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A VOCE ALTA E SILENZIOSA

di Claudia Pichezzi

Cominciamo con il classificare la lettura in due grandi sottogruppi: quella


silenziosa e quella ad alta voce. La prima, in quanto mentale, non è in grado di
riprodurre i suoni, ma concentra sui contenuti semantici il processo di codifica e
decodifica del senso. Di contro, la seconda, ovvero quella recitata, avvalendosi
dell’ausilio della voce, del timbro e delle corde vocali, fa risuonare le parole -mi
si conceda la ridondanza- attraverso i suoni. Si serve, quindi, di un linguaggio
verbo-corporale in grado di amplificare le sensazioni e i suoni. La comprensione
del testo può risultare avvantaggiata, poiché c’è un evidente potenziamento, e al
tempo stesso semplificazione, della carica espressiva del “significante” e, di
conseguenza, un accesso più agevolato al “significato”. La parola recitata
prende corpo, si materializza, attraverso la voce umana. Ciò non vuol dire che la
lettura a voce alta debba prescindere dalla scrittura; il testo scritto resta, per
molti poeti, fondamentale, ma può arricchirsi di virtù propriamente orali, dando
vita ad una vera e propria scrittura verbale o scrittura ad alta voce.
È Corrado Bologna che, con il saggio Flatus vocis, propone una
riflessione sistematica sulla vocalità come insieme di proprietà e funzione
nettamente differenziate da quella dell’ oralità, conferendo una particolare
enfasi alle proprietà e funzioni della voce umana, svincolando la vocalità dal
linguaggio che, viceversa, comincia ad esistere, per Bologna, soltanto in
subordinazione ad essa. Da questi presupposti, Paul Zumthor, nella Prefazione a
Flatus Vocis, parte per proporre una sua definizione dei due campi, quello
dell’oralità e quello della vocalità. La prima viene spiegata come
«funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio» 1, e la seconda

1
P. Zumthor, Prefazione, cit. da C. Bologna, Flatus Vocis, Metafisica e antropologia della
voce, Il Mulino, Bologna, 1992, p. VII.

1
come «l’insieme delle attività e valori che le sono propri, indipendentemente dal
linguaggio»2. Il linguaggio è, per Zumthor, impensabile senza la voce, non è,
invece, vero il contrario, giacché:

Le emozioni molto intense suscitano l’emissione della voce, non


necessariamente del linguaggio: il grido inarticolato, il gemito puro, il
vocalizzo senza parole ne sono l’espressione più naturale3.

Precisa Bologna:

Prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per


trasmettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da
sempre origine, c’è come potenzialità di significazione e vibra quale
indistinto flusso di vitalità, spinta confusa al voler-dire, all’esprimere, cioè
all’esistere. La sua natura è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione
con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono; è emanata dagli
stessi organi che presiedono all’alimentazione e alla sopravvivenza4.

Oralità versus vocalità. Bologna ci parla specificamente dell’ordine del


vocale, della voce come elemento distinto dalla parola e dal linguaggio «che le
parole ritma per segni, fonetici e non» 5 (da intendersi come facoltà di
espressione orale ma anche scritta, e quale prodotto di tale facoltà)6. Lo studioso
apre il libro sull’eco d’una speranza barthesiana:

2
Ibid.
3
Ibid., p. IX.
4
C. Bologna, Flatus Vocis, cit., p. 23.
5
Ibid.
6
R. Barthes, Parola, in Enciclopedia, X, cit. da C. Bologna, cit., p. 23.

2
Perché si vuole che “il ritorno” delle parole, pur nella loro costituzione
ermeneutica, “al servizio” di una “interpretazione”, ossia nel loro statuto
non «letterario», ma “scientifico”, significhi tuttavia lo sforzo, e forse la
capacità, di varcare il tempo7, di «durer un peu plus que sa voix»8.

Dunque, Bologna fa suo l’insegnamento di Roland Barthes, fondato,


come è noto, su quell’estetica del piacere testuale e, nel recuperarne la ben nota
terminologia, afferma che nella fedeltà a quella «pratica infinita» di memoria e
di scrittura, è necessario saper cogliere:

La grana increspata e franta, il fremito fiammante, il fletus e il flatus, la


«scrittura ad alta voce», vocalità non più “vuota” come l’otre-follis, ma
piena d’una significazione imprendibile e sempre dislocata “altrove”,
nell’intera storia delle idee e delle immagini e delle passioni [...]9.

