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Università degli Studi di Genova

Scuola di Dottorato

CULTURE CLASSICHE E MODERNE

LETTERATURE COMPARATE EURO-AMERICANE

Coordinatori:

Chiar.mo Prof. Giuseppe SERTOLI

Chiar.mo Prof. Massimo BACIGALUPO

Dipartimento di Scienze della Comunicazione Linguistica e


Culturale (DISCLIC)

La letteratura “indigenista” in rapporto al dibattito politico e all'ansia


di identità in America Latina

Dott. Roberto MARRAS

Relatori:

Chiar.ma Prof.ssa Amina DI MUNNO

Chiar.mo Prof. Michele PORCIELLO


O Coração Latino-Americano
Incas, ianomâmis, tiahuanacos, aztecas, A luz ardente do carnaval
Maias, tupis-guaranis, a sagrada O perfume da floresta que reúne,
intuição Em morna convivência, a árvore
Das nações mais saudosas. Os resíduos. altaneira
A cruz e o arcabuz dos homens brancos. E a planta mais rasteirinha do chão.
O assombro diante dos cavalos, O fragor dos vulcões, o árido silêncio
A adoração dos astros. Do deserto, o arquipélago florido,
Uma porção de sangues abraçados A pampa desolada, a primavera
Os heróis e os mártires que fincaram no Amanhecendo luminosa nos pêssegos
tempo e nos
A espada de uma pátria maior. Jasmineiros
A lucidez do sonho arando o mar.
As águas amazônicas, as neves da A palavra luminosa dos poetas,
cordilheira O sopro denso e perfumado do mar,
O quetzal dourado, o condor solitário, A aurora de cada dia, o sol e a chuva
o uirapuru da floresta, canto de todos os Reunidos na divina origem do arco-
pássaros. íris.
Cinco séculos árduos de esperança
A destreza felina das onças e dos pumas De tudo isso, e de dor, espanto e
Rosas, hortênsias, violetas, margaridas, pranto,
Flores e mulheres de todas as cores, Para sempre se fez, lateja e canta
todos os perfis. A sombra fresca O coração latino-americano.
das tardes tropicais. O ritmo pungente
rumba, milonga, tango, marinera,
samba-canção
O alambique de barro gotejando

Thiago de Mello

2
Sommario
Ringraziamenti p. 5

Introduzione p. 6

I. Indigenismo, chi è costui? p. 16

• Precursori dell'indigenismo p. 22

• Dall'Indianismo al Neoindigenismo e viceversa p. 95

• Appendice I

• I documenti Miccinelli p. 136

• Appendice II

• The Green Inferno dal punto di vista indigeno p. 156

• Appendice III

• ¿Y tú por qué no te callas, Guaicaipuro Cuautémoc? p. 158

II. “Indigenismi” comparati

• Il caso Brasile p. 169

• Il recupero di un punto di vista indigeno: Darcy Ribeiro p. 238

• Márcia Theóphilo e la salvezza che viene dagli índios p. 262

• Il caso Ecuador: dal dominio “mestizo” a una nuova “Necesidad de


América” p. 274

III. Dall’indigenismo alla letteratura indigena, una realtà emergente

• José Luis Ayala, el poeta sideral p. 331

• Hernán Huarache Mamani el curandero del espíritu femenino p. 348

3
• Rayen Kvyeh e Elicura Chihuailaf: la evolución de la poesía mapuche
p. 355

• Mujeres indias in Ecuador: da Mama Dolores Cacuango e Mama


Tránsito Amagüaña a María Clara Sharupi Jua p. 371

• Guatemala, terra del premio Nobel Rigoberta Menchú e di Humberto


Ak'abal poeta del Nahual p. 388

• Zahy Guajajara e o sentido da vida indígena in Brasile p. 413

IV. Conclusioni p. 426

Bibliografia p. 441

4
Ringraziamenti

Apesar da minha roupa, / também sou índio.

Djavan, Cara de Índio (1978)

Io mi trovavo solo e nessuno era con me.

Dal Poema di Pentaur

Ringrazio in genere il corpo docente del DISCLIC per avermi concesso l'opportunità di
affrontare questa ricerca, annosa e molto faticosa, anche perché portata avanti tra i tanti altri
impegni e incidenti quotidiani, ma che mi ha arricchito molto sul piano intellettuale e spirituale.
Un ringraziamento particolare alla mia famiglia, Priscila, Christopher e Samira, per la
pazienza e le ispirazioni che mi hanno offerto, a Samira anche per la gioia che mi regala ogni
giorno.
Infine, ma non per ultimo, un ringraziamento sentito al vecchio ragazzo partigiano Rinaldo
Cavo, classe 1932, assiduo frequentatore dei gruppi di lettura di spagnolo e portoghese, che mi
ha regalato il libro della Prof.ssa Laurencich Minelli.

5
Introduzione
ROBO
Nos han robado
Tierras, árboles, agua.

De lo que no han podio


Adueñarse es del Nawal.

Ni podrán.

Humberto Ak'Abal1

He came dancing across the water Cortez,


Cortez What a killer.

Neil Young2

Una conoscente sudamericana che partecipava con me agli incontri dei gruppi di lettura in
spagnolo e portoghese alla Biblioteca Berio di Genova 3, quando le ho detto che mi sarei
occupato di indigenismo come tema di ricerca del Dottorato di Letterature Comparate, mi ha
chiesto perché.
E non ho saputo, di primo acchito, darle una risposta più approfondita di: “perché
m'interessa”.
Che non l'ha soddisfatta, naturalmente.
In effetti, ma l’ho capito solo in seguito, la sua domanda, per quanto concisa e diretta,
celava una profondità insospettata.
La riflessione che mi ha ispirato mi è valsa in primo luogo a modificare non lievemente il
titolo del presente studio, che in origine era La narrativa indigenista nelle culture e nelle società
dell'America Latina, poi è diventato l'attuale e presente: La letteratura “indigenista” in rapporto
al dibattito politico e all'ansia di identità in America Latina.
Un progetto sicuramente più ambizioso e quindi faticoso, ma che più puntualmente
risponde ai miei interessi, orientati alla questione dell'identità, nella letteratura prima che negli

1
Da Ajkem Tzij / Tejedor de palabras (1996).
2
Da Cortez The Killer, brano portante dell'album Zuma (1975).
3
Cfr. http://blog.libero.it/GrupodeLectura/ e http://grupodeleituraberio.blogspot.it/.

6
altri campi delle culture e delle società, i quali spesso la letteratura stessa precorre, preconizza
e/o aiuta a comprendere meglio.
Non posso dare per scontato, del resto, che chi legga il titolo della mia tesi comprenda,
senza bisogno di doverose spiegazioni, ciò che vi ho voluto intendere, anche in rapporto al
precedente citato titolo.
Se infatti è facile capire che ho sostituito la parola narrativa con quella più generale di
letteratura in quanto è esistita ed esiste anche una poesia indigenista, come quella del poeta
brasiliano Thiago de Mello4 citato in epigrafe o degli altri autori che tratterò nel corso del
presente studio, meno facile è seguirmi nel momento in cui ho imposto le virgolette nel titolo e il
corsivo nel testo della tesi all'aggettivo indigenista (e al sostantivo indigenismo).
Ho infatti rilevato, già nel corso delle prime fasi della ricerca, come con la parola
indigenismo, lungi dall'indicare solo una circoscritta stagione della narrativa latinoamericana, si
faccia riferimento, in tutta l'America Latina, per quanto non in forma omogenea e magari
nemmeno del tutto consapevole, alla “questione indigena”, vissuta soprattutto proprio come un
problema di identità, culturale, sì, ma anche nazionale e individuale. E soprattutto politico, in
passato come al giorno d'oggi, tanto più che in gioco non è solo l'identità, culturale, nazionale,
individuale e politica dei popoli indigeni propriamente detti, ma anche delle stesse nazioni
cosiddette latinoamericane.
E la “questione indigena” a cui mi richiamo – con una voluta analogia rispetto alla
“questione meridionale” peculiare della storia italiana recente – rimonta all'epoca in cui le
nazioni originarie delle terre che oggi fanno parte della cosiddetta America Latina, come peraltro
quelle del resto del continente un tempo chiamato Nuovo Mondo, hanno subito una violentissima
invasione che le ha quasi cancellate dalla storia. Con conseguenze che tuttora pesantemente
incidono sulle società e sulle politiche dei Paesi in questione, senza sottovalutare il fatto che la
tendenza a cancellare dalla storia i cosiddetti indigeni è ancora molto vitale, purtroppo.
Avrò naturalmente frequente occasione di ritornare su detta “questione indigena”, di
seguito intendo piuttosto chiarire la natura del problema di identità che tuttora affrontano le
nazioni della cosiddetta America Latina anche e soprattutto in relazione all'indigenismo, nonché
rispetto ai condizionamenti della cultura occidentale dominante, da cui peraltro prende le mosse
l'indigenismo stesso.

4
Originario dello Stato di Amzonas, dove è nato nel 1926, è tuttora uno dei poeti più considerati in Brasile e non
solo.

7
Per esempio, nel film ¡Qué tan lejos!, diretto nel 2006 dalla regista ecuatoriana Tania
Hermida, c'è una scena che considero emblematica in relazione a quanto ho appena scritto.
Il film racconta le vicissitudini sulla Sierra ecuatoriana dei tre protagonisti, una giovane
studente universitaria di Quito, una giovane turista di Barcellona e un uomo di Cuenca, molto
diversi tra loro, ma affini nel loro incontro pur casuale – o destinato, ¿quién sabe? –, provocato
da un paro, uno sciopero generale del movimento indigeno che blocca le strade sulla Sierra,
interrompendo quindi il viaggio dei tre verso Cuenca, e da loro continuato ostinatamente a piedi
o con mezzi di fortuna.
La ragazza di Quito, Teresa, ha fretta di giungere a Cuenca, dove quello che lei credeva il
suo fidanzato, mentre era solo il suo amante, appartenente a una delle famiglie più in vista della
borghesia criolla cuencana, si sta per sposare.
Allorché le due ragazze si conoscono sull'autobus diretto da Quito a Cuenca, e in
particolare quando decidono di continuare assieme il viaggio in ogni caso, Teresa fa credere a
Esperanza, la ragazza di Barcellona, di chiamarsi Tristeza 5, onde porsi in voluto contrasto con
lei, spagnola, quindi discendente dei conquistadores secondo l'opinio communis della gente
d'America Latina6, organizzata in rigide identità nazionali secondo il modello occidentale 7,
laddove Teresa stessa, tra le due, è la vera discendente dei conquistadores, così come lo è del
resto anche dei conquistados, ambiguità irrisolta della maggioranza mestiza di quasi tutti i paesi
dell’America Latina, peraltro etnoclasse dominante degli stessi, nella loro sovrastruttura
postcoloniale.
Il fatto che Teresa faccia credere alla turista catalana di chiamarsi Tristeza – inganno con
vari risvolti comici a cui Teresa porrà fine solo al termine del film – lo si può del resto
considerare anche un indice dell’identificazione della giovane nella “virtù della sofferenza” tanto
tipica della donna latinoamericana, segnalata per giunta dalla sua passione per la lettura delle
5
“Yo soy Esperanza, tú, ¿como te llamas?” “Tristeza, me llamo Tristeza”, “No me lo creo, ¡vamos!... Bueno es
que nunca me había pasado una cosa así: encontrarme con una Tristeza… ¿Oye, por qué te pusieron este
nombre?”, “No sé, igual que a vos te pusieron Esperanza, supongo”.
6
Tale pregiudizio decisamente nazionalista è evidenziato in modo eplicito in una delle prime scene del film,
quando il taxista quiteño che accompagna al suo hotel Esperanza appena giunta all'aeroporto di Quito, le gonfia la
tariffa e per giunta trova una scusa per non darle il resto, e quando Esperanza lo accusa di essere un ladro, lui le
rinfaccia che i ladri veri sono gli Spagnoli come lei, venuti a saccheggiare il suo Paese al tempo della
colonizzazione e che oggi sfruttano i migranti latinos come suo fratello residente a Murcia.
7
Cfr. infra, nel corso del presente studio, ciò che concerne il peculiare nazionalismo ecuatoriano, anche alla luce
del recente dibattito promosso dallo scrittore, poeta e saggista Mario Campaña, principale promotore delle
Nuevas Cartas.

8
opere dello scrittore messicano Octavio Paz, premio Nobel per la letteratura (1990) e un’autorità
al riguardo, ma che infatti Esperanza, a cui Teresa, per evitare di conversare con lei sull'autobus,
propina la lettura di Sor Juana Inés de la Cruz o las trampas de la fe, non comprende e rifiuta8.
Tornando alla descrizione della scena emblematica del film a cui ho accennato, Tristeza-
Teresa, che per spirito nazionalista si era tanto contrapposta alla gringa Esperanza con cui pure
nasce l’amicizia, a un certo punto del viaggio, per la fretta di raggiungere Cuenca, accetta il
passaggio in moto, procuratole per giunta da Esperanza, da parte di un giovane locale.
Questo ragazzo invero la può portare solo a Zhud, piccolo paesino della Sierra però in
posizione significativa, perché all’incrocio delle strade tra Quito, Cuenca e Guayaquil, la Sierra
india e la costa mestiza.
A Zhud, nome quichua, il ragazzo le propone di “bere qualcosa insieme”, invito con
sfacciate finalità di approccio erotico alimentato dall’idea che Tristeza-Teresa sia una gringa.
La ragazza gli precisa che lei è ecuatoriana, come lui, il quale però rimane perplesso e
replica sostenendo che “le donne ecuatoriane non viaggiano da sole”.
Arriva quindi un altro giovane locale, anche lui in moto, i due si mettono a conversare in
quichua – probabilmente parlano di lei, e male – e Tristeza-Teresa, senza comprendere in mezzo
a loro, ne rimane completamente spaesata e disorientata, finché i due si congedano e procedono
per la strada diretta a Guayaquil, abbandonandola al suo destino.
Tristeza-Teresa ha svolto il ruolo della gringa, appunto, o meglio ancora della straniera
nel suo paese, che per secoli è stato e continua ad essere, dove più, dove meno, lo status dei
nativi o indigeni che dir si voglia, conquistati dagli invasori di origine europea.
Una sorta di rivincita, quindi.
E sicuramente un’identità ecuatoriana – ma non solo – ambigua e conflittuale.
Composta dalla cultura – anche quella machista – e dalla lingua dei conquistadores, pur
rifiutati e disprezzati in ossequio alla propaganda del recente nazionalismo ecuatoriano e
latinoamericano in genere, ma anche dal sangue e dalle tradizioni superstiti o più o meno
recuperate dei conquistados, i popoli originari, a loro volta umiliati da un pregiudizio secolare
rispetto al quale solo negli ultimi due decenni stanno efficacemente rialzando la testa.
Detta conflittualità è altrettanto chiara, se non più, nel bel racconto dello scrittore
guatelmalteco Mario Monteforte Toledo (1911-2003) Dos caminos salen del pueblo, compreso

8
Sulla “virtù della sofferenza” della donna latinoamericana cfr. AA.VV., Malinche. La donna e la conquista,
Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (FI) 1992. Specie il contributo di Milagros Palma, Il
malinchismo o l'aspetto femminile nella società meticcia.

9
nella raccolta La cueva sin quietud (1950)9, dove il motivo dominante è la frase più volte ripetuta
nel corso della narrazione: “Aparte son los ladinos, aparte los naturales”, laddove i ladinos, in
Guatemala e altrove nei paesi del Centroamerica, sono i discendenti dei conquistadores, i
naturales i nativi puri10.
E si tratta di una conflittualità, va ripetuto per non darlo troppo per scontato, generata in
principio dalla “questione indigena” mai risolta, anzi aggravata dall'adeguamento forzato delle
nazioni originarie, ma anche dei mestizos e dei criollos, alle identità nazionali degli Stati
postcoloniali della cosiddetta America Latina, create sulla base di principi propri del
nazionalismo europeo, tra le imposizioni culturali di quell'Occidente da cui oggi vorrebbero
emanciparsi, ma probabilmente in modo non originale e comunemente accettabile, gli
intellettuali ecuatoriani di Nuevas Cartas11.
Tra queste imposizioni si può annoverare, tra l'altro, lo stesso concetto di America Latina.
È persino indubitabile, infatti, come l'aggettivo latino, a indicare le nazioni e le culture
della cosiddetta América Latina, risponda a un'esigenza nomenclatoria subordinata a concetti e
categorie assolutamente propri della cultura e della tradizione occidentali, esattamente come la
parola indio/índio, tuttora molto vitale12.
Il termine Latino è attestato per la prima volta13 nella Θεογονία di Esiodo di Ascra (o
Cuma eolica), datata intorno al 700 a.C., a indicare il re Latino, definito ἀμύμονά τε κρατερόν,
cioè “senza macchia e potente” (v. 1013), che assieme ai suoi fratelli Agrio e Telegono, tutti figli
di Circe e Odisseo, “a lungo, nel cuore delle isole sacre, μάλα τῆλε μυχῷ νήσων ἱεράων – la
Sardegna e la Corsica, sicuramente – regnarono su tutti i nobili Tirreni πᾶσιν Τυρσηνοῖσιν
ἀγακλειτοῖσιν”.
Notevole e illuminante il fatto che questo nome fosse collegato da Esiodo alla sfera
culturale etrusca (i “celebri Tirreni”), visto che è a partire dai Romani che in seguito l'uso di
questa parola si è affermato, peraltro solo a indicare la loro identità linguistica e non quella
nazionale14.
9
Questo racconto è facilmente reperibile su internet: http://www.literaturaguatemalteca.org/monteforte1.htm.
10
Cfr. infra.
11
Cfr. infra in particolare il capitolo II.
12
Sulla questione relativa all'uso della parola indio, a indicare gli indigeni d'America, rimando ai capitoli
successivi.
13
Cfr. Roberto Marras, “La parabola della Latinità”, 2013 (in fase di pubblicazione).
14
E a indicare l'identità linguistica precedente all'ellenizzazione della cultura romana compiutasi in epoca classica,
laddove in seguito anche il greco, soprattutto, ma non solo, nella parte orientale dell'Impero, è diventato, come è
noto, lingua ufficiale della civitas romana.

10
Roma era infatti in origine una città etrusca di frontiera, dove dominava il populus, parola
non a caso di origine etrusca, sul vulgus, parola invece indoeuropea, dalla stessa etimologia della
parola germanica folk/volk, appunto i Latini, popolazione varia di lingue indoeuropee presente in
Italia già dal II millennio a.C. e diffusa soprattutto nelle campagne più che nelle aree urbane
dominate dagli Etruschi.
Si trattava quindi di un nome generico che deriva da Latium, la cui etimologia è la stessa
della parola germanico-celtica land, il cui significato originale era proprio “spazio aperto,
campagna”. Anche in seguito, a Roma, i Latini erano i campagnoli rustici rispetto ai Romani
dell'Urbs, dicotomia che tra l'altro è ancora abbastanza viva tra i “Romani de Roma” e i
“burini/limitrofi” laziali.
Un'accezione dispregiativa il termine lo conservò anche nell'uso comune tra i Romei, i
Romani d'Oriente, che chiamavano Latini gli occidentali, come è attestato per esempio in Anna
Comnena15, con una connotazione ideologica polemica, visto che il latino era il non ortodosso,
rivale e eretico e praticamente un barbaro, dal punto di vista dei Romei ortodossi.
Rivalutato il termine in epoca umanistica, quando il latino divenne la lingua della cultura
occidentale, ne sopravvisse tuttavia l'accezione popolare negativa di “persona astuta, sagace,
ingannevole”, data dal fatto che il ladino, parola tuttora viva in spagnolo e portoghese con questo
significato, era chi sapeva parlare e/o scrivere e leggere latino quindi era in genere colluso con il
potere e in grado pertanto di sobillare i popolani.
Notevole e non casuale quindi il fatto che soprattutto in Mesoamerica tuttora i criollos e i
mestizos siano chiamati ladinos, ben distinti dai naturales, i nativi puri, come è riportato appunto
nel racconto citato di Monteforte Toledo.
L'uso del termine a distinguere gli attuali latinos lo si deve al dibattito ideologico di metà
'800, quando si verificò una convergenza ossimorica tra il nazionalismo dei recenti Stati
postcoloniali d'America Latina, rappresentato soprattutto dalle opere del cileno Francisco Bilbao
Barquín e del colombiano José María Torres Caicedo – che distinsero Las dos Américas, quella
latina, appunto, rispetto a quella anglosassone dell'imperialismo degli USA posteriore alla
dottrina Monroe del 1823 e palesatosi in particolare nella questione di Panama –, e la
propaganda francese finalizzata invece a giustificare l'imperialismo di Napoleone III nei
confronti del Messico mascherandolo con il concetto di “unità latina”.

15
(1083 – 1153). L'opera principale di questa principessa con la passione per la storiografia fu l' Alessiade, dedicata
a suo padre, l'imperatore Alessio I Comneno.

11
Proprio a causa dell'abuso della propaganda imperialista francese il concetto di América
Latina venne meno fino ad essere riciclato, nella seconda metà del XX secolo, dalla cultura
ufficiale statunitense, cioè dell'Occidente tuttora dominante, non senza un'accezione che non
esito a definire razzista e discriminatoria – a distinguere e subordinare i Latinos rispetto agli
Americans –, per quanto ridimensionata dai tentativi di rivalutazione da parte di molti
intellettuali latinoamericani come per esempio il filosofo messicano Leopoldo Zea, il messicano
di origine argentina Enrique Dussel e il cileno Miguel Rojas Mix16. E nonostante il fatto che
ormai gli stessi Latinos, che spesso e volentieri palesano peraltro un aspetto molto indio, si siano
decisamente e persino piacevolmente abituati a questa etichetta.
Ma si tratta senz'altro di un'etichetta imposta loro dalla cultura di quell'Occidente che ha
perpetrato l'invasione delle loro terre e l'encubrimiento, per dirla proprio come il citato Dussel 17,
della loro identità originaria, all'estremo ideologico opposto rispetto al concetto di Abya-Yala
che molti movimenti indigeni oggi stanno tentando di affermare18.
Analogo prodotto di una cultura pesantemente condizionata dall'Occidente e dalle sue
categorie culturali e sociali, l'indigenismo, nelle sue varie sfumature – che più compiutamente,
comunque sinteticamente, chiarirò nel I capitolo –, riflette il dibattito ideologico-culturale, e
ovviamente anche letterario, del principale problema non risolto delle società latinoamericane e
non solo, la “questione indigena” evidenziata, non a caso già oggetto della geniale e salace
domanda dello scrittore brasiliano Oswald de Andrade: “Tupí or not Tupí?”, che campeggia nel
suo Manifesto Antropófago del 192819.
In tal senso, l'indigenismo è una storia di violenza efferata che dura da almeno 6 secoli,
una violenza che ha prodotto e produce tuttora, come accennato, il più grave genocidio della
storia umana conosciuta, un genocidio peraltro anche culturale, per molti aspetti più feroce e
sadico di quello fisico, in quanto le persone che sono private violentemente della loro cultura e
16
Cfr. anche Walter D. Mignolo, La Idea de América Latina, Editorial Gedisa, Barcellona 2007, specie pp. 90-94 e
pp. 117 segg. Ricordo anche l'accezione positiva sposata dal celebre giornalista Gianni Minà, sul solco di una
determinata cultura latinoamericana di sinistra, la cui rivista specializzata si chiama proprio Latinoamerica e tutti
i sud del mondo (http://www.giannimina-latinoamerica.it/).
17
Cfr. infra, il cap. I.
18
Cfr. infra.
19
Invero, con questa domanda amletica, Oswald de Andrade intendeva richiamarsi alla necessità di una
antropofagia culturale, carattere tipico del modernismo brasiliano, ma che diventa peculiare anche di tutta la
cultura brasiliana fino ad oggi: si devono deglutire le influenze statunitensi e europee e crearvi una cultura
originale brasiliana. Ma non si può negare che Andrade si sia inevitabilmente richiamato alla “questione
indigena” che vi sottende. Cfr. infra.

12
della loro identità e che conseguentemente diventano oggetto di disprezzo sociale, sono persone
immancabilmente destinate al disagio e all'autodistruzione, ma anche all'odio incontrollabile e
fine a sé stesso, in quanto generato da una rabbia profonda ormai fino agli abissi dell'inconscio,
motivazioni con le quali si dovrebbero meglio spiegare e intendere i diffusi fenomeni di violenza
urbana tanto spesso associati alle società dei paesi latinoamericani.
Ma è anche, come detto, una storia di identità, identità pretese, perdute e negate, più che
liquide come quelle della Late Modernity secondo Zygmunt Bauman20, soprattutto se si pensa
che, se in origine l'indigenismo indicava, come precisato, l'approccio di vario tipo del non-
indigeno nei confronti della “questione indigena”, oggi è rivendicato come il fenomeno della
rinascita indigena. E non solo in America Latina.
E con queste parole penso di aver chiarito anche che cosa intendo, nel titolo del presente
studio, per “ansia di identità” nel contesto del “dibattito politico” in America Latina – non solo
quello che si svolge nei singoli parlamenti, ovviamente, ma anche e soprattutto quello vitale in
tutti i campi della quotidianità e riportato nei media, ufficiali e alternativi che siano21.
Risulta pertanto ovvio come si tratti di un tema dalla portata vastissima e suscettibile di
disorientamenti, come quello che ho potuto personalmente rilevare in una scena a cui ho assistito
nel 2008 nella località di Montañita, sulla costa ecuatoriana, villaggio che vive di un turismo
molto rustico soprattutto di giovani che amano il surf e la marijuana, in maggioranza stranieri, e
statunitensi in particolare.
Durante la mia visita ho visto due ragazzi statunitensi che chiedevano a una signora
locale seduta davanti alla sua casetta: “Señora, ¿Donde está el norte?”. La signora non seppe
rispondere e rimase interdetta di fronte alla domanda. Io commentai con la donna ecuatoriana
che mi accompagnava in merito a quanto fosse sciocca la domanda: visto che i due giovani
statunitensi avevano l'Oceano Pacifico, che è a ovest, alla loro sinistra, era ovvio, per me, che il
nord fosse davanti al loro naso! Ma la donna che mi accompagnava mi rispose che nemmeno lei
avrebbe saputo rispondere a quella domanda, a palesare come i cosiddetti Latinoamericanos –
ma evidentemente anche gli Americans – siano in genere più propriamente desnorteados, come
si direbbe in portoghese, cioè non riconoscano il “senso del nord”, che per i Portoghesi era il
punto cardinale di riferimento più che l'est22.

20
Cfr. Zygmunt Bauman, Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge 2000.
21
Ha, per esempio, un sapore decisamente politico e peculiarmente indigenista il fatto che si stia svolgendo, mentre
scrivo, una Copa América de los Pueblos Indígenas 2015, alternativa a quella ufficiale svoltasi in Cile pochi
giorni prima. Cfr. http://servindi.org/actualidad/135549.

13
La nota curiosa e tragica è che quanti, tra i tanti Latinoamericanos, tentano di migrare
verso gli USA, i cd. mojados23, alla fine lo imparano a loro spese dove si trova el norte!
A evitare disorientamenti anche a me stesso e a chi leggerà il presente studio premetto
subito, programmaticamente, che affronterò il tema descritto in modo molto selettivo e
immancabilmente soggettivo: nel I capitolo, come detto, mi prodigherò a chiarire più
compiutamente, ma sinteticamente, il fenomeno dell'indigenismo e la sua storia, mentre nel II
capitolo mi dedicherò ai casi peculiari degli autori brasiliani Darcy Ribeiro e Márcia Theóphilo
nonché dei citati intellettuali ecuatoriani di Nuevas Cartas. Infine nel III capitolo opererò una
selezione personale di autori delle rinate letterature in lingue indigene, a scopo esemplificativo e
in funzione emblematica, riservandomi, nelle conclusioni, di aggiungere dei commenti e delle
considerazioni che offrano l'occasione di portare avanti ulteriori riflessioni sul tema stesso, lungi
dal volervi dare una effettiva conclusione.
Mi permetto di concludere questa introduzione commentando come per me, che ho
vissuto in Brasile e ho una figlia con ascendenze ecuatoriane, il presente studio è stato frutto di
una ricerca che mi ha coinvolto nel profondo, tanto più che sin dall'infanzia mi hanno sempre
appassionato le storie, sì, dell'Iliade e dell'Odissea – passione che mi ha condotto agli studi
classici –, ma anche quelle dedicate alle cosiddette “esplorazioni geografiche” – non a caso il
mio primo vero libro, quando avevo 8 anni, è stato Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne –
nonché quelle sugli “indiani”, nei confronti dei quali, nonostante la loro caratterizzazione in
genere negativa nel western tradizionale di modello statunitense prepotentemente diffusosi in
tutto l'Occidente soprattutto dopo la II guerra mondiale, ho sempre sentito un'affinità e un
sentimento di solidarietà, forse in ragione delle mie radici sardo-corse del lato paterno – laddove
quelle siciliane del lato materno non sono da meno.

22
Anche nel paese di origine di mio padre, Santa Teresa di Gallura, o meglio Lungoni, come la chiamano i locali e
come ormai si legge anche nelle targhe segnaletiche, si usa dire “perdere la Corsica di vista”, nel senso di sentirsi
disorientati, laddove la Corsica è appunto a 17 km di mare a nord di Lungoni, oltre le Bocche di Bonifacio.
23
Questo epiteto, che letteralmente significa “bagnati”, si riferisce al fatto che, per transitare, clandestinamente,
dall'America Latina agli USA, i Latinoamericanos devono “bagnarsi”, perlpiù in modo figurato, nelle amare
acque del Rio Bravo, lungo il corso del quale è eretta una muraglia di cemento, filo spinato, posti di blocco e di
guardia, nei confronti della quale il vecchio ma più noto – perché se ne parlava molto di più – muro di Berlino era
un semplice muretto di cortile! Lungo detta muraglia muoiono violentemente almeno 500 migranti
latinoamericanos ogni anno, secondo dati statistici che sono diffusi anche dal video della canzone Mojado del
celebre cantante guatemalteco Ricardo Arjona (disponibile su youtube: http://www.youtube.com/watch?
v=fjdmaxDMeUI).

14
La Sardegna infatti è una terra che in tempi antichi e anche più recenti ha pure conosciuto
le ferite della colonizzazione, della cancellazione della sua storia e delle sue culture, del
pregiudizio e della discriminazione. Come è successo e succede alle genti originarie d'America.
Non è quindi un caso se condivido questo sentimento di affinità rispetto ai nativi
d'America con un'altra studiosa di origine sarda, Luisa Pranzetti 24, e pure con il protagonista, il
gabbillo Diego Flores, del bel romanzo di Raffaele Puddu 25 Pueblo26, il quale, arruolatosi nel
tercio de Cerdeña perché non aveva altre scelte, è inviato nel Nuevo Mundo del XVI secolo tra i
conquistadores, ma finisce per solidarizzare con gli indios e per morire in loro difesa.

24
Cfr. Le mani sugli Indios, Diabasis, Reggio Emilia 2007, pp. 18-9.
25
Oridinario di Storia Moderna presso l'Università di Cagliari. Specialista di storia militare, in particolare di quella
spagnola dei secc. XV e XVI. Ha pubblicato vari romanzi in cui s'intrecciano i suoi studi con la storia e la cultura
della Sardegna.
26
Ilisso, Cagliari 2004.

15
I

Indigenismo, “chi è costui?”

Como niebla vi los blancos


en muchedumbre llegar,
y oro y más oro queriendo,
se aumentaban más y más

Dall'Atahuallpa Huañuy (Elegía a la muerte de Atahualpa)

Il titolo di questo I capitolo allude, com'è chiaro, a un celebre passaggio manzoniano, da I


Promessi Sposi: una domanda, emblematica dei codici ironici dell'autore, che ovviamente si
riferiva a una persona – e non certo a un -ismo, sia pure personificato –, cioè il filosofo Carneade
di Cirene, vissuto tra il III e il II secolo a.C. e ben al di fuori dell'invero generalmente misero
bagaglio culturale del personaggio dei Promessi Sposi Don Abbondio, da cui è fatta pronunciare
la domanda in questione. Tale citazione, com'è noto, in seguito è diventata proverbiale, a
indicare qualsiasi manifestazione di ignoranza poco caratterizzata da quella che sarebbe la sua
compagna ideale, l'umiltà, necessaria per debellare l'ignoranza stessa.
Ho quindi scelto di applicarla al titolo di questo capitolo per denunciare anche la mia
precedente e non del tutto colmata ignoranza di fronte a questo termine che pure mi ha
affascinato – specie dopo aver conosciuto personalmente il poeta e scrittore peruviano José Luis
Ayala Olazával, straordinario rappresentante della letteratura aymara e ispanoamericana in
genere27 – al punto da dedicarvi la tesi di Dottorato.
27

 Questo incontro si è verificato durante la XXI Fiera Internazionale del Libro di Torino del 2008, in cui
l'autore stava presentando l'edizione bilingue di un suo libro di poesia in lingua aymara: Muyu pacha / Tempo
circolare, a cura di Riccardo Badini, Gorée, 2008. José Luis Ayala Olazával nell'occasione è stato anche
intervistato da parte di una giornalista free lance di origine venezuelana trapiantata a Genova, Mayela Barragán
Zambrano, il cui articolo (“Un milagro en la feria del libro de Turín, Jumanpi Samkasta”, Rebelión, 20/5/2008),
riporto e commento nel III capitolo del presente studio. Nella successiva XXII Fiera Internazionale del Libro di

16
Alla mia ignoranza presto si è aggiunta anche una gran confusione, in quanto sono bastate
le prime letture relative per accorgermi come dietro tale termine si celino significati vari e talora
in contrasto tra loro, sia pure tutti legati ovviamente ai cosiddetti indigeni d'America Latina, se ci
si limita allo specifico campo di studi che ho scelto, laddove esiste invero anche un indigenismo
che si dilata ben oltre i confini ristretti che mi sono posto e in cui peraltro si diluisce lo stesso
indigenismo latinoamericano, come chiarirò più avanti.
La definizione del termine indigenismo, insomma, nel contesto delle letterature e delle
culture dell'América Latina28, impone prima di ogni altra cosa una precisazione di ordine
epistemologico.
Infatti, se per indigenismo s'intendono tutte le espressioni letterarie fiorite tra gli autori
dell'America latina dall''800, ovvero dalla decolonizzazione, a oggi, e in cui è protagonista in un
modo o nell'altro l'elemento nativo, allora, come ha dettato il mio primo impulso, è prima di tutto
necessario collegare in una linea di continuità tali espressioni letterarie a quelle dei precursori
vari che sono vissuti e hanno operato sin dall'epoca della conquista e durante la colonizzazione e
la conseguente distruzione delle culture cosiddette precolombiane o indigene propriamente
dette29, in modo da non pensare erroneamente che ci sia stata una troppo netta soluzione di
continuità e che l'indigenismo, in tal senso, sia sorto dal nulla o quasi, per quanto qualche novità
anche rilevante effettivamente ci sia stata.
Se, peraltro, nell'ambito di questa produzione letteraria che risulterebbe vastissima, a
comprendere anche la più recente letteratura in lingue indigene, si voglia dare invece al termine
in questione un significato più specifico e circoscritto, cioè lo stesso significato che, in maniera
più o meno condivisa, è stato dato dai critici delle letterature dell'America Latina al filone
letterario sviluppatosi in queste ultime tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento –
ad accompagnare la forma peculiare del nazionalismo populista latinoamericano –, in tal caso
dovremmo considerarvi solo alcuni determinati autori delle letterature soprattutto messicana,

Torino del 2009, quando già sapevo di volermi occupare di indigenismo, ho conosciuto la poeta e militante
mapuche Rayen Kvieh, lo scrittore peruviano Braulio Muñoz, professore di Sociologia nel Swarthmore College,
in Pennsylvania, e autore di vari studi sull'indigenismo, nonché il Professor Antonio Melis, dell'Università di
Siena.
28
Cfr. l'introduzione al presente studio in merito alla questione della pretesa latinità dei latinoamericanos.
29
Nel contesto della vasta letteratura relativa, cfr. i seguenti studi fondamentali: Tzvetan Todorov, La conquête de
l'Amerique. La question de l'autre, Seuil, Paris 1982; Emilio Choy, “De Santiago Matamoros a Santiago Mata-
indios”, Antropología y Historia 1 (1987), pp.333-437; David E. Stannard, American Holocaust: The Conquest of
the New World, Oxford University Press, New York 1993.

17
peruviana, ecuatoriana e boliviana, e in minor misura cilena. Non potremmo, però, fare a meno
di imbatterci in posizioni quali, tra le altre, quella dell'autore, filosofo e uomo politico messicano
José Vasconcelos Calderón (1882-1959), che ripudiava un'influenza europea e statunitense di
matrice razzista in questa tendenza – e, come tanti altri autori suoi contemporanei e mestizo-
criollos come lui, esaltava semmai il mestizaje, incarnato in quella che lui chiamò raza cosmica30
–, nonché, a fortiori, quella dell'autore guatemalteco Mario Monteforte Toledo (1911-2003), che
non ha mai accettato nemmeno lui di buon grado l’etichetta di scrittore indigenista con tale
accezione. A tal proposito scrisse31:

Nunca he aceptado sin rubor y malestar físico ese apartado; nadie, ni mis enemigos literarios o
políticos, ha negado mi esfuerzo por tratar a los personajes como seres humanos, simplemente,
sobre todo después de las enseñanzas de Mariátegui32.

Se infine, e più legittimamente, si vuole far luce su tutte le accezioni del termine, che,
almeno in America Latina e specialmente al giorno d'oggi, sono peraltro tra loro strettamente
interconnesse e talora confuse, non possiamo fare a meno di rilevarne anche quelle politica e
antropologica, quest'ultima in particolare spesso funzionale alla precedente, perlopiù sul modello
dello stesso meccanismo che Edward Said ha svelato per quanto concerne l'orientalismo33.
Così come gli “orientalisti”, nell'analisi di Said, furono e sono degli occidentali che parlano
degli “orientali” e in vece loro, laddove più spesso in realtà parlano di sé stessi, esprimendo
paure e desideri dell'io occidentale rispetto all'Oriente e alle sue risorse, così gli indigenisti,
antropologi e scrittori dell'America Latina non indigeni, trattavano – e trattano – il tema
“indigeni” allo stesso modo, con lo scopo di conoscerli per controllarli e/o, peggio, inquadrarli
nella scala socio-culturale dello Stato di appartenenza, ovviamente verso il basso34.

30
Cfr. in particolare di questo autore, La Raza Cósmica, Madrid 1925; Indología, Barcelona 1926. Il mestizaje è
ideale che ha influito molto anche sull'indigenismo andino e, sino ad oggi, sulla politica socio-culturale di tutti gli
stati d'America Latina. Cfr. Michele Porciello, “La Raza cósmica di Vasconcelos: costruzione di un mito o delirio
eugenetico?”, in Michele Porciello, Marco Succio (a c.), Il saggio in Spagna e Ispanoamerica (1914-1945),
Arcipelago Edizioni, Milano 2009, pp. 261-280.
31
Introduzione a Los desencontrados. Llegaron del mar. Siete cuentos, Biblioteca Ayacucho, Caracas 1993.
32
José Carlos Mariátegui (1894-1930), importante filosofo e politico comunista peruviano.
33
Cfr. Orientalism, Pantheon Books, New York 1978 [I ed. it. Orientalismo, trad. Stefano Galli, Bollati
Boringhieri, Torino 1991].

18
Naturalmente, in tale contesto, non sono mancate le eccezioni, cioè di autori – tra cui
spicca senza dubbio il peruviano José María Arguedas (1911-1969) –, che hanno incarnato il
fenomeno indigenismo con lo scopo opposto, cioè quello di recuperare, valorizzare e talora
enfatizzare, anche forse eccessivamente, le etnie e culture native – tendenza, è superfluo
precisarlo, trasmessasi alle supra citate letterature in lingue indigene –, ma si tratta di un
atteggiamento e di un'espressione politico-culturale che non esito a valutare come l'altra faccia
della medaglia rispetto all'indigenismo riduttivo e paternalista anteriormente descritto, spesso e
volentieri, peraltro, con una manifesta relazione con fenomeni politici, quali per esempio la
recente affermazione dei movimenti indigeni, nonché il populismo di certi leader politici.
Nel mondo latinoamericano, insomma, il termine indigenismo ha assunto e assume varie
accezioni che hanno prodotto e giustificato la confusione del mio primo approccio a cui ho
accennato infra.
Ancora non si è arrivati, come in lingua inglese, a coniare addirittura una parola nuova,
indigeneity, a fondere le parole indigenism e identity, onde distinguerne il significato soprattutto
nel campo delle istanze e rivendicazioni politiche, nonché in quello antropologico35.
Semmai, in Latinoamerica, si è semplicemente aggiunto il prefisso neo- e negli ultimi anni
si sta applicando il termine neoindigenismo a indicare il fenomeno della rinascita indigena, sia
sul piano politico sia culturale e letterario nella fattispecie. Ma è evidente come in tal modo non
si voglia del tutto rinnegare il passato indigenista, anche se, tendenzialmente, il neoindigenismo
è prodotto da indigeni più o meno autentici e non da non indigeni che pensano di poter e dover
parlare in vece loro36.
34
Tale meccanismo, tra gli altri, lo hanno descritto, sinteticamente quanto efficacemente, il messicano Felix Báez
Jorge, “Antropología e indigenismo en Latinoamérica: señas de identidad”, La palabra y el hombre 87 (1993),
pp. 17-38; il cileno Miguel Rojas Mix, Los Cien Nombres de América, Editorial Lumen, Barcelona 1991; nonché
Pranzetti, Le mani sugli Indios...cit.
35
L'antropologa Katherine Martineau (University of Michigan) definisce così questo neologismo: “indigeneity
forms a nexus of cultural identity, human rights, environmentalism, and specific political claims. This
multiplicity allows indigeneity to have multiple, unexpected effects. For example, anthropologists have explored
how claims of indigeneity produce double-binds for those who, by the nature of their claims, find themselves
playing roles that may not be in their own long-term interest. At the same time, indigeneity can be a powerful
argument for cultural and linguistic preservation programs”, in “Indigeneity”, Cultural Anthropology, 3/11/2008
(http://www.culanth.org/?q=node/116; pagina consultata il 22/10/2012); cfr. Manjusha S. Nair, Defining
Indigeneity. Situating Transnational Knowledge, World Society Focus Paper Series, Zurich 2006.
36
Invero si parla di neoindigenismo già a proposito delle opere del citato José María Arguedas e dell'altro autore
peruviano Manuel Scorza, nonché della messicana Rosario Castellanos, tra gli altri. E nessuno di questi era

19
Un caso a parte nel contesto dell'America Latina è poi senza dubbio il Brasile 37, dove il
termine indigenista ancora oggi perlopiù indica l'antropologo esperto di índios, tra cui la figura
di riferimento è certamente ancora Orlando Villas Bôas (1914-2002), che più propriamente –
assieme ai suoi fratelli Cláudio (1916-1998) e Leonardo (1918-1961) – era considerato l'ultimo
sertanista, cioè l'ultimo desbravador del sertão brasiliano, l'ultimo esploratore delle regioni
ancora selvagge dell'interior amazzonico abitato da etnie indigene che spesso non avevano
ancora avuto contatti con i colonizzatori “bianchi”38.
Inoltre, in Brasile, è indigenista il funzionario – non necessariamente un antropologo –
della FUNAI39, la Fundação Nacional do Indio, ente governativo brasiliano fondato nel 1967 di
cui, nella presentazione ufficiale sul proprio sito, si dice: “vinculada ao Ministério da Justiça” e
si definisce: “entidade com patrimônio próprio e personalidade jurídica de direito privado, […]
órgão federal responsável pelo estabelecimento e execução da política indigenista brasileira em
cumprimento ao que determina a Constituição Federal Brasileira de 1988”.
Meno adeguata rispetto alle letterature ispanoamericane l'applicazione del termine
indigenismo alla letteratura brasiliana, laddove vi si può piuttosto registrare fino ad oggi la
cosiddetta tendenza indianista, che si chiarirà meglio oltre.
indigeno. Cfr. per es. Trinidad Barrera, Del centro a los márgenes: narrativa hispanoamericana del siglo XX,
Universidad de Sevilla, 2003, specie pp.43-54: “El indigenismo narrativo. del indianismo al neoindigenismo”;
Rosalva Aída Hernández Castillo, Sarela Paz, María Teresa Sierra Camacho (a c.), El Estado y los indígenas en
tiempos del PAN. Neoindigenismo, legalidad e indentidad, CIESAS, México 2004, specie pp.7-13 e passim;
Laura Lee Crumley de Pérez, "Balún Canán y la construcción narrativa de una cosmovisión indígena", Revista
Iberoamericana L/127 (1984), pp. 491-503; AA.VV., Identidades en transformación. El discurso neoindigenista
de los países andinos, Abya-Yala, Quito 1997; Orlando Antonio Rodríguez, Ma. José Martínez O.,
“Neoindigenismo en Ecuador”, Memoria 133 (2000), pp. 25-30; Hernán Ibarra, “El caso del Ecuador.
Neoindigenismo e indianismo”, Centro de documentación mapuche, 2003
(http://www.mapuche.info/mapuint/ibarra030600.html); Rosario Rodríguez Márquez, De mestizajes,
indigenismos, neoindigenismos y otros: la tercera orilla (sobre la literatura escrita en castellano en Bolivia),
University of Pittsburgh, 2008.
37
Sulla peculiarità brasiliana nel contesto latinoamericano cfr. la recente intervista allo scrittore cubano Reinaldo
Montero da parte di Marco Aurélio Weissheimer dal titolo subito significativo: “Os brasileiros não se sentem
latino-americanos”, Carta Maior, 2/11/2012 (http://www.cartamaior.com.br/templates/materiaMostrar.cfm?
materia_id=21193&boletim_id=1425&componente_id=23955).
38
Alla straordinaria vicenda dei fratelli Villas Bôas è stato dedicato il recente (2012) eccellente film brasiliano
Xingu, diretto da Cao Hamburger e nel quale i tre fratelli sono interpretati da Felipe Camargo, João Miguel e Caio
Blat.
39
http://www.funai.gov.br/.

20
Credo del resto che almeno due eccezioni significative e diverse tra loro vadano
individuate in Darcy Ribeiro (1922-1997) – anch'egli in origine antropologo peraltro vicino a
Orlando Villas Bôas, ma che, in un romanzo come Maíra (1976), ha prodotto anche un
indigenismo letterario con intensi contenuti socio-politici –, e in Márcia Theóphilo (1941), che
ha fatto dell'Amazzonia e dei suoi abitanti originari il suo motivo di impegno poetico e politico.
Di lei Mario Luzi ha scritto che: “ha agito su due fronti con pari generosità: quello della
antropologia che ha pratica in studi delle parole indias e in analisi del fenomeno [la speculazione
spregiudicata della “civiltà” moderna], catastrofico per le popolazioni indigene, e quello poetico
del grande canto su una realtà umana e un ordine naturale distrutti e, ahimé, prossimi a essere
cancellati”40. E Rafael Alberti l'ha definita: “poeta del pueblo brasileño y de la Amazonia”41.
È peculiare e straordinaria poi l'opera di un altro autore brasiliano originario dello Stato di
Sergipe, Paulo de Carvalho-Neto (1923-2003), ispanista che pubblicò gran parte della sua opera
in spagnolo, tra cui fondamentale per il presente studio è il geniale romanzo satirico Mi tío
Atahualpa, pubblicato nel 1972 a Ciudad de México, in cui stigmatizza l'indigenismo
ispanoamericano con una parodia che gli serve per tracciare anche un vero e proprio programma
politico-culturale.
Premesso ciò, procederò cercando di illuminare sinteticamente e soggettivamente il
percorso storico-letterario di tutte le accezioni del termine, privilegiando negli approfondimenti
quegli autori che, nel dibattito politico-culturale finalizzato soprattutto alla definizione di
un'identità nei Paesi d'America Latina, è davvero possibile considerare a favore degli indigeni.
Specie alla luce del fatto che oggigiorno per indigenismo, o meglio, come detto, neoindigenismo,
s'intende proprio il fenomeno della rinascita indigena.
Tale criterio, come accennato, lo estenderò in primo luogo a una sintetica riflessione su una
selezione di autori di epoca coloniale che ho ritenuto di includere tra i precursori di questo
peculiare indigenismo, a partire dalle considerazioni di studiosi quali Henri Favre e Luis Villoro.

40
Dalla prefazione a Márcia Theóphilo, Amazzonia respiro del mondo, Passigli Editore, Firenze 2005, p. 8.
41
Ibid., p.9.

21
Precursori dell'indigenismo

Aunque ha habido españoles curiosos que han escrito las repúblicas del Nuevo Mundo, como la de México y
la del Perú y las de otros reinos de aquella gentilidad, no ha sido con la relación entera que de ellos se
pudiera dar, que lo he notado particularmente en las cosas que del Perú he visto escritas, de las cuales, como
natural de la ciudad del Cuzco, que fue otra Roma en aquel Imperio, tengo más larga y clara noticia que la
que hasta ahora los escritores han dado.

Inca Garcilaso de la Vega, Comentarios Reales de los Incas, dal Proemio Al Lector

Henri Favre, nel suo notevole lavoro El movimiento indigenista en América Latina42, premette
nell'introduzione:

El indigenismo en América Latina es, en primer lugar, una corriente de opinión favorable a los
indios. […] Esta corriente de inspiración humanista es antigua, permanente y difusa. Sus
orígines se remontan a los contactos iniciales que los europeos establecieron con los habitantes
del Nuevo Mundo.

Pertanto Favre individua in Cristoforo Colombo, “descubridor de América”, “el primer


indigenista”, in quanto sarebbe stato lui il primo a fornire, a beneficio dei regnanti di Spagna:

una descripción idealizada […] de la población con la que acababa de encontrarse del otro lado
del Atlántico43.
42
IFEA (Instituto Francés de Estudios Andinos), Lima 2007. Henri Favre, nato nel 1937 a Marsiglia, è un
etnosociologo specializzato nell'America Latina ed è direttore emerito di ricerca al Centre National de la
Recherche Scientifique di Francia. Il suo campo di studi è rappresentato dall'emergere delle identità etniche in
America latina e dalle conseguenze sociali e politiche che ne derivano, nonché dal rapporto tra globalizzazione
neoliberista e multiculturalismo nelle sue varie dimensioni. Cfr. http://www.wpfdc.org/community/18497-favre-
henri-france-director-research-emeritus-professor-national-centre-of-scientific-research e
http://www.ifeanet.org/investigacion/investigador.php?codinv=85.
43
Cfr. David Abulafia, “1492: la scoperta di un’altra umanità”, MicroMega 1 (2012), pp. 87-98 [“Stripped Assets:
The Opening of the Atlantic and the Discovery of Mankind”, History Today 58/5 (2008)
http://ic.galegroup.com/ic/whic/AcademicJournalsDetailsPage/AcademicJournalsDetailsWindow?
displayGroupName=Journals&prodId=WHIC&action=2&catId=&documentId=GALE
%7CA203539808&userGroupName=lnoca_hawken&jsid=62ae0560dd52fdca91467ef6afadd3d8]. Abulafia
rileva in particolare come Colombo descriva i Taíno, i primi indigeni del Nuevo Mundo che incontrò, come

22
Analogamente, e ben prima di Favre, Luis Villoro, uno dei pensatori messicani più prestigiosi 44,
in gioventù, nella sua prima opera importante significativamente dedicata all'indigenismo
messicano45, indicò Hernán Cortés, il conquistador del Messico, per le sue famose Cartas de
relación indirizzate a Carlo V, quale primo scrittore indigenista, laddove per Villoro
l'indigenismo era:

aquel conjunto de concepciones teóricas y de processos concienciales que, a lo largo de las


épocas, han manifestado a lo indígena46.

Sicché, sulla base di questo criterio apparentemente semplice, Villoro distinse tre momenti
storici in cui si sarebbe sviluppato l'indigenismo messicano: l'epoca della conquista e della prima
colonizzazione, la piena epoca coloniale e della repubblica liberale e l'epoca postrivoluzionaria, a
cui Villoro fece corrispondere rispettivamente tre “manifestaciones concienciales-explicativas de
lo indígena”: “lo indígena manifestado por la providencia”, “lo indígena manifestado por la
Razón”, “lo indígena manifestado por la Acción y el Amor”, per cui stilò una lista di personaggi
e autori che, secondo lui, all'epoca, ne furono gli artefici, lista, appunto, che fa iniziare con
Cortés, seguito da fray Bernardino de Sahagún47, per quanto concerne il primo momento da lui

“bellissimi”.
44
Luis Villoro Toranzo era nato a Barcelona, in Spagna, ma da genitori messicani, il 3 novembre 1922 ed è morto a
Ciudad de México il 5 marzo 2014. Tra i suoi ultimi significativi interventi, rimarchevole l'“Intercambio Epistolar
sobre Ética y Política” che ha condotto con il Subcomandante Marcos durante il corso del 2011 (cfr.
http://revistarebeldia.org/).
45
Luis Villoro, Los grandes momentos del Indigenismo en México, El Colegio de México, Ciudad de México 1950;
19792. Cfr. Pranzetti, Le mani sugli Indios,...cit., pp. 57 segg.
46
Villoro, Los grandes momentos...cit., p.15.
47
Al secolo Bernardino de Rivera o Ribera o Ribeira (Sahagún, León, 1499 ca. - Ciudad de México, 1590). Frate
francescano, fu autore di numerosi scritti, laddove la sua opera più importante è certo la Historia general de las
cosas de la Nueva España, notevole non solo in quanto fonte primaria della storia della conquista del Messico,
ma anche perché, nell'edizione più completa giunta sino a noi, nota anche come Codice Fiorentino perché è
tuttora conservata nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze; fu redatta pure in náhuatl oltre che in
spagnolo e in latino, pertanto è una delle prime opere letterarie in una lingua indigena del Nuevo Mundo.
Intellettuali contemporanei messicani come Miguel León-Portilla hanno legittimamente parlato di fray
Bernardino de Sahagún come del primo antropologo d'America. Cfr. Miguel León-Portilla, “Bernardino de
Sahagún, Pionero de la Antropología”, Serie Cultura Náhuatl, Monografías 24 (1999).

23
individuato, quindi continuata da Francisco Javier Clavijero48, fray Servando Teresa de Mier 49 e
Manuel Orozco y Berra50, per il secondo, infine, per il terzo e ultimo momento, completata da
vari autori tra cui si possono ricordare Manuel Gamio 51, Alfonso Caso52, Salvador Toscano53,
Ángel María Garibay54, Agustín Yáñez55 e Héctor Pérez Martínez56.
Ora, come mette in rilievo Luisa Pranzetti 57, per Villoro l'indigenismo si presenta quindi
come

48
Francisco Xavier Clavijero, noto anche con il nome italianizzato di Francisco Saverio Clavigero (Puerto de
Veracruz 1731- Bologna 1787), fu sacerdote gesuita e storico. Dopo il decreto di espulsione dei gesuiti
dall'impero spagnolo promulgato da Carlos III il 27 febbraio 1767, si stabilì in Italia, a Bologna. La sua opera più
importante è la Historia antigua de México, pubblicata per la prima volta in Italia, e in italiano, nel 1780. In essa
fece confluire la sua esperienza anche diretta di frequentazione degli indios, prima, da bambino, quando già aveva
appreso il náhuatl, in quanto figlio di un funzionario della corona spagnola che si spostava spesso in aree di
intenso popolamento da parte delle etnie native, successivamente nella veste di missionario. Cfr. Juan Luis
Maneiro, Francisco Xavier Clavijero, traduzione dal latino, introduzione e note di José Jesús Gómez Fregoso,
Universidad Iberoamericana, Puebla 2004.
49
José Servando Teresa de Mier y Noriega y Guerra (Monterrey, Nuevo León, 1763 - Ciudad de México, 1827) fu
frate e sacerdote domenicano, nonché scrittore e politico, molto attivo durante l'epoca delicata e turbolenta
dell'indipendenza messicana e, prima ancora, dell'invasione napoleonica della penisola iberica. Cfr. Fray
Servando Teresa de Mier, Memorias. Un fraile mexicano desterrado en Europa, Trama editorial, Madrid 2006.
50
Manuel Orozco y Berra (Ciudad de México1816-1881) fu uno dei più importanti storici messicani del XIX sec.
nonché membro dell'Academia Mexicana de la Lengua.
51
Manuel Gamio (Ciudad de México 1883 – 1960) è considerato il caposcuola dell'antropologia messicana,
discepolo del tedesco ebreo naturalizzato statunitense Franz Boas presso la Columbia University di New York.
Nel 1916 pubblicò il suo discusso Forjando Patria, in cui, interpretando e orientando la società
postrivoluzionaria, propose l'assimilazione culturale degli indios nella nuova società mestiza messicana: Gamio
pensò che la cultura, le tradizioni religiose e il linguaggio degli indigeni dovevano essere modificati in modo da
poterli assimilare alla più ampia nazione messicana, tendenza che peraltro divenne tipica degli intellettuali
mestizo-criollos di tutta l'America Latina dell'epoca. Cfr. David A. Brading, “Manuel Gamio and the Official
Indigenismo in Mexico”, Bulletin of Latin American Research 7 (1988), pp. 75-89; Anne Doremus, “Indigenism,
Mestizaje, and National Identity in Mexico during the 1940s and the 1950s.”, Mexican Studies/Estudios
Mexicanos 17 (2001), pp. 375-402.
52
Alfonso Caso Andrade (Ciudad de México 1896-1970) fu avvocato e archeologo. Occupò molti incarichi di
rilievo, tra cui direttore dell'Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH), rettore dell'Universidad
Nacional e direttore dell'Instituto Nacional Indigenista, che contribuì a fondare e che oggigiorno è stato sostituito
dalla Comisión Nacional para el Desarrollo de los Pueblos Indígenas. Fu anche membro dell'Academia Mexicana
de la Historia. Cfr. Alfonso Caso, Indigenismo, Colección Culturas Indigenas No. 1, Instituto Nacional

24
un processo storico nella coscienza, in cui l'indigeno è compreso e giudicato (“rivelato”) dal
non indigeno (“l'istanza rilevante”). Tale processo è la manifestazione di un altro processo che
si verifica nella realtà sociale, in cui l'indigeno è dominato e sfruttato dal non indigeno58.

I criteri di selezione degli autori indigenisti da parte di Villoro, a parte il fatto che si
riferiscono solo allo specifico messicano per giunta fino agli anni '40 del XX secolo, sono quindi
ormai superati dall'evoluzione dello stesso indigenismo, nato a partire dal punto di vista del non

Indigenista, Ciudad de México 1958, in cui mise in rilievo il problema indigeno che, parafrasando l'autore stesso,
è culturale piuttosto che razziale, non può essere risolto né dall'indigenismo romantico né dal liberalismo
egualitario, la soluzione deve essere persuasiva piuttosto che coercitiva e comunque deve essere finalizzata
all'acculturazione degli indios, alla trasformazione della loro cultura arcaica e in molti casi dannosa in un canone
più utile per la vita individuale e comunitaria: “una politica indigenista significa, insomma, trasformare tre
milioni di individui che vivono all'interno del territorio nazionale e sono teoricamente considerati messicani in tre
milioni di messicani che realmente contribuiscano al proprio progresso e al progresso del Messico” (p. 50).
53
Salvador Toscano Barragán (Guadalajara 1872 – Ciudad de México 1947) è considerato il primo cineasta
messicano. Cfr. AA.VV., Salvador Toscano: 1872-1947. Pionero del cine nacional, Comité para la
Conmemoración de los Cien Años del Cine Mexicano, Ciudad de México 1996.
54
Ángel María Garibay Kintana (Toluca 1892 – Ciudad de México 1967) fu sacerdote, filologo e storico delle
culture preispaniche del Messico. Svolse un notevole lavoro di recupero e valorizzazione della letteratura in
lingua náhuatl. Cfr. Miguel León-Portilla, “Ángel María Garibay”, in Enrique Florescano, Ricardo Pérez
Montfort (a c.), Historiadores de México en el siglo XX, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, Fondo de
Cultura Económica, Ciudad de México 1995, pp. 60-70.
55
Agustín Yáñez (Guadalajara 1904 – México 1980) fu scrittore e saggista, oltre che politico (governatore dello
stato di Jalisco e Secretario de Educación Pública, tra gli incarichi da lui ricoperti). È celebre in Messico per il
romanzo Al filo del agua (1947), considerato tra i più significativi romanzi messicani del XX secolo assieme a
Pedro Páramo (1955) di Juan Rulfo e Los de abajo (1916) di Mariano Azuela, tutte opere indigeniste, oltre che
ispirate alla nuova cultura rivoluzionaria. Cfr. Agustín Yáñez, Al filo del agua, a c. Arturo Azuela, Allca XX -
Universidad de Costa Rica, Madrid 1996.
56
Héctor Pérez Martínez (Campeche 1906 – Veracruz 1948) fu storico, giornalista e politico (governatore dello
stato di Campeche). Oltre ad aver curato l'edizione delle opere del poeta maya Ah Nakuk Pech (XVI secolo) e la
Relación de las cosas de Yucatán di fray Diego de Landa (1938), è anche famoso per il suo Cuauhtémoc (1944),
opera dedicata all'ultimo tlatoani mexica, cioè l'ultimo sovrano azteco, trattato come eroe della Patria messicana.
Cfr. infra e Luis Cardoza y Aragón, Para deletrear el nombre de los colores, Editorial Cultura, Ciudad de
Guatemala 1995.
57
Pranzetti, Le mani sugli Indios,...cit., p. 57.
58
Cfr. Villoro, Los grandes momentos...cit., pp.9-10.

25
indigeno, allo scopo di integrare e dominare l'indigeno, e diventato infine un movimento
finalizzato alla rinascita indigena, come già chiarito.
In tal senso, non si può nemmeno accettare tra i precursori dell'indigenismo Cristoforo
Colombo, come vorrebbe Favre, dal momento che la sua descripción idealizada degli indios –
nome che peraltro è stato proprio lui a far sì che fosse applicato alle popolazioni native del
Nuevo Mundo, com'è noto59 –, era finalizzata a convincere los Reyes Católicos a dare impulso
alla colonizzazione delle terre da lui “scoperte”, con tutte le conseguenze che conosciamo, tra le
quali l'assioma dell'inferiorità dell'indio ingenuo come un menor de edad, sottomesso,
rassegnato, pigro, indolente, sporco, vendicativo, ecc.60
L'indigenismo affrontato oggi deve considerare tra i suoi precursori solo quanti, non
indigeni, indigeni o mestizos, abbiano veramente incarnato “una corriente de opinión favorable
a los indios”. O che addirittura, già in epoca coloniale o nella prima epoca postcoloniale, abbiano
operato per il riscatto e la valorizzazione della culture indigene, a prescindere dai motivi e dagli
scopi che li abbiano mossi.
Sul solco e a integrazione soggettiva e personale del lavoro citato di Favre, quindi, credo
che tra i precursori dell'indigenismo in quanto corriente de opinión favorable a los indios siano
da considerare senz'altro autori quali Bartolomé de las Casas, non a caso ricordato come apóstol
de los indios e il cui nome despierta todavía ecos polémicos61, nonostante già si sia scritto tanto e
tanto si continui a scrivere su di lui.
Poi Inca Garcilaso de la Vega, citato in epigrafe al presente capitolo, primo importante
rappresentante del cosiddetto orgullo mestizo, che in seguito fino ai giorni nostri ha tanto
caratterizzato la cultura e le ideologie dominanti dei Paesi dell'America Latina62.
E ancora Guaman Poma de Ayala e Blas Valera, due nomi che da circa 20 anni sono
oggetto di discussioni smodatamente accese, specie in Perù, ma non solo, per la precisione da

59
Cfr. Pranzetti, Le mani sugli Indios,...cit., pp. 11-12 circa la “difficile definizione di indio”, termine che, com'è
noto deriva dall'“equivoco” di Colombo che voleva raggiungere le Indie, cioè, nella terminologia di allora,
l'Estremo Oriente. Curioso il fatto che anche per gli Indiani “originali”, quelli dell'India, tale etnonimo generico
derivi da una tradizione culturale occidentale, sia pure di origine persiana, e non sia loro proprio, per quanto
ormai l'abbiano adottato come tale, almeno sul piano internazionale.
60
Cfr. Pranzetti, Le mani sugli Indios,...cit., pp. 9-11, che rimanda anche a Beatriz Pastor, Discurso narrativo de la
conquista de América, Casa de las Américas, La Habana 1983.
61
Nelson Martínez Díaz, “El mundo de la conquista”, prefazione a: Bartolomé de Las Casas, Brevísima relación de
la destrucción de las Indias, Ediciones Orbis, S.A. Barcelona 1986, p. 3.
62
Cfr. supra specie quanto riportato a proposito di José Vasconcelos e infra passim.

26
quando sono stati divulgati nel mondo accademico da parte di Laura Laurencich Minelli 63 gli
sconvolgenti documenti Miccinelli, che, al di là di tutte le questioni, rivelano comunque come,
da parte di un gruppo più o meno segreto di gesuiti operanti in Perù tra la fine del XVI e l'inizio
del XVII secolo, si sia sviluppato, con la collaborazione di soggetti indigeni e mestizos, il
progetto politico di rifondare di fatto il Tahuantinsuyu, cioè il “regno dei quattro suyu” (le
quattro parti del mondo), come suona il nome ufficiale dell'impero incaico in lingua
quichua/quechua64, sia pure con la supervisione dei gesuiti stessi e nel contesto dell'impero
spagnolo; in altre parole, di restituire agli indigeni la propria autonomia politico-culturale e
economica, idea che, se non ha potuto conoscere realizzazione, ha del resto sicuramente ispirato
le celebri reducciones degli stessi gesuiti in territorio guaraní, più a sudovest, nel Cono Sur, negli
attuali territori di Paraguay, Argentina, Uruguay e Brasile, veri e propri Stati negli Stati,
autosufficienti e organizzati secondo un modello politico-economico che si può definire di tipo
comunista – come appunto il Tahuantinsuyu65 – e che non a caso sono state annientate poco
dopo la metà del XVIII secolo dai governi colonialisti portoghese e spagnolo, che vi hanno
anche trovato il facile pretesto per l'espulsione dei gesuiti stessi dai loro imperi66.
Un altro gesuita, il sarzanese Nicolò Mascardi, vissuto nel XVII secolo e noto soprattutto
come esploratore della Patagonia, fu anche lui un attivissimo difensore degli indigeni.
Invece l'indigeno quichua Jacinto Collahuazo, vissuto nel XVIII secolo nell'attuale sierra
settentrionale ecuatoriana, è stato probabilmente il rappresentante più significativo della
repressione e manipolazione della voce indigena da parte delle autorità coloniali spagnole e
europee in genere, politiche o religiose che fossero.
Un caso particolare e affascinante è rappresentato infine da personaggi quali Hans Staden,
Jean de Léry, André Thevet, Ulrich Schmidl e Anthony Knivet, le cui testimonianze da un lato
hanno condizionato profondamente l'immaginario collettivo occidentale contribuendo al dibattito
morale e filosofico, che ha portato per esempio alla formulazione del cosiddetto mito del Buon
Selvaggio, dall'altro sono state strumentalizzate dalla propaganda politica già dell'epoca, sia nel
contesto delle guerre di religione sia tra i nemici dell'impero spagnolo, a contribuire, come anche

63
Già docente di Storia e Civiltà Precolombiane americane presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di
Bologna.
64
A seconda di dove si usa, la variante contemporanea di quella che fu la lingua ufficiale del Tahuantinsuyu, si
pronuncia “quichua”, come in Ecuador, o “quechua”, forma propria delle realtà peruviana e boliviana.
65
Cfr. infra, in particolare quando tratto il poema di Ernesto Cardenal dal titolo Economía de Tahuantinsuyu.
66
Cfr. infra.

27
l'opera del citato Bartolomé de las Casas, all'elaborazione della cosiddetta leyenda negra
española, come è stata battezzata più tardi67.
Prima però di trattare più nel dettaglio questi personaggi, sia pure in una sintesi funzionale
al ruolo che vogliamo assegnare loro in quanto precursori dell'indigenismo, va premesso che:

Las relaciones que se establecieron entre los habitantes del Nuevo Mundo y los del viejo
continente dependían de la percepción que los segundos tenían de los primeros y de la
integración de los unos al universo semiotico e ideológico de los otros68.

Ora, l'opinione sugli abitanti del Nuevo Mundo che sin dal principio maturarono i
colonizzatori giunti dal “Vecchio Mondo”, cioè dall'Europa occidentale e in particolare dalla
Spagna dei Reyes Católicos, è stata sintetizzata sempre dal citato Favre nelle seguenti tre
domande fondamentali:

¿Es Hombre el indio? ¿Es legítima la conquista de su territorio? El estado moral en que vive,
¿hace lícito su avasallamiento?69

Alla prima domanda la risposta affermativa fu sin da subito chiara e decisa, ufficialmente
già dalla bolla Inter Caetera di papa Alessandro VI del 149370; anche se ciò non significa che
non ci siano stati sostenitori dell'opinione contraria, e sino a tempi recenti.
Si ricordino per esempio i dibattiti seguiti al Trattato di Madrid del 13 gennaio 1750, con il
quale Fernando VI di Spagna e João V del Portogallo rividero i confini delle rispettive colonie in
Sudamerica, laddove sancirono anche la condanna delle già citate celebri missioni gesuite
cogestite con la nazione guaraní in un territorio che oggi si trova tra i confini del Brasile,
dell'Argentina e del Paraguay71.

67
Cfr. infra.
68
Favre, El movimiento indigenista...cit., p. 15.
69
Ibid. Cfr. Mauricio Beuchot, La querella de la conquista: una polémica del siglo XVI, Siglo XXI, Ciudad de
México 2004.
70
Cfr. anche Barrera, Del centro a los márgenes...cit., pp. 43-4; Abulafia, op. cit., pp. 88-89.
71
Cfr. cap II e Tau Golin, José Custódio de Sá e Faria, A Guerra Guaranítica: como os exércitos de Portugal e
Espanha destruíram os Sete Povos dos jesuítas e índios guaranis no Rio Grande do Sul, EDIUPF, Universidade
de Passo Fundo, 1999; Mário Simon, Os sete povos das missões: trágica experiência, Martins Livreiro Editora,
Porto Alegre 1987.

28
Un recente articolo di Rosa Montero72 ha mostrato come tale pregiudizio comunque diffuso
abbia toccato, sia pure inconsciamente, anche personaggi insospettabili come Stefan Zweig, il
celebre scrittore e giornalista pacifista e antinazista di origine austriaca e di famiglia ebraica che
morì suicida in Brasile nel 1942.
Del resto, la scarsa considerazione dell'umanità degli indigeni e conseguentemente dei loro
diritti umani da parte dei colonizzatori occidentali, dai tempi della “scoperta dell'America” ai
giorni nostri, è sempre stata segnalata dall'idea che le terre da loro abitate fossero – e siano –
“desertiche” e in attesa di essere popolate e sfruttate. Basti pensare al significato originale del
concetto di sertão nella terminologia geografica brasiliana, che deriva proprio da desertão, un
accrescitivo della parola deserto, e che, se oggi indica una regione del nordeste del Paese, in
passato indicava piuttosto i territori dell'interno lontani dai centri urbani coloniali della costa
nordestina, da essi divisi dalla cosiddetta muralha, sorta di barriera naturale rappresentata dalla
foresta vergine e da altri ostacoli naturali, ma anche dai temibili tapuias, termine generico a
indicare gli indigeni del sertão, appunto, considerati più barbari e feroci di quelli della costa,
laddove i bandeirantes loro persecutori furono senz'altro più feroci di loro73.
In tempi più recenti, in Argentina, fu condotta la famigerata Conquista del Desierto o
Campaña del Desierto, una campagna militare indirizzata dal governo della República Argentina
contro i Mapuche e i Tehuelche della Pampa e della Patagonia tra il 1869 e il 1888, conclusa con
lo sterminio di queste genti indigene, le cui terre furono pertanto in effetti “desertificate”74.
E quando la dittatura brasiliana volle costruire un'autostrada a tagliare l'Amazzonia,
ovviamente non vi fu minimamente considerata la presenza di etnie indigene, come racconta
Michel Braudeau ne Il sogno amazzonico:
72
“Los indios no son hombres”, El País, 27/12/2009
(http://elpais.com/m/diario/2009/12/27/eps/1261898819_850215.html).
73
Cfr. Dinah Silveira de Queiroz, A muralha, Livraria José Olympio, São Paulo 1954; John M. Monteiro, Tupis,
Tapuias e Historiadores. Estudos de História Indígena e do Indigenismo, Departamento de Antropologia, IFCH-
Unicamp, Campinas 2001.
74
Cfr. il recente (2010) film-documentario Awka Liwen – Rebelde Amanecer, http://www.awka-liwen.org/, dello
storico, scrittore e regista argentino Osvaldo Bayer, il quale peraltro non si limita a denunciare i crimini del
passato, ma risale sino al presente. Da notare come gli anni della Conquista del Desierto portata avanti dal
governo argentino furono, non per caso, gli stessi della “soluzione finale”, come la definisce giustamente Dee
Brown, che il governo statunitense applicò al “problema indiano”, soprattutto nel cosiddetto Far West, mitizzato
proprio in quegli anni, ma non solo. Cfr. proprio Dee Brown nel suo celebre Seppellite il mio cuore a Wounded
Knee, trad. Furio Belfiore, Mondadori, Milano 1972 [Bury my heart at Wounded Knee: An Indian History of the
American West, Holt, Rinehart & Winston, New York 1970], passim.

29
Nel 1970, all'inaugurazione di un primo troncone autostradale, il presidente Emilio Garrastazu
Médici dichiara che la Transamazzonica aprirà «delle terre senza uomini a degli uomini senza
terre», formula populista che, sia detto per inciso, considera trascurabili e insignificanti le
popolazioni indigene che abitano sul suo tracciato”75.

Ancora oggi, sempre in Brasile, i grileiros, i garimpeiros, i madereiros76, ma soprattutto i


fazendeiros e varie multinazionali colluse con amministratori corrotti, violano e calpestano
continuamente e violentemente i diritti di proprietà delle terre degli indigeni, pur riconosciuti in
teoria dal governo brasiliano77.
Questa mancanza di riconoscimento della completa umanità agli indios è peraltro connessa
con la concezione stessa con cui il mondo cristiano occidentale dei conquistadores ha trattato gli
abitanti del Nuevo Mundo, questione che considererò dettagliatamente più avanti.
Sono comunque le due successive domande sintetizzate da Favre che suscitarono sin da
subito i più accesi dibattiti, in origine portati avanti da religiosi, in particolare domenicani e in
seguito gesuiti.

75
La citazione è tratta dall'edizione italiana, con nota di Antonio Tabucchi, traduzione di Veronica Noseda, Sellerio,
Palermo 2007, p. 46 [Le rève amazonien, Éditions Gallimard, Paris 2004]. Questa vicenda è ricordata anche nel
film citato Xingu (cfr. supra), in cui appunto si racconta che Leonardo e Cláudio Villas Bôas si recarono a
“salvare” un'etnia indigena che non aveva ancora avuto contatti con i “bianchi”, ma il cui territorio era stato
incluso nel tracciato della transamazzonica da parte del governo.
76
In Brasile sono definiti ironicamente grileiros quanti, con la compiacenza delle autorità, falsificano documenti
che attestano proprietà nei territori delle riserve indigene. Il termine deriva dall'uso di conservare tali documenti
dentro a un cassetto assieme a dei grilli che producono l'effetto invecchiamento dei documenti stessi. I
garimpeiros sono i cercatori di metalli e pietre preziose in Amazzonia e non solo, dove contribuiscono soprattutto
all'avvelenamento dei corsi d'acqua in seguito all'uso scriteriato del mercurio. I madereiros sono quanti sfruttano
le notevoli ma non inesauribili risorse di legname della foresta tropicale brasiliana, rei, assieme ai fazendeiros, del
suo feroce disboscamento che, ovviamente, incide gravemente sull'economia delle popolazioni indigene.
77
Tra i tantissimi documenti che si potrebbero produrre, cfr. Andrea Alicandro, “Indios, una lotta per la terra, una
lotta per la vita”, Terra 115, 2010 (http://newslavoroesalute.blogspot.it/2010/05/brasile-stato-del-para-zona-di-
maro-un.html), e la denuncia di padre Angelo Pansa per esempio ne “Il missionario italiano che rischia la vita per
l’Amazzonia”, intervista a padre Angelo Pansa a cura di Francesca Grassi, Il Fatto Quotidiano, 2/7/2010
(http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/02/il-missionario-italiano-che-rischia-la-vita-per-lamazzonia/35325). Da
segnalare immancabilmente anche l'appassionante e vibrante denuncia della giovane poeta e attivista indigena
Zahy Guajajara (http://zahyguajajara.blogspot.it/), la cui figura approfondirò nel cap. III.

30
Tali dibattiti, matrice della questione indigenista, e quindi assolutamente inerenti al
presente studio, sorsero con le prime reazioni di indignazione rispetto al destino a cui erano
sempre più condannati gli indios da parte di coloni crudeli e avidi. Le popolazioni che
resistevano erano massacrate e schiavizzate, quante si sottomettevano erano via via ripartite nelle
cosiddette encomiendas, integrate cioè in un vero e proprio sistema di tipo feudale al vertice del
quale si trovava l'encomendero, un suddito spagnolo che aveva ottenuto tale privilegio dai
governatori del Nuevo Mundo o, più tardi, direttamente dalle autorità reali. I nativi, alla stregua
di servi della gleba, erano obbligati a tributare beni e manodopera senza limiti ai loro
encomenderos, i quali spesso e volentieri abusavano del loro ruolo e punivano ferocemente
quanti si ribellavano.
Lo stesso Bartolomé de las Casas (Sevilla, 24 agosto 1474 o 11 novembre1484 78 – Madrid,
17 luglio 1566) fu encomendero a Concepción de La Vega, nell'attuale República Dominicana.
Giunto nel Nuevo Mundo, a La Española, nel 1502 – suo padre Pedro aveva partecipato al
secondo viaggio di Colombo –, fu tra quanti furono colpiti dal celebre Sermón de Adviento o
Ego Vox Clamantis in deserto, pronunciato nell'isola dal domenicano fray Antón de Montesinos
durante l'Avvento del 1511, a fustigare dal pulpito il comportamento inumano degli
encomenderos nei confronti degli indios, a cui in principio avrebbero invece dovuto trasmettere
la Buona Novella.

[...] todos estáis en pecado mortal y en él vivís y morís, por la crueldad y tiranía que usáis con
estas inocentes gentes. [...] ¿con qué derecho y con qué justicia tenéis en tan cruel y horrible
servidumbre a estos indios? ¿Con qué autoridad habéis hecho tan detestables guerras a estas
gentes que estaban en sus tierras mansas y pacíficas, donde tan infinitas de ellas, con muertes y
estragos nunca oídos, habéis consumido? ¿Cómo los tenéis tan opresos y fatigados, sin darles
de comer ni curarlos en sus enfermedades, que de los excesivos trabajos que les dais incurren y
se os mueren, y por mejor decir, los matáis, por sacar y adquirir oro cada día? ¿Y qué cuidado
tenéis de quien los doctrine, y conozcan a su Dios y creador, sean bautizados, oigan misa,
guarden las fiestas y domingos? ¿Estos, no son hombres? ¿No tienen almas racionales? ¿No
estáis obligados a amarlos como a vosotros mismos? ¿Esto no entendéis? ¿Esto no sentís?
¿Cómo estáis en tanta profundidad de sueño tan letárgico dormidos? Tened por cierto, que en el

78
La data di nascita è discussa. Cfr. Luis M. Iglesias Ortega, Bartolomé de las Casas: cuarenta y cuatro anos
infinitos, Fundacion José Manuel Lara, Sevilla 2007.

31
estado que estáis no os podéis más salvar que los moros o turcos que carecen y no quieren la fe
de Jesucristo79.

Il sermone di Montesinos, che ebbe una grande ripercussione in tutto il Caribe, determinò
la vocazione di Las Casas80, che poco prima aveva preso i voti nella sua città natale, come
apóstol de los indios, per quanto non ebbe all'epoca l'assoluzione da parte di Montesinos, in
quanto, appunto, era ancora un encomendero. Rinuncerà gradualmente ai suoi privilegi a partire
dal 1514.
Negli anni seguenti entrò nell'ordine dei domenicani, ormai sempre più difensori degli
indios contro gli encomenderos. Intraprese quindi un'opera di evangelizzazione pacifica in
Venezuela, poi in Guatemala, infine nel Chiapas, di cui fu nominato primo vescovo nel 1543.
Negli stessi anni si avvalse della sua influenza in Spagna onde obbligare i reali a intervenire a
favore dei nativi annientati dal giogo degli encomenderos: inviò alla Corte regolari relazioni
dettagliate che preconizzarono, anzi promossero il ridimensionamento della encomienda, nonché
altre misure capaci di frenare il genocidio di cui era testimone.

79
Citato dallo stesso fray Bartolomé de las Casas in Historia de las Indias, III 4 (a c. André Saint-Lu, Ayacucho,
Caracas 1986).
80
I due iniziatori della difesa dei diritti umani degli indigeni nel Nuevo Mundo sono tra i protagonisti, assieme a
Cristoforo Colombo, descritto come avido genocida, e alla Guerra del Agua verificatasi a Cochabamba, in
Bolivia, nell'aprile del 2000, del ben riuscito film spagnolo También la lluvia, diretto nel 2010 da Icíar Bollaín,
scritto in parte da Paul Laverty, già sceneggiatore di molti film del regista britannico Ken Loach. Nella trama
s'intreccia sapientemente la vicenda contemporanea della protesta contro il tentativo fallimentare di
privatizzazione dell'acqua – sfociato in gravi e pesanti violenze urbane che hanno visto contrapporsi soprattutto i
locali indigeni quechua contro l'allora governo mestizo-criollo ultraliberista – con la vicenda fittizia, ma non per
questo meno attuale, della Conquista del Nuevo Mundo da parte di Colombo e degli Spagnoli, che opprimono,
schiavizzano, derubano e massacrano ferocemente i Taíno, che pure resistono; vicenda appunto ricostruita da una
troupe cinematografica spagnola negli stessi giorni della protesta. I Taíno, nella finzione cinematografica, sono
gli stessi Quechua di Cochabamba, tra i quali spicca Daniel – interpretato dal bravo attore boliviano Juan Carlos
Aduviri –, protagonista nel film in quanto eroe della resistenza indigena contro i conquistadores prevaricatori e
leader della Guerra del Agua nella realtà quotidiana.

32
Basandosi sulle tesi dell'altro domenicano Francisco de Vitoria (1483 o 1486 - 1546) 81, che
all'epoca insegnava presso l'Università di Salamanca, secondo cui non esiste una guerra giusta se
non quella destinata a respingere un'aggressione, Las Casas impugnò addirittura la legittimità
della conquista: l'idolatria degli indios, secondo lui, non era motivo sufficiente per espropriarli
del loro status di «signori naturali» d'America, tanto più che non era il risultato di una scelta,
visto che il continente americano non aveva conosciuto la Buona Novella prima che gli Spagnoli
vi arrivassero. Pertanto, gli indios erano “gentili”, non “infedeli”. E anche se lo fossero stati, non
era lecito privarli dei diritti che la legge naturale riconosce a tutti gli uomini, come il diritto alla
libertà e alla proprietà82.
Las Casas intraprese quindi un intenso e acceso dibattito con vari esponenti della causa
degli encomenderos e in genere della “giusta guerra contro gli indios”, in particolare con Juan
Ginés de Sepúlveda (Pozoblanco, Córdoba, 1490 – 1573) 83, dibattito che per molti aspetti è
ancora molto attuale e aperto nel contesto dello scontro tra movimenti indigeni e governi
nazionali in America Latina.
Sepúlveda ammetteva che la differenza di religione non fosse ragione sufficiente per
giustificare la conquista bellica dei territori degli indigeni, tanto meno il trattamento a loro
riservato. D’altra parte, la conquista dell’America sarebbe stata legittima

pues los soberanos indígenas no son «señores naturales» sino «tiranos». Prueba de ello es que
sus súbditos se entregan a la sodomía, al canibalismo y a los sacrificios humanos, actos, todos
ellos, contra natura. Por esto, los indios no pueden invocar el beneficio de la ley natural, pues la
violan de manera muy flagrante y muy grave. Por consiguiente, no sabrían disponer libremente
de su persona y de sus bienes. Les es necesaria la servidumbre para que olviden sus prácticas
nefandas y asciendan poco a poco por la via de la moral y de la religión 84.

81
Francisco de Vitoria fu l'autore dei cosiddetti Justos Títulos (1538-9), basati sul diritto naturale a cui fece appello
anche Las Casas, che giustificavano peraltro il potere spagnolo nelle Americhe e sugli indios, di cui comunque
difendeva i diritti umani. Cfr. Marcelino Ocaña García, “Francisco de Vitoria: vida, muerte y resurrección”,
Anales del Seminario de Historia de la Filosofía (1996), pp. 297-317; Michele Porciello, “Francisco de Vitoria:
un uomo di pace in tempo di guerra”, Cultura Latinoamericana, Annali dell’Istituto di Studi Latinoamericani,
Oèdipus 5 (2004), pp. 383-411; Enrique Dussel, “Origen de la filosofía política moderna: Las Casas, Vitoria y
Suárez (1514-1617)”, Caribbean Studies 33/2 (2005), pp. 35-80.
82
Cfr. Favre, El movimiento indigenista...cit., p. 17.
83
Id., p. 18.
84
Ibid.

33
La posizione di Sepúlveda, in sostanza, ricalcava un'antica propaganda occidentalista,
come non esito a definirla, che ho trattato anche in un altro studio dedicato a L’origine del
contrasto Oriente vs Occidente nel pensiero preellenistico85.
In sintesi, si tratta della tesi giustificativa della conquista dei territori dell'impero
achemenide da parte del mondo ellenico sulla base dell'idea, elaborata da pensatori e politici di
rilievo di epoca preellenistica tra cui Aristotele e Isocrate, che l'uomo greco, libero perché
cittadino delle poleis democratiche, aveva il pieno diritto di conquistare gli orientali e i loro
territori, sudditi del Gran Re e, in quanto tali, equiparati a schiavi, per i quali era indifferente
cambiare padrone.
Tale propaganda è stata usata da Alessandro il Grande, dipinto come eroe conquistatore,
civilizzatore e pacificatore dei “barbari”, in seguito fu a fondamento della cosiddetta pax romana
e, con i debiti adattamenti, alle crociate, in cui l'eroe civilizzatore e pacificatore fu sostituito, con
lievi differenze ideologiche, dal cavaliere crociato e cristoforo.
Dalle crociate, e specificatamente dalla peculiare crociata spagnola, cioè la Reconquista,
tale retorica è stata quindi, e in modo diretto, trasmessa alla conquista del Nuevo Mundo. Basti
pensare che sia durante la conquista del Messico, sia durante la conquista del Perù, del Cile e
dell'Argentina, il grido di guerra dei conquistadores richiamava al più celebre santo della
penisola iberica, Santiago de Compostela, ben noto patrono anche della stessa Reconquista, a
cui, secondo numerose leggende, avrebbe anche attivamente partecipato, biancovestito su bianco
cavallo e armato di spada fiammeggiante.
E in tale veste avrebbe partecipato anche a numerose battaglie contro gli indios nel Nuevo
Mundo, fatto che spiega, tra l'altro, come mai il culto di tale santo crociato, Matamoros prima e
Mataindios poi, sia ancora tanto diffuso in America Latina e ne abbia pure condizionato la
toponomastica e l'onomastica.
Di Santiago alla conquista del Nuevo Mundo si sono occupati, tra gli altri, studiosi come lo
spagnolo Américo Castro (1885-1972), nel suo studio Santiago de España86, il peruviano Emilio
Choy (1915-1976), il titolo del cui studio è immediatamente significativo: De Santiago
Matamoros a Santiago mata-indios87, fino alla più recente e eccellente opera di Javier
Domínguez García, della Utah State University, anch'essa dal titolo eloquente: De Apóstol

85
Tesi conclusiva del Master Universitario di I livello in “Oriente e Occidente nell’antichità: storia, archeologia,
tradizione letteraria”, Relatrice: Chiar.ma Prof.ssa Francesca Gazzano, A.A. 2006/2007.
86
Emecé Editores, Buenos Aires 1958.
87
Op. cit., cfr. supra.

34
matamoros a Yllapa mataindios: dogmas e ideologías medievales en el (des)cubrimiento de
América88.
In questi studi l'ideologia crociata di Santiago è giustamente connessa con la questione

de la invención del Nuevo Mundo a imagen y semejanza del cosmos eurocentrista y mediante
la proyección de sus discursos utópicos89.

Questione che già il fondamentale storico messicano Edmundo O'Gorman definì la “conquista
filosófica de América”90.
In sintesi e come anticipato, i conquistadores europei non vollero riconoscere nel Nuevo
Mundo uno spazio differente e autonomo, non vollero riconoscergli un'identità propria tanto
meno la riconobbero ai suoi abitanti nativi, che, pur distinti in centinaia di etnie, nazioni e stati,
furono genericamente e grossolanamente diluiti nell'etnonimo imposto loro da Colombo, indios,
ad includerli in un “imaginario asiático”, come lo ha definito il pensatore messicano di origine
argentina Enrique Dussel,

en la estética y fantasía contemplativa de los grandes navegantes del Mediterráneo. Como


consecuencia, el Otro, el amerindio, desapareció. El indígena fue reconocido de antemano
como asiático y confirmado ese reconocimiento en el encuentro cara a cara con el conquistador,
por lo tanto su condición de alteridad fue negada (en-cubrimiento) 91.

88
Ediciones Universidad de Salamanca, 2008; Yllapa era una divinità andina del fulmine dai nativi interpretata con
Santiago. Cfr. Javier Domínguez García, “La distopía de un mundo al revés en El camino de Santiago de Alejo
Carpentier”, Espéculo 34 (2007; http://www.ucm.es/info/especulo/numero34/distopia.html); Id., Memorias Del
Futuro: Ideología y Ficción en el Símbolo de Santiago Apóstol, Vervuert-Iberoamericana Editorial, Frankfurt am
Main-Madrid 2008.
89
Id., De Apóstol matamoros...cit., p. 60.
90
Edmundo O'Gorman, La invención de América, investigación acerca de la estructura histórica del Nuevo Mundo
y del sentido de su devenir, D.F.: Fondo de Cultura Económica, México 1986 [I ed. 1958].
91
Enrique Dussel, The Invention of the Americas. Eclipse of “the Other” and the Myth of Modernity, New York:
Continuum Publishing Company, 1995, p. 32 [citato da Domínguez García, De Apóstol matamoros...cit., p. 61; il
lavoro originale in castigliano di Dussel presenta il seguente titolo: 1492. El encubrimiento del Otro, Plural
Editores, Facultad de Humanidades y Ciencias de la Educación - UMSA, La Paz 1994]. Cfr. anche José Rabasa,
Inventing America: Spanish Historiography and the Formation of Eurocentrism, University of Oklahoma Press,
Norman 1993, specie pp. 164-179, in cui l'autore tratta la vicenda di Las Casas.

35
Domínguez García precisa ulteriormente:

En la mirada y en entendimiento del hombre de la primera modernidad, los indígenas del


Nuevo Mundo recién (des)cubierto nunca fueron intepretados como sujetos diferentes, sino
como una simple prolongación ontólogica de la esencia e identidad europea. Para Dussel, el
sujeto colonial, dentro de estos parámetros interpretativos, era una materia reflexiva que
permitía (de hecho forzaba ideológicamente) la afirmación identitária del colonizador europeo.
[...] La “invención” de América, como señaló O'Gorman y el “(des)cubrimiento” del Nuevo
Mundo, tal cual lo entiende Dussel, abrieron otros horizontes posibles en el análisis de los
textos coloniales que vinieron a confirmar, mediante los estudios de la alteridad, la
prolongación transatlántica de un discurso medieval que ya había caducado en la Península
Ibérica tras la conquista de Granada ese mismo año 92.

E ancora:

ese proceso cognoscitivo del Nuevo Mundo [afectó], a partir de entonces, a todos los procesos
de colonización europeos, y con ello a la representación de la identidad y la alteridad 93.

A partire da questo punto di vista eurocentrista, il Nuevo Mundo, in onore di Amerigo


Vespucci, fu quindi battezzato America nel 1507 da Matthias Ringmann nella Cosmographiae
Introductio, da lui pubblicata assieme al cartografo Martin Waldseemüller94, e da allora gli
abitanti nativi del Nuevo Mundo hanno mantenuto giocoforza l'etnonimo generico di
indios/indiani assegnato loro da Colombo.
A conferma dell'ultima considerazione citata di Domínguez García, si può aggiungere che,
in seguito, anche l'ultimo continente “scoperto” dagli occidentali, l'Oceania (e prima ancora
l'Australia), ricevette un nome “a imagen y semejanza del cosmos eurocentrista”, anzi, tutti i
continenti possiedono nomi del genere: Europa e Asia, a partire dalle classificazioni a cui
abbiamo accennato proprie della civiltà ellenica, matrice della civiltà occidentale, Africa, così
92
Domínguez García, De Apóstol matamoros...cit., p. 62.
93
Ibid., p. 61.
94
Matthias Ringmann, Martin Waldseemüller, Cosmographiae introductio cum quibusdam geometriae ac
astronomiae principiis ad eam rem necessariis. Insuper quatuor Americi Vespucii navigationes. Universalis
Cosmographiae descriptio tam in solido quam plano, eis etiam insertis, quae Ptholomaeo ignota a nuperis
reperta sunt, Saint Dié 1507 (http://netlibrary.net/articles/Cosmographiae_Introductio). Cfr. Domínguez García,
De Apóstol matamoros...cit., pp. 59-60.

36
battezzata dai Romani, America, come visto, a realizzazione del modello colonialista affermatosi
con l'impero spagnolo, Australia/Oceania, nel contesto della definitiva espansione colonialista
eurocentrista portata avanti, tra fine '600 e '800, da Britannici e Francesi.
È anche utile rilevare come fa David Abulafia 95, che il dibattito sull'inferiorità degli indios
ricalcò quello sull'inferiorità dei Guanches delle Canarie96, che ha avuto come originali
protagonisti nientemeno che Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca, nel XIV secolo
precursori/promotori dell'Umanesimo e quindi dell'Età moderna e del colonialismo europeo.
Il primo pubblicò il De Canaria, sicuramente posteriore al 1341, in cui

Boccaccio, though not himself present, conveys the sense of wonder experienced by European
sailors at meeting the Canary islanders. The islanders did not value gold and did not know wine
or bread. Yet they showed deference to their leaders and were handsome and well-mannered,
more so, Boccaccio insists, than many Europeans. He was impressed by the simple life of these
folk whom he idealized. Boccaccio's letter was the first exchange in a longlasting about newly
discovered peoples97.
By contrast, his eminent friend Petrarch (1304-74) wrote 98 of the Canarians as creatures who
had no knowledge of ordinary social intercourse, and were thus more beast than human.
Opinions concerning 'primitive' peoples became polarized between the positive and negative
views typified by Boccaccio and Petrarch.

Chiarito ciò, la politica all'epoca diede in parte ragione a Las Casas: Carlo V riunì nel 1550
a Valladolid una commissione incaricata di esaminare la sua posizione e quella di Sepúlveda,
quest'ultimo sostenuto, tra gli altri, dalla notevole personalità di Gonzalo Fernández de Oviedo
(1478-1557), scrittore, storico e uomo di corte, che condivideva con Sepúlveda l'idea che gli
indios di umano avessero solo la forma.

95
Abulafia, op. cit., pp. 91-2 e passim.
96
Anzi, il modello di colonizzazione applicato al Nuevo Mundo da parte degli Spagnoli ricalcò quello della
conquista delle Canarie e dei loro abitanti nativi Guanches tra il 1402 e il 1496, una vera e propria prova generale
della conquista del Nuevo Mundo e della invención/en-cubrimiento de América.
97
Abulafia, “Stripped Assets...cit. Cfr. Giovanni Boccaccio, De Canaria, a c. Manlio Pastore Stocchi, in Tutte le
opere di Giovanni Boccaccio, V/I, a c. Vittore Branca, Mondadori, Milano 1992, pp. 963-986; Roberta Morosini
(a c.), Boccaccio geografo, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2010.
98
Cfr. Francesco Petrarca, De vita solitaria, II, XI, a c. Marco Noce, introduzione di Giorgio Ficara, Mondadori,
Milano 1992, pp. 275-77.

37
I teologi e giuristi che composero la Junta de Valladolid non giunsero a una sentenza
definitiva, d’altra parte proibirono la pubblicazione del libro in cui Sepúlveda esponeva la sua
tesi, mentre nel 1552 fu pubblicata la celeberrima Brevísima relación de la destrucción de las
Indias di Las Casas.
La sua denuncia, tanto violenta e appassionata quanto solidamente documentata, dei
crimini commessi dai conquistadores contro gli indigeni del Nuevo Mundo fornirà, come
accennato, ai protestanti in genere e in particolare alle potenze nordeuropee antagoniste
dell’impero spagnolo molti spunti ideologici per attaccare quest’ultimo, a creare i fondamenti
della Leyenda negra española, espressione invero coniata nel 1914 da Julián Juderías y Loyot,
nel suo libro La Leyenda Negra y la Verdad Histórica, ma che definisce molto bene la
propaganda antispagnola in questione. È significativo a questo proposito che quando la
Brevísima relación fu ristampata in Olanda nel 1620, le fu attribuito il seguente emblematico
titolo: Espejo de la tiranía española en que se trata de los actos sangrientos, escandalosos y
horribles que han cometido los españoles en las Indias99.
Las Casas, del resto, ha rappresentato il sogno di molti religiosi del suo tempo e non solo,
che aspiravano a un'America in cui la Spagna avrebbe dovuto esercitare solo una tutela durante il
tempo necessario alla sua conversione al cristianesimo, finché non avesse potuto essere
governata da propri capi e sovrani tradizionali, ai quali il clero avrebbe fornito gli adeguati
consiglieri spirituali. L'indio, secondo quanto dettava a Las Casas la sua esperienza di
missionario, era in genere mite, umile, povero, pacifico e obbediente, quindi naturalmente dotato
delle principali virtù cristiane: la sua evangelizzazione poteva prescindere
dall'occidentalizzazione. Si tratta di un'idea che all'epoca era appunto ampiamente diffusa tra
domenicani, francescani e agostiniani, per poi essere condivisa più tardi dai gesuiti.
I missionari non solo volevano difendere gli indios dalle vessazioni dei coloni, ma anche
proteggerli dalle influenze europee considerate moralmente perniciose, con il fine di costruire
con loro una società inedita, basata sui presunti principi del cristianesimo primitivo, invero frutto

99
Cfr. Favre, El movimiento indigenista...cit., p. 18. Cfr. Julián Juderías, La Leyenda Negra, Junta de Castilla y
León, Valladolid 2003 [I ed. La leyenda negra y la verdad histórica: contribución al estudio del concepto de
España en Europa, de las causas de este concepto y de la tolerancia política y religiosa en los países civilizados,
Revista de Archivos, Bibliotecas y Museos, Madrid 1914]; Luis Español Bouché, “La Leyenda Negra: una
denuncia de Julián Juderías”, La Aventura de la Historia 111 (2008), pp. 56-61; Jacopo Fo, Sergio Tomat, Laura
Malucelli, Il libro nero del Cristianesimo, Nuovi Mondi Media, San Lazzaro di Savena (Bo) 2005, pp. 174-78 e
230-40.

38
della fusione dell'utopismo rinascimentale con il millenarismo medievale di Gioacchino da Fiore,
e su queste basi volevano fare del Nuevo Mundo un mondo davvero nuovo.
Si tratta di un seme che è germogliato più volte e in più personalità nel Nuevo Mundo: dal
progetto dei pueblos hospitales per soli indios promosso nel Michoacán, in Messico, dal suo
vescovo Vasco de Quiroga (1470-1565), sul modello dell'Utopia di Thomas More100, all'azione
missionaria e di esplorazione in Patagonia del già citato gesuita sarzanese Nicolò Mascardi
(1624-1674)101, quindi alle celebri reducciones gesuite prima in Perù, poi negli attuali Brasile,
Argentina e Paraguay, presso l'incerto confine tra l'impero spagnolo e quello portoghese, nel
territorio dei Guaraní, all'epoca la più numerosa nazione dell'America meridionale, anche più di
quella inca102, laddove campeggia la figura del gesuita mestizo Blas Valera, indicato dai dibattuti
documenti Miccinelli come vero autore dell'opera di Guamán Poma de Ayala 103, senza
dimenticare i religiosi e i missionari che ancora oggi, in tutta l'America Latina, ispirano la
resistenza indigena o ne sono coinvolti, anche nel contesto di movimenti politico-culturali più
ampi come quello della teologia della liberazione104.
Non va neppure dimenticato, però, che se Las Casas fu l'apóstol de los indios, non fu certo
apóstol de los “negros”, come dimostra il seguente passo, tra gli altri:

El remedio de los cristianos es este, mui cierto, que S. M. tenga por bien de prestar á cada una
de estas islas quinientos ó seiscientos negros, ó lo que paresciere que al presente vastaren para
que se distribuyan por los vecinos, é que hoy no tienen otra cosa sino Yndios... se los fien por
tres años, apotecados los negros á la misma deuda... Una, Señores, de las causas grandes que
han ayudado á perderse esta tierra, é no se poblar más de lo que se han poblado... es no
conceder libremente á todos quantos quisieren traer las licencias de los negros...

Sia pure più tardi corretto dalla seguente riflessione:

100
Favre, El movimiento indigenista...cit., pp. 19-20.
101
Cfr. Giuseppe Rosso, “Nicolò Mascardi missionario gesuita esploratore del Cile e della Patagonia (1624-1674)”,
Archivum historicum Societatis Iesu XIX 37-38 (1950), pp. 3-74; Guillermo Furlong, Nicolás Mascardi y su
carta-relación (1670), Ediciones Theoria, Buenos Aires 1963.
102
Cfr. Favre, El movimiento indigenista...cit., p. 20 e infra.
103
Cfr. infra.
104
Cfr. infra.

39
Antiguamente, antes que hobiese ingenios, teníamos por opinión en esta isla [la Española], que
si al negro no acaecía ahorcalle, nunca moría, porque nunca habíamos visto negro de su
enfermedad muerto... pero después que los metieron en los ingenios, por los grandes trabajos
que padecían y por los brebajes que de las mieles de cañas hacen y beben, hallaron su muerte y
pestilencia, y así muchos dellos cada día mueren... 105

Il celebre poeta, saggista e patriota cubano José Martí, come riporta Rivera Pagán106:

en una de las páginas más bellas del más famoso libro para niños escrito en América, La edad
de oro, al describir la confrontación entre Las Casas y los airados colonos en Chiapas, afirma:
“El venía a pie, con su bastón, y con dos españoles buenos, y un negro que lo quería como a
padre suyo: porque es verdad que las Casas, por el amor de los indios, aconsejó al principio de
la conquista que se siguiese trayendo esclavos negros, que resistían mejor el calor; pero luego
que los vió padecer, se golpeaba el pecho, y decía: '¡con mi sangre quisiera pagar el pecado de
aquel consejo que di por mi amor a los indios!'”

Ma lo stesso Rivera Pagán commenta:

Quizá, pero en las dos décadas que vivió después de ese incidente que novela Martí, publicó
mucho sobre la libertad natural de los indígenas y nada, a excepción de sus apuntes en su
inédita Historia de las Indias, sobre la de los africanos.

105
Entrambi i passi sono citati in epigrafe da Luis N. Rivera Pagán in “Bartolomé de las Casas y la esclavitud
africana”, Revista de estudios generales 4 (1990), pp. 227-251. Il primo Rivera Pagán lo trae da Bartolomé de
Las Casas, Carta al Consejo de Indias, (20 de enero de 1531), inclusa nella Colección de documentos inéditos
para la historia de España, tomo 70, Kraus Reprint, Vaduz 1966, pp. 484-486; cfr. Isacio Pérez Fernández, Fray
Bartolomé de Las Casas, O.P., de defensor de los indios a defensor de los negros , Editoral San Esteban,
Salamanca 1995, p. 73, dove si mette in evidenza anche il fatto che il 15 novembre 1530 il Consejo de Indias già
aveva caldeggiato l'importazione di schiavi neri a Santo Domingo nei confronti di Hernán Cortés, allora l'uomo
più potente dei possedimenti spagnoli d'America, dopo aver conquistato il Messico e aver ottenuto da Carlo V il
titolo di Marqués del Valle de Oaxaca; cfr. anche p. 82. Il secondo passo Rivera Pagán lo deriva da Bartolomé de
Las Casas, Historia de las Indias, a c. Agustín Millares, Fondo de Cultura Económica, Ciudad de México 1951,
tomo 3, cap. 129, pp. 275-276.
106
Rivera Pagán, “Bartolomé de las Casas...cit.

40
Juha Pekka Helminen, già ricercatrice di Ispanistica presso l'Univesità di Helsinki e
direttrice dell'Instituto Iberoamericano de Finlandia a Madrid, ha proposto107 un'interessante
comparazione della considerazione che l'apóstol de los indios nutriva nei confronti degli ebrei,
dei conversos, dei musulmani e degli africani rispetto agli indios, giungendo alla conclusione che

los judíos recibieron de Las Casas el trato mejor. Sin embargo, en opinión de Las Casas, los
conversos eran herejes. Los moros y turcos eran herejes irremediables y constituían una
amenaza para la cristiandad. Aunque se hubieran convertido al cristianismo, se les debía tratar
con suspicacia. A pesar de la opinión de Las Casas según la cual todas las naciones del mundo
son hombres, trató la mayor parte de su vida a los negros como a gente perteneciente a una
casta inferior para cuya esclavitud no se exigían especiales fundamentos éticos o jurídicos 108.

Il trato mejor con cui Las Casas avrebbe trattato gli ebrei, in quanto per la Bibbia popolo
eletto, non li rendeva comunque certo migliori, ai suoi occhi, degli indios, in quanto

los habitantes del Nuevo Mundo son menos pecadores que los judíos ya que su infidelidad era
más pura que la del pueblo elegido que había tenido la oportunidad de oír a Jesucristo pero que,
a pesar de ello, no se había convertido. Esta oportunidad no la habían tenido los indios antes de
la llegada a las Américas de los españoles109.

È curioso, peraltro, notare come la sua avversione nei confronti degli ebrei conversos non
fosse mitigata dal fatto che la sua stessa famiglia fosse proprio in origine di ebrei conversos.
Secondo Américo Castro, citato dalla Pekka Helminen,

Fray Bartolomé se vio obligado a luchar en dos frentes: por un lado contra los cristianos viejos,
por otro contra otros conversos. Por ello, Las Casas tenía actitudes tan negativas hacia los
españoles al defender a los indígenas del Nuevo Mundo110.

La sua preferenza per gli indios, quindi, sarebbe stata dettata dalla sua personale natura e
dal suo status più che dal sermón di Montesinos.

107
In “Las Casas, los judíos, los moros y los negros”, Cuadernos Hispanoamericanos 512 (1993), pp. 23-28.
108
Ibid., p. 28.
109
Ibid., p. 25.
110
Ibid., p. 24.

41
Figura molto diversa, ma altrettanto controversa, rispetto all'apóstol de los indios fu Inca
Garcilaso de la Vega111, presentato piuttosto come primo importante rappresentante del
cosiddetto orgullo mestizo, tanto significativo nelle culture e società degli attuali Paesi
dell'America Latina, grazie a passi della sua opera come il seguente:

A los hijos de español y de india, o de indio y española, nos llaman mestizos, por decir que
somos mezclados de ambas naciones; fue impuesto por los primeros españoles que tuvieron
hijos en Indias; y por ser nombre impuesto por nuestros padres y por su significación, me lo
llamo yo a boca llena y me honro con él. Aunque en Indias, si a uno de ellos le dicen “sois un
mestizos” o “es un mestizo”, lo toman por menosprecio 112.

Nacque a Cuzco il 12 aprile 1539, nell'allora Virreinato del Perú, dalla principessa inca
Isabel Chimpu Ocllo – che ebbe come nonno il Sapa Inca Túpac Yupanqui e zio il Sapa Inca
Huayna Cápac, imperatori del Tahuantinsuyu – e dal nobile extremeño Sebastián Garcilaso de la
Vega.
Dato il destino di letterato che avrebbe conosciuto, non è ozioso rilevare come il padre, tra
i suoi antenati e parenti illustri, vantava anche i letterati Garcilaso de la Vega, suo omonimo
celebre poeta rinascimentale (Toledo, tra il 1494 e il 1503 - Nizza, 1536) e anche lui militare,
secondo le tradizioni familiari, e come tale morto precocemente durante una spedizione, nonché
Jorge Manrique (1440 circa-1479), tra i classici della letteratura spagnola, specie per le sue
Coplas por la muerte de su padre, infine il Marqués de Santillana, nome con cui è meglio noto
Íñigo López de Mendoza (1398-1458), anch'egli importante poeta castigliano.
La vicinanza di Sebastián Garcilaso de la Vega al conquistador Francisco Pizarro prima113
e al viceré Pedro de la Gasca poi, gli permise di dare al figlio, in sede di battesimo, il nome
illustre Gómez Suárez de Figueroa, con i cognomi, cioè, l'uno del maggiore dei suoi zii paterni,
l'altro di antenati appartenenti alla Casa de Feria, la più importante famiglia nobiliare del sud
dell'Extremadura. Solo pù tardi, durante l'esilio autoimpostosi in Spagna, cambiò il suo nome di

111
Su Inca Garcilaso de la Vega la letteratura è vastissima. Le informazioni al suo riguardo le ho ricavate soprattutto
da Aurelio Miró Quesada, Prólogo a Inca Garcilaso de la Vega, Comentarios Reales, I, Biblioteca Ayacucho,
Caracas 1976, pp. IX-XLI; Luis Alberto Sánchez, Nueva historia de la literatura americana, Inpropesa, Lima
19873, passim.
112
Inca Garcilaso de la Vega, Comentarios Reales de los Incas, IX, XXXI.
113
È utile rilevare come Sebastián Garcilaso de la Vega non avesse partecipato alla spedizione di Pizarro, si era
trasferito in Perù in un secondo momento, dopo la prima fase della conquista avvenuta tra il 1532 e il 1533.

42
battesimo in quello di Inca Garcilaso de la Vega, ad affermare orgogliosamente sia la sua origine
inca, da parte di madre, sia il vero nome di suo padre114.
Ricevette un'educazione consona al suo status, sia pure presso il Colegio de Indios Nobles
del Cuzco, dove pure studiarono altri illustri mestizos, tra cui i figli di Francisco e Gonzalo
Pizarro, peraltro illegittimi come lui.
Del resto, sin dai primi anni di vita, poté vivere a stretto contatto con la madre e altri
membri della più elevata nobiltà inca, per esempio i figli dell'imperatore sopra citato Huayna
Cápac, Paullu Inca e Auqui Titu, suoi cugini, per cui ebbe accesso anche all'istruzione degli
amauta, i saggi inca versati nella mitologia e nella cultura in genere della civiltà andina,
precettori della giovane nobiltà inca.
Allorché suo padre si vide obbligato a abbandonare la principessa inca sua madre a causa
delle pressioni della corona che pretendeva che i nobili spagnoli si sposassero con dame loro pari
– e il padre in effetti sposò Luisa Martel de los Ríos –, sua madre comunque ottenne una
notevole dote, che le servì per sposarsi con Juan del Pedroche, un soldato, con il quale ebbe altre
due figlie, Luisa de Herrera e Ana Ruiz.
Lui continuò comunque ad avere un intenso e affettuoso rapporto con suo padre, con e per
il quale soffrì le accuse di aver parteggiato per i ribelli Gonzalo Pizarro e Francisco de
Carvajal115.

114
La scelta di cambiare nome, avvenuta durante il suo soggiorno in Spagna, ospitato e protetto dallo zio Alonso de
Vargas, potente veterano delle campagne in Italia, ha sicuramente conosciuto complesse motivazioni. Oltre a una
questione di orgoglio, ha contribuito di certo anche il fatto che, in quanto mestizo, non poteva ereditare il titolo di
hidalgo, quindi era meglio che non portasse cognomi tanto prestigiosi della famiglia, ma piuttosto si chiamasse
come suo padre, sia pure con un nome comunque prestigioso della famiglia, quello, oltre che del padre, del poeta
citato. Cfr. Jorge Monteza Arredondo, “El Inca Garcilaso de la Vega y sus nombres”, 2/3/2010
(http://columnadeletras.blogspot.it/2010/03/el-nombre-del-padre-y-del-ynca-por.html); Max Hernandez,
Memoria del bien perdido. Conflicto, identidad y nostalgia en el Inca Garcilaso de la Vega, IEP/Biblioteca
Peruana de Psicoanálisis, Lima 1993, specie p. 109 e passim.
115
Gonzalo Pizarro, fratellastro di Francisco Pizarro e con lui protagonista della conquista del Perù, guidò la Gran
Rebelión de Encomenderos del 1544 contro la corona spagnola per protesta nei confronti delle cosiddette Leyes
Nuevas del 1542, che, sull'onda della campagna suscitata da Bartolomé de las Casas, riconoscevano agli indigeni
diritti e condizioni migliori (cfr. supra). Fu investito dai ribelli del titolo di Gobernador del Perú che tenne fino a
quando Pedro de La Gasca lo sconfisse nella battaglia di Jaquijahuana (9 aprile 1548), dopo la quale fu
condannato a morte mediante decapitazione. Francisco de Carvajal fu conquistador sia del Messico sia del Perù,
stratega notevole quanto crudele, al punto che si meritò l'appellativo “el demonio de los Andes”. Anche lui fu
giustiziato dopo la sconfitta di Jaquijahuana. Inca Garcilaso de la Vega ovviamente parla di entrambi nella sua

43
Quando il padre morì, l'allora poco meno che ventunenne e futuro primo autore della
letteratura peruviana, o almeno considerato ufficialmente tale – Primer mestizo biológico y
espiritual de América e Príncipe de los escritores del Nuevo Mundo sono altri suoi epiteti diffusi
– intraprese un rischioso tragitto che doveva portarlo in Spagna attraverso Panama, Cuba, le
Azzorre e Lisbona, dove arrivò non prima di aver rischiato la vita salvatagli da un marinaio
portoghese.
Dopo aver visitato i parenti in Extremadura e essersi stabilito a Montilla vicino Cordoba
presso lo zio Alonso de Vargas, si recò a Madrid a pretendere i compensi dovuti a suo padre. Vi
conobbe il conquistador Gonzalo Silvestre, che gli fornì dati concreti per l'opera La Florida, ma
soffrì anche gli intrighi di corte, specie, come accennato, il fango postumo gettato su suo padre,
accusato di aver favorito Gonzalo Pizarro, come del resto è accreditato nei cronisti ufficiali.
Soffrì anche per il pregiudizio che gli comportava il suo stato di illegittimità e il fatto di essere
un mestizo, per quanto fosse fiero delle sue origini, al punto che, come detto, s'impose il
soprannome di Inca.
Dopo aver pensato di tornare in Perù, intraprese invece la carriera militare, raggiungendo il
grado di capitano, come suo padre, e prese parte alla repressione dei moriscos di Las
Alpujarras116 guidati da Abén Humeya117 a Granada sotto il comando di don Juan de Austria.
opera. Cfr. José Antonio del Busto Duthurburu, Diccionario Histórico Biográfico de los Conquistadores del
Perú, Librería Studium Ediciones, Lima 1986-7; Favre, El movimiento indigenista...cit., p. 21.
116
La Pragmática Sanción del 1 gennaio 1567, voluta dall'Inquisidor general Diego de Espinosa e dal re Filippo II,
che contravvenne di proposito agli accordi presi da parte dei suoi antenati Fernando e Isabela con la comunità
musulmana già del Regno di Granada, costrinse i moriscos che vivevano in particolare nella zona di Las
Alpujarras ad abbandonare completamente le loro pratiche religiose, i loro costumi, la loro lingua, persino il loro
modo di vestirsi. Dopo un anno di vane trattative, nell'aprile del 1568 i moriscos diedero i primi segnali di una
ribellione contro queste imposizioni, scoppiata pienamente alla fine dello stesso anno. Durò circa tre anni fino al
1571, favorita anche dal fatto che la maggior parte dei tercios spagnoli erano impegnati nelle Fiandre contro la
locale rivolta contro gli Spagnoli. Cfr. Luis Mármol Carvajal, Historia de la rebelión y castigo de los moriscos
del reino de Granada, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2001. Lo scrittore spagnolo Ildefonso
Falcones ha dedicato a questa rivolta il suo secondo romanzo di grande successo La Mano de Fátima (Grijalbo
Mondadori, Barcelona 2009).
117
Abén Humeya – storpiatura spagnola di Muhammad ibn Umayya –, peraltro nato “cristiano” con il nome di
Fernando de Córdoba y Válor (c. 1545-1569), fu il primo leader dei moriscos rivoltosi di Las Alpujarras. È
celebre anche per aver fatto disputare i giochi cosiddetti moriscos, competizione di modello olimpico, a
Purchena, nella provincia di Almería, nel 1569, poco prima di essere assassinato da altri moriscos rivali. Lo fece
per mantenere addestrata la sua truppa e anche per recuperare le tradizioni e i costumi della sua gente. Dal 1993
ogni primo fine settimana di agosto si commemorano a Purchena i giochi moriscos con una rievocazione storico-

44
Conobbe in tale frangente l'opera del filosofo neoplatonico Leone Ebreo 118, di cui tradusse i
Dialoghi d'amore.
Tra il 1570 e il 1571 venne a sapere della morte di sua madre e morì anche il suo amato zio
Alonso de Vargas, dal quale del resto ereditò una rendita che gli permise di vivere tra gli agi
tutto il resto della sua vita.
In seguito entrò in contatto indiretto con il poeta Luis de Góngora e a Montilla conobbe
Miguel de Cervantes, che già conosceva la sua traduzione dei Dialoghi d'amore.
Nel 1590, molto probabilmente amareggiato dalla scarsa considerazione nell'esercito che
gli veniva dalla sua condizione di mestizo, si congedò dall'esercito e prese i voti: avrebbe voluto
entrare nell'ordine dei Gesuiti, ma sempre la sua condizione di mestizo glielo impedì119.
Frequentò i circoli umanistici di Sevilla, Montilla e Cordoba e si dedicò allo studio della
storia e alla lettura dei classici e dei poeti del Rinascimento.
sportiva. Juan Antonio Samaranch, Presidente del Comitato Olimpico Internazionale fino al 2001, disse: “ Los
Juegos Moriscos de Abén Humeya suponen rehacer el eslabón perdido de la cadena entre la Antigüedad y el
mundo moderno”. Cfr. José Acosta Montoro, Aben Humeya. Rey de los moriscos, Instituto de Estudios
Almerienses y Ayuntamiento de Purchena, Almería 1998.
118
Leone Ebreo era lo pseudonimo di Yehuda ben Yitzhak Abravanel (Lisbona, 1460 circa - Napoli, dopo il 1521),
scrittore e filosofo sefardita. Appartenente a una famiglia illustre prossima alla corona portoghese, studiò teologia
e medicina. Nel 1483 suo padre Don Isaac fu coinvolto in una cospirazione contro il re João II e dovette fuggire
in Spagna, dove, l'anno seguente, Leone e il resto della famiglia si unirono a lui. Nel 1492, in seguito
all'espulsione dalla Spagna degli ebrei che non si erano convertiti al cristianesimo, si recò in Italia, dove visse a
Genova e poi a Napoli. Nel 1502 terminò i Dialoghi d'amore, pubblicati però postumi nel 1535 a Roma. In
quest'opera è evidente l'impronta neoplatonica, nonché quella di Maimonide, Giovanni Pontano, Mario Equicola
e altre personalità dell'umanesimo italiano, tra cui comunque spicca Marsilio Ficino con il suo Dialogo sopra
l'amore, laddove si riconosce comunque come Leone Ebreo abbia saputo esporre l'estetica neoplatonica in modo
più completo, originale e profondo del suo modello. Non a caso Inca Garcilaso de la Vega si produsse nella
traduzione in spagnolo della sua opera, nonostante il fatto che per i suoi richiami alla Kabbalah e al
neoplatonismo fosse stata iscritta nell'Index librorum prohibitorum dalla Chiesa. Tra gli altri autori influenzati
dall'opera di Leone Ebreo ci furono Baldassarre Castiglione, Pietro Bembo, Juan Boscán, Francisco de Aldana,
Fernando de Herrera, Luís de Camões, Pedro Malón de Chaide, Michel de Montaigne e Miguel de Cervantes.
Quest'ultimo ha scritto nel suo Don Quijote: “Si tratáredes de amores, con dos onzas que sepáis de lengua toscana
toparéis con León Hebreo, que os hincha las medidas”. Cfr. Andrés Soria Olmedo, Los Dialoghi D’Amore de
León Hebreo: Aspectos Literarios y Culturales, Universidad de Granada, 1984.
119
Cfr. infra quanto riporterò al riguardo dei mestizos nell'ordine dei gesuiti nella parte dedicata alla vicenda di Blas
Valera. Da notare che Inca Garcilaso de la Vega ebbe almeno due figli da due diverse sue serve, uno morto
infante, un altro, chiamato Diego de Vargas, avuto appunto da una schiava di origine morisca che, pure lui,
conobbe lo status di figlio illegittimo.

45
Nel 1591 si trasferì a Cordova, dove, tra l’altro, raccolse le relazioni di due soldati che
parteciparono alla conquista della Florida, Alonso Carmona e Juan Coles, che gli fecero rivedere
quello che già aveva scritto su Hernando de Soto.
Nel 1605 pubblicò infine La Florida, a Lisbona, che all'epoca, già dal 1580 e fino al 1640,
faceva parte della corona spagnola, come il resto dei territori portoghesi, nella cosiddetta União
Ibérica della Dinastia Filipina.
Nel 1609 pubblicò la prima parte dei Comentarios reales, sempre a Lisboa. La seconda
parte sarà pubblicata postuma nel 1617, a Cordoba.
Il 23 aprile del 1616 Inca Garcilaso de la Vega morì – nello stesso anno e negli stessi
giorni in cui morirono altri due grandi letterati della sua epoca, Miguel de Cervantes, il giorno
prima 22 aprile, e William Shakespeare, il 3 maggio – e, secondo i suoi desideri, fu sepolto nella
Capilla de las Ánimas della cattedrale di Cordoba, dove la sua lapide recita la seguente epigrafe:

El Inca Garcilaso, varón insigne, digno de perpetua memoria. Ilustre en sangre. Perito en letras.
Valiente en armas. Hijo de Garcilaso de la Vega. De las Casas de los duques de Feria e
Infantado y de Elisabeth Palla, hermana de Huayna Capac, último emperador de las Indias.
Comentó La Florida. Tradujo a León Hebreo y compuso los Comentarios reales. Vivió en
Córdoba con mucha religión. Murió ejemplar: dotó esta capilla. Enterróse en ella. Vinculó sus
bienes al sufragio de las ánimas del purgatorio. Son patronos perpetuos los señores Deán y
Cabildo de esta santa iglesia. Falleció a 23 de abril de 1616.

Il 25 novembre del 1978 il re di Spagna Juan Carlos I ha donato una parte delle sue ceneri
alla cattedrale di Cusco, dove sono conservate nel Templo del Triunfo, parte del complesso della
cattedrale stessa, di cui anzi è la parte più antica, costruita nel 1538 sul sito del Suntur Wasi,
tempio inca del dio Viracocha, per commemorare la vittoria dei conquistadores su Manco Capac,
di due anni prima.
Per quanto si ritenga che La Florida sia la sua opera più riuscita sul piano letterario, sono
senz'altro i Comentarios reales, opera del resto di qualità non inferiore120, che pertengono al tema

120
Da ricordare che i Comentarios Reales sono tra le opere che hanno contribuito alla formazione di un mito
letterario paradigmatico dell'età moderna, quello di Robinson Crusoe, che Daniel Defoe, quando ha pubblicato il
romanzo omonimo nel 1719, ha derivato in parte dalla testimonianza di Anthony Knivet (cfr. infra), in parte dalla
vicenda del marinaio scozzese Alexander Selkirk (o Selcraig) che fu naufrago – o più correttamente abbandonato
dal suo capitano – per quasi cinque anni, tra il 1704 e il 1709, in un'isola dell'attuale arcipelago cileno di Juan
Fernández, ma, in parte ancor più significativa, secondo molti studiosi, dalla vicenda dello spagnolo Pedro

46
del presente studio, specie per le rivendicazioni culturali a favore degli indigeni Inca e dei
mestizos ivi contenute.
Illuminante in tal senso sempre Favre121:

La mitificación valorizante de la historia antigua del Perú se realiza desde los inicios del siglo
XVII. Su principal autor es Garcilaso de la Vega [...], impone de manera durable la visión de un
imperio inca que está sometido por la sabiduría de sus soberanos a las leyes de la razón; cuya
prudente admnistración organiza el bienestar de todos y vela por la felicidad general 122; y en
donde el robo, la mentira y la pereza son tan desconocidos como la indigencia. Sus
Comentarios reales de los incas Ilevan a pensar que Arcadia existía en los Andes antes de la
llegada de los europeos. Publicada en 1723, la segunda edición del libro circuló por toda
Sudamérica. Ahí fue objeto de una lectura militante tanto entre los círculos criollos como en el
seno de la pequeña nobleza india, que había sobrevivido mejor que en México, y que intentaba
frenar su inexorable decadencia reanudando con una tradición cultural que había repudiado
inmediatamente después de la conquista española. En 1782, la administración real, consciente
de que la obra de Garcilaso alimentaba la disidencia de las mentes y de los corazones al
imputar a España el fin de una edad de oro andina, prohibirá la venta de los Comentarios reales
en América y hará retirar el libro de todas las bibliotecas americanas 123.

Serrano, che fu naufrago per ben 8 anni, tra il 1526 e il 1534, e in condizioni disperate, su un isolotto di sabbia
che oggi fa parte del territorio colombiano, non lontano invero dalla costa del Nicaragua, e che ha preso il nome
proprio da lui: Banco de Serrana. La sua storia la racconta appunto Inca Garcilaso de la Vega (Comentarios
Reales, libro I, capp. VΙΙ−VΙII). Cfr. Lesley Byrd Simpson, “The Spanish Crusoe: An Account by Maese Joan of
Eight Years Spent as a Castaway on the Serrana Keys in the Caribbean Sea, 1528-1536”, The Hispanic American
Historical Review 9/3 (1929), pp. 368-376; Julián Marías, “Robinson Crusoe y Pedro Serrano”, Ínsula 131
(1957), pp. 1-2; Ciro Alegría, “Pedro Serrano, un Robinson desconocido”, Fanal 55 (1958), pp. 13-16; Estuardo
Núñez, “El asunto del Robinson: ¿Garcilaso o Rogers”, El Comercio, Lima, 11-12 dicembre 1978; Ricardo
González Vigil, Comentemos al Inca Garcilaso, Banco Central de Reserva del Perú, Fondo Editorial, Lima 1989,
pp. 154-161; Joaquín Roses, “El Inca Garcilaso y las lecciones del naufragio (Comentarios reales, libro I, cap.
VIII)”, in Carmen Alemany Bay, Remedios Mataix, José Carlos Rovira, Pedro Mendiola Oñate (a c.), La isla
posible, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, 2001 (http://bib.cervantesvirtual.com/FichaObra.html?
portal=0&Ref=5052) [ed. or., Asociación Española de Estudios Hispanoamericanos, Universidad de Alicante,
2001].
121
Favre, El movimiento indigenista...cit., p. 28. Cfr. Franklin Pease G.Y., “El Tahuantinsuyo del Inca Garcilaso”, in
Las Crónicas y los Andes, Pontificia Universidad Católica del Perú, Lima 1995, pp. 367-396, specie p. 375.
122
Il sottolineato è mia iniziativa, come nel caso successivo.
123
Si tratta, non a caso, degli anni delle importanti rivolte degli indigeni andini guidate da Tupac Amaru II, Tomás
Katari, Tupac Katari. Cfr. infra.

47
Ancora oggi, infatti, la mitificación valorizante dell'impero Inca124, scopo dell'opera di Inca
Garcilaso de la Vega, ispira sia l'ideologia indigenista-nazionalista della classe dirigente criollo-
mestiza, in particolare di quella peruviana, sia l'ideologia dei movimenti indigeni andini di
cultura quichua/quechua, tant'è vero che proprio il riferimento che Favre fa al robo, la mentira y
la pereza desconocidos nel Tahuantinsuyu, come racconta il celebre mestizo, richiama all'attuale
slogan dei movimenti indigeni andini, che in lingua quichua/quechua suona: ama qhilla, ama
llulla, ama suwa, che Ariruma Kowii, poeta, avvocato, attivista politico e docente universitario
presso l’Universidad Andina Simón Bolívar di Quito, ha tradotto appunto: no a la pereza; no a
la mentira; no al robo125, a fondamento dei valori e degli ideali della cosiddetta dottrina inca del
Sumak Kawsay, che sta conoscendo una piena “rinascita”126 politico-culturale, ma anche una
certa strumentalizzazione, specie da parte del governo Correa in Ecuador127.

124
Un'apparente eccezione alla mitificación valorizante dell'impero inca da parte di Inca Garcilaso de la Vega è data
dalla critica all'origine divina degli Inca, per esempio quando racconta come il loro capostipite, Manco Cápac,
“fingió aquella fábula, diciendo que él y su mujer eran hijos del Sol” (Comentarios Reales, I, 25). Per converso,
l'autore accreditò la versione cristiana, secondo cui gli Inca erano comunque la luce dell'alba che il dio cristiano
avrebbe eletto tra gli indios perché insegnassero loro la legge naturale e li preparassero alla buona novella del
Vangelo, la cosiddetta preparatio evangelica. In ogni caso, è risultato evidente a molti lettori e studiosi come
Inca Garcilaso, nella sua opera, abbia stigmatizzato la fábula del culto inca come una costruzione secolarizzata
del potere, artificio umano, morale e político, finalizzato a dominare gli altri. Ma questa critica è stata già letta a
guisa di understatement nei confronti del carattere divino, cristiano, del potere alla sua epoca e della conquista
spagnola in particolare. Inca Garcilaso de la Vega conosceva e condivideva infatti l'opera di Machiavelli e di altri
pensatori politici rinascimentali secondo cui la religione è un mero instrumentum regni. Cfr. Margarita Zamora,
Language, Authority, and Indigenous History in the Comentarios reales de los incas, Cambridge University
Press, Cambridge 1988, pp. 120, 159-162 e passim; Sabine G. MacCormack, Children of the Sun and Reason of
State: Myths, Ceremonies and Conflicts in Inca Peru, University of Maryland, 1990, pp. 33-35 e passim; José
Antonio Mazzotti, Coros mestizos del Inca Garcilaso: Resonancias Andinas, Bolsa de Valores de Lima, 1996,
pp. 135-138; Pease, “El Tahuantinsuyo...cit., p. 374; Juan Miguel Espinoza Portocarrero, “La imagen del Inca
como benefactor”, Summa Humanitatis 4, 1 (2010), pp. 1-27.
125
Da un documento didattico dedicato al Sumak Kawsay redatto per l’Universidad Andina Simón Bolívar di Quito
e inviatomi tramite corrispondenza privata prima di essere pubblicato. Cfr. infra.
126
Le virgolette le spiego con il mio dubbio sulla precisa corrispondenza dell'attuale Sumak Kawsay, nelle sue varie
forme, con l'ideologia dominante presso gli Inca al tempo del Tahuantinsuyu. Cfr. infra.
127
Ho trattato la questione della strumentalizzazione del Sumak Kawsay sia da parte del governo Correa – che, per
esempio, ha voluto che tale ideale fosse citato nella nuova Costituzione ecuatoriana approvata a larga
maggioranza dal referendum popolare del 28 settembre del 2008 –, sia da parte dell'opposizione degli intellettuali
“progressisti” pur sempre mestizo-criollos come il presidente, nei miei interventi alle Giornate di Studi del 2010 e

48
La tuttora notevole importanza politica dell'opera di Inca Garcilaso de la Vega e della sua
stessa figura emblematica è dimostrata anche dalle vicissitudini vissute dalla Prof.ssa Laurencich
Minelli, allorché ha pubblicato i suoi studi relativi ai già citati documenti Miccinelli. Siccome
questi ultimi dimostrerebbero che il vero autore dell'opera di Guaman Poma de Ayala – altro
pilastro della cultura indigenista-nazionalista peruviana –, la Nueva corónica y Buen gobierno,
nonché di buona parte dei Comentarios reales di Inca Garcilaso de la Vega, sarebbe stato invero
il gesuita mestizo Blas Valera128, la studiosa, come lei stessa racconta, ha subito addirittura
minacce di morte, più concretamente un vero e proprio ostracismo accademico129.
È da rilevare, comunque, come uno dei grandi pregi della sua opera sia il fatto di aver dato
direttamente voce agli indigeni, alla sua epoca e ancora per moltissimo tempo dopo la sua morte,
repressa e/o manipolata. Uno dei capitoli più significativi, al riguardo, è senz'altro il XV del I
libro130, nel quale si stabilisce davvero una continuità con il passato incaico rappresentato
dall'oralità delle narrazioni andine che l'autore riceve dalla bocca di suo zio Francisco Huallpa
Túpac Yupanqui alle sue domande incalzanti:

Vosotros, que carecéis de ellos, ¿qué memoria tenéis de vuestras antiguallas? ¿Quién fue el
primero de nuestros Incas? ¿Cómo se llamó? ¿Qué origen tuvo su linaje? ¿De qué manera
empezó a reinar? ¿Con qué gente y armas conquistó este grande imperio? ¿Qué origen tuvieron
nuestras hazañas?

del 2011 dei Dottorandi in Letterature Moderne Comparate della Scuola di Dottorato in "Culture classiche e
moderne" del DISCLIC, a cui hanno fatto seguito gli articoli: “La distruzione della distruzione. Dalla distruzione
del Tahuantinsuyu all'affermazione del Sumak Kawsay: letteratura e politica indigenista nella società
ecuatoriana” (2010) e “Una nueva civilización. Mito e realtà” (2011), pubblicati nel 2013 (Quaderni di Palazzo
Serra 23, rispettivamente pp. 245-260 e pp. 365-380). È emerso chiaramente come la maggior parte di quanti
sbandierano questo ideale non sappiano nemmeno precisamente di che si tratta e che, più legittimamente e in
contrasto al governo Correa e alla classe dirigente criollo-mestiza in genere, sono i movimenti e gli organismi
indigeni che rivendicano a sé stessi il Sumak Kawsay. Rimando al capitolo II per un'analisi più dettagliata della
questione.
128
Cfr. infra.
129
Cfr. Laura Laurencich Minelli, Introduzione a Exsul Immeritus Blas Valera Populo Suo e Historia et rudimenta
linguae Piruanorum. Indios, gesuiti e spagnoli in due documenti segreti sul Perù del XVII secolo, a c. Laura
Laurencich Minelli, CLUEB, Bologna 2005, pp. 7-8.
130
Cfr. Comentarios Reales...cit., pp. 36-8.

49
La confusione nell'uso dei pronomi e degli aggettivi personali di prima e seconda persona plurali
dimostra chiaramente anche quanto pesasse su Inca Garcilaso de la Vega il suo mestizaje, e, per
quanto discendesse dalle due classi dirigenti della società in cui era nato, quella degli Inca
sottomessi e quella dei conquistadores, ciò spiega come i suoi legami più importanti li abbia
intrecciati più naturalmente con i mestizos come lui, figure marginalizzate nell'impero spagnolo e
per questo gravate da un profondo risentimento131, un risentimento archetipico, potremmo dire,
perché è lo stesso risentimento che ha alimentato l'indigenismo nazionalista della classe dirigente
criollo-mestiza ispanoamericana sino ad oggi.
È senz'altro utile oltre che edificante, allo scopo di comprendere in profondità il senso di
questo risentimento, richiamarsi alle pagine del grande scrittore messicano Carlos Fuentes,
recentemente mancato, dedicate a un altro mestizo emblematico, Martín Cortés, “el primer
Martín, hijo bastardo” del conquistador del Messico Hernán Cortés e della Malinche, ancora
oggi in Messico considerata la traidora del suo popolo132, immaginato in un confronto con suo
fratello omonimo, il Martín Cortés ufficiale, figlio di una nobildonna spagnola, nelle pagine de
El Naranjo o los círculos del tiempo133.
D'altra parte, a incarnare il punto di vista ufficiale dei Peruviani contemporanei, Mario
Vargas Llosa, ospite d'eccezione alla V conferencia Spinoza134 dedicata alla commemorazione
dei 400 anni dei Comentarios reales de los Incas di Inca Garcilaso de la Vega, ha detto di lui:

este primer ‘patriota’ del que nos reclamamos los peruanos, al afirmar antes que ningún otro su
idea de Patria encontró y asumió bajo este vocablo una fraternidad mucho más amplia que la de
una circunscrita nacionalidad, la de un vasto conglomerado, que, poco más o poco menos, se
confunde con la colectividad humana en general. No fue ésta una operación consciente, desde
luego; es algo que resultó de sus intuiciones, de sus lecturas universales y de su sensibilidad
generosa, y, por cierto, de ese humanismo sin fronteras que bebió de la literatura renacentista,
un espíritu ecuménico muy semejante, por lo demás, a la idea de ese Imperio de los Incas que él

131
Cfr. Verena Stolcke, “Los mestizos no nacen sino que se hacen”, in Verena Stolcke, Alexandre Coello de la Rosa
(a c.), Identidades Ambivalentes en América Latina (Siglos XVI-XXI), Edicions Bellaterra, Barcelona 2008.
132
Ne parlerò in seguito, in quanto si tratta di un'altra fondamentale figura archetipica significativa nell' indigenismo
contemporaneo.
133
Alfaguara, Ciudad de México 1993, pp. 61-113.
134
Tenutasi a Amsterdam il 9/11/2009 e organizzata dall'Università di Amsterdam, dalla Consejería Cultural de la
Embajada de España e dall'Instituto Cervantes di Utrecht. Cfr. http://cervantestv.es/2009/11/09/conferencia-de-
mario-vargas-llosa/ e http://cvc.cervantes.es/literatura/conferencias_spinoza/vargas.htm.

50
popularizó: una patria de todas las naciones, una sociedad abierta a la diversidad humana.
Llamándose «indio» a veces, y a veces «mestizo», como si fueran términos intercambiables y
no hubiera en ellos una incompatibilidad manifiesta, el Inca Garcilaso reivindica una Patria,
precisando «yo llamo así todo el Imperio que fue de los Incas» (IX, XXIV). Por lo demás, este
hombre tan orgulloso de su sangre india, que lo entroncaba con una civilización de historia
pujante y altamente refinada, no se sentía menos gratificado de su sangre española, y de la
cultura que heredó gracias a ella: la lengua y la religión de su padre, y la tradición que lo
enraizaba en una de las más ricas vertientes de la cultura occidental. El inventario que se hizo
de su biblioteca, a su muerte, es instructiva; su curiosidad intelectual no conocía fronteras. En
ella figuran, además de autores castellanos, muchos clásicos helenos, latinos e italianos,
Aristóteles, Tucídides, Polibio, Plutarco, Flavio Josefo, Julio César, Suetonio, Virgilio, Lucano,
Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, Castiglione, Aretino y Guicciardini, entre muchos
otros.
Lo notable y novedoso —revolucionario, habría que decir—, en la actitud del Inca frente al
tema de la Patria, lo que ahora llamaríamos «la identidad», es que es el primero en no ver la
menor incompatibilidad entre un patriotismo inca y un patriotismo español, sentimientos que en
él se entroncaban y fundían, como todo indisoluble, en una alianza enriquecedora. Por eso,
nadie trate de valerse de las bellas páginas que escribió el Inca Garcilaso de la Vega para
acarrear agua al molino del nacionalismo. El autor de los Comentarios Reales está en las
antípodas de la visión limitada, mezquina y excluyente de cualquier doctrina nacionalista. Su
idea del Perú es la de una Patria en la que cabe la diversidad, en la que «se funden los
contrarios» (la idea que George Bataille tenía de lo humano), esa aptitud para abrirse a las
demás culturas e incorporarlas a la propia, que tanto admiraba en sus ancestros Incas. Por eso,
al final, la imagen de su persona que su obra nos ha legado es la de un ciudadano sin bridas
regionales, alguien que era muchas cosas a la vez sin traicionar ninguna de ellas: indio,
mestizo, blanco, hispano-hablante y quechua-hablante (e italiano-hablante), cusqueño y
montillano o cordobés; indio y español, americano y europeo. Es decir, un hombre universal.

Come accennato, però, negli ultimi 20 anni la memoria ufficiale di Inca Garcilaso de la
Vega – e non solo la sua, invero –, ha conosciuto un ridimensionamento a dir poco notevole.
Cito Laura Laurencich Minelli onde chiarire subito la portata di questo ridimensionamento:

En el año 2002 los estudiosos pueden ser tentados de creer que ya todo esta conocido sobre la
historia de la conquista del Perú, que las opiniones repetidas corresponden a hechos ciertos y
que ya en los archivos y en las bibliotecas no se logra encontrar más que detalles repetitivos e

51
insignificantes de ese pasado. De manera que en lugar de medirse en la difícil y lenta lectura de
manuscritos guardados en archivos y bibliotecas que puedan proporcionar algo nuevo, hay
quien prefiere seguir repitiendo los hechos considerados “ciertos” lo que, por lo menos, tiene la
ventaja de ahorrar esfuerzos y de no molestar a los grandes Solones que piensan haber escrito
definitivamente la Historia.
Se equivocan quienes piensan así: primeramente porque la historia de la conquista del Perú esta
trazada sobre unos pocos puntos conocidos y muchos desconocidos; en segundo lugar porque la
historia es una continua investigación y finalmente porque los archivos y bibliotecas siguen
proporcionando fuentes inéditas tan importantes como las que nos brindan las Actas del
coloquio de Roma: estas, en cambio, inducen a continuar pesquisando entre viejos legajos
porque sin duda todavía, en este año 2002, quienes nos dedicamos a este apasionante campo de
estudios podemos aspirar a continuar sorprendiéndonos135.

Negli Actas del coloquio de Roma citati dalla studiosa dell'Università di Bologna, intitolati
formalmente “Guaman Poma y Blas Valera. Tradición Andina e Historia Colonial: nuevas pistas
de investigación”, lo scottante tema trattato sono stati invero i già presentati documenti
Miccinelli.
È utile, prima di chiarire la questione nel dettaglio, una sintetica premessa informativa.
Di Felipe Lázaro Guaman Poma de Ayala si sa molto poco, al di là di quello che si trae
dall'opera da lui firmata, El primer nueva corónica y buen gobierno, prodotta intorno al 1615.

135
“Las actas del coloquio Guaman Poma y Blas Valera. Tradición Andina e Historia Colonial: nuevas pistas de
investigación. Una nota”, Espéculo. Revista de estudios literarios 20 (2002;
http://www.ucm.es/info/especulo/numero20/act_colo.html ).

52
Nato nel 1550 circa probabilmente a Andamarca136, frazione di Huamanga, l'attuale città
peruviana di Ayacucho, era un indio puro, come l'autore stesso afferma, discendente della
dinastia degli Yarovilca di Huánuco, principi indigeni di provincia. I suoi genitori sarebbero stati
Huaman Malqui e Curi Ocllo, la più giovane figlia dell'Inca Túpac Yupanqui, illustre antenato
che menziona orgogliosamente, laddove il dominio coloniale spagnolo gli aveva comunque
permesso di diventare solo il modesto curaca137 della regione di Lucanas.
Come altri nativi prima e dopo la conquista, visse la vita itinerante del mitmaqkuna138 sulle
Ande, tra le rivendicazioni sociali e terriere della prima complessa società coloniale nella
seconda metà del XVI secolo e nel primo scorcio del XVII secolo.
Si dichiarò devoto cristiano, forse anche per convenienza, e pare che abbia lavorato come
assistente di ispettore ecclesiastico139 nell'area di Lucanas fino al 1570 circa, quindi vi sarebbe
136
Gli studiosi più tradizionalisti propendono per la sua nascita a San Cristóbal de Sandondo (o Suntutntu, nome più
antico e tradizionale), un po' più a sud, non lontano da Lucanas dove in seguito Guaman Poma si era stabilito.
Incerta anche la data della sua nascita, che oscilla tra il 1534, come vorrebbero i più tradizionalisti e il 1556. Cfr.
tra gli altri, Juan M. Ossio, The Idea of History in Felipe Guaman Poma de Ayala, Oxford University, 1970; Id.,
En busca del orden perdido. La búsqueda de la historia en Felipe Guaman Poma de Ayala, Fondo Editorial de la
PUCP, Lima 2008; Rolena Adorno, “Felipe Guarnan Poma de Ayala: an Andean view of the Peruvian
viceroyalty, 1565-1615”, Journal de la Société des Américanistes LXV (1978), pp. 121-143; Id., “La Génesis de
la Nueva corónica y buen gobierno de Felipe Guarnan Poma de Ayala”, Taller de Letras 23 (1995), pp. 9-45;
Xavier Albó, “La Nueva coronica y buen gobierno: ¿obra de Guaman Poma o de jesuitas?”, Anthropologica 16
(1998), pp. 307-348; Alfredo Alberdi Vallejo, El mundo al revés, Guaman Poma anticolonialista,
Wissenschaftlicher Verlag Berlin, Berlín 2010, specie pp. 147-162; Id., “El Príncipe de los cronistas nativos:
Felipe Lázaro Guamán Poma. Invenciones y falsificaciones documentales del siglo XVIII”, Runa Yachachiy
(2012), pp. 1-28.
137
Curaca è il termine quichua/quechua a indicare il capo politico e amministrativo dell'ayllu, la cellula territoriale a
base tribale-familiare del Tahuantinsuyu. Dopo la conquista di Pizarro furono ribattezzati caciques dagli
Spagnoli, con termine però di lingua taíno.
138
Mitmaq è termine quichua/quechua a indicare l'istituzione inca dell'insediamento di famiglie in luoghi dell'impero
diversi da quelli d'origine, con lo scopo di uniformare la società del Tahuantinsuyu e di prevenire ribellioni. Fu
pratica continuata anche dalle autorità coloniali spagnole, ma non va confusa con l'istituzione della mita o mit'a, il
lavoro obbligatorio al servizio del Virreinato o degli encomenderos a cui erano sottoposti gli indios, che
comunque comportava trasferimenti forzati, per esempio quelli tristemente noti alle miniere di Potosí. Cfr. Walter
Sánchez Canedo, Inkas, “flecheros” y mitmaqkuna, Uppsala University, 2008; Teresa Cañedo-Argüelles, “Los
mittani y mitmaqkuna del Colesuyo como agentes de diáspora y cambio cultural. Nuevos aportes al estudio de las
instituciones andinas”, Diálogo Andino 34 (2009), pp. 7-23.
139
Cfr. Rolena Adorno, “Guaman Poma y su crónica ilustrada del Perú colonial: un siglo de investigaciones hacia
una nueva era de lectura” (2001; http://wayback-

53
tornato in seguito come funzionario nativo dell'amministrazione coloniale verso la fine del XVI
secolo e lì si sarebbe stabilito 140, a vivere in modo abbastanza benestante, finché, in un
contenzioso giuridico, non perse le sue proprietà terriere a favore di una controparte che
rappresentava l'etnia dei Chachapoyas141.
Avrebbe iniziato la redazione della sua unica opera poco dopo il 1600, a denunciare nei
confronti del re Felipe III, a cui l'opera è dedicata come una sorta di lettera estesa e vera e
propria istanza ufficiale, una visione profondamente critica della società coloniale e, al
contempo, sottintesa, ma non troppo, una prospettiva ideologica andina orale di resistenza
culturale, finalizzata all'autonomia degli indigeni nelle campagne, sotto la guida dei loro curaca,
distinti e separati dagli Spagnoli isolati nelle città142.
Dimenticato per quasi 300 anni, il suo manoscritto, prezioso per la storia culturale degli
indigeni delle Ande, fu riscoperto dall'orientalista e egittologo tedesco Richard Pietschmann,

01.kb.dk/wayback/20101108104655/http://www2.kb.dk/elib/mss/poma/presentation/index.htm). Durante il
Virreinato del Perú, specie prima dell'epoca borbonica, l'ispettore ecclesiastico, un religioso spagnolo, era una
sorta di inquisitore che in concreto taglieggiava gli indigeni, nei confronti dei quali Guaman Poma evidentemente
svolgeva il ruolo di interprete, attirandosi anche le legittime acrimonie da parte della sua gente. Cfr. Pierre
Duviols, La lutte contre les religions autochtones dans le Pérou colonial: l’extirpacion de l’idolâtrie entre 1532
et 1660, Instituto de Estudios Peruanos, Lima 1971. Cfr. anche Luciano Parinetto, Il ritorno del diavolo, Mimesis
Edizioni, Milano 1996, specie pp. 8-12 e passim, dove si mette in evidenza come i conquistadores cristiani
sentissero urgente la missione di estirpare il diavolo dalle terre del Nuevo Mundo, cioè di cancellare le “idolatrie”
locali, appunto, come risulta per esempio in padre José de Acosta (cfr. infra), laddove è ovvio come questo
presupposto ideologico abbia svolto il ruolo di giustificazione morale di immani crimini davvero diabolici
perpetrati sulla pelle degli indios.
140
Rolena Adorno rileva come nell'opera a lui attribuita Guaman Poma abbia tentato di occultare questa sua
“migración forzada del colonizado”, tradita però dalla proliferazione nella stessa. di termini quali “forastero
originario”, “forastero revisitado”, “forastero advenedizo”. In “La pertinencia de los estudios coloniales para el
nuevo milenio”, Andes 11 (2000), p. 5.
141
Cfr. José Carlos de la Puente Luna, “Cuando el «punto de vista nativo» no es el punto de vista de los nativos:
Felipe Guaman Poma de Ayala y la apropiación de tierras en el Perú colonial”, Bulletin de l’Institut Français
d’Études Andines 37, 1 (2008), pp. 123-149; all'etnia dei Chachapoyas era legato per parte di madre Blas Valera.
Cfr. infra.
142
Alla figura di Guaman Poma la popolare trasmissione televisiva peruviana Sucedió en el Perú, di Canal 7, ha
dedicato una puntata il 30 Novembre 2006, reperibile su youtube; condotta dal popolare giornalista e presentatore
televisivo Antonio Zapata, ha visto la partecipazione di Rocío Quispe-Agnoli (Michigan State University), Juan
Ossio (Pontificia Universidad Católica del Perú) e Luis Millones (Universidad Nacional Mayor de San Marcos).
Nessuno ha accennato a Blas Valera. Cfr. infra.

