tragedie, Atreo e Medea, evoca il
desiderio di perfezione assoluta del saggio stoico (fig. 17). L’ideale della virtù,
così come quello del vizio, richiede un’autonomia totale, un dominio delle
circostanze e della sorte, un desiderio che gli eroi tragici cercano di realizzare
non conducendo una vita in armonia con la natura, ma inseguendo passioni e
azioni contrarie a qualsiasi legge naturale. Il Tieste può essere letto non solo
come l’espressione del disgusto di Seneca per gli eccessi di Nerone, ma anche
come un gesto di ammirazione: di fronte alle atrocità dell’imperatore, analoghe a
quelle di Atreo, il ruolo di Seneca è tutt’al più quello di un Tieste o di una
guardia.

17. Nei suoi ultimi anni Seneca tentò di ritirarsi a vita privata per dedicarsi ai suoi libri.
Lo spettacolo non poteva continuare per sempre. Nel 62 d.C. Burro, che aveva
condiviso con Seneca il compito di consigliare il giovane imperatore e tentare di
imbrigliarne i comportamenti, morì all’improvviso. Correva voce che una mano
sconosciuta l’avesse avvelenato. Si diceva che a procurare il veleno, mascherato
da medicamento per la gola, fosse stato proprio Nerone (Svetonio, Vita di
Nerone 35). Molti, compreso il nuovo capo dei pretoriani, furono felici di
vederlo uscire di scena. Senza l’appoggio di Burro e della guardia del pretorio, la
posizione di Seneca si indebolì fortemente e si fece più pericolosa. Era arrivato il
momento di provare sul serio ad andarsene.

a. Mercede te vitia sollicitant (Lettera 69, 4).


IV
«AGEVOLE NON È DALLA TERRA AGLI ASTRI IL
CAMMINO» a

Che fai, Seneca? Diserti il tuo partito? 1

«Siamo giunti ormai agli ultimi anni della vita di Seneca, quelli in cui sentiva di
avere i giorni contati e si preparava quotidianamente alla morte. Ma fu proprio in
quegli anni che videro la luce due delle sue opere in prosa più grandi: le Lettere
morali a Lucilio e le Questioni naturali. La prima è una raccolta di epistole
avvincenti, dallo stile raffinato, che l’autore invia a un amico un poco più
giovane e nelle quali affronta i vari aspetti di una vita condotta all’insegna della
filosofia. La seconda costituisce la sua trattazione più completa dei fenomeni
naturali e scientifici.
Dopo essere stato per diversi anni lo speechwriter e il principale consigliere
politico di Nerone, Seneca si andava estraniando sempre più da quel sovrano che
di giorno in giorno diventava più tirannico e istrionico. Era stato allora che aveva
iniziato a tentare di allontanarsi da una vita pubblica, che aveva liberamente
abbracciato, ma nella quale non poteva più restare impegnato, se non a costo
della propria integrità e incolumità.
Forse, non appena richiamato dall’esilio, aveva anche pensato di andare ad
Atene a studiare e insegnare filosofia, anziché tornare a Roma per addestrare
nell’uso della retorica il giovane Nerone. E ora, ormai avanti negli anni, egli
forse rivolse lo sguardo verso gli altri filosofi e maestri del suo tempo, e si chiese
se la sua vita di politico e scrittore famoso non fosse stata un errore. Non sarebbe
stato meglio se si fosse dedicato soltanto allo studio e all’insegnamento della
dottrina stoica come facevano tanti altri anche a Roma? E forse si soffermò a
pensare al più giovane Gaio Musonio Rufo, la cui vita e le cui opere non
avrebbero potuto essere più diverse dalle sue. Nato in Etruria da una famiglia
equestre, Musonio Rufo viveva nella capitale guadagnandosi da vivere con
l’insegnamento e scrivendo saggi di morale stoica (fu maestro di Epitteto). Il suo
interesse era rivolto non tanto ai settori di studio più teorici della Stoà, come la
fisica e la logica, quanto ai comportamenti umani, nella convinzione che la
filosofia fosse lo strumento migliore per liberare gli uomini (e nel suo caso
anche le donne) dalle false credenze e dai desideri corrotti. La sua versione dello
stoicismo era di carattere soprattutto pratico, meno incentrata sull’individuo di
quella di Seneca e più attenta ai rapporti basati sulla bontà. Il suo obiettivo
principale era far sì che gli esseri umani vivessero in armonia fra loro in un
mondo di affetti privo di crudeltà e adottassero modelli di vita semplici, ascetici
(Musonio Rufo arrivò persino a indicare come tenere puliti capelli e barba senza
sprecare troppo tempo in frivolezze). I suoi scritti ci sono giunti soltanto sotto
forma di appunti delle sue lezioni, presi da un allievo. Come il suo pupillo
Epitteto, e diversamente da Seneca, Rufo non aveva interesse né per la
letteratura, né per la politica: egli voleva trasmettere le proprie idee agli allievi
per modificarne i comportamenti.
Le sue priorità erano molto diverse da quelle di Seneca, soprattutto sul piano
sociale, e assunse posizioni affatto originali, per esempio denunciando con forza
l’abbandono dei neonati indesiderati e sostenendo che le donne avevano le stesse
capacità intellettuali degli uomini e, come gli uomini, avrebbero dovuto
dedicarsi alla filosofia. Per difendere le sue convinzioni pare che a un certo
punto avesse preso anche posizione sul piano politico, schierandosi al fianco di
un oppositore di Nerone, Rubellio Plauto, e seguendolo nell’esilio nel 60. Nel
62, alla morte del suo protettore, era tornato a Roma, ma fu sempre guardato con
sospetto dall’imperatore. Figura per molti versi parallela, Musonio Rufo si
mostrò molto meno disposto di Seneca a scendere a compromessi sociali e
politici.
La dottrina stoica non comportava di per sé la dissidenza politica. Negli anni
Sessanta dell’era cristiana a Roma si incontravano uomini che, come Lucano,
erano filostoici e insieme filorepubblicani, ma se ne incontravano anche molti
altri, come Seneca, la cui concezione filosofica non coincideva con
l’opposizione politica. Seneca dunque non era in difficoltà a causa dello
stoicismo, ma perché era ormai diventato un peso per Nerone: da collaboratore
prezioso per promuoverne l’immagine e assecondarne i piaceri, evitandogli il
biasimo dell’opinione pubblica, il vecchio era ormai diventato agli occhi
dell’imperatore un guastafeste e un ostacolo.
Dopo la morte di Burro, il rovello di Seneca divenne come districarsi dalla
situazione insostenibile di ministro di un autocrate ormai diffidente e dal
comportamento sempre più eccentrico, senza insospettirlo ancora di più e
rimetterci la vita. Da tempo meditava di ritirarsi, ed era alla ricerca di una via
d’uscita praticabile: ora però la questione si era fatta urgente. Un modo per
evitare che il suo ritiro dalla vita pubblica fosse giudicato un tradimento era
indossare la maschera del «filosofo», invocando motivi puramente psicologici e
non politici per volersi allontanare da quel mondo di competizione sfrenata. In
un trattato intitolato L’ozio, che si suppone composto molto prima del suo
distacco dalla corte neroniana, 2 Seneca traccia un quadro efficace dei vantaggi di
una vita lontana dalla politica, in cui evoca anche le pressioni, psicologiche e
morali, cui è sottoposto chi vive sotto continuo scrutinio pubblico. Al dedicatario
del trattato (che forse è ancora una volta il vecchio amico Sereno) egli spiega che
solamente una vita di solitudine, appartata, consente di perseguire con coerenza
le proprie finalità. La società contemporanea, scrive Seneca, stimola non soltanto
l’immoralità, ma anche l’incoerenza: le persone cambiano continuamente idee e
comportamenti, influenzate dalle mode e dalla cerchia in cui vivono. E perciò
l’unico modo per restare fedeli ai propri ideali è condurre una vita lontana
dall’arena politica.
In un altro trattato, La brevità della vita, Seneca esorta il dedicatario, l’amico
Paolino, ad allontanarsi dal tumulto della vita pubblica. Nel 55 Paolino si era
dimesso da uno degli incarichi amministrativi più prestigiosi di Roma, quello di
prefetto dell’annona, e fu probabilmente in quell’occasione che Seneca gli
dedicò il suo scritto. Paolino aveva forse messo in pratica il consiglio di Seneca?
In realtà è molto più probabile che fosse stata Agrippina a costringerlo a
dimettersi, per lasciare il posto a un altro dei suoi favoriti, Fenio Rufo. 3 Seneca,
però, presentando il ritiro di Paolino a vita privata come una sua scelta e non
come un’imposizione, persegue un duplice intento: salvare la faccia all’amico e,
insieme, al regime. Non è neppure escluso che già nel 55 egli fosse consapevole
che un giorno, forse non troppo lontano, sarebbe toccato anche a lui essere
cacciato da Palazzo o desiderare disperatamente di fuggire. Di conseguenza, una
dichiarazione pubblica sul valore della rinuncia agli incarichi costituiva una
mossa utile anche ai suoi fini, perché serviva a preparare il terreno per quel
giorno che, ne era convinto, sarebbe sicuramente arrivato.
I due trattati, inoltre, consentivano al loro autore di esprimere i suoi sentimenti
negativi sulla vita di corte. Seneca evoca con maestria il marasma dei tempi e
lascia intuire con chiarezza quali fossero i suoi pensieri in quegli ultimi anni:

Certamente, tra tutti i nostri mali, il peggiore è questo: cambiamo persino i vizi. Non abbiamo
neppure la buona sorte di rimanere in un vizio al quale siamo già avvezzi: passiamo dall’uno
all’altro, e ci tormenta anche il constatare che le nostre scelte non sono soltanto cattive, ma
anche incostanti.
Siamo sbattuti dai flutti e ci attacchiamo a un rottame dopo l’altro, abbandoniamo quello
che avevamo cercato, torniamo a cercare quel che avevamo buttato: tutto, in noi, è un
avvicendarsi di brame e pentimenti.
(L’ozio 1, 2-3)

La meta agognata non è soltanto una maggiore integrità morale (è anche


questo), ma è soprattutto un porto sicuro, in cui trovare finalmente l’armonia fra
le azioni e le intenzioni. Una fuga da quella frenetica girandola di
comportamenti.
Nel passo appena citato si intuisce anche l’altro problema inerente alla vita
pubblica: l’estrema pericolosità. Seneca non poteva non avere capito, fin dal suo
ingresso a corte, e sempre più con il passare del tempo, che la sua vita era nelle
mani di un giovane capriccioso e umorale. Noi «giudichiamo buona o cattiva
una strada non in sé, ma in base alla quantità delle orme, nessuna delle quali
torna indietro» (1, 3), scrive, alludendo alla favola di Esopo Il leone e la volpe.
Una volpe si avvicina cauta alla tana di un leone, che, fingendosi malato, la
invita a entrare, dicendo: che pericolo può rappresentare per una giovane ed
energica volpe un vecchio leone pieno di acciacchi? La volpe, però, si guarda
bene dall’andargli troppo vicino: si è accorta che le numerose impronte degli
animali vanno tutte in direzione della tana e nessuna in direzione contraria.
Evidentemente, nessuno era più stato in grado di uscire vivo dalla tana del leone.
E qual è la morale della favola? Semplicemente e genericamente che la società
è pericolosa? Che seguire la folla può significare perdere la propria identità e
non tener fede ai propri obiettivi e ideali? Il leone è la folla e al tempo stesso il
suo divoratore. La favola, però, suggerisce un pericolo più specifico e concreto:
tutti quelli che si accalcano attorno al leone, che lo adulano e lo esaltano,
potrebbero scoprire che non è sempre così innocuo. Anche un leone malato può
azzannarti.
A rafforzare l’allusione ai pericoli della vita politica contribuisce anche il
ricordo dell’altro autore latino che si era ispirato alla stessa favola di Esopo per
evidenziare i rischi ai quali andava incontro uno scrittore nel piegarsi
all’opinione pubblica e, più specificamente, a un rapporto stretto con un regime
autocratico. Quell’autore era Orazio, morto nell’8 a.C., che in una lettera al suo
patrono Mecenate, amico e consigliere dell’imperatore Augusto, scriveva:

Se il popolo romano mi chiedesse come mai ho con lui più comunanza di portici che di idee,
come mai non inseguo i suoi amori né fuggo le sue avversioni, risponderei come la volpe
accorta al leone ammalato: «Le orme mi spaventano, guardano tutte dalla tua parte, nessuna
all’indietro».
(Orazio, Le lettere 1, 1, vv. 70-75)

Orazio, come Seneca, si guarda bene dal dire che il principe può essere una
minaccia per chi dissente, ma l’uno e l’altro lasciano intendere molto
chiaramente che l’insidia viene da un uomo solo, molto potente, di cui tutti
potrebbero essere vittime.
Orazio torna alle favole di Esopo anche in un’altra lettera in versi. Questa
volta la volpe è meno prudente:

Un giorno l’asciutta volpetta penetrò per un’angusta fenditura in un cestone di grano; ma


mangiato che ebbe non ne veniva fuori con tutti gli sforzi, a causa del ventre sazio. Una
donnola da lontano le disse: «Se vuoi scappare di lì, magra torna e riprova, perché quando ci
entrasti magra eri».
(7, vv. 29-34)

Orazio promette, o forse minaccia, di essere pronto a restituire al suo patrono


tutti i benefici ricevuti, compresa l’amatissima villa in Sabina. Se è questo il
prezzo per riavere la libertà, egli è disposto a pagarlo e a «tornare magro»
com’era all’inizio, lui, figlio di un liberto. E reclama il diritto a vivere lontano da
Roma e dalla corte come e quanto gli pare, anche tutto l’anno. A Mecenate è
grato per i suoi doni, ma non è il suo cagnolino da passeggio: può andarsene
ogni volta che vuole.
E tuttavia la giustapposizione delle due favole della volpe nella stessa raccolta
di lettere rivela un’ansia sotterranea, il timore che liberarsi non sia così facile
come potrebbe sembrare. La volpe potrà uscire dal pertugio, purché dimagrisca.
Ma gli animali entrati nella tana del leone malato non hanno alcuna possibilità di
scelta: non ne usciranno mai più. Orazio lo sa, e scrive in un’altra epistola:
«L’intimità con l’amico potente lusinga l’inesperto; chi ne ha esperienza, la
teme» (18, vv. 86-87).
Seneca, che conosceva bene la poesia oraziana, trasferisce il problema alla sua
situazione specifica nei discorsi che rivolge a Nerone perché gli conceda di
ritirarsi dalla corte. Le accuse nei suoi confronti si erano infittite dopo la morte
di Burro. Le malelingue riferivano all’imperatore che l’avido Seneca stava
ancora incrementando le sue fortune, appropriandosi non soltanto di ricchezze,
ma anche di onori, come quelli letterari, che spettavano soltanto all’imperatore.
Seneca, sussurravano i maligni, lo imitava, entrava in competizione con lui,
voleva «accaparrarsi tutta la gloria dell’eloquenza» e aveva «intensificato la
produzione di versi da quando Nerone vi si era appassionato», e, non contento,
gli rimproverava sempre i suoi svaghi preferiti, come le corse dei carri e il canto
(Tacito, Annali 14, 52). Le qualità intellettuali e culturali di Seneca, che un
tempo erano un valore, ora erano diventate un disvalore, un ostacolo:
quell’uomo era troppo prolifico, troppo intelligente, aveva troppo talento. «Fino
a quando si doveva credere che nell’impero non ci sarebbe stato niente di buono
che non provenisse da lui?» mormoravano i suoi detrattori. Ormai Nerone era un
uomo fatto, e poteva permettersi di cacciar via il suo precettore (ibid.).
Seneca avvertiva con chiarezza quanto fosse pericolosa la sua posizione.
Negli Annali Tacito propone una versione così sottilmente satirica del discorso
con cui nel 62 egli tentò un’uscita strategica che vale la pena soffermarcisi.
Chiesta udienza all’imperatore e ottenutala, Seneca esordì dicendo:

Da ben quattordici anni, o Cesare, sono stato affiancato alla tua giovinezza carica di speranze;
e da ben otto anni tu reggi l’impero. In tutto questo tempo mi hai colmato di tanti onori e
ricchezze che nulla manca alla mia fortuna se non di porvi un limite.

E prosegue citando l’esempio di altri consiglieri di imperatori, come Agrippa,


collaboratore e generale di Augusto, grandi uomini al cui confronto ciò che egli
aveva fatto per Nerone era davvero poca cosa:

Io null’altro avrei potuto offrire alla tua generosità, se non i miei studi coltivati per così dire
nell’ombra, studi che, se poi ebbero fama, fu solo perché ho affiancato con i miei
insegnamenti la tua giovinezza; e questa è la grande ricompensa della mia opera. Ma tu mi hai
circondato di immenso favore e di incalcolabile ricchezza, tanto che spesso mi chiedo: sono
proprio io, venuto da famiglia equestre e provinciale, a essere annoverato fra le personalità di
spicco a Roma? Come ho potuto io, uomo nuovo, brillare fra tanti nobili che vantano una
lunga serie di antenati autorevoli?

Fin qui il Seneca tacitiano dà l’impressione di considerare in modo più o


meno positivo la generosità neroniana, immeritata, naturalmente, e inadatta a un
uomo della sua classe sociale. Ora, però, il tono cambia; la ricchezza eccessiva è
stata lo strumento della sua corruzione morale:
Dov’è mai il mio animo contento del poco? Eppure esso ha fatto sorgere giardini così belli,
passeggia fra queste tenute suburbane, in così ampie distese di campi e gode di così vaste
rendite! Unica mia giustificazione è il dovere che avevo di non resistere ai tuoi doni.

La generosità del principe, suggerisce a questo punto il testo, è però stata


eccessiva: «Abbiamo colmato entrambi la misura, tu per quanto un principe può
dare a un amico, io per quanto un amico può accettare da un principe: tutto il
resto non fa che accrescere l’invidia». Non rimane che una soluzione;
l’imperatore si riprenda i suoi beni:

Io, vecchio e inadatto anche a incombenze meno gravi, non potendo reggere il peso delle mie
ricchezze, ti chiedo un aiuto. Da’ ordine ai tuoi procuratori di amministrare queste sostanze e
di inglobarle nei tuoi beni. Non ch’io voglia ridurmi in povertà, ma, consegnate quelle
ricchezze il cui splendore mi abbaglia, tornerò a dedicare allo spirito quel tempo prima
riservato alla cura di ville e giardini.
(Tacito, Annali 14, 53)

La mossa è abile, ma Nerone sa leggere fra le righe, e la sua reazione è arguta


e crudele: «Saper improvvisare una risposta al tuo ben costruito discorso, lo
considero innanzitutto un dono ricevuto da te»; che è come dire: ormai so badare
a me stesso, non ho più bisogno dalla tua penna. Fingendo di non capire il
desiderio di Seneca di ritirarsi a vita privata, l’imperatore parla di amicizia e
gratitudine, e respinge con decisione la proposta di riprendersi i beni donati,
prima di tutto perché, al confronto dei doni imperituri che ha ricevuto dal suo
maestro, le piccole cose con cui ha contraccambiato – qualche villa, qualche
chilometro quadrato di parco, qualche milione di sesterzi – sono un nonnulla. E
anzi è addirittura imbarazzante pensare quanto poco egli sia riuscito a dare al suo
più grande benefattore: «È per me motivo di rossore che tu, il primo nel mio
affetto, non superi ancora tutti nella fortuna».
Poi però Nerone espone la seconda, e più veritiera, ragione del suo rifiuto;
l’uscita di scena di Seneca sarebbe un danno per la sua reputazione:

Non il tuo senso di misura, se mi renderai il denaro, non il tuo bisogno di riposo, se lascerai il
principe, ma la mia cupidigia e la tua paura della mia crudeltà saranno sulla bocca di tutti. E
quand’anche prevalessero le lodi per la tua continenza, non sarebbe in ogni caso bello per un
saggio acquistarsi gloria proprio recando infamia a un amico.
Ciò detto, abbracciò e baciò Seneca, «fatto com’era per natura ed esercitato
per consuetudine a velare l’odio con false affettuosità». A Seneca non restò che
ringraziare: non poteva fare altro, se voleva rimanere vivo. Poi però, prosegue
Tacito, egli adottò uno stile di vita assai più riservato, pur restando ufficialmente
al servizio di Nerone. Non se ne andò da Roma, ma tenne lontano i visitatori e
rimase il più possibile nei suoi appartamenti, a leggere e a scrivere, dicendo che
era troppo malato per uscire. La malattia fu, ancora una volta, un utile pretesto
per rimediare a una situazione sociale impossibile.
Fu in questo periodo che Seneca scrisse due delle opere più importanti della
sua vecchiaia: le Questioni naturali e le Lettere morali a Lucilio.
Nessuna di esse parla esplicitamente della vita dell’autore, entrambe però
implicano una lunga meditazione su temi strettamente connessi con il suo
rapporto con Nerone e con le lotte di potere degli ultimi anni. Le Lettere
costruiscono a poco a poco un «Io» che è pubblico non meno che privato, un Io
stilizzato, quello di un uomo che rappresenta «tutti gli uomini». Esse però
evocano anche, con una intimità che affascina, i dettagli di una vita quotidiana
che sembra molto simile a quella di Seneca. Nell’epistolario ci sono gli schiavi, i
viaggi sui carri, in carrozza o in lettiga, i bagni, i rumori della città, la routine
quotidiana, il dilemma del che fare in ogni ora del giorno, le abitudini di lettura, i
problemi della malattia e della stanchezza, e i seccatori. Con le Questioni
naturali, il suo trattato più importante sulla storia naturale e la scienza, forse
Seneca tentò di distogliere la mente dalle ansie della vita politica e personale,
volgendola verso la relativa semplicità dei fenomeni della natura. Eppure, anche
questo testo reca l’impronta della complessità dei suoi atteggiamenti e delle sue
posizioni politiche.

Lucano e Petronio

Lo schiavo che esca di casa senza il permesso del padrone prenderà cento legnate. 4

Prima di parlare delle Lettere morali a Lucilio e delle Questioni naturali, sarà
bene ricordare in che cosa la posizione assunta da Seneca come scrittore si
differenzi da quella di altri autori suoi contemporanei. Come sappiamo, egli
presentò a Nerone il nipote Lucano e, presumibilmente, oltre a insegnargli i
fondamenti dello stoicismo, contribuì anche alla sua educazione e formazione
letteraria. All’inizio Lucano e Nerone furono amici, ma poi, forse intorno ai
primi anni Sessanta, l’amicizia si guastò. Le fonti più antiche forniscono ragioni
discordanti di questa rottura. Tacito (Annali 15, 49) la attribuisce alla gelosia di
Nerone per il talento poetico di Lucano, tanto che, per «soffocarne la fama», gli
ordinò di non pubblicare i suoi versi. Svetonio, invece, spiega che Nerone,
avendo perso ogni interesse per Lucano, aveva cominciato a ignorarlo e che
Lucano aveva preso a satireggiarlo nelle sue poesie (Svetonio, Vita di Lucano).
È probabile, invece, che all’origine della tensione non ci fossero soltanto
motivi letterari e personali, ma anche un forte elemento politico: Lucano era
ormai ostile alla stessa istituzione imperiale. La sua opera più celebre, la Guerra
civile, nota come Farsaglia, iniziata intorno all’anno 60 e rimasta incompiuta,
probabilmente per la morte del suo autore nel 65, è un poema epico sulla
battaglia di Farsalo, in cui avvenne lo scontro decisivo della guerra civile fra
Cesare e Pompeo. Il grande combattimento è narrato da un punto di vista
filorepubblicano: non appena Cesare attraversa il Rubicone e distrugge la
repubblica, il mondo intero si disintegra. In mezzo a tanta follia, sangue e
disordine, si staglia un unico eroe: Catone, lo stoico che difende gli antichi
valori, il solo rimasto fedele ai suoi ideali, l’unico a condurre una vita in armonia
con la natura, mentre intorno tutto sprofonda nel caos.
Nei suoi versi, dunque, Lucano si oppone al regime neroniano in modo molto
più esplicito di quanto non faccia suo zio in tutti i suoi scritti. Lo stoico Catone,
profondamente politicizzato, è una figura di filosofo molto più combattiva e
dissidente di Seneca. Il poema, tuttavia, non è privo di contraddizioni. La più
evidente è che l’opera inizia con un elogio smaccato, per non dire servile, di
Nerone, la cui presenza sul trono ricompenserebbe più che a sufficienza il
mondo per tutto il sangue versato durante le guerre civili. L’imperatore sembra
sul punto di salire sull’Olimpo quale novello Apollo. Se soltanto questo «dio»
vorrà volgere lo sguardo su Roma e assumere una posizione intermedia in cielo,
ci sarà la pace:

Se tu premerai con il tuo peso una parte sola del cielo pur immenso, l’asse percepirà il tuo
peso. Fa tua la parte centrale del cielo, in modo che questo resti in equilibrio, e quella parte di
cielo tutta libera resti serena, nella parte ove sta Cesare non vengano nuvole a ostacolare. Solo
allora, deposte le armi, il genere umano provveda a se stesso, ogni popolo ami di amore
reciproco, la pace mandata per il mondo tenga chiusi i battenti di ferro di Giano bellicoso.
(Lucano, La guerra civile 1, 55-62)
Queste parole furono scritte prima del dissidio con Nerone? Ma allora perché
le ritroviamo nella versione più tarda del poema? La spiegazione più plausibile
potrebbe essere che il nipote era alle prese con un dilemma non dissimile da
quello dello zio: come dar voce a una forma di resistenza al regime neroniano
senza venirne distrutto. Egli sperava, forse, che Nerone non andasse oltre le
prime pagine elogiative, immaginando che anche il resto fosse dello stesso
tenore. E forse sperava anche che i lettori politicamente più vicini a lui
leggessero fra le righe e interpretassero l’apparente adulazione come una forma
di dissimulazione ironica.
L’altro grande scrittore di quegli anni fu una figura di tutt’altro genere, ancora
più distante da Seneca per ethos, stile e ideologia. Petronio era nato intorno al 27
e quindi negli anni Sessanta era sulla trentina. Famoso per le battute mordaci e
pericolose, e la passione per la vita mondana, era stato soprannominato «arbitro
dell’eleganza». A differenza di Seneca, apparteneva alla classe senatoriale e
aveva ricoperto diversi incarichi pubblici: era stato fra l’altro governatore di una
provincia e infine console, compiti che si diceva avesse assolto piuttosto bene,
con grande sorpresa di quanti lo consideravano soltanto un esteta.
L’unica sua opera giunta fino a noi è un frammento di una composizione
molto più ampia, il Satyricon, una sorta di protoromanzo, parte in prosa e parte
in versi, che narra le avventure e le disavventure di un giovane, alla ricerca
dell’adolescente di cui è innamorato, e di molti altri personaggi comici che
incontra nei suoi vagabondaggi. La sola parte trasmessaci quasi intatta è «La
cena di Trimalcione», in cui Petronio descrive con grande brio il grottesco
banchetto offerto da un liberto arricchito (fig. 18). La satira prende di mira
soprattutto l’anfitrione, un nuovo ricco, rozzo e incapace di comprendere la
volgarità di tutto il suo stravagante sfoggio di opulenza. Il banchetto è
organizzato come uno spettacolo a tema e le pietanze sono una festa per gli occhi
più che per lo stomaco: i piatti sono ispirati ai segni dello zodiaco, vengono
servite uova di pavone che sembrano contenere pulcini, salsicce posate su
chicchi di melagrana perché si presentino come carne alla brace, un maiale con
la pancia rigonfia di salamelle e cotechini. Ma il filo rosso che collega tutti i
momenti di questa esibizione è la caducità, il trascorrere del tempo, di cui
Trimalcione è nevroticamente consapevole. Al centro della tavola troneggia uno
scheletro d’argento, con cui egli intende ricordare agli ospiti la loro mortalità, e
dopo molte chiacchiere annaffiate con innumerevoli bicchieri di vino pregiato,
proveniente da vigne che possiede, ma non conosce, Trimalcione legge le sue
ultime volontà e mette in scena il proprio funerale, con tanto di dolenti e di
discesa agli Inferi.

