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L’AUTORE
Autore di romanzi, poesie, saggi e libri di viaggio è ritenuto «una delle
voci più alte nel coro degli autori contemporanei» (The New York Times)
tradotto in più di trenta paesi e insignito di numerosi premi letterari,
paragonato dalla critica a Borges Calvino e Nabokov.
Nato all’Aia ed eterno viaggiatore, si è rivelato a soli ventidue anni con
Philip e gli altri e ha raggiunto il successo internazionale con romanzi come
Rituali e Il canto dell’essere e dell’apparire.
Tra le ultime sue opere pubblicate da Iperborea, Le volpi vengono di notte,
Avevo mille vite e ne ho preso una sola e Tumbas.
Capitolo 1
Il compleanno dell’imperatore il pathos delle cose e altre esperienze
giapponesi
8 Sei Shonagon Note del guanciale trad. it. di L. Origlia SE 2002 P. 91.
(N. d. T.)
9 Sei Shonagon op. cit. p.
11.
(N. d. T.)
Capitolo 3
Montagna Fredda
Se mai potessi avere un’altra vita dovrebbe essere in un paese con una
scrittura diversa.
Valore aggiunto: la visione estetica di un segno che tramite il suo disegno
oltre al significato viene a significare qualcos’altro afferma evoca sho
calligrafia.
Vorrei fosse possibile ma non lo è non avrò quest’altra vita ho già
raggiunto l’età del «troppo tardi.» Niente di cui lamentarsi anche il «mai più»
ha i suoi fascini amari.
La stanza dove mi vengono queste idee è a Tsumago nella parte
meridionale del distretto di Kiso nella prefettura di Nagano.
Non ci sono sedie nella stanza fa freddo scrivo in ginocchio sul mio High
Grade Notebook.
La copertina è marroncina ricorda la carta da pacchi.
Ci sono tre righe ma non so cosa scriverci.
Quindi niente.
All’interno il quaderno ha altre righe spregevoli ausili per chi deve vivere
senza sho e ora privato di sedia e tavolo ha un’aria piuttosto ridicola.
Ma nessuno mi vede.
Le righe vogliono parole anche se l’autore di quelle parole non ancora
esistenti per scrivere deve chinarsi scomodamente.
Penso alla giornata trascorsa.
A Tokyo ho pianificato un viaggio di locanda in locanda.
Per ogni minshuku ti danno un ciclostile con una piantina una strategia per
aiutarti a raggiungerlo.
I proprietari dei.
Yugao una sorta di guest house non parlano quasi mai inglese ma sanno in
quali ambiti tendiamo a essere maldestri.
Il viaggio non è sempre facile: capire le coincidenze dei treni arrivare fino
a una lontana località di provincia.
La fermata dell’autobus deve trovarsi in un certo posto.
Confronti i segni con le tue istruzioni.
Si somigliano molto ma sono davvero gli stessi?
È questo il bus per Tsumago?
Sì.
In Giappone tutti i mezzi sono in orario sai sempre quanto durerà il tragitto
l’arrivo nello spazio deve coincidere con quello nel tempo.
Puoi abbandonarti al paesaggio.
Strade strette pioggia boschi tristi bagnati ancora molti alberi spogli.
Carri nei campi persone piegate intente in qualche lavoro agricolo.
A ogni fermata la voce automatica nella lunga sequenza di suoni mi
sembra di riconoscere quello della parola «Tsumago» e il mio orologio dice
che è ora di scendere.
Adesso devo prendere a destra la valigia mi segue in linea retta.
Attraversiamo in fondo a quella via e poi dev’essere lì sulla strada per
Magome.
Confronto il segno per Magome con il cartello: è lui.
Un edificio basso una volpe di pietra con una giacchetta buffa.
Deve portare fortuna.
Entro un po’ disorientato in una sorta di spaccio il minshuku è molto più
fuori dal paese di quanto avessi pensato mi chiedo come posso fare se
continua a piovere così.
Compare il proprietario e si inchina poi all’improvviso come se fosse
sbucata dal nulla c’è anche una donna che si inchina a sua volta sorridono e si
inchinano io mi inchino e sorrido.
«Oranda» dicono «Olanda» sì esatto.
Mi accompagnano di sopra.
La donna mi comunica a gesti che devo togliere le scarpe nell’ingresso c’è
lì pronto un paio di pantofole enormi la gente dell’Oranda è così
incredibilmente grande.
Mi indica quindi il gabinetto nel corridoio e punta un dito autoritario verso
un altro paio di pantofole davanti alla porta.
Pulite sporche le calzature da camera non si indossano nel gabinetto.
La differenza è chiara perché gli zoccoli da sporco sono legati tra loro da
una corda in modo che il babbeo che io
sono non li tenga indosso quando torna a uscire in corridoio.
Poi mi lascia solo.
Il silenzio è totale è scomparsa in un batter d’occhio senza fare rumore.
La stanza è piccola la mia valigia appare invadente.
Mi tolgo l’impermeabile zuppo ma anche quello a un tratto è diventato una
presenza oscena non può stare qui è troppo ingombrante qui tutto è preciso al
centimetro.
Riconosco gli oggetti: gli shoji gli scuri scorrevoli in carta di riso che
danno alla stanza una pallida luce bianco grigia.
Il tatami le stuoie in paglia di riso su cui i piedi affondano leggermente
come se sotto ci fosse un tipo di muschio molto elastico.
Il kotatsu in mezzo alla stanza un piccolo tavolino con quattro cuscinetti
piatti intorno.
Sopra c’è una semplice tovaglietta con un vassoio tondo e lucido.
Sento freddo non vedo nessun tipo di riscaldamento ma so che sotto il
kotatsu dev’esserci un piccolo fornelletto elettrico.
Tento di sistemare le mie cose il più possibile nei cassetti per lasciare
intatto l’ordine della stanza ma poi torna la donna con tè e piccoli dolci.
Voglio sapere quanto tempo posso prendermi per una passeggiata e se
dopo potrò fare un bagno e ci cimentiamo in una pantomima intorno al mio
orologio lei solleva dita su cui ne posa di traverso altre io indico il quadrante
e lei reagisce come se non avesse mai visto prima un oggetto del genere e per
tutto il tempo sorridiamo.
Versa il tè e si inchina e quando se ne va rimango in ginocchio a
sorseggiare la bevanda verde bollente ma poi eccola di nuovo con tante scuse
mormorate accende il kotatsu e mi invita a metterci sotto le gambe.
Dopo venti minuti ho la schiena gelata e l’impressione che i miei piedi
stiano per prendere fuoco.
Nella tokonoma l’alcova di fronte a me è appesa una calligrafia e di nuovo
mi assale quel senso di gelosia.
Quella lotta del bianco contro il nero del segno da tracciare contro l’avido
vuoto circostante la vorrei vivere anch’io.
Ma non ho che le tre parole che danno il nome al mio High Grade
Notebook per annotare le mie high grade notes della giornata.
Senza conoscere la lingua la sho mi sembra un esercizio vuoto e vano uno
scimmiottare segni come pura forma senza un significato percepito da un
tutto giapponeserie.
Ci sono momenti in cui ci si sente irrimediabilmente estranei.
Eccomi dunque nella mia stanzetta di meno di dieci tatami.
Dove gli shoji sono un po’ scostati vedo un cielo di cattivo umore con
nuvole gonfie le gocce di pioggia sono l’unico rumore in casa tutti morti.
Le stuoie emanano ancora un leggero sentore di paglia viva e me ne sto lì a
guardarmi intorno.
Dopo la danza di milioni di persone a Tokyo il cambiamento è radicale e
non so ancora bene cosa fare.
Le cinque.
Se ho ben capito posso uscire per un’ora e mezzo.
Nell’ingresso al piano di sotto ritrovo le mie amiche scarpe e poi riecco
quella donna che compare ogni volta come un’ombra mi dà un ombrellino da
bambina color arancio davvero troppo piccolo.
Decido di non andare al villaggio ma a sinistra verso Magome dev’esserci
un sentiero nel bosco da quella parte.
Non faccio in tempo a rendermene conto che mi sono perso ma non
importa per il momento è meglio non avere una meta.
La pioggia ticchetta dolcemente sul mio ombrellino.
Li conosco da qualche vecchia stampa uomini chini sotto un karakasa
antico ombrello di carta oleata un po’ come quelli che usano i monaci
buddhisti in Birmania per ripararsi dal sole.
Come sarebbe diverso il rumore della pioggia su quella carta dura simile a
pergamena.
Martellante sonoro mi farebbe compagnia.
Il sentiero sale con una curva lenta.
Gran parte degli alberi sono ancora spogli sottili e rarefatti sotto i veli di
pioggia.
Come
funziona veramente: un determinato paesaggio evoca un genere di
immagini specifiche o è la percezione che hai del paesaggio a essere
determinata dai quadri che hai visto?
Le colline ora hanno realmente forme diverse sorgono più strane e
improvvise nella lontananza brumosa o è solo perché così le ho viste tante
volte rappresentate nelle stampe giapponesi?
E viceversa questa natura si è fatta veramente ritrarre con l’inchiostro di
china in quei tratti bruschi e improvvisamente finissimi?
Penso a un paio di paraventi di Hasegawa Tohaku che ho visto al Museo
Nazionale di.
Tokyo soltanto ieri.
Erano della fine del XVI inizio XVII secolo ma ora ne vedo tanti altri
tutt’intorno a me qualcuno si è preso la briga di disporre i paraventi di un
crepuscolo nascente e dipingerci sopra gli spiriti degli alberi.
Là erano pini e anche qui ne vedo alcuni scuri i più vicini e poi più in là
dipinti con inchiostro sempre più diluito o tratti più leggeri un unico colore
forse il nero che ha in sé tutti gli altri che può essere verdastro o grigio un
albero piantato in terra e uno nel cielo sempre lo stesso e unico albero e al
contempo un bosco.