54
all'epoca direttore della Universitätsbibliothek di Göttingen, nella Kongelige Bibliotek di
Copenhagen nel 1908143, e da allora è oggetto di studi intensi, esaltazioni nazionalistiche, specie
in Perù, e accesi dibattiti, nessuno però come quello scatenato dalla pubblicazione in campo
accademico, nel 1996, dei citati documenti Miccinelli da parte di Laura Laurencich Minelli.
Come già accennato, in questi manoscritti si rivela, tra l'altro, che l'opera attribuita a
Guaman Poma sarebbe stata scritta invero dal gesuita mestizo Blas Valera, noto anche come il
“gesuita fantasma” o “gesuita maledetto”.
Riguardo a questo misterioso e emblematico personaggio, negli ultimi anni, in seguito ma
non solo alla pubblicazione dei documenti Miccinelli, è stato scritto forse anche troppo, in
quanto spesso l'obiettivo non è stato quello di cercare di ricostruire la verità, ma piuttosto quello
di difendere dei presupposti ideologici consolidati, come ho già anticipato e chiarirò meglio più
avanti.
Di lui144 si sa che nacque nel 1545 a Llauantu – Levanto come l'hanno ribattezzata i
conquistadores spagnoli – a sudovest dell'attuale Chachapoyas, nell'Amazzonia peruviana, figlio
di un brutale conquistador spagnolo, Alonso Valera, ufficiale di Pizarro, che aveva ingravidato
sua madre, la quindicenne Francisca Pérez – o meglio Urpay (“Tortora”), figlia del curandero
Illavanqa –, in seguito a uno stupro, sorte che le donne indigene d'America hanno subito sin
troppo spesso dai tempi della conquista a oggi. Per giunta, quando Blas Valera aveva sei anni,
suo padre assassinò sua madre davanti ai suoi occhi.
Lo zio Luis Valera, ben altra persona rispetto al fratello, gli fece da padre di fatto, ma fu
allevato soprattutto da suo nonno Illavanqa, in un ambiente dove le tradizioni indigene erano
ancora dominanti.
143
Cfr. http://www2.kb.dk/elib/mss/poma/index.htm, il portale on line che la biblioteca di Copenhagen ha dedicato
ai manoscritti de El primer nueva corónica y buen gobierno, con una ricca documentazione, a cura di Rolena
Adorno e tanti altri. Secondo lo storico, diplomatico e senatore peruviano Raúl Porras Barrenechea (1897-1960)
l'opera potrebbe essere finita in Danimarca, dove fu sostanzialmente dimenticata, magari anche volutamente,
grazie all'ambasciatore danese presso la corte spagnola (1650-1655, 1658-1662), Cornelius Pedersen Lerche, che
l'avrebbe acquistata come parte della biblioteca del Conde Duque de Olivares. Ma non esiste una prova certa. Cfr.
Raúl Porras Barrenechea, El cronista indio Felipe Huamán Poma de Ayala, Editorial Lumen, Lima 1948, passim;
Id., El legado quechua: indagaciones peruanas, UNMSM, Lima 1999, pp. 81-2; Rolena Adorno (a c.), Guaman
Poma and his Illustrated Chronicle from Colonial Peru / Guaman Poma y su Crónica Ilustrada del Perú
Colonial, Museum Tusculanum Press, Copenhagen 2001, p. 50.
144
La biografia di Blas Valera l'ho tratta soprattutto da Davide e Viviano Domenici, I nodi segreti degli Incas,
Sperling & Kupfer, Milano 2003, in cui sono sintetizzate in maniera ineccepibile le informazioni che Blas Valera
stesso fornisce nell'opera Exsul Immeritus Blas Valera Populo Suo. Cfr. infra.

55
Nel 1568 i gesuiti s'installano in Perù 145 e Blas Valera, all’età di 23 anni, diventa uno di
loro, apportando alla Compagnia le sue competenze nelle lingue locali, soprattutto quechua e
aymara, e in genere la sua capacità di mediare a favore dei suoi confratelli nell'opera di
evangelizzazione degli indigeni146, ma anche a favore di questi ultimi contro le vessazioni dei
colonizzatori spagnoli.
Si sa che operò a Huarochiri, a Cusco, Potosí e Juli, sul lago Titicaca, dove i gesuiti
stabilirono la loro doctrina più importante147.
Nel 1572 il viceré Francisco de Toledo cattura e fa assassinare l'ultimo Sapa Inca Tupac
Amaru, evento che sancisce la fine della resistenza degli Inca e il consolidamento del dominio
coloniale spagnolo.
Nel 1585 Blas Valera è accusato di aver avuto una relazione sessuale con una donna
indigena – da cui aveva avuto anche un figlio –, per cui il Generale dell'ordine Claudio
Acquaviva d'Aragona148 lo fa imprigionare intimandogli di uscire dalla Compagnia di Gesù, ma
lui si rifiuta. In seguito, Acquaviva decide di trasferirlo a Cadice, dove però Blas Valera giunge
solo nel 1595. Nel frattempo è privato delle sue carte e relegato in isolamento con l'assoluto
divieto di insegnare, sorte che gli è imposta anche in Spagna.
Una punizione così dura ha prodotto e continua a produrre non pochi dubbi sulla vera
natura del “reato” di Blas Valera.

145
Cfr. infra a proposito dell'insediamento gesuita nel Nuovo Mondo, prima in Brasile e solo dopo nelle colonie
spagnole.
146
Esattamente come successe in Messico, anche con gli Inca i conquistadores e i religiosi spagnoli, in principio,
applicarono il sistema della tabula rasa nei confronti delle manifestazioni religiose e in genere culturali locali, con
lo scopo preciso di attuare un vero e proprio genocidio culturale onde imporre più facilmente la devozione per il
cristianesimo e il re di Spagna. In tal modo la maggior parte dei quipu, per esempio, andò distrutta, al punto che
ancora oggi è dibattuto il loro uso, laddove la scoperta di Clara Miccinelli ha senz'altro gettato una luce
illuminante sulla questione, che non tutti, tuttora, vogliono però accettare. Cfr. Domenici, I nodi segreti...cit.,
passim e cfr. Jeremy Ravi Mumford, “Clara Miccinelli cabinet of wonders. Jesuits, Incas, and the mysteries of
colonial Peru”, Lingua Franca 10, 1 (2000), p. 37: “Today, scholars do not know how to read the quipus. But the
subversive Jesuits of Miccinelli's documents understood the Incas' knots and were enthusiastic about them. They
considered quipus a perfect form of writing – in the words of one of their Indian informants, a «fastening between
God and Man, containing Thought and Spirit.»”.
147
Cfr. infra.
148
(Atri 1543 – Roma 1615). Quinto Generale dell'ordine dei gesuiti dal 1581 al 1615, primo italiano a ricoprire tale
carica.

56
Cito testualmente i Domenici149:

Secondo i manoscritti napoletani e altra documentazione dell'epoca, dietro una condanna tanto
dura ci sarebbe stata la volontà di colpire Valera per la sua audace interpretazione della
religione incaica e per le sue idee decisamente filoindigene. L'accusa di fornicazione sarebbe
stata quindi una copertura per mettere a tacere un personaggio con idee prossime all'eresia, che
godeva di ampia popolarità tra gli indios e grande autorevolezza tra i suoi stessi confratelli.
Relegato a Cadice, privato di gran parte dei suoi scritti e impedito a diffondere la sua visione
del mondo incaico, Valera sembrava davvero destinato all'oblio.

E inoltre, come precisa anche Yuri Leveratto 150, studioso genovese151 attivo in Colombia, in
Perù e Bolivia:

[...] è possibile che le vere colpe del gesuita meticcio fossero altre, ovvero quelle di far sapere
al mondo, attraverso i suoi scritti, come era stato realmente conquistato il Perù da Francisco

149
I nodi segreti...cit., pp. 172-3.
150
“Gli enigmatici disegni (1618) di Blas Valera, aprono nuovi orizzonti sulla reale ubicazione del Paititi”, 2010
(http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=151); anche in versione spagnola: “Los enigmáticos dibujos
(1618), de Blas Valera, abren nuevos horizontes sobre la verdadera ubicación del Paititi”, 2010
(http://www.yurileveratto.com/articolo.php?Id=156).
151
Ho avuto modo di conoscerlo personalmente allorché è tornato nella sua città natale a presentare una sua
pubblicazione: La ricerca dell'Eldorado. La conquista europea del nuovo mondo, Infinito Edizioni, Roma 2008.
Nel gennaio-febbraio del 2013, Leveratto è tornato di nuovo a Genova a presentare un'altra sua pubblicazione,
Esplorazioni in America del Sud 2006-2011 (Primera Ediciones, Bogotá 2012), e ho collaborato alla
realizzazione di due sue conferenze, una sul mito del Paititi, svoltasi il 7 febbraio presso la biblioteca del Disclic -
Dipartimento di lingue e culture moderne, l'altra sulla teoria del pre-contatto tra popoli del Medio Oriente e il
Sudamerica, svoltasi il giorno dopo presso il Centro Civico Cornigliano.

57
Pizarro152, attraverso l’inganno153. Inoltre avrebbe potuto divulgare come veniva amministrato il
regno dal viceré, con indicibili pene per i nativi che erano sottoposti loro malgrado a varie
ingiustizie come il contratto dell’encomienda e della mita.

Nel 1596, circa un anno dopo l'arrivo di Blas Valera a Cadice, la città è attaccata da una
flotta inglese al comando di Charles Howard e Robert Devereux, conte di Essex, appoggiata da
un'altra della Repubblica delle Provincie Unite, cioè l'Olanda, tra le azioni della guerra anglo-
spagnola degli anni 1585-1604, posteriore e conseguente al celebre disastro della Invencible
Armada del 1588154.
Blas Valera, ferito durante il sacco della città andaluza, è trasportato a Malaga, dove,
secondo una laconica nota dei gesuiti, sarebbe morto l'anno dopo, all’età di 52 anni.
Ma questa è la versione ufficiale: i documenti Miccinelli rivelano che il “gesuita
maledetto” sopravvisse, che le autorità dell'ordine imposero e diffusero comunque la notizia
della sua morte, ma che lui visse per altri 22 anni, fino al 1619, anni in cui riuscì a tornare in
Perù per portare avanti la realizzazione dei suoi ideali, per poi ritornare in Spagna in funzione del

152
Da notare che Pizarro non sarebbe stato il primo europeo a raggiungere l'impero inca: molto meno nota ma molto
più affascinante è la storia del portoghese Aleixo Garcia, che avrebbe raggiunto le frontiere orientali del
Tahuantinsuyu nel 1524, quando era Sapa Inca Huayna Cápac, partendo dall'attuale costa brasiliana dello stato di
Santa Catarina, lungo il cammino cosiddetto di Peabiru, che in seguito fu in effetti usato da altri conquistadores
tra cui il tedesco Ulrich Schmidl nel 1553 (cfr. infra), ma soprattutto dai gesuíti che dal Virreinato del Perú si
recarono nel territorio guaraní a fondare le loro celebri reducciones. Cfr. Rosana Bond, A Saga de Aleixo Garcia.
O descobridor do Império Inca, Insular, Florianópolis 1998; André Kovalevski, “Peabiru, a rota perdida”, A
Tribuna, 5/11/2001; Rodrigo Adriano de Freitas, André Essenfelder Borges, Caminhos da cultura indígena: O
Peabiru e o neoindianismo, UFSC, Florianópolis 2006; Rodrigo Adriano de Freitas, “A saga de Aleixo Garcia, O
Descobridor do Império Inca. Do Discurso ao Mito. A criação do imaginário coletivo”, Revista Santa Catarina
em História 4, 2 (2010), pp. 94-6, che invero pone dei dubbi; Paulo Pitaluga Costa e Silva, Aleixo Garcia. O
Homem e o Mito, Carlini & Caniato, Cuiabá 2012, e infra.
153
Per la precisione, Pizarro, con la complicità di fray Reginaldo de Pedraza, fray Vicente de Valverde e l'esecutore
materiale fray Juan de Yepes, avrebbe avvelenato i nobili e i generali inca a tradimento con del moscato
all'arsenico, secondo la denuncia di un suo ufficiale, Francisco de Cháves. Cfr. infra e, tra tanti testi, Laura
Laurencich-Minelli, “La curiosa versión de Francisco de Chaves sobre la conquista del Perú”, Escritura y
Pensamiento 5, 10 (2002), pp. 7-32.
154
Cfr., tra i vari scritti relativi, la relazione del famoso corsaro inglese, favorito della regina Elisabetta I oltre che
colonizzatore della Virginia, Walter Raleigh “A relation of Cadiz action in the year 1596”, in The Works of Sir
Walter Ralegh, a c. William Oldys, Thomas Birch, Oxford University Press, 1829, vol. VIII, pp. 667-674.

58
tentativo di far giungere le sue istanze a re Felipe III tramite il nuovo generale dell'ordine Muzio
Vitelleschi, tentativo comunque fallimentare, ma non per questo privo di conseguenze.
Sempre secondo la versione ufficiale, Blas Valera era noto come autore di due opere
principali: una Historia Occidentalis, perduta, ma alla quale ha attinto dichiaratamente Inca
Garcilaso de la Vega per i suoi Comentarios Reales155, e la Relación de las costumbres antigüas
de los naturales del Pirú, conservata alla Biblioteca Nacional de España di Madrid, invero
anonima, ma tradizionalmente attribuita proprio a Blas Valera, non senza dubbi.
Con la pubblicazione dei documenti Miccinelli si è aggiunta a questa lista lo sconvolgente
manoscritto già citato dal titolo Exsul Immeritus Blas Valera Populo Suo, firmato da Blas Valera
stesso il 10 maggio del 1618 ad Alcalá de Henares, dove si trovava un'importante residenza dei
gesuiti e dove Blas Valera è morto l'anno dopo.
Questo manoscritto è indirizzato direttamente al nuovo generale dell'ordine Muzio
Vitelleschi, a convincerlo ad appoggiare le tesi già prodotte nella Nueva Corónica y Buen
Gobierno, opera sì firmata dall’indigeno Guaman Poma de Ayala, invero elaborata da Blas
Valera stesso, che era ufficialmente morto e pertanto non poteva firmarla, con la collaborazione
di altri suoi seguaci, gesuiti e non.
Tra detti seguaci, gli autori del secondo manoscritto ritrovato da Clara Miccinelli, la
Historia et rudimenta linguae Piruanorum, i gesuiti italiani, del fervido meridione allora
territorio spagnolo, Joan Antonio Cumis e Joan Anello Oliva156, in cui sono confermate le
vicende esposte nell'Exsul Immeritus Blas Valera Populo Suo, inoltre sono fornite le chiavi per la
155
Secondo Blas Valera nell'Exsul Immeritus, dopo che gli era stata rubata e quindi consegnata a Inca Garcilaso de
la Vega, che l'avrebbe però utilizzata indebitamente stravolgendo le sue idee, senza far risaltare le colpe dei
conquistadores e degli encomenderos in Perù come aveva fatto Blas Valera stesso.
156
Joan o Giovanni Antonio Cumis (Catanzaro, 1537 – Lima, 1618), appartenente a una nobile famiglia di
Catanzaro di origine francese, era entrato nell'ordine solo nel 1588 e fu subito destinato in Perù. È ricordato come
coadiutor, cioè un confratello che aveva pronunciato solo i voti minori di castità, povertà ed obbedienza ed era
perciò escluso dall'esercizio delle funzioni sacerdotali. Si sa di lui, da una lettera del Generale Claudio
Acquaviva, che intorno al 1590 fu sanzionato per qualche comportamento contrario alle regole dell'Ordine e nel
1594 scrisse di nuovo ad Acquaviva per chiedere di essere inviato in Cina. Non conosciamo il testo della sua
lettera, ma è pervenuta la risposta fermamente negativa del suo superiore che lo invita all'obbedienza e a rimanere
in Perù. Joan o Giovanni Anello Oliva (Napoli, 1572 o 1574 – Lima, 1642), in Perù dal 1597, è figura già molto
nota agli studiosi in quanto autore della Historia del Reyno y provincias del Perú y varones insignes en santidad
de la Compañia de Jesus, la cui pubblicazione fu ampiamente postuma in quanto conobbe la censura del generale
dell'ordine Muzio Vitelleschi. Cfr. infra le mie considerazioni riguardo alla vicinanza tra questi due italiani
meridionali e Blas Valera e i suoi ideali.

59
decifrazione e la comprensione dei quipu, la scrittura incaica elaborata tramite cordicelle
annodate157.
Il citato Leveratto158 si sofferma anche su un altro dettaglio molto interessante dell'Exsul
Immeritus, due disegni quasi sicuramente dello stesso Blas Valera

dove viene rappresentata la città perduta del Paititi per mezzo di simboli, codici segreti e
misteriose allegorie.

In entrambi i disegni viene rappresentata la stessa cordigliera costituita da 5 cime (nel disegno
“tropicale”, il primo da sinistra, la seconda e la quinta cima sono a loro volta conformate
rispettivamente da 3 e 2 cocuzzoli, guardando da sinistra), ma mentre nel disegno “tropicale” si
vede la catena montuosa da un punto di vista situato nella selva, nel disegno “andino” le stesse
montagne sono viste da altre montagne ovvero da un ambiente completamente distinto.
In effetti nel disegno “tropicale” si notano alcuni animali tipici della foresta pluviale, come una
scimmia, quattro serpenti e un giaguaro. Inoltre si nota (nella terza cima guardando da sinistra),
la figura stilizzata di un condor. Dalla cordigliera fluisce placidamente un fiume, mentre in alto
si nota la firma di Blas Valera.

157

158
Cfr. supra.

60
Nel disegno “andino”, invece, che è molto più complesso e misterioso, ci sarebbero le chiavi
per l’individuazione del Paititi.

Yuri Leveratto si è occupato della queste di Paititi, mitica perduta città segreta inca in
Amazzonia, centro della resistenza anche culturale indigena contro la colonizzazione spagnola –
e in quanto tale tuttora mito e simbolo delle rivendicazioni indigeniste –, anche con spedizioni a
cui ha partecipato personalmente, spedizioni che sono diventate numerose soprattutto allorché il
Prof. Mario Polia, storico, antropologo, etnografo, e archeologo italiano, docente di Antropologia
presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, ha scoperto nel 2001, presso gli archivi
romani della Compagnia di Gesù, una lettera – alla pagina 38 del primo volume della Peruana
Historia, una collezione di manoscritti degli anni compresi tra il 1567 e il 1625 – firmata da
Padre Andrés López, già teólogo notable de la Universidad de Salamanca, in Perù dal 1571 al
1583, anni durante i quali fu procuratore di Provincia nel 1576, primo rettore del Collegio dei
gesuiti di Arequipa nel 1578 e rettore del Collegio dei gesuiti a Chuquiabo – l'odierna La Paz,
capitale della Bolivia – nel 1582159.
Detta lettera consiste in una relazione inviata al generale dell'ordine Claudio Acquaviva, a
cui Padre Andrés López parla di una sua visita presso la ricchissima città di Paititi, abbondante di
oro, argento e pietre preziose, la cui popolazione conosceva l'uso della metallurgia e
dell'architettura monumentale e possedeva un'organizzazione politica molto evoluta con a capo
un monarca sul modello dell'impero inca. Il gesuita racconta anche come il re di Paititi, una volta
convertitosi, avrebbe offerto di costruire “una chiesa fatta con blocchi di oro massiccio”.
Tale scoperta, diffusa in seguito ai servizi relativi pubblicati dalla rivista Archeo160, ha
rivitalizzato ovviamente, nel mondo accademico e non, la ricerca dell'El Dorado161.
159
Cfr. Enrique Torres Saldamando, Los antiguos jesuítas del Perú, Imprenta Liberal, Lima 1882, pp. 35-43 e
passim.
160
Mario Polia, “Eldorado, il mito svelato”, 204, febbraio 2002, pp. 32-37. Articolo poi ripreso da tutte le più
importanti testate giornalistiche internazionali, quali Die Zeit, El Pais, Le Monde, The New York Times.
161
Cfr. altri articoli relativi di Leveratto: “L'interminabile ricerca del Paititi e l'analisi del manoscritto di Andrea
Lopez”, 2010 (http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=107); Id.., “Intervista all’esploratore Gregory
Deyermenjian, il più famoso ricercatore del Paititi”, 2010 (http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=135);
Id., “Il regno amazzonico del Paititi”, 2010 (http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=133); Id., ”La fuga
dell’inca Guainaapoc nella misteriosa terra del Paititi”, 2011 (http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?
Id=220); Id., “La ricerca del Paititi risalendo il Rio Paraguay”, 2011
(http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=234); Id., “Individuata la localizzazione del Paititi nel 1769,
nella mappa etnostorica del Brasile di Curt Nimuendajú”, 2012 (http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?

61
Cito ancora lo stesso articolo di Leveratto:

[...] nella sinistra e nella destra della cordigliera vista dalla parte andina vi sono,
rispettivamente, una yupana (abaco) e dei simboli andini che in seguito all’interpretazione della
dottoressa in Storia medievale ed esperta in paleografia antica Laura Laurencich Minelli
(Universtità di Bologna, Italia), significano PAYQUIQUIN, ovvero: ciò che è lo stesso. Sul
significato di queste parole molti storici e ricercatori hanno dibattuto a lungo. È opinione
diffusa che Blas Valera volesse riferirsi al Cusco ovvero la capitale del Tahuantisuyu.
Siccome il Cusco era in mano agli invasori, e non poteva mai più tornare quello di prima, il
ruolo centrale del Tahuantisuyu era assunto dalla cittadella fortificata chiamata appunto
PAYQUIQUIN parola stranamente simile al PAITITI, il leggendario regno amazzonico situato
nella selva bassa, nel triangolo compreso tra i fiumi Mamoré, Beni e Yucuma 162.
[...]
A mio parere Blas Valera aveva realmente un animo rivoluzionario, e nel libro Exsul Immeritus
Blas Valera Populo Suo ci sono le chiavi reali per giungere al Paititi, dove probabilmente lui
viaggiò e poté così rendersi conto di come le tradizioni antiche continuassero, in un mondo
chiuso ed esoterico, riservato perciò a pochi.

L'Exsul Immeritus di Blas Valera, quindi, potrebbe aver gettato una luce davvero
illuminante su Paititi, tra i tanti miti sorti con la conquista dell'America 163 – come il citato El
Dorado, Cíbola, Trapalanda o Ciudad de los Césares fino alla città perduta di Z del colonnello
Percy Fawcett –, rivelandone però un ruolo significativo, quello di roccaforte della resistenza
indigena e inca in particolare, ruolo confermato anche da una versione del suo mito, ricordata da
Leveratto, secondo cui sarebbe stata fondata da Inkarrí164, storpiatura indigena dello spagnolo
Inca Rey, un mito andino subito posteriore alla conquista spagnola portata avanti dal nemico
Id=270); Id., “Nuovo Video: La ricerca del Paititi di Yuri Leveratto”, 2013
(http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=375).
162
Leveratto rimanda a: Vera Tyuleneva, “La tierra del Paititi y el lago Rogoaguado”, Estudios Amazónicos IV, 6
(2007), pp. 97-164.
163
Fu senz'altro la sete d'oro e ricchezze varie dei conquistadores che ha prodotto questi “miraggi” di città
opulentissime nel Nuevo Mundo – che pure hanno dato impulso a straordinarie avventure e a immense tragedie –,
ma hanno certo contribuito anche istanze ideologiche e spirituali generatesi o sviluppatesi nell'incontro/scontro
tra europei e indigeni, non ultima la ricerca e la realizzazione dell'utopia, lo stato ideale tanto presente nella
letteratura rinascimentale. Cfr. infra.
164
Cfr. Ryszard Tomicki, “De Adaneva a Inkarrí. ¿Una visión científica del Perú?”, Estudios Latinoamericanos 4
(1978), pp. 259-264 e infra.

62
Españarri, cioè España Rey, a rappresentare la speranza messianica coltivata dagli indigeni in
una rinascita del Tahuantinsuyu, speranza che ha ispirato vari movimenti insurrezionali andini
tra cui quelli del Taki Unquy della seconda metà del XVI secolo e di Túpac Amaru II verso la
fine del XVIII sec.165
La questione di Paititi forse sarà chiarita dalla ricerca e dalle esplorazioni dei prossimi
anni, così come la sua sorte, per quanto sia già legittimo arguire che gli Spagnoli devono averla
distrutta, magari proprio in seguito alle informazioni contenute nella relazione citata di Padre
Andrés López. Non è certo questo lo studio che deve occuparsene.
Così come questo studio non deve occuparsi della turbolenta e dibattuta vicenda dei citati
documenti Miccinelli, la cui autenticità è già stata provata, laddove ciò non è valso a far sì che
tutti ne abbiano accettato i contenuti, data la loro portata “sovversiva”.
Rimando a un'appendice al presente capitolo per una sintesi soggettiva della loro
comunque affascinante vicenda, indicativa senza dubbio dell'attualità ancora scottante
dell'indigenismo, così come lo abbiamo circoscritto, e di cui Inca Garcilaso de la Vega, Guaman
Poma e Blas Valera sono tuttora figure emblematiche.
Non molto tempo dopo l'anno della vera morte di Blas Valera, un altro gesuita italiano
come i suoi seguaci supra citati, ma in tal caso un sarzanese, Nicolò166 Mascardi (Sarzana 1624 o
1625 - Patagonia 1674), ha operato negli attuali Cile e Argentina come missionario, ma anche
come esploratore, in particolare della Patagonia, e soprattutto, anche lui, come difensore degli
indigeni dalle angherie e dai pregiudizi che subivano da parte degli Spagnoli.
A lui infatti sono attribuite considerazioni come la seguente167:

Vanno vestiti di un mantello di guanaco sia gli uomini che le donne e dalla cintura gli casca
solo un pezzo di pelle per coprire quello che si deve coprire, ma sebbene così poco vestiti, essi
potrebbero essere esempio di moralità ai cristiani.

165
Cfr. infra.
166
O anche Niccolò e Nicolás, nella versione spagnola.
167
Citazione tratta da Remo Pizzardi, Tullio Brunone, Nicolò Mascardi Esploratore della Patagonia, Fumetti d'Arte
and PietroVanetti SI, Milano 1988, p. 138, una bella storia a fumetti della collana Eroi che fanno storia, diretta da
padre Pietro Vanetti dei Gesuiti di San Fedele (Milano), con Note storiche a cura di Giuseppe Rosso, Archivum
historicum Societatis Iesu.

63
Trovo curioso innanzitutto come una figura quale Nicolò Mascardi sia rimasta
relativamente anonima in Italia168, nonostante le sue imprese notevoli, mentre il giusto omaggio
gli è stato reso, soprattutto per il suo ruolo di esploratore, in Cile e in Argentina, dove il suo
nome è stato dato a un lago, il Lago Mascardi appunto, e a una cittadina sulla sua costa
meridionale, Villa Mascardi, poco a sud di San Carlos de Bariloche e del celebre ghiacciaio
Perito Moreno e poco a ovest del confine cileno.
Apparteneva a un'importante famiglia aristocratica sarzanese, detentrice dei titoli di
visdomini di Luni e di signori di Trebbiano e originaria di Palena169, in Abruzzo, nell'attuale
provincia di Chieti, che nel XVI sec. aveva già consegnato alla storia un altro Nicolò Mascardi
(?-1599), prima vescovo di Brugnato, nell'entroterra spezzino, e poi di Mariana, in Corsica, poco
a sud dell'attuale Bastia, nonché importante propugnatore della riforma della Chiesa sul solco
degli insegnamenti di Carlo Borromeo; a lui il Comune di Sarzana ha dedicato una via cittadina.
In seguito i Mascardi diedero alla Chiesa altri tre vescovi, Angelo, vescovo di Noli dal 1616 fino
alla morte nel 1645, Giovanni, vescovo di Nebbio, nella Corsica settentrionale, dove oggi sorge
Saint-Florent, dal 1621 al 1646, Carlo Maria, vescovo di Ventimiglia dal 1710 al 1731. Inoltre si
segnalarono almeno altri tre Mascardi importanti letterati e giuristi, Giuseppe (1540/5-1585
circa), notevole giurista autore del De Probationibus, ambiziosa trattazione sistematica dei mezzi
probatori, Alderano (1557-1608), fratello del citato Nicolò vescovo e padre dell'altrettanto citato
Giovanni pure lui vescovo, anch'egli importante giureconsulto e giurista, Agostino (1590-1650),
un altro figlio di Alderano, letterato e accademico, autore, tra l'altro, dell'opera Dell’arte istorica,
notevole saggio storico del primo Barocco italiano.
Anche altri suoi sette fratelli avevano abbracciato la vita religiosa, eccetto Carlo, erede del
casato e che fu come il padre Alberigo uomo di legge e sarebbe diventato segretario della
Repubblica di Genova.

168
Ho trovato ben poco nelle biblioteche italiane su di lui e altrettanto poco su internet, dove, anche su Wikipedia,
gli sono state dedicate pagine in spagnolo, inglese, francese, sardo (!) e bulgaro (!), comunque con pochi dati e
talora errati e superficiali, laddove una pagina in lingua italiana è stata aggiunta solo di recente. Le notizie che
riporto su di lui le ho ricavate soprattutto da Rosso, “Nicolò Mascardi..., cit.; Pizzardi, Brunone, Nicolò
Mascardi..., cit.; Furlong, Nicolás Mascardi..., cit.; Paolo Broggio (a c.), “Nicolò Mascardi”, Dizionario
Biografico degli Italiani Treccani, 71 (2008; http://www.treccani.it/enciclopedia/niccolo-mascardi_(Dizionario-
Biografico)/); Jorge Pinto Rodríguez, “Jesuitas, Franciscanos y Capuchinos italianos en la Araucanía (1600-
1900)”, Revista Complutense de Historia de América 19 (1993), pp. 109-147.
169
Il nome di Palena è stato dato da Nicolò Mascardi ad un fiume, ad un lago e ad un paese del Cile meridionale, al
confine con l'Argentina.

64
La famiglia si trasferì a Roma quando Mascardi era bambino, e lì entrò nel collegio della
Compagnia di Gesù, in cui, contro il parere di suo padre, chiese di essere accettato come novizio
nel 1638. Ebbe tra i suoi maestri il genovese Giovanni Paolo Oliva 170, futuro generale della
Compagnia (1664-1681), ma soprattutto fu allievo del matematico ed erudito tedesco Athanasius
Kircher171, con cui avrebbe conservato negli anni una fitta corrispondenza, nella quale fornisce
dettagliati resoconti della sua attività di esplorazione e di osservazione geografico-astronomica.
Già durante il periodo di studio Mascardi maturò la vocazione per le missioni in terre
lontane, come attesta una lettera del 1640 indirizzata al già citato generale dei gesuiti Muzio
Vitelleschi, ma ci volle, poco dopo, la visita a Roma dal Cile del missionario gesuita Alonso de
Ovalle a raccogliere proprio adesioni per la missione cilena a fornirgli l'occasione.
Dopo un periodo di preparazione e in attesa dell’autorizzazione da parte del generale della
Compagnia e di suo padre (che precedentemente aveva espresso il suo dissenso), la sua partenza
per il Nuovo Mondo ebbe luogo presumibilmente nel marzo 1647 da Genova, ma solo nel 1652
giunse in Cile.
Qui ben presto destò ammirazione per le sue qualità intellettuali e per questo motivo fu
proposto per l’insegnamento, ma Mascardi insistette per essere inviato nelle regioni di frontiera.
Fu infine assegnato alla residenza di Buena Esperanza, dipendente dal collegio di Concepción,
nel territorio degli Araucani, come gli Spagnoli chiamavano i Mapuche.
Apprese rapidamente le lingue locali, grazie alla sua straordinaria volontà unita alla
passione missionaria, e iniziò un’intensa opera di evangelizzazione delle varie popolazioni,
sparse su un territorio vastissimo.
Contemporaneamente, non tralasciò mai gli studi scientifici, che lo avevano già portato a
compiere osservazioni astronomiche durante il viaggio. In una sua missiva indirizzata, nel 1653,
a Kircher, il Mascardi descrisse, per esempio, un’eclissi di Luna osservata a Panama nel 1650 e il
passaggio di una cometa osservato in Cile il 15 dicembre 1652.

170
L'omonimia con il gesuita napoletano seguace di Blas Valera è solo un caso.
171
Il gesuita tedesco Athanasius Kircher (1601 o 1602-1680) fu un poliedrico studioso, scienziato e inventore, che si
è occupato di quasi tutto lo scibile dell'epoca, dalla matematica ai geroglifici all'astronomia, dalla storia alla fisica
e all'alchimia, sul solco della tradizione rinascimentale, per cui Joscelyn Godwin l'ha definito the last of
polymaths, in Athanasius Kircher. A Renassaince Man and the Quest for Lost Knowledge, Thames and Hudson,
London 1979, p. 5.

65
Durante l'importante ribellione mapuche del 1655, condotta dal capo Tinagucupu172,
Mascardi si offrì come mediatore di pace tra le autorità spagnole e i capi indigeni, ottenendo la
liberazione degli Spagnoli fatti prigionieri, ma anche condizioni favorevoli agli indigeni.
In seguito, probabilmente nel 1661, chiese e ottenne di essere inviato nell’arcipelago di
Chiloé, nell’oceano Pacifico, a poca distanza dalla costa meridionale del Cile, e quando la
residenza dei gesuiti a Castro, la principale città dell’isola, fu elevata a collegio, Mascardi ne
divenne il primo rettore.
Da Castro intraprese una serie di missioni itineranti che toccarono molte isole
dell’arcipelago, a diffondere il cristianesimo, ma anche a pacificare le discordie e a procedere
con le sue osservazioni di geografia fisica, meteorologia e astronomia.
Contattò diverse popolazioni che vivevano presso lo stretto di Magellano, i Guaitecas, i
Chonos, i Caucau.
Contemporaneamente, il governatore delle isole Juan Berdugo decise di lanciare offensive
militari contro i Puelches e i Poyas, stanziati sul versante orientale delle Ande e ritenuti complici
della rivolta mapuche. Molti indigeni fatti prigionieri furono deportati a Chiloé e Mascardi se ne
prese cura, imparando anche la loro lingua e ottenendo la liberazione di alcuni di loro a partire
dal 1665.
Un'altra molla che diede impulso a molte esplorazioni di Mascardi fu la ricerca della citata
Ciudad de los Césares, leggenda del genere dell'Eldorado viva sia tra gli Spagnoli sia tra gli
indigeni173, secondo cui sarebbe stata un'opulentissima città della Patagonia meridionale, nota
anche come Ciudad encantada de la Patagonia, Ciudad errante, Trapalanda, Trapananda, Lin

172
Da notare che i Mapuche, nel corso delle guerre contro gli Spagnoli, avevano affinato il loro modo di combattere,
trasformandosi in un'eccellente e micidiale cavalleria – da loro discendono i celebri gauchos –, e usavano, oltre
alle armi tradizionali quali la lancia, l'arco e le frecce e le famose e micidiali bolas, anche le sciabole importate
dagli Spagnoli stessi. Cfr. Pizzardi, Brunone, Nicolò Mascardi...cit., pp. 57-59 e pp. 155-7; cfr. anche Guillaume
Boccara, “Organisation sociale, guerre de captation et ethnogenèse: chez les Reche-Mapuche à l'époque
coloniale”, L'Homme 39, 150 (1999), pp. 85-117; Victor Manuel Gavilan, La Nación Mapuche. Puelmapu ka
Gulumapu, Ñuke Mapuförlaget, 2011, pp. 23-8 e passim.
173
La bibliografia è sterminata, non solo saggi, naturalmente, ma anche narrativa, soprattutto perché la Ciudad de
los Césares “sirve de pretexto en un grupo de novelas que recupera y reelabora este mito de herencia utópica
europea en el contexto poscolonial argentino y chileno. La Ciudad de los Césares de Manuel Rojas (Buenos
Aires, 1896 - Santiago de Chile, 1973) inaugura esta serie literaria”, come riporta Juan José Daneri in
“Elementos para reconsiderar la ciudad utópica de Manuel Rojas”, Anales De Literatura Chilena 12 (2009), p.
159.

66
Lin o Elelín, che sarebbe stata fondata da naufraghi e/o esiliati spagnoli assieme a profughi inca
nel XVI sec.
Nel 1669 Mascardi, accompagnato da alcuni Puelches, decise di mettersi in viaggio per
raggiungere la mitica città. Nel febbraio 1670 giunse sulle sponde del lago Nahuel Huapi,
nell’attuale Argentina, dove fondò una missione destinata ad avere una notevole importanza
nella storia dell’evangelizzazione della Patagonia.
Nel corso dei quattro anni successivi Mascardi organizzò altre quattro spedizioni alla
ricerca della Ciudad de los Césares, nei territori dei Poyas, all'epoca sconosciuti agli Europei,
costretto ad affrontare dure prove di resistenza fisica per le asperità del clima, le condizioni di
viaggio e una scarsa alimentazione.
Nell’ultima delle quattro spedizioni, compiuta tra il 1673 e il 1674, Mascardi fu
accompagnato da alcuni Poyas, tra i quali un capo di nome Manqueunai, suo fratello e un indio
di Chiloé. All’altezza del 47° parallelo sud la spedizione si imbatté in un gruppo di bellicosi
Tehuelches, che non si fecero convincere dai collaboratori indigeni circa le pacifiche intenzioni
di Mascardi e circa la bontà della dottrina da questo predicata.
Ucciso Manqueunai, i Tehuelches catturarono Mascardi e lo uccisero a colpi di lancia e di
pietre il 15 febbraio 1674.
Fermo restando il suo gran valore in quanto eploratore e scienziato, per i fini del presente
studio è da ribadire senz'altro il suo ruolo di difensore degli indigeni, ruolo che trovo molto
significativo come sia stato svolto ancora una volta da un missionario italiano, come i citati
Cumis e Oliva “complici” di Valera, in un'epoca in cui l'Italia continuava ad essere sotto il
dominio spagnolo come il territorio cileno in cui Mascardi ha operato.
E, come i gesuiti peruviani, anche Mascardi si è spesso confrontato e scontrato con le
autorità coloniali e religiose per difendere gli indios, per quanto in lui sia prevalso il ruolo di
mediatore più che del rivoluzionario.
In tal senso, trovo altrettanto significativo rilevare come l'eredità di Mascardi sia stata fatta
propria in seguito da altri missionari italiani, di cui ne voglio ricordare almeno due, l'uno vissuto
in tempi recenti, l'altro tuttora vivo e vitale, per quanto anziano.
Il primo è stato il missionario salesiano e ex garibaldino piemontese Giuseppe Fagnano
(1844-1916), o José Fagnano Vero, come era chiamato in Cile dove ha operato – anzi proprio
nella Patagonia già esplorata tempo prima da Mascardi –, il quale, rischiando spesso la vita, ha

67
cercato di difendere e proteggere i Mapuche e i Selk'nam durante le feroci spedizioni degli
eserciti cileno e argentino contro di loro negli ultimi 20 anni del XIX sec.174
I Selk'nam chiamavano Fagnano el capitán bueno175, appellativo meritatosi soprattutto
quando prese parte alla spedizione guidata dal famigerato Ramón Lista nel 1886 alla Tierra del
Fuego, durante la quale rischiò di essere fucilato per ordine di Lista stesso per aver tentato di
opporsi e poi di denunciare il massacro di San Sebastián, avvenuto il 25 novembre dello stesso
anno: Lista aveva ordinato di assassinare a sangue freddo un gruppo di Selk'nam inermi e
pacifici, compresi donne e bambini, che si erano infelicemente imbattuti nei militari argentini.
Non è ozioso ricordare in inciso, oltre Ramón Lista, almeno altri due famigerati
protagonisti del genocidio dei Selk'nam negli stessi anni in cui Fagnano ha tentato di opporvisi:
lo scozzese Alexander McLennan (1871-1917), detto il chancho colorado, evidentemente per i
suoi capelli rossi, il quale, in quanto soprastante della Estancia Primera Argentina, prima grande
hacienda dell'imprenditore José María Menéndez Menéndez nella Tierra del Fuego, si rese
responsabile, tra l'altro, dell'eccidio a tradimento di un'intera tribù selk'nam che aveva invitato a
un banchetto e fatto ubriacare di proposito. Pare che prima di trasferirsi in Argentina abbia
vissuto in Nuova Zelanda dove avesse partecipato agli eccidi dei Maori.
Inoltre è senz'altro degno di essere citato Julius Popper (1857-1893), avventuriero nato a
Bucarest da una famiglia yiddish, sia pure convertito al cristianesimo ortodosso, tra i più zelanti
cazadores de indios nella Tierra del Fuego e sicuramente il più vanitoso, visto che ha lasciato un
importante album di foto in cui sono registrati i suoi misfatti, di grande valore storico e
antropologico, ma sicuramente di estrema tristezza176.
174
Sulle campagne militari cilene e argentine, ho già citato la famigerata Conquista del Desierto e l'opera di Osvaldo
Bayer a essa, e non solo, dedicata (cfr. supra).
175
Cfr. Eugenio Pennati: Monseñor José Fagnano: el capitán bueno, Editorial Salesiana, Santiago 1983.
176
È altrettanto triste ricordare come mezzo secolo dopo la sua comunque precoce morte, la gente yiddish come lui
abbia pure subito un genocidio terribile come quello subito dai Selk'nam a cui Popper aveva partecipato
attivamente. Certo, il genocidio dei Selk'nam è molto meno commemorato, in fondo si trattava di indios (mi si
permetta il salace sarcasmo)! La bibliografia è sterminata, mi limito piuttosto a citare un paio di opere letterarie
dedicate all'argomento: Rastros del guanaco blanco, romanzo del famoso scrittore cileno Francisco Coloane
(1910-2002), pubblicato per la prima volta nel 1980 (7 Zag, Santiago de Chile 1980), in seguito rivisto e
ripubblicato con il titolo significativo Cazadores de indios (Alfaguara, Santiago de Chile 2010); El corazón a
contraluz (Emece Editores, Buenos Aires 1996), del altrettanto famoso scrittore e anche cantautore cileno
Patricio Manns, esponente della Nueva Canción Chilena – gli Inti-Illimani hanno dedicato a questo libro un
pezzo strumentale omonimo, contenuto nel loro album Inti-Illimani sinfónico (1999) –, ispirato proprio alla figura
di Julius Popper, comparata a quella della giovane sciamana selk'nam Drimys Winteri. Su questo libro è stato

68
Il secondo erede della tradizione dei missionari italiani difensori degli indios che voglio
ricordare è l'invero già citato missionario saveriano padre Angelo Pansa, nato a Mozzo in
provincia di Bergamo nel 1931, quasi 50 anni spesi nella missione e sempre in prima linea, in
Congo prima che in Brasile, dove è stato spesso oggetto di attentati e minacce di morte per
essersi messo contro tutti i soggetti che hanno nel tempo minacciato e continuano a minacciare
gli indios dell'Amazzonia e l'Amazzonia stessa – ha operato negli stati di Mato Grosso e Pará –,
soprattutto i fazendeiros e le multinazionali farmaceutiche colluse con le autorità brasiliane177.
Una storia che continua, insomma.
Così come è continuata a lungo e, per molti aspetti, continua tuttora la repressione e la
manipolazione della voce indigena, che trovo come siano state incarnate emblematicamente dalla
vicenda e dalla figura di Jacinto Collahuazo.

scritto che: “El corazón a contraluz es la novela que simboliza un cruce entre el mundo histórico (de la
civilización europea en la Patagonia) y el mundo fantástico (de la cultura aborigen en la Patagonia). Diversas
dimensiones literarias (simétricas, espaciales) se entrelazan, creando la historia del migrante en el mundo
aborigen de la Patagonia. El autor trabaja la ficción mágica en hechos auténticos de la historia patagónica,
creando una suerte de género literario que podríamos llamar novela de fanhistoria. La investigación muestra
cómo el elemento fantástico apunta a hechos de la historia (en general) y la forma en que se presenta al lector,
creando una visión única del suceso, donde lo mágico y lo histórico forman un todo”, in Mabel Arratia, “El reino
de la sombra en El corazón a contraluz de Patricio Manns”, Literatura y Lingüística 16 (2005), p. 87. Infine,
ricordo anche il film cileno in coproduzione italiana e spagnola Tierra del Fuego, di Miguel Littin (2000), su
soggetto tratto dal romanzo di Coloane citato nonché dal diario di Popper, sviluppato da Luis Sepúlveda e Tonino
Guerra, oltre che da Miguel Littin stesso.
177
Cfr. supra e “Una vita in prima linea con gli indios del’Amazzonia. Prima che il cielo ci cada addosso”, intervista
a padre Angelo Pansa pubblicata su MISSIONDUEMILA, inserto mensile del settimanale diocesano La Nostra
Domenica, 12 febbraio 1995; Luciano Scalettari, “Il missionario dell'oca selvaggia”, Jesus 11 (2003;
http://www.stpauls.it/jesus03/0311je/0311je68.htm); Antonio Nicola Pezzuto, “Un eroe vero e sconosciuto”,
newcitizenpress.com, 20/7/2010. Ho conosciuto personalmente Padre Angelo Pansa in occasione dell’incontro e
della mostra di quadri (di Elisabeth Ruchti) “Ama Amazonas” organizzato da Casa America a Villa Rosazza il
24/2/2010, con il contributo e la presentazione della Prof.ssa Amina Di Munno. Padre Pansa aveva già
partecipato nei giorni precedenti, il 21 gennaio, a una conferenza tenutasi presso la Sala Chierici della Biblioteca
Berio intitolata “Amazzonia arrosto”, nel cui depliant informativo è presentato come “missionario Saveriano,
conosciuto nel mondo per avere ripiantato 200.000 alberi ed essere stato, più volte, oggetto di minacce di morte
per avere difeso gli Indios dai misfatti ambientali delle multinazionali che distruggono l’Amazzonia.”. Ho
mantenuto per un certo tempo i contatti con lui, in seguito interrottisi: sono rimasto alla notizia che le autorità
religiose non gli permettevano più di tornare in Brasile dove aveva subito serie minacce di morte. Ma lui
continuava la sua protesta e la sua denuncia dall'Italia.

69
Jacinto Collahuazo o Collahuaso, nato intorno al 1670 e vissuto fino agli 80 anni circa
d'età, era un indio puro anche lui come Felipe Guaman Poma de Ayala, e fu curaca della
comunità quichua di Ibarra, nel nord dell'attuale Ecuador, nell'allora Virreinato del Perú, a
cavallo tra l'ultima epoca della dinastia Asburgo e i primi tempi della dinastia borbonica.
È considerato il primo cronista ecuatoriano, per giunta indigeno, per quanto non mi consta
che in Ecuador abbia conosciuto la stessa esaltazione nazionalista che ha caratterizzato il nome
di Felipe Guaman Poma de Ayala in Perù. Sicuramente ciò è dovuto al fatto che l'opera di
Collahuazo non è giunta di fatto sino a noi, se non frammentariamente, confluita nella Historia
del Reino de Quito del padre gesuita – un altro gesuita! – Juan de Velasco, il quale, peraltro, ha
pubblicato la sua opera in esilio in Italia, per la precisione a Faenza178.
Velasco ha scritto di Collahuazo:

Conocí [..] a don Jacinto Collahuazo, indiano cacique en la jurisdicción de Ibarra, en la edad de
ochenta años, de grande juicio y de singulares talentos. Había escrito cuando mozo una
bellísima obra intitulada Las guerras civiles del Inca Atahualpa con su hermano Atoco, llamado
comúnmente Huascar Inca. Fue delatado por ella el corregidor de aquella provincia, el cual por
indiscreto y arrebatado celo, no solo quemó aquella obra, y todos los papeles del cacique, sino
que lo tuvo algún tiempo en la cárcel pública, para el escarmiento de que los indianos no se
atreviesen a tratar esas materias179.

178
Juan de Velasco y Pérez Petroche (Riobamba, 6 gennaio 1727 – Faenza, 29 giugno 1792) fu un sacerdote gesuita
e soprattutto un uomo di lettere. Dopo il decreto di espulsione dei gesuiti dall'impero spagnolo promulgato da
Carlos III il 27 febbraio 1767 (ai gesuiti di Quito notificato il 16 agosto dello stesso anno) e in seguito a un
viaggio avventuroso assieme agli altri esuli gesuiti di Quito, si stabilì in Italia, a Faenza appunto, dove godette
dell'amicizia del marchese Alessandro Ghini, protettore degli ex gesuiti, e così poté continuare le sue ricerche e
pubblicare, tra le altre, la sua opera più importante, la citata Historia del Reino de Quito en la América (1789).
Cfr. Alfredo Pareja Díez-Canseco, prologo e cronologia a Juan de Velasco, Historia del reino de Quito,
Biblioteca Ayacucho, Caracas 1981. È esaltato, lui sì, in Ecuador, tra i fondatori della coscienza nazionale
ecuatoriana. Ma la ricerca archeologica recente ha stabilito che il Regno di Quito, entità statale che secondo Padre
Juan de Velasco sarebbe esistita in Ecuador prima della conquista inca, in realtà è una leggenda. Cfr. Ernesto
Salazar, Entre mitos y fábulas: el Ecuador aborigen, Corporación Editora Nacional, Quito 2000, specie pp. 48
segg.; Rosa Elena Yépez, Identidad y pertenencia, Corporación Editora Nacional, Quito 2006, specie pp. 37 segg.
179
Juan de Velasco, Historia del Reino de Quito. Historia natural, Biblioteca Ecuatoriana Mínima, Quito 1961, p.
345, citato dallo scrittore e critico letterario quiteño Hernán Rodríguez Castelo nella sua Historia de la literatura
ecuatoriana, in particolare nel cap. I dedicato alla Literatura precolombina (Editorial Ariel, Guayaquil 1974)
pubblicato sul suo sito (http://www.hernanrodriguezcastelo.com/literatura_precolombina.htm#_ftn43).

70
L'opera giovanile di Collahuazo, infatti, la Historia de los Incas del Perú, fu censurata e
distrutta per ordine del corregidor spagnolo di Ibarra che probabilmente era José Crispiniano
García de Nájera180 e l’autore subì il carcere per aver osato trattare una materia proibita agli
indigeni: la relazione dei fatti storici dal loro punto di vista!
Si è già visto, del resto, che cosa era successo non troppi decenni prima a Blas Valera e
quali erano state le reazioni delle autorità spagnole alla sua attività sovversiva, così come si sa
come nell'impero spagnolo era portata avanti una politica di annientamento, acculturamento e
omologazione delle “minoranze”, come i moriscos musulmani, i marranos ebrei, i gitanos,
ribattezzati Nuevos Castellanos, nonché appunto gli indios, che sino ai tempi odierni, del resto,
hanno continuato a soffrire vari tentativi di genocidio culturale e non solo.
Solo molto più tardi, intorno all'età di ottanta anni circa – e sicuramente prima dell'agosto
del 1767 –, Collahuazo poté riscrivere una versione ridotta della sua opera, il cui nuovo titolo,
Las guerras civiles del Inca Atahualpa con su hermano Atoco, llamado comúnmente Huascar
Inca, allude alla guerra fratricida tra i due fratelli Inca.
E questa è l'opera che Collahuazo avrebbe consegnato a padre Velasco, il suo
confessore181, il quale del resto la rielaborò a suo piacimento.
Peraltro, una tradizione che pare accreditata dall'intellettuale e politico di Ambato Juan
León Mera (1832-1894), autore dell'inno nazionale ecuatoriano e del celebre romanzo
indianista182 Cumandá (1877), vuole che Jacintro Collahuazo sia stato l'autore anche del poema
Atahuallpa Huañuy, noto anche come Rucu cuscungu dal primo verso in originale quichua,
considerato l'opera di poesia lirica più importante della letteratura in questa importante lingua
indigena andina.
Si tratta invero di un'attribuzione controversa: Mera, nel corso delle ricerche culminate
nella pubblicazione del saggio Ojeada Histórico-Crítica de la Poesía Ecuatoriana desde sus
tiempos más remotos hasta nuestros días (1868), dove è pubblicato per la prima volta il poema,
aveva stretto amicizia con il cuencano Luis Cordero, curaca quichua di Alangasí e autore della

180
L'identificazione non è certa, ma probabile. Cfr. http://www.buenastareas.com/ensayos/Informe/5262597.html.
181
Cfr. Pedro Fermín Cevallos, Resumen de la Historia de Ecuador, Biblioteca Ecuatoriana Mínima, Quito 1960, p.
204. Mi chiedo se il manoscritto di Collahuazo Velasco l'abbia portato con sé a Faenza, dove magari alberga
tuttora in qualche oscuro archivio appartenuto alla famiglia Ghini, oppure, più probabilmente, sia andato perduto
durante la sua espulsione dal Virreinato del Perú.
182
Cfr. infra.

71
prima trascrizione dell'Atahuallpa Huañuy, che gli sarebbe stato recitato oralmente da un anziano
indigeno.
Cordero, dopo averne abbozzato una prima traduzione, fece conoscere il poema a Mera,
che ne perfezionò la traduzione in spagnolo con il titolo Elegía a la muerte de Atahualpa, forse
accreditandone la paternità a Jacinto Collahuazo, ma senza vere prove183.
Invero, la studiosa statunitense Regina Harrison ha ipotizzato che, dato l'uso nel poema di
una terminologia propria del genere del lamento delle donne quichua, l'autrice o forse meglio le
autrici sarebbero state appunto delle donne quichua del XVIII184.
E un altro studioso statunitense, John M. Schechter, ha rilevato come i versi di questo
poema siano tuttora cantati nei funerali tra i Quichua della regione del monte Cotacachi, tra
Otavalo e Ibarra, nel nord dell'Ecuador, peraltro regione d'origine di Jacinto Collahuazo185.
Del resto, questa attribuzione quanto meno dubbia aiuta a intendere ancora una volta come
la cultura indigena sia stata strumentalizzata dagli intellettuali mestizo-criollos, classe dirigente
degli stati latinoamericani sorti dalla decolonizzazione, onde distinguere la nuova cultura
nazionale da quella d'epoca coloniale, laddove ciò non ha certo significato un miglioramento
delle condizioni sociali degli indigeni.
L'opera di Jacinto Collahuazo era di un autore indigeno per cui la triste sorte dell'Inca
Atahuallpa fu il simbolo della distruzione della sua identità nazionale e della cultura
quichua/quechua da parte dei conquistadores, istanza propria anche del poema Atahuallpa
Huañuy a lui attribuito, certamente, ma il suo scopo non era senz'altro quello di esaltare
l'Ecuador di Mera, che all'epoca di Collahuazo nemmeno esisteva, o il fantomatico Reino de

183
Cfr. Fernando Mayorga G., “Notas marginales sobre el poema Atahualpa Huañui”, 4/11/2010 (http://scriptorum-
guayaquilensis.blogspot.it/2010/11/notas-marginales-sobre-el-poema-atahu.html), secondo cui non fu comunque
Mera a effettuare detta attribuzione. Cfr. Juan León Mera, Ojeada histórico-crítica de la poesía ecuatoriana,
Imprenta y litografía de José Cunill Sala, Barcelona 1893, p. 17, dove in effetti si parla di Jacinto Collahuazo, ma
senza un chiaro riferimento all'Atahuallpa Huañuy, che pure è trattato subito dopo.
184
Cfr. Regina Harrison, Entre el tronar épico y el llanto elegíaco: simbología indígena en la poesía ecuatoriana de
los siglos XIX-XX, Abya-Yala, Universidad Andina Simón Bolívar, Quito 1996, specie pp. 164 segg.; Id., Signs,
Songs, and Memory in the Andes: Translating Quechua Language and Culture, University of Texas Press, Austin
1989, passim.
185
John M. Schechter, “Themes in Latin American Music Culture”, in John M. Schechter (a c.), Music in Latin
American Culture: Regional Traditions, Schirmer, New York 1999, pp. 11-15. Cfr. John M. Schechter,
Guillermo Delgado (a c.), Quechua Verbal Artistry: The Inscription of Andean Voices / Arte Expresivo Quechua:
La Inscripción de Voces Andinas, Shaker, Bonn 2004, passim.

72
Quito di Velasco, semmai era più simile a quello di Blas Valera, prima di lui, e di Túpac Amaru
II, poco dopo di lui186: la rinascita del Tahuantinsuyu.
A concludere questa rassegna soggettiva e in quanto tale senz'altro parziale, ma, credo,
significativa dei precursori dell'indigenismo inteso come corriente de opinión favorable a los
indios, sempre sul solco dello studio citato di Favre, torno indietro nel tempo, al XVI secolo, e
mi sposto sulle coste dell'attuale Brasile contese da Portoghesi e Francesi, per trattare una serie
di personaggi che, come anticipato, hanno lasciato un segno indelebile nella storia dello scontro-
incontro tra invasori europei, os intrusos no paraíso, per dirla con lo scrittore brasiliano Antônio

186
Túpac Amaru II, come volle significativamente intitolarsi José Gabriel Condorcanqui Noguera, marchese di
Oropesa (1738-1781), dal nome dell'ultimo citato Sapa Inca di Vilcabamba Túpac Amaru I, è considerato il
precursore degli eroi dell'indipendenza latinoamericana dalla Spagna, quali Miranda, Bolívar e San Martín. In
realtà fu piuttosto il continuatore del Taki Unquy e degli Inca di Vilcabamba, appunto, di Blas Valera stesso e in
genere del progetto dei gesuiti fino alla rivolta capeggiata soprattutto nelle Ande orientali da Juan Santos
Atahualpa Apu Inca nel 1742, una trentina d'anni prima di quella di Túpac Amaru II, svoltasi nella regione di
Cusco, peraltro appoggiata da quelle guidate da altri leader indigeni coevi quali Tomás Catari nella regione di
Potosí e Túpac Katari nell'attuale Bolivia. Notevoli anche le figure delle consorti di questi leader, anch'esse leader
guerriere, ad affermare un'idea di femminiltà decisamente diversa rispetto a quella imposta dalla cultura spagnola
e cattolica: Micaela Bastidas, moglie di Túpac Amaru II, Bartolina Sisa, moglie di Túpac Katari – a cui la
cantante e ex ambasciatrice boliviana in Francia Luzmila Carpio ha dedicato una stupenda canzone cantata in
quechua e aymara –, Kurusa Yawri, moglie di Tomás Catari. A differenza dei libertadores, peraltro, Túpac
Amaru II aveva imposto l'abolizione della schiavitù e il ripristino del “comunismo primitvo” incaico – il sistema
dei qullqa, magazzini di cibo destinato a tutta la popolazione senza distinzioni, istituito dal Sapa Inca Pachacútec
–, in contrasto con lo schiavismo, il latifondo e il liberalismo borghese della classe criollo-mestiza che s'imposero
negli stati postcoloniali. In effetti i libertadores non seguirono certo il modello di Túpac Amaru II, semmai quello
delle ideologie borghesi di stampo liberal-massonico impostesi in Europa in seguito alla rivoluzione francese e
all'era napoleonica, un modello comunque europeo e che quindi, applicato alle ex colonie spagnole, sapeva
sempre di colonialismo. Cfr. Sergio Serulnikov, Revolución en los Andes: La era de Túpac Amaru, Penguin
Random House Grupo Editorial, Buenos Aires 2012; Scarlett O'Phelan Godoy, Un siglo de rebeliones
anticoloniales. Perú y Bolivia 1700-1783, IFEA, IEP, Lima 2012; David Cahill, “Violencia, represion y rebelión
en el sur andino: la sublevación de Túpac Amaru y sus consecuencias”, IEP 105 (1999), pp. 5-20; Boleslao
Lewin, Tupac Amarú, Elaleph.com, Buenos Aires 1999. E, in genere, José Carlos Mariátegui, Siete ensayos de
interpretación de la realidad peruana, Biblioteca Amauta, Lima 2005 [1928], pp. 20 segg. Cfr. anche Vitor
Gomes Pinto, Guerra en los Andes, Abya-Yala, Quito 2005, p. 23, il quale fa notare che la guerra d'indipendenza
dalla Spagna in Sudamerica “fue una guerra fraticida que durante cuarenta años no tuvo como víctimas a los
españoles y sí a los nacionales que se mataron entre ellos hasta que la independencia resultasse en un conjunto
de países literalmente destruidos y reducidos a una población de mujeres, niños y viejos, pues la mayor parte de
la juventud y de los hombres fisicamente capacitados había desaparecido en las batallas”.

73
Torres187, e i popoli originari: Hans Staden, Jean de Léry, André Thevet, Ulrich Schmidl e
Anthony Knivet, a cui supra ho attribuito nientemeno che l'invenzione del mito del Buon
Selvaggio, ma che ho anche segnalato in quanto oggetto di strumentalizzazioni politiche
soprattutto nel contesto delle guerre di religione e della propaganda contro l'impero spagnolo,
all'origine di un certo indigenismo tuttora vitale.
Durante tutto il corso del secolo citato non furono certo pochi gli avventurieri europei che,
aspirando soprattutto a diventare facilmente ricchi188, visitarono le coste del Sudamerica, in
particolare quelle di Pindorama, il “Paese delle Palme”, come gli indigeni di lingua tupí-guaraní
chiamavano il loro territorio ribattezzato Brasil189 dai Portoghesi che dal 1500190 lo stavano

187
Meu Querido Canibal, Record, Rio de Janeiro-São Paulo 2000, p. 8. Il libro di Torres è una straordinaria
ricostruzione della disputa del territorio brasiliano tra Portoghesi e Francesi da un punto di vista il più possibile
indigeno, sentito e vissuto però come punto di vista genuino brasiliano contemporaneo.
188
Cfr. Leveratto, La ricerca dell'Eldorado...cit., passim.
189
Circa l'origine del nome Brasil, con cui i Portoghesi (dal nome del pau brasil, un albero dal legname pregiato
rosso come la brasa, cioè la brace) finirono per indicare la porzione orientale del territorio sudamericano
riconosciuto a El-Rey João II di Portogallo dal trattato di Tordesillas del 7 giugno del 1494 – inizialmente
l'avevano battezzata Ilha de Vera Cruz e poi Terra de Santa Cruz –, c'è un dibattito in corso, probabilmente
irrisolvibile, ma il fatto certo è che questo nome s'incrocia in qualche modo con la tradizione irlandese, in cui è
registrata l'esistenza di una mitica isola atlantica Hy Brazil o Insula Brasilis, confluita nella cartografia medievale
a partire dalla leggenda di San Brandano. Infatti questo nome compare per esempio nel Portulano Mediceo
Laurenziano del 1351 – prodotto da un anonimo cartografo genovese probabilmente dopo la spedizione alle
Canarie condotta nel 1341 dal capitano fiorentino Angiolino del Tegghia de Corbizzi insieme al capitano
genovese Nicoloso da Recco per conto di re Afonso IV del Portogallo – a indicare, secondo un'ipotesi, l'isola
Terceira delle Azzorre, inoltre, forse con lo stesso scopo, compare nella mappa del cartografo veneziano Zuane
Pizzigano (1424), la prima tra l'altro a citare le isole Antille, quelle mitiche, che più tardi hanno dato nome a
quelle attuali. Cfr. Barbara Freitag, Hy Brasil: the metamorphosis of an island: from cartographic error to Celtic
Elysium, Rodopi, Amsterdam 2013; Sean Lynch, “Preliminary Sketches for the Reappearance of HyBrazil”,
Utopian Studies 21, 1 (2010), pp. 5-15.
190
A partire dalla celebre spedizione comandata da Pedro Álvares Cabral, il quale ufficialmente era diretto in India,
ma aveva anche l'ordine di far valere i diritti portoghesi sanciti dal citato trattato di Tordesillas, per cui sbarcò
nell'attuale Bahia meridionale, la terra do descobrimento, il 22 aprile del 1500. Invero, sembra che negli anni
precedenti la costa brasiliana fosse già stata visitata e rivendicata da altri navigatori europei: prima di Colombo,
cioè nel 1488, il francese Jean Cousin, sulla base delle cui mappe si fondarono in seguito le pretese francesi sul
territorio, i portoghesi Pedro Vaz da Cunha e João Fernandes de Andrade addirittura l'anno prima, João Coelho
da Porta da Cruz nel 1493 e 1494 e Duarte Pacheco Pereira nel 1498, ma soprattutto gli spagnoli Vicente Yáñez
Pinzón, che aveva accompagnato Colombo nel suo primo viaggio in quanto comandante de La Niña e che
avrebbe raggiunto e rivendicato alla Spagna l'attuale costa nordorientale brasiliana il 26 gennaio del 1500 – a

74
colonizzando in concorrenza con i Francesi che invece ribattezzarono questo vasto territorio
France Antarctique191. E non furono pochi nemmeno quanti trassero dalla loro esperienza
un’opera letteraria. Il primo fu Hans Staden, un tedesco di Homberg 192, nell’allora contea di
Hessen, che fu prigioniero per oltre nove mesi dei Tupinambá 193 nell’attuale litorale dello Stato
di Rio de Janeiro, nel 1554, sotto la minaccia costante di essere mangiato durante uno dei loro
rituali antropofagici.

Cabo de Santo Agostinho, nello stato di Pernambuco, lo onorano come il vero scopritore del Brasile –, nonché
suo cugino Diego de Lepe che sarebbe giunto anche lui nella costa nordorientale brasiliana con lo stesso scopo
nel marzo del 1500, poco prima di Cabral, quindi. Cfr. Rodolfo Espínola, Vicente Pinzón e a descoberta do
Brasil, Topbooks, Rio de Janeiro 2001.
191
Cfr. infra.
192
Cfr. Leveratto, La ricerca dell'Eldorado...cit., pp. 121-3 in relazione agli esploratori e avventurieri tedeschi del
XVI sec.
193
I Tupinambá furono una delle principali nazioni indigene della costa brasiliana durante il XVI sec., alleati dei
Francesi contro i Portoghesi, che, a loro volta, si allearono con i Tupiniquim, nemici tradizionali dei Tupinambá.
Entrambe le nazioni ottennero, però, dal contatto e dalle guerre con e per gli europei il rischio di estinzione totale,
soprattutto proprio i Tupinambá, già considerati estinti, laddove, dal 2002, la citata FUNAI ha riconosciuto come
loro discendenti i cosiddetti Tupinambá di Olivença, località poco a sud di Ilhéus, la città che fu teatro di varie
opere di Jorge Amado e dove si trova la Casa da Cultura a lui intitolata, nel sud della Bahia. I Tupinambá di
Olivença, circa 3000 individui, sono tuttora in contrasto con le autorità brasiliane e con i fazenderos locali nella
rivendicazione dei loro diritti territoriali. Nel 2000 ho visitato la Reserva Pataxó da Jaqueira, ancora più a sud, in
particolare poco a sud di Porto Seguro, dove si trova anche la citata terra do descobrimento e il monte Pascoal,
così battezzato proprio da Cabral quando sbarcò nella regione nei giorni di pasqua del 1500. I Pataxó, che
detengono quindi il non proprio felice record di essere stati i primi indigeni brasiliani ad aver contattato i
colonizzatori portoghesi – fatte salve le opposizioni a cui si è accennato supra –, erano riusciti a ottenere dalle
autorità brasiliane solo due anni prima il diritto a costituire questa riserva con lo scopo di “resgatar o modo
tradicional de viver, as histórias, os rituais e preservar a floresta” (http://www.pataxoturismo.com.br/index.php?
option=com_content&view=article&id=91:reserva-da-jaqueira&catid=38:alternativos&Itemid=76). Ricordo
inoltre come i proprietari del residence in cui avevo soggiornato, vicino alla riserva, avevano raccontato a me e
agli altri ospiti di come avevano da poco ricevuto delle pesanti minacce da parte dei pistoleiros di un locale
coronel, cioè un fazendeiro. A conferma di quanto le tensioni che vivono le genti indigene e non solo, nell'area e
in Brasile in genere, siano davvero molto serie. In quello stesso anno, peraltro, si erano celebrati in pompa magna,
il 22 aprile, i 500 anni della scoperta del Brasile, evento durante il quale gli indigeni hanno manifestato
massicciamente la loro protesta e le loro rivendicazioni, soprattutto proprio nella terra do descubrimento e a
Porto Seguro, soffrendo una durissima reazione repressiva da parte della polizia. Cfr. il reportage dedicato
all'evento dalla testata Folha de São Paulo: http://www1.folha.uol.com.br/fol/brasil500/reportagens.htm.

75
Una volta riuscito a tornare nella sua terra d'origine, grazie all'aiuto dei Francesi, scrisse
quello che probabilmente fu il primo best-seller sul Nuovo Mondo, dal titolo lunghissimo e
altisonante: Die wahrhaftige Historia und Beschreibung eyner Landtschafft der Wilden, Nackten,
Grimmigen Menschenfresser Leuthen in der Newenwelt America gelegen vor und nach Christi
geburt im Land zu Hessen unbekannt biß uff diese II nechstvergangene jar Da sie Hans Staden
von Homberg auß Hessen durch sein eygen erfahrung erkant und yetzd durch den truck an tag
gibt194, pubblicato originalmente nel 1557 a Marburg dall’editore Andres Colben e dedicato al
Landgraf Heinrich Philipsen di Hessen, meglio noto con il nome dinastico di Filippo I 195,
secondo la consuetudine dell'epoca di rendere omaggio ai vari signori di riferimento.
In esso Staden racconta come, al suo secondo viaggio in Brasile in quanto mercenario in
una nave spagnola, abbia naufragato al largo della costa brasiliana e sia stato salvato dai
Portoghesi, i quali lo arruolarono come esperto artigliere presso il forte di São João da Bertioga,
lungo l'attuale litorale di São Paulo.
Una voltà che uscì imprudentemente dal forte alla ricerca di un suo schiavo indigeno che
invero era sato assassinato da suoi compagni d'arme portoghesi, fu catturato da parte di due capi
tupinambá chiamati Ye-pipo-guaçu e Aracundá mirim (Ieppipo Wasu e Alkindar Miri, come
sono riportati nel suo libro), in seguito fu regalato a un altro capo tupinambá, zio di uno dei
precedenti, dall'inquietante nome Ipirú-guaçu (Ipperu Wasu), cioè “Grande squalo”.
Oltre a minacciarlo di divorarlo in ogni istante, i Tupinambá lo facevano assistere ai loro
banchetti cannibali, per esempio quello di un loro nemico di un'altra tribù, i Maracajá, con cui
Hans Staden racconta che poté conversare prima della sua esecuzione, trovandolo tutto sommato
tranquillo e in sintonia con il rito di cui stava per essere vittima e protagonista: dopotutto
apparteneva alla stessa cultura dei Tupinambá e per lui era un onore essere mangiato196.
Riuscì a convincere i Tupinambá a non mangiarlo anche ispirando loro il dubbio che non
fosse un perot, cioè un portoghese, bensì un mair, un alleato francese, inganno sicuramente
favorito dal fatto che aveva la pelle molto chiara e una folta barba bionda, a differenza dei
194
Tradotto in portoghese con il titolo: História Verdadeira e Descrição de uma Terra de Selvagens, Nus e Cruéis
Comedores de Seres Humanos, Situada no Novo Mundo da América, Desconhecida antes e depois de Jesus
Cristo nas Terras de Hessen até os Dois Últimos Anos, Visto que Hans Staden, de Homberg, em Hessen, a
Conheceu por Experiência Própria e agora a Traz a Público com essa Impressão. Tra le numerose edizioni
disponibili, mi sono servito in particolare di una recente, brasiliana, dal titolo ridimensionato: Hans Staden, Duas
Viagens ao Brasil, Beca Produções, São Paulo 2000.
195
Detto der Großmütige, cioè il Magnanimo (1504-1567).
196
Cfr. infra.

76
Portoghesi, ma che a un certo punto fu compromesso da un amico francese dei Tupinambá, che
lo chiamavano Karwattuware197, il quale giunse in visita al villaggio e che in un primo tempo
smentì Hans Staden. Dopo altri incontri altrettanto infelici con mercanti europei che
frequentavano i Tupinambá, Staden infine riuscì a imbarcarsi nella nave francese Catherine de
Vatteville – o Katarina de Vattauilla, come la chiama nel suo libro, germanizzandone il nome –,
al comando di Guillaume de Moner, Wilhelm de Moner nel libro di Staden.
L'avventuriero tedesco attribuisce alle sue preghiere continue e a Dio 198 il merito della sua
salvezza, ma degli specialisti hanno fatto notare piuttosto che i Tupinambá avrebbero evitato di
mangiarlo in quanto parve loro un ignavo, la cui carne era indegna di essere ingerita da parte di
un guerriero tupinambá199.
Aggiungerei che sicuramente lo ha aiutato il fatto di conoscere molto bene la lingua tupí-
guaraní, già prima di essere catturato.
Comunque riuscì a tornare sano e salvo in Europa.

197
Così è riportato il nome nel libro di Staden, più correttamente Karauatáwara, che significa semplicemente
“mangiatore di gravatá”, una pianta tipica brasiliana (Vriesea carinata Wawra) della famiglia delle bromeliaceae,
oggi a rischio di estinzione. Sarebbe interessante capire se per i Tupinambá fosse un nome ordinario, che magari
storpiava l'originale francese, il quale ultimo Staden non riporta evidentemente per non averlo mai conosciuto,
oppure fosse una sorta di soprannome scherzoso indicativo dell'origine francese del loro alleato. Interessante
inoltre il fatto che i due europei usassero la lingua e i nomi tupí per comunicare tra loro, visto che nessuno dei due
conosceva evidentemente la rispettiva lingua.
198
Nel suo libro, Staden riporta meticolosamente tutte le preghiere e le orazioni che avrebbe recitato in tutti i vari
momenti della sua cattività.
199
Lo dimostrerebbe soprattutto il fatto che il suo padrone, il citato Ipirú-guaçu, lo trattava come un animale
domestico – che remimbab in lingua tupí – e lo portava in giro al guinzaglio come un cane. Cfr. Neil L.
Whitehead, “Hans Staden and the Cultural Politics of Cannibalism”, Hispanic American Historical Review 80, 4
(2000), pp. 721-751; Carlos Adriano Ferreira de Lima, Quando nós somos os outros: Hans Staden e a cultura
histórica, Universidade Federal da Paraíba, João Pessoa 2008, passim. Cfr. infra. Nel recentissimo filme de
animação brasiliano Uma História de Amor e Fúria (2013), scritto e diretto da Luiz Bolognesi, nella prima parte
ambientato all'epoca della cacciata dei Francesi da parte dei Portoghesi dall'attuale Rio de Janeiro, con tutte le
conseguenze negative che soffrirono anche i Tupinambá, si accredita evidentemente questa lettura dei costumi
antropofagici degli indigeni brasiliani, nel momento in cui si fa riferimento al fatto che i pajé – cioè gli sciamani
o ancor meglio gli interpreti spirituali – tupinambá consigliavano alla loro gente, onde alimentare il loro spirito,
di mangiare solo la carne dei loro nemici tradizionali Tupiniquim, valenti guerrieri come loro, mentre, se avessero
mangiato la carne dei Portoghesi, avrebbero alimentato Anhangá, nome con cui le etnie tupí indicavano gli spiriti
malefici proteiformi che tormentavano i viventi, usato dai gesuiti, non a caso, per tradurre il concetto di diavolo.

77
Quando volle pubblicare il suo libro, è degno di nota il fatto che lo volle far precedere da
una prefazione del Prof. Johannes Dryander, nome umanista del medico, matematico e
astronomo Johann Eichmann (1500-1560), indirizzata direttamente al Landgraf come
certificazione di veridicità dei contenuti del libro stesso.
Questo evidentemente perché Staden sapeva bene che in Europa, all'epoca, ma anche
prima200, circolavano sin troppi resoconti di viaggi esotici fantastici e immaginari ricchi di
menzogne e assurdità varie. Anzi, era un vero e proprio genere letterario molto diffuso e tutto
sommato apprezzato, che infatti fu oggetto di satira da parte di François Rabelais, allorché creò
appositamente il personaggio di Ouï-dire che racconta a un popolo di creduloni le sue assurdità
sul pays de Satin dans l'île de Frize201.
Il libro di Staden fu un vero successo e conobbe varie traduzioni e riedizioni: secondo
alcuni, come accennato, fu il primo best-seller dedicato alle avventure europee nel Nuovo
Mondo, probabilmente proprio per aver felicemente trasmesso al lettore dell'epoca la costante
sensazione d'orrore all'idea di essere vittima del cannibalismo dei “selvaggi” indigeni del Brasile

200
Senza dimenticare gli importanti precedenti classici, specie Plinio il Vecchio, Luciano di Samosata e le varie
periegesi e i peripli, nonché quelli medievali, soprattutto i romanzi e i testi allegorici, è noto come il genere
letterario del viaggio in parte o completamente immaginario conobbe una popolarità e una diffusione notevoli a
partire dalla seconda metà del XIII sec., quando si diffusero racconti di viaggi realmente realizzati, come quelli di
Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruck e Marco Polo – quest'ultimo peraltro importante riferimento
di Cristoforo Colombo –, accompagnati dalla circolazione di vari Livre des merveilles, il più celebre e popolare
dei quali fu quello di Jehan de Mandeville, di poco posteriore e probabilmente non a caso rispetto agli anni della
Peste nera in Europa nella metà del XIV sec. e considerato veridico per almeno un paio di secoli, l'epoca, cioè,
delle successive esplorazioni geografiche e della conquista del Nuovo Mondo, quindi della pubblicazione di libri
di certo più affidabili come quello di Hans Staden stesso. È altrettanto noto come anche le opere di Marco Polo e
di Cristoforo Colombo abbiano sofferto il peso di inevitabili pregiudizi. Inoltre non va dimenticato come in
questa letteratura si sia intrecciata anche quella del genere utopico a cui già si è accennato. Cfr. Maria Teresa
Bovetti Pichetto, Introduzione a Gabriel de Foigny, La Terra Australe, Guida Editori, Napoli 1978, pp. 5-56;
Derrick Moors, “Imaginary Voyages”, The La Troube Journal 41 (1988), pp. 8-14; Eric J. Leed, The Mind of the
Traveler: From Gilgamesh to Global Tourism, Basic Books, New York 1992, specie pp. 20 segg.; Paola Pontani,
“Il viaggio immaginario nell'antichità: contributo per un'analisi del genere “, in Giovanni Gobber, Celestina
Milani (a c.), Tipologia dei testi e tecniche espressive: atti del convegno, Milano, 15-16 novembre 2001, Vita e
Pensiero, Milano 2002, pp. 25-36; Ferdinando Morabito, Viaggiatori immaginari. Dal viaggio-meta al
metaviaggio, Athena Editoriale, Firenze 2011, passim.
201
François Rabelais, Œuvres de Rabelais, a c. Charles Esmangart, Éloi Johanneau, Dalibon, Paris 1823, V, XXXI,
p. 164; cfr. Daniel Ménager, “Le pays de Satin”, in Franco Giacone (a c.), Le Cinquiesme livre: actes du
Colloque international de Rome (16-19 octobre 1998), Librairie Droz, Ginevra 2001, pp. 357-366.

78
in relazione al messaggio religioso che vi spicca: la chiesa protestante tedesca di recente e
sofferta affermazione esaltò Staden come il devoto credente luterano che conseguì una
miracolosa salvezza grazie alla sua fede, facendone pertanto una vera e propria bandiera
ideologica da sventolare nelle accese guerre di religione coeve202.
Inoltre non si può non ricordare l'eco che l'opera di Staden ha lasciato nella letteratura e
nella cultura brasiliane, basti citare As Aventuras de Hans Staden, la versione per ragazzi della
storia dell'avventuriero tedesco che pubblicò il celebre scrittore paulistano Monteiro Lobato nel
1927, nonché vari film tra cui spiccano Como era gostoso o meu francês (1971) dell'affermato
regista Nelson Pereira dos Santos, invero ispirato genericamente a Staden, ma anche a Thévet e
Léry, nonché il più recente Hans Staden (1999) di Luís Alberto Pereira203. Senza dimenticare la
graphic novel, come si usa dire ora, o la história em quadrinhos, come la chiamerebbe l'autore,
che gli ha dedicato il famoso autore di fumetti brasiliano Jô Oliveira, intitolata Hans Staden. Um
aventureiro no novo mundo, pubblicata originalmente in episodi nella rivista italiana Corto
Maltese nell'1989 e lanciata in Brasile per i tipi di Conrad nel 2005.
Staden ha comunque lasciato una testimonianza preziosa sui costumi e il modo di vivere
degli indigeni, grazie alla sua eccellente capacità di osservazione acuita senz'altro dal pericolo
costante che correva.
Una testimonianza altrettanto preziosa, anzi caratterizzata da maggiore rigore scientífico 204,
l'ha lasciata 21 anni dopo anche il borgognone ugonotto Jean de Léry, che aveva visitato il

202
Cfr. Ulrich Fleischmann, Matthias Rohrig Assunção, Zinka Ziebell-Wendt, “Os Tupinambá: Realidade e Ficção
nos Relatos Quinhentistas”, Revista Brasileira de História 11, 21 (1991), pp.125-145 [“Die Tupinamba: Realität
und Fiktion in den Berichten des 16. Jahrhunderts”, in Peter Waldmann, Georg Elwert (a c.), Ethnizität im
Wandel, Lit Verlag, Saarbrücken-Breitenbach 1989, pp. 93-111]; Franz Obermeier, “Aprender sobre as culturas
indígenas na época colonial: a gênese do livro de viagem de Hans Staden (Historia, 1557) no cruzamento de
discursos alheios”, Anuário de Literatura 16, 1 (2011), p. 132-153.
203
Da notare come in entrambi i film citati i dialoghi principali siano stati ricostruiti in lingua tupí.
204
Claude Lévi-Strauss (1908-2009), nel suo celebre Tristes Tropiques (Librairie Plon, Paris 1955, cap. IX,
Guanabara, p. 87) lo definisce “bréviaire de l'ethnologue” e in quanto tale racconta come ne tenesse in tasca il
libro durante la sua visita alla baia di Guanabara.

79
Brasile, o meglio la France Antarctique nell'isola di Villegagnon205, nel 1557, cioè quando
Staden pubblicava il suo libro.
Visitando varie taba, i villaggi tupinambá, intorno alla baia di Guanabara e conversando
con i nativi, raccolse molti dati e vario materiale che in seguito, tornato in Europa già l'anno
dopo, ha usato per un saggio, Histoire d'un voyage faict en la terre du Brésil, autrement dite
Amérique, pubblicato infine – dopo varie vicissitudini dell'autore in tempi di guerre di religione –
a La Rochelle nel 1578 e considerato appunto il primo importante studio antropologico sugli
indigeni brasiliani, laddove non è certo questo l'unico suo valore.
Da notare che nel frattempo, nel 1558, il frate francescano André Thévet aveva già
pubblicato il suo libro Les singularitez de la France Antarctique, mentre nel 1567 un altro
tedesco, il bavarese – però protestante – Ulrich (detto Utz) Schmidl o Schmidel, un landsknecht
al servizio della Spagna con un'esperienza di oltre 17 anni di scorribande in gran parte del
Sudamerica tra il 1536 e il 1553, aveva pubblicato a Frankfurt la sua opera, dal titolo
lunghissimo come di moda all'epoca: Wahre Geschichte einer merkwürdigen Reise, gemacht
durch Ulrich Schmidel von Straubingen, in America oder der Neuen Welt, von 1534 bis 1554,
wo man findet alle seine Leiden in 19 Jahren, und die Beschreibung der Länder und
merkwürdigen Völker die er gesehen, von ihm selbst geschrieben206.
205
L'isola di Villegagnon si trova nella baía di Guanabara, oggi inclusa nella metropoli di Rio de Janeiro. Nota ai
nativi con il nome di Serigipe, ribattezzata Ilha das Palmeiras dai Portoghesi, le autorità brasiliane l'hanno
ribattezzata ulteriormente con il suo attuale nome in omaggio al suo primo colonizzatore, l'ammiraglio Nicolas
Durand de Villegagnon (1510-1571), a capo della spedizione francese che nel 1555 vi stabilì quello che avrebbe
dovuto essere il primo nucleo della France Antarctique. Cfr. infra.
206
“La vera storia di un viaggio straordinario fatto da Ulrich Schmidel di Straubingen, in America o Nuovo Mondo,
dal 1534 al 1554, dove sono riportate tutte le sue sofferenze in 19 anni e la descrizione dei paesi e dei popoli
straordinari che lui vide, da lui medesimo scritta”. In realtà questa edizione pare sia andata perduta: “Acredita-se
que [...] foi lançada por Martín Lechler, sem preâmbulo e epílogo, em 1567, em Frankfurt, como parte da
coleção de viagens organizada por Sigmund Feyerabend e Simon Hüters”. Oggigiorno sono conservati solo tre
manoscritti originali dell'opera, con varie differenze tra loro, nelle rispettive biblioteche di Hamburg, Stuttgart e
München, laddove solo quello di Stuttgart è considerato autografo. Cfr. Thissiane Fioreto, Cristina Mascarenhas
da Silva, “Um estudo da versão latina do relato de viagem de Ulrico Schmidl à luz da filologia textual”, Revista
Philologus 19, 55 (2013), p. 711. Da notare che Schmidl fu tra i fondatori di Buenos Aires, in quanto tra i membri
della spedizione del conquistador Pedro de Mendoza che, appunto, fondò l'attuale capitale argentina, nel
terriotrio degli indios Querandí o Pampa, il 2 o 3 febbraio del 1536 con il nome di Nuestra Señora del Buen Ayre,
in omaggio alla Nostra Signora di Bonaria di Cagliari. Pare infatti che tra l'equipaggio delle navi che condussero
nella regione del Rio de la Plata la sua spedizione ci fossero vari marinai sardi che avrebbero ispirato questo
nome. Nel 1541 la città fu distrutta e abbandonata dagli stessi abitanti in seguito ai continui attacchi da parte dei

80
Va infatti precisato che André Thévet (1516-1590) fu il cosmografo e cappellano ufficiale
della spedizione francese del 1555207 che, al comando del filougonotto Nicolas Durand de
Villegaignon o Villegagnon, eroe della vittoria di Ceresole contro gli Spagnoli (11 aprile 1544) e
cavaliere dell'Ordine di Malta, istituiì la colonia francese della France Antarctique, nome diffuso
proprio dall'opera di Thévet, nell'isola che tuttora prende nome dal suo colonizzatore francese, il
quale vi fece costruire il Fort Coligny, molto significativamente dal nome del futuro leader
militare degli ugonotti208. Lo scopo personale di Villegagnon era quello di stabilirvi una colonia

nativi, ma nel 1580 fu di nuovo e definitivamente ricostruita da Juan de Garay con il nome lievemente diverso di
Ciudad de la Santísima Trinidad y Puerto de Santa María del Buen Ayre. Cfr., tra la varia bibliografia, Massimo
Pittau, “La Madonna di Bonaria di Cagliari e Buenos Aires capitale dell'Argentina”, 2012
(http://www.pittau.it/Sardo/bonaria.html); Pietro Meloni, “Quel legame mariano tra Bonaria e Buenos Aires”,
Avvenire, 21/9/2013; Jorge Eduardo Padula Perkins, “Ulrico Schmidel. Un periodista sin periódico”, Letralia 148
(2006; http://www.letralia.com/148/articulo02.htm); Ulrico Schmidl, “Buenos Aires, hora cero”, Página/12,
17/2/2008 (http://www.pagina12.com.ar/diario/suplementos/turismo/9-1241-2008-02-17.html).
207
Da notare che i Francesi, a parte il remoto precedente citato di Jean Cousin nel 1488, frequentavano la costa
brasiliana, come detto in concorrenza con i Portoghesi, forse già dal 1504, a partire cioè dal discusso viaggio di
Binot Paulmier de Gonneville, il quale però, diretto in India seguendo un portolano portoghese e fuorviato da una
tempesta, secondo alcuni non sarebbe giunto in Brasile, come la maggior parte pensa, bensì in Madagascar o
addirittura in Australia, di cui quindi sarebbe il primo “scopritore” europeo. Cfr. Leyla Perrone-Moisés, Vinte
luas. Viagem de Gonneville au Brasil (1503-1505), Companhia das Letras, São Paulo 1992; Id., “Le voyage de
Gonneville a-t-il vraiment eu lieu?”, in Colloque International Voyageurs et images du Brésil. Paris, le 10
décembre 2003. Table 2: Les récits de conquête et de colonisation, pp. 1-6; Jacques Lévêque de Pontharouart,
Paulmier de Gonneville, son voyage imaginaire, Imprimerie France-Quercy, Cahors 2000; Jean-Pierre Thiollet,
Je m'appelle Byblos, Éditions H & D, Milon-la-Chapelle 2005. In ogni caso, i Francesi nella prima metà del XVI
secolo frequentarono spesso la costa brasiliana, intavolando tra l'altro la già citata amicizia con i Tupinambá,
soprattutto in seguito al rifiuto di François I di accettare il trattato di Tordesillas. Il 1° ottobre del 1550, a Rouen,
si tenne il primo spectacle brésilien – il secondo si terrà nel 1566 a Bordeaux –, una sorta di parata
autocelebrativa della colonizzazione francese del Brasile alla presenza di re Henri II, protagonisti i Tupinambá, in
cospicuo gruppo importato direttamente e per l'occasione dalla costa del Brasile, i quali in gran parte morirono
successivamente a causa del freddo patito e delle malattie europee al loro sistema immunitario sconosciute. Cfr.
Ferdinand Denis, Une fête brésilienne célébrée à Rouen en 1550, Librarie Techener, Paris 1850; Beatriz Perrone-
Moisés, “L’alliance normando-tupi au xvie siècle: la célébration de Rouen”, Journal de la société des
américanistes 94, 1 (2008), pp. 45-64.
208
Gaspard II de Coligny (1519-1572), figlio dell'omonimo Maresciallo di Francia sotto François I, fu in seguito
selvaggiamente assassinato la notte del 24 agosto 1572 durante la famigerata strage di San Bartolomeo, dopo che
due giorni prima era già stato oggetto di un attentato e si trovava sul letto di un ospedale.

81
di protestanti perseguitati in patria209, oltre quello ufficiale di sfruttare le ricchezze locali e
avviare un fruttifero imprendimento commerciale. Thévet fu invece imposto a Villegagnon dalla
fazione cattolica che faceva capo ai Guise e alla regina madre in persona, la fiorentina Caterina
De' Medici. Si era guadagnato un certo prestigio grazie a un viaggio nei territori ottomani del
Mediterraneo orientale (1549-1552), da cui aveva tratto il libro Cosmographie de Levant (1554),
invero perlopiù una compilazione di testi derivati dagli autori classici operata per giunta da un
ghostwriter210. Rimase nella France Antarctique per meno di tre mesi tra il novembre del 1555 e
la fine di gennaio del 1556, in quanto si ammalò e fu rimpatriato. La brevíssima esperienza non
gli impedì del resto di scrivere la sua opera e pubblicarla con privilegio reale e la benedizione dei
poeti della Pléiade con il titolo completo Les singularitez de la France Antarctique, autrement
nommée Amerique: & de plusieurs terres & isles decouvertes de nostre temps. Grazie a tanta
promozione, l'opera ottenne subito un notevole successo e fu tradotta ben presto in italiano
(1561) e in inglese (1568). Sarà inoltre gratificato dal fatto di ottenere le nomine di cosmografo
reale e cappellano della regina madre Caterina De' Medici211.
Nel frattempo, come detto, Jean de Léry, allora 21enne, fu inviato in France Antarctique
assieme ad altri 13 studenti francesi di teologia calvinista a Ginevra da parte di Calvino in
persona su richiesta di Villegagnon stesso, che si sentiva minacciato e messo in discussione dai
cattolici nel suo ruolo di Rex Americae, come si era modestamente intitolato, e già aveva subito
degli attentati e fatto impiccare qualcuno212.
Il 24 maggio del 1558 Léry torna in Francia e poi a Ginevra. Thévet aveva già pubblicato
la sua opera. Nello stesso anno, a settembre, morirà Carlos I imperatore e re di Spagna, sostituito
come re di Spagna dal già citato Felipe II, il quale, come detto, in seguito al suo fanatismo
cattolico, promuoverà un feroce irrigidimento contro gli heréticos, portando tra l'altro il Concilio

209
Le vere e proprie guerre di religione in Francia iniziarono nel 1562, ma già all'epoca ovviamente le tensioni erano
intense. Cfr. Torres, Meu Querido... cit., pp. 27-33.
210
Cfr. Frank Lestringant, “Histoires tragiques et vies des hommes illustres: la rencontre des genres. À propos de
quelques histoires orientales chez Belleforest et Thevet”, in Christine de Buzon (a c.), Le Roman à la
Renaissance. Actes du colloque international dirigé par Michel Simonin (Université de Tours, CESR, 1990),
RHR, Lyon 2012 (http://www.rhr16.fr/ressources/article/afficher/43).
211
Cfr. Frank Lestringant, “L’Histoire d’André Thevet, de deux voyages par luy faits dans les Indes Australes et
Occidentales (circa 1588)”, Colloque International Voyageurs et images du Brésil. Paris, le 10 décembre 2003.
Table 2: Les récits de conquête et de colonisation, pp. 1-11.
212
Cfr. Géralde Nakam, presentazione a Jean de Léry, L'histoire mémorable du siège et de la famine de Sancerre
(1573): Au lendemain de la Saint-Barthélemy, Slatkine, Paris 1975, p. 15.

82
di Trento fortissimamente voluto dal padre per pacificare i cristiani – e accrescere il potere
imperiale – a trasformarsi sempre più nello strumento della controriforma cattolica.
Anche in Francia ovviamente si esacerbarono i conflitti tra cattolici e ugonotti fino alla
scoppio della I guerra di religione nel 1562, anno in cui fu intrapresa anche una spedizione
ugonotta in Florida destinata però a fallire e risoltasi in un massacro di Francesi operato da parte
degli Spagnoli213, in seguito raccontato da Léry stesso214, il quale l'anno dopo comincia a redigere
la sua opera, non senza una già manifesta volontà di polemica nei confronti del cattolico Thévet
e sullo sfondo del conflitto tra ugonotti e cattolici, sempre acceso per quanto la I guerra di
religione fosse stata conclusa da un armistizio in seguito all'editto di Amboise.
Nel 1564 muore Calvino e Léry, il cui bel motto era “plus voir qu'avoir”215, è pastore a
Nevers e diventa sempre più un'autorità tra gli ugonotti. Nel 1565 il milanese Girolamo Benzoni
pubblica a Venezia la sua Historia del Mondo Nuovo216, l'anno dopo, come accennato, si svolge
213
Coligny, desideroso di colonizzare altre terre per gli ugonotti, inviò il comandante Jean Ribault sulla costa
orientale della Florida dove giunse il 30 aprile 1562 e costruì Fort Charlesfort, invero nell'attuale South Carolina,
presso Beaufort, in una terra ribattezzata Nouvelle France. Questa colonia non ebbe vita facile e il 30 giugno
1564 giunge in soccorso un altro comandante ugonotto, René de Laudonnière, che fondò più a sud la colonia di
Fort Caroline, in onore di re Charles IX, presso l'attuale Jacksonville, nella Florida settentrionale, non lontano dal
confine con la Georgia. Felipe II inviò in risposta l'ammiraglio corsaro Pedro Menéndez de Avilés, che fondò
poco più a sud San Agustín, l'odierna tuttora esistente Saint Augustine, considerata anzi la cittadina più longeva
degli USA, da cui il 29 settembre 1565 fece partire un attacco in seguito al quale i Francesi, già arresisi, furono
quasi tutti massacrati, almeno quelli che non vollero abiurare la loro fede ugonotta, mentre i pochi che si
dichiararono cattolici furono deportati in Messico. Da notare che tra gli uomini dell'ammiraglio spagnolo si
trovavano numerosi Italiani, tra cui sono ricordati in particolare Augustino Espinola, della casata genovese degli
Spinola, e Francesco Genoese, anch'egli genovese come si evince dal suo cognome. Tra i Francesi invece è
ricordato il corso Nicola Ornano. Da notare altresì che due anni dopo, nel 1567, il nobile ugonotto Dominique de
Gourgues organizzò una ben riuscita spedizione finalizzata alla vendetta, in seguito alla quale fu onorato dagli
ugonotti al suo ritorno l'anno dopo a La Rochelle e a Bordeaux, ma non dal re Charles IX, influenzato in tal senso
dai Guise. Anzi, cadde in disgrazia e fu emerginato al punto che Elizabeth I d'Inghilterra tentò in seguito di
approfittarne per arruolarlo tra i comandanti della sua flotta, ma lui rifiutò per spirito patriottico. E altre
spedizioni francesi in Florida non furono più tentate. Cfr. Mickaël Augeron, Didier Poton, Bertrand Van
Ruymbeke (a c.), Les Huguenots et l'Atlantique, I-II, Presses de l'Université Paris-Sorbonne (PUPS), Paris 2009;
Mickaël Augeron, John de Bry, Annick Notter (a c.), Floride, un rêve français (1562-1565), Illustria, Paris 2012.
214
Cfr. infra.
215
Cfr. Nakam, presentazione...cit., p. 12.
216
Su Benzoni voglio riportare le righe di presentazione al video Viaggiatori italiani in America: Girolamo Benzoni,
a cura dell'URIHI, Ufficio Ricerca Indigeni Habitat Interdipendenza (http://www.urihi.org/urihi.html),
disponibile alla pagina web http://www.arcoiris.tv/scheda/it/276/: “Nel 1541 Girolamo Benzoni, milanese, decide

83
un secondo spectacle brésilien a Bordeaux, mentre si riaccendono le ostilità tra cattolici e
ugonotti e nel 1567 scoppia la II guerra di religione. Anche i protestanti olandesi, nel frattempo,
avevano iniziato la loro guerra d'indipendenza nei confronti degli Spagnoli.
E nello stesso anno il Governador-Geral do Brasil Mem de Sá ordinò a suo nipote, il
Capitão-Mor Estácio de Sá, che il 1° marzo di due anni prima aveva fondato la città di São
Sebastião do Rio de Janeiro217, di espellere definitivamente i Francesi dalla France Antarctique,
approfittando ovviamente del fatto che i Francesi si scannavano tra loro 218. L'esito positivo per i
Portoghesi sarà in seguito oggetto di un'accesa polemica tra Thévet, che ne diede la colpa agli
ugonotti, e Léry219.
Nel 1568 gli ugonotti si attestarono a La Rochelle, che diventa la loro capitale, la II guerra
di religione non conosce una vera e propria soluzione di continuità rispetto alla III, e Léry, anche
di partire per conoscere questo "Mondo Nuovo" di cui tanto si parlava. A piedi fino a Siviglia, poi per nave sulle
coste del Venezuela e della Colombia; a Santo Domingo, la prima città d'America, da cui partivano i
conquistatori spagnoli; attraverso l'istmo di Panama fino all'Ecuador e all'altissimo vulcano Chimborazo; poi di
nuovo risalendo l'America Centrale, attraverso il Nicaragua e il Guatemala, e costeggiando lo Yucatan fino a
Cuba e al ritorno in patria dopo 15 anni di peregrinazioni. Nella sua "Historia del Mondo Nuovo" appaiono
personaggi e momenti centrali della scoperta e della conquista dell'America: da Colombo a Pedro de Alvarado, da
Cortés a Pizarro. Le civiltà indigene e la loro distruzione violenta, la tratta degli schiavi negri, la smisurata sete
d'oro dei conquistatori, costituiscono un affresco a volte ingenuo ma sempre affascinante, che il documentario
ricostruisce a grandi linee, cercando le prove che confermino la veridicità di quanto descritto 450 anni fa dal
viaggiatore milanese.”. Aggiungo, dalla voce dedicatagli sul Dizionario Biografico degli Italiani (Volume 8,
1966; http://www.treccani.it/enciclopedia/gerolamo-benzoni_(Dizionario-Biografico)/), a cura di Angela
Codazzi: “La Historia è in tre libri; in ognuno di essi si associano alle vicende personali dell'autore vasti
excursus. Nel primo, che tratta della scoperta dell'America, il B. difende l'italianità di Cristoforo Colombo contro
le «inventioni» di quegli storici spagnoli che sono incapaci di sopportare «che un italiano habbia conquistato
tanto honore e tanta gloria non solamente fra la natione spagnola, ma infra tutte quelle del mondo »”. Ricordo
inoltre che fu Benzoni ad attribuire a Cristoforo Colombo il celebre episodio dell'«Uovo di Colombo».
217
L'attuale metropoli carioca deve il suo nome al fatto che il suo fondatore rese omaggio all'allora re portoghese
Sebastião I della dinastia Avis, che era nato appunto il 20 gennaio del 1554, giorno di San Sebastiano.
218
Nel 1578, l'allora governatore di Rio de Janeiro Antônio Salema espulse dal Brasile gli ultimi Francesi dalla
fattoria Maison de Pierre nell'attuale Cabo Frio, vicenda ricordata anche dal più importante scrittore indianista
brasiliano José de Alencar (1829-1877) nel romanzo O Guarani (1857). Sulle vicende dei Francesi in Brasile nel
XVI sec., lo scrittore Jean-Christophe Rufin ha pubblicato nel 2001 il romanzo Rouge Brésil per i tipi di
Gallimard, da cui nel 2013 è stato ricavato un telefilm omonimo di produzione francese, portoghese e brasiliana.
219
Cfr. Frank Lestringant, Le huguenot et le sauvage. L'Amérique et la controverse coloniale, en France, au temps
des guerres de religion, 1555-1589, Aux amateurs de livres, Paris 1990, passim; Id., L'expérience huguenote au
Nouveau Monde: XVIe siècle, Librairie Droz, Genève 1996, passim.

84
nei due anni successivi, è presente in luoghi dove il conflitto è aperto e feroce: La Charité e
Sancerre.
L'8 agosto del 1570 si giunse alla pace di Saint-Germain-en-Laye: gli ugonotti furono
riammessi alle funzioni pubbliche e Caterina De' Medici e suo figlio il re Charles IX conclusero
anche un'alleanza matrimoniale con il leader degli ugonotti Henri de Navarre, a cui concessero in
moglie la riluttante principessa Marguerite de Valois220, evento che premierà il leader ugonotto
allorché erediterà la corona dall'estinta dinastia dei Valois e inaugurerà la dinastia dei Borboni221.
L'anno dopo Montaigne cominciò a redigere i suoi Essais e morì Villegagnon, il Rex
ugonotto della già France Antarctique.
Il 1572 fu un anno drammatico: Léry, che perse il manoscritto della sua opera, si salvò
miracolosamente dalla strage di La Charité, tra le tante seguite a quella di San Bartolomeo, e si
rifugiò a Sancerre che però l'anno dopo, tra il 9 gennaio e il 14 agosto fu stretta d'assedio 222 e i
suoi abitanti furono costretti alla fame e ad atti di cannibalismo, il tutto riportato
appassionatamente nell'Histoire memorable de la ville de Sancerre, contenant les entreprinses,
sieges, approches, bateries, assaux et autres efforts des assiegans, pubblicata da Léry stesso nel
1574223.
L'anno dopo Thévet pubblicò una nuova opera, La Cosmographie Universelle:
“Compilation brouillonne, la Cosmographie universelle puise la plupart de ses informations, sur
l’Afrique et l’Asie notamment, dans le recueil en trois volumes des Navigationi et Viaggi du
Vénitien Jean-Baptiste Ramusio. Mais elle a pour immense mérite de consacrer une part sans
précédent à l’Amérique ou «quatrieme partie du monde, illustrée de nostre temps»224”.
Nel 1576 Léry ritrovò fortunosamente a Lyon il manoscritto della sua opera che
finalmente, come anticipato, pubblicò nel 1578 a La Rochelle, il caposaldo ugonotto.
L'anno dopo morì Hans Staden e forse anche il suo connazionale Ulrich Schmidl 225,
intanto, per iniziativa dei protestanti e dei nemici della Spagna in genere, si diffondevano le
220
Il matrimonio sarà effettivamente celebrato il 18 agosto del 1572 a Parigi, pochi giorni prima della strage di San
Bartolomeo.
221
È noto come da questa vicenda Alexandre Dumas père abbia ricavato il romanzo storico La Reine Margot (1845),
da cui sono stati tratti spettacoli teatrali – il primo del 1847 adattato dall'autore stesso – e vari film omonimi, tra
cui quello diretto da Patrice Chéreau nel 1994.
222
Anche La Rochelle fu assediata per un periodo più breve e costretta a una capitolazione comunque onorevole il
26 giugno.
223
Cfr. Nakam, presentazione...cit., passim.
224
Lestringant, “L’Histoire d’André Thevet,...cit., p. 4.

85
traduzioni delle opere di Las Casas e con esse la citata leyenda negra. Urbain Chauveton
pubblicò a Ginevra nello stesso 1579 la traduzione dell'opera di Benzoni con il titolo L'histoire
nouvelle du Nouveau Monde, a cui aggiunse in appendice la storia del massacro degli ugonotti
francesi in Florida scritta da Léry, proprio con lo scopo di diffondere e esacerbare la leyenda
negra226.
Nel 1580, Montaigne pubblicò i primi due libri dei suoi Essais, tra cui spicca, per quel che
interessa il presente studio, il capitolo XXX del I libro: Des Cannibales227, in cui, tra l'altro
scrisse:

Ie ne suis pas marry que nous remarquions l'horreur barbaresque qu'il ya a en une telle action;
mais ouy bien dequoy, iugeants à points de leur faultes, nous soyons si aveuglez aux nostres. Ie
pense qu'il ya a plus de barbarie à manger un homme vivant qu'à le manger mort.
[…]
225
Ma non è certa la data della sua morte, comunque avvenuta tra il 1579 e il 1581 a Regensburg, in territorio
protestante, dove Schmidl, appunto di fede luterana, si era trasferito dalla sua nativa Straubing, rimasta invece
cattolica. Cfr. Federico B. Kirbus, Nicolás Cócaro, Utz Schmidl. Su vida, sus viajes, su obra, Ediciones Tres
Tiempos, Buenos Aires 1984; Georg Bremer, Unter Kannibalen. Die unerhörten Abenteuer der deutschen
Konquistadoren Hans Staden und Ulrich Schmidel, Schweizer Verlagshaus, Zürich 1996; Carlo Ross, Abenteurer
und Rebell. Ulrich Schmidl und die Entdeckung Lateinamerikas. Eine Romanbiographie, MZ Mittelbayerischen
Zeitung, Regensburg 1996.
226
Nel 1586 Chauveton ne pubblicò un'edizione in latino, preceduta da una lettera di Léry all'allora landgraf di
Hesse, Wilhelm IV von Hessen-Kassel, detto der Weise, “il saggio”, figlio e successore di Filippo I, a cui Staden
aveva dedicato la sua opera, come detto. Fu un evidente modo di Léry di dichiararsi in sintonia con Staden,
protestante come lui, in contrasto al cattolico Thévet, il quale rispose polemicamente con una nuova edizione
delle sue opere, pubblicata nel 1588 con il titolo Histoire d'André Thevet, de deux voyages par luy faits dans les
Indes Australes et Occidentales, in cui confluirono, in una versione più estesa e completa, Les Singularitez de la
France Antarctique e il libro XXI de La Cosmographie universelle. Cfr. Lestringant, “L’Histoire d’André
Thevet,...cit., p. 1 e passim.
227
Nell'edizione italiana a cura di Fausta Garavini, con saggio di Sergio Solmi (Adelphi, Milano 1986), il capitolo in
questione è il XXXI. Per l'edizione originale francese ho fatto riferimento a quella pubblicata da Didot nel 1836 a
c. di Louis Joulet. Da notare che Montaigne vi riferisce anche le opinioni sulla società francese offerte a richiesta
da tre Tupinambá in visita a Rouen sicuramente dopo il 1560, perché già sarebbe stato re Charles IX, salito al
trono proprio in quell'anno all'età di 10 anni (ma c'è il dubbio che Montaigne non si riferisca piuttosto al citato
spectacle brésilien del 1550, quando era re suo fratello maggiore François II, che all'epoca aveva appena 6 anni):
trovarono strano che uomini adulti, forti e armati si sottomettessero a un bambino, inoltre trovarono proprio
assurdo il fatto che ci fossero uomini che ostentavano opulenza e altri – “ils nomment les hommes la moitié les
uns des aultres” – che mendicavano e morivano di fame!

86
Mais quoy! Ils ne portent point de hault des chausses.

È infatti pienamente assodato il fatto che il filosofo francese, considerato tra l'altro tra i
prcursori dell'Illuminismo228 nonché padre del relativismo culturale, oggi tanto discusso 229, abbia
scritto questo capitolo sulla scorta soprattutto dell'opera di Léry, che stimava, certamente
comparata con quelle di Staden, Thévet, Schmidl 230 e anche Las Casas e Benzoni, nonché
ovviamente nel pieno contesto del pensiero dell'epoca, di autori cioè quali La Boétie, Anne du
Bourg, Ronsard, Bodin, tanto per limitarsi ai Francesi, laddove troneggiava sempre il modello di
Machiavelli, anche quando considerato negativo, come in genere dagli ugonotti e da Montaigne
stesso231.

228
Cfr. Gore Vidal, Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000, trad. Luciana Bulgheroni Spallino,
postfazione di Claudio Magris, Fazi Editore, Roma 2003, p. 213.
229
Discusso anche dal pluricitato Yuri Leveratto in un recentissimo articolo dedicato alla pratica dell'infanticidio
tuttora vigente presso certe etnie amazzoniche: “Il problema del relativismo culturale: il caso degli infanticidi
nelle comunità indigene amazzoniche”, 2014 (http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=451), disponibile
anche in portoghese (http://www.yurileveratto.com/po/articolo.php?Id=271) e in spagnolo
(http://www.yurileveratto.com/po/articolo.php?Id=271). Ho trovato molto interessante non solo l'articolo, che cita
Franz Boas (1858-1942) in contrapposizione a Edward Tylor (1832-1917) e al brasiliano Sérgio Paulo Rouanet, il
quale ultimo “sostiene che «l’uomo non può vivere al di fuori della sua cultura, ma essa non è il suo destino, è
solo un mezzo per raggiungere la libertà»”, ma anche il commento-testimonianza di un lettore, il musicista e
pedagogo uruguayano Gustavo Britos Zunín, il quale ha scritto: “Cierta vez escuché manifestar a una indígena lo
siguiente [...]: «Cuando defienden nuestras tradiciones, en realidad nos condenan a vivir en un subdesarrollo
permanente»”. Cfr. infra.
230
In realtà non è certo che Montaigne abbia conosciuto l'opera di Schmidl, in quanto fu l'edizione latina quella che
sicuramente si diffuse di più in Europa, pubblicata nel 1599 dai figli di Theodor de Bry, che il filosofo francese
non ha sicuramente conosciuto, visto che è morto nel 1592. Cfr. Fioreto, Mascarenhas da Silva, “Um estudo da
versão latina...cit., p. 711. Del resto, sul cannibalismo dei “selvaggi” d'America, sicuramente Montaigne aveva a
disposizione già fonti sufficienti. Notevole il fatto che Schmidl abbia ispirato El hambre di Manuel Mujica
Láinez, primo dei 42 racconti dell'opera Misteriosa Buenos Aires (1950), dove non si descrive solo il
cannibalismo dei “selvaggi”, ma anche quello dei primi coloni spagnoli di Buenos Aires disperatamente affamati.
Cfr. Adolfo A. Chouhy, “Crónica y literatura en «El hambre» de Manuel Mujica Láinez”, Gramma 38 (2004), pp.
40-45.
231
Cfr. Benedetto Coccia, L'Europa contemporanea tra la perdita delle radici e la paura del futuro, Editrice Apes,
Roma 2007, p. 315.

87
In questo capitolo degli Essais, del resto, Montaigne produsse l'embrione di quello che nel
secolo dei lumi diventerà il mito del Buon Selvaggio, tanto caro soprattutto a Rousseau232.
In sintesi, l'assunto era che, per quanto fosse vero e attestato dalle testimonianze dirette che
i cosiddetti “selvaggi” – nello specifico caso i Tupinambâ “brasiliani” – fossero cannibali, era
altrettanto vero che la loro antropofagia era contestualizzata in una determinata sfera ideologico-
religiosa e “santificata” da e in precisi riti in cui persino le vittime, come accennato, si sentivano
in sintonia con i loro carnefici, in quanto per loro era un onore essere mangiati dai loro nemici
che in tal modo li consideravano degni di trasmettere il loro valore a chi ne mangiava le loro
carni e ne assimilava le virtù. Tra gli indios del Brasile era considerata la più perfetta forma di
“vendetta” tra tribù rivali, in un contesto quindi di esocannibalismo, ma sono attestate anche
forme di endocannibalismo patrofagico233.
Ora, il fatto di essere cannibali non impediva del resto ai “selvaggi” di coltivare valori
civili e persino “cristiani” quali la solidarietà umana e la loro cultura, come attestavano le opere
di Staden, Thévet e Léry, ma anche quelle di Las Casas e di Benzoni, non era poi così inferiore e
primitiva come voleva – e vuole234 – lo stereotipo corrente, anzi in taluni casi poteva considerarsi
superiore a quella dei civili cristiani europei che si massacravano tra loro durante le guerre di
religione, durante le quali nemmeno mancarono episodi di cannibalismo, come quelli descritti da
Léry stesso a Sancerre, con una differenza non sottile: un conto infatti era l'antropofagia rituale
dei “selvaggi”, altro e ben diverso era quello del cannibalismo provocato dalla fame provocata

232
La letteratura è sterminata, ovviamente, ma voglio citare Mircea Eliade, l'incipit del II capitolo del suo Miti,
Sogni e Misteri (trad. Giovanni Cantoni, Rusconi, Milano 1976 [Mythes, rêves et mystères, Editions Gallimard,
Paris 1957]), che s'intitola significativamente Il mito del buon selvaggio o la suggestione delle origini (pp. 29-
42): “L'eminente folclorista G. Cocchiara ha scritto che «prima di essere scoperto, il selvaggio fu inventato». La
formula, molto felice, non è senza verità. I secoli Sedicesimo, Diciassettesimo e Diciottesimo hanno inventato un
tipo di «buon selvaggio» sulla misura delle loro preoccupazioni morali, politiche e sociali. Gli ideologi e gli
utopisti si invaghirono dei «selvaggi», soprattutto del loro comportamento nei confronti della famiglia, della
società, della proprietà; invidiarono le loro libertà, la loro giudiziosa ed equa suddivisione del lavoro, la loro
esistenza beata in seno alla natura. Ma l'«invenzione del selvaggio», adattata alla sensibilità e alla ideologia dei
secoli Sedicesimo-Diciottesimo, era soltanto la rivalorizzazione radicalmente secolarizzata di un mito molto più
antico: il mito del paradiso terrestre e dei suoi abitanti nei tempi favolosi che precedettero la storia. Più che di una
«invenzione» del buon selvaggio, si dovrebbe parlare del ricordo mitizzato della sua immagine esemplare”.
233
Montaigne cita Erodoto che parla di usi analoghi tra gli Sciti, in particolare i Massageti e gli Issedoni
(rispettivamente I, 216 e IV, 26). Ricordo che anche l'eucarestia è una forma di endocannibalismo, sia pure
metaforico.
234
Cfr. supra.

88
dalla guerra e/o dall'odio ideologico235. Senza dimenticare i roghi in cui erano arsi vivi i
cosiddetti eretici, gli ebrei, i musulmani, le streghe, anche gli indios, roghi che pure bruciavano
carne umana come le braci dei “selvaggi” cannibali.
Secondo Lestringant236, docente di Letteratura del XVI secolo alla Sorbonne, la posizione
di Montaigne non è affatto primitivista, come vuole Todorov 237, piuttosto il filosofo degli Essais
usa l'artificio primitivista per condurre una critica serrata alla società francese dell'epoca, con le
sue guerre di religione e le altre storture, in chiave satirica e ironica238.

235
È ampiamente attestato come i crociati abbiano praticato il cannibalismo nei confronti delle loro vittime
musulmane, soprattutto bambini, per esempio in occasione della presa, dopo lungo assedio, della città siriana di
Ma'arrat al-Nu'man nel 1098, episiodio peraltro oggetto di accese discussioni. Cfr. Amin Maalouf, Les Croisades
vues par les Arabes, J'ai Lu, Paris 1999 [1983], in particolare il capitolo III, pp. 53-75; James A. Brundage, “The
Crusades through Arab Eyes by Amin Maalouf; Jon Rothschild”, Journal of Near Eastern Studies 47/2 (1988),
pp. 149-150. Nella recente letteratura brasiliana detto episodio è stato trattato da vari autori, per esempio dallo
scrittore e giornalista di origini libanesi Georges Bourdoukan nell'opera Vozes do Deserto (Editora Casa Amarela,
São Paulo 2002) e dallo scrittore carioca di ascendenze arabe ma anche indigene Alberto Mussa nel racconto De
canibus quæstio, contenuto nell'antologia Primos. Histórias da Herança Árabe e Judaica, a c. di Tatiana Salem
Levy e Adriana Armony, Record, Rio de Janeiro 2010, nella quale pealtro è presente anche un racconto di
Bourdoukan. Cfr. Joyce Silva Braga, “Alberto Mussa e a cosmogonia dos degradados”, Cadernos do CNLF XVII
5 (2013), pp. 325-360, che mette in rilevo tra l'altro l'intertestualità del racconto di Mussa con l'opera di Hans
Staden, citato in due opere precedenti di Mussa: O movimento pendular (Record, Rio de Janeiro 2006) e Meu
destino é ser onça (Record, Rio de Janeiro 2009), quest'ultimo, che ricava il suo titolo da una citazione di Staden,
una vera e propria ricostruzione della cultura antropofaga tupinambá, basata non solo su Staden, Thévet e Léry,
ma anche sui testimoni portoghesi, entrambi gesuiti, Manuel da Nóbrega (1517-1570) e José de Anchieta (1534-
1597), quest'ultimo recentemente canonizzato da papa Francesco I. Le conclusioni di Mussa vanno molto oltre la
tesi del citato Oswald de Andrade nel momento in cui constata che “o rito antropofágico era para os índios a
principal aquisição da cultura, capaz de transformar em bem o mal inerente à natureza ”. Cfr. Lucésia Pereira,
“Sobrevivências, objetividade e ficção”, História, imagem e narrativas 11 (2010,
http://www.historiaimagem.com.br/edicao11outubro2010/resenha-destinon%E7a.pdf); Mariana Filgueiras, “Em
novo livro, Alberto Mussa reconstrói a mitologia indígena”, Jornal do Brasil, 30/1/2009; Suênio Campos de
Lucena, “O nosso destino”, Rascunho. O jornal de literatura do Brasil (aprile 2009).
236
“O Brasil de Montaigne”, Revista de Antropologia 49/2 (2006), p. 518 e passim.
237
Nous et les autres, Seuil, Paris 1989, pp. 51-64.
238
Cfr. anche Yvonne Bellenger, “Montaigne et l'ironie”, Cahiers de l'Association internationale des études
francaises 38 (1986), pp. 27-38. E cfr. anche Gabriella Airaldi, Dall'Eurasia al Nuovo Mondo. Una storia
italiana (secc. XI-XVI), Fratelli Frilli Editori, Genova 2007, pp. 182-187, la quale giustamente riporta già a Jean
de Léry la critica della società francese, da Montaigne ripresa appunto in chiave ironica.

89
Ciò lo pone più in continuità con un Anacarsi Scita 239 piutosto che con un Tacito 240, tanto
per citare dei modelli tratti dalla cultura classica che impregnava Montaigne come gli altri
scrittori e pensatori coevi, ma lo distingue invece dalla prevalente tendenza illuminista
posteriore, specie quella di Rousseau, il quale, nel suo celebre Discours sur l'origine et les
fondements de l'inégalité parmi les hommes pubblicato nel 1755 idealizzò il preteso état de
nature del “buon selvaggio” come la condizione ideale per costruire una società senza
disuguaglianze241.
Montaigne sapeva bene, sottolinea Lestringant, che l'état de nature dei Tupinambá era più
ideale che reale242.

239
Anacarsi Scita fu una figura leggendaria di filosofo “barbaro” scita del Mar Nero che avrebbe visitato, conosciuto
e criticato il mondo greco all'inizio del VI sec. a.C. dal suo punto di vista “selvaggio”, laddove le sue lettere
vanno piuttosto ascritte al contesto della produzione cinica del III sec. a.C. In pratica, qualche filosofo cinico
anonimo avrebbe usato l'artificio primitivista di Anacarsi per stigmatizzare la società greca. Da notare che nella
Francia illuminista il filologo e sacerdote Jean-Jacques Barthélemy pubblicò nel 1788 Les Voyages du jeune
Anacharsis en Grèce, sul modello delle Lettres persanes di Montesquieu, invero fortemente debitrore della
Περιήγησις di Pausania. Cfr. Anacarsi Scita, Lettere, a c. Luciano Canfora, Sellerio, Palermo 1991.
240
Cornelio Tacito, vissuto tra la seconda metà del I sec. d.C. e i primi vent'anni del II sec. d.C., tra l'epoca di
Nerone attraverso i Flavi fino a Traiano e Adriano, oltre alle sue opere maggiori, gli Annales e le Historiae,
pubblicò anche il De origine et situ Germanorum, intorno al 98, opera esaltatissima dal romanticismo e dal
nazionalismo tedesco in quanto contrappone la genuinità dei barbari germanici rispetto ai civili ma corrotti e
rapaci Romani, inoltre, forse nello stesso anno, il De vita et moribus Iulii Agricolae, a rendere omaggio al
generale romano e suo suocero Gneo Giulio Agricola, che fu proconsole della Britannia e condusse varie
spedizioni nell'attuale Scozia e forse anche in Irlanda. Nel capitolo XXX di quest'ultima opera fa pronunciare al
capo caledone Calgaco, nemico dei Romani, la celebre frase: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”, a
stigmatizzare la famosa pax romana, cioè la pretesa missione civilizzatrice con cui i Romani giustificavano le
loro conquiste invero finalizzate solo alla rapina e alla schivizzazione dei popoli. Ancora oggi si ha notizia di
proclami analoghi a giustificare guerre invero finalizzate a controllare le risorse energetiche, per esempio. Cfr.
Marras, L’origine del contrasto Oriente vs Occidente...cit.
241
Rispetto a Rousseau non vanno dimenticati, del resto, i precedenti contrapposti del Leviathan di Hobbes (1651) e
delle leggi naturali di Locke esposte nel secondo Treatise on Civil Government (1689). Cfr. Alex Tuckness,
“Locke's Political Philosophy”, Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2010 [2005]
http://plato.stanford.edu/entries/locke-political/#LawNat. Né va dimenticata l'ispirazione giusnaturalista di
retaggio classico almeno fino all'opera dell'ugonotto francese François Hotman (1524-1590), coevo di Thévet,
Léry e Montaigne, nonché a quella dell'olandese Huig Van Groot (1583-1645).
242
Cfr. “O Brasil de Montaigne”...cit.

90
E soprattutto, aggiungerei, una costruzione sovrastrutturale non indigena sia pure su spunti
genuinamente indigeni, semmai dei conquistadores243, per i loro fini e interessi ideologico-
politici e culturali in genere, quindi indigenista nel senso che abbiamo dato a questa parola.
Ma il seme fu gettato e si sa che germoglierà.
Des Cannibales di Montaigne ispirò Shakespeare per The Tempest (1610-11), soprattutto
per il personaggio dell'anziano Gonzalo quando descrive la sua celebre società utopica (atto II,
scena I, vv. 150-167)244, ispirò Daniel Defoe per il suo Robinson Crusoe (1719)245, laddove
abbiamo già citato l'influenza di Inca Garcilaso de la Vega, con la storia di Pedro Serrano, su
quest'opera246, ma è ancora probabilmente da studiare a fondo l'influenza più che probabile che vi
ebbe anche Hans Staden247.
E, attraverso l'Illuminismo, ma anche il Romanticismo, il modello anacarsiano di
Montaigne lo si ritrova nel Papalagi dell'Amico di Hermann Hesse Erich Scheurmann, in cui
l'indigeno che stigmatizza l'Occidente è il capo samoano Tuiavii di Tavea, moderno Anacarsi,
appunto248.
Nel frattempo, negli USA, si era sviluppata l'idea della wilderness propagata da Henry
David Thoreau (1816-1862), considerato il padre della disobbedienza civile, e il modello del
Buon Selvaggio aveva, e non poco, influenzato James Fenimore Cooper (1789-1851),
considerato invece il padre del genere western, genere che invero in seguito si discostò, e molto,
dal Buon Selvaggio249, rimasto vivo invece nell'autore tedesco Karl May (1842-1912), noto
anche per essere stato lo scrittore preferito di Adolf Hitler250.
243
Uso ormai questa parola a indicare genericamente i conquistatori europei del Nuovo Mondo, a prescindere dalla
loro nazionalità.
244
Cfr. Arthur Kirsch, “Virtue, Vice, and Compassion in Montaigne and The Tempest”, Studies in English
Literature, 1500-1900. Tudor and Stuart Drama 37/2 (1997), pp. 337-352.
245
Cfr. Lewis F. Petrinovich, The Cannibal Within,Transaction Publishers, New York 2000, p. 199; Ingrid Creppell,
Toleration and Identity: Foundations in Early Modern Thought, Routledge, New York 2003, pp. 127, 190.
246
Cfr. supra.
247
Cfr. Neil L. Whitehead, Introduzione a Hans Staden, Hans Staden’s True History: An Account of Cannibal
Captivity in Brazil, Duke University Press, Durham 2008, p. XI e passim.
248
Erich Scheurmann, Der Papalagi. Die Reden des Südseehäuptlings Tuiavii aus Tiavea, Felsen-Verlag,
Buchenbach-Baden 1920.
249
Cfr. infra.
250
Cfr. Werner Graf, Adolf Hitler begegnet Karl May, Schneider-Verlag Hohengehren, Baltmannsweiler 2012;
Antonio Spinosa, Hitler. Il figlio della Germania, Oscar Mondadori, Milano 1993, p. 200; John Maxwell
Coetzee, “L’arte del Male”, Il Giornale, 21/3/2008. La saga di Winnetou fu, in particolare, la passione del

91
In tempi molto più recenti, e sempre a partire dagli USA, è stata la cosiddetta cultura New
Age che ha rivitalizzato il mito del Buon Selvaggio, corroborandolo originalmente con l'apporto
di pensiero, stavolta, di veri native americans, per quanto, sin troppo spesso, con scopi più
commerciali che spirituali o ideologici251.
Del resto, sempre negli USA, tuttora sono prodotti per esempio film che invece insistono,
offensivamente dal punto di vista dei movimenti indigeni, sullo stereotipo dell'indio cannibale e

Führer. Da notare che un autore tedesco più recente che si sia inventato un personaggio “indiano” che in seguito
ha prodotto un certo riscontro nella cultura letteraria, soprattutto quella votata a un certo misticismo connesso con
la queste di città utopiche in America a cui si è ampiamente accennato, è stato Karl Brugger (1941-1984), con la
sua Die Chronik von Akakor, pubblicata nel 1976 e che gli sarebbe stata ispirata dall'improbabile capo indio
Tatunca Nara, alias Günther Hauck. Brugger fu assassinato a colpi di pistola a Ipanema, Rio de Janeiro,
sicuramente in un episodio di piccola criminalità tra i tanti che si verificano nella cidade maravilhosa, ma i suoi
seguaci sostengono che fu assassinato in seguito alle rivelazioni che fece.
251
Cfr. Suzanne Owen, The Appropriation of Native American Spirituality, Continuum International Publishing
Group, New York 2008, passim. La New Age, del resto, ha esaltato molto non solo la spiritualità “indiana”, ma
anche l'idea non nuova che i nativi americani siano dei naturali protettori dell'ambiente contro le devastazioni
operate dalla civiltà industriale occidentale, idea già cara al famoso Grey Owl alias Archibald Belaney (1888-
1938) e molto diffusa tra gli attuali movimenti indigeni anche in Sudamerica, per esempio riferita agli Shuar nel
documentario El Oriente Ecuatoriano (2010), prodotto dal canale governativo ecuatoriano Ecuador TV, e
trasmesso nel programma Ecuador más que un punto condotto da Alan Jeffs e in onda tra il 2010 e il 2011 (era
disponibile on line fino a poco tempo fa, ora non più, ma nel frattempo io l'avevo già scaricato).

92
crudele, è il caso252 del recentissimo film di Eli Roth253 The Green Inferno (2014), ambientato
nell'Amazzonia peruviana e che ha già prodotto la reazione, tra le altre 254, anche dell'editorialista
del The Huffington Post David Hill, specializzato in temi relativi all'America Latina, il quale il 4
agosto 2014 ha pubblicato una recensione del film dal titolo “Hey, Eli Roth, About Your
'Cannibal Horror-Thriller'...”255, del quale in appendice voglio riportare alcuni stralci.
Concludo invece questa sintesi soggettiva, in voluto contrasto con le immagini del film di
Eli Roth, con un breve ma significativo accenno al già citato Anthony Knivet, marinaio inglese
al servizio del celebre corsaro e esploratore Thomas Cavendish, il quale, secondo la tesi più
accreditata256, lo abbandonò per ragioni ignote in Brasile nel 1591, dopo varie scorrerie lungo
l'attuale costa dello Stato di São Paulo, in particolare dopo il saccheggio di Santos257.
252
Un'altra produzione cinematografica statunitense recente in cui si possono riscontrare delle analogie con questo
stereotipo è il film Turistas, diretto da John Stockwell nel 2006, che racconta le disavventure di un gruppo di
turisti, non solo statunitensi, comunque protagonisti, ma anche inglesi, svedesi e australiani, che sono vittime di
un'organizzazione finalizzata all'espianto di organi in Brasile e diretta da un medico “folle”, che alla fine, però, è
ucciso da uno dei suoi uomini, un índio (!), stancatosi di essere maltrattato e disprezzato dal suo padrone. Anche
questo film veicola l'idea che l'America Latina in genere è un luogo pericoloso per i civli statunitensi, che
rischiano, in vario modo, di esservi cannibalizzati. Sarebbe da approfondire l'impatto che questo stereotipo ha
sull'opinione pubblica statunitense in funzione della geopolitica USA nei confronti dell'America Latina. Turistas,
comunque, è stato oggetto di reazioni e dibattiti legittimi in Brasile. Cfr. Leonardo Cruz, “Filme "Turistas" é alvo
de boicote na internet”, Folha de Säo Paulo, 6/12/2006
(http://www1.folha.uol.com.br/folha/ilustrada/ult90u66731.shtml); Diógenes Muniz, “Filme americano mostra
golpe a turistas no Brasil onde "tudo vale"”, Folha de Säo Paulo, 16/10/2006
(http://www1.folha.uol.com.br/folha/ilustrada/ult90u65181.shtml); Id., “Patético, filme "Turistas" agride menos
que produções nacionais”, Folha de Säo Paulo, 13/2/2007
(http://www1.folha.uol.com.br/folha/ilustrada/ult90u68442.shtml).
253
Celebre anche come attore, in particolare interprete nel film di Quentin Tarantino Inglourious Basterds (2009)
della parte di Donny "The Bear Jew" Donowitz.
254
Da segnalare anche l'accusa rivolta a Roth da parte del regista italiano Ruggero Deodato, che nel 1980 ha diretto
Cannibal Holocaust, di averlo plagiato. Cfr. Manlio Gomarasca, “The Green Inferno”, Nocturno, 6/2/2014
(http://www.nocturno.it/recensioni/the-green-inferno); Andrea Romano, “The Green Inferno, Ruggero Deodato
contro Eli Roth”, 2014 (http://www.supergacinema.it/film/news/12437-the-green-inferno,-ruggero-deodato-
contro-eli-roth.html).
255
http://www.huffingtonpost.co.uk/david-hill/hey-eli-roth-about-your-c_1_b_5642023.html .
256
Oppure sarebbe stato catturato dai Portoghesi durante le operazioni di guerra, come sembra riportato nel suo
libro, ma non ne è convinto lo storico brasiliano Jean Marcel Carvalho França. Cfr. infra.
257
Ricordo che all'epoca e già dal 1580 e fino al 1640, il Portogallo e le sue colonie facevano parte dell'impero
spagnolo nella cosiddetta União Ibérica, pertanto queste scorrerie sono da ascrivere alla guerra tra la Spagna di

93
Catturato dai Portoghesi, dalla cui dura schiavitù tentò di fuggire più volte, fu invece
trattato molto meglio dagli indigeni, da cui pure fu catturato durante uno dei suoi tentativi di
fuga, al punto che riportò nel suo libro (The Admirable Adventures and Strange Fortunes of
Master Antonie Knivet, which went with Master Thomas Candish in his Second Voyage to the
South Sea, 1591258) che preferì affidarsi alla pietà barbara dei selvaggi divoratori di uomini
piuttosto che alla crudeltà sanguinaria dei Portoghesi cristiani!

Felipe II e l'Inghilterra di Elizabeth I. Cfr. supra e infra.


258
Pubblicato a Londra nel 1625 dal celebre editore e autore di libri di viaggi Samuel Purchas – famoso anche per
aver ispirato il poema Kubla Khan al poeta romantico Samuel Taylor Coleridge –, dopo che era passato anche tra
le mani dell'altro celebre editore e autore di libri di viaggi Richard Hakluyt, tra l'altro notevole promotore della
colonizzazione inglese del Nuovo Mondo, nonché della citata leyenda negra, al servizio della regina Elizabeth I.
Cfr. Sheila Moura Hue, “Ingleses no Brasil: relatos de viagem 1526-1608”, Anais da Biblioteca Nacional 126
(2006), pp. 7-68; Loraine Slomp Giron, “Memórias de um escravo inglês no Brasil”, MÉTIS: história & cultura
6, 12 (2007), pp. 297-301; Giovanna Louise Nunes, “A viagem do corsário inglês Anthony Knivet ao mar do sul
e sua passagem pelo vale do rio Paraíba (1591-1597)”, Historiæ 4, 1 (2013), pp. 105-117. E cfr. anche Jean
Marcel Carvalho França, “Imagens do Brasil nas relações de viagem dos séculos XVII e XVIII”, Revista
Brasileira de Educação 15 (2000), pp. 7-15. Lo storico della UNESP è anche la principale voce dell'eccellente
documentario Brasil no Olhar dos Viajantes, prodotto nel 2013 dalla Tv Senado e facilmente reperibile su
youtube.

94
Dall'Indianismo al Neoindigenismo e viceversa

“Traditions” which appear or claim to be old are often quite recent in origin and sometimes invented

Eric Hobsbawm259

Si la historia es el espejo donde las generaciones por venir han de contemplar la imagen de las generaciones
que fueron, la novela tiene que ser la fotografía que estereotipe los vicios y las virtudes de un pueblo, con la
consiguiente moraleja correctiva para aquéllos y el homenaje de admiración para éstas.
[...]
Amo con amor de temura a la raza indígena, por lo mismo que he observado de cerca sus costumbres,
encantadoras por su sencillez, y la abyección a que someten esa razza aquellos mandones de villorio que si
varían de nombre no degeneran siquiera del epíteto de tiranos. No otra cosa son, en lo general, los curas,
gobernadores, caciques y alcaldes.

Clorinda Matto de Turner260

El rostro de ídolo de nuestros indios se remonta al recuerdo de una gran pérdida; reproduce la nostalgia por
esa gran pérdida, por esa gran muerte. Tal vez piensen que para ellos ya ha pasado todo, pero quizá también
piensen que nada ha pasado y que después del sufrimiento vendrá la resurrección.
Han luchado con furia y denuedo. Después de la conquista y después de la independencia, hasta nuestros días
más recientes del periodo posrevolucionario, han luchado de una manera salvaje, bárbara y primitiva.

José Revueltas261

259
“Introduction: inventing traditions”, in Hobsbawm, Ranger (a c.), The Invention of Tradition,...cit., p. 1.
260
Dal Proemio a Aves sin nido, a c. di Efraín Kristal e Carlos García Bedoya, prologo di Antonio Cornejo Polar,
Biblioteca Ayacucho, Caracas 1994 [1889], pp. 3-4. Clorinda Matto de Turner fu una figura notevole della
cultura peruviana e latinoamericana della fine dell''800 e sprecarsi in dibattiti sul fatto di etichettarla indianista o
indigenista, come succede, lo trovo perlomeno riduttivo. Di lei si è scritto: “ Clorinda Matto de Turner muestra
una constante lucha de la modernidad y lo tradicional a través del tratamiento de los indios y las mujeres, el
cambio de ideas y actitudes de los políticos y religiosos. Para Matto, su novela es una manera de romper la
tradición y acabar la viejas maneras de vida para poder crear lo que llevará la sociedad al futuro. En Aves sin
nido, Matto desafía el sistema del gobierno y del político para abrir a la sociedad una oportunidad de
mejorarse”, Michelle Farfán, “Un análisis de la modernidad en Aves sin nido, de Clorinda Matto de Turner”,
Hipertexto 1 (2005), p. 62. Cfr. infra.
261
José Revueltas, “Caminos de la nacionalidad”, in Ensayos sobre México. Obras completas, 19, Era, Ciudad de
México 1985, p. 19.

95
Esaurito il mio excursus sui precursori dell'indigenismo inteso come corriente de opinión
favorable a los indios, secondo il criterio espresso da Favre262, procedo a trattare peculiarmente
ma sempre in maniera soggettiva e sicuramente parziale, l'indianismo e l'indigenismo così come
si sono sviluppati nelle letterature dei Paesi postcoloniali dell'America Latina a partire dal XIX
secolo, fermo restando il fatto evidenziato nella parte precedente che gli autori protagonisti di
questi filoni letterari tanto importanti nella costruzione delle identità culturali e nazionali di detti
Paesi non sono stati certo indifferenti rispetto al retaggio trasmesso loro dagli autori supra
esaminati e dal contesto politico-culturale in cui avevano vissuto – basti pensare al mito del
Buon Selvaggio, alle rivendicazioni indigeniste cristiane delascasiste e gesuitiche che nel XX
secolo si sono evolute nella teologia della liberazione, all'idea stessa che l'indigeno non potesse
aver voce e dovesse essere un rappresentante della classe dirigente criollo-mestiza a parlare per
lui, ecc. –, laddove, ovviamente, questo retaggio si è intersecato con gli orientamenti politico-
culturali coevi a questi autori stessi, la cui esigenza prmaria è stata quella di costruire delle
tradizioni su cui fondare le identità nazionali dei nuovi Paesi.
Ora, come ha sostenuto il fondamentale storico britannico Eric J.Hobsbawm supra citato in
originale in epigrafe: “le "tradizioni" che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso
un'origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”.
Ebbene, questo assioma è probabilmente quanto definisce meglio ciò che in genere, riferito
alle letterature latinoamericane, si chiama indianismo, appunto il processo di costruzione, a
partire dalla letteratura, dei fondamenti delle identità nazionali dei Paesi dell'America Latina.
Parafrasando ancora il prestigioso storico britannico, le “tradizioni inventate”, da non
confondere con e a differenza della “consuetudine”, ovvero i vecchi modi di agire o di
comunicare ancora vitali, sono l'insieme di pratiche rituali e simboliche che si propongono di
inculcare nelle masse e soprattutto nelle generazioni future determinati valori e norme di
comportamento nelle quali sarebbe implicita una continuità con il passato.
Ma quale passato? Un passato opportunamente selezionato, che la "tradizione inventata"
immobilizza e pietrifica.
Ogni società ha infatti accumulato una riserva di materiali in apparenza antichi: per
rinsaldare vincoli nazionali, per connotare più marcatamente la fisionomia di partiti o di ceti, o
per attenuare quel senso di insicurezza che si avverte guardando a un futuro di radicali
innovazioni.

262
Cfr. supra.

96
Questa sorta di ingegneria sociale e culturale ha caratterizzato in genere l'affermarsi delle
nazioni moderne, che hanno cercato di legittimare la loro più recente “storia” cercando radici nel
passato più o meno remoto, a definire un'identità sin troppo rigida e ripetitiva, e questo a
differenza delle comunità e società tradizionali come quelle indigene, in cui gli usi e i costumi
convenzionali non escludono a priori il cambiamento o l'innovazione.
Nell'applicare questa analisi generale allo specifico latinoamericano, voglio di seguito
riportare e commentare quanto scrive Trinidad Barrera263 nel VI capitolo, intitolato El
indigenismo narrativo. del indianismo al neoindigenismo, del suo studio Del centro a los
márgenes: narrativa hispanoamericana del siglo XX264:

Largo camino ha sufrido la imagen del indio desde sus primeros tiempos, sobre él se han
arrojado miradas que han ido desde la idealización y el grito social hasta una visión histórica
donde no se le trata sólo como sujeto de reivindicación social en una sociedad que le margina,
sino como sujeto de su propia redención. Indianismo, indigenismo y neoindigenismo han sido
términos que permiten, con relativa comodidad, delimitar visiones distintas a lo largo del
tiempo.
Si nos ceñimos al campo de la narrativa, se entenderá como «indianismo» la corriente
romántica que proporciona una visión sentimental del indio265, bajo una actitud exotista, en tono
nostálgico, que emplea una técnica descriptiva y pictórica y un lenguaje colorista 266. Tiene su
mejor exponente en la novela ecuatoriana Cumandá (1879) de Juan León Mera267, pero el tema
indudablemente no surge en el XIX.
El indio fue, desde la conquista, un sujeto extraño a los ojos europeos y un rico material en
crónicas, cartas y relaciones. La polémica sobre el «hombre natural» no había hecho más que
empezar. Bartolomé de Las Casas en su Brevísima relación de la destrucción de las Indias
(1552) dejó escrito al respecto un memorial de agravios, pero la polémica no termina en él. La
corriente de simpatía que identifica al indio con la bondad y la inocencia tendría su repercusión

263
Trinidad Barrera López è ordinaria di Letteratura Ispanoamericana presso l'Università di Sevilla.
264
Del centro a los márgenes...cit., pp. 43-56.
265
Il sottolineato è mia iniziativa, come nelle altre occasioni nel corso del testo citato.
266
Luis Alberto Sánchez (1900-1994), prestigioso scrittore, giornalista, storico e politico peruviano precisò, ancor
meglio: “que el indianismo fue un producto de raíz autóctona que llegó a formar parte de la cuestión americana
al ser importado/adoptado en un afán de imitación de Europa”, in Luis Alberto Sánchez, Indianismo e
indigenismo en la literatura peruana, Mosca Azul, Lima 1981, p. 23.
267
Cfr. supra.

97
en Europa, Montaigne, Voltaire, Rousseau, Marmontel 268 son nombres que irán surgiendo en el
tiempo para hablar o inspirarse en ese «hombre natural». Con la independencia americana la
suerte del indio no cambió. Las nuevas constituciones abolieron la esclavitud y servidumbre
indígena pero hacía falta algo más que la letra impresa y lógicamente la situación se hace
insostenible en aquellos países que contaban con un colectivo considerable, México, Guatemala
y la zona andina, preferentemente.
Ya que el tema realmente no había desaparecido, en el siglo XIX será inspiración para ciertas
novelas que mezclan unas gotas de amores imposibles con alguna leyenda indígena o
acontecimiento histórico del pasado para plantear una historia sentimental cuyos protagonistas
tengan sangre indígena – al menos uno de ellos –. Netzula (1832) de Lafragua 269, Guatimozín
(1846) de Gertrudis Gómez de Avellaneda 270, Enriquillo (1879-82) de Manuel de Jesús
Galván271 o la citada Cumandá, todas participan de alguna forma en estas constantes. En buena
medida responden a la búsqueda de una expresión peculiar americana, pero en este siglo el

268
Jean-François Marmontel (1723-1799) è stato, tra l'altro, collaboratore di Diderot e d'Alembert nella stesura
dell'Encyclopédie.
269
José María Ibarra Lafragua (1813-1875) fu uno scrittore e politico messicano, originario di Puebla, alla cui
amministrazione lasciò in eredità la sua corposa biblioteca che venne a costituire la tuttora esistente Biblioteca
Histórica José María Lafragua de la Benemérita Universidad Autónoma de Puebla
(http://www.lafragua.buap.mx/).
270
Gertrudis Gómez de Avellaneda, detta Tula (1814-1873), nata nell'allora chiamata Santa María de Puerto
Príncipe della Cuba spagnola, oggi Camagüey, fu un'importante rappresentante del romanticismo e del
femminismo, all'epoca in nuce, dell'America Latina, ma anche di Spagna: il celebre critico letterario spagnolo
Marcelino Menéndez y Pelayo (1856-1912) la considerò tra le figure più importanti della poesia in lingua
spagnola. Il suo romanzo indianista Guatimozín fu pubblicato a Madrid, dove, nel 1871, pubblicò anche El
cacique de Turnequé. Cfr. Concha Meléndez, La novela indianista en Hispanoámerica (1832-1889), Universidad
de Puerto Rico, Río Piedras 1961, p. 190 e passim; Mary Louise Pratt, “Women, Literature, and National
Brotherhood”, in AA.VV., Women, Culture, and Politics in Latin America. Seminar on Feminism and Culture in
Latin America, University of California Press, Princeton 1992, pp. 63, Janet Greenberg, “Towards a History of
Women's Periodicals in Latin America”, in ibid., pp. 174, 180.
271
Manuel de Jesús Abreu Galván (1834-1910) fu uno scrittore, politico e giornalista dominicano. Il suo romanzo
Enriquillo ebbe un notevole riscontro all'epoca, dedicato alla figura dell'omonimo cacique taíno dell'isola de La
Española (oggi divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana) che si ribellò contro gli Spagnoli tra il 1519 e il
1533, nella davvero ultima vicenda di resistenza del suo popolo, in seguto condotto all'estinzione. Il successo
coevo dell'opera risiede nel fatto che Enriquillo venne considerato simbolo della resistenza contro il colonialismo
spagnolo, all'epoca ancora presente nei Caraibi. Cfr. Franklin Gutiérrez, Enriquillo: radiografía de un héroe
galvaniano, Editora Búho, Madrid 1999.

98
mundo indígena es interpretado por los códigos de una cosmovisión cristiano-católica, mientras
que en el siglo XX predominará la visión positivista y marxista.
Se suele citar como novela puente entre el indianismo decimonónico y el indigenismo de este
siglo la novela Aves sin nido (1889) de la peruana Clorinda Matto de Turner (1854-1909),
aunque en realidad está más próximo al primero que al segundo, sin embargo es precisamente
Perú uno de los países más importantes para el desarrollo de esta vertiente. En 1879, tras la
guerra del Pacífico, se comienzan a cuestionar las teorías en torno a la inferioridad de la raza
indígena y paralelamente se denuncian los estamentos explotadores (cholos272, latifundistas,
gamonales273, militares, clero, etc.). En 1904 el peruano Manuel González Prada (1844-1918)
publica el ensayo Nuestros indios y pone el dedo en la llaga, la cuestión indígena es económica
y social. La piedad y la conmiseración se habían mezclado hasta entonces con la incomprensión
o la ignorancia de los niveles económicos y sociales del universo indígena. Años después José
Carlos Mariátegui (1894-1930) en uno de sus Siete ensayos de interpretación de la realidad
peruana (1928) volverá sobre las teorías de González Prada para señalar el problema indígena
como social y económico. El primer derecho del indio es la tierra y asocia el indigenismo al
mujikismo – téngase en cuenta la formación marxista de Mariátegui, fundador del Partido
Comunista peruano274 –. En la década de los veinte y desde la páginas de «Amauta»275, su labor

272
Cholo è un dispregiativo largamente usato nell'America ispanica: il cholo è l'indio acculturato e magari
urbanizzato, ma nel senso peggiorativo del termine, a rimarcare la sua presunta inferiorità, ignoranza, stupidità, in
genere una condizione sociale e culturale subalterna. In tal senso, lo si usa anche tra i mestizos e i criollos
nell'accezione con cui in Italia si userebbero oggi le parole “sfigato” o Fantozzi per antonomasia, dal cognome
del personaggio della celebre saga satirica di Paolo Villaggio, o anche “terrone” e analoghe parole di uso
popolare in riferimento alla presunta inferiorità dei meridionali, paragone anzi più calzante. Nel film ecuatoriano
A tus Espaldas (2011), del regista Tito Jara, vincitore della I edizione dell'Ecuador Festival di Genova (2012)
dopo aver conosciuto un grande successo anche in patria, si fa riferimento al cholómetro, molto diffuso anche on
line, una sorta di breviario funzionale alla misura di quanto uno sia cholo. È superfluo commentare su quanto
tutto ciò sia avvilente per gli indigeni.
273
I gamonales, attivi tra la metà del XIX sec. e gli anni '70 del XX, erano latifondisti di nuova generazione,
postcoloniale, che si arricchirono e crebbero in potere politico in Perù sottraendo con la viokenza le terre agli
ayllu e ai comuenros indigeni.
274
E involontario “fondatore” anche dell'organizzazione “terrorista” peruviana di estrema sinistra Sendero
Luminoso, il cui nome ufficiale invero è Partido Comunista del Perú, laddove il nome popolare è appunto quello
citato, che deriva da una massima, appunto, di Mariátegui: “El marxismo-leninismo abrirá el sendero luminoso
hacia la revolución”. Cfr. Martín Latorraca, Hugo Montero, “Sendero Luminoso: de Mariátegui al terror rojo”,
Sudestada 93 (2010; http://www.revistasudestada.com.ar/article.php3?id_article=726).
275
Amauta, che deve il nome ai sapienti inca, fu una celebre rivista letteraria peruviana fondata e diretta proprio da
Mariátegui a partire dal settembre del 1926 fino alla sua morte. Diffuse nel Paese andino la psicoanalisi, il

99
ejercerá un gran influjo en la gestación de la corriente indigenista pues señalará las bases de
reivindicación económica y política del pueblo peruano.
La novela indigenista registra muchos matices y variantes que van desde el retrato de la
situación económica, social y costumbrista del indio de entonces, como en Raza de bronce
(1919) del boliviano Alcides Arguedas (1879-1946) a la pintura naturalista e influjo del
neocolonialismo norteamericano de Huasipungo (1934) del ecuatoriano Jorge Icaza (1906-
1978). El indigenismo literario u «ortodoxo» pertenece al periodo comprendido entre las dos
guerras mundiales y sobre él dejaron sentir su influjo la Revolución Mexicana y la Revolución
Rusa.
Hablar del indigenismo implica hablar de un mundo dividido y desintegrado. Ya Mariátegui
afrimó la índole dual del Perú así como el desigual desarrollo de sus componentes históricos.
Su nota distintiva es la heterogeneidad cultural y social – señalada por Cornejo Polar (1980 276)
–, la constancia de que existe un cruce de culturas y sociales que conviven en un mismo espacio
natural y se cruzan sin fusionarse. En suma, predominio de una visión social del sujeto, con
actitud reivindicativa, tono de protesta técnica testimonial y lenguaje que intenta imitar el habla
del indio.
A partir de 1955 se empieza a notar una nueva óptica fruto del contacto con las nuevas formas
sociales de la modernización económica y el mestizaje cultural. Se le llama “neoindigenismo” y
tiene en el peruano José María Arguedas (1911-1969) su mejor representante. La visión del
sujeto es más humana, la actitud es redencionista, más que reivindicativa, el tono,
antropológico, la técnica psicológica y etnológica y el lenguaje tienden a una mayor
naturalidad. La novela Los rios profundos (1958) de José María Arguedas es uno de sus
mejores ejemplos. Esta línea, en mezcla con el realismo mágico, de sello marquiano, dará sus
frutos en otro peruano Manuel Scorza (1928-1983277).

cubismo, la nuova narrativa sovietica, nonché l'indigenismo, ma in chiave marxista, appunto. Cfr. Luis Veres
Cortés, “La revista Amauta y el concepto de nación en el Perú”, Revista Latina de Comunicación Social 24
(1999; http://www.ull.es/publicaciones/latina/a1999adi/09Veres.html).
276
Literatura y sociedad en el Perú: la novela indigenista, Lasontay, Lima 1980.
277
Ricordo che Manuel Scorza fu tra le vittime del famigerato Volo 11 Avianca che, il 27 novembre del 1983,
precipitò al suolo nelle fasi preliminari all'atterraggio presso l'aeroporto di Madrid-Barajas. Il volo era diretto a
Bogotá, dove Scorza, che da poco aveva pubblicato il suo ultimo romanzo, La danza inmóvil, e altri intellettuali
latinoamericani con lui presenti in quell'aereo, avrebbero partecipato al Primer Encuentro de la Cultura
Hispanoamericana. Tra le altre vittime ricordo lo scrittore, saggista e critico letterario uruguayano Ángel Rama
(1926-1983), tra le cui opere spicca l'importante saggio Transculturación narrativa en América Latina (1982), in
cui inquadrò la letteratura latinoamericana fino alla sua epoca tra l'indigenismo e la cultura europea nel contesto
della società sempre più industrializzata o, come si direbbe oggi, globalizzata.

