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Canto 18

Il canto diciottesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella prima e


nella seconda bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti rispettivamente
i ruffiani e seduttori e gli adulatori; siamo nel mattino del 9
aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26
marzo 1300.
Con questo canto inizia la seconda metà della cantica infernale.
Curiosamente l'Inferno è distinto in due metà di 17 canti, in ciascuna delle
quali compaiono 13 categorie di dannati: due numeri particolarmente sinistri
e legati a superstizioni; in questa seconda parte sono trattati i fraudolenti
(che si suddividono in ingannatori e in traditori) cioè coloro che usarono
l'intelligenza e la ragione per fini malvagi.

Incipit
« Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di Malebolge
e tratta de’ ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in
questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone
greco e Alessio de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state
loro pene. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

Descrizione di Malebolge - versi 1-21


Luogo è in Inferno detto Malebolge.
Il canto inizia con una descrizione delle Malebolge, neologismo dantesco che
originariamente doveva suonare come sacche del male. Bolgia infatti era
sinonimo di borsa e solo dopo i passi della Divina Commedia iniziò a
significare, per traslazione dal carattere di questi dieci fossati dell'VIII
cerchio, luogo stipato di gente turbolenta e chiassosa.
Dante inizia a parlare di questo luogo con una precisa ricognizione
descrittiva e topografica: le "Malebolge" sono di pietra "color ferrigno"
cioè grigio scuro, come la rocca che egli ha appena disceso in groppa
a Gerione; hanno forma circolare con al centro un pozzo "assai largo e
profondo", del quale Dante ci parlerà "suo loco" cioè a tempo debito; questi
fossati assomigliano in tutto e per tutto a quelli dei castelli, anche per i
ponticelli che li attraversano e che "tagliano" le rocce di divisione tra fossa
e fossa.
Dante e Virgilio iniziano quindi il loro viaggio nel luogo sopra descritto
girando, come quasi sempre nell'Inferno, verso sinistra.

Ruffiani e seduttori - vv. 22-39


Guardando verso destra Dante può già vedere i primi dannati dell'VIII
cerchio:
« A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era
repleta. »
(vv. 22-24)
I dannati sono nudi (condizione che Dante ripete solo quando vuole
sottolinearne la miseria) e stanno sul fondo della "bolgia". Essi si muovono
in due file, una che scorre verso Dante lungo il perimetro esterno e una che
gira radente alla parete interna nella sua stessa direzione e a passo più
sostenuto, ricordando al poeta i pellegrini che nel Natale del 1299 per
il Giubileo del 1300 (lo stesso anno del viaggio ultraterreno immaginario)
viaggiavano su due file sul Ponte Sant'Angelo per raggiungere o andarsene
dalla Basilica di San Pietro, da un lato andando verso Castel Sant'Angelo,
dall'altro verso "il monte", ovvero verso la città (non è chiaro quale monte
o colle Dante volesse qui intendere; probabilmente si tratta di quel
monticello formato da antiche rovine chiamato poi Monte Giordano, sul
quale oggi c'è Palazzo Taverna e dove la toponomastica riporta ancora i nomi
di Via di Monte Giordano e Vicolo del Montonaccio). Questo passo da taluni
è indicato come una prova della partecipazione dell'Alighieri al Giubileo, ma
ciò non è unanimemente accettato per scarsità di notizie.
Sui massi attorno al fossato Dante vede dei diavoli cornuti che con lunghe
fruste colpiscono i dannati sulla schiena e sulle natiche, con una pena che è
più umiliante che dolorosa e che richiama le pene ingiurianti che nel
medioevo si infliggevano ad alcuni rei. Forse Dante la riprese dalla
tradizione di un qualche statuto comunale a lui conosciuto. Anche la visione
dei diavoli, così statici e non minacciosi è tipicamente medievale e ricorda
le figure che si potevano vedere negli affreschi delle basiliche. Dante
sottolinea che le frustate facevano scappare a gambe levate i dannati
("facevano lor levar le berze") e che nessuno stesse fermo a aspettare la
seconda o la terza frustata.

