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INTRODUZIONE
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Lettera ad Asella 45,2: PL 22,481.
3
Commento all'Ecclesiaste 3,13: CCL 72,278.
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E all'alba del nuovo millennio, papa
Benedetto XVI ha persino incoraggiato i giovani di
tutto il mondo ad appropriarsi dell'itinerario della
lectio divina, invitandoli all'appuntamento della
Giornata mondiale della gioventù del 2006,
esprimendosi cosi: « Cari giovani, vi esorto ad
acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a
portata di mano, perché sia per voi come una
bussola che indica la strada da seguire. Leggendola,
imparerete a conoscere Cristo. Osserva in proposito
san Girolamo: "L'ignoranza delle Scritture è
ignoranza di Cristo"4. Una via ben collaudata per
approfondire e gustare la parola di Dio è la lectio
divina, che costituisce un vero e proprio itinerario
spirituale a tappe. Dalla lectio, che consiste nel
leggere e rileggere un passaggio della Sacra
Scrittura cogliendone gli elementi principali, si
passa alla meditatio, che è come una sosta interiore,
in cui l'anima si volge a Dio cercando di capire
quello che la sua parola dice oggi per la vita con-
creta. Segue poi l'oratio, che ci fa intrattenere con
Dio nel colloquio diretto, e si giunge infine alla
contemplatio, che ci aiuta a mantenere il cuore
attento alla presenza di Cristo, la cui parola è
"lampada che brilla in luogo oscuro, finché non
spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei
vostri cuori" (2Pt 1,19). La lettura, lo studio e la
meditazione della Parola devono poi sfociare in una
vita di coerente adesione a Cristo e ai suoi
4
1'I, 24,17; cfr. Dei Verbum 25.
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insegnamenti» (Messaggio per la 21a giornata
mondiale della gioventù).
Ecco perché è importante leggere, meditare,
pregare e tradurre in pratica la Scrittura, magari
fissando con essa appuntamenti stabili e frequenti
nella scansione dei ritmi quotidiani. Dopo
l'invocazione dello Spirito Santo, la lectio è la
prima tappa di questo esercizio. I credenti leggono
la Parola rivelata per familiarizzare con essa,
perché la Bibbia diventi la loro parola, capace di
esprimere la loro vita e la loro storia. Dunque, la
lettura non è un atto superficiale, ma richiede
attenzione e ascolto, appunto perché lo scopo non è
quello di cogliere informazioni e novità, ma prima
di tutto quello di ascoltare e accogliere, ricevendo
la Parola con piena disponibilità. E poi, la lettura
della Parola si fa con la consapevolezza di ascoltare
qualcuno. In effetti, i credenti sono convinti che la
persona viva che parla è Dio stesso. Gregorio
Magno diceva, a questo riguardo, che nella lettura
della Bibbia «lo stesso Spirito che ha toccato
l'anima del profeta, tocca l'anima del lettore »5.
Similmente, Ambrogio ha scritto che « quando
preghiamo, parliamo con lui; ascoltiamo lui quando
leggiamo gli oracoli divini »6, trovando eco in
quest'espressione di Agostino: « La tua preghiera è
un parlare a Dio. Quando leggi la Sacra Scrittura,
Dio parla a te; quando preghi, tu parli a Dio »7.
5
Omelia su Ezechiele 7,1,7,8: PL 76,844.
6
I doveri dei ministri 1,20,88: PL 16,50.
7
Commento ai Salmi 85,7,50: PL 37,1086.
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Dunque, leggere nella lectio divina significa andare
e riandare più volte sul testo, nella dinamica del
dialogo. Quando si è da soli, è importante
rileggerlo anche a voce alta, sottolineando la
parola, la frase, l'idea che più colpisce. Così si
mettono in rilievo le parti più importanti del brano:
il contesto, i personaggi, l'ambiente, i sentimenti, le
immagini, i simboli, il dinamismo delle azioni, i
verbi, i passi paralleli e quelli simili. Insomma, si
tratta di leggere la Bibbia con la Bibbia,
permettendo alle parole umane di veicolare la
Parola divina.
Dopo aver letto il testo, si va alla ricerca del
suo senso letterale-storico, cercando di essere
rispettosi di quello che l'autore sacro intendeva
comunicare. Naturalmente, anche il fine di questa
ricerca non è soltanto un arricchimento delle
conoscenze. Scopo di questa comprensione
primaria è l'interiorizzazione della Parola e il
dialogo di meditazione. In questa tappa può essere
di aiuto una persona-guida o semplicemente
qualche commento biblico, come i suggerimenti
che offriamo nelle pagine che seguono. Il traguardo
non cambia: si intende penetrare il senso del testo e
iniziare il dialogo con Dio attraverso la lettura
attenta della Parola, unita all'esperienza della vita.
Papa Paolo VI esprimeva questa idea dicendo che
dobbiamo approfondire tanto il testo «di allora »
quanto la nostra esperienza « di oggi », stabilendo
un rapporto stretto tra gli interessi attuali e
l'argomento del testo sacro. Questa lettura della
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Parola, allora, aiuta ad avere uno sguardo sicuro per
leggere la vita alla luce del progetto di Dio. A
commento di ciò, c'è una bella espressione di
sant'Ambrogio, che dice che « quan do l'uomo
inizia a leggere le divine Scritture, Di torna a
passeggiare con lui nel paradiso terrestre »8.
Dopo la tappa della meditatio, se si tratta di
un esercizio di gruppo, segue il confronto di
condivisione, vale a dire la collatio. Poi, il dialogo
si fa preghiera, fermandosi a riflettere, a
«ruminare» e a ridire a Dio la Parola appena
espressa, in un movimento continuo di ricezione e
di dono, nelle tante forme che qualificano la oratio
christiana.
Infine, ciò che si è letto, meditato, pregato e
contemplato mette in cammino il credente, quasi
costringendolo alla marcia sulla strada della storia,
dove si realizza il tempo della profezia: la Parola si
fa coraggioso annuncio, concretizzandosi nella sto-
ria personale, fino a toccare e trasformare tutte le
dimensioni dell'esistenza, in campo sociale, politi-
co, culturale e professionale.
Questo sussidio intende offrirsi proprio a
tutti coloro che la buona volontà spinge sulle strade
della vita, con il desiderio di vivere di Cristo per
costruire la civiltà dell'incontro e del dialogo, del
rispetto e del mutuo interscambio. Oggi, infatti, sia-
mo tutti consapevoli di vivere in un mondo sempre
più globalizzato, ma anche diviso dalla diversità
culturale, sociale, economica, politica e religiosa.
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Lettera 49,3: PL 16,1204.
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Tutto questo presenta alla coscienza cristiana nuove
sfide, la principale delle quali sembra essere
l'educazione alla pace nel rispetto della diversità,
insomma la formazione alla interculturalità. Questa
appare sempre più come la chiave per riuscire ad
armonizzare l'unità dell'umanità nella diversità dei
popoli che la compongono. Ciò implica una
pedagogia per l'accoglienza delle differenze, per la
cultura del dialogo e della reciprocità, della
solidarietà e della pace. Oggi, soprattutto in
Europa, si assiste sempre più spesso a una
crescente frattura tra economia, tecnologia, cultura
di massa e di consumo, da una parte, e i processi di
identificazione culturale degli individui, dal-l'altra:
mentre l'evoluzione economica, il mondo della
finanza e la tecnologia dell'informazione si
planetarizzano sempre più, gli individui tendono a
« localizzarsi », in un certo senso a « tribalizzarsi »,
a mettere in moto processi di esclusione, di
discriminazione e addirittura di intolleranza.
Proprio qui si configura il dibattito sul diritto delle
culture all'uguaglianza nella diversità, come un
principio che caratterizza le società del nostro
tempo, sempre più multiculturali. Il diritto di essere
contemporaneamente uguali e diversi è in sintesi
uno dei tratti peculiari della civiltà contemporanea
e si esprime in termini particolarmente drammatici
a livello delle relazioni tra nazioni, etnie, culture,
siano esse inscritte in un solo stato, in blocchi
economico-politici o in sistemi culturali eterogenei.
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L'itinerario della lectio divina, in tale
contesto, può diventare un faro luminoso sul
cammino talvolta buio dell'incontro e del dialogo.
A partire dalla Parola rivelata, infatti, nascono
suggerimenti e incoraggiamenti per vivere
positivamente la realtà dell'estraneità e del
pellegrinaggio, che caratterizza tutti gli esseri
umani, ma anche la bellezza del confronto e
dell'incontro, che arricchisce e fa crescere.
Dunque, proponiamo alcuni tra i tantissimi
passi biblici che in qualche misura si soffermano
sui temi dell 'itineranza, dell'accoglienza,
dell'ospitalità, della via e del cammino, della casa e
del pellegrinaggio, dell'essere forestieri e viandanti
lungo le strade della vita. Viene individuato un
brano biblico, studiato nei suoi elementi di fondo e
commentato dalla voce dei padri della Chiesa. In
definitiva, si tratta di alcune « icone bibliche », che
si prestano alla contemplazione e stimolano
all'azione, nel campo vasto e complesso della
mobilità umana, dove troviamo oggi in prima fila
quasi duecento milioni di migranti che, per ragioni
economiche, lasciano i loro luoghi di origine per
cercare, in un Paese straniero, un futuro migliore
per sé e per le proprie famiglie.
L'atteggiamento orante, ne sono certo, saprà
disporre soprattutto gli operatori pastorali della mo-
bilità umana a una presa di coscienza essenziale
sulla natura e sulla missione del cristiano nel mon-
do moderno, in linea con le convinzioni espresse da
Benedetto XVI, agli inizi del suo ministero di pa-
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store della Chiesa universale: « La Chiesa deve
sempre nuovamente divenire ciò che essa già è:
deve aprire le frontiere fra i popoli e infrangere le
barriere fra le classi e le razze. In essa non vi
possono essere né dimenticati né disprezzati. Nella
Chiesa vi sono soltanto liberi fratelli e sorelle di
Gesù Cristo. Vento e fuoco dello Spirito Santo
devono senza sosta aprire quelle frontiere che noi
uomini continuiamo a innalzare fra di noi;
dobbiamo sempre di nuovo passare da Babele, dalla
chiusura in noi stessi, a Pentecoste. Dobbiamo
perciò continuamente pregare che lo Spirito Santo
ci apra, ci doni la grazia della comprensione, così
da divenire il popolo di Dio proveniente da tutti i
popoli — ancor più ci dice san Paolo: in Cristo, che
come unico pane nutre tutti noi nell'Eucaristia e ci
attira a sé nel suo corpo squarciato sulla croce, noi
dobbiamo divenire un solo corpo e un solo spirito»
(Omelia per le ordinazioni sacerdotali, 15 maggio
2005).
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ICONE BIBLICHE DELL’ANTICO
TESTAMENTO
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ABRAMO, SINTESI DI CCOGLIENZA
E OSPITALITÀ
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coinvolgendo anche la sua famiglia. La scena,
comunque, è occupata quasi interamente dalla
persona e dall'iniziativa del patriarca. Per
manifestare la sua gioiosa accoglienza, Abramo
offre una generosa ospitalità, preparando per i
viandanti stranieri cibo buono e abbondante. Il
quadro seguente, invece che sull'azione, è costruito
sulla parola, dove i tre forestieri dialogano con
Sara, e le promettono la nascita di Isacco (18,9-16).
Alla fine, la scena si chiude con un gesto diffuso
nella prassi dell'ospitalità: Abramo accompagna per
un tratto di strada i visitatori, per salutarli ed
eventualmente indicare loro il cammino (18,16).
L'accogliente ospitalità di Abramo è
commovente, ma suscita un interrogativo: tanta
sensibilità rientra nel dovere sacro di ospitare dei
forestieri in viaggio, oppure è il riflesso della
profonda religiosità del patriarca, che riconosce
negli stranieri la presenza del Signore? In effetti, il
narratore apre il suo resoconto dicendo che «il
Signore gli apparve alle Querce di Mamre ». La
questione è importante, perché nessuno rifiuterebbe
un bel gesto di accoglienza a un estraneo, se
sapesse che nei suoi panni si nasconde il Signore in
persona: «Signore, quando ti abbiamo visto
forestiero e ti abbiamo ospitato?» (Mt 25,37.44).
Ma la situazione cambia se si tratta di uno straniero
in carne e ossa, di un immigrato povero e
bisognoso, con un volto dai tratti somatici diversi
da quelli della gente del paese, confuso tra « i più
piccoli» della terra (Mt 25,40.45).
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In realtà, l'informazione che i tre viandanti
di Mamre si identificano con il Signore, vestito da
migrante, viene offerta soltanto a noi lettori, per
suscitare il nostro coinvolgimento. Abramo non sa
che sta per incontrarsi con Dio. Dunque, il
narratore vuol suscitare delle domande in noi
lettori: come si comporterà il patriarca nei confronti
di questi stranieri, di cui ignora l'identità
soprannaturale? Abramo e Sara riconosceranno che
è il Signore in persona? In che modo e quando egli
si rivelerà?
Segue allora l'esposizione dei fatti per
ordine: « (II Signore apparve ad Abramo) mentre
sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del
giorno » (18,1b). Ecco le indicazioni che vengono
offerte al lettore: quando si registra la presenza
degli stranieri, Abramo è seduto, sulla soglia della
sua tenda, a mezzogiorno.
La prima notizia, quindi, ritrae Abramo in
una situazione di pacifico inserimento nei ritmi
della natura, dal momento che «nell'ora più calda
del giorno» sospende il lavoro per assaporare la
quiete del tempo che trascorre, in sintonia con la
sua itineranza. Proprio questa accettazione di sé,
dei fatti e del cosmo apre la porta all'accoglienza
dell'ospite. Diversamente, chi fa fatica ad accettare
se stesso non troverà facile accettare chi arriva
nelle vesti dello straniero. Il narratore si compiace
di descrivere il presentarsi ad Abramo di
un'occasione favorevole per offrire ospitalità, c'è un
kairos che potrebbe non giungere mai più. D'altra
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parte, l'arrivo degli stranieri coincide con un
momento cronologico poco favorevole, poiché l'ora
più calda non è certo il frangente più adatto per le
visite! Su questi elementi sorride ironicamente il
narratore, puntualizzando che la buona accoglienza,
che si concretizza nella generosa ospitalità, ha un
prezzo. Chi legge il racconto, di fatto, viene
condotto a immaginare che forse, in circostanze
normali, per amore di filantropia, tutti sarebbero
disposti a offrire una certa ospitalità, purché sia
prevista, annunciata e ben fatta. Ma l'arrivo del
migranite non si fa precedere da alcun preavviso:
egli ha lasciato casa sua non per are una crociera,
ma per necesità, per forza, con le lacrime agli occhi
e il cuore colmo di amarezza e di nostalgia. La
vicenda del patriarca, sotto questo profilo, illumina
quelli che sono aperti all'accoglienza, anche nella
sorpresa e nell'improvvisazione.
Quindi, si annota che Abramo riposa «
all'ingresso della tenda ». La soglia, di fatto, è una
frontiera, che separa e unisce la zona aperta al
pubblico e quella riservata all'intimità. Cosi intesa,
non si riduce a barriera innalzata per difendere
l'eventuale intromissione di nemici o invasori, ma
può fungere da ponte tra sponde lontane o da punto
di contatto tra mondi distanti, a patto che la si
comprenda nel segno della relazione, nel rispetto
della differenza. Nel racconto biblico, infatti,
mentre riposa nella quiete, Abramo sta di
sentinella, poiché la sua tranquilla vigilanza mira
più al valore comunicativo dell'ingresso che a
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quello protettivo. Se non stesse di sentinella, lo
sguardo del patriarca resterebbe assopito e spento.
Invece, « alzò gli occhi, guardò ed ecco, tre uomini
stavano in piedi presso di lui. Li vide e corse loro
incontro » (18,2). Il rincorrersi dei verbi che
descrivono la vista, suggeriscono che Abramo stia
riposando con un occhio chiuso e un occhio aperto,
in una fase di quiete vigile. A un certo punto
percepisce una novità, che viene espressa con un
vedere intenso e con un moto di sorpresa.
All'improvviso, all'orizzonte sono comparse tre
nuove presenze. Presenze di stranieri. E Abramo si
vede di fronte all'alternativa tra ostilità e
accoglienza. Sceglie l'accoglienza, manifestando
una pronta ospitalità. Il patriarca alza gli occhi non
perché sente dei rumori; attorno a lui c'è silenzio e
pace. Il levare gli occhi è un gesto intintivo e tipico
dell'interiorita di Abramo, colma di raccoglimento
e di apertura, di attenzione e di disponibilità
operativa. Così Abramo sa cogliere la finezza e il
coraggio del vedere dentro, oltre e lontano. Si tratta
di uno sguardo accogliente che si colma di stupore.
Abramo, infatti, capisce di dover prendere una
posizione, non può restare indifferente. La presenza
dei visitatori stranieri diventa sfida profetica
dell’accoglienza o del rifiuto: lo straniero è la
sorpresa del presente, che sconvolge la tranquilità
del passato e peoitta nel futuro le onseguenze de
ogni decisione ahe avviene qui, ora.
Abramo vede «tre uomini in piedi presso di
lui »: non si parla dei loro caratteri etnici, o di segni
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che servano a rivelare la loro statura, il loro modo
di vestire, la loro condizione sociale. Il patriarca in-
crocia il suo sguardo consapevole e incantato con la
semplice presenza di tre viandanti. Possiamo im-
maginare la sorpresa del veèchio patriarca: non ha
sentito rumori, non c'è stato nulla che abbia richia-
mato la sua attenzione, non è stato avvisato di una
possibile visita. Si trova davanti tre personaggi e
non sa quali siano le loro intenzioni, il motivo della
loro presenza, come siano arrivati alla sua tenda. Il
narratore dice semplicemente una presenza, che
non si impone, non avanza pretese, non è motivo di
rallegramento ma nemmeno di paura. E Abramo
reagisce con vivace spontaneità: corre verso di loro
e li onora. L'acoglienza lascia il posto all'ospitalità
interiore si traduce in conportamenti pratici, la
gioia personale si trasforma nella festa da
condividere, attorno alla tavola.
Dunque, il racconto si sofferma a
inquadrare gli atteggiamenti del patriarca, prima di
indicare che da qui prendono forma dei
comportamenti, che sono soltanto la manifestazione
visibile di una verità più profonda e meno
appariscente a un controllo di superficie. Lo
scrittore biblico si compiace di presentare prima i
tratti dell'accoglienza, che giustificano i gesti
concreti dell'ospitalità. In questo modo, l'ospitalità
appare tanto più bella e generosa quanto più
affonda le radici in un'autentica apertura accoglien-
te dello spirito. In questa prospettiva, acquista un
forte rilievo l'enfasi sullo sguardo di Abramo, il
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quale «alzò gli occhi e vide» (18,2). Il fatto di
sollevare lo sguardo non è ovvio né facile; sono
infinite le occasioni di sollevare lo sguardo e di
fissare negli occh chi ci passa accanto. Non sempre,
però, si è dispost all'incontro, al dialogo,
all'accoglienza. A volte capita di decidere di
proposito di tenere gli occhi bassi per paura di
incrociare lo sguardo dell'altro, per non ,sentirsi
forzati a dare delle risposte, a iniziare un dialogo.
Infatti, alzare gli occhi è come incominciare a
parlare, essere disponibili a comunicare, esporsi in
prima persona. Questo implica che quello sguardo
parola potrà essere capito e accolto, ma anche non
capito, frainteso o addirittur zittito. Anche Abramo
potrebe far finta di non vedere, potrebbe spiare di
sottecchi i movimenti dei tre passanti, potrebbe cer-
care di intuire se si tratta di gente perbene o di
scocciatori importuni. Ma il patriarca riesce a
riconoscere negli sconosciuti «tre uomini» perché il
suo è lo sguardo incontaminato dell'accoglienza. Il
suo atteggiamento manifesta la sua apertura
interiore e, nello stesso tempo, la sua disponibilità a
mettersi in gioco. Alza lo sguardo e incrocia gli
occhi di tre uomini. Si lascia prendere dal puro
mostrarsi degli ospiti, dal loro semplice presentarsi
per quello che sono.
Nei Paesi orientali chi si ferma in piedi
davanti alla soglia di un'abitazione è come se
intendesse bussare alla porta di casa. Anche qui
vengono presentati tre uomini, che aspettano una
reazione da parte di Abramo, sostando davanti a
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lui. L'ora calda del giorno e le abitudini del luogo
fanno capire quali siano le necessità dei pellegrini:
si aspettano forse un po' d'acqua, il permesso di
riposare all'ombra, oppure soltanto l'indicazione del
posto al quale sono diretti. Ma Abramo non è
obbligato a rispondere alle loro attese; certo è lui
che deve decidere come comportarsi. Anche perché
i tre non aprono bocca.
Proprio quest'ultimo elemento introduce un
tema nuovo: il site zio dello straniero. I tre
forestieri attendono accanto al patriarca senza
invadere il suo spazio, senza far rumore, presenti
ma con estrema discrezione. Tacciono, esattamente
come tutte le persone che si sentono spaesate, che
sanno di essere vulnerabili e per prudenza non si
espongono. Lo straniero sa di essere facilmente
catalogabile se apre bocca: «Non è dei nostri,
chiede soldi, chissà da dove viene... ». I pellegrini
di Mamre sono il paradigma di tutti i forestieri, che
non sanno o, non vogliono chiedere: si sentono un
po' come «vagabondi» tra tante lingue e
preferiscono non parlare, si fanno timidi, quasi si
nascondono. Aspettano che Abramo si accorga di
loro, che sia la sua sensibilità a esprimersi.
È a questo punto che anche Abramo diventa
modello, paradigma, icona di vera accoglienza,
perché il narratore mette in evidenza la sua capacità
di sentire la voce del silenzio. Nella sua vita di
nomade, tra lo spostarsi e il fissare la tenda, ora in
un luogo ora in un altro, avvertendo che «la patria è
la terra che gli dà il pane» (G.B. Scalabrini),
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Abramò si forma alla capacità di vedere,
penetrando la realtà che osserva, e di ascoltare la
parola e il silenzio. Per questo, quando l'ospite
parla, Abramo è pronto a intessere un dialógo; egli
« vede con sorpresa » perché pregusta un rinnovarsi
dei rapporti con le persone (18,5-9). Certo,
interpretare il silenzio dello straniero fa parte dei
compiti più seri e delicati di una fede che intende
mediare nella storia il messaggio biblico. Resta la
constatazione che l'altro giunge ancora inesplorato
e insegna a non dare niente per scontato, a non
abituarsi a un esistere, di cui non si percepisce più
la componente gioiosa e la capacità di stupirsi.
Tra l'altro, nella storia dell'accoglienza c'è
un fattore che spesso ritorna. Il gruppo autoctono,
quando si trova a confronto con immigrati e itine-
ranti, reagisce imponendo allo straniero un silenzio
culturale e sociale, esige che non si facciano notare.
Si tollera lo straniero, ma a patto che resti muto, na-
scosto, separato. Si tratta di un meccanismo di au-
todifesa, messo in atto da chi occupa un territorio:
sembra quasi che si voglia persino negare che ci sia
un ospite da accogliere. La presenza è rimossa..
Eppure lo straniero, soprattutto nell'ottica cristiana,
può rivelarsi come un « messaggero », che an-
nuncia la possibilità di riscoprire la dimensione più
caratteristica dell'umano, quella della sensibilità,
dell'accoglienza, dell'amore agapico, in una terra
(l'oikoumene greco, che definisce il mondo intero
come «casa di tutti ») rallegrata dalla multiforme
verità dei vo ti.
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In conclusione, il racconto di Abramo alle
Querce di Mamre e l'ironia di chi narra il fatto,
affabile non meno che pungente, invitano ad
arricchire la piccola grammatica dell'accoglienza e
dell'ospitalità con una definizione positiva dello
straniero. Infatti, se Abramo vede lontano, i suoi
ospiti vedono ancor più lontano, e insieme molto
vicino. Si rendono conto che la generosa coppia di
Mature è sterile e anziana. Senza un futuro aperto
dalla speranza del figlio, il tempo che resta ad
Abramo e a Sara scorre verso la fine del loro nome
e della loro storia. Ma nel momento meno
opportuno di una calda giornata d'Oriente, quando
ogni cosa sembra ferma e assopita, il grande giorno
dell'accogliente ospitalità feconda i giorni di Sara e
di Abramo. Ecco infatti venire il Signore nei panni
di tre stranieri, capaci di regalare la speranza e la
festa: « Tornerò da te fra un anno a questa data e al-
lora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (18,10.14).
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bisogna praticare l'ospitalità facendo tutto da sé:
così siamo noi a essere santificati, le nostre mani
vengono benedette. Anche se dai a un povero, non
vergognarti, perché non dai al povero ma a Cristo.
Chi è talmente povero che non si degni di tendere
la mano a Cristo? Questa è veramente l'ospitalità
che si fa verso Dio.
(Giovanni Crisostomo, Omelia sulla Prima
lettera a Timoteo 14,2: PG 62,573)
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che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), versa
egli stesso l'acqua nel catino. Perché egli sapeva
che nessuno è in grado, come lui, di lavare i piedi
ai suoi discepoli in modo tale che essi possano, una
volta lavati, aver parte con lui. L'acqua poi, a mio
modo di vedere, era il Logos in tutta la sua
grandezza, che lavava i piedi ai discepoli, immersi
nel catino offerto loro da Gesù.
(Origene, Commento al Vangelo di
Giovanni 32,410: PG 14,750-751)
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risposero: « No, passeremo la notte
sulla piazza ». 3Ma egli insistette
tanto che vennero da lui ed entrarono
nella sua casa. Egli preparò per loro
un banchetto, fece cuocere gli azzimi e
così mangiarono. 4Non si erano ancora
coricati, quand'ecco gli uomini della
città, cioè gli abitanti di Sodoma, si
affollarono intorno alla casa, giovani e
vecchi, tutto il popolo al completo.
SChiamarono Lot e gli dissero: «
Dove sono quegli uomini che sono
entrati da te questa notte? Falli uscire
da noi, perché possiamo abusarne! »
(Gn 19,1-5).
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Dio confida ad Abramo i suoi progetti
riguardo alle perverse città della valle, Sodoma e
Gomorra. Tuttavia, non è un piano inevitabile,
perché la confidenza e la familiarità che Abramo ha
acquisito con la sua generosa ospitalità gli permette
di porsi di fronte a Dio come avvocato difensore,
anzi come intercessore e mediatore di
riconciliazione. Purtroppo, la sua opera non otterrà
il frutto sperato, cioè la salvezza delle città
peccatrici, ma soltanto perché queste hanno fatto
una radicale scelta di malvagità, di perversità, di
contrarietà a tutto ciò che, invece, Abramo
rappresenta in positivo.
Il bene produce altro bene; il male non può
generare altro che male. Questo insegnamento
sapienziale viene ripreso e integralmente riproposto
in Gn 19.
Anche questo capitolo offre una grandiosa
icona, impressionante per la sua calda luminosità, a
fianco di un quadro negativo e triste. Anzi, questa
volta i toni sono più rimarcati e crudi nella seconda
parte, mentre la prima quasi serve al narratore
soltanto per giustificare la seconda. Infatti, la
sezione narrativa che ritrae la cattiveria umana, che
causa la distruzione di Sodoma e Gomorra,
comprende Gn 19,4-26; invece, il racconto
dell'accoglienza ospitale di Lot copre soltanto i vv.
1-3. La distruzione delle città della valle è una
pagina apocalittica: là dove c'era «un luogo irrigato
da ogni parte, come il giardino del Signore» (Gn
13,10), ora non c'è che «zolfo e fuoco », capace di
31
«distruggere queste città e tutta la valle con tutti gli
abitanti delle città e la vegetazione del suolo » (Gn
19,24-25), mentre Lot e i suoi familiari
miracolosamente si salvano fuggendo.
Lo scrittore biblico aveva già offerto degli
indizi pelo capire chi erano gli abitanti di Sodoma e
Gomorra: « Disse allora il Signore: "Il grido contro
Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro pecca-
to è molto grave"» (Gn 18,20). La narrazione pro-
segue immaginando la visita di Dio in persona alle
città peccatrici, sotto forma di una duplice presenza
angelica. I tre visitatori di Abramo si qualificano
nell'unità, in quanto rivelano di essere l'unico Dio
che si sofferma a dialogare con Abramo; ma sono
anche la manifestazione della molteplicità, quando
assumono i lineamenti di due personaggi inviati a
verificare e a dare fedele testimonianza della realtà
dei fatti, di cui vengono accusati i Sodomiti. E qui
l'icona dell'accoglienza riprende tutti i suoi colori
più caldi e vivaci.
A Sodoma si ripete l'esperienza già
accaduta a Mamre. Anche qui, alle porte della città,
si presentano degli stranieri, «sul far della sera»
(Gn 19,1). Come a Mamre, i due forestieri non
avanzano pretese, non osano neppure invadere lo
spazio abitato; giungono sul limitare del confine
cittadino e attendono che qualcuno si accorga di
loro. Non è l'ora calda del mezzogiorno, che
suggeriva il bisogno di un po' di riposo, di un po' di
cibo, di accogliente compagnia; ma è l'ora tarda del
tramonto, la conclusione di una giornata faticosa,
32
l'arrivo della notte con la necessità di trovare un
riparo e un luogo sicuro dove riposare. Anche la
presentazione dei personaggi si ripete: come
Abramo, anche Lot «non appena li ebbe visti, si
alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a
terra » (Gn 19,1). Le naturali perplessità del
momento lasciano il posto alla generosa
spontaneità di Lot, che riprende passo passo
l'accogliente ospitalità di Abramo: «Venite in casa
del vostro servo: vi passerete la notte, vi laverete i
piedi e poi, domattina, per tempo, ve ne andrete per
la vostra strada » (Gn 19,2).
In risposta, però, c'è un elemento nuovo: i
due forestieri rifiutano l'offerta di. Lot: « Quelli
risposero: "No, passeremo la notte sulla piazza" »
(Gn 19,2).
Forse c'è qui un riferimento alla pratica
abituale delle antiche città orientali di riservare uno
spazio esclusivo, all'interno delle mura cittadine,
per il forestiero di passaggio, in modo da garantire
allo straniero aiuto e protezione, ma anche ai
residenti sicurezza e tranquillità. Forse, oltre alla
disposizione d'animo dei Sodomiti, i due angeli
intendono verificare anche quella di Lot: chissà se
Lot sarà all'altezza dell'apertura accogliente e
ospitale di Abramo?
Il rifiuto dei due visitatori non è che un
espediente narrativo per confermare la positiva
disponibilità di Lot: « Egli insistette tanto che
vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli
preparò per loro un banchetto, fece cuocere gli
33
azzimi e così mangiarono» (Gn 19,3).