I piedi affondano nella terra bagnata l’ombrellino non mi ripara più da un
pezzo sento il freddo penetrarmi nelle ossa.
A un bivio c’è un tronco d’albero su cui sono intagliati segni ripassati in
bianco.
Mi prendono in giro con le loro curve e i loro arzigogoli dicono qualcosa e
io non li capisco ridono a crepapelle di quel pazzo con quello straccio
arancione sulla testa.
Scelgo uno dei due sentieri il più ripido sento un ruscello di montagna ma
non lo vedo.
Poi a un tratto sento il suono di una campanella e mi preparo a udire un
passo a scorgere qualcuno tra le nuvole di pioggia ma la campanella è mossa
dal vento non è al collo di una capra o in mani umane.
È appesa al portico di una casa chiusa non si vede nessuno.
Vado a sedermi in un angolo del portico all’asciutto le ginocchia raccolte
guardo la campanella quando il vento la tocca si muove.
No qui ora che scrivo queste cose non ho bisogno di imitare il suo suono.
Ho cercato una parola per descrivere il momento e quella che si è
presentata alla mia mente è poignancy punctum come se tutto un intero
viaggio volesse condensarsi in quell’unico istante che ti fa restare lì seduto
immobile e ti fa desiderare che continui all’infinito.
Furin si chiama una campanella così a un tratto mi viene in mente l’ultima
volta che ne ho sentita una da un pittore che viveva nel deserto del New
Mexico solo in una casa mobile Bruce Lowney.
Aveva la sua furin come diceva per accentuare il silenzio.
Poignancy mono no aware il pathos delle cose.
Io ho il carattere sfortunato di chi vuol sempre guardare oltre la collina e
non ha ancora capito che dietro non c’è altro che una nuova collina.
Che cosa mi aspetto in realtà (e da così tanto tempo)?
Un incontro particolare un paesaggio fatato il mare?
Ti aspetti qualcosa che non sapresti immaginare sciocco.
Tornatene a casa (casa?) sei bagnato fradicio e comincia a fare buio in tutto
ciò che ti circonda si aprono buchi bui buchi che inghiottiscono le tue
immagini di rami e di cespugli a un tratto non ci sono più il bosco
raggrinzisce si comprime e ti si chiude intorno.
Ma io voglio restare ancora un po’ il sentiero scende con una curva
repentina e mi ritrovo in uno spiazzo aperto.
Un’altra casa altrettanto chiusa.
Non ci vive nessuno da queste parti?
È una casa vecchia il legno è scuro come la notte che sta calando.
C’è un cartello con un testo che ha l’aspetto di una poesia su un lato della
casa un campetto bagnato che è stato coperto di giunchi contro la
pioggia.
Ciocchi di legno bruciati un fascio di canne di bambù tagliate.
La poesia non sono in grado di leggerla così ne scrivo una mia
divertissments giapponesi.
La casa abbandonata tra i monti se fossi io a tagliare le canne sarei l’uomo
che vive qui?
E subito la natura risponde con una poiana che si leva lentamente da un
albero dietro la casa.
La cima dell’albero stende le ali e si alza in volo una poiana sui colli di
Magome.
Salvo che non sono vicino a Magome naturalmente.
Ma allora dove sono?
Ecco arrivare degli spiriti che si divertono alle mie spalle.
Il sentiero si fa più ampio e sbuca su una stradina asfaltata.
C’è un piccolo uomo di pietra seduto in terra con un bavaglio rosso al collo
e un cappello di paglia intrecciata.
Il bavaglio è bagnato il cappello zuppo ma a lui non importa.
Le sue gambe di pietra sono perfettamente orizzontali e incrociate ha gli
occhi chiusi un bastone nella mano destra che spunta dall’ampia piega del
mantello.
So che si chiama Jizo.
Le due parti del suo nome significano terra e utero o culla e tomba e nel
cammino dall’una all’altra lui è la piccola divinità calva che ci proteggerà ha
l’aria di esserne in grado dio spirito protettore o spirito del paesaggio ho
bisogno di lui devo tornare a casa.
Metto alla prova la sua calma incommensurabile ai suoi piedi ci sono due
caramelle inzuppate mentre io sono venuto a mani vuote ma evidentemente
non gli importa perché passa una jeep con un contadino che si ferma mi
guarda e solleva le mani interrogative dal volante.
Io sorrido nascondendo il mio assurdo ombrellino e dico «minshuku
Tsumago» e lui scavalca sei colline e poi ci siamo non sono andato lontano
eppure ero molto lontano.
Quando entro nel minshuku sento odore di cibo.
Nessun altro ospite in vista.
Dev’essere l’ora del bagno.
Nella camera è pronto uno yakuta un kimono leggero di cotone azzurro.
Mi cambio e scendo e vorrei essere preceduto dal suono di un
campanellino.
Non sono molto alto ma soprattutto in una casa così piccola e a cui non sei
ancora abituato percepisci la tua stessa presenza come goffa e impacciata.
Probabilmente il mio arrivo li fa sobbalzare per lo spavento.
Ma l’uomo è già nella stanza avvolta dalla penombra dove a quanto pare
sarà servita la cena.
«O-furo?» chiedo esitante.
«Hai!» Ci sono un’infinità di storie di giapponesi che in Europa si lavano
diffusamente fuori dal bagno prima di mettersi a mollo nella vasca
combinando ai nostri occhi un sacco di pasticci e d’altro canto anche
parecchie storie di europei che in Giappone contaminano l’acqua limpida con
la loro sporcizia e il loro sapone apparendo agli occhi dei giapponesi come
individui ripugnanti e così questo errore non lo faccio più.
Entrambe le parti hanno avuto istruzioni per evitare vergogna e imbarazzi e
io le mie le ho imparate a memoria.
Continui a strofinare spazzolare strigliare e a buttarti addosso acqua finché
sulla tua
nudità non è rimasto più un atomo di sporcizia soltanto allora puoi entrare
nella vasca.
Se ci sono giapponesi nei paraggi ti senti i loro occhi puntati addosso
perché la nostra fama è ben diffusa.
Se il bagno è in comune nel momento in cui entri tu a volte loro escono
anche se ti sei strofinato a dovere mi è capitato.
Ma qui sono solo lo spazio è troppo piccolo evidentemente si fa a turno il
bagno è condiviso ma non simultaneamente.
L’uomo mi mostra dove devo appendere il mio yakuta indica il sapone la
spazzola il rubinetto me lo sgabellino di legno a tre gambe su cui mi devo
sedere il mastello con cui devo versarmi l’acqua sulla testa.
Nell’angolo vagamente minacciosa attende una vasca di legno rettangolare
piena fino all’orlo di acqua lucida che sembra essere uscita da un’apertura
invisibile dato che sento un vago gorgoglio ma senza vedere da dove arrivi.
Il vapore che si leva denso come la nebbia sulle colline dev’essere bollente.
Eseguo gli esercizi prescritti e più e più volte il rituale della pulizia
l’abluzione e alla fine sono l’uomo più pulito della terra.
Naturalmente hanno ragione quanto è assurda la nostra abitudine di stare a
mollo nell’acqua sporca così non riusciamo mai a liberarci del peccato della
contaminazione del tempo passato.
Più pulito di quanto non sia mai stato da quando sono nato dopo essermi
sciacquato via di dosso treni e autobus la passeggiata fangosa il nervosismo
l’inchiostro di giornale la vita con passo esitante raggiungo l’o-furo cauto
come un gatto immergo la mano e capisco subito: non riuscirò mai a entrarci.
Mai.
Quindi immergo un piede con circospezione e quando quello è ben cotto la
caviglia un polpaccio rassodato dalla camminata la coscia filetto e
controfiletto lombo petto una spalla di scrittore uno spezzatino di collo finché
tutto osso sacro ischio omeri e sterno seconda coscia ginocchio e prosciutto
comincia a entrare in ebollizione.
Per un attimo cerco di mantenere un distacco spirituale e di dominare il
corso dei miei pensieri nell’unica parte rimasta fuori dall’acqua ma ormai è
troppo tardi: tra l’osso occipitale le narici e la sommità del cranio è sparita
ogni capacità ordinatrice e tutto ciò che si trova al di sotto è liquefatto dal
calore tremendo il mio spirito è disintegrato soppressione totale del
viaggiatore del commentatore della persona.
In pratica non è quasi più «nessuno» quello che mezz’ora dopo si siede a
gambe incrociate al tavolo del pasto comune che in mancanza di altri
convitati non viene servito che a nessuno.
Nessuno è felice mangia le grandi lumache di mare dalle loro conchiglie
mostra all’ansioso padrone di casa che sa come portare alla bocca che gli è
rimasta le eleganti fettine di sgombro crudo del sashimi.
Come sorbire il suimono come spezzare la simmetria del granchio come
sfilare con i suoi grandi denti i bocconcini di pollo arrostito dagli spiedini
yakitori e perfino come tenere singoli chicchi di riso tra i suoi hashi un
miracolo.
A quel punto sono già le sette e mezzo o qualcosa del genere le brocchette
di sake che sono state servite sul suo sumasen si sono aggiunte al calore del
bagno e quando «qualcuno» torna nella sua camera il kotatsu è stato tolto e al
suo posto lì in mezzo alla stanza così strano a vedersi lo attende il futon: non
ha che da sdraiarsi ed è notte.
Fa così freddo in quella stanza che il suo fiato si condensa in nuvolette ma
non gli nuoce tanto meno il buio il silenzio e il dolce ticchettio delle gocce di
pioggia che contiene.
Vuole fare qualche programma per l’indomani ma anche quello si rifiuta di
prendere forma e così senza contorni torna a disperdersi nel regno velato del
sonno.
Il paesaggio giapponese è pieno di spiriti.
È immaginazione che però è alimentata dagli
Cerchi infiniti.
Nei viaggi in paesi lontani c’è sempre inevitabilmente un secondo arrivo
quello vero.