Venedico Caccianemico - vv. 40-66


In questa masnada Dante crede di riconoscere un dannato tra quelli che
hanno il volto girato verso dove sta lui ora, sul ciglio del fossato nell'atto di
iniziare a attraversare il ponticello. Il poeta si ferma e altrettanto fa
Virgilio, poi Dante arretra un poco per scorgere meglio di chi si tratti. Il
dannato allora si accorge di essere al centro dell'attenzione e si nasconde
il volto abbassando il viso vergognosamente. Il tema della vergogna di
trovarsi in tale luogo è uno dei sentimenti salienti delle Malebolge.
Dante però non demorde, anzi chiama il dannato indicandolo chiaramente
per nome e per cognome, Venedico Caccianemico e gli chiede cosa ci faccia
in questo luogo di tormento ("a sì pungenti salse", forse echeggiando le
"salse" bolognesi che erano fosse comuni per criminali non degni di sepoltura
in terra consacrata). Questo Venedico è un personaggio molto importante,
tra i più importanti cittadini di Bologna ai tempi di Dante (morirà solo
nel 1303, Dante, in realtà scrive il poema nel 1305-6, e quindi sapeva della
morte) e la sua invettiva fu molto coraggiosa verso un personaggio tanto in
vista.
Il dannato risponde "mal volentieri", ma non può negarsi al sentire la voce
di chi l'ha riconosciuto. Rivela che lui fece prostituire la sorella
Ghisolabella alle voglie del marchese (Obizzo II d'Este o, meno
probabilmente, suo figlio Azzo VIII d'Este). Apprendiamo così che in
questo fosso sono puniti i ruffiani. Inoltre Venedico dice che lì non è l'unico
bolognese, anzi ve ne sono di più in quel luogo dell'Inferno che in vita tra
il Savena e il Reno, i due fiumi che circondano Bologna. Per indicare i suoi
concittadini egli usa una parafrasi linguistica, indicandoli come coloro che
dicono "sipa" ("scipa") invece di "sia". Infine egli rincara la dose dicendo che
se non ci si credesse, basti pensare all'avarizia del loro cuore. La gravità
delle accuse a Bologna è particolarmente forte se si pensa che Dante
mentre scriveva l'Inferno si trovava in esilio e che fu anche invitato nella
città emiliana per ricevere l'incoronazione d'alloro di sommo poeta, ma egli
declinò forse per il fatto di sentire quanto la sua presenza potesse essere
sgradita.
La scena è chiusa da un demonio, che rincara ulteriormente la dose di accuse
contro Venedico, frustandolo e urlandogli contro: "Via, / ruffian! qui non son
femmine da conio", cioè non ci sono donne da traviare, da far prostituire.

Giasone - vv. 67-99


Dante allora prosegue e sale sul ponticello con Virgilio; quando sono al centro
(dove la pietra "vaneggia di sotto" cioè dove passa sopra al vuoto) Virgilio
dice di girarsi anche a vedere la seconda schiera di dannati che gira
nell'altro senso. In quella fila di dannati il maestro indica un grande (di
statura o di animo?) che viene incontro e che mantiene un aspetto da re
senza piangere nonostante il bruciante dolore. Si tratta di Giasone, il
protagonista del recupero del Vello d'oro (preso ai Colchi, come dice
Virgilio) nella spedizione degli Argonauti. Il poeta latino descrive,
segnalando alcuni passi di quanto narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, di
come Giasone passò da Lemno dove le donne avevano ucciso tutti gli uomini;
qui ingannò Ipsipile seducendola (lei che aveva già ingannato le altre donne
facendo salvare suo padre, unico uomo superstite sull'isola) e la abbandonò
gravida; per tale colpa è condannato a questo martirio che fa inoltre
vendetta di Medea, anch'ella sedotta e abbandonata da Giasone: "Lasciolla
quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martirio lui condanna; e anche di Medea
si fa vendetta." (vv. 94-96). In questa seconda parte della bolgia sono quindi
puniti i seduttori, e Virgilio chiude bruscamente dicendo che questo basti
per trattare coloro che sono "azzannati" (come una gigantesca bocca) nella
prima bolgia.