Nell’antichità era comune la pratica dell’interpretazione del testo, l’actio,


per l’appunto; l’attore rivestiva anche il ruolo di oratore, e attraverso
l’esternamento corporeo dei sentimenti, delle emozioni, delle indignazioni,
praticava un teatro dell’espressione 10.

La scrittura ad alta voce, invece, non è espressiva; lascia l’espressione al


feno-testo, al codice regolare della comunicazione, alla significanza; è
portata non dalle inflessioni drammatiche, le intonazioni maligne, gli accenti
compiacenti, ma dalla grana della voce, che è un misto erotico di timbro e
di linguaggio, e può quindi essere anch’essa, al pari della dizione, la materia

7
C. Bologna, cit., p. XII.
8
R. Barthes, cit. da C. Bologna, cit., p. XII.
9
C. Bologna, Flatus Vocis, cit., p. XXIII.
10
Ibid.

3
di un’arte: l’arte di condurre il proprio corpo (donde la sua importanza nei
teatri estremorientali)11.

Ciò che manca, per Bologna, è precisamente una scrittura vocale12, che ci
faccia sentire il suono delle parole, la loro sensualità, il loro respiro,
allontanando il senso; inoltre, deve farci sentire:

La grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta
una stereofonia della carne profonda: l’articolazione del corpo, della lingua,
non quella del senso, del linguaggio13.

La voce, in quanto prius biologico, come la definisce ancora Bologna: «è


una pulsione che tende ad articolarsi, ma che nell’articolazione medesima si
annulla in quanto «pura potenzialità», generando una parola differenziata e
significante» 14 . Con questa posizione lo studioso punta decisamente su una
“Metafisica della Voce” 15 , per la quale la voce sfugge alla coscienza, e si
delinea come grido puro e privo di contenuto, al contrario del linguaggio che,
viceversa, vincolato alla coscienza, articola suoni dotati di significato; alla voce
non è possibile attribuire alcuna funzione linguistica, né di significare né di

11
R. Barthes, Il Piacere del Testo, cit. da C. Bologna, cit., p. XXIV.
12
Cfr. C. Bologna, cit., p. XXIII.
13
Ibid., p. XXIV.
14
Ibid., pp. 23-24.
15
Ibid.

4
comunicare: «Significante «puro», «libero», la voce sgorga prima che qualsiasi
carattere semiotico/semantico abbia a formularsi»16.
La voce prescinde da ogni forma di coscienza e di ragione, è vincolata
soltanto al mondo dell’indecifrabile, al contrario della parola (del linguaggio)
che, invece, va senza dubbio a scioglierne il nodo.

La voce è l’indicibile che deve ammantarsi di panni verbali, addossarsi la


carne del linguaggio per rendersi visibile 17.

Ma la voce dell’indicibile, proprio per questa sua natura velata di mistero,


è più di altre in grado di sedurre, pungolare, sollecitare. Perciò, Bologna si
spinge ancora più avanti, prospettando addirittura una Teologia ed erotica della
voce 18 . la voce, insieme allo sguardo, è in grado di irretire, coinvolgere
emotivamente, imprimere la sua orma nei sensi. La voce può trasformare la
parola in una esperienza sensoriale, mettendo in gioco diverse parti del corpo,
come l’apparato fonatorio e l’udito, il quale, a sua volta, alla ricezione di un
suono, lo trasmette alla mente che lo elabora come sensazione. È specialmente
con la lettura ad alta voce che si accresce il valore sonoro di una parola, grazie
alla singolare proprietà della voce d’evocare suoni e sensazioni, sia dei quattro
sensi -visive, olfattive, tattili, gustative- sia propriamente mentali, quali
emozioni e fantasie.

16
Ibid., p. 29.
17
Ibid., p. 35.
18
Ibid.

5
Ma è la voce a sedurre invischiando, emanando soffi che davvero
irretiscono ed afferrano incorporeamente, accendendo l’impersonale
luccichio dello sguardo con «un lume pien di spiriti d’amore, / che porta
uno piacer novo nel core, / sì che vi desta d’allegrezza vita»19.