Il primo arrivo allora non conta già più... appartiene a ciò che adesso non
vuoi più essere ciò che ti sei voluto lasciare alle spalle in quell’altro
continente ma che ti è rimasto appiccicato addosso in aereo sul taxi che ti
portava all’hotel e ha continuato a starti tra i piedi mentre eri diretto verso
l’istante sognato in cui il viaggiatore coincide con l’immagine del suo
desiderio intimo quello per cui si è messo in viaggio.
Non è mai prevedibile con precisione come sarà ma al momento giusto lo
riconosci subito non hai dubbi: è questo.
È questo.
Il fiume la bambina il pescatore il ponte le colline giapponesi sull’altra
sponda.
Comincia così: perché chiamare colline giapponesi le colline giapponesi?
Non è fittizio?
Forse ma le riconosco dai dipinti sui kakemono e sui paraventi hanno
spesso l’elemento dell’improvviso come se fossero comparse in quel
momento appena prima che tu le vedessi strani alti rilievi in un paesaggio
piatto coperti di ogni genere di alberi diversi di cento tonalità di verde e di
rosso.
Colline così non esistono in nessun altro posto.
La bambina con la divisa della scuola è seduta sulla sponda del fiume a
leggere mi piacerebbe sapere cosa.
È talmente concentrata sul suo libro che sembra concresciuta con il
paesaggio così come anche il pescatore sta lì nell’acqua già da un secolo un
profilo ritagliato dal fiume che scorre veloce.
Bambina pescatore colline fiume sull’altra riva un muro di uomini in
bianco fanno qualcosa che da qui non riesco a vedere.
Era il mio primo giorno a Kyoto.
Qualcosa mi aveva trattenuto dal dedicarmi subito alla possente città che
già conoscevo.
Volevo prima andare al di fuori dei sui confini.
Gli scarsi paesaggi che avevo visto dal treno proiettile non mi erano
bastati.
Avevo letto di un fiume di templi che dovevano trovarsi tra le colline a
ovest della città in una zona dove non ero mai stato di una cascata e di un
ponte che si chiamava Togetsu e che era stato ritratto da tutti i grandi.
Senza vedere il ponte avevo visto quei disegni nella mia immaginazione e
ora ero lì sulla sponda dell’Oi a guardare il susseguirsi di colline coperte di
pini aceri e ciliegi che si diceva fossero stati piantati ad Arashiyama nel XIII
secolo dall’imperatore Kameyama.
Arashiyama quella parola mi era piaciuta (i viaggiatori credono al caso)
l’avevo ripetuta e avevo trovato l’autobus che portava lì dalla stazione Sanjo
Keihan un viaggio lunghissimo serpeggiante in compagnia dei bambini delle
scuole che entravano e uscivano di corsa e si addormentavano sui sedili
rimbalzanti e di visi tesi da manager che hanno alle spalle una giornata
pesante.
Ora che mi trovavo lì vedevo che forse non era più di un lontano quartiere
periferico della città ma la città era dietro di me e sull’altra sponda del fiume
ardeva un fuoco misterioso.
Era laggiù che volevo andare ma appena feci i primi passi sul ponte
accadde qualcosa di straordinario.
Mi moltiplicai: non camminavo più da solo intorno a me si era formata a
un tratto una folla che continuava a crescere e che senza nemmeno guardarmi
mi accolse in mezzo a sé spingendomi in direzione del falò.
Ero già abituato al fatto che in Giappone non sei quasi mai solo senza altre
persone intorno ma ora ero una goccia di pioggia in una nuvola una nuvola
allegra ciarliera che si gonfiava e sgonfiava
muovendosi in direzione di quel fuoco che veniva attizzato dagli uomini in
bianco adesso potevo vederlo fino a far salire alte fiamme e poi nuovamente
domato con uno strato di carbone di legna su cui poi venivano disposte
griglie con piccoli pesci infilzati su spiedi.
Gli spiedi erano perpendicolari ai loro corpi contorti azzurro argentati che
così parevano muoversi ancora sulla griglia.
La nuvola ora era diventata ghirlanda una lunga fila di persone di cui non
facevo più parte.
Andai avanti per vedere cosa stesse succedendo.
C’era un chiosco coperto dove venivano distribuiti i pesci.
Sul cartello appeso c’era un pesce ma quello oltre alla data era tutto ciò che
riuscivo a leggere.
Una per una le persone uscivano dalla fila e ciascuno riceveva un
pesciolino e una lattina di birra in cambio di un biglietto numerato ma io non
avevo nessun biglietto e non c’era un posto dove poterlo comprare così
rimasi lì a guardare e vidi che le persone in attesa e quelle che mangiavano si
filmavano e fotografavano a vicenda.
Chiesi a una ragazza di che cosa si trattasse.
Lei fece una risatina e si coprì il viso con le mani.
Poi indicò gli uomini in bianco e il fiume e disse: «First fish first fish.» In
quel momento un vecchio pescatore con un cappello di paglia a punta come
ne avevo visti nei disegni di Hiroshige e Hokusai tirò fuori dall’acqua un
pesce in un lampo luccicante.
Poi uno degli uomini in bianco mi venne incontro e mi mise in mano un
biglietto.
Non dovevo pagare niente così mentre la ragazza con il viso ancora mezzo
nascosto dietro la mano tornava di corsa dalle sue amiche andai a mettermi in
fondo alla fila che avanzava lentamente verso il fuoco e il chiosco dove avrei
ricevuto il mio pesce.
«Name name» domandai quando lo presi e loro: «Ayu fish ayu.» Soltanto
in seguito capii che quello era l’inizio della stagione quando la gente arriva
da lontano per andare nei ristoranti kaiseki di Arashiyama e pagare prezzi
folli per un pasto a base di ayu.
Ciò che avevo visto era la versione popolare dell’usanza un’azienda che
aveva offerto una gita al suo personale.
A ogni boccone si fotografava e si filmava in cento video lo straniero che
viene da lontano è ritratto nella sua impacciata posizione del loto mentre si
gode il suo ayu in mezzo agli altri dipendenti.
Hokusai Hiroshige.
In quale Giappone sono venuto in realtà?
Torno al ponte e vedo che anche i giapponesi si fermano a fotografare il
pescatore con quel cappello.
È di paglia intrecciata non mi sono sbagliato riconoscendolo da vecchi
disegni nessuno degli altri pescatori nel fiume ne porta ancora uno così.
Questo è il mio quarto viaggio in Giappone ogni viaggiatore conosce credo
il repertorio delle discordanze tra ciò che vede e ciò che si aspettava cerca la
conferma di un’immagine interiore anche se sa che quell’immagine è un
falso.
Chi a Firenze vuole vedere esclusivamente il Rinascimento sa di ingannarsi
e al tempo stesso entra in contatto con forme di verità.
Forme deformate verità sfilacciate qualcosa che è esistito e non c’è più ma
c’è ancora.
Chiese statue quadri.
O come qui templi santuari giardini.
Il viaggiatore va a cercarli e finisce nella palude della contraddizione.
Ora è nel luogo in cui l’arte che cerca è nata ma è arrivato troppo tardi.
Il punto nel tempo in cui avrebbe voluto trovarsi non potrà raggiungerlo
mai più.
Il paradosso nel quale si trova raddoppia: visto che il tempo non
corrisponde più non corrisponde nemmeno lo spazio.
Ora regna un tempo diverso che ha cambiato il luogo; ciò che cercava ha
perso il suo posto perché nulla lì è rimasto uguale e in questa doppia
alterazione il viaggiatore non ha scelta.
Ha già deciso non può fare nient’altro che annullare il passato abusandone
con la metropolitana di adesso raggiunge il tempio di allora che immagina
immutato mentre tutto intorno è cambiato o scomparso.
Solo così può visitare il passato che cercava.
Allora il pescatore del 1992 diventa il pescatore di Hiroshige del 1833 e
con quell’immagine ancora sulla retina cammino lungo il fiume in cerca di un
posto dove mangiare.
Il piccolo minshuku che trovo è in un luogo ombreggiato sull’acqua.
Una donna anziana mi apre lascio le mie scarpe accanto ad altre paia che
sono già lì e cammino sul tatami lievemente elastico verso la finestra aperta
dove mi siedo a gambe incrociate.
Dietro di me sento il dolce parlare gorgogliante di due donne in una nicchia
dall’altra parte della stanza è appesa una pittura calligrafica una forma nera
selvaggia tracciata sul foglio in un secondo che mi nasconde il segreto del
suo significato.
Una poesia un nome un’esclamazione può essere qualsiasi cosa ma io sono
contento così perché il disegno è potente e mi fa immaginare di tutto il mio
occhio ci si può perdere.
Quando sono in Giappone mi ritrovo in una ragnatela di significati nascosti
ciò che non capisco si mescola con ciò che posso leggere.
Il mio Giappone è un Giappone di libri.
Due sono quelli che mi sono portato in questo viaggio per rileggerli e
anche questa è una mistificazione perché sono stati scritti quasi mille anni fa
da signore aristocratiche della corte imperiale di Kyoto che allora si chiamava
ancora Heian.
Uno è un diario Note del guanciale di Sei Shonagon l’altro La storia di
Genji scritto da Murasaki Shikibu è il primo romanzo che sia mai stato scritto
un proustiano romanzo fiume pieno di intrighi e storie d’amore intorno alla
figura di Genji il principe splendente.
Proustiano la parola naturalmente è soltanto ausiliaria ma come il geniale
romanzo di Marcel Proust il racconto di Genji nelle sue oltre mille pagine
offre l’immagine di un mondo lontano anni luce da noi che tuttavia grazie
alla caratterizzazione dei personaggi sembra vicino.
Molto di ciò che ora consideriamo «tipicamente giapponese» all’epoca non
esisteva ancora niente zen e niente samurai niente geishe o sashimi haiku o
kabuki.
La vita a corte era all’apice della cultura Heian un susseguirsi di rituali
infinitamente raffinati governati da un’etichetta sorprendente e legati ai
cambiamenti stagionali un tessuto gerarchico di ranghi e posizioni (prima
concubina terza principessa ministro della sinistra capitano del centro
guardarobiere di sesto grado) e tutte le sfumature di abiti e comportamenti
che ne erano parte.
Perfino leggendo hai la sensazione di camminare sul vetro all’interno di un
palazzo sospeso nell’aria pieno di segni nascosti simbolismi segreti allusioni
contenute nei nomi nei soprannomi e nei titoli.
Il popolo non esisteva la più grande disgrazia era essere esiliati o investiti
di una carica amministrativa nella provincia la corte imperiale era il cosmo al
di fuori la vita non valeva nulla.
I cortigiani comunicavano tra loro in versi ogni fiore ogni gesto aveva il
suo significato preciso nemmeno i giapponesi moderni sono in grado di
leggere questi libri senza commenti e traduzioni.
Tuttavia attraverso un doppio strato di antichità e traduzione vieni
trascinato nel mondo di allora intessuto dello splendore di vite che fatichi a
credere possano essere davvero esistite nella realtà perduta del X e XI secolo
un’isola nel tempo cui non è possibile fare ritorno salvo che nelle pagine di
un libro.
Sono persone che allora incontri esseri umani con passioni
paure gelosie e una loro propria individualità più riconoscibili delle figure
emblematiche del nostro Medioevo di cui perlopiù non vediamo altro che il
guscio esterno di un’anima unidimensionale mai i segreti moti intimi.
In Murasaki Shikibu è diverso.
«Moderno» è un termine così goffo ma se una signora nell’anno mille
scrive qualcosa che oggi mi colpisce e mi commuove ancora è perché tra la
scrittrice i suoi personaggi e il lettore si genera una tensione psichica tale che
il millennio che li divideva a un tratto non esiste più.
Sono cose che appartengono ai miracoli.
Solo l’arte ne è capace.
Solo l’arte ne è capace e qui si sfiora un mistero indecifrabile: come si fa a
trasformare con la letteratura una realtà in letteratura?
Perché è questo ciò che accade.
Murasaki usò proprio come Proust la realtà che la circondava... la vita di
corte del X secolo a Kyoto... per la sua letteratura.
Così conservò per noi che viviamo mille anni dopo una realtà divenuta
talmente impensabile da apparire come pura finzione.
Io l’ho sempre trovato strano... e al tempo stesso meraviglioso... che queste
due realtà siano potute convivere una accanto all’altra senza sapere nulla
l’una dell’altra l’Europa delle apocalittiche fantasie millennariste un’epoca di
tenebre e disastri dura e perniciosa e la corte di.
Heian Kyoto lontana dal mondo che non aveva quasi nulla a che fare con
una realtà quotidiana una società codificata all’estremo in cui tutti quelli che
contavano erano in possesso... nel senso che lo conoscevano a memoria e
potevano utilizzarlo in ogni momento... di un tesoro inesauribile di poesia
classica cinese e giapponese un arsenale che ci si portava continuamente
appresso.
Ciò non portò soltanto a un raffinamento estremo ma anche a un modo
indiretto di esprimersi che raddoppia la sensazione di irrealtà a tal punto da
lasciare il lettore moderno nella sua ignoranza e volgare fretta totalmente
sconcertato.
Questo appare particolarmente evidente nella figura dello stesso Genji.
Il principe ha una serie infinita di avventure amorose e relazioni con donne
molto diverse e nemmeno uno dei suoi approcci delle sue seduzioni e
conquiste o dei suoi addii che non sia accompagnato intensificato o velato
dallo scambio di brevi poesie del VII e dell’VIII secolo.
La codifica dei sentimenti è talmente rigorosa che l’uno sa sempre cosa
intenda l’altra un paio di parole un’immagine o l’allusione a un luogo sono
sufficienti la citazione prende il posto del discorso o della dichiarazione
esprime desiderio collera amarezza impotenza dolore eccitazione... e al tempo
stesso è un velo e un paravento tanto da dare l’impressione di un balletto
lento e silenzioso.
Se non si parla vengono scambiate lettere e anche allora il codice è
fondamentale: che genere di carta si usi che colore e in che sfumatura quale
citazione quale risposta quale profumo (anche o soprattutto per gli uomini.)
Tutto ciò per il lettore moderno può avere effetti singolari.
Quello che per noi in una scena di seduzione sarebbe il momento cruciale a
volte ha già avuto luogo senza che ce ne siamo accorti così come capita di
passare davanti a una casa senza vederla quando si va di fretta.
Al lettore di allora bastava una sfumatura in una frase o nella poesia di
accompagnamento: il fatto in sé non aveva bisogno di essere raccontato in
modo esplicito.
Questo dà a quelle scene qualcosa di misterioso: ciò di cui si tratta non
viene detto e per quello che non si voleva dire si avevano a disposizione due
antologie classiche: Man’yoshu dell’VIII secolo e più tardi Kokinshu con
1111 poesie del X.
Per
citare un esempio di questi riferimenti a noi incomprensibili allusioni
labirintiche slittamenti di senso e di significato: in Guide to the Tale of Genji
by Murasaki Shikibu di.
William J. Puette appare un elenco dei personaggi di questo romanzo di
oltre mille pagine.
Uno dei nomi è… Murasaki quindi quello dell’autrice stessa: Lady
Murasaki.
Murasaki-no-ue (letteralmente lady lavandaviola color del glicine.)
Si tratta della figlia abbandonata del principe Hyobu che viene educata
come una figlia da Genji e ancora molto giovane diventa la sua seconda
moglie.
È la vera eroina romantica del romanzo; la scrittrice deve il suo nome a
questo personaggio... un po’ come se Thomas Mann fosse entrato nella storia
della letteratura come Hans Castorp autore de La montagna incantata.
Proust del resto ha ottenuto lo stesso effetto chiamando il suo protagonista.
Marcel.
Ma non ci siamo ancora.
Nel suo saggio The Splendor of Longing in the Tale of Genji.
Norma Field riflette approfonditamente sulle poesie e sui riferimenti
contenuti nei versi che Genji e Murasaki si recitano a vicenda.
Per poterli capire bene è importante sapere che solo i ranghi più alti
dell’aristocrazia erano autorizzati a indossare il color porpora e che le tonalità
più scure erano riservate ai principi di sangue reale del quarto rango o
superiore e ai funzionari di primo rango mentre i principi «normali» dal
secondo al quinto rango potevano portare un color porpora di una «tonalità» a
metà tra chiaro e scuro.
Inoltre il porpora in generale aveva una connotazione di governo imperiale
legge buddhista e paradiso taoista.
Tutto questo dunque echeggia sullo sfondo così come il dato che la
sfumatura più o meno scura del porpora era anche un’indicazione del grado
di intimità di una relazione.
E come se non bastasse... dopotutto avevano avuto secoli di tempo per
elaborare questo sistema di riferimenti la corte non si occupava del mondo
esterno... murasaki è il nome di una pianta dalle cui radici si estrae un
determinato color porpora.
Anche con questo si gioca fin dall’inizio: l’autrice si chiama Murasaki e il
suo protagonista Genji dal momento in cui vede per la prima volta la
Murasaki romanzata se ne innamora perché assomiglia a un’altra amante che
lui non può più avvicinare perché è diventata la consorte dell’imperatore suo
padre.
La prima volta che la vede ha subito a portata di mano una poesia che
mormora tra sé (ma l’autrice Murasaki l’ha sentita): Vorrei cogliere al più
presto con le mie mani la giovane erba di campo nata dalla stessa radice del
murasaki.
10
Che ci siano anche poesie tratte da Man’yoshu (n. 20 e 21) da cui risulta
che la parola murasaki vanta una tradizione di tre secoli di associazioni con
amori proibiti e bellezze straordinarie rende un’idea della selva di riferimenti
nascosti in cui l’ignaro lettore futuro si trova a errare.
A tale proposito Sei Shonagon è più diretta.
Lei infatti non scrisse un romanzo ma un diario.
Era famosa per la sua lingua pungente e dai suoi famosi «elenchi» si
capisce perché.
Un osservatore acuto ha anche un giudizio acuto.
Sul decadimento per esempio o nelle sue parole «Cose e persone inutili ma
che ricordano il passato»:
Il motivo per cui ce ne andiamo per sei mondi è che siamo persi
nell’oscurità dell’ignoranza.
Se in quell’oscurità sprofondiamo sempre più come potremo mai liberarci
della catena di nascita e morte?
E mentre tutte le immagini di quella settimana si fondono insieme cado in
un sonno tra i canti dei monaci un uomo sul treno più veloce del mondo
l’unico dei sei che lui conosca.
1993.
Più terreno di così non si può: sulla strada verso il sublime sono rimasto
intrappolato nel.
Kinki Area Rail System due pagine una accanto all’altra su cui è
raffigurata una rete di ferrovie indipendenti intorno a Osaka e Kyoto che
sembra essere stata tessuta da un ragno totalmente ubriaco che per giunta non
l’ha nemmeno finita.
Hankyu-Takarazuka.
Yamotoji Nankai-Koya Kintetsu-Minami-Osaka Keifuku-Arashiyama i
nomi delle linee sono scolpiti nella mia memoria perché hanno accompagnato
un’avventura in cui mi sono buttato totalmente ignaro senza sapere che in
certi momenti sarei rimasto preso in quella rete come una mosca pronto a
essere divorato dal ragno ubriaco cosa che non si accordava affatto con l’alto
scopo del mio pellegrinaggio perché era di questo che si trattava un viaggio
senza bastone e senza zaino ma con grandi distanze e infinite scalinate di
templi da affrontare a piedi.