Adulatori: Alessio Interminelli - vv. 100-126


In questo canto la narrazione procede spedita e già i due poeti entrano nella
bolgia successiva. Qui innanzitutto Dante inizia a cambiare registro del
linguaggio, abbassandolo al livello del dialetto popolare più basso, con rime
create da doppie consonanti racchiuse da vocali, come -uffa, -icchia, -osso,
-utti, -ucca, suoni duri, allitterazioni e scelte di vocaboli bisillabici e spesso
"volgari" nel senso più dispregiativo (merdose, puttaneggiare). La poesia in
questo canto, a volte criticata e minimizzata nell'Ottocento, raggiunge
vertici di vitalità e plasticità che oggi godono di notevole credito nella
critica. Dante dopotutto, "battezzando" il volgare italiano nella prima
grande opera scritta in questa lingua, voleva esplorare, e ci riuscì con
successo duraturo, tutte le possibilità delle sue applicazioni, dal più basso
linguaggio scurrile alla descrizione dei più alti temi angelici e teologici
del Paradiso: si sono già incontrati passi dove egli modificava la scelta dei
vocaboli, la sintassi e lo stile a seconda del personaggio con il quale
dialogava, come negli episodi di Pier della Vigna e Brunetto Latini. Inoltre in
questo canto Dante esplora il linguaggio e lo stile comico (per così dire), con
situazioni che sembrano trasposizioni immediate della lingua parlata nello
scritto.
Dante quindi inizia a descrivere i dannati che si nicchia, si rannicchiano, e
che scuffano col muso, cioè sbuffano, e si picchiano con le loro stesse mani.
Le pareti del fosso sono coperte da muffa per i vaporacci che vi si
"appastano" dal fondo, dove è così buio che Dante deve salire proprio sopra,
sul ponticello, per vedere qualcosa. Solo allora riconosce la gente tuffata
nello sterco, che pareva provenire da tutte le latrine del mondo (privadi,
francesismo per indicare le latrine). Dante scruta e vede uno che ha il
capo "sì di merda lordo" che non si capiva nemmeno come avesse i capelli, se
normali da laico o con la chierica se religioso. E il dannato gli si rivolge
insolentemente: "Perché se' tu sì gordo / di riguardar più me che li altri
brutti?" (vv. 118-119), al quale Dante risponde che lo fissa "Perché, se ben
ricordo / già t' ho veduto coi capelli asciutti, / e se' Alessio
Interminei da Lucca" (vv. 120-122). Anche qui un dannato di nuovo descritto
con tono infamante e con la menzione completa del nome, per non lasciare
dubbi. Il dannato dice solo che si trova lì per via di tutte le lusinghe che
disse, delle quali la sua bocca non si "stuccò" mai, cioè non fu mai stanca.
Apprendiamo così di essere nella bolgia dedicata agli adulatori. Viene così a
delinearsi anche il contrappasso, sebbene anche in questo caso la pena abbia
più un senso di infamia che di punizione dolorosa. Basti pensare come oggi
si indichino volgarmente gli adulatori come "leccaculo" per capire una
possibile connessione con gli escrementi.
Curiosamente la gerarchia di peccati sempre più gravi via via che Dante si
avvicina al centro dell'Inferno è qui ben lontana dai nostri canoni moderni:
un adulatore sarebbe più reo di un omicida o di un tiranno secondo la logica
dantesca per esempio. Nelle Malebolge in particolare questa regola della
gravità dei peccati sarà contraddetta da Dante stesso (per esempio
metterà gli odiati simoniaci ben prima di altri peccatori ordinari come i
barattieri o i falsari, per questo da alcuni commentatori è stato opinato il
fatto che questa regola non sia seguita perché le Malebolge si troverebbero
sostanzialmente in pianura o quasi, quindi tutti i dannati puniti sarebbero
da considerarsi a pari livello).

Taide - vv. 127-136


Infine, in questa rapida carrellata di dannati di questo canto, Virgilio
richiama l'attenzione di Dante su una dannata "sozza e scapigliata", che "si
graffia con l'unghie merdose" e si alza e siede continuamente senza trovare
pace. Essa è Taide, la "puttana" che al suo amante (drudo) quando egli le
chiese se avesse grazie presso (apo, latinismo da apud) di lei, essa gli
rispose "Maravigliose", eccedendo in lusinghe.
Sul personaggio vanno fatte alcune considerazioni. La prima è che è la prima
peccatrice donna che si incontra nell'Inferno dai tempi di Francesca da
Rimini, trovata nel II cerchio dei lussuriosi, dove pure comparivano alcune
figure femminili. Essa è l'unica prostituta nominata all'Inferno ed è
significativo come essa non sia punita per la lussuria ma per l'adulazione. In
secondo luogo Dante mette in bocca alla donna parole non sue. Essa è infatti
un personaggio letterario della commedia dell'Eunuchus di Terenzio, la
quale manda il suo servitore Gnatone presso il suo amante Trasone; e
Trasone chiede al mezzano, non a Taide, se egli fosse gradito alla donna
ricevendo come risposta "Ingentes", cioè "Moltissimo", quindi semmai
l'adulatore sarebbe stato Gnatone. L'equivoco nasce dal fatto che Dante
lesse della vicenda schematizzata da Cicerone in un passo del De amicitia,
confondendo un nominativo con un vocativo e quindi attribuendo la frase a
Taide stessa. Cicerone stesso usò il passo per indicare un chiaro esempio di
adulazione (secondo lui sarebbe bastato un semplice sì di risposta invece
dello spropositato moltissimo) e Dante riprende pari pari la citazione.
Nonostante tutto, questo errore ci ha permesso di mettere in luce alcuni
elementi sulla biblioteca di Dante.
Il canto si chiude con Virgilio che sprezzante dice "E quinci sian le nostre
viste sazie", una variante del motto Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

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