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Dispense1 su Alberto Moravia

1) Il “romanzo dell’artista”

In L’amore coniugale, nella vicenda di Silvio Baldeschi e del suo progetto di creatività artistico-letteraria, è
rappresentata la connessione di letteratura e vita, della scrittura romanzesca con il matrimonio e lo
sfaldarsi e il degradarsi dei due motivi.
Silvio inserisce l’arte nella vita e vuole vivere attraverso l’arte; tenta, quindi, una conciliazione
impossibile, in quanto tra io e mondo, tra arte e vita non vi è mai unità. Il dissidio di arte e vita, tra la
vocazione artistica e l’integrità umana è palese nel “romanzo breve”. Silvio ha soltanto ambizione, ma
ogni vocazione artistica – scriveva Marcuse – è demoniaca e ha un carattere distruttivo1.
Il personaggio desidera la vita piuttosto che l’arte e non è votato al demoniaco, che appare debolmente
solo al termine della vicenda. Silvio Baldeschi non è votato all’arte e non sacrifica ad essa la vita; vuole
amare ed è anche pronto ad abbandonare l’arte, come in effetti accade. E’ contro il demoniaco, che
percepisce soltanto nell’explicit della vicenda.
Va sottolineato, comunque, che Silvio Baldeschi apre la serie dei personaggi di Moravia che intendono
scrivere un romanzo. Perciò è il primo intellettuale-artista nel quale lo scrittore romano adombra un
tassello del “romanzo d’artista”, sul quale, poi, intervenne spesso e a lui dedicò molte pagine nel corso
del tempo, replicando e variando il proprio “romanzo familiare”, vissuto o fantasticato e
fantasmaticamente rielaborato, “romanzo non come genere letterario ma come maniera di intendere il
rapporto con la realtà o, se preferisci, come coscienza”2.
In un’intervista del 1960, ricordata da molti studiosi, Moravia scriveva dell’intellettuale quale unico
“personaggio positivo” espresso dalla borghesia. Tanti altri, seppure non chiaramente artisti figurativi,
prefigurano ciò che Moravia chiama intellettuali, come il Sebastiano de La mascherata e il Michele de La
ciociara3.
Successivamente rappresentò altre tipologie e figure di intellettuali, segno che l’argomento occupava il
narratore. Il Dino della Noia nel Prologo raccontava come cessò di dipingere, lacerando con un coltellino
la tela sul cavalletto e sostituendola con una tela pulita. Subito avvertì che tutta la sua “energia, come
dire? creatrice, si era completamente scaricata in quel furioso e, in fondo, razionale gesto di distruzione”
(IV 4). Anche Dino, come Silvio Baldeschi, aveva trentacinque anni e confessò di essere giunto ad una
“impotenza completa”, di essere invaso dalla noia e di avere elaborato precedentemente “un progetto di
storia universale secondo la noia, di cui, però aveva scritto “soltanto le prime pagine” (IV 7). Si era
dedicato alla pittura sperando che avesse “avesse definitivamente debellato la noia” (IV 9), e poi
all’ascolto della musica.
Anche Riccardo Molteni il “critico cinematografico” del Disprezzo, che si qualifica “onesto letterato”
(III 968) e si considera “un intellettuale, un uomo di cultura e uno scrittore di teatro”. Aveva già
decifrato il suo destino quando ambiva ad essere scrittore di teatro, ma si era ridotto a scrivere
sceneggiature cinematografiche “soltanto per soddisfare l’aspirazione della moglie Emilia a possedere
una casa” (III 863). In un racconto retrospettivo in prima persona ricostruisce il dramma di coppia e
rifiuta, pur ammettendo di avere una “insospettata vocazione”, il lavoro di sceneggiatore, in quanto,
nella divisione del lavoro cinematografico, “la parte dello sceneggiatore […] rimane sempre
irrimediabilmente subordinata e oscura”, perché “lo sceneggiatore è un artista”, e, in contrasto con la
visibilità del regista, “rimane sempre nell’ombra” (III 864).
Riccardo Molteni, come tutti i personaggi moraviani, nella retrospettiva memoriale matura una lucidità
percettiva. Coscienza e conoscenza sono sempre luce e l’opposizione chiaro/oscuro è decisiva in
Moravia, e non solo in questo testo.

1 Per evitare ulteriori appesantimenti, sono state eliminate le note e i riferimenti bibliografici.

1
Riccardo ricordava di aver sacrificato per denaro le “ambizioni teatrali” (III 863). Aveva venduto
l’anima al diavolo, dunque. Si era prostituito, ma con necessaria lucidità evidenziava il lavoro alienante
al quale si era prestato, con la coscienza di non essere autonomo e indipendente. Aveva scoperto, da
“servitore” del “padrone”, che il lavoro cinematografico era merce, quando invece la scrittura teatrale
non lo era:
la maniera meccanica e abitudinaria con la quale si fabbrica la sceneggiatura rassomiglia forte ad una
specie di stupro dell’ingegno, originato piuttosto dalla volontà e dall’interesse che da una qualsivoglia
ispirazione o simpatia. (III 866)

L’artista, avvilito nella sua individualità, sente di essere prostituito e ridotto a merce. Ci troviamo spesso
di fronte a sceneggiatori, a lavoratori del mercato letterario e cinematografico e alla loro
insoddisfazione.
Con la sceneggiatura l’intellettuale si prostituisce, ma oltre a vendere la sua opera nella questione è
rappresentata anche la scomparsa dell’individualità. Moravia affronta il passaggio avallando il tema
dell’alienazione che apparve con chiarezza, ma poi subì l’accelerazione della temporalità.
La sceneggiatura si accetta soltanto per denaro. Per Moravia - come scrive nel Disprezzo - rappresenta il
massimo della degradazione per l’anonimato. Il vero ruolo di rappresentazione artistica, come nel
romanzo, è del regista.
Il rapporto tra l’artista e la realtà è in re, è un nodo di tutti i tempi e variamente rappresentato e risolto.
In alcuni periodi questo rapporto si è aggravato di tensioni e in altri di meno, ovviamente, tenendo
conto anche degli scrittori. In Moravia il rapporto è sempre stato di rivolta e di opposizione, di rifiuto
delle convenzioni e dei luoghi comuni, della divisione del lavoro, della merce, della prostituzione
dell’artista e della sua “perdita d’aureola”. La fiducia nel reale si è volatilizzata, altrettanto l’armonia e
l’accordo nella rappresentazione della realtà.

Alcuni anni dopo la pubblicazione dell’Amore coniugale Moravia ritornò sul dramma del romanziere e del
suo “romanzo familiare” ed elaborò in L’attenzione la figura intellettuale di Francesco Merighi. Un
giornalista, com’egli stesso riferiva nel Prologo, che aveva scritto racconti e articoli “per un giornale di
sinistra”, voleva dedicarsi alla “scrittura di un romanzo, vecchia ambizione della sua vita” (IV 833),
tiene un diario per mettere insieme una “raccolta di materiale, per servire un romanzo da fare” (IV 827).
Il progetto è molto simile a quello di Silvio Baldeschi: “avrei narrato la storia dei miei rapporti con
Cora, dal primo incontro fino al matrimonio” (IV 833).
Silvio Baldeschi, però, perseguiva una illusione e intendeva scrivere la storia del suo matrimonio da
un’ottica soggettivistica che lo aveva condotto al fallimento. Due decenni non sono passati invano.
Francesco Merighi, invece, che tiene soltanto il diario, un romanzo l’aveva scritto, in “prima stesura”.
Ora, ma senza l’illusione di Silvio, vuole riscriverlo. Egli diagnostica il fallimento del suo matrimonio,
“ma almeno era servito a farmi scrivere il romanzo” (IV 836). Sembra che il Merighi inizi dove Silvio
aveva terminato, perché la stessa situazione si verifica in questa identica delusione: “falsità”, irrealtà,
inautenticità da ogni parola (IV 836). L’insoddisfazione è data appunto da molti elementi, soprattutto
dall’inautenticità, tanto che Francesco Merighi prende coscienza che “inautentico non era tanto il libro
quanto la realtà dalla quale era stato ricavato” (IV 837), questione alla quale non poteva giungere Silvio,
per tanti motivi. Francesco Merighi spiega (IV 837) ancora e riflette sulla “catastrofe” della sua
narrativa. Decide, quindi, di strappare il manoscritto, il gesto distruttivo già messo in opera dal Dino
della Noia, che aveva lacerato la tela, mentre egli “in quesra maniera rozzamente simbolica, oltre alla mia
ambizione letteraria, io avevo liquidato tutta la mia vita passata” (IV 839). Il protagonista de L’attenzione
“non aspirava affatto a scrivere un capolavoro, bensì soltanto ad esprimermi in maniera autentica” (IV
850); “Io avevo cercato di narrare la storia dei miei rapporti con Cora, dal primo incontro fino al
matrimonio” (IV 856). Francesco Merighi non è Silvio e non ha più la convinzione del protagonista
della Noia, che l’azione, la messa in atto della scrittura romanzesca, fosse possibile; era necessario
fermare l’azione “nella realtà della vita, non era possibile, almeno per me, agire in maniera autentica”

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(IV 856) inautenticità nelle cose e nelle parole con passaggio dal “dramma” al “quotidiano”, quindi il
diario e da questo il romanzo (IV 857).
La “passione per la letteratura” non è stata sufficiente a far diventare Francesco Merighi “romanziere”,
anche se egli dichiara di aver ottenuto con il lavoro narrativo “la padronanza del mezzo espressivo che
è indispensabile anche nella professione del giornalista” (IV 849); non recede tuttavia dalla “passione
per la letteratura” e dalla sua “aspirazione a scrivere, un giorno un romanzo” (IV 855), che nelle sue
mani non rappresenta più “un genere letterario, addirittura una maniera di intendere la vita”, e che solo
con esso avrebbe potuto stabilire un rapporto autentico con la realtà, ossia con la vera realtà inconscia e
non con l’apparenza, con il flusso della coscienza e con i torbidi che dovevano essere mantenuti a freno
per la rispettabilità di un reale esterno.

Anche il protagonista di 1934, Lucio, un giovane intellettuale italiano ventisettenne laureato a Monaco
in Germania con una tesi su Kleist, traduttore del racconto Michael Kohlhaas del poeta tedesco, autore di
articoli critici, nutrito di ampie letture, intende scrivere un romanzo. Va Capri e alloggia in una pensione
(“luogo adatto”). Lucio soffre la “disperazione”, che è una variante estrema della malinconia, come si
ricava dalla presenza di Durer, sinonimo di pigrizia, noia, acedia. Nel romanzo che Lucio intende
scrivere e del quale si dice di uno scartafaccio e manoscritto con “le prime venti pagine” (1934 24) delle
quali lo stesso narrante riferisce “non si trattava d’un romanzo qualsiasi”, “non proprio di un certo
romanzo particolare, collegato coi problemi attuali della mia vita e, nelle mie presenti condizioni,
assolutamente necessario” (1934 24), si annida una poetica del controllo e della stabilizzazione della
“disperazione”, non farla diventare angoscia e inazione, lotta oscura con gli istinti. Perciò la letteratura
diventa una verifica della presa di coscienza. Lucio ritiene, dieci anni prima della morte di Moravia, e
uno dei suoi ultimi testi romanzeschi, che “Nella misura in cui sarei avanzato nella scrittura, la mia vita
interiore sarebbe allontanata dall’idea del suicidio, pur restando imperniata su quella della disperazione”
(1934 25). La letteratura come autocoscienza, dunque, e come Moravia aveva sempre fatto, delegando ai
suoi personaggi e costruendoli come interlocutori della sua epifania del “romanzo familiare” e terapia di
scrittura:
la storia di un uomo che finisce per uccidersi; cioè avrei trasferito sulla pagina ciò che restava allo stato
di intenzione nella vita. In questo modo, attraverso l’esercizio della letteratura, avrei ottenuto che la
disperazione ormai “stabilizzata” perché ineffettuale, diventasse quello che credevo fermamente che, ai
nostri giorni, doveva essere: la condizione normale dell’esistenza. (1934 pp.25-26)

L’intreccio romanzesco di 1934 non è essenziale per il nostro discorso. Non è il caso, ora, quindi,
d’interpretare il passaggio dallo schema e dallo scheletro romanzesco alla narrazione vera e propria, di
inserire la vicenda nel regime fascista allora dominante in Italia, di una figura intellettuale nata negli
stessi anni di Moravia. Il quale elabora una piattaforma ben strutturata e con tutte le differenze e le
trasformazioni che nel corso del tempo, in modo manifesto, quando non occulto e laterale, investono
alcuni personaggi della funzione di intellettuale e di romanziere, quindi del suo essere stesso elaboratore
di un problema apparso con Silvio Baldeschi.
In 1934 l’intellettuale Lucio è alla ricerca della verità (1934, p.164). In lui si alternano disperazione e
desiderio, ma egli non si suicida, in quanto il suicidio non era possibile nel Mediterraneo. Egli era
andato a Capri per sperimentare non la vita ma la letteratura prediletta, come accade in alcuni in alcuni
casi. In L’uomo che guarda un professore di francese che conosce bene Mallarmé, mentre Silvio Baldeschi
conosceva bene Poe e Baudelaire. La rappresentazione del romanzo dell’artista si rintraccia anche anche
nella riscrittura di Telemaco e dell’orfano in Il viaggio a Roma. Il narrante ventenne che torna nella
capitale italiana da Parigi, ha sempre con sé un volume di poesie di Apollinaire, ritenuto “modello” e
“guida”. Il giovane protagonista che si è formato nella capitale francese conosce a fondo ampiamente
Apollinaire (e altri autori), del quale cita molti versi e traduce anche una poesia, poi cita allusivamente
anche un famoso verso di Rimbaud, quindi sottolinea che “all’origine della ricerca non c’era tanto la
nostalgia dell’orfano quanto l’identificazione dell’aspirante poeta” con Apollinaire (VR 9). Il narrante
dichiara di essere “poeta”, ma non ha mai scritto poesie, che erano state già scritte dal poeta di Alcools.
3
Rifiuta, quindi, l’astrattezza e la raffinatezza di Mallarmé e l’egocentrismo e la rivolta di Rimbaud e il
moralismo e la disperazione di Baudelaire, com’egli dice (VR 76): “mi identificavo con Apollinaire non
soltanto per quello che diceva e come lo diceva, ma anche per il fatto di non avere conosciuto suo
padre, e, soprattutto per la sua disponibilità” (VR 98-99).
In uno degli ultimi racconti, La villa del venerdì, un altro letterato nutre ambizioni di romanziere (VV 15)
e deve scrivere il primo romanzo, ma lavora alla sceneggiatura (VV 25) insieme con altri. È al mare con
la moglie, dalla quale è abbandonato periodicamente; si sente un automa, esercita l’autocritica e
contempla le bellezze della natura. Anche il protagonista del racconto Il vassoio davanti alla porta, un
giovane di diciotto anni, ha la vocazione letteraria (VV 53) e intende scrivere una tragedia.
Ora, però, avendo riflettuto su tutte le figure intellettuali, a differenza dell’Amore coniugale e
dell’Attenzione, la situazione è solo descrittiva, fenomenologica. Eliminata e svanita la contraddizione di
amore e arte, i due motivi non s’incontrano più né confliggono, in quanto l’inerzia e il vortice del
soggettivismo pervadono i personaggi. I testi si avvitano sulle contraddizioni delle figure intellettuali,
senza risultati positivi, poiché la tematica abituale, purtroppo, si è sfaldata. La realtà è diventata
impenetrabile, è un enigma, un mistero, è inconoscibile. Conviene adattarsi alla rappresentazione
fenomenologica, senza interpretarla, guardarla estaticamente e con rassegnazione, contemplarla e non
agire per non deturparla ancor di più. Inazione ed estasi. Questo il sogno finale dei personaggi di
Moravia.

L’artista moderno, presente anche nell’Arbasino de Il ragazzo perduto, poi L’Anonimo lombardo, e di Fratelli
d’Italia (e di Certi romanzi) e in Capriccio italiano di Sanguineti, si badi, e che nella letteratura italiana trova
adepti già nello Svevo di Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno, di cui non dobbiamo discorrere in questa
sede, e s’interseca con la “leggenda dell’artista”, a cui già facevamo riferimento, e può essere interpretata
anche come la categoria del “romanzo familiare” di Marthe Robert dell’orfano e del bastardo e che
molti decenni prima si era concretizzato nella forma diaristica e nella mise en abyme nella figura di uno
scrittore alle prese con i problemi della composizione letteraria già delineata da anni da André Gide,
innanzitutto embrionalmente in Les cahiers d’André Walter (1891) poi in Paludes (1895), infine in Les faux-
monnayeurs (1925), antiromanzo effettivo, anticipazione del metaromanzo del secondo novecento e delle
sperimentazioni del “nouveau roman”, in particolare di Les fruits d’or di Nathalie Sarraute. Tutti gli artisti
e gli intellettuali moraviani appaiono “orfani” e agiscono per rappresentare il loro “romanzo familiare”
dinamicamente. Nel corso del tempo assumono alcuni atteggiamenti diversificati, oppure - per adottare
le categorie di Lukacs e Goldmann dell’eroe problematico - a seconda della situazione diventano volta a
volta grandi per un mondo ristretto e viceversa, mai si rassegnano e sono sempre maschi e mai donne.
In tal senso ritengo, contrariamente ad una vulgata molto frequentata, secondo la quale Moravia
sarebbe molto più valido artisticamente nelle scritture di ridotte dimensioni e non nei romanzi, a meno
che non si intendano per racconti i cosiddetti lunghi racconti come Inverno di malato e sodali, che il
narratore esprima se stesso e la sua arte nei romanzi e nei generi del “romanzo breve”, ove può
enucleare il conflitto con i fantasmi del suo “romanzo familiare” nel far emergere i fantasmi che urgono
alla sua coscienza e si deversano nella scrittura impetuosamente. In alcuni casi in brevi racconti esprime
dei tasselli del suo romanzo familiare, alcuni lacerti, ma solo nello spessore narrativo riesce a
fantasmatizzare il suo “romanzo familiare”. In tal senso, d’altronde, le fisionomie intellettuali sono
emblematiche e significative e rappresentano le diverse epoche nei sessanta anni della carriera dello
scrittore. E se volessimo tracciare una storia di tali personaggi e della loro fisionomia intellettuale e la
storia dell’artista in generale ci avvediamo immediatamente che generalmente la storia del romanzo
dell’artista si incrocia e si salda con la storia del singolo “romanzo familiare” e in Moravia, nel quale non
esiste l’auspicio della comunità della quale riferiva nel 1922 Marcuse. Egli ha voluto soltanto
rappresentare se stesso individualisticamente.

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2) Tempesta

Nei paesaggi di Moravia incombono tempesta e temporale. Dal punto di vista meteorologico,
ovviamente, la tempesta non è il temporale, ma lo scrittore non differenzia i due fenomeni. La
tempesta, perturbazione atmosferica con venti di forte intensità, pioggia, scrosci e talvolta grandine,
scariche elettriche, è una catastrofe, antitesi dell’idillio naturale che sconvolge l’equilibrio climatico; è
sempre “imminente”, improvvisa, temporanea e locale, e non provoca danni irreparabili. La tempesta è
anche in sintonia con il carattere, il temperamento e gli stati d’animo dei personaggi, nei quali provoca
angoscia psichica. Si forma la costellazione vento e pioggia, fulmine e tuono, che si ritrova anche nelle
similitudini e nelle metafore, e che, con il passar del tempo diventa soltanto metafora e cornice
paesaggistica.
Nei primi testi di Moravia, dunque, domina la pioggia. Il paesaggio, sempre invernale, si presenta scuro,
tetro, tempestoso, piovoso. L’ambientazione è della stessa tonalità in città, in provincia e in campagna.
Già in uno dei primi racconti, La noia, del 1930, fin dall’incipit il protagonista si accorge del “tetro cielo
temporalesco” (I 422). Poi, “del temporale che doveva essersi nel frattempo ancor più addensato”,
avverte “un lampo violento, accecante” che “percosse l’aria, e, per un istante corridoio bimbo,
pavimento, usci, ogni cosa, apparve agli occhi di Mario con una intensità quasi dolorosa” (I 426). Il
personaggio, dunque, descrive il paesaggio:
Nella strada cadevano in fretta le prime gocce pesanti, il cielo era scuro, un vento selvaggio e freddo
sbatteva le imposte, faceva volare le tegole e cigolare le banderuole dei tetti, scrollare il fogliame livido
degli alberi primaverili. (I 427)

In Gli indifferenti registriamo “l’onda della pioggia colare dalla vasta notte torrenziale sui vetri quadrati”
(I 44), i “lampi delle tempeste” (I 111), la “ventata impetuosa” (I 152), la “notte tempestosa” (I 156), il
“rumore torrenziale del diluvio” (I 155):
tutti guardavano stupiti quella violenza fatta di nulla che ruggiva, gemeva, scricchiolava, e lacrimava
sulla soglia vuota; (I 153)

Pioveva con abbondanza, la notte era nera e umida, da ogni parte arrivava il rumore monotono del
diluvio; (I 159)

come squarci di un solo paesaggio illuminato dai lampi di una tempesta notturna. (I 258)

un gran fruscìo torrenziale empiva l’oscurità; /…/ la grossa pioggia vecchia di due settimane di tempo
grigio sfogava da ogni parte il suo fiotto impuro fermentato a lungo nei fianchi delle nubi; sotto il
diluvio le case stavano dritte e nere; i fanali affogavano; i marciapiedi inondati assumevano l’aspetto
anfibio delle banchine per metà sommerse, nei porti di mare. (I 290)

Non manca nel romanzo la metafora del temporale (I 6) per evidenziare l’irritazione di Mariagrazia. Il
figlio Michele, allorché la madre si rasserena dice che il “temporale” era passato e ritornava il sereno (I
19). La metafora è replicata: “queste rapide idee erano come luci di lampi nella tempesta della sua
libidine” (I 8).
Nel capitolo III della “parte seconda” del romanzo Le ambizioni sbagliate sono da segnalare, in un sogno
di Carlino, le immagini, tra l’altro, di una “giornata tempestosa” (I 683) e dell’“aria tempestosa” (I 754).
Il personaggio “vede la pioggia torbida e silenziosa colare con violenza sui vetri dei finestroni. Balena
un lampo accecante, il tuono cupo e lontano che lo segue scuote l’aria, fa tintinnare i vetri e muore con
certi suoi distratti e pensosi brontolii, mettendo nel suo cuore un’angoscia inesprimibile” (I 684-85).
In altro segmento narrativo è da sottolineare, poi, nei pensieri di Andreina, la metafora del “vento
furioso” e della “distruzione completa e definitiva” (I 778). La protagonista osserva un’altra tempesta
(“alzò gli occhi verso il cielo e vide che era basso e scurissimo”). Avverte che è sul punto di scoppiare
un temporale (I 887); ancora un “temporale che fin dal mattino si andava addensando sulla città” (I
5
932), un “ottenebramento temporalesco del giorno” (I 932), una “luce bassa della giornata procellosa”
(I 937), il cielo “scuro e rannuvolato”, “la tetra nuvolaglia temporalesca” (I 937), “Non pioveva ma la
tempesta era per l’aria densa e oscura” (I 944), un “vento di tempesta” (I 1005): “Nella strada tirava un
vento contrario e tempestoso, mischiato, le parve, a rade gocce di pioggia (I 963):
Infatti certi silenziosi lampeggiamenti del temporale ancora lontano lasciavano ogni tanto intravedere le
cortine minacciose della nuvolaglia immobilmente sospese sopra gli alberi dei giardini e sopra i tetti
delle case. (I 991)

Nella narrazione le immagini e le similitudini incalzano (“come se un fulmine scaturendo da un cielo


tempestoso avesse attraversato i tre piani della casa e si fosse schiantato tra di loro”; “come avviene
talvolta in seno alle tempeste, quando si vedono gli alberi, le piante e le erbe piegarsi ad un tratto dalla
parte opposta a quella verso cui si erano fino allora inclinate”). Si susseguono azioni e litigi tra due
personaggi, fino a giungere all’explicit romanzesco con una descrizione del temporale:
Ora lampeggiava più spesso, ma sempre senza rumore dietro i colli che dominavano la sponda opposta.
Ogni lampo svelava un momento case, cupole, campanili e alti boschi impigliati nelle nubi in fuga. (I
1009)

Risulta evidente, all’altezza storica degli anni Trenta, il nesso di tempesta e visione del mondo. L’analisi
critica, dunque, delinea il significato del tempestoso e documenta quando, accoppiato ad altri fenomeni,
come mancanza di sole, nuvole, vento e nebbia, si manifesta nelle diverse ore del giorno e della notte e
contribuisce a valutare l’atteggiamento del narratore verso il clima che deve rappresentare in modo
ossessivo anche lo stato d’animo dei personaggi.
La rappresentazione della tempesta è persistente. Anche due racconti, La tempesta, del 1935, e Tempesta
imminente, dell’anno successivo, recano già nel titolo presagi significativi. Il primo testo presenta subito
una “catastrofe incombente” (I 1269):
Turbini di polvere estiva si levavano col vento nell’alone dei fanali, si vedevano tutte le foglie di quegli
alberi fronzuti rivoltarsi con impeto mostrando la parte di sotto, più chiara, quasi livida, ad un tratto le
prime rade, grosse gocce di pioggia incominciarono a colare con violenza sui vetri dell’automobile. (I
1277)

La tempesta non smette e diventa un elemento caratteristico del paesaggio: “un nuovo scoppio di tuono
fortissimo e violentissimo questa volta, quale accompagna di solito la caduta di un fulmine” (I 1285);
“La pioggia continuava a cadere con un vasto rumore torrenziale” (I 1288):
poi tutto ad un tratto l’albero ramificato e terribile di una folgore splendette all’estremo orizzonte della
nera campagna sui cui si apriva la finestra, illuminando sotto di sé profili di foreste e di monti e orli
gonfi e minacciosi di nubi viaggianti, stette fermo un lunghissimo attimo vibrando e ardendo di livida
luce intensa per tutte le sue propaggini, si spense di colpo e senza tuono. (I 1290)

Gli rispose il tuono con un brontolio cupo e prolungato che dava intero il senso della vastità e
dell’altezza del gran nembo diluviale attraverso il quale rimbombava (I 1308)

Temporale e carattere dei personaggi, molta pioggia, fulmini, tuoni. Termina la tempesta e appare una
“fresca notte estiva”; “L’aria purificata dal diluvio era tersa e senza vento”, il cielo diventa sereno, “nel
silenzio e nella frescura della notte” (I 1315).
In Tempesta imminente, una sorta di esercitazione descrittiva, è segnalata una “catastrofe imminente” al
mare. Siamo a Viareggio. Il personaggio ripensa visionariamente al paesaggio: “lontananza smorta e
tempestosa” (I 1459), “tuono rimbomba di lontano rotolando sulla superficie immobile del mare come
la prima cannonata di una remota battaglia” (I 1459).
Nel racconto Il ladro curioso, invece, è rappresentata una notturna “tempesta estiva” (I 1549), la “vastità
del temporale” (I 1561), un “cielo tempestoso” (I 1554), un “cielo basso e tempestoso” (I 1561) che
“lampeggiava a intervalli” (I 1559), il “tuono corrucciato che brontolò rauco nella lontananza”. In Le
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donne fanno dormire sono da segnalare “due settimane di piogge ininterrotte”, un “movimentato cielo
temporalesco” (I 1567) e un “cielo nubiloso”, mentre in La casa nuova un “lampeggiare senza tuono in
fondo alla buia e calda notte” (I 1623), con replica: “Lampeggiava sempre, ma nell’aria non c’era più la
stessa immobilità” (I 1626); “Un lampo più forte illuminò gran parte dell’orizzonte; vibrando e
persistendo come se avesse dovuto durate per sempre” (I 1627). In Il mare, racconto del volume
L’epidemia, è descritta una “mareggiata” (II 455), mentre La finestra aperta presenta, in una sera della fine
d’autunno, una “tempesta di vento” con il mare “in burrasca” (II 524) e con il vento che “urlava con
tanta malinconica furia” (II 521). In Lungo il mare, in una giornata di giugno il mare è “tempestoso” (II
1761).
Il lettore avvertirà immediatamente, dalle insistenti citazioni, la ripetitività delle immagini e la loro
ossessività, la presenza del temporale-tempesta, in accordo con i tumulti interni dei personaggi, in una
costellazione strutturata ampiamente e consolidata, con notte, vento freddo, lampi, tuoni, pioggia.

Il paesaggio nei testi di Moravia, dunque, è dominato inizialmente dalla tempesta e non dall’idillio. In
Agostino l’intera fenomenologia si modifica. Tempesta, lampi, tuoni e pioggia scompaiono. Domina la
calma al mare e l’angoscia dell’adolescente è indirizzata altrove. Tutto è travestito e la tempesta è
soltanto interna alla coscienza del personaggio. L’assottigliamento è progressivo. Altrettanto accade in
La romana. In Il conformista, del 1951, è da registrare appena “un’aria tempestosa e mite” (III 39), una
giornata “tempestosa e rannuvolata, percorsa da un vento caldo che pareva ricco di spoglie rapinate un
po’ dappertutto al suo turbolento passaggio: foglie morte, cartacce, piume, lanugini, fuscelli, polvere”
(III 60). Il paesaggio di campagna è con “uno scuro cielo temporalesco” (III 65). In La disubbidienza,
invece, si rileva soltanto la metafora della “tempesta” (“come i rottami di un battello naufragato nella
bonaccia che segue la tempesta”; II 1147), con una replica:
il suo volto affinato dalla malattia, pareva emergere purificato come un paesaggio a lungo frustrato e
sconvolto fuori dalle nebbie di un violento temporale (II 1170)

In La ciociara bello e cattivo tempo s’incrociano e intervallano. Nei mesi invernali vento di
tramontana e di neve. La tempesta è rappresentata dalla guerra, metaforizzata dal tuono (“non era il
cannone che ormai si sentiva da lontano, come il tuono di un temporale”; III 1380), replicato in seguito:
“Quelle esplosioni mi parevano non di cannoni ma di qualche forza naturale come il tuono o la
valanga” (III 1395), “tempesta della guerra” (III 1409).
In Il disprezzo si rileva soltanto una “pioggia sottile e fitta” a Roma, dei “mille fili luccicanti della
pioggia”, e del fatto che “Pioveva sempre, fittamente; la pioggia mi entrava tra il bavero e il colletto,
bagnandomi fastidiosamente la nuca me la sentivo ruscellare sulla fronte e sulle tempie” (III 936). Il
paesaggio caprese, però nel romanzo non presenta scene di tempesta, ma sempre sole e una diversa
tipologia della natura.
In La noia “il cielo non si era ancora pulito: nuvole nere, che parevano incapaci di sollevarsi per il peso
della pioggia che portavano nei fianchi, stavano sospese in strati immobili sopra questa verdura ancora
primaverile” (298). Con alcune particolarità che affiorano spesso e si depositano sulla pagina
inavvertitamente:
Sulle nostre teste la nuvolaglia pareva, adesso, sfilacciarsi in brani di nebbia, tanto era bassa e gonfia,
simile ad un ventre gravido. L’aria era umida, calda, simile ad un ventre gravido. (300).

L’immagine è replicata in seguito: “certe brevi pianure in parte tosate e in parte erbose mi facevano
pensare al suo ventre, certi poggi rotondi al suo seno, certi accidenti del terreno al profilo del suo volto
e dei suoi capelli” (303).

In Luna di miele, sole di fiele, racconto interamente dedicato alla vicenda dei coniugi in viaggio di nozze, il
temporale con fulmini e tuoni assume, invece, un risalto notevole. La vicenda si svolge al mare ad
agosto (III 359, 366, 367, 369) con un cielo “nubiloso”, aria morta (III 363), un “cielo minaccioso”, un
“cielo scuro”, un “cielo, metà temporalesco e metà sereno” (III 380), scirocco e rannuvolamento del
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cielo. Marito e moglie fanno sesso per la prima volta quando scoppia il temporale (III 378). Si presenta
in questo testo, ed in modo esemplare, dunque, la connessione, sottolineata da Dominique Fernandez,
ormai decenni or sono – a proposito del racconto Il mare – che “i due temi della tempesta e del
rapporto sessuale, nettamente separati nella vita logica, non lo sono sempre nella vita intima e
soggettiva. Il surrealismo ha dato occasione al romanziere realista tipo che è Moravia, di associare
liberamente situazioni che non hanno alcun rapporto visibile tra di loro, nessun rapporto ufficiale e
conosciuto, ma hanno un rapporto reale nella zona privata delle coscienze (o subcoscienze)” 3. Il critico
francese rilevò una struttura profonda e sottolineò giustamente anche che le “corrispondenze” tra
tempesta e sesso erano state già indicate in Gli Indifferenti e in Malinverno. Il nesso va anche ricondotto a
paure ataviche del bambino, all’angoscia e al panico e alla fantasmatizzazione di una scena.
Nel racconto Non ti senti meglio?, della raccolta L’automa, un personaggio riferisce di una “giornata
addirittura funebre” perché pioveva, di un cielo “pieno di nuvole basse e scure”, di “una giornata di
maltempo, con vento, pioggia, nuvole base, scarsa visibilità” (IVA 743). In Il poeta e il medico, dello stesso
volume, in una zona di Roma:
il cielo era di un azzurro crudo e nuovo, come di vernice fresca; nuvole di ovatta grigia orlate di viola
scorrevano, gonfie e pesanti, sospinte dal vento impetuoso; il sole sfarzoso faceva apparire nera la
macchia che ricopriva Monte Mario /…/. Faceva un caldo bruciante, quasi con il presagio di un altro
temporale e lui si sentiva felice, con il sangue che gli ronzava dal benessere. (IV 787)

Nel racconto L’uomo che guarda, un “cane vivace ma oltremodo pauroso” si spaventa per un “colpo di
tuono, secco e cupo” che era partito dal “cielo rannuvolato, al di sopra delle colline” (IVA 655). In La
recensione si rintraccia la metafora del “diluvio”, ma con riferimento a quello biblico e mitico: “si è
portato via i giganti che un tempo popolavano la terra; oggi non sono rimasti che i pigmei” (IVA 1561).
In La regressione, del volume Una cosa è una cosa, del 1967, un personaggio descrive il paesaggio:
Appena uscito nella strada ho guardato in su e ho capito che sarebbe stata una giornata tremenda. Due
terzi del cielo erano ingombrati da una nuvolaglia nera, grigi e bianca, gonfia e temporalesca, che pareva
salire su, su dalla terra come il fumo turbinoso e oscuro di un incendio; (IV 1325)

Nel racconto L’albero di Giuda, nello stesso volume, è descritto un “cielo temporalesco quasi” (IVA
1369). In Litigi sotto la pioggia della raccolta Un’altra vita, una donna va in campagna, guarda i “campi”
“gonfi e verdi sotto il cielo gonfio e nero” dice alla figlia che si annuncia un temporale e ritiene che
sono “belli i temporali di primavera. Mi mettono addosso un sentimento di ebbrezza, di felicità, di
primavera, insomma” (PAVAB 231). Un uxoricidio e rapporto con il temporale è in Le mani intorno al
collo (C 251); un mare in tempesta “verde torbido, con cavalloni vitrei e ricciuti dai quali il libeccio fa
volar via brandelli di schiuma” è in PAVB 4; un temporale incombente sul mare è in Le mani intorno al
collo (C 251). Altrove è da registrare: “Fa una faccia aggrondata sulla quale i tic gettano ogni tanto una
luce angosciosa con i lampi in un cielo temporalesco” (PAVB 433). Nel racconto Temporale e fulmine la
protagonista a 18 anni ha accumulato un odio minaccioso, incombente come un temporale per il padre.
Ora manifesta l’odio anche contro il marito, al quale rinfaccia tutto. Il litigio scoppia come il fulmine e il
temporale. L’intero racconto è sulla falsariga di una metafora significativa:
Ogni tanto mi vengono quelli che io, nel mio gergo privato, chiamo temporali. Così è, per me, un
temporale? È un lento accumularsi, dentro di me, attraverso mesi e anni, dell’odio per qualche cosa che,
però, non so cosa sia. Quest’odio si fa sempre più minaccioso e più incombente, proprio come un
temporale che si addensa all’orizzonte in una bella giornata d’estate. (PAVAB 345)

La donna confessa di aver avuto un “temporale” a diciotto anni, di aver fatto una scelta drastica e di
aver sposato il primo venuto, e con il quale sente che si avvicina un altro temporale dal giorno del
matrimonio. Il testo si conclude con la metafora che si prolunga con il “fulmine”. Lei confessa di essere
stata “colpita in pieno, Incenerita!”
Un temporale estivo è anche in Romildo, al termine delle vacanze, ad agosto:

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un cielo basso, gonfio di oscura nuvolaglia e sotto questo cielo un mare verde livido, trasformato da un
vento impetuoso in un caos di ondate schiumose, disordinate. Proprio davanti alla finestra, un
tamerisco confermava il temporale con lo scotimento disperato del suo fogliame piumoso. (R 3)

Per Romildo è uno “spettacolo insolito”, ma a suo parere molto più adatto alla partenza e al rientro in
città della moglie con i figli. “gli pareva che quel mare e quel cielo tempestosi fossero uno scenario più
adatto del clima da vacanze che era durato fino al giorno prima” (R 3). Il “vento impetuoso” ma
“caldo” non dà fastidio, ma gli dà “l’illusione che qualche cosa di drammatico e di decisivo stava per
succedergli” (R 6); un “vento furioso” che scuote e sconvolge gli alberi del giardino (R 10), una “raffica
rabbiosa e inebriante del vento” (R 19).
L’angoscia dei personaggi per la tempesta che incombe e si scatena è sparita; non si verificano più le
situazioni lugubri notturne. Non vi sono più temporali ma soltanto cieli rannuvolati. Negli anni
Sessanta è scomparsa la paesaggistica precedente e si è assottigliata l’angoscia, diventata un corredo
superfluo. Tutti constatano un dato di fatto, però senza ansia e preoccupazioni.

La tempesta e il temporale scoppiano con frequenza in città, in campagna e lungo il mare. Più spesso in
un’isola, come accade nel romanzo 1934, ambientato a Capri, paesaggio privilegiato dallo scrittore:
Forse era l’atmosfera del temporale imminente a suggerirmi l’analogia con la stampa del pittore tedesco.
Come nella stampa, un arcobaleno incurvava i suoi colori chiari sullo sfondo del cielo tetro e la grande
rupe rossa di Capri si stagliava a picco su un mare calmo e scuro che, qua e là, scintillava di riflessi
accecanti come una lastra di piombo graffiata dalla punta di un coltello. (1934 7)

Adesso, il temporale che era sembrato imminente pochi minuti fa, pareva svanito; la nuvolaglia scura
era fuggita verso l’orizzonte dove si era condensata in una sola nube lontana, simile ad un lungo sigaro
affusolato; la montagna di Capri, con le sue rupi rosse rivestite di verde, si alzava in un cielo azzurro e
luminoso. (1934 11)

Anche nei viaggi Moravia avverte “l’uragano perenne” (V 1770), descrive la pioggia (V 1484), l’angoscia
e il “panico claustrofobico della foresta” (VA 1777). Nel viaggio in Irlanda del 1990 è registrata
l’atmosfera sospesa del temporale e dell’uragano. Particolarmente nei viaggi in Africa i fenomeni
naturali sono più ossessivi e Moravia li registra tutti, come in Lettere dal Sahara un “temporale”
imminente annunciato da “lampi silenziosi” e con “un vento disordinato annunziatore di tempesta” (LS
193). In Africa nell’attraversare la foresta è visibile “un temporale che sta sospeso” sulla foresta (LS
193) con “lampi silenziosi”, con “vento disordinato annunziatore di tempesta” (LS 193). Moravia
registra il paesaggio e tutte le sfumature cromatiche certamente degli alberi e la presenza degli animali,
ma soprattutto i fenomeni naturali come i temporali, le paure di fronte ad un “temporale imminente” e
le nuvole – che gli ricordano una lirica di Baudelaire – le quali “fanno immaginare minacciose
deambulazioni di dinosauri, orrende zuffe tra giganteschi erbivori e carnivori antidiluviani” (PA 4),
“cielo rannuvolato, minaccioso” (PA 110), “cielo da apocalisse, nero di temporali sovrapposti,
aggrottato e tetro come una fronte oppressa da cupi pensieri” (PA 121); “si scruta il cielo e, vedendolo
tutto un caos d’aggrovigliate nubi tenebrose, ci si prepara non senza qualche apprensione all’imminente
scatenamento dei cosiddetti elementi” (PA 122) “cielo tenebrosamente minaccioso, con tante nubi nere
gonfie e ritorte, le une dietro le altre, fino all’incendio del tramonto che cova rosso tra le nebbie scure
dell’orizzonte” (PA 127), “tetro e minaccioso cielo delle grandi piogge” (PA 140), “lontano brontolio di
tuono” (PA 144). Di fronte alle cascate Victoria il viaggiatore comprende che la cascata “oltre che un
mostro, è una naturale metafora di ciò che va sotto il nome di catastrofe” (PA 146).

In un’annotazione del Diario europeo, per indicare l’Europa e la sua storia, alla data 21 gennaio 1988
Moravia pensa ad una “prima metafora”, che però non interessa per il nostro discorso. Ora desta
attenzione e curiosità nel lettore anche smaliziato una seconda “metafora”, “attinta al clima sempre
eccessivo dei tropici” (DE 160). Con riferimento ai “due eccessi” climatici nei quali “l’Africa vive
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drammaticamente la sua vita”, ossia “una stagione delle piogge e una stagione della siccità”, il
viaggiatore osserva che per conoscere in tempo reale il clima è necessario essere in Africa:
Il temporale si annunzia all’alba con una nuvolaglia scura simile ad una fronte aggrottata da cupi
pensieri. Poi, i lampi cominciano a zigzagare fuori di questa minacciosa cortina, accecanti, seguiti
sempre più rapidamente dai brontolii e dagli schianti dei tuoni. Viene poi un vento freddo e furioso che
prende a scuotere tutto ciò che cresce sulla terra, dal filo d’erba al baobab. Infine, ecco la pioggia: il
cielo letteralmente si apre, e torrenti d’acqua cadono sulla terra. (DE 161)

La tempesta e il “cielo temporalesco” invadono gli intrecci, incombono sui personaggi, incidono sul
loro stato psichico e sulle loro azioni, risvegliando angoscia atavica e storica. Connessa a tanti altri
elementi fino alla morte, l’angoscia, provocata dai tuoni e dai fulmini, si ripresenta rinnovata e
modificata di spessore e si dilata e si riversa sull’angoscia atomica, sul pericolo nucleare, sulla catastrofe
ecologica. Allorché Moravia è assillato dall’inverno nucleare” ogni minaccia di temporale e di nuvole
nell’immaginazione diventa il fungo atomico. In L’uomo che guarda è da segnalare uno “sciroccoso cielo
primaverile” (UG 16), un “temporale imminente” (UG 127), la pioggia e il tuono (UG 128).
L’osservazione del protagonista: “qualche volta, quando il tempo è tempestoso e nel cielo grandi
squarci di azzurro si alternano a nuvole temporalesche”, appare “che dietro la cupola spunti, cresca, si
innalzi, si gonfi e al fine torreggi la nota nuvola in forma di fungo dell’esplosione atomica” (UG 29). E
non causalmente, nel romanzo, dietro la cupola di San Pietro, un’immagine che si replica, sempre nello
stesso luogo (UG 122), mentre all’improvviso scoppia “un lampo silenzioso”, quindi un tuono, un
“vento fresco e umido” (UG 123), infine la pioggia: “Poi scoppia a un tratto, con schianto tremendo,
un fulmine molto vicino, forse è caduto nel Tevere” (UG 128). Il protagonista sente che una “camera”
dell’appartamento di famiglia “ispira un senso di sicurezza quasi fosse una specie di ventre materno nel
quale posso sempre rifugiarmi al riparo dalle tempeste della vita (UG 25).
Nel racconto Tuono rivelatore un genitore si reca a Roma presso il figlio per dormire al sicuro. Nel viaggio
in macchina per la città guarda le “grandi nuvole temporalesche, nere e minacciose”, con il presagio di
un temporale: “uragano, con vento, tuoni, lampi, pioggia”. Contrariamente al figlio che decanta la
tranquillità e vuole organizzare “una vita serena e sicura”, il padre confessa di avere “paura”. Non ha
appetito, vuole dormire. Dorme, ma nella notte sente “il tuono rotolare cupo e fragoroso e poi, negli
intervalli di questo rotolare, propagarsi il fruscio della pioggia” (C 230).
I meccanismi tipici del sogno sono evidenti e si delineano attraverso spostamento e condensazione. Il
personaggio ricorda che lo stesso tuono e lo scroscio della pioggia li aveva sentiti già “nell’infanzia”,
cinquant’anni prima:
il ricordo mi faceva tornare indietro di mezzo secolo. Ero nella casa paterna, mi svegliavo di soprassalto
nel buio, sentivo lo scoscio della pioggia e il fracasso del tuono, allora mi levavo dal letto e correvo a
rifugiarmi nella camera accanto, tra le calde sicure braccia di mia madre. (C 230)

Ma sono passati cinquant’anni e la madre non c’è più, anche se è sostituita dalla “donna somala”,
evidente figura materna. Si tratta di un ricordo che si ripresenta con minimi dettagli diversificati anche
altrove, ma è dello stesso Moravia bambino. Il ricordo si ripresenta spesso e assume nelle differenti
circostanze aspetti variegati. Si ripresenta anche in un testo del 1972, nel quale Moravia rievoca le
vacanze viareggine della sua infanzia e ricorda lo scoppio di una tempesta in un giorno estivo. Senza
entrare nel merito anche della tecnica del ricordo come presentificazione il narratore scrive:
Sto giocando col mio secchiello e intanto osservo la spiaggia, con le sue file di cabine, le sue barche
tirate in secco, i suoi pattini accoppiati. /…/ il lungomare, con i caffè dalle insegne in stile floreale;
/…/ la fila di ville e villette liberty. Dentro le ville e le villette, so che ci sono le stanze con i mobili di
giunco, i pavimenti a fiorami, la carta da parati con le roselline, le porcellane igieniche dalle rubinetterie
complicate e scintillanti. Osservo di sottecchi questo paesaggio: melenso e borghese, per la prima volta
pare avere un’aria minacciosa, misteriosa, tragica. Ciò che lo rende tragico, come mi rendo conto, è
l’imminenza di una tempesta. Un enorme nembo nero sbarra obliquamente il cielo, non lasciando,
all’orizzonte che una stretta striscia chiara dalla quale piove sul mare calmo e tetro un fascio di raggi
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sulfurei. In quest’aria buia, sotto questo cielo nero, i colori delle cabine, delle barche, dei pattini, i verdi,
i rosa, gli azzurri stonano, stridulmente intensi, chimici elettrici. Questi colori mi stupiscono, mi
domando perché sono così chiari e comprendo che lo sono perché il cielo è così nero Poi, in quella
striscia di sereno all’orizzonte ecco, dal nembo sporge come a cercare il mare il dito grigio e affumato di
una tromba marina. I colori, adesso, stonano più che mai; il cielo è più che mai nero. Mentre osservo
questo contrasto, mia madre mi prende per mano e mi porta via, su per la spiaggia, trascinandomi
attraverso la sabbia fredda che già le prime gocce di pioggia vanno bucherellando,

Alla vista dei quadri di Cremonini – è il commento del biografo – emergono i giochi infantili, le prime
emozioni sessuali, la fine dell’infanzia. Sarebbe utile delegare i dettagli ad un freudiano ortodosso per
comprendere il meccanismo che presiede al ricordo, al significato della “tempesta” nel bambino e che
viene ipotizzato dal biografo allorché scrive che con il ricordo Moravia prese coscienza della “fine
dell’infanzia”. La tempesta e gli altri elementi vengono rimossi e annullati nella narrazione.

Il paesaggio temporalesco attraversato dalle nubi e dalla pioggia, da un clima nel quale sono immersi i
personaggi è costante in Moravia. Il temporale e la tempesta sono sempre in contrasto con la natura
solare, idillica e omerica. La tempesta non è qualcosa di lontano e di esterno, piuttosto incombe ed è
imminente, sempre una costellazione connessa ai fulmini, ai tuoni, alla pioggia, al vento furioso e al
mare agitato. Attraverso la tempesta emergono altri elementi, alcuni in connessione con i fulmini e il
tuono, ma appare anche il terremoto, che nel ricordo è associato alla tempesta, ma anche ad elementi
punitivi insorti nel soggetto per colpe e peccati presunti, sempre collegati all’infanzia e all’inizio
dell’adolescenza. Non è un caso che tali elementi coincidano storicamente con la guerra, ogni guerra,
dalla quale Moravia fugge, ma nella quale poi si trova invischiato, e che assocerà alla guerra atomica e
all’incubo nucleare.
Tempesta guerra e terremoto. A proposito del terremoto del 1976 in Friuli riemerge il ricordo del
terremoto in Lunigiana, nel 1916 o 1917. Moravia aveva otto-nove anni, era in vacanza a Viareggio,
malato e chiuso in casa, leggeva Dumas. Il terremoto fu interpretato quale catastrofe e quale punizione
della collera divina (R 389), “presente e incombente”, memoria che non si attenua. Il motivo con tutte
le correlazioni è in relazione con l’ossessione della guerra, la prima guerra mondiale, allorché Moravia
aveva tra i 7 e gli 11 anni. La guerra non era stata vissuta a Roma, ma ebbe comunque un impatto su di
lui e fu rifiutata con la fuga all’estero allorché scoppiò la guerra d’Etiopia e fu metabolizzata, emerse
fragorosamente con la seconda guerra mondiale e con l’incubo atomico e con la concezione della storia
come oppressione e angoscia.

3) Suicidio

L’omicidio, a volte tentato, spesso messo in atto dai diversi personaggi, serpeggia per tutta l’opera di
Moravia. Gli omicidi, oppure le fantasticherie di omicidio, di uomini o di donne, particolarmente negli
ultimi testi, sono sempre presenti nelle ariose narrazioni e nelle brevi storie, anche nei racconti di varia
tipologia.
Ne Gli Indifferenti è manifesto, da parte di Michele, con molta veridicità artistica, il tentativo di omicidio
di Leo. Si pensi, inoltre, all’assassinio di Sofia, da parte di Andreina, al delitto tentato in L’architetto (I
1189) in Le ambizioni sbagliate, alla “collera omicida” in L’equivoco (II 156), al Sonzogno omicida del
ricettatore del portacipria d’oro in La romana, al tentativo di omicidio di Riccardo Molteni della moglie
Emilia nel Disprezzo (III 925), al delitto non compiuto da Marcello Clerici (III 52) e all’omicidio politico
in Il conformista, in La vita interiore, al delitto – ossessione di cronaca nera in La disubbidienza (II 383) – ad
Idea del delitto, all’uccisione del marito da parte di una donna in Un’altra vita e al delitto nello stesso
volume, all’omicidio in Al dio ignoto (C 42-43). In La moglie-giraffa, nella raccolta La villa del venerdì una
moglie “rivede la giraffa e prova di nuovo l’impulso omicida” (VV 170). Altrettanto accade in due
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ultimi racconti (VV 176). Tale Terenzio stringe al collo una ragazza o la moglie “con desiderio di
uccidere” (VV 188). In Il cancello chiuso, nel carcere il narrante mostra un’attenzione significativa per il
prigioniero che ha commesso delitti.
L’omicidio, però, messo in atto soltanto in alcuni casi, piuttosto fantasticato, è sovrastato dal suicidio,
che è davvero ossessivo e con frequenza appare anch’esso quale tentativo oppure fantasticheria. Come
in L’amore coniugale, ove Silvio Baldeschi, che si autoritrae nelle prime pagine della narrazione e per
esemplificare il suo disagio vitale cita la “novella” di Poe del vortice:
In gioventù queste crisi erano frequenti e posso dire che non ci sia stato giorno, tra i venti e i trent’anni,
in cui io non abbia accarezzato l’idea del suicidio. Naturalmente io non volevo nella realtà uccidermi
(altrimenti mi sarei ucciso davvero), ma questa ossessione del suicidio purtuttavia il colore dominante
del mio paesaggio interiore. (II 1207)

Sull’argomento Silvio Baldeschi ritorna in un colloquio con la moglie, dopo che ha constatato il
fallimento della sua vocazione artistica e il fallimento del suo tentativo di scrittura del romanzo.
Il suicidio è dominante nei personaggi moraviani. In Le ambizioni sbagliate Andreina comunica che la
soluzione ai diversi problemi poteva essere suicidarsi. Il motivo si ritrova anche in Fine di una relazione,
del 1933, che si conclude con una fantasticheria del protagonista, depresso e infelice:
Gli venne ad un tratto in mente di togliersi una vita ormai tanto vuota e incomprensibile, il suicidio gli
sembrò facile e maturo, quasi un frutto che gli sarebbe bastato di stendere la mano per cogliere; ma
oltre ad una specie di disprezzo per un’azione che aveva sempre considerato come un debolezza, oltre
ad un senso quasi di dovere, gli parve di esserne trattenuto da una speranza strana e nella sua presente
condizione, inaspettata: (I 470-471)

In Ritorno al mare, racconto del 1946, un personaggio discute con la moglie, dalla quale è separato.
Intanto sente “l’appello del mare. Come un desiderio di riaffacciarsi a quell’eterno movimento, a
quell’eterno clamore prima di tornare in città” (II 1332). Egli voleva “togliersi le scarpe, rimboccarsi i
pantaloni e camminare lungo il mare, nell’acqua bassa e fluida del flusso e riflusso delle onde” (II 1332).
Camminando nell’acqua viene travolto dalle onde in un suicidio involontario, ma oggettivamente
desiderato:
L’acqua lo tirava di sotto per i capelli; in un movimento che fece il suo corpo, testa in giù e piedi in alto,
per il passaggio di un’onda, vide già lontano una larga chiazza rossa trascorrere verso la riva insieme e
con gli anelli di spume e i neri detriti. Poi un’altr’onda sopravvenne e lo sommerse mentre chiudeva gli
occhi. (II 1334)

In La casa nuova un “vecchio” si ammazza con la rivoltella “che aveva tolto dal cassetto”: “una secca e
violenta esplosione fece tremare i vetri della finestra.” (I 1622). Una “tentazione suicida” è inoltre nel
Luca della Disubbidienza, il quale “per un momento provò l’impulso di aprire lo sportello e gettarsi fuori
dal treno”: “era lo sbocco naturale del furioso senso di impotenza che lo sconvolgeva” (II 1077).
Una fantasticheria non di suicidio, ma di non essere mai nato si rileva in Mino in La Romana. Egli
poggia la testa nel grembo di Rosetta, “come se avesse voluto entrarci ed esserne inghiottito” (II 978).
In una sequenza successiva, quando la donna fantastica che Sonzogno avrebbe potuto uccidere lei e
Mino, e la morte sarebbe avvenuta per entrambi “mescolando i nostri due sangui”, si aggiunge un’altra
fantasticheria: che questa morte
Darsi la morte insieme mi pareva la conclusione degna di un forte amore. /…/ Io avevo spesso
pensato a questa forma di suicidio che arresta il tempo prima che corrompa e avvilisca l’amore ed è
voluto ed eseguito piuttosto per eccesso di gioia che per insofferenza del dolore. (II 1031)

Si badi che infine Mino si suicidò davvero con un colpo di pistola, come aveva comunicato ad Adriana.
La quale, a sua volta, fantastica un suicidio in mare:
ripresi a pensare al mare e mi venne un gran desiderio di morire annegata. Pensai che avrei sofferto un
momento solo, e poi il mio corpo esanime avrebbe galleggiato a lungo, di onda in onda, sotto il cielo.
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Gli uccelli marini mi avrebbero beccato gli occhi, il sole mi avrebbe arso il petto, e il ventre, i pesci mi
avrebbero rosicchiato il dorso. Finalmente sarei affondata, tirata giù per la testa verso qualche corrente
azzurra e fredda che mi avrebbe fatto viaggiare in fondo al mare per mesi e per anni, tra le rocce
sottomarine, i pesci e le alghe, e tanta, tanta acqua limpida e salata sarebbe trascorsa sulla mia fronte, sul
mio petto, sul mio ventre, sulle mie gambe, portando via lentissimamente la mia carne, levigandomi e
assottigliandomi sempre più. E alla fine, una ondata qualsiasi, in un giorno qualsiasi mi avrebbe gettato
con fragore sopra una spiaggia qualsiasi, ridotta ormai a poche ossa bianche e fragili. Mi piaceva l’idea di
essere trascinata in fondo al mare per i capelli, mi piaceva l’idea di esser ridotta un giorno ad un po’
d’ossame senza più forma umana, tra i sassi puliti di un greto. E magari qualcuno senza avvedersene
avrebbe camminato sulle mie ossa riducendole in bianca polvere. In questi pensieri voluttuosi e tristi
alla fine mia addormentai. (II 1042-1043)

La citazione è lunghissima, ma si è resa necessaria perché qui si rileva perfettamente come non sia
Adriana a confessarsi ma l’autore stesso, che evoca l’ossessione fantasmatizzata del suicidio. I dettagli
sono del Moravia narratore e, in questo caso, del suo rapporto con l’acqua, e l’acqua del mare,
segnatamente.
In Luna di miele, sole di fiele, da una discussione in una coppia in viaggio di nozze, la moglie, funzionaria
comunista, riferisce che piuttosto che denunziare il marito si sarebbe uccisa. Il narrante allora sottolinea
che il protagonista “non ebbe il coraggio di ricordarle che, quella mattina, scendendo al faro, ella aveva
condannato il suicidio, come atto inammissibile e morboso” (III 385)
Ulla suicida in acqua in Il dio Kurt 437; Rico in Io e lui tenta il suicidio; per Dino in La noia tornare a
vivere dalla madre rappresenta un suicidio metaforico (IV 250)
Anche Cesira, in La ciociara tenta di suicidarsi dopo la disavventura della figlia Rosetta. In sogno le viene
Michele. Ad occhi aperti Cesira fantastica e pensa a Michele come ad un congiunto e come ad un santo.
Alla disperazione che la prende di vivere in un mondo ingiusto ne trae la conseguenza del suicidio;
prepara anche il meccanismo allorché si spalanca la porta della baracca e gli appare Michele. Si tratta
però di un’allucinazione, perché il giovane era morto. Il sogno ad occhi aperti, comunque, un “sogno”
come un “miracolo” costringe Cesira a non suicidarsi, perché Michele le ha spiegato il senso della vita
(III 1460).
Dino, in La noia, guidando l’automobile devia dal percorso e si schianta contro il primo ostacolo. Egli
confessa: “non pensavo di uccidermi, l’idea del suicidio non era mai nella mia mente” (IV 288).
Esisteva, invece, nel suo “corpo” la “voglia della morte”. Quando è in clinica, perché si salva, “Quello
che in mancanza di termini più appropriati dovevo chiamare il mio suicidio, non aveva risolto niente;
ma averlo tentato, se non altro, mi faceva pensare che avevo fatto quanto era in mio potere” (IV 291)
In La vita interiore Desideria intende gettarsi dalla finestra (IV 76) e confessa di avere avuto la
“tentazione” di suicidarsi “almeno una volta al giorno” senza un motivo, sintomaticamente
rispondendo al narrante: “era come il flusso e il riflusso del mare: ora mi piaceva vivere e ora
desideravo morire”. Desideria aveva quindici anni, descrive cosa sarebbe accaduto e fantastica come
sarebbe avvenuto il suicidio. Tutto resta un tentativo, una fantasticheria.
Nel racconto Invischiato, in Una cosa è una cosa, è trasparente il progetto di suicidio di un individuo che ha
litigato con la moglie e prova “un sentimento di disperazione totale; io correvo in quel modo perché
volevo morire, assolutamente. Abito vicino al Tevere; logicamente pensavo di andare a buttarmi al
fiume” (IV 1270), ma sente fortemente il contrasto tra la vita che lo attira e lo risucchia ancora: “la vita
mi aspettava con una delle sue più infallibili risorse: l’abitudine” (IV 1271). Nel racconto L’automa,
nell’eponima raccolta, Guido, un padre di famiglia, organizza di domenica una gita in macchina per il
lago di Albano con la moglie e i due figli. Durante il viaggio, senza alcun segno premonitore,
apparentemente, alla guida dell’automobile
gli venne un pensiero preciso: spingere la macchina a tutta velocità in quel vuoto che si scorgeva in
cime alla salita e gettarsi nel lago, insieme con la moglie e i figli. /…/. Guido si domandò se questo
pensiero era ispirato da un suo odio contro la famiglia e si accorse che non era così. Anzi, gli parve di
non averli mai tanto amati come in questo momento che desiderava distruggerli. Ma era poi davvero un
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pensiero oppure una tentazione? Era una tentazione, quasi irresistibile, di una dolcezza funebre, tenace
e struggente; simile a quella che ispiri una pietà che non voglia restare impotente. (IV 602)

La tentazione del suicidio, ma soltanto la tentazione, si badi, come nettamente è stato detto dal Dino
della Noia, “tentazione di una singolare irresistibilità, allettante e al tempo stesso rassicurante” (IV 288),
attraversa quale irrefrenabile istinto di morte i personaggi moraviani e rivela la loro insoddisfazione
della vita. Al termine del racconto L’automa si apprende che in quella giornata cadeva l’anniversario del
matrimonio di Guido (IV 603).
Nella raccolta Il Paradiso gli episodi di suicidio sono molto frequenti e toccano prevalentemente le
protagoniste e narranti. In un Un gioco una donna confessa:
Piangendo dirottamente in quell’ombra ormai fitta, mi sono detta che il suicidio era la sola azione che
convenisse alle circostanze in cui mi trovavo. Sì, soltanto uccidendomi potevo dimostrare a Vittorio, ma
soprattutto a me stessa che il mio amore, anche se si esprimeva per luoghi comuni, era ciononostante
sincero e autentico. O meglio, poiché il mio scopo non era di morire ma di convincere, io dovevo
limitarmi a tentare il suicidio. Ma dovevo tentarlo con sincerità, senza riserve. Una sincerità da lavanda
gastrica, da gamba spezzata, da ferita di arma da fuoco guaribile in quaranta giorni. (PUVB 30)

In Le parole e il corpo il suicidio dovrebbe eliminare le contraddizioni tra corpo e parole:


Mi rendo conto lucidamente che sono stati questi miei preparativi per il suicidio a provocare il
rovesciamento. La parte di me stessa che sinora ho rifiutato all’urto con l’idea della morte, si è
capovolta, come un “iceberg” la cui base sommersa, ad un’ondata, emerga colossale, alle luce del sole.
(PUVB 116)

In Gli ordini sono ordini una “voce” dà ordini alla narrante: “la voce si era fatta eccessivamente bizzarra.
C’era da aspettarsi di tutto; persino che mi ordinasse di gettarmi dalla finestra. Ma senza andare fino al
suicidio, sono convinta, non so perché, di ricevere quanto prima l’ordine già minacciato” (PAVB 127).
In Viva Verdi, nella stessa raccolta, la protagonista guida la macchina di sera da Roma ad Ostia, accende
la radio e ascolta il Rigoletto, poi esce dalla vettura e per una scaletta raggiunge la spiaggia, entra in acqua
ove c’è l’alta marea:
Ho esitato e poi mi sono tolte le scarpe e sono entrata coi piedi nudi nell’acqua fredda. Adesso pensavo
di annegarmi camminando nel mare fino a quando non avrei più toccato il fondo. Non potevo più non
essere quella che ero, ormai. La sola maniera di sfuggire al mio personaggio, era di uccidermi. (PAVB
155)

Esiste un nesso della musica con la vicenda del Rigoletto. La donna realizza in coscienza ciò che accade e
delibera non con la coscienza di non suicidarsi. Tenta soltanto, dominata dall’istinto irrefrenabile di
molti personaggi moraviani:
Ero già con l’acqua sotto il mento. Tutto ad un tratto ho avuto la sensazione di stare sopra una ribalta
io stessa, di fronte ad una nereggiante platea. Ho capito che quei battimani che parevano venire dal
mare non erano per Rigoletto ma per me. Suicida, ero più che mai la madre simile a Rigoletto; la madre
da opera; la madre che si uccide perché suo figlio non c’è più. Bruscamente la mia mente ha cessato di
delirare. Mi sono voltata dentro l’acqua e sono tornata indietro. Non c’era nessuno tuttora sulla
rotonda. Nessuno ha visto una donna matura salire, tutta inzuppata, nella macchina, mettersi al volante,
scomparire nella notte. (PAVB 156)

Il tentativo di suicidio è sempre tragicomico, soprattutto negli ultimi racconti, è sempre represso e
frustrato, non frutto di disperazione oggettiva, come in Amore di madre, nella raccolta Un’altra vita, ove è
rappresentato un conflitto di una donna con i due figli. Lei vorrebbe suicidarsi con la pistola:
Me la punto per gioco contro la tempia. Penso che i miei figli, in fondo, desiderano che mi uccida. Ma
si illudono: non mi ucciderò. Io sono la madre che vuol bene ai figli qualsiasi cosa facciano; la madre
che sa trovare nel suo grande amore una incrollabile superiorità. (PAVB 274-275)
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Oppure, come nel racconto Profondo sud, nella stessa raccolta, ove una donna prende dei sonniferi per
suicidarsi insieme con il compagno. Si tratta di un trucco, invece. Alla fine, “nonostante il suicidio, del
resto effettuato per amore e per esuberanza di vitalità”, la donna confessa di trovarsi in un suo
“periodo” favorevole ( PAVB 304). In Amata dalla massa, la protagonista va al mare in macchina,
confessa di esservi andata per suicidarsi, ma alla vista di un paesaggio deturpato non riesce.
L’annegamento è un desiderio comune e frequente nei personaggi:
Sarei andata avanti nell’acqua fin dove non si toccava e poi mi sarei lasciata annegare. Non era un
suicidio, era un ritorno alla vita dalla quale mi ero, chissà come, distaccata. Ma in un mare così, il ritorno
alla vita in forma di morte per acqua, non era possibile. Sono rimasta a lungo a guardare questo mare
giallo e nero e poi me ne sono tornata in città. (PAVB 196)

Nel racconto La follia della raccolta Boh


a due per volta, ho inghiottito tutte le pasticche di un tubetto di sonnifero. In me non c’era, però, tanto
l’idea della morte quanto quella di non esserci più coi miei sensi e con la mia mente, per non vedere né
pensare più nulla e soprattutto non avere più davanti agli occhi l’immagine della macchina che si
allontanava /…/ Sono caduta in un buco nero; ne sono emersa dodici ore dopo, nella stanza di una
clinica. (PAVB 340)

Anche nel testo La mente e il corpo una donna tenta il suicidio: “Io ho tentato di uccidermi coi barbiturici
perché mi sono innamorata di un ragazzo e lui non mi ha voluta; /…/. Tutto si è risolto con una
lavanda gastrica per me” (PAVB 413)
Nel racconto La coetanea è riferito di un altro tentativo di suicidio:
nessuno vuole saperne di lei e allora lei, come è avvenuto un anno fa, per richiamare l’attenzione sulla
sua persona, un bel giorno si chiude in cucina e apre la chiavetta del gas. La trovano a tempo, la
portano in clinica, le fanno fare la cura del sonno. Poi lei torna a casa e tutto ricomincia come prima.
(PAVB 438-439)

I tentativi di suicidio si succedono ininterrottamente. In Il corpo di bronzo: “una volta a letto, avrò preso
chissà quante pasticche di sonnifero, divisa tra l’idea del sonno e quella del suicidio e poi mi sarò
addormentata profondamente e avrò dormito senza interruzioni dodici ore. Adesso, eccomi qui, sveglia,
e senza marito” (PAVB 448). In La voce del mare, “il mio compagno si è ucciso: si è sparato nella cabina
telefonica ed è cascato morto, giù, sotto il telefono” (PAVB 454)
Il suicidio è sempre causato dalla disperazione del vivere, dal disadattamento alla realtà, dall’alienazione
che i personaggi femminili, in genere, soffrono e dai loro gesti meccanici, automatici, dal loro sentirsi
marionette. Moravia registra tutti i fenomeni, particolarmente nella scrittura degli ultimi decenni e negli
ultimi testi.
Una donna tenta due volte il suicidio in Il vassoio davanti alla porta (VV 60). In Il giocatore di scacchi Sante
“si sveglia con un sentimento preciso: non ha voglia di vivere” (VV 180). Nello stesso racconto si
accorge del tentativo di suicidio della moglie con il gas (VV 182). Egli vorrebbe aiutarla a morire, quindi
con un tentativo di omicidio-uxoricidio. Un protagonista, in La villa del venerdì, nel guidare la vettura è
tentato dal “disastro”:
Immagina l’urto, possibilmente frontale, lo schianto, il fracasso, il crollo dei cristalli e se stesso dentro la
macchina, riverso sul sedile, la faccia rigata di sangue, ferito a morte. Soprattutto lo affascina il
momento prima dell’urto, quando per un attimo capirà che sta per succedere l’irreparabile. Sì,
l’irreparabile, non il suicidio, lo affascina. (VV 18)

Moravia è ossessionato da questo motivo, come ho detto, e lo rappresenta in tutte le pagine, nei
racconti e nei romanzi, nei testi teatrali e nei resoconti di viaggi, come in Iran, a Meched, la città sacra,
ove va perché lì era Omar Khayyam. In quel luogo il viaggiatore assiste ad un funerale di un giovane
suicida. Molta parte dell’articolo è dedicato all’argomento. Moravia si slancia, pensando all’invocazione
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divina del muezzin: “Ma il suicida, di cui ho visto or ora il funerale, non ha invocato nessun Dio pur
trovandosi, sicuramente, nel più terribile dei deserti”. Quindi si lancia in considerazioni:
Un suicidio è pur sempre qualche cosa che colpisce l’immaginazione; /…/. Chi era, intanto, il suicida?
Senza dubbio, data la condizione del padre, uno studente, forse un intellettuale. E perché si è ucciso?
Anch’io sento che debbo risalire alla causa della giovinezza; ma non tanto perché considero l’età
giovanile come quella dell’avventatezza e della emotività; quanto perché, invece, la credo capace di un
certo eroismo che, più tardi nella vita, perde il suo primo carattere di spontaneità e di ingenuità, diventa
riflessivo e volontario (V 1494-1496)

Moravia, consono all’idea che si viaggia per riflettere, utilizza ciò che ha visto per continuare le
riflessioni. L’argomento lo ha frastornato ed egli riconduce il ragionamento alle considerazioni fatte
anche altrove:
Ad ogni modo, tutto ad un tratto, mi sembra di saper tutto del suicida; come se avessi vissuto io stesso
quell’inizio di una vita così diversa e al tempo stesso così simile alla mia. La famiglia; la provincia; un
Paese lontano dai centri della civiltà, sottoposto alla prova della rivoluzione industriale; l’Oriente che
non è più Oriente e non è ancora Occidente; l’antico pessimismo persiano… Non so perché, mi viene
fatto di pensare ad un suicida molto diverso dal ragazzo di Meched, anche lui iraniano: allo scrittore
Hedayat, autore del bellissimo romanzo La civetta cieca. Hedayat non era un ragazzo quando si è ucciso
aveva già scritto una dozzina di libri. Ma il suo suicidio riceve una luce significativa del libro già citto,
nel quale si descrive un caso di sdoppiamento originato dalla solitudine e dall’isolamento. Dunque
Hedayat aveva conosciuto la solitudine che è propria dell’intellettuale in Asia, e l’aveva decritta nel suo
libro. Il ragazzo di Meched non aveva aspettato di scrivere il libro; aveva, invece, come si dice,
affrettato i tempi.

Il tentativo di suicidio diventa sistema organizzativo del romanzo 1934, ove è rappresentato un doppio
suicidio omosessuale. Il personaggio romanzesco, che ha letto Nietzsche, e ricorda come in una poesia
il filosofo tedesco aveva detto che “ogni piacere vuole eternità”, ritiene “che alludeva alla
contemplazione del mare. E’ un grande piacere guardare al mare; al tempo stesso il mare ispira un
sentimento di eternità” (1934 42), che nella tentazione di essere inghiottito dall’acqua:

Ho sentito l’urto dell’acqua contro la mia testa; poi sono disceso con gli occhi spalancati, giù giù, nel
torbido chiarore verde del mare, con la sensazione che non mi ero tuffato per Beate e che non
desideravo ritrovarla, ma volevo invece discendere sempre più giù, fino ad adagiarmi sulla sabbia del
fondo, come un qualsiasi relitto marino. Era forse questa l’eternità di cui parlava Nietzsche, questa
discesa interminabile verso la notte? (1934 64)

Ma l’abisso silenzioso in cui erano sprofondate /le aeroliti/ mi è sembrato ad un tratto sinistramente
funebre appunto perché tentatore. /…/. Una tentazione simile pareva adesso alitare verso di me, su su,
dall’abisso dei Faraglioni, tanto che mi sono tirato indietro dal parapetto, quasi con paura. Ma non era la
tentazione suicida di chi ama troppo e invano, come la ragazza della Migliara; bensì quella di chi, al
contrario, teme di non essere capace di amare. (1934 85)

La natura è un dato oggettivo, ma è, ormai, separata dai personaggi. Tutto è confluito, ormai, nel
dubbio, nella coscienza dei personaggi. Capri non è più serenità. L’armonia, già in crisi nel Disprezzo, è
ormai irrimediabilmente infranta. Dall’Odissea come modello siamo passati a Kleist e a Così parlò
Zarathustra.

Moravia ha sempre insistito sul suicidio. L’insistenza per l’intera attività intellettuale deriva senz’altro
dall’angoscia, dalla noia, dall’alienazione che attraversano tutti i personaggi e si manifestano nelle
delusioni, negli orrori, nell’annullamento e nella disintegrazione dell’individualità. Suicidio e cecità in Il

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dio Kurt. In 1934 194 il narrante Lucio, a proposito del suicidio, ricorda che nei Demoni un personaggio
“si uccide per motivi filosofici”.
Con la scoperta inesorabile della realtà esterna sempre più orrorosa e del tempo storico il suicidio è
dilatato da individuale a collettivo. Moravia sull’argomento mantenne la riflessione fino alla morte e ne
scrisse in tutti gli ultimi testi, di varia tipologia. Al termine della vita, naturalmente, e in connessione con
la piega che aveva preso la società Moravia salda tutte le ossessioni che lo avevano colpito nel tempo in
un’unica struttura.
L’occasione esterna fu offerta dal primo viaggio in Giappone e dalla scoperta dell’Africa 5. Un
precedente lo vede nella prima guerra mondiale (116). Ribadì in diverse occasioni che una “società
raffinata” come quella europea nella prima guerra mondiale “si suicidò senza rendersene conto,
spensieratamente e a suo modo eroicamente” (CI 1369). Riteneva che già con lo scoppio della prima
guerra mondiale era emersa la volontà inconsciamente suicida dell’Europa e della civiltà occidentale. (R
401). Nella conversazione con Carl Gustav Jung prese atto della “chiara tendenza demoniaca e suicida
della civiltà europea alla vigilia della prima guerra mondiale”. Si legga la confessione sull’interessamento
per la bomba atomica la prima volta6. In Come si guarda un film, un’intervista del 6 aprile 1975 osservò
che “nell’inconscio di Robson, il regista, c’è, più che il terremoto, la bomba atomica, perché la vera
apocalisse di oggi è termonucleare, non naturale” (CI 1523) con un nesso tra terremoto e apocalisse
nell’immaginario e spostamento da terremoto a disastro nucleare.
All’interno di una serie di articoli e del progetto di una critica al nucleare e alla bomba atomica gli
elementi apocalittici in Moravia ritornano e segmentano altre immaginazioni che aveva avuto
inconsciamente come ritorno del represso in L’attenzione.
In L’uomo che guarda, romanzo del 1985, ad esempio, il suicidio non è più legato a cause individuali e a
situazioni particolari e specifiche dei personaggi, ma risale ad una dimensione più vasta. Il protagonista,
figlio di un professore di fisica, legge un libro “sugli effetti della guerra atomica” e pensa che “il
discorso sulla minaccia nucleare” era per lui “quasi altrettanto importante di quello sui motivi della fuga
di Silvia” (UG 83); pensa con angoscia alla catastrofe e alla “fine del mondo” (UG 192). Il personaggio
romanzesco non può “fare a meno di pensare, non sono il solo a vedere la bomba atomica spuntare
dietro la cupola di San Pietro; anche Pascasie ne ha preso coscienza al punto da programmare in
anticipo il suicidio” (UG 203). Il suicidio diventa per gli individui, quindi un atto preventivo, di fuga,
una necessità allorché la bomba atomica distruggerà il mondo.
La riflessione politica fu scaricata anche nei testi creativi come in Perché Isidoro? (T 828), ove diventa
pubblicità anche il fungo atomico. Fu soprattutto preoccupazione massima da deputato europeo, che in
Diario europeo, il 27 agosto 1987 scriveva di “guerra come suicidio collettivo”, di “suicidio nucleare”,
rilevava il nesso tra bomba atomica e campo di sterminio (116), e il 22 dicembre 1987 discorreva della
bomba come arma non di omicidio ma di suicidio (148) e il motivo lo riprendeva il 25 aprile 1990 (317)
pochi mesi prima di morire. Moravia costruì un nesso non astratto tra disastro ecologico e catastrofe
adesso con guerra atomica (Elkann 283) e gli esiti ultimi della riflessione prolungano ancora il
ragionamento insistendo sul disastro ecologico “L’Africa occidentale in qualche modo dimostra che la
fine del mondo di cui si parla tanto a proposito della bomba atomica è già cominciata a livello
ecologico” (Elkann 217)

Spesso nei testi narrativi, ad esempio, abbiamo rilevato, insieme con il suicidio, il desiderio di alcuni
personaggi di annullarsi nel ventre materno. Il desiderio di morte, apparentemente, ma di fatto, il
desiderio di vita prenatale, di feto, come era avvenuto in Mino della Romana. In La disubbidienza alla fine
della scena del sesso con l’infermiera vi era l’immagine di Luca che “ebbe il senso preciso che lei lo
prendesse per mano e l’introducesse, riverente, in una misteriosa caverna dedicata a un rito” (II 1187),
“Ricordò che al momento dell’amplesso, egli aveva provato ad un tratto il desiderio forte di entrare
tutto intero nel ventre della donna e rannicchiarsi in quelle tenebre calde e ricche con tutto il corpo,
come vi si era rannicchiato prima di nascere” (II 1191).
Altrettanto in Io e lui il protagonista invece di dare alla madre “il solito bacio in fronte” si butta a terra ai
suoi piedi spinto la fantasticheria di “nostalgia di annullamento” nel ventre materno :
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Spingo il capo in direzione del grembo materno perché vorrei regredirvi dentro, scomparirvi, cessare di
soffrire, di esistere, tornare donde sono venuto cioè nel nulla. (IL 269-270)

Il motivo era stato colto già il 26 ottobre 1969 nella recensione al film di Visconti La caduta degli dei, ed
interpretato come incesto: “Appare chiaro qui che il rapporto sessuale tra Martin e sua madre non è
dovuto a perversione ma a un inconscio desiderio di morte. L’inquadratura in cui si vede Martin posare
la testa sul ventre nudo della madre, con il mento sul pube e la fronte sull’ombelico, sta ad indicare la
smania di essere riammesso e inghiottito nel ventre materno, ossia la nostalgia di non esser mai nato”
(CI 783). Moravia coglie il motivo anche nel film Miranda, il nesso ventre materno, nulla e vitalismo:
“Questa maniera di far l’amore pare indicare uno straziante desiderio di rientrare nel ventre materno e
lì, secondo la teoria freudiana della pulsione di morte, tornare allo stadio inorganico, cioè al nulla” (CI
1345). In La vita interiore anche Erostrato intende entrare in Desideria: “acciambellarsi là dentro nella
posizione del feto e restarvi per sempre. Cioè voleva fuggire dal mondo nel quale si trovava a vivere dal
giorno che vi era stato proiettato e abbandonato proprio dalla persona che avrebbe dovuto invece
proteggerlo e conservarlo nel conforto del proprio seno” (IV 226-27). Ciò accade anche in Il dio Kurt
ventre di donna entrare 71 ventre= terra 72.
In L’uomo che guarda al protagonista una “camera” particolare dell’appartamento di famiglia “ispira un
senso di sicurezza quasi fosse una specie di ventre materno nel quale posso sempre rifugiarmi al riparo
dalle tempeste della vita (UG 25).
In un testo diaristico del 3 marzo 1988 Moravia annota che “la storia assolve perché è lenta” (DE 170),
e che “Il tempo della storia non è il tempo dell’individuo” (DE 170). Perciò la storia è un incubo e lo
spinge a rifugiarsi nella “preistoria”, che egli dichiarava di intendere “in maniera non scientifica, semmai
culturale, letteraria. Per me la preistoria è tutto ciò che si trova ancora allo stadio orale. E’ una storia
non scritta” (Ajello 81).
Moravia però era giunto da decenni, all’altezza dei primissimi anni del secondo dopoguerra, alle
definizioni irreversibili di Mino in La romana, secondo il quale provava una sfiducia totale negli esseri
umani e li riteneva “inutili”, “superflui”, con grande stupore di Adriana e con secca replica rivolta
all’intera umanità della quale “si potrebbe benissimo fare a meno”, tanto che “il mondo sarebbe molto
più bello senza gli uomini, senza le loro città, le loro strade, i loro porti, le loro piccole sistemazioni…
pensa come sarebbe bello il mondo se non ci fossero che il cielo, il mare, gli alberi, la terra, gli animali”
(II 973-974).

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