Del resto, è anche il modo in cui si legge che può incrementare l’impatto
sonoro ed emotivo. La lentezza, la chiarezza, le pause, il ritmo, oltre a delineare
meglio i suoni articolati, creano nuove e più ampie aspettative nell’ascoltatore e
cooperano nella definizione delle immagini mentali. Una lettura veloce sacrifica
certamente la sonorità di una poesia, ma anche i contenuti della stessa. La
retorica da secoli insegna come certe figure della ripetizione abbiano veicolato,
con sapienza e efficacia, contenuti profondi ed essenziali dal punto di vista del
senso globale e ultimo della poesia.
Della lettura ad alta voce può avvantaggiarsi anche il ritmo. La voce può
infatti conferire a un testo scritto in versi liberi quel ritmo di cui è, invece,
strutturalmente privo. Questo accade perché è la voce del poeta che scandisce e
crea il ritmo giusto nella lettura di una poesia, contribuendo, eventualmente, a
renderne più chiaro il significato; tutto ciò potrebbe, senza dubbio, accadere
quando un poeta, che si autolegge, conferisce una particolare enfasi ad alcune
parole, al fine di dar loro una certa importanza; oppure quando, grazie ai tratti
soprasegmentali e paralinguistici della voce quali tono, ritmo e pause, egli è in
grado di aiutare l’ascoltatore a comprendere meglio il soggetto di un periodo,
semmai esso fosse velato dalle parole. Infine, non va dimenticato il timbro,
l’elemento più naturale della voce, che cambia con l’età. Esso è in grado di
decodificare e rivelare le emozioni più intime, quelle dell’interiorità e della
corporeità vocale, e rappresenta, metaforicamente, il sesso della voce, poiché ne
indica simultaneamente la sessualità, la vitalità e sensualità.

19
G. Cavalcanti, ball. Veggio negli occhi de la donna mia, cit. da C. Bologna, cit., p. 35.

6
Nel timbro giacciono gli strati più intimi e profondi della corporeità vocale:
a ciascun sentimento corrisponde un livello timbrico - musicale: si potrà
trascrivere sul pentagramma la gioia, la tenerezza, la gelosia, la civetteria, il
sarcasmo, il disappunto, ecc20.

Corrado Bologna vuole ideare una scienza della vocalità21, in cui tutti gli
elementi peculiari e distintivi della voce, definibili come fisico-corporei tra cui
il tono, il timbro, il registro, vanno a formare un reticolato rapporto fra loro,
generando le parole, di cui la voce si serve per rivelare l’ineffabile. La voce
possiede una propria autorità che la rende indipendente anche dalla coscienza
perché, come afferma Bologna: «La Voce «viene», insorge senza che la
coscienza voglia, o chiami: è la coscienza a venir chiamata e formata nella
risonanza»22. Osserva ancora Bologna:

La voce è essenzialmente una metafora, di cui tutto può «esternamente»


essere detto (tono, timbro, frequenza, altezza, vivacità, colore, profondità,
registro, ampiezza, livello, ecc…), mentre nulla può venir descritto
pienamente circa la sua «sostanza interna», che è quella del flusso, del
brivido e del sospiro23.

La voce possiede, dunque, un carattere di spiritualità e di doppiezza, che


le permette di compiere un percorso opposto a quello ordinario, uscendo
incredibilmente dal corpo, da cui si origina, per erompere all’esterno,
riempiendo, oltre al corpo, anche altri organi come le orecchie, la lingua. Queste

20
I. Fonàgy, Emotional Patterns in Intonation and Music, cit. da C. Bologna, cit., p. 94.
21
Ibid., p. 52.
22
Ibid.
23
Ibid, p. 41.

7
affermazioni denotano indiscutibilmente la radicale frattura invisibile che
distingue la voce dalla parola, conferendo alla voce una propria autonomia e
identità, che svincolata dal linguaggio (e dalla parola), trova origine nello
spirito, nell’interiorità. Come osserva Paul Valéry:

Nella poesia, non parla il Linguaggio, come voleva Mallarmé, ma l’Essere,


dunque la Voce. È il «Linguaggio scaturito dalla voce, piuttosto che la voce
dal linguaggio»24.

Della lettura ad alta voce dei poeti si sono occupati molti studiosi ma anche gli
stessi poeti. Tra i tanti è interessante citare il caso di Emerico Giachery, che nel
precisare l’interdipendenza esistente tra atto ermeneutico e lettura a voce alta, fa
sua quella filosofia della lettura, delineata da Luigi Pareyson, secondo cui:

Leggere significa eseguire, e l’opera non ha altro modo di vivere che la vita
dell’esecuzione25.