18. La cena di Trimalcione.

La descrizione faceta, snobistica e colorita dell’ostentazione folle di


Trimalcione corrisponde perfettamente all’ostilità tradizionale della classe
senatoriale verso i liberti. Ma accanto al tono beffardo c’è anche un tocco di
simpatia nel ritratto che Petronio traccia di questo Gatsby romano. 5 I modi folli,
tirannici, di Trimalcione, in particolare l’amore per le arti, la poesia e il teatro,
non sono poi così lontani da quelli di Nerone. Il groviglio di minacce e insieme
di intimità, che caratterizza le interazioni di Trimalcione con i suoi schiavi,
evoca la vita alla corte imperiale, un’altra tana del lupo in cui è più facile entrare
che uscire vivi. Che questo ritratto di provinciale estremamente ricco,
ossessionato dalla morte, con la bocca sempre piena di sentenze
pseudofilosofiche, abbia qualche analogia con Seneca? Se così fosse,
sicuramente l’uomo preso a bersaglio non l’avrà gradito molto. È quasi certo che
Petronio e Seneca si conoscessero, ed entrambi avrebbero ricevuto l’ordine di
suicidarsi con l’accusa di avere partecipato alla congiura pisoniana contro
Nerone. Ma non abbiamo nessuna testimonianza di una loro amicizia ed è
probabile che non ci fosse una grande simpatia fra il senatore patrizio, arbiter
elegantiae, con il suo sguardo distaccato e beffardo verso le assurdità della vita
di corte, e il filosofo della classe equestre, che era stato magister principis.
La narrazione satirica di Petronio, pur con tutte le sue assurdità, è tuttavia
profondamente immersa nel tessuto fisico, materiale e umano del contesto
sociale della Roma neroniana. L’autore coglie con sottigliezza le differenze di
linguaggio dei suoi personaggi, che varia a seconda del ceto cui appartengono, e
ama evocare con crudezza scene di umorismo sessuale ed escatologico.
Trimalcione, per esempio, crede di dar prova del suo senso di ospitalità,
incoraggiando gli ospiti a spetezzare liberamente se ne sentono il bisogno. Ma
mentre spinge il lettore a ridere del ricco liberto, Petronio ci presenta uno
spaccato di quel mondo. Il suo interesse per gli stili di vita dei romani al tempo
di Nerone è lontano anni luce dai temi cui Seneca rivolge l’attenzione nelle
opere scritte nello stesso periodo. La differenza è particolarmente forte nelle
Questioni naturali, in cui si può scorgere il tentativo senecano di andare oltre
non soltanto la Roma neroniana, ma anche la vita dei singoli, per attingere a una
visione più ampia e sublime, dalla cui altezza contemplare la natura, l’universo,
il tutto. 6

La contemplazione delle cose celesti: le «Questioni naturali»


Gli stoici si occupavano da tempo di scienze naturali e Seneca, per comporre i
suoi trattati, utilizzò gli studi precedenti, fra cui anche gli scritti di Aristotele. Ma
ne fece un uso critico, scegliendo fra una teoria e l’altra, e qualche volta
rifiutando la versione ortodossa della Stoà. La meteorologia e la fisica erano due
settori per i quali nutriva un vivo interesse. La scienza, fra l’altro, gli forniva una
chiave per leggere i problemi etici e sociali da un’angolazione del tutto
particolare. Uno dei temi principali che egli sviluppa in questo testo è proprio la
relatività della visione e della prospettiva: «Queste vette (come gli Appennini e
le Alpi) sono altissime, finché le confrontiamo con noi; ma se prendi in
considerazione l’intero universo appare evidente che sono tutte bassissime»
(Questioni naturali 4b, 11). Il problema che si era posto in modo diretto nei
Benefici – come interpretare le gerarchie sociali – viene qui riconsiderato dal
punto di vista della geologia: l’osservazione delle montagne rivela che il rango è
un’illusione, una maschera che occulta un’uguaglianza di fondo.
È giusto che un filosofo ignori i problemi morali per occuparsi di scienza? si
domanda Seneca. Perché sprecare tempo ad analizzare come si forma la neve,
anziché inveire contro l’aberrazione morale dei ricchi che la comperano per
raffreddare le loro bevande (come faceva notoriamente Nerone)? «Perché»
chiede il suo immaginario interlocutore «ti occupi con tanto impegno di queste
inezie, grazie alle quali si può diventare più eruditi, ma non più virtuosi?» (4b,
13, 1). Perché, è la risposta, lo studio delle scienze naturali è di grande rilevanza
in un programma di riforma morale. Indagando sulle proprietà naturali
dell’acqua, ci accorgeremo immediatamente di quanto sia vergognoso spendere
tanto denaro per procurarsi il ghiaccio o la neve, che fra l’altro non è composta
di sola acqua, ma è quasi interamente aria. La critica allo spreco perpetrato dalla
corte salta subito agli occhi in questo come in altri passi delle Questioni naturali.
Nerone si dilettava, per esempio, a nuotare d’estate a mezzanotte in una piscina
raffreddata artificiosamente per aumentare la propria resistenza ai banchetti
(Svetonio, Vita di Nerone 27, 2). Seneca, senza farne direttamente il nome,
esclama: «Questa neve, nella quale addirittura nuotate … è arrivata al punto di
fare le veci dell’acqua» (Questioni naturali 4b, 13, 11).
Le rare volte in cui nomina esplicitamente l’imperatore, Seneca è prodigo di
elogi, ma le lodi sono così smaccate da prestarsi a una lettura ironica, come
quando scrive che Nerone aveva mandato due centurie alla scoperta delle
sorgenti del Nilo, perché egli è «grande amante di tutte le altre virtù, ma
soprattutto della verità» (6, 8, 3). I contemporanei sapevano benissimo,
naturalmente, che in realtà i soldati erano stati inviati a esplorare il terreno non
per amore della verità scientifica, ma con l’intento di attaccare l’Etiopia (Plinio,
Storia naturale 6, 181). E perciò quello che all’apparenza è un elogio, può in
realtà essere una velata critica all’ex pupillo, che non ha saputo far tesoro degli
insegnamenti del suo vecchio maestro. Analogamente, quando nella sezione sui
terremoti Seneca passa a parlare di Callistene, il filosofo che studiava i
sommovimenti della terra ed era stato ucciso da Alessandro Magno, l’allusione è
chiara: persino i più grandi imperatori offuscano la loro grandezza mandando a
morte gli studiosi di cui si dicono amici (Questioni naturali 6, 23, 2-3). Le
Questioni naturali non segnano dunque il rigetto della vita pubblica. Seneca
ricorre a metafore di carattere politico per parlare di fisica e per converso spiega
la fisica con un linguaggio che rinvia costantemente ai suoi prediletti temi morali
e politici.
La trasmissione del testo è stata a lungo controversa. Oggi si ritiene che
l’ordine tradizionale dei libri non rispecchi l’ordine temporale della loro
composizione: quasi tutti gli studiosi concordano nell’affermare che la prima a
essere composta fu la sezione sui fiumi, indicata nei manoscritti come Terzo
libro. Nella prefazione a questo libro, in cui espone il suo programma, Seneca,
dicendosi «ormai vecchio», ammette, almeno in parte, di guardare con rimpianto
e rimorso alla sua vita passata e dichiara di volersi dedicare allo studio per
redimere un’esistenza spesa «malamente» (3, Prefazione 1). Poi, con un gioco di
parole fra metiri (misurare) e metus (paura), aggiunge che «misurarsi con
l’universo» può aiutarlo a distogliere la mente dalle ansie. Ha deciso di scrivere
di scienza anziché di storia perché la scienza insegna all’uomo ciò che conta
davvero: non le conquiste di imperatori e re, ma la contemplazione delle cose
divine con mente libera. Man mano che il discorso prosegue, appare chiaro che
lo studio dei fiumi e di altri grandi corpi d’acqua non è una ricerca astrusa,
avulsa dalle preoccupazioni umane e personali che affliggevano Seneca in quel
periodo, ma un approccio alle stesse questioni, condotto con altri mezzi. Il vero
filo conduttore del libro è come affrontare il lutto.
Seneca esamina le varie teorie che spiegano come facciano i fiumi e i torrenti
a mantenere costante il livello delle acque, ed è persuaso che ciò avvenga non
per mezzo della pioggia, bensì grazie a un processo continuo di scambio fra i
quattro elementi (terra, aria, fuoco e acqua), per cui le particelle della terra e
dell’aria incrementano costantemente i fiumi, che costantemente evaporano e si
gettano nel mare. Il discorso ha una sua rilevanza etica e personale: i doni non
vengono soltanto dall’alto, come la pioggia al fiume, ma attraverso un processo
continuo e non gerarchico di mutuo scambio. E contiene anche una nota
confortante: è sempre possibile un mutamento vero fra gli stati e gli elementi,
perché «ciascun elemento si trova in ciascun altro elemento» (3, 10, 4). I fiumi
possono scavarsi un nuovo corso, se perdono quello vecchio, l’acqua può essere
reintegrata anche senza che cada la pioggia. Per un uomo che aveva perso il
proprio ruolo a corte, lo status sociale e qualsiasi senso di sicurezza personale
avesse mai posseduto, era rasserenante ritrovare nel mondo naturale un
mutamento e una trasformazione gratuiti e illimitati. La discussione sui corsi
d’acqua offre a Seneca l’opportunità di inveire contro l’amore per il lusso, con le
sue stravaganti crudeltà, come l’usanza fra i ricchi di farsi portare a tavola le
triglie ancora vive dentro un vaso di vetro, perché i commensali possano godersi
lo spettacolo dei pesci che da rossi diventano bianchi durante l’agonia (3, 18, 1).
E così lo studio dell’acqua si trasforma in uno studio sulla corruzione
dell’impero, che mette in pericolo persino la libertà di questo che è il più libero
di tutti gli elementi (3, 30, 7-8).
I libri successivi, il 4a sul Nilo e il 4b sulle nubi, la grandine e la neve,
riprendono i temi più cari a Seneca, ma hanno anche una rilevanza particolare
per la sua biografia, perché parlano di fuga, di ritorno al privato e, ancora una
volta, stigmatizzano il lusso e la corruzione (il consumo sfrenato di neve e di
ghiaccio non è che un esempio dei gusti dispendiosi delle élite). Il Quinto libro,
sui venti, parla anche di libertà e vastità dell’impero. È un bene o un male, si
chiede Seneca, che i venti trasportino uomini e merci da un angolo all’altro del
mondo per guerre di conquista e commerci? Non è stata la natura, risponde
l’autore, a trascinare gli uomini in terre lontane, ma l’avidità: «La natura ci ha
dato i venti perché i vantaggi di ciascuna regione diventassero comuni, non
perché i popoli portassero in giro legioni e cavalieri, né perché trasferissero al di
là del mare armate devastatrici» (5, 18, 14). La colpa è dunque degli esseri
umani, non della natura, è la conclusione. Il Sesto libro è dedicato ai terremoti,
argomento sul quale Seneca afferma di avere già scritto in gioventù. I
sommovimenti della terra lo riconducono al tema della paura e della libertà.
Niente è più terrorizzante del rombo sismico, ma la conoscenza delle cause aiuta
a vincere il terrore e ad affrontare con coraggio la morte: «La natura che ti ha
generato ti aspetta, e in luogo migliore e più sicuro» (6, 32, 6).
Il Settimo libro sulle comete lo induce a parlare dei limiti della conoscenza
umana e del potere degli dei, i quali non hanno «creato tutto per l’uomo» (7, 30,
3). L’argomento ha una forte valenza politica: si credeva infatti che le comete
preannunciassero il destino dei re e degli imperatori, e una cometa era rimasta
visibile per sei mesi durante «il felicissimo principato di Nerone» e aveva
seguito «una traiettoria opposta a quella apparsa al tempo di Claudio» (7, 21, 3).
Ma mentre all’apparenza si tessono le lodi dell’imperatore, l’insieme del
discorso taccia di narcisismo re e principi, i quali immaginano che la comparsa
di una cometa li riguardi. La cometa di Nerone, come tutte le altre, non si era
mossa per compiacere il giovane sovrano, ma seguiva «ciò che l’alimenta»,
come fa il fuoco, che si espande dove trova materiale combustibile. E dunque,
sembra dire Seneca, anche Nerone farebbe bene a guardare le cose un poco più
dall’alto.
Gli ultimi due libri in ordine di composizione sono quelli che, mentre
dipingono una grande tela del mondo naturale, sono i più concentrati sulla vita
umana in generale e del loro autore in particolare. Il Primo libro fu in realtà il
penultimo a essere scritto e tratta di arcobaleni, meteore e altre luci celesti, ma il
sottotesto riguarda la conoscenza di sé, l’autoinganno e il desiderio.
L’arcobaleno, sostiene Seneca, è prodotto dai riflessi di innumerevoli gocce di
pioggia, che creano degli specchi; lo stesso discorso vale, mutatis mutandis, per
le nuvole. Tutti questi specchi naturali generano svariate illusioni ottiche.
L’arcobaleno, per esempio, non ha una vera sostanza, pur formando un grande
arco nel cielo: «Non esiste realmente infatti l’oggetto che appare in uno
specchio» perché le immagini riflesse sono «simulacri e imitazioni vane di corpi
reali» (1, 15, 7).
E, a proposito di specchi, Seneca compie una lunga digressione (1, 16, 1-9)
per raccontare un aneddoto su un certo Ostio Quadra, un uomo così degenere da
essere assassinato dai suoi schiavi, stanchi di subire umiliazioni. «Ricco, avaro e
dissoluto», «avido tanto di maschi quanto di femmine», egli aveva installato una
serie di specchi, che, durante le sue orge, riflettevano, ingigantendoli, i genitali
dei suoi partner. Gli specchi, per Ostio Quadra, erano uno strumento al servizio
delle sue voglie, ma in realtà essi «sono stati inventati perché l’uomo conoscesse
se stesso», ed è per questo che «la natura ci ha dato la possibilità di guardare
dentro di noi». 7 Ostio, ossessionato dal suo voyeurismo, è l’opposto della
«persona» letteraria e idealizzata che ne racconta la storia. Seneca erige intorno a
sé confini ampi e robusti, che ne rendono impenetrabili il corpo e l’anima, e
cerca il riflesso della propria vita non in specchi sontuosi costruiti per solleticare
le perversità dei ricchi romani, ma nelle nuvole e nelle gocce di pioggia del
cielo, dove dimorano gli dei.
Gli studi di fisica danno senso alla sua vita e gli offrono una prospettiva che
supera i limiti del corpo: «Se non fossi ammesso a queste realtà, non sarebbe
valsa la pena di nascere. Che motivo c’era, infatti, perché mi rallegrassi di essere
stato posto nel novero dei viventi? Forse per fare da filtro a cibi e bevande?» (1,
Prefazione 4). Queste parole sono una variazione su un noto tropo filosofico,
così ben espresso da Platone nell’Apologia di Socrate: «Una vita umana senza
esame non è degna di essere vissuta». In sostanza, l’esistenza deve essere
dedicata all’etica, all’autoanalisi, dice il filosofo greco, ma in Seneca l’enfasi
passa dal comportamento umano allo studio dello sterminato universo della
natura: «Oh, che cosa spregevole è l’uomo se non si innalza al di sopra delle
cose umane!» (1, Prefazione 5). Egli traccia una netta separazione tra la filosofia
morale, che si occupa dell’uomo, e un pensiero più alto, più intellettuale, che
medita sugli dei e le opere celesti e «ci conduce fuori dall’oscurità, alla sorgente
della luce radiosa». Il lessico mistico suggerisce che lo studio della fisica può
rappresentare un porto sicuro in cui rifugiarsi, lontano dagli affari umani corrotti
e malsani. Seneca dunque ricerca la conoscenza scientifica non soltanto per
ragioni pratiche, ma come sorgente di rigenerazione spirituale e redenzione.
Nelle Questioni naturali i suoi sforzi sono tutti volti a distogliere la mente
dalle ansie della vita politica e sociale, e a indirizzarla verso la visione più
ampia, più universale, dei fenomeni naturali. Il messaggio che egli invia
all’amico Lucilio è che, se si dedicherà anch’egli allo studio della natura, potrà
fuggire non soltanto dai mali del mondo ma anche da se stesso, che è la forma
suprema di liberazione. Così facendo, egli allenterà «la tensione dell’anima, la
preparerà alla conoscenza delle cose celesti e la renderà degna di entrare a far
parte della vita divina» (1, Prefazione 6).
Un’altra interpretazione è tuttavia possibile: Seneca tentava di inserire in una
prospettiva più vasta la sua lotta personale, politica e morale. A questo scopo
egli riprende un tema caro agli stoici romani: la distinzione fra lo staterello o la
città in cui ci si può trovare a vivere (Cartagine e Roma sono citate quali esempi
di republica minor) e la grande comunità di cui fa parte l’umanità intera. Il
passaggio dal particolare all’universale rappresenta il riconoscimento di una
realtà molto più grande, un mondo in cui la singola vita è soltanto una goccia nel
mare.
Visto dall’alto dei cieli, anche l’impero romano diventa un puntino su una tela
immensa. Nelle tragedie, personaggi come Ercole, Medea e Giunone si sentono
rattrappiti persino nel mondo senza confini dell’immaginazione: l’impero più
grande della terra è troppo angusto per le loro ambizioni. Nelle Questioni
naturali, esplorando i cieli da scienziato e astronomo, Seneca sente finalmente di
potersi elevare al di sopra dei limiti dell’ambizione politica e del desiderio di
beni materiali:

L’anima non può disprezzare portici e soffitti a cassettoni risplendenti d’avorio e boschetti
tagliati con cura e corsi d’acqua deviati per farli giungere nei palazzi, prima di avere fatto il
giro di tutto l’universo e di avere detto, guardando in basso il mondo angusto e per gran parte
coperto dal mare, con vaste regioni desolate anche nelle terre emerse e con zone bruciate o
ghiacciate: «È tutto qui quel punto che viene diviso col ferro e col fuoco fra tanti popoli? Oh,
come sono ridicoli i confini posti dagli uomini!».
(1, Prefazione 8)

L’assurdità non sta semplicemente nel fatto che gli esseri umani
sopravvalutino l’importanza dei loro possedimenti terreni o che si ritengano più
importanti di quanto non siano in realtà. E non sta neppure nel fatto che essi
attribuiscano un peso eccessivo a cose quasi totalmente prive di valore: no, il
vero problema è che gli uomini sprecano la propria vita combattendo e lottando
per cose che, viste da una prospettiva celeste, non sono più importanti di un
formicaio. In quest’ottica, anche gli eserciti più potenti altro non sono che «un
andirivieni di formiche che si affaticano in uno spazio angusto» (1, Prefazione
10).
Qui il linguaggio è quasi del tutto impersonale: non si parla né di «io» né di
«tu», ma di «mente» e di «esseri umani». Il narratore aspira a raggiungere una
visione che vada al di là del singolo individuo e abbracci l’universo intero. Così
facendo, egli trascende il groviglio di lotte personali in cui è immerso questo
filosofo nativo di Cordova, intrappolato nella corte imperiale romana. La Spagna
è l’esempio di una terra che può sembrare ai confini di un grande impero, ma in
realtà non è poi così remota: «Qual è, infatti, la distanza che intercorre fra le
coste più lontane della Spagna e l’India? Uno spazio di pochissimi giorni, se un
vento favorevole spinge la nave ... Ma quella regione celeste offre un viaggio
che dura trent’anni al pianeta più veloce» (1, Prefazione 13). In queste pagine
Seneca si libera della prospettiva che era stato costretto a adottare quando, per
compiacere Nerone, ingigantiva la grande ascesa che aveva compiuto al suo
servizio, passando dall’oscurità della provincia al cuore dell’impero. Ora si
accorge che quel percorso era un nonnulla, non più di un battito di ciglia.
Il libro sui tuoni e sui fulmini fu l’ultimo a essere composto, anche se
tradizionalmente figura come secondo. L’argomento permette a Seneca di parlare
a lungo dell’ordine divino dell’universo. Nella natura tutto è regolato: lì «regna
l’ordine» (2, 13, 3). Nulla è casuale: tutte le cose e le azioni sono inevitabili e
nessuna forza può modificarne il corso. E tuttavia agli esseri umani resta il libero
arbitrio, la facoltà di scegliere come agire. Si dice, scrive Seneca, che i fulmini
sono scagliati dagli dei soltanto per punire i malvagi, per spingere con il terrore
l’umanità ad agire bene (1, 42, 3), ma il vero sovrano dell’universo, il vero
Giove, che può essere identificato anche con il fato, la fortuna, la provvidenza e
numerose altre entità, è sempre benevolo nell’esercizio del potere, un modello
per re e imperatori terreni. Giove è «reggitore e custode dell’universo, anima e
spirito del mondo, signore e artefice di quest’opera, al quale si addice ogni
appellativo» (2, 45, 1-2). Lo studio dell’ordine divino dell’universo porta Seneca
a concludere, ancora una volta, che è necessario accettare l’inevitabilità della
morte, che verrà quando vorrà, se non con il fulmine, allora con altri mezzi. E
perciò «prendiamo coraggio dalla disperazione stessa», scrive all’amico Lucilio,
perché «tutti siamo conservati per la morte» (2, 59, 6). Inserendo la propria
morte, che vede imminente, nel disegno cosmico e nel comune destino umano,
Seneca, costantemente minacciato da Nerone, riesce a sentirsi meno solo.
Avendo perso di recente due amici, Burro e Sereno, deceduti, a quanto pare, di
morte naturale, Seneca intensifica l’amicizia con Lucilio, al quale dedica le
Questioni naturali e le Lettere. Di questo dedicatario si sa ben poco: la nostra
unica fonte è Seneca stesso, ed egli è avaro di informazioni concrete. Sappiamo
che Lucilio era nato nell’Italia meridionale, apparteneva alla classe equestre, si
recava spesso a Pompei, era di qualche anno più giovane di Seneca ed era stato
procuratore della Sicilia. Gli si attribuisce un poemetto sui vulcani, intitolato
Etna, argomento che avrebbe potuto studiare da vicino quand’era sull’isola:
sicuramente l’autore di questo saggio, chiunque fosse, conosceva bene le
Questioni naturali. Lucilio, a quanto si apprende da Seneca, desidera
approfondire i suoi studi filosofici e ha chiesto consiglio all’amico, che è un
poco più avanti su questa via. Egli sta pensando di ritirarsi dalla vita politica per
dedicarsi alla filosofia, una situazione che ricorda molto da vicino il recente
passato di Seneca, tanto che alcuni commentatori hanno ipotizzato che il
dedicatario sia un personaggio fittizio, anche perché il suo nome ricorda quello
di Seneca, essendo il diminutivo di Lucio. 8 In sostanza Lucilio sarebbe un
Seneca più giovane, meno prestigioso.
A volte Seneca sembra presentare l’amico come un suo doppio idealizzato.
Lucilio non permetterebbe mai all’ambizione di distoglierlo dai suoi studi: «So
quanto tu sia alieno dall’ambizione e quanta familiarità tu abbia con la vita
ritirata e la cultura» (4, Prefazione 1). Subito dopo, però, Seneca, com’è nel suo
stile, passa a un argomento più generale, meditando sulla rarità di questo genere
di autosufficienza. Quasi tutti «noi», scrive, ci tormentiamo, «ora per amore, ora
per disgusto di noi stessi», e, quel che è peggio, non siamo mai in pace, «mai soli
con noi stessi» (4, Prefazione 2). Il narratore, come spesso accade in questo
trattato, si situa in una posizione ambigua, fluttuando fra il peccatore e il
moralista. Sa analizzare i tormenti dell’inautenticità psicologica, ma non ha la
costanza necessaria per evitarli. A Lucilio raccomanda di rifuggire sopra ogni
altra cosa dall’adulazione e di diffidare degli adulatori, ma lo fa in maniera così
iperbolica da suscitare nel lettore il sospetto che proprio questo egli stia facendo
con Lucilio. 9 Subito dopo, però, con un brusco e tipico scarto, egli invita l’amico
a chiedersi se il ritratto lusinghiero che ha appena tracciato sia autentico, perché
potrebbe anche non esserlo. Questo esercizio di autoanalisi, condotto in
solitudine, ha comunque i suoi vantaggi: se le lusinghe sono false, «sei
comunque stato messo in ridicolo senza testimoni» (4, Prefazione 18). Ormai
Seneca sa quali siano i «benefici» che regala una vita trascorsa insieme ad amici
immaginari.
I lettori del Doctor Faustus di Marlowe e del Paradiso perduto di Milton
conoscono bene il dilemma posto tanto dalle Questioni naturali quanto dalle
Lettere morali a Lucilio. Seneca sa di potersi ritirare dal mondo, anche se gli
resta il problema di come vivere con se stesso, perché, come dice il Satana
miltoniano, «dovunque fugga è sempre inferno: sono io l’inferno» (Paradiso
perduto 4, v. 75). Seneca è però convinto di riuscirci: «Bisogna, dunque, fuggire
e ritirarsi in se stessi; anzi, bisogna mettersi in salvo anche da se stessi»
(Questioni naturali 4, Prefazione 20). Lucilio, al quale egli dedica le due opere,
costituisce in parte la soluzione del problema: attraverso l’evocazione
dell’amico, Seneca immagina, e abita, il suo «Io» migliore, sottraendosi al
fardello del mondo materiale e a quello della sua storia personale. Benché divisi
dal mare, scrive all’amico, noi «staremo insieme, con la parte migliore che è in
noi; ci daremo vicendevolmente consigli non dettati dal volto di chi ascolta»
(ibid.). Il volto contiene infatti la possibilità dell’inganno: un volto può sempre
essere una maschera. La scrittura è dunque l’unico luogo in cui Seneca può
sentirsi, o essere, in armonia con il meglio di sé ed essere il migliore amico di se
stesso.
La contemplazione delle nuvole e delle tempeste non è pura evasione dalla
realtà. Le minacce della meteorologia sono analoghe a quelle della corte: dei
tiranni, come del tuono, dobbiamo imparare a non avere paura. E subito il
discorso cambia direzione e il tema diventa l’agentività umana, inclusa quella di
Seneca. Un filosofo, si domanda, può influenzare o persino capire un tiranno più
di quanto possa influenzare la pioggia? E spostandosi su un piano ancora diverso
egli osserva: è consolante vedere forze gigantesche agire con terribile furia e
violenza, ma senza crudeltà, e sempre osservando l’ordine divino delle cose.

