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Esame di Baccelierato

Versione 2009/2010

TEMA 01 - LA CONOSCENZA FILOSOFICA

Natura della filosofia

La filosofia nasce con la meraviglia. È la scienza propria dell’uomo che ha intelligenza e allo stesso tempo è
limitato. Di fronte alle realtà in cui abitualmente si trova, può provare una grande meraviglia e cominciare ad
interrogarsi sulla sua essenza ed origine. Questo e filosofia. È insieme una scienza ed una passione, perciò
viene chiamato così: amore della sapienza, un sapere distinto del sapere comune per il fatto che è sistematico
e rigoroso (“scire per causas”), e distinto dalle scienze particolari per il fatto che abbraccia tutta la realtà e non
si limita a un certo ambito d’indagine. La filosofia cerca i primi principi e le cause ultime della realtà.

Secondo la classica distinzione tra l’oggetto formale di una scienza e il suo oggetto materiale, la filosofia ha
come oggetto materiale tutto ciò che è e come oggetto formale l’essere, cioè la filosofia considera tutti gli enti
in quanto enti.

La filosofia è una forma particolare di conoscenza. Ogni conoscenza implica una relazione tra un soggetto
intelligente e un oggetto. Nella conoscenza umana (proprio perché è limitata) questa relazione si stabilisce
attraverso un processo. La conoscenza matura, il pensiero si sviluppa e progredisce passo per passo con il
tempo. Per questo la filosofia è nato in un determinato momento della maturazione storica del sapere umano

Si dice abitualmente che la filosofia nasce nella Grecia 600 a. C. Aristotele presenta nella sua Metafisica un
elenco dei filosofi anteriori a lui e delle loro idee. Contemplando la filosofia nel suo sviluppo storico si vede
che nasce quando il sapere viene purificato dagli elementi mitologici, viene sistematizzato e riceve una sua
metodologia d’indagine e che per sua volta da luogo alla nascita delle scienze particolari. I primi filosofi erano
anche scienziati.

Tommaso presenta in vari momenti una visione della storia del sapere, che mostra come la filosofia è diventata
sempre più “filosofica”, cioè avanzata dalle cause e principi prossimi verso quelli più fondamentali e ultimi, è
sempre più avanzata a indagare anche ciò che prima dava per scontato (Lo presenta nella Sth I, q. 44, a. 2 –
nelle Quaestiones disputatae de potentia Dei q. 3, a. 5 e in De substantiis separantis IX, 94). Secondo lui c’è
una prima fase del sapere in cui si considera l’essere dal punto di vista sensibile. Si indagono le cause
accidentali dell’essere che viene ridotto ai suoi accidenti, viene visto come “tale”. Questa sarebbe la fase dei
presocratici. C’è una seconda fase in cui si scopre la composizione sostanziale degli enti e i primi principi. Si
indaga la causalità sostanziale e l’ente viene visto come “hoc”. C’è poi una terza fase in cui si arriva all’indagine
dell’ente in quanto ente e ci si pone la domanda sull’origine del suo essere. Solo in quest’ultima tappa più
profonda, più metafisica è comprensibile per esempio la teoria della composizione tra essenza ed essere.

La filosofia per il fatto che presuppone nulla e indaga tutto, non si fonda su un altro sapere, mentre tutte le
scienze particolari si fondano su di essa. Le scienze particolari non dimostrano il loro oggetto, lo
presupongono, mentre la filosofia è la scienza più radicale che tenta di non avere nessun presupposto.

Fede e ragione

La ragione è limitata e non basta per arrivare alla conoscenza di tutto ciò che si deve o si può sapere. Perciò è
irrazionale non credere, anzi è inevitabile. Con la ragione e le sue operazioni l’uomo coglie la realtà che lo
circonda e il suo significato in modo più immediato e autonomo, mentre in casi che non permettono una tale
conoscenza immediata ci si affida in un atto di fede ad un altro e accetta un sapere che gli viene comunicato
dalla ragione altrui. Tuttavia ogni operazione della ragione umana esige la fede, almeno quella nell’affidabilità

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o nelle capacità della propria ragione e dei propri sensi, e ogni vero atto di fede esige la ragione dell’autorità
a cui si crede e la ragionevolezza del messaggio comunicato.

“La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della
verità.” Questa famosa frase iniziale della “Fides et Ratio” ci offre un’immagine molto suggestiva del rapporto
tra fede e ragione, vale a dire della loro irrinunciabile complementarità. Come il volare con un’ ala sola
risulterebbe un tentativo impossibile e perfino ridicolo, così sarà un’impresa assurda il voler alzarsi alla
“contemplazione della verità” facendo a meno del sostegno di una delle due “ali”, sia essa la ragione o la fede.
Mentre “‘tutti gli uomini desiderano sapere’, e oggetto proprio di questo desiderio è la verità”, la fede e la
ragione costituiscono “due ordini di conoscenza” della verità, da un lato chiaramente distinti tra di loro,
dall’altro inseparabili.

Ci sono frasi famosi di grandi filosofi sul rapporto tra ragione e fede. C’è il passaggio di Platone nel Fedone che
parla della zattera della ragione con cui deve otrepassare il mare dell’esistenza finché non gli viene incontro
una qualche rivelazione divina come mezzo più sicuro. (“quindi, in casi simili, non c’è altro da fare: o imparare
da altri, come stanno le cose, o trovare da sé, oppure, se questo è impossibile, accettare l'opinione degli
uomini, la migliore s’intende, e la meno confutabile e con essa, come su di una zattera, varcare a proprio
rischio il gran mare dell'esistenza, a meno che uno non abbia la possibilità di far la traversata con più sicurezza
e con minor rischio su una barca più solida, cioè con l’aiuto di una rivelazione divina”.) C’è Agostino che dice
che credere è pensare con assenso e osserva che ogni atto di fede richiede uno sforzo della ragione che lo
precede ed un altro che lo segue. C’è Anselmo che parla della “fides quaerens intellectum”. – In tutti e
dappertutto è chiaro che fede e ragione stanno in un rapporto di complementarità reciproca. Quando questo
viene negato – come accade soprattutto in Epoca moderna – di solito è un segno per un concetto sbagliato di
fede o di ragione. La fede viene concepita come irrazionale, per esempio come superstizione mentre la ragione
viene ridotta ad una concezione positivista del mondo. Il modo di superare l’apparente incompatibilità di fede
e ragione è quindi di purificare e chiarire questi concetti.

Filosofia e scienza

In modo simile come fede e ragione anche filosofia e scienza si presentano come due ordini diversi del sapere,
che devono essere distinti se anche sono inseparabili e si fruttificano a vicenda. Molte scienze particolari sono
nati dalla filosofia. Infatti già in epoca antica, ma soprattutto in epoca moderna osserviamo come si schiudono
le nuove scienze all’albero della filosofia e quelli che prima si consideravano filosofi diventano i fondatori di
nuove scienze.

Il rapporto tra filosofia e scienza è per certi versi simile a quello tra fede e ragione. Si distingue però per il fatto
che la filosofia precede le scienze particolari, mentre fede e ragione sono in un rapporto talmente
complementare che nessuno dei due può precedere l’altro. La filosofia precede le scienze nel senso che le da
un fondamento in quanto chiarisce e fonda i principi e concetti propri di ogni scienza. In ambito scientifico
invece i propri principi scientifici non vengono interrogati. Le scienze a loro volta arrichiscono la filosofia in
quanto le offrono dei dati che la filosofia da sola non potrebbe afferrare e che le servono par amplificare la
sua visione della realtà.

È da evitare una visione del rapporto come subordinazione radicale che favorisce interventi illegittimi della
filosofia in ambito scientifico o viceversa. È da evitare pure la separazione netta tra di loro o il disprezzo di una
parte per l’altra. Secondo Comte e la visione positivista della scienza la filosofia deve subordinare alle scienze,
la sua unica funzione consisterebbe nell’unificazione e ordinazione del sapere. La visione proprio opposta è
quella di Cartesio secondo il quale tutte le scienze devono subordinare alla filosofia che avrebbe un’autorità

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quasi despotica su di loro. La visione più adeguata è invece quella classica di Aristotele, che pure attribuisce
alla filosofia un autorità sulle scienze particolari, che però intende come autorità politica, non despotica.
Senz’altro in epoca contemporanea ci sono tentativi sia in ambito scientifico sia in ambito filosofico di stabilire
questo rapporto nuovamente che si era perso un po’ nell’epoca moderna. Il esempio chiaro è che si è voluto
fare anche un analisi filosofica della scienza, della sua natura, il suo oggetto e il suo campo di attività. (Filosofia
della scienza)

Filosofia, fede e teologia

La fede soprannaturale è la fede in Dio che si fonde sulla rivelazione che proviene da Dio stesso. La teologia è
l’articolazione scientifica della fede. Sia la filosofia che la teologia rispondono alle domande più profonde
dell’uomo sull’esistenza del mondo e l’essenza dell’essere e della vita umana, ma si distinguono per il fatto
che la teologia si fonde pure sulla rivelazione divina, mentre la filosofia deve affrontare le domande che le si
pongono con le forze della sola ragione. Se anche è vero che la teologia ha una fonte di più che la filosofia,
non per questo è autonoma rispetto ad essa. La filosofia come l’hanno detto i medievali è “Ancilla Theologiae”
o detto in altri termini: la teologia non è altro che filosofia sulla base dei dati rivelati e per questo può e deve
affidarsi alla grande tradizione e ricchezza della filosofia, non perché dovrebbe completare o corregger la
rivelazione, ma perché possa penetrarla e conoscerla meglio.

Come la nascita della filosofia stessa, anche l’inizio del rapporto tra filosofia e teologia accade in un
determinato momento della storia, cioè nei primi secoli dell’epoca cristiana. I primi Padri della Chiesa (quasi
tutti, Tertulliano è un’eccezione famosa con le sue conosciute parole “che ha a che fare Atene con
Gerusalemme, Socrate con Cristo?”della sua De praescriptione haereticorum) erano persuasi che il
Cristianesimo avesse pienamente rivelato quella verità che i filosofi avevano già visto, sia pure mescolandola
a vari errori. S. Giustino, Apologia II, 13, 4: “Quanto dunque è stato detto bene – da chiunque sia stato detto
– appartiene a noi cristiani”. S. Agostino, De doctrina christiana, II, 40, 60: “Philosophi… si qua forte vera et
fidei nostrae accomodata dixerunt, maxime platonici, non solum formidanda non sunt, sed ab eis etiam
tamquam ab iniustis possessoribus in usum nostrum vindicanda”.

Inoltre, appaiono consapevoli che la rivelazione: – corregge e completa quanto era già stato intravisto

dai filosofi pagani e offre in questi ambiti certezze qualitativamente superiori; – dischiude per l’uomo razionale
prospettive peraltro inattingibili con le sole forze naturali.

Certo la storia del rapporto tra filosofia e teologia è molto agitata. Questo perché non ogni tipo di filosofia è
adeguato per questo rapporto e quando c’erano correnti filosofici inadeguati, il rapporto non era possibile.
Fondamentalmente ci sono due tipi di filosofie che non possono accettare che ci sia una rivelazione
soprannaturale: da un lato una filosofia di stampo relativista, che non cerca la verità, ma la nega, dall’altro
lato una filosofia assolutista di stampo hegeliano che ritiene di poter spiegare tutto con le sole forze della
ragione umana. – C’è però anche un tipo di fede che non accetta una complementazione da parte della
filosofia, cioè un certo fideismo, che tenta ad una concezione delle fede come qualcosa di irrazionale o
assurdo, mentre quello che è vero è che c’è nella fede una dimensione di mistero e di libertà che si sottrae ai
tentativi della ricerca filosofica, che però per questo non è irrazionale e può lo stesso essere oggetto di
contemplazione intellettuale e fonte d’ispirazione del pensiero.

La filosofia vera adatta al rapporto sano con la teologia è quella che cerca le verità ultima, che non perde mai
questo suo desiderio più profondo, e allo stesso tempo è consapevole di non poter raggiungerla da sola. La
vera fede e la vera teologia adatte al dialogo con la filosofia sono quelle che cercano di comprendere in modo

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profondo i dati della rivelazione e che confidano nella forza della verità senza paura di eventuali correzioni di
concezioni sbagliati dei contenuti della fede da parte della filosofia. Tutto questo l’hanno detto in modo
bellissimo e con insistenza Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio e Benedetto XVI nel famoso discorso di
Regensburg.

TEMA 02 - LA LOGICA DEI CONCETTI

L’astrazione

Il concetto è frutto della semplice apprensione che è la prima operazione della mente umana. Gli altri
operazioni sono il giudizio e il ragionamento. Il Concetto si ottiene tramite l’astrazione. Partendo
dall’esperienza sensibile complessa, l’intelletto coglie alcune note delle cose, quelli essenziali, e le astrae,
lasciando da parte le note individuali delle singole cose. Nel concetto l’intelletto coglie l’essenza delle cose. Il
concetto stesso sta nella mente e rinvia alla realtà, cioè l’essenza che è un modo di essere reale nella cosa
concreta. I concetti significano le essenze delle cose, sono un segno che rinvia alla realtà, sono una chiave di
lettura che ci serve per comprendere la realtà. I concetti i arricchiscono e vengono rielaborati tramite
L’esperienza sensibile e il contatto con la realtà.

L’astrazione può fondamentalmente avvenire in due modi, può essere totale, cioè più vicina alla natura di un
essere concreto. Sono i concetti che significano una natura e che si riferiscono potenzialmente anche ad un
essere concreto (uomo). I termini che corrispondono a tali concetti sono i sostantivi concreti. Sono “più
astratti” invece i concetti formali che si riferiscono alla natura universale in modo che non possono essere
predicati degli enti singoli se non per predicazione per modum partis: l’umanità di Pietro. A tali concetti
corrispondono i sostantivi astratti.

Co sono vari gradi di idoneità dei concetti:

sono chiari – quando significano l’essenza con precisione

imperfetti – quando riflettono una realtà in un modo parziale

vaghi – quelli che non permettono di giudicare bene, spesso a causa di mancanza di esperienza concreta

falsi – non propriamente (realmente und concetto non può essere falso), ma quando introducono nel concetto
caratteristiche estranee alla vera essenza della realtà con esso indicata.

I predicabili

Si chiamano predicabili i diversi modi di attribuire un concetto ad un soggetto, in rapporto a qualche altra
proprietà del soggetto.

indica una parte dell’essenza comune ad


Genere
altre specie.
Predicabili
(modi di Essenziale (che si riferiscono significa l’essenza completa
Specie
predicare, dire alla essenza) dell’individuo (elementi definitori)
a attribuire)
Differenza significa la caratteristica propria della
specifica specie, che la distingue dalle altre

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indica qualcosa non appartenete


Proprietà
all’essenza, ma che da essa deriva
Non essenziale (aspetti fuori essenziali necessariamente (accidente necessario)
dal contenuto proprio
dall’essenza) indica la caratteristica di un soggetto,
Proprietà
non risultante necessariamente
accidentali
dall’essenza

Sostanza

Quantità

Qualità

Relazione

Predicamenti o Categorie (generi supremi Azione


della realtà – modi di essere) Passione

Ubi

Quando

Situs

Habitus

I tre predicabili essenziali significano l’essenza di un individuo per modum totius, indicano in potenza il tutto
individuale e significano in atto la parte formale. C’è un ordine tra i diversi predicabili: I generi si predicano
delle loro specie, ma non viceversa. Una specie può essere genere per un'altra specie inferiore. La distinzione
tra genere e specie è di ragione, non corrisponde ad una reale distinzione tra diversi parti composti
nell’individuo.

Secondo l’essenza Normalmente esistono, “sempre o almeno per lo più”

Proprietà Esterni all’essenza Sono possibili, non necessari


accidentali
Contrari Contrari alla sua tendenza specifica
all’essenza

Le proprietà spesso vengono individuate prima dell’essenza. Prima di poter definire una data realtà la
descriviamo, indicando le sue proprietà più rilevanti.

Nozione di analogia

L’analogia è una proprietà dei concetti. Che un concetto è analogo vuol dire che si predica di diversi oggetti
con un significato in parte uguale e in parte diverso. Il concetto di paternità per esempio non significa

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esattamente lo stesso quando viene attribuito alla paternità biologica o alla paternità spirituale, se anche ci
sono elementi comuni a entrambe. L’analogia ci serve molto a comprendere realtà ancora non conosciute
attraverso la loro corrispondenza parziale con altre realtà già familiari a noi, quando le applichiamo concetti
già conosciuti sa anche con un intonazione nuova del loro significato. Abbiamo bisogno dell’analogia proprio
perché siamo limitati intellettualmente e dobbiamo procedere ragionando. Ci sono persino realtà che
possiamo conoscere solo attraverso l’analogia, questo vale soprattutto per Dio. Perciò l’analogia è
imprescindibile sia per la teologia che per la metafisica. Nella modernità l’analogia è caduta in disgrazia, perché
rivela la polivalenza sia del nostro pensiero sia della realtà stessa. Soprattutto il pensiero razionalista voleva
invece che per ogni nozione ci fosse una definizione propria ed univoca. Questo però non rifletterebbe la
realtà. L’uso comune del linguaggio e il modo naturale del ragionare umano rivelano la grande importanza e
potenza dell’analogia.

Analogia del termine e del concetto

Un termine si distingue dal concetto ad esso legato. Il significato del termine si fonde sulla convenzione. Vari
termini – per esempio in varie lingue – possono significare lo stesso concetto, e lo stesso termine può avere
significati totalmente diversi. Il concetto invece non si fonde sulla convenzione, ma è una nozione intellettuale
che coglie l’essenza delle cose alle quali rinvia. Perciò un concetto non può mai essere equivoco, mentre lo
possono essere termini (p.es. riso). Che lo stesso termine abbia significati completamente diversi è per puro
caso. Che un termine è analogo, cioè ha diversi significati che però convengono in alcuni punti, dipende di
solito da vari contesti in cui esso viene usato (si capisce dal contesto che cosa significa p. es. libertà). Termini
che sono univoci sono per lo più quelli che sono definiti dalla tecnica o dalla scienza, come i termini tecnici dei
vari ambiti o le parole inventate per nuovi costrutti oppure termini molti precisi che si riferiscono ad una realtà
molto circoscritta.

I concetti univoci sonno quelli che si predicano di diversi enti con lo stesso significato e nello stesso modo.
Questo perché rispecchiano in questi enti uno stesso modo di essere. Sia la quercia sia la betulla sono alberi,
e l’essere albero non è diversa per l’una che per l’altra. I concetti analoghi invece mostrano che egli enti ci
sono diversi modi di realizzazione della stessa perfezione. Sono concetti che possono essere applicate a
diverse realtà, perché colgono elementi essenziali di essi. Quelle realtà che cadono sotto questo concetto
convengono tutti in una perfezione significata dal concetto, ma differiscono per il modo della stessa
perfezione. È giusto dire che Dio è buono come che la creazione è buona, ma lo sono in modi diversi.

Tipi di analogia

Propria 4/2 = 100/50


Di atto/potenza = forma/materia
proporzionalità Impropria Metaforica: i piedi del monte, le radici di una corrente
Analogia filosofica, il capo del gruppo…
Intrinseca Ex. l’accidente é (partecipa dell’essere della sostanza)
Di attribuzione
Estrinseca Ex. il clima é sano

L’analogia di proporzionalità propria è similitudine. In essa si riscontra la medesima perfezione realizzata in


vari modi secondo l’essere individuale dei soggetti di sui si predica.

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L’analogia di proporzionalità impropria è metaforica. La perfezione non si trova formalmente nell’ente di cui
si predica.

L’analogia di attribuzione è la base dell’analogia di proporzionalità. Mostra che la stessa perfezione presente
in vari soggetti si risolve in un unico principio che ne è la causa (efficiente, formale o esemplare). – Un concetto
si predica di più realtà secondo l’analogia di attribuzione quando si dice di una di loro in tutta la sua pienezza
e delle altre per partecipazione. C’è l’analogato principale che possiede la perfezione propriamente è gli
analogati secondari che possiedono questa stessa perfezione per partecipazione.

L’analogia di attribuzione è estrinseca, quando solo l’analogato principale possiede la perfezione


propriamente, mentre gli altri analogati la possiedono solo estrinsecamente e in modo improprio. San
Tommaso usa per questo l’esempio della salute.

L’analogia di attribuzione è intrinseca quando ambedue possiedono la stessa perfezione propriamente in


modo che l’analogato principale la comunica agli altri. Questa è l’analogia più importante, è quella che
conduce a Dio, che ci comunica il nostri proprio essere.

TEMA 03 - LA LOGICA DELLA PROPOSIZIONE E DEL RAGIONAMENTO

Natura e struttura del giudizio.

Il giudizio è la seconda operazione della mente. In esso componiamo i concetti, attribuendo una proprietà ad
un soggetto mediante io verbo essere. San Tommaso chiama quest’operazione “compositio et divisio”. In esso
riuniamo o dividiamo almeno due termini. Il giudizio è per sua natura non solo una connessione tra concetti
ma corrisponde ad una connessione reale, parlano della realtà. In ogni giudizio si afferma esplicitamente che
qualcosa è o non è. Mentre il concetto di per sé non può essere vero o falso, il giudizio è proprio questo: si
trova sul livello della verità od falsità in quanto giudica la realtà.

La struttura del giudizio si compone di due elementi fondamentali: un soggetto e un predicato. Alle volte il
predicato è un verbo, altre volte è un aggettivo che si attribuisce al soggetto con il verbo essere (la casa è
bella). Il soggetto riceve l’attribuzione, il predicato è il termine che si attribuisce al soggetto. Se il soggetto è
un individuo, spesso il predicato esprime un atto che tale soggetto possiede per partecipazione, cioè il
soggetto non si identifica con tale atto. Se il soggetto è una totalità d’ordine, il giudizio di solito consiste
nell’attribuzione di una perfezione collettiva.

Casi speciali sono

- Frasi con un verbo impersonale, in cui il soggetto non è percepito. Anch’essi hanno un fondamento sostanziale,
il quale si potrebbe esplicitare. (invece di “nevica”, “cade la neve”).
- Giudizi di identità, che realmente non sono attribuzioni di un predicato ad un soggetto, perché non si tratta
nel predicato di una perfezione del soggetto, ma del soggetto stesso. (l’uomo è animale razionale).
- Giudizi di relazione, sono giudizi veri, che attribuiscono una perfezione ad un soggetto, se anche introducono
nel predicato uno o più altri soggetti, e perciò questi giudizi si distinguono da quelli attributivi non relazionali.
(Maria è più bella che Anna)
- Giudizi di predicazione numerica, che dicono che un concetto si predica di un gruppo o un dato numero di
individui. (Le basiliche maggiori a Roma sono 4)

La verità del giudizio.

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Secondo la definizione di Aristotele di verità il vero è dire che è ciò che è e dire che non è ciò che non è quindi
la verità si trova nell’affermare o nel negare qualcosa sulla realtà (qua potrebbe entrare il discorso sulla verità
gnoseologica aristotelica che dopo sarà riformato por Tommaso d’Aquino). Secondo la classica definizione la
verità è “adaequatio rei et intellectus”. Risulta chiaro così, che la realtà non può essere falsa, né il concetto
astratto. La falsità o la verità è una proprietà del giudizio a seconda la sua corrispondenza con la realtà.

Il concetto può essere utile o inutile – il giudizio è vero o falso – il ragionamento è corretto o incorretto.
(Vedere anche che se può parlare di verità nel concetto in modo analogico)

La verità così definita è comunque solo la verità logica, cioè la verità in quanto è colta dall’intelletto. Essa ha il
suo fondamento nella verità ontologica, cioè nell’intelligibilità della realtà stessa che è il trascendentale
“verum” che è convertibile con l’ente stesso.

La verità dei giudizi si fonde perciò sul principio di non-contraddizione: una cosa non può essere e non essere
allo steso tempo e sotto lo stesso punto di vista. Questo principio è anche una legge logica fondamentale. Una
proposizione allo stesso tempo e sotto lo stesso rispetto non può essere vera e falsa. Ossia: è impossibile che
due proposizioni contraddittorie allo stesso tempo siano ambedue vere. Ossia: è impossibile che uno stesso
attributo allo stesso tempo appartiene e non appartiene allo stesso soggetto.

Tutti i giudizi che affermano qualcosa sulla realtà sono o vere o false. (eccetto non si intende di paralare sulla
realtà o non si assente al giudizio, ma presente un dubbio o una opinione). Casi speciali sono però:

- Un’apparente eccezione presentano i futuri contingenti, sui quali non si può propriamente enunciare un
giudizio, visto che la realtà alla quale si riferisce, non è ancora data. Il giudizio non è né vero né falso, ma lo
sarà. (gli enunciati nel passato saranno eternamente vere, quelli in presente sono vere mentre le cose
accadono nel presente, quelli nel futuro saranno vere quando il momento giudicato si realizzerà).
- Giudizi che ammettono un più o meno possono risultare imprecisi. Presentano una verità approssimativa, non
perché la verità stessa non sia del tutto vera, ma perché il giudizio è impreciso e manca qualche chiarezza
rispetto al significato dei termini o al contesto. (cosa significa “grande”, “veloce”, “alto” …).
- Verità relativi non sono propriamente relativi, ma sono i predicati dei giudizi che indicano una relazione che
sono relativi. Rispetto al soggetto in relazione la verità del giudizio è assoluta.
- Verità necessarie e immutabili si danno in quanto si da l’essere necessario e immutabile. Giudizi
necessariamente veri sono quelli che enunciano una necessità essenziale o proprietà inerente ad una natura
e quelli che affermano una verità rispetto all’atti di essere.

Due tipi di giudizi speciali sono le domande e i commandamenti, giacché sono composti da soggetto e
predicato ma non hanno un riferimento diretto con la realtà.

Natura, necessità e scopo del ragionamento.

Il ragionamento è la terza operazione della mente, è il movimento per il quale passiamo da diversi giudizi –
confrontatisi tra di loro – alla formulazione di un nuovo giudizio, che segue necessariamente da quelli
precedenti. Il ragionamento permette alla nostra ragione limitata di passare attraverso delle verità già
conosciute ad altre, dal noto all’ignoto. Il ragionamento non si basa necessariamente sulla realtà. Può lo stesso
partire da proposizioni ipotetiche, poiché il suo elemento fondamentale è la conclusione. Il valore della
conclusione sarà lo stesso delle premesse, se sono vere, la conclusione è vera, se sono ipotetiche, lo sarà anche
la conclusione. La conclusione deve pertanto essere corretta, cioè seguire necessariamente dalle premesse in
modo rigoroso.

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Il ragionamento è composto da premesse alle quali segue la conclusione. Le premesse sono verità già
conosciute, la conclusione è una verità inferita. Il passaggio dalle premesse alla conclusione è l’inferenza
(illatio). Perché li ragionamento sia valido ci si deve tener presente alcune regole fondamentali:

- Ex vero non sequitur nisi verum: se le premesse sono vere lo sarà anche la conclusione.
- Ex absurdo sequitur quodlibet: se le premesse sono false, la conclusione può comunque essere vera,
accidentalmente.
- Una conclusione falsa tratta da un ragionamento corretto rivela che almeno una delle premesse è in parte
falsa.
- Se un conclusione è vera non ne segue necessariamente che anche le premesse erano vere.

L’inferenza ha un suo fondamento nella realtà (anche se c’è una certa indipendenza del pensiero rispetto alla
realtà), non è un mero legame di ragione o coerenza di pensiero. Il principio su cui si fonda è: ciò che gode di
una perfezione, possiede tutto ciò che di essa è implicato propriamente (“per se”). > ciò che si afferma o nega
universalmente di un concetto vale per tutti ciò che cade sotto quel concetto.

Una forma classica del ragionamento è il sillogismo semplice in cui a due premesse segue una conclusione.
Nelle due premesse c’è un termine medio, comune a tutte e due e che deve essere preso sempre nello stesso
senso. Attraverso il termine medio si stabilisce un collegamento dei termini estremi che permette di arrivare
ad una nuova verità, cioè la conclusione. Il predicato della conclusione si chiama termine maggiore, mentre il
soggetto è il termine minore. La premesse nella quale è contenuto il termine maggiore è la premesse
maggiore. La premessa nella quale è contenuto il termine minore è la premessa minore.

Le regole generali del sillogismo sono:

- Il termine medio deve essere preso sempre nello stesso senso


- Il termine medio deve essere preso almeno una volta in tutta la sua estensione.
- I termini devono avere la medesima estensione nella conclusione e nelle premesse (perché un effetto non può
superare la sua causa).
- La conclusione segue sempre la premessa più debole.
- Da due premesse particolari non segue nulla
- Da due premesse negative non segue nulla
- Inoltre bisogna mantenere lo stesso grado di astrazione

Figure - sono le forme che il sillogismo riveste a seconda della posizione occupata dal termine medio nelle
premesse.

Modi – sono le configurazioni d’ogni figura, a seconda che le premesse siano A (universale affermativa), E
(universale negativa), I (particolare affermativa), O (particolare negativa).

I figura II figura III figura IV figura


FèG GèF FèG GèF
HèF HèF FèH FèH
HèG HèG HèG HèG
BARBARA CESARE DARAPTI* BAMALIP*
CELARENT CAMESTRES FELAPTON* CAMENES
DARII FESTINO DISAMIS DIMATIS
FERIO BAROCO DATISI FESAPO*

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(BARBARI) (CESARO) BOCARDO FRESISON


(CELARONT) (CAMESTROS) FERISON (CAMENOP)
H esiste H esiste H esiste G esiste
F esiste
H esiste

TEMA 04 - LA STRUTTURA DELLA SOSTANZA CORPOREA

La struttura sostanza-accidente.

L’osservazione dei mutamenti nelle cose manifesta la distinzione di sostanza e accidenti. Gli enti materiali
subiscono certe modificazioni, come la traslazione locale, la mutazione del colore, l’aumento del peso, ecc.
ma non per questo una realtà perde la sua identità: la cosa permane nella sua sostanza, ma cambia quanto a
certe determinazioni che ne costituiscono gli accidenti. Diciamo allora che questi cambiamenti sono
accidentali: il loro soggetto - sostrato permanente del mutamento - è la sostanza, e la determinazione
acquisita si può chiamare forma accidentale o atto accidentale.

 La sostanza non è semplicemente una somma o collezione di accidenti, bensì una realtà profonda che li
mantiene armonicamente uniti e costituisce con essi un unico ente individuale.

Nozione di sostanza corporea.

La sostanza corporea

Sostanze: Unità dotate di molteplicità.


Ciò che è essenziale (essenza) . Ciò che una cosa è, il nucleo dietro tutte le proprietà. Quidditas.
Sostrato degli accidenti. Portatore e sostegno degli accidenti, che permane nel mutamento. Il fondamento sul
quale si appoggiano gli accidenti.
Ciò che sussiste. Ciò che è in sé e non in altro. > caratteristica principale.

Solo la sostanza è un ente. L’accidente non è propriamente qualcosa in se stesso.

Caratteristiche degli essere del mondo fisico: Estensione, qualità sensibili, sono percettibili ai sensi.
L’estensione è una caratteristica dell’ente corporeo che basta di delimitare il suo ambito. Non si definisce però
solo con questa caratteristica quantitativa la sostanza corporea.
La sostanza viene conosciuta intellettualmente, è intellegibile in sé stessa, è sensibile per accidens.

Non è possibile dare una definizione di “sostanza corporea” trattandosi di una realtà prima, irriducibile ad
altre, si può solo tentare di descriverla, di darne le note caratteristiche.

La Sostanza come essenza - La sostanza ci appare come ciò che è essenziale di una realtà. Dire che è essenziale
vuol dire che essa non è un’insieme di caratteristiche, ma che ci deve essere un nucleo essenziale ed unitario
di questa molteplicità di attributi che conferisce a ciascuna cosa la sua unità e il suo carattere proprio e
fondamentale. Chiamiamo questo nucleo essenza. Qualcosa che non ha essenza non è sostanza.

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La Sostanza come sostrato - La sostanza è il sostrato degli accidenti e permane mentre questi ultimi mutano,
essa è una base che riceve gli accidenti. Gli accidenti stessi sono nella sostanza, essi sono qualcosa che
appartiene alla sostanza. È proprio questo il significato del termine latino Substantia -> Sub-Stare.

La Sostanza come sussistente - La sostanza è “ciò che sussiste”. Sussiste però non nel senso di permanenza.
Sussistere -> Essere in se, avere l’essere come qualcosa di proprio che non dipende direttamente da un’altra
realtà.

Quanto alla specie:

L’esistenza di strutture ben definite nella natura che si riproducono numericamente.

Cioè, verso le quali la natura “tende”, si formano da se stesse in processi ben determinati, che si ripetono
sempre nello stesso modo.

È anche:

Un complesso stabile di proprietà e attività proprie.

Quanto alla sostanza individuale:

Una sufficiente indipendenza operativa.

Gli accidenti sono qualcosa della sostanza e pertanto esistono “in altro”, non sono indipendenti o sussistenti.
La sostanza, invece, ha come proprietà il subsistere, il sostenersi in se stessa. Naturalmente questo non
significa che la sostanza sia assolutamente indipendente, nel senso di non aver bisogno di altri per esistere. La
sostanza non è “l’essere” che non dipende da altro per esistere”, come la pensavo Descartes che la definiva
“res, quae ita existit, ut nulla alia re indigeat ad existendum” (definizione che riprendeva Spinoza e a partire
dalla quale costruiva il suo sistema panteista), ma ciò che “è in se stesso”, cioè che non è “in altro”.

Da quanto si è detto risulta un’importante caratteristica, che introduce la nozione di sostanza nell’ambito
dell’essere: la sostanza è l’ente nel senso più pieno e assoluto. In modo tale che Aristotele nel libro Z della
Metafisica dice che la domanda “Che cos’è l’essere?” equivale alla domanda “Che cos’è la
sostanza?”oúÜúu¡ñ´’s’i/a

La teoria ilemorfica e il suo significato metafisico a partire dall’analisi del cambiamento sostanziale.

Precedentemente abbiamo parlato della composizione di sostanza e accidenti dell’ente corporeo. Ora siamo
giunti ad una struttura più profonda, costitutiva della stessa sostanza, secondo cui questa sussiste come sintesi
di due principi essenziali, l’uno dei quali sostiene l’altro: la materia prima è soggetto della forma sostanziale,
la quale determina la materia ad essere in un modo determinato.

La materia prima non è soggetto sussistente, e come tale manca di essenza o di “contenuto essenziale”;
inoltre, possedendo una forma sostanziale, essa riceve una determinazione che dà all’essere fisico il suo essere
sostanziale. Materia prima e forma sostanziale sono due principi complementari che costituiscono
congiuntamente la sostanza o essenza di ogni corpo; ciascuno di essi non è una sostanza o un ente, ma forma

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una sostanza completa solo in quanto è unito all’altro. Questa unità si può chiamare ilemorfica. (dal greco
“hyle” materia e “morphe” forma)

I mutamenti sostanziali (Cambio sostanziale)

Così come il cambiamento accidentale ci fa conoscere la struttura sostanza-accidenti, allo stesso modo il
mutamento sostanziale ci svela la composizione materia-forma. Infatti noi vediamo come le cose subiscano
profonde modificazioni, passando non solo dall’essere in un modo all’essere in un modo diverso, ma perdendo
anche l’essere in senso assoluto oppure cominciando ad essere in senso assoluto. E’ poi evidente che queste
modificazioni sostanziali , - generazioni e corruzioni -, non implicano creazione né annichilazione: l’animale
morente certo si distrugge come animale, ma non torna nel nulla, bensì si trasforma in altre sostanze. Se però
questa trasformazione è reale possiamo domandarci, che cosa realmente si trasforma? Non c’è più una
sostanza che permane, un soggetto. Qual’è il soggetto del cambiamento sostanziale?

Sembra che non esiste trasformazione ma solo due sostanze separate. Esistono però delle regole stabili e
determinate in questo processo che ci mostrano un legame tra la sostanza A e la sostanza B, una continuità;
deve esistere un soggetto comune. Il soggetto non può essere una sostanza perché in quel caso la morte di un
animale sarebbe solo un mutamento accidentale. Il soggetto sarà perciò un soggetto non sostanziale. Un
soggetto che non possiede la determinazione dell’essere sostanziale, ma possiede la potenza di essere
determinato per diventare una sostanza.

Si potrebbe obiettare che non è necessario far ricorso alla materia prima , dato che i mutamenti sostanziali
possono essere spiegati come la riorganizzazione di un materiale soggiacente. Il sostrato comune del
mutamento profondo sarebbe costituito dalle forze elementari della materia, dalla base fisico-chimica,
dall’energia, ecc., le quali verrebbero ad assumere nuove configurazioni formali. Quando un corpo si trasforma
in un altro, certo vi è una base materiale che si riorganizza in altro modo (atomi, molecole ecc.) Ma questa
base materiale non può essere una sostanza in atto, poiché in questo caso il mutamento sarebbe accidentale.

La molteplicità d’individui della stessa specie

Le strutture essenziali delle cose sono come dei “modelli” comuni che si riproducono in “serie” in una
indefinita moltitudine di individui.

Tale fenomeno indica che questa struttura, cioè la forma o atto formale, entra in composizione con qualcosa
d’altro, in cui quella si realizza o si materializza, cioè con una materia prima di cui tutte le cose sono fatte.
Questa composizione consente di spiegare la somiglianza-dissomiglianza fra gli individui: questa acqua è simile
a quest’altra quanto alla forma, e se ne differenzia perché questa materia non è quest’altra: diciamo così che
due molecole d’acqua differiscono materialmente e si identificano formalmente. Si può dunque dire che la
forma si “moltiplica” nei diversi individui, dato che il modo di essere proprio della forma diventa “reale”
concretamente solo nell’individuo determinato dalla materia.

Materia Prima e forma sostanziale non sono parti o elementi della sostanza ma sono coprincipi metafisici. Essi
non possono essere concepiti come parti quantitative ma determinano l’essere della sostanza, sono
inseparabili. Non sono cose, non sono realtà complete. La materia e la forma si uniscono come la potenza e
l’atto; la materia prima è una potenzialità, la forma sostanziale è l’atto, ma la realtà è la loro composizione.

La Materia Prima
La materia prima è il soggetto primo dell’ente corporeo, principio essenziale a partire dal quale l’ente viene
generato, e che rimane intrinseco alla cosa generata.

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Dobbiamo evitare la tentazione di immaginare i concetti di materia prima e di forma sostanziale perché è
impossibile. La materia prima non potrà mai essere immaginata come un materiale: questa è la materia
seconda.

Soggetto primo: non c’è nulla al di sotto di esso, non esiste altro soggetto precedente a partire dal quale la
materia potrebbe essere fatta.

L’acqua non è una manifestazione dell’ossigeno e dell’idrogeno, essa, quindi proverrà da ciò che non è
“proprio” (formale) dell’idrogeno e dell’ossigeno ma da ciò che essi hanno in comune (materia prima).

La materia non è solo un principio dell’ente in trasformazione ma è intrinseca all’ente generato.

La materia prima è potenza pura.

Non è “qualcosa” che abbia potenza, ma è potenza in se stessa.

Il soggetto primo non ha in se nessuna attualità (nessuna perfezione, nessun modo di essere ) per essere un
sostrato che può acquisire l’una o l’altra forma sostanziale, deve essere priva di ogni determinazione
sostanziale.

La materia prima non può esistere da sola, ma solo sotto una forma sostanziale.

La materia prima non ha un’esistenza fisica ma esiste soltanto come principio metafisico.

Proprietà della materia


A) Ingenerabile e incorruttibile

B) Totalmente passiva (pura capacità ricettiva sostanziale)

C) Né una né molteplice (se la materia prima in se stessa non è atto, non può essere né una né molteplice)

La materia prima non è né sensibile né immaginabile ma puramente intelligibile. Tuttavia anche la sua
intelligibilità è peculiare, poiché essa è una realtà che non si apprende direttamente, bensì attraverso la sua
relazione ad altri enti.

La Forma Sostanziale
La forma sostanziale è il principio intrinseco dell’ente corporeo per il quale questo ha un determinato modo
di essere sostanziale.

La forma sostanziale è il principio intrinseco dell’ente corporeo:

Significa affermare che le cose non sono macchine, che esiste una unità intrinseca. Una unità che guida
l’azione, che fa si che fa si che esistano dei principi spontanei che mantengono e recuperano (se persa) la
struttura originaria.

Per il quale questo ha un determinato modo di essere sostanziale:

La forma sostanziale determina il modo di essere (l’essenza).

La struttura non è la forma sostanziale; la struttura è una realtà osservabile, sperimentale, invece la forma
sostanziale è una nozione di tipo metafisico, non osservabile.

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Non è corretto definire la forma uguale all’essenza poiché l’essenza comprende anche la materia.

La forma sostanziale non è la materia ma non esiste senza di essa, in questo senso possiamo dire:

La forma è il principio specificante e determinativo dell’essere delle cose sostanziali. La forma sostanziale
determina l’essere ma non si identifica con l’essere in quanto tale.

Ogni cosa ha un essere: l’essere delle cose dipende dalla loro forma sostanziale.

La forma:

1) Determina l’essere

2) Dà l’essere

3) Determina le caratteristiche accidentali della sostanza

4) La forma è l’atto primo (perfezione) della sostanza corporea

Unità e gradazione della Forma Sostanziale


La forma sostanziale deve essere unita, non può essere che una.

Nel mondo esistono forme sostanziali che possiedono vari livelli di perfezione (gradazione).

Ogni forma sostanziale è indivisibile anche se tra le varie forme sostanziali esiste una gradualità.

La forma sostanziale è conoscibile, è il principio di intelligibilità. E’ la forma sostanziale che ci permette di


conoscere l’ente.

Conoscere significa sempre conoscere ciò che la cosa è, la forma è ciò che da il modo di essere : conoscere
quindi è conoscere la forma sostanziale; conoscere è avere in me il modo di essere di quella realtà.

Proprio perché immateriale, la forma sostanziale è conoscibile e quindi possedibile.

Conoscere una realtà non significa però cogliere pienamente la sua forma sostanziale.

Principio di individuazione
La forma è uno principio universale. La materia prima è il principio di individuazione nelle sostanze corporee.
La quantità è ciò che permette alla materia prima essere principio di individuazione.

La sintesi sostanziale
1. In senso proprio soltanto la sostanza è.
2. La materia (potenza) è essenzialmente ordinata alla forma (atto).
3. La materia di ogni corpo è proporzionata alla ricezione e al possesso della sua forma (mat.X » form.X). Materia
e forma sono una unità profonda.
4. La materia condiziona o limita la forma (individualità).
5. La forma dei corpi supera la materia ma dipende da essa.
6. Concetto di natura collegato con la forma sostanziale e principio di movimento.

La Natura
Definizioni:

1. “La natura è il primo principio intrinseco della attività dei corpi”

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2. “La natura è l’essenza in quanto principio di operazione”

Nella visione meccanicista le cose non hanno uno principio intrinseco.

TEMA 5 - GLI ACCIDENTI QUANTITATIVI DELL’ENTE CORPOREO

Natura della quantità dimensiva

La quantità dimensiva: natura e caratteristiche


La sostanza corporea manifesta innanzi tutto due proprietà intrinseche fondamentali: la quantità dimensiva e
le qualità. Il nostro studio prende le mosse dall’analisi della quantità dimensiva, proprietà primaria dell’essere
fisico, posto che le altre esistono attraverso la mediazione delle condizioni quantitative dei corpi.

Nozione: Il termine “quantità” esprime un concetto relativo alla grandezza, alla misura, al numero e alla
divisibilità.
È l’origine di due scienze coltivate fin dall’antichità: la matematica, che li considera in modo astratto
(prescindendo dalla loro realizzazione negli enti materiali) e la fisica sperimentale, che studia la realtà
materiale con l’aiuto di concetti quantitativi.
La filosofia della natura si interroga sulla natura stessa della quantità.

Natura: I corpi sono estesi, dotati di una certa grandezza, possono dividersi, aumentare o diminuire in
dimensione, cambiare luogo.
La radice di queste proprietà è il fatto che il corpo ha partes extra partes, che si trovano l’una fuori dell’altra,
e che sono riunite secondo un certo ordine.
Aristotele la definisce considerando la divisibilità: è quantum ciò che può dividersi in parti intrinseche, ciascuna
delle quali è separabile.
La quantità è il primo accidente dell’ente corporeo, derivato dalla sua materia.

La quantità è un accidente realmente distinto dalla sostanza. Ciò che esiste sono i corpi, ma ogni corpo
possiede una certa quantità. La quantità accompagna necessariamente la sostanza materiale e la determina
in un modo intrinseco.
Le posizioni meccaniciste riducono la realtà alla materia e a volte alla pura estensione, ma questa
sostanzializzazione è prendere un’astrazione come reale.
Per ogni sostanza fisica, esiste una determinata quantità di materia necessaria perché possa darsi la
corrispondente forma sostanziale. I mutamenti quantitativi, entro certi limiti, non implicano un mutamento
sostanziale, ma possono arrivare a provocarlo se raggiungono una considerevole rilevanza.

La quantità è il primo accidente della sostanza corporea; le altre proprietà determinano la sostanza attraverso
la quantità.
Alcuni accidenti ineriscono alla sostanza attraverso altri. Secondo tale ordine di natura, la sostanza corporea
è determinata immediatamente dalla quantità.
Le caratteristiche che sono conseguenze della quantità (figura, divisibilità, misurabilità) non si riferiscono ad
un modo di essere specifico, ma si presentano in ogni sostanza materiale.
La quantità inerisce alle sostanze in quanto sono materiali, esprime la disposizione fondamentale della
materia.
Le sostanze spirituali non hanno né quantità né estensione né le proprietà derivanti.

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La quantità è qualcosa di reale, non riducibile ad un semplice prodotto della mente umana, non si tratta di un
ente sussistente, ma in quanto inerente alle sostanze corporee essa è reale.
L’estensione non è il posto dove sono collocati i corpi, ma la dimensionalità stessa della sostanza corporea.

Caratteristiche: Divisibilità, Misurabilità, Individualità

Divisibilità: Da un ente corporeo derivano più enti. È questo il modo infimo di generazione e corruzione delle
sostanze.
Ogni ente materiale è divisibile, giacché possiede un’estensione e, pertanto, delle parti quantitative potenziali.
Non sarebbe nemmeno filosoficamente impossibile l’esistenza di unità minime di materia fisicamente
indivisibile. È però impossibile un ente materiale quantitativamente indivisibile, cioè senza parti, poiché un
tale ente sarebbe inesteso e, pertanto, non sarebbe materiale. Di conseguenza ogni ente materiale è
indefinitamente divisibile.
Ma ciò non significa che i corpi siano costituiti da infinite parti. Il processo di divisione non potrà che
raggiungere un numero finito di parti. Una cosa è la divisibilità indefinita, altro è la divisione attuale che
certamente è impossibile.

Misurabilità: Misurare significa conoscere la quantità di qualcosa paragonandola con altre quantità. La misura
è possibile perché la quantità ammette un più e un meno.
Le unità di misura sono convenzionali, ma si basano su un fondamento reale: l’unità indivia dell’ente
quantitativo.
Ciò che non è quantitativo o che non si considera sotto l’aspetto quantitativo non può essere misurato, ma
solo descritto o paragonato.
La misurazione termina al numero, che è come una parte della quantità considerata in astratto: “numero
astratto o numerante”. Se viene predicato delle cose numerabili, dà origine al “numero concreto”.