Giachery, nell’aderire a questa linea interpretativa, si mostra


favorevole ad una distinzione del concetto di oralità da quello di vocalità, già
precedentemente proposto da Corrado Bologna. Anche per Giachery, l’oralità
attiene al solo funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio,
mentre la vocalità si riferisce esclusivamente ai valori della voce, prescindendo
dal linguaggio. Da questi presupposti, Giachery sente l’esigenza, inaugurata da
Bologna, della nascita di una scienza della voce26, che ha posto le premesse per

24
Ibid., p. 38.
25
L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, cit. da E. Giachery, Ungaretti a voce alta e
altre occasioni, Nuova Cultura, Roma, 2008, p.7.
26
Cfr. E. Giachery, Ungaretti a voce alta, cit., p. 8.

8
la realizzazione di studi di notevole spessore, in quell’area definita
paralinguistica, su intonazione, accento, ritmo, e sulle pratiche significanti
associate al messaggio orale, all’occorrenza anche avvalendosi di sofisticate
apparecchiature elettroniche. Lo studioso non nutre speciale attrazione per la
pubblica lettura di versi (di solito propri), nonostante questa pratica, a suo
avviso, abbia il merito di avvicinare il pubblico alla poesia; piuttosto, predilige
un’esecuzione privata e solitaria.
La poesia è per Giachery «Un pregiato nutrimento dello spirito da godere ed
erogare con molta misura e con intransigenti scelte di qualità 27».
Come afferma ancora Giachery:

Alla base del mio interesse è soltanto l’esperienza concreta


dell’interpretazione vocale della poesia come momento di sintesi e punto
d’arrivo del processo interpretativo. Ad attivare questo interesse è la mia
propensione di sempre è per la “privata”, solitaria lettura ad alta voce
della poesia, che consente una verifica dei valori fonici e ritmici del testo
e un suo godimento più compiuto28.

Ciò che conta, per lo studioso, è il conferire, alla recitazione poetica, la


giusta considerazione e interpretazione, senza trascurare il valore del
significante, come spesso, invece, accade. Lo studioso nel citare l’osservazione
del filologo Lorenzo Renzi, autore del volume Come leggere la poesia. Con
esercitazioni su poeti italiani del Novecento, afferma che chi vuol leggere la
poesia dovrebbe tener sempre presente che «tra i vari usi della lingua, quello
poetico è l’unico per il quale l’aspetto fonetico abbia importanza» 29 . Saper
leggere e presentare un testo con un minimo d’eleganza, coinvolgimento, con
27
Ibid.
28
Ibid.
29
Cfr. L. Renzi, Come leggere la poesia, cit. da E. Giachery, cit., p. 9.

9
una pronuncia accettabile, rappresenta, per Giachery, una requisito
fondamentale nella recitazione di un testo poetico. La lettura ad alta voce deve
avvenire per mezzo di un tono attivo ed espressivo, anziché, come spesso
accade, neutro ed inespressivo 30. Chi si accinge a recitare la poesia deve dare il
giusto rilievo ad alcuni particolari, quali intonazione, capacità comunicativa . Il
testo poetico va amato, considerato, con intima partecipazione: «Basterebbe un
minimo d’impegno, di concreto, forse persino un po’ “sensuale”, amore del
testo da parte dei colleghi»31.
Giachery, sembra voler inaugurare un’etica della lettura poetica, in cui si
conferisce notevole importanza al significante, ovvero ai valori fonici e ritmici,
con rimando alla vocalità ricordata all’inizio. Si potrebbe forse stabilire una
cosiddetta tecnica della lettura ad alta voce, in cui una significativa attenzione
si rivolge proprio ad aspetti, quali il tempo o la velocità di lettura, l’intensità
vocale, le pause, l’intonazione, la tonalità e il livello della voce, fondamentali
per una valida esecuzione. La poesia richiede un complesso impegno da parte da
chi si presta a leggerla, e occorre prestare notevole cura alla materia del
significante.

La lettura deve compiersi con doverosa e rispettosa umiltà, con scrupolo, e


soprattutto animus, filologico, poiché credo che la fedeltà filologica sia una
fondamentale questione di etica 32.