100
En la época de Alcides Arguedas, la situación del indígena boliviano era muy poco idílica.
Bolivia, país de fuertes contrastes geográficos, es el escenario donde habitan quechua y
aymarás, un importante contingente de la población altoperuana. La memoria histórica desvela
cómo la derogación de las leyes que lo esclavizaban poco importaba si sus tierras habían sido
expropriadas. El indio, ya sea trabajador de las minas o agricultor, se encontraba
indisolublemente ligado al patrón y sus exigencias por deudas incomprensibles. El gamonal
contaba para su explotación con la colaboración de la iglesia y del poder legal corrupto,
mientras el Estado ignoraba voluntariamente esta situación aunque acudía a esta mano de obra,
sufrida y resignada, para las tareas más ingratas: desde l construcción de caminos o transportes
de mercancía al reclutamiento forzoso en la defensa del Estado, como occurrió con la guerra
del Chaco.
El indio boliviano reclamó la atención de ensayistas del país. Títulos como El Ayllu (1903) de
Bautista Saavedra278, Mitos, supersticiones y supervivencias populares de Bolivia (1920) de
Rigoberto Paredes279 o La tristeza y el dolor bolivianos (1937) de Federico Ávila280 merecen
citarse al lado de los escritos de Franz Tamayo 281 y Gustavo Adolfo Otero282 quien en Figura y
carácter del indio (1949) pone al descubierto su propia experiencia personal en comunidades
indígenas. Formaban parte de un conjunto de escritores que, desde diversas atalayas,
cuestionaron críticamente a su país. En ese grupo estaba Alcides Arguedas.
La novela boliviana tuvo, desde sus inicios, un marcado carácter social, poco a casi nada
arraigó la novela de idealización de indio. La obra que inició la narrativa social fue La
Candidatura de Rojas (1909) de Armando Chirveches283 donde se plantean los dos grandes
problemas del país: la pérdida del litoral 284 y la cuestión indígena. Jaime Mendoza 285, otro de los
grandes noovelistas de entonces, expone en Las tierras del Potosí (1911), las miserias del indio
minero. Chirveches, Mendoza y Arguedas son los novelistas más destacados del periodo
278
Bautista Saavedra Mallea (1869-1939), fu un sociologo, giornalista e politico boliviano, presidente della Bolivia
tra il 1921 e il 1925, morto in esilio in Cile. Nel suo saggio citato critica pesantemente l'istituzione incaica
dell'ayllu, considerata retrograda da un punto di vista liberal-borghese.
279
Manuel Rigoberto Paredes Iturri (1870-1951) fu un etnologo e político boliviano.
280
Federico Ávila (Tarija, 1904-1973) fu scrittore e storico prolifico, tra l'altro fondatore della Universidad Libre
della sua città natale. Cfr. il pensatore socialista spagnolo Fernando de los Ríos (1879-1949), Obras completas:
Escritos guerra civil y exilio, Anthropos Editorial, Madrid 1997, che cita Ávila (p. 254): “Somos un pueblo serio,
meláncolico y trágico... un país resignado que sufre pacientemente”.
281
Franz Tamayo (1879-1956) fu un poeta, politico e diplomatico boliviano.
282
Gustavo Adolfo Otero Vértiz (1896-1958) fu uno scrittore, politico e diplomatico boliviano.
283
Armando Chirveches (1881-1926) fu un avvocato, poeta e scrittore boliviano. Morto suicida a Parigi.
284
In seguito alla sconfitta nella citata guerra del Pacifico (1879-1883).
285
Jaime Mendoza (1874-1939) fu un geografo, scritttore, politico e medico boliviano.

101
realista (1905-1932) que concluye con la guerra del Chaco 286, hecho social de trascendencia
histórica que genera una nueva mentalidad.
Los males sociales habían tenido un primer comentarista, en el siglo pasado, en la voz de René
Moreno287 del que Alcides Arguedas sería su mejor discípulo en su ensayo Pueblo enfermo
(1909)288.
[…]
Como fundador de la realidad peruana ha sido calificado el escritor Ciro Alegría (1908-1967).
Novelista clásico es, junto a su compatriota José María Arguedas, uno de los mejores ejemplos
del indigenismo en la narrativa. Autor de tres novelas publicadas en vida, La serpiente de oro
(1935), Los perros hambrientos (1939), El mundo es ancho y ajeno (1941), escritas en su
destierro chileno, y un libro de relatos, Duelo de caballeros (1962), dejó tras su muerte una
serie de obras inconclusas que la paciente labor de su viuda, Dora Varona, ha ido perfilando y
dando a la luz con el tiempo.
Componen estos escritos un total de veinte piezas, desde su novela Lázaro a cuentos infantiles,
relatos de la selva, ensayos e incluso una especial autobiografía que Dora fue entresacando de
opiniones y entrevistas.
Alegría, hombre cercano a los presupuestos del APRA 289, que llegó a sufrir varios
encarcelamientos y destierro, dejó en sus novelas un testimonio lírico sobre las condiciones de
vida del indio peruano así como de su mundo y vivencias, menos negativa que la de sus colegas
Jorge Icaza y Alcides Arguedas. Indigenista ortodoxo, como López Albújar 290, se interesó sobre

286
La sanguinosa e fratricida Guerra del Chaco fu combattuta tra Paraguay e Bolivia, che si contendevano in
particolare la regione cosiddetta del Chaco Boreal tra il settembre del 1932 fino al giugno del 1935.
287
Gabriel René Moreno del Rivero (1836-1908) fu un celebre storico e critico letterario boliviano, ricordato anche
con l'epiteto di «príncipe de los escritores bolivianos».
288
Pubblicato a Barcellona con il sottotitolo Contribución a la psicología de los pueblos hispanoamericanos. Cfr.
Marcela Naciff, “La Raza de bronce de un Pueblo enfermo, o Alcides Arguedas y el problema del indio”,
Cuadernos del CILHA 9/10 (2008), pp. 34-46, che mette in rilievo come “Se ha incluido a Alcides Arguedas
como parte de la Generación de la amargura [...]. Dos obras que representan esta cultura son Raza de bronce y
Pueblo enfermo. Arguedas narrativiza en la primera y argumenta en la segunda su ideología con respecto a la
realidad del indio boliviano y su falta de confianza en la transformación de esa realidad”. La Naciff, nel seguito
del suo articolo, rileva “las correspondencias y las discrepancias de ambos textos con respecto a este tema”.
289
L'Alianza Popular Revolucionaria Americana fu fondata da Víctor Raúl Haya de la Torre nel 1924 con
un'ispirazione internazionalista, socialista e antiimperialista, nonché con il fine di dar voce agli indigeni. Con il
tempo questo partito peruviano ha non solo cambiato nome – Partido Aprista Peruano – ma anche il suo
orientamento, che oggi è più d'ispirazione liberal-borghese, nonché rappresentativo della classe dirigente mestizo-
criolla del Paese andino. Cfr. supra.

102
todo por ver al indio como persona, fijándose en sus valores personales e internos y en las
raíces que une al indio con su mundo, la naturaleza, la tierra y el agua.
En 1961 se celebró en Arequipa el primer Encuentro de narradores peruanos y allí señaló
Alegría los dos aspectos, en su opinión, fundamentales del indigenismo, la lucha y
reivndicación, por un lado, y por otro, las calidades humanas del universo indígena. Sobre todo
es el segundo punto el que le interesó y el que dejará plasmado en sus novelas.
La primera de ellas, La serpiente de oro, no sería indigenista “strictu sensu”, en opinión de
Cornejo Polar (1989291). Describe el mundo familiar y habitual de los cholos balseros de
Calemar, adoradores del Rio Marañón, fuente de vida, y contrapone este mundo primitivo y
campesino con el citadino representado por la figura del ingeniero limeño que va a la selva para
enriquecerse y termina devorado por ella292. Un mundo de colores y sensaciones sirve para la
presentación de una naturaleza pródiga cuya vértebra es esa “serpiente de oro”, ese agua
sagrada que se convierte en una protagonista más de la obra. Poco importa que sus personajes
sean indios o cholos, interesa más la relación hombre-naturaleza con sus papeles
complementarios.
Cuatro años más tarde ve la luz su segunda novela, Los perros hambrientos. Aquí son los
animales, los perros, los que se humanizan. Wanka, Güeso y Mañu adquieren un protagonismo

290
Lo scrittore e poeta peruviano Enrique López Albujar (1872-1966), il cui testo più rappresentativo sarebbe il
racconto Ushanan-Jampi (in Cuentos andinos, 1920), è da alcuni considerato il padre dell'indigenismo letterario.
Nel racconto citato è trattata la questione, ancora molto attuale e spinosa, della cosiddetta justicia indígena,
recentemente oggetto di dibattiti accesi soprattutto in Ecuador tra il governo Correa, gli intellettuali che lo
appoggiano e i movimenti indigeni. Oggetto, però, anche di una citazione bonariamente satirica nel recente film
di successo Prometeo deportado (2010) del regista ecuatoriano Fernando Mieles, che lo ha anche presentato
personalmente al XIV Genova Film Festival di Genova (2011). Il film è un atto di denuncia, sia pure in chiave
surrealista, o meglio di realismo magico, contro le restrizioni dell'Unione Europea nei confronti dei migranti
d'America Latina. Fernando Mieles ha aderito all'iniziativa politico-culturale Nuevas Cartas capitanata da Mario
Campaña. Cfr. Adriana I. Churampi Ramírez, “Ushanan-jampi: la justicia de "los otros"”, Espéculo. Revista de
estudios literarios 30 (2005; https://pendientedemigracion.ucm.es/info/especulo/numero30/ushanan.html);
http://nuevascartas.blogspot.it/ e infra.
291
La formación de la tradición literaria en el Perú, CEP, Lima 1989.
292
Una trama molto simile, forse ispirata all'opera di Alegría, è raccontata nel film peruviano Madeinusa, diretto da
Claudia Llosa (2005; disponibile su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=h9Z-gdz9s9Q), nel quale, anche
in tal caso, un giovane limeño è fagocitato dai crudi costumi degli indios, in particolare di una comunità quechua
della sierra, che pensava di poter “correggere” nella persona della protagonista, la giovane Madeinusa (battezzata
con questo nome derivato dall'etichettà di un prodotto della civiltà dei ricchi su cui campeggiava la scritta made
in USA), la quale invece si serve di lui per sfuggire all'incesto e abbandonare la propria famiglia e la propria
comunità.

103
junto a los humanos. Dos mundos paralelos confluyen en ella, el de los hombres y el de los
perros, que una mirada en movimiento relaciona. La importancia de la tierra es lo más
destacado, el campesino parece vinculado a su habitat natural y el agua es elemento necesario
para que la tierra de sus frutos. Su falta enfrentará a hombres y perros. La sequía es la
desgracia. La dureza de la vida en la serranía norte peruana, entre el páramo y la cordillera, se
hace más terrible cuando comienza la sequía y con ella la hambruna. Los capítulos once al
dieciocho son dramáticos en este sentido. El ritmo de la vida se ve así interrumpido. En este
novela, como en todas las de Alegría, se intercalan relatos orales y quizás sea la mejor
estructurada de las tres, pese a que su redacción estuvo motivada por un ejercicio de
rehabilitación médica aconsejado.
La fama le viene con la tercera de ellas, El mundo es ancho y ajeno, con la que ganó, en Nueva
York, el Concurso Farrar and Rinehart en 1941. Es la más ambiciosa y larga de la tres obras
publicadas en vida y en ella adquiere protagonismo la comunidad de Rumi que aparece en la
primera parte de la novela con tintes idílicos. El mundo paradisiáco del ayllu se ve
interrumpido en la segunda parte marcada por las duras condiciones del trabajo de los indios ya
sea en las minas, el caucho o la coca. En la tercera parte aparecerá Benito Castro, el indio
instruido como elemento salvador de las injusticias sufridas por la comunidad. Castro comparte
protagonismo con Rosendo Maqui, el sabio alcalde comunero de la primera parte de la obra.
La injusticia ancestral padecida por el indígena es el hilo conductor de esta novela.
El problema de la tierra, la pérdida de Rumi permite que la obra se deslice de la presentación de
los valores indígenas a la protesta social. Como las otras novelas también esta tiene un valor
simbólico en el título, el mundo es ancho y pertenece a otros. Benito Castro, la nueva semilla,
será el encargado de levantar los ánimos de su pueblo, dirigiendo un levantamiento como
proyecto de futuro y modelo de revolución.
Dado que por esas fechas ya estaban dándose otras formas narrativas más próximas a los
presupuestos europeos y pese a sus méritos y a la sinceridad de sus propuestas, esta novela ha
sido considerada como una de las últimas muestras de regionalismo narrativo que tan honda
vigencia tuvo en el primer tercio de siglo.
Jorge Icaza, escritor ecuatoriano perteneciente a la rama desheredada de una familia
terrateniente, tendría que ser incluido en la generación de 1930, la segunda generación de este
siglo cuyo cambio de orientación se remonta a Luis A. Martínez 293 con A la costa (1904),
novela de transición que presenta los problemas sociales del pueblo, los conflictos de clase, la
lucha política interna y los prejuicios. La segunda parte de esta obra sobresale por su
observación atenta de la costa ecuatoriana y su incidencia en la vida nacional. Le sigue en
293
Luis Alfredo Martínez (1869-1909) fu uno scrittore, pittore e politico ecuatoriano, nativo di Ambato, nella sierra,
considerato iniziatore del realismo in Ecuador.

104
importancia otras novelas, Égloga trágica (1910) de Gonzalo Zaldumbide 294 que marca el
contraste entre razas, y Plata y bronce (1927) de Fernando Chávez 295 que insiste también en las
diferencias sociales y psicológicas entra las razas 296.
En 1930 se publica una collección de cuentos de varios autores (Joaquín Gallegos Lara,
Enrique Gil Gilbert y Demetrio Aguilera Malta 297) cuya acción se sitúa en la costa selvática y
entre los montuvios298. Su título, Los que se van, representa el comienzo de un vasto
movimiento literario en Ecuador orientado hacia un realismo de base social y política.
Preocupados por el destino de su patria, dieron un fuerte contenido de crítica social a su obra
presentando la situación semicolonial del Ecuador, en serio contraste entre el latifundismo y la
miseria campesina. Ciertos aspectos del conflicto social llegan a ser motivos literarios, tales
como el gamonalismo, la explotación del indio serrano, la del montuvio costeño, la del cholo
294
Gonzalo Zaldumbide (1884–1965) fu uno scrittore e diplomatico ecuatoriano la cui famiglia faceva parte
dell'aristocrazia mestizo-criolla quiteña.
295
Fernando Chávez Reyes (1902-1909) fu uno scrittore ecuatoriano originario di Otavalo, nella sierra settentrionale
del Paese a nord di Quito, attualmente zona di rinascita della cultura quichua.
296
È da mettere in rilievo come su questi autori abbiano influito le tesi pseudoscientifiche, all'epoca tanto in voga in
Europa, del darwinismo sociale di Herbert Spencer (1820-1903) e dei suoi epigoni, dell'antropologia criminale di
Cesare Lombroso (1835-1909), il cui vero nome era Marco Ezechia Lombroso ed era di famiglia ebraica, nonché
del cosiddetto razzismo scientifico che ne derivò, con tutte le conseguenze deleterie che tuttora sono vive e già
tanti danni e crimini contro l'umanità hanno provocato. Cfr. Favre, El movimiento indigenista...cit., pp. 42-49 e
passim; Marta Elena Casaús Arzú, “La representación del otro en las elites intelectuales europeas y
latinoamericanas: un siglo de pensamiento racialista 1830-1930”, Iberoamericana. Nordic Journal of Latin
American and Caribbean Studies XL 1-2 (2010), pp. 13-44. L'autore latinoamericano che probabilmente ha più di
tutti incarnato il racialismo è stato il cileno Nicolás Palacios (1858-1911), con il suo saggio, che ha influenzato in
maniera determinante il nazionalismo ultrón dell'estrema destra cilena fino ad oggi, Raza Chilena. Libro escrito
por un chileno i para los chilenos (Imprenta y Litografía Alemana, Valparaíso 1904, prima edizione pubblicata
anonima). Secondo lui, i Cileni sarebbero stati il frutto della fusione tra Goti e Araucani.
297
Joaquín Gallegos Lara (1911–1947), Enrique Gil Gilbert (1912-1973), Demetrio Aguilera Malta (1909-1981)
furono scrittori guayaquileños, tre dei 5 del cd. Grupo de Guayaquil citato infra – gli altri due furono José de la
Cuadra y Vargas (1903-1941) e Alfredo Pareja Díez-Canseco (1908-1993) – che negli anni '30 del '900
importarono nella letteratura ecuatoriana il realismo sociale di matrice naturalista, ma ispirato anche alle coeve
letterature messicana postrivoluzionaria e statunitense posteriore alla Great Depression.
298
I montuvios o montubios sono oggi riconosciuti, in Ecuador, una vera e propria identità culturale regionale, frutto
della fusione tra le etnie native della costa con i primi coloni spagnoli, soprattutto andalusi, nonché con gli
schiavi africani. La loro più famosa espressione culturale è l'amorfino, testo in versi sempre di contenuto ironico-
satirico in forma di contrasto – botta e risposta tra uomo e donna, genere già tipico della poesia provenzale e di
quella siciliana nel Medioevo –, composto nel peculiare linguaggio che è una varietà di spagnolo popolare, usato
anche dal citato Paulo de Carvalho-Neto per il suo romanzo Mi tío Atahualpa. Cfr. supra e il cap. II.

105
citadino, la penetración imperialista, la huelga, el cuartelazo 299, etc. Desde el punto de vista
literario, Los que se van encerraba un ataque al costumbrismo superficial de fin de siglo pero
ocultaba defectos elementales tales como la estereotipación.
Los novelistas de este volumen pertenecían a uno de los tres grupos literarios que surgen en
Ecuador en torno a las tres regiones más importantes de su geografía, el grupo de Guayaquil o
del Litoral que expresó la tragedia del trabajador de la costa o montuvio.
El segundo grupo reunía a escritores en torno a las Universidades de Cuenca y Loja y fue
conocido como el grupo del Austro, Alfonso Cuesta, Humberto Mata, Alejandro Carrión 300,
buenos analistas del pueblo cholo. El tercero fue el grupo de Quito, centrado en la tragedia del
campesinado indio y el paisaje andino. A este último pertenecía Jorge Icaza. El auge de estos
grupos se extiende hasta 1945.
Un año antes de su celebre novela Icaza publica Barro de la sierra, colección de cuentos donde
trata la explotación del indio en manos del latifundista y la connivencia del clero, las
autoridades y los falsos líderes. El despojamiento del indígena, su realidad infrahumana y su
aislamiento social serán constantes repetidas en su obra siguiente. En 1934 aparece en Ecuador
una novela que marca el fin de la tradición indianista romantica y la culminación de una nueva
tendencia indigenista. Se caracterizará por un lenguaje de brutal realismo, un propósito de
intensa crítica social y una ideología revolucionaria próxima al marxismo. Su nombre
Huasipungo. En ella se condenan las transformaciones económicas motivadas por la alianza
entre los latifundistas nativos y el capital extranjero de honda repercusión sobre las condiciones
de vida del indígena301.
Huasipungo se inscribe en la corriente indigenista andina y su presentación del mundo andino
no escatima tintes extremos. Un mundo atroz, sin eufemismos ni contemplaciones, duro, brutal,
doloroso, en suma una realidad intolerable expresada a través una literatura ad hoc. El reclamo
de justicia, la denuncia y la protesta permanente son la tónica de un relato marcado por una

299
Colpo di stato militare, esperienza, riuscita o fallita, che l'Ecuador ha conosciuto varie volte nella sua storia. Il 30
settembre del 2010 mi trovavo a Guayaquil quando è avvenuto l'ultimo tentativo di rovesciare il governo, in
particolare quello del presidente Correa, che è stato sequestrato sia pure per breve tempo dai militari golpisti.
300
Alfonso Cuesta y Cuesta (1912-1991) fu scrittore e docente universitario cuencano. Humberto Mata (1904-1988)
fu un poeta e scrittore di Quito. Alejandro Carrión Aguirre (1915-1992) fu un poeta, scrittore e giornalista di
Loja, il cui zio fu Benjamín Carrión Mora (1897-1979), prestigioso intellettuale e politico, nonché promotore
culturale. Cfr. infra.
301
In effetti in Huasipungo è già ben presente la denuncia di un fenomeno ancora molto attuale, anzi ormai
dilagante, in Ecuador come nel resto dell'America Latina: l'invasione delle imprese statunitensi – oggi diremmo
multinazionali – a sfruttare le risorse locali, anche umane, a costi risibili per le imprese, pesantisimi per i locali,
soprattutto gli indigeni.

106
pirámide de subyugación. La narración recoge las humillaciones sufridas por el colectivo
indígena hasta la sublevación final, como respuesta a la usurpación del “huasipungo”, parcela
de tierra para cultivo del indio situada en el interior de la propiedad del hacendado latifundista
o gamonal. Nadie escapa a su visión negra de la sociedad, ya sea la animalidad de los indios o
la ambición de los terratenientes. Icaza escribe como habla un gran sector del pueblo
ecuatoriano, con rudeza y franqueza. La compenetración entre lenguaje popular y literario se
une a la incorporación del dialecto indígena con quechuismos, un mestizaje verbal que no
siempre convenció a todos los sectores críticos302.
Tras esta novela Icaza se traslada al ámbito urbano y así surge En las calles (1935). Después
vendrían Cholos (1937), Media vida deslumbrados (1942), Huairapamushcas (1948) y los Seis
Relatos (1952) hasta llegar a El chulla Romero y Flores (1958), la mejor quizás en su
indagación del papel del cholo como símbolo de la nación ecuatoriana 303. Su última obra,
Atrapados (1972), constituida por una trilogía, se centra en las relaciones entre el arte y la
sociedad y la realidad y la ficción.
Con la postura narrativa del peruano José María Arguedas se ejemplifica lo que ha venido a
llamarse neoindigenismo304, especialmente a partir de su novela Los ríos profundos (1958).
Según Tomás Escajadillo (1985305), una serie de características concurren en él, a saber, su
confluencia con el realismo mágico, la intensificación del lirismo, la ampliación del tratamiento

302
Possiamo paragonare questa letteratura e il linguaggio di cui fa uso a quella degli scrittori siciliani del '900,
soprattutto quelli divulgati da Sellerio, o degli scirttori sardi degli ultimi decenni, divulgati da case editrici quali
Ilisso e Il Maestrale, in particolare. Nel 1997 ho avuto il piacere di conoscere personalmente Giuseppe Bonaviri
(1924-2009), invitato dall'Ambasciata Italiana di Tunisi a tenere una conferenza presso la Scuola Italiana di
Tunisi dove allora lavoravo. Alla stessa conferenza partecipava Nico Naldini, poeta e scrittore, nonché regista,
noto anche per la sua parentela con Pierpaolo Pasolini, per anni docente di Letteratura italiana presso l'Università
di Tunisi. Ricordo che a Bonaviri chiesi che cosa ne pensasse degli attacchi che lui e gli altri scrittori siciliani
avevano da poco subito nello studio sulla recente letteratura italiana firmato da un accademico della Crusca.
Rispose che si sentiva gratificato da questo riconoscimento, palesando orgoglio per lo specifico letterario di cui
era tra i protagonisti. Però lui era veramente siciliano. Jorge Icaza non era indigeno.
303
Cfr. supra.
304
Cfr. supra.
305
Narradores peruanos del siglo XX, Casa de las Américas, La Habana 1985. Tomás G. Escajadillo è
probabilmente il più importante critico letterario peruviano vivente, tra i più importanti dell'America Latina. Nel
giugno del 2009, a Lima, gli è stato dedicato un Coloquio Internacional de Crítica Literaria presso il centro
culturale della Universidad Nacional Mayor de San Marcos “La Casona”, organizzato dalla Facultad de Letras
y Ciencias Humanas di questa università – la stessa in cui Arguedas aveva insegnato –, i cui atti sono stati
pubblicati nel 2012.

107
del problema indígena hasta hacerlo parte de la nación y la transformación de los recursos
técnicos.
Con Arguedas, escindido entre dos culturas, la voz del Perú se agranda y se dignifica a pesar de
que sus primeras tentativas, los cuentos de Agua (1933) y la novela Yawar Fiesta (1941), no
son todavía revolucionarias en el sentido indigenista. Blanco de razas y hijo de hacendados, se
quedó huérfano de madre a los tres años lo que le llevó a criarse entre los indios debido sobre
todo al segundo casamiento de su padre con una mujer que nunca le mostró afecto y a un
hermanastro que, según sus declaraciones, lo torturó mentalmente en su infancia. Además, su
padre, abogado, se ausentaba frecuentemente por largos periodos. En suma, un caso de
transculturación sin precedentes originado por una infancia 306 que le marcaría por toda su vida,
un sentimiento de orfandad y marginalidad que nunca llegaría a superar del todo; una de las
causas, entre otras muchas, que estarían en la raíz de su suicidio final.
Su contacto con el mundo indígena le proporcionó sobre todo dos cosas, el conocimiento del
quechua, idioma que dominaba perfectamente junto al castellano y en cuyo manejo en la
narrativa alcanza niveles hasta entonces desconocidos; y su profunda y sincera comprensión del
universo indígena, desde su comunión con la naturaleza y la importancia que ésta adquiere en
la concepción de vida del indio andino a los resortes que unen al individuo con el mundo
natural. Fruto de la captación de ese mundo sobresale su labor como antropólogo y conocedor
del folclore de su país, como prueban, entre otros testimonios, sus antologías, Mitos, leyendas y
cuentos peruanos (1947), Canciones y cuentos del pueblo quechua (1949) y Cuentos
mágicorrealistas y canciones de fiestas tradicionales en el valle de Mantaro (1953).
Su obra, que fue avanzando en su penetración del universo andino también desde el punto de
vista de la lengua, ha sido estudiada según tres fases, la primera es la etapa de sus primeros
306
Degne di nota l'affinità e la solidarietà che Arguedas ha sviluppato nei confronti degli indigeni a partire dalla sua
condizione di bambino orfano, emarginato e privato degli affetti, a prescindere dal fatto che sia stato di fatto
educato in un contesto indigeno. Il senso di emarginazione è stato sicuramente l'aspetto in comune più saliente tra
l'autore e gli indios. In tal senso, e come rileva la Barrera, è senz'altro significativo il fatto che Arguedas sia
morto suicida, nel 1969 all'età di 58 anni, in seguito a una profonda e annosa depressione, iniziata quando l'autore
aveva 32 anni. Nel 1966 aveva già tentato di togliersi la vita. Cfr. Santiago Stucchi P., “La depresi ón de José
María Arguedas”, Revista de Neuro-Psiquiatría 66 (2003), pp. 171-184; Renán Vega Cantor, “José María
Arguedas, la lucha entre un cuerpo mestizo y un corazón indio”, Revista CEPA 15 (2012), Rebelión, 16/8/2012
(http://www.rebelion.org/noticia.php?id=154536). Cfr. anche Mario Vargas Llosa, che in Utopía Arcaica. José
María Arguedas y las ficciones del indigenismo (Fondo de Cultura Económica, Ciudad de México 1996) ha
scritto: “Mi interés por Arguedas no se debe sólo a sus libros; también a su caso, privilegiado y patético.
Privilegiado porque en un país escindido en dos mundos, dos lenguas, dos culturas, dos tradiciones históricas, a
él le fue dado conocer ambas realidades íntimamente, en sus miserias y grandezas. Patético porque el arraigo en
esos dos mundos antagónicos hizo de él un desarraigado”. Cfr. infra.

108
cuentos que presentan la clásica oposición entre indios y terratenientes y se centran en el
mundo de las comunidades indígenas, las aldeas y las haciendas. La segunda avanza hacia
poblaciones más importantes, la capital de provincia, Puquio, donde se desarrolla Yawar Fiesta
o los departamentos de Abancay y Cuzco, escenario de su mejor novela, Los ríos profundos.
También habría que incluir aquí el escenario de El sexto (1961), tristemente célebre prisión que
trae a la memoria su paso por ella en 1937 307 pero también como lugar de convivencia de
serranos y costeños. De esta etapa sobresale su novela Los ríos profundos, el relato de la
historia del joven Ernesto, en buena medida trasunto autobiográfico del proprio escritor, que le
sirve para penetrar en las raíces profundas de la identidad nacional. Es memorable su
presentación de la comunión plena del individuo con el cosmos y la superposición de dos
culturas, la ancestral – sinónimo de lo natural – y la occidental o sobreimpuesta.
[…]

Dalla sintesi della Barrera, comunque ben fatta, per quanto parziale, visto che è dedicata
solo ai paesi andini mentre manca all'appello l'importante caso del Messico308, nonché quello

307
Arguedas si fece quasi un anno di carcere tra il 1937 e il 1938 per essere stato tra gli studenti dell'università di
San Marcos, filocomunisti e soprattutto sostenitori dei repubblicani spagnoli, che protestarono energicamente
contro la visita del generale italiano Camarotta inviato in Perù da Benito Mussolini. L'allora dittaore peruviano, il
generale Benavides, che già aveva messo fuori legge il partito comunista e l'APRA, volle dare una punizione
esemplare. Curioso e tragico il fatto che anche sua moglie, sposata in seconde nozze, la cilena Sybila Arredondo,
abbia conosciuto il carcere, per ben due volte: la prima volta, arrestata nel 1985, per oltre un anno, la seconda
volta tra il 1995 e il 2010, per oltre 14 anni (!), ambedue le volte con l'accusa, da lei sempre respinta, di aver
contribuito alla lotta armata di Sendero Luminoso – all'epoca della seconda condanna era presidente del Perù il
famigerato Alberto Fujimori, condannato a 25 anni di carcere per violazione dei diritti umani, tortura, crimini
contro l'umanità e corruzione. È uscita in tempo dal carcere per partecipare al centenario della nascita di suo
marito José María Arguedas, nel 2011, celebrato, non per iniziativa governativa, comunque anche a Genova dal
Gruppo Teatral Arguedas, formato principalmente da migranti peruviani residenti nel capoluogo ligure tra cui
spicca Alejandrina Bolaños Zúñiga, presidente e fondatrice dell'Accademia Maggiore della Lingua Quechua
(http://www.amlq.it/genova/), gruppo che ha messo in scena la pièce Arguedas poesía y sangre, diretta da
Roberto Bobbio. Cfr. Sybila Arredondo de Arguedas, “De todo un poco. Impromptu”, Revista de crítica literaria
latinoamericana 72 (2010), pp. 15-18; Redazione Kaosenlared, “Sybila Arredondo: 100 años de Arguedas”,
Kaosenlared.net, 15/1/2011 (http://old.kaosenlared.net/noticia/sybila-arredondo-100-anos-arguedas); Redazione
Kaosenlared, “Perú. A cien años del natalicio de José María Arguedas”, Kaosenlared.net, 15/1/2011
(http://old.kaosenlared.net/noticia/peru-cien-anos-natalicio-jose-maria-arguedas); Gustavo Espinoza M., “José
María Arguedas, hoy y siempre. Alán García se niega a celebrar el centenario del gran escritor Peruano”,
Rebelión, 21/1/2011 (http://www.rebelion.org/noticia.php?id=120780).

109
particolare del Brasile309, emerge comunque un dato piuttosto evidente e su cui già ci siamo
soffermati: nessuno degli autori citati era indigeno. Di fatto, dai casi di Guaman Poma a cavallo
tra i secc. XVI e XVII – o meglio di Blas Valera – e di Jacinto Collahuazo nel XVIII sec., la
voce indigena, come già evidenziato, è stata soffocata e repressa 310, come si è visto proprio nel
caso di Collahuazo a livello letterario e di Túpac Amaru II a livello politico, e sono stati dei non
indigeni, mestizo-criollos, a parlare in vece degli indigeni, con fini diversi per giunta, in quanto,
come si è potuto apprezzare dal testo della Barrera, tra l'indianismo romantico del XIX sec.,

308
Non considero necessario, in questa mia sintesi soggettiva, di spendermi più approfonditamente sull'indianismo e
sull'indigenismo messicani, dalle origini fino al neozapatismo, visto che tale analisi non aggiungerebbe niente di
rilevante a quanto m'interessa mettere in luce. Si è trattato del resto di correnti politico-culturali e letterarie
sicuramente degne di nota, sia per gli importanti nomi che hanno espresso sia per le opere e i modelli che hanno
offerto, soprattutto durante e dopo la Revolución (1910-1920). A completare comunque, ma molto parzialmente,
la lista supra riportata di Luis Villoro, è doveroso ricordare almeno i nomi dell'invero già citato Mariano Azuela
(1873-1952), medico di preofessione letterato per passione, la cui opera più famosa fu il romanzo dal titolo
significativo Los de abajo (1916), il cui protagonista, il campesino indio Demetrio Macías, partecipa alla
rivoluzione non tanto perché ci creda o meglio sappia perché si combatte, ma perché, in quanto indio, si unisce
alla lotta per difendersi da uno dei tanti soprusi subiti. Poi senz'altro Gregorio López y Fuentes (1895-1966), che
nel romanzo El indio (1935) racconta le tragiche traversie che subisce un indio contrattato come guida da una
spedizione inoltratasi nel territorio del suo villaggio e composta da sedicenti botanici, invero saccheggiatori
bianchi interessati solo all'oro. La metafora che López y Fuentes riesce a trasmettere riflette la triste constatazione
del fatto che la Revolución, lungi dall'aver riscattato gli indigeni, ne ha fatto le principali vittime. Quindi
Mauricio Magdaleno (1906-1986), nel cui romanzo più celebre, El resplandor (1937), stigmatizza il classico
politico che in campagna elettorale si spreca in promesse nei confronti delle masse dei campesinos indios, per poi
non mantenerle una volta eletto, situazione peraltro universale e sempre molto attuale. Vanno infine ricordati
almeno José Revueltas (1914-1976), soprattutto per la sua saggistica, in cui ha difeso gli indios anche con frasi
come quella riportata in epigrafe al presente capitolo, in un'epoca in cui lo slogan lanciato dal presidente Lázaro
Cárdenas era mexicanizar al indio, nonché la già citata Rosario Castellanos (1925-1974) che nel suo romanzo
Balún Canán (1957), lei figlia di latifondisti, incarna invece proprio l'indigenismo cardenista. Tralascio di
proposito di approfondire le figure troppo suscettibili di discorsi legittimamente lunghi quali quelle dei pur citati
Juan Rulfo e Carlos Fuentes, invece ricordo di sfuggita la grande stagione del muralismo e della pittura in genere
del Messico postrivoluzionario, dal carattere fortemente indigenista: basti citare i nomi di Diego Rivera, David
Alfaro Siqueiros e José Clemente Orozco, nonché Frida Kahlo. Cfr. Favre, El movimiento indigenista...cit., p. 71
segg. e passim; Papa Mamour Diop, “Recorrido de la literatura indigenista del siglo XX en Latinoamérica:
análisis de una muestra de novelas”, Ogigia. Revista electrónica de estudios hispánicos 1 (2007;
http://www.ogigia.es/OGIGIA1_files/PAPA.pdf), specie pp. 36-8; Vicente Francisco Torres, “Del indianismo al
indigenismo mexicano”, Tema y Variaciones de Literatura 32 (2009), pp. 333-349; Juan Pablo Dabove, “La
fiesta popular, la banda de bandidos, la 'bola': la Revolución y sus metáforas en Los de abajo, de Mariano

110
finalizzato invero a costruire dei miti culturali sulla base del modello europeo funzionali al
novello nazionalismo dei paesi latinoamericanos, fino all'indigenismo p.d. del XX sec., le
istanze dei vari autori sono state spesso contraddittorie: buona parte ha trattato il tema indigeni
con un approccio che potremmo paragonare al verismo verghiano, cioè per palesare le pretese
arretratezza e inadeguatezza del mondo indigeno rispetto alle esigenze degli Stati nazionali
latinoamericanos e alla modernità in genere, giustificando di fatto gli abusi e le violazioni dei
diritti che in passato, nel presente e nel futuro sino ad oggi gli indigeni hanno subito. Solo quanti
partivano da presupposti marxisti o affini si sono spesi veramente in difesa del mondo indigeno,
ma, nella maggior parte dei casi, senza veramente conoscerlo311, piuttosto sulla base della volontà

Azuela", in Carlos Jáuregui, Juan Pablo Dabove (a c.), Heterotropías: narrativas de identidad y alteridad en
América Latina, IILI, Pittsburgh 2003, pp. 167-95; Cecilia Núñez Martínez, “El indio, de Gregorio López y
Fuentes”, Claustro 1/4 (2006); Emmanuel Carballo, “Magdaleno en la tormenta con José Vasconcelos”, Lecturas
20 (2006), pp. 16-7; Jorge Fuentes Morúa, “La impronta indígena en los escritos de José Revueltas”, Tema y
Variaciones de Literatura 13 (1999), pp. 185-210; Edith Negrín Muñoz, “Voces y documentos en Balún Canán”,
Literatura Mexicana XIX/2 (2008), pp. 57-75.
309
Al Brasile mi dedicherò più diffusamente nel II capitolo.
310
Invero, se guardiamo nuovamente al Messico, non sono mancati altri indigeni ad aver scritto delle opere che in
qualche modo sono soppravvissute, perlopiù però “riscoperte” nel XIX sec. o variamente manipolate. È il caso di
figure quali quelle di Antonio Valeriano (1522 circa-1605) – tra l'altro discepolo e fonte di informazioni di fray
Bernardino de Sahagún (1499-1590), autore della monumentale Historia general de las cosas de la Nueva
España – a cui fu attribuita l'opera in lingua nahuatl Nican mopohua, che racconta la storia delle apparizioni della
Virgen de Guadalupe all'altro indio Juan Diego Cuauhtlatoatzin (1474 -1548), canonizzato da Giovanni Paolo II,
opera chiaramente legata agli interessi missionari della Chiesa cattolica. Notevoli poi lo storico maya Ah Nakuk
Pech e il poema anonimo afferente alla stessa cultura chiamato Popol Vuh, entrambi del secolo XVI, ma
pubblicati solo nel XIX sec. da parte del missionario francese Charles Étienne Brasseur de Bourbourg. Altri nomi
che si possono fare sono quelli di Domingo Francisco Chimalpahin Quauhtlehuanitzin (1579-1660), nonché
quello del mestizo, anzi castizo (solo uno dei quattro nonni indigeno) Fernando de Alva Cortés Ixtlilxóchitl (1568
circa-1648), le opere dei quali sono sopravvissute, almeno in parte, grazie all'interesse, ma anche il lavoro di
selezione, di Carlos de Sigüenza y Góngora (1645-1700). Infine citerei ancora lo storico andino Juan de Santa
Cruz Pachacuti Yamqui Salcamaygua, vissuto nel XVIII sec., la cui Relación de las antigüedades deste Reyno
del Piru fu pubblicata solo nel 1879. Non credo che la breve lista di questi nomi serva a cambiare il fatto che la
voce indigena fu quasi completamente tacitata dalle autorità coloniali, laddove nel periodo postcoloniale le cose
non sono certo cambiate.
311
Il caso descritto di José María Arguedas è probabilmente unico, ma la sua “lucha entre un cuerpo mestizo y un
corazón indio” ha avuto un finale tragico, come visto, per quanto rimanga tra i pochi autori indigenisti ancora
valorizzati e apprezzati dai movimenti indigeni. Cfr. Hugo Blanco, “La cultura india y el neoliberalismo. José
María Arguedas y Mario Vargas Llosa”, ALAI. América Latina en Movimiento, 20/1/2011

111
di promuovere il riscatto dei popoli oppressi, non fosse altro perché la condizione sociale degli
indigeni, nella loro percezione, corrispondeva a quella del proletariato.
Inoltre, gli intellettuali di sinistra che hanno trattato il tema indigenista lo hanno fatto
spesso usandolo come artificio letterario – sul modello del descritto primitivismo di Montaigne –
per trasmettere i loro peculiari messaggi312.
Tra i tanti, i casi esemplari o che comunque mi hanno colpito e che voglio citare sono
quelli di Ernesto Cardenal e Luis Britto García.
Il primo, nato a Granada, in Nicaragua, nel 1925 è notissimo come poeta, già candidato al
Nobel nel 2005, ma anche come politico, nonché sacerdote e teologo della liberazione (in quanto
tale e in quanto ministro sandinista soffrì nel 1983 una pesante reprimenda da parte di Giovanni
Paolo II313). Suo fratello più giovane Fernando, del '34, è pure lui sacerdote e teologo della
liberazione, però gesuita, a differenza del più prestigioso fratello maggiore, e anche lui è stato
ministro sandinista314.

(http://alainet.org/active/43688&lang=es), corrispondente al cap. IV del libro dell'autore Nosotros los Indios


(Ediciones Herramienta y Ediciones La Minga, Buenos Aires 2010), ma originalmente articolo pubblicato nel
1999, come precisa il cappello: “Este artículo fue escrito en marzo de 1999. De entonces a hoy se ha
desarrollado una oleada de movimientos indígenas en el continente y una desastrosa crisis del neoliberalismo.
Esto demuestra que «la utopía arcaica» no es el «indigenismo de José María Arguedas» sino el bienamado
neoliberalismo de Vargas Llosa, del cual continúa siendo uno de sus gurúes”. Il riferimento è al saggio citato del
premio Nobel per la Letteratura peruviano, il quale non ha sicuramente un buon rapporto con i movimenti
indigeni, dal momento che li ha già definiti “fascisti”. Cfr. Kintto Lucas, “Vargas Llosa indigna a indígenas”,
Rebelión, 15/11/2003 (http://www.rebelion.org/hemeroteca/cultura/031115vargas.htm); Redazione El Universo,
“Indígenas rechazan expresiones de Vargas Llosa”, El Universo, 12/11/2003
(http://www.eluniverso.com/2003/11/12/0001/8/7B40FDE6066D48EBA5ECFCA6CC776B2D.html); Arysteides
Turpana Iguaigliginya, “Mario Vargas Llosa: Batracio y vibora”, ALAI. América Latina en Movimiento,
29/1/2004 (http://alainet.org/active/5526&lang=es); Hugo Blanco, “Carta abierta de Hugo Blanco a Mario Vargas
Llosa”, Herramienta, 28/11/2010 (http://www.herramienta.com.ar/content/carta-abierta-de-hugo-blanco-mario-
vargas-llosa).
312
Cfr. il cap. II dove rilevo come Paulo de Carvalho-Neto, nel suo romanzo citato Mi tío Atahualpa., abbia
elaborato, come già accennato, una precisa critica all'indigenismo dei mestizo-criollos in genere e in particolare a
quello di matrice marxista.
313
Riguardo alle posizioni di papa Giovanni Paolo II nei confronti dei teologi della liberazione, cfr. infra.
314
Ho avuto modo di conoscere personalmene Fernando Cardenal in occasione di una sua visita a Genova nel
lontano 1991, invitato dall'Associazione Italia-Nicaragua. Tenne una conferenza durante la quale gli chiesi se il
crollo dell'URSS allora appena avvenuto avrebbe potuto pregiudicare i partiti e i movimenti di sinistra
latinoamericani, secondo lui. Mi rispose: “Finalmente nosotros tenemos la posibilidad de realizar el socialismo

112
Nel 1969, nell'opera in versi Homenaje a los indios americanos, Ernesto Cardenal
pubblicò, tra le altre liriche, Economía de Tahuantinsuyu, dedicata appunto alla sovrastruttura
economica dell'impero inca315. Di cui riporto il testo per intero:

No tuvieron dinero
el oro era para hacer la lagartija
y NO MONEDAS
los atavíos
que fulguraban como fuego
a la luz del sol o las hogueras
las imágenes de los dioses
y las mujeres que amaron
y no monedas
Millares de fraguas brillando en la noche de los Andes
y con abundancia de oro y plata
no tuvieron dinero
supieron
vaciar laminar soldar grabar
el oro y la plata
el oro: el sudor del sol
la plata: las Iágrimas de la luna
Hilos cuentas filigranas
alfileres
pectorales
cascabeles
pero no DINERO

sin condicionamientos ajenos”.


315
In seguito fino ad oggi ripubblicata in altre raccolte e antologie, per esempio nella Nueva antología poética
pubblcata da Siglo XXI, a Ciudad de México e Buenos Aires nel 1978, oppure in Los ovnis de oro. Poemas
indios (sempre per i tipi di Siglo XXI nel 1988). Juan Guillermo Sánchez Martínez (in “Los ovnis de oro: un
collage de Ernesto Cardenal”, Revista Logos 15 [2009], p. 107-117) ha scritto che “en Los ovnis de oro y en
Homenaje a los Indios Americanos, Cardenal sigue los principios de la poesía exteriorista”, laddove, con le
stesse parole di Cardenal, precisa che “El exteriorismo es la poesía objetiva: narrativa y anecdótica, hecha con
los elementos de la vida real y con cosas concretas, con nombres propios y detalles precisos y datos exactos y
cifras y hechos y dichos. En fin, es la poesía impura”. E questo “para reflexionar sobre su tiempo desde
imaginarios y categorías amerindias”.

113
y porque no hubo dinero
no hubo prostitución ni robo
Las puertas de las casas las dejaban abiertas
ni Corrupción Administrativa ni desfalcos
– cada 2 años
daban cuenta de sus actos en el Cuzco
porque no hubo comercio ni moneda
no hubo
la venta de indios
Nunca se vendió ningún indio
Y hubo chicha316 para todos

No conocieron el valor inflatorio del dinero


su moneda era el Sol que brilla para todos
el Sol que es de todos y a todo hace crecer
el Sol sin inflación ni deflación: Y no
esos sucios «soles» con que se paga al peón
(que por un sol peruano te mostrará sus ruinas)317

Y se comía 2 veces al día en todo el Imperio318

Y no fueron los financistas


los creadores de sus mitos

Después fue saqueado el oro de los templos del Sol


y puesto a circular en lingotes
con las iniciales de Pizarro
La moneda trajo los impuestos

316
La chicha è il nome delle varietà della tipica birra di mais o altri cereali, ma anche di manioca, prodotta
tradizionalmente un po' ovunque in America Latina, con diversi metodi, per quanto quello più antico fosse basato
sulla masticazione del prodotto da parte delle donne. La Prof.ssa Maria Clotilde Giuliani, già ordinaria di
Geografia presso l'Università di Genova e di cui sono stato alunno, una volta ha gustosamente raccontato a
lezione di come fosse riuscita scaltramente a evitare di assaggiare la chicha offertale da un'anziana indigena
dell'Amazzonia e da lei stessa prodotta con l'unico dente superstite.
317
Il sol è la moneta peruviana.
318
Cfr. supra riguardo a quanto ricordato a proposito del sistema dei qullqa.

114
y con la Colonia aparecieron los primeros mendigos

El agua ya no canta en los canales de piedra


las carreteras están rotas
las tierras secas como momias
como momias
de muchachas alegres que danzaron
en Airiway (Abril)
el mes de la Danza del Maíz Tierno
ahora secas y en cuclillas en Museos

Manco Capac! Manco Capac!


Rico en virtudes y no en dinero
(Mancjo: «virtud», Capacj: «rico»)
«Hombre rico en virtudes»
Un sistema económico sin MONEDA
la sociedad sin dinero que soñamos
Apreciaban el oro pero era
como apreciaban también la piedra rosa o el pasto
y lo ofrecieron de comida
como pasto
a los caballos de los conquistadores
viéndolos mascar metal (los frenos)
con sus espumosas bocas
No tuvieron dinero
y nadie se moría de hambre en todo el Imperio
y la tintura de sus ponchos ha durado 1.000 años
aun las princesas hilaban en sus husos
los ciegos eran empleados en desgranar el maíz
los niños en cazar pájaros
MANTENER LOS INDIOS OCUPADOS
era un slogan inca
trabajaban los cojos los mancos los ancianos
no había ociosos ni desocupados
se daba de comer al que no podía trabajar

115
y el Inca trabajaba pintando y dibujando
A la caída del Imperio
el indio se sentó en cuclillas
como un montón de cenizas
y no ha hecho nada sino pensar...
indiferente a los rascacielos
a la Alianza para el Progreso
¿Pensar? Quién sabe
El constructor de Macchu Picchu
en casa de cartón
y latas de Avena Quaker319

El tallador de esmeraldas hambriento y hediondo


(el turista toma su foto)
Solitarios como cactus
silenciosos como el paisaje – al fondo – de los Andes
Son cenizas
son cenizas
que avienta el viento de los Andes
Y la llama llorosa cargada de leña
mira mudamente al turista
pegada a sus amos

No tuvieron dinero
Nunca se vendió a nadie
Y no explotaron a los mineros
PROHIBIDA
la extracción del mercurio de movimientos de culebra
(que daba temblores a los indios)320

319
I cereali della marca statunitense qui riportata sono molto diffusi in America Latina al punto che il nome della
marca è diventato il nome del prodotto per antonomasia. Non a caso, la pagina web della casa produttrice è sia in
inglese sia in spagnolo (http://www.quakeroats.com/).
320
È noto come l'avvelenamento dei corsi d'acqua da parte del mercurio usato dai cercatori d'oro e pietre preziose,
che in Brasile sono chiamati garimpeiros, sia una gravissimo problema in Sudamerica. Il già citato autore
brasiliano Frei Betto, scrittore, frate domenicano, teologo della liberazione e politico, ha pubblicato il libro
(formalmente) per ragazzi Uala, o Amor (FTD Editora, Porto Alegre 2002), in cui, tra l'altro, denuncia questo

116
Prohibida la pesca de perlas
Y el ejército no era odiado por el pueblo
La función del Estado
era dar de comer al pueblo
La tierra del que la trabajaba
y no del latifundista
Y las Pléyades custodiaban los maizales
Hubo tierra para todos
El agua y el ganado gratis
(no hubo monopolio de guano321)
Banquetes obligatorios para el pueblo
Y cuando empezaban las labores del año
con cantos y chicha se distribuían las tierras
specifico problema dell'inquinamento delle acque che per gli indios erano e sono sacre, anzi vere e proprie
creature viventi. Nell'epigrafe al libro Frei Betto ha scritto: “A todos que, no Brasil, reconhecem nas nações
indígenas uma forma superior de civilização a ser defendida e preservada”. E in quarta di copertina Ricardo F.
de Carvalho ha firmato il seguente testo: “Neste ano de 2002, em que se toma o índio como tema para a
Campanha da Fraternidade, o livro de Frei Betto, UALA, O AMOR, expõe um pouco dos sentimentos – amor,
dedicação, fraternidade mesmo – destes que nos precederam nesta terra e também dos nossos – homens brancos
– sentimentos desprovidos de espiritualidade e amor. Um pouco do muito a aprender!”.
321
Il guano – nome che deriva dalla parola quechua wanu – del Perù fu un prodotto intensamente sfruttato e
esportato nel XIX sec., da imprese straniere colluse con i politici locali, come feritilizzante naturale di eccellente
qualità e di notevole valore economico. Cfr. William M. Mathew, La firma inglesa Gibbs y el monopolio del
guano en el Perú, trad. Marcos Cueto, Banco Central de Reserva del Peru, IEP. Instituto de Estudios Peruanos,
Lima 2009 [The House Of Gibbs And The Peruvian Guano Monopoly, Royal Historical Society, London 1981],
nella cui quarta di copertina si legge: “Entre las empresas comerciales que participaron en el negocio del guano
peruano en el siglo XIX, la firma inglesa Gibbs e hijos fue, junto con la casa Dreyfus hermanos, la más
importante. Entre los años cuarenta y sesenta de dicha centuria fue la firma Gibbs la encargada de extraer,
transportar y comercializar el guano en los más importantes mercados del mundo. El libro del historiador
escocés William Mathew es una prolija investigación acerca de cómo esta firma comercial debió negociar con el
gobierno peruano para poder sostenerse como la principal concesionaria del negocio del guano, un producto
que la diosa fortuna había dado a nuestro país en monopolio mundial absoluto. El libro permite discutir el
siempre polémico tema de las relaciones entre los países "fuertes" y "débiles", o más precisamente, entre los
empresarios de aquellos y los políticos de estos; un tema que en el Perú de hoy no ha perdido actualidad.”. Cfr.
anche Heraclio Bonilla, Guano y Burguesia en el Perú. El contraste de la experiencia peruana con las
economías de exportación del Ecuador y de Bolivia, Flacso-Sede Ecuador, Quito 1994 [I ed. Instituto de Estudios
Peruanos, Lima 1974].

117
y al son del tambor de piel de tapir
al son de la flauta de hueso de jaguar
el Inca abría el primer surco con su arado de oro
Aun las momias se llevaban su saquito de granos
para el viaje del más alIá

Hubo protección para los animales domesticos


legislación para las llamas y vicuñas
aun los animales de la selva tenían su código
(que ahora no lo tienen los Hijos del Sol)
De la Plaza de la Alegría en el Cuzco
(el centro del mundo322)
partían las 4 calzadas
hacia las 4 regiones en que se dividía el Imperio
«Los Cuatro Horizontes»
TAHUANTINSUYU
Y los puentes colgantes
sobre ríos rugientes
carreteras empedradas
caminitos serpenteantes en los montes
todo confluía
a la Plaza de la Alegría en el Cuzco
el centro del mundo
El heredero del trono
sucedía a su padre en el trono
MAS NO EN LOS BIENES
¿Un comunismo agrario?
Un comunismo agrario
«EL IMPERIO SOCIALISTA DE LOS INCAS»
Neruda: no hubo libertad
sino seguridad social
Y no todo fue perfecto en el «Paraíso Incaico»
Censuraron la historia contada por nudos
Moteles gratis en las carreteras
322
Il significato del nome della città, in lingua quechua, è appunto “centro”, ma anche “ombelico” e “punto di
incontro”.

118
sin libertad de viajar
¿Y las purgas de Atahualpa?
¿EI grito del exilado
en la selva amazónica?
El Inca era dios
era Stalin
(Ninguna oposición tolerada)
Los cantores sólo cantaron la historia oficial
Amaru Tupac fue borrado de la lista de reyes

Pero sus mitos


no de economistas!
La verdad religiosa
y la verdad política
eran para el pueblo una misma verdad
Una economía con religión
las tierras del Inca eran aradas por último
primero las del Sol (las del culto)
después las de viudas y huérfanos
después las del pueblo
y las tierras del Inca aradas por último

Un Imperio de ayllus
ayllus de familias trabajadoras
animales vegetales minerales
también divididos en ayllus
el universo entero todo un gran ayllu
(y hoy en vez del ayllu: los latifundios)
No se podía enajenar la tierra
Llacta mama (la tierra) era de todos
Madre de todos

Las cosechas eran hechas con cánticos y chicha


hoy hay pánico en la Bolsa por las buenas cosechas
– el Espectro de la Abundancia –

119
AP. NUEVA YORK,
(en la larga tira de papel amarillo)
AZUCAR MUNDIAL PARA ENTREGAS FUTURAS BAJÓ HOY
LAS VENTAS FUERON INFLUIDAS POR LA BAJA DE
PRECIOS
EN EL MERCADO EXPORTADOR Y POR LAS PREDICCIONES DE QUE
LA PRODUCCIÓN MUNDIAL ALCANZARÁ UNA CIFRA SIN
PRECEDENTES
como estremece también a la Bolsa
el Fantasma de la Paz
tiembla el teletipo
EL MERCADO DE VALORES SUFRIÓ HOY SU BAJA MÁS
PRONUNCIADA
U.S. STEEL 3.1 A 322.5, BASE METALS, 42 A 70.98 MCI038AES
(en la larga tira amarilla)
Ahora
la cerámica está desteñida y triste
el carmín del achiote323
ya no ríe en los tejidos
el tejido se ha hecho pobre
ha perdido estilo
menos hilos de trama por pulgada
y ya no se hila el «hilo perfecto»
Llacta mama (la Tierra) es de los terratenientes
está presa en el Banco la mariposa de oro
el dictador es rico en dinero y no en virtudes
y qué melancólica
qué melancólica la música de los yaravíes324
A los reinos irreales de la coca

323
L'achiote, come è chiamato in Ecuador e in Perù e nella maggior parte dei paesi latinomaericani, o urucu, come è
conosciuto in Brasile, è un pigmento vegetale rosso tuttora ampiamente usato dagli indigeni d'America e in
genere in America Latina, sia in cucina sia per altri usi, soprattutto nella medicina naturale.
324
Lo Yaraví è un genere musicale mestizo che fonde elementi formali del harawi incaico con la poesía dei
trovadores spagnoli di tradizione medievale. Il compositore francese Olivier Messiaen (1908-1992) nel 1945 ha
composto l'opera intitolata proprio Harawi, ispirata appunto al genere andino e destinata a far parte della trilogie
de Tristan.

120
o la chicha
confinado ahora el Imperio Inca
(sólo entonces son libres y alegres
y hablan fuerte
y existen otra vez en el Imperio Inca)

En la Puna325
una flauta triste
una
tenue flauta como un rayo de luna
Y el quejido de una quena326
con un canto quechua...
Chuapi punchapi tutayaca
(«anocheció en mitad del día»)
pasa un pastor con su rebaño de llamas
y tintinean las campanitas
entre las peñas
que antaño fueron
muro pulido

¿Volverá algún día Manco Capac con su arado de oro?


¿Y el indio hablará otra vez?
¿Se podrá
reconstruir con estos tiestos
la luminosa vasija?
¿Trabar otra vez
en un largo muro
los monolitos
que ni un cuchillo quepa en las junturas?
Que ni un cuchillo quepa en las junturas
¿Reestablecer las carreteras rotas
de Sudamérica
hacia los Cuatro Horizontes
con sus antiguos correos?
325
La puna è una tipica ecoregione andina.
326
La quena è il flauto tipico andino, molto semplice, di bambù, ma dal suono peculiare.

121
¿Y el universo del indio volverá a ser un Ayllu?

El viaje era al más allá y no al Museo


pero en la vitrina del Museo
la momia aún aprieta en su·mana seca
su saquito de granos.

A commento sintetico di questo suggestivo poema cito Paul W. Borgeson (1946-1999), già
ordinario di Letteratura Latinoamericana presso la University of Illinois dal 1981 alla sua
precoce morte, che nel 1984 pubblicò un bel libro dedicato a Cardenal: Hacia el hombre nuevo:
poesía y pensamiento de Ernesto Cardenal327, in cui il testo di Cardenal è definito “parábola de
un sistema social” (p. 172), e per cui, sposando le parole del critico letterario peruviano José
Miguel Oviedo328, “logra una visión integral de nuestra historia que culmina en una utopía
posible: lo que alguna vez fue puede volver a ser” (p. 168).
Utopía posible e, anzi, necesaria, dunque, convergenza significativa con gli scopi che
erano stati di Blas Valera e di Jacinto Collahuazo, nonché di Túpac Amaru II, senza dubbio. Si
può anzi dire in continuità con detti scopi, a riportarli in auge rivitalizzati dall'ideologia marxista
filtrata dalla teologia della liberazione che, come visto, rappresenta invero una rilettura coeva del
pensiero di Blas Valera.
Ma l'autore, come anticipato, non è un indigeno. E l'esaltazione, sia pure non acritica,
dell'Economía de Tahuantinsuyu, per quanto finalizzata nella fattispecie a fondamentare gli
ideali sandinisti contemporanei, non è poi così dissimile rispetto all'esaltazione degli Inca attuata
in Perù che abbiamo descritto supra, se si eccettua il particolare non sottile che Ernesto
Cardenal, rispetto alla classe dirigente mestizo-criolla peruviana, ha sicuramente più propensione
a dialogare e collaborare con i movimenti indigeni coevi, non solo a parlare di Inca, quindi, ma
anche a collaborare con gli indios329!
I movimenti indigeni andini attuali tendono persino a rifiutare terminologie che sono
proprie della cultura occidentale come “comunismo”, per esempio, e semmai propendono per
affermare espressioni ideologiche tradizionali o ritenute tali come il Sumak Kawsay, che gli
intellettuali e i politici mestizo-criollos, sia quanti simpatizzano nei loro confronti sia i detrattori,

327
Tamesis Books, Madrid-London.
328
“Un poema necesario”, La Prensa, 30/9/1969.
329
Cr. supra.

122
si sforzano, rispettivamente in positivo e in negativo, ovviamente, di tradurre in tutti i sensi in
costruzioni a loro più note che si rifacciano alla tradizione occidentale. Come ha fatto il
presidente ecuatoriano Rafael Correa nella nuova costituzione del Paese, approvata a larga
maggioranza da un referendum popolare il 28 settembre del 2008. Laddove, come si è già
accennato, questo non significa che i suoi rapporti con i movimenti indigeni siano idilliaci,
tutt'altro330.
Altrettanto notevole è poi il caso dello scrittore venezuelano Luis Britto García.
Nato a Caracas nel 1940, avvocato, giornalista, romanziere, storico, saggista, drammaturgo
e anche autore di fumetti, molto prossimo al Socialismo del tercer milenio331 bolivariano del
precocemente defunto presidente Hugo Chávez – oggi portato avanti tra estreme difficoltà e
contraddizioni dal suo successore Nicolás Maduro – e soprattutto del pensatore tedesco-
messicano Heinz Dieterich Steffan332, nonché afffine, per molti aspetti legati pure allo stile oltre
che alla comune ideologia, a un altro autore di fumetti e attivista di sinistra quale il messicano
Rafael Barajas Durán – meglio noto con la sua firma “el Fisgón”333, cioè “il Ficcanaso” –, Britto
García ha pubblicato, tra l'altro, il celebre testo Guaicaipuro Cuautémoc cobra la deuda a
Europa, diffuso per la prima volta dal giornale della capitale venezuelana El Nacional il 18

330
Cfr. supra e il cap. II.
331
Come recita il titolo di un suo saggio (MilenioLibre, Caracas 2008) che si richiama appunto all'ideologia
bolivariana, a cui, come detto, Britto García aderisce.
332
Heinz Dieterich Steffan, in effetti, è considerato il vero ispiratore dell'ideologia bolivariana, autore di opere
fortemente evocative quali: Neoliberalismo, reforma y revolución en América Latina (Nuestro Tiempo, Ciudad
de México 1994), Los vencedores: una ironía de la historia, in coautoria con Noam Chomsky (Editorial Joaquín
Mortiz-Grupo Planeta, Barcellona 1997) e Hugo Chávez y el socialismo del siglo XXI (Instituto Municipal de
Publicaciones de la Alcadía de Caracas, 2005).
333
El Fisgón è vignettista della testata di Ciudad de México La Jornada, ma ha pubblicato anche molti libri di
fumetti satirici e di denuncia sociale quali, per esempio: Cómo sobrevivir al neoliberalismo sin dejar de ser
mexicano (Grijalbo, Ciudad de México 1996) oppure Cómo triunfar en la globalización. Manual para
vendedores callejeros (Editorial Debate, Ciudad de México 2004).

123
ottobre 1990, in occasione delle celebrazioni per il Día de la resistencia indígena334 di
quell'anno.
Come racconta Britto García stesso335, il testo era stato da lui regolarmente firmato, “pero
el embuste pareció tan bien metido, que poco a poco lo empezó a reproducir todo el mundo y,
afortunadamente, perdió el nombre de autor. Mucha gente cree que en verdad existe
Guaicaipuro Cuautémoc”. Così “ha recibido el gran honor de pasar a ser anónimo”.
Vale senz'altro la pena di riportare in questa sede anche questo testo integralmente:

334
El Día de la resistencia indígena, in Venezuela e in Nicaragua, è il 12 ottobre, quello che nella maggior parte del
mondo è l'anniversario della “Scoperta dell'America”, laddove nei paesi latinoamericani è stato generalmente
cambiato il punto di vista eurocentrico che vi sottendeva, sortendo in celebrazioni dal nome vario a seconda dei
Paesi e della cultura politica che vi prevale. Il tradizionale e popolare nome Día de la Raza diffuso in passato in
quasi tutti i paesi latinoamericanos è stato recentemente cambiato un po' ovunque: nei due Paesi citati nella
forma suddetta – in Venezuela a partire dal 2002 –, con evidente volontà di rendere omaggio agli indigeni; in
Argentina, a partire dal 2010, con il nome Día del Respeto a la Diversidad Cultural, che si commenta da solo; in
Bolivia, a partire dal 2011, come Día de la Descolonización, laddove subito prima già aveva il nome significativo
di Día de la Liberación, de la Identidad y de la Interculturalidad; in Cile, a partire del 2000 come Día del
Encuentro de Dos Mundos; in Costa Rica Día de las Culturas; in Ecuador, dal 2011, Día de la Interculturalidad;
in Perù, a partire dal 2009, Día de los Pueblos Originarios y del Diálogo Intercultural. E così via, laddove in
Spagna e in alcuni Paesi latinoamericanos è chiamato Día de la Hispanidad, come in Brasile – in portoghese Dia
da Hispanidade – dove è chiamato anche Dia de Colombo, dall'inglese Columbus Day. Si può dire, comunque,
che il testo di Britto García ha fatto effetto! Cfr. infra. Da notare che sia Hugo Chávez in Venezuela, sia Cristina
Fernandez de Kirchner in Argentina si sono recentemente segnalati per clamorosi casi di rimozione di statue di
Colombo da pubbliche piazze delle capitali del Paese da loro governato. Anzi, il caso che ha prodotto più accese
discussioni è stato sicuramente quello più recente argentino, risalente ai primi di luglio del 2013, sullo sfondo
peraltro di tensioni e incidenti diplomatici relativi alla vicenda Assange-Snowden che hanno esacerbato gli animi
e accentuato in America Latina l'ostilità verso l'Occidente che fa capo agli USA e, in sottordine, all'UE. Cfr.
Franco Cardini, “Povero Colombo, l’amerikano. Il caso della statua rimossa a Buenos Aires”, Il Secolo XIX,
6/7/2013 (cfr. lo stesso articolo con il titolo modificato, “Cristoforo Colombo, la politica latino americana,
l'Europa e il passato-che-non-passa”, 8/7/2013, in http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45757);
Martín Granovsky, “Vestigios de colonialismo que genera humillación”, Página/12, 4/7/2013
(http://www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-223670-2013-07-04.html), riguardo alla vicenda gravida di tensioni
dell'aereo presidenziale di Evo Morales, il presidente indio di Bolivia, che era stato fermato a Vienna in seguito al
sospetto che portasse con sé Edward Snowden, negli stessi giorni in cui la Kirchner faceva abbattere la statua di
Colombo a plaza Colón, alle spalle della Casa Rosada, per ribattezzarla in omaggio a Juana Azurduy de Padilla,
eroina libertadora e mestiza.
335
In Marco Fernandez, “Nosotros nos indignamos hace tiempo. Entrevista a Luis Britto García”, La Primera,
12/8/2012 (http://luisbrittogarcia.blogspot.it/2012/08/nosotros-nos-indignamos-hace-tiempo.html). Il titolo

124
Aquí pues yo, Guaicaipuro336 Cuautémoc337, he venido a encontrar a los que celebran el
Encuentro338. Aquí pues yo, descendiente de quienes poblaron América hace cuarenta mil años,
he venido a encontrar a los que se la encontraron hace quinientos. Aquí pues nos encontramos
todos: sabemos lo que somos, y es bastante. Nunca tendremos otra cosa.
El hermano aduanero europeo me pide papel escrito con visa para poder descubrir a los que me
Descubrieron. El hermano usurero europeo me pide pago de una Deuda contraída por Judas a
quienes nunca autoricé a venderme. El hermano leguleyo europeo me explica que toda Deuda
se paga con intereses, aunque sea vendiendo seres humanos y países enteros sin pedirles
consentimiento. Ya los voy descubriendo.
También yo puedo reclamar pago. También puedo reclamar intereses. Consta en el Archivo de
Indias, papel sobre papel, recibo sobre recibo, firma sobre firma, que sólo entre el año de 1503
y el de 1660 llegaron a Sanlúcar de Barrameda 185 mil kilos de oro y 16 millones de kilos de
plata provenientes de América. ¿Saqueo? No lo creyera yo, porque es pensar que los hermanos
cristianos faltan a su séptimo mandamiento. ¿Expoliación? Guárdeme Tonantzin 339 de

dell'intervista, come è chiaro, rimanda ironicamente ai fenomeni degli indignados e di movimenti affini quali
Occupy Wall Street, ispirati da pamphlet quali quello celebre di Stéphane Hessel (1917-2013), Indignez-vous!
(Indigène éditions, Montpellier 2010), che ha conosciuto il sostegno di altre importanti voci della cultura europea
e non solo, come lo scrittore spagnolo, coetaneo di Hessel, José Luis Sampedro (1917-2013), che ha firmato il
prologo dell'edizione spagnola di Indignez-vous!, ma anche critiche come quella di Pietro Ingrao, classe 1915,
che ha pubblicato in risposta Indignarsi non basta (scritto con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, Aliberti
Editore, Roma 2011), laddove Hessel ha a sua volta replicato a lui e altri critici, con ulteriori pubblicazioni:
Engagez-vous! (Éditions de l'Aube, La Tour-d'Aigues 2011) e Le Chemin de l'espérance (Fayard, Paris 2012),
quest'ultimo tradotto in italiano da G. Cuva con il titolo Vivete! per i titpi di Castelvecchi (Roma 2012); e ancora
Résistances, (con Aung San Suu Kyi, éditions Don Quichotte, Paris 2011); Vivez! Entretiens avec Édouard de
Hennezel et Patrice van Eersel, éditions Carnets Nord, Paris 2012); Exigez! Un désarmement nucléaire total, con
Albert Jacquard e l'Observatoire des armements, Stock, Paris 2012.
336
Guaicaipuro o Guaicaipuró fu il capo dei capi, guapotori, di varie tribù caribe dell'odierna Venezuela che guidò
la resistenza contro i conquistadores contro cui morì in battaglia – o si suicidò prima di essere catturato – nel
1568.
337
Cuauhtémoc (1496-1525) fu l'ultimo tlatoani azteco di Tenochtitlan. Simbolo quindi della resistenza messicana
contro la colonizzazione spagnola. Ovviamente Britto García ha fuso i due nomi dei personaggi storici a creare
un unico personaggio di fantasia, rappresentativo della resistenza indigena.
338
Britto García immagina che Guaicaipuro Cuautémoc partecipi a una conferenza importante alla presenza dei capi
di Stato del'Unione Europea. In rete sono proliferati i tentativi di identificare detta conferenza.
339
“Nostra Madre Venerata”, in lingua nahuatl, la Dea Madre degli Aztechi. Porta questo nome l'attrice statunitense
discendente di nativi californiani Tonantzin Carmelo, che tra l'altro ha fatto parte del cast della miniserie

125
figurarme que los europeos, igual que Caín, matan y después niegan la sangre del hermano.
¿Genocidio? Eso sería dar crédito a calumniadores como Bartolomé de las Casas, que califican
al Encuentro de Destrucción de las Indias, o a ultrosos como el doctor Arturo Uslar Pietri 340,
quienes afirman que el arranque del capitalismo y de la actual civilización europea se debió a
esa inundación de metales preciosos.
No: esos 185 mil kilos de oro y 16 millones de kilos de plata deben ser considerados como el
primero de varios préstamos amigables de América para el desarrollo de Europa. Lo contrario
sería presuponer crímenes de guerra, lo cual daría derecho, no sólo a exigir devolución
inmediata, sino a indemnización por daños y perjuicios. Yo, Guaicaipuro Cuautémoc, prefiero
creer en la menos ofensiva de las hipótesis. Tan fabulosas exportaciones de capital no fueron
más que el inicio de un Plan Marshalltzuma para garantizar la reconstrucción de la bárbara
Europa, arruinada por sus deplorables guerras contra los musulmanes, cultores del álgebra, la
poligamia, el baño cotidiano y otros logros superiores de la civilización.
Por ello, al acercarnos al Quinto Centenario del Empréstito, podemos preguntarnos: ¿han hecho
los hermanos europeos un uso racional, responsable, o por lo menos productivo de los recursos
tan generosamente adelantados por nuestro Fondo Indoamericano Internacional?
Deploramos decir que no. En lo estratégico, los dilapidaron en batallas de Lepanto, Armadas
Invencibles, Terceros Reichs y otras formas de exterminio mutuo, sin más resultado que acabar
ocupados por las tropas gringas de la OTAN, como Panamá (pero sin canal). En lo financiero,
han sido incapaces – después de una moratoria de 500 años – tanto de cancelar capital o
intereses, como de independizarse de las rentas líquidas, las materias primas y la energía barata
que les exporta el Tercer Mundo.
Este deplorable cuadro corrobora la afirmación de Milton Friedman 341 según la cual una
economía subsidiada jamás podrá funcionar. Y nos obliga a reclamarles – por su propio bien –
televisiva Into the West, prodotta da Steven Spielberg nel 2005 con lo scopo di raccontare in maniera oggettiva la
vicenda del Go West! statunitense nell''800 a discapito delle etnie native, dalla colonizzazione della California
alla costruzione della First Transcontinental Railroad tra Atlantico e Pacifico, fino alle guerre, ispirate dal
Manifest Destiny, finalizzate allo sterminio dei nativi nel trentennio 1860-90 – la “soluzione finale” di Dee
Brown (cfr. supra) –e alla strage di Wounded Knee.
340
Il già citato Arturo Uslar Pietri, venezuelano, fu avvocato, giornalista, scrittore, produttore televisivo e politico. È
considerato uno degli intellettuali più importanti del '900 nel suo paese. Tra le tante sue opere, segnalo senz'altro
El camino de El Dorado (1947), da cui sono stati tratti i film Aguirre, der Zorn Gottes, di Werner Herzog (1972,
in Italia tradotto come Aguirre, furore di Dio), e El Dorado, di Carlos Saura (1988). Nel primo film è Klaus
Kinski a interpretare il ruolo di Lope de Aguirre, il conquistador basco ribelle che tentò di raggiungere il mitico
regno di cui alla sua epoca si favoleggiava (cfr. supra) e dove avrebbe voluto diventare re.
341
Milton Friedman (1912-2006), premio Nobel per l'economía nel 1976, è stato probabilmente il maggiore
esponente della famigerata Scuola di Chicago.

126
el pago del capital e intereses que tan generosamente hemos demorado todos estos siglos. Al
decir esto, aclaramos que no nos rebajaremos a cobrarles a los hermanos europeos las viles y
sanguinarias tasas flotantes de interés de un 20% y hasta un 30% que ellos le cobran a los
pueblos del Tercer Mundo. Nos limitaremos a exigir la devolución de los metales preciosos
adelantados, más el módico interés fijo de un 10% anual acumulado durante los últimos
trescientos años.
Sobre esta base, y aplicando la europea fórmula del interés compuesto, informamos a los
Descubridores que sólo nos deben, como primer pago de su Deuda, una masa de 185 mil kilos
de oro y otra de dieciséis millones de kilos de plata, ambas elevadas a la potencia de
trescientos. Es decir: un número para cuya expresión total serían necesarias más de trescientas
cifras, y que supera ampliamente el peso de la tierra. Muy pesadas son estas moles de oro y de
plata. ¿Cuánto pesarían, calculadas en sangre?
¿Cuánto pesa la sangre de ochenta millones de víctimas? ¿Cuánto pesa el olvido de diez
millares de culturas? ¿Cuánto pesa el silencio de veinte millares de lenguas?
Aducir que Europa en medio milenio no ha podido generar riquezas suficientes para cancelar
este módico interés, sería tanto como admitir su absoluto fracaso financiero y/o la demencial
irracionalidad de los supuestos del capitalismo. Tales cuestiones metafísicas, desde luego, no
nos inquietan a los indoamericanos. Pero sí exigimos la inmediata firma de una Carta de
Intención que discipline a los pueblos deudores del Viejo Continente, y los obligue a
cumplirnos sus compromisos mediante una pronta Privatización o Reconversión de Europa, que
les permita entregárnosla entera como primer pago de su Deuda histórica.
Dicen los pesimistas del Viejo Mundo que su civilización está en una bancarrota que le impide
cumplir sus compromisos financieros o morales. En tal caso, nos contentaríamos con que nos
pagaran entregándonos la bala con la que mataron al poeta 342.
Pero no podrán: porque esa bala, es el corazón de Europa.

342
Non molti, tra i tantissimi che hanno commentato variamente questo testo, on line e in pubblicazioni cartacee, si
sono posti il problema di identificare questo “poeta”, né Britto García pare che ci sia tornato, laddove sembra
prevalere l'idea che sia un riferimento generico al nativo americano, considerato, sull'onda del mito del Buon
Selvaggio, della wilderness sino alla New Age, un detentore della “poesia pura” tanto agognata, tra gli altri, dagli
ermetisti italiani. Personalmente, tale analisi non mi convince, ma non credo sia questa la sede appropriata per
approfondire questo punto.

127
Nel 2007, dopo che questa “lettera” 343 aveva già provocato un mare di commenti, analisi,
critiche, versioni spurie, ecc. ecc., soprattutto alimentando il dibattito spinoso e molto attuale
relativo al debito estero344, Britto García, dopo aver rivendicato legittimamente la paternità del
testo, da alcuni attribuito persino al già citato presidente boliviano Evo Morales, ne ha pubblicato
un seguito, occasionato dal famoso e polemico ¿Por qué no te callas? di Rey Juan Carlos I di
Spagna indirizzato al citato presidente venezuelano Hugo Chávez il 10 novembre 2007 durante
la XVII Cumbre Iberoamericana de Jefes de Estado realizzatasi a Santiago de Chile.
Anche questo testo trovo utile riportarlo integralmente, ma in appendice, in quanto
aggiunge poco al discorso portato avanti.
Senza voler essere ripetitivo, infatti, rilevo quanto già rilevato: si tratta di riflessioni e
rivendicazioni anche condivisibili da parte degli esponenti dei movimenti indigeni, sicuramente
in sintonia, parziale o totale, con quelle di altri pensatori latinoamericanos coevi già citati o
meno quali Eduardo Galeano, Enrique Dussel, Roberto Fernández Retamar, Alberto Acosta,
Bolívar Echeverría, Kintto Lucas, Héctor Díaz-Polanco, Ernesto e Fernando Cardenal e ne
dimentico molti – mentre tralascio di ricordare i non latinoamericanos sia pure a questi affini –,
in totale sintonia con l'ideale di Patria Grande345 e con il socialismo bolivariano, ma Britto
García non è un indigeno e il suo personaggio indigeno, Guaicaipuro Cuautémoc, è un prodotto
fittizio generato nel contesto di un sistema di idee che in ogni caso deriva dalla cultura

343
Molti, infatti, hanno accostato questo testo alla famosa lettera che sarebbe stata inviata da Capo Seattle all'allora
presidente degli USA Franklin Pierce nel 1855, considerata invero spuria (cfr. Jerry L. Clark, “Thus Spoke Chief
Seattle: The Story of An Undocumented Speech”, Prologue Magazine 18/1 [1985],
http://www.archives.gov/publications/prologue/1985/spring/chief-seattle.html) e che comunque non risultò certo
nell'effeto sperato, visto quanto successe in seguito agli Indians del Far West. Invero anche questo testo rimanda
al modello anacarsiano di Montaigne descritto supra.
344
Cfr. come esempi per tutti: AA.VV., Chiapas, vol. 14, Neus Espresate, Universidad Nacional Autónoma de
México, Instituto de Investigaciones Económicas, Ediciones Era, Ciudad de México 2002, p. 157; Hugo Chávez,
La unidad Latinoamericana, a c. Sergio Rinaldi, Consortium Book Sales & Distribution, Minneapolis 2006, pp.
131-2, 155; Mark Hathaway, Leonardo Boff, The Tao of Liberation: Exploring the Ecology of Transformation,
Orbis Books, New York 2009, passim.
345
Questa espressione fu inventata dal pensatore e attivista politico argentino Manuel Ugarte nel 1922 come titolo di
una raccolta di suoi discorsi pronunciati durante varie conferenze tenute in molti paesi latinoamericanos
finalizzati a promuovere l'idea già dei libertadores e poi del citato Francisco Bilbao di unità latinoamericana.
Oggi è un'idea rappresentata e sviluppata da molti degli intellettuali citati, ma anche dai presidenti filobolivariani,
come Correa in Ecuador, Mujica in Uruguay, Morales in Bolivia e Maduro in Venezuela in continuità con
Chávez. Cfr. http://patriagrande.com/.

128
occidentale, laddove non è tanto questo il problema, visto che anche i movimenti indigeni
possono sposare e adeguare alle loro culture le ideologie occidentali, e ciò immancabilmente
avviene, come nell'antropofagia culturale brasiliana, il problema è piuttosto che esistono invece
degli indigeni reali e non fittizi e non si capisce perché si debba parlare in vece loro, tanto più
che ciò avviene in funzione di una corrente politica, il socialismo bolivariano, che sicuramente
incontra le simpatie di buona parte della popolazione latinoamericana, specie in funzione della
rivendicazione delle proprie identità, dei propri diritti e delle proprie risorse in contrasto con le
“mani lunghe” della politica estera degli USA e dell'UE, ma in Latinoamerica esistono pure altre
istanze – anche contrarie al socialismo bolivariano –, tra cui quelle portate avanti dai vari
movimenti indigeni, che sono a loro più peculiari.
Per poter parlare di istanze comuni, è auspicabile che si costruiscano forme comuni di lotta
attraverso il dialogo, il quale invece, come dimostrerò nel prossimo capitolo, è spesso assente: tra
gli intellettuali e i movimenti dei vari paesi latinoamericanos, nonostante le aspirazioni di molti
e l'ideale citato di Patria Grande, mancano probabilmente reali momenti di dialogo, e lo stesso
dicasi degli stessi movimenti indigeni, problema che a fortiori si verifica se si rapportano tra loro
le realtà del Brasile e dei Paesi ispanoamericani.
Mi è capitato, per esempio, di constatare direttamente come un'attivista brasiliana di
sinistra come la mia amica personale Maria Dirlene Trindade Marques, già ordinaria di
Economia presso la UFMG di Belo Horizonte e soprattutto già coordinatrice del Fórum Social
Mundial del Minas Gerais e ex membro del PT di Lula, da cui si è allontanata polemicamente in
seguito alla svolta centrista dell'ormai partito di governo del Brasile, sia molto ferrata, per
esperienza anche diretta oltre che intellettuale, in tanti temi come Cuba e la Palestina, nonché,
ovviamente, la politica interna brasiliana, mentre non sappia molto dei movimenti indigeni né del
concetto di Abya-Yala, il nome alternativo indigeno del continente americano346.

346
Abya Yala o Abya-Yala o Abya-Ayala è il nome che i Kuna, popolo diffuso negli attuali Stati di Panama e
Colombia prima di Colombo, davano alla terra in cui vivevano. Pare che significhi “terra di sangue vitale”. Da
notare che i Kuna sono stati studiati e segnalati anche per il loro sistema di democrazia partecipativa che fa
impallidire la tradizione occidentale. Cfr. Miguel Bartolomé, Alicia Barabas, “Recursos culturales y autonomía
étnica. La democracia participativa de los Kuna de Panamá”, Alteridades 8/16 (1998), pp. 159-174. Forse anche
per questo si è diffuso il loro nome alternativo del continente in contrasto e in polemica con il nome coloniale
America, tra molti movimenti indigeni e non. Sul sito governativo del Ministerio del Poder Popular para los
Pueblos Indígenas del Venezuela c'è una pagina dedicata anche a dare una definizione di Abya Yala, concetto
evidentemente sposato dal governo bolivariano del Paese, che recita così: “Es un encuentro multicultural, que se
fundamenta en las fuertes bases antiimperialistas y antihegemónicas, señalando las políticas y acciones

129
Anche Zahy Guajajara, giovane ma molto attiva esponente dei movimenti indigeni
brasiliani, soprattutto dell'Aldeia Maracanã347, nonché poeta, modella e attrice, laddove la sua
arte è quasi completamente votata alla sua causa, mi ha riconosciuto che i movimenti indigeni
brasiliani non hanno contatti con movimenti indigeni di altri Paesi quali la CONAIE
(Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador348), per esempio.
Curiosamente, però, molti movimenti indigeni d'America Latina sono collegati,
probabilmente non per iniziativa loro, con l'indigenismo internazionalista, a cui ho accennato

emprendidas principalmente por el Gobierno de Estados Unidos. La realización de un evento integracionista de


pueblos indígenas de esta magnitud, con participación internacional, viene de la necesidad de rendirle honor a
"Abya-Ayala" ("América Latina" en idioma indígena). La Abya Ayala, vista desde Alaska hasta la Patagonia, es
un continente ancestralmente indígena, comprometido con las luchas contra la dominación desde la época de la
colonia hasta los tiempos actuales, donde la amenaza y agresión del imperio norteamericano en contra los
pueblos del Abya Ayala ha sido continua y nos ha llevado a la inminente extinción de nuestras culturas. Es
imprescindible que los pueblos indígenas de la Abya Ayala, constituyan y le den cuerpo, vida y movimiento a una
instancia de carácter continental que permita la integración y unidad, basada en nuestra riqueza espiritual,
moral, combativa y de resistencia, con el objetivo fundamental de defender a nuestros pueblos y al planeta
entero de los ataques protagonizados principalmente por el imperio norteamericano”
(http://www.minpi.gob.ve/minpi/es/gran-nacion). Sullo stesso sito c'è una pagina dedicata anche alla Misión
Guaicaipuro (http://www.minpi.gob.ve/minpi/es/mg). E a Quito esiste la casa editrice e associazione culturale
Abya-Yala che ho spesso citato (http://www.abyayala.org/index.php). Cfr. Miguel Ángel López Hernández
(Malohe), Encuentros en los senderos de Abya Yala, Abya-Yala, Quito 2004, nella cui epigrafe si legge: “…a los
inventores del sendero / …a los cantacaminos / …a los hijos del maíz / …a ellos, los primeros pobladores de
Abya Yala / …a nosotros: sus extensiones”.
347
L'Aldeia Maracanã è stato il gruppo di indigeni di varia etnia e simpatizzanti che ha occupato per sette anni
l'antica sede del Museu do Índio nel quartiere di Maracanã, vicino all'omonimo celebre stadio di calcio – il cui
nome ufficiale invero è Estádio Jornalista Mário Filho – recentemente rifatto in funzione dell'ultima coppa del
mondo di calcio svoltasi in Brasile. Il Museu do Índio era stato fondato nel 1953 dal citato Darcy Ribeiro, la cui
figura approfondirò nel prossimo capitolo, in quanto istituzione scientifico-culturale dell'altrettanto citata FUNAI,
l'unica dedicata alle culture indigene del Paese lusofono d'America Latina nel proprio territorio. Il palazzo che
l'ospitava, prima dell'iniziativa di Darcy Ribeiro, già dal 1910 comunque ospitava il Serviço de Proteção aos
Índios, istituzione statale voluta e comandata dal famoso Marechal Cândido Rondon e finalizzata a difendere i
diritti degli indigeni. Nel 1978 il Museu do Índio è stato spostato nel quartiere di Botafogo e l'edificio di
Maracanã è rimasto abbandonato e varie volte promesso dai politici a ospitare nuove istituzioni dedicate al
mondo indigeno. Nel 2006 23 famiglie e altri soggetti singoli, perlopiù indigeni di 12 etnie differenti, decisero di
occupare l'edificio allo scopo di pretendere il mantenimento di queste promesse e di potervi istituire la sede di
riferimento del mondo indigeno autogestito – e non gestito dalla FUNAI – nella capitale carioca. Nel frattempo,
l'Instituto do Patrimônio Histórico e Artístico Nacional (IPHAN) aveva anche dichiarato l'edificio patrimonio

130
supra, che peraltro fa riferimento alla Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni adottata
dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 62ª sessione a New York il 13
settembre 2007349. Ovviamente, però, esattamente come la Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani, detto documento non ha potere vincolante nei confronti delle legislazioni dei singoli
Stati – spesso, anzi, caratterizzati da politiche in palese contrasto ai diritti degli indigeni – anche
se entrambi i documenti dovrebbero averlo, laddove infatti l'ONU si limita a descriverla come:

an important standard for the treatment of indigenous peoples and will undoubtedly be a
significant tool towards eliminating human rights violations against the over 370 million
indigenous people worldwide and assist them in combating discrimination and
marginalization350.

storico-culturale nazionale. Con tutto ciò, il governatore dello Stato di Rio de Janeiro Sérgio Cabral e il sindaco
della cidade maravilhosa Eduardo Paes avevano deciso di far abbattere l'edificio per farvi costruire un centro
commerciale e un parcheggio in funzione del nuovo stadio di Maracanã in vista della coppa del mondo. Nel
marzo 2013, dopo numerose manifestazioni di solidarietà nei confronti degli índios e non pochi episodi di
violenza, si giunse all'atto di prevaricazione finale: l'Aldeia Maracanã è stata sgomberata con la forza da parte dei
militari. Molti índios sono stati feriti e arrestati. Solo in seguito, dopo un'accesa polemica che ha investito non
solo il governo di Rio de Janeiro, ma anche quello nazionale, i membri dell' Aldeia Maracanã sono stati
“risarciti” con un appartamento per ciascuna famiglia in un condominio nuovo nella zona nord di Rio de Janeiro,
dove prima si trovava un carcere: índios, quindi, che sono andati a vivere in ocas de concreto, come le hanno
definite loro stessi. E il centro commerciale e il parcheggio non sono più stati costruiti, mentre la finale della
coppa del mondo ormai è passata. Cfr., tra i vari servizi che sono stati dedicati alla vicenda da parte della stampa
brasiliana: Antonio Elias Sobrinho, “A aldeia maracanã é preciso resistir”, Rede Democrática, 14/1/2013
(http://www.rededemocratica.org/index.php?option=com_k2&view=item&id=3640:a-aldeia-maracan%C3%A3-
%C3%A9-preciso-resistir); Raphael Tsavkko Garcia, “Aldeia Maracanã se atravessa no caminho da Copa:
Indígenas expulsos com violência”, Global Voices, 23/3/2013 (http://pt.globalvoicesonline.org/2013/03/23/brasil-
rio-aldeiamaracana-copa-indigenas/); Matheus Bizarria, “Aldeia Maracanã: a tragédia é nossa!”, ActionAid,
28/3/2013 (http://www.actionaid.org.br/2013/03/aldeia-maracana-tragedia-e-nossa); Fabio Vasconcelos, “Aldeia
Maracanã pode virar centro de estudos da cultura indígena”, O Globo, 31/07/2013
(http://oglobo.globo.com/rio/aldeia-maracana-pode-virar-centro-de-estudos-da-cultura-indigena-9311066);
Redazione R7, “Índios retirados da Aldeia Maracanã ganham apartamento no centro do Rio”, R7 Notícias,
22/7/2014 (http://noticias.r7.com/rio-de-janeiro/indios-retirados-da-aldeia-maracana-ganham-apartamento-no-
centro-do-rio-22072014).
348
http://www.conaie.org/.
349
http://undesadspd.org/IndigenousPeoples.aspx .
350
http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/FAQsindigenousdeclaration.pdf . Il sottolineato è iniziativa mia.

131
Ronald Niezen, antropologo della McGill University di Montreal, è sicuramente tra gli
studiosi che hanno preconizzato e favorito la promulgazione della Dichiarazione dei diritti dei
popoli indigeni con il suo saggio The Origins of Indigenism: Human Rights and the Politics of
Identity351.
Nel II capitolo intitolato A New Global Phenomenon? Primay Attachments and
International Identity, Niezen rileva (p. 2):

One product of globalization is a revolt against the forces of cultural uniformity and against the
appropriation of indigenous peoples' sovereignty by states. Its main premise is that by
removing such people from their land, educating their children in state schools, eliminating
their languages, and usurping their own systems of justice and conflict resolution, states are
imposing a gray uniformity on all of humanity, stifling and suppressing the creative cultural
energies of those who are most knowledgeable and prescient about the forces of nature.

A partire da queste premesse sociologicamente interessanti e condivisibili, il suo saggio,


però, si sarebbe sviluppato in modo troppo generico e banale e soprattutto molto poco addentro
alle specifiche situazioni dell'America Latina, secondo la recensione molto critica che ne ha fatto
l'antropologa brasiliana Alcida Rita Ramos, dell'Università di Brasilia 352, nel cui incipit è già
molto incisiva:

Ronald Niezen defines indigenism as «a social movement with a strategic focus outside of
states that seeks to activate rights to autonomy within states» (p. 136). Apparently uninterested
in indigenism’s national manifestations, the author claims as his object of study «the world,»
but contained in the nutshell of the Palais des Nations in Geneva (p. 1). He is so impressed with
the actors and their actions at the international arena of indigenous politics at the United
Nations that he contradictorily evokes Benedict Anderson’s catchy concept of imagined
communities (created to highlight the emergence of nation-states) to imply more than can
possibly be implied in the context of the periodic and mostly episodic meetings very far away
from home. The attempted application of Anderson’s concept in the Geneva context could not
be farther from its original context.

351
University of California Press, Berkeley 2003.
352
“The Origins of Indigenism: Human Rights and the Politics of Identity”, Tipití: Journal of the Society for the
Anthropology of Lowland South America 3/1 (2005), pp. 83-4.

132
E a chiarire meglio la sua critica la Ramos aggiunge anche che:

No wonder a Brazilian delegate once complained of her discomfort with the overassertiveness
of Native Americans from the United States, who tend to dominate the discussions at the Palais
des Nations353.

A prescindere comunque dall'indigenismo internazionalista – molto gringo, quindi354 – e


dalle varie risultanze letterarie afferenti355, in Latinoamerica, come evidenziato, la rivendicazione
indigenista o indianista (o neoindianista) come la preferisce definire Álvaro García Linera 356,

353
Più solidali e talora entusiastiche rispetto all'autore le recensioni di altri studiosi nordamericani: Holly A.
Dobbins, “International Indigenism: A Whole New Word”, International Studies Review 5/3 (2003), pp. 409-411,
che ha scritto: “Niezen's primary goal is to illustrate the emergence of an international indigenous people's
movement and to assess its impact. He suggests that the indigenous movement has helped reshape the
international arena by introducing new definitions of legal authority and legitimacy for indigenous nonstate
actors. This success comes at a price, however. For indigenous peoples, participating in or reaping the benefits
of the movement in terms of greater self-determination may require significant cultural adaptation. For nation-
states, the activities of the indigenous movement may represent a perceived threat to sovereignty ”; Keri Iyall
Smith, “The Origins of Indigenism: Human Rights and the Politics of Identity”, Social Forces 82/3 (2004), pp.
1235-1237, che peraltro precisa: “Using community-based research from Canada and Africa, this work
introduces and explores the emergence of indigenism, the international movement of indigenous peoples”; Susan
Dicklitch, “The Origins of Indigenism: Human Rights and the Politics of Identity by Ronald Niezen”, The
Americas 61/1 (2004), pp. 146-148, che conclude il suo testo con le seguenti parole: “ This book was not an easy
read, but it certainly offered a refreshing and sophisticated approach to understanding the dilemmas between
cultural relativism and the universality of human rights”; Diana Vinding, “The Origins of Indigenism: Human
Rights and the Politics of Identity by Ronald Niezen”, Development in Practice 14/5 (2004), pp. 710-711; Greg
Johnson, “The Origins of Indigenism: Human Rights and the Politics of Identity by Ronald Niezen”, History of
Religions 46/2 (2006), pp. 164-167.
354
Da notare che il precursore dell'indigenismo internazionalista è stato senz'altro lo statunitense Ward Churchill,
già ordinario di Etnologia presso la University of Colorado di Boulder – che si dichiara cherokee benché in realtà
in America Latina sarebbe un mestizo (ma negli USA basta un'ascendenza nativa remota per essere considerato o
considerarsi indian) –, con il suo libro comunque fondamentale From a Native Son: Selected Essays on
Indigenism, 1985–1995 (South End Press, New York 1996).
355
Cfr. Arnold Krupat, “Nationalism, Indigenism, Cosmopolitanism: Critical Perspectives on Native American
Literatures”, Centennial Review 42/3, (Special issue: Locations of Culture: Identity, Home, Theory; 1998), pp.
617-626.
356
Álvaro García Linera è il vicepresidente boliviano, vice di Evo Morales, già membro del Ejército Guerrillero
Túpac Katari (EGTK), più come ideologo che combattente, laddove questo suo ruolo non gli ha comunque

133
resuscitando quindi il termine in origine applicato, come visto, solo alle manifestazioni letterarie
romantiche dei novelli Stati latinoamericanos, si sta tuttora svolgendo verso due tendenze che
talora s'intrecciano, ma che hanno bisogno di incontrarsi veramente, quella alimentata dai
crescenti movimenti indigeni, che pure hanno bisogno di incontrarsi veramente anche tra di loro,
più che con i nativi nordamericani o con i Lapponi o gli Ainu o i Naga o i Circassi 357, e quella
bolivariana, anch'essa invero varia a seconda del Paese in cui si esprime, come ideologia di
governo o meno. Se in Ecuador, per esempio, in genere i movimenti indigeni non sono in
sintonia con il presidente filobolivariano Correa, nella Bolivia di Evo Morales e di Álvaro García

risparmiato 5 anni in carcere per lotta armata, quindi sociologo, politologo e sindacalista, considerato vera anima
ideologica del Movimiento Al Socialismo – MAS – partito attualmente al governo in Bolivia, in quanto tale autore
di varie pubblicazioni tra cui segnalo: “Indianismo y marxismo. El desencuentro de dos razones revolucionarias”,
Cuadernos del Pensamiento Crítico Latinoamericano 3 (2008), anche in El Viejo Topo 241 (2008), pp. 48-55, poi
ripubblicato in versione rivista con il titolo “Marxismo e indianismo”, Tareas 130 (2008), pp. 107-120. Altri suoi
contributi significativi sono stati: Sociología de los movimientos sociales en Bolivia (Diakonia/Oxfam G.B.,
Plural, La Paz 2004); “Los impactos de la capitalización: Evaluación a medio término”, in AA.VV, Diez años de
la capitalización, Luces y Sombras (Delegación presidencial para la revisión y mejora de la capitalización, La Paz
2004); Estado multinacional (Editorial Malatesta, La Paz 2005); “Lucha por el poder en Bolivia”, in Alvaro
Garcia Linera (a c.), Horizontes y límites del Estado y el poder (Muela del Diablo Editores, La Paz 2005), pp.
447-475; “Condición obrera y forma sindicato en Bolivia”, in Jesús Espasandín López, Pablo Iglesias Turrión (a
c.), Bolivia en movimiento (El Viejo Topo, 2007), pp. 129-154; Alvaro Garcia Linera, Raúl Prada, Luis Tapia,
Oscar Vega Camacho, El Estado. Campo de lucha, Muela del Diablo Editores, La Paz 2010. Sulla pagina web del
sito della Vicepresidenza boliviana (http://www.vicepresidencia.gob.bo/spip.php?
page=expositor&id_expositor=10), campeggia, come epigrafe delle sue note biografiche, l'incipit di un suo
articolo in cui ricorda il momento del suo arresto: “Era de noche y parecía que todo estaba acabado... Obligado,
a patadas, a mantenerme de pie y sin dormir todos esos días, torturado y amenazado con recibir una bala en la
cabeza ante mi negativa de delatar a mis compañeros, tome una decisión: o bien me matan en ese instante o
luego serían ellos los perdedores, ya que utilizaría cada átomo de la llama de la vida salvada para reconstruir y
alcanzar nuestros sueños colectivos de un poder indígena”. Cfr. “Era de noche y parecía que todo estaba
acabado”, Cuadernos del Pensamiento Crítico Latinoamericano 42 (2011). Voglio anche segnalare l'intervista di
Paul Walder: “El movimiento social empuja el cambio político”, Punto Final 744 (2011), tradotta anche in
portoghese da Emir Sader con il titolo significativo: “Não haverá nunca mais uma Bolívia sem índios”, Carta
Maior, 21/11/2011.
357
La solidarietà internazionale è sicuramente importante, ma diventa un fenomeno pittoresco – e controproducente
– se applicata a entità disunite o addidrittura in contrasto tra loro, contrasto spesso alimentato dagli Stati
prevaricatori. Cfr. Jeffrey Sissons, First Peoples: Indigenous Cultures and Their Futures, Reaktion Books -
FOCI, London 2005, specie pp 23-28; Jacques Galinier, Antoinette Molinié, Les néo-Indiens. Une religion du
IIIe millénaire, Odile Jacob, Paris 2006, specie pp. 15-28 e passim.

134
Linera, appunto, la sintonia è pressoché piena, mentre in Venezuela prevale la dialettica
antimperialista, come visto nel caso del Guaicaipuro Cuautémoc di Britto García.

135
Appendice I

I documenti Miccinelli
Clara Miccinelli è una giornalista, insegnante di Lettere, scrittrice e studiosa napoletana,
specializzatasi come ricercatrice medievista358, appartenente a una famiglia di origini
aristocratiche, nel cui archivio ha ritrovato i manoscritti in questione assieme ad altri oggetti
preziosi tra cui dei quipu, già proprietà di Amedeo I di Savoia re di Spagna359, primo duca
d'Aosta e capostipite del ramo Savoia-Aosta, dopo essere passati anche nelle mani dell'alchimista
napoletano Raimondo di Sangro Principe di Sansevero360. Nel 1927 suo nipote Amedeo di
Savoia-Aosta li aveva donati all'amico e compagno d'armi napoletano Riccardo Cera, che a sua
volta li ha lasciati in eredità alla nipote Clara Miccinelli, la quale, appunto, li ritrova nel 1981361.

358
Prima, e dopo, la scoperta dei manoscritti, si è occupata soprattutto della figura di Raimondo di Sangro Principe
di Sansevero, a cui ha dedicato una trilogia di studi, pubblicata con SEN e ECIG tra il 1984 e il 1985: Il principe
di Sansevero. Verità e riabilitazione; Il tesoro del principe di Sansevero. Luce nei sotterranei; E Dio creò l'uomo
e la massoneria. Mito, magia e misteri dell'arte regale.
359
Dal 2 gennaio 1871 all'11 febbraio 1873. Era figlio del primo re d'Italia Vittorio Emanuele II.
360
In Europa erano stati portati da un gesuita italiano che li aveva avuti in affidamento da un indio morente in Cile
all'inizio del XVIII secolo. Raimondo di Sangro, nel 1750, ne aveva pubblicato alcuni passi in un suo libro
dedicato a una misteriosa Duchessa di S****: Lettera apologetica dell’Esercitato accademico della Crusca
contenente la difesa del libro intitolato Lettere d'una peruana per rispetto alla supposizione de' Quipu scritta
alla Duchessa di S**** e dalla medesima fatta pubblicare, in Napoli MDCCL; con licenza de' Superiori. Il
manoscritto originale di quest'opera è stato esposto per la prima volta assieme a tutte le altre edizioni postume
della stessa alla Mostra del Libro antico di Milano (14-16 marzo 2008) a cura della libreria antiquaria
Philobyblon di Milano e Roma. Tra le edizioni critiche più recenti: Lettera apologetica, a c. Leen Spruit, Alos,
Napoli 2002. In effetti Raimondo di Sangro pubblicò la sua opera per mostrare alla sua misteriosa interlocutrice –
secondo la Miccinelli da identificare con Maria Angiola Ardinghelli (Napoli 1728-1825), poeta e divulgatrice
scientifica prestigiosa, in vita, membro del circolo napoletano di Ferdinando Vincenzo Spinelli, principe di Tarsia
e corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Parigi – il notevole potenziale comunicativo e letterario dei
quipu già sostenuto in Lettres d'une peruvienne di Madame Françoise de Graffigny – celebre caso letterario del
1747 (cfr. la bella edizione italiana curata dal compianto Angelo Morino: Lettere d'una peruviana, collana La
Memoria, Sellerio, Palermo 1992), in seguito caduto nell'oblio e rivalutato recentemente, specie dai movimenti
femministi. Peraltro, il principe di Sansevero colse l’occasione per dissertarvi di questioni all'epoca molto spinose
quali il rapporto tra storia sacra e profana – il Segno di Caino –, l'esegesi della Genesi, l'antichità del linguaggio e
l'origine dell'uomo. Il libro suscitò infatti reazioni immediate e veementi da parte della Chiesa, tanto da essere
messo subito all'indice. Cfr. Miccinelli, Animato, Quipu: il nodo parlante...cit., pp. 86-7.

136
Ovviamente la Miccinelli vi ha dedicato gli anni successivi della sua carriera e dei suoi
studi, all'inizio con la guida del Prof. Giorgio Raimondo Carmona 362, che le consigliò cautela nel
momento in cui avrebbe dovuto affrontare le reazioni del mondo accademico 363, e la
collaborazione del Prof. Paolo Aldo Rossi364, con il quale li ha pubblicati solo parzialmente
prima, nel 1987, nell'articolo “La frangia parlante degli Incas” 365, poi, due anni più tardi, nel libro
Quipu: il nodo parlante dei misteriosi Incas, scritto a quattro mani con l'amico ricercatore Carlo
Animato.
È questo il libro che ha attirato l'attenzione di Laura Laurencich Minelli 366, allora
ricercatrice del Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell'Università di Bologna, laddove la
maggioranza degli altri accademici aveva invece snobbato questa clamorosa scoperta e le
rivelazioni contenutevi, destinate a rivoluzionare la storia della conquista del Perù e, come
accennato, a intaccare i valori fondanti del nazionalismo indigenista peruviano e non solo.
Nel frattempo, forse, le rivelazioni dei documenti Miccinelli giunsero in qualche modo
anche in Perù, recepite per esempio dallo scrittore e giornalista Miguel Gutiérrez, nonostante le
sue dichiarazioni in senso opposto367. Nel 1995 pubblicò un libro particolare, che la peruanista
361
Cfr. Viviano Domenici, Presentazione a Clara Miccinelli, Carlo Animato, Quipu: il nodo parlante dei misteriosi
Incas, ECIG, Genova 1998 [I ed. 1989], pp. 13-18; Id., “I segreti dei gesuiti sulla vera storia degli Incas”,
Corriere della Sera, 3/10/1999, p. 29.
362
All'epoca docente di Glottologia presso l'Università “La Sapienza” di Roma.
363
Cfr. Miccinelli, Animato, Nota introduttiva alla II ed. di Quipu: il nodo parlante...cit., pp. 19-21.
364
Docente di Storia del Pensiero Scientifico presso L'Università di Genova.
365
Comparso in due versioni su due numeri della rivista Abstracta, 14 e 15, nel 1987.
366
Cfr. Laurencich Minelli, Introduzione a Exsul Immeritus...cit., p. 7. Per la sintetica cronistoria dei primi anni della
vicenda dei documenti Miccinelli da quando se ne interessò la Laurencich Minelli mi sono rifatto soprattutto a
Mumford, “Clara Miccinelli...cit.
367
In effetti c'è almeno un precedente importante: nel primo scorcio del XX secolo c'è stata una polemica tra due
importanti figure della cultura peruviana. L'allora più anziano e già molto noto Manuel González de la Rosa –
importante prelato e storico di prestigio, già supervisore delle istituzioni scolastiche in Perù per conto del governo
e tra gli organizzatori della Biblioteca Nazionale –, dall'esilio autoimpostosi a Parigi nel 1882 in seguito alla
guerra tra il suo paese e il Cile – nota anche come Guerra del Pacifico (1879-1883) –, fece pervenire alla Revista
Histórica di Lima, organo dell'Instituto Histórico del Perú, un articolo pubblicato nel 1907 (Tomo II) con il titolo
“El padre Valera, primer historiador peruano. Sus plagiarios y el hallazgo de sus tres obras”, pp. 180-199, nel
quale difendeva la tesi, riccamente documentata in base alle conoscenze dell'epoca, secondo cui avrebbe dovuto
essere Blas Valera a ricevere il riconoscimento dato invece a Inca Garcilaso de la Vega di primo grande
intellettuale peruviano e vero fondatore della storiografia americana, visto che il secondo avrebbe plagiato il
primo. A tali affermazioni rispose dal Perù il più giovane studioso José de la Riva-Agüero y Osma, che difese

137
statunitense Rolena Adorno, già citata come una delle più importanti studiose della figura di
Guaman Poma, descrisse così:

[...] la conferencia/bosquejo-para-una-novela, Poderes secretos (Lima: Jaime Campodónico,


1995) del novelista peruano Miguel Gutiérrez. Aquí se trata no de un escritor ficticio sino de
una trama ficticia sobre la vida y el legado de un escritor real. Especulativamente Gutiérrez
pone en tela de juicio el mito nacional del Inca Garcilaso de la Vega e invierte el paradigma
garcilasista. Postula su posición como historiador cooptado por los jesuitas, que le dan una
versión censurada de la Historia Occidentalis del jesuita mestizo Blas Valera. Blas Valera, en
cambio, es un militante lascasista radical que condena la conquista y empresa colonial. El
Garcilaso de Gutiérrez no es el defensor de los indios sino que figura, indirecta pero
decididamente, entre sus explotadores; Blas Valera, al contrario, es el abogado heroico del
pueblo indígena. Para explicar el estatus emblemático y ejemplar de Garcilaso durante cuatro
siglos, Gutiérrez imagina la existencia de sociedades y logias secretas que mantienen el mito de
Garcilaso Inca, manipulando y condicionando las acciones de individuos, grupos sociales y
estados. La indagación crítica de Gutiérrez no es una novela; significativamente, propone su
idea como una novela a escribir: la del Inca Garcilaso, el mestizo traidor de la obra del Blas
Valera, traidor de su patria, traidor de sí mismo; la de Blas Valera, el defensor censurado y
castigado de los indios368.

invece l'originalità di Inca Garcilaso de la Vega già divenuto un mito e un valore del nazionalismo peruviano. Ne
conseguì una polemica accesa che fu interrotta, nel 1912, dalla morte, a 71 anni, di Manuel González de la Rosa.
In seguito, José de la Riva-Agüero y Osma divenne uno dei più importanti intellettuali e politici peruviani e
ovviamente, in patria soprattutto, prevalsero le sue tesi. Cfr. Pascal Riviale, “Manuel González de la Rosa, prêtre,
historien et archéologue”, Equipe Histoire et Société de l'Amérique latine / ALEPH (1996; http://www.univ-paris-
diderot.fr/hsal/hsal96/pr96.html), anche in versione spagnola: “Manuel González de la Rosa, sacerdote,
historiador y arqueólogo”, Histórica 21, 2 (1997), pp. 271-292; Joseph Dager Alva, “La historiografía peruana de
la segunda mitad del siglo XIX. Una presentación inicial a través de la obra de José Toribio Polo”, Revista
Complutense de Historia de América 26 (2000), pp. 160 segg.
368
“La pertinencia...cit., pp. 6-7.

138
E forse fu anche questo libro di Gutiérrez, che la Adorno definisce, non senza una punta di
acrimonia, una “bozza di romanzo da scrivere”369, e che suscitò scandalo e critiche por atacar370
a la figura del Inca Garcilaso de la Vega, che indusse il prestigioso storico peruviano Franklin
Pease García Yrigoyen371 a invitare Laura Laurencich Minelli a presentare un suo studio sui
documenti Miccinelli durante il IV Congreso Internacional de Etnohistoria, svoltosi a Lima nel
giugno del 1996 presso la Universidad Católica.
Ci volle sicuramente del coraggio, sia da parte di Pease a invitarla, sia da parte della
Laurencich Minelli a partecipare, in quanto quest'ultima viveva ancora l'accesa polemica
suscitata dalle reazioni al suo primo intervento in campo accademico relativo ai documenti
Miccinelli, che aveva tentato in un primo momento di pubblicare gradualmente nella prestigiosa
rivista Journal de la Société des Américanistes, la quale aveva affidato l'analisi dell'autenticità
dei documenti stessi al paleografo peruviano attivo in Francia Juan Carlos Estenssoro.

369
Invece l'autore stesso lo definisce “un producto de ficción, que mezclaba ensayo, historia y novela”,
nell'intervista rilasciata a Tomacini Sinche López: “Revisando a Garcilaso”, Expreso, 16/4/2010
(http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000001541/Revisando-a-Garcilaso); in un altro articolo dello
stesso anno, 2010, pubblicato solo su internet, “¿Fraude o maravillosa ficción? Laura Laurencich Minelli, 14 años
después” (http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000001245/Fraude-o-maravillosa-ficcionLaura-
Laurencich-Minelli-14-anos-despues), lo definisce “un imaginario argumento de novela que seguramente nunca
escribiría”, nonché “un libro que lo escribí como un divertimento, como una broma algo irreverente sobre un
mito nacional para mostrar en la práctica lo que diferencia a un historiador de un novelista” (il testo sottolineato
è iniziativa mia, cfr. infra), e nello stesso articolo definisce i documenti Miccinelli – di cui sostiene di essere
venuto a conoscenza solo dopo la pubblicazione del suo libro – “material explosivo de efectos devastadores, ya
que de ser auténticos habría que revisar todo lo que se había escrito no sólo sobre Garcilaso sino también sobre
Guamán Poma y antes que todo sobre el propio Blas Valera y en general sobre la historia colonial peruana del
siglo XVI”. Da notare che Gutiérrez ha ripubblicato, proprio nel 2010, Poderes secretos, con un'appendice
dedicata a Laura Laurencich Minelli e ai documenti Miccinelli. Cfr. Dimas Arrieta Fuente, “Magia fabuladora.
Los Poderes Secretos de Miguel Gutiérrez”, Variedades 166, 29/3/2010
(http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000001544/Magia-fabuladoraLos-Poderes-Secretos-de-
Miguel-Gutierrez); Ricardo González Vigil, “Blas Valera: Comentarios irreales”, El Comercio, 31/3/2010
(http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000001543/Blas-Valera-Comentarios-irreales).
370
Il sottolineato è mia iniziativa.
371
Cfr. Marco Curatola Petrocchi, “El pasado andino como profesión y como vocación: la (etno)historia de Franklyn
Pease G.Y.”, in Javier Flores Espinoza, Rafael Varón Gabai (a c.), El Hombre y los Andes: Homenaje a Franklin
Pease G.Y., IFEA, PUCP, Banco de Crédito del Perú, Fundación Telefónica, Lima 2002, I, pp. 49-74.

139
Questi, a causa della comunque legittima prudenza della Miccinelli, aveva dovuto lavorare
su una fotocopia parziale dell'originale e, in ogni caso, era stato netto il suo giudizio negativo 372.
Di conseguenza, la rivista della Société des Américanistes si era rifiutata di pubblicare il testo
della Laurencich Minelli, che, firmato anche dalla Miccinelli e da Animato, fu pubblicato
comunque in Studi e Materiali di Storia delle Religioni373.
A Lima, come era prevedibile, l'intervento della Laurencich Minelli scatenò uno scandalo:
Guamán Poma sólo fue “hombre biombo”, fu il titolo di uno degli articoli374 dedicati, “El gran
destape? Serias dudas amenazan autoría de la «Nueva crónica y buen gobierno» de Guamán
Poma de Ayala”?375, un altro.
L'antropologo statunitense Gary Urton376, studioso esperto di quipu, dichiarò che le
rivelazioni dei Documenti Miccinelli stavano producendo in Perù un effetto analogo a quello che
si verificherebbe in ltalia se qualcuno rivelasse che non è stato Michelangelo a realizzare la
Cappella Sistina377.
In effetti, la Laurencich Minelli soffrì reazioni fortemente avverse per esempio da parte
della citata Rolena Adorno, nonché da Juan Ossio Acuña, influente indigenista peruviano,
372
Juan Carlos Estenssoro, “¿Historia de un fraude o fraude histórico?, Sí 500, 28/10/1996, pp. 48-53, ripubbicato in
Revista de Indias 57, 210 (1997), pp. 566-78; cfr. Jesús Bustamente García, “Falsificación y revisión histórica:
informe sobre un supuesto nuevo texto colonial andino”, Revista de Indias 57, 210 (1997), pp. 563-65; Rolena
Adorno, “Criterios de comprobación: el manuscrito Miccinelli de Nápoles y las crónicas de la conquista del
Perú”, Anthropologica 16 (1998), pp. 369-94; Albó, “La Nueva coronica...cit. Ma cfr. anche Carlo Animato,
"Múltiples refutaciones y pruebas contra los cargos de los señores académicos en defensa del documento
Miccinelli, conocido como HR", in Francesca Cantù (a c.), Guaman Poma y Blas Valera, Tradición Andina e
Historia Colonial. Actas del Coloquio Internacional, Instituto Italo-Latinoamericano, Roma 29-30 de septiembre
de 1999, Antonio Pellicani Editore, Roma 2001, pp. 87-98.
373
Laura Laurencich Minelli, Clara Miccinelli, Carlo Animato, “Il documento seicentesco Historia et Rudimenta
Linguae Piruanorum”, Studi e Materiali di Storia delle Religioni LXI (1995.), pp. 363-413.
374
El Comercio, 29/6/1996, a firma di Pilar Flores D., che equivocò il cognome della Laura Laurencich Minelli,
diventata Laura Laurencicci.
375
Somos, supplemento a El Comercio, Lima, 15/6/1996, a firma di Marta Castañeda. Rolena Adorno, in “La
pertinencia...cit., p. 11 nota 16, rende conto di vari altri titoli di articoli della stampa limeña dedicati al clamoroso
intervento della Laurencich Minelli nei giorni subito successivi allo stesso. Cfr. Viviano Domenici, “Un
manoscritto svela il mistero inca”, Corriere della Sera, 11/7/1996, p. 29
(http://archiviostorico.corriere.it/1996/luglio/11/manoscritto_svela_MISTERO_INCA_co_0_9607114332.shtml ).
376
Docente di Studi precolombiani alla Dumbarton Oaks University e direttore del Dipartimento di Antropologia a
Harvard.
377
Cfr. Viviano e Davide Domenici: “Talking Knots of the Inka”, Archaeology 6 (1996), pp. 50-56.

140
antropologo e politico378, docente presso la Pontificia Universidad Católica del Perú e studioso di
Guaman Poma già dai tempi della sua tesi di postgraduate Bachelor of Letters a Oxford379.
La Laurencich Minelli, come già rilevato, fu accusata di attentare a due miti del
nazionalismo indigenista peruviano, Inca Garcilaso de la Vega e Guaman Poma – quest'ultimo,
in quanto indio puro, elevato addirittura a eroico simbolo della resistenza culturale indigena
contro le prevaricazioni colonialiste –, sulla base di prove bollate come fasulle o manipolate380.
Mumford precisa puntulamente nel suo articolo citato381:

378
Ossio è stato Ministro della Cultura nel suo Paese (4/9/2010-28/7/2011) durante il governo aprista di Alan García
(28/7/2006-28/7/2011) e in quanto tale ha favorito il famigerato progetto Camisea, di sfruttamento delle risorse di
idrocarburi a danno delle etnie indigene dell'Amazzonia peruviana. In seguito a questa sua posizione, la
AIDESEP (Asociación Interétnica de Desarrollo de la Selva Peruana) ha preteso il suo allontanamento dalla
CONAPA (Comisión Nacional de Pueblos Andinos y Amazónicos) in quanto “persona no grata”. Cfr. AA.VV.
(Pueblos indígenas de la Amazonia peruana), “Respeto a los Derechos de los Pueblos Indígenas frente a la
explotación de hidrocarburos en la Amazonía Peruana”, Lima 2003
(http://www.choike.org/nuevo/informes/1277.html); Redazione cinabrio blog, “Ministro de cultura es persona no
grata para indígenas peruanos”, 5/2/2011 (http://cinabrio.over-blog.es/article-ministro-de-cultura-es-persona-no-
grata-para-indigenas-peruanos-66529724.html). Peraltro, Ossio aveva già avuto occasione di polemizzare con i
movimenti indigeni e anche con altri indigenisti in seguito a una sua intervista dal titolo significativo: “Los
Nativos han sido invisibles para el Estado”, a c. Ricardo Álvarez, Misioneros Dominicos 171 (2008), pp. 7-13.
Cfr., tra le risposte ricevute: Frederica Barclay, “Respuesta a Ossio, por Flica Barclay”, 2/9/2008
(http://betamorsa.blogspot.it/2008/09/respuesta-ossio-por-flica-barclay.html).
379
The Idea of History...cit. Cfr. Id., “Guaman Poma: Nueva corónica o carta al rey. Un intento de aproximación a
las categorías del pensamiento del mundo andino”, in Ideología mesiánica del mundo andino, a c. J. Ossio, Prado
Pastor, Lima 1973, pp. 153-213; fino alle recenti interviste l'una concessa a Enrique Planas, “ En busca del orden
perdido. Crónica de un mundo al revés”, 2008 (http://blog.pucp.edu.pe/item/47724/en-busca-del-orden-perdido),
la seconda a Christian Bernal Méndez, “Espacio y tiempo en la Nueva corónica de Guaman Poma”, 2008
(http://www.elhablador.com/resena17_2.html), che fanno seguito alla pubblicazione da parte di Ossio del saggio
già citato En busca del orden perdido (cfr. supra).
380
Cfr. Mary Louise Pratt, Imperial Eyes. Travel, Writing and Transculturation, Routledge, London-New York
1992, p. 4; Tom Cummins, “Let Me See! Reading Is for Them: Colonial Andean Images and Objects «como es
costumbre tener los caciques Señores»”, in Elizabeth Hill Boone, Tom Cummins (a c.), Native Traditions in the
Postconquest World, Dumbarton Oaks Research Library and Collection, Washington 1998, pp. 91-148 e passim;
Alfredo Alberdi Vallejo, El mundo al revés...cit., p. 189; Teodoro Hampe Martínez, “El enigma de Guaman
Poma de Ayala”; El Comercio, 12/8/1998, articolo ripubblicato in Historia y Cultura 25 (1999), Sociedad
Boliviana de Historia, La Paz.
381
“Clara Miccinelli...cit., p. 39.

141
Valera, of course, was also Peruvian. But as an educated mestizo Jesuit, he represents a
different aspect of the national culture. To say that Valera wrote the Nueva corónica is like
saying Bacon wrote Shakespeare's plays. Actually, given the esoteric reading that “Historia et
rudimenta” placed on the Nueva corónica – reading the manuscript as a puzzle created by a
utopian secret society – it is like saying that Bacon wrote the play in order to send secret
messages to the Rosicrucians382.

Qui Mumford ha girato sapientemente il coltello nella piaga. Il punto è proprio che nel
nazionalismo peruviano Guaman Poma – come Inca Garcilaso de la Vega, del resto, a cui sono
intitolate persino due squadre di calcio, il Real Garcilaso e il Deportivo Garcilaso383 – è diventato
nell'ultimo secolo davvero una “pietra angolare dell'identità peruviana”384, specie quell'identità

382
Mumford con questo paragone non ha fantasticato, ma alluso a precisi studi della storica britannica Frances Yates
(1899-1981), quali per esempio Shakespeare's Last Plays: A New Approach (Routledge & Kegan Paul, London
1975) e The Rosicrucian Enlightenment (Shambhala, Boulder 1978). Cfr. Gabriele La Porta, Il ritorno della
Grande Madre. Il magico, anima segreta e femminile della Storia, Il Saggiatore, Milano 1997, specie pp. 72-97;
Id., Storia della magia. Grandi castelli, grandi maghi, grandi roghi, Bompiani, Milano 2001, pp. 160-161, 200
segg. E il paragone è certamente appropriato.
383
L'Asociación Civil Real Atlético Garcilaso e il Deportivo Garcilaso sono squadre di calcio di Cusco; anche lo
stadio in cui giocano, l'Estadio Inca Garcilaso de la Vega, è intitolato al celebre mestizo. Altri autori peruviani
che hanno ricevuto questo “onore calcistico” sono José María Arguedas, a cui è intitolata una squadra omonima
della sua città natale, Andahuaylas, e l'Universidad César Vallejo Club de Fútbol, di Trujillo, invero
rappresentativa dell'omonima università, comunque intitolata al famoso poeta César Vallejo (1892-1938). A
Guaman Poma, almeno per ora, non mi risulta che siano state intitolate squadre di calcio, forse per la ragione che
spiega Miguel Gutiérrez nell'articolo citato (¿Fraude o maravillosa ficción?...cit.): “la intelectualidad de
izquierda, sobre todo la que procede de las regiones andinas, convirtieron a Guamán Poma y a Nueva Corónica
y Buen Gobierno en el símbolo del Perú popular, desgarrado e insumiso, en oposición a Garcilaso de la Vega y
sus Comentarios reales, figura ya incorporada al Perú oficial, preferido por la antigua y nueva derecha y por las
clases medias cultas urbanas”.
384
Mi permetto di raccontare al riguardo un aneddoto personale. Nel 2012 ho svolto compiti di membro esterno di
commissione di esame di Stato presso l'IIPSCT “Giovanni Caboto” di Chiavari-Santa Margherita Ligure. Tra gli
alunni candidati all'esame ce n'era uno di origine peruviana il quale, tra i suoi cognomi, sfoggiava Guaman Poma.
Gli ho chiesto se conosceva il suo illustre presunto antenato, lui mi ha risposto di no, ma suo padre, che pure ho
avuto la ventura di conoscere, mi ha assicurato di esserne discendente, per quanto non mi abbia dato la certezza
che conoscesse veramente il personaggio, se non in seguito a una certa fama legata appunto al peculiare
nazionalismo peruviano. Da notare che in quechua Guaman, o meglio waman, significa “aquila” e Poma, o
meglio puma, appunto “puma”, due animali legati alla spiritualità inca, rappresentativi degli dei tutelari del cielo
e della terra, sulla forma dei quali era stata tracciata la pianta di Cusco e del Sacsayhuamán, a due km subito a

142
tanto cara alla classe dirigente mestizo-criolla di posizioni apristas, un'identità che esalta
oltremodo il passato inca, ma calpesta volentieri i diritti degli indios contemporanei385. Si tratta
dell'ideologia che ispira personaggi quali il già citato Juan Ossio, per esempio. Ma trovo persino
superfluo commentare oltre su quanto l'uso – e abuso – del passato che si fa nel presente non
dovrebbe mai condizionare la ricerca storica, che è soprattutto ricerca della verità386.
Nel settembre del 1999, come detto, dopo altri tre anni di polemiche e ulteriori
rivelazioni387, l'Istituto Italo-Latino Americano, organizzò a Roma la conferenza citata, i cui atti
sono stati pubblicati in seguito a cura di Francesca Cantù388.
I documenti Miccinelli furono finalmente presentati al mondo accademico nella loro
completezza e ne furono anche pubblicati i test che ne comprovavano l'autenticità389.

nord, nonché, in quanto riproduzione di Cusco, del Paititi. Cfr. supra e Manuel Chávez Ballon, “Ciudades Incas.
Cusco capital del Imperio”, Wayka 3 (1970), pp. 1-14; Silvia Rivera Cusicanqui, “La universalidad de lo ch'ixi:
miradas de Waman Puma”, Emisférica 7, 1 (2010; http://hemisphericinstitute.org/hemi/es/e-misferica-71/rivera-
cusicanqui); Carolyn Dean, Culture of Stone: Inka Perspectives on Rock, Duke University Press, Durham 2010,
passim.
385
Cfr. a tal proposito l'illuminante saggio breve di Cecilia Méndez, Incas sí, indios no: Apuntes para el estudio del
nacionalismo criollo en el Perú, IEP, Lima 1996, il cui incipit è sin troppo significativo e calzante: “El Perú de
hoy se desangra. La muerte de ciudadanos, niños y adolescentes en manos de las fuerzas policiales ha pasado de
accidental a rutinaria. Un partido que se dice popular asesina diariamente a inermes pobladores y campesinos.
Estas dos situaciones, que no son las únicas que nos conmueven, grafican con suma claridad la realidad en la
que parecemos estar inmersos: un “mundo al revés”. El que debe protegernos nos acecha, el que dice
representar al pueblo lo humilla y asesina. Todo parece correr peligro, hasta lo más valioso: la vida. La
percepción de la realidad se hace difícil en momentos de tal trastocamiento” (il testo sottolineato è mia
iniziativa). Cfr. anche Marco Curatola Petrocchi, “Cent'anni di incaicismo al Cuzco: Le ragioni storico-sociali e
le radici etnico-culturali di un movimiento indigenista”, in Valeria Cottini Petrucci, Marco Curatola Petrocchi (a
c.), Tradizione e sincretismo. Saggi in onore di Ernesta Cerulli, EDI, Napoli 1998, pp. 201-230.
386
Cfr., tra la vasta letteratura che si potrebbe citare, il classico curato da Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger: The
Invention of Tradition, Cambridge University Press, 1984, nonché l'altrettanto classico di Benedict Anderson:
Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London-New York 1983,
1991 (ed. rivista).
387
Cfr. tra gli altri articoli allora pubblicati, Laura Laurencich Minelli, “¿Otro documento auténtico de Nápoles?/",
El Comercio, 12/5/1999; Teodoro Hampe Martínez, “Los documentos de Nápoles en debate”, El Comercio,
19/5/1999.
388
Cfr. supra.
389
Cfr. Alessandro Bertoluzza, C. Fagnano, M. Rossi, A. Tinti (Università di Bologna), Primi risultati dell’
indagine spettroscopia micro-Raman sui documenti Miccinelli (Historia et Rudimenta e Exsul Immeritus);
Giorgio Gasparotto (Università di Bologna), Studio al microscopio elettronico a scansione (SRM) e microanalisi

143
Maurizio Gnerre390 e Francesca Cantù391 vi presentarono anche nuovi documenti scoperti
presso l'archivio dei Gesuiti a Roma che supportavano chiaramente e ulteriormente l'autenticità
dei documenti scoperti da Clara Miccinelli.
La Cantù, in particolare, ha ritrovato le lettere che il Licenciado Juan Fernández de Boán,
uditore di Sua Maestà presso il tribunale di Cusco, aveva indirizzato a don Pedro Fernández de
Castro, Conte di Lemos e Virrey di Napoli (1610-1616), una vera e propria relazione minuziosa
della cospirazione portata avanti dalla Cofradia Nombre de Jesús capeggiata da Blas Valera,
anche con la speranza, in seguito realizzata, di ottenere il trasferimento in Europa392.
Il documento scoperto da Gnerre è invece un originale di Blas Valera, una lettera redatta
con il nerofumo e da lui, che si firma “BV”, indirizzata nel 1618 al generale dei gesuiti Muzio
Vitelleschi, e nella quale fa chiaramente riferimento alla Nueva corónica, con la richiesta che
Vitelleschi ne appoggi le istanze indirizzate a re Felipe III.
Le polemiche, del resto, non si sono sopite, sino ad oggi, anche da parte di quelli che
hanno finito per accettare l'autenticità dei documenti Miccinelli, ma che ne continuano a
considerare in qualche modo falsi i contenuti. In particolare, questi ultimi sono in genere studiosi
statunitensi e peruviani393, in contrasto con gli studiosi italiani o comunque europei 394. Ma questo
EDS delle parole chiave metalliche allegate a “Exsul Immeritus”: indagine preliminare. Tutti gli studi qui citati
sono stati pubblicati negli atti del colloquio citati supra.
390
Maurizio Gnerre (Istituto Universitario Orientale di Napoli), La telaraña de las verdades: el f.139 del tomo
“Cast.33” del Archivium Romanum Societatis Iesu (ARSI).
391
Francesca Cantù ( Università Roma Tre), Guaman Poma y Blas Valera en contraluz: los documentos inéditos de
un oidor de la Audiencia de Lima.
392
Mi sono chiesto: perché al Virrey di Napoli? Ha a che fare con il filo rosso che collegava l'Italia meridionale
spagnola al Perù e incarnata in Cumis e Oliva? O fu solo perché il Conte di Lemos era “uno degli uomini più
potenti della terra, in quanto nipote e genero del duca di Lerma, prediletto da Filippo III”, come è riportato in
Nerofumo. La doppia ombra del gesuita maledetto, Sperling & Kupfer, Milano 2003, p. 134, il “docudramma
investigativo”, come lo hanno definito gli autori stessi, di Clara Miccinelli e Carlo Animato dedicato alla vicenda
rivoluzionaria di Blas Valera.
393
Cfr. in particolare Juan Ossio, “Nota sobre el Coloquio Internacional «Guaman Poma de Ayala y Blas Valera:
Tradición andina e historia colonial». Instituto Italo-Latinoamericano, Roma, 29-30 de setiembre de 1999”,
Colonial Latin American Review 9, 1 (2000), pp. 113-116; Id., En busca del orden perdido...cit., passim; Alberdi
Vallejo, “El Príncipe de los cronistas nativos...cit., passim.
394
Notevoli, in particolare, gli studi dell'antropologa scozzese Sabine Hyland, che ha anche collaborato con la
Laurencich Minelli, per esempio: The Jesuit and the Incas: The Extraordinary Life of Padre Blas Valera, SJ,
University of Michigan Press, Ann Arbor 2003; The Quito manuscript: an Inca history preserved by Fernando
de Montesinos, Peabody Museum of Natural History, Yale University, New Haven 2007; Gods of the Andes: An

144
confronto-scontro ideologico ha davvero poco a che fare con la ricerca della verità storica, è
indicativo piuttosto di quanto, in un'America ancora molto postcoloniale, la resistenza alle
rivendicazioni indigeniste sia ancora molto tenace.
L'opera firmata da Guaman Poma, invero frutto del lavoro dei gesuiti “peruviani”
capeggiati da Blas Valera ufficialmente morto di fatto molto vivo e attivo, aveva, come detto, lo
stesso fondamentale scopo che si era prefisso decenni prima con le sue opere Bartolomé de las
Casas, cioè quello di sensibilizzare e condizionare le autorità regie, Felipe III in primis, in modo
che quest'ultime emanassero leggi che sovvertissero lo strapotere degli encomenderos e delle
autorità religiose ufficiali, a restituire invece potere alle autorità indigene, ovviamente con la
dovuta supervisione dei gesuiti stessi.
Ma si trattava sicuramente di un tentativo anacronistico e tale risultò essere. Dai tempi del
prestigioso prelato domenicano e soprattutto di Carlos I – o Carlo V –, l'impero spagnolo era
passato attraverso il regno del figlio di quest'ultimo, il rigido fanatico – e psicopatico – Felipe II,
che con la sua incompetenza e la sua condotta arrogante e autodistruttiva aveva portato l'impero
alle umiliazioni dell'Invencible Armada contro l'Inghilterra di Elizabeth I, nonché nelle Fiandre,
senza dimenticare la politica economica caratterizzata da spese folli, sia per le continue guerre
sia per le “opere religiose”, che dilapidarono le ricchezze saccheggiate nel Nuevo Mundo e di
fatto portarono la Corona spagnola alla bancarotta e alla mercè dei banchieri tedeschi e genovesi,
tanto più che contemporaneamente erano perseguitati, sterminati e, nel migliore dei casi, costretti
all'esilio, in una vera e propria politica suicida, i marranos e i moriscos, tra gli altri heréticos,
comunità molto intraprendenti e attive sul piano economico395.

Early Jesuit Account of Inca Religion and Andean Christianity, Penn State Press, University Park 2011
(gentilmente inviatomi in omaggio per email dall'autrice, assieme ad altri due recentissimi articoli). Nel 2012
National Geographic Channel ha dedicato il documentario Decoding the Incas al lavoro sui quipu che la Hyand
sta svolgendo sulle Ande. Cfr. http://sabinehyland.com/2012/12/decoding-the-incas/.
395
Cfr., tra tanti studi, Hugh Thomas, The Spanish Empire (trilogy): Rivers of gold: The rise of the Spanish Empire,
Weidenfeld & Nicolson, London 2003; The Golden Age: The Spanish Empire of Charles V, Allen Lane, London
2010; World Without End: The Global Empire of Philip II, Allen Lane, London 2014, passim; Henry Kamen,
Imperio. La forja de España como potencia mundial, Santillana Ediciones Generales, 2003 [Empire: How Spain
Became a World Power, 1492-1763, Harper & Collins, New York 2003], passim; Id., Felipe de España, Siglo
XXI, Madrid 1997 [Philip of Spain, Yale University Press, 1997], passim. Segnalo inoltre come, ispirato alla
figura di Felipe II, lo scrittore spagnolo Antonio Enrique abbia pubblicato recentemente il romanzo dal titolo
significativo Rey tiniebla, Almuzara, Córdoba 2012.

145
Con suo figlio Felipe III, salito al trono nel 1598 all'età di vent'anni, le cose non
migliorarono affatto, anzi erano ormai compromesse e si può dire che l'impero spagnolo era già
entrato in quella crisi che nel secolo successivo l'avrebbe portato gradualmente ma
inesorabilmente a decadere definitivamente a vantaggio di Francia, Inghilterra e Olanda, tanto
più che contemporaneamente si diffondeva la già citata leyenda negra396, alimentata dai nemici
di Spagna, anche quelli interni, che peraltro era accompagnata e favorita dalla recrudescenza con
cui le autorità spagnole, o della Chiesa della controriforma loro alleata, “punivano” i “ribelli”
vari, basti pensare – tanto per citare di proprosito i nomi di due religiosi cattolici coevi a Blas
Valera per giunta meridionali come i suoi due “complici” citati Oliva e Cumis – alle figure di
Giordano Bruno, condannato al rogo dall'Inquisizione e arso vivo a piazza Campo de' Fiori, a
Roma, nel 1600, o di Tommaso Campanella, che fu processato cinque volte, torurato, e si fece 27
anni di carcere a Napoli, tra il 1599 e il 1626, con l'accusa, tra le tante altre, di aver organizzato –
o più propriamente pianificato – una vera e propria rivolta antispagnola 397 in Calabria, anche con
la collaborazione del pirata ottomano di origine genovese Scipione Cicala alias Sinan Kapudan
Paşa, lo stesso a cui Fabrizio De André ha dedicato nel 1984 una canzone in genovese, intitolata
appunto Sinàn Capudàn Pascià, che fa parte dell'album Creuza de mä.
E sorvolo sulle numerose “ribellioni indigene” che negli stessi anni si verificarono nelle
province del Nuevo Mundo, per esempio quella degli Yaracuyes, nell'attuale Venezuela, del 1569
o quella condotta dal capo Jumandi nel 1578 nell'attuale selva amazzonica ecuatoriana 398, dove
peraltro erano sempre in fermento gli indomabili Shuar, senza dimenticare la ribellione del Taki
Unquy, a cui si è accennato, e gli Inca di Vilcabamba, che hanno resistito fino al 1572 con
l'ultimo re Túpac Amaru I, non a caso ricordato nell'opera firmata da Guaman Poma.
E nella stessa Vilcabamba, nel 1603, pochi anni prima quindi della pubblicazione della
Nueva Corónica, Francisco Chichima guidò una ribellione negro-india399.

396
Cfr. supra.
397
Cfr. Emilio Sola, La conjura de Campanella, Turpin Editores, Madrid 2007.
398
Cfr. Kintto Lucas, Rebeliones Indígenas y Negras en América Latina, Abya-Yala, Quito 1992, pp. 21-23; Id., La
rebelión de los indios, Abya-Yala, Quito 2000, pp. 175-77 e passim. Cfr. anche Los hijos de Jumandi [The
Children of Jumandi] (2009), film documentario diretto da Drew Bennett e Dusty Diller e disponibile al sito
http://www.imdb.com/title/tt1913154/.
399
Cfr. Baltazar de Ocampo y Conejeros, Descripción de San Francisco de la Victoria de Vilcabamba, Lima 1923,
passim; France-Marie Renard-Casevitz, Al este de los Andes: relaciones entre las sociedades amazónicas y
andinas entre los siglos XV y XVII, I, Abya-Yala, Quito 1988, p. 147.

146
E che dire dei mestizos, come lo stesso Blas Valera – e Inca Garcilaso de la Vega, che non
a caso era emigrato in Spagna e c'era rimasto, come visto –, che nel 1567 si erano resi
protagonisti di una rivolta a Cusco400 e ancora nei decenni che seguirono401 rimasero molto
inquieti a causa delle discriminazioni subite?
Insomma, non erano davvero più i tempi in cui si poteva dialogare facilmente con le
autorità, politiche e religiose che fossero. Ma i gesuiti peruviani capeggiati da Blas Valera vi
tentarono lo stesso402.
Ora, senza la presunzione di offrire soluzioni, semmai con lo scopo di porre sul tavolo di
lavoro ulteriori questioni ancora da risolvere completamente e sicuramente in studi specifici e
più approfonditi del presente, e a prescindere dai dubbi che tuttora affliggono molti studiosi e gli
altri vari personaggi che hanno affrontato la questione, dubbi che oggigiorno, come detto,
riguardano più la verdicità delle rivelazioni contenutevi piuttosto che l'autenticità dei documenti
Miccinelli, mi sembra del resto che le informazioni offerte dagli stessi siano molto coerenti con
la storia coeva e successiva fino ad oggi, in particolare quella del ruolo svolto dai gesuiti
nell'America coloniale e delle rivendicazioni indigene e sociali in genere supportate da figure di
religiosi. Senza dimenticare peraltro gli apporti che questa storia ha offerto alla letteratura e
anche alla cinematografia403.
400
Cfr. Héctor López Martínez, “Un motín de mestizos en el Perú (1567)”, Revista de Indias XXIV, 97-98 (1964),
pp. 367-381; Id., Rebeliones de mestizos y otros temas quinientistas, Ediciones P.L.V., Lima 1972, passim; Max
Hernández, ¿Es otro el rostro del Perú? Identidad, diversidad y cambio, Agenda: Perú, Lima 2000, p. 106; Berta
Ares Queija, “El Inca Garcilaso y sus “parientes” mestizos”, in Carmen de Mora (a c.), Humanismo, mestizaje y
escritura en los Comentarios reales, Vervuert Iberoamericana, Madrid-Frankfurt am Main-Orlando 2010, pp. 15-
29, specie pp. 24-25. E cfr. infra circa le ulteriori restrizioni inflitte ai mestizos, anche nell'ordine dei gesuiti.
401
Un'altra importante ribellione di mestizos si ebbe nel 1583 a Quito guidata da Miguel Belalcázar. Cfr. López
Martínez, Rebeliones...cit., pp. 49 segg.
402
Cfr. infra. Cfr. anche Gutiérrez, ¿Fraude o maravillosa ficción?...cit.: “Valera (a quien Anello Oliva llama
Maestro), en su condición de cadáver o fantasma, pues ha sido declarado muerto por la Orden jesuítica, retornó
al Perú con un objetivo mayor: escribir una Carta o Informe al Rey en forma de libro en la que se plantearía la
utopía de un reino independiente de indios, si bien ligado por la fe a la corona española. Y según los
manuscritos, refugiado entre los indios, cerca de veinte años le llevó al ilustre Blas Valera concebir, escribir y
componer desde la clandestinidad el libro más subversivo de la historia del Perú”.
403
Non credo che il presente studio sia la sede adatta a ospitare un elenco della recente e meno recente copiosa
produzione editoriale e cinematografica, di qualità varia, dedicata ai gesuiti e al loro presunto cospirazionismo
finalizzato al controllo del mondo, il quale, se ha qualche nucleo di verità storica, va senz'altro cercato nella
vicenda di Blas Valera e dei suoi “complici”. Cfr. Yuri Leveratto, “Il vero potere dei gesuiti in America (1549-
1767)”, 2014 (http://www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=446).

147
Trovo infatti che il progetto di ricostituire il Tahuantinsuyu404 portato avanti da Blas Valera
e dagli altri gesuiti della Cofradía Nombre de Jesús del Cuzco, una vera e propria società segreta
in seno all'ordine fondata dallo stesso Valera, non sia né in contrasto con i progetti gesuiti in
seguito realizzati, anche se stroncati dal potere405, tra il XVII e il XVIII secc. assieme ai Guaraní,
all'epoca, non a caso, la nazione indigena più numerosa in Sudamerica, come detto, in particolare
le celebri reducciones jesuíticas guaraníes, istituite nei territori degli attuali Brasile, Argentina e
soprattutto Paraguay e elogiate con entusiasmo anche da Ludovico Antonio Muratori 406, né con
l'utopismo rinascimentale che si sposava spesso con la dottrina di teologi coevi o recenti, eretici
e sovversivi e non407, né, appunto, con il pensiero di altri illustri gesuiti coevi e pure loro operanti
404
Perché di questo invero si trattava: un Tahuantinsuyu sia pure cristianizzato, vassallo della Corona di Spagna e
soprattutto sotto la protezione dell'ordine fondato da Ignacio de Loyola.
405
Non è ozioso ricordare che non solo detti progetti furono stroncati, ma che lo stesso ordine dei gesuiti fu espulso
dalle colonie americane spagnole e in tanti altri territori nel 1767 fino alla soppressione dello stesso nel 1773 da
parte di Clemente XIV.
406
Cfr. Ludovico Antonio Muratori, Il cristianesimo felice dei padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai,
Giambattista Pasquali editore, con Licenza de' Superiori e privilegio del cardinale Carlo Barabuglini, Venezia
1742, anche nell'edizione critica più recente a c. di Paolo Collo, con nota di Angelo Morino, Sellerio editore,
Palermo 1985; Muratori, per esempio, vi scrisse : “Sono innamorato di quelle missioni, perché mi pare di trovarvi
la primitiva Chiesa”. In effetti si viveva una forma di comunismo ad alta ispirazione religiosa. Fuori delle
riduzioni, invece, gli indios sarebbero stati vittime delle angherie dei bianchi. Cfr. Francesco Guardiani, “La
modernità dei gesuiti nel Cristianesimo felice del Muratori”, 2007 (http://hdl.handle.net/1807/10183); Id., “La
modernità dei gesuiti del Seicento nella giungla del Paraguay”, 2007 (http://hdl.handle.net/1807/10182); Id., “La
modernità dei primi gesuiti da Sant'Ignazio a Matteo Ricci”, 2007 (http://hdl.handle.net/1807/10184). Ma non fu
certo il Muratori a rendere celebri le missioni gesuite, semmai il film Mission, diretto da Roland Joffé nel 1986,
con soggetto di Robert Bolt, e interpretato, tra gli altri, da Robert De Niro nel ruolo dell'ex bandeirante divenuto
gesuita Rodrigo Mendoza, nonché Jeremy Irons nel ruolo di Padre Gabriel, il cui personaggio è ispirato al
missionario gesuita realmente esistito Antonio Ruiz de Montoya (1585–1652). Cfr. Juan Miguel Marin, “Mystical
Theology in the early Jesuit Mission to colonial Paraguay”, The Way 47/3 (2008), pp. 77–94, in particolare pp.
77-78.
407
Basti pensare ai nomi già citati di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, a cui si possono aggiungere
doverosamente quelli di Bernardino Telesio (1509-1588), ispiratore dei precedenti come anche di Francis Bacon
(1561-1626), nonché, naturalmente, Thomas More (1478 -1535) e René Descartes alias Cartesio (1596 -1650).
Senza dimenticare precursori come Marsilio Ficino (1433-1499) e soprattutto Gioacchino da Fiore (1130 circa-
1202), colui che probabilmente è stato l'iniziatore dell'utopismo postclassico che, comunque, ha il suo precedente
classico almeno ne La Repubblica di Platone. È interessante, del resto, quanto ricostruisce Cristiano Spila ne “Il
Mundus Novus di Vespucci alle origini dell’Utopia rinascimentale”, in Armando Gnisci, Nora Moll (a c.), Studi
europei e mediterranei, 22, Bulzoni, Roma 2008, pp. 137-152, che, richiamandosi tra l'altro a Fredric Jameson
(Archaeologies of the Future. The Desire Called Utopia and Other Science Fictions, Verso, London-New York

148
nel Virreinato del Perú, come il già citato José de Acosta (1540-1600), straordinaria figura di
missionario408, ma anche naturalista, antropologo409 – fu definito il Plinio del Nuevo Mundo410 e
la sua opera principale411 fu studiata da Boyle, Newton e Humboldt, tra gli altri – e difensore
della causa degli indios412, per cui si recò a Roma, tra il 1592 e il 1593, dove partecipò alla V
Congregazione generale della Compagnia di Gesù (3 novembre 1593 - 18 gennaio 1594),
scontrandosi immancabilmente con il generale Claudio Acquaviva dalla cui autorità aveva
proposto di emancipare i gesuiti spagnoli, specie quelli operanti in Perù (!). Fu attaccato come
ribelle e in quanto cristiano nuevo – fu accusato di provenire da una famiglia di judeoconversos,
come Las Casas –, e non fece più ritorno in Perù, ritirandosi a insegnare a Salamanca e
Valladolid, dove morì nel 1600413.

2005) collega, come risulta chiaro dal titolo, l'utopismo rinascimentale e i suoi sviluppi alla “scoperta”
dell'America, in particolare al Mundus Novus di Amerigo Vespucci – la cui edizione critica Spila ha curato (Città
aperta, Troina-Enna 2007) –, di conseguenza all'idea dei gesuiti e non solo di costruire l'utopia nel Nuevo Mundo.
Si tratta di considerazioni che rimandano anche a studi di vari pensatori e storici latinoamericani, come il
colombiano Germán Arciniegas (Bogotá 1900-1999) – cfr. Con América nace la nueva historia, Tercer Mundo
Editores, Bogotá 1990 –, il venezuelano Arturo Uslar Pietri (Caracas 1906-2001) – es. in En busca del Nuevo
Mundo, Fondo de Cultura Económica, Ciudad de México 1969 e in La otra América, Alianza Eitorial, Madrid
1974 – fino all'opera del citato Enrique Dussel.
408
Era arrivato in Perù nel 1571 assieme al citato padre Andrés López. Cfr. Torres Saldamando, Los antiguos
jesuítas del Perú...cit., pp. 1-3 e passim.
409
Pare che sia stato il primo a ipotizzare che gli antenati degli indigeni americani provenissero dalla Siberia.
410
Definizione attribuita a padre Benito Feijoo (1676-1764), a sua volta considerato il primo illuminista iberico.
411
Joseph de Acosta, Historia natural y moral de las Indias, Fondo de Cultura Económica, Ciudad de México 1962
[1590].
412
Le sue tesi a favore degli indios le sostenne soprattutto nell'opera: De procuranda indorum salute, I-II, CSIC,
Madrid 1984 [1588]. Cfr. Pedro Trigo, “Evangelización en la colonia. De procuranda indorum salute: una
teología patética”, Iter. Revista De Teologia (1990), pp. 163-188; Manuel García Castellón, “De procuranda
indorum salute, salvación y liberación del indio en Jose de Acosta, S. J.”, Inti. Revista de Literatura Hispanica 39
(1994), pp. 3-18; Florencio F. Hubeñák, “El 'De procuranda indorum salute' como guia para la evangelización”,
in J.-I. Saranyana, P. Tineo, A.M. Pazos, M. Lluch-Baixaulli, M.P. Ferrer (a c.), Evangelización y teología en
América (siglo XVI), Universidad de Navarra, Pamplona 1990, II, pp. 1419-1433; Victor Santos Vigneron de La
Jousselandière, Doutrina e rito: José de Acosta e os instrumentos catequético-sacramentais de compreensão da
alteridade, Universidade de São Paulo, 2008; Marciano Cordeiro de Souza, De Procuranda Indorum Salute: o
discurso de José de Acosta sobre a evangelização dos indígenas na América Hispânica Colonial, Universidade
de Brasília, 2013.
413
Claudio M. Burgaleta, José de Acosta, S.J. (1540-1600): his life and thought, Jesuit Way, University of
Michigan, 1999; Claudio Ferlan, José de Acosta. Missionario, scienziato, umanista, Il Sole 24 ORE, Milano
2014.

149
Invero, anche il pensiero di José de Acosta, pur notevole e originale, rimanda alla fertile
fioritura culturale e ideologica che si sviluppò nel “laboratorio de experimentación jesuita para
la futura evangelización de los indios del Altiplano surandino”414 che fu la doctrina di Juli, cioè
l'allora sede principale dei gesuiti peruviani, in origine fondata dai domenicani 415, nell'omonima
località presso la riva occidentale del lago Titicaca, poco a sud di Puno, in territorio aymara,
dove si formò una vera e propria scuola in cui si studiavano le lingue e le culture dei nativi e,
evidentemente, si discuteva anche dei loro diritti. Inoltre a Juli s'insediò anche una stamperia,
molto attiva all'epoca nel pubblicare testi didattici e catechetici finalizzati al dialogo con i nativi
e alla loro evangelizzazione. Lo stesso Acosta ha vissuto e operato a Juli durante gran parte del
suo mandato nel virreinato del Perú. E anche Blas Valera, prima delle sanzioni che gli
comminarono.
A Juli, che non a caso in quegli anni conobbe epiteti quali Pueblo Santo, Roma del Perú,
Roma y Santa Sede de las Indias, Roma de las Indias, Ciudad Santa, Roma de América, i gesuiti
hanno sviluppato il loro modus operandi evangelizzatore e le loro proprie prospettive utopiche
da applicare agli indigeni del e nel Nuevo Mundo416, in una autentica prospettiva indigenista, così
come l'abbiamo definita supra, sicuramente favorevole agli indios ma pur sempre da un punto di
vista non indigeno, per quanto gesuiti come lo stesso Blas Valera, mestizo, fossero senz'altro
molto prossimi alle culture e al weltanschauung degli indios, che invece i conquistadores
spagnoli in genere consideravano perros infieles, com'è ricordato non a caso nella Nueva
corónica417.
414
Alexandre Coello de la Rosa, “La doctrina de Juli a debate (1575-1585)”, Revista de estudios extremeños 63, 2
(2007), p. 951. Coello de la Rosa rileva che fu il Virrey Francisco de Toledo (1568-1581) a obbligare i gesuiti a
risiedere a Juli, ma ivi emarginati poterono agire in maniera indisturbata.
415
Cfr. Rodrigo Montes Rondón, “La doctrina de Juli”, in P. Javier Baptista Morales, s.j., Historia de la Compañía
de Jesús en Bolivia, pubblicazione autonoma (cfr. http://javierbaptista.blogspot.it/2008/02/la-compaa-de-jess-en-
bolivia.html), Cochabamba 2004. Rondón rileva anche che “Juli se convirtió en el modelo de las Reducciones de
Paraguay y de Tucumán (Argentina)”.
416
Cfr. Paolo Broggio, “Attività missionaria e strategie insediative nelle province spagnole della Compagnia di Gesù
(1581-1700)”, in Paolo Broggio, Francesca Cantù, Pierre-Antoine Fabre, Antonella Romano (a c.), I gesuiti ai
tempi di Claudio Acquaviva. Strategie politiche, religiose e culturali tra Cinque e Seicento, Morcelliana, Brescia
2007, pp. 87-118.
417
Da ricordare che l'insulto perro, “cane”, ha un preciso retaggio biblico, soprattutto neotestamentario (trasmesso in
seguito anche al Corano), ed è equivalente a “infedele”, “eretico”: pare che sia da collegare al doppio senso della
parola greca κύων, che significa cane (comunque considerato animale impuro nell'ebraismo, laddove nel mondo
greco Aristotele e i suoi seguaci usavano questa parola per indicare sprezzantemente i filosofi cinici), ma anche

150
In tal senso, si può senz'altro dire che i gesuiti peruviani e José de Acosta e Blas Valera in
primis siano stati gli iniziatori di quell'indigenismo cristiano e cattolico in particolare che è in
seguito sfociato per esempio nella teologia della liberazione, tuttora molto vitale in tutta
l'America Latina418 e di cui, infatti, già è stato fatto notare come la Nueva corónica y buen
gobierno firmata da Guaman Poma, invero frutto del sagace e mirato lavoro di Blas Valera e dei
suoi “complici”, sia il testo precursore419.

frenulo del prepuzio, pertanto era associata in origine dagli ebrei e dai primissimi cristiani ai non circoncisi,
infedeli, appunto. E in quanto “cane infedele” l'indio era legittimamente disprezzabile e da emarginare e
perseguitare, come del resto succedeva contemporaneamente nel resto dell'impero spagnolo, specie nella Spagna
stessa, con i cd. già citati marranos, moriscos nonché con i nuevos castellanos o cristianos nuevos, cioè i gitanos,
come sono tuttora chiamati in Spagna i sinti e i rom che in Italia sono noti come zingari. Cfr., tra la vasta
bibliografia, Mármol Carvajal, Historia de la rebelión...cit.; Luis F. Bernabé Pons, Los moriscos: conflicto,
expulsión y diáspora, Catarata, Madrid 2009; Américo Castro, Simbiosis cristiano-judaica. Limpieza de sangre e
inquisición, Editorial Crítica, Barcelona 1984,
(http://www.vallenajerilla.com/berceo/florilegio/inquisicion/limpiezasangre.htm); Joseph Pérez, Los judíos en
España, Marcial Pons, Madrid 20092; Teresa San Román, La diferencia inquietante, Siglo XXI, Madrid 1997;
Antonio Gómez Alfaro (a c.), Escritos sobre gitanos, Asociación de Enseñantes con Gitanos, Madrid 1999,
specie pp. 351 segg.. Da ricordare anche come, secondo buona parte delle testimonianze, il già citato fray
Valverde, in seguito al primo contatto con il Sapa Inca Atahualpa, dopo che quest'ultimo gli avrebbe gettato
contro la bibbia presentatagli dal frate come la “palabra de Dios”, laddove l'Inca non aveva sentito alcuna parola
allorché si era avvicinato il libro all'orecchio, Valverde sarebbe tornato di corsa da Pizarro e gli altri
conquistadores chiedendo vendetta contro il perro infiel. Cfr. Guillermo Lora, Naciones oprimidas y religión,
Partido Obrero Revolucionario, Sección Boliviana del CERCI, 1988, pp. 12-3; AA.VV., Biblioteca peruana:
primera serie, II, Editores Técnicos Asociados, Lima 1968, pp. 84-5.
418
È considerato padre della teologia della liberazione il sacerdote peruviano Gustavo Gutiérrez Merino, autore
dell'opera fondamentale Teología de la liberación: Perspectivas (I ed. Lima 1971), altri esponenti celebri sono i
brasiliani Leonardo Boff e Frei Betto, nonché Rubem Alves, che pure è un pastore presbiteriano. Durante quasi
tutto il pontificato di Giovanni Paolo II, a capo della Santa Inquisizione Joseph Ratzinger, i teologi della
liberazione, sospettati di simpatie comuniste, non ebbero vita facile: Leonardo Boff, dopo numerosi processi
subiti, fu costretto a uscire dalla Chiesa, altri, ancora peggio, furono lasciati soli alla mercè dei gruppi paramilitari
al soldo dei vari dittatori appoggiati dalla CIA. È il caso, per esempio, dei 24 gesuiti assassinati barbaramente il
19 novembre 1989 presso l’Universidad Centroamericana “José Simeón Cañas” di San Salvador, tra i quali
spiccava Ignacio Ellacuría Beascoechea, di origine spagnola, o meglio basca, ma naturalizzato salvadoregno,
tuttora ricordato come filosofo e teologo di notevole spessore. Cfr. José Luis Loriente Pardillo, Ignacio Ellacuría,
Fundación Emmanuel Mounier, Madrid 2004; Redacción Otramérica, “Juan Pablo II: La ortodoxia contra la
Teología de la Liberación”, Otramérica, 1/5/2011 (http://otramerica.com/temas/juan-pablo-ii-la-ortodoxia-contra-

151
Aggiungo, se ci sono ancora dubbi riguardo alla veridicità delle rivelazioni dei documenti
Miccinelli, che, se confrontiamo le date significative di alcuni dei personaggi citati, non
troviamo altro che ulteriori conferme.
Per esempio, padre Andrés López, che ha mandato, forse improvvidamente o forse
sapientemente, al generale Claudio Acquaviva una relazione sulla sua visita al Paititi420, è
rimasto in Perù tra il 1571 e il 1583, spedito in Europa curiosamente 421 poco dopo la sua nomina
a rettore del Collegio dei Gesuiti a Chuquiabo, quindi è morto precocemente a Panama,
nell'aprile del 1585 all'età di 38 anni, durante il viaggio di ritorno in Perù, a causa di una
“enfermedad violenta”422.
Il suo viaggio in Europa e il suo incontro con Acquaviva avevano forse a che fare anche
con il Paititi e, magari, con il fatto che alcuni confratelli gesuiti, come Blas Valera, vedevano in
questo luogo un simbolo del riscatto indigeno?
Non è certo questa la sede per rispondere a questa domanda, gurda caso, però, sono gli
stessi anni in cui il gesuita mestizo è messo sotto accusa, sospeso dai suoi incarichi e trasferito.
E sono gli stessi anni in cui in genere tutti i mestizos e i nuevos cristianos si fa questione di
non ammetterli più nell'ordine o di espellerli, questione che sarà sancita dall'“estatuto de
la-teologia-de-la-liberacion/157). Invece, l'attuale papa Francesco I, non a caso, evidentemente, un gesuita
argentino, ha già operato una svolta inequivocabile al riguardo: cfr. Luis Jaime Cisneros, “El papa Francisco saca
de las sombras a la Teología de la Liberación”, Perú21, 13/9/2013 (http://peru21.pe/mundo/papa-francisco-saca-
sombras-teologia-liberacion-2149049).
419
Cfr. Manuel García Castellón, Guamán Poma de Ayala: Pionero de la Teología de la Liberación, Editorial
Pliegos, Madrid 1992. Nella Nueva corónica molto spesso gli indios oppressi sono definiti pobres de jesucristo,
epiteto in seguito adottato dai teologi della liberazione a indicare tutti gli oppressi d'America Latina, la maggior
parte dei quali, del resto, sono discendenti dei popoli originari. Notevole per l'attinenza alla teologia della
liberazione anche la formula che compare spesso nella Nueva Corónica a stigmatizzare le vessazioni subite dagli
indigeni e diventata emblematica della questione indigena in generale: “y no hay remedio”. Cfr. Porras
Barrenechea, El legado quechua...cit., p. 99, dove è definito “estribillo trágico”. Curioso, ma non troppo, il fatto
che più tardi Francisco de Goya abbia usato questa espressione, nella forma Y no hai remedio, per intitolare una
delle sue stampe della serie Desastres de la guerra.
420
Cfr. supra.
421
Torres Saldamando, Los antiguos jesuítas del Perú...cit., p. 35, dice che fu nominato “primer Procurador en
Roma y Madrid, por la congregación reunida por el Provincial P. Baltasar de Pinas en 3 de Diciembre [del
1582]”, e aggiunge che “El P* López desempeñó la comisión para la que su Provincia le eligiera, como lo
hacian esperar los servicios que á ésta habia prestado. Consiguió de las cortes ante las que fué enviado la
consecion de varias gracias y privilegios; y del General que mandase algunos operarios”.
422
Ibid., p. 43.

152
«limpieza de sangre»” stabilito definitivamente proprio dalla V Congregazione generale della
Compagnia di Gesù sopra citata423, la stessa a cui ha partecipato, con esiti disastrosi per lui, José
de Acosta. Si è visto come anche Inca Garcilaso de la Vega sia stato vittima di questa norma,
allorché avrebbe voluto accedere all'ordine424.
Blas Valera non si è dato per vinto e, pur ufficialmente morto, ha continuato a operare per
la sua causa con l'aiuto dei suoi “complici” gesuiti e non, soprattutto i due italiani Cumis e Oliva,
meridionali come i coevi già citati Giordano Bruno e Tommaso Campanella e come loro fervidi
di idee rivoluzionarie.
Con la morte di Acquaviva e la nomina a generale dell'ordine di Muzio Vitelleschi, Blas
Valera ha tentato di tornare alla luce del sole, ma le sue speranze sono rimaste deluse e poco
dopo è morto veramente, dopo aver gettato gli ultimi semi delle sue idee nel dialogo, verificatosi
tra il 1618 e il 1619 nella residenza gesuita di Alcalá de Henares, con padre Juan de Mariana,
altra imponente figura di gesuita “sovversivo” dell'epoca, peraltro425, che tra l'altro regalò a
Valera un frammento di una lettera autografa di Cristoforo Colombo che diventò parte dei
documenti Miccinelli426.
In tutti questi dati, insomma, si puà rilevare una coerenza storica che conferma in pieno a
mio parere – ma anche e soprattutto secondo Laura Laurencich Minelli, sulla base di altre

423
Cfr. Alexandre Coello de la Rosa, “De mestizos y criollos en la Compañía de Jesús (Perú, siglos XVI-XVII)”,
Revista de Indias LXVIII 243 (2008), pp. 37-66.
424
Cfr. supra.
425
Juan de Mariana (1536-1624), in particolare, oltre ad essere sempre stato una figura scomoda e critica, fu anche al
centro di un vero e proprio incidente diplomatico tra Francia e Spagna. Infatti fu accusato di aver ispirato
François Ravaillac, che assassinò re Enrico IV di Francia nel 1610, con l'opera De rege et regis institutione (che
Ravaillac peraltro pare avesse dichiarato di non conoscere), pubblicata a Toledo nel 1599 e nella quale,
ispirándosi a San Tommaso d'Aquino, in particolare al suo commento alle Sentenze di Pietro Lombardo,
giustificava la rivoluzione e l'uccisione di un re che agisca come un tiranno. Cfr. Paolo Zanotto, “Liberalismo e
tradizione cattolica. Osservazioni critiche su Juan de Mariana”, Etica & Politica/Ethics & Politics 2 (2003), pp.
1-55; Mario Turchetti, “Tirannide e resistenza nel pensiero di Juan de Mariana de la Reina (1535-1624)”, in
Marta Ferronato, Lucia Bianchin (a c.), Silete theologi in munere alieno. Alberico Gentili e la Seconda
Scolastica. Atti del Convegno Internazionale Padova, 20-22 novembre 2008, CEDAM, Padova 2011, pp. 333-
347. Cfr. anche Wu Ming 1, “Il tirannicidio: riflessioni e un florilegio”, Carmilla on line, 11/1/2005
(http://www.carmillaonline.com/2005/01/01/il-tirannicidio-riflessioni-e-un-florilegio/).
426
Cfr. Viviano Domenici, “Spunta una lettera di Colombo, «inviato del Signore»”, Corriere della Sera 30/11/1999,
p. 35; Domenici, I nodi segreti degli Incas...cit., pp. 50 e passim.

153
considerazioni più specifiche rispetto alla questione contingente427–, le informazioni contenute
nei documenti Miccinelli.
La tesi finale, quindi, dei detrattori a tutti i costi dei documenti Miccinelli, secondo cui, pur
avendo riconosciuto che sono autentici, rifletterebbero però una falsificazione operata dai gesuiti
del '700, fa acqua da tutte le parti.
Penso che questi personaggi debbano proprio accettare definitivamente l'idea che Guaman
Poma fosse un prestanome e Inca Garcilaso de la Vega un plagiario asservito e conformista,
rispetto al rivoluzionario Blas Valera, vero paladino dei diritti degli indigeni, in particolare degli
Inca, esattamente come è riportato nei documenti Miccinelli.
Negli ultimi anni sono stati pubblicati tanti altri studi relativi o attinenti ai documenti
Miccinelli428, ma soprattutto sono stati pubblicati in edizione critica, da Laura Laurencich
Minelli, le opere ivi contenute, sia in Italia, come visto, in edizione bilingue italiano-spagnolo,
sia in Perù429, quest'ultima, tutto sommato, accolta positivamente, almeno da parte di quella
classe intellettuale che non si lascia condizionare troppo dalle proprie posizioni ideologiche430.

427
Cfr. il cap. II, intitolato “Per quale ragione furono scritti i documenti Miccinelli?”, dell' Exsul Immeritus...cit., pp.
45-83.
428
Tra i più importanti e significativi, oltre all'opera citata dei Domenici e quelle della Hyland, cfr.: Laura
Laurencich Minelli, Paulina Numhauser Bar-Magen (a c.), El silencio protagonista: El primer siglo jesuita en el
virreinato del Perú 1567-1667: actas del Simposio El Primer Siglo Jesuita en el Virreinato del Perú, 51°
Congreso Internacional de Americanistas, Santiago de Chile, 17-18 de julio, 2003, Abya-Yala, Quito 2004; Idd.,
Sublevando el Virreinato, Abya-Yala, Quito 2007; Mabel Moraña, Carlos A. Jáuregui (a c.), Revisiting the
Colonial Question in Latin America, Iberoamericana Editorial-Vervuert, Madrid-Frankfurt am Main 2008;
Claudia Brosseder, The Power of Huacas: Change and Resistance in the Andean World of Colonial Peru,
University of Texas Press, Austin 2014. Cfr. anche http://www.escrituras-silenciadas.com/.
429
Pubblicata nel 2009 grazie al patrocinio della Municipalidad Provincial de Chachapoyas, fatto che Miguel
Gutiérrez (“¿Fraude o maravillosa ficción?...cit.) spiega molto semplicemente: “La Laurencich al ver que se le
habían cerrado todas las puertas del mundo académico de Lima, no le quedó otro camino que acudir al alcalde
de la ciudad donde nació Blas Valera”.
430
Cfr. in particolare Roberto Ochoa B., “El Código Blas Valera”, La República, 18/10/2009. L'articolo di Ochoa è
già significativo nel cappello: “La vida y obra del sacerdote Blas Valera confirma aquello de que la realidad
supera a la ficción. Una reciente investigación publicada por la peruanista italiana Laura Laurencich Minelli da
nuevas luces sobre este enigmático cronista mestizo de formación jesuita considerado ‘políticamente incorrecto’
por la historia oficial del Perú”, inoltre vi scrive: “El documento rompe todos los esquemas de la historia oficial:
allí se afirma con testimonios de testigos que Francisco Pizarro capturó a Atahualpa previo envenenamiento de
los jefes militares incas. Valera también revela la actividad clandestina de una logia conocida como La Cofradía
del Nombre de Jesús del Cusco, dedicada a denunciar los atropellos del clero y de los conquistadores, a

154
L'impatto traumatico che peraltro questi documenti hanno prodotto e non solo sul mondo
accademico, come descritto, non è stato del tutto superato, soprattutto perché, come accennato,
va a toccare le corde sensibili della questione indigena e “indigenista” tuttora irrisolta in
un'America che si è “scoperta” ancora molto postcoloniale.
Si tratta sicuramente di un dibattito che appassionerà ancora a lungo le prossime
generazioni di studiosi che si dedicheranno all'America, all'America Latina in particolare e ancor
più nello specifico all'America indigena.

reivindicar los derechos indígenas – previa creación de una iglesia sincrética y “peruana” – y a la restauración
de la economía inca siguiendo los preceptos de los primeros cristianos. La similitud con la obra jesuita en
Paraguay no es pura coincidencia. Pero ahí no queda la cosa, el Exsul Inmeritus Blas Valera Populo Suo acusa
de plagiario al Inca Garcilaso de la Vega y de haber desvirtuado en Los Comentarios Reales de los Incas la
información brindada por Blas Valera, para adecuarse a la censura oficial en España. Lo cierto es que el propio
Garcilaso cita varias veces a Blas Valera en su obra, pero el jesuita chachapoyano revela que el Inca Garcilaso
no solo lo citó mal, sino que desvirtuó toda la información relacionada a los quipus como escritura,
minimizándola a una simple cualidad contable. Según Valera, Garcilaso no entendió lo de los quipus literarios
por una razón: ignoraba la existencia y la interpretación de los capacquipus.” Anche Ochoa poi rileva che la
Laurencich Minelli ha pubblicato in Perù l'Exsul Inmeritus grazie alla Municipalidad de Chachapoyas “con la
intención, según su alcalde Meter Thomas Lerche, de reivindicar la memoria del chachapoyano más ilustre”. E
conclude saggiamente: “Hoy en día los lectores peruanos ya podemos acceder a esta publicación y sacar
nuestras propias conclusiones”.

155
Appendice II

The Green Inferno dal punto di vista indigeno


Il film in oggetto, recentemente passato anche nelle sale italiane, come detto supra, ha offeso
pesantemente i movimenti indigeni per le falsità che veicola e per il fango razzista che getta sui
popoli indigeni dell'Amazzonia peruviana.
A rappresentare la protesta, il portale Servindi.org431 ha pubblicato la traduzione
spagnola432 del puntuale e appropriato articolo di David Hill supra citato con il titolo “Oye, Eli
Roth, sobre tu película de «horror-caníbal»”433.
Ne riporto i passi più significativi:

[…] más contenido peyorativo y absurdo sobre los pueblos indígenas en la Amazonia ingresa
en la cultura de masas. Como me dijo hace poco una joven mujer yaminahua que vive en el río
Yurua, al sureste del Perú, cuando le comenté el argumento de la película: “las personas que la
vean van a pensar que somos así”.
No es que me falta sentido del humor o que no entiendo que los directores de cine quieren
entretener a sus espectadores, pero aquí van –desde el Perú, de alguien que durante varios años
ha investigado, escrito artículos y opinado públicamente sobre los pueblos indígenas que viven
en aislamiento “voluntario”, en las zonas más remotas de la Amazonia peruana, para contribuir
a que sus derechos sean reconocidos y respetados– algunas preguntas para Roth:
1. ¿Tú crees que los pueblos indígenas de la Amazonia peruana se comerían a un grupo de
estadounidenses? ¿Piensas que específicamente las “tribus no contactadas”, como las llamas, se
los comerían? Si para cualquiera de las preguntas la respuesta fuera sí, ¿puedes explicar por qué
lo piensas?
2. ¿Eres consciente de que en ninguno de los 15-20 pueblos indígenas en “aislamiento
voluntario” –como llama la ley peruana a los indígenas sin contacto regular– de la Amazonia
peruana se ha documentado que hayan comido a alguien?

431
La redazione di questo portale si autodefinisce così: “Somos un equipo de trabajo con sede en Perú identificado
con las aspiraciones de los pueblos indígenas u originarios, y comprometido con el desafío de promover la
comunicación intercultural, independiente, reflexiva y plural”. Cfr. http://servindi.org/nosotros.
432
A c. di Luis Manuel Claps.
433
http://servindi.org/actualidad/111492 .

156
3. ¿Te preocupa que el público de The Green Inferno pueda pensar que los pueblos indígenas
de la Amazonia peruana –y los que se encuentran en “aislamiento voluntario” particularmente–
son caníbales?
4. ¿Te preocupa que The Green Inferno aliente y refuerce estereotipos peyorativos de los
pueblos indígenas en la Amazonia?
5. ¿Sabes que un grupo de norteamericanos representa una amenaza mucho más peligrosa para
los indígenas en “aislamiento voluntario” de la Amazonia, y no al revés como sugiere tu
película, dada su falta de inmunidad a las enfermedades provenientes de la sociedad nacional?
6. Actualmente, la mayor amenaza de una empresa gasífera a los pueblos indígenas en
“aislamiento voluntario” es el consorcio internacional –en el que la estadounidense Hunt Oil
juega un rol fundamental– que explota los campos de gas de Camisea. Hace poco el gobierno
peruano ha dado luz verde para expandir sus operaciones. Perú, gas, una “tribu” remota…
¿sabías de la existencia del proyecto Camisea cuando filmabas la película?
7. ¿Sabes que mientras es cierto que los pueblos indígenas en “aislamiento voluntario” de la
Amazonia peruana son amenazados por las empresas gasíferas y petroleras, madereros,
traficantes de drogas, misioneros, el gobierno y otros, la sociedad civil peruana ha logrado
avances muy importantes que contribuyen a proteger sus territorios y derechos? Estos avances
de las organizaciones indígenas, con el apoyo de aliados locales e internacionales, incluyen el
establecimiento de cinco reservas que cubren unos 2,5 millones de hectáreas, propuestas de
nuevas reservas que totalizan 3,9 millones de hectáreas, entrenamiento para agentes de
protección de dichas reservas, además de la publicación de decenas de libros e informes,
artículos y comunicados de prensa, e incluso, recientemente, una película sobre el tema.
8. En una entrevista publicada en marzo de 2013 apareces diciendo, cuando hablas de la
filmación de The Green Inferno en una aldea de la Amazonia peruana, “contaminamos el
sistema social y los cag*mos”. ¿Ratificas esta declaración? ¿Qué responsabilidades debe
asumir el cineasta cuando trabaja con los pueblos indígenas de la Amazonia?

157
Appendice III
¿Y TÚ POR QUÉ NO TE CALLAS, GUAICAIPURO CUAUTÉMOC?434
1
¿Y tú por qué no te callas, Guaicaipuro Cuautémoc? He dicho “¡Tierra!” y donde yo digo nadie
más dice nada.
Callaos los millones de palabras de los miles de idiomas que van a morir con los centenares de
miles de gargantas cortadas.
Enmudeced los dioses primordiales de los continentes invadidos. Que sean acallados sus
Génesis, sus creaciones del mundo, sus orígenes del hombre, sus palabras del misterio, de la
revelación, de la profecía, de la sapiencia.
Silenciad las voces del viento, de las aguas, de la tierra, de las plantas y los animales
innumerables. Los ayes. Los lamentos. Las despedidas.
Ya nunca más se llame al Náhuatl, Señor de la dualidad 435, a Coatlicue, Reina de la Muerte436, a
Kaputano Tumonka, el Señor de los Cielos437.
Que jamás resuenen tus nombres del cielo, de las estrellas, del amor, de la amargura.
Que enmudezca la canción de cuna y el llanto sea ajeno.
Olvida que los ubarampu, o magos celestes, dijeron las palabras que iniciaron el florecer de la
vida. Que la palabra, o más bien la danza, engendró las cosas. Que en las voces está el poder.
Que el mundo no es más que voces. Que en el dolor está el poder. Que todo lo que te hiere te
enseña. Que el dolor es la palabra más fuerte.
Que nunca más vuelvas a ser tigre gracias al weitopo de la voz y la danza.
Awa Kaikushi ñorokosne awa sepuëdai.
Que ochenta millones de corazones no vuelvan a pronunciar el latido.
2

434
http://luisbrittogarcia.blogspot.it/2007/11/aqu-pues-yo-guaicaipuro-cuautmoc-he.html , datato il 17 novembre
2007. Anche questo testo di Britto Garcìa, come il precedente (cfr. supra), è stato ripubblicato e usato altrove e
commentato intensamente, per esempio in Carlos Aznárez (a c.), ¿Por Qué No Te Callas, Borbón?, Txalaparta,
Tafalla 2008, pp. 49-52.
435
Il riferimento è a Ometeotl, supremo dio dualista azteco.
436
Un altro aspetto della citata Tonantzin. Considerata, assieme alla Malinche, tra i fattori che hanno originato la
leggenda della Llorona. Cfr. cap. II.
437
Nome caribe della stella Orione e della divinità a essa associata. Anche di seguito sono riportati termini afferenti
alla cultura caribe del Venezuela.

158
¿Y todavía no callas, después que dimos al fuego tus códices y sepultamos tus lenguas bajo la
lápida del Nebrija438?
Todo un Mundo será entregado al Repartimiento del Silencio, a la Mita de la Mordaza, a la
Encomienda de la Mudez.
¿Qué tanto escandalizas, Bartolomé de las Casas, sobre la Destrucción de las Indias?
¿Por qué cuentas las genealogías que llegan hasta Mamá Ocllo, Inca Garcilaso? ¿Por qué trinas
como ave prisionera, Sor Juana Inés de la Cruz 439, o prometes regresar convertido en millones,
Tupac Amaru440?
¿Por qué bailas tambor, Aché, disfrazado de San Benito de Palermo? ¿Por qué te vas con los
negros, San Juan Baricongo441?

438
Antonio Martínez de Cala y Jarava (Lebrija 1441 - Alcalá de Henares 1522), meglio noto appunto come Antonio
de Nebrija o de Lebrija, è stato un umanista celebre per i suoi studi di linguistica e di grammatica castigliana.
439
Juana Inés de Asbaje y Ramírez de Santillana, meglio nota come Sor Juana Inés de la Cruz, (San Miguel
Nepantla 1651 - Ciudad de México 1695) è stata una notevole poeta messicana durante il Siglo de Oro,
valorizzata odiernamente come poderosa voce femminile, ma pronunciatasi anche in difesa degli indigeni.
440
Il riferimento è alla famosa frase che avrebbe pronunciato nel 1781, prima di essere squartato pubblicamente, non
Túpac Amaru II, bensì il già citato Túpac Katari, il quale, più estesamente, avrebbe detto: “A mí solo me
mataréis, pero mañana volveré y seré millones”. Da notare che questa frase è stata attribuita anche a Evita Perón.
Cfr. Redazione Diario Uno, “«Volveré y seré millones», la frase que erróneamente la historia atribuyó a Evita”,
Diario Uno, 19/1/2008 (http://www.diariouno.com.ar/pais/Volvere-y-sere-millones-la-frase-que-erroneamente-la-
historia-atribuyo-a-Evita-20080119-0026.html). Britto García l'ha attribuita a Túpac Amaru II, non credo per
ignoranza, quanto piuttosto in un processo di fusione di personaggi che del resto hanno portato avanti una lotta
comune.
441
Qui Britto García si richiama al sincretismo tra divinità africane, in particolare yoruba, e i santi cattolici, molto
diffuso in tutta l'America Latina. Ma allude molto probabilmente anche a un racconto di Arturo Uslar Pietri, La
Negramenta, pubblicato per la prima volta in Catorce cuentos venezolanos (Ediciones de la Revista de
Occidente, Madrid 1969, pp. 63-74), in seguito in Barrabás y otros relatos (Monte Avila Editores, Caracas 1978)
e in altre raccolte, e ispirato alla figura del negro Miguel, considerato da alcuni il primo ad aver guidato, nel
1553, un movimento rivoluzionario in America, in particolare nell'attuale Venezuela. Cfr. Nina Bruni, “La
insurrección del Negro Miguel en las letras y el muralismo de Venezuela”, Cuadernos Americanos 144 (2013),
pp. 205-225. Inoltre rimanda alla solidarietà indio-negra che fondamenta la sinistra bolivariana latinoamericana.
Cfr. Lucas, Rebeliones indígenas y negras...cit., e anche il poeta e cantante “afroperuano” Nicomedes Santa Cruz
Gamarra (1925-1992), che in Ritmos Negros del Perú (1979) incluse la strofe: “[...] y los indios con sus quenas /
y el negro con tamborete / cantaron su triste suerte / al compás de las cadenas [...]”.

159
¿A qué tanta algarabía de caribes y de araucanos y de paraguayos alzados, cimarrones 442
fugados, comuneros rebelados443?
¿Tú por qué no te callas, Guaicaipuro, Cuautemoc, Hatuey444, Guarionex445, Guayrocuya 446,
Siboney447, Negro Miguel, Caupolicán448, Lautaro449, Calatayud450, Toroté451, Andresote452,
Guimarães453, dos Santos454, Francisco de León455, Chirinos456?
Por ley de 1532 te vetamos escribir o leer romances o historias ficticias 457, por ley de 1569 te
enviamos el Santo Oficio de la Inquisición para salvarte el alma que no tienes.
¿No te enseñamos a leer el decreto que te prohíbe escribir?

442
Cimarrones è il nome con cui erano chiamati gi schiavi africani fuggitivi nel Caribe spagnolo, mentre in quello
franco-britannico-olandese erano detti marrons/maroons. A Haiti furono i marrons a guadagnare l’indipendenza
del Paese, di fatto il primo tra gli Stati latinoamericanos a cacciare le forze coloniali, nella fattispecie quelle
napoleoniche, nel 1804, fatto che, secondo Galeano, spiega le successive e attuali sfortune del Paese, mai
perdonato dal mondo occidentale. Cfr. Eduardo Galeano, “Los pecados de Haití”, Brecha 556 (1996; anche in
http://www.rebelion.org/noticia.php?id=99023). In Brasile gli schiavi africani fuggitivi erano – e sono – invece
chiamati quilombolas, da una parola di probabile origine yoruba, che potrebbe significare “chi va là?”, la frase
cioè delle sentinelle che facevano la guardia appunto ai quilombos, i territori del sertão in cui queste persone
cercavano la libertà. Il più celebre e esteso quilombo della storia è stato quello di Palmares, nell'attuale Stato di
Alagoas, che prosperò per oltre un secolo fino a essere annientato dalle autorità coloniali e dai bandeirantes
intorno al 1710, dopo che l’ultimo re Zumbi era stato assassinato nel 1695, il 20 novembre, data in cui, in suo
omaggio, dal 1995 in Brasile si commemora la Consciência Negra. Ma quilombos più piccoli sono sopravvissuti
fino ad oggi e rivendicano autonomia non meno delle etnie indigene. Io stesso ne ho visitato uno, il Quilombo do
Baú, presso il paesino di Milho Verde, nello Stato del Minas Gerais, durante un'escursione a cui ho partecipato
nel 2001 organizzata dall'agenzia di Belo Horizonte Andarilho da Luz (http://www.andarilhodaluz.com.br/). Il
citato scrittore brasiliano Georges Bourdoukan ha dedicato il suo primo straordinario romanzo al Quilombo di
Palmares, in particolare alla figura di Capitão Mouro alias Karim Ali Ibn Saifudin: A incrível e fascinante
história do Capitão Mouro (1997). Cfr. Roberto Marras, “Capitão Mouro di Georges Bourdoukan: il romanzo
epico nel Brasile contemporaneo”, Quaderni di Palazzo Serra 23 (2013), pp. 109-121. E su Zumbi e Palmares,
ma non solo, cfr. il notevole libro di Eduardo Fonseca Júnior, Zumbi dos Palmares. A Historia do Brasil que não
foi contada, Yorubana do Brasil Editora, Rio de Janeiro 2000.
443
Riguardo alle ribellioni dei comuneros in epoca coloniale, nello specifico quelle avvenute nell'attuale territorio
colombiano, cfr. il citato Germán Arciniegas nel classico Los comuneros (Editorial ABC, Bogotá 1938).
444
Hatuey fu un cacique taíno dell'isola de La Española che combatté contro i conquistadores nella sua isola e a
Cuba finché non fu catturato e ucciso nel 1512.
445
Guarionex, che significa “Nobile Valente Signore” fu pure lui un cacique taíno della tribù Maguá, dell'isola de La
Española. La colonizzazione spagnola aveva indotto migliaia di nativi dell'isola a trasferirsi in altre isole vicine,
come Borikén (nome taíno di Puerto Rico), dove si recò anche lo stesso Guarionex. Ivi fu tra i capi della
resistenza indigena, ma fu catturato nel 1511 e inviato in Spagna assieme a un cospicuo gruppo di prigionieri
destinati alla schiavitù. Non ci giunse mai, perché la nave che li trasportava affondò.

160
¿No te enseñamos a hablar para que calles?
¿No sabes que no tienes alma? ¿No sabes que no sabes?
3
¿Por qué tú no te callas, Guaicaipuro Cuautémoc, mientras nos destronan en Europa? De una
vez por todas enmudece, Toussaint Louverture458, Petión459, Tiradentes460, ¿Y vosotros por qué
también no os callais, Simón Rodríguez 461, Francisco de Miranda462, Camilo Torres463,
Bolívar464, Sucre465, Piar466, Santander467, San Martín468, O´Higgins469, Artigas470, Hidalgo471,

446
La maggioranza degli storici concordano sul fatto che il citato Enriquillo e il cacique Guarocuya/Guayrocuya
erano la stessa persona. Cfr. supra. Da notare che suo padre era stato ucciso dai conquistadores e lui era stato
allevato dai domenicani, tra cui Bartolomé de Las Casas.
447
I Siboney o Ciboney, “cavernicoli” in taíno, era un popolo stanziato a Cuba e a La Española. Con questo nome
però è ricordato anche un capo della resistenza indigena (cfr. Guillaume Boccara [a c.], Colonización, resistencia
y mestizaje en las Américas - siglos XVI-XX, Abya-Yala, Quito 2002, p. 34). Invero si tratta di un nome che oggi
richiama di più a una marca di sigari cubani o alla canzone omonima del 1929 composta da Ernesto Lecuona.
448
Caupolicán (o Quepolicán, letteralmente “lucida selce”) è stato un leader mapuche, successore dell'altro
importante toqui (capo militare) Lautaro. Fu catturato e ucciso nel 1558.
449
Lautaro, appunto, storpiatura spagnola del suo nome che in mapudungun suona Leftraru “caracara veloce”, fu un
leader militare di spicco dei Mapuche nella Guerra de Arauco durante la prima fase della conquista spagnola del
Cile. Fu ucciso in bataglia nel 1557. In Cile è considerato un eroe nazionale, ma sono i Mapuche oggi che ne
fanno un simbolo. Ricordo che il poeta spagnolo Alonso de Ercilla (1533-1594) ha dedicato alla Guerra de
Arauco il suo celebre poema La Araucana, pubblicato in tre parti nel 1569, nel 1578 e nel 1589, a cui si è ispirato
il regista e scrittore spagnolo Julio Coll per il film La araucana. La conquista de Chile (1971).
450
Alejo Calatayud, tra il 1730 e il 1731, guidò una rivolta sociale perlopiù di mestizos come lui nell'allora
Virreinato del Perú, in particolare nell'odierna città boliviana di Cochabamba, dove fu catturato e ucciso.
451
Fernando Toroté, capo dell'etnia Asháninka, guidò nel 1724 una ribellione nativa nell'attuale provincia peruviana
di Chanchamayo. Sconfitto e ucciso, suo figlio Ignacio nel 1737 ne guidò un'altra dall'esito analogo.
452
La rivolta guidata dallo zambo, cioè indio-negro, Andresote si è verificata tra il 1732 e il 1735 nella regione
venezuelana tra il fiume Yaracuy fino alla costa, diventata un importante centro di contrabbando degli Olandesi
provenienti da Curaçao, con i quali Andresote collaborava.
453
Pascoal da Silva Guimarães fu uno dei più potenti signori del Minas Gerais agli inizi del XVIII sec., nell'allora
Vila Rica, in seguito ribattezzata Ouro Preto, antica capitale dello Stato. Si fece promotore di varie rivolte contro
il potere coloniale portoghese, tra cui quella descritta sinteticamente nella nota successiva.
454
La rivolta di Filipe dos Santos Freire, detta anche di Vila Rica, del 1720, nell'allora Real Capitania das Minas de
Ouro e dos Campos Gerais dos Cataguases, è considerata tra gli episodi che hanno preceduto e preparato
l'indipendenza del Brasile.
455
Il canario Juan Francisco de León guidò nel 1752 una rivolta contro il monopolio commerciale detenuto dalla
Compañía Guipuzcoana nell'odierna Venezuela.

161
Morelos472? ¿Qué palabras son esas de República y Democracia y Derechos del Hombre? Allá
os mando al Pacificador Pablo Morillo 473, que dicen que dijo que la insurrección en Tierra
Firme se acaba pasando a cuchillo a todo el que sepa leer, y al Conciliador Valeriano Weyler 474,
que encierra a los cubanos en “Campos de Reconcentración”¿Y todavía no os calláis? Pues yo
tampoco quiero mando. Os dejo en manos del capital, que todo lo quiere.
4
¿Y por qué tus palabras saben a tierra? ¿Por qué callas, José Martí 475 tiroteado y Zamora 476
liquidado a traición y Zapata477 asesinado y Sandino478 fusilado y Farabundo Martí479 masacrado

456
José Leonardo Chirino, zambo venezuelano, guidò nel 1796 una fallimentare insurrezione finalizzata
all'instaurazione della Repubblica e all'abolizione della schiavitù nell'allora provincia spagnola che oggi è il
Venezuela, dove ovviamente è ricordato come un eroe precursore dell'indipendenza, soprattutto dalla corrente
bolivariana.
457
Cfr. supra riguardo a ciò che subì Jacinto Colahuazo.
458
François Dominique Toussaint-Louverture (1743-1803) fu il leader più importante della citata rivoluzione
haitiana. Pose altresì le basi dell'abolizione della schiavitù, nello specifico ad Haití, in seguito in tutto il mondo.
459
Alexandre Petion (1770-1818), dopo aver eliminato il successore di Toussaint-Louverture, Jean-Jacques
Dessalines, fu presidente di Haiti fino alla sua morte. Appoggiò concretamente i libertadores nelle guerre
d'indipendenza dalla Spagna.
460
Joaquim José da Silva Xavier, detto Tiradentes per il fatto che praticava la professione di dentista (1746-1792), è
oggi un eroe nazionale e martire in Brasile, soprattutto nel Minas Gerais, per aver guidato la cosiddetta
Inconfidência Mineira, considerata precorritrice dell'indipendenza brasiliana. Fu impiccato e il suo corpo
squartato pubblicamente a Rio de Janeiro il 21 aprile 1792. Curioso il fatto che detta esecuzione avvenne nel cd.
Campo de Lampadosa, oggi Praça Tiradentes, nella città carioca, che doveva il nome alla vicina chiesa di Nossa
Senhora da Lampadosa, il cui nome, a sua volta, rimonta al culto di un'immagine sacra della Vergine adorata da
schiavi originari di Lampedusa, isola che quindi, in passato come oggi, è caratterizzata da una storia strettamente
legata all'asservimento degli esseri umani.
461
Qui comincia la lista dei libertadores. Il venezuelano Simón Rodríguez (1769-1854) fu tutore e mentore di Simón
Bolívar.
462
Sebastián Francisco de Miranda Rodríguez (1750-1816) è considerato giustamente El Precursor de la
Emancipación Americana. Noto anche come El Primer Venezolano Universal e El Americano más Universal,
aveva anche partecipato all'indipendenza degli USA e alla rivoluzione francese. Ideatore della Gran Colombia e
sostenitore dell'abolizione della schiavitù e dell'emancipazione degli indigeni, guidò il primo fallimentare
tentativo di indipendenza del Venezuela. Morì in carcere a Cadice.
463
Camilo Torres (1766-1816) fu tra i precursori e martiri dell'indipendenza della Nueva Granada. Per la sua
capacità oratoria, è ricordato con l'epiteto de El Verbo de la revolución.
464
El Libertador per antonmasia.
465
Antonio José de Sucre y Alcalá, ricordato come il Gran Mariscal de Ayacucho (1795-1830).

162
y Luis Carlos Prestes480 gaseado y Getulio Vargas 481 suicidado y Gaitán482 abaleado y Camilo
Torres tiroteado y Ernesto Guevara 483 rematado y monseñor Romero 484 sicariado y Caamaño
Deño485 destrozado y Allende486 ametrallado y Roldós487 saboteado y Torrijos488 accidentado?
¿Y los tres mil desaparecidos de Chile? ¿Y los treinta mil inmolados de Argentina? ¿Y los
cincuenta mil de Colombia? Silencios que hacían falta para que hablaran los tratados de libre
comercio y los empréstitos y los convenios contra la doble tributación y los tratados de
promoción y de protección de inversiones.
5

466
Manuel Carlos Maria Francisco Piar Gómez (1774-1817), libertador venezuelano, è ricordato soprattutto come
El Libertador de Guayana.
467
Francisco José de Paula Santander (1792-1840) fu un libertador colombiano.
468
José Francisco de San Martín (1778-1850), il grande libertador argentino che morì in esilio a Boulogne-sur-Mer.
469
Bernardo O'Higgins Riquelme (1778-1842), libertador cileno di origini irlandesi.
470
José Gervasio Artigas Arnal (1764-1850) tra i protagonisti della Revolución del Río de la Plata.
471
Miguel Gregorio Antonio Ignacio Hidalgo y Costilla Gallaga Mandarte Villaseñor (1753-1811), il sacerdote che
lanciò il Grito de Dolores in Messico.
472
José María Morelos y Pavón (1765-1815), anche lui sacerdote e rivoluzionario messicano.
473
Pablo Morillo y Morillo (1775-1837), primo conte di Cartagena, primo marchese di La Puerta, noto appunto
come El Pacificador per aver sconfitto Simón Bolívar nella battaglia di La Puerta e averlo costretto a un
armistizio nel 1820. Aveva partecipato anche alle battaglie navali di Cabo de San Vicente (1797) e di Trafalgar
(1805).
474
Valeriano Weyler y Nicolau (1838-1930), aristocratico spagnolo, fu il comandante militare a Cuba durante la
rivolta indipendentista di José Martí e Máximo Gómez. Noto per aver attuato, forse inventato, la strategia dei
campi di concentramento per la popolazione civile onde impedire che collaborasse con i ribelli, strategia poi
tristemente adottata dal generale Graziani in Libia e in seguito applicata in Europa alla Endlösung, come è noto.
475
Qui inizia la lista degli “eroi” contemporanei latinoamericanos. Il già citato José Julián Martí Pérez (1853-1895)
è il più famoso eroe dell'indipendenza cubana, come tale riconosciuto sia dai castristi sia dagli anticastristi, che se
ne contendono la memoria. Fu anche un grande poeta, scrittore, saggista, filosofo. La famosa canzone popolare
cubana Guantanamera deriva dalla sua poesia Versos sencillos, com'è noto.
476
José María Zamora (1794.1864), militare e politico venezuelano.
477
Emiliano Zapata Salazar (1879-1919), con Pancho Villa (1878-1923), anche lui assassinato, il più celebre dei
leader militari della Revolución mexicana, ancora oggi simbolo della resistenza campesina e indigena in Messico,
soprattutto nel Chiapas dei neozapatistas.
478
Augusto Nicolás Calderón Sandino (1895-1934) è l'eroe nazionale del Nicaragua (almeno di quello sandinista),
anzi, lui e il poeta Rubén Darío (1867-1916) rappresentano senza dubbio la massima espressione culturale
ufficiale della nazionalità nicarageense. Detto General de Hombres Libres, in suo onore fu fondato nel 1961 il
FSLN (Frente Sandinista de Liberación Nacional) da Carlos Fonseca Amador, tuttora partito dominante nel
Paese mesoamericano, pur tra tante contraddizioni. L'autore di fumetti spagnolo Angel de la Calle, molto

163
¿Y tú por qué no te callas, planeta? ¿No sabes que ahora sólo el capital habla? Seis mil
millones de personas son dominadas por un gobierno mundial de cuatro o cinco mil directivos
de organismos financieros a quienes nadie elige y nadie revoca. Seis mil millones de
conciencias son acalladas por cinco transnacionales que dominan la comunicación. Seis mil
millones de estómagos son hambreados por las cinco empresas más importantes del mundo,
cuyo ingreso a finales del siglo pasado sobrepasó 1.9 veces el PIB de Asia Meridional, 11,4
veces el de los países menos adelantados, y el 56% de toda América Latina y el Caribe. Allí, la
inversión española alcanzó en 1997 los 100.000 millones de dólares, igualando a la de Estados

prossimo allo scrittore spagnolo-messicano Paco Ignacio Taibo II, nel fumetto dedicato a Tina Modotti, Modotti,
una mujer del siglo XX (Ediciones Sinsentido, vol. I, 2003, vol. II, 2007; in Italia edito da 001 edizioni), mette in
luce come Sandino, di cui la Modotti fu amica e sostenitrice, non fosse invece gradito a Vittorio Vidali,
proteiforme emissario stalinista in America Latina, friulano come la Modotti. L'astio stalinista nei confronti di
Sandino ha probabilmente favorito il suo assassinio.
479
Agustín Farabundo Martí (1893-1932) fu pioniere del partito comunista salvadoreño.
480
Luís Carlos Prestes (1898-1990) è stato un importante dirigente comunista brasiliano, che ha vissuto tutte le
traversie del cd. “secolo breve”, se vogliamo accettare la famosa definizione di Hobsbawm, che per lui tanto
breve invero non è stato, dal momento che è stato protagonista di tutti, o quasi, i conflitti sociali, politici e militari
svoltisi tra Europa e America fino almeno alla dittatura militare in Brasile nel ventennio tra il 1964 e il 1984.
Ovviamente, non è stato lui a morire nelle camere a gas naziste, come Britto García dice, sempre usando il
criterio di diluire i personaggi, ma la sua bella e coraggiosa compagna Olga Benário (1908-1942), di famiglia
ebrea tedesco-brasiliana, a cui nel 2004 è stato dedicato il film brasiliano di successo – e che ha suscitato anche
accese critiche – Olga, basato sulla sua biografia scritta da Fernando Morais, diretto da Jayme Monjardim e
interpretato, nel ruolo della rivoluzionaria brasiliana, dalla bella e brava attrice Camila Morgado. Nello stesso
anno era stato lanciato dal regista turco-tedesco Galip İyitanır il documentario Olga Benario - Ein Leben für die
Revolution. E, già nel 1997, il compositore brasiliano Jorge Antunes le aveva dedicato un'opera lirica.
Personalmente avrei preferito che Britto García ricordasse anche lei, nel suo testo.
481
Getúlio Dornelles Vargas (1882-1954) fu quattro volte Presidente della Repubblica, solo l'ultima volta eletto
democraticamente, prima come dittatore populista. Tuttora in Brasile si discute accesamente sul suo orientamento
ideologico – per Britto García, evidentemente, di sinistra – e soprattutto sulle circostanze del suo suicidio.
482
Jorge Eliécer Gaitán (1903-1948), fu candidato dissidente del partito liberale alla Presidenza della Repubblica di
Colombia, con alte probabilità di vittoria, ma fu assassinato a Bogotá e il suo assassinio provocò gravissime e
violentissime proteste popolari nella capitale, passate alla storia come El Bogotazo, che si estesero in seguito
anche al resto del Paese.
483
Sul “Che”, da Britto García definito rematado, che io tradurrei “posto in condizioni di non nuocere”, commento
solo il fatto, rilevato dal citato Georges Bourdoukan in un post del suo blog intitolato O Santo do povo
(http://blogdobourdoukan.blogspot.it/2014/04/o-santo-do-povo.html), che a La Higuera, in Bolivia, dove fu
assassinato, è sorto un vero e proprio culto di modello cattolico nei suoi confronti, di cui è devoto persino il suo
assassino: San Ernesto Guevara de La Higuera.

164
Unidos, duplicando la del resto de la Unión Europea. representando en la región para 2005 los
activos conjuntos de BBVA57 y SCH58 unos 140.000 millones de dólares que rinden 42% de
los dividendos totales de BBVA y 29% de los del SCH; mientras América Latina suministra el
34% de los dividendos de telefónica de España, el 45% de los ingresos de Repsol-YPF59.
Mientras cinco millones de americanos llegados a la península desempeñan los oficios duros y
serviles por remuneraciones que ningún europeo acepta. Tras la Conquista, la Reconquista.
Hacer la América es deshacer la América 489. Tras los dividendos de los dividendos seguiremos
en las guerras para saquear el planeta y exterminar la humanidad hasta que ya no haya a quién
hablarle. Pero ya me fui de la lengua. Ahora todo se sabe.
¿Y yo, por qué no me callo?

Da notare che la popolarità del personaggio Guaicaipuro Cuautémoc, inventato da Britto


García, è tale da essere diventato persino il titolo di una canzone di una banda venezuelana heavy
metal, i Gilman490, di cui riporto di seguito il testo491 e la copertina dell'album492.

484
Monseñor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez (1917-1980), arcivescovo dI San Salvador (1977-1980), in origine
ostile alla teologia della liberazione dilagante tra i suoi sacerdoti, cambiò idea quando i sicari di Roberto
d'Aubuisson presero l'abitudine di assassinarli. Fu assassinato anche lui, emarginato dai vertici della Chiesa. La
sua causa di beatificazione è stata bloccata per anni, Francesco I pare abbia fatto pressioni per condurla a
compimento. La sua storia è raccontata abbastanza bene nel film di produzione USA diretto da John Duigan,
Romero (1990), che però non evidenzia prudentemente tutte le responsabilità.
485
Francisco Alberto Caamaño Deñó (1932-1973) fu un rivoluzionario dominicano, ucciso durante un tentativo di
colpo di Stato.
486
Il presidente cileno Salvador Guillermo Allende Gossens (1908-1973) assassinato l'11 settembre – un 11
settembre meno discusso, tanto meno celebrato di quello del 2001 – del 1973 dai golpisti di Pinochet.
487
Jaime Roldós Aguilera (1941-1981) è stato il presidente ecuatoriano (1979-1981), che ha restituito la democrazia
al Paese dopo quasi un decennio di dittature. Morì in seguito a un incidente aereo molto poco chiaro.
488
Omar Efraín Torrijos Herrera (1929-1981) è stato il Líder Máximo de la Revolución Panameña fino a quando,
anche lui, tre mesi dopo Roldós, morì in un incidente aereo secondo molti organizzato dalla CIA. Ronald Reagan
era da poco diventato presidente USA. La lista di nomi commemorati si conclude con questo personaggio. È
ovvio che questa lunga lista di nomi è servita a Britto García per collegare idealmente la storia della resistenza
indigena e dell'indipendentismo latinoamericano alla corrente bolivariana contemporanea.
489
Il sottolineato è mia iniziativa.
490
Dal cognome del cantante e leader della banda Paul Gilman che allega radici seminole ereditate dal padre
statunitense e indigene sudamericane da parte della madre venezuelana. Ma ha un aspetto molto da rockstar USA
più che da indio. Cfr. http://www.paulgillman.com.ve/.
491
Firmato da Paul Gillman stesso e J. Facundo Coral, altro membro della banda, chitarrista e corista.

165
Gillman
Guaicaipuro Cuauthemoc
Aquí estoy
Soy descendiente de los dueños
Del continente
Y he venido a reclamar
¡Todo lo que está pendiente!
Saquearon a mi tierra
La violaron y asesinaron
Y mi oro y mi plata
También todo se lo llevaron

Oh no
No me hablen a mi
De colonización
ni santa misión

Oh sí
Yo los descubrí
Ahora el mundo sabrá
Lo que hicieron aquí

Si sumamos
Lo que se llevaron
En estos 500 años
No lo podrían pagar
¡Ni en 500 años más!

Y si además

492
Album del 2003 proprio dal titolo Cuauhtemoc, sulla cui copertina campeggia la versione indigenista di Eddie,
mascotte mutuata dalla storica banda heavy metal britannica Iron Maiden. La canzone citata è la traccia n° 8.

166
Le calculamos
Todo el daño en sangre... ahora
Deberán pagar
¡Entregándonos a Europa!

Oh no
No me hablen a mi
De colonización
ni santa misión

Oh sí
Yo los descubrí
Ahora el mundo sabrá
Lo que hicieron aquí

Debería existir
Un tribunal mundial
Para exigirles
Justicia criminal
E indemnización
Civilización!!

(CORO)
Traje mi verdad
Traje aquí mi voz
¡¡Guaica-Cuauhtemoc!!
Traje mi verdad
Traje aquí mi voz
Traje mi verdad
¡¡Guaicaipuro Cuauhtemoc!!

Traje mi verdad

167
Traje aquí mi voz
¡¡Guaica-Cuauhtemoc!!

Ya pasó medio milenio


Y se siguen destruyendo
Exterminio y poder
¡¡Es lo que saben hacer!!

Prefiero
ser indio
Y de este lado
Con mucho orgullo
Independiente,
Guerrero
¡Pero nunca más
Seré un pendejo!

168
II

Indigenismi comparati

Il caso Brasile

Sem dúvida que o poeta brasileiro tem de traduzir em sua língua as idéias, embora rudes e grosseiras, dos
índios; mas nessa tradução está a grande dificuldade; é preciso que a língua civilizada se molde quanto possa
à singeleza primitiva da língua bárbara; e não represente as imagens e pensamentos indígenas senão por
termos e frases que ao leitor pareçam naturais na boca do selvagem.
O conhecimento da língua indígena é o melhor critério para a nacionalidade da literatura. Ele nos dá não só
o verdadeiro estilo, como as imagens poéticas do selvagem, os modos de seu pensamento, as tendências de
seu espírito, e até as menores particularidades de sua vida.
E nessa fonte que deve beber o poeta brasileiro, é dela que há de sair o verdadeiro poema nacional, tal como
eu o imagino.

José de Alencar493

Todo dia era dia de índio, mas agora ele só tem o dia 19 de abril

Jorge Ben Jor494

493

 Dalla Carta ao Dr. Jaguaribe, postfazione a Iracema, 1865.


494
Ritornello della canzone Todo Dia Era Dia de Índio, titolo con la quale fu lanciata nel 1981 dalla cantante Baby
Consuelo come prima traccia dell'album Canceriana telúrica, composta però da Jorge Ben Jor che ne lanciò una
sua versione nello stesso anno nell'album Bem-Vinda Amizade, come sesta traccia con il titolo Curumim Chama
Cunhatã Que Eu Vou Contar (Todo Dia Era Dia de Índio). Da notare che il dia do Índio in Brasile era stato
istituito dal presidente Getúlio Vargas nel 1943, in omaggio al fatto che il 19 aprile del 1940 i rappresentanti
indigeni brasiliani si decisero a partecipare al Primer Congreso Indigenista Interamericano tenutosi tra il 14 e il
24 aprile di quell'anno a Pátzcuaro, nello Stato di Michoacán in Messico.

169
Dopo aver svolto nel capitolo precedente una sintesi soggettiva esplicativa sull'indigenismo
inteso come corriente de opinión favorable a los indios da una selezione di precursori al XX
secolo, in concordanza con il criterio sancito da Favre, nel presente focalizzerò la mia analisi,
come anticipato, sul caso Brasile e in particolare sulle figure di Darcy Ribeiro e Márcia
Theóphilo, nonché sul caso ecuatoriano di Nuevas Cartas.
Sul caso brasiliano, invero, mi spenderò in primis in una sintesi storico-descrittiva della
situazione pregressa, che aiuterà a capire meglio come si sia giunti alla situazione odierna.
Come già accennato, dall'indipendenza495 del Paese lusofono d'America Latina sino ad
oggi, nella letteratura brasiliana si può senz’altro prevalentemente scorgere un approccio
culturale, ma soprattutto ideologico, di tipo romantico nei confronti dell’índio, cioè di
indianismo nel senso tradizionale e non bolivariano del termine, quasi mai con esiti che si
possano considerare favorevoli alle nazioni native.
Il film del regista Marco Bechis496 La terra degli uomini rossi – Birdwatchers (2008), già
nella sua primissima parte, denuncia tra l'altro proprio certe bieche applicazioni odierne di questo
approccio, in particolare quelle finalizzate al turismo che chiamerei “antropologico”, cioè di quei
turisti, soprattutto statunitensi o europei, che vogliono vedere degli índios “selvaggi” durante le
loro escursioni nelle regioni presuntamente “incontaminate” del Brasile, laddove in realtà tanto
“selvaggi” gli índios in questione non sono, ma sono pagati per mascherarsi come tali, un po'
come i centurioni del Colosseo o le comparse di un film.
Detto approccio, in origine, come già messo in evidenza anche per gli altri Paesi d'America
Latina, è stato caratterizzato soprattutto dalla finalità di costruire un'identità culturale e nazionale

495
Un'indipendenza in genere raccontata come incruenta e ufficialmente stabilita il 7 settembre 1822, laddove in
realtà ci sono stati almeno 3 anni di guerra e non poche turbolenze interne conseguenti anche negli anni
successivi. Cfr. Fernando A. Novais, Carlos Guilherme Mota, A independência política do Brasil, Hucitec, São
Paulo 1996; Renato Lopes Leite, “História da historiografia da Independência: apropriações do Sete de
Setembro”, Ensino e Pesquisa III (2007), pp. 34-50.
496
Di origine italo-cilena, ma molto legato anche al Brasile, dove ha vissuto in gioventù, è famoso soprattutto per i
film e documentari dedicati ai desaparecidos in Argentina, quali Garage Olimpo (1999), Figli/Hijos (2002) e il
recentissimo Il rumore della memoria (2013) prodotto dal Corriere della Sera sulla rete, che racconta la storia di
Vera Vigevani Jarach, tra shoah e dittatura argentina, percorso che accomuna l'anziana protagonista alla storia del
regista stesso. Ne Il sorriso del capo (2011) affronta il fenomeno correlato della fabbrica del consenso nella
propaganda fascista, comune a tutte le dittature, ma non aliena alle cosiddette democrazie.

170
sulla base dei modelli romantici europei afferenti in particolare all'idealismo tedesco497. In tal
senso, l'índio, in quanto originario abitante e dono del Paese, è stato semplicemente strumentale,
com'è chiaro dal testo di José de Alencar evidenziato in epigrafe al presente capitolo, alla
costruzione di miti fondatori in contrasto alla cultura coloniale portoghese e specifici dell'identità
nazionale brasiliana, esattamente come si è verificato nella stessa epoca con Arminio 498 per
l'identità nazionale tedesca, Vercingetorix499 per quella francese o Ettore Fieramosca per quella
italiana500.

497
Ana Beatriz Demarchi Barel, ricercatrice di Letteratura brasiliana presso l'Université de Nantes, ha studiato
specificatamente le intense influenze romantiche francesi sulla nascente letteratura brasiliana dell''800. Cfr. Ana
Beatriz Demarchi Barel, Le roman romantique de la deuxième moitié du XIXe siècle et les contes populaires:
dialogues avec la France, Presses Universitaires du Septentrion, Lille 2001; Id., Um Romantismo a Oeste:
Modelo Francês, Identidade Nacional, Annablume/FAPESP, São Paulo 2002; Id., “Nitheroy (1836): relações
político-culturais entre Brasil e França no século XIX”, Nitheroy. Revista Brasiliense 1 (2006), pp. 31-44.
498
Arminius, come risulta nelle fonti latine, Armin o Hermann, come invece è stato “tradotto” nella letteratura
tedesca – da un originale germanico Irmin – fu, com'è noto, un condottiero germanico dell'etnia renana dei
Cherusci, che tempo dopo entrerà a far parte della confederazione dei Franchi e/o dei Sassoni. Già prefetto di una
coorte di ausiliari germanici dell'esercito romano e civis romano, guidò la rivolta antiromana di etnie germaniche
che annientarono in un agguato a Teutoburgo, nell'attuale Bassa Sassonia vicino a Osnabrück, le tre legioni
comandate dal generale e proconsole Publio Quintilio Varo nel 9 d.C., evento che rappresentò l'atto conclusivo
dell'espansionismo romano in territorio germanico a est del Reno. Alleatosi in seguito con il re Maroboduo dei
Marcomanni, etnia germanica stanziata nell'odierna Repubblica ceca, in funzione antiromana e allo scopo di
creare una grande confederazione germanica, fu assassinato nel 19 d.C. Benché si creda che il suo mito possa
aver costruito il personaggio di Siegfried nel Nibelungenlied, è stato soprattutto Heinrich von Kleist con il suo
dramma Die Hermannsschlacht (1808) a intraprendere la realizzazione del suo personaggio in quanto mito
fondatore della nazione tedesca. Cfr. Michael Bernsen, Matthias Becher, Elke Brüggen (a c.), Gründungsmythen
Europas im Mittelalter, Bonn University Press at V&R unipress, Bonn 2013, passim.
499
Vercingetorix, che invero era un titolo più che un nome, a indicare il suo ruolo di supremo capo della coalizione
degli eserciti celtici che tentò di cacciare Cesare dalla Gallia, si chiamava in realtà probabilmente Celtill come
suo padre, ed era un principe dell'etnia degli Arverni. Sconfitto ad Alesia nel 52 a.C., fu portato in trionfo a Roma
da Cesare, quindi messo a morte. Si può ammirare la sua colossale statua di bronzo fatta costruire da Napoleone
III sul presunto sito di Alesia (Alise-Sainte-Reine) presso Dijon, in un'epoca di costruzione di miti fondatori della
nazione francese. Cfr. Roger Caratini, Les grandes impostures de l'histoire de France, de Vercingétorix à
Napoléon, I, Michel Lafon, Neuilly-sur-Seine 2004.
500
Ho scelto di citare Ettore Fieramosca, tra i vari personaggi eletti dalla letteratura risorgimentale italiana come miti
fondatori nazionali, per esempio nel romanzo di Massimo D'Azeglio Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta
(1833), in quanto il suo caso mi sembra emblematico, visto che la Disfida di Barletta, appunto, si svolse nel 1503
come una sfida tra Spagnoli e Francesi, laddove i cavalieri italiani erano soldati di ventura al servizio degli

171
In questa tendenza romantica di influenza europea, del resto, oltre al mito del “buon
selvaggio” che, come visto nel capitolo precedente, è nato proprio in Brasile, è confluita
naturalmente anche un'altra serie di precedenti che descrive molto bene Manoela Freire de
Oliveira, nel suo studio Significações históricas do “índio”: leituras da mídia impressa e da
literatura501, orientato dalla Prof.ssa Eneida Leal Cunha dell'Universidade Federal da Bahia di
Salvador, la quale ha dedicato i suoi studi, tra l'altro, proprio all'identità nazionale brasiliana
anche in relazione con la questione indigena.
La cito e sintetizzo di seguito502:

Nas narrativas que constituem a formação do Brasil enquanto nação, os índios aparecem como
personagens fundamentais503, já que são coadjuvantes do encontro que marcou toda a
construção do mito de origem da nacionalidade brasileira. [...] Segundo o antropólogo João
Pacheco de Oliveira: “O trauma provocado no europeu pelo encontro de uma forma tão
radicalmente distinta da humanidade se consolidou na construção de uma categoria estética ‘o
índio’, evidente e auto-explicativa, inteiramente infensa à história: expressão completa da
simplicidade, do passado e da primitividade. É essa categoria, saturada de culpas e seduções,
que o senso comum repete e consagra incessantemente” 504.

Spagnoli, non di un'inesistente, all'epoca, nazione italiana.


501
Universidade Federal da Bahia, Salvador 2005.
502
In particolare cito e sintetizzo dal cap. I il paragrafo 1, il cui titolo significativo è il seguente: “Cronistas,
religiosos e exploradores: a construção do “índio” na Colônia”, pp. 14-26.
503
Il sottolineato è mia iniziativa, come nei casi successivi nel testo citato.
504
João Pacheco de Oliveira, Ensaios em Antropologia Histórica, UFRJ, Rio de Janeiro 1999, p. 6. Cfr. anche
quanto precisato nel capitolo I riguardo al termine indio.

172
A carta de Caminha505 é, sem dúvida, o primeiro registro que relata o tão reencenado encontro
entre a civilização ocidental, os portugueses, e os habitantes do chamado Novo Mundo, “os
índios”. Pero Vaz de Caminha, um dos escrivãos da esquadra portuguesa 506, constrói a primeira
versão do que seria aquela gente sob o olhar de um português fascinado principalmente com o
exotismo dos seus corpos: “Eram pardos, todos nus, sem coisa alguma que lhes cobrisse suas
vergonhas. Eram belos, fortes e traziam arcos nas mãos e suas setas” 507. A narrativa é de uma
minúcia surpreendente e descreve detalhes com a exatidão de um etnógrafo moderno, o seu
discurso é impregnado de preconceitos e etnocentrismo, […] Caminha descreve cada detalhe
inscrito sobre os corpos sob exame, desde os lábios furados e as cores até a pintura e a
geometria dos desenhos estampados tanto nos homens como nas mulheres: “A feição deles é
serem pardos, maneira de avermelhados, de bons rostos e bons narizes, bem-feitos (...) Ambos
traziam os beiços de baixo furado e metidos neles seus ossos brancos e verdadeiros, de
comprimento duma mão travessa, da grossura dum fuso de algodão, agudos na ponta como
furador”508.
Em troca, ele atribui aos nativos um estágio de profundo primitivismo que impedia uma boa
comunicação entre eles: “Ali então não houve mais fala nem entendimento com eles, por a
barbaria deles ser tamanha, que se não entendia nem ouvia ninguém” 509.

505
Pero Vaz de Caminha (1450-1500), con la sua Carta a El-Rei D. Manuel ha registrato il possesso portoghese
sulla terra in seguito chiamata Brasil e quindi è considerata il primo documento scritto della storia del Paese,
compresa quella letteraria. In essa, naturalmente, l'autore ha riportato le impressioni dei Portoghesi sui nativi,
condizionate senz'altro dal modello di Colombo, ma non prive di una loro peculiarità, nei secoli successivi
cristallizzatasi nella letteratura brasiliana. Caminha è morto in India, a Calicut (od. Kozhikode), durante i conflitti
esplosi tra i locali, i mercanti arabi e l'armata di Cabral. Cfr. il cap. I e Ana Maria de Azevedo, “Desta vossa Ilha
de Vera Cruz... é Já otro Portugal!”, Camões. Revista de Letras e Culturas Lusófonas 8 (2000), pp. 40-52; Marli
Geralda Teixeira, “Descobrimento e alteridade: em torno da Carta de Pero Vaz de Caminha”, Revista da
FAEEBA 13 (2000), pp. 21-26; Barbara Kristensen, Joám Evans Pim, “Myth and discourse in portuguese press on
500th anniversary commemorations”, Brazilian Journalism Research 1/1 (2005), pp. 111-134.
506
Ovviamente l'autrice si riferisce alla flotta di Cabral.
507
Pero Vaz de Caminha, Carta de Pero Vaz de Caminha, in Roberto Pereira (a c.), Os Três únicos testemunhos do
descobrimento do Brasil, Lacerda, Rio de Janeiro 1999, p. 33. Cfr. la versione pubblicata sulla rete dall' IPHAN,
l'Instituto do Patrimônio Histórico e Artístico Nacional. Sulla “bellezza” degli indios cfr. il cap. I riguardo allo
stesso giudizio espresso da Colombo, il cui modello, come accennato, fu quindi ripreso e confermato da
Caminha.
508
Ibid., p. 35.
509
Ibid., p. 40.

173
Os índios foram apresentados, em grande parte da Carta, como seres dotados de uma certa
inocência e ingenuidade e também aptos a aprenderem os costumes do homem europeu:
“Parece-me gente de tal inocência que, se homem os entendesse e eles a nós, seriam logo
cristãos, porque eles, segundo parece, não têm, nem entendem em nenhuma crença (...) não
duvido que eles, segundo a santa intenção de Vossa Alteza, se hão de fazer cristãos e crê em
nossa santa fé, à qual preza o nosso Senhor que os traga, porque, certo, esta gente é boa e de
boa simplicidade”510.

Una volta citata e analizzata la carta de Caminha, primordiale documento dell'incontro tra
i Portoghesi colonizzatori e gli indigeni brasiliani, nella quale, come visto e in coerenza con i
tempi, già è presente l'orientamento acculturante che caratterizzerà i rapporti tra i nativi e gli
invasori, la Freire de Oliveira passa a analizzare i depoimentos e relatos delle fonti subito
successive:

Na virada do século seguinte já se contava com volumosos tratados reunindo informações sobre
a natureza da região, os povos nativos, a colonização e seus conflitos.

510
Ibid., p. 54.

174
[...] Em 1570 Pero de Magalhães Gândavo convidara ao genocídio, afirmando em seu Tratado
da Terra do Brasil que não se podia numerar nem compreender “a multidão de bárbaro
gentio511 que a natureza semeou pela terra do Brasil” 512.

Notevole il fatto che lo scopo di Pero de Magalhães Gândavo, nel suo incitamento al
genocidio dei nativi, sarebbe stato quello di promuovere la colonizzazione del Brasile da parte
delle masse dei ceti poveri portoghesi, scopo che quindi lo “promuove” senz'altro tra i precursori

511
Oltre al termine generalizzante índios, derivato dal famoso equivoco di Colombo di cui ho parlato nel cap. I, in
Brasile, dal '500 a oggi, si sono usate e si usano altre definizioni altrettanto generalizzanti e tendenzialmente
dispregiative come appunto (bárbaro) gentio, negros da terra, bugres e altre. Il già citato Leonardo Boff,
nell'intervista pubblicata sul numero speciale As Grandes entrevistas della rivista Caros Amigos del settembre
1998, intitolata più che esplicitamente “A Igreja mente, é corrupta, cruel e sem piedade”, racconta di come,
quando lui era bambino (è nato nel 1938 a Concórdia nello stato di Santa Catarina), gli immigrati di origine
europea, soprattutto Tedeschi e Italiani, avevano ancora l'abitudine di “matar os bugres”. Cito il testo preciso:
“[meu pai] defendia os caboclos que eram muito perseguidos. Esse é um capítulo trágico da nossa região, os
colonos faziam expedições para matar índios, porque os índios vinham e roubavam roupa, roubavam coisas
expostas. E me recordo de histórias dos meus avós, faziam expedições de dez, doze, com espingardas, e iam
"matar os bugres". Contavam que exterminaram todos os bugres da região”. Caboclo è sinonimo di mestizo, in
Brasile. Cfr. anche Soraia Sales Dornelles, “Encontros e (des)encontros ao «fazer a América»: indígenas e
imigrantes no Rio Grande do Sul do século XIX”, Anais do XXVI Simpósio Nacional de História – ANPUH, São
Paulo 2011, pp. 1-17; Id., De Coroados a Kaingang: as experiências vividas pelos indígenas no contexto de
imigração alemã e italiana no Rio Grande do Sul do século XIX e início do XX, UFRGS, Porto Alegre 2011,
specie pp. 47-72.
512
L'autrice cita la seguente edizione: Pero de Magalhães Gândavo, Tratado da Terra do Brasil: História da
Província Santa Cruz, Itatiaia/EdUSP, Belo Horizonte-São Paulo 1980, p. 3. Io invece ho reperito l'edizione più
recente: Pero de Magalhães Gândavo, Tratado da Terra do Brasil: História da Província Santa Cruz, a que
vulgarmente chamamos Brasil (prefazione di Afrânio Peixoto, nota bibliografica di Rodolfo Garcia, introduzione
di Capistrano de Abreu, Edições do Senado Federal, Vol. 100, Brasília 2008), dove il testo citato si trova a p. 66.
Da notare che in entrambe queste edizioni sono state pubblicate congiuntamente due opere di tale autore
portoghese di orgine fiamminga – i genitori erano di Gand/Gent, da cui deriva il suo cognome Gândavo –, amico
di Camões, che lo stimava, e considerato il primo storico del Brasile. la História da Província Santa Cruz, a que
vulgarmente chamamos Brasil, pubblicata a Lisboa nel 1576 e il Tratado da Terra do Brasil, appunto, che, per
quanto precedente, secondo gli studiosi risalente appunto al 1570, è stato pubblicato postumo solo nel 1826. Cfr.
Afrânio Peixoto, Advertência a Magalhães Gândavo, op. cit., p. 13; Rodolfo Garcia, Nota bibliográfica a
Magalhães Gândavo, op. cit., p. 15; César Braga-Pinto, As promessas da história: discursos proféticos e
assimilação no Brasil colonial (1500-1700), EdUSP, São Paulo 2003, p. 122.

175
del modello colonizzatore europeo applicato fino a tempi recentissimi 513, almeno fino a quando
non è scemato l'eurocentrismo, come rileva la stessa Freire de Oliveira, che cita l'antropologo
brasiliano Felipe Eduardo Moreau:

a partir do século XX, com os avanços da antropologia cultural, o que levou à um descaso com
a complexidade (e com a alteridade) cultural dos povos indígenas. A representação do “novo”
exigiu diferentes combinações do “velho”514.

Ma nel XVI secolo, per quanto molti documenti dell'epoca possano anche essere
considerati preziosi manuali di etnologia ante litteram, come è stato il libro di Léry per Lévi-
Strauss515, l'approccio dominante tra le fonti è di tipo teologico, come già visto nel cap. I516.
La Freire de Oliveira infatti conferma:

No século XVI, Deus é o fundamento metafísico do Direito que regula a invasão e a conquista
das novas terras.

Pertanto la ricercatrice brasiliana distingue nettamente le fonti relative all'incontro tra


Portoghesi e nativi:

as de caráter positivo, que idealizam o encontro com os habitantes de um paraíso primordial, de


corpos e fisionomias perfeitas [...]

513
Cfr. Guilherme Amaral Luz, “Pero de Magalhães Gândavo e a ética ultramarina portuguesa na Terra de Santa
Cruz”, História e Perspectivas 32/33 (2005), pp. 67-90; Dora Shellard Corrêa, “Historiadores e cronistas e a
paisagem da colônia Brasil”, Revista Brasileira de História 26/51 (2006), specie p. 71; José Carlos de Araujo
Neto, “A América portuguesa na cartografia de Pero de Magalhães de Gândavo”, Navigator 3/5 (2007), pp. 73-
84; Alexandre José Barboza da Costa, Pero de Magalhães Gandavo: um cronista beletrista no Brasil colonial,
Universidade de São Paulo, São Paulo 2010. Cfr. anche le Conclusioni del presente studio.
514
Felipe Eduardo Moreau, Os índios nas Cartas de Nóbrega e Anchieta, Annablume, São Paulo 2003, p. 26. Cfr. il
cap. I.
515
Cfr. cap. I.
516
Cfr. in particolare quanto riportato a proposito della querelle affrontata da Bartolomé de las Casas.

176
rispetto a quelle successive all'inizio della vera e propria opera di conquista e
colonizzazione da parte dei Portoghesi, de caráter negativo, in cui gli indigeni da primigeni
abitanti del paradiso terrestre, belli e perfetti, diventano selvaggi crudeli e cannibali.

No entanto, as discussões acerca dos ideais do “bom” e “mau” selvagem não consideravam
portanto o ser “real”, sendo que todas as imagens formavam uma só figura mítica 517.

Continua quindi la Freire de Oliveira:

A transposição para o Novo Mundo de padrões de comportamentos e linguagem produziu


resultados bastante díspares. Segundo Bosi, “a cruz e a espada que descem das caravelas
acabaram por disputar o bem comum, o corpo e a alma do índio” 518. A idéia de conquista é
produzida e se reproduz necessariamente por uma disposição em estabelecer um confronto de
forças entre um eu/nós e um outro radicalmente distinto que oscila entre relações de violência e
as relações de poder. Um poder que pode ser apreendido, a partir da definição de Foucault,
como “essencialmente repressivo... é o que reprime a natureza, os indivíduos, os instintos, uma

517
Sul “buon selvaggio” mi sono già speso nel cap. I, dove pure ho accennato anche allo studio di Parinetto.
518
Alfredo Bosi, Dialética da colonização, Companhia das Letras, São Paulo 1992, p. 30. Anche di questa disputa
ho prodotto vari esempi nel cap. I, in particolare quello dei gesuiti.

177
classe”519. Sendo assim, o ponto fundamental e operador da conquista foi ou pode ser localizado
na própria consciência da alteridade e a capacidade de utilizá-la instrumentalmente.
A aceleração da imposição de novos padrões culturais aos nativos habitantes da nova terra tinha
como finalidade o controle do território, das riquezas ali existentes e da força de trabalho dos
nativos.

La finalità di controllo del territorio brasiliano, delle sue risorse e della forza lavoro dei
nativi brasiliani fu del resto perseguita e realizzata da parte dei Portoghesi non solo tramite la
conquista militare, ma anche attraverso un insieme di fattori socioeconomici e politici. Se infatti,
sul piano militare, i colonizzatori europei furono favoriti dalla superiorità dell'armamento bellico
e dal terrore che le armi da fuoco provocavano nei nativi, dal punto di vista socioculturale, per
esempio, i combattimenti stessi con gli invasori stonavano in modo stridente con le tradizioni
indigene, finalizzate ai rituali antropofagici, come già visto nel cap. I.
A livello economico e culturale, poi, precisa la Freire de Oliveira:

No plano da exploração da terra e da força de trabalho, dá-se a ruptura do modo de produção


dominante entre as sociedades indígenas (baseado em relações de reciprocidade), com a

519
Michel Foucault, “Genealogia e poder”, in Microfísica do poder, trad. Roberto Machado, Graal, Rio de Janeiro
1990, p. 175 [cfr. ed. it. Microfisica del potere, a c. A. Fontana, P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977]. Cfr. anche
Mônica Kalil Pires in A tradução cultural em romances históricos: análise comparativa entre Léon, l’Africain,
de Amin Maalouf, e A incrível e fascinante história do Capitão Mouro, de Georges Bourdoukan (Universidade
Federal do Rio Grande do Sul, Porto Alegre 2009, p. 39), la quale esemplifica l’archetipo di questo tipo di
relazione tra potere e oppressi, applicata allo scontro tra culture, nel mito greco di Procuste, che esigeva da quanti
entrassero nel suo territorio che si sdraiassero sul suo letto: i troppo bassi o troppo alti erano da lui
“ridimensionati” violentemente. Procuste, quindi, è l’io che pretende dall’altro di conformarsi a lui e che
concepisce l’alterità come un difetto inaccettabile. È l'esemplificazione perfetta di ciò che hanno subito – e
continuano a subire – gli indios da parte dei conquistadores. Da notare, peraltro, che anche l’io procustico è
vittima della sua rigidità: esige da sé stesso la coerenza che pretende dall’altro. La Kalil Pires rileva appunto che
per lui l’idea è più forte della realtà e la sua creatura finisce per sovrapporsi al creatore. È superfluo, forse, ma
non ozioso, ricordare come l'Occidente, nel corso della sua storia anche recente e contemporanea, abbia
perseguitato e perseguiti le varie alterità fino al tentativo, sempre tragico, di cancellarle. Aggiungerei, inoltre, che
le atrocità commesse in Europa nel XX sec. sono state spesso, se non sempre, anticipate e ispirate da quelle
commesse nelle colonie nei confronti degli “altri” come gli indios, ma con molto meno scalpore, se si esclude il
caso della leyenda negra citata, peraltro funzionale alla propaganda antispagnola più che alla solidarietà nei
confronti degli indios.

178
introdução da lógica do acúmulo e do valor monetário dado aos alimentos 520. Com relação às
questões relacionadas a moradia, dá-se os deslocamentos impostos pela política de aldeamento
compulsório. Sem falar no plano da imposição religiosa causando toda uma desestruturação no
sistema de crenças indígenas.

E senza dimenticare anche il tragico fatto determinante, peculiare non solo dei nativi
brasiliani, ma di tutti gli indigeni d'America, che

o contato entre esses dois povos causou às populações indígenas grandes epidemias
responsáveis por parte da dizimação dos índios naquela época.

Insomma, l'incontro-scontro tra colonizzatori e colonizzati è stato decisamente fatale per


questi ultimi, che soffrirono un radicale genocidio, come pianificato da Gândavo, anche
culturale, che produsse una profonda disarticolazione sociale nelle società indigene.
Secondo la Freire de Oliveira il punto di svolta avvenne in particolare

com a introdução de um sistema das capitanias hereditárias, pressupondo-se a aceitação por


parte dos indígenas da conquista e ocupação das terras da aldeia e de sua transformação em
trabalhadores nas propriedades dos conquistadores.

Immancabilmente e conseguentemente

As revoltas indígenas tornaram-se muito mais constantes e por conta disso, como ponto de
apoio da Coroa, em 1549, os aldeamentos jesuíticos passaram a serem implantados.

Quest'ultimo è un fatto davvero notevole, in quanto va ricordato come l'ordine dei gesuiti
fosse stato fondato appena 15 anni prima da parte di Ignacio de Loyola, I Portoghesi furono
quindi i primi a servirsi della loro opera missionaria nel Nuovo Mondo, con la funzione, chiarita

520
È superfluo ricordare che il modello allora imposto è ancora quello vigente.

179
dalla ricercatrice brasiliana, di appoggiare la colonizzazione521. In Perù ci sono arrivati solo nel
1568, quando è entrato nell'ordine anche Blas Valera, e in Messico 4 anni dopo.
Il fatto che la presenza dei gesuiti, prima che in ogni altra terra del Nuovo Mondo, sia stata
sentita necessaria nel Brasile portoghese può spiegarsi anche con la minaccia rappresentata dagli
ugonotti della France Antarctique: non si trattava infatti solo di una disputa tra Portogallo e
Francia, ma anche tra le chiese cattolica e protestante, confronto peraltro quanto mai attuale
ancora oggi in Brasile e in America Latina in genere522.
Precisa ancora la Freire de Oliveira:

A ação dos jesuítas estava voltada para o que a partir de então foi designado como a
“pacificação dos indígenas”, um processo brutal de descaracterização sócio-econômica e
521
È curioso come nel XVIII sec. il più accanito nemico dei gesuiti e tra i responsabili sia della loro cacciata dalle
colonie sia dell'abrogazione dell'ordine sia stato Sebastião José de Carvalho e Melo, più celebre con il titolo
marquês de Pombal, in qualità di Primeiro-ministro della corona portoghese, il cui grande prestigio lo si doveva
anche al fatto che fu attore della ricostruzione di Lisboa allorché la capitale portoghese era stata distrutta dal
famoso, terribile terremoto del 1° novembre del 1755. Cfr. infra e Breno Machado dos Santos, “Os Primeiros
Jesuítas e o Trabalho Missionário No Brasil”, Anais do I colóquio do LAHES – 13 a 16 de Junho de 2005
(http://www.ufjf.br/lahes/files/2010/03/c1-a7.pdf); Luiz Antonio Sabeh, Colonização salvífica: os jesuítas e a
coroa portuguesa na construção do Brasil (1549-1580), Universidade Federal do Paraná, Curitiba 2009; Alberto
Manuel Vara Branco, “O sentido do Brasil integrado nos objectivos da Companhia de Jesus no século XVI”,
Millenium 36 (2009; http://www.ipv.pt/millenium/Millenium36/6.pdf); Célio Juvenal Costa, “O Marquês de
Pombal e a Companhia de Jesus”, in Sezinando L. Menezes, Lupércio A. Pereira, Claudinei Magno Magre
Mendes (a c.), A expansão e consolidação da colonização portuguesa na América, EDUEM, Maringá 2011,
specie pp. 68-74.
522
Cfr., tra la vastissima bibliografia, la seguente recente relazione: Alan Cooperman, James Bell, Neha Sahgal,
Katherine Ritchey, “Religião na América Latina. Mudança Generalizada em uma Região Historicamente
Católica”, Pew Research Center 13/11/2014 (http://www.pewforum.org/files/2014/11/PEW-RESEARCH-
CENTER-Religion-in-Latin-America-Portuguese-Overview-for-publication-11-13.pdf). Si tratta di un fenomeno,
esportato anche in Europa in virtù dell'immigrazione latina, e che sottende già alla trama del celebre film
statunitense-brasiliano At Play in the Fields of the Lord (1991), diretto dal regista di origine argentina ma
naturalizzato brasiliano Héctor Babenco, che racconta la drammatica vicenda di alacri e aggressivi, nonché
organizzati e facoltosi, missionari protestanti statunitensi che si stabiliscono nell'Amazzonia brasiliana a
contendere al cattolicesimo le anime degli índios. Più recente un altro film statunitense, End of the Spear (2005),
che racconta la vicenda realmente accaduta di missionari protestanti statunitensi stabilitisi invece nell'Amazzonia
ecuatoriana, ma assassinati, nel 1956, in seguito a un difetto di comunicazione, dagli indios Huaorani che
volevano evangelizzare.

180
cultural, com deliberação de eliminar os traços culturais inaceitáveis para a doutrina católica,
como a antropofagia, a poligamia, as casas coletivas, a nudez, o paganismo e o nomadismo,
através de medidas coercitivas como castigos, prisões, rezas e mortificações 523.
Um dos mais conhecidos missionários da Companhia Jesuítica, o Padre Anchieta 524, escrevia
quase sempre através do idioma Tupi. O projeto de transpor para o idioma do nativo a doutrina
católica exigia o esforço de penetrar no imaginário do Outro. Com o objetivo de converter e
salvar o nativo, os jesuítas acreditavam que poderiam fornecer-lhe a memória do Bem que eles
tinham esquecido. Segundo Felipe Moreau, a atribuição de uma alma aos índios, como ocorreu
nas práticas missionárias, entre as quais as mais conhecidas são as de Nóbrega e Anchieta,
pressupõe logicamente que o nativo é um “próximo”, como no mandamento bíblico de “Amar
o próximo como a si mesmo”. Mas um próximo metafísica e politicamente distanciado da lei
eterna de Deus, pois a alma, de início posta em dúvida, ao ser admitida foi percebida como
bronca, corrompida pela bestialidade de seus pecados525.
Anchieta construiu uma poesia e um teatro de símbolos e signos maniqueístas frutos da
articulação ou da tradução de elementos cristãos e elementos nativos, tais como Tupã-Deus e
Anhangá-Demônio526, mas o método mais eficaz foi generalizar o medo, já tão vivo no índio,
aos espíritos malignos, estendendo-os a todas as entidades que se manifestavam no transe
sempre presente nos seus rituais tradicionais. As cerimônias indígenas de relação com os

523
Nel cap. I ho citato Tacito che poneva in bocca al capo caledone Calgaco la celebre critica alla pax romana: “Ubi
solitudinem faciunt, pacem appellant”, “dove realizzano il deserto, la chiamano pace”, lo stesso è avvenuto nel
sertão brasiliano, sulla base di quello che potremmo ironicamente definire il modello classico romano.
524
José de Anchieta, già ricordato nel cap. I, come Manuel da Nóbrega, gesuiti, veri iniziatori dell'attuale cultura
brasiliana. A lui è stato dedicato anche il film brasiliano Anchieta, José do Brasil, diretto nel 1977 da Paulo Cesar
Saraceni. Antônio Torres, nel libro citato Meu Querido Canibal, ne ricostruisce un'immagine molto critica e
controversa, di “mediatore” che parlava di pace agli indigeni e contemporaneamente concertava il genocidio degli
stessi con i Portoghesi.
525
Moreau, Os índios...cit., p. 16.
526
Cfr. cap. I. Anche nel film di Marco Bechis citato all'inizio del presente capitolo si fa riferimento a questo spirito
maligno chiamato Angué in lingua guarani-kaiowá, con pronuncia comunque non troppo diversa rispetto al tupí
Anhangá; in particolare è considerato dagli índios la causa dei suicidi che imperversano tra i giovani della
comunità, che quindi decide di abbandonare la riserva e di tornare alle proprie terre, considerate un patrimonio
spirituale più che economico, occupate però dai fazendeiros. Tra l'altro, al giovane Oswaldo, dotato di capacità
sciamaniche, il vecchio pajé vieta di mangiare la carne del bovino del fazendeiro, la carne del bianco, in quanto
nociva appunto alla sua formazione spirituale. Cfr. cap. I e Laís Alves Sanchez, “Ensino de História e a Temática
Indígena: o uso do cinema na sala de aula. Uma análise do filme «Terra Vermelha»”, Em Tempo de Histórias 21
(2012), pp. 96-108.

181
mortos foram vistas como sintomas de barbárie e de demonização. Sob o olhar do colonizador,
os gestos e ritmos tupis são resultados de poderes violentos de espíritos maus 527.
A pedagogia da conversão era dotada de um didatismo alegórico rígido e autoritário, já que na
doutrina católica a união eucarística rejeitava profundamente o ritual antropofágico, o laço
matrimonial único renegava a poligamia e o monoteísmo duramente conquistado desaprovava o
velho culto dos espíritos dispersos pelos ares, pelas águas e matas em geral 528.
Por conta disso, a intenção em promover a conversão dos índios e fazer também com que os
colonos preservassem os valores cristãos permeava a reflexão dos jesuítas que colaboravam na
construção de imagens generalizantes acerca das etnias, em especial, no que se refere à
classificação dos grupos indígenas em duas grandes categorias – a dos mansos e aliados e a dos
bravios e inimigos, cada uma delas devendo receber tratamento diferenciado. Os primeiros
foram identificados como os Tupi (litoral) e deveriam ser tratados de uma forma mais
amigável, como aliados; já os segundos foram identificados como Tapuias (planalto), podendo
ser escravizados e até mesmo exterminados através de guerras, definidas como justas.

Il richiamo a Juan Ginés de Sepúlveda e alla sua polemica con Las Casas descritta nel
capitolo I del presente studio è inevitabile, tanto più che detta polemica è grosso modo
contemporanea rispetto a Anchieta e Nóbrega. Evidentemente, nel Brasile portoghese, e gesuita,
le istanze di Las Casas non prevalsero 529.
Quando nel XVIII sec. tramonta l'alleanza tra il governo coloniale portoghese e l'ordine dei
gesuiti, che evidentemente dal Perù incaico avevano importato tra i Guaraní un modello politico-
economico che stonava troppo con quello colonialista 530, il citato marquês de Pombal istituisce
nel 1757 il Diretório dos Índios, strumento legislativo diretto del governo centrale finalizzato al
controllo e all'asservimento degli indigeni.

527
Può sembrare anacronistico, ma quando ho vissuto in Brasile (1999-2004) ho assistito a un servizio della Globo
riguardo a un sacerdote missionario cattolico che aveva voluto partecipare a un rito indigeno da lui considerato
diabolico, per cui lo si vedeva tra gli índios danzanti scuotere l'aspersorio. Una scena anche comica, per certi
versi, ma che già allora avevo trovato irritante, come un'intrusione prepotente di una cultura nell'altra, considerata
inferiore e, appunto, nella presunzione occidentale, maligna. Le radici del gesto di quel sacerdote affondano
nell'opera missionaria di José de Anchieta e Manuel da Nóbrega nel '500 e in generale nella violenta conquista
europea del cd. Nuovo Mondo.
528
Cfr. Bosi, Dialética...cit., p. 73.
529
Cfr. infra.
530
Cfr. infra.

182
os índios passam a ser integrados parcialmente no domínio das instituições administrativas do
reino, sendo abolida a intervenção dos missionários da administração temporal e judicial dessas
populações. Podemos considerar então o índio como uma peça que o governo pombalino tinha
sob o seu controle, uma vez que o indígena passou a ser um súdito do soberano a quem devia
fidelidade. Legalmente o índio surgia então no império português como uma entidade
privilegiada, ao invés dos negros, já que os casamentos mistos eram incentivados. Dessa forma,
os índios eram controlados por uma legislação protecionista que tinha como proposta a sua
integração na sociedade e economia coloniais. Os funcionários que passaram a administrar as
vilas e aldeias eram detentores de uma autoridade tutelar e responsáveis pela aculturação
indígena, pois deviam impor aos índios princípios europeus que entravam em total contradição
com a natureza e cultura ameríndias.

Le cose cambiano, ancora in peggio per gli indigeni, allorché Pombal cade 531 e negli anni
successivi, lo scorcio finale del XVIII sec. e l'inizio del XIX, data anche la resistenza indigena in
una fase di intense tensioni nei confronti della corona portoghese (e non solo), si giunge in
Brasile a una vera e propria politica di sterminio nei confronti degli índios.
Si afferma, in particolare, la cosiddetta Guerra Justa, il cui nome è già di per sé un
programma, del resto in perfetta continuità con la precedente storia coloniale del Brasile 532,
mediante due decreti reali, rispettivamente del 13 maggio 1808 e del 5 novembre 1808, firmati
dal príncipe-regente João VI di Portogallo, da marzo dello stesso anno trasferitosi a Rio de
Janeiro con tutta la famiglia e la corte in fuga dal loro regno occupato dalle truppe napoleoniche.
In pratica fu il primo importante atto politico della corona portoghese in quello che sarebbe
diventato il Reino do Brasil, naturalmente contro gli índios, soprattutto delle allora province di
Minas Gerais e São Paulo, ma non solo.
Fernanda Sposito533 mette in rilievo come già nel 1798 d. João avesse revocato il descritto
Diretório dos Índios pombalino, in quanto il crollo dell'Ancien Régime, con le rivoluzioni
statunitense, haitiana e francese, aveva modificato i rapporti economici anteriori, laddove

531
Cfr. infra.
532
Cfr. supra.
533
“As guerras justas na crise do Antigo Regime português. Análise da política indigenista de d. João VI”, Revista
de História 161 (2009), pp. 85-112.

183
s'imponevano adattamenti “às demandas do capital industrial vigente no final do século XVIII”.
In breve, occorrevano nuove terre da colonizzare e nuove risorse, anche umane, da sfruttare.
La Guerra Justa, una volta sterminati gli índios e colonizzate le loro terre, fu revocata solo
nel 1831, già in epoca imperiale, laddove questo non significa certo che siano cessate allora le
ostilità contro i popoli originari534.
Non si può fare a meno di notare, quindi, come il Brasile abbia il triste primato, tra i Paesi
dell'America postcoloniale (ma in perfetta continuità con il passato coloniale), di aver attuato
guerre di sterminio nei confronti degli indigeni molto prima rispetto alle analoghe guerre citate
del Go West statunitense e della Campaña del Desierto argentina.
Continua la Freire de Oliveira nel rilevare che tra la Guerra Justa e il 1897, quando gli
ultimi villaggi indigeni furono cancellati dalla storia535,

várias práticas e políticas indigenistas foram efetivadas [...] entre medidas repressivas e
excludentes e a criação de mecanismos menos violentos, em termos físicos, para incorporação

534
Cfr. anche Márcia Amantino, “Entre o genocídio e a escravidão”, Revista do Arquivo Público Mineiro 2 (2009),
pp. 120-133; Fernanda Sposito, “Liberdade para os índios no Império do Brasil. A revogação das guerras justas
em 1831”, Almanack 1 (2011), pp. 52-65.
535
Mediante delle leggi imposte agli Stati brasiliani dalla da poco istituita Primeira República Brasileira, in
particolare nel periodo detto della República Oligárquica (1894-1930), finalizzate a eliminare i villaggi indigeni
ancora esistenti “deixando assim ao desabrigo de reconhecimento e assistência estatais enquanto grupos sociais
específicos e diferenciados, contingentes indígenas habitantes dos sítios desses antigos aldeamentos de origem
imperial ou mesmo colonial”, come è riportato nella “Nota Técnica sobre o Julgamento pelo Supremo Tribunal
Federal (STF) da Ação Cível Originária 312 (ACO-312), referente à nulidade de títulos de propriedade incidentes
sobre a Terra Indígena Caramuru-Paraguaçu”, a c. di Associação Brasileira de Antropologia, Associação
Nacional de Ação Indigenista, Conselho Indigenista Missionário, Brasilia 18/10/2011
(http://www.abant.org.br/news/show/id/159). Cfr. Francemberg Teixeira Reis, “Entre as teorizações das leis e as
ações práticas dos sujeitos: as continuidades da Lei de Terras de 1850 no nascente regime republicano”, Anais do
XXVII Simpósio Nacional de História – ANPUH, Natal 2013
(http://www.snh2013.anpuh.org/resources/anais/27/1371338073_ARQUIVO_Francemberg_Teixeira_Reis.pdf).
Da notare che la vertenza giuridica a cui si fa riferimento in questi ultimi testi citati è quella a cui si è accennato
nel cap. I e che interessa i citati Tupinambá di Olivença, ma anche gli altrettanto citati Pataxó, in particolare i
Pataxó hã-hã-hã (cfr. http://anai.org.br/pataxoh/?page_id=10) della Terra indígena Caramuru-Paraguaçu, nel
sud di Bahia, così chiamata dal nome dei personaggi della storia vera raccontata da frei José de Santa Rita Durão
(1722-1784) nel suo celebre Caramurú. Poema épico do descobrimento da Bahia (1781). Cfr. infra.

184
do índio ao Estado-nação, [...] oscilações [...] produzidas pelas variedades de estratégias e
interesses da sociedade dominante ao longo dos anos de colonização.

Nel contesto di queste politiche indigeniste naturalmente interviene prepotente anche la


questione ideologico-culturale: che ruolo dovrebbe avere l'índio nel nuovo Stato-nazione
Brasile?

Essa questão [...] aparece com maior frequência a partir de 1822, pois a idéia de Estado-nação
que estava sendo construída pressupunha, além da unidade territorial, a construção no
imaginário do significado de “povo” ou de uma “comunidade imaginada” 536 e, dessa maneira,
toda a diversidade cultural deveria ser recalcada em nome da criação de uma unidade compacta
e homogênea. A implantação do Estado nacional brasileiro debatia-se com impasses quase
incontornáveis: ao admitir que os índios eram primitivos, estavam reconhecendo o direito
desses povos ao território; ao pressupor o compartilhamento cultural entre os membros da
nação, deveria atuar no sentido de eliminar as diversidades étnicas, o que implicava na negação
da imagem simbólica do índio como um componente essencial na construção da
nacionalidade537. Além disso, a mão-de-obra indígena ainda era vital, devendo ser criados
mecanismos que preservassem também a sua existência física 538.

In funzione di questo processo, era necessario imporre misure che preservassero i privilegi
della classe dominante:

Embora todos os membros da nova nação devessem ser considerados brasileiros, nem todos
eram tidos como cidadãos539, com igualdade de direitos e deveres, já que uns eram ativos e
536
L'allusione al citato studio di Benedict Anderson è chiara e legittima.
537
Quanto dice l'autrice è ovvio ma non scontato considerarlo valido, invero, per tutte le nazioni dell'America Latina
postcoloniale.
538
L'idea che una categoria umana debba essere mantenuta in vita perché comunque serve come manodopera è
molto “liberista”, tant'è vero che la vediamo ancora oggi applicata ai migranti, per esempio. La bibliografia è
vastissima, cfr. a titolo esemplificativo ancora Yuri Leveratto: “Occidente e multiculturalismo”, 2014
(http://yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=458), le cui conclusioni, peraltro, sono sicuramente degne di una
discussione più approfondita.
539
Com'è noto, si tratta di una situazione ancora molto attuale, denunciata anche da molti artisti e cantanti brasiliani
nelle loro opere, un esempio per tutti O Resto Do Mundo di Gabriel o Pensador, 10° traccia dell'album Gabriel o
Pensador (1993), tra i cui versi compaiono appunto i seguenti: “Sei que sou um brasileiro / Mas eu não sou

185
outros passivos; tal diferenciação era um artifício necessário, não só por causa da grande
heterogeneidade da população que habitava o território, como por conta das relações de
exploração e dominação que deveriam ser preservadas 540. Com relação aos índios era
fundamental que estes deixassem de ser silvícolas e “abraçassem a civilização” para que um dia
pudessem se tornar cidadãos, já que estes não estariam incluídos na “família brasileira” por não
compartilharem costumes tidos como civilizados.
Entre as duas visões possíveis com relação à questão indígena – o genocídio e o etnocídio – o
Governo Imperial optou pela segunda via, já que o reconhecimento da cidadania indígena
exigia o “branqueamento” cultural e racial dessas populações. Ao serem compelidas a, de
alguma forma, integrarem o Estado-nação emergente, as sociedades indígenas, passaram a
conviver com novas contradições a serem solucionadas. Como a categoria “índio”, construída
pela ação colonial, foi reapropriada pela sociedade nacional com um caráter fortemente
homogeneizante, que ignora as especificidades que cada etnia possui, os índios tiveram que
“optar” por se auto-reconhecerem através dessa categoria 541. O avançar desse processo fará com
que os índios passem a conviver com as profundas transformações impostas pela sociedade
dominante e a serem classificados como “misturados com os civilizados”, como foram
definidos no século XIX, termo substituído hoje por “integrados”542.

cidadão”. È chiara, o dovrebbe essere tale, quindi l'origne del mostruoso divario sociale che incancrenisce ancora
oggi la società brasiliana, con tutte le conseguenze negative quali la diffusa criminalità urbana.
540
In perfetta continuità con il passato coloniale, sia pure con il descritto adattamento ai modelli economici
posteriori alla rivoluzione industriale.
541
Cfr. nel cap. III l'intervista a Zahy Guajajara.
542
Non si colgono naturalmente differenze sostanziali tra le due definizioni, se non quelle afferenti all'aspetto
eufemistico di quella più recente. Ricordo come tuttora i governi nostrani e quelli occidentali in genere operino in
funzione di “integrare” gli immigrati, verbo che sin troppo spesso, nelle legislazioni dei Paesi di destinazione,
diventa sinonimo di “assimilare” e “acculturare”, nonché “sfruttare” come non-cittadini “passivos”, mutuando
tale termine dall'autrice citata. Notevoli e gravide di spunti su cui riflettere, quindi, le somiglianze tra lo status a
cui sono stati costretti gli indios negli Stati postcoloniali e gli immigrati come i cd. extracomunitari nella Fortress
Europe, ma anche quelli, soprattutto latinos, negli USA, a fortiori se si pensa che molti di questi, specie negli
USA, ma anche in Europa, sono proprio indios, “puri” o mestizos, anche se, a partire dal modello statunitense
citato, sono chiamati latinos, appunto. Cfr. Dino Frisullo, “Dai villaggi andini ai ghetti di Roma…”, Rivista
SenzaConfine (Marzo 1994; http://www.senzaconfine.org/senzaconfine/wp-content/uploads/2013/06/Marzo-
1994Storia-di-Pilar-D.-Frisullo.pdf); Alessandro Dal Lago, Non-persone: l'esclusione dei migranti in una società
globale, Feltrinelli, Milano 2004, specie gli ultimi due capitoli: “Non-persone”, “Paradossi globali” (pp. 205-
262); Gabriele Del Grande, Mamadou va a morire, Infinito edizioni, Modena 2007; Id., Il mare di mezzo, Infinito
edizioni, Modena 2010. Quest'ultimo, giovane giornalista da anni in prima linea nel campo dei migranti, nonché

186
Una volta definito politicamente il ruolo della categoria generalizzante dell'índio nel
contesto della nuova società brasiliana, occorreva ovviamente un supporto culturale per
corroborare tale definizione.

Criados logo após a independência política do país nascente, os Institutos Históricos


Geográficos, ao lado de outras instituições, cumpriam o papel de construir e recriar um
passado, solidificar mitos de origem, ou seja, unificar a nação construindo um passado comum
que se pretendia singular. O interesse do Instituto era criar uma história brasileira ou dar um
passado ao país, cumprindo irrefletidamente o lema de que “para lembrar é preciso muito

in Tunisia, Libia e in Siria, coautore del film autoprodotto Io sto con la sposa (2014;
http://www.iostoconlasposa.com/) e dal quale peraltro ho derivato l'espressione citata Fortress Europe
(http://fortresseurope.blogspot.it/), l'ho personalmente intervistato nel 2009, quando ero impegnato nel Comitato
Società e Diritti contro il famigerato “Pacchetto Sicurezza”. Voglio riportare un brano di quell'intervista
(http://romras.blogspot.it/2009/11/intervista-gabriele-del-grande-fortress.html), a corroborare il paragone da me
proposto: “RM: Non so se conosci il cantante guatemalteco Ricardo Arjona, che ha dedicato una sua celebre e
bella canzone al «mojado», il «bagnato», cioè i migranti latinos che per andare negli USA devono attraversare il
Rio Bravo perciò si devono «bagnare». Alla fine del suo video colloca un dato spaventoso: negli ultimi tre anni
oltre 1500 persone sono morte nel tentativo di entrare negli USA. Ma, a giudicare anche dai dati che fornisci tu
nel tuo sito, l'Europa batte gli USA in questa triste gara. Che cosa c'è dietro tutto ciò, secondo te? La paura dei
ricchi di dover dividere la loro ricchezza con i poveri, il calcolo politico dei potenti del mondo che vogliono
lasciare i paesi del sud del mondo in una situazione di inferiorità, ecc.? GDG Ci sono molti aspetti. Il primo è di
natura coloniale. L'idea cioè che gli altri – cioè chi non appartiene al club dei paesi industrializzati – non abbiano
diritto di circolare liberamente. Ma che siano soltanto le nostre aziende a poter arrogare il diritto di trasferire
temporaneamente in Europa il numero di braccia necessarie al buon funzionamento delle nostre imprese,
limitatamente alla durata del loro impiego. Il resto è solo retorica sui diritti umani con cui ci si risciacqua la bocca
prima dei grandi discorsi. E allora l'azione di chi brucia le frontiere diventa un gesto politico. Di ribellione. Verso
le politiche omicide dell'Europa che nega i visti ma chiede manodopera. E verso la classe politica corrotta e
inadeguata che governa i paesi della riva sud del mediterraneo, negando il sogno di un avvenire a tanti dei suoi
giovani. Poi c'è un discorso culturale, montato ad arte dalla classe politica e dalla stampa. L'idea cioè che fuori
dall'Europa si trovi l'oscuro, il male, l'ignoto, la barbarie. E che il mondo intero sia pronto con la valigia per
invadere la civile Europa, un mondo di straccioni e estremisti religiosi”. Ricordo anche come durante la
campagna elettorale delle Elezioni politiche italiane del 13-14 aprile 2008 la Lega Nord abbia pradossalmente
usato la metafora degli indiani d'America per fomentare la sua propaganda razzista, con slogan come: “Loro
hanno subito l'immigrazione, ora vivono nelle riserve!”. Genocidio e strumentalizzazione.

187
esquecer”543. Quanto à questão racial difundia-se uma postura dúbia, na medida em que, como
já foi dito, um projeto de construção de uma nacionalidade implicava também pensar naqueles
que ficariam excluídos desse processo: os negros e os indígenas 544.
As opiniões acerca das sociedades indígenas variavam no século XIX em torno de uma
perspectiva positiva e evolucionista, de um discurso religioso e católico e de uma visão
romântica em que o índio era representado como símbolo da identidade nacional. Um dos
maiores formadores dessa opinião, sócio do Instituto, foi José de Alencar. Os projetos de
transformação do índio em trabalhadores e colonos nacionais tinha como fundamento a crença
na capacidade da catequese em adequar os índios as novas exigências da sociedade nacional 545.
A idéia contrária era aquela em que os índios eram vistos como inimigos irreconciliáveis e não
“domesticáveis” e só poderiam ser admitidos no interior da nação por um duro sistema de
escravidão e pelo uso da força, além de não se admitir que os índios poderiam tornar-se
trabalhadores eficientes. Acreditava-se que e a vinda de imigrantes para o Brasil e a
543
Riporto fedelmente di seguito la nota dell'autrice: “Refiro-me aqui aos agenciamentos pedagógicos que regulam-
se por estratégias, ou intencionalidades, de atualização narrativa que corresponde à uma vontade de esquecimento
das enunciações que ameaçam interromper o tempo da produção nacional e desestabilizar o significado de povo
enquanto homogêneo. Ver o famoso ensaio de Ernest Renan, “O que é uma nação?”. In: ROUANET, Maria
Helena (org.). Nacionalidade em questão. Caderno da Pós / Letras n.19. Rio de Janeiro: UERJ, 1997”.
544
Cfr. Lilia Moritz Schwarcz, O espetáculo das raças: cientistas, instituições e questão racial no Brasil 1870-1930,
Companhia das Letras, São Paulo 1993, p. 99.
545
Per intendere meglio quali fossero dette novas exigências da sociedade nacional, in generale quella di un'identità
culturale del Paese, è utile riportare la frase che avrebbe scritto il naturalista francese Auguste de Saint-Hilaire
(1779-1853), che soggiornò in Brasile vari anni poco prima dell'indipendenza, tra l'altro con lo scopo di “rubare”
piante alimentari e medicinali endogene brasiliane, situazione che è ancora molto attuale. Frase citata da Lilia
Moritz Schwarcz (“Império desenha país civilizado e exótico”, nel reportage citato su Brasil 500, Folha de São
Paulo, http://www1.folha.uol.com.br/fol/brasil500/imagens8.htm): “Havia um país chamado Brasil, mas
absolutamente não havia brasileiros”. Com'è evidente, si tratta di una valutazione molto simile a quella che fece
per l'Italia il celebre conte Metternich, cancelliere austriaco, allorché nel 1847 scrisse la frase, in seguito
manipolata e strumentalizzata, “La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la
lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle” (cfr.
Dario Fertilio, “Metternich riabilitato. Non denigrò l'Italia”, Corriere della Sera, 1/6/1999,
http://archiviostorico.corriere.it/1999/giugno/01/METTERNICH_RIABILITATO_NON_DENIGRO_ITALIA_c
o_0_9906012552.shtml), che sostanzialmente fu confermata molti anni dopo dal citato Massimo D'Azeglio,
allorché ne I miei ricordi (Barbera, Firenze 1891, p. 5), scrisse “Pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno
gl'Italiani”. Anche questa frase, peraltro, manipolata e strumentalizzata. La semplice verità è che le nazioni così
come volute dal nazionalismo romantico non sono mai esistite, non esistono né mai esisteranno, ma la loro idea
applicata ha già provocato non pochi crimini contro l'umanità e continua a farlo.

188
miscigenação eram os fatores decisivos que proporcionariam a aceleração do processo
civilizatório brasileiro546.
No entanto, o Estado Nação ao atuar no sentido de eliminar as diversidades étnicas e culturais,
implicava a negação da imagem simbolicamente atribuída aos índios que ressaltava o
sentimento de liberdade e autonomia com sua grande contribuição para a formação do caráter
nacional. No entanto também, para alguns segmentos nacionais, a mão-de-obra indígena era
vital, devendo ser criados mecanismos que preservassem sua existência física 547. Para superar
essa contradição, tanto o Estado português como o brasileiro criaram sucessivamente alguns
mecanismos, seja através de uma legislação flexível que atendesse os múltiplos interesses das
elites, seja através de uma atitude omissa com relação às práticas desrespeitosas aos direitos
legais dos povos indígenas. Essa flexibilidade nunca respeitou o direito à propriedade das terras
ocupadas pelos índios, a sua autonomia política e a preservação de particularidades sócio-
culturais548.
Ao aceitarem sua inserção no Estado Nação, os índios passam a não mais se posicionarem
como entidades individuais, mas cada vez mais, conformarem sua identidade e organização
social à categoria de “índio”, de acordo com as imagens e expectativas definidas pelo Estado-
nação, para que também pudessem ser reconhecidos como agentes políticos no palco das lutas
sociais549.

Al testo citato o sintetizzato e commentato che molto efficacemente contestualizza


l'indianismo di José de Alencar in una storia di genocidi e etnocidi, per giunta tuttora in atto,
paradossalmente nel momento in cui l'índio è assunto a símbolo da identidade nacional in

546
Invito a paragonare questa idea con quella della citata antropofagia cultural promossa da Oswald de Andrade
prima nel 1924, con il Manifesto da Poesia Pau-Brasil, ancor più esplicitamente nel 1928, nel Manifesto
Antropófago, a partire quindi da presupposti consolidati nella cultura brasiliana.
547
Cfr. supra.
548
Fatto che è molto attuale tuttora, basti pensare ai citati grileiros, nonostante le azioni e le lezioni di Rondon, dei
fratelli Villas-Bôas, di Darcy Ribeiro, della FUNAI e di padre Angelo Pansa, tra gli altri, ma negli ultimi anni i
movimenti indigeni stanno sempre più efficacemente facendo sentire la loro voce, che sarebbe ancora più efficace
se, come detto, ci fosse una sintonia più intensa, anche a livello internazionale. Cfr. supra e infra.
549
Infatti, nell'intervista che le ho fatto per email e che riporterò nel III capitolo, la già citata attivista e artista e poeta
indigena brasiliana Zahy Guajajara ha dichiarato di accettare senza problemi questo termine generalizzante
originato dal celebre equivoco di Colombo, prima di tutto perché è così che viene chiamata da quando è nata,
secondo perché pensa “que não são os nomes que devem ser mudados, mas a forma de como nos tratam, sim,
deve ser mudada”.

189
contrapposizione all'identità culturale coloniale portoghese, aggiungo in estrema sintesi che il
modello letterario del padre gesuita José de Anchieta rimase ancora dominante durante il
Barocco550, seguito dal cd. indianismo arcádico, vero e proprio momento anticipatore del
romanticismo brasiliano, ma ancora in epoca di colonialismo portoghese, a evidenziare quella
continuità espressa anche da Manoela Freire de Oliveira.
Gli autori sicuramente più significativi dell'indianismo arcádico sono stati José Basílio da
Gama (1741-1795), nativo dell'attuale Tiradentes551, nel Minas Gerais, con il suo poema epico O
Uraguay552 (1769), nonché il già citato frei José de Santa Rita Durão (1722-1784), anche lui
mineiro, in quanto nato vicino a Mariana e all'antica capitale della provincia Vila Rica, l'odierna
Ouro Preto. La sua opera principale, e più significativa per il presente studio, è l'altrettanto già
citato poema Caramurú. Poema épico do descobrimento da Bahia (1781)553.
O Uraguay rende omaggio soprattutto alla figura monumentale di Sepé Tiaraju, il capo
guaraní che guidò la sua gente nella difesa del territorio delle Misiones Orientales, nome
spagnolo dei Sete Povos das Missões, com'erano invece chiamate in portoghese, cioè le già citate
reducciones fondate dai gesuiti spagnoli nell'attuale territorio dello Stato brasiliano del Rio
Grande do Sul, concesse dal trattato di Madrid del 1750 alla corona portoghese in cambio della
zona dell'attuale città uruguayana Colonia del Sacramento. Ne conseguì l'altrettanto già ricordata
guerra guaranítica del 1756554 a cui fa riferimento anche il film Mission pure già ricordato,

550
Tralascio di proposito la figura di Bento Teixeira, vissuto tra la metà del XVI e i primi 2 decenni circa del secolo
successivo, perlopiù durante la cd. União Ibérica (cfr. infra). A parte il fatto che è vivo tuttora una dibattito tra gli
studiosi sul fatto di considerarlo o meno un precursore della letteratura brasiliana, invero la sua unica opera di
sicura attribuzione, il poema epico Prosopopéia, costruito sul modello de Os Lusíadas di Camões e dedicato a
Jorge de Albuquerque Coelho, terzo capitão e governador da Capitania de Paranambuco, non è più di tanto
rilevante per quanto concerne l'oggetto trattato nel presente studio.
551
All'epoca, ovviamente, non aveva questo nome, che rende omaggio al già citato rivoluzionario dell'Inconfidência
Mineira, bensì quello di São José do Rio das Mortes.
552
La pronuncia Uraguay, dell'omonimo fiume – all'epoca lo Stato che ne prende il nome naturalmente non esisteva
ancora – è più antica e probabilmente originale rispetto alla lingua guaraní da cui deriva.
553
Da notare che adotto la forma accentata Caramurú di proposito, in quanto più conforme alla grafia originale
rispetto a quella moderna senza accento.
554
Non è ozioso ricordare che nello stesso anno era scoppiata anche l'importante e sanguinosa Guerra dei Sette Anni,
che fu intensamente combattuta tra Francesi e Inglesi anche in America, in particolare in Canada, dove all'inizio il
famoso marchese di Montcalm aveva ottenuto delle importanti vittorie per poi capitolare e morire durante la
difesa di Québec nel 1759. In questa guerra furono coinvolte anche varie etnie indigene, com'è noto, in

190
durante la quale Sepé Tiaraju perse la vita, anche se Basílio da Gama immagina che il suo spirito
abbia continuato a incitare alla resistenza il suo popolo.
È notevole il fatto che il poeta lusobrasiliano, anzi mineiro, abbia pubblicato questo suo
poema epico pochi anni dopo i fatti descritti nel poema stesso – pertanto ne è anche un prezioso
documento, sia pure letterario più che storico –, dedicandolo, oltre che ad altri due destinatari,
anche a Pombal, che all'epoca invero non era ancora marquês de Pombal, titolo che gli sarà
concesso solo l'anno dopo, nel 1770, bensì era Conde de Oeyras, titolo con cui infatti compare
nella dedica del poeta555.
Il legame tra Basílio da Gama e Pombal era molto particolare, in quanto il poeta nel 1768,
l'anno precedente alla pubblicazione del poema, era stato incarcerato a Lisboa e minacciato di
essere deportato in Angola, in seguito a un decreto proprio del Primeiro-ministro, in quanto
accusato a ragione di essere prossimo ai gesuiti556, che Pombal aveva già cacciato dal Portogallo
particolare Uroni, Ottawa e Algonchini alletati dei Francesi e Irochesi alleati degli Inglesi, e ha fatto da sfondo al
celebre romanzo The Last of the Mohicans: A Narrative of 1757 (1826), il secondo, in ordine cronologico della
pentalogia dei Leatherstocking Tales del citato scrittore statunitense James Fenimore Cooper, così importante
nella costruzione dell'identità culturale statuinitense. “Guerre indiane”, insomma, provocate dalla geopolitica
europea, e miti derivati, strumentalizzati dalle culture degli Stati americani postcoloniali.
555
Uno degli altri due destinatari della dedica è Francisco Xavier de Mendonça Furtado, fratello di Pombal, e non
manca un omaggio anche a un altro importante fratello dello stesso: Paulo António de Carvalho e Mendonça,
inquisidor-mor del Portogallo. Da notare come Pombal, da parte di madre, fosse anche discendente di Filippo
Cavalcanti, aristocratico fiorentino della stessa famiglia a cui appartenne anche Guido, il poeta stilnovista amico
di Dante Alighieri. Filippo Cavalcanti, il cui padre Giovanni era tra i più importanti mercanti di Londra, molto
prossimo alla corte dei Tudor, intorno alla metà del XVI sec. si stabilì prima in Portogallo poi in Brasile, a
Olinda, dove sposò la nobildonna portoghese Catarina de Albuquerque, della famiglia che deteneva la capitania
di Pernambuco, di cui ben presto Filippo Cavalcanti divenne una delle autorità più importanti. Questo però vuol
dire che Pombal discendeva anche dalla madre di Catarina, l'índia Tindarena o Tabira figlia del capo tabajara
Uirá Ubi (“Arco Verde”, in lingua tupí), battezzata con il nome di Maria do Espírito Santo Arcoverde, quindi
anche Pombal aveva un'ascendenza indigena brasiliana. Tuttora in Brasile il cognome Cavalcanti, anche nella
forma Cavalcante (che si pronuncia allo stesso modo della forma più originale: * cavaucanci), è tra i più diffusi,
laddove non è detto che tutti quelli che lo portano siano diretti discendenti dell'aristocratico fiorentino, visto che
era costume che lo schiavo liberato assumesse uno dei cognomi dell'ex padrone. Cfr. Cássia Albuquerque, Fábio
Arruda de Lima, Marcelo Bezerra Cavalcanti, Francisco Antonio Doria, Os Cavalcantis, Edições do Jardim da
Casa, Petrópolis 2011.
556
Basílio da Gama aveva frequentato il Collegio gesuitico di Rio de Janeiro fino alla sua chiusura nel 1759, era
destinato a diventare un gesuita lui stesso e per questo si era recato subito dopo a Roma, dove l'intercessione dei
gesuiti portoghesi gli era valsa l'ammissione nella prestigiosa accademia romana di Arcadia, accolto dal Custode

191
e dalle sue colonie nel 1759557, peraltro proprio con il pretesto, tra gli altri, della loro resistenza
durante la guerra guaranítica. Basílio da Gama riuscì a capovolgere a proprio favore
l'atteggiamento nei suoi confronti del potente Primeiro-ministro grazie al poemetto Epitalâmio
da excelentíssima senhora dona Maria Amália, dedicato alla figlia di Pombal, che da allora lo
considerò un suo protetto e ne fece persino il proprio segretario nel 1774.
D'altra parte, è innegabile come la dedica di Basílio da Gama al suo potente protettore
abbia tuttora un sapore perlomeno ambiguo, visto che fu la politica di Pombal a provocare la
guerra guaranítica e quindi anche la morte del suo eroe indigeno Sepé Tiaraju, per quanto nel
poema, perlopiù nella bocca del generale portoghese vittorioso António Gomes Freire de
Andrade558, figura comunque tracciata come positiva dalla penna del poeta mineiro, non

Generale, il fiorentino Michele Giuseppe Morei, sotto lo pseudonimo di Termindo Sipílio, con il quale pure firma
il suo poema. Da notare come questo suo pseudonimo aracadico derivasse, Termindo, sicuramente dal greco
θέρμος, cioè “caldo”, e Indie, le Indie occidentali, cioè l'America, riferimento alla sua origine dall'America
tropicale, mentre Sipilio sicuramente dalla parola portoghese di etimologia oscura sipilho, termine nautico per cui
nel Diccionario de marinha, que aos officiaes da armada nacional portugueza del 1841
(https://archive.org/details/diccionariodemar00amoruoft) si dà la seguente definizione: “é o chicote de qualquer
peça de cabo que se não aproveita por mal torcido e irregular”. Allusione più che probabile alla carriera di
gesuita del poeta stroncata per forza maggiore.
557
Ho già riportato nel cap. I come la corona di Spagna abbia attuato analogo provvedimento solo nel 1767, sei anni
prima della definitiva abrogazione dell'ordine da parte di papa Clemente XIV.
558
È lo stesso generale, nel 1758 onorato con il titolo di 1° conte di Bobadela, che l'anno dopo, come ricordato,
eseguì l'ordine di Pombal di cacciare i gesuiti dal Brasile e di chiudere il collegio gesuitico di Rio de Janeiro dove
studiava Basílio da Gama, che quindi non doveva averne un ricordo poi così positivo. Da notare come nel suo
poema sia affiancato dal generale spagnolo Catáneo, dal cognome indubbiamente italiano, sulla cui presenza
come comandante in capo delle forze spagnole nella guerra guaranítica invero non ho trovato riscontro tra gli
storici, laddove risulta invece il terribile generale basco José de Andonaegui in questo ruolo; terribile perché è
ricordato come un accanito sterminatore di indios, scopo per cui aveva anche creato una milizia di cavalleria
speciale, i blandengues, confluiti in seguito negli eserciti argentino e uruguayano. Lo storico uruguayano Eduardo
Acevedo Vásquez ha ricordato come tale generale spagnolo e governatore del Río de la Plata “decía justificando
su encarnizada persecución á los indígenas, que el mejor bautismo era el de sangre” (in José Artigas, I, Imprenta
Atenas, Montevideo 1950, p. 390), vero e proprio slogan che anticipa di oltre un secolo quello che avrebbe
pronunciato il generale statunitense Philip Sheridan nel 1869 in risposta a un capo comanche: “The only good
Indians I ever saw were dead”, frase, che Sheridan pare abbia negato di aver pronunciato, comunque in seguito
volgarizzata nella forma “The only good Indian is a dead Indian”, a interpretare perfettamente lo spirito del Go
West statunitense. Tornando invece a Catáneo, questo cognome italiano richiama piuttosto al padre gesuita
italiano Gaetano (o Cayetano, nella grafia spagnola) Cattaneo, che ha operato nelle Misiones Orientales e in

192
manchino del resto critiche ai gesuiti, descritti dal generale portoghese come tiranni corrotti e, in
definitiva, come i veri promotori della guerra con il loro rifiuto di accettare il citato trattato di
Madrid, versione sicuramente ufficiale e pombalina della vicenda.
Trovo, peraltro, anche suscettibile di ambiguità il sonetto che in epigrafe all'opera Basílio
da Gama dedica a Pombal e che voglio riportare di seguito:

Ergue de jaspe hum globo alvo, e rotundo,


E em cima a estatua de hum Heroe perfeito;
Mas não lhe lavres nome em campo estreito,
Que o seu nome enche a terra, e o mar profundo.

Mostra no jaspe, Artifice facundo,


Em muda historia tanto illustre feito,
Paz, Justiça, Abundancia, e firme peito,
Isto nos basta a nós, e ao nosso mundo.

Mas porque póde em século futuro,


Peregrino, que o mar de nós affasta,
Duvidar quem anima o jaspe duro,

Mostra-lhe mais Lisboa rica, e vasta,


E o Commercio, e em lugar remoto, e escuro,
Chorando a Hypocrisia. Isto lhe basta.559

Argentina nella prima metà del XVIII sec. e, assieme all'altro gesuita italiano coevo Carlo (Carlos) Gervasoni, ha
lasciato un carteggio ricco di preziose informazioni riguardo all'operato dei gesuiti nelle reducciones e non solo,
tra l'altro fonte diretta del Muratori per la redazione del suo libro apologetico sulle missioni gesuitiche in
Sudamerica già citato nel cap. I. Forse è un caso o forse è un messaggio preciso del poeta, non è questa la sede
per risolvere la questione che meriterebbe uno studio specifico. Cfr. Maria do Rosário Pimentel, Maria de Deus
Beites Manso, “Os Jesuítas nas Américas: «A República dos Guaranis»”, Vegueta. Anuario de la Facultad de
Geografía e Historia 13 (2013), p. 268; Mario J. Buschiazzo (a c.), Buenos Aires y Córdoba en 1729 según
cartas de los padres C. Cattaneo y C. Gervasoni, Compañía de Editoriales y Publicaciones Asociadas, Buenos
Aires 1941 (http://www.cervantesvirtual.com/nd/ark:/59851/bmccr5s8).
559
Cfr. José Basílio da Gama, O Uraguay, Regia Officina Typografica, Lisboa 1769, intestazione. Ho rispettato
l'ortografia originale.

193
Il diaspro (jaspe), con cui sarebbe stata costruita la statua dell'Heroe perfeito Pombal,
citato tre volte nel testo, numero trinitario che torna spesso nel poema560, era credenza classica
che servisse a scacciare Empusa561, terribile fantasma ctonio femminile che può richiamare al
citato Anhangá, e può essere un riferimento al fatto che Pombal, evidentemente secondo il poeta,
aveva dei fantasmi da cacciare, appunto, cioè una coscienza non troppo pulita, dubbio che
diventa manifesto nella terza strofe, attribuito a un Peregrino – Il poeta stesso? – d'Oltremare – il
Brasile? –, laddove onde fugare tali dubbi, lo si invita ad ammirare lo splendore e il Commercio
di Lisboa, per cui, em lugar remoto, e escuro, chi dubita pianga a Hypocrisia – maiuscolo, come
se fosse personificata; ma l'ipocrisia di chi? E perché il poeta non cita l'América portuguesa, a
cui pure forse si allude, e cita solo la capitale dell'impero come motivo di merito di Pombal?562

560
Come detto, sono tre i destinatari della dedica, tre gli “eroi” (Sepé Tiaraju, il suo luogotenente Cacambo e
Andrade), tre i “cattivi” (Padre Balda, Padre Tedeo e Patusca) e poi il numero 3 compare altre volte nel poema in
episodi significativi. Inoltre ricordo come sia formato da tre lettere anche il celebre cristogramma IHS assunto a
proprio emblema da parte dei gesuiti sin dai tempi di Loyola.
561
Cfr. Porfirio di Tiro, Quaestionum Homericarum ad Odysseam pertinentium reliquiae, a c. Hermann Schrader,
Teubner, Leipzig 1890, X 323 segg.; Eustazio di Tessalonica, Commentarii ad Odysseam, a c. J.A.G. Weigel,
Haack, Leipzig 1825, I 382; Maria Grazia Lancellotti, “Epigrafia e storia delle religioni: bapxa e il granchio”,
SEL 20 (2003), specie p. 102.
562
Da notare che Pombal nel 1777 cadde in disgrazia: la regina Maria I, appena salita al trono, come prima
importante cosa che fece fu proprio quella di esautorare il potente Primeiro-ministro e addirittura di allontanarlo
da Lisboa, nella cittadina di Pombal, la freguesia del marquês, dove morì 5 anni dopo, provvedimento che è
passato alla storia del Portogallo sotto il nome di viradeira, a indicare la fine del dispotismo illuminato incarnato
da Pombal e il ritorno all'Antico Regime. Maria I, in seguito ricordata come a Louca a causa dell'infermità
mentale che la colpì e per cui nel 1792 fu sostituita nelle funzioni di governo dal figlio secondogenito nella
qualita di príncipe-regente, il già citato D. João VI, prese a pretesto a giustificare tale provvedimento la revisione
del tuttora discusso Processo dos Távoras – il canale televisivo nazionale portoghese RTP ne ha tratto una
recente serie televisiva –, in seguito al quale Pombal aveva eliminato la potente famiglia aristocratica rivale dei
Távoras, appunto, facendoli accusare di cospirazione contro il re D. José I, padre di Dona Maria. In tutti questi
intrighi di corte aleggia il sospetto di manovre da parte dei gesuiti, ormai “clandestini”, come Basílio da Gama
stesso – che non fu coinvolto nella caduta di Pombal, ma mantenne il suo ruolo di letterato di spicco in Portogallo
fino alla sua morte nel 1795 –, ma che sicuramente avevano mantenuto un certo potere occulto e volevano
senz'altro vendicarsi di Pombal. Guarda caso, è attestato che godessero delle simpatie di Dona Maria. La
bibliografia è sterminata al riguardo, ma cfr. Patrícia Woolley Cardoso Lins Alves, D. João de Almeida Portugal
e a Revisão do Processo dos Távoras: conflitos, intrigas e linguagens políticas em Portugal nos finais do Antigo
Regime (c.1777-1802), Universidade Federal Fluminense, Niterói 2011.

194
Balena il dubbio, insomma, che Basílio da Gama, da buon gesuita, sia riuscito a entrare
nelle grazie di Pombal, ma abbia pubblicato con il suo patrocinio questo poema epico peraltro
sul modello ormai classico de Os Lusíadas di Camões563, apparentemente a scopo elogiativo nei
confronti del potente Primeiro-ministro portoghese acerrimo nemico dei gesuiti, per esaltare
invece l'eroe indigeno Sepé Tiaraju, ma di riflesso anche i gesuiti stessi – sia pure ufficialmente
messi in cattiva luce564 –, che con i Guaraní avevano già costruito un vero e proprio Stato
all'interno delle colonie spagnole e portoghesi, autonomo se non proprio indipendente e
concorrenziale sul piano economico rispetto al colonialismo europeo565, ad anticipare e
precorrere l'indipendenza degli Stati postcoloniali d'America e a realizzare quello che era stato il
progetto di Blas Valera e dei gesuiti peruviani, come visto, infatti decisamente precursori dei
loro confratelli delle Misiones Orientales566.

563
Cfr. Maiquel Röhrig, “O mito da Nação n’Os Lusíadas e n’O Uraguai”, V Colóquio Internacional Sul de
Literatura Comparada: Fazeres Indisciplinados, 8-10 de outubro de 2012
(http://wwlivros.com.br/Vcoloquio/artigos/MaiquelRohrig.pdf).
564
Il citato padre Balda è il gesuita che più di ogni altro rappresenta il personaggio negativo, ma ha il sapore
dell'eccezione nella polifonia del poema. Cfr. Alcmeno Bastos, “Entre a bondade natural e o discurso ilustrado: o
índio em O Uraguai, de Basílio da Gama”, O Eixo e a Roda: Revista de Literatura Brasileira 9/10 (2003/2004),
pp. 247-264, in cui l'autore precisa, tra l'altro, come “O poema não é exemplo de exaltação da brasilidade, pois o
elemento nativo é derrotado pelas armas e pela razão do europeu, mas os atributos positivos do índio e o
deslocamento da condição negativa de antagonista para os padres jesuítas permite vê-lo como antecipador do
indianismo romântico”; Ana Luiza de Oliveira Duarte Ferreira, “Ibéricos, nativos e o tropical em O Uraguai:
Literatura arcádica e identidade na América de colonização ibérica”, Anais do XXIII Simpósio Nacional de
História – História: guerra e paz. Londrina: ANPUH, Londrina 2005, pp. 1-8 (http://anpuh.org/anais/wp-
content/uploads/mp/pdf/ANPUH.S23.0082.pdf).
565
Cfr. Patricia Fachin, “Reduções jesuíticas: um projeto político e evangelizador”, Revista IHU Online 348 (2010;
http://www.ihuonline.unisinos.br/index.php?option=com_content&view=article&id=3605&secao=348).
566
Cfr. cap. I. Ricordo come pochi anni prima Raimondo di Sangro fosse entrato in possesso dei manoscritti che
oggi sono noti come Documenti Miccinelli, portati a Napoli nel 1745 dal gesuita cileno Pedro de Llanes – che li
aveva avuti in affidamento dall'indio Juan Tacquic Menendez de Sodar in punto di morte –, il quale li vendette al
nobile napoletano per 15 ducati. La bizzarria della storia ha voluto che 230 anni dopo Clara Miccinelli li abbia
ritrovati nella stessa casa dove già li aveva posseduti Raimondo di Sangro. Cfr. Domenici, I nodi segreti...cit., pp.
103 segg.

195
A conferma di questo scopo anticolonialista di Basílio da Gama va ricordato il sonetto che
anni più tardi ha dedicato al citato Tupac Amaru II, senz'altro dopo l'esecuzione del
rivoluzionario inca avvenuta il 18 maggio 1781, il quale recita così567:

SONETO A TUPAC AMARU


AO INCA QUE NO PERU ARMANDO ALGUMAS TRIBUS DECLAROU GUERRA
AOS HESPANHOES E POR ALGUM TEMPO OS DEBELLOU

Dos curvos arcos, açoitando os ares,


Vôa a setta veloz do índio adusto;
O horror, a confuzão, o espanto, o susto,
Passam da terra, e vão gelar os mares.

Ferindo a vista os tremulos cocares,


Animoso esquadrão de Chefe Augusto,
Rompe as cadêas do hespanhol injusto
E torna a vindicar os patrios lares.

Inca valente, generoso Indiano!


Ao real sangue, que te alenta as vêias,
Une a memoria do paterno damno.

Honra as cinzas de dor, de injurias cheias,


Qu'inda fumando a morte, o roubo, o ingano,
Clamam vingança as tépidas areias.

In ogni caso, Sepé Tiaraju, anche grazie al poema di Basílio da Gama, è diventato un mito
fondatore soprattutto nel contesto delle missioni e della popolazione povera mestizo-indigena
dell'area tra Brasile, Paraguay, Argentina e Uruguay, dove avvenne la guerra guaranítica,
appunto, anzi, nell'immaginario popolare è stato addirittura santificato con il titolo di São Sepé
Tiaraju, o mártir da terra sem males, o santo protetor de todos os povos que lutam pela terra568.

567
Soneto XI, in José Veríssimo (a c.), Obras poéticas de José Basílio da Gama, Livraria Garnier, Rio de Janeiro-
Paris 1920, p. 219. Ho rispettato l'ortografia originale.

196
Inoltre, in questo poema, Basílio da Gama, lancia anche il mito dell'eroina indigena vittima
della violenza colonialista, personaggio che sarà molto presente non solo nella lettaratura, ma
anche nella pittura indianista del romanticismo brasiliano, metafora dell'America indigena,
bellissima nella sua nudità selvaggia e genuina, violentata dal colonialismo europeo569. In
particolare, l'eroina indigena di Basílio da Gama è Lindóia, la giovane e bella moglie del citato
luogotenente di Sepé Tiaraju Cacambo, che invero, a differenza del protagonista, è un
personaggio fittizio introdotto dall'autore570. A morte de Lindóia, nel canto IV de O Uraguay, è la

568
Un destino che lo accomuna al già citato, nel I capitolo, San Ernesto Guevara de La Higuera, di cui anzi è un
precursore. Cfr. Tau Golin, Sepé Tiaraju, Tchê!, Porto Alegre 1985; Antonio Cechin, “Sepé Tiaraju. Mito
Gaúcho?”, in Luiz Fernando Medeiros Rodrigues, Marluza Marques Harres (a c.), Anais do XII Simpósio
Internacional IHU - A Experiência Missioneira: territorio, cultura e identidade, Casa Leiria, São Leopoldo (RS)
2010; Patricia Fachin, “São Sepé Tiaraju: exemplo heróico guarani”, Revista IHU Online 331 (2010;
http://www.ihuonline.unisinos.br/index.php?option=com_content&view=article&id=3250&secao=331). Da
notare come in Brasile, in recenti pubblicazioni e anche in recenti documentari prodotti dalla Globo, Sepé Tiaraju
sia di fatto trattato come un eroe nazionale; in particolare in Brasile amano molto ricordare che Sepé Tiaraju, al
cospetto degli invasori portoghesi e spagnoli, avrebbe pronunciato orgogliosamente la frase “Esta terra tem
dono!” – “co yvy oguereco yara” in lingua guaraní –, vero e proprio slogan anticipatore de “L'America agli
Americani” della Dottrina Monroe, laddove quest'ultima, sino ad oggi, ha conosciuto un'interpretazione e
un'applicazione rispetto all'America Latina sin troppo simile al colonialismo europeo. Cfr. Alcy Cheuiche (a c.),
Esta terra tem dono / esta tierra tiene dueño / co yvy oguereco yara, Editora AGE, Porto Alegre 2012; Gilberto
Ferreira da Silva, Rejane Penna, Luiz Carlos da Cunha Carneiro, RS índio. Cartografia sobre a produção di
conhecimento, Governo do Rio Grande do Sul / PUCRS, Porto Alegre 2009, specie pp. 15-28 e passim; AA.VV.,
Sepé Tiaraju: herói guarani, missioneiro, rio-grandense e, agora, herói brasileiro, Edições Câmara, Brasília
2010. La Câmara dos Deputados ha patrocinato anche un fumetto: Luiz Gatto, Plínio Quartim, Sepé Tiaraju, o
índio, o homem, o herói, Edições Câmara, Brasília 2010.
569
Cfr. Angelo Morino, Le Americane, La Rosa, Torino 1984, pp. 85 segg.; Sandra Regina Goulart Almeida, “Corpo
& Escrita. Imaginários literários”, Revista da UFMG 19, 1-2 (2012), pp. 92-111.
570
Probabilmente questo nome Basílio da Gama lo trasse dal Candide di Voltaire (1759), in cui impersona il tenace
nativo amerindio guida e servo del protagonista Candide. Non fu naturalmente il contrario, come volle
ironicamente quello che è considerato il più importante scrittore brasiliano, Machado de Assis, in un passo del
suo romanzo Esaú e Jacó (1904), per la precisione nel cap. LXXIII intitolato Um Eldorado, allorché scrisse: “Ai,
pobre Cacambo nosso! Sabes que é o nome daquele índio que Basílio da Gama cantou no Uruguai. Voltaire
pegou dele para o meter no seu livro, e a ironia do filósofo venceu a doçura do poeta. Pobre José Basílio! tinhas
contra ti o assunto estreito e a língua escusa. O grande homem não te arrebatou Lindóia, felizmente, mas
Cacambo é dele, mais dele que teu, patrício da minha alma”. Lo straordinario esploratore e scrittore – e tanto
altro – britannico Richard Francis Burton, che, tra le sue numerose opere, tradusse in inglese O Uraguay di

197
parte più toccante e riuscita sul piano poetico del poema, nonché la più famosa in quanto appunto
precorre il lirismo dell'indianismo romantico brasiliano e, come accennato, è stata immortalata in
un celebre quadro, Lindóia (1882), del pittore romantico portoghese naturalizzato brasiliano José
Maria de Medeiros (1849-1925).

Stesso destino, peraltro, che aveva già conosciuto un altro personaggio femminile
significativo dell'indianismo arcadico, nell'ancora più celebre quadro Moema (1866) del pittore

Basílio da Gama, sostenne che non ci fu reciprocità tra il Cacambo di Voltaire e quello di Basílio da Gama,
laddove entrambi avrebbero derivato questo nome da un'informazione condivisa relativa all'esistenza di un
Cacambo indio del Paraguay loro coevo. Ma è certo che Basílio da Gama abbia letto intensamente Voltaire,
anche lui peraltro di formazione gesuitica, sebbene in seguito, coerentemente alla sua ideologia illuminista, sia
diventato un pervicace nemico dell'ordine. Cfr. José Basilio da Gama, The Uruguay (a Historical Romance of
South America): The Sir Richard F. Burton Translation, Huntington Library Manuscript HM 27954 , a c.
Frederick C.H. Garcia, Edward F. Stanton, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1982,
p. 9; Beatriz Helena Domingues, “As missões jesuíticas entre os guaranis no contexto da Ilustração”, História
25/1 (2006), p. 68 e passim; Sergio Paulo Rouanet, “Basílio da Gama e a Ilustração”, Revista USP 50 (2001), p.
114 e passim.

198
brasiliano Victor Meirelles (1832-1903), ispirato alla bella coprotagonista del poema Caramurú
di Santa Rita Durão, morta affogata nel tentativo di raggiungere a nuoto Paraguaçú e Caramurú,
di cui era innamorata, imbarcatisi nella nave francese che li avrebbe condotti in Europa.

È ispirata a fatti reali anche la storia che ha raccontato nel suo poema epico quest'altro
poeta mineiro di quasi vent'anni più anziano di Basílio da Gama, come lui un religioso 571, per la
precisione monaco agostiniano, per quanto la prima formazione l'avesse vissuta anche lui presso
il collegio gesuitico di Rio de Janeiro, come lui emigrato in Portogallo, come lui condizionato
dal suo rapporto con Pombal, che nel suo caso fu sempre negativo, al punto che Santa Rita Durão
visse a Roma, di fatto in esilio, oltre vent'anni, prima di poter tornare in Portogallo in seguito alla
descritta viradeira operata dalla regina Maria I ai danni di Pombal.
Nel 1781, quasi a recuperare il tempo perduto, dopo un intenso lavoro pubblica la sua
opera citata Caramurú. Poema épico do descobrimento da Bahia. Morì appena tre anni dopo.

571
Invero, come detto, Basílio da Gama fu costretto, obtorto collo, a rinunciare alla sua carriera di gesuita, ma sin
troppe circostanze della sua vita fanno pensare che fosse rimasto fedele alla sua vocazione, nonostante gli
apparenti attacchi ai gesuiti nel suo poema.

199
I fatti reali in questione sono quelli relativi alla vicenda di Diogo Álvares Correia 572 (c.
1475-1557?) presunto naufrago e/o forse degredado573 portoghese che nella prima metà del XVI
sec. visse tra i Tupinambá dell'attuale Stato brasiliano di Bahia, gli stessi da cui dovrebbero
discendere i già citati Tupinambá di Olivença, mentra quelli dell'odierna regione di Rio de
Janeiro, con cui ebbero a che fare Hans Staden, André Thévet e Jean de Léry, sono stati portati
alla totale estinzione da parte dei Portoghesi.
Circa le incertezze storiche sulla sua origine, voglio riportare quanto ha messo in rilievo
Janaína Amado574:

Não há qualquer segurança a respeito da data de chegada à Bahia de Diogo Álvares. Os


documentos de época são vagos a respeito, alguns contraditórios, o que leva os historiadores a
adotarem opiniões diferentes, segundo a fonte em que se baseiam. A maioria das fontes conduz
para os anos imediatamente posteriores a 1500; algumas, entretanto, apontam para a década de
1530. Embora não se costume levantar dúvidas a respeito da condição de náufrago de Diogo
Álvares – de tão repetida, parece hoje «incorporada» ao personagem –, o fato é que ela não é
comprovada. Gabriel Soares de Souza575 refere-se a um naufrágio, porém ocorrido nas costas da

572
Invero, non c'è piena condivisione, tra gli studiosi, riguardo al cognome Correia, visto che nella maggior parte
delle fonti è riportato semplicemente come Diogo Álvares. Cfr. Janaína Amado, “Diogo Álvares, o Caramuru, e a
fundação mítica do Brasil”, Estudos Históricos 25 (2000), pp. 3-39, nota 2 (p. 30) e passim. Articolo pubblicato
originalmente in José Tengarrinha, José Jorge Letria, António Carvalho (a c.), Mito e Símbolo na História de
Portugal e do Brasil: Actas dos IV Cursos Internacionais de Verão de Cascais - Museu Condes de Castro
Guimarães, 7 a 12 de julho de 1997, Câmara Municipal de Cascais, Cascais 1998, pp. 175- 209.
573
È noto come i degredados fossero sudditi portoghesi che, per varie ragioni, erano banditi dal Portogallo e molto
spesso erano deportati nelle colonie, sia in Africa, sia in India, sia in America. Cfr. infra.
574
Amado, op. cit., nota 1.
575
Riporto fedelmente di seguito la nota 10 del testo citato (p. 31): “Gabriel Soares de Sousa nasceu em Portugal,
provavelmente em 1545. Aportou por volta de 1569 à Bahia, onde permaneceu durante quase duas décadas, como
senhor de engenho e ocupante de cargos públicos. Aí constituiu família. Durante a União Ibérica, esteve em
Lisboa e Madrid tentando obter licença e apoio para, junto com o irmão, explorar riquezas minerais de que tivera
notícias, nas cabeceiras do rio S.Francisco. Nessa época levou consigo para Portugal o manuscrito de Notícia do
Brasil, oferecendo-o a Cristóvão de Moura. Em 1591, com mais de 360 colonos, retornou à Bahia, mas perdeu
grande parte dos passageiros em um naufrágio. Chefiou uma bandeira em direção ao S.Francisco, morrendo no
caminho. Notícia do Brasil (nomeado em algumas edições Tratado Descritivo do Brasil), por haver circulado em
cópias manuscritas e anônimas a partir de 1587, durante muito tempo teve sua autoria atribuída a diversas
pessoas; contudo, uma carta de Gabriel Soares a Cristóvão de Moura, encontrada mais tarde, esclareceu

200
Bahia, durante uma viagem entre Ilhéus e Vila Velha, em companhia do donatário Francisco
Coutinho. A narrativa do Pe. Simão de Vasconcellos, que dá Diogo como náufrago numa
viagem desde Portugal, omite suas fontes, mas documentos posteriores repetiram a informação,
também sem indicarem a origem. No século XVII, o poema épico de Santa Rita Durão, ao
dedicar ao episódio do naufrágio um movimentado, heróico e trágico canto, ligou
definitivamente Caramuru à condição de náufrago; isto foi reforçado pela iconografia, que
reproduziu fartamente o episódio. Permanecem, contudo, outras possibilidades, também sem
confirmação documental: a de Diogo Álvares ter sido um entre vários degredados então
abandonados no litoral brasileiro, com o objetivo de aí aprenderem língua e costumes locais,
para depois os transmitirem aos portugueses; a de ter sido tripulante de uma das primeiras
expedições enviadas ao Brasil, decidindo, por vontade própria, permanecer em terra, como o
fizeram outros portugueses; e a de ter sido um dos diversos judeus que, expulsos do Reino em
1496, buscaram a América.

In ogni caso, Diogo Álvares, “talvez um minhoto de Viana do Castelo”576, è ampiamente


attestato che abbia vissuto buona parte della sua vita, nella prima metà del XVI sec., tra i
Tupinambá di Bahia, che nella loro lingua lo avevano “ribattezzato” Caramuru, cioè “lampreda”
e/o “murena”, secondo recenti studi di specialisti della lingua tupí 577, a confermare
evidentemente il fatto che fosse arrivato sulla costa baiana come un naufrago e sia stato raccolto
dai Tupinambá sulla spiaggia o sugli scogli come un pesce di quelle specie, a smentire invece la
traduzione tradizionale di “Figlio del Tuono”. Cito di nuovo la Amado578:

Segundo a tradição, conseguiu impor-se definitivamente perante os indígenas desde que


disparou para o ar uma arma de fogo, desconhecida dos índios, os quais, muito assustados, se
definitivamente a questão da autoria. Citarei aqui a edição de 1989”. L'edizione di riferimento dell'autrice è la
seguente: Gabriel Soares de Souza, Notícia do Brasil - Descrição Verdadeira da costa daquele Estado que
pertence à Coroa do Reino de Portugal, sítio da Baía de Todos-os-Santos, Publicações Alpha, Lisboa 1989. Da
notare che il citato Cristóvão de Moura e Távora (1538-1613) fu il fidalgo portoghese capo del partito
filospagnolo che sostenne la cd. União Ibérica in seguito alla crisi del 1580, provocata dalla morte senza eredi
diretti de El-Rei D. Sebastião I, ultimo rappresentante della dinastia Avis, durante la battaglia di Ksar El Kebir
(Alcácer-Quibir, in portoghese), nell'attuale Marocco, il 4 agosto del 1578. Sotto Felipe III fu nominato anche
Vicerè di Portogallo.
576
Amado, op. cit., p. 3.
577
Eduardo de Almeida Navarro, Método moderno de tupi antigo, Global, São Paulo 2005, p. 213.
578
Amado, op. cit., p. 4.

201
prostraram a seus pés, chamando-o desde então, ou pouco mais tarde, "Caramuru", nome para o
qual foram atribuídos muitos significados segundo a narrativa que se consulta: filho do fogo,
filho do trovão, homem do fogo, dragão do mar, dragão que o mar vomita, peixe dos rios
brasileiros semelhante à moréia, grande moréia, rio grande, europeu residente no Brasil, aquele
que sabe falar a língua dos índios.

E la Amado in nota precisa579:

O episódio da arma de fogo – que, até onde sabemos, foi referido por escrito, pela primeira vez,
pelo Padre Simão de Vasconcellos580 –, aparece em quase todas as narrativas sobre o Caramuru

579
Amado, op. cit., nota 3, p. 30.
580
Padre Simão de Vasconcellos (o Vasconcelos, come si preferisce odiernamente, 1596-1671) è stato un importante
autore e missionario gesuita portoghese attivo in Brasile che ha lasciato varie opere tra cui le più significative
sono la Vida do P. Joam d'Almeida da Companhia de Iesu, na provincia do Brazil (1658), la Crônica da
Companhia de Jesus do Estado do Brasil e do que obraram seus filhos nesta parte do novo mundo (1663)
dedicata in gran parte alla vita di padre Manuel da Nóbrega, e la Vida do Venerável Padre José de Anchieta
(1672, postuma). Importanti soprattutto per le descrizioni dei paesaggi e delle relazioni tra coloni, índios e
missionari. Cfr. Luís A. de Oliveira Ramos, “Um Jesuíta do Barroco (1596-1671)”, in Fausto Sanches Martins (a
c.), Barroco: Actas do II Congresso Internacional, Faculdade De Letras Da U. Porto (FLUP), Sersilito, Porto
2003, pp. 423-437; José Antonio Andrade de Araujo, A construção do Paraíso: o discurso milenarista de Simão
de Vasconcellos, Universidade Federal Fluminense, Niterói 2004; Lenin Campos Soares, O padre, o filósofo e o
profeta: A América de Simão de Vasconcelos, Universidade Federal do Rio Grande do Norte, Natal 2007; Pablo
Antonio Iglesias Magalhães, “O paraíso brasílico: As visões edênicas da América portuguesa nos XVII e XVIII”,
Praxis. Revista Eletrônica de Histórie e Cultura 5 (2011), pp. 80-94. Da notare cone la sua opera più corposa, la
Crônica da Companhia de Jesus do Estado do Brasil, fu catalogata a Roma da tale Padre Luís Nogueira con il
titolo “Paraíso na América”, inoltre, a pubblicazione appena avvenuta, fu censurata, tagliata di quattro fogli,
quindi ripubblicata. Cinque anni dopo, padre Simão de Vasconcellos pubblicò comunque la parte censurata con il
titolo Notícias curiosas e necessárias das cousas do Brasil (1668). Si tratta appunto della parte dove sviluppò la
tesi secondo cui il paradiso terrestre si trovava in America, precisamente in Brasile, una tesi ovviamente in
sintonia con i progetti dei gesuiti nel Nuovo Mondo, e per questo era stata censurata.

202
até meados do século XIX; Varnhagen581 foi o primeiro a duvidar do episódio e a ironizá-lo.
Vários historiadores posteriores, porém, continuaram a referir-se ao fato.

Aggiungo che la traduzione tradizionale, benché dimostrata come falsa, si è però affermata
nella letteratura e nell'immaginario collettivo, non solo brasiliani, visto che è stata sposata da
Emilio Salgari, nel suo romanzo L'Uomo di fuoco582, ispirato proprio al poema di Santa Rita
Durão, ma sicuramente anche ad altre fonti – Diogo Álvares vi diventa Alvaro de Correa e il suo

581
Francisco Adolfo de Varnhagen (1816-1878) è stato un prestigioso storico brasiliano, il cui padre era stato un
ingegnere militare tedesco al servizio del Reino e poi dell'impero del Brasile. Anche lui, come Alencar, membro
dell'Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro, sulla cui azione finalizzata alla costruzione di una cultura
identitaria brasiliana cfr. supra, è stato anche un diplomatico, che ha operato perlopiù in altri paesi dell'America
Latina, nonché in Olanda. La sua opera più importante è stata la História geral do Brasil (1854-1857), per cui è
stato definito l'Erodoto brasiliano. Cfr. Manuel Alves Filho, “O Brasil ‘inventado’ por Varnhagen”, Jornal da
Unicamp 443 (2009), p. 4; J .A. Ramos, “Francisco Adolfo de Varnhagen: O Heródoto Brasileiro. Os
antagonismos do intelectual que inaugurou a ciência da História do Brasil”, Revista Língua Portuguesa 24 (2010;
http://conhecimentopratico.uol.com.br/linguaportuguesa/gramatica-ortografia/24/artigo178156-4.asp). Cfr. anche
la sezione a lui dedicata sul sito dell'Academia Brasileira de Letras
(http://www.academia.org.br/abl/cgi/cgilua.exe/sys/start.htm?sid=346), dove, tra i Textos Escolhidos, ce n'è uno
che riguarda l'Influência da cultura aborígene sobre os colonos, tratto proprio dalla História geral do Brasil. Ho
trovato personalmente intrigante un altro suo titolo, pubblicato a Vienna in francese: L'origine touranienne des
Américains Tupis-Caribes et des anciens Egyptiens montrée principalement par la philologie comparée. Et
notice d'une émigration en Amérique effectuée a travers l'Atlantique plusieurs siècles avant notre ère, Librairie I.
et R. De Faesy & Frick, Vienne d'Autriche 1876, nella cui prefazione si legge: “En étudiant, depuis maintes
années, l'ethnographie des Tupis, envahisseurs de presque toute l'Amérique orientale, et en observant surtout
leurs armes et canots de guerre, leur industrie agricole et céramique, et plus encore le mécanisme de leur
langue, quoique apauvrie dans la bouche de gens retombés dans la barbarie et le sauvagisme, ils se présentaient
continuellement à mon esprit comme un peuple provenant de l'ancien continent” (il sottolineato è mia iniziativa).
I movimenti indigeni, oggi, legittimamente rigettano queste tesi circa l'origine europea di alcune nazioni indigene
d'America, tesi care anche a Blas Valera, in certo modo, visto che voleva che il culto del sole inca derivasse dal
cristianesimo, e finalizzate, da parte dei più, a esaltare la civiltà occidentale anche negli aspetti delle civiltà
indigene del Nuovo Mondo più degni dell'ammirazione dei conquistadores. D'altronde, studi recenti, basati
soprattutto sulle comparazioni genetiche oltre che su reperti fossili e altre evidenze paleoantropologiche,
dimostrano che un briciolo di verità in queste tesi ci sarebbe, visto che alcune nazioni indigene, in particolare
nordamericane, pare possano essere in parte discendenti dei Cro-Magnon. Cfr. Steve Conner, “Does skull prove
that the first Americans came from Europe?”, New England Antiquities Research Association (2002;
http://www.utexas.edu/courses/stross/ant322m_files/1stpersons.htm). Inoltre nazioni come i Maya avrebbero un

203
nome tupí Caramurà, mentre quello dei Tupinambá diventa Tupinambi –, nonché dal film
comico-satirico brasiliano Caramuru. A Invenção do Brasil (2001)583.
L'idea che il portoghese “civilizzato” abbia impressionato i “selvaggi” brasiliani con la sua
arma da fuoco evidentemente è stata più suggestiva della realtà e soprattutto più funzionale
all'affermazione dell'idea della superiorità della civiltà europea su quella degli indigeni del
Nuovo Mondo.
Comunque Diogo Álvares alias Caramuru riuscì a farsi accogliere benevolmente dai
Tupinambá, che non lo divorarono come più tardi successe al celebre Bispo Sardinha e al suo
seguito584, anzi il capo Taparica gli avrebbe concesso in sposa una delle figlie, Paraguaçu,
appunto, con la quale in seguito si sarebbe anche recato in Europa, per la precisione in Francia,
per quanto ci siano vari legittimi dubbi su questo viaggio.
Diogo Álvares-Caramuru, nella regione di pertinenza, sarebbe infatti diventato una sorta di
mediatore preferenziale, se non esclusivo, tra i nativi e i colonizzatori europei, sia Portoghesi sia
Francesi, che, come visto, all'epoca si disputavano la colonizzazione della costa brasiliana, e tra
il 1526 e il 1528 sarebbe stato invitato dai Francesi a visitare il loro Paese con la sua sposa
indigena – probabilmente, anzi, l'ospite più gradita, in quanto principessa indigena –, ma non
certo a incontrare re Henri II e sua moglie, la regina di Francia, la già citata fiorentina Caterina

retaggio genetico che rimanda a ascendenze in parte mediterranee. Cfr. Lucio Russo, L'America dimenticata,
Mondadori Università, Milano 2013, specie pp. 60-61 e passim.
582
Prima edizione Donath, Genova 1904. Cfr. Isabella Casartelli Tettamanti, “Un personaggio salgariano tra storia,
mito e finzione: Caramuru, «l’uomo di fuoco»”, Quaderni di Palazzo Serra 23 (2013), pp. 123-131.
583
Diretto da Guel Arraes, con Selton Mello nella parte di Diogo Álvares, Camila Pitanga nella parte di Paraguaçu,
Deborah Secco in quella di Moema. Selton Mello e Camila Pitanga hanno dato la voce anche ai protagonisti del
filme de animação brasiliano Uma História de Amor e Fúria, citato nel I capitolo del presente studio.
584
D. Pero Fernandes Sardinha (1496-1556) fu il primo vescovo del Brasile. Naufragato sulla costa brasiliana con la
nave che lo stava riportando in Portogallo, una volta rinunciato al suo incarico, finì prigioniero con il suo seguito,
91 persone in tutto, di un'etnia indigena identificata, senza piena certezza, con i Caeté, da tempo portati
all'estinzione dal colonialismo portoghese. E furono tutti divorati dagli indigeni, episodio che è stato ricordato
ironicamente, ma anche emblematicamente, dal citato Oswald de Andrade nel suo Manifesto Antropofágico del
1928. Un articolo del 26/3/2000 apparso sulla prestigiosa testata brasiliana Folha de São Paulo ha messo in
evidenza come ancora oggi il piccolo municipio di Coruripe, nello stato di Alagoas, starebbe soffrendo
l'imposizione di una tassa da parte della Chiesa cattolica per ripagare il “misfatto”. Cfr. Ari Cipola, “Igreja cobra
taxa na região onde bispo Sardinha foi devorado”, Folha de São Paulo, 26/3/2000
(http://www1.folha.uol.com.br/fol/brasil500/report_1.htm).

204
De' Medici, come vorrebbe Santa Rita Durão, per la semplice ragione che all'epoca era ancora re
di Francia François I, mentre Henri II era ancora un bambino e si sarebbe sposato,
quattordicenne, solo nel 1533 con la coetanea Caterina De' Medici. La quale, pertanto, non
avrebbe potuto essere la madrina di Paraguaçu, che, battezzata in Francia e ivi sposatasi anche
con rito cattolico con Diogo Álvares, avrebbe assunto il nome cristiano di Catarina Álvares
Paraguaçu, come ancora oggi è ricordata585.
Non è accreditata l'ipotesi, che avallerebbe la versione di Santa Rita Durão 586, secondo cui
tale viaggio sarebbe avvenuto molto più tardi, dopo il 1547, quando Henri II è effettivamente
salito al trono, dal momento che in tal caso i due protagonisti sarebbero stati troppo anziani,
invece si è ipotizzato che la madrina di Paraguaçu potrebbe essere stata, a Saint-Malo, Catherine
des Granches, moglie di Jacques Cartier. Ma anche questa ipotesi mi pare fiacca, visto che
all'epoca il celebre esploratore francese del Canada non era ancora celebre, dal momento che i
suoi viaggi alla ricerca di un passaggio occidentale verso l'Asia, su commissione di re François I,
sarebbero iniziati solo nel 1534, anche se è vero comunque che all'epoca Jacques Cartier fosse
già un navigatore affermato, tra l'altro buon conoscitore della lingua portoghese, di cui era
interprete.
In ogni caso, pare un particolare su cui sorvolare anche alla Amado che vi dedica poche
righe587:

Sem concordar quanto à data, algumas fontes relatam uma viagem de Caramuru e Paraguaçu à
França, em navio francês que aportara às costas brasileiras, durante o reinado de Henrique II e
Catarina de Médicis: ali Paraguaçu teria sido batizada como "Catarina", em homenagem,
segundo alguns, à rainha dos franceses, segundo outros, a Catarina de Portuga1 588.
585
Per esempio nel monumento al Dois de Julho, in praça do Campo Grande, a Salvador, monumento dedicato alla
data in cui l'esercito brasiliano entrò vittorioso nella città in seguito alla guerra d'indipendenza (cfr. supra) e
fabbricato interamente in Italia da parte di artisti italiani.
586
Il quale a sua volta la deve al citato Padre Simão de Vasconcellos, sua principale fonte. Cfr. infra.
587
Amado, op. cit., p. 4.
588
Non ci fu alcuna Catarina de Portugal rilevante coeva, se il viaggio fosse avvenuto tra il 1526 e il 1528, se
invece fosse avvenuto 20 anni dopo, quando Caramuru avrebbe però dovuto avere oltre 70 anni, allora era già
nata D. Catarina duchessa di Bragança, la principessa che nel 1578, dopo la citata morte nella battaglia di
Alcácer-Quibir di D. Sebastião, era stata scelta dai Portoghesi come Infanta de Portugal, cioè erede al trono,
aspirazione che le fu interdetta dalle truppe spagnole di Felipe II che invasero il Portogallo e imposero la citata
União Ibérica. Suo nipote D. João duca di Bragança riuscì a diventare Rei de Portugal nel 1640 con il nome

205
E la Amado si limita poi a precisare in nota589:

Algumas fontes (p. ex., Gabriel Soares de Souza) omitem tal viagem; Varnhagen, escrevendo
em meados do século XIX, nega sua existência. Desde a obra de Simão de Vasconcellos,
porém, a referência à viagem é uma constante dos textos.

E questo è appunto da rilevare piuttosto: Santa Rita Durão, religioso di formazione


gesuitica, ha voluto costruire il suo poema epico dedicato a Caramuru e Paraguaçu sulla base
delle informazioni del gesuita Simão de Vasconcellos, informazioni molto opinabili, di tipo più
agiografico che storico, finalizzate soprattutto a esaltare l'affermazione del cristianesimo in
Brasile, quindi l'opera missionaria dei gesuiti590, che Diogo Álvares-Caramuru e Catarina
Paraguaçu avrebbero favorito, appena i missionari arrivarono in Brasile nel 1549591, tant'è vero
che il poema, nell'ultimo canto, il X, si chiude fondamentalmente con l'episodio significativo, in
tal senso, del sogno profetico di Catarina Paraguaçu, che già nel canto VIII aveva esercitato le
sue doti divnatorie profetizzando il futuro del Brasile, laddove nel finale le appare proprio la
Vergine Maria, a ispirarle la fondazione della tuttora esistente, a Salvador, Igreja e Abadia de
Nossa Senhora da Graça. Un ruolo, insomma, analogo a quello attribuito in Messico all'indio
locale citato592 Juan Diego Cuauhtlatoatzin a proposito delle apparizioni della più celebre Virgen
de Guadalupe.
dinastico di D. João IV. Ma nel 1547 questa Catarina de Portugal aveva appena 7 anni e ancora non era certo una
figura importante.
589
Amado, op. cit., nota 4, p. 30.
590
In fondo, Simão de Vasconcellos ha conseguito il suo scopo, visto che, come già rilevato nel cap. I, il padre
gesuita José de Anchieta è stato canonizzato dal papa gesuita Francisco I. Cfr. Eliane Cristina Deckmann Fleck,
“José de Anchieta. Um missionário entre a história e a glória dos altares”, Projeto História 41 (2010), specie pp.
158-9; Camila Corrêa e Silva de Freitas, “Santos Varões da Companhia de Jesus no Brasil: notas de pesquisa.
«São» João de Almeida: o discurso pró-canonização de jesuítas na obra de Simão de Vasconcelos, S.J. (1597-
1671)”, Anais da IV Jornada de Estudos Históricos do PPGHIS, 05 e 09 de outubro de 2009, Ars Historica
(http://www.ifcs.ufrj.br/~arshistorica/jornadas/IV_jornada/IV_13.pdf); Id., “Um santo jesuíta no Brasil: uma
análise política do processo de beatificação de José de Anchieta (século XVII)”, Anais do XXVI Simpósio
Nacional de História – ANPUH (2011;
http://www.snh2011.anpuh.org/resources/anais/14/1300880887_ARQUIVO_textoanpuh2011.pdf), pp. 1-12.
591
Cfr. supra.
592
Cfr. cap. I.

206
In conclusione, se Basílio da Gama nel 1769 non aveva potuto esaltare direttamente nel
suo poema il ruolo e i progetti utopici dei gesuiti, anzi ufficialmente e apparentemente criticati,
ma lo fece indirettamente attraverso l'esaltazione, comunque ideologicamente sincera, di Sepé
Tiaraju, nel 1781 Santa Rita Durão, ormai fuori gioco Pombal e lui stesso negli ultimi anni di
vita, nel suo poema opera un'esaltazione dei gesuiti decisamente più evidente, sia pure anche in
tal caso attraverso le figure di Diogo Álvares-Caramuru e Catarina Paraguaçu, in un'epoca in
cui, comunque, i gesuiti rimanevano interdetti e il loro ordine abrogato593.
In ogni caso, i due poeti filogesuiti trasmisero ai posteri, in particolare al romanticismo
nazionalista brasiliano, importanti miti fondatori, che, per ovvie ragioni, non potevano essere
certo rappresentati dai Portoghesi, dal cui dominio coloniale il Brasile s'era appena liberato, né
dagli afrobrasiliani, che nell'Ottocento rimasero popolazione servile fino al 1888594, potevano
essere solo gli índios, possibilmente morenti in quanto martiri della fine della loro era e l'inizio
della nuova era postcoloniale, come appunto i personaggi di Lindóia, Moema e Sepé Tiaraju.
I modelli di quest'ultimi si rifletterono quindi nel secolo successivo in altri analoghi
personaggi indigeni immortalati dalla letteratura e dalla pittura indianiste, da autori conosciuti
anche e non a caso come nativistas, per esempio in Marabá, poesia di Antônio Gonçalves Dias
(1823-1864) – da cui prende nome il cosiddetto indianismo gonçalvino595 –, che fa parte della
raccolta Últimos Cantos (1851) e che invero è dedicata alla figura drammatica di una mestiça596,
emarginata nella tribù e rifiutata dai guerrieri nonostante fosse molto bella e con gli occhi cor

593
Fu restaurato solo nel 1814 da parte di papa Pio VII.
594
Quando la schiavitù fu abolita dalla Lei Áurea di princesa Isabel. L'anno dopo i fazendeiros imposero la caduta
dell'impero e l'inizio dell'era repubblicana. Da notare che eroi negros, come il citato Zumbi di Palmares, nella
storia coloniale brasiliana non ne sono certo mancati, ma sono stati valorizzati solo in tempi recentissimi, se si
esclude l'importante e straordinaria eccezione di Antônio Frederico de Castro Alves (1847-1871). Cfr. infra.
595
Cfr. Weberson Fernandes Grizoste, A dimensão anti-épica de Virgílio e o indianismo de Gonçalves Dias, Centro
de Estudos Clássicos e Humanísticos da Universidade de Coimbra, 2011, nella cui introduzione si legge: “O
poema épico gonçalvino acompanha o retrato da sua vida. Recair a escolha no seu indianismo reflecte aquilo
que lhe trouxe o sofrimento: a mestiçagem, a impureza racial. Daí o refúgio na raça banalizada pelos interesses
da burguesia comercial dos três primeiros séculos da história brasileira, a indígena ”. Un altro poema celebre e
significativo di quest'autore, anch'esso pubblicato nella raccolta Últimos Cantos, è I-Juca-Pirama, titolo che in
lingua tupí-guarani vuol dire “colui che deve morire”, interessante anche in quanto conferma come nei loro rituali
antropofagici gli indigeni brasiliani prediligessero le carni dei guerrieri valenti, come già visto. Inoltre ha lasciato
anche l'importante poema epico incompiuto Os Timbiras (1857), pubblicato in risposta a quello di Gonçalves de
Magalhães. Cfr. infra.

207
das safiras, in quanto non era índia pura, metafora dell'emarginazione che ebbe a soffrire il poeta
stesso, che era figlio proprio di una mestiça, per cui i genitori della sua amata Ana Amélia ne
respinsero la richiesta di matrimonio.
Il celebre pittore romantico carioca Rodolfo Amoêdo (1857-1941), nel 1882, ne ricavò un
quadro straordinario, dove la nudità e la malinconia della protagonista perpetua il messaggio
dell'America violata, presente anche nei quadri già visti di Meirelles e Medeiros597:

596
Marabá in lingua tupí-guarani significa proprio mestiça e pare fosse il nome che i Tupinambá davano ai bambini
nati da madre índia e padre francese, nella France Antarctique.
597
Da ricordare però anche il modello francese di François-René de Chateaubriand, tra i promotori del romanticismo
non solo in Francia, ma in tutta Europa, modello in particolare rappresentato da Atala, ou les Amours de deux
sauvages dans le désert (1801), che pure ispirò varie realizzazioni pittoriche. Se quest'opera del resto è
caratterizzata dal cosiddetto esotismo romantico, di cui anzi costituisce un punto d'inizio, l'indianismo brasiliano
non ha nulla di esotico, ovviamente, visto che l'índio è un elemento decisamente autoctono e come tale lo si
rivendica. In comune c'è comunque l'assenza di un vero punto di vista indigeno.

208
L'anno successivo, nel 1883, Amoêdo realizzò O último tamoio, ispirato al poema epico A
Confederação dos Tamoios598, de Domingos José Gonçalves de Magalhães (1811-1882), che,
“publicado em 1856, é considerado como a grande epopeia nacional daquele período. A obra
foi financiada pelo imperador para divulgar o começo heroico e mitológico do Brasil, tendo o
índio como referência. O objetivo era simbolizar a autonomia política e cultural do país em
relação a Portugal”599.
L'opera di Amoêdo “foi exibida pela primeira vez ao público brasileiro em 1884, na
Exposição Geral de Belas Artes no Rio de Janeiro, e teria sido uma das obras mais comentadas
pela crítica do período”600.

598
Tale titolo rimanda a un evento storico preciso, cioè alla guerra già citata tra i Tupinambá di Rio de Janeiro, detti
anche Tamoios, assieme ai loro alleati francesi contro i Portoghesi coadiuvati dai Tupiniquim, conclusasi, come
visto, nel 1567 a favore di quest'ultimi.
599
Silvio Anunciação, “Outros Índios”, Jornal da Unicamp (571) 2013, p. 12.
600
Eduardo Scrich, "O último tamoio, de Rodolfo Amoêdo", Atas do V Encontro de História da Arte - 20 anos de
História da Arte na UNICAMP – 2009 (http://www.unicamp.br/chaa/eha/atas/2009/SCRICH,%20Eduardo%20-
%20VEHA.pdf), p. 385. Di seguito Scrich mette in rilievo: “No catálogo distribuído pela Academia Imperial de
Belas Artes havia a seguinte descrição da obra: «O padre Anchieta encontra em deserta praia o cadáver de
Aimberê, o chefe dos Tamoios, e o contempla comovido antes de prestar-lhe os últimos deveres de sacerdote
cristão». O jesuíta e o chefe indígena são duas das personagens do livro A Confederação dos Tamoyos (1857),
de Gonçalves de Magalhães, uma epopéia que toma o sacrifício indígena como marco fundador da nação
brasileira”. Il sottolineato è mia iniziativa.

209
210
Il dibattito, invero, più che il quadro di Amoêdo, interessò proprio il poema di Gonçalves
de Magalhães che lo aveva ispirato, a coinvolgere anche José de Alencar, oltre che Gonçalves
Dias.
Se infatti Alencar stimava quest'ultimo, per cui scrisse anche una sorta di epitaffio in seguito alla
sua precoce morte a causa di un naufragio, laddove la sua salute era comunque precaria 601, non si
può dire lo stesso per Gonçalves de Magalhães.
Alla pubblicazione de A Confederação dos Tamoios da parte del prestigioso autore
considerato l'iniziatore del romanticismo brasiliano602, furono pubblicate in risposta otto lettere

601
“Gonçalves Dias é o poeta nacional por excelência: ninguém lhe disputa na opulência da imaginação, no fino
lavor do verso, no conhecimento da natureza brasileira e dos costumes selvagens. Em suas poesias americanas
aproveitou muitas das mais lindas tradições dos indígenas; e em seu poema não concluído dos Timbiras, propôs-
se a descrever a epopéia brasileira”. Carta ao Dr. Jaguaribe...cit.
602
Cito la biografia di Gonçalves de Magalhães sul sito dell'Academia Brasileira de Letras: “Em 1836, lançou em
Paris um manifesto do Romantismo, Discurso sobre a literatura no Brasil. De parceria com Araújo Porto-Alegre
e Torres Homem, lançou a revista Niterói e editou, em Paris, o seu livro Suspiros poéticos e saudades,
considerado o iniciador do Romantismo no Brasil” (http://www.academia.org.br/abl/cgi/cgilua.exe/sys/start.htm?
infoid=848&sid=140). La sua tragedia António José, ou O Poeta e a Inquisição, pubblicata nel 1838, è

211
firmate IG. sul Diário do Rio de Janeiro, nelle quali si criticò apertamente la qualità letteraria
dell'opera patrocinata direttamente dall'imperatore Dom Pedro II. Quest'ultimo, coadiuvato dal
prestigioso intellettuale e pittore Manuel de Araújo Porto-Alegre, sentì persino l'esigenza di
intervenire a difesa di Gonçalves de Magalhães, con altre lettere pubblicate dietro lo pseudonimo
di O amigo do poeta.
IG. altri non era che il giovane José de Alencar, allora capo redattore della testata carioca
dove erano state pubblicate le sue lettere critiche, che “em geral referiã-se à grammatica, ao
estylo e à metrificação; na minha opinião o autor da Confederação dos Tamoyos peca
frequentemente por este lado”, come dichiara nella nota introduttiva del libro dove le raccoglie e
le ripubblica stavolta firmate con il suo nome vero, nello stesso anno603.
Ma è chiaro che a questa polemica sottendevano questioni di rivalità ideologiche e anche
generazionale: con la ripubblicazione stessa delle lettere, Alencar volle preparare il lancio del
suo romanzo indianista fondamentale, pubblicato l'anno successivo, O Guarani, a cui si
accompagnò la pubblicazione già citata del poema epico Os Timbiras di Gonçalves Dias,
assieme al quale Alencar intendeva dare al suo Paese una letteratura veramente romantica, in
contrasto al classicismo a cui, secondo lui, sarebbe ancora rimasto vincolato Gonçalves de
Magalhães, e finalizzata alla costruzione dell'identità nazionale brasiliana, obiettivo secondo lui
non raggiunto dai suoi predecessori604.

considerata la prima pièce teatrale brasiliana, rappresentata nello stesso anno a Rio de Janeiro e molto apprezzata
dal pubblico e dalla critica, che in particolare riconobbe al poeta il coraggio di affrontare un tema spinoso: l'opera
infatti è dedicata al drammaturgo lusobrasiliano António José da Silva “o Judeu” (1705-1739), vittima
dell'Inquisizione portoghese con tutta la sua famiglia. A questo personaggio, in seguito altri autori hanno dedicato
loro opere, tra cui il film o Judeu (1995), diretto da Jom Tob Azulay.
603
José de Alencar, Cartas sobre a Confederação dos Tamoyos por IG. (Publicadas no Diario), Empreza
typographica nacional do Diario, Rio de Janeiro 1856, p. 3.
604
Cfr. José Aderaldo Castello (a c.), A polêmica sobre a Confederação dos Tamoios, Faculdade de Filosofia,
Ciências e Letras da Universidade de São Paulo, 1953, passim; Id., A literatura brasileira: origens e unidade
(1500-1960), EdUSP, São Paulo 1999, specie pp. 197-199; Eduardo Vieira Martins, presentazione a José de
Alencar, O Guarani, a c. José Martiniano de Alencar, Eduardo Vieira Martins, Atelie Editorial, São Paulo 1994,
pp. 11-16; Alfredo Bosi, História concisa da literatura brasileira, Cultrix, São Paulo 1997, pp. 97-152; Antônio
Cândido, Formação da literatura brasileira: momentos decisivos, Ouro sobre Azul, Rio de Janeiro 2006, pp.
360-368; Daniel Pinha Silva, Como e porque sou moderno: O lugar do passado no pensamento crítico de José de
Alencar, PUC-Rio, Rio de Janeiro 2007, specie pp. 51-90. Da notare come l'autore di quest'ultimo saggio rilevi
anche come lo stesso Alencar sia stato fatto oggetto di critiche “generazionali” a partire dal 1871, in seguito alle

212
In seguito José de Alencar consoliderà il ruolo che si era ed aveva imposto con vari altri
romanzi tra cui spiccano Iracema (1865) e Ubirajara (1874) tra i tanti altri.
E Iracema605 fece da ispirazione al già citato José Maria de Medeiros, il quale, anzi, l'anno
precedente, 1881, rispetto al quadro già mostrato dedicato a Lindóia, dipinse e presentò al
pubblico il seguente celebre quadro:

Nella Benção paterna, la prefazione che Alencar scrisse per il suo romanzo Sonhos d’ouro
(1872)606, quando già aveva ricevuto le prime critiche – a cui lo scrittore cearense infatti allude –
insiste sull'aspetto rivoluzionario dell'elemento indigeno nella letteratura brasiliana:

quali emerse preponderante la figura di Machado de Assis. Ibid., pp. 91-116.


605
Dalle trame della trilogia indianista di Alencar sono state tratte versioni cinematografiche e miniserie televisive,
inoltre si tratta di opere intensamente lette e studiate nei vari ordini della Scuola brasiliana e hanno condizionato
notevolmente la cultura del Paese, dove, per esempio, il nome Iracema è molto diffuso tra la popolazione
femminile. E non è casuale come tale nome derivi, sì, dalla lingua tupi e significhi “sciame di api”, laddove è
anche un'anagramma del nome America. La protagonista del romanzo omonimo, non casualmente anche in tal
caso, anzi a conferma delle osservazioni già fatte, conosce una fine tragica.
606
Garnier, Rio de Janeiro, pp. XII-XV.

213
A grande intelligencia de Alexandre Herculano 607 nos prophetisára uma nacionalidade original,
transfusão de duas naturezas, a luza e a americana, o sangue e a luz. Mas os dictadores não o
consentem; que se ha de fazer. Resignemo-nos. Este grande império, á quem a Providencia
rasga infindos horizontes; é uma nação ouça; não tem poesia nativa, nem perfume seu; ha de
contentar-se com a mangerona, apezar de ali estarem rescendendo na balsa a baunilha, o cacto,
e o sassafraz.
Os oráculos de cá, esses querem que tenhamos uma litteratura nossa; mas é aquella que existia
em Portugal antes da descoberta do Brazil. Nosso portuguez deve ser ainda mais cerrado, do
que usam actualmente nossos irmãos de além-mar; e sobretudo cumpre erriçal-o de hh, e çç,
para dar-lhe o aspecto de uma mata virgem.
Bem vês, livrinho, que uma questão desta monta não é para o teu modesto topete, e sim para
algum prólogo campanudo, obra de bom punho. Muito farás si te defenderes dos críticos; e é só
no que penso agora.
Aos que tomam ao serio estas futilidades do patriotismo, e professam a nacionalidade como
uma religião; á esses has de murmurar baixinho ao ouvido, que te não escutem praguentos estas
reflexões:
«A litteratura nacional que outra cousa é sinão a alma da pátria, que transmigrou para este solo
virgem com uma raça illustre, aqui impregnou-se da seiva americana desta terra que lhe serviu
de regaço; e cada dia se enriquece ao contacto de outros povos e ao influxo da civilísação?»
O período orgânico desta litteratura conta já três phases.
A primitiva, que se pôde chamar aborígene, são as lendas e mithos da terra selvagem e
conquistada; são as tradições que embalaram a infância do povo, e elle escutava, como o filho á
quem a mãi acalenta no berço com as canções da pátria, que abandonou.
Iracema pertence á essa litteratura primitiva, cheia de santidade e enlevo, para aquelles que
veneram na terra da pátria a mãi fecunda – alma mater, e não enxergam nella apenas o chão
onde pisam.
O segundo período é histórico; representa o consórcio do povo invasor com a terra americana,
que delle recebia a cultura, e lhe retribuía nos effluvios de sua natureza virgem e nas
reverberações de uma natureza esplendida.
Ao conchego desta pujante creação, a tempera se apura, toma alas a fantasia, a linguagem se
impregna de módulos mais suaves; ormam-se outros costumes, e uma existência nova, pautada
por diverso clima, vae surgindo.
607
Il portoghese Alexandre Herculano de Carvalho e Araújo (1810 -1877) fu scrittore, storico, giornalista e poeta
romantico.

214
É a gestação lenta do povo americano, que devia sahir da stirpe lusa, para continuar no novo
mundo as gloriosas tradições de seu progenitor. Esse período colonial terminou com a
independência.
A elle pertencem o Guarany e as Minas de Prata608. Ha ahi muita e boa messe á colher para o
nosso romance histórico; mas não exótico e rachitico como se propoz á ensina-lo á nos beocios,
um cscriptor portuguez.
A terceira phase, a infância de nossa litteratura, começada com a independência política, ainda
não terminou; espera escnptores que lhe dêm os últimos traços, e formem o verdadeiro gosto
nacional, fazendo calar as pretenções hoje tão acesas, de nos recolonisarem pela alma e pelo
coração, já que nãô o podem pelo braço609.
Neste período a poesia brazileira, embora balbuciante ainda, resôa, não já somente nos rumores
da brisa e nos echos da floresta, sinão também nas singelas cantigas do povo e nos íntimos
serões da família.
Onde não se propaga com rapidez a luz da civilisação, que de repente cambia a côr local,
encontra-se ainda em sua pureza original, sem mescla, esse viver singelo de nossos pais,
tradições, costumes e linguagem, com um sainete todo brazileiro. Ha, não somente no paiz,
como nas grandes cidades, até mesmo na côrte, desses recantos, que guardam intacto, ou quasi,
o passado.
O Tronco do Ipê610, o Til611 e o Gaúcho612, vieram d'ali; embora, no primeiro sobretudo, se note
já, devido á proximidade da côrte, e á data mais recente, a influencia da nova cidade, que de dia
em dia se modifica, e se repassa do espirito forasteiro.
Nos grandes focos, especialmente na côrte, a sociedade tem a physionomia indecisa, vaga e
múltipla, tão natural á idade da adolescência. É o. effeito da transição que se opera; e também
do amálgama de elementos diversos.
A importação continua de idéas e costumes estranhos, que dia por dia nos trazem todos os
povos do mundo, devem por força de commover uma sociedade nascente, naturalmente
inclinada á receber o influxo de mais adiantada civilisação 613.

608
Romanzo pubblicato in due volumi nel 1865 e nel 1866.
609
Il sottolineato è mia iniziativa e ovviamente fa riferimento alla strngente attualità della frase sottolineata, laddove
si tratta di un discorso che non vale certo solo per il Brasile.
610
1871.
611
1856.
612
1870.
613
In queste parole è evidente l'anticipazione del concetto già descritto e più volte citato di antropofagia cultural di
Oswald de Andrade.

215
Os povos têm, na virilidade, um eu próprio, que resiste ao prurido da imitação; por isso na
Europa, sem embargo da influencia que suecessivamente exerceram algumas nações, destacam-
se ali os caracteres bem aceentuados de cada raça e de cada família.
Não assim os povos não feitos; estes tendem como a criança ao arremedo; copiam tudo,
acceítam o bom e o mão, o bello e o ridículo; para formarem o amálgama indigesto, limo de
que deve sahir mais tarde uma individualidade robusta.

A partire dall'indianismo alencariano, insomma, l'índio, in maniera assolutamente nuova614


e non solo nella letteratura brasiliana, diventa un agente attivo del processo di formazione della
nazione postcoloniale. E una tale prospettiva si presentava come socialmente e politicamente
audace, nel momento in cui gli índios soffrivano – e continuano a soffrire – il disprezzo ufficiale
percepibile anche nella storiografia brasiliana dell'epoca, che perlopiù, secondo il principio
dominante anche altrove in America615, era votata alla cancellazione dell'elemento indigeno dalla
storia del Paese, in quanto sentito in contrasto con lo sviluppo nazionale nonché soprattutto
economico, dell'economia tanto dei fazendeiros, sempre affamati di terre, ma anche
dell'incipiente borghesia industriale.
In tal senso, Alencar è contraltare del citato Francisco Adolpho de Varnhagen, lo storico
ufficiale dell'impero per eccellenza, per cui comunque l'elemento portoghese era l'eroe
civilizzatore di modello classico616 e l'iniziatore della nazione brasiliana, a giustificare la
permanenza della dinastia Bragança al potere nel Paese.
Cito e sintetizzo la ricercatrice brasiliana dell'Universidade Federal de Ouro Preto Maria
Edith Maroca de Avelar Rivelli de Oliveira617:

614
Naturalmente un momento precursore di questa tendenza è stato quello rappresentato da Basílio da Gama e Santa
Rita Durão, nonché in genere dai missionari gesuiti, che però ovviamente non pensavano alle nazioni
postcoloniali, ma a progetti utopici da realizzare con le nazioni indigene, non poi così dissimili del resto all'idea
di Alencar.
615
Ho già descritto, tra le conseguenze di questo principio ideologico diffuso in America, il Go West statunitense, la
Campaña del Desierto argentina, nonché i genocidi operati in Cile. Che sono solo alcuni esempi.
616
Cfr. cap. I.
617
“José de Alencar e a literatura como narrativa da história”, in Camila Aparecida Braga Oliveira, Helena Miranda
Mollo, Virgínia Albuquerque de Castro Buarque (a c.), Caderno de resumos & Anais do 5º Seminário Nacional
de História da Historiografia: biografia & história intelectual, EdUFOP, Ouro Preto 2011, p. 2.

216
As razões da escolha do indígena como cronótopo da história nacional no período (cronótopo
em sentido Bakhtiniano de dimensionamento espaço-temporal da narrativa) são profundas e
ainda merecem estudos. Pode-se sem dúvida relacionar essa opção pelo elemento indígena
como definição imagética, no paralelismo dos estudos históricos da primeira metade do século
XIX que, ancorados na monogenia e tendo em vista a existência de adiantadas civilizações
americanas, levava a acreditar-se na possibilidade de se encontrar civilizações perdidas também
no Brasil618 (e essa ilusão só se desfez após o malfado das expedições de busca imperiais, a
partir de 1860).

E ancora619:

Entremeando discursos, Alencar propunha uma ficção que destacava as limitações das fontes
históricas, propondo-se a complementá-las e divergir delas ao sabor do seu bom senso.
Escrevia e descobria as fragilidades da formação brasileira 620, com todas as violências e
desmazelo de um processo indefinido, em que a Nação se fizera aos trancos e sem grandes
heroísmos ou grandes nomes. Desta maneira, o indianismo alencareano não se propunha apenas
como retorno ao éden romântico, servindo também como contraponto político e defesa da
diferença nacional.
E o que vinha sendo um retrato do índio morto no indianismo anterior – e é curioso que tantas
pinturas do século XIX se dediquem a retratar sua morte 621 – nas mãos de Alencar se
desenvolveu num crescendo que queremos ver como bastante heterodoxo e principalmente,
como uma primeira tomada de consciência dos limites imagéticos da nacionalidade literária.
[…] O índio de Alencar finaliza a diferenciação nacional, tornando-o também fator de crítica
político-social, ao descrevê-lo como protoprecursor de um povo sem cidadania 622.
Assim é que, na narrativa alencareana, o índio que se associa ao colonizador se torna vassalo
impotente, condição que será herdada por seus descendentes, os brasileiros. [...] Alencar
refletiu verdadeiramente sobre a formação da nacionalidade, aproximando-se do indigenismo

618
Il sottolineato è mia iniziativa, come nei casi successivi. Cfr. supra la nota relativa allo studio di Varnhagen
riguardo alla presunta origine europea della nazione tupí.
619
“Entre o fato e a ficção: o indigena na narrativa da fundaçao da nacionalidade brasileira”, II Encontro Memorial
do 30º Aniversário do ICHS de 11 a 13 de novembro de 2009, Universidade Federal de Ouro Preto
(http://www.ichs.ufop.br/memorial/conf/mr2d.pdf), pp. 57-63.
620
Cfr. supra l'osservazione di Saint-Hilaire.
621
Cfr. supra.
622
Cfr. supra.

217
para produzir um indianismo histórico, em que a participação dos indígenas se torna essencial
na formação da nacionalidade e da cultura brasileiras.

Secondo la ricercatrice dell'Università di Ouro Preto, pertanto, il contributo di Alencar alla


formazione dell'identità nazionale brasiliana, de um imaginário nacional mestiço, em que o
indígena fosse considerado como gente e como elemento fundante da civilização brasileira, è un
aspetto che deve essere studiato ancora e senza preconcetti.

E, principalmente, é tempo já de reavaliar Alencar não como “o escritor das mocinhas e


rapazes”, como afirma Antônio Cândido na Formação da Literatura Brasileira, ou como
“portador de idéias fora do lugar” como quer Roberto Schwartz em Ao vencedor as batatas,
mas como pensador da realidade sócio-política brasileira e possível precursor de um
pensamento genuinamente nacional623. Graças a ele, a sociedade brasileira interiorizou o “mito
– não de todo ficcional – da miscigenação como raiz da formação do povo brasileiro […].

In tal senso, pertanto, è legittimo contestualizzare il pensiero di Alencar sia nell'esaltazione


del mestizo in quanto “razza” dominante delle società dei nuovi Stati postcoloniali, in conformità
a quanto contemporaneamente stava affermandosi anche negli altri Paesi latinoamericani, sia
nello specifico brasiliano che ha preparato il terreno al già descritto pensiero di Oswald de
Andrade.

Por sinal, a suposta mitificação alencareana deve ser revista, principalmente em se


considerando a forma como propõe a participação dos indígenas na história do Brasil. Se, por
um lado, ele idealiza os heróis indígenas (condição necessária à ficção) por outro narra
verdades por vezes indesejáveis, mas históricas. Tomemos como exemplo Iracema, a virgem
que se entrega ao branco selando o destino de sua tribo e, por extensão, de toda a tribo. Se
Iracema não existiu de fato, como personagem, efetivamente muitas Iracemas houveram na
história do Brasil. Já quanto a Peri e Poti, que amigavelmente se bandearam para o lado dos
portugueses na ficção – em O Guarani e Iracema, respectivamente – também não deixam de
ser plausíveis, sendo que o Poti é, verdadeiramente, um personagem histórico.

623
Antônio Cândido, Formação da literatura brasileira, vol. 2 (1836-1880), Itatiaia, Belo Horizonte 19937. Roberto
Schwartz, Ao vencedor as batatas, Livraria duas cidades, São Paulo 200134.

218
Assim, tendemos a crer que as representações do índio e sua inserção no processo colonizador,
e concomitantemente, na “História do Brasil”, de maneira positiva – contrariamente ao que a
historiografia abalizada pela coroa e representada pelo historiador mais representativo da
época: Adolfo de Varnhagen, preconizava – possam indicar que a postura de Alencar em
relação ao tema era política e socialmente, bastante avançada. Ao considerar o mestiço como o
brasileiro por excelência e o índio como elemento co-fundador ele problematiza as relações
entre Estado brasileiro e povo, propondo uma visão bem mais realista de Brasil do que a que se
construía à época, com a versão oficial de Varnhagen.

La ricercatrice brasiliana quindi cita ancora Roberto Schwartz 624 secondo cui il realismo di
Alencar sarebbe stato comunque eccessivo e soprattutto incongruente con l'epoca
dell'ambientazione dei suoi romanzi, più coerente semmai con l'epoca in cui sono vissuti Alencar
stesso e Varnhagen. Antônio Cândido, invece, non avrebbe colto adeguatamente le sottigliezze e
la profondità del discurso histórico de Alencar. Per esempio in O Guarani, allorché descrive la
difficile situazione sociale di Peri, trattato come un pária dai familiari di Dom Antônio de Mariz,
como “mentirada gentil” como quer Antônio Cândido. Invero, Peri è considerato un amico e
trattato come tale solo da alcuni, da quanti, secondo Alencar, fazem o uso da razão.
C'è ragione di pensare, in effetti, che questa distinzione richiami all'epoca in cui è vissuto
Alencar, quando la schiavitù era ancora una realtà legale, laddove facevano parte della società
libera tanti negros, liberti o nati liberi, nei confronti dei quali senz'altro il pregiudizio sociale era
comunque molto forte.

O indianismo alencareano revela – com suavidade – que as relações entre brancos e índios
foram historicamente conflituosas e difíceis, e se mesmo entre os brancos “racionais” uma
sombra de igualdade se apresenta – caso de Peri e Poti – ela permanece somente como
possibilidade.

La Maroca, a dare sostanza al realismo di Alencar, precisa ulteriormente come la


submissão voluntária de Peri e Iracema alla cultura dei colonizzatori non è affatto amor ao
cativeiro, secondo il pregiudizio dominante nei confronti degli índios. Peri in realtà è un escravo
do amor, come precisa anche Silviano Santiago625. Alencar aveva senz'altro letto nello stesso

624
Cfr. supra.
625
Importante e famoso scrittore, poeta e critico letterario brasiliano, mineiro, per la precisione.

219
Varnhagen la descrizione del costume indigeno della sottomissione del guerriero al padre della
sposa promessa. E anche Iracema, a sua volta, è escrava do amor. O meglio, nel suo caso, devota
al marito come ogni moglie deve essere in una società patriarcale quale quella portoghese. La
loro scelta di adottare un'altra cultura, nem sempre tida como superior da parte di Alencar,
sarebbe stata dettata, pertanto, dalle loro situazioni affettive contingenti, come peraltro succede
ancora in tutto il mondo.
Precisa inoltre la Maroca:

Não há que ignorar o caráter dramático e violento do processo colonizatório, e Alencar em


momento algum propõe o apagamento do conflito. Apenas, para que se consolide um passado
mitológico “funcional” em respostas às demandas – nada pacíficas – de seu tempo, Alencar
escolhe, dentre todo o passado histórico ou lendário, as personagens e situações em que se
demonstrem mais claramente a veracidade das características consideradas por ele como
apropriadas à fundação da Nação.
Assim, a miscigenação se encontra representada, ora como possibilidade conflituosa, como em
O Guarani, ora como fato consumado – mesmo que problemático – em Iracema.
Perceba-se que, se as etnias se misturam, a cultura dominante, será a européia. [...] o índio é
incorporado à civilização pela negação de sua cultura. Alencar propõe o elemento indígena
como herói literário e membro co-fundador da civilização brasileira, ainda que subalterno e
assimilado culturalmente. Todavia presente em nossa história e, por vezes, em papéis de
destaque, como Felipe Camarão626. […]

Infine conclude:

A conciliação buscada por Alencar se fazia em torno de idéias e civilizações, em torno de um


ideal de Nação que considerasse a profunda imbricação entre a cultura autóctone e a européia,
mesmo que enfatizando a última como dominante.
Por outro lado se encontra lá a memória incômoda do processo violento – ainda que tido como
necessário – da colonização, da dubiedade da postura indígena ora colaboracionista, ora vilã;

626
Antônio Filipe Camarão, vissuto nella prima metà del XVII sec., era un indigeno potiguar nato dove oggi sorge la
città nordestina di Natal, il cui nome originale era Poti o Potiguaçu, cioè “gambero” o “gambero grande”, in
lingua tupí, educato dai gesuiti e battezzato quindi con i nomi portoghesi citati, Filipe in omaggio al re Felipe III.
Fu un importante condottiero che si segnalò soprattutto nella guerriglia finalizzata a cacciare gli Olandesi che si
erano stabiliti nel nordeste del Brasile. Cfr. Marras, “Capitão Mouro di Georges Bourdoukan...cit., pp. 115 e 119.

220
mas, de toda maneira, presente na historia do Brasil. É contra este apagamento que Alencar
escreve/inscreve seus índios na literatura e na memória cultural nacional. Como Antônio
Cândido e demais são obrigados a declarar, Alencar insere no cotidiano a presença do índio. E
se há uma idealização, esta ocorre em nível de personagens, mas não em relação ao processo.
Alencar constrói uma história do Brasil em que brancos e indígenas se encontram e enfrentam,
alguns índios são incorporados e outros vencidos. E efetivamente, não há como dizer que tenha
sido diferente. Podemos, porém, destacar uma simpatia em relação à cultura européia e isto é
fato inegável. De fato residia aí a maior limitação do projeto indianista romântico. E ao mesmo
tempo a grande revelação de que quanto mais indígenas nos propúnhamos, mais
portugueses/europeus nos descobríamos.
Esta é portanto uma limitação ideológica à qual Alencar não teve como fugir.
Compartilhando dos preconceitos de sua época, propõe-se a um descentramento – que de fato
consegue se comparado a Varnhagen e aos cronistas – mas que se limita pela impossibilidade
de inserção do indígena na sociedade branca em termos igualitários, como postulado ao fm de
O Guarani. Sua insistência no indígena, portanto, estava relacionada à busca de uma narrativa
do Brasil que focasse realmente o brasileiro, e neste ponto ele avança imensamente em relação
à historiografia oficial de Varnhagen.
Enquanto o historiador construía uma grande “ficção” a partir de um discurso verdadeiro,
propondo um continuísmo que, se satisfazia aos interesses da coroa, faltava com a verdade
histórica, Alencar propunha uma ficção que compreendia as limitações das fontes históricas,
propondo-se a complementá-las e divergir delas ao sabor do seu bom senso. Longe de ser
ingênua, portanto, a insistência no indígena como herói nacional – que apresentara uma
histórica recusa à colonização, e ainda no século XIX permanecia elemento independente –
revelava uma decisão política, que visava a deixar clara a perspectiva de nação que Alencar
pretendia: uma nação brasileira desvinculada de Portugal que, se herdara deste a língua e
costumes, herdara também do índio a capacidade de adaptação ao solo pátrio e a capacidade de
rebeldia frente à Coroa.
Portanto, naquele momento de formação, à parte a impossibilidade de se constituir uma nação
absolutamente outra em relação à metrópole – o que de maneira nenhuma seria possível – o
projeto romântico, representado em Alencar, foi o grande vencedor, contribuindo
decisivamente para a formação da nacionalidade brasileira. E os avanços ideológicos aí
compreendidos, como também suas limitações em resolver os problemas de cidadania, não
invalidam seu esforço de decifração do enigma da nacionalidade que permanece ainda hoje,
herdeiro do romantismo.

221
Nel contesto di questo indianismo romantico brasiliano, e alencariano in particolare, con le
sue divergenze e contraddizioni, ma così determinante per la formazione dell'identità nazionale
del Paese lusofono dell'America Latina, spicca un'altra figura solo apparentemente fuori luogo, la
cui prospettiva invero fu almeno tanto attuale quanto quella di Alencar: Antônio Frederico de
Castro Alves (1847-1871), la cui brevissima parabola non gli impedì di passare alla storia come
il Poeta dos Escravos, grazie ai suoi poemi abolizionisti, in un'epoca in cui la classe dirigente
non ne voleva sapere di abolire la schiavitù: Vozes d'África (1868) e Navio negreiro (1869).
Così come Alencar, controcorrente, volle considerare l'índio agente attivo della nazione
brasiliana, Castro Alves intraprese nei confronti del negro un processo analogo, laddove si è già
messo in rilievo come entrambi gli elementi, dalla cultura dominante, volevano essere esclusi
quanto meno dai diritti di cittadinanza, ma possibilmente anche dalla costruzione della nazione
brasiliana, situazione che tuttora ha lasciato in eredità alla società del Paese lusofono d'America
Latina non poche tristi conseguenze.
A evidenziare il valore dell'opera di Castro Alves, voglio citare per intero il poema che
Pablo Neruda gli dedicò in Canto General (1938-1950), la straordinaria opera che da sola,
probabilmente, gli valse il Nobel, in particolare nel IV canto, dedicato significativamente a Los
Libertadores, il XXIX poema627, posto tra quelli dedicati a Sucre e a Toussaint L'Ouverture 628, e
intitolato:

Castro Alves del Brasil


Castro Alves del Brasil, ¿tú para quién cantaste?
¿Para la flor cantaste? ¿Para el agua
627
Cfr. Abraham Quezada Vergara, “El Brasil de Neruda. Notas para una aproximación”, Atenea 507 (2013), pp. 45-
63, in cui l'autore mette in rilievo come il presente poema dedicato a Castro Alves fu, da parte del poeta cileno,
una vera e propria forma di ringraziamento nei confronti della sinistra brasiliana che ne fece una figura esemplare
già nella seconda metà degli anni '40, in particolare a a partire dal luglio 1945, quando “ En esa oportunidad, el
poeta chileno, que en ese momento era Senador en ejercicio, militante comunista, fue invitado al estadio
Pacaembú, en Sao Paulo, al homenaje que se realizaba a Luis Carlos Prestes [cfr. cap. I], ocasión en que leyó
un extenso poema de circunstancia ante una audiencia de 130.000 espectadores”.
628
Questi personaggi li ho già ricordati nel cap. I, a partire dal testo analizzato di Britto García, il quale adotta la
grafia più comune Toussaint Louverture del nome del leader dell'indipendenza haitiana, laddove Neruda aveva
invece adottato la grafia più antica da me qui riprodotta.

222
cuya hermosura dice palabras a las piedras?
¿Cantaste para los ojos, para el perfil cortado
de la que amaste entonces? ¿Para la primavera?

Sí, pero aquellos pétalos no tenían rocío,


aquellas aguas negras no tenían palabras,
aquellos ojos eran los que vieron la muerte,
ardían los martirios aun detrás del amor,
la primavera estaba salpicada de sangre.

-Canté para los esclavos, ellos sobre los barcos


como el racimo oscuro del árbol de la ira
viajaron, y en el puerto se desangró el navío
dejándonos el peso de una sangre robada.

-Canté en aquellos días contra el infierno,


contra las afiladas lenguas de la codicia,
contra el oro empapado en el tormento,
contra la mano que empuñaba el látigo,
contra los directores de tinieblas.

-Cada rosa tenía un muerto en sus raíces.


La luz, la noche, el cielo se cubrían de llanto,
los ojos se apartaban de las manos heridas
y era mi voz la única que llenaba el silencio.

-Yo quise que del hombre nos salváramos,


yo creía que la ruta pasaba por el hombre,
y que de allí tenía que salir el destino.
Yo canté para aquellos que no tenían voz.
Mi voz golpeó las puertas hasta entonces cerradas
para que, combatiendo, la Libertad entrase.

Castro Alves del Brasil, hoy que tu libro puro


vuelve a nacer para la tierra libre,

223
déjame a mí, poeta de nuestra pobre América,
coronar tu cabeza con el laurel del pueblo.
Tu voz se unió a la eterna y alta voz de los hombres.
Cantaste bien. Cantaste como debe cantarse629.

E a concludere la parentesi breve ma intensa dedicata doverosamente a Castro Alves nel


presente studio, voglio citare anche i suoi poemi sopra segnalati, in un vero e proprio omaggio630:

Deus! ó Deus! onde estás que não respondes?


Em que mundo, em qu’estrela tu t’escondes
Embuçado nos céus?
[…]
Qual Prometeu tu me amarraste um dia
Do deserto na rubra penedia

629
Nella poesia statunitense coeva, anzi di circa un ventennio precedente, lo spirito abolizionista fu incarnato
soprattutto da John Greenleaf Whittier (1807-1892), nelle poderose liriche della raccolta Voices of Freedom (a c.
di Thomas S. Cavender, Waite, Pierce And Co., Boston – William Harned, New York 1846), che inizia con un
poema dedicato a Toussaint L'Ouverture. Whittier, a differenza di Castro Alves ma in conformità con
l'abolizionismo statunitense, partiva da presupposti religiosi, vista la sua fede quacchera che ha ispirato anche la
sua poesia posteriore all''approvazione del Thirteenth Amendment nel 1865. Analoga ispirazione religiosa animò
anche quella che senz'altro è stata l'autrice che più ha rappresentato l'abolizionismo statunitense, Harriet Elizabeth
Beecher Stowe (1811-1896), con il suo celebre romanzo Uncle Tom's Cabin; or, Life Among the Lowly (1852),
latore però anche di stereotipi indubbiamente razzisti nei confronti degli afroamericani, vivi tuttora negli USA.
Niente a che vedere, certo, con opere di oltre un secolo dopo quali To Kill A Mockingbird di Harper Lee (1960) o
Roots: The Saga of an American Family di Alex Haley (1976), meno che mai con la salace ironia di Quentin
Tarantino in un film quale Django Unchained (2012).
630
Citazioni tratte da Castro Alves, O navio negreiro e Vozes d’África, a c. Centro de Documentação e Informação
Câmara dos Deputados, Edições Câmara, Brasília 2013, nella cui introduzione si legge (p. 12) “Como
representante do Romantismo, movimento que dominou a literatura brasileira em meados do século XIX, Castro
Alves distinguiu-se por criar uma poesia comprometida com os ideais que defendia. Seu diferencial foi introduzir
na cena literária do país as temáticas do negro e da escravidão, adotando uma postura de total engajamento na
luta pela abolição. É também característica de sua obra a constante utilização de imagens grandiosas nos
poemas que são voltados para os desvalidos da sociedade. Castro Alves foi ainda o poeta do amor, da liberdade
e do nacionalismo. Em O navio negreiro, Castro Alves opõe a natureza harmoniosa à brutalidade da escravidão
e convoca os homens a colocarem-se contra esse horror. E em Vozes d’África, apresenta o martírio do
continente, que é personificado para expressar a dor e a indignação com o cativeiro de sua gente”.

224
— Infinito: galé!...
Por abutre — me deste o sol candente,
E a terra de Suez — foi a corrente
Que me ligaste ao pé...
[…]
A Europa é sempre Europa, a gloriosa!...
A mulher deslumbrante e caprichosa,
Rainha e cortesã.
Artista — corta o mármor de Carrara;
Poetisa — tange os hinos de Ferrara,
No glorioso afã!...

Sempre a láurea lhe cabe no litígio...


Ora uma c’roa, ora o barrete frígio
Enflora-lhe a cerviz.
Universo após ela — doudo amante
Segue cativo o passo delirante
Da grande meretriz.

Mas eu, Senhor!... Eu triste abandonada


Em meio das areias esgarrada,
Perdida marcho em vão!
Se choro... bebe o pranto a areia ardente;
talvez... p’ra que meu pranto, ó Deus clemente!
Não descubras no chão...
[…]
da Vozes d'África

‘Stamos em pleno mar... Doudo no espaço


Brinca o luar — dourada borboleta;
E as vagas após ele correm... cansam
Como turba de infantes inquieta.
[…]
Desce do espaço imenso, ó águia do oceano!

225
Desce mais... inda mais... não pode olhar humano
Como o teu mergulhar no brigue voador!
Mas que vejo eu aí... Que quadro d’amarguras!
É canto funeral!... Que tétricas figuras!...
Que cena infame e vil... Meu Deus! Meu Deus! Que horror!

Era um sonho dantesco... o tombadilho


Que das luzernas avermelha o brilho.
Em sangue a se banhar.
Tinir de ferros... estalar de açoite...
Legiões de homens negros como a noite,
Horrendos a dançar...

Negras mulheres, suspendendo às tetas


Magras crianças, cujas bocas pretas
Rega o sangue das mães:
Outras moças, mas nuas e espantadas,
No turbilhão de espectros arrastadas,
Em ânsia e mágoa vãs!

E ri-se a orquestra irônica, estridente...


E da ronda fantástica a serpente
Faz doudas espirais...
Se o velho arqueja, se no chão resvala,
Ouvem-se gritos... o chicote estala.
E voam mais e mais...

Presa nos elos de uma só cadeia,


A multidão faminta cambaleia,
E chora e dança ali!
Um de raiva delira, outro enlouquece,
Outro, que martírios embrutece,
Cantando, geme e ri!

226
No entanto o capitão manda a manobra,
E após fitando o céu que se desdobra,
Tão puro sobre o mar,
Diz do fumo entre os densos nevoeiros:
“Vibrai rijo o chicote, marinheiros!
Fazei-os mais dançar!...”

E ri-se a orquestra irônica, estridente...


E da ronda fantástica a serpente
Faz doudas espirais...
Qual um sonho dantesco as sombras voam!...
Gritos, ais, maldições, preces ressoam!
E ri-se Satanás!...

Senhor Deus dos desgraçados!


Dizei-me vós, Senhor Deus!
Se é loucura... se é verdade
Tanto horror perante os céus?!
Ó mar, por que não apagas
Co’a esponja de tuas vagas
De teu manto este borrão?...
Astros! noites! tempestades!
Rolai das imensidades!
Varrei os mares, tufão!
[…]
da O Navio Negreiro

Nei decenni successivi all'indianismo romantico brasiliano, che non ha conosciuto un vero
e proprio tramonto, come già rilevato anche da Manoela Freire de Oliveira nelle prime righe del
testo che ho citato dal suo studio, sono comunque passati dal Brasile personaggi quali i citati
Percy Fawcett e Claude Lévi-Strauss, nonché Roger Bastide.
Sulla straordinaria vicenda del colonnello Percy Fawcett, sparito nel 1925 assieme a suo
figlio Jack e all'altro esploratore britannico Raleigh Rimmell nella Serra do Roncador, nello stato
brasiliano di Mato Grosso, la stessa zona dove a partire da una ventina di anni dopo hanno

227
operato i fratelli Villas Bôas631, rimando al libro di Hermes Leal, O Enigma do Coronel Fawcett:
o Verdadeiro Indiana Jones632. In esso l'autore mette molto bene in evidenza come Fawcett abbia
ispirato Arthur Conan Doyle633 e Henry Rider Haggard634, oltre che il da lui citato già nel titolo
Indiana Jones di Steven Spielberg.
Da notare come Hermes Leal negli ultimi anni stia polemizzando, anche con risvolti legali,
con il giornalista statunitense David Grann, che nel 2009 ha pubblicato il libro The Lost City of
Z: A Tale of Deadly Obsession in the Amazon635, in cui avrebbe plagiato l'autore brasiliano. Da
quest'ultimo libro, peraltro, il regista statunitense James Gray sta ricavando un film dal titolo The
Lost City of Z, il cui lancio dovrebbe essere imminente e in cui il ruolo del colonnello Fawcett è
stato affidato al popolare attore statunitense Brad Pitt636.
Su Percy Fawcett segnalo anche il ben fatto fumetto brasiliano Fawcett di André Diniz e
Flavio Colin637. Mentre sulla “passione” per la ricerca delle civiltà perdute in Brasile tra '800 e
'900, tanto spesso esercitata a scapito delle etnie indigene, ricordo il testo citato supra di Maria
Edith Maroca de Avelar Rivelli de Oliveira, ma anche gli articoli di Yuri Leveratto citati nel

631
I quali vi hanno istituito il citato parco di Xingu, cfr. cap. I. I Villas Bôas avevano anche risolto il mistero della
scomparsa della spedizione di Fawcett e dei suoi (che tuttavia da parte di alcuni si vuole perpetuare), visto che nel
1952 ne avevavo trovato le ossa e avevano raccolto le testimonianze relative al loro assassinio da parte degli
índios kalapalo, offesi dal loro comportamento repressivo nei confronti dei bambini della tribù, la cui curiosità
invadente avrebbe infastidito il colonnello britannico.
632
Geração Editorial, São Paulo 2001.
633
Il personaggio di Conan Doyle ispiratogli da Fawcett, che era suo amico personale, non è ovviamente Sherlock
Holmes, bensì il Prof. Challenger in The Lost World (1912).
634
Allan Quatermain, il famoso personaggio dello scrittore inglese, anche lui amico di Fawcett, esisteva prima che
quest'ultimo acquistasse fama di esploratore, visto che appare già in King Solomon's Mines (1885), ma i romanzi
successivi del ciclo di questo personaggio sono stati tratti in parte dalle imprese del colonnello britannico. Inoltre
fu Rider Haggard a regalargli una statuetta misteriosa e di incerta origine che spinse Fawcett a organizzare le sue
spedizioni in Brasile e Bolivia.
635
Doubleday, New York 2009.
636
È utile rilevare come Hermes Leal non sia l'unico autore brasiliano fatto oggetto di plagio da parte di autori non
brasiliani, è anzi più famoso il caso di Moacyr Scliar (1937-2011), il quale nel 2002 ha accusato lo scrittore
canadese Yann Martel di aver plagiato il suo romanzo Max e os felinos (1981) per ricavarne il famoso Life of Pi
(2001), da cui pure è stato tratto un film di successo.
637
Editora Nona Arte, Rio de Janeiro 2000.

228
capitolo I su Paititi, i cui resti, secondo alcuni, potebbero trovarsi proprio in territorio brasiliano
e potrebbero avere a che fare con la città che stava cercando Fawcett638.
Di Claude Lévi-Strauss è stato addirittura rivoluzionario il suo Tristes Tropiques639, nato
dall'occasione che ebbe il giovane professore di filosofia francese, già annoiato dalla ripetitività
del suo mestiere, di recarsi negli anni '30 in Brasile a studiarne gli indigeni. Il Brasile, peraltro,
non è l'unico Paese affrontato dal libro e nel suo viaggio – vi parla in genere anche dei Caraibi
nonché dell'India, allora colonia britannica – ma sicuramente ne è il protagonista assoluto e in
particolare, appunto, gli indigeni del Brasile, per esempio i Bororo.
Celebre l'incipit del libro: “Je hais les voyages et les explorateurs”, con cui l'autore chiude
la stagione letteraria dell'esotismo colonialista. E a partire dal confronto tra le società cosiddette
“primitive” degli indigeni e la società occidentale, muove di fatto una critica a quest'ultima –
sulla scorta quindi di Jean de Léry che, come visto nel cap. I, fu un suo riferimento – e inaugura
il cosiddetto relativismo culturale, oggi oggetto di pesanti attacchi nel momento in cui, invece, si
sono affermate e sono applicate in Occidente, anche in letteratura e nella cinematografia, idee
più prossime a quelle di personaggi del calibro di Samuel Phillips Huntington (1927-2008)640.
Lévi-Strauss è considerato anche il primo ad aver applicato all'antropologia il modello
strutturalista della linguistica di Ferdinand de Saussure, secondo cui tutte le culture e le società
sono da studiare in un sistema di relazioni che possono essere anche contrastive, a demolire
quindi l'opposizione manichea tra la civiltà (occidentale) e la presunta barbarie primitiva.
Il celebre scrittore e filosofo francese Georges Bataille ha scritto su Tristes Tropiques:

638
Quando ho vissuto in Brasile, ho avuto modo di percepire come ancora oggi esista tra i Brasiliani un assurdo
complesso di inferiorità prodotto dal fatto che, secondo loro, gli indigeni del loro Paese non avevano realizzato
splendide civiltà quali quella inca o quelle maya e azteca. Evidentemente tale idea è un prodotto dell'indianismo
romantico brasiliano tuttora vitale.
639
Cfr. cap. I.
640
Lo studio citato nel cap. I di Mônica Kalil Pires è dedicato proprio alla critica del Clash of Civilizations
fomentato dal politologo statuinitense, soprattutto a partire dal pensiero dell'altrettanto citato Amin Maalouf,
espresso in opere fondamentali quali il romanzo-biografia Léon l'Africain (1986) o il saggio Les Identités
meurtrières (1998), ma anche dall'esperienza della cultura brasiliana.

229
La nouveauté du livre s'oppose à un ressassement, elle répond au besoin de valeurs plus larges,
plus poétiques, telles que l'horreur et la tendresse à l'échelle de l'histoire et de l'univers, nous
arrache à la pauvreté de nos rues et de nos immeubles 641.

Antonio Gnoli ha scritto invece:

Può mai esistere una società perfetta? Qui le strade di Rousseau e Lévi-Strauss divergono. Le
culture, le civiltà, i mondi religiosi si possono confrontare ma non sovrapporre, men che meno
sommare. Nessuna società agli occhi del grande antropologo è interamente bene o male.
Possiamo prendere degli aspetti, amarne alcuni e detestarne altri. Non possiamo realizzarne una
sintesi. Possiamo solo renderci conto della loro intrinseca caducità. Tristi tropici è soprattutto
un grande libro sulla desolazione umana. Colpiva a tal proposito un giudizio del filosofo
Emmanuel Lévinas che per definire l’ateismo moderno si richiama al capolavoro
levistraussiano: «L’ateismo moderno», scrive Lévinas, «non è la negazione di Dio, è
l’indifferentismo assoluto di Tristi tropici. Penso che sia il libro più ateo che sia stato scritto nei
nostri tempi, il libro più disorientato e disorientante»642.

Studiosi francesi quali Serge Gruzinski e Jean-Loup Amselle, per citarne solo due, hanno
sicuramente seguito il modello di Lévi-Strauss, anche criticamente, portando avanti quindi
l'antica tradizione che lega la Francia al Brasile, da Thévet e soprattutto Léry, passando per
Montaigne, Rousseau, Ferdinand Denis, lo stesso Lévi-Strauss, fino ai contemporanei643.
Tra questi ultimi c'è stato appunto anche Roger Bastide (1898-1974), sociologo e
antropologo, che in Brasile ha studiato soprattutto le religioni sincretiche e il retaggio del
colonialismo.
Tra le sue numerose opere mi limito a segnalare: Poètes du Brésil (1946), Brésil, terre des
contrastes (1957), Le Candomblé de Bahia (1958), Le Sacré sauvage (1975, postumo)644.

641
“Un livre humain, un grand livre”, Critique 105 (1956), p. 99.
642
“La scomparsa di Claude Lévi-Strauss. Sempre più tristi tropici”, La Repubblica, 23 maggio 2008.
643
Cfr. Roberto Marras, Prefazione all’edizione italiana di Hélio Schwartsman, Il segreto di Avicenna.
Un’avventura tra Brasile e Afghanistan, trad. Roberto Marras, Liberodiscrivere, Genova 2012, pp. 3-4.
644
Tra la sterminata bibliografia relativa alla sua relazione con il Brasile, cfr. Maria Isaura Pereira de Queiróz,
“Roger Bastide e o Brasil”, Afro-Ásia 12 (1976), pp. 47-52; Gilberto Freyre, “Roger Bastide, francês
abrasileirado”, Afro-Ásia 12 (1976), pp. 53-59; Jorge Amado, “Lembrança de Roger Bastide na Bahia e em
Paris”, Afro-Ásia 12 (1976), pp. 61-63; Claude Ravelet, “Roger Bastide et le Brésil”, Bastidiana 49-50 (2005),

230
Poi, hanno affrontato immancabilmente la questione indigena molti grandi nomi della
cultura brasiliana quali i citati Cândido Rondon, i già trattati fratelli Villas Bôas 645, ma anche
Sergio Buarque de Holanda.
Cândido Mariano da Silva Rondon, più noto come Marechal Rondon (1865-1958), è
considerato uno degli ultimi sertanistas, come i fratelli Villas Bôas dopo di lui e nel solco delle
sue imprese. Di ascendenze in parte indigene, bororo e terena, impose, nella sua opera di
desbravar vasti territori amazzonici dove i “bianchi” non erano nemmeno ancora arrivati,
principi quali quello affermato dalla frase che gli è attribuita: “Morrer se necessário for! Matar
nunca!”, che per un militare suona persino ossimorico e che in seguito è stato fatto proprio dai
fratelli Villas Bôas, tant'è vero che è significativamente riportato nel recente film Xingu dedicato
alla loro storia citato nel cap. I646.
Sérgio Buarque de Holanda (1902-1982), definito “o explicador do Brasil”, è stato uno dei
più importanti intellettuali brasiliani del XX secolo. Storico, sociologo e critico letterario, nonché
giornalista, ha lasciato opere quali Raízes do Brasil (1936), Visão do Paraíso. Os motivos
edênicos no descobrimento e colonização do Brasil (1959), Do Império à República (1972), che
tuttora sono imprescindibili e dove, come detto, ha intensamente trattato la questione indigena.
È considerato l'inventore del mito del brasiliano “homem cordial”, ripreso in seguito da
altri importanti sociologi brasiliani quali Roberto DaMatta in Carnavais, Malandros e Heróis.
Para uma sociologia do dilema brasileiro (1997).
Del resto, ha anche scritto:

Não creio que o brasileiro seja fundamentalmente bom. Quem lê meus livros de história
percebe isso.

pp. 1-5.
645
Da notare che il continuatore dell'opera di Rondon e dei fratelli Villas Bôas, tuttora attivo, è Sydney Possuelo,
che ha vissuto e lavorato con gli indigeni dell'Amazzonia negli ultimi 44 anni. Recentemente ha criticato il
governo petista, di cui prima è stato sostenitore, perché “quer desenvolver o país sem respeitar ninguém”, meno
che mai gli índios. Cfr. Peter Moon, “Sydney Possuelo: «Não sobrevivi ao PT»”, Época, 24/10/2012
(http://revistaepoca.globo.com/tempo/noticia/2012/10/sydney-possuelo-nao-sobrevivi-ao-pt.html).
646
Cfr. Antonio Carlos de Souza Lima, O Santo Soldado. Pacificador, Bandeirante, Amansador de Índios,
Civilizador dos Sertões, Apóstolo da Humanidade, Uma leitura de Rondon conta sua vida, de Esther de Viveiros,
Museu Nacional - UFRJ, Rio de Janeiro 1990.

231
Antônio Cândido ha scritto di lui:

Na sua obra, é importante destacar certos traços que mostram como era avançada a sua
concepção da história do Brasil. Assim, não supervalorizava a herança portuguesa, ao contrário
dos historiadores de corte conservador, indicando, pelo contrário, a sua superação na fase nova,
aberta pela Abolição e a República, que propunha fosse denominada «americana», a fim de
marcar o afastamento progressivo em relação às origens coloniais. É o que vemos em Raízes do
Brasil, de 1936, onde rejeita as correntes autoritárias em moda, representadas aqui, sobretudo,
pelo integralismo. No mesmo livro, deixa clara a sua confiança na iniciativa do povo,
contrariando a tendência vigente de entregar o destino deste às elites esclarecidas. Esses
exemplos sugerem de que maneira as convicções democráticas marcaram sua obra.

E il celebre poeta modernista Manuel Bandeira, suo amico, ha lasciato detto di lui:

Sérgio só não soçobrou no cerebralismo porque caiu na farra.

Il già citato famoso regista brasiliano Nelson Pereira dos Santos gli ha dedicato il
documentario Raízes do Brasil - Uma cinebiografia de Sérgio Buarque De Holanda (2003).
Il famoso cantante e scrittore Chico Buarque è suo figlio, mentre il critico letterario,
lessicografo, filologo e traduttore Aurélio Buarque de Holanda Ferreira (1910-1989), che ha dato
nome a un diffuso dizionario di lingua portoghese in Brasile, fu suo cugino647.
Vari anni prima che fiorissero questi grandi nomi della cultura brasiliana, Euclides da
Cunha (1866-1909) aveva raccontato coraggiosamente la Guerra de Canudos ne Os Sertões
(1902), opera dedicata ai poveri oprimidos del nordeste brasiliano, la maggior parte dei quali
discende dagli indigeni, spesso fusisi con i negros.
Euclides Rodrigues da Cunha è stato scrittore, sociologo, reporter e storico, oltre che
ingegnere e altro. La sua opera principale è stata appunto Os Sertões, frutto della sua esperienza
di corrispondente de O Estado de São Paulo durante la citata guerra di Canudos (1896-7).
In principio condizionato dal pregiudizio diffuso dal governo secondo cui il movimento
popolare ribelle guidato dal “mistico” Antônio Conselheiro nell'”interior do interior da Bahia”648
647
Tra la molteplice bibliografia dedicata a Sérgio Buarque de Holanda, cfr. Edgar Salvadori de Decca, “As
Metáforas da identidade em Raízes do Brasil. Decifra-me ou te devoro”, Varia Historia 2/36 (2006), pp. 424-439.
648
Cfr. infra.

232
fosse “A nossa Vendéia”, come recitava il titolo di uno dei suoi primi articoli, cioè un gruppo di
reazionari monarchici che si erano ribellati alla repubblica da poco instaurata, ben presto si rese
conto di trovarsi di fronte a un movimento di contadini poverissimi e ex-schiavi da poco
liberati649 del sertão baiano, dove tuttora “a vida [...] é complicada. É agricultura. Um ano dá
dinheiro, outro ano não dá. E lá tem problema da seca. Seis meses de água e seis meses de
seca”650, che si erano ribellati contro le angherie dei fazendeiros veri detentori del potere nella
nuova repubblica.
E di conseguenza scrisse:

Aquela campanha lembra um refluxo para o passado. E foi, na significação integral da palavra,
um crime. Denunciemo-lo651.

In effetti, Antônio Conselheiro alias Antônio Vicente Mendes Maciel, che si era
autodenominato “o peregrino”, ma nemmeno era un ecclesiatico, era riuscito a sobillare e
soprattutto organizzare gli oprimidos facendo leva sulla loro fede religiosa semplice e popolare,
animandola di aspettative salvifiche e di riscatto sociale, in una sorta di teologia della liberazione
applicata, a ricordare invero figure del passato quali il famoso Fra Dolcino da Novara che ha
operato con la sua banda in Piemonte a cavallo dei secoli XIII e XIV, finché fu catturato e
mandato al rogo il 1° giugno del 1307652.

649
Cfr. supra.
650
Cfr. infra.
651
Da Nota preliminar a Os Sertões. Da notare come la classe al potere non perdonò questa denuncia a Euclides da
Cunha, il quale fu colpito non solo da un'emarginazione socio-professionale, ma anche a livello personale. Sua
moglie, Ana Emília Ribeiro, figlia dell'alto ufficiale Frederico Solon de Sampaio Ribeiro, uno dei principali
leader della República, lo lasciò per mettersi con il giovane tenente Dilermando de Assis, che sicuramente era suo
amante da tempo – Euclides gli attribuíva la paternità di uno dei figli della coppia, da lui definito “a espiga de
milho no meio do cafezal”, visto che era l'unico biondo in una famíglia “de tez morena”; ne conseguì un duello
impari, in quanto il tenente era un tiratore addestrato e non ebbe difficoltà a uccidere lo scrittore, la cui morte fu
accertata dal medico e scrittore Afrânio Peixoto, che più tardi occupò il seggio lasciato libero da Euclides da
Cunha nell'Academia Brasileira de Letras. Cfr.
http://www.euclidesdacunha.org.br/abl_minisites/cgi/cgilua.exe/sys/start.htm?
UserActiveTemplate=euclidesdacunha&sid=44.
652
È noto come il mito di Dolcino, che Dante fece ricordare, in forma ambigua, nientemeno che da Maometto, nella
bolgia dei seminatori di discordie e degli scismatici (Inferno XXVIII, 55-60), sia stato rivitalizzato nei primi anni

233
Molti altri scrittori, e non solo brasiliani, hanno dedicato proprie opere alla vicenda, o
meglio all'opera di Euclides da Cunha, quali l'ungherese Sándor Márai (1900-1989), che nel
1970 pubblicò Ítélet Canudosban, tradotto in portoghese da Paulo Schiller nel 2002 con il titolo
Veredicto em Canudos653, poi anche Mario Vargas Llosa, che nel 1981 pubblicò La guerra del
fin del mundo, dedicandolo a Euclides da Cunha e alla scrittrice brasiliana sua amica Nélida
Piñon.
Inoltre ne sono stati tratti molti film e documentari, tra cui cito solo Guerra de Canudos
(1997), di Sérgio Rezende, caratterizzato da un crudo realismo, ma anche dal fatto che,
giovanissimo, vi ha recitato come comparsa il calciatore Daniel Alves da Silva, laterale destro
del Barcelona e della Seleção, famoso anche per il suo recente gesto di raccogliere dal campo di
gioco e mangiare una banana lanciatagli contro da un tifoso razzista, e da una cui intervista
relativa ho tratto le citazioni anteriori654.
Altri importanti autori brasiliani quali Graciliano Ramos (1892-1953), José Lins do Rego
Cavalcanti (1901-1957), Guimarães Rosa (1908-1967) e Ariano Suassuna (1927-2014), portando
avanti il modello di Euclides da Cunha, hanno tra l'altro reso popolare, assieme alla Literatura

del '900, proprio gli anni della pubblicazione dell'opera di Euclides da Cunha, dalla propaganda socialista, che
portò all'inaugurazione di un monumento sul monte Rubello, l'11 agosto del 1907, in occasione del 600°
anniversario dell'esecuzione del frate ribelle, cioè un obelisco di pietrame alto 12 metri a cui contribuirono varie
associazioni biellesi di ispirazione laica e socialista su inziativa promossa dall'economista Emanuele Sella (1879-
1946). Nel 1927 i fascisti abbatterono questo monumento e ne fu edificato un altro, meno appariscente, nel 1974.
Nel 1977 Dario Fo e Franca Rame, in Mistero Buffo, hanno reso omaggio a Dolcino e al suo maestro Gherardo
Segalelli, fondatore degli apostolici, considerati precursori del socialismo. Nel 1980 Umberto Eco, nel celebre
romanzo Il nome della rosa, dà risalto a due personaggi, il cellario Remigio da Varagine e il suo aiutante
Salvatore, a cui sfugge lo slogan dei dolciniani “penitentiagite!” subito riconosciuto da Guglielmo da Baskerville,
che alla fine sono condannati al rogo dall'inquisitore Bernardo Gui per il loro passato di seguaci di Fra Dolcino.
653
Companhia das Letras, São Paulo. Trovo curioso il fatto che in italiano non sia mai stato tradotto questo libro,
nonostante il celebre scrittore ungherese sia vissuto molti anni in Italia. Cfr. Silvia Albertazzi, Ferdinando
Amigoni (a c.), Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, Meltemi, Roma 2005, pp. 195-6.
654
Cfr. Redazione globoesporte.com, “Daniel Alves deixa de ser figurante no cinema para virar protagonista da
bola”, 17/5/2010 (http://globoesporte.globo.com/futebol/selecao-brasileira/noticia/2010/05/daniel-alves-deixa-de-
ser-figurante-no-cinema-para-virar-protagonista-no-mundo-da-bola.html). Daniel Alves è originario proprio della
regione in cui si è verificata la guerra di Canudos.

234
de Cordel655, il fenomeno, anche questo perlopiù índio-negro, dei cangaceiros656, caro anche
all'autore di “letteratura disegnata” Hugo Pratt657 e al suo collega brasiliano già citato Jô
Oliveira658.
Nel frattempo brilla la stella di Jorge Amado (1912-2001), con la sua narrativa
inizialmente impegnata, poi sempre più rappresentativa delle peculiarità sociologiche del Brasile
e soprattutto della sua Bahia, mentre Mário de Andrade (1893-1945) pubblica nel 1928 il
romanzo Macunaíma, che attinge a piene mani alle radici indigene del Paese, ma anche alle

655
La literatura de cordel o folheto, è un genere letterario popolare, una narrativa spesso in rima, sviluppatasi a
partire da testi orali già in epoca rinascimentale in Portogallo, in Brasile, soprattutto nel Nordeste, tuttora diffuso
almeno dal XIX secolo, quando fu il corrispondente della letteratura d'appendice diffusasi in Europa. Il nome
deriva dal fatto che in origine i testi di questo genere erano redatti in foglietti esposti in vendita legati tra loro con
semplici cordicelle. Alcuni poemi sono illustrati e sono realizzati, più comunemente, in strofe di dieci, otto o sei
versi. Gli autori, detti cordelistas, ne recitano i versi accompagnati dalla musica in genere di una chitarra. Ha non
poche affinità con il genere dell'amorfino dei montubios dell'Ecuador citato nel cap. I. Nel 1988 è stata fondata
l'Academia Brasileira de Literatura de Cordel, con sede a Rio de Janeiro. Le storie di cangaceiros ne sono il
tema sicuramente dominante. Cfr. Gabriel Ferreira Braga, Entre o fanatismo e a utopia: a trajetória de Antônio
Conselheiro e do beato Zé Lourenço na literatura de cordel, UFMG, Belo Horizonte 2011.
656
Il cangaço è stata, sino a tempi recenti nel Nordeste, una forma di lotta rivoluzionaria degli oprimidos locali,
secondo la leggenda iniziata dal quasi mitico Cabeleira alias José Gomes già nella seconda metà del XVIII
secolo, in epoca coloniale, e/o dal bandito Lucas da Feira alias Lucas Evangelista tra il 1828 e il 1849, quando fu
catturato e impiccato, e/o dalla rivolta verificatasi nel Maranhão tra il 1838 e 1840 detta Balaiada, dal nome di
uno dei principali capi, Manuel Francisco dos Anjos Ferreira, detto Balaio in quanto fabbricante di balaios, cioè
cesti di vimini, come è anche riportato nel citato Uma História de Amor e Fúria. Invero, sicuramente tutte queste
vicende di ribellione e questi personaggi citati, e tanti altri, hanno dato luogo al fenomeno, che fu considerato
debellato nel 1938 quando fu ucciso l'ultimo oggi leggendario capo cangaceiro Lampião alias Virgulino Ferreira
da Silva, la testa del quale, assieme a quelle di altri cangaceiros, conservata accuratamente, è stata prima studiata
per sei anni presso la Faculdade de Odontologia della UFBA di Salvador, dove, sulla base dei principi
lombrosiani, si cercò di capire se la rivolta dei cangaceiros fosse dettata da qualche patologia genetica, quindi fu
esposta per altri 30 anni (!) presso il Museu Antropológico Estácio de Lima, sempre nella capitale baiana. Cfr.
Aurélio Buarque de Holanda, “Feira de Cabeças. Carta a Carlos Domingos”, Diário Oficial Estado de
Pernambuco, 1995 (http://lampiaoaceso.blogspot.it/2013_05_01_archive.html). Oltre che una vasta letteratura, i
cangaceiros hanno ispirato tanta musica che definirei epica, specie del cd. genere sertanejo, nonché film e tante
miniserie, tra cui spiccano O Cangaceiro, scritto e diretto dal celebre regista brsiliano Lima Barreto (1906-1982)
nel 1953, nonché il suo remake diretto nel 1997 da Aníbal Massaini Neto.
657
Ai cangaceiros il celebre autore di Corto Maltese, e non solo, ha dedicato in particolare la storia L'uomo del
Sertão, pubblicata nel marzo del 1978 nella storica collana Un uomo un'avventura curata da Decio Canzio (1930-

235
tradizioni popolari negras, e le rielabora in chiave modernista, secondo il mandato di Oswald de
Andrade.
Nella letteratura e nella cultura del Paese lusofono d'America non rimangono inascolate
nemmeno le suggestioni del Realismo mágico659 o della négritude di Aimé Césaire e Frantz
Fanon660, mentre Diná Silveira de Queirós (1911-1982) pubblica nel 1954 il romanzo A Muralha,
dedicato alla storia dei primi desbravadores del Brasile a scapito delle etnie native661, quindi alla
fine degli anni '60, durante la dittatura, esplode il cd. tropicalismo che ha investito soprattutto la

2013) tra il novembre del 1976 e il novembre del 1980 per la Sergio Bonelli Editore.
658
Nel 1974, sul cangaço, Oliveira ha pubblicato La guerra del regno divino, prima nella rivista italiana Alterlinus,
poi in Brasile con il titolo in portoghese A guerra do reino divino. Quindi nell'ottobre del 1979 ha pubblicato
L'uomo di Canudos nella collana citata Un uomo un'avventura. E tanta sua arte è ispirata ai cangaceiros e alla
Literatura de Cordel in genere. Cfr. http://www.obrasildejooliveira.com.br/
659
Realismo mágico è una definizione che ha una storia molto simile a quella di naturalismo. Quest'ultima, applicata
prima alla religion naturelle da parte di Diderot, alla pittura del Midi da parte di Baudelaire, all'opera di Balzac da
parte di Hyppolite Taine, finì per designare il romanzo peculiare di Zola. Allo stesso modo, realismo magico è
stata applicata dal critico d'arte Franz Roh a indicare la pittura postespressionista nel saggio Nach
Expressionismus: Magischer Realismus: Probleme der neusten europäischen Malerei (1925), quindi in America
Latina è stata subito dopo utilizzata a definire l'opera della scrittrice cilena María Luisa Bombal (1910-1980), i
cui romanzi brevi sono dedicati a personaggi femminili che sfuggono la realtà negativa rifugiandosi nel loro
mondo interiore e onirico. Nel 1947, però, il già citato grande scrittore venezuelano Arturo Úslar Pietri pubblicò
una nota sul realismo mágico nel saggio “El cuento venezolano”, in Letras y hombres de Venezuela, più tardi
rivista e ripubblicata nella raccolta di saggi Nuevo mundo, mundo nuevo (a c. José Ramón Medina, Biblioteca
Ayacucho, Caracas 1998, pp. 273-277 e passim), nella quale scrisse “Lo que vino a predominar [... ] y a marcar
su huella de una manera perdurable fue la consideración del hombre como misterio en medio de los datos
realistas. Una adivinación poética o una negación poética de la realidad. Lo que, a falta de otra palabra, podría
llamarse un realismo mágico”. E più tardi Úslar Pietri precisò: “No fue una designación de capricho sino la
misteriosa correspondencia entre un nombre olvidado y un hecho nuevo”. Da allora tale definizione è stata
applicata a indicare la grande stagione del romanzo latinoamericano caratterizzata da nomi quali Miguel Ángel
Asturias, Gabriel García Márquez, Juan Rulfo, lo stesso Arturo Uslar Pietri, Alejo Carpentier tra i tanti altri,
senza contare le suggestioni che ne hanno ricevuto anche autori quali Jorge Luis Borges e Julio Cortázar. Va
detto, del resto, che anche nel realismo mágico si può percepire una componente indigenista latu sensu, in quanto
è proprio delle culture indigene d'America in genere il costume di leggere la realtà attraverso l'interpretazione dei
sogni – fatto che era proprio anche della cultura classica, prima del cristianesimo – , attraaverso la magia dei
sogni, appunto. A parte l'esperienza di studio, questo lo posso testimoniare anche attraverso l'esperienza
personale: quando ho visitato la riserva pataxó di cui ho parlato nel cap. I, ricordo che la guida indigena ci aveva
raccontato di come, in un periodo in cui stava soffrendo dei problemi personali, si fosse rivolto al pajé e questi gli

236
cultura musicale ma anche la letteratura662, intanto emerge preponderante la figura di Darcy
Ribeiro (1922-1997), il quale, come già rilevato, nasce come antropologo.

avesse suggerito di svegliarsi tutte le notti alle 3:00, memorizzare i sogni che stava facendo, quindi di andare a
riportarglieli. La psicoanalisi dei “selvaggi”. Anche nel film Black Robe (1991), del regista di origine australiana
Bruce Beresford, ambientato all'epoca della prima colonizzazione francese del Canada all'inizio del XVII secolo
sotto la guida di Samuel de Champlain, e in cui si racconta la storia di un missionario gesuita francese che cerca,
tra infinite difficoltà, di comprendere il mondo delle etnie indigene locali per poter procedere alla loro
conversione, la fa da protagonista il sogno inteso addidrittura come la vera realtà, più importante di quella che si
vive, ad anticipare e precorrere il velo di Maya di Schopenauer, per esempio. Ed è forse un caso o frutto di
un'ispirazione originale il fatto che Pedro Calderón de la Barca nel 1635 abbia rappresentato La vida es sueño?
Credo che occorra ancora approfondire questa possibile matrice del Realismo mágico ma non è questa la sede per
farlo.
660
Oltre ai citati, tra i padri della négritude va incluso anche il senegalese Léopold Sédar Senghor (1906-2001), che
del resto conobbe Aimé Césaire, originario della Martinique, quando entrambi erano studenti a Parigi. Durante la
mia permanenza in Brasile, ricordo come andassero di moda delle magliette nere su cui campeggiava la scritta
“100% negro”, ben presto però “compensate” da altre magliette su cui invece era riportata la scritta “100%
mestizo”. Lo stesso Césaire, più tardi, e altri autori quali il nigeriano Wole Soyinka, premio nobel per la
Letteratura nel 1986, hanno preso le distanze dal termine e dal movimento che ne ha sposato il concetto, a causa
degli accenti razzisti che vi stavano proliferando. La bibliografia è sterminata, segnalo solo il seguente articolo:
Martin Munro, “Can’t Stand Up for Falling Down: Haiti, Its Revolutions, and Twentieth-Century Negritudes”,
Research in African Literatures 35/2 (2004), pp. 1-17, in cui l'autore evidenzia come la rivoluzione haitiana è
stata probabilmente la matrice di tutte le rivendicazioni negras, négritude compresa. Nell'indigenismo dei
movimenti e degli autori indigeni è talora emersa una tendenza analoga.
661
Cfr. cap. I. Nel 2000 la Rede Globo ha trasmesso una miniserie di successo derivata da questo romanzo.
662
Il tropicalismo brasiliano fu una vera e propria forma di resistenza culturale alla dittatura, sia pure nella sua
varietà e tra le numerose critiche ricevute, che ha avuto tra i principali rappresentanti artisti quali Caetano Veloso,
Gilberto Gil, Torquato Neto, Os Mutantes, Tom Zé, Gal Costa, Jorge Ben Jor, Rita Lee. Cfr. Carlos Calado,
Tropicália: A História de Uma Revolução Musical, Editora 34, São Paulo 1997.

237
Il recupero di un punto di vista indigeno: Darcy Ribeiro

Nós, que não somos nem europeus, nem indígenas, nem africanos, nem nada – o que somos? Somos um
gênero humano novo, uma civilização que vai se apresentar ao mundo como outra coisa que o mundo ainda
não viu; e creio que é uma coisa melhor, porque tem mais humanidade incorporada.

Darcy Ribeiro, Sobre a mestiçagem no Brasil663

Todos os homens nascem em Jerusalém. Eu também? Padre serei, ministro de Deus da Igreja de Nosso
Senhor Jesus Cristo. Mas gente, eu sou? Não, não sou ninguém. Melhor que seja padre, assim poderei viver
quieto e talvez até ajudar o próximo. Isto é, se o próximo deixar que um índio de merda o abençoe, o confesse,
o perdoe.

Darcy Ribeiro, Maíra664

Mi richiamo nuovamente allo studio di Manoela Freire de Oliveira665:

A partir da consolidação do pensamento antropológico no Brasil, as representações dos povos


indígenas sofrem mudanças cruciais. Pois foram com os estudos etnológicos que a antropologia
no Brasil obteve seus maiores êxitos. O destino das populações indígenas foi sempre balizado
pelo modo como os outros habitantes da nação os trataram historicamente 666. Esse destino foi
profetizado ora como sendo a extinção, ora como sendo a integração à sociedade nacional. Essa
dúvida sobre a sobrevivência dos povos indígenas no Brasil tem sido um ponto de discussão
central na Antropologia Brasileira. […]
Até os anos 30 do século XX não existe formação acadêmica de etnólogo no Brasil, os
estudiosos brasileiros que dão contribuições nessa área são médicos, juristas, engenheiros,
militares ou de outras profissões. [...] Esses pesquisadores quase todos autodidatas em
Antropologia, a par de seus levantamentos a respeito dos índios, negros, sertanejos, mostravam
na maior parte dos casos um certo interesse no destino das populações e seu lugar na formação
do povo brasileiro. A maioria dos pesquisadores que eram estrangeiros e pesquisavam as
populações nativas, já estavam atentos para o problema do contato interétnico.

663
http://www.cefetsp.br/edu/eso/comportamento/ribeiromesticagem.html .
664
Editora Civilização Brasileira, Rio de Janeiro 1976, p. 19.
665
Op. cit., pp. 104-108.
666
Il sottolineato è mia iniziativa, come negli altri casi successivi.

238
Nas décadas de 20 e 30 [...], começam a se notar algumas modificações no que se refere às
pesquisas com índios: as preocupações evolucionistas vão sendo aos poucos abandonadas e
começa a decrescer o número de pesquisadores estrangeiros, em especial, alemães. Para Júlio
Cezar Mellati no artigo “A Antropologia no Brasil: um roteiro”, talvez o mais notável
pesquisador estrangeiro da época, pela extensão de seu trabalho e pela dedicação, tenha sido o
alemão Curt Nimuendajú667. Trabalhou inicialmente com os Guarani, os Xerentes, os Canelas,
os Apinayé e os Tukúnas, através do então recém criado Serviço de Proteção Aos Índios
(SPI)668.
Em 1934 foi criada a primeira Faculdade de Filosofia e Letras no Brasil, o que ocorreu na
Universidade de São Paulo, e na mesma época também se fundou a Escola de Sociologia e
Política. Para suprir a necessidade de professores foram contratados vários mestres
estrangeiros, como Roger Bastide, Emílio Willems 669, Claude Lévi-Strauss. Também no Rio de
Janeiro criava-se a Universidade do Distrito Federal, onde Gilberto Freyre 670 assumiu, em 1935,
667
Curt Unckel (1883-1945), nativo di Jena, visse tra gli índios brasiliani per oltre 40 anni fino alla sua morte.
Naturalizzato brasiliano, assunse il cognome Nimuendajú, che era il nome assegnatogli dai Guarani-Ñandeva e
significa “mettere su casa”, “soggiornare”, allusione chiara alla scelta di vita dell'etnologo tedesco. Cfr. Marta
Rosa Amoroso, “Nimuendajú às voltas com a história”, Revista de Antropologia 44/2 (2001), pp. 173-186.
668
Júlio Cezar Melatti, “A antropologia no Brasil: um roteiro”. BIB. Boletim Informativo e Bibliográfico de
Ciências Sociais 17 (1984), p. 8. Sul Serviço de Proteção aos Índios istituito da Rondon cfr. cap. I.
669
Emil (Emílio) Willems (1905-1997), anche lui di origine tedesca, nativo di Colonia, abbandonò la Germania
prima dell'ascesa del nazismo e si stabilì in Brasile dove divenne un sociologo affermato. In seguito si trasferì
negli Usa, dove ha insegnato presso la Vanderbilt University di Nashville (Tennessee). Importanti
antropologi/sociologi brasiliani quali Egon Schaden e Gioconda Mussolini furono suoi assistenti.
670
Gilberto Freyre (1900-1987) è stato un altro dei grandi nomi della cultura brasiliana del '900. Sociologo, scrittore,
critico letterario, promotore culturale, giornalista e tanto altro. Il suo nome è peraltro legato al chiaro segno che
ha lasciato la sua opera più importante, Casa-Grande & Senzala. Formação da Família Brasileira sob o Regime
da Economia Patriarcal (1933), il cui sottotitolo è subito significativo e esplicativo del titolo invece emblematico
e nella quale analizza appunto la formazione della società brasiliana a partire da quello che ne è stato senz'altro il
nucleo, cioè la proprietà fondiaria del latifondista, o senhor de engenho, con la sua casa, la Casa-Grande, in
posizione dominante e già nella sua architettura ispirata a principi della cultura patriarcale corroborata dalla
religione cattolica, e la Senzala, cioè le misere abitazioni degli schiavi con il cui lavoro la proprietà produceva.
Un libro di ragguardevole attualità e che tra l'altro serve a spiegare non solo il Brasile, ma tutto il mondo attuale
costruito a partire dalla sovrastruttura politico-economica prima coloniale, in seguito neocoloniale, laddove poche
cose sono veramente cambiate, almeno sul piano dei rapporti socio-economici. Ho avuto occasione di vivere
un'esperienza di lavoro di un anno presso la scuola italiana “Enrico Mattei” di Lagos, in Nigeria, scuola gestita
direttamente dall'AGIP, quarta più importante multinazionale del petrolio presente nel disastrato territorio
nigeriano; durante quest'anno ho vissuto in un residence-fortezza difeso da garitte, filo spinato elettrificato e

239
como seu primeiro professor, as cátedras de Antropologia Social e Cultural e a de Sociologia.
Em 1939, Darcy Ribeiro, que menciona a si mesmo como um dos três antropólogos da segunda
geração da “família dos etnólogos brasileiros”, ainda não tinha saído de Minas Gerais, de onde
foi, pelas mãos de Donald Pierson671, para a Escola de Sociologia e Política de São Paulo.
Enfim com as oportunidades que se abrem para estudar, tanto no Brasil, como no exterior,
começa a crescer o número de etnólogos brasileiros, o que culminou na criação em 1955 da
Associação Brasileira de Antropologia (ABA). Mariza Corrêa, no ensaio “Traficantes do
excêntrico: os antropólogos no Brasil dos anos 30 aos anos 60” afirma que:
Uma avaliação geral, ainda que sumária sobre as reuniões da ABA mostra
que a definição e a configuração temática, apesar da mudança de
terminologia e de ênfase, tem se mantido constantes desde a sua fundação.
Seis de seus doze presidentes são, ou eram na época da eleição,
especialistas em assuntos indígenas - e todos os outros mantiveram o tema
em primeiro plano em suas gestões672.
No que tange ao estudo do contato interétnico entre índios e brancos, talvez tenha sido Herbert
Baldus673 um dos primeiros a ensaiá-los e acentuar sua necessidade. Na década seguinte

corpo di guardia, entro il cui perimetro si trovava anche la Senzala, le misere abitazioni dei domestici locali, tra
cui quello che lavorava per me. Io vivevo nella Casa-Grande. E un anno m'è bastato. C'è chi ci vive tutta la vita.
671
Donald Pierson (1900-1995) è stato un sociologo statunitense, docente all'univeristà di Säo Paulo tra la metà
degli anni '30 e la fine degli anni '60, collega del citato Emílio Willems e, sia pure in altro campo, anche di
Giuseppe Ungaretti, finché quest'ultimo rimase a Säo Paulo. Si dedicò soprattutto a studiare i rapporti socio-
economici tra “razze” comparativamente tra Brasile e Usa, giungendo alla conclusione che nel paese lusofono
d'America, a differenza che negli USA, non esisteva un vero e proprio razzismo, nonostante i negros fossero
comunque il gradino più baso della scala sociale.
672
Mariza Corrêa, “Traficantes do excêntrico: os antropólogos no Brasil dos anos 30 aos anos 60”, Revista
Brasileira de Ciências Sociais 6/3 (1988), p. 87.
673
Un altro antropologo di origine tedesca che scelse di vivere in Brasile perlopiù per studiarne gli indigeni. Era nato
a Wiesbaden nel 1899 e già nel 1923, dopo aver partecipato giovanissimo alla I Guerra Mondiale, si stabilì a São
Paulo, dopo essere passato per l'Argentina. Anche lui collega del connazionale Willens, ha convissuto anni con
varie etnie indigene, come l'altro connazionale Curt Nimuendajú, quali gli Xamakoko, i Kaskihá e i Sanapaná,
questi ultimi della regione del Chaco, tra Brasile e Paraguay. È morto a São Paulo nel 1970. Cfr. Orlando
Sampaio Silva, “O Antropólogo Herbert Baldus”, Revista de Antropologia 43/2.(2000), pp. 23-79.

240
destacam-se os trabalhos de Robert Murphy674 sobre os Mundurukú, os de Eduardo Galvão 675
sobre os índios do alto Rio Negro e o trabalho inicial de Roberto Cardoso de Oliveira 676 sobre
os Terenas. No final dos anos 50, alguns pesquisadores, como Eduardo Galvão, Darcy Ribeiro
e Roberto Cardoso de Oliveira, começam a repensar a orientação que vinha sendo tomada nos
estudos de aculturação, sem, porém, abandonar o uso desse termo. É o tempo em que Darcy
Ribeiro chama a atenção para a importância das frentes de expansão, do caráter econômico das
mesmas e desloca o interesse das culturas indígenas para o destino das sociedades que as
mantém e seus membros.
Em 1955 se formava o “Curso de Aperfeiçoamento em Antropologia Cultural” no Museu do
Índio, órgão do então Serviço de Proteção aos Índios 677. Criado por Darcy Ribeiro que tivera
sua formação na Escola de Sociologia e Política de São Paulo, contou com a colaboração
docente, dentre outros, de Roberto Cardoso de Oliveira. Em 1957, também por iniciativa de
Darcy Ribeiro, criou-se o “Curso de Formação de Pesquisadores Sociais” no Centro Brasileiro
de Pesquisas Educacionais. Enfim, esses três cursos ( do Museu do Índio, do CBPE e do Museu
Nacional) formaram vários dos antropólogos brasileiros e foram os percussores do Programa de
Pós-Graduação em Antropologia Social que se instalou no Museu Nacional em 1968, ainda por
iniciativa de Roberto Cardoso de Oliveira. Segundo Júlio Cezar Melatti: “Com a criação de
mais outros cursos de pós-graduação que vieram se juntar a este, o número de etnólogos
começou a crescer rapidamente, fazendo com que esses profissionais deixassem de constituir
um velho grupo de amigos em que todos se conheciam” 678.

674
Robert Francis Murphy (1924-1990) è stato un antropologo della Columbia University di New York, dello stesso
dipartimento fondato alla vigilia degli anni '20 da Franz Boas. A partire dagli anni '60 ha studiato direttamente
appunto i Munduruku, Headhunters del Rio delle Amazzoni, altre etnie indigene del Brasile come i Trumal,
nonché i Tuareg del Niger. Tutto questo nonostante abbia convissuto sin da giovane con un tumore al midollo
spinale che alla fine gli ha provocato la tetraplegia. Cfr. Robert Francis Murphy, The Body Silent, prefazione di R.
Brian Ferguson, Norton, New York 1987.
675
Eduardo Enéas Gustavo Galvão (1921-1976) è stato un antropologo carioca. Ha studiato le società indigene
soprattutto nel parco di Xingu dei fratelli Villas Bôas e in genere in Amazzonia. Ha collabotato con Darcy
Ribeiro. Fu vittima dell'epurazione condotta da parte del regime militare: gli fu impedito di continuare a
insegnare e dovette vivere nel disagio sociale fino alla morte prematura. Cfr. Orlando Sampaio Silva, Eduardo
Galvão: índios e caboclos, Annablume, São Paulo 2007.
676
Roberto Cardoso de Oliveira (1928-2006) è stato un antropologo paulista. Influenzato da Bastide e dagli altri
studiosi francesi, anche lui ha collaborato con Darcy Ribeiro ed è stato collega del precedente al Museu do Índio.
677
Cfr. cap. I.
678
Op. cit., p. 17.

241
È innegabile, da quanto sinora sintetizzato, come l'operato di Darcy Ribeiro si ascriva
perfettamente nella questione indigena così come è stata portata avanti almeno dall'indianismo
alencariano sino alla creazione dell'appena descritta importante scuola antropologica brasiliana,
con i contributi determinanti di studiosi stranieri, quelli citati e altri, soprattutto francesi, tedeschi
e statunitensi, e nello sviluppo della quale Darcy Ribeiro ha svolto un ruolo da protagonista.
Da tale esperienza, però, l'antropologo mineiro679 ne trasse anche un'importante riflessione
letteraria e al contempo sociologica, in una forma inedita per la letteratura brasiliana: un
romanzo indigenista il cui modello richiama al neoindigenismo arguediano, comunque
ispanoamericano, più che alla tradizione brasiliana, Maíra (1976).
Cito ancora Manoela Freire de Oliveira680:

Darcy Ribeiro é um dos antropólogos brasileiros mais conhecidos pelo seu trabalho de pesquisa
exaustivo com os povos indígenas e pelo seu contato e interesse em defender e conhecer os
índios brasileiros. Nasceu em 1922, em Minas Gerais, e em 1946 formou-se em Antropologia
na Universidade de São Paulo, dedicando seus primeiros anos de vida profissional ao estudo
dos índios do Brasil Central e da Amazônia. [...] Escreveu uma vasta obra etnográfica e de
defesa da causa indígena. [...] Mais tarde foi Ministro-Chefe da Casa Civil do governo de João
Goulart e coordenava a implantação das reformas estruturais, quando sucedeu o golpe militar
de 1964 que o lançou no exílio.
Darcy Ribeiro viveu em vários países da América Latina 681, conduzindo programas de reforma
universitária, com base nas idéias que defendeu em A universidade necessária. Foi assessor do
presidente Salvador Allende, do Chile, e Velasco Alvarado, do Peru. Escreveu nesse período os
cinco volumes de seus Estudos de Antropologia da Civilização: O processo civilizatório, As
Américas e a Civilização, O dilema da América Latina, Os Brasileiros: 1. Teoria do Brasil, e
Os índios e a Civilização, que têm 96 edições em diversas línguas. Neles propõe uma teoria
explicativa das causas do desenvolvimento sócio- econômico desigual dos povos americanos e
quais as perspectivas para os povos ditos “atrasados”.

679
Era nato a Montes Claros, nel nord del Minas Gerais, una regione arida, sia pure non come il più volte citato
sertão più a nord.
680
Op. cit., pp. 108-119.
681
Il sottolineato è mia iniziativa, come nei casi che seguono. Il suo soggiorno in altri Paesi dell'America Latina fu
dettato dal vero e proprio esilio che subì, assieme ad altri intellettuali brasiliani, in seguito al colpo di stato
militare del 1964. Cfr. per esempio Haydée Ribeiro Coelho, “O Exílio de Darcy Ribeiro no Uruguai”, Aletria 9, 1
(2002), pp. 211-225, e infra. Ovviamente, lui ebbe modo di farne tesoro.

242
Darcy Ribeiro sustentou a idéia, nas suas obras, de que as duas únicas saídas para os povos
indígenas em contato com a civilização ocidental seriam ou a resistência étnica ou a morte,
descartando a possibilidade da assimilação gradativa desses povos pela sociedade nacional.

E questa convinzione di Darcy Ribeiro era in assoluto contrasto con l'indianismo


brasiliano, ma anche con l'indigenismo dominante nel mondo ispanoamericano, semmai in
continuità con Rondon e i fratelli Villas Bôas, in sintonia con Arguedas, e a precorrere le attuali
istanze dei movimenti e degli autori indigeni.
Precisa la Freire de Oliveira:

Dessa maneira, o antropólogo defendia a teoria da total proteção de qualquer tipo de contato
dos índios com os ditos civilizados, por acreditar que este seria uma ameaça a sobrevivência
desses povos. O livro Os Índios e a Civilização682, por exemplo, foi resultado tanto de dados
colhidos durante os dez anos em que passou no convívio com os índios nas diversas aldeias em
que viveu, quanto da troca de experiências com indigenistas, etnólogos e também com
missionários.
O acesso aos arquivos valiosos do Serviço de Proteção aos Índios, órgão no qual trabalhou
como etnólogo, foi também de grande importância para sua pesquisa. Enquanto antropólogo,
Darcy Ribeiro debruçou-se sobre a tarefa de reconstituir a história recente dos índios
brasileiros, analisando e avaliando o processo de integração das populações indígenas no Brasil
moderno. A tese central do livro Os índios e a civilização são as diversas etapas de
incorporação dessas populações à sociedade nacional, que correspondem a um processo de
transfiguração étnico cultural, por meio do qual os “índios tribais” – aqueles que conservam seu
ethos tribal e sua autonomia cultural – são levados à condição de “índios genéricos683”, grupos
que já não falam mais sua língua original e perderam muito do seu patrimônio cultural,
constituindo-se em participantes diferenciados da sociedade brasileira ainda que não tidos
como assimilados. Em resumo, o estudo etnológico de Darcy Ribeiro tratou basicamente do
encontro traumático entre duas culturas, ao narrar como aqueles que sobreviveram ao
extermínio permaneceram indígenas.

682
1970.
683
Cfr. supra.

243
E questo problema della perdita della propria identità etnica specifica per assumere quella,
imposta dalla società, di índio genérico, abbiamo visto come sia un tema ancora molto attuale e
affrontato infatti anche nel film citato di Marco Bechis.
Procede la ricercatrice brasiliana:

Ainda no exílio, começou a escrever os romances Maíra e O mulo, e já no Brasil escreveu dois
outros: Utopia selvagem e Migo. Publicou ainda Aos trancos e barrancos, que é um balanço
crítico da história brasileira de 1900 a 1980. É também autor de uma coletânea de ensaios
insólitos – Sobre o óbvio – e um balanço de sua vida intelectual que recebeu o título de
Testemunho. Seu último livro, publicado pela Biblioteca Ayacucho, em espanhol, e pela
Editora Vozes, em Português, é A fundação do Brasil, textos históricos dos séculos XVI e
XVII, comentados por Carlos Moreira, e precedidos de um longo ensaio analítico sobre os
primórdios do Brasil. Foi eleito membro da Academia Brasileira de Letras e, como romancista,
sua produção também atingiu uma qualidade invejável [...], após o insucesso nas tentativas da
juventude, com o romance Maíra, de 1976. A grande marca do Darcy Ribeiro romancista é a
interação das facetas ficcionista/ romancista/ antropólogo, já que ao adentrarmos pelas suas
obras jamais se sabe qual dos "darcys" está falando.
O romance Maíra, a mais exitosa obra do romancista, tem como matéria o tema principal de
suas pesquisas etnográficas: o contato trágico dos índios com a dita civilização européia, ou
seja, a dilemática aculturação dos povos indígenas, no contexto nacional. O fato de Darcy
Ribeiro se auto-definir basicamente como etnógrafo e transitar para a literatura, sugere a
necessidade de análise da aproximação entre essas duas vertentes discursivas.
Na Antropologia, a autorização interpretativa e discursiva está baseada na convivência do
pesquisador com os indígenas, o que lhe permite acesso ao conhecimento do cotidiano e das
tramas da vida de homens e mulheres distantes culturalmente deste observador. O método
tradicional da disciplina, que é o trabalho etnográfico de campo, tem sido considerado como o
princípio e o fim da antropologia social. O antropólogo Clifford Geertz no seu livro “Nova luz
sobre a Antropologia” questionando sobre o método da disciplina e sobre abalos ocorridos
atualmente no campo diz que:
“O que fazemos que os outros não fazem, ou só fazem ocasionalmente, e
não tão bem feito, é conversar com o homem do arrozal ou a mulher do
bazar, quase sempre em termos não convencionais, em língua vernácula e

244
por longos períodos de tempo, sempre observando muito de perto como eles
se comportam.684”
O antropólogo traz a tona nesse livro o debate e os conflitos com relação aos limites e métodos
da disciplina. Para Geertz, aproximadamente nos últimos vinte e cinco anos, era do pós-tudo
(pós-modernismo, pós-estruturalismo, pós-colonialismo, pós-positivismo), a tentativa de
retratar “como pensam ( ou pensavam) os nativos”, ou mesmo o que eles estão fazendo quando
fazem o que fazem, está sob considerável ataque moral, político e filosófico685.
[...] O que se deve ter como pressuposto é que as interpretações das culturas não devem ter
pretensões de verdades únicas e absolutas, porque quem mais autoridade tem pra falar de uma
cultura são os próprios membros desse grupo. O trabalho intensivo de campo não produz uma
compreensão privilegiada ou completa. Tampouco o faz o conhecimento cultural de
autoridades indígenas, de “pessoas de dentro”.

Secondo la ricercatrice brasiliana, questo relativismo dell'antropologia è stato accentuato


dalla fragmentação pós-moderna, a maggior ragione

[o] próprio Darcy Ribeiro [...] encarregou-se de demonstrar a todo momento a credibilidade do
conteúdo de seu romance Maíra, já que muitas informações contidas na narrativa foram
incorporadas dos seus outros livros de caráter etnológico, dando bem a medida de quanto de
seu saber sobre a vida indígena e sobre as conseqüências de seu contato com o branco Darcy
Ribeiro lançou mão, para recriar ficcionalmente o choque de culturas. Lá estão os relatórios dos
indigenistas ao SPI (Serviço de Proteção aos Índios) [...]. É nesse sentido que se estabelece um
diálogo entre as duas vertentes discursivas e na Introdução da 14ª edição do romance Darcy
Ribeiro deixa claro sua intenção:
Todas essas contaminações do texto me levaram a fazer de Maíra não só
uma reconstituição literária da etnologia indígena, em que qualquer leitor
aprende mais sobre o modo de ser, de se organizar e de viver de um povo
indígena do que lendo dezenas de livros etnográficos. Os cientistas
despedaçam, desarticulam a realidade para apresentá-la em tópicos, como
se houvesse uma mitologia, uma arte, uma religião separada dos outros
componentes da cultura. O melhor, porém, foi dar uma de Homero,

684
Clifford Geertz, Nova Luz sobre a Antropologia, Editora Jorge Zahar, Rio de Janeiro 2001, pp. 89-90 [Available
Light: Anthropological Reflections on Philosophical Topics, Princeton University Press, 2000].
685
Cfr. supra quanto detto riguardo al relativismo culturale.

245
retomando, compaginando a mitologia de dezenas de povos indígenas que
eu conhecia muito bem, para representá-la ali unificada e para contrastá-
la, enquanto cosmogonia, com a visão cristã do mundo686.
No trecho acima, Darcy Ribeiro traz a tona algumas questões sobre o modo como tanto como o
romancista quanto o cientista descreveu um acontecimento, ou seja, depende de como
configura a estrutura específica do enredo, no qual alguns elementos são subordinados ou
suprimidos e outros realçados.
No ensaio “Os atos de fingir ou o que é fictício no texto ficcional”, Wolfgang Iser 687 questiona
em primeiro lugar a oposição entre realidade e ficção como parte do repertório do nosso “saber
tácito”. [...] O que o autor está se perguntando é se os textos ditos ficcionais serão de fato tão
ficcionais e os que assim não se dizem serão de fato isentos de ficções. Nas palavras de
Wolfgang Iser:
A relação opositiva entre ficção e realidade retiraria da discussão do
fictício no texto uma dimensão importante, pois evidentemente, há no texto
ficcional, muita realidade que não só deve ser identificável como realidade
social, mas que também pode ser de ordem sentimental e emocional 688.
O que Darcy Ribeiro deixou claro no trecho da Introdução de Maíra foi como a atividade
científica também precisa necessariamente, a partir de elementos, pedaços, restos da realidade,
produzir ficção. E ainda com Iser, ao tentar dominar a ficção, a história do conhecimento se viu
forçada a reconhecer como ficções as suas próprias bases, sendo obrigada a abrir mão, face à
crescente ficcionalização de si mesma, de pretensão de ser uma disciplina básica universal.

Mi sembra evidente come la questione sollevata da Darcy Ribeiro, secondo la descrizione


della Freire de Oliveira, riecheggi accenti di dibattiti già affrontati da autori del passato, per
esempio Balzac, con la sua Comédie humaine, con cui pretendeva di costruire una histoire
naturelle de la société, nonché Zola, che con i suoi romanzi “naturalisti” suggeriva vere e proprie
correzioni della società, con il fine di migliorarla e renderla più equa689.
Precisa ancora la ricercatrice brasiliana:
686
L'autrice cita la seguente edizione del romanzo di Darcy Ribeiro: Maíra: um romance dos índios e da Amazônia,
Record, Rio de Janeiro 198914, p. 22. Il grassetto è dell'autrice stessa.
687
Wolfgang Iser (1926 -2007) è stato un importante critico letterario tedesco, autore, tra l'altro, di opere quali Der
Akt des Lesens - Theorie ästhetischer Wirkung (1976) e Das Fiktive und das Imaginäre - Perspektiven
literarischer Anthropologie (1991).
688
Wolfgang Iser, “Os atos de fingir ou o que é fictício no texto ficcional”, in: Luís Costa Lima (a c.), Teoria da
Literatura em suas fontes, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro 2002, p. 958.

246
O que Darcy Ribeiro explicita é que a ficção, no seu caso, representada no texto literário,
permitiu que se mantivessem unidas dentro de um único espaço textual uma variedade de
linguagens, de níveis de focos, de ponto de vistas, já que ele reuniu mitologias diversas de
várias etnias indígenas, representando-as unificada em uma única cosmogonia, a da tribo
Mairum.
No romance Maíra, pode se perceber, por exemplo, a tentativa de Darcy Ribeiro de reproduzir,
no nível ficcional, o princípio da dualidade, ou seja, da divisão social através dos opostos que
estrutura a lógica do pensamento selvagem. Essa lógica foi estudada principalmente por Claude
Lévi-Strauss num período próximo ao que Darcy Ribeiro pesquisava e produzia seus trabalhos
etnográficos.
Foi no seu livro O Pensamento Selvagem que Lévi-Strauss afirmou que, em uma sociedade
primitiva, as várias técnicas – que tomadas isoladamente podem parecer um dado bruto –
surgem como o equivalente de uma série de escolhas significativas, quando situadas no
inventário geral das sociedades. Assim a Antropologia conclui que o pensamento selvagem,
operando através de um conjunto de separações diferenciais, institui, no interior da totalidade
empírica, um sistema de oposições que possibilitará o início de estruturação dessa totalidade, a
qual, por sua vez, torna-se disponível para uma atividade de significação. Dessa maneira, é
importante salientar que segundo Lévi-Strauss, o pensamento selvagem é lógico no mesmo
sentido e da mesma maneira em que o é o nosso pensamento, mas só quando o nosso se aplica
ao conhecimento de um universo ao qual se reconhecem, ao mesmo tempo, propriedades físicas
e semânticas.
Dessa forma, é necessário dizer que o pensamento “selvagem” não se revela como uma forma
distorcida ou arcaica do nosso, mas como uma experiência dotada de lógica interna, que é tão
ou mais exigente e rigorosa quanto a elaborada pelo pensamento civilizado ocidental. É nesse
sentido, que quando um indígena usa para o seu sistema de classificação, certas categorias
representadas pelas espécies animais, deve se ver nisso, não uma exigência animista, mas uma
exigência lógica. E umas das bases estruturais dessa lógica é o princípio da dualidade ou o
modo operante da reflexão mitopoética a que Lévi- Strauss denomina de bricolage, segundo
Lévi- Strauss:
As imagens significantes do mito, os materiais do bricoleur, são elementos
definíveis por um duplo critério: eles serviram, como palavras de um
discurso que a reflexão mítica ‘desmonta’, à maneira do bricoleur que
689
Cfr. Honoré de Balzac, L'avant-propos de la Comédie humaine (1842); Émile Zola, Le Roman Expérimental
(1880); Id., Les Romanciers Naturalistes (1881).

247
cuida das peças de um velho despertador desmontado e eles ainda podem
servir para o mesmo uso ou para um uso diferente, por pouco que sejam
desviados de sua função primeira690.
Essa divisão social onde os pares estão sempre organizados em complementares e opostos pode
ser vista representada no romance de Darcy Ribeiro, e fica bem explícita na descrição que o
personagem Avá faz da aldeia Mairum e do seu povo:
Essa partição da aldeia em metades retrata no chão a partição do mundo,
tal como o concebemos, sempre dividido em dois; o dia e a noite, o claro e
o escuro, o sol e a lua, o fogo e a água, o vermelho e o azul, e também o
macho e a fêmea, o bom e o ruim, o feio e o bonito. Uma banda da aldeia é
do dia , da luz, do fogo, do amarelo. È onde está minha família jaguar entre
muitas outras. A outra banda é noturna, crespular, lunar, aquática,
azulona. È das famílias recíprocas, como a dos meus cunhados e
gaviõezinhos carcarás e de muitas outras gentes691.
É dentro dessa lógica de opostos, portanto que Darcy Ribeiro arma sua narrativa, reduplicando,
nos outros planos do romance, e também entre eles, relações de oposição ou
complementaridade. Operando com materiais fragmentários já elaborados e utilizados num
repertório cuja composição é heteróclita, Darcy Ribeiro estaria combinando e recombinando
esses materiais, atribuindo-lhes nova função dentro do romance:
A aldeia exprime no chão do mundo as idéias que levamos na cabeça; a
banda do nascente e do poente, o lado de cima e o de baixo, a rua de fora e
a de dentro. Mas não é só na aldeia. Nela como em tudo mais somos assim.
Vivemos divididos segundo regras do sim e do não, do frio e do quente, da
sorte e do azar, da vida e da morte, da alegria e da dor, do cru e do cozido,
da boca e do cu, do pau e da boceta, da cabeça e do umbigo, do sangue e
do leite, do sêmen e do cuspe, do nu e do vestido, do silêncio e da fala, da
raiz e da fronde, da pele e do osso, do animal e do vegetal, da caça e do

690
Claude Lévi-Strauss, O pensamento selvagem, trad. Tânia Pellegrini, Nacional, São Paulo 1976, p. 51 [La Pensée
sauvage, Presses Pocket, Paris 1962].
691
Ribeiro, Maíra...cit., p. 73.

248
peixe, do riso e do choro, do tubi e do goto. Quando falamos de um, aí está
o outro, oferecido, como o direito e o esquerdo, a frente e o atrás, exigindo
atenção e, se é o caso, pedindo a sua parte692.
Longe de ser aleatória, essa combinação organizada e dividida socialmente por pares de
opostos, obedeceria à uma lógica própria que segundo o próprio Levi-Strauss:
Essa lógica trabalha um pouco à maneira de um caleidoscópio, instrumento
que também contém sobras e pedaços por meio do qual se realizam
arranjos estruturais. Os fragmentos são obtidos num processo de quebra e
destruição, em si mesmo contingente, mas sob a condição que seus produtos
ofereçam entre si certas homologias693.
Segundo o antropólogo, os termos não teriam significações a priori, ou intrínseca, sua
significação é de posição, por um lado, e função da história e da cultura e, por outro lado, da
estrutura do sistema em que são figurados. Seria de se estranhar que o antropólogo Darcy
Ribeiro tivesse ignorado o impacto da influência do estruturalismo Lévi-Straussiano no país,
principalmente por causa da sua atuação como pesquisador e professor do Museu Nacional e
também pelo diálogo constante da etnologia brasileira com o pensamento do etnólogo francês,
desde a década de 60.
Mas não é só com Lévi-Strauss que Darcy dialoga no romance, mas também e principalmente
com seus contemporâneos colegas brasileiros. Pode-se ler Maíra no contexto também da briga
teórica entre duas gerações de antropólogos que vêm a público por meio do debate entre Darcy
Ribeiro e Roberto Da Matta, na década de 70. O ponto crucial do debate é a posição do
intelectual brasileiro e o que estava em jogo eram concepções diferentes de cultura e de
engajamento político, com relação à defesa dos direitos dos povos indígenas.
No romance existem diversas vozes que compõem a narrativa, cada uma conforme o seu
ângulo de visão. Em vez de dar o comando da narração a um narrador onisciente, objetivo e
distante, o autor divide a tarefa de relatar o encontro Mairum com o mundo dito civilizado entre
diferentes narradores, oferecendo ao leitor uma multiplicidade de pontos de vista e ângulos,
com vozes de brancos, mestiços e índios, e de indivíduos e um “eu” coletivo.
É graças a esse caráter que Maíra incorpora tamanha multiplicidade de discursos, mesclando,
eu seu tecido narrativo, ato de designações, relatórios oficiais, depoimentos, narrativas míticas,
textos em latim, trechos da Bíblia, paródias de orações, todos mobilizados para dar conta da
complexidade das relações entre as duas tradições culturais em conflito e dos diferentes
interesses em jogo no romance. É nessa perspectiva que pode-se ler Maíra como um romance
692
Ibid., p. 74.
693
Lévi-Strauss, O pensamento...cit., p. 52.

249
cujo grande personagem é o antropólogo. Ou como uma tomada de posição em defesa do que
Darcy Ribeiro acreditava ser a tarefa primordial de um cientista social.

In seguito Manoela Freire de Oliveira si dedica alla trama e ai personaggi del romanzo694:

O romance Maíra tem como tema central a vida tribal dos mairuns, etnia ficcionalmente criada
pelo autor, na qual se condensam, segundo seu próprio depoimento, crenças, mitologias de
diferentes culturas nativas do território brasileiro, às margens do rio Iparanã, na Floresta
Amazônica, vista como última fronteira do avanço predador de uma civilização, herdeira de
todos os prejuízos do empreendimento colonial e promotora de todos os aspectos de barbárie do
capitalismo.
Os mairuns não aparecem no romance como um tipo genérico de tribo; conforme se desvelam
para o leitor sua mitologia, suas crenças, a voz mesma de seus espíritos, de seu criador, eles
tornam-se uma tribo particular, um povo ameaçado, embora ali estejam como personagens
emblemáticos de um drama que não é só deles, mas de todos os povos da América Latina na
mesma condição.
Maíra, o personagem que dá título ao romance, é parte do mundo criado com base em um deus
velho, e na criação ele é uma espécie de força vital que anima os homens, chegando a coabitar
com seus corpos, corações e mentes. Os mairuns são o povo de Maíra, e a presença desse deus-
espírito em um homem é o momento único para ambos, que assim se revelam mutuamente,
permanecendo no mesmo plano de existência. Esse momento marca bem a diferença da
mitologia mairun para a cristã, pois nesta o seu deus nunca permanece inteiramente no plano da
existência humana. O homem corre risco de destruição, mas o deus cristão não, pois é eterno; já
os deuses e espíritos mairuns desaparecerão, se os mairuns desaparecerem, e estes são seres
fadados à essa extinção. Portanto, na consciência mairum construída pelo romance há uma
perfeita reciprocidade entre o plano do humano e do divino; um não existe sem o outro, e o
desaparecimento de um acarreta o desaparecimento do outro. De certo modo esse processo
agônico já se iniciou, a chegada da civilização pôs este povo à beira da aniquilação absoluta, do
fim da história695.
O eixo temático central do romance é sem dúvida a questão da aculturação dos povos
indígenas, do contato desses povos com a civilização ocidental e suas dramáticas

694
Op. cit., pp. 120-134.
695
In tal senso, si può senz'altro dire che Darcy Ribeiro, come ha sottolineato l'autrice stessa, abbia costruito una
situazione emblematica di tutti i popoli originari del continente americano.

250
conseqüências. O termo aculturação significou basicamente o processo de contato contínuo,
forçado ou não, entre duas culturas e que resulta em significativas alterações dos padrões
culturais dos grupos humanos em contato. Esse processo recebeu nome próprio apenas nas
primeiras décadas do século XX e o pólo mais exposto à contaminação cultural está
relacionado com os grupos indígenas, aos quais foi imposta a fórmula que via, de regra, foi
sintetizada pelos colonizadores nos seguintes termos: “aculturar-se ou extinguir-se”696.
Os séculos iniciais da ocupação do Brasil foram caracterizados bem mais pela sucessão de
massacres dos indígenas do que por medidas aculturativas. A superioridade demográfica e a
resistência dos autóctones à presença dos colonos colocavam em risco o projeto metropolitano
de exploração econômica da América Portuguesa, incitando os atos de violência e a dizimação,
provocada pelos confrontos, pelos maus tratos e pela disseminação de patologias até então
desconhecidas dos indígenas.
O assimilacionismo, termo cunhado na segunda metade do século XIX, termo mais tarde
substituído por aculturação, sustentava a idéia de uma hierarquia de culturas, sendo que os
índios brasileiros encontravam-se no estágio de selvageria, o grau mais baixo da escala do
desenvolvimento cultural humano. No entanto, eliminar fisicamente cerca de meio milhão de
indígenas que viviam em território brasileiro seria uma ação que colocaria em risco a própria
ânsia pelo progresso nacional. Sendo assim, o aproveitamento da mão-de-obra indígena
necessitava, antes de mais nada, da aculturação dos “selvagens” que, além de poder servir
como força de trabalho barata que solucionaria o déficit causado pela decadência do sistema
escravista, também seriam úteis como defensores das fronteiras ainda não ocupadas.
O projeto assimilacionista, com o intuito de integrar os índios à sociedade nacional, tinha um
ponto de partida: caberia aos militares e aos sacerdotes aprenderem a língua tupi para em
seguida, contatar com os grupos indígenas e ensiná-los o português. O processo de aculturação
conduziria os indígenas à recusa das tradições e dos valores arcaicos e conseqüentemente, os
enquadraria nos parâmetros da “civilização”, o que corresponderia à incorporação deste extenso
contingente humano no processo capitalista típico da segundo metade do século XIX.
Neste contexto, o livro de estréia na literatura de Darcy Ribeiro representa uma ampla crítica à
proposta aculturativa, sendo que o personagem central do romance está representado na figura
de Isaiás/Avá, um índio mairun que, retirado de sua tribo ainda criança, viveu em seminários
em Mato Grosso, em São Paulo e em Roma. Após longos anos em contato com os homens
brancos, Isaías/Avá , não sabia mais qual era sua identidade, sentindo-se deslocado tanto entre
os padres do Vaticano quanto entre os índios de sua tribo de origem.

696
Cfr. quanto riportato supra a proposito dell'azione dei gesuiti in Brasile, per esempio.

251
Tale situazione può essere confrontata con quella analoga verificatasi in tutti i Paesi
d'America (e non solo), per esempio negli USA: la citata ben fatta miniserie Into the West
racconta tra l'altro come funzionava la Carlisle Indian Industrial School – Industrial School,
perché, ovviamente, ai bambini indiani non s'insegnava a diventare magistrati o medici, bensì
operai – fondata dall'ex ufficiale impegnato nelle guerre del Go West Richard Henry Pratt (1840-
1924).
Mostra come i bambini lakota, strappati alle loro famiglie oppure orfani, in quanto i
genitori erano stati uccisi dagli Wasi'chu, vi fossero acculturati forzatamente nel momento in cui,
per esempio, erano costretti a tagliarsi i capelli – misura che, come è precisato nella miniserie,
per i Lakota era un segno di lutto –, a vestirsi all'occidentale e a rinunciare al loro nome da
sostituire con uno “americano” e cristiano; inoltre era loro proibito usare la lingua madre.
Una scena, al riguardo, mi ha personalmente colpito molto, allorché si mostra un bambino
che, colto a parlare in lingua lakota in mensa, è costretto con la forza a mangiare sapone “per
lavarsi la bocca”. Mi ha colpito in quanto mio padre, originario di Santa Teresa di Gallura o
meglio Lungoni, come i locali chiamano la loro cittadina nel nord della Sardegna, mi aveva
raccontato come ai suoi tempi – era nato nel 1927 –, i bambini delle elementari che erano colti a
parlare in classe la propria lingua madre, il lungunesu, cioè la varietà di gallurese parlato a
Lungoni, subivano la stessa identica pena. Un'analogia senz'altro significativa di come gli effetti
dei cosiddetti nazionalismi di matrice romantica occidentale, su cui già ho evidenziato la mia
posizione, abbiano prodotto in tutto il mondo, colonizzato dall'Occidente, la prevaricazione
dell'acculturazione, a colpire soprattutto i bambini e che nella Carlisle Indian School era
sintetizzata dallo slogan “Kill the Indian, and Save the Man”, di fatto in piena sintonia con lo
slogan del Go West citato attribuito al generale Sheridan697.
Da notare che un caso classico di intellettuale e scrittore “indiano” acculturato, considerato
il primo autore “indiano” che abbia scritto la storia americana dal punto di vista dei Nativi, fu
Charles Eastman (1858-1939), proprio di origine lakota, il cui nome “indiano” alla nascita fu
Hakadah, laddove una volta superata l'infanzia, secondo i costumi lakota, gli fu assegnato il
nome Ohíye S’a, finché non fu “integrato” nella società statunitense con il nome con cui lo

697
Cfr. supra e Richard Henry Pratt, “The Advantages of Mingling Indians with Whites”, in Francis Paul Prucha (a
c.), Americanizing the American Indians: Writings by the “Friends of the Indian” 1880-1900, Harvard University
Press, Cambridge 1973, pp. 260–271.

252
conosciamo. La sua opera più significativa è stata Indian Boyhood (1902) in cui racconta i suoi
primi 15 anni di vita da “indiano”698.
Manoela Freire de Oliveira continua:

A busca de sua verdadeira identidade levou-o ao encontro dos mairuns e, no entanto, é lá, entre
aqueles que um dia foram os seus, que ele sofre todas as dores de quem não sabe mais que
responder quem era:
Reconheço que estou com complexo, obsessivo: paranóico ou
esquizofrênico? Sei lá. Na verdade ninguém me quer mal porque eu sou ou
porque eu fui índio. Apenas constatam. Muitos até se comovem: ‘Um índio
convertido?’ Quase sempre se espantam: ‘Vai receber ordens?’ E todos
concluem: ‘Para se dedicar as missões?’ Nesta altura perguntam: ‘Vai
voltar ao seu povo?’ Querem dizer: ‘à sua tribo?’, ‘aos seus selvagens. Eu
vou? Não vou?699

Essa dificuldade em descobrir quem afinal ele era, leva-no a uma espécie de contínua sensação
de desenraizamento; na Europa e no caminho de retorno, deplorava os índios, seus irmãos de
sangue, denominando-os de “idiotas”700. Nas palavras da personagem: “Minha aldeia não é
parte de coisa nenhuma. É um povo em si, quer dizer, uma tribo com sua lingüinha, sua
religiãozinha, seus costumezinhos destinados a desaparecer 701.” Sentindo-se estrangeiro ao
regressar a sua terra de origem702, Isaías/Avá perde-se em uma angústia sem fim:
698
Cfr. anche il film australiano Rabbit-Proof Fence (2002, doppiato in italiano con il titolo La generazione rubata),
diretto da Phillip Noyce, in cui si racconta la storia vera, verificatasi nel 1931, di tre bambine aborigene
“mezzosangue”, due sorelle e una cuginetta, strappate alla famiglia in quanto destinate a una scuola analoga alle
Indian boarding schools statunitensi, da cui però riuscirono a fuggire – a parte una che fu catturata – percorrendo
1500 miglia (!) a piedi nel deserto. Il film è tratto dal romanzo-testimonianza di Doris Pilkington Garimara (nata
Nugi Garimara; 1937-2014), Follow the Rabbit-Proof Fence (1996), figlia della maggiore delle tre bambine. Il
titolo del suo libro fa riferimento al fatto che, per orientarsi nel deserto, le tre bambine avevano seguito il
lunghissimo “steccato a prova di coniglio” costruito dagli allevatori per difendere i pascoli appunto dai conigli
selvatici.
699
Ribeiro, Maíra...cit., p. 41.
700
Cfr. quanto riportato nel cap. I a proposito dell'epiteto cholo usato in Ecuador e in genere in America Latina. In
Ecuador, soprattutto da parte dei costeños, si usa molto anche l'analogo longo, che deriva dal quichua lungu che
significa “ragazzo”, di fatto un equivalente del nostrano “terrone”.
701
Ribeiro, Maíra...cit., p. 42.
702
Cfr. l'Introduzione al presente studio.

253
Volto homem, volto só. Volto despojado de mim, do meu ser que eu era
comigo, no meu eu de menino mairum, que um dia fui. Quem sou eu? Volto
em busca de mim. Não do que fui e se perdeu, mas do que teria sido se eu
tivesse ficado por lá e que ainda serei, hei-de-ser, custe-o-que custar. Ele, o
outro, o futuro de mim, eu farei, não seguindo no que sou. Ele só nascerá
quando eu me desvestir de mim, do falso eu que encarno agora para deixar
o espaço onde ele há de ser703.
Essa questão da identidade perdida do índio no contato com a civilização e sua angústia em
retornar a sua cultura de origem podem ser relacionadas contemporaneamente com a situação
dos imigrantes latinos, asiáticos, caribenhos e etc. em terras estrangeiras. No capítulo Pensando
a diáspora: reflexões sobre a terra no exterior, do livro Da Diáspora704, Stuart Hall faz uma
reflexão teórica acerca do nascimento da diáspora negra afro-caribenha no pós-guerra no Reino
Unido. Ele coloca a questão da diáspora para explicar a nação e a identidade caribenhas numa
era de globalização crescente. Já que esses povos, como o personagem “ex-índio” Isaías,
pertencem também a um “não-lugar”, não se sentem mais apenas caribenhos e nem tão pouco
são tidos como europeus, são agora tanto caribenhos como europeus. Como definiu Stuart Hall:

703
Ribeiro, Maíra...cit., p. 76.
704
Gli studi del sociologo britannico di origine giamaicana Stuart Hall (1932-2014) sono paragonabili a quelli del
sociologo francese di origine algerina Abdelmalek Sayad (1933-1998), orientati a spiegare gli effetti dello
sradicamento culturale nei migranti dal cosiddetto Terzo Mondo in epoca postcoloniale. Già Ungaretti nella
famosa poesia In memoria, risalente al 1916 ma inclusa in seguito nella raccolta L'Allegria (1931), rende
omaggio al suo amico Moammed Sceab “discendente / di emiri di nomadi / suicida / perché non aveva più /
Patria”, che “amò la Francia / e mutò nome // Fu Marcel / ma non era Francese e non sapeva più / vivere / nella
tenda dei suoi”. Analogo emblematico personaggio letterario è Samba Diallo del celebre romanzo L'Aventure
ambiguë (1961) dello scrittore senegalese Cheikh Hamidou Kane. Anche il citato sociologo e scrittore peruviano
Braulio Muñoz, in occasione della Fiera Internazionale del Libro di Torino del 2009 (cfr. cap. I), stava proprio
presentando, assieme al Prof. Antonio Melis, l'edizione italiana del suo libro The Peruvian Notebooks (2006; ed.
it. Quaderni peruviani, trad. Claudia Menichella, Gorée, Siena 2009), in cui racconta “la storia di Antonio Alday
Gutiérrez che, dopo aver attraversato il Rio Grande, il fiume-frontiera con gli Stati Uniti, tenta di costruirsi una
nuova vita come Anthony Allday” (dalla quarta di copertina). Cfr. Rodja Bernardoni, “L’impossibile fuga.
Soggetto migrante e dinamiche identitarie in The Peruvian notebooks di Braulio Muñoz”, Confluenze. Rivista di
Studi Iberoamericani 3/1 (2011), p. 153-163. Notevoli poi gli studi della sociologa femminista statunitense di
origine messicana-india Gloria Evangelina Anzaldúa (1942-2004), dedicati soprattutto alle donne che, come lei,
hanno vissuto e vivono una vita borderline e confluiti nel celebre libro Borderlands/La Frontera: The New
Mestiza (1987).

254
Na situação da diáspora, as identidades se tornam múltiplas, junto com os
elos que as ligam a uma ilha de origem específica, há outras forças
centrípetas: há a qualidade de ser caribenho que eles compartilham com
outros imigrantes do Caribe (...). Existem as semelhanças com as outras
populações ditas de minorias étnicas, identidades ‘britânicas negras’
emergentes, a identificação com os locais dos assentamentos, também as re-
identificações simbólicas com as culturas africanas705.
Entretanto a comparação entre as duas situações que mantêm entre si uma relação evidencia a
diferença radical entre elas. O imigrante não se sente portador do destino de um povo, como
acontece a Isaías/Avá, a sua problemática de identificação diz respeito apenas a ele ou ao grupo
de habitantes de uma nação ou de um povo que sai, retira-se do território de referência cultural-
identitária deslocando-se para outro. Dos povos indígenas, de modo bem diverso, foi retirado,
de fato ou simbolicamente, o território de referência e, principalmente, como evidencia Darcy
Ribeiro no romance, foi retirada a potência significadora de todo o seu sistema cultural 706,
confrontada por séculos com a maquinaria da conquista e da ocidentalização e suas mais
eficazes técnicas de destruição. Nesse sentido, o entre-lugar do imigrante, dos diaspóricos ou
dos povos resultantes da colonização, contemporaneamente avaliado como produtivo, não pode
ser cogitado como uma alternativa confortável para as etnias ou para o indivíduo indígena.
Identificado como padre pelos brancos e como tuxauarã pelos índios, Isaías/Avá não conseguia
ser nem um nem outro e, por isto, a todos decepcionava. Permanecendo entre duas culturas, já
que o processo de aculturação nunca se faz de forma plena, o personagem se v ê aprisionado em
um limbo, rejeitado tanto pelos padres católicos, responsáveis por sua educação “civilizada”,
quanto por seus parentes indígenas. A tentativa de se tornar um mairum tornava-se infrutífera,
assim como a de fugir, esquecer suas origens e nunca mais regressar à tribo. Enquanto ex-padre
705
Stuart Hall, Da Diáspora: identidades e mediações culturais, a c. Liv Sovik, UFMG, Belo Horizonte 2003, p. 27.
Questa edizione brasiliana raccoglie, tradotti in portoghese, vari testi pubblicati dal sociologo giamaicano tra il
1980 e il 2000.
706
Cfr. quanto descritto supra circa la trama del film citato La terra degli uomini rossi – Birdwatchers, che peraltro
non racconta una storia inventata, ma emblematica di quanto sta tuttora succedendo, tra violenze varie e espropri,
ai Guarani-Kaiowá nello stato brasiliano di Mato Grosso do Sul. Cfr. Renzo Taddei, “Os Guarani Kaiowá e as
perversidades do senso comum”, Canal Ibase 12/11/2012 (http://www.canalibase.org.br/os-guarani-kaiowa-e-as-
perversidades-do-senso-comum-dos-brancos-2/), in cui l'autore, “professor da Escola de Comunicação da
Universidade Federal do Rio de Janeiro. [...] doutor em antropologia pela Universidade de Columbia, em Nova
York”, dedica un paragrafo del suo articolo Sobre a natureza dos índios e não-índios, che inzia così: “Certa vez,
em uma aula de antropologia, na Escola de Comunicação da UFRJ, usei um exemplo hipotético de jovem índio
que vinha à universidade estudar medicina. «Aí ele deixa de ser índio», alguém disse”.

255
e ex-índio perdeu-se de si, empreendeu iniciativas que a todo tempo parecia colocar em risco a
“integridade” da cultura Mairum.
A situação reversa do conflito vivido por Isaías/Avá pode ser identificada na personagem
feminina Alma, uma mulher do Rio de Janeiro, insatisfeita e contraditória, que passa de uma
situação de risco, com envolvimento com drogas e prostituição à noviça religiosa e que acaba
fugindo de si mesma numa aventura que no início, parece no momento apenas uma obediência
à vocação cristã. No projetado trabalho entre os índios, Alma procura desesperadamente
ingressar no mundo deles. Numa espécie de iniciação pelo avesso, ela se introduz na tribo e
desenvolve uma sexualidade marcada pelo desespero, entregando-se de qualquer maneira a
quem a quisesse.
O capítulo que abre o romance, que tem como título A Morta, narra o encontro do cadáver de
uma mulher branca (Alma), meio despida, com o corpo pintado de traços negros e vermelhos,
formando linhas e círculos, aparentemente morta ao dar à luz gêmeos igualmente mortos, já que
ainda se encontravam presos ao cordão umbilical, numa praia do rio amazônico:
– Ninguém entende este gringo – diz o delegado. – Veio esta manhã com um
boi do Hotel Nacional e fez uma confusão danada. É suíço: examinei o
passaporte dele. Disse que viu uma dona morta numa praia do Iparanã.
Com os diabos! Morre gente aqui a toda hora e eu tenho que tomar conta
desta defunta que morreu a mil quilômetros. (...) Disse que era loura e
nova. Branca que nem ele! Uma morta assim no Iparanã é coisa nunca
vista! Você não desconfia?”707
A partir daí o enredo se desenvolve até a explicação do fato no final do romance. Alma, a
companheira fraternal de Isaías que com ele vai ao território do Iparanã, em busca de uma nova
existência, e que se torna uma espécie de serva sexual livre e sagrada para os mairuns, encontra
ali a morte, e a de sua prole, por não saber nem poder ser índia na hora do parto. Já que
ninguém a ajuda, nem grita por ela, nem mesmo Avá que, de certo modo, é de fato responsável
por sua morte. Alma, uma psicóloga, sofre a degradação própria da cultura universitária, uma
civilizada em crise que quer misturar-se à vida “selvagem”, movida provavelmente pela visão
mitificada da vida natural que o Ocidente cultiva desde o século XVIII 708. Alma acha que pode
purificar-se da “civilização” através da convivência com os índios:
Meu lugar é aqui. Não sei por quê. Não sei pra quê. Mas é aqui e é com
você que eu vou pra frente. Recuar é que não posso e também não quero. O
mundo de lá não tem lugar pra mim. Pra você pode ser que tenha (...) Eu
707
Ribeiro, Maíra...cit., p. 33.
708
Invero si è visto come la matrice del “Buon Selvaggio” risale al XVI sec. Cfr. cap. I.

256
também podia ser professora, psicóloga, ou o que fosse, mas não quero.
Nosso lugar é aqui709.
O antropólogo parece aproximar esses dois personagens com o intuito de criar um par
representativo tanto da decadência da civilização branca quanto do dramático choque desta
cultura com o mundo indígena. Nas palavras de Isaías: “Minha ambição é voltar ao convívio da
minha gente e com a ajuda deles me lavar deste óleo de civilização e cristandade que me
impregnou até o fundo”710.
Os destinos cruzados de Isaías e Alma formam a substância da linha da narrativa central e
mostram como Maíra é o livro do antropólogo que assume plenamente a condição de escritor,
ao fundir o seu conhecimento etnográfico com a experiência da civilização, combinando os
ângulos de visão de dois mundos, sem qualquer exotismo pitoresco, típico da literatura
produzida no século XIX, como foi visto no primeiro capítulo, mas não só dela.
Não há mais nele a redução lírica ou heróica de José de Alencar, que fala dos índios, e por eles,
com sua plena voz de civilizado que os quer embelezar. Essa será a grande contribuição da
antropologia tanto para as representações feitas acerca das etnias indígenas, a partir da questão
do relativismo cultural, quanto da defesa e luta por melhores condições de sobrevivência física
e cultural dos povos indígenas.
O ápice do sentido trágico da vida – ou do destino incongruente dos dois grupos culturais – dá-
se pela morte de Alma no parto dos filhos gêmeos. Se vivos eles representariam o renascimento
de uma utopia. A morte de Alma como mulher equivale ao fim de qualquer projeção
esperançosa. Os filhos mortos também parecem selar o extermínio de uma cultura que poderia
ser readequada. Nem índios, nem cristãos. Os dois projetos não continuariam. A frustração da
morte dos gêmeos no nascimento mostra que, duplamente, chega-se ao limite.
Enquanto narrativa que tematiza o destino e o dilema dos povos indígenas, Maíra, deve também
ser lido dentro da série literária a que pertence – a grande série dos romances brasileiros que
narram, de lugares e épocas diferentes, a problemática identitária no Brasil – que é bem maior e
bem mais complexa do que as narrativas do Brasil. Nessa perspectiva, o próprio romance, pelos
elementos que estrutura o núcleo do seu enredo, convida a uma retomada a revisão do romance
indianista de um século antes711.

709
Ribeiro, Maíra...cit., p. 157.
710
Ibid., p. 168.
711
Probabilmente il rappresentante più significativo di questo romanzo brasiliano recente dedicato all'identità
brasiliana specificatamente in rapporto alla questione indigena è Antônio Torres (1940-), di origine nordestina
ma radicato a São Paulo, famoso in patria anche come giornalista. Il suo romanzo Meu Querido Canibal (2000),
in particolare, a cui è giunto dopo aver pubblicato, a partire dall'inizio degli anni '70, altre opere in cui prevale la

257
Na literatura do século XIX através da figura de José de Alencar já se representara também o
trágico resultado do cruzamento entre índios e brancos 712. Na tentativa de tratar a matriz
brasileira com base na figura da mulher indígena e do colonizador homem, em Iracema há
também a síntese da desgraça provocada pelo impossível cruzamento de culturas.
No caso a nativa de beleza rara – “de lábios de mel” e “cabelos negros como a asa da graúna” 713
–, depois de se apaixonar por um português e dele ter um filho, sintetiza o futuro dos índios: o
fim por intermédio da morte ao gerar um ente mestiço. O filho, depois do desaparecimento da
mãe/índia, falecida depois do parto, tem seu destino sentenciado o “primeiro cearense, ainda no

riflessione sulle problematiche identitarie prima di tutto del migrante nordestino, come è stato lui, rappresenta
l'indigeno brasiliano così come è descritto nelle opere dei primi testimoni europei quali quelli già analizzati,
Staden, Thévet, Léry, rivisitati in chiave postmoderna. Cunhambebe, per esempio, il capo tupinambá che in
Staden, a partire dai valori cristiani, è rappresentato come il selvaggio antropofago per eccellenza, in Torres è
descritto come un eroe della resistenza indigena. Cfr. Eloína Prati dos Santos, “A viagem do índio até a
brasilidade: Moacyr Scliar, Assis Brasil e Antonio Torres”, Portuguese Cultural Studies 1 (2007), pp. 41-50;
Rubelise da Cunha, “Deslocamentos: o entre-lugar do indígena na literatura brasileira do século XX”, Portuguese
Cultural Studies 1 (2007), pp. 51-62; Eugênia Mateus de Souza, Uma epopéia de indignação e ternura. Meu
querido canibal sob a ótica da metaficção historiográfica, Universidade Estadual de Feira de Santana, Feira de
Santana 2007; Elvya Shirley Ribeiro Pereira, “Imagens inaugurais e cenas urbanas: recorrências identitárias em
Meu querido canibal”, Légua & meia 4 (2008), pp. 16-32; Juliana de Souza Gomes Nogueira, Paulo André de
Carvalho Correia, Roberto Henrique Seidel, “Unidade e diversidade nas imagens nacionais em Meu querido
canibal, de Antônio Torres”, Tabuleiro de Letras 2 (2009;
http://www.tabuleirodeletras.uneb.br/secun/numero_02/pdf/artigo_vol02_10.pdf); Ana Célia Coelho, Ana Clara
T.L. Almeida, Jeane Freitas dos Reis, “As perspectivas da problemática identitária na obra de Antônio Torres”,
Anais do IV ENAPEL – Encontro Nacional de Pesquisadores de Periódicos Literários: percursos e propostas
(2010), pp. 42-55; Cláudio Cledson Novaes, Roberto Henrique Seidel (a c.), Espaço nacional, fronteiras e
deslocamentos na obra de Antônio Torres, UEFS Editora, Feira de Santana 2010. Cfr. anche il cap. I quanto
scritto a proposito dell'opera di Alberto Mussa.
712
Cfr. supra.
713
L'autrice sta citando l'inizio del II capitolo di Iracema, di Alencar. Da notare che al 1979 risale il film brasiliano
Iracema, a Virgem dos Lábios de Mel, che nel titolo riproduce appunto la descrizione alencariana, laddove la
trama del film si discosta liberamente dal romanzo, interpretandolo in una versione erotica, in cui è esaltata la
bellezza dell'attrice Helena Ramos. Anche in produzioni televisive e cinematografiche brasiliane più recenti si è
enfatizzato l'aspetto erotico della nudità delle índias nell'impatto con la cultura occidentale la cui matrice cristiana
è senz'altro sessuofoba e misogina, per esempio nel citato film Caramuru. A Invenção do Brasil, con le altrettanto
citate attrici Camila Pitanga e Deborah Secco, nonché nella più recente miniserie As Brasileiras, in particolare
nell'episodio A Selvagem de Santarém (2012), in cui l'attrice Suyane Moreira interpreta la seducente índia Araí e
in cui ha lavorato come comparsa anche la citata Zahy Guajajara. Di certo, questo approccio, rispetto alla

258
berço a emigrar da terra pátria (...) Havia ai a predestinação de uma raça?” Pergunta que Darcy
Ribeiro retoma para responder que não.
Contrapondo o projeto de Iracema, com Maíra nota-se que nos dois a morte da mãe é condição
de fim. O produto da fecundação em Iracema dá certo na medida que o pai leva o filho para
cumprir o ideal cearense: emigrar. Em Maíra, a mãe morre junto com os filhos gêmeos. Não há
continuidade e nem futuro. No caso de Maíra também a religião seria fator de desgraça, o que
se pode ver nesse pequeno trecho de pura poesia retirado do capítulo, Missa: “Reza
confluentes, águas reluzentes, navalhas, tesouras, penitências. Cal e silício. Arrependimentos.
Cada um em seu mister, reconsagra almas, ressacraliza corpos a Deus doados. Ele a tudo
assiste, do alto. Talvez aprove, comovido, quem sabe? 714” Enquanto que em Iracema a religião
cristã será fator de união entre povos.
Representando a mestiçagem que segundo Darcy Ribeiro foi intensa nos tempos coloniais no
Brasil, o personagem Juca é o símbolo desse cruzamento de raças, ou seja, da índia mairum
com um homem branco. Ele renega a vida na tribo mairum para viver no mundo dos caraíbas.
Volta rico e obcecado em fazer os seus parentes trabalharem em regime de semi-escravidão.
Tudo nele é prepotência e grosseria e não por acaso Anacã o amaldiçoa. Quer se aproveitar
apossando-se do tempo dos índios para convertê-los em negócio e dinheiro:
– Estes mairuns são matreiros. Fazê-lo trabalhar é mais difícil que caçar
onça com anzol. Hei de fazer. Chegou a hora deles. São meus parentes.
Precisam produzir (...) – Estes cornos, filhos de uma égua, pensam que são
gente. Bugres de merda. Vão ver comigo (..) – Esses cornos me pagam.
Volto para cuidar deles. Tanto homem à toa, espreguiçando na rede, e eu
sem ninguém pra caçar lontra715.
O personagem representa no romance aquele típico colono explorador que troca especiarias da
“civilização” como espingarda, tesoura, enxada, facas e etc. por animais e plantas só
encontrados na mata. O imaginário mais cruel que se desenvolveu sobre os índios, aqueles que
os queria transformar em mão-de-obra escrava, mas se esbarram em costumes radicalmente
diferentes dos ocidentais. Por isso acabam desenvolvendo o estereótipo mais comum sobre os
índios, representando-os como preguiçosos e insolentes.
A cosmogonia mairum é representada por um conjunto de narrativas, ou seja, mitos etiológicos
explicam aspectos essenciais da vida mairum, na tentativa de que o leitor possa ver o mundo
indígena a partir de sua própria ótica e lógica. Entrecruzando-se dessa maneira no romance três

questione indigena, è uno specchietto per le allodole. Cfr. il cap. III, l'intervista alla stessa Zahy Guajajara.
714
Ribeiro, Maíra...cit., p. 162.
715
Ibid., p. 47.

259
linhas narrativas distintas: o mundo do homem branco, a vida tribal mairum e o plano mítico,
no qual reinam Maíra-Monan, o deus-pai, e os gêmeos míticos Maíra e Micura, seres da criação
e heróis civilizadores.
Dentre os capítulos que retratam a vida tribal mairum, estão aqueles que descrevem rituais
indígenas como o ritual do Anacã (o ritual de morte do chefe guerreiro), da Nandeiara (ritual
em que as crianças recebem o seu nome), o Sucuridjuredá (o ritual da caça), o Jurupari (ritual
de bebida do cauim), do Manon (o ritual de sepultamento de Anacã).
No ritual de morte de Anacã, o tuxaua, chefe guerreiro que reúne todos da tribo para anunciar
sua própria morte dizendo: “Estou velho. Chegou a minha hora, vou acabar. Sim, vou deixar
vocês ai, sem tuxaua. Órfãos de mim. Preciso morrer para que surja e cresça o tuxaua novo” 716.
É uma descrição densa, ou seja, antropológica, do ritual de despedida e de morte do chefe
guerreiro maior. Há também a descrição do ritual do Nandeiara quando cada criança que fala
vai saber, agora o seu nome e receber, no rosto, a marca do olhar do deus sol Maíra-Coraci.:
A cada silvo da flauta de tuxaua tocada pelo aroe, uma mulher se levanta
com seu filho ou filha, ora de um lado, ora do outro, e leva a criança até um
dos mestres-de-cerimônias. Os de cima, a Jaguar, os de baixo a Narú. A
mãe senta-se frente ao mestre, prende fortemente a criança entre as penas e
olha para trás, para o aroe, que diz, então, o nome da criança717.
Descreve também minuciosamente o ritual da caça entre os mairuns quando diz que os homens
de todas as idades saem para longe da aldeia, já que só as mulheres e as crianças suportam a
caatinga718 aguda de Anacã, reacendendo no ar. Uns vão rio abaixo ou rio acima para as
pescarias do pirarucu, com arpões, ou de pacu, com arco e flecha. Outros buscam igarapés em
que possam fazer uma caçada mais rendosa. Outros ainda entram na mata em busca de caça de
couro ou de pena. Só voltarão, tanto os pescadores como os caçadores, quando tiverem cheios
de moqueados de peixe ou de caça. Também no mesmo dia partem os mais jovens, guiados por
Teró, dos carcarás que há de encontrar pra eles uma sucuridju (cobra gigante) sem tamanho: a
maior do mundo. Depois de capturada a cobra segue-se o ritual em que cada rapaz deixará com
orgulho que a cobra morda o seu rosto.
Esses são os capítulos do romance em que Darcy Ribeiro traz para a narrativa todo os seu
conhecimento dos costumes e mitos indígenas. É nesse sentido que o autor faz com que os

716
Ibid., p. 37.
717
Ibid., p. 168.
718
Sic. Qui l'autrice confonde due parole molto simili, catinga, legittimamente usata da Darcy Ribeiro in riferimento
all'odore sgradevole di Anacã in fase di putrefazione, e caatinga, di origine indigena, nome della peculiare savana
del sertão nordestino.

260
leitores penetrem na aldeia dos índios, assistam aos seus cerimoniais, presenciem o cuidado
com que se enfeitam para as festas e danças, nos encantem-se com a exuberância da mata se
abrindo em florações ao acordar dos meses de inverno, admirem a festa das aves e pássaros na
diversidade de nomes e tipos tão bem conhecidos pelo narrador. Ficamos, nós os leitores,
perplexos ante a distância que nos separa do “outro”, ao acompanharmos rituais como os do
naiandera, ou da sucuridjuredá, ou mesmo o ritual fúnebre do tuxaua Anacã, vendo o gozo da
vida nascer da morte, numa carnavalização plena de todos os possíveis, próxima até de uma
orgia dionisíaca719. Somos então levados a crer no realismo da narrativa e na fidelidade do
testemunho daquele que narra.
Esta é apenas uma leitura possível de Maíra. Embora o autor se refira a ele como sendo o relato
da morte do Deus Mairum, nele está presente, sem dúvida também uma apologia à vida, uma
releitura contemporânea das representações feitas através da literatura dos povos indígenas
brasileiros, com doses de tragédia e também de exaltação a vida, seja no gosto de viver do povo
Mairum, seja na exuberância com que descreve a flora e da fauna e que, naquelas terras
indígenas, parecem integrar-se harmonicamente na paisagem e rituais humanos 720. Para a
literatura contemporânea Maíra representa um marco, no que tange a representação dos danos
causados pelo contanto do europeu civilizado com os indígenas do Brasil, trazendo a tona
realmente a dor e o gozo de ser índio.

Manoela Freire de Oliveira conclude commentando che c'era bisogno di un antropologo 721,
evidentemente, per aprire la strada della vera comprensione del mondo indigeno in Brasile e
svelarlo dalla cortina etnocentrica e manipolatrice dell'indianismo anteriore.
E questo, aggiungo io, ha in seguito favorito il sorgere o meglio il rinascere della coscienza
indigena prospettato e preconizzato anche dalla poesia di Márcia Theóphilo.

719
Il riferimento è legittimo, in quanto la civiltà classica era sicuramente più prossima alle culture indigene
d'America di quanto non lo sia stato il cristianesimo, nelle sue varie interpretazioni.
720
Cfr. infra.
721
Consideriamolo pure un singulare tantum, in quanto, come peraltro descritto dalla stessa Manoela Freire de
Oliveira, Darcy Ribeiro è stato il punto di arrivo di un percorso in cui passi i importanti sono stati fatti da tanti,
tra cui i fratelli Villas Bôas, un nome da ricordare una volta di più tra tutti quelli citati.

261
Márcia Theóphilo e la salvezza che viene dagli índios

Nas margens do rio, as canoas / as ondas em espumas, / teu riso aberto quando todos entram, inicia o
caminho / tortuoso dos mortos e vivos, as saudações / memórias, primeiras cantigas / Kupaúba perdeu a
cabeça / chorava, chorava, chorava / a sua aldeia estava destruída / as palavras se derramam em seus
ombros / seu olhar, não tinha ódio / devia reiniciar, sozinha / eu os amo, pensava / e era tão enérgico seu
olhar / que os crocodilos ofereciam suas costas / como se fossem cachorros / e os jaguares, roçavam
suas pernas / como gatos domésticos. / Eu os amo, repetia. / Os índios mortos, brotam / culturas
submersas, por séculos / dentro da terra árida / as tribos sementes renascem / com a chuva, milhares de
flores: / o deserto torna a florescer.

Márcia Theóphilo, Os Indios renascem722

Alcuni dicono che saranno i popoli indigeni a salvare il mondo dalla catastrofe ambientale
(e non solo quella).
Se ne rimarrà qualcuno, ovviamente.
È la tesi comunque che porta avanti un'organizzazione quale Survival International723, per
esempio – ma anche Greenpeace e altre724 –, e che ho già detto nel capitolo I come, per quanto
non originale725, sia stata propagata anche dalla New Age e sia stata sposata come propria dai
movimenti indigeni, laddove pare ovvio a tutti, in una sorta di riesplosione del mito del “buon
selvaggio”, che se l'indigeno vive in armonia con la natura, ne è un naturale custode in contrasto
agli scempi della civiltà industriale726.
722
Theóphilo, Amazzonia...cit., p. 148.
723
Cfr. http://www.survivalinternational.org/.
724
Cfr. il sito italiano (http://salvaleforeste.it/) di Salva le Foreste, che si definisce un “Osservatorio sulle foreste
primarie”, e che dedica una sezione appunto ai popoli indigeni (http://salvaleforeste.it/popoli-indigeni.html).
725
Prima ancora del citato Grey Owl, il padre dell'archetipo dell'indigeno custode dell'ambiente dovrebbe essere
stato il celebre capo duwamish Seattle, da cui deriva il proprio nome la capitale dello stato di Washington e che
intorno alla metà del XIX sec. avrebbe formulato il notissimo discorso che forse voleva essere una lettera
all'allora presidente degli USA Franklin Pierce. Ma, nonostante sia famoso, si tratta di un episodio molto dubbio.
Cfr. cap. I.
726
Cfr. nel cap. I anche quanto riportato a proposito del libro di Frei Betto Uala, o Amor, che pure, come
evidenziato, veicola l'idea dell'índio difensore dell'ambiente. E ricordo anche l'azione di Padre Angelo Pansa,
difensore degli índios anche in quanto difensori dell'integrità delle loro terre contro gli interessi di grileiros,
garimpeiros, madereiros, fazendeiros, industrie farmaceutiche.

262
È notevole però il fatto che Survival International fu fondata nel 1969 in seguito alla
pubblicazione da parte di Norman Lewis di un articolo di denuncia sul Sunday Times Magazine
dal titolo più che significativo: Genocide727, riferito proprio a quanto si stava verificando
nell'Amazzonia brasiliana.
Si tratta pertanto di un'organizzazione che sin dalla sua nascita ha un conto aperto con il
Brasile e l'acrimonia è reciproca, visto che l'autore brasiliano Gélio Fregapani, ex militare e
considerato grande esperto di Amazzonia, ha pubblicato nel 2000 un libro-relazione dal titolo
Amazônia, a Grande Cobiça Internacional728, in cui tra l'altro accusa Survival International non
solo di non essere una vera e propria ONG il cui obiettivo è difendere gli indigeni, ma di fare il
gioco delle grandi potenze internazionali che aspirano a calare le loro grinfie sull'Amazzonia.
Nel 2011 ha quindi pubblicato A Amazônia no grande jogo geopolítico. Um desafio mundial 729,
in cui rinnova il suo grido di allarme nei confronti della sovranità terriotriale brasiliana
minacciata in Amazzonia (e non solo).
Già nella dedica è chiaro il suo intento:

Dedico este livro aos heróis que conquistaram e mantiveram a Amazônia para nós, [meus netos
e bisnetos] sonho que continuem a receber o legado de seus antepassados como o que eu
próprio recebi. Um País tão grande quanto o que recebi dos meus pais.

A p. 25, dopo aver trattato la Pax americana e Um fato novo - da Origem da crise
econômica à possível ordem mundial no século XXI, inizia ben presto a trattare A Desabitada
Amazônia no Contexto Mundial:

Examinando qualquer mapa demográico mundial, percebemos regiões super-povoadas e


regiões despovoadas. Entre elas destacam-se o SAARA, a ANTÁRTIDA, as vastidões geladas
da SIBÉRIA, o CANADÁ e o ALASCA, e as alturas nevadas do TIBÉT e de outros maciços, e
a AMAZÔNIA. Quase todas são regiões inabitáveis, exceto a AMAZÔNIA. Levando em conta
a atual explosão demográica mundial, uma terra desabitada, mas habitável, seria um convite a
ocupação, independentemente de consentimentos ou tratados. A mais elementar lei da ecologia

727
23/2/1969, pp. 34-59; cfr. José Idoyaga, “«Lost» report exposes Brazilian Indian genocide”, Survival
International, 25/4/2013, (http://www.survivalinternational.org/news/9191).
728
Thesaurus Editora, Brasília.
729
Sempre per i tipi della Thesaurus Editora.

263
forçará a disputa por esta terra, principalmente sendo a única área habitável ainda desabitada no
planeta.

Già quando vivevo in Brasile ricordo come nei media locali proliferassero servizi
giornalistici sulle mire internazionali nei confronti dell'Amazzonia, caratterizzati da timori
fondati su affermazioni ufficiali quali quella che fece l'ex vicepresidente USA Al Gore nel 1989,
quando ancora era invero senatore: “Contrary to what Brazilians think, the Amazon is not their
property, it belongs to all of us”730 – in perfetta continuità con le applicazioni della celebre
Monroe Doctrine –, seguite a ruota da dichiarazioni analoghe di François Mitterrand, Michail
Gorbačëv, John Major e Henry Kissinger nei primi anni '90.
Inoltre ricordo come circolasse – e continui a circolare – on line e non solo la dichiarazione
che il politico brasiliano Cristovam Buarque ha pronunciato nel 2000 in un canale televisivo
statunitense contro queste mire731, così come è circolata diffusamente un'email spam che in
Brasile, benché fosse un falso, è stata presa molto sul serio e in cui si raccontava di come nelle
scuole statunitensi già circolasse un libro di geografia in cui l'Amazzonia era considerata area
internazionale gestita dagli USA e dall'ONU732.
E ancora oggi nei media brasiliani si leggono spesso articoli che paventano, senza mezzi
termini, aggressioni statunitensi733.
730
Cfr. Alexei Barrionuevo, “Whose Rain Forest Is This, Anyway?”, The New York Times 18/5/2008
(http://www.nytimes.com/2008/05/18/weekinreview/18barrionuevo.html#).
731
Cfr. Jan Schoenfelder, “O debate sobrevive, quatro anos depois. Entrevista a Cristovam Buarque”, Observatório
da Imprensa 15/3/2005
(http://www.observatoriodaimprensa.com.br/news/view/o_debate_sobrevive_quatro_anos_depois).
732
Cfr. Redazione Folha de São Paulo, “Internet espalha boato sobre internacionalização da floresta amazônica”,
Folha de São Paulo 5/6/2008 (http://www1.folha.uol.com.br/tec/2008/06/409041-internet-espalha-boato-sobre-
internacionalizacao-da-floresta-amazonica.shtml).
733
Cfr. a scopo esemplificativo, i seguenti articoli della rivista Carta Maior, vicina all'attuale governo brasiliano:
Maurício Thuswohl, “EUA reativam IV frota e preocupam dirigentes da AL”, Carta Maior 18/7/2008
(http://www.cartamaior.com.br/?/Editoria/Internacional/EUA-reativam-IV-Frota-e-preocupam-dirigentes-da-
AL/6/14205); José Luís Fiori, “A inserção do Brasil e da América do Sul na segunda década do século XXI”,
Carta Maior 10/2/2010 (http://www.cartamaior.com.br/?/Editoria/Internacional/A-insercao-do-Brasil-e-da-
America-do-Sul-na-segunda-decada-do-seculo-XXI/6/15610); Id., “O Brasil e seu ‘entorno estratégico’ na
primeira década do século XXI”, Carta Maior 24/5/2013 (http://www.cartamaior.com.br/?/Editoria/Politica/O-
Brasil-e-seu-%27entorno-estrategico%27-na-primeira-decada-do-seculo-XXI/4/28080); Dario Pignotti,
“Geopolítica do petróleo. Brasil se afasta dos Estados Unidos”, trad. Liborio Júnior, Carta Maior 21/10/2013

264
Come è facile comprendere, in questa situazione di acuta tensione, presunta o reale che sia,
sono gli indigeni e in particolare quelli dell'Amazzonia a trovarsi in mezzo, strumentalizzati e/o
manipolati da eventuali interessi stranieri, nell'occhio del ciclone del nazionalismo brasiliano,
pronto a giustificare interventi militari a difendere la sovranità territoriale del Paese dove lo si
ritenga necessario e immancabilmente a scapito degli indigeni, per quanto si tratti di mosse
spinose e delicate734.
Ma al di là e contemporaneamente nel pieno delle leggende, delle paure, delle speranze,
delle utopie e dei proclami politici, esiste una poeta brasiliana radicata in Italia, Márcia
Theóphilo, che dell'Amazzonia e dei suoi abitanti originari ha fatto il leitmotiv della sua poetica.
È nata a Fortaleza, la capitale dello Stato di Ceará, nel 1940.
Suo padre aveva radici indigene e, come ha dichiarato lei stessa in un'intervista, era un
figlio dell'Amazzonia735.
Sua nonna paterna, originaria dello stato di Acre, nel cuore dell'Amazzonia, è stata una
figura importante per lei, in quanto, quando era bambina, le raccontava “i miti della foresta, le
grandi visioni del fiume, le voci del vento, le metamorfosi della luna, mettendola in sintonia con
la polifonia delle voci della natura”736.
L’Amazzonia e gli índios fanno parte quindi della sua storia familiare e spirituale e in
un’intervista dice:

Nel mio lavoro ho cercato di fare una fusione tra memoria emotiva e memoria culturale, tra
poesia e documentazione, tra mondo arcaico e mondo contemporaneo, creando un tutt’uno in
cui tutte queste materie si compenetrano. Penso però, che senza la poesia non si può arrivare

(http://www.cartamaior.com.br/detalheImprimir.cfm?conteudo_id=29271&flag_destaque_longo_curto=L)
[versione originale: Dario Pignotti, “Brasil se aleja de EE.UU.”, Página/12 20/10/2013,
http://www.pagina12.com.ar/diario/elmundo/4-231680-2013-10-20.html].
734
Un'altra leggenda diffusa dalla rete e che ha inquietato non poco i Brasiliani è quella che voleva che porzioni
dell'Amazzonia nello Stato di Roraima fossero controllate già da entità straniere e che gli indigeni locali
parlassero, oltre le loro lingue native, inglese o giapponese piuttosto che portoghese, dal momento che ai
Brasiliani il loro territorio sarebbe stato persino precluso. Non riporto nessun riferimento al riguardo in quanto
sono numerosi e basta usare un buon motore di ricerca per trovarne una lista cospicua.
735
Redazione LSNN.net, “Intervista alla grande poetessa brasiliana Marcia Theophilo”, 17/2/2011
(http://www.lesanormaux.fr/ladysilvia/20711/donnawoman/4/).
736
http://www.marciatheophilo.it/index.php/nota-bibliografica/ .

265
all’anima della foresta. L’antropologia è una disciplina che ha finito con il privilegiare gli
oggetti e la cultura materiale. Io ho privilegiato il soggetto più leggero, l’anima, la poesia 737.

Márcia Theóphilo, infatti, è anche lei specializzata in antropologia, percorso di studi che ha
iniziato in Brasile e ha concluso in Italia.
Procedo nel citare la sua biografia riportata sul suo sito738:

Dal 1968 al 1971 lavora come giornalista nel campo della cultura e della critica dell’arte a San
Paolo, sviluppando una collaborazione con artisti – come Maria Bonomi, Saverio Castellani,
Tomie Otake, Otavio Araujo e altri – scrivendo poesie (riunite nel suo libro di poesie “Siamo
pensiero”, Milano 1972, prefatto e tradotto da Ruggero Jacobbi 739) per i loro cataloghi e
successivamente saggi sulle loro opere. L’interazione tra arti visive e poesia è sempre stata una
costante nel suo lavoro.
Nel 1971 pubblica in Brasile il libro di racconti “Os Convites”(Gli inviti).
Nel 1972 Márcia Theóphilo lascia il Brasile, sottraendosi con l’esilio alla repressione di una
dittatura militare che impediva la libertà di scrivere e di studiare 740.
Nello stesso anno conosce a Roma il poeta brasiliano Murilo Mendes741 che le presenta il critico
letterario Ruggero Jacobbi e il poeta spagnolo in esilio Rafael Alberti 742, con cui stabilisce un
importante rapporto di lavoro e amicizia.
Il sodalizio con Rafael Alberti nasce dalla capacità dell’illustre maestro di unire pittura e poesia
in un’unica arte animando i versi con immagini e colori. Ma ciò che soprattutto li ha legati è
stato l’impegno per la libertà.
Un altro importante aspetto di questa amicizia [...] è stato la partecipazione nei recital europei,
dove Márcia Theóphilo ha scoperto la sua capacità di comunicare con il grande pubblico.
In questi incontri internazionali – tra cui “Poetry International” (Rotterdam, 1977), la
“Convenzione Internazionale di Poesia” (Struga, Jugoslávia, 1978), il “Congresso di Scrittori

737
Ibid.
738
Ibid.
739
(1920-1981), di origine veneziana, è stato poeta, scrittore, critico letterario e regista teatrale che ha operato per
molti anni, dopo la II guerra mondiale, in Brasile. Cfr. infra.
740
Il sottolineato è mia iniziativa.
741
(1901-1975), considerato il principlae rappresentante del surrealismo brasiliano.
742
(1902-1999), è stato probabilmente il più famoso poeta spagnolo del '900, assieme a Federico García Lorca e a
Antonio Machado. In esilio dai tempi della fine della guerra civile fino alla morte del caudillo Francisco Franco.

266
Europei” (Firenze, 1978) – conosce Lawrence Ferlinghetti, Evgeny Evtushenko, Mario Luzi,
Allen Ginsberg, Gregory Corso e altri.
Tra il 1973 e il 1979 pubblica in Italia i libri di poesia: “Siamo pensiero”, “Basta che parlino le
voci” e “Canções de Outono”; i saggi “Massacro degli indios nel Brasile d’oggi” e “Gli indios
del Brasile”; la piéce teatrale “Arapuca”.
Quando in Brasile inizia il processo di democratizzazione, nel 1979, Márcia Theóphilo torna a
San Paolo dove partecipa al Movimento per la Democrazia. È corrispondente della rivista
italiana “Noi Donne”.
Nel 1980 pubblica nel giornale italiano “Avanti!” un articolo su Luiz Inacio Lula da Silva
documentando le lotte sindacali per la democrazia.
Torna a Roma nel 1981 dove continua a lavorare nel intercambio culturale tra Italia e Brasile,
organizzando incontri culturali – come l’esposizione di artisti italiani e brasiliani “Per la
democrazia in Brasile” (Museo Sant’Egidio, Roma, 1981), il meeting internazionale “La parola
del Poeta” sezione Latinoamericana (Roma, 1982) – traducendo in italiano poeti brasiliani e in
portoghese poeti italiani, tenendo conferenze.
In questi anni partecipa a vari recital di poesia tra cui: l’”Incontro con la poesia Brasiliana”
(Roma, 1983), il “Festival Internazionale dei Poeti di Piazza di Siena” (Roma, 1983 e 1984), il
“Festival di Letteratura dell’Orto Botanico”, (Roma, 1988) la manifestazione della Biblioteca
Centrale di Roma “Voci di vita”(Roma, 1989).
Dal 1983 al 1991 pubblica i libri di poesia: “Catuetê Curupira 743” che vince il premio
“Minerva” 1983 e “O rio, o pássaro e as nuvens/Il fiume, l’uccello e le nuvole” e la piéce
teatrale “Dica a quelli che è da parte di Dulce”.
Partecipa attivamente alla vita culturale italiana contribuendo alla fondazione della rivista
“Minerva”, dirigendo, assieme a Amanda Knering, il Centro Culturale “Donna Poesia”,
rappresentando il Brasile nel “Centro Internazionale Alberto Moravia”.
Dal 1986 è rappresentante dell’ Unione Brasiliana degli Scrittori (U.B.E.) nel Sindacato
Italiano degli Scrittori.
Tra il 1991 e il 2003 pubblica i libri di poesia: “Io canto l’Amazzonia/Eu canto Amazonas”,
“Os meninos jaguar/I bambini giaguaro” patrocinato dal W.W.F. Italia, che vince il premio
Fregene 1996; “Kupahuba – albero dello Spirito Santo” edito da Tallone, che vince il premio
“San’Egidio” 2000; “Foresta mio dizionario” che vince il premio Nazionale Histonium 2003 e
il premio “Parco Majella” 2003.

743
Il poema che dà il titolo a questa raccolta è stato musicato dal compositore Giannantonio Mutto. Cfr.
http://www.youtube.com/watch?v=eRIBKLrpZc8.

267
Riceve i premi “Nuove Scrittrici”1997, “Carsulae” 2001 e “F.I.Te.l Nazionale” dei sindacati
CGIL-CISL-UIL 2002 per la carriera.
La sua poesia entra a far parte di varie antologie tra le quali: “Quel dio che non avemmo – 20
poeti dell’Europa e del mondo” (Roma, 1999); “Poesie d’amore. In segreto e in passione”
(Roma, 1999); “Antologia de Poetas Bralileiros” (Lisbona, 2000); “Antologia da Poesia
Brasileira” (Santiago de Compostela, 2001); “Per amore” (Roma, 2002).
Partecipa come poeta a varie manifestazioni culturali tra cui: Recital di Poesia della Fiera del
Libro di Francoforte (Francoforte, Germania, 1994), alla manifestazione poetica della
Biblioteca Municipale di S. Paolo “Scrittori nella Biblioteca” (S. Paulo, 1994); “Ungaretti,
poeta de três continentes” (São Paolo, 1997); “Moto Perpetu” (Pescocostanzo,1997);
“Manifestazione Poetica del Premio Feronia” (Roma, 1999); “Prima giornata mondiale della
poesia, festa della Poesia”(Roma, 2000); “Settimana dei diritti umani” (Umbria 2001); “La
notte dei Poeti” (Nettuno, 2001); Festival internazionale di poesia di Palazzo Ducale (Genova,
2002), “Prima Rassegna dei Parchi e dell’Ambiente” (Cosenza 2002); “Manifestazione
inaugurale della giornata mondiale del libro” dell’U.N.E.S.C.O. (Anno dell’acqua fluviale)
(Camera dei Deputati, Roma, 2003); “Carovana dei Poeti per la Pace” (Italia, 2003); Festival
della Letteratura di Mantova, edizioni 2006 e 2009; “Knjizevnost Uzivo-Literature Live”,
Croazia 2006; Giornata Mondiale della Poesia 2009.

È gia stata candidata al premio Nobel per la Letteratura.


Faccio di seguito parlare invece la sua poesia:

Selva Amazônica
Oceano de árvores
a terra criou a floresta
verde por seis milhões de quilômetros
a pena imita a folha
forca de elementos naturais
carrilhão, martelo
assobio
trinado de pássaros
arara araponga papagaio
e o gavião real

268
duas asas
dois metros de ramos plumários.
da Catuetê Curupira, 1983

A Noite
No princípio não havia noite
não se sabia o que era noite
havia somente luz e era tão intensa nos trópicos
que se tinha a sensaçao de passar períodos de azul
de vermelho, de verde
era tão forte a luz que as pessoas tinham
a sensação de flutuar
dentro das cores
dentro das plantas
tudo o que hoje não fala, falava
intercomunicava-se-entre si
as árvores se falavam
estimulavam o pensamento com suas flores
não se sabia o que era negro
existiam somente as cores que emanavam da luz
distribuíam energia-pensamento
mas não se dormia
o homem não conhecia o que era cansaço
mas não conhecia também a ternura do repouso
o silêncio e a música
porgue a música nasceu com o silêncio e com a noite
a música nasceu com a consciência dos primeiros ritmos
e com a noite nasceu o primeiro canto.
Da Arapuca, 1979

Iuruparí744
Iuruparí deus do sonho
os sonhos povoam nossas mentes
não são irrealidades que a nossa fantasia inventa
744
Cfr. supra quanto riportato a proposito della cultura del sogno tra gli indigeni d'America.

269
são concretos e tem cores
os sonhos nos aterrorizam
os sonhos deixam felizes
nos ensinam a viver
brincam com a gente
nos atormentam
nos mostram caminhos
Os sonhos abrem portas
e nós voamos por terras desconhecidas
Iuruparí
Iuruparí
quero voar nas asas de Iuruparí.
Da Arapuca, 1979

Terra onde não se morre


A Terra onde não se morre
em marcha o povo ameríndio
evocam Tupã e os outros deuses
e aos sons do boré, foge sua voz
os filhos de Jaguar, flexíveis
da costa dos mares, em direção Norte.
No Brasil eram três milhões
os indios Caetés e Tupinambas
fugiram para o Maranhão e Pará
atravessaram todo o território
pararam às margens do rio.
São os Tapirapés em movimento
de olhos abertos, arquejam
exaustos chegam ao rio Araguaia
penetram a floresta, se retiram.
Plumas amarelas, marrons, folhas vermelhas
o jacaré, a juçurana, o a lontra
as árvores gigantes são milhares
como são milhoes em marcha o povo amerindio
filhos de Jaguar, flexíveis

270
atravessam o território, sem parar
da costa dos mares, em direção Norte
de olhos abertos, guerreiros arquejam
chegam exaustos, são os Tapirapés
penetram a floresta, aglomerados
em direção à Terra onde nao se morre.
Da Amazzonia respiro del mondo, 2005

Os Meninos Jaguar
I
É imóvel a terra, quando a deusa Jaguar
de noite entra na aldeia
e com ela Urucu, Pajurá
Japicahy, Tauari
Arari, Mangalô
os rostos iluminados, um facho de luz
baila um guerreiro dentro de cada um
II
é ela a divindade Jaguar.
abre o universo fechado escuro
a concha, ninho de todos os seres
Murucu Maracá
III
os meninos guerreiros
—cada um encarna um mito—
ornados com trançados de penas de arara
brincos de penas de arara
cinturas de penas de arara
colares de unhas de jaguar
braçadeiras de caramujos do rio
[---]
Da Os Meninos Jaguar, 1995

271
La selezione che ho fatto è immancabilmente parziale, soggettiva e non rende
completamemte merito all'opera di Márcia Theóphilo, di cui concludo l'omaggio citando brani
dell'intervista che ha concesso a Ottavio Rossani per il Corriere della sera nel 2009745:

Marcia Theophilo, quasi tutte le sue poesie sono dedicate alla foresta dell’Amazzonia.
Perché?
L’Amazzonia è la mia terra. Mia nonna era india e da lei ho imparato i miti e le leggende della
foresta e l’identità di un popolo. Questa identità mi è rimasta nel cuore. Sono nata a Fortaleza,
sono cresciuta nell’Acre, una regione interna dell’Amazzonia, lì mio padre lavorava, lì sono in
parte vissuta. Da grande, per capire meglio la cultura india, sono diventata antropologa. Oggi
sono una poetessa antropologa. Le mie poesie cantano quel mondo, quella cultura, lo spirito
della foresta, e i suoi cambiamenti negativi, la necessità di salvare quel “polmone verde” che
anima la vita di tutto il mondo, comprese le persone. Noi siamo alberi, perché gli alberi della
foresta siamo noi. Senza quegli alberi, senza il soffio di quella membrana verde, il genere
umano si estinguerebbe, Perciò io canto un’anima che si sta dissolvendo, canto rumori vitali,
canto la bellezza della natura, canto il sogno di un ritorno a un mondo pulito, senza
inquinamento, ma anche senza crudeltà. Disboscare migliaia di chilometri quadrati di foresta è
pura crudeltà. Non solo verso la natura, la vegetazione, gli alberi, la fauna, ma soprattutto verso
gli stessi uomini. Tutti sanno, tutti sappiamo ormai, che se la foresta amazzonica (che attraversa
e interessa ben otto Stati nazionali) scomparisse, scomparirebbe il mondo che si
disseccherebbe, e scomparirebbero gli uomini perché non potrebbeo sopravvivere alla
mancanza di ossigeno.
Come antropologa che cosa ha imparato precisamente sulla foresta e sugli indios che la
abitano?
Ho imparato che le tribù indie stanno scomparendo, perché piano piano gli uomini da fuori
stanno divorando la loro foresta. Ho imparato che nella foresta c’è una lingua autonoma,
diversa da quella delle tribù, diversa da tutte le altre lingue.Ho imparato quella lingua e posso
sentire come alita l’anima della foresta. Dentro quella foresta c’è il mio cuore che batte, e
dentro il mio cuore c’è la foresta che respira. I bambini indios sono lasciati vivere nella foresta.
Non hanno paura, perché si sanno adattare. Tutti gli uomini hanno saputo sempre adattarsi alle
circostanze ambientali. Così avviene anche nella foresta. L’Amazzonia è il verde del pianeta,
ma non solo: è anche l’acqua del pianeta. Il Rio delle Amazzoni attraversa il subcontinente e

745
http://www.marciatheophilo.it/index.php/intervista-la-poesia-e-il-manifesto-ecologico-di-marcia-theophilo-per-
salvare-lamazzonia-ottavio-rossani/.

272
raccoglie migliaia di altri rios e li conduce fino al mare. L’Amazzonia è ricca di milioni di
specie vegetali e animali. E l’albero è il suo simbolo. Sul tronco di un albero possiamo trovare i
segni di una storia millenaria. Un solo albero è il centro di un microcosmo vivente in cui
l’uomo è tutt’uno con gli altri elementi che respirano. Ho imparato la lingua della foresta e non
ho fatto altro che tradurla per far conoscere al mondo, agli uomini sensibili i suoi significati,
nella speranza che anche gli uomini “insensibili” e stupidi possano ravvedersi e capire che
devono ritirarsi indietro perché quel mondo possa essere salvato, preservato, amato. Sì, può
anche essere “usato”, ma in modo intelligente, rispettando l’equilibrio armonico di
vegetazione-acqua-uomo. La poesia è l’unico strumento libero, vero, senza condizionamenti,
che può colpire il cuore e la mente degli uomini. Perché tutto può essere business, tranne la
poesia. Attraverso la poesia, tutti possono capire che gli alberi siamo noi, e che noi siamo
alberi. Ho scritto una poesia proprio su questo.
[…]

Nós árvores
Nós árvores vivemos de chuva
de orvalhos eternos e das neblinas
dos rios e dos oceanos
de vapores matutinos
e delicadas névoas.
Durante o dia o calor
dos raios do sol
dilata os nossos corpos sublunares
que absorvem assim, no profundo
delicadissimo orvalho noturno.
Da Amazzonia respiro del mondo, 2005

273
Il caso Ecuador: dal dominio “mestizo” a una nuova “Necesidad de América”

Fuera de nuestras viviendas, todo era igual con los indios. Ninguno formaba parte de la vida de la gente que
yo frecuenté en ese viaje, ni en Guayaquil ni en Quito ni en Cuenca ni en ninguna parte. Después de más de
veinte años de marchas, los indios no terminaban de llegar a nuestra conciencia, que era la misma de antes.
Aún no era tiempo, es decir, aún no era tarde, pues la conciencia solo despierta me he dicho, cuando todo ha
pasado.

Mario Campaña746

Apunchij Jesucristo / kanpash yapata chishashkanki / kanpaj churikunallata / kanpaj shimita wakllichishka /
paikunapaj wakamajpi / paikunapaj kullki mañanapi / kanta llutashkami / charijkunapaj wakaichijpi /
wajchakunapaj, llakichij runapi / kanta tikrachishka.
Cristo / tú también / te has tardado demasiado / tus pastores, tus hijos / han profanado tu santa palabra / te
han convertido en un pordiocero / a su servicio / te han crucificado en sus alcancías / para enriquecerse / te
han transformado en protector / de los ricos / y en verdugo de los pobres.
Apunchij Cristo / kantashna, ñukanchijkunatapash / umachinshkami / kantaka mushuj kausaita / kushun nishka
jawa / wañuykunatalla karashkakuna / samai kausaita karasha nirka / rantika aukarikunatalla shinarka / shina
paikunapaj / kamachikunapi, ñukanchij / ayllukunata tukuchirka / ñukanchij llajtakunapi / sarunkapaj / uchilla
llajtakunapi / rakichirka.
Cristo / a ti / igual que a nosotros / te engañaron / te prometieron darte un mundo nuevo / y te hicieron
cómplice de sus crímenes. / Nos / prometieron paz / y nos hicieron la guerra / -sus golpes siempre fueron una
traición- / nos exclavizaron / con su religión / y sus leyes / y con sus leyes cabaron la tumba / de miles de los
nuestros / nos cercaron en Estados / para debilitarnos.

Ariruma Kowii747

In occasione delle giornate di studio del 2010 e del 2011 dei dottorandi di Letterature Comparate
Euro-Americane del DISCLIC dell'Università di Genova, mi sono occupato del caso Ecuador,
appunto, e i due interventi sono confluiti in due articoli, intitolati rispettivamente La distruzione
della distruzione. Dalla distruzione del Tahuantinsuyu all'affermazione del Sumak Kawsay:

746
Da Los indios y nosotros, in Relatos II (che farà parte del libro Arrechera seca, in fase di pubblicazione).
Ringrazio l'autore per l'anticipazione inviatami tramite corrispondenza privata.
747
Da Poema 10, in Tsaitsik. Poemas para construir el futuro, Abya-Yala, Quito 1993, pp. 63-4.

274
letteratura e politica indigenista nella società ecuatoriana e Una nueva civilización. Mito e
realtà, pubblicati entrambi nel 2013748.
Nel primo intervento ho cercato di mettere in luce come la rinascita indigena, nel Paese,
dopo secoli di repressioni e manipolazioni 749, si sia verificata sia a livello politico sia culturale a
partire dai primi anni '90750, anticipata dalla lunga ma controversa stagione indigenista in campo
letterario751, ma con differenze non certo sottili.
L'indigenista del passato era esclusivamente un mestizo-criollo che ha trattato l'indio in
maniera varia:
 per costruire dei miti fondatori della nazione, nello specifico caso della fase indianista
romantica, esattamente come è successo in Brasile;
 per formulare denunce sociali con prospettive comunque diverse, da quella che
potremmo paragonare al verismo italiano a quella di chiaro orientamento socialista o
comunista;
 per divulgare messaggi in tutto e per tutto opposti alle rivendicazioni sociali e in perfetta
continuità con il passato colonialista, in sintonia con le dottrine racialistas quali il
darwinismo sociale e i vari fascismi europei752.
Ho quindi operato un'analisi comparativa tra l'opera del prestigioso scrittore indigenista del
passato Benjamín Carrión e quella del poeta e attivista politico contemporaneo di madre lingua
quichua Ariruma Kowii.
Il primo aveva pubblicato a Ciudad del México nel 1934 una tra le opere letterarie
indigeniste ecuatorianas più significative: Atahuallpa.
Riporto brani significativi del mio intervento753:

748
Quaderni di Palazzo Serra 23 (2013), rispettivamente pp. 245-260 e pp. 365-380.
749
Nel cap. I ho trattato il caso emblematico di Jacinto Collahuazo.
750
L'anniversario dei 500 anni dalla “scoperta” dell'America è servito sicuramente a provocare una reazione
sistematica e sempre più comunemente condivisa tra i movimenti indigeni, così come è successo in Brasile. Cfr.
il cap. I, in cui rilevo come comunque tuttora la situazione sia in divenire e, tra non pochi ostacoli, i movimenti
indigeni debbano ancora lavorare molto sulla capacità di cucire relazioni transnazionali tra loro.
751
Cfr. cap. I.
752
Cfr. Kim Clark, “Indigenistas, indios e ideologías raciales en el Ecuador (1920-1940)”, Íconos. Revista de
Ciencias Sociales 7 (1999), pp. 78-85; Emma Cervone, Fredy Rivera (a c.), Ecuador racista. Imágenes e
Identidades, FLACSO, Quito 1999.
753
Marras, “La distruzione...cit., pp. 247-49.

275
Manuel Benjamín Carrión Mora (1897-1979) è stato scrittore, giornalista, politico, diplomatico
e promotore culturale. Appartenente a una famiglia criolla della città di Loja, nel sud del paese
– nota per la ricca tradizione culturale e per la sua importante università, al punto da essere
considerata da molti la capitale culturale dell'Ecuador –, Carrión ricoprì molti incarichi pubblici
di rilievo, tra cui appunto quelli di diplomatico in vari paesi europei e americani e professore di
Letteratura presso la Escuela Superior de Pedagogía de la Universidad Central del Ecuador.
Nel 1944 fondò la Casa de la Cultura Ecuatoriana e promosse in tutto il paese l'istituzione di
musei, biblioteche e riviste culturali, tra cui El Sol, in collaborazione con Alfredo Pareja
Diezcanseco, e Letras del Ecuador. Ha pubblicato numerose opere oltre Atahuallpa, tra cui è
utile ricordare El cuento de la Patria754.
Atahuallpa non è né un romanzo storico, in quanto privo di dialoghi, d'introspezione
psicologica dei personaggi, di descrizioni dettagliate degli ambienti, né un saggio storico, ai cui
requisiti non corrisponde, per quanto si richiami alle opere di William H. Prescott, tra cui la
Storia del Perù, spesso citata da Carrión. Lo si può definire un'opera narrativa con finalità
divulgative e didascaliche, indirizzata a un pubblico il più ampio possibile, il popolo
ecuatoriano, nell'intento di educarlo a conoscere e amare la patria secondo gli ideali della classe
dominante mestizo-criolla, sia pure da un punto di vista progressista755.
L'importanza di quest'opera nel dibattito indigenista dell'epoca, e ancor più in quello relativo
all'identità nazionale ecuatoriana, è chiarita dalla definizione che le assegnò il critico letterario
e membro dell'Academia Ecuatoriana de la Lengua Hernán Rodríguez Castelo: “la biografia
della conquista”756.
Atahuallpa infatti non è tanto dedicato alla storia dell'ultimo degli Inca, quanto piuttosto al
tramonto del Tahuantinsuyu, le “Quattro Parti del Mondo”, come si chiamava in lingua
quichua/quechua l'impero degli Inca.
Dopo un'introduzione, invero un po' retorica, elogiativa ma anche descrittiva degli Inca e di
invettiva contro i conquistadores armati di spada e di croce, circa metà del libro è dedicata al
padre di Atahuallpa, il conquistatore Huayna Capac, che estese la pax inca non solo con le

754
Cfr. Fausto Aguirre, “Estudio introductorio”, in Benjamín Carrión, Atahuallpa, Colección Antares, Libresa, Quito
2008, pp. 7-54; Hernán Rodríguez Castelo, Nuestros Latinoamericanos vistos por si mismos, Banco Central del
Ecuador, Quito 1996, pp. 51-59.
755
Cfr. Aguirre, op. cit., pp. 38 sgg. Wu Ming 1 probabilmente definirebbe quest'opera un “oggetto narrativo non
identificato”. Cfr. New Italian Epic, Einaudi, Torino 2009.
756
Cfr. Aguirre, op. cit., pp. 16 segg.

276
armi, ma anche tramite l'impulso civilizzatore che la sua dinastia rappresentava; l'altra metà è
invece dedicata ai conquistadores, avidi, meschini, analfabeti, crudeli e traditori.
A favorire la loro facile vittoria, Carrión mette in risalto, oltre alla cosiddetta profezia di
Viracocha757, la precedente guerra civile tra Atahuallpa, con le sue truppe di Quito, e suo
fratello Huáscar, da Cusco – quasi a prefigurare i futuri conflitti tra gli stati fratelli Ecuador e
Perù –, guerra civile trattata sì con pochi dettagli, ma con la chiara amarezza di chi stigmatizza
un conflitto fratricida di cui hanno approfittato i rapaci stranieri.
Vale la pena rilevare come un analogo giudizio lo si possa riscontrare in un'altra opera dai
caratteri e fini simili a quelli dell'Atahuallpa, di un altro importante autore ecuatoriano coevo di
Carrión: El camino del Sol (1959) di Jorge Carrera Andrade (Quito 1903-1978).
Questa sintonia è indicativa del sentimento di vergogna che tali autori mestizo-criollos
provavano nei confronti della guerra fratricida tra Atahuallpa e Huáscar, un episodio di quella
che rivendicavano come loro storia patria.
A chiarire quest'ultimo punto, è altresì utile rilevare come Carrera Andrade sia celebre in patria
e in tutta l'area andina in quanto promotore della poesia collettiva Vasija de Barro (1950), mai
pubblicata in alcuna antologia in quanto subito convertita in una canzone diventata presto tra le
più amate dagli Ecuatoriani, che la considerano una sorta di inno nazionale alternativo.
Carrera Andrade, in particolare, fu autore della prima strofe:
yo quiero que a mí me entierren
como a mis antepasados
en el vientre oscuro y fresco
de una vasija de barro
Questi versi gli furono ispirati da un quadro, El Origen, di colui che è considerato il più
importante pittore contemporaneo ecuatoriano, Oswaldo Guayasamín (Quito 1919-1999), il
quale a sua volta si era ispirato a un'antica urna funeraria di terracotta precolombiana, dal
pittore associata al ventre della Madre Terra, la Allpa Mama della tradizione quichua.
Ora, nessuno degli ispiratori/creatori di questo testo – oltre ai citati, anche Hugo Alemán, Jaime
Valencia, Jorge Enrique Adoum –, peraltro da tempo ben presente nel patrimonio culturale
degli indigeni andini non solo dell'Ecuador, era però indigeno. Vasija de Barro è quindi
un'opera indigenista nel senso tradizionale del termine, prodotta cioè da non indigeni, da
intellettuali appartenenti alla classe dominante mestizo-criolla, con l'intento di ricavare dalla
757
Riguardo a questa antica divinità andina e alla profezia in seguito alla quale i conquistadores spagnoli sono
identificati nei suoi “figli” da parte dei nativi, cfr. Nathan Wachtel, La vision des vaincus: les Indiens du Pérou
devant la conquête espagnole: 1530-1570, Paris, Gallimard, 1970; Antoinette Molinié Fioravanti, “El regreso de
Viracocha”, Bulletin de l'Institut français d'études andines 16/3-4 (1987), pp. 71-83.

277
cultura tradizionale indigena simboli e miti utili alla costruzione dell'identità nazionale di un
Ecuador che voleva distinguersi dai modelli coloniali, ma dove pure gli stessi autori indigenisti
denunciavano l'emarginazione socio-culturale delle etnie native, non sempre con l'aspirazione a
cambiarne la triste situazione.
Anche l'Atahuallpa di Carrión aveva uno scopo analogo: ricondurre alla storia patria
dell'Ecuador “la biografia della conquista” del Tahuantinsuyu in contrasto alla cultura coloniale
dei conquistadores.
Carrión, a tale scopo, si inserì in una tradizione "nazionale" antica, iniziata nel XVIII secolo da
Jacinto Collahuazo, lui sì indigeno, autorità della comunità quichua di Ibarra, nel nord
dell'attuale Ecuador758.

E Carrión aveva concluso il suo Atahuallpa con le seguenti parole:

Hoy es la hora de construcción en Indohispania. Todas las voces – que se expresan


indeclinablemente en español – afirman su anhelo de vivir en justicia y en igualdad sociales.
[...] Atahualpa y Pizarro esperan – y harán llegar – la hora de la tierra y de la justicia 759.

Proprio questo ideale che potremmo considerare peculiarmente mestizo, in sintonia con la
raza cósmica di Vasconcelos760, per esempio, ma anche con gli ideali di Ernesto “Che”
Guevara761, e che consiste di fatto nella volontà di omologazione e assimilazione di tutte le etnie
indigene in un'unica nazione mestiza di lingua spagnola nella cosiddetta Indohispania, è
assolutamente in contrasto con i messaggi trasmessi dall'opera di Ariruma Kowii e di tutti gli
autori indigeni che negli ultimi anni stanno emergendo in America Latina.

758
Cfr. cap. I.
759
Carrión, Atahuallpa, cit., p. 375.
760
Cfr. cap. I.
761
In “Che” Guevara, questo ideale, ovviamente inquadrato in una prospettiva comunista, è ben riportato per
esempio nel celebre film Diarios de motocicleta (2004), diretto dal regista brasiliano Walter Salles grazie a una
coproduzione Argentina-USA-Cile-Perù e basato sulle Notas de viaje dello stesso Ernesto “Che” Guevara e sul
libro del suo amico di gioventù Alberto Granado Con el Che por America Latina.

278
L'otavaleño Ariruma Kowii, all'anagrafe Jacinto Conejo Maldonado 762, poeta, avvocato,
attivista politico e ricercatore specializzato in Diritti Umani presso l’Universidad Andina Simón
Bolívar di Quito, è autore di vari volumi di poesia in quichua e in traduzione spagnola, tra cui
Mutsuctsurini (1988), prima antologia poetica pubblicata interamente in quichua in Ecuador, e il
citato Tsaitsik. Poemas para construir el futuro (1993); inoltre ha pubblicato, tra gli altri suoi
saggi, un Diccionario de Nombres Kichwas (1998) e ha tradotto in quichua proprio l'Atahuallpa
di Benjamín Carrión (1985), un gesto che si potrebbe definire di recupero dei propri miti
nazionali usurpati dalla classe dominante mestizo-criolla.
Oltre ai versi citati in epigrafe supra, nell'articolo citato ho riportato altri versi suoi, sempre
belli e soprattutto significativi, rigorosamente pubblicati prima di tutto in lingua quichua, la sua
lingua madre, poi in spagnolo. Riporto almeno ancora la seguente:

Allpa Mama Ama Wañuchun Madre Tierra


Otavalo-Junio-2000
Allapa mama ama wañuchun Para que la Madre Tierra
Inti yayapak no muera
killa mamapak volvamos a danzar
manñapi, muyuypi alrededor del Sol / y de la Luna
kuntur tushuita la danza del cóndor
taruka tushuita la serpiente
sumakta sumakta tushushun. el venado
Allapa mama ama wañuchun dejemos que nuestros corazones
ñukanchik shunkuta se desborden en cataclismos / y
jatun llakishna jicharichun sakishun engendremos el vacio
ñukanchik shimiwan chushak pachata con nuestras palabras
wiksayuk sakishun. dialoguemos en círculo, en el día
Punchapi rumpata rurashpa y en media luna, en la noche
Tutapi chaupi rumpata shinashpa hablemos en tiempo de ayer
ñukanchik yayakunawan, wawakunawan de ahora y de mañana / con nuestros Yayas

762
Ariruma in quichua significa “uomo riflessivo”, Kowii è il nome del roditore andino in italiano chiamato
porcellino d'india. È quindi una sorta di traduzione culturale del suo cognome spagnolo Conejo, che significa
coniglio.

279
kaynamanta, kunanmanta, kayapachamanta y nuestros wawas763

rimaywan, ninanta ninanta rimashun. encendamos con nuestro futuro


Allapa Mama ama wañuchun los contornos / de todos los caminos
paipak anku, samai, wamak avancemos como aguilas
kausashpak katichun a traves de todas las vicisitudes
tukui, tukui ñankunapi e imprimamos en ellas
ninata rupachishunchik la armonia de nuestros sueños
ankakunashna Vigilemos con los mas
mushuk chapanakunashna sofisticados radares
tukuita wakaichishunchik la integridad de sus venas
Shamuk kausai su aliento, su espítiru
muskuikuna sus manos
ñakarikuna sus manos
sumak kausaimanta samai constructoras
ama tukurichun del futuro
allpa mamapak makita del sueño / la ternura
tukui pachakunapi, alli allita del hermoso murmullo
Wakaichishunchik de la vida.

E di seguito riporto invece per intero un documento che Ariruma Kowii, per il Programa
Andino de Derechos Humanos (PADH)764, ha pubblicato recentemente sul Sumak Kawsay,
l'ideologia che si suppone di origine incaica, comunque andina, e che sta andando sempre più per
la maggiore tra i movimenti indigeni dei Paesi andini, nonché tra i loro governi, per quanto tra i
rappresentanti di questi ultimi spesso lo si citi senza una vera e propria nozione precisa di che
cosa sia o gli si voglia dare un'interpretazione molto soggettiva e strumentale.
Ecco come la definisce Ariruma Kowii765:

763
Gli Yayas sono gli antenati, il cui culto è connesso con il recupero delle tradizioni. Gli wawas sono i bambini, le
nuove generazioni.
764
http://www.uasb.edu.ec/padh/. Io ho avuto il piacere e l'onore di ricevere il documento in anteprima da parte
dell'autore tramite corrispondenza privata.
765
http://www.uasb.edu.ec/UserFiles/369/File/PDF/CentrodeReferencia/Temasdeanalisis2/buenvivirysumakkawsay/
articulos/Kowii.pdf.

280
La mitología kichwa referente a la fundación de los pueblos identifica situaciones, personajes,
formas de pensamiento que transitan en pareja, buscan, seleccionan los lugares para proceder a
la fundación de los pueblos, así por ejemplo en el mito del pueblo kichwa otavaleño, los
Otavalos tuvieron que caminar largas jornadas hasta encontrar el lugar ideal y proceder a la
construcción del mismo, similar situación sucede en el mito de la formación de los cañaris,
cuando inundado el pueblo, la pareja de hermanos es alimentado por dos wakamayas766, se
enamoran y el pueblo cañari crece.
La acción de buscar, seleccionar, definir, persistir en pareja es importante como valores que
acompañan a las personas, la acción de definir significa determinación, constancia, la
definición del lugar integra una visión estética y un conocimiento de espacios, la selección de
los espacios se caracterizan además por el conocimiento de la energía positiva y negativa,
elementos importantes en la definición y selección del lugar. Estos aspectos permiten
comprender entonces la importancia que daban nuestros ancestros en garantizar que el entorno
se convierta en un todo, en una razón de ser del individuo, de la naturaleza y de la población,
para que éste se complemente con el ser de los individuos y de la colectividad.
Hasta la década de los años 70 en las comunidades, sus pobladores, niños, jóvenes, mayores
tenían conocimiento de los lugares energéticos, por esa razón y según el caso las personas
evitaban pasar frente aquellos que eran considerados negativos y si dichos lugares eran
inevitables, los transeúntes debían hacer una oración y fumar un cigarrillo hasta lograr alejarse
del mismo, esta práctica se mantiene aún en las personas mayores que acostumbran a
trasladarse a pie de un lugar a otro.
El sentido estético del lugar, se traduce en la importancia que pusieron nuestros antepasados en
identificar espacios que visualmente contribuyan a la sanación del espíritu, por esa razón en el
caso de Otavalo, los cinco lagos, las lomas, las montañas que bordean el lugar, constituyen el
aire que los otavaleños respiramos para renovar las energías, recomponernos y continuar en el
día a día.
En esta práctica nuestros antepasados acostumbraban subir a lugares prominentes que permitían
visualizar el horizonte y el firmamento con mucha amplitud, estos lugares que en la actualidad
son conocidos como miradores eran utilizados para desarrollar un sistema de sanación conocido
como el samary o el waylla que consistía en cumplir con el siguiente ritual:
Las personas llevaban ofrendas a los sitios considerados sagrados como es el caso del mirador,
estas eran depositadas en la parte central, hacían fuego y en el lanzaban sahumerio para que su
humo envuelva el entorno y lo purifique, luego de las plegarias o los ritmos que interpretaban,
se incorporaban, respiraban profundo y contemplaban el horizonte, se sumían en el y meditaban
766
Nome quichua dei pappagalli detti anche ara.

281
en medio de dicha paz, en este ejercicio se hacia realidad la frase, kawsarishkanimi,
nuevamente he vuelto a vivir.
En la actualidad en Otavalo, en la loma denominada Chinpaloma o Rey Loma, las personas
mayores aun acostumbran dejar tumines767 -presentes que dejan junto al árbol mitológico del
lechero-, en este lugar que se encuentra en la cima de la loma, hacen sus oraciones y piden a los
dioses que les transmita su energía, similar situación se repite en la Cascada de Peguche, en
Wantuk Rumi en las faldas del Imbabura, los mayores dejan los tumines, las ofrendas a la allpa
mama, a la pacha mama. Los tumines o presentes simbolizan y sintetizan los valores, el
agradecimiento que la comunidad kichwa tiene para con la naturaleza y las personas,
garantizando con dichas acciones mantener el equilibrio en todos los niveles de vida de las
personas y de la naturaleza.
En los mitos fundacionales del pueblo kichwa, es importante notar la presencia de la pareja,
mujer-hombre, en las personas, en las montañas, en los objetos. La presencia de la dualidad
está vigente en todo momento, así por ejemplo en el mito de los amores de Tayta Imbabura y
Mama Kutakachi o en su defecto en los hijos que logran tener. Similar situación en el caso de
los sembríos, siempre será importante garantizar la presencia de semillas hembras y varones, y
de esta forma lograr una buena producción. La dualidad en el mundo kichwa está presente en la
cotidianidad y en los rituales que se realizan para la sanación.
La presencia de la dualidad en los mitos de los pueblos ancestrales, emite el mensaje de estar,
avanzar juntos, estar presente, establece la diferencia pero al mismo tiempo el respeto, el amor
y la igualdad con lo cual refrenda la importancia del concepto de complementariedad, igualdad
y equidad.
Hago referencia a estos puntos porque el entorno constituido y comprendido como una entidad
dotada de energías nos recuerda que somos parte complementaria de la naturaleza, nos invita,
nos reta e inspira al individuo a reconstruirse permanentemente en su realización individual y
colectiva. En las comunidades contemplar las montañas, el nacimiento de un amanecer o el
ocaso, transporta al individuo a otras dimensiones, lo cual ayuda a una renovación permanente
de la energía o en su defecto como en el caso de la situación que han debido soportar nuestras
comunidades a mantenerse presentes, vivos. La naturaleza en sí se constituía en una motivación
que invitaba a aferrarse a la vida y a luchar por ella, a luchar por un presente y por mejores
días.
La importancia de los lugares, la naturaleza, el universo, su conocimiento respecto a sus
virtudes energéticas, sus ciclos, son fundamentales, por esa razón la presencia de las wakas768,
767
Tumin: palabra quichua, ofrenda de productos que se ofrecen a la madre tierra, a la naturaleza, al universo. N.d.a.
768
Waka: palabra quichua, lugar sagrado. N.d.a.

282
en el caso de la provincia de Imbabura y de las comunidades andinas en general, tienen un
significado profundo del cual la generación de nuestros abuelos y de nuestros padres
difícilmente han logrado desprenderse.
En suma, los lugares y los individuos están íntimamente relacionados, el nivel de influencia es
mutuo y son elementos que permanentemente rememoran la relación espiritual que ha logrado
desarrollarse entre las personas y la naturaleza, por esa misma razón la comunidad kichwa,
constantemente se refiere a la pacha mama, es decir al universo.

El sumak kawsay y las expresiones espirituales


En este ejercicio de reconstruir las formas de pensamiento del pueblo kichwa es necesario
realizar una arqueología de las palabras, indagar en el habla cotidiana, así como en los actos y
los rituales, fundamentalmente en estos que concentran expresiones que condensan procesos,
sentidos de la visión del mundo de la población kichwa y que han contribuido a mantener
latente la filosofía del pueblo kichwa, a continuación algunos ejemplos:
Allpa Mama: allpa-tierra, mama-madre, es decir madre tierra.
Pacha mama: pacha-tiempo/universo, significa madre del universo.
Yaku mama: yaku-agua y mama-madre.
Waka Mama: waka-sagrado, mama-madre, se refiere a los sitios considerados sagrados en
donde se acostumbra a dejar los tumines o los pagos como una retribución de los favores que se
recibe de la tierra y de la vida.
Inti tayta: inti sol y tayta padre, padre sol.
Killa mama: killa, luna, mama, madre.
Achik: lo luminoso.
La expresión mama y tayta fijan una forma de pensamiento, una visión del mundo que
establece la diferencia con la visión del mundo occidental, en estas expresiones está implícita la
idea de naturaleza, el universo como un ser vivo y lo que es mas, es considerado como la madre
y el padre del pueblo kichwa, generando con ello un nivel de parentesco de padre, madre e
hijos, un todo que se complementa el uno al otro y que en caso de no ser tomado en cuenta o
que no cumpla con su función pone en riesgo la totalidad, el bienestar integral de todos.
La concepción de que la naturaleza tiene vida y que muchos de sus elementos son considerados
como los dioses mayores de los pueblos ancestrales, dio lugar a que la naturaleza sea vista
como sagrado, en esa dimensión las acciones de desarrollo se restringían bajo el mandato de
tomar de la naturaleza solamente lo que se necesita y no abusar de ella 769.

769
Cfr. quanto detto supra a proposito dell'indigeno custode dell'ambiente.

283
Estas prácticas si bien se mantienen aún, comienzan a debilitarse por la ausencia de estudios
que permitan conocer a profundidad esta visión del mundo y que es importante recuperarla
porque puede constituirse en una alternativa de pensamiento que ayude a cuidar el ambiente y
la manera de ser de las personas.

El sumak kaway, acciones y valores de la comunidad kichwa


La minka: se refiere al trabajo obligatorio que cada ayllu770 debe cumplir con los intereses de la
comunidad en obras que son de carácter colectivo como por ejemplo un canal de riego, la
construcción de un camino, una plaza o alguna edificación de carácter sagrado o en obras que
comprometen a varias comunidades. La minga771 es un mecanismo de trabajo colectivo que
fomenta el ahorro, estimula el trabajo y potencializa la producción. Esta tradición en el caso de
las comunidades ha permitido superar y enfrentar el olvido y la exclusión del sistema colonial y
republicano.
El ayni: se caracteriza por el sentido de solidaridad de la familia y de la comunidad, en labores
específicas entre los ayllus o entre los miembros de la comunidad, en labores que no
demandaban tiempos prolongados como por ejemplo el tejado de una casa, la siembra de maíz,
etc. El ayni se rige por el principio de reciprocidad, es decir por el makipurarina.
El maki purarina: maki mano, purarina, estrechar o darse la mano, es decir ayudarse
mutuamente, equivale a la reciprocidad. Se refiere al sentido de solidaridad que los miembros
de un ayllu deben expresar con sus familiares, con los vecinos de la comunidad. Esta conducta
es observada con mucha atención por los anfitriones de una actividad productiva o de una
fiesta, de registrar los tumines que llevan los acompañantes y de esta forma tener presente las
obligaciones que adquiere con todos y cada uno de los mismos.
El maki purarina ayuda a que los niveles de comunicación, la interrelación de las personas se
mantenga vigente, esta práctica contribuye a conocerse, reconocerse, a que se ayuden
mutuamente o en su defecto conozcan quienes están y viven a su alrededor.
Yanaparina, la solidaridad como un valor fundamental. La situación histórica de las
comunidades ha motivado a que en ciertas circunstancias estas se cohesionen y fortalezcan los
lasos de unidad, este valor permite que los ayllus y sus miembros por lo general se apoyen

770
L'ayllu (parola condivisa tanto dal quichua-quechua, quanto dall'aymara) è la comunità familiare tipica della
regione andina, che vanta un antenato comune – vero o presunto – e soprattutto lavora insieme una terra di
proprietà comune. È quindi il nucleo sociale fondamentale della società andina.
771
È l'autore stesso che usa sia la forma con occlusiva velare sorda minka sia quella con velare sonora minga, in
quanto evidentemente forme dialettali alternative.

284
mutuamente y puedan superar dificultades, lograr objetivos concretos y de beneficio
comunitario.

El sumak kawsay y los principios para su edificación


Wawakunaka yurakunashna wiñan, alli wakichikpika alli wiñan, mana alli wakichikpika mana
alli wiñankachu. Se suele decir que las personas crecen igual que las plantas, si los cuidados
son adecuados, su crecimiento y sus frutos son buenos, si no se los cuida, entonces los frutos
tampoco serán buenos.
En las comunidades agrarias se realizan los tumines o los presentes, es decir el permiso a la
madre tierra para intervenirla y proceder a prepararla, esto implica: abonarla, nutrirla de agua y
humus, arar la tierra, realizar la siembra, protegerla, realizar la cosecha, volver a nutrirla o en
su defecto dejar que descanse, cada acción articulada al ciclo lunar, su precisión permitirá
garantizar una buena producción772.
Las comunidades artesanas y comerciantes combinan estos ciclos con la dinámica y la realidad
económica de la población, en el primer caso debían tener un conocimiento adecuado de las
plantas de las cuales obtenían los distintos colores, así como de los animales que les abastecía
de la materia prima que necesitaban.
En todos los casos están presentes los siguientes valores:
El ama killa, no a la pereza; ama llulla, no a la mentira; ama shua, no al robo, estos valores se
sintetizan en la importancia del trabajo como el eje fundamental para garantizar el bienestar
individual, familiar y colectivo.

772
Anche il mondo contadino nostrano è noto che portasse avanti tradizioni secolari legate all'antico culto della
Madre Terra. Cfr. Sara Morace, Origine donna. Dal matrismo al patriarcato, Prospettive edizioni, Roma-
Pontassieve (FI) 1997; Id., Terzo tempo. Donne, patriarcato e futuro, Prospettive edizioni, Roma-Pontassieve
(FI) 1998; Id., I racconti di domani, Prospettive edizioni, Roma-Pontassieve (FI) 2008; Sara Morace, Dario
Renzi, L'origine femminile dell'umanità. Dialoghi, lezioni, articoli, Prospettive edizioni, Roma-Pontassieve (FI)
2012. Ho contribuito a organizzare l'interessante incontro con l'autrice Sara Morace che si è tenuto il 17/5/2011
presso la Sala Chierici della biblioteca Berio di Genova e che ha avuto il titolo: “Si ricorderanno le donne di
essere il genere primo?”. Queste tradizioni sono le stesse che in Europa, ma anche nelle colonie del Nuovo
Mondo, sono state oggetto della caccia alle streghe e in genere della repressione dell'inquisizione. Tra la
bibliografia sterminata, cfr. Giorgio Galli, Occidente misterioso. Baccanti, gnostici, streghe: i vinti della storia e
la loro eredità, Rizzoli, Milano 1987; Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi,
Torino 2008 [I ed. 1989], specialmente il I capitolo della II parte, intitolato. “Al seguito della dea”. E cfr. nel cap.
I quanto riportato a proposito dell'azione delle autorità religiose coloniali finalizzata ad annientare i culti dei
nativi del Nuovo Mondo.

285
Llankayka kushikuypa shunkumi kan, este pensamiento kichwa significa “que el trabajo es el
corazón de la felicidad”, y se sostiene en la trilogía anteriormente mencionada.
Pakta kausay, el equilibrio.
La trilogía anterior regida por el trabajo permite garantizar el equilibrio individual, familiar y
colectivo. En la actualidad en las comunidades kichwas a pesar del deterioro de sus matrices
culturales y espirituales773 conservan rezagos de estas prácticas.
El equilibrio no se refiere únicamente a la estabilidad de los miembros de la comunidad, se
refiere también al equilibrio emocional que debe lograr cada persona, dicho equilibrio
constituye una garantía para que la comunicación sea horizontal y adecuada y no se vea
afectada por alteraciones de incomunicación que finalmente pueden afectar el logro de los
objetivos.
El equilibrio en su antigua forma procuraba garantizar el bienestar integral del individuo, la
familia y la comunidad, su desestabilización era considerado como un riesgo que puede afectar
su bienestar, en este sentido por ejemplo, si un miembro de la comunidad por la pereza no
participaba en una minga, el objetivo era afectado, debido a que se genera un desequilibirio o
en su defecto un retraso en el cumplimiento de la meta, al respecto es importante recordar que
en las mingas a cada ayllu (familia) se le asigna una tarea específica para que en esta sea
cumplida.
La afectación si bien es superable, esta sin embargo puede retrasarla y sobretodo generar un
malestar el interior de los miembros de la comunidad, un malestar que prevalecerá por algún
tiempo y daña el ánimo de la población.
Alli kausay, la armonía.
Como se anota anteriormente el trabajo, el equilibrio permite sostener la armonía del individuo,
la familia y la comunidad. Un individuo, una familia, una comunidad que logra estas
dimensiones puede contagiar su entorno y lograr que las diferentes actividades sean positivas,
influye incluso en el espacio y en lugar por donde fluya dicha energía, de ser afectada en
cambio sucede lo contrario y los resultados no siempre serán los esperados, la armonía
garantiza fluidez.
Wiñak kausay, la creatividad.
La presencia de estos valores es el ingrediente que motiva en las personas a recrear y crear sus
iniciativas. La creatividad está regida por un mecanismo clave que se denomina el tinkuy. El
tinkuy es la búsqueda permanente de nuevas innovaciones, para lo cual los elementos existentes

773
Deterioro provocato ovviamente dalle prevaricazioni subite da parte dei conquistadores, delle autorità coloniali e
postcoloniali.

286
se encuentran en permanente revisión o confrontación, de dicha fricción surge una nueva luz,
un nuevo elemento que contribuye a superar lo anterior.
El tinkuy se lo simboliza en los rituales del inti raymi con las danzas guerreras que rememoran
la confrontación de las comunidades por mantener la hegemonía de los espacios rituales, la
confrontación sin embargo no genera enemistad, concluido el inti raymi las comunidades
mantienen los lazos de apoyo y solidaridad.
Samay, la serenidad.
Aprender a cultivar la serenidad del horizonte, de los lagos al amanecer, es una tarea de
perseverancia, disciplina, está orientado a aprender a crear mecanismos que permiten controlar
reacciones compulsivas, acciones sin previa meditación. Los Yachak al realizar las curaciones
tienen la costumbre de hacer un corte y mantener el diálogo para recuperar la energía y luego
continuar hasta culminar la misma. Un agricultor acostumbra a detenerse en medio de la
jornada y respirar con profundidad, mirar su entorno, el trabajo realizado y continuar con sus
labores hasta concluirla.
Cultivar la serenidad en las acciones de trabajo, de enseñanza, ayuda a que cada acto se lo
desarrolle en paz y respeto hacia el otro que en estos casos es un reflejo de nuestro yo o de lo
que pretendemos transmitir.
Runakay, el saber ser.
El runakay es la suma de todos los elementos anotados anteriormente. Runa literalmente
significa persona, humano, el runakay sintetiza la realización del ser humano, para lograr esta
dimensión es indispensable aprender a cumplir paulatinamente, todos y cada uno de los valores
descritos anteriormente.
El sumak kawsay.
Es una concepción andina ancestral de la vida que se ha mantenido vigente en muchas
comunidades indígenas hasta la actualidad. Sumak significa lo ideal, lo hermoso, lo bueno, la
realización; y kawsay, es la vida, en referencia a una vida digna, en armonía y equilibrio con el
universo y el ser humano, en síntesis el sumak kawsay significa la plenitud de la vida.

La pubblicazione di questo documento sul Sumak Kawsay da parte di un personaggio come


Ariruma Kowii, al tempo stesso un índio legato alle tradizioni della sua gente, i quichua della
Sierra, un poeta e intellettuale bilingue, ma anche un accademico di una prestigiosa università di
un Paese latinoamericano postcoloniale dove tuttora domina la classe mestizo-criolla, ha tutto il
sapore di un gesto finalizzato a imporre il punto di vista indigeno su un sistema di valori
considerato legittimamente indigeno, ma, come accennato, strumentalizzato dalla classe di potere

287
a cominciare dal governo del Presidente Rafael Correa, il quale ha voluto che il Sumak Kawsay,
ufficialmente tradotto in spagnolo nella forma Buen Vivir, fosse introdotto come obiettivo nella
nuova Costituzione ecuatoriana approvata a larga maggioranza dal referendum popolare del 28
settembre del 2008.
In particolare, nella nuova Costituzione 774, si cita il Sumak Kawsay per la prima volta
nell'articolo 14, che recita:

Se reconoce el derecho de la población a vivir en un ambiente sano y ecológicamente


equilibrado, que garantice la sostenibilidad y el buen vivir, sumak kawsay775.

Quindi nell'art. 250:

El territorio de las provincias amazónicas forma parte de un ecosistema necesario para el


equilibrio ambiental del planeta. Este territorio constituirá una circunscripción territorial
especial para la que existirá una planificación integral recogida en una ley que incluirá aspectos
sociales, económicos, ambientales y culturales, con un ordenamiento territorial que garantice la
conservación y protección de sus ecosistemas y el principio del sumak kawsay.

Nell'art. 275:

El régimen de desarrollo es el conjunto organizado, sostenible y dinámico de los sistemas


económicos, políticos, socio-culturales y ambientales, que garantizan la realización del buen
vivir, del sumak kawsay.
El Estado planificará el desarrollo del país para garantizar el ejercicio de los derechos, la
consecución de los objetivos del régimen de desarrollo y los principios consagrados en la
Constitución. La planificación propiciará la equidad social y territorial, promoverá la
concertación, y será participativa, descentralizada, desconcentrada y transparente.
El buen vivir requerirá que las personas, comunidades, pueblos y nacionalidades gocen
efectivamente de sus derechos, y ejerzan responsabilidades en el marco de la interculturalidad,
del respeto a sus diversidades, y de la convivencia armónica con la naturaleza.

774
http://www.asambleanacional.gov.ec/documentos/constitucion_de_bolsillo.pdf .
775
Il sottolineato, come nei casi successivi, è naturalmente mia iniziativa.

288
E nell'art. 387:

Será responsabilidad del Estado:


1. Facilitar e impulsar la incorporación a la sociedad del conocimiento para alcanzar los
objetivos del régimen de desarrollo.
2. Promover la generación y producción de conocimiento, fomentar la investigación científica y
tecnológica, y potenciar los saberes ancestrales, para así contribuir a la realización del buen
vivir, al sumak kausay.
3. Asegurar la difusión y el acceso a los conocimientos científicos y tecnológicos, el usufructo
de sus descubrimientos y hallazgos en el marco de lo establecido en la Constitución y la Ley.
4. Garantizar la libertad de creación e investigación en el marco del respeto a la ética, la
naturaleza, el ambiente, y el rescate de los conocimientos ancestrales.
5. Reconocer la condición de investigador de acuerdo con la Ley.

Ma s'impone il dubbio legittimo: per Correa e la sua classe di governo e in genere per la
classe dirigente e intellettuale mestizo-criolla il Sumak Kawsay è lo stesso che intendono i
movimenti indigeni?
Questo dubbio è stato il leitmotiv del mio secondo intervento, l'anno dopo, prefigurato già
nel finale dell'articolo dedicato all'intervento del 2010, nel quale ho appunto scritto:

Allo scopo di evitare il conflitto tra i movimenti indigeni incalzanti e la classe mestizo-criolla,
specie la sua componente progressista, alcuni intellettuali ecuatoriani capitanati dal poeta Mario
Campaña776 si stanno facendo portatori rispetto al governo Correa – per l'Ecuador ma anche per
776
Mario Campaña è poeta, saggista, promotore culturale – direttore della Revista de cultura latinoamericana
Guaraguao (http://www.revistaguaraguao.org/) –, ecuatoriano, molto attivo sia in campo culturale, sia
nell'attivismo politico nel suo Paese d'origine, di cui anzi oggi è uno degli intellettuali di maggiore riferimento,
benché residente in Spagna, a Barcelona. Ha partecipato due volte, nel 2010 e nel 2011, al Festival
Internazionale di Poesia di Genova diretto da Claudio Pozzani, e nella prima occasione è stato anche presidente
della giuria del I Concorso di Poesia della Diaspora Ecuadoriana “Jorgenrique Adoum”
(http://concorsopoesiajorgeenriqueadoum.blogspot.it/), ideato e diretto da Priscila Cujilan Tello e ospitato
proprio dalla XVI edizione del Festival. Tra i suoi saggi, sono molto significativi in quanto inerenti alle istanze a
cui faccio riferimento nel presente studio: Necesidad de América (Q’Antary, Maryland 2010) e América Latina:
los próximos 200 años (CECAL-Guaraguao, Barcelona 2010), quest'ultimo invero di autori vari. Il 22 febbraio
2011 Campaña ha tenuto una conferenza presso il DISCLIC dell'Università di Genova dedicata a El discurso
crítico de las poetas de América.

289
tutta l'America Latina – di una nuova riconciliazione, nonché dell'istanza di una nuova cultura e
di una nuova civiltà, di una nuova America che superi le frontiere nazionali d'eredità coloniale
e le discriminazioni socio-politico-culturali del passato e tragga il meglio da tutte le sue
componenti culturali equamente valorizzate, dalla civiltà occidentale come dal Sumak Kawsay.
Difficile prevedere come andrà a finire.

Mario Campaña e gli altri intellettuali di Nuevas Cartas777 sono voluti in particolare
intervenire in un frangente delicato, nel momento in cui, cioè, lo scontro tra Correa e i
movimenti indigeni era particolarmente acceso778, soprattutto a causa della questione spinosa del
bilinguismo – o meglio plurilinguismo, dal momento che in Ecuador non esiste certo solo il
quichua, tra le varie lingue indigene –, che la CONAIE e gli indigeni in genere vorrebbero esteso
obbligatoriamente a tutta la popolazione del Paese e vorrebbero che fosse gestito da organi
indigeni in autonomia rispetto allo Stato, mentre Correa vorrebbe che fosse facoltativo e
soprattutto gestito dallo Stato, ufficialmente onde evitare casi di corruzione, tesi che,
curiosamente, difendeva anche lo stesso Ariruma Kowii, in contrasto alla CONAIE, quindi,
come è emerso anche dall'intervista che ho tenuto a Fausto Lema, all'epoca rappresentante
ufficiale dei Quichua della Costa779.
Ho descritto appunto l'azione degli intellettuali di Nuevas Cartas nel mio intervento citato
del 2011, che si sviluppa così:

Nel 1934 Benjamín Carrión pubblicò a Ciudad de México Atahuallpa, romanzo di divulgazione
ideologica che l'importante intellettuale ecuatoriano concluse con un appello alla formazione di

777
Cfr. www.nuevascartas.blogspot.com. Nuevas Cartas, come si precisa sul sito stesso, è un “título sugerido por el
poeta Edwin Madrid, que alude a las conocidas Cartas al Ecuador, de Benjamín Carrión”. A ribadire quanto sia
stata determinante per la cultura ecuatoriana la figura dell'intellettuale lojano.
778
Cfr. Marras, “La distruzione...cit., p. 246, in cui rilevo come Mónica Chuji, unica rappresentante indigena,
quichua dell'Amazzonia, ad aver fatto parte del primo governo Correa, ne fosse uscita polemicamente nel
settembre del 2008, quando ha accusato il presidente di populismo conservatore mascherato da bolivarismo. In
seguito, ci sono state analoghe defezioni tra i sostenitori della prima ora del presidente ecuatoriano, tra cui la più
importante è stata senz'altro quella dell'economista Alberto Acosta Espinosa, il principale ispiratore della cd.
Revolución Ciudadana portata avanti da Correa e del programma del suo partito Alianza PAIS. Alle elezioni
presidenziali del 2013 è stato anche candidato rivale di Correa per la Unidad Plurinacional de las Izquierdas,
una coalizione di partiti politici e movimenti di sinistra prima sostenitori, poi oppositori del governo Correa.
779
Ibid., pp. 251-2.

290
una Indohispania mestiza di lingua spagnola in cui trionfassero la giustizia e l'uguaglianza
sociali, ma anche, implicitamente, l'acculturamento e l'estinzione definitiva delle nazioni
indigene. Tale messaggio non si sposa certo con quello trasmesso dalla più recente opera
poetica del poeta, saggista e attivista politico quichua Ariruma Kowii, il quale invece si
richiama alla rinascita politico-culturale indigena degli ultimi vent'anni e rivendica il diritto alla
propria identità etnolinguistica.
Dietro al contrasto emblematico tra i messaggi ideologicamente agli antipodi di questi due
autori vanno lette le radici del conflitto socio-politico più significativo e annoso in atto non solo
in Ecuador, ma anche nella maggior parte degli altri Paesi ispanoamericani: quello tra gli
indigeni e la tradizionale classe dominante mestizo-criolla, risalente all'epoca dell'indipendenza
dalla Spagna orientata dall'oligarchia dei latifondisti criollos e mestizos, che non ebbero
ovviamente interesse a modificare lo status sociale degli indigeni né degli schiavi di origine
africana, a differenza della precedente e precorritrice rivolta indipendentista guidata da Tupac
Amaru II nell'allora Virreinato del Perú.
[…]
Negli ultimi tempi, però, un gruppo di vari intellettuali ecuatoriani, capitanato dal poeta e
saggista Mario Campaña, ha sottoscritto degli appelli al governo del Presidente Correa e sta
promuovendo conferenze, dibattiti e movimenti di opinione, anche con lo scopo di superare
finalmente e definitivamente il conflitto con gli indigeni, comunque nel contesto di un tentativo
di sollecitare il governo a promuovere iniziative che portino, come risultato sperato – e
utopico780 –, alla fondazione di una nuova civiltà non solo in Ecuador, ma in tutta l'America
Latina, che si emancipi una volta per tutte dalla civiltà occidentale, da cui tragga semmai gli
aspetti migliori, così come, del resto, da tutte le altre culture mondiali che hanno contribuito
alla formazione del mondo latinoamericano, prime tra tutti, ovviamente, quelle indigene, nel
caso specifico ecuatoriano e andino in genere rappresentate dal richiamo all'ideologia
tradizionale inca del Sumak Kawsay, sempre più rilevante sul piano politico-culturale in
particolare tra i Quichua/Quechua ma non solo. Tale utopia, addirittura, ha l'obiettivo di fornire
al mondo intero un nuovo modello di vita, una nuova civiltà dominante, appunto la nuova
civiltà d'America (Latina)781.

780
Riporto la nota del mio articolo: Uso nel corso del testo l'aggettivo “utopico” e il sostantivo “utopia” facendo
riferimento alla celebre definizione che ne ha divulgato Eduardo Galeano: “Ella está en el horizonte [...]. Me
acerco dos pasos, ella se aleja dos pasos. Camino diez pasos y el horizonte se corre diez pasos más allá. Por
mucho que yo camine, nunca la alcanzaré. ¿Para que sirve la utopía? Para eso sirve: para caminar”. Cfr.
Eduardo Galeano, Las palabras andantes, Catálogos, Buenos Aires 1993, p. 230.

291
Ma il governo di Rafael Correa, dietro la maschera filobolivarista, sta sempre più rivelandosi
garante degli interessi del nuovo capitalismo urbano del Paese sudamericano incastonato tra le
Ande e il Pacifico. Lo stesso Correa, con le sue azioni finalizzate alla repressione della libertà
di espressione, non sta costruendo un'immagine di sé che vada troppo lontano dalla tradizione
latinoamericana del caudillismo782.
E, soprattutto, gli stessi intellettuali ecuatoriani citati non si discostano poi tanto da quelli del
passato, in particolare di fronte alla questione indigena: sono sempre i soliti criollo-mestizos
che si atteggiano da "indigenisti" e pronunciano belle parole indigene, come appunto Sumak
Kawsay, senza però nemmeno sapere bene di che si tratta e, limite ancora più pesante, senza
reale volontà di rapportarsi con gli intellettuali emergenti della rinata coscienza indigena, come
Ariruma Kowii, la cui espressione culturale rimane tuttora marginale nel panorama nazionale,
mentre paradossalmente, ma non troppo, è più valorizzata all'estero.
Insomma, se fino a poco tempo fa era difficile prevedere in che modo sarebbe andato a finire il
tentativo utopico di Mario Campaña e degli altri vari intellettuali che hanno sottoscritto le
Nuevas Cartas, oggi si può commentare come il vizio di fondo del mondo ispanoamericano in
genere, l'indigenismo di facciata proprio della cultura dominante criollo-mestiza, sia ancora il
limite più pesante rispetto a ogni tentativo di rinnovamento politico-culturale e di superamento
dei passati conflitti, specie quello fondamentale con gli indigeni.
Campaña e gli intellettuali di Nuevas Cartas hanno tentato il dialogo con il Presidente Correa
sulla scorta della considerazione che il suo governo, rispetto ai precedenti, avrebbe
rappresentato e rappresenterebbe una soluzione di continuità 783. La sua volontà programmatica
di imporre una revolución ciudadana che porti a costruire una società più equa ed emancipata,
oltre che dalle oligarchie tradizionali, anche dalle pesanti influenze straniere, specie delle
multinazionali, in effetti lasciava ben sperare. E il dialogo, fino a un certo punto, c'è stato, in
particolare portato avanti, per conto del governo, da parte del ministro della cultura Ramiro
Noriega.

781
In tale scopo è evidente l'affinità con il Socialismo del XXI secolo o bolivarismo. Cfr. Heinz Dieterich Steffan,
Hugo Chávez. El destino superior de los pueblos latinoamericanos. Conversaciones con Heinz Dieterich,
Instituto Municipal de Publicaciones de la Alcadía de Caracas, Caracas 2004, specie pp. 73-122 e passim.
782
Il giornale El Universo vi ha dedicato un vero e proprio dossier:
http://rafaelcorreacontraeluniverso.eluniverso.com/; Cfr. http://nuevascartas.blogspot.com/, specie il dibattito
seguito alla lettera dello scrittore Iván Carvajal.
783
Tale posizione era stata ribadita da Campaña nella risposta allo scrittore Iván Carvajal, invece molto critico nei
confronti del governo Correa. Cfr. http://nuevascartas.blogspot.com/.

292
Questo primo scambio ha avuto come oggetto di dibattito le azioni del governo nel campo della
cultura, che, secondo Campaña e gli altri intellettuali firmatari, perpetuavano la tradizione di
una cultura “alta” e oligarchica, in contrasto con le istanze bolivariste di principio, finalizzate a
coinvolgere il più possibile le fasce popolari nel contesto interculturale, adeguatamente
valorizzato, del Paese784.
Nella prima lettera al Presidente si legge, per esempio:
Creemos que se puede y se debe fomentar un renacimiento de la alta cultura
ecuatoriana. Las obras de ésta en sus más altos logros, en sus versiones
más creativas, pueden llegar a convertirse en un lugar de concreción y
concentración de la experiencia espiritual de una sociedad, y ofrecer así
importantes aportes para la vida espiritual de todos. No obstante, hacer de
la alta cultura el eje de la política cultural del gobierno, y aproximarse a la
cultura popular sólo con los métodos de esa cultura de élite, de modo
azaroso y precipitado, como ocurre ahora, o mejor planificado, como
podría hacerse desde una gestión de calidad superior, sería, y es, reincidir
en una actitud que ha compartido responsabilidad con la economía y la
política en el desastre nacional.
Poi si legge anche:
También de la tradición de las culturas ancestrales ecuatorianas debemos
hacer una revisión crítica, con la misma finalidad: la realización de un
inventario que determine qué herencia aceptamos y cuál repudiamos.
El estudio de los errores culturales de los procesos de cambio precedentes
en la historia son asimismo necesidades cruciales de una política cultural
nueva. Dogmatismos, autoritarismos, culto a la personalidad, machismo,
homofobia, anticlericalismo...deben estar desterrados de nuestra vida
gracias a un verdadero cambio cultural. Sin esta operación tampoco habrá
una nueva sociedad.
[…]
La tarea es la sustitución de la cultura individualista del silogismo, el
poder, la jerarquía, la exclusión, el interés, el lucro, el triunfo, la
dominación, de todo elemento cultural que provoque sufrimiento, por otra
que tenga como meta el bien común, la solidaridad, la reinvención de lo
humano.
784
Cfr. AA.VV., Plan de Gobierno del Movimiento País 2007-2011, Alianza País, Quito 2006, specie pp. 6-7 e
passim.

293
Il ministro Noriega, nella sua risposta, cita la bozza della Ley Orgánica de Cultura:
documento que ofrecerá al país la oportunidad de gestionar un Sistema
Nacional de Cultura, o si prefiere, de Culturas, un Sistema eficiente, en el
que podamos reconocer la amplia diversidad de expresiones, productos y
servicios culturales, y en el que podamos alentar el bien común, el sumak
kawsay.
Ed è lui per primo, pertanto, che ricorda l'esigenza di realizzare la già nominata ideologia del
Sumak Kawsay, del resto tra gli obiettivi della nuova Costituzione ecuatoriana voluta da Correa
e approvata da un plebiscito nazionale il 28 settembre 2008. E conclude sentenziando:
Éste es un proceso que no solo requiere de tiempo, sino de sentido histórico
y dedicación de parte de todos.
Nella replica, Campaña rintuzza al ministro Noriega il fatto che
el sistema ideado por el ministerio ecuatoriano es similar al que existe en
México, creación del nefasto y reaccionario Partido de la Revolución
Institucional – PRI –, que tiene una forma bien elocuente, jerárquica y
piramidal, por la cual la mayoría de los intelectuales quedó articulada a la
red institucional del estado, lo que quizá explique, al menos parcialmente,
el bien conocido silencio de la ‘intelligentsia’ mexicana acerca de la
conflictiva realidad de su gran país.
Laddove la “conflictiva realidad” del Messico è quella annosa e irrisolta dei rapporti con gli
indigeni.
Il ministro Noriega replicò a sua volta impegnandosi a continuare un diálogo virtual sul blog,
che però ben presto si è interrotto in seguito al comportamento del Presidente Correa, che ha
represso con energia le voci sulla corruzione del suo governo 785, giungendo, come accennato, a
querelare per diffamazione vari giornalisti, tra cui alcuni de El Universo e la stessa testata, con
cui Campaña e gli altri firmatari di Nuevas Cartas hanno solidarizzato, così come hanno
solidarizzato con i movimenti indigeni, attaccati, nel pesante clima politico che si era venuto a
creare, da giornalisti vicini al governo di Correa, come l'editorialista Guido Calderón de El
Telégrafo, che li definì “bárbaros, bestiales, peligrosos, adictos, ignorantes y delirantes” 786.

785
Lo scandalo è iniziato allorché i giornalisti Juan Carlos Calderón e Christian Zurita hanno pubblicato, nel 2010,
il libro El Gran Hermano, dedicato alla presunta corruzione del fratello del presidente, Fabricio Correa, e in
generale del suo governo. Ne è sorta una acerrima battaglia politico-giudiziaria che ha coinvolto molti altri
giornalisti, intellettuali e politici. Cfr. http://rafaelcorreacontraeluniverso.eluniverso.com/.
786
Sintesi tratta da http://nuevascartas.blogspot.com/, in particolare dalla Segunda carta abierta al presidente
Rafael Correa sobre la cultura en Ecuador. Cfr. Guido Calderón, “Mestizos trasnochados”, Diario El Telégrafo

294
Il collettivo Nuevas Cartas ha peraltro portato avanti il dibattito, a cui hanno partecipato nomi
di prestigio come quello dello scrittore Iván Carvajal, e quindi, il 5 agosto del 2011, ha
pubblicato la Tercera Carta Abierta, intitolata significativamente: Los viejos grupos de poder,
Rafael Correa, la urbanización del capitalismo ecuatoriano, nella quale Campaña e gli altri
firmatari stigmatizzano l'atteggiamento moralista nei confronti di Correa di quanti, politici,
intellettuali, giornalisti, sono invero collusi con le vecchie oligarchie – “Bananeros y
banqueros, petroleras y camaroneras, la prensa, buena parte de las más poderosas empresas
de comercio y transporte” – che
hicieron de Ecuador un lugar sin futuro, sin estructura institucional ni
política ni administrativa real, un lugar de una mayoría pobre y miserable y
una minoría holgazana, irresponsable y criminal, que prefería cualquier
cosa antes que compartir; la dolce vita antes que la edificación de un
mundo productivo, aunque fuera injusto: un feudo, pues, un no-país, una
“república bananera”, como se nos llamaba internacionalmente, y luego
una gran plaza sin leyes verdaderas, sin orden ni concierto, donde el
engaño y la impunidad campeaban.
Allo stesso tempo riconoscono che con Correa certe “lacune” del passato sono state superate,
che una crescita socio-economica c'è stata, ma non riconoscono alla sua azione il titolo di
rivoluzione, bensì sostengono che il presidente rappresenti l'affermazione della borghesia
capitalista urbana, i cui aspetti positivi si accompagnano
con las mismas estructuras y los mismos ominosos valores predominantes
en el capitalismo, los que promueven la jerarquía entre los hombres, el
individualismo egoísta, el racismo, el machismo, el lucro y el éxito como
fines de la vida, la hipocresía y la represión como medios socialmente
aceptados, el conservadurismo ideológico en todos los campos.

13/06/2010, p. 8., il quale, in effetti, si serve di argomenti quali il seguente: “Los indígenas actuales han perdido
su idioma, vestimenta y costumbres, también han perdido su noción de realidad y quieren obligarnos a aceptar su
barbarie como parte obligada de nuestras vidas, es más, nuestras leyes deben estar por debajo de su bestial
'justicia' indígena”. Da notare come quest'ultimo tema, molto scottante, della cosiddetta justicia indígena, su cui
pure il governo Correa si è intensamente scontrato con i movimenti indigeni, sia citato, assieme ad altre
peculiarità della società ecuatoriana, nel film satirico di successo Prometeo deportado (2010), scritto e diretto da
Fernando Mieles – che ha aderito al collettivo Nuevas Cartas – e che è stato presentato dal regista stesso anche
al 14° Genova Film Festival nel 2011. Il film, geniale, nel momento in cui sviluppa una satira della società
ecuatoriana, è anche e soprattutto un atto di accusa legittimo nei confronti delle politiche discriminatorie nei
confronti dei migranti applicate dall'UE e in genere dal mondo ricco.

295
Inoltre, è citato di nuovo il Sumak Kawsay, che, negli intenti del governo Correa, secondo il
collettivo Nuevas Cartas, si distanzierebbe molto dall'originale indigeno, in quanto è sin troppo
afín a cierto capitalismo, especialmente al verde del norte de Europa787.
Quest'ultima discussione sulla natura del Sumak Kawsay tra soggetti non indigeni mi ha fatto
sorgere un dubbio, giustificato dalla storia dell'indigenismo in tutta l'America Latina – fatto da
non indigeni a discapito e sulla pelle degli indigeni –, e ho avviato una corrispondenza privata
con Mario Campaña al fine di chiedergli se, come collettivo Nuevas Cartas, avevano ben
chiaro il concetto di Sumak Kawsay e se avevano contatti con intellettuali indigeni, come
Ariruma Kowii.
E Mario Campaña mi ha risposto così:
Hacemos la referencia al Sumak Kawsay sin saber bien lo que es. Creo que
nadie lo sabe o muy pocos. Se ha convertido en una especie de membrete, y
lo ponen en el lugar donde debería estar un verdadero programa
alternativo. Por lo que hasta ahora se dice, el Sumak no parece muy
diferente de lo que fueron las sociedades precapitalistas en las que el
comercio no se hizo rector social. Por eso es la crítica: suena roussouiano,
o simplemente de capitalismo verde. Creo de veras que estamos ante otro
gobernante de mentalidad capitalista, que impulsa un gobierno capitalista.
No tenemos ninguna relación con los organismos que aglutinan a los
indígenas. Somos solo un grupo de profesionales 'mestizos' o blancos, pero
que aún cree que se puede discutir para darle al menos forma ideal al 'otro
mundo'.
A tale risposta tutto mi è risultato chiaro e ho inoltrato a Mario Campaña, per ringraziarlo per la
sua sincerità e come attestazione di stima, un documento dedicato al Sumak Kawsay firmato da

787
Va precisato che il massimo sostenitore della realizzazione del Sumak Kawsay in quanto obiettivo del partito di
Correa e peculiarità della nuova Costituzione era stato il citato Alberto Acosta, che a esso ha dedicato varie
pubblicazioni divulgative e esplicative (per esempio, Alberto Acosta, Esperanza Martinez, El Buen Vivir. Una via
para el desarrollo, Abya-Yala/UPS Publicaciones, Ecuador, 2009; Alberto Acosta, El Buen Vivir en el camino
del post-desarrollo. Una lectura desde la Constitución de Montecristi, Fundación Friedrich Ebert, FES-ILDIS,
Quito 2010; Id., “El buen vivir, una utopía por (re)construir”, CIP-Ecosocial – Boletín ECOS 11 [2010]; Id., “El
Buen Vivir, una oportunidad para imaginar otros mundos”, EcuadorUniversitario 12/6/2012
[http://ecuadoruniversitario.com/opinion/el-buen-vivir-una-oportunidad-para-imaginar-otros-mundos/]). Ma è
ovvio che, nel momento in cui Acosta ha abbandonato Correa, nel partito di quest'ultimo è prevalsa
un'interpretazione del Sumak Kawsay senz'altro diversa rispetto a quella di Acosta e, altrettanto sicuramente, dei
movimenti indigeni.

296
Ariruma Kowii e da lui inviatomi in seguito a una nostra corrispondenza privata 788 durante la
quale il poeta, saggista e attivista politico quichua mi aveva gentilmente concesso un'intervista.
E Campaña ne è stato felice:
Gracias, amigo Roberto, por el documento que me envías. Es valioso.
Habrá que pensar mucho en todo esto. En todo caso, ahora mismo estamos
convocando a una nueva etapa de discusión sobre la verdadera naturaleza
del proyecto político que impulsa el gobierno.
La schiettezza di Campaña, del resto, è indicativa di come, nonostante il fallimento della
politica e della cultura indigeniste, l’indigenismo di facciata sia un modello che in America
Latina è duro a morire. Il riferimento vago e inconcludente sia da parte del governo Correa sia
da parte degli oppositori, tutti mestizo-criollos, al Sumak Kawsay, dimostra come per loro sia
l’ennesimo dei miti indigenisti, positivi o negativi che siano, che da secoli impregnano la
cultura latinoamericana. Mi viene da paragonarlo al mito/archetipo della Malinche, ancora
molto potente in Messico e, di riflesso, nel resto dell’America Latina nella forma della Llorona.
Malinche, storpiatura castigliana della forma nahuatl Malintzin, che a sua volta traduceva il
titolo e il nome spagnolo di Doña Marina, ovvero Malinalli Tenépatl, fu la schiava indigena che
Hernán Cortés, a un certo punto della sua avventura della conquista del Messico, usò
proficuamente come interprete – era bilingue maya/nahuatl e ben presto s’impadronì anche del
castigliano – e, secondo il testimone Bernal Díaz del Castillo 789, anche come consigliera, oltre
che come concubina.
Nell’indigenismo messicano, a partire dall’indipendenza del Paese centroamericano nei primi
decenni dell’Ottocento, la sua memoria è stata infangata come quella della traditrice della
Patria, “crimine” aggravato dal fatto che era una donna, una sorta di Eva messicana quindi. E,
come disse al suo riguardo Ignacio Ramírez, tra i padri della Patria messicana: “E uno dei
misteri del destino che tutte le nazioni debbano la loro rovina e ignominia a una donna” 790.
Ancora oggi, in Messico, se si vuole insultare un avversario politico, specie se presuntamente o
concretamente colluso con poteri stranieri, gli si dà del malinchista 791.

788
Lo stesso che ho riportato per intero supra e che all'epoca Ariruma Kowii ancora non aveva pubblicato.
789
Bernal Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, a c. Joaquin Ramírez Cabanas,
Editorial Portua, Ciudad de México 1966, passim.
790
Cfr. Anna Lanyon, Le parole di Malinche, trad. Ira Rubini, Ponte alle Grazie, Milano 2000 [Malinche's
Conquest, Allen & Unwin, Sydney 1999], pp. 175-6.
791
Cfr. Octavio Paz, El laberinto de la soledad, Cuadernos Americanos, Ciudad de México 1950, specie il cap.IV,
Los hijos de Malinche, pp.35-6; Lanyon, op. cit., p. 185; Milagros Palma, “Malinche, el malinchismo o el lado
femenino de la sociedad mestiza”, in Lola G. Luna (a c.), Género, clase y raza en América Latina. Seminario

297
Curioso, ma non troppo, è che questa damnatio memoriae della Malinche non sia propria della
tradizione degli indigeni messicani, tra cui molti, peraltro, per esempio i popoli di Tlaxcala e
Huejotzingo, hanno contribuito in modo determinante alla conquista spagnola dell'impero dei
Culua-Mexica, meglio noti nella storiografia tradizionale come Aztechi, di cui erano nemici e
vessati sottomessi792. È piuttosto un mito proprio della classe dirigente mestizo-criolla del
Messico indipendente, del suo indigenismo inteso come fondamento del nazionalismo
messicano793, in un'operazione analoga a quella compiuta da Benjamín Carrión per l'Ecuador,
allorché si è impadronito della memoria di Atahuallpa, l'ultimo imperatore degli Inca, per farne

Interdisciplinar Mujeres y Sociedad, Universitat de Barcelona, 1991, pp. 146-7.


792
Cfr. Lanyon, op. cit., specie pp. 98-9, 102-3, 130 e passim.
793
Agli antipodi del mito negativo della Malinche sussiste quello positivo di Gonzalo Guerrero, che in Messico è
considerato un eroe nazionale. Fu un naufrago spagnolo che s'integrò tra i Maya, sposò una donna locale e ne
ebbe dei figli, e combatté e morì in battaglia nel 1536 contro i conquistadores. Ma, ragionando in termini
nazionalisti, anche lui, dal punto di vista spagnolo, fu un traditore. Cfr. Lanyon, op. cit., p. 71 e passim. Nel 2013,
prodotto da National Geographic, è stato lanciato il documentario a lui dedicato Entre dos mundos: La historia
de Gonzalo Guerrero, diretto dal madrileno Fernando González Sitges e presentato al Festival de Cine
Iberoamericano di Huelva. Cfr. Redazione Huelva24, “El documental ‘Entre dos mundos: La historia de Gonzalo
Guerrero’ se estrena en Huelva”, Huelva24 21/11/2013
(http://huelva24.com/not/47516/el_documental__lsquo_entre_dos_mundos__la_historia_de_gonzalo_guerrero_rs
quo__se_estrena_en_huelva/), da cui traggo la seguente sintesi: “Su historia nos cuenta que, después de una
infancia de la que nada se sabe, se embarca como tantos otros a la conquista de Las Indias a principios del siglo
XVI. En el año 1511 la nave donde viajaba en los mares de América Central naufraga y Gonzalo resiste junto
con 11 compañeros a la deriva en un batel de salvamento. Finalmente arriba a las costas de la actual Península
de Yucatán donde es apresado por una de las tribus mayas locales. Comparte cautiverio con Jerónimo de
Aguilar que después jugará un papel importante como traductor de Hernán Cortés durante la conquista de
México. Gonzalo es esclavizado y entregado a un poderoso cacique que aprovecha sus conocimientos militares
para combatir clanes rivales. Con el paso del tiempo gana su libertad y jerarquía entre los mayas. Su
integración definitiva sucede cuando conoce y se enamora de Zazil Há, una mujer maya con la que forma familia
en uno de los primeros enlaces intraculturales de los que se tiene noticia. Se le considera responsable de
organizar la resistencia armada cuando los españoles llegaron finalmente a la conquista de esas tierras. Su
muerte está documentada en 1536 en las costas de Honduras combatiendo a los españoles. Su figura ha sido
reivindicada como un hombre de amplia visión y principios muy valiosos”. Cfr. anche il fumetto dedicato a
Gonzalo Guerrero nella bella serie Relatos del Nuevo Mundo, che la casa editrice Planeta-Agostini ha pubblicato
in occasione del Quinto Centenario, in particolare il n° 12, dal titolo Conquistadores en Yucatán - La
desaparición de Gonzalo Guerrero, con illustrazioni di Miguel Calatayud, presentazione e commento storico di
Fernando Savater (Barcelona 1992).

298
l'oggetto della “biografia della conquista” 794, a fondamento del nazionalismo indigenista
ecuatoriano.
Semmai, nella cultura degli indigeni, che ha poi influenzato la cultura popolare di tutti i
Messicani e dei latinoamericani in genere, la Malinche è tra le figure femminili, mitiche o reali
che fossero, che ha dato origine al mito-archetipo della Llorona, spaventoso fantasma
femminile notturno di cui si ascolta il grido impressionante ¡Ay mis hijos!795
Già Octavio Paz, poi vari altri studiosi tra cui la nicaraguense radicata in Francia Milagros
Palma fino all'australiana Anna Lanyon, hanno messo in evidenza come il mito della Llorona,
pur avendo origini preispaniche796, abbia assunto sin da subito dopo la conquista il carattere
simbolico e rappresentativo della conquista stessa, concretizzata nella figura di una donna
oltraggiata che ha perso i suoi figli, una donna nativa stuprata e privata della sua prole, la quale
a sua volta è all'origine della nuova popolazione mestiza dell'America colonizzata 797.
E a Malinche, a quanto si sa, Cortés sottrasse il figlio Martín quando questi aveva 6 anni, nel
1528, per condurlo in Spagna, e sua madre non lo vide più, in quanto lei morì poco dopo,
nemmeno trentenne, per cause sconosciute798. E con la sua morte nacque il suo mito: all'inizio
la donna indigena “famosa per la sua voce, ma che non sentiamo mai parlare”, come l'ha
definita Anna Lanyon, fu identificata nella Llorona della cultura indigena, perché ben si

794
Cfr. supra.
795
Tale macabra leggenda è diffusa in tutta America Latina, come detto, in varie versioni, ma il nucleo principale
vuole che sia lo spettro di una donna che, per dispetto al suo uomo che l'ha lasciata, come una Medea del Nuevo
Mundo affoga i figli, per poi pentirsene e uccidersi anche lei nelle stesse acque, e essere infine condannata per
l'eternità a vagare durante le notti alla ricerca dei figli da lei assassinati. Cfr. Helena Rivas, “La Llorona o la
Desesperanza de un Pueblo”, Razón y Palabra 33 (2003;
http://www.razonypalabra.org.mx/anteriores/n33/hrivas.html). Anche la famosa scrittrice cilena Marcela Serrano
ha dedicato una recente sua opera a questa figura: La Llorona, Planeta, Barcelona 2008.
796
Si è concordi nel collegare il mito della Llorona a quello di una dea culua-mexica, Cihuacoatl, la “Donna
Serpente”, rappresentativa della supremazia violenta degli stessi Culua-Mexica nei confronti delle popolazioni
sottomesse, in una metafora che richiama esplicitamente allo stupro delle donne come arma bellica. E, secondo il
mito, Cihuacoatl andava in giro di notte piangendo, gemendo e gridando per i suoi figli – i nemici dei Culua-
Mexica, massacrati e sottomessi – spargendo terrore tra coloro che la udivano e interpretavano il suo lamento
raggelante come il presagio di un imminente disastro. Cfr. Lanyon, op. cit., pp. 167-8.
797
Per questa ragione la Llorona si è diffusa in tutta l'America Latina: non si dimentichi che la conquista
dell'America continentale, una volta colonizzate le isole dei Caraibi, è iniziata proprio in Messico e che il modello
“messicano” è stato poi applicato da Pizarro, cugino di Cortés, all'impero degli Inca.
798
Forse di vaiolo, ma non si escludono altra cause, tra cui l'omicidio e il suicidio. Cfr. Lanyon, op. cit., pp. 155-6 e
passim.

299
prestava ad assumerne tutte le caratteristiche di donna conquistata – e veicolo della conquista –,
nonché privata dei figli799. Con l'indipendenza del Messico, i suoi “figli” mestizos e criollos la
ripudiarono con vergogna come traditrice di una Patria che si alimentava di nazionalismo
indigenista, che enfatizzava, nel bene e nel male, gli indigeni del passato, ma continuava a
discriminare, come in epoca coloniale, quelli del presente.
Le parole Sumak Kawsay, pronunciate dalle lingue dei mestizos e criollos ecuatoriani o scritte
dalle loro penne, sono come la Malinche, un elemento indigeno strumentalizzato e violato
senza volerlo conoscere veramente, senza volerne ascoltare i veri detentori, gli indigeni stessi,
di cui si pretende di essere i portavoce in virtù della presunzione di pensare che gli indigeni non
sappiano gestirsi da soli e che la cultura occidentale sia comunque superiore. E questo è il
limite più grave dell'indigenismo dei mestizos e criollos latinoamericani.
Voglio concludere questo intervento evocando il geniale romanzo satirico dello scrittore e
ispanista brasiliano Paulo de Carvalho-Neto800, Mi tío Atahualpa, pubblicato in spagnolo nel
1972 guarda caso anch'esso a Ciudad de México 801, come Atahuallpa di Benjamín Carrión e
tante altre opere indigeniste fondamentali. Carvalho-Neto, in quest'opera, stigmatizzò
l'indigenismo classico facendone una parodia che gli servì per tracciare anche un vero e proprio
programma politico.
Mi tío Atahualpa, il cui sottotitolo recita: un caso increíble de moros y cristianos ocurrido en
los Andes, en el siglo XX y conversando a lo divino y a lo humano por Atahualpa Sobrino,
pueta 'e los legítimo', racconta la storia narrata in prima persona di Atahualpa Sobrino,
maggiordomo in un'imprecisata ambasciata a Quito, che eredita invero tale posizione dopo la
morte per avvelenamento del maggiordomo precedente, suo zio Atahualpa, nome peraltro
proprio di tutti i maschi della famiglia.
Strutturato come la trama di uno spettacolo teatrale popolare 802 e caratterizzato da un registro
linguistico, quello dei montubios, i contadini della costa803, che rappresenta una scelta originale

799
L'identificazione della Malinche nella Llorona è esplicita nel celebre film messicano del 1933, La Llorona,
diretto da Ramón Peón, nel quale invero si fa confluire nel terribile fantasma anche l'anima di un'altra donna di
origine indigena sedotta e abbandonata da uno spagnolo, Ana Xicontencatl, il cui cognome richiama sin troppo
chiaramente al nome del signore di Tlaxcala, Xicohténcatl, importante alleato dei conquistadores contro i Culua-
Mexica. Anche in questa figura, quindi, è evidente come si sia voluto palesare una damnatio memoriae di un altro
“traditore”, dal punto di vista del nazionalismo indigenista messicano.
800
Originario dello stato di Sergipe, era nato nella cittadina di Simão Dias il 10/9/1923. È morto il 16/8/2003.
801
Paulo de Carvalho-Neto, Mi tío Atahualpa, Siglo XXI, Ciudad de México 1972.
802
Atahualpa Sobrino è un “menestrello” delle Ande, ruolo che svolge durante le feste religiose.
803
Cfr. supra e cap. I.

300
nel contesto della letteratura ecuatoriana e ispanoamericana in genere, è un romanzo i cui
personaggi e le cui ambientazioni sono chiaramente “parlanti”. L'ambasciata, per esempio, non
è specificata di proposito in quanto rappresentativa dello Stato dei mestizo-criollos di matrice
europea che domina in America Latina, considerato, appunto, come un qualcosa di straniero
rispetto agli originali abitanti d'America, gli indigeni, ma non solo loro. Non a caso, in tale
ambasciata, è tutto assurdamente europeizzato, come la borghesia mestizo-criolla: il figlio
dell'ambasciatore è ribattezzato Peter, da Pedro, sua moglie, Thérèse, da Teresa, i due
Atahualpa, zio e nipote, sono entrambi chiamati Gregory, persino il cagnetto Bolita è
ribattezzato Voltaire. Atahualpa tío, che, rinnegando la sua cultura quichua, scimmiotta i suoi
padroni, muore come un pendejo, avvelenato proprio a causa di questo suo atteggiamento 804,
ma prima provoca vari danni, tra il tragicomico e il grottesco 805. Tra questi danni, anche il fatto
che suo nipote, all'inizio, segue le orme dello zio, ma con effetti immediatamente catastrofici,
al punto che si ubriaca, viene picchiato, torturato e imprigionato. In cella conosce il Licenciado
Don Antonio Zaguala, prestigioso, e spocchioso, intellettuale di sinistra, rappresentativo di
quella sinistra mestizo-criolla latinoamericana, ancora molto attuale, come visto, che applica
alla realtà latinoamericana, che invero non conosce a fondo e magari disprezza, specie quella
degli indigeni, i modelli marxisti, pur sempre di matrice occidentale, e pretende di insegnare
all'indio il modo di fare la revolución. Ma alla fine ci fa una figura di Sabio Ignorante:
– Y no sabe la historia 'e su país, pue. Carajo, ¡qué mal ecuatoriano! Un
día se lo voy a llevar pa' que conozca y no ignore. Hay que ir lejo',
lejisísimo adentro 'e los monte' pa' hablar con la gente. Aquí en la ciudad se
va a morir sin saber. Y con to'os estos libro' ahí, perdiendo su tiempo.

804
Beve di nascosto, come faceva di solito, la coppa di liquore avvelenata che Thérèse, nelle sue losche trame, aveva
preparato per il suocero, l'ambasciatore. E prima di morire ripete a pappagallo, per l'ultima volta, l'apprezzamento
che sentiva fare sempre ai suoi padroni: “¡Ah, delicioso!”. Carvalho-Neto, op. cit., p. 51.
805
Gli effetti più deleteri li provocano le parole nuove, “straniere”, che impara all'ambasciata e porta al suo
villaggio, tra i suoi parenti, senza capirle veramente lui stesso, meno che mai i suoi, per esempio poliglota, con
cui viene battezzata una neonata della comunità, che alla fine riceverà l'abbreviativo di Pelota. Cfr. Carvalho-
Neto, op. cit., pp. 21-2. Conseguenza ancora peggiore la produce la parola subversivo, che un altro suo nipote,
Atahualpa detto Santulón perché devoto frequentatore della chiesa, usa con il parroco, para darse de mucho,
allorché questi gli chiede a quale professione avrebbe voluto dedicarsi. E a tale risposta il prete, membro di quella
chiesa cattolica impostasi con la conquista in America assieme agli altri modelli di potere occidentali e alleata di
quest'ultimi, naturalmente lo denuncia alla polizia che lo sbatte in prigione. Da notare che la madre di questo
Atahualpa Santulón “subversivo” è soprannominata molto significativamente la Llorona. Ibid., pp. 24-5 e passim.

301
¡Carajo! Y cuando Ud. conozca a Don Simón, el curandero, ¡qué me va a
decir! si él es profundísimo en su sabiduria. Profundísimo806.
Invero morirà in città, anzi in prigione, sin saber, significativamente decapitato dallo stesso
Atahualpa Sobrino807, perché, fanatico sostenitore delle istituzioni, del sistema, anche se vi si
oppone sul piano ideologico – contraddizione tipica del classico intellettuale di sinistra –, tenta
di impedire l'evasione dello stesso Atahualpa Sobrino, organizzata proprio da Don Simón el
curandero, rappresentante della sapienza tradizionale quichua e, non a caso, sempre critico nei
confronti dell'”occidentalismo” di Atahualpa tío, a cui rispondeva sempre con la parola mierda,
en su rabia eterna, de siglos808. Ad aiutarlo Peter, che torna a essere Pedro, il figlio “ribelle”
dell'ambasciatore.
Quest'ultimo è forse la figura più significativa del romanzo, perché rappresenta la classe
dirigente mestizo-criolla indigenista: animato da principi umanisti 809, convince Atahualpa Tio a
condurlo al suo villaggio perché vuole conoscere direttamente la condizione degli indigeni e
provare, goffamente, a fare qualcosa per loro, in modo paternalistico, pensando di averne i
mezzi e le ricette810. Sarà un fallimento, Don Simón el curandero caccia a bastonate il pur in
buona fede Peter, che peraltro continuerà a rimanere invischiato nelle losche trame di sua
moglie Thérèse in ambasciata, finché non decide di scappare e di trasformarsi in una figura
realmente rivoluzionaria contro il sistema oppressivo di matrice occidentale di cui prima era
parte involontaria. E si allea, appunto, con Don Simón el curandero, in un indigenismo
concreto e non più di belle parole e buone intenzioni, promosso dal dialogo con l'indigeno, non
dal monologo del mestizo-criollo che presume di poter e dover parlare anche per l'indigeno,
considerato incapace di farlo. Anzi, il finale vede Pedro darsi alla guerriglia rivoluzionaria e

806
Ibid., p. 217.
807
Il messaggio che l'autore trasmette con questo episodio è chiarissimo: l'indigeno smetterà di essere pendejo e
tornerà a essere legítimo allorché “taglierà la testa” all'influenza della cultura scritta occidentale, pur di sinistra e
“rivoluzionaria”, e tornerà a essere sé stesso riappropriandosi della sua cultura orale. Cfr. Silvia Nagy, “Del
«indio pendejo» al «indio legítimo»: La subversión del poder mediante la parodia en Mi tío Atahualpa de Paulo
de Carvalho-Neto”, Meeting of the Latin American Studies Association, The Sheraton Washington, September
28-30, 1995, pp. 4-5 e passim.
808
Carvalho-Neto, op. cit., p. 231 e passim.
809
È un lettore colto, l'unico che legge in ambasciata. Cfr. Mario M. González, “Por los nuevos caminos de la
picaresca: Mi tío Atahualpa.”, AIH. Actas X (1989), p. 672.
810
La gente del villaggio lo identifica nella figura del Nuestro Señor Jesús Del Gran Poder. Carvalho-Neto, op. cit.,
p. 229 e segg.

302
Atahualpa Sobrino, tornato indio legítimo, si assume il compito di portare avanti in prima
persona le istanze ideologiche e culturali degli indigeni 811.
Dai primi anni Settanta, da quando, cioè, Paulo de Carvalho-Neto ha pubblicato il suo romanzo,
la lezione di questo geniale autore brasiliano – e probabilmente ci voleva proprio un brasiliano
per smascherare l'indigenismo ispanoamericano! 812 – non è stata molto ascoltata, tanto meno
imparata; non a caso, tuttora, in Ecuador, si fa “referencia al Sumak Kawsay sin saber bien lo
que es”.
Se Mario Campaña e gli altri intellettuali firmatari delle Nuevas Cartas riusciranno a superare
questo limite e a sviluppare un proficuo dialogo con le culture indigene in modo da porre fine
al secolare conflitto che le oppone alla cultura che essi stessi rappresentano – e, a differenza
degli indigenisti del passato, ne hanno probabilmente i mezzi e l'occasione –, potranno
sicuramente portare avanti il loro progetto di una Nueva Civilización. In caso contrario saranno
ripetuti gli stessi errori del passato.

Così concludevo appunto il mio articolo, che, in un primo momento, nonostante le schiette
critiche, era riuscito gradito a Mario Campaña, al punto che mi aveva chiesto di tradurlo in
spagnolo per pubblicarlo sulla rivista Guaraguao813.
In particolare, tramite corrispondenza privata, il poeta ecuatoriano, riferendosi al mio
articolo da poco pubblicato, mi ha scritto così814:

Felicitaciones, Roberto. Acabo de echarle un vistazo y me quedo con la impresión de que tu


intervención es de las que ayudan. voy a imprimirla y leerla con calma, claro.
Quiero decirte que el sitio web Nuevas Cartas está desactualizado, pero que nosotros hemos
seguido metiendo leña al fuego sordo en que vivimos. Ahora estoy y creo que puedo decir
estamos en abierta beligerancia con el gobierno de Correa. Como muestra puedes ver mi
811
Cfr. González, “Por los nuevos caminos...cit., p. 672. Mario González, ispanista dell'Università di São Paulo,
mette in evidenza come Carvalho-Neto, nel suo romanzo, giochi molto con la tradizione picaresca della
letteratura in lingua castigliana, laddove se ne discosta nel momento in cui la sublima contrapponendo “el
quijote al picaro”, l'attitudine antieroica di Atahualpa Tio a quella veramente rivoluzionaria di Atahualpa
Sobrino e Pedro. Cfr. Clementine Rabassa, “The Multiple Literary Traditions of «Mi Tío Atahualpa»”, Latin
American Literary Review 8/15 (1979), specie pp. 34 segg.
812
Così come ci voleva un antropologo, come ha scritto Manoela Freire de Oliveira, per smascherare l'indianismo
brasiliano. Cfr. supra.
813
Avrebbe dovuto uscire nel numero 46, pubblicato nello scorcio finale del 2014.
814
Email del 27/11/2013.

303
intervención en la última feria cultural de Guayaquil, este octubre; a mi texto le puse una
dedicatoria contra Correa. lo puedes mirar aquí: http://www.matavilela.com/2013/10/el-
erotismo-la-literatura-y-los-dilemas.html.
Por otra parte, el tema de los indígenas es un insondable galimatías para nosotros los
mestizos815, y una incitación al crimen, me temo, para los capitaliastas ecuatorianos, que
querrían exterminarlos, o algo así. El año pasado yo publiqué en Francia un libro de relatos que
tiene por título "Avants ils arrivaient en train". Ese 'ils'/ellos, se refiere a los indígenas, sobre
todo por una de las más fuertes historias del libro; pero hay breves reflexiones sobre ellos.
He atacado el tema, literariamente, de un modo más directo, en un relato que aún está inédito, y
que te lo envío como muestra de agradecimiento y confianza. El relato se llama 'Los indios y
nosotros'816.

In un'email successiva, indirizzata invero a plurimi destinatari, Mario Campaña mi ha


poi reso partecipe del suo ennesimo attacco al Presidente Correa:

Para Errecé (RC) y la Revolución Conservadora (RC) ecuatoriana


Oh gran padre y oh gran madre de los ecuatorianos
Que heredaste de Atabaliba y de la Cushi el puesto

Que de Eloy Alfaro aprendiste a enarbolar


El símbolo patrio de los sombreros

Que de las montañas rusas recibiste


Tu infusa sabiduría ecológica
Por la que aprendiste los milagros
Del agua de borrajas

Oh padre eterno de este tu gran reino


Tú que has obrado el milagro de reunir

A la derecha y a la izquierda, pues


Merecidamente te bendicen los obispos
815
Il sottolineato è mia iniziativa, come nei casi successivi.
816
Cfr. supra.

304
Que también rinden homenaje a los criminales
Y asimismo te aplaude el Opus Dei
Que milagrosamente gobierna en tu gobierno
Y en todos los gobiernos de tu ejemplar reino

Tú a quien con tanta justicia aclaman 49 organizaciones


De veinte países, esa gente ética
Que gobernaba con Bush y gobierna con Rajoy,

Tú a quien celebra la izquierda europea,


Esa que tiene por costumbre mirar desde sus atalayas
Con telescopio a las selvas latinoamericanas

A ti te venimos a advertir nosotros


Tus hijos pecadores, que eternamente
Arderás en los paneles de infierno
Y tendrás que ir a todos los rincones
Que te reclamen, de un círculo a otro
Del infierno, tu morada: a los círculos
De los traidores falsarios cínicos
Al de los usurpadores difamadores simoníacos
Al de los astutos hipócritas megalómanos
Por la persecución a los que protestan
Y los que discrepan, por los allanamientos de morada
Por tu miserable manera de clasificar a los hombres
En excelentes y mediocres, en héroes y cobardes
Y acusar a los demás
De corruptos aunque tú también seas corrupto
De mediocre aunque tú también seas mediocre
De cobardes aunque tú también lo seas.

Porque prometiste una revolución ciudadana


Y violenta e inescrupulosamente impones
Una revolución conservadora
Católica retrógrada machista

305
Capitalista jerárquica represiva

En los paneles de infierno encontrarás a tus predecesores


A los demás falseadores traidores cínicos
Todos idénticos tú y ellos
Los verdugos del pasado y del presente
De las niñas y mujeres violadas
De los niños sobornados
De los perseguidos y los acosados
Los Bonil Martha Roldós Juan Carlos Calderón
Y tantos y tantos otros
Por tu espíritu infame
Por tus jueces testaferros
Tus policías testaferros
Tus abogados testaferros
Tus periodistas testaferros
Tus asambleístas testaferros

Mientras llegue el día


Porque no sabes lo que significa la palabra Revolución
Ni la palabra democracia ni lo que es lealtad y respeto
Por tu poca educación política
Por tu falta de educación filosófica
Por tu falta de educación sociológica, ¡cállate!
Porque no sabes de ideologías, de género
Ni de naturaleza, ¡cállate!

Si el Nazareno viniera
Del templo a fuetazos te sacaría
En el hocico una patada te daría

Ovviamente non m'interessa e non interessa al presente studio approfondire le questioni


interne ecuatorianas, ciò che invece è significativo rilevare è che, come ha riconosciuto lo stesso
Mario Campaña, nemmeno il collettivo Nuevas Cartas è riuscito a sensibilizzare un governo

306
ecuatoriano, il governo Correa, e che quest'ultimo, nonostante i promettenti presupposti 817, ha
deluso le aspettative di rinnovamento della società del Paese, soprattutto per quanto concerne la
secolare questione degli indigeni, la quale, per l'élite criollo-mestiza del Paese, rimane un
insondable galimatías, a fortiori se è vero, come è vero, che los capitaliastas ecuatorianos [...]
querrían exterminarlos.
In ogni caso, tornando al mio articolo, Mario Campaña, dopo averlo letto un po' meglio,
nella traduzione in spagnolo, e evidentemente compreso più a fondo l'entità delle mie critiche, ha
deciso di rimangiarsi la sua stessa proposta e non l'ha pubblicato nel numero della rivista
Guaraguao in cui avrebbe dovuto comparire818.
E questo episodio la dice lunga sul fatto che il tema che ho trattato tocca evidentemente
corde tuttora molto delicate della coscienza nazionale ecuatoriana e non solo: la questione
indigena. Probabilmente il più grave caso di coscienza della storia umana, a cui non si è mai
voluto rimediare, né lo si vuole fare, anzi, l'impressione è che lo si voglia aggravare ancora.
Concludo il capitolo, a tentare di compensare queste tristi considerazioni, operando una
comparazione tra testi dello stesso Mario Campaña, testi che definirei utopisti – laddove l'utopia,
come già accennato citando Galeano, è quella che ci permette di procedere 819 –, dai saggi citati820,
sorti proprio dal dibattito suscitato dall'iniziativa del collettivo Nuevas Cartas, nonché da una sua
coeva pubblicazione poetica821, anch'essa inerente alle istanze che hanno alimentato l'operato
recente del poeta ecuatoriano, rispetto a un'intervista che mi ha concesso via email il sopra citato
Ariruma Kowii.

817
Devo riconoscere che io stesso ne avevo subito il fascino dell'illusione, tra l'altro espressa nel libro che ho
pubblicato nel 2011, Ceviche a colazione (Erga edizioni), ispiratomi da storie vere di migranti ecuatorianos e da
mie esperienze di vita in genere, in Italia e in Ecuador.
818
Cfr. supra.
819
Cfr. supra. Sabato 5 novembre 2010 ho accompagnato come interprete Mario Campaña alla trasmissione
condotta da Giovanna Rosi TGN Reporter, dell'emittente televisiva ligure Telenord. Durante l'intervista il poeta
ecuatoriano aveva detto che i saggi che stava pubblicando erano tesi a mostrare una nuova via americana che
anche l'Europa, a suo modo di vedere, dovrebbe seguire. Io mi ero detto concorde.
820
Necesidad de América e América Latina: los próximos 200 años, cfr. supra.
821
En el próximo mundo, Candaya, Barcelona 2010, la cui edizione italiana, Nel prossimo mondo (trad. Luca Baù,
Edizioni Forme Libere, Trento 2010), è stata presentata il 23 febbraio 2011 presso la Sala Chierici della
Biblioteca Berio di Genova.

307
ME REFERIRÉ A LA POSIBILIDAD y necesidad de un proyecto americano, siguiendo la
tradición iniciada en el siglo XIX, que tiene su primer hito en Francisco de Miranda y Simón
Bolívar y se alimenta de la obra de pensadores como Andrés Bello, Domingo Sarmiento,
Enrique Rodó, Juan Montalvo y José Martí. En el camino haré un inciso para referirme a una
discusión ecuatoriana reciente, a través de dos autores, Jorge Enrique Adoum y Miguel Donoso
Pareja. No intento abogar por un nuevo estado o nuevas formas de gobierno sino por algo que
va más allá de un sistema económico o político: por una civilización nueva822.
Permitaseme empezar recordando una obviedad: el vínculo de la cultura latinoamericana con la
occidental. «Estamos inscritos, dice el poeta Ivan Carvajal, en el cumplimiento de una historia
de occidentalización del mundo que para bien y para mal se ha realizado en los últimos
siglos»823. En efecto, la cultura occidental se ha extendido y se ha implantado progresivamente,
adoptando diversas peculiaridades, en América latina y en todo el planeta. Es algo bien sabido,
que, por eso, no necesita demostración. Hablando de las sociedades europeas, el eminente
filólogo e historiador de la cultura Erich Auerbach afirma: «lo grecolatino-cristiano de su
origen es lo que las une (…) incluso si Europa, como un día Roma, pierde su poder, incluso si
se deshace su existencia, habrá preformado la vida en común de los hombres sobre el
planeta»824. Como consecuencia de esa expansión occidental, en el planeta todos vivimos en
«un mundo poscolonial colonizado»825.
[…]
Es sabido que Francisco de Miranda y Simón Bolívar fueron los primeros en concebir América
como una sola entidad política. Antes de terminar el siglo XVIII Miranda soñó con una sola
patria americana, y antes de las guerras de independencia Bolívar pensó América como un
nuevo eslabón en el proceso universal de la civilización.
[…]
Bolívar vio precozmente que el papel de Europa ya había terminado, y no concibió otra
alternativa para la humanidad que no fuera la América hispana: «toda la tierra – escribió en
1815, en la Carta al editor de la Gaceta Real de Jamaica – está ya agotada por los hombres, la
América, sola, apenas encentada»826.
[…]

822
Il sottolineato è mia iniziativa, come nei casi successivi.
823
Cfr. http://nuevascartas.blogspot.com/.
824
Erich Auerbach, Lenguaje Literario y público en La baja Latinidad y en La Edad Media, Seix Barral, Barcelona
1969, p. 336 [Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Francke Verlag,
Bern 1958].
825
Campaña, Necesidad de América, cit., dalla Introduzione, pp. 7-8.

308
En cuanto a América del Sur, todas las expectativas de la primera independencia quedaron
frustradas. Bolívar solo imaginó América como una entidad política, no cultural, y en ese
sentido su americanismo fue muy limitado. Hijos de españoles, los libertadores eran criollos, es
decir, europeos por su conciencia; ninguno de ellos llegó a imaginar América como una
civilización diferente, ninguno pudo pensar en independizarse de la cultura de sus ancestros, en
un corte con el mundo del que habían aprendido las nociones que sustentaban su lucha. Bolívar
se sentía europeo «por derecho». Y lo era, en efecto. Nada más claro que el Discurso de
Angostura: «Nosotros – dijo allí Bolívar – no somos Europeos, no somos indios, sino una
especie media entre los Aborígenes y los Españoles. Americanos por nacimiento y Europeos
por derechos»827. He aquí la primera formulación del mestizaje. ¿Mestizaje étnico o cultural?
No está claro. En cualquiera de los casos, ¿de quien hablaba Bolívar cuando decía «nosotros»?
¿De todos los americanos? De los indígenas, no; los indígenas son sólo indígenas, y eso no deja
de ser cierto porque en su vida religiosa, por ejemplo, haya una fuerte presencia del relato, la
imaginería y los dogmas del catolicismo. De los negros, tampoco. Sintíéndose europeo «por
derecho» Bolívar no consiguió hablar en nombre de todos los americanos, sino sólo en el de los
criollos, los descendientes de europeos nacidos en territorio americano: «Americanos por
nacimiento y Europeos por derechos». Es posible que esta concepción del mestizaje haya sido
la principal limitación de su americanismo, y tal vez algún día los historiadores puedan probar
que esa idea de América basada en la extensión al continente del mestizaje cultural de los
criollos, esté vinculada con su afirmación final según la cual «América es ingobernable».
Es cierto que algunos de los próceres y precursores de la independencia imaginaron el futuro de
América mirando hacia lo originario. Entre estos, sin duda Francisco de Miranda fue quien más
severamente enjuició a la corona española por su papel en el Nuevo Mundo, y quien hizo las
más altas valoraciones de las antiguas civilizaciones americanas, en primer lugar
826
Simón Bolívar, Escritos políticos, Editorial Orbis, Barcelona 1985, p. 91. Alla nota di Campaña agguingo che
nella mia tesi di Master citata nel cap. I, L’origine del contrasto Oriente vs Occidente nel pensiero preellenistico,
faccio riferimento all'idea di molti secondo cui l'Occidente, almeno quello tradizionale, è morto a Auschwitz, idea
che io personalmente condivido – anche perché a Auschwitz sono stati assassinati dei miei parenti – e che è
suggerita già nel titolo anche dallo storico dell'antichità tedesco Christian Meier nel suo saggio Von Athen bis
Auschwitz (C.H. Beck Verlag, München 2002; ed. it. Da Atene a Auschwitz, trad. Marco Cupellaro, Il Mulino,
Bologna 2004), laddove si trova invero prima almeno in Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer
Morphologie der Weltgeschichte (1918) di Oswald Spengler, anticipato però a sua volta da Bolívar e da altri
latinoamericanos, evidentemente. Cfr. quanto già detto nel cap. I a proposito dell'opera di pensatori
latinoamericanos quali Arciniegas, Dussel, ecc. E cfr. Campaña, Necesidad de América, cit., pp. 39-46, il
capitolo significativamente intitolato Civilización y barbarie.
827
Bolívar, op. cit., p. 99.

309
reconociéndolas como tales civilizaciones, y describiendo como verdaderas naciones a los
pueblos de Perú, Chile, México y Bogotá. Le parecían ejemplares la dignidad y el valor de los
indígenas, «atrincherados en sus desfiladeros y selvas» para no someterse a «los verdugos de
sus familias». En la “Proclamación a los pueblos del continente colombiano. Alias
Hispanoamérica”, dejó dicho: “Es preciso que los verdaderos acreedores entren en sus derechos
usurpados: es preciso que las riendas de la autoridad pública vuelvan a las manos de los
habitantes y nativos del país, a quienes una fuerza extranjera se las ha arrebatado» 828.
Acerca del lugar de los indígenas en el futuro del continente americano, es notoria la diferencia
entre Miranda y Bolívar. Pero, como sabemos, Miranda murió en un calabozo en la provincia
de Cádiz, y la suya no fue la orientación triunfante. Triunfó la línea criolla […].
La independencia política era la tarea de los próceres y de su época. Europa y Estados Unidos,
el mundo de Occidente, aún no habían demostrado todo su poder destructivo: aún no se había
llegado a fase del exterminio industrial. Hoy las cosas son distintas. La independencia
intelectual es tarea de hoy y de mañana.
Parece que fue Andrés Bello el primero en proclamar la necesidad de la autonomía cultural
americana. En la misma época de independencia, Bello llamó a inaugurar «un tiempo positivo
del mundo americano, independiente hasta en el ámbito literario», como ha resumido Giuseppe
Bellini. Su Gramática, no está de más recordarlo, está dedicada a sus ‘hermanos, los habitantes
de Hispanoamérica’ («no tengo la pretensión de escribir para los castellanos», declaró en el
Prólogo).
[…]
Después del paso tan importante dado por Bello, Martí es el pensador que más lejos ha llegado
en la concepción de la independencia americana, que él alcanzó a ver en su dimensión
intelectual y cultural. En su obra, la separación respecto a Europa queda muchas veces
destacada («Nuestra Grecia es preferible a la Grecia que no es nuestra. Nos es más necesaria»).
Para Martí la ‘salvación’ no estaba en imitar lo europeo, sino en crear. «¡El vino – exclamó –
de plátano; y si sale agrio, ¡es nuestro vino!».
[…]
Dejo de lado algunos aspectos del pensamiento martiano que ofrecen mucho margen para la
discusión, como el que se refiere a los indígenas, a quienes veía ‘estancados’. La imagen del
mundo y el sentido de la vida de los indígenas, ajenos a toda noción de progreso, resultaron
indiferentes a Martí, que no vio allí ningún elemento valioso para la construcción de un mundo
auténticamente nuevo. Dejado de lado ese aspecto, quisiera insistir en el caracter 'original' y
«en esencia distinto», que el prócer cubano atribuia al hombre americano, que formaría «una
828
Francisco de Miranda, Diarios de Viaje y Escritos Políticos, Ed. Nacional, Madrid, 1977, pp. 364 e 369.

310
raza original fiera y artística». Siendo el de Martí uno de los aportes mayores que ha recibido
nunca la cultura hispanoamericana, su americanismo, en una interpretación superficial,
resultaría problemático si alguien, partiendo de las líneas recién citadas, llegara a creer que en
la América hispana ya existe ese pueblo ‘robusto’, ‘nuevo’, ‘en esencia distinto’; que esa «raza
original, fiera y artística» es una realidad.
Roberto Fernández Retamar, un atento lector de Martí, refiriéndose precisamente a esa América
fabulosa, destacó la diferencia entre un discurso público y otro privado en Martí 829. Fernández
Retamar observa que en una anotación hecha en Caracas en 1881, Martí escribió: «no habrá
literatura hispanoamericana hasta que no haya Hispanoamérica», y que ese mismo año, en una
carta dirigida a Aldrey, declaraba que iba a consagrar su vida a la «revelación, sacudimiento y
fundación» de Nuestra América. Fernández subraya el último término. Sólo se puede fundar,
dice, lo que no existe o no existe aún.
[…]
¿Existe esa América originaria? Hoy basta con recorrer el panorama político, jurídico,
económico, el cuadro de instituciones, los diarios, las calles y las casas de cualquier ciudad de
Sudamérica para saber que esa América todavía no existe. Lo que vemos es, por una parte,
predominante, lo originario de Europa, o lo que en gran medida es lo mismo, de Estados
Unidos, en sus múltiples adaptaciones locales; es, por otra parte, en un lugar secundario, la
ruina, los restos, las prolongaciones y adaptaciones de las civilizaciones aborígenes originarias
o africanas sin legitimación suficiente. Sería un error creer, como ha hecho cierta inteligencia
americana, que la América nueva, diferente, está aquí y solo necesitamos verla y estudiarla; que
ya tenemos una identidad y que si llegamos a conocerla, podremos salir adelante, impulsados
por la fuerza de esa identidad. Creer eso sería creer que la trasformación es solo ‘cuestión de
tiempo’, como se dice. Óscar Arias, por ejemplo, ha dicho en la Cumbre de la Unidad de
America Latina y el Caribe, desarrollada en Cancún este año 2010, que «[América Latina]
corre riesgo de aumentar su insólita colección de generaciones perdidas. Corre el riesgo de
desperdiciar una vez más, su oportunidad sobre la Tierra» 830. Para Arias, la solución de los
problemas americanos es cuestión de buenos gobiernos y de nuevas generaciones.
Sin embargo, como no existen leyes de progreso en la historia, los latinoamericanos podemos
pasar décadas y hasta siglos en un estado similar a aquel en que nos encontramos ahora, o aun
peor, perdiendo generaciones sin cesar. Porque somos, al menos en las esferas dominantes, en
una medida importante, una entidad 'pre-figurada' por Occidente, un proyecto que en estas
829
Roberto Fernández Retamar, Para el perfil definitivo del hombre, editorial Letras Cubanas, La Habana 1981, pp.
295-296.
830
Óscar Arias, “Que cada palo aguante su vela”, El País 27/2/ 2010, p. 33.

311
tierras ha tenido resultados más conflictivos que en Europa y Estados Unidos. No de nosotros
sino de Europa y de Estados Unidos han venido, en gran medida, nuestra educación regular y
nuestras ambiciones, nuestros anhelos e ideales, nuestros metodos y nuestras ideas, modas y
metas. No existe aún esa América, y mientras no exista, mientras no logremos su fundación,
nuestra tarea no será solo de orden gubernamental. Si no conseguimos una victoria en la batalla
de la independencia intelectual, todo gobernante bien intencionado terminará repitiendo con
Bolívar que ha arado en el mar y que América es ingobernable831.

E ancora832:

NECESIDAD DE AMÉRICA
Hay muchas razones para pensar en América y no en otro lugar como el llamado a lanzar el
proyecto de una nueva civilización. La primera, la principal, es que una nueva civilización
deberá contar, necesariamente, con la experiencia occidental, y ser capaz de entablar un diálogo
crítico con su rica masa hereditaria. Ni Oriente ni Medio Oriente podrían hacerlo; ni China ni
India ni el mundo musulmán. En cambio, por su historia, que la ligó al mundo occidental, por
su vasta y reconocida variedad cultural, por su madurez intelectual, América latina sí está en
condiciones de hacerlo, y de fomentar por tanto una propuesta de posible validez universal.
Desde luego que es ingenuo pretender que América del sur esté ya lista para postularse como
alternativa a Occidente. Ya hemos dicho que la América que vio el joven Martí, no existe. Ni
las pequeñas sociedades aborígenes, que no han gozado del enriquecimiento que ofrece el
intercambio a gran escala, ni las culturas urbanas de América, ni ninguna otra cultura, está hoy
lista para sustituir a Occidente. Las nuevas culturas y la nueva civilización tienen que ser aún
construidas. No se puede romper bruscamente con un mundo edificado a lo largo de tantos
siglos. La puesta en marcha de la idea de una nueva civilización ha de tener en cuenta la
existencia de una enorme resistencia, que no será superada con la legislación, la doctrina y los
acuerdos internacionales. Ya Andrés Bello advirtió acerca de la banalidad de las metas
perseguidas a través de las legislaciones: “formar constituciones políticas más o menos
plausibles –escribió en el artículo “Repúblicas americanas”-, equilibrar ingeniosamente los

831
Campaña, Necesidad de América, cit., pp. 10-19.
832
http://nuevascartas.blogspot.it/2010/04/de-mario-campana-ultima-entrada-del_29.html . Questa parte, quella
originale del dibattito affrontato sul blog Nuevas Cartas, è confluita in seguito, con lievi modifiche, nel saggio
che ne ha preso il nome.

312
poderes, proclamar garantías, y hacer ostentaciones de principios liberales, son cosas bastante
fáciles en el estado de adelantamiento a que ha llegado en nuestro tiempo la ciencia social” 833.
No estoy rompiendo una lanza contra toda clase de acuerdos. La historia no obedece a leyes; no
tiene un camino marcado ni por el espíritu ni por las clases; pero tampoco transcurre de manera
enteramente azarosa. Sin dejar de reconocer el valor y la función de la contingencia, se puede
afirmar que la historia humana no acontece de manera completamente espontánea e irracional.
Su sendero se deja iluminar por un proyecto. No faltan ejemplos de pueblos y civilizaciones
que sin pretender detener la historia, sin buscar un punto cero, fueron capaces de imaginar el
mundo en que querían vivir, de proyectarlo y de desarrollar estrategias para alcanzarlo.
Quisieron elegir su mundo, y en buena medida lo eligieron. En Occidente no es difícil
identificar proyectos concretos que llegaron lejos en ese camino. El socialismo marxista fue
uno, que ofreció una alternativa económica y política, pero no puso en cuestión las bases del
mundo occidental. La Ilustración lo fue del modo más cabal. Pero antes de la aparición del
proyecto marxista, antes del movimiento ilustrado, fue la iglesia católica la que impulsó el gran
proyecto europeo triunfante, al liderar el inventario de bienes culturales de la antigüedad greco-
romana que estimaba adecuados para el presente y el futuro de la Europa surgida de la
desintegración de la antigüedad. La lucha llevada a cabo por los apologistas cristianos de la
llamada Patrística contra el mito, el paganismo y el politeísmo jugó un papel preponderante en
la cohesión del mundo medieval. Justino, tenido hoy como fundador de la Patrística, en el siglo
II demostraba que la operación contra el mito se había llevado a cabo con toda conciencia: “la
totalidad de aquello que es racional -dice en la ‘Apologética’- se ha incorporado en el
Cristo”834. Esa alianza del cristianismo con el logos griego, particularmente con el pensamiento
socrático y el estoico, fue fundamental, repito, en el afianzamiento de todo el Occidente.
Gracias al trabajo de los Padres de la iglesia se conformó la base intelectual que permitió al
mundo cristiano reinar durante tantos siglos. Ese fue un proyecto concebido y realizado
conscientemente.
De eso se trata ahora, esa es la primera gran necesidad: convertirnos en agentes de la historia,
de la historia americana, y concebir y poner en marcha un proyecto “capaz de alcanzar los
resortes, los nexos complejos del mundo de la vida, de la cultura”, como escribió el poeta Iván
Carvajal en un debate llevado a cabo en Ecuador; un proyecto capaz de actuar en un sentido
emancipador. Porque es iluso pensar en ‘una civilización posoccidental’ “que debe venir
después de la Occidental y superarla hegelianamente” 835. La naturaleza no tiene leyes para la
historia; ésta no tiene obligaciones; nada debe ocurrir. Ningún prefijo (pos), ninguna
833
Citato da Ángel Rama, La crítica de la cultura en América Latina, Biblioteca Ayacucho, Caracas 1972 , p. 68.
834
Citato da Lluís Duch, Mito, interpretación y cultura, editorial Herder, Barcelona 1998, p. 104.

313
‘superación hegeliana’ de Occidente, será suficiente. Para que pueda ofrecer una verdadera
alternativa, el proyecto debe buscar no una ‘superación’ ni un ‘ir más adelante’ de, sino una
diferenciación intelectual radical, un corte cultural profundo con Occidente.
La gran condición de posibilidad de ese proyecto es la independencia intelectual 836, un
pensamiento en continuo movimiento, es decir, lo opuesto a la actitud hagiográfica, que
neutraliza intelectualmente la figura que se pretende honrar y termina haciendo de esa figura y
de su obra un obstáculo [...]. Ignacio Echevarría837 hablaba de la resonancia particular que tiene
en un lector la obra de un escritor que comparte con él una sustancia narrativa, una memoria,
una cierta identidad cultural. Por eso, decía Echeverría, un Vargas Llosa podría resultar más
interesante hablando de Arguedas que de Flaubert. Es cierto. Pero es cierto también lo
contrario. Es decir, la falta de pertenencia de un lector especializado al mundo canónico al que
pertenece un autor, puede darle a ese lector una libertad y una capacidad de discrepancia más
difícil de alcanzar por el connacional del escritor que se lee. Más aún: creo poder decir que los
más agudos lectores de Quevedo y Baudelaire, autores que yo he trajinado un poco, no son
españoles o franceses sino británicos. Lo mismos nos pasa o nos puede pasar a nosotros en
América y Ecuador, con Bolívar, con Martí, con Mariátegui, con Montalvo, Adoum o Donoso.
Estoy hablando de la independencia intelectual, de una independencia sin límites, que se
aplique a todo y a todos, también a los próceres, a los santos, a los ‘referentes’ nacionales y
continentales y a los líderes; y estaba diciendo que esa calidad es la primera condición de
posibilidad del proyecto de una nueva civilización. Precisamente por esta exigencia, este
proyecto no puede ni debe ser bolivariano, porque Bolívar concibió América solo como una
entidad política, no cultural, esto es, como prolongación o continuación de Europa, con todas
las implicaciones imaginables, una de las cuales se refiere a la idea de América como un
continente mestizo. Bolívar tenía una visión ilustrada, ya no francesa sino incluso jacobina del

835
Riporto integralmente la nota dell'autore: “Es lo que hace Roberto Fernández Retamar; ver nota 36 de ‘Calibán
500 años más tarde, en Todo Calibán, citado por la edición de Milenio, Buenos Aires, IDEP/Asociación de
Trabajadores del Estado, 1995, página agregada s/n”.
836
È uno scopo che comunque ricorda quello suggerito da Paulo de Carvalho-Neto (cfr. supra), sia pure applicato
agli indigeni. In ogni caso, non posso fare a meno di rilevare – e concordare ancora con Campaña –, come sia in
America Latina che sorgono questi progetti coraggiosi, laddove in Europa, ma anche negli USA o altrove, in
effetti la cultura e la cultura politica in particolare sono stantie, tanto per usare un eufemismo, e già i giovani
sembrano zombi. Cfr. gli ormai classici libri di Miguel Benasayag, L'epoca delle passioni tristi (Feltrinelli
Milano 2004 [Les Passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, Editions La Découverte, Paris 2003]) e
di Umberto Galimberti, L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli, Milano 2007).
837
Importante critico letterario spagnolo.

314
continente y de su cultura, como ya he dicho; no vio la necesidad de la independencia
intelectual americana.
Esa facultad intelectual independiente ha de aplicarse a lo que Anders 838 llamaba, en las frases
antes citadas, ‘los fundamentos’, ‘las raíces’ del pensamiento occidental, espacialmente a esa
parte que Anders menciona cuando habla de ‘lo que hay que combatir’, de ‘lo monstruoso’; a lo
que Bergman [...] llamó el ‘huevo de la serpiente’ y Hannah Arendt ‘el mal’, expresiones con
las que nadie, desde luego, menciona simplemente al nazismo.
Para dirigirse hacia esas metas el pensamiento independiente y creativo deberá aplicarse a lo
que hemos llamado un beneficio de inventario. Al beneficio de inventario lo consideraremos
como una institución que reconoce a un heredero el derecho de declarar qué acepta y qué
rechaza de la masa de bienes ofrecidos por la muerte de alguien. Es el inventario que se vería
obligado a declarar cualquier heredero que tiene noticia de que en la herencia que le ofrecen
hay bienes benéficos para su vida pero también otros que le conducirían a su destrucción. Claro
que en nuestro caso, en el caso americano, no se trataría de un acto sino de un proceso, arduo y
largo, cuya longitud tal vez no deba ser calculada en lustros ni en décadas, sino en unidades
superiores, pero que no puede ser sino fructífero. Este inventario debe declararse con todas las
culturas que nos han constituido, que nos han hecho lo que somos hoy. Esto, aclaro, no supone
la tarea de dirimir nada entre lo indígena-autóctono y lo europeo-extraño; nada tiene que ver
con supuestas purezas culturales; nada con ninguna autoridad; nada con la idea de nación o de
lo nacional. El inventario, repito, se tiene que practicar con respecto a todas las culturas que nos
constituyen, con la occidental, sí, por el poder que tiene, que se ha arrogado y que le hemos
conferido, pero también con las ancestrales, con la indígena autóctona americana y con la
afroamericana. Necesitamos conocer a fondo esas culturas para reconocerlas en nosotros 839.

838
Su Günther Anders (1902-1992), riporto le prime righe di un articolo a lui dedicato da parte di Umberto
Galimberti (“Perché siamo tutti figli di Eichmann”, La Repubblica, 22/5/1996): “Guenther Anders (pseudonimo
di Guenther Stern, “anders” significa “altro” e fu lo pseudonimo assunto quando le riviste su cui scriveva gli
chiesero di non comparire con il suo vero cognome) è nato a Breslavia nel 1902, figlio dell’illustre psicologo
Wilhelm Stern, fu allievo di Husserl e si laureò in filosofia nel 1925. Costretto all’esilio dall’avvento del
nazismo, trasferitosi negli Stati Uniti d’America, visse di disparati mestieri. Tornato in Europa nel 1950, si stabilì
a Vienna. È scomparso nel 1992. Strenuamente impegnato contro la violenza del potere e particolarmente contro
il riarmo atomico, è uno dei maggiori filosofi contemporanei; è stato il pensatore che con più rigore e
concentrazione e tenacia ha pensato la condizione dell’umanità nell’epoca delle armi che mettono in pericolo la
sopravvivenza stessa della civiltà umana”.
839
Analogo proposito rispetto a quello attuato da Darcy Ribeiro. Cfr. supra.

315
El inventario supone una de-construcción de la tradición cultural de Occidente, de sus bases
intelectuales, de las diferentes imágenes del mundo y del hombre que la han guiado y la guían
en su vivir práctico. No tiene por qué circunscribirse a lo económico ni a lo político (porque,
como ya se ha dicho y escrito muchas veces, el problema no es solo el capitalismo, sino algo
más profundo, algo que lo antecede y lo contiene; la solución, si cabe aún hablar así, no puede
ser sólo el socialismo), ni a las artes y las letras y los fenómenos vinculados, como las
industrias culturales. Su meta no ha de ser sólo la disolución de las fronteras entre la cultura de
las élites económicas y la de los grupos marginados, ni la redefinición de las relaciones entre
cultura erudita y popular, en que se suelen posicionar los diseñadores de políticas públicas . No
porque esos dos polos no existan, como algunos creen, pues ciertamente existen, con todas las
mediaciones que se quiera, sino porque todas las formas de la cultura no pueden sino estar
atravesadas, en mayor o menor medida, por los mismos principios seculares de Occidente. El
inventario ha de abarcar, mirándolo al trasluz de un pensamiento independiente y creador, todo
el tejido cultural, todo el mundo de la vida, todos los valores de lo ancestral y de una
civilización, la occidental, que fue capaz de producir, de modo exclusivo, como nunca antes
había ocurrido en la historia de la humanidad, “fenómenos culturales de una dirección evolutiva
de alcance y validez universales”; pero que al mismo tiempo renunció a la vida, la dejó atrás,
despreció el cuerpo y el espíritu, la fecunda excepcionalidad de la vida humana. Una
civilización que ha hecho del hombre una cosa obsoleta, es decir, un ser cuya capacidad de
percepción y sensibilidad moral no puede ya reaccionar ante sus propios actos, un ser que ya no
es capaz de responsabilizarse de éstos, de representarse las consecuencias del poder que ha
desarrollado su propio mundo, señaladamente el poder tecnológico, y tiene que apelar a las
transformaciones transhumanas: una humanidad, en suma, “irrevocablemente capaz de
exterminarse a sí misma”840.
En la construcción que hemos de emprender, ¿debemos empezar por defender y conceder
privilegios a “lo nuestro”? ¿Por qué? En el caso de los indígenas de la costa, la sierra y la
Amazonía, ¿por razones cronológicas, es decir, porque ya estaban aquí y eran los propietarios
de la tierra y de este mundo antes de la invasión española? La consideración histórica sin duda
es básica, pero se refiere a una deuda que el país entero tiene con ellos, dado el despojo de sus

840
Riporto integralmente la nota dell'autore: “Esta obsolescencia de lo humano porque la incongruencia entre la
capacidad de la conciencia humana y el poder tecnológico ha sido desarrollada por Günther Anders,
particularmente en La obsolescencia del hombre. Según Andrers, «la mayoría de las actividades humanas de
mayor alcance y consecuencia se ha evadido de los criterios éticos de responsabilidad», p. 12, Jorge Enrique
Linares, en Günther Anders y la disolución de la responsabilidad ética”. Cfr. supra quanto riportato a proposito
della morte dell'Occidente.

316
bienes y la esclavización de que fueron víctimas por parte de la rapacería europea, primero, de
sus epígonos criollos, después, y finalmente de todos nosotros, de lo cual algún día deberían ser
indemnizados841. Pero, aparte de eso elemento de orden jurídico y económico, ¿por qué hemos
de privilegiar ‘lo nuestro’ en la construcción de un nuevo mundo? ¿Porque es ‘lo nuestro’,
aunque con eso “nuestro” no nos estemos refiriendo a toda la población sino sólo a una parte de
ella? ¿Preferiremos el vino agrio porque es nuestro, como escribió Martí? Tal vez sí. Es bien
posible que haya mucho que aprender de la manera de organizar la vida de toda civilización,
toda cultura, toda organización social y humana pre-capitalista. Pero para abrazarlas en un
proyecto de futuro seguramente habrán mejores razones, mejores argumentos que las rutinarias
adhesiones a que nos incita el Yo, las acríticas alabanzas de ‘lo nuestro’. Sin duda vivir en el
ámbito real de ‘lo nuestro’, de lo más inmediato y próximo, contribuirá a la cohesión de nuestra
vida en común. Sea negro, o no, sea blanco, indígena costeño, andino u oriental, he de conocer
a mi próximo y su historia, he de saber su lengua, el quechua, por ejemplo, he de poder dialogar
con él, y he de procurar que tengan un sitio digno en el mundo del que los dos formamos parte,
pero ellos y yo, todos nosotros, tenemos el mismo derecho a proyectar un país, un continente,
una civilización, igualitaria y justa.
Todo debe ser examinado para determinar cómo y cuánto puede aún contribuir a nuestro vivir,
al bienestar de todos y de cada uno. A priori, ni lo nuestro ni lo ajeno es mejor. Nada nos lo
garantiza. Me viene ahora a la mente un ejemplo que Platón utiliza, creo que en La República:
un hombre que ha perdido sus cabales exige que se le devuelva un cuchillo, de su propiedad,
con el que piensa quitarse la vida. ¿Se le debe devolver el cuchillo sólo porque es “su”
cuchillo? Desde luego que no. Y no estoy insinuando con esto que haya algo de dañino en lo
nuestro y ventajas en lo de los otros. Digo que todo tiene que ser discutido, revisado
críticamente, inventariado con beneficio. Aunque fuera cierto que lo propio, lo nuestro,
constituye ya de por sí una forma de impugnación de la cultura del poder, pues cuestiona su
universalidad, conservar y desarrollar eso propio no basta como elemento emancipador.
Iniciar el trazo del proyecto por la búsqueda de la identidad, buscando mitos heroicos o
deteniéndonos en episodios históricos señeros, o en comportamientos empíricos, como se ha
hecho hasta ahora842, es empezar a construir la casa por la ventana. Es una equivocación
originada por aquella idealidad ligada al mito de la patria y la nación. Un error que consiste en
creer que ya somos lo que queremos ser. Ya somos esa raza de bronce, que decían
Vasconcelos843 y Donoso; ya somos esa raza original y fuerte, ya somos ese pueblo “en esencia
841
Cfr. il cap. I, il testo di Britto García Guaicaipuro Cuautémoc cobra la deuda a Europa.
842
Cfr. supra quanto detto a proposito dell'indianismo.
843
Cfr. cap. I.

317
distinto” formado por “una raza fiera y artística”, “original y victorioso anticipado por sus
héroes”, ya somos es pueblo “esplendoroso” de Adoum. Porque creemos que ya lo somos es
que nos resulta imperativo empezar por nosotros, porque somos los que podemos garantizar el
mejor futuro posible. Pero la realidad es que no somos ese pueblo. Somos el pueblo que no es
todavía; pero que puede llegar a ser. Cuál sea nuestra identidad es algo que solo podremos
saberlo en el momento final, si ese momento pudiera ser siquiera imaginado, de la construcción
de lo nuevo que emprendamos. Ahora la identidad ecuatoriana y latinoamericana no puede ser
encontrada porque no existe844. Hemos estado buscando en un cuarto oscuro un gato negro que
no está allí. Somos, en gran medida, solo una mezcla informe de elementos culturales
heterogéneos. El beneficio de inventario de las culturas que nos constituyen nos dirán más de lo
que somos y cómo hemos llegado a ser eso que somos, que cualquier pasado mítico y cualquier
profecía sobre un futuro esplendoroso.
No estoy pidiendo, desde luego, que abandonemos el estudio de la historia precolombina, que
sociólogos, antropólogos, etnólogos e historiadores abandonen sus investigaciones sobre las
costumbres y el modo de vivir de los ecuatorianos, peruanos, mexicanos, de todos los pueblos
americanos. Digo que el proyecto que hemos de emprender no puede ser concebido y
perseguido sólo con políticas públicas. No es sólo con una revolución ciudadana o bolivariana
ni sólo con la democratización de la cultura, ni con la transformación de la cultura en un factor
de integración y cohesión social, que vamos a salir de la jaula en que nos hallamos 845. No es
con campañas de lectura ni con una Casa Editora Nacional ni con una Biblioteca Nacional que
vamos a transformar el mundo de la vida de la sociedad ecuatoriana y americana 846. Aún en el
supuesto improbable de que los libros en que se empeñan por ejemplo los gobiernos
bolivarianos de hoy847, y las bibliotecas que se exigen y se planifican, lleguen a todo el país y
no se queden, en el caso de Ecuador, en Quito y acaso en Guayaquil, en las ciudades
principales, y se produzca una vinculación estrecha entre la esfera laboral y esa nueva vida del
intelecto y de la sensibilidad a que se aspiraría, no habrá cambiado nada en términos
sustanciales. Tal vez nos convirtamos en seres ‘leídos’ y ‘enterados’, tal vez seremos capaces
de tener un libre juego de intelecto y imaginación ante una novela, una pintura, una sinfonía,

844
Cfr. per esempio un articolo già di 15 anni fa: Eduardo Kingman Garcés, “La identidad perdida de los
ecuatorianos”, Íconos: revista de ciencias sociales 7 (1999), pp. 108-117. Non credo del resto che si possano fare
discorsi tanto diversi per esempio sull'identità nazionale italiana.
845
Ovviamente questo è affermato anche e soprattutto in polemica con Correa.
846
Questo invece in polemica con Benjamín Carrión e la sua generazione di intellettuali ecuatorianos, che furono
anche grandi promotori culturali, con lo scopo di costruire appunto l'identità nazionale.
847
Campaña, in pratica, imputa ai governi bolivarianos di usare mezzi obsoleti per costruire valori condivisi.

318
etc., pero nada más... Sé que debo justificar este ‘nada más’, que puede sonar frívolo y hasta
insolente. Lo haré con dos preguntas: ¿es que no era leído, no tenía una sensibilidad cultivada
por la poesía y la pintura y la música, es que no era capaz de un libre juego de su intelecto y su
imaginación aquel pueblo que aceptó el holocausto, y aquel filósofo 848, el más grande de la
historia para algunas personas, que se afilió al partido nacional socialista? ¿Y Adolf Eichmann,
uno de los mayores criminales de la historia, no había leído a Kant y no era capaz de citar de
memoria la definición kantiana del imperativo categórico? Una civilización que otorga al libro
el lugar tan amplio que le ha dado la occidental, es una civilización que ha dejado de vivir la
vida para solo imaginarla.
Cierto: el proyecto que necesitamos hará bien en tener una editora nacional, y en editar libros, y
contar con las ventajas de la vida literaria local, y vivir la riqueza que ofrecen las pequeñas
literaturas, [...] pero nada de eso debería hacernos perder de vista la meta, la única meta que da
sentido a todo ello, y lo justifica, pues todo ello sólo cobra sentido si se tiene en el horizonte
una meta superior, última, que no es, ni puede ser, tener ciudadanos leídos y cultivados, ni tener
una literatura nacional fuerte, sino hacer una transformación cualitativa de la cultura, de las
relaciones, de la manera de interactuar, es decir, transformar la vida, el mundo práctico,
cotidiano, que es donde se es feliz y se sufre. La meta ha de ser, en suma, una nueva
civilización.
Lo que digo, repito, no es que abandonemos los estudios americanos, sino que nos
conoceremos y nos entenderemos más si orientamos nuestra búsqueda al conocimiento
profundo, de-constructivo y crítico del mundo que nos “pre-formó”, de las culturas occidental y
de las ancestrales, que nos permita reconocerlas, identificarlas cuando actúan en nosotros bajo
todos los disfraces que el tiempo y la historia les hayan puesto; que al lado de los estudios sobre
América latina hemos de lanzar estratégicos programas de investigaciones culturales que nos
permita entender mejor desde el punto de vista cultural las estructuras jerárquicas, el ideal
competitivo, la obsesión por el lucro, el racismo, el machismo, la homofobia, la conducta de los
intelectuales, y muchos otros de los rasgos que afectan más negativamente nuestra vida.
Acometer la revisión de la cultura occidental con la intención de dejarla atrás, de deshacer ese
camino que Occidente trazó en América, será la más compleja tarea que jamás nadie se haya
impuesto en el mundo americano, pero es asimismo la más importante. ¿Es una contradicción
hablar de corte profundo y a la vez propugnar un diálogo crítico y un beneficio de inventario?
Creo que no. La historia de la civilización occidental y todos sus bienes serán sobre todo una
enseñanza que la nueva civilización ha de tener presente para la elaboración de las nuevas
bases culturales. Tal vez la mayor dificultad derive del hecho de que es muy probable que en
848
Riferimento chiaro a Martin Heidegger (1889-1976).

319
los diferentes componentes y en los diferentes productos de las culturas que deben ser objeto de
inventario no haya una relación de contrariedad sino de implicación, y que así no quepa ni
aceptarlos ni rechazarlos entera y directamente, pues quizá contengan a la vez el aliento y la
marca tanto de la civilización como de la barbarie y sirvan al mismo tiempo tanto para la
construcción como para la destrucción; que en cada elemento de la cultura haya una parte de
verdad y otra de falsedad. El dilema no será pues discernir cuál es el pensamiento propio de los
hispanoamericanos, ni si este escritor sí y el otro no; si fomentamos o no aires populares y
prohibimos a Wagner o Beethoven, como hicieron rústica y perezosamente ciertas
revoluciones, porque en una misma obra percibiremos las más altas expresiones del espíritu
humano y vergonzosas huellas del sometimiento y destrucción de lo humano, sino cómo
desarrollar perspectivas nuevas que nos permitan distinguir lo uno de lo otro, para aceptarlo o
repudiarlo dentro y fuera de nosotros. La tarea es llegar a descubrir y a comprender, en los
objetos, en las relaciones, en las ideas, en la historia, en los símbolos, en cada uno de los
infinitos componente del mundo, qué nos hace vivir, fructificar y desarrollarnos como seres
humanos, y qué atenta contra ello. Esas percepciones nos orientarán en la búsqueda de nuevas
maneras de relacionarnos con las cosas, con los objetos, con todos los seres del mundo, en la
elección y desarrollo de nuevas formas de producción y de consumo, de nuevas relaciones con
la naturaleza exterior y con la naturaleza interior, de una nueva organización cívica, en que
dominen los principios de dignidad, soberanía y libertad, es decir, de la crítica. Porque se trata
de iniciar, mantener y alimentar incesantemente un implacable, diario, generalizado proceso de
crítica y autocrítica, en el marco de construcción de la civilización nueva.
Sin esa incesante revisión es posible que terminemos, con las mejores intenciones,
desarrollando argumentos contradictorios e incluso opuestos a aquel que nos proponemos
defender. Ocurre a menudo en los casos en que se renuncia a la crítica, en que la construcción
no está precedida de la de-construcción y de la destrucción, y así lo nuevo, que pretende
sustituir a lo viejo, termina incorporándolo. La tarea que nos demanda la época no será tarea
sólo de americanos. No será tarea de un ministerio de cultura ni de un gobierno, sino que
deberá formar parte esencial de las estrategias continentales. Lo que seamos, será lo que
hayamos sido capaces de inventar, para usar las palabras del escritor Miguel Donoso Pareja.
Claro que ese invento no será arbitrario: será algo similar al contrato social que imaginó J.J.
Rousseau. Sus cláusulas han de excluir todo lo que atente contra el libre desarrollo de las
potencialidades del animal humano y de la dignidad humana. Ese pacto nos dará nuestra
identidad, y esa será nuestra única identidad valiosa.
Sé que esto suena muy abstracto, muy general y vago. Los contenidos específicos son infinitos,
y las propuestas concretas, deben hacerse en otro lugar y momento, y hemos de pensarlas

320
juntos en el largo camino hacia una nueva civilización. Víctimas del engaño, de una ilusión, lo
podemos ser todos: le pasó a Ayax cuando salió en la noche a degollar a sus contendores en la
lucha por las armas de Aquiles, y la mañana siguiente nadie vio cuerpos humanos degollados
sino solo corderos. Eso también nos puede pasar a nosotros. Recordemos lo que Blaise
Cendrars le dijo al poeta Oswald de Andrade cuando vio la gran energía y la gran decisión del
pueblo y los intelectuales brasileños para construir una cultura distinta: “Tenéis la locomotora
llena, vais a partir. Un menor descuido os hará partir en la dirección opuesta a vuestro destino”.

E per concludere con le citazioni di Mario Campaña:

EN EL PRÓXIMO MUNDO849
En el próximo mundo podremos más.
También ahora podemos más,
Pero las huellas del desastre
Y la falta de sueño
Nos impiden creer que podemos más.
En el próximo mundo no será tarde
Para poder más. Nunca será tarde
En el otro mundo.
Y por eso podremos más.
Cuando hagamos otro mundo
Las piezas que hoy no encajan
Encajarán sin falta.
Música y mundo, por ejemplo,
Irreconciliables ahora,
Volverán a armonizarse.
Tendrá derecho a existir el delirante.
El que cree y el que no cree.
El que vive de la esperanza
Y quien se despoja de toda ilusión
Para seguir vivo al día siguiente.
En el próximo mundo lo viejo será joven y lo joven
Primero existirá en su pura belleza,

849
En el próximo mundo/Nel prossimo mondo, cit., pp. 140-141.

321
Luego madurará y será aún más joven.
Sólo el vencedor se quedará sin sitio
En las galerías de nuestro próximo mundo.
Sólo la reina de la fiesta se quedará sin bailar.
Y sólo el que duerme, sin soñar.
Pero a la casa del próximo mundo
Entraremos todos.
Porque en el próximo mundo los puentes
Serán más largos y no unirán sólo orillas
Sino islas que flotan en nosotros,
Y más allá de nosotros.
Ni la fuerza ni la astucia
(Del escorpión que esconde su ponzoña)
Tendrán espacio allí:
Todos mostraremos nuestros males, cada uno
Sabrá en dónde está cada veneno
Y conocerá el antídoto.
El próximo mundo estará lejos de éste,
Y hasta allí llegaremos vagueando,
Girando y girando sobre nuestras cabezas,
Porque el próximo mundo cambiará siempre de lugar:
Ni el amigo ni el enemigo serán nunca estables.
En ese tiempo nuestro pobre mundo
Ya habrá aprendido a vivir con la penumbra.
No nos engañará la luz, artificiosa,
Como a los peces,
Cazados por lamparillas que ocultan
La sabiduría de la noche.

Di seguito, invece, la mia intervista a Arituma Kowii850:

Estimado Prof. Kowii,

850
La corrispondenza privata mediante la quale ho potuto realizzare questa intervista si è prodotta nel novembre del
2010.

322
[...]851
mi investigación tiene que tratar el indigenismo en la literatura, pero también es verdad
que se trata de un fenomeno que tiene a que ver, y mucho, con la antropología, la
sociología y principalmente la política y la cultura en general.
Le digo inmediatamente que mi impresión es que el propio indigenismo, en antropología
como en literatura, creo que fue algo parecido con el orientalismo así como desvelado por
Edward Said, es decir una forma de representar “el indio” como inferior para justificar
su dominación e “integración”. Con algunas excepciones que pueden ser autores como el
peruano José María Arguedas y pocos otros.
Encontré muchos autores que fundamentan esta interpretación, me gusta citar por
ejemplo el guatelmalteco Mario Monteforte Toledo, que en la introdución a "Los
desencontrados llegaron del mar. Siete cuentos" (Biblioteca Ayacucho, Caracas 1993),
escribió: “Nunca he aceptado sin rubor y malestar físico ese apartado [escritor
indigenista]; nadie, ni mis enemigos literarios o políticos, ha negado mi esfuerzo por
tratar a los personajes como seres humanos, simplemente, sobre todo después de las
enseñanzas de Mariátegui”.
Y también el escritor y lingüista mexicano Carlos Montemayor: “Durante más de 500
años los no indígenas hemos tratado de decir qué son o qué no son los indígenas
mexicanos, qué piensan o qué no piensan, qué creen o qué no creen, qué sienten o qué no
sienten. Y además, todavía nos hemos atrevido a decir que nosotros rescatamos la
tradición oral, los cuentos que estaban ocultos en las comunidades. Ahora, por vez
primera, miembros de esas comunidades escriben en sus lenguas, escriben de sí mismos,
para sí mismos. Ahí tenemos la voz que no hemos querido oír. Este es un cambio
fundamental, porque ya no necesitamos estar imaginándonos la voz: ahora podemos oírla
directamente, ahí está ese mundo. Y esto nos dará, de manera paulatina, una nueva visión
del país.” (citado por Arturo Jiménez, La Jornada, 27 abril 2001).
Y, para citar un escritor indígena que conocí personalmente cuando vino a la Feria del
Libro de Turín dos años atrás, el peruano-aymara José Luis Ayala: “Todos los pueblos de
América, los pueblos ancestrales como Quechuas, Aymaras, Mapuches o etc., tenemos que
tomar una absoluta conciencia frente a la globalización, o desaparecemos o nos
integramos en un proceso donde no haya una exclusión pasamazonica; es una tarea en la
que debemos trabajar los escritores, los intelectuales y los estudiosos sociales. No estamos
por la violencia sino deseamos un sistema de educación intercultural que permita hacer
nuevos cambios en América Latina para que las grandes mayorías marginales y
851
Tralascio ovviamente i convenevoli.

323
marginadas se integren y tengan beneficios de verdad. Nosotros no propiciamos una
actitud violenta más bien una actitud democrática. Deseamos una república en la que
podamos integrarnos y podamos tener una representatividad étnica en el congreso. En
este momento no la tenemos, no hay una representación de culturas, sin embargo
propiciamos la necesidad de un intercambio, de un diálogo que permita que las grandes
mayorías marginadas tengan un sitio en el congreso”.
(http://www.rebelion.org/noticia.php?id=67658).
Bueno, me gustaría sobre todo conocer su opinión sobre eso, de Usted que inclusive es
autor indígena, me parece el más famoso e importante del Ecuador, aunque hasta el
representante de los Quichuas de la Costa, Fausto Lema, que entrevisté personalmente el
11 de octubre pasado en Guayaquil, me dijo que en Ecuador todavía la literatura
indígena es sobre todo oral ni me supo nombrar escritores indígenas - pero él es muy
jóven, 26 años, se puede perdonar si no la conoce852.
¿No le parece que hablar de indigenismo también cuando se habla de literatura indígena
y/o de revindicaciones políticas de los movimientos indígenas provoque confusión?
Otra cosa sobre la cual me gustaría conocer su opinión es la cuestión de la educación
bilingüe, cuestión que me consta que sea la que ha provocado la ruptura entre los
movimientos indígenas y Correa: el ya citado Fausto Lema me dijo que todos los
ecuatorianos tienen que aprender las lenguas indígenas - no solamente el quichua, ¡sino
que todas! - o al menos tener la posibilidad de aprenderlas: en Guayaquil hay solamente 4
colegios bilingües (español-quichua), pocos según él.
¿Y el Sumak Kawsay es solamente una filosofía o se quiere afirmar como ideología
política?
¿Tiene puntos de contato con la ideología bolivariana que inspira la “revolución
ciudadana” de Correa - que de todos modos me parece que valoriza al menos algunas
revindicaciones indígenas - o es antagónica?
Y, en fin - ya aproveché mucho de su disponibilidad -, ¿qué piensa Usted de lo que dijo en
pasado el recién premio Nobel por la Literatura Mario Vargas Llosa: “El indigenismo en
Ecuador, Perú y Bolivia está provocando un verdadero desorden político y social, y por
eso hay que combatirlo” [...] “[el movimiento indígena hay un elemento profundamente
perturbador] que apela a los bajos instintos, a los peores instintos del individuo, como la
desconfianza hacia el otro, al que es distinto. Entonces se encierran en sí mismos”. Y
comparó el indigenismo al nazismo.
852
Invero, in un'email successiva, Fausto Lema mi ha scritto che conosceva bene Ariruma Kowii, laddove non
l'aveva citato in quanto dissente da lui rispetto a certe questioni come il citato bilinguismo.

324
(http://www.eluniverso.com/2003/11/11/0001/8/8E389173D65C4B0BAE80101A0C5ACAD
7.html)853
[...]
Estimado Compañero, [...]
El indigenismo me parece que debemos comprenderlo en su contexto, en aquellas décadas de
los años 40, 50 su presencia como tal me parece importante, sus aportes aunque restringidos
desde una visión de integración me parecen importantes en el sentido de que son una
generación que hace conciencia de la situación inhumana, de injusticia en la que viven las
comunidades andinas, los pueblos originarios del continente Abya-yala (América), de alguna
manera influyeron en las acciones de carácter político, social, económico y literario.
En el caso de la literatura y del Ecuador me parece significativo el hecho de que la obra de
Icaza haya logrado universalizarse y de esta forma las distintas sociedades tengan
conocimiento de las atrocidades y las visiones que tenía la sociedad dominante sobre nuestras
comunidades, entiendo que los lectores que hayan leído dicha obra deben haber elaborado
diferentes imaginarios sobre el patrón, el capataz y la población indígena, probablemente
haya provocado muchas inquietudes, pero al fin y al cabo, la obra debe haber generado
distintas reacciones sobre la situación real de las comunidades andinas.
En lo personal considero que es una obra muy importante para el país y sobretodo de mucha
relevancia de escritura, sin embargo en lo que tiene que ver a la deducción del ser indígena
me parece limitado, es una manera de refrendar las ideas colonialistas de pensar que el indio
en realidad es un salvaje, que esta vaciado de iniciativas subjetivas y objetivas 854, me parece
en ese sentido que existe un desconocimiento del ser “quichua, andino”.
El indigenismo en el Ecuador, tiene sus puntos críticos, el fundamental que a mí me parece, es
que la idea de “civilización” lo entendían únicamente bajo la visión de integrar al “indio” a
la sociedad, a la cultura nacional, como una estrategia de garantizar además el desarrollo del
país.
En un país, en una sociedad como la nuestra, es comprensible que para aquella época haya
pesado esta visión, dogo que es comprensible porque no debemos olvidar que nuestras
sociedades tienen una fuerte herencia colonial y aun sigue débil su razón de ser
“latinoamericana”, siempre se están viendo en el espejo de Europa o de los países
desarrollados, es hora de vernos insistentemente en nuestra propia realidad.
Sobre la educación bilingüe.
853
José Olmos, “Vargas Llosa dice que indigenismo es un peligro democrático”, El Universo, 11/11/2003
(http://www.eluniverso.com/2003/11/11/0001/8/8E389173D65C4B0BAE80101A0C5ACAD7.html).
854
Il sottolineato è mia iniziativa.

325
La educación en sí es fundamental, en el caso del Ecuador en 1988 se crea el Sistema de
Educación Intercultural Bilingüe DINEIB, su creación vino acompañada de un reconocimiento
fuerte del Estado en el sentido de que el sistema era controlado en su totalidad por la
dirigencia “indígena” de las organizaciones nacionales, CONAIE, FEINE, FENOCIN, la
dirigencia tenía la protestad de nombrar a las autoridades nacionales del sistema, una vez
nombrado la autoridad nacional, éste nombraba a los directores provinciales y de
nacionalidades, aspa como a los funcionarios y personal de apoyo del sistema.
A mas de esta potestad, el sistema define el modelo educativo que debe regir en el mismo, un
modelo que debe garantizar el derecho de las nacionalidades a educarse en su propia lengua,
bajo su propia cosmovisión o realidad cultural.
En fin me parece una conquista única en la historia del país y de Latinoamérica, lo lamentable
es que en 21 años de administración del sistema, la dirigencia hizo de este espacio un botín
político, y la mala práctica política de un sector de la dirigencia, permitió que en el sistema
ingresen personas que no tienen conocimiento de la educación, simplemente ingresaron por la
amistas, el parentesco, las relaciones de todo tipo que tenían con la dirigencia, esta mala
acción ha repercutido y perjudicado a la población más pobre del país, en estas
circunstancias, lo único que se hace es reproducir la pobreza de las comunidades, salvo pocas
acepciones, en donde los profesores y directivos de los centros educativos hacen esfuerzos por
responder a los objetivos con los que fueron creados el sistema, estas acciones y estos logros
lo hacen sin el apoyo adecuado de la dirigencia y de las autoridades del mismo sistema.
Independientemente de estas malas acciones, el sistema como tal es fundamental que siga
vigente, que garantice calidad y pertinencia lingüística y cultural.
La Constitución del 2008, incluye el mandato de que el sistema educativo nacional debe ser
intercultural, también establece que los centros educativos del país debe incluir
paulatinamente la enseñanza de por lo menos una lengua ancestral o “indígena”.
Es una norma constitucional, por lo tanto muy importante. Sobre este tema considero que es
necesario trabajar en diferentes dimensiones, una fundamental es, primero, al interior de las
propias comunidades de las diferentes nacionalidades.
Un punto que lamentablemente no ha trabajado el mismo movimiento indígena es el tema
ideológico, de la memoria, es decir, no olvidemos que la sociedad en su conjunto y de manera
particular las comunidades “indígenas”, fueron formateados en una ideología dominante, la
verdadera colonización esta institucionalizada en la memoria, en la conciencia de la
población, una sociedad colonizada no es conciente de la riqueza cultural histórica que tiene,
valora al colonizador, a lo mucho lo que puede avanzar es a rememorar, a adornar en sus
discursos con las reivindicaciones históricas de nuestros antepasados, incluso en algunos

326
casos, con la reconstrucción del Tawantinsuyu, esto lamentablemente es lo que actualmente
sucede en la mayoría de los países andinos, un sector de la dirigencia, de los intelectuales
indígenas y no indígenas, han construido un discurso de reivindicaciones, de acusación, de
quejas, de amarguras y es lo que se transmite a las distintas generaciones.
Nuestra tragedia se la endosa a los Europeos, a los españoles, en la actualidad al
neoliberalismo, tiene gran parte de verdad, pero el discurso de lamento lo único que
contribuye es a deprimir o fomentar rencor en las comunidades, esta realidad de hecho es
fundamental conocerla pero no para vivir lamentándonos si no para saber como debemos
superar la situación de indigencia de las comunidades y sobretodo para fortalecer, enriquecer
la espiritualidad, la conciencia de la población, en mi opinión considero negativo referencias
como “un indio sin tierra no es nadie”, promovido por la dirigencia política, en mi criterio
considero que la principal territorialidad está en la conciencia, en la riqueza espiritual de la
persona, de la población, un pueblo enriquecido en sus valores, en su espiritualidad, en su
filosofía, puede resurgir como el amanecer, puede ir a descansar en el ocaso, como esos bellos
atardeceres de mi provincia, reflejando su intensidad en los lagos que tenemos, refrescando
nuestro espíritu de que en más de cinco siglos no hemos sido vencidos.
Sobre la globalización.
Ante la globalización un sector de la dirigencia y de la intelectualidad india y no india
promueven las autonomías indígena con gobiernos propios, lo cual es refrendado y
garantizado por el convenio 169n de la OIT y de las Nacionales Unidas, en el caso del
Ecuador se sigue al pie de la letra dichas normas y en nuestra realidad me parece nocivo la
formación de autonomías en territorios que en su mayoría son los espacios que fueron
asignados en tiempos de la colonia y luego en la república con un sentido excluyente y
discriminador, al respecto no olvidemos que en estos sistemas siempre se ubico a las
comunidades en lugares marginales, incluso con la reforma agraria, la mayoría de las tierras
fueron adjudicadas en lugares que no eran muy productivos, en una realidad así, como la del
Ecuador, crear autonomías indígenas me parece contraproducente, además considero que es
una forma de renunciar al derecho que tenemos a vivir en cualquier lugar del territorio
nacional, porque históricamente perteneció a nuestros antepasados, me parece importante
además que nuestros derechos políticos culturales, lingüísticos, tienen que estar garantizados
en todo el contexto nacional.
Además por que en la experiencia de los quichua otavaleños, mi pueblo ha logrado reafirmar
su identidad en la permanente convivencia y confrontación con el otro, en medio de esta
realidad, los quichua otavaleños han tenido la oportunidad de valorar lo que tenemos, de
comparar con los elementos, valores de la otra cultura y en esa dimensión apreciar lo nuestro,

327
así como a reconocer y valorar todo aquello que sea positivo para el mejoramiento de las
condiciones de vida de la población en general.
Crear reservaciones me parece que es una forma de huir a la realidad, ¿cuál es la realidad?
Los instrumentos tecnológicos de comunicación nos acompañan en el día y en la noche,
incluso mientras descansamos, en la actualidad podemos ver a la dirigencia indígena, a sus
profesionales, a las personas en general, atrapados, encarcelados, mediatizados por los
medios tecnológicos, la dirigencia que rechaza a occidente tiene apegado a su oído un celular
de última tecnología, esta conectado a todas estas redes sociales denominadas Facebook,
tweyer, Hifi, -no se si se escribe de esa manera- a TV cable, en fin, esa es la realidad y a veces
me parece injusto limitarles estos derechos a las nuevas generaciones.
Creo que no debemos tenerle medio a la globalización, creo que debemos apropiarnos de la
globalización, debemos adoptar y formatearle a nuestros intereses, a nuestros objetivos todas
estas tecnologías que son de mucho apoyo y beneficio para todos, pero necesitamos clasificar
la información, necesitamos construir información que permita al usuario identificarse con sus
símbolos culturales, con sus formas de pensamiento, es decir, necesitamos trabajar en el
enriquecimiento de la espiritualidad, de la memoria, de la identidad, con una fuerte conciencia
no importará que transitemos en medio de lugares congestionados por los dispositivos del
consumo, del mercado, podemos aplicar las misma formulas y venderles productos orgánicos,
es decir, vida, ambiente sano.
Sobre el Sumak Kawsay adjunto un documento para tu consideración855.
Es un tema que se lo debe pensar mucho, investigar con seriedad, sistematizar la riqueza
espiritual de nuestras comunidades, ponerlo en un papel de una manera serena y responsable.
Espero que ayude en tus inquietudes.
Saludos y suerte con tu tesis.
[...]
Un punto adicional que me olvidaba sobre la enseñanza de las lenguas ancestrales
El primer punto hacia referencia a que es necesario trabajar en primer lugar al interior de las
mismas comunidades indígenas, superar la colonización de la memoria, de la conciencia,
lograr que la población recupere el orgullo de la lengua y esta sea utilizada en la
cotidianidad, en los centros educativos de las comunidades, en las instituciones al interior de
las comunidades, en el tratamiento y comunicación con las ONGs, las empresas de turismo
que visitan la comunidades, en suma es necesario consolidar el uso de las lenguas al interior
de cada comunidad.

855
Quello che ho citato per intero supra.

328
En este proceso se requiere trabajar textos, metodologías de enseñanza de lenguas, formación
de profesores que se especialicen en la enseñanza de la lengua de tal suerte que logremos que
las nuevas generaciones de las comunidades se enamoren apasionadamente de su lengua y
cultura.
Un segundo paso y de manera progresiva será necesario pensar en la enseñanza de una
lengua indígena al resto de la sociedad, para esto será necesario preparar profesores, contar
con material didáctico adecuado, fortalecer los espacios de comunicación en lengua materna,
es decir, necesitamos generar condiciones adecuadas para la promoción de las mismas.
Saludos cordiales,
Ariruma

329
E concludo definitivamente il capitolo con la seguente citazione 856, con la quale mi collego
direttamente al capitolo che segue in quanto, sebbene riferita alla realtà messicana, la considero
emblematica del cosiddetto renacimiento indígena:

Ese el país que queremos lo zapatistas. Un país donde se reconozca la diferencia y se respete.
Donde el ser y pensar diferente no sea motivo para ir a la cárcel, para ser perseguido o para
morir. […] Así es el México que queremos lo zapatistas. Uno donde los indígenas seamos
indígenas y mexicanos, uno donde el respeto a la diferencia se balancee con el respeto a lo que
nos hace iguales. Uno donde la diferencia no sea motivo de muerte, cárcel, persecución, burla,
humillación, racismo. […] Llegó la hora de nosotras y nosotros, los indígenas mexicanos.
Estamos pidiendo que se nos reconozcan nuestras diferencias y nuestro ser mexicanos.

856
Michael Handelsman, “De la dominación al buen vivir: América latina como proyecto civilizatorio «otro»”, in
Campaña (a c.), América Latina: los próximos 200 años, cit., p. 147, che a sua volta cita il Mensaje central del
Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN), 28/3/2001. Si tratta del testo che ho citato durante l'intervento
alla Giornata di studi del 2011 (cfr. supra). Da notare che Michael Handelsman, ispanista statunitense di
prestigio, specializzato nel “caso Ecuador” – espressione che ho mutuato nel presente capitolo –, se ne è occupato
appunto per esempio nell'articolo “Las literaturas «pequeñas» en busca de sus lectores interculturales: el caso
ecuatoriano”, Guaraguao 35 (2010), pp. 33-38.

330
III

Dall’indigenismo alla letteratura indigena, una realtà emergente

José Luis Ayala, el poeta sideral

Maya imantata pachata jutirïthwa / pacha qawayana ukata sapa kankañana yuritaytha.
Provengo da un mondo sepolto / figlio della lontananza e della solitudine.
Nayra aymara awicha achachilanakajawa jalluru yatichatayna / qawranakampi amkhañuqinakampi /
uywthapipxatayna/ ukatsti intimpi yapuchañana yanapt’asiñwa inuqapxatayna.
I padri aymara hanno educato la pioggia / cresciuto lama e tuberi / creato la solidarietà solare agraria.
Maski janisa chiqa uñt’ampi jakkañäni / utjistphansa janisa rukumintunakaxa / antisasa janiwa kuna
manupäktansa Istäruruxa.
Ma in realtà, con o senza i documenti, / non esistiamo / e non dobbiamo niente allo Stato.
Maya jach’a suyu churäma sapxistuwa / yäqasipxañasasa / utjirinakasasa kutkatayasiñawa, ukata khuyaña
t’aqhisiñaxa / apanukuñawa.
Ci hanno parlato di una grande patria / di salvarci dalla solitudine e dalla / povertà.
Wali axsarkañawa taqi kunata apanukutäñaxa. Llakisiñaxa wiñaya pachawa janchi kikpana mutuñaxa ukatsti
kharinuqata janchimpi jakaskakiñawa maya kiristiyanu / apustuliku / rumanu sata jach’a suyunxa.
È spaventoso essere portati al macero / sentire sul corpo il dolore dei secoli / sopravvivere scuoiati / in un
paese che si dichiara / cattolico, apostolico, romano.

Imantata Pacha / Mondo Sotterrato857

Nel presente capitolo finalmente mi dedico specificamente agli autori indigeni emergenti o
spesso già figure di riferimento nei loro Paesi d'origine e per i movimenti indigeni in genere.
Ovviamente non ho la pretesa di fornire un quadro esaustivo della loro realtà, ma solo una
selezione soggettiva in coerenza con quanto espresso sinora. In particolare, spero di rendere

857

 Ayala, Muyu Pacha...cit., pp. 42-3.

331
almeno l'idea delle differenze di prospettiva tra loro e gli indigenisti non indigeni sinora perlopiù
trattati, se si esclude l'eccezione importante di Ariruma Kowii.
Come anticipato nel capitolo I, in primo luogo riporto le parti che ritengo più significative
dell'intervista che la giornalista venezuelana Mayela Barragán Zambrano ha realizzato nei
confronti di José Luis Ayala Olazával858 in occasione della XXI Fiera Internazionale del Libro di
Torino del 2008, in cui il poeta, romanziere, saggista e giornalista peruviano di lingua madre
aymara e quechua ha presentato una raccolta di sue poesie, Muyu Pacha. Tempo circolare, in
edizione bilingue aymara-italiano:

El fenomeno más relevador859 en el panorama literario latinoamericano de hoy es el


renacimiento de una poesía en lengua indígena 860. Del altoplano peruano nos llega uno de sus
máximos exponentes, se llama José Luis Ayala y es poeta, ensayista, periodista y adivino 861.
También mariáteguista y heredero del movimiento vanguardista Orkopata que dirigió Gamaliel
Churata862. Hijo de un maestro rural de Huancane863, Puno, José Luis Ayala crece en un
ambiente trilingue, el trinomio quechua, aymara y castellano dominará su infancia que pasa
mayormente en Tumuku donde el abuelo paterno cultivaba sus tierras. A sus veinte años José
Luis Ayala, que nació en el año 1942, encuentra a José María Arguedas, quien le aconseja que
emprenda estudios lingüísticos y sociológicos para que pudiera obtener la plena expresión
858
“Un milagro en la feria del libro de Turín, Jumanpi Samkasta”, Rebelión, 20-05-2008
(http://www.rebelion.org/noticias/2008/5/67658.pdf). Come accennato nel cap. I, ho assistito a questa intervista:
all'epoca non avevo nemmeno l'idea di dedicarmi all'indigenismo in un progetto di ricerca di un dottorato, ma
m'interessavo comunque di letterature e culture in genere dell'America Latina sia per averci vissuto, sia in quanto
coordinatore del Grupo de Leitura Lusófono de Gênova (http://grupodeleituraberio.blogspot.it/) e partecipante del
Grupo de Lectura en Español de Génova (http://blog.libero.it/GrupodeLectura/), sia per una passione che nutro
sin dall'infanzia per i cosiddetti “indiani” d'America.
859
Sic. Penso che l'autrice abbia voluto scrivere relevante più che revelador.
860
Il sottolineato è mia iniziativa, come nei casi successivi.
861
In effetti José Luis Ayala è un Yatiri, sorta di interprete spirituale, oracolo e guaritore presso gli Aymara. Cfr.
José Luis Velásquez Garambel, “José Luis Ayala: un Yatiri en el corazón de la coca”, Los Andes, 10/11/2009
(http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000000017/Jose-Luis-Ayala-un-Yatiri-en-el-corazon-de-la-
coca); Fernando Chuquipiunta Machaca, “Yatiris. Adivinos andinos”, EL Zorro de Abajo, 2/1/2010
(http://zorrosdearriba.blogspot.com/2010/01/yatiris-adivinos-andinos-fernando.html). Entrambi questi articoli
sono recensioni di un vero e proprio manuale per aspiranti Yatiri dello stesso José Luis Ayala intitolato appunto
Yatiris. Adivinos andinos (Universidad Ricardo Palma, Lima 2009).
862
Cfr. infra.
863
La forma Huancane, rispetto a quella ufficiale Huancané, è riportata di proposito in quanto rispecchia la
pronuncia più originale in lingua aymara.

332
lingüística en español y en aymara. Así fue, hoy este andino peruano nacido en las orillas del
Lago Titicaca es el máximo exponente de la poesía en lengua aymara [...].
José Luis Ayala [...] ha optado por la identidad aymara, para defender los pueblos marginados
porque está consciente que la globalizacion es una amenaza:
No solo para nosotros es una amenaza la globalización, sino para todos las culturas del globo
terráqueo864. Nos quieren imponer a través de los medios de comunicación una sola manera de
pensar. Nos quieren convertir en consumistas no productores [...], nos venden todo, pero no
nos dejan producir [...]. Pero creemos en que llegará el momento, el gran día, como se dice en
Quechua llegará el Pachakuti, la Revolución de la tierra, y ese día todo se volteará, este es
nuestro pensamiento mesiánico y milenarista. Nosotros estamos esperando el Pachakuti, y el
mañana va a ser mejor865.
Sostiene el escritor peruano que:
Todos los pueblos de América, los pueblos ancestrales como Quechuas, Aymaras, Mapuches o
etc., tenemos que tomar una absoluta conciencia frente a la globalizacion, o desaparecemos o
nos integramos en un proceso donde no haya una exclusión pasamazonica 866; es una tarea en
la que debemos trabajar los escritores, los intelectuales y los estudiosos sociales. No estamos
por la violencia sino deseamos un sistema de educación intercultural que permita hacer
nuevos cambios en América Latina para que las grandes mayorías marginales y marginadas
se integren y tengan beneficios de verdad. [...] Deseamos una república en la que podamos
integrarnos y podamos tener una representatividad étnica en el congreso. En este momento no
la tenemos, no hay una representación de culturas, sin embargo propiciamos la necesidad de
un intercambio, de un diálogo que permita que las grandes mayorías marginadas tengan un
sitio en el congreso.
Ayala es un escritor prolijo, porque él que tiene 65 años nos cuenta que ha publicado 40 libros
y que aún le faltan por publicar 15, nos enfatiza que tiene el vicio y el oficio de escribir.

864
Questa è la ragione principale per cui nel corso del 2014 è sorta, su iniziativa soprattutto dei movimenti indigeni,
la Cumbre de los Pueblos frente al Cambio Climático, convovcata a Lima tra l'8 e l'11 dicembre del 2014. Cfr.
http://cumbrepuebloscop20.org/es/. E cfr. il cap. II a proposito della figura dell'indigeno custode dell'ambiente. E,
si può aggiungere, conseguentemente in contrasto alla modernità occidentale, altro ruolo di antico retaggio per
quanto concerne i popoli “altri” rispetto al mondo occidentale. Cfr. Pier Paolo Frassinelli, “Globalizzazione,
eurocentrismo e storia della letteratura. Franco Moretti ed Edward Said”, Allegoria 56 (2007), p. 252, a proposito
delle “modernità alternative”, alternative a quella occidentale, ovviamente.
865
Cfr. infra.
866
Sic. Probabile errore di digitazione per panamazónico, o meglio pan-amazónico. Il riferimento dovrebbe essere al
fatto che in America non esistono solo i popoli indigeni d'Amazzonia, idea che spesso certa propoaganda vuole
imporre. Da notare che nella capitale peruviana Lima, il 6 e 7 agosto del 2014, si è tenuto Il Tercer encuentro
Pan-Amazónico (http://araamazonia.org/noticias/136-iii-encuentro-pan-amazonico).

333
Si no escribo no existo. [...] Tengo dos conductas literarias, una conducta vanguardista donde
invento y experimento, porque estudié en Paris literatura de vanguardia, pero al mismo tiempo
he estudiado la literatura andina entonces escribo, en aymara, para mi identidad indígena, y
en castellano para un proceso de integración latinoamericano con literatura experimental
como lo ha hecho Cortázar. Soy un hombre andino que tambien tiene una cultura occidental.
Los escritores de las culturas ancestrales tienen que tener necesariamente una capacidad de
aprender para usar los mismos instrumentos de los escritores occidentales, porque la mayor
contribución que puede hacer un escritor ancestral a América Latina es cimentar una
conciencia continental, una cultura anti sistema, por esto soy un escritor anti sistema, no
rechazo, quiero concebir y contribuir una conciencia continental, para que los seres humanos
se humanizan desde un punto de vista crítico.
Se podría hablar de una literatura aymara.
En lengua aymara no existen escritores orgánicos, porque la literatura aymara es una
literatura oral que se da en la música, en las canciones, en el febrío 867 y en los grandes
festejos; no hay escritores aymaras que tengan su laptop y escriban. Esta es la primera vez que
en América sucede un milagro, es la primera vez que un poeta aymara es traducido al Italiano,
puede venir a la Feria del libro de Turín y tener el privilegio de leer en aymara.
¿Cómo ha ocurrido este milagro?
En Puno conocí a Riccardo Badini868, un estudioso e investigador del aymara, que se convirtió
en mi traductor. La poesía aymara tiene una distinta visión del mundo, es una cosmogonía
única, su poesía tiene una sonoridad diferente en las metáforas; esta poesía no esta escrita
como escribe Vallejo o García Lorca o Machado (los grandes poetas), sino que tiene otra
dialéctica, otro sonido, otra forma, porque viene de otra estructura mental y, quizás, por esto
les llama la atención a los europeos, les gusta. Creo que el Occidente está cansado 869 y por eso
ahora está recibiendo nuevas corrientes; desea nuevas formas de entender la realidad. [...]
Pero considero que este interés europeo hacia las nuevas corrientes no solamente debe darse
con la poesía sino tambien con la novela y el cuento. Espero que de aqui a veinte años
tendremos poetas guatemaltecos que vendrán a está feria a declamar en su lengua, o

867
Sic. Probabilmente si tratta di un errore di digitazione per febrero, che in effetti è il mese in cui Puno diventa la
Capital Folklórica del Perú y de América, in particolare per i festeggiamenti dedicati alla Mamacha Candelaria,
durante i quali si ricorda anche l'attacco che la città andina ha subito da parte dei ribelli guidati dal citato Túpac
Catari nel 1781. Cfr. http://punoperu.origenandino.com/fiesta-candelaria-virgen-candelaria.html.
868
Il Prof. Riccardo Badini è docente di Lingua e Letterature Ispano-Americane presso l'Università di Cagliari e
membro del CISAI di Siena (Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena) diretto dal Prof. Antonio
Melis.
869
Cfr. cap. II.

334
novelistas mapuches, sólo así, finalmente, se contará con una nueva visión de lo que pasa en la
cosmovisión de la gente ancestral.
Háblenos de ese rescate que usted hace cuando compone versos en aymara.
Esta poesía tiene una sola persona, el plural. Se habla de nosotros, no de ellos, de tú y yo
juntos. En el mundo aymara todo esta vivo: los cerros, los animales, los árboles, las plantas.
El todo es parte de uno, el cerro tiene vida y es parte de mí y yo soy parte del cerro; yo he
nacido de la tierra y a la tierra me iré. Los aymaras tienen tres almas. Cuando un aymara
muere a los ocho días la primera alma se le deja a la casa a vivir, vive con los vivos. A los dos
años se hace otra misa, esa misa sirve para que la segunda alma sea entregada a la
comunidad y, al final, a los cinco años, se hace otra misa y se quema la ropa del difunto para
que la tercera alma se convierta en tierra, aire y luz. La vision de la muerte en el mundo
aymara es diferente a la del mundo cristiano donde uno no tiene alternativas porque si se
muere lo mandan para el infierno donde pasa todo el tiempo, en el mundo aymara no. También
existen dos cosas que son muy importantes: el comportamiento ético y el comportamiento
moral. Cuando una persona vive, para ella hay dos clases de libros, uno, el libro de plata,
donde se anotan todas las virtudes de la persona, y el otro, el libro de oro, donde se anota la
conducta moral. En el mundo aymara existe una censura de orden moral, cualquiera no puede
llegar a ser presidente de la comunidad, por eso el comportamiento es distinto como por
ejemplo la forma de enamorarse que tambien es diferente. Los jóvenes cuando tienen diecisiete
años se reunen con las muchachas de su misma edad, organizan el baile de los solteros, se
llama la Kachua, mientras están bailando se apaga la música y uno se casa con la persona con
la cual está bailando.
Con respecto a la defensa de las lenguas indígenas ¿qué novedad está ofreciendo Perú?
Hay un proceso de educación e integración. Hoy día se enseña en aymara y en quechua en
casi todas las escuelas, aunque no en los colegios y las universidades, pero lo interesante es
que ya existe un acto de conciencia y hay programas que enseñan a los niños en aymara y
quechua. Hemos optado por el alfabeto fonético universal.
En la actualidad Perú ¿cómo observa el viraje político boliviano?
Las grandes mayorías quechuas y aymaras en el Perú no están politizadas, no están
organizadas, lo que [...] sucede en Bolivia donde están organizados los mineros y los
cocaleros, Evo Morales es un presidente elegido por los movimientos de los cocaleros,
movimiento que en el Perú no tiene peso. Sin embargo en Perú existe un cuarto movimiento de
orden nacionalista que en las próximas elecciones tendrá mayor presencia.
Este movimiento nacionalista por ¿quién está representado?

335
Por un militar que se apellida Humala870, quien hoy día recoge corrientes de integración y de
reinvindicación. Pero tambien en ese mundo se dan varios factores y varias formas de
entender, existe gente que está dando la violencia; en lo que a mí se refiere yo estoy
absolutamente convencido que el futuro es la interculturalidad, es la integración, es el diálogo
y no solamente entre los pueblos quechuas y aymaras sino en toda América. Creo que lo que
hay que hacer es llevar a cabo el sueño del Libertador Simon Bolívar, una América unida y
grande, que nos permita un diálogo con los países europeos.
En Perú ¿quién representa la mayoría entre Aymaras y quechuas?
La mayoría es quechua. El pueblo Aymara vive concentrado en el Lago Titicaca, es un pueblo
minoritario, más o menos son 4 millones. Tambien se habla Aymara en el sur de Chile, en
Antofagasta871, y en Argentina, en el Jojuy. El aymara tiene sus variaciones dialectales.
Que nos puede decir acerca del característico flujo migratorio de la montaña hacia la costa que
existe en nuestros pueblos latinoamericanos, ¿sigue con intensidad en Perú?
Es costante esta migración de la cultura andina hacia las grandes ciudades, y como les sucede
a los indígenas y campesinos venezolanos que se van a Caracas o como les pasa a los
campesinos e indígenas argentinos que se van a Buenos Aires, son tratados con la
invisibilidad. Son invisibles. Nos han convertido en seres invisibles, no existimos. Pero las
grandes mayorías tienen la soledad de las mayorías. El hombre occidental está cada vez más
sólo. Van y vienen en busca de nada y hacia ningún sitio, esa es la peor soledad, la soledad del
sistema872. En cambio el mundo aymara no está solo, el sol es nuestro padre, “Lupi tata”, la
luna es nuestra madre, “Phaxsi”; todo existe y nosotros trabajamos en forma colectiva. En el
mundo aymara hay una soledad cósmica que es diferente, la soledad sideral873, y tenemos

870
In effetti, Ollanta Moisés Humala Tasso il 28 luglio del 2011 è diventato presidente del Perù.
871
Antofagasta invero si trova nel nord del Cile.
872
Cfr. il finale del cap. II. Si può dire peraltro che Ayala concordi con vari pensatori occidentali, del passato e
contemporanei, tra cui Zygmunt Bauman, che ha espresso giudizi analoghi per esempio in La solitudine del
cittadino globale (trad. Giovanna Bettini, postfazione di Alessandro Dal Lago, Feltrinelli, Milano 2000 [In
Search of Politics, Polity, Cambridge 1999]), o Umberto Galimberti, che ha dedicato alla questione il saggio Il
tramonto dell'Occidente (Feltrinelli, Milano 2005). Invero si tratta di un'idea che circola già da tempo tra i
pensatori latinoamericani e anche indigeni d'America in genere. Cfr. Pia Colonello (a c.), Filosofia e politica in
America Latina, Armando Editore, Roma 2005, p. 66, a proposito di quanto espresso per esempio dal filosofo
messicano Leopoldo Zea Aguilar (1912-2004) in un saggio dal titolo La Filosofía Americana como Filosofía Sin
Más (Siglo XXI, México-Buenos Aires-Madrid 1969). E cfr. anche Stan Steiner, Uomo bianco scomparirai.
Profezie indiane sulle sorti della civiltà occidentale, trad. Massimo Giacometti, Jaca Book, Milano 1995 2 [The
Vanishing White Man, Harper & Row, New York 1976], specie p. 121.
873
Ayala ha dedicato a questo concetto almeno due antologie poetiche: Canto sideral (Juan Mejía Baca, Lima 1984)
e Tiempo al tiempo sideral (Editorial Altiplano E.I.R.L., Puno 2004), nonché varie altre liriche. Per questo è stato

336
consciencia de que viajamos en una única nave todos. Ningún aymara que crea, ninguno va y
mata los animales, ninguno va y corta los árboles en detrimento de los demás, si se corta es en
favor de la tierra, se le pide permiso, porque del vientre de la tierra vinimos y a ella vamos,
por eso mientras estamos acá debemos tener moral y respeto por la forma de vivir nuestra. La
sociedad occidental ha inventado el día de la tierra, pero se ha hecho tanto daño a esta tierra.
De acá a cien años nuestros nietos no van a encontrar nada, por esto las culturas ancestrales
representan hoy día una vuelta a la posmodernidad, porque tienen una conducta ética y moral
frente a la tierra que es diferente a la del hombre occidental, una actitud diferente ante la capa
de osono o las mutaciones climáticas 874. Es interesante como hoy en día la magia ancestral se
pone en ciencia. El Occidente tiene que aprender mucho de las culturas ancestrales.
¿Qué piensa de la violencia endógena de America Latina?
Yo como escritor siempre trato de dar una predica por la paz, por la democracia y la justicia,
porque también se dan movimientos violentos. Existen varias clases de violencia, la violencia
estructural porque nace de la estructura de la sociedad que es injusta; la violencia del sistema,
porque el sistema se impone violentamente y la tercera es la respuesta política de personas que
optan por la violencia. El gran peligro en América no es la violencia que llega de adentro sino
la que llega de afuera, porque las comunicaciones son violentas, la television es violenta, todo
es asesinar y destruir, hay que salvar a los niños de la televisión. También no hay que olvidarse
que todo periodista es un vehículo ideológico. Dime lo que lees y te diré quien eres.
Sobre la condición de la mujer aymara, ¿qué nos dice?
La sociedad aymara es matriarcal, tiene una mujer muy trabajadora, con un gran sentido
humano y participa activamente en la economía. Hay algunas que conducen autos y manejan
las finanzas. Otras son parteras y curanderas porque si no fuera así la gente se moriría; es
una mujer que tiene una fuerte capacidad de subsistencia frente a un mundo muy violento.
Cuando en el mundo aymara muere un niño, se le entierra bailando porque es una semilla que
regresa a la tierra. Los aymaras no tienen panteones, a los muertos los entierran en su propio
terreno, por eso es que no pueden abandonar sus tierras porque allí reposan sus ancestros.
Tampoco existen epítafios, todo está en la memoria; mientras en el mundo occidental se pone
un epítafio en la cultura aymara el recuerdo vive en la memoria atávica; como era una cultura
ágrafa ha desarrollado una grande memoria, una narracción oral real maravillosa que es
extraordinaria.
Con que países latinoamericanos tiene usted un mayor intercambio?

definito el poeta sideral (cfr. José Luis Velásquez Garambel, “José Luis Ayala Olazabal: el poeta sideral”, La
lengua del diablo, 27/9/2009, http://lasmillenguasdeldiablo.blogspot.it/2009/09/jose-luis-ayala-olazabal-el-
poeta.html) e io stesso ne ho tratto il sottotitolo a lui dedicato nel presente studio.
874
Cfr. supra e quanto detto nel cap. II a proposito dell'archetipo dell'indigeno custode della Terra.

337
Con quien hemos tenido un origen común, especialmente con Bolivia y Ecuador 875. En el
tiempo de los Incas el Tahuantinsuyo abarcaba todo lo que es Ecuador, Perú, Bolivia, parte de
Chile y Argentina; ese pasado era la edificacion de una sociedad distinta, hoy tenemos una
educación que viene de Occidente, a través de España, y la otra que cargamos en nuestra
propia sangre que es la cultura aymara.
Pero se acabo876 el tiempo de la entrevista y nos hemos despedido de José Luis Ayala hablando
sobre Manuelita Sáenz877, él ha escrito un libro sobre ella 878, porque la considera la mujer más
hermosa que ha dado la naturaleza.
Le pedí a José Luis Ayala que decidiera el título de este artículo, me dijo que le llamara
“JUMANPI SAMKASTA”, “Soñé contigo”, en aymara.

Nell'intervista è citata la figura di Gamaliel Churata, pseudonimo di Arturo Pablo Peralta


Miranda (1897-1969), scrittore e giornalista di origine arequipeña, ma da bambino trasferitosi
con la famiglia a Puno. Negli ultimi vent'anni, anche grazie a José luis Ayala 879, Gamaliel
Churata sta conoscendo una valorizzazione postuma come uno dei pilastri della cultura nazionale
peruviana, assieme a figure già trattate o citate nel presente studio quali Inca Garcilaso, Ricardo
Palma, César Vallejo, Ciro Alegría e naturalmente José María Arguedas, nonché, ma non per
tutti, nonostante il premio Nobel, Mario Vargas Llosa.
In particolare lo si considera il più importante promotore dell'avanguardia culturale puneña
assieme a Carlos Oquendo de Amat (1905-1936), altro autore non a caso oggetto di studi da
parte di José luis Ayala880, avanguardia rappresentata in particolare dal citato Grupo Orkopata e
che si esprimeva soprattutto tramite la rivista Boletín Titikaka (1919-1931)881, le cui

875
Questo è il limite dei movimenti indigeni odierni che giù abbiamo messo in evidenza nei capitoli precedenti.
876
Sic per acabó.
877
La quiteña Manuela Sáenz (1797-1856), nota come La Libertadora del Libertador, è stata la “grande donna
dietro il grande uomo” Simón Bolívar, elogiata nelle sue Memorie anche da Giuseppe Garibaldi che fu suo ospite.
878
Eternidad de Manuelita Sáenz (Editorial Noceda, Lima 2001). Anche in un suo altro libro più recente, El
libertador entre el amor y la guerra (Editorial San Marcos, Lima 2007), Manuela Sáenz è protagonista.
879
Nel 1997 Ayala è stato presidente della Comisión Peruana del Centenario del Nacimiento de Gamaliel Churata.
Inoltre su di lui e sulla sua opera maggiore, El Pez de Oro, ha pubblicato numerosi articoli e interventi critici.
880
Ayala gli ha dedicato il seguente saggio: Carlos Oquendo de Amat. Biografía y crítica literaria (Editorial
Horizonte, Lima 1998).
881
Cfr. María Ángeles Vázquez, “Las vanguardias en nuestras revistas, 18. Revista Boletín Titikaka, Perú”,
Rinconete. CVC, 21/10/2005 (http://cvc.cervantes.es/el_rinconete/anteriores/octubre_05/21102005_02.htm ); José
Luis Ayala, “Gamaliel Churata: Del largo exilio y la exclusión al homenaje póstumo”, Pacarina del Sur 11
(2012; http://www.pacarinadelsur.com/home/huellas-y-voces/434-gamaliel-churata-del-largo-exilio-y-la-

338
caratteristiche furono quelle di fondere l'indigenismo, inteso come istanza di rivendicazione dei
diritti dei popoli indigeni, con le più recenti istanze moderniste nonché le prospettive ideologiche
di sinistra, tant'è vero che Gamaliel Churata è considerato uno dei quattro grandi esponenti del
movimento indigenista peruviano dell'epoca, assieme a Manuel González Prada, José Carlos
Mariátegui e Víctor Raúl Haya de la Torre, quest'ultimo fondatore nel 1924 dell'APRA, l'Alianza
Popular Revolucionaria Americana, i cui scopi originali erano quelli di formare una rete di
movimienti sociali e politici in tutta l'América Latina in contrasto all'imperialismo delle potenze
coloniali e degli USA e di riscattare, appunto, i popoli indigeni da secoli di oppressioni e
umiliazioni. L'attuale già citato Partido Aprista Peruano, che ne eredita il nome, è sicuramente
qualcosa di diverso.
Gamaliel Churata, per le sue idee, subì 32 anni di esilio in Bolivia e anche quando poté
tornare nel suo Paese d'origine non conobbe certo un trattamento amichevole, come racconta lo
stesso Ayala882.
La sua opera più importante, El Pez de oro (Retablos del Laykhakuy), pubblicata nel 1957,
è una sorta di antologia di spaccati del mondo andino, in una struttura che si sviluppa non come
un romanzo, bensì come un testo comunque narrativo, ma di genere cangiante (talora racconto,
talora saggio, talora diatriba tra soggetti vari), per giunta con una voce narrante che cambia
sempre. L'autore stesso l'aveva definita una obra transgenérica, formula domande e sviluppa il
confronto tra varie risposte. Non vi mancano poemi spesso molto prossimi alle forme tradizionali
andine, a cui comunque si ispira. E in genere si tratta della realizzazione ben riuscita della
commistione tra l'oralità indigena e l'espressione d'avanguardia883.
Anche il titolo s'ispira alla tradizione indigena, che, in virtù di quelle frequenti
corrispondenze che si verificano tra culture, talora prodotte da vere e proprie migrazioni di
archetipi, richiama alla leggenda del pesciolino d'oro della tradizione russa, la cui versione più
famosa è quella di Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837), nella Fiaba del pescatore e del
pesciolino (1833), ripresa da Aleksandr Nikolaevič Afanas'ev (1826-1871) nelle sue Fiabe russe
(Народные Русские Сказки, 1855-1863).
L'intertestualità e il sincretismo dell'opera di Gamaliel Churata sono in qualche modo
manifestati anche nello pseudonimo che si scelse: Churata è un cognome molto diffuso nella

exclusion-al-homenaje-postumo).
882
Ibid.
883
Cfr. Meritxell Hernando Marsal, “El hibridismo (im)posible: El pez de oro de Gamaliel Churata”, Encontro
Regional da ABRALIC 23-25/7/2007 USP - São Paulo, pp. 1-9; Helena Usandizaga, “El Pez de Oro, de Gamaliel
Churata, en la tradición de la literatura peruana”, América sin nombre 13-14 (2009), pp. 149-159.

339
regione di Puno, tra gli indigeni dei dintorni del lago Titicaca, Gamaliel è un nome tratto dalla
tradizione ebraica e da quella evangelica, in particolare dagli Atti degli Apostoli, in cui tale nome
è attribuito a un celebre rabbi del I sec. d.C. che avrebbe preso le difese dei cristiani nel sinedrio
e che sarebbe stato anche maestro di Paolo di Tarso884.
Un nome che richiama quindi anche a un'aspettativa al tempo stesso sapienziale e
profetica, rapportata alla tradizione indigena ma arricchita da altre tradizioni comunque
alternative a quella occidentale.
In perfetta sintonia con l'ideale del Pachakuti, pure citato da Ayala, che, come visto, lo
considera “nuestro pensamiento mesiánico y milenarista”: si tratta di una parola
quechua/quichua che in genere è tradotta in vari modi, ma tutti a indicare un'inversione
dell'ordine fondamentale delle cose, un ritorno al punto di origine, a riordinare e rinnovare il
tempo e lo spazio.
Su un sito dedicato a questo ideale, ho incontrato le seguenti spiegazioni, che sono al
tempo stesso un vero e proprio programma politico e culturale:

Todo cambio adviene con épocas de crisis, desorden, y fuertes cambios climáticos con
tormentas y sequías extremas, a lo que el hombre ha contribuido a contaminar y destruirlo
recalentando todo el planeta. Es tiempo de reflexiones profundas, es hora de renovarnos en
nuestros corazones, ya no es tiempo de análisis mental solamente, conectemos nuestro cerebro
con los corazones y actuemos con intuición, actuemos con responsabilidad de ser los
protagonistas de los nuevos tiempos... cada una de nosotras somos Pachakuti.

E ancora:

La explosión que hace reventar en astillas al sistema caduco y al mismo tiempo es la luz
germinal que alumbra la nueva era. Es el punto de inflexión fundacional de lo que nacerá
radiante como el Inti Andino Amazónico, sobre un territorio saqueado, depredado, expoliado y
sobre una sociedad oprimida, para emprender la gran lucha por la emancipación plena, total.
Un cambio integral a todos los niveles: espiritual, ético, social, económico y político. En este
proceso, la transformación debe conducir a retomar el camino de la reciprocidad, la solidaridad,
la justicia social, la paz y la defensa de la vida en todas sus manifestaciones. Una gran
oportunidad, sin duda alguna, para contribuir a restablecer el equilibrio entre el cosmos y la
Tierra.

884
Atti 5, 38-39 e 22,3.

340
Alguien dijo que el pueblo despierta cada cien años. Hoy han despertado las naciones de
nuestro territorio, para no volver a dormir jamás. Han despertado en sus dimensiones
multifacéticas y nadie irá detenerlos en sus victoriosas marchas. Ese es el significado del
PACHAKUTI.
PACHAKUTI es la transformación de la naturaleza de la historia y la sociedad, es el despertar
de una nueva conciencia en sincronía vibracional con nuestras deidades sagradas que retornan
con la energía revitalizadora de la Pachamama (Madre Tierra) y el Tata Inti (Padre Sol) ...en el
aire espera el asalto al cielo, el Pachakuti y el trabajo, minka de todos para la conquista de
nuestra tierra y del tiempo en que todo revierta, y el mundo al revés sea de una buena vez
vuelto a la armonía. Tiempo mítico y futuro inmediato uno solo.
Un ciclo que provoca transformaciones políticas, sociales, éticas y culturales. La historia gira,
cambia y borra los largos años de penurias y carencias.
Tenemos la esperanza de que nuestra modesta iniciativa junto a la Comunidad Internacional de
todas las Naciones Awiyala 885, se convertirá a corto plazo en una amplia corriente de
concientización sobre la importancia de una Cultura de Paz en el Mundo, donde mujeres y
hombres, niños y jóvenes, esuman el grán reto de sus vidas y con total responsabilidad; lograr
una sociedad en excelencia, donde prima la ARMONIA e IGUALDAD de DERECHOS -
“SUMAN JAKAÑA” O “SUMAN QAMAÑA”.
Compartimos el Pachakuti, el renacimiento, la vuelta a los orígenes de los indígenas, de
quienes admiramos también su Diversidad.
Escogimos el SOL de la rebeldía, del esplendor, de la guía colectiva.
Seguimos poniendo el desarrollo al servicio de esa misma Solidaridad, y de la Paz, que no es
sólo ausencia de guerra, sino Justicia y Equidad.
El Pachakuti es la negación de las exclusiones. Es la participación universal de todas en todo,
para construir su vida, diversa, pero articulada a la totalidad social concreta.
El término quechua Pachakuti sugiere una transformación o re-vuelco de largo alcance tanto
espacial como temporal.
Reforzamos el Sol luminoso de los Indígenas, núcleo central de la Solidaridad.
Pachakuti: renacimiento, nuevo-país, nacer de las cenizas, re-vo-lu-ción. 886

Nel leggere queste parole vigorose, soprattutto se comparate con la povertà e la ridondanza
sterile di certi programmi ideologici che si sentono declamati nel dibattito politico-culturale in
Occidente, ma anche nel mondo islamico, si avverte senz'altro tutta la vitalità di questo
renacimiento indígena di cui José Luis Ayala è attivo rappresentante. E anche il programma di
885
Versione quechua del nome Abya Yala già descritto.
886
Redazione Soldepaz Pachakuti, “Pachakuti”, (http://www.pachakuti.org/textos/historia.htm).

341
una Nueva Civilización promossa dal collettivo Nuevas Cartas diretto da Mario Campaña
avrebbe più senso887.
Da notare che il celebre cantautore argentino Víctor Heredia, tra i maggiori rappresentanti
della cosiddetta canción de protesta latinoamericana – che affondava spesso le sue radici nelle
tradizioni indigene – assieme a nomi quali quelli di Mercedes Sosa, Atahualpa Yupanqui, León
Gieco, Silvio Rodríguez, Pablo Milanés, Violeta Parra e Víctor Jara, tra i tanti altri, da sempre
molto prossimo a movimenti quali quelli delle Madres de Plaza de Mayo e delle Abuelas de
Plaza de Mayo888, nonché quelli indigeni, nel 1986 ha pubblicato un album che era un vero
programma politico, intitolato Taki Ongoy, come il già citato movimento di resistenza inca889.
In esso, già quasi trent'anni fa, ha divulgato queste idee che s'irradiano dalla tradizione del
Pachakuti (nonché dell'Inkarrí890), che appunto fa risalire al Taki Ongoy, sopravvissute per
secoli grazie alla tradizione orale andina, nonostante la repressione coloniale e postocoloniale
che gli indigeni hanno sofferto e a cui già si è ampiamente accennato.
Più volte Heredia ha raccontato che in seguito alla pubblicazione di questo album, e
soprattutto alla denuncia ivi contenuta dei crimini commessi in seguito alla colonizzazione del
continente chiamato America, ha sofferto una vera e propria emarginazione professionale che gli
ha procurato un pesante calo di popolarità. Ma lui ha continuato imperterrito a proporlo nei suoi
concerti, fino ad oggi891. Cantando versi quali i seguenti:

¿Donde están nuestros hijos ahora


que viento los barrió?
¿Donde nuestros maizales de oro

887
Cfr. cap. II.
888
Anche per ragioni personali e familiari, visto che sua sorella María Cristina Cournou rimane tuttora nelle listas
negras dei desaparecidos della dittatura argentina.
889
Cfr. il cap. I, dove faccio usa della forma grafica più usata oggi Taki Unquy, laddove si tratta comunque dello
stesso movimento di resistenza inca.
890
Ibid.
891
Cfr. per esempio: Gaspar Zimerman, “«Mi carrera pagó el precio». El músico repone «Taki Ongoy», la obra
sobre la conquista de América que hace veinte años le trajo problemas”, Clarin.com, 1/12/2006
(http://edant.clarin.com/diario/2006/12/01/espectaculos/c-01501.htm); Cristian Vitale, “«Taki Ongoy», una
mirada actual para un canto eterno”, Página/12, 4/12/2006
(http://www.pagina12.com.ar/diario/suplementos/espectaculos/3-4681-2006-12-04.html), in cui si mette in rilievo
come abbiano partecipato significativamente delegazioni dei movimenti indigeni al concerto del 2006 in cui il
cantautore argentino ha riproposto la sua opera a venti anni dalla sua originaria pubblicazione.

342
meciéndose al sol?

¿Que fue de nuestras huacas892 sagradas?


¿que fue de nuestra paz?
Lloro por Titicaca y la luz amada
de Pachacamac893.
Digo Taki Ongoy,
sueño un camino
Viracocha894 entenderá
cuanto dolor encierra mi corazón
grito Taki Ongoy
preparo mis armas
Manco Inca sonreirá
las flores en los valles revivirán.

Habrá en sus ojos tal regocijo tanta felicidad


que en nuestra almas de las estrellas
al mundo bajarán.

Y en Machu Pichu, ciudad sagrada, se corporizarán:


Aztecas, Mayas, Incas, Chimues,
convocarán al sol.

Este es el día del año justo


ya terminó el dolor.
Vengo a cantarles la profecía.
El indio no murió895.

O i seguenti:

Éramos diez millones de indios


entre los valles y montañas

892
Si tratta della stessa parola quichua/quechua che Ariruma Kowii scrive nella forma waka. Cfr. cap. II.
893
Pachacámac o Pacha Kamaq è il dio creatore nella mitologia inca.
894
Cfr. cap. I.
895
Taki Ongoy, dall'album omonimo citato.

343
hombres, mujeres, viejos, niños
en nuestro reino del Perú.

Nunca supimos de la peste


hasta que el español llego.
fuimos muriendo lentamente
bajo la fiebre y el dolor.

La maravilla de nuestro reino sucumbió


a la tortura, la esclavitud y la enfermedad
nunca supimos como vivir sin la tradición
hemos perdido junto a los nuestros
la libertad896.

E i seguenti:

Peleamos en Vilcabamba897
en contra del extranjero.
ya había perdido mi hermano
su fe en conseguir vencerlos.
Titu Cusi era su nombre
y comando la rebelión
pero presa de la fiebre
entregó su corazón.

Tupac Amaru es mi nombre


y asumo entonces el mando
Manco Inca fue mi padre
su sangre guía mis manos.
por América resisto
por América me muero
por América mi vida
me arrancará el extranjero.

896
Año 1530 - Peste, ibid.
897
Cfr. cap. I.

344
El español que me mata
no sabe que esta cortando
la cabeza que mañana
cantará en un canto eterno.
se muere el ultimo inca
Tupac Amaru se muere
todo el Cuzco se desangra
por mi cabeza en la pica.
Pachacamac me recibe
para preparar mi traje.
yo volveré con los míos
a reparar el ultraje.

Por América resisto


por América me muero
por América lo juro
nunca detendré mi vuelo
Tupac Amaru es mi nombre
mi sangre y mi canto eterno
Tupac Amaru no ha muerto
¿quien puede matar un sueño?898

Fino a quando sono stati gli autori indigeni come Ayala a riappropriarsi di queste istanze e
a promuoverle nelle loro opere, quelle che stanno marcando il già citato renacimiento indígena.
In testi come il seguente:

898
Muerte de Tupac-Amaru, ibid.

345
MUYU PACHA899 TEMPO CIRCOLARE

Lik’i micha ch’ uwajaxa inakiwa Il lume ad olio a fatica

anaqaja manqhana uta anqana porta la sua luce fuori e dentro la

qhantaski capanna

ukatsti thayaxa maya usuta titjamawa mentre il freddo si aggira come un puma

muytaski. ferito.

Khunuxa ch’uju manqharu La neve accumulata in fondo al silenzio

tantantatawa/ si scioglie al sorgere del Padre Sole

kuna pachati Inti Awkijaxa mistunini/ e scorre poi velocemente verso il basso.

ukaxa chullutataniwa Inti jalanta I vestiti dei morti non nascondono

manqharu qulumrantañataki. la nudità dei corpi

Jiwatanakaxa isinakapa ist’atäpki le loro ferite.

ukaxa janiwa janchi q’arätapsa janchina Uno ad uno salgono da sotto la terra

chhuxrinakapsa imantkiti. e tornano a prendere posto nelle loro

Mayata mayatwa uraqi manqhata case

mistsunipxi come fossero vento della sera.

ukatxa wasitatwa utanakapanxa maya Anziani, donne e uomini, hanno con sé

chiqaru utjantapxi/ il cibo dei morti

jayp’u chiqa thayaru kuttata. per il lungo viaggio.

Awkilinaka / chachanaka ukatxa Con piccole barche attraversano

warminakawa il lago della morte per giungere al tempo

luqtasiwinakapa manq’anakapxa eterno

qalltaru puriñataki apapxi. dei Padri,

Yampunamawa Jiwaña Qutxa il tempo siderale che ruota in modo

makhatapxi circolare.

llamp’u pacha awkinaka thiyaru/ wiñaya


pacharu sarañataki
t’uyuki muyuskiri warawara pachawa
phiriruki muyuski.
(Wari nayra, 1999)

899
Ayala, Muyu Pacha... cit., pp. 40-41.

346
347
Hernán Huarache Mamani el curandero del espíritu femenino

Según una antigua profecía andina, llegará el día en que el espíritu femenino se despertará de un gran
letargo y luchará para eliminar el odio y la destrucción en la tierra y dar inicio a un mundo de paz,
hermandad y armonía900.

Estamos al inicio de un nuevo milenio de oro, en el cual las mujeres se empeñaran para crear una nueva
sociedad; por esto es necesario empezar a mejorar la escuela, la información escrita y oral para despertar al
ser humano adormecido. Hombres, mujeres deben trabajar en esta dirección si quieren participar en esta
grande aventura humana901.

Hernán Huarache Mamani, anche lui peruviano, però quechua902, è una figura che può essere
confusa con le tante emerse in seguito alla propagazione, a partire dagli USA, degli ideali e
soprattutto degli obiettivi commerciali correlati alla cosiddetta e già trattata New Age.
In realtà, per quanto sia vero che la sua popolarità sia maggiore all'estero più che in patria
proprio grazie alla valorizzazione promozionale che ha ricevuto da parte di case editrici
statunitensi legate alla New Age, nonché sull'onda del successo editoriale di libri quali The
Return of the Inka: A Journey of Initiation and INKA Prophecies for 2012 903 della psicologa
newyorkese trapiantata in California Elizabeth B. Jenkins, fondatrice e direttrice della
Wiraqocha Foundation for the Preservation of Indigenous Wisdom 904, è altrettanto vero che la
produzione letteraria di Hernán Huarache Mamani affonda le sue radici nella tradizione andina
dei curanderos, i guaritori indigeni come è stato suo padre e come è diventato lui dopo aver
intrapreso una carriera invece aliena rispetto alla tradizione indigena – laureatosi in Economia
presso l'Università di Arequipa, ha lavorato per anni presso il ministero dell'agricoltura

900
http://www.hhmamani.com/es/?p=80.
901
http://www.hhmamani.com/es/.
902
È nato a Chivay, a 3635 m sulle Ande della regione di Arequipa, nel 1943.
903
Inizialmente questo libro fu pubblicato nel 1997 per i tipi di G.P. Putnam's Sons con il titolo Initiation: A
Woman's Spiritual Adventure in the Heart of the Andes, ma già nelle edizioni successive ha cambiato il proprio
titolo nella forma citata, quella più diffusa anche nelle traduzioni in altre lingue, come in italiano: Il ritorno
dell'Inka, trad. Alessandra De Vizzi, Sonzogno, Milano 1997.
904
Cfr. http://www.thefourthlevel.org/, in cui si legge, tra l'altro, che “The Wiraqocha Foundation is a nonprofit
educational and service organization established in 1996 for the preservation and promulgation of indigenous
wisdom and knowledge systems”.

348
peruviano –, sinché, colpito da una grave malattia, è stato guarito dai rimedi naturali e
tradizionali del padre.
Questa sua esperienza gli ha ispirato tra l'altro la trama di uno dei suoi libri, La
inmortalidad perdida (2006)905, nel quale appunto si racconta la storia di Javier, uomo di
successo e di importanti aspirazioni bruscamente interrotte da un grave incidente. Javier è
dichiarato incurabile dalla medicina convenzionale, ma lui non è disposto ad arrendersi e,
rivoltosi a una curandera, è indirizzato a Wiñay Marka, la città degli immortali, dove esiste una
fonte di salute e di vita. Si tratta di un viaggio pericoloso e difficile, nelle viscere della terra, in
cui deve affrontare le sue paure, lunghi silenzi, la stanchezza, la fatica e la lotta per la
sopravvivenza. Un viaggio nel buio della terra e nel confronto con sé stesso, il cui fine non è solo
guarire, ma trovare la luce che può illuminare l'esistenza di tutti e instaurare un mondo di pace e
di armonia, grazie all'energia dell'elemento femminile.
Una trama quindi che richiama a opere – e miti – del passato, quali Lost Horizon (1933) di
James Hilton, il romanzo che ha lanciato il mito di Shangri-La 906 anche grazie all'omonimo film
che ne ha tratto Frank Capra (1937), ma anche il già citato, e più prossimo, Paititi di Blas Valera,
inoltre non se ne può ignorare una lettura psicoanalitica che rimanderebbe al viaggio
nell'inconscio di Freud e Jung, così come ai viaggi nell'Ade di Odisseo e Enea.
A partire dalla sua guarigione, comunque, cioè dalla metà degli anni '80 circa, Hernán
Huarache Mamani ha cominciato a pubblicare libri che hanno svelato al mondo appunto gli
insegnamenti antichi dei curanderos indigeni peruviani, non limitandosi a questo, in quanto via
via, nelle sue pubblicazioni, ha sempre più lanciato una filosofia che, come il citato Sumak
Kawsay, proviene dalla tradizione andina e promuove il ritorno alla valorizzazione del
femminile, come nell'opera descritta, in quanto unico modo di salvare la Terra e l'umanità dal
disastro della cultura dominante di matrice occidentale.
Questo scopo, quindi, inquadra Hernán Huarache Mamani nel citato renacimiento
indígena, ma anche nei progetti finalizzati a una nueva civilización per il mondo intero a partire

905
Tradotto in italiano per i tipi di Piemme da Silvia Sichel con il titolo La donna della luce (2007).
906
Tale mito, com'è noto, ha incarnato l'onda orientalista che soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali è
stata ispirata anche dalla volontà di ricerca nelle culture orientali di un'oasi di pace e armonia rispetto
all'aggressività imperialista della cultura occidentale, che aveva prodotto i recenti orrori della I guerra mondiale e
si preparava a produrre quelli della II guerra mondiale. Cfr., tra la poderosa bibliografia, Georges Dreyfus, “Are
We Prisoners of Shangrila? Orientalism, Nationalism, and the Study of Tibet”, Journal of the International
Association of Tibetan Studies 1 (2005), pp. 1-21, in cui l'autore discute il mito in questione sulla scorta della
rivisitazione dell'orientalismo operata dal citato Edward Said.

349
dal modello latinoamericano come quello promosso da Mario Campaña e dagli altri intellettuali
mestizo-criollos di Nuevas Cartas, con la differenza non sottile che quest'ultimo si propone come
un melting pot del “meglio” della cultura occidentale e di tutte le altre che hanno contribuito alla
formazione dell'America Latina, mentre l'ideologia promossa da Hernán Huarache Mamani è di
origine assolutamente indigena, sia pure con qualche adattamento e personalizzazione, pertanto è
in perfetta sintonia con gli ideali dei movimenti indigeni e con il Pachakuti sopra descritto e
citato da Ayala nell'intervista riportata.
L'aspetto sicuramente più interessante della rivalorizzazione della tradizione andina
promossa dalle opere di Hernán Huarache Mamani è la sua insistenza nell'individuare nel ritorno
all'elemento femminile in quanto ispiratore di una cultura di pace e armonia il fattore sociologico
che possa salvare il mondo.
Si tratta del leitmotiv delle sue opere, tra cui, solo per citarne alcune, quella citata supra,
ma anche già Pachamama te habla (1998)907, in cui tra l'altro un capitolo è dedicato al Pachakuti,
Kantu, el poder de la mujer (2000)908, La mujer de la cola de plata (2004)909, nonché Inkariy,
2012 – 2013. Al umbral de una nueva era - Novela espiritual (2011)910, dove pure sono
protagonisti il mito già citato di Inkarrí e il culto del Sole proprio delle tre grandi civiltà
precolombiane, Aztechi, Maya e Inca, laddove comunque il femminile resta il “genere primo”911.
Si può dire pertanto che Hernán Huarache Mamani sia in sintonia per esempio con Carl
Gustav Jung (1875-1961), che raccomandava una particolare attenzione all'anima, dei singoli
come della collettività912, ma anche ad altri pensatori tra cui i già citati Sara Morace 913 e Gabriele
La Porta914, con la peculiarità che lui sta promuovendo il femminile rivalorizzando la tradizione
indigena andina, per secoli soffocata dalla colonizzazione e dal genocidio culturale da essa
provocato.
907
Tradotto in italiano per i tipi di Piemme da Daniela Cohen con il titolo Negli occhi dello sciamano. Sul sentiero
sacro degli inca (1999).
908
Tradotto in italiano per i tipi di Piemme da Barbara Cavallaro con il titolo La profezia della curandera (2001).
909
Tradotto in italiano per i tipi di Mondadori da Laura Maria Bianco e Simona Parise con il titolo La donna dalla
coda d'argento (2005).
910
Tradotto in italiano per i tipi di Piemme da Anna Montanari con il titolo Inkariy. La profezia del Sole (2011).
911
Cfr. infra.
912
Cfr. Carl Gustav Jung, L'uomo e i suoi simboli, trad. Roberto Tettucci, Editori Associati, Milano 1991 [Man and
his Symbols, Aldus Books Limited, London 1967], passim.
913
Cfr. cap. II.
914
Nel cap. I ho citato in nota Il ritorno della Grande Madre. Il magico, anima segreta e femminile della Storia, di
quest'autore.

350
Sul suo sito915 Hernán Huarache Mamani riporta le seguenti parole:

Soy escritor por obligación y escribo para las personas que quieren crear un futuro más humano
despertando su espiritualidad. La palabra escrita va dirigida cuando tengo la necesidad de
señalar algo que puede ser mejorado en cada ser humano que desea cambiar su vida.
Me han dicho que soy feminista, tal vez lo sea porque provengo de una cultura que da mucha
importancia a la mujer. Nosotros, los andinos, somos pacifistas y no queremos hacer de la
guerra o violencia un culto. No nos gusta la injusticia. Las mujeres sabias que he conocido han
enriquecido mi vida haciéndome ver con su ejemplo el amor, la comprensión, la compasión y la
fe en la vida. Finalmente, admiro mucho a las mujeres porque tienen paciencia y mucho amor
por los hijos, sus parejas, la humanidad; y ven el futuro con optimismo.

Tanta propensione per il femminile gli ha attirato giustamente le attenzioni dei movimenti
femministi, per cui è stato spesso intervistato con il fine di divulgare il suo pensiero.
Lo ha fatto per esempio Laura Dotti per la rivista Geniodonna916. L'articolo che ne è stato
tratto porta il titolo e il sottotitolo significativi: “Pachamama, madre cosmica è all’origine
dell’esistere. Intervista al prof. Hernán Mamani sostenitore e divulgatore della cultura Inca
orientata ai valori femminili tendenti alla pace e al benessere”.
La prima domanda va subito al punto:

La cultura andina è molto orientata al femminile: è da qui che lei prende le mosse per
approfondire la conoscenza dell’universo femminile che è capace di condurre la società
verso la pace e il benessere?
Oggi nella società e nella cultura prevale l’elemento maschile con le sue caratteristiche
individualistiche, dominanti, materialistiche e consumistiche. Per questo mi occupo di
diffondere il sapere femminile. L’importanza del femminile è stata affermata dagli andini sin
dai tempi antichi. La divinità principale della cultura andina è la Pachamama, che significa
Madre cosmica. È il femminile che dà l’inizio a tutto, alla vita stessa: l’uomo, fuor di metafora,
mette solo il seme, gli bastano pochi minuti per farlo, ma la donna ha davanti a sé 400 mila
minuti per creare la vita. Ecco perché Dio è femminile e non maschile. Secondo un’antica
leggenda andina il primo essere umano era donna, da lei si generò la parte maschile che era
piccolissima, l’esatto contrario della storia biblica di Adamo ed Eva.

915
http://www.hhmamani.com/es/?page_id=64 .
916
19/20 (2011), pp. 40-41.

351
Nell’antico governo Inca, circa 6/7 secoli fa, l’educazione delle donne veniva dispensata
all’interno di un’istituzione – l’Akjllawasi, che significa “la scuola delle prescelte” – una élite
le Mamakuna, donne con grande potere negli occhi, nella voce, nel corpo, in grado di irradiare
luce e armonia portando beneficio alle persone a loro vicine. Queste sagge erano una parte
attiva, nobile e creativa della società Inca. A quel tempo le donne vivevano in autonomia
economica, libertà sessuale, praticavano la medicina, l’agricoltura, modellavano vasellame e
oggetti di uso religioso, si sposavano e avevano figli.

L'ultima domanda inquadra il progetto e scopo di Hernán Huarache Mamani:

Lei parla di “necessità di una nuova educazione”. Com’è possibile ricostruire superando
gli atteggiamenti materialistici, di individualismo, di egoismo?
L’educazione deve puntare più sulle donne che sugli uomini. Anche lo Stato deve capire
l’importanza sempre più urgente di investire sulla donna. C’è bisogno di un’istituzione
educativa che risponda maggiormente alle necessità e agli interessi della donna che deve
ricevere un’educazione più aggiornata alla vita, fatta dalle donne e per le donne, proprio
com’era nell’Akllawasi.

Un'altra intervista, condotta da Alessandra Ciarletti per l'Università degli Studi Roma
Tre917, è stata incentrata, oltre che sul femminile, anche sulla preservazione dell'ambiente, altro
ruolo che, come abbiamo già ampiamente visto, è attribuito agli indigeni e alle loro culture:

In questo numero parliamo di ambiente. Il complesso rapporto tra l’uomo e la natura è


molto cambiato negli ultimi secoli. Nelle società industriali il rapporto con la natura è
valutato in base al costo e al profitto. Cosa si è perso e quali saranno secondo lei le
conseguenze?
Innanzitutto va detto che in quest’ultimo secolo si è sfruttato troppo le risorse naturali e che
avremo seri problemi per il futuro. Prima di arrivare al problema dell’inquinamento dovremo
affrontare il problema delle risorse, dal momento che quest’ultime risultano già oggi
insufficienti al sostentamento della crescente popolazione mondiale. Dovremo affrontare un
problema di natura economica e sociale. D’altronde da decenni assistiamo alla migrazione più o
meno pacifica di popoli poveri verso le zone economicamente più sviluppate e naturalmente
questa migrazione può comportare uno sbilanciamento planetario. Dal punto di vista pratico
917
“La Pachamama te habla. Intervista a Hernán Huarache Mamani”, Università degli Studi Roma Tre, 11/12/2011
(http://www.hhmamani.com/wp-content/uploads/2014/11/Dicembre-2011-La-Pachamama-te-habla-di-
Alessandra-Ciarletti-per-Roma-Tre.pdf).

352
bisognerebbe cominciare a pensare a un nuovo sistema educativo, che tragga forza da nuovi
valori sociali, che tenga conto dell’ambiente del rispetto del territorio, del contributo degli
animali. La nuova educazione dovrebbe insegnare all’uomo come utilizzare saggiamente tutte
le risorse del pianeta in modo responsabile e razionale.
In molte tradizioni/cosmogonie orali ma non solo, la Natura, la Terra è chiamata madre.
Sono tradizioni locali, spesso considerate pagane, che testimoniano tuttavia una radice
forte, una necessità dell’uomo di vivere in sintonia con la natura. Qual è la differenza
sostanziale tra una società che vive in armonia con l’ambiente e una società che sfrutta
l’ambiente?
In questa società, considerate erroneamente primitive, c’è un bilancio ecologico tale che le
persone ricevono da madre natura una parte del dono, restituendone altrettanto; sono società
che per esempio riciclano tutto. Il problema dell’inquinamento si riflette non solo nell’aria, ma
anche nell’acqua, due elementi che già da soli possono incidere sulla produzione agricola:
potrebbe voler dire meno cibo per tutti. Quindi quando parliamo di inquinamento dovremmo
innanzitutto capire che parliamo di una cosa molto seria con effetti immediati sul sistema
mondo. E poi bisogna pensare al domani, al mondo che lasciamo ai nostri figli. Basta lo
spostamento di un corso d’acqua verso un altro versante perché cambi un ecosistema [...]. Ecco,
le cultura antiche avevano ben presente questo aspetto, erano consapevoli del valore intrinseco
dell’ambiente e questo valore si riscontra ancora oggi nelle società la cui economia è a base
agricola […].

353
354
Rayen Kvyeh e Elicura Chihuailaf: la evolución de la poesía mapuche

Antiguamente, / este era un solo territorio. / Hoy...


los winka918 nos han aislado / piantando pinos
DE SUS OJOS LLUEVEN SOLEDADES.

Rayen Kvyeh, da Oscuridad de agua919

Ñi chaw iñchiw wvnmakeyu nvtramkam mew / pvkoto nefiyu ti pulko weñagkvn ka pewmagen / trvrvm pelu /
Mvley che ñi noytual feyti rimv nome lafken / mapu mew tuwlu?, pienew / feyti pu lewfv pvchikonwey /
witrunkvle chi kimvn / ka wiñvm tuygvn ti nvkvfkvlechi mawizantu / Iñchin rakizwamiyiñ taiñ fotvmmu, peñi /
ka feyti kamollfvñmapu mew / Newentun zuguyu, welu ti pu gvrv / wirarkvlen katrv rupay taiñ lelfvn mew // Ni
chaw iñchiw, fvchalewiyu / fewla azkintuwi ta ragi kvlleñumu.
Mi padre y yo solemos charlar hasta la madrugada / bebiendo el vino de la pena y la esperanza / ¿Alguien
puede evitar el otoño del oeste? / me dice / los ríos van perdiendo su profundidad / el caudal de la sabiduría /
y comienzan a añorar el silencio / de sus bosques / Nosotros pensamos en el hijo, el hermano / aún en el exilio
/ Hablamos de luchar, mientras los zorros / cruzan gritando nuestros campos // Mi padre y yo, envejecidos /
ahora nos miramos entre lágrimas.

Elicura Chihuailaf, Mawizantu ñi ñvkvf nagvn / El silencio de los bosques

918
Lo straniero, l’europeo invasore, il cileno non mapuche, in lingua mapuzugun. Si scrive anche huinca, wingka e
wigka, quest'ultima forma nell'alfabeto cosiddetto Ranguileo, che i movimenti politico-culturali mapuche
considerano quello ufficiale per trascrivere la lingua mapuzugun. Pare che detta parola significasse propriamente
“nuovo Inca”, in riferimento al fatto che i conquistadores, agli occhi dei Mapuche, incarnavano un nuovo
tentativo di invasione del loro territorio dopo quelli operati da parte degli Inca. Ma tale termine, per una concreta
analogia e un'etimologia omofona, significa anche ladri, in particolare di bestiame. Cfr. Redazione Fiestoforo,
Vocabulario Mapuche-Wingka: Wingka, 2010 (http://fiestoforo.blogspot.it/2010/05/vocabulario-mapuche-
wingka.html); José Millalén, Pablo Marimán, Rodrigo Levil, Sergio Caniuqueo, ¡Escucha, winka! Cuatro
ensayos de Historia Nacional Mapuche y un epílogo sobre el futuro, Lom Ediciones, Santiago de Chile 2006,
passim.
919
Dall'antologia Luna de cenizas (2011).

355
Rayen920 Kvyeh, cioè Flor de Luna in lingua mapuzugun, nome d'arte e di battaglia che lei stessa
si è data a sostituire quello con cui è registrata all'anagrafe, Rosa Zurita, è attiva sulla scena
culturale cilena e internazionale e come attivista politica dagli anni '70. Nata a Huequén, frazione
di Angol, nella regione dell'Araucanía, nel Cile centromeridionale, ha raccontato a proposito del
suo nome che:

La gente mayor cuenta, que en la escuela se les prohibía hablar el mapuzugun (lengua de la
tierra) en los recreos. Que los profesores, cuando los escuchaban, les castigaban y les hacían
arrodillarse, con las rodillas desnudas, sobre piedrecilla, hasta que sangraban. Esto sucedía en
las escuelas rurales, donde la mayoría eran niños mapuche. Esto me llevó a tomar mi nombre,
como una bandera de lucha y recibí y recibo muchas bofetadas políticas e intelectuales 921.

Elicura Chihuailaf Nahuelpán, di professione medico, è nato nel 1952 a Quechurehue o


Quechurewe, frazione di Cunco, nella provincia di Cautín, sempre nella regione dell'Araucanía,
ma un po' più a sudest rispetto ai luoghi natii di Rayen Kvyeh. Il suo nome è quello originale,
comunque ha un significato in mapuzugun: “Pietra trasparente” il suo nome, “Nebbia distesa su
un lago”, il cognome922.
La nazione mapuche è stata tra le nazioni indigene del Nuovo Mondo che più hanno
resistito – e continuano a resistere – all'invasore europeo, lo winka.
Si può dire che la conquista del loro territorio sia durata dalla già citata guerra de Arauco
in cui si distinse il celebre conquistador Pedro de Valdivia (1497-1553) e che fu cantata nel
poema epico La Araucana (1569) dell'altro conquistador e poeta Alonso de Ercilla y Zúñiga

920
Questo nome lo ha portato anche Rayen Quitral, ossia Flor de fuego, alias María Georgina Quitral Espinoza
(1916-1979), celebre soprano cilena di etnia mapuche operante tra gli anni '30 e '60 del secolo scorso. Cfr.
Redazione Ópera siempre, Rayén Quitral, La flor de fuego, 2010 (http://www.operasiempre.es/2010/04/rayen-
quitral-la-flor-de-fuego/comment-page-1/). Oggi, in Cile, un'altra cantante di etnia mapuche, Susana Angélica
Sáez, che canta in spagnolo e in mapuzugun, sta ottenendo un notevole successo. Cfr. Gonzalo Manquepillán O.,
“El Canto Mapuche de Susana Angélica que ha impresionado a un país”, Müpülem Mañke, 20/7/2012
(http://mvpvlen-manke.blogspot.it/2012/07/el-canto-mapuche-de-susana-angelica-que.html).
921
Redazione Luna en Menguante... apta para jardinear, “«Rayen Kvyeh - Flor de Luna», poetisa mapuche”,
28/3/2008 (https://etelesetel.wordpress.com/2008/03/28/rayen-kvyeh-flor-de-luna-poetisa-mapuche/). Cfr. il cap.
II a proposito delle repressioni violente subite nelle scuole dai bambini indigeni parlanti in madre lingua.
922
Cfr. Yanko González Canga, Héroes civiles y santos laicos. Palabra y periferia: trece entrevistas a escritores del
sur de Chile, Ediciones Barba de Palo, Valdivia 1999 (“Elicura Chihuailaf: los chilenos son como niños mal
criados”, http://web.uchile.cl/publicaciones/cyber/15/vida1c.html).

356
(1533-1594)923, fino alle campagne militari finalizzate allo sterminio operate dai governi
argentino e cileno nella seconda metà dell''800 e nel primo scorcio del '900, a cui si è accennato
nel cap. I, laddove, come detto, focolai di resistenza sono rimasti vivi fino ad oggi924.
Durante la dittatura di Pinochet, in particolare, i Mapuche hanno difeso strenuamente l'uso
della loro lingua e la preservazione della loro cultura, nonché naturalmente delle loro terre,
subendo pesanti repressioni.
La stessa Rayen Kvyeh ha sofferto il carcere e la tortura, quindi l'esilio, tra il 1981 e il
1989, perlopiù a Cuba, dove ha studiato presso la UNEAC 925, in Nicaragua, nonché in Germania,
dove ha fatto rappresentare alcune sue pièce teatrali926.
E la sua sofferenza, ma anche la sua tenace volontà di resistenza e di lotta, le ha espresse in
modo molto efficace nelle sue opere, soprattutto quelle in lingua spagnola, “per non sporcare la
propria lingua madre con questa materia dolorosa”927.
Tra i versi che ha scritto e declamato nella lingua degli winka, a liberare dal profondo la
sofferenza provata e a manifestare l'inesauribile resilienza, per esempio quelli che ricordano la
sua esperienza nel carcere femminile di Concepción, nella regione del Bío Bío, e la tortura subita
tra le sue mura in Luna de cenizas, lirica che dà il titolo alla raccolta citata:

Mis ojos cegados por negra venda


el aire cortado en un metro cuadrado
amarrado el torturado silencio
entre cables, golpes y sangre.

Se extravía mi razón

923
Nel 1971 ne è stato tratto un film di produzione cilena ma di ambiziose prospettive internazionali, diretto da Julio
Coll, citato nel cap. I.
924
La bibliografia è vastissima, mi limito a citare lo scrittore e libraio genovese Claudio Ceotto e il suo recente libro
Mapuche. Un popolo invisibile, SentieroEstremo, YocanprintSelf-Publishing, Tricase (LE) 2012, relazione di un
viaggio in Patagonia dell'autore.
925
Unión de Escritores y Artistas de Cuba (http://www.uneac.org.cu/). Cfr. Mario Casasús, “Entrevista con la
escritora Rayen Kvyeh. El derecho de ser mapuche contra la usurpación de nuestro territorio”, El Clarín de Chile
12/1/2008 (http://www.rebelion.org/noticia.php?id=61689).
926
Cfr. Antonio Melis, “Il canto epico-lirico di Rayen”, introduzione a Rayen Kvyeh, Luna dei primi germogli, a c.
Antonio Melis, Gorée, Siena 2006, p. XIII.
927
Antonio Melis, “La luna dolente e amica di Rayen Kvyeh”, introduzione a Rayen Kvyeh, Luna di cenere, a c.
Antonio Melis, Gorée, Siena 2009, p. X.

357
en interminables laberintos
de cruda realidad y negra fantasía.

Sudando frio, temblando rabia


mi piel apretada a su escuá1ido esqueleto
va abandonando la vida
en una lenta agonía.

Me llaman mis hijos


entre voces de kulxug928 y guitarra.
Mis ojos se inundan
bajando en raudales
mi cuerpo se limpia y baña de calor
mis entumecidos pensamientos.

Pasito a pasito
mis vendados ojos
caminan los senderos
de mi tierra.

Junto al telar
la abuela choclos desgrana,
te besa el pewen929,
recoges piñones,
sudando en el horno
amarras tus lágrimas
por las militarizadas calles
de la sitiada ciudad.

Un bosque de ternuras
se anuda en mi vientre
dando vida
a un embrión rebelde.

928
Tamburo tipico dei rituali sciamanici mapuche.
929
L'albero del pewen o araucaria è tipico della regione mapuche ed è considerato sacro dai nativi.

358
E, se in Luna de cenizas è protagonista questo embrión rebelde930, nella sua raccolta di
poesie precedente, in mapuzugun, Wvne Coyvn Ñi Kvyeh (Luna dei primi germogli), che ha
inaugurato nel 2006 la collana bilingue di poesia indigena “Le voci della terra” della casa
editrice Gorée, curata da Antonio Melis, non manca l'espressione della “capacità di resistenza”
rilevata dallo stesso Melis931, ma spicca il “canto epico-lirico” il cui “riferimento costante è alla
Mapu Ñuke, la Madre Terra dalla quale il popolo trae la sua forza”932.
Come nella prima lirica della raccolta, appunto dedicata alla Mapu Ñuke:

Mapu ñuke, mapu ñuke Madre terra, madre terra


tami rewkvleci jawe con il tuo ventre ondulato
coyvmkey kom puh ka kom antv generi ogni notte e ogni giorno
fvxa kuifi kakerume fvh, diversi semi millenari,
wefkey bewfv reke appaiono fiumi

930
Il suo attivismo politico non si limita alla difesa della propria cultura e del proprio popolo mapuche, ma
s'inquadra nella lotta anti-sistema internazionale, come attesta, per esempio, la lettera di solidarietà che nel 2012
ha inviato, in qualità di presidente del Colectivo de poetas y artistas mapuche Mapu Ñuke a Luca Abbà, il
giovane No Tav che il 27 febbraio 2012, in Val Clarea, è caduto da un traliccio di 10 metri di altezza fulminato,
ed è vivo per miracolo dopo dieci giorni di coma e 109 di ospedale. Cfr. Redazione culmine.noblogs.org, “La
poetessa mapuche Rayen Kvyeh saluta Luca Abbà e le compagne e i compagni NO TAV”, 9/3/2012
(http://culmine.noblogs.org/2012/03/09/it-es-la-poetessa-mapuche-rayen-kvyeh-per-luca-abba-e-le-compagne-e-
i-compagni-no-tav/); Cosimo Caridi, “No Tav, Luca Abbà torna a manifestare contro l’alta velocità”, Il Fatto
Quotidiano 29/9/2012 (http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/09/29/luca-abba-torna-manifestare-contro-lalta-
velocita/206007/).
931
Melis, “La luna dolente e amica di Rayen Kvyeh” cit., p. X.
932
Melis, “Il canto epico-lirico di Rayen” cit., pp. XIII-XIV.

359
ka dewkey pehoykvleci xayen, e si formano cascate vorticose
alofkvleci wagvben keciley, mucchi di stelle luminose
dewmalekenmu, coyvlekenmu sbocciano
fij kuyfike kakerumeci folil. numerose radici millenarie.

Mapu ñuke, mapu ñuke Madre terra, madre terra


mi pu pvxa jeqkey pu mapuce, le tue viscere mapuche generano
amuleci hegvmvwvnmu in movimento continuo
naqvn antv mew ka pu liwen. di tramonti e di albe.

Lelfvn mew ka mawida mew, In pianure e montagne


xiwe, peweh ka foye tronco sacro, araucaria e canelo
leliwvlnieygvn kajifvwenu, innalzano il loro giovane
wixapvray tami pu toki il loro toki933 eretto
solo per proteggerti e liberarti

933
Titolo conferito al condottiero scelto per guidare i guerrieri in battaglia.

360
mi kisu gvnewam ka mi rumekagenuam accarezzarti e amarti
ka tami poyeatew ka ayvatew madre terra934.
mapu ñuke.

Nella scrittura di Elicura Chihuailaf, invece, prevalgono le impressioni d'infanzia,


dominata dalla cosmovisione agreste mapuche tipica dell'area in cui è nato e vissuto nella prima
fase della sua vita, descritta in particolare nel libro Recado confidencial a los chilenos (1999)935,
nel quale racconta come abbia imparato intorno al fuoco l'arte di raccontare (nütram in

934
Rayen Kvyeh, Luna dei primi germogli cit., pp. 2-3.
935
LOM Ediciones, Santiago de Chile. Cfr. Cristian Warken, “Entrevista a Elicura Chihuailaf”, Una Belleza Nueva
29/4/2003 (http://www.unabellezanueva.org/wp-content/uploads/documentos/entrevista-elicura-chihuailaf.pdf),
in cui il poeta racconta: “Claro, fueron mis abuelos, fueron mis padres, mis tíos, mis tías. Porque bueno, yo nací
y crecí en una comunidad al suroriente de Temuco, a 75 kilómetros, a la que he regresado. Y bueno, vivíamos a
orillas del fogón, donde se desarrollaba nuestra vida, en una ruca grande. Por la noche nos trasladábamos a
una casa de madera azul. Y allí, entonces, ellos cantaban, contaban sus epeus, sus coneus, sus gnolam, sus
relatos, sus cuentos, sus adivinanzas, sus consejos. Y algo muy importante, que vuelve otra vez a la ternura y al
sentido de libertad, que esta conversación se podía asumir tendido en el suelo, en la posición que más le
acomodaba a cada uno, para estar en disposición de máxima posibilidad de escuchar. Y a la vez, había otra
enseñanza que yo he deducido en el tiempo, y que es cuando ellos hacían este ejercicio con la palabra, este bello
ejercicio con la palabra, a la vez la que contaba daba vuelta el pan en el rescoldo, arreglaba el fuego, o
interrumpía el relato para traer el agua o cortar un palo [...]”.

361
mapuzugun) e il rispetto per i consigli degli anziani (ngülam), a derivarne il ruolo di oralitor,
come si è definito, cioè narratore che riproduce nei suoi scritti i paesaggi australi e l'immaginario
mapuche tradizionalmente propri dell'oralità936.
Va detto, al riguardo, che:

De gran importancia para el desarrollo de la literatura mapuche han sido los talleres
organizados para autores mapuche-hablantes con el fin de fomentar la escritura en
mapudungun. Conocidos son los realizados por el Instituto Lingüístico de Verano en convenio
con la Universidad de la Frontera, Temuco, que han tenido como resultado la escritura y la
publicación de diversos textos bilingües en 1983 y 1984937.

Il primo studioso cileno che si è occupato di questo fenomeno con profondità è stato Iván
Carrasco Muñoz938, che nel 1990 ha pubblicato l'articolo “Etnoliteratura mapuche y literatura
chilena: relaciones”939.

En el artículo referido, el investigador describe lógicamente la evolución de la literatura


mapuche sobre el trasfondo de dos sociedades en contacto y en relación con la literatura en
lengua española. Como resultado de la interacción cultural, la tradición etnoliteraria mapuche
con sus manifestaciones de carácter oral – el canto y el relato – ha experimentado un proceso
rápido de literarización, que ha llevado a una literatura mapuche propiamente tal con géneros
nuevos. Uno de éstos es el poema escrito [...].
Carrasco divide su ‘teoría de la evolución’ en tres etapas bien descritas, a saber ‘la oralidad
absoluta’, ‘la oralidad inscrita’ y ‘la escritura propia’.

936
Cfr. Carmen Gloria Godoy R., “En el bosque de la memoria: Identidad mapuche y escritura en dos obras de
Elicura Chihuailaf”, Estudios Atacameños 26 (2003), p. 86; Daniela Fuentes Díaz, Cuando la resistencia se da
desde las letras La reapropiación de la oralidad mapuche en Recado confidencial a los chilenos, de Elicura
Chihuailaf, Universidad de Chile, Santiago de Chile 2011, passim.
937
J. Anita Moens, La poesía mapuche: expresiones de identidad, Universidad de Utrecht, 1999, p. 41.
938
Docente di Canonizaciones e identidades en la literatura chilena e Literatura antropológica en Chile presso
l'Universidad Austral de Chile.
939
Actas de la Lengua y Literatura Mapuche 4 (1990), pp. 19-27. Cfr. Moens, op. cit., p. 36. E cfr. Iván Carrasco
Muñoz, “Poesía mapuche etnocultural”, Anales de Literatura Chilena 1 (2000), pp. 195-214, in cui lo stesso
Carrasco fa il punto della situazione da lui studiata 10 anni prima e inizia il suo articolo nel modo seguente:
“Seguramente por un hábito de comodidad etnocentrista, los cantos de los pueblos indígenas se han asimilado a
los géneros de lo que en Europa se ha llamado «poesía» en los últimos siglos [...]”.

362
El poeta Elicura Chihuailaf aduce el término ‘oralitura’, porque es de la opinión de que la
literatura mapuche actualmente se mueve entre la oralidad y la escritura: “[V]a en una y otra
dirección sin contraponerse,” dice el poeta, “la segunda [i.e. la escritura] como registro y
creación que, a su vez, trata de recrear la oralidad”940.

Onde diffondere questa nuova forma di poesia mapuche, tra l'oralità e la scrittura, Elicura
Chihuailaf ha contribuito all'organizzazione, nel 1994 a Temuco 941, del congresso “Zugutrawvn,
reunión en la palabra. Primer encuentro de poetas chilenos y mapuches”, seguito in breve da un
analogo incontro a Santiago942. Nello stesso anno gli è stato riconosciuto il suo primo premio
importante, del Consejo Nacional del Libro y la Lectura, per la sua raccolta autoedita bilingue
De sueños azules y contrasueños, che l'anno successivo fu ripubblicata dalla Editorial
Universitaria a Santiago943.
Sempre con lo scopo di diffondere e valorizzare la poesia mapuche, integrandola nella
cultura cilena, ma anche come forma di resistenza culturale nei confronti della cultura
dominante944, ha curato varie antologie e ha tradotto in mapuzugun Pablo Neruda945 e il celebre
cantautore e attivista politico vittima della dittatura Víctor Jara946. Ha inoltre diretto la rivista
bilingue Kallfvpllv-Espíritu Azul.
In un'intervista947, alla domanda:

El asumir el hecho de ser poeta ¿es una prolongación de la naturaleza poética de tu


pueblo o, tal vez, es el mapuche aucan (rebelde) que esgrime la poesía para hacerle frente
al devenir de la historia?

Ha risposto così:
940
Moens, op. cit., p. 42, che cita a sua volta lo stesso Elicura Chihuailaf, “Mongeley mapu ñi püllü chew ñi
llewmuyiñ”, Simpson Siete 2 (1992), p. 129.
941
Non a caso a Temuco, la capitale dell'Araucanía, che Carrasco ha definito “símbolo de la interculturalidad” e “el
espacio del mestizaje y de la mezcla de culturas”. In “Poesía mapuche etnocultural” cit., p. 208.
942
Moens, op. cit., p. 64 e passim.
943
Una terza edizione è stata pubblicata a Madrid da Huerga y Fierro Editores nel 2002.
944
Cfr. Mario Casasús, “Elicura Chihuailaf: «La Ley Antiterrorista prejuzga a nuestra comunidad mapuche»”, El
Clarín de Chile 28/2/2009 (http://www.elclarin.cl/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=15309).
945
Todos los cantos / Ti kom vi, illustrazioni Santos Chávez, Pehuén, Santiago de Chile 1997.
946
Canto libre / Lliz vlkantun, LOM Ediciones, Santiago de Chile 2007.
947
Ricardo Gómez López, “Elicura Chihuailaf: El Azul en la poesía”, Rayentru 8 (1995;
http://rayentruvirtual.es.tl/Elicura-Chihuailaf.htm).

363
No sé si lo primero, pero no lo segundo, al menos como un hecho conciente. Creo que es algo
mucho más ¿simple? Intentaré responderte con una mínima claridad.
En Italia, gracias a una invitación del grupo Lo Spartivento 948 de Bolonia – encabezado por el
poeta Gabriele Milli –, pude conocer buena parte del territorio de ese hermoso país, y pude
comprobar que en la actualidad se sigue cantando y escribiendo mucha poesía; en Holanda hay
muy buenos poetas, sobre todo algunos de origen rural como Bert Schierbeek 949; también hay
muchos chilenos que escriben y cantan su poesía. La poesía de mis antepasados era cantada950,
modalidad que se sigue utilizando hasta hoy en convivencia con la “experimentación” de la
escritura. Con esto te quiero decir – y no es, desde luego, nada nuevo – que la poesía es
inherente a la humanidad, lo mejor de su naturaleza. La que sí es cierto es que mi gente – sobre
todo en el campo – sigue haciendo uso de un lenguaje poético en lo cotidiano y en la
solemnidad de sus rituales, cuestión que se ha perdido en los pueblos que se han sumido en la
fría competencia y en la burocracia de los aparatajes tecnológicos.
La conocida rebeldía de mi gente surge del atropello que significó la invasión. Con mi padre
pensamos que tal vez nuestros antepasados en medio del combate gritaban ¡awka! ¡awkan! de
allí que tal vez los “conquistadores” dijeran: son aukan, pluralizando luego en “aucanos” para
terminar castellanizando en “araucanos”. Luego viene la ocupación militar de nuestro territorio
a finales del siglo pasado, con ella los asesinatos, las desapariciones, la tortura, la usurpación de
nuestras tierras, el establecimiento de las “reducciones”. Pero seguimos librando pequeñas
batallas. Así podríamos hoy decir que nuestra gente es mapuche y araucana: Gente de la tierra y
rebeldes.
Poco han cambiado las cosas, aún a finales del siglo veinte. Contra todo cálculo de los
estrategas del Estado chileno – empeñados en blanquear el país, del que primero nos obligaron
“administrativamente”, a formar parte –, el pueblo mapuche sigue existiendo, y recreando su
cultura que ya no puede ser mitificada, ni ocultada. Yo pertenezco a ese pueblo: soy mapuche,
también mi mujer y mis hijas. El que – al igual que otras hermanas y otros hermanos – me
asuma como poeta y como mapuche es quizás un hecho que la historia esgrimirá para la poesía
de nuestras futuras generaciones.

In conformità alla tradizione del suo popolo, la cui poesia era cantata, come racconta lui
stesso, ha curato personalmente la versione musicale di vari suoi poemi, tra cui Bío-Bío, sueño

948
La rivista letteraria bolognese Lo Spartivento fu fondata appunto da Gabriele Milli nel 1984. A partire dal 1990
ha pubblicato anche la piccola collana Quaderni de Lo Spartivento.
949
Bert Schierbeek (1918-1996) è stato un importante scrittore e poeta olandese.
950
Il sottolineato è mia iniziativa, come nei casi successivi.

364
azul, tra i più importanti e famosi, in collaborazione con il gruppo Illapu 951, nonché Cantos
ceremoniales para aprendíz de Machi952 e Suite pewenche953 con il compositore cileno Eduardo
Cáceres.
Il testo di Bío Bío, sueño azul, accompagnato dalla musica di Roberto Márquez, è il
seguente:

La luna es el ave que va alumbrando mis palabras,


su canto, memoria del sol sobre mis aguas.
¿De dónde, si no, el brillo de mis peces?
¿De dónde el verde de mis araucarias?

Esta es mi madre tierra. De todos mis antepasados.


¿Se quedará sin sombra el valle en que florece
el pensamiento, el aire que sembramos?
Somos danza de amor cuando amanece.

Bío Bío, sueño azul de mis antiguos.


y soy quien viene a tocar
tu corazón, a ver si crece
la lucha total a nuestros enemigos.

Elel mu kechi malall! Kalli amulepe ñi ko!


Elel mu kechi malall! Wiño petu ñi kuyfimogen!
Feypi willi kürüf ñi püllü mogeley ta ti,
ñchiñ ñi kom pu che, ñi pu wenüy, mülfen ñi mogen.

[¡Represas no! ¡Que mis raudales sigan!


¡Represas no!, ¡Que vuelva la libertad florida!
Así dice el espíritu del viento sur que no perece,
pues son mi gente, mis amigos, el rocío de la vida].

951
Nell'album Morena Esperanza (1998). Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=1VWjbqVf3Q8. Anche il
cantante Luchín Salinas ha reso omaggio a questo poema nel suo recentissimo album Norte claro, sur oscuro.
Cfr. https://cdocumentacioncnca.wordpress.com/2014/09/17/disco-de-la-semana-norte-claro-sur-oscuro-luchin-
salinas/.
952
Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=0urZ0jk2j1o.
953
Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=WyZP25mxOZA.

365
Que mis raudales sigan, que vuelva en flor la vida, libre,
espíritu del viento, aliento de llovizna
que solo bese el lecho de mis piedras,
yo no seré laguna de tristeza.

Il titulo si riferisce al fiume Bío Bío, che per secoli ha rappresentato la frontiera nord dei
territori Mapuche dopo la conquista spagnola. Sino alla guerra di sterminio condotta dal governo
cileno tra fine '800 e inizio '900 a cui si è già accennato, questi territori a sud del Bío Bío hanno
rappresentato l'archetipo del mondo selvaggio in contrasto alla “civiltà” nell'immaginario
letterario cileno e argentino, come il Far West per gli USA954. E ovviamente questo archetipo ha
ispirato tanta letteratura, per esempio il mito, molto concreto invero, della cautiva, la donna
bianca catturata dai salvajes, rivisto anche in chiave magico-realista da parte dello scrittore
argentino César Aira in Ema, la cautiva (1978)955.
Il sueño azul, invece, è l'aspirazione a recuperare il mondo degli antenati956.
Racconta957 Elicura Chihuailaf che:

[…] el epeu 958de origen, el relato de origen de nosotros. Muy brevemente, porque es un relato
extenso y muy importante en nuestra cultura. Ese relato dice que el primer espíritu Mapuche

954
Nel film cileno del 1991 La frontera, diretto da Ricardo Larrain, il sud del Cile, già territorio dei Mapuche, è terra
di deportazione dei dissidenti della dittatura di Pinochet, a significare quanto nell'immaginario cileno questo
territorio sia ancora oggi considerato estremo e marginale.
955
Cfr. Mariana Pensa, “Ema, la cautiva de César Aira: la tradición y su superación”, Delaware Review of Latin
American Studies 5, 2 (2004; http://www.udel.edu/LASP/Vol5-2Pensa.html); Cristina “Iglesia, “La mujer
cautiva: cuerpo, mito y frontera””, in Georges Duby, Michelle Perrot (a c.), Historia de las mujeres, III, Taurus,
Madrid 1992, pp. 557-569; Stefania Trujillo, La donna bianca prigioniera degli indigeni nella letteratura
argentina dell’Ottocento e Novecento, Università degli Studi di Verona, 2010; Morino, Le Americane, cit., pp. 43
segg.
956
Cfr. Antonio Avaria, “El idealismo mágico de un poeta mapuche y chileno”, El Mercurio 21/9/1996, p. 2; Paula
Chiguay Carrillanca, El retorno al azul y el mapuche urbano: dos identidades mapuche desde la poesía,
Universidad de Magallanes, Punta Arenas 2012; Fernando Villagrán, “La mapuchidad según Elicura Chihuailaf”,
Revista Paula 1120 (2013; http://www.paula.cl/entrevista/la-mapuchidad-segun-elicura-chihuailaf/); Elicura
Chihuailaf, Relato de mi Sueño Azul, Pehuén, Santiago de Chile 2010.
957
Warken, “Entrevista... cit.
958
Curioso come il termine mapuzugun, epeu, che si può tradurre come “poema epico”, “epoepa”, abbia una
fonetica molto simile a quella del termine greco antico con lo stesso significato: ἔπος.

366
vino desde el azul. Pero no de cualquier azul, sino del azul del Oriente. Entonces, como la vida,
dicen, es un círculo, nosotros somos habitados por un espíritu azul, porque en esa época no
había nada que pitara azul, entonces, nos decían: El azul existe en el espíritu y en el corazón de
cada uno de nosotros.

La poesia di Elicura Chihuailaf, pertanto, è senz'altro tra le più rappresentative di tutta la


vitalissima poesia mapuche contemporanea959, che si nutre di “recuerdo, búsqueda y
reactualización de la memoria de los ancestros” e de “la utopía o mito moderno del Estado
Mapuche”960.
Era stato profetico Pablo Neruda, allorché nel III canto, dedicato a Los Conquistadores, del
suo già citato Canto General, aveva dedicato il XX poema alla Araucanía in quanto matrice
della patria cilena:

SE UNEN LA TIERRA Y EL HOMBRE

ARAUCANÍA, ramo de robles torrenciales,


oh Patria despiadada, amada oscura,
solitaria en tu reino lluvioso:
eras sólo gargantas minerales,
manos de frío, puños
acostumbrados a cortar peñascos:
eras, Patria, la paz de la dureza
y tus hombres eran rumor,
áspera aparición, viento bravío.

No tuvieron mis padres araucanos


cimeras de plumaje luminoso,
no descansaron en flores nupciales,
no hilaron oro para el sacerdote:
eran piedra y árbol, raíces

959
Naturalmente Rayen Kvyeh e Elicura Chihuailaf non sono gli unici nomi della poesia e in genere della letteratura
mapuche contemporanee, ma solo quelli da me soggettivamente selezionati, a cui si possono aggiungere anche
almeno quelli di Leonel Lienlaf, Jaime Huenún, Bernardo Colipán, Adriana Pinda, Sebastián Queupul
Quintremil, Lorenzo Aillapan e Jaqueline Caniguán, tra gli altri.
960
Hugo Carrasco Muñoz, “Rasgos identitarios de la poesía mapuche actual discurso de la identidad”, Revista
Chilena de Literatura 61 (2002), p. 110.

367
de los breñales sacudidos,
hojas con forma de lanza,
cabezas de metal guerrero.

Padres, apenas levantasteis


el oído al galope, apenas en la cima
de los montes, cruzó el rayo
de Araucanía.
Se hicieron sombra los padres de piedra,
se anudaron al bosque, a las tinieblas
naturales, se hicieron luz de hielo,
asperezas de tierras y de espinas,
y así esperaron en las profundidades
de la soledad indomable:
uno era un árbol rojo que miraba,
otro un fragmento de metal que oía,
otro una ráfaga de viento y taladro,
otro tenía el color del sendero.
Patria, nave de nieve,
follaje endurecido:
allí naciste, cuando el hombre tuyo
pidió a la tierra su estandarte
y cuando tierra y aire y piedra y lluvia,
hoja, raíz, perfume, aullido,
cubrieron como un manto al hijo,
lo amaron o lo defendieron.
Así nació la patria unánime:
la unidad antes del combate.

Ma voglio concludere questa parte del presente studio, citando un altro significativo e bel
poema bilingue di Elicura Chihuailaf, tratto dalla raccolta De sueños azules y contrasueños
(1995), Ini Rume Ñamvm Noel Chi Llafe / La llave que nadie ha perdido:

Feyti vlkantun che mu rume La poesía no sirve para nada


kvmelay, pigeken me dicen

368
Ka fey ti mawizantu ayiwigvn Y en el bosque los árboles
ti pu aliwen se acarician
ñi kallfv folil mu egvn con sus raíces azules
ka ñi chagvll negvmi ti kvrvf y agitan sus ramas al aire
chalilerpuy vñvm egu saludando con pájaros
ti Pvnon Choyke961 la Cruz del Sur
La poesía es el hondo susurro
Feyti vlkantun alvkonchi wirarvn de los asesinados
feyti pu lalu el rumor de hojas en el otoño
kiñe pin ti tapvl rimv mew la tristeza por el muchacho
feyti weñagkvn feyti wecheche que conserva la lengua
ñi petu zugu ñi kewvn pero ha perdido el alma
welu ñami ñi pvllv La poesía, la poesía
Feyti vlkantun, ti vlkantun fey es un gesto, un sueño, el paisaje
kiñe pewma feyti afvl chi mapu tus ojos y mis ojos muchacha
tami ge ka iñche ñi ge, vlcha oídos corazón, la misma música
allkvfe piwke, ka feychi Y no digo más, porque nadie
vl zugulvn encontrará
Ka zoy pilayan, ini rume penolu la llave que nadie ha perdido
ti llafe ini rume ñamvn nolu Y poesía es el canto de mis
Ka vlkantun fey ñi vl tañi Antepasados
pu Kuyfikeche el día de invierno que arde
pukem antv mu vy lu ka chonglu y apaga
feyta chi kisu zwam weñagkvn. esta melancolía tan personal.

La poesía sirve.

961
In mapuzugun la costellazione della Croce del Sud si chiama propriamente Pvnon Choyke, che letteralmente vuol
dire Rastro del Avestruz, cioè Traccia dello Struzzo.

369
370
Mujeres indias in Ecuador: da Mama Dolores Cacuango e Mama Tránsito
Amagüaña a María Clara Sharupi Jua

Ima shina inti tayta tukuy warmikunata, jarikunata kunukyan, / shinallatak yachaika, wakchakunata,
charikkunata, / mishukunata, llankakkunata yachachinami kan
Así como el sol alumbra igualito a todos, hombres / o mujeres; así la educación debe alumbrar a todos / sean
ricos o pobres, amos o peones

Dolores Cacuango962

No nos querían, no nos querían gente, tenían miedo, miedo al comunista. “Es con cachos, es con rabo... el
comunista a la misma hermana hace parir”. Eso decían.

Tránsito Amaguaña963

winia enenteir-yajá kampuntinnium enenteimiawai / chinchip nakutan, awankeas pujurainianash / chikichik


pipíi aínia nankiniam tseas-sha nakurawai / warínsha juyur nékachmin najantainmaya natém-jai / chicham
aujmatma najánatinsha / unt unuimiatai jea / nuyá warámtiktai / unuimiarush / timiatrusar najánatin aújmatma /
iwiakmari imiátkin akinia nui.
Pienso en mi selva amada / en bejucos columpiándose de un árbol a otro / una gota de curare refrescándose /
en la punta de una lanza / poseídos por el polvo mágico de la ayahuasca / creando un tema central / con
actualidad universitaria, / entretenimiento, / los profesionales / investigan la tencnociencia / donde nace el
artífice de la vida

María Clara Sharupi Jua964

In Ecuador, anzi in tutta l'area tra le Ande e l'Amazzonia, come visto, la resistenza
indigena è stata da sempre molto viva965.
Nel contesto di questa lotta un ruolo significativo l'hanno interpretato le donne, non solo
figure di spicco come le citate Micaela Bastidas, Bartolina Sisa e Kurusa Yawri – e, se vogliamo
includere la donna mestiza, anche Manuela Sáenz, non a caso oggetto di studio da parte di José

962
Citata da Ariruma Kowii, El sueño de Dolores Cacuango, Ministerio de Educación del Ecuador, Quito 2007, p. 3.
963
Mercedes Prieto, Marieta Cárdenas,“Yo me envejecido en esta lucha...”, in Marta Bulnes (a c.), Me levanto y
digo. Testimonio de tres mujeres quichuas, El Conejo, Quito 1994, p. 36.
964
Dal poema Llegó utopía, in “María Clara Sharupi”, Prometeo. Revista Latinoamericana de Poesía 91-92 (2012;
http://www.festivaldepoesiademedellin.org/es/Revista/ultimas_ediciones/91-92/sharupi.html).
965
Cfr. Kowii, El sueño...cit., p. 7.

371
Luis Ayala –, ma anche le semplici campesinas analfabete però detentrici della tradizione orale
che è sopravvissuta di generazione in generazione nonostante le repressioni e le forme di
acculturazione che per giunta sono state caratterizzate dal maschilismo della cultura patriarcale
ispanica, in netto contrasto con il matrismo966 tradizionale indigeno della Pacha Mama che figure
come Hernán Huarache Mamani stanno rivalutando, come visto.
Mama Dolores Cacuango (1881-1971) e Mama Tránsito Amagüaña (1909-2009), pur
partendo da un'origine umile di campesinas967 della Sierra – sono nate entrambe a Pesillo, una
hacienda di proprietà dei frati mercedari della provincia di Cayambe tra Quito e Otavalo, non
troppo lontano, quindi, dai luoghi natii dei citati Jacinto Collahuazo e Ariruma Kowii – sono
state le precorritrici dell'attivismo politico andino che rivendicava i diritti degli indigeni e dei
campesinos in genere, nonché delle donne e delle donne indigene in particolare, fatto che le
annovera anche tra le iniziatrici del femminismo in Ecuador968.
Ariruma Kowii, nel testo citato dedicato a Dolores Cacuango969, racconta:

En la hacienda de su infancia tuvo la oportunidad de constatar que cada hacienda era un


pequeño Estado, porque en su interior la hacienda hacía las veces de gobierno, bajo cuyo
servicio estaba la Tenencia Política, que incluso tenía un espacio para el funcionamiento de sus
oficinas y la cárcel; tenía también una iglesia, para dar continuidad a la evangelización e
intimidación de la comunidad970, es decir, una estructura amparada por el Estado que servía
para hacer y deshacer con las personas. […] En la hacienda tuvo la oportunidad de vivir y
constatar el abuso, la explotación y la injusticia a la que eran sometidos sus padres, su
comunidad […]. Esta situación inspiró la lucha de Dolores Cacuango para reivindicar el rol de
la mujer indígena, valorar su herencia cultural, la solidaridad humana y organizativa e
interpelar al sistema opresor y excluyente, reivindicación que se caracteriza por ser orientada
con mucha dignidad y transparencia.

966
Il termine matrismo lo derivo dagli studi della citata Sara Morace, che lo distingue nettamente dal matriarcato, il
primo a indicare l'originale e genuina religiosità della Grande Madre delle più antiche comunità umane, il
secondo una forma di reazione delle donne nei confronti del patriarcato. Cfr. Morace, Origine donna... cit.
967
Per la precisione le loro famiglie di origine erano di gañanes, cioè veri e propri servi della gleba senza salario che
lavoravano negli huasipungos – cfr. il citato omonimo romanzo di Jorge Icaza – delle haciendas dei padroni in
cambio di scarsi beni di sussistenza, sorta di retaggio della mita citata nel cap. I. Cfr. Kowii, El sueño...cit., p. 5.
968
Cfr. Ana María Goetschel (a c.), Orígenes del feminismo en el Ecuador. Antología, Flacso-Ecuador, CONAMU,
MDMQ, UNIFEM, Quito 2006, pp. 189-218.
969
Kowii, El sueño...cit., pp. 5-6.
970
Cfr. il cap. II, allorché rilevo come Paulo de Carvalho-Neto, nel suo romanzo Mi tío Atahualpa, sia pure con la
sua ironia, attesti la stessa situazione.

372
Nel 1926 fu fondato il Partido Socialista del Ecuador, che più tardi sarebbe diventato il
Partido Comunista del Ecuador e che aveva già raccolto un significativo riscontro proprio nelle
haciendas della regione di Cayambe a partire dalle rivendicazioni dei campesinos indigeni come
Dolores Cacuango.
Racconta ancora Ariruma Kowii971:

En 1925 se produjo una “sublevación popular en Cayambe, en la cual se destacó el dirigente


Jesús Gualavasí. Se creó el sindicato campesino de Juan Montalvo 972. En esta misma región se
promovieron conflictos y huelgas en las haciendas de Pesillo, Moyurco y la Chimba, en las
cuales se formaron los sindicatos El Inca, Pan y Tierra, Tierra Libre, entre 1927 y 1930” [...].
En estas movilizaciones comenzó a evidenciarse el liderazgo de Dolores Cacuango, con un
discurso claro y de mucha energía. […] en esta experiencia, la presencia de líderes socialistas
contribuyó en el fortalecimiento del proceso organizativo de las comunidades de Cayambe [...].
Fruto de dicha unidad se produjo, a finales del año de 1930, en la presidencia de Isidro Ayora,
el levantamiento de Pesillo, que planteó como reivindicaciones los siguientes puntos:
• Cesar los maltratos.
• Suprimir el trabajo obligatorio de las mujeres.
• Suprimir las huasicamias y servicias para ayudantes y mayordomos.
• Suprimir los diezmos y primicias.
• Proveer de herramientas a los trabajadores.
• Rebajar el número de ovejas a cuenta del cuentayo.
• Incrementar el salario para el huasipunguero y peones libres.
• Asignar huasipungos a los apegados.
• Disminuir las jornadas destinadas a la hacienda.
[…] El levantamiento fue reprimido por órdenes del presidente Isidro Ayora, y los líderes
ueron perseguidos y ultrajados, las casas de los principales dirigentes, en un número de
cuarenta y seis, fueron destruidas pero la lucha siguió su curso, y luego de algunos meses dio
sus frutos y lograron que se reconocieran las siguientes reivindicaciones:
• Nuevos salarios, a cuarenta centavos (S/.0,40), el del peón suelto con derecho a tener
animales.
• A treinta centavos (S/.0,30), el jornal de los hombres, con derecho a huasipungo y a chucchir.
• Un pago de veinte centavos (S./.0,20) para las mujeres ordeñadoras.
971
El sueño...cit., pp. 8-9.
972
Chiamato così in omaggio al celebre scrittore di Ambato, citato nel cap. II, Juan María Montalvo Fiallos (1832-
1889), che si segnalò anche per il suo anticlericalismo e per l'opposizione ai dittatori Gabriel García Moreno e
Ignacio de Veintemilla.

373
En 1944, en la famosa revolución del 28 de mayo, conocida como la Gloriosa 973, Dolores
Cacuango comandó “un intento de asalto al cuartel La Remonta, de Cayambe. Centenares de
indios e indias de las comunidades de Cayambe rodearon el cuartel hasta entrada la noche para
presionar la caída de Arroyo del Río” […], esta acción no tuvo éxito, sin embargo,
simbólicamente fue importante en la motivación de la población.

Nello stesso anno, Dolores Cacuango contribuì all'istituzione della prima organizzazione
indigena dell'Ecuador, appoggiata dal PCE, la Federación Ecuatoriana de Indios (FEI), di cui lei
stessa fu la seconda segretaria generale, dopo il primo mandato del citato Jesús Gualavasi974.
Fu un periodo di intense lotte e di fervide collaborazioni con altre figure importanti della
storia delle rivendicazioni sociali e in particolare degli indigeni in Ecuador, soprattutto altre
donne straordinarie, come Nela Martínez Espinosa (1912-2004), scrittrice e dirigente comunista
e femminista, prima donna ecuatoriana a far parte del governo del Paese, nel 1944, prima a
riabilitare pubblicamente la memoria della citata Manuela Sáenz, anche lei tra le fondatrici della
FEI, morta nella Cuba castrista dove ha vissuto gran parte della sua vita dopo esservisi stabilita
in seguito alle persecuzioni nei confronti dei comunisti nel suo Paese d'origine durante gli anni
'60-'70975; Matilde Hidalgo de Prócel (1889-1974), femminista, scrittrice e medica, prima donna
973
Questa “rivoluzione” fu provocata dal governo troppo repressivo e dittatoriale del presidente Carlos Arroyo del
Río, reo tra l'altro di aver condotto il Paese alla rovinosa guerra del 1941 contro il Perù – a cui l'Ecuador dovette
cedere una buona fetta della sua parte di Amazzonia –, per cui si era inimicato anche i vertici delle Forze Armate.
In seguito fu eletto presidente, al suo secondo mandato, José María Velasco Ibarra, che nel 1946, tradita l'alleanza
con il PCE, mise quest'ultimo fuori legge con la conseguente incarcerazione e persecuzione di numerosi suoi
affiliati, compresi i leader indigeni.
974
Cfr. Kowii, El sueño...cit., pp. 10-11; Mónica Chuji, “Los medios de comunicación indígenas al servicio de los
derechos humanos y colectivos – el caso de Ecuador – ”, in Mikel Berraondo (a c.), Pueblos indígenas y
derechos humanos, Instituto de Derechos Humanos, Universidad de Deusto, Bilbao 2006, pp. 269, 274; Mercedes
Prieto, “Rosa Lema y la misión cultural ecuatoriana indígena a Estados Unidos: turismo, artesanías y desarrollo”,
in Carlos de la Torre, Mireya Salgado (a c.), Galo Plaza y su época, Flacso-Ecuador, Quito 2008, pp. 157, 174;
Xavier Albó, Movimientos y poder indígena en Bolivia, Ecuador y Perú, PNUD y CIPCA, La Paz 2008, pp. 121,
233; Luis Alberto Tuaza C., “Concepciones del Estado y demandas de las organizaciones campesinas e indígenas
(1940-1960)”, in Felipe Burbano de Lara (a c.), Transiciones y rupturas. El Ecuador en la segunda mitad del
siglo XX, Flacso-Ecuador, Quito 2010, p. 492.
975
Dopo il ritorno della democrazia ha comunque fatto spesso ritorno in Ecuador, perpetuando il suo attivismo
politico fino agli ultimi mesi di vita. Cfr. http://www.voltairenet.org/auteur120501.html?lang=es dove sono
pubblicati alcuni dei suoi ultimi significativi contributi: la Carta de Nela Martínez a Fidel Castro del 21/5/2003,
in cui difese la rivoluzione cubana: “La Independencia de Cuba es la esperanza de una humanidad que aspira a
tenerla”; la Carta de Nela Martínez a sus camaradas comunistas del 23/5/2001, il Manifiesto del Comite

374
ecuatoriana a conseguire il diploma delle Superiori, prima a laurearsi, in particolare in Medicina,
nel 1919, e a esercitare la professione di medica, a Quito nel 1921, e prima a votare, a Machala
nel 1924, non solo in Ecuador, ma in tutta l'America Latina, quindi prima donna a candidarsi
come parlamentare, nel 1941976; Luisa Gómez de la Torre (1887-1976), educatrice e femminista,
tra le fondatrici della Alianza Femenina Ecuatoriana nel 1938 assieme alle citate Matilde
Hidalgo de Prócel e Nela Martínez e altre 977, con la quale Dolores Cacuango, pur analfabeta, ha
fondato la prima scuola bilingue, spagnolo-quichua, in Ecuador nel 1946978.
E naturalmente la più giovane “compaesana”, ma attivissima fin dall'“adolescenza” 979,
Tránsito Amagüaña, anche lei tra i fondatori della FEI, anche lei attiva nel promuovere il
bilinguismo nelle scuole del Paese, tuttora tra i principali motivi di contesa tra il governo e i
movimenti indigeni.
È sicuramente molto utile riportare di seguito alcune delle frasi significative che hanno
lasciato in eredità spirituale e in quanto programma politico le due donne pioniere dell'attivismo
politico indigeno e femminista in Ecuador.
Mama Dolores Cacuango:

Ecuatoriano por la Paz y la Soberania (di cui lei è stata presidente) del 4/7/2001 e il discorso ¿Cómo es posible
cantar el Himno Nacional si asistimos impasibles a la entrega de nuestra independencia?, da lei pronunciato il
giorno della cerimonia ufficiale, a Quito, di riconoscimento della decorazione intitolata a Matilde Hidalgo de
Prócel, il 2/5/2003, in cui si scaglia contro l'ALCA e il Plan Colombia e contro la sottomissione all'impero USA
del governo ecuatoriano dell'epoca. Cfr. anche Kintto Lucas, Mujeres del Siglo XX, Abya Yala, Quito 1997, pp.
41-43.
976
Nel 2004 le è stato dedicato un bel film, Matilde, la dama del siglo, diretto da César Carmigniani e disponibile su
youtube in versione integrale (https://www.youtube.com/watch?v=pVuLPpmRYoo). Lo stesso Carmigniani ha
quindi lanciato nel 2014 una miniserie dal titolo La dama invencible, a commemorarne la memoria. Cfr.
Redazione El Universo, “Miniserie en honor de Matilde Hidalgo”, El Universo 2/2/2014
(http://www.eluniverso.com/vida-estilo/2014/02/02/nota/2120451/miniserie-honor-matilde-hidalgo); Alonso
Riofrio, “La Dama Invencible”, UTPL 6/10/2014 (http://www.utpl.edu.ec/comunicacion/la-dama-invencible/).
Cfr. Kim Clark, Gender, State, and Medicine in Highland Ecuador: Modernizing Women, Modernizing the State,
1895-1950, University of Pittsburgh Press, 2012, passim.
977
Cfr. Goetschel (a c.), Orígenes...cit., pp. 36, 181-184; Lucas, Mujeres...cit., pp. 43, 126.
978
Cfr. Tuaza C., “Concepciones...cit., p. 494; Clark, Gender,...cit., pp. 7, 31, 194. La frase di Dolores Cacuango
proposta in epigrafe è del resto molto significativa del suo pensiero riguardo all'istruzione.
979
Se di adolescenza si può parlare per una donna che ha cominciato a lavorare a 7 anni, si è sposata a 14 con un
uomo brutale e alcolizzato, da cui si è separata ben presto, ed è diventata madre a 15. E negli stessi mesi ha
inziato la sua carriera di attivista politica. Cfr. Raquel Rodas Morales, Tránsito Amagüaña. Su Testimonio,
Comisión Nacional Permanente de Conmemoraciones Cívicas, Quito 2007, passim.

375
Imapapash runakunara, mishukunara, yanakunara, paykunarami kan. Tukuilla mashikunami
kan. Kishpirik kausayta ñaupaman apankapak ñawi ñawi rikushpa makanakushkanchik, shuk
ñantatalla katishkanchik.
Primero el pueblo, primero los campesinos, los indios, los negros y mulatos. Todos son
compañeros. Por todos hemos luchado sin bajar la cabeza, siempre en el mismo camino 980.

Ñukanchik kinwa muyu lay kanchik, sapalla kashpapik, wayra karuman apankami,
tantanakushka shukkunawan hirkap, wayraka mana ima rurankachu, kuyuchinkami
manashitarichinkachu.
Nosotros somos como los granos de quinua, si estamos solos, el viento nos lleva lejos, pero si
estamos unidos en un costal, nada hace el viento, bamboleará, pero no nos hará caer 981.

Queremos que indias sepan de quién paren, para que nunca más sean violadas por tanto diablo
patrón, para que nunca más nazcan guaguas sin padre y sean hijos despreciados 982.

Cuando venían a querer coger, campesinos ca, comprendiendo, levantando con palos, de noche,
levantaban. Estando así mismo, bonita, ya llegaron los dolores, ahí mismo, más, más, más.
Después ca, ya vinieron con tropas de batallón de policía, entonces con eso para agarrar, para
coger. Pero no hicimos coger, no hicimos agarrar. Únicamente los empleados aconsejaban: -Ve,
Dolores, no te metás, no te metás, a vos ca, van a pelar viva, a vos ca, van a desollar viva, no te
metás en esa cosa. Pero yo casi siempre decía: -Entonces ca, por qué llevan todos los animales,
todo llevan, y no dejan descansar ni un día. Por qué. Más que haga lo que quiera yo ca, no he
de dejar. Yo he de ir a saber en Quito, porque en Quito hay sindicato grande de trabajadores 983.

La Ley de Reforma Agraria ha creado en nosotros grandes ilusiones. La entrega del huasipungo
que durante toda la vida hemos querido que sea propio, cuando se hizo realidad en el primer
momento fue de gran alegría.
Al principio estábamos contentos sabiendo que ya no podían amenazarnos con quitarnos cada
vez que querían que trabajemos más horas. Pero cuando pasó el tiempo vimos que no había
pasado nada.

980
Citata da Kowii, El sueño...cit., p. 10.
981
Ibid., p. 14.
982
Citata da Raquel Rodas Morales, Dolores Cacuango. Pionera en la lucha por los derechos indígenas, Comisión
Nacional Permanente de Conmemoraciones Cívicas, Quito 2007, p. 43.
983
Ibid., p. 45.

376
Por el contrario, estábamos más fregados que antes porque el patrón ya no nos tomaba en
cuenta para el trabajo y por lo mismo, no teníamos la semana de salario, no teníamos el suplido
y solamente teníamos que vivir del huasipungo y esto no alcanza para la familia 984.

Cuando nuestros hijos ya están grandes y se casan se quedan apegados al huasipungo de los
padres y la situación se vuelve más pobre, más miserable. Los niños no crecen pronto y son
muy flacos porque no hay que darles de comer. La mama no tiene leche en los pechos para
darles de mamar 985.

Esta es la vida, un día mil muriendo, mil naciendo, mil muriendo, mil renaciendo... 986

La Rodas ha concluso il suo saggio a lei dedicato con le seguenti parole:

A través del ejemplo vivo de Dolores se evidenciaba la riqueza genotípica que existía en las y
los indígenas. Siendo indígena, mujer, pobre y analfabeta, Dolores demostró poseer capacidad
intelectual, carisma y valores humanos por encima de todas las limitaciones impuestas. Ella no
representaba la excepción a la regla, era la expresión de la plenitud de las posibilidades
humanas impedidas de expresarse normalmente por la marginación social. Su profundo ideal
por recuperar el respeto para los indios, el reconocimiento de su dignidad, lo concretizó a partir
de ella misma, en la primera mitad del siglo pasado y abrió camino a otras posibilidades de
expresión y reivindicación987.

Mama Tránsito Amagüaña:

En ese tiempo de patrones no habia ninguna justicia... Esa vida, vida tan amarga, vida... tan
triste. A gusto de ellos bailaban sobre nosotros. Con todo perro venían, con escopetas, con
palos, con aziales. Iban matando mismo, regando la sangre iban. No es que así como ahora... 988

A mí me hicieron casar a los catorce años, mi mamá diciendo: que ha de venir compañía, que
esta ha de parir como otras, ha de parir de los patrones... Sí, los patrones abusaban, no
reparaban que era india, negra, doña, nada. Para no estar andando con guagua así me hicieron
984
Ibid., p. 89.
985
Ibid., p. 90.
986
Ibid., p. 91.
987
Ibid., p. 98.
988
Citata da Mercedes Prieto, Condicionamientos de la movilización campesina: el caso de las haciendas
Olmedo/Ecuador (1926-1948), Pontificia Universidad Catolica del Ecuador (PUCE), Quito 1978, p. 1.

377
casar pronto, pronto. Catorce años nomás me hicieron casar con hombre de veinticinco. Yo, yo
cuatro hijos varones nomás tuve, todos con marido propio. Yo no tengo ni de lagartijas, ni de
nubes, ni de viento, ni de nadie. Siguiendo juntas en esta lucha con mi mamá, marido tan fui
botando. Yo le boté, él me celaba, me celaba con los compañeros 989.

Hemos lidiado, hemos luchado, hemos dado la mano, hemos dado fuerza, hasta ahora, hasta
aquí...eso es compañera!990

Yo he estado seis meses en la escuela, yo entrando esos meses, a mí me ha maltratado el


escribiente. El me decía que le dé los buenos días, buenas tardes. Nosotros sabíamos decir:
”Bendito alabado amo, bendito alabado patronita”. Eso, no alcanzó a oír el escribiente ¿cómo
diablo sería? Ahí el diciendo “¡Maitac alabado guambra yumba!” y daba encima de caballo,
juetazo. Hacía llorar ver pegando. Saludo no ha de haber sabido oír. Así era la cosa, así hemos
sufrido, así hemos padecido991.

Yo he viajado y he caminado por todos los lugares, pero nunca he negociado con la sangre de
mis hermanos992.

Hanno scritto di lei:

Quienes la conocieron afirman que fue altiva, alegre, honesta, franca, dulce, explosiva, rebelde
y su voz sonaba siempre fuerte y segura993.

L'esempio di lotta politica che è stata al contempo espressione culturale di queste donne
indigene ha aperto una strada e ha ispirato altre donne indigene, e non solo indigene e non solo
quichua come loro.

989
Ibid., pp. 1-2.
990
Prieto, “Entrevista a Tránsito Amaguaña”,...cit., p. 204.
991
Prieto, Cárdenas,“Yo me envejecido en esta lucha...” cit., p. 32.
992
Citata da Elizabeth Rivera, Floresmilo Simbaña, “Rosa Elena Tránsito Amaguaña Alba, una revolucionaria. En
reconocimiento de sus 100 años de vida”, Revista Yachaykuna 11 (2009), p. 21.
993
Mailer Mattié, “Mujeres de Abya Yala: Mama Tránsito Amaguaña (1909-2009)”, CEPRID 2/3/2010
(http://www.nodo50.org/ceprid/spip.php?article751).

378
Ho scelto di segnalare, tra tutte, María Clara Sharupi Jua, di etnia shuar, dell'Amazzonia,
che scrive e declama sia in lengua shuar chicham994 sia in spagnolo995.
Originaria della provincia di Morona Santiago – dove ha vissuto l'infanzia nella foresta
amazzonica – e laureata in Gestión para el Desarrollo Local Sostenible presso la Universidad
Politécnica Salesiana (UPS) di Cuenca, ha pubblicato soprattutto in antologie derivate dalle sue
partecipazioni a vari incontri internazionali di poesia, quali il 22° e il 23° Festival Internacional
de Poesía de Medellín996, rispettivamente del 2012 e del 2013, quest'ultimo assieme a Ariruma
Kowii, nonché il VI Festival de Poesía Las Lenguas de América. Carlos Montemayor a Ciudad
de México nel 2014997. Nel 2011 aveva partecipato alla Feria del Libro de Quito e all'evento 100
mil poetas por el cambio en Ecuador998.
Attualmente vive a Quito, dove lavora presso la Dirección de Relaciones Vecinales y
Soberanías del Ministerio de Relaciones Exteriores y Movilidad Humana. Ha partecipato anche
alla I Cumbre Continental de Mujeres Indígenas de Abya Yala999, svoltasi a Puno nel 2009.
Si è battuta non solo per la sua gente, ma anche per i diritti dei Trabajadores Petroleros
del Distrito Amazónico, la maggior parte dei quali, peraltro, indigeni.
Ha detto1000:

La poesía oral se transformó en voces escrita 1001. Muy sigilosa y con cuidado estoy recabando
en el alma y memoria de los hombres y mujeres shuar mediante la poesía, en shuar chicham y
castellano para que el Ecuador, Latinoamérica y el mundo reconozcan que somos hermanos,
aun con nuestras diferencias.

E ha pubblicato il seguente molto significativo testo, Aporte de la mujer en el estado


pluricultural e intercultural1002:

994
Idioma parlato dal centro al sud dell'Amazzonia ecuatoriana, nelle provincie di Pastaza, Morona Santiago e
Zamora Chinchipe.
995
Le notizie biobibliografiche e i testi di questa poeta shuar le ho tratte dai vari siti internet citati di seguito.
996
Redazione Festival Internacional de Poesía de Medellín, “Como Nantar/ Namur (María Clara Sharupi, Ecuador,
Nación Shuar)”, 2012 (http://www.festivaldepoesiademedellin.org/es/Multimedia/sharupi.htm).
997
http://lenguasdeamerica.blogspot.mx/.
998
http://100milpoetasporelcambioecuador.blogspot.it/2011/09/embriagame-con-tus-besos.html .
999
http://movimientos.org/es/enlacei/iv-cumbre-indigena/show_text.php3%3Fkey%3D14473 .
1000
http://www.revistahogar.com/mujeres2014/2.html.
1001
Inevitabile e logico il raffronto con la poesia mapuche. Cfr. supra.

379
Las mujeres Shuar hemos contribuido a la Construcción del Estado Plurinacional e Intercultural
a lo largo de las luchas que los pueblos originarios han efectuado en el Ecuador, hace años era
imposible y utópico pensar que la mujer pueda expresar y escribir sus sentimientos y
emociones.
La globalización1003 es la realidad y no pretendemos luchar en contra de una fuerza tan
absorbente, sino es determinar cómo hacer llegar estas voces a los oídos de un público más
universal [...] a través del internet [...] y, a la vez, conservar las tradiciones y los rasgos únicos
de la cultura Shuar, compartir la riqueza originaria y compartir para que más personas lo
aprecien.
Acercarnos a la globalización, nos permite alimentarnos, integrarnos de manera más amplia y
maravillosa que podemos, escuchar y mirar la voz del mundo, no desde una posición de miedo,
sino desde la valentía y fuerza, la importancia de tomar las riendas, control de esas fuerzas para
las metas y objetivos, nuestra poesía crece y el verso con miradas distintas, expresando desde el
sentir tras las faldas de las altas montañas, hasta volar al corazón del arco iris, eterna y global
propio de la nación Shuar.
Las voces, un conjunto de vocales y abecedario hechas poesía, salen al aire y pueblan nuevas
vidas, tiene rostro de mujer, seguimos siendo actores de la oralidad y hemos tomado la posta en
la escritura1004, actores fundamentales de desarrollo, la poesía es una cultura que viaja con
destino, y origen, aportando de esta manera a la construcción de una nueva cultura, de
recuperación de lo que está olvidado y dormido, como una conquista más en los distintos
escenarios para que la sociedad ecuatoriana integre toda la riqueza espiritual, intelectual y
creadora de las mujeres1005. Somos miles de mujeres que callamos y hasta a veces cómplices
dormidas en el desierto del olvido, es por eso que nace la rebeldía de una voz oral que se
expresa en estas páginas1006. Las culturas de los pueblos ancestrales se expresa desde ellas y con
ellas, mientras muchas otras transitamos la construcción ciudadana y el servicio público con
sentido integral de Patria, fortalecidas con los espíritus tutelares de nuestras selvas y montañas,
de nuestros ríos y cascadas. Nuestras voces traen las de miles de seres humanos de los que
procedemos y a los que nos debemos. Pero nuestras voces traen también las voces de los
árboles milenarios, de las lianas y las flores de la selva, y el perfume . Son nuestras para su
supervivencia las voces de las aves, de las fieras y otros seres vivientes, incluyendo las voces
de las aguas y la tierra, de las que somos ancestrales cuidadora. A nuestras voces se incluyen
1002
Prometeo. Revista Latinoamericana de Poesía 90, 3/12/2011
(http://www.festivaldepoesiademedellin.org/es/Festival/22_Festival/Poetas/sharupi.html).
1003
Cfr. José Luis Ayala supra.
1004
Cfr. il concetto di oralitor che si è attribuito Elicura Chihuailaf.
1005
Cfr. Hernán Huarache Mamani supra.
1006
Il sottolienato è mia iniziativa, come nei casi successivi.

380
nuestras acciones constructivas, nuestros aportes muchas veces silenciosos, no proclamados a
los cuatro vientos por los medios convencionales de comunicación, al contrario son
reconocidas y proclamadas por los vientos de los pueblos y de las nacionalidades, para
impulsar el respeto a la vida , respeto a la naturaleza, la convivencia y el respeto entre mujeres
diversas es construir interculturalidad, resucitar los buenos sentimientos, para construir una
nueva cultura de paz y de amor mediante la lectura de la poesía. La poesía no conoce fronteras
ni banderas, es la manifestación inspirada de espíritus libres que interpretan el universo y los
seres que en él habitan, es así que los pueblos originarios que vivimos en contacto con la
naturaleza, allá en la selva, a las orillas de los ríos, tras las altas montañas cuando el ocaso
marca sus pasos vemos la expresión más genuina el paisaje, la belleza, la tristeza, la alegría, el
canto el amor invocando que regrese el ser amado o el hijo que salió de cacería, son los anent,
los nampet, los ujaj1007, son cantos que se expresa en las letras de los poetas y poetisas.
Diciembre 3, 2011.

Di seguito, a concludere, riporto alcuni dei suoi poemi:

Ankant pujústin jintia / Camino a la Libertad1008


Cierro mis ojos, mis dedos entrelazados
Imploro a mis manos no despegarse jamás de mi pecho
Miedo tengo de perder a mi amado corazón
Con su valiente armadura ha viajado por el cielo y el mar
Explorando un camino que me lleva hasta las más altas montañas,
Donde habita el arcoíris y las nubes blancas

Etsa1009 me indica el camino hacia la libertad,


Pinta de colores al tiempo que duerme sin reloj que marque las horas
He dado nombre a mi voz silenciada por años
Llega el viento, y con él las nubes me invitan a viajar

1007
Termini shuar a indicare canti sciamanici tradizionali.
1008
Poema presentato durante il 22º Festival Internacional de Poesía en Medellín (Colombia), 23-30/6/2012.
Pubblicato in NotiUPS 46 (2012), p. 10.
1009
Divinità shuar, riguardo a cui, ovviamente, esiste un'antica tradizione di leggende e miti. Cfr. Roger Ycaza,
“Leyendas Ecuatorianas: Etsa (Shuar)”, all.ec, 5/10/2012 (http://pachamama.all.ec/453.html); Brayan Velaña
Bayas, “Leyendas Amazónicas y música Shuar”, Cuentos y leyendas orientales, 3/6/2012
(http://cuentosyleyendasorientale.blogspot.it/2012/06/cuentos-y-leyendas-amazonicas.html).

381
Me toman en sus brazos y la noche me invita a caminar libre y desnuda.
Avergonzado está el miedo y
Sin huesos camina tembloroso y olvidado

Crucé la Amazonía hasta llegar al Atlántico


Sólo un sueño bordea y une el destino del hombre
Viajé con el pensamiento y el corazón
Acompañada por el espíritu del amor y la paz,
En un mundo nuevo que siempre soñé
Donde conviven insectos y humanos con paisajes verdes,
Ríos cristalinos bañando a las piedras milenarias

Y de pronto me abraza la neblina


Y juntos viajamos al corazón de la armonía
He implorado no quede mi cuerpo sin vida, en una vereda muerta.
Pálida y muda está una bandera ante la presencia de Iwia1010

Y el silencio es mi respuesta a la aceptación de mi libertad


No somos diferentes, somos iguales
Polvo de la misma tierra somos
No hay grandes, no hay pequeños
Porqué un pasaporte a la conquista de mis sueños,
No es necesaria una visa, tengo libre el espíritu al camino de Natem 1011.

Mariposita viajera1012
Despierto en tus alas
mariposita viajera
levanto el vuelo
anidando en cada parada,

1010
Nome shuar dell'entità demoniaca che in lingua tupí abbiamo visto che è chiamata Anhangá e Angué in lingua
guarani-kaiowá.
1011
Il natem è un rituale spirituale-terapeutico, in cui si assumono “piante magiche del potere” per prevenire e curare
malattie e malocchi “y que les permiten pasar de un plano cotidiano a un plano mágico-curativo”. Cfr. Patricio
Trujillo, “Shamanismo entre los Shuar”, Ecuador Terra Incognita 32 (2004;
http://www.terraecuador.net/revista_32/32_shamanismo_shuar.htm).
1012
Questo poema e i successivi li ho tratti da: Prometeo. Revista Latinoamericana de Poesía 91-92... cit.

382
soy oruga de paso
viento y arco iris llevo en mis sueños

Mariposita viajera
adoptas cuantos colores
pinta el verano
entras sin golpear
y si lista estuviera la chichita
enamorada te quedas allí

A veces te llaman bruja


y tu risa
ya no es de cuna,
qué me importa si fueras bruja
si en la ventana de mi alma
nace la fuente de la cascada sagrada
Mariposita viajera
con tu corazón abierto
iluminas a las estrellas del cielo
y tu sonrisa
cuesta menos que la corriente eléctrica
y da más luz
que la energía nuclear

Inspiración de la luna y la tierra


guardiana de los bosques
son tus alas, una lanza en tus manos
en el agua de la vida
navega sin temor
en cada aleteo
no te canses de volar.

Embriágame con tus besos


Embriágame con tus besos alma mía
besa mis labios

383
desenreda mis cabellos con tus dedos de seda
y descubre con tus manos, el anent de sekut1013

desata, el makich1014 de mis tobillos


el shakap1015 de mis caderas
desnuda estoy y espero por ti.

Habita mi casa
tómame, con la suavidad de tus letras
y quema mis miedos
con el fuego de tu piel

Recoge mis pasos


con los remos de tu balsa
acércate a las orillas de mi playa
es el puerto de naikim1016

Embriágame con tus besos


con la chicha masticada
y la saliva envenenada
con la sabia de Arutam1017

No te alejes vida mía


despertar quiero
en tus brazos de algodón
y sumergirme
en la profundidad de tu abismo
y quedar dormida,
en la piedra de tus ojos

Como puma herido


Un libro ardiendo en llamas
1013
Nome shuar della vaniglia.
1014
Sonagliera tipica shuar che portano alle caviglie le donne durante le danze rituali.
1015
Cintura tipica delle donne shuar.
1016
“Sabbia”, in shuar chicham.
1017
Nome shuar della divinità creatrice.

384
es triste como puma herido
anaconda sin piel
cielo sin nubes
río sin piedras y sin peces
árbol sin musgo.
Es cascada sin Arutam

Cuentan que un papel lo aguanta


todo quizá por ello el misterio abarca letras sin fin
pero es tan frágil al fuego
las llamas asesinan sus páginas
las letras son manojo de cenizas
el agua difunde las ideas y ondea en sus hojas
hasta volverlas truenos, relámpagos candentes

Que las palabras sigan vivas


las ideas no pernocten
las imágenes dancen al son de los tambores
la música sea sonidos sonoros que lleguen al corazón de Iwia

Evoco la memoria de mi Madre


pegada a un libro e hilando sus letras
queriendo interpretar colores y sabores
pienso en mi Padre
junto a la hoja de un cuaderno
tratando de esculpir formas esquivas
para enseñar a sus hijos a descubrir en cada letra
el cordón umbilical de la sabiduría ancestral.

Mi herencia para ti son las voces de la selva


y todas sus criaturas
que con infinita ternura
dan luz a la vida

Tomo un libro entre mis manos


siento el sabor de sus letras e invento palabras

385
para que se perpetúen
semillas para habitar en todos

386
387
Guatemala, terra del premio Nobel Rigoberta Menchú e di Humberto Ak'abal
poeta del Nahual

Rigoberta ha appreso la lingua dell'oppressore per rivoltarla contro di lui.

Elizabeth Burgos1018

K'o taq mul in b'alam, kinxak'in pa taq siwan, kinch'opin puwi' taq ri tanatik kinb'inib'ej, kinq'axaj juyub'.
Kinwil ri unimal ri kaj, ri uchowil, jela' che ri ja', ri uk'ux ri ulew. Kintzijon ruk' ri q'ij, kinetz'an ruk' ri ik',
kinb'oq' ch'umil kinnak' chuwij. Kinsilob'aj ri nuje', kinq'oyi' cho ri le'anik kinkosik', kinwesaj ri waq'.
Otras veces soy jaguar, / corro por barrancos, / salto sobre peñascos, / trepo montañas. / Miro más allá del
cielo, / más allá del agua, / más allá de la tierra. / Platico con el sol, / juego con la luna, / arranco estrellas / y
las pego a mi cuerpo. / Mientras muevo la cola, / me echo sobre el pasto / con la lengua de fuera.

Humberto Ak'abal, B'alam / Jaguar

Probabilmente, se le appena ricordate Mama Dolores Cacuango e Mama Tránsito Amagüaña


avessero avuto a disposizione una Elizabeth Burgos che le avesse fatte conoscere al mondo
intero, come ha fatto, nel 1985, con l'allora ventiseienne 1019 Rigoberta Menchú, quando ha
pubblicato per la prima volta Me llamo Rigoberta Menchú y así me nació la conciencia, il
premio Nobel lo avrebbero avuto anche loro. O forse no. Forse il Guatemala era al centro di certi
interessi internazionali più dell'Ecuador, allora. Non è questa la sede per indagare tale questione.
Invece pertiene al presente studio il fatto che, senza dubbio, questo libro e ancor più il
premio Nobel per la Pace che ha contribuito a far assegnare a Rigoberta Menchú nel 1992, ha
destato l'attenzione mondiale sulla questione indigena in America e ha aiutato i movimenti

1018
Da Introduzione a Elizabeth Burgos, Rigoberta Menchú, Mi chiamo Rigoberta Menchú, trad. Andra Lethen, Nota
critica di Alessandra Riccio, Giunti, Firenze-Milano 1987 [Me llamo Rigoberta Menchú y así me nació la
conciencia, Siglo XXI, Ciudad de México 1985 (una primissima edizione, invero, sarebbe stata pubblicata a La
Habana l'anno precedente da Casa de las Américas)], p. 10.
1019
La redazione del libro si è basata su 25 ore di registrazione dell'intervista durata 8 giorni e concessa da Rigoberta
Menchú a Elizabeth Burgos nel gennaio del 1982 a Parigi, dove la giovane donna guatemalteca di etnia maya
quiché (si scrive anche k´iché) formalmente si trovava in quanto rappresentante dei movimenti indigeni e
campesinos del suo paese, di fatto in esilio. Da tre anni appena Rigoberta Menchú aveva appreso lo spagnolo.
Cfr. ibid.; Alessandra Riccio, “Rigoberta Menchù una voce forte e chiara. Nota critica”, in Burgos, Menchú, Mi
chiamo cit., p. 4.

388
indigeni a rialzare la testa, anche a livello culturale, a realizzare il cosiddetto già citato
renacimiento indígena.
La motivazione ufficiale del premio Nobel a Rigoberta Menchú è stata la seguente:

The Nobel Peace Prize 1992 was awarded to Rigoberta Menchú Tum “in recognition of her
work for social justice and ethno-cultural reconciliation based on respect for the rights of
indigenous peoples”1020.

Se si pensa che la già ricordata, nel cap. I, Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni –
per cui si può dire che sia stato sancito il fatto che l'indigenismo dei non indigeni, in letteratura,
politica e/o in antropologia, si sia legittimamente trasformato nell'indigenismo inteso come
attivismo poltico e rinascimento culturale dei movimenti indigeni di tutto il mondo –, è stata
promulgata solo 15 anni dopo, si capisce sicuramente il valore di questo premio Nobel in quanto
momento precursore di questa nuova situazione.
Il discorso di Rigoberta Menchú in occasione della cerimonia per il Nobel del 10 dicembre
del 19921021 è stato molto significativo in tal senso:

[...]
Me llena de emoción y orgullo la distinción que se me hace al otorgarme el Premio Nobel de la
Paz 1992. Emoción personal y orgullo por mi Patria de cultura milenaria. Por los valores de la
comunidad del pueblo al que pertenezco, por el amor a mi tierra, a la madre naturaleza. Quien
entiende esta relación, respeta la vida y exalta la lucha que se hace por esos objetivos 1022.
Considero este Premio, no como un galardón hacia mí en lo personal, sino como u na de las
conquistas más grandes de la lucha por la paz, por los derechos humanos y por los derechos de
los pueblos indígenas, que a lo largo de estos 500 años han sido divididos y fragmentados y han
sufrido el genocidio, la represión y la discriminación.
Permítanme expresarles todo lo que para mí significa este Premio.
En mi opinión, el Premio Nobel nos convoca a actuar en función de lo que representa y en
función de su gran trascendencia mundial. Es, además de una inapreciable presea, un
instrumento de lucha por la paz, por la justicia, por los derechos de los que sufren las abismales
desigualdades económicas, sociales, culturales y políticas, propias del orden mundial en que

1020
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/1992/ .
1021
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/1992/tum-lecture-sp.html .
1022
Il sottolineato è mia inziativa, come nei casi successivi.

389
vivirnos, y cuya transformación en un nuevo mundo basado en los valores de la persona
humana, es la expectativa de la gran mayoría de seres que habitamos este planeta.
Este Premio Nobel significa un portaestandarte para proseguir con la denuncia de la vioiación
de los Derechos Humanos, que se cometen contra los pueblos en Guatemala, en América y en
el mundo, y para desempeñar un papel positivo en la tarea que más urge en mi país, que es el
logro de la paz con justicia social.
El Premio Nobel es un emblema de la Paz y del trabajo en la construcción de una verdadera
democracia. [...].
Sin duda alguna, constituye una señal de esperanza para las luchas de los pueblos indígenas en
todo el Continente.
También es un homenaje para los pueblos centroamericanos que aún buscan su estabilidad, la
conformación de su futuro y el sendero de su desarrollo e integración sobre la base de la
democracia civil y el respeto mutuo.
El significado que tiene este Premio Nobel lo demuestran los mensajes de felicitación que
llegaron de todas partes, desde jefes de Estado - casi todos los Presidentes de América - hasta
las Organizaciones Indígenas y de Derechos Humanos, de todas partes del mundo. De hecho,
ellos ven en este Premio Nobel no solamente un galardón y un reconocimiento a una persona,
sino un punto de partida de arduas luchas por el logro de esas reivindicaciones que están
todavía por cumplirse.
En contraste, paradójicamente, fue precisamente en mi país donde encontré de parte de algunos
las mayores objeciones, reservas e indiferencia respecto al otorgamiento del Nobel a esta india
quiché1023. Tal vez porque, en América, sea precisamente en Guatemala en donde la
discriminación hacia el indígena, hacia la mujer y la resistencia hacia los anhelos de justicia y
paz, se encuentran más arraigadas en ciertos sectores sociales y políticos.
[...]
Con profundo dolor, por una parte, pero con satisfacción por otra, hago del conocimiento de
ustedes, que temporalmente el Premio Nobel de la Paz 1992 tendrá que permanecer en la
Ciudad de México, en vigilia por la paz en Guatemala. Porque no hay condiciones políticas en
mi país que permitan avizorar una pronta y justa solución. La satisfacción y reconocimiento
provienen del hecho de que México1024, nuestro hermano país vecino, que tanto interés y
1023
Cfr. infra.
1024
Da notare come poco più di un anno dopo, il 1° gennaio del 1994, nello Stato messicano di Chiapas, proprio al
confine con il Guatemala, ha iniziato la sua traiettoria di movimento rivoluzionario l'Ejército Zapatista de
Liberación Nacional (EZLN), che pure ha conosciuto una lunga gestazione. Cfr. Subcomandante Insurgente
Moisés, “Palabras del EZLN en el 21 aniversario del inicio de la guerra contra el olvido”, Enlace Zapatista,
31/12/2014-1/1/2015 (http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2015/01/01/palabras-del-ezln-en-el-21-aniversario-del-
inicio-de-la-guerra-contra-el-olvido/).

390
esfuerzo ha puesto en las negociaciones que se realizan para lograr la paz y ha acogido a los
refugiados y exiliados guatemaltecos, nos ha otorgado un lugar en el Museo del Templo Mayor
(cuna de la memoria milenaria de los Aztecas) para que el Premio Nobel resida, en tanto se
crean las condiciones de paz y seguridad para ubicarlo en Guatemala, la tierra del Quetzal 1025.
Al valorar en todo lo que significa el otorgamiento del Premio Nobel, quiero decir algunas
palabras en representación de aquellos que no pueden hacer llegar su voz o son reprimidos por
expresarla en forma de opinión, de los marginados, de los discriminados, de los que viven en la
pobreza, en la miseria, víctimas de la represión y de la violación a los derechos humanos. Sin
embargo, ellos que han resistido por siglos, no han perdido la conciencia, la determinación, la
esperanza.
Permítanme, señoras y señores, decirles algunas palabras sobre mi país y la Civilización Maya.
Los Pueblos Mayas se desarrollaron geográficamente en una extensión de 300 mil kilómetros
cuadrados; ocuparon lugares en el Sur de México, Belice, Guatemala y partes de Honduras y El
Salvador; desarrollaron una civilización muy rica en los campos de la organización política, en
lo social y económico; fueron grandes científicos en lo concerniente a las matemáticas, la
astronomía, la agricultura, la arquitectura y la ingeniería; y grandes artistas en la escultura, la
pintura, el tejido y el tallado.
Los Mayas descubrieron la categoría matemática CERO, casi al mismo tiempo que ésta fue
descubierta en la India y después trasladada a los árabes. Sus previsiones astronómicas basadas
en cálculos matemáticos y observaciones científicas, son asombrosos todavía ahora. Elaboraron
un calendario más exacto que el Gregoriano, y en la medicina practicaron operaciones
quirúrgicas intracraneanas.
En uno de los libros Mayas que escaparon de la destrucción conquistadora, conocido como
Códice de Dresden, aparecen los resultados de la investigación acerca de los eclipses y contiene
una tabla de 69 fechas, en las cuales ocurren eclipses solares en un lapso de 33 años.
Es importante destacar hoy el respeto profundo de la civilización Maya hacia la vida y la
naturaleza en general.
¿Quién puede predecir qué otras grandes conquistas científicas y qué desarrollo habrían logrado
alcanzar esos pueblos, si no hubieran sido conquistados a sangre y fuego, objetos del etnocidio,
que alcanzó casi 50 millones de personas en 50 años?
Este Premio Nobel lo interpreto primero como un homenaje a los pueblos indígenas
sacrificados y desaparecidos por la aspiración de una vida más digna, justa, libre, de fraternidad
y comprensión entre los humanos. Los que ya no están vivos para albergar la esperanza de un

1025
Nome náhuatl di un volatile tipico della Mesoamerica, che è anche un simbolo sacro delle culture tradizionali
dell'area.

391
cambio de la situación de pobreza y marginación de los indígenas, relegados y desamparados
en Guatemala y en todo el continente americano.
Reconforta esta creciente atención, aunque llegue 500 años más tarde, hacia el sufrimiento, la
discriminación, la opresión y explotación que nuestros pueblos han sufrido, pero que gracias a
su propia cosmovisión y concepción de la vida han logrado resistir y finalmente ver con
perspectivas promisorias. Cómo, de aquellas raíces que se quisieron erradicar, germinan ahora
con pujanza, esperanzas y representaciones para el futuro.
Implica también una manifestación del progresivo interés y comprensión internacional por los
Derechos los Pueblos originarios, por el futuro de los más de 60 millones de indígenas que
habitan nuestra América y su fragor de protesta por los 500 años de opresión que han
soportado. Por el genocidio incomparable que han sufrido en toda esta época, del que otros
países y las élites en America se han favorecido y aprovechado.
¡Libertad para los indios donde quieran que estén en América y en el mundo, porque mientras
vivan vivirá un brillo de esperanza y un pensar original de la vida!
Las manifestaciones de júbilo de las Organizaciones Indígenas de todo el continente y las
congratulaciones mundiales recibidas por el otorgamiento del Premio Nobel de la Paz, expresan
claramente la trascendencia de esta decisión. Es el reconocimiento de una deuda de Europa
para con los pueblos indígenas americanos 1026; es un llamado a la conciencia de la Humanidad
para que se erradiquen las condiciones de marginación que los condenó al coloniaje y a la
explotación de los no indígenas; y es un clamor por la vida, la paz, la justicia, la igualdad y
hermandad entre los seres humanos.
La particularidad de la visión de los pueblos indígenas se manifiesta en las formas de
relacionarse. Primero, entre los seres humanos, de manera comunitaria. Segundo, con la tierra,
como nuestra madre, porque nos da la vida y no es sólo una mercancía. Tercero, con la
naturaleza; pues somos partes integrales de ella y no sus dueños 1027.
La madre tierra es para nosotros, no solamente fuente de riqueza económica que nos da el maíz,
que es nuestra vida, sino proporciona tantas cosas que ambicionan los privilegiados de hoy. La
tierra es raíz y fuente de nuestra cultura. Ella contiene nuestra memoria, ella acoge a nuestros
antepasados y requiere por lo tanto también que nosotros la honremos y le devolvamos con
ternura y respeto los bienes que nos brinda. Hay que cuidar y guardar la madre tierra para que

1026
Cfrl nel cap. I il testo di Guaicaipuro Cuautémoc, che, come rilevato, era stato pubblicato per la prima volta
anonimo da Luis Britto García il 18 ottobre del 1990, non tanto tempo prima del discorso di Rigoberta Menchú,
quindi.
1027
Si tratta chiaramente di concetti che abbiamo già incontrato nel presente studio, soprattutto negli autori indigeni
trattati, a dimostrazione di come siano molto radicati nelle loro culture, sopravvissuti nei secoli grazie all'oralità,
oggi finalmente anche oggetto di diffusione scritta e di discussioni accademiche e politiche.

392
nuestros hijos y nuestros nietos sigan percibiendo sus beneficios. Si el mundo no aprende ahora
a respetar la naturaleza ¿qué futuro tendrán las nuevas generaciones?
De estos rasgos fundamentales se derivan comportamientos, derechos y obligaciones en el
continente americano, tanto para los indígenas como para los no indígenas, sean estos mestizos,
negros, blancos o asiáticos. Toda la sociedad tiene la obligación de respetarse mutuamente, de
aprender los unos de los otros y de compartir las conquistas materiales y científicas, según su
propia conveniencia. Los indígenas jamás han tenido, ni tienen, el lugar que les corresponde en
los avances y los beneficios de la ciencia y la tecnología, no obstante que han sido base
importante de ellos.
Las civilizaciones indígenas y las civilizaciones europeas de haber tenido intercambios de
manera pacífica y armoniosa, sin que mediara la destrucción, explotación, discriminación y
miseria, seguramente habrían logrado una conjunción con mayores y más valiosas conquistas
para la Humanidad.
No debemos olvidar que cuando los europeos llegaron a América, florecían civilizaciones
pujantes. No se puede hablar de descubrimiento de América, porque se descubre lo que se
ignora o se encuentra oculto1028. Pero América y sus civilizaciones nativas se habían
descubierto a sí mismas mucho antes de la caída del Imperio Romano y del Medioevo europeo.
Los alcances de sus culturas forman parte del patrimonio de la Humanidad y siguen
asombrando a sus estudiosos.
Pienso que es necesario que los pueblos indígenas, de los que soy una de sus miembros, aporten
su ciencia y sus conocimientos al desarrollo de los humanos, porque tenemos enormes
potenciales para ello, intercalando nuestras herencias milenarias con los avances de la
civilización en Europa y otras regiones del mundo 1029.
Pero ese aporte, que nosotros emendemos como un rescate del patrimonio natural y cultural,
debe de ser en tanto que actores de una planificación racional y consensúal del usufructo de los
conocimientos y recursos naturales, con garantías de igualdad ante el Estado y la sociedad.
Los indígenas estamos dispuestos a combinar tradición con modernidad, pero no a cualquier
precio. No consentiremos que el futuro se nos plantee como posibles guardias de proyectos
etnoturísticos a escala continental.
En un momento de resonancia mundial en torno a la conmemoración del V Centenario de la
llegada de Cristóbal Colón a tierras americanas, el despertar de los pueblos indígenas oprimidos
nos exige reafirmar ante el mundo nuestra existencia y la validez de nuestra identidad cultural.

1028
Cfr. nel cap. I il concetto di en-cubrimiento di Enrique Dussel.
1029
Queste parole dimostrano come il progetto degli intellettuali di Nuevas Cartas, per esempio, non sia certo nuovo,
ma, come avevo già commentato trattando le idee promosse da Hernán Huarache Mamani, hanno origine nelle
istanze dei movimenti indigeni.

393
Nos exige que luchemos para participar activamente en la decisión de nuestro destino, en la
construcción de nuestros estados-naciones. Si con ello no somos tomados en cuenta, hay
factores que garantizan nuestro futuro: la lucha y la resistencia; las reservas de ánimo; la
decisión de mantener nuestras tradiciones puestas a prueba por tantas dificultades, obstáculos y
sufrimientos; la solidaridad para con nuestras luchas por parte de muchos países, gobiernos,
organizaciones y ciudadanos del orbe.
Por eso sueño con el día en que la interrelación respetuosa justa entre los pueblos indígenas y
otros pueblos se fortalezca, sumando potencialidades y capacidades que contribuyan a hacer la
vida en este planeta menos desigual, más distributiva de los tesoros científicos y culturales
acumulados por la Humanidad, floreciente de paz y justicia.
Creo que esto es posible en la práctica y no solamente en la teoría. Pienso que esto es posible
en Guatemala y en muchos otros países que se encuentran sumidos en el atraso, el racismo, la
descriminación y el subdesarrollo.
El día de hoy, en el 47 período de sesiones de la Asamblea General, la Organización de
Naciones Unidas - ONU - inaugura 1993 como Año Internacional de los Pueblos Indios 1030, en
presencia de destacados dirigentes de las organizaciones de los pueblos indígenas y de la
coordinación del Movimiento Continental de Resistencia Indígena, Negra y Popular 1031, que
participarán protocolariamente en la apertura de labores a fin de exigir que 1993 sea un año con
acciones concretas para darle verdaderamente su lugar a los pueblos indígenas en sus contextos
nacionales y en el concierto internacional.
La conquista del Año Internacional de los Pueblos Indígenas y los avances que représenta la
elaboración del proyecto de Declaración Universal son producto de la participación de
numerosos hermanos indígenas, organizaciones no gubernamentales y la gestión éxitosa de los
expertos del Grupo de Trabajo así como la comprensión de varios estados en el seno de la
Organización de las Naciones Unidas.
Esperamos que la formulación del proyecto de Declaración sobre los Derechos de los Pueblos
Indígenas examine y profundice en la contradicción existente entre los avances en materia de
derecho internacional y la difícil realidad que en la práctica vivimos los indoamericanos.

1030
Il 21 dicembre del 1993 l'Assemblea generale dell'ONU ha proclamato il Decennio Internazionale dei Popoli
Indigeni del Mondo, rinnovato poi il 16 dicembre del 2005 per il decennio 2005-2014. Cfr.
http://www.un.org/es/events/indigenousday/second.shtml.
1031
Cfr. Giulio Girardi, “Para un contrapoder continental indígena, negro y popular”, Agenda Latinoamericana
(2001; http://www.servicioskoinonia.org/agenda/archivo/obra.php?ncodigo=278).

394
[...] Para los condenados de la tierra 1032 también la adjudicación del Premio Nobel representa un
reconocimiento, un aliciente y un objetivo.
Desearía que se desarrollara en todos los pueblos un consciente sentido de paz y el sentimiento
de solidaridad humana, que puedan abrir nuevas relaciones de respeto e igualdad para el
próximo milenio, que deberá ser de fraternidad y no de conflictos cruentos 1033.
En todas partes se está conformando una opinión sobre un fenómeno de actualidad, que a pesar
de que se expresa entre guerras y violencia, le plantea a la Humanidad entera la defensa de su
validez histórica: la unidad en la diversidad1034. [...]
Es posible que algunos centros de poder político y económico, algunos estadistas e
intelectuales, todavía no alcancen a comprender el despertar y la configuración promisoria que
significa la participación activa de los pueblos indígenas en todos los terrenos de la actividad
humana, pero el movimiento amplio y plural desencadenado por las diferentes expresiones
políticas e intelectuales amerindias terminará por convencerlos que objetivamente somos parte
constituyente de las alternativas históricas que se están gestando a nivel mundial 1035.
Señoras y señores, unas francas palabras sobre mi país.
[...]

Segue una lunga e appassionata descrizione del conflitto interno in Guatemala, provocato
dal colpo di Stato che nel 1954, “en una confabulación que unió a los tradicionales centros de
poder nacionales, herederos del coloniaje, con poderosos intereses extranjeros”, aveva posto
fine al “decennio democratico”1036 riportando indietro il Paese mesoamericano al “viejo sistema

1032
Allusione sin troppo chiara a un famoso libro del già citato Frantz Fanon, Les Damnés de la Terre (Éditions
Maspero, Paris 1961, tradotto in spagnolo con il titolo Los condenados de la Tierra), un classico del pensiero
anticolonialista e antimperialista.
1033
Purtroppo, l'auspicio di Rigoberta Menchú non si può certo dire realizzato.
1034
Nel 2000 questo slogan è stato adottato quasi identico dall'Unione Europea: Unita nella diversità, in italiano,
Unida en la diversidad in spagnolo, In varietate concordia in latino. Cfr. http://europa.eu/about-eu/basic-
information/symbols/motto/index_fr.htm.
1035
Altro auspicio di Rigoberta Menchú che non si può certo dire realizzato. Per quanto il tentativo, rappresentato per
esempio dai Global Social Forum, ci sia stato e qualche seme è stato seminato. A dar frutti soprattutto in America
Latina, pur tra tante contraddizioni e difficoltà.
1036
È ben noto come gli USA del presidente Eisenhower, condizionato dai vertici della United Fruit Company
(UFCO), la multinazionale statunitense che deteneva il controllo dell'agricoltura in Guatemala e non solo,
promossero e appoggiarono il colpo di stato che fece cadere il governo di Jacobo Arbenz, perché quest'ultimo
aveva avviato nel Paese mesoamericano una riforma agraria che, nonostante fosse ispirata agli scritti di Abraham
Lincoln, fu tacciata di comunismo.

395
de opresión que ha caracterizado la historia de mi país”, come “producto de la guerra fría”, in
conformità a quanto è successo in quasi tutti i Paesi di Latinoamerica1037.
Ne conseguì appunto un crudo “conflicto armado interno”, caratterizzato in primo luogo
dalla repressione violenta contro “las organizaciones populares, los partidos democráticos, los
intelectuales”1038.

En el intento de sofocar la rebelión, las dictaduras cometieron las más grandes atrocidades. Se
arrasaron aldeas, se asesinaron decenas de miles de campesinos, principalmente indígenas,
centenas de sindicalistas y estudiantes, numerosos periodistas por dar a conocer la información,
connotados intelectuales y políticos, religiosos y religiosas. [...] En Guatemala se inventó, como
política de Estado, la práctica de los desaparecidos políticos.
Como ustedes saben, yo misma soy sobreviviente de una familia masacrada 1039.
[...]

Rigoberta Menchú ha quindi continuato rilevando come, per esempio, il conflitto interno e
la violenta repressione abbiano provocato in Guatemala una crisi economica che ha fatto sì che
l'84% della popolazione cadesse in povertà, il 60% in condizioni di estrema povertà. Nonostante
i tentativi di pacificazione e di dialogo, il conflitto perdura1040 e “la situación de los Derechos
Humanos en Guatemala constituye hoy por hoy el más urgente problema a resolver”.

[...]
Urge construir una democracia en Guatemala. Es necesario lograr que se observen los derechos
humanos en toda su gama: poner fin al racismo; garantizar la libre organización y locomoción
de todos los sectores de la población. En definitiva, es imprescindible abrir el campo a la
sociedad civil multiétnica, con todos sus derechos, desmilitarizar el país y sentar las bases para
su desarrollo, a fin de sacarlo del atraso y la miseria en que se vive actualmente.

1037
Si può senz'altro dire che l'azione intrapresa in Guatemala da parte degli USA sia stata il modello o forse meglio
la prefigurazione del famigerato Plan Condor, che pure invero è stato sviluppato a partire dal colpo di stato
militare in Brasile nel 1964. Cfr. Stella Calloni, Operación Cóndor: pacto criminal, Ciencias Sociales, La
Habana 2006.
1038
Rimando al cap. I in cui ho ricordato il caso di Miguel Ángel Asturias, costretto all'esilio da questa repressione,
tra l'altro anche a Genova.
1039
Cfr. infra.
1040
Per un ritorno alla normalità si è dovuto attendere il 1996. Ma non sono certo cessati del tutto i problemi.

396
L'analisi della situazione peculiare del Guatemala, ovviamente, non pertiene più di tanto,
se non a livello esemplificativo, al presente studio, certamente è servita anche come programma
politico per Rigoberta Menchú e il partito “indigenista” Winaq, dal quale è stata anche candidata
alla presidenza del Guatemala alla guida di una coalizione di sinistra1041.
In tal senso, nella parte conclusiva del suo discorso per il Nobel, ha pronunciato frasi come
le seguenti:

Entre los rasgos que caracterizan a la sociedad actual está el papel de la mujer, sin que por ello
la emancipación de la mujer haya sido conquistada plenamente en ningún país del mundo.
[...] modestamente, pienso que las mujeres indígenas somos ya un claro testimonio de ello.
[...]
Igualmente importante es el reconocimiento en Guatemala de la Identidad y los Derechos de los
Pueblos Indígenas, que han sido ignorados y despreciados no sólo en el período colonial, sino
en la era republicana. No se puede concebir una Guatemala democrática, libre y soberana, sin
que la identidad indígena perfile su fisonomía en todos los aspectos de la existencia nacional.
[...]
Tomando en consideración que en relación a mi papel como Premio Nobel en el proceso de
negociaciones por la paz en Guatemala se han manejado un abanico de posibilidades, pienso
que éste es más bien el de promotora de la paz, la unidad nacional, de la defensa de los
derechos indígenas. De tal manera que pueda tomar iniciativas acordes a las que se vayan
presentando, evitando de esta manera encasillar el Premio Nobel en un papel.
[...]
En la actualidad, luchar por un mundo mejor, sin miseria, sin racismo, con paz en el Oriente
Medio y el Sudoeste Asiático, a donde dirijo mi plegaria para la liberación de la señora Aung
San Suu Kyi, Premio Nobel de la Paz 1991; por una solución justa y pacífica para los Balcanes;
por el fin del apartheid en el Sur de Africa; por la estabilidad en Nicaragua; por el
cumplimiento de los Acuerdos de Paz en El Salvador; por el restablecimiento de la democracia
en Haití; por la plena soberanía de Panamá; por que todo ello constituye las más altas
aspiraciones de justicia en la situación internacional.
[...]
Nuestra historia es una historia viva, que ha palpitado, resistido y sobrevivido siglos de
sacrificios. Ahora resurge con vigor. Las semillas, durante tanto tiempo adormecidas, brotan
hoy con certidumbre, no obstante que germinan en un mundo que se caracteriza actualmente
por el desconcierto y la imprecisión.

1041
Nel 2007 e nel 2011, ma in entrambe le occasioni ha ottenuto una percentuale risibile dei voti.

397
[...]

Il Nobel a Rigoberta Menchú, del resto, non ha suscitato solo le simpatie di quanti
sostengono i diritti umani e degli indigeni in particolare, ma ha evidentemente anche messo in
allarme quanti invece non intendevano, né intendono tuttora, modificare lo status quo che lei e i
movimenti indigeni minacciano.
Riporto l'abstract di un articolo recente che ha trattato la vicenda:

El libro de la líder indígena guatemalteca Premio Nobel de la Paz, publicado bajo la autoría de
la antropóloga venezolana Elizabeth Burgos en los años 80, tuvo amplia repercusión en la
academia estadounidense y en los movimientos de derechos humanos en América Latina. Para
muchos inauguraba un nuevo género capaz de desafiar, desde la subalternidad, incluso a la
literatura en su sentido convencional. Pero también tuvo detractores, que pusieron en cuestión
su veracidad y criticaron la existencia de una «inflación mítica» al servicio de una política
radical. Todas estas discusiones dieron lugar a interesantes intercambios acerca de la verdad, el
cientificismo, la relación entre testimonio oral y literatura escrita, el rol de los subalternos y la
construcción de los relatos sociales1042.

In particolare, tra i molti detractores, ha svolto un ruolo significativo l'accedemico


statunitense David Stoll, antropologo del Middlebury College: nel dicembre del 1998, su The
New York Times, è apparso un reportage1043 dedicato al suo studio nel quale afferma che
Rigoberta Menchú e Elisabeth Burgos avrebbero costruito un castello di menzogne; l'anno dopo,
detto studio è pubblicato con il titolo Rigoberta Menchú and the story of all poor

1042
John Beverley, “Subalternidad y testimonio En diálogo con Me llamo Rigoberta Menchú y así me nació la
conciencia, de Elizabeth Burgos (con Rigoberta Menchú)”, Revista Nueva Sociedad 238 (2012), p. 102. Cfr.
Mary Louise Pratt, “Lucha-libros: Me llamo Rigoberta Menchú y sus críticos en el contexto norteamericano”,
Revista Nueva Sociedad 162 (1999), pp. 177-197.
1043
Larry Rohter, “Tarnished Laureate: A special report. Nobel Winner Finds Her Story Challenged”, The New York
Times 15/12/1998 (http://www.nytimes.com/1998/12/15/world/tarnished-laureate-a-special-report-nobel-winner-
finds-her-story-challenged.html). Cfr. Julia Preston, “Guatemala Laureate Defends 'My Truth'”, The New York
Times 21/1/1999 (http://www.nytimes.com/1999/01/21/world/guatemala-laureate-defends-my-truth.html); Calvin
Reid, “Nobel Winner Rejects `Unjust' Allegations That She Lied”, Publishers Weekly 8/3/1999
(http://www.publishersweekly.com/pw/print/19990308/39844-nobel-winner-rejects-unjust-allegations-that-she-
lied.html); Tim Golden, “A Legendary Life”; The New York Times 18/4/1999
(https://www.nytimes.com/books/99/04/18/reviews/990418.18goldent.html).

398
Guatemalans1044, il tutto negli stessi mesi in cui negli USA si lanciava la traduzione inglese del
secondo libro della Nobel guatemalteca: Crossing Borders1045.
Cito Mary Louise Pratt1046:

Su poderoso texto testimonial, Me llamo Rigoberta Menchú y así me nació la conciencia


(1983), alcanzó una recepción mundial que sin duda salvó muchas vidas guatemaltecas,
incluyendo la de la misma Menchú. También le hizo poderosos enemigos. En diciembre de
1998 la intelectualidad mundial fue sacudida por un dramático reportaje que apareció en
primera plana del New York Times: un antropólogo norteamericano, profesor en un prestigioso
college estadounidense, declaraba haber comprobado, a base de casi diez años de meticulosa
investigación, que Me llamo Rigoberta Menchú era un tejido de mentiras, invenciones, y
distorsiones. Tan dramáticas fueron las revelaciones que el Times había tomado el
extraordinario paso de mandar un reportero a Guatemala para verificar las fuentes del
investigador, David Stoll, cuyo libro sobre el asunto estaba por aparecer en las librerías. Si el
testimonio de Menchú la embarcó rumbo al Premio Nobel, estos nuevos escritos parecían
orientar a su autor hacia los prestigiosos premios Pulitzer.

Ovviamente anche Elisabeth Burgos1047 è stata attaccata.


Dell'antropologa di origine venezuelana radicata a Parigi si è ricordato il suo passato di
rivoluzionaria attiva in Colombia, Ecuador, Perù e Cile, nonché ex moglie del controverso
filosofo e ex rivoluzionario francese Régis Debray, da alcuni accusato di essere il traditore di
Ernesto “Che” Guevara1048, e altre “mostruosità”.

1044
Westview Press, Boulder 1999. Non proprio subito è stato pubblicato anche in spagnolo: Rigoberta Menchú y la
historia de todos los guatemaltecos pobres (trad. Sara Martínez de Juan, Amable Sánchez Torres, Unión Editorial
S.A., Madrid 2008). Una versione on line pare, però, che sia stata pubblicata già nel 2002. Cfr.
http://www.nodulo.org/bib/stoll/rmg.htm.
1045
A c. Ann Wright, Verso, New York 1999 [Rigoberta: la nieta de los Mayas, con Dante Liano e Gianni Minà,
Aguilar, Madrid 1998].
1046
“Lucha-libros:...cit., pp. 177-8.
1047
Nel frattempo la Burgos 1997 ha pubblicato un altro-libro intervista, con Daniel “Benigno” Alarcón Ramírez,
compagno di Fidel Castro e Che Guevara nella Sierra Maestra: Memorias de un soldado cubano (Tusquets,
Barcelona 1997). In tempi recenti è stata tra i principali promotori della campagna internazionale finalizzata alla
liberazione di Íngrid Betancourt da parte delle FARC.
1048
Cfr. Daniele Ceccarini, “Che Guevara. I traditori”, La Spezia Oggi 27/10/2014
(http://www.laspeziaoggi.it/news/2014/10/che-guevara-i-traditori/), riguardo al film-documentario Sacrificio. Chi
ha tradito Che Guevara? (2001) di Erik Gandini, Tarik Saleh, Marten Nilsson, Lukas Eisenhauer e Johan

399
Non pertiene al presente studio l'investigazione sulle verità dell'una e dell'altra parte, quello
che invece interessa rilevare è che un'attivista indigena ha conseguito il premio Nobel, fatto che
ha dato un notevole impulso al citato renacimiento indígena, e che di conseguenza è stata
attaccata, diffamata, ridimensionata, limitata da quanti non hanno tuttora interesse né tanto meno
convenienza a che detto renacimiento indígena si realizzi pienamente.
Che il premio Nobel a Rigoberta Menchú, del resto, fosse riuscito sgradito a qualche potere
consolidato, l'aveva perfettamente percepito anche il giornalista e scrittore francese di romanzi di
spionaggio Gérard de Villiers (1929-2013), il quale già nel 1993 aveva pubblicato Tuez
Rigoberta Menchú, n° 110 della serie S.A.S., alias Son Altesse Sérénissime Malko Linge, l'agente
della CIA e principe austriaco che è il suo personaggio principale, contraltare francese della spia
inglese James Bond di Ian Fleming, e sempre coinvolto in fatti e eventi della geopolitica
contemporanea1049.
Humberto Ak’abal, anche lui guatemalteco di etnia maya quiché, nato a Momostenango
(Dipartimento di Totonicapán) nel 1952, è poeta bilingue, maya quiché e spagnolo. Sin dalla sua
prima antologia, El animalero (1990), la sua poetica è dedicata al fine di ricostruire i simboli del
soggetto indigeno situandolo in una prospettiva storico-culturale, in particolare, dopo la pace
sopra citata, la sua opera è senz'altro tra le principali manifestazioni del renacimiento
indígena1050 nel suo Paese, promosso anche dal Nobel a Rigoberta Menchú.

La voz de Ak’abal es voz de lamento y denuncia y es canto e invitación a compartir. Es una oda
a la co-existencia, oda al particularismo como espejo dialéctico de la alteridad 1051.

È stato rilevato nella sua opera una sencillez che non è però semplicità naïf:

[…] ha sobrepasado las fronteras geográficas y culturales gracias a que él mismo construye su
poesía a través del diálogo: con la naturaleza, con los abuelos, con su tradición y como
traductor de sí mismo1052.
Soderberg, in cui si accusa il filosofo francese.
1049
Cfr. Jean-Dominique Merchet, “SAS Merci des renseignements”, Libération 2/1/2007
(http://www.liberation.fr/culture/2007/01/02/sas-merci-des-renseignements_80838).
1050
Uso quest'espressione nel senso in cui l'ho usata sinora, ma cfr. infra la posizione di Humberto Ak'abal al
riguardo.
1051
Marie-Louise Ollé, “El grito de Ak’abal”, Centroamericana 22, 1/2 (2012), p. 297.
1052
Julio Antonio Urizar Mazariegos, Aproximación a las representaciones del miedo en la obra poética de cinco
escritores mayas contemporáneos guatemaltecos, Universidad Rafael Landívar, Guatemala de la Asunción 2014,

400
Rogachevsky (1994) en su ensayo “La voz de la naturaleza en la poesía de Humberto
Ak’abal”1053 enfatiza la “sencillez” del lenguaje natural propio del idioma k’iche’ y de la
personalidad del poeta como un valor hasta entonces no comprendido por el lector
occidental1054. Sencillez que no es “ingenuidad, llaneza y carencia de artificio”, como apuntaron
los primero críticos de Ak’abal a través de alabanzas que corrieron el peligro de ser discursos
que colocan la identidad maya en el terreno de lo inarticulado. Rogachevsky insiste en que
lenguaje de Ak’abal es complejo y totalmente reflexivo, una articulación poética en torno al
cómo expresar la profundidad comunicativa que hay entre él y la naturaleza, con la que el ser
humano y la cultura no han roto su conexión intelectual, pues el poeta recibe de ella su
capacidad creativa y los significados artísticos para comunicarse y comprenderse. Está
integrado a ella. Por otro lado, para representar la complejidad de esta epistemología k’iche’ en
un contexto dominante, Ak’abal se apoya de un lenguaje occidental con el riesgo de ser
definido con valores ajenos a los suyos; sin embargo, Ak’abal supera dicho peligro, construye
el diálogo, se mantiene fiel a su visión cultural y demuestra que sus palabras no son de “poco
discurso”1055.

Questa capacità comunicativa tra il poeta e la natura, seppure vi si possano riscontrare


vaghe analogie con il voyant di Rimbaud o l'osservazione della natura di Montale, gli deriva
senz'altro dalla tradizione indigena, in cui è totalmente integrato e di cui forse il più celebrato
rappresentante.
Riporto di seguito dei suoi versi significativi, al riguardo:

Soy salvaje,
rebelde a la música ajena a mis oídos.
Tengo una montaña en la cabeza;
sólo escucho cantos de pájaros
y gritos de animales1056.

p. 12.
1053
Jorge Rogachevsky, “La voz de la naturaleza en la poesía de Humberto Ak’abal”, Encuentro 13 (1994), pp. 23-
31.
1054
Cfr. Weller Ylira Simor, “Humberto Ak’abal: Quisiera una Guate armada de libros”, Prensa Libre 13/8/2010
(http://www.prensalibre.com/cultura/Akabal-quisiera-Guate-armada-libros_0_316168466.html), in cui accetta
l'attributo di minimalista.
1055
Urizar Mazariegos, Aproximación...cit., p. 19.

401
Ma lui ha già avvertito e respinto da tempo il rischio di essere celebrato solo perché è
indigeno, quindi una sorta di curiosità esotica, non un poeta che trasmetta valori significativi e
non solo per la sua cultura d'origine:

En el nuevo y aún incipiente reconocimiento a la literatura escrita en lenguas indígenas,


Humberto Ak'abal advierte el riesgo del paternalismo al considerarse “que sólo porque un
escritor es indígena, es bonito lo que hace”.
[...]
“Seamos claros: si tiene valor, el texto literario permanecerá; si no lo tiene, se hará bulla un
rato pero luego se apagará”1057.

Ma la poesia di Humberto Ak'abal da allora non si è spenta, semmai, come tutta la


letteratura indigena degli ultimi due decenni, ha posto un problema di classificazione nel
momento in cui gli strumenti critici letterari riflettono i canoni intepretativi propri della cultura
occidentale:

Son bastantes los malentendidos que han confundido la historia de América. Desde los estudios
literarios, palabras como literatura, escritura, lengua o mundo se han replanteado a partir del
intercambio cultural con los pueblos indígenas. Hoy es inadmisible continuar recorriendo la
historia de la literatura universal con un solo lente. Es necesario recuperar las “otras” versiones
y voces de la historia, y los “otros” testimonios y códigos con los que también se ha generado
arte y literatura. Por eso creemos que para adentrarnos en la poesía indígena contemporánea es
indispensable desatar algunos nudos que durante siglos han ahogado una posible mirada hacia
ese “otro” que también habita nuestro territorio y, por lo tanto, nos refleja 1058.

In tal senso, la poesia di Humberto Ak'abal

[…] es una poesía que reivindica las voces amerindias y las posiciona como una vía paralela y
alternativa a la dispersión “posmoderna” occidental, al mismo tiempo que reconoce la
importancia del diálogo intercultural. Ak’abal, con sus palabras, demuestra que los mayas y,

1056
Salvaje (2004), riportata in epigrafe al suo articolo da parte di Juan Guillermo Sánchez Martínez, “Poesía
indígena contemporánea: la palabra (tziij) de Humberto Ak’abal”, Cuadernos de Literatura 11, 22 (2007), p. 79.
1057
Arturo Jiménez, “Al publicar textos rompemos con el silencio. Entrevista a Humberto Ak’abal”, La Jornada
27/11/1998 (http://www.jornada.unam.mx/1998/11/27/cul-pater.html).
1058
Sánchez Martínez, “Poesía indígena...cit., ivi.

402
por extensión, todos los indígenas de América no son culturas extintas o mudas, sino, por el
contrario, pueblos con una posición clara ante la velocidad y el pragmatismo que impera en
nuestro tiempo1059.

E abbiamo già visto, con figure quali Jacinto Collahuazo e, se si vuole, Blas Valera, come
le letterature indigene invero abbiano sempre rappresentato una vía paralela y alternativa
all'Occidente, alla cultura dei conquistadores e degli invasori europei in genere, tant'è vero che lo
stesso Ak'abal ha rifiutato anche l'idea di renacimiento indígena:

¿Hay un renacimiento de las literaturas indígenas?


No, pues siempre ha habido poesía en nuestras culturas, sólo que se ha mantenido en la
oralidad, porque nuestras lenguas son ágrafas. Lo novedoso consiste en que los de esta
generacíón de fines del siglo XX usamos los caracteres latinos para darle forma escrita a
nuestros textos. Otro aspecto es que al presentar nuestros textos en forma escrita, para
compartirlos, rompemos el silencio y las barreras impuestos durante siglos 1060.

Più che di un renacimiento indígena si dovrebbe pertanto parlare di un reconocimiento


indígena, il riconoscimento del diritto di pubblicare, alla pari rispetto alle altre, una propria
letteratura scritta – e non erano poche le civiltà cosiddette precolombiane che già la possedevano,
tra cui quella maya – diritto che, come visto proprio nel caso di Jacinto Collahuazo, è sempre
stato negato agli indigeni, le cui culture pertanto si sono mantenute vive attraverso l'oralità,
laddove negli ultimi anni stanno attraversando la non indolore transizione tra l'oralità della
tradizione trasmessa intorno al focolare familiare e la parola scritta nei libri e diffusa nel mondo
intero, anche tramite le declamazioni pubbliche in festival internazionali di poesia, in seguito alle
quali spesso i poeti indigeni acquistano una fama e una considerazione che, paradossalmente, ma
non troppo, non sono corrisposte in patria, dove è duro a morire il pregiudizio nei confronti delle
culture indigene, specie se è accompagnato alla resistenza nei confronti delle rivendicazioni
politiche dei movimenti indigeni.
In coerenza alla sua idea, Ak'abal ha anche raccontato come lui stesso si è avvicinato alla
letteratura scritta, posto che la sua esperienza di letteratura era già comunque consolidata, in
quanto appunto nella sua famiglia, pur povera, e tra la sua gente in genere la tradizione orale era
ben viva e vitale:

1059
Ibid.
1060
Jiménez, “Al publicar textos...cit.

403
-¿Cómo te fuiste acercando a los libros y a la poesía?
Del lado de mi padre, mis abuelos eran músicos y compositores, tenían una marimba 1061. Por mi
madre, mis abuelas eran contadoras de cuentos y de niño las escuchaba.
Recuerdo que con el abuelo vivía un ancianito, Melesio, y un día, cuando venía de la primaria,
que es lo único que tengo de estudios1062, me preguntó: “¿y qué haces con esos papeles?” Le
dije que estaba aprendiendo a leer. Entonces, me confió: “en el techo de la casa de tu abuelo
está una caja, parece que ahí hay unos papeles. Tu abuelo dice que no hay que leerlos porque
uno se puede volver loco, y no los quemamos porque nos puede caer alguna maldicíón 1063”.
Un día saqué al abuelo de la casa, lo llevé a la orilla del río y me regresé.
Busqué una escalera y subí para ver la cajita y sí, había libros. Con un poco de luz que entraba
por las tejas me puse a hojear. Leí un cuento, La última hoja, de O. Henry. También estaban
Madame Bovary, de Flaubert, y La guerra y la paz, de Tolstoi. Y decidí robarme los libros.
Fue 20 años después, cuando supe que había comenzado con los grandes de la literatura. Soy
autodidacta, un lector compulsivo y siempre he comprado libros viejos en la capital de
Guatemala. Así me fui alimentando tanto de la literatura escrita como de la oral.
De las narraciones de tus ascendientes.
Y de los conocimientos. Mi abuelo, que aún vive y tiene 97 años, es un sacerdote indígena con
muchos conocimientos. En mi pueblo aún se usa el calendario lunar de 260 días. Me fui
nutriendo de la cosmogonía de mi abuelo. Aprendí con él a leer los relámpagos, las
tempestades, a calibrar el viento, a comprender el lenguaje de los pájaros, el comportamiento
de los animales, el rumor de los ríos1064.

In altre interviste ha raccontato ulteriori dettagli:

¿A qué edad fue el encuentro con la literatura?

1061
Sorta di xilofono di origini africane, ma molto diffuso in tutto il Centramerica.
1062
La educación primaria, l'unico livello di istruzione superato da Ak'abal come dalla maggior parte dei bambini
indigeni, in Guatemala dura dai 7 ai 14 anni. Lui, per la precisione, ha abbandonato la scuola a 12 anni. Cfr. infra.
1063
Il sottolineato è mia iniziativa. Questa testimonianza è notevole, in quanto rivela come tra gli indigeni fosse
diffuso questo pregiudizio superstizioso, senz'altro indotto, nei confronti dei papeles, considerati prerogativa
esclusiva solo dei ladinos, dei “bianchi”. L'idea che se un indigeno li avesse letti o anche bruciati (non si possono
distruggere i libri dei bianchi!) avrebbe comportato una maldicíón nei suoi confronti è facile dedurre che derivi
dal fatto che le autorità, almeno in epoca coloniale, come è attestao, punivano davvero questi comportamenti
negli indigeni stessi.
1064
Jiménez, “Al publicar textos...cit.

404
Como a los 10. Un profesor tenía un libro sobre la vida de Juan Sebastián Bach. Me gustó
tanto, que me lo robé. Hace poco se lo confesé. El se rió y me dijo ¡qué bueno que te sirvió,
guardalo! Tal vez fue este impedimento el que me hizo leer. Ya entre los 18 y 20 años era una
necesidad. Con esfuerzo ahorraba y compraba libros1065.

¿Cuál fue su primer acercamiento a la poesía, cómo se le reveló? ¿Cómo descubrió su


vocación de poeta?
Creo que comenzó en mis primeros años, escuchando a mi madre cuando nos contaba cuentos.
Ella recurría mucho a las imágenes y a las metáforas en sus relatos. Después, en la escuela, me
sentí atraído por los poemas “escolares”, es decir, los dedicados a la madres, a los símbolos
patrios, a la escuela; en fin, en ese entonces me aficioné a la declamación. Cuando dejé la
escuela, a la edad de doce años, ya tenía bastante interés por la poesía y comencé a buscar otras
lecturas. Fue así como llegué a Bécquer, Nervo, Gutiérrez Nájera, Darío, Neruda… Esta
relación fue despertando mi interés y deseos de escribir, así que por ese entonces comencé a
hacer mis primeros intentos, entre los catorce y quince años. Esa inquietud, con el tiempo,
fuetomando seriedad.
[...]
¿Cómo influyó su pueblo en la decisión de oficiar con la poesía?
Mi lenguaje y mi experiencia se han formado en el área rural, de modo que la materia prima
que tengo a la mano proviene de allí. Toda poesía honesta tiene que ser fiel a uno mismo. Mi
propia cultura tiene una cosmovisión de nuestro entorno, una forma de ver, una manera de
interpretar; esto lo he mamado de mis abuelos, lo que, de alguna manera, le da cierta
particularidad a lo que escribo1066.

Da una sua biografia si rivela ancora:

Humberto Ak’abal dejó la escuela a los doce años. Con un hatillo en el que había dos camisas y
dos pantalones se dirigió a la capital, donde su padre le había encontrado ya un señor al que
servir. Del sucio tumulto urbano, tan diferente de las soledades de su infancia, sólo una cosa le
asombró: la vitrina llena de libros de La Cadena de Oro. Frente a aquellos volúmenes,
abarquillados por el sol, se pasaba los ratos libres. Había una portada que le atraía
especialmente: en ella un rostro se desmoronaba o se pudría. ¿Qué contará ese libro?
1065
Gustavo Adolfo Montenegro, “Esto es como un sueño”, Prensa Libre, 3/11/2002
(http://www.literaturaguatemalteca.org/montenegro2.htm).
1066
Carlos López, “Entrevista a Humberto Ak'abal”, Literatura guatemalteca, 23/10/2007
(https://diariodelgallo.wordpress.com/2007/10/23/humberto-ak%C2%B4abal-entrevista/).

405
Llegó a soñar con él. Llegó a fantasear una historia de locos, muertos y brujos. Un día se
atrevió a entrar y preguntar el precio: «Dos quetzales con cincuenta centavos», le dijo el
librero. Trabajó duro, trabajó durante meses y meses, dejó de comer, llegó a sisar a su amo,
para poder reunir esa cantidad. Aquel libro fue su primer amor: se titulaba El retrato de Dorian
Gray. Con ese único libro regresó a Momostenango, Totonicapán, cuando comenzó la guerra
civil; cuando comenzó la bulla, como decían en su pueblo. La familia de Humberto Ak’abal se
ganaba la vida haciendo tejidos de lana de oveja que luego iban a vender a la capital. Era
Humberto quien los llevaba. Comienza el viaje al amanecer. Con una antorcha hecha de resina
de pino, su madre le alumbra. Cargado el aparatoso bulto sobre la espalda, tenía que cruzar un
tronco de árbol sobre un abismo1067.

AIl'età di 38 anni, come già rilevato, ha iniziato a pubblicare le sue poesie, sin da subito in
forma bilingue. E sin da subito ha attirato l'attenzione su di sé, conseguendo in particolare un
notevole riscontro nazionale e internazionale specie con la seconda sua raccolta, Guardián de la
caída de agua (1993), che gli valse il premio Quetzal de Oro APG come migliore libro dell'anno
secondo la Asociación de Periodistas de Guatemala1068. Un altro importante premio nazionale
conferitogli 10 anni dopo, il Premio Nacional de Literatura Miguel Ángel Asturias, l'ha invece
rifiutato:

He rechazado el premio por una sencilla razón: se llama Miguel Ángel Asturias, él fue un
escritor de muchos méritos; sin embargo, él escribió la tesis El problema social del indio, en
donde ofende a los pueblos indígenas de Guatemala, de los cuales yo soy parte. Por lo tanto, a
mí no me honra recibir este premio. Respeto mucho su literatura, pero no me siento cómodo en
este sentido, así que por esta razón yo declino recibirlo1069.

Il riscontro internazionale, in particolare, ha fatto sì che la sua opera sia stata tradotta
all'estero, così, alla traduzione di sé stesso, si sono aggiunte traduzioni da parte degli altri:

Tu obra ha sido traducida a seis idiomas, ¿qué significa esto para ti?

1067
Redazione Diariodelgallo, “La vida de Humberto Ak'abal”, 23/10/2007
(https://diariodelgallo.wordpress.com/2007/10/23/la-vida-de-humberto-ak%C2%B4bal/).
1068
Violeta Campos, “Humberto Ak’abal: «Soy dos poetas en una persona»”, DW, 18/2/2013
(http://www.dw.de/humberto-akabal-soy-dos-poetas-en-una-persona/a-16606104).
1069
Marta Sandoval, “Humberto Ak’abal rechaza Premio Nacional de Literatura”, El Periódico, 22/1/2004
(http://www.literaturaguatemalteca.org/akabal2.htm).

406
Borges decía que toda traduccíón, a veces, es traición. El primer sufrimiento es mío, porque
escribo en mi lengua y me traduzco al castellano. Tengo que hacer grandes esfuerzos para tratar
de encontrar los términos precisos1070.

E infatti è stato già fatto notare:

[…] para representar la complejidad de esta epistemología k’iche’ en un contexto dominante,


Ak’abal se apoya de un lenguaje occidental con el riesgo de ser definido con valores ajenos a
los suyos; sin embargo, Ak’abal supera dicho peligro, construye el diálogo, se mantiene fiel a
su visión cultural y demuestra que sus palabras no son de “poco discurso” 1071.

E lo stesso poeta ha affermato:

Creo que soy dos poetas en una persona. Primero fue un poco temeroso hacer este arriesgado
trabajo, pero a medida que lo he estado ejercitando he adquirido seguridad, y cada vez me
siento más bilingue1072.

Ma esistono concetti della cultura maya-quiché che non possono essere tradotti, né forse li
si vuole tradurre.
Il più significativo e peculiare forse di tutta la cultura maya-quiché è il Nahual1073.
Già Rigoberta Menchú, nel suo celebre e discusso libro dettato a Elisabeth Burgos, gli
dedica un intero capitolo, il III, che inizia così:

Ogni bambino nasce con il suo nahual. Il nahual è come la sua ombra, condurranno una vita
parallela. Quasi sempre il nahual è un animale. Il bambino deve dialogare con la natura e per
noi il nahual è un rappresentante della terra, degli animali, dell'acqua e del sole. Noi di
conseguenza ci formiamo un'immagine di questo rappresentante. È come una persona parallela
all'uomo, è qualcosa davvero importante. Si insegna a un bambino che, se si uccide un animale,

1070
Jiménez, “Al publicar textos...cit.
1071
Urizar Mazariegos, Aproximación...cit., p. 19.
1072
Campos, “Humberto Ak’abal:...cit.; Cfr. Juan Guillermo Sánchez Martínez, “Poesía de confluencias: una
entrevista a Ak’abal”, Revista de Literaturas Populares XI, 2 (2011), pp. 461-469.
1073
Cfr. la curiosa applicazione di questo concetto al cyberspazio da parte del poeta e saggista gutemalteco Alan
Mills: “La literatura hacker y la creación del nahual del lector”, Cuadernos Hispanoamericanos 744 (2012), pp.
13-30.

407
il padrone di questo animale si arrabbierà, perché gli viene ucciso il nahual. Viceversa ogni
animale ha un essere umano che gli corrisponde e se si fa male a questa persona, lo si fa anche
all'animale1074.

Humberto Ak’abal, a parte varie poesie compresa quella citata supra in epigrafe – in
origine contenuta nella raccolta Entre patojos1075, in una sezione specifica intitolata Otras veces
soy jaguar: Poemas que expresan la vida interior del autor; también se refieren a otras vidas,
como las de sus nahuales –, gli ha dedicato anche un recentissimo libro di racconti per bambini,
El animal de humo1076, un genere nel quale il poeta non si era mai cimentato prima, scelto
evidentemente perché sa bene, anche per l'esperienza dell'oralità, che i bambini, per certi
argomenti, sono senz'altro più ricettivi degli adulti1077.
L'incipit del libro, infatti, è proprio un richiamo emozionato all'oralità della tradizione della
sua gente, trasmessagli in particolare dalla madre:

Mi madre comprendía el canto de los pájaros, la voz de los animales, la voz del viento y el
lenguaje de las tempestades y los relámpagos 1078.

Né manca un richiamo all'importanza del mondo dei sogni nelle culture indigene
d'America, argomento già trattato nel presente studio:

"Mis abuelos me enseñaron a orientarme por los sueños, aún hoy sigo practicándolo", dice
Ak'abal con una sonrisa franca en los labios.
El autor no está lejos de las teorías de Erick Fromm, quien asegura que aunque los sueños
pasan desapercibidos para la mayoría, son nuestros, están libres de las leyes lógicas de tiempo y
espacio, escritos en un lenguaje simbólico que nos transporta en un vehículo parecido al de los
mitos y que si les ponemos atención pueden sorprendernos más de lo que suponemos 1079.
1074
Burgos, Menchú, Mi chiamo Rigoberta Menchú,...cit., p. 34.
1075
Editorial Piedra Santa, Guatemala 2002. La sezione citata, in particolare, si trova tra le pp. 149-158. Cfr. Hannah
Crawford, “«Up There in the Mountain»: The Poetry of Humberto Ak’abal and Life in a Highland Guatemalan
Town”, SOAN 295 (2008), pp. 1-20.
1076
Editorial Piedra Santa, Guatemala 2014.
1077
Isabel Díaz Sabán, “EL animal de humo”, Revista D, Prensa Libre, 6/4/2014
(http://www.prensalibre.com/revista_d/Humberto_Ak-abal-El_animal_de_humo-
relatos_de_misterio_0_1112888859.html).
1078
Ivi.
1079
Ivi.

408
È scontato aggiungere che, oltre che a Erich Fromm, ci si può richiamare anche ai già citati
Freud e Jung, a tutto il simbolismo e al surrealismo, e a varie altre lezioni che però l'Occidente
non ha imparato e probabilmente dovrebbe tentare di apprendere ancora dalle culture indigene.
Ha scritto Emanuela Jossa1080:

Una delle componenti costitutive dell'antica cosmovisione maya e dell'etica che ne deriva è [...]
il principio di reciprocità tra l'uomo e tutti gli altri esseri, siano essi gli dei, la terra, l'acqua, le
piante, gli animali, i vulcani... Il cosmo si presenta come un tutto armonico e ordinato, e questa
unità sostanziale genera un vincolo intimo e profondo tra tutte le parti, che sono quindi in
perenne comunicazione.
[…]
L'uomo maya […] è depositario di un'etica che annulla qualsiasi tentazione di dominare in
modo dispotico e violento ciò che lo circonda, consapevole che niente e nessuno può collocarsi
fuori dalla natura.
[…]
Nella visione poetica di Humberto Ak'abal, e della cultura maya, tutte le creature sono animate
dalla necessità di esprimersi, di essere comprese e consolate in una vita che è parte di un
processo continuo di trasformazione che manifesta la sua armonia ma che include anche la
morte. La reciprocità si mostra proprio in questo forte sentimento di condivisione tanto
dell'allegria quanto del dolore1081.

Concludo riportando di seguito altre poesie di Humberto Ak'abal1082.

REGAÑO RIMPROVERO
La luna era una casa grande La luna era una grande casa
Sentada sobre el espinazo del cerro. seduta sulla schiena della collina.
Cuando mi papá me regañaba, Quando mio padre mi rimproverava,
yo me iba para la luna io andavo dalla luna
1080
Ricercatrice di Lingua e Letteratura ispanoamericana presso l’Università della Calabria. Di Humberto Ak'abal ha
curato l'edizione italiana della raccolta Ajkem tzij / Tejedor de palabras (1996; 1998): Tessitore di parole,
prefazione di Martha L. Canfield, Le lettere, Firenze 1998.
1081
“Gli animali nella poesia di Humberto Ak'abal”, Fili d'aquilone 3 (2006;
http://www.filidaquilone.it/num003jossa.html). Cfr. Lucia Cupertino, “Emanuela Jossa, Raccontare gli animali.
Percorsi nella letteratura ispanoamericana, Firenze, Le Lettere, 2012”, Confluenze 5, 1 (2013), pp. 269-271.
1082
Tutte citate e tradotte in italiano da Jossa, “Gli animali...cit.

409
y allí dormia. e lì dormivo.

EL FUEGO IL FUOCO
El fuego Il fuoco
Acuclillado accoccolato,
apaga la tristeza del leño, spegne la tristezza del legno,
cantándole cantandogli
su ardiente canción. La sua ardente canzone.

Y el leño E il legno
Le escucha lo ascolta
Consumiéndose mentre si consuma
Hasta olvidar fino a dimenticare
Que fue árbol che è stato albero.

SIEMBRAS SEMINE
Se siembran las gallinas, Si seminano le galline.
Se siembran los gatos, si seminano i gatti,
se siembran los perros... si seminano i cani

Los animales, Anche gli animali,


Como las plantas, come le piante,

También echan raices. mettono radici.

410
TZ'UkULIK TZ'UkULIK
Con las primeras luces del alba Con le prime luci dell'alba
la voz del pajarito negro la voce dell'uccellino nero
llama al trabajo: chiama al lavoro:
tz'ukulik tz'ukulik
tz'ukulik tz'ukulik
tz'ukulik... tz'ukulik...

El sembrador Il seminatore
sale a trabajar la tierra. va a lavorare la terra

El tz'ukulik Lo tz'ukulik
salta de surco en surco salta di solco in solco
buscando gusanitos. cercando vermetti.

Tz'ukulikTz'ukulik Tz'ukulik
tz'ukulik tz'ukulik
tz'ukulik... tz'ukulik...
Es un canto al trabajo È un canto al lavoro
la voz del pajarito negro. la voce dell'uccellino nero.

Il citato grande scrittore guatemalteco Mario Monteforte Toledo ha detto di Humberto


Ak'abal:

Ak’abal tiene la capacidad de percibir y expresar esencias. Inevitablemente tiende a apropiarse


del mecanismo de la expresión occidental. De sus vastas lecturas no puede salir inmune; pero
siempre será un poeta indio1083.

1083
Citato da Nicole Caso, Practicing Memory in Central American Literature, Palgrave Macmillan, Basingstoke
2010, p. 228.

411
412
Zahy Guajajara e o sentido da vida indígena in Brasile

Ser índio já não era honra, mas vergonha.


[…]
Nós fomos estuprados, fomos dizimados e humilhados.
[…]
A sociedade deve se reeducar e tratar-nos de igual pra igual.
[…]
Mesmo com anos de massacre resistimos, ainda somos os mesmos nativos, falamos a nossa língua,
conservamos a nossa cultura.

Sentido da vida
Todos os meus sentidos / De alguma forma foram feridos brutalmente! / Sinto uma parte de mim suplicando
vida / Pois em todos os seus aspectos morreram / Só não me morre, a vontade de querer ser eu / Quando já
não me vejo ao me olhar no espelho.
Quanta alegria perdida, nesse vagão / Entre o tempo do ponteiro para o outro de um relógio / E o tempo sem
pressa! / Mas esse é um tempo em que o homem vai ficando sem tempo / Que levam as pessoas a se submeter
a ellas / Assim vão sendo criadas novas formulas de viver, todos os dias num curto prazo.
E pensando nisso criou-se o carro e o asfalto / Para assim chegar mais rápido! / Criou-se o avião para
chegar aiiiiinda mais rápido! / Achando o homem que tudo isso poderia diminuir / O tempo para se chegar
até você ,que agora também pensa na dificuldade de ter que dar um passo de cada vez, podendo correr.
Porém agora, perceba que ao correr, não mais pisará em terra firma / Mas num asfalto que vai corroer seus
pés tirando sangue até ficar pele e osso.
Quanto vale viver?

Zahy Guajajara1084

Ho già citato questa giovane attivista indigena, nonché poeta, attrice, modella, già tra i leader
dell'altrettanto citata Aldeia Maracanã.
Mi sembra opportuno concludere con lei questa breve e soggettiva selezione di figure che
stanno dando luogo alla rinascita culturale degli indigeni d'America, il Nuovo Mondo, anzi
Abya-Yala.
Come anticipato, riporto in primo luogo l'intervista che mi ha gentilmente concesso per
email nell'agosto del 2013.
1084
http://zahyguajajara.blogspot.it/2014/12/todos-os-meus-sentidos-de-alguma-forma.html.

413
Primeira pergunta:
Qual é a situação da Aldeia Maracanã nesta altura do campeonato: quero a sua opinião,
com certeza mais direta daquela da mídia.
Ate no presente momento os indígenas e apoiadores irão permanecer no prédio ate que seja
feito o modelo de gestão do futuro espaço de memoria dos povos indigenas. O prefeito Eduardo
Paes decidiu tombar a Escola Municipal Friedenreich e o prédio do antigo Museu do Índio
(Aldeia Maracanã) . Tudo isso pela força dos movimentos sociais que tivemos ao nosso lado.
Segunda pregunta (mais pessoal):
Você ainda é muito nova1085, mas, pelo jeito, com as idéias já bem claras, será porque você
tem um ideal importante, que escolheu de seguir até a morte – você mesma o falou na
entrevista para a Revista TPM1086 –, ou acha que seus pais tiveram um papel determinante
nisso? Te pergunto isso porque a maioria dos jovens da sua idade que eu conheço, ou são
muito infantis ainda ou se sentem perdidos, mesmo por não ter ideais, e aí se perdem na
gandaia sem sentido, nas drogas, na vontade de virar ricos e famosos. A proposito, gostei
quando você falou: “Eu quero é lutar pelo meu povo e ter uma vida simples. Não quero
ficar rica, quero ficar conhecida para ter poder de decisão”.
Sim, meus pais tiveram muito a ver certamente, mas meu incentivo maior foi a minha infancia
de menina pobre, passei fome, tinha muitos desejos e insatisfações, vi muitos do meu povo
“perdidos”, alguns no alcool, outros já nem queriam ser índios, pois ser índio já não era honra,
mas vergonha, desde pequena via meus parentes passando fome, os filhos pediam coisas que os
pais não podiam da sociedade que se diz civilizada, que trouxe muita influencia que causa
desejos1087. Fui discriminada por diversas vezes, chamada de índia burra, uma outra vez,

1085
All'epoca aveva 24 anni.
1086
Sara Stopazzolli, “Em nome da terra. A índia Zahy e a luta para a preservação de uma aldeia ameaçada pela Copa
2014”, Revista TPM 126 (2012; http://revistatpm.uol.com.br/revista/126/perfil/em-nome-da-terra.html).
1087
Nel film citato di Marco Bechis La terra degli uomini rossi – Birdwatchers, il suicidio del giovanissimo índio
Irineu è motivato proprio dal fatto che cede ai desejos provocati dalla civiltà dei consumi: con i pochi soldi
guadagnati come bracciante saltuario si compra un paio di scarpe sportive di marca e il padre lo rimprovera
aspramente per aver portato poco alla sua gente. E lo caccia. E lui s'impicca. E il padre, Nádio, il capo guarani-
kaiowá che guida la sua gente a riprendersi le loro terre ataviche da tempo di proprietà di un fazendeiro, si
dispera. L'incidenza di suicidi tra i giovani índios che il film di Bechis illustra drammaticamente è realmente
molto alta. Cfr. Anastácio F. Morgado, “Epidemia de Suicídio entre os Guaraní-Kaiwá: Indagando suas Causas e
Avançando a Hipótese do Recuo Impossível”, Cadernos de Saúde Pública 7, 4 (1991), pp. 585-598; Bruno Paes
Manso, “Por que os índios lideram o ranking dos suicídios no Brasil? O Mapa da Violência”, Estado de São
Paulo, 7/7/2014 (http://sao-paulo.estadao.com.br/blogs/sp-no-diva/por-que-os-indios-lideram-o-ranking-dos-
suicidios-no-brasil/). Da notare che tra i due articoli sono trascorsi 25 anni, ma la tragica situazione non è

414
quando tinha 14 anos, tentei desfilar e participei de um concurso de modelo na minha cidade e
ouvia que “lugar de índio é no mato”, pois não falava bem português, não tinha boas maneiras e
as pessoas tinham raiva dos índios pois os lideres indígenas daquele tempo comandavam o
fechamento da BR que passava pelo meio da reserva indigena onde eu nasci 1088. Sei que assim
como eu passei por isso outros mais também passam por isso e por coisas piores. Hoje percebo
que índio não quer mas apito, agora nos queremos respeito e que nos deem espaço para
mostrarmos que somos tão bons como tal e, claro, sem perder a cultura que é o nosso
patrimônio maior.
O meu ideal, o que devo repetir, que quero ser alguém com poder de decisão. Mostrar que
somos capazes de decidirmos por nos.
Contudo (tercera pergunta, sempre pessoal) você faz a modelo, a atriz, a cantora
(inclusive muito bem), pelo jeito não exclui uma carreira artistica, se bem que a conjuga
muito bem com seu ativismo e sua luta. Mas, me e te pergunto: você quer continuar a
participar de minisséries igual A Selvagem de Santarém1089, onde os índios, aliás as índias
são caricaturas exóticas e eróticas na melhor tradição indianista e também da época da
ditadura, ou quer algo diferente, no espírito do manifesto da Aldeia Maracanã, por
exemplo, e também de algumas suas lindas poesias igual A mulher indígena? (bom, claro
que a minha é uma pergunta retórica).
Bom, A Selvagem de Santarém foi logo quando comecei a fazer teatro, na verdade nunca
procurei ser atriz, nem muito menos modelo ou cantora, tudo isso se deve ao fato de que
pessoas me olharam e viram “algo mais” ser atriz e modelo, nunca me imaginei como tal, mas
as portas se abriram e tudo aconteceu naturalmente e descobri coisas em mim que nem mesmo
havia percebido. Eu fiz teatro durante 6 meses através de uma bolsa que um cineasta que hoje é
meu padrinho conseguiu pra mim: ele me olhou assim que cheguei no Rio de Janeiro. Quanto a
cantar e escrever é meu prazer, é a forma que encontrei de mostrar quem sou e expressar meus
sentimentos e prazeres.
Eu serei bem clara nesta resposta: “Eu quero defender meu povo”, eu posso ficar nua e não ser
vulgar, posso ser médica e advogada sem deixar de ser índia, alias eu posso tudo desde que eu

cambiata. Bruno Paes Manso conclude il suo articolo con questa frase: “Oswald de Andrade, Darcy Ribeiro,
Gilberto Freire, Viveiros de Castro, para citar alguns, podem nos orientar na busca por essas respostas”.
1088
Zahy si riferisce all'interdizione dei lavori per l'autostrada BR-316 che gli índios Guajajaras hanno prodotto e
peraltro continuano a produrre per protestare contro la decisione delle autorità dello Stato di Maranhão e del
governo federale di farla passare proprio attraverso il territorio dei Guajajaras stessi. Cfr. Redazione Globo,
“Índios Guajajaras permanecem ocupando BR-316 em Bom Jardim”, Globo.com, 18/12/2014
(http://g1.globo.com/ma/maranhao/noticia/2014/12/indios-guajajaras-permanecem-ocupando-br-316-em-bom-
jardim.html).
1089
Cfr. cap. II.

415
não me perca no mundo e no que ele oferece. A unica coisa que eu faço é usar tudo isso a
favor, chega de dizerem que índio é bicho do mato! Eles devem aceitar que agora estudamos,
falamos outras linguas e que usamos roupas, e será cada vez mais inevitável quererem que os
índios não fiquem mais presos em reservas.
A proposito de poesia, (quarta pergunta), o que é a poesia para você? Poesia pra quê?
Você já publicou algo, além do blog? Se não, gostaria de publicar? E escreve também em
tupi-guarani ou só em português? Te pergunto isso porque eu conheci uns poetas
"indígenas” quais o peruano José Luis Ayala, que escreve em quechua e principalmente
em aymara, além do espanhol, a chilena mapuche Rayen Kvieh, que escreve em
mapuzugun além do espanhol, o equatoriano Ariruma Kowii, que escreve em quichua e
espanhol. E também conheci o peruano de origem quechua Braulio Muñoz, professor nos
EUA e ensaísta e escritor. Entre muitos outros que, depois de muitos séculos de opressão e
humilhação, querem contribuir a dar uma nova vida à cultura expressada pela língua
deles.
Poesia pra mim é voz do silêncio.
Poesias para que as futuras gerações indígenas saibam quem foi Zahy e possam ser motivo de
orgulho e para os não índios poesia para que nos descubram.
Além do blog, o facebook, somente. Gostaria, sim, de escrever um livro, um sonho, mas sei que
ainda preciso melhorar, minha gramática ainda não e tão boa e tenho dificuldades com algumas
palavras. Mas estou arquivando-as para futuramente.
Não escrevo em tupi-guarani pois existe uma carência muito grande dos povos indígenas, pois
sabem falar, mas muito pouco escrever ou ler e tupi-guarani pois não é cultural, muitos falam e
escrevem bem português porem falam tupi-guarani mais desconhecem a escrita. Mas com
certeza este futuro livro será em português e em tupi-guarani.
Por enquanto tento incentivar a literatura indígena, primeiramente ao que intereça ao índio.
Quinta pergunta: Você acha que todo brasileiro deveria aprender o tupi-guarani?
Sim, pois o tupi-guarani seria a língua oficial, pois os primeiros povos desta terra eram Tupi, o
português é uma lingua invasora, no sentido de não índia, não é fala ou dialeto indígena, mas
foi o índio que foi obrigado a falar português.
Sexta pergunta: Você gosta de ser chamada de índia? Este é um nome, igual você sabe,
inventado pelos conquistadores europeus, aliás pelo meu concidadão Cristoforo Colombo,
que por sinal errou, achando que tinha chegado na Asia oriental. E, pelo que eu lembro,
no Brasil é quase um insulto: quantas vezes ouvi falar: “Nossa, você parece índio!”,
querendo dizer bobo. E também no Equator e no Peru as palabras indio e cholo (que é o
mesmo) são praticamente insultos. Ainda mais que muitas vezes parece que é um nome
que serve pra distinguir os brasileiros (pra não dizer os seres humanos) dos próprios

416
índios, tratados igual estrangeiros na terra deles. Na entrevista citada, por exemplo, se
fala que “sua beleza [no Rio] é exótica e chama muito a atenção”. E outro amigo seu da
Aldeia Maracanã, no outro artigo1090, falou que no Rio o “confundem com mexicano,
boliviano, até chinês”. Você não acha útil ficar emancipados de uma vez por todas desta
cultura ocidental racista para com vocês, e não apenas com vocês, e fazer igual aqueles
nativos que recusam até de chamar o continente América, tendo escolhido de chamá-lo de
Abya Yala, que, na língua dos Kunas de Panamá y Colombia, significa Terra de sangue
vital? Também Brasil tem nome original tupi-guarani: Pindorama. Não tem?
Aos meus ouvidos não atinge, pois é assim que me chamam desde que me conheco por gente,
mas é claro que é errado, eu não acho necessario a exclusão desta palavra, pois hoje todo o
mundo chama os nativos de índios, o que eu penso em relação a isso é que e a sociedade deve
se reeducar e tratar-nos de igual pra igual.
Sim, Pindorama, “Terra das palmeiras”'. Eu penso que não são os nomes que devem ser
mudados, mas a forma de como nos tratam, sim, deve ser mudada.
Sétima e última (por agora) pergunta: o que querem os “índios” do Brasil? Querem
voltar a serem donos da terra deles ou querem ser considerados brasileiros com iguais
direitos que os outros? Quero ligar esta pergunta a uma reflexão: lembro muito bem
como quando estava no Brasil percebi muitas vezes como o brasileiro padrão tem como
um complexo de inferioridade a respeito dos índios deles, considerados inferiores e
selvagens se comparados com os Aztecas e os Incas. Porém o Frei Betto escreveu um
breve conto, Uala, o Amor (o conhece?), dedicado “A todos que, no Brasil, reconhecem
nas nações indígenas uma forma superior de civilização a ser defendida e preservada”.
Espero a sua opinião.
Nós queromos o que é nosso por direito desde sempre, porque reserva indígena? Para manter
uma cultura que ja foi violada? Desculpa a palavra, mas nós fomos estuprados, fomos
dizimados e humilhados, não era para sermos minoria. Não é assim que vão resolver, eles criam
leis em defesa do índio, quando que ao invés de defender eles matam dia apos dia, leis
mentirosas.
O que queremos é mostrar que mesmo sendo índios, podemos ser cidadãos como qualquer
outro. A FUNAI não reconhece o índio que não vive mais na aldeia, quer dizer que o filho que
sai de casa para constituir uma família deixa de ser filho? Nós que vivemos no meio do nosso
povo é que sabemos o que precisamos. Já que nos obrigaram a falar a língua deles e a vestir
roupa, agora queremos usar isso para provar que mesmo com anos de massacre resistimos,

1090
Alessandro Soler, “Quem são os jovens índios que lutam para criar um museu ao lado do Maracanã, no Rio”,
Globo.com, 23/08/2011 (http://oglobo.globo.com/megazine/quem-sao-os-jovens-indios-que-lutam-para-criar-um-
museu-ao-lado-do-maracana-no-rio-2691550).

417
ainda somos os mesmos nativos, falamos a nossa língua, conservamos a nossa cultura. Eu
acredito que ainda vai chegar o dia em que em todas as escolas brasileiras vai ter uma materia
chamada “Tupi/guarani a língua mãe”, onde todos os Brasileiros terão o prazer de falar a nossa
língua.
Bom, espero ter alcançado suas expectativas, agradeço e digo que foi um grande prazer poder
compartilhar um pouco dos meus conhecimentos.

Dalle parole determinate di Zahy Guajajara si percepisce chiaramente la forza di resilienza,


ma anche di costruzione di futuri solidi, che si percepisce anche negli altri “indigeni”
rappresentanti della rinascita culturale delle loro nazioni che si pensavano estinte e invece sono
probabilmente più vitali di quelle “dominanti”.
Il carisma di questa giovane donna è tale – quell'“algo mais” di cui lei stessa parla – che,
come attesta un video disponibile su youtube1091, è riuscita a muovere e commuovere una folla
parlando appassionatamente in tupi-gurani, lingua che sicuramente la stragrande maggioranza
degli astanti non comprendeva, durante una manifestazione di protesta a Rio de Janeiro contro
gli espropri nei confronti dei Guarani-Kaiowá.
Sul suo blog, ancora oggi il principale mezzo di espressione della sua poesia, come lei
stessa ha detto, ha impostato anche soggettive promozioni della cultura della sua gente, anche
tramite il caricamento di video, nonché della lingua tupi-guarani e delle altre lingue indigene del
Brasile, “para que nos descubram”, come ha detto lei stessa con estrema coerenza.
Una volta ha riportato una critica di un lettore nei confronti dei suoi errori di grammatica, a
cui ha risposto così1092:

Bom eu realmente nao sou muito boa de portugues, pois nao tenho nem segundo grau
completo, pois sou do mato, mas sou boa para usar o portugues e passar aquilo que me
proponho, agradeco a critica, pois uma crítica construtiva, porém meu blog nao é para
intelectuais que buscam perfeicao em tudo, até na hora de ler algo. Para isso existem outros
blogs.
Certamente os que leem gostam e nao vao perder seu tempo procurando erros, mas vao tentar
entender o que o texto de fato quer passar ao leitor.
Pessoas que perdem tempo procurando palavras corretas nao faltam, existe uma certa diferenca
entre ''inteligente e sábio'', e cinceramente prefiro ser sábia em minhas palavras.
Eu nao vou deixar de escrever e falar, por nao saber bem como usar o portugues.
1091
https://www.youtube.com/watch?v=h8HBMhNNHaw.
1092
http://zahyguajajara.blogspot.it/2013/09/eu-nao-sou-doutorada-em-nada.html#comment-form.

418
“DAS PALAVRAS EU ESCREVO PARA DAR SENTIDO, NAO PARA PASSAR ALGO
QUE NAO SOU” pois nao sou doutorada em nada.

Di seguito riporto alcuni dei suoi poemi, in attesa che si senta completamente pronta a
scrivere sempre anche in tupi-guarani – ha pubblicato in forma bilingue solo un paio di testi, tra
cui una poesia dedicata al padre, che riporto infra –, come ha auspicato lei stessa.

A mulher indígena
Sou eu a mulher imbatível
Aquela que morre e que mata pelo seu povo
A que não abaixa a cabeça
Sou eu quem chora
Quem grita
Quem sofre
Sou aquela que ama
Que entrega tudo por amor
Sou eu quem vira bicho
Quando me deparo com o devorador
Que se chama HOMEM
Tudo pra não deixar morrer
A minha mãe terra
Sou eu quem tenho insônia
Pensando naqueles que morrem como indigente
E nos que são enterrados vivos
Como eu...
Sou eu aquela que corre pra floresta e vira lenda
Sou eu a mulher que vira macho
Pra não ter que morrer de fome
Sou eu
Eu que imponho as ordens
Porque assim que me sinto forte
E é assim que nasci
Pra liderar
E é assim que vou morrer
Deixando líderes

419
Sou eu
A mulher indígena

Quinka
Carrega seus anos no bigode
Werekó u ar uamutaw rehe
Bonito em sua mocidade
Katú ahy hexakaw itua'u ramumehe
Teve o que o homem quer(mulher)
Hetá tete kakwey kuzan izupé
Mas lhe faltou sorte
Na hetá kwaw kutú katuhaw izipé

Buscou na sua juventude


Uekar ukwarer mehe
O que so pode encontrar agora
Uexak zepé kutari zó
Ontem ele gritou comigo e hoje chora
Karomehe uhaheme ihewe, kutari uzaió

Ele a quem tantos desprezou


A'e kakwew upuruzukaiw amó wanupé
Pede perdao agora
pe puruzukaiw zó ihewe i'i
Perdeu tempo meu velho
ereitak ar he tua'u
Se atrasou
erepitá taikwepe

O caba era sonhador


Uhekó wer kakwew
E queria ser fazendeiro
Tapiak izar romo
O homem que me deixou
A'e awá hereitak ma'e kwer

420
Ele separou-se de uma
Upuir zekaipó amó kuzan wi
E se largou da outra
Upuir wi zekaipó amó wi nó
E firmou-se com a mais louca
Uerekó he'o her ma'e kuran

Ele nao imaginava


Nu me'e kwaw kutú
E o tempo passa
Azé tua'u eté tu'e
E quase perdeu quem realmente os amava
Ueitak tyri kakwew uamuta'r ma'e wa
E hoje so lhe fede o fundo das calcas
Kutari inen hemihar akazap kuran

Ele brinca
U ziarairaiw
E nao se vinga
Naipuruzukaiw kwaw kuran
Voltou a ser menino e ja nao xinga
Uziapó wi kwarer mu nó, na haheme é kwaw kuran
O velho homem se chama Quinka
A'e tua'u here Quinka

Chego em casa e ele sai


A heme tapunap, a'e uheme katupe
De bracos abertos ele me recebe
Hekuapahak he heme mehe nó
E entao eu lhe chamo de pai
Ihé a'e zipé ainé he ru

O Troco / Zipyhaw
Tu

421

que me tinhas como refém
nerekó kakwew he zar romo
era amor pra cá, era amor pra lá
neamuta'r katú eré kakwew tueharupi ihewe
O meu melhor eu te dei e contigo eu até quis casar
Azapó katuhaw ne we, nererekó wer xi kwakwew nó

Mera desilusão
Upaw nezewe aiwer kuran
Te chamando de meu
ihe ne zar a'e kakwew ne we
que motivos agora vejo
Kutari na exak kwaw katuhaw nerehé kuran
se tudo agora em mim morreu
Umanú nezewe aiwer ihew kuran

Não era tu
Ainé kakwew
Que me pedia pra ficar bonita para ti
ere kakwew ihew ezimukatú ihewe
Não era eu que dizia
Ihé ma'u azimukatú ma'u zó kakwew ihy nó
Estou aqui
Aikó xe

Tudo agora mudou


Uziapokatú he rekohaw

E eu me arrumava
A zimukatú kakwew
Me penteava
A zikamumui kakwew
Me perfumava
A zituitun kakwew
Para que outra não pudesse olhar

422
Nezewe zó nu me'e kwaw amó rehe
Eu me ergui
A pu'an kutú kakwew
E então comecei a me cuidar
A zimukatú kakwew kuran

E assim foram os meus dias


Ainezewe aikó kakwew kuran
Para não te perder
A ne zewe zó nerehó kwaw he wi
Me dediquei dia após dia
A zimukatú tueharupi

Certo dia
Amó ar mehe
No espelho me olhei mais uma vez
A me'e wi kakwew zuzakaw rehe
E notei que estava tão bela
Aexak tué he purang-eter haw
Que decidi te deixar vez
Nerezar ta'r kuran

Gemido
Eu sou seu ruido
Seu choro

Eu sou o canto
Que geme na mata sem pudor
Era belo o meu lugar
Virou prisão de escravos
Gritos de dor

Chegaram...
Espelhos e colares
É o que me ofereceram

423
Eu era puro
Eu era gente
Hoje sou cuspe
Um indigente

Me usaram
Me engravidaram

E depois mataram meu filho


O mais belo ser
Seria cacique
Este filho era VOCÊ

Em sua morte
Buscou viver
Na escuridão
No arrepio
Na melodia
Parasitas que sugaram meu sangue
Sem coração.

Agora sou
O que eu era
O que eu nunca serei

424
425
Conclusioni

White domination is so complete that even American Indian children want to be cowboys. It's as if Jewish
children wanted to play Nazis.

Ward Churchill1093

La vostra libertà?!?! / Uoh, ma cosa dici? / Noi ce l'avevamo già...

Litfiba1094

Décidément le sauvage est meilleur que nous. Tu t'es trompé un jour en disant que j'avais tort de dire que Je
suis un sauvage. Cela est cependant vrai: Je suis un sauvage.

Paul Gauguin1095

Mi ha sempre colpito, nell'isola di Neverland1096, frutto originale dell'immaginazione dello


scrittore scozzese James Matthew Barrie (1860-1937), ma pure nel solco della straordinaria
tradizione letteraria britannica che già aveva partorito le idee delle isole di Utopia e New
Atlantis, dando luogo addirittura a un genere letterario a a vari controgeneri 1097, la presenza non
1093

 Da Fantasies of the Master Race: Literature, Cinema, and the Colonization of American Indians, a c.
Annette Jaimes, Common Courage Press, Monroe 1992. Cfr. Michael Yellow Bird, “Cowboys and Indians: Toys
of Genocide, Icons of Colonialism”, Wicazo Sa Review 19-2 (2004), pp. 33-48.
1094
Da Tex, dell'album Litfiba 3 (1988).
1095
Da Lettre CLXXXI a Charles Morice (Atuana, avril 1903), in Lettres à sa femme et ses amis, a c. Maurice
Malingue, Éditions Grasset & Frasquelle, Paris 2003 [1946].
1096
È apparsa per la prima volta nell'opera teatrale Peter Pan, or The Boy Who Wouldn't Grow (1904), con il nome
The Never Never Land, laddove Peter Pan era già apparso nel romanzo The Little White Bird (1902). Cfr.
Giovanna Mochi, Introduzione a James M. Barrie, Peter Pan nei Giardini di Kensington, trad. Carla Vannuccini,
testo a fronte, Marsilio, Venezia 2007, p. 14.
1097
Dalle opere di Thomas More e Francis Bacon, che pure procedono da modelli classici e umanistico-
rinascimentali, quali almeno la Repubblica di Platone e le opere di Erasmo da Rotterdam, ma anche Boccaccio,
Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, è noto come si sia sviluppato il genere appunto detto utopico, nonché
quelli distopico e ucronico e l'eterotropia di Foucault. Trovo notevole il fatto che il confronto con il Nuovo
Mondo abbia avuto un ruolo determinante in tal senso. Cfr. cap. I e Valerio Verra, “Utopia”, Enciclopedia del

426
solo dei Lost Boys e di Peter Pan, or The Boy Who Wouldn't Grow Up, simbolo dell'innocenza
perduta dell'Occidente, ma anche quella dei Native Americans, evidente simbolo dell'innocenza
dell'“altro” stuprata dall'Occidente1098, entrambi i due elementi, alleati tra loro, protagonisti
dell'efficace difesa dell'isola, del loro autoisolamento1099, e di sé stessi, della loro innocenza
appunto, contro i pirati – questi ultimi rappresentazione molto concreta dal punto di vista storico
della rapacità che l'Occidente ha esercitato sul Nuovo Mondo, ben descritta per esempio dalla
lettera di Guaicaipuro Cuautémoc vista nel cap. I –, nonché, ma con meno rischi, dalle tentazioni
delle sirene, le mermaids, che richiamano alla sfida con sé stesso di Odisseo e in genere alla
tradizione pagana così come le invece amichevoli fairies, rappresentazione di quell'elemento
magico-religioso tradizionale, sia dell'Occidente stesso sia degli indigeni, demonizzato dalla
religiosità ufficiale cristiana occidentale1100.
E, parlando di innocenza, che è anche gioia di vivere, felicità, quella felicità che compare
come obiettivo del singolo e della collettività nella United States Declaration of Independence
del 4 luglio del 1776, dopo decenni di maturazione di questo diritto umano nel contesto del
pensiero illuminista, colpisce senz'altro anche la testimonianza del pittore e viaggiatore
statunitense George Catlin (1796-1872), allorché, nell'undicesima lettera del suo Letters and
Notes on the Manners, Customs, and Condition of the North American Indians1101, scrisse:

Novecento Treccani 1984 (http://www.treccani.it/enciclopedia/utopia_(Enciclopedia-del-Novecento)/); Arrigo


Colombo (a c.), Utopia e Distopia, Edizioni Dedalo, Bari 1993; Lewis Mumford, Storia dell'utopia, introduzione
Franco Crespi, trad. Roberto D'Agostino, Donzelli Editore, 1997 [The Story of Utopias, Boni and Liveright, New
York 1922]; Armand Mattelart, Storia dell'utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale, trad.
Sergio Arecco, Einaudi, Torino 2003 [Histoire de l'utopie planétaire. De la cité prophétique à la société globale,
La Découverte, Paris 2000]; Caterina Marrone, Le lingue utopiche, Nuovi Equilibri, Viterbo 2004 [1995];
Claudio Cordella, “Tutta un'altra storia. Ucronia da La svastica sul sole dell'americano Philip K. Dick al
nipponico Full Metal Alchemist”, Living Force magazine 19 (2008), pp. 53-62; Davide D’Orazio, Dall’Utopia
all’Eterotopia. Viaggio nell’immaginario utopico tra Hippie e Virtual world, Università La Sapienza, Roma
2012.
1098
Cfr. Mochi, Introduzione...cit., pp. 21-2.
1099
Analogo a quello di molte etnie indigene dell'Amazzonia ancora oggi. Cfr., tra la vasta bibliografia, Alejandro
Parellada (a c.), Pueblos indigenas en aislamiento voluntario y contacto inicial en la Amazonia y el Gran Chaco.
Actas del Seminario Regional de Santa Cruz de la Sierra - 20-22 de noviembre de 2006 , Grupo Internacional de
Trabajo sobre Asuntos Indígenas (IWGIA), København 2007.
1100
La citata Frances Yates ha pubblicato senz'altro opere significative al riguardo, così come l'altrettanto citato
Gabriele La Porta.
1101
Vol. I, Tosswill and Myers, London 1841, pp. 83-85.

427
Reader, I said these people were garrulous, story-telling and happy; this is true, and literally so;
and it belongs to me to establish the fact, and correct the error which seems to have gone forth
to the world on this subject.
[...] the world have fallen into many egregious errors with regard to the true modes and
meaning of the savage, which I am striving to set forth and correct in the course of these
epistles. And amongst them all, there is none more common, nor more entirely erroneous, nor
more easily refuted, than the current one, that “the Indian is a sour, morose, reserved and
taciturn man.” I have heard this opinion advanced a thousand times and I believed it; but such
certainly, is not uniformly nor generally the case.
I have observed in all my travels amongst the Indian tribes, and more particularly amongst
these unassuming people, that they are a far more talkative and conversational race than can
easily be seen in the civilized world. This assertion, like many others I shall occasionally make,
will somewhat startle the folks at the East, yet it is true. No one can look into the wigwams of
these people, or into any little momentary group of them, without being at once struck with the
conviction that small-talk, gossip, garrulity, and story-telling, are the leading passions with
them, who have little else to do in the world, but to while away their lives in the innocent and
endless amusement of the exercise of those talents with which Nature has liberally endowed
them, for their mirth and enjoyment.
One has but to walk or ride about this little town and its environs for a few hours in a pleasant
day, and overlook the numerous games and gambols, where their notes and yelps of exultation
are unceasingly vibrating in the atmosphere; or peep into their wigwams (and watch the
glistening fun that's beaming from the noses, cheeks, and chins, of the crouching, crosslegged,
and prostrate groups around the fire; where the pipe is passed, and jokes and anecdote, and
laughter are excessive) to become convinced that it is natural to laugh and be merry.
[...] They live in a country and in communities, where it is not customary to look forward into
the future with concern, for they live without incurring the expenses of life, which are
absolutely necessary and unavoidable in the enlightened world; and of course their inclinations
and faculties are solely directed to the enjoyment of the present day, without the sober
reflections on the past or apprehensions of the future.

Considerato il fatto che questa non è certo l'unica testimonianza di una realtà dei popoli
indigeni del Nuovo Mondo in generale pacifici, ospitali e soprattutto felici – già abbiamo
incontrato attestazioni di questo genere tra i “precursori” trattati nel cap. I, da Colombo a Léry a
Blas Valera, per esempio1102 – e considerata però la tragica verità che queste testimonianze non

1102
Per quanto concerne il Nordamerica e la stessa epoca, grosso modo, del viaggio nei territori indiani del Far West
di Catlin, si può far riferimento anche alle testimonianze dello straordinario viaggiatore italiano, bergamasco,
Giacomo Costantino Beltrami, la cui storia è stata approfondita da Luigi Grassia: Un italiano fra Napoleone e i

428
hanno impedito il colossale genocidio che gli invasori europei e i loro epigoni degli Stati
americani postcoloniali hanno commesso (e commettono) nei loro confronti – anzi
probabilmente l'hanno favorito, visto che è senz'altro più facile massacrare i popoli pacifici
piuttosto che quelli guerrieri – , un genocidio anche culturale denunciato come il più grave della
storia umana da studi come quelli citati di Stannard e Todorov 1103, se ne può dedurre che il
carattere fondamentale dell'indigenismo classico, cioè quello prodotto dai non indigeni in
Latinoamerica, sia un vero e proprio senso di colpa, il senso di colpa per aver distrutto, a causa
dell'avidità, il paradiso terrestre – idea quest'ultima che abbiamo visto come fosse ben presente
per esempio tra i gesuiti in Brasile, ma non solo –, un senso di colpa che traspare sempre nelle
opere indigeniste, sia quelle finalizzate a costruire l'identità nazionale dei nuovi popoli degli Stati
postcoloniali d'America, sia, naturalmente, quelle finalizzate al riscatto degli indigeni, ma
persino quelle che, in nome di Dio o del progresso o di qualsiasi altra ideologia “superiore”,
hanno tentato di giustificare il triste destino riservato ai popoli originari d'America da parte dei
loro oppressori.
Anche le giustificazioni di tipo razzista, curiosamente, ma non troppo, affermatesi in epoca
postilluminista, quando in Occidente il metodo scientifico e i diritti umani – come il diritto alla
felicità sopra citato – avevano già preso il campo dei precedenti astrattismi religiosi come l'idea
di guerra giusta e/o santa, di crociata contro gli infedeli o per affermare la vera fede, ecc., per
esempio le varie ideologie relative alla superiorità della razza bianca o ariana che sia e altre
pericolose amenità del genere come il citato darwinismo sociale, che cosa sono in fondo se non
delle mostruose montagne di frottole sotto sui seppellire i sensi di colpa e i rimorsi vari?1104
Il problema sorge nel momento in cui, a un certo punto, però, come hanno insegnato Freud,
Jung e gli altri specialisti dell'inconscio, da quest'ultimo i mostri riemergono, in genere con esiti
molto gravi per tutti1105. E questo può spiegare in parte la disumana violenza che ha caratterizzato

Sioux. Giacomo Costantino Beltrami: il patriota, l'esploratore, il letterato, Il Minotauro, Roma 2002. Cfr. in
particolare il cap. V, Sioux contro Chippewa (pp. 85-106), in cui peraltro si rileva come Beltrami addebitasse ai
condizionamenti dei “bianchi” l'aggressività “selvaggia” degli “indiani”.
1103
Cfr. anche Massimo Livi Bacci, Conquista. La distruzione degli indios americani, Il Mulino, Bologna 2005.
1104
Cfr. Albert Memmi, Le Racisme. Description, définition, traitement, Gallimard, Paris 1982, in cui l'autore ha
scritto, per esempio: “le racisme est la valorisation, généralisée et définitive, de différences réelles ou
imaginaires, au profit de l'accusateur et au détriment de sa victime, afin de légitimer une agression”, e in cui ha
elaborato il concetto di eterofobia, “le refus d’autrui au nom de n’importe quelle différence”, di cui il razzismo è
un aspetto particolare. Un altro saggio notevole e dal titolo già molto significativo di Albert Memmi è Portrait du
colonisé, précédé du portrait du colonisateur (1957).
1105
La Red Latinoamericana y del Caribe para la Democracia (http://www.redlad.org/) ha per esempio di recente
lanciato l'allarme in relazione all'incidenza troppo frequente di episodi di violenza razzista da parte della polizia

429
la storia umana degli ultimi due secoli, nonché quella così profondamente radicata nelle società
americane in genere, dove più dove meno, ma non è certo questa la sede per approfondire questo
aspetto.
È interessante invece rilevare come negli USA, negli stessi anni in cui in Latinoamerica si
sono sviluppati prima l'indianismo e poi l'indigenismo, si sia invece affermato il genere western,
che, come i corrispettivi latinoamericani1106, non è mai stato solo un semplice genere
letterario1107, ma anche un vero e proprio paradigma culturale, per dirla alla Thomas Kuhn1108,
dispensatore di archetipi profondi e coattivi, prima negli stessi USA, quindi nel mondo intero, da
statunitense nei confronti di afroamericani e ha chiesto che urgentemente Obama firmi la Convención
Interamericana Contra el Racismo, la Discriminación Racial y Formas Conexas de Intolerancia. Cfr. RedLad,
“Racismo, principal causa de la violencia en Estados Unidos”, Servicios en Comunicación Intercultural Servindi,
26/12/2014 (http://servindi.org/actualidad/120354?
utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+Servindi+%28Servicio+de+Informaci
%C3%B3n+Indigena%29).
1106
Se c’è una differenza evidente tra il genere western e l'indigenismo latinoamericano, penso che sia il fatto che il
primo fosse basato su una fondamentale demonizzazione dell’“indiano”, stereotipo del nemico, selvaggio crudele
da estirpare dalle terre destinate a essere colonizzate e civilizzate dall’uomo bianco, mentre l’indianismo prima e
l’indigenismo poi sono stati al contrario funzionali al tentativo fondamentale di assimilare nelle società e ancor
prima tra i miti nazionali e nazionalisti dei nuovi stati d’America “latina” gli stessi indigeni – o meglio il loro
glorioso passato, laddove questo non vuol certo dire che siano state operazioni ideologiche meno rovinose per le
nazioni indigene d’America latina. Probabilmente questa differenza è derivata dal tipo di indipendenza dai
rispettivi imperi coloniali europei che gli USA prima e gli Stati d’America “latina” poi hanno realizzato. Infatti, i
coloni nordamericani hanno avuto sin da subito un rapporto conflittuale con le nazioni indigene, salvo qualche
eccezione alleate tutte con gli Inglesi (cfr. Grassia, Un italiano...cit., pp. 83-4), per esempio la potente
confederazione degli Irochesi: è una storia ben raccontata dal film tv The Broken Chain (1993), diretto da
Philippe Monpontet e che racconta la storia del famoso capo mohawk Joseph Brant, alias Thayendanegea. Invece
gli indipendentisti d’America “latina” si sono richiamati sempre, benché più a parole che nei fatti, agli eroi della
resistenza indigena come precursori della loro indipendenza, tra cui i casi più emblematici sono stati senz'altro
Tupac Amaru in Perù (il I più che il II, troppo rivoluzionario anche per gli indipendentisti sudamericani) e
Cuauhtémoc in Messico. Ciò però significa anche che il modello statunitense ha finito per assomigliare
paradossalmente di più a quello dei conquistadores spagnoli, che nei nativi del Nuevo Mundo altro non videro
che degli infedeli da annientare e derubare nel nome di Dio, in una vera e propria crociata il cui patrono fu, come
evidenziato, lo stesso Santiago Matamoros evolutosi in Mataindios. Gli Statunitensi hanno annientato e derubato
gli “indiani” più, forse, nel nome del progresso, della civiltà e della democrazia, ma anche nel nome di Dio, come
ancora nelle odierne guerre USA, in cui, guarda caso, il nemico peraltro è tornato a essere il musulmano come
nelle crociate del passato, con tanto di richiamo al clash of civilizations evocato dal politologo e storico
statunitense Samuel Phillips Huntington. E, nel mondo globailzzato sulla base del modello made in USA, questa
“cultura”, ormai da troppo tempo, sta producendo l’ordinario disprezzo nei confronti dell’“altro”, che si esercita a
partire dal livello legislativo (per esempio nei CIE, giustamente già definiti i nuovi lager, e in genere nella citata
Fortress Europe, nonché nella nuova “Grande Muraglia” del Rio Bravo tra USA e Latinoamerica, che i latinos

430
quando quest'ultimo è dominato dalla subbacultcha made in USA, specie quella cinematografica,
oltre che dal potere politico-militare-economico di Washington.
Luciano De Crescenzo, nella premessa al suo Elena, Elena, Amore mio1109, ha scritto:

Appartengo a una generazione che non ha mai giocato agli indiani e cow-boy. Quali le ragioni
non saprei dirlo: sarà che negli anni Quaranta non erano ancora arrivati i fìlm di John Wayne, o
che Mussolini ci spingeva di più verso la «classicità» che non verso il Far West, certo è che noi
balilla, quando dovevamo fare a botte, preferivamo dividerci in Greci e Troiani piuttosto che in
Sioux e soldati del Settimo Cavalleggeri. La prima guerra tra ragazzi di cui conservo memoria
fu quella combattuta tra la quarta B e la quarta C del Liceo Ginnasio Umberto Primo di
Napoli1110.

Invece mio padre, che era del 1927, quindi di un anno più vecchio di De Crescenzo, ma
non fece il ginnasio e ebbe molto a che fare con le truppe USA già presenti a Lungoni-Santa
Teresa di Gallura (luogo d’origine di mio padre) intorno alla metà del settembre del 1943, non
fosse altro perché gli statunitensi portarono cibo alla popolazione locale affamata, è stato molto
condizionato dall’american way of life e dal cinema di Hollywood, in particolare proprio da quel
John Wayne citato da De Crescenzo, tra i pochi attori-personaggi a rappresentare già in vita una
vera e propria figura archetipica, in particolare a incarnare il genere western stesso e
contemporaneamente e conseguentemente l'aggressiva intraprendenza militare statunitense, tanto
per usare un eufemismo, della quale il primo bersaglio è stato appunto l'indiano, in seguito tutti
gli altri, dal messicano allo spagnolo, al nazista, il giapponese, i “rossi”, fino al “terrorista”
musulmano1111.

chiamano legittimamente la herida abierta) fino al gesto quotidiano, genericamente e troppo sbrigativamente
etichettato entro il fenomeno del razzismo. Cfr. almeno il classico di Richard Slotkin, Regeneration Through
Violence: the Mythology of the American Frontier, 1600-1860, Wesleyan University Press, Middletown 1973.
1107
Cfr. Giorgio Mariani, La penna e il tamburo. Gli Indiani d'America e la letteratura degli Stati Uniti, Ombre
Corte, Verona 2003; Stefano Rosso (a c), Le frontiere del Far West. Forme di rappresentazione del grande mito
americano, Shake edizioni, Milano 2008.
1108
Cfr. The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago-London 1962.
1109
Mondadori, Milano 1991, p. 3.
1110
A corroborare questa testimonianza di De Crescenzo si può citare anche il bel film di Louis Malle, Au revoir les
enfants (1987), da cui in seguito il celebre regista francese ha tratto anche un romanzo omonimo (1993) e in cui si
mostra tra l'altro come i due protagonisti, Julien e Jean, giovanissimi studenti all'epoca dell'occupazione nazista
della Francia, giocassero a crociati contro saraceni, non a cowboy contro indiani.
1111
Cfr. Patricia Nelson Limerick, The Legacy of the Conquest. The Unbroken Past of the American West, W.W.
Norton & Company, New York-London 1987, specie pp. 322-349 e passim.

431
È celebre al riguardo quanto John Wayne stesso affermò in un'intervista nel 1981:

I don't feel we did wrong in taking this great country away from them [the Indians] [...]. Our
so-called stealing of this country from them was just a matter of survival. There were great
numbers of people who needed new land, and the Indians were selfishly trying to keep it for
themselves1112.

Se, in questa affermazione, si sostituisse la parola country con la parola petroleum, a


realizzare la frase “our so-called stealing of the petroleum from them is just a matter of survival.
There are great numbers of people who need it, and they are selfishly trying to keep it for
themselves”, evidentemente ne deriverebbe la spiegazione-giustificazione concreta delle guerre
USA degli ultimi 20 anni, dopo il crollo dell'URSS.
Una spiegazione-giustificazione che, almeno nel mondo occidentale e dintorni, anche
grazie alla diffusione e l'affermazione degli archetipi western come quelli veicolati da John
Wayne e epigoni vari, è generalmente considerata valida1113.
Trovo in tal senso notevole una poesia, Los Malos1114, dell'argentino Carlos Salem:

Cuando era niño y quería ser un héroe


todo era muy fácil.

En la tele
los comanches eran los malos
los alemanes eran los malos
y después
los rusos eran los malos.

Una muchacha rubia y sudafricana


me contó bajo la luna añil de un verano patagónico
que los blancos eran los malos
y su piel desnuda brillaba bajo el agua del lago
como un fuego blanco.

1112
G. Barry Golson (a c.), The Playboy Interview, Wideview Books, New York 1981, p. 269.
1113
Cfr. nel cap. II quanto rilevato a proposito del controllo dell'Amazzonia e delle sue risorse, tra cui c'è tanto
petrolio, peraltro.
1114
In Memorias circulares del hombre-peonza, Editorial Ya lo dijo Casimiro Parker, Madrid 2012, pp. 24-25. Carlos
Salem ha partecipato al XVIII Festival Internazionale di Poesia di Genova nello stesso 2012.

432
Un viejo de donosti1115 me explicó
que los españoles eran los malos.
La hermana de otra chica que
supuestamente
trabajaba en nueva york
limpiando escaleras en las torres gemelas
sabía que los árabes eran los malos
y cuando cae una bomba en gaza
los palestinos no dudan de que los israelíes
son los malos.

Cuando me hice trotsquista


los estalinistas eran los malos
cuando robaba coches
los policías eran los malos
ahora que publico novelas
los cabrones
que venden millones de ejemplares
son los malos.

Sigo queriendo ser un héroe


pero por favor
que alguien me diga
antes de que sea demasiado tarde
dónde están
quiénes son
y si es que existen
de verdad
los buenos.

Quando Carlos Salem dice: “En la tele / los comanches eran los malos / los alemanes eran
los malos / y después / los rusos eran los malos”, è ovvio come si stia riferendo appunto a una
televisione, in tutto il mondo occidentale e dintorni 1116, prepotentemente dominata dai prodotti
1115
Nome basco di San Sebastián.
1116
La “cattiva maestra televisione” di Karl R. Popper nel libro omonimo scritto con John Condry e Charles S. Clark
(a cura di Francesco Erbani, introduzione di Giancarlo Bosetti, Reset, Milano 1994), ma già Pier Paolo Pasolini e
Luciano Bianciardi avevano lanciato i loro strali contro l'ellettrodomestico massificante oggi invero
ridimensionato, ma anche spalleggiato, da altri strumenti di omologazione. Cfr. Angela Felice (a c.), Pasolini e la

433
cinematografici e televisivi made in USA, esattamente come, del resto, succede ancora oggi, e
tra detti prodotti, soprattutto dopo la II guerra mondiale 1117 almeno fino agli anni '80 del XX
secolo, l'ha fatta da padrone il genere western, sia pure con tutte le sue derivazioni e varianti,
come lo spaghetti western di Sergio Leone e i suoi emuli.
E nel genere western classico, quello appunto incarnato da John Wayne, come con
graffiante ironia ricorda Carlos Salem, los malos, i cattivi per definizione e natura, erano gli
indiani – los comanches nella poesia di Salem che usa una sineddoche –, quelli che solo molto
più tardi sono stati “ribattezzati” eufemisticamente nativi americani o popoli originari o First
Nations, ma che tuttora in America Latina, per esempio, sono chiamati, genericamente e spesso
spregiativamente, indios, in spagnolo, índios, in portoghese, esattamente come li aveva chiamati
Colombo.
In USA, a cambiare, anzi capovolgere, questo stereotipo, ci sono voluti film come Soldier
Blue (1970), diretto da Ralph Nelson e tratto da un romanzo dello scrittore western Theodore
Victor Olsen (1932-1993) che inizialmente s'intitolava Arrow in the Sun. Racconta con dovizia
di particolari macabri l'infame strage a tradimento perpetrata il 29 novembre 1864 a Sand Creek
nei confronti di una pacifica comunità di Cheyenne e Arapaho, che aveva da poco firmato un
trattato di amicizia con le autorità USA, da parte di un contingente militare statunitense, di
soldati blu appunto, comandato dal famigerato colonnello John Milton Chivington (1821-1894),
già pastore protestante. Detta strage è considerata quella inaugurale del trentennio, 1860-1890,
delle guerre di sterminio che gli USA praticarono nei confronti degli indiani durante la

televisione, Marsilio, Venezia 2011; Luciano Bianciardi, Il fuorigioco mi sta antipatico, Collana Eretica speciale,
Stampa Alternativa, Viterbo 2007, dove sono contenute le risposte ai lettori del Guerin Sportivo dello scrittore
grossetano negli anni '60, tra cui la seguente profetica frase: “Se vogliamo che le cose cambino, occorre occupare
le banche e far saltare la televisione. Non c’è altra possibile soluzione rivoluzionaria”.
1117
Beau L'Amour, figlio del celebre scrittore statunitense Louis L'Amour (1908-1988), probabilmente il più
importante del genere western, nella postfazione alla graphic novel La Legge del Deserto (a c. Beau L'Amour,
Katherine Nolan, Charles Santino, illustrazioni di Thomas Yates, trad. Michele Triboli, Editoriale Cosmo, Reggio
Emilia 2014, p. 151), tratta da quello che è stato il primo racconto western del padre, Law of the Desert Born,
pubblicato nella rivista Dime Western Magazine nel numero di aprile del 1946, ha scritto: “I western erano stati
l'elemento basilare dei magazine di racconti fin dal 1880, ma, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, la loro
popolarità crebbe”. E Beau L'Amour attribuisce questa crescita di popolarità alla “nostalgia di casa” accentuata
dagli “orrori della guerra” che provavano i soldati USA impegnati sui fronti europei come era stato suo padre. Ma
sicuramente ha influito in modo determinante anche il fatto che il genere western rappresentasse in modo perfetto
il personaggio dell'American Hero vincitore della guerra e incarnato altrettanto perfettamente nell'attore John
Wayne. Curioso come pare che Hitler consigliasse ai soldati della Wehrmacht di combattere i nemici come
facevano i personaggi indiani dei romanzi di Karl May, il suo autore preferito (cfr. cap. I). Si può dire quindi che
la II GM sia stata anche una sorta di riedizione delle guerre indiane USA.

434
campagna del Go West citata nel cap. I, infatti trattata anche nella serie televisiva altrettanto
citata Into the West, nonché oggetto di mesto e poetico omaggio da parte del cantautore genovese
Fabrizio De André nella famosa canzone Fiume Sand Creek, la terza dell'album Fabrizio De
André (1981).
Poi, nello stesso anno di Soldier Blue, è stato lanciato anche l'altro film “revisionista”
Little Big Man, diretto da Arthur Penn e tratto dall'omonimo romanzo di Thomas Louis Berger
(1924- 2014), film che nel 2014 è stato selezionato da parte di una commissione della Library of
Congress per far parte del National Film Registry con la seguente motivazione1118:

In this Arthur Penn-directed Western, Dustin Hoffman (with exceptional assistance from make-
up artist Dick Smith) plays a 121-year-old man looking back at his life as a pioneer in
America’s Old West. The film is ambitious, both in its historical scope and narrative approach,
which interweaves fact and myth, historical figures and events and fanciful tall tales. "Little
Big Man" has been called an epic reinvented as a yarn, and the Western reimagined for a post-
1960s audience, one already well-versed in the white hat-black hat tradition of the typical
Hollywood Western saga. Against a backdrop that includes the cavalry, old-time medicine
shows, life on the frontier and a climax at Custer’s Last Stand, Penn, Hoffman and scriptwriter
Calder Willingham (from the novel by Thomas Berger) upend Western motifs while also still
skillfully telling a series of remarkable human stories filled with tragedy and humor.

Né si può evitare di citare ancora almeno Dances with Wolves, di 20 anni dopo, diretto e
interpretato da Kevin Costner sulla base di un romanzo omonimo di Michael Lennox Blake.
Pluripremiato nel 1991, con Golden Globe Awards e Academy Awards, anch'esso
selezionato per far parte del National Film Registry già nel 2007, è stato quindi salutato in genere
dai movimenti dei nativi americani statunitensi come una grande vittoria, per quanto abbia
ricevuto anche delle critiche, per esempio dall'attivista e attore lakota Russell Charles Means
(1939-2012), che ha rilevato come i dialoghi in lingua lakota fossero, secondo lui, errati e altri
piccoli difetti1119.
Dietro a questo capovolgimento, comunque, va rilevato come ci sia stata non solo la
volontà di un sano revisionismo storico da parte della cultura USA, ma anche e soprattutto

1118
http://www.loc.gov/today/pr/2014/14-210.html.
1119
Dan Skye, “Russell Means: Speaking from the Heart”, High Times, 20/5/2009
(http://www.russellmeansfreedom.com/2009/russell-means-interview-with-dan-skye-of-high-times/). In questa
intervista, in cui Russell Means aveva raccontato la sua storia di attivista e leader dell'American Indian
Movement, aveva tra l'altro offerto le sue schiette opinioni su vari film dedicati ai nativi americani, tra cui
appunto Dances with Wolves.

435
almeno mezzo secolo di dure lotte da parte dell'American Indian Movement e degli altri
movimenti dei nativi statunitensi, con azioni clamorose e in genere represse violentemente 1120
come l'occupazione dell'isola di Alcatraz tra il novembre del 1969 e il giugno del 1971, nonché il
famoso Wounded Knee incident, allorché, tra il 27 febbraio e l'8 maggio del 1973, circa 200
Oglala Lakota e vari membri dell'American Indian Movement furono assediati nella cittadina
presso cui era avvenura la famigerata strage citata nel cap. I e che da loro era stata occupata
proprio per commemorare la strage stessa1121.
Analoghe lotte le stanno combattendo i movimenti indigeni in Latinoamerica.
Tra controversie, repressioni violente, situazioni discutibili e incresciose.
È notizia recente per esempio quella relativa al provvedimento del presidente ecuatoriano
Correa nei confronti della pluricitata CONAIE, alla quale è stato intimato di sgomberare la
propria sede a Quito, tale dal 1991, e di restituirla in gestione al governo, in particolare al
Ministerio de Inclusión Económica y Social (MIES)1122, che la vorrebbe dedicare al recupero di
giovani tossicodipendenti.

1120
Le autorità USA hanno considerato e trattato l'American Indian Movement come un'organizzazione terroristica,
alla stessa stregua dei Black Panthers con cui peraltro l'AIM collaborava. Emblematico il caso dell'attivista nativo
Leonard Peltier, da quasi 40 anni in carcere in quanto condannato a due ergastoli per l'omicidio di due agenti
dell'FBI, ma la cui colpevolezza è considerata dubbia da molti. Cfr. Peter Matthiessen, In The Spirit of Crazy
Horse: The FBI's War Against The American Indian Movement, Penguin Group, New York 1992. Da notare che i
membri dell'AIM hanno accusato il citato Ward Churchill di essere stato proprio un agente dell'FBI in gioventù e
in genere Churchill ha passato buona parte della sua vita a difendersi da accuse varie, anche nei tribunali. Cfr.
http://aimovement.org/mckiernan.html; Joshua Frank, “In Search of Ward Churchill”, CounterPunch, 17/2/2014
(http://www.counterpunch.org/2014/01/31/in-search-of-ward-churchill/).
1121
Alla fine furono uccisi due membri dell'AIM e altri 13 furono feriti, senza contare le altre violenze e gli arresti. Si
tratta di una storia raccontata, in quanto testimone diretta, anche da Mary Brave Bird (1954-2013), che fu moglie
del leader spirituale dell'AIM Leonard Crow Dog, nel suo libro di memorie Lakota Woman (Grove Weidenfeld,
New York 1990), scritto con la collaborazione del giornalista Richard Erdoes e da cui è stato tratto il film Lakota
Woman: Siege at Wounded Knee (1994), diretto da Frank Pierson e in cui l'autrice e protagonista è interpretata
dall'attrice nativa Irene Bedard, presente anche nel cast della citata serie Into the West. Cfr. anche Giorgio
Salvatori, Il Cerchio Sacro dei Sioux, Vallecchi Editore, Firenze 1995, con allegato il video documentario Rai Sì-
Tanka Wokiksuye, dedicato alla cavalcata che è stata organizzata dai movimenti dei nativi negli anni 1987, 1988,
1989, 1990, come ricorrenza del centenario della strage a Wounded Knee, il 29 dicembre 1990, con il fine di
risanare il Cerchio spezzato nel 1890 e celebrare la “Cerimonia dell’Asciugare le Lacrime”, a conclusione
definitiva del lutto per le vittime della strage.
1122
Redazione Servindi, “Gobierno ordena desalojar sede de la CONAIE”, Servicios en Comunicación Intercultural
Servindi, 14/12/2014 (http://servindi.org/actualidad/119694?
utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+Servindi+%28Servicio+de+Informaci
%C3%B3n+Indigena%29).

436
È ovvio come tale provvedimento sia visto come una forma di ritorsione nei confronti
dell'organizzazione indigena che tanto filo da torcere ha dato negli utlimi anni al presidente
ecuatoriano, il quale a sua volta è nell'occhio del ciclone internazionale per la protezione che sta
offrendo a Julian Assange, per cui i media internazionali sono sempre pronti a coglierlo in fallo
per screditarlo nei confronti dell'opinione pubblica mondiale1123.
Anche in Brasile la situazione, tra espropri, minacce rappresentate dalle multinazionali e
dai vari rapaci locali, non è certo rosea, come già ampiamente visto, e l'índio vi rimane
tendenzialmente discriminato e disprezzato. La violenza razzista, sempre viva anche in forme
sottili, in un recente passato ha prodotto il caso clamoroso e tragico dell'attivista pataxó-hã-hã-
hã1124 Galdino Jesus dos Santos, che nella notte tra il 19 aprile e il 20 aprile 1997, nella capitale
Brasilia, dove aveva partecipato alla manifestazione per il Dia do Índio, fu bruciato vivo da 5
giovinastri, rimasti sostanzialmente impuniti, mentre dormiva nel casotto di una fermata dei
bus1125.
Il grande maestro Paulo Freire (1921-1997), a commento di questo grave fatto aveva
scritto1126:

Que coisa estranha, brincar de matar índio, de matar gente. Fico a pensar aqui, mergulhado no
abismo de uma profunda perplexidade, espantado diante da perversidade intolerável desses
moços desgentificando-se, no ambiente em que decresceram em lugar de crescer.

Rimane ancora viva, insomma, la tendenza indianista-indigenista che magari esalta le


civiltà indigene precolombiane ma disprezza gli indigeni contemporanei, che però, come visto,
stanno rialzando la testa e, spesso attingendo alle loro tradizioni rimaste vive grazie all'oralità,
stanno producendo una cultura vivace e ricca, valida non solo per loro, e che soprattutto sta
smascherando i limiti delle pur ricche culture latinoamericane, tra cui l'indigenismo del passato,
nonché di quella occidentale in genere.
Non si può, per esempio, non concordare con José Luis Ayala allorché avverte circa la
minaccia che la globalizzazione culturale, intesa come omologazione a pochi modelli strumentali

1123
Redazione Servindi, “Mundo observa afán de Correa por desalojar a la CONAIE”, Servicios en Comunicación
Intercultural Servindi, 27/12/2014 (http://servindi.org/actualidad/120394).
1124
Cfr. cap. II.
1125
Cfr. Carolina Jardon, “Assassinato do índio Galdino completa 10 anos”, Globo.com, 19/4/2007
(http://g1.globo.com/Noticias/Brasil/0,,MUL23764-5598,00.html).
1126
Dalla terza lettera di Pedagogia da indignação. Cartas pedagógicas e outros escritos, Editora UNESP, São Paulo
2000, p. 31.

437
al consolidamento del sistema di potere dominante 1127, comporta per tutti, laddove l'alternativa
indigena richiama invece al multiculturalismo, a forme di solidarietà sociale, a utopie politico-
culturali e alla difesa dell'ambiente e della salute collettiva – anche quella spirituale 1128 – che
oggigiorno il mondo occidentale, preso nella morsa dell'ansiosa contesa delle risorse, del
“terrorismo” conseguente, del signoraggio e della perdita di valori che sembravano
consolidati1129, non si sogna nemmeno di tentare di realizzare. Al contrario.
Nel 1959 il grande scrittore hondureño Augusto Monterroso (1921-2003), maestro del
minicuento1130, pubblicò il suo primo libro, intitolato ironicamente Obras completas (y otros
cuentos). Nel primo famoso racconto del volume, Mr. Taylor, con magistrale umore nero
Monterroso stigmatizza il neocolonialismo statunitense attraverso la metafora del traffico di teste
umane miniaturizzate promosso nella selva amazzonica – a partire da una reale tradizione
1127
Si tratta di un allarme analogo a quello lanciato, in varie forme, anche da altri importanti e famosi osservatori
della realtà mondiale, quali Noam Chomsky, Boaventura de Sousa Santos, Eduardo Galeano, ecc. Ma penso che,
proveniente dal rappresentante di una cultura indigena d'America, tra quelle che l'Occidente ha tentato di
cancellare completamente dalla storia, e quasi ci è riuscito, abbia un altro valore.
1128
È quasi superfluo ricordare come già in un passato recente personaggi quali Antonin Artaud (1896-1948), David
Herbert Lawrence (1885-1930), Timothy Leary (1920-1966), Albert Hofmann (1906-2008), Ernst Jünger (1895-
1998), Aldous Huxley (1894-1963), Carlos Castaneda (1925-1998), solo per citare i più famosi, senza contare la
cultura hippy e altre culture alternative consimili, abbiano esaltato nelle culture indigene d'America la spiritualità
che procede dai rituali nei quali tradizionalmente si fa anche uso di sostanze stupefacenti, quali il peyotl o
l'ayahuasca, in una forma molto indigenista in senso classico, invero, di valorizzare certe tradizioni
estrapolandole dal contesto culturale di appartenenza nell'interesse dell'istanza propria invece della particolare
forma di cultura occidentale. Quanto si è citato, sinteticamente, in questo studio, a proposito del Sumak Kawsay,
per esempio, o del pensiero di Hernán Huarache Mamani, dimostra come le culture indigene non siano
significative solo per quanto riguarda la produzione di “paradisi artificiali”, a citare Baudelaire. Nella sterminata
bibliografia relativa, mi limito a citare solo Riccardo Badini: “Resistenza indigena e globalizzazione nelle
pratiche rituali della ayahuasca”, in Gianna Carla Marras, Riccardo Badini (a c.), Intrecci di Culture. Marginalità
ed egemonia in America Latina e Mediterraneo, Meltemi Editore, Roma 2008, pp. 203-219; “Riappropriazione
simbolica dell’ayahuasca tra pratiche di rappresentazione e partecipazione politica”, in Riccardo Badini (a c.),
Amazzonia indigena e pratiche di autorappresentazione, Franco Angeli Editore, Milano 2014, pp. 137-150. Li
cito proprio perché Badini mette giustamente in evidenza come gli indigeni si stiano riappropriando, appunto, di
questi rituali tradizionali dopo decenni di strumentalizzazioni e abusi vari alieni. Riporto l'incipit di
“Riappropriazione simbolica...cit.”: “Il sistema di pensiero indigeno amazzonico e la sua intima relazione con
l’ecosistema delineano oggi una zona di incontro conflittuale con gli interessi occidentali che include sia il campo
economico sia quello dell’immaginario con le sue corrispondenze simboliche”.
1129
Cfr. la già citata esortazione allarmata lanciata da Stéphane Hessel (1917-2013) nel pamphlet di successo
Indignez-vous!. Cfr. cap. I.
1130
Iván Guzmán López, “Augusto Monterroso, maestro del minicuento”, El Mundo, 14/2/2013
(http://www.elmundo.com/portal/cultura/cultural/augusto_monterroso_maestro_del_minicuento.php).

438
indigena, tipica dei citati Shuar dell'Ecuador e del Perù, che le chiamano tzantzas –, da parte del
protagonista Mr. Taylor, un avventuriero fallito che fugge da Boston e dai debiti in Amazzonia,
dove è noto come el gringo pobre, in collaborazione con suo cugino, l'uomo d'affari Mr. Rolston,
suo referente a New York.
Mr. Taylor fa scatenare varie guerre tra le tribù indigene con il fine di procurarsi sempre
nuove teste, finché il mercato in USA è saturo, la domanda cala fino a decadere, al punto che
l'ultima testa che Mr. Rolston riceve dall'Amazzonia è proprio quella di Mister Taylor.
Trovo che questo geniale racconto di Monterroso sia addirittura profetico.
L'America Latina, se vuole fornire davvero al mondo intero un modello rivoluzionario di
nueva civilización, sicuramente urgente, dati i tempi che corrono, deve “tagliare la testa” in
modo definitivo alla cultura e al potere coloniali-neocoloniali che ancora vi imperano,
esattamente come Paulo de Carvalho-Neto ha fatto fare a Atahualpa Sobrino nei confronti di
Don Zaguala1131, rivalorizzando soprattutto le culture indigene, mai sopite nonostante il
genocidio subito, oggi come non mai attuali, in virtù dei vigorosi valori fondanti che
trasmettono, specie per quanto concerne la preservazione dell'ambiente e i modelli di
aggregazione solidaria.
Si tratta di una ricetta del resto già promossa da vari pensatori latinoamericani, come il più
volte citato argentino radicato in Messico Enrique Dussel, o l'altro argentino, radicato però negli
USA, Walter Mignolo1132, quast'ultimo sul solco del precedente, peraltro.
Sicuramente, però, a tal scopo è necessario favorire la crescita dei movimenti indigeni,
anziché ostacolarla, come già suggeriva alla fine degli anni '90 il politologo italiano radicato in
Venezuela Emanuele Amodio:

Condizione fondamentale per la realizzazione della prospettiva qui delineata [la crescita dei
movimenti indigeni, appunto] è lo sviluppo di strategie politiche indigene che tengano
compiutamente conto del panorama locale e internazionale degli interessi in gioco e che li
riguardano direttamente e indirettamente. Di fatto, deve rimanere ben chiaro […] che da un lato
il mantenimento propulsivo e la differenza prioritaria della differenza etnica è condizione
dell'essere stesso di queste popolazioni, e dall'altro che i cosiddetti diritti indigeni – alla lingua,
alla differenza culturale, al territorio, ecc. –, più che derivati da una situazione di fatto della
quale in maniera quasi metafisica ogni popolazione parteciperebbe, sono conquiste politiche
1131
Cfr. cap. II.
1132
Semiologo e docente di Letteratura presso la Duke University di Durham (North Carolina), ha pubblicato opere
di notevole riscontro quali The Darker Side of the Renaissance: Literacy, Territoriality, Colonization (1995),
Local Histories-Global Designs: Coloniality. Subaltern Knowledges and Border Thinking (1999), The Idea of
Latin America (2005).

439
specifiche che è possibile raggiungere e mantenere a condizione di produrre la forza sufficiente
per riuscire a difenderle1133.

E la letteratura contribuisce senza dubbio a produrre questa forza.

1133
Emanuele Amodio, Sguardi incrociati. Identità, etnie e globalizzazione, trad. Andrea Chersi, Sicilia Punto L
Edizioni, Ragusa 2000, pp. 188-9.

440
Bibliografia
AA.VV., “A Igreja mente, é corrupta, cruel e sem piedade. Entrevista a Leonardo Boff”, Caros
Amigos, As Grandes entrevistas, Setembro de 1998
(http://www.humaniversidade.com.br/boletins/entrevista_boff_a_igreja_mente.htm).

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(http://www1.folha.uol.com.br/fol/brasil500/reportagens.htm).

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Era, Ciudad de México 2002.

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AA.VV., Cumbre de los Pueblos frente al Cambio Climático, Lima 8-11/12/2014


(http://cumbrepuebloscop20.org/es/).

AA.VV, Diez años de la capitalización, Luces y Sombras, Delegación presidencial para la


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