Individualità: Individuo è ciò che si distingue da altri enti ed è in sé stesso indiviso. Individuo si contrappone a
universale che può essere posseduto da più enti.
Le perfezioni vale a dire le forme degli enti materiali si possono realizzare in più individui differenti.
Nella realtà queste perfezioni esistono individualizzate.
La radice ultima dell’individualità negli enti materiali è la quantità dimensiva. La materia signata quantitate è
il principio di individuazione.

Altre proprietà:
Delimitazione: Gli enti estesi sono finiti nell’estensione, hanno un limite, che non è rigido né esatto. Attraverso
questo limite entrano in contatto con altri corpi.
Figurabilità: Le diverse forme che i contorno dei corpi possono assumere, soprattutto fra i solidi, danno luogo
alle loro figure.
Carattere additivo: Le dimensioni ammettono essenzialmente un più e un meno.
Tutto-parte.
Ordine spaziale: Essere dentro, in, fra, intorno etc. Distanza tra due parti dell’essere esteso.
Dimensioni: Nell’esperienza gli enti materiali hanno un carattere tridimensionale. Quanto si toglie per
astrazione delle dimensioni, dal volume, sorge la superficie, dalla superfice, la linea, dalla linea si ottiene il
punto.
Proprietà fisiche: Massa, Impenetrabilità, Tangibilità, Densità , Durezza.

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(Le antinomie del continuo


La quantità e il continuo: La quantità funge come principio di diversificazione, ha delle parti estesi diversi le
une dalle altre. Allo stesso tempo deve esserci una continuità tra le diverse parti di una sostanza materiale,
possiede una propria unità.
 La quantità dimensiva è un atto dell’ente corporeo, in virtù del quale questo è divisibile in parti
esterne, sebbene in atto non sia diviso.
 La quantità è continua proprio perché è indivisa in atto, anche se divisibile in potenza.
Questa continuità non si può definire, né dimostrare, perché è una caratteristica primaria della quantità.
Se in una sostanza ci fosse una discontinuità, ciò implicherebbe o l’esistenza di parti corporee prive di
estensione (il che non ha senso) o dovrebbe esistere nella sostanza il vuoto ontologico (o il nulla) il che è
impossibile, perché non ha esistenza reale.
Le parti quantitative di una sostanza costituiscono la manifestazione di un solo atto (la quantità) che inerisce
ad ogni sostanza. Questi parti non esistono in atto, non possono essere contati.
La divisione della quantità continua dà origine alla molteplicità quantitativa o quantità discreta, da essa
derivano enti differenti.
Ogni sostanza ha un unità sostanziale. Quest’unità ammette dei gradi. Quanto più perfetta è una sostanza,
tanto più essa partecipa dell’unità, si realizza in modo più perfetto negli enti spirituali, che non sono divisibili.
Le sostanze materiali hanno un’unità sostanziale appoggiatasi all’unità dimensiva.
Se non vi è continuità non si darà una sola sostanza. La discontinuità quantitativa è invece indice dell’esistenza
di una pluralità di sostanze.
L’ente materiale quantitativo, è uno in atto e molteplice in potenza.

La divisibilità e le antinomie del continuo:


Ogni ente materiale è indefinitamente divisibile. Un ente materiale quantitativamente indivisibile, cioè senza
parti, è impossibile, poiché tale ente sarebbe inesteso e quindi non materiale.
Ma ciò non significa che i corpi siano costituiti da infinite parti. Il processo di divisione non potrà che
raggiungere un numero finito di parti, anche se queste parti saranno sempre ancora divisibile. Una cosa è la
divisibilità indefinita, altra la divisione attuale in infinite parti, che certamente non è possibile.
Infatti ci sono delle realtà indivisibili, come la forma sostanziale e le qualità. In questi casi, però, non si tratta
di “parti” della sostanza, ma di principi o aspetti reali dell’ente.
Esiste un’antinomia tra l’aspetto quantitativo e l’aspetto ontologico dell’ente materiale.
Se l’ente corporeo e sola estensione e non c’è sostanza, le parti dovranno essere parti in atto. Per Kant infatti
le parti sono parti in atto, il che è impossibile in realtà. Ciò che viene prima non sono le parti, ma il composto
che dà luogo alle parti.)

Nozione di luogo e di spazio

I diversi concetti di spazio e il suo rapporto con la realtà


Lo spazio reale: Nella realtà vi sono corpi dotati di una quantità reale estesa secondo certe dimensioni; se
consideriamo le relazioni di distanza, abbiamo lo spazio reale, cioè l’estensione stessa. Questo spazio non è
altro che il rapporto tra i corpi, la superficie, il volume. È in definitiva l’estensione dei corpi, “incarnata” nella
materia.
Lo spazio astratto: Quando si pensa a queste dimensioni in modo astratto, prescindendo dalla materia
concreta, arriviamo allo spazio astratto, che è un ente di ragione. Sebbene non è reale, ha tuttavia un
fondamento nella realtà. Non è ancora lo spazio puro della geometria, ma è la base per tutte le considerazioni
dello spazio nelle scienze.

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Lo spazio geometrico: Ancora molto più astratto dello spazio semplicemente astratto. Astrazione di ogni figura
e di ogni modo concreto dell’estensione. Consideriamo l’estensione astraendola da tutte le sue relazioni al
mondo fisico. Pura dimensionalità. Oggi non più a solo tre dimensioni, ma pluridimensionale. In quelli
geometrie pluridimensionali la relazione ai corpi reali è molto remota. Tuttavia sono state applicate con
successo in alcune teorie della fisica moderna. Ma ciò non dimostra che a queste geometrie corrisponda
qualche tipo di ente reale.
Lo spazio immaginativo: Lo spazio visivo, che sembra avere uno sfondo, diverso di tutto ciò che vedo, sul
quale si collocano le cose. Non posso farne a meno, comunque è soltanto una rappresentazione immaginaria.
Lo spazio assoluto: Lo spazio immaginativo preso sul serio, cioè lo spazio assoluto nel quale si trovano le cose
e che continuerebbe ad esistere pure se non ci fossero delle cose. Lo spazio assoluto non è reale. Sembra
essere un ricettacolo che contiene i corpi. Ma questo ricettacolo, in quanto esteso, richiederebbe a sua volta
un altro, e così all’infinito. Allora non è concepibile né come materiale, né come spirituale (Dio), perché un
ente spirituale non può essere il contenente di enti materiali.
Lo spazio soggettivo: Secondo Kant la nozione di spazio che abbiamo non deriva dall’esperienza (lo spazio
assoluto come noi lo immaginiamo non può essere una nozione a posteriori), ma sarebbe una nozione a priori.
È vero che non possiamo non immaginarlo diversamente, ma non ne deriva necessariamente quanto vuole
Kant.

Luogo, ubi e localizzazione

Che gli enti occupano uno spazio, che sono in un luogo, vuol dire che sono in contatto con altri corpi contigui.
Questo contatto è il fondamento della localizzazione. Attraverso questo contatto contiguo viene fuori
l’accidente ubi. L’ubi non è il luogo, ma l’atto d’essere presente in un luogo. Questa proprietà non appartiene
intrinsecamente all’ente, né ai corpi che lo circondano, ma proviene dal rapporto tra un ente e quelli che lo
circondano. Perciò l’universo non è locato, cioè non è in un luogo. Si trova in un luogo solo un corpo al di fuori
del quale c’è un altro corpo che lo contiene.

Ubi: estrinseco, reale, ma accidentale


(intrinseca è invece l’estensione). Per questo non è indifferente, in qualche caso il cambiamento del luogo può
provocare un cambiamento sostanziale, dovuto alle circostanze cambiate). L’ubi è l’atto di presenza in un
luogo, non è per il corpo il “dove sta”, ma il suo essere lì.

Il luogo: non è qualcosa che appartiene intrinsecamente all’ente locato, non si identifica con le dimensioni
dell’ente locato (giacché può cambiare luogo), non si identifica con le estensioni dei corpi circondanti
(anch’esse possono cambiare senza che cambia il luogo), non si identifica nemmeno con lo spazio vuoto, che
è solo immaginazione. Il luogo è la superficie immobile del corpo contenente immediatamente contiguo al
corpo locato, la superficie non materiale, ma posizionale, come limite. > il luogo è un rapporto, una relazione
tra un corpo e altri che servono come punti di riferimento.
Luogo proprio: gli enti corporei che sono in contatto immediato.
Luogo comune: un insieme di corpi più vasto.
Il luogo è: il primo limite immobile del corpo contenente
Solo un ente corporeo occupa un luogo. Un ente spirituale può avere un certo rapporto con cose materiali.

Modi di presenza: La parte nel tutto (un organo in un organismo)


Un individuo nell’insieme di cui fa parte.
L’atto nel soggetto

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Presenza personale: influsso di potere, cause efficiente (l’artista), conoscenza, amore.

La temporalità come aspetto fondamentale della realtà materiale

Esistere in dimensioni temporali è la condizione della materia.


Durata: la persistenza nell’essere di quanto può cambiare (>il nocciolo della sostanza è la sussistenza non la
persistenza, quindi la persistenza non serve a definire la sostanza).
Tutto nell’ente corporeo è in condizione del divenire.
Ogni ente corporeo è in un certo tempo e ha un estensione temporale che limita la sua esistenza.
Il verbo “essere” connota temporalità. Solo il presente esiste, il passato rimane nel ricordo o nelle sue
conseguenze.

La durata come permanenza nell’essere (non come durata dell’ente che cambia) può essere attribuita a tutte
le realtà, pure a quelle immateriali.
La durata di Dio è l’eternità. Non implica sviluppo, è una presenza. Tota et simul, il possesso perfetto e
simultaneo di una vita senza fine.
L’eternità non è una durata indefinita, non è qualcosa di simile alla durata temporale, come un solo
prolungamento infinito del tempo. (Questo può portare a formulare prove dell’esistenza di Dio che sono
sbagliate).
La durata degli angeli è l’eviternità. La durata più imperfetta è quella delle sostanze materiali: è una durata
che si sviluppa successivamente, non è mai in un momento tutto ciò che è, non è solo divenire, ma è
continuamente in divenire. La sua durata si chiama tempo.

La temporalità umana è qualcosa del tutto particolare, contrassegnata di materialità e spiritualità > trascende
la temporalità corporea, porta con sé una responsabilità morale, e delle virtù ed emozioni come la speranza,
la pazienza, fretta, angoscia … Nella storia della filosofia si presentano molti modi di spiegare la temporalità
umana, da Agostino e la sua famosa frase sul tempo fino a Bergson che distingue quel tempo cosmologico
dalla durata o tempo interiore.

Nozione di tempo. Il quando come accidente dell’ente corporeo

Dio non è nel tempo.


L’uomo che si apre a Dio può partecipare nel tempo all’eternità. L’uomo sta al confine tra tempo è eternità.

Il tempo:
è la misura della qualità/quantità diveniente.
È una misura, allora è relativo, un rapporto. Per misurare devo prendere come unità di misura un altro
movimento > allora è un rapporto tra due movimenti. Se esisterebbe un unico movimento, non esisterebbe il
tempo. È tuttavia possibile un movimento senza tempo, che è il movimento unico.
È l’unica misura che corrisponde al movimento in quanto movimento.
Il tempo è la misura del moto e viceversa: il moto è la misura del tempo.

Tempo reale e tempo astratto:


il tempo è reale, corrisponde a qualcosa di reale: al movimento.
Allora non è solo un numero, ma è un numero qualificato. Non è una costruzione mentale, non dipende dal
pensiero, e alle volte lascia delle tracce.

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Il tempo non è assoluto, non ha un esistenza indipendente del movimento, ma è un misura reale di una durata
reale.

La quantità/qualità diveniente non si dà mai pienamente in atto. È sempre una successione secondo un prima
e un poi, è una quantità/qualità sempre in successione. È analogo riguardo alle parti del continuo.

Il tempo astratto ha il carattere del assoluto a prescindere dal prima e poi.


Senza qualcuno che lo misura non esiste il tempo astratto. Esiste invece come temporalità.
Il prima e poi che costituisce il tempo, esiste senza l’anima. Ma solo con la mente possiamo numerare il tempo.
Sono aspetto soggettivi: l’astrazione, la scelta dell’unità di misura e la misurazione stessa.
Il quando: non è il momento, è l’esistere in un momento.
Il nostro modo di riferirci alla realtà ha sempre l’aspetto del temporale.
C’è una rapporto tra il divenire dell’ente stesso e il divenire degli enti circostanti.
Il quando è un aspetto reale, ma relativo.
È estrinseco se è un rapporto, è intrinseco se riguarda il proprio divenire.
Per situare un ente in un tempo, dobbiamo farlo in rapporto con altri enti (>perciò è impossibile dire che
l’universo sia stato creato in un determinato momento).
Il quando può essere attribuito analogicamente agli essere spirituali, in quanto non sono l’essere puro e
passano dalla potenza all’atto.
Il quando non è attribuibile a Dio, in nessun modo.

Il problema della realtà dello spazio e del tempo

Il problema della realtà dello spazio e del tempo è un problema che si dissolve quando si considera la
differenza fondamentale tra spazio e tempo reale e spazio e tempo assoluto. In realtà spazio e tempo sono
relativi, cioè si costituiscono attraverso relazioni, lo spazio attraverso relazioni tra vari corpi estesi, il tempo
attraverso relazioni tra vari movimenti. Non sono meno reali non essendo assoluti, anzi la loro relatività
corrisponde da un lato perfettamente alla loro appartenenza all’ordine creato, mentre dall’altro rispecchia
chiaramente la realtà dell’esperienza umana comune.

TEMA 06 - LA RAZIONALITÀ DELLA SCIENZA

Sin dalla sua nascita, e sino alla fine del xix secolo, le conclusioni della scienza sono state considerate sicure e
affidabili. Verso la fine del xix secolo, tuttavia, questa fiducia comincia a crollare in seguito al succedersi di
diversi momenti di crisi in molti campi della scienza: matematica (geometrie non euclidee) biologia (teoria
dell’evoluzione) e fisica (la teoria della relatività e la meccanica quantistica). Questo periodo, tra le ultime
decadi dell’Ottocento e le prime del Novecento, viene oggi conosciuto come la crisi della scienze del
Novecento. Esso apre passo, da una parte, alla scienza contemporanea, con lo sviluppo di nuovi campi e nuove
teorie, ormai emancipate dello schema meccanicistico comune al periodo della scienza moderna. Ma segna
inoltre l’inizio di una nuova riflessione sulla scienza, che darà origine all’attuale Filosofia della scienza.

Il circolo di Vienna e la visione logica della scienza

La rivoluzione mostrava che la scienza non ha quella dimensione di necessità che di solito le si attribuiva. Qual’
è allora la natura e il valore della scienza? Che cosa di essa si può aspettare? Come è possibile che una scienza
fondata su dei metodi non riesce a spiegare la realtà? Pensatori che sviluppano uno nuova ermeneutica
scientifica sono Ernst Mach (positivismo estremo), Henri Poincaré (convenzionalismo) e Pierre Duhem
(realismo: le teorie scientifiche non hanno una valore assoluto). Tutti e tre hanno una visione convenzionalista
della scienza: non si arriva con la scienza ad una conoscenza reale, ma solo ad una conoscenza convenzionale.

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La prima e più famosa reazione filosofica al riguardo della rivoluzione scientifica viene dal circolo di Vienna.
Moritz Schlick occupava agli inizi degli anni venti la cattedra di Ernst Mach a Vienna. Intorno a lui si formava
un circolo di scienziati che leggevano e discutevano le opere gli uni degli altri e avevano più o meno le stesse
idee sulla natura della scienza. La loro posizione era il positivismo logico. Il positivismo era un eredità di Mach,
mentre la visione logica gli dava un aspetto nuovo. Fondamentalmente le linee comuni a tutti questi pensatori
possono venire riassunte in tre caratteristiche:

- il positivismo di Ernst Mach


- il logicismo di Bertrand Russell e Gottlob Frege
- la visione linguistica della filosofia espressa da Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus.

Nel 1929 si chiamano Wiener Kreis e presentano uno scritto programmatico Wissenschaftliche
Weltanschauung, composto da Hans Hahn, Otto Neurath e Rudolf Carnap.

Secondo la visione del Wiener Kreis è valido solo ciò che è sperimentabile e il compito della filosofia
consisterebbe nell’analisi della conoscenza in modo tale da risolvere i problemi scientificamente. In senso
proprio non ci sono problemi filosofici. Tutti i problemi di conoscenza sono riducibili a problemi logici-
linguistici. Lo scopo del circolo è l’unificazione della scienza in modo da creare un linguaggio scientifico valido
per tutte le scienze particolari. Sono due i punti programmatici del circolo:

1. Una gnoseologia «empirista e positivistica» nella tradizione di Hume e Mach, secondo la quale soltanto
l’esperienza sensibile diretta è criterio di realtà: «si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati».
Riducono quindi l’esperienza a percezione sensoriale.
2. Una visione logico-linguistica della scienza, così come era stata impostata principalmente da Russell e da
Wittgenstein. Il compito della scienza è di affrontare i problemi, «applicando l’analisi logica al materiale
empirico».
Secondo Wittgenstein ci sono due tipi di proposizioni validi: necessarie, cioè tautologiche nelle quale il
predicato è contenuto nel soggetto; e empiriche, che esprimono fatti. Tutti gli altri proposizioni, come quelli
della metafisica, non hanno senso. Il significato di una proposizione è il suo “valore di verità”, cioè viene ridotto
al livello empirico. Si formula così il principio di verificazione secondo il quale una proposizione ha significato
se e soltanto se è empiricamente verificabile. Moritz Schlick lo dice così “il significato di una proposizione è il
metodo della sua verifica”. In seguito questo creava meolti problemi, perché

- non tutto è verificabile in atto e neanche in principio. Non per tutto è possibile identificare il metodo di verifica.
- Non è chiaro fino a quale punto deve arrivare la verificabilità in principio. Come si verifica teorie che sono
complessi di vari proposizioni e conoscenze?
- Lo stesso principio di verificazione non è verificabile

Alla fine si deve prescindere dal principio di verificazione.

Quello che rimane è il modello della scienza, caratterizzato da due punti fondamentali:

• una struttura pienamente razionale, in quando derivata direttamente dalla logica. Il compito della filosofia
scientifica doveva essere proprio quello di costruire una tale struttura logica valida per la totalità della
conoscenza umana. Questo sarebbe il “linguaggio unificato” della scienza, capace di rispecchiare pienamente
la struttura logica del mondo.

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• una base empirica che dia a tale struttura logica un aggancio positivo nella realtà. La struttura logica del
linguaggio unificato doveva quindi avere come termine dei riferimenti diretti ai dati empirici (i cosiddetti
“protocolli osservazionali”).
Secondo questa concezione la scienza sarebbe caratterizzata da una struttura assiomatica. A partire dai
principi formula teorie che poi si rispecchiano e vengono confermate dai dati dell’osservazione empirica. La
base empirica ha un doppio ruolo: serve per formulare le teorie in un momento induttivo, e per confermarle
in un momento successivo. Questa concezione della scienza costituiva tuttavia un certo solipsismo, che non
poteva superare.

L’eredità del positivismo logico del circolo consiste nella visione della filosofia come analisi logica della scienza.
Dopo la dispersione del circolo nel mondo anglo-sassone alla fine degli anni trenta avviene il contatto con il
pragmatismo anglo-sassone. Si creano cattedre di filosofia della scienza. Il fallimento del positivismo logico
rigoroso, del principio di verificazione e del tentativo di creare un unico linguaggio scientifico conduce ad una
perdita di radicalità. Rimane la visione della filosofia come analisi della struttura logica della scienza e la visione
della scienza come struttura logica legata ad una base empirica. Ma le difficoltà sorte nei tentativi del
positivismo logico costringono ad accettare, oltre ai termini puramente logici e puramente osservativi un terzo
livello: i termini teorici. La scienza, quindi, sarà considerata come un sistema logico che include tre tipi di
termini:
• termini logici, con funzione semplicemente connettiva fra i termini o le proposizioni
• termini osservazionali: quelli che hanno un preciso riferimento empirico
• termini teorici: non sono osservazionali ne logici, ma per mezzo di alcune regole di corrispondenza, possono
essere messi in rapporto con i termini osservazionali (questo permette risolvere il problema dei predicati
disposizionali).
La concentrazione sugli aspetti logici del metodo scientifico porta alla considerazione unilaterale della
struttura interna, mentre rimangono fuori della considerazione gli aspetti esterni (storici, sociologici …). Perciò
l’orizzonte rimane scientista. Putnam lo chiamava “the received view”, puntando sulla sua tendenza
dogmatista.

Razionalità critica nel falsificazionismo popperiano

Karl Popper (1902-1994) si poneva il problema della demarcazione della scienza. Voleva trovare il criterio che
serve a distinguere scienza da pseudo-scienza ed arrivava così a criticare la verifica empirista che non serve a
questa distinzione. Paragona sotto questo rispetto il Marxismo “scientifico”, la Psico-analisi di Alfred Adler e
la teoria della relatività di Albert Einstein. Solo l’ultima era vera scienza. Mentre le prime due so concentravano
sulle conferme delle loro teorie e ogni fatto poteva essere interpretato come conferma, Einstein prese in
considerazione una possibile confutazione: se i risultati dell’esperimento di 1919 fossero stati diversi Einstein
aveva dichiarato che la sua teoria non fosse valida.

Popper critica il verificazionismo, perché

- non è capace di individuare le pseudo-scienze


- non è la verificazione empirica che da significato alle cose
- lascia fuori della scienza molti elementi fondamentali per la scienza, cioè tutti gli aspetti teorici.
 La verifica empirica non serve per la demarcazione della scienza.

Di solito per giustificare una teoria serve un metodo o induttivo o ipotetico-deduttivo. Secondo Popper
ambedue non valgono. L’induzione non vale, perché un numero ristretto di osservabili non dice niente di
definitivo sulla realtà, arriva al massimo ad una certa probabilità che non basta per fare scienza. La deduzione

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perché gli stessi principi che si presuppongono non sono giustificabili con dei fatti: a partire dai fatti on si può
concludere nulla sulla validità della teoria

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A →a
a
n
on è un sillogismo valido
A

A →a
A
i
nvece sì
A

Ma il fatto sta che A non si può giustificare solo a se A è vero. L’unica possibilità consiste nel mostrare
l’invalidità di un teoria:

A →a
¬a
il
modus tollendo tollens invece è valido. Questa è l’unica possibilità di formare un
¬A
g
iudizio valido sulla teoria: mostrare che è falsa.

Popper giunge quindi ad una nuova concezione della scienza che supera il received view e l’orizzonte scientista
del circolo di Vienna. Valido non è quello che è empiricamente affermato, ma ciò che non è ancora falsificato.
La scienza non deve tentare ad affermare le proprie teorie, ma a falsificarle per mostrare la loro resistenza ad
ogni prova rigorosa. Solo così si riesce a portare a luce la pseudo scienza, mentre si conserva il valore della
metafisica, perché si conserva il significato dei concetti del livello non empirico ma razionale. Anche una teoria
metafisica pur non essendo falsificabile, deve essere criticabile. L’atteggiamento della razionalità critica di
Popper porta ad una concezione della scienza che è sempre fallibile, non definitiva e delle teorie scientifiche
come congetturali.

Kuhn e l’approccio storico sociologico alla scienza

Thomas Kuhn (1922-1996) si è avvicinato alla filosofia della scienza a partire da una prospettiva storica.

È accordo non Popper sul fatto che nella scienza ci sono rivoluzioni (il che invece non ammetteva la visione
scientifica del positivismo e del circolo di Vienna secondo la quale l’unico cambiamento era un allargamento
del campo del sapere). Differisce da Popper in quanto ammette altre ragioni per le rivoluzioni scientifiche che
la logica interna della scienza. Per Popper ogni rivoluzione era un passaggio logico. Kuhn vede alla radice delle
rivoluzioni anche ragioni di tipo filosofico, storico, sociale …

Kuhn distingue tre tappe nella storia della scienza, che si ripetono. C’è prima un periodo di “scienza normale”,
in cui si lavora all’interno di un paradigma. La limitatezza del paradigma da origine ad un certo numero di

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problemi ed anomalie, che con il tempo si accumulano fino al punto che cominciano a creare complicazioni
serie.

Si passa poi alla seconda tappa che è quella della “scienza straordinaria”, in cui si propongono altri paradigmi
alternativi, tra i quali c’è una sorte di competizione, fino al momento in cui uno riesce a convincere perché si
mostra più efficace degli altri.

Si arriva così alla terza tappa che è di nuovo un periodo di “scienza normale” entro l’orizzonte del nuovo
paradigma.

Il paradigma è molto di più che una teoria, è una visione del mondo, come per esempio il paradigma tolemaico.
Perciò Kuhn ritiene incommensurabile un paradigma con un altro, non ci sono criteri comuni tra diverse
paradigmi, non hanno un fondo comune sula quale si potrebbero paragonare, e quindi non ci può essere un
passaggio logico da un paradigma ad un altro. Il salto di paradigma è invece un vero salto, è piuttosto una
domanda di fede. Questa posizione di Kuhn è stata criticata. Sembra che non si pone la domanda sul
fondamento ultimo della scienza, cioè la domanda sulla verità.

TEMA 07 - LA CONOSCENZA

La conoscenza come assimilazione intenzionale

La conoscenza è un atto che consiste in un rapporto tra due poli: il conoscente e il conosciuto. Questo rapporto
è l’assimilazione intenzionale della forma del conosciuto da parte del conoscente. Questa assimilazione
intenzionale immateriale è possibile solo per un essere spirituale, e perciò serve anche – per esempio a Platone
nel Fedone – a mostrare che l’anima umana che è in grado di conoscere è spirituale e quindi immortale.

L’assimilazione intenzionale è un atto

- personale
- un rapporto con la realtà esterna a noi e colta dai sensi,
- ma essendo un atto dell’intelletto è immateriale (sec. Aristotele: possedere una forma senza la materia).
- allo stesso tempo immanente (e quindi non implica una perfezionamento dell’oggetto conosciuto, ma solo del
soggetto conoscente)
- e intenzionale (cioè non rivolto al soggetto stesso, ma alla realtà esterna ad esso)

È importante aver presente che l’immanenza e la trascendenza vanno di pari passo e si trovano in un grado
più alto negli enti più perfetti. I filosofi moderni perdono di vista il lato transitivo, perdono il senso classico
dell’intenzionalità e cadono nel rappresentazionismo. Ritengono che l’atto conoscitivo sia una identificazione
immediata tra oggetto e soggetto, in modo che non si conosce propriamente la realtà, ma solo degli immagini
della realtà, e l’oggetto della conoscenza diventa in qualche modo la conoscenza stessa. Per Tommaso
l’intenzionalità nell’atto conoscitivo significa anche una identificazione tra il conoscente e il conosciuto, in
modo tale che l’anima umana “est quodammodo omnia”, ma si tratta di un’identificazione non immediata tra
soggetto e oggetto. I due poli dell’atto conoscitivo, conoscente e conosciuto, sono irriducibili, e tra di loro c’è
un termine medio rappresentativo dell’oggetto che è la specie intenzionale.

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La specie intenzionale

La specie intenzionale è l’oggetto conosciuto nel modo in cui è presente nel soggetto conoscente, cioè senza
la sua materia. In questo senso è possibile dire che l’atto di conoscere è immateriale e ha un oggetto
immateriale, anche se la specie intenzionale rimanda sempre implicitamente alla realtà materiale che è colto
attraverso di essa. La specie intenzionale non è quindi quod si conosce, ma quo si conosce.

Il concetto di “specie intenzionale” chiarisce il modo in cui la forma dell’oggetto conosciuto è presente nel
soggetto conoscente e che è diverso dal modo in cui è presente nell’oggetto conosciuto stesso. Nell’oggetto
la forma è naturale (sostanziale o accidentale) cioè causa l’essere dell’ente in cui è presente, perché è, per così
dire, la formula secondo la quale è fatto. È quindi l’unica sua forma e se l’oggetto riceve un’altra cambia il suo
stesso essere (sostanziale o accidentale) e diventa un'altra cosa. Nel soggetto conoscente invece che riceve la
forma come specie intenzionale, la forma non ha effetti sul suo stesso essere, ma lo arricchisce interiormente,
è ricevuta senza materia e senza implicazioni sulla materia del conoscente, e perciò il conoscente può
possedere intenzionalmente molte forme allo stesso tempo. Per questo la capacità di conoscenza è segno di
una natura con un apertura e un’interiorità potenzialmente infinita (quodammodo omnia), che si deve però
distinguere dall’infinitezza di Dio, perché è solo “quodammodo”, cioè nel modo di conoscere, mentre Dio è
assolutamente infinito secondo il suo proprio essere.

Conoscenza ed essere

La conoscenza è strettamente legata all’essere, perché ogni conoscenza è conoscenza dell’essere ed è un atto
proprio ad un modo determinato di essere, cioè al modo di essere degli enti spirituali.

Le cose si conoscono nella misura in cui sono (modus essendi). Conoscere qualcosa significa, rendersi conto
che è e come è. Risulta comprensibile ogni ente in quanto è, e nella misura in cui è. I diversi modi di essere
corrispondono a diversi modi di conoscenza. La conoscenza sensibile (che nell’uomo è incorporata
all’intelletto) si riferisce a certe forme qualitative e quantitative dei corpi. Mentre l’intelligenza si riferisce
all’essenza delle cose, cioè conosce tutte le cose in quanto sono. Ci sono diversi gradi di essere. L’essere più
perfetto risulta anche più intellegibile. Comunque tutte le forme di essere si comprendono a partire dall’essere
in atto:

- le negazioni si riferiscono ad esseri esistenti che conosciamo e a partire dai quali comprendiamo anche cosa
significa la loro non esistenza.
- La privazione è un modo di essere che manca di una perfezione essenziale della propria natura, comprendiamo
la privazione a partire dall’essere completo di questa natura.
- I modi di essere come potenziale, possibile, irreale, possiedono tutti qualche realtà in atto alla quale si
riferiscono, e in riferimento alla quale si comprendono.
- Quello che non si comprende e non si può neanche pensare è il nulla, cioè l’assenza assoluta di essere.

La realtà è conosciuta secondo il modo di essere del conoscente (modus cognoscendi). “Il modo della
conoscenza segue al modo di essere della natura del conoscente”, poiché “il conosciuto sta nel conoscente
secondo il modo del conoscente” Tom. Nell’animale che non ha intelligenza non c’è conoscenza in senso
proprio, ma solo in modo analogo: “conosce” le cose secondo alcuni dei loro aspetti accidentali. L’uomo invece

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è veramente dotato di intelligenza e perciò la sua conoscenza non si limita ad una particolarità ristretta, ma
coglie l’essere di qualsiasi cosa, il che la rende assolutamente universale. Quest’universalità costituisce la
spiritualità dell’uomo e insieme la sua libertà e dignità. Allo stesso tempo la conoscenza umana è limitata: è
condizionata dal suo modo di essere corporale, il che fa sì che il suo pensiero deve progredire ragionando e
che l’oggetto proprio della sua conoscenza è l’essere delle cose sensibili, mentre concetti astratti sono
comprensibili per lui solo a partire dalla conoscenza degli enti sensibili e la conoscenza degli enti puramente
spirituali non è per lui qualcosa di immediato. Il suo modo di conoscere è condizionato dal suo essere
materiale, che però allo stesso tempo trascende infinitamente. Oltre alla condizione corporale la conoscenza
umana è limitata dalla mediazione della soggettività nella dimensione della sua prospettiva epistemica. Gli
abiti e metodi del soggetto condizionano la sua conoscenza, aprono a certe aspetti della realtà e chiudono ad
altri. Questo non conduce necessariamente nell’errore in quanto il soggetto si rende conto della propria
prospettiva e sa distinguere tra le varie prospettive epistemiche e il contenuto ontologico della realtà
intenzionata.

Pensiero, linguaggio, percezione

Secondo Aristotele “l’anima non pensa mai senza immagini” (Dell’anima III). L’uomo che è un essere spirituale
e corporeo non solo percepisce la realtà attraverso il suo corpo sensibile e la conosce a partire dall’esperienza
sensibile, ma ha anche bisogno di usare dei segni – in qualche modo sensibili - per poter pensare. Un concetto
non potrebbe essere conservato se non fosse associato a un simbolo sensibile. Tommaso chiama questo
“conversio ad phantasmata”, cioè un ritornare del pensiero sugli immagini mentali.

Il linguaggio ha come una funzione mediatrice tra percezione e pensiero, essendo il pensiero la parte “più
spirituale” e la percezione la parte “più sensibile”. Se anche tutti e tre sono strettamente collegati tra di loro
e alla realtà percepita o espressa: la percezione coglie, il linguaggio comunica, il pensiero conserva ed elabora
i dati reali.

Il pensiero è l’anima del linguaggio e lo trascende. Senza un contenuto concettuale una parola non fosse dotata
di nessun significato. C’è una sproporzione tra pensiero e linguaggio, in quanto il linguaggio non può esprimere
tutta la portata del pensiero. Comunque non è possibile fare a meno dei segni limitati per sviluppare,
esprimere e comunicare il pensiero. E normalmente l’intelletto di chi accoglie un segno è capace di trascendere
il segno e arrivare al pensiero espresso in esso al di là della limitatezza del segno stesso.

Il linguaggio ha fondamentalmente tre funzioni:

- fissazione ed evocazione del pensiero. Il linguaggio serve per poter pensare, per conservare e collegare diverse
idee in qualche modo concreto, sensibile, immaginabile. Allo stesso tempo comporta anche l’oggettivazione
sociale e culturale del pensiero: non è un fatto privato, ma pubblico in cui si manifesta un eredità culturale e
storica.
In sintonia con il pensiero che ha come fine la conoscenza della verità, il linguaggio ha come fine (naturale)
dire la verità.
- comunicazione dei pensieri. Il linguaggio è per sua natura fatto per il dialogo. In quanto dialogico, il suo fine è
la comunicazione della verità. Ogni atto linguistico richiede un altro atto ermeneutico. Serve la familiarità

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ovvero la connaturalità con chi parla, con il contesto e il contenuto trasmesso, per poter interpretare
giustamente il linguaggio. Oltre alla trasmissione dei contenuti, il linguaggio serve per comunicare dati affettivi
del soggetto.
- azioni attraverso la comunicazione. Come promessi, giuramenti, comandi, incoraggiamenti …

La percezione è strettamente legata al cervello e al sistema neuronale. Questo sistema forma un unità con le
rappresentazioni sensitivi. Di conseguenza il pensiero è radicato nel cervello nella misura in cui è collegato a
simboli e alle esperienze sensibili. Si tratta di atti psicofisici, cioè atti della percezione e dei sensi interni. Il
pensiero stesso però trascende di gran lunga la materia, perché è un atto spirituale, che non si lascia provocare
dalla materia. Ogni pensiero comporta un alterazione del cervello, ma quest’alterazione non ne è la causa, ma
“solo” una condizione necessaria per la generazione del pensiero.

TEMA 08 - LA VERITÀ

La verità come adaequatio

Il significato originario della parola ’λήθα: sembra che sia stato “non nascosto”, cioè qualcosa che è aperto,
conoscibile. Secondo la classica definizione di Tommaso la verità è “adaequatio rei et intellectus”.
Filosoficamente si può distinguere tra la verità ontologica cioè la verità come trascendentale, l’intelligibilità
dell’essere, e la verità logica che consiste nella seconda operazione dell’intelletto, cioè il giudizio. In ogni caso
c’entrano i due termini della definizione: res et intellectus, cioè l’essere e l’intelletto. La priorità ha sempre
l’essere. L’adaequatio non è un rapporto simmetrico. È l’intelletto che deve adeguarsi all’essere, non viceversa.
Veritas supra ens fundatur.

La verità ontologica è un trascendentale, è una proprietà comune a tutto ciò che è: l’intelligibilità. Ogni cosa
che è nella misura in cui è, è anche intelligibile. L’essere non si risolve nella conoscibilità e nemmeno nell’essere
percepito, come diceva Berkeley “essere est percepi”, perché ogni ente è molto di più che un oggetto possibile
di un conoscente. La priorità spetta all’essere, mentre l’intelligibilità è piuttosto una caratteristica dell’essere
in quanto in rapporto all’intelletto. Essere e intelligibilità sono così profondamente uniti che Tommaso dice
“una cosa è vera in quanto dipende da un’intelligenza che l’ha progettata o fatta”. La verità dell’essere ha il
suo origine in Dio che l’ha creata. Ogni cosa creata è vera in rapporto all’Intelligenza creatrice di Dio. Mentre
il senso primario di verità è il riposo della mente che coglie il suo bene nella verità dell’essere: “Il falso e il vero
non esistono nelle cose, ma esistono nel pensiero” (Arist.). Ogni altro senso di verità è analogo a questo.

La verità logica si esprime nel giudizio, cioè nel giudicare la realtà, le cose che sono, non sulla loro essenza, ma
sull’esistenza della loro essenza “essendoci nella cosa la sua quiddità e l’essere, la verità si fonda più sull’essere
della cosa che sulla quiddità” (Tom). È nella verità chi afferma che è ciò che è, e che non è ciò che non è. “Se
noi riteniamo, che tu sei bianco, non per questo tu sei veramente bianco;ma piuttosto, poiché tu sei bianco,
noi, che affermiamo appunto questo, siamo nella verità” (Arist). Allora l’essere è la misura dell’intelletto.
Mentre l’intelletto divino (mensurans non mensuratus) è la misura dell’essere, l’essere è la misura
dell’intelletto umano (menusratus non mensurans). Ogni giudizio intende affermare la verità. Ma non ogni
proposizione deve necessariamente essere vera o falsa, può essere anche vaga, metaforica, poco adatta, un

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opinione o senza senso. Ogni proporzione va capita nel suo contesto, perché non c’è un isomorfismo totale
tra la proposizione e la realtà.

Proprietà della verità

- Intelligibilità (evidenza). La verità è, ed è conoscibile. Questa è la prima e più importante caratteristica della
verità, che è messa in dubbio dallo scetticismo, dal rappresentazionismo o il relativismo. È un elemento
dell’esperienza umana così comune e fondamentale che è impossibile negarlo seriamente, perché altrimenti
la vita risulta caotica a tal punto che diventa impossibile. Chi la nega in senso assoluto, dovrebbe comportarsi
come chi nega il principio di non contraddizione (sul quale si fonda la verità logica), cioè stare zitto come una
pianta. In effetti – e proprio per questo - la conoscibilità della verità non è mai negata in senso assoluto. Ci si
accontenta di negare la conoscibilità delle sue dimensioni più profondi o di ritenere che si tratti di convenzioni
umani e si vive in modo pragmatico, più superficiale, più superstizioso, più provvisorio, meno armonioso, si
cade nel soggettivismo (come Cartesio), nel fideismo o razionalismo, nel positivismo o idealismo, nel nihilismo.
- Unità. La verità ha un carattere analogico, per questo ci sono molte verità, ma tutte in riferimento ad una
principale, unica, che è Dio, somma verità e fonte di ogni altra verità creata. Si può parlare dell’unicità della
verità anche nel senso che: se è vera una cosa, tutte le sue contraddizioni sono false. Non è possibile farle
compatibili. Contraddizioni o sono apparenti o rivelano la falsità di una delle posizioni. L’unità della verità si
manifesta pure nell’armonia tra varie verità, fondate sull’unica verità divina, nelle vari misteri della fede, tra
le varie membra di una famiglia, tra le vari carismi nella Chiesa.
- Indivisibilità. La verità è vero del tutto, non approssimativamente, non ammette gradi di verità, non c’è un
medio tra vero e falso. Non c’è un giudizio vero che sia vero solo in parte. Dire che qualcosa è in parte vero e
in parte falso, sempre si riferisce alla mancante precisione della formulazione del giudizio, non alla mancante
verità della realtà stessa. Non la verità, ma solo la precisione della nostra conoscenza della verità ammette
gradi.
- Immutabilità (eternità). La verità non può cambiare. Un errore non può diventare una verità e viceversa.
Cambiamo invece noi, cioè la nostra posizione nello spazio e nel tempo per cui, cambia il modo in cui la verità
viene espressa. Per esempio una proposizione espressa nel presente dovrà essere espressa nel passato per
rimanere vera: Che Giovanni Paolo II è Papa è vero solo mentre lo è. Rimane invece eternamente vera questa
proposizione quando è espressa nel passato, che Giovani Paolo II era Papa dal 1978 al 2005. Le proposizioni
nel futuro contingente non sono né vere né false, perché non esiste ancora la realtà alla quale si riferiscono.
- Contestualità (carattere relativo o assoluto). La verità è assoluta nel senso che è oggettiva e non è puramente
soggettiva. È l’essere cui l’intelletto deve adeguarsi, e l’essere non cambia a seconda la concezione intellettuale
individuale di ciascuno. Ogni verità è potenzialmente conoscibile per tutti. Ognuno, dato che acquista i
presupposti necessari, può conoscere ogni verità. Allo stesso tempo la verità ha un carattere relativo. Ci sono
alcuni proposizioni in particolare che sono sempre relativi, in quanto indicano una relazione: posizione,
relazioni nello spazio e nel tempo, nei quali è necessario che le relazioni e i poli vengono specificati per rendere
comprensibile la proposizione. In senso più ampio ogni verità è relativa, in quanto conosciuta da un soggetto
individuale, ogni proposizione rivela automaticamente qualcosa sul soggetto che la pronuncia e sarà accolta
da quelli che la ascoltano in modo individuale, se anche in tutta la sua oggettività. È diverso il modo in cui uno
scienziato e un operaio, un uomo e una donna, un adulto o un bambino, un africano o un europeo intendono
uno e lo stesso evento.

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Situazioni della mente nei confronti della verità

Gli stati della mente nei confronti della verità dipendono dal grado di evidenza che le materie possiedono.
L’evidenza è il criterio fondamentale per l’accettazione della verità, è la caratteristica propria della verità.
L’evidenza è l’intelligibilità immediata con cui le cose si presentano al nostro intelletto, senza che abbiamo
bisogno di ragionare. Se una cosa risulta evidente dipende da un lato dalla cosa stessa. Secondo San Tommaso
sono massimamente intelligibili e cioè evidenti, “per se notae” le cose che possiedono l’essere in modo più
perfetto, cioè soprattutto Dio. Dall’alto lato dipende però anche dal soggetto, se gli risulta qualcosa evidente
o meno, le cose sono evidenti “quoad nos” a seconda le nostra natura umana e gli abiti intellettuali individuali.
Tommaso distingue tra le cose “per se notae”, “per se notae quoad nos omnibus”, cioè in quanto uomini e in
questo senso sono più immediate per noi le conoscenze delle sostanze materiali e “per se notae quoad nos
sapientibus”, cioè in quanto esperti in un certo ambito e in questo senso risulta evidente per esempio ad un
musicista che un certo pezzo di musica appartiene ad una determinata epoca, perché ha esperienza.

- Ignoranza. L’ignoranza è l’assenza di sapere. In quanto la conoscenza è il bene dell’intelletto, l’ignoranza è un


male per l’intelletto. Quando si tratta di cose che dovrebbero essere conosciute, l’ignoranza è privazione e
stabilisce un potenziale pericolo per il soggetto. L’ignoranza è pure la condizione iniziale dell’intelletto. Prima
di sapere non sappiamo. Attraverso l’apprendimento si acquista la conoscenza, cioè uno procede
dall’ignoranza alla conoscenza. Per Socrate il primo passo della sapienza è l’acquista della conoscenza della
propria ignoranza. In realtà l’ignoranza rimane sempre e riconoscere questo conduce ad un atteggiamento di
umiltà. Cos’ l’ignoranza diventa una docta ignorantia, cioè la disposizione necessaria per aprirsi
all’insegnamento di altri e alla ricerca della verità a fare delle domande e a non chiudersi. L’ignoranza in questo
senso può essere un bene, se ci spinge alla ricerca della verità. Rimane invece un male, se non viene
riconosciuta o negata e viene vissuta in un atteggiamento di disprezzo e autosufficienza, come nel caso dei
sofisti, o come l’ignoranza scettica, che non ammette la possibilità di una comprensione vera.
- Dubbio. Il dubbio è lo stato della mente che manca di un evidenza sufficiente per poter dare il suo assenso. Si
trova di fronte a possibilità diversi incompatibili tra di loro. Spesso il dubbio si presenta come la messa in crisi
di un giudizio prima accettato come certo, e circa il quale ora si presentano nuovi dati che lo rendono meno
accettabile. Perciò il dubbio non può essere il primo atteggiamento della mente (come pretende Cartesio), ma
segue sempre a delle conoscenze precedenti. Il dubbio deve essere ragionevole. Ci deve essere una
proporzione tra la certezza persa e l’elemento che la mette in crisi. Il dubbio poi dà luogo ad una ricerca
approfondita della verità e può finire o nell’abbandono del dubbio stesso o nella modificazione del proprio
giudizio, fino al caso estremo del suo abbandono totale e all’accettazione di un nuovo giudizio. Quando
mancano gli elementi per formare un giudizio valido, alle volte è preferibile non giudicare, almeno che non c’è
possibilità di fare una ricerca di elementi ulteriori.
- Fede: È uno stato della mente quando non se ne ha direttamente l’oggetto, la evidenza è di tipo indiretto, cioè
si crede nella testimonianza d’un altro, che deve avere per forza evidenza dell’oggetto conosciuto. In questo
stato se deve dare un acettare volontario di ciò che ti dicono. Funzione della “autoritas”
- Opinione. L’opinione nasce da un evidenza favorevole ma insufficiente. Si dà in vari gradi a seconda del grado
dell’evidenza può variare da sospetto, presunzione fino ad essere quasi sicurezza. Ci sono ambiti nei quali non
è possibile una vera sicurezza e ci si deve limitare per forza all’opinabile (come i futuri contingenti e tutte le
materie contingenti. Essendo una mancanza di evidenza, l’opinione si fonde non solo sull’analisi degli elementi

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evidenti favorevoli, ma anche sulla volontà del soggetto, che dà all’opinione un carattere simile alla credenza.
Per cui si può dire che uno scienziato crede nella sua teoria, o un politico nel programma del suo partito.
Vogliono che esso sia vero. L’influsso della volontà è un bene in quanto spinge alla ricerca della verità, può
diventare un male quando conduce a non accettare la verità che si rivela incompatibile con l’opinione
sostenuta.
- Certezza. La certezza è la ferma determinazione della mente che giudica. Come tale è compatibile con l’errore:
chi pronuncia un giudizio erroneo è certo nel suo giudizio. Di per sé la certezza si riferisce però alla verità: chi
è certo, è certo di essere nella verità. Ci sono vari tipi di certezza a seconda della materia sulla quale si giudica:
metafisica, fisica, matematica, morale. Nell’Etica Nicomachea Aristotele afferma che “non si deve cercare lo
stesso tipo di certezza in tutte le cose”. La certezza segue l’evidenza. È massima nelle cose che sono
massimamente evidenti quoad nos. Siccome le cose massimamente evidenti di per sé non sono
immediatamente conoscibile per noi, si presentano in una mescolanza di luce e oscurità tipica delle verità
sublime. L’intelletto tende alla certezza e in essa trova riposo e appoggio. È scomodo rimanere in uno stato di
dubbio. Perciò accade che uno vuole arrivare alla certezza precipitosamente senza prendere il tempo
necessario per arrivare ad una certezza fondata che gli permette di agire ragionevolmente, o accade il
contrario, che uno tema di non aver riflesso abbastanza e rimanda sempre il giudizio in modo che non gli
permette di agire affatto. (Vedere anche la possibilità di certezza bassata sul falso)

- Contemplazione

- (Dogmatismo/scetticismo/relativismo)

L’errore

- La natura dell’errore è la non corrispondenza tra l’intelletto e l’essere. Una frase erronea afferma che ciò che
non è, è o che ciò che è, non è. Come la verità anche l’errore esiste propriamente nell’intelletto non nella
realtà. Le cose stesse possono essere false solo per analogia in quanto hanno l’apparenza di essere qualcosa
che non sono, cioè provocano l’intelletto di formarsi un giudizio erroneo. Il contenuto erroneo di una
proposizione è un ente di ragione che non ha alcun fondamento nella realtà. L’errore consiste nella falsità
“materiale” della proposizione erronea e nella convinzione sbagliata del soggetto di essere nella verità.
Siccome il fine della conoscenza intellettuale è la verità, l’errore è il male della mente, che ognuno tende ad
evitare, ma nel quale ognuno cade ripetutamente a causa della propria limitatezza intellettuale.
- L’errore è comunque sempre parziale, e non può essere assoluto. Il fine naturale della conoscenza è la verità.
È l’errore stesso presuppone una certa conoscenza vera che poi però digerisce male, esagerando o negligendo
alcuni elementi o introducendo altri estranei.
- L’errore in modo simile all’ignoranza, è dovuta alla natura del nostro intelletto limitato, e perciò non è
necessariamente cattivo, ma può essere qualcosa di positivo in quanto viene superato e pertanto rafforza il
desiderio di conoscere la verità. Ci dà l’esperienza che possiamo essere corretti ed è un elemento essenziale
dell’apprendimento, del modo propriamente umano di imparare in dialogo e comunione con altri. In questo
senso l’errore e la correzione fanno nascere anche alcune virtù importanti come l’umiltà, la fiducia, l’amore. –
L’errore rimane invece un male, se non viene superato, neanche quando potrebbe essere superato.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 31


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- Le cause dell’errore sono in primo luogo la debolezza del nostro intelletto che deve passare lentamente
ragionando, affidandosi a conoscenze altrui, penetrando con difficoltà nelle verità più complesse, imparando
man mano ad astrarre e ordinare i concetti di diversi ambiti e gradi. Per la complessità della nostra conoscenza,
le cause degli errori sono molto diverse: ci sono errori ricevuti da altri, dovuti all’ignoranza e alla mancanza di
virtù intellettuali, dovuti ad altri errori precedenti, alla mancanza di attenzione o precisione, ad influssi
volontari ed emotivi, presupposti nascosti o apparenze di verità.
- Gli indizi dell’errore sono contraddizioni interni, contraddizioni con verità fondamentali e certe (primi principi),
contraddizioni con il senso comune e l’esperienze primordiali, le conseguenze false, interpretazioni sforzati dei
dati non compatibili, la perdita di peso delle evidenze, il disaccordo degli esperti.
- Il senso dell’errore sta nell’esperienza del suo superamento. Nell’esperienza della correzione l’uomo riconosce
che non tutto è irrilevante ma che c’è una verità più grande di lui verso la quale si è inviato. Per dolorosa che
possa essere una correzione, è anche una consolazione perché ci libera dall’inganno e ci dà una certezza più
fondata, fondata pure sulla fiducia di chi ci ha corretto e con la quale è possibile andare avanti, ci fa
sperimentare che abbiamo una meta e che è possibile arrivarci.

Distinzione tra errore e menzogna

TEMA 09 - LA STRUTTURA METAFISICA DELL’ENTE

L’oggetto della metafisica

Aristotele comincia la sua Metafisica con le parole “Tutti gli uomini per natura desiderano conoscere” e precisa
poi che

- il sapiente, cioè il filosofo ossia il metafisico è colui che cerca la conoscenza di tutte le cose. – Da qui si riconosce
un primo aspetto dell’oggetto della metafisica: riguarda tutte le cose, cioè tutta la realtà: la metafisica è una
sapere totale, il suo oggetto non è qualcosa di particolare: è tutto ciò che è.
- Aristotele aggiunge una seconda caratteristica: il sapiente “è capace di conoscere le cose difficili o non
facilmente comprensibili per l’uomo”, cioè non si limita alla superficie delle cose, ma le comprende in
profondità, conosce la struttura intima della realtà, i principi e fondamenti che si nascondono dal nostro
sguardo, che stanno dietro le apparenze e che sostengono tutto quello che noi percepiamo immediatamente.
– Da qui si riconosce una seconda caratteristica dell’oggetto della metafisica: è qualcosa di profondo e
assolutamente fondamentale, non secondario o accidentale, ma la dimensione ultima ossia prima della realtà,
cioè lo stesso essere:
 così in due aspetti, totalità e profondità si individua di solito l’oggetto della metafisica: l’ente in quanto ente.
Nozione in cui si rispecchia già la composizione fondamentale della realtà: l’essenza delle cose e la loro
esistenza, potenza e atto.

L‘oggetto della metafisica, l’ente in quanto ente, assume diverse implicazioni che si rispecchiano nei vari nomi
attribuiti alla metafisica.

- Metafisica: che l’oggetto della metafisica si conosce a partire dalla natura sensibile (fisica) e allo stesso tempo
trascendendola.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 32


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- Ousiologia: che l’oggetto della filosofia che è l’ente si dice in molti modi, il primo tra i quali è la sostanza “è
tuttavia evidente che il primo dei significati dell’essere è l’essenza, la quale indica la sostanza”, la domanda
che cos’è l’ente equivale alla domanda che cos’è la sostanza.
- Ontologia: che l’oggetto è l’ente in quanto ente, quindi non ridotto ad un aspetto del’ente (spirituale, bene,
uno …) e abbracciando insieme l’essenza e l’esistenza degli enti.
- Filosofia prima: che l’oggetto è fondamentale, cioè implicito in tutte le filosofie seconde, ed è intimamente
legato ossia consiste in qualche modo nei principi e nozioni primi: il primum cognitum è l’ens.
- Teologia: che l’oggetto della metafisica ha una dimensione inafferrabile e sacra, perché tratta pure di Dio e
aspira alla sua conoscenza, che è principio e fine di tutto ciò che è.

Le nozioni di atto e di potenza

Tra i modi di essere che la metafisica studia, sono pure l’essere in atto e l’essere in potenza. Queste non sono
modi di essere che si possano includere nelle categorie, ma sono transcategoriali. Le categorie sono i generi
supremi. L’atto a la potenza, invece, non sono generi, non sono nell’ordine dell’essenza, ma piuttosto
nell’ordine dell’essere, nell’ordine trascendentale, non in quello categoriale.

La miglior via per capire la distinzione tra atto e potenza è la spiegazione aristotelica del movimento. “L’atto
dell’ente in potenza in quanto è in potenza”. Essere in potenza è non essere ancora in atto. Allo stesso tempo
è più di non essere, perché non tutto ciò che non ha una determinata perfezione, è capace di riceverla. L’atto
in cui consiste il movimento è una progressiva attualizzazione di una potenza, che, mentre dura il movimento,
non è ancora totalmente attualizzata. Perché qualcosa sia in movimento deve ancora essere in potenza. L’atto
e la potenza non sono cose che si possono percepire, ma senza di esse non possiamo comprendere la realtà
che ci presenta l’esperienza. Queste nozioni hanno acquistato altri significati. Come nella definizione di anima
“atto primo di un corpo che possiede la vita in potenza”. Qui non si parla di atto secondo nello stesso senso
che ha nel movimento. Queste nozioni sono nozioni chiavi per la metafisica, in quanto in qualsiasi
composizione metafisica, dei due principi che si mettono in rapporto, uno è sempre atto rispetto all’altro che
è potenza (forma e materia, accidenti e sostanza, atto di essere ed essenza). Queste nozioni, che non possono
essere definiti, si comprendono mediante analogia. “L’atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce
sta a chi può costruire”. L’unico modo di capire che cosa sono l’atto e la potenza è per noi comprenderle nel
loro mutuo rapporto, perché sono dipendenti tra di loro.

Ci sono due tipi di potenza: La potenza attiva e l’operazione (attività, azione) che essa svolge; e la potenza
passiva e l’atto che la attualizza. (Poi l’essenza e l’atto di essere sono in un rapporto che non è riducibile a
nessuno di questi due tipi):

- La potenza attiva e l’attività sono il senso ordinario in cui vengono usate queste nozioni. Sec. Aristotele “La
potenza attiva è il principio di movimento che si trova in altra cosa oppure in una stessa cosa in quanto
altra”. Non si può pensare che una stessa cosa sia , sotto lo stesso aspetto, motore e mosso, perché ciò
implicherebbe essere allo stesso tempo, e nello stesso senso, in atto e in potenza, e questo è impossibile. Nel
caso dei viventi, per esempio, è l’anima che muove il corpo. Di per sé la potenza attiva implica perfezione,
perché è manifestazione dell’essere in atto di una cosa e può dunque essere attribuita a Dio, che è
onnipotente.

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- La potenza passiva è la capacità di subire un cambiamento. Sec. Aristotele “il principio per cui una cosa è
fatta mutare o è mossa da altro o da se stessa in quanto altra”. Poiché la potenza passiva non è capacità di
agire, ma di patire, gli atti che corrispondono ad essa non sono azioni o operazioni, ma le forme ricevute, che
possono essere sostanziali o accidentali, rispettivamente al soggetto, che può essere la materia prima o la
sostanza. La materia prima è assoluta indeterminazione, capacità di ricevere una forma sostanziale, mentre la
sostanza è potenza passiva rispetto alle determinazioni accidentali.

 La potenza è un modo di essere. Essere in atto non aggiunge niente all’essere. L’evidente limitatezza delle
attualità delle cose è la potenza. Ogni potenza implica imperfezione. Di per sé, però, la potenza attiva non
implica imperfezione. Nell’ Essere massimamente perfetto sarà una potenza che non implica il passaggio dal
non essere all’essere. Anche nelle creature la potenza non è semplicemente non essere, ma è un modo di
essere. Il divenire non è il sorgere di una novità assoluta, ma presuppone qualcosa che permane, la sostanza
o la materia prima. Prima dell’essere in atto non c’è il semplice non essere, ma l’essere in potenza. Poiché
l’essere in potenza è un modo di essere reale, si distingue pure dalla possibilità logica, che è la semplice non
contraddittorietà.

Il rapporto tra potenza e atto:

- La potenza limita l’atto. L’atto di per sé non è limitato, ma è la potenza a limitarlo. La forma è ricevuta in una
potenza passiva: La materia prima riceve la forma sostanziale, la sostanza è soggetto degli accidenti. Né la
forma sostanziale, né la forma accidentale si troveranno realizzate nella loro pienezza, poiché informano una
materia che le limita. Ma l’atto non solo si limita in virtù della potenza, ma per mezzo di essa anche si
moltiplica: uno stesso atto può essere ricevuto o svolto da diversi sostrati. Ci sono anche atti puri, che non
sono adatti alla moltiplicazione, come gli angeli o Dio.
- L’atto possiede priorità rispetto alla potenza. La priorità dell’atto rispetto alla potenza è
o cronologica: la potenza attiva si manifesta solo a partire da un momento determinato dello sviluppo, e ogni
potenza dipende sempre da una precedente causa efficiente in atto.
o logica: l’ente in potenza si conosce e si definisce in riferimento all’atto corrispondente.
o dal punto di vista della causalità: per poter essere causa efficiente bisogna esserla in atto.
o ontologica: la è più perfetto della potenza, che è nello stesso genere.
 Dalla priorità dell’atto rispetto alla potenza segue che l’atto non necessariamente dipenda dalla potenza per
sussistere. Nelle creature l’atto non sussiste mai senza potenza, mentre Dio è Atto Puro.

La composizione fondamentale dell’ente: l’essenza e atto di essere

Essere ed essenza si distinguono: L’essere non è qualcosa. Ciò che è, è l’ente, e l’essere è solo ciò per cui
qualcosa è. Secondo Tommaso tutte le creature sono composte di essenza ed essere, è questa la struttura
fondamentale dell’ente creato. È composizione tra una perfezione ricevuta (l’essere) e un principio che la
riceve (l’essenza).

L’esistenza della distinzione tra essere e essenza è evidente dal punto di vista, che nessuna cosa esiste
necessariamente, ed è possibile distinguere tra le cose e la loro reale esistenza. Nella filosofia greca non c’era
tale distinzione, perché l’orizzonte della riflessione era un mondo eterno, che non facilita il sorgere della

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domanda radicale sull’essere. Per Avicenna l’essere era una sorta di accidente dell’essenza. San Tommaso
invece vede il rapporto tra essere ed essenza come quello tra atto e potenza. Certamente l’essenza non si
può dire potenza attiva rispetto all’essere, perché l’essere non sorge dall’essenza. Ma non si può dire neanche
che l’essenza sia potenza passiva rispetto all’essere, perché l’essere non è una determinazione dell’essenza. È
questo dunque un nuovo rapporto di atto e potenza. La chiave è intendere l’essere come atto, cioè l’atto di
essere, che è limitato dall’essenza, che è potenza rispetto all’essere. L’essere dunque si manifesta diversificato
in una molteplicità di modi determinati di essere. (in Dio essere ed essenza si identificano).

Argomenti a favore della distinzione di Tommaso:

- Argomento della molteplicità (impossibilità di più di un ente in cui essenza ed essere siano identici): L’essere
per sé sussistente è necessariamente infinito e include ogni perfezione; se fossero due non sarebbe possibile
nessun elemento distinguente.
- Argomento del genere: Gli individui di una stessa specie hanno in comune una stessa essenza, ma differiscono
invece quanto all’essere.
- Argomento basato nella partecipazione: L’essere in quanto partecipato è anche limitato secondo la capacità
del partecipante; ciò implica composizione di potenza e atto.
- Argomento basato nel carattere limitato delle creature: Ogni essere ha l’essere finito, ma l’essere non
ricevuto in qualcosa è assoluto, infinito, l’essere è ciò che riceve l’essere sono dunque distinti tra di loro.

Dopo la morte di San Tommaso sorgeva la discussione sulla realtà di tale distinzione. Egidio Romano sostenne
che la distinzione era reale, come la distinzione tra due cose. La reazione era che a volte è stato negato che
essa sia reale. È evidente, però, che essenza ed atto di essere non sono in sé realtà compiute, ma solo principi
degli enti, e che sono collegati tra di loro come potenza e atto. Ci dovrà necessariamente essere una
distinzione reale, allo stesso tempo, però, essere ed essenza non si compongono come cose.

L’essere è una perfezione: In quale senso? Non è una perfezione come gli altri. Non è neanche una nozione
massimamente astratta e indeterminata, nulla. “Nel dire essere io intendo la perfezione massima … Nel dire
essere s’intende l’attualità di tutti gli atti e la perfezione di ogni perfezione”. È un atto ultimo, in quanto tutte
le cose desiderano l’essere, è l’atto più perfetto, in quanto pone in atto tutte le perfezioni, è atto di tutti gli
atti, poiché li attualizza tutti, è perfezione di ogni perfezione, perché senza l’essere ogni perfezione resta una
pura possibilità. L’essere è quindi perfezione di un ordine che non è formale. È una perfezione intima e
profonda. È una perfezione ricevuta, in quanto è proprio dell’ente creato non semplicemente essere, ma avere
l’essere.

L’essere è un atto intensivo, che non è identico in tutte le cose, si dà in diversi gradi. Non basta ammettere
una differenza tra le essenze delle diverse realtà, ma è anche necessario ammettere una differenza nell’essere.
Questo atto intensivo, che è l’atto di essere, viene ricevuto dai diversi enti in modo analogo.

La dottrina della partecipazione nell’essere. La dottrina della partecipazione dell’essere è il contrappunto


metafisico della dottrina dell’analogia dell’essere. Non tutte le cose esistono ugualmente. Partecipazione c’è
in due sensi: fisica/materiale e morale/spirituale. Nella partecipazione materiale qualcosa si distribuisce.
Nella partecipazione spirituale non c’è distribuzione e quanto viene partecipato non diminuisce. Sebbene

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 35


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spesso si riceva il tutto in un modo solo limitato, non è necessario che si riceva solo una parte. Partecipazione:
“Quando qualcosa riceve in modo particolare ciò che ad altro appartiene in modo universale”: Una sostanza
partecipa di un accidente, la materia partecipa della forma. C’è, però, una partecipazione che non è estrinseca,
ma in cui qualcosa riceve in modo partecipato ciò che ad essa è proprio ed intrinseco.

La partecipazione intrinseca c’è nell’ordine categoriale e in quello trascendentale. La prima è una


partecipazione alle forme o specie, ed è di natura logica, non reale. La seconda è una partecipazione
dell’essere. Tutte le realtà che non sono l’essere, ma lo hanno ricevuto, possiedono l’essere in modo
partecipato, cioè limitato, determinato dalla loro essenza. Nessuna delle creature è pienamente, nessuna
possiede la pienezza dell’essere. Questo tipo di partecipazione implica una composizione del partecipante tra
ciò che è ricevuto in modo partecipato e un principio che lo limita. (è la quarta via di San Tommaso per la
dimostrazione dell’esistenza di Dio).

TEMA 10 - I TRASCENDENTALI DELL’ENTE

Nozioni predicamentali e trascendentali

I trascendentali sono proprietà che accompagnano tutti gli enti in quanto che sono. Si chiamano trascendentali
perché trascendono tutte le categorie. Mentre i generi supremi dell’essere si inquadrano nelle categorie
aristoteliche, i trascendentali li trascendono ancora e non possono essere inquadrati e limitati a certi modi di
essere che si predicano delle cose.

- Le nozioni predicamentali esprimono un modo particolare di essere e si riferiscono all’essenza degli enti.
Esprimono un modo particolare di essere: essere in sé o in altro, avere una certa quantità e qualità, relazione
e posizione e così via. Le nozioni predicamentali o categoriali si riferiscono quindi solo a un genere della realtà,
non possono essere predicato di tutto ciò che è. Significano una certa essenza e non abbracciano tutto l’ambito
dell’ente. Non hanno la stessa ampiezza della nozione di ente, poiché si escludono a vicenda: ciò che è in sé
non è in altro, ciò che è qualità non è quantità e così via.
- Le nozioni trascendentali trascendono l’ambito dei predicamenti, non si riferiscono all’essenza degli enti e ai
loro modi di essere perché esprimono un modo di essere proprio dell’essere in generale. Si tratta di
caratteristiche che non si limitano a certi settori della realtà, ma che accompagnano tutti gli enti in quanto tali
e i loro principi ed elementi intrinseci. Significano un aspetto che conviene ad ogni realtà e non si escludono a
vicenda, ma si convertono, cioè tutti sono aspetti dello stesso ente, anzi sono la sua stessa ricchezza intrinseca
considerata sotto vari aspetti. Non ha niente che vedere con la nozione di trascendentale di Kant, come
struttura a priori della nostra conoscenza.

La classificazione dei trascendentali

L’ens è il primum cognitum. Ma cogliere questa prima realtà non vuol dire costatare meramente la sua
esistenza. L’intelletto umano va ben oltre questo e coglie nell’ente le varie dimensioni che costituiscono la
ricchezza significativa del suo essere. Queste dimensioni si chiamano trascendentali, perché ineriscono all’ente
in quanto ente, in ognuno dei vari modi di essere. Di solito i trascendentali ritenuti irriducibili l’uno all’altro
sono “ens”, “res”, “aliquid”, “unum”, “verum” e “bonum”, ai quali spesso si aggiunge anche “pulchrum”. Ogni
trascendentale rivela una dimensione particolare comune a tutto ciò che è.

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Tommaso d’Aquino classifica i trascendentali nel “De Veritate” secondo il modo di affermazione che si fa
sull’ente: “Ens” deriva “ab actu essendi”ed esprime il solo essere di qualsiasi ente, mentre quando lo si
considera in modo affermativo, si ottiene “res” che esprime l’essenza della cosa: “quidditatem sive essentiam
entis”. Questi due, “ens” e “res” corrispondono quindi nell’ente al suo essere e alla sua essenza. Lo stesso ente
guardato per sé stesso in modo negativo diventa “unum” che significa la sua “indivisio”, questa non-divisione
è l’unica negazione che vale per ogni ente in quanto ente. Quando la negazione si applica al rapporto dell’ente
con altri enti si ottiene “aliquid” (“aliud quid”) che significa “divisum ab aliis”, cioè il suo essere diverso rispetto
ad altro. Quando, però, si considera il rapporto con altro in modo positivo come convenienza si arriva a quella
relazione particolare che c’è tra l’ente e le facoltà superiori dell’anima umana, intelletto e volontà, e si ottiene
il “verum” e il “bonum”. Questa “convenienza dell’ente in tutta la sua ampiezza con un’altra realtà può essere
considerata soltanto in relazione a qualcosa che abbia la possibilità di comprendere l’ente in quanto tale” e
“la manifestazione di questa apertura della persona umana si ha nell’universalità dell’oggetto dell’intelletto e
della volontà”, vorrei prendere in considerazione soprattutto quei trascendentali che sorgono da questa
apertura dell’intelletto umano: il verum e il bonum e il pulchrum per chi lo ritiene irriducibile agli altri, sono i
trascendentali cha hanno mosso di più i filosofi e non solo i filosofi alla riflessione che ogni altro trascendentale.

Secondo la definizione classica la verità è “adaequatio intellectus et rei”. Questa verità viene chiamata anche
verità logica, perché è il prodotto della seconda operazione dell’intelletto, cioè del giudizio sulla realtà. È il
risultato della particolare relazione che c’è tra le intelletto e realtà a causa dei loro modi di essere nei quali si
trovano aperti e orientati l’uno all’altro. Proprio questo sembra essere stato il significato originario della parola
’λήθα: “non nascosto”, cioè qualcosa che è aperto, conoscibile. Le cose sono aperte all’intelletto per il solo
fatto che ci sono, mentre il non-essere è al contrario del tutto incomprensibile ed estraneo ad esso. È il loro
essere in atto che di per sé porta con se la caratteristica delle cose di comunicare quello che sono a qualsiasi
altra realtà conoscente in atto. Questa realtà conoscente è proprio l’intelletto che è per natura aperto alla
realtà e capace di cogliere l’essenza delle cose. Questa apertura dell’intelletto alla realtà è qualcosa del tutto
particolare. Si tratta di una relazione tal modo profonda che il predicato che i filosofi usano per designarlo va
molto oltre quello che si esprime comunemente con “conoscere”, ma assume il contenuto del “diventare”,
“identificarsi” o anche “essere”. San Tommaso infatti dice “anima humana est quodammodo omnia”. Si tratta
quindi di una sorta di partecipazione dell’intelletto all’essere delle cose, del quale si nutre e attraverso il quale
si perfeziona. “Il rapporto dello spirito umano con le cose è dunque quello del perfettibile con ciò che dà la
perfezione.” Perché le cose hanno questa capacità di perfezionare l’intelletto? Perché l’essere che hanno le è
stato dato: “Le cose possono rendere la mente perfetta perché la loro realtà, che l’intelletto giunge a
conoscere, è una certa luce che proviene da Dio.” Come l’intelletto umano si adegua alla realtà, che lo procede
e dalla quale partecipa e si perfeziona, così la realtà stessa si adegua all’intelletto divino dal quale riceve il suo
essere e tutta la sua ricchezza interna. Per non perdere questa dimensione fondamentale della relazione tra
intelletto e realtà, nella quale consiste la verità, è necessario affrontar il rappresentazionismo che ritiene
impossibile la conoscenza della realtà “in sé” e conduce al relativismo. E per altro è importante insistere che
la verità non si fonda sull’essenza, ma sull’essere (siccome i trascendentali appartengono all’essere, non
all’essenza), altrimenti si corre il rischio di cadere in un certo idealismo razionalistico che fa dipendere l’essere
dal pensiero, mentre in realtà il pensiero dipende dall’essere. Questo ha detto in modo molto bello e sintetico
Tommaso “esse rei, non veritas eius, causat veritatem intellectus”.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 37


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La bontà dell’ente sorge dalla dinamica che c’è tra l’essere e la volontà. Secondo la classica definizione di
Aristotele, ripresa da Tommaso, bene è “quod omnia appetunt”. Il “bonum” è una dimensione intrinseca di
ogni ente in quanto desiderabile. Ora una cosa è desiderabile in quanto è perfetta ed è perfetta in quanto è in
atto, ed è in atto in quanto possiede l’essere che le conviene secondo la sua natura. È ovvio perciò che essere
e bontà coincidono, e che il “bonum” non aggiunge niente all’ente se non la desiderabilità che possiede grazie
al suo essere. Questa bontà muove la volontà: suscita desiderio di raggiungere e possedere il bene per
godersene. Già nell’intelligibilità delle cose c’è un rapporto particolare e profondo tra l’ente e l’intelletto,
questa dinamica diventa ancora più intensa nella relazione che c’è tra l’ente e la volontà. Questo perché la
volontà sta all’origine dell’agire e perciò la sua relazione con l’essere non può che essere carica di vitalità. “Ciò
significa che il bene non è solo il possesso statico del contenuto e della perfezione ontologica di qualcuno, ma
è anche ciò che deve essere ancora ottenuto. Le creature e l’uomo in particolare devono ulteriormente
svilupparsi e perfezionarsi. In tal modo il bene mostra anche il carattere di una pienezza dell’essere che deve
ancora essere raggiunta”. Il bene assume quindi carattere di causa finale: oltre il bene non c’è più niente da
volere. Anche la conoscenza della verità perfeziona l’uomo, ma il tendere verso il bene lo perfeziona in modo
molto più completo, perché abbraccia tutto il suo essere e lo porta al suo proprio fine. Aver raggiunto il bene
è aver raggiunto il fine e la perfezione ultima. Come è possibile che gli enti abbiano in sé una tale forza in modo
da muovere e perfezionare la volontà? Perché l’hanno ricevuta. Analogamente alla verità dell’essere che viene
costituita dall’intelletto divino, la bontà degli enti viene costituita dalla volontà divina: Le cose sono buone
perché Dio le ha volute, e noi le vogliamo perché sono buone. Forse non è sbagliato quindi di dire che in tutto
ciò che viene voluto e amato, in modo molto implicito, è Dio che viene voluto e amato, perché è Lui la causa
della bontà di ogni essere ed è la Bontà stessa.

Ora c’è ancora il “pulchrum” che non tutti ritengono un vero trascendetale, irriducibile agli altri, e che non
appare nell’elenco che Tommaso fa all’inizio del De Veritate, per cui si può discutere se lui l’ha ritenuto un
trascendentale o no. Il “pulchrum” è una dimensione dell’essere che scoprono le facoltà umane superiori come
per collaborazione, ovvero è come una sintesi del vero e del bene. “Il bello è collegato al vero dal momento
che è subordinato alle facoltà cognitive ed è collegato al bene in quanto soddisfa l’appetito”. Classicamente si
definisce bello “quod visum placet”. Tutte le cose sono belle dal momento che esistono e il grado della loro
bellezza dipende dal grado di perfezione del loro essere. Ma tutt’al contrario della dinamica volteggiante che
c’è nel rapporto dell’intelletto e della volontà con l’essere delle cose come vere e buone, il bello le fa
tranquillizzarsi, e l’appetito che per natura è mosso dal suo oggetto, nel bello si calma e resta contento. “Ad
rationem pulchri pertinet quod in eius aspectu seu cognitione quitetur appetitus” dice Tommaso.

La risoluzione dei trascendentali nell’ente

I trascendentali non sono altro che l’ente stesso. Perciò è possibile dire che sono convertibile, cioè sono
identiche con l’ente e tra di loro. Sono per così dire le proprietà comuni ad ogni ente, come le proprietà comuni
a tutti gli individui di una specie. Con la differenza però che
- non procedono da una essenza, ma dall’atto di essere (e per ciò appartengono a tutto ciò che è).
- Non sono accidenti di un soggetto, ma si identificano con il soggetto stesso.

Perciò i trascendentali non aggiungono qualcosa all’ente, ma esprimono aspetti che competono ad ogni ente
in quanto ente.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 38


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La distinzione tra l’ente e gli altri trascendentali non si dà quindi a livello reale, ma si dà (altrimenti non
avremmo diversi nozioni per diversi trascendentali) al livello nozionale: mettono in evidenza un nuovo
significato che era solo implicito nella nozione di ente. L’identica realtà viene capita con concetti intellettuali
diversi che si complementano. I trascendentali aggiungono quindi niente alla realtà dell’ente, ma alla nostra
conoscenza dell’ente.

- Aggiungono una negazione: unum e aliquid. Unum nega la divisione interna di una realtà, aliquid nega l’identità
di una realtà con altre. Non cambiano il nostro concetto dell’ente, ma manifestano che l’ente grazie al suo
essere non ha né divisioni dentro di sé, né c’è con fondazione con altre realtà. – Negazioni sono enti di ragione.
- Aggiungono una relazione di ragione il verum, il bonum e il pulchrum. La conformità con l’intelligenza e la
volontà umana non significa una dipendenza o misurazione dell’ente dalla conoscenza umana, non significa
una relazione reale reciproca. È reale l’essere degli ente e l’apertura delle nostre facoltà superiori che coglie il
loro essere, ma questo non ha alcun influsso sugli enti stessi, solo sulle nostre facoltà: l’essere è la misura
dell’intelletto.

L’analogia dell’ente

È celebre la frase di Aristotele “l’ente si dice in molti modi”. All’ente spetta quindi una predicazione analogica.
In quanto i diversi modi di essere si esprimano in diversi modi di concetti ed atti linguistici lo studio
dell’analogia appartiene alla logica. L’analogia è di interessa per la metafisica, perché ha per fondamento l’atto
di essere a cui diversi enti partecipano in gradi diversi.

Uno stesso termine si predica di diverse realtà in modo analogico quando si predica di loro con un significato
in parte uguale e in parte diverso. Nel caso dell’essere: tutte le cose sono, ma quello che propriamente è, cioè
è in sé stesso, è la sostanza, mentre gli accidenti e gli altri modi di essere sono in altro, sono in forma analogica
alla sostanza. Dio e le creature sono, ma propriamente è Dio, cioè lui è l’essere per essenza, mentre le creature
hanno il loro essere e sono per partecipazione.

Il fondamento più profondo dell’analogia dell’ente è l’atto di essere, poiché qualsiasi cosa si dice ente in quanti
ha l’essere. C’è l’essere per essenza e l’essere partecipato, c’è l’essere in sé e l’essere in altro, l’essere in atto
e l’essere in potenza. A seconda del modo in cui un ente possiede l’essere, possiede anche i perfezioni
caratteristiche dell’essere, cioè i trascendentali. L’essere più perfetto, cioè l’essere per essenza, Dio, è
infinitamente Vero, Buono e Uno, anzi è la Verità, la Bontà e l’Unità stessa, mentre gli aventi l’essere per
partecipazione hanno queste perfezioni in modo limitato. Gli enti spirituali godono di una maggiore perfezioni
che quelli materiali.

Priorità dell’ente sugli altri trascendentali.

TEMA 11 - LA CAUSALITÀ

L’esperienza della causalità

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 39


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C’è l’esperienza esterna che è distinta dalla semplice contiguità nel tempo, e l’esperienza interna della
causalità, cioè la causalità della volontà sull’agire. L’esperienza interna-esterna che possiamo produrre effetti
nel mondo a noi esterno.

La nostra conoscenza della causalità non si fonda soprattutto sulla conoscenza sensibile ma piuttosto sulla
conoscenza intellettuale, ed esige la conoscenza sia dell’effetto sia dell’agente.

La causalità è per se nota e non occorre dimostrarla.

Se l’unico modo ammesso di conoscenza è la conoscenza sensibile si finisce a negare la causalità. Nicola di
Autrecourt, Hume – anche se non si nega la causalità nella realtà, si nega la possibilità di conoscerla: ci si deve
credere. Kant trasforma la causalità in una categoria intellettuale a priori, per cui cessa di essere una realtà
oggettiva.

Altri hanno negato la causalità per salvare l’autonomia di Dio sulla creazione: non ci può essere causalità
creaturale (Al-Ghazali, Malebranche e l’occasionalismo).

Il principio di causalità

Le nozioni di causa e effetto non hanno significato l’una senza l’altra. La loro relazione si esprime in diversi
modi. Dal punto di vista dell’effetto ci sono diversi formulazioni del principio di causalità (che si riferisce solo
alla causa efficiente, mentre per la causa finale vale il principio di finalità).

Nelle formulazioni del principio di causalità occorre evitare la tautologia: ogni effetto ha una causa. Sono più
comprensibili le prime formulazioni che riguardano le realtà materiali, quelle nella seconda parte sono più
metafisici e perciò meno comprensibili ma più universali e profondi.

a. Tutto ciò che è in movimento è mosso da altro. La forza di questa formulazione sta nell’irriducibilità assoluta
di potenza e atto. Ci deve essere qualcosa che faccia passare un essere dalla potenza all’atto.Però: Se esistono
realtà che non si muovono già non è più universale (creare non è un movimento, Aristotele pensava che ci
sono motori immobili).

b. Tutto ciò che comincia ha una causa. Si riferisce all’inizio temporale sia di una sostanza sia di un suo
accidente e si fonda sull’impossibilità che ciò che non è possa dare l’essere a se stesso. È richiesta l’intervento
di una potenza attiva a comunicare l’essere. Questa potenza attiva può inerire anche allo stesso soggetto, ma
sarà sempre diversa nell’essere dalla potenza passiva cui conferisce una perfezione. (l’inizio del mondo nel
tempo. Dire che si spiega da se significa dare priorità al non essere sull’essere). Però: Anche l’inizio temporale
non è evidente o dimostrabile, per cui anche la seconda formulazione non è universale, perché la causalità
non implica necessariamente una priorità temporale della causa rispetto all’effetto.

Sono universali le formulazioni che si concentrano sull’essere contingente del causato rispetto alla causa che
è necessaria, infatti in tutte queste formulazioni si dà la distinzione tra essenza ed essere nel causato:

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 40


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c. Tutti ciò che è contingente ha una causa. Contingente è ciò che può essere o agire in modo diverso a come
è fatto o agisce o che può essere o non essere. Se allora il contingente è significa che richiede una causa del
suo essere in atto. (terza via).

d. Tutto ciò che conviene ad altro senza essere parte della sua essenza, gli appartiene a motivo di una causa.
C’è una distinzione tra le perfezioni che si spiegano per la natura del soggetto e quelle che gli convengono non
grazie alla sua natura e che quindi devono essere causate da un altro. Questa formulazione è totalmente
universale e ha un valore particolare quando applicato all’essere, che tutti gli enti creati possiedono non per
essenza ma in modo causato.

e. Tutto ciò che ha l’essere per partecipazione è causato da ciò che è per essenza. > quarta via.

> Il principio di causalità in quanto mostra l’imperfezione di tutto ciò che è limitato è la via naturale per
ascendere all’unica causa necessaria, che è Dio. Questo è implicito in molte delle prove filosofiche per
l’esistenza di Dio.

Comunque la relazione tra causa ed effetto quanto a Dio è molto diversa dal punto di vista del causato, per cui
è una relazione necessaria, e dal punto di vista della Causa, per cui non è una relazione necessaria: Dio non è
relativo a noi, ma è presente nel mondo in un modo interiore e radicale che trascende la nostra conoscenza e
capacità di immaginazione.

Validità e difesa del principio di causalità.

Tenere l’equilibrio tra le posizioni estreme.

Ci sono principi metafisici più fondamentali: la nozione di ente, il principio di non contraddizione, che ambedue
non implicano il causare o l’essere causato.

Che l’ente creato è causato non si deve al suo essere ma alla sua limitatezza, cioè più alla mancanza di essere
che all’essere che gli è proprio. Tale tipo di ente non può darsi se non come causato.

Il principio di causalità non è dedotto! Né dalla nozione di ente, né dal principio di non contraddizione (non è
contradditorio pensare una realtà incausata), né dal qualsiasi altro principio – perché è il frutto dalla libertà
dell’Atto Puro, che decide a creare.

Non è neanche frutto di un principio innato o a priori. Non è deducibile né dimostrabile, perché è evidente.
Per questo però non è comprensibile per tutti senza difficoltà, perché richiede la previa comprensione delle
nozioni di causa ed effetto.

Il principio di causalità si può scoprire solo induttivamente, a partire dall’esperienza. È un inferenza spontanea.
Si può difenderlo per confutazione, mostrando che la sua negazione è contraddittoria perché dice che qualcosa
può dare l’essere a se stessa, senza esigere una causa, il che uguale a dire che qualcosa può essere senza essere
ed è contraddittorio.

Nozione e tipi di causa efficiente

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 41


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Le diverse specie di cause sono diversi modi di dipendenza reale. Ci sono principi intrinseci costituivi: materia
e forma, e principi estrinseci: causa efficiente e causa finale.

Materia e forma sono causa intrinseche che richiedono una causa esterna che le unisce. Perciò la causa
efficiente ha una priorità di natura rispetto a materia e forma.

1. La causa efficiente e il suo rapporto con l’effetto.

La causa efficiente è il principio da cui procede primariamente un’azione. Ciò che spiega più visibilmente
l’esistenza dell’effetto è la causa efficiente, anche se si deve tener presente le altre cause. Di solito in un effetto
entrano molte cause parziali.

La relazione e contrapposizione tra causa efficiente ed effetto è analoga a quella tra atto e potenza.

Le caratteristiche fondamentali di questo rapporto (dipendenza del causato dalla causa, possibilità di risalire
dal causato alla causa, priorità della causa sul causato e la loro distinzione reale) si applica al rapporto della
causa efficiente con il suo effetto così:

- La causa efficiente è esteriore all’effetto


- La perfezione della causa efficiente si comunica in qualche modo all’effetto (vale soprattutto per la
causalità riproduttiva dei viventi), e non può comunicare una perfezione che non ha in atto e che
l’oggetto non possiede in potenza (non è il passare di un accidente da una sostanza ad un'altra!
Leibniz).
- L’effetto preesiste nell’agente in modo virtuale come potenza attiva o capacità di produrla.
- Nessun agente può produrre un effetto superiore a se stesso (se non operano come strumenti di cause
superiori).

2. Somiglianza tra causa ed effetto.

Quello che la causa produce è presente in essa in qualche modo, perciò l’effetto sarà simile ad essa. Questa
somiglianza deve essere considerata in relazione a quell’atto che l’agente esegue in quanto causa. Ci sono due
modi in cui l’agente possiede una forma che può produrre in altro: naturale e intellettuale. La somiglianza
dell’effetto sarà a seconda il modo in cui l’agente possiede la forma che comunica, univoca o analoga.

a. La causa univoca comunica la forma che è posseduta naturalmente dalla causa e dall’effetto e le fa
appartenere alla stessa specie (generazione).

La causa analoga comunica una forma posseduta intellettualmente e produce una specie diversa e inferiore
alla causa.

L’attività naturale del mondo fisico è determinata e produce effetti univoci, mentre l’attività spirituale produce
degli effetti analoghi. Nell’uomo si danno ambedue forme di causalità. La causalità di Dio nella creazione è
analoga.

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b. la causa esemplare è il modello che guida l’agente nella realizzazione della propria opera. La causa
esemplare c’è in ogni tipo di causalità, ma il modo in cui l’esemplare è posseduto può essere naturale, cioè la
propria specie o può essere intellettuale come un idea che prima è stata concepita e ch poi si comunica.

3. Gradi di perfezione nella causalità agente.

La causa universale si estende ad un ambito vasto di effetti specificamente diversi, mentre la causa particolare
è ristretta ad un solo tipo di effetti.

La causa totale è causa completa di un effetto in un determinato ordine, mentre la causa parziale ne produce
soltanto una parte e si trova sempre coordinata con altre cause.

Le realtà che conosciamo direttamente sono particolari e parziali (non sono propriamente cause creatrici ma
motrici). Solo Dio è propriamente causa universale e totale.

4. La con causalità.

Si deve distinguere tra causa principali e cause strumentali, giacché non ogni causa parziale possiede la stessa
importanza. Causa principale è quella che agisce per virtù propria ed è quella che si chiama propriamente
causa, mentre la causa strumentale è quella che produce un effetto solo in quanto mossa da un agente
principale.

La causa strumentale ha un effetto proprio ed un effetto strumentale, che riesce a produrre solo grazie
all’agente che l’usa.

5. La causalità accidentale.

Gli effetti raggiunti fuori del fine dell’azione sono causati per accidens. Ci sono allora cause per se e cause per
accidens di un effetto.

Da parte della causa: la causa non produce l’effetto per accidens, ma si trova solamente in connessione
estrinseca con la causa in senso proprio.

Da parte dell’effetto: L’effetto per accidens accompagna l’effetto proprio dell’azione. C’è l’effetto per accidens
fortuito, e c’è l’effetto per accidens come removens prohibens, che rimuove l’ostacolo per creare la condizione
in cui si possa ottenere un altro effetto che però non propriamente causa. Nel secondo caso può esserci
responsabilità dalla parte dell’agente per l’effetto ottenuto per accidens.

6. Necessità e contingenza, determinismo e libertà.

La causa necessaria raggiunge sempre e in modo indefettibile il suo effetto. La causa contingente non lo
produce sempre. Le cause sono libere o determinate a seconda se c’è un intervento della volontà.

La causalità determinata non è di per se infallibile, perché richiede delle concause. > Le cause naturali, se anche
sono determinati non sono necessarie, ma contingenti. La causalità libera è quella propria della persona dotata
di volontà, che ha il dominio sulle proprie azioni.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 43


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Ci sono concezioni secondo i quali tutto nel mondo procede per necessità: determinismi, che escludono la
contingenza delle cause naturali (determinismo fisico: Laplace) o la libertà della volontà (determinismo
psicologico: Leibniz, l’uomo è costretto a seguire la legge dell’ottimo) o ambedue (determinismo metafisico:
Spinoza: la libertà si riduce alla consapevolezza della necessità).

Per rispondere ai determinismi si deve ricordare che l’esistenza di determinate cause non esclude né la
contingenza né la libertà. Nelle cause naturali, già la loro materialità include necessariamente contingenza,
imperfezione. L’agire volontario è libero e imprevedibile. L’agire delle sostanze puramente spirituali è anche
indefettibile perché sono immateriali in quanto naturale, ma non in quanto volontario. Anche se sono
immateriali la loro libertà è imperfetta a causa della loro finitezza ontologica. Dio invece ottiene il porprio
effetto sempre e in modo indefettibile, è causa necessaria e libera.

La causa finale

Di per se è un dato di esperienza che la realtà è piena di dinamismi orientati verso un fine. Ogni azione è fatta
per una fine, e se sarebbe giudicata vana, non se la compierebbe. Ma nella filosofia la finalità ha trovato poco
spazio, il che lamenta già Platone nel Fedone, e che fino ad oggi si mostra fino al punto che la finalità viene del
tutto negata.

1. La finalità nell’agire umano: fini e mezzi.

L’agire umano offre un esperienza particolarmente evidente e immediata della finalità. Si mostra una pluralità
di fini, dei quali non tutti hanno la stessa importanza e lo stesso ruolo.

Ci sono fini indotti, che non erano programmati, ma suscitati a causa della scoperta di nuove possibilità.
Esempio: lo sviluppo della scienza.

C’è il fine ultimo, voluto per se stesso, che possiede in modo più pieno il carattere di bontà e per causa del
quale si impiega tutti gli altri fini come mezzi.

Ci sono i fini prossimi, ai quali ci si orienta in vista di un fine ulteriori e che vengono impiegati anche come
mezzi, per cui ci sono tra di loro due gruppi: quelli che sono solo mezzi (beni utili) e quelli che sono voluti anche
per se (beni onesti), quando i fini prossimi suscitano anche un piacere sono chiamati beni dilettevoli.

 In una stessa attività possono confluire una varietà di fini.

In senso assoluto il fine ultimo è uno solo, mentre in un senso relativo, in un determinato ordine anche altri
fini possono chiamarsi ultimi.

Gli uomini tendono verso il loro fine per natura, ma devono attualizzare e concretizzare questa tendenza nella
propria vita, scegliendo dei mezzi (ea, quae sunt ad finem), il che non tutti fanno ordinatamente, cioè ponendo
come priorità l’esercizio massimo delle facoltà umane più elevate: conoscere ed amare Dio, ma danno priorità
a dei beni secondari. La felicità umana e il bene della natura umana coincidono.

2. La finalità nell’agire naturale

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Nelle nature non volontarie la finalità è meno evidente, ma è ancora osservabile.

- Nella struttura degli organismi viventi, nei quali tutto serve a qualcosa.
- Nell’azione e nello sviluppo dinamico degli viventi e nella regolarità di tutti i processi naturali.
- I condizioni ambientali favorevoli alla vita umana: principio antropico.

La finalità naturale ha però un carattere contingente ed è più complessa di quanto possiamo conoscere,
ma la finalità della natura include questa contingenza .

Nel mondo inanimato è ancora meno chiaro la finalità. Sembra che ci sia un ordine spontanea che si forma in
vari modi e che gli esseri viventi sanno usare. In ogni caso non sono le realtà inanimate a determinare il loro
proprio fine, lo hanno per natura, e quindi qualcosa o qualcuno l’ha dato a loro.

Negazioni: Differenza tra atti umani e atti dell’uomo (che sembrano non avere finalità, perché non sono libere).
Non hanno finalità gli atti che non sono liberi, per cui qualche pensatore la nega in modo assoluto. Il
Meccanicismo: tutto accade meccanicamente, con necessitò, senza tendere ad alcun fine.

 Agire per un fine non implica conoscere il fine come tale, ma richiede soltanto una precisa direzione o
tendenza delle operazioni.

3. Nozione di fine.

- fine come termine (quantità: limite, movimento: finale/fine), in questo senso non è un principio
causale.

- fine come risultato (finis operis), non si raggiunge sempre (se non è un’azione immanente). Questo
sì muove in qualche senso l’agente.

- il piacere come un aspetto dell’effetto dell’azione alle volte assume anche il carattere di fine (bene
dilettevole).

- Fine in senso più proprio è l’intenzione dell’agente (finis operantis), che esiste anche negli animali,
ma nel caso degli esseri razionali il fine preesiste nell’intenzione dell’agente.

> si può definire la causa finale come ciò in vista di cui qualcosa si fa (id cuius gratia aliquid fit).

4. Causalità del fine.

L’effetto dipende realmente dal fine, senza il quale l’agente non si muoverebbe.

La causa finale si distingue dalle altre cause: da materia e forma, che sono nel loro rapporto reciproco di
potenza e atto principi intrinseci della sostanza, si distingue per il fatto che è estrinseco alla sostanza. Perciò
viene associato alla causa efficiente, che è anche estrinseca. La causa finale è però anche in un legame
particolare con la forma che è portatrice del fine iscritto nell’essere di ogni ente. Ma anche nel’agente è la sua
forma a permetterlo di agire e causare.

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Mentre la causa efficiente muove in quanto da un impulso o produce qualcosa, la causa finale muove in quanto
attrae l’agente verso di se. Il fine è ciò in cui la tendenza o l’appetito si riposa. Il fine attrae perché ha carattere
di bene o di perfezione, la sua bontà e la radice della sua desiderabilità.

Nell’esperienza del male morale osserviamo che il fine cercato non è sempre il bene adeguato.

Il rapporto del fine con le altre cause: le cause intrinseche presuppongono quelle estrinseche, che le uniscono.
Il fine dipende dall’agente in quanto si raggiunge solo per mezzo di lui, cioè rispetto alla sua realizzazione: il
fine è l’ultima cosa che si raggiunge. L’agente è la causa del raggiungimento del fine, non è la causa della sua
causalità, poiché la ragione per cui il fine è voluto è la sua stessa ragione di bene. Il fine è dall’altro lato la causa
della causalità dell’agente. > Il fine è la causa causarum, perché è causa della causalità di tutte le cause.

Nell’agire libero il fine è conosciuto e attira a se la volontà. L’agente è mosso da fine, è un movens motum,
mentre il fine non è mosso, è un movens immobile.

L’allontanarsi dal fine propria sconvolge l’armonia tra le altre cause. Il non ottenimento del fine significa il
fallimento del processo causale.

5. Il principio di causalità.

C’è uno stretto rapporto tra efficienza e finalità. Omne agens agit propter finem. Se l’agente non avrebbe un
fine determinato non agirebbe affatto. Questa tendenza naturale è un appetito naturale del fine che deriva
dai principi della natura e non dalla conoscenza del fine in quanto tale. Fa che le cose cerchino la perfezione
della propria specie.

Il caso e il male manifestano la contingenza degli agenti naturali, ma presuppongono già un fine determinato
per poter essere giudicati come male e caso.

La contingenza è dovuta alla materia prima e all’incrocio di una molteplicità di cause.

La finalità si conosce solo in quanto se ne ha esperienza interna e esterna.

TEMA 12 - LA NEGAZIONE DELLA CONOSCIBILITÀ DELL’ESISTENZA DI DIO

L’agnosticismo

Il termine «agnosticismo» deriva etimologicamente dal greco ágnostos, ossia «non conoscibile». Fu il
naturalista inglese Thomas H. Huxley (1825-1895), nel 1869, nel contesto di un convegno della Metaphysical
Society di Londra a creare il termine come antitesi nei confronti di un gnosticismo religioso, che pretenderebbe
di conoscere l’inconoscibile. L’“agnosticismo” dello scienziato invece rifiuta di determinare a priori la soluzione
dei problemi che formano l’oggetto della sua ricerca. Il “senso” dell’agnosticismo moderno, si comprende da
questo contesto: non vuole essere, nella maggior parte dei casi, un rifiuto ostile nei confronti delle tematiche
metafisiche o religiose — come nel caso dell’ateismo — ma una sospensione di giudizio intorno alla questione
di Dio e dell’Assoluto, che non si nega né si afferma al fine di lasciare libera la ricerca scientifica. Perciò
l’agnosticismo si distingue nettamente dall’ateismo: si limita ad affermare che non possediamo — soprattutto

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dal punto di vista scientifico e conoscitivo — adeguati strumenti razionali per affermare o negare la realtà di
Dio e dell’Assoluto.

L’agnosticismo è affino allo scetticismo. In pratica questa posizione deriva dallo scetticismo che praticava una
simile sospensione del giudizio nell'epistemologia, ritenendo tutta la conoscenza umana sempre dubitabile e
perfettibile. Per questo la posizione agnostica come attitudine filosofica ha una origine molto più remota. È
nota per esempio la frase di Protagora "riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare nè che sono, nè che
non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana".

In epoca moderna è molto più diffuso. In seguito a Descartes che faceva del dubbio il suo metodo e ai correnti
filosofici seguenti che partivano non più dalla domanda sul mondo e sull’essere, ma dalla domanda sulla
conoscenza umana, l’agnosticismo viene accettato sempre di più per vari motivi e con vari sfumature.

Tipi di agnosticismo

Una prima sfumatura dell’agnosticismo è la sua versione empirista o positivista, sostenuta per esempio da
Hume e ancora oggi molto diffusa. Un’altra più matura e per questo forse anche più influente è quella
sostenuta da Kant, l’agnosticismo kantiano, che deriva dalla sua critica del sapere generale. C’è poi come
derivazione dall’agnosticismo kantiano, un agnosticismo del paradigma linguistico affine al relativismo
contemporaneo.

Nell’empirismo radicale di Hume che elimina ogni nozione metafisica non può che essere impossibile per
l’intelletto umano arrivare alla conoscenza di Dio. Non c’è esperienza diretta di Dio. Non c’è causalità. Non è
una possibile conoscenza che va oltre le sensazioni immediatamente percepiti. Dove già le conoscenze più
ordinarie diventano “beliefs”, l’esistenza di Dio (che Hume non negava affatto) non può che essere altrettanto
un belief, cioè qualcosa razionalmente non afferrabile.

L’erede dell’agnosticismo empirista è l’agnosticismo positivista, che è più rigoroso, quasi affine all’ateismo.
Qui l’unica conoscenza valida è la conoscenza di ciò che è quantificabile. Il neopositivismo delle primi decadi
del XX sosteneva il principio di verificazione secondo il quale una tesi può essere giudicata in termini di verità
o falsità se e soltanto se è empiricamente verificabile – o se è riducibile ad una tautologia o contraddizione.
Così la sfera del conoscibile fu ridotta all’ambito delle scienze sperimentabili. Tutto ciò che esula da questo
ambito non ha senso. Questa posizione si mostrava presto insostenibile, come rivelò tra altro la critica di
Popper. Come tutti anche il principio di verificazione è già di natura meta-scientifico, e di per sé nessun
principio è verificabile con criteri empirici. La verità non si può limitare all’ambito dell’empiricamente
constatabile.

L’agnosticismo kantiano è più sviluppato, perché non rifiuta in modo assoluto la conoscenza intellettuale e
non si confronta con la domanda in modo così rozzo come lo fa Hume. Nonostante questo la ragione per cui
Kant non può accettare l’esistenza di Dio se non come un presupposto razionalmente inconoscibile, è la stessa
come in Hume: si tratta di un agnosticismo metafisico che ha la sua radice nel modo in cui sono concepite le
capacità della conoscenza umana di penetrare nell’essere della realtà. Quest’agnosticismo consiste non nella
negazione a priori di “realtà metafisiche”, ma nella tesi che non se ne possa dare alcuna conoscenza metafisica,
perché esse esulano dal dominio dell’esperienza fenomenica, giacché in Kant ogni conoscenza certa si realizza

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solo grazie ad una sintesi tra la “materia”, costituita dai fenomeni oggetto di osservazione empirica, e l’azione
di “forme a priori”, mediante le quali i fenomeni vengono colti da parte di una categoria dell’intelletto. Dove
manca la materia, perché non c’è un oggetto con dei fenomeni sensibili, non si può dare conoscenza.

Kant critica le prove classiche dell’esistenza di Dio. Infatti è lui il primo a chiamare l’argomento di Anselmo
l’argomento ontologico. Secondo Kant non è valido, perché l’esistenza non è una perfezione, non può essere
parte di un concetto, dal quale si può dedurre. Tutte le altre prove rinviano in qualche modo all’argomento
ontologico e implicano dei postulati che non sono sperimentabili, come che tutto è contingente: non ne
abbiamo esperienza.

È anche a Kant che il positivismo contemporaneo si è ispirata. La sua concezione del valore assoluto della
scienza è stata contestata, ma l’agnosticismo scientifico è rimasto presente e molto diffuso. In effetti, in quasi
tutte le forme dell’epistemologia contemporanea è rimasto presente il pregiudizio kantiano antimetafisico,
nel senso che sebbene la scienza si evolva e la stessa valutazione del valore oggettivo delle teorie scientifiche
si trasformi, la scienza continua comunque ad essere considerata l’unico ambito di conoscenza ritenuta valida
per l’uomo. Le questioni che esulano dal dominio della scienza — e in particolare il problema di Dio — possono
tutt’al più essere accettate come questioni che, come in Kant, hanno senso per l’esistenza dell’uomo, ma non
per la sua conoscenza. L’agnosticismo scientifico consiste precisamente nell’escludere che la scienza,
comunque la si intenda, rappresenti un ambito ove le questioni metafisiche e religiose possano essere
formulate o almeno riconosciute come significative, abbiano cioè senso di domanda e valore di conoscenza.

Oltre all’agnosticismo metafisico, positivista, scientifico c’è pure un agnosticismo di tipo religioso. È
interessante che sia Hume che Kant credevano in Dio, ma ritenevano impossibile una conoscenza razionale
dell’esistenza di Dio. Per Kant Dio era un postulato etico. La via d’accesso a Dio in seguito diventava sempre
più l’etica, l’interiorità umana (Kierkegaard, Jaspers, Marcel, Blondel…). Dove però l’interiorità umana,
l’esigenza etica dell’esistenza di Dio non è vista come corrispondente ad una razionalità intrinseca ed
afferrabile dell’esistenza di Dio, si cade in contraddittorietà, cioè nell’agnosticismo religioso, che da una parte
afferma per fede l’esistenza di Dio e le verità della religione; ma dall’altra nega alla ragione la possibilità di
attingere queste verità, che costituiscono comunque il senso ultimo e definitivo dell’esistenza. Quando F.
Dostoevskij (1821-1881) scrive che, dovendo scegliere in alternativa tra la verità e Cristo, sceglierebbe Cristo
anche contro la verità, esprime la punta più avanzata di un agnosticismo religioso che rifiuta a priori la
possibilità di conciliare la verità religiosa con la verità della conoscenza intellettuale.

L’ateismo

È difficile rimanere consapevolmente in uno stato di ignoranza e incertezza, specialmente se si tratta di


incertezze su cose molto fondamentali e decisive per la propria vita, come l’esistenza di Dio. Perciò
l’agnosticismo in molti casi assume un carattere di ateismo, almeno pratico.

L’ateismo consiste nella negazione dell’esistenza di Dio. Non è quindi una sospensione di giudizio di fronte alla
domanda se esiste Dio, ma è la risposta negativa a tale domanda. L’ateismo è come l’agnosticismo un
fenomeno derivato: Il termine negativo manifesta che la posizione originaria dell’uomo è un atteggiamento di

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fede in Dio. La peculiarità dell’ateismo contemporaneo è la sua ampia diffusione. Non si limita ad una elite
intellettuale, ma ha raggiunto tutti i livelli e ambiti della nostra società. Questo fenomeno viene analizzato
nella Gaudium et Spes.

Le cause dell’ateismo sono vari. Si intrecciano i livelli intellettuali ed esistenziali e su ambedue i livelli la causa
dell’ateismo è spesso una concezione erronea di Dio. Da parte intellettuale c’è soprattutto una confusione tra
vari livelli, tra ambiti e metodi. Qui l’ateismo è la conseguenza dell’applicazione dei metodi delle scienze
naturali ad ambiti di un altro piano dell’essere ossia la negazione dell’esistenza di altri piani dell’essere. Si
ritiene che la realtà consiste solo in ciò che è afferrabile con i metodi delle scienze naturali. Dalla parte
esistenziale l’ateismo è il risultato dello scandalo del male. Sembra logico che se c’è il male Dio non può esistere
o non si può accettare l’esistenza di un Dio che tollera il male con cui siamo confrontati. C’è una distinzione
basilare tra ateismo teorico e ateismo pratico. Il primo essendo il rifiuto esplicito e argomentato dell’esistenza
di Dio che si manifesta nel proprio pensiero, il secondo essendo la negazione implicita di Dio che si manifesta
nel proprio modo secolarizzato di vivere e che può anche essere inconsapevole.

Il pensatore che sul livello intellettuale ha tratto le conseguenze della negazione di Dio in modo più radicale è
Nietzsche. Lui è il filosofo che dichiarò la morte di Dio. L’immaginazione di Dio che si perde nella modernità è
il frutto della paura dell’uomo di fronte alla mutabilità del mondo. Nietzsche ha un duplice scopo: vuole
trasmettere ai sui contemporanei che sono ancora religiosi che la religione non è che un suo proprio costrutto
che impone una morale da schiavi e sopprime la natura umana. Ai suoi contemporanei ateisti invece Nietzsche
vuole trasmettere la radicalità dell’ateismo e le sue conseguenze che non sono ancora in grado di
comprendere. Infatti se Dio non esiste, niente ha un significato, tutto è permesso e l’uomo – il superuomo –
deve crearsi tutti i valori da se stesso, senza dipendere da nessun’istanza superiore. Testi chiavi di Nietzsche
sono “Der tolle Mensch” in “Also sprach Zarathustra” e “die dreifache Verwandlung“ in „Die fröhliche
Wissenschaft“. Il primo si rivolge agli atei, dichiarando la morte di Dio, la scomparsa di un orizzonte sicuro della
vita umana e l’incapacità degli uomini dell’epoca di comprendere la portata della morte di Dio. Il secondo testo
descrive il cambiamento dello spirito umano dall’essere cristiano, soppresso sotto il peso dei comandamenti
che passa attraverso la rivolta all’essere bambino, cioè libero e senza scrupoli affermando la sua propria
volontà costruendosi giocando il suo proprio mondo. – Di fondo Nietzsche ha una concezione diffusa anche in
molti altri pensatori fino ad oggi, secondo la quale l’esistenza di un Dio è incompatibile con il valore infinito
dell’uomo. L’esistenza umana è l’unica dimensione sacra, ed è autosufficiente. Dio viene visto come un limite
della libertà e grandezza dell’uomo, come un’istanza che non è necessaria per fondare l’esistenza umana, ma
che in realtà sopprime l’uomo e dalla quale occorre liberarsi. Si tratta di un ateismo umanista – o un
umanesimo ateista, che ammette l’esistenza di un Dio e la religione al massimo come espressione della
grandezza umana, come qualcosa che serve ad una vita buona.

Fin qui abbiamo accennato il ruolo del positivismo scientifico e del nihilismo nietzscheano. A quest’ultimo si
ispira l’esistenzialismo di Sartre ed altri e qualche ideologia totalitaria che si diffonde nel XX secolo. Abbiamo
visto che l’ateismo assume anche un carattere umanista. E si crea l’atmosfera di indifferentismo verso Dio, un
oblio di Dio che Heidegger allega alla Seinsvergessenheit, e Buber chiama l’eclissi di Dio. Questa indifferenza
ha la sua radice nella riduzione della religione e di Dio ad un concetto tra altri, ad una funzione slegata dalla
sua dimensione reale e trascendente. L’ateismo, come lo conosciamo oggi, nasce e si diffonde nel periodo

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 49


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degli –ismi, cioè di quei sistemi che tendono ad assolutizzare un valore finito, perché negano la conoscibilità
dell’esistenza di Dio a priori. Anche se Dio è introdotto nel sistema a posteriori, in verità è negato, perché è
salvato solo il termine “Dio”, non la sua essenza, che non può avere la funzione di colmare qualche lacuna di
un sistema filosofica, ma fonda tutto, causa tutto e tiene tutto nell’esistenza. Dove però il pensiero si vede
costretto a rinunciare alla verità trascendente e all’essere oggettivo della realtà, Dio non può che essere ridotto
ad un concetto soggettivo e di conseguenza prima o poi perde del tutto il suo significato e diventa
completamente indifferente per l’uomo. È proprio del periodo moderno questo sviluppo di sistemi assoluti
che nel periodo contemporaneo tendono al relativismo e nihilismo, e conducono al pensiero debole e alla
disperazione.

La rinascita dell’interesse religioso, al quale assistiamo oggi, riuscirà ad uscire dall’ateismo solo se saprà
scoprire Dio non come parte integrante di una costruzione soggettiva, ma come una realtà superiore al
soggetto, indipendente e trascendente sul quale si fonde tutto, inclusa la stessa esistenza e il significato della
propria vita umana.

TEMA 13 - LA CONOSCIBILITÀ DI DIO

L’accesso all’esistenza di Dio: vie metafisiche e vie antropologiche

Paolo afferma che “ciò che di Dio si può conoscere è manifesto; Dio stesso lo ha manifestato.Infatti, dalla
creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere
da lui compiute” (Rom 1 ,19-20). E in effetti non solo l’esistenza di Dio è stata riconosciuta dagli uomini di tutti
i tempi, in tutte le religioni (l’ateismo è un fenomeno quasi esclusivamente moderno), ma anche sin dagli inizi
della filosofia i filosofi hanno parlato su Dio e ne hanno raggiunto conoscenze stupende – dalla vista di noi che
conosciamo Dio anche per rivelazione. Platone e Aristotele ne sono gli esempi più eloquenti.

Resta però un punto da rilevare subito all’inizio: La conoscenza dell’esistenza di Dio è accessibile a noi, ma non
è proporzionale al nostro intelletto, ci supera. Tommaso d’Aquino fa la famosa distinzione tra le cose che sono
evidenti in sé e quelle che sono evidenti per noi. In questa distinzione Dio è la cosa più evidente in sé, ma non
è evidente a noi, perché il nostro modo di conoscere è condizionato dalla nostra natura materiale, per cui le
cose più evidente per noi sono gli enti materiali. Per questo la ragione che cerca Dio deve combattere una
duplice tentazione: l’avvilimento e la presunzione. Nella storia del pensiero possiamo osservare per così dire
una continua alternanza tra pensatori che tendano alla presunzione di poter comprendere l’essenza di Dio e
quelli che rispondono con un rinvio al mistero e l’inconoscibilità di Dio fino al punto di dichiararlo totalmente
irraggiungibile per la ragione umana. Similmente si alternano pensatori che preferiscono vie metafisiche e
quelli che preferiscono vie antropologiche – e forse è valida l’osservazione che quelli che tendono alla
presunzione di esaurire la conoscenza di Dio sono i filosofi razionalisti che sviluppano una metafisica a priori
come per esempio Hegel, mentre invece quelli che tendono all’avvilimento sono più affini alle vie
antropologiche che però perdono la loro forza in un pensiero relativistico e creano la sensazione che alla fine
si tratta su domande del tutto soggettive. Risultano più forti e convincenti gli argomenti che integrano aspetti
metafisici ed antropologici e si accettano una metafisica a posteriori.

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Le vie metafisiche si distinguono in argomenti a priori e a posteriori. In qualche modo tutte le vie a priori si
rifanno o si riducono all’argomento ontologico. Questo argomento è stato sviluppato da Sant’Anselmo, e fu
assunto da numerosi filosofi razionalisti da Descartes in poi, mentre fu criticato da alcuni, i più noti tra loro
Tommaso e Kant. Fu Kant a chiamarlo l’argomento ontologico. Anselmo presente nel Proslogion, in forma di
preghiera, un argomento accettabile anche da un ateo in quanto non opera con concetti religiosi, ma parte
dal concetto di “aliquid quo maius nihil cogitari potest”. Questo aliquid sta nell’intelletto che lo pensa, ma se
non sta anche nella realtà, non è la cosa più grande che si può pensare, perciò deve trovarsi necessariamente
anche nella realtà, perché le cose che si trovano sia nell’intelletto che nella realtà hanno più estensione, sono
più grandi di quelli che si trovano solo nell’intelletto. – Questo argomento fu criticato da Tommaso nella
Summa Theologiae I., q. 2, a. 1 se sia di per sé evidente che Dio esiste. Dice in riassunto Tommaso che non è
lecito dedurre dall’essenza di Dio la sua esistenza, semplicemente perché noi non conosciamo l’essenza di Dio.
Dio non è un concetto del quale conosciamo i predicati essenziali. – Anche se è vero che di per sé l’esistenza
di Dio è evidente – ma non per noi. Dai pensatori moderni invece fu assunto con entusiasmo l’argomento di
Anselmo, l’idea di un essere perfettissimo che conduce alla conclusione che la sua esistenza è inclusa nell’idea
dell’oggetto stesso. Questo ragionamento si ritrova in Descartes, Leibniz, Spinoza, Hegel – anche se loro lo
facevano in un contesto per motivi ben diversi da quelli di Anselmo e molto probabilmente Anselmo non
sarebbe stato d’accordo con loro. Fu poi criticato da Kant. Per Kant è mostrabile l’esistenza solo di quanto
appartiene sia alle categorie dell’intelletto sia all’esperienza sensibile. Nell’argomento ontologico vede un
illegittimo passaggio da un idea alla realtà. L’ens perfectissimum non è altro che un’idea oggettivata e
personalizzata per tradurla nell’ambito del reale senza che corrisponde a nessuna esperienza sensibile...
Anselmo sviluppò questo argomento ca. 200 anni prima del tempo di Tommaso e 500 anni prima di quello di
Descartes, all’inizio della scolastica. Penso che le critiche che si facevano all’argomento siano valide in quanto
puntano su debolezze che saltano agli occhi di chi vive in un tempo segnato da un pensiero tendenzialmente
razionalista e secolarizzato. Ma Anselmo non l’intendeva così, non presentava una via a Dio per una ragione
autosufficiente, ma presentava una via semplice, il più semplice possibile in un contesto connaturale alla fede
cristiana rivelata.

Come tutte le vie metafisiche a priori si rifanno ad Anselmo così tutte le vie metafisiche a posteriori si ritrovano
nelle cinque vie di Tommaso. In un certo senso queste vie sono più metafisiche in quanto parte dall’essere
delle cose e procede attraverso la resolutio, mentre la metafisica a priori tende a ridursi a mera logica. Gli
argomenti a posteriori partono sempre dall’esistenza del mondo, lo mostrano come una realtà finita, che
richiede un fondamento che in ultima analisi deve essere fondato su qualcosa di infinito, cioè Dio.

La prima via: del movimento.


Ci sono alcune cose. La prima e la più evidente è quella che si desume dal moto. [1] È certo infatti e consta dai
sensi, che in questo mondo alcune cose sono mosse. [2] Ora, tutto ciò che è mosso, è mosso da un altro. Infatti,
niente è mosso tranne in quanto è in potenza al termine del moto; mentre ciò che muove, muove in quanto è
in atto. Perché muovere non è altro che trarre qualche cosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto
dalla potenza all’atto se non mediante un ente che è già in atto. Per esempio, il fuoco, che è caldo in atto, fa
essere caldo in atto il legno, che è caldo soltanto in potenza; e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che
una stessa cosa sia allo stesso tempo e sotto il medesimo aspetto in atto ed in potenza; lo può essere soltanto
sotto diversi aspetti, come ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo

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in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto qualcosa sia al tempo stesso motore e mosso,
cioè, che muova se stesso. È dunque necessario che tutto ciò che è mosso sia mosso da un altro.
[3] Se dunque ciò da cui è mosso è anch’esso mosso, bisogna che questo sia mosso da un altro, e quello da un
altro ancora. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito, perché in quel caso non vi sarebbe un primo
motore, e di conseguenza nessun altro motore; perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono
mossi da un primo motore, come il bastone non muove qualcosa se non in quanto è mosso dalla mano.
[4] Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da alcunché. E questo tutti capiscono
come Dio.

La seconda via: della causalità parte dalla nozione di causa efficiente. [1] Troviamo nel mondo sensibile che vi
è un ordine tra le cause efficienti. [2] Ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di se
medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile.

[3] Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti ordinate la
prima è causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima, siano molte le intermedie o una sola; ora,
eliminata la causa è tolto anche l’effetto. Se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima
causa, non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia. Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale
ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò
che evidentemente è falso.
[4] Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.

La terza via: della contingenza è presa dal possibile e dal necessario, ed è questa. [1] Tra le cose noi ne troviamo
alcune che sono possibili di essere e di non essere; infatti alcune cose si generano e si corrompono, e di
conseguenza, sono possibili di essere e di non essere.

[2] Ora, è impossibile che tutte le cose che esistono siano tali. Questo perché ciò che è possibile di non essere,
in qualche momento non è. Se dunque tutte le cose sono possibili di non essere, in un dato momento niente ci
fu nella realtà. Ma se questo fosse vero, allora anche ora non ci sarebbe niente, perché ciò che non è, non
comincia ad essere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche
cosa cominciasse ad essere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non
tutti gli esseri sono possibili, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario.
[3] Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in altro, oppure no. Ma non si può procedere
all’infinito negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, come neppure nelle cause
efficienti, secondo che si è dimostrato.
[4] Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e che non tragga da altro
la propria necessità, ma che sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio.
La quarta via: dei gradi dell’essere è basata sulla gradazione ontologica della realtà. Non tutti gli esseri
possiedono nel loro modo di essere la stessa bontà, bellezza, verità ossia la stessa perfezione e dignità.
Vediamo infatti che l’uomo possiede una dignità più alta di qualunque altro essere materiale a causa del suo
essere libero, intelligente e dotato di volontà. La gradazione ontologica mette in risalto l’essere finito degli
enti, giacché se possiedono una perfezione in un grado maggiore o minore sempre lo possiedono in parte,
come qualcosa datoli da un altro che li possiede in sé, che è Dio.

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La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cos. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il
nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle
diverse cose a seconda che si accostano più o meno ad alcunché di sommo e di assoluto; così più caldo è ciò
che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo grado,
ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente: perché, come dice Aristotele, ciò
che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa
di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il
medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di
qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio.

La quinta via: dell’ordine parte dall’osservazione dell’ordine e della teleologia degli organismi naturali. Senza
negare i risultati delle scienze, comincia ad indagare sull’origine ultimo dell’ordine per risalire a Dio. L’ordine
risponde ad un logos e infine ad una intelligenza ordinatrice, cioè Dio, che dà origine a ciò che è ordinato.
La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza,
cioè i corpi fisici, operano per un fine, come appare dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo
stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una predisposizione
raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere
conoscitivo e intelligente, come la freccia dell’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, del quale
tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine: e quest’essere chiamiamo Dio.

Le vie antropologiche si distinguono dalle vie metafisiche in quanto non consistono solo in un percorso
razionale, ma in esse la domanda su Dio assume un carattere esistenziale per l’uomo. Le vie antropologiche
affrontano la domanda su Dio a partire da un’analisi fenomenologica e ermeneutica della vita umana.
L’elemento speculativo, essenziale per l’essere umano, ovviamente non potrà mancare. Partire dall’uomo ha
il vantaggio di rendere il discorso più accessibile e più immediatamente comprensibile e inoltre giunge ad una
conoscenza di Dio superiore, attraverso il pensiero analogico e simbolico.

Un esempio per una via antropologica è l’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura. La via alla conoscenza
di Dio è qui presentata come un itinerario, che sale a Dio per sei gradini. Parte dalla conoscenza della natura,
in cui si scoprono le vestigia Dei che si riconosce per creaturam e in creaturam, passa a riflettere sull’uomo e,
a partire dalla sua dimensione spirituale (incorruttibile, immateriale, dotato di interiorità, ma finito in tutti
questi aspetti), risale a Dio (spirituale, incorruttibile, immutabile). Un ruolo decisivo ha la rivelazione di Gesù
Cristo, perché a Dio nessun ha accesso se non attraverso il Crocifisso. Bonaventura sa che per poter risalire a
Dio, ci vuole da un lato il fulgor speculationis, e dall’altro è decisivo il speculum mentis nostrae che deve essere
trasparente e puro, cioè la conoscenza di Dio richiede la disposizione morale del soggetto.

Il punto di partenza per quasi tutte le vie antropologiche è la tensione tra l’apertura e la finitezza che l’uomo
sperimenta in sé. Non c’è niente in questo mondo che appaghi interamente la sete di compimento che l’uomo
ha in sé. Ciò osserva anche Tommaso che ne conclude che l’uomo rivela un immediatum ordinem ad Deum. È
paradigmatica per descrivere questa sete che trova il suo compimento solo in Dio, la famosa frase della
confessiones di Agostino: ad te nos fecisti, Domine, et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te.
L’ontologia raggiunge il “fecisti nos”, cioè l’origine dell’uomo che è creato da Dio. L’ermeneutica raggiunge

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l’”ad te”, cioè rivela che in Dio si radica il senso della nostra vita e la pienezza alla quale siamo costitutivamente
chiamata, mentre il cor inquietum e il donec mostrano tutta la dinamica della tensione in cui l’uomo si trova
finché non ha raggiunto Dio pienamente.

Il carattere finito dell’esistenza insieme con la razionalità umana dà luogo ad un interrogarsi sul senso della
vita, il che può essere una via a Dio. L’uomo agisce sempre in vista di un fine. Agisce, perché ritiene cha la sua
azione abbia un senso e vuole che tutta la sua esistenza e quanto gli accade similmente abbia un senso. Senso
significa in questo contesto sia significato sia fine. Solo se la vita ha un fine ha anche un significato ed è
consistente: la vita risulta intelligibile in quanto ordinata verso un telos. Altrimenti si cade nel nihilismo. Il
senso della vita è fondamentale per il modo in cui si vive, perché offre criteri di decisioni, ed è intimamente
legata all’essenza dell’uomo. Perciò la comprensione dell’uomo, la comprensione della sua dignità va di pari
passo con la concezione di Dio che si ha. Ciò si mostra nell’etica. Anche l’etica può essere una via a Dio, in
quanto si accetta la dignità incondizionata delle persone e ci si chiede sul suo fondamento che in ultima analisi
si può ritrovare solo in Dio. Così la dimensione spirituale dell’uomo riconduce a Dio, perché non proviene dal
materiale genetico. Lo spirito presuppone una novità di essere e non la mera trasformazione di qualcosa
preesistente. Perciò l’origine dell’uomo riconduce al qualcuno al di sopra dell’essere umano: ad un Essere
infinito capace di causare ex nihilo.

Le vie ermeneutiche non dimostrano l’esistenza di Dio, ma mostrano che senza Dio l’uomo si precipita
nell’abisso del non senso, e palesano che la sua esistenza e la sua azione riconducono a Dio.

L’analogia della conoscenza di Dio

La riflessione su Dio non può ricorrere a concetti univoci. Dio non è definibile con un concetto che lo accomuni
al finito. Non è un ente tra altri, che possa cadere sotto lo stesso concetto. A Dio si arriva con una protologia
o una teleologia, ma non facendolo un oggetto dell’ontologia, come se fosse un ente tra altri, In questo senso
Karl Barth ha ragione con la sua critica dell’analogia entis, se questa critica si rivolge ad una riflessione che
considera Dio un oggetto concettuale come altri. Ma certo questo non vale per la vera analogia entis.

Dall’altra parte non si può neanche affermare l’equivocità dei termini che si usano per parlare di Dio. Perché
essendo equivoci non potrebbero rivelare niente di Dio. Qualsiasi cosa si direbbe, sarebbe priva di significato,
e noi non potremmo riconoscere Dio e ci venisse incontro, non potremmo neanche pregare a lui.

Un linguaggio che parla di Dio deve allo stesso tempo essere significativo e custodire il mistero e la
trascendenza del divino. Questo offre il linguaggio simbolico e metaforico che però richiede sempre un
ermeneutica per poter interpretare quanto è stato detto e distinguere testi autenticamente religiosi da quelli
pesudo-religiosi.

L’analogia invece offre un significato e salvaguarda la trascendenza senza prendere ricorso ad un linguaggio
metaforico. L’analogia consiste in tre momenti:

 La via causalitatis o via affermationis: in questo primo momento si riconosce che le perfezioni che
conosciamo nella natura in modo finito preesistono in Dio in modo infinito secondo la simplicitas
divina. Si deve distinguere tra perfezioni pure e perfezioni miste. Solo perfezioni pure, che non

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implicano di per sé imperfezione, possono essere affermate a Dio. Perfezioni miste si possono
attribuire a Dio solo in modo metaforico.
 La via negationis: in questo secondo momento si deve purificare la conoscenza raggiunta nel primo
momento, negando quanto c’è in essa di imperfetto. Questo include la rimozione di ogni imperfezione
da Dio (materia, composizione, cambiamento), e include anche la limitazione della nostra stessa
conoscenza (si tratta di una purificazione intellettuale che nella persona stesa può condurre anche ad
una purificazione spirituale). Questa via è propria della teologia negativa o apofatica che conduce alla
mistica.
 La via eminentiae: è l’articolazione delle vie dell’affermazione e della negazione che genera un
processo intellettuale che rinvia ad un eccedenza. Perché, sebbene l’intelletto umano quanto al suo
punto di partenza e a ciò che riesce a comprendere si riferisce soprattutto al finito, per quanto
riguarda il contenuto pieno delle perfezioni di essere, queste sono in Dio. In questa tappa l’uomo
riconosce la trascendenza della perfezione divina: sa che a Dio le perfezioni competono in modo
infinito senza tuttavia arrivare a comprendere.

Questi tre momenti dell’analogia generano un percorso continuo, cioè un camino verso Dio, in cui occorre non
confondere rigore con esattezza: si può e deve proseguirlo con rigore, ma rigore significa in questo contesto
non esattezza, ma proprio accettare l’impossibilità di raggiungere qualsiasi esattezza in riferimento a Dio.
Rigore significa nella conoscenza di Dio un continuo superamento di concetto inadeguati.

TEMA 14 - L’UNITÀ DELL’ESSERE UMANO

L’unità psicosomatica dell’essere umano

L’unità è un trascendentale e perciò appartiene a tutti gli enti. C’è una gradazione di unità che è maggiore negli
essere che possiedono una maggiore pienezza di essere. Negli viventi l’unità è più forte che nei non viventi il
che si manifesta nella loro dinamicità. Unità non significa rigidità, ma è la condizione di cambiamento che si dà
negli viventi nell’ assimilazione di cibo, nella crescita e nella riproduzione.

Il principio dell’unità in tutti gli esseri è la forma sostanziale. Nei viventi la forma sostanziale è la loro anima.
Negli esseri umani l’anima è di carattere spirituale e perciò sussistente.

Sin dall’antichità si è dato il nome “anima” al principio più radicale della vita. Si ha distinto da sempre gli esseri
animati da quelli inanimati o inerti. Quello che rende diversi gli esseri animati non è solo la loro capacità di
agire, ma è il loro stesso essere, giacché, come dice Aristotele “il vivere per i viventi è l’essere”. L’anima è
semplice, inestesa, incorporea e unica. Tutte queste caratteristiche emergono dall’unità dell’essere umano,
perché se l’anima sarebbe materiale o se ci fossero più anime in un solo essere, non sarebbe più la forma
sostanziale del tutto, ma si tratterebbe di una giustapposizione di varie sostanze e l’uomo non fosse un essere
unitario, ma un essere contiguo. Questo principio di vita, l’anima dell’uomo si distingue ancora a seconda dai
vari modi di vita, che può essere vegetativa, sensitiva o intellettiva. Qui, secondo il tema, ci occuperemo solo
della vita umana.

Siccome l’anima è il principio della vita dell’essere umano la si può considerare sotto due punti di vista, come
lo fa Aristotele: come forma del corpo e come principio delle operazioni.

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Dal punto di vista della costituzione dell’uomo la sua forma è ciò che gli dà la vita, lo rende un tutto organizzato
e lo fa appartenere alla sua specie, lo fa essere un uomo. Aristotele definisce l’anima come “l’atto primo di un
corpo naturale che ha la vita in potenza”. L’anima è quindi la forma sostanziale, mentre il corpo naturale è la
materia adeguata per essere costituita come corpo vivente. L’anima attualizza e perfeziona la materia in modo
da formare con essa un unico essere, un corpo organico e animato. L’anima è l’atto o la forma del corpo e il
corpo è il principio materiale della sostanza vivente. Si tratta di due principi non di due esseri distinti, ma di
due principi di un unico essere, l’uomo. “Affermare che l’anima umana è forma del corpo vuol dire affermare
che ciò per cui l’uomo vive ed è cosciente è lo stesso principio, la medesima realtà per cui ha un determinato
corpo”. Questo corpo è una struttura ordinata di parti eterogenee, un organismo in cui le parti sono strutturate
e finalizzate secondo una certa gerarchia al perfezionamento del tutto. Questo organismo si mostra più
complesso nell’uomo che negli esseri inferiori. Mentre gli enti materiali inanimati non hanno una proprio unità
tra le loro parti ma si disintegrano facilmente, i vegetali hanno organismi relativamente semplici,
strutturalmente non molto differenziati il che comporta passività. Gli organismi degli animali e soprattutto
dell’uomo invece mostrano una notevole struttura e complessità. L’organismo umano si distingue per
l’eccellente articolazione dei suoi sistemi interni: respiratorio, circolatorio, immunitario e soprattutto nervoso.

Dal punto di vista dinamico o funzionale l’anima è il principio delle operazioni dell’uomo. L’anima gli permette
di compiere certe operazioni, le quali manifestano la vita. Sotto questo punto di vista Aristotele definisce
l’anima come “la causa primaria in virtù di cui noi viviamo, percepiamo e pensiamo”. L’anima è il primo
principio di tutte le azioni dell’uomo, anche se per quasi tutte le azioni ci sono altri principi prossimi, come
l’occhio per la vista. L’essere animato del corpo significa che ogni parte è aperta alle altre, è orientata
all’interazione con il tutto del corpo e con gli oggetti propri di ogni organo. Ogni organo ha una sua funzionalità
precisa e per poter compierla è articolata con altre parti del corpo. Questo rimandare ad altre parti è
l’intenzionalità, caratteristica propria del corpo umano sotto il punti di vista dinamico. La complessità delle
azioni che l’uomo è in stato di compiere conduce alla conclusione che il suo modo di essere e quindi la sua
anima è superiore a quelli degli essere più fissati nelle loro azioni. In questo senso la parte paradigmatica del
corpo umano sono le mani che gli permettono operazioni molto raffinati. Ad Anassagora si attribuisce la
sentenza che “l’uomo è il più sapiente dei viventi perché ha le mani”. Un'altra caratteristica essenziale per la
per l’eccellenza del modo di vivere dell’uomo è il bipedismo.

Ora, secondo la teoria duale di Aristotele, l’anima e il corpo sono due co-principi dello stesso essere e solo
considerandoli come principi distinti ma complementari e interdipendenti si salvaguarda l’unità dell’essere
umano. Lungo la storia del pensiero però questa unità si è presentata anche in altri modi meno adatti alla
spiegazione dell’unità dell’essere umano:

il monismo riduce l’essere umano ad un'unica dimensione, sia quella materiale che quella spirituale. Sono più
frequenti però i riduzionismo di stampo materialista. Il materialismo nega l’esistenza di un principio spirituale
nell’uomo e ritiene che sia costituito esclusivamente da materia, cioè ad elementi calcolabili e misurabili e se
fossimo in grado di sviluppare la scienza adeguata potessimo perfettamente conoscere e prevedere l’agire
umano Sono di questo stampo pensatori come Comte con la sua fisica sociale o Marx con il suo materialismo
dialettico e la lotta di classe. Ci può essere anche un riduzionismo spirituale che nega una reale distinzione tra

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l’evento materiale e quello psichico nell’uomo e tenta a spiegare tutto quanto accade nella vita umana
esclusivamente a partire dallo spirito. Questa concezione però sfocia necessariamente nel dualismo.

Il dualismo riconosce sia la dimensione corporea sia quella spirituale nell’uomo, ma non riesce a collegarle e a
comprenderle come complementari e costituendi una sola cosa, cioè l’uomo. L’uomo consiste per loro più in
una delle due dimensioni, nello spirito, mentre l’altra dimensione della sua esistenza, il corpo, è qualcosa di
aggiunto strumentale o addirittura superfluo. Questo dualismo si vede già in Platone, e poi si rafforza di nuovo
in epoca moderna a partire da Descartes con la sua distinzione tra res cogitans e res extensa che conduce ad
facoltoso ricercare di spiegare l’inspiegabile unità tra corpo e anima che dura per secoli e ha un forte influsso
sulla teoria della conoscenza e molti altri ambiti della filosofia e del pensiero moderno, come l’etica o la
religione. Questa difficoltà di stabilire l’unità tra l’anima e il corpo dell’essere umano si chiama anche mind-
body-problem.

La distinzione tra mente e anima

Realmente la problematica mente-corpo è stata riproposta come tale nel Novecento, dalla filosofia della
mente, una corrente filosofica d’ispirazione anglosassone vicina alle scienze cognitive. Si tratta però di un
ridimensionamento dell’antica problematica di anima-corpo, che si limita piuttosto alla relazione tra mente e
cervello. Ora invece di “anima” si parla piuttosto della “mente”, e il corpo si vede soprattutto nel sistema
nervoso o il cervello, sede delle operazioni cognitive e emotive.

Il passaggio dall’anima alla mente è una conseguenza ancora del dualismo cartesiano. Si è perso la nozione
dell’anima come forma. Ciò che rimane dell’anima è la constatazione della presenza di “rappresentazioni
coscienti” nell’uomo. Le “idee” Descartes che includono tutto: “tutto ciò che è in noi di così fatto che di esso
siamo immediatamente coscienti”, cioè anche tutte le operazioni della volontà, dell’intelletto,
dell’immaginazione e dei sensi. Le sensazioni quindi appartengono alla mente. La vita sensitiva degli animali
appare problematica. Il corpo è l’organismo così come viene descritto dalla scienza e il punti di contatto tra
mente e corpo è la conoscenza ossia il cervello (la ghiandola pineale per Descartes).

Questa sostituzione del termine ”anima” con quello di “mente” appare problematica in quanto perde di vista
non solo la dimensione spirituale dell’uomo, ma anche si rivela incompatibile con la teoria duale e conduce
facilmente ad una concezione monista di stampo materiale come il comportamentismo, il neurologismo o il
funzionalismo; o almeno non potrà superare la visione dualista come in Descartes o in Kant. Un esempio di
superamento di quest’impostazione è il filosofo statunitense John Roger Searle che vuole dimostrare che non
ha senso assimilare la mente ad un computer, in quanto nessun computer può "pensare" nello stesso modo
degli esseri umani. L'intenzionalità è uno degli argomenti principali usati da Searle nella sua contrapposizione
al concetto di intelligenza artificiale nella sua versione "forte", quella che non si limita a considerare il
computer come un utile strumento di indagine della mente umana, ma si spinge ad affermare che, con
opportuni programmi, esso diviene analogo alla mente umana ed è quindi capace di comprendere e di avere
altri stati cognitivi. L'opinione di Searle al riguardo si può riassumere così: dato che la mente possiede
intenzionalità, e il computer no, il computer non può avere una mente. Searle rifiuta sia il dualismo che il
riduzionismo in favore di una concezione che lui chiama Naturalismo biologico. Secondo questo approccio
però, la coscienza non è altro che un epifenomeno dell'organismo che ha proprietà esclusivamente fisiche. Per

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soddisfare veramente le esigenze del problema a mio avviso è invece assolutamente necessario assumere una
concezione della mente che va oltre la mera dimensione fisica e include la dimensione spirituale. A questo
scopo si dovrebbe tornare all’uso del concetto di “anima” che va ben oltre le operazioni conoscitive del cervello
e include oltre all’intelletto anche la volontà e altre facoltà interiori che formano un’unità irriducibile. Infatti
la stessa esperienza comune mostra che tutte le dimensioni della vita umana sono interdipendenti e irriducibili
l’una all’altra, la dimensione corporea - neuronale, quella psichica, quella comportamentale e quella metafisica
sono presenti in tutti gli atti dell’uomo e non trovano un rispecchiamento soddisfacente nella loro descrizione
di operazioni mentali, cioè neuronali, ma includono ovviamente molti altri elementi e soprattutto non si
comprendono senza la dimensione spirituale. Perciò parlare piuttosto di “anima” che non di “mente” mi
sembra più adeguato.

Spiritualità dell’anima

L’anima umana si distingue dall’anima di un essere irrazionale per il suo essere spirituale. La funzione
dell’anima degli esseri irrazionali si esaurisce nel conformare un corpo e nel permettergli di svolgere le
operazioni propri al modo di essere della sua specie. L’anima umana ha invece una perfezione che oltrepassa
le proprietà della materia e per questo neanche la sua origine si può spiegare solamente a partire dalla materia,
dal materiale genetico. Tale perfezione si manifesta secondo il principio che “agere sequitur esse” nello
svolgimento di azioni come il volere libero e il comprendere dell’intelletto. La spiritualità dell’anima so mostra
in modo più chiaro nella libertà propria dell’essere umano. la filosofia classica definisce libertà come “la facoltà
dell’intelligenza e della volontà”; e quindi l’intelligenza e la volontà sono costitutivi per la spiritualità dell’anima
ossia la manifestano essendo la condizione della libertà. Sono liberi “quelle azioni che provengono da una
volontà deliberata”. La volontà a sua volta è “la tendenza spirituale verso il bene conosciuto
intellettualmente”. L’animale reagisce istintivamente e abbastanza prevedibilmente, la persona umana
escogita soluzioni o scopre nuove opportunità. L’uomo non è costretto a rispondere agli stimoli esterni
(“esterno” compreso qui nel senso più ampio, inclusi condizioni culturali e sociali, ma anche genetiche, psichici
o emotivi) secondo un istinto rigido come gli animali, ma deve agire coscientemente, volontariamente e
liberamente. I fattori esterni possono senz’altro influire sulla scelta libera della persona, ma non possono
determinarla in un modo necessario.

La spiritualità si manifesta quindi

in un primo momento nell’intelligenza, con la quale l’uomo è aperto all’essere in quanto essere, cioè
al tutto. Secondo il detto di Aristotele “l’uomo è in un certo modo tutte le cose” “quodammodo
omnia”. La sua comprensione non è limitata e determinata dai suoi bisogni fisici come negli animali.
La spiritualità implica anche immaterialità e quest’ultima si manifesta pure nell’apertura piena
dell’anima a tutto ciò che è. L’intelletto non è condizionato materialmente come lo sono gli organi,
non ha una soglia al di sotto o al di sopra della quale non potrebbe comprendere e non si guasta a
causa di contatto con oggetti troppo “grandi” o difficili. Il conoscere è un azione immanente,
immateriale.
In un secondo momento nella volontà che è libera in quanto si lascia dirigere dall’intelletto e non è
determinata dai bisogni immediati.

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In un terzo momento nella libertà che segue dall’interazione tra intelletto e volontà.

Tutto ciò conduce all’accettazione dell’origine dello spirito umano in un principio spirituale trascendente,
come lo hanno intravisto già i greci. Attraverso la rivelazione cristiana sappiamo che all’origine della persona
umana c’è un atto creatore da Dio che comunica il suo essere all’anima.

Morte e immortalità

La spiritualità è quasi sinonimo per l’immortalità dell’anima, perché significa sussistenza. Già Platone si occupa
dell’immortalità dell’anima nel Fedone, dove a partire dalla capacità intellettiva dell’uomo vuole mostrare la
sua spiritualità e con questa la sua immortalità.

Infatti l’immaterialità dell’anima implica la sua incorruttibilità. L’incorruttibilità dell’anima si deduce dalla sua
semplicità: non ha parti e quindi non si può corrompere, perché la corruzione consiste nella disintegrazione
delle parti. L’anima però non è composta di forma e materia, ma e forma pura. L’anima è la forma del corpo,
ed è una forma sussistenza e perciò non è annullata dalla corruzione del corpo, perché sussiste in sé.

Un altro argomento a favore dell’immortalità e quello dell’apertura totale dell’intelletto già accennato.

Tommaso d’Aquino presente l’argomento secondo il quale ogni individuo desidera esistere in modo a lui
proprio e siccome è proprio dell’uomo vivere secondo ragione desidera persistere per sempre, perché con la
ragione può superare i limiti di spazio e tempo e le circostanze contingenti; e questo desiderio quindi deriva
non da fattori materiale ma dalla natura spirituale dell’anima umana.

L’individuo quindi sopravvive alla corruzione del corpo, ma l’essere separato dal corpo è per l’anima una
condizione innaturale, perché l’anima è fatta per esistere nel suo corpo, per cui la risurrezione dei corpi si
presente come una esigenza della stessa natura umana.

Sembra adeguato alla fine accennare alla dimensione esistenziale decisiva che l’immortalità comporta per
ciascuno di noi. Non è solo una domanda speculativa e magari interessante o divertente, ma tocca la nostra
stessa esistenza in modo decisivo e la sua risposta avrà un influsso determinante su tutta la nostra vita.