Malauguratamente, la festa della condivisione nella
stessa casa, attorno alla mensa, si trasforma nella
ripugnante malvagità degli abitanti di Sodoma, che
vogliono addirittura abusare dei forestieri. Verso
Lot, poi, hanno parole di disprezzo e di minaccia:
«Tirati via! Quest'individuo è venuto qui come
straniero e vuol fare il giudice! Ora faremo a te
peggio che a loro! » (Gn 19,9). L'intervento di Lot
rivela la grande considerazione in cui era tenuta
l'ospitalità presso gli antichi popoli orientali:
piuttosto che esporre gli ospiti al danno e all'offesa,
preferisce sacrificare l'onore e l'integrità delle
proprie figlie, considerando come suo preciso
dovere la protezione e la salvaguardia di coloro che
egli ha benevolmente accolto sotto il suo tetto
(19,8).
Ma il racconto è soprattutto teologico e
didattico e, così, si conclude con la sconfitta del
malvagio e con l'offerta di salvezza per il giusto.
L'esaltazione dell'accoglienza non poteva trovare
toni più accesi: l'apertura e la disponibilità
ottengono beni di qualità soprannaturale; invece il
rifiuto e la cattiveria producono distruzione e
morte.
In chiusura, ritroviamo lo sguardo di
Abramo, che a mezzogiorno aveva accolto con
gioia i tre forestieri e, ora, sul far del mattino,
contempla con tristezza le rovine di quelle che
erano le splendide città della valle (Gn 19,27-29). E
il narratore si compiace di concludere premiando la
34
fiducia e l'ospitalità di Abramo, grazie alle quali
anche Lot entra a far parte della salvezza e di un
futuro pieno di promessa e di benedizione.
35
servizio. Egli stesso corre incontro, e, dopo essere
andato incontro, ritorna in fretta alla tenda e dice
alla sua moglie: Affrettati alla tenda; vedi nei
singoli gesti quale sia la prontezza di colui che
accoglie: ci si affretta in tutto, tutto appare urgente,
non si fa niente adagio adagio. (...)
Egli poi corse alla stalla e prese un vitello:
quale vitello? Forse il primo che gli capitò? Non è
così, ma un vitello buono e tenero: anche se fa tutte
le cose in fretta, sa bene quali cose, speciali e
grandi, siano da offrirsi a Dio e agli angeli.
Prese dunque, o scelse dalla mandria, un
vitello buono e tenero e lo diede al servo; il servo si
affrettò a prepararlo: corre lui, si affretta la
moglie, è celere il servo, non c'è alcun pigro nella
casa del sapiente.
Apparecchia dunque il vitello, insieme con i
pani e la focaccia, ma anche latte e burro: questo è
il servizio di ospitalità di Abramo e di Sara.
Consideriamo ora quel che fa Lot: egli non ha né
fior di farina, né pane mondo, ma farina; non
conosce le tre misure di fior di farina, e non può
apparecchiare per i visitatori le egkryfias, cioè i
pani nascosti e mistici.
(Origene, Omelia Quarta sulla Genesi 1:
PG 12,183-184)
36
'Gli anni della vita di Sara furono
centoventisette: questi furono gli anni della
vita di Sara. 'Sara morì a Kiriat-Arba, cioè
Ebron, nel paese di Canaan, e Abramo
venne a fare il lamento per Sara e a pianger-
la. 'Poi Abramo si staccò dal cadavere di lei
e parlò agli Hittiti: 4« Io sono forestiero e di
passaggio in mezzo a voi. Datemi la
proprietà di un sepolcro in mezzo a voi,
perché io possa portar via la salma e
seppellirla ». 'Allora gli Hittiti risposero: 6«
Ascolta noi, piuttosto, signore: tu sei un
principe di Dio in mezzo a noi: seppellisci il
tuo morto nel migliore dei nostri sepolcri.
Nessuno di noi ti proibirà di seppellire la tua
defunta nel suo sepolcro ». 'Abramo si alzò,
si prostrò davanti alla gente del paese,
davanti agli Hittiti e parlò loro: 8« Se è
secondo il vostro desiderio che io porti via il
mio morto e lo seppellisca, ascoltatemi e
insistete per me presso Efron, figlio di
Zocar, 9perché mi dia la sua caverna di
Macpela, che è all'estremità del suo campo.
Me la ceda per il suo prezzò intero come
proprietà sepolcrale in mezzo a voi ». 10Ora
Efron stava seduto in mezzo agli Hittiti.
Efron l'Hittita rispose ad Abramo, mentre lo
ascoltavano gli Hittiti, quanti entravano per
la porta della sua città, e disse: "« Ascolta
me, piuttosto, mio signore: ti cedo il campo
con la caverna che vi si trova, in presenza
dei figli del mio popolo te la cedo:
seppellisci il tuo morto ». 12Allora Abramo
si prostrò a lui alla pre senza della gente del
paese. 13Parlò ad Efron, mentre lo ascoltava
la gente del paese, e disse: «Se solo mi
volessi ascoltare: io ti do il prezzo del
campo. Accettalo da me, così io seppellirò
37
là il mio morto ». t4Efron rispose ad
Abramo: 15« Ascolta me piuttosto, mio
signore: un terreno del valore di
quattrocento sicli d'argento che cosa è mai
tra me e te? Seppellisci dunque il tuo morto
». 16Abramo accettô le richieste di Efron e
Abramo pesò ad Efron il prezzo che questi
aveva detto, mentre lo ascoltavano gli
Hittiti, cioè quattrocento sicli d'argento,
nella moneta corrente sul mercato. "Così il
campo di Efron che si trovava in Macpela,
di fronte a Mamre, il campo e la caverna
che vi si trovava e tutti gli alberi che erano
dentro il campo e intorno al suo limite,
"passarono in proprietà ad Abramo, alla
presenza degli Hittiti, di quanti entravano
nella porta della città. 19Dopo, Abramo
seppellì Sara, sua moglie, nella caverna del
campo di Macpela di fronte a Mamre, cioè
Ebron, nel paese di Canaan. 20Il campo e la
caverna che vi si trovava passarono dagli
Hittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale
(Gn 23,1-20).
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tomba saranno tumulati anche Abramo (Gn 25,9),
Isacco (Gn 35,29), Rebecca, Lia (Gn 49,31) e
Giacobbe (Gn 50,13). La piccola proprietà
costituisce il primo acquisto di Abramo con
contratto ufficiale nella terra straniera di Canaan; è
anche il primo passo dal nomadismo alla vita
sedentaria; infine, diventa un luogo sacro al quale
si lega la memoria dei discendenti di Abramo, tanto
che ancor oggi il possedimento di quel sepolcro è
motivo di lotte fino allo spargimento del sangue.
L'episodio di Gn 23 è vivace e persino
umoristico, nonostante la seria gravità
dell'accaduto. Il domenicano De Vaux aveva messo
a fuoco il ricorso al formulario delle compravendite
immobiliari, comune presso molti popoli del
Vicino Oriente antico, e aveva suggerito il rimando
all'epoca neo-babilonese per fissare la datazione
dell'avvenimento. Si nota, infatti, l'insistenza di
Abramo nell'adempiere un atto formale di
compravendita « alla porta della città », cioè nel
luogo specifico in cui si regolavano i contratti sugli
immobili. In particolare, risponde alla legge hittita
la resistenza di Efron, proprietario della caverna di
Macpela e del terreno attorno alla grotta: l'uomo
non vuol cedere ad Abramo soltanto la caverna per
la sepoltura, ma forza la trattativa perché il nuovo
acquirente si faccia carico anche della proprietà
terriera circostante, assumendosi in tal modo diritti
e oneri connessi al bene immobile. Di fatto, la
storia si conclude con una vera registrazione
catastale, con tanto di firma dei testimoni: «Il
39
campo di Efron che si trovava in Macpela, di fronte
a Mamre, il campo e la caverna che vi si trovava e
tutti gli alberi che erano dentro il campo e intorno
al suo limite, passarono in proprietà ad Abramo,
alla presenza degli Hittiti, di quanti entravano nella
porta della città» (23,17-18).
Ma, al dire di G. von Rad, è meglio
oltrepassare il livello della trattativa commerciale-
giuridica per vedere qui «una preziosa miniatura di
un abile dialogo all'orientale! ». Proprio il dialogo
conferisce freschezza all'episodio, con tutto il suo
carico di umorismo e di ironia, insieme a
interessanti suggerimenti sulla fede dei patriarchi e
sullo statuto del forestiero nella Bibbia. 11 racconto
si apre con. l'iniziativa di Abramo, che prende per
primo la parola, dopo aver pianto la morte di Sara.
Abramo vive come forestiero senza proprietà
terriera a Ebron e deve concordare ufficialmente
con gli anziani autoctoni le modalità della
sepoltura. La risposta del consiglio «alla porta della
città sembra positiva a una indagine di superficie:
gli anziani attribuiscono al patriarca la dignità di un
«principe di Dio » (23,6), ma nelle loro parole non
c'è che un rifiuto cortese alla richiesta deferente di
Abramo. Abramo voleva che gli fosse riconosciuto
il diritto alla proprietà, e dunque alla cittadinanza,
all'equiparazione con gli abitanti di Ebron. Gli
anziani, con estrema gentilezza, gli rifiutano
l'autorizzazione a possedere un pezzo di terra;
aggirano l'ostacolo del divieto mettendo a
disposizione di Abramo persino «il migliore dei
40
nostri sepolcri » (23,6), dove quel «nostri» pesa
come un macigno! Il consiglio del paese ha ben
compreso che avverrebbe un mutamento di
situazione fondamentale se Abramo venisse in
possesso della terra: per questo l'atto che si sta
formalizzando richiede il consenso dell'intera
comunità locale.
Ma Abramo insiste, sempre con grande
cortesia econ quella sensibilità tutta orientale che
spazia a tutto campo nelle opportunità di acquisto o
di vendita di un bene commerciale. Ora Abramo
chiede esplicitamente la grotta di Macpela,
proprietà di Efron l'hittita. E il dialogo si stringe
attorno ai due protagonisti, ma non avanza di un
passo. Il patriarca mira a possedere Ia proprietà
sepolcrale e, quindi, a rivendicare una propria
indipendenza e libertà, per quanto limitata al
piccolo appezzamento. Offre la sua disponibilità a
riscattare la grotta di Macpela mettendo mano al
portafoglio (23,9). Efron, invece, ripropone
l'orientamento già espresso dagli anziani, che
vorrebbe confermare Abramo nel suo statuto di
straniero e, quindi, di persona dipendente dagli abi-
tanti della città; Abramo deve sentirsi ben accolto,
ma non deve dimenticare di essere un ospite, un
corpo estraneo alla compagine degli autoctoni di
Ebron; può godere della generosità di chi lo ospita,
ma aspirare alla libertà e all'autonomia, puntare al-I
'uguaglianza paritetica con chi lo accoglie sembra
tina pretesa troppo alta. L'offerta di Efron si presta
a un duplice intendimento: « Ti cedo il campo con
41
la caverna che vi si trova » (23,11) esprime la
generosità del proprietario, che tuttavia proprio con
la sua donazione si fa protettore-padrone di
Abramo. Oppure, l'espressione potrebbe essere
intesa come uno sviluppo del dialogo del mercante
orientale, che evita di parlare apertamente di «
vendita », costringendo il compratore ad avanzare
una proposta che, all'occorrenza, può dare il via al
gioco al rialzo. infatti, segue un cortese scambio di
battute, fino alla proposta del venditore:
«Quattrocento sicli d'argento ». Pare che la somma
non sia affatto disprezzabile, visto che il narratore
ci tiene a sottolineare che si tratta di «moneta
corrente sul mercato ». A noi interessa concludere
che il racconto mette bene in chiaro anzitutto un
fatto di notevole importanza: il possesso della terra
di Canaan era stato promesso da Dio e Abramo
intende la promessa non solo come dono
escatologico che pioverà dal cielo, ma collabora
attivamente perché quella promessa cominci a
realizzarsi già nella sua storia personale. Abramo
vuole oltrepassare la situazione di provvisorietà in
cui vive come straniero. Da una parte, tende a con-
seguire i beni salvifici che Dio gli ha prospettato,
profeticamente attendendo la piena realizzazione
soltanto in tempi futuri, come interpreterà l'autore
di Eb 10,1. D'altra parte, il patriarca anticipa già qui
quella realtà escatologica, almeno garantendo a sé e
ai propri discendenti il riposo in un terreno che dice
libertà, indipendenza, uguaglianza, riscatto dalla
42
condizione di estraneità verso la pienezza della
compartecipazione.
ISACCO E REBECCA
43
va potere su tutti i suoi beni: «Metti la mano
sotto la mia coscia 3e ti farò giurare per. il
Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che
non prenderai per mio figlio una moglie tra
le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali
abito, 4ma che andrai al mio paese, nella
mia patria, a scegliere una moglie per mio
figlio Isacco ». 'GIi disse il servo: « Se la
donna non mi vuol seguire in questo paese,
dovrò forse ricondurre tuo figlio al paese da
cui tu sei uscito? ». 6Gli rispose Abramo:
«Guardati dal ricondurre là mio figlio! 'Il
Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che
mi ha tolto dalla casa di mio padre e dal mio
paese natio, che mi ha parlato e mi ha
giurato: Alla tua discendenza darò questo
paese, egli stesso manderà il suo angelo
davanti a te, perché tu possa prendere di là
una moglie per il mio figlio. 8Se la donna
non vorrà seguirti, allora sarai libero dal
giuramento a me fatto; ma non devi
ricondurre là il mio figlio ». 9Allora il servo
mise la mano sotto la coscia di Abramo, suo
padrone, e gli prestò giuramento riguardo a
questa cosa (Gn 24,1-9).
45
causa: se si mantiene fedeltà alla promessa, seguirà
la benedizione di una lunga e felice discendenza;
altrimenti, si incorrerà nella maledizione della
sterilità e, quindi, della fine del proprio clan
familiare. Nel nostro racconto, tuttavia, il
giuramento decolla subito in verticale, collocandoci
nel contesto decisamente teologico di tutta la storia
biblica: il patto viene sigillato nel nome di JHWH,
Dio di tutto il creato. Emerge, così, la fede di
Abramo, che non smette di confidare in quel Dio
che gli ha promesso una discendenza e una terra. In
questo clima di fede, il servo di Abramo riceve un
incarico che comporta diversi aspetti: anzitutto, nel
caso che Abramo muoia, Isacco non deve sposare
una donna cananea, una straniera rispetto alla sua
famiglia. Per questo, Eliezer deve andare nel paese
di origine di Abramo e cercare una donna che possa
sposare Isacco, scegliendola tra la parentela del
patriarca. Questo, comunque, non deve
assolutamente offrire l'occasione a Isacco di
ritornare nella patria di suo padre. Infine, poiché
una ragazza sposata poteva scegliere come proprio
domicilio di rimanere nella casa di suo padre o di
entrare in quella del marito, se la ragazza dovesse
rifiutare di lasciare il suo paese per trasferirsi dove
abita Isacco, Eliezer può considerarsi sciolto dal
giuramento prestato ad Abramo.
Le richieste del patriarca morente vanno
capite nell'orizzonte del discorso di fede, che il
narratore intende sottolineare con forza. Abramo
vive nella dimensione della nuova storia di
46
salvezza che Dio gli ha prospettato. Per questo, in
primo luogo è preoccupato di non mescolarsi con
gli stranieri in mezzo ai quali si è stabilito come
immigrato. NON tanto nel senso della «purezza del
sangue» e nemmeno per l'interesse di conservare
indiviso il suo patrimonio nell'ambito della
parentela. Abramo è preoccupato, invece, dei
risvolti negativi di una mescolanza sul piano
religioso, di un sincretismo irenico che
minaccerebbe di rendere sbiaditi e insignificanti i
tratti della misericordia, dell'elezione, della
giustizia che egli ha saputo riconoscere in JHWH.
Insomma, Abramo considera le sue radici religiose
come una parte irrinunciabile di sé, un punto di ri-
ferimento sicuro e solido altra parte, proprio perché
continua a leggere la storia come un progetto
salvifico di JHWH, non può accettare di tornare
indietro, a quel passato sterile e infruttuoso che ha
lasciato nella sua patria di origine. Possiamo indivi-
duare tra i sentimenti di Abramo anche la gratitudi-
ne verso la nuova patria che gli ha dato ospitalità,
benessere, shalom. Isacco non deve lasciare la terra
di Canaan, se la sua futura sposa non accetterà di
emigrare anch'essa: « Guardati dal ricondurre là
mio figlio! Il Signore, Dio del cielo e Dio della ter-
ra, che mi ha tolto dalla casa di mio padre e dal mio
paese natio, che mi ha parlato e mi ha giurato: Alla
tua discendenza darò questo paese, egli stesso man-
derà il suo angelo davanti a te, perché tu possa
prendere di là una moglie per il mio figlio. Se la
donna non vorrà seguirti, allora sarai libero dal giu-
47
ramento a me fatto; ma non devi ricondurre là il
mio figlio» (24,6-8).
La curiosa ripetizione, che apre e chiude
questo passaggio, ha lo scopo di evidenziare la
fiducia di Abramo: JHWH ha guidato i passi del
suo migrare, ha aperto di fronte a lui nuovi
orizzonti, anche quando tutto sembrava dire il
contrario. Come ha provveduto l'ariete per il
sacrificio, in sostituzione di Isacco, così ora
manderà un angelo sulla via di Eliezer, perché trovi
luce il futuro di Isacco. Anche in terra straniera, il
narratore biblico insegna la bontà provvidente di
Dio, quale riflesso della fiducia a tutta prova del
patriarca. Del resto, queste sono le ultime parole di
Abramo che la Bibbia riferisce: sono, quindi, una
sorta di testamento spirituale, che afferma l'assoluta
fiducia in Dio, che va di pari passo con la
riconoscenza verso il nuovo paese, dono anch'esso
della provvidenza di Dio.
48
Tutto quanto può accendere l'orgoglio, i begli abiti,
le splendide abitazioni, la numerosa schiavitù —
cose che spesso, anche nostro malgrado, ci
spingono a essere vanitosi e superbi —, tutto
questo è presso di loro totalmente abolito. Da se
stessi tagliano la legna, accendono il fuoco,
cuociono i cibi, servono gli ospiti di passaggio. In
quei luoghi tu non senti pronunciare insulti, e non
vedi alcuno ingiuriato e offeso. Nessuno dà ordini e
nessuno ne riceve, ma tutti sono servi gli uni degli
altri; lavano i piedi agli ospiti, realmente fanno a
gara per compiere questo dovere. Non stanno a
guardare chi è il pellegrino, se servo o libero, ma a
tutti prestano il loro servizio. Là nessuno è grande,
nessuno è piccolo.
(Giovanni Crisostomo, Commento al
Vangelo di Matteo 72,3: PG 58,671)
17
Il servo corse incontro a Rebecca e disse:
«Fammi bere un po' d'acqua dalla tua anfora ».
"Rispose: 18«Bevi, mio signore ». In fretta calò
l'anfora sul braccio e lo fece bere.19Come ebbe finito
di dargli da bere, disse: «Anche per i tuoi cammelli
ne attingerò, finché finiranno di bere ». 20In fretta
vuotò l'anfora nell'abbeveratoio, corse di nuovo ad
attingere al pozzo e attinse per tutti i cammelli di lui.
21
lntanto quell'uomo la contemplava in silenzio, in
attesa di sapere se il Signore avesse o no concesso
buon esito al suo viaggio. 22Quando i cammelli
49
ebbero finito di bere, quell'uomo prese un pendente
d'oro del peso di mezzo siclo e glielo pose alle narici
e le pose sulle braccia due braccialetti del peso di
dieci sicli d'oro. 23E disse: «Di chi sei figlia?
Dimmelo. C'è posto per noi in casa di tuo padre, per
passarvi la notte? ». 24Gli rispose: «Io sono figlia di
Betuel, il figlio che Milca partorì a Nacor». 25E
soggiunse: «C'è paglia e foraggio in quantità da noi e
anche posto per passare la notte» (Gn 24,17-25).
50
dei protagonisti. Non si tratta di riferimenti di
primo piano, tanto che i commentatori spesso non
vi danno peso, preoccupati di dipanare gli
argomenti più consistenti degli eventi narrati, come
la fede nella provvidenza divina, la spiritualità
orante dei personaggi, la tessitura del filo di
continuità nella storia dei patriarchi. Eppure, il
racconto deve la sua anima anche agli aspetti
sociali e culturali, che costituiscono il prezioso
sottofondo di tutta la vicenda. Proprio questi ele-
menti modellano di fatto le caratteristiche che ave-
va in mente Abramo quando fece giurare al servo
Eliezer di andare a cercare una moglie per Isacco
nella sua patria d'origine: una donna energica, cioè
sveglia e intraprendente; una donna ospitale, cioè
sensibile e aperta.
Ma vediamo l'ordine dei fatti,
puntualizzando i dati più interessanti. Non si dice
quasi nulla del lungo viaggio da Canaan alla città di
Nacor; c'è soltanto un indizio al v. 11: « (Eliezer)
fece inginocchiare i cammelli fuori della città,
presso il pozzo d'acqua, nell'ora della sera, quando
le donne escono ad attingere ». Il narratore precisa
la condizione benestante di Abramo, dal momento
che ha fornito il servo di dieci cammelli per il
viaggio, insieme ad «ogni sorta di cose preziose»
(Gn 24,10). La sosta al pozzo è significativa:
Eliezer cerca una ragazza e quello è il luogo più
appropriato, dato che spetta alle donne attingere
acqua ogni giorno e abbeverare gli animali (Es
2,16; 1 Sam 9,11). Ma nella Bibbia il pozzo assume
51
soprattutto un valore simbolico, come luogo di
incontro: in Aram, Giacobbe scopre Rachele e dà
da bere alle sue bestie (Gn 29,10); in Madian, Mosè
protegge contro i pastori aggressivi le sette figlie di
Ietro, tra le quali c'è la sua futura moglie Zippora
(Es 2,15-22); in Samaria, presso Sichem, Gesù
stimola il dialogo con la donna Samaritana (Gv 4,5-
42). Nel nostro passo, il pozzo diventa motivo per
la celebrazione della bellezza dell'amore: quando
compare Rebecca, come se spuntasse dalla devota
preghiera di Eliezer, il narratore si compiace nel
descrivere una fanciulla bella e sveglia (Gn 24,15-
16). Attraverso la penna dello scrittore sembra
quasi di vedere la vivace intraprendenza di
Rebecca, che risponde alla richiesta di Eliezer di
avere un po' d'acqua agendo «in fretta »; non si
tratta dello spicciarsi frettoloso di chi vuol togliersi
di dosso un'incombenza quanto prima possibile, ma
della fretta tipica di una sensibilità accogliente, di
un animo attento, di un cuore generoso: «In fretta
calò l'anfora sul braccio e lo fece bere... in fretta
vuotò l'anfora nell'abbeveratoio, corse di nuovo ad
attingere al pozzo e attinse per tutti i cammelli di
lui » (Gn 24,18-20). La disponibilità accogliente
della ragazza si traduce presto nella concretezza
dell'ospitalità, almeno per quello che lei può offrire.
Eliezer, infatti, chiede alloggio nella casa paterna di
Rebecca, ma la fanciulla non può disporre dei beni
di famiglia, che invece cadono sotto
l'amministrazione degli uomini del clan. Tuttavia,
Rebecca presenta la sua casa con spontanea
52
sincerità: «C'è paglia e foraggio in quantità da noi e
anche posto per passare la notte» (Gn 24,25).
Toccherebbe al padre della fanciulla offrire
ospitalità allo straniero, ma, curiosamente, Betuel
quasi scompare dietro la presenza vigile del figlio
Labano. Questi, alla vista dei regali preziosi che il
forestiero al pozzo ha messo al naso e sulle braccia
di Rebecca, si affaccia sulla scena come figura
decisamente contraria alla sorella. Forse medita
soltanto di ottenere fruttuosi vantaggi dal ricco
straniero; certo con il suo comportamento ci inette
al corrente degli elementi tipici dell'ospitaIità
all'orientale: «Eliezer entrò in casa e Labano tolse il
basto ai cammelli, fornì paglia e foraggio ai
cammelli e acqua per lavare i piedi a lui e ai suoi
uomini. Quindi gli fu posto davanti da mangiare »
(Gn 24,32-33). Se non fosse per la presentazione
piuttosto fosca che il narratore ha appena fatto di I
,abano, verrebbe spontaneo accostarlo al quadro I
uminoso di Gn 18, dove si esaltava l'accogliente
ospitalità di Abramo, tanto sensibile e premuroso
verso i tre forestieri incontrati all'ingresso della Ala
tenda: « Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi
i piedi e accomodatevi sotto l'albero. Perinettete
che vada a prendere un boccone di pane e
rinfrancatevi il cuore» (Gn 18,4-5). L'episodio si
conclude nei pressi di un altro pozzo, nella località
di Lacai-Roi: qui davvero i due protagonisti sono
messi sullo stesso livello di Abramo. II vecchio
patriarca, alle Querce di Mamre, «alzò gli occhi e
vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui »
53
(Gn 18,2). Qui, il parallelo è sorprendente nella
descrizione della reciproca apertura dell'accoglien-
za, che presto cede il passo all'amore: «Isacco uscì
sul far della sera per svagarsi in campagna e, al-
zando gli occhi, vide venire i cammelli. Alzò gli
occhi anche Rebecca, vide Isacco e scese subito dal
cammello» (Gn 24,63-64).
Nel suo insieme, il racconto elogia
l'accoglienza e l'ospitalità, presentandole come il
frutto più gustoso della benedizione divina. Non a
caso, il termine benedizione è tra quelli che
ricorrono più spesso nella lunga narrazione. La
bella, dinamica e accogliente Rebecca, di fatto, è la
splendida sintesi della benedizione di Dio: il suo
nome contiene proprio le tre consonanti basilari
della radice brk, che in ebraico significa, appunto,
benedizione.
54
Cristo, non c'è nulla da vergognarsi, anzi c'è da glo-
riarsi. Ma se non lo accogli come accoglieresti
Cristo, non lo accogli affatto. Infatti, egli dice:
«Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40).
(Giovanni Crisostomo, Omelia sulla Prima
lettera a Timoteo 14,2: PG 62,573)
57
significa che non avrà ostacoli e problemi da
affrontare. Vive positivamente la sua condizione di
migrante e di forestiero nelle diverse località in cui
gli capita di abitare e, proprio per questa caparbia
positività, non può dimenticare di essere uno
strumento della provvidenza, anche nei frangenti
più cruciali della sua vita. Già dalla sua prima fuga
dalla casa paterna, quando si vede a stretto
confronto con suo fratello Esaù, giustamente
adirato per i guai che gli ha causato. Siamo al
capitolo 28 del libro della Genesi, che presenta
narrativamente una sintesi dell'intera vicenda di
Giacobbe. Il brano che copre i vv. 10-22 ha una sua
completezza strutturale: si apre con la menzione del
viaggio del Patriarca, che riassume i fatti dei
capitoli precedenti. Non si tratta di un viaggio di
piacere: Giacobbe è costretto a lasciare il suo paese
a causa dei dissapori con Esaù, che ha addirittura
complottato per ucciderlo (Gn 27,41). Giacobbe
lascia la patria di origine e si mette in cammino
verso una terra straniera: « Partì da Bersabea e si
diresse verso Carran» (v. 10). In chiusura, si fa
ancora riferimento alla casa paterna, nella
manifestazione del desiderio di tornare indietro,
completato da un voto: «Se Dio sarà con me e mi
proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi
darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritor-
nerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore
sarà il mio Dio» (vv. 20-21).
La narrazione si sviluppa in tre momenti:
l'esperienza di Giacobbe a Luz/Betel; la sua
58
istintiva reazione al sogno notturno; il voto al
Signore. Le tre parti hanno uguale rilievo, anche se
di solito ci fermiamo a considerare soltanto la
prima delle tre sezioni, che è la più ricca di
immaginazione e si presta Facilmente a suggestive
rappresentazioni.
Non è la prima volta che la Bibbia presenta
un personaggio in viaggio in terra straniera, al
calare del giorno: i viandanti accolti da Abramo
alle Querce di Mamre arrivano di sera a Sodoma
(Gn 19, 1-3); nel libro dei Giudici si racconta di un
levita di Efraim che arriva a Gerusalemme «
quando il giorno era di molto calato » (Gdc 19,11).
Ma in questi due casi, i forestieri in viaggio trovano
ospitalità presso qualche abitante del posto. Anzi,
pare che l'autore biblico ci tenga a far emergere le
caratteristiche es. cnziali e sacre dell'ospitalità
orientale: la porta aperta, la lavanda dei piedi,
l'alloggio, il cibo, l'aiuto per proseguire il viaggio.
Invece, nel caso di Giacobbe, il Patriarca
passa la notte all'aperto, sotto le stelle: Forse perché
si trovava lontano da villaggi abitati. Ma al v. 19 si
dice che il posto ha un nome, anzi è una città: Luz.
Forse il narratore vuole intenzionalmente mettere in
risalto la condizione di estraneità del migrante
Giacobbe; oppure, vuol suggerire che Giacobbe
trova un'accoglienza che supera la tradizionale
generosità ospitale, perché Dio stesso viene a
prendersi cura di lui. Sta di fatto che il luogo nel
quale Giacobbe si ferma a dormire subisce una
profonda trasformazione: all'inizio è soltanto un
59
luogo qualsiasi, senza precisazione topografica (v.
11); poi Giacobbe capisce che quel posto
insignificante è riempito da una presenza: «II
Signore è in questo luogo e io non lo sapevo » (v.
16). Alla fine, la posizione geografica si fissa per
sempre con un toponimo nuovo, evocativo di una
memoria storica: «Chiamò quel luogo Betel» (v.
19). Pare che il centro del racconto si raccolga pro-
prio sulla scoperta di Giacobbe, che mette in rela-
zione il luogo straniero con una familiarità che
adesso gli rende caro quel posto: « Quanto è
terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di
Dio, questa è la porta del cielo» (v. 17).
Il racconto si situa in un contesto di viaggio,
lungo la via, dove il protagonista principale è un
migrante, un esule. Tutti questi elementi dicono
incertezza, precarietà, insicurezza. Eppure, l'agire
provvidente di Dio opera una radicale
trasformazione dell'intero quadro iniziale. Il luogo
che ospita Giacobbe per la notte è di fatto un non-
luogo: si trova tra due posti ben identificabili ma
lontani, per cui assume tutte le caratteristiche di un
posto insicuro e rischioso. La venuta di Dio, però,
lo trasforma in luogo cruciale per la storia della
promessa: Giacobbe lo ricorderà come il luogo del
suo primo incontro con Dio (Gn 48,3-4), mentre la
tradizione ebraica fissa in quel luogo il santuario di
Betel, la casa di El. Ma anche Giacobbe subisce
una radicale trasformazione. In quanto esule e
migrante, Giacobbe è un fuggitivo; vive una
situazione di marginalità; è in preda alla paura e
60
non può sottrarsi al misterioso dominio del sonno e
del sogno. Insomma, come tutti i migranti,
Giacobbe ha perso il controllo del proprio destino.
Lontano dalle sicurezze paterne è una non-
persona, in balia di tutto ciò che di imprevisto può
accadere. E, ancora una volta, la venuta dell 'Altro,
al quale Giacobbe non può opporre resistenza,
opera una provvidenziale trasformazione: l'esule
fuggiasco diventa una persona cruciale per la
promessa. Dio lo ha scelto come strumento di con-
tinuità per la storia di liberazione e di salvezza, che
ha instaurato con Abramo e rinnovato con Isacco.
La provvidenza divina trasforma anche la
disperazione dell'esule.
61
di Cristo ». È necessario però che l'uomo di Dio sia
integro e perfetto. Ecco la vera nascita nostra.
(Gregorio di Nissa, Omelie sull'Ecclesiaste
6: PG 44,702)
62
avventure dell'antenato e, nello stesso tempo, pole-i
n izza e ride sulle disfatte dei suoi antagonisti
storici. I ,a narrazione epico-leggendaria inizia
umoristicamente quando Esaù e Giacobbe, i due
gemelli di Isacco e Rebecca, scalciano già nel
grembo materno (cfr. Gn 25,22) e continua sulle
tracce della personalità ambigua e ambivalente di
Giacobbe, sfrontato imbroglione ma anche
fiducioso credente, attraverso il quale Dio ha deciso
di portare avanti la sua promessa e di consolidare la
sua alleanza.
Tra i tanti racconti, che avviano tutto
l'intreccio narrativo e che procedono sui registri
alterni dell'umorismo e della riflessione attenta e
marcatamente teologica, emerge un testo di concisa
e drammatica invocazione a JHWH la preghiera
che si legge in Gn 32,10-13. In tutto il libro della
Genesi, questo è l'unico esempio di orazione, che
mostra una certa ampiezza e articolazione. E la
preghiera dell'esule sulla via del ritorno in patria.
Più precisamente, bisognerebbe dire che l'esule
orante è in viaggio verso la «casa di suo padre»
Isacco, dopo aver vissuto per vent'anni in casa dello
zio Labano, in Mesopotamia, la terra natia di
Abramo, padre di Isacco. Ma, dopo l'emigrazione
di Abramo, la vera patria, secondo il narratore
biblico, è la terra promessa: Giacobbe, dunque,
abbandona la patria di origine degli antenati per
tornare nella patria della promessa, dell'alleanza,
della salvezza.
63
La preghiera di Giacobbe è particolare,
perché nasce dalla paura di guardare in faccia quelli
che un tempo aveva imbrogliato, quando era
scappato via di casa dopo aver ingannato suo padre
e suo fratello. Soprattutto, ora teme la vendetta di
Esaù, ha paura di perdere tutto quello che ha
faticosamente costruito nei vent'anni trascorsi in
terra lontana. Alle porte di casa, Giacobbe si rivela
ancora una volta in tutta la sua ambivalenza:
mentre prega Dio con devoto fervore, già pianifica
le strategie che gli possano garantire il successo nel
confronto con Esaù. Ma è proprio su questi toni che
si gioca l'abilità artistica del narratore biblico, che
tesse la trama dell'eroe nazionale senza dimenticare
che tutto il meraviglioso affresco rivela i tratti di
pennello della mano divina.
L'intelligente progetto di Giacobbe, di fatto,
da una parte risponde al desiderio degli ascoltatori
di esaltare la figura del patriarca; dall'altra
conferma che Dio è sempre presente e all'opera,
indirizzando le vicende storiche e i loro
protagonisti verso il compimento del suo progetto
di salvezza. L'esule Giacobbe, dunque, rientra in
patria scortato dalla benevolenza divina, ma anche
dalla propria sagace intraprendenza. II narratore ci
tiene a mettere in primo piano la presenza di Dio.
Era stato l'angelo di Dio a fissare la data del
rientro, quando gli era apparso in sogno e gli aveva
detto: « Io sono il Dio di Betel, dove tu hai unto
una stele e dove mi hai fatto un voto. Ora alzati,
parti da questo paese e torna nella tua patria! » (Gn
64
31,13). Si sente l'eco del comando che aveva dato
inizio alle peregrinazioni di Abramo, diretto verso
la terra della promessa: o Vattene dal tuo paese,
dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il
paese che io ti indicherò » (Gn 12,1). Anzi, sulla
via del ritorno, l'esule riceve la dbnferma della
benedizione di Dio da parte di quegli angeli che già
avevano segnato la sua storia, quando fuggiva
lontano da casa vent'anni prima: «Mentre Giacobbe
continuava il viaggio, gli si fecero incontro gli
angeli di Dio. Giacobbe al vederli disse: "Questo e
l'accampamento di Dio" e chiamò quel luogo
Marcanaim» (Gn 32,2-3).
Ma accanto alla prospettiva teologica del
ritorno in patria, il narratore pone anche elementi
del tutto umani, che si possono cogliere nella
volontà di far ritorno al paese d'origine. Ci sono
indizi che non devono sfuggire a chi legge
attentamente il racconto biblico, anche se
compaiono indirettamente e si nascondono dietro i
terni che formano il primo piano di tutta la vicenda.
Mentre Giacobbe abbandona La bano e scappa
portandosi via tutta la sua numerosa famiglia, con
le proprietà che ha acquistato negli anni di duro
lavoro come emigrato, suscita l'ira dello zio per il
fatto di essersene andato senza permettergli di
salutarlo e, soprattutto, rubandogli gli idoli
domestici (cfr. Gn 31,19). Forse questi sono
soltanto espedienti che il narratore mette in campo
per spiegare la decisione di Labano di inseguire
Giacobbe sulle montagne di Galaad per sette giorni
65
di cammino (cfr. Gn 31,23). 0 forse, più probabil-
mente, anche qui si svela il sorriso umoristico e iro-
nico del narratore, che dichiara una nullità di fronte
a JHWH tutti gli idoli, che possono essere portati
qua e là, nella sella di un cammello e difesi da una
donna, che vi si siede sopra proprio quando il ciclo
naturale delle mestruazioni la allontana dal contatto
con la divinità (Gn 31,35)! Ma a noi interessa ri-
levare la reazione di Labano di fronte a Giacobbe.
Anzitutto, poco importa se Labano se ne esce con
espressioni false o genuine; di fatto, rivela quel rea-
le sentimento di sofferenza che provoca il distacco
forzato dalle persone care, che si vorrebbe mitigare
almeno con la mesta dolcezza dei canti e delle feste
d'addio: « Perché sei fuggito di nascosto, mi hai in-
gannato e non mi hai avvertito? Io ti avrei conge-
dato con festa e con canti, a suon di timpani e di
cetre! E non mi hai permesso di baciare i miei figli
e le mie figlie! » (Gn 31,27-28). Poi, Labano dice
realisticamente le ragioni tutte umane di Giacobbe,
che riflettono i pensieri di chiunque decida di far
ritorno in patria, staccandosi dalla terra straniera,
he pure gli ha dato benessere, prosperità, riccheza:
« Certo, sei partito perché soffrivi di nostalgia per
la casa di tuo padre» (Gn 31,30). Anche se sono
passati vent'anni da quando Giacobbe è fuggito da
Bersabea; anche se ha vissuto da emigrato
privilegiato, aiutato e protetto dai parenti più stretti;
anche se ha fatto fortuna oltre misura e ha messo su
famiglia nella nuova patria di adozione, Giacobbe
non ha smesso di pensare alla casa di suo padre. Il
66
narratore non dice se Giacobbe si muove per
tornare in patria a malincuore o volentieri. Tuttavia,
i contrasti nella casa di Labano e la fretta di partire,
confortata dal decisivo suggerimento delle mogli
Lia e Rachele, lascia intuire che il desiderio di
tornare sui suoi passi abbia animato il patriarca di
nuovo entusiasmo, pur sapendo di doversi
confrontare con suo fratello Esaù, che un tempo
aveva ingannato e derubato.
67
tutti gli accorgimenti che usano i pescatori per
catturare i pesci.
Ora è soltanto allo Spirito Santo che
appartiene il compito di purificare le menti.
(Diadoco di Fotice, Capitoli sulla
perfezione spirituale 12.13.14: PG 65,1171-1172)
69
otterranno molto, se la mano provvidente di Dio
non lo sosterrà. Proprio incastonata in mezzo alle
numerose predisposizioni pratiche, emerge allora
come una pietra preziosa la preghiera di Giacobbe.
La riflessione teologica dello scrittore biblico si
offre al lettore con una sintesi stupenda di poesia e
di fede, di forte densità e di stretta aderenza
all'intera tradizione biblica.
Il testo ha un andamento ritmico molto
coinvolgente: è un elegante componimento che si
articola in quattro parti.
1. Giacobbe non ha dimenticato le sue radici
e, anzi, inquadra tutta la sua vicenda storica nei
forti legami di parentela, là dove Dio stesso si era
fatto presente e si era compromesso con la
stipulazione dell'alleanza. Egli è il destinatario
della promessa e, mostrando ancora una volta i
tratti del suo carattere ostinato e tenace, prega Dio
intendendo vincolarlo a rinnovare l'antico impegno
di protezione e di benedizione. Dio viene quasi
costretto a ricordare che Giacobbe, servo fedele
come i suoi antenati, ha n cito unicamente in
obbedienza al comando divino. Abramo era partito,
obbedendo a Dio, emigrando in terra straniera:
Giacobbe comprende se stesso come la conclusione
delle peregrinazioni di Abramo, dal momento che,
in obbedienza al volere di Dio, anch’egli è partito
per rientrare nella « terra della promessa». La sua
preghiera mette in primo piano il desiderio del
ritorno, sorretto dalla certezza che Dio gli sta a
fianco, «per fargli del bene».
70
2. Paradossalmente, Giacobbe usa un'arma
invincibile per ottenere la protezione di Dio: l'u-
miltà. Prima di lasciare la sua terra di origine, era
novero e « piccolo », quella piccolezza che, oltre al
senso letterale quantitativo, punta anche a un si-
gnificato metaforico profondo: di fronte a Dio,
Giacobbe riconosce di essere insignificante, inde-
rno, immeritevole di hesed e di `emet. Si tratta delle
due qualifiche che la tradizione biblica ha una-
nimemente applicato alla divinità: la fedeltà e la
misericordia (cfr. Es 34,6). E tuttavia, proprio la
munificenza di Dio ha trasformato Giacobbe; tutta
Li sua fortuna, materiale e spirituale, è scaturita
dalla fonte di gratuità c di benevolenza che è Di.
stesso.
3. Fin qui Giacobbe ha introdotto il suo
dial.... orante. Finalmente esplicita la sua richiesta,
che è u a pressante supplica di liberazione da una
situazione d paura. di angoscia, di oppressione:
«Liberemini (G 32,11). (:eponimo dell'antico
Israele non fa che for mutare la preghiera più tipica
della comunità biblica, quella che ricorre
soprattutto nei Salmi (7,1-2: 31, 15.16: 59,2.4;
142,6.7; 143,9; 144,11. ecc.). Anche il ritorno a
casa può rivelarsi carico di incognite. Giacobbe,
poi, sa di andare incontro al pericolo pi i
dirompente: invece della benedizione e della
proones sa. il rientro nella patria di origine
potrebbe diventare occasione di distruzione e di
morte. Per questo l'invocazione di Giacobbe
assume un tono drammatico e toccante: è il grido
71
della paura, che tuttavia rifiuta la disperazione, per
farsi espressione di fiducia nella misericordia di
colui che può scrivere diritto anche sulle. righe
storte degli uomini e della storia.
4. Non si può fare a meno di notare
l'eleganza e la finezza psicologica con cui lo
scrittore ha elaborato questo testo. Il punto di forza
è una dichiarazione di fede, forte e densa di
ottimismo, che apre la preghiera e In conclude: «Ti
farò del bene... certo, io ti farò del bene (On
32.9.121. L'esule fa leva sulla bontà di Dio,
consapevole che la divinità non può sottrarsi alla
definizione stessa della sua essenza: nella
tradizione biblica, Dio non è caratterizzato in
astratto, con definizioni filosofiche o teologiche:
invece, è colui che cammina con l'uomo, che sua
con lui, che effonde sudi lui benevolenza e
misericordia (cfr. Es 3,12.14: 4.12 ecc.). In
definitiva, Giacobbe non invoca soltanto un
intervento puntuale di Dio, ma Ia sua fedele
protezione e benedizione, garante di prosperità e di
posterità: solo così potrà davvero rientrare nella
terra promessa e sentirsi «a casa», non più esule e
straniero.
72
bevono a una fonte. La tun parola offre molti
aspetti diversi, come numerose sono le prospettive
di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la
sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la
scrutano possano contemplare cio che preferiscono.
Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché
ciascuno di noi trovi una ricchezza in cio che
contempla.
La sua parola è un albero di vita che, da
ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come
quella roccia aperta nel deserto, che divenne per
ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale.
Essi mangiarono, dice l'Apostolo, un cibo spirituale
e bevvero una bevanda spirituale (cfr. ICor IC), 2).
(Efrem Siro, Continenti dal Diatessaron
1,18: SourcesChrttiennes 121,52)
Poi levarono
l'accampamento da Betel. Mancava
ancora un tratto di cammino per
arrivare ad Errata, quando Rachele
partorì ed ebbe un parto difficile.
17Mentre penava a partorire, la
levatrice le disse: «Non temere:
anche questo é un tiglio! ».
18Mentre esalava l'ultimo respiro,
perché stava morendo, essa lo
chiamò Ben-Oni, ma suo padre lo
chiamò Beniamino. 19Così
Rachele morì e fu sepolta lungo la
73
strada verso Efrata, cioè Betlemme.
20Giacobbe eresse sulla sua tomba
una stele. Questa stele della tomba
di Rachele esiste fino ad oggi (Gn
35,1.6-20).
74
centro della narrazione si pone la nascita del figlio,
che coincide con la morte della madre: l'esperienza
del cammino sembra emergere come paradigma
della vittoria de`fiuitiva della vita sulla morte. La
vita nasce quando Rachele muore; quando morte e
vita si incontrano compare il figlio, che è un
prolungamento della vita della madre, la quale si
spegne proprio perché nasca una nuova vita.
Dunque, strutturalmente, il 18 è in posizione
centrale, con la duplice ripetizone del termine ben,
figlio, che chiude e compleil travaglio della
partoriente. L'esperienza del parto porta sempre in
sé un elemento di morte, bolico e reale: la madre,
oltre alla sofferenza, sperimenta anche il distacco,
la perdita del figlio, proprio perché il figlio acquisti
vita propria. La madre che porta in sé la vita, riceve
la vita e la riconosce quando accetta che il figlio è
altro da sé. Simbologia e realtà coincidono per
Rachele, che rinuncia a possedere suo figlio e
rinuncia alla sua stessa vita. Sembra addirittura che
rinunci anche al nome del proprio figlio, che
Giacobbe cambia da Ben-Oni a Ben-Yamîn.
Il passaggio non è chiaro, richiede
un'ulteriore introspezione. Le traduzioni antiche,
greche e latine, interpretano l'appellativo fornito da
Rachele come un'espressione negativa: la madre,
morendo, cercherebbe di lasciare nel figlio un
segno del proprio dono di vita. Ben-'awen sarebbe
da intendere come figlio del dolore, del lutto, della
disgrazia di Rachele, che in questo modo
sopravvive alla sua morte nella vita del figlio. Ma
75
questa interpretazione è problematica: Rachele era
sterile e, dunque, già considerata morta; ma Dio,
rendendola feconda, l'ha strappata alla morte (Gn
30,1.22-24). Ora che Dio la rende partecipe del
dono della vita, perché mai dovrebbe sussistere nel
destino di un figlio, che nel proprio nome indica
invece la tragica potenza della morte? In realtà, il
nome Ben-Onî è ambivalente e potrebbe essere
inteso piuttosto come figlio del mio 'on, dove
questo termine, in ebraico, fa riferimento al vigore
sessuale. Rachele, dunque, potrebbe alludere alla
nuova vita, che prende forma dalla sua morte, come
frutto estremo della sua forza, della sua capacità
generatrice, dono del Dio della vita.
Spetta a Giacobbe sciogliere ogni ambiguità
e manifestare con chiarezza il desiderio della
madre, trasformando il figlio del dolore nel figlio
della forza. Infatti, con il suo intervento, spiega che
quel figlio nato sulla via che conduce a Efrata, è
Ben-Yamîn, cioè figlio della destra. Per gli ebrei,
geograficamente la destra indicava il sud; ma più
comunemente la destra era la mano delle relazioni
interpersonali, del lavoro, della battaglia. Il figlio di
Rachele, dunque, viene salutato come figlio della
felicità, della forza, della fortuna.
Ecco manifestato il senso vero della morte
lungo cammino: e il dono della vita. perche l'altro
povt.a veramente vivere. Rachle stessa libera suo
figlio dal ricordo del proprio sacrificio. La morte
delta madre, dalla quale sboccia la vita e in realtà
un passaggio alla ricchezza e alla forza. Sciolta
76
questa ambiguite, anche Benianino potrà ricordare
in morte delta madre, che non e stata morte sterile
ma dono di vita. A questo scopo viene eretta una
stele sul luogo della sepolturo, non a ricordo della
morte, ma come segno del perpetuarsi delta vita di
generazione in gencrazione. Non devono sfuggirci,
in questo orizzonte, le parole della levatrice: Non
temere: anche questo e un figlio!. L’esortazione al
superamento della poura, cosi frequente in tutti gli
scritti biblici ripreso piu volte sulle labbra di Gesu,
trasforma la morte in vita, dichiarando la vittoria
sulla morte verso in vita in pienezza. Gesu
diventera definitivamente paradigma della vittorla
sulla morte ma soltanto quando sacrifichera la sua
vita per donare la vita all’umanita. (Gv 20.31).
77
(Cipriano di Cartagine, Trattato sul Padre
nostro 1-3: CSEL 3,167-168)
L'UNIVERSALISMO OLTRE A
CONSAPEVOLEZZA DELL'ELEZIONE
27
Poi Giacobbe venne da
suo padre Isacco a Mamre, a
Kiriat-Arba, cioè Ebron, dove
Abramo e Isacco avevano
soggiornato come forestieri.
28
lsacco raggiunse l'età di
centottant'anni. 29Poi Isacco spirò,
morì e si riunì al suo parentado,
vecchio e sazio di giorni. Lo sep-
pellirono i suoi figli Esaù e
Giacobbe (Gn 35,27-29).
78
suoi personaggi. L'elezione assume nil carattere di
positiva missione affidata a Israele e in patriarchi,
in modo che la misericordiosa bontà oulvifica di
Dio raggiunga tutti i popoli.
Il primo libro della Bibbia insiste con
grandissimo zelo sull'elezione dei patriarchi, ma al
tempo stesso afferma la legittimità anche degli altri
popoli e, perciò, offre un'ampia prospettiva, che
intende presentare Dio come Dio di tutti i popoli:
per questo alcuni studiosi, come H.G. Reventlow,
sostengono che nel libro della Genesi non bisogna
perdere di vista l'orizzonte universalistico, oltre il
temp dell'elezione che senza dubbio balza in primo
piano. A questo proposito, diventa interessante il
passo, a prima vista senza particolare rilievo,
situato in Gn 35,27-29 e riportato più sopra.
Il testo chiude il «ciclo di Giacobbe» e
include anche la storia di suo fratello Esaù,
eponimo di Edom, il popolo degli Idumei. Infatti, il
capitolo 36 offre una lunga e meticolosa genealogia
di Esaù, il quale però non comparirà più nei testi
successivi, e l'inizio del capitolo 37, mentre apre il
«ciclo di Giuseppe », aggancia saldamente il passo
appena sopra riportato: « Giacobbe si stabilì nella
terra dove suo padre aveva vissuto come forestiero
», che va completato con Gn 49,33: «Quando
Giacobbe ebbe finito di comandare ai suoi figli,
ritirò i suoi piedi nel letto e spirò, e fu riunito al
popolo suo ». Proprio l'attenzione universalistica
alla legittimazione di tutti i popoli, di cui Dio è
l'unico Signore, spiega la forte insistenza su Esaù,
79
in un contesto dove chiaramente il protagonista
principale è suo fratello Giacobbe, che la tradizione
biblica presenta come scelto da Dio in linea di
continuità con Abramo, Isacco e Ismaele.
Notiamo, infatti, il duplice argomento
narrativo. L'elezione, anzitutto, è sottolineata nei
tratti comuni con cui si descrive l'ultimo respiro, a
cui segue la dichiarazione ufficiale dell'abbandono
della vita terrena, il ricongiungimento con gli
antenati e la pieetosa opera di seppellimento tanto
di Abramo (Gn 25,8) come di Ismaele (Gn 25,17),
Isacco (Gn 35,29) e Giacobbe (Gn 49,33). C'è
anche da rileva che i patriarchi di Israele sono
caratterizzati da uno statuto che non è affatto
marginale: tutti sono clasificati come « stranieri di
passaggio, residenti temporanei », per il fatto che
soggiornano come forastieri in una terra che non è
di loro proprietà. E, alla loro morte, vengono
collocati insieme nell'unico appezzamento di
terreno acquistato da Abramo in terra straniera (Gn
23), ben localizzato dal passo che stiamo
analizzando: «A Mamre, a Kiriat-Arba, cioè Ebron
». Gli antenati vivono in condizione di estraneità,
ma non di anonimato, l'attesa della paria promessa.
Tra l'altro, sono tanto benedetti da Dio da vivere
una vita lunghissima, « sazi di giorni »: Abramo
muore a 175 anni, Ismaele a 137 e Isacco a 180. È
chiaro che ci troviamo di fronte a una specifica
tradizione culturale, che intende motivare con toni
di esaltazione la genealogia storica di Israele come
popolo; nella visione cristiana, poi, questo sviluppo
80
torna utile alla ricerca della discendenza eletta che
conduce a Gesù. Tuttavia, che si accentuano troppo
questi elementi, si corre il rischio di non
comprendere l'inclusione di Esaù e, anzi, di dimen-
ticarlo, dal momento che ha preferito un piatto di
lenticchie alla primogenitura...
Ma la tradizione non ha fretta
nell'accantonare Esaù e proprio su questo aspetto il
redattore biblico ci stimola a riflettere. Di fatto,
Esaù viene sempre trattato con considerazione e
rispetto, anche quando si lascia prendere dalla
collera contro gli imbrogli di Giacobbe (Gn 27,34-
41). Al capezzale di Isacco si trovano fianco a
fianco Giacobbe ed Esaù; anzi, il testo biblico li
menziona nel loro ordine di nascita: prima Esaù,
poi Giacobbe. Di fronte al vecchio padre morente,
non si ricorda più che tra i due c'erano stati forti
discordie. Sembra addirittura che la morte del padre
sia in funzione della loro riconciliazione, tanto è
vero che, poco più avanti, la loro migrazione in
territori diversi viene letta in parallelo alla storia di
Abramo e Lot (Gn 13). Dunque, lo scrittore biblico,
anche se è certamente interessato a elaborare una
tradizione favorevole a Giacobbe, non mostra di
ripudiare o di estinguere Esaù. Egli ". c'è, è lì,
presente. La Bibbia sceglie di seguire la di-
scendenza di Giacobbe, ma non abbandona 1a
storia di Esaù. Ecco perché il libro della Genesi
presenta una notevole ampiezza di prospettive:
nella misericordia di Dio c'è posto sia per Giacobbe
che per Esaù, sia per gli islamici, che leggono la
81
loro discendenza da Esaù, sia per ebrei e cristiani,
che collegano la loro figliolanza a Giacobbe. Nel
libro biblico si fa avanti la proposta della creazione
di un solo popolo, con un solo Dio. Soltanto nel VI
e V secolo si solleveranno polemiche contro Edom-
Esaù (soprattutto nelle profezie di Abdia e
Malachia), ma a questo livello di interpretazione
non viene affatto messa in discussione la legittimità
di re e principi discendenti da Esaù (Gn 36,31) e la
genealogia di Gn 36 punta a fondare la
partecipazione di Edom e della sua comunità alla
promessa che Dio fece ad Abramo e a Sara: «Io la
(Sara) benedirò e anche da lei ti darò un figlio; la
benedirò e diventerà nazioni e re di popoli
nasceranno da lei» (Gn 17,16).
Persino il libro del Deuteronomio, che
ripropone spesso l'elezione di Israele (cfr. Dt 7,6-
8), non esita a dichiarare anche l'ampiezza di
destinazione della misericordiosa salvezza di Dio: «
Non avrai in aboInio l'edómita, poiché egli è tuo
fratello» (Dt 5,7). La comunità cristiana si colloca
in stretta euntinuità con questa visione universale,
quando rilegge l'impegnativa affermazione che il
quarto Vangelo pone sulla bocca di Gesù: «Ho altre
pecore che non sono di questo ovile. Anch'esse io
devo guidare, ascolteranno la mia voce e saranno
un solo regge, un solo pastore» (Gv 10,16).
82
Colui che ha detto: « Non un solo capello
cadrà dal vostro capo» (Lc 21,18), «tutto attira a sé
» (Gv 12,32). Se però tutto vuol dire tutti gli
uomini, possiamo dire che tutto è stato predestinato
alla salvezza e niente andrà perduto, come ha detto
prima parlando delle sue pecore (Gv 10,28).
Oppure tutto vuol dire tutte le categorie degli
uomini d'ogni Lingua e d'ogni età, senza
distinzione di razza o di classe, di talento, di arte e
di mestiere, al di là di qualsiasi altra distinzione
che, al di fuori del peccato, possa essere fatta tra gli
uomini, dai più illustri ai più umili, dal re fino al
mendico. Tutto — egli dice —attirerò a me, in
quanto io sono il loro capo ed essi le mie membra.
(Agostino d'Ippona, Trattati sul Vangelo di
san Giovanni 52,11: CCL 36,450)
GIUSEPPE IN EGITTO: LA
PROVVIDENZA IN TERRA STRANIERA
83
Giuseppe, un ragazzo diciassettenne che Giacobbe,
suo padre, «amava più di tutti i suoi figli, perché
era il figlio avuto in vecchiaia» (Gn 37,3). Ma
anche Giuseppe, che pure sembra il perno di tutti
gli avvenimenti che coprono ben 14 capitoli, non è
che uno strumento attraverso il quale si manifesta
sempre più chiaramente l'agire provvidente di Dio.
Così come, di volta in volta, compaiono sulla scena
diretta e governata dalla provvidenza, i fratelli di
Giuseppe, il regno d'Egitto (che volutamente resta
storicamente indeterminato), la carestia in Canaan,
l'emigrazione forzata in Egitto, la morte di
Giacobbe e, in lontananza, anche la morte di
Giuseppe. La narrazione scorre su una trama
elaborata artisticamente, non più sull 'accostamento
di diverse memorie tribali, come nei precedenti
capitoli. Non ci sono più interventi soprannaturali e
teofanie, ma soltanto l'avvicendarsi di fatti comuni,
dove non hanno tanto rilievo le virtù o le cattiverie
dei protagonisti umani, quanto la certezza che i
progetti di Dio giungeranno sicuramente a termine.
Tuttavia, il narratore ha dovuto scegliere un
artificio letterario per proporre questo assunto
centrale, servendosi di antichi racconti sorti in area
palestinese, ma che tradiscono una chiara influenza
egizia, soprattutto nel ricorso a articolari vocaboli,
usi e costumi. Il filo conduttore i tutto il ciclo di
Giuseppe è costituito dagli spostamenti geografici
dei personaggi che a turno vengono messi in
campo, quasi in tensione tra la terra di Canaan e
l'Egitto. Il tema della provvidenza divina viene
84
affidato all'emigrazione, come elemento narrativo
che unifica i fatti di quest'ultima sezione delle
storie bibliche patriarcali.
Forse il narratore ha scelto la dinamica
dell'emigrazione perché risponde molto bene alla
creatività della provvidenza di Dio, con i toni
comuni della meraviglia e della disarmante novità,
dove però non mancano la conflittualità, l'incontro
con l'ignoto, la fatica del rischio. Ed ecco, allora, la
variopinta topografia dell'intero ciclo: si parte da
Canaan, dove « Giacobbe si stabilì, nel paese in cui
suo padre era stato forestiero» (Gn 37,1), poi ci si
sposta a Sichem e a Dotan (Gn 37,12.17) e, infine,
in Egitto (Gn 37,28). A seguito della carestia, i
fratelli di Giuseppe lasciano Canaan per scendere
in Egitto (Gn 42,3), poi viaggiano per tornare a
Canaan (Gn 42,26) e di nuovo tornano in Egitto
(Gn 43,15), da clove ripartono verso Canaan (Gn
44,3). Ma lo stratagemma escogitato da Giuseppe li
fa tornare presto ui loro passi (Gn 44,14), per poi
far loro ripercorrere la strada dall'Egitto al paese di
Canaan (Gn 45,21-25). Quindi, tutto il clan di
Giacobbe lascia la Palestina per emigrare in Egitto,
facendo tappa a Bersabea (Gn 46,1-7). I capitoli
conclusivi non si accontentano di descrivere gli
spostamenti dei vari personaggi, ma ne sottolineano
anche le motivazioni, con una prospettiva che
lancia lettori verso un orizzonte senza confini.
Ecco, allora, il lungo racconto della sepoltura di
Giacobbe, che ha tutti i toni di una solenne liturgia,
preceduta da un'imponente processione che va
85
dall'Egitto fino alla caverna di Macpela, a Ebron,
con tappe intermedie (Gn 50, 7-14). Il luogo della
sepoltura viene enfatizzato più volte nelle battute
conclusive, come se la proprietà sepolcrale di
Macpela fosse considerata la vera patria del popolo
biblico, il «paese dei padri» (Gn 47,29-30; 48,21;
49,29-33; 50,13). E anche le raccomandazioni
finali di Giuseppe sembrano confermare questo
orientamento, ancora una volta mettendo in
movimento tutta la popolazione per risalire
dall'Egitto alla terra di Canaan: «Giuseppe disse ai
fratelli: "Io sto per morire, ma Dio verrà certo a vi-
sitarvi e vi farà uscire da questo paese verso il
paese che egli ha promesso con giuramento ad
Abramo, a Isacco e a Giacobbe". Giuseppe fece
giurare ai figli di Israele così: "Dio verrà certo a
visitarvi e allora voi porterete via di qui le mie
ossa"» (Gn 50,24-25). Ma la teologia del narratore
gli impone un cambiamento di prospettiva: la
provvidenza di Dio ha già realizzato i suoi piani,
benedicendo la storia umana e favorendo l'incontro
tra i popoli; l'appezzamento di terra non è utile che
per la sepoltura, mentre il destino di Israele è di
diventare strumento di salvezza universale, come
proclama l'oracolo profetico: o ti renderò luce delle
nazioni perché porti la mia salvezza fino
all'estremità della terra» (Is 49,6). Ecco perché il
libro della Genesi si chiude con un'annotazione
laconica: «Giuseppe morì all'età di centodieci anni;
lo imbalsamarono e fu posto in un arcofago in
Egitto» (Gn 50,26). E vero che la notizia della
86
sepoltura definitiva di Giuseppe viene ripresa a
chiusura del libro di Giosuè: « Le ossa di Giuseppe,
che gli israeliti avevano portate dall'Egitto, le
seppellirono a Sichem, nella parte della montagna
che Giacobbe aveva acquistata dai figli di Camor,
padre di Sichem, per cento pezzi d'argento e che i
figli di Giuseppe avevano ricevuta in eredità » (Gs
24,32). Una tradizione che ha avuto la sua eco
anche nel libro dell'Esodo: «Mosè prese con sé le
ossa di Giuseppe, perché questi aveva fatto giurare
solennemente agli israeliti: "Dio, certo, verrà a visi-
tarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa"» (Es
13,19). Ma il narratore del ciclo di Giuseppe si
acontenta di affidare la salma del patriarca alla terra
d'Egitto, perché ha già espresso la profonda verità
che gli sta a cuore: la provvidenza di Dio ha
guidato la storia dei singoli e dei popoli, che si
sono inchinati di fronte a Giuseppe, espediente
letterario per descrivere la volontà salvifica di Dio.
Proprio sul verbo inchinarsi, infatti, il narratore
costruisce la cornice del suo artistico racconto. In
apertura dell'intero ciclo, Giuseppe sogna in due
diverse occa.,ioni che di fronte a lui vadano a
prostrarsi i suoi familiari (Gn 37,7-8) e l'intero clan
(Gn 37,9-10). I% proprio così accade: i suoi fratelli
si prostrano lavanti all'uomo della provvidenza (Gn
42,6; 13,26.28), fino a «gettarsi a terra davanti a lui
», ,topo la morte di Giacobbe (Gn 50,18). Ma
intanto, per sfuggire alla carestia, anche l'Egitto e
tutti i regni circostanti si sono sottomessi al
sognatore, venduto per venti sicli d'argento, ma
87
riscattato dalla provvidenza divina nella terra
straniera del regno egiziano: «Giuseppe aprì tutti i
depositi in cui vi era del grano, e vendette il grano
agli Egiziani, mentre, la carestia si aggravava nella
terra d'Egitto. E da tutti i paesi venivano in Egitto
per comperare grano da Giuseppe, perché la
carestia infieriva su tutta la terra» (Gn 41,56-57).
Del resto, il narratore si compiace di mettere
proprio sulla bocca di Giuseppe tutta la sintesi della
sua teologia, quando gli fa confessare di fronte ai
suoi fratelli la misteriosa ma efficace provvidenza
di Dio: «Non siete stati voi a mandarmi qui, ma
Dio ed egli mi ha stabilito padre per il fai none,
signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il
paese d'Egitto» (Gn 45,8 e 50,19-20).
88
cerchiamo di fare qualche cosa che non passi
perché, una volta passati e arrivati là donde non si
parte più, vi troviamo delle nostre opebuone. II
custode è Cristo, puoi temere di non trovarci più
quello che ci metti?
(Agostino d'Ippona, Discorsi 111,2.2: PL
38,642-643)
89
alla tua schiava, al tuo bracciante e al
forestiero che e presso di te; anche al tuo
bestiame e aggi animali che sono nel tuo
paese servirà di nutrimento quanto essa
produrrà. (Lv 25,1.7).
90
principio che Dio è l'unico suo legittimo
proprietario e il popolo ha ricevuto in dono l'uso
della terra. Ne consegue che nessuno ha il diritto di
vendere il proprio possedimento. Tutto ciò che uno
può fare è vendere i prodotti della terra ma anche
questo diritto mantiene la sua validità soltanto fino
al sopraggiungere dell'anno giubilare. Allora.
l'intero possedimento deve tornare alle dipendenze
del suo iniziale proprietario. Questa legge mette in
luce anche un secondo principio, di carattere
sociale-economico: la proprietà non è attribuita al
singoli individui, ma è un bene di famiglia, ricevuto
e tramandato all'interno del clan familiare.
Ma per quale motivo gli scrittori biblici si
sono interessati tanto alla terra? È evidente che il
comando di concedere riposo al terreno non ha un
immediato riferimento ecologico-ambientale. Oggi
questa dimensione acquisterebbe una rilevanza
davvero attuale. considerata la preoccupante
situazione in cui ci troviamo a vivere, con un
aumento costante delle catastrofi, che l'umanitù,
sconsideratamente, provoca all'ambiente. Ma
l’interesse degli autori biblici va ricercato altrove.
Il libro dell'Esodo offre l'interpretazione più chiara:
Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai
il prodotto, ma nel settimo anno non la sfrutterai e
la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del
tuo popolo e ciò che lasceranno sarà divorato dalle
bestie della campagnas (23.10-I I). La
preoccupazione evidente del testo sacro riguarda i
poveri. N el mondo biblico, al centro
91
dell'attenzione c è sempre la persona umana, creata
«a immagine e somiglianza» di quel Dio generoso e
munifico, che ha regalato la terra alle tribù del suo
popolo. E il libro del Levitico, di rimando,
completa: «Ciò che la terra produrrà durante il suo
riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, al-
la tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è
presso di te: anche al tuo bestiame e agli animali
che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto
essa produrrà. (25,6-7).
Qui sta il cuore della questione. La terra è
un regalo gratuito di Dio per tutte le creature. Nella
teologia dell'Esodo si può scorgere a chiare lettere
la pedagogia divina: prima di offrire al popolo di
Israele la Terra Promessa, che doveva apparire co-
me il coronamento del doni della provvidenza divi-
na, Israele vaga per quarant'anni nel deserto, se-
guendo un itinerario che richiama alla mente una
«geografia della salvezza più che un percorso di
viaggio. Il periodo di tempo che il popolo passa nel
deserto è una cifra simbolica, che contiene la fissa-
zione di un limite e la certezza che si tratta di una
quantità che arriverà a esaurimento, nonostante la
sua lunga durato. Ma quel tempo ha la sun
importanza: attraverso entusiasmi e tradimenti,
dichiarazioni di fedeltà e di appartenenza miste a
contese e a ribellioni, Dio conduce per mano il suo
popolo fino al dono della terra «dove scorre latte e
miele. Dalla memoria del passato, con il ricordo
dell'antico antenato, che viene definito -arameo
errante- (Dt 26.5), emerge il ricordo del popolo
92
schiavo in Egitto,-quando erano in piccolo numero,
pochi e forestieri in quella terra- (Sal 105,12; al v.
23 dice anche: -Giacobbe visse nel paese di Cam
come straniero»). Ma questi ricordi restano nel
passato, perchè Israele ha raggiunto la piena
coscienza di abitare ormai con pieno diritto la
propria terra, che à stata regalata al popolo como
frutto della promessa di Dio: -Alla tua discendenza
io darò questo paese- (Gn 12,7); -Li pianterà nella
loro terra e non saranno mai divelti dal quel suolo,
che io ho concesso loro- (Am 9,15).
Una volta entrato in quella terra, proprio il
suolo su cui Israele vive diventa comunque un forte
richiamo, un appello costante a non dimenticare la
provvidenza divina, che lo ha creato, lo ha accom-
pagnato, lo ha riempito di doni. La terra, dunque,
entra a buon diritto tra protagonisti dell'anno giu-
bilare, anzi, tocca alla terra aprire la lista di quelli
che vi sono direttamente coinvolti. E non soltanto
per amore dell'ecologia! L'attenzione si concentro
sulla persona umana, chiamata a ricordare sempre
che dalla terra è stata tralla e alla terra ritornerà.
Prospettiva definitivamente positiva, dal momento
che proprietario della terra è Dio, che in Gesù di-
chiara beati i miti, eredi della nuova terra, il Regno
dei cieli.
93
felice in casa sua (Lc 19,6), Marta non può più
ospitarlo e preparargli il pranzo (Lc 10,40). Egli
non ha più bisogno di queste cose, siede ormai alla
destra del Padre. Però egli disse: «Ciò che avete
fatto a uno solo dei più piccoli che appartengono a
me, lo avete fatto a me» (Mt 25,40). Questo è il
senso delle mani distese di Musè, sotto le quali
Amalech venne meno. Quando tu dai qualcosa a
chi ha fame, certamente tu dai qualcosa di tuo a
favore di un povero: forse te ne mancherà, ma nella
tua casa, non in cielo. Del resto anche qui in terra,
colui al cui comando tu hai donato, ti darà il
contraccombiu di ciò che hai dato.
(Agostino d'Ippuna, Discorsi 352,2,7: PL
39,1557)
MISERICORDIA PER IL
FORESTIERO
94
paese d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio (Lv
19,33-34).
95
rilevato il carattere nazionalistico di quella riforma,
per cui si comprende il tono positivo che parla
dell'israelita, liberato da Dio dall'oppressione della
schiavitù, in contrasto con i popoli stranieri,
estranei all'alleanza biblica. In un clima di
esaltazione nazionale, si comprende come
l'asservimento di un israelita a uno straniero fosse
ritenuto umiliante è, perciò, si facesse ricorso al
diritto di riscatto e alla liberazione completa, al
sopraggiungere dell'anno giubilare.
L'esortazione rivolta agli israeliti di offrire
ai propri «fratelli» un trattamento pari a quello
riservato a «forestieri e inquilini» (Lv 25,35), in
corrispondenza alla raccomandazione di non
vendere in perpetuo la terra, perché «la terra è mia
e voi siete presso di me come forestieri e Inquilini»
(Lv 25,23), invita a un'esplorazione più accurata
del testo. L'espericnza di essere stati stranieri in
Egitto ha lasciato una traccia profonda nel popolo
di Israele, tanto che gli scrittori biblici richiamano
alla mente più volte quel fatto del passato, sia per
tracciare i lineamenti dell'identitè nuova, acquisita
con l'esperienza dell'itineranza, sia per orientare il
positivo comportamento verso il forestiero (ad
esempio Es 23,9). In effetti, il riferimento allo
straniero non include soltanto la dimensione
geografica della lontananza dalla patria, ma fa
pensare in primo luogo all'esistenza terrena, con le
sue caratteristiche di provvisorietà e di transitorietà.
A questo proposito, ha ragione C. Ravasi, quando
scrive cosi nel suo commento al Sal 39,13: «I due
96
vocaboli "straniero" e "pellegrine... sono un'acuta e
poetica definizione della miseria e della fragilità
umana. L’uomo è come un ger, un forestiero
accolto per ospitalità ma che non ha la pienezza
della cittadinanza: è, come scriveva Goethe nel suo
Westôstlicher Diwan, "un triste viandante sulla
terra oscura". Il secondo termine parla, infatti, di
"soggiorno" (tósab), per cui la persona ha uno
statuto giuridico ben diverso dal residente e la sua
presenza è simile a quella di un pellegrino. ―Il
ricordo dell'ospite di un sol giorno‖ (Sap 5,14) è
appunto il simbolo di una realtà inconsistente ed
evanescente, simile a quella evocata dal I'hebe1»9.
Poi, dal momento che Dio ha liberato il popolo
dall'oppressione e l'ha guidato verso una terra
nuova, esso avverte fortemente lo stimolo a creare
una società diversa, capace di rispecchiare le
qualità di quel Dio, che si è dimostrato amante del
povero e del bisognoso, difensore dell'orfano, dello
vedova, del forestiero. Infatti, molti passi del
Deuteronomio e della storiografia deuteronomistica
esprimono preoccupazione per la cura dell'orfano e
della vedova, spesso associati all'immigrato, come
categorie di poveri e senza-terra (Dt 14,28-29;
26,12-13; 27,19 e così via). La legislazione biblica
insiste decisamente su questo: «Non lederai il
diritto dello straniero e dell'orfano e non prenderai
in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che
9
Il libro dei Salmi, Comento e attualizzazione, vol. I, EDB,
Bologna 1981, pp. 717-718.
97
sei stato schiavo in Egitto» (Dt 24,17). Nella terra
che apartitiene a Dio e che Dio regala al popolo,
l'atto di benedizione al momento dell'offerta delle
primizie del suolo, che è allo stesso tempo anche
atto di fede e proclamazione della memoria storica,
si conclude con la condivisione della feste, alla
quale partecipano anche i meno fortunati, come gli
immigrati (Dt26,1-11). Nella distribuzione delle
decime, poi, si fa preciso riferimento al forestiero,
insieme al levita, all'orfano e alla vedova (Dt
26,12). In più, al tempo della mietitura, i margini
del campo sono riservati al povero e al forestiero
(Lv 23,22), il quale deve essere trattato «come
colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te
stesso perché anche voi siete stati forestieri nel
paese d'Egitto» (Lv 19, 34). Insomma, appare
chiaro che, dimostrando un'accoglienza mi-
sericordiosa verso I'immigrato, gli israeliti
potevano assomigliare di più a quel Dio giusto e
buono, che «ha pietà del debole e del povero, e
salva la vita del suoi Miseri». (Sal 72,13).
Ma l'ideale, ancora una volta, si infrange contro la
barriera della realtà storica. Universalismo e chiu-
sura nazionalistica sono in continua
contrapposizione, lungo le pagine del libro sacro.
L’Israele antico troverà sempre difficile il percorso
della tolleranza, dell'apertura, dell'accoglienza,
nonostante gli stimoli i suggerimenti, Ie ingiunzioni
ideali. Cosi, ad esempio, sarà considerato un atto di
giustizia il permettere agli immigrati di partecipare
alla vita della comunità in mezzo alla quale hanno
98
preso dimoro e l'essere giudicati dalla stessa legge
che si applica agli israeliti (Nm 15,15). Come per i
membri del popolo eletto, anche ai gerim e ai
tosabim viene riconosciuto il diritto di asilo in caso
di omicidio involontario, presso determinate città di
rifugio (Nm 53,15). Del resto, non vi può essere
discriminazione di fronte a un'azione compiuta con
intenzione malvagia: «La persona che agisce con
dcliberazione, nativo del paese o straniero (ger),
insulta il Signore: essa sarà eliminata dal suo
popolo». (Nm 15,30). Anche l'immigrato ha diritto
a riposarsi nel giorno festivo del sabato (Dt 5,14-
15), è tenuto a osservare i riti di espiazione (Lv
16,29) e ad astenersi dal commettere immoralità
(Lv 18,26). Sebbene non obbligati a osservare la
Pasqua. ai forastieri è concesso di parteciparvi, ma
soltanto dopo che gli uomini della famiglia sono
stati circoncisi (Es 12,48-49). Dunque, dalle
prescrizioni bibliche pare che gli stranieri possano
godere di un certo grado di libertà e di uguaglianza
con i nativi di Isarele, ma solamente in forza della
circoncisione un ger maschio viene equiparato a un
israelita e i suoi figli possono essere integrati nella
comunità di Israele. Una norma che ostacolerà
anche la Chiesa cristiana delle origini, la quale,
però, saprà oltrepasarla e aprire le porte a tutti
coloro che non rifiutano di accogliere Cristo e il
suo Spirito (At11,1-18).
99
LA VOCE DEI PADRI
100
Alcuni per mezzo di essa ottennero benevolenza
avendo accolto degli angeli (Eb 13,1). E san Pietro
esorta: Siate ospitali gli uni verso gli altri, senza
mormorare (I Pt 4.9). E la stessa Verità: Sono stato
forestiero e mi avete ospitato (Mt 25,35).
C’è un fatto creduto da molti e tramandato a
noi dal racconto dei padri. Un padre di famiglia
acc0glieva i pellegrini, con tutti i componenti della
sua casa, in cortese ospitalità. Ammettendoli ogni
giorno alla sua mensa, una volta, presentatosi uno,
fu condotto a tavola. Volendo il padre di famiglia,
con un gesto consueto afia sua umiltà, versare
l'acqua sulle sue mani, si voltò per prendere in
brocca, ma improvvisamente non vide più l'ospite
sulle cui mani stava versando l'acqua. Pieno di
meraviglia nel suo intimo per il fatto, la notte stessa
vide il Signore che gli disse: Gli altri giorni mi hai
ospitato nelle mie membra, ieri hai accolto proprio
me. Venendo per l'ultimo giudizio dirà: C'iò che
avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l'avete
fatto a me (Mt 25,40).
Prima di quel giorno, quando á accolto nelle
sue membra, rende visita in persona a coloro che lo
ricevono, e noi tuttavia siamo pigri nell'esercizio
dell'ospitalità. Meditate invece, fratelli, la
grandezza di questa virtù. Voi accogliete alla vostra
mensa Cristo stesso per essere ricevuti da lui al
convito eterno. Offrite ora ospitalità a Cristo
pellegrino, affinché nel giorno del giudizio non
siate a lui stranieri c sconosciuti, ma vi accolga
101
familiarmente nel Regno, con l'aiuto di chi vive e
regna, Dio, nel secoli dei secoli. Amen.
(Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli
23.1538.1539: PL 76,1182.1183)
102
elementi integranti del mondo del Vicino Oriente
antico, tanto nella sua valenza economica quanto
nei suoi rilievi sociali.
Secondo Lv 25,39, però, si proibisce a un
Israelita di trattare de schiavo un altro israelita:
all’interno del popolo dell'alleanza sembra
ammessa soltanto la schiavitù di persone
appartenenti ad altri popoli, stranieri e pagani. Gli
studiosi del testo sacro spies gano questo divieto
sottolineando la necessita di proteggere i membri
del popolo eletto, i quoli non possono essere
venduti ad alcuno, como il loro patrimonio terriero,
dal momento che entrambi appartengono non a se
stessi, ma a Dio: poiché Dio ne è proprietario,
nessuno può anogare sudi essi il diritto di
compravendita. E anche quando le avverse
circostanze costringono un Israelita a vendersi a un
altro israelita, il trattamento che gli deve essere
riservato non può essere la condizione di schiavitù:
egli può essere trattato come un bracciante
dipendente a servizio esclusivo del suo padrone
(tosab), oppure come un salariato (sakir), ma
soltanto fino al sopraggiungere dell'anno sabbatico
e, per estensione, anche dell'anno giubilare. Tra
l'altro, con l'arrivo del tempo della liberazione, il
testo biblico prevede anche un'opportunità di
beneficenza: «Quando lo lascerai andare via libero,
non lo rimanderai a mani vuote; gli farai doni dal
tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio: gli darai
ciò con cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto»
103
(Dt 15,13-14). La liberazione, cioè, coincide anche
con la possibilità di iniziare una vita nuova.
Il libro del Levitico, poi, prende in esame il
caso di un israelita, che si è reso schiavo di un non-
israelita (Lv 25,47 ss.), reclamando il diritto di
riscatto da parte dei suoi familiari e, in ogni caso, la
garanzia di riacquistare la libertà nell'anno
giubilare. La motivazione ricorrente è ancora una
volta di carattere teologico: « Gli Israeliti sono miei
servi: miei servi che ho fatto uscire dal paese
d'Egitto. lo sono il Signore vostro Dio» (Lv 25,55).
La questione cambia, invece, se a essere
ridotto in schiavitù è una persona che non
appartiene al popolo biblico: agli israeliti è
riconosciuta la possibilita di acquistare stranieri
come schiavi e di trattenerli presso di sé in questa
condizione per un periodo
indefinito; in pratica, vengono a far parte della
proprieta personali, del patrimonio di famiglia, al
punto da diventare bene ereditario (Lv 25,44-46).
Un caso particolare, infine, riguarda le
donne. Una ragazza divenuta schiava non può
riacquistare lo libertà, a differenza di uno schiavo
maschio. Se viene data in moglie a uno schiavo,
oppure se diventa concubina del padrone e, molto
piu, se gli partorisce dei figli, entra a far parte della
proprietà del padrone (Es 21,3 ss ). Non potrà più
lasciare la casa nella quale è diventata sposa e
madre. Se, poi, per amor suo e dei suoi figli, il
marito schiavo non vorrà avvalersi del diritto alla
libertà nell'anno giubilare, anch'egli potrà restare
104
nella casa del padrone, accettando tuttavia di
divenire schiavo per sempre (Es 21,5-6).
Sembra esserci una contraddizione,
accostando il brano del Levitico 25,39-55 a quello
di Esodo 21,1-11. Nel libro del Levitico c'è il
divieto categorico di ridurre in servitù un membro
del popolo di Israele. Invece, il libro dell'Esodo
pare tollerare questo fatto, regolandolo però nel
modo di essere concepito e praticato e, soprattutto,
istituendo il diritto di liberazione al sopraggiungere
dell'anno sabatico. E il passo di Dt 15,I2-13
concorda su queste disposizioni.
Certo, la Bibbia non è interessata a fornirci un re-
soconto storico della pratica della schiavitù
nell'antico Israele: si limita a indicare l'esistenza di
un’istituzione comune e regolamentata e insiste sul
fatto che, mentre si dichiara «liberatore» dell'uomo,
Dio stimola quello stesso uomo a farsi a sua volta
«liberatore» nei confronti del prossimo.
Ma una cosa è la fissazione teorica della
legge, un'altra è la sua applicazione pratica, almeno
stando a quanto troviamo nel libro del profeta
Geremia 34,10-11: «Tutti i capi e tutto il popolo,
che avevano aderito all'alleanza, acconsentirono a
rimandare liberi ognuno il proprio schiavo e
ognuno la propria schiava, cosi da non costringerli
più alla schiavitù: acconsentirono dunque e li
rimandarono effettivamente; ma dopo si pentirono
e ripresero gli schiavi e le schiave che avevano
rimandati liberi e li ridussero di nuovo schiavi e
schiave.
105
IgllunilN
IL «PROSSIMO» NELL'ANIMA
DELL'ANTICO TESTAMENTO
108
Ma qui vorremmo concentrare l'attenzione
sui protagonisti delle leggi giubilari: chi è il
«prossimo», chi è il «fratello»? Anche il libro del
Deuteronomio vi fa rimando: «Ogni creditore che
abbia diritto a una prestazione personale in pegno
per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere
il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal
suo fratello, quando si sarà proclamato l'anno di
remissione per il Signore» (Dt 15,2). Il termine
ebraico che designa il prossimo è rea', che deriva
dalla radice r’h, il cui significato è «stare insieme a
qualcuno, avere a che fare con qualcuno». Nei
dizionari si dice che questa parola è usata per
indicare diverse forme di associazione tra persone,
dalla stretta amicizia alla comune vicinanza.
Insieme al termine 'ah, fratello, definisce tutti
coloro che sono legati tra di loro dall'Alleanza,
dunque i membri della stessa co munita, del popolo
eletto, almeno nei testi del Deuteronomio e del
Levitico.
Nella storia successiva dell'antico Israele,
mentre rea' assumerà contorni piu vasti, il termine
'ah subirà un'evoluzione contraria, una vera
involuzione: sempre piu spesso finirà per indicare
soltanto coloro che appartengono alla collettività
ebraica, che custodiscono le antiche promesse,
l'alleanza mosaica, la rivelazione divina. Nella
comunità degli esseni di Qumran avrà un senso
ancor piu preciso, ristretto ai soli membri della
setta, che considerano se stessi «figli della luce», in
contrapposizione a tutti gli altri, «figli delle
109
tenebre». La fratellanza del popolo biblico è
fondata sulla comune paternità del patriarca
Abramo. Perciò, «fratello» ha un duplice intendi-
mento: designa insieme il connazionale e il correli-
gionario. Si tratta di un senso di vicinanza fraterna
delimitata dalla nazionalità e dal culto. Ora, senza
dubbio JHWH è considerato dalla rivelazione
biblica come protettore dei diritti del «vicino»,
all'interno della comunità israelitica. Questo appare
evidente dai testi del Deuteronomio e del Levitico.
dove il comandamento di amare il prossimo come
se stessi chiaramente non va oltre i confini del
gruppo etnico. Ci sono, però, alcuni passaggi che
attestano un allargamento di significato, fino a
comprendere ne «prossimo» anche il forestiero. È il
caso, ad esempio, di Lv 19,33: «Quando un
forestiero dimorerai presso di voi nel vostro paese,
non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di
voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi;
tutte l'amerai come te stesso perché anche voi siete
stati forestieri nel paese d'Egitto» (Lv 19,33).
Soprattuuo nelle vicende dei profeti prenderà piede
la difesa del prossimo, inteso in senso generale
come «chi vive nella porta accanto», non soltanto
come compatriota o come credente che professa la
stessa fede. La normativa giubilare, dunque, non si
occupa soltanto di regolare i rapporti tra gli israeliti
e Dio, la terra e tra di loro. L'intenzione degli
scrittori si allarga fino ad abbracciare ogni persona
umana, ben oltre i confini della patria e del credo
religioso.
110
In conclusione, la norma ripete il principio
fondamentale, secondo il quale tutta la creazione
deve riconoscersi dipendente dalla bontà e dalla
misericordia divine. Il popolo eletto nelle sue
diverse categorie, gli stranieri immigrati, gli
animali e le cose, persino la terra, tutto insomma
appartiene a Dio e in quest'ottica la vita deve
sempre essere considerata, rispettata e promossa: «
La terra è mia e voi siete presso di me come
forestieri e inquilini!» (Lv 25,23). Del resto, questa
è la prospettiva comune di tutta Ia rivelazione
biblica, ben riassunta nella preghiera rivolta a Dio
dal re Davide, nel primo libro delle Cronache: «
Noi siamo stranieri davanti a te e pellegrini come
tutti i nostri padri» (29,15). La traduzione greca
(LXX) fa ricorso ai termini paroikai kai...
paroikountes, che richiamano l'idea di paroikia con
il significato di «condizione straniera», che oggi
abbiamo perduto. In effetti, etimologicamente, par-
oikos/oikia configura l'esperienza di chi vive
lontano da casa, dalla patria, dall'ambiente e dal
territorio d'origine. Sotto questo profilo, l'idea
originaria di «parrocchia» rimanda a coloro che vi-
vono lontano dall'oikos per essere vicini alla patria
autentica, quella celeste, verso la quale tutta la co-
munità cristiana è in cammino. Nella dimensione
orante, poi, non è difficile trovare altri riferimenti
alla consapevolezza di condurre l'esistenza nella di-
namica del pellegrinaggio, come nel caso del Sal-
mista, che confessa la propria fragilità davanti al
Signore, con queste parole: «Ascolta la mia pre-
111
ghiera, Signore... non essere sordo alle mie lacrime,
poiché io sono un forestiero, uno straniero (LXX:
paroikos kai parepidemos) come tutti i miei padri»
(Sal 39,13; cfr. anche Sal 119,9).
112
GEREMIA E LA LETTERA AGLI
ESILIATI
1
Queste sono le parole della lettera che il
profeta Geremia mandò da Gerusalemme al resto
degli anziani in esilio, ai sacerdoti, ai profeti e a tutto
il resto del popolo che Nabucodonosor aveva
deportato da Gerusalemme a Babilonia; la mandò
dopo che il re Ieconia, la regina madre, i dignitari di
corte, i capi di Giuda e di Gerusalemme, gli artigiani
e i fabbri erano partiti da Gerusalemme. 3Fu recata
per mezzo di Elasa figlio di Safan e di Ghemaria
figlio di Chelkia, che Sedecia re di Giuda aveva
inviati a Nabucodonosor re di Babilonia, in
Babilonia.
Essa diceva:4 « Così dice il Signore degli
eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto
deportare da Gerusalemme a Babilonia: 5Costruite
case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti;
6
prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie,
scegliete mogli per figli e maritate le figlie; costoro
abbiano figlie e figli. Moltiplicatevi lì e non
diminuite. 7Cercate il benessere del paese in cui vi ho
fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché
dal suo benessere dipende il vostro benessere» (Ger
29,1-7).
113
deportata a Babilonia. In quell'epoca era attivo il
profeta Geremia. Nel capitolo 29 del suo libro, c'è
una «lettera agli esuli», che il profeta ha inviato ai
Giudei deportati. In quello scritto, Geremia
anzitutto istruisce gli esiliati affinché si stabiliscano
nel paese straniero e si inseriscano nella nuova
realtà, integrandosi nel nuovo contesto sociale e
culturale; poi, li incoraggia persino a pregare per la
potenza straniera, che ha devastato Gerusalemme,
costringendo i suoi abitanti all'esilio forzato. In un
passaggio successivo, però, Geremia sembra offrire
anche delle speranze di ritorno, inteso sia in senso
geografico come possibilità di rimpatrio, sia in
senso religioso come conversione a Dio.
II brano di Geremia (29,4-7.10-14) si
sviluppa nella duplice traiettoria, verticale e
orizzontale, della teologia e dell'antropologia. Tra
le righe di questo testo si vede l'uomo di Dio, che
legge i fatti della storie con gli occhi della fede e
denuncia la tragedia dell'esilio come punizione di
Dio: JHWH si é stancato di questo popolo. Il
rovescio della medaglia, però, ci svela anche la
sensibilità dell'uomo Geremia, ispirato dalla forza
della presenza divina, mentre cerca di scuotere,
confortare, incoraggiare i connazionali esuli a
Babilonia, affinché possano scorgere la speranza
per il futuro, che inizia fin da subito
nell'adificazione del «benessere» vicendevole:
JHWH, infatti, non può venir meno alla fedeltà del
suo amore, che più volte si é espresso nell'alleanza
con il popolo.
114
Dunque, il primo tentativo che Geremia fa é
di aiutare i suoi connazionali esiliati a ricuperare la
fiducia in Dio, perché, nonostante tutto, Dio non li
ha abbandonati. Per questo non devono affidarsi
agli indovini, che sprecano parole e raccontano
fandonie: « Non vi traggano in errore i profeti che
sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date
retta ai sogni, che essi sognano. Poiché con inganno
parlano come profeti a voi in mio nome; io non li
ho inviati» (29,8-9).
Geremia, però, rimprovera i suoi
connazionali deportati a Babilonia soprattutto per il
fatto che, presi dalla nostalgia, non pensano affatto
di stabilirsi nel nuovo paese e non accettano
l'ambiente nel quale si trovano. Per di più, hanno
creduto che la via migliore per tornam in patria
fosse quella di ribellarsi contro coloro che li
avevano deportati.
Compito del profeta, allora, è di richiamare
due grandi verità: anzitutto, che Dio non abbandona
il suo popolo e che gli eventi storici sono ancora
sotto il suo controllo: «lo, infatti, conosco i progetti
che ho fatto a vostro riguardo — dice il Signore —
progetti di pace e non di sventura, per concedervi
un futuro pieno di speranza» (29,11). E poi, che
dalla vicenda dolorosa dell'esilio si va verso una
novità paragonabile a una nuova creazione. E in
questa linea che Geremia incoraggia a a costruire
case e abitarle. piantare orti e mangiarne i frutti,
prendere moglie e mettere al mondo figli e figlie,
115
scegliere mogli per i figli e maritare le ftglie.
affinché costoro abbiano figlie e figli (29,56).
Geremia usa i verbi che compaiono nel
racconto delta creazione: come nella Genesi il
comando divino plasma la realtà informe e «Dio
vide che era (cosa) buona», così il profeta assicura
l'intervento divino in favore degli esuli con queste
parole: «Vi visiterò e fard sorgere per voi la mia
buona parola» (29,10).1a parola divina, che ha
trasfonnato il caos primordiale, certamente opererà
anche in terra d'esilio un radicale cambiamento,
capovolgendo la tristezza dello sradicamento nella
festa del ritrovamento del bene, che sembrava
perduto. Inoltre, fa parte della «nuova creazione»
anche l'imperativo rivolto agli esuli di Babilonia:
Moltiplicatevi lì e non diminuite» (29,6). la
discendenza garantisce ai deportati la continuità,
impedisce l'annientamento e salvaguarda la
sopravvivenza del popolo. E agli occhi di Geremia
questo è un dono di Dio, che sarà completato con la
benedizione finale: «Ne usciranno inni di lode, voci
di genie festante. Li moltiplicherò e non
diminuiranno, li onorerà e non saranno
desprezzati» (30,19 e 3,16; 23,3; 31,27). Come lo
spegnersi della vita familiare e la mancanza di
riferimento a un preciso contesto sociale sono
considerati una maledizione (7,34; 16,9; 25,10),
così la ripresa delle relazioni coniugali apre nuove
possibilità di gioia, di festa, di benedizione, tanto
per la famiglia come per l'intero sistema sociale e
civile (33,11).
116
Di fronte alla tragedia dell'esilio, lontani da
casa, sradicati dalla propria terra, gli israeliti
dell'epoca del profeta Geremia ricevono dall'uomo
di Dio una lettera. Geremia garantisce agli esuli in
Babilonia che Dio, fedele e buono, è ancora vicino
ai deportati, non li ha lasciati soli. Anzi, incoraggia
gli esuli a sentirsi attivamente coinvolti nel
«progetto di pace e non di sventura » (29,11), che
Dio sta realizzando.
Questo piano è per shalom, per la pace. Dio
vuole la pace, ma potrà realizzarlo soltanto con la
collaborazione degli esuli. Per questo, a nome di
Dio, Geremia esorta: «Cercate shalom del paese in
cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per
esso, perché dal suo shalom dipende il vostro
shalom» (29,7).
E evidente che shalom non è un semplice
saluto augurale. L'idea di shalom comprende tutto
quanto si può immaginare di «bene» e, insieme,
esclude tutto ciò che è «male». È ciò che da sapore
e colore alla vita, tanto nell'ambito sociale quanto
in quello familiare e nel rapporto con Dio; produce
un senso di completezza, di sicurezza, di
rappacificazione, di giustizia. È un dono di Dio,
che tuttavia gli esuli di Babilonia devono in
qualche modo conquistarsi.
In che modo? Lo dice lo stesso Geremia,
qua e là nel suo libro. Per prima cosa bisogna
eliminare ciò che impedisce il raggiungimento di
shalom, come la lotta, la discordia, la calunnia. la
negatività nei rapporti con gli altri: «Ognuno parla
117
di pace (shalom) con il prossimo, mentre
nell'intimo gli tende un tranello» (9,7).
Bisogna tralasciare la logica perversa
dell'interesse personale, che va a scapito del
prossimo: «I tuoi occhi e il tuo cuore non badano
che al tuo interesse, a spargere sangue innocente, a
commettere violenza e angherie» (22,17).
Poi, è importante impegnarsi a tutto campo
per un progetto positivo, di bontà, di reciproca
accoglienza. C'è una stupenda sintesi in 22,3:
«Praticate il diritto e la giustizia, liberate l'oppresso
dalle mani dell'oppressore, non fate violenza e non
opprimete il forestiero, l'orfano e la vedova, e non
spargete sangue innocente in questo luogo».
Insomma, chi vuole la pace deve impegnarsi in
prima persona per costruirla; per questo il profeta
ricorda agli esuli di Babilonia che lo shalom di chi
vive lontano dalla sua patria è strettamente legato
allo shalom della patria adottiva.
Geremia esorta a « cercare shalom ». cioè a
praticare la giustizia nei rapporti con il prossimo,
ma anche a «pregare il Signore perché doni shalom
al paese nel quale gli esuli vivono come deportati.
Forse si può capire l'importanza di praticare
la giustizia anche in terra straniera, in modo che il
bene compiuto abbia effetto positivo su tutti.
Invece, è più difficile raggiungere la comunione
spirituale della preghiera, la vicinanza fraterna di
chi riconosce in Dio il padre comune. Qui bisogna
ricordare che tra deportati di Babilonia la tristezza e
la desolazione per la lontananza dalla patria
118
avevano provocato una crisi di fede, una forte
ripulsa nel continuare a manifestare la fede con le
pratiche religiose abbandonate per costrizione,
tanto che la preghiera si era spenta, insieme alla
gioia e alla speranza: «Sui fiumi di Babilonia, là
sedevamo piangendo al ricordo di Sion. Ai salici di
quella terra appendemmo le nostre cetre. Là ci
chiedevano parole di canto coloro che ci avevano
deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori:
"Cantateci i canti di Sion!". Come cantare i canti
del Signore in terra straniera? (Sal 137,1-4). La
disperazione rischiava addirittura di tramutare la
preghiera in maledizione: «Figlia di Babilonia
devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto.
Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro
la pietra » (Sal 137,8-9). Geremia allora incoraggio
i suoi connazionali a riprendere il culto, la vita
liturgica, la supplica di intercessione presso Dio. E
la preghiera deve includere anche il nemico. Qui
tocchiamo uno dei livelli più profondi della
spiritualità dell'Antico Testamento.
C'è un insegnamento profondo in questa
lettera di Geremia: le opere di carità tutti riusciamo
a farle, soprattutto se in casa non ci manca niente.
Ma la conquista che domanda più impegno e più
fatico è quella di saper condividere con l'altro il
meglio di quello che siamo, ben oltre quello che
possediamo, anche nei confronti dell'immigrato,
dello straniero, del rifugiato. Geremia guarda anche
all'altra faccia della medaglia: l'immigrato, lo
straniero, il rifugiato sono essi stessi protagonisti in
119
questo scambio interiore; non sono soltanto oggetto
della carità accogliente del paese che li ospita, ma
sono incoraggiati a diventare soggetti di carità
fraterna. Per questo, perché davvero ci sia shalom,
la preghiera assume il suo grande rilievo, anche in
terra straniera, dove il prossimo deve contare per
quello che é, non per quello che ha.
120
L'ANGELO, ICONA DEL VIANDANTE
19
Il Signore ha stabilito nel cielo il suo trono
e il suo regno abbraccia l'universo.
20
Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli,
potenti esecutori dei suoi comandi,
pronti alla voce della sua parola.
21
Benedite il Signore, voi tutte sue schiere,
suoi ministri, che fate il suo volere (Sal 103,19-21).
122
«icona di Rublëv», impropriamente detta «Trinità
di Rublëv», illustra pittoricamente l'ospitalità di
Abramo, raccontata in Gn 18. L'artista ha
raffigurato i tre viaidanti accolti da Abramo come
tre angeli, seduti a tavola, ciascuno con il proprio
bastone da pellegrino in mano: nel racconto biblico
si trattava davvero di persone in cammino,
identificate dallo scrittore come la presenza stessa
di Dio, che recava al patriarca l'annuncio della
nascita miracolosa di un figlio, nonostante
l'avanzata età di Abramo e di SaraTra la
raffigurazioni meno note, invece, ve ne sono di
curiose. Ad esempio, l'architetto alsaziano C.
Mauss, che si occupò del restauro della basilica di
Sant'Anna e della Piscina «Probatica», a
Gerusalemme, verso la fine del 1800, trovò che la
cripta del Moustier crociato sulle pareti recava dei
dipinti, che purtroppo scormparvero durante la
prima guerra mondiale. Secondo le fotografie
scottata do Mouss, fino a oggi conservate nel
museo dei Podri Bianchi a Gerusalemme, parte di
un dipinto raffigurava un angelo: la testa era
mancante. ma si distinguevano lene le spalle, le ali,
un po' del vestito e teneva in mano un bastone,
simbolo tipico dell'angelo, che deve camminare, in
guanto araldo e messaggero, e ha bisogno del
bastone per sostenersi lungo il percorso che deve
fare, mentra le ali sono elementi puramente
ornamentali. La medesima espressione iconografica
si può ravvisare nell'affresco della navata laterale
sinistra della chiesa amiate di Abu-Gosh, la
123
Emmaus dei crociati. I volti dei personaggi sono
purtroppo irriconoscibili, ma è evidente che si tratta
di una corte angelica. contornata da santi e beati.
Gli angeli, ornati di ali colorate, recano tutti nella
mano destra un bastone da viandante.
Infine, ritroviamo questo tema nel
recentissimo mosaico, fatto eseguire dal patriarca
greco-ortodoso Diodoro I, sulla cupola della chiesa
crociata del Santo Sepolcro: il mosaico porta la
data del 1994. Questa parte del santuario più caro
della cristianità è di esclusiva proprietà degli
ortodossi, che ne hanno fatto il loro katholikon; il
mosaico presenta la chiesa dell'ortodossia secondo i
canoni dell'iconografia orientale. Un medaglione
rotondo include il Cristo pantocrator; il cerchio
attorno a Cristo è formato da dodici santi, scelti tra
gli antichi vescovi e patriarchi della chiesa di
Gerusalemme. Ai quattro punti cardinali sono
raffigurati quattro personaggi: a est la Madonna,
sotto Gesù Cristo; a ovesi san Giovanni Battista,
sopra il capo di Cristo; a sud l'arcangelo Michele, a
destra di Cristo: a nord l'areangelo Gabriele, a
sinistro di Cristo. Ora, i due arcangeli, avvolti nelle
sontuose dalmatiche tipiche della liturgia orientale,
con la mano sinistra sorreggono un globo vitreo e
nella mano destra tengono un bastone, lungo
quanto le loro figure. Il tema dell'angelo-viandante,
perciò, compare agli albori dell'iconografia
cristiana e persiste tutt'oggi, archetipo e modello di
ogni essere in cammino.
124
LA VOCI DEI PADRI
125
IL VIANDANTE RAFFAELE
15
Tobin continuò: «Ti do una dramma al
giorno, oltre quello che occorre a te e a mio figlio
insieme. Fa' dunque il viaggio con mio figlio e poi ti
darò ancora di più».16Gli disse: «Farò il viaggio con
lui. Non temere; partiremo sani e sani ritomeremo,
perchè la strada è sicuro». 17Tobi gli disse: «Sia con
tela benedizione, o fratello!». Si rivolse poi al figlio
e gli disse: «Figlio, prepara quanto occorre per il
viaggio e parti con questo tuo fratello. Dio, che è nei
cieli, vi conservi sani fin là e vi restituisca a me sani
e salvi; il suo angelo vi accompagni con la sua
protezione, o figliuolo! ». 18Tobia si preparò per il
viaggio e, uscito per mettersi in cammino, baciò il
padre e la madre. E Tobi gli disse: «Fa' buon
viaggio! » (Tb 5,15- I8).
127
Le altre due fecce del capitello, invece, raccontano
due avvenimenti della vita di Tobia. Su un lato, si
vede il giovane Tobia in cammino, seguito da
Raffaele. Curiosamente, soltanto l'angelo, ben
riconoscibile dalle ali, ha in mano il bastone del
viaggiatore: Raffaele sta dietro a Tobia per
proteggerlo: è un autentico compagno di viaggio
nell'affrontare le asperità del percorso. L'ultimo
quadro celebra la gioia delle nozze, con il pasto
matrimoniale di Tobia e Sara, presieduto da Tobi.
L’accostamento dei due temi biblici su un unico
capitello non è senza ragione. Certamente intende
suggerire che il viaggio di Tobia e Raffaele non è
che l'immagine del pellegrinaggio terrestre, visto
sotto il segno della benedizione di Dio e secondo il
compimento della sua volonà. Il pranzo nuziale,
preparato dal Padre, segna il buon esito del viaggio
e il coronamento delle fatiche affrontate lungo il
percorso storico. La gioia del convito diventa
simbolo della felicità eterna, allo stesso modo che il
seno di Abramo, conquistato dall'anima del giusto,
sulla faccia opposta del capitello. La vita umana su
questa terra, nella sua dimensione di itineranza, e ol
destino escatologico di ciascuno sono messi in
correlazione nella lettura ionogralica di due diverse
pagine bibliche, dell'Antico e del Nuovo
Testamento, sotto l'unico registro del «cammino»
guidato da Dio.
128
La Chiesa conosce due vite che le sono state
divinamente predicate e affidate: una è nella fede,
l'altra nella visione: una nel tempo del
pellegrinaggio, 1'atra nell'eternità della dimora; una
nella fatica, l'altra nel riposo; una lungo la via,
l'altra nella patria; una nell'attività, l'altra nel
premio della contemplazione. La prima vita è stata
rappresentata dall'apostolo Pietro, la seconda da
Giovanni. La vita terrena si svolge sino alla fine di
questo mondo trova la sua conclusione nell'aldilà:
la vita celeste nella sua fase perfetta, verrà dopo la
fine di quest mondo, ma nell'eternità non avrà
termine.
(Agostino d'Ippona, Ïrarnn sul Vangel. di
san Giovanni 124,5: CCL, 36,685)
8
Uomo, ti è state insegnato ciò che è buono,
e ciò che richiede il Signore da te:
praticare la giustizia,
amare la pietà
camminare umilmente con il tuo Dio (Mic
6,8).
129
perdono la loro forza comunicativa. Oppure, si
applicano a così tante esperienze della vita, che
richiedono di essere spiegate per essere comprese.
Per restare nell'ambito della mobiliti umana e
offrire alcune riflessioni biblico-teologiche a chi si
interessa, a vario titolo, del fenomeno dei
movimenti delle persone da un posto all'altro,
diventano importanti quel vocaboli e quei verbi che
hanno qualche relazione con il fatto del
«camminare» e con il tema della «strada ».
Nostro campo di ricerca è essenzialmente la
Bibbia. Ma, per la comprensione degli argomenti,
non sol possono trascurare molti altri ambiti della
riflessione umana, poiché il tema che ci
proponiamo e di uso comune. Anche nel linguaggio
moderno, troviamo in ogni lingua il riferimento alla
strada e al cammino, talvolta in senso letterale,
talvolta in senso figurato.
C'è un apologo classico, che può servirci
mettere a fuoco la questione e stabilire la distanza
tra il linguaggio figurato e quello letterale, anche
ricorrono entrambi allo stesso vocabolario.
Un giovane era in cammino. Si rivolse a un
veccchio, seduto sul ciglio della strada, e chiese:
«Quanto c'è tra qui e il paese più vicino?». Il
vecchio rispose: «Cammina». «Lo so che devo
camminare, ma dimmi quanto tempo impiegherò
per arrivare al paesi più vicino», ribattè il giovane.
Di nuovo il vecchio ripeté: «Cammina». Staizito, il
giovane riprese la sua strada. Fatti pochi passi, senti
il vecchio gridargli alle spalle: «Due ore!». Tornò
130
indietro e domandò al vecchio: «Perche non mi hai
detto subito che avrei impiegato due ore per
raggiungere il paese più vicino?» Rispose il
vecchio: «Non potevo risponderti prima de aver
visto con quale andatura avresti camminato! ».
L'apologo riferisce un fatto concreto
parlando di strada, cammino, passi. Ma punta anche
a un insegnamento morale, indicando che il
raggiungiment di un traguardo dipende da quanto
impegno ci mette per conseguirlo.
Cosi, nell'esperienza dell'emigrazione e
d'uso comune il riferimento alla partenza, elle vie
da percorrere, ai mezzi di trasporto e alle rotte da
seguire, al l’arrivo in una nuova destinazione e alla
fatica del viaggio fatto. Ma con le stesse
espressioni diciamo che ciascuno ha un proprio
cammino da compiere, che le strade da scegliere
sono tante e, prima o poi, ci si trota a un bivio;
diciamo che qui siamo soltanto di passaggio, siamo
pellegrini verso una patria eterna; distinguiamo tra
la via del bene e la via del male...
La Bibbia aggiunge a questi usi anche un
senso teologico: ad esempio, dice che il fedele
«cammina davanti a Dio, alla presenza di Dio» (Gn
17,1; 24,40;48,15). Si dice anche che il giusto
«cammina con Dio» (Gn 6,9; Mic 6,8), oppure che
si può «camminare allontanandosi da JHWH» (Ger
15,6; Os 1,2). Molto spesso, sopruttutto dove si
descrive l'alleanza di Dio con il popolo e si
stabiliscono le leggi che si devono osservare per
mantenersi fedeli a1 patto, si parlo di «cammino sul
131
sentieri di JHWH» (Dt 5,33; 30,16). Addirittura, la
Bibbia dice che anche Dio cammina, anch'eglI ha le
sue vie, conme cuando scende nel giardino
paradisiaco della creazione e «passeggia alla
brezza del giorno» (Gn 3,8), oppure quando marcia
davanti al popolo, che fugge dalla schiavitù
dell'Egitto, e lo guida nella colonna di nube o nella
colonna di fuoco (Es 13,21). Anche nel «secondo
esodo», quando i deportati tornano da Babilonia in
Israele, il Signore «cammina davanti a loro» (Is
52,12), così come, in tempo di guerra, «cammina
alla testa degli eserciti» crome comandante del
popolo che si è scelto come sua esclusiva proprietà
(Dt 1,30).
Anche nei Vangeli si fa spesso riferimento
alla strnda. Anzi, è proprio «lungo la via» che
accadono molti del fatti narrati dagli evangelisti.
Lungo la strada Gesù chiede ai discepoli che cosa
pensi di lui la gente e sente la bella confessione di
Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,27); mentre è in
cammino, annuncia la propria passione (Mc 10,32:
Mt 20,17); quando, «sta uscendo per mettersi in
cammino», incontra il giovane ricco (Mc 10,17).
Tra le tante parabole uscite dalla bocca di Gesù,
quella del « buon Samaritano» è messa in scena su
una delle arterie principali di Israele, quella che
ancora oggi collega Gerusalemme a Gerico. A
quella strada, che scende dalla città santa e
attraversa il deserto fino all'oasi, Gesù affida uno
dei messaggi più importanti della sua predicazione.
C'è un povero disgraziato che sta morendo sul
132
ciglio della strada, derubato e malmenato dai
briganti. Lungo la via passano un levita e un
sacerdote, ma fanno finta di non vedere l'accaduto e
tirano avanti. Uno straniero, nemico secolrea dei
giudei, viandante o forse emigrante, si accorge del
poveretto e se ne prende cura. Non solo, porta il
malcapitato alla locanda, additata ancor oggi dalla
devota pietà dei pellegrini, e paga di tasca propria
perché il poveretto venga ospitato e curato. La stra-
da, suo malgrado, è stata testimone di un fatto che
assume importanza capitale per Gesù: il
«prossimo» è chiunque incontriamo sul cammino.
«Farsi prossimo» significa accogliere la persona
che incontriamo, al punto da dimostrare nei tatti
una straordinaria disponibilità operativa nei suoi
confronti. E non basta ancora. Alla luce del
racconto di Mt 25,31-46 proprio quel disgraziato
moribondo, sulla strada che scende da
Gerusalemme a Gerico, è l'epifania di Cristo,
poiché è un bisognoso che chiede urgente
assistenza. Nel dramma di Albert Camus I giusti, si
arriva a provare che chi si attarda lungo la strada pe
soccorrere l'uomo arriva in ritardo all'appuntamento
con Dio. Ma la parabola evangelica del buon
Samaritano dimostra l'esatto contrario:
l'appuntamento con Dio è proprio sulla strada, nel
prossimo. Alla domanda: «Chi è il mio prossimo?».
Gesù ri sponde: «Va’ e anche tu fa' lo stesso; ciò
che avrai fatto al più piccolo di questi miei fratelli,
l'avrai fatto a me».
133
LA VOCE DEI PADRI
134
«FATICOSA È LA STRADA CHE PORTA
ALLA VITA...»
1
Beato l'uomo che non segue il consiglio
degli empi,
non indugia nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli stoti:
2
ma si compiace della legge del Signore.
la sua legge medita giorno e notte. (...)
Il Signore veglia sul cammino dei giusti.
ma la via degli empi andrà in rovina (Sal
1,1-2.6)
136
comprese le donne, i fanciulli e i forestieri che
camminano in mezzo a loro» (Gs 8,35). Infine,
tutte le attività dell'uomo arrivato a un fine quando
quel'uomo «parte», cioè quando muore (Gn 15,2;
19,19: Gdc 4,24: 1Sam 2.26; Pr 4,18, ecc.).
Quanto sia breve lo spazio tra l'uso letterale
e quello figurato risulta bene da una favola nata
ambiente greco profano, ma sviluppatasi anche la
letteratura giudaica e cristiana. Si tratta di apologo
attribuito a Prodico e riportato da Senofonte (Detti
memorabili di Socrate 2,l,21-34) Socrate discute
con Aristippo e sostiene che chiunque voglia
mantenersi fedele alla «virtù» non può fare a meno
di affrontare dure fatiche: la favola è comunemente
nota con il titolo di «Ercole al bivio». Il testo inizia
raccontando che quando Eracle (per i greci, Ercole
per i latini) «passò dello fanciullezza
all'adolescenza, nella quale i giovani, divenuti gi
autonomi, dimostrano se prenderanno la via che
passa per la virtù o quella che passa per il vizio,
uscito in luogo solitario e sedutosi, si chiedeva qua
le delle due dovesse prendere». Eracle si trova
fronte a due strade, ambedue hanno la stessa mete
cioè portano alla vita, promettono la felicità. Nella
sua incertezza, Eracle vede venirgli incontro due
donne, che impersonano le due strade: la virtù e
malvagità. Solo e confuso, Eracle assiste a un
vivace dibattito tra le due donne. La malvagità
incalza: «Vedo, Eracle, che non sai quale via
prendere verso la vita», e aggiunge: «Se mi avrai
cara, ti guiderò per la via più gradita e facile » (v.
137
23). Poco più avanti, è la virtù a parlare, dicendo:
«Entra per strada che conduce a me». (v. 27). E la
malvagità ribatte: «Capisci, o Eracle, per quale via
difficile lunga verso le gioie ti conduce codesto
donna? Io invece ti guiderò per una via facile e
breve alla fellicità» (v. 29). II linguaggio figurato è
interessante. Tra le tante sfumature, l'immagine
delle due donne-strade sottolinea che soltanto il
bene può considerarsi allo stesso tempo meta da
raggiungere e percorso da realizzare, mentre il male
e il vizio sono soltanto «guide» verso una illusoria
felicità. Questo rilievo illumina anche un famoso
detto di Gesù, che afferma: «Io sono la via, la verità
e la vita» (Gv 14,61), dichiarando di essere, per
chiunque cerchi il senso della vita, sia il traguardo
sia la possibilità di arrivare a quel traguardo.
La donna-strada-malvagità cerca di
affascinare il giovane Eracle alludendo alla comoda
facilità che essa può offrire, contro la faticosa
pesantezza della via del bene. Il testo della favola,
per spiegare il «bivio» al quale Eracle si trova, fa
ricorso a una citazione di Esiodo: «È molto facile
acquistare la miseria: piona è la via e prossima; ma
davanti alla virtù gli dèi immortali posero il sudore.
Lungo e arduo è il sentiero che ad essa conduce, e
aspro sul principio; ma giunto che tu sia alla cima,
risulta facile, per quanto faticoso esso sia» (v. 28).
Possiamo leggere un'eco di queste parole
nell'ammonimento evangelico: «Entrate per la porta
stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che
conduce alla perdizione,e molti sono quelli che
138
entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e
angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi
sono quelli che la trovano! » (Mt 7,13-14). Anche
qui il ricorso al linguaggio dell'immagine è più
suggestivo e intuitivo rispetto alla verbosità
discorsiva. Non dobbiamo dimenticare che anche
l'intera composizione biblica del salterio inizia
proprio con la descrizione di un bivio, dal quale
parte la strada di colui che «si compiace della legge
del Signore e non si siede in compagnia degli
stolti», contro la strada dell'empio del peccatore. E
si assicura che « il Signore veglia sul cammino dei
giusti, ma la via degli empi andrà in rovina» (Sal
1,6).
Della favola di Prodico agli scritti biblici, ai
documenti del Nuovo Testamento fino alla
lettcratur cristiana si ripete e si rinnova l'uso della
metafor della strada e del cammino, talvolta
puntando sull'idea della meta da conquistare,
talvolta sul comportamento che si deve assumere
per arrivare al tra guardo. In particolare, si trovano
dei riferimenti nella Didaché, in Giustino,
Clemente di Alessandria e Basilio. Ignazio di
Antiochia, nella sua lettera a fedeli di Efeso,
distingue tra l'amore agapico, definito «via che
porta in alto», e la fede, considerata come «guida
verso l'alto », Le due immagini si richiamano e si
completano: la felicità, il senso pieno della vita si
conquistano mediante la fede, che è attaccamento ai
valori umani e cristiani, e mediante l'amore, che e
139
apertura e disponibilità verso se stessi, verso il
prossimo, verso Dio.
141
genere le tradizioni scritte più antiche tendono a
evitare di dilungarsi sull'aspetto negativo, forse
perché la « via della vita » per eccellenza coincide
con la « via di Dio» e questa non puà che essere
finalizzata al bene.
Di fatto, anche la letteratura sapienziale
egiziano punta sull'aspetto pedagogico di
un'educazione «al positivo». Nelle iscrizioni sulla
tomba di Petosiris si legge: «Padre, com’ è bello
camminare nella via di Dio. Chi si trova in essa
cammina di fronte a Dio e Dio guida il suo cuore. E
tu, o Thot, cammini sulla strade del tuo Dio, poiché
egli ha fatto grandi cose per te. Egli conduce il tuo
cuore perché tu faccia ciò che gli é gradito»
(58,22.31). Uno studioso ha oservato che
difficilmente l'egiziano parla in dettaglio della via
che porta al male e questa esitazione nasce dalla
paura di essere coinvolto nella realtà negativa,
anche con il solo parlarne (H. Brunner). Anzi,
l'antico mondo egiziano ha prodotto uno specie di
«guido per l'altro mondo», il famoso «Libro delle
due vie», con tanto di mappa e di tracciato, in modo
da saper distinguere bene la «via nera dell terra»
dalla « via blu dell'acqua ». Ma le due strade
ultramondane conducono allo stesso posto, alla
«rugiada rosa», sebbene siano distinte dal diversi
ostacoli e pericoli che in esse si incontrano. Ciò che
conta puntualizzare è che la «via» non può che con-
durre alla vita e, quindi, la sua meta non può che
essere positiva.
142
È forse questa positività di fondo la base per
spiegare lo strano uso biblico del termine «strada»
quando si allude alla sfera della sessualità umana.
La coppia umana, secondo i racconti eziologici del
libro della Genesi, collabora con Dio nel governo
della realtà delle cose e nel portare a compimento
l'opera divina della creazione. Per questo motivo ha
anche ricevuto il dono e l'impegno di dare origine a
nuova vita (Gn 1,28).Tutto ciò che appartiene alla
dimensione della sessualità, perciò, ha valore emi-
nentemente positivo, poiché esprime la potenzilità
creativa di Dio stesso. In questa linea, si capisce il
riferimento alle mestruazioni femminili con il ricor-
so alla parafrasi «la via delle donne», come si legge
nelle parole di Rachele a Labano: «Non si offenda
il mio signore se io non posso alzarmi davanti a te,
perché mi trovo nella via delle donne», tradotto
nelle nostre versioni: «perché ho quello che
avviene di regola alle donne» (Gn 31, 35). Nello
stesso contesto, le figlie di Lot commentano
l'impossibilità di avere una discendenza per il fatto
che non vi sono uomini nella zona in cui esse
abitano con il loro padre, dicendo: «Non c'è
nessuno in questo territorio per unirsi a noi,
secondo l'uso di tutta la terra (letteralmente:
Nessuno che cammini verso di noi secondo la
strada di tutta la terra) » (Gn 19,31).
E, come il concepimento di una nuova vita è
considerato dono divino, così anche la morte è vista
come realtà che appartiene a Dio. La vita va
restituita a Dio, per cui Davide morente introduce
143
così le sue raccomandazioni al figlio Salomone: «Io
me ne vado per la strade di ogni uomo sulla terra.
Tu sii forte e mostrati uomo. Osserva la legge del
Signore tuo Dio, procedendo nelle sue vie ed
eseguendo i suoi statuti» (IRe 2,2-3). Nel contesto
della preghiera, Dio è invocato come custode lungo
la via che si sta percorrendo (Gn 28,20) e,
nell'ottica della fede, la sua guide invisibile è una
realtà che si può sperimentare mentre si è «per via»
(Gn 24,27.48), insieme alla gioia di sentirsi protetti
(Gn 35,3) e di raggiungere la meta desiderata
(ISam 18,14). Dunque, quando la letteratura biblica
usa l'immagine della « strada », originariamente
non punta tanto sulle opere buone o malvagio
messe in campo nell'arco dell'esistenza terrena,
quanto piuttosto sullo meta positiva o negativa alla
quale si arriva mediante determinate scelte.
La «via della vita», infine, coincide con la
«storia della salvezza», quando Israele riconosce la
presenza salvifica di Dio lungo le strade della
propria esistenza e dichiara con fierezza: «Il
Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri
nostri dal paese d'Egitto, dalla condizione servile,
ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi
nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che
abbiamo fatto (letteralmente: ci ha protetti in tutte
le strade che abbiamo percorso) e in mezzo a tutti i
popoli fra i quali siamo passati» (Os 24,17).
Qui si coglie bene la distanza tra la
rivelazione biblica e le riflessioni dei pensatori
pagani. In fondo, che cosa si aspetta il nume
144
pagano dal suo devoto servitore? Si aspetta che si
pensi spesso a lui, che gli si renda culto e che si
faccia ogni cosa cercando di adempiere ciò che gli
fa piacere. Ecco perché, ad esempio, Petosiris si
vanta di aver restaurato il tempio di Thot, di aver
accresciuto il benessere dei suoi sacerdoti, di aver
beneficato i suoi servitori riemplendoli di grano e
di orzo. Insomma, la «via della vita», che è anche
«l'acqua della vita», e la «via di Thot», non ò
soltanto un modo di condurre la sita, ma l'unica
possibilità di vita se si vuol raggiungere il pieno
successo. Potremmo riassumere la «condotta dl
vita» nel doppio orientamento: fare il bene ed
evitare il male, tanto nei riguardi della divinità,
quanto verso i suoi servitori e verso tutti coloro che
rendono culto alla divinità. Fin qui, pare che gli
insegnamenti delle iscrizioni funerarie di Petosiris
siano precorritrici, o almeno parallelo, al messaggio
biblico ed evangelico. Ma la distanza si rimarca
fortemente quando si vuoi considerare il traguardo,
la meta, il fine al quale conducono i consigli del
sacerdote di Thot e le «strade» di questa divinità.
Infatti, la fedeltà a questo «cammino della
vita» non porta affatto a Dio, né apre alcun
orizzonte a colui che lo percorre. Il risultato è del
tutto temporale e materiale. Petosiris, come suo
padre, suo nonno e i fedeli di Thot, dicono di aver
raggiunto onori e ricchezze: hanno goduto di una
lunga vita; hanno gioito nei sapere che i propri figli
avrebbero portato avanti i loro stessi incarichi. Ma
la finale è una delusione. Dopo aver assaporato
145
tante buone cose, la bocca si riempie di amarezza.
La conclusione della «via della vita», il porto a cui
approdano le «acque della vita» non è che la
necropoli. La «strada della vita» è la condona da
tenere durante l'esistenza, in modo che questa sia
gioiosa, senza tribolazioni, come una piacevole
crociera sulla nave, quando il vento soffia nella
giusta direzione, alla velocità adeguata per arrivare
al porto, alla «città delle generazioni, cioè al
cimitero. Dice espressamente Sishou: «Io vi
guiderò sulla strada della vita, vi detterò la condotta
da seguire, così da poter arrivare alla necropoli
senza aver provato particolari sofferenze». Si
respira qui tutta la filosofia edonistica egiziana e
greca. Avvertiamo l'eco di certa mentalità che
segna ogni epoca e che si apre grandi varchi anche
nel pensiero contemporaneo, ma quale diversità e
quale distanza dall'annuncio evangelico: «Chiunque
beve di quest’acqua avrà di nuovo sete: ma chi
beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più
sete, anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui
sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna»
(Gv 4,13-14)!
146
passar del tempo, ma che è stabile nella
immutnbilità dell'eternità.
È quando Porfirio, verso la fine del primo
libro: « Del ritorno dell'anino», dichiara che la
dottrina che indica la via universale della
liberazione dell'anima non è ancora stata insegnata
da nessuna scuola, né dalla filosofia più vera, nè
dalle discipline morali degli indiani, né dalle
iniziazioni dei caldei, ne in qualunque altro modo, e
che non è riuscito n rilevare tale via neanche con lo
studio della storia, amnete senza dubbio che esiste
questo via, ma confessa di non conoscerla. (...)
E qual è questa via universale se non quella
data da Dio, non come propria di qualche popolo,
ma comune a tutti? Che tale via esista, quest'uomo
di non mediocre ingegno non ne ha dubbio. Egli
infatti non crede che la divina Provvidenza abbia
lasciato il genere umano privo di questa via
universale capace di liberare le anime; perciò non
lo nega, ma solamente dice che questo gran bene e
aiuto non è ancora stato ricevuo da alcuno e che
egli non è giunto a conoscerlo. Ciò non fa
meraviglia se si pensa che Porfirio visse quando
Dio permetteva che questa via universale di
liberazione dell'anima - la quale non è altro che la
religione cristiana - fosse contbuttuta dagli
adoratori degli idoli e dei demoni e dai re della
terra, cosi che fosse stabilito e confermato il nu-
mero dei martiri, ossia dei testimoni delta verità,
destinati a dimostrare che per la fede e per il trionfo
della verità si devono saper sopportare tutti i mali
147
del corpo. Porfirio vedeva tutto ciò e non poteva
credere che questa via, prossima a soccombere sot-
to le persecuzioni, fosse la via universale di salvez-
za. Egli non capiva che proprio ciò che lo turbava e
che temeva di subire, se avesse abbracciato questa
via, serviva piuttosto a confermarla e a
raccomandarla più efficacemente.
(Agostino d'Ippona, La citta di Dio 10,32:
CCI 47,309-510)
10
La sapienza entrerà nel tuo cuore
e la scienza delizierà il tuo animo.
11
La riflessione ti custodirà
e la prudenza veglierà su di te,
12
per salvarti dalla via del male,
dall'uomo che parla di propositi perversi,
13
da coloro che abbandonano i retti sentieri
per camminare nelle vie delle tenebre,
14
che godono nel fare il male
e gioiscono dei loro propositi perversi,
15
i cui sentieri sono tortuosi
e le cui strade sono oblique;
16
per salvarti dalla donna straniera,
dalla sconosciuta che ha parole seducenti,
17
che abbandona il compagno della sua giovinezza
e dimentica l'alleanza con il suo Dio.
18
La sua casa conduce verso la morte
e verso il regno delle ombre i suoi sentieri.
19
Quanti vanno da lei non fanno ritorno,
non raggiungono i sentieri della vita.
20
Per questo, tu camminerai sulla strada dei buoni
148
e ti atterai ai sentieri dei giusti,
21
perché gli uomini retti abiteranno nel paese
e gli integri vi resteranno,
22
ma i malvagi saranno sterminati dalla terra,
gli infedeli ne saranno stappati (2,10-22).
149
tempo, tutto tende a far si che l'uomo saggio diventi
una persona completa, capace di vivere pienamente
la vita umana, nel mondo e davanti a Dio.
All'origine della conoscenza sapienziale c’è
l'esperienza: il sapiente riflette sui fatti empirici
della propria storia e trasmette agli altri ciò che egli
apprende, in modo da migliorare la società e
l'individuo con i propri suggerimenti. La sapienza
biblica, perciò, è la combinazione di esperienza e
intelletto; e l'intelletto si pone a fianco della
religione, in sintonia nell'interrogarsi sulla realtà
umana e sul rapporto con la divinità. Pero, in
questa parte della rivelazione biblica, la parola di
Dio non entra quasi mai in campo, Ecco perché la
sapienza biblica è la sezione più internazionale
della Bibbia, perché si adatta u tutte le culture,
esprime la realtà comune a tutti gli uomini.
Dunque, non stupisce il fatto che l'immagine della
«strada», che troviamo nelle letterature del Vicino
Oriente antico. ricorra con frequenza anche in
questa parte della letteratura ebraica. La si trova
soprattutto nel libro dei Proverbi: « Tieni lontano il
piede dai sentieri dei peccatori! I loro passi infatti
corrono verso il male e si affrettano a spargere il
sangue» (1,15-16); «Ti indico la via della sapienza;
ti guido per i sentieri della rettitudine. Quando
cammini non saranno intralciati i tuoi passi, e se
corri, non inciamperni... Non battere la strada degli
empi e non procedere per la via dei malvagi. Evita
quella strada, non passarvi, sta' lontano e passa
oltre» (14, 11-15) e così via.
150
A prima vista, sembra che l'immagine serva
da supporto e da stimolo per l'insegnamento
morale: davanti all'uomo ci sono la condotta
malvagia e il retto comportamento, paragonabili a
due strade. Il saggio ha il compito di indicare la
scelta migliore, cioè la «via dei buoni».
Ma c'è di più. L’idea della «strada» sembra
essere l'unico valido argomento a disposizione del
maestro per un proficuo lavoro di educazione del
suoi allievi. Non c'è immagine migliore per istruire
le giovani generazioni sul nodo corretto di
dominare l'nmbientc circostante e di raggiungere la
completezza armonica della propria personalità,
cioè in buona relazione con la natura, con gli
uomini e con Dio. Sappiamo poco del sistema
educativo in Israele. Certamente esistevano due
gradi di educazione: un livello elmentare, destinato
a tutti, e un livello superiore, indicato per la
specializzazione in particulari settori come
l'amministrazione, il servizio civile, quello legale e
quello teologico. L’educazione in campo
amministrativo era di carattere secolare: nell'ambito
legale, invece, era di stampo religioso; la teologia
tentava di integrare le dimensione secolare e quell
religiosa. E proprio in quest'ultimo contesto si inse-
risce la riflessione dei capitoli introduttivi del libro
dei Proverbi. Qui, l'immagine della «strade» serve a
collegare diversi quadri di riferimento, dalla «via
delle tenebre» degli uomini perversi (2,12-15), ai
«sentieri che vanno verso il regno delle ombre»
151
della donna straniera (2,16-19), fino ai « sentieri
della vita», alla «strada dei giusti. (2,20-22).
L'itinerario educativo tende a « ricreare » la
persona umana, vuole essere a tutti i costi un atto di
creazione. L'educatore, infatti, promuove e sostiene
il lavoro di riabilitazione dell'umanità caduta a cau-
sa del peccato. Scopo dell'educatore è di plasmare,
formare, rendere possibile la crescita dell'allievo in
sapienza e virtù. Ecco perchè pone di fronte al di-
scepolo, in una sequenza narrativa, diverse
«strade». Anzitutto, viene descritto l’uomo a cui
manca il discernimento etico: è colui che segue una
strada tortuosa e perde di vista la via della vita. Il
confronto quotidiano con le «due vie» viene
utilizzato come simbolo della dicotomia tra
esperienza personale e tradizione storica (2,12-15).
Poi, viene introdotto un tema ricorrente del
libro: la donna straniera. Di chi si parla? Forse si
vuol intendere genericamente tutti coloro che non
fanno parte del popolo di Israele, soprattutto gli
idolatri, i perversi, i lontani. Potrebbero essere
coloro che si devono evitare proprio perché sono
forestieri, estranei, ignoti di cui non si conoscono
bene i costumi, le tradizioni, perfino il linguaggio:
in questo senso, sono rappresentati dalla prostituta
straniera, che si concede a molti amanti e tradisce
l'alleanza con l'unico vero Signore.
Forse, più probabilmente. la «donna
straniera» è una idea teologica, un’immagine come
quella della «strada». Potrebbe essere intesa come
le personificazione della follia umana, che non
152
riconosce la via di Dio, che non ha il « timore del
Signore »: il tradimento dell'alleanzza non può che
condurre a passi veloci nel regno della morte, dove
Dio viene rifiutato dali'egoismo immanente
dell'uomo, Dio diventa il «grande straniero» (2,16-
19).
Infine, Ia « nuova creazione» si realizza
nella persona che sa equilibrare i vari aspetti della
vita, giungendo a una maturità insieme secolare e
religioso. In modo poetico e illustrativo, si ripete la
sfida che non è più soltanto morale o antropologica,
bensì teologica: la vero sapienza sa scegliere
correttamente tra la «via della morte» e la • « via
della vita», verso l'integrazione armonica della
persona nella natura, nel contatto con gli altri e nel
rapporto con Dio (2,20-22).
153
l'infero, collocata com'è in mezzo, ospiti e cittadini
di entrambi i regni. La santa Chiesa ora li accoglie
tutti, per separarli, poi, nell'ultimo giorno. Se
dunque siete nel numero dei giusti, finché vivete
sulla terra sopportate con pazienza i reprobi. Chi
infatti li tratta con intolleranza dimostra con questo
atteggiamento di non essere un giusto.
(Gregorio Magno.Omelie sui Vangeli 37:
PI. 76,1276)
19
La via del pigro è come una siepe di spine.
la strada degli uomini retti è una strada appianata.
21
La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno;
l’uomo prudente cammina didtto» (Pr 15,19.21).
155
commettono ingiustizie contro il prossimo,
trascurano la propria «via» e di conseguenza,
scelgono la rovina e la morte (Pr 19,16).
Così, «la via del pigro é come una siepe di
spine, la strada degli uomini retti é una strada
appianata» (Pr 15,19). Il linguaggio é plasticamente
concreto e descrive non un'idea astratta di ciò che
sono la giustizia e la rettitudine, ma illumina
atteggiamenti e comportamenti reali e verificabili:
il «giusto» è colui che agisce positivamente a
favore del suo prossimo (Pr 2,20: 4,18). mentre il
«malvagio» ama l'oscurità, si compiace del male
che fa e contrasta la vita della comunità umana (Sal
1,1-6; 146,9; Pr 2,12-15; 4,19; 15,91.
Questa esperienza antropologica, tuttavia,
trova la sua completa articolazione nell'ottica della
fede, nella riflessione teologica che gli scrittori
biblici ci propongono. Dio, infatti, conosce tutte le
vie degli uomini (Sal 139,3; Pr 5,21); anzi, è Dio
che custodisce, guida e porta a compimento il
cammino intrapreso (Sal 18,33: 107,7; 139,24; Pr
2,7-15), così come non sfugge al suo controllo la
strada di chi opera il male: «JHWH, conosce la via
dei giusti, ma la via dei malvagi andrà in rovina»
(Sal 1,6). Certo, molte domande restano ancora
aperte: se è Dio che guida le strade degli uomini,
perché permette un cammino costruito sulla
malvagità? Come mai sembra che talvolta le strade
dell'ingiustizia abbiano più successo e siano più
attraenti delle vie dell'onestà, della rettitudine, della
bontà?
156
Resta chiaro, comunque, che nella
letteratura biblica sapienziale il riferimento alla
strada è soprattutto di carattere etico: ci sono vie
che conducono alla vita e sentieri che terminano
nella morte (Pr 2,19; 5,6; I5,24). Molto spesso,
però, la preoccupazione dei «giusto» non riguarda
la meta finale del suo itinerario di vita, bensì la
paura di sbagliare o di cadere lungo il percorso. Di
fatto, la via che ognuno calpesta può portare al
successo, allo conquista di posizioni di potere e di
importanza (Sal 37,7), alla rettitudine che fa rabbia
ai perversi (Sal 37,14; 27,11) e il pericolo di cadere
nell'empietà, nella trasgressione, nella lamentela
dell'ingratitudine, è sempre in agguato (Sal 107).
Ecco perché a Dio si leva con insistenza la
preghiera: «Signore, guidami con giustizia di fronte
al miei nemici; spianami davanti il tuo cammino»
(Sal 5,9; cfr. anche Sal 8,11). In definitiva, la via
che è pienezza di vita e che porta alla completa
felicità è la via stessa di Dio. E percorrere la
«strada di Dio» significa compiere la sua volontà,
la quale, secondo l'insegnamento evangelico, consi-
ste nell'amore tanto verso Dio come verso il prossi-
mo (Mt 22,36-39).
157
spirituali che percepisce nel suo intimo. Vi sono
infatti certuni che non sono sempliche nel bene che
fanno, poiché ricercano in esso non la ricompensa
all'interno, ma il plauso all'esterno. Perciò ha detto
bene un sapiente: «Guai al peccatore che cammina
su due strode!» (Sir 2,12). Ora il peccatore
cammina su due strade, quando compie quello che
è di Dio, ma desidero e cerca quello che è del
mondo. Bene anche è detto: «Temeva Dio ed era
alieno dal male»; perché la santa Chiesa degli eletti
intraprende nel umore le strade della sua semplicita
e rettitudine, ma le conduce a termine nella carità.
Uno si allontana completamente dal male, quando
per amore di Dio comincia a non voler più peccare.
Se invece fa ancora il bene per timore, non si è del
tutto allontanato dal male; e pecca per questo,
perché sarebbe disposto a peccare, se lo potesse
fare impunemente.
(Gregorio Magno. Commento al libro di
Giobbe 1,36: PL 75,543-544)
GERUSALEMME CITTÀ
ACCOGLIENTE
1
Quale gioia, guando mi dissero:
«Andremo ella casa del Signore».
2
E ora i nostri piedi si fermano
alle tue porte, Gerusalemme!
3
Gerusalemme è costruita
come città salda e computa.
4
La salgono insieme le tribu,
le tribu del Signore,
secondo la legge di Israele,
158
per lodare il nome del Signore (Sal 122,1-4).
160
lunghezza, 50 cm di larghezza e 50 cm di
profondità). Hennessy suggeri che si trattasse di
bacinelle, che contenevano acqua per i pellegrini
che arrivavano da lontano e si apprestavano a
entrare in città. L’archeologo Hunt, invece, li
Interpretò come depositi-salvadanaio, che
servivano a raccogliere elemosine per soccorrere i
pellegrini poveri che arrivavano in città. Entrambe
le interpretazioni possono essere considerate
corrette: si tratta sempre di un servizio in vista
dell'accoglienza da offrire al forestiero, al
viandante, al pellegrino. Però l'archcologia non ha
potuto confermare quale fosse esattamente lo scopo
della cappella, né a chi fosse dedicata. Hennessy si
disse convinto che le rovine della Porta di Damasco
dovessero essere identificate con la chiesa di San-
t'Abramo della carta crociata. C'è il problema che la
mappa del 1150 ritrae la chiesa di Sant’Abramo
all'interno delle mura cittadine, e non all'esterno,
dove sono state ritrovate le rovine. Tuttavia, si può
pensare che quell'antico disegno abbia fissato la
chiesa all'interno per esigenze di spazio, dato che
forse risultava difficile collocare una chiesa nel
punto esatto dove sorgeva, tra la porta e le mura.
A riprova che la cappella ritrovata poteva
esso identificata con la chiesa di Sant'Abramo, e
che funzionava per il soccorso dei forestieri, c'è il
disegno dell'annunciazione. Anzitutto perché
nell'iconografia antica l'angelo è il viandante per
eccellenza: la sua missione è quella di camminare e
di portare messaggi divini. Per questo con grande
161
frequenza il segno distintivo dell'angelo non sono
le ali, ma il bastone, che sostiene l'araldo lungo il
cammino. Tanto più se si tratta dell'arcangelo
Gabriele, che nella Bibbia riceve missioni da
ambasciatore, come nel caso della nostra pittura,
che lo raffigura nell'atto di comunicare il
messaggio più importante della storia dell'umanità:
l'incarnazione del Figlio di Dio. Se, poi, questa
interpretazione ha un sapore troppo teologico, si
può comunque ricorrere utilmente alla lettura che
ne hanno dato gli archeologi. Bennett e Hennessy
hanno suggerito che l'affresca dell'annunciazione
potrebbe rivelare che la Vergine Maria era stata
assunta come patrona del luogo. Di fatto, nella città
medievali, vi sono diversi esempi di chiese dedicate
alla Vergine conte protettrice delle porte della città.
A Gerusalemme, poi, si sa che nel 1173 la chiesa di
Santa Maria Latina, che si trova nella zona del
Muristan, a sud della chiesa del Santo Sepolcro,
acquistò molti edifici e terreni nella zona della
Porta di Damasco, incluso un «palazzo», case, la
chiesa di Santo Stefano a nord della porta cittadina
e un ospizio per forestieri, che si trovava in qualche
luogo tra la chiesa e la porta della città. Dato
l'interesse della chiesa di Santa Maria Latina per
l'assistenza ai pellegrini, ai forestieri, ai viandanti,
non è difficile pensare che amministrasse l’area di
ingresso della porta principale di Gerusalemme, e
che abbia costruito una cappella con annesso
piccolo ospizio per accogliere chi arrivava da
162
lontano e si aspettava un gesto di bontà, di
accoglienza, di ospitalità.
163
20
Tra quelli che erano saliti per il culto durante la
festa, c'erano anche alcuni Greci. 21Questi si
avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di
Galilea, e gli chiesero: « Signore, vogliamo vedere
Gesù ». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi
Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù
rispose: «È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio
dell'uomo » (Gv 12,20-23).
165
la fantasia una delle tante antiche cattedrali erette
dalla pieta cristiana in onore del Deus Optimus
Maximus, come ci avverte la sigla abbreviata sulla
facciata del tempio. Penso, ad esempio, alla
Basilica Vaticana, a San Paolo fuori le Mura, a San
Giovanni in Late-rano... L'accesso al santuario è
favorito da un atrio porticato, dove, nell'antica
liturgia cristiana, stavano i catecumeni e i penitenti:
questo è il posto di Giovanni Battista, che alza la
mano per additare il Regno, destinato a tutti coloro
che, da ogni angolo della terra, ascoltano l'appello
alla conversione e si lasciano trasformare dalla
potenza del sacramento battesimale. Prima ancora
di entrare nell'area della nuova alleanza, siamo
costretti a fronteggiare Giovanni, che rivolge a tutti
e a ciascuno l'urgente richiesta di predisporsi
all'incontro: folle di varia identità, pubblicani,
soldati, certamente di diversa lingua e razza (Lc
3,7-18).
Le grandi cattedrali hanno uno o più portali,
che stimolano al raccoglimento prima di fare
ingresso al luogo sacro: scolpite con diversi rilievi,
con linee a volte tondeggianti a volte appuntite,
fanno da iconostasi le lettere di Paolo. Ci sono
formelle grandi e piccole, ma tutte hanno per tema
«il Vangelo di Gesù Cristo» (1 Cor 9,12; 2Cor
10,14; Gal 1,7; 1Ts 3,2), che fa pressione perché «
venga annunciato a tutte le genti» (Rm 16,25-26;
Ef 3,8).
Finalmente varchiamo la soglia. L'interno è
a cinque navate, straordinariamente ampie e
166
slanciate: a destra e a sinistra i quattro Vangeli di
Matteo, Marco, Luca e Giovanni, ciascuno con
proprie caratteristiche; tutti, comunque, offrono un
percorso che va dall'acquasantiera, accanto al fonte
battesimale, fino al tabernacolo, passando sotto la
croce astile, che sta accanto all'altare del sacrificio,
sul presbiterio.
La navata centrale è il libro degli Atti, che
raccogli( le linee di spinta laterali e le fa
convergere sul kerygma: dal mandato, sigillato con
la garanzia dellc Spirito, ricevuto sul monte degli
Ulivi (« Avrete forza dallo Spirito Santo che
scenderà su di voi e mi sa rete testimoni a
Gerusalemme, in tutta la Giudea la Samaria e fino
agli estremi confini della terra At 1,8), ci si ritrova
con un senso di pace sovruma na nella casa di
Paolo, che accoglie tutti indistinta. mente, attorno
alla potenza salvifica della Parole(« Paolo rimase
due anni interi nella casa che avevs preso a pigione
e accoglieva tutti quelli che andava. no da lui,
annunciando il regno di Dio e insegnandc le cose
riguardanti il Signore Gesù Cristo con tutte-
franchezza e senza ostacoli », At 28,30-31).
E, così, siamo giunti all'abside, che suscita
una luminosa e misteriosa sensazione di eternità:
con 1€ sue vetrate istoriate, le sue luci e le sue
ombre, si srotola il libro dell'Apocalisse. Anche qui
nessuno si sente escluso, ma è reso partecipe del
canto di «tutte le creature del cielo e della terra,
sotto la terra e nel mare » (Ap 5,13), «miriadi di
miriadi e migliaia di migliaia» (Ap 5,11), «una
167
moltitudine immensa, che nessuno poteva contare,
di ogni nazione, razza, popolo e lingua » (Ap 7,9).
Si tratta di una famiglia a dimensione universale,
destinata a celebrare la festa nuziale con Dio, nel
godimento del reciproco incontro, che spegne gli
interrogativi dell'esistenza: « Lo Spirito e la sposa
dicono: Vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni! Chi ha
sete venga, chi vuole attinga gratuitamente l'acqua
della vita » (Ap 22,17) .
Infine, per contemplare attentamente i
dettagli dell'ampia rappresentazione absidale,
immaginiamo di percorrere il deambulatorio,
sostando qua e là a trarre spiegazioni dalle lettere di
Pietro, Giaco-Imo, Giuda e Giovanni. Così, siamo
ormai consapevoli di aver acquisito una nuova
identità: « Stranieri pellegrini della dispersione» (1
Pt 1,1; 2,11), che esige una particolare strategia di
comportamento: « Conservate tra voi una grande
carità... praticate l'ospitalità gli uni verso gli altri »
(1 Pt 4,8-9), che produce un encomio di
incoraggiamento: « Carissimo, tu ti comporti
fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli,
benché forestieri... non imitare il male, ma il bene.
Chi fa il bene è da Dio; chi fa il male non ha veduto
Dio» (3Gv 5,11).
168
Signore? Sono tuoi fratelli e li chiami «piccoli »?
Ma proprio per questo sono i miei fratelli, perché
sono umili, poveri, respinti. Questi, in special
modo, il Signore chiama alla sua fraternità: gli
sconosciuti, i disprezzati, intendendo come tali non
solo i monaci e coloro che abitano sui monti, ma
ogni fedele. Anche se uno vive nel mondo, ma è
affamato, nudo, pellegrino, il Signore vuole che
riceva tutta questa assistenza: il battesimo e la
partecipazione ai divini misteri lo rendono infatti
suo fratello.
(Giovanni Crisostomo, Commento al
Vangelo di Matteo 79,1: PG 58,718)
169
l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te
stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo.
Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato
Figlio di Dio. 36Vedi: anche Elisabetta, tua parente,
nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è
il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile:
37
nulla è impossibile a Dio ». 38Allora Maria disse:
«Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me
quello che hai detto ». E l'angelo partì da lei (Lc
1,26-38).
171
mondo occidentale nei tratti di due gruppi angelici.
Quattro arcangeli-cortigiani, riccamente vestiti,
simboleggiano l'Oriente; quattro angeli-servitori, in
veste semplice e con il capo chino in segno di
venerazione, raffigurano i'Occidente. La bi-
partizione angelica illustra la globalità del mondo
celeste e terrestre, che fa da corona al Cristo
benedicente, posto al centro di un medaglione. Ciò
che a noi interessa rilevare è che gli arcangeli
Raffaele, Michele, Gabriele e Uriele portano nella
mano sinistra un globo crociato e nella destra un
bastone-stendardo: l'idea dell'angelo-viandante non
manca, anche se il bordone del pellegrino è
sostituito da un'asta-vessillo. Ma è pur sempre un
bastone, che trova la sua esatta corrispondenza nel
secondo gruppo angelico: ognuno dei quattro «
angeli del Signore », che con pletano il cerchio
attorno a Cristo, stringe tra le mani il bastone tipico
del viaggiatore, in cammino per espletare la
missione che gli è stata assegnata.
172
detti angeli, quelli invece che annunziano i più
grandi eventi son chiamati arcangeli.
Per questo alla Vergine Maria non viene
inviato un angelo qualsiasi, ma l'arcangelo
Gabriele. Era ben giusto, infatti, che per questa
missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per
recare il più grande degli annunzi. A essi vengono
attribuiti nomi particolari, perché anche dal modo
di chiamarli appaia quale tipo di ministero è loro
affidato. Nella santa città del cielo, resa perfetta
dalla piena conoscenza che scaturisce dalla visione
di Dio onnipotente, gli angeli non hanno nomi
particolari, che contraddistinguano le loro persone.
Ma quando vengono a noi per qualche missione,
prendono anche il nome dall'ufficio che esercitano.
(...) A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato
Fortezza di Dio; egli veniva ad annunziare colui
che si degnò di apparire nell'umiltà per debellare le
potenze maligne dell'aria. Doveva dunque essere
annunziato da «Fortezza di Dio » colui che veniva
quale Signore degli eserciti e forte guerriero.
(Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli 34,8-
9: PL 76,1250-1251)
MARIA, ICONA
DELL'ACCOGLIENZA
39
1n quei giorni Maria si mise in viaggio
verso la montagna e raggiunse in fretta una città di
Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò
Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di
Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta
173
172
fu piena di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «
Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo
grembo! 43A che debbo che la madre del mio Signore
venga a me? 44Ecco, appena la voce del tuo saluto è
giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia
nel mio grem bo. 45E beata colei che ha creduto
nell'adempimento delle parole del Signore ». 46Allora
Maria disse: « L'ani ma mia magnifica il Signore»
(Lc 1,39-46).
175
come atto estremo di lode a Dio per essere stata
liberata dalla condizione vergognosa di sterilità,
secondo la mentalità del tempo (cfr. Gn 30,23; 1
Sam 1,5-8), o forse semplicemente per godersi
quella straordinaria esperienza di maternità di cui
Dio le aveva fatto dono, regalandole una gioia
insperata e inattesa. Maria, invece, non pensa a se
stessa, ma affronta i disagi di un viaggio, certo non
facile per l'epoca, al fine di raggiungere la cugina: «
In quei giorni Maria, alzatasi, si mise in viaggio
verso la montagna in fretta e raggiunse una città di
Giuda» (Lc 1,39). La decisione di Maria non lascia
spazio ai ripensamenti: la scelta del vocabolario
tradisce il desiderio dell'evangelista di descrivere
una donna ansiosa di lasciare la propria casa,
preoccupata soltanto di trasferirsi da una città
all'altra, noncurante dei pericoli, della stanchezza,
degli imprevisti. Forse avverte la garanzia che
riceverà pronta accoglienza dalla parente e,
certamente, non le mancheranno i conforti
dell'ospitalità. Di fatto, mette in moto uno stupendo
quadro di generosità amicale, dove i gesti e le
parole trovano corrispondenza nelle antiche usanze,
che manifestano intangibili valori. Maria giunge al
villaggio di Ain-Karim e, «entrata nella casa di
Zaccaria, salutò Elisabetta» (Lc 1,40). I riferimenti
non sono casuali: Zaccaria è il capofamiglia e viene
nominato per primo, a onore del suo ruolo
patriarcale e in linea con le convenienze sociali del
tempo; i saluti sigillano la gioia dell'incontro,
lasciando trasparire un'intesa cordiale tra i
176
protagonisti femminili, che si prolunga in una serie
di reciproche esclamazioni di stupore, di
ringraziamento, di festa.
A un primo livello di significato, Luca non
fa che applicare alle due donne i comportamenti
tipici dell'ospitalità accogliente, previsti dalle
tradizionali usanze orientali. Infatti, il fugace
accenno al saluto di Maria corrisponde al corretto
modo di presentarsi dell'ospite, che deve limitarsi a
una dimostrazione di benevolenza, con sobrietà di
parole, senza nulla domandare. Anzi, il protocollo
dell'ospitalità esige che il forestiero eviti persino di
fissare a lungo lo sguardo sulle suppellettili
dell'abitazione in cui viene accolto, perché questo
significherebbe esprimere un desiderio e porre
l'ospitante nella condizione d'obbligo di dover
soddisfare la necessità dell'ospite.
Al contrario, colui che accoglie è tenuto ad
ampie dimostrazioni di buona disposizione: deve
offrire acqua per rinfrescare i piedi, le mani e il
viso; preparare del cibo; sistemare il giaciglio.
Soprattutto, deve intrattenere il nuovo arrivato con
espressioni di gaudio, di festa, di sorpresa,
mettendo a suo agio l'ospite magari con qualche
domanda di circostanza. E, di fatto, l'evangelista
Luca fa in modo che Elisabetta sia la prima ad
aprire un vero dialogo, benedicendo Maria,
chiedendole il motivo della visita, informandola sul
suo stato di gestante, caso mai Maria non abbia
ancora saputo la bella novità. Notiamo che le
incombenze pratiche dell'ospitalità passano in
177
secondo piano, anzi non compaiono affatto. Segno
che l'incontro tra le due donne ha un significato più
profondo rispetto alla semplice visita di cortesia.
Infine, fa parte del comportamento
tradizionale dell'ospitalità il contraccambio
dialogico da parte dell'ospite. Colui che ospita si
aspetta di ricevere notizie, auguri di buona fortuna,
espressioni di gratitudine, lodi alla generosità
dell'ospitante e tributi d'onore, che attestino la
reciprocità e siano di buon auspicio per entrambi. E
di nuovo, l'evangelista rispetta il codice delle buone
maniere, ma vi imprime un tono decisamente
originale: Maria esplode in un inno di
ringraziamento e di lode, ma non verso la cugina,
bensì verso Dio. Porta straordinarie notizie a colei
che l'accoglie, ma non di curiosità o di cronaca:-fa
una rilettura personale della storia biblica del
popolo eletto, proiettandola in un presente che
scavalca i confini del tempo per irrompere nella di-
mensione della santità e della misericordia di Dio.
Ecco perché Maria è, a giusto titolo, icona
dell'accoglienza, perché trasforma la bella ospitalità
nel valore teologico della benevolenza, che si fa
servizio e disponibilità verso l'altro, leggendo con
gli occhi di Dio, pieni di ottimismo e di speranza, la
povera storia dell'umanità. E così la rende santa, la
dichiara storia salvifica. Maria vi è già entrata e
invita altri a fare la sua stessa scoperta: «Maria
rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua»
(Lc 1,56).
178
LA VOCE DEI PADRI
179
». 14 Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e
sua madre nella notte e fuggì in Egitto, 15dove rimase
fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che
era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
«Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio » (Mt 2,13-
15).
180
pretare Gesù come il nuovo, l'autentico Mosè, in
grado di guidare la comunità dei credenti alla pie-
nezza della vita, adombrata e promessa nella storia
dell'antico popolo eletto. Fatto sta che anche la san-
ta famiglia di Nazaret non è stata esente dalle soffe-
renze e dall'amarezza dell'esperienza migratoria. A
modo suo, anche l'evangelista Giovanni, come i tre
sinottici, non nasconde la durezza di cuore di colo-
ro che rifiutano di accogliere Cristo e decidono di
proposito di emarginarlo, isolandolo dalla loro vita:
«Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo
di lui, eppure il mondo non volle riconoscerlo.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accol-
to» (1,10-11).
Nella Costituzione Exsul familia, l'icona
della santa famiglia in esilio, oltre a illuminare il
dramma di un'intera famiglia costretta a fuggire in
terra straniera, intende stimolare a riflettere,
anzitutto, sull'urgenza di interventi tipici delle
iniziali ondate migratorie di massa: prima
assistenza, emergenza umanitaria e difesa dei diritti
fondamentali dei migranti. In secondo luogo, mette
in rilievo l'importanza data all'istituto familiare e
alla minaccia di disgregazione alla quale la
famiglia era ed è ancor oggi sottoposta nei contesti
migratori. Infatti, non bisogna dimenticare che
l'ambiente storico, in cui nasce questo importante
documento del Magistero, è quello del secondo
dopoguerra, dove la famiglia assume tutto un suo
peso nell'opera di ricostruzione postbellica. Forse
proprio la congiuntura storica ha contribuito a
181
puntare i riflettori sul fatto dell'emigrazione, che
esplodeva a seguito del conflitto mondiale, e in
particolare sulle famiglie, travolte nel disagio del
distacco, dello sradicamento, del trapianto causati
dall'emigrazione, in cerca di un futuro capace di
promettere pane e sicurezza per l'avvenire.
Nell'arco della Costituzione apostolica si
trovano anche altre citazioni bibliche, oltre alla
fuga in Egitto, ma tutte si allineano con il
messaggio dell'icona dell'esilio, suggerendo lo
stimolo ad approntare una specifica azione
pastorale in vista di un sostegno alle urgenze
espresse da uomini e donne costretti, per varie
ragioni, ad emigrare. Insomma, la santa famiglia
migrante motiva un'attenzione particolare della
Chiesa verso i migranti.
La stessa icona, con il medesimo
orientamento, viene ripresa anche da Paolo VI, nel
motu proprio Pastoralis migratorum cura (1969):
torna in primo piano l'immagine di « Cristo esule in
Egitto con la famiglia di Nazaret » in un contesto di
costrizione ad abbandonare la patria. Da
quest'immagine il documento, che trova il suo
naturale sviluppo nella relativa Istruzione De
pastorali migratorum cura, deduce delle strategie
pastorali, a partire dall'impossibilità di svolgere in
maniera efficace la cura pastorale dei migranti, se
non si tengono in debito conto il patrimonio
spirituale e la cultura propria delle persone
coinvolte nel fenomeno della mobilità.
182
I successivi pronunciamenti del Magistero,
nell'ambito della pastorale delle migrazioni, hanno
recepito e ripetuto, con toni più o meno accesi, la
stessa idea della sollecitudine della Chiesa al
servizio di uomini e donne che vivono in
condizioni di vita disagiate, a causa
dell'emigrazione. Anche la recente Istruzione Erga
migrantes caritas Christi (2004) ribadisce
l'importanza di offrire generosa assistenza alle «
sofferenze che accompagnano le migrazioni » (n.
12). Anche qui si rimanda alla triste esperienza
della fuga in Egitto (n. 15), ma l'accento non cade
sulla tradizionale impostazione. II nuovo documen-
to insiste nell'offrire una lettura positiva del fatto
migratorio, vedendolo «quasi a prolungamento di
quell'incontro di popoli e razze che, per il dono
dello Spirito, nella Pentecoste, divenne fraternità
universale» (n. 12). Il dinamismo dello Spirito, la
vocazione alla comunione universale, l'incontro
dialogico tra i popoli, di fatto, sono gli argomenti di
peso e, in parte, nuovi di questo pronunciamento
del Magistero. Qui non ci si accontenta di qualche
citazione biblica, né dell'icona della santa famiglia
in esilio. L'articolazione dei temi prende il via dalla
collocazione delle migrazioni nella storia della
salvezza, ripercorrendo le grandi tappe della
rivelazione biblica fino alla ricapitolazione in
Cristo, profetizzata dallo scritto paolino agli Efesini
(n. 13 con citazione conclusiva di Ef 1,10).
Nei nn. 16-18, poi, emerge lo sforzo di
situare nell'alveo della storia della salvezza anche
183
«la Chiesa della Pentecoste », sigillando il
passaggio da una visione assistenziale delle
migrazioni all'inco raggiamento, rivolto ai migranti
stessi, a farsi pro motori e artefici
dell'evangelizzazione: per loro tramite, infatti,
viene veicolato « l'annuncio del mi stero pasquale,
per il quale morte e risurrezioni tendono alla
creazione dell'umanità nuova nelli quale non vi ë
più né schiavo né straniero (cfr. Ga 3,28) » (n. 18).
Cosi si conferma un importante
cambiamento di prospettiva, favorito dal passaggio
dall'idea dell'ospitalità, come impegno-dovere
pratico di prima attenzione verso l'altro, alla
diakonia dell'accoglienza, che precede e motiva le
dinamiche operative della carità. Del resto, il
Messaggio di Benedetto XVI per la 93a Giornata
mondiale del migrante e del rifugiato (2007)
riprende tale orientamento, con queste parole: «Nel
dramma della Famiglia di Nazaret, obbligata a
rifugiarsi in Egitto, intravediamo la dolorosa
condizione di tutti i migranti, specialmente dei
rifugiati, degli esuli, degli sfollati, dei profughi, dei
perseguitati. Intravediamo le difficoltà di ogni fa-
miglia migrante, i disagi, le umiliazioni, le strettez-
ze e la fragilità di milioni e milioni di migranti,
profughi e rifugiati. La Famiglia di Nazaret riflette
l'immagine di Dio custodita nel cuore di ogni uma-
na famiglia, anche se spesso sfigurata e debilitata
dall'emigrazione ».
184
LA VOCE DEI PADRI
185
il Creatore di tutte le cose, o Cristo. Perché dunque
fuggi, o Dio buono? Erode per causa tua si lamenta
piangendo perché il suo potere stava per essere
travolto.
L'esule fugge per non essere trovato e
riconosciuto da chi lo sta cercando, ma, al
contrario, l'unico che è misericordioso, Gesù nostro
Salvatore, fuggiva nel proprio aspetto visibile,
mentre a mezzo delle proprie opere si lasciava
riconoscere da tutti. Perché, al momento del suo
arrivo in Egitto, di colpo le statue fatte da mano
umana caddero a pezzi. Colui che aveva fatto
tremare Erode, provoca anche questo rovescio degli
idoli. Nascosto in grembo alla Madre, pure egli
agiva quale Dio. Era in viaggio ver so l'Egitto, ma
un angelo accudiva alla fuga Volontariamente egli
si lasciava inseguire nella cac cia come un povero
piccolo essere, mentre egli si fa ceva annunciare a
tutti quale potente. Per questo Erode piangeva,
perché il suo potere stava per essere travolto.
(Romano il Melode, Inno dei santi
innocente della fuga in Egitto 15,15-1.7 Sources
Chrétiennes 110,223-225).
LA «CASA» DI BETLEMME
3
Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno
nella sua città. 4Anche Giuseppe, che era della casa e
della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla
Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata
Betlemme, 5per farsi registrare insieme con Maria
sua sposa, che era incinta. 6Ora, mentre si trovavano
in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.
186
7
Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse
in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non
c'era posto per loro nell'albergo (Lc 2,3-7).
187
alla località e non viceversa (vedi Frammenti sulle
Lamentazioni 104, linea 9).
La «casa» di Erode è lontana dalla «casa del
pane », geograficamente e, soprattutto,
spiritualmente. La distanza è tale che il re, dopo
aver scoperto di essere stato preso in giro dai Magi,
che non erano tornati a Gerusalemme a dargli il
resoconto della loro visita al Bambino, ma « per
un'altra strada avevano fatto ritorno al loro paese»
(Mt 2,12), decide di trasformare quell'ambiente di
vita e di gioia in un lago di sangue, di pena e di
dolore, mandando a uccidere i bambini di
Betlemme e del circondario: «Un pianto e un
lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non
vuole essere consolata, perché non sono più (Mt
2,18). Dunque, questo genere di «casa », dov
albergano il sospetto e l'invidia, la paura e il con
plotto, produce soltanto disperazione e morte.
Bisogna guardare altrove e cercare un'altra
«---------», più familiare e accogliente, più calda e
ospitale Ed ecco la testimonianza che esistevano,
all'epos, dei Vangeli, anche dimore appositamente
pensat, per i viandanti, per i forestieri, per gli
immigrati: « Si è vero — è statc scritto — che nel
mondo antico l'ospitalità private o pubblica sopperì
da principic ai bisogni dello straniero di passaggio,
l'accresc(rsi delle relazioni e dei viaggi rese ben
presto necessaria la costruzione di edifici di
alloggio, particolarmeite nei grandi centri
188
commerciali»10. Così sono sortigli alberghi. Nei
territori sottomessi al controllo del-
l'amministrazione romana sappiamo che esisteva
tutta una rete li hospitia, diversoria e cauponae,
cioè ambienti appositi dove era possibile trovare
vitto, alloggio e foraggio per le bestie da trasporto.
Non diversamente, nel suo piccolo, doveva essere
anche in Palestina, ai :empi del Nuovo Testamento.
Infitti, fonti letterarie e archeologiche attestano che,
per questo scopo, vi erano edifici pubblici, aperti a
tatti gratuitamente, e ve ne erano anche di privati,
conaccesso a pagamento. Ai primi, a tipo di khan o
caravanserraglio, apparteneva probabilmente il
katilyma in cui non trovarono posto Maria e
Giuseppe (Lc 2,7). La versione in lingua latina
(detta Vulgata) del testo evangelico originale greco
dice che Maria adagiò Gesù « in praesepio », cioè
in quella parte del'abitazione privata destinata agli
animali da greppia, prezioso patrimonio familiare,
perché « non era' eis locus in diversorio ». Il
vocabolo latino diversorum rimanda all'azione di
chi, viaggiando, si di-rige verso una meta per
cercarvi alloggio. A questo riguardo, la Bibbia
conferma l'uso di riservare uno spazio delimitato,
pubblico e gratuito, all'interno delle nura cittadine,
dove i viaggiatori potevano rifugiarsi per passare la
notte. Certo, si trattava di ambienti cl non offrivano
quella sicurezza e quei conforti che possono trovare
10
A. Sisti, L'ospitalità nella prassi e
nell'insegnamento della Bibbia, in Liber Annuus
Studium Biblicum Franciscanum 17 ["967] 304.
189
negli alberghi moderni, anzi, in genere erano gestiti
da persone di pochi scrupoli e frequentati
principalmente da vagabondi, ubriachi e prostitute.
Per questo motivo, chi non vi era costretto da
necessità, cercava preferibilmente una diversa
sistemazione. Si sa, ad esempio, che il gruppo reli-
gioso degli esseni aveva ovviato a questi inconve-
nienti istituendo in ogni città un « commissario pe
gli ospiti », incaricato di ricevere tutti gli apparte-
nenti alla setta e di provvedere ai loro bisogni. È 1
storico Giuseppe Flavio che racconta: « Essi (gli
es-seni) non formano una sola città, ma nelle
singole città prendono domicilio in molti. Ai
membri della setta, che giungono da fuori, essi
concedono libero uso di tutte le cose loro come se
fossero proprie a quelli, i quali entrano in casa di
coloro che in precedenza non hanno mai visto come
in casa di persone familiarissime; perciò anche
compiono viaggi non portando con sé
assolutamente nulla, solo che sono armati a motivo
dei briganti: per il resto, in ogni citt, viene
designato espressamente dalla corporazione un
commissario per gli ospiti, che provvede le vesti i
viveri» (La guerra giudaica, I1,124-125).
Ma per coloro che non potevano avvalersi
di si mili appoggi era una necessità affidarsi
all'ospitalit tradizionale di tipo familiare, contando
sulla cortesi di parenti, amici e conoscenti, oppure
semplicemen te sulla generosità di persone di buon
cuore (vedi, ad esempio, Gdc 19,15 ss.), talvolta
contribuendo con qualche forma di pagamento.
190
Probabilmente appar tiene a questo tipo di « casa
ospitale » quel pando. cheion di eui parla
l'evangelista Luca (10,34-35) quando racconta la
storiella del viaggiatore samaritano, che portò il
poveretto assalito dai briganti appunto a un «luogo
di accoglienza per tutti » (questo è il senso
etimologico di pan-dechomai), la « locanda »,
versando al gestore due denari per il servizio
dell'ospitalità e la cura del viandante ferito.
Ma neppure questo edificio risponde
pienamente all'icona biblica luminosa che accoglie
la santa famiglia di Giuseppe, Maria e Gesù. Il
quadro più proprio, invece, si comincia a
tratteggiare con l'annotazione di Matteo che
riferisce l'incontro con i Magi, quando «entrati
nella oikia, videro il Bambino con Maria» (2,11):
questo ë l'ambiente della fraternità, dell'amicizia,
della festa. Ecco l'autentica casa di Betlemme. Di
seguito, tra i tantissimi esempi biblici, osserviamo
che Gesù spesso sosta nella oikia degli amici
Lazzaro, Marta e Maria, a Betania (Gv 12,1 ss.).
Nella oikia di Levi e di Zaccheo insegna e guarisce
le persone nella loro intimità (Mt 9,10 e Lc 19,5).
Nella oikia del «piano superiore », dopo aver
donato l'Eucaristia agli Apostoli, Gesù si rende
continuamente presente ed effonde lo Spirito Santo
(At 2,2). Infine, secondo Pietro (1 Pt 2,11), i
cristiani si identificheranno in una particolare con-
dotta di vita, quella che qualifica il paroikos, il
vian- dante che, tra le conflittualità della vita, non
perde di vista la «casa» che Dio stesso gli ha
191
promesso e dall'eternità gli ha preparato (Eb 11,9-
10).
192
LA «CASA» DI GESÙ
35
Il giorno dopo Giovanni stava ancora là
con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su
Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio! ».
37
E i due discepoli, sentendolo parlare così,
seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, vedendo
che lo seguivano, disse: «Che cercate? ». Gli
risposero: «Rabbi (che significa maestro), dove
abiti? ». 39Disse loro: «Venite e vedrete ». Andarono
dunque e videro dove abitava e quel giorno si
fermarono presso di lui; erano circa le quattro del
pomeriggio (Gv 1,35-39).
193
in lontananza e in profondità. I1 Signore, al
contrario, è colui che passa, è la Parola in perenne
movimento d'amore. Il Battista rende testimonianza
a Gesù, servo e agnello, perché anche i suoi
discepoli vedano quello che lui vede e,
abbandonando lo stare, si affidino al camminare.
In effetti, lo sguardo penetrante e
1'annuncio profetico di Giovanni provocano
un'improvvisa tensione nella scena, quando due dei
suoi discepoli lo lasciano, affascinati dalla novità: «
I due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono
Gesù » (1,37). Ora puntiamo i riflettori
direttamente sulla scena, per cogliere nei dettagli
quello che accade.
L'attenzione si sposta da Giovanni a Gesù,
aprendo un capitolo inedito nella nuova storia.
Gesù forse si rende conto di essere seguito dai due
discepoli del Battista, dal momento che
l'evangelista annota che « si voltò» (v 38),
compiendo un gesto voluto e intenzionale. In tal
modo, l'atteggiamento del Maestro è quello tipico
di chi non si sottrae all'interesse dell'altro, anche se
sconosciuto e straniero, ma mo stra disponibilità e
desiderio di intessere un dialogo Si, perché Gesù
cammina, ma non a caso o assorto nei suoi pensieri.
La sua reazione suggerisce che egli abbia sotto
controllo ciò che avviene attorno a sé altrimenti a
un certo punto non sentirebbe il bisogno di fermarsi
e di voltarsi indietro. D'altra parte; il racconto non
dà il minimo indizio che sia interve. nuto qualche
elemento a turbare la scena: Gesù non si volta
194
perché attratto da richiami ottici o acustici, vale a
dire la comparsa dell'ombra di qualcuno che lo
avvicina o il rumore di passi estranei o il bisbiglio
di voci alle sue spalle. Insomma, se l'evangelista
non dice nulla del sopraggiungere di segnali
esterni, certo vuol avvertire che Gesù non è
distratto o assente, ma è attento a quello che accade
attorno a sé. Avrebbe potuto far finta di niente e
continuare per la sua strada. Invece, si gira perché
in qualche modo ha percepito una presenza e
decide intenzionalmente di iniziare un dialogo.
Infatti, in simili situazioni, decidere di non voltarsi
risponde alla paura di essere coinvolti, di dover
guardare qualcuno negli occhi e, magari, di dover
rispondere a qualche domanda o, comunque, di
venire a contatto diretto con qualcuno, di cui si
ignorano le intenzionalità. Voltarsi, al contrario,
significa accettare di comunicare. Ora, chi
comincia un dialogo si espone in prima persona,
poiché la sua parola potrebbe essere capita e ac-
cettata, ma anche fraintesa o criticata. L'incontro
con l'altro suscita impressioni immediate, che tal-
volta danno origine a conflitti e giudizi, del tipo: «
uno straniero, non è dei nostri, chissà da dove salta
fuori... ».
Voltarsi, perô, significa anche cogliere
un'occasione, oppure offrire un'occasione, che forse
non si ripeterà più: è l'evento speciale e propizio
che la lingua greca del Nuovo Testamento esprime
con il vocabolo kairos. II fatto che Gesù si volti a
incrociare lo sguardo con i due discepoli de]
195
Battista scioglie la densità della scena e apre un
orizzonte di possibilità e di incontro: i due sono alla
ricerca e il voltarsi di Gesù è già una risposta alla
loro inquietudine.
Gesù, dunque, si gira e guarda i due
discepoli: il verbo usato da Giovanni è theaomai,
che indica lo sguardo penetrante che vuol giungere
in profondità, oltre la semplice constatazione
superficiale. Poi, l'intensità dell'incontro produce
una domanda: « Che cosa cercate? » (v 38). Sono
queste le prime parole che Gesù pronuncia nel
Vangelo di Gio vanni. Troveremo un'inclusione al
termine dei Vangelo, quando il Risorto, rivolto alla
Maddalena, dirà: «Donna, che cosa cerchi?»
(20,15). « Cercare» esprime un desiderio, una
passione, uno slancio che sta al di sopra di tutto.
Gesù sembra obbligare colui che si è messo alla sua
sequela per curiosità a interrogarsi in profondità:
Cosa cerchi? Cosa ti aspetti da me? Perché mi
cerchi? In questo modo, Gesù dà inizio non a un
insegnamento, ma a un col loquio, attraverso il
quale intende favorire la ricerca di coloro che
l'hanno seguito. I due, a loro volta, ri spondono a
Gesù con una domanda: «Rabbi, dove abiti?» (v.
38). «Rabbi-Maestro» è l'appellativo con il quale
Andrea e il suo amico esprimono la vo lontà e la
decisione di accogliere il Cristo e di obbe dirgli.
Essi si offrono: donano il loro essere perché prenda
forma nelle mani del Maestro, si dissolva la tenebra
che lo avvolge e si trasformi in luce.
196
La risposta di Gesù ai due è un imperativo e
una promessa: «Venite e vedrete» (v. 39). Per
entrare in sintonia con l'altro non è sufficiente né
una testi monianza né una propria ricerca: è
necessario un incontro personale, attraverso il quale
si tocca con mano la nuova realtà. «Andare a
vedere» è sinonimo di conoscere intimamente
l'altro, non solo curiosare nella novità dell'incontro.
Il « vedere », allora, non è il semplice vedere degli
occhi del corpo. È un momento intuitivo che, sotto
la superficie, fa percepire il centro luminoso, la
sorgente originaria, il segreto della vita. E tuttavia,
per vedere in profondità, è necessario attendere l'«
ora ». Essa sola fa vedere, essa sola è il momento
propizio che fa aprire gli occhi al mistero e pone il
discepolo nell'amicizia con la persona del Verbo.
I discepoli, quindi, accettano di legarsi a
Gesù: «Andarono dunque» (v. 39). Il discepolo,
finché rimane dove si trova, può onestamente e
fedelmente compiere la sua professione, i propri
compiti, avere vecchie o nuove concezioni su Dio,
ma se vuole percorrere la strada che gli indica la
guida è chiamato a muovere i primi passi in un
ambiente nuovo. Così, i due «videro dove abitava e
quel giorno rimasero con lui » (v. 39). Dimorando
con il Maestro, essi scoprono la sua «casa ». Gesù è
la Parola che abita nel seno del Padre, è la Parola
rivolta verso il Padre, come al suo ambiente vitale.
In questo luogo originario, tra il Padre e il Figlio c'è
un movimento che, in seguito, il discepolo scoprirà
essere un vincolo d'amare: lo Spirito. Per coloro
197
che hanno saputo seguire e cercare c'è una
ricompensa: rimanere presso di lui.
E l'avvenimento si chiude con una nota
cronologica: « Erano circa le quattro del
pomeriggio » (v. 39). I momenti forti dell'amore si
ricordano. Alla lettera il testo dice: «Era circa l'ora
decima », un'ora che richiama un tempo particolare,
al calare del giorno, come nel racconto lucano dei
due discepoli di Emmaus, che invitano lo straniero-
Gesù a rimanere con loro: « Rimani con noi,
perché ormai è sera ed è declinato già il giorno»
(Lc 24,29). Per i due che hanno seguito Gesù
lasciando il Battista, l'ora decima segna la fine del
giorno semplicemente umano e l'inizio del giorno
nuovo, vissuto con il Signore che «non ha dove
posare il capo» (Lc 9,58).
198
cendo: «Seguitemi e vi farò pescatori di uomini»
(Mt 4,19). Da quel momento essi si unirono a lui
per non lasciarlo più. Ora, il fatto che questi due
adesso lo seguono, non vuol dire che lo seguano
con l'intenzione di non ritirarsi. Volevano solo
vedere dove abitava, realizzando ciò che sta scritto:
« tuo piede logori la sua soglia; levati e va' da lui
con assiduità e medita i suoi comandamenti » (Sir
6,36-37). Cristo mostrò loro dove abitava; quelli
andarono e rimasero con lui. Che giornata felice
dovettero trascorrere, che notte beata! Chi ci può
dire che cosa ascoltarono dal Signore? Mettiamoci
anche noi a costruire nel nostro cuore una casa
dove il Signore possa venire e ci ammaestri e si
trattenga a parlare con noi.
(Agostino d'Ippona, Trattati sul Vangelo di
san Giovanni 7,9: CCL 36,71-72)
199
Scorrendo le prime righe del quarto
Vangelo, ci si imbatte in un curioso rimando al
sogno che Giacobbe fece a Betel, raccontato da Gn
28,10-22, quando il patriarca vide che «una scala
poggiava sulla terra, mentre la sua cima
raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio
salivano e scendevano su di essa ». L'evangelista
Giovanni, infatti, mette sulla bocca di Gesù queste
parole: «In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo
aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul
Figlio dell'uomo» (Gv 1,51).
Nel caso di Giacobbe, che lasciava la terra
di Canaan per emigrare in Mesopotamia, gli angeli
che salivano sulla lunga scala significavano la
garanzia di una soprannaturale presenza protettrice
sulla sua patria, in quanto portavano a Dio le
necessità del dare vita al mondo. Sotto questo
profilo, la disces angelica è dunque la conferma
della missione salvifica del Figlio di Dio,
nell'umanità.
La stessa teologia ritorna nella riflessione
dell lettera agli Efesini. Commentando il Sal
68,19,1'autore dice: « Che significa la parola
"ascese", se non che prima era disceso nelle regioni
più basse, cio sulla terra? Colui che discese è il
medesimo che anche sali al di sopra di tutti i cieli
per riempire tutte le cose» (Ef 4,8-10).
La lettera di Giacomo, poi, precisa che
«ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene
dall'alto e scende dal Padre della luce» (Ge 1,17),
come lo Spirito Santo, che era sceso su Gesù,
200
mentre egli saliva dall'acqua del Giordano (Mt
3,16; Mc 1,10; Gv 1,32), poi viene effuso sugli
apostoli il giorno di Pentecoste (At 2,1 ss.) e,
infine, è donato anche ai pagani di buona volontà,
come avvenne a Cesarea, per il centurione romano
Cornelio e per la sua fami glia (At 10,44; 11,15).
Quindi, nella prospettiva del quarto
Vangelo, i Verbo entra nella storia umana, ma con
tutta la pienezza della realtà divina: «Era presso
Dio, en Dio» (Gv 1,1) e continua a essere in stretto
con tatto con Dio, «attraverso le cose create» (Gv
1,2 5), facendosi nel contempo compagno di
viaggi; dell'umanità: «Il Verbo si fece carne e
piantò l; sua tenda tra di noi» (Gv 1,14). La discesa
del Verbo, spiegata con la metafora della discesa
ange lica, è in vista di una missione, quella di
offrire quanti lo accolgono 1'«esegesi» del Padre:
«Dic nessuno l'ha mai visto; proprio il Figlio
unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato
» (Gi 1,18; 17,6.26). In questo modo l'evangelista
ci stimola a contemplare il volto divino-umano di
Cristo, nei misteri dell'incarnazione e della reden-
zione. Allora, in questo stupendo quadro unitario,
prende rilievo anche i'annotazione che suggerisce
lo stretto rapporto di Cristo con il Padre e con l'u-
manità, attraverso l'immagine angelica, che richia-
ma anche la visione di Giacobbe: « Vedrete il cielo
aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul
Figlio dell'uomo »» (Gv 1,51).
Nel misterioso piano di Dio entriamo anche
tutti noi, migranti e pellegrini, ma trasformati
201
radicalmente, come Giacobbe: «Voi siete la stirpe
eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il
popolo che Dio si è acquistato perché proclami le
opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle
tenebre alla sua ammirabile luce»» (1Pt 2,9). Una
prospettiva vertiginosa, che ci impegna su due
fronti di enorme responsabilità: da un lato la
sollecitudine per l'altro, che si svela nella metafora
della «discesa »; dall'al- tro, la comunione con
l'Altro, messa a fuoco nell'immagine della «
ascesa».
202
Vi seno infatti vie nella legge, vie nei
profeti, vi nei van;eli, vie negli apostoli, vie anche
relle diver se opere dei maestri. Beati coloro che
carrminano ir esse col timore di Dio.
(Dario di Poitiers, Trattati sui Salmi, Sal
127,1-3: CSEL 22628-630)
203
Vicino Oriente antico, anche se strutturato a diversi
livelli, o costruito in diverse tappe: a volte indica
un orientamento della vita; a volte intende cir-
coscrivere la retta condotta da assumere in una de-
terminata circostanza; a volte descrive l'esemplarità
di una vita ca imitare. Sempre, però, la meta da rag-
giungere è la felicità in questa vita e il riposo tran-
quillo nella « città dei morti » .
Che cosa c'è di nuovo nella rivelazione
cristiana? Se il tema della via è uno dei più
caratteristici nella rivelazione biblica, nel Nuovo
Testamento sono innumerevoli i richiami alla via,
all'andare, al cammi vare. La «via» diventa in molti
testi sinonimo di dot trina, ma in più sottolinea il
dinamismo che la fede dovrebbe imprimere alla
vita. In continuità con li letteratura del mondo
circostante, gli scritti de Nuovo Testamento usano
la terminologia della stra da per indicare la
condotta di vita e, in particolare, i modo di arrivare
a Dio. Tuttavia, una lettura più ac curata dei testi
indica che prima di essere un percor so dell'uomo
verso Dio, la rivelazione cristiana è i venire di Dio
verso l'uomo. L'incarnazione è il cul. mine e la
forma più completa di questo avvicina. mento: «
Veniva nel mondo la luce vera... venne tra la sua
gente» (Gv 1,9.11). E a quelli che gli chiedevano
chi fosse, Giovanni Battista risponde: «Io sonc
voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via
del Signore» (Gv 1,23). Dunque, in Gesù di Na-
zaret, è Dio che fa la strada verso l'umanità. E il
centro della sua rivelazione non è tanto la proposta
204
di nuovi insegnamenti morali quanto la novità che
rappresenta egli stesso nella sua persona. A
Tommaso, che chiede dove possa trovare la strada
per arrivare al Padre, risponde: « Io sono la via, la
verità e la vita» (Gv 14,6). La sentenza è ardita
perché Gesù identifica se stesso con la strada da
percorrere: non esiste altro canale per raggiungere
la verità e la vita. Ma ancor più carica di pretesa è
la proposta che Gesù fa a chi lo ascolta: egli non si
identifica soltanto con il percorso da compiere per
giungere alla verità e alla vita; egli è al tempo
stesso verità e vita. La metafora della strada non
indica più soltanto il mezzo per raggiungere una
meta, ma coincide con il traguardo stesso. E,
mentre nelle antiche letterature la via proposta dai
saggi conduceva felicemente alla necropoli, la
strada indicata da Gesù intende guidare fino alla
pienezza della vita, fino alla completa sod-
disfazione del desiderio umano di verità.
Lo stesso contenuto viene presentato anche
in altri passi evangelici e ripreso nelle lettere
apostoliche. Sotto il profilo narrativo, ad esempio,
si ritrova in Gv 10, dove Gesù intrattiene i suoi
interlocutori con la metafora del pastore e delle
pecore. Nel felice accostamento dell'immagine
della porta e dell'azione di andare e venire, Gesù
ancora una volta identifica se stesso con il canale
privilegiato e unico attraverso il quale deve passare
chi desidera giungere a una condizione di sicurezza
e di salvezza: « Io sono la porta delle pecore » (Gv
10, 7) . Di nuovo, tuttavia, si aggiunge che quella
205
porta, oltre a essere l'unica possibilità per giungere
al fine sospirato, è anche il traguardo stesso: «Io
sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà
salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9).
Queste riflessioni sulla « via » trovano una
bella conclusione nel fatterello avvenuto durante il
Congresso Eucaristico, che si è tenuto a Bologna
nell'anno 2000. C'era anche Giovanni Paolo II.
Utilizzando un verso di Bob Dylan, un ragazzo gli
ha chiesto: « Quante strade devo percorrere per di-
ventare uomo? ». La risposta del papa è stata
immediata: per diventare un vero uomo non c'è che
una sola strada: Cristo.
206
Questa fondamento è Gesù, porta e luce
che, mostrandosi agli erranti, indicò a tutti la luce
della fede per la quale è possibile ricercare il Dio
sconosciuto, e ricercandolo credere, e credendo
trovarlo. Questo fondamento sostiene la Chiesa
fondata nel Nome di Gesù.
(Bernardino da Siena, Vangelo eterno 49,1;
Opera omnia, 4, pp. 495-496)
Se lo ami, seguilo. Tu dici: Lo amo, ma per
quale via devo seguirlo? Se il Signore tuo Dio ti
avesse detto: Io sono la verità e la vita, tu,
desiderando la verità e bramando la vita,
cercheresti di sicuro la via per arrivare all'una e
all'altra. Diresti a te stesso: gran cosa è la verità,
gran bene è la vita: oh! se fosse possibile all'anima
mia trovare il mezzo per arrivarci!
Tu cerchi la via? Ascolta il Signore che ti
dice in primo luogo: Io sono la via. Prima di dirti
dove devi andare, ha premesso per dove devi
passare: « Io sono », disse « la via»! La via per
arrivare dove? Alla verità e alla vita. Prima ti indica
la via da prendere, poi il termine dove vuoi
arrivare. « Io sono la via, Io sono la verità, Io sono
la vita». Rimanendo presso il Padre, era verità e
vita; rivestendosi della nostra carne, è diventato la
via.
Non ti vien detto: Devi affaticarti a cercare
la via per arrivare alla verità e alla vita; non ti vien
detto questo. Pigro, alzati! La via stessa è venuta a
te e ti ha svegliato dal sonno, se pure ti ha
svegliato. Alzati e cammina!
207
Forse tu cerchi di camminare, ma non puoi
perché ti dolgono i piedi. Per qual motivo ti
dolgono? Perché hanno dovuto percorrere i duri
sentieri imposti dai tuoi tirannici egoismi? Ma il
Verbo di Dio ha guarito anche gli zoppi.
Tu replichi: Si, ho i piedi sani, ma non vedo
la strada. Ebbene, sappi che egli ha illuminato
perfino i ciechi.
(Agostino d'Ippona, Trattati sul Vangelo di
san Giovanni 34,8-9: CCL 36,315-316)
208
I tre Vangeli sinottici riportano, ciascuno
con proprie caratteristiche, il racconto dell'invio in
missione, che leggiamo in Mt 10, 5,15; Mc 6,7-13 e
Lc 9,1-6. Lasciamoci guidare dal testo lucano, per
approfondirne la dimensione missionaria e, in
particolare, le dinamiche dell'itineranza. A dire il
vero, leggendo bene il terzo Vangelo, ci si rende
conto che questo non è l'unico passo in cui si
racconta l'invio dei seguaci di Gesù in missione.
Dopo questa prima occorrenza, il mandato della
predicazione viene conferito a settantadue discepoli
(10,1-11), poi c’è una successiva raccomandazione,
in vista del compito dell'annuncio nel tempo post-
pasquale (22,35-38) e, infine, troviamo ulteriori
istruzioni missionarie, che precedono
immediatamente l'ascensione di Gesù (24,44-49).
La narrazione di Lc 9,1-6, comunque, è la più
densa di elementi che si prestano per la nostra ana-
lisi. Essa si articola in cinque sezioni:
l'assegnazione del potere e dell'autorità ai Dodici:
l'invio a predicare e a guarire; le regole per il
viaggio; istruzioni sul luogo in cui alloggiare e
norme di comportamento nel caso dello non
accoglienza dell'annuncio. Tullo si focalizza
sull'importanza del kerygm, cioè dell'annuncio della
«buona novella» da parte dei Dodici scelti dal
Maestro, perché qui risiede la possibilità di
salvezza; il reso forma il corollario, concretamente
verificabile, della disponibilità o del rifiuto da parte
degli interlocutori degli apostoli, di fronte alla
proclamazione missionaria.
209
In apertura del resoconto lucano, Gesù tiene
un breve discorso, nel quale delinea l'etica del
viaggio e della vita dei Dodici. Cinque sono gli
oggetti che nel viaggio risulteranno superflui e,
dunque, sono vietati: bastone, bisaccia, pane,
denaro e tunica di ricambio.
Per quale ragione Gesù esige dal suoi
missionari uno stile ridotto all'essenziale? Il senso
della proibizione sembra essere duplice: anzitutto, i
discepoli devono partire visibilmente poveri, a
testimonianza per sè e per chiunque incontreranno
che non hanno riserve strategiche a garanzia
dell'efficacia della loro attività. Possono contare
soltanto sulla potenza del kerygma e sull'autorità di
colui che li ha incaricati di trasmetterlo.
Soprattutto, la loro condizione di vita, nella
dignitosa umiltà della povertà arricchita
dall'energia sovrumana dello Spirito, manifesterà
che sono fiduciosi nella provvidenza divina, la
quale farà in modo che ovunque vi siano case e
cuori disponibi I i all'accoglienza. La penuria dei
mezzi di sostegno, infatti, li renderà dipendenti
dalla generosità ospitale della gente incontrata sul
cammino, ma, molto più. sarà l'attestazione più
valida e credibile che quanto hanno da offrire è la
parola eterna che salva, non la promessa di beni di
poca durata.
All'arrivo a destinazione, « in qualunque
casa entriate, là rimanete e di là riprendete il
cammino » (Lc 9,4). Notiamo tre elementi-chiave:
casa, entrare e rimanere, che configurano la
210
necessità dell'ospitalità nell'attività missionaria
come effetto di un atteggiamento previo di apertura
al messaggio annunciato. Si tratta del metodo di
evangelizzazione basato sull'ospitalità domestica al
messaggero, che presuppone però l'accoglienza del
kerygma veicolato dal missionario. Dunque,
certamente emerge 1'essenzialità dell'ospitalità per
il buon esito della missione (non a caso nel Nuovo
Testamento vi sono frequenti esortazioni in questo
senso, come in Rm 12,13; Tt 1,8; Eb 13,2; 1Pt 4,9;
3Gv 5-8). Ma la prescrizione che riguarda
l'alloggio, con la sua direttiva a «rimanere nella
casa », conferma piuttosto la raccomandazione di
Gesù che i missionari non si preoccupino tanto di
trovare un'ospitalità confortevole, quanto di consa-
crarsi interamente al compito della proclamazione
del kerygma.
Luca, poi, anche in questo racconto come in
altri passi del suo Vangelo, lascia trasparire una
tipica sensibilità verso i lontani, sostituendo il
riferimento impersonale al «luogo », con il rimando
alle «persone », destinatarie dell'annuncio, senza
discriminare sulla loro appartenenza geografica,
etnica o religiosa. In effetti, mentre Marco scrive: «
Se in qualche luogo non vi accoglieranno e non vi
ascolteranno... » (6,11), Luca invece puntualizza: «
Quanto a coloro che non vi accolgono... ». Se, poi,
bisogna fare qualche distinzione, questa avverrà
come conseguenza dell'accoglienza o del rifiuto del
kerygma, decisione consapevole e personale dei
destinatari della missione. Infatti, la chiusura che
211
Gesù prospetta ai discepoli immediatamente
riguarda, sì, gli evangelizzatori, in quanto
sperimentano la frustrazione e l'umiliazione della
porta in faccia. Ma, in misura ben più rilevante, il
rifiuto è rivolto proprio al contenuto dell'annuncio,
vale a dire a Gesù stesso. In tal caso, i discepoli
non dovranno lasciarsi coinvolgere in vane
discussioni, ma «nell'uscire dalla loro città, scuotete
la polvere dai vostri piedi, a testimonianza per lo-
ro» (9,5). Il gesto al quale allude Gesù era praticato
dagli ebrei che lasciavano una terra straniera e
impura (cfr. At 13,51), ma nel passo lucano c'è una
connessione soltanto indiretta con il comportamen-
to inospitale, mentre c'è stretta relazione con la
chiusura nei confronti della predicazione. L'atto
simbolico in sé non è una sentenza di condanna,
tant'è vero che il testo greco usa la preposizione epi
con l'accusativo (« a testimonianza per loro »), che
spiega la relazione diretta del soggetto con l'ogget-
to. Insomma, il gesto dei missionari è un'ulteriore
occasione fornita agli interlocutori, affinché
prendano coscienza di aver liberamente e
volontariamente optato per il rifiuto del dono di
salvezza.
Del resto, i missionari non possono
indugiare nel loro compito di diffusione della
Parola, perché l'offerta della buona novella è un
kairos, seminato nello scorrere indeterminato del
chronos, come opportunità propizia e unica, che
tuttavia si può perdere colpevolmente e per sempre.
212
LA VOCE DEI PADRI
213
misericordia vale più di migliaia di grassi agnelli,
offriamogli appunto questa nei poveri e in coloro
che oggi sono avviliti fino a terra. Così quando ce
ne andremo di qui, verremo accolti negli eterni
tabernacoli, nella comunione con Cristo Signore, al
quale sia gloria nei secoli. Amen.
(Gregorio di Nazianzo, Discorsi 14,40: PG
35,910)
214
Marta e Maria a Betania. Anche i suoi discepoli
perciò, non devono essersi stupiti più di tante
quando l'hanno sentito dire: « Le volpi hanno 1e
loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il
Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo » (Lc
9,58 e Mt 8,20).
Ma che cosa voleva dire Gesù con
quell'espressione che ha un sapore tanto
enigmatico, oltre che didattico? Spesso, di fatto,
l'attenzione è stata posta sulla seconda parte della
sentenza, a dimostrazione della dimensione
itinerante dell'attività missionaria di Gesù,
viandante dell'evangelizzazione. Ma proprio la
prima parte, con il rimando intrigante alle volpi
nelle tane e agli uccelli nei nidi, offre il
presupposto per comprendere l'itineranza del
Signore.
Nei loro ricordi, Matteo e Luca concordano
nel fissare il detto di Gesù nel contesto della
spiegazione dell'impegnativo percorso che deve
affrontare il discepolo, quando entra nel dinamismo
della proposta vocazionale della sequela del
Maestro. Luca, in particolare, lo colloca
emblematicamente all'inizio della «salita verso
Gerusalemme» (9,57-62). Di fatto, il dialogo
prende l'avvio in una circostanza precisa, quando
Gesù « indurì il volto » (v. 51) dirigendosi verso
Gerusalemme. Gesù sa che sta per cominciare un
tempo difficile e deve stringere i denti per
affrontarlo, coinvolgendo in questo anche coloro
che lo vogliono seguire.
215
Le indicazioni di questo brano evangelico
sulla sequela passano attraverso il colloquio con tre
personaggi simbolici, che non hanno nome: sono
semplicemente « un tale », « un altro », « un altro »
(Lc 9,57.59.61). Il primo personaggio dice a Gesù:
«Ti seguirò dovunque tu vada» (v. 57b). E il
Signore risponde con quella frase misteriosa, che lo
presenta come un viandante, un povero, un senza
casa e, soprattutto, sembra dire all'interlocutore: «
Se vuoi seguirmi, devi uscire allo scoperto, devi
essere disposto ad abbandonare le tue tane e i tuoi
nidi ».
Il linguaggio di Gesù è, ovviamente,
metaforico nella sua allusione ai simboli della tana
e del nido Questi sembrano indicare quei luoghi,
emotivamen te «caldi », che nutrono e proteggono,
ma impedi scono la radicalità. La tana, infatti,
esprime l'ambi to in cui ci si sente sicuri e difesi:
l'animale, che nor sa difendersi, ha la sua tana da
cui è difficilissimo farlo uscire. Anche il nido è uno
spazio che nutre protegge. Tana e nido, dunque,
sono sinonimi d protezione e di difesa
dall'aggressività dell'esisten za. Indicano il voler
essere capiti con amore a tutti costi, i1 voler essere
coccolati, al sicuro, nel caldo degli affetti. Poi, tana
e nido rivelano la chiusura nel guscio della propria
sensibilità, dove non c'è da affrontare la durezza del
quotidiano, la concretezza delle scelte, la relazione
affettiva matura.
Nido e tana, in definitiva, concretizzano il
sogno di un luogo che protegga dalle esasperazioni
216
dell'esistenza, come ha ben messo in evidenza il
cardinale Carlo M. Martini nel suo libro Preghiera
e conversione intellettuale. Egli scrive: « Sappiamo
bene, in concreto, che cosa significa oggi vivere le
esigenze della carità, soprattutto nelle grandi città.
Pensiamo alla fatica di stare con gli stranieri, con
gli extra-comunitari, con i barboni, con i drogati;
pensiamo alla difficoltà di avere a che fare con i
violenti, con quelli che cercano di entrare in casa
per ottenere denaro. Oggi non ci sono molti luoghi
pacifici, in cui è sufficiente esprimere affetto,
amore, prolungando, per così dire, la vita nel seno
materno; bisogna gridare, talora, litigare, rischiare.
E tutto ciò è espressione della pratica del Vangelo
della carità. Se molti si arrestano alle buone
intenzioni, ai buoni propositi, ai proclami, al dover
essere, è perché sono ancora rintanati nel nido,
nella tana, nell'utero materno e hanno paura a
uscirne »11.
Così, il gusto della tana e del nido, spesso
inconsapevole, appare l'esatto contrario di quella
radicale sequela di Gesù itinerante che domanda di
«andare oltre », ponendo ogni fiducia in Dio solo e
invitando a «valutare» l'istintivo bisogno di affetto
e le relazioni in un quadro di libertà e di dono, nella
disponibilità anche a lottare coraggiosamente per la
difesa dei diritti umani, a fianco dei più deboli.
Certo, il desiderio di dare e di ricevere affetto è bi-
sogno della vita, le gratificazioni servono e la grati-
tudine corona il successo. Ma nello stesso tempo
11
Edizioni Apostolato della Preghiera, Roma 2002, p. 60.
217
questo minaccia talvolta di confondere l'amore con
il numero delle persone che mostrano riconoscenza,
senza affrontare, invece, anche la dis-conoscenza,
la cattiva interpretazione dell'agire, le critiche che
arrivano anche quando l'agire è buono. Il Maestro,
pertanto, indica il difficile cammino di abbandono
della tana e del nido, verso la fiducia in Dio nel
faccia a faccia con l'aggressività della vita, dove il
cristiano è chiamato a farsi voce di chi non ha voce,
oggi in modo particolare nel complesso mondo
delle migrazioni, per essere davvero « l'anima del
mondo» (A Diogneto VI,1-10). Forte di tale
incoraggiamento, anche il recente Messaggio di
Benedetto XVI per la 938 Giornata mondiale del
migrante e del rifugiato (2007) incalza le comunità
cristiane e altresì la società civile: « Già molto si
sta lavorando per l'integrazione delle famiglie degli
immigrati, anche se tanto resta da fare. Esistono ef-
fettive difficoltà connesse ad alcuni "meccanismi di
difesa" della prima generazione immigrata, che ri-
schiano di costituire un impedimento per un'ulte-
riore maturazione dei giovani della seconda genera-
zione. Ecco perché si rende necessario predisporre
interventi legislativi, giuridici e sociali per
facilitare tale integrazione ».
218
a seguire il Signore dovunque andrà? Ti sorprende
che il buon Maestro e Signore Gesù Cristo, che in-
vitò i discepoli con la promessa del regno dei cieli,
abbia rifiutato uno così preparato? Ma, poiché quel
Maestro era uno che conosceva il futuro, dobbiamo
capire che questo uomo, se avesse seguito Cristo,
avrebbe cercato il suo interesse e non quello di
Gesù Cristo. Gesù stesso disse: « Non tutti quelli
che mi dicono: Signore, Signore, entreranno nel
regno dei cieli » (Mt 7,21). E questi era uno di
quelli, ma non si conosceva, come lo vedeva il
medico. Poiché se sapeva di fingere, se tramava un
inganno, non sapeva con chi parlava. Di Gesù,
infatti, dice l'Evangelista: « Non aveva bisogno che
altri lo informasse intorno a qualcuno; sapeva da sé
che cosa fosse in ogni uomó» (Gv 2,25). Che cosa
rispose, allora? « Le volpi hanno tane e gli uccelli
nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il
capo ». Ma dove il Signore non ha posto? Nella tua
fede. Le volpi hanno tane nel tuo cuore; sei un
ingannatore. Gli uccelli hanno nidi nel tuo cuore;
sei superbo. Sei ingannatore e superbo, non mi
seguirai. Come può un ingannatore andar dietro alla
semplicità? A un altro, che taceva e non prometteva
niente, dice: « Seguimi ». Quanto male vide in
quello, tanto bene vide in questo. Signore, vai a
dire: «Seguimi» a uno che non ti pensa? Mi
rispondi: « Rifiuto quello, perché vedo in lui tane,
vi vedo nidi ». Ma perché poi vai a infastidire
questo? Tu lo stimoli e lui si scusa; lo forzi e non
viene, lo esorti e non ti segue.
219
(Agostino d'Ippona, Discorsi 100/A,1: PL
38,602-603)
25
Un dottore della legge si alzò per metterlo
alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la
vita eterna? ». 26Gesù gli disse: « Che cosa sta scritto
nella Legge? Che cosa vi leggi? ». 27Costui rispose: «
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con
tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la
tua mente e il prossimo tuo come te stesso ». 28E
Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai ». 29.Ma
quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il
mio prossimo? ». 30Gesù riprese:
« Un uomo scendeva da Gerusalemme a
Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo
percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo
morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella
medesima strada e quando lo vide passò oltre
dall'altra parte. 32Anche un levita, giunto in quel
luogo, lo vide e passò oltre. 33lnvece un Samaritano,
che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e
n'ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le
ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il
suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura
di lui. 35Il giorno seguente, estrasse due denari e li
diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò
che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
36
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di
colui che è incappato nei briganti? ». 37Quegli rispo-
se: « Chi ha avuto compassione di lui ». Gesù gli
disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso» (Lc 10,25-37).
220
La cornice di Lc 10,25-37, cioè il contesto
nel quale si inserisce questa pericope lucana, è il
viaggio di Gesù verso Gerusalemme. All'inizio
del suo itinerario, Luca annota che Gesù
viene respinto da un villaggio di samaritani «perché
era diretto verso Gerusalemme » (9,53) e questo
fatto suscita un certo stupore perché, poco più
avanti, Gesù sceglie proprio un Samaritano come
modello di compassione, in netto contrasto con i
rappresentanti della religione tradizionale. Poi,
dopo l'esposizione della parabola, Gesù viene
accolto nella casa di Marta e Maria, a Betania
(10,38-42), in una situazione completamente
rovesciata rispetto a quella iniziale, caratterizzata
dal rifiuto dei Samaritani.
È chiaro che l'evangelista si serve di questa
inquadratura per far riflettere i discepoli: come
Gesù, nella sua difficile missione, sperimenta la
gioia dell'amicizia accogliente e la tristezza del
disprezzo e del rifiuto, anche il discepolo deve
prepararsi a fronteggiare situazioni contrapposte,
senza con ciò venir meno al mandato dell'amore, «
unico debito» che il cristiano contrae con tutti
coloro che incrocia nel suo percorso storico (Rm
13,8).
In ogni caso, nel passo di Lc 10,25-37, non
bisogna perdere di vista l'interlocutore immediato
di Gesù, che è il dottore della legge. In effetti, nella
parabola che Gesù racconta per parlare dell'amore e
per spiegare chi è il prossimo, il modello della
221
sensibilità compassionevole e attiva è un
Samaritano, ma il testimone qualificato della
veridicità dei fatti è proprio colui che interroga
Gesù. Tocca a lui, messo in primo piano come
rappresentante di tutti i lettori del Vangelo di Luca,
verificare di persona che non si tratta di un
personaggio lontano e assente: anzi quel
Samaritano non è che la metafora del Maestro che
fa strada con i discepoli verso Gerusalemme. Del re
sto, non deve sfuggire che anche altrove il terze
evangelista caratterizza Gesù come colui che «sente
compassione », come avviene quando richiama in
vita il figlio della vedova di Nain (Lc 7,13) e nell'i-
naudita reazione del padre che, abbandonato dal fi-
glio più giovane, è felice di ritrovare quel figlio che
era dato per morto e gli corre incontro quando que-
sti torna sui suoi passi (Lc 15,20). Dunque, anche
nella compassione del Samaritano risuona la cristo-
logia lucana, lasciando vedere in trasparenza l'iden-
tità di Gesù e, in definitiva, anche quella del disce-
polo, in linea con il discorso programmatico di Le
6,27-36. Così, il Samaritano buono, che si prende
cura dello straniero malcapitato e si impegna a ver-
sare il suo denaro per soccorrerlo, diventa il proto-
tipo del discepolo, che riproduce nei suoi gesti l'a-
more di Cristo e l'amare del Padre.
Lo spunto per raccontare la nota parabola,
che appartiene propriamente al terzo Vangelo, è
offerto a Gesù da una domanda: « Chi è il mio
prossimo? ». In realtà, il racconto è una specie di
contro-domanda ampliata, come ben risulta dalla
222
struttura simmetrica dell'intera sezione, che si
articola mediante due dialoghi (vv. 25-28 e vv. 29-
37) con quattro interventi dei rispettivi
interlocutori, disposti con una domanda (v 25b e v.
29b), una contro-domanda (v. 26 e vv. 30-36), una
risposta (v 27 e v. 37a) e un intervento finale con
un invito alla prassi (v 28 e v. 37b). La struttura
sembra confortata anche dall'uso del medesimo
riferimento al «fare », contenuto nella domanda
iniziale del dottore della legge e nel rimando alla
legge scritta, nella risposta di Gesù, ma anche
nell'intervento finale del Maestro, a chiusura della
parabola (« Anche tu fa' lo stesso »), come ripresa
della reazione del dottore della legge (« Chi ha
fatto misericordia con lui », alla lettera). Dunque, le
relazioni interpersonali che emergono dal resoconto
lucano si configurano a seconda del «fare» o «non-
fare» misericordia nei confronti dell'altro in neces-
sità. Ovviamente, arriva al «fare », in misura buona
e adeguata, solo chi è vissuto dall'« essere », vale a
dire che le opere non sono che il riflesso dell'inte-
riorità, come spiega Gesù secondo l'evangelista
Matteo quando afferma che «la bocca parla dalla
pienezza del cuore» (12,34). In effetti, la svolta cri-
tica del racconto lucano viene introdotta con l'os-
servazione circa la reazione del Samaritano: « Lo
vide e ne ebbe compassione» (10,33). È questo
sconvolgimento interiore (significato dal verbo
splagchnizomai, che designa un movimento
viscerale come metafora di un profondo trasporto
emotivo) che spinge il Samaritano a prendersi cura
223
dell'uomo mezzo morto, rendendolo suo
«prossimo» e contrapponendosi non solo ai due
viandanti che l'hanno preceduto, ma anche ai
briganti della sequenza iniziale, che « lo
spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono ».
Dunque, la chiave d'interpretazione
dell'intera parabola si trova nella domanda finale,
che sintetizza tutto il percorso narrativo: «Chi di
questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che
è incappato nei briganti?» (10,36). Il vocabolo
plosion, inserito in questa sentenza riassuntiva,
riprende la domanda del dottore della legge: « Chi
è, il mio prossimo? » (10,29b). La risposta è
condensata nel verbo cristo-logico per eccellenza: «
Colui che ebbe compassione» (10,37). Di fatto,
l'argomento del maestro della legge non verteva
tanto sul comandamento dell'amore, quanto sulla
determinazione dell'ambito in cui era necessario
applicare la legge. Sotto questo profilo, non
bisogna dimenticare che nella concezione giudaica
il «prossimo» veniva configurato all'interno del
contesto dell'alleanza, dove era collocata la legge.
Gesù, invece, con la sua contro-domanda, stimola il
suo interlocutore, e in lui tutte le persone di buona
volontà, a uscire dallo stretto ambito della legge e a
confrontarsi con la realtà della vita, dove ci si rende
conto di fare strada con fratelli e sorelle che sono
nel bisogno. Ai rappresentanti dell'ortodossia Gesù
contrappone un rappresentante dei lontani, visto
che, nell'ambito del patto, i Samaritani figuravano
come eretici e perciò esclusi dall'impegno di amore
224
previsto dalla legge. Ma la domanda che chiude la
parabola apre una diversa prospettiva: solo l'amore
compassionevole permette di individuare e di
definire il «prossimo », oltrepassando le distin-
zioni e le separazioni di natura religiosa, culturale o
etnica. Proprio l'amore compassionevole e attivo
garantisce il superamento della tensione tra il
«prossimo» come oggetto d'amore e il «prossimo»
come soggetto d'amore.
Dunque, per rispondere alla domanda che
chiedeva di tracciare una prassi capace di produrre,
come bene ereditario, la vita eterna, non è
sufficiente fare riferimento alla legge, ma bisogna
re-interpretare la prescrizione dell'amore nell'ottica
della compassione. È questa nuova dimensione che
offre il criterio per delineare il «prossimo» come
colui che si fa vicino in forza dell'impulso della
misericordia. Ecco, quindi, gli elementi
fondamentali della pericope: la compassione attiva
e l'impegno misericordioso. Chi vuole ereditare la
vita, deve collocarsi in questo ambito di vicinanza e
di solidarietà con l'altro, mettendo in atto l'unico
movimento d'amore che abbraccia Dio e il
prossimo. Anche l'azione pastorale della Chiesa va
conformata a questo orientamento, compresa la
pastorale della mobilità umana che, proprio per la
specificità del suo campo, si confronta ogni giorno
con la realtà di un mondo che cammina
inarrestabilmente verso l'incontro e la mescolanza
dei popoli. Di più, tale sollecitudine pastorale dovrà
prendersi cura non solo dei migranti e degli
225
itineranti cattolici, né soltanto di quelli cristiani, ma
dovrà occuparsi di tutti quelli che vivono più
acutamente i drammi dello sradicamento, dell'ab-
bandono della patria, dell'ambientamento e dell'in-
tegrazione in un nuovo Paese, pur senza
dimenticare la sua vocazione strettamente
missionaria di annuncio anche esplicito del
Vangelo che salva (Erga migrantes caritas Christi
59-60).
226
dà, in parte promette. « Chi di costoro - chiedeva
Gesù - è diventato prossimo di quel tale che si
trovò a soffrire cose terribili? », e rispondendo
l'interlocutore: « Colui che ha mostrato
misericordia verso di lui », « anche tu dunque -
disse - va' e fa' allo stesso modo, giacché l'amore fa
fiorire un agire buono ».
(Clemente Alessandrino, Quale ricco si pub
salvare? 27-28: PG 9,634)
227
pietà. Tu ostenti, però, di non conoscerlo,
innalzandoti gonfio di vano orgoglio nella mente
carnale, senza essere stretto, invece, al capo. Se ti
tenessi stretto al capo, comprenderesti che non devi
abbandonare uno «per il quale Cristo è morto ».
(Ambrogio, La penitenza 1,6: PL 16,495)
228
con coraggiosa determinazione, il papa invitava a
«sognare» un mondo di pace, che non è semplice
utopia: « Se si valorizza l'apporto dei migranti e dei
rifugiati, l'umanità può divenire sempre più fa-
miglia di tutti e la nostra Terra una reale "casa co-
mune" ». Quali sono le caratteristiche della « casa
comune », secondo la Bibbia?
L'idea della casa si trova in ogni pagina
della Bibbia, perché fissa un'esperienza umana
basilare, che dice sicurezza, conforto, tenerezza,
solidarietà. Questo non deve sorprendere, perché la
Bibbia non si interessa dell'umanità come concetto,
né della d vinità come astrazione, ma della
reciproca relazionalità, che coinvolge le persone,
ma anche Dio. Ecco allora la preoccupazione
costante del popolo biblico: la casa. Per i patriarchi
è sinonimo di discendenza; per la gente in fuga
dall'Egitto e in cammino attraverso il deserto si
identifica con la terra promessa; per gli esiliati,
lontani dalla patria, vuol dire rientrare a contatto
con la propria terra e con gli affetti familiari
lontani. Nel Nuovo Testamento la casa è il luogo
privilegiato per l'evangelizzazione: Gesù stesso,
che dice di non avere dove posare il capo (Lc 9,58),
di fatto alloggia nella casa di Pietro a Cafarnao, non
disdegna di entrare in casa di Levi, di Zaccheo, di
Simone fariseo e di molti altri per mangiare e, nello
stesso tempo, cogliere l'occasione per insegnare,
guarire, perdonare. Senza dire di tutte le case che
diventano testimoni dell'annuncio della salvezza in
tutto il mondo allora conosciuto: la casa di Giuda, a
229
Damasco, dove Paolo incontra Mania (At 9,11); la
casa di Enea a Lidda (At 9,32 ss.); la casa di Tabità
e quella di Simone conciatore, a Giaffa (At 9,36
ss.); la casa di Cornelio a Cesarea (At 11,24 ss.); la
« casa di Maria, madre di Giovanni detto anche
Marco» a Gerusalemme (At 12,12); la casa di Lidia
e quella del carceriere a Filippi (At 16,11 ss.); la
casa di Priscilla e Aquila a Corinto (At 18,1 ss.); la
casa dell'evangelista Filippo (At 21,8); la casa di
Mnasone di Cipro, nei pressi di Gerusalemme (At
21,16); la casa di Publio a Malta (At 28,7 ss.) fino
alla conclusione del libro degli Atti, dove diventa
protagonista di evangelizzazione la casa di Paolo: «
Paolo rimase due anni interi nella casa che aveva
preso a pigione e accoglieva tutti quelli che
andavano da lui, annunciando il regno di Dio e
insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù
Cristo con tutta franchezza e senza ostacoli » (At
28,30-31).
A un certo punto, il re Davide vuole
addirittura costruire una casa per Dio (2Sam 7,2-3)
e, infatti, il tempio di Gerusalemme fu edificato
come dimora per il Signore, che conteneva, nel
Santo dei Santi, la gloria di Dio. Ma, di quella
meraviglia fatta di «bel le pietre e doni votivi che
l'adornavano» (Lc 21,5', la storia attesta che, come
Gesü aveva predettc « non è rimasta pietra su pietra
che non sia stata di strutta» (Lc 21,6).
Se, dunque, se ne sono definitivamente
andate 1 «case» dei patriarchi, quelle dell'antico
popolo del l'alleanza, quelle dell'evangelizzazione,
230
quelle dedi cate appositamente alla liturgia e al
culto divