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Canto 10

Il canto decimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel sesto cerchio,


la città di Dite, dove sono puniti gli eretici; siamo all'alba del 9
aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26
marzo 1300.

Incipit
« Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l’inferno e de la
pena de li eretici, e in forma d’indovinare in persona di messer
Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e
solve una questione. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

Gli epicurei - versi 1-21


Nel canto precedente l'arrivo del messo di Dio aveva aperto l'ingresso alla
città di Dite ai due viandanti, dietro il portone aperto dalla verga
dell'angelo, si offriva un immaginario crudo al Poeta: una distesa di sepolcri,
alcuni di questi dati alle fiamme e dai quali escono orribili lamenti. Dante ha
già intuito che qui vengono puniti coloro "che l'anima col corpo morta fanno."
vv.15, cioè chi non crede nell'immortalità dell'anima (gli epicurei o gli atei).
Anche se Virgilio nel canto precedente aveva parlato di tutte le eresie, qui
si incontrano solo eretici epicurei e anche il contrappasso è calibrato su di
essi: poiché non credettero nella vita ultraterrena, essi sono ora morti tra
i morti; inoltre loro non possono vedere nel presente e nel passato ma
vedono soltanto il futuro; questo lo si può capire più avanti
quando Cavalcante dei Cavalcanti chiederà a Dante di suo figlio: Guido
Cavalcanti. Dante, passando tra le mura di Dite e le tombe scoperchiate
domanda:
« La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? Già son levati
tutt'i coperchi, e nessun guardia face. »
Dante è generico, ma in realtà egli desidera vedere un'anima in particolare,
quella di Farinata degli Uberti, come già espresso a Ciacco nel VI
canto. Virgilio coglie al volo l'allusione di Dante, ma intanto gli spiega come
questi sepolcri verranno sigillati solo dopo il Giudizio
Universale (probabilmente perché sarà colmo il numero dei dannati da fare
entrare) e dice che questa parte del cimitero è dedicata agli epicurei; poi
torna sulla domanda di Dante e gli dice che il suo desiderio sarà presto
esaudito, anche nella parte che non dice (cioè di incontrare Farinata).
Farinata degli Uberti - vv. 22-51
Appena terminate le parole del poeta si leva una voce improvvisa che
chiede: "O toscano che vai vivo per la città infuocata e che parli con tono
onesto, fermati per piacere in questo luogo, poiché il tuo accento fa capire
che provieni da quella nobile patria verso la quale io fui forse troppo
molesto" (parafrasi vv. 23-27).
Dante si gira verso la tomba dalla quale è uscito il suono, ma non si allontana
da Virgilio, il quale allora lo sprona:
« Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
de la cintola in sù tutto 'l vedrai »
Appare quindi questo spirito che si erge da una tomba, del quale Dante nota
subito la fierezza insita nel dannato: schiena dritta e fronte alta come se
avesse un gran disprezzo dell'Inferno ("com'avesse l'inferno a gran
dispitto"). L'incontro è con un gran personaggio e Virgilio stesso
raccomanda a Dante di usare parole "nobili" ("conte"): il dialogo sarà infatti
uno dei più teatrali della Divina Commedia.
Farinata degli Uberti fu il più importante capo ghibellino a Firenze nel XIII
secolo. Egli sconfisse iguelfi nel 1248 e, dopo la morte di Federico II di
Svevia e il ritorno dei guelfi, fu costretto all'esilio. Riparato a Siena con
altre famiglie ghibelline riorganizzò le forze della propria fazione e, con
l'appoggio di truppe di Manfredi di Sicilia, sconfisse duramente le forze
guelfe nella battaglia di Montaperti (4 settembre 1260). I capi ghibellini
allora si riunirono ad Empoli e venne deciso di radere al suolo Firenze: fu
solo la ferma opposizione di Farinata a far bocciare l'iniziativa, così egli
tornò trionfale in Firenze, e vi morì nel 1264. Solo due anni dopo, con
la Battaglia di Benevento i guelfi si ripresero definitivamente Firenze,
cacciando tutte le famiglie ghibelline. Molte rientrarono gradualmente
ritrattando il proprio credo politico, ma solo gli Uberti subirono un
crudissimo accanimento: condannato come eretico quasi venti anni dopo
essere morto, le sue ossa vennero riesumate dalla chiesa di Santa
Reparata e gettate in Arno, mentre i suoi beni furono confiscati ai
discendenti; due suoi figli vennero decapitati in piazza, un suo cugino venne
ucciso a randellate, poi ancora vennero processati altri tre figli, due nipoti,
la vedova Adaletta: tutti condannati al rogo. Dante era presente alla
riesumazione, che doveva avergli fatto molta impressione.
Farinata per Dante è invece un magnanimo, uno spirito grande, nonostante i
fatti ai quali ha assistito quando aveva sui diciotto anni. Fu solo grazie alla
sua elegia di Farinata (pur se comunque dannato all'Inferno) che la sua
memoria tornò grande come in passato, tanto da venire poi inserito tra i
fiorentini illustri, per esempio nel ciclo di affreschi di Andrea del
Castagno o nelle statue che ornano il piazzale degli Uffizi. Dante prova
grande rispetto per Farinata degli Uberti, anche se Farinata era suo rivale
politico, rispetto derivante dal grande amore che Farinata prova per la nobil
patria Firenze. Com'avesse l'inferno a gran dispitto, è un verso famoso che
ci fa capire che Farinata non soffra per la pena infernale cui è sottoposto
ma piuttosto per il fatto che i Fiorentini non l'abbiano riconosciuto come
unica persona che salvò Firenze dalla distruzione.
Il ritratto che ne fa Dante è orgoglioso e austero, a tratti superbo, anche
se qua e là traspaiono i suoi limiti umani, i suoi rimpianti ("forse fui troppo
molesto"...). Dante apprezza Farinata perché nel suo lato virtuoso è un suo
modello:
Ha coraggio e coerenza politica;
È un perseguitato politico come lui;
È un ghibellino, e Dante si avvicinerà sempre di più a questa ideologia, tanto
che secondo molti fu questa la motivazione per cui Ugo Foscolo lo chiamò il
"ghibellin fuggiasco";
Farinata ama la sua città prima di tutto e (lo dirà poco dopo) fu l'unico che
dopo la battaglia di Montaperti si ostinò contro la distruzione della città
(anche Dante combattente con Enrico VII di Lussemburgo, da lui chiamato
Arrigo, rifiutò di prendere le armi contro la sua città che veniva posta
d'assedio).
Quello che Dante non condivide è tutto sul piano religioso e in parte su
quello militare (è come se gli rimproverasse di "aver colorato l'Arbia di
rosso", cioè di aver fatto un massacro a Montaperti). Comunque il poeta
accenna continuamente a particolari fisici di Farinata che contribuiscono a
farne anche un ritratto della levatura morale.
Il dialogo vero e proprio inizia dal verso 42: Farinata guarda Dante un po'
"sdegnoso" perché non lo riconosce (egli era nato un anno dopo la sua morte),
e la sua prima domanda è proprio: "Chi furono i tuoi antenati?". Dante gli
risponde (senza tediare il lettore con la storia degli Alighieri), ed allora
Farinata, alzando un po' le sopracciglia risponde che la famiglia di Dante (di
guelfi) fu una fiera rivale sua, dei suoi avi e del suo partito ("Fieramente
furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte", vv. 46-47), ma egli seppe
farli espellere per due volte vincendoli (cacciata dei guelfi nel 1251 e
nel 1267).
Dante riprende subito a botta e risposta: "Se li hai cacciati, essi tornarono
entrambe le volte, cosa che i vostri (i ghibellini) non seppero fare"
(parafrasi vv. 49-51). Allora Farinata profetizzerà l'esilio di Dante dicendo
che proverà anche lui la difficoltà di tornare nella propria città: "...che tu
saprai quanto quell'arte pesa." (vv. 79-81).
Apparizione di Calvalcante de' Cavalcanti - vv. 52-72
Proprio quando Dante risponde garbatamente a Farinata ricordandogli che
lui e i suoi alleati furono esiliati, compare improvvisamente sulla scena una
figura nuova, quella di Cavalcante dei Cavalcanti padre di Guido Cavalcanti,
uno dei rappresentanti di maggior spicco del Dolce stil novo e amico intimo
di Dante. Egli è guelfo, quindi Dante ci tiene a non generalizzare tutti i
ghibellini come eretici, come facevano gli inquisitori senza scrupoli in tempo
di persecuzione politica.
Cavalcante emerge dall'avello unicamente con la testa ("credo che s'era in
ginocchio levata" - v. 54 - scrive Dante), al contrario del fiero compagno di
supplizio, e si guarda intorno, come per cercare qualcuno, e non trovandolo:
« piangendo disse: "Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov'è? E perché non è teco?" »
(vv. 58-60)
Cioè Cavalcante chiede perché Dante ha avuto il privilegio del viaggio
ultraterreno per meriti dell'ingegno e suo figlio Guido no. E Dante risponde
nella terzina successiva:
« E io a lui: "Da me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno" »
Cioè dice che non è da solo (c'è Virgilio) e che la destinazione del viaggio
sarebbe una figura che Guido disdegnò, indicata con il pronome "cui". Chi
intendesse Dante con quel "cui" non è chiaro: la versione più semplice è che
volesse dire che Guido non amò la ragione, simboleggiata da Virgilio, ma non
quadra nel senso generale; potrebbe significareBeatrice, la teologia, la
donna che trasmutò in "Amor Dei" l'amore che aveva acceso nel giovane
Dante, che mosse Virgilio; o potrebbe significare Dio, il quale non è mai
nominato nell'Inferno, ma vi viene alluso solo con pronomi. Si nota dunque
un motivo filosofico per cui Dante discorda da Cavalcanti.
Forse la più coerente è quella che indichi Beatrice, poiché in gioventù sia il
poeta che il suo amico Guido erano rimasti affascinati dall'amor che
pregnava il dolce stilnovo, ma la morte aveva consacrato Beatrice ad un
severo progetto di salvezza per Dante, e l'inattingibile oggetto del
desiderio era divenuto strumento operativo della grazia. In questo modo gli
itinerari intellettuali dei due amici si erano divaricati irreparabilmente.
L'orizzonte speculativo del pensiero di Guido era rimasto improntato
all'animismo fisico di Epicuro e all'"Aristotelismo radicale"
degli averroisti per i quali l'amore, figlio dei sensi, era fonte di impulsi
irrazionali e agonia del desiderio.
Ma c'è un punto nella risposta di Dante che sbigottisce Cavalcante, cioè che
il poeta usi un passato remoto "ebbe".
« Come?
Dicesti elli ebbe? Non viv'elli ancora? »
(vv. 67-68)
Cavalcante pensa che il figlio sia morto (in realtà all'epoca del viaggio
immaginario, aprile 1300, egli era ancora vivo, sebbene morì alcuni mesi
dopo, nell'agosto 1300) e visto che Dante esita nella risposta, ricade supino
nel sepolcro e sparisce dalla scena per la disperazione.
L'episodio di Cavalcante è servito, oltre che per mostrare anche un guelfo
tra gli eretici, anche per dare lo spunto alla spiegazione sulle capacità
profetiche dei dannati che verranno spiegate più avanti nel Canto.

Ripresa del colloquio con Farinata e sua profezia - vv. 73-93


Ma quell' altro magnanimo, a cui
Ma quell'altro magnanimo, alla cui
posta
richiesta
restato m'era, non mutò aspetto,
mi ero fermato, non cambiò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
ne mosse il capo, né piegò il busto;
[...] e disse [...]
[...] e chiese [...]
"Ma non cinquanta volte fia
"Ma non si illuminerà cinquanta volte
raccesa
la faccia della regina che qui impera,
la faccia de la donna che qui regge,
che tu conoscerai quanto pesa
che tu saprai quanto quell' arte
quell'arte-"
pesa."

Nella completa assenza di coralità fra le anime dannate Farinata continua a


parlare come se l'apparizione di Cavalcanti non fosse avvenuta, come
volendo esprimere la sua superiorità. Quindi Farinata riprende esattamente
da dove ha lasciato il discorso: "Se i miei ghibellini hanno imparato male
l'arte di ritornare dopo essere cacciati, ciò mi tormenta più di questo letto
infernale." (parafrasi vv. 77-78)
Nella terzina successiva è esposta la seconda profezia che anticipa l'evento
dell'esilio a Dante personaggio, Farinata con i suoi poteri divinatori comuni
ad ogni anima dell'eterna prigione, avverte che non saranno passati
cinquanta pleniluni che anche l'Alighieri scoprirà quanto è dura l'arte di
tornare in patria. ( "La faccia della regina che qui regge" sta per Proserpina,
nel mito antico sposa di Plutone e figura della luna).
Dante incassa in silenzio e Farinata nel frattempo prosegue chiedendo
perché i fiorentini siano così duri con gli Uberti, la sua famiglia. Dante
risponde che è dovuto al massacro di Montaperti, che "fece
l'Arbia colorata in rosso" (v. 86). Farinata sospira addolorato, ma spiega
che lui non fu l'unico responsabile della battaglia e che ciò era causato da
uno scopo ben preciso. Però sottolinea come invece lui solo fu il difensore
di Firenze dalla distruzione, quando si propose di raderla al suolo dopo la
consulta di Empoli tra il re Manfredi di Sicilia e i capi ghibellini.

I limiti della preveggenza dei dannati - vv. 94-120


Il colloquio politico tra Dante e Farinata si conclude, ma Dante non è riuscito
a farsi un'idea completa e precisa di Farinata perché non ha chiaro se egli
veda nel presente come vede nel futuro. Ultimo passaggio fondamentale di
questo canto quindi è dovuto al fatto che più volte Dante riceve profezie
sul suo destino e sull'Italia dai dannati, ma ancora più spesso si vedrà
chiedere dalle anime infernali cosa accade nel regno dei vivi.
E Farinata così risponde (vv.100-105):
"Noi veggiam, come quel c'ha mala
"Noi, come chi ha la vista difettosa
luce,
le cose" disse "vediamo finché sono nel
le cose", disse, "che ne son lontano;
futuro;
cotanto ancor ne splende il sommo
in questo solo ancor risplende in noi la luce di
duce.
Dio.

Quando s'apprestano o son, tutto è


Quando le cose si avvicinano o si compiono, è
vano
vano
nostro intelletto; e s'altri non ci
il nostro intelletto; e se altro non ci informa,
apporta,
non sappiamo nulla delle vicende umane."
nulla sapem di vostro stato umano."
Dato significativo è che la capacità divinatoria dei dannati venga illustrata
in questo canto, Farinata conclude il discorso avvertendo che quando sarà
venuto il regno di Dio, presente, futuro e passato coincideranno e tutta la
coscienza dei dannati scomparirà all'istante.
È interessante notare che questa capacità di preveggenza, valida per tutti
i dannati (infatti ne danno prova Ciacco, goloso, Farinata, epicureo, e Vanni
Fucci, ladro) derivi dalcontrappasso di un peccato comune a tutti i dannati:
l'aver pensato solo al presente, e mai alla vita nell'oltretomba, futura.
Dante, risolta la questione sulla quale si stava scervellando quando
Cavalcanti gli chiedeva della sorte del figlio, prega Farinata di avvertire il
compagno di avello che Guido, ancora vivo, cammina sulla terra. Virgilio
incalza per andare oltre e Dante può solo fare un'ultima fugace domanda su
chi siano gli altri spiriti nel sepolcro di Farinata. Egli risponde che ve ne
sono più di mille, tra i quali Federico II, disincantato Imperatore noto anche
tra i guelfi come l'Anticristo, e il Cardinale, cioè Ottaviano degli Ubaldini,
un uomo di chiesa che nella Chiesa credeva ben poco, secondo i cronisti
antichi.
Smarrimento di Dante - vv. 121-136
Farinata sparisce e Dante riprende il viaggio con Virgilio, ma è turbato dalla
profezia che ha sentito. Virgilio chiede spiegazioni e lo consola dicendo che
deve sì ricordare la profezia, ma quando sarà davanti alla dolce luce ("al
dolce raggio") di colei che tutto vede, cioè di Beatrice, potrà sapere tutto
il corso della sua vita. I due poeti si allontanano dunque dalle mura e tagliano
lungo il cerchio per un sentiero che scende fino all'orlo del cerchio
seguente, dal quale si sente già provenire un forte puzzo.

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