TEMA 15 - LA PERSONA UMANA

Proprietà metafisiche della persona: sussistenza e irripetibilità, completezza, inviolabilità, relazionalità e


autonomia nell’agire

L’essere umano ha molte caratteristiche peculiari, molti dei quali possono servire a farne una definizione
fenomenologica, come la classica definizione animal rationalis, o altri come quella di Bergson secondo la quale
l’uomo è l’essere che sa ridere, o quella di Scheler: l’essere che sa dire di no, o quelle di Heidegger: l’esserci,
l’essere per la morte o così via, o altri ancora come l’essere religioso e così via. Tutte queste descrizioni sono
però non propriamente definizioni, perché rivelano non la totalità dell’essere umani, ma solo una sua
caratteristica. La dignità della persona umana non consiste però in una o alcune delle sue proprietà, ma gli
appartiene in quanti persona per cui sarà necessario adoperare altre definizioni più adatto a cogliere il nucleo
della persona umana.

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Per cogliere l’essenza dell’uomo, ciò che lo fa essere persona, serve piuttosto una prospettiva metafisica. Le
classiche definizione di persona in questa prospettiva sono quella di Tommaso: “Persona significati d quod est
perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura” e quella di Boezio: “Naturae rationalis
individua sub stantia”. Sono comuni ad ambedue tre elementi: la natura, l’individialità e la sussistenza.

In realtà nessuno di questi tre elementi basta di per sé per cogliere adeguatamente l’essenza della persona:
Tutto quanto esiste è contrassegnato da questi elementi, cioè ogni natura sussistente è individuale.
L’elemento decisivo per la dignità della persona è pertanto la razionalità e questa colta insieme all’individualità
e alla sussistenza. Così è chiaro che non si tratta dell’astratta ragione, ma che la dignità della persona deriva
dall’insieme di queste caratteristiche e dalla loro reciproca funzionalità. L’individualità umana pertanto si
dimostra superiore a quella di altri enti che sono anche individuali ma mancano dalla dimensione della
razionalità e alcune anche della sussistenza. La sussistenza della natura umana risulta superiore a quella di altri
enti, perché legata alla sua razionalità e coscienza della stessa sussistenza e al suo actus essendi proprio che
fanno sì che l’uomo è in grado di agire per sé stesso, liberamente, perciò l’essere dell’uomo gli appartiene in
un modo più radicale e più proprio. Infine la razionalità dell’uomo è più che una ragione astratta, perché è
legata alla sua individualità e sussistenza e quindi è la razionalità di un essere concreto sussistente in virtù di
un atto di essere proprio ed è legato a tutte le altre dimensioni del suo essere. Perciò invece di razionalità si
può parlare della stessa dimensione dell’essere umano intesa in questi definizioni anche in termini di
spiritualità. La dignità personale non deriva dalla umanità o dalla razionalità astratta, ma dalla sussistenza
concreta, reale e individuale derivante da un atto di essere proprio.

La persona umana possiede il suo essere in se stessa per se stessa. Ma non lo possiede da se stessa. Non si
crea da se, ma riceve l’essere. La dignità della persona in ultima analisi deriva dalla sua origine in Dio che le
partecipa l’essere e l’ha creato nel suo immagine. Ma questa dignità si manifesta nel suo essere attuale e
pertanto può essere colta anche da chi non accetta la creazione che è un dato rivelato. Da questa dignità e il
modo peculiare di essere della persona umana derivano alcune caratteristiche metafisiche.

Dalla sussistenza della persona deriva la prima proprietà: l’inalienabilità: la persona umana non inerisce in
altro ma sussiste in sé e per sé. Da tale proprietà deriva la definizione classica secondo l quale la persona è sui
iuris et alteri incommunicabilis. Ciò per cui l’uomo è questa persona non è comunicabile ad altri e non gli può
essere sottratto. Solo la specie si propaga, ma non la persona. Questa concezione si perde in filosofie di stampo
panteistico o in religioni nelle quali la divinità è di carattere impersonale e si mira all’annullamento della
persona nel Tutto, nella Natura o nella Divinità.

L’irripetibilità è una specificazione dell’inalienabilità. L’individuo personale non è solo un caso singolo di un
universale. È qualcosa di imitabile, ma non di ripetibile. Anche se si potesse riprodurre una persona con
esattamente le stesse caratteristiche, non sarebbe mai la medesima persona, perché rimane sempre un
individuo sussistente nella sua singolarità. È diverso nella natura, perché il concetto di natura abbraccia solo
le note essenziali do una cosa, che si ritrovano in tutti gli individui della stessa specie. Il concetto di persona
invece abbraccia tutte le sue note individuali e particolari ed è perciò irripetibile. L’uomo non è persona in
quanto è uomo, ma in quanto è quest’uomo. L’inalienabilità e l’irripetibilità fondano il primato della
singolarità: la persona non è si può ridurre ad uno tra altri, non si può possedere una persona, non si lascia
strumentalizzare e il suo valore non si lascia controbilanciare con altri.

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La completezza è una proprietà che manifesta proprio ciò: l’uomo è completo in sé e non è solo parte rispetto
ad un tutto superiore a lui. Secondo una frase paradossale di Kierkegaard “mille uomini sono meno di un
uomo”. Questa proprietà viene negate prima o poi in ogni ideologia totalitaria. Affermare che la persona è
completa in sé e che il suo valore lo possiede in sé e non in quanto parte di un tutto, non significa affermare
che è autosufficiente, ma solo che è un fine in sé e mai soltanto un mezzo, come afferma Kant.

L’inviolabilità segue dalla completezza ed è la formulazione negativa della sua autoappartenenza: l’essere della
persona e il suo valore non può essere assunto o violato da un altro, ma le appartiene in modo esclusivo e
incondizionato. La persona non può essere strumentalizzata come avviene per esempio nella schiavitù.

La relazionalità è un’espressione dell’intenzionalità dell’essere personale: l’apertura alla realtà e agli altri.
Quest’apertura si presenta come capacità di stabilire relazioni, di entrare in contatto con il mondo, con altre
persone e con Dio e di donare se stesso. Tale capacità e ricollegabile direttamente alla razionalità in quanto
richiede conoscenza e intenzionalità, implica il riferimento all’inalienabilità cioè all’autoappartenenza in
quanto nella persona umana si implicano a vicenda il rapporto con sé e il rapporto con ciò che la trascende,
vale a dire l’autoappartenenza e la donazione di sé. Non è naturale a noi l’ignorare all’altro, Wittgestein diceva
che all’entrare nel treno ed essere con l’altro al meno meritva il minimo attegiamento di cortesia.

Contro: Utilitarismo e Neo-contratualismo

L’autonomia nell’agire deriva dalla libertà della persona: nella persona la natura è al servizio dell’individuo.
Non sono gli istinti a decidere il destino dell’uomo, ma è il singolo che si serve degli istinti naturali per decidere
sulla sua stessa esistenza, conoscendone il fine. La persona ha il dominio delle sue stesse azioni.

Persona e libertà: il compito di realizzare se stessi

La vita umana è in uno sviluppo continuo fisico ma anche psichico, intellettuale e spirituale. Da questa
condizione di dinamicità che implica molti decisioni, a seconda dei quali si determina la direzioni in cui l’uomo
si sviluppa, deriva la responsabilità della persona per il proprio sviluppo ossia: il compito a realizzare se stessi

Fondamentale in questo compito è la libertà. Senza la libertà infatti l’uomo non sarebbe responsabile delle
sue stesse azioni. La libertà non deve essere confusa con spontaneità, e non deve lasciarsi sostituire
dall’indifferenza, dall’emotivismo o dal conformismo.

L’agire libero implica sempre una scelta. Ma la scelta di per sé implica un criterio in base al quale le alternative
date nella scelta si giudicano. Quindi la libertà non è spontaneità, ma esige l’uso della ragione e la
determinazione della volontà in vista di un bene determinato che serve come criterio. In quanto esige
l’intelletto, la libertà è incompatibile con l’emotivismo cieco, e in quanto esige la determinazione della volontà
è incompatibile con l’indifferentismo. In quanto esige la presa della responsabilità personale è incompatibile
con il conformismo che si rivela come un atteggiamento inautentico in quanto mostra un comportamento
contrario a ciò che si considera come il bene proprio di se stesso, sostituendolo con il bene dei molti. Infatti
ogni persona agisce in base ad una certa tabella di valori che stabilisce la gerarchia dei beni a cui si aspira nella
propria vita. In base a quella tabella personale può essere giudicata l’autenticità della condotta del singolo.

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Il bene della persona singolare non è separabile dal bene dell’uomo in quanto tale. Sarebbe necessariamente
inautentico un comportamento che è contrario al bene proprio della natura umana. Un tale comportamento
potrebbe essere autentico solo soggettivamente, mentre oggettivamente rivela l’incoerenza tra ciò che l’uomo
è e ciò che ritiene di essere.

L’autorealizzazione autentica dipende dal valore morale dei nostri atti, implica un superamento di se stesso
verso la verità e il bene oggettivo e trascendente che non dipendono dal singolo, ma che solo gli daranno un
compimento autentico e che deve scoprire a partire dal suo stesso essere che neanche si ha dato lui stesso. In
quanto superamento della soggettività. L’autentico uso della libertà viene rafforzato e garantito dalla
relazionalità. Nell’apertura all’altro riusciamo a cogliere più pienamente noi stessi e ad affermare il nostro io.
È autentico un comportamento che rispecchia la coerenza tra ciò che l’uomo veramente è e ciò che ritiene di
essere, e che mostra la sua fedeltà verso il suo stesso bene. Si comporta fedelmente chi, alla luce della verità,
resta orientato verso la realizzazione futura del proprio progetto di vita, in continuità con il passato,
perseguendo o rettificando ciò che si è fatto. Distinguendo un comportamento autentico e uno inautentico
molti autori soprattutto esistenzialisti adoperano i termini di individui e persone. Secondo questa terminologia
gli individui si comportano in un modo inautentico conformista, emotivo o egocentrico non corrispondente al
valore proprio della persona umana, mentre quelle che meritano di essere chiamate persone mostrano un
comportamento autentico, razionale, responsabile, libero e cosciente. Argomentazioni simili si trovano per
esempio in Marcel, Blondel, Maritain o Sciacca.

L’esperienza della propria libertà è ovvia per l’uomo nella vita di ogni giorno che richiede un continuo decidersi
che alle volte può risultare faticoso o drammatico. Due sono le esperienze che rendono l’esperienza della
libertà particolarmente decisiva per l’impostazione della propria vita e che possono condurre ad un
cambiamento radicale della propria gerarchia dei valori:

L’esperienza del male è più sconvolgente quando lo si scopre nel proprio intimo, come qualcosa al
quale la propria volontà è inclinata in contraddizione con il bene che si ha davanti agli occhi e che si
vorrebbe raggiungere. Quest’esperienza ha espresso Paolo nella lettera ai Romani: “ infatti io non
compio il bene che voglio ma il male che non voglio”. L’uomo sperimenta così la sua finitezza e la
“malattia” della sua volontà. Capisce che l’intellettualismo non regge, giacché non basta conoscere il
bene per dirigersi verso di esso, ma si vuole l’aiuto dal di fuori, il sostegno di altre persone e in ultima
analisi della grazia divina.
L’esperienza del male come dolore presente già nelle scomodità più piccole di ogni giorno, e
travolgente negli eventi drammatici della propria vita e della storia provoca la domanda sul senso della
vita. L’uomo che deve soffrire impazzisce se la sua sofferenza non ha un senso (come osserva per
esempio V. Frankl). Non può sopportare l’essere privato da quei valori che gli sembrano i più
fondamentali. Allora la sua gerarchia di valori è messa in crisi e si vede costretto a interrogare il valore
dei beni dei quali sente la mancanza. Deve saggiare l’autenticità delle sue relazioni e convinzioni, del
suo stesso essere e del suo comportamento. In questo modo la sofferenza diventa una chiamata alla
maturazione e all’auto-superamento. L’uomo riconoscerà che l’unico valore assoluto è Dio e che in
Dio è radicato il suo stesso valore come persona che non può perdere se anche perdesse la sua propria
vita.

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La continua autotrascendenza è una condizione fondamentale e costitutiva dell’essere umano e indispensabile


della sua autorealizzazione. L’autotrascendenza consiste nel proiettarsi al di là della situazione data e al di là
di se stesso. L’uomo non si accontenta delle circostanza momentanee, ma mira ad altro, a qualcosa di più, sia
in vista di quanto lo circonda, sia in vista di se stesso: sempre cerca a perfezionarsi e a perfezionare il mondo.
Sotto questo punto di vista persino la consapevolezza della propria miseria è segno di grandezza, perché
suppone l’aspirazione a e la comprensione di ciò che si vorrebbe essere. Quindi autotrascendenza vuol dire
l’orientamento fondamentale dell’uomo a qualcosa che lo trascende, un significato della sua esistenza o un
altro essere, una persona da amare o Dio.

L’autotrascendenza ha un primo momento nella tensione al proprio perfezionamento. Nonostante il fatto che
la persona è un tutto finito e completo, è pur sempre insufficiente e sperimenta la sua finitezza costantemente.
C’è uno squilibrio tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, e ogni nostra azione si presenta come
ulteriormente perfezionabile. L’autotrascendenza è dunque un’aspirazione costante verso il meglio. Blondel
distingue al riguardo tra una volontà “voulante” che desidera la totalità, l’infinito, e una volontà “volue” che è
volontà del concreto e non può adeguarsi alla totalità. La prima è la finalità intrinseca della volontà, il desiderio
mai appagato che la domina e spinge l’uomo continuamente all’azione. La seconda è l’oggetto concreto al
quale si adegua, i risultati fattuali che sono alla sua portata e che può raggiungere. La tensione tra queste due
volontà genera il dinamismo dell’azione. Per arrivare al bene bisogna superare il particolare e concreto.
L’uomo non può appagarsi con queste cose contingenti, ma la sua volontà cerca l’assoluto e deve riconoscere
la presenza dell’unico necessario, Dio.

L’autotrascendenza ha un altro momento nella tensione tra l’interiorità e l’esteriorità. L’interiorità oltrepassa
nel’uomo l’esteriorità. Mai la persona potrà comunicare tutto quanto c’è in lei, mai potrà esprimere in modo
esaustivo la sua ricchezza interiore, perché ciò che è spirituale non può essere fissato in un segno materiale.

L’autotrascendenza ha poi un terzo momento che è l’autodistanziamento e il dono di sé. Questi


presuppongono l’autopossesso e l’autodominio. L’autodistanziamento trova una sua prima espressione
nell’umore. La sua dimensione più radicale ha nell’amore. Nell’amore che si dona si manifesta che
l’autorealizzazione non consiste in un autoaffermazione egocentrica, ma ch è la conseguenza dell’apertura a
valori trascendenti e della donazione ad altri.

Infine l’autotrascendenza richiede e denota un origine e un fine che siano al di fuori e al di sopra di lui, spingono
l’uomo verso l’Assoluto o la Trascendenza divina. Solo alla luce del rapporto umano con Dio, la tensione
intrinseca della sua esistenza si illumina sufficientemente. In questo senso “La preghiera non è un bisogno, è
una necessità ontologica, un atto che fonda l’essere stesso dell’uomo (…). La dignità dell’uomo non sta nella
sua abilità nel fabbricare utensili, macchine, armi; essa sta in primo luogo nel suo essere dotato della possibilità
di rivolgersi a Dio. È questo dono che dovrebbe essere compreso nella definizione dell’uomo” (A.J. Heschel).

TEMA 16 – PERSONA E CULTURA

Elementi fondamentali della cultura

Il termine “cultura” deriva dal verbo latino “colere” e ha tre sensi:

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Un primo senso si riferisce alla coltivazione delle facoltà naturali e ha un significato fisico-tecnico che
si rispecchia nell’espressione “coltivare la terra”. In questo senso prevale l’idea di “lasciar crescere”,
cioè lasciar agire la natura che si sviluppa secondo l’ordine naturale.
Un altro senso si riferisce all’adornare e abbellire, cioè non si limita a lasciar agire la natura, ma implica
un intervenire attivo dalla parte dell’uomo per raggiungere una configurazione finale da lui progettata
e voluta che oltrepassa quanto i processi naturali raggiungono secondo il loro sviluppo determinato.
Questa formazione culturale si esprime in tedesco con la parola “Bildung” che illustra bene quanto
significa: cioè un immagine (Bild) un ideale a cui si aspira e verso il quale ci si orienta coscientemente
e che implica un contenuto che si assimila. Qui prevale quindi l’idea di educazione, sia l’educazione
ricevuta dai formatori sia l’autoformazione. L’uomo colto è uno che non solo possiede alcuni doti
naturali, ma che ha una certa formazione, è conformato ad un certo modello di persona.
Un terzo senso del termine cultura rinvia al culto religioso. La religione è un elemento fondamentale
di ogni cultura, giacché i due sensi precedenti di cultura derivano dalla sua dimensione religiosa che è
anche la sua dimensione più radicale in quanto serve a spiegare e a motivare il comportamento
culturale in tutti gli altri ambiti. Sia la natura che il fine dell’educazione hanno il loro ultimo
fondamento nella religione, il che si mostra in ideologie pseudoreligiose come il marxismo, il
nazionalsocialismo o anche il positivismo estremo di Comte, che non solo definiscono un proprio
programma di educazione, ma a tale scopo sostituiscono pure il culto a Dio con un culto ideologico.

Tutti queste tre significati rivelano che la cultura ha due componenti fondamentali: ciò che è dato dalla natura
e la libertà umana che lo trasforma secondo un modello. L’agire dell’uomo in quanto un essere corporeo e
spirituale è essenzialmente culturale, cioè legato e dipendente fino ad un certo punto dalla materia e
dall’ordine biologico e naturale, ma trascendendolo per mezzo della sua libertà e le sue facoltà spirituali.
L’uomo è in grado di cogliere e assimilare il significato profondo dell’ordine naturale e proprio perciò di
trascenderlo, andando oltre i contesti e le conoscenze attualmente dati per svilupparli ulteriormente in vista
di un fine trascendente e una perfezione completa mai del tutto raggiunta.

La cultura stabilisce un rapporto intimo tra ciò che è corporeo e ciò che è spirituale, tra ciò che è comune e ciò
che è singolare, tra ciò che è universale e ciò che è personale. Non si riduce al semplice apprendimento, non
si crea attraverso l’applicazione di una tecnica, ma consiste nell’assimilazione libera e creativa di ciò che si ha
ricevuto. Secondo R. Guardini la “cultura è tutto ciò che l’uomo crea ed è nel suo vivente incontro con il mondo
che lo circonda”. Cultura è l’assunzione delle realtà naturali, individuali e ambientali nella sfera della libertà
nella quale acquistano una potenzialità di un nuovo genere.

La cultura perciò appartiene al livello dell’essere della persona, non al livello del avere. Se si collocasse nel
ambito del avere, allora si riducesse al possesso di certi doni, abilità e conoscenze. Essendo collocato però nel
ambito del avere, significa assumersi il compito dell’autorealizzazione, vivere in modo propriamente umano e
autentico, riconoscere il fine della propria vita e orientarsi verso di esso.

Perciò è sbagliata l’idea della contrapposizione tra natura e cultura con l’ideale della naturalezza
incontaminata in cui si dovrebbe lasciare per esempio bambini ed adolescenti non imponendo a loro
spiegazioni del mondo, principi e regole di comportamento o modelli e ideali da imitare. In verità è crudele
privare una persona dall’educazione e dalla cultura, perché significa trattarla come un animale che non ha

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capacità e bisogno di cultura. L’uomo non colto rischia di diventare oggetto inconsapevole di manipolazione,
perché non c’è un uomo senza cultura, cioè senza una determinata visione del mondo e un determinato modo
di comportamento che implica necessariamente un qualche sistema di valori. E se non ci si affronta la propria
formazione consapevolmente in vista di un fine scelto liberamente, la propria mente non potrà rimanere senza
valori e riferimenti culturali, ma verrà formata ossia deformata dal di fuori.

Il linguaggio umano e le sue funzioni

Siccome la cultura è

“un insieme strutturato,


trasmesso storicamente,
di significati espressi in simboli,
un sistema di concezioni ereditarie
per mezzo delle quali gli uomini comunicano,
tramandando e sviluppando le loro conoscenze
e le loro prese di posizioni davanti alla vita”.

Risulta chiaro che la lingua ha un ruolo fondamentale nella cultura. La lingua non ha solo la funzione tecnica
di permettere uno scambio di informazioni, ma serve alla comunicazione, alla conservazione e allo sviluppo di
tutta la cultura. Questa funzione si estende al modo in cui si percepisce il mondo, ai modelli di valutare e
giudicare gli eventi e ai modi di comportamenti.

La lingua va distinta dal linguaggio. Il termine linguaggio si riferisce alla capacità di comunicare in genere, dalla
quale la lingua ossia le varie lingue derivano. Aristotele distingue tra voce (phoné) e parola (logos), dicendo:
“la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali, ma la parola è fatta per
esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti,
proprio dell’uomo rispetto agli animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato.”

Perciò la differenza tra le lingue non si riduce alla differenza dei segni e suoni, ma implica diverse visioni del
mondo. Secondo Wilhelm v. Humboldt “la lingua è, per così dire, la manifestazione fenomenica dello spirito
dei popoloi” ed esprime l’accordo che si istituisce tra il mondo e l’uomo, proprio ciò in cui consiste anche la
cultura. E Cassirer osserva che, se il linguaggio avesse solo la funzione di copiare l’ordine delle cose, allora
sarebbe logico cercare la lingua più adeguata a tale scopo.

Ma la cultura reca con sé tutta la storia di una società, nelle proverbi e modi di dire, nell’aspetto fonetico della
lingua e in quello semantico: la prevalenza di certi suoni e concetti rispecchia il carattere di una cultura, che
può essere più o meno religioso, scientifico, umanistico, poetico o tecnico. Imparare un’altra lingua significa al
contempo confrontarsi con un’altra cultura. Le difficoltà di tradurre adeguatamente una frase da una lingua in
un’altra rilevano il legame intimo che c’è tra una cultura e la sua lingua. Inoltre la lingua manifesta anche
l’aspetto produttivo del linguaggio, la sua capacità di istituire un peculiare rapporto con la realtà e di arricchirlo
e modificarlo.

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I costumi e i valori delle tradizioni culturali

Oltre alla lingua i costumi e valori possiedono un’importanza fondamentale per la cultura. Essi si esprimano in
quasi tutto ciò che l’uomo fa: il modo in cui si veste, in cui celebra le feste, esprime i suoi sentimenti, lavora,
prega, combatte, mangia, educa i suoi bambini e seppellisce i suoi morti. Influiscono sullo sviluppo dei costumi
molti fattori che a loro volta si influiscono a vicenda come il clima, l’ambiente geografico, le vicende storiche,
lo sviluppo demografico, le peculiarità razziali e affettive di un popolo. Infatti molti popoli sono note per delle
caratteristiche determinate che hanno radici lontani e sono diventati quasi proverbiali fino al punto che si
trasformano in pregiudizi.

I costumi rispecchiano i valori dominanti in una determinata cultura, ciò che è ritenuto maggiormente di stima:
il coraggio del guerriero, la sapienza del saggio, le capacità dell’artista, la religione e la pietà, la tolleranza, il
benessere, responsabilità e spirito di sacrificio o libertà e sicurezza.

Chiaramente i valori predominanti in un determinata cultura permettono di valutare il suo grado di “civiltà”.
Un relativismo culturale in senso assoluto è insostenibile. La gerarchia dei valori di una data cultura deve
corrispondere alla gerarchia vera dei valori, cioè deve dare priorità ai valori più elevati e non sottometterli in
favore di valori meno rilevanti. Altrimenti i valori diventano disvalori e trascurano la dignità umana e le sue
proprietà fondamentali, come si vede in culture che conoscono sacrifici umani o hanno istituzionalizzato
l’oppressione e il disprezzo di una parte della società o che trascurano la religione, la relazionalità, la razionalità
o la libertà che sono essenziali della persona umana.

TEMA 17 – DIVISIONE E METODO DELLA PSICOLOGIA

Secondo il psicologo tedesco Philipp Lersch la psicologia si divide in quattro grandi ambiti, che lui presenta
nella sua opera “Aufbau der Person”:

La psicologia generale

La psicologia generale studia il vissuto dell’uomo animicamente normale e pienamente maturo, nella totalità
delle funzioni e dei contenuti. Non si occupa quindi né della patologia né dello sviluppo della psiche e ha
fondamentalmente due compiti: Da un lato la sistematizzazione e classificazione e dall’altro la spiegazione
degli stati e processi animici.

La sistematizzazione consiste nella divisione gerarchica e nella differenziazione concettuale degli stati e
processi psichici. A questo scopo serve l’analisi della funzionalità dei vari vissuti, l’analisi del rapporto che
presentano tra la vita animica e la realtà e l’analisi del rapporto reciproco tra i vari elementi di un vissuto.

La classificazione è connessa alla sistematizzazione e consiste nella distinzione dei vari vissuti. Siccome la vita
animica ha però un carattere integrale di fondo le distinzioni e separazioni che si introducono attraverso la
classificazione non sono determinanti, ma sono indicazioni. Non è possibile in psicologia stabilire concetti ed
essenze univoci, perché le proprietà di un dato vissuto non sono incluso in esso come la specie è inclusa nel
genere. La gioia per esempio è un elemento essenziale di molti vissuti, della vittoria, dell’amore, della scoperta,
ma non è una specie di vittoria o di amore. La gioia inclusa in ognuno di questi vissuti è una gioia specifica.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 66


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Nella classificazione ci sono vari considerazioni a partire dei quali si deducono i concetti: il comportamento, il
rendimento, l’effetto del comportamento, il vissuto immediato ed altri. Il concetto risulta diverso a seconda la
considerazione di base che bisogna perciò indicare. Il vissuto di paura dal punto di vista del comportamento
sarà concettualizzato come fuga, mentre dal punto di vista del vissuto immediato sarà un sentirmi-in-pericolo.

Le distinzioni stabilite attraverso la sistematizzazione e classificazione sono puramente formali. Non c’è un
fatto psichico nel quale non siano coinvolte tutte le attività: pensiero,volontà, sentimento, percezione, azione
ecc.

La spiegazione dei fenomeni psichici consiste nel cogliere la loro essenza. A questo scopo si deve partire
dall’esperienza soggettiva ingenua ed evitare l’analisi sofisticata, l’adoperare delle spiegazioni e
interpretazioni delle varie scuole e dottrine.

La psicologia evolutiva

La psicologia evolutiva studia i stati e processi animici da un punto di vista evolutivo dalla nascita fino alla
morte. Sia in modo parziale (l’evoluzione delle tendenze, dei sentimenti ecc) che in modo globale. Si occupa
dell’ontogenesi, cioè dell’evoluzione psichica dell’individuo e della filogenesi, cioè dell’evoluzione psichica
della specie, individuando per esempio i comportamenti tipici dell’uomo primitivo.

Secondo il psicologo svizzero P. J. Piaget per esempio i vari stadi,da quello intuitivo fino a quello deduttivo, si
fondano uno sull’altro: “lo sviluppo del pensiero procede dal bambino all’adulto attraverso un susseguirsi di
stadi definiti e susseguentisi con regolarità ognuno dei quali ha carattere integrativo: contiene cioè,
rielaborate, le acquisizioni degli stadi precedenti. Dapprima si hanno azioni sensomotorie, poi
rappresentazioni simboliche, e infine, operazioni mentali logiche”. Piaget parla di un egocentrismo infantile:
il bambino non è capace di cambiare il suo punto di vista e di mettersi al posto di un altro, ritiene che la realtà
tangibile sia l’unico tipo di realtà.

Tra l’ontogenesi e la filogenesi c’è un rapporto stretto: lo studio della vita animica del bambino può aiutare a
scoprire le caratteristiche psichiche dell’uomo primitivo.

La caratterologia

La caratterologia non si occupa, come la psicologia generale e quella evolutiva, dello studio delle
caratteristiche di tutti gli uomini, ma solo delle differenze individuali, cioè del carattere del singolo individuo.

Secondo alcuni autori occorre distinguere tra temperamento e carattere: il temperamento sarebbe l’insieme
dei dati somatici e psicologici che competono all’individuo per natura e che sono ereditati. Il carattere sarebbe
invece l’impronta individuale che il temperamento assume in ciascuna persona.

Ci sono diverse scuole che presentano diversi metodi di distinzione dei caratteri, alcune dei quali danno più
importanza ai dati somatici, altri ne prescindono completamente. C’è la distinzione di Sheldon e Stevens tra
tre tipi fondamentali di caratteri: endomorfi (corpulenti, comodi, bisognosi d’affetto), mesomorfi (muscolosi,
rischioso, amanti del rumore) e ectomorfi (magri, riservati, amanti della solitudine).

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 67


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R. Le Senne distingue a partire dalle tre criteri dell’emotività, dell’attività e della risonanza, otto tipi di caratteri
e non considera la struttura corporea.

E. Spanger distingue sei diversi caratteri a seconda dei valori che maggiormente influiscono sull’attività
psicologica della persona: c’è l’uomo teorico, economico, estetico, sociale, politico e religioso. In ogni analisi
caratterologica dovranno essere presenti gli elementi dell’azione alla quale l’individuo tende e la motivazione
che gli spinge a tale azione.

Secondo Lersch bisogna tener presente due aspetti distinti: la vita animica attuale e la propensione abituale o
disposizione ad agire. Questi disposizioni possono essere innate o acquisite. Il carattere si determina attraverso
le tendenze e i vissuti che si ripetono. Scopo della caratterologia è scoprire le qualità essenziali del carattere e
mostrare i possibili rapporti tra queste qualità, i comportamento e il suo rendimento. Le disposizioni
dell’individuo sonon ordinati gerarchicamente secondo un principio ordinatore. Nonostante l’ordine
gerarchico si presenta però spesso il fenomeno dell’opposizione: lo stesso individuo ha in sé principi di
comportamento che risultano incompatibili tra di loro. Questo fenomeno presuppone da un lato l’unità del
individuo (altrimenti si tratterebbe solo di principi diversi, ma non opposti) e la sua complessità e dinamicità.
Infatti il carattere non è una realtà definita rigidamente, ma si trova in continuo divenire.

La psicologia sociale

Per Walter Beck la psicologia sociale studia “la convivenza umana come effetto di condizioni animiche e come
condizione di effetti animici”. La maggior parte dei fenomeni psicosociali sono studiati dalla psicologa generale
che si interessa pure del rapporto tra la vita animica e il mondo. Secondo alcuni questi stessi fenomeni sono
anche l’oggetto della psicologia sociale che studierebbe gli atteggiamenti della singola persona rispetto agli
altri e i rapporti reciprochi tra gli atteggiamenti sociali. Altri invece sostengono che la società presenta una
nuova realtà non riducibile ai singoli individui che la compongono e alla loro vita animica.

La psicologia sociale studia i fenomeni animici che avvengono nelle diverse comunità umane: famiglia,
comunità lavorativa, politica o religiosa. Un esempio studiato dalla psicologia sociale è il ruolo: l’individuo
assume diversi ruoli a seconda il conteso in cui si trova. A volte la molteplicità dei ruoli comporta conflitti. Un
altro fenomeno studiato dalla psicologia sociale è l’influsso esercitato dalle opinioni di altri sulla persona che
si inserisce in un gruppo. Infine la psicologia sociale si occupa dello studio psicologico dei contenuti
dell’incontro interpersonale: consuetudini, tradizioni, lingue, miti, forme di governo ecc.

Autoosservazione e eteroosservazione

Il metodo della psicologia è duplice. Consiste sia nell’autoosservazione che nell’eteroosservazione.

Quando si parla di autoosservazione occorre distinguerla dall’autoesperienza e dall’autogiudizio.


L’autoesperienza è implicita nell’autoosservazione, ma manca dell’elemento di riflessione, per cui per esempio
bambini non sono in grado di auto osservarsi. L’autogiudizio invece implica un giudizio di valore del proprio
comportamento che non è presente nell’autoosservazione.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 68


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L’autoosservazione è stata criticata e ritenuta impossibile ossia inadeguata per lo studio della psiche umana.
Un critico di questo metodo è Nietzsche che confonde autoosservazione con autogiudizio e ritiene perciò che
l’orgoglio impedisce l’autoosservazione: i comportamenti che ci farebbero vergognare. In realtà non è vero
che non siamo in grado di riconoscere i propri comportamenti cattivi, altrimenti non ci fosse il fenomeno della
vergogna o del pentimento.

Un’altra critica ritiene impossibile descrivere in modo adeguato i processi sperimentati interiormente. Questa
critica ha ragione in quanto la descrizione adeguata comporta una certa difficoltà. Questa difficoltà però non
deve essere necessariamente anche impossibilità, ma condurrà ad una ricerca e un esercizio corrispondente
nello sviluppo della propria capacità di espressione.

Una terza obiezione mette in luce che la stessa autoosservazione rende il comportamento artificiale in quanto
la nostra attenzione è naturalmente rivolta all’ambiente. Ma l’autoosservazione non deve necessariamente
avvenire simultaneamente, ma può essere rivolta all’immagine successiva del vissuto che è sempre dotato di
un tempo di presenza nella nostra psiche. Infatti l’autoosservazione è necessaria in molti casi per prendere
distacco di sé e rendersi conto del proprio comportamento in modo da poter superarlo, come l’invidia,
l’autocommiserazione, la paura ecc.

L’autoosservazione è necessaria, perché permette un accesso alla vita psichica che non è possibile
nell’eteroosservazione. Svolge il compito fenomenologico di chiarire la rappresentazione intuitiva dei processi
animici e il compito eziologico che stabilisce le condizioni dei fenomeni fondamentali.

L’autoosservazione ha però anche dei limiti ovvi: non coglie la struttura della percezione né il subconscio e
non è possibile osservare quanto non si può sperimentare in prima persona, neanche è possibile
l’autoosservazione della psiche infantile.

L’eteroosservazione è il metodo fondamentale della psicologia evolutiva, della caratterologia e della psicologia
sociale e ha come oggetto il comportamento in senso ampio: linguaggio, gesti, azioni ecc. un altro oggetto
sono le così dette configurazioni oggettivate come lo stile della scrittura o il modo di camminare. Inoltre
giocano un ruolo importante i processi psichici che si svolgono nel tempo: l’apprendimento, la soluzione di
problemi, l’adattamento ad una nuova situazione ecc.

L’oggetto dell’eteroosservazione è più importante per alcune correnti come il comportamentismo che vede in
esso un valore ultimo, perché non prendono in considerazione le esperienze interne. Mentre altri psicologi
vedono nel comportamento esterno osservabile solo un’indicazione sull’aspetto interno di questo
comportamento.

TEMA 18 – LA RELAZIONE UOMO – DIO

Specificità dell’atto religioso


L’atto religioso non si riduce a un mero atto intellettuale o volitivo, ma è un atto che coinvolge tutte le
dimensioni della persona umana.Secondo Mircea Eliade, “il sacro è un elemento della struttura della coscienza
umana e non un stadio nella storia di tale coscienza”. Vale a dire che l’uomo è naturalmente religioso.L’atto

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religioso è la risposta umana (esistenziale) alla consapevolezza del legame ontologico che l’uomo ha verso Dio.
Anche la stessa parola re ligatio (religione) fa appello a una legatio originale e ontologica tra uomo e Dio.

Dio è l’origine radicale


dell’uomo

Ontologica Dio mantiene l’uomo


nell’essere
Relazione dell’uomo verso
Dio Dio è il fine ultimo dell’uomo

Mediata dalla Creazione


Conoscitiva (ragione)

Auto Rivelazione di Dio (fede)

Quando l’uomo si rende conto attraverso l’intelligenza di questa relazione ontologica con Dio, stabilisce un
nuovo tipo di relazione con di carattere conoscitivo. È quindi possibile adesso per l’uomo rivolgersi
consapevolmente verso il suo Creatore.Sant’Agostino diceva “religat nos religo omnipotenti Deo”, cioè la
religione ci ricollega con Dio onnipotente.L’uomo si rivolge a Dio con tutta la sua persona. Nell’atto religioso
vengono coinvolte tutte le dimensioni della esistenza umana:

Intelligenza

Volontà

Dimensioni dell’esistenza umana Affettività

Corporeità

Sociabilità

La persona si rivolge a Dio con il suo nucleo più profondo, il suo cuore, con tutta la sua intimità.L’atto religioso
è l’atto più radicale della persona e anche della libertà, perché è coinvolta la totalità della mia esistenza.

Superiorità del comportamento religioso


L’atto religioso è l’atto superiore della persona umana.

Coinvolge tutta la persona

Superiorit Fa riferimento alla dimensione più profondo


à dell’io

Si rivolge a Dio

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 70


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L’atto umano più sincero è rivolgersi a Dio, Lui vede il più profondo del nostro cuore, ed é sempre possibile
per noi rivolgersi a Lui.

Le dimensioni dell’esperienza religiosa secondo le finalità e secondo le facoltà

Dimensione Intellettiva (ricerca)


Cerco la verità su me stesso e su Teologia naturale
Naturale Dio

Tradizioni Sapienziali (Mito)

Rivelazione (fede)

Soprannatural - Profeti (riceve la Riv.


direttamente) Teologia fondamentale
e
- Fedeli (ricevono la Riv.
attraverso la comunità e la
tradizione)

Dimensione Religiosa (incontro)


Risposta d’amore, fede e speranza.

Esperienza di trovare la verità. Incontrare Cristo.

L’esperienza religiosa (o del sacro) si trova in tutti le religioni.

Molte volte non è molto chiaro. Realtà trascendente. Un Assoluto.


Esperienz Aspetto oggettivo – Sacro/Mistero.
a che fa riferimento
religiosa alla realtà Sarebbe un errore dire che l’esperienza di un buddista del sacro è
uguale all’esperienza di un cristiano.

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Reazione della persona davanti al sacro (intelletto, volontà,


affettività).

Esperienza di tutta la persona.

Due dimensioni importanti:

1 – Timore

Aspetto soggettivo Mistero tremendo (timore riverenziale). Prostrarsi davanti al


– risposta del sacro. Silenzio sacro. Non è un tipo di paura terrena. Sentimento
d’essere creatura. Dipendenza totale di Dio. È un affetto spirituale,
soggetto
una passione dell’anima. Sentimento di essere peccatore. Non
sono degno di essere davanti a Dio. Ho fatto il male.

2 – Amore

Mistero affascinante. Sicurezza, gioia, pace. Speranza di salvezza.


Liberazione del male e dai difetti. Fiducia, fede. Amore speranza e
fede non in un senso teologale, ma come passioni spirituali
dell’anima.

Ci sono due posizioni estreme sbagliate:

Irrazionalismo Razionalismo (p.e. Hegel)

La religione è puro sentimento, La religione è una realtà puramente razionale, l’aspetto affettivo
non ha che vedere con la realtà è accidentale e bisogna essere superato.
oggettiva.
Ho scoperto la verità con la mia ragione. Soltanto accetto ciò che
posso dimostrare. È infantile la credenza senza capire.
Il punto giusto è considerare i due aspetti della religione, l’aspetto oggettivo e soggettivo.

L’oggetto della religione non è disponibile dalla parte dell’uomo. Conosco il sacro ma non ho possessione del
sacro. Devo accettare il Mistero di Dio. Conosco che è ma non che cos’è.

Trascendente. L’esperienza religiosa viene da fuori di me, non posso produrla da solo. C’è bisogno di esprimere
l’esperienza religiosa.

Espressione dell’Esperienza Religiosa (espressione)

Intellett Preghiera
Interiore
o

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 72


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Volontà Devozione (dono di sé a Dio)

Esteriore Adorazione
(corporale) Sacrificio

Comunità

Riti
Esteriore (sociale)
Miti (trasmissione delle
credenze)

L’uomo sente riverenza verso Dio e vuole esprimerla in due modi:

a) Direttamente – per mezzo di atti di culto indirizzati a Dio (adorazione, sacrificio e la preghiera).
b) Indirettamente – per mezzo di atti virtù che può anche offrire a Dio.
L’uomo riconosce la eccellenza infinita di Dio, e Li presta la riverenza dovuta per mezzo di atti di culto. La
riverenza dovuta a Dio è speciale perché l’eccellenza di Dio è unica. Lui è il Creatore di tutto, dobbiamo
onorarLo e ringraziarLo.

Sono gli atti di culto più


Interiore importanti, come la devozione e
la preghiera.
Accompagnano atti interiori e
Culto
manifestano l’unità
Esteriore psicosomatica della persona
umana. È tutta la persona che
presta culto a Dio.

L’uomo ha bisogno naturale di accompagnare gli atti interiori con atti esteriori. Gli atti esteriori aiutano agli
atti interiori. L’uomo raggiunge le cose spirituali per mezzo delle cose sensibili. Gli atti esteriori sono simboli
degli atti interiori.
Non si fa culto a una immagine perché è una immagine, ma perché è un simbolo di Dio o dei santi.
Dio si è fatto uomo in Cristo. Le immagini dei santi ci spingono a imitare le sue virtù, la sua eccellenza.
Devozione – è l’atto della volontà per il quale ci dedichiamo al culto di Dio. Facciamo il dono di noi stessi a Dio.

A Dio Latria
Reverenza Alla Madonna Hiper-dulia
Ai Santi Dulia

Preghiera – è l’atto della ragione pratica, per chiedere a Dio qualcosa1.


La preghiera non cambia la Provvidenza Divina, ma è la stessa Provvidenza che incorpora la preghiera. Dio
prevede non soltanto gli effetti ma anche le cause, nelle quali sono inclusi le nostre preghiere. È lecito chiedere

1
Questo è il concetto di oratio secondo San Tommaso.

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a Dio tutto quello di cui abbiamo bisogno per la nostra santificazione. È buono pregare con parole vocali anche
per dare a conoscere agli altri i nostri bisogni.
Adorazione – è l’atto di culto a Dio che facciamo con il nostro corpo. È una espressione specifica esteriore
come la genuflessione o la prostrazione, che è simbolo degli atti interiori. Soltanto si adora a Dio. Si possono
offrire beni esteriori a Dio, sacrificio, come simbolo degli atti interiori.
La adorazione si fa in un luogo speciale, sacro, in chiesa per esempio, perché è più facile fare gli atti interni di
culto, ci sono diversi segni di santità (immagini e simboli) ed è più facile riunire tutta le persone per il culto
comunitario.
Il sacrifico a Dio è una esperienza della natura umana. Per mezzo del sacrificio l’uomo rende l’onore dovuto a
Dio.
Gli atti esteriori comportano anche una dimensione sociale e di comunità. I gesti esterni sono convenzionali
nelle diverse religioni.
Il mito funziona come un “segno” che rimanda a una verità (realtà) superiore. Così come il linguaggio è uno
sistema simbolico e convenzionale di suoni i miti sono sistemi simbolici pieni di sensi metaforici. I riti sono i
sistemi simbolici dei gesti. Nella Chiesa Cattolica l’efficacia dei Sacramenti non si esaurisce nel rito, perché i
stessi Sacramenti oltre al fare di “segno” realizzano quello che significano, cioè sono canali della grazia divina.
Ci sono due cose fondamentali per qualunque religione:
1 – Conoscenza di chi è Dio
2 – Conoscenza di chi è l’uomo
Quanto più si conosce la verità su Dio e sull’uomo più perfetta è la religione.

È il caso nel quale Dio si rivela


per mezzo dei profeti e di Gesù
Rivelazione Religione
Cristo. La risposta dell’uomo
soprannaturale soprannaturale
all’Autorivelazione di Dio è la
fede soprannaturale.
È la Rivelazione che Dio ha
Conoscenza Rivelazione
fatto ai nostri primi padri,
soprannaturale primordiale
Adamo ed Eva.
Alcuni persone dicono aver
ricevuto una rivelazione diretta
Camini
Rivelazione privata da Dio. Ma è difficile misurare
per
l’autenticità di questa
arrivare
rivelazione. Religione naturale
alla
Contemplando il creato l’uomo
verità
si questiona sulla causa di tutte
Spontanea
le creature. Da dove vengono
tutte le cose?
Credenza È una fede umana nei racconti
Conoscenza
(tradizioni che passano di generazione in
naturale
sapienzali) generazione.
Qua è il posto per la filosofia e Giudica la
le altre scienze. autenticità e la
Scientifica
veracità delle
religioni naturali

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Conoscibile soltanto con la luce Giudizio universale, la


della fede soprannaturale Santissima Trinità, la divinità di
Verità Cristo, ecc.
Conoscibile con la luce della Esistenza di Dio, spiritualità
ragione naturale dell’uomo, ecc.
TEMA 19 – L’ETICA FILOSOFICA E LA FONDAZIONE DELLA FILOSOFIA DELLA MORALE

L’oggetto dell’etica

L’oggetto materiale dell’etica è l’agire umano, più precisamente sono le azioni della persona umana in quanto
sono libere. Ci sono azioni umane che non sono libere e che di solito si denomina atti dell’uomo, queste sono
per lo più funzioni biologici non controllabili attraverso la volontà dell’uomo, ma che semplicemente
“accadono” in lui, come la circolazione del sangue o la crescita dei capelli. L’oggetto dell’etica sono solo le
azioni libere. Quest’ultime possono essere libere immediatamente, cioè non implicano l’intervento di altre
facoltà che quelle spirituali, intelletto e volontà, e allora si chiamano eliciti (amare, odiare); o possono essere
svolte mediante altre facoltà e allora si chiamano atti imperati (parlare, lavorare).

Per essere oggetto dell’etica gli atti devono essere svolti dall’uomo in quanto uomo, cioè attraverso quelle
facoltà che distinguono l’essere umano: intelletto e volontà. Grazie a queste facoltà l’uomo è un essere
spirituale con la dignità di persona, per cui si giunge alla conclusione che gli atti dell’uomo sono oggetto
dell’etica in quanto sono atti della persona, cioè atti con cui l’uomo conduce se stesso ai suoi obiettivi
personali.

L’oggetto formale dell’etica è la moralità. L’etica considera gli atti umani secondo il loro aspetto di bontà o
malvagità. La moralità si deve distinguere dalle qualità naturali e tecniche dell’uomo e dei suoi azioni che di
per sé sono moralmente neutre e quindi si chiamano qualità relativi. La bontà e la malvagità relativi rendono
buono o cattivo l’uomo solo in un aspetto particolare del suo essere, per esempio in quanto cantante, mentre
solo la bontà o malvagità assoluti etiche rendono buono o cattivo l’uomo in quanto persona.

Fondamenti metafisici dell’ordine morale

Ci sono varie impostazioni e metodologie dell’etica che si ottengono a partire da varie fondazioni filosofiche.
A seconda dei vari fondamenti le teorie etiche si distinguono quanto all’ambito in cui collocano l’essenza della
morale, cioè secondo quello che ritengono rendesse un azione moralmente buona o cattiva. Se quello che è
ritenuto decisivo per la moralità è l’utilità dell’azione, l’impostazione è di matrice empiristica. Quando quello
che conta, è l’intenzione e seguire il proprio dovere, si tratta di una fondazione di una filosofia trascendentale
di tipo Kantiano. Se l’etica si fonda sul sentimento morale e il valore che le cose hanno per me, il metodo è
quello del’etica fenomenologica di Scheler. Quando invece il punto decisivo per la moralità sono il bene e il
male delle azioni reali, l’etica è fondata sulla filosofia dell’essere e ci troviamo nel realismo filosofico.

L’etica non si può non fondare sulla Metafisica in quanto sia il suo oggetto materiale: le azioni degli esseri
razionali (agere sequitur esse), sia il suo oggetto formale: la moralità delle azioni umani, il valore, la bontà (ens
et bonum convertuntur) sono radicati nella Metafisica. Sono metafisici i concetti più essenziali dell’etica come

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il bene, la finalità, potenza e atto, partecipazione all’essere e Dio come causa e fine ultimo dell’ordine
dell’essere.

La metafisica sviluppa il processo della fondazione percorrendo le vie della causalità e della partecipazione, vie
che rendono ragione dell’essere come actus essendi delle cose, fino ad arrivare a Dio. È la metafisica che scopre
la struttura ordinata dell’essere, fondamentale per il nostro stesso intelletto e per ogni altra scienza: L’ordine
del mondo in cui ci troviamo è intellegibile e finalizzato e perciò pure il nostro essere è intelligibile e finalizzato.
A livello etico la capacità dell’uomo di regolare moralmente la propria condotta verrà spiegata, in ultimo
termine, come la partecipazione dell’essere razionale, cerato ad immagine e somiglianza di Dio, all’ordine e al
progetto finalizzatore dell’intelligenza creatrice. La ragione umana è pratica, cioè morale, per partecipazione
e la sua partecipazione all’ordine posto dall’intelligenza creatrice si chiama “legge morale naturale”. Questa
partecipazione consiste da un lato nei primi principi morali colti dall’abito intellettuale della sinderesi, e
dall’altro nella natura stessa della persona umana regolata dall’Intelligenza divina, dotata di razionalità morale
e di indicazioni normative.

Il bene morale

Il bene morale coincide con il bene completo della persona. Questo bene completo e ultimo della persona ha
il carattere di fine morale ultimo dell’agire e consiste nella felicità. Boezio definisce la felicità in questo senso
come “status omnium bonorum aggregatione perfectus”.

Il bene morale in questo senso, cioè come fine della volontà ha il carattere di vita felice che presenta quattro
note essenziali:

Ha carattere formale, cioè è indeterminato, ma determinabile: Il fine ultimo universale e


indeterminato deve essere definito per ricevere un certo contenuto. Questo contenuto concreto
dipende dal punto di vista teorico dal concetto della natura umana del determinante e dal punto di
vista oggettivo dalle sue disposizioni personali. In questo processo di “traduzione” del concetto di vita
felice nelle circostanze della propria vita il singolo dovrà trovare risposte a delle domande decisive
come: La vita felice è possibile o rimane un’ideale irraggiungibile? È possibile una definizione oggettiva
e concreta della felicità o è un concetto arbitrario?
Ha carattere del fine ultimo dell’uomo: la volontà umana riposa nella felicità che è voluta per se stessa
e oltre alla quale non c’è più niente da desiderare. In vista di essa vengono voluti tutti gli altri beni.
Tommaso, che distingue tra il bonum honestum, cioè il bene per sé, il bonum utile, che è bene in
quanto serve a raggiungere un altro bene e il bene delectabile, che provoca piacere, trova espressioni
vari per designare il bene ultimo, che non solo è bene per sé, ma è anche il bene completo, ultimo
dell’uomo “ipsam bonitatem”, “ipsum bonum absolute” o “finis ultimus, ut beatitudo e tea quae in
ipsa includuntur”. L’oggetto del desiderio naturale della volontà è quindi, il possesso stabile del bene
totalmente perfetto, sufficiente e amabile di per sé, raggiunto il quale non rimane più alcun bene da
conseguire.
Ha carattere universale in quanto è comune a tutti che hanno la stessa natura, cioè la felicità è il fine
delle azioni di tutti gli uomini in quanto uomini come generalmente il bene della propria natura è il
fine dell’agire di tutti gli esseri in quanto possiedono una determinata natura.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 76


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Perciò ha anche carattere di necessità, perché è iscritta nella nostra natura per la quale è impossibile
non volere essere felice. In questo punto cioè non siamo liberi. La felicità è una possibilità alla quale
tendiamo necessariamente, perché è già sempre un fine incarnato e sempre appropriato a noi. La
nostra volontà “vuole necessariamente per inclinazione naturale” la felicità, come dice Tommaso.
Siamo liberi di realizzare la felicità in varie modi e di porla in varie oggetti, anche sbagliati, ma
l’aspirazione alla felicità in quanto tale è già sempre posta in noi e non possiamo non volere essere
felici.

Il bene morale come regola della volontà consiste nella vita virtuosa. Un concetto chiave del bene morale in
quanto regola della vita è il bonum rationis, cioè l’ordine razionale che la ragione introduce nelle varie
tendenze dell’uomo in vista del suo fine proprio. Il bene morale degli atti umani è la convenienza dell’oggetto
o dell’atto voluto con il bene della persona secondo il giudizio della retta ragione. Secondo Tommaso “la virtù
morale consiste principalmente nell’ordine della ragione”. Le tendenze che sono ordinate dalla ragione sono
virtù, mentre quelli non ordinati in accordo con il vero fine della persona sono vizi. Perciò l’azione cattiva è un
azione eticamente irrazionale.

I mezzi per cui la persona arriva a condurre una vita felice sono le virtù, che sono abiti, cioè orientamenti stabili
al proprio fine e realizzano in se stessi il bene e la felicità alla quale orientano il soggetto. La virtù è una
partecipazione al bene con cui rende connaturale il soggetto che la possiede. La vita morale è la vita felice, è
la vita migliore che l’uomo può condurre in accordo con la sua natura.

Siccome la persona ha una struttura complessa il suo bene non si realizza attraversa una virtù sola, ma
attraverso varie virtù che corrispondono alla complessità della sua natura. Come l’essere si dice in molti modi
e si realizza in generi supremi, così il bene umano si realizza in varie “generi” di virtù che sono come i generi
supremi del bene. Le virtù più fondamentali, chiamate le virtù cardinalizi, sono la prudenza, che corrisponde
alla ragione (e in qualche modo anche alla volontà), la giustizia che corrisponde alla volontà, la fortezza che
corrisponde all’appetito irascibile e la temperanza che corrisponde all’appetito concupiscibile.

La persona umana ha una struttura complessa, dal punto di vista ontologico perché è composta da un anima
spirituale e un corpo, ha delle facoltà che appartengono al livello vegetativo, sensibile e razionale, e dal punto
di vista morale perché è allo stesso tempo contraddistinta dalla sua stessa natura con le sue tendenze naturale
e il bene che si definisce a partire dalla natura, e in quanto dotato di intelletto e volontà è contraddistinta dalla
sua libertà. Il soggetto delle azioni è la persona intera. Tutte le facoltà concorrono alla moralità degli atti umani,
in modo primario quelli che distinguono l’uomo, cioè l’intelletto e la volontà, ma in modo secondario anche le
altre facoltà.

TEMA 20 – IL BENE MORALE COME REGOLA DELLA VOLONTÀ

Retta ragione, virtù e norme

Secondo Tommaso “la virtù morale consiste principalmente nell’ordine della ragione”. Un concetto chiave del
bene morale in quanto regola della vita è il bonum rationis, cioè l’ordine razionale che la ragione introduce
nelle varie tendenze dell’uomo in vista del suo fine proprio. La retta ragione è la regola prossima e omogenea
della volontà:

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 Il termine “retta” ragione richiama che la ragione è un criterio obiettivo.


 Regola prossima significa che sta nello stesso soggetto dell’atto ed è distinta da una norma remota
e eterogenea. Quella norma morale ultima e remota è la legge divina.
 Regola significa criterio di misura
 Regola morale significa criterio di misura della rettitudine dei nostri atti morali.
 Regola prossima significa.
 Regola omogenea significa che è propria della nostra stessa natura e che la regola, cioè la ragione,
e il regolato, cioè la volontà, hanno lo stesso carattere: sono realtà spirituali.

La ragione è regola universale che corrisponde al bene su due piani: sul piano generale significa che le azioni
sono buoni in quanto corrispondono alla natura razionale umana; e sul piano formale- concreto significa che
questa ragionevolezza è voluta e cercata.

La retta ragione opera su tre livelli: sul livello dei primi principi illumina l’azione, sul livello del ragionamento
morale e dei precetti morali elabora norme universali di comportamento e sul livello dell’applicazione pratica
applica la regola all’azione e giudica la sua corrispondenza.

Le virtù esprimono il bene morale, sono i principi della retta ragione, che argomenta a partire dalle virtù. La
retta ragione giudica la moralità degli atti umani secondo la convenienza dell’oggetto o dell’atto voluto con il
bene della persona. Le tendenze che sono ordinate dalla ragione sono virtù, mentre i vizi sono le tendenze non
ordinati in accordo con il vero fine della persona che conducono ad azioni eticamente irrazionali.

Le norme sono proposizioni pratiche che hanno come soggetto un azione e come predicato la moralità di tale
azione. Molte volte le norme sono proibitive, come quelle del Decalogo. Le norme hanno un ruolo importante
nell’educazione e per la soluzione di conflitti tra esigenze etiche opposte. Non sono però una realtà primaria,
non sono il livello fondante della vita morale: sono invece fondate e giustificate in base delle virtù: è giustificata
una norma che esprime fedelmente le esigenze positive e negative di una virtù e che educa efficacemente alle
virtù.

La legge morale naturale

“Legge” è generalmente un ordine introdotto nell’attività dalla ragione. Quanto alla legge morale naturale, è
un ordine introdotto dall’intelletto divino. La legge naturale è la partecipazione della ragione umana alla legge
divina ed eterna: è universale e non creata dagli uomini. La legge positiva può essere divina o umana.

La legge morale naturale ha tre dimensioni:

o Gnoseologica: corrisponde alla ragione ed è in armonia con la propria razionalità. In questa dimensione
diciamo che la legge morale naturale illumina la nostra intelligenza in virtù della quale le realtà morali
risultano accessibili a noi e ci permette di formulare giudizi morali.
o Antropologica: corrispondente alla natura umana. In questa dimensione diciamo che le esigenze della
legge morale naturale corrispondono al bene della persona umana al quale essa è inclinata in virtù
della sua natura.

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o Teonoma: corrisponde a Dio come legislatore - proviene da Dio, che ordina il mondo e lo riempie della
sua razionalità.

I principi elementari della legge naturale si dividono in due gruppi di norme che appartengono alla legge
naturale: principi e precetti.
- I principi sono universali e formali. Sono la sinderesi e le virtù. Le virtù in quanto espressioni del bene
sono anche principi pratici: ordinano le inclinazioni naturali.
- Ci sono tre categorie di precetti della legge morale naturale
o Categoria prima: non fare male a nessuno, la regola d’oro: fare a nessuno quello che non vuoi che
gli altri fanno a te.
o Categoria seconda: questi precetti corrispondono al decalogo, attualizzano i precetti della
categoria prima in diversi ambiti operativi: religione, famiglia, società …
o Categoria terza: sono deduzioni dei precetti precedenti: diritti umani …

La descrizione dell’azione volontaria (Etica Nicomachea libro G,1)

L’azione volontaria proviene da un principio intrinseco del soggetto e implica la conoscenza del fine. La volontà
è libera, non dominata (per esempio dalle passioni), è informata e tende verso la bontà del suo oggetto. Anche
nell’azione animale c’è una certa conoscenza che però è solo implicita e non tende verso la bontà dell’oggetto
stesso, e perciò l’animale non è capace di azioni propriamente volontari e liberi.

Un’azione perché sia perfettamente volontaria richiede perfetta avvertenza e pieno consenso. Se l’uno o l’altro
non si dà pienamente, se manca conoscenza o consenso, l’azione non sarà perfettamente volontaria.
Nell’azione non volontaria l’agente è estraneo ai fatti, non intende quello che fa, e lo fa solo come
accidentalmente. Nell’azione involontaria l’agente agisce in modo contrario alla sua stessa intenzione, lo fa
per ignoranza o costrizione. Nell’azione volontaria mista l’agente agisce parzialmente secondo la sua stessa
intenzione, parzialmente senza o contrario alla sua conoscenza e intenzione. A causa della limitazione naturale
dell’uomo è quest’ultima l’azione la più comune, perché raramente si danno le azioni che sono sia
completamente volontarie, sia completamente non- o in-volontarie.

Le azioni volontarie si distinguono in due grandi gruppi. Le azioni elicite sono quelli immediatamente eseguite
dalla volontà senza che interviene un'altra facoltà, come pensare, decidere, volere, amare. Sono queste le
azioni che sono all’inizio di ogni altra azione e normalmente hanno come conseguenza azioni imperati, che
sono “imperati” ad altre facoltà che le eseguono, come parlare e ogni atto che richiede qualche movimento
del corpo. Le azioni elicite e imperate non sono separabili ma distinte, sono due modi in cui si esprime la
volontà.

L’omissione si distingue dall’azione solo dal punto di vista esterno, fisico. Vista così appare come non-azione.
Dal punto di vista morale invece anche l’omissione è un azione in quanto si fonda su una decisione che è fatta
volontariamente.

L’oggetto diretto della volontà è il bene come fine verso cui tende la volontà e che può essere sia un bene
razionale (bene onesto) o un bene sensibile (bene dilettevole). L’oggetto diretto sono anche i mezzi che la

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volontà impiega per raggiungere il bene. L’oggetto indiretto della volontà è quanto segue dall’azione in modo
secondario come effetto, in quanto è previsto e permesso.

Se l’oggetto verso cui tende la volontà è il bene come un fine, allora l’atto elicito con cui tende verso di esso,
è l’intenzione. Se l’oggetto verso cui tende è un mezzo per raggiungere un fine allora si tratta di un atto elicito
di elezione: la volontà sceglie il mezzo che vuole impiegare.

Le fonti della moralità: oggetto, fine e circostanze

Per chiarire quale sia la “specie” di un determinato atto, si deve chiarire quale è la virtù corrispondente. Le tre
fonti della moralità sono l’oggetto (finis operis), l’intenzione (finis operantis) e le circostanze dell’atto. Per
valutare la bontà di un atto è di essenziale importanza l’oggetto di scelta, cioè l’atto in se stesso, c’entra
secondariamente l’intenzione dell’agente o il fine che aveva in vista, c’entrano in modo più accidentale anche
le circostanze. Per assicurare la bontà dell’atto tutti e tre i criteri devono concorrere, per far l’atto moralmente
cattivo basta che uno di loro non sia buono.

Il valore morale delle passioni

Le passioni sono movimenti dell’appetito sensibile e non sono primariamente morali, perché non sono del
tutto liberi, non dipendono direttamente dalla volontà e implicano piuttosto passività e non-controllo di sé,
ma hanno un influsso sulla moralità in quanto possono essere accettate o respinte. Le passioni hanno un
aspetto materiale che non può essere controllato dalla volontà, perché consiste nell’alterazione fisica, per
esempio nell’accelerazione del battito cardiaco che non va controllata dalla volontà, ma ha anche un aspetto
formale in quanto immanente e come tale si propone alla volontà e può essere ordinato e integrato dalla
ragione che giudica in quanto la passione è adeguata e può servire da strumento in vista di un bene o deve
essere rifiutata in quanto ostacola il suo raggiungimento. Le passioni hanno pure un certo aspetto di plasticità
e sono modificabili fino a un certo punto, secondo l’agire abituale della persona.

Le virtù morali

Le virtù sono i mezzi per cui la persona arriva a condurre una vita felice. Sono abiti, cioè orientamenti stabili al
proprio fine e realizzano in se stessi il bene e la felicità alla quale orientano il soggetto. La virtù è una
partecipazione al bene con cui rende connaturale il soggetto che la possiede. La vita morale è la vita felice, è
la vita migliore che l’uomo può condurre in accordo con la sua natura.

Siccome la persona ha una struttura complessa il suo bene non si realizza attraversa una virtù sola, ma
attraverso varie virtù che corrispondono alla complessità della sua natura. Come l’essere si dice in molti modi
e si realizza in generi supremi, così il bene umano si realizza in varie “generi” di virtù che sono come i generi
supremi del bene. Le virtù più fondamentali, chiamate le virtù cardinalizi, sono la prudenza, che corrisponde
alla ragione (e in qualche modo anche alla volontà), la giustizia che corrisponde alla volontà, la fortezza che
corrisponde all’appetito irascibile e la temperanza che corrisponde all’appetito concupiscibile.

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Secondo Aristotele la virtù morale è un “abito elettivo che consiste in un termine medio relativo a noi, e che
viene regolato dalla retta ragione nella forma in cui lo regolerebbe l’uomo veramente prudente”.

Che le virtù siano abiti elettivi vuol dire che non consistono nel consolidamento abituale di un tipo concreto di
azione, ma che implicano sempre la capacità di discernere e scegliere ciò che è più adeguato in ogni caso.
Come rileva Tommaso il bene richiede “multipliciter fieri et non eodem modo in omnibus”. La virtù morale è
quindi determinazione dei fini e scelta delle azioni finalizzate, perché i fini della virtù sono fissi e universali,
mentre le azioni concrete necessarie per realizzare la virtù sono diverse a seconda delle occasione e
circostanze. La virtù morale ha dunque una dimensione e un atto intenzionali e un’altra dimensione e un atto
elettivi, che costituiscono la parte principale.

Le virtù si acquistano e si perdono attraverso azioni ripetuti. La virtù che non si esercita si perde e diventa un
vizio.

TEMA 21 – IL BENE COMUNE

L’attuazione del principio personalista come realizzazione del bene comune

Il principio personalista è di rispettare e promuovere il bene degli altri. Cioè rispettarli e promuoverli nella loro
libertà e dignità di persone, cioè in ultima analisi nella loro capacità di conoscere e amare Dio. Questo principio
ha due formulazioni, una fondata sulla dignità dell’uomo come immagine di Dio e un’altra fondata sulla dignità
dell’uomo limitata alla sua capacità di stabilire relazioni di conoscenza e amore con altri uomini.

Il rispetto e la promozione delle altre persone è un esigenza del bene della singola persona stessa, perché

 è essenzialmente un essere sociale, bisognoso degli altri e quindi interessato che siano rispettati e
promossi
 rispetta e promuove negli altri la stessa dignità che possiede anche personalmente

È comune a tutti i correnti etici di accettare che il bene umano abbia carattere di bene comune, cioè si lascia
realizzare solo in comunione con gli altri. Sono però diversi e addirittura contrastanti gli argomentazioni
riguardo all’essenza e alla motivazione di tale dimensione sociale del bene umano.

Per molti il bene umano è essenzialmente un bene individuale. Ciò vale soprattutto per l’etica di impostazione
utilitarista ma in fondo anche per quella di impostazione kantiana che promuove il bene degli altri solo per
dovere, e mira attraverso il compimento del dovere ad avere pulita la propria coscienza. In ambedue gli
impostazioni, l’altro si riduce in qualche modo ad un mezzo per il proseguimento del bene individuale e si
disconosce la dimensione profonda dell’uomo come ζόονπολίτικον alla quale è legata pure la felicità umana
che ha una dimensione essenziale di comunione con altri. Infatti non è possibile una vera felicità umana
quando nessun vincolo d’amore ci unisce con altre persone.

La vita buona non è un bene sociale o comune solo perché necessariamente va realizzata insieme ad altri, cioè
è un bene sociale in quanto all’ordine dei mezzi, ma anche e principalmente perché la sua natura stessa è
quella di un bene sociale o comune, al punto che il vivere bene del singolo consiste nel realizzare il bene degli
altri, cioè è un bene comune in quanto all’ordine dei fini. È proprio il principio personalista che stabilisce che

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la persona vive bene, cioè raggiunge la beatitudine, nella misura in cui rispetti e promuova la dignità di persona
degli altri.

Il bene umano ha una natura comune in un duplice senso:

 in senso attivo: il bene del singolo è che gli altri realizzino il loro bene. Cioè è un bene per la persona
rispettare e promuovere il bene degli altri, è il suo dovere.
 in senso passivo: il bene degli altri è che il singolo realizzi il suo bene. Cioè è un bene per la comunità
e i suoi singoli membri rispettare e promuovere in quanto possibile il bene delle singole persone, è il
diritto di ogni persona rispetto alla comunità ed agli altri.

Contenuto assoluto del bene comune

Il contenuto assoluto del bene comune si può considerare da due punti di vista. Dal punto di vista dei doveri
umani e dal punto di vista dei diritti che derivano dai doveri. In effetti sia i doveri che i diritti derivano dalla
dignità umana che vuol essere salvaguardata dal bene comune e dalla considerazione della quale si ottengono
pure i doveri e diritti impliciti del principio personalista.

I principi pratici dei doveri dell’uomo derivano da ciò che è essenziale della sua stessa natura: dovranno
rispettarlo e promuoverlo in quanto è un essere libero, dotato di ragione e volontà e nella sua condizione
corporea. A partire di queste note essenziali si ottiene una serie di indicazioni esistenziali che nel loro insieme
compongono la legge naturale in cui sono radicati i doveri e diritti umani naturali.

Il principio personalista ammette una duplice formulazione: minimalista (rispettare la dignità degli altri) e
massimalista (promuovere la dignità degli altri).

I doveri umani secondo la formulazione minimalista consistono generalmente nel rispetto della libertà degli
altri. Questo rispetto significa da un lato

 rispetto del giusto esercizio della libertà: non sostituirsi all’azione buona dell’altro neanche per
migliorarla, giacché deve agire lui con la sua proprio volontà per interiorizzare il valore a cui aspira la
sua azione. Questo rispetto è essenziale nell’educazione dei bambini che sono frustrati quando i
genitori si sostituiscono a loro e non rispettano il valore delle loro azioni. È ugualmente importante
questo rispetto nel principio di sussidiarietà a livello politico statale o internazionale per lo sviluppo
sano dei vari parti della comunità politica. “Nessun altro può volere al mio posto. Nessuno può
sostituire il mio atto volontario con il suo. Nei miei atti io sono e devo essere indipendente. Su questo
principio si fonda tutta la coesistenza umana; a questo principio si rifanno le verità sull’educazione e
la cultura” (K- Wojtyla).
Ci possono essere eccezioni che ovviamente devono essere giustificati bene, in cui diventa necessario
assumere il posto di un altro per agire invece di lui, per un bene superiore.
 Dall’altro lato il dovere di rispetto consiste nella tolleranza che si estende anche ad azioni eticamente
irrazionali. È necessario rispettare la possibilità degli altri di esercitare la loro libertà in modo
eticamente irrazionale, perché privandolo da questa possibilità, cioè costringendolo a fare il bene, in
realtà gli si toglie la possibilità di autodeterminarsi al bene. Inoltre il bene si può realizzare in vari modi,

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per cui si deve rispettare il modo in cui ciascuno realizza il suo bene, il comportamento giusto per
ciascuno spesso è difficilmente determinabile dal di fuori. Infine la tolleranza è fondamentale per
evitare gravi conflitti. Deve essere rispettata fino al punto in cui si rischia che siano violati beni
superiori e i comportamenti eticamente irrazionali siano promossi e diffusi attivamente.

Secondo la formulazione massimalista i doveri significano la promozione del giusto esercizio della libertà degli
altri. Promuovere la dignità degli altri significa aiutare loro ad acquistare la conoscenza e le virtù che li sono
necessari per compiere scelte di vita buona. Il mezzo per raggiungere direttamente questo scopo è
l’educazione etica. L’educazione danno genitori, scuola, il contesto culturale-religioso, la letteratura, l’auto-
educazione. Di fondamentale importanza è l’educazione attraverso i genitori: si tratta di una procreazione
spirituale, che richiede l’eccellenza etica dei genitori e la giusta dosa di autonomia data ai figli. Mezzi indiretti
alla promozione della dignità degli altri sono tutti quanti contribuiscono alla creazione di un ambiente un cui
è possibile l’effettivo esercizio della libertà. Cadono sotto questa categoria di mezzi indiretti tutti quelli legati
alla corporeità della persona: tutto quanto è necessario materialmente, fisicamente, psichicamente, perché
possa vivere bene. La mediazione materiale è sempre necessaria per esprimere il rispetto ossia per
promuovere il bene degli altri. Il valore dei segni materiali si potrà stabilire però solo in alcuni casi
esclusivamente dal punto di vista etico, nella maggioranza dei casi sarà necessario ricorrere ad un’altra scienza.
In questo ambito l’etica dovrà prestare attenzione ai dati che provengono dall’antropologia, dalla psicologia,
dalla sociologia, dal diritto ecc.

Il contenuto assoluto del bene comune dal punto di vista dei diritti umani. I diritti umani sono stati formulati
diverse volte in diversi elenchi, tra i quali quello della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, proclamato dall’ONU
nel 1948.

I diritti si fondano su due presupposti:

 La dignità incommensurabile che ogni uomo possiede in quanto uomo e di cui partecipano in qualche
modo tutte le dimensioni del suo essere che rendono possibile il buon esercizio della sua libertà: la
vita, la salute, l’esercizio della ragione …
 L’essere in relazione con altre persone. L’uomo non possiede diritti di fronte ad altri esseri non
personali e non liberi.

Che il singolo abbia diritti significa che tutti gli altri uomini sono obbligati a promuoverli o almeno a rispettarli.
Anche se hanno forse la possibilità effettiva di violarli, sono comunque vincolati a non farlo – a differenza degli
animali – a motivo della loro propria beatitudine.

La natura non umana ha diritti solo in senso derivato, in quanto attraverso il rispetto e la promozione di tutte
le cose (animali, piante, l’ecosistema, risorse naturali) in modo mediato si rispetta e promuove il bene di altre
persone, per esempio di una generazione futura che ne avranno bisogno per poter vivere bene.

La nozione contestualizzata di bene comune

Contestualizzare il bene comune significa che i doveri e diritti della persona si variano a seconda del contesto
in cui l persona si trova. È diverso il dovere che si ha vero i membri della propria famiglia da quello che si ha

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verso i membri della stessa parrocchia o verso una persona che si incontra per strada o una con cui si lavora
insieme o un’altra che è membro dello stesso circolo sportivo.

Questa contestualizzazione ovviamente può comportare il rischio di incorrere in una specie di relativismo, ma
non comporta necessariamente un atteggiamento relativistico. Anzi la stessa concezione contestualizzata
afferma chiaramente l’esistenza di certi principi etici universali ed assoluti dalle quali derivano altri più
particolari. Sono gli stessi principi che si applicano però a circostanze e relazioni diversi. Non in ogni contesto
e in ogni tipo di relazione umana è possibile e neanche adeguato vivere la massima espressione di promozione
dell’altro dato che in molti relazioni non si da una possibilità effettiva di stabilire un rapporto massimamente
stretti e profondi.

C’è pertanto un certo “ordo amoris”, cioè una gerarchia nella costituzione dei vincoli etico-sociali con le altre
persone:

L’attenzione del soggetto deve orientarsi innanzitutto alla formazione e allo sviluppo delle comunità di
amicizia, tra le quali risulta la famiglia. Il vincolo che c’è tra i membri di tale comunità è il vincolo di amicizia,
cioè d’amore, il vincolo più forte possibile tra persone. La conseguenza di tale vincolo forte è l’impegno
reciproco per applicare il principio personalista in tutte le esigenze richieste dalla sua formulazione
massimalista: ognuno si impegna a mettere in pratica la totalità dei suoi doveri verso gli altri e allo stesso
tempo trova negli altri lo stesso impegno massimo a riconoscere la totalità dei suoi diritti.
Le comunità di amicizia sono i più essenziali per la vita buona. Non sono però autosufficienti, perché lasciate
a se stesse sarebbero incapaci di assicurarsi la propria sussistenza.

Gli altri ambiti più fondamentali della vita umana sono l’ambito del lavoro professionale e l’ambito politico. In
questi ambiti non è possibile vivere il principio personalista secondo la sua formulazione massimalista, ma si
dovrà limitarsi nella maggior parte delle occasioni ad applicarlo nella sua versione minimalista, cioè come
rispetto e tolleranza degli altri. In un certo senso sia il lavoro che la politica sono in funzione della famiglia, cioè
dell’ambito più essenziale per la realizzazione del bene umano. Allo stesso tempo non sono solo in funzione
del sostento della comunità amicale, ma hanno una loro dimensione di valore intrinseca, giacché anche in loro
il loro senso ultimo non può essere diverso da quello di qualsiasi altra attività umana: realizzare la vocazione
personale alla vita buona.

Introdurre una gerarchia secondo la quale si promuove di più il bene di alcune persone rispetto ad altre non
significa però – cioè non deve significare – un atteggiamento egoistico, indifferente ed esclusivo. Distinguere
le persone e le relazioni che si ha con esse è invece l’unico modo in cui è possibile un atteggiamento di
accoglienza e d’amore giusto verso tutte le persone che si incontra. Si può voler bene a tutti ma a ciascuno a
seconda la relazione particolare che si ha con esso.

In questo modo infine è anche possibile una differenziazione di doveri e diritti a seconda le capacità dei vari
individui. Naturalmente la dignità non differisce con l’età, la cultura, i mezzi di cui uno dispone, cambia però il
modo in cui si può e deve esercitare la propria libertà e promuovere il bene degli altri.

TEMA 22 – LO STATO GIUSTO

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Il personalismo come principio di giustizia politica

Lo Stato sociale di Diritto comportò, in molti aspetti, in passo in avanti nella realizzazione dell’ideale della
società politica giusta. Ciò nonostante attraversa una profonda crisi, che in molti aspetti presenta una novità
radicale, perché per risolverla non si può ricorrere alle misure “classiche” di situazioni simile:
all’intensificazione della presenza dello Stato o alla sua ritirata anarchica.

Si dovrà allora trovare un nuovo paradigma di giustizia politica, che ci permetta di costruire una società politica
giusta. Conviene a questo scopo ricorrere al pensiero classico, più precisamente alla filosofia personalista.

Secondo il principio personalista, i rapporti umani si configurano in modo eticamente razionale quando ogni
persona rispetta e per quanto è possibile, promuove la dignità degli altri, cioè li rispetti e promuova in ciò che
li distingue come persone: nella loro capacità di conoscere e di amare.

Bisogna tenere conto che il dover- essere dei rapporti umani è preso in considerazione da un punto di vista
concreto, cioè contestualizzato, e che non può essere vissuto nella stessa misura in ogni contesto sociale.
Perciò bisogna considerarne l’effettivo poter- essere in ogni contesto sociale. Nell’ambito della società politica,
i rapporti tra gli uomini sono molto condizionati: si dirigono più verso il gruppo anonimo che verso la singola
persona, subiscono spesso interferenze non desiderate, ecc. Queste e altre circostanze determinano
l’esistenza di una serie di principi etici validi solamente per la società politica, che esprimono specificamente i
diritti/doveri esistenti tra le persone quando agiscono come cittadini. Questi diritti/doveri costituiscono il bene
comune della libertà.

I doveri/diritti fondamentali del cittadino

Il bene comune della libertà è integrato dai seguenti principi oggettivi:

È un obbligo molto ampio di rispettare qualsiasi forma di esercizio della libertà da parte dei cittadini. Questo
principio si analizza meglio a partire di due sottoprincipi:

o Principio del rispetto del buon esercizio della libertà principio di sussidiarietà

1. Sono rarissime le eccezioni in cui è giusto impedire ad un cittadino qualsiasi forma di esercizio della
sua libertà per un fine buono.

2. Qui rientra il principio di sussidiarietà: è un principio ingiusto che la società politica (l’autorità, lo
Stato) sostituisca altre società minori o individui i quei compiti che sono attuazione del principio
personalista quando questi possono e vogliono realizzarli in prima persona.

o Principio di tolleranza

1. Il rispetto della libertà è doveroso anche in molti casi in cui essa è esercitata per un fine cattivo,
perché: Senza il riconoscimento di un ampio sistema di libertà negative dei cittadini, con la possibilità
che alcuni agiscano male, rimarrebbero ingiustamente limitate le possibilità di tutti i cittadini di fare il

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bene. Solo se si riconosce un ampio margine di autonomia ai cittadini sarà possibile evitare in molte
occasioni il conflitto sociale, che renderebbe difficile a tutti il buon esercizio della libertà.

o Principio di solidarietà

1. Ogni persona deve contribuire positivamente a sostenere il buon esercizio della libertà da parte dei
suoi cittadini, nella misura in cui glielo permettano i suoi doveri all’interno delle comunità amicali o i
suoi obblighi professionali.

2. In teoria, il mezzo migliore per promuovere la libertà è l’educazione etica. Ma i rapporti politici
offrono poche possibilità di occuparsi direttamente di questo compito con un minimo di efficacia senza
violare il rispetto della libertà. Perciò, il dovere do educare alla libertà appartiene anzitutto al terzo
settore.

1. Nella misura in cui si deve rispettare (tollerare) o promuovere l’autodeterminazione dei cittadini, si
dovranno rispettare (tollerare) o promuovere tutti quegli elementi da cui dipende l’effettivo esercizio
della sua libertà. I principi di giustizia sopra indicati saranno capaci di orientare l’attività politica
quando sono riferiti a tutte quelle dimensioni materiali che rendono possibile l’effettivo uso della
libertà da parte dei cittadini.

2. In questo senso si integra il dovere di rispettare /promuovere la proprietà privata (tassazione).


Assume una funzione sociale in questo contesto la natura non- umana che si configura eticamente
come un’eredità comune a tutti gli uomini dei cui frutti devono beneficiare tutti costoro.

L’attuazione sociale e giuridica del bene comune della libertà

Nozione generale di Diritto giusto


1. L’ordinamento dell’ambito giuridico più giusto sarà quello che meglio contribuisca in ogni particolare
situazione sociologica a rispettare/promuovere il bene comune della libertà. È necessario sottolineare la
particolare situazione sociologica, perché si potrebbe dare una situazione in cui la maggioranza dei cittadini o
di coloro che hanno la responsabilità di fare le leggi non accettino la verità sul buon esercizio della libertà,
minacciando di scatenare un grave conflitto sociale.

2. In genere, partendo dalla premessa che la maggioranza dei cittadini accetti che l’obbiettivo
dell’ordinamento giuridico sia contribuire alla realizzazione del bene comune, il Diritto giusto si collocherebbe
tra due estremi viziosi:

Quello del Diritto moralizzante, secondo cui ci sarebbe una priorità (totalizzante) delle strutture realizzare il
bene rispetto al buon esercizio della libertà personale.

Quello del Diritto indifferentista, che afferma che “in linea generale, tutto è permesso”

Per stabilire soluzioni giuridiche giuste, c’è bisogno che ci sia tra i cittadini di un dialogo veritativo che sviluppa
in un processo dialogico tra tutti i cittadini le conseguenze che derivano dai principi oggettivi consensuali

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impliciti nella dignità delle persone e i doveri/diritti che ne derivano per tutti i membri dello Stato. Il Diritto
assumerà allora più o meno la seguente configurazione:

1. Sarà un ordinamento giuridico garante del rispetto del buon uso della libertà. La prima preoccupazione
sarà quella di garantire il rispetto dei diritti negativi e positivi del cittadino che sono più fondamentali per
il buon esercizio della libertà, proteggendoli contro l’usurpazione violenta da parte dei concittadini o della
stessa autorità quando agisce al margine delle leggi giuste.
2. Sarà un ordinamento giuridico che reprime in modo tollerante il cattivo esercizio della libertà. Lo Stato può
tuttavia stabilire delle leggi dirette a prevenire o a impedire i comportamenti contrari al buon esercizio
della libertà, o a rimediarne gli effetti negativi principi generali:
o Devono essere rispettati (ma non promossi) tutti quei comportamenti contrari al buon esercizio della
libertà, se il loro influsso non si estende in modo rilevante oltre il gruppo di persone che lo subiscono
liberamente: adulterio, prostituzione, droghe…
o Devono essere sanzionati giuridicamente tutti quei comportamenti contrari al buon esercizio della
libertà il cui influsso negativo si estende in modo rilevante oltre il gruppo di persone che lo subiscono
liberamente.

3. Sarà un ordinamento giuridico che promuova, in modo sussidiario, il bon esercizio della libertà. Lo Stato e
il Diritto hanno solamente un ruolo indiretto nella promozione del bene comune della libertà. Essi devono
controllare, coordinare e incentivare la produzione da parte dei gruppi sociali intermedi dei beni materiali
e culturali che facilitano il buon esercizio della libertà. Lo Stato può assumersi direttamente la
responsabilità di promuovere la libertà solo per colmare le lacune più importanti dell’attività privato-
sociale.
Il Diritto giusto e il sistema impositivo

1. Il sistema impositivo (di tasse economiche) condiziona in modo diretto e “materiale” l’esistenza e la capacità
di agire o no dello Stato e del Diritto.

2. Da un punto di vista etico- giuridico, le imposte sono una contribuzione economica dei cittadini diretta a
sovvenzionare le spese dello Stato nell’esercizio della sua funzione amministrativa, ossia, quando agisce come
difensore della libertà e come principio ordinatore di rapporti politici.

3. Solo in modo accidentale, il sistema impositivo può essere concepito come un meccanismo per la
ridistribuzione della ricchezza. In questa funzione, il sistema impositivo deve adeguarsi al principio di
sussidiarietà, che comporta la legittimità dello Stato a confiscare parte della proprietà o del reddito ai cittadini
a causa delle omissioni volontarie di questi, o per colmare le eventuali insufficienze dell’attività privato- sociale
nella produzione di solidarietà.

4. Rispetto alla distribuzione del carico fiscale, il Diritto giusto dovrà seguire un criterio di proporzionalità
rispetto al grado di ricchezza di ogni cittadino. Questo criterio dovrà essere combinato con altri criteri:
necessità personali e familiari, la fonte concreta del lavoro ecc.

TEMA 23 - PLATONE

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 87


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Platone, il suo vero nome è Aristocle, nacque ad Atene nel 427 a.C. da una famiglia nobile. La lunga convivenza
con Socrate e l’ingiusta condanna di esso lo condussero alla dedicazione alla filosofia. Fondò l’Accademia e
fece alcuni viaggi, ritornando sempre ad Atene. Muore ad Atene nel 347 a.C.

Gli scritti platonici e le dottrine non scritte

Gli scritti platonici sono i suoi dialoghi. In essi si manifesta l’influsso socratico sia sul metodo filosofico sia sulla
dottrina stessa. Platone accetta nei dialoghi il metodo socratico: si tratta di una filosofia viva, non sistematica,
che si sviluppa in forma di colloquio nel quale Socrate è il protagonista. Anche il lettore ha un ruolo chiave,
giacché il metodo di Socrate è la maieutica che fa emergere quello che il discepolo già sa senza saperlo. Così è
il lettore dei dialoghi che deve trovare le soluzioni che il dialogo contiene senza renderle espliciti.

Platone utilizza nei suoi dialoghi tutti i mezzi possibili per favorire la comprensione: figure, similitudini,
narrazioni e persino miti. Questi rappresentano un elemento di intuizione complementare agli argomenti
razionali. Quanto ai miti essi non si limitano ad essere immagini o metafore, ma sono essenzialmente un ricorso
al divino per chiarire domande relative all’origine e al destino dell’uomo.

I dialoghi mostrano molti elementi dell’influsso di Socrate, ma sono chiaramente l’opera di Platone che mette
in bocca a Socrate il suo proprio pensiero. L’influsso della dottrina socratica emerge soprattutto nei dialoghi
della gioventù, mentre man mano Platone sviluppa la sua propria dottrina sente il bisogno di andare oltre il
fondamento ricevuto. I dialoghi si distinguono così in riferimento alla tappa di maturazione del pensiero
platonico.

Sono dialoghi della gioventù quelli che hanno un contenuto fondamentalmente etico: l’apologia di Socrate,
per esempio o il Protagora. Tema sono soprattutto le virtù, la giustizia e la sapienzia. Platone sostiene la
convinzione che la virtù può essere insegnata e che le azioni cattive sono una conseguenza dell’ignoranza. Alla
fine del periodo giovanile stanno diloghi che mostrano già un ulteriore sviluppo come il Gorgia e il Menone.

I temi delle dialoghi della maturità sono invece metafisici, la cui soluzione si era mostrata necessaria per
fondare l’etica. La concezione socratica dell’anima e della divinità, la fondazione della superiorità dell’anima
sul corpo e dell’immortalità apparivano non sufficientemente fondati. Questo conduce alla scoperta della
realtà soprasensibile che per Platone consiste nelle idee, che diventano il punto di appoggio di tutta la sua
filosofia. La realtà soprasensibile è la grande scoperta di Platone che lo conduce a rivedere i problemi antichi
di filosofi presocratici e di proporre nuove soluzioni. Sono dialoghi tipici della fase matura di Platone: il
Simposio, il Fedone, la Repubblica.

L’oggetto dei dialoghi della vecchiaia si cambia ancora. In essi Platone sviluppa la sua cosmologia e la sua
politica: nel Timeo e nelle Leggi. Inoltre tenta di risolvere i problemi nati circa il rapporto tra il mondo sensibile
e il mondo soprasensibile. Nel Parmenide e nel Sofista introduce quindi i generi supremi delle Idee.

Le dottrine non scritte ci sono tramandati soprattutto da Aristotele che le critica nell’ultimo libro (N) della sua
Metafisica. In differenza alle dottrine scritte che sono designate per tutti, anche fuori dell’Accademia, le
dottrine non scritte sono tramandati oralmente e sono designate solo per quelli all’interno dell’Accademia.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 88


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Tale dottrine contengono una nuova spiegazione della teoria delle Idee: la dottrina dei principi dai quali
deriverebbero le idee stesse: l’Uno e la Diade grande-piccolo. Il significato delle dottrine non scritte dipende
dal modo in cui sono interpretati. Si può vedere in esse solo l’ultima tappa del pensiero platonico, appaiono
però molto più importante che si considerano come il nucleo reale delle dialoghi a partire dei dialoghi della
maturità. Allora sarebbero la chiave di lettura dei dialoghi per gli iniziati.

Le idee

Le idee sono il centro e il punto di appoggio di tutta la filosofia platonica. Esse forniscono nuove soluzioni ai
problemi che occupavano i filosofi prima di Platone. Esistono allora due piani di realtà: uno sensibile, materiale
e un altro immateriale e invisibile. Così Platone tenta risolvere la dificolta che da origine alla filosofia
dell’essere, il essere e il divenire. La lotta Eraclito-Parmenide.

Le idee non sono concetti sussistenti. Le idee sono invece:

ciò che è veramente reale, sono essenza, causa, principio di tutte le cose. Sono un’essenza che è
intelligibile e pertanto può essere colta dal pensiero.
immutabili, identiche a se stesse. Cambiano le cose sensibili, ma l’idea che ne è causa non cambia. Così
risolve il conflitto tra la filosofia di Parmenide e quella di Eraclito: il mondo delle idee è quello
immutabile, mentre il mondo fisico è quello mutabile. (questo dualismo sarà fortemente criticato da
Aristotele).
trascendenti, separate dal mondo sensibile, che causano. È problematico il rapporto tra il sensibile e
le idee. Le cose sensibili partecipano nelle idee, ma non è spiegabile il modo in cui sono causate,
giacché le idee trascendono le cose sensibili. Ma Platone non rinuncerà alle idee, ma cerca di risolvere
questi problemi.

Per risolvere i problemi sorti è necessario unificare la molteplicità del mondo delle idee. Platone introduce una
certa gerarchia. L’ordine in cui concepisce le Idee non è sempre lo stesso.

Nella Repubblica al vertice si trova l’idea del Bene, principio incondizionato di tutto, per cui Platone utilizza
l’immagine del sole.

Il mondo sensibile sarebbe ordinato da una forza ordinatrice che Lui chiama il Demiurgo, che vede nel mondo
dell’Idee i modelli e coppia ordinando la materia preesistente e caotica. L’arte sarebbe per lui una cosa simile,
la coppia della coppia.

Infine considerando la teoria delle Idee per problematici che appaiono tanti suoi elementi, si deve dire che la
scoperta della realtà soprasensibile costituisce la grandezza della filosofia platonica e insieme una radicale
rivoluzione della filosofia.

L’allegoria della caverna

L’allegoria della caverna è una narrazione all’interno della Repubblica e offre una visione d’insieme del
pensiero platonico, cioè contiene in nuce la sua filosofia.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 89


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Platone descrive una caverna con un ingresso aperto alla luce che però non può essere visto dagli uomini
all’interno che sono lì fin da fanciulli incatenati in modo che possono vedere solo davanti a sé alla parete alla
quale si proiettano delle ombre. Questi uomini “sono simili a noi”, cioè sono un immagine per chi vive senza
porsi domande sulla realtà del mondo in cui si trova.

Conoscendo nient’altro gli abitanti della caverna ritengono che le ombre siano tutta la realtà. Mentre chi fosse
in grado di liberarsi dalle catene, simbolo per il corpo e i sensi, giungesse a vedere il mondo reale e il sole.
Questo è il filosofo.

Se però tornasse nella caverna e provasse di convincere gli altri a lasciarsi liberare, questi non lo ascoltassero.
Prima perché lui, con gli occhi offuscati dal sole, non sapesse orientarsi nel buio della caverna, cioè il mondo
sensibile, che loro ritengono sia l’unico realtà; e poi, perché non vogliono abbandonare la loro esistenza della
quale non sentono tanti i limiti, perché risulta comunque comoda.

Il filosofo che dice la verità, che cerca di convincere a cambiare la vita e aprirsi alle realtà soprasensibili corre
quindi il rischio di trovarsi in opposizione, di essere ridicolizzato , perseguitato e perfino messo a morte, come
Socrate.

Platone presenta quindi, nella stessa scia di Socrate, la filosofia come un impegno vitale esigente, che rende
felice chi si dedica ad esso, ma che difficilmente possa attirare la maggioranza degli uomini.

TEMA 24 – ARISTOTELE

Aristotele nasce a Stagira in Macedonia, nel 384 a.C. Entra nell’Accademia con 18 anni e rimane lì fino alla
morte di Platone nel 347. Poi lascia Atene e va ad Asso, poi a Mitilene. Diventa l’educatore del figlio di Filippo
di Macedonia, del futuro Alessandro Magno. Nel 335 ritorna ad Atene e fonda lì la sua scuola, il Liceo. Nel 322
muore nell’esilio avendo dovuto fuggire dai suoi nemici.

Aristotele e Platone

È comune presentare Aristotele in contrapposizione forte con Platone. Certo è vero che criticò le dottrine di
Platone, ma allo stesso tempo ne è debitore e anche continuatore in quanto non abbandona la grande
scoperta di Platone, la realtà soprasensibile, ma vuole mostrare come veramente è, cioè non come la pensava
Platone. Questo risulta chiaramente nelle parole che usa Aristotele all’inizio dell’Etica Nicomachea riguardo
all’indagine sul bene universale “tale ricerca è sgradevole per il fatto che sono amici nostri gli uomini che hanno
introdotto la dottrina delle Idee. Ma si può certamente ritenere più opportuno, anzi doveroso, almeno per la
salvaguardia della verità, lasciar perdere i sentimenti personali, soprattutto quando si è filosofi: infatti più
essendoci cari entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità”.

Per Platone le Idee sono trascendenti e sussistono separate dalla realtà sensibile. Aristotele invece respinge
questa concezione: se le Idee sono le essenze delle cose, non possono sussistere in un mondo ideale
trascendente, ma devono per forza essere interne alle cose stesse.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 90


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Le Idee in questo modo si trasformano in Aristotele in un principio immanente che inoltre non ha carattere
sostanziale, come lo hanno le Idee di Platone, ma universale, giacché il carattere sostanziale compete solo alla
singola cosa individuale. In questo modo Aristotele introduce il principio della forma sostanziale.

Oltre la forma Aristotele introduce un altro principio, quello della materia che si comporta rispetto alla forma
come potenza. Così Aristotele salvaguarda la realtà sensibile, negando la trascendenza delle Idee, ma
rispettando il principio platonico della priorità della forma rispetto alla materia.

Oltre alla concezione del soprasensibile ed il suo rapporto con il sensibile, Aristotele e Platone si distinguano
anche quanto al loro metodo e i loro interessi.

Platone usa la poesia, racconta miti, si interessa delle scienze teoriche, della matematica e mira
all’unità del suo sistema.
Aristotele usa un linguaggio tecnico e preciso e adopera un metodo rigoroso, si interessa dei fenomeni
e delle scienze naturali e tende ad un sistema che tiene conto delle peculiarità di ogni scienza.

Concetto e caratteristiche della metafisica

La metafisica è per Aristotele la più alta tra le scienze speculative. Lui la chiama sophia o scienza prima oppure
filosofia prima (in opposizione alle filosofie seconde). Il termine metafisica risale probabilmente ad Andronico
di Rodi, editore delle opere di Aristotele nel I. sec. d.C.

Per Aristotele la metafisica indaga quattro oggetti che si sovrappongono in varie modi, ossia indaga un unico
oggetto che si considera da quattro punti di vista:

“Col nome di sapienza tutti intendono la ricerca delle cause prime e dei principi”: La metafisica è
scienza delle cause prime. Ogni scienza è scienza di cause. La metafisica si distingue però dalle scienze
particolare: è scienza universale e perciò deve indagare le cause di tutte le cose giungendo ai principi
di tutte le cose.
“C’è una scienza che studia l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale”:
La metafisica è scienza dell’ente in quanto ente. La caratteristica centrale delle cose è il fatto che siano:
questo è l’aspetto più universale delle cose e quindi la metafisica come scienza universale, dovrà
indagare cosa significa l’essere: quali sono i modi di essere e quali sono le proprietà che derivano
dall’essere.
“’che cos’è l’essere’, equivale a questo: ‘che cos’è la sostanza’”: La metafisica studia quindi anche la
sostanza. Secondo Aristotele l’ente non ha un significato univoco, ma analogico: ci sono diversi modi
di essere, dei quali il modo fondamentale è la sostanza. Tutto ciò che è, o è sostanza o dipende da una
sostanza. Essere un ente propriamente è essere sostanza.
“C’è, dunque, un’altra scienza, (…) che studia l’essere separato e immobile. (…) in essa dovrà consistere
anche il divino e dovrà essere il Principio primo e supremo”: La metafisica si occupa quindi anche di
Dio sia perché è la causa prima per eccellenza sia perché interrogarsi su tutti gli esseri include anche
interrogarsi sull’esistenza di esseri soprasensibili, separati dalla materia e immobili, e sull’essere
divino.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 91


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Il principio di non contraddizione

Il principio di non contraddizione serve a confutare i scettici, cioè alcuni dei filosofi della natura ed i sofisti con
il loro relativismo estremo. Aristotele cerca un principio innegabile che sta alla base di ogni scienza, un
principio di ogni dimostrazione, il “più sicuro di tutti i principi”.

Lui formula i principi basilari nel libro  della sua Metafisica. Il principio di non-contraddizione è formulato
così: “È impossibile che allo stesso oggetto, nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto, appartenga e non
appartenga una determinata proprietà”. Questo principio non riguarda un singolo oggetto, ma riguarda
l’appartenere o non-appartenere di un predicato ad un oggetto.

Il principio di non contraddizione è una legge dell’ente: Nella realtà le contraddizioni non sono possibili, sono
possibili solo a parole. Essendo una legge dell’ente è anche una legge del pensiero, perché il pensiero è fatto
per comprendere l’ente.

Pertanto è impossibile negare il principio di non contraddizione, perché qualsiasi cosa uno dice, le si attribuisce
un significato determinato. Chi vuole negare il principio di non-contraddizione, in realtà con le sue stesse
parole, lo afferma. Questa è l’unica difesa possibile del principio, giacché non è dimostrabile essendo un primo
principio evidente. È possibile solo la confutazione delle negazioni.

I sensi dell’essere

L’ente si dice in molti modi. Con questo Aristotele supera la concezione parmenidea dell’essere. Non lo si può
definire, perché non ce ne può essere nessun genere. L’ente non si può inquadrare in una nozione ancora più
universale. Nonostante questo è possibile che una sola scienza si occupa di tutti i diversi sensi dell’essere,
perché tutti i modi di essere si dicono “in riferimento ad un'unica natura”. Aristotele chiama omonimia questa
relazione tra i vari sensi dell’essere, che più tardi si tradurrà con analogia. Tra i diversi sensi dell’essere c’è
quindi un rapporto di analogia. L’essere non è un termine univoco, con un solo significato, perché si dà con
una molteplicità di significati. Non è neanche un termine equivoco, ma un termine analogico.

Secondo Aristotele ci sono quattro gruppi di sensidell’ essere: “uno di questi è l’essere accidentale; un secondo
è l’essere come vero e il non essere come falso; inoltre ci sono le figure delle categorie (…) e, ancora, oltre tutti
questi, c’è l’essere come potenza e atto”.

Sostanza e accidenti: le categorie

L’analogia pros hen (di attribuzione) conosce un analogato principale,che è il significato più proprio del termine
e possiede quindi priorità riguardo agli altri significati. Aristotele usa qui l’esempio della salute: “L’essere,
quindi, si dice nello stesso modo in cui diciamo sano tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva,
o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla”. In senso proprio sano è
il corpo vivente. In senso proprio l’essere appartiene alla sostanza individuale e tutti gli altri modi di essere si
riferiscono ad essa: “alcune cose sono dette esseri perché sono sostanze; altre perché sono affezioni della
sostanza, altre perché sono vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni o privazioni o qualità o
cause produtrici o generatrici della sostanza”.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 92


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La sostanza è ciò che propriamente è e dalla quale le altre categorie dipendono. Ciò nonostante una delle
categorie, non qualcosa che le supera. La priorità della sostanza rispetto agli accidenti ha tre momenti tra di
essi collegati:

La sostanza possiede una priorità ontologica. La sostanza esiste in virtù di un essere che gli appartiene,
è ciò che propriamente esiste, è sussistente in sé. La proprietà primaria della sostanza non è una lunga
durata, né assoluta semplicità, né l’essere la ragione della propria esistenza o l’essere infinita: la
proprietà fondamentale della sostanza è il non aver bisogno di un sostrato per poter esistere, ma
essere esistente in sé stessa. Inoltre la sostanza sussiste in quanto possiede attualmente la sua forma:
in modo individuale e concreto e perciò si oppone all’universale che è astratto e non sussiste se non
come parte integrante delle cose concrete.
La sostanza possiede un priorità conoscitiva, logica (è l’analogato principale, e nella nozione delle altre
categorie è necessario includerla): La conoscenza si dà propriamente non in base alle diverse qualità
di una cosa, ma solo quando si giunge a conoscere la cosa stessa: che cosa è. Perciò anche gli accidenti
di una sostanza si comprendono propriamente solo quando vengono predicati di una sostanza. (non
si comprende cosa significa l’essere bianco in astratto, ma solo l’essere bianco della neve o l’essere
bianco dell’uomo o della parete).
La sostanza possiede una priorità causale: è causa materiale, efficiente e finale degli accidenti.

Aristotele presenta varie elenchi dei modi fondamentali dell’essere. Nelle Categorie 4 e nei Topici I,9 ne
presenta dieci: oltre alla sostanza ci sono quantità, qualità, relazione, dove, quando, posizione, possesso,
agire e patire.

Atto e potenza

Queste due ultime sono ancora modi speciali di essere che possono riguardare qualsiasi categoria, sono
transcategoriali. Le categorie sono i generi supremi. L’atto a la potenza, invece, non sono generi, non sono
nell’ordine dell’essenza, ma piuttosto nell’ordine dell’essere, nell’ordine trascendentale, non in quello
categoriale. Aristotele tratta di essi in modo speciale nella sua Metafisica, soprattutto nel libro .

La miglior via per capire la distinzione tra atto e potenza è la spiegazione aristotelica del movimento. “L’atto
dell’ente in potenza in quanto è in potenza”. Essere in potenza è non essere ancora in atto. Allo stesso tempo
è più di non essere, perché non tutto ciò che non ha una determinata perfezione, è capace di riceverla. L’atto
in cui consiste il movimento è una progressiva attualizzazione di una potenza, che, mentre dura il movimento,
non è ancora totalmente attualizzata. Perché qualcosa sia in movimento deve ancora essere in potenza. L’atto
e la potenza non sono cose che si possono percepire, ma senza di esse non possiamo comprendere la realtà
che ci presenta l’esperienza.

Queste nozioni sono nozioni chiavi per la metafisica, in quanto in qualsiasi composizione metafisica, dei due
principi che si mettono in rapporto, uno è sempre atto rispetto all’altro che è potenza (forma e materia,
accidenti e sostanza, atto di essere ed essenza). Queste nozioni, che non possono essere definiti, si
comprendono mediante analogia. “L’atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce sta a chi può

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 93


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costruire”. L’unico modo di capire che cosa sono l’atto e la potenza è per noi comprenderle nel loro mutuo
rapporto, perché sono dipendenti tra di loro.

Il rapporto tra l’atto e la potenza è un rapporto di perfezione e limitazione (l’atto perfeziona la potenza, mentre
la potenza limita l’atto) in cui spetta la priorità all’atto:

cronologica: la potenza attiva si manifesta solo a partire da un momento determinato dello sviluppo,
e ogni potenza dipende sempre da una precedente causa efficiente in atto.
logica: l’ente in potenza si conosce e si definisce in riferimento all’atto corrispondente.
dal punto di vista della causalità: per poter essere causa efficiente bisogna esserla in atto.
ontologica: l’atto è più perfetto della potenza, che è nello stesso genere.

L’essere in potenza è un modo di essere reale, si distingue pure dalla possibilità logica, che è la semplice non
contraddittorietà.

Dell’essere in atto Aristotele distingue tre significato: il movimento (kinesis), l’operazione (praxis) e l’esistere.
L’ultimo di questi è quello più fondamentale e più interessante. La distinzione qui segnalata tra sussistenza ed
esistenza non verrà però elaborata da Aristotele ed acquisterà importanza piuttosto nella filosofia medievale
(essenza ed atto di essere in Tommaso) e nella filosofia di Heidegger.

Rimangono due altri sensi dell’essere che non sono oggetto della metafisica, l’uno perché non è oggetto di
scienza in generale, l’altro perché è piuttosto oggetto della logica: l’essere accidentale e l’essere vero.

L’ens per accidens si deve distinguere dagli accidenti che sono delle categorie. Ente accidentale fa riferimento
al rapporto tra l’accidente e il soggetto cui inerisce: è “ciò che appartiene ad una cosa e che può essere
affermato con verità della cosa, ma non sempre né per lo più”. Queste coincidenze non sono il risultato di un
divenire naturale necessario, le loro cause si lasciano individuare al massimo a posteriori e per sé non hanno
antecedenti. Del caso non c’è scienza.

L’essere come vero c’è solo nella nostra mente e non nella realtà. Si deve distinguere tra essere di ragione ed
essere nelle proposizioni. Una proposizione è vera o falsa secondo come le cose stanno nella realtà. Agli enti
di ragione in senso proprio non corrisponde niente nella realtà, e le cose, in quanto pensate, hanno delle
proprietà diverse dalle proprietà reali. Dire in questi casi che qualcosa è, significa solo che si attribuisce
qualcosa ad un soggetto. Questo modo di essere è stato chiamato essere intenzionale, essere nella
proposizione, essere come verità – è vero che affermiamo qualcosa, ma non è un modo reale di essere. Di
questo tipo di essere spetta alla logica occuparsene.

TEMA 25 – AGOSTINO D’IPPONA

Nasce a Tagaste nel 354, insegna retorica a Tagaste, Cartagine e Milano. Aderisce al manicheismo, percorre
una fase scettica, si avvicina al neoplatonismo e infine incontra Sant’Ambrogio e la fede cristiana. Nel 386 viene
battezzato. Muore nel 430 muore come vescovo d’Ippona, durante l’assedio dei Vandali.

Agostino può essere considerato a buon diritto fondatore della filosofia cristiana, perché, avendo accettato la
fede come guida e stimolo della ricerca filosofica, è potuto scendere tanto in fondo nelle profondità dell'uomo

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 94


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e salire molto in alto verso le perfezioni di Dio, mostrando che in questo binomio - uomo e Dio - si raccoglie
tutta la forza e si manifesta tutta la valentia del pensiero umano.

Primo compito di questa filosofia cristiana è quello di " ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità
", superando lo scetticismo, che rode, come tarlo, ogni ricerca filosofica, e guidarli, poi, verso il possesso della
sapienza, che è, come si è detto or ora, la conoscenza e il possesso del sommo bene.

Fonti e motivi del suo pensiero filosofico

Il pensiero filosofico classico: Agostino ha una conoscenza non volgare della filosofia antica come lo
dimostrano la sue opere. Da giovane lesse e capì da solo le Categorie di Aristotele, divenuto professore
" lessi e imparai a memoria molte opere di filosofi ". Tra queste le opere filosofiche di Cicerone a
cominciare dall'Ortensio (nelle Confessiones dice su questo libro: “devo dire che esso operò una
trasformazione nei miei sentimentie presi ad aspirare con tutte le mie forze all’immortalità che viene
dalla sapienza”)e molti altri ancora.
La Sacra Scrittura: Conosceva anche la Sacra Scrittura che però non gli convinse in quell’epoca della
sua vita (“Quell’opera invece è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo e per
essere gonfio di boria mi credevo grande”), perché sembra avere un carattere ingenuo.
Il manicheismo: Trova una critica all’antropomorfismo del’AT nella teoria dualista del manicheismo
che inoltre gli offre una teoria cosmologica e una spiegazione del male (“Mi sembrava più degno
credere che tu non avessi creato nessun male”). Ma alla fine ne resta deluso e lascia la setta.
Lo Scetticismo: “mi vergognavo di essermi per così tanto tempo lasciato ingannare da illusorie,
promesse di cose certe e di aver sbandierato come sicure tante cose che non lo erano”, “Mi era nata
infatti anche l'idea che i più accorti di tutti i filosofi fossero stati i cosiddetti accademici, in quanto
avevano affermato che bisogna dubitare di ogni cosa, e avevano sentenziato che all'uomo la verità è
totalmente inconoscibile.”
Neoplatonismo: Infine a Milano, lesse Plotino e Porfirio, che diventarono e restarono i suoi preferiti
per il fatto che gli ricondussero alla ricerca della verità e alla scoperta della realtà soprasensibile che
gli aprisse l’animo per l’accettazione della fede: “Dopo aver letto quei libri dei platonici, dai quali fui
spinto a cercare la verità al di fuori della realtà corporea, imparai a scoprire i tuoi attributi invisibili
attraverso le cose create e, a prezzo di sconfitte, capii quale era la verità che non ero riuscito fino allora
contemplare, immerso com'ero nelle tenebre”.

È incisivo per il suo pensiero questo primo incontro di Agostino con i neoplatonici, che fu un momento
importante per la sua formazione e per la cultura occidentale. Alcuni sostengono persino che egli divenne
allora e restò poi sempre un neoplatonico, con profonde influenze anche nella teologia, tanto che il
platonismo dovrebbe considerarsi la chiave interpretativa del suo pensiero in generale. Bisogna però
distinguere bene tra ciò che accettò dal neoplatonismo e ciò che rifiutò:

Ha trovato:

la nozione della filosofia come amore della sapienza


del filosofo come amante di Dio
della beatitudine " come unico fine del filosofare " (per Agostino la beatitudine è " il godimento
della verità")
il principio dell'interiorità e di partecipazione
il concetto del male

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 95


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la nozione di Dio come causa dell'essere, luce del conoscere, ordine dell'amore.

Confessa di non aver trovato:

la dottrina del Verbo che si è fatto carne


la conseguente dottrina della redenzione e della grazia (“questo non vi si legge”), giacché sono dottrine
specificamente cristiane.

Ha respinto decisamente:

la necessità e l'eternità della creazione e la preesistenza e il peccato delle anime nel mondo
iperuranio e la ciclicità della storia alla quale Agostino oppose la creazione dal nulla, nel tempo e
col tempo non per altra ragione che Dio è buono.
la teoria della conoscenza come reminiscenza delle idee conosciute in quel mondo alla quale
oppose la dottrina dell'illuminazione, che non è reminiscenza del passato ma la visione presente
delle realtà intelligibili e immutabili nella luce incorporea,
la metempsicosi, la concezione dell'unione violenta e penale dell'anima nel corpo. In realtà
considerare il corpo estraneo alla natura dell'anima è "insipienza", ammettere la metempsicosi è
la cosa più stolta a cui si possa pensare e la più orribile e Agostino le oppone l'unione naturale e
sostanziale tra l'anima e il corpo per cui la prima non può essere beata senza il secondo.

Chiariti questi punti fondamentali, che a loro volta approfondiscono e chiariscono i principi della interiorità e
della partecipazione nonché la vera nozione del male, la filosofia agostiniana non merita più il nome di
neoplatonica, ma un nome nuovo, che non può essere altro che questo: cristiana. Se si ricorda la famosa frase
di Platone nel Fedone che filosofare significa dover attraversare il mare della vita con la zattera della ragione
“a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè
affidandosi ad una rivelazione divina”, non resta altro da dire riguardo ad Agostino che per lui ormai questa
nave c’è: è il lignum crucis: “nessuno può attraversare il mare del secolo se non è portato dalla croce di Cristo”.

I motivi centrali della filosofia di Agostino sono le verità di fede che ha scoperto solo nel cristianesimo: la
relazione uomo-Dio e Dio-uomo, l’illuminazione divina, la grazia e la libertà, la creazione, il male, il tempo.

La verità

Il modo in cui Agostino concepisce la verità si comprende a partire dal suo percorso intellettuale ed
esistenziale. Per lui la verità non è una categoria puramente logica, cioè non esiste solo nella mente, ma è al
di sopra della mente. Non è solo l’accordo tra il pensiero e la realtà, ma risale e dipende da Dio stesso, creatore
della realtà e della mente umana che ha creata in modo che possa riconoscere la verità che la conduce
all’autore della verità e cioè al suo proprio fine e alla beatitudine: a Dio stesso. Sono celebre le parole di
Agostino: “Non andare al di fuori di te, rientra in te stesso: nell'uomo interiore abita la verità. E se troverai che
anche la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi
uno spirito che ragiona. Tendi dunque là da dove si accende il lume della ragione” (De vera relig., 39, 72).

La verità ha dunque per Agostino le stesse caratteristiche che Dio: è intimior intimo meo e superior summo
meo, si trova allo stesso tempo nell’intimo dell’uomo ed è superiore di lui.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 96


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In un prima passo Agostino supera la tentazione dello scetticismo, riconoscendo: si fallor, sum, cioè il dubito
assoluto non è possibile. Mentre dubito c’è sempre almeno una certezza: che io ci sono. Con questo Agostino
ha anticipato il “cogito” di Cartesio, ma la sua pretesa era un’altra: non trasformava questa massima nel primo
principio su cui fondare la sua filosofia, ma la usava per confutare lo scetticismo e per dirigersi verso la verità
trascendente.

La verità esiste e questo si vede nel fatto che la ragiona giudica le cose, giacché le giudica a partire da un
criterio certo ed immutabile: la verità. Se ci fossero solo gli oggetti corporei e nessun criterio di verità, l’anima
non fosse in grado di giudicare. Ma che effettivamente può giudicare rivela che è in possesso di più che la sola
conoscenza degli oggetti sensibili. Questo perché Dio le ha resa capace della verità: i criteri di conoscenza non
possono derivare dall’anima stessa, perché sono immutabili e necessari, mentre l’anima è mutevole. Bisogna
dunque concludere che al di sopra di noi vi è una Legge che si chiama Verità … L’anima, pur sentendosi
superiore agli oggetti ai quali applica il proprio giudizio, non solo non può ignorare di non essere stata lei ad
inventare ed a regolare il principio giudicante (…), ma deve pur, di conseguenza, inchinarsi alla superiorità del
valore, dal quale essa trae il criterio dei propri giudizi”.

La verità è costituita dalle Idee che sono “rationes intellegibiles incoporalesque rationes”, cioè le stesse Idee
di Platone, che però Agostino modifica un po’: fa di essi pensieri di Dio e trasforma la teoria della reminiscenza
in una teoria dell’illuminazione.

La dottrina dell’illuminazione si inserisce nel contesto generale della teoria della creazione: Agostino applica
al tema della conoscenza il principio di partecipazione: così come gli esseri limitati e mutabili esistono per
partecipazione all’Essere assoluto, così la mente umana conosce con certezza le verità universali e necessarie
se non per partecipazione alla luce stessa della Verità: C’è dunque nell’uomo qualcosa che supera l’uomo. È la
presenza della luce intelligibile, necessaria, immutabile, eterna di Dio.

La dottrina agostiniana dell’illuminazione è la dottrina platonica trasformata sulla base del creazionismo: Come
Dio, che è puro Essere, con la creazione partecipa l’essere alle cose, così, analogamente, in quanto è Verità,
Dio partecipa alle menti la capacità di conoscere la verità. Dio come Essere crea, come Verità illumina, come
Amore ci attira e ci dona la pace.

Il bene

La concezione del bene di Agostino la si ritrova nelle sue deliberazioni circa la natura del male che lo
preoccupavano come conseguenza della sua fase manichea, I manichei dicevano: “Si Deus est, unde malum?”
La soluzione dualistica dei manichei è sbagliata perché mette in discussione l'onnipotenza di Dio. Inoltre, riduce
l’uomo ad un teatro in cui si svolge lo scontro di opposte potenze (io buono e io malvagio).

Il male (e quindi anche il bene) può essere prospettato a tre livelli: uno metafisico, uno morale e uno fisico.

Sul livello metafisico c’è propriamente solo il bene. Il male metafisico non c’è perché il bene è proporzionale
all’essere; il contrario del bene, ossia il male, non può essere considerato come appartenente all’essere. Il male
non è essere ma privazione di essere. Questa nozione è senz'altro di derivazione plotiniana, ma rispetto al
filosofo platonico che concepisce la materia come ‘primo male’ A. riafferma la positività di tutto il creato

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 97


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“omnis natura, in quantum natura, bona est”, non c’è male nella creazione, ci sono solo gradi diversi di essere
e perciò anche gradi diversi di bontà.

Il male sul livello fisico (malattie, sofferenze, i tormenti dell’animo e la morte) hanno un significato ben preciso:
è la conseguenza del peccato originario, ossia una conseguenza del male morale: “La corruzione del corpo che
appesantisce l’anima, non è la causa, ma la pena del primo peccato. Non è la carne corruttibile che ha reso
l’anima peccatrice, ma è l’anima peccatrice che ha reso il corpo corruttibile.

Il male morale deriva dalla cattiva volontà. Questa cattiva volontà non ha una causa efficiente ma una causa
deficiente. Mentre la buona volontà tende naturalmente al Bene, la cattiva volontà non tende al Bene
nell’ordine giusto, ma rovescia l’ordine. Poiché esistono molti beni finiti, può preferire i beni inferiori a quelli
superiori. Il male morale è “aversio a Deo et conversio ad creaturas”. La volontà diventa cattiva non perché si
rivolga a cose ontologicamente cattive, ma perché si orienta male, ossia contro l'ordine del retto amore.

Anche se la volontà è libera, l’uomo non è sempre in grado di fare il bene che vede e che conosce. Senza la
grazia, il libero arbitrio non vorrebbe il vero bene, o se lo volesse non potrebbe compierlo. La grazia dunque
ha l'effetto di render buona la volontà.

Fede e ragione

Agostino dopo un percorso intellettuale lungo e difficile giunse ad una sintesi meravigliosa ragione e fede. Dice
nel De ordine: "Ad imparare siamo condotti necessariamente da un duplice principio: l'autorità e la ragione. In
ordine di tempo viene prima l'autorità, in ordine d'importanza la ragione". Così unisce insieme, senza
confonderli, la ragione, che non perde il suo primato in ordine alla conoscenza della verità, e la fede che ha un
primato non assoluto bensì, temporale. Egli non vuole solo credere, ma anche capire, poiché "nulla l'anima
desidera più fortemente che la verità" e la verità conosciuta nello splendore della sua evidenza. Il fondo
intellettuale del pensiero agostiniano è qui evidente.

egli raccoglie il suo metodo in due notissimi effati complementari tra loro, che sono: "credere per capire" e
"capire per credere"

Si deve quindi credere all’autorità, credere per capire: crede ut intelligas: Questa utilità è molteplice e può
essere riassunta come segue: la fede è

la medicina che sana l'occhio dello spirito perché possa fissarsi sulla verità indefettibile
è la fortezza inespugnabile che difende e assicura chiunque, soprattutto i deboli, dalla molteplicità
degli errori: "questo è il vero metodo - esclama Agostino -: ricevere gli infermi nella roccaforte della
fede e, messili ormai al sicuro, combattere per loro con tutte le forze della ragione"
è la scorciatoia che permette di conoscere presto e senza sforzo le verità essenziali che sono
necessarie per condurre una vita sapiente.

Ma la fede non è mai senza ragione. Ecco il perché del secondo precetto che completa il primo: intelligas ut
credas. Nessuno infatti crede alcunché "se prima non ha pensato di dovere credere"

è la ragione che mostra “a chi si debba credere”

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 98


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c’è un procedere della ragione prima dell’atto della fede


c’è pure un procedere della ragione dopo l’atto della fede.
“credere non vuol dire altro che “cum assenso cogitare” … la fede che non sia pensata non è fede”

 Altro sarebbe vedere ciò che si crede (visione), altro è vedere (capire) che è credibile l’autorità a cui
si aderisce per fede.

C’è infine
una priorità metodologica della fede: In questo senso Agostino interpreta le parole di Is 7,9 «nisi
credideritis, non intellegetis»: Prima è necessario dare l’assenso all’autorità divina, come condizione
necessaria perché poi, applicandovi la ragione, si arrivi anche all’intelligenza, per quanto possibile, di
ciò che già si crede;
e una priorità morale, esistenziale della fede: grazie alla fede, l’uomo viene purificato nel cuore e
abilitato a contemplare.
mentre l’obiettivo ultimo della mente nell’atto di fede resta comunque la comprensione («ut
intelligas») la meta cui tendere è sempre l’intelligenza della verità(“intelligere”).

TEMA 26 – TOMMASSO D’AQUINO

Nato a Roccasecca (1225-26), oblato al monastero di Montecassino, studiò a Napoli. Entrò nell'ordine
domenicano nel 1244, contro la volontà della sua aristocratica famiglia. Da Napoli si recò a Parigi per
proseguirvi i suoi studi fino al 1248 sotto la guida di Alberto Magno, che poi accompagnò nel suo ritorno a
Colonia (1248-1252). Insegnò a Parigi e Napoli. Non sappiamo che cosa successe durante la messa mattutina
celebrata il 6 dicembre 1273, che segna la cessazione definitiva dell’intensa attività di scrittore di Tommaso.
Convocato a Lione per partecipare alla commissione preparatoria del secondo concilio ecumenico, morì il 7
marzo 1274, a Fossanova, durante il viaggio.

Elementi centrali della sua filosofia

La parte più alta della filosofia di Tommaso che è al contempo anche quella più vicina alla teologia è la prima
filosofia, la metafisica. I temi centrali in essa si lasciano strutturare secondo un ordine “ascendente”:

Fede-ragione: La prima parte sarebbe la questione del rapporto tra la sapienza metafisica e quella
teologica. Essa coinvolge altresì la questione più generale del rapporto tra ragione naturale e fede
soprannaturale.
Metafisica: Poi si pone la domanda sulla concezione della natura stessa della metafisica, quale
conoscenza “massimamente intellettuale” e nella triplice dimensione di
o filosofia prima
o teologia naturale e
o scienza “transfisica”.
L’ente: Siccome la metafisica secondo Tommaso ha per oggetto l’ente in comune, un altro elemento
centrale è lo statuto “generale” di tale oggetto; in particolare, sul tipo di unità di cui esso gode, e sui
tipi di cause dalle quali la sua natura dipende intrinsecamente.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 99


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Il bene: Qui è particolarmente interessante la dottrina tommasiana del bene, essendo questo, in
quanto causa finale, la prima tra le specie di cause. La causalità del bene è di interesse anche per
mettere in rilievo quello che si potrebbe chiamare l’oggettività della natura del bene, così come la
concepisce Tommaso.
La forma: All’interno del discorso sul bene emerge poi la funzione davvero fondamentale nella
costituzione dell’ente che Tommaso assegna alla forma, specialmente la forma sostanziale.
La teoria ilemorfica: Dall’analisi ilemorfica degli enti corporei, si può passare per il peculiare statuto
ontologico dell’anima umana, e arrivare a una qualche comprensione della realtà incorporea e
spirituale.
La conoscenza: Qui si può inserire la concezione tommasiana della condizione ontologica della
conoscenza e
Essenza e atto di essere: la famosa distinzione tommasiana tra essenza e “atto di essere” negli enti
creati, di cui si deve valutare l’originalità e la portata.
Dio: Finalmente si arriva alla parte culminante della metafisica e di tutta la filosofia, quella riguardante
la fonte originaria dell’intero ordine dell’ente, Dio. C’entrano qui i modi in cui, per Tommaso, la realtà
visibile si fa “vedere” anche come effetto di una causa trascendente: le celebri “cinque vie”.
La trascendenza: Infine si può menzionare la sua impostazione fondamentale della stessa
trascendenza di questa causa, cioè del suo stare “aldilà” del mondo e di ogni nostro tentativo di
concepirla.

L’essere e la creazione

Tommaso d’Aquino comprende

l’Essere come atto e


la creazione come una relazione tra
o Dio che è Atto di Essere puro e assoluto e
o l’essere creato, cioè l’essere per partecipazione.

Tommaso introduce la famosa distinzione tra essere ed essenza, che in un certo modo è evidente dal punto
che nessuna cosa esiste necessariamente. Nella filosofia greca non c’era tale distinzione, perché l’orizzonte
della riflessione era un mondo eterno, che non facilita il sorgere della domanda radicale sull’essere. Per
Avicenna l’essere era una sorta di accidente dell’essenza. San Tommaso invece vede il rapporto tra essere ed
essenza come quello tra atto e potenza. Certamente l’essenza non si può dire potenza attiva rispetto all’essere,
perché l’essere non sorge dall’essenza. Ma non si può dire neanche che l’essenza sia potenza passiva rispetto
all’essere, perché l’essere non è una determinazione dell’essenza. È questo dunque un nuovo rapporto di atto
e potenza. La chiave è intendere l’essere come atto, cioè l’atto di essere, che è limitato dall’essenza, che è
potenza rispetto all’essere. L’essere dunque si manifesta diversificato in una molteplicità di modi determinati
di essere. In Dio, l’unico essere necessario, essere ed essenza si identificano.

Dio quindi non è più colto solo come Bene, Pensiero o Vita supremi, come essere necessario o come primo
agente non mosso; né solo come primo Principio, di cui Aristotele aveva già predicato la realtà di puro atto
senza mescolanza di potenza: san Tommaso indica Dio come Colui la cui essenza è il Suo atto di esistere.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 100


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Ne risulta così la possibilità di accostarsi all’Essere come causa, e di farlo in modo radicale, autenticamente
ontologico. La causalità trascendentale si realizza nella linea della partecipazione dell’esse, ovvero della
costituzione di un effetto che è soggetto di un atto di essere e di una specifica essenza.

In questa proposta, partecipazione e causalità non si annullano a vicenda (come in Platone o Aristotele). Ad
essere partecipato è infatti proprio l’Atto di Essere, non la forma o l’idea. L’actus essendi è principio totale e
adeguato dell’ente partecipato, causa trascendentale di esso ma anche sorgente ultima di ogni sua causa
predicamentale. Da questa impostazione dipenderanno le principali tesi ed intuizioni della dottrina
dell’Aquinate sulla creazione e sul rapporto fra Creatore e creature.

Ci si può accostare alla nozione di “creazione” secondo tre accezioni: in senso attivo, cioè come atto del
Creatore che chiama in essere tutte le cose partecipando loro l’actus essendi; in senso passivo, intendendovi
il creato, come effetto dell’atto creatore; ed infine comprendendola come relazione che fonda la creatura nel
suo legame costitutivo con il Creatore. Per san Tommaso è quest’ultima accezione ad avere la maggiore
pregnanza metafisica e ad illuminare maggiormente la verità della creazione stessa:

La creazione è intesa come una relazione, cioè come una dipendenza continua e fondante di ciò che è creato
dal suo Creatore: “La creazione determina una entità nella cosa creata soltanto secondo la categoria della
relazione; poiché ciò che è creato non viene prodotto per mezzo di un moto o di una mutazione [...]. La
creazione nelle creature non è altro che una certa relazione verso il Creatore, causa del loro essere”. In senso
stretto, Dio non ha creato il mondo, bensì lo crea. La creazione, in quanto relazione, non “si aggiunge” ad un
soggetto (la creatura), ma piuttosto, in certo modo, lo “costituisce”: tale relazione è essa stessa una
determinata realtà, la realtà appunto dell’ente ut creatura.

La comprensione della creazione come relazione offre le basi per riconoscere che fra l'infinità del Creatore e
la finitezza della creatura, fra l'eternità di Dio e la temporalità del mondo, la creazione-relazione è capace di
instaurare un legame veritiero, non apparente, senza dissolvere la trascendenza del Creatore, né divinizzare
la creatura. L'espressione filosofica di questo legame può essere rappresentata in modo convincente dalla
nozione metafisica di «atto di essere», cioè l'atto continuo e trascendente con cui Dio chiama all'essere una
creatura, dal quale dipendono l'esistenza attuale della creatura (il fatto che essa adesso esista) e la sua
specifica essenza (il fatto che sia propriamente ciò che essa è). Mediante tale atto, che è ciò che fa essere la
creatura se stessa, il Creatore può essere presente nella creatura in modo intimo e costitutivo, non
rimuovendo bensì fondando la sua autonomia.

Sulla dottrina dell'eternità del mondo Tommaso sostiene che non si può affermare niente dal punto di vista
filosofico: né il suo inizio, cioè, né la sua eternità. E che abbia avuto inizio, cioè sia stato creato, "è credibile,
ma non è dimostrabile né conoscibile". La dottrina della creazione non annulla la fisica aristotelica, anzi la
fonda e la perfeziona; la realtà e l'autonomia degli esseri creati è garantita dalla libertà della creazione divina
e dalla struttura partecipativa dell'essere, per cui le cose sono dotate di una vera e propria causalità. Dio non
ha dato alle creature soltanto la sua similitudine quanto all'essere, ma anche "quanto all'agire, in maniera che
le creature abbiano le sue proprie azioni." Gli esseri creati si dispongono in una scala, che ha ai suoi estremi
Dio, atto puro, e le creature materiali, la cui singolarità è dovuta alla materia quantitate signata, che le
individua limitandole. Fra questi due estremi stanno gli angeli (forme pure create) e la creatura umana: infatti

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 101


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l'anima intellettiva, forma di quel sinolo (totalità individuale composta di materia e forma) che è l'essere
umano, lo pone al confine fra il mondo materiale e quello delle intelligenze.

La conoscenza e l’uomo

L’unità di anima e corpo: Per Tommaso l'anima è aristotelicamente, forma del corpo: per affermare
infatti la piena e concreta individualità dell'uomo egli ritiene di dover eliminare ogni residuo del
dualismo platonico. Secondo Tommaso, anche se l’anima umana, in quanto intellettuale e spirituale,
trascende il corpo, anima e corpo sono uniti in modo da costituire un’unica sostanza (l’uomo). Ossia,
anima e corpo condividono lo stesso essere. L’anima è la forma sostanziale che si unisce alla materia
prima per formare così il tutto che è l’uomo. Il corpo non ha un proprio essere, cioè non preesiste
all’anima, ma ha un solo essere condiviso con essa, come anche l’anima non preesiste al corpo, ma
formano insieme una sola sostanza.
L'immortalità dell'anima, che sembrava andare perduta nel recupero del concetto propriamente
aristotelico di entelechia ("atto del corpo fisico organico che ha la vita in potenza"), è garantita, per
Tommaso, dall'operazione propria dell'anima razionale, l'intelligere, nella quale si manifesta il
carattere spirituale e l'autonomia dell'anima - ciò per cui essa si colloca, appunto, al confine con
l'ordine angelico. Per mostrare che l’anima sia un vero soggetto di essere, Tommaso cerca di mostrare
che essa sia anche soggetto di azione. Tommaso mostra che l’anima è soggetto dell’intendere, azione
della quale il corpo non è capace, e che quindi non può che essere svolta dall’anima che è soggetto
dell’intendere.
Egli attacca polemicamente la dottrina della pluralità delle forme che afferma che l'anima razionale
sussume le funzioni inferiori: "che 'l'anima vegetativa è in quella sensitiva' e la sensitiva in quella
intellettiva 'come il triangolo è nel quadrangolo' e il quadrangolo nel pentagono'. Nel De unitate
intellectus contra averroistas Tommaso si accinge a combattere l'opinione di Averroè sull'intelletto
proprio a partire da questa rigorosa premessa dell'unità sostanziale dell'uomo, cui corrisponde
l'individualità dell'atto di intendere, che ha per soggetto non un intelletto separato, ma l'intelletto che
è facoltà dell'anima la quale è forma del corpo: “hic homo intellegit”

Possesso: La conoscenza è per Tommaso il possesso della forma dell’oggetto conosciuto: La forma
dell’oggetto conosciuto sta “nel” conoscente perché la conoscenza stessa sta in lui; quindi l’oggetto
conosciuto stesso sta in lui.
Della forma, quindi immateriale: l’oggetto sta nel conoscente ma non con la sua materia, solo con la
sua forma: È proprio delle forme comunicarsi e il modo in cui vengono assimilati dal conoscente è il
conoscere, sia in modo sensitivo o intellettuale, si tratta sempre di un’ assimilazione di forme. Ciò
perché le forme non sono materiali, ma immateriali e perciò intelligibili per natura.
La forma nel conoscente: La forma esiste in modi distinti nell’oggetto conosciuto e nel conoscente.
Nell’oggetto è la forma sostanziale che dà l’essere, nel conoscente è come una perfezione ulteriore
che riceve grazie alla sua capacità conoscitiva e che allarga il campo della sua conoscenza, ma non gli
dà l’essere o modifica radicalmente il suo modo di essere proprio. L’uomo è tutte le cose, secondo
Aristotele, solo “in un certo modo”.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 102


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Secondo Tommaso le nature delle cose che hanno conoscenza sono di «maggiore ampiezza ed
estensione» rispetto alle nature delle cose senza conoscenza perché possiedono oltre la forma propria
anche le forme delle cose conosciute da loro, mentre le nature senza conoscenza possiedono solo la
loro propria forma e sono quindi più limitati e ristretti.

TEMA 27 – RAZIONALISMO E EMPIRISMO

Il Razionalismo e l’Empirismo sono impostazioni filosofiche già presenti in qualche modo nell’antichità (i filosofi
naturalisti presocratici/Platone e Parmenide), ma che propriamente si sviluppano e si diffondono nella
modernità a partire da Descartes.

Dopo il periodo della grande scolastica nel XIII. sec. apparse necessario trovare una nuova impostazione
filosofica a causa di alcuni sviluppi:

la decadenza della scolastica che si perde sempre di più in dispute sofisticate, e si trasforma in un
pensiero immobile ed inutile.
nuove forme di irrazionalismo che appaiono nel rinascimento: alchimia, cabala, superstizione e magia.
nuove forme di scienza che tendono a liberarsi dalla filosofia e dalle antiche auctoritates per
presentarsi come una nuova filosofia che prescinde dai concetti tradizionali.
Infine inizia già nel tardo medioevo la rottura che diventerà definita nella modernità: una mancanza
di integrità tra pensiero e vita, tra verità ed essere, un certo “pensiero debole” che si manifesta non
solo nella decadenza della scolastica ma anche nella decadenza della vita religiosa che già nel
medioevo vogliono risanare Francisco e Domenico, e che all’inizio della modernità provocherà la
riforma protestante.

Tutto questo conduce allo scetticismo e insieme a delle tentativi di superare lo scetticismo fondando
un nuovo pensiero, su un nuovo fondamento a prescindere dai metodi e concetti tramandati che
sembrano superati e ormai inutili.
Questo nuovo fondamento è – in contrapposizione sull’oggettivismo scolastico – la soggettività:
 Lutero fonda la nuova religiosità sulla priorità dell’interiorità
 Descartes fonda la nuova filosofia sulla certezza soggettiva.

R. Descartes: il cogito; le idee

René Descartes nasce a La Haye nel 1596. Riceve una buona formazione intellettuale. La scienza che lo
affascina a causa della sua certezza ed evidenza è invece la matematica. Mentre rimane deluso dalla filosofia.
Nota che “benché la filosofia sia stata coltivata dagli spiriti più eccellenti che siano vissuti, non vanta ancora
cosa alcuna di cui non si discuta e la quale però non sia dubbia”. “Sarebbe difficile immaginar di sì strano e sì
incredibile che non sia stato detto da qualche filosofo”. Nel 1637 scrive il Discorso sul metodo. Quest’opera è
considerata la magna charta della nuova filosofia, come Descartes è considerato il fondatore della filosofia
moderna. Muore nel 1650.

Il dubbio: Descartes cerca di combattere lo scetticismo che si era diffusa all’epoca, cercando un
metodo che possa garantire una certezza assolutamente sicura su cui si possa fondare la filosofia in

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 103


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modo così rigoroso come la matematica sui principi matematici. Tra il 10 e l’11 novembre del 1619 ha
un’esperienza che chiama una rivelazione, e nella quale riconosce il punto d’appoggio del suo metodo.
È il dubbio stesso che diventa il suo metodo. Infatti non c’è niente di cui non si possa dubitare tranne
lo stesso dubbio. Perciò il dubbio deve essere il metodo. Essendo un dubbio metodico non è fine a se
stesso, come nel caso degli scettici, ma serve a raggiungere il saldo fondamento della verità.
Il cogito: formula così il suo cogito: “mentre volevo pur pensare così che tutto fosse falso, bisognava
necessariamente che io, che così pensavo, fossi qualche cosa”: Je pense, donc je suis! La verità della
propria esistenza “era sì ferma e sì salda che tutte le più stravaganti ipotesi degli scettici non erano
capaci di scuoterla” e che lo stesso dubbio la conferma. Diventa perciò “il primo principio della filosofia
da me cercato”.
La chiarezza intuitiva: Bisogna chiarire che il cogito per Descartes “non è un ragionamento, ma una
pura intuizione. Non si tratta dell’abbreviazione di un argomentazione come la seguente ‘tutto ciò che
pensa esiste. Io penso. Dunque esisto’. Si tratta semplicemente di un atto intuitivo le cui caratteristica
principale è l’irresistibile chiarezza con cui si presenta alla propria coscienza.
Differenza ad Agostino: il “cogito” di Descartes si distingue dal “si fallor sum” di Agostino. Per Agostino
serve a confermare il primato dell’essere. Descartes con il cogito conferma il primato della propria
coscienza. Il detto di Agostino rivela in ultima analisi Dio che tiene tutto nell’essere. IL cogito di
Descartes rivela l’uomo, cioè le esigenze del suo pensiero che ora diventano la base della filosofia.
Le idee chiare e distinte: “avendo notato che non vi è niente in questa affermazione ‘io penso dunque
sono’ che mi assicuri che io dica la verità, se non che vedo chiarissimamente che per pensare bisogna
esistere: giudicai di poter prendere per regola generale che le cose che concepiamo molto
chiaramente e distintamente sono tutte vere”.
I metodo: In questa scia Descartes sviluppa le quattro regole del suo metodo: evidenza (certezza
intuitiva del cogito) – analisi (dividere il problema in parti elementari fino al limite possibile) – sintesi
(ricondurre i pensieri cominciando dai più semplici)– e enumerazioni (finale controllo della
completezza e correttezza).
L’ idea: per Descartes, anche se le idee devono essere chiare e distinte, la sua concezione di idea non
lo è: Pensiero è per lui “tutto ciò che è in noi di così fatto che di esso siamo immediatamente coscienti”,
cioè anche tutte le operazioni della volontà, dell’intelletto, dell’immaginazione e dei sensi..

Conseguenze di quest’impostazione di fondo:

Siccome il pensiero è il punto fondante della propria esistenza, l’uomo si identifica con il suo pensiero.
L’unità dell’uomo si rompe e si crea la distinzione tra la res cogitans e la res extensae. La spiegazione
dell’unione tra questi parti sarà un problema in fondo irrisolvibile per tutta la filosofia moderna.
Siccome il primo principio della filosofia diventa la certezza soggettiva e non più l’essere, la metafisica
viene sostituita dalla gnoseologia. D’ora in poi il compito primario della filosofia sarà spiegare le
condizioni della possibilità della conoscenza umana. Una conseguenza ne è che il concetto di Dio in
ultima analisi si dovrà abbandonare e alla fine si cade nel nihilismo. O si può conservare l’idea di Dio
al massimo come un postulato della ragion pratica e non si riesce su questa scia a supera l’agnosticismo
moderno.
Infine questo conduce pure ad una “morale provvisoria”.

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D. Hume: la dissoluzione empirista della metafisica; critica della causalità e della sostanza

L’empirismo si oppone al razionalismo quanto a ciò che ritiene conoscenza certa (non le idee “chiare e
distinte”, ma le percezioni sensibili), mentre ha in comune con il razionalismo il rifiuto della filosofia
tramandata, specialmente quella scolastica e il suo fondamento dell’essere, che viene sostituito dal pensiero
ossia la percezione soggettiva.

D. Hume nasce a Edinburgh in Scozia nel 1711 e muore in Inghilterra nel 1776. L’opera più importante di lui è
il Trattato sulla natura umana. Il suo pensiero presenta un empirismo radicale.

La causalità: causa ed effetto sono per Hume due idee completamente distinte, cioè dall’analisi della
causa non si lascia dedurre l’effetto. L’effetto non si dà a priori nella causa, ma è del tutto diverso dalla
causa. Non c’è causalità, c’è solo l’osservazione della sequenza temporale: prima c’è quello che
chiamiamo la causa, poi segue ciò che chiamiamo l’effetto, ma non c’è una vera e proprio causalità,
una relazione di dipendenza.
L’esperienza: il concetto di causalità è dovuto all’esperienza. Sono esperienze nel passato che creano
in noi la convinzione che le cose avverranno sempre così come l’abbiamo già visto altre volte, senza
però che a questa convinzione corrisponda una necessita reale.
La presunta necessità: la relazione che realmente osserviamo tra causa ed effetto è una relazione di
contiguità e successione. Ma la relazione che inferiamo sulla base del osservazione è una relazione di
necessità.
La credenza: quindi l’esperienza diventa consuetudine, e la consuetudine diventa “belief”. I concetti
con cui ci spieghiamo i dati dell’esperienza sono dunque nient’altro che credenze.
Il sentimento: la credenza a sua volta è per Hume un atteggiamento puramente soggettivo, cioè è un
sentimento. Il fondamento della causalità pertanto, da onologico-razionale diventa emotivo-
arazionale ossia dalla sfera oggettiva viene trasferita alla sfera soggettiva. L’unico fondamento
oggettivo del sentimento che si potrebbe addurre è la natura. I sentimenti sono per Hume qualcosa
simile ad istinti naturali, inevitabili, necessari per poter vivere, ma di per sé comunque fatti arazionali.
L’istintiva credenza è l’unica cosa che ci può salvare dal dubbio scettico.
La sostanza: una simile critica viene fatta al concetto di sostanza: non è altro che un “bundle of
properties”: non è una impressione, ma solamente un nostro modo di immaginare le cose.
La sussistenza: quello che noi percepiamo sono le varie qualità della cose, e non possiamo evitare di
considerarle come inerenti ad una sostanza che le sostenga. Ma quella sostanza in cui ineriscono non
la percepiamo, giacché non c’è, è una nostra immaginazione.
L’io: la stessa critica infine riguarda anche l’io, che non può neanche essere una sostanza, cioè qualcosa
di unito e continuo, ma si riduce infine – come Hume nota in una frase unicamente radicale che non
ripete più – ad un “bundle of perceptions”: siamo una specie di teatro dove le idee e le impressioni
continuamente passano e ripassano – non siamo altro delle nostre idee. L’io viene però recuperato in
un certo modo su basi emozionali.
Hume senz’altro ha pure tentato di uscire dallo scetticismo, non sulla base della razionalità e necessità a priori,
come Descartes, Leibniz o Spinoza, ma sulla base del fatto empirico, che però di per sé, con la rinuncia a
concetti razionali, diventa inspiegabile. Sulla ragione in Hume ha la meglio la natura e perciò in ultima analisi

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 105


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occorre rinunciare pure alla filosofia per lasciar priorità alla natura: “Sii filosofo; ma al di là della filosofia, sii
sempre un uomo”. Ciò significa che, se si porta alle estreme conseguenze l’Empirismo finisce con l’essere, in
ultima analisi, una rinuncia alla filosofia.
Saranno correnti che si sviluppano sulla scia dell’Empirismo l’utilitarismo e il positivismo nei quali il pensiero
empirista è presente pure nei nostri giorni e in qualche modo è sopravvissuto al razionalismo che è cessato al
pensiero debole e ha lasciato come ultimo frutto solo l’analisi della conoscenza umana che è presente fino ai
nostri giorno nell’analisi del linguaggio e nelle neuroscienze, mentre l’entusiasmo di poter spiegare
razionalmente a priori si è perso del tutto.
TEMA 28 – IMMANUEL KANT

È nato a Königsberg, allora capitale della Prussia, nel 1724 ed è morto lì nel 1804. La sua vita, priva di
avvenimenti notevoli, fu dedicata interamente alle attività intellettive. Fu uno dei più importanti esponenti
dell'illuminismo tedesco, e anticipatore - nella fase finale della sua speculazione - degli elementi fondanti della
filosofia idealistica. Le opere fondamentali di Kant sono, nel periodo cosiddetto "critico" sono:

Periodo pre-critico

La filosofia di Kant si può dividere in due grandi momenti

il periodo definito precritico, che arriva fino alla "gran luce" del 1769, propedeutica alla pubblicazione
della Dissertatio nel 1770
il periodo critico, che si estende dalla Dissertatio fino alla morte e vede in particolare la pubblicazione
delle tre critiche.

Durante la fase pre-critica Kant mantiene un pensiero filosofico che continua ad usare i concetti e termini
metafisici che aveva conosciuti attraverso lo studio. Il suo pensiero oscilla fra il Razionalismo e l'Empirismo di
Hume al quale Kant poi riconosce il merito di averlo svegliato dal "sonno dogmatico" quando "sognava" e
credeva al dogma che la metafisica potesse offrire una vera conoscenza. In questo periodo cerca di salvare la
metafisica, dandole un fondamento più sicuro e rigoroso simile a quello delle scienze naturali, alla fisica di
Newton. In qualche modo, alla fine anche le sue stesse critiche sono un tentativo non di distruggere, ma di
fondare di nuovo la metafisica. Giacché nell’ultimo delle sue opere pre-critici, ne “I sogni della metafisica” si
confessa innamorato della metafisica (“la metafisica di cui io ho il destino di essere innamorato…”).

Attraverso quella che definì una rivoluzione copernicana Kant aprirà una nuova era per la filosofia indirizzata
a ricercare la verità abbandonando la metafisica puntando lo sguardo sulle cose terrene così come per
conoscere la verità Copernico la ricercò non nel moto apparente dei cieli ma in quello reale della Terra.

Nel 1770 pubblica la dissertazione De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis, comunemente
detta Dissertazione, che lascia intravedere i primi originali sviluppi della nuova filosofia critica kantiana. La
Dissertazione segna pertanto una tappa fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero, e può essere vista
come una sorta di legame tra la vecchia filosofia e la nuova filosofia critica che Kant delineerà compiutamente,
ben dodici anni dopo, con la Critica della ragion pura nel 1781.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 106


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Critica della ragion pura (“Kritik der reinen Vernunft”, pubblicata nel 1781 e ampiamente modificata nella
seconda edizione del 1787)

Il tema principale trattato da Kant nella Critica della ragion pura è quello della conoscenza e della correlazione
sussistente tra metafisica e scienza. Gli interrogativi che si pone sono come siano possibili la matematica e la
fisica in quanto scienze e la metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza.

Il giudizio corrisponde per Kant all'unione di un predicato ed un soggetto tramite una copula. Egli distingue
quindi

i giudizi analitici a priori: sono tautologici perché affermano solamente ciò che è già noto e quindi non
danno alcuna informazione aggiuntiva. L'esempio kantiano «Il triangolo ha tre angoli». Questo è il tipo
di giudizio usato dai razionalisti.
i giudizi sintetici a posteriori: in questi giudizi il predicato contiene qualcosa di nuovo che non è
compreso nel concetto del soggetto. Il predicato, nel giudizio sintetico, è collegato al soggetto in forza
dell'esperienza: i giudizi sintetici sono dunque a posteriori, si possono pronunciare solo dopo aver fatto
esperienza e per questo essendo collegati non hanno universalità e necessità. Questo è il tipo di
giudizio usato dagli empiristi.
i giudizi sintetici a priori: amplia la conoscenza, perché aggiunge qualcosa di nuovo nel predicato, che
non è implicito nel soggetto (come nei giudizi analitici) e allo stesso tempo presenta i caratteri di
universalità e necessità, perché non deriva dall'esperienza (infatti è a priori). I giudizi sintetici a priori
sono i fondamenti su cui poggia la scienza poiché accrescono il sapere (in quanto sintetici), ma non
necessitano di essere riconfermati ogni volta dall'esperienza perché universali e necessari. Lo stato di
scienza che è contrassegnato dalla capacità di produrre giudizi sintetici a priori è lo stato che ha
raggiunto per prima la matematica, poi la fisica e che ora deve raggiungere ancora la metafisica.

Kant elabora una teoria della conoscenza che è una sintesi tra la gnoseologia empirista e quella razionalista:
Stabilisce un nuovo sistema conoscitivo per determinare da dove arrivino i giudizi sintetici a priori, se questi
non derivano dall'esperienza. Questa nuova teoria della conoscenza è una sintesi di

materia (empirica), molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che provengono
dall'esperienza.
forma (razionale ed innata), legge,indipendente dalla sensibilitá che ordina la materia sensibile.
 In questo modo la realtà non modella la nostra mente su di sé, ma è la mente che modella la realtà
attraverso le forme tramite cui la percepisce. La realtà come ci appare in base alle forme a priori è il
fenomeno, mentre la realtà così com'è è indipendente da noi ed è per noi inconoscibile. Quest'ultima
è detta noumeno.

Appartiene inoltre alla critica della ragion pura l’Estetica trascendentale nella quale Kant si occupa della
sensibilità e delle sue forme. La sensibilità svolge due ruoli nel processo conoscitivo. Il primo di questi è
recettivo (passivo) ed è il procedimento attraverso cui prende i propri contenuti dalla realtà esterna. In seguito
la sensibilità svolge il suo secondo ruolo (attivo) e cioè riordina le informazioni empiriche tramite le forme a
priori. Queste sono lo spazio e il tempo.

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 107


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Spazio e tempo, secondo Kant,

sono forme "pure" a priori dell'intuizione, che sussistono prima di ogni esperienza, entro le quali
connettiamo i dati fenomenici; sono quindi "funzioni", ovvero modi di funzionamento della nostra
mente;
sono trascendentali, in quanto pur acquistando senso e significato solo se riferiti all'esperienza,
tuttavia non appartengono a quest'ultima poiché esistono, come a priori, prima dell'esperienza;
sono inoltre necessari, dato che neppure se volessi potrei farne a meno nella conoscenza empirica;
sono infine universali, poiché appartengono a tutti gli uomini dotati di ragione.

C’è poi l’analitica trascendentale, nella quale Kant sviluppa la sua dottrina delle categorie.Kant procede
secondo questo ragionamento:

 l'unificazione del molteplice non è fatta dalla molteplicità (che è passiva), ma da un'attività sintetica
che ha sede nell'intelletto;
 distinguendo l'unificazione dall'unità, Kant identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza con
il centro mentale unificatore, denominato "Io penso", che è comune a tutte le persone ed è quindi
universale;
 l'io penso opera tramite i giudizi e cioè il modo in cui il molteplice dell'intuizione viene pensato;
 i giudizi si basano sulle categorie, cioè sui vari modi in cui l'io penso agisce.

Di conseguenza un oggetto non può essere pensato senza ricorrere alle categorie. Riassumendo: i pensieri
presuppongono l'io penso - l'io penso opera tramite le categorie - gli oggetti pensati presuppongono le
categorie.

L'io penso: è quindi il principio supremo della conoscenza umana, ma non deve essere inteso come
creatore della realtà, ma solo come colui che la ordina. Kant afferma «l'Io è il legislatore della natura».
Di conseguenza l'interiorità necessita dell'esteriorità per essere concepita.
Le categorie: sono leggi della mente in quanto lo spazio e il tempo senza oggetti sono un'astrazione
che esiste solo nell'io-penso che li colloca sulla "cosa-in-sé" per ordinare il mondo. La sensibilità è la
ricezione della "cosa-in-sé", la sua modellazione-ordinamento inconsapevole con lo spazio e il tempo
e la visione cosciente del risultato. Essa non è creata dall'io, ma è un'interpretazione che dipende e
varia con gli affezioni che vengono dalla "cosa-in-sé" che è indefinita, ma non indeterminata.
Il noumeno: ha come limite l'esperienza, in quanto, procedendo oltre questa, non vi sono prove della
sua fondatezza. Noi possiamo quindi solo conoscere la realtà fenomenica, cioè la realtà per-noi, ma
mai la realtà in-sé. Questo "in-sé", che per noi è precluso, può essere conosciuto solo da un'eventuale
intelligenza divina superiore, ma non può essere in rapporto conoscitivo con noi. Kant identifica l'"in-
sé" con il termine greco noumeno.

Nella Dialettica trascendentale Kant critica le idee di ‘anima’, ‘mondo’ e ‘Dio’. È in questa parte che si occupa
della metafisica come scienza e confuta le prove classiche dell’esistenza di Dio.

Critica della ragion pratica (“Kritik der praktischen Vernunft”, pubblicata nel 1788, preceduta dalla
"Fondazione della metafisica dei costumi",1785; e seguita dalla "Metafisica dei costumi", 1797)

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 108


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Nella Critica della ragion praticaKant considera la ragione in quanto è indirizzata alla pratica (all'azione, al
comportamento). Come già nella Critica della ragion pura Kant si proponeva di mostrare i "meccanismi" della
conoscenza e non di indicare che cosa l'uomo conosce, così fa per la morale: egli vuole far capire in che consiste
la morale, che cos'è la morale, non vuole indicare quali comportamenti morali debba compiere l'uomo: il suo
quindi è ancora una volta un discorso "formale", indica la forma non il contenuto della morale.

Concetti chiavi sono:

Il dovere: su cui la morale si deve basare come su qualcosa di assolutamente certo e saldo. Ogni uomo
infatti sente in modo sicuro e consapevole la morale come un dovere.
La libertà: La scelta morale è assolutamente libera ed è espressione, come dice Kant, di una volontà
pura nel senso che non vi rientra in nessun modo la materialità.
La razionalità: La morale dell'essere razionale è cioè tale che egli deve obbedire ad un comando
(obbligatorietà) che egli stesso si è liberamente dato (libertà), conformemente alla sua stessa natura
razionale.

Da questi concetti basilari segue la legge morale ossia l’imperativo categorico, cioè un comando a cui non si
può sfuggire e che si distingue dall' "imperativo ipotetico" che consiste nel pronunciare un comando in vista
del conseguimento di un fine. L’imperativo categorico invece esprime una volontà pura, che non è
condizionata da nulla e vale per tutti gli uomini in tutte le condizioni.

Ci sono tre formulazioni dell’imperativo categorico:

Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale
 Cioè quello che tu stai per fare deve poter essere condiviso da tutti (quindi per esempio suicidarsi è
un’azione immorale).
Agisci in modo da trattare l'uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo
come mezzo
 Cioè ricordati che il vero fine di ogni atto buono è l'uomo (anche se alle volte è anche un mezzo, non
deve mai essere solo un mezzo)
Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale
 Cioè la tua azione sia da esempio e diventi legge per tutti gli altri

Inoltre la critica della ragion pratica presenta tre postulati, cioè concetti che sono necessari per fondare la
morale, ma non sono ricavabili per mezzo della ragion pura e quindi devono essere postulati, non possono
essere mostrati, perché manca di loro ogni esperienza se non quella che li sente come esigenze del volere
morale: Alla base dei postulati della ragion pratica non vi è un " so " ma un " voglio ": " voglio che esista Dio,
voglio che la mia esistenza in questo mondo sia anche un'esistenza nel mondo intelligibile, voglio che la mia
durata sia senza fine. "

Il ragionamento prosegue così:

Il fine dell'azione morale quindi deve essere il " sommo bene"

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 109


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Il “sommo bene”, cioè la felicità è irraggiungibile su questa terra, ci possiamo solo mostrare degni di
essa con un agire moralmente perfetto
Per poter agire in questo modo occorre postulare la possibilità di un'agire senza alcun
condizionamento finito, come dire
 l'assoluta libertà
che la propria esistenza possa proseguire all'infinito e che si raggiunga il fine irraggiungibile su questa
terra, cioè
 l’immortalità
e infine che ci sia un Essere divino in grado di assicurare una giusta proporzione tra la virtù raggiunta
e la felicità da attribuire ossia
 Dio
 La religione quindi è per Kant un fatto esclusivamente morale: “La religione è la conoscenza di tutti i
nostri doveri come comandamenti divini”.

Critica del giudizio (“Kritik der Urteilskraft”: la traduzione più corretta sarebbe Critica della Facoltà del
Giudizio,pubblicata nel 1790)

In quest’opera Kant elaborò le sue teorie intorno all'estetica cercando di riconciliare tra di loro in qualche
modo le prime due critiche:

nella Critica della Ragion pura la natura si presentava determinata secondo necessità e l'uomo, quando
agisce nella natura, è necessitato dalle leggi causali.
nella Critica della Ragion pratica lo stesso uomo però era essenzialmente libero nella sua azione
morale.
 Come e dove si conciliano nell'uomo questi due aspetti contrapposti? Questo è il problema da risolvere
affidato alla Critica del giudizio.

Il giudizio riflettente:L'accordo tra il mondo della necessità naturale e quello della libertà Kant lo trova in quello
che egli chiama "giudizio riflettente". Il termine riflettente lo distingue dal giudizio "determinante" con cui gli
oggetti si conoscono tramite l'intelletto.
Nei giudizi determinanti della ragion pura conoscere significava collegare un predicato a un soggetto; nel
giudizio riflettente, invece, conoscere significa collegare l’oggetto con se stessi, con l'io, attribuendo ad esso
una finalità o uno scopo che portiamo dentro di noi. Ciò significa che l'autore di quel collegamento ora è
coinvolto nel giudizio stesso che egli dà. In questo caso la ragione non è più sottoposta alla necessità delle
leggi conoscitive di causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi, e vive perciò la
dimensione dell'assoluto che era preclusa invece alla pura ragione. La libertà, che nella ragion pratica era un
postulato verso cui tendeva l'agire etico dell'uomo, ora non è più solo un ideale da raggiungere ma una realtà.

I giudizi riflettenti si distinguono in estetici e teleologici. Estetici quando riconosciamo immediatamente la


bellezza di un oggetto. Teleologici quando la bellezza obbedisce a interessi esterni, propri dell'essere umano.

Il giudizio estetico: il bello non è una qualità oggettiva delle cose, ma è l'uomo ad attribuire tale
caratteristica agli oggetti. Il giudizio estetico è basato sul sentimento del bello con cui noi avvertiamo

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 110


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la bellezza, realizzando un accordo tra l'oggetto sensibile e l'esigenza di libertà. Il sentimento del bello
è:
o puro: non è collegato alla reale esistenza dell'oggetto rappresentato
o disinteressato: l'oggetto bello non deve rispondere né a fini utilitaristici né morali
o universale: il bello è ciò che piace universalmente, condiviso da tutti, senza che sia sottomesso
a qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come bello
o necessario: evidentemente non di necessità logica, non esistono regole esplicite per il giudizio
estetico.
Il giudizio teleologico: Il bello non ha un valore simbolico. L'esistenza della bellezza è un segno per cui
noi rappresentiamo nella realtà una finalità interiore di cui troviamo il senso nella nostra finalità
razionale, nella nostra vita morale. È con il giudizio teleologico che scopriamo nella natura, attraverso
il bello, un fine. Così il mondo della natura necessitato e quello della libertà non sono più antitetici, ma
esprimono una sola e medesima realtà. Nelle cose, nella storia, nella vita c'è un fine, che sfuggiva al
semplice intelletto.

Infine la finalità vale a dire una nozione di intelligibilità del mondo che Kant prima ha distrutto nella critica
della ragion pura, poi postulata nella critica della ragion pratica, la recupera nell’estetica. Certo questo
tentativo è lodevole e rivela il vero scopo delle critiche di Kant. Ma questo recupero si fonda sull’io, sulla
soggettività e pertanto non supera l’impostazione moderna e l’abisso insormontabile che ha aperto tra l’io e
la realtà.

TEMA 29 – GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL

Hegel nasce a Stuttgart nel 1770. Studia a Tübingen filosofia e teologia insieme a Hölderlin e Schelling. Si
mostra entusiasta della rivoluzione francese. Non pergesue la carriera ecclesiastica, ma diventa prima
precettore presso una famiglia nobile a Bern. Si trasferisce poi a Jena, dove, per interessamento di Goethe
viene nominato professore. In seguito si trasferisce ancora a Bamberg, Heidelberg, Nürnberg e finalmente a
Berlin, capitale della Prussia, dove rimane fino alla sua morte, dovuta alla colera, nel 1831. Le sue opera
principali sono:
“Frammenti sulla religione popolare del cristianesimo”
“La vita di Gesù”
“Lo spirito del cristianesimo e il suo destino”
„Die Phänomenologie des Geistes“ 1807
“Die Wissenschaft der Logik“ 1812/1817
“Enciclopedia delle scienze filosofiche“ 1817
“Lineamenti della filosofia del diritto“
Concetti chiave del pensiero hegeliano

Sono gli stessi temi che occupano Hegel come filosofo e come teologo. Vuole superare il dualismo moderno e
giungere ad una sintesi complessiva. Il pensiero hegeliano ricorda per certi versi Spinoza: “Deus sive substantia
sive natura”, “Ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum”.
il compito della filosofia è risolvere il problema della diversità. Non ci sono riusciti i filosofi anteriori.
Né Kant, perché contrappone intelletto e ragione (per Hegel la ragione è più potente che l’intelletto,

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 111


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perché quest’ultimo è sempre sospeso tra il particolare e l’universale), né Fichte, perché il suo sistema
è un finito senza fine nel quale il non-Io viene continuamente superato dall’Io, né Schelling, perché
con lui scompare la differenza.
finito e l’infinito: negli scritti giovanili scrive sul cristianesimo. Quello che lo preoccupa e la scissione
tra il carattere positivo della legge divina e il carattere spirituale-interno della legge della ragione (il
suo modello di religione è kantiano): la scissione tra questi poli è superata in Gesù: Dio diventa uomo
e in Gesù Cristo la legge mosaica diventa la legge dell’amore. (La visione hegeliana del cristianesimo
ne cambia completamente il contenuto, perché rende tutto necessario: L’incarnazione diventa un
momento necessario nello sviluppo dello spirito).
L’infinito non si trova al di là del finito, ma nel finito, lo supera e lo integra e dipendono l’uno dall’altro.
lo spirito: la vita dello spirito è un processo continuo e necessario di autorealizzazione e il fine è
l’arrivare all’autocoscienza. serve l’immagine dello sviluppo di una pianta: Ogni momento della sua
crescita è la negazione e il superamento del momento precedente, e stabilisce allo stesso tempo un
momento necessario dell’intero.
L’assoluto: l’infinito è impensabile senza il finito e viceversa. L’assoluto non è una realtà impenetrabile
al di là. È presente nel finito: sostanza e spirito sono lo stesso. Si supera così la differenza tra finito e
infinito.

Il farsi dinamico dell'Assoluto passa attraverso tre fasi fondamentali:


L’essere in sé > la tesi, lato astratto e intellettivo > spirito soggettivo, che può essere identificata con
il Dio prima della creazione dell'entità finita (il mondo).
L’essere fuori di sé > l’antitesi, lato dialettico e negativamente razionale > spirito oggettivo, cioè la
Natura;
L’essere in sé (sostanza) e per sé riflessione > la sintesi, lato speculativo e positivamente razionale >
spirito assoluto, cioè lo Spirito, ovvero l'idea che ritorna al suo stadio iniziale, gonfia di concretezza,
dopo il passaggio attraverso la Natura.

È importante sottolineare come il trinomio “ tesi – antitesi – sintesi “ sia utilizzato raramente da Hegel nelle
sue opere, egli parla di un momento intellettivo, di un secondo dialettico e di un terzo speculativo.

La Fenomenologia dello Spirito (“Die Phänomenologie des Geistes”, pubblicata nel 1807)

“Die Phänomenologie des Geistes ist die romantisierte Geschichte des Bewusstseins, das sich mit der Zeit als
Geist erkennt“.

Hegel voleva descrivere il suo sistema con una serie di opere, alla quale la Fenomenologia dello spirito sarebbe
servita, in corrispondenza del sistema stesso, come un'introduzione alla Logica: la coscienza umana, partendo
dallo stadio della conoscenza empirica, si evolve gradualmente al sapere scientifico. Il testo si trasformò però
alla fine in un'esposizione dell'intero sistema; da ciò risultano le confusioni che caratterizzano l'opera. Ha tre
parti che corrispondono ai tre momenti dello sviluppo dello spirito assoluto:Idea, Natura, Spirito

La logica, (dottrina dell'essere, dottrina dell'essenza e dottrina del concetto)


La filosofia della natura (meccanica, fisica e organica)

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 112


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La filosofia dello spirito (lo spirito soggettivo, oggettivo e assoluto).

La Fenomenologia dello spirito cerca di spiegare la storia del pensiero, attraverso un divenire, nel tempo e
nelle epoche, dell'esperienza della coscienza. L'opera descrive i tre momenti che nella storia hanno
caratterizzato la cultura umana e che si ripetono continuamente nella vita di ciascun individuo.

La prima posizione che lo Spirito ha assunto nella storia è quella dello stato ingenuo dell'armonia
originaria, rappresentata dai Greci, dove le forze del dio erano presenti nella natura stessa delle cose,
un aspetto del pensiero che contraddistingueva anche le religioni più primitive (animismo).
Il secondo momento è quello della scissione dal dio, introdotto dalla religioni abramitiche; Dio si
manifesta all'uomo, ma, attraverso il peccato originale, opera la scissione; l'uomo, come un angelo
caduto, sperimenta l'angoscia e il dolore nella Valle di lacrime che il Padre celeste ha posto per lui.
Il terzo momento è scandito dall'avvento della Ragione, lo Spirito si eleva ad una consapevolezza
compiuta, conscio della tristezza della scissione, vuole riconciliarsi con il mondo, diventa così
Autocoscienza. È il momento dell’incarnazione: la presenza attiva di uno Spirito nel mondo che si
riconcilia con il mondo stesso, è, dunque, lo Spirito infinito, non più rappresentato dalla sostanza che
è posta staticamente al di sotto delle cose. La realtà è Soggetto, attività, automovimento.

Non sono le cose che procedono dall'Assoluto, ma l'Assoluto è questo stesso procedere. Da ciò se ne deduce
che per Hegel la Realtà è infinita, è un Soggetto che tiene le fila della storia e che parla attraverso i suoi uomini,
quegli uomini che la storia l'hanno sempre fatta in prima persona, che come strumenti nelle mani di questo
ineluttabile essere supremo, ne operano il naturale svolgimento. Cosicché le vicende del mondo non sono
estranee alla storia dello Spirito perché la storia del mondo è la storia stessa di Dio, è la storia dell'avvento
dello Spirito, del realizzarsi della Ragione.

Sono quattro i momenti dello sviluppo fenomenologico:

la coscienza: Il momento da cui inizia la consapevolezza di sé (coscienza) è rappresentato dall'incontro


dell'individuo con l'oggetto. È attraverso il confronto sensibile con gli oggetti che ci rendiamo conto
della nostra esistenza. All’interno della coscienza avviene un passaggio per tre passi:
 certezza sensibile
 percezione (opposizione tra unità e molteplicità dell’oggetto)
 intelletto (cogliere l’unità dell’oggetto nella funzione dell’intelltto)
l'autocoscienza: L'autocoscienza si raggiunge infatti solo se si riesce a confrontarci nella nostra
particolare esistenza con quella degli altri. Il riconoscimento delle altre autocoscienze non avviene
attraverso l'amore, bensì attraverso la lotta. La dialettica del rapporto tra signoria e servitù si presenta
così:
 paura della morte
 servizio
 indipendenza (che si raggiunge con lo stoicismo o lo scetticismo)

un altro concetto importante trattato nell’autocoscienza è la “coscienza infelice religiosa” nella quale
si esprime l’impossibilità di fondo dell’indipendenza raggiunta nella lotta. La scissione tra la coscienza

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 113


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mutevole dell'individuo e quella immutabile di Dio diventa esplicita in quella spaccatura che l'uomo
avverte fra se stesso e Dio, e che l’uomo vorrebbe superare. Questo si manifesta in tre fenomeni:
 la devozione
 le buone opere
 la mortificazione
la ragione: Solo nel Rinascimento l'uomo riacquista la ragione che gli indica come sia inutile la ricerca
di un Dio trascendente mentre questo è vivo e presente nella natura stessa. Lo sviluppo della ragione
si articola in tre momenti:
 ragione osservativa: è la pretesa della scienza di conquistare l'Assoluto tramite
l'osservazione scientifica della realtà. Ma la descrizione che la scienza fa del mondo
non vuol dire impossessarsi del mondo. Ancora una volta la totalità sfugge al potere
dell'uomo.
 ragione attiva: alla descrizione del mondo si sostituisce l'azione sul mondo, la volontà
di usarlo e goderne. Ma tale intento fallisce, perché né il piacere, né la ricerca del bene
e vero universale, né la virtù superano il contrasto che si stabilisce ogni volta con la
realtà, non permettono di conquistare l’Assoluto.
 individualità in sé e per sé: cerca di raggiungere la propria realizzazione attraverso la
legge, ma rimane chiusa nella propria soggettività. La fase dello Spirito non è ancora
raggiunta.
lo spirito: è lo spirito a produrre le più alte realizzazioni umane, dalle istituzioni alla filosofia. Come
ogni altro momento della filosofia hegeliana, lo spirito si dialettizza in tre momenti:
 Spirito soggettivo: Lo Spirito emerge dalla Natura e passa nell'uomo cosciente e infine
nella sua attività di pensiero e azione. L'individuo in cui si è incarnato lo Spirito
soggettivo ha raggiunto la sua completezza e quindi riprende quel compito di una
ricerca del vero e del bene universali andata delusa nelle fasi precedenti. A questo
punto il soggetto individuale si rende conto di dover affrontare un compito infinito
con forze finite. Lo soccorrerà lo spirito oggettivo che incarnandosi in forme e
istituzioni superindividuali potenzierà le sue forze finite. Questo avverrà in un primo
grado nella Legge esteriore che indicherà il vero e il bene a tutti coloro che la
riconosceranno come tale.
 Spirito oggettivo: Se lo spirito soggettivo è lo spirito individuale, la sua antitesi non
può essere che lo spirito collettivo, vale a dire quello spirito che si oggettiva, si
manifesta nelle istituzioni sociali e politiche che regolano la vita dell'uomo attraverso
la legge universale che si esprime in tre modi:
 Nel Diritto
 Nella moralità
 Nell’eticità (quest’ultima si realizza nelle istituzioni di famiglia, società
civile,Stato)
 Spirito assoluto: Lo spirito assoluto rappresenta il momento in cui l'idea giunge alla
coscienza di sé stessa, della propria infinità e assolutezza, ovvero del fatto che tutto è

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Spirito, e che il finito è la stessa vita dell'Assoluto. L'individuo ha a questo punto la


possibilità di cogliere l'Assoluto e può farlo in tre diversi modi:
 Arte: l'intuizione dell'infinito nel finito (il bello)
 Religione: l'unità dell'infinito con il finito, l'unione dell'anima con il divino,
appresa per fede.
 Filosofia: l'unità dell'infinito con il finito, data tramite un processo di
mediazione razionale, una serie di passaggi, fino alla comprensione dell'
assoluto.
La Filosofia, infine, riesce ad esprimere il Pensiero in modo adeguato, essendo
puro concetto, così come il Pensiero stesso.

La logica hegeliana

“Das Logische hat der Form nach drei Seiten: α) die abstrakte oder verständige, β) die dialektische oder
negativ-vernünftige, γ) die spekulative oder positiv-vernünftige.“

Tra essere e pensiero, tra realtà e razionalità vi è assoluta compenetrazione e connessione. Il Pensiero è
pensiero dell'essere e l'Essere è essere del pensiero. Lo sviluppo della realtà è ragione in movimento:

Tutto ciò che è razionale è reale (il pensiero sarà certamente razionale e non immaginazione, fantasia,
quando troverà la sua corrispondenza con la realtà)
e tutto ciò che è reale è razionale (nel senso che è inconcepibile che nella realtà ci sia qualcosa di
refrattario al pensiero, qualcosa di estraneo ad esso)

Allora la logica, che studia i processi del pensiero, troverà la sua corrispondenza nella metafisica, che studia i
processi della realtà.

Hegel fa un uso innovativo della logica stessa e della sua analisi riguardante il porsi del pensiero – all’ interno
della storia della filosofia – nei confronti dell’ oggettività: abbandona la prospettiva strumentale della logica:
non è più il pensiero che fa uso della logica, ma è la logica che usa il pensiero al fine di “ portare a coscienza la
logicità che costituisce l’ essenze del pensiero stesso nella sua verità “.

La logica hegeliana diviene una logica speculativa, il pensiero che nella forma del pura verità pensa se stesso,
si tratta di un superamento dialettico della metafisica tradizionale e del criticismo kantiano: la logica non è una
disciplina astratta e formale, è la trattazione della forma assoluta della realtà, il pensiero puro ed oggettivo,
che penetra nelle cose.

La “logica dell’essere” nella Scienza della logica (Wissenschaft der Logik)

La logica speculativa, segue l’ impostazione triadica della dialettica, è impostata e costituita dall’ essere ( tesi
), dall’ essenza ( antitesi ) e dal concetto ( sintesi ). l’ essere corrisponde alla fase iniziale del processo dialettico
( l’ Anfang ), l’ essenza ponendosi tra la tesi e la sintesi diviene il nucleo stesso dell’ avanzamento ( il Fortang )
dall’ immediato primo all’ immediato secondo, il concetto è la fine del metodo ( Ende ).

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L’ essere in questa accezione corrisponde al nulla, la differenza tra i due termini risulta sul piano formale non
su quello sostanziale; Hegel dirà infatti: “ l’ essere che nella sua vuota ed immediata indeterminatezza coincide
con il nulla “.

Esserenulladivenire

Nulla: In quanto indeterminato, il concetto di essere si risolve nel concetto di nulla essere e nulla
sono identici. (Critica a Parmenide lui, opponendo rigidamente l’essere al nulla, non ha colto la loro
identità, Critica al buddismo esprime nichilismo, perché si è tenuto fermo al concetto di nulla)
Divenire: L’identità tra essere e nulla non cancella la loro opposizione: il nulla è negazione di essere e
viceversa. Il concetto che esprime l’identità e l’opposizione tra essere e nulla è il divenire.(Il primo
filosofo a aver capito questo è stato, secondo Hegel, Eraclito, che ha affermato l’unità degli opposti
nell’universale divenire)

Essere determinatofinitoinfinito

Essere determinato: Il divenire, in quanto toglimento e superamento dell’essere e del divenire, da


luogo a sua volta all’essere determinato, cioè, al qualcosa concetto con il quale esprimiamo una
realtà determinata.

Finito: Questa determinazione soltanto si può percepire tenendo conto di un altro che faccia percepire
la sua determinatezza. Ciascun essere determinato è, perciò, finito., nel senso che rimanda al suo altro.
Ma il processo stesso non finisce mai questo trapassare è infinito. L’infinito è l’insieme di tutti i finiti;
l’infinito è la totalità del finito, la totalità del processo e non un processo aperto [come diceva Fichte],
altrimenti non sarebbe veramente infinito, ma finito.

Il finito è puramente ideale, mentre solo l’infinito è reale: L’idealismo, che per Hegel è la vera filosofia, è
l’affermazione dell’idealità del finito [della sua non realtà] e del finito come unica e vera realtà. L’infinito non
è una realtà trascendente, ma soltanto la totalità del finito l’infinito è un Dio immanente.

Questo porta Hegel a negare il valore della prova cosmologica dell’esistenza di Dio solo la prova ontologica
può affermare tale esistenza, poiché afferma l’infinito come unica realtà.

I concetti di essere, nulla, divenire, essere determinato, finito e infinito appartengono alla categoria più
generale della qualità, che si oppone a quella della quantità e che si risolve in quella della misura.

La logica dell’essere è l’esposizione delle strutture dell’essere immediato non arriva ancora alla sua essenza.

TEMA 30 LA FENOMENOLOGIA

Il movimento fenomenologico

L’inizio: la pubblicazione delle Ricerche logiche (Logische Untersuchungen) di Edmund Husserl segna
l’inizio del movimento fenomenologico.Sollevarono grande interesse nel mondo accademico tedesco,

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perché offriva una via d’uscita dallo psicologismo imperante, ed un’alternativa all’idealismo
trascendentale di matrice kantiana.
L’obiettivo: rifondare le diverse branche del sapere su di una verità oggettiva e assoluta, costruire una
filosofia nella quale i « dati immediati e innegabili » sono il fondamento delle teoria, e non il contrario:
“zurück zu den Sachen selbst!“ Occorre abbandonare l’analisi del soggetto conoscente, per dirigere
invece lo sguardo agli oggetti.
I fenomenologi: gli allievi di Husserl a Göttingen: Adolf Reinach, Dietrich von Hildebrand, Edith Stein,
Alexander Koyré, Roman Ingarden. Gli allievi di Husserl a Freiburg: Martin Heidegger, Ludwig
Landgrebe ed Eugen Fink. Inoltre, egli influirà profondamente in pensatori quali Emmanuel Lévinas,
Maurice Merleau-Ponty e Jean Paul Sartre. Infine usano il metodo della fenomenologia filosofi di
svariatissimi interessi e orientamenti, quali Max Scheler, Nicolai Hartmann, Jean-Paul Sartre, Gabriel
Marcel, ecc. e l’influsso della fenomenologia si farà sentire in ambiti così diversi come la psichiatria e
la letteratura.

Concetti chiave:

verità: Una concezione della verità come relativa al soggetto non ha senso, perché è in contraddizione
con lo stesso concetto di verità che esige assolutezza. “Ciò che è vero è assolutamente vero, è vero in
sé”. La verità è unica e identica, sia che la colgano uomini o mostri, angeli o dei.
Come esempio servono per Husserl sempre le verità logiche che sono comuni a tutti gli uomini e tutte
le scienze anche se sono compatibili con una vasta varietà di campi e modi di sapere e i loro principi
propri: ogni ragionamento per essere valido dovrà procedere da premesse valide con una conclusione
corretta.
l’intenzionalità: gli oggetti conosciuti hanno stessa originarietà e auto-evidenza del soggetto
percipiente. La ricerca di una fondamento gnoseologico per il sapere filosofica deve quindi partire dalla
descrizione dei contenuti. Non esistono esperienze pure della soggettività. Ogni atto di coscienza ha
un contenuto, un qualcosa che appare, è intenzionale. L’oggetto è una Gegebenheit, qualcosa di
primordiale, che viene ancora prima di ogni teoria e deve essere preso così come e, leibhaft. I
contenuti dell’intenzionalità sono indipendenti dall’attività psichica del soggetto. Sono dati alla
coscienza, non sono parti di essa.
Husserl intende liberare la filosofia da tutte quelle tendenze, empirismo, positivismo, soggettivismo,
psicologismo, che pongono, più o meno consapevolmente, le basi della conoscenza nella relazione di
un io con la realtà esterna e trascendente della natura. Il punto di vista intenzionale considera come
un'assurdità il presupposto teorico che l'io e il mondo oggettivo debbano entrare in relazione nell'atto
conoscitivo, sussistendo già come io e come realtà oggettiva prima di entrare in questa relazione.

Edmund Husserl: riduzione eidetica e riduzione trascendentale

Husserl nacque 1859 a Proßnitz (Impero austro-ungarico), in una famiglia ebrea. Studiò matematica, fisica,
astronomia e filosofia a Leipzig, Berlin e Wien. Iniziò a seguire le lezioni di Franz Brentano, che fece una tale
impressione su di lui, che da allora in poi decise di dedicare la sua vita alla filosofia. Nel 1887 Nello stesso anno
si fece battezzare insieme alla sua fidanzata e si sposarono nella chiesa evangelica luterana protestante. 1891
pubblicò la Filosofia dell’aritmetica che fu criticata duramente da Gottlob Frege. Husserl accettò la critica e

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cambiò la sua impostazione. Nelle Ricerche logiche che pubblicò nel 1900 giunge alla conclusione che le leggi
logiche non dipendono dagli eventi psichici,cioè il valore delle leggi logiche -a suo giudizio- dev'essere
"ontologico" non formale o convenzionale. Insegnò a Göttingen e Freiburg, dove muore nel 1938.

La riduzione eidetica:

La riduzione psicologica: La riduzione eidetica si presenta come alternativa alla riduzione psicologica
che riduce la conoscenza a leggi psichiche. Le leggi che regolano la vita della psiche sono però sempre
leggi induttive, cioè hanno la loro radice nei dati empirici e pertanto sono soggette alla contingenza.
La conoscenza dipende realmente dalle leggi logiche che sono delle verità evidente in se stesse,
principi che non devono essere dimostrati sia razionalmente che empiricamente. Non basta neanche
il rigetto del psicologismo che fanno i neokantiani, perché loro negano la possibilità di conoscere un
mondo oggettivo, indipendente dalla psiche del soggetto conoscente, una possibilità che per Husserl
è fondamentale per poter superare il psicologismo.
L’intuizione eidetica: Intuizione in questo senso non è un modo istantaneo di conoscere quasi come
per un illuminazione improvvisa, ma è il frutto di un lavoro rigorosi di analisi fenomenologica.
Questo lavoro comincia con la determinazione dell’universale empirico attraverso la constatazione
delle caratteristiche tipiche e comuni a un’insieme di oggetti.
In un passo seguente devono essere individuati i tratti non solo tipici, ma veramente essenziali e
invariabili. A questo scopo Husserl applica la variazione immaginaria, nella quale si rimuovono
nell’immaginazione tutti i tratti che possono essere eliminati senza che la cosa stessa, cioè la sua
essenza, si disintegra. Quei tratti che non possono essere rimossi senza distruggere l’essenza sono
componenti necessari e invariabili dell’oggetto.
In questo modo si arriva ad una conoscenza più profonda di quanto permette la sola astrazione
empirica. Attraverso l’intuizione eidetica è possibile raggiungere conoscenze vere, necessarie e
universali. Questa scienza delle essenze è chiamata da Husserl fenomenologia, perché ha come finalità
far parlare i soli fenomeni ciò che è dato in modo evidente, senza nessun pregiudizio teorico.
La riduzione: la concentrazione esclusiva sull’essenza senza tener conto dell’esistenza. La cosa in sé
non viene indagata in quanto esistente, ma in quanto sperimentata. Husserl non parte dall’esistenza
trascendente degli enti, ma dalle esperienze vissute in cui essi si manifestano. Non fa altro che
sospendere (einklammern) la risposta alla domanda sull’esistenza trascendente delle cose. Husserl
chiama l’epoche questa sospensione del giudizio sull’esistenza. Non nega l’esistenza, ma cambia
prospettiva per poter concentrarsi sul tema dell’essenza.

La riduzione trascendentale è un passo in avanti della riduzione eidetica:

La riduzione eidetica permette conoscere il come della cosa. Ma questo non basta: Si deve conoscere la via
che porta alla sua origine, o per lo meno alla sua probabile origine. La fenomenologia di Husserl si trova al
bivio: dovrà optare per una fondazione metafisico-trascendente (realistica), oppure per una fondazione
metafisico immanente (trascendentale). In altre parole, Husserl dovrà scegliere tra far poggiare la conoscenza
del mondo che ci appare sull’‘essere in sé’ delle cose o ancorarlo invece all’essere della coscienza, cioè
all’‘essere per me’.

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Husserl trova che l’essere della coscienza è l’unica cosa che è evidente in modo apodittico, giacché
nell’autocoscienza coincidono soggetto e oggetto, e quindi, l’atto di coscienza implica l’essere di cui si è
conscio.

L’essere della coscienza è l’unico veramente intuito in se stesso, e non soltanto in uno dei suoi aspetti. E così
Husserl formula ciò che egli chiamò il « principio di tutti i principi”, col quale vuol rendere sistematica la
sospensione dell’essere trascendente degli oggetti esperiti nella coscienza: “tutto ciò che si dà originalmente
nell’intuizione (sozusagen leibhaft) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà”.

L’unico che ci è dato in modo assoluto, e che è quindi indubitabile, è appunto il fenomeno puro dato nella
coscienza. La riduzione fenomenologica mostra che ogni datità (Gegebenheit) è soltanto un correlato di un
atto intenzionale e, in ultima analisi, che l’intero mondo altro non è se non un correlato della coscienza.

L'io puro è quindi il piano della scienza e del saper certo in cui ogni verità trova il suo terreno ultimo.

La svolta idealistica

La cosiddetta svolta idealistica di Husserl è appunto il passaggio dalla riduzione eidetica che poteva ancora
essere interpretata come visione filosofica realista, alla riduzione trascendentale che sembra rivelare una
posizione filosofica vicina all’idealismo.

Nel pensiero di Husserl si lasciano distinguere più fasi. La grande svolta però ne definisce i più fasi più
fondamentali.

La prima fase:

Coincide con il tempo di insegnamento a Göttingen e con le “Logische Untersuchungen”. È preceduta da un


primo cambiamento di atteggiamento rispetto alle posizioni sostenute nella “Filosofia dell’Aritmetica” che
sembravano psicologistiche e furono aspramente criticate da Frege per cui, come confessa nell’introduzione
alle “Logische Untersuchungen”, Husserl si vedeva costretto ad un inversione netta.

La "fenomenologia" si presenta qui come scienza dei fenomeni, come studio di ciò che appare, in cui la
coscienza deve restare fedele all'apparenza stessa, ossia deve accettare tutto ciò che si manifesta per ciò che
è, senza voler presupporre categorie di alcun tipo.

Quest'opera, che suscitò entusiasmo fra molti giovani discepoli del filosofo nella sede di Gottinga, in cui egli fu
chiamato ad insegnare, poteva essere suscettibile di un'interpretazione di tipo realistico e addirittura
platonizzante (come in effetti avvenne in molti primi discepoli, anche a causa dell'influsso dell'impostazione di
Lipps e di Scheler, che svilupparono la fenomenologia a Monaco).

Il passaggio:

La fenomenologia come la presentano le “Logische Untersuchungen” poteva lo stesso essere rivolta in una
direzione più idealistica. L'oscillare tra aspetto soggettivo (imprescindibilità della rappresentazione, ossia
dell'intervento dell'io nella conoscenza) e oggettivo (necessità di accettare il fenomeno per ciò che è)
condussero infatti Husserl a cercare un piano ultimo di fondazione del processo gnoseologico.

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La seconda fase:

La svolta, cioè l’inizio di questa seconda fase si mostra chiaramente nell'opera Idee per una fenomenologia
pura e una filosofia fenomenologica, il cui primo volume apparve nel 1913, tra anni prima del trasferimento di
Husserl a Freiburg. In essa, alla riduzione eidetica delle Ricerche logiche, Husserl aggiunge la cosiddetta
riduzione trascendentale.

Questa svolta produsse una grave frattura nella scuola fenomenologica, perché pressoché tutti i discepoli del
fondatore della fenomenologia non condivisero il nuovo indirizzo, ad eccezione di Edith Stein, che seguì il
maestro e ne divenne assistente nel 1917. Secondo la critica di alcuni seguaci, Husserl giunge allora a
modificare la propria teoria del soggetto, ipotizzando un io puro distinto dalla vita intenzionale, un ego in cui
ogni fenomeno troverebbe la propria ultima costituzione.

Husserl distingue tra la manifestazione della cosa e la cosa stessa che si manifesta. Le manifestazioni non si
manifestano, sono invece vissute dal soggetto come qualcosa che appartiene al nesso della sua coscienza.
Husserl chiama questo atto della coscienza la noesi. La cosa che si manifesta come appartenente al mondo
fenomenico invece chiama noema.

C’è però – nonostante tutte le somiglianze - una grande differenza al cogito cartesiano, al trascendentalismo
kantiano o allo stesso idealismo: la riduzione fenomenologica trascendentale si fonda sulla noesi dell’io non
come “res cogitans” o noumenico, ma come io reale, vivo e integro: “Quest'io che mi rimane necessariamente
in virtù di tale epoché e la vita dell'io [sein Ich-leben] non costituiscono un pezzo del mondo, sicché dire "io
sono, ego cogito" voglia dire: io, quest'uomo qui, sono. Nè, di più, io sono colui il quale si ritrova nell'esperienza
naturale di sé come uomo; io non sono l'uomo che si trova nella limitazione astrattiva al puro stato interiore
dell'esperienza di sé puramente psicologica e che scopre la sua propria e pura mens sive animus sive
intellectus, non sono nemmeno un'anima che coglie se stessa separatamente.”

Così si aggiunge infine un’altra tappa in cui Husserl si concentra sul mondo della vita (Lebenswelt). A partire
da un’analisi della situazione del sapere scientifico alla luce della fenomenologia trascendentale, constata uno
sviluppo unilaterale e riduttivo delle scienze europee. Era stato concesso un peso sproporzionato alla
matematica e si è creata una visione distorta della realtà , che riduce il vero a ciò che le scienze positivo-
sperimentali insegnano. Husserl si rende conto che la scienza non può risolvere il problema più importante per
l’uomo: la domanda sul senso. Per Husserl, la crisi delle scienze si radica nell’oblio di questo fondamento di
senso, perché se l’ideale dell’oggettività scientifica perde il suo collegamento naturale con il mondo della vita,
si produce una frattura tra il mondo oggettivo e l’orizzonte dell’esperienza comune e della soggettività. Di
conseguenza, questo estraneamento fa sì che le scienze perdano qualunque significato per la vita
(Lebensbedeutsamkeit).

Francisco Samuel Bonilla A. Pagina 120

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