Capanne con il tetto di paglia e palazzi d’oro


Mentre Seneca era tutto teso a distaccarsi dalle cose del mondo per vederle
dall’alto, a Roma, alla corte di Nerone, avvenivano cambiamenti importanti. Ora
che Seneca e Burro non erano più d’ostacolo, Tigellino, da semplice guardia,
divenne prefetto del pretorio e cominciò a esercitare un’influenza crescente su
Nerone. Riuscì, racconta Tacito, a liberarsi di numerosi rivali, fra cui Rubellio
Plauto, un giovane e ricco membro della famiglia Giulia e un pericoloso
aspirante al trono, e di Silla, fratello della moglie di Claudio, Messalina.
Entrambi si erano tenuti il più possibile nell’ombra e lontano da Roma: Silla era
in Gallia e Plauto in Asia. Tigellino convinse Nerone che i due stavano
arruolando proseliti per tradirlo: l’unica soluzione sicura era ucciderli. Sei giorni
dopo, la testa di Silla fu riportata a Roma, e Nerone, vedendone i capelli
prematuramente ingrigiti, scoppiò a ridere (Tacito, Annali 14, 57). Quanto a
Rubellio Plauto, anche la sua adesione allo stoicismo divenne un’aggravante:
non poteva esserci segno più evidente di quanto fossero cambiati i tempi dal
giorno in cui Seneca era stato assunto come tutore di Nerone. Ben presto
anch’egli fu rintracciato: sapeva di andare incontro alla morte e aspettò i soldati
nudo e intento «agli esercizi fisici». Anche la sua testa fu riportata a Roma e
anch’essa fu accolta fra le risa dall’imperatore, che esclamò: «Perché, o Nerone,
temevi un uomo con un naso così grosso?» (14, 59). Bene faceva dunque Seneca
a starsene acquattato e a dedicarsi a studi che ne distogliessero la mente dagli
affari correnti.
Anche un amico intimo di Seneca cadde forse nella rete di Tigellino. Sereno,
che era stato nominato prefetto della guardia notturna presumibilmente su
consiglio di Seneca stesso, morì all’improvviso, pochissimo tempo dopo che
Seneca aveva rivolto la sua prima richiesta – nel 62 o nel 63 – di ritirarsi a vita
privata. Come Claudio, anche lui fu ucciso dai funghi. Si ignora se
l’avvelenamento sia stato fortuito o deliberato, ma non è escluso che la sua
morte rientrasse nei piani di Tigellino e dei suoi accoliti per eliminare tutti
coloro che avevano legami con i precedenti consiglieri dell’imperatore. Un
intero gruppo di tribuni e centurioni, che avevano assaggiato i funghi, stramazzò
a terra, racconta Plinio (Storia naturale 22, 96). Seneca fu sconvolto dalla
notizia della morte dell’amico e, consapevole di non avere rispettato i precetti
stoici che aveva appena finito di elencare, confessò a Lucilio: «Ti scrivo queste
cose io che ho pianto con un così scarso senso della misura Anneo Sereno, un
uomo a me caro quant’altri mai» (Lettere morali a Lucilio 63, 12). Il tentativo di
astrarsi dal mondo, contemplando il grande ordine divino dell’universo, non
sempre gli riusciva.
Nel 62, l’anno in cui Seneca implorò Nerone di riprendersi le sue ricchezze e
di lasciarlo tornare a vita privata, Poppea, moglie di Otone e da tempo amante
dell’imperatore, rimase incinta. Era l’occasione giusta per divorziare da Ottavia,
che Nerone non aveva mai amato. L’accusò quindi di tradirlo con uno schiavo e
la esiliò in Campania, ma lo scalpore fu tale che Ottavia fu richiamata a corte e
poi di nuovo bandita, questa volta con la scusa di una tresca con una delle
guardie pretoriane. La giovane donna, appena ventenne, fu assassinata: i soldati
le recisero le vene e la soffocarono nel bagno.
Erano tempi in cui chiunque fosse percepito da Nerone come una minaccia o
anche semplicemente come un fastidio era in pericolo. Furono uccisi due potenti
liberti: Doriforo perché contrario al matrimonio di Nerone con Poppea, e
Pallante – che aveva ricchezze paragonabili a quelle di Seneca – semplicemente
perché troppo ricco (Tacito, Annali 14, 65). Seneca evitò la morte per un soffio:
nel 62, un tale, di nome Romano, lo accusò di cospirare contro l’imperatore
insieme a Pisone, ma in questa occasione egli riuscì a discolparsi, rovesciando
gli addebiti sul suo accusatore. Benché vecchio, Seneca possedeva ancora la sua
astuzia strategica, ma non aveva dubbi che ogni giorno avrebbe potuto essere
l’ultimo.
Quando Poppea diede alla luce una bambina, l’intero Senato si precipitò ad
Anzio per i festeggiamenti. L’unico a essere escluso fu Trasea Peto, che però non
ne fu affatto turbato. Nerone riferì al suo vecchio maestro di essersi riconciliato
con Trasea, e Seneca se ne congratulò. Tacito commenta: «S’accresceva così la
gloria di quei due grandi uomini, ma aumentavano, per loro, anche i pericoli»
(15, 23). In un mondo totalmente immerso nell’adulazione e dal linguaggio
volutamente ambiguo, persino la pacatezza con cui Trasea aveva accolto il
divieto, e le congratulazioni di Seneca per la sua riconciliazione, in realtà finta,
con Nerone, potevano essere interpretate come manifestazioni di dissenso.
Ormai era pericoloso aprire semplicemente bocca, ma lo era anche stare zitti.
La neonata visse appena quattro mesi e il lutto non giovò alla stabilità mentale
di Nerone. Seneca riuscì comunque a restare aggrappato alla vita. La sua abilità
stava nell’esserci e nel non esserci al medesimo tempo. In teoria era ancora al
servizio dell’imperatore, ma in pratica viveva nelle sue stanze, a volte perché
veramente sofferente di bronchi o polmoni, altre fingendo di esserlo. In quei suoi
ultimi anni era ancora più moderato del solito nel mangiare e nel bere: si nutriva
di pane secco, di fichi e qualche altro frutto, una dieta adatta a un filosofo, ma
anche più difficile da avvelenare rispetto a piatti più elaborati. Pur essendo un
viticoltore appassionato e pur possedendo molte vigne, egli smise quasi
completamente di assaggiare il vino e beveva soltanto acqua sorgiva, anche
questa una buona abitudine per non incorrere nella stessa sorte di Britannico.
Viaggiava su e giù per l’Italia, visitando a uno a uno i suoi poderi, che possedeva
in gran numero, fra cui uno particolarmente amato a Mentana, poco lontano da
Roma, e un altro ad Alba. Si recò anche in diverse località di mare, per esempio
a Baia, nel golfo di Napoli, e in varie ville, fra cui quella del generale Scipione e
quella di un famoso buongustaio, di nome Vatia. Prese addirittura – stando a
quanto racconta lui stesso – in affitto un appartamento sopra dei bagni
rumorosissimi, lieto per qualche giorno di studiare in mezzo al frastuono, fra i
grugniti dei sollevatori di pesi, le pacche del massaggiatore sulla schiena unta
d’olio del cliente, la voce acutissima del depilatore e gli strilli dei depilati sotto
le ascelle e sulle gambe, il cantarellio dei bagnanti immersi nella piscina, i tonfi
dei tuffatori e le grida degli ambulanti, dal salsicciaio al pasticciere, che
reclamizzano i propri prodotti (Lettera 56, 1-2). Ma, alla fine, a vincere la sfida
fu il chiasso, e l’autoproclamato filosofo ripartì per la campagna. Le vivaci
descrizioni dei luoghi del suo pellegrinaggio sono uno dei piaceri più grandi
delle Lettere morali a Lucilio. Raramente Seneca spiega il perché del suo
continuo peregrinare, che presenta come frutto del capriccio. Ma in realtà aveva
una ragione ben precisa: tentava di farsi dimenticare da Nerone.
Le Lettere tratteggiano con grande efficacia la vita quotidiana dell’autore. Di
fronte all’instabilità di qualsiasi carriera e di qualsiasi tentativo di garantirsi la
sicurezza e la prosperità, l’unico rimedio è vivere da asceti, all’insegna della
filosofia:

Il cibo calmi la fame, la bevanda estingua la sete, gli indumenti tengano lontano il freddo, la
casa sia la nostra difesa contro le intemperie. Che sia stata costruita con zolle o con marmi
variegati di provenienza straniera non ha alcuna importanza. Sappiate che un uomo si trova al
coperto altrettanto bene sotto un tetto di paglia quanto sotto uno d’oro.
(Lettera 8, 5)

E il tetto d’oro non è una fantasia: i ricchi romani di quell’epoca, fra cui
presumibilmente lo stesso Seneca, vivevano davvero in case con pareti e soffitti
decorati con il prezioso metallo e altri materiali costosi, e arricchite da dipinti,
mosaici, statue e stucchi. L’esemplare più famoso era il palazzo costruito da
Nerone nel 64: la Domus Aurea, la casa d’oro. 10 Ora che conduceva una vita
semplice, quasi in ritiro, Seneca aveva il distacco sufficiente per guardare con
occhio severo la vita di agi che egli stesso aveva condotto per buona parte della
sua maturità e per criticare quietamente i modi sempre più stravaganti e tirannici
di Nerone. Contemporaneamente, però, riconosceva, come altre volte, che la
ricchezza non era di per sé un male: «È un uomo eccezionale chi si serve di
stoviglie di terracotta come se fossero d’argento e non è da meno chi utilizza
quelle d’argento come se fossero di terracotta» (5, 6). Quello cui Seneca ambiva
non era la povertà e neppure la semplicità volontaria, ma la pace interiore, e
cercava il modo per limitare i danni che la ricchezza provoca nell’animo di chi la
possiede. Vivere a livello di sussistenza, scrive, altro non è se non quello che
«molte migliaia di schiavi e molte migliaia di poveri fanno continuamente». I
ricchi dovrebbero emularli, ma non per toccare con mano quanto sia dura la loro
vita, bensì per constatare quanto sia facile sopportarla.
Nelle Lettere racconta anche la sua lotta con i malanni che l’affliggono, primo
fra tutti l’asma che da sempre lo tormenta, quella mancanza di respiro che i
medici chiamano «allenamento alla morte» (54, 2). Si descrive vecchio e
fisicamente debole, «un mal di mare spossante e senza sfogo» lo aveva
tormentato durante la breve navigazione da Napoli a Pozzuoli (53, 2) e il freddo
lo fa soffrire molto di più di quand’era giovane: «La mia età ... a mala pena si
sgela nel cuore dell’estate. E così trascorro ben coperto la maggior parte del
tempo» (67, 1).
Nella lettera 83 racconta con brio la sua routine quotidiana in un giorno in cui
può dedicarsi a leggere e scrivere senza interruzione, un giorno felice, perché
«una vita ritirata senza lo studio è un lasciarsi seppellire mentre si è vivi». Fin
dalla gioventù Seneca si era sempre tenuto in forma con esercizi facili e di breve
durata, che «stancano il corpo senza troppi intralci ... la corsa, il sollevamento
dei pesi, il salto in alto e il salto in lungo» (15, 4). Adesso che ha passato i
sessant’anni si stanca facilmente, e perciò ha come allenatore un piccolo
schiavo, di nome Fario, il quale, come il suo padrone, sta cominciando a perdere
i denti (un bambino dunque di cinque o sei anni: chissà che cosa pensava del
vecchio signore!). Lo schiavetto è uno specchio per Seneca, che scopre in lui la
propria vulnerabilità. Ormai, scrive all’amico, sono diventato così fragile che
persino Fario è troppo veloce per me, e, mentre il ragazzo diventa ogni giorno
più forte, io divento ogni giorno più debole: fra poco dovrò trovare un allenatore
anche più piccolo.
Dopo gli esercizi Seneca fa un bagno nell’acqua tiepida. Da vecchio non
sopporta più l’acqua gelida, in cui prima si tuffava con gioia:

Io, così entusiasta dei bagni freddi, che alle calende di gennaio facevo una visita al canale, io
che inauguravo l’anno nuovo non solo leggendo qualcosa in pubblico, presentando una
composizione scritta o pronunciando un discorso, ma anche tuffandomi nell’acqua Vergine,
ho trasferito armi e bagagli dapprima sulle rive del Tevere, poi a questa tinozza, che, quando
mi sento in gran forma e tutto va per il verso giusto, mi accontento sia scaldata dai raggi del
sole.
(83, 5)

Al bagno segue una colazione frugale, giusto un po’ di pane secco, senza
neppure sedersi a tavola, poi gli occhi si chiudono per un istante, come accade
agli infanti: «Talvolta so di avere dormito, talaltra ne ho solo il sospetto» (6, 83).
Dopo si rimette subito al lavoro, alternando lettura e scrittura: «Non dobbiamo»
confida a Lucilio «limitarci a scrivere né limitarci alla lettura. La prima attività
deprimerà le nostre energie e le esaurirà ... l’altra le renderà languide e
inconsistenti. Si deve riprendere alternativamente questa e quella, e temperare
l’una con l’altra» (84, 2).
La routine quotidiana è spesso interrotta da frequenti spostamenti. Nelle
Lettere Seneca racconta gli inconvenienti di quel continuo vagare da un luogo
all’altro e lo stravolgimento delle abitudini che provoca: mentre viaggia in
calesse, per esempio, non può né fare ricerche, né scrivere. A volte, quando ha la
curiosità di vedere qualche villa da una bella spiaggia, si fa trasportare in lettiga
anche per un lungo tratto; poi però si lamenta del continuo sballottamento, che lo
stanca quasi più che andare a piedi (55, 1).
Ovviamente non si chiede quanto si stancassero i suoi schiavi, che portavano
la lettiga con il loro aristocratico passeggero: la vita semplice, «peripatetica», di
Seneca richiedeva l’affaccendarsi di molte persone, anche se ora ne aveva
intorno meno di quando viveva a corte. Seneca doveva essere un padrone
ragionevolmente comprensivo: in una delle sue lettere più famose, la 47, si
appella a Lucilio e ai suoi ricchi lettori romani perché trattino con compassione e
gentilezza i loro schiavi, ricordando che sono anch’essi esseri umani. Sferza i
padroni crudeli, che durante i loro opulenti banchetti costringono i servi a restare
in piedi tutta la notte senza mangiare né bere, senza parlare, tossire e neppure
starnutire. Come ama fare spesso nei suoi scritti, Seneca dialoga con un
interlocutore immaginario, il quale obietta: «È uno schiavo». «Ma forse è libero
nell’animo» osserva Seneca. «È uno schiavo» ribadisce l’altro; «Ma questo gli
nuocerà? Mostrami uno che non lo sia: questo è schiavo della passione, quello
dell’avidità, un terzo dell’ambizione, tutti della paura» (47, 17).
La sua abilità stilistica è così efficace che si stenta a credere che Seneca non
stia affrontando in modo nuovo, addirittura rivoluzionario, un problema
concreto. In realtà quelle che espone erano idee molto diffuse, quasi all’ordine
del giorno, fra le classi alte della Roma del suo tempo. Un contemporaneo e
conterraneo di Seneca, lo scrittore di agricoltura Columella, parlava e scherzava
amichevolmente con i suoi schiavi-contadini, e trattava umanamente anche
quelli imprigionati e incatenati (sic; Columella, De re rustica 1, 8). Seneca non
aveva dunque un atteggiamento più illuminato dei suoi contemporanei verso la
schiavitù e i propri servi: è convinto che il padrone debba trattare con clemenza
gli esseri umani che possiede, ma, come tutti nel mondo antico, dà per scontata
l’istituzione della schiavitù e si occupa raramente della vita concreta dei suoi
schiavi. 11 Anche l’affermazione che tutti gli esseri umani hanno un’anima
«libera» serve a giustificare la condizione materiale in cui vivono gli schiavi.
Essa appartiene al novero delle cose «indifferenti», quelle che non toccano la
virtù dell’anima e perciò non provocano un vero danno. 12
Gli schiavi interessano a Seneca soltanto in quanto lo aiutano a capire meglio
se stesso. Mentre evoca le difficoltà della vita e l’approccio filosofico più idoneo
per affrontarle, il suo sguardo è sempre quello del padrone, mai del servo: «Ho
una salute precaria, ma questa fa parte del mio destino. I miei schiavi si sono
messi a letto, tutti ammalati; le mie rendite hanno subìto un tracollo, la casa ha
cominciato a scricchiolare; perdite, duri colpi, paure mi hanno quasi subissato:
sono cose che capitano» (96, 1). La malattia degli schiavi diventa il banco di
prova della capacità di autocontrollo del loro proprietario, non è un problema di
chi sta male. Non dissimile è la sua reazione il giorno in cui, appena arrivato in
una delle sue ville, si imbatte in uno schiavo, che ricordava bambino, ridotto
ormai a un vecchio cadente, e subito pensa alla propria vecchiaia e alla morte
imminente (12, 3). Non lo sfiora neppure la domanda di quali fatiche abbiano
consumato così prematuramente quell’uomo. La schiavitù non viene mai
considerata in quanto istituzione sociale specifica e ingiusta, imposta a
particolari individui, ma come una metafora per illustrare vari cliché filosofici,
per dire, per esempio, che non dovremmo mai essere schiavi del nostro corpo
(14), ma della filosofia, perché così godremmo della vera libertà (8, 7), oppure
per affermare che «chi teme è schiavo» (66, 16). Ogni volta che nelle Lettere
Seneca parla di ricchezza e di povertà, il discorso finisce sempre per spostarsi
sulla questione di come un ricco possa liberarsi dalla paura di cadere in miseria,
mai di come alleviare le condizioni di chi è schiavo o davvero diseredato (17).
Basta imparare a vivere al di sotto dei propri mezzi per rendersi conto che la
ricchezza è meno necessaria di quanto si pensi. La povertà volontaria permette al
ricco di restare ricco, ma con un senso molto più profondo di pace interiore: è
tutto quello che ha da dire sull’argomento.
Le Lettere contengono passi che rivelano quanto sia ancora privilegiata la
condizione in cui egli vive, anche quando afferma di condurre la «vita
semplice». A volte ne è consapevole, e prova un certo imbarazzo di fronte alla
propria incapacità di spogliarsi dei costumi delle élite. Un giorno, mentre viaggia
sul carro di un agricoltore, tirato da muli, con il guidatore scalzo e lacero, teme
di essere visto da qualche altro privilegiato e, pur riconoscendo che la sobrietà è
superiore al lusso stravagante, non può fare a meno di sentirsi a disagio: «A
stento riesco ad accettare che gli altri si accorgano che la vettura è la mia» (87,
4). In un passo precedente raccontava di trascorrere giorni felici con l’amico
Massimo e «con quei pochissimi schiavi che poteva contenere una sola carrozza,
senza altri oggetti all’infuori di quelli che portiamo addosso» (87, 2). Se gli
schiavi che riempivano un intero veicolo erano considerati «pochissimi», è facile
immaginare quanti fosse abituato ad averne attorno. La sua dieta adesso è
spartana: «Il pranzo è ridotto al minimo indispensabile: è pronto in meno di
un’ora». Naturalmente, quell’ora di preparazione del pane e della frutta per il suo
pasto è un’ora di lavoro per i suoi servi, perché il grand’uomo abbia tutto il
tempo per contemplare l’universo e scriverne.
Il suo minuscolo seguito di schiavi includeva sicuramente uno o più segretari,
che prendevano nota dei suoi pensieri, un medico che aveva cura dei suoi
costanti malanni, un ragazzo che fungeva da allenatore per gli esercizi fisici e
per la corsa, e ancora altre mani servili per lavarlo, massaggiarlo, vestirlo e
tenere pulita la casa. E sicuramente c’erano almeno un cuoco e un fornaio per
preparargli i pasti. Altri schiavi si occupavano delle sue ville e dei terreni in sua
assenza, ed erano sempre pronti a servirlo quando arrivava in visita. Seneca
ringrazia la sua tolleranza di filosofo, che gli ha permesso di non infuriarsi la
notte in cui al suo arrivo nella villa di Albano non ha trovato niente di pronto. Il
fornaio non gli ha cotto il pane fresco, ma lui si accontenta di quello meno
croccante del fattore, o del custode, o del contadino: ci penserà la fame a rendere
buono quel «pane cattivo». La sua idea di una vita modesta deriva senz’altro dal
confronto con quella delle élite romane: tutti, scrive, viaggiano ormai
accompagnati da muli carichi di «vasi di cristallo e di fluorite, cesellati da artisti
di gran nome» (123, 7). Gli artigiani, ovviamente, non sono inclusi in quel
«tutti». Anche nei suoi ultimi, difficili anni, Seneca fu un gentiluomo ricco e
servito a puntino.
Ad accompagnarlo non erano soltanto gli schiavi: con lui c’era anche la
moglie Paolina con le sue ancelle, fra cui sicuramente un paio di servette per
lavarle i capelli e acconciarli, e c’era anche una vecchia «pazza» di nome
Arpaste, ereditata da un’anziana parente, che era diventata particolarmente
divertente (i pazzi erano considerati spassosi) e utile come exemplum filosofico
da quando all’improvviso era diventata cieca, e siccome non lo sapeva, si
lamentava sempre che la casa era buia (50, 2).
In tutto l’epistolario c’è un solo passo in cui Seneca parla di Paolina, e si ha
l’impressione che egli abbia con lei un legame intimo e affettuoso, anche se
profondamente narcisistico. Egli racconta a Lucilio di essersi rifugiato a
Mentana per sottrarsi a una febbre ricorrente. Aveva insistito per partire,
seguendo l’esempio del fratello maggiore Gallione (Novato), che, preso da
febbre mentre era in Acaia, si era immediatamente imbarcato, perché «il male
era dovuto non al corpo, ma al luogo» (104, 1). Paolina aveva cercato di
trattenere il marito, preoccupata per la sua salute, ma Seneca ne aveva ignorato
le suppliche, pur apprezzandone l’affettuosa sollecitudine:

Sapendo che il suo respiro vibra all’unisono col mio, comincio, per suo riguardo, ad avere
riguardo di me stesso, e sebbene la vecchiaia mi abbia reso più forte per certe prove, sto
perdendo il vantaggio dell’età. Infatti mi viene in mente che in questo vecchio c’è pur sempre
un essere che va crescendo, un virgulto cui si devono certi riguardi. Orbene, poiché non posso
ottenere che essa mi ami più intensamente, essa ottiene però da me che io sia più scrupoloso
nel volermi bene. Bisogna pur dimostrare comprensione per i sentimenti onesti, e, talora,
anche se ci assillano vari motivi di segno negativo, è necessario, per riguardo dei propri cari,
richiamare, sia pure a prezzo di sofferenze, il soffio vitale e trattenerlo, per così dire, in bocca,
dal momento che l’uomo dabbene deve vivere non quanto a lungo gli piace, ma finché ne
valga la pena. Chi non apprezza la propria moglie o un amico, tanto da indugiare un poco più
a lungo nella vita, chi persisterà nell’idea di voler morire, è un uomo tutt’altro che forte.
(104, 2-3)

In una lettera precedente, Seneca confidava all’amico Lucilio di essere stato


più volte tentato di uccidersi, quando la malattia non gli dava tregua, ma di
essere stato trattenuto dalle implorazioni del padre, temendo che non «potesse
reggere» alla sua scomparsa (78, 2). In gioventù aveva continuato a vivere per
amore del padre; in vecchiaia continua a vivere per amore della moglie. La vita
gli viene imposta dalla famiglia; non è quel che il filosofo attratto dalla morte
avrebbe scelto per sé.
Comunque, pur commosso dalle amorevoli preoccupazioni della moglie,
Seneca scrive all’amico di averne ignorato le suppliche perché restasse in città, o
comunque di avere resistito alle sue implorazioni. Anche le ansie di Paolina
diventano così un modo per sottolineare le premure di Seneca e insieme per
spiegare che in lui non vi è alcun riprovevole desiderio di vivere oltre il dovuto.
Il racconto prosegue e si scopre che la moglie aveva torto a pensare che la salute
del marito sarebbe peggiorata con la partenza; non appena si era allontanato dal
terribile odore delle cucine fumanti ed era arrivato fra le sue amate vigne, Seneca
si era sentito molto meglio: «Mi sono ripreso subito» (104, 6). La relazione fra i
due coniugi è del tutto asimmetrica: Seneca riesce ad avere cura di Paolina
avendo cura di se stesso, Paolina non riesce ad avere cura del marito. Immerso
nell’atmosfera della sua bella villa di Mentana, Seneca ricorda a Lucilio che non
dovremmo piangere per le nostre perdite, neppure per la morte delle persone più
care, così come non piangiamo quando le piante perdono le foglie: i nostri morti
non possono rinascere, ma possono «essere rimpiazzati da altri» (104, 11). Per
quanto un uomo possa amare la moglie, o almeno amare le attenzioni che lei gli
dedica, la relazione davvero importante è sempre quella che egli ha con se
stesso: «fuggire non serve, perché ciò che fuggi è con te» (104, 20).
Paolina sarà stata davvero così devota come afferma il marito in questa
lettera? E se avesse avuto altri motivi per tentare di convincere quell’uomo ricco,
sussiegoso e molto più vecchio di lei a restare in città? Se la sua paura non fosse
stata tanto che Seneca morisse, ma che sopravvivesse alla malattia?

Curare le piaghe dell’anima


Tutti i dettagli appena citati sugli anni conclusivi della vita di Seneca, e molti
altri ancora, si trovano nella sua ultima e più grande opera: le Lettere morali a
Lucilio, chiamate anche semplicemente Lettere a Lucilio. Finora abbiamo visto
con quanta vivacità l’epistolario evochi la vita quotidiana dello scrittore; adesso
è arrivato il momento di cercare di capire con quale stato d’animo egli abbia
vissuto quel tempo di riesame della propria vita, complessa e ricca di
accadimenti.
È importante ricordare anzitutto che queste sono lettere vere e quindi
presuppongono una certa distanza fra il mittente e il destinatario. Seneca, del
resto, sottolinea spesso che sta comunicando con una persona lontana e che il
suo scopo non è scrivere un diario per i posteri, ma raccontare all’amico come
vive e che cosa pensa per edificarlo. In teoria le lettere sono una forma di
comunicazione intima, privata, ma queste sono state chiaramente concepite per
essere pubblicate. La forma frammentaria dell’epistolario, che permette di saltare
da un argomento all’altro, e i luoghi sempre diversi da cui provengono i
messaggi rispondono bene alle necessità dell’ultimo, errabondo tratto del
percorso di Seneca.
È importante anche ricordare che le Lettere sono indirizzate a Lucilio, così
come lo sono le Questioni naturali. Il lettore cui si rivolge Seneca è dunque un
amico, non l’imperatore o qualche altro uomo potente. Già questo basterebbe per
capire quanto fosse cambiata la posizione di Seneca dal tempo in cui scriveva La
clemenza, quando il suo discorso era rivolto al giovane principe.
Le Lettere a Lucilio sono lo specchio di un rapporto paradossale fra lo
scrivente e il ricevente. Da un lato, Seneca si accinge a dare consigli filosofici
all’amico, come se si ritenesse un poco più avanti sulla via della perfezione;
dall’altro, però, non si stanca mai di ribadire che la vera consapevolezza è una
conquista esclusivamente individuale. Ergo: soltanto Lucilio può insegnare a
Lucilio. «Renditi padrone di te stesso», scrive nella prima lettera, «persuaditi,
succede proprio come ti scrivo»: non è compito dello scrittore insegnare al
lettore. Solo il lettore può farlo (1, 1). Nonostante i moniti, però, Seneca tende
costantemente a sfumare la distinzione fra il mittente e il destinatario, come se si
aspettasse un coinvolgimento tale da annullare qualsiasi differenza. Se trovi un
vero amico, sembra dirci, potrai parlare con lui come se parlassi con te stesso (3,
3). Si direbbe un invito a considerare l’epistolario una finestra aperta sui suoi
pensieri, mentre in realtà Seneca è tutto concentrato a costruire con estrema cura
la propria immagine. Le lettere, afferma, sono «semplici e spontanee» (75, 1), e
poco dopo aggiunge: «Sento veramente tutto ciò che dico, e non solo lo sento,
ma lo amo» (75, 3). La sua rivendicazione di autenticità e naturalezza assolute in
questa prosa così levigata lascia un poco scettici, ma apprezziamo comunque il
garbo della profferta. L’attenzione prestata alla vita interiore e all’intelletto come
la sfera in cui ognuno di noi si può rifugiare, sfuggendo a qualunque avversità, è
uno degli aspetti più originali e influenti di quest’opera senecana.
Seneca ripete continuamente di essere un uomo imperfetto. E perciò, nel suo
«romitaggio», si dedica a curare le ferite morali:

Che cosa faccio nel mio ritiro? Curo la mia piaga ... La mia piaga è proprio nell’anima ... Non
c’è motivo perché tu voglia raggiungermi per progredire moralmente. Sbagli se speri di
ricavarne qualche aiuto: qui non abita il medico ma un ammalato ... Preferisco che tu
compatisca il mio ritiro piuttosto che invidiarlo.
(68, 7-9)

Egli è dunque un paziente, non un terapeuta, è un allievo e insieme un


maestro. Se ha qualche verità filosofica da trasmettere – e non è detto che ce
l’abbia –, confessa di averla praticata a intermittenza e soltanto tardi nella vita.
L’apprendimento dell’etica, ricorda, è molto più lento delle altre forme di
conoscenza: «Come la lana assorbe d’un colpo certe tinte, mentre di altre si
imbeve solo dopo essere stata più volte macerata e fatta cuocere», così, per sua
indole, la mente umana impiega molti anni per assimilare le verità stoiche (71,
31). In una lettera precedente, all’amico Lucilio che gli chiedeva di mandargli i
suoi libri, aveva scritto: «Leggili come se io fossi ancora in cerca della verità,
non la conoscessi e la perseguissi con ostinazione» (44, 4). Seneca si definisce
un cercatore, non un trovatore, ed è così che giustifica il proprio eclettismo. Cita
di continuo Epicuro e altri filosofi di tradizioni diverse da quella stoica, come
Socrate e Diogene il Cinico, perché, afferma: «Io non mi sono venduto ad
alcuno, non porto il nome di alcun patrono» (45, 4).
Il suo malessere, tuttavia, non è soltanto metaforico. I continui richiami alla
vecchiaia e alla malattia, sua e di Lucilio, generano un senso di urgenza e di
pathos: il tempo sta per scadere, non resta che un piccolo segmento di vita per
imparare a vivere. Ritrovarsi vecchio senza avere imparato a essere saggio è
imbarazzante: «Che cosa c’è di più sconveniente di un vecchio che comincia a
vivere?» (13, 17). Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per Lucilio come per
Seneca, la fine potrebbe arrivare a causa dell’età o per mano di Nerone. E
tuttavia Seneca sa, e lo ripete all’amico, che la saggezza non giunge
all’improvviso, non è un’intuizione o un’illuminazione: la saggezza discende
dalla prassi, è un abito che si acquisisce e si sviluppa con l’esercizio quotidiano.
E che così stiano le cose, lo dimostra la struttura stessa dell’opera: non è un
trattato, un testo singolo, compatto, filosofico, che si possa pensare di leggere in
un’unica immersione, da cima a fondo. Nell’epistolario ogni giorno segna un
nuovo inizio nel tentativo di progredire moralmente. Il testo è costituito da tanti
frammenti, a volte piccolissimi, e ha la stessa episodicità con cui esperiamo la
vita. La filosofia di Seneca non è fatta di astrazioni: è una costruzione di abiti
mentali, che avviene giorno dopo giorno.
Le Lettere a Lucilio, come quasi tutte le opere di Seneca, ma in modo ancora
più marcato, resistono a qualsiasi tentativo di estrapolarne interpretazioni
biografiche; nel contempo, però, invitano il lettore a contemplare la vita
dell’autore oltre che la propria. Seneca non concepisce l’esistenza umana come
una linea retta, che parte dalla nascita, prosegue con l’infanzia, la giovinezza e la
maturità, ed è costellata di conflitti, viaggi e successi. Nelle Questioni naturali
egli osservava la vita umana da una dimensione cosmica, e la sua durata,
misurata con il metro dell’eternità, appariva come un istante nel tempo. Nelle
Lettere, al contrario, il punto di osservazione è molto terreno: la vita non è vista
nella sua estensione dalla nascita alla morte, ma giorno per giorno. L’importante
non è ciò che Seneca ha fatto negli anni in cui era consigliere di Nerone, ma ciò
che ha fatto oggi: «Analizzerò me stesso fin da questo momento e, seguendo un
metodo particolarmente utile, passerò in rassegna la mia giornata» (83, 2). Poi,
però, questa «quotidianità» viene spesso generalizzata: la sera, ripercorrendo con
la mente il giorno trascorso, Seneca conclude al suo solito che sta morendo,
come tutti. Quotidie morimur:

Moriamo ogni giorno. Infatti giorno dopo giorno ci è tolta una parte di vita e persino quando
cresciamo, la vita decresce. Abbiamo perso l’infanzia, poi la fanciullezza, poi la giovinezza.
Fino a ieri tutto il tempo che è passato è perduto; questo stesso giorno, che stiamo vivendo, lo
condividiamo con la morte. Non l’ultima goccia esaurisce la clessidra, ma tutto ciò che prima
è colato.
(24, 20)

La fugacità della vita, e come affrontarla, è il tema principale dell’intero


epistolario. Le domande più pressanti che Seneca rivolge a se stesso e all’amico
riguardano il tempo, che ci scivola fra le dita senza che neppure ce ne
accorgiamo:

Mi indicherai un uomo che attribuisca un valore effettivo al tempo, che sappia soppesare ogni
giornata, che si renda conto di morire ogni giorno? Sbagliamo, infatti, in questo: che
ravvisiamo la morte davanti a noi; ebbene: una gran parte della morte appartiene già al
passato. Tutto ciò che della nostra esistenza è dietro di noi, la morte lo tiene saldamente.
(1, 2)

Indizi sparsi qua e là rivelano però che di tanto in tanto anche Seneca volge lo
sguardo all’indietro, alla sua vita passata. Accenna persino alla lontana
fanciullezza:

Mi sono appena seduto, da ragazzino, alla scuola del filosofo Sozione; ho appena cominciato
a trattare cause; da ieri appena non ho più voluto trattarne, da ieri appena non ho più potuto.
(49, 2)

Molto più spesso, però, Seneca invita Lucilio a ripercorrere mentalmente non
l’intero arco della vita, bensì le ore appena trascorse. Scrive: considera «i singoli
giorni come singole vite» (101, 10). Una vita vissuta in modo così episodico
scoraggia le lunghe reminiscenze autobiografiche. Nelle Lettere, Seneca non
vive in una dimensione temporale che copra tutta la sua esistenza: vive dentro
quel certo giorno e in quel certo momento, ma anche sotto l’occhio dell’eternità.
Quando la mente raggiunge uno stato di equilibrio, «può contemplare dall’alto la
catena dei giorni e degli eventi, e pensare, ridendo di cuore, al succedersi dei
tempi» (101, 9). L’animo umano non è confinato entro i limiti di una singola
vita: «Tutti gli anni mi appartengono ... non c’è alcun tempo che non sia
accessibile al pensiero» (102, 22). A volte, però, la visione si estende anche al
passato: di fronte ai lutti, il miglior conforto è mantenere intatti i ricordi, perché
«ci viene tolto ciò che abbiamo, mai quello che abbiamo posseduto» (98, 11). La
memoria permette di conservare per sempre almeno le vestigia di ciò che un
tempo è stato nostro, ma il consiglio è di rammentare soltanto le cose buone.
Considera, scrive a Lucilio, «nell’intimo della tua coscienza gli aspetti positivi
del tuo ruolo», così non avrai bisogno di un pubblico: «Sii spettatore di te stesso,
sii estimatore della tua personalità» (78, 18-20). Anche in quel suo ritiro, sia
pure relativo, perché ha con sé la moglie, gli amici e un buon numero di
servitori, Seneca riesce a trovare un uditorio nella sua mente e nella sua
memoria.
Con grande frustrazione del biografo, Seneca racconta molto poco riguardo a
ciò che del suo passato gli dà più gioia o più pena. Quando i ricordi sono
dolorosi, non scende mai nei dettagli:

Già provavo disgusto di me stesso, già disprezzavo quello che restava di una vita intaccata,
pronto, ormai, a passare in quella sconfinata dimensione temporale e al possesso dell’eternità,
quando fui svegliato all’improvviso dall’arrivo della tua lettera.
(102, 2)

L’epistolario, per sua natura, scandisce il tempo, lo spezzetta ogni volta che un
messaggio si chiude e un altro si apre, e offre a chi scrive l’occasione per
cambiare continuamente argomento.
Nelle Lettere a Lucilio Seneca accenna più volte alle vicende della propria
vita, mai però in modo esplicito e specifico. Spesso attribuisce ad altri – al
destinatario o a persone generiche – episodi che sembrano riguardarlo molto da
vicino. Nella lettera 19, per esempio, si dispiace che Lucilio, di umili origini
provinciali, abbia avuto la sfortuna di conquistare tanta prosperità: «Oh, se ti
fosse toccato di invecchiare entro i modesti limiti dei tuoi natali e la fortuna non
ti avesse lanciato così in alto!» (19, 5). Il successo nella vita pubblica comporta
una condizione di schiavitù permanente, non tanto a un padrone, quanto ai propri
desideri. Una volta intrapreso il cammino dell’ambizione, le nostre brame non
hanno più limite: «l’una nasce dalla fine dell’altra». Il potere e la ricchezza sono
strumenti di servaggio: «Sottrai il collo al giogo che lo ha logorato: uno stacco
netto è più appagante di una continua oppressione» (19, 6).
A sentirlo, si direbbe che sia facile rinunciare alla ricchezza e al potere.
Quando immagina che Lucilio gli chieda come fare, la sua risposta è Utcumque!
In un modo o nell’altro ne uscirai. Ma quanto è sincero nel presentare come
un’impresa di poco conto qualcosa che sa per esperienza essere estremamente
difficile? Forse non è un caso che nella lettera successiva riprenda il tema
cruciale dell’incoerenza. La cosa che più teme, scrive, non è tanto di agire contro
le sue convinzioni più profonde o dire cose di cui in realtà non è convinto,
quanto la possibilità che le sue convinzioni, e di conseguenza anche le sue parole
e azioni, siano in uno stato di flusso perenne. «Il maggior indizio di una mente
non certo ben disposta» proclama «è rappresentato dall’incostanza e
dall’oscillazione continua tra virtù simulate e amore per i vizi» (120, 20).
Soltanto chi ha l’animo buono è sempre uguale a se stesso e perciò conoscibile.
Tutto l’epistolario è attraversato dalla corrente sotterranea della paura di non
riuscire a mantenere un’identità stabile. La forma episodica del testo e la sua
frammentazione potrebbero suggerire l’assenza di un Io coerente, costante,
oppure suggerire che quell’Io sia in grado di restare tale soltanto per qualche
paragrafo. Il tarlo che lo rode è: sono cambiato da quando mi sono messo al
servizio di Nerone oppure no? E nessuna delle due possibili risposte è
consolante.
Nelle Lettere Seneca parla spesso di insegnamento e apprendimento. Si
direbbe che si domandi ancora se nel suo ruolo di antico precettore di Nerone
egli abbia fatto qualcosa di buono, e, se la risposta è negativa, si chieda di chi sia
stata la colpa, sua o dell’allievo. Il maestro – e su questo punto insiste a lungo –
deve guidare il discepolo non tanto con le parole quanto con i comportamenti:
deve essere un modello di vita. Certo, i libri sono utili a certi scopi, ma sono
molto meno importanti di un insegnante in carne e ossa: «Ti saranno tuttavia più
utili di ogni discorso scritto la viva voce e il trovarci a vivere insieme» scrive
all’amico Lucilio (6, 5). E se l’educatore non sa tener fede ai suoi precetti?
Questo interrogativo ricorre varie volte, e con un sottofondo di ansia. La
corrispondenza fra vita e dottrina è fondamentale: «Questa è la suprema
funzione della saggezza e il suo carattere distintivo: mettere in armonia le parole
con le opere, far sì che in ogni circostanza l’uomo sia coerente e identico a se
stesso» (20, 2). Un filosofo non comunica la saggezza semplicemente con le
parole, ma soprattutto attraverso l’esempio, come faceva Epicuro: «Egli non
professa la verità, la testimonia» (20, 9). Fra il Seneca che si dichiara imperfetto,
pieno di piaghe morali – un malato più che un guaritore –, e il Seneca che insiste
sulla necessità di vivere all’altezza dei propri precetti esiste sempre una tensione
irrisolta.
In uno stato d’animo più positivo, Seneca dichiara che non bisogna mai
smettere di imparare. Racconta che persino ora, in età così avanzata, frequenta le
lezioni di filosofia, rivolte all’educazione dei giovani, che si preparano a
intraprendere la loro carriera. È un modo molto più proficuo per un vecchio di
impiegare il tempo che non andando a teatro, agli incontri di lotta o dei
gladiatori (76, 3-4).
Nelle Lettere a Lucilio, Seneca si chiede ripetutamente se valga la pena
insegnare la filosofia. In una lettera immagina di dialogare con un interlocutore
convinto che l’educazione filosofica sia soltanto uno spreco di tempo. E lo è,
spiega costui, perché nessuno fa quello che predica: «Chi suggerisce con il
massimo zelo tutte queste cose, neppure egli stesso riesce ad attuarle». I precetti
non hanno mai cambiato nessuno, perché o sono rivolti a chi sa già come
comportarsi, oppure a qualcuno che non lo sa, e non serviranno a modificarne la
condotta (94, 11). La replica di Seneca – «Non perché non guarisce tutto è lecito
dire che (la filosofia) non risana nulla» (94, 24) – costituisce per certi versi una
nuova definizione degli obiettivi che egli si propone di raggiungere con i suoi
scritti e i suoi insegnamenti. La differenza fondamentale sta tutta nel fatto che
dare consigli è cosa ben diversa dal dare informazioni, un’operazione, questa,
che consiste semplicemente nel trasferire dei dati da una persona all’altra. La
filosofia morale ha invece il compito di risvegliare l’attenzione dei discepoli
verso princìpi che essi potrebbero anche conoscere a livello subliminale:
«Talvolta infatti sappiamo le cose, ma non vi prestiamo attenzione» (94, 25). Lo
stile aforistico, così incisivo di Seneca, mira proprio a far sì che i suoi precetti
vadano a segno, non passino inosservati e restino incisi nella memoria: «La virtù
cresce imponente per effetto di un tocco, di una spinta» (24, 29).
Seneca, però, sa che a volte l’insegnamento non ottiene gli effetti desiderati.
L’argomento riaffiora di tanto in tanto, inaspettatamente. Mentana (fig. 19), dove
Seneca aveva una delle sue ville, era uno dei luoghi in cui egli amava coltivare la
vite, un passatempo che non solo trovava molto corroborante, ma gli offriva
anche l’occasione per meditare sui metodi di coltivazione. Le viti erano allievi
ideali, rispondevano ai suoi tentativi di innesto e di modellarne la crescita, ma
anche nel mondo agricolo c’erano differenze fra un discepolo e l’altro: «Non
tutte le viti indistintamente tollerano innesti. Se una vite è vecchia, corrosa, se è
malferma e gracile, o non riceverà il pollone o non lo alimenterà né lo
assimilerà, né si trasformerà secondo la sua qualità e natura specifica» (111, 2).
E più di questo, sul suo fallimento come precettore di Nerone, Seneca non dirà
mai.

19. Mentana oggi.

Un altro tema che percorre tutte le Lettere riguarda la ricchezza, il lusso e il


guadagno. Seneca ha un atteggiamento ambiguo nei confronti del suo passato da
nababbo, per di più dotato anche di una enorme influenza socio-politica. Il
lessico cui ricorre continuamente è quello del possesso, benché egli si affanni a
dire che la vera via per essere ricco, potente e realizzare profitti è quella della
contemplazione: «Tutto, o Lucilio, è al di fuori dell’uomo: solo il tempo è
nostro» (1, 3). Dei doni della sorte è bene diffidare: «Credete che tutto questo sia
dovuto alla generosità della fortuna? Sono tranelli e basta» (8, 3). Quel falso
benefattore, che Seneca chiama fortuna, avrebbe potuto benissimo chiamarsi
Nerone, ma, attribuendo il proprio arricchimento al caso, egli fa sì che il
processo suoni più passivo, come se tutti quei beni gli fossero piovuti addosso
senza che egli muovesse un dito per averli.
Alcuni dei passi più memorabili delle Lettere riguardano la vanità del
possesso:

Si accumuli in te solo tutto ciò che molti ricconi hanno posseduto; la fortuna ti faccia
progredire oltre la misura dell’opulenza che può toccare a un privato cittadino, ti copra d’oro,
ti vesta di porpora, ti conduca a tal punto di raffinatezza e di risorse materiali che tu possa
seppellire la terra sotto lastre di marmo, e ti sia lecito non solo possedere, ma addirittura
calpestare le ricchezze; si aggiungano statue e pitture e tutto ciò che l’arte nelle sue diverse
forme di espressione ha escogitato per una vita fastosa: ebbene, da tutto questo imparerai a
desiderare ardentemente beni ancora più grandi.
(16, 8)

Le montagne di beni non portano con sé nessuna soddisfazione, perché il


desiderio di cose inutili non conosce limiti. Il possesso non è soltanto futile, ma è
anche spiritualmente dannoso. Accumuliamo oggetti che in realtà ci privano del
potere di conoscere noi stessi e di vivere in armonia con la natura, e ci
convinciamo che la loro perdita sarebbe una grande sofferenza. La verità è che ci
raccontiamo bugie, perché «chi possiede se stesso non ha perduto nulla» (42,
10). La fame di cibo si sazia riempiendo lo stomaco, ma la fame di oggetti inutili
(vesti lussuose, ville, ori) non si soddisfa mai, perché non è un bisogno innato: «I
desideri naturali hanno limiti precisi, quelli che nascono da un falso metro di
giudizio non conoscono limiti dove arrestarsi» (16, 9).
«Il denaro non ha mai reso ricco alcun uomo»: era questo il precetto che gli
aveva impartito il suo primo maestro, Attalo, e che ora Seneca riprende più volte
(119, 9). La vera ricchezza sta nell’accontentarsi dell’essenziale: «Non è mai
poco ciò che è sufficiente» (19, 7). Il mondo è grande, ma i nostri veri bisogni
sono piccoli e facili da soddisfare: non occorrono prodotti coltivati nella lontana
Sicilia o in Africa per riempire lo stomaco. Dovremmo misurare non soltanto il
mondo, ma anche noi stessi per renderci conto che il nostro corpo «non può
contenere molto e neppure per lungo tempo» (114, 27). Lo stoicismo è la sua
risposta filosofica alle élite divenute sempre più ingorde e materialistiche con
l’enorme espansione dell’impero. «Di codesti cibi che vi procurate mediante il
lavoro di tante braccia, quanti ne delibate con la vostra bocca stanca di delizie?
... Quanti di questi crostacei, trasportati fin qui da tanto lontano, scivoleranno giù
per codesto esofago così insaziabile?» si domanda (89, 22). «La prosperità non
dà tregua ed è esagitata per sua natura», afferma nella lettera 36, e l’unico modo
per sottrarsi a questa forte tentazione è ritirarsi in una vita di pura
contemplazione. Ricchezze che possono sembrare un dono della sorte, piovute
su di noi senza sforzo o apparentemente gratuite, in realtà hanno sempre un
costo, ed è un costo spaventoso, ammonisce Seneca: «Apparterremmo a noi
stessi, se queste cose non fossero nostre» (42, 8). Ci sembrano a buon mercato, e
invece le paghiamo con una moneta ben più preziosa del denaro e a un prezzo
ben più salato: le paghiamo «con ansie e pericoli, e gettando via dignità, libertà e
tempo» (42, 7).
L’insistenza sulla necessità di praticare la «semplicità volontaria» ha echi
stranamente moderni, quasi buddisti; quello di Seneca è un minimalismo che si
contrappone alle malsane pressioni psicologiche di una cultura materialistica e
consumistica. 13 Seneca, naturalmente, non lo predica nel nome dell’ecologismo,
non si preoccupa dei danni arrecati alle risorse naturali da una produzione, un
consumo e uno spreco eccessivi, ma mette bene in evidenza che l’avidità di
ricchezze materiali allontana, e non di poco, gli esseri umani da una vita vissuta
in sintonia con la natura. Anch’egli, come molti nostri contemporanei,
sostenitori di un modello di vita più sobrio, ribadisce che esiste un’affinità, e non
una contrapposizione, fra i bisogni reali dell’umanità e l’integrità del mondo
naturale. Consumare meno fa bene alla «natura», sia essa quella esteriore (il
mondo saccheggiato dall’ingordigia umana) oppure quella interiore (i nostri veri
bisogni, che false forme di acculturamento ci inducono a disconoscere).
Le Lettere offrono inoltre alcuni indizi sull’atteggiamento di Seneca nei
confronti del potere, dal quale tentava disperatamente di svincolarsi. Uno dei
grandi temi dell’epistolario è l’autonomia. La virtù, insiste Seneca, è l’unico
mezzo per conquistare la libertà e l’indipendenza dai controlli esterni. È la sola
via d’uscita dalla falsità e dalla trappola dei desideri e dell’ambizione. I desideri
sono intrinsecamente destinati a restare sempre insoddisfatti; in una società del
genere un uomo (nel caso specifico, Seneca) arriva al vertice del potere,
dell’influenza e della ricchezza soltanto per volerne ancora di più: più potere, più
sicurezza, più denaro. Ma «la forza e la grandezza della virtù non possono
raggiungere altezze ancora maggiori, dal momento che non può aumentare ciò
che è al massimo grado», commenta (66, 8).
Una lettera importante è la numero 73, perché contiene un’ampia discussione
sul rapporto del filosofo con i potenti, un argomento attraverso il quale Seneca
ripercorre implicitamente la propria carriera pubblica. Il saggio, si legge nei
paragrafi 4 e 5, sarà sempre grato a tutti coloro che lo hanno aiutato lungo il
cammino, consentendogli di mettere in pratica le sue teorie, perché la filosofia ci
insegna anzitutto la riconoscenza. Con queste parole Seneca rivolgeva forse
anche un appello a Nerone affinché non considerasse l’ex consigliere un ingrato
o peggio ancora una minaccia, ma piuttosto il beneficiario, riconoscente, della
sua generosità? Nella lettera successiva egli riprende il discorso con cui cerca di
spiegare al principe – e giustificare – le nobili ragioni per cui ha rinunciato a
molti dei suoi doni. Ammette che le ricchezze, pur non essendo essenziali né
parte della nostra identità, sono preferibili alla povertà, ma devono essere usate
con moderazione, perché sono passeggere e «a pochi è stato concesso di
rinunciarvi senza traumi» (74, 18). La consapevolezza che le elargizioni della
fortuna possono trasformarsi in una trappola non lo abbandona mai. Ma neppure
le persone sono essenziali per la vera felicità. Si può perdere tutto, la famiglia, il
coniuge, i figli, gli amici, le persone che abbiamo conosciuto e amato, ed essere
ancora felici, se si è virtuosi: «La virtù occupa l’animo per intero, elimina ogni
rimpianto, basta a se stessa» (74, 25).
Il saggio è imperturbabile e non si angustia pensando al domani: «Che cosa
c’è di più insensato che il tormentarsi per i mali futuri e non riservare le proprie
energie per le sofferenze reali, ma invitare le sventure e tirarsele addosso?» (74,
33). Parole sensate, si direbbe, ma Seneca tornerebbe con tanta insistenza su
questo argomento se non fosse costantemente angustiato dall’ansia per il proprio
futuro? Il suo atteggiamento verso la rinuncia alla vita pubblica – la propria e
quella altrui – resta complesso. Sostiene che vivere appartati è il modo migliore
e più sicuro per restare integri, ma afferma anche che, idealmente, il saggio
dovrebbe sempre interagire con gli altri ovunque egli si trovi. Anche se la vita
pubblica offre più tentazioni di quella vissuta nella semplicità e nella solitudine
quasi totale – «Chi ha mai imbandito con stoviglie d’oro un pasto solitario?» (94,
70) –, l’uomo virtuoso dovrebbe comunque prendervi parte ed essere un esempio
di moderazione anche in mezzo agli eccessi. Nelle festività, per esempio, la
scelta più difficile, ma anche la più assennata, non è evitare la folla dei festanti,
ma unirvisi con sobrietà, adottando un comportamento misurato: «È segno di
maggiore temperanza non isolarsi completamente ... fare le stesse cose sia pure
non allo stesso modo: nulla vieta di celebrare senza eccessi un giorno di festa»
(18, 4). L’apparente contraddizione si risolve con l’affermazione che la vita
ritirata e la vita socialmente impegnata possono in realtà essere la stessa cosa. Il
filosofo, anche nella sua solitudine, si rivolge agli altri: «Mi sono raccolto in me
stesso e ho chiuso la porta di casa per essere utile a un numero maggiore di
persone» (8, 1). Il saggio, egli dice altrove,

non è estraneo alla vita pubblica anche se si è rifugiato nel suo privato; anzi, può darsi che,
lasciato uno spazio angusto, si trasferisca in una sfera più prestigiosa e di più ampio orizzonte
e, stabilitosi nel cielo, comprenda quanto basso sia il luogo in cui si poneva quando ascendeva
alla sedia curule o alla tribuna.
(68, 2)

Qui, come nelle Questioni naturali, Seneca argomenta che la vera


partecipazione attiva alla vita pubblica, raccomandata dalla Stoà, può avvenire
anche in quello che agli estranei può sembrare un ritiro dal mondo.
A Roma, intanto, Nerone erigeva archi trionfali per la sua vittoria sui Parti
nelle regioni orientali dell’impero, incurante del fatto che la guerra fosse ancora
in corso. Cercava anche di preservare la fiducia dei romani nei rifornimenti
statali di grano, gettando nel Tevere i cereali ormai marciti. Erigeva nuove opere
pubbliche, fra cui un grande ginnasio. Ora che non c’era più Seneca a coltivargli
l’immagine e a dargli consigli, la sua politica nazionale ed estera assumeva un
carattere sempre più teatrale. Nerone cantava nei teatri di tutto l’impero e offriva
banchetti al popolo di Roma. In uno dei suoi spettacoli più scandalosi celebrò le
proprie nozze con un travestito. Nel luglio del 64 d.C. si verificò uno dei
peggiori disastri del suo regno: un grande incendio devastò la capitale per sei
giorni, causò molte vittime e distrusse interi quartieri intorno al Circo, mandando
in cenere case, templi e portici. Sulle cause della conflagrazione correvano molte
voci: si sussurrava che fosse stato l’imperatore stesso ad appiccare il fuoco o che
ne avesse sfruttato l’effetto drammatico, entrando in scena mentre infuriavano le
fiamme per cantare la distruzione di Troia.
Seneca non era probabilmente a Roma in quel momento, ma in una delle sue
Lettere a Lucilio, forse scritta subito dopo il grande incendio, accenna al comune
«amico Liberale», la cui città, Lione, era stata devastata dal fuoco, 14 e «tanti
monumenti bellissimi, ognuno dei quali potrebbe dar lustro a una città, furono
rasi al suolo in una sola notte» (1, 12). Gli archeologi hanno scavato invano alla
ricerca di qualche prova di un grande rogo a Lione nell’estate del 64, arrivando
all’ovvia conclusione che Seneca si era inventato la distruzione della città gallica
per parlare di quella di Roma e suggerire che la capitale da cui si era allontanato
era molto meno solida e splendida di quanto non apparisse. Il passaggio dalla
distruzione con il fuoco alla fugacità delle grandi costruzioni umane è
immediato: «Di tutte queste città, di cui oggi senti esaltare la magnificenza e la
gloria, persino le vestigia saranno cancellate dal tempo» (91, 10). D’altra parte,
chissà che una grande distruzione non porti a una ricostruzione più solida, come
è accaduto a Roma, ed egli si augura che «possano essere opere durature e
fondate con migliori auspici per un più lungo futuro» (91, 13). Seneca sa, però,
che la vera ricostruzione è un’opera dell’intelletto, così come sa che la creazione
filosofica e letteraria delle Lettere a Lucilio è più potente e duratura della
capitale dell’impero, divorata dalle fiamme. E conclude fieramente: «Non siamo
in potere di alcuno dal momento che la morte è in nostro potere» (91, 21).
Ben diversa fu la reazione di Nerone all’incendio di Roma: si lanciò in un
progetto ancora più grandioso, la costruzione di un palazzo chiamato
significativamente Domus Aurea, un immenso complesso, con pareti intarsiate
d’oro e pietre preziose, affrescate con immagini di laghi, fiumi e campi,
destinato però a restare incompiuto (figg. 20 e 21). Di fronte a questa dimora
così sontuosa l’imperatore commentò, racconta Svetonio, che finalmente
cominciava ad avere una casa degna di un essere umano (Svetonio, Vita di
Nerone 31). Il giudizio dei patrizi romani fu, com’era prevedibile, meno
entusiastico: con la Domus Aurea l’autocompiacimento di Nerone aveva toccato
l’apice. L’imperatore cercò anche di placare gli dei, che forse non erano del tutto
estranei all’incendio, con riti propiziatori. Si racconta che trovasse i suoi capri
espiatori fra i cristiani, i quali, accusati di avere appiccato il fuoco e di essere
misantropi, furono gettati in pasto alle belve o crocifissi. 15
Per finanziare la costruzione della Domus Aurea e i costosi spettacoli teatrali e
circensi di Nerone, fu «saccheggiata da cima a fondo l’Italia e vennero spremute
le province, gli alleati del popolo e le città che si dicevano libere». Non furono
risparmiate neppure le divinità: «In Asia e in Acaia si rapinavano non solo i
doni, ma anche le statue». A questo provvidero i due uomini designati a
compiere il sacco, Carrinate e Acrato: quest’ultimo aveva studiato filosofia greca
e utilizzò, si dice, le sue conoscenze filosofiche per giustificare la spoliazione
sacrilega dei templi (Tacito, Annali 15, 45). In questo contesto si addensarono i
sospetti nei confronti di Seneca, che, secondo Cassio Dione, avrebbe rivolto un
nuovo appello all’imperatore affinché gli fosse concesso di ritirarsi per sempre in
campagna e avrebbe nuovamente tentato di restituirgli i benefici ricevuti, per
contribuire alla ricostruzione di Roma. Quando anche questo secondo tentativo
andò a vuoto, Seneca si finse malato, dichiarando di soffrire di «disturbi
nervosi», e si rinchiuse nelle sue stanze (ibid.). Tacito riferisce anche, senza
tuttavia dare interamente credito a questa voce, che Nerone aveva ordinato a
Cleonico, un liberto di Seneca, di avvelenare il padrone, ma che il tentativo era
fallito, forse per la lealtà dell’uomo oppure perché il sospettoso Seneca non
aveva sorbito la pozione. Da quel momento, comunque, egli ridusse ancora di
più la sua dieta già parca: persino il pane poteva essere pericoloso.
20. La Domus Aurea fu costruita da Nerone dopo il grande incendio di Roma. Era un palazzo molto
lussuoso, con trecento stanze, concepito per accogliere folle di ospiti. Le pareti erano decorate con raffinati
affreschi, avori e oro.

21. L’esterno della Domus Aurea.

Per uno che scriveva così spesso dell’importanza di essere pronti ad affrontare
la morte con coraggio, Seneca fu bravissimo a scansarla. Del resto non negava
che anche per i più avanzati sul cammino della sapienza è molto difficile
eliminare del tutto la paura della morte, perché essa appartiene alla categoria
delle cose che, «pur non essendo mali, ne hanno la parvenza» (Lettere morali a
Lucilio 82, 15). Il pensiero di come appropriarsi della morte, facendone qualcosa
che gli appartenga e sia sempre in suo potere, e non qualcosa che ne minacci
l’autonomia, non lo abbandona mai. Seneca è sempre alla ricerca di modi per
reinventare la morte, per porla su un piano in cui egli possa tenerla sotto il suo
controllo e farne un’espressione del suo Io, anziché essere alla mercé di qualcun
altro. La morte, afferma, è la grande livellatrice, perché appartiene a tutti; l’unica
differenza fra un uomo e l’altro sta nel come si muore, perché «ognuno muore la
propria morte». La morte è anche un atto squisitamente personale, e Seneca
aspirava a essere l’agente dei suoi ultimi istanti, a non chiudere gli occhi
all’improvviso sotto l’effetto di qualche veleno: «La morte migliore è quella che
più piace» (70, 12). Con queste parole egli sembra ammettere che potrebbe
anche non riuscire a morire come vorrebbe, ma non rinuncia mai a immaginare
la propria fine. Medita ossessivamente sulla morte di filosofi famosi, in
particolare Socrate e Catone il Giovane, che preferì gettarsi sulla spada piuttosto
che sopravvivere alla scomparsa della repubblica. Entrambi costituiscono un
esempio di come la morte, benché imposta da un potere politico esterno, sia stata
conseguita secondo il loro desiderio. Possedere la morte significa per Seneca
avere sempre a portata di mano una via di fuga verso la libertà: abbiamo «un
solo ingresso alla vita ma numerose uscite» (70, 14). La morte è anche la prova
suprema della nostra capacità di essere coerenti con i princìpi etici che
professiamo, perché «verrà il giorno che esigerà da noi l’applicazione di questa
sola virtù» (70, 19).

Questa morte coraggiosa


All’inizio del 65 fu ordita una congiura contro Nerone, che aveva come capo
carismatico Gaio Calpurnio Pisone, esiliato da Caligola, ma richiamato a Roma
da Claudio (Cassio Dione, Storia romana 62, 24). Pisone, un patrizio di
bell’aspetto e di grandi capacità oratorie, era molto popolare e gli si attribuivano
ottime qualità, anche se – osserva maliziosamente Tacito –, più che possederle
realmente, «dava a vedere di averle»: infatti, totalmente privo «di rigore morale
... indulgeva alle frivolezze della mondanità e talvolta allo sfarzo» (Annali 15,
48). Chi fosse il «grande vecchio» che tirava le fila della congiura non è chiaro:
Tacito, che è la nostra unica fonte, afferma di non saperlo (15, 49). È probabile
che all’origine del complotto ci fosse più di una motivazione. Alcuni, fra cui
Lucano, nipote di Seneca, vi aderirono per odio personale verso l’imperatore;
altri probabilmente per timore che egli distruggesse l’impero. Gli affiliati,
comunque, erano in buon numero: Tacito cita almeno undici eminenti patrizi e
diversi militari di alto rango, fra i quali figurava anche il prefetto del pretorio,
Fenio Rufo, che Tigellino aveva cercato di screditare presso Nerone con false
accuse, fra cui quella di essere stato l’amante di Agrippina. Rufo perciò aveva
ottime ragioni per desiderare di sovvertire lo status quo.
L’organizzazione lasciava però molto a desiderare e ben presto la notizia del
complotto trapelò. Tra i congiurati figurava anche una donna, una certa Epicari,
la quale, nella speranza di accelerare il golpe, aveva cercato di arruolare diversi
ufficiali di marina. Uno di essi, Volusio Proculo, aveva riferito tutto
all’imperatore. L’uomo non aveva testimoni da esibire, ma Epicari fu
ugualmente imprigionata e, quel che è peggio, Nerone adesso era in allerta. A
questo punto i congiurati decisero di entrare in azione durante i ludi circensi. Il
piano prevedeva che uno di essi si gettasse ai piedi dell’imperatore come per
rivolgergli una supplica e lo trascinasse a terra, per poi pugnalarlo a morte. Il
giorno della vigilia, il cospiratore designato a colpire Nerone, di nome Scevino,
affidò il coltello da affilare a un suo schiavo. L’uomo, avendo intuito i propositi
del padrone dalle sue parole o dai suoi gesti, all’alba del mattino dopo andò a
denunciarlo. Arrestato, interrogato e minacciato di tortura, Scevino rivelò i nomi
di tutti i congiurati. Anche Epicari fu torturata, ma resistette alle sevizie e morì
senza tradire.
Tutte le persone sospettate, a torto o a ragione, di essere coinvolte nella trama
per assassinare Nerone furono giustiziate o costrette a suicidarsi. Anche Seneca
fu arrestato: conosceva sicuramente molti dei cospiratori e forse era anche al
corrente del complotto. Pisone, come Seneca, era stato esiliato e graziato da
Claudio, e probabilmente i due avevano molte amicizie e conoscenze in comune.
Dione afferma, in maniera poco plausibile, che Seneca era uno dei capi, esaltava
continuamente in pubblico la gloria del tirannicidio e pronunciava molte
minacce, fino ad arrivare a offrire la testa di Nerone a tutti i suoi amici. Seneca e
il prefetto Rufo «non potevano più sopportare il comportamento impudente,
dissoluto e crudele di Nerone» (Cassio Dione, Storia romana 62, 24, 1).
Circolava anche un’altra voce, secondo la quale alcuni congiurati progettavano,
una volta eliminato Nerone, di uccidere anche Pisone e affidare il potere a
Seneca, «perché senza macchia e come prescelto al vertice dello stato per la
notorietà delle sue virtù» (Tacito, Annali 15, 65). Probabilmente si trattava
soltanto di dicerie, ma è affascinante immaginare come avrebbe potuto essere la
storia dell’impero romano, se Seneca fosse diventato imperatore e avesse
conquistato il più grande imperium del mondo anziché l’imperium su se stesso.
Sarebbe stato migliore di Nerone?
Sul coinvolgimento diretto di Seneca nella congiura non ci sono prove, ma
solamente indizi. Il suo nome fu fatto da un unico cospiratore, Antonio Natale, il
quale però non aveva altro da rivelare se non poche battute scambiate con
Seneca, il giorno in cui era andato a fargli visita perché lo scrittore era malato o
fingeva di esserlo. Natale gli aveva chiesto perché non volesse ricevere Pisone;
la risposta era stata che colloqui frequenti non giovavano «a nessuno dei due,
mentre, d’altra parte, la sua salvezza si basava sull’incolumità di Pisone» (15,
60). Queste parole potevano significare che Seneca era coinvolto nel complotto –
e fu così che Nerone decise di interpretarle –, ma potevano anche essere soltanto
una risposta cortese o un tentativo, non riuscito, di prendere le distanze dai
congiurati.
Seneca fu raggiunto da un tribuno nella sua deliziosa e ben coltivata tenuta di
Mentana, dove si era fermato al ritorno dalla Campania. Erano con lui la moglie,
alcuni amici e la solita schiera di schiavi e liberti. Il tribuno, mandato a
interrogarlo, gli chiese conto di ciò che egli aveva detto a Natale a proposito di
Pisone. Seneca sostenne di non avere mai affermato che la sua salvezza
dipendeva da quella di Pisone. Questa sarebbe stata una falsità, e non era sua
abitudine pronunciare parole vuote, di pura cortesia, come ben sapeva Nerone, il
quale «aveva avuto più spesso da Seneca prove del suo senso di libertà che del
suo servilismo» (15, 61). Se Seneca sperava, rivendicando la propria assoluta
sincerità, di convincere Nerone a risparmiargli la vita, si sbagliava di grosso. Il
tribuno riferì tutto all’imperatore, il quale chiese se Seneca si stava preparando al
suicidio. Quando l’altro gli disse di averlo trovato perfettamente calmo e sereno,
Nerone lo rispedì a Mentana con l’ordine di intimare al vecchio maestro di
togliersi la vita.
Sul come, e quanto onorevolmente, Seneca affrontò la morte, le versioni
differiscono. Cassio Dione, che utilizzò una fonte ostile, racconta:

Egli volle far morire anche sua moglie Paolina, sostenendo di averla indotta al disprezzo della
morte e al desiderio di morire con lui. Così incise anche le vene di lei, ma egli, dopo una
lunga agonia, che venne resa più rapida dall’intervento dei soldati presenti, morì prima di
Paolina, che, in questo modo, riuscì a sopravvivere. Seneca, tuttavia, non si svenò finché non
ebbe apportato delle correzioni al libro che stava scrivendo e non ebbe affidato ad alcuni
conoscenti le altre opere, che una volta cadute nelle mani di Nerone, temeva andassero
distrutte.
(Cassio Dione, Storia romana 62, 25, 1-2)

Se la morte, come aveva tante volte sostenuto Seneca, è lo specchio di una


vita, il racconto che ne fa Dione non è molto lusinghiero. Il condannato sarebbe
stato addirittura pronto a uccidere anche la moglie pur di affermare la sua
coerenza, e non avrebbe mai cessato, fino all’ultimo respiro, di preoccuparsi
della sua fama e della sopravvivenza dei suoi scritti. Il suo suicidio, secondo lo
storico greco, fu insomma un atto di narcisismo, abissalmente lontano da una
morte socratica.
Tacito fornisce una versione molto più simpatetica. Pare che la sua fonte fosse
il resoconto, andato poi perduto, scritto da un amico di Seneca, Fabio Rustico,
che si ritiene facesse parte di una narrazione più ampia, una biografia completa.
Gli eventi narrati da Tacito sono più o meno gli stessi di quelli esposti da Dione,
ma il punto di vista è più positivo, benché anche nel suo racconto risaltino
chiaramente l’egotismo e l’ostentazione che caratterizzarono quel suicidio. 16
Una differenza fondamentale fra le due versioni riguarda Paolina: in Tacito è
la donna che supplica il marito di lasciarla morire insieme a lui. Seneca
l’abbraccia e la scongiura di non prolungare eternamente il suo lutto, ma Paolina
insiste. «Seneca allora, per non opporsi alla gloria della moglie, e anche per
amore, non volendo lasciare esposta alle offese di Nerone la donna che
unicamente amava», acconsente dicendo: «Ti avevo indicato come alleviare il
dolore della vita, ma tu preferisci l’onore della morte: non mi opporrò a questo
gesto esemplare. Possa la fermezza di una morte così intrepida essere pari in te e
in me, ma sia più luminosa la tua fine» (Tacito, Annali 15, 63). Dopodiché i due
sposi si recisero con un solo colpo le vene dei polsi. Le parole che Tacito mette
in bocca a Seneca hanno un tono autocompiaciuto e piuttosto falso, e forse era
proprio questa l’intenzione dello storico. Per gran parte della scena Seneca è
troppo preso dal pensiero della sua fama postuma per preoccuparsi della moglie.
Per di più, l’idea che Paolina sarebbe sicuramente andata incontro a
maltrattamenti e oltraggi dopo la morte del marito fu smentita dalla sollecitudine
con cui Nerone si occupò di lei. Tacito non spiega come facesse Nerone, che si
presume fosse a Roma e non a Mentana, a sapere che la moglie di Seneca si era
recisa le vene, ma racconta comunque che egli ordinò di soccorrerla, perché non
aveva nessun motivo di odio verso di lei e anche perché non voleva essere
considerato troppo crudele (15, 64). I soldati le bendarono le ferite e, dopo la
morte del marito, Paolina «visse ancora pochi anni, conservandone memoria
degnissima e con impressi sul volto bianco i segni di un pallore, attestanti che
molto del suo spirito vitale se n’era andato con lui» (ibid.). Tacito riporta anche
un’altra voce, senza però darle credito: Paolina avrebbe deciso di uccidersi con il
marito perché temeva l’implacabilità di Nerone, ma fu felice di essere salvata
non appena si rese conto che non le avrebbe fatto alcun male. Con buona pace di
tutti gli insegnamenti filosofici ricevuti da Seneca.
Seneca si preparava alla morte da tantissimi anni con modalità pratiche,
spirituali e retoriche. Aveva redatto già da tempo il testamento, quando era
ancora straricco (praedives) e strapotente (praepotens), e sperava di leggere le
sue ultime volontà agli amici, affinché ricordassero per sempre la sua generosità
e la sua gratitudine. Quando i soldati glielo impedirono, offrì agli astanti
«l’immagine della propria vita», quale «ultimo bene in suo possesso», e anche il
più bello. Forse ci saremmo aspettati che a esprimere queste considerazioni
fossero gli «amici» – nessuno dei quali è indicato per nome o apre bocca –, e
non Seneca. Ma in questa scena il loro ruolo è chiaramente quello di spettatori
del dramma finale, a garanzia che le ultime parole e i gesti del morituro vengano
conservati per il piacere e l’ammirazione di un pubblico ben più vasto. Oltre agli
amici, molti dei quali erano probabilmente vecchi clienti e dipendenti di vario
genere, intorno a Seneca dovevano esserci in quei momenti anche numerosi
schiavi, compresi i segretari pronti ad annotare ogni sua parola, il medico e gli
aiutanti per il bagno. In un’evidente imitazione del Socrate morente nel Fedone
platonico, Seneca sollecita gli amici a non piangere, ma a mostrarsi coraggiosi:
dove sono, chiede, «gli insegnamenti della filosofia, dove la consapevolezza
della ragione, affinata in tanti anni contro i mali incombenti?» (15, 62).
Fin qui è tutto perfettamente consono al copione socratico, poi però
bruscamente, ma anche tipicamente, dall’empireo filosofico Seneca scende sul
terreno del senso comune: non c’era ragione di piangere, dice, anche perché non
potevano non avere previsto che la sua fine era vicina. «Tutti ben conoscevano la
crudeltà di Nerone», scrive Tacito, al quale, dopo avere ucciso la madre e il
fratello, «non restava altro che ordinare anche l’assassinio del suo educatore e
maestro» (ibid.). All’epoca dell’omicidio di Britannico e poi di quello di
Agrippina, Seneca si era prodigato per stendere un velo sullo scandalo, ma
doveva avere sempre saputo che un giorno sarebbe probabilmente toccata anche
a lui la stessa fine. La scena della morte è dunque il momento in cui quel velo
viene strappato ed egli può finalmente dire la verità al potere (fig. 22).
22. Seneca ricevette da Nerone l’ordine di suicidarsi. Fallito il tentativo di dissanguarsi con il taglio delle
vene, morì soffocato dal vapore nel bagno. Il dipinto, ispirato a due antiche sculture, che oggi si ritiene non
raffigurino Seneca, coglie comunque la tensione di questa morte lenta e faticosa.

Eppure anche ora il suo atteggiamento verso Nerone è conciliante, più che
rivoluzionario. Le tendenze omicide dell’imperatore appartengono a suo giudizio
all’inevitabile; contro di esse né lui né i suoi amici possono fare nulla. In quegli
ultimi istanti la più grande preoccupazione di Seneca è di creare una scena che
rimanga impressa nella mente dei suoi futuri lettori, possibilmente tanti, e non di
influenzare il corso politico di Roma. Le sue parole su Nerone, osserva
sardonico Tacito, «sembravano rivolte a tutti indistintamente», benché fossero
rivolte, si suppone, soltanto a un gruppetto di amici. E, anche dopo che marito e
moglie si sono tagliati i polsi, Seneca continua a parlare al suo pubblico: «Fece
venire gli scrivani cui dettò molte pagine che, divulgate nella forma testuale»,
afferma Tacito, «evito qui di riferire con parole mie» (15, 63). Lo storico
ironizza, sornionamente, sul tentativo di Seneca di controllare il copione della
propria morte, e implicitamente lascia intendere che c’è qualcosa di
inappropriato in quel maestro di retorica che si autopromuove fino all’ultimo
respiro.
Il taglio delle vene non ebbe l’effetto voluto. Forse Seneca sospettava già che
potesse non essere lo strumento più adatto per lui: nelle Questioni naturali aveva
osservato che, quando si apre una vena, il sangue a volte sgorga fino allo
svuotamento, ma altre volte la lacerazione si rimargina, bloccando la via
d’uscita, e altre ancora interviene qualche altra causa (Questioni naturali 3, 15,
5). Nel suo caso, il sangue smise di defluire perché il suo corpo era troppo
vecchio e magro, emaciato dai lunghi anni di digiuno. Egli si recise allora anche
le vene dietro le ginocchia, ma inutilmente. Temendo che la vista delle sue
sofferenze turbasse troppo Paolina, e anche per «non essere indotto a cedere di
fronte ai tormenti di lei, la induce a passare in un’altra stanza», dove i soldati le
bendano le braccia, salvandole la vita. Che Seneca temesse di essere distolto dal
suo proposito dal dolore della moglie è un dettaglio significativo, che più di
qualsiasi altro differenzia la sua morte da quella di Socrate. È evidente che
Seneca non possedeva il dono permanente della calma e della risolutezza
perfette: per tener fede ai suoi princìpi morali era costretto a una lotta costante.
Quando neppure la seconda incisione bastò a dissanguarlo, Seneca, emulando
ancora una volta Socrate, chiese la cicuta. A somministrargliela non fu il
giustiziere pubblico, bensì il suo medico privato, Anneo Stazio (il nome può far
pensare a un parente, ma è più probabile che si trattasse di un liberto, un ex
schiavo che Seneca aveva poi emancipato). Il veleno, presumibilmente costoso,
era stato acquistato da tempo, pronto per una morte che Seneca si aspettava
potesse essergli imposta con il suicidio. Ma neppure la cicuta riuscì a spegnere
quel corpo debole e freddo. E allora egli «entrò in una vasca di acqua calda, ne
asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che con quel liquido libava a Giove
liberatore». Infine chiese di essere immerso in un bagno caldissimo e morì
soffocato dai vapori. Fu cremato immediatamente, secondo la sua richiesta
(Tacito, Annali 15, 64).
La morte, che aspettava da tempo, era infine arrivata. Era stata un momento di
grande teatralità, contrassegnata, come tutta la vita di Seneca, da numerosi
compromessi. La sequenza di tentativi andati a vuoto ha una sua atrocità – non
riusciva neppure a uccidersi bene – ma anche un suo umorismo macabro, come
era sicuramente nelle intenzioni di Tacito, che ne è il narratore. Il desiderio di
Seneca di controllare i suoi atti fino all’ultimo istante appare con grande
evidenza, ma altrettanto evidente è l’impossibilità di realizzare l’ideale stoico
della coerenza e dell’imperturbabilità sotto il peso delle pressioni e delle
violenze della Roma neroniana e anche delle sue stesse fragilità. Si può irridere
una morte che fu così lenta e difficile da raggiungere, ma si può anche ammirare
la costanza con cui l’aspirante suicida prova e riprova, incurante degli scacchi
subiti, proprio come aveva fatto per tutta la vita, tentando, dopo ogni fallimento,
di riprendere il cammino della virtù filosofica.
Ognuno dei tentativi andati a vuoto richiese una nuova serie di attrezzi di
scena, tutti costosi. Non poteva esserci morte più appropriata per un uomo che
era vissuto da ricco ed era diventato il critico più acuto del consumismo della
Roma neroniana e il migliore analista della psicologia dell’opulenza. Nei suoi
ultimi anni Seneca lamentava di avere sempre freddo e amava i bagni caldi. Il
bagno in cui morì fu uno strumento di dolore e di perdita, ma anche uno
strumento elitario, riscaldato e somministrato dagli schiavi per aprire, a
quell’uomo di alto rango, l’ultima porta verso la libertà. La morte di Seneca,
nonostante tutti i suoi sforzi, e forse anche per essi, fu lo specchio più fedele
della sua vita. Il suo ultimo atto fu un corpo a corpo lento, doloroso, retorico,
estremamente melodrammatico fra l’idealismo filosofico e l’umana debolezza di
fronte al potere politico.
Dopo la morte di Seneca, Nerone arrestò chiunque avesse qualche
connessione con la congiura: l’anno 65 si svolse all’insegna di una serie infinita
di esecuzioni e suicidi forzati, di cui quello del suo maestro fu, in un certo senso,
il meno impressionante. Il tribuno Subrio Flavio morì di una morte meno teatrale
ma non meno coraggiosa di quella di Seneca, e Tacito gli rende l’onore (non
concesso a Seneca) di tramandarne le ultime parole. Interrogato da Nerone, così
spiega le ragioni della sua adesione alla congiura: «Ti odiavo. Nessun soldato ti è
stato fedele più di me, finché hai meritato di essere amato. Ho cominciato a
odiarti da quando sei diventato assassino di tua madre e di tua moglie e auriga e
istrione e incendiario» (15, 67). In quell’anno Nerone uccise con un calcio al
ventre la seconda moglie, Poppea, che era incinta. Seguirono molti altri esili e
morti. Musonio Rufo fu bandito da Roma. Il nipote di Seneca, Lucano, e l’anno
dopo anche suo padre Mela furono imprigionati con l’accusa di cospirazione. A
Lucano, racconta Svetonio, non fu difficile estorcere la confessione, e si mise a
implorare nel modo più abietto di salvargli la vita, arrivando a denunciare anche
la madre innocente, nella speranza di placare l’ira dell’imperatore matricida.
L’unica cosa che ottenne fu di scegliere come morire, e allora Lucano scrisse una
lettera d’addio al padre, contenente anche alcune modifiche ai suoi versi, fece un
lauto pranzo e porse le braccia al medico perché gli tagliasse le vene (Svetonio,
Vita di Lucano).
Anche Petronio, che Tigellino invidiava perché Nerone lo trovava tanto
divertente, fu condannato a darsi la morte: si tagliò le vene, poi se le fasciò
parzialmente per conversare un’ultima volta con gli amici e scivolare lentamente
nel sonno eterno durante il banchetto (Tacito, Annali 16, 19). Le morti più
memorabili, nella lunga serie di suicidi forzati, furono quelle di Barea Sorano e
soprattutto di Trasea Peto, la cui fine ricorda quella di Seneca, ma la supera in
nobiltà. Accusato di disprezzo verso l’imperatore, si tagliò le vene e, quando il
suo sangue – non l’acqua del bagno – sprizzò sul pavimento, esclamò: «A te,
Giove liberatore, dedico questa libagione!». Seneca aveva deliberatamente
attutito il significato politico della propria morte, Trasea l’esaltò. Il suo suicidio
fu il primo esempio di una serie di riappropriazioni della vita, della morte e degli
scritti di Seneca.
Nerone, pupillo, patrono, imperatore e nemico di Seneca, morì meno di
quattro anni dopo. Le tasse esose, la cattiva amministrazione e le pessime
relazioni pubbliche avevano reso molto instabile l’impero. Le province di
Germania e Spagna erano in fermento, la guardia pretoriana, che in teoria
avrebbe dovuto proteggerlo, si era schierata con Galba, il governatore di una
delle province iberiche. Nerone, come il suo maestro Seneca, prese a vagare da
un luogo all’altro, temendo di essere ucciso. Dopo alcune ore disperate di
indecisione era fuggito da Roma verso una sua villa nel nord del paese,
cavalcando a piedi nudi, con la faccia coperta da un velo, accompagnato soltanto
da alcuni liberti fedeli. Infine, persa ogni speranza di salvarsi, aveva ordinato ai
liberti di scavargli la fossa sul ciglio della strada, piangendo al pensiero di ciò
che il mondo avrebbe perso con la sua morte. «Quale artista muore con me!»
esclamò. Sentendo il fragore degli zoccoli dei cavalli dei suoi inseguitori farsi
più vicino, si pugnalò alla gola con l’aiuto del suo liberto (Svetonio, Vita di
Nerone 47-49). 17
Roma piombò in una serie di lotte per la successione: il 65 è ricordato come
l’anno dei quattro imperatori, nessuno dei quali durò più di qualche mese. La
morte spettacolare di Nerone, all’insegna dell’umorismo nero e del narcisismo,
ricalca quella del suo antico precettore, ma Nerone, a differenza di Seneca, nella
scena finale non aveva accanto né una moglie fedele, né parenti, né amici. Li
aveva uccisi tutti.

a. Non est ad astra mollis e terris via (Ercole furioso v. 437).


EPILOGO

La figura di Seneca è sempre stata controversa. Fin da principio, la questione


ruotò intorno ai suoi rapporti con la dinastia Giulio-Claudia. Seneca era stato (e
fino a che punto) complice delle malefatte del regime oppure aveva avuto il
coraggio di opporvisi? Una parte lo accusava di essere coinvolto nei peggiori
eccessi del regno di Nerone, e fu questo giudizio negativo che Cassio Dione
sposò nella sua Storia romana; un’altra, che comprendeva anche alcuni suoi
clienti, lo idealizzava, esaltandolo come un uomo virtuoso, che aveva tentato con
tutte le sue forze di far sentire la propria voce contro la malvagità dei tempi, e
questo fu, probabilmente, il ritratto che ne tracciò Fabio Rustico. La
polarizzazione iniziata allora non si è mai ricomposta nei quasi duemila anni
successivi.
La versione più antica della vita, del carattere e del legame di Seneca con
Nerone è contenuta nell’Ottavia, un dramma che ci è stato trasmesso insieme
alle sue tragedie, ma che non è di Seneca. 1 A scriverlo fu comunque qualcuno
che conosceva molto bene i suoi scritti, sia in prosa sia in versi. Nell’Ottavia ci
sono infatti riferimenti alla Clemenza, e il lessico e i temi ricordano quelli delle
tragedie senecane: l’ossessione per il potere, l’impero, la morte, i sensi di colpa,
i rovesci della fortuna e una paura indefinita come pure il soprannaturale,
l’esilio, la ricchezza, la profezia, l’assassinio e la vendetta. I personaggi, però,
non appartengono al mito greco, bensì alla Roma neroniana. L’Ottavia si svolge
in tre giorni nel 62 d.C. e mette in scena il divorzio di Nerone dalla moglie
Ottavia (vittima innocente delle folli passioni del tiranno), la crudele decisione di
esiliarla e il secondo matrimonio con Poppea. Fra i personaggi compare anche
Seneca, che offre buoni consigli, ignorati, naturalmente, dal giovane despota.
Attraverso le figure di Seneca e Nerone, l’anonimo drammaturgo veicola anche
la sua concezione politica: il potere dell’imperatore va limitato e assoggettato
alla legge e alla comunità. Il «Seneca» dell’Ottavia è un uomo molto più
ottimista di quanto non sia mai stato quello in carne e ossa. Nel Tieste una
guardia consiglia la moderazione all’omicida Atreo, assetato di potere, ma si
arrende facilmente alla volontà incontenibile del sovrano. Nell’Ottavia avviene
una scena analoga fra «Seneca» e «Nerone», ma questa volta il consigliere
(Seneca) non vacilla e cita passi della sua Clemenza per convincere il tiranno
alla moderazione. Naturalmente non riesce a persuaderlo, ma dà comunque
prova di coerenza e dignità. Quando il despota rifiuta di ascoltare il vecchio
precettore ed esclama «Sia lecito fare ciò che Seneca biasima!», la sua malvagità
emerge in tutta la sua forza (Ottavia v. 569).
Seneca esercitò un’enorme influenza sulla letteratura latina dei secoli
seguenti. Quintiliano, famoso maestro di retorica, definiva «corrotto» il suo stile,
con quel periodare involuto e innaturale, e lo accusava di essere un modello con
«difetti» anche troppo facili da imitare e di avere quindi una pessima influenza
sui giovani. 2 Evidentemente, già allora la fama di Seneca doveva essere notevole
per suscitare simili preoccupazioni appena una generazione dopo la sua morte.
Con la diffusione del cristianesimo, Seneca assunse una rilevanza nuova,
perché divenne l’autore pagano che più di ogni altro poteva essere inglobato
rapidamente dalla Chiesa. Quale fosse l’accoglienza che gli riservò il mondo
cristiano emerge chiaramente da un carteggio apocrifo fra lo scrittore romano e
l’apostolo Paolo. Il latino postclassico in cui sono scritte queste lettere è la prova
inconfutabile che l’epistolario è un falso, composto probabilmente nel III secolo
d.C. o forse all’inizio del IV. Ma il desiderio di trovare un autore pagano da
cooptare doveva essere davvero molto forte se il cristianesimo avvertì la
necessità di creare una corrispondenza spuria. La leggenda sull’autenticità del
documento aveva una sua plausibilità: il fratello di Seneca, Novato, era stato
governatore dell’Acaia e intorno al 52 d.C. aveva assolto Paolo dalle accuse
mossegli dagli ebrei (At 18, 12-17). 3 Novato era stato probabilmente spinto a
prendere la sua decisione dalla volontà, comune a tutti i governatori romani, di
mantenere l’ordine, ma la sua sentenza si prestava anche a essere interpretata
come un atto deliberatamente favorevole ai cristiani. I lettori della tarda antichità
e del Medioevo videro perciò nello stoicismo senecano, così moralizzante e
orientato verso la morte, una sorta di cristianesimo ante litteram. Nel carteggio,
Seneca si rivolge a Paolo chiamandolo «frater» e «Paule carissime», e capisce
immediatamente che l’apostolo è mosso da un genuino spirito divino, portatore
di pensieri non concepiti da lui, ma discesi dall’alto (Lettera 1, 10-11). In realtà,
il nesso fra la cristianità paolina e lo stoicismo romano andava in direzione
opposta. Paolo era profondamente imbevuto di filosofia stoica, anche se non di
derivazione senecana: dalla Stoà egli aveva derivato la nozione delle cose
indifferenti e dell’appropriazione di sé (oikeiosis), accanto all’ideale della libertà
dalle passioni e al paradosso della libertà attraverso la schiavitù. 4 Le affinità fra
stoicismo e cristianesimo erano perciò piuttosto forti e si prestavano a essere
ulteriormente sfruttate dai successivi pensatori cristiani.
Nel III e IV secolo, quando, nonostante le resistenze del paganesimo, la
religione cristiana iniziava a essere largamente diffusa, il carteggio apocrifo fu
uno strumento per favorire le relazioni ecumeniche fra pagani e cristiani. Seneca
divenne il filosofo latino più rappresentativo, il più adatto a dialogare con
l’ideatore di una visione cristiana del mondo, un uomo pronto per la
conversione. Nella tarda antichità e nel Medioevo si sosteneva che Seneca si era
convertito al cristianesimo ed era stato, per così dire, battezzato dall’acqua della
sua morte. Lattanzio, che fu consigliere del primo imperatore cristiano,
Costantino, invitava tutti coloro che avevano interesse per la giustizia a leggere i
libri di Seneca, che descrivevano l’etica pubblica e il vizio in modo
assolutamente veritiero condannandoli drasticamente (Divinae institutiones 5, 9,
19). Tertulliano lo definì «saepe noster», ossia «spesso nostro», perché le sue
opere non sempre erano compatibili con la verità cristiana. Girolamo si spinse un
passo più avanti: nella lettera Adversus Iovinianum (1, 49) lo chiamò «Seneca
noster», «il nostro Seneca», e nel De viris illustribus del 393 sostenne che la
corrispondenza fra Paolo e Seneca, ampiamente letta, bastava da sola a
giustificare l’inclusione del filosofo «nella compagnia dei santi», benché per altri
versi egli non lo meritasse (cap. 12). Ciò non significa che Girolamo, il quale era
perfettamente in grado di riconoscere la differenza fra il latino classico e quello
della fine del IV secolo, fosse davvero convinto dell’autenticità dell’epistolario;
piuttosto vuol dire che quelle lettere costituivano un buon pretesto per
propagandare l’amicizia fra il colto filosofo pagano e il grande apostolo
cristiano.
Anche Agostino conosceva l’esistenza della presunta corrispondenza fra i due
(Lettera 153), ma non amava Seneca: la critica dello stoicismo in generale e di
quello senecano in particolare fu uno dei tasselli fondamentali per la sua
costruzione della teologia cristiana nella Città di Dio. 5 A Seneca egli
riconosceva il merito di avere condannato la religione romana tradizionale (o
meglio la «superstizione»), ma gli rimprovera di non avere saputo vivere
all’altezza dei suoi princìpi: conobbe la libertà «come scrittore, ma ne difettò
come uomo» (La città di Dio 6, 10), tanto che fingeva di rispettare le pratiche
religiose dei suoi contemporanei, nelle quali non credeva (ibid.). L’accusa più
grave che Agostino rivolge allo stoicismo è che la sua etica si fonda
sull’orgoglio. Gli stoici, e fra questi anche Seneca, sostenevano che il saggio
perfetto era in grado di liberarsi interamente dai vizi e di vivere in uno stato di
totale pace interiore, senza essere mai turbato da false emozioni. Agostino
giudica completamente errata questa affermazione: dopo la caduta, egli afferma,
nessun essere umano può raggiungere un simile stadio di perfezione in questo
mondo. Coloro che, come gli stoici, sostengono di poter vivere senza
commettere peccato, «non evitano il peccato, ma rinunciano al perdono» (14).
L’ideale stoico del saggio è falso non soltanto dal punto di vista empirico (perché
impossibile dopo la cacciata dall’Eden), ma anche dal punto di vista etico,
perché presuppone che gli esseri umani possano diventare autori della propria
felicità attraverso l’esercizio della volontà. L’accusa di orgoglio verrà ripresa
infinite volte nei secoli a venire.
Nel tardo Medioevo Seneca era noto soprattutto per le Lettere morali a
Lucilio, mentre i trattati maggiori e le tragedie avevano pochi lettori. 6 Era
rispettato come maestro di etica (Dante lo chiama «Seneca morale»), ma in
modo piuttosto generico: gli intellettuali medievali tendevano a considerarsi
eredi delle tradizioni dell’aristotelismo cristianizzato di Tommaso d’Aquino più
che della Stoà. Eppure, ha affermato uno studioso, «lo stoicismo nel Medioevo
era dappertutto e in nessun luogo». 7 L’influenza della logica stoica e delle
nozioni del Sé e della natura fu notevole, ma quasi del tutto misconosciuta.
L’analisi delle passioni effettuata nell’Ira, in particolare la distinzione fra i
«primi impulsi», che sono la risposta a uno stimolo – come quando arrossiamo,
tremiamo o scoppiamo in lacrime – e perciò non condannabili moralmente, e le
vere emozioni, si trasformò in un elenco di otto peccati, causati dalla tentazione
a cedere ai cattivi pensieri, 8 un elenco che nel VII secolo papa Gregorio Magno
codificò nei sette peccati capitali. E così, quei «primi impulsi», definiti con
molta cura da Seneca e non censurabili moralmente, finirono per tramutarsi
nell’esatto contrario, ossia nei vizi che rivelavano la natura dell’umanità dopo la
caduta. 9 Che Seneca potesse essere così fortemente distorto è il segno che i suoi
scritti furono ben poco studiati per diverse centinaia di anni. La sua biografia
divenne popolare con la Leggenda aurea, una raccolta di storie agiografiche di
santi famosi, nel cui novero lo scrittore pagano fu ancora una volta incluso in
virtù della sua associazione con Paolo di Tarso. Il libro, un vero best seller
medievale, contiene un racconto fosco della scena della morte, in cui, dopo uno
scontro verbale con Nerone, Seneca si recide le vene nel bagno, realizzando così
la profezia contenuta nel suo nome: se necans, «colui che uccide se stesso». 10
Con l’avvento dell’età moderna si risvegliò l’interesse per la tradizione stoica
in generale e per Seneca in particolare. Gli umanisti pubblicarono nuove edizioni
e commenti delle sue opere, 11 che cominciarono a essere tradotte in volgare. La
prima edizione in lingua inglese fu quella di Thomas Lodge del 1612. Erasmo
aveva curato una delle prime raccolte complete degli scritti senecani in latino, la
cui seconda edizione fu stampata nel 1529 con una prefazione in cui esprimeva
un giudizio ambivalente su Seneca, criticandone lo stile eccessivamente retorico
e le frasi contorte e prolisse, ma elogiandone le Lettere, che definì lo specchio
veritiero di una situazione reale. La posizione erasmiana – un misto di
ammirazione e riserve – caratterizzerà anche il giudizio di gran parte dei critici
successivi.
Nel Rinascimento l’influsso di Seneca si manifestò su tre piani, talora
interconnessi, ma concettualmente distinti. 12 Il primo: i suoi scritti in prosa –
accanto agli scritti filosofici di Cicerone, che avevano un pubblico di lettori
anche più vasto – costituirono una delle fonti primarie sullo stoicismo antico ed
ebbero un impatto profondo sul pensiero politico, la metafisica e la teologia della
prima modernità. Poiché gli scritti degli stoici greci erano andati perduti, quelli
degli stoici latini divennero l’unico modo di accedere alla Stoà. Il secondo: lo
stile incisivo, vigoroso e aforistico di Seneca costituì un modello per diversi
scrittori del XVI e XVII secolo. E infine il terzo: le sue tragedie, riscoperte dopo
un lungo oblio, diedero un contributo essenziale alla drammaturgia della prima
modernità.
Il Seneca politico, consigliere di un tiranno crudele, colpì profondamente
l’immaginazione di intellettuali e cortigiani, che vivevano in condizioni
analoghe: la vita di Thomas More, studioso, filosofo, scrittore e consigliere di
Enrico VIII, che poi lo fece decapitare, è stata giustamente paragonata a quella di
Seneca. 13 Il Seneca uomo, distinto dal filosofo e dallo scrittore, fu spesso
giudicato in modo negativo nella letteratura e nei drammi dell’epoca, in modo
anche più critico di quanto avesse fatto Tacito negli Annali. Nell’Incoronazione
di Poppea di Monteverdi, un’innovativa opera lirica di argomento storico
composta nel 1642, Seneca consiglia a Nerone di non ripudiare Ottavia per
sposare Poppea, ed è questa la ragione per cui riceve l’ordine di darsi la morte. E
al compimento del faticoso suicidio nel bagno, Nerone e la corte intonano: «Or
che Seneca è morto, cantiam!». Il motivo viene poi ripreso da Poppea e dalla sua
nutrice: «Or che Seneca è morto, amor ricorro a te!». In sostanza Seneca viene
raffigurato semplicemente come un guastafeste.
L’individuo, autonomo o «autarchico», su cui si concentrò l’attenzione
senecana fu uno degli aspetti che più affascinarono un periodo storico spesso
associato con la creazione del concetto moderno di Io e con varie forme di
costruzione del Sé. 14 Seneca diede un apporto fondamentale all’elaborazione di
nuovi modi di comprendere la psicologia e l’etica. Nei primi decenni dell’era
moderna le nozioni di autoaffermazione, autocorrezione e autonomia, di cui
aveva parlato Seneca, furono cruciali per la definizione di una individualità
secolare. 15 Un altro contributo importante fu la sua analisi dei confini
(problematici e permeabili) non solo della comunità politica ma anche del
singolo corpo umano e dell’Io. Il problema della relazione fra i due tipi di
imperium, quello individuale e quello politico, assunse grande rilevanza
nell’epoca della formazione dello stato-nazione e dell’ascesa delle monarchie
assolute. La clemenza, in particolare, modellò l’intera tradizione dello «specchio
dei principi» (specula principum), un genere letterario di carattere didascalico, di
cui Il cortegiano di Baldassarre Castiglione (1528), tutto incentrato sul retto
comportamento dei regnanti e delle élite, può essere considerato il prototipo.
Anche il Principe di Machiavelli (1513) appartiene alla stessa tradizione, ma ne
rifiuta i fondamenti filosofici, in quanto ritiene del tutto errata l’idea che un
governante debba essere clemente. I principi non devono mostrare alcuna
compassione per i vinti, che vanno uccisi. Machiavelli non critica soltanto l’etica
ma anche la metafisica di Seneca: l’uomo forte non deve sottostare alla volontà
della provvidenza né mostrarsi costante davanti ai mutamenti della sorte, ma
deve essere risoluto, impetuoso e violento. 16 D’altra parte, lo stoicismo, anche
nella sua versione senecana, se adottato dai governati anziché dai governanti,
avrebbe potuto avere effetti sediziosi, come ben comprese il re d’Inghilterra
Giacomo I, che nel suo Basilikon Doron si scaglia contro gli imitatori di «questa
antica setta». 17
Nel neostoicismo dell’età moderna è spesso difficile distinguere gli elementi
specificamente senecani, ma lo scrittore latino fu senza dubbio una delle
influenze predominanti insieme a Cicerone. Michel de Montaigne, spesso
considerato uno scettico più che uno stoico, fu profondamente influenzato dallo
stile e dalla struttura delle opere di Seneca, soprattutto dalla modalità digressiva
e personale delle Lettere morali a Lucilio. La saggistica moderna (da Montaigne
a Robert Burton, a Francis Bacon e Thomas Browne, fino ai grandi saggisti del
Settecento, Addison, Steele e Johnson) forse non si sarebbe mai sviluppata come
genere letterario senza il modello dell’epistolario senecano. Montaigne non
condivideva l’ideale stoico dell’uomo perfetto, ma difendeva lo scrittore latino
dalle consuete accuse di ipocrisia («Difesa di Seneca e di Plutarco», Saggi, Libro
II, cap. XXXII) e analizzava a fondo il concetto di constantia, che egli
interpretava essenzialmente come una virtù militare, non adatta al cittadino
comune. 18 E, soprattutto, ragionava sull’ideale senecano della clemenza, così
come veniva proposto nelle Lettere e in particolare nel trattato omonimo,
trasformandolo in un’etica moderna di gentilezza flessibile e dai tratti umani, in
contrasto con il codice etico, eroico e rigido, dei suoi contemporanei. 19
Un’interpretazione del tutto diversa del modello etico di Seneca fu quella
proposta da Giusto Lipsio nel De constantia, un trattato scritto nel 1584 in
un’Europa lacerata dalla guerra, in cui gli studiosi hanno visto una difesa di una
forma organica di governo di matrice senecana, contro gli attacchi lanciati da
Machiavelli nel Principe. 20 Lipsio, che era un cattolico belga, pubblicò
l’edizione completa delle opere di Seneca nel periodo in cui insegnava
all’Università di Leida. Il suo tentativo di proporre una nuova versione dello
stoicismo («neostoicismo»), che fosse compatibile con una forma non settaria di
cristianesimo, era chiaramente una risposta alle guerre di religione che si
combattevano in Francia. Lo stoicismo, a differenza della Bibbia, non era
contagiato dai contrasti teologici esistenti fra protestanti e cattolici, e in quei
tempi di crisi offriva una via per il ritorno a un modello antico e incorrotto di
fermezza. E il neostoicismo proponeva una sorta di cosmopolitismo, che
trascendesse i confini delle singole nazionalità e sette religiose.
La ricerca di un compromesso fra lo stoicismo senecano e il cristianesimo
attraversò il XVI e XVII secolo. Simon Goulart, un pastore di Ginevra
favorevole al neostoicismo di Lipsio, ricordava che, «se leggi Seneca da pagano,
ti sembra che l’abbia scritto da cristiano, ma, se lo leggi da cristiano, senti che a
parlare è un pagano». 21 Il carteggio fra Seneca e Paolo di Tarso era chiaramente
apocrifo, affermava Goulart, perché Seneca non sapeva niente di Dio, e il suo
«saggio perfetto» era un sognatore, arrogante e morboso, «provocatorio nella sua
virtù, un uomo che cerca dentro di sé la sorgente di ogni felicità; in altre parole,
uno che costruisce castelli in aria e cerca la vita nella morte». 22 Seneca e tutto lo
stoicismo venivano spesso tacciati di superbia e di avere sminuito il potere di
Dio sostenendo che gli uomini potevano raggiungere la felicità per mezzo della
sola virtù, senza alcun intervento della grazia divina. Scriveva John Marston nel
1598: «Taci, Seneca, tu erutti blasfemia / vivi per grazia di Dio, ma vivi felice /
(ti sento vantare) grazie alla tua filosofia». 23 Nel Paradiso riconquistato di John
Milton (1671), Gesù stigmatizza «l’orgoglio filosofico» degli stoici: «Parlano
tanto di anima, ma sempre male; / e in se stessi cercano la virtù; e per se stessi /
si arrogano tutta la gloria, e niente lasciano a Dio» (4, vv. 313-315).
Descartes è in genere considerato il padre della filosofia e del pensiero
scientifico moderni, ma nella sua visione etica egli guardò spesso agli antichi e
in particolare alla Vita felice di Seneca, trattato sul quale si soffermò a lungo
nelle lettere che scrisse alla principessa Elisabetta del Palatinato nel 1645. Come
Seneca e altri stoici, anche Descartes pone l’accento su un uso corretto della
ragione come strumento essenziale per la felicità, ma, diversamente dallo
scrittore latino, afferma che il fine ultimo dell’uomo non è la virtù e neppure una
vita condotta in armonia con la natura, ma la felicità, che, pur discendendo dalla
virtù, non coincide con essa. E, infine, per Descartes le passioni non sono
pericolose né fuorvianti, ma sono «tutte buone per natura». 24
Dello stoicismo, per lo più di matrice senecana, negli ultimi decenni del
Seicento e nel Settecento, piacevano soprattutto la promessa di salvezza su
questa terra e l’enfasi sulla capacità umana di conquistare la felicità senza
interventi esterni, soprannaturali. Jean-Jacques Rousseau trasse da Seneca
l’epigrafe per il suo Emilio o dell’educazione: «Soffriamo di malattie guaribili, e
la natura stessa, che ci ha generato per la rettitudine, ci aiuta, se vogliamo
emendarci». 25 Nel Pantheisticon o La formula per celebrare la società socratica
di John Toland, una sorta di liturgia del panteismo, i personaggi intonano inni
tratti direttamente da Seneca, e proclamano: «Per condurre una vita felice basta
la sola Virtù». 26 Nel periodo illuministico lo stoicismo assunse una nuova
importanza politica, perché prometteva di «restituire l’uomo alla sua dignità
etica». Thomas Jefferson, secondo alcuni studiosi, utilizzò, forse
inconsapevolmente, il «linguaggio della filosofia stoica» nella Dichiarazione di
indipendenza, quando affermò che «tutti gli uomini sono creati uguali». 27 Il suo
linguaggio sessista, con il maschile usato per indicare tutti gli esseri umani, è in
perfetta sintonia con l’esaltazione stoica della virtù virile e di un modello di
uguaglianza sociale che lascia ben poco spazio al cambiamento materiale e
istituzionale.
Secondo alcuni pensatori illuministi, gli stoici erano deisti se non atei.
Nell’Enciclopedia Denis Diderot li definì addirittura «materialisti, fatalisti e, in
senso stretto, atei». 28 David Hume, invece, ne criticò la propensione del tutto
irrazionale alla superstizione, con la loro fede nella provvidenza e nella
benevolenza della natura: «Gli stoici uniscono l’entusiasmo filosofico alla
superstizione religiosa». 29
Il giudizio positivo che Diderot diede su Seneca suscitò molte reazioni in
Francia. Nel 1778 lo studioso pubblicò la sua ultima grande opera, Saggio sui
regni di Claudio e Nerone, e sui costumi e gli scritti di Seneca, nella quale
incluse anche un saggio sulla vita di Seneca scritto in precedenza, in cui
difendeva con tenacia lo scrittore latino dalle critiche antiche e moderne. Egli si
identificava con l’antico filosofo, costantemente sotto assedio, che aveva cercato
invano di guidare i poteri pubblici e i regnanti del suo tempo e che, pur
calunniato, perseguitato e disonorato quand’era in vita, aveva conservato sempre
un cuore retto e aveva saputo distinguere chiaramente fra la vita e l’arte. «I
detrattori di Seneca hanno una sorprendente somiglianza con quelli dei
philosophes», scriveva, e Seneca era paragonabile a Socrate, verso il quale egli
aveva già espresso la sua ammirazione. Fu l’ultimo, disperato, tentativo di
Diderot di rivendicare un ruolo pubblico ai filosofi. Anche se l’opinione
pubblica, affermò, fosse stata sorda alle loro parole (come Nerone alle parole di
Seneca), il loro insegnamento avrebbe comunque conservato tutto il suo valore.
L’interpretazione di Diderot aveva una sua peculiarità, che non sfuggì ai
contemporanei, tanto che alcuni parlarono di «Querelle pour Sénèque», e nei
dibattiti sui valori dei nuovi intellettuali rispetto al vecchio establishment
politico e religioso, Seneca finì con l’occupare il centro della scena.
L’influenza del Seneca drammaturgo ha una storia quasi interamente distinta
da quella del Seneca scrittore politico, teologico e filosofico. Per molto tempo,
intere generazioni furono convinte che il Seneca philosophicus fosse un autore
diverso dal Seneca tragicus: secondo alcuni, il filosofo era Seneca padre e il
tragediografo Seneca figlio. Le sue opere teatrali ebbero un’influenza enorme sui
primi sviluppi della drammaturgia europea in generale e britannica in
particolare. 30 Nel Cinquecento, in cui i tragici greci erano quasi del tutto
sconosciuti, i drammi di Seneca entrarono a far parte del curriculum scolastico e
divennero il modello di riferimento del teatro nuovo, che prendeva il posto dei
vecchi misteri medievali. La rappresentazione della Fedra, che andò in scena a
Roma nel 1485, può essere considerata il punto di partenza del dramma
moderno. Il teatro italiano, profondamente influenzato da Seneca, originò una
nuova forma di tragedia, che si diffuse in Spagna, Francia e Inghilterra, anche se
con modalità diverse da paese a paese. Quasi tutta la drammaturgia della prima
modernità adottò la struttura della tragedia senecana, compresa la divisione in
cinque atti. In Inghilterra, le opere più antiche, come Gorboduc, introdussero
anche il coro classico, che però fu presto abbandonato. Di derivazione
sicuramente senecana furono nelle tragedie rinascimentali i temi della vendetta
(come nella Spanish Tragedy di Thomas Kyd, nella Revenger’s Tragedy
attribuita a Thomas Middleton e nell’Amleto di Shakespeare), dei fantasmi, della
violenza, di protagonisti trascinati dall’ambizione smisurata a commettere atti
sempre più spettacolari di aggressione e dominio, come il Tamerlano e il Doctor
Faustus di Christopher Marlowe. L’influenza di Seneca agì anche sul linguaggio:
i nuovi personaggi impararono a parlare ispirandosi ai dialoghi magniloquenti e
alle battute rapide, aforistiche, delle sue tragedie. All’inizio gli scrittori
leggevano le tragedie nell’originale latino, ma nel 1581 comparve la traduzione
inglese in una nuova collezione curata da Thomas Newton, Seneca: His Tenne
Tragedies. L’imitazione di Seneca divenne talmente di moda che Thomas Nashe
ne scrisse la satira nella prefazione al Menaphron di Thomas Green:

Il Seneca inglese, letto a lume di candela, regala molte belle frasi, come il sangue è un
mendicante e così via; e se ti intrattieni con lui in un gelido mattino, ti offrirà interi Amleti, e
discorsi tragici, oserei dire, a manciate. Ma, ahimè! Tempus edax rerum (il tempo tutto
divora): c’è forse qualcosa che duri per sempre? Il mare, che evapora a gocce, con il tempo si
prosciugherà, e Seneca, che sanguina verso dopo verso e pagina dopo pagina, alla fine morirà
per il nostro teatro.

Sul palcoscenico, afferma Nashe, Seneca era già moribondo nella seconda
metà del Cinquecento, eppure aveva davanti a sé un cammino ancora lungo. I
suoi drammi costituirono un retaggio importante per la tragedia giacobiana del
secolo successivo, per scrittori come Webster e altri. Nel famoso verso della
Duchessa di Amalfi «Sono ancora la duchessa di Amalfi!», risuona il «Medea
nunc sum!» della Medea senecana.
Si potrebbe anche pensare che nel Cinque-Seicento il teatro di Seneca
piacesse tanto ai lettori, agli scrittori e al pubblico perché quello greco era quasi
del tutto sconosciuto, e che Shakespeare avrebbe scritto diversamente se avesse
letto Eschilo, Sofocle ed Euripide. Ma sarebbe un’interpretazione piuttosto
riduttiva. Le tragedie greche più lette e amate dagli spettatori erano quelle dal
carattere più senecano, come l’Ecuba di Euripide: con la sua trama di vendette e
apparizioni di fantasmi era uno dei testi più tradotti in latino e quindi più noti nel
periodo shakespeariano. Se il teatro senecano era così popolare e influente era
perché aveva un’affinità profonda con una serie di specifiche preoccupazioni
culturali allora particolarmente sentite, dall’affermazione dell’Io all’ira, che il
drammaturgo latino aveva espresso con tanta efficacia. L’altra faccia della
constantia, che Lipsio rintracciava nella prosa senecana, era la terribile
insistenza sull’identità individuale, sull’aspirazione disperata al dominio sul
mondo e alla vendetta, e sul desiderio schizofrenico di potere, incarnato da
Atreo, da Medea e dal folle Ercole: tutte espressioni dello spirito imperialista
impazzito. Il potere, l’autoaffermazione, la vendetta e la costruzione di un
universo non cristiano, nel quale la ruota della fortuna gira costantemente, sono i
temi tipici del teatro di Elisabetta e di Giacomo I, e sono tutti mutuati da Seneca.
L’Europa di allora aveva, come la Roma imperiale, istituzionalizzato lo
spettacolo della violenza, ed era questa la sorgente di quell’interesse così vivo
per il teatro senecano. Entrambe le culture, vigorose e consapevoli della propria
novità, erano alla ricerca di modi per rappresentare spettacoli di distruzione e
assistervi da spettatori. 31
In Francia, l’influenza di Seneca produsse un teatro piuttosto diverso da quello
britannico, formalmente più controllato e rispettoso delle «unità» classiche di
spazio e tempo, con trame ispirate al mondo antico. Pierre Corneille prese molti
spunti non solo dalle opere teatrali, ma anche da quelle in prosa di Seneca: la sua
grande tragedia intitolata Cinna (1641), per esempio, drammatizza un aneddoto
sulla misericordia di Augusto, tratto dalla Clemenza. Racine modellò il suo
capolavoro, Fedra, sull’Ippolito di Euripide e sulla Fedra di Seneca, ma il suo
rapporto con lo scrittore latino fu complesso e a volte anche ostile. Persino
quando, come nel Britannico, la trama è incentrata su avvenimenti accaduti
durante la vita di Seneca, la figura etica non è quella del filosofo, bensì quella di
Burro, noto per la «severità della sua morale», mentre a Seneca vengono
attribuite virtù più superficiali come «l’eleganza e l’affabilità». 32
Seneca ebbe un’influenza notevole, anche se per lo più sotterranea, sulla vita
culturale e politica del XVIII e XIX secolo, ma cominciò a essere guardato con
sospetto o addirittura completamente ignorato come grande autore della
letteratura latina dell’«età argentea» o imperiale. I suoi drammi così artificiosi e
ampollosi erano troppo lontani dal naturalismo imperante nel teatro e nel
romanzo. Se nel Cinque-Seicento si dava per scontato che le tragedie senecane
fossero state scritte per essere messe in scena – come di fatto accadeva –,
nell’Ottocento fra gli studiosi prevalse l’idea che fossero destinate soltanto alla
declamazione e non al palcoscenico, un motivo in più per condannarne
l’artificiosità. Lo stesso atteggiamento critico venne riservato anche agli scritti in
prosa, considerati il frutto artefatto di un ipocrita, che predicava bene e razzolava
male. Si era ormai affermata un’esigenza nuova di realismo, un bisogno di
«verità» nella letteratura come nella vita, e forse era anche diminuita la fiducia
nella capacità degli intellettuali di contribuire a migliorare il mondo. Se qualche
volta a Seneca veniva assegnato un ruolo in letteratura, come nel romanzo Quo
vadis?, si trattava comunque di un ruolo secondario.
I due saggi di T.S. Eliot, Seneca nelle traduzioni elisabettiane e Shakespeare e
lo stoicismo di Seneca del 1927, furono molto influenti e contribuirono, con il
pretesto di andare controcorrente, a perpetuare un atteggiamento profondamente
ostile soprattutto nei confronti delle tragedie. Esse sono state molto criticate,
osserva Eliot, ma giustamente, perché sono ampollose e «retoriche» nel senso
peggiore del termine: «Tutti i personaggi sembra che parlino sempre con la
stessa voce e al massimo volume». 33 La sua conclusione è che Seneca non ebbe
sul teatro elisabettiano, e su quello shakespeariano in particolare, l’influenza che
gli viene di solito attribuita. E per fortuna, dice. Nel secondo dopoguerra, però,
cominciò a farsi strada una concezione piuttosto diversa. In Germania, in
particolare, il rapporto infausto di Seneca con Nerone e l’ordine che gli venne
impartito di suicidarsi divennero metafore del nazismo e del
collaborazionismo. 34 A volte Seneca era ancora visto come l’adulatore di
Nerone, per esempio nel divertente film di Steno del 1956, Mio figlio Nerone,
che riprende la storia di Poppea. Ma poi cominciò a essere preso di nuovo sul
serio. In Gran Bretagna, nel 1968, Ted Hughes scrisse un adattamento
dell’Edipo, nel quale ingigantiva l’orrore e la desolazione del testo originale. 35 A
poco a poco Seneca divenne di nuovo significativo, non più tuttavia quale
difensore della clemenza o campione dell’autocrazia com’era accaduto agli
albori dell’età moderna, bensì quale scrittore le cui preoccupazioni politiche e le
cui insoddisfazioni prefiguravano le esperienze della globalizzazione e del
totalitarismo.
Il modello senecano di etica, così pragmatico, attirò sempre più l’attenzione
degli intellettuali, dei filosofi, e persino degli psicoterapeuti. Michel Foucault,
nella Cura di sé – terzo e ultimo volume della Storia della sessualità –, mostra
un interesse particolare per l’autoanalisi e per il modello di Sé proposti da
Seneca, un modello che va praticato e posto in essere attraverso l’azione, e un Sé
«interlocutorio» e «sociale» che lo studioso francese reputa la migliore
alternativa all’Io dualistico di Descartes e dei suoi eredi. Alcuni critici, come
Pierre Hadot, hanno sostenuto, plausibilmente, che Foucault ha distorto il
concetto senecano di Sé a causa di un’eccessiva identificazione. Per Hadot,
Seneca era invece importante come filosofo dell’«interiorità». 36 A noi, però, non
interessa tanto se Foucault abbia torto o ragione su Seneca, quanto che lo abbia
trovato così utile per ripensare i suoi concetti di identità individuale. Nella Cura
di sé, Foucault, prendendo spunto da Seneca (ed Epitteto), giunge ad ammettere
che forse il divario fra la psicoterapia, l’attivismo politico, la politica
dell’identità e la filosofia etica è meno profondo di quanto si ritenesse un
tempo. 37 L’analisi senecana dell’ira e delle emozioni in generale regge il
confronto con l’analisi moderna dei disturbi emotivi e della salute mentale, e ha
particolari affinità con il movimento psicologico della terapia cognitiva.
Negli Stati Uniti, in questi ultimi anni, si è verificato un risveglio di interesse
per lo stoicismo, e altrettanto è avvenuto nella cultura europea, inclusa quella
britannica. I modelli preferiti da quanti guardano al mondo antico in cerca di
guida per l’autoaiuto sono Epitteto e Marco Aurelio. 38 Questo accade perché in
Seneca la possibilità dell’individuo di corrompersi ed essere oppresso dai sensi
di colpa occupa uno spazio maggiore, e la lettura dei suoi scritti può non essere
altrettanto confortante. L’etica intorno a cui ruota il Gladiatore di Ridley Scott
(2000) non è quella di Seneca, ma di Epitteto, e lo stesso discorso vale per
Conrad Hensley, l’operaio, apparentemente ammirevole, del prolisso romanzo di
Tom Wolfe, Un uomo vero. In questo libro, lo stoicismo di matrice chiaramente
epittetiana diventa uno strumento utile per superare i tempi bui del tardo
capitalismo: il disonore, la perdita della ricchezza e la recessione economica.
Seneca, con le sue enormi ricchezze e la sua vita per lo più privilegiata, non è un
modello altrettanto utile: l’amore per il dialogo e il paradosso lo rendono meno
prezioso come strumento di autoaiuto, così come la continua insistenza sulla
morte e il suicidio e, soprattutto, il fatto che si definisca non un saggio, bensì un
discente, uno che cerca giorno dopo giorno di andare verso la meta.
Eppure è proprio per la sua complessità che Seneca meriterebbe di essere
studiato con particolare attenzione in un’epoca, la nostra, che per molti versi
ricorda quella in cui egli visse. La scrittrice Suzanne Collins coglie alcune di
queste analogie nella sua famosa trilogia The Hunger Games, la cui popolarità
dovrebbe essere già sufficiente a farci comprendere quanto sia grande la
rilevanza del pensiero senecano per il nostro tempo. La saga si svolge in un
mondo distopico, che è un amalgama fra gli Stati Uniti (in un’era futura dai tratti
esasperati, ma ben riconoscibili) e la Roma imperiale. Collins sottolinea le
spaventose diseguaglianze di ricchezza, status, potere, nonché il ricorso alla
morte violenta nell’«arena» per intrattenere e soggiogare le masse: panem et
circenses, come scriveva Giovenale. I tre romanzi sono una meditazione su temi
senecani, dal vuoto di una vita spesa al servizio di piaceri elitari alla questione di
come riuscire a conservare la propria integrità quando si è intrappolati in
situazioni orribili. Uno dei personaggi della saga, Peeta, prima di entrare
nell’arena, afferma: «Voglio morire come me stessa», un desiderio che più
senecano di così non potrebbe essere. I personaggi si trovano continuamente di
fronte a scelte impossibili: ritirarsi o ribellarsi, uccidere o collaborare con un
regime oppressivo e omicida. Non a caso, l’ideatore dei Giochi, ai quali
partecipa per la prima volta l’eroina, si chiama Seneca Crane. Il suo ruolo,
piuttosto modesto nella trilogia, viene molto ampliato nella versione
cinematografica del primo libro (The Hunger Games, 2012), e il suo rapporto
stretto, ma assai pericoloso, con il malvagio presidente Snow contiene evidenti
echi del rapporto fra Seneca e Nerone. Seneca Crane è l’ambasciatore e
portavoce del governo; il suo successo dipende dalla sua bravura nel creare
scenari complessi, in cui spingere gli adolescenti a massacrarsi per il
divertimento del pubblico. Per sua disgrazia, però, egli ha «una sfortunata vena
sentimentale», dice Snow, che gli instilla la tentazione di fare in modo che i due
protagonisti sopravvivano ai Giochi. Questo moderno Seneca, come il suo
lontano omonimo, è tormentato dalla sua posizione di cerimoniere del regime, e
come il Seneca neroniano è costretto a togliersi la vita. Nel secondo romanzo
della trilogia, Katniss Evergreen esprime la propria opposizione al regime, di cui
percepisce il punto debole, scrivendo «Seneca Crane» su un pupazzo appeso a
un cappio.
L’Occidente odierno, con il consumismo, le massicce diseguaglianze sociali e
l’esplosione della globalizzazione con i suoi commerci mondiali, ha evidenti
somiglianze con la Roma imperiale. Le élite, e non solo loro, sono alle prese,
come lo era Seneca, con le pressioni psicologiche esercitate da un eccesso di
ricchezza materiale unita alla mancanza del senso individuale di autonomia e di
partecipazione ai processi politici. L’orgoglio non è più considerato un difetto
nella società statunitense o britannica contemporanea, come accadeva invece
nell’Europa cristiana, tuttavia la versione senecana dell’affermazione di sé, così
tetra, titubante e morbosa, fornisce un utile correttivo all’ottimismo insensato
che si tenta di spacciare per fiducia in se stessi. 39 Dello stoicismo di Seneca
possono appropriarsi tanto le religioni monoteiste quanto le culture secolari: il
«nuovo stoicismo» di Larry Becker tenta di spogliare quello antico del ruolo
assegnato alla provvidenza e di reinventarlo per uomini e donne dotati di una
mentalità «scientifica» alle prese con le avversità del nostro mondo. 40
Seneca è stato soprannominato «la coscienza dell’impero», 41 ma lo si
potrebbe con più precisione definire il suo inconscio, un inconscio che però
aveva una voce pubblica e un ammirevole stile letterario. Il corpus delle sue
opere, eclettico e discordante, esprime le contraddizioni psicologiche e le
pressioni del consumismo, della globalizzazione e dell’impero, tutti temi di
enorme importanza per il mondo attuale, occidentale e no. L’idea che gli esseri
umani possano trovare la pace soltanto dentro di sé esercita un’attrattiva
particolare in una società frammentata e impaurita come la nostra. I difficili
tentativi senecani di conciliazione fra interiorità ed esteriorità, fra centro e
periferia, hanno un sapore di straordinaria modernità. Possiamo anche dubitare
della verità o utilità politica ed etica della nozione per cui soltanto chi è davvero
virtuoso può essere felice. Ma persino coloro che sono scettici verso lo stoicismo
riconoscono il fascino persistente della psicologia di Seneca, della sua vita fosca
e della sua opera letteraria complessa, paradossale e feconda.
CRONOLOGIA

Nascita di Seneca il Vecchio, padre del filosofo, a Cordova, in


ca. 54 a.C.
Spagna.
44 Assassinio di Giulio Cesare.
43 Assassinio di Cicerone (oppositore di Marco Antonio).
Battaglia di Azio: Ottaviano, in seguito Augusto, sconfigge
31 Marco Antonio e Cleopatra. La battaglia segna la fine delle
guerre civili e l’inizio del principato.
Augusto completa la conquista della Spagna romana
19
(Hispania).
Nascita di Lucio Anneo Novato (in seguito noto come
ca. 8 Gallione), fratello maggiore di Seneca, figlio di Seneca il
Vecchio ed Elvia.
ca. 4 Nascita di Lucio Anneo Seneca a Cordova, in Spagna.
? 1 Nascita di Marco Anneo Mela, fratello minore di Seneca.
Seneca è condotto a Roma per studiare retorica e filosofia
ca. 5 d.C.
(quest’ultima con Attalo e il sestio Sozione).
Morte di Augusto, ascesa al trono di Tiberio, suo figlio
14
adottivo.
Seneca, molto malato, parte per l’Egitto con la zia materna e il
ca. 20
marito.
Seneca torna a Roma. Lo zio muore nel naufragio della nave su
31
cui viaggiava. Seneca si prepara alla sua prima magistratura.
ca. 37-41 Seneca scrive La provvidenza.
37/38 Morte di Tiberio, ascesa al trono di Caligola.
Nascita di Nerone, figlio di Gneo Domizio Enobarbo e
37
Agrippina minore.
38-40 Conflitto fra Caligola e Seneca; Seneca sfugge alla morte
perché molto malato.
ca. 38/39 Muore Seneca il Vecchio.
ca. 38 Consolazione a Marcia.
Primo matrimonio di Seneca. Nascita di un figlio. Crea una rete
ca. 40 di contatti a corte e stringe amicizia con Agrippina e sua sorella
Giulia Livilla.
40/41 Muore il figlio di Seneca.
Claudio diventa imperatore. Seneca, accusato di adulterio con
41 Giulia Livilla, viene esiliato in Corsica su richiesta di
Messalina.
ca. 43/44 Consolazione a Polibio.
ca. 46-48 Consolazione alla madre Elvia.
ca. 48-55 La brevità della vita.
Seneca compone i primi due libri dell’Ira, dedicata al fratello
42-49
maggiore Novato.
Fine dell’esilio in Corsica per intervento della madre di
49 Nerone, Agrippina, che lo assume come maestro di retorica per
il principe dodicenne.
Novato è governatore dell’Acaia e proscioglie l’apostolo Paolo
ca. 51-53
dalle accuse rivoltegli dagli ebrei.
Morte di Claudio, avvelenato dai funghi. Ascesa al trono di
Nerone diciassettenne con l’appoggio dei militari e di Burro,
ott. 54 prefetto del pretorio. Seneca scrive i discorsi tenuti da Nerone,
fra cui l’orazione funebre di Claudio e il discorso al Senato sul
programma del nuovo regime.
Seneca scrive l’Apocolocintosi, una satira sulla deificazione di
dic. 54
Claudio. Nerone lo nomina suo consigliere insieme a Burro.
Assassinio di Britannico, ufficialmente morto per un attacco di
55
epilessia.
55/56 Seneca scrive La clemenza.
55 (?) Novato diventa console (la più alta carica politica di Roma).
56 Consolato di Seneca.
Assassinio di Agrippina, madre di Nerone e protettrice di
59
Seneca.
ca. 55-62 La vita felice, dedicata al fratello Novato.
ca. 56-62 I benefici.
Seneca e altri finanzieri romani chiedono alla provincia della
60/61 Britannia la restituzione dei prestiti. La regina Boudicca guida
la rivolta, fallita, del suo popolo contro Roma.
Morte di Burro; Tigellino diventa prefetto del pretorio. Seneca,
62 dopo la richiesta respinta di ritirarsi, vive il più possibile
appartato. Muore l’amico Sereno.
62-64 Scrive le Questioni naturali e le Lettere morali a Lucilio.
Tenta di nuovo di ritirarsi a vita privata, adducendo motivi di
64
salute. Incendio di Roma.
Congiura pisoniana, tentato omicidio di Nerone. Accusato di
65 complicità, Seneca è costretto al suicidio. La stessa sorte tocca
al nipote Lucano e a molti altri.
Mela, fratello di Seneca, Petronio e il senatore Trasea Peto
66
sono costretti a suicidarsi.
Colpo di stato contro Nerone, che fugge da Roma e si uccide.
68
Caos politico.
L’anno dei quattro imperatori, ciascuno dei quali caccia il suo
69
predecessore.
NOTE

Introduzione
1. La descrizione più accurata e completa della morte di Seneca (e di come fu accolta) si trova in Ker, 2009.
2. Sull’argomento, si veda Wilson, 2007.
3. Si allude qui al titolo del più informato fra i saggi accademici attuali sulla vita politica di Seneca: Miriam
Griffin, Seneca: A Philosopher in Politics (Griffin, 1976).
4. Rubens conobbe Seneca attraverso il neostoicismo dell’amico Lipsio e ne fu profondamente influenzato.
Si veda Morford, 1991.
5. L’esilio di Seneca verrà discusso più dettagliatamente nel capitolo II.
6. Il tentativo più ampio è Griffin, 1976, con un racconto dettagliato e ricco di sfumature, dettato dalla piena
consapevolezza dei problemi che pone questo tipo di ricerca. Sulle difficoltà e sulla desiderabilità di
considerare nell’insieme tutte le opere conservate di Seneca si veda in particolare Volk e Williams, 2006.
7. Si veda Bartsch e Wray, 2009.
8. Sulla dissimulazione si vedano Rudich, 1993, e Rudich, 1997. Si veda anche Bartsch, 1994.
9. La migliore biografia di Cicerone è Rawson, 1975.
10. Si veda in particolare Tacito, Dialogo sull’oratoria, Rizzoli, Milano 1993.
11. Quasi tutte le informazioni sullo stoicismo delle origini provengono dall’inaffidabile e aneddotico Vite
dei filosofi di Diogene Laerzio (Laterza, Roma-Bari 2010).
12. Si veda Asmis, 1996.
13. Si veda, in particolare, Luciano nell’Hermotimus, un dialogo, presumibilmente immaginario, fra la
controfigura dello scrittore e un amico sciocco, che è stato accalappiato dagli stoici. L’alter ego dello
scrittore ribadisce continuamente che la pretesa stoica di insegnare la verità è fuorviante e la vita è
troppo breve per essere sprecata in chiacchiere.
14. Si veda Long e Sadlay, 1987.

I. «Sagace è la sollecitudine dei genitori»


1. Si veda Orazio, Satire 1, 4.
2. Si veda Edwards e Woolf, 2003 per la visione romana della capitale e delle sue periferie.
3. Si veda Valerio Massimo 4, 4, 4; Livio 3, 26-29.
4. Si veda Keay, 1988; Curchin, 1995.
5. Knapp, 1983.
6. Gli storici hanno molto discusso sullo status della nuova città in base al diritto romano. Si vedano Knapp,
1983, e Griffin, 1976.
7. Knapp, 1983.
8. Griffin, 1976.
9. Uno iugero corrispondeva a circa 2500 metri quadrati.
10. Sulla passione di Seneca per le vigne e gli uliveti, si vedano Griffin, 1976, p. 287, e Griffin, 1972.
11. Epigramma 409, dall’Antologia latina, di dubbia autenticità.
12. Sull’educazione delle donne a Roma si vedano Hemelrijk, 1999, e Levick, 2002.
13. Sugli aspetti teatrali della declamazione si veda Gleason, 1995.
14. Si veda Winterbottom, 1974, Introduzione.
15. Si vedano Vassileiou, 1973, Sussman, 1978, e soprattutto l’analisi di Fairweather, 1981.
16. Sulla esemplarità si veda Roller, 2004; su Valerio Massimo si veda Bloomer, 1992.
17. Si veda Sussman, 1978, p. 28.
18. Ibid.; cfr. Lettera 108 (su cui si veda sotto) e Consolazione alla madre Elvia 17, 3-4.
19. W. Scheidel ed E. Meeks (2 maggio 2012), in Orbis (Stanford Geospatial Network Model of the Roman
World), http://orbis.stanford.edu.
20. Morley, 1996, pp. 33-39.
21. Per una breve sintesi si veda Volk e Williams, 2006; per un’analisi culturale e filosofica più dettagliata
si veda Morford, 2002.
22. Sulla scuola dei Sestii, Manning, 1987, effettua la distinzione più completa fra questa e altre scuole,
come i pitagorici e gli stoici. Si vedano anche Lana, 1959, e Griffin, 1976.
23. Sull’analogia fra questo passo e l’Ercole furioso, si veda Wilson, 2004.
24. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cap. 25.

II. «Chi è dappertutto non è in alcun luogo»


1. La vita felice 20, 5: «Saprò che la mia patria è il mondo e i miei governanti sono gli dei, e che essi stanno
attorno a me e sopra di me con funzione di censori di quanto faccio e dico».
2. Una forte rivalutazione di Caligola si trova in Winterling, 2001. L’autore sostiene che molte delle sue
azioni ritenute folli erano in realtà mosse politiche sensate e calcolate per consolidare il potere imperiale
contro l’ostilità del Senato e dell’aristocrazia.
3. Si veda La costanza del saggio 18, in cui Seneca racconta che con il suo comportamento brutale Caligola
suscitava nei sudditi una collera pari alla sua, che alla fine sfociò nel suo assassinio; si veda inoltre L’ira
1, 20, 7, in cui egli ricorda la folle convinzione di Caligola di essere più potente degli dei e (3, 18, 3) in
cui narra come l’imperatore, mentre passeggiava nei giardini con un certo numero di senatori e relative
mogli, ne fece decapitare alcuni. Altri esempi della crudeltà e della follia di Caligola si trovano nella
Brevità della vita 18, 5; nella Consolazione a Polibio 17, 4 (incapacità di soffrire per la morte della
sorella); nella Consolazione alla madre Elvia (stravaganza e spreco dei suoi banchetti); nei Benefici 2, 12
(comportamento oltraggioso verso un senatore) e 7, 11 (tentativo di corruzione); nella Lettera 94, 65
(guerre motivate da desideri egoistici).
4. Bartsch, 1994.
5. Di Giulio Cano parla Plutarco, frammento 211.
6. Si veda Rudich, 1993.
7. Griffin, 1976.
8. Rudich, 1997, pp. 27-35.
9. Si veda Bougery, 1936.
10. I frammenti sono riuniti con un ricco commento in Vottero, 1998, e in Contro il matrimonio, ovvero
perché all’uomo saggio non convenga prendere moglie, a cura di M. Lentano, Palomar, Bari 1997.
11. Il punto di vista epicureo è in realtà più complesso, come dimostra un passo piuttosto controverso della
Vita di Epicuro di Diogene Laerzio, DL X, 119, in cui sembra di capire che un uomo saggio dovrebbe
sposarsi e avere figli. Il passo è stato però talora emendato per esprimere il contrario: il saggio «non»
dovrebbe sposarsi né avere figli. Per un’analisi del passo si veda Chilton, 1960.
12. Tacito, Annali 12, 60; Svetonio, Claudio 29.
13. Questa è la tesi sul regno di Claudio sostenuta di recente da Josiah Osgood.
14. Si veda Osgood, 2011. Crispo Passieno morì nel 55 e fu compianto da Seneca in un epigramma spurio;
in Questioni naturali 4, Prefazione, Seneca lo definisce un caro amico.
15. Giuseppe Flavio Antichità giudaiche, 19, 4.
16. Consolazione a Polibio 13; Griffin, 1976, pp. 5-6.
17. Si veda Fantham, 2007, pp. 175-176.
18. Griffin, 1976.
19. Si veda in particolare Wallace-Hadrill, 1996.
20. Si veda Stini, 2001. Per maggiori informazioni bibliografiche sull’esilio si vedano Kelly, 2006, e
Gaertner, 2007.
21. Orbis (Stanford Geospatial Network Model of the Roman World), http://orbis.stanford.edu.
22. Come osserva Griffin, 1976 (p. 288), la punizione legale per l’adulterio secondo la Lex Julia era
sicuramente la relegazione, e lo Scoliaste di Giovenale 5 attesta che Seneca fu relegatus in base a questa
accusa.
23. La legge contro l’adulterio prevedeva che un condannato per adulterio fosse privato di metà dei suoi
beni. Cfr. l’allusione di Seneca alla perdita dei suoi beni nella Consolazione alla madre Elvia.
24. Si veda Fantham, 2007.
25. La provvidenza e Lettera 24.
26. P.L.M. vol. IV.3.
27. P.L.M. vol. IV.2.
28. Gregorovius, 1855, vol. I, p. 217.
29. Consolazione alla madre Elvia 6, 5, 9, 1. Cfr. Teofrasto 5, 8, 2; Plinio, Storia naturale 16, 71; Diodoro
5, 13, 1.
30. Gahan, 1985.
31. Svetonio, Claudio 28.
32. Dione, Storia romana 60, 10, 2.
33. Il trattato fu sicuramente scritto dopo la morte di Caligola (verso il quale Seneca è molto ostile, cosa che
sarebbe stata molto pericolosa con l’imperatore in vita) e prima dell’adozione del fratello Novato da
parte di Gallione (la cui data non è comunque certa ed è situata fra il 41 e il 52 d.C.).
34. Griffin, 1976, Appendice, nota c, p. 398, critica giustamente la tesi che L’ira sia stato scritto per intero
prima dell’esilio nel 41: gli argomenti discussi nel trattato, incluso il disprezzo della vita di corte, hanno
dei paralleli in altri testi senecani del dopo esilio.
35. Il termine «passioni» viene di solito usato per tradurre il latino affectus e il greco pathos. Ma la
terminologia è potenzialmente fuorviante, perché la parola «passione» tende a suggerire una forma
particolarmente intensa di emozione. Il problema per gli stoici non è l’intensità emotiva, tant’è vero che
il saggio perfetto proverà una gioia intensa, ma il fatto che l’affectus è un’emozione basata su una falsa
percezione della realtà e perciò destinata inevitabilmente a sconvolgere la tranquillità degli esseri umani
e quindi a renderli infelici.
36. Graver, 2007.
37. Si veda Bourdieu, 2008. Il tema è trattato con precisione da Osgood, 2011.
38. L’ira 1, 20, 4, citato anche nella Clemenza.
39. Inwood, 2008.
40. La distinzione è discussa nei dettagli in 2, 2, 1 sgg.
41. L’Ercole eteo non è probabilmente di Seneca e l’Ottavia non lo è certamente.
42. Ercole furioso v. 612: morte contempta redi. Ercole è appena tornato dagli Inferi con Teseo. Non sa
quali orrori l’attendono: Giunone l’ha reso folle ed egli ucciderà la moglie e i figli, convinto che siano la
famiglia del suo nemico, il tiranno Lico.
43. A Ostia per assistere a un sacrificio (Tacito, Annali 2, 37) o intento a ispezionare un rifornimento di
grano (Cassio Dione, Storia romana 60, 48).
44. Scoliaste di Giovenale 5, 109.

III. «Nessun vizio è senza ricompensa»


1. Le fenicie vv. 618-619.
2. ... hoc sedent alti toro/quibus superba sceptra gestantur manu, / locus hic habendae curiae – hic epulis
locus. / Libet reverti. Nonne vel tristes lacus / incolere satius?
3. Scoliaste di Giovenale 5, 109.
4. Un’ottima analisi del passo si trova in Ker, 2009.
5. Voci messe in discussione da Grimm, 1991.
6. Si veda Leach, 1989.
7. Si veda Tacito, Annali 13, 11. Anche Svetonio elogia l’intenzione di Nerone di governare alla maniera di
Augusto e osserva che le sue prime misure furono gradite al Senato e al popolo (Svetonio, Vita di Nerone
10).
8. Per forma e contenuto – alternanza di prosa e versi, di elementi seri ed elementi comici e fantastici – il
testo si situa nella categoria della satira menippea, genere su cui si veda in particolare Relihan, 1993.
9. La migliore analisi è Leach, 1989. Si veda anche l’edizione con introduzione, Eden, 1984.
10. Tacito, Annali 13, 2.
11. Griffin, 1994.
12. Su questa tradizione si veda Murray, 2007, che sottolinea quanto siano limitate e deludenti le nostre
informazioni sui trattati ellenistici relativi ai governi monarchici.
13. Si veda Barnes, 1974 sul nesso consolato-nobiltà.
14. Si veda Lindsay, 2009.
15. Ovidio, Lettere dal Ponto 4, 2.
16. Plinio, Storia naturale 31, 62.
17. Ibid.
18. Tacito, Annali 13, 13.
19. Su Pallante si veda Oost, 1958.
20. Nerone, scrive Seneca, ha appena compiuto diciotto anni (1, 9, 1), e, poiché il suo diciottesimo
compleanno cadeva il 15 dicembre 55, la conclusione ovvia è che La clemenza fu composta dopo questa
data (fine dicembre 55 o gennaio 56), ossia una decina di mesi dopo la morte di Britannico.
21. Braund, 2011.
22. Leach, 1989.
23. L’argomento è ottimamente trattato in Leach, 1989.
24. Veneno in auro bibitur, Tieste v. 453. Così dice Tieste mentre cerca di resistere alla sontuosa accoglienza
del fratello. Ma presto cambia idea, accetta l’invito ed entra nella reggia, dove con l’inganno gli vengono
dati in pasto i figli.
25. Sulla ricchezza di Seneca si veda Griffin, 1976, cap. 9: «Seneca praedives». Si vedano anche Levick,
2003, e Fuhrer, 2000.
26. Macmullen, 1974.
27. Scheidel e Friesen, 2009.
28. Per altri esempi su cittadini romani con enormi patrimoni si veda Duncan-Jones, 1994, pp. 343-344.
29. Routledge, 2001.
30. Ivi, pp. 270-271.
31. La data deve essere posteriore al 58, perché Seneca indica il fratello maggiore con il nome di Gallione,
che egli assunse con l’adozione, avvenuta certamente nel 59.
32. Si veda la critica tagliente della posizione stoica verso la povertà e la giustizia sociale in Nussbaum,
2004.
33. Per un’analisi estesa di questo testo si veda Griffin, 2013. Griffin sottolinea giustamente che nei
Benefici Seneca mostra scarso interesse per il patronato e la giustizia sociale, e si occupa sostanzialmente
del «codice di beneficenza della aristocrazia romana» e «insiste sull’inclusione del principe all’interno
dell’aristocrazia stessa» (p. 168).
34. I benefici 3, 7, 3: «Così roviniamo le due cose più belle della vita associata: la gratitudine e il beneficio;
che cosa c’è di nobile in chi non concede un beneficio, ma lo presta o in chi lo contraccambia non perché
vuole, ma perché è obbligato?».
35. Su questo testo si veda l’eccellente Griffin, 2013.
36. Un tempo gli studiosi ritenevano che la fonte principale fosse un’opera, sullo stesso argomento, di
Ecatone di Rodi andata perduta, ma Inwood, 2008, ha confutato in modo convincente i presupposti di
questa tesi.
37. Questo punto è sottolineato da Griffin, 2013.
38. Fear, 2007.
39. Le troiane vv. 1124-1126: «... e in declivio viene sorgendo / una valle che abbraccia i luoghi in mezzo /
si alza come un teatro». Questo è il luogo in cui la folla si riunisce per assistere al sacrificio di Polissena
sulla tomba di Achille.
40. Si veda Edwards, 1993, cap. 3 «Playing Romans».
41. Epitteto 4, 1, 45-50: il passo è discusso da Long, 2004.

IV. «Agevole non è dalla terra agli astri il cammino»


1. L’ozio 1, 4 («Quid agis, Seneca? Deseris partes?»). Il termine partes può anche indicare la parte in una
recita: Seneca immagina il suo ritiro come un cambio di ruolo, ma con connotazioni di diserzione,
abbandono di un dovere politico o di un posto militare.
2. Nessuna certezza sulla data: il dialogo potrebbe essere stato composto in un momento qualsiasi prima
della morte del dedicatario, Sereno, avvenuta nel 64, ma probabilmente fu sotto Nerone e prima del ritiro
di Seneca. Si veda Griffin, 1976.
3. Tesi sostenuta da Griffin, 1972, e Griffin, 1976, pp. 319-320.
4. Petronio V (trad. it. di P. Chiara, Mondadori, Milano 2003, p. 71): è l’iscrizione sulla porta della casa di
Trimalcione.
5. Il titolo originale del Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald era Trimalchio in West Egg.
6. Si veda in particolare Williams, 2012.
7. Su questo aneddoto si veda Bartsch, 2006.
8. Ker, 2011, p. 33.
9. Nello stesso passo Seneca si lancia in un’autogiustificazione della propria vita, sottolineando di avere
subìto l’esilio per lealtà verso gli amici (si veda supra, cap. II).
10. Si veda infra. La Domus Aurea fu costruita dopo l’incendio di Roma.
11. Si veda Bradley, 2008, che giustamente critica l’idealizzazione effettuata da Sørensen, 2005, e altri.
12. Nussbaum, 2004, presenta un’analisi molto acuta dei vari modi in cui questa visione, incoerente dal
punto di vista logico e moralmente ripugnante, fa ancora capolino dietro molte discussioni attuali sugli
aiuti alle popolazioni dei paesi più poveri.
13. Windbush, 1998, presenta un’utile rassegna della posizione dei vari movimenti antichi nei confronti del
rifiuto del materialismo. Negli Stati Uniti è in crescita un movimento a favore della «semplicità
volontaria»: gli aderenti si definiscono VSers (voluntary simplicity followers), minimalisti, seguaci della
vita semplice. Sono sorti diversi movimenti complementari contro l’acquisto, la produzione e l’accumulo
di beni non necessari. Alcuni si occupano non tanto della semplicità dello stile di vita quanto dei modi
per procurarsi le cose, con il recupero degli scarti e il riciclo («freeganism», «upcycling», «dumpster
diving»).
14. Closs, 2013.
15. L’uccisione dei cristiani sotto Nerone subito dopo l’incendio di Roma è attestata soltanto da Tacito ed è
impossibile da verificare. Si trattava presumibilmente di un numero piccolo, in confronto alle grandi
cifre di altri indesiderati gettati in pasto ai leoni nello stesso periodo.
16. Dyson, 1970.
17. Così racconta Svetonio, Vita di Nerone 47-49. Per una valutazione delle varie fonti, si veda Champlin,
2008.

Epilogo
1. Sulla datazione dell’Ottavia gli studiosi sono discordi. Secondo alcuni fu composta poco dopo la morte di
Seneca, forse nel 68 d.C., sotto l’imperatore Galba; per altri è di molto posteriore. Si veda la discussione
in Ferri, 2003, pp. 5-30.
2. Per Quintiliano su Seneca, si veda Taoka, 2011, secondo il quale Quintiliano in realtà imita Seneca
(Lettera 114), mentre finge di attaccarlo.
3. Si veda anche Abbott, 1978, che sostiene, in modo non molto convincente, che Seneca potrebbe
benissimo avere conosciuto Paolo a Roma.
4. Si vedano Engberg-Pedersen, 2000, ed Engberg-Pedersen, 2004.
5. Una descrizione corposa del rifiuto dello stoicismo nel cap. 14 della Città di Dio si trova in Brooke,
2012, pp. 1-11.
6. Su questo punto si veda Colish, 1985.
7. Ebbenson, 2004, p. 108.
8. Passando da Origene, la trasformazione fu effettuata dal monaco Evagrio Pontico nel IV secolo.
9. Il passaggio è efficacemente illustrato da Sorabji, 2004.
10. Cunnally, 1986, p. 316, racconta la storia nei dettagli.
11. Le edizioni più importanti furono quelle di Erasmo, dell’umanista francese Marc-Antoine Muret e di
Giusto Lipsio. Su Muret si veda Kraye, 2005.
12. Il punto è ben spiegato da Monsarrat, 1984, p. 6.
13. Edwards, 1997.
14. Il termine Self-fashioning, «costruzione del Sé», è stato reso popolare dal saggio di Stephen Greenblatt
Renaissance Self-fashining (1980), dedicato in particolare a Thomas More: la rilevanza che questo
concetto ha in Seneca e il nesso fra Seneca e More sono stati analizzati da Edwards, 1997. Per ulteriori
informazioni sul contributo di Seneca alla concezione moderna del Sé, si veda Long, 2006.
15. Braden, 1985.
16. Stacey, 2007, esamina la posizione di Machiavelli rispetto a Seneca, argomento ripreso da Brooke,
2012.
17. Si veda Brooke, 2012, pp. 67-69.
18. Montaigne, Saggi 1, 12: «Della costanza» (Montaigne, 2008).
19. Quint, 1998, dimostra che l’ideale di Montaigne di rigetto della crudeltà discende dai suoi studi di
Seneca.
20. Su Lipsio, si vedano Lagrée, 2004 e Brooke, 2012, pp. 13-36. Entrambi sottolineano che il principe di
Lipsio è una figura alternativa, e più senecana, dell’autocrate di Machiavelli.
21. Œuvres Morales Mêlées 12, citato in Lagrée, 2004, p. 160.
22. Citato in Lagrée, 2004, p. 165.
23. Citato in Oestreich, 2008, p. 70.
24. Descartes, Le passioni dell’anima, citato in Rutherford, 2004, p. 191.
25. Da 2, 13. Il passo di Rousseau è discusso in Brooke, 2012, p. 189.
26. Citato in Brooke, 2012, p. 125.
27. Cassirer, 1961, pp. 166-170, citato in Brooke, 2012, p. 1.
28. Discusso in Brooke, 2012, p. 148.
29. Storia naturale della religione, p. 174, citato in Brooke, 2012, p. 180.
30. Su questo argomento, su cui ci sono molti studi, un buon punto di partenza è Boyle, 1997.
31. Di affinità fra le forme di violenza nella prima fase della modernità e la Roma antica parla Boyle, 1997,
p. 409.
32. Racine, Fedra, vol. I, p. 390, in cui si cita Tacito. Il rapporto fra Racine e Seneca è efficacemente
analizzato da Levitan, 1989.
33. T.S. Eliot, Opere, Bompiani, Milano 1992.
34. Ziolowski, 2004.
35. Hughes, 1983.
36. Hadot, 2008.
37. Foucault, 1995. Sugli echi attuali della presentazione del Sé in Seneca si veda Long, 2006.
38. James Bond Stockdale, un ufficiale di marina statunitense, che fu tenuto prigioniero in Vietnam per sette
anni, quasi sempre in isolamento, ha scritto e parlato a lungo dell’utilità di Epitteto (con un pizzico di
Marco Aurelio) non solo durante la prigionia ma anche quando comandava i suoi uomini. Nonostante
l’amore per lo stoicismo antico, Stockdale non mostra alcun interesse per Seneca, perché Seneca è molto
meno utile per un modello di stoicismo macho e militaresco come quello di Stockdale, tutto basato sulla
«volontà» e il «rispetto di sé» anche in tempi di sofferenza e palese fallimento. La sua convinzione è che
«il tuo bene e il tuo male sono opera tua» (1995, p. 240) e che le nostre azioni sono sempre giuste.
Stockdale non si cura di quanti gli domandano se non si senta mai «le mani sporche di sangue»: la pietà,
i sensi di colpa e la paura sono distrazioni di cui disfarsi.
39. Si veda Einrich, 2010, sui pericoli dell’attuale ottimismo americano.
40. Becker, 1999.
41. Grimal, 1978.
Traduzioni utilizzate
Cassio Dione, Storia romana, vol. VI, 5ª ed., Rizzoli, Milano 2012.
Cornelio Nepote, Libro dei sommi capitani delle nazioni straniere, in Opere,
UTET , Torino 1977.
Epitteto, Diatribe, in Tutte le opere, Bompiani, Milano 1992.
Decimo Giunio Giovenale, Satire, Rizzoli, Milano 1980.
Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio, Mondadori, Milano 1995.
–, De matrimonio, in Contro il matrimonio, Palomar, Bari 1997.
–, Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000.
Marco Anneo Lucano, La guerra civile, Mondadori, Milano 1995.
Publio Cornelio Tacito, Annali, Rizzoli, Milano 1990.
Quinto Orazio Flacco, Le lettere, Rizzoli, Milano 1989.
Tranquillo Gaio Svetonio, Vita dei Cesari, Garzanti, Milano 1977.
ULTERIORI LETTURE

Questo è un buon momento per leggere Seneca in inglese. Sono uscite di recente diverse ottime traduzioni,
fra cui una serie edita dalla Chicago University Press, che sta gradualmente pubblicando tutte le sue opere.
La Oxford World’s Classics ha presentato una bella selezione e traduzione delle Lettere, a cura di Elaine
Fantham (Selected Letters, 2010), una collezione dei dialoghi e saggi (Dialogues and Essays), tradotta da
Tobias Reinhardt (2009) e una selezione delle tragedie tradotta dalla sottoscritta (Six Tragedies of Seneca,
2010). Per le opere in prosa, esiste un’edizione della Cambridge University Press del 1995 (a cura di J.F.
Procopé e John M. Cooper), che comprende i saggi L’ira, La clemenza, L’ozio (On Anger, On Mercy, On the
Private Life) e la prima metà de I benefici, corredati da ottime note.
La fonte più accessibile e antica sulla Roma imperiale è Tacito, Annals, di cui raccomandiamo la recente
traduzionein inglese della collana Oxford World’s Classics, a cura di J.C. Yardley, 2008. Nella stessa
collana, vale la pena leggere anche la pettegola Life of Nero, in The Lives of the Caesars, scritta da Svetonio
e tradotta da Catherine Edwards (2009).
Il migliore studio moderno di Seneca in lingua inglese è Seneca: A Philosopher in Politics, di Miriam
Griffin, un’opera forse un poco impegnativa per i non specialisti, ma ricca di informazioni utili.
Il Nerone di Edward Champlin è un saggio vivace e brillante sull’imperatore e il suo tempo; altrettanto
interessante è il Nero di Miriam Griffin.
Per chi fosse interessato a conoscere un filosofo stoico molto diverso da Seneca, raccomandiamo
vivamente A.A. Long, Epictetus: A Stoic and Socratic Guide to Life (2004).
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22. BPK , Berlin/Alte Pinakothek, Bayerische Staatsgemaeldesamm/Peter Paul Rubens/Art Resource, NY .
RINGRAZIAMENTI

Ringrazio di cuore Stefan Vranka della Oxford University Press per avermi suggerito di scrivere un libro su
Seneca. La mia gratitudine va anche al Penn Humanities Forum, che con i suoi dibattiti interdisciplinari
sulla violenza (2012-2014) mi ha fornito un retroterra prezioso per ragionare sulla vita nella Roma
imperiale. Grazie anche ai miei colleghi, dottorandi e studenti dell’Università della Pennsylvania, che hanno
contribuito a creare un ambiente stimolante ma sicuro in cui scrivere, l’esatto opposto della brulla Corsica e
della corte neroniana.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
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consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata
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Seneca
di Emily Wilson
Original English language edition first published by Penguin Books Ldt., London
Text copyright © Emily Wilson 2015
The author has asserted her moral right
All rights reserved
Traduzione di Carla Lazzari
© 2016 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale: Seneca
Ebook ISBN 9788852077647

COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: BEPPE DEL GRECO

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