Nel recuperare quel paradigma etico da cui la lettura ad alta voce mai
dovrebbe prescindere, Giachery prende le distanze dall’affermare che
quest’esecuzione debba considerarsi come riservata ai soli attori; essi, infatti,

30
Cfr. E. Giachery, cit., p. 9.
31
Ibid., p. 10.
32
Ibid., pp. 10-13.

10
pur avendo magnifiche voci, tendono a drammatizzare eccessivamente un testo
poetico, si concentrano, con esagerazione, sul loro «virtuosismo vocale» 33. Lo
studioso si allinea all’osservazione di Gianfranco Contini, noto critico letterario
e filologo italiano del Novecento, secondo cui: «Quasi nessuno sa leggere i
versi. Ormai la lettura del verso è un’arte perduta». Fatto sta che «si è perso il
significato dell’esecuzione» 34 . In linea con quanto osservato da Contini,
Giachery afferma ancora che: «Un testo di poesia lirica richiede nell’esecuzione
vocale raccoglimento e misura»35.
Ad interessarsi alla vocalità è stato anche il noto studioso Alberto Bertoni,
che nel libro La poesia. Come si legge e come si scrive, effettua un’accurata
analisi di tutti gli elementi che scaturiscono dal processo poetico: dallo scrivere,
al leggere, al recitare, all’ascoltare. Bertoni, infatti, ritiene che ad agire nel testo
poetico sia proprio la vocalità, travalicando il mero livello semantico. Come
Bologna e Giachery, anche Bertoni è favorevole ad una distinzione fra oralità e
vocalità, riconoscendo entrambi i termini come portatori di diverse anime di
significato. Come afferma Bertoni:

Mentre l’oralità, designa il funzionamento della voce in quanto portatrice di


linguaggio, di contro, la vocalità rimanda all’insieme delle attività che sono
proprie della voce, indipendentemente dal linguaggio. Ed è proprio la
vocalità ad agire, nel testo poetico, travalicando il mero livello semantico 36.

La voce, dunque, oltrepassa le parole: «Se la poesia è discorso, istanza


dialogica filtrata e ritmata nel linguaggio, allora è anche scrittura di una voce» 37.
Non a caso, la parola greca epos, oltre a significare, in primo luogo, «parola,
33
Ibid., p. 11.
34
Ibid., p. 12.
35
Ibid., p. 13.
36
A. Bertoni, La poesia. Come si legge e come si scrive, Bologna, il Mulino, 2006, p. 102.
37
Ibid., p. 97.

11
discorso», e poi «racconto» e insieme «canto», poi «contenuto, senso»; infine,
passerà a designare anche i «versi»38. Da qui nasce l’interesse di Bertoni per la
lettura a voce alta, attribuendo vizi e virtù a chi si accinge a praticarla. Senza
dubbio, a suo avviso, l’esito dell’esecuzione, positivo o negativo, è nelle mani
di chi recita. Precisa ancora Bertoni:

Nella pubblica lettura ad alta voce, ogni poeta è rassegnato a una


situazione comunicativa determinata da una serie di effetti e variabili
sceniche, emotive, corporali, ovvero extratestuali, oltre che eterogenea
sul piano dell’impegno e della responsabilità ricettiva, dal momento che
l’ascoltatore attraversa il discorso che gli è indirizzato e la sola unità che
gli si rivela è ciò che riesce a registrare la sua memoria, sempre più o
meno aleatoria...se non ingannatrice quando il locutore trascura di
disseminare di riferimenti le parole che emette... 39.

A tal proposito, è interessante citare l’osservazione di Loretta Frattale 40,


che ci parla specificamente di quei poeti istrionici che la studiosa definisce
«lirico - drammatici», tra cui Juan Carlos Mestre e Federico García Lorca,
orientati alla lettura in pubblico, e in cui è forte la tendenza alla
spersonalizzazione 41 . In particolar modo, Loretta Frattale, con rimando alla
performance di Juan Carlos Mestre avvenuta durante un incontro tenuto
dall’Istituto Cervantes di Roma, a cui la stessa ha preso parte, osserva quanto
quell’esibizione sia stata straordinariamente coinvolgente, grazie alla speciale
dote comunicativa di Juan Carlos Mestre; poeta in cui preme il richiamo della

38
Ibid., p. 98.
39
Ibid., p. 103.
40
Cfr. L. Frattale, Divagazioni sulla diade poesia-traduzione, in A. Bernard, I. Roto, M.
Bianchi (eds), Vivir es ver volver, Studi in onore di Gabriele Morelli, Bergamo, Sestante
edizioni, 2009, pp. 235-240.
41
Ibid., p. 239.

12
voce, quella «straniante vocalità»42, che punta molto sulla materia significante,
ovvero quella fonico - acustica, metrica, timbrica. Come osserva Loretta
Frattale:

Non c’è, dunque, qui possibilità di scarto, di inquietante discordanza, tra


voce che crea e che legge, essendo essa, per sua natura e principio, estranea
all’identità personale e storica, al “corpo”, quindi, attraverso cui si effonde43.

Viceversa, la studiosa, riconosce quanto diversa sia la vocazione di quelli


che la stessa definisce i «poeti-poeti», che leggono a freddo i propri versi, come
Ungaretti, Montale, Alberti e Neruda, ovverosia:

I poeti artefici, quelli più propensi alla scansione intima e silenziosa della
poesia che si scrive, della poesia che si fabbrica e si costruisce parola
dopo parola44.

Ma se Bologna e Giachery si concentrano prevalentemente sulla


distinzione fra oralità e vocalità, Bertoni, piuttosto, si sofferma in particolar
modo, anche sul rapporto di mutuo desiderio e ricerca che intercorre tra vocalità
e scrittura; la vocalità non solo deve distaccarsi dall’oralità, ma deve anche
confrontarsi con la scrittura, da cui non può allontanarsi se non parzialmente.
Nel caso specifico della poesia, Bertoni ricorda come per tutto il
Novecento -e ancora oggi- l’oralità o vocalità abbia disseminato tracce palesi
nella scrittura. La chiusura del testo scritto sembra esser stato letteralmente

42
Ibid., p. 240.
43
Ibid.
44
Ibid.

13
minato dal parlato, dalla presenza del corpo. Bertoni riconosce quanto vincolato
sia il rapporto tra vocalità e scrittura, specie in poesia, e non rende possibile
l’elaborazione di una dicotomia radicale tra esse, al contrario di come, invece, è
stato possibile fra l’oralità e vocalità.

In poesia i segni della voce e del corpo vengono trasmessi attraverso la cifra
grafica della lettera, dentro il suo movimento incessante e trasversale che
scompone la linearità sintattica degli enunciati, per ricomporsi – quando
torna voce, perché anche leggendo in silenzio si parla – in nuclei germinativi
di senso, in operazioni autonome di significante, in parole fonologiche45.

Sebbene la voce, per molti studiosi, debba confrontarsi con l’oralità, da


cui ne prende le distanze per affermare una propria autonomia e identità
concettuale, con una frattura nel linguaggio, di contro, per altri, essa deve anche
rapportarsi con la scrittura, quale fonte originaria della voce, a cui è
profondamente ancorata. Osserva ancora Bertoni:

Il fine precipuo di ogni poeta, comunque, è tendere alla confezione testuale


delle proprie parole, compiutamente realizzandosi dentro quell’insieme
scritto, consegnato in quanto tale al futuro e non privo di un elemento
coesivo di specie narrativa, che è il libro46.

Questa forte dipendenza della vocalità dalla scrittura potrebbe risultare


paradossale, specie in considerazione del fatto che il linguaggio parlato nasce
circa centomila anni fa, mentre la scrittura comincia ad affermarsi soltanto 3500
anni prima di Cristo. Ciò nonostante, il linguaggio, pur nascendo prima, resta,
per molti studiosi, subordinato alla scrittura.
Se oggi la parola orale nella poesia torna a ricoprire un ruolo importante,
facendo emergere quelle peculiarità foniche e simboliche che la voce è in grado

45
A. Bertoni, cit., p. 107.
46
Ibid., p. 103.

14
di svelare, in passato, specie nel Medioevo, la parola letteraria vedeva prevalere
la sua dimensione orale a causa di un analfabetismo piuttosto diffuso. La
trasmissione orale prevaleva necessariamente sul testo scritto per poter
divulgare il sapere. Va ricordata l’arte dei trovatori, dei menestrelli e dei
cantastorie, che erano soliti imparare le poesie per poi recitarle con il canto e
con la musica. Viceversa, è il Petrarca che per primo compone il suo
Canzoniere col fine di destinarlo ad una ricezione esclusivamente scritta.
Questo evento cambia radicalmente anche il luogo in cui la poesia solitamente
si consumava; infatti, si passerà dalla recitazione orale in strada alla lettura
silenziosa del testo scritto in un luogo chiuso e circoscritto come la biblioteca,
collocando la poesia su una dimensione intima e privata, in cui la lettura era
intesa come momento di dialogo interiore47.
Questo fenomeno del passato mette a confronto il rapporto tra poesia e
lettura, ovvero tra quella lettura ad alta voce, come quella recitata dai
cantastorie, e quella silenziosa che invece aveva luogo nelle biblioteche. Mentre
nella lettura a voce alta c’è un pubblico che ascolta, viceversa, nella lettura
silenziosa, il lettore stabilisce un rapporto d’intimità con il testo con cui si
confronta. Bertoni, in un certo senso, si pone a metà strada. Ciò che conta, a
suo avviso, non è soltanto imparare a recitare ad alta voce, ma anche imparare a
diventare lettori e a leggere in maniera silenziosa. In questo recupera e fa sua la
definizione di J. Franzen: «La prima lezione che impariamo dalla lettura è come
stare soli»48.
Gian Luigi Beccaria, autore del saggio L’autonomia del significante, ha
elaborato un’interessante riflessione sulla carica di senso che l’elemento
verbale, o fonico, assume nella poesia, indipendentemente dai significati. Scrive
Beccaria:

47
Ibid., pp. 99-100.
48
J. Franzen, Come stare soli, cit. da A. Bertoni, cit., p. 152.

15
Il senso poetico si compie nella combinazione di un significato calato in
convenzioni ritmiche vincolanti e di un significante liberato in
semiologizzazioni di suoni o di figure ritmiche49.

Beccaria mette in rilievo quei valori fonetici, timbrici e ritmici che


intervengono nella produzione di senso al pari dei significati logici e razionali,
senza più rappresentare esclusivamente elementi supplementari ma bensì
autonomi e stimolanti per i significati stessi. Lo studioso ritiene che
l’esecuzione ad alta voce possa tradire il testo, poiché ogni lettore che la compie
lo fa in un modo diverso, provocando effetti differenti, e proponendo una
propria lettura di cui uno stesso testo è suscettibile:

Chi legge, tende a rialzare, ad avvalorare nel testo questo o quell’altro


nucleo semantico, a fare pausa dove un altro non la fa..: le circostanze
che influiscono sono di ordine logico-emotivo. A seconda dell’attenzione
che si pone, per fini espressivi, su un vocabolo, dell’enfasi che nella
lettura di un testo si impiega, il ritmo del verso risulta modificato 50.

Lo studioso, inoltre, articola l’esecuzione ad alta voce di un testo in due


poli, l’uno espressivo e l’altro inespressivo:

Vale a dire una tendenza innaturale, ritmizzante, ed una contrastante


lettura naturale, una tendenza fraseggiante, raggruppativa (in cui prevale
l’interesse per il contenuto; «si basa sul senso e ci obbliga ad una
continua infrazione del principio ritmico»). Certo sono due poli implicati
entrambi e in forme diverse mescolati nel discorso in versi, che è stato
sino a tutto il Novecento guidato da una «poetica del Ritmo», cioè di una
scrittura prosodica, e da «una poetica della Frase», cioè una scrittura
associativa51.

49
G. L. Beccaria, L’autonomia del significante, Torino, Einaudi, 1975, p. 5.
50
Ibid., p. 14.
51
Ibid., p. 15.

16
Fra i valori formali del significante che assumono una funzione espressiva
alla ripetizione di un suono, Beccaria privilegia la allitterazione, dalla quale si
generano peculiari effetti timbrici, poiché essa sembra potenziare al massimo i
valori fonici condizionando la scelta stessa dei vocaboli e la struttura delle
immagini52.
Nel caso di Juan Carlos Mestre, è lo stesso autore a recitare le sue poesie.
L’esecuzione che ne deriva non dovrebbe tradire in alcun modo il testo
originale, poiché Mestre, con la recitazione, non può che ribadire quei valori
fonici e timbrici impressi al momento della sua creazione. La lettura ad alta
voce realizzata dallo stesso autore può perciò rivelarsi preziosa anche ai fini
della comprensione del testo. Mestre sembra, infatti, far confluire assieme
lettura naturale e lettura innaturale e ritmizzante, mescolando polo espressivo e
polo inespressivo, come suggerisce Beccaria53.
In ogni poesia recitata, Juan Carlos Mestre ha rivelato la sua abilità nel far
percepire ora le sue emozioni, ora le sue sensazioni, ora il suo entusiasmo, ora la
sua malinconia. Il poeta, con la sua interpretazione, riesce a rendere
l’ascoltatore partecipe dei suoi ricordi e sentimenti, introducendolo al proprio
mondo interiore, velato di simboli, di immagini metaforiche e verbali, di
musicalità. La voce di Mestre svolge una importante funzione di potenziamento
del significante; l’intonazione che il poeta conferisce alla lettura non potrebbe
emergere con una lettura silenziosa né con la recitazione altrui (foss’anche il
migliore attore del momento).
Inoltre, le pause e la lentezza con cui Mestre pronuncia le parole,
indugiando nell’articolazione dei suoni e delle vocali, creano un rallentamento
nello sviluppo delle idee dell’ascoltatore, il quale, a sua volta, si soffermerà, col

52
Ibid., pp. 136-208.
53
Ibid., p. 15.

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pensiero, sulle immagini e sulle percezioni che la mente gli suggerisce. Mestre
sembra concepire un testo in funzione di una sua verbalizzazione fonica; dar
voce alle sue poesie scritte è una specie di riscrittura, o una doppia tessitura
fonico - acustica oltre che visiva. Il ritmo di cui si avvale contribuisce a creare
un’aura di musicalità, di melodia. Ma sono anche i significanti stessi, di cui le
sue poesie sono ricche, a creare quella giusta sonorità. Ricorda Beccaria:

Il ritmo musicale è elemento costitutivo di un’espressione sui generis come


la musica, che nel suono, anziché nella parola, trova il mezzo di esprimere
se stessa. Ma il suono è nota, la parola segno: nella lingua il movimento non
è, come nella musica, ritmo in se stesso e per se stesso. Il segno poetico non
è musicalità, suono puro. È piuttosto riproposizione, ricreazione di elementi
della lingua-comunicazione la cui nuova ricchezza di senso emerge non dal
rapporto puro delle unità, come nella musica, ma dal rapporto delle unità
significanti costruite, sistemate in una struttura poetica, ordinate, regolate,
insomma «orchestrate»54.

A questo punto ha forse senso chiedersi se la poesia di Mestre debba


considerarsi un fenomeno più vocale che linguistico, una tipologia di creazione
ascrivibile alla sfera dell’oralità piuttosto che a quella della scrittura. Nel caso di
Antifona del otoño en el Valle del Bierzo, la cui edizione cartacea è
accompagnata, dal 2003, da un Cd con testi recitati dallo stesso Mestre, si
potrebbe almeno parlare di una molto stretta colleganza tra
ispirazione/creazione e vocalità. È innegabile che la voce, la stessa voce di
Mestre, assuma in questa pubblicazione un ruolo tutt’altro che marginale. Il Cd
permette al lettore di apprezzare la materia prima delle poesie registrate: materia
vocale, corporale, umanissima, sonora, che la sola veste linguistico - tipografica
non avrebbe mai potuto adeguatamente valorizzare. Proprio in quanto veste che
si sovrappone ad un “corpo”, essa avrebbe finito per occultarne, nasconderne,
esorcizzarne la bellezza più intima e segreta. Anafore, anadiplosi, allitterazioni,
assonanze, acquistano, nella recitazione di Mestre, corpo e spessore, e ancor più

54
Ibid., p. 11.

18
quella ruvidezza e porosità (“granulosità”, secondo Barthes) in grado di
trattenere umori ed emozioni decisamente fuori dalla portata della muta,
bidimensionale, pagina bianca.

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Bibliografia

BECCARIA Gian Luigi, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della
sintassi. Dante, Pascoli, D'Annunzio, Torino, Einaudi, 1975.
BERTONI Alberto, La poesia. Come si legge e come si scrive, Bologna, il
Mulino, 2006.
BOLOGNA Corrado, Flatus Vocis, Metafisica e antropologia della voce, Il
Mulino, Bologna, 1992.
FRATTALE Loretta, Divagazioni sulla diade poesia-traduzione, in BERNARD
A., ROTO I., BIANCHI M., (eds), Vivir es ver volver, Studi in onore di
Gabriele Morelli, Bergamo, Sestante edizioni, 2009, pp. 235-240.
GIACHERY Emerico, Ungaretti a voce alta e altre occasioni, Nuova Cultura,
Roma, 2008.
RENZI Lorenzo, Come leggere la poesia. Con esercitazioni su poeti italiani del
Novecento, Bologna, Il Mulino, 1985.

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