L’obiettivo segreto e inconsapevole di certi viaggi è quello di mandare in
totale confusione il viaggiatore estraniarlo a tal punto dalle sue origini da far
apparire la sua esistenza come un’oscura faccenda cui potrà tornare solo con
grande difficoltà.
Soltanto allora sei stato veramente via così altrove da essere forse diventato
un altro.
Tutto è cominciato in un negozio di guide turistiche a Zurigo.
Ciò che ha a che fare con il.
Giappone ha sempre risvegliato il mio interesse e lì ho trovato un libro che
parlava di pellegrinaggi in Giappone.
Aveva un aspetto attraente.
Sulla copertina c’erano due foto: una ritraeva una serie di statue di una
figura maschile in meditazione che un tempo per comodità avrei chiamato
Buddha ma che nel frattempo avevo imparato essere Jizo il protettore dei
viaggiatori e dei bambini.
L’altra mostrava una fila di sandali di paglia intrecciata appesi davanti alla
porta di un tempio che avrei poi capito sono parte dell’equipaggiamento del
pellegrino in Giappone così come la conchiglia e il bastone appartengono al
cammino di Santiago.
Jizo e i sandali li avrei incontrati centinaia di volte durante il mio viaggio
ma in quel momento non lo sapevo ancora.
Nel libro erano descritte la storia e le diverse forme dei pellegrinaggi:
l’eremita solitario che abbandonava tutto per raggiungere i luoghi sacri sulle
montagne i sontuosi viaggi di gruppo dei periodi Heian (794-1192) e
Kamakura (1192-1333) quando metà della corte partiva con tanto di abiti
cerimoniali per andare a meditare nella natura e poi quelli del.
Quattrocento quando la classe media era arrivata ad avere tempo e denaro
per viaggiare al seguito dei nobili.
Così nel tempo si sono create vie di pellegrinaggio che esistono ancora
oggi.
Ce ne sono tante e molto diverse tra loro ma per qualche motivo
probabilmente per il numero (sono nato nel ’33) decisi di seguire quella dei
33 templi detta «pellegrinaggio dei miracoli» o di Saigoku-Kannon.
Ora che sono di nuovo ad Amsterdam tra cento libri e mille foto capisco la
follia dell’impresa che mi ero messo in testa in parte contagiato da un vecchio
amico che dopo essere andato a piedi dai Paesi Bassi a Santiago mi aveva
detto che il pellegrinaggio degli 88 templi sull’isola di Shikoku era un gioco
da ragazzi.
Certo che lui aveva affrontato buona parte di quel viaggio in compagnia e
inoltre aveva adottato il costume tradizionale giapponese dello henro grazie al
quale chiunque sa subito dove
vuoi andare e ti viene indicata la strada senza nemmeno dover chiedere.
Io invece non mi vedevo andare in giro con bastone sandali intrecciati e per
giunta un cappello di paglia oltre che vestito dalla testa ai piedi di bianco
brillante avrei avuto l’impressione di essermi impadronito di qualcosa cui
non avevo diritto.
Su questo avevo ragione senza saperlo perché in seguito ho imparato che
quella tenuta in realtà si porta solo nel pellegrinaggio degli 88 templi in cui si
ripercorrono i passi del grande maestro buddhista.
Kobo Daishi (Kukai) fondatore della setta Shingon quella del buddhismo
esoterico anche se di fatto il termine setta non è appropriato e si dovrebbe
piuttosto parlare di un sistema filosofico.
Dunque non ero uno henro ma uno junreisha un comune pellegrino senza
segni particolari a parte il nokyocho il mio libro del pellegrino che però era
sempre nascosto nella borsa.
Per quale motivo lo facevo?
Credevo in Kannon?
A dire il vero no non la conoscevo ancora per il resto molti principi etici
del buddhismo mi erano altrettanto sconosciuti di quelli del cristianesimo.
L’eterna diffidenza nei confronti del corpo che deve essere tenuto al suo
posto la conoscevo già dal confessionale né mi attiravano le forme superiori
di sottomissione e sacrificio di cui avevo letto con relative immagini di
uomini emaciati che facevano pensare più a Bergen-Belsen che
all’illuminazione divina.
Tuttavia c’erano anche tutte quelle altre immagini che avevo visto nei miei
viaggi in Asia i Buddha in corpi a cui chiaramente non mancava nulla ma che
all’apparenza riuscivano a dominare come se avessero le ossa fluide con
quella perenne espressione superiore di pace totale il volto che ha visto e
pensato tutto e si libra alto al di sopra di tutto come l’eternità.
Come funzionano queste cose?
Ero stato in Australia per partecipare a un festival letterario e visto che
andare e tornare dall’Australia è altrettanto lungo (e costoso) che proseguire
il volo facendo il giro del mondo per arrivare a casa avevo preso un biglietto
round-the-world che mi consentiva al ritorno una tappa in Giappone.
Da Sydney a Osaka ci sono otto ore di volo ma la distanza spirituale è
infinitamente più grande e così a un tratto mi sono ritrovato sperduto e
spaesato nell’appartamento di un amico tedesco A. Kyoto con vista sul fiume
Kamo che attraversa la città.
Era l’aprile del 1998 i ciliegi al di là del fiume erano in fiore sembrava che
fosse nevicato.
In lontananza vedevo il monte sacro Hiei che ha un ruolo importante nella
letteratura classica giapponese.
Tutta la mia impresa mi sembrava all’improvviso rischiosa: che cosa
volevo in realtà?
Non parlavo giapponese è vero che ero già stato lì sette volte ma il mio
Giappone era in effetti sempre rimasto un Giappone della letteratura il fiume
Kamo lo conoscevo da Kawabata così come conoscevo Osaka da Tanizaki e
Tokyo da Harukami e il monte Hiei dalla Storia di Genji di mille anni prima
quando Kyoto si chiamava Heian e in quel luogo c’era una corte di uno
splendore incredibile e senza potere (quello era esercitato dagli shogun) dove
un paio di donne che non erano autorizzate a scrivere in cinese... quello era
riservato agli uomini... scrissero libri nel giapponese di allora che ancora oggi
vengono letti.
Ero lì sotto falsi pretesti in cerca di un Giappone che in realtà esisteva
ancora soltanto come eccezione come se un giapponese in Europa cercasse
esclusivamente alcuni monasteri benedettini.
Ma c’era una frase nel libro che avevo comprato a Zurigo che avrebbe
trasformato quei falsi pretesti nel vero motivo del mio viaggio.
Diceva che molti
pellegrini giapponesi fanno questi pellegrinaggi per la pace e il silenzio
che nel loro paese affollatissimo dove si ha sempre la sensazione di essere
circondati da milioni di persone non riescono più a trovare.
Il fatto che avrei dovuto attraversare ogni giorno quelle folle immense per
trovare il silenzio lì per lì non lo sapevo ancora.
I giapponesi fanno le cose in gruppo e ciò significa in questo caso pullman
pieni che vengono di volta in volta scaricati davanti ai templi.
Gli stranieri in tali viaggi non sono i benvenuti soprattutto se non parlano
giapponese perché la cosa crea solo complicazioni.
Ho visto pellegrini solitari ma non spesso.
Di europei o americani praticamente nemmeno uno.
Perché ho fatto questo pellegrinaggio e soprattutto perché l’ho portato a
termine?
Per curiosità nei confronti di un Giappone che non conoscevo ancora e che
anche per la parte che conoscevo non capivo.
Un tempio giapponese con tutte le sue figure sacre e oggetti sacri i suoi riti
e usanze pone tutta una serie di misteri.
Chi è chi che cosa si canta come ti devi comportare che cosa significa
quella scritta quel tamburo quella campana quel gesto?
Certo dal cattolicesimo sapevo che quando gli uomini cercano un contatto
con le sfere superiori utilizzano suoni diversi rispetto a quelli della vita
quotidiana indossano indumenti particolari inventano riti che si traducono in
formule complesse per rivolgersi all’ultraterreno e che vengono governati e
gestiti da una casta di sacerdoti.
Sapevo anche che l’altissimo nell’immaginazione umana spesso si trova in
luoghi remoti per lo più elevati e che lo spirito umano ha bisogno di
intermediari sotto forma di santi perciò nei templi si trovano immagini di quei
santi e maestri e monaci che vengono adorati.
Quando vedevo arrivare in un tempio un gruppo di pellegrini tutti si
inchinavano suonavano una grande campana facevano battere un pezzo di
legno allungato legato a una corda contro una grande campana di bronzo
infilavano rumorosamente soldi nel contenitore per le offerte battevano le
mani a una fonte che non si arrestava mai si lavavano via di dosso la
sporcizia del mondo.
Riconoscevo molto di ciò che avevo visto in.
Sicilia in Estremadura in Baviera o nelle Fiandre.
I gesti erano diversi ma l’essenza era la stessa: gli uomini vogliono
letteralmente salire più in alto e per questo hanno sviluppato ogni sorta di
strategie.
In tali manifestazioni non si tratta del pensiero di Agostino.
Tommaso d’Aquino o Ignazio di Loyola ma di credenze popolari.
Anche il buddhismo ha i suoi padri mistici ed esegeti il sussurro di carte
vecchie di secoli discussioni teologiche controversie dogmatiche pratiche
ascetiche ma i pullman non arrivano per questo arrivano per essere nelle
vicinanze di quel mondo nelle vicinanze di coloro che custodiscono i segreti
arrivano per allontanarsi temporaneamente dalle proprie esistenze e lo
straniero che li osserva vede sia il rito commerciale sia la devozione
sbalorditiva e cerca di diventare invisibile.
I templi di Saigoku-Kannon si trovano in una vasta area intorno a Osaka e
Kyoto tra il.
Mar del Giappone e l’Oceano Pacifico.
Ho fatto il pellegrinaggio in due parti i primi 17 templi nel 1998 i
rimanenti nella primavera del 2000.
Talvolta un tempio costava un viaggio di un giorno altre volte invece ce
n’erano diversi vicini ma per chi non parla il giapponese e vuole muoversi da
solo è un impegno logistico enorme.
Io mi sono mosso per lo più da Kyoto.
Vicino alla stazione (23 binari!) si trova una sede del Japan Tourist.
Information Office dove Yoko e Miyo una volta smaltita la sorpresa
iniziale in merito alla
mia impresa hanno cercato di trovare treni trenini autobus funicolari e
traghetti tali da permettermi di raggiungere la mia meta del giorno.
Soprattutto quando ti addentri nella provincia le comunicazioni diventano
più difficili.
L’inglese non sempre serve così come non serve indicare una pagina del
mio libro giapponese dei templi.
Dovrebbe esistere un’indulgenza speciale per l’attesa sui binari sbagliati
per un viaggio su un treno che ha sì lo stesso nome ma va nel senso opposto
per il dubbio lacerante tra due cartelli in un bosco su uno dei quali dopo una
fila di ideogrammi c’è scritto 57 km e sull’altro dopo ideogrammi che
somigliano disperatamente ai primi 38 km.
Al confronto le marce di ore sotto la pioggia o il caldo improvviso le
arrampicate su sentieri di montagna le scalinate vertiginose (uno dei templi
aveva 888 gradini) erano quasi un sollievo.
Questo è ciò per cui ero venuto.
Appena ti liberi delle città e dei treni sovraffollati inizia l’altro Giappone
quello di paesi e villaggi di piccole locande autobus di provincia trenini di
un’unica carrozza con gli scolaretti in divisa e poi ogni volta il momento in
cui ti avvicini al tempio e varchi la porta con i due Nio i guardiani
dall’aspetto feroce che in realtà sono un’unica persona Kongo Rikishi a
sinistra e a destra uno con la bocca aperta l’altro con la bocca chiusa ma
entrambi più grandi di un uomo muscolosi come pugili e grazie a Dio dietro
sbarre di legno a cui i pellegrini appendono i sandali.
Oltre in genere c’era silenzio e tanto spazio nessuno sembrava badare a te.
A volte sentivi un gruppo di pellegrini recitare insieme sutra o preghiere o
la voce di un sacerdote dall’altoparlante che tuonava nel parco sperduto del
tempio altre volte monaci che suonavano conchiglie e aspettavano poi la
risposta dall’altra parte della valle un suono infinitamente malinconico.
Mi capitava anche di finire in mezzo a cerimonie misteriose con fuochi e
canti vigorosi.
Io immagazzinavo tutto nel mio archivio interno leggevo di.
Kannon dalle undici teste e mille braccia e capivo che quel pellegrinaggio
è dedicato alle sue 33 manifestazioni tentavo di distinguere i diversi stili dei
templi e capivo che per tutto ciò avrei avuto bisogno di un’altra vita.
E ora?
Ora sono di nuovo ad Amsterdam e guardo i fogli pieni di coincidenze di
treni che.
Yoko e Miyo hanno annotato per me le fotografie durante il cammino il
mio libro del pellegrino pieno di ideogrammi meravigliosi.
I miei appunti sembrano la preparazione di una battaglia: JR
(Japan Railways)
Kyoto-Ayabe (linea Sainin)
8.
58-10.
32.
Scendere A. Maizuru treno in direzione di Higashi-Maizuru arrivo 10.
57 partenza 11.
53 arrivo A. Matsunoodera 12.
00 di lì un’ora a piedi in salita fino al tempio e a un tratto rivedo tutto
davanti a me: il tram azzurro ghiaccio da Maizuru la stazioncina abbandonata
non più di una casupola nessuno in vista non un cartello con un disegno del
tempio (tera) ma secondo la guida giapponese devo prendere prima la strada
principale e poi seguire un sentiero lungo un ruscello i segni rossi del tempio
sono nell’angolo in alto a destra del biglietto.
Vi viene onorata Kannon come in tutti i 33 templi ma qui sotto forma di un
cavallo.
Chi è Kannon?
In gran parte dei templi la vedo rappresentata come una figura femminile e
allora assomiglia parecchio alla Madonna.
A volte ha 11 teste altre volte braccia che sembrano uscire da tutte le parti
ma è sempre la dea la santa o la bodhisattva della misericordia.
In passato in India era un uomo e si chiamava Avalokitesvara dall’India
passò in Cina e divenne Kyuan-yin poi in Giappone e diventò Kanzeon o
Kannon.
Un bodhisattva è un
illuminato che rinuncia al piacere del Nirvana per aiutare in terra coloro
che non hanno ancora raggiunto l’illuminazione.
In realtà questo pellegrinaggio è soprattutto per lei come qui.
Cade una pioggerella fine ma quando arrivo in cima dietro i veli di pioggia
riesco a vedere il Mar del Giappone.
Una volta durante una tempesta furibonda un uomo che andava per mare si
trovò in grandi difficoltà pregò Kannon e notò che la sua barca veniva
accompagnata verso riva dove trovò delle impronte di cavallo che seguì fino
ad arrivare al tempio in cui vide la statua di Kannon dalla testa di cavallo
ancora bagnata fradicia di acqua di mare.
C’è un grande silenzio quando salgo la lunga scalinata.
C’è addirittura ancora un po’ di neve.
Supero il cavallo che è sacro raggiungo lo hondo con l’altare e dato che
nessuno mi presta attenzione batto le mani tiro la fune rossa intrecciata e
faccio emettere all’ampia campana di metallo il suo suono sferragliante in
modo che gli esseri del mondo superiore sappiano che ci sono.
Poi prendo il mio libro pieghevole del pellegrino e vado nel nokyo l’ufficio
del tempio dove un monaco è seduto a leggere dietro uno sportello.
Picchio con l’unghia contro il vetro.
Se è sorpreso non lo dà a vedere.
Metto i miei 300 yen su un piattino e lui mette i tre timbri vigorosi sul mio
nokyocho cui aggiunge con un lungo pennello i suoi caratteri in inchiostro
nero.
Seguo i suoi lenti gesti eleganti.
Non ho visitato i templi in ordine (non lo fanno nemmeno i giapponesi) ma
vedo che sfoglia il quadernetto e registra che sono già stato al tempio 33 a
Kegon-ji ufficialmente l’ultimo dove ricevi tre ideogrammi in una volta sola.
Allora sorride e fa una sorta di gesto che racchiude tutto: la statua di
Kannon e quella di Jizo con il suo bavaglio rosso le arance sull’altare nello
hondo la montagna e la lunga discesa il mare i 31 templi che ho visto e i due
che devo ancora visitare e tutti i ricordi di fiori e treni e statue e monaci e
incenso e tutte quelle infinite scale che porterò a casa con me dall’altra parte
della terra.
2000
Solo chi è genuinamente affascinato è disposto a soffrire per ciò che gli sta
tanto a cuore e magari arriva perfino a trarne piacere.
Per tutti gli altri la cosa rimane vagamente bizzarra.
Già solo il numero enorme di fumetti horror e storie criminali film di serie
B homu durama’s (home drama’s) sentimentali spettacoli di spogliarello e
glittershow che.
Ian Buruma deve aver visto e descritto per anni per poter dare
un’immagine del Giappone e dei giapponesi nel suo libro A Japanese Mirror:
Heroes and Villains of Japanese Culture è sorprendente.
Io ho dovuto limitarmi a prendere in dosi adeguate la valanga di nomi titoli
trame e date: quando esageravo venivo letteralmente sommerso e dubito che
qualcun altro tranne forse per qualche studio sociologico sia mai stato in
grado di fornire altrettanti dettagli da un insieme così strampalato di fonti.
È come se un sociologo peruviano dovesse fare un’analisi della società dei
Paesi Bassi e del carattere della popolazione sulla base di riviste come Story e
Privé serie televisive di.
Willy van Hemert spettacoli del Theater van de Lach show a luci rosse di
Casa Rosso i disegni di Peter van Straaten i testi di André Hazes Swiebertje e
l’Amsterdams.
Volkstoneel insieme a uno studio di film nederlandesi più seri le tematiche
di Vestdijk le poesie di Remco Campert e l’analisi della sessualità in
Wolkers.
Sembra bizzarro ma è più o meno ciò che ha fatto Buruma perché nel suo
discorso non sono presenti soltanto il teatro no e kabuki Mishima e Tanizaki
ma anche il caso del violentatore con il calzante porno «politici» i retroscena
psicologici degli istituti per massaggi e tre drammi strappalacrime.
Per questa infinità di informazioni dobbiamo essere grati allo scrittore.
Primo perché per come è scritto il libro costituisce di per sé una lettura
affascinante e secondo perché ci risparmia di dover prendere in esame tutto il
materiale originale.
Posso tranquillamente leggere Kawabata mentre Buruma pare aver
trascorso alcuni anni della sua vita ininterrottamente davanti al televisore
attraversando così il fango per noi.
Donne squartate fiumi di sangue rivoli di lacrime o come dice l’autore
stesso analizzando un fumetto per bambini (Dame Oyaji... Padre stupido):
«E così via in una serie infinita di crudeltà.» L’analisi in questo caso riguarda
il ruolo del padre nella famiglia.
Chi ha ancora l’idea del dominatore patriarcale leggendo la perderà.
Nella famiglia specifica il povero genitore si ritrova legato al palo come un
cane deve fare la spesa camminando a quattro zampe viene bruciato vivo in
un crematorio e il suo unico amico in questo mondo crudele un canarino gli
viene servito per pranzo dai figli tra sonore risate.
È questa l’immagine che devo farmi dell’impiegato medio della Honda
della Mitsubishi e del ministero dell’Economia?
Buruma dice: «Soprattutto perché la sua già fragile posizione risulta
ulteriormente indebolita dalle idee recenti sulla demokurashi il padre viene
spesso deriso.
[…]
Ancora una volta questo è un fumetto per bambini e per quanto vagamente
estremo non è affatto unico.» Sono stato in Giappone diverse volte e ogni
volta alla partenza i misteri erano più grandi che all’arrivo.
Questo libro è forse stato il viaggio più intensivo che io abbia mai fatto in.
Giappone e in realtà vale lo stesso principio.
Non l’ho letto per trovare finalmente la
panacea per tutta la mia incomprensione ma il mistero come è
caratteristico di tutti i misteri nel mio caso proprio per le chiavi che Buruma
mi offre in realtà non ha fatto che aumentare.
Probabilmente non c’è niente di più misterioso dell’idea del
sostanzialmente altro.
Nel film Sans Soleil di Chris Marker che ho visto un paio di giorni fa e che
è girato in gran parte per strada li vedo camminare i salarymen come si
chiamano in Giappone.
Anche quando ero lì mi faceva impressione quella folla di uomini che ti
viene incontro nell’ora di punta tutti in abito scuro camicia bianca e cravatta
che come l’immagine di uno di loro riprodotta migliaia di volte secondo una
disciplina impensabile per i canoni europei si ferma al semaforo rosso.
In quelle teste dunque abitano i concetti di cui Buruma spiega
dettagliatamente la valenza emotiva e sociale.
Ma anche la sua spiegazione fa sorgere alcune domande.
Quando per esempio nel descrivere «il dramma teatrale più famoso mai
scritto in lingua giapponese» (Chushingura o la storia dei quarantasette ronin)
introduce il concetto dell’on si vendica in primo luogo l’ambiguità della
nostra lingua.
Nei Paesi Bassi... e questo naturalmente la dice lunga sul nostro carattere
rispetto a quello degli inglesi o degli spagnoli... la parola debito ha una
valenza sia finanziaria che morale.
18 Ora subentra una doppia confusione di significato perché Buruma in
questo passaggio dice che ogni giapponese «nasce con un debitocolpa per cui
dovrà pagare.» Questo debitocolpa si chiama on e lo si ha per via degli «avi
che hanno tenuto in piedi la famiglia e in seguito dei genitori che hanno
messo al mondo il figlio.» E per quanto sia chiaro che si tratti più di un debito
d’onore che del concetto cristiano di peccato originale (e della conseguente
colpa) un giapponese che non ripaghi il suo debito è debitore e questo non è
possibile perché per quanto le parole «debitocolpa» «sensi di colpa» e
«debitorecolpevole» ricorrano in diversi passaggi Buruma afferma al tempo
stesso che il giapponese non conosce il concetto di debito morale perché non
segue principi universali ma norme di comportamento sociali.
Chi le infrange avverte piuttosto vergogna.
O c’è in effetti una colpa che precede la vergogna?
Ora potrei dare l’impressione di voler complicare le cose inutilmente ma
penso che non sia così.
Semplicemente: le cose sono complicate.
Per tutta una serie di concetti come giri amae kata e koha infatti non
esistono traduzioni lapidarie ma solo giri di parole che li descrivono.
Il fatto che queste descrizioni siano possibili d’altra parte significa a sua
volta che tali concetti possono essere resi comprensibili e con ciò l’idea
dell’essenzialmente altro diventa già meno totalitaria.
Si può dire essenzialmente altro?
Io non sono riuscito a capirlo neanche dopo questo libro.
Chi cresce in una società basata su principi morali universali dev’essere
essenzialmente diverso da chi cresce in una società fondata su regole di
comportamento sociali.
In quest’ultima società la persona e Buruma lo dimostra ampiamente è il
membro di un gruppo della famiglia giapponese e fa del suo meglio a spese
dell’individualismo per comportarsi da membro di quel gruppo e non esserne
escluso soprattutto non manifestandosi in quanto altro.
In occidente questo porta subito al malinteso che in realtà i giapponesi non
esistano come individui singoli.
E per quanto vi sia sicuramente una forma di indifferenza nei confronti del
proprio destino che noi non conosciamo fino in fondo basta leggere i romanzi
di Kawabata Kenzaburo Oe o andando indietro nel
tempo Ihara Saikaku o Murasaki Shikibu per sapere che questa alterità non
è poi così altra e che sotto tutto ciò che ci appare bizzarro c’è il fondo
comune della condition humaine grazie alla quale possiamo identificarci con i
protagonisti di quei romanzi.
Lo stesso e non lo stesso si potrebbe concludere con il filosofo e altro
paradosso è proprio documentando in modo così dettagliato il non lo stesso
che Buruma riesce ad avvicinare l’idea di fondo dello stesso per quanto il
lettore rimanga spaventato e sorpreso soprattutto dal capitolo sui gangster e
sui nihirisutos (nichilisti) dove si parla tra l’altro del valore estetico per noi
quasi inconcepibile dell’omicidio e della violenza.
Come esempio Buruma cita un libro che nel 1983 vinse il più alto premio
letterario.
«L’autore.
Kata Juro ha seguito un’antica tradizione della letteratura giapponese
utilizzando un avvenimento reale per costruirvi sopra una fantasia letteraria.
L’avvenimento era questo: uno studente giapponese a Parigi sparò alle
spalle alla sua ragazza olandese la tagliò a pezzi con un seghetto elettrico e
mangiò alcune parti del suo corpo.» (Il fatto che registrò il tutto in un video
che di recente è stato trasmesso in Giappone B. non lo dice ma forse al
momento non lo sapeva ancora.)
«L’omicidio non viene analizzato né condannato.
Senza cambiare i nomi veri delle persone coinvolte lo scrittore «gioca»
letteralmente con i fatti.
Grazie allo stile quasi documentario il lettore ha la spiacevole sensazione
di non sapere esattamente cosa accade davvero e cosa no.
Spiacevole almeno per un lettore cresciuto in una cultura in cui la Verità è
sacra.» Devo ammettere che quest’ultima frase e l’ironica V maiuscola mi
sconcertano.
Kousbroek un ammiratore di Buruma ha attaccato duramente Rob
Nieuwenhuys perché avrebbe rinnegato il suo «spirito essenzialmente
europeo» dimostrando eccessiva comprensione nei confronti di un rampok
macan.
19 Secondo lui si trattava «soltanto» dell’uccisione collettiva... in un
passato lontano... di un animale e non di una ragazza fatta a pezzi... di
recente... e divorata.
Ma lascio parlare di nuovo Buruma: «Il libro di.
Kata rispetto ai canoni giapponesi provocò critiche particolarmente aspre
ma per motivi puramente estetici.
La moralità o la sua assenza non era affatto in discussione così come non
lo era l’uso disinvolto dei fatti.
L’autore è stato giudicato in base allo stile letterario.
Un omicidio reale nel suo libro veniva trasformato in arte né più né meno.
In quanto tale non ha più nulla a che fare con la realtà e quindi nemmeno
con la moralità.
Incoraggiare le persone a sfogare i loro impulsi crudeli nella fantasia è un
modo per mantenere l’ordine.
Compiere reati per interposta persona è una delle funzioni del teatro.
Fino a quando si mantiene il tatemae della gerarchia dell’etichetta e del
decoro sociale il lavoratore frustrato può tranquillamente guardare immagini
di donne torturate se lo vuole.» And never the twain shall meet20 penso
allora per quanto l’autore precisi giustamente che l’idea giapponese di
dramma vada paragonata alle teorie teatrali di Artaud.
Ma nonostante il suo grande influsso Artaud non è mai diventato
veramente patrimonio comune.
Sono un ipocrita o semplicemente non ho visto abbastanza dei nostri
ordinari video di violenza sesso e orrore del genere a cui Buruma si è così
diligentemente dedicato?
Dopo essersi occupato come aveva annunciato nella prefazione delle donne
nella prima parte e degli uomini nella seconda (una parte intermedia riguarda
i travestiti) seguendo l’immaginazione collettiva dei giapponesi conclude che
si tratta di «un popolo
mite.» Secondo la loro stessa opinione («un certo consenso») sono «nat
yasashii gentili teneri dolci […] e si esprimono attraverso emozioni calde
dolci umide anziché pensieri razionali duri e asciutti.» Lasciatemi dunque
provare a riordinare ancora una volta i miei pensieri asciutti.
In quest’ultimo capitolo Buruma sostiene che la pornografia
sadomasochistica le scene di torture in televisione («perfino nei programmi
per bambini») e tutti gli altri orrori e sentimentalismi che ci ha presentato per
quanto bizzarri possano essere sono di fatto aspetti normali della vita
quotidiana in Giappone.
Le prove di quella mitezza essenziale quindi devono venire da qualche
altra parte: «Quella giapponese è una società estremamente protetta con il
minor numero di reati violenti rispetto a qualsiasi paese dell’Occidente.»
Questo in fondo è ampiamente dimostrato.
Chi si limita ad avere sogni violenti non compie atti violenti.
Ma è perché sono fondamentalmente miti o perché il coperchio del
consenso comune è così saldamente avvitato?
La risposta di Buruma è un’immagine poetica nell’ultimo paragrafo del
libro: «L’immaginazione bizzarra teatrale e il gusto grottesco e morboso che
da secoli determinano la cultura popolare giapponese sono il rovescio della
medaglia della realtà quotidiana fugaci e inafferrabili come un’immagine allo
specchio.» Al che il lettore non sa cosa pensare: più di duecento pagine di
studi dettagliati di fantasie borghesi in gran parte sgradevoli all’improvviso si
dissolvono nello specchio.
E adesso?
Può tornare alla semplicità aristocratica delle ciotole raku alla chiarezza
riconoscibile dei versi di Basho all’estetica della nonviolenza che gli è tanto
più cara che si trovi in una pietanza kaiseki o in un foglietto di carta
ripiegato?
Per un momento avverte (avverto) la tentazione spavalda di dire che non ha
nessun senso che i giapponesi in fondo sono come tutti gli altri esseri umani
solo che grazie alla loro storia davvero particolare sono vissuti per un paio di
secoli nella cultura pura della dittatura Tokugawa e così hanno ancora oggi
impostazioni diverse.
Non voglio dire che siano diversi.
E a questo punto stranamente dopo tutte quelle pagine non mi trovo in
disaccordo con Buruma che ha iniziato il suo libro con una vecchia zia che
una domenica pomeriggio d’estate gli chiese cosa stesse leggendo.
««Un romanzo giapponese» risposi.
«Com’è possibile» disse lei.
«Quelli hanno sentimenti totalmente diversi dai nostri non è così?» Molte
persone tra cui mia zia trovano ancora difficile capire che i giapponesi non
sono solo esotici esportatori di automobili diversi in tutto dagli altri.
In fondo scrivono al contrario quindi penseranno anche al contrario.» Tutto
il libro con la sua ricchezza di materiale riunito per la prima volta serve a
illustrare la fondamentale ambiguità del primo e dell’ultimo paragrafo.
Con ciò l’opera in sé non risulta «fugace e inafferrabile come un’immagine
allo specchio» ma il contrario.
Un libro che quando finisci di leggerlo vorresti passare un giorno chiuso da
qualche parte con l’autore per riempirlo di domande o obiezioni non potrà
mai essere definito fugace.
Piuttosto un mattone nella sempre più grande Casa delle Domande in cui
come Alice nel paese delle meraviglie ti lasci attrarre sempre più dai misteri e
dalle contraddizioni.
Maggio 1984.
Come molti degli autori che hanno scritto sul Giappone da una prospettiva
non specialistica Cees Nooteboom oscilla costantemente tra un senso di
appartenenza e uno di estraneità.
Quando l’esperienza del Giappone non si rinchiude nell’arco di un singolo
viaggio ma si ripete più volte l’alternarsi di questi opposti stati d’animo si
prolunga e accompagna uno scrittore nel tempo producendo una complessa
serie di variazioni nel suo rapporto col paese.
È quanto accade a Cees Nooteboom che dopo un primo viaggio in
Giappone sul finire degli anni Settanta vi è tornato a più riprese costruendo
con il paese un dialogo che non si interrompe nemmeno quando è in Olanda o
in altre parti del mondo e qualche evento occasionale (l’inaugurazione di una
mostra la lettura di un libro) risveglia il ricordo e riaccende le tensioni nei
confronti del Giappone.
Il resoconto più sereno è quello iniziale la somma di impressioni raccolte
durante il suo primo soggiorno nipponico.
Quando pochi anni dopo si reca a visitare una mostra su.
Hokusai a Parigi è reduce da un secondo viaggio meno felice del primo ed
è evidente che come accade a volte nelle esperienze di innamoramento
sull’orizzonte iniziale puro e incontaminato hanno cominciato ad addensarsi
le nubi di ansia dovute al timore di un’incomprensione reciproca.
Ma il seme di questa angoscia in fondo è già presente dalla prima volta
nonostante su tutto domini l’ebbrezza della scoperta.
Più volte lo scrittore manifesta la preoccupazione di essere invisibile agli
occhi dei giapponesi.
In uno degli episodi narrati Nooteboom è nella hall dell’albergo dove è
allestito un giardino in cui eleganti ragazze in kimono servono il tè.
Una di loro gli si avvicina e la sua combinazione di bellezza gesti graziosi
voce argentina provoca in lui un travolgente sentimento d’amore che dalla
ragazza si espande a inglobare l’intero Giappone.
Un amore... precisa lo scrittore... infelice.
Perché nella gioia dell’esperienza si insinua il dubbio che l’armonia
profusa dalla ragazza nell’accudirlo sia solo una prestazione professionale e
che in realtà il suo sguardo scorra su di lui come su una superficie
impenetrabile e scivolosa.
È una sensazione che insegue.
Nooteboom per tutto il viaggio quella di essere servito in qualunque
contesto con efficienza e cortesia ma di rimanere estraneo al di fuori della
«forma più intima del tuo sguardo» l’unica con cui si vedono veramente le
persone.
«In qualche modo sono sempre invisibile e non esisto sul serio» si
rammarica.
Il veleno del dubbio in questo primo viaggio è fatto solo di poche gocce
che si disperdono in fretta in un più vasto senso di sintonia con l’ambiente e
di ammirazione per la bellezza.
Anzi all’inizio il sentirsi invisibile gli procura una sorta di beatitudine
come se il non essere visto gli consentisse una maggiore libertà di sguardo.
Ma gradualmente l’ebbrezza trascolora in angoscia.
Nooteboom grande viaggiatore aveva già sperimentato la «totale alterità»
in Mali o A. Bahia.
Ma una diversità profonda coniugata con le forme più avanzate di
modernità gli procura... per usare un termine caro a Roland Barthes... un
vacillamento che può sconfinare nel panico.
Se la prima volta a vincere è la bellezza nel secondo viaggio prevale il
senso di esclusione.
Nello scrivere del Giappone Nooteboom riesce a catturare un sentimento
che molti viaggiatori conoscono e che è possibile sperimentare in qualunque
paese: la paura non sentendosi visti e riconosciuti di scomparire nel vuoto di
non esistere.
La mente del viaggiatore è davvero complicata: insegue la diversità
vorrebbe abbeverarsi di ignoto ma poi nel perdere le coordinate abituali si
sente invadere da un’angoscia profonda come se il mare dell’ignoto lo
trascinasse alla deriva.
Ma è possibile nell’età della globalizzazione percepire il Giappone come
ignoto?
Gli scritti di Cees Nooteboom ci inducono a pensare di sì e se da un lato la
complessità dei suoi sentimenti trasmette un senso di sconfitta come se
l’alpinista si fermasse sgomento alle pendici del monte perdendo il coraggio
di scalarlo dall’altro ci rassicura sapere che esistono ancora nel mondo codici
da decifrare informazioni da acquisire spazi da conquistare.
Ci crediamo postmoderni ma dimorano in noi paure ataviche da sfidare se
vogliamo uscire da noi stessi e spingerci oltre.
Nooteboom è più a suo agio con la letteratura.
Kawabata Tanizaki e soprattutto le sue amate scrittrici di epoca Heian
(7941185)
Murasaki Shikibu e Sei Shonagon gli offrono chiavi di lettura che il mondo
reale sembra negargli.
Leggendo questi scrittori Nooteboom si rende conto «che questa alterità
non è poi così altra e che sotto tutto ciò che ci appare bizzarro c’è il fondo
comune della condition humaine.» Ecco che nell’oscillazione tra
appartenenza ed estraneità emerge un valore molto più coesivo della
globalizzazione: l’universalità.
Anche una sua osservazione sull’intraducibilità delle parole che si apre
sulla constatazione negativa dell’impossibilità di trovare un termine che
corrisponda a concetti come giri amae ecc. si conclude con una riflessione di
segno contrario: «Il fatto che queste descrizioni siano possibili d’altra parte
significa a sua volta che tali concetti possono essere resi comprensibili e con
ciò l’idea dell’essenzialmente altro diventa già meno totalitaria.» La lingua
esprime idee che mantiene chiuse nei suoi propri confini ma un elemento
universale le sottende rivelando l’esistenza di un sentire comune.
Anche in questo piccolo scatto conoscitivo che Nooteboom teorizza tra il
senso di esclusione che una lingua straniera trasmette a chi non la possiede e
la possibilità di descriverne i contenuti ritroviamo un esempio del suo
oscillare tra appartenenza ed estraneità.
Nel capitolo che apre il libro Nooteboom racconta di avere sviluppato
l’abitudine a leggere un giornale giapponese di lingua inglese come se fosse
un quotidiano olandese.
Lo considera un «buon esercizio di dislocazione» per allontanarsi dalla
tendenza eurocentrica e riposizionare il Giappone e lui stesso che
temporaneamente vi dimora al centro del mondo.
Ma in realtà tutto il suo rapporto con il Giappone può essere letto come una
serie di esercizi di dislocazione una disciplina rivolta a rompere un insieme di
credenze abitudini schemi mentali: l’armatura in cui anche i viaggiatori di
razza tendono a chiudersi.
Nooteboom oppone alla fissità degli schemi un genuino desiderio di
incontrare l’altro obiettivo che sa di poter realizzare solo attraverso lo
smarrimento.
È lui stesso a dichiararlo con estrema lucidità: «L’obiettivo segreto e
inconsapevole di certi viaggi è quello di mandare in totale confusione il
viaggiatore estraniarlo a tal punto dalle sue origini da far apparire la sua
esistenza come un’oscura faccenda cui potrà tornare solo con grande
difficoltà.
Soltanto allora sei stato veramente via così altrove da essere forse diventato
un altro.» La perdita di sé nella ricerca dell’altro è anche il tema di un suo
breve romanzo di ambientazione giapponese Mokusei.
Qui la tensione verso il Giappone e l’oscillazione tra
appartenenza ed estraneità sono espresse attraverso il paradigma di una
complessa relazione amorosa.
Il protagonista un fotografo olandese vive un’intensa e difficile passione
per una donna giapponese.
È un amore nonostante i momenti di esaltazione erotica fondamentalmente
infelice.
In un episodio del libro un amico del protagonista che ha vissuto a lungo in
Giappone e conosce bene i meccanismi di attrazione e rifiuto degli stranieri
nei confronti di questo paese gli spiega che un Giappone ammantato di
bellezza e spiritualità esiste nel tempo (passato) ma non nello spazio.
Cercare questo.
Giappone nello spazio è la fonte di un malinteso che a sua volta sarà causa
di atroci delusioni.
Nooteboom riprende un concetto che aveva già espresso diversi anni prima
nello scritto dedicato alla mostra di Hokusai e che evidentemente deve
essergli caro facendone un antidoto all’estraneità.
Staccarsi dai cliché culturali distruggere le illusioni smettere di proiettare
le proprie aspettative sull’altro è il primo passo per conoscere il.
Giappone.
E forse anche per la realizzazione di un amore felice.