Вы находитесь на странице: 1из 146

L’OPINIONE DELL’EDITORE

Certi viaggi hanno l’obiettivo segreto di «estraniarti dalle tue origini»


«scardinarti l’esistenza»: «soltanto allora sei stato veramente via così altrove
da essere forse diventato un altro» scrive Cees Nooteboom infaticabile
esploratore di culture riguardo al paese che conserva per lui un fascino unico:
il Giappone.
Cerchi infiniti raccoglie i suoi testi più illuminanti su quarant’anni di
viaggi attraverso i paesaggi, le architetture, la poesia e la storia del Sol
Levante.
Dalle metropoli avveniristiche di Tokyo e Osaka alle antiche città imperiali
di Kyoto e Nara, dalle incisioni di Hokusai e Hiroshige al teatro kabuki, il
rapimento mistico e intellettuale dei giardini zen, quella coesistenza
intrecciata di buddhismo e shintoismo nei templi e nei riti millenari che
scandiscono ancora il calendario nelle campagne.
Viaggi accompagnati dalle pagine di Kawabata Mishima.
Tanizaki ma soprattutto dalle Note del guanciale di Sei Shonagon e dalla
Storia di Genji di Murasaki Shikibu; il primo romanzo della storia che ritrae
il raffinamento estremo a cui giunse l’isolata corte di Heian nell’XI secolo.
Con la sua capacità di cogliere le sfumature più sottili, accendere
connessioni stimolarci a vedere con altri occhi e a rapportare il particolare
all’universale Nooteboom ci immerge nell’esperienza della scoperta della
bellezza e della sfida che il Giappone continua a rappresentare per
l’Occidente: possiamo arrivare a conoscere veramente una cultura così
lontana da noi?
Ma è proprio nel confronto con l’altro che il viaggio diventa una ricerca sul
fondo comune della condizione umana, un pellegrinaggio interiore per
interrogarsi su se stessi.

L’AUTORE
Autore di romanzi, poesie, saggi e libri di viaggio è ritenuto «una delle
voci più alte nel coro degli autori contemporanei» (The New York Times)
tradotto in più di trenta paesi e insignito di numerosi premi letterari,
paragonato dalla critica a Borges Calvino e Nabokov.
Nato all’Aia ed eterno viaggiatore, si è rivelato a soli ventidue anni con
Philip e gli altri e ha raggiunto il successo internazionale con romanzi come
Rituali e Il canto dell’essere e dell’apparire.
Tra le ultime sue opere pubblicate da Iperborea, Le volpi vengono di notte,
Avevo mille vite e ne ho preso una sola e Tumbas.
Capitolo 1
Il compleanno dell’imperatore il pathos delle cose e altre esperienze
giapponesi

In cosa consiste l’immagine di un paese?


Sono sdraiato per terra nell’aereo che da ormai quasi venti ore passando
per il Polo è in viaggio per il Giappone.
Intorno a me piedi dormienti.
Ho un cuscinetto sotto la testa e una copertina azzurra della KLM sul corpo
ma non riesco a dormire.
Stranamente continuo a rivedere una stessa immagine: una foto che poco
dopo la guerra... allora avevo circa dodici anni... mi colpì moltissimo.
Un prigioniero australiano con un paio di quegli assurdi pantaloni inglesi
coloniali color cachi seduto su uno sgabello o un tronco d’albero non ricordo
più.
Ha gli occhi bendati i capelli biondi leggermente scompigliati dal vento le
mani legate con una corda.
Alle sue spalle in piedi un giapponese.
Lui ha in testa un kepi e porta pantaloni neri infilati negli stivali e una
camicia bianca a maniche corte.
Con entrambe le mani solleva in alto una grande spada più o meno come
un campione di golf che tiene la mazza nella posizione più alta.
Una frazione di secondo dopo colpirà la spada mozzerà di netto il collo
dell’australiano la testa schizzerà via il sangue sgorgherà dal collo che adesso
è ancora intatto e il corpo con le mani legate crollerà di lato.
Questa in ogni caso è l’immagine del «Giappone» più vecchia che ho.
Trent’anni di esperienze e conoscenze l’hanno corretta spiegata e
circostanziata in tutti i modi eppure in questo preciso momento in cui io
stesso tra un’ora di volo sarò in Giappone si risveglia in me insopprimibile
una lieve sensazione di paura mista a stanchezza.
Immagino milioni di persone su treni e metropolitane ma poi quelle
immagini sono attenuate da giardini templi e composizioni floreali.
Il termine «apprensione» forse descrive al meglio le emozioni di cui sono
preda.
L’interrogativo che mi impegna è quanto è «diverso» il Giappone.
Negli ultimi anni ho letto romanzi di.
Tanizaki Kawabata Kenzaburo Oè e Mishima che non mi hanno dato la
sensazione che il «diverso» del Giappone sia un «diverso» diverso da quello
tanto per dire del Brasile.
Un certo esotismo negli usi sociali e religiosi piante diverse clima diverso
ma persone diverse?
Quei romanzi trattano di sentimenti e problemi che non mi sono veramente
estranei; se tolgo l’esotismo o lo sostituisco con un altro ciò che mi resta non
è qualcosa di cui non capisco nulla.
Ma lo ritroverò anche fuori dal contesto dei libri?
Mentre me ne sto qui sdraiato in terra a pensare sento sorgere dentro di me
anche una gelosia incontrollabile.
Perché devo andare in giro come una botte piena di pregiudizi e
informazioni perché non si può mai andare in un posto di cui si ignora
assolutamente tutto come Pizarro andò nel regno degli inca o i primi europei
in Giappone?
Non sapere nulla del prodotto interno lordo non avere mai visto un film
giapponese; Hiroshima zen kabuki sumo kaiseki Sony samurai harakiri
ikebana... suoni senza alcun significato.
Quello che faccio io non si può quasi più chiamare viaggiare non si scopre
più niente si digita controlla smentisce e conferma immagini e idee vengono
confrontate con la «realtà» ciò che in ultima istanza vado a fare è vedere se il
Giappone esiste davvero come se uno spettatore al cinema potesse entrare
nello schermo e sedersi a tavola con i protagonisti.

La voce di una giovane giapponese mormora attraverso gli altoparlanti i


piedi intorno a me si svegliano le luci si accendono comincia la corsa ai
bagni.
Uomini che alla partenza a Schiphol avevano occupato tre posti per poter
dormire comodi ora si radono sui loro sedili con facce di persone che fanno
esattamente l’opposto di ciò che faccio io: loro tornano a casa loro si lasciano
alle spalle il mondo estraneo ostile non giapponese missione compiuta
aggiunto un altro grammo alla grandiosità della nazione rientrano nel grande
gioco di società di cui sono parte.
Stasera così immagino saranno già nell’impenetrabilità protettiva delle loro
case si inchineranno davanti alle loro mogli e scacceranno la spiacevole
estraneità del mondo non giapponese con un sake.
Scrutano fuori dai finestrini proprio come me il brulichio galattico delle
luci di Tokyo sobbalzano dolcemente nell’abbraccio delle nubi di lanugine
grigia e poi «prendiamo terra.» Questa è l’espressione spagnola per
«atterrare» che esprime un po’ meglio del semplice termine «atterrare» il
sollievo che si accompagna sempre a questo momento.
Ecco che appare subito la prima indimenticabile immagine di compattezza:
a sinistra e a destra del nostro aereo si delinea una fila interminabile di altri
apparecchi quasi come una guardia d’onore.
Il logo azzurro fiordaliso della KLM si inserisce tra quelli rosso papavero
della.
JAL.
Di rado ho conosciuto arrivi così efficienti.
Un’orda di pulmini è pronta ciascuno con dentro una ragazza giapponese e
in un soffio siamo condotti nell’edificio principale.
Di quell’arrivo non ricordo tanto di più.
Registro vagamente stordito strade a sei corsie raccordi a quadrifoglio
masse di case e ovunque quei segni che non so decifrare tutto molto
rassicurante.
L’hotel è lontano e grande anche lì ogni cosa si sistema in un batter
d’occhio.
Poiché dopo un viaggio così non riesco mai ad andare subito a letto vago
un po’ per l’edificio e finisco in una sala azzurro ghiaccio dove sta suonando
un’orchestrina.
Sulle pareti sono proiettate tutte le Hawaii: sono appena arrivato in
Giappone ed eccomi già altrove.
La cantante intona una struggente canzone occidentale in giapponese ma
per qualche motivo è troppo piccola per le grandi emozioni che interpreta.
Dopo qualche istante capisco che è My Way ma ha qualcosa di
stranamente artificioso come se qualcuno avesse inserito una cassetta a tutto
volume in quel grazioso corpicino in miniatura.
Con la luce al neon che tinge di un viola velenoso l’alcol nel mio bicchiere
la follia aumenta: dunque una donna così piccola sta cantando così forte per
me davanti a un tavolo che si trova al tempo stesso alle Hawaii e a Tokyo.
Meglio uscire un momento.
Fresca aria di primavera.
Alberi tosati.
Pubblicità mobili.
Un ragazzo che mi saluta.
Una stazione in lontananza.
Centomila auto.
Gironzolo un po’ ma al tempo stesso vedo un vortice di flashback: mi tiro
dietro la porta di casa ad Amsterdam vado a Schiphol compro un giornale ad
Anchorage mangio un pasto giapponese sull’aereo.
Da qualche parte nel mondo ora sono le sette di sera e io vado a letto.
Il primo giorno dopo un arrivo così è sempre particolare.
Nella mia stanza regna il silenzio una stanza sul beige senza decorazioni.
Lì per lì spero di essere finalmente arrivato in paradiso ma mi illudo: un
fruscio sottile alla porta e vedo un giornale che lentamente viene spinto
all’interno The Mainichi Daily News.
Il Consiglio Economico insiste su un aumento delle tasse per la previdenza
sociale.
È chiaro che non mi trovo in paradiso.
Vado alla finestra e apro le tende.
È smog o soltanto brutto tempo?
Sotto un
cielo come quello di Groninga l’urbanizzazione si estende ininterrotta:
case fabbriche linee ferroviarie fino all’orizzonte velato.
Vedo cinque treni viaggiare contemporaneamente.
Dietro i finestrini ondeggiano corpi umani tutti diretti verso lavori che
hanno il loro scopo.
L’universo gira tutto funziona.
Premo il pulsante del televisore.
Un gruppo di adolescenti dalla pelle di pesca appena colta balla un tip tap.
Hanno orribili sorrisi americani ma per il resto sono molto belli.
Passo in rassegna tutti i tredici canali.
Una donna in kimono che piange.
Un uomo che punta il dito verso di me dicendo qualcosa che non capisco.
Un gruppo di persone intorno a un tavolo discute su un pompelmo di un
giallo invitante che poi viene mangiato.
Un cowboy che nel deserto del Nevada uccide un altro cowboy imprecando
in giapponese.
A questo punto sono pronto per il mondo reale e scendo.
In un angolo della hall è allestito un giardino dove tre eleganti ragazze in
kimono versano il tè.
Così si comincia a ragionare.
Una mi viene incontro a passettini trascinati come se scivolasse su una
rotaia invisibile.
Davanti a me fa un lieve inchino emettendo piccoli suoni argentini.
Poi versa il tè.
Io sono sopraffatto da un grande amore infelice per lei e al tempo stesso
per l’intero Giappone.
Non c’è più niente da fare è successo in un secondo davanti al più assurdo
cliché che si possa immaginare: le bianche manine da bambola con le unghie
laccate il roseo splendore della sua pelle invulnerabile e vellutato come petali
di giglio in cui il grande gioielliere ha incastonato due occhi per poter
guardare indietro fino alla creazione senza vedere nulla e io me ne sto lì
seduto come un turista irrimediabilmente catturato in preda all’euforia e
insieme alla sensazione di essere diventato invisibile.
Lei ora mi versa il tè certo ma mi vede davvero?
Quella sensazione mi insegue per tutto il viaggio per strada nei ristoranti
sui treni e sulle metropolitane.
I miei biglietti vengono obliterati il mio cibo viene servito la mia presenza
provoca reazioni eppure in qualche modo sono sempre invisibile e non esisto
sul serio.
Mi sono chiesto per quale motivo.
Naturalmente è assurdo un sentimento letterario ma da dove arriva?
Il termine «giapponese» per straniero equivale all’espressione inglese
outside person deve avere a che fare con questo qualcuno di cui viene
registrata la visibilità e tuttavia un corpo estraneo letteralmente.
Lo servi lo tratti con cortesia ma non lo lasci entrare nella forma più intima
del tuo sguardo quella con cui vedi veramente le persone.
Comunque sia meglio che lo dica fin da subito: questa constatazione mi ha
riempito per tutto il viaggio di una sorta di euforia un po’ come se fluttuassi
nell’aria e anche di una leggera forma di vertigine.
Si dà per scontato che uno trovi Tokyo orribile ma non è stato affatto così.
Io l’ho trovata meravigliosa tutto l’ammasso barbarico di edifici che non
finiscono mai tutto l’orrore metropolitano l’aberrante cancro edilizio che
devasta il verde e in cui il traffico cerca di farsi strada in mille modi il
massiccio accumulo di volgarità periferiche; ogni cosa che per mia natura
avrei dovuto trovare brutta partecipava a quell’eccitazione perché la bruttezza
schiacciante viene ogni volta spezzata da piccole forme di bellezza piccole
ricorrenti delizie: la grazia delle persone il modo in cui i diversi tipi di pesce
sono esposti nella vetrina di un ristorante i piccoli oggetti su una scrivania i
pupazzetti in un grande magazzino gli ideogrammi su un calendario il
concentrato di emozioni di un’esile piantina l’estetica assoluta di un pezzetto
di tonno crudo avvolto nel riso e nelle alghe tutte quelle cose piccole e belle
che sconfiggono e cancellano le grandi e brutte.
Mentre
l’occhio naturalistico mi inquadra in un paesaggio urbano di corruzione
selvaggia quello interiore mi vede sorvolare valli di grande bellezza.
Non è questa la realtà ma non c’è niente da fare.
Dopo un paio di giorni mi sono già creato una bella routine.
Ogni mattina leggo The.
Mainichi Daily News come se fosse il nostro quotidiano de Volkskrant.
È un buon esercizio di dislocazione perché a un tratto il centro del mondo
non è più nella comunità europea ma su una manciata di isole buttate come
un gambero disperato contro l’elefantiaca terraferma di Cina e Russia.
Che quelle poche isole siano la terza potenza economica del mondo sembra
pura follia al vedere la loro patetica piccolezza rispetto al resto dell’Asia.
Poi guardo le notizie allegramente riportate in inglese da un immigrato
americano.
Quindi viene il tè servito dagli angeli in kimono o a volte una colazione
giapponese con pesce crudo prugne salate e fagioli neri un vero colpo basso.
I prezzi in questo hotel internazionale ti mettono K. o.
Una tazza di tè o caffè costa quattro fiorini e cinquanta il resto è in
proporzione.
Una fettina di filetto per dirne una costa cinquantatré fiorini.
Per questo in genere mangio in piccoli ristoranti del centro.
Dopo la colazione vado in città.
Ora so qual è il binario della linea verde che porta alla stazione di
Yurakucho so come devo inserire i miei soldi in quel gioco di società
attaccato al muro e poi aspettare il tintinnio del resto so che devo mettermi in
fila nel punto indicato per terra perché è lì che si aprirà immancabilmente la
porta so che morbido come un pezzo di tofu devo lasciarmi spingere dentro il
vagone insieme agli altri corpi da signori con i guanti bianchi e so che cosa
troverò: scolarette in divisa lettori di giornale uomini in abito scuro camicia
bianca e cravatta.
Nessuno bada a me perché non ci sono e posso guardare tutti.
Sulle banchine e a bordo dei treni bocche assenti leggono intere poesie
mentre l’unica cosa che posso leggere io sono i nomi dei luoghi a ogni
stazione.
Per tutte le altre informazioni ogni mattina in albergo mi faccio preparare
dei biglietti graziosamente disegnati con testi come: avrebbe la cortesia di
spiegare a questo signore come fare a… dove… quando eccetera.
Così provvisto vado in centro e trovo il mercato del pesce la borsa il teatro.
A volte prendo anche un taxi.
La portiera azionata automaticamente si spalanca non appena mi avvicino.
Gli interni dell’auto non potrebbero essere più puliti.
Un fiorellino di plastica mi saluta con un sorriso il guidatore tende la mano
guantata di bianco e scruta i segni del biglietto.
Se non capisce aspira un’improvvisa e lunga boccata d’aria fresca da un
angolo socchiuso della bocca producendo un sibilo.
Quel suono è abbastanza definitivo perché quasi nessuno parla inglese.
Chiedo a qualche amico come sia mai stato possibile costruire un tale
impero commerciale così.
La risposta è che a quanto pare molte persone lo sanno leggere e scrivere
ma la paura di commettere errori e perdere la faccia prevale sul desiderio di
aiutarti.
Un no diretto non te lo dicono quasi mai.
E così eccoti in un taxi ad ascoltare quel lungo sibilo.
Al che mormori qualcosa fai un sorrisetto e la portiera si spalanca di
nuovo.
Certi stranieri ne rimangono offesi a morte o in ogni caso frustrati perché
anche quando chiedi un’indicazione stradale nessuno sempre per non perdere
la faccia (ma che espressione insopportabile) risponde che non lo sa piuttosto
ti manda nel Sahara pur di renderti un servizio.
Per me rientra tutto nel capitolo avventura perché non ho nessun dovere da
compiere ma per chi ha un programma da seguire posso immaginare che sia
un disastro.
Se vaghi così per la città c’è un fatto di cui sei costantemente consapevole:
quello di essere circondato da un’enorme massa umana.
Si mettono in moto come una marea quando scatta il verde vieni sospinto
dentro i grandi magazzini a decine occupano i telefoni rossi che sono attaccati
al muro senza cabine ovunque intorno a te è movimento che avanza e si ritrae
come le onde ma mai aggressivo un popolo che ha insegnato a se stesso che
per sopravvivere in una città di sedici milioni di abitanti è indispensabile una
forma di disciplina concetto che di solito non mi entusiasma ma qui è una
necessità assoluta.
Non si tira e non si spinge tutto procede come se dipendesse dalle leggi
della natura: le folle si assemblano e si disperdono marosi vorticano intorno
alle stazioni tutte teste di capelli neri tutti ben vestiti tutti con un obiettivo
preciso.
Mi ero preparato a provare orrore e paura nei confronti di queste masse ma
è vero il contrario è un piacere dei sensi fluire insieme a loro circondato da
corporeità incomprensibili essere anche tu folla.
La cosa più semplice è il cibo.
Ad Amsterdam ci sono tre ristoranti giapponesi quindi so che se mangio
pesce crudo (sashimi) devo versare della salsa di soja in una ciotolina
mescolarci un po’ di pasta piccante wasabi... una radice verdolina simile al
rafano... e poi immergerci lo squisito tonno rosa tenue o i lucidi pezzetti
satinati di calamaro (ika.)
Nei ristorantini del centro non hanno menu in lingue straniere ma hanno
nelle vetrine splendide esposizioni di cibi riprodotti alla perfezione.
Qui si sono messi all’opera grandi artisti: nel manzo di qualità inferiore del
sukiyaki sono disegnati perfino i nervetti più sottili come avvertimento.
Entri porti fuori un cameriere o una cameriera... il tutto accompagnato da
larghi sorrisi... e indichi che cosa vuoi mangiare.
Le porzioni sono riprodotte in grandezza naturale così non puoi sbagliare
nemmeno in quello.
Con una certa apprensione stanno a guardare come te la cavi con le
bacchette ma per il resto ti lasciano tranquillo.
Tutto ciò che ti arriva nel piatto è presentato meravigliosamente perfino nei
ristoranti più semplici: piccole composizioni quadretti di cibo.
È quello che intendo quando dico che non importa se la città non possiede
una bellezza museale.
La grazia salvifica sta nelle piccole cose nella cultura della vita quotidiana.
I canali olandesi sono incantevoli ma le insalate russe sono brutte e quella
bruttezza ti tocca anche mangiarla assimilarla letteralmente.
Qui sta la differenza: mangiare uno di quei piccoli capolavori è di fatto
comunicare con la bellezza.
Lo stesso vale per il modo in cui nei grandi magazzini ti impacchettano gli
acquisti e per il grazioso inchino con saluto sussurrato ai piedi della scala
mobile.
Tramite l’ambasciata dei Paesi Bassi ho fissato un appuntamento per
visitare il.
Parlamento giapponese.
Il tassista non sibila quando vede i disegni (continuo a chiamarli così non
c’è niente di più bello che vedere un giapponese annotare lentamente
qualcosa) e mi porta per tempo davanti al portone dell’enorme edificio dove
mi metto in attesa accanto alle inferriate chiuse.
Un uomo in divisa non tarda ad avvicinarsi e chiedermi che cosa desidero.
Rispondo che ho un appuntamento e che mi verranno a prendere al
portone.
Agitazione.
Telefonate.
Costernazione.
Qualcosa non quadra.
Ho imparato che non bisogna alterarsi (è di pessimo gusto) e continuo a
sorridere con una faccia da prima comunione.
Ma non me ne vado.
Tutte le pedine per un momento restano ferme.
Poi
altre telefonate.
La confusione genera l’arrivo di un uomo che parla inglese.
Ci inchiniamo entrambi.
Ci scambiamo i biglietti da visita.
Gli spiego che ho appuntamento con il signor.
Ito e mi sento rispondere che non è possibile perché lui guardi pure sul
biglietto è il signor Motegi segretario del dipartimento Affari Esteri della
Camera dei Deputati.
Poi si avvicina agli occhi il mio biglietto e mormora nutebum nutebum
scuotendo la testa.
Questa come mi spiegano in seguito è una tipica situazione giapponese.
C’è stato qualche errore è chiaro.
Lui non ha appuntamento con me perché lui non è il signor Ito.
Ma lì c’è nutebum un fatto compiuto europeo davanti al portone del
Parlamento.
È visibilmente in grande difficoltà continua ad avvicinarsi il mio biglietto
agli occhi e a borbottare tra sé.
Il suo inglese è rudimentale così mi limito a ripetere con cadenza dolce il
nome magico Ito Ito.
Ogni tanto si gira verso le guardie in divisa dietro di lui che lo seguono con
rispetto nel suo calvario.
Nutebum ripete ancora una volta.
Holland.
Ci inchiniamo di nuovo.
Ito canto io appointment.
Dutch Embassy Embassy?
Yes.
Mr.
Ito?
Finalmente decide di farmi entrare ma non è affatto contento.
Sibila come un cobra che si vede davanti un topo farcito e mi accompagna
a uno sportello dove ricevo una quantità di fogli su cui devo riportare tutto
me stesso.
Poi entriamo nel grande edificio.
Si ritira in una stanza per fare una telefonata la conversazione si protrae
molto a lungo.
Una volta sbrogliata tutta la ragnatela emerge chiaramente lo scompiglio
che ho seminato nell’intera macchina: il mio appuntamento era all’entrata
Nord mentre io mi sono presentato all’entrata Sud.
A parte il fatto che nessuno me l’aveva detto non sarei stato comunque in
grado di spiegare la differenza al tassista.
Ma il signor Ito alle dieci spaccate si trovava effettivamente all’entrata
Nord.
Il signor Ito riceve i giornalisti per la Camera dei Deputati.
Il signor Motegi riceve i giornalisti per il Senato.
A questo punto basta che il signor Motegi mi consegni al signor Ito.
Ciò avviene esattamente sull’invisibile linea di demarcazione che divide i
due reparti in un punto preciso al centro dell’enorme edificio.
I due signori cominciano già da lontano a scambiarsi inchini gli uomini in
divisa che hanno con sé si inchinano a loro volta.
Come un pacchetto postale vengo consegnato anch’io con un inchino
ricevo il biglietto da visita del signor Ito gli porgo il mio e devo andare a un
altro sportello a riportare tutto me stesso su nuovi moduli.
Soltanto allora posso assistere alla seduta del Parlamento ma prima ricevo
ancora un bel libretto informativo con foto a colori della Grande Scala
Imperiale che è proprio come un abitante di Arnhem si immagina che sia una
Grande Scala Imperiale.
Il signor Ito e io beviamo una tazzina di tè verde nei corridoi del potere una
sontuosa anticamera che rievoca le Indie orientali con tanto di vimini e palme
dove i parlamentari mangiano un boccone leggono i giornali mi guardano e
ordiscono orribili complotti proprio come nel Parlamento olandese.
Poi saliamo una scalinata vengo perquisito dalla testa ai piedi devo
togliermi perfino le scarpe mi sequestrano la penna qui niente è lasciato al
caso.
Accedo alla tribuna pubblica insieme a una scolaresca di bambini a cui la
soggezione toglie il respiro e a tre contadini di una provincia lontana che
osano a malapena mettere un piede davanti all’altro.
La seduta dura meno di sei minuti immortalata da un esercito di fotografi
cineoperatori cameramen televisivi giornalisti.
Io non capisco nulla mi faccio spiegare dove siedono i comunisti e dove i
liberali ma per me non è che una sala molto grande piena di signori in abito
grigio camicia bianca e cravatta.
Non c’è alcun dibattito tre
discorsi estremamente brevi dopodiché evidentemente si vota alzandosi e
rimettendosi seduti ed è finita lì.
Come diceva mia zia dopo un’opera di Pinter: «Non ho capito niente ma è
stato molto bello.» Quando esco è in corso una manifestazione.
Tanta polizia ma cosa accada veramente non riesco a capirlo.
Un’auto chiusa su cui sono fissate delle bandiere si muove avanti e
indietro.
Ne esce una musica forte aggressiva alternata a discorsi in cui il
giapponese all’improvviso ha tutto un altro suono arrabbiato isterico.
Vengono scanditi slogan su un’altra auto uomini con facce dipinte come
maschere e le stesse bandiere.
Più tardi quando descrivo il simbolo che esibivano a un giornalista vengo a
sapere che si tratta di un gruppo nazionalista di destra.
Le macchine vanno su e giù ancora per un po’ alcuni passanti si fermano a
guardare con volti inespressivi i poliziotti in jeep continuano a gravitare
intorno alle auto parlandosi con le ricetrasmittenti sembra di assistere a una
rappresentazione perfetta un balletto con una coreografia marziale per quattro
auto.
Ma le grida sono spaventose e mi seguono per un lungo tratto.
Sgradevoli di qualsiasi cosa parlassero.
Qualche giorno dopo è il compleanno dell’imperatore.
È l’unica occasione in cui aprono I. Giardini Imperiali e ci vado.
Tanta polizia.
I grandi cancelli sono ancora chiusi gli agenti plasmano la folla in una fila.
Intorno a noi vengono tesi i cordoni un ufficiale fissa un punto lontano e
verifica lungo il braccio teso che la fila sia perfettamente diritta risuonano
ordini ogni tanto qualcuno viene spinto più indietro nella fila sentiamo
pressioni anche alle spalle un tedesco diventa isterico e vuole uscire.
Fa una scenata a uno degli ufficiali gridando che lui è venuto apposta da
Rio de Janeiro per vedere l’imperatore ma con questo tipo di comportamento
qui non ottieni nulla.
Si è messo a piovere dolcemente.
Comincio a chiedermi se ho tutta questa voglia di vedere i Giardini.
Imperiali quando i cancelli finalmente si aprono e la folla si riversa dentro
come un fiume.
Purtroppo l’ex discendente degli dei quella mattina è già comparso due
volte al popolo questa terza volta i sudditi dovranno accontentarsi di lasciare
il proprio biglietto da visita.
Qualcuno indica una finestra molto lontana alta dietro la quale l’ombra
imperiale si è intrattenuta quel giorno stesso; riflette brandelli zincati di sole e
nuvole tutto qui.
Aggiungo il mio biglietto alle decine di migliaia di altri e per un momento
mi chiedo se scriverci sopra «Auguri imperatore» e se ora sarà conservato per
l’eternità negli archivi imperiali ma poi riprendiamo lentamente il nostro
corso attraverso i giardini.
Alberi e arbusti hanno assunto la forma delle sculture in cui sono stati
trasformati la pioggia rimane appesa alle azalee sature cammino sotto
morbidi schermi verdi tremule foglie fruscianti finemente appuntite e vorrei
tanto sapere a che cosa pensano le persone intorno a me.
Mai a quanto ricordino nella loro storia c’è stato un Giappone senza
imperatore.
Per lunghi periodi il potere non è stato nelle sue mani ma in quelle degli
shogun tuttavia le dinastie si sono succedute in una linea ininterrotta
scaturendo da un passato nebuloso mitico divino.
Poco più di cent’anni fa gli Stati Uniti costrinsero il paese a rinunciare al
suo isolamento totale e volontario e in un tempo incredibilmente breve come
avevano già fatto quasi quindici secoli prima durante la dinastia cinese T’ang
i giapponesi assorbirono un’intera civiltà si trasformano in una grande
potenza di
primordine e poi negli anni Venti furono umiliati in modo inimmaginabile
quando gli americani oltre ai danni economici che arrecarono al paese
vararono una legge restrittiva sull’immigrazione (1924) in base alla quale i
giapponesi degli Stati Uniti non potevano sposare persone «bianche» né
possedere terre e dovettero sopportare ogni altro genere di razzismo.
Già in precedenza il Giappone aveva cercato di far approvare dalla Società
delle Nazioni una dichiarazione di uguaglianza tra le razze che tuttavia
nonostante l’impero nipponico facesse parte a Versailles dei cinque grandi
vincitori non passò.
Con questo assurdo razzismo si sparse il seme della Seconda guerra
mondiale.
A ciò si aggiunse da una parte il fatto che il Giappone per il resto del
mondo o almeno per quell’altra grande potenza sulla sponda opposta del
Pacifico era un mistero spaventoso e incomprensibile con una cultura
totalmente diversa e impenetrabile resa ancora più oscura dalla barriera
linguistica e dall’altra lo sviluppo turbinoso che il paese conobbe in quegli
anni trasformandosi da nazione feudale e agricola a società industriale con
tutti gli strappi e le deformazioni che ne risultarono.
Seguirono la depressione l’ascesa della classe militare spesso proveniente
dalla popolazione rurale abbandonata a se stessa e così si crearono i
presupposti di aspri dissidi tra progressisti e conservatori all’interno di una
popolazione in crescita costante (un milione all’anno.)
Il Giappone doveva e deve vivere delle sue esportazioni.
Non riuscì a spostare la popolazione in eccesso verso i grandi paesi
occidentali «vuoti» (Australia Canada) perché questi non volevano accogliere
giapponesi.
Il Giappone doveva e deve importare materie prime (petrolio acciaio) per
poter continuare a produrre e per pagarle doveva esportare ma l’Asia e
l’Africa i suoi mercati naturali appartenevano ancora in gran parte agli imperi
occidentali che non desideravano certo averlo come concorrente.
Per non morire soffocato questo piccolo paese sovrappopolato e povero di
materie prime aveva bisogno di più terra.
Sono stati senza dubbio anche il razzismo e il protezionismo delle grandi
potenze negli anni Venti e Trenta a spingere il Giappone a guardare alla Cina.
Lentamente seguo la processione che si dirige verso l’uscita.
Padri fotografano figli figli fotografano padri famiglie intere spariranno
dentro albi di foto fino al momento in cui nessuno saprà più chi fossero.
Bambine fanno suonare il carillon delle loro voci sotto le volte degli alberi
sento il profumo dolce di fiori che non conosco.
Su uno spiazzo aperto c’è una bimba molto piccola vestita di bianco con le
scarpette rosse.
Ha lasciato cadere la sua bandierina di carta sull’asfalto umido.
Mi fermo a guardarla.
È come se in quell’unica figura minuta si riassumesse tutto ciò che il
Giappone è per me.
Non piange non si muove finché sua madre non la raggiunge e le raccoglie
la bandierina bianca e rossa come i suoi vestiti.
Quindi tornano a unirsi al lento corteo di cui io sono parte e non sono
parte.
Quando l’ultimo di noi è fuori le guardie chiudono l’alto portone imperiale
di legno e me ne vado a casa.
Per un giorno chiudo fuori l’universo giapponese e resto nella mia stanza
d’albergo.
Le tendine velano la strada a sei corsie sotto di me e gli otto binari dei treni
più oltre.
Ogni tanto mi alzo e guardo attraverso questo schermo di tessuto il traffico
frenetico ora
silenzioso come una mostra di giocattoli in una vetrina.
Il televisore lo lascio grigio i miei passi scalzi non li sento sul tappeto
spesso il condizionatore sospira dolcemente come una brezza che non ha mai
imparato a parlare e se mi faccio portare qualcosa da mangiare non ho
bisogno di pensare a mance perché in Giappone non si danno mai e se ci
provi te le restituiscono.
Il giornale l’ho lasciato chiuso ho ben altro per la testa solo non è così
facile da descrivere.
Dopo lunghi viaggi in aereo che comportano grandi cambi di fuso orario
soprattutto se ti sposti a oriente spesso subentra una stanchezza mortale.
Il viaggio in aereo è troppo veloce l’anima ti resta indietro da qualche parte
e solo dopo un paio di giorni si riunisce al corpo.
Ma io ho già superato questo stadio sono a Tokyo da oltre una settimana e
insieme alla mia anima ho vissuto giornate magnifiche.
Abbiamo visto il.
Parlamento la Borsa i grandi magazzini le strade i milioni i mercati la
gente.
Che cosa mi succede allora adesso?
Dopo aver letto un certo numero di romanzi giapponesi mi ero fatto l’idea
che nonostante i molti esotismi e le notevoli differenze nella storia e di
conseguenza anche nei valori e nei punti di vista quelle che per comodità
chiamiamo cose essenziali sarebbero state le stesse e dunque rassicuranti ma
al termine di una settimana trascorsa a riempirmi di quotidianità giapponese
non posso più crederlo.
Se qui ho potuto muovermi così agevolmente... dopo avere imparato un
paio di trucchi fondamentali...
è solo perché una civiltà intensamente estranea ai nostri occhi si è girata
verso di noi in un certo qual modo esteriore e superficiale.
Quello che mi ha portato a ritirarmi nel silenzio della mia stanza non è un
semplice sbalzo di umore.
È la sensazione profonda inquietante di avere camminato sull’acqua per
una settimana e peggio ancora di dover continuare a farlo un’acqua scura e
setosa lucida come il laghetto che ho visto in un parco un’acqua abbastanza
forte da reggermi e abbastanza opaca per impedirmi di vedere che cosa ci sia
veramente sotto.
La prima settimana ho pensato di essere invisibile nel senso che i
giapponesi non permettono al corpo estraneo che io sono per strada in
metropolitana o in un ristorante di penetrare la forma più intima del loro
sguardo.
Come ho già sottolineato la parola giapponese «straniero» gaijin significa
letteralmente outside person implicando un concetto di esclusione.
Ma c’è un altro termine tanin che può esprimere in un modo molto più
specifico la mia condizione di straniero.
Tanin è qualcuno che non ha alcuna connessione reale con te.
Lo straniero di.
Camus è tanin L’outsider di Colin Wilson è tanin.
Non avere nessuna relazione con qualcuno implica non essere visti o
almeno non veramente.
Da ciò l’invisibilità che in questa prima settimana mi è piaciuta così
straordinariamente una sorta di stato di grazia che ha permesso a me una
maggiore libertà di sguardo.
Ma questa estraneità essenziale naturalmente non è mai a senso unico
l’invisibilità è reciproca e chi non vede qualcosa è cieco: al tempo stesso
invisibile e cieco pur vedendo cammina sull’acqua viaggia e guarda sentendo
ogni giorno di più che non vede quello che vede che per questa società più
che per qualsiasi altra dovrebbe cambiare la sua vita prima di riuscire a capire
qualcosa.
Se vi sembra un po’ troppo stravagante proverò a spiegarmi meglio.
Ogni viaggio contiene quell’elemento di audacia curiosità sconvenienza.
Ti intrometti in società di cui non capisci né potrai mai capire del tutto le
sfumature sottili il gergo le usanze le particolarità e in questo senso sei un
intruso ma per gran parte delle culture le
differenze non sono così grandi da rendere assurdo l’intero esercizio.
Se al ginnasio senza sforzi eccessivi hai familiarizzato con il greco il latino
e la storia che è loro correlata se prima distrattamente e poi con più
convinzione hai imparato anche un po’ d’italiano viaggiando in Sicilia non
hai ragione di sentirti realmente escluso perché anche se non sei in grado di
seguire le conversazioni in un caffè popolare di Taormina stai comunque
viaggiando nella «tua» cultura un’arroganza o un’appropriazione a cui puoi
ricorrere fino in Persia perché trovandoti nella piana di Persepoli ti senti
ancora sostenuto da Senofonte e dagli spiriti dei padri da tempo defunti che ti
hanno raccontato di Ciro Dario e Serse.
Ma il Giappone?
La sensazione di totale alterità l’ho già avvertita prima dai dogon in Mali o
a una cerimonia voodoo in un losco quartiere periferico di.
Salvador de Bahia ma a Bahia non ci sono metropolitane e i dogon non
sono la terza potenza economica del mondo.
Che me ne faccio invece di concetti a me completamente estranei come
kanashimi1
(«il follemente meraviglioso e il terribilmente funesto che convivono
fianco a fianco quasi fossero riuniti in un’unica emozione ininterrotta») o
mono no aware2
(«il pathos delle cose» il «riconoscimento della speciale bellezza
dell’effimero») come posso calcolare il peso effettivo di concetti che
esprimono atteggiamenti nella vita famigliare giapponese o nella società in
generale concetti e comportamenti impregnati di una civiltà nata e cresciuta
fuori da ogni influsso occidentale come ninjo («un sentimento che sorge
spontaneo») o giri3
(«dipendenza reciproca basata su un accordo sociale») o amae4
(«l’amore passivo per cui l’individuo si sente accudito in un gruppo che sia
la sua famiglia il vicinato l’azienda dove lavora o l’intera società
giapponese.»)
Non che tali nozioni siano del tutto assenti nella nostra società ma noi non
abbiamo parole per definirle e questo può soltanto significare che esistono
grandi differenze tra la nostra cultura e quella giapponese.
E non sarà il poetico lettore di haiku o l’attento osservatore delle stampe di
Hokusai ad accorgersene per primo ma un uomo d’affari olandese che dirige
una grande azienda olandese a Tokyo e scopre con stupore che il signor X
che sarebbe dovuto andare in vacanza per tre settimane dopo due giorni è già
di nuovo seduto alla sua scrivania («altrimenti potrei pensare che la sua
fedeltà all’azienda non sia tanto grande com’è in realtà») o deve confrontarsi
con il signor Y che rifiuta nel modo più assoluto un aumento perché
nell’ultimo anno è stato malato per due mesi.
Il secondo caso dà luogo al seguente dialogo: «Ma non è colpa sua se è
stato malato.
Questo rifiuto avrà conseguenze su tutta la sua carriera e alla fine anche
sulla sua pensione.» «È difficile dire se sia colpa mia ma non è sicuro che
non lo sia.
In ogni caso ho mancato nei confronti dell’azienda.» L’aumento non viene
accettato.
Per comodità consideriamo il Giappone come parte del mondo capitalista
ma concetti occidentali quali socialismo o capitalismo non hanno molto
valore nella società giapponese anche se non siamo in grado di capire
esattamente perché.
Gli scioperi vengono concordati molto tempo prima le trattative salariali a
volte per importi estremamente esigui possono durare molto a lungo
attraverso riunioni interminabili.
La partecipazione al processo decisionale è un altro concetto i cui confini
rimangono poco chiari ai nostri occhi.
Un fotografo olandese Hans Samson che con sua moglie e un interprete
gira il paese per produrre un programma audiovisivo per conto di una grande
azienda giapponese produttrice di videocamere mi racconta che nonostante
il consenso della direzione non ha avuto l’autorizzazione a filmare in un
determinato reparto dell’azienda.
Il personale di quel reparto si era riunito e aveva deciso per il no.
Quando più tardi chiedo a qualcuno dell’ambasciata come sia possibile mi
sento rispondere che uno dei problemi nei rapporti con le grandi aziende è
che non si può mai sapere di preciso dove sia il «potere.» Fatto da noi tanto
impensabile quanto immaginare che il direttore dei grandi magazzini
Bijenkorf tenga ogni mattina un discorso al suo personale o che i dipendenti
della DAF cantino ogni mattina l’inno della DAF.
Lo scrittore e giornalista americano Lafcadio Hearn lo disse già all’inizio
di questo secolo: «Sul.
Giappone sono già stati scritti mille libri ma a parte le pubblicazioni
artistiche e le opere a carattere prettamente specialistico non se ne contano
più di venti realmente importanti.
Questo deriva dall’inimmaginabile difficoltà di concepire e capire ciò che
si trova sotto la superficie della vita giapponese.
E per i prossimi cinquant’anni non potrà essere pubblicato alcun libro che
racconti e spieghi del tutto quella vita e la società giapponese dall’interno e
dall’esterno dal punto di vista storico sociologico psicologico ed etico.
L’argomento è così vasto e complesso che nemmeno una generazione di
studiosi riuscirebbe a esaurirlo così ostico che il numero di studiosi disposti a
dedicarvi il loro tempo sarà sempre esiguo.
[…]
Ogni vera comprensione delle questioni sociali richiede molto di più che
una conoscenza superficiale delle nozioni religiose.
Nemmeno la storia industriale di un paese può essere capita senza una
certa dimestichezza con le tradizioni religiose e gli usi che hanno determinato
la vita industriale negli stadi iniziali del suo sviluppo [….]
Oppure prendiamo il mondo dell’arte.
L’arte in Giappone è così strettamente associata alla religione che qualsiasi
tentativo di studiarla senza un’estesa conoscenza delle convinzioni che
rispecchia sarebbe pura perdita di tempo.
Per arte non intendo soltanto la pittura e la scultura ma ogni forma di
decorazione e rappresentazione dalle immagini sull’aquilone di un bambino
al soggetto raffigurato su una scatola di lacca o su un vaso smaltato ai disegni
sul grembiule di un operaio così come quei colossali Nio che sorvegliano le
porte dei tempi buddhisti…» Poi passa alla letteratura giapponese che è
impossibile da leggere realmente così come lo sono le tragedie di Euripide se
non si ha confidenza con il pensiero degli antichi greci.
Il suo punto è chiaro: una società che ti è estranea fino alle radici deve
essere studiata fino alle radici se non vuoi che ti resti per sempre invisibile.
Peccato che l’Occidente nel periodo di cinquant’anni fissato da Hearn non
ha preso coscienza di tutto questo grazie a un libro ma attraverso una guerra
mondiale che dietro sofisticate operazioni militari estremamente moderne per
l’epoca ha fatto emergere una differenza di mentalità così insormontabile da
poter essere infine «risolta» solo con una bomba atomica.
Perché come dovevano affrontare gli americani quei nemici per i quali la
sconfitta era un danno molto meno grave della resa e il codice d’onore del
samurai (bushido) e il suicidio di massa delle truppe giapponesi sull’isola di.
Saipan nel luglio 1944 e le poesie che i piloti kamikaze di diciannove e
vent’anni scrivevano prima di intraprendere le loro missioni di morte che nel
bilancio complessivo del conflitto non ebbero quasi alcun effetto utile?
(Se solo potessimo cadere come fiori di ciliegio in primavera così puri e
luminosi…)
E come interpretare il suicidio di un grande scrittore come Mishima che fu
molto più di un’espressione isterica di fanatismo reazionario?
I giovani giapponesi che incontro dicono
che fatti del genere non possono più succedere che la mentalità che li ha
prodotti è scomparsa ma naturalmente non è mai così semplice: tutte quelle
cose devono essere ancora presenti in mille forme e pensieri dietro le facciate
tirate a lucido dietro l’immagine occidentale della potenza industriale del
futuro.
Fuori dietro le tende il cielo è diventato grigio le luci si sono accese.
Sono rimasto tutto il giorno nella mia stanza a leggere ora ho voglia di
uscire.
In ascensore la lingua fiorita di una voce di ragazza dall’altoparlante.
Forse mi dice buongiorno.
Fuori pioviggina un poco.
Mi avvicino a un taxi la portiera si apre automaticamente il guidatore non
si gira le mani coi guanti bianchi riposano tranquille sul volante.
«Ginza» dico e lui risponde «Hai!» e poi ci immettiamo nel fiume dell’ora
di punta serale.
Folle intere si dispiegano sui finestrini del taxi io mi abbandono sul sedile
posteriore rivestito di plastica e osservo.
Da qualche parte nel quartiere di Ginza vedo una donna sotto un albero
intenta a leggere la mano a un uomo con l’aiuto di una piccolissima torcia
tascabile a forma di freccia.
Scendo lì prendo un caffè all’Almond bar dove tutto è di un colore viola
Quaresima.
A breve distanza c’è un hotel che ha una grande sauna.
Poco dopo siedo tra cinque altri uomini nudi.
Abbiamo ognuno uno specchietto davanti per poterci rasare mentre
aspettiamo il nostro turno di essere lavati.
Di questo si incarica una ragazza robusta vestita di giallo.
Ha una mano resa energica dal tanto frizionare e strofinare la vedo bene
perché siamo seduti in un cerchio.
Nello stesso ambiente che dà accesso alle saune si trovano anche grandi
vasche con forti getti d’acqua gelida e bollente.
Più pulito di quanto non sia mai stato mi alzo ed entro nella sauna.
È intrigante scoprire quanto a lungo si lavino i giapponesi.
Anch’io seguo l’intero rituale incluso il massaggio.
Da lontano ho visto come altre ragazze tenendosi con le mani a una sbarra
fissata al soffitto si muovevano in punta di piedi lungo la spina dorsale
dell’uomo disteso sotto... più tardi quando tocca a me ho la sensazione che
quelle dita dei piedi e delle mani sappiano trovare ogni crampo e nodo
nascosto del mio corpo sciogliere le tensioni scacciare i dispiaceri e mentre
quelle voci dolci continuano a parlottare con i loro piccoli suoni
incomprensibili sopra di me il mio corpo piano piano si addormenta
sonnecchia e sogna di sposare una ragazza imparare il giapponese ritirarsi in
campagna e scrivere poesie su canne di giunco libellule e fiori di ciliegio ma
poi vengo di nuovo preso da una piccola mano severa e condotto in una
stanza di rilassamento dove altri signori in accappatoio bianco sono stesi a
guardare una sfida di sumo in televisione.
Su una pedana rialzata in mezzo alla sala si affrontano due lottatori.
Sono giovani e molto grassi portano fasce viola intorno alla vita e un’altra
più stretta tra le gambe che lascia liberi i glutei massicci e di un lucido beige.
L’arbitro in una lunga tunica di broccato verde mare con ricami dorati si
tiene al margine del cerchio dentro cui combattono.
Ciò che accade mi rimane oscuro solo dopo un paio di incontri riesco a
individuare uno schema.
I due colossi battono i piedi spargono al suolo qualcosa di bianco che poi
scopro essere sale assumono pose classiche di combattimento battono le mani
si studiano con quello sguardo feroce e minaccioso che riconosco dalle
stampe antiche.
Fanno anche continue finte e poi devono tornare dietro la riga oltre la quale
alla fine uno deve tirare l’altro.
Lo scontro vero e proprio è straordinariamente breve un minuto al massimo
la lotta dei giganti.
In un solo istante le anche enormi di quei corpi mastodontici sprigionano
una forza primordiale i trecento chili che pesano insieme si stringono e la
bestia da combattimento a quattro zampe finisce da una parte o dall’altra
della riga per poi dividersi di nuovo in chi ha vinto e chi che ha perso.
Gli uomini nella stanza dove mi trovo seguono la scena con brevi strilli
brontolii mormorii.
Io non posso fare altro che stupirmi e poi mi riaddormento.
Quando vengo svegliato dalle risatine delle ragazze il televisore è spento e
gli uomini spariti.
Un paio d’anni fa ho visto un pullman di giapponesi a Firenze.
Sono scesi scomparsi dentro il duomo e di lì a poco sono usciti.
Mi sono chiesto che cosa potessero aver visto.
Dopo una visita ai complessi di templi e mausolei di Nikko ho la risposta:
tanto e niente.
Ciò che resta è un’orgia di impressioni che per quanto mi riguarda è
annegata nel tutt’uno che io chiamo «Giappone»... e mi chiedo se mi sarebbe
rimasto di più se non fossi stato cacciato dentro e fuori dai templi a quel
modo da una guida severa.
Amici mi avevano raccomandato di compiere questa prima impresa
temeraria fuori da Tokyo con un tour organizzato.
Il risultato è che di quel giorno non ricordo molto di più del terrore di
perdere il «mio gruppo.» Dei pullman ci portarono alla stazione sul treno ci
avevano riservato i posti dovevamo occupare per forza quelli benché ce ne
fossero tanti altri liberi voci ci parlavano e spiegavano ciò che vedevamo ci
ritrovammo in grembo un pacchetto con cibo vero scolpito e dipinto e le
bacchette per mangiarlo l’agglomerato interminabile di.
Tokyo sfilava via veloce intere province di periferia un brulichio infinito di
persone e quella vista durò così a lungo che quando poi subentrò la campagna
con i contadini che la lavoravano fu una scena irreale.
Non soltanto: anche commovente.
Fino a quel punto avevo visto solo città mentre ora sfrecciavo in un
silenzio quasi intatto girandomi di qua e di là nel mio sedile viola attraverso
un paesaggio antico per il momento basso e verde con boschetti e ruscelli.
Il suolo è così piatto che sembra essere stato strigliato.
Su alte aste di bambù accanto a gran parte delle case grosse carpe di carta
fluttuano nell’aria controvento come se nuotassero controcorrente.
«Koinobori» dice la guida e spiega che sono state appese per il «giorno dei
bambini» il quinto giorno del quinto mese.
Una sola carpa significa che in casa c’è un unico figlio.
Se si hanno più figli si issano più carpe e quella per il figlio maggiore è
allora appesa più in alto ed è la più grande.
Perché carpe?
Perché la carpa è un pesce che nuota controcorrente così come i figli in
futuro dovranno nuotare contro la corrente della vita.
Si direbbe che ci siano molti figli in Giappone e che sappiano cosa li
aspetta.
All’ultima fermata veniamo caricati su un pullman e attraversiamo il
villaggio diretti verso i luoghi sacri.
Ho ancora in mente i freschi viali scuri con le loro criptomerie
infinitamente alte ma quello che ricordo dei templi non lo so più forse anche
perché ormai li visito spesso nei libri comprati allora.
Ero costretto a procedere di corsa come un cervo in fuga dai cacciatori:
«Please be punctual!
When I say so and so hour when I say 12.
00 hour it is not 12.
05 hour!» Ciò che ricordo bene sono invece i giapponesi.
Scuole gruppi eserciti famiglie che attraversano pieni di rispetto il loro
proprio passato e si fotografano l’un l’altro senza sosta.
Ogni gruppo segue come uno stormo di uccelli la sua guida gli stranieri
sono di gran lunga in minoranza e hanno un’aria piuttosto sbalordita.
Nella storia giapponese il periodo dello shogunato Tokugawa cominciato
nel 1603 fu di capitale importanza.
«Ieyasu Tokugawa was a miritary ruror brought peace for 200

year» dice la guida con il suo accento giapponese e armato di questa


fenomenale conoscenza percorro la curva voluttuosa del sacro ponte rosso
fermandomi finché non vengo trascinato via davanti alle scuderie del Cavallo
Sacro ai cinque piani rarefatti della pagoda sottile come una ragnatela che
sembra librarsi nella luce della pioggia.
In seguito a casa inquadrerò il luogo gli edifici e i loro costruttori nella
prospettiva della storia giapponese ma quel pomeriggio ci sono soltanto i tetti
inclinati dei templi le lanterne votive coperte di muschi un’ornamentazione
vertiginosa mille luccichii d’oro e di lacche dei e semidei guardiani e animali
di cui ignoro il nome e il significato.
Mi tolgo e rimetto le scarpe attraversando scalzo le sale sacre laccate di
rosso un sacerdote agita ventagli bianchi sopra le nostre teste io porto le mie
offerte alla vita e proseguo prendendo appunti di cui poi non capirò più nulla.
In un’altra vita un’esistenza successiva e più quieta quando rinascerò in
Giappone e il 5 maggio mio padre farà nuotare nell’aria la mia carpa tornerò
qui.
Ora però devo risalire sul pullman e percorrere curve serpeggianti per
vedere una cascata (ah! una cascata) e un lago (ah! un lago) prima di scendere
davanti a un antico e distinto hotel dove ci fermeremo per un po’.
Faccio un giro guardando le vecchie foto appese nei corridoi che risalgono
indietro nel tempo fino al 1899: famiglie giapponesi in kimono cacciatori
giapponesi in abiti occidentali anno 1922 e poi la prima pagina del libro degli
ospiti 1892: Captain and Mrs.
Glubb da Hong Kong.
Miss G. Woodbury USA.
Lunga vita a Miss Woodbury!
In televisione ragazzine in divisa fanno la ginnastica del mattino al suono
di una musica europea.
Vado a sedermi nella hall su una delle poltrone pesanti accanto alle finestre
scorrevoli di bambù e contemplo le colline dipinte a mano in lontananza
piene di pioggia e di nord penso al capitano Glubb e a Miss Woodbury mi
chiedo che cosa ci facessero qui e che cosa ci faccio io.
La prima settimana di maggio in Giappone si chiama Golden Week.
Un susseguirsi di festività fa sì che una metà del Giappone viaggi verso
l’altra e viceversa e in mezzo ci sono io.
Couperus se ne lamenta già nel 1922.
Riceve dal Haagsche Post tremila fiorini al mese (quanto sarà oggi?) e pur
disponendo di una guida e di una vettura non riesce ad arrivare dove
vorrebbe.
Le strade sono brutte i treni pieni la sua guida «che si dimostra ancora una
volta maleducata e nervosa» è incompetente così se ne torna in albergo e si
arrabbia perché le peonie non sono ancora fiorite.
Cinquantacinque anni dopo i treni sono ancora pieni e perfino l’aereo (ogni
mezz’ora un DC-8 a fusoliera larga!) da Tokyo A. Osaka è stracarico.
Decolla senza cerimonie lasciandosi dietro i tormenti dell’aeroporto
gremito.
Io ho la sensazione di essere saltato all’ultimo secondo sul predellino di un
tram.
Sarà un volo agitato tra nubi gonfie.
A Couperus non sarebbe piaciuto e neanch’io mi sento a mio agio ma due
ore dopo ho dimenticato tutto cammino lungo le rive di un fiume a Osaka tra
una folla a passeggio in una sorta di parco dei divertimenti mangio alle
bancarelle siedo tra adolescenti con le chitarre e posso dirmi piuttosto
contento.
È un giorno di festa questo è chiaro nella hall del Royal Hotel famiglie in
abiti da cerimonia si salutano da lontano con un inchino i signori in finanziera
pantaloni gessati e
plastron le signore in vestiti tradizionali si esegue tutta una serie di
pantomime mentre americani e tedeschi si godono lo spettacolo come se
fossero a un matrimonio in costume.
Sotto la hall c’è un immenso spazio riservato a negozi di Cardin Gucci
Dunhill pellicce da 100000 fiorini una passeggiata attraverso un’opulenza
inabbordabile da affrontare con passi cauti.
Ci sono ristoranti di ogni sorta in questo mondo totalmente incapsulato
nella sua ricchezza ostentata all’estremo e in un impulso di spavalderia volo
con l’ascensore fino al ventiseiesimo piano dove sopraffatto da un misto di
megalomania e malinconia mi siedo davanti a una grande vetrata sulla quale è
incollata l’intera città.
La carta è francese ordino una mezza bottiglia di Heidsieck brut un jambon
de Bayonne una fricassée de poulet con Gewrztraminer (di cui avevo proprio
voglia) ascolto i piccoli e compiaciuti schiocchi di labbra dell’alta società
locale ai tavoli intorno osservo la città estranea che si stende ai miei piedi e la
lenta rotta discendente degli aerei sopra e accanto a me assaporo un sorbet de
cassis e bevo un café express e una minuscola chartreuse verde veleno.
Poi entrano a passettini veloci due damine d’avorio con acconciature
corvine alla Greta Garbo.
Sono tutte vestite in bianco panna e si sventagliano in silenzio sul piccolo
podio dove le attendono il piano e il violoncello.
Oh cielo!
E sono pure così lontano da casa e solo!
Insieme a Heidsieck Gewrz e Chartreuse ascolto Plaisir d’amour Liebelei
Parlez-moi d’amour Mondschein e tutto ciò che a un giapponese all’Hilton di
Rotterdam lontano da moglie e figli fa venire le lacrime agli occhi.
Le piccole dita d’avorio sui tasti d’avorio le mani minute sul grande
archetto i sorrisini che le due ragazze si scambiano e che restano sempre un
istante sospesi nell’aria prima di precipitare negli occhi dell’altra è quasi
troppo anzi davvero troppo: in una delle migliaia di stanze dell’albergo
piango fino ad addormentarmi in compagnia dell’orario dei treni e della
televisione.
La mattina dopo mi perdo tre volte alla stazione di Osaka.
Ci sono molti treni per Kyoto ma non ho capito esattamente quale tipo di
treno devo prendere.
Gridando ansiosamente «Kyoto» vengo risucchiato da un’onda dentro un
«treno proiettile.» Dagli altoparlanti escono voci rassicuranti che invece mi
agitano perché non riesco a capirle mentre là fuori c’erano ancora cartelli per
Kyoto a un tratto non riesco a leggere più niente lì sul binario ma intanto il
treno è già partito; sardina tra le sardine vengo sparato nel paesaggio a
trecento chilometri orari (così dicono)... mi ero fatto un’idea tutta diversa di
questo pellegrinaggio.
Ed ecco che accade proprio l’ultima cosa che avrei voluto: due testimoni
di.
Geova americani diciottenni e brufolosi mi consolano dicendo che ci si
abitua e che ho preso il treno giusto e che dopo un paio di mesi diventa tutto
normale; ma io non ho un paio di mesi io sono uno svedese per la prima volta
ad Atene e voglio arrivarci a passi lenti con riverenza ho sorvolato mezzo
mondo per questo momento voglio varcare con la timidezza e l’esitazione di
un novizio la soglia del vero Giappone («Nippon» scriveva ancora
Couperus); ricordo con amarezza lo splendido inizio del romanzo di
Kawabata.
Bellezza e tristezza in cui il protagonista Oki Toshio è in viaggio per Kyoto
totalmente solo l’ultimo giorno dell’anno: «vide che di fronte a lui
tramontava il sole.
Vide poi la striscia fredda e bianca dell’ultimo sole scaturire dall’orlo
arcuato delle nuvole nere» 5 ma io non vedo paesaggi né nuvole sento solo la
corsa e la spinta di anime umane sulla mia ondeggio insieme alla massa
passiva chiudo i pori chiudo gli occhi e le orecchie e cerco
nei territori sbarrati della mia mente immagini della città di templi in cui
tra breve entrerò anche se nemmeno questo corrisponde alla realtà perché la
stessa folla che mi circonda sul treno rimane intorno a me si riversa con me
sulla vasta piazza della stazione per fondersi con altre folle che ondeggiano
tra autobus taxi e tram lungo marciapiedi senza templi davanti a negozi senza
passato souvenir senz’anima e cartoline che promettono vedute che non vedo.
Del resto anche la guida turistica ripete implacabile in un tedesco storpiato:
«Kyoto kann man genau so wenig in ein paar Tagen «kennenlerwen» wie
Rom oder Florenz » 6... ma con la testa vuota come il vascolo di un botanico
inizio semplicemente dal tempio più vicino alla stazione Higashi-Hoganji.
Vago nel vasto parco del tempio mi sento un nano tra le alte forme di legno
e percepisco la mia alterità tra riverenti altri leggo la storia dell’edificio sacro
che poi dimenticherò ascolto i passi strascicati di piedi scalzi sulle giallastre
stuoie di paglia vedo le vecchie corde di capelli femminili intrecciati il
soffitto in legno scolpito le alte e lucide colonne monolitiche il rosso l’oro e il
nero sento il profumo d’incenso guardo la gente inginocchiata davanti a un
sacerdote con maniche svolazzanti subisco la consacrazione dello spazio a
luogo isolato dal mondo e chiuso alle cose del mondo e resto al tempo stesso
dentro e fuori.
Mi ricordo questo tempio adesso?
No dopo ne ho visitati molti altri ma si sono tutti mescolati in un bosco di
templi immagini non più distinguibili di tetti spioventi orge d’intagli dorati
figure mitologiche e teste di divinità di cui ho letto il significato nella mia
guida e allora per un momento l’ho avuto in mente ma poi mi è sfuggito
come conoscenza specifica rimanendo solo un’idea un pensiero di Giappone
così come è rimasta intorno a quei templi un’idea di silenzio di antichità
indefinita di qualcosa che si ritira man mano che ti avvicini.
C’è un che di folle e disperato nella mia sete di conoscere... epoche sovrani
allusioni anni di costruzione sette nozioni che torneranno ad allontanarsi da te
perché tu stesso ti separerai dal luogo in cui quella conoscenza risulta
visibile.
Già dopo quel primo tempio nemmeno tanto importante con il mio nuovo
tesoro di immagini caotiche mi rifugio in un giardino.
La «natura» almeno riesco a capirla.
Gli alberi sono consapevoli di essere alberi giapponesi pronti a posare per i
pittori graziosi e perfettamente truccati le azalee sono dipinti la palma è
poesia l’acqua sussurra sulle pietre coperte di muschio il lillà e la magnolia vi
si specchiano qui non ci sono segreti qui non costa niente sentirmi esotico un
uomo su un ponte ad arco accanto a un glicine quando l’obiettivo è sfocato
sono qualcun altro.
Così continuo ad andare a Kyoto da pendolare.
Ogni giorno prendo il pulmino dell’albergo fino in stazione compro The
Mainichi Daily News e faccio colazione da qualche parte in quelle grandi
sale.
Oggi c’è un concerto jazz alla Sankei Hall un recital di.
Keiko Abe Marimba alla medium-size hall del Kosei Nenking Kaikan
l’orchestra filarmonica di Strasburgo suona la Quarta di Brahms e io sono
seduto nella sala d’attesa della stazione di Osaka a un tavolino di formica
bruna mangio fagioli bruni e prugne salate e sono sommerso da valzer
viennesi a tutto volume.
Tra un treno e l’altro uomini con pinze lunghe come un braccio raccolgono
spazzatura e mozziconi dalla ghiaia tra i binari.
Una ragazzina in beige viene a sedersi vicino a me.
Ha un sacchetto con dentro due poster e il disco di una pop star.
Il suo viso è così regolare che sembra essere stato diviso in settori prima
che vi si applicassero il naso la bocca e gli occhi.
Porta calzini
bianchi scarpe da tennis beige un orologio azzurro e un twin-set beige.
Quando avrà la mia età i treni saranno il doppio penso e per un istante
spero che lei dica «vedremo» ma una voce che non è la mia l’ha chiamata e
poco dopo scompare sotto terra con l’immobilità delle persone sulle scale
mobili.
Che cosa mi è rimasto più impresso di Kyoto oltre alla stessa Kyoto?
Un’immagine da nulla e un’immagine di tutto.
Camminando per le stradine incantevoli e silenziose lontano dalle affollate
vie principali un giorno mi imbatto in un tempietto che non riesco a trovare
nella mia guida.
L’atmosfera per un istante è quella di un villaggio francese la domenica
pomeriggio.
Un bambino si diverte con i petardi un padre gioca a ping pong per strada
con il figlio e poi a un tratto da una di quelle casette basse sbuca una sposa.
È talmente incipriata che il suo volto è una maschera i capelli neri si
dipartono da quel viso imbiancato in una scultura alla Brancusi di bande
gonfie e ricurve il kimono da cerimonia è rigido di broccato d’oro e i piccoli
zoccoli immacolati avanzano a passetti scalpiccianti sull’asfalto.
Alcune parenti l’aiutano a camminare uomini in finanziera fotografano ma
poi cominciano i problemi: l’acconciatura è troppo alta la sposa non riesce a
stare seduta dritta nella Mercedes e viene infilata dentro storta dopo che
l’inclinazione è stata calcolata per non nuocere alla chioma.
Guarda verso di me una volta sola due perle di giaietto nere luccicanti in
quel bianco levigato e il suo volto mi ricorda un ritratto di.
Kunisada della prima metà del secolo scorso A Woman of Edo.
Il viso è una superficie uniforme in cui la bocca è una minuscola apertura
rosso fuoco il naso lungo e idealizzato in un unico tratto a penna e quegli
stessi occhi come gemme sotto la medesima acconciatura manieristica.
In un paio di secondi tutto è passato e soltanto allora vedo il tempietto.
Davanti ci sono alcune ciotole di pesce un’offerta un piccolo Buddha di
legno è seduto su una sedia infinitamente sproporzionata da una corda pende
un grande gong e anche sulla destra del tempio c’è un Buddha gli occhi di
legno diretti verso un punto in terra che nessuno può vedere il sorriso di chi
non è toccato da nulla le labbra sporte come se da un momento all’altro
potesse uscirne una bolla di sapone dorata.
Una vecchina accende un bastoncino d’incenso in un vaso in cui ne ardono
lentamente altri.
Si sofferma un istante poi si allontana con passetti strascicati un momento
da nulla in una piazzetta da nulla ma mai dimenticato.
Che cos’è invece un’immagine di tutto?
Ora che nella mia spavalderia l’ho menzionata devo anche descriverla.
Sono seduto nel famoso giardino (naturalmente non sono più lì per davvero
ma chi c’è stato una volta sarà lì per sempre) il giardino di pietra del tempio
di Ryoan-ji.
È di forma rettangolare trenta metri per dieci.
Il «letto» è di grezza sabbia bianca e vi sono collocate quindici pietre: un
gruppo di sette uno di cinque e uno di tre.
Un po’ di muschio.
Tutto qui.
Tutto?
«Questa struttura è così semplice» recita la mia impacciata guida tedesca
«che soltanto i conoscitori della filosofia zen possono capirne il senso.»
Quando Harry Mulisch venne qui alcuni anni fa passava proprio per caso un
caso molto conveniente un monaco zen che discusse con lui del «significato»
di tutto ciò; io invece devo fare a meno dell’illuminazione e rimango nelle
mie tenebre occidentali in mezzo a molti altri osservatori seduto sul
pavimento di legno sotto il tetto del cosmo a guardare.
Chi un giorno si è chiuso dolcemente alle spalle la porta di una religione in
genere non è così incline a sostituire i suoi vecchi valori scartati con una
nuova serie di miti e misteri tuttavia da quei pochi metri di terra nuda si
sprigiona un incanto e una sfida misteriosa a cui è difficile resistere.
Credo che uno possa restare a contemplare questo luogo per un minuto
un’ora o un giorno certi per tutta la vita.
Più mi attardo più diventa indescrivibile la sensazione che provo a
guardarlo... come se fossi risucchiato come se mi librassi sopra il giardino
come se fisicamente io stesso entrassi a farne parte.
Mi rendo conto che non me ne voglio andare che mi giro torno indietro mi
risiedo.
E adesso a distanza di così tanto tempo di ritorno da altri paesi e più lontani
o da qualche altro luogo nel tempo mi ritrovo nella mia stanza con una
cartolina ordinaria infedele un po’ sbiadita una foto scattata da
un’angolazione sbagliata e al di là della contraffazione e della lontananza
sento ancora come quel giardino mi attiri dolcemente.
Nuovi giorni nuovi giardini.
Fiammate di azalee alberi addomesticati in cui ogni ramo è composto ogni
foglia contata dal contatore imperiale delle foglie.
I pesci rossi e le carpe guizzano nell’acqua nera dove si specchiano ampi
schermi di alberi sconosciuti.
Viola rosso arancio i primi fuochi dell’estate.
Passeggio verso Shisen-do la casa dei poeti dove trentasei ritratti sbiaditi di
poeti tentano inutilmente di conservare i nomi di questi colleghi lontani
assenti mentre fuori poeti veri le anatre le ninfee e le rane sulle loro grandi
foglie tonde lavorano alla propria opera nella luce del tardo pomeriggio.
Qualcuno secoli fa ha «visto» quale sarebbe stato l’effetto di tutte queste
sfumature di verde delle rotondità e delle curvature nel paesaggio di un
giardino del rigoglio selvaggio accanto al contenimento della potatura delle
linee verticali accanto a quelle orizzontali della vaporosità accanto al taglio
netto.
Così apparirebbero le nubi se fossero cespugli così sono dunque questi
cespugli: come nuvole verdi compatte e poi di nuovo evanescenti sottili e poi
di nuovo voluminose fluttuanti e tra loro la passione delle azalee mitigata dai
freschi e leggeri veli viola dei glicini.
Nara centro politico e culturale del Giappone tra il VI e l’VIII secolo.
Vale a dire come sempre arrivo troppo tardi ma prima non potevo.
Allora non vendevano ancora cervi di plastica azzurri su rotelle allora le
statue giganti dei re guardiani davanti al tempio non erano ancora coperte di
teli contro i piccioni.
Ma i pensieri frivoli fanno presto a volatilizzarsi in questa stanza del tesoro
con il volto del Buddha mille volte ripetuto.
Basta rimanere un’ora davanti al grande Buddha nel tempio di Todai-ji e la
voglia di ridere ti passa del tutto.
Tra l’altro neanche lui ride almeno secondo me.
Mi sbriciola trasforma chiunque in un nano con la sua statura di oltre sedici
metri la sua faccia larga tre metri la sua mano formidabile che esorcizza o
respinge.
Lui stesso vola in tondo intorno alla sua testa molte volte in piccolo in oro.
Sull’altare proprio davanti alle gambe incrociate di questo divino agiosauro
ci sono un enorme fiore di loto bronzeo e una ciotola con una piramide di
arance.
Si accendono candele si brucia incenso il suono profondo bronzeo di un
gong mi fa vibrare il diaframma ma rimango lì come inchiodato al suolo a
guardare la bizzarra «piattezza» di quel volto le vaste superfici delle guance
su cui cade la luce.
Più a lungo guardo più vedo meno capisco meno vedo.
Cos’è il significato di cosa?
Chi sono quelle farfalle di bronzo grandi come piante sul fiore di loto chi
sono quei guardiani in pose laocoontiche che sembrano vivere con gli angoli
della bocca in giù nei loro abiti ondeggianti e svolazzanti?
Naturalmente indago e naturalmente dimentico perché non
c’è abbastanza spazio in me per trattenere tutta quella conoscenza che tra
poco a un certo punto del mio viaggio nel cielo verso l’Alaska mi sfuggirà
per tornare a Nara da queste statue da questo Buddha che ha il piede più
grande di tutto il mio corpo.
Da qualche parte un tempo sotto tutti i suoi ingrandimenti nel cuore più
profondo della sua bronzatura questa figura era qualcuno non un’immagine
sempre più imponente e più estranea ma una persona che girava per il mondo
facendo e dicendo cose e la cui essenza è ora trasformata in una massa
scolpita e inavvicinabile in una statua riprodotta in tutta l’Asia in milioni di
forme e dimensioni.
Misteri… «Ero triste e quasi spaventato quella notte» scrive Couperus in
un brano sul Grande Buddha di Kamakura.
«Anche ora nella penombra del cielo rischiarato di una notte estiva… ero
sconvolto da quell’Impassibilità trascendente da quel volto divino divenuto il
volto del silenzioso.
Sogno eterno che mai più si risveglia in questo mondo.
E mi apparirono crudeli le leggi del Karma sul mondo e sulle povere
creature che non hanno mai chiesto una vita dopo la vita.» Piove nel bosco di
Nara.
Mi sono allontanato dal complesso di un tempio senza una meta solo le
gocce ticchettano sul mio ombrello ed è molto piacevole.
Per la prima volta da quando sono in Giappone entro in un vero bosco.
Sotto gli alti cedri immobili qualche cervo si ripara dalla pioggia.
A un tratto dopo una curva del sentiero compare una piccola pagoda.
Il recinto è dipinto di rosso chiaro.
Ci sono alcuni leoncini scolpiti un paio di lanterne di pietra la pioggia
scorre sul tetto lievemente inclinato e gocciola con note acute in un pozzo di
pietra.
Nient’altro.
Non ho bisogno di tirare fuori la mia guida non ho bisogno di nulla e vado
a sedermi sotto una tettoia ascolto la pioggia e mi sento appagato.
Un signore anziano con un ombrello di plastica trasparente raggiunge la
pagoda si toglie il cappello si inchina profondamente e poi prosegue.
Mi viene in mente il mio patrigno cattolico morto da molti anni che si
toglieva il cappello davanti a ogni chiesa perché lì dopo tutto abita Dio.
Se è vero penso che gli spiriti hanno libertà di movimento ora forse è
seduto su quel tetto con un paio di spiriti giapponesi a guardarmi incurante
del fruscio e gorgoglio delle gocce di pioggia su tutti gli oggetti reali.
O forse quei rumori liquidi sono echi di voci umane scomparse chi può
dirlo.
Quello stesso pomeriggio vagando per un quartiere periferico mi ritrovo in
mezzo a una festa.
Già da lontano sento tamburi e campane.
Quando mi avvicino le vedo anche campane su lunghi bastoni di quattro o
cinque metri portati da omoni forzuti.
Su una portantina dorata piena di campanelli siede un «selvaggio» quasi
nudo tranne per un perizoma rosso.
Figure dall’aspetto sacerdotale con strani copricapo laccati legati sotto il
mento con un cordino accompagnano il corteo.
Ragazzi vestiti di bianco in pantaloni corti lanciano regolarmente in aria la
portantina certi uomini indossano cappelli di paglia piatti altri kimono neri io
non ho idea di cosa stia succedendo ma l’atmosfera è allegra quasi
baldanzosa risa canti suoni tamburi.
Agli alberi sono appese tante striscioline bianche alcuni scolaretti vengono
a sedersi vicino a me uomini con costumi di un ruvido tessuto grigio mi
offrono il sake di gran lunga più forte che io abbia mai bevuto ma tutti i miei
tentativi di capire di cosa si tratti sono destinati a fallire perché nessuno parla
inglese.
«Due è uno e uno è due» è un modo di dire molto amato in Oriente per
spiegare
questo parallelismo a noi così estraneo questa coesistenza stranamente
intrecciata in.
Giappone di due grandi religioni come lo shintoismo e il buddhismo
mentre per noi è già abbastanza difficile riconoscere che ciò che preghi
potrebbe essere meno importante dello stato nel quale preghi.
Uno dei ragazzi sotto le pressioni insistenti degli altri ammette infine di
parlare un po’ di inglese ma quando gli chiedo cosa stia succedendo risponde:
«I am not religious» così non faccio grandi progressi.
Dopo ulteriori richieste scopro che c’entra il dio «Mikos» ma in nessun
libro di mitologia giapponese riesco a trovare un essere supremo con questo
nome greco.
L’intero gruppo si posiziona come un tableau vivant contro il parapetto di
un tempietto.
Il fotografo cieco di Hermans7 si infila dietro il suo gigantesco apparecchio
di legno e si nasconde sotto il drappo di velluto.
In prima fila c’è un gruppo di bambine con coroncine d’oro in testa alte e
lucenti ornate di piccole superfici oscillanti e ugualmente dorate; ed eccoli
tutti lì di colpo sopraffatti dall’importanza del momento.
La consapevolezza di essere immortalati per sempre in un’immagine
irrigidisce i loro volti allegri trasformandoli in ritratti in cui ciascuno chiama
a raccolta tutto se stesso per essere conservato in eterno così come lui pensa
di essere o peggio... la terribile falsificazione della fotografia... per diventare
come lo troverà su una vecchia foto comprata in una bancarella lungo la
Senna il nipote di qualche lettore di questo scritto nel 2053.
«In nessun caso» minaccia la grossa guida tedesca «si può saltare la visita
al tempio di.
Horyu-ji situato circa 95 km a sud della città» il più antico del Giappone.
Prendo un taxi e pronuncio il nome «Horyu-ji» in tutti i modi immaginabili
considerando anche eventuali forme dialettali con tono grave acuto trascinato
autoritario implorante con l’accento dell’Aia del Limburgo del quartiere
Jordaan di Amsterdam ma sul volto indiano segnato dal tempo dell’anziano
tassista non compare il minimo segno incoraggiante.
Comunque mette in moto la sua Toyota e sfrecciamo fuori dalla città.
Ben presto siamo su una stretta stradina campestre risaie su entrambi i lati
contadini curvi ghirlande di alberi verdi aleggiano sopra l’orizzonte non vedo
un tempio ma tutto è molto piacevole.
Ogni tanto ripeto a bassa voce Horyu-ji (ji vuol dire tempio) ma non arriva
alcuna reazione.
Cerco all’orientale di concentrarmi sulla parte più intima di me stesso ma lì
nessuno risponde e l’immagine del tempio si allontana alla velocità con cui
avanziamo.
Solo dopo un’ora riusciamo ad arrivare e mi preparo mentalmente alla
somma proibitiva che mi sarà richiesta ma lui in preda al panico quanto me
mi restituisce dieci volte l’importo che gli offro e quando insisto per dargli di
più rifiuta considerandola una mancia esorbitante.
Ci salutiamo da amici e solo quando se ne va mi accorgo che è tutto
chiuso.
Sono solo in lontananza si avvicina strisciando il crepuscolo gli ingressi
sono sbarrati vedo le statue dei re guardiani armeggiare con le ghirlande
capricciose come tralci di glicine che serpeggiano intorno al loro corpo
guardo il giardino tranquillo e penso: questo è il tempio più antico del
Giappone ma non provo alcuna emozione o meglio non per la sua antichità è
piuttosto la «sacralità» del luogo che sento dentro come un brivido.
Osservo le pietre coperte di muschio la sala ottagonale dei sogni
(Yumedono) le scale di pietra le recinzioni di legno VORREI provare
qualcosa perché è tutto stato costruito nel 739 ma la mia mancanza di
conoscenze rende questa antichità invisibile per me potrebbe essere
anche il 1239 o il 1739 ciò che resta è solo la perfezione la bellezza
visibile di forma e costruzione.
Il principe Shotoku non può diventare ai miei occhi un Lorenzo de Medici
mi devo accontentare di rimanere al di fuori di questo mondo.
Dietro la meraviglia ottagonale vedo a un tratto uno strano omino anziano
con un vaso di begonie.
Gli grido qualcosa e lui mi sorride con una smorfia sdentata da teatro
romano e allora torno sui miei passi e mi siedo vicino a un drago che sputa
acqua mi disseto e mi incammino nella direzione che penso conduca al paese
dove dev’esserci la stazione.
Ma non è la mia giornata non ho con me il mio dizionario e mi ritrovo in
una piazza davanti a tre uomini che studiano con il massimo interesse la mia
imitazione di un treno.
Eccomi qua quarantatré anni a fare ciufciuf e dlengdleng senza peraltro
ottenere risultati station stesciun niente di niente scoraggiato riprendo la
strada principale nella direzione che poi scoprirò essere sbagliata
diametralmente opposta.
Presto o tardi arriva per tutti quelli che vanno in Giappone: quel senso di
totale disperazione quel trovarsi circondato da esseri umani di buona volontà
che però non riescono a capirti hai dimenticato il dizionario non hai una
matita a portata di mano nello sconforto prendi la strada sbagliata l’autobus
sbagliato poi nella stazione sbagliata il treno giusto in modo che salito a
Bussum sul pullman per Amersfoort finisci per arrivare comunque qualche
ora più tardi del previsto ad Amsterdam o come me a Osaka.
Il mio soggiorno dorato al Royal Hotel di Osaka è finito Kyoto e Nara si
allontanano lentamente nel pleistocene dove ripongo il Vero e il Bello per
tempi futuri più freddi ora sono nel porto di Kobe e vedo gli scafi neri delle
navi internazionali la Fountain Azalea la.
Sanshin Victory la Ivan Vazov la Sam Jung e la Mayo Maru.
Kobe si staglia contro le colline verdi le navi nere beccheggiano sull’acqua
grigia quella che prenderò aspetta che scenda la sera ed è sera quando
salpiamo verso sud e notte quando solo sul ponte vedo le dolci forme delle
isole nel Mare Interno di Seto illuminate da una mezza luna d’argento mentre
l’acqua bianca che spumeggia selvaggia dietro la nostra prua scrive nel mare
qualcosa che presto sarà cancellato dall’inchiostro nero.
Maggio giugno luglio 1977.

1 Dalla postfazione del Dr. C. Ouwehand alla traduzione nederlandese di


Yasunari Kawabata De schone slaapsters (La casa delle belle addormentate)
Van Gennep Amsterdam 1967.
2 Idem vedi anche: Ivan Morris La nobiltà della sconfitta 1975
(trad. it. di F. Wagner Guanda 1983.)
3 Ruth Benedict Il crisantemo e la spada 1946 trad. it. di M. Lavaggi F.
Mazzone M. Renda pref. di Ian Buruma.
Laterza 2009.
4 Takeo Doi The Anatomy of Dependence Kodansha International Ltd.
Tokyo New York 1976.
5 Yasunari Kawabata Bellezza e tristezza 1965 trad. it. di A. Suga Einaudi
Torino 1985 P. 5.
(N. d. T.)
6
«Proprio come per Roma o Firenze non si può imparare a conoscere Kyoto
in un paio di giorni.» (N. d. T.)
7 Riferimento al protagonista del racconto «De blinde fotograaf» di
Willem Frederik Hermans uno dei maggiori scrittori olandesi del Novecento.
(N. d. T.)
Capitolo 2
Zuihitsu

«Il broccato cinese.


Una lunga spada ornamentale.
I solchi del legno di cui son fatte le statue di Buddha.
Un lungo e scuro grappolo di glicine sorretto da un ramo di pino.
I guardarobieri di sesto grado: essi possono indossare le vesti con disegni a
rilievo che non sono permesse neppure ai giovani di alto lignaggio e anche
per privilegio di carica la splendida veste azzurra…» 8
Ero arrivato qui per di più a lume di candela con il fruscio della risacca
come un applauso in lontananza.
Da Singapore avevo preso il pullman ero entrato in Malesia fino a una
località sulla costa da dove con una barchetta di pescatori potevo partire per
Pulau.
Tioman.
La traversata verso l’isola sul liscio Mar Cinese Meridionale durava tre
ore.
La barchetta attraccò a un lungo pontile proiettato nel mare ma io non
volevo sbarcare lì qualcuno mi aveva detto di una piccola località più a nord
che era molto tranquilla.
Era vero.
Una spiaggia circondata su tutti i lati dalla foresta pluviale.
Un investitore musulmano ci aveva messo un paio di capanne e me ne
aveva affittata una.
La luce giallognola di una lampadina appesa a un filo che a volte
funzionava e a volte no un materasso per terra una veranda sgangherata
rivolta verso il mare un gruppo di bambini di Kuala Lumpur che dopo un
giorno scomparvero.
Il bagno in comune condiviso con una tedesca che alloggiava all’altra
estremità della spiaggia e passava tutto il giorno sull’amaca a leggere.
Non un villaggio soltanto qualche capanna fino al punto in cui cominciava
la foresta frusciante crepitante stridula.
Niente alcol notti di grande silenzio giornate calde.
Nuotate sopra la barriera corallina con la maschera.
Palme da cocco come un colonnato dietro la spiaggia.
Di notte il rumore del generatore ma il neon bianco che vedevo lontano sul
pontile non arrivava fino alla mia capanna.
Per questo leggevo fuori al lume di una candela che avevo infilato in una
conchiglia una tridacna pescata personalmente in fondo al mare e quello che
leggevo era il diario di Sei Shonagon dama di corte giapponese del X secolo.
Così cercavo di far defluire dalla mia mente la Birmania e prepararmi al
Giappone.
Fu una sosta di appena qualche giorno durante la quale venni punto da un
insetto di cui mi sarei portato addosso una bomba a orologeria per sei mesi
ma questo allora non lo sapevo.
Non facevo niente mi inoltravo nella foresta finché non diventava troppo
fitta stavo seduto sotto le palme a guardare la marea.
Soprattutto di notte avevo la sensazione che il resto del mondo non
esistesse.
Non c’è posto al mondo con più stelle la candela illuminava soltanto gli
immediati dintorni permettendomi di sprofondare con l’immaginazione in
un’altra epoca e un altro luogo.
Non ero dove mi trovavo osservavo da ospite invisibile la vita di corte
giapponese di oltre mille anni prima un viaggio nel tempo.
Poi venne il giorno in cui dovetti ripartire con la barchetta che mi venne a
prendere.
Una barchetta un pullman scassato un aereo.
Ora (diciamo che sia ora) sorvolo l’Asia diretto a Tokyo.
Piano piano la distesa bruna della terra cinese scivola via sotto di me.
Ritrovo il punto dov’ero arrivato: «Gli assistenti dei guardarobieri brillano
di un’inattesa fama: consegnano i documenti con gli ordini dell’Imperatore e
ai grandi banchetti portano i vassoi di castagne dolci e sono per questo accolti
con compiacimento dallo stesso Primo Ministro al punto che tutti si chiedono
da quale cielo
siano scesi così angelici giovani…» Guardo fuori e penso che quello che
sto facendo è ridicolo.
Perché mai la lettura delle note di Sei Shonagon dovrebbe prepararmi al.
Giappone di mille anni dopo?
Chiudo gli occhi e so cosa mi aspetta: la volgare ressa di.
Tokyo le meccaniche voci femminili eternamente ripetute all’aeroporto e
sul pullman.
Perché cercare quello che non c’è più?
Non ne avevamo già parlato?
Eppure con la stessa convinzione si può dire che un paese non cambia ogni
momento che c’è stata una continuità di tempo e di storia dalla corte
imperiale di Heian a oggi che nella storia del Giappone esiste una serie di
costanti e che il vecchio aiuta a comprendere il nuovo.
E poi in questo viaggio voglio fermarmi a Tokyo il meno possibile e
dedicarmi piuttosto a visitare il mondo antico delle campagne rivedere cose
di cui conservo un ricordo vago.
In un libro bellissimo di Mark Holborn The Ocean in the Sand...
Japan: From.
Landscape to Garden c’è scritto: «Dalla lettura del diario di Sei Shonagon
emergono la precisione con cui la vita di corte di Heian seguiva le stagioni e
la grande importanza che veniva attribuita al calendario; le festività moderne
indicano chiaramente fino a che punto quella tradizione esista ancora.
Ma c’è un’altra chiave per spiegare l’origine di questa sensazione di unità
con il mondo della natura che nasce da una conoscenza arcaica e intuitiva e
mostra molto chiaramente il corso e l’equilibrio delle stagioni.
Questa chiave è il giardino.» I giardini voglio vedere quelli.
Giardini e paesaggi voglio camminare.
E leggere il diario che in giapponese si intitola Makura no soshi «libro da
guanciale» «una sorta di diario intimo e informale che uomini e donne
aggiornavano la sera quando si ritiravano nelle loro stanze e conservavano
nelle vicinanze dei loro giacigli probabilmente nei cassetti dei guanciali di
legno in modo da averlo subito a portata di mano per annotare le loro
impressioni.» Note del guanciale è stato il precursore di un genere
tipicamente giapponese noto con il nome di zuihitsu scritti di circostanza.
Un genere tuttora molto praticato.
Appena sarò a Tokyo comprerò un quaderno per scrivere il mio zuihitsu.
Pioggia e vento cielo grigio il nord dopo i tropici.
Non è cambiato nulla.
Di nuovo voci femminili che non puoi credere appartengano a un corpo
vero.
Ti raccontano il quando e il dove gorgogliano saluti di benvenuto e di
addio.
Forse non appartengono a nessuno.
Le senti su ogni autobus e treno in ogni ascensore e sulle banchine di tutte
le stazioni a bordo di aerei e pullman.
Chissà magari hanno già fabbricato una donna che sa parlare e sta
trasmettendo i suoi messaggi per tutto il Giappone.
Una donna in alluminio plasmabile con labbra di microchip e un sistema
circolatorio di celluloide.
La sua voce evoca una cascata e profuma di menta non può imprecare né
invecchiare.
Lascio che mi avvolga mentre la pioggia scorre sui finestrini.
Il traffico è intenso sulle sei corsie ci vuole più di un’ora e mezzo per
arrivare al centro di Tokyo.
Passiamo davanti al Palazzo.
Imperiale riconosco gli alti argini oltre il fossato e quel portale così enorme
che ho varcato una volta il giorno del compleanno dell’imperatore.
Gli edifici dietro quelle porte rimangono indistinti schermati dalla pioggia.
Da qualche parte su quell’arca galleggiante abita il discendente di
un’antichissima dinastia divina venerata per oltre duemila anni.
Sei.
Shonagon sarebbe lieta di sapere che dopo mille anni esiste ancora un
imperatore anche se non è più un dio.
Ventisette milioni di abitanti vivono entro un raggio di trenta miglia dal
Palazzo spiega la gorgogliante voce di ragazza.
Quando scendo un rappresentante di
questi ventisette milioni mi viene incontro a braccia aperte e poi precipita
a terra come un toro ferito.
La febbre del sabato sera.
Strana vita quella di un corrispondente.
Da parte mia io non sono che uno straniero di passaggio che vaga ed erra
per il paese.
Karel van Wolferen («Wofurun» in Giappone) vive qui già da quasi
vent’anni.
È il corrispondente del quotidiano NRC Handelsblad e mi ha invitato a
stare da lui.
In passato ha letto il mio libro Philip e gli altri che lo ha convinto a
viaggiare proprio come il protagonista solo più lontano.
Che fine abbia fatto il protagonista del libro non lo sappiamo ma Karel non
è mai più tornato.
Vive in una casa con un giardino che in questo paese dove tutto si misura a
mezzi metri è un vero lusso e ha una compagna giapponese e un cane distinto
di nome Philo.
A dire il vero Philo è una signora e Karel insiste che bisogna parlare di lei
al femminile.
È una chow chow abbastanza massiccia e provvista di una splendida
pelliccia è un piacere andare a passeggio con lei.
Dormo per terra infilato nel futon non so bene come descriverlo.
Angela Carter parla di «un servizio mobile di biancheria da letto» e io mi
attengo a questa definizione.
Fa freddo e perciò di notte tengo il mio Sei Shonagon con mezza mano
fuori quando riesco a leggerlo almeno perché Karel continua a darmi tutta
una serie di ritagli di giornali giapponesi scritti in inglese spesso sottolineati
in rosso furibondo dove lui non è d’accordo.
Questo paese è la sua passione anche se non lo ammette tanto facilmente.
Pensa che il Giappone non capisce il mondo e il mondo non capisce il
Giappone e in effetti sembra che abbia ragione.
Ogni mattina lo trovo a volte anche molto presto davanti al grande tavolo
ricoperto di Japan Times e Mainichi Daily.
News tutto intento a mormorare e sottolineare.
Comunque è una vita strana.
Il paese per il quale lavori diventa astratto il tuo unico filo di collegamento
è in realtà costituito dal giornale e da un paio di turisti che passano per.
Tokyo.
Ciò che scrivi viene inviato e sparisce e dev’essere difficile riferire del
mondo che ti circonda così estremamente e incessantemente presente in un
modo che ti dia l’impressione che in patria possano capirti.
Nel caso del Giappone occorre molta esegesi.
Ciò che viene dichiarato ufficialmente è spesso diverso da ciò che si
intende e la società è costruita in un modo così differente dalla nostra che
perfino termini espliciti come «primo ministro» hanno un altro significato.
Digerisco tutto questo la mattina a colazione e ogni giorno mi addentro un
po’ di più nel mistero.
Spesso è come se frequentassi un corso di diritto canonico o teoria
quantistica ma faccio del mio meglio.
Di sera a volte.
Karel mi porta con sé a mangiare giapponese o mongolo nel suo quartiere
allora non ho bisogno di pensare a nulla mi limito ad ascoltare mentre nel suo
sonoro giapponese discute il menu con il proprietario e mi lascio scivolare
dalla posizione seduta a quella semisdraiata come un autentico barbaro.
«La rugiada a primavera.» Così comincia il libro da guanciale di Sei
Shonagon e al contempo uno dei suoi famosi «elenchi.» È una frase ellittica
che deve essere letta in questo modo: «In primavera la cosa più bella è la
rugiada.» In realtà lei scrive «l’aurora» ma trovo la parte per il tutto
«rugiada» più bella perché in nederlandese dauw fa un po’ rima con tao.
Poi continua: L’aurora a primavera: si rischiara il cielo sulle cime delle
montagne sempre più luminoso e nuvole rosa si accavallano
snelle e leggere.
D’estate la notte: naturalmente col chiaro di luna; ma anche quando le
tenebre sono profonde.
È piacevole allora vedere le lucciole in gran numero rischiarare volando
l’oscurità oppure distinguere solo le luci di alcune di loro.
Anche quando piove la notte ha un suo fascino.
Il tramonto in autunno: malinconico quando i raggi del sole calano obliqui
dalla vetta dietro cui tramonta e i corvi a gruppi di due di tre di quattro si
affrettano disordinatamente al nido; piacevole è anche ammirare gli stormi
ordinati dei gabbiani rimpicciolirsi sempre più all’orizzonte.
L’armonia del vento e il ronzare degli insetti quando il sole è calato
infondono una dolce tristezza.
D’inverno il primo mattino: bellissimo inutile dirlo quando cade la neve.
Bello anche il candore della brina…9
Niente di tutto ciò è invecchiato.
Ho tutto il tempo di rifletterci disteso sul mio tatami.
È freddo questo lo sento.
Dietro gli scuri in carta di riso vedo l’ombra degli alberi in giardino.
Chi dorme così in basso vicino a terra di mattina deve costruire il mondo
dalla base questo è il vantaggio.
Per i giapponesi la natura è animata in senso letterale.
Negli alberi nei ruscelli e nelle colline vivono dei spiriti anime.
Questo popolo ha un rapporto mistico con la natura in nessun altro luogo è
così evidente come nei giardini zen.
Rispetto ai giardini di Versailles o su scala più piccola al Belvedere di
Vienna la differenza è lampante.
Noi abbiamo trattato la natura come un nemico da reprimere che dimostra
la sua sottomissione come un reggimento pronto a essere passato in rassegna
in una simmetria totale e così ordinata che balza subito all’occhio da un
terrazzo: alberi potati cespugli sagomati a schiera.
Qui invece la simmetria è una bestemmia non fosse altro che per il fatto
che in natura non esiste.
Qualcosa che di per sé è una forza possiede un’anima non può essere
mutilata e costretta in forme geometriche; tutt’al più la si può intensificare
imitandola su una scala molto ridotta.
Allora le pietre diventano colline e montagne la ghiaia rastrellata diventa
un lago o un mare un semplice ciuffo di trifoglio può diventare come
nell’antico palazzo imperiale di Heian (Kyoto) il simbolo che meglio
rappresenta il ritmo eterno del cambiamento in natura.
Quel giardino c’è ancora una parte del complesso architettonico si chiama
Seiryoden (la Camera Fresca e Serena.)
Sotto vi scorre un piccolo corso d’acqua lo spazio è orientato verso est e
ovest in modo da non surriscaldarsi in estate.
Davanti alla veranda occidentale c’è un piccolo cortile coperto di sabbia
bianca e trifoglio.
Da qui il giardino prende il nome di hagi tsubo la più semplice di tutte le
composizioni.
La superficie è perfettamente piatta niente pietre niente muschio niente
acqua.
La pianta stessa il trifoglio è la più comune che si possa immaginare.
Un understatement.
Fiorisce in autunno quindi viene tagliato e in primavera mette nuove
gemme; dato che nel giardino non c’è nient’altro questi cambiamenti così
elementari ricevono ogni attenzione.
Il semplice trifoglio del palazzo imperiale esprime da solo l’alternanza
delle stagioni.
Mentre noi «riempiamo» il giardino un giapponese lo svuota in modo da
rendere visibile l’essenza delle cose.
Il vuoto come arte.
Niente di tutto ciò si rivela quando cammino per strada.
Voglio andare ai grandi magazzini Matsuzakaya a comprare carta e penne
per i miei scritti d’occasione i miei zuihitsu.
Non c’è uno spazio vuoto la folla è dappertutto: per strada in metropolitana
nei negozi ovunque sono circondato da persone e quindi dalla loro lingua.
Mi accade spesso di trovarmi in un paese di cui non capisco la lingua.
Ma qui è diverso anche se non è facile spiegare perché.
Penso che sia per via di tutto quello che ho letto in traduzione da Sei
Shonagon a Basho fino a Kawabata Tanizaki e Mishima.
Non c’è alcun motivo razionale per spiegarlo ma ciò che ho letto mi dà la
sensazione di sapere di cosa
parla la gente intorno a me.
Sfogliando una grammatica elementare giapponese mi sono chiesto se
potrei mai essere ancora in grado di superare le barriere che vi sono descritte.
Non tanto per via della scrittura... che è già di per sé un Vallo Atlantico
anche se molto bello... ma per la struttura della lingua.
I verbi giapponesi non hanno forme diverse per indicare il numero la
persona o il genere del soggetto della frase.
Io cammino voi camminate lei cammina lui cammina: è tutto uguale.
Il senso si deduce di volta in volta dal contesto.
Poi non c’è un vero futuro: per elaborare progetti a venire si usa il presente.
Tokyo e yukimashita Tokyo a andato io sono andato a Tokyo e Tokyo e
yukimasu.
Tokyo a andare io vado a Tokyo oppure io andrò a Tokyo.
In compenso c’è un gran numero di possibilità per esprimere gli stati
d’animo e le convinzioni del parlante.
Questo è molto complesso spiega la stessa grammatica ma una forma deve
essere imparata per forza quella della probabilità usata per dire che qualcosa
forse accadrà o potrebbe benissimo accadere.
Esempio: kaeru desho può essere tradotto come «lui forse tornerà» «lui può
tornare» «penso che torni» e così via.
E poi esistono forme verbali totalmente diverse per distinguere le
negazioni dalle frasi affermative e in entrambi i casi ci sono due modi: brusco
o educato.
Se sono brusco dico: hon o katta libro comprato ho comprato un libro.
Se voglio essere educato dirò: hon o kaimashita libro comprato ho
comprato un libro.
Nella nostra lingua possiamo soltanto essere educati.
Se volessi invece negare tutto e affermare il contrario direi bruscamente
hon o kawanakatta libro non comprato non ho comprato un libro o nel modo
educato che mi è proprio: hon o kaimasen deshita libro non comprato è non
ho comprato un libro.
Una volta di più ammiro i traduttori dei miei amati romanzi soprattutto
quelli che hanno tradotto dal giapponese classico e di corte come Arthur.
Waley Edward Seidensticker e Ivan Morris.
La mia vita è troppo corta al momento sto tentando di ripassare Lucrezio
ma in un’altra vita avrei potuto leggere Sei Shonagon in lingua originale.
Esisterà un giapponese in grado di leggere Hadewijch?
O il paragone non regge?
Perfino per me questa poetessa fiamminga del XIII secolo con i suoi versi
mistici è spesso oscura.
Shonagon è chiara come Madame de Sévigné.
A tutto questo ho pensato durante il mio viaggio in metropolitana avvolto
in un cappotto di corpi umani da cui la lingua zampilla gorgoglia scorre
graffia e fluisce.
Per di più qui la lingua è un’altra cosa.
Mentre nei Paesi Bassi i maestri di scuola sono già preparati alla prossima
deformazione ortografica in Giappone la lingua è sacra inviolabile
espressione dell’anima nazionale a tal punto che è inimmaginabile che uno
straniero possa arrivare realmente a parlarla.
Il fatto di per sé corromperebbe quell’idea di purezza che non è lontana dal
concetto spiacevole di purezza della razza.
Com’è già stato detto molte volte (vedi Ian Buruma) per un giapponese
uno straniero che parla correntemente giapponese è un henna gaijin un
estraneo pazzo.
Fa qualcosa di paradossale: solo parlando la lingua la sminuisce la rende
meno unica meno loro un punto di vista singolare che può tuttavia portare il
proprio paradosso all’estremo come in Daisetz Teitaro Suzuki secondo il
quale i giapponesi dovrebbero fondare una nuova religione con cui
potrebbero estendere la loro influenza sul resto del mondo.
«Ciò che dobbiamo fare è elevare la Nihongo [la lingua giapponese] a una
nuova religione... e poi diffonderla tra i popoli del mondo.» E come se tutto
ciò non fosse già abbastanza bizzarro esiste un’altra teoria di Tadanobu
Tsunoda
un medico che ha fatto tutta una serie di esperimenti neuropsichiatrici e
neurofisiologici giungendo alla conclusione che «il cervello nel senso
dell’organo fisico del giapponese col passare del tempo è molto cambiato per
quanto riguarda le funzioni che hanno a che fare con la ricezione di attività
uditive si è adattato specificamente alla lingua giapponese.» I giapponesi
hanno il cervello diverso dagli altri il succo è questo.
Mi piacerebbe poterlo verificare ma nessuno dei miei compagni di viaggio
in metro è disposto a sacrificare il suo cervello per questa indagine.
Scendo alla stazione di Yushima.
Quando salgo in superficie in Kasugadori Avenue vedo il pallido sole
invernale sui fiori bianchi e rosa di ciliegio.
Errore abbaglio: i fiori non sono veri sono legati su nudi alberelli nevrotici
una perversione.
Mille anni fa era già così leggo nella Storia di Genji ma allora erano di
carta e non di malefica plastica.
I sakura i fiori di ciliegio fioriranno tra qualche settimana ma i negozianti
non hanno saputo aspettare.
La fioritura di quelli veri attraversa l’intero Giappone da sud a nord come
un’onda lenta ovunque la stessa eccitazione in cui l’identificazione tanto
essenziale con la natura raggiunge ogni anno il suo apice e dopo un paio di
giorni effimeri si dilegua così come la neve di petali ai piedi degli alberi
raggrinzisce.
Evviva la caducità!
Chi la trasforma in plastica sta perdendo la sua anima.
Ai grandi magazzini tutti mi accolgono con un inchino.
Questo è già stato descritto fin troppe volte non lo faccio più e comunque
non riesco ad abituarmi: come un voyeur prendo ogni volta un ascensore
diverso per vedere cosa succederà come la ragazzina robotizzata di turno si
inchinerà a ogni piano sussurrando le formule di rito con la sua voce
infantile.
So che qui è la normalità ma io lo trovo anomalo.
Eccola la farfalla svilita in uniforme che sotto nasconde un’altra persona
una che ama un ragazzo o magari desidera diventare campionessa di nuoto
una che si guadagna da vivere con gli inchini che si è lasciata spogliare di
ogni altra espressione in cambio di quell’unica: la servilità.
Il grande magazzino è come sei volte Harrod’s e cinque Bloomingdale’s la
magnificenza e la raffinatezza nell’esposizione della merce sono sbalorditive.
Qui più che mai ci si rende conto dell’enorme ricchezza di questo paese.
I prezzi dei prodotti europei sono scandalosamente alti vini formaggi
prosciutto di Parma sembrano avere un valore emblematico più che di
consumo sono inavvicinabili.
Deve trattarsi di quelle che chiamano barriere doganali.
Questo non è più un centro commerciale è un cosmo l’universo dei
desideri.
Puoi trovare di tutto: dal kimono per migliaia di fiorini alla ventresca di
tonno da antiche ciotole raku alla frivola lingerie parigina.
Il mondo del consumo governato da ragazze.
Naturalmente trovo ciò che cercavo meravigliosi quadernetti per i miei
zuihitsu posso cominciare subito.
Le dita sottili della commessa li incartano facendone un’opera d’arte ci si
allontana con un senso estetico più sviluppato di quando si è entrati.
Giro ancora un po’ per il quartiere.
Un mercato pieno di pesci freschi o essiccati esposti in modo da formare
motivi appesi in litanie.
Tutto è seduzione un invito a nozze per gli occhi.
In una via più tranquilla negozi specializzati: manufatti scatole di lacca
kimono come quadri in una mostra.
A un tratto mi torna in mente un brano di Bellezza e tristezza di Kawabata
quando la ragazzina Keiko accompagna lo scrittore anziano Oki al suo treno a
Kyoto.
Indossa lo stesso kimono della sera prima: un
raso azzurro coperto di figure con un disegno di pivieri che volano tra
fiocchi di neve.
I pivieri danno colore al tutto ma per un giorno di festa è un modello
troppo serioso indosso a una ragazzina così giovane.
I vestiti come lingua come segni.
Non c’è da stupirsi che Roland Barthes fosse così affascinato da questo
paese.
Dietro l’obiezione di.
Oki c’è il fatto che proprio il giorno di Capodanno quando si visitano i
santuari le ragazze giovani portano kimono molto variopinti magari di tutti i
colori dell’arcobaleno.
Niente a che vedere con i leggeri yukata che ti danno negli alberghi e che si
vedono spesso anche in Occidente in genere bianchi e blu di cotone.
La memoria funziona in modo strano a volte si appiglia a una cosa sola.
La prima volta che andai al kabuki-za... a teatro... a Tokyo davanti a una
porta laterale c’era una piccola carrozza chiusa adatta a portare un’unica
persona.
L’immagine è confusa e ingannevole perché ora non so più se fosse una
portantina o un veicolo su due ruote.
Quello che ricordo è il carattere chiuso di quella vettura monoposto che
doveva avvolgere quasi come un vestito la persona a bordo tanto era piccola.
Doveva essere trasportata da uomini a piedi e rievocava una visione di
tempi antichi di mistero; non riuscivo quasi a immaginare che quel tipo di
veicolo potesse ancora circolare nella Tokyo di oggi.
Per me era già parte della rappresentazione.
In seguito lessi in Sei Shonagon tutta una serie di descrizioni su come si
viaggiava su un mezzo del genere su come a volte se percorrevi un sentiero in
un bosco dei rami si infilavano nell’abitacolo e tu provavi ad afferrarne uno e
anche se non ci riuscivi quasi mai per un istante quel ramo lasciava dietro di
sé il suo profumo; oppure se eri un passante non potevi mai vedere più di
un’ombra dietro quel finestrino e solo raramente coglievi un soffio di
profumo della persona sconosciuta all’interno.
Ora ritorno al mio kabuki-za e la prima cosa che cerco è quella piccola
carrozza ma non c’è più.
Forse appartiene ormai a una specie davvero estinta forse l’ultima dama di
corte l’ha dismessa una volta per tutte.
Sono avanzato nel mondo oggi a teatro non vedrò solo il davanti della
scena ma anche ciò che succede dietro curioso scambio tra rappresentazione e
realtà.
Ho appuntamento con l’attore Nakamura Matazo.
Nella pièce del pomeriggio (Sakurahime Azuma Bunsho) ha solo una
piccola parte passerà il resto del tempo nel suo camerino a studiare con un
gruppo di ragazzine un dramma che loro devono mettere in scena a scuola.
Ho il permesso di assistere ma prima vedrò il prologo e il primo atto in sala
poi lui verrà a prendermi e andremo in un caffè lì vicino.
La pièce è stata scritta da Tsuruya Nanboku e rappresentata per la prima
volta nel 1817 in un periodo in cui il teatro rifletteva la decadenza
caratteristica di una parte della società giapponese.
Forme grottesche parodia (spesso tipiche di un’epoca che non ha molto da
proporre a meno che non si voglia considerare il manierismo come una forma
di espressione in sé) erotismo stravagante sensazione.
Alla base della storia c’è l’amore omosessuale di un sacerdote per un
discepolo il loro accordo per uno shinju o doppio suicidio (come Mishima e il
suo amico) che fallisce perché il sacerdote Seigen all’ultimo momento non
trova il coraggio.
Tutto ciò viene raccontato nel prologo.
Il discepolo Shiragiku-maru è uno dei chigo gli efebi che vivono nei grandi
complessi di templi per assistere i sacerdoti ai quali i voti pronunciati
proibiscono di avere a che fare con le donne.
A causa del suo amore per il
ragazzo Seigen si trova in gravi difficoltà.
Insieme decidono di buttarsi in mare da una roccia.
Il chigo spera di rinascere donna in modo da poter sposare Seigen in
un’altra vita.
Il momento in cui lui salta è terribile per questo si può fare affidamento
sugli attori giapponesi la regia e le luci.
Un urlo straziante la scomparsa del corpo nel mare infinito la luce
spaventosa che rimane sul posto e fa indietreggiare il sacerdote il quale alla
fine traditore assoluto se ne va sorvolato da un airone bianco l’anima del
ragazzo morto.
Poi cala un sipario di un blu pallido l’asagi-maku e un attore viene ad
annunciare che ora mentre guardiamo passano diciassette anni.
Soltanto adesso inizia la vera storia un labirinto di intrighi colpa ed
espiazione punizione e vendetta ci vorrebbe un libro intero per raccontarla.
Io mi abbandono alle voci ai movimenti e ai costumi al suono e ai gesti
così deformati e ritualizzati.
Il contenuto non ha più importanza è un’immersione nell’alterità totale un
teatro che ti trasporta fuori dal mondo.
È assurdo ritrovarsi in un caffè dopo una tale esperienza e ancora più
bizzarro inchinarsi davanti a sei adolescenti in un piccolo camerino arioso.
Sono seduto in un angolo nella posizione del loto e cerco di farmi
invisibile.
Ciò che vedo è autentica maestria.
Viene messa su una cassetta la voce dell’attore recita il testo le tonalità
spaziano dall’alto al basso e viceversa vellutate graffianti gutturali disturbanti
esplosive.
Io non esisto dal mio angolino guardo le ragazze che tentano di imitare i
movimenti del maestro con i loro corpi impacciati di quattordicenni i loro
jeans le loro gambette tozze sotto le gonne scozzesi i loro cestini con i
walkmen appesi contro la parete nel camerino.
Lui tiene la testa come una danzatrice balinese e le allieve sanno che mai
riusciranno ad assumere quella posizione ma già solo provandoci rinunciano
alla loro vera testa che diventa un oggetto inclinato rispetto al corpo che
vuole esprimere qualcosa.
Il maestro fa venire avanti una delle ragazze e lancia un grido.
Lei è imbarazzata ma deve riprodurlo con la sua vocina infantile e cerca di
esprimere la stessa emozione furiosa e ribollente lui le si avvicina con
passettini innaturali quelli dello shijn e lei lo segue come può il piede bianco
e flesso dell’attore rimane sospeso sopra il tatami nella posa prescritta da
secoli immobile congelato mentre noi vediamo tutti come quello della
ragazza tremi oscilli incapace di resistere alla temporanea pietrificazione.
Dopo un’ora hanno finito e io passo da un mondo irreale a un altro
Nakamura Matazo mi fa cenno di seguirlo attraverso corridoi su e giù per
scale finché le voci si fanno sempre più forti e riconosco quella del sacerdote
ora diciassette anni dopo il mancato suicidio mentre cammino in punta di
piedi lungo le quinte lanciando sguardi fugaci a ciò che accade in scena
figure distribuite sull’ampio palcoscenico le loro pose sotto le luci della
ribalta e oltre invisibile il mostro: la sala gremita.
L’estraneità della lingua forse contribuisce ma sono certo di non essermi
mai trovato in mezzo a così tanti strati di rappresentazione.
Ora siamo in una grande sala trucco dove gli attori indossano quelli che a
me appaiono come abiti sacerdotali con vesti bianche sotto come le albe che
un tempo i sacerdoti indossavano in sacrestia prima di celebrare la messa altri
sacerdoti.
Matazo è specializzato in ruoli maschili e come tutti gli attori di kabuki si
trucca da solo.
Kumadori è il nome di questa arte di «apportare luce e ombra.» Un’arte
che appartiene specialmente a eroi e cattivi cavalieri e briganti.
Spesse strisce di rosso e di nero inizia così si tratta di esprimere emozioni
non quel «quasi vero» del teatro naturalistico
europeo.
Le linee seguono i contorni la muscolatura del viso ogni colore applicato
ha il suo significato rosso per la collera del tradito azzurro per gli spiriti
maligni e le creature soprannaturali.
Riesco a malapena a seguirla la trasformazione che avviene davanti ai miei
occhi e questo la rende ancora più inquietante.
È una metamorfosi totale da cui nasce una persona diversa.
Prima ci si copre la testa con lo habutae un drappo di seta rettangolare
impregnato di cera.
La cera va anche sulle sopracciglia e l’olio sul viso.
Quindi si applica l’oshiroi e il viso diventa una maschera bianca di gesso
uno spirito una linea nera sotto ogni occhio una linea curva corre dalla fronte
seguendo le sopracciglia fino all’angolo dell’occhio linee fino alla bocca
indaco e nero no lì c’è un’altra persona.
L’uomo che mi ha portato al caffè l’uomo che ha dato lezione alle ragazze
in kimono quelli erano altri.
Questo questa creatura con i suoi ampi abiti cerimoniali lo vedo uscire dal
camerino scherzando con colleghi che trafficano con le loro parrucche che
cambiano volto che ripiegano per terra accanto a sé le persone che erano
prima e poi lo rivedo comparire negli opachi grigi tenui del televisore appeso
nel camerino.
Ora ogni legame tra noi si è spezzato quella persona non ha più niente a
che fare con me.
Un altro attore mi indica come ritornare in sala.
Il filo dell’azione l’ho perduto da tempo ma anche la mia esistenza nel
mentre è stata scardinata e quando più tardi esco in mezzo alla folla nella sera
che è calata cammino senza meta sugli ampi marciapiedi truccato da passante
da uno che deve ancora abituarsi alla sua vita.
Febbraio 1987.

8 Sei Shonagon Note del guanciale trad. it. di L. Origlia SE 2002 P. 91.
(N. d. T.)
9 Sei Shonagon op. cit. p.
11.
(N. d. T.)
Capitolo 3
Montagna Fredda

Se mai potessi avere un’altra vita dovrebbe essere in un paese con una
scrittura diversa.
Valore aggiunto: la visione estetica di un segno che tramite il suo disegno
oltre al significato viene a significare qualcos’altro afferma evoca sho
calligrafia.
Vorrei fosse possibile ma non lo è non avrò quest’altra vita ho già
raggiunto l’età del «troppo tardi.» Niente di cui lamentarsi anche il «mai più»
ha i suoi fascini amari.
La stanza dove mi vengono queste idee è a Tsumago nella parte
meridionale del distretto di Kiso nella prefettura di Nagano.
Non ci sono sedie nella stanza fa freddo scrivo in ginocchio sul mio High
Grade Notebook.
La copertina è marroncina ricorda la carta da pacchi.
Ci sono tre righe ma non so cosa scriverci.
Quindi niente.
All’interno il quaderno ha altre righe spregevoli ausili per chi deve vivere
senza sho e ora privato di sedia e tavolo ha un’aria piuttosto ridicola.
Ma nessuno mi vede.
Le righe vogliono parole anche se l’autore di quelle parole non ancora
esistenti per scrivere deve chinarsi scomodamente.
Penso alla giornata trascorsa.
A Tokyo ho pianificato un viaggio di locanda in locanda.
Per ogni minshuku ti danno un ciclostile con una piantina una strategia per
aiutarti a raggiungerlo.
I proprietari dei.
Yugao una sorta di guest house non parlano quasi mai inglese ma sanno in
quali ambiti tendiamo a essere maldestri.
Il viaggio non è sempre facile: capire le coincidenze dei treni arrivare fino
a una lontana località di provincia.
La fermata dell’autobus deve trovarsi in un certo posto.
Confronti i segni con le tue istruzioni.
Si somigliano molto ma sono davvero gli stessi?
È questo il bus per Tsumago?
Sì.
In Giappone tutti i mezzi sono in orario sai sempre quanto durerà il tragitto
l’arrivo nello spazio deve coincidere con quello nel tempo.
Puoi abbandonarti al paesaggio.
Strade strette pioggia boschi tristi bagnati ancora molti alberi spogli.
Carri nei campi persone piegate intente in qualche lavoro agricolo.
A ogni fermata la voce automatica nella lunga sequenza di suoni mi
sembra di riconoscere quello della parola «Tsumago» e il mio orologio dice
che è ora di scendere.
Adesso devo prendere a destra la valigia mi segue in linea retta.
Attraversiamo in fondo a quella via e poi dev’essere lì sulla strada per
Magome.
Confronto il segno per Magome con il cartello: è lui.
Un edificio basso una volpe di pietra con una giacchetta buffa.
Deve portare fortuna.
Entro un po’ disorientato in una sorta di spaccio il minshuku è molto più
fuori dal paese di quanto avessi pensato mi chiedo come posso fare se
continua a piovere così.
Compare il proprietario e si inchina poi all’improvviso come se fosse
sbucata dal nulla c’è anche una donna che si inchina a sua volta sorridono e si
inchinano io mi inchino e sorrido.
«Oranda» dicono «Olanda» sì esatto.
Mi accompagnano di sopra.
La donna mi comunica a gesti che devo togliere le scarpe nell’ingresso c’è
lì pronto un paio di pantofole enormi la gente dell’Oranda è così
incredibilmente grande.
Mi indica quindi il gabinetto nel corridoio e punta un dito autoritario verso
un altro paio di pantofole davanti alla porta.
Pulite sporche le calzature da camera non si indossano nel gabinetto.
La differenza è chiara perché gli zoccoli da sporco sono legati tra loro da
una corda in modo che il babbeo che io
sono non li tenga indosso quando torna a uscire in corridoio.
Poi mi lascia solo.
Il silenzio è totale è scomparsa in un batter d’occhio senza fare rumore.
La stanza è piccola la mia valigia appare invadente.
Mi tolgo l’impermeabile zuppo ma anche quello a un tratto è diventato una
presenza oscena non può stare qui è troppo ingombrante qui tutto è preciso al
centimetro.
Riconosco gli oggetti: gli shoji gli scuri scorrevoli in carta di riso che
danno alla stanza una pallida luce bianco grigia.
Il tatami le stuoie in paglia di riso su cui i piedi affondano leggermente
come se sotto ci fosse un tipo di muschio molto elastico.
Il kotatsu in mezzo alla stanza un piccolo tavolino con quattro cuscinetti
piatti intorno.
Sopra c’è una semplice tovaglietta con un vassoio tondo e lucido.
Sento freddo non vedo nessun tipo di riscaldamento ma so che sotto il
kotatsu dev’esserci un piccolo fornelletto elettrico.
Tento di sistemare le mie cose il più possibile nei cassetti per lasciare
intatto l’ordine della stanza ma poi torna la donna con tè e piccoli dolci.
Voglio sapere quanto tempo posso prendermi per una passeggiata e se
dopo potrò fare un bagno e ci cimentiamo in una pantomima intorno al mio
orologio lei solleva dita su cui ne posa di traverso altre io indico il quadrante
e lei reagisce come se non avesse mai visto prima un oggetto del genere e per
tutto il tempo sorridiamo.
Versa il tè e si inchina e quando se ne va rimango in ginocchio a
sorseggiare la bevanda verde bollente ma poi eccola di nuovo con tante scuse
mormorate accende il kotatsu e mi invita a metterci sotto le gambe.
Dopo venti minuti ho la schiena gelata e l’impressione che i miei piedi
stiano per prendere fuoco.
Nella tokonoma l’alcova di fronte a me è appesa una calligrafia e di nuovo
mi assale quel senso di gelosia.
Quella lotta del bianco contro il nero del segno da tracciare contro l’avido
vuoto circostante la vorrei vivere anch’io.
Ma non ho che le tre parole che danno il nome al mio High Grade
Notebook per annotare le mie high grade notes della giornata.
Senza conoscere la lingua la sho mi sembra un esercizio vuoto e vano uno
scimmiottare segni come pura forma senza un significato percepito da un
tutto giapponeserie.
Ci sono momenti in cui ci si sente irrimediabilmente estranei.
Eccomi dunque nella mia stanzetta di meno di dieci tatami.
Dove gli shoji sono un po’ scostati vedo un cielo di cattivo umore con
nuvole gonfie le gocce di pioggia sono l’unico rumore in casa tutti morti.
Le stuoie emanano ancora un leggero sentore di paglia viva e me ne sto lì a
guardarmi intorno.
Dopo la danza di milioni di persone a Tokyo il cambiamento è radicale e
non so ancora bene cosa fare.
Le cinque.
Se ho ben capito posso uscire per un’ora e mezzo.
Nell’ingresso al piano di sotto ritrovo le mie amiche scarpe e poi riecco
quella donna che compare ogni volta come un’ombra mi dà un ombrellino da
bambina color arancio davvero troppo piccolo.
Decido di non andare al villaggio ma a sinistra verso Magome dev’esserci
un sentiero nel bosco da quella parte.
Non faccio in tempo a rendermene conto che mi sono perso ma non
importa per il momento è meglio non avere una meta.
La pioggia ticchetta dolcemente sul mio ombrellino.
Li conosco da qualche vecchia stampa uomini chini sotto un karakasa
antico ombrello di carta oleata un po’ come quelli che usano i monaci
buddhisti in Birmania per ripararsi dal sole.
Come sarebbe diverso il rumore della pioggia su quella carta dura simile a
pergamena.
Martellante sonoro mi farebbe compagnia.
Il sentiero sale con una curva lenta.
Gran parte degli alberi sono ancora spogli sottili e rarefatti sotto i veli di
pioggia.
Come
funziona veramente: un determinato paesaggio evoca un genere di
immagini specifiche o è la percezione che hai del paesaggio a essere
determinata dai quadri che hai visto?
Le colline ora hanno realmente forme diverse sorgono più strane e
improvvise nella lontananza brumosa o è solo perché così le ho viste tante
volte rappresentate nelle stampe giapponesi?
E viceversa questa natura si è fatta veramente ritrarre con l’inchiostro di
china in quei tratti bruschi e improvvisamente finissimi?
Penso a un paio di paraventi di Hasegawa Tohaku che ho visto al Museo
Nazionale di.
Tokyo soltanto ieri.
Erano della fine del XVI inizio XVII secolo ma ora ne vedo tanti altri
tutt’intorno a me qualcuno si è preso la briga di disporre i paraventi di un
crepuscolo nascente e dipingerci sopra gli spiriti degli alberi.
Là erano pini e anche qui ne vedo alcuni scuri i più vicini e poi più in là
dipinti con inchiostro sempre più diluito o tratti più leggeri un unico colore
forse il nero che ha in sé tutti gli altri che può essere verdastro o grigio un
albero piantato in terra e uno nel cielo sempre lo stesso e unico albero e al
contempo un bosco.
I piedi affondano nella terra bagnata l’ombrellino non mi ripara più da un
pezzo sento il freddo penetrarmi nelle ossa.
A un bivio c’è un tronco d’albero su cui sono intagliati segni ripassati in
bianco.
Mi prendono in giro con le loro curve e i loro arzigogoli dicono qualcosa e
io non li capisco ridono a crepapelle di quel pazzo con quello straccio
arancione sulla testa.
Scelgo uno dei due sentieri il più ripido sento un ruscello di montagna ma
non lo vedo.
Poi a un tratto sento il suono di una campanella e mi preparo a udire un
passo a scorgere qualcuno tra le nuvole di pioggia ma la campanella è mossa
dal vento non è al collo di una capra o in mani umane.
È appesa al portico di una casa chiusa non si vede nessuno.
Vado a sedermi in un angolo del portico all’asciutto le ginocchia raccolte
guardo la campanella quando il vento la tocca si muove.
No qui ora che scrivo queste cose non ho bisogno di imitare il suo suono.
Ho cercato una parola per descrivere il momento e quella che si è
presentata alla mia mente è poignancy punctum come se tutto un intero
viaggio volesse condensarsi in quell’unico istante che ti fa restare lì seduto
immobile e ti fa desiderare che continui all’infinito.
Furin si chiama una campanella così a un tratto mi viene in mente l’ultima
volta che ne ho sentita una da un pittore che viveva nel deserto del New
Mexico solo in una casa mobile Bruce Lowney.
Aveva la sua furin come diceva per accentuare il silenzio.
Poignancy mono no aware il pathos delle cose.
Io ho il carattere sfortunato di chi vuol sempre guardare oltre la collina e
non ha ancora capito che dietro non c’è altro che una nuova collina.
Che cosa mi aspetto in realtà (e da così tanto tempo)?
Un incontro particolare un paesaggio fatato il mare?
Ti aspetti qualcosa che non sapresti immaginare sciocco.
Tornatene a casa (casa?) sei bagnato fradicio e comincia a fare buio in tutto
ciò che ti circonda si aprono buchi bui buchi che inghiottiscono le tue
immagini di rami e di cespugli a un tratto non ci sono più il bosco
raggrinzisce si comprime e ti si chiude intorno.
Ma io voglio restare ancora un po’ il sentiero scende con una curva
repentina e mi ritrovo in uno spiazzo aperto.
Un’altra casa altrettanto chiusa.
Non ci vive nessuno da queste parti?
È una casa vecchia il legno è scuro come la notte che sta calando.
C’è un cartello con un testo che ha l’aspetto di una poesia su un lato della
casa un campetto bagnato che è stato coperto di giunchi contro la
pioggia.
Ciocchi di legno bruciati un fascio di canne di bambù tagliate.
La poesia non sono in grado di leggerla così ne scrivo una mia
divertissments giapponesi.
La casa abbandonata tra i monti se fossi io a tagliare le canne sarei l’uomo
che vive qui?
E subito la natura risponde con una poiana che si leva lentamente da un
albero dietro la casa.
La cima dell’albero stende le ali e si alza in volo una poiana sui colli di
Magome.
Salvo che non sono vicino a Magome naturalmente.
Ma allora dove sono?
Ecco arrivare degli spiriti che si divertono alle mie spalle.
Il sentiero si fa più ampio e sbuca su una stradina asfaltata.
C’è un piccolo uomo di pietra seduto in terra con un bavaglio rosso al collo
e un cappello di paglia intrecciata.
Il bavaglio è bagnato il cappello zuppo ma a lui non importa.
Le sue gambe di pietra sono perfettamente orizzontali e incrociate ha gli
occhi chiusi un bastone nella mano destra che spunta dall’ampia piega del
mantello.
So che si chiama Jizo.
Le due parti del suo nome significano terra e utero o culla e tomba e nel
cammino dall’una all’altra lui è la piccola divinità calva che ci proteggerà ha
l’aria di esserne in grado dio spirito protettore o spirito del paesaggio ho
bisogno di lui devo tornare a casa.
Metto alla prova la sua calma incommensurabile ai suoi piedi ci sono due
caramelle inzuppate mentre io sono venuto a mani vuote ma evidentemente
non gli importa perché passa una jeep con un contadino che si ferma mi
guarda e solleva le mani interrogative dal volante.
Io sorrido nascondendo il mio assurdo ombrellino e dico «minshuku
Tsumago» e lui scavalca sei colline e poi ci siamo non sono andato lontano
eppure ero molto lontano.
Quando entro nel minshuku sento odore di cibo.
Nessun altro ospite in vista.
Dev’essere l’ora del bagno.
Nella camera è pronto uno yakuta un kimono leggero di cotone azzurro.
Mi cambio e scendo e vorrei essere preceduto dal suono di un
campanellino.
Non sono molto alto ma soprattutto in una casa così piccola e a cui non sei
ancora abituato percepisci la tua stessa presenza come goffa e impacciata.
Probabilmente il mio arrivo li fa sobbalzare per lo spavento.
Ma l’uomo è già nella stanza avvolta dalla penombra dove a quanto pare
sarà servita la cena.
«O-furo?» chiedo esitante.
«Hai!» Ci sono un’infinità di storie di giapponesi che in Europa si lavano
diffusamente fuori dal bagno prima di mettersi a mollo nella vasca
combinando ai nostri occhi un sacco di pasticci e d’altro canto anche
parecchie storie di europei che in Giappone contaminano l’acqua limpida con
la loro sporcizia e il loro sapone apparendo agli occhi dei giapponesi come
individui ripugnanti e così questo errore non lo faccio più.
Entrambe le parti hanno avuto istruzioni per evitare vergogna e imbarazzi e
io le mie le ho imparate a memoria.
Continui a strofinare spazzolare strigliare e a buttarti addosso acqua finché
sulla tua
nudità non è rimasto più un atomo di sporcizia soltanto allora puoi entrare
nella vasca.
Se ci sono giapponesi nei paraggi ti senti i loro occhi puntati addosso
perché la nostra fama è ben diffusa.
Se il bagno è in comune nel momento in cui entri tu a volte loro escono
anche se ti sei strofinato a dovere mi è capitato.
Ma qui sono solo lo spazio è troppo piccolo evidentemente si fa a turno il
bagno è condiviso ma non simultaneamente.
L’uomo mi mostra dove devo appendere il mio yakuta indica il sapone la
spazzola il rubinetto me lo sgabellino di legno a tre gambe su cui mi devo
sedere il mastello con cui devo versarmi l’acqua sulla testa.
Nell’angolo vagamente minacciosa attende una vasca di legno rettangolare
piena fino all’orlo di acqua lucida che sembra essere uscita da un’apertura
invisibile dato che sento un vago gorgoglio ma senza vedere da dove arrivi.
Il vapore che si leva denso come la nebbia sulle colline dev’essere bollente.
Eseguo gli esercizi prescritti e più e più volte il rituale della pulizia
l’abluzione e alla fine sono l’uomo più pulito della terra.
Naturalmente hanno ragione quanto è assurda la nostra abitudine di stare a
mollo nell’acqua sporca così non riusciamo mai a liberarci del peccato della
contaminazione del tempo passato.
Più pulito di quanto non sia mai stato da quando sono nato dopo essermi
sciacquato via di dosso treni e autobus la passeggiata fangosa il nervosismo
l’inchiostro di giornale la vita con passo esitante raggiungo l’o-furo cauto
come un gatto immergo la mano e capisco subito: non riuscirò mai a entrarci.
Mai.
Quindi immergo un piede con circospezione e quando quello è ben cotto la
caviglia un polpaccio rassodato dalla camminata la coscia filetto e
controfiletto lombo petto una spalla di scrittore uno spezzatino di collo finché
tutto osso sacro ischio omeri e sterno seconda coscia ginocchio e prosciutto
comincia a entrare in ebollizione.
Per un attimo cerco di mantenere un distacco spirituale e di dominare il
corso dei miei pensieri nell’unica parte rimasta fuori dall’acqua ma ormai è
troppo tardi: tra l’osso occipitale le narici e la sommità del cranio è sparita
ogni capacità ordinatrice e tutto ciò che si trova al di sotto è liquefatto dal
calore tremendo il mio spirito è disintegrato soppressione totale del
viaggiatore del commentatore della persona.
In pratica non è quasi più «nessuno» quello che mezz’ora dopo si siede a
gambe incrociate al tavolo del pasto comune che in mancanza di altri
convitati non viene servito che a nessuno.
Nessuno è felice mangia le grandi lumache di mare dalle loro conchiglie
mostra all’ansioso padrone di casa che sa come portare alla bocca che gli è
rimasta le eleganti fettine di sgombro crudo del sashimi.
Come sorbire il suimono come spezzare la simmetria del granchio come
sfilare con i suoi grandi denti i bocconcini di pollo arrostito dagli spiedini
yakitori e perfino come tenere singoli chicchi di riso tra i suoi hashi un
miracolo.
A quel punto sono già le sette e mezzo o qualcosa del genere le brocchette
di sake che sono state servite sul suo sumasen si sono aggiunte al calore del
bagno e quando «qualcuno» torna nella sua camera il kotatsu è stato tolto e al
suo posto lì in mezzo alla stanza così strano a vedersi lo attende il futon: non
ha che da sdraiarsi ed è notte.
Fa così freddo in quella stanza che il suo fiato si condensa in nuvolette ma
non gli nuoce tanto meno il buio il silenzio e il dolce ticchettio delle gocce di
pioggia che contiene.
Vuole fare qualche programma per l’indomani ma anche quello si rifiuta di
prendere forma e così senza contorni torna a disperdersi nel regno velato del
sonno.
Il paesaggio giapponese è pieno di spiriti.
È immaginazione che però è alimentata dagli

Jizo presenti ovunque dai tempietti ai santuari alle pietre commemorative.


Li trovi anche in città ma qui in mezzo alla natura hanno stretto un
rapporto con il paesaggio per cui sembrano esprimere una sua sublimazione
una sua spiritualizzazione.
Sono partito di buon mattino questa volta non mi perderò.
Ora non è più il crepuscolo che annuncia la notte ma il crepuscolo che la
notte si è lasciata alle spalle e che a sua volta si ritira lentamente dai boschi.
Prima cammino per un tratto su quella che un tempo era una vecchia strada
postale lungo la quale Tsumago e Magome erano punti di sosta e di controllo
poi imbocco un sentiero cercando di riconoscere e seguire sempre lo stesso
segno sui cartelli di legno.
Ogni tanto su una pietra è raffigurata una cartina ma quando cerco di
confrontarla con la mia mi confondo terribilmente l’unica cosa che riesco a
decifrare sono i numeri che indicano le distanze non i nomi dei luoghi.
Dietro di me traspaiono a tratti i contorni del monte Nagiso davanti a me
quelli del monte Ena ora li vedo ora non li vedo più.
Ogni tanto il sentiero incrocia un ruscello che penso sia il Kiso e mi chiedo
per quale motivo lo voglio sapere.
L’acqua scorre lucida e trasparente tra le pietre coperte di muschi.
Felci e canne ondeggiano sulle sponde ripide ruscelletti così ne ho visti
ovunque che cosa cambia in quell’acqua perennemente mutevole se so che
non si chiama «acqua» ma Kiso?
Qui e là il sentiero è lastricato e somiglia a una strada romana altrove sale
con gradini di tronchi d’albero.
A un tratto incontro quattro ragazzi macchie di plastica gialla su uno
sfondo di cipressi scuri.
Il loro equipaggiamento è esemplare incute quasi timore: scarponi bastoni
cartina plastificata pantaloni corti zaini.
I giapponesi fanno tutto in modo professionale per una passeggiata occorre
un’adeguata tenuta da passeggio si sorprendono del mio look da parco
cittadino ma si fermano e mi dicono che sì sono diretti a Tsumago io
certamente a Magome?
Sì io vado a Magome ma dopo voglio tornare a Tsumago e loro mi
spiegano a gesti come fare: autobus treno autobus goodbye goodbye sayonara
e le nostre voci si disperdono nel vento.
All’improvviso vorrei avere un compagno di viaggio una controparte
giapponese un altro me ma in versione nipponica qualcuno che mi possa
svelare i loro piccoli segreti.
Immagino di camminare in sua compagnia nel paesaggio limburghese del
sud lui si fermerebbe su un sentiero in mezzo ai campi di grano chiedendomi
che cosa significhi di preciso quell’uomo in ferro dipinto di bianco appeso a
due pali incrociati.
Poi arrivati a una piccola cappella in cui dietro un vetro compare una statua
di gesso della Madonna con ai piedi qualche fiordaliso penserebbe alla sua
dea Kannon e io gli spiegherei che quella è la madre dell’uomo sulla croce.
O meglio di certo saprebbe già chi è Cristo no?
Naturalmente come io so chi è Jizo chi è Kannon ma anche lui nel suo
paese è così poco sensibile alla spiritualità del paesaggio come io lo sono a
Gulpen?
Certe cose non si consumano forse con la loro presenza continua?
Tanto che uno non le vede più tutte quelle statue che sono ovunque e non ti
guardano mai che se ne stanno lì sprofondate in se stesse a sognare pensare
meditare.
Visioni suggestioni di un’altra vita.
Qui invece sono più ricettivo per l’estraneità il mistero.
Qualche volta ho con me la risposta scritta allora so che quel tempietto di
legno si chiama Kurashina-soreisha un piccolo santuario per l’anima di
Shichirozaemon Kurashina che fu assassinato in quel punto nel 1586 e sarei
anche disposto a dedicargli un pensiero ma non so chi sia.
Poi arrampicandomi sul passo di Magome 400 metri sopra Tsumago vedo i
resti di un posto di controllo.
Già dal

1749 era proibito tagliare cinque specie di alberi perché altrimenti si


sarebbero estinte fin da tempi remoti i giapponesi sanno meglio di noi come
trattare la natura.
In una galleria aperta trovo un vecchio dipinto semicancellato dal tempo.
Due uomini poeti o saggi in ogni caso figure maschili divenute trasparenti
siedono sotto un albero vicino a cespugli fioriti e danno da mangiare alle gru
che increspano l’acqua piccole onde rametti sottili.
Quella cosa che somiglia a un mezzo ventaglio rosso è il sole.
Sono così trasparenti quei due uomini che il mare o il lago dietro di loro
sembra penetrarli come se si stessero già fondendo con la natura.
Altezze eteree ecco cosa sono.
Da qui comincia la discesa il monte Ena alla mia sinistra ma troppo lontano
per trattenermi le voci maschili e femminili di una cascata da qualche parte
nel bosco le prime case Magome e sono colto dalla sensazione che
accompagna questo genere di camminate: un italiano nella Foresta Nera del
XVIII secolo Stevenson con il suo asino nelle Cevenne ora cercherò un luogo
di sosta non c’è parola migliore per descriverlo ed è presto trovato con cinque
donne in bianco intorno a un grande tavolo che insieme prepareranno un
pasto per me.
In mezzo alla piccola stanza una stufa accesa con un enorme bollitore di
rame in un angolo due contadini che bevono rumorosamente al muro alcune
tavolette di legno con i nomi incomprensibili delle pietanze.
Mi affido al caso e indico la tavoletta di mezzo; mi portano una ciotola di
minestra fumante con tagliatelle e pezzetti di pesce.
Adesso ho cinque madri e tutte mi guardano mangiare mi portano il tè e il
sake e mi indicano dove prendere l’autobus per Nakatsugawa da dove parte il
treno per Nagiso e tutto ricomincia da capo l’eterno ritorno.
Nakatsugawa.
È nei luoghi di cui ignoravi perfino l’esistenza che finisci per essere più
felice.
Io non ero diretto qui eppure sono qui.
Nella piazza della stazione due tassisti hanno acceso un piccolo falò in un
bidone di metallo i semafori fischiano come merli al verde e fanno cucù al
rosso monti sbiaditi in tutte le direzioni scolarette con lunghe gonne blu e in
una vetrina un mucchio di libri con sopra un’antologia di poesia inglese da.
Donne a Johnson sono dilaniato dal desiderio ma non oso per quanto non
veda proprio nient’altro che posso leggere faccio un giro se ho capito bene
posso fermarmi qui per un’ora poi all’improvviso vedo un’assurdità: due
vetrine che potrebbero trovarsi tranquillamente al Museo Municipale dell’Aia
quelle di una pasticceria.
Questa dev’essere l’apoteosi di ciò che puoi fare con lo zucchero un museo
effimero di arte fondente.
Shogetsudo a Nakatsugawa chi dovesse scriverne il catalogo non avrebbe
compito facile.
Come si chiamano quelle cose?
Monocromie oggetti marmorizzati color ocra una malattia spaventosa che
all’improvviso si è modificata per offrire beneficio non oseresti mangiare
nulla di tutto ciò la loro perfezione te lo vieta.
A titolo simbolico entro e mi sorprendo dell’assenza di custodi studio i
prodotti esposti le geometrie i teoremi di colori i Christo in miniatura la
tavolozza depurata dei Nuovi Selvaggi le serie finemente ombreggiate di
Schoonhoven.
Con due etti di XX secolo in un cartoccio torno fuori.
Oso mangiarli solo quando nessuno mi vede.
Il treno è vecchio lento dipinto di verde.
Da qualche parte alla mia destra deve esserci il sentiero che ho percorso
poco fa.
A Nagiso prendo per la seconda volta l’autobus per.
Tsumago sono un pendolare lo faccio tutti i giorni.
Ma oggi non vado direttamente al
minshuku passeggio ancora un po’ nel cortile del tempio lungo le vecchie
case di legno che mi ricordano un paesino di montagna nelle Asturie tra le
tombe ammassate la ghiaia risponde al mio passo.
Le prime luci si sono accese le nebbie si levano dal fiume e avvolgono
l’alto cartello con regole e proibizioni che i Tokugawa hanno messo qui in
epoche passate cingono il ponte percorrono il sentiero mi abbracciano e mi
portano a casa.
Lascio le mie scarpe accanto a quattro paia di scarponi gli escursionisti
hanno già fatto il bagno e dobbiamo andare a tavola sorrisi inchini assaggi il
muto fraternizzare dei viaggiatori.
Il sake mi ha rilassato il bagno fa il resto stasera non vado a dormire subito
stasera traduco una poesia.
E mentre da altri angoli del minshuku mi giungono fievoli giovani voci
nella lingua che non posso capire mi occupo delle parole di Han-Shan poeta
cinese dell’epoca della dinastia T’ang che visse da eremita su una montagna
vicino a T’ien-T’ai.
Chiedono la via della Montagna Fredda.
La Montagna Fredda: nessuna via ci arriva.
D’estate il ghiaccio non si scioglie.
Il sole nascente svanisce nella nebbia.
Come vi sono giunto?
Il mio cuore non è uguale al tuo.
Se il tuo cuore fosse come il mio.
Avresti capito saresti già qui.
Se scali la via della Montagna Fredda.
La via della Montagna Fredda sale sempre più: La lunga gola nascosta da
cardi e massi.
L’ampio ruscello l’erba velata di nebbia.
Il muschio è scivoloso anche senza pioggia.
Il pino canta ma non c’è vento.
Chi può spezzare i legami con il mondo.
E venire qui con me tra le nuvole bianche?
La Montagna Fredda è una casa.
Senza travi e senza muri.
Le sei porte a sinistra e a destra sono aperte.
La sala è il cielo azzurro.
Le stanze tutte vuote senza forma.
Il muro a oriente confina col muro a occidente.
E in mezzo il nulla.
Se mi nascondo sulla Montagna Fredda.
E vivo di erbe e di bacche.
Per tutta la vita perché ti dai pena?
Ciascuno segue il suo destino fino alla fine.
Giorni e mesi fluiscono come acqua

Il tempo è una scintilla di pietra focaia.


Tu vai avanti nel mondo che gira.
Io sto qui felice solo tra le pietre.
Fin dal principio la Montagna Fredda è la mia casa.
Vagavo nelle valli lontano dal rumore.
Via e mille cose non lasciano segno.
Libero e tutto scorre tra le infinite stelle.
Non è una cosa ma è davanti a me.
Ora conosco la perla del Buddha.
E conosco il suo uso: sconfinata e perfetta e tonda come uno zero.
Febbraio 1987

Cerchi infiniti.
Nei viaggi in paesi lontani c’è sempre inevitabilmente un secondo arrivo
quello vero.
Il primo arrivo allora non conta già più... appartiene a ciò che adesso non
vuoi più essere ciò che ti sei voluto lasciare alle spalle in quell’altro
continente ma che ti è rimasto appiccicato addosso in aereo sul taxi che ti
portava all’hotel e ha continuato a starti tra i piedi mentre eri diretto verso
l’istante sognato in cui il viaggiatore coincide con l’immagine del suo
desiderio intimo quello per cui si è messo in viaggio.
Non è mai prevedibile con precisione come sarà ma al momento giusto lo
riconosci subito non hai dubbi: è questo.
È questo.
Il fiume la bambina il pescatore il ponte le colline giapponesi sull’altra
sponda.
Comincia così: perché chiamare colline giapponesi le colline giapponesi?
Non è fittizio?
Forse ma le riconosco dai dipinti sui kakemono e sui paraventi hanno
spesso l’elemento dell’improvviso come se fossero comparse in quel
momento appena prima che tu le vedessi strani alti rilievi in un paesaggio
piatto coperti di ogni genere di alberi diversi di cento tonalità di verde e di
rosso.
Colline così non esistono in nessun altro posto.
La bambina con la divisa della scuola è seduta sulla sponda del fiume a
leggere mi piacerebbe sapere cosa.
È talmente concentrata sul suo libro che sembra concresciuta con il
paesaggio così come anche il pescatore sta lì nell’acqua già da un secolo un
profilo ritagliato dal fiume che scorre veloce.
Bambina pescatore colline fiume sull’altra riva un muro di uomini in
bianco fanno qualcosa che da qui non riesco a vedere.
Era il mio primo giorno a Kyoto.
Qualcosa mi aveva trattenuto dal dedicarmi subito alla possente città che
già conoscevo.
Volevo prima andare al di fuori dei sui confini.
Gli scarsi paesaggi che avevo visto dal treno proiettile non mi erano
bastati.
Avevo letto di un fiume di templi che dovevano trovarsi tra le colline a
ovest della città in una zona dove non ero mai stato di una cascata e di un
ponte che si chiamava Togetsu e che era stato ritratto da tutti i grandi.
Senza vedere il ponte avevo visto quei disegni nella mia immaginazione e
ora ero lì sulla sponda dell’Oi a guardare il susseguirsi di colline coperte di
pini aceri e ciliegi che si diceva fossero stati piantati ad Arashiyama nel XIII
secolo dall’imperatore Kameyama.
Arashiyama quella parola mi era piaciuta (i viaggiatori credono al caso)
l’avevo ripetuta e avevo trovato l’autobus che portava lì dalla stazione Sanjo
Keihan un viaggio lunghissimo serpeggiante in compagnia dei bambini delle
scuole che entravano e uscivano di corsa e si addormentavano sui sedili
rimbalzanti e di visi tesi da manager che hanno alle spalle una giornata
pesante.
Ora che mi trovavo lì vedevo che forse non era più di un lontano quartiere
periferico della città ma la città era dietro di me e sull’altra sponda del fiume
ardeva un fuoco misterioso.
Era laggiù che volevo andare ma appena feci i primi passi sul ponte
accadde qualcosa di straordinario.
Mi moltiplicai: non camminavo più da solo intorno a me si era formata a
un tratto una folla che continuava a crescere e che senza nemmeno guardarmi
mi accolse in mezzo a sé spingendomi in direzione del falò.
Ero già abituato al fatto che in Giappone non sei quasi mai solo senza altre
persone intorno ma ora ero una goccia di pioggia in una nuvola una nuvola
allegra ciarliera che si gonfiava e sgonfiava
muovendosi in direzione di quel fuoco che veniva attizzato dagli uomini in
bianco adesso potevo vederlo fino a far salire alte fiamme e poi nuovamente
domato con uno strato di carbone di legna su cui poi venivano disposte
griglie con piccoli pesci infilzati su spiedi.
Gli spiedi erano perpendicolari ai loro corpi contorti azzurro argentati che
così parevano muoversi ancora sulla griglia.
La nuvola ora era diventata ghirlanda una lunga fila di persone di cui non
facevo più parte.
Andai avanti per vedere cosa stesse succedendo.
C’era un chiosco coperto dove venivano distribuiti i pesci.
Sul cartello appeso c’era un pesce ma quello oltre alla data era tutto ciò che
riuscivo a leggere.
Una per una le persone uscivano dalla fila e ciascuno riceveva un
pesciolino e una lattina di birra in cambio di un biglietto numerato ma io non
avevo nessun biglietto e non c’era un posto dove poterlo comprare così
rimasi lì a guardare e vidi che le persone in attesa e quelle che mangiavano si
filmavano e fotografavano a vicenda.
Chiesi a una ragazza di che cosa si trattasse.
Lei fece una risatina e si coprì il viso con le mani.
Poi indicò gli uomini in bianco e il fiume e disse: «First fish first fish.» In
quel momento un vecchio pescatore con un cappello di paglia a punta come
ne avevo visti nei disegni di Hiroshige e Hokusai tirò fuori dall’acqua un
pesce in un lampo luccicante.
Poi uno degli uomini in bianco mi venne incontro e mi mise in mano un
biglietto.
Non dovevo pagare niente così mentre la ragazza con il viso ancora mezzo
nascosto dietro la mano tornava di corsa dalle sue amiche andai a mettermi in
fondo alla fila che avanzava lentamente verso il fuoco e il chiosco dove avrei
ricevuto il mio pesce.
«Name name» domandai quando lo presi e loro: «Ayu fish ayu.» Soltanto
in seguito capii che quello era l’inizio della stagione quando la gente arriva
da lontano per andare nei ristoranti kaiseki di Arashiyama e pagare prezzi
folli per un pasto a base di ayu.
Ciò che avevo visto era la versione popolare dell’usanza un’azienda che
aveva offerto una gita al suo personale.
A ogni boccone si fotografava e si filmava in cento video lo straniero che
viene da lontano è ritratto nella sua impacciata posizione del loto mentre si
gode il suo ayu in mezzo agli altri dipendenti.
Hokusai Hiroshige.
In quale Giappone sono venuto in realtà?
Torno al ponte e vedo che anche i giapponesi si fermano a fotografare il
pescatore con quel cappello.
È di paglia intrecciata non mi sono sbagliato riconoscendolo da vecchi
disegni nessuno degli altri pescatori nel fiume ne porta ancora uno così.
Questo è il mio quarto viaggio in Giappone ogni viaggiatore conosce credo
il repertorio delle discordanze tra ciò che vede e ciò che si aspettava cerca la
conferma di un’immagine interiore anche se sa che quell’immagine è un
falso.
Chi a Firenze vuole vedere esclusivamente il Rinascimento sa di ingannarsi
e al tempo stesso entra in contatto con forme di verità.
Forme deformate verità sfilacciate qualcosa che è esistito e non c’è più ma
c’è ancora.
Chiese statue quadri.
O come qui templi santuari giardini.
Il viaggiatore va a cercarli e finisce nella palude della contraddizione.
Ora è nel luogo in cui l’arte che cerca è nata ma è arrivato troppo tardi.
Il punto nel tempo in cui avrebbe voluto trovarsi non potrà raggiungerlo
mai più.
Il paradosso nel quale si trova raddoppia: visto che il tempo non
corrisponde più non corrisponde nemmeno lo spazio.
Ora regna un tempo diverso che ha cambiato il luogo; ciò che cercava ha
perso il suo posto perché nulla lì è rimasto uguale e in questa doppia
alterazione il viaggiatore non ha scelta.
Ha già deciso non può fare nient’altro che annullare il passato abusandone
con la metropolitana di adesso raggiunge il tempio di allora che immagina
immutato mentre tutto intorno è cambiato o scomparso.
Solo così può visitare il passato che cercava.
Allora il pescatore del 1992 diventa il pescatore di Hiroshige del 1833 e
con quell’immagine ancora sulla retina cammino lungo il fiume in cerca di un
posto dove mangiare.
Il piccolo minshuku che trovo è in un luogo ombreggiato sull’acqua.
Una donna anziana mi apre lascio le mie scarpe accanto ad altre paia che
sono già lì e cammino sul tatami lievemente elastico verso la finestra aperta
dove mi siedo a gambe incrociate.
Dietro di me sento il dolce parlare gorgogliante di due donne in una nicchia
dall’altra parte della stanza è appesa una pittura calligrafica una forma nera
selvaggia tracciata sul foglio in un secondo che mi nasconde il segreto del
suo significato.
Una poesia un nome un’esclamazione può essere qualsiasi cosa ma io sono
contento così perché il disegno è potente e mi fa immaginare di tutto il mio
occhio ci si può perdere.
Quando sono in Giappone mi ritrovo in una ragnatela di significati nascosti
ciò che non capisco si mescola con ciò che posso leggere.
Il mio Giappone è un Giappone di libri.
Due sono quelli che mi sono portato in questo viaggio per rileggerli e
anche questa è una mistificazione perché sono stati scritti quasi mille anni fa
da signore aristocratiche della corte imperiale di Kyoto che allora si chiamava
ancora Heian.
Uno è un diario Note del guanciale di Sei Shonagon l’altro La storia di
Genji scritto da Murasaki Shikibu è il primo romanzo che sia mai stato scritto
un proustiano romanzo fiume pieno di intrighi e storie d’amore intorno alla
figura di Genji il principe splendente.
Proustiano la parola naturalmente è soltanto ausiliaria ma come il geniale
romanzo di Marcel Proust il racconto di Genji nelle sue oltre mille pagine
offre l’immagine di un mondo lontano anni luce da noi che tuttavia grazie
alla caratterizzazione dei personaggi sembra vicino.
Molto di ciò che ora consideriamo «tipicamente giapponese» all’epoca non
esisteva ancora niente zen e niente samurai niente geishe o sashimi haiku o
kabuki.
La vita a corte era all’apice della cultura Heian un susseguirsi di rituali
infinitamente raffinati governati da un’etichetta sorprendente e legati ai
cambiamenti stagionali un tessuto gerarchico di ranghi e posizioni (prima
concubina terza principessa ministro della sinistra capitano del centro
guardarobiere di sesto grado) e tutte le sfumature di abiti e comportamenti
che ne erano parte.
Perfino leggendo hai la sensazione di camminare sul vetro all’interno di un
palazzo sospeso nell’aria pieno di segni nascosti simbolismi segreti allusioni
contenute nei nomi nei soprannomi e nei titoli.
Il popolo non esisteva la più grande disgrazia era essere esiliati o investiti
di una carica amministrativa nella provincia la corte imperiale era il cosmo al
di fuori la vita non valeva nulla.
I cortigiani comunicavano tra loro in versi ogni fiore ogni gesto aveva il
suo significato preciso nemmeno i giapponesi moderni sono in grado di
leggere questi libri senza commenti e traduzioni.
Tuttavia attraverso un doppio strato di antichità e traduzione vieni
trascinato nel mondo di allora intessuto dello splendore di vite che fatichi a
credere possano essere davvero esistite nella realtà perduta del X e XI secolo
un’isola nel tempo cui non è possibile fare ritorno salvo che nelle pagine di
un libro.
Sono persone che allora incontri esseri umani con passioni
paure gelosie e una loro propria individualità più riconoscibili delle figure
emblematiche del nostro Medioevo di cui perlopiù non vediamo altro che il
guscio esterno di un’anima unidimensionale mai i segreti moti intimi.
In Murasaki Shikibu è diverso.
«Moderno» è un termine così goffo ma se una signora nell’anno mille
scrive qualcosa che oggi mi colpisce e mi commuove ancora è perché tra la
scrittrice i suoi personaggi e il lettore si genera una tensione psichica tale che
il millennio che li divideva a un tratto non esiste più.
Sono cose che appartengono ai miracoli.
Solo l’arte ne è capace.
Solo l’arte ne è capace e qui si sfiora un mistero indecifrabile: come si fa a
trasformare con la letteratura una realtà in letteratura?
Perché è questo ciò che accade.
Murasaki usò proprio come Proust la realtà che la circondava... la vita di
corte del X secolo a Kyoto... per la sua letteratura.
Così conservò per noi che viviamo mille anni dopo una realtà divenuta
talmente impensabile da apparire come pura finzione.
Io l’ho sempre trovato strano... e al tempo stesso meraviglioso... che queste
due realtà siano potute convivere una accanto all’altra senza sapere nulla
l’una dell’altra l’Europa delle apocalittiche fantasie millennariste un’epoca di
tenebre e disastri dura e perniciosa e la corte di.
Heian Kyoto lontana dal mondo che non aveva quasi nulla a che fare con
una realtà quotidiana una società codificata all’estremo in cui tutti quelli che
contavano erano in possesso... nel senso che lo conoscevano a memoria e
potevano utilizzarlo in ogni momento... di un tesoro inesauribile di poesia
classica cinese e giapponese un arsenale che ci si portava continuamente
appresso.
Ciò non portò soltanto a un raffinamento estremo ma anche a un modo
indiretto di esprimersi che raddoppia la sensazione di irrealtà a tal punto da
lasciare il lettore moderno nella sua ignoranza e volgare fretta totalmente
sconcertato.
Questo appare particolarmente evidente nella figura dello stesso Genji.
Il principe ha una serie infinita di avventure amorose e relazioni con donne
molto diverse e nemmeno uno dei suoi approcci delle sue seduzioni e
conquiste o dei suoi addii che non sia accompagnato intensificato o velato
dallo scambio di brevi poesie del VII e dell’VIII secolo.
La codifica dei sentimenti è talmente rigorosa che l’uno sa sempre cosa
intenda l’altra un paio di parole un’immagine o l’allusione a un luogo sono
sufficienti la citazione prende il posto del discorso o della dichiarazione
esprime desiderio collera amarezza impotenza dolore eccitazione... e al tempo
stesso è un velo e un paravento tanto da dare l’impressione di un balletto
lento e silenzioso.
Se non si parla vengono scambiate lettere e anche allora il codice è
fondamentale: che genere di carta si usi che colore e in che sfumatura quale
citazione quale risposta quale profumo (anche o soprattutto per gli uomini.)
Tutto ciò per il lettore moderno può avere effetti singolari.
Quello che per noi in una scena di seduzione sarebbe il momento cruciale a
volte ha già avuto luogo senza che ce ne siamo accorti così come capita di
passare davanti a una casa senza vederla quando si va di fretta.
Al lettore di allora bastava una sfumatura in una frase o nella poesia di
accompagnamento: il fatto in sé non aveva bisogno di essere raccontato in
modo esplicito.
Questo dà a quelle scene qualcosa di misterioso: ciò di cui si tratta non
viene detto e per quello che non si voleva dire si avevano a disposizione due
antologie classiche: Man’yoshu dell’VIII secolo e più tardi Kokinshu con
1111 poesie del X.
Per
citare un esempio di questi riferimenti a noi incomprensibili allusioni
labirintiche slittamenti di senso e di significato: in Guide to the Tale of Genji
by Murasaki Shikibu di.
William J. Puette appare un elenco dei personaggi di questo romanzo di
oltre mille pagine.
Uno dei nomi è… Murasaki quindi quello dell’autrice stessa: Lady
Murasaki.
Murasaki-no-ue (letteralmente lady lavandaviola color del glicine.)
Si tratta della figlia abbandonata del principe Hyobu che viene educata
come una figlia da Genji e ancora molto giovane diventa la sua seconda
moglie.
È la vera eroina romantica del romanzo; la scrittrice deve il suo nome a
questo personaggio... un po’ come se Thomas Mann fosse entrato nella storia
della letteratura come Hans Castorp autore de La montagna incantata.
Proust del resto ha ottenuto lo stesso effetto chiamando il suo protagonista.
Marcel.
Ma non ci siamo ancora.
Nel suo saggio The Splendor of Longing in the Tale of Genji.
Norma Field riflette approfonditamente sulle poesie e sui riferimenti
contenuti nei versi che Genji e Murasaki si recitano a vicenda.
Per poterli capire bene è importante sapere che solo i ranghi più alti
dell’aristocrazia erano autorizzati a indossare il color porpora e che le tonalità
più scure erano riservate ai principi di sangue reale del quarto rango o
superiore e ai funzionari di primo rango mentre i principi «normali» dal
secondo al quinto rango potevano portare un color porpora di una «tonalità» a
metà tra chiaro e scuro.
Inoltre il porpora in generale aveva una connotazione di governo imperiale
legge buddhista e paradiso taoista.
Tutto questo dunque echeggia sullo sfondo così come il dato che la
sfumatura più o meno scura del porpora era anche un’indicazione del grado
di intimità di una relazione.
E come se non bastasse... dopotutto avevano avuto secoli di tempo per
elaborare questo sistema di riferimenti la corte non si occupava del mondo
esterno... murasaki è il nome di una pianta dalle cui radici si estrae un
determinato color porpora.
Anche con questo si gioca fin dall’inizio: l’autrice si chiama Murasaki e il
suo protagonista Genji dal momento in cui vede per la prima volta la
Murasaki romanzata se ne innamora perché assomiglia a un’altra amante che
lui non può più avvicinare perché è diventata la consorte dell’imperatore suo
padre.
La prima volta che la vede ha subito a portata di mano una poesia che
mormora tra sé (ma l’autrice Murasaki l’ha sentita): Vorrei cogliere al più
presto con le mie mani la giovane erba di campo nata dalla stessa radice del
murasaki.
10
Che ci siano anche poesie tratte da Man’yoshu (n. 20 e 21) da cui risulta
che la parola murasaki vanta una tradizione di tre secoli di associazioni con
amori proibiti e bellezze straordinarie rende un’idea della selva di riferimenti
nascosti in cui l’ignaro lettore futuro si trova a errare.
A tale proposito Sei Shonagon è più diretta.
Lei infatti non scrisse un romanzo ma un diario.
Era famosa per la sua lingua pungente e dai suoi famosi «elenchi» si
capisce perché.
Un osservatore acuto ha anche un giudizio acuto.
Sul decadimento per esempio o nelle sue parole «Cose e persone inutili ma
che ricordano il passato»:

Un tatami dagli orli di broccato a ricami bianchi ormai sfilacciati.


Un paravento nero e screpolato con dipinti cinesi.
Un pittore dalla vista indebolita.
Una parrucca lunga due metri e mezzo o tre che sia diventata rossiccia.
Un tessuto viola scuro color uva che assuma nello scolorirsi il colore della
cenere.
Un libertino invecchiato e rammollito.
Gli alberi di un giardino di una casa un tempo folti e eleganti e ora diradati
dagli incendi.
Un lago non corrotto dal tempo ma senza più le alghe e le erbe galleggianti
di cui era ricco.
O ancora subito dopo «Particolari scoraggianti»: Uno sposo dal carattere
incostante facile a dimenticare le donne amate che interrompa le sue abituali
visite notturne.
Una persona bugiarda che mostri di prendersi a cuore un importante
incarico a lui affidato.
Una barca che spieghi la vela al turbinare del vento.
Un vecchio di settanta o ottant’anni che stia male da molti giorni.
11
Ma nemmeno Sei Shonagon si legge innocentemente.
Entrambe le scrittrici in fondo si sono ispirate al mondo reale per quanto
irreale quel mondo fosse.
Lì vigevano leggi che pur riguardando esclusivamente l’estetica
protocollare erano così strettamente legate alle posizioni di potere in quella
società effimera che ogni movimento e incontro ne era dominato.
«Diciassette dame di corte dell’Imperatore entrarono nelle stanze
dell’Imperatrice.
Dama Tachibana del terzo grado serviva il giovane principe fratello
dell’imperatore.
Kodayu e Genshikubu si posizionarono ai due lati della sala e Koshosho al
centro.
Le loro altezze imperiali si trovavano nel chodai.
I raggi del sole del mattino entravano nella stanza.
Era una visione abbagliante e che incuteva rispetto.
Sua Maestà portava un kimono informale (noshi) con un lungo strascico e
una gonna pantalone (koguchi-bakama) stretta sulle caviglie Sua Maestà
l’Imperatrice indossava il consueto abito rosso e sotto una serie di sottovesti
dei colori «fiore di susino» «giallo germoglio di porro» «salice» e «rosa del
Giappone.» Sopra l’abito portava una veste di seta spigata color uva e ancora
sopra un manto «salice» bordato di bianco.» Eccole dunque e sebbene io non
sappia di preciso che cosa sia un chodai le vedo ugualmente sono un pochino
presente anche se mille anni più tardi.
Quei vestiti li conosco non soltanto perché ho un libro meraviglioso in cui
sono raffigurati (Iconography of the Tale of Genji di Miyeko Murase) ma
anche perché una volta a Bruxelles ho visitato una mostra di takakura abiti
imperiali.
Nel catalogo della mostra l’autore W. van der.
Walle torna sul simbolismo dell’abbigliamento: «Uno stesso colore poteva
anche cambiare nome a seconda della stagione o uno stesso nome poteva
indicare una tonalità diversa a seconda del vestito.
[…]
Il brano riportato menzionava una seta spigata color «fiori di ciliegio.» In
questo caso significa che il filo dell’ordito è bianco e quello della trama rosso
scuro.
Ma quando il termine è riferito a un abito si intende: bianco all’esterno e
rosso scuro all’interno.
«Fiore di susino» significa allo stesso modo «rosso» (ordito esterno) con
«rosso scuro» (trama interno.)
«Giallo germoglio di porro» è giallo all’esterno e azzurro (hanada)
all’interno o giallo all’interno e verde pallido all’esterno.» Ma voglio
veramente sapere tutto questo?
Non sono certo un semiologo che cosa c’entro io con le forme più alte di
follia di un’era ormai definitivamente scomparsa?
Guardo il fiume laggiù e vedo una lancia di legno con un paio di persone a
bordo un uomo con un lungo bastone sta a prua e spinge la barca.
Era qui qui un tempo esisteva quel mondo colline montagne e fiumi non
sono scomparsi solo le persone non ci sono più.
Si sono portate via il loro codice ma l’hanno lasciato nelle parole e se
leggo le parole avverto un’insopprimibile voluttuosa curiosità nei confronti di
quel sistema di regole del
gioco a doppio triplo molteplice senso quello sfavillio di segni che
vogliono essere compresi fosse anche solo perché il gesto l’inchino il
significato il colore la sfumatura le voci sono esistiti realmente al contempo
tangibili ancora oggi e del tutto inaccessibili nel tempo un pianeta su cui non
potremo mai sbarcare ma da cui due libri ci inviano immagini navicelle
spaziali pilotate da donne in volo già da mille anni.
L’anziana donna sorride come se mi avesse letto nel pensiero ha portato un
piccolo bidone pieno di braci e ora ci mette sopra una pentola di yudofu i
pezzetti di tofu bianco navigano nel brodo bollente accucciata vicino al mio
tavolino sta a guardare mentre pesco i cubetti con le bacchette e li intingo
nella salsa.
Appena vede che ne sono capace mi lascia solo e se ne va ciabattando
seguita dal lieve fruscio del suo kimono.
Alle mie spalle il chiocciare gorgogliante delle due donne le frasi lunghe
della narrazione i toni alti della sorpresa.
So che sono parole e quindi comunicazioni quelle che vanno avanti e
indietro ma per me sono suoni una radio dolce che mi avvolge e fa parte della
pace del pomeriggio.
Mentre ascolto e non ascolto provo a immaginare come fosse la voce di
Murasaki nelle intonazioni del giapponese di corte dell’XI secolo quando
parlava all’imperatrice o a un amante lingua che non poteva essere capita dal
popolo inesistente; guardando le colline sull’altra sponda e il fiume che anche
lei ha conosciuto la vedo nel guscio architettonico della sua tenuta di corte
che talvolta pesava più di chi la indossava.
È estate quindi porterebbe i colori e i simboli di questa stagione e nel
pensiero continuerebbe a tessere il romanzo che allora non sarebbe uscito
dalla corte dove nessuno nemmeno lei sapeva dello straniero che dieci secoli
dopo avrebbe osato infiltrarsi tra le loro vite come un voyeur invisibile un
intruso dal regno impensabile del futuro.
Così come Sei Shonagon non poteva immaginare che il suo zuihitsu
sarebbe stato letto in lingue che lei non sapeva sarebbero mai esistite.
Sulla prima pagina dell’edizione Penguin c’è una riproduzione della più
antica illustrazione conservata della Storia di Genji rotoli dipinti del XII
secolo quando il libro aveva già più di cento anni.
Sapevo che gli originali si trovavano al museo Gotoh di Tokyo e pieno di
buona volontà c’ero andato ma vengono esposti solo una volta all’anno in
ottobre per una settimana.
Ed era giugno.
Magari può tornare in ottobre?
No non potevo tornare in ottobre ma comprai il catalogo che non ero in
grado di leggere e sotto le criptomerie del parco dietro il museo sfogliai
tristemente le pagine dorate con la grafia fine come una tela di ragno
gocciolante di rugiada e guardai le immagini dei cortigiani con i loro strani
copricapi laccati i visi tondi bianchi incipriati (un ideale di bellezza sia per gli
uomini che per le donne) gli occhi sottili come una linea sotto le sopracciglia
ingrandite con la matita tutte quelle scene tratte dal libro che cercavo di
riconoscere senza capire le didascalie.
Le persone raffigurate sembravano ora all’improvviso infinitamente
lontane.
Riconoscevo.
Genji che giocava all’aperto ma dov’erano Ukifune barca sull’acqua Kaoru
dal profumo meraviglioso Yugao volto della sera che morirà così presto?
Non le riconosco nascoste sotto quelle montagne di vestiti tutto è
irrimediabilmente diverso nella strana prospettiva di quei disegni.
Solo più tardi dopo aver visitato i porticati dei templi e palazzi di Kyoto
capisci da dove viene quello stile che appare così strano a un occidentale.
Ogni volta ti sorprende il modo in cui il tuo occhio viene sfidato trovandosi
davanti un segmento di giardino un paravento la veduta improvvisa di una
stanza immobile immersa in una quiete perfettamente geometrica contro la
forma apparentemente bizzarra di un albero vicino al porticato dirimpetto.
Apparentemente perché tutto è composizione intenzione simbolo natura
regolata che raffigura e rafforza la natura sregolata del mondo «vero.» Per
una settimana vagherò per Kyoto giardini di lussuriosa abbondanza e giardini
di estrema sobrietà giardini che devono raffigurare l’oceano e giardini che
esprimono l’alternanza delle stagioni con un’unica pianta.
Ed è inevitabile mentre ogni giardino continua a esistere individualmente
nella mia memoria è come se avessi trascorso quella settimana in un unico
paesaggio infinito di giardini orge di azalee accanto a pietre nude che devono
rappresentare isole ombre di pini sulle ninfee composizioni illegittime che più
tardi dividerò nuovamente nelle ripettive proprietà con l’aiuto di libri e
fotografie.
Sarebbe dovuto piovere quella settimana ne parlavano tutti ma non è
successo andavo di tempio in tempio muovendomi anacronisticamente tra
epoche lontane univo ecumenicamente santuari shintoisti e templi buddhisti
come fanno i giapponesi nella loro vita quotidiana mi abbandonavo alla
confusione di stili architettonici e sette ascoltavo il mormorio delle fontane
vedevo il volto volgare e il volto nobile di quella che viene chiamata
religione lontano dalla città me ne stavo per ore da solo sotto un portico a
fissare una pietra coperta di muschio e mi lasciavo spingere da un’intontita
folla con le bandierine davanti a dipinti murali che molto tempo dopo essere
stato spinto di nuovo fuori dalle alte porte avrei voluto rivedere anche solo
per verificare se fosse vero che erano privi di ombre.
Perfino per ciò che non c’è devi prenderti tempo: l’assenza di ombre era
senza che me ne fossi reso conto ciò che mi legava a quelle immagini ciò per
cui sarei voluto restare.
A Kyoto devi viverci per qualche tempo così come devi vivere a Firenze.
Per il resto è solo un contatto un passaggio un desiderio di tornare ancora
prima d’essere ripartito un sospiro iniziato quel primo pomeriggio nel
minshuku sul fiume una settimana veloce come una barca che passa nella
nebbia uno di quei momenti effimeri inafferrabili della tua vita che assumono
un peso ben al di sopra della loro durata limitata giorni in cui tra ciò che leggi
e ciò che vedi si stabiliscono legami sconosciuti e in cui tutto corrisponde
perché tu lo vuoi.
Ero andato via dal piccolo minshuku prendendo un sentiero scuro sulla
collina.
Volevo raggiungere Okochi Sanso la villa di un attore defunto del cinema
muto e da qualche parte doveva esserci anche un tempio Tenriyu-ji uno degli
otto templi principali della setta Rinzai del buddhismo zen con un laghetto a
forma di un ideogramma cinese che i giapponesi pronunciano Kokoro cuore
illuminato «quello che ottieni quando penetri fino all’essenza del Buddha.»
Mi vennero in mente gli ultimi versi della poesia di Han-Shan: Ora conosco
la perla del Buddha E conosco il suo uso: sconfinata e perfetta e tonda come
uno zero12 ma nulla di tutto ciò sembrava destinato a me.
Le insegne di legno non svelavano il mistero dei loro segni e mi smarrii in
un luminoso boschetto di bambù dove le canne alte più di un uomo
frusciavano e si flettevano bambù che Sei Shonagon un tempo (con
riferimento a una poesia cinese del III secolo) definì «Signor bambù» così
che ora d’un tratto mi trovavo in un bosco di signori fruscianti e
ondeggianti che come si addice ai signori mi indicarono la via per arrivare
al giardino perfetto dell’attore morto.
In un piccolo edificio adiacente si può ancora vederlo in video; il film
inizia non appena sei davanti allo schermo nel silenzio di tomba delle
pellicole mute il morto corre in un bagliore bluastro pieno di graffi come
un’ombra frettolosa attraverso un aldilà senza parole.
Così cominciò una settimana di immagini un mio personale video interiore
che vedevo mentre lo realizzavo e che si interrompeva soltanto quando
dormivo o forse nemmeno allora.
Ero prigioniero nella città che un tempo nell’VIII secolo fu costruita
secondo il modello cinese e che a sua volta è prigioniera tra le colline e le
montagne circostanti.
Gran parte dei templi si trova su quelle colline o ai loro piedi devi
preparare le tue visite come un Clausewitz.
Il viaggiatore senza gruppo e senza guida non ha vita facile a causa
dell’illeggibilità degli ideogrammi sulle carte sugli autobus e sui cartelli non
sempre riesce ad arrivare dove voleva e per chiedere deve sviluppare una
tecnica particolare ma a meta raggiunta ogni inquietudine e impazienza
svaniscono.
Le misure e le scale di un altro tempo prendono il sopravvento l’immagine
della città moderna si allontana.
Eri venuto per questo una pace che cancella temporaneamente il mondo
bellezza preservata.
E ogni volta ciò che vedi fa riferimento a cose di cui non puoi dire quasi
nulla senza diventare presuntuoso o banale.
Se esiste qualcosa come la trascendenza è visibile qui nell’equilibrio
asimmetrico dei giardini nella maestosità silenziosa del palazzo imperiale nel
viso dorato assorto in se stesso del Buddha nel.
Byodo-in nei giardini ascetici rastrellati con cura dei conventi zen nelle
forme tonde e immobili dei cespugli potati nella quiete dei laghetti scuri che
puoi continuare a contemplare finché il silenzio di fuori diventa quello di
dentro.
Perché cosa dovresti dire di due mucchietti di sabbia due forme
geometriche appuntite di una semplicità estrema perfettamente identici che
non fanno altro che starsene lì come se fossero stati creati un secondo fa
mentre quella mattina hai visto una foto ingiallita del 1890 in cui erano già lì
precisi altrettanto immobili a sfidarti a pensare qualcosa?
Vorresti dire la tua su di loro ma ti rendi conto di non esserne in grado è
l’inizio del mutismo del vuoto bramoso nel quale resti seduto immobile come
la giovane donna che era già lì quando sei entrato nella galleria tirata a
lucido.
Di sera in città porti ancora con te quel silenzio passeggi lungo il fiume
dove gli innamorati siedono davanti all’acqua o nei vicoli affollati di
Pontocho il quartiere delle geishe.
Una volta segui una geisha primordiale dal volto imbiancato come se non
fosse possibile che sia lì a vagare per quelle stradine quasi fosse persa come
te.
È invisibile nessuno la vede solo tu ma poi sparisce dietro una porta e
allora pensi di avere sognato tutto salvo che poi un’altra sera la rivedi come
un’ombra bianca sul sedile posteriore di una Mercedes sola un viso di gesso
sotto una costruzione manieristica di capelli neri lucidi rappresentante di un
mondo che non può restare che deve scomparire così come è scomparso il
mondo di Murasaki e Sei Shonagon.
Di mattina dalla mia alta camera d’albergo vedo le gru ancora più alte
usate per costruire un palazzo moderno che vuole spazzare via il piccolo
quartiere intimo sottostante e so che sotto la superficie di silenzio e bellezza
in questa città è in corso una dura guerra di intellettuali e monaci contro
l’avidità annientatrice degli speculatori.
La capitale della trascendenza esiste in virtù delle
illusioni: un grattacielo di cinquanta piani come quello che è stato
progettato rovinerebbe irrimediabilmente la prospettiva di templi e giardini.
Gli oppositori fanno quello che possono hanno messo un’inserzione sul
New York Times per spiegare di cosa si tratta: i presunti clienti dell’albergo
non vi alloggerebbero mai sapendo che ciò per cui intendevano venire lì è
stato distrutto proprio da quel grattacielo la scala prospettica il gioco di
illusioni ottiche di giardini composti secoli fa tutto eliminato per sempre da
un blocco di cemento.
Anacronismo come omicidio.
L’ultimo mattino del mio soggiorno il caso che non esiste mi conduce a
Chisaku-in il tempio in cui si festeggia il compleanno dei due fondatori del
buddhismo Shingon la festa delle Aoba (foglie verdi.)
Già sul lungo viale che conduce al tempio vedo arcieri in costumi
medievali quando mi avvicino sento cantare dei sutra.
Monaci in verde e viola un canto staccato insistente interrotto ogni tanto da
uno scampanio furibondo o da un colpo tonante su un grande gong.
L’officiante è seduto e mi dà le spalle la statua del Buddha davanti a lui è
nascosta dietro paraventi con preziosi dipinti.
Sull’altare piramidi di arance e pompelmi ciotole con uova biscotti.
Sono seduto come gli altri in ginocchio i miei piedi inesperti tesi
all’indietro.
Nel tempio aleggia il profumo dell’incenso vengono colpite ciotole sento
una voce levarsi sulle molte altre scure vedo l’abate che viene issato su una
portantina come una vecchia bambola nel guscio di tutti i suoi vestiti e seguo
la processione fuori zoppo per essere rimasto in ginocchio così a lungo.
Ora succedono talmente tante cose che non riesco più a seguirle.
Mentre una fila di monaci osserva la scena in un silenzio di tomba gli
arcieri lanciano grida di guerra voci taglienti come grandi coltelli affilati.
Uno va all’altare brandisce un’ascia d’argento più grande di lui gli altri
scoccano frecce sopra la folla e certi tentano di afferrarle un’alta catasta di
fronde viene incendiata ventagli di paglia intrecciata indirizzano il fumo in
alto il fuoco fa vibrare l’aria un uomo si avventa sul mucchio di foglie senza
toccarlo e grida lunghe formule alte e più alte avvampano le fiamme mentre
un sacerdote seduto in terra butta bastoncini in quel falò ardente: io capisco
tutto e non capisco niente.
Quando gli uomini vogliono comunicare con l’incommensurabile falsano
le voci si avvolgono nella seta o nel broccato d’oro e l’aria che ha un odore
diverso dal solito è trafitta dalle frecce.
Ognuno di questi gesti e rituali ha una logica all’interno di un sistema
antico di secoli e lo straniero che non lo conosce può solo star lì a guardare.
Guardo l’abate che somiglia a una vecchia tartaruga con la testa piena di
libri sacri mai saprò cosa pensa e al tempo stesso lo so da altri monasteri della
mia parte della terra con riti diversi ma uguali: l’interminabile discorso degli
uomini rivolto a Colui che non risponde mai nulla.
È sera quando parto per Tokyo.
Lo shinkansen si è fermato esattamente davanti ai miei piedi silenzioso
come un aereo senza motori scivola via furtivo la città si trasforma in una
pista luminosa lungo i finestrini.
I templi e i giardini che nella mia testa formeranno una schiera indistinta
giacciono invisibili nell’oscurità nera come l’inchiostro.
Una volta vorrei tornare in autunno in inverno neve sul monte Hiei neve
sul sentiero del bosco lungo il fiume ad Arashiyama.
Mi accoccolo nel sedile girevole che ondeggia dolcemente prendo il nastro
che ho comprato in uno dei monasteri lo inserisco nel mio walkman e ascolto
il canto di zazen quella voce solista e tutte le altre il suono secco del legno sul
legno.

Il motivo per cui ce ne andiamo per sei mondi è che siamo persi
nell’oscurità dell’ignoranza.
Se in quell’oscurità sprofondiamo sempre più come potremo mai liberarci
della catena di nascita e morte?
E mentre tutte le immagini di quella settimana si fondono insieme cado in
un sonno tra i canti dei monaci un uomo sul treno più veloce del mondo
l’unico dei sei che lui conosca.
1993.

10 Murasaki Shikibu La storia di Genji a C. di Maria Teresa Orsi Einaudi


2012 P. 104.
(N. d. T.)
11 Sei Shonagon Note del guanciale trad. it. di L. Origlia SE 2002 P. 166.
(N. d. T.)
12 Vedi P. 92.
(N. d. T.)
Capitolo 4
Monasteri giapponesi

Più terreno di così non si può: sulla strada verso il sublime sono rimasto
intrappolato nel.
Kinki Area Rail System due pagine una accanto all’altra su cui è
raffigurata una rete di ferrovie indipendenti intorno a Osaka e Kyoto che
sembra essere stata tessuta da un ragno totalmente ubriaco che per giunta non
l’ha nemmeno finita.
Hankyu-Takarazuka.
Yamotoji Nankai-Koya Kintetsu-Minami-Osaka Keifuku-Arashiyama i
nomi delle linee sono scolpiti nella mia memoria perché hanno accompagnato
un’avventura in cui mi sono buttato totalmente ignaro senza sapere che in
certi momenti sarei rimasto preso in quella rete come una mosca pronto a
essere divorato dal ragno ubriaco cosa che non si accordava affatto con l’alto
scopo del mio pellegrinaggio perché era di questo che si trattava un viaggio
senza bastone e senza zaino ma con grandi distanze e infinite scalinate di
templi da affrontare a piedi.
L’obiettivo segreto e inconsapevole di certi viaggi è quello di mandare in
totale confusione il viaggiatore estraniarlo a tal punto dalle sue origini da far
apparire la sua esistenza come un’oscura faccenda cui potrà tornare solo con
grande difficoltà.
Soltanto allora sei stato veramente via così altrove da essere forse diventato
un altro.
Tutto è cominciato in un negozio di guide turistiche a Zurigo.
Ciò che ha a che fare con il.
Giappone ha sempre risvegliato il mio interesse e lì ho trovato un libro che
parlava di pellegrinaggi in Giappone.
Aveva un aspetto attraente.
Sulla copertina c’erano due foto: una ritraeva una serie di statue di una
figura maschile in meditazione che un tempo per comodità avrei chiamato
Buddha ma che nel frattempo avevo imparato essere Jizo il protettore dei
viaggiatori e dei bambini.
L’altra mostrava una fila di sandali di paglia intrecciata appesi davanti alla
porta di un tempio che avrei poi capito sono parte dell’equipaggiamento del
pellegrino in Giappone così come la conchiglia e il bastone appartengono al
cammino di Santiago.
Jizo e i sandali li avrei incontrati centinaia di volte durante il mio viaggio
ma in quel momento non lo sapevo ancora.
Nel libro erano descritte la storia e le diverse forme dei pellegrinaggi:
l’eremita solitario che abbandonava tutto per raggiungere i luoghi sacri sulle
montagne i sontuosi viaggi di gruppo dei periodi Heian (794-1192) e
Kamakura (1192-1333) quando metà della corte partiva con tanto di abiti
cerimoniali per andare a meditare nella natura e poi quelli del.
Quattrocento quando la classe media era arrivata ad avere tempo e denaro
per viaggiare al seguito dei nobili.
Così nel tempo si sono create vie di pellegrinaggio che esistono ancora
oggi.
Ce ne sono tante e molto diverse tra loro ma per qualche motivo
probabilmente per il numero (sono nato nel ’33) decisi di seguire quella dei
33 templi detta «pellegrinaggio dei miracoli» o di Saigoku-Kannon.
Ora che sono di nuovo ad Amsterdam tra cento libri e mille foto capisco la
follia dell’impresa che mi ero messo in testa in parte contagiato da un vecchio
amico che dopo essere andato a piedi dai Paesi Bassi a Santiago mi aveva
detto che il pellegrinaggio degli 88 templi sull’isola di Shikoku era un gioco
da ragazzi.
Certo che lui aveva affrontato buona parte di quel viaggio in compagnia e
inoltre aveva adottato il costume tradizionale giapponese dello henro grazie al
quale chiunque sa subito dove
vuoi andare e ti viene indicata la strada senza nemmeno dover chiedere.
Io invece non mi vedevo andare in giro con bastone sandali intrecciati e per
giunta un cappello di paglia oltre che vestito dalla testa ai piedi di bianco
brillante avrei avuto l’impressione di essermi impadronito di qualcosa cui
non avevo diritto.
Su questo avevo ragione senza saperlo perché in seguito ho imparato che
quella tenuta in realtà si porta solo nel pellegrinaggio degli 88 templi in cui si
ripercorrono i passi del grande maestro buddhista.
Kobo Daishi (Kukai) fondatore della setta Shingon quella del buddhismo
esoterico anche se di fatto il termine setta non è appropriato e si dovrebbe
piuttosto parlare di un sistema filosofico.
Dunque non ero uno henro ma uno junreisha un comune pellegrino senza
segni particolari a parte il nokyocho il mio libro del pellegrino che però era
sempre nascosto nella borsa.
Per quale motivo lo facevo?
Credevo in Kannon?
A dire il vero no non la conoscevo ancora per il resto molti principi etici
del buddhismo mi erano altrettanto sconosciuti di quelli del cristianesimo.
L’eterna diffidenza nei confronti del corpo che deve essere tenuto al suo
posto la conoscevo già dal confessionale né mi attiravano le forme superiori
di sottomissione e sacrificio di cui avevo letto con relative immagini di
uomini emaciati che facevano pensare più a Bergen-Belsen che
all’illuminazione divina.
Tuttavia c’erano anche tutte quelle altre immagini che avevo visto nei miei
viaggi in Asia i Buddha in corpi a cui chiaramente non mancava nulla ma che
all’apparenza riuscivano a dominare come se avessero le ossa fluide con
quella perenne espressione superiore di pace totale il volto che ha visto e
pensato tutto e si libra alto al di sopra di tutto come l’eternità.
Come funzionano queste cose?
Ero stato in Australia per partecipare a un festival letterario e visto che
andare e tornare dall’Australia è altrettanto lungo (e costoso) che proseguire
il volo facendo il giro del mondo per arrivare a casa avevo preso un biglietto
round-the-world che mi consentiva al ritorno una tappa in Giappone.
Da Sydney a Osaka ci sono otto ore di volo ma la distanza spirituale è
infinitamente più grande e così a un tratto mi sono ritrovato sperduto e
spaesato nell’appartamento di un amico tedesco A. Kyoto con vista sul fiume
Kamo che attraversa la città.
Era l’aprile del 1998 i ciliegi al di là del fiume erano in fiore sembrava che
fosse nevicato.
In lontananza vedevo il monte sacro Hiei che ha un ruolo importante nella
letteratura classica giapponese.
Tutta la mia impresa mi sembrava all’improvviso rischiosa: che cosa
volevo in realtà?
Non parlavo giapponese è vero che ero già stato lì sette volte ma il mio
Giappone era in effetti sempre rimasto un Giappone della letteratura il fiume
Kamo lo conoscevo da Kawabata così come conoscevo Osaka da Tanizaki e
Tokyo da Harukami e il monte Hiei dalla Storia di Genji di mille anni prima
quando Kyoto si chiamava Heian e in quel luogo c’era una corte di uno
splendore incredibile e senza potere (quello era esercitato dagli shogun) dove
un paio di donne che non erano autorizzate a scrivere in cinese... quello era
riservato agli uomini... scrissero libri nel giapponese di allora che ancora oggi
vengono letti.
Ero lì sotto falsi pretesti in cerca di un Giappone che in realtà esisteva
ancora soltanto come eccezione come se un giapponese in Europa cercasse
esclusivamente alcuni monasteri benedettini.
Ma c’era una frase nel libro che avevo comprato a Zurigo che avrebbe
trasformato quei falsi pretesti nel vero motivo del mio viaggio.
Diceva che molti
pellegrini giapponesi fanno questi pellegrinaggi per la pace e il silenzio
che nel loro paese affollatissimo dove si ha sempre la sensazione di essere
circondati da milioni di persone non riescono più a trovare.
Il fatto che avrei dovuto attraversare ogni giorno quelle folle immense per
trovare il silenzio lì per lì non lo sapevo ancora.
I giapponesi fanno le cose in gruppo e ciò significa in questo caso pullman
pieni che vengono di volta in volta scaricati davanti ai templi.
Gli stranieri in tali viaggi non sono i benvenuti soprattutto se non parlano
giapponese perché la cosa crea solo complicazioni.
Ho visto pellegrini solitari ma non spesso.
Di europei o americani praticamente nemmeno uno.
Perché ho fatto questo pellegrinaggio e soprattutto perché l’ho portato a
termine?
Per curiosità nei confronti di un Giappone che non conoscevo ancora e che
anche per la parte che conoscevo non capivo.
Un tempio giapponese con tutte le sue figure sacre e oggetti sacri i suoi riti
e usanze pone tutta una serie di misteri.
Chi è chi che cosa si canta come ti devi comportare che cosa significa
quella scritta quel tamburo quella campana quel gesto?
Certo dal cattolicesimo sapevo che quando gli uomini cercano un contatto
con le sfere superiori utilizzano suoni diversi rispetto a quelli della vita
quotidiana indossano indumenti particolari inventano riti che si traducono in
formule complesse per rivolgersi all’ultraterreno e che vengono governati e
gestiti da una casta di sacerdoti.
Sapevo anche che l’altissimo nell’immaginazione umana spesso si trova in
luoghi remoti per lo più elevati e che lo spirito umano ha bisogno di
intermediari sotto forma di santi perciò nei templi si trovano immagini di quei
santi e maestri e monaci che vengono adorati.
Quando vedevo arrivare in un tempio un gruppo di pellegrini tutti si
inchinavano suonavano una grande campana facevano battere un pezzo di
legno allungato legato a una corda contro una grande campana di bronzo
infilavano rumorosamente soldi nel contenitore per le offerte battevano le
mani a una fonte che non si arrestava mai si lavavano via di dosso la
sporcizia del mondo.
Riconoscevo molto di ciò che avevo visto in.
Sicilia in Estremadura in Baviera o nelle Fiandre.
I gesti erano diversi ma l’essenza era la stessa: gli uomini vogliono
letteralmente salire più in alto e per questo hanno sviluppato ogni sorta di
strategie.
In tali manifestazioni non si tratta del pensiero di Agostino.
Tommaso d’Aquino o Ignazio di Loyola ma di credenze popolari.
Anche il buddhismo ha i suoi padri mistici ed esegeti il sussurro di carte
vecchie di secoli discussioni teologiche controversie dogmatiche pratiche
ascetiche ma i pullman non arrivano per questo arrivano per essere nelle
vicinanze di quel mondo nelle vicinanze di coloro che custodiscono i segreti
arrivano per allontanarsi temporaneamente dalle proprie esistenze e lo
straniero che li osserva vede sia il rito commerciale sia la devozione
sbalorditiva e cerca di diventare invisibile.
I templi di Saigoku-Kannon si trovano in una vasta area intorno a Osaka e
Kyoto tra il.
Mar del Giappone e l’Oceano Pacifico.
Ho fatto il pellegrinaggio in due parti i primi 17 templi nel 1998 i
rimanenti nella primavera del 2000.
Talvolta un tempio costava un viaggio di un giorno altre volte invece ce
n’erano diversi vicini ma per chi non parla il giapponese e vuole muoversi da
solo è un impegno logistico enorme.
Io mi sono mosso per lo più da Kyoto.
Vicino alla stazione (23 binari!) si trova una sede del Japan Tourist.
Information Office dove Yoko e Miyo una volta smaltita la sorpresa
iniziale in merito alla
mia impresa hanno cercato di trovare treni trenini autobus funicolari e
traghetti tali da permettermi di raggiungere la mia meta del giorno.
Soprattutto quando ti addentri nella provincia le comunicazioni diventano
più difficili.
L’inglese non sempre serve così come non serve indicare una pagina del
mio libro giapponese dei templi.
Dovrebbe esistere un’indulgenza speciale per l’attesa sui binari sbagliati
per un viaggio su un treno che ha sì lo stesso nome ma va nel senso opposto
per il dubbio lacerante tra due cartelli in un bosco su uno dei quali dopo una
fila di ideogrammi c’è scritto 57 km e sull’altro dopo ideogrammi che
somigliano disperatamente ai primi 38 km.
Al confronto le marce di ore sotto la pioggia o il caldo improvviso le
arrampicate su sentieri di montagna le scalinate vertiginose (uno dei templi
aveva 888 gradini) erano quasi un sollievo.
Questo è ciò per cui ero venuto.
Appena ti liberi delle città e dei treni sovraffollati inizia l’altro Giappone
quello di paesi e villaggi di piccole locande autobus di provincia trenini di
un’unica carrozza con gli scolaretti in divisa e poi ogni volta il momento in
cui ti avvicini al tempio e varchi la porta con i due Nio i guardiani
dall’aspetto feroce che in realtà sono un’unica persona Kongo Rikishi a
sinistra e a destra uno con la bocca aperta l’altro con la bocca chiusa ma
entrambi più grandi di un uomo muscolosi come pugili e grazie a Dio dietro
sbarre di legno a cui i pellegrini appendono i sandali.
Oltre in genere c’era silenzio e tanto spazio nessuno sembrava badare a te.
A volte sentivi un gruppo di pellegrini recitare insieme sutra o preghiere o
la voce di un sacerdote dall’altoparlante che tuonava nel parco sperduto del
tempio altre volte monaci che suonavano conchiglie e aspettavano poi la
risposta dall’altra parte della valle un suono infinitamente malinconico.
Mi capitava anche di finire in mezzo a cerimonie misteriose con fuochi e
canti vigorosi.
Io immagazzinavo tutto nel mio archivio interno leggevo di.
Kannon dalle undici teste e mille braccia e capivo che quel pellegrinaggio
è dedicato alle sue 33 manifestazioni tentavo di distinguere i diversi stili dei
templi e capivo che per tutto ciò avrei avuto bisogno di un’altra vita.
E ora?
Ora sono di nuovo ad Amsterdam e guardo i fogli pieni di coincidenze di
treni che.
Yoko e Miyo hanno annotato per me le fotografie durante il cammino il
mio libro del pellegrino pieno di ideogrammi meravigliosi.
I miei appunti sembrano la preparazione di una battaglia: JR
(Japan Railways)
Kyoto-Ayabe (linea Sainin)
8.
58-10.
32.
Scendere A. Maizuru treno in direzione di Higashi-Maizuru arrivo 10.
57 partenza 11.
53 arrivo A. Matsunoodera 12.
00 di lì un’ora a piedi in salita fino al tempio e a un tratto rivedo tutto
davanti a me: il tram azzurro ghiaccio da Maizuru la stazioncina abbandonata
non più di una casupola nessuno in vista non un cartello con un disegno del
tempio (tera) ma secondo la guida giapponese devo prendere prima la strada
principale e poi seguire un sentiero lungo un ruscello i segni rossi del tempio
sono nell’angolo in alto a destra del biglietto.
Vi viene onorata Kannon come in tutti i 33 templi ma qui sotto forma di un
cavallo.
Chi è Kannon?
In gran parte dei templi la vedo rappresentata come una figura femminile e
allora assomiglia parecchio alla Madonna.
A volte ha 11 teste altre volte braccia che sembrano uscire da tutte le parti
ma è sempre la dea la santa o la bodhisattva della misericordia.
In passato in India era un uomo e si chiamava Avalokitesvara dall’India
passò in Cina e divenne Kyuan-yin poi in Giappone e diventò Kanzeon o
Kannon.
Un bodhisattva è un
illuminato che rinuncia al piacere del Nirvana per aiutare in terra coloro
che non hanno ancora raggiunto l’illuminazione.
In realtà questo pellegrinaggio è soprattutto per lei come qui.
Cade una pioggerella fine ma quando arrivo in cima dietro i veli di pioggia
riesco a vedere il Mar del Giappone.
Una volta durante una tempesta furibonda un uomo che andava per mare si
trovò in grandi difficoltà pregò Kannon e notò che la sua barca veniva
accompagnata verso riva dove trovò delle impronte di cavallo che seguì fino
ad arrivare al tempio in cui vide la statua di Kannon dalla testa di cavallo
ancora bagnata fradicia di acqua di mare.
C’è un grande silenzio quando salgo la lunga scalinata.
C’è addirittura ancora un po’ di neve.
Supero il cavallo che è sacro raggiungo lo hondo con l’altare e dato che
nessuno mi presta attenzione batto le mani tiro la fune rossa intrecciata e
faccio emettere all’ampia campana di metallo il suo suono sferragliante in
modo che gli esseri del mondo superiore sappiano che ci sono.
Poi prendo il mio libro pieghevole del pellegrino e vado nel nokyo l’ufficio
del tempio dove un monaco è seduto a leggere dietro uno sportello.
Picchio con l’unghia contro il vetro.
Se è sorpreso non lo dà a vedere.
Metto i miei 300 yen su un piattino e lui mette i tre timbri vigorosi sul mio
nokyocho cui aggiunge con un lungo pennello i suoi caratteri in inchiostro
nero.
Seguo i suoi lenti gesti eleganti.
Non ho visitato i templi in ordine (non lo fanno nemmeno i giapponesi) ma
vedo che sfoglia il quadernetto e registra che sono già stato al tempio 33 a
Kegon-ji ufficialmente l’ultimo dove ricevi tre ideogrammi in una volta sola.
Allora sorride e fa una sorta di gesto che racchiude tutto: la statua di
Kannon e quella di Jizo con il suo bavaglio rosso le arance sull’altare nello
hondo la montagna e la lunga discesa il mare i 31 templi che ho visto e i due
che devo ancora visitare e tutti i ricordi di fiori e treni e statue e monaci e
incenso e tutte quelle infinite scale che porterò a casa con me dall’altra parte
della terra.
2000

L’atelier del Nord: Hokusai a Parigi13


Nel 1843 quando il Giappone per gli europei è ancora un regno fiabesco
lontano come l’Ultima Thule a Tokyo che all’epoca si chiamava ancora Edo
un uomo di ottantatré anni inizia ogni nuova giornata con un disegno a china.
Lo fa per scaramanzia perché spera che il giorno a venire quando l’oscurità
si ritira sarà «pacifico.» Il soggetto del disegno è sempre lo stesso: un leone.
O meglio l’animale raffigurato assomiglia a un leone ma è un karashishi
una sacra creatura fiabesca che ha assunto le sembianze di un leone.
L’uomo che disegnava i leoni si chiamava Hokusai un nome che come
molti altri... più di venti... nel corso della sua vita continuò a indossare e
smettere come indumenti.
Ora nel 1980 a Parigi che per i giapponesi del 1843 era tanto lontana
quanto la chimerica.
Groenlandia e lo sperduto Egitto mi chino su questi leoni e li esamino tutti
e 219 uno per uno.
Suppongo di avere la faccia di chi ha appena ingoiato un decotto di erbe
medicinali.
O almeno è questa l’espressione di alcuni di quelli che fanno a gara qui con
me per vedere il maggior numero possibile di disegni manifesti stampe
xilografie.
Da ciascuno di queste migliaia di osservatori parte una linea retta che
supera in un secondo la distanza tra il presente di chi guarda e quell’istante
137 anni fa in cui la mano del vecchio maestro gettava sulla carta quei leoni.
Gettava?
Non saprei come dirlo diversamente perché per quanto potesse disegnare
lentamente tutti questi leoni acciambellati rampanti seduti rabbiosi all’attacco
in ritirata o esposti a una pioggia torrenziale sotto sembianze antropomorfe
offrono quell’immagine di velocità compressa elettrica quasi fossero nati da
un’esplosione.
E mentre il foglio giace immobile nella vetrina spesso lo spettatore vede un
leone in movimento come se si trovasse in una galleria del vento un fermo
immagine in un film d’azione.
Hokusai: il nome significa «Atelier del Nord.» Il pittore in quanto
appartenente alla setta buddhista di Nichiren era un fervente veneratore del
bodhisattva Myoken un’incarnazione della Stella Polare (Stella del Nord.)
Questo nome compare per la prima volta nel 1799 quando ha trentanove
anni.
Lo mantiene per qualche tempo anche in combinazione con altri per poi
abbandonarlo nel 1810.
In quell’anno infatti fu fortemente criticato per «la magrezza e la
bruttezza» di una serie di personaggi su una locandina teatrale e così passò il
suo nome a un allievo insignificante.
Come iamatologi e storici dell’arte riescano a districarsi in un tale
groviglio di nomi è per me un mistero che quel pomeriggio non sarà risolto.
Qui si chiama esclusivamente Hokusai e a tale magico suono è accorso un
pubblico di decine di migliaia di persone.
In verità è questo il fenomeno che mi intriga di più.
Che cosa significano questa attenzione appassionata questa attrazione quasi
devota intorno a me?
In un altro luogo di Parigi è stata allestita una mostra che illustra l’influsso
del Giappone sull’opera di.
Claude Monet.
Ma l’interesse sorto in questi giorni verso tutto ciò che è giapponese è
riconducibile a una pura questione di estetica... basta isolare un dettaglio di
una stampa di Hokusai per cogliere elementi art nouveau... mentre il nostro
interesse è molto più sfaccettato.

Con il Giappone del XX secolo abbiamo combattuto una guerra mondiale


cui abbiamo posto fine con le uniche bombe atomiche che siano mai state
sganciate sulla terra.
Non abbiamo a che fare soltanto con il Giappone di bunraku ukiyo-e
kabuki e ikebana ma anche con quello di Honda Toyota e Mitsubishi.
L’interesse che nutriamo... insieme a una certa inquietudine di fronte a un
gigante economico pericolosamente competitivo e a un’ispirazione ai valori
spirituali che questo paese nel suo volontario isolamento di secoli avrebbe
conservato tanto meglio di noi...
è sfaccettato perché il Giappone stesso lo è.
Quanti sono stati fuori in fila con me come in un pellegrinaggio per un’ora
nel freddo pomeriggio invernale in attesa di poter vedere Hokusai entrano in
un tempio dove le.
Honda sono assenti.
Sono appena rientrato da un viaggio in Giappone in cui ho attraversato a
piedi i boschi autunnali del Nord con l’incisore Sjoerd Bakker.
È stato il mio secondo viaggio nel paese e non è stato del tutto felice.
Per un motivo o per l’altro non sono riuscito a ritrovare l’euforia della
prima volta e ora qui con Hokusai penso di avere capito perché.
Ciò che noi cerchiamo in Giappone è un Giappone che esiste
esclusivamente nel tempo non nello spazio.
La prima volta sei talmente eccitato da voler continuare a vedere il piccolo
e bello anche nel grande e brutto ti godi l’estetica ti fai portare a Kyoto e a
Nara passi davanti alle vetrine del museo della ceramica assisti a spettacoli di
teatro kabuki per pomeriggi interi ti immergi nei templi e ti abbandoni alla
perfezione dei giardini.
Tutto ciò che hai letto di Lafcadio Hearn e altri viene confermato tutto
incluso il cibo ha un retrogusto spirituale e ciò che non vuoi vedere non lo
vedi.
Così almeno mi andò quella prima volta.
Ma di fatto era un’illusione hai messo insieme una serie di cliché culturali
dallo zen fino alla Storia di Genji e ciò che vuoi veramente ora è che la
società giapponese li rispecchi.
Ma è come chiedere a un fan dell’Ajax dove sia il più vicino convento di
benedettini pensare che tutti i portinai parigini abbiano in casa il Romanzo
della Rosa o pretendere che il guardiano del Rijksmuseum ti spieghi il
simbolismo in un dipinto di Van der Goes.
La seconda volta urtai violentemente contro l’impenetrabilità della società
giapponese.
Mi resi conto che devi realmente saper leggere e parlare il giapponese per
trovare nel.
Giappone di oggi quello di allora che per questo è troppo tardi e che dovrò
limitarmi ai pezzi di Giappone «puro» che come qui in questa mostra mi
vengono presentati e a ciò che posso leggere in traduzione.
In altri termini non ho più bisogno di andarci.
Ciò che voglio vedere è già qui o viene qui.
14
E così continuo a girare lentamente credente tra i credenti ma un credente
che ha un po’ perso la propria innocenza perché è a conoscenza delle cose
scandalose che avvengono in parrocchia.
La mostra è allestita splendidamente per quanto si discosti non poco dai
canoni dei musei olandesi.
Prima si attraversa una serie di catacombe dove numerosi oggetti e vesti
dell’epoca di Hokusai sembrano emergere da una sorta di sacro crepuscolo
che automaticamente conferisce loro proprio quella luminosità misteriosa per
la quale siamo venuti mossa astuta.
La sala che espone le stampe più importanti in realtà è relativamente
piccola e piena di vetrine illuminate che somigliano un po’ a pulpiti perché
hanno davanti piccole panche.
Ciascuna vetrina contiene in genere due xilografie ma è
provvista di una sola grande lente sporca di ditate che è la causa dei pacati
battibecchi tra due visitatori distinti a cui un terzo si diverte ad assistere.
Gli amanti dell’arte non sono militari ciascuno prende una direzione
diversa e dove si verifica un fortuito ingorgo gli altri pensano che si trovino
le stampe più belle.
Piccole spinte discrete mormorii irritati occupare la lente un po’ più a
lungo del necessario proprio quando il tizio vicino a te sta per fare la scoperta
della vita eccolo qui il piacere dell’arte.
E non manca un tocco di erotismo: perché mai quella donna dai lunghi
capelli biondi si trattiene così a lungo davanti alla numero 223 Poesia di Sanji
Hitoshi: un signore di campagna medita sul suo amore perduto?
Eppure dobbiamo avere qualcosa in comune perché quella è anche la mia
stampa preferita.
Il signore dà le spalle al mondo come una figura su un dipinto di Caspar
David.
Friedrich estraneo a quello stesso mondo e guarda a terra verso il canneto
sulla riva o la tranquilla superficie del mare senza onde.
All’orizzonte una lunga lingua di terra bassa si insinua furtiva nel mare ma
ai margini di tutto questo appena sotto la sottile linea che separa il cielo e
l’acqua su quello che laggiù in lontananza appare come un rettangolo
gigantesco è scritta la poesia.
Dev’essere il sogno di ogni poeta: la propria poesia scritta su un foglio di
pietra e quel foglio ritto in piedi nel paesaggio più alto delle colline.
L’unico movimento nella xilografia è quello dei giunchi e degli umiliati e
reietti i contadini senza nome che con le loro ceste cariche di verdure si
allontanano dalla figura lasciando solo nel suo dolore il signore pietrificato.
Questa stampa a colori fa parte di una serie.
Hyakunin Isshu Uba Ga Etoki...
Cento poesie spiegate dalla nutrice... della stessa epoca delle Trentasei
vedute del monte Fuji.
Anche quei capolavori sono presenti e man mano che il pomeriggio avanza
ti senti schiacciato dalla varietà dalla quantità e paradossalmente soprattutto
dal peso dei dettagli.
Sono quelli il fiore che spunta dalla roccia le dita intorno al seno di una
donna la bocca dell’attore le squame del pesce la criniera del cavallo fulvo
che costano tanti sforzi guardando attraverso il vetro unto di queste lenti
giocattolo ti senti assediato dalle raffigurazioni e per motivi che non ti sono
del tutto chiari vuoi tornare davanti a quella particolare xilografia compri lo
splendido catalogo che pesa un chilo e accosti la riproduzione all’originale e
rivedi la meraviglia in miniatura: Cascata di Amida in fondo alla via di Kiso.
C’è qualcosa di infinitamente misterioso in quest’opera.
La massa d’acqua che arriva è raccolta in una sorta di buco della serratura
appena sopra la cascata ma per riprodurre il movimento dell’acqua Hokusai
ha per così dire alzato il letto del fiume ciò che avrebbe dovuto essere
orizzontale si presenta ora come un blocco di marmo venato d’azzurro eretto
sopra la cascata in cui il bianco si precipiterà.
Indisturbati da tutto ciò dalla visione dalla violenza dello spettacolo tre
signori sono seduti a mangiare su uno spuntone di roccia.
Ciò che spaventa è che li senti parlare quando naturalmente non è possibile
per il frastuono di quella cascata scrosciante.
Se ne stanno lì tranquilli e io sono geloso.
Vorrei allontanarmi da tutta questa ricchezza di capolavori e dalla presenza
soffocante di tante anime affini vorrei entrare da sinistra in questo sansui
questo paesaggio di «montagna e acqua» essere piazzato dal maestro di fronte
al terzo uomo che sorveglia il falò vorrei
sapere cosa c’è nel pentolino appeso a quei tre bastoni e vorrei mangiare
con loro.
Ma queste cose lo so già non sono possibili.
Mi porterò a casa il catalogo e poi quando sarò vecchio riguarderò ancora
una volta tutte quelle xilografie nella mia camera da pensionato ai margini
della Veluwe e alcune le rivedrò al Rijksmuseum voor Volkenkunde di
Leida.
Nel catalogo tra l’altro c’è un brano succinto ma molto istruttivo di Willem
van.
Gulik15 sulla pittura giapponese che sono lieto di portarmi a casa con il
resto.
Lo conoscono tutti penso il momento in cui a una grande esposizione ti
senti così saturo che non ti sta più dentro nulla.
Quasi per sbaglio finisco ancora nella piccola sezione di disegni erotici che
si nasconde dietro una tendina a forma di perizoma azzurro.
Sono di una splendida complessità manieristica a volte devi proprio
piegare la testa o chinarti per vedere chi o cosa è dentro o sopra cos’altro una
giovane coppia giapponese accanto a me fa piccoli versi vagamente
soddisfatti gorgoglii e trilli di apprezzamento e sapendo che probabilmente
nessuno li capisce anche commenti mezzo sussurrati con un’ilarità piuttosto
eccitata e così il vecchio maestro il «folle del disegno» come secondo.
Edmond de Goncourt lui stesso soleva definirsi un secolo e mezzo dopo
riesce a ottenere ancora questo risultato.
Fuori cala su di me la domenica pomeriggio francese un terribile corteo
nuziale di auto strombazzanti attraversa Place des Vosges: sono stato
definitivamente cacciato dal.
Giappone.
Quando i francesi vogliono veramente organizzare qualcosa spesso lo
fanno molto bene.
Le Véel in un brillante tentativo di superare Sotheby’s e tutti gli altri
nell’ottobre del 1980 organizzò un’asta di stampe nipponiche nell’ambito di
una serie di esposizioni in collaborazione con l’ambasciata giapponese in
modo da risollevare le sorti delle «giapponeserie.» I risultati furono concreti:
un numero record di acquirenti confluiti A. Parigi (l’asta poteva essere
seguita in giapponese su un computer) e prezzi astronomici.
Uno dei fortunati effetti collaterali per gli amanti del genere fu che a
margine di tutto quel baccano venne organizzata una piccola mostra di ritratti
di attori di Sharaku che come ensemble non erano più stati visti in questi
paraggi dal 1912.
Chi si rammarica di essersi perso l’esposizione può andare al Rijksmuseum
che ne ha diversi nella sua collezione.
Sharaku è una figura misteriosa.
Compare e scompare come una cometa e la sua fama è basata su una serie
di ritratti di attori che dipinse nel 1794 per la precisione nel quinto mese di
quell’anno.
Gli attori come era consuetudine sono rappresentati nei rispettivi ruoli.
Questo riusciamo ancora a capirlo mentre il fatto che il pubblico dell’epoca
fosse così attento allo stile da riuscire a riconoscere dall’espressione del volto
quale dramma l’attore stesse interpretando è già meno alla nostra portata.
Non era per l’intrigo per la storia che si andava a teatro ma per la
perfezione della rappresentazione.
Forse il paragone più calzante è l’opera: la Callas con quella certa
espressione sul volto sta evidentemente interpretando la scena della pazzia
della Lucia di Lammermoor.
Chi fosse realmente Sharaku non si sa.
Non si conoscono sue opere precedenti o successive.
Si dice che fosse un attore che il suo nuovo modo di disegnare... la testa
dell’attore molto grande congelata nella mie (espressione del viso) su uno
sfondo color
mica piuttosto freddo... non piacesse al pubblico che sia morto giovane ma
ognuna di queste tesi è stata contraddetta in breve ci sarebbe materiale a
sufficienza per un giallo storico.
Purtroppo il grande Van Gulik non ha osato cimentarsi!
L’esposizione si tenne in una piccola galleria (Huguette Berès) sul Quai
Voltaire proprio dirimpetto al Louvre e per un momento le sessantaquattro
xilografie policrome e i disegni del maestro giapponese scomparso così
misteriosamente parvero controbilanciare l’intero Louvre.
Una sensazione incredibile quasi come una macchina del tempo: un certo
mese di una certa stagione teatrale le rappresentazioni passate gli attori
dimenticati i momenti svaniti e tuttavia conservati condensati appesi uno
accanto all’altro in quello spazio esiguo un po’ in ombra sotto lo sguardo di
qualche discendente impensabile per gli attori raffigurati: questi sono i
momenti in cui la vita mi piace di più.
Il fatto che le espressioni su quei volti bizzarri stilizzati mi siano in realtà
del tutto estranee non fa che aumentare la tensione del momento.
Il catalogo evidenzia una volta di più quale specializzazione estrema sia
necessaria per questo genere di mostre.
Fino alla monografia che Julius Kurth gli dedicò nel 1910
Sharaku era in pratica uno sconosciuto anche in Giappone.
In seguito le cose andarono in fretta: la migliore dimostrazione di questo è
come una di tali xilografie policrome venne descritta nel 1980.
La numero 20.
Osagawa Tsuneyo 11
(gli attori giapponesi come i sovrani da noi hanno le loro dinastie) nel ruolo
di Shizuka.
Si sono messi all’opera illustri investigatori.
Si sa che il dramma fu rappresentato a partire dal 5 maggio 1794 dalla
compagnia di Kawarazaki-za ma in una forma precedente era andato in scena
nel febbraio del 1751 e si tratta in realtà della versione modificata di una
pièce rappresentata già nel 1708 a Osaka.
L’attore un onna-gata (uomo che interpreta un ruolo femminile) tiene la
mano graziosamente sulla spada «i colori delicati dei suoi abiti un kimono
rosa molto stretto in vita mettono in risalto il collo bianco rosato leggermente
micaceo del kimono interno.» Il formato è oban altezza 381 larghezza 251
millimetri.
Timbro della censura: kiwame.
Sigillo dell’editore: Tsutaya.
Jusaburo.
Sono noti quattordici esemplari presenti in collezioni pubbliche (tra cui nel.
Rijksmuseum) nove in collezioni private sette sono scomparsi o abbandonati
in qualche soffitta polverosa.
Chi ne trova uno è ricco.
Ma qui comincia appena il vero lavoro da detective.
Era effettivamente quella parte in quel dramma?
O era un altro ruolo in un’altra opera?
È una partita a scacchi nel passato e per giunta contro un avversario
invisibile.
Quando abbandono la galleria il sole al tramonto tinge l’arenaria del
Louvre di un colore di papaveri sfioriti.
L’idea che da qualche parte tra quelle mura uno storico dell’arte
giapponese stia senz’altro consultando il suo manuale di iconografia cristiana
per interpretare una miniatura medievale mi procura un intenso piacere.
Dicembre 1980.

13 Scritto in occasione della grande mostra dedicata a Hokusai «Le fou de


peinture - Hokusai et son temps» al Centre.
Culturel du Marais a Parigi nel 1980.
(N. d. T.)
14 A questo principio tuttavia non mi sono attenuto.
Sono seguiti molti altri viaggi dai quali nel 2013 è scaturito il libro
Saigoku.
15 Willem Robert van Gulik (n. 1944): ex direttore del Rijksmuseum voor
Volkenkunde di Leida e figlio del famoso sinologo diplomatico e scrittore
Robert Hans van Gulik (1910-1967.)
Capitolo 5
L’ombra di Nyogo: il Giappone a Londra

Ogni tanto si fanno cose strane.


La prima volta che andai in Inghilterra viaggiai in nave.
Mi sembrava adeguato avvicinarmi a un’isola così.
La terra si fece vedere appena all’ultimo momento e la stessa foschia che
l’aveva nascosta avvolse anche il treno che mi portò fino a Londra.
Arrivai in Victoria Station e non vedevo al di là del mio naso.
Sarà stato ormai quasi trent’anni fa e tutto corrispose alle mie aspettative.
L’Inghilterra si schiuse davanti ai miei occhi solo molto lentamente e mai
del tutto.
Forse è proprio per recuperare quel ricordo che ora torno lì in nave anche
se questa volta vado per la grande mostra sul Giappone.
Aprire la conchiglia del Giappone è stato un gesto magico tanto per quelli
che l’hanno compiuto quanto per quelli che l’hanno subito e sebbene
all’apparenza sembri il contrario quella conchiglia non è ancora veramente
aperta la forza enorme del muscolo che la tiene serrata non è stata ancora
decodificata in misura sostanziale.
La mostra inizia dal breve ma importante periodo Momoyama (1568-
1600.)
Dopo un secolo di aspre guerre civili nel quale i grandi signori feudali si
combattono senza pietà Oda Nobunaga riesce ad avviare l’unificazione del
paese.
Nel 1582 viene assassinato e gli succede Toyotomi Hideyoshi (1536-1598)
che costruisce castelli e palazzi e dà origine a una nuova arte dei paraventi
dipinti; la cerimonia del tè e tutto ciò che vi appartiene in termini di arti
«applicate» raggiunge sotto il suo governo una grande fioritura.
La sua invasione della Corea non finisce bene ma la conseguenza è che
attraverso la Corea il.
Giappone viene a contatto con nuove forme di ceramiche e lacche.
Il suo successore.
Tokugawa Ieyasu (1542-1616)
è stato il primo shogun Tokugawa.
Il potere dello shogun può essere paragonato a quello di dittatori come
Stalin e Franco.
Il fatto che accanto a lui perduri l’ombra divina dell’imperatore... come un
uccello raro prigioniero nel suo palazzo e nella sua corte a Kyoto...
è uno di quei misteri giapponesi che non si riusciranno mai a spiegare del
tutto.
Quell’imperatore non aveva nessun potere eppure i Tokugawa gli
consentono un’esistenza controllata e limitata nei movimenti lì nella sua corte
lontana fino a quando dopo una lunga serie di shogun l’ultimo Tokugawa
restituisce il potere alla corona.
Ma a quel punto siamo nel 1868 e il Giappone ha alle spalle circa due
secoli e mezzo di stato di polizia.
Forse non è esattamente l’espressione più appropriata ma è sempre meglio
cercare di capire quanto ci è estraneo con concetti a noi familiari.
Anche se questo può creare nuova confusione almeno aiuta a chiarirci
qualche idea.
Dopo avere sconfitto definitivamente i suoi ultimi avversari influenti nel
1600 presso.
Sekigahara (che per i giapponesi è importante come per noi la Battaglia di
Nieuwpoort)
Ieyasu stabilisce la sua capitale a Edo l’attuale Tokyo.
La sua forza militare è ora così grande che nemmeno i più potenti signori
feudali pensano più a una rivolta.
Ieyasu li costringe a rimanere a Edo per lunghi periodi prestabiliti.
Così non solo li controlla meglio ma li vincola anche finanziariamente.
Per continuare a mantenere il loro status elevato... come la nobiltà inglese
che si trasferiva a Londra per the season... sono costretti a grandi spese il
tutto a vantaggio della borghesia che si sta formando a Edo.
Alla base dell’economia giapponese c’era la campagna che produceva riso
tale ricchezza era
misurata in koku (un koku equivale a circa 180 litri o 150 chili dice il mio
vocabolario) e della quantità di koku disponibili (26 milioni) la famiglia
Tokugawa ne riceveva 17 milioni.
I daimyo (signori feudali)... e tutti quelli che per il proprio sostentamento
dipendevano da loro... dovevano accontentarsi di 9 milioni di koku.
Oltre a questa smisurata ricchezza una serie di leggi ferree e un sistema
durissimo di controlli e controcontrolli garantiva l’inviolabilità del governo.
La società era rigorosamente divisa in classi e così come non era permesso
lasciare il paese non si potevano superare nemmeno i confini della propria
casta.
Ai vertici c’erano i guerrieri samurai ai quali seguivano i contadini gli
artigiani e solo dopo la classe dei commercianti ma anche grazie al curioso
ribaltamento di tutti i valori dell’epoca Edo proprio quel mercante disprezzato
diventa ora ricco mentre il samurai aristocratico per il quale c’è sempre meno
impiego rimane nobile per quanto sempre più povero.
Le ripercussioni di tutto questo per chi conosce la storia sono ben visibili
nella mostra.
La borghesia nascente è anch’essa vincolata da tutte quelle regole severe...
ogni manifestazione di esuberanza è bandita e cosa sia esuberante nel
vestiario nell’edilizia e nell’arte viene stabilito dall’alto... ma non funziona.
La nuova ricchezza si manifesta inevitabilmente e nasce un’autentica arte
della nuova classe per la nuova classe mentre in parallelo segue la propria
evoluzione un’arte sobria controllata e aristocratica.
Quando dico che sono ben visibili non significa ancora che la definizione
delle due tendenze sia netta.
Non si tratta sempre di preferenze tematiche ma anche della «purezza»
dell’esposizione.
Gli abiti meravigliosi usati nel teatro kabuki e kyogen presentati in una
vetrina assumono un che di statico e sacrale: potrebbero tranquillamente
essere paramenti da messa in un museo spagnolo d’arte ecclesiale.
Splendidi certo ma immobili privi del corpo «fluido» di un attore sprovvisti
dei suoni e del pathos della commedia.
Lo stesso vale naturalmente anche per un certo numero di oggetti d’uso.
Già per il solo fatto di comparire così isolati e autonomi risultano distaccati
e assumono un valore artistico che è lungi da ogni idea di realtà quotidiana.
Qualcosa di tutto ciò deve essere senza dubbio emerso nella controversia
prima della mostra tra i finanziatori e gli enti governativi giapponesi e gli
organizzatori inglesi.
Che cos’è arte?
Così si potrebbe riassumere quel conflitto.
I giapponesi volevano far vedere la loro arte classica aristocratica i dipinti
la calligrafia anche di periodi più antichi.
I prodotti artigianali per loro non erano né sono arte.
Sono oggetti d’uso e il fatto che noi li troviamo così belli non basta a
trasformarli in arte nel senso classico del termine.
Gli organizzatori invece volevano mettere in mostra la totalità del periodo
Edo.
L’influsso della Cina allora era molto minore rispetto alle epoche
precedenti e dopo che i portoghesi e gli spagnoli erano stati cacciati dal paese
tutte le branche di quella che noi chiamiamo arte poterono evolversi in modo
del tutto indipendente.
Se ora manteniamo la nostra definizione di arte (includendo quindi i
kimono le scatole di lacca e le stampe erotiche) il problema assume l’aspetto
seguente: il rigido sistema di caste... sul quale troneggiava ancora una corte
imperiale con le proprie tradizioni e norme artistiche... produsse giocoforza
un’arte di caste.
Forse è ancora meglio parlare di arte di classe.
I giapponesi non volevano saperne di una simile suddivisione che in base
alla nostra
concezione è invece essenziale per il periodo Edo oltre a essere
affascinante per gli amanti del teatro e delle stampe delle geishe.
D’altra parte gli organizzatori della mostra volevano anche far vedere che
l’arte popolare nata nei secoli dello shogunato Tokugawa è proprio alla base
delle capacità dell’abilità e dell’inventiva che hanno reso così grande il
Giappone nel nostro secolo.
Questo insieme allo spirito di sacrificio e obbedienza del samurai (colui
che serve) per noi tuttora alquanto misterioso questa strana combinazione in
quel lungo e così particolare isolamento ha preparato il miracolo giapponese.
Accanto a tutto il godimento visivo la mostra ha un forte retrogusto
didattico: per chi oltre a guardare vuole anche pensare almeno una parte del
mistero recalcitrante viene decodificata.
Ma è difficile.
Molta arte asiatica mi squilibra sempre un po’.
La mancanza di prospettiva lineare è destabilizzante l’assenza di psicologia
estrania la scarsità di conoscenze su emblematica mitologia simbolismo e
letteratura rende ingenui quasi ciechi.
Soltanto di rado so cosa vedo: così come un abitante del Nepal non è in
grado di leggere un timpano romanico con l’Apocalisse io qui in alcuni casi
non vedo cos’è rappresentato.
Vedo la rappresentazione e ne godo in quanto tale ma poche volte so cosa
significa.
Metà di ciò che comunica non lo comprendo.
Resta pur sempre abbastanza dice il puro cacciatore di diletto che dimora
in me ma quel significato mancante mi rende insicuro.
I ritratti sono un pretesto per un grande dispiegamento di linee colori
plasticità ma anime non ce ne sono vedo le figure non vedo dentro.
Tutto il mio osservare avverte un colpo basso leggero ma netto che lo fa
vacillare.
Con una certa spavalderia si potrebbe dire che l’arte giapponese è
innaturale e inumana e poi scappando per sottrarsi ai colpi della bacchetta di
bambù di intenditori e maestri gridare da lontano che non era da intendersi
così.
E come allora?
Inumana perché non ci sono ritratti riconoscibili non sono rappresentati gli
ego.
Innaturale perché la natura è talmente stilizzata da ergersi al di sopra di se
stessa.
È quasi sempre un’idea di natura quella che vedo e non la natura stessa.
È grave?
No non è grave.
Bisogna solo abituarsi.
Le idee a volte colpiscono più della realtà.
Un esempio di ciò che intendo è una coppia di paraventi... ciascuno con sei
pannelli... di Watanabe Shiko (1683-1755.)
Questi byobu con il loro emblematico oro erano oggetti decorativi del
palazzo dello shogun amante dell’arte ma isolati da quel significato li vedo
ora come una serie di quadri che sono uno la prosecuzione dell’altro.
Non è tanto la sensuale curva femminile di quelle colline a essere
innaturale perché colline del genere in Giappone esistono le ho viste strane
ondulazioni improvvise confessioni del paesaggio.
Queste colline si trovano nei pressi di Yoshinoyama e dal VII secolo i
giapponesi ci vanno in primavera ad ammirare la fioritura dei ciliegi.
Ciò che è strano è la mancanza della natura aneddotica.
Niente nuvole sentieri steccati niente terra e niente cielo.
Le colline verde scuro e chiaro e la neve bianco rosata dei petali sono
prigioniere in un profondo universo d’oro di un’intensità tale da rafforzare la
raffigurazione.
Qui tutti trattengono il fiato anche la natura.
Il silenzio è ancora più grande su un’altra coppia di paraventi di Kano
Tan’yu che devono essere stati dipinti intorno al 1650.
Anche qui l’oro regna sovrano; mi accorgo che davanti a tanta elevata
potenza faccio un passetto indietro.
Sui due paraventi sono raffigurati
solo due pini.
Ciò che colpisce è la spietata vastità dello spazio che l’artista ha osato
lasciare vuoto.
Se uno smontasse i paraventi su molti dei pannelli non vedrebbe che
l’estremità di un ramo tutto il resto è vuoto dorato.
Il pensiero che si tratti più dell’idea di quegli alberi che di alberi mai visti
dal pittore non è poi così folle.
Modificare o ridipingere sulla seta non è possibile: quello che c’è c’è e non
si può rifare.
L’artista deve avere in testa tutto ciò che vuole raffigurare deve andare a
colpo sicuro come un tiratore di spada (tra i samurai c’erano grandi pittori e
calligrafi.)
Usa il polso e anche il gomito colpisce con un tratto del pennello il che se
si guarda al di là del silenzio della rappresentazione può avere un particolare
effetto esplosivo.
Molte persone avvertono una resistenza che deriva dalla vergogna a
trascinarsi dietro un’audioguida quando visitano una mostra del genere.
Ci si sente un po’ come una scimmia con quel cavo infilato nell’orecchio
da cui la saggezza entra goccia a goccia.
Per questa mostra l’ho fatto e una calma voce inglese mi accompagna da
Momoyama a primo Edo da alto a medio Edo di sala in sala oggetto dopo
oggetto.
Si può fermare la voce o farla tornare indietro e alla fine mi accorgo di
essere stato lì dentro più di quattro ore e mezzo.
Così mi sposto dai kakemono alle spade dai paraventi ai kimono dal
mondo etereo dell’arte di corte alla confusione sempre più allegra delle
strade.
Mi sorprendo guardo e ammiro avverto la gelosia dell’escluso a volte mista
al godimento dell’iniziato quella voce e gli oggetti mi stregano e certi penso
non li dimenticherò mai come quella corazza di samurai con la spada dorata
asimmetrica sull’elmo simile alla carcassa di un animale impazzito che ha
preso una deriva disperata dell’evoluzione e finirà estinto.
Ciò che sicuramente non potrò dimenticare è la ciotola raku dell’inizio del
XVII secolo chiamata Azuma.
Non amo mischiare le mie competenze (immaginare e descrivere) ma chi
ha letto il mio romanzo Rituali forse non vorrà credere che non avevo ancora
mai visto una ciotola raku classica dal vero.
Bene e allora eccola la mia ciotola così come l’avevo immaginata a portata
di mano ma intoccabile nera e lucida con una nuvola bianco cenere che
scende lentamente sulla superficie ruvida e sprofonda negli abissi seducenti e
invisibili di una palude.
Visitando la mostra ho preso più di cinquanta pagine di appunti sul mio
quadernetto.
Gran parte non sono finiti in questo scritto perché non è possibile
descrivere un cosmo intero.
E tuttavia è stato questo: un mondo chiuso non solo nello spazio geografico
ma anche nel tempo come se anche in quell’elemento che tutto pervade che è
il tempo fosse stato eretto uno schermo impenetrabile dietro il quale questa
civiltà potesse fiorire nel proprio spazio.
L’ultimo appunto sul mio quadernetto riguarda la portantina (norimono)
del quinto shogun Tokugawa Tsunayoshi.
«Gabbia chiusa» ho scritto che è esattamente quello che è: una gabbia per
un uomo solo un uomo che era il più potente di tutti.
«Its formality and impracticability symbolize the inwardlooking and rigid
attitude of the shogun government and its lavish craftmanship the skills
which were to help Japan to its successes in the modern world.» 17
Me ne vado così come sono arrivato in nave.
Il mare è in burrasca e piove non si vede più nulla della terra tanto che
abbiamo la sensazione di viaggiare nell’eternità.
E poiché nella vita tutto finisce per armonizzarsi proprio in quel momento
leggo la fine di un
romanzo di Ihara Saikaku (1641-1693.)
Il libro si intitola The Life of an Amorous Man e più di molte delle sculture
lignee famose dà un’immagine della vita gioiosa e fluida così come si
svolgeva al di fuori della portantina dittatoriale.
L’eroe Yonosuke conduce un’esistenza baldanzosa e voluttuosa.
Forse con la scrittura si riesce a fare di più che con la scultura perché la
formalità incorniciata dell’ukiyo-e sbiadisce e lascia il posto a un.
Giappone di persone che vivono puzzano fanno l’amore o per usare ancora
una volta la stessa iperbole di prima la stilizzazione la disumanità scompare e
perfino il concetto di uno stato di polizia per un momento vacilla perché la
critica della «tirannide» è talmente disinvolta e schietta che la pubblicazione
di questo romanzo sotto i regimi dittatoriali contemporanei sarebbe stata
impensabile.
La fine è molto divertente e ricorda irresistibilmente Fellini.
Dopo una vita di amoreggiamenti intrighi avventure e relazioni con
ballerine vedove e cortigiane Yonosuke ha esaurito ogni voluttà.
Raccoglie intorno a sé i vecchi amici che hanno diviso con lui una vita di
piaceri.
Fa costruire una nave con vele fatte di biancheria femminile e la arreda con
i ricordi delle amiche di un tempo.
Quando tutto è pronto issano le libidinose vele.
«Dove andiamo?» domandano gli amici e Yonosuke risponde che
andranno a Nyogo un’isola inesistente abitata esclusivamente da donne «che
ci sfiniranno a dovere.» «E così» conclude il libro «un bel giorno alla fine del
decimo mese dell’anno Tenwa 2
[1682] la nave con il suo equipaggio di avventurieri eternamente lieti prese
il largo puntando verso l’orizzonte sconfinato da dove non fece mai più
ritorno.» E con la sensazione che questa immagine completi la mia immagine
dell’era Edo vado sul ponte e nella selvaggia danza grigia della tempesta
davanti a me cerco l’ombra di.
Nyogo.
Dicembre 1981.

16 Scritto in occasione della mostra «The Great Japan Exhibition - Art of


the Edo Period 1600-1868» allestita alla Royal.
Academy of Arts di Londra nel 1981.
(N. d. T.)
17
«Il suo formalismo e la sua apraticità simboleggiano l’attitudine chiusa e
rigida del governo degli shogun e la sua ricca manifattura quelle doti che
avrebbero condotto il Giappone ai propri successi nel mondo moderno.» (N.
d. T.)
Capitolo 6
Il mistero nello specchio: le ossessioni di Ian Buruma

Solo chi è genuinamente affascinato è disposto a soffrire per ciò che gli sta
tanto a cuore e magari arriva perfino a trarne piacere.
Per tutti gli altri la cosa rimane vagamente bizzarra.
Già solo il numero enorme di fumetti horror e storie criminali film di serie
B homu durama’s (home drama’s) sentimentali spettacoli di spogliarello e
glittershow che.
Ian Buruma deve aver visto e descritto per anni per poter dare
un’immagine del Giappone e dei giapponesi nel suo libro A Japanese Mirror:
Heroes and Villains of Japanese Culture è sorprendente.
Io ho dovuto limitarmi a prendere in dosi adeguate la valanga di nomi titoli
trame e date: quando esageravo venivo letteralmente sommerso e dubito che
qualcun altro tranne forse per qualche studio sociologico sia mai stato in
grado di fornire altrettanti dettagli da un insieme così strampalato di fonti.
È come se un sociologo peruviano dovesse fare un’analisi della società dei
Paesi Bassi e del carattere della popolazione sulla base di riviste come Story e
Privé serie televisive di.
Willy van Hemert spettacoli del Theater van de Lach show a luci rosse di
Casa Rosso i disegni di Peter van Straaten i testi di André Hazes Swiebertje e
l’Amsterdams.
Volkstoneel insieme a uno studio di film nederlandesi più seri le tematiche
di Vestdijk le poesie di Remco Campert e l’analisi della sessualità in
Wolkers.
Sembra bizzarro ma è più o meno ciò che ha fatto Buruma perché nel suo
discorso non sono presenti soltanto il teatro no e kabuki Mishima e Tanizaki
ma anche il caso del violentatore con il calzante porno «politici» i retroscena
psicologici degli istituti per massaggi e tre drammi strappalacrime.
Per questa infinità di informazioni dobbiamo essere grati allo scrittore.
Primo perché per come è scritto il libro costituisce di per sé una lettura
affascinante e secondo perché ci risparmia di dover prendere in esame tutto il
materiale originale.
Posso tranquillamente leggere Kawabata mentre Buruma pare aver
trascorso alcuni anni della sua vita ininterrottamente davanti al televisore
attraversando così il fango per noi.
Donne squartate fiumi di sangue rivoli di lacrime o come dice l’autore
stesso analizzando un fumetto per bambini (Dame Oyaji... Padre stupido):
«E così via in una serie infinita di crudeltà.» L’analisi in questo caso riguarda
il ruolo del padre nella famiglia.
Chi ha ancora l’idea del dominatore patriarcale leggendo la perderà.
Nella famiglia specifica il povero genitore si ritrova legato al palo come un
cane deve fare la spesa camminando a quattro zampe viene bruciato vivo in
un crematorio e il suo unico amico in questo mondo crudele un canarino gli
viene servito per pranzo dai figli tra sonore risate.
È questa l’immagine che devo farmi dell’impiegato medio della Honda
della Mitsubishi e del ministero dell’Economia?
Buruma dice: «Soprattutto perché la sua già fragile posizione risulta
ulteriormente indebolita dalle idee recenti sulla demokurashi il padre viene
spesso deriso.
[…]
Ancora una volta questo è un fumetto per bambini e per quanto vagamente
estremo non è affatto unico.» Sono stato in Giappone diverse volte e ogni
volta alla partenza i misteri erano più grandi che all’arrivo.
Questo libro è forse stato il viaggio più intensivo che io abbia mai fatto in.
Giappone e in realtà vale lo stesso principio.
Non l’ho letto per trovare finalmente la
panacea per tutta la mia incomprensione ma il mistero come è
caratteristico di tutti i misteri nel mio caso proprio per le chiavi che Buruma
mi offre in realtà non ha fatto che aumentare.
Probabilmente non c’è niente di più misterioso dell’idea del
sostanzialmente altro.
Nel film Sans Soleil di Chris Marker che ho visto un paio di giorni fa e che
è girato in gran parte per strada li vedo camminare i salarymen come si
chiamano in Giappone.
Anche quando ero lì mi faceva impressione quella folla di uomini che ti
viene incontro nell’ora di punta tutti in abito scuro camicia bianca e cravatta
che come l’immagine di uno di loro riprodotta migliaia di volte secondo una
disciplina impensabile per i canoni europei si ferma al semaforo rosso.
In quelle teste dunque abitano i concetti di cui Buruma spiega
dettagliatamente la valenza emotiva e sociale.
Ma anche la sua spiegazione fa sorgere alcune domande.
Quando per esempio nel descrivere «il dramma teatrale più famoso mai
scritto in lingua giapponese» (Chushingura o la storia dei quarantasette ronin)
introduce il concetto dell’on si vendica in primo luogo l’ambiguità della
nostra lingua.
Nei Paesi Bassi... e questo naturalmente la dice lunga sul nostro carattere
rispetto a quello degli inglesi o degli spagnoli... la parola debito ha una
valenza sia finanziaria che morale.
18 Ora subentra una doppia confusione di significato perché Buruma in
questo passaggio dice che ogni giapponese «nasce con un debitocolpa per cui
dovrà pagare.» Questo debitocolpa si chiama on e lo si ha per via degli «avi
che hanno tenuto in piedi la famiglia e in seguito dei genitori che hanno
messo al mondo il figlio.» E per quanto sia chiaro che si tratti più di un debito
d’onore che del concetto cristiano di peccato originale (e della conseguente
colpa) un giapponese che non ripaghi il suo debito è debitore e questo non è
possibile perché per quanto le parole «debitocolpa» «sensi di colpa» e
«debitorecolpevole» ricorrano in diversi passaggi Buruma afferma al tempo
stesso che il giapponese non conosce il concetto di debito morale perché non
segue principi universali ma norme di comportamento sociali.
Chi le infrange avverte piuttosto vergogna.
O c’è in effetti una colpa che precede la vergogna?
Ora potrei dare l’impressione di voler complicare le cose inutilmente ma
penso che non sia così.
Semplicemente: le cose sono complicate.
Per tutta una serie di concetti come giri amae kata e koha infatti non
esistono traduzioni lapidarie ma solo giri di parole che li descrivono.
Il fatto che queste descrizioni siano possibili d’altra parte significa a sua
volta che tali concetti possono essere resi comprensibili e con ciò l’idea
dell’essenzialmente altro diventa già meno totalitaria.
Si può dire essenzialmente altro?
Io non sono riuscito a capirlo neanche dopo questo libro.
Chi cresce in una società basata su principi morali universali dev’essere
essenzialmente diverso da chi cresce in una società fondata su regole di
comportamento sociali.
In quest’ultima società la persona e Buruma lo dimostra ampiamente è il
membro di un gruppo della famiglia giapponese e fa del suo meglio a spese
dell’individualismo per comportarsi da membro di quel gruppo e non esserne
escluso soprattutto non manifestandosi in quanto altro.
In occidente questo porta subito al malinteso che in realtà i giapponesi non
esistano come individui singoli.
E per quanto vi sia sicuramente una forma di indifferenza nei confronti del
proprio destino che noi non conosciamo fino in fondo basta leggere i romanzi
di Kawabata Kenzaburo Oe o andando indietro nel
tempo Ihara Saikaku o Murasaki Shikibu per sapere che questa alterità non
è poi così altra e che sotto tutto ciò che ci appare bizzarro c’è il fondo
comune della condition humaine grazie alla quale possiamo identificarci con i
protagonisti di quei romanzi.
Lo stesso e non lo stesso si potrebbe concludere con il filosofo e altro
paradosso è proprio documentando in modo così dettagliato il non lo stesso
che Buruma riesce ad avvicinare l’idea di fondo dello stesso per quanto il
lettore rimanga spaventato e sorpreso soprattutto dal capitolo sui gangster e
sui nihirisutos (nichilisti) dove si parla tra l’altro del valore estetico per noi
quasi inconcepibile dell’omicidio e della violenza.
Come esempio Buruma cita un libro che nel 1983 vinse il più alto premio
letterario.
«L’autore.
Kata Juro ha seguito un’antica tradizione della letteratura giapponese
utilizzando un avvenimento reale per costruirvi sopra una fantasia letteraria.
L’avvenimento era questo: uno studente giapponese a Parigi sparò alle
spalle alla sua ragazza olandese la tagliò a pezzi con un seghetto elettrico e
mangiò alcune parti del suo corpo.» (Il fatto che registrò il tutto in un video
che di recente è stato trasmesso in Giappone B. non lo dice ma forse al
momento non lo sapeva ancora.)
«L’omicidio non viene analizzato né condannato.
Senza cambiare i nomi veri delle persone coinvolte lo scrittore «gioca»
letteralmente con i fatti.
Grazie allo stile quasi documentario il lettore ha la spiacevole sensazione
di non sapere esattamente cosa accade davvero e cosa no.
Spiacevole almeno per un lettore cresciuto in una cultura in cui la Verità è
sacra.» Devo ammettere che quest’ultima frase e l’ironica V maiuscola mi
sconcertano.
Kousbroek un ammiratore di Buruma ha attaccato duramente Rob
Nieuwenhuys perché avrebbe rinnegato il suo «spirito essenzialmente
europeo» dimostrando eccessiva comprensione nei confronti di un rampok
macan.
19 Secondo lui si trattava «soltanto» dell’uccisione collettiva... in un
passato lontano... di un animale e non di una ragazza fatta a pezzi... di
recente... e divorata.
Ma lascio parlare di nuovo Buruma: «Il libro di.
Kata rispetto ai canoni giapponesi provocò critiche particolarmente aspre
ma per motivi puramente estetici.
La moralità o la sua assenza non era affatto in discussione così come non
lo era l’uso disinvolto dei fatti.
L’autore è stato giudicato in base allo stile letterario.
Un omicidio reale nel suo libro veniva trasformato in arte né più né meno.
In quanto tale non ha più nulla a che fare con la realtà e quindi nemmeno
con la moralità.
Incoraggiare le persone a sfogare i loro impulsi crudeli nella fantasia è un
modo per mantenere l’ordine.
Compiere reati per interposta persona è una delle funzioni del teatro.
Fino a quando si mantiene il tatemae della gerarchia dell’etichetta e del
decoro sociale il lavoratore frustrato può tranquillamente guardare immagini
di donne torturate se lo vuole.» And never the twain shall meet20 penso
allora per quanto l’autore precisi giustamente che l’idea giapponese di
dramma vada paragonata alle teorie teatrali di Artaud.
Ma nonostante il suo grande influsso Artaud non è mai diventato
veramente patrimonio comune.
Sono un ipocrita o semplicemente non ho visto abbastanza dei nostri
ordinari video di violenza sesso e orrore del genere a cui Buruma si è così
diligentemente dedicato?
Dopo essersi occupato come aveva annunciato nella prefazione delle donne
nella prima parte e degli uomini nella seconda (una parte intermedia riguarda
i travestiti) seguendo l’immaginazione collettiva dei giapponesi conclude che
si tratta di «un popolo
mite.» Secondo la loro stessa opinione («un certo consenso») sono «nat
yasashii gentili teneri dolci […] e si esprimono attraverso emozioni calde
dolci umide anziché pensieri razionali duri e asciutti.» Lasciatemi dunque
provare a riordinare ancora una volta i miei pensieri asciutti.
In quest’ultimo capitolo Buruma sostiene che la pornografia
sadomasochistica le scene di torture in televisione («perfino nei programmi
per bambini») e tutti gli altri orrori e sentimentalismi che ci ha presentato per
quanto bizzarri possano essere sono di fatto aspetti normali della vita
quotidiana in Giappone.
Le prove di quella mitezza essenziale quindi devono venire da qualche
altra parte: «Quella giapponese è una società estremamente protetta con il
minor numero di reati violenti rispetto a qualsiasi paese dell’Occidente.»
Questo in fondo è ampiamente dimostrato.
Chi si limita ad avere sogni violenti non compie atti violenti.
Ma è perché sono fondamentalmente miti o perché il coperchio del
consenso comune è così saldamente avvitato?
La risposta di Buruma è un’immagine poetica nell’ultimo paragrafo del
libro: «L’immaginazione bizzarra teatrale e il gusto grottesco e morboso che
da secoli determinano la cultura popolare giapponese sono il rovescio della
medaglia della realtà quotidiana fugaci e inafferrabili come un’immagine allo
specchio.» Al che il lettore non sa cosa pensare: più di duecento pagine di
studi dettagliati di fantasie borghesi in gran parte sgradevoli all’improvviso si
dissolvono nello specchio.
E adesso?
Può tornare alla semplicità aristocratica delle ciotole raku alla chiarezza
riconoscibile dei versi di Basho all’estetica della nonviolenza che gli è tanto
più cara che si trovi in una pietanza kaiseki o in un foglietto di carta
ripiegato?
Per un momento avverte (avverto) la tentazione spavalda di dire che non ha
nessun senso che i giapponesi in fondo sono come tutti gli altri esseri umani
solo che grazie alla loro storia davvero particolare sono vissuti per un paio di
secoli nella cultura pura della dittatura Tokugawa e così hanno ancora oggi
impostazioni diverse.
Non voglio dire che siano diversi.
E a questo punto stranamente dopo tutte quelle pagine non mi trovo in
disaccordo con Buruma che ha iniziato il suo libro con una vecchia zia che
una domenica pomeriggio d’estate gli chiese cosa stesse leggendo.
««Un romanzo giapponese» risposi.
«Com’è possibile» disse lei.
«Quelli hanno sentimenti totalmente diversi dai nostri non è così?» Molte
persone tra cui mia zia trovano ancora difficile capire che i giapponesi non
sono solo esotici esportatori di automobili diversi in tutto dagli altri.
In fondo scrivono al contrario quindi penseranno anche al contrario.» Tutto
il libro con la sua ricchezza di materiale riunito per la prima volta serve a
illustrare la fondamentale ambiguità del primo e dell’ultimo paragrafo.
Con ciò l’opera in sé non risulta «fugace e inafferrabile come un’immagine
allo specchio» ma il contrario.
Un libro che quando finisci di leggerlo vorresti passare un giorno chiuso da
qualche parte con l’autore per riempirlo di domande o obiezioni non potrà
mai essere definito fugace.
Piuttosto un mattone nella sempre più grande Casa delle Domande in cui
come Alice nel paese delle meraviglie ti lasci attrarre sempre più dai misteri e
dalle contraddizioni.
Maggio 1984.

18 Il termine nederlandese schuld significa sia «debito» che «colpa.» (N. d.


T.)
19 Cerimonia sacrificale giavanese che culmina nell’uccisione di una tigre.
(N. d. T.)
20
«E mai si incontreranno.» Dalla Ballata dell’Est e dell’Ovest di Rudyard
Kipling.
(N. d. T.)
Capitolo 7
La storia di Genji: un romanzo di mille anni

Che tela inimmaginabile ha tessuto Murasaki Shikubu!


Jos Vos che ha lavorato per anni a tradurla in nederlandese dice
nell’introduzione che è facile distinguere tra loro le signore nel libro.
Ma lui le ha frequentate per anni come se fosse stato una presenza
invisibile a corte.
Il lettore che sono stato io non ha avuto un compito altrettanto semplice.
Mi perdevo regolarmente tra la Prima e la Seconda Principessa e spesso
non mi era chiaro se qualcuno fosse effettivamente stato a letto con qualcun
altro o no perché il fatto in sé non veniva mai esplicitato soltanto suggerito.
Questo aspetto del resto non è sorprendente dal momento che a corte si
viveva in una costante penombra preferibilmente di notte per cui in realtà non
ci si vedeva mai bene con la conseguenza che dovevi avere un istinto
voyeuristico straordinariamente sviluppato perché le donne non si
mostravano di propria iniziativa ed era un’arte riuscire a scorgere qualcosa di
una di loro attraverso fessure pertugi aperture e dietro paraventi e tende.
Al fatto che nemmeno le donne potessero vedere bene gli uomini si
rimediava con un sistema estremamente sofisticato di odori e profumi
attraverso i quali anche gli uomini come per esempio il principe Niou e il suo
amico Kaoru degli ultimi capitoli di Uji potevano essere immediatamente
riconosciuti.
In breve: un gioco di ombre allucinatorio e claustrofobico che più cerchi di
capirlo e più ti coinvolge anche per lo sfondo politico quell’infinita partita a
scacchi al tempo stesso nascosta e palese per aggiudicarsi forme di influenza
e potere.
La storia di Genji è un continente al quale nel corso degli anni mi sono
avvicinato in modi diversi.
Una volta ho letto il libro nella versione inglese di Edward Seidensticker
ma poi ho anche dato un’occhiata alla precedente traduzione di Waley dove
alcuni capitoli e personaggi hanno nomi differenti e anche le loro cariche a
corte sono chiamate diversamente.
Naturalmente Seidensticker dovette tenere conto di quella famosissima
prima pubblicazione inglese e spesso ne parla in modo divertente nel diario
che tenne nei lunghi anni in cui lavorò alla sua traduzione.
In tedesco La storia di Genji uscì per.
Insel Verlag ma quella era la traduzione della traduzione di Waley perciò
in realtà non conta.
Nel 2010 trovai l’unica altra versione tedesca tradotta direttamente dal
giapponese in una libreria antiquaria di Monaco che tuttavia non fece che
aumentare la mia confusione perché termina con un elenco di dramatis
personae che il traduttore.
Oscar Benl con allegria barbarica ordina mettendo insieme personaggi del
tutto diversi che hanno lo stesso nome.
Quando in un romanzo compaiono oltre 400 personaggi la confusione è
inevitabile ma è anche eccitante cercare di orientarsi tra tutte quelle figure e
le loro relazioni amorose e non.
Quando dico agli amici giapponesi che ho letto La storia di Genji ridono
increduli e non c’è da stupirsi perché loro stessi ormai da tempo non sono più
in grado di leggere il giapponese di Murasaki e devono dipendere da
conterranei che hanno rielaborato il testo traducendolo dal giapponese di
corte dell’XI secolo.
Uno di questi traduttori fu Junichiro.
Tanizaki e anche lui come più tardi altri colleghi stranieri ha spesso dovuto
indagare sul significato di un termine una frase o un’allusione perché ci sono
parole e anche parti di
parole che possono avere più di un significato e voler dire molte cose.
Fin dall’origine dunque il libro è avvolto da un alone di mistero che non si
dissolve nemmeno trascorrendo un periodo nella Kyoto del XX e XXI secolo
in cerca di tracce un gioco anacronistico cui è meglio rinunciare perché come
dice chiaramente Ivan Morris nel suo indispensabile Il mondo del Principe
Splendente: nulla è più lo stesso nel Giappone di oggi.
Questo è vero ma per fortuna non del tutto.
Ho passato molte sere sulle sponde del Kamo ho scrutato il monte sacro
Hiei attraverso le brume del mattino e mi è tornato alla mente il libro.
Le montagne e i fiumi rimangono per lo più nello stesso posto e se il lettore
al crepuscolo socchiude un po’ gli occhi a volte vede ciò che deve aver visto
la scrittrice.
Uji al giorno d’oggi un breve tragitto con i mezzi pubblici si trovava
all’epoca proprio come ora lungo il fiume ma per i protagonisti della Storia di
Genji soprattutto in inverno e con la neve si raggiungeva con un viaggio a
volte avventuroso o drammatico attraverso le montagne durante il quale si
poteva anche essere aggrediti.
L’ultimo capitolo del libro nella traduzione nederlandese di Jos Vos è
intitolato «Il ponte galleggiante dei sogni.» Quel ponte ora non galleggia più
però c’è una statua dell’aristocratica scrittrice che sembra intenta a lavorare al
libro per il quale il tardo lettore ha fatto il suo viaggio a Kyoto e Uji.
Nel poco distante tempio di Ishiyama è seduta come una bambola in
costume protetta da un velo e naturalmente viene da pensare che abbia scritto
almeno una parte del suo libro lì.
Il lettore entusiasta non si lascia defraudare volentieri delle sue illusioni.
Certo all’epoca non c’erano ikebana sashimi o tempura c’era invece il go e
c’era il koto e le poesie delle antologie classiche già allora antiche di secoli
che in modo del tutto naturale erano parte integrante del bagaglio spirituale
dell’aristocrazia di corte e che gli innamorati nel libro conoscono a memoria
e si recitano l’un l’altra di continuo possiamo leggerle tuttora se sono tradotte
o riscritte in una lingua moderna.
Caratteristiche e sentimenti umani amore desiderio noia e gelosia in sé non
sono estranei a nessuno.
Pertanto malgrado i mille anni che dividono il mondo di Murasaki Shikubu
dal nostro sono abbastanza riconoscibili e questo è a mio avviso il motivo del
fascino che l’opera continua a esercitare su di noi.
In un tempo in cui in Occidente ancora quasi nessuno si occupava di
componimenti epici qualcuno ha descritto le sfumature psicologiche del
comportamento umano e le reazioni ai fenomeni naturali in un modo tale che
noi nella nostra era tecnologica allora del tutto inconcepibile riusciamo
ancora a immedesimarci nei sentimenti e stati d’animo dei suoi personaggi.
I veri ostacoli alla lettura di questo primo romanzo nella storia mondiale
sono infatti di altro ordine.
Naturalmente non potremo mai più percepire l’esatta differenza di livello
tra un ciambellano di terzo e uno di quinto rango gli abiti e i colori che
portavano e l’importanza esorbitante che vi era attribuita proprio come non
siamo in grado di cogliere il valore sentimentale specifico definito nei minimi
dettagli della differenza tra l’accordatura di un koto cinese e uno giapponese.
Possiamo però immaginarla semplicemente perché Murasaki l’ha descritta
in modo così straordinario.
Ciò che ci riesce difficile e tuttavia dobbiamo fare è credere in un mondo
in cui il popolo semplicemente non esisteva in una cultura aristocratica pura e
chiusa a tutto priva di una realtà esterna un mondo claustrofobico che gira
cerimoniosamente intorno a se stesso al centro del quale c’erano coloro che
abitavano sopra le nuvole: l’imperatore e la sua
famiglia.
E con questo si arriva subito al nocciolo dell’incomprensibilità del mondo
di Heian.
Che non risiede nel fatto che tu corteggi una donna e che il tuo sentimento
e la stagione dell’anno insieme alla sensazione del momento ti fanno venire
in mente una poesia classica (magari già vecchia di secoli) che reciti o annoti
per lei e che lei risponde o ti scrive a sua volta citando una poesia che si
riallaccia a quella che le hai appena dedicato e non solo a quella ma anche nel
come le parli o soprattutto come le scrivi su quale tipo di carta con quale
inchiostro; tutto ciò definisce il modo in cui vi considerate reciprocamente è
parte del gioco interminabile a volte spietato con cui le persone passavano le
giornate e che determinava il loro posto a corte.
Così nel libro figurano centinaia di versi l’arsenale di conoscenze pronte
per l’uso doveva essere gigantesco bisognava conoscere esaurientemente la
poesia classica saper suonare qualche strumento sapere quali abiti e profumi
fossero adatti a quale stagione quale fiore fosse consentito mettere in una
lettera e quale allusione fosse consentito fare in merito e comunque tutto ciò
non è ancora parte degli ostacoli di cui dicevo sopra ostacoli alla
comprensione di questo mondo strano che è esistito una volta sola.
Il punto è proprio questo che tutto ciò sia esistito una volta sola una
congiunzione astrale che non si verificherà mai più e che aveva a che fare con
la politica con un gioco di potere che nel libro in realtà non appare se non
esclusivamente in forme velate eppure fu il nocciolo fondamentale per cui
questo mondo poté esistere in questi termini come se nella storia potesse
svolgersi un’unica volta un gioco duro come l’acciaio e al tempo stesso
sottile come una ragnatela magari solo per dimostrare che un fatto simile per
quanto raro appartiene alle umane possibilità.
Non sarebbe mai più accaduto ma c’è stata una scrittrice che l’ha descritto
e questo è il vero miracolo.
Murasaki Shikubu apparteneva a un ramo secondario della potente famiglia
Fujiwara.
Il nome Shikubu aveva a che fare con la funzione di suo padre.
Lei era una dama di corte dell’imperatrice.
Quindi stava come un ragno al centro della tela sapeva a quale gioco si
giocava.
Nei secoli precedenti c’erano stati scontri continui tra i diversi clan e
all’epoca in cui lei visse fu raggiunto una sorta di status quo in base al quale
l’imperatore aveva ancora potere esclusivamente in ambito spirituale e
culturale.
Gli imperatori erano come fiori che appassivano in fretta a volte si
sposavano ancora bambini e si ritiravano a un’età in cui un principe ereditario
olandese deve aspettare ancora anni prima di salire al trono.
La loro esistenza sopra le nuvole era intoccabile erano al centro della corte
e di tutto ciò che vi si svolgeva ma il vero potere ai tempi di Genji era nelle
mani dei.
Fujiwara e per mantenerlo dovevano legarsi il più possibile alla famiglia
imperiale per mezzo di matrimoni.
È un paradosso così strano che risulta difficile capirlo: la legittimazione del
tuo potere derivava esclusivamente da colui che aveva ottenuto e al tempo
stesso perso la sua posizione grazie alle tue manovre e macchinazioni un
imperatore in realtà senza poteri figlio di una delle tue figlie o di un altro
famigliare grazie al quale la sacra luce imperiale si rifletteva sulla tua
famiglia borghese.
Questo per i Fujiwara era sufficiente non avevano bisogno d’altro.
Occorreva trovarsi nelle vicinanze del sacro mondo delle nuvole per
mantenere il dominio sulle cose terrene: questo intreccio è il vero tema del
romanzo e al tempo
stesso il più invisibile.
Possiamo leggere la genealogia di quel periodo come una rete
metropolitana molto complessa di una città molto grande con le Prime
Seconde E. Ottave Principesse e i quattro imperatori e le loro mogli come
fermate.
L’imperatore come un maestro delle cerimonie e fulcro cerimoniale sia nei
rituali buddhisti sia in quelli shintoisti in questa società totalmente
sincretistica; la vita di corte come un’opera teatrale senza fine i cortigiani
imprigionati al suo interno senza possibilità di fuga perché fuori da quel
vuoto ritualizzato non c’è un mondo.
Essere allontanati dalla corte era una forma di non-esistenza.
Naturalmente esisteva una realtà al di fuori ma nessuno voleva essere
costretto a farne parte perché la loro realtà era quella del gioco delle ombre
delle cerimonie della musica degli amori degli intrighi dell’inseguirsi e dello
spiarsi ed è questo che Murasaki Shikubu ha raccontato in modo insuperabile
inserendosi ogni tanto nella storia alla maniera che gli accademici in seguito
come se avessero scoperto qualcosa di nuovo avrebbero chiamato
metafinzione.
Spesso si fa il paragone con Proust.
Quanto sia adeguato dovrà deciderlo ogni lettore per sé sta di fatto che con
mille anni di distanza tra loro entrambi gli scrittori ci hanno lasciato ritratti di
uomini e donne Swann e il principe splendente Albertine e Ukifune.
Norpois e To no-Chujo Madame Verdurin e la Signora di Rokujo Charlus e
Niou che ci insegnano qualcosa sulla condition humaine che non è ancora
andato perduto.
Le differenze (Swann non aveva il karma di una vita precedente e Marcel
non aveva bisogno di restare a casa perché una certa direzione quel giorno era
tabù) sono lievi forme di magia anacronistica.
Karou non poteva telefonare a nessuno e un tweet avrebbe annientato la
poesia a corte ma questo era vero già ai tempi di Proust.
Sta di fatto che dopo mille o dopo cento anni è ancora possibile vedere
persone in mondi lontani da noi che grazie alla genialità di quanti le hanno
descritte rimangono essenzialmente riconoscibili.
Una volta mi sono trovato a Kyoto non lontano dal palazzo imperiale
davanti a quella che si dice sia la tomba di Murasaki Shikubu.
In quel luogo insignificante e probabilmente fittizio il mistero ti colpisce di
nuovo con forza.
Chi era?
Scriveva proprio come la sua collega Sei Shonagon in giapponese perché le
donne non erano autorizzate a scrivere in cinese era riservato agli uomini e
forse questa è una parte del mistero una disinvoltura che si distaccava dal
rigore classico del cinese ufficiale chi può dirlo?
Non si stampava nulla le sue parole venivano lette e recitate copiate e
ancora ricopiate le sue figure femminili secoli dopo nel medioevo no
giapponese sarebbero diventate protagoniste di drammi del teatro placando
così quella nostalgia di un’epoca molto più rozza e pericolosa per il mondo
aristocratico di Heian.
Un mondo che nel libro stesso continua a vivere e ha superato
brillantemente i secoli trascorsi da quando Murasaki scrisse le sue parole
finché nel Novecento tanto più tardi è entrato nelle altre lingue e culture.
La storia di Genji è la chiave di una macchina del tempo e chi dopo aver
girato l’ultima pagina sentisse intorno a sé un lieve profumo di lavanda antico
di mille anni saprà da dove viene.
Agosto 2012.

21 Scritto come postfazione all’edizione olandese del romanzo tradotto da


Jos Vos (Athenaeum 2013.)
(N. d. T.)
Capitolo 8
Esercizi di dislocazione di Giorgio Amitrano

Come molti degli autori che hanno scritto sul Giappone da una prospettiva
non specialistica Cees Nooteboom oscilla costantemente tra un senso di
appartenenza e uno di estraneità.
Quando l’esperienza del Giappone non si rinchiude nell’arco di un singolo
viaggio ma si ripete più volte l’alternarsi di questi opposti stati d’animo si
prolunga e accompagna uno scrittore nel tempo producendo una complessa
serie di variazioni nel suo rapporto col paese.
È quanto accade a Cees Nooteboom che dopo un primo viaggio in
Giappone sul finire degli anni Settanta vi è tornato a più riprese costruendo
con il paese un dialogo che non si interrompe nemmeno quando è in Olanda o
in altre parti del mondo e qualche evento occasionale (l’inaugurazione di una
mostra la lettura di un libro) risveglia il ricordo e riaccende le tensioni nei
confronti del Giappone.
Il resoconto più sereno è quello iniziale la somma di impressioni raccolte
durante il suo primo soggiorno nipponico.
Quando pochi anni dopo si reca a visitare una mostra su.
Hokusai a Parigi è reduce da un secondo viaggio meno felice del primo ed
è evidente che come accade a volte nelle esperienze di innamoramento
sull’orizzonte iniziale puro e incontaminato hanno cominciato ad addensarsi
le nubi di ansia dovute al timore di un’incomprensione reciproca.
Ma il seme di questa angoscia in fondo è già presente dalla prima volta
nonostante su tutto domini l’ebbrezza della scoperta.
Più volte lo scrittore manifesta la preoccupazione di essere invisibile agli
occhi dei giapponesi.
In uno degli episodi narrati Nooteboom è nella hall dell’albergo dove è
allestito un giardino in cui eleganti ragazze in kimono servono il tè.
Una di loro gli si avvicina e la sua combinazione di bellezza gesti graziosi
voce argentina provoca in lui un travolgente sentimento d’amore che dalla
ragazza si espande a inglobare l’intero Giappone.
Un amore... precisa lo scrittore... infelice.
Perché nella gioia dell’esperienza si insinua il dubbio che l’armonia
profusa dalla ragazza nell’accudirlo sia solo una prestazione professionale e
che in realtà il suo sguardo scorra su di lui come su una superficie
impenetrabile e scivolosa.
È una sensazione che insegue.
Nooteboom per tutto il viaggio quella di essere servito in qualunque
contesto con efficienza e cortesia ma di rimanere estraneo al di fuori della
«forma più intima del tuo sguardo» l’unica con cui si vedono veramente le
persone.
«In qualche modo sono sempre invisibile e non esisto sul serio» si
rammarica.
Il veleno del dubbio in questo primo viaggio è fatto solo di poche gocce
che si disperdono in fretta in un più vasto senso di sintonia con l’ambiente e
di ammirazione per la bellezza.
Anzi all’inizio il sentirsi invisibile gli procura una sorta di beatitudine
come se il non essere visto gli consentisse una maggiore libertà di sguardo.
Ma gradualmente l’ebbrezza trascolora in angoscia.
Nooteboom grande viaggiatore aveva già sperimentato la «totale alterità»
in Mali o A. Bahia.
Ma una diversità profonda coniugata con le forme più avanzate di
modernità gli procura... per usare un termine caro a Roland Barthes... un
vacillamento che può sconfinare nel panico.
Se la prima volta a vincere è la bellezza nel secondo viaggio prevale il
senso di esclusione.
Nello scrivere del Giappone Nooteboom riesce a catturare un sentimento
che molti viaggiatori conoscono e che è possibile sperimentare in qualunque
paese: la paura non sentendosi visti e riconosciuti di scomparire nel vuoto di
non esistere.
La mente del viaggiatore è davvero complicata: insegue la diversità
vorrebbe abbeverarsi di ignoto ma poi nel perdere le coordinate abituali si
sente invadere da un’angoscia profonda come se il mare dell’ignoto lo
trascinasse alla deriva.
Ma è possibile nell’età della globalizzazione percepire il Giappone come
ignoto?
Gli scritti di Cees Nooteboom ci inducono a pensare di sì e se da un lato la
complessità dei suoi sentimenti trasmette un senso di sconfitta come se
l’alpinista si fermasse sgomento alle pendici del monte perdendo il coraggio
di scalarlo dall’altro ci rassicura sapere che esistono ancora nel mondo codici
da decifrare informazioni da acquisire spazi da conquistare.
Ci crediamo postmoderni ma dimorano in noi paure ataviche da sfidare se
vogliamo uscire da noi stessi e spingerci oltre.
Nooteboom è più a suo agio con la letteratura.
Kawabata Tanizaki e soprattutto le sue amate scrittrici di epoca Heian
(7941185)
Murasaki Shikibu e Sei Shonagon gli offrono chiavi di lettura che il mondo
reale sembra negargli.
Leggendo questi scrittori Nooteboom si rende conto «che questa alterità
non è poi così altra e che sotto tutto ciò che ci appare bizzarro c’è il fondo
comune della condition humaine.» Ecco che nell’oscillazione tra
appartenenza ed estraneità emerge un valore molto più coesivo della
globalizzazione: l’universalità.
Anche una sua osservazione sull’intraducibilità delle parole che si apre
sulla constatazione negativa dell’impossibilità di trovare un termine che
corrisponda a concetti come giri amae ecc. si conclude con una riflessione di
segno contrario: «Il fatto che queste descrizioni siano possibili d’altra parte
significa a sua volta che tali concetti possono essere resi comprensibili e con
ciò l’idea dell’essenzialmente altro diventa già meno totalitaria.» La lingua
esprime idee che mantiene chiuse nei suoi propri confini ma un elemento
universale le sottende rivelando l’esistenza di un sentire comune.
Anche in questo piccolo scatto conoscitivo che Nooteboom teorizza tra il
senso di esclusione che una lingua straniera trasmette a chi non la possiede e
la possibilità di descriverne i contenuti ritroviamo un esempio del suo
oscillare tra appartenenza ed estraneità.
Nel capitolo che apre il libro Nooteboom racconta di avere sviluppato
l’abitudine a leggere un giornale giapponese di lingua inglese come se fosse
un quotidiano olandese.
Lo considera un «buon esercizio di dislocazione» per allontanarsi dalla
tendenza eurocentrica e riposizionare il Giappone e lui stesso che
temporaneamente vi dimora al centro del mondo.
Ma in realtà tutto il suo rapporto con il Giappone può essere letto come una
serie di esercizi di dislocazione una disciplina rivolta a rompere un insieme di
credenze abitudini schemi mentali: l’armatura in cui anche i viaggiatori di
razza tendono a chiudersi.
Nooteboom oppone alla fissità degli schemi un genuino desiderio di
incontrare l’altro obiettivo che sa di poter realizzare solo attraverso lo
smarrimento.
È lui stesso a dichiararlo con estrema lucidità: «L’obiettivo segreto e
inconsapevole di certi viaggi è quello di mandare in totale confusione il
viaggiatore estraniarlo a tal punto dalle sue origini da far apparire la sua
esistenza come un’oscura faccenda cui potrà tornare solo con grande
difficoltà.
Soltanto allora sei stato veramente via così altrove da essere forse diventato
un altro.» La perdita di sé nella ricerca dell’altro è anche il tema di un suo
breve romanzo di ambientazione giapponese Mokusei.
Qui la tensione verso il Giappone e l’oscillazione tra
appartenenza ed estraneità sono espresse attraverso il paradigma di una
complessa relazione amorosa.
Il protagonista un fotografo olandese vive un’intensa e difficile passione
per una donna giapponese.
È un amore nonostante i momenti di esaltazione erotica fondamentalmente
infelice.
In un episodio del libro un amico del protagonista che ha vissuto a lungo in
Giappone e conosce bene i meccanismi di attrazione e rifiuto degli stranieri
nei confronti di questo paese gli spiega che un Giappone ammantato di
bellezza e spiritualità esiste nel tempo (passato) ma non nello spazio.
Cercare questo.
Giappone nello spazio è la fonte di un malinteso che a sua volta sarà causa
di atroci delusioni.
Nooteboom riprende un concetto che aveva già espresso diversi anni prima
nello scritto dedicato alla mostra di Hokusai e che evidentemente deve
essergli caro facendone un antidoto all’estraneità.
Staccarsi dai cliché culturali distruggere le illusioni smettere di proiettare
le proprie aspettative sull’altro è il primo passo per conoscere il.
Giappone.
E forse anche per la realizzazione di un amore felice.

Вам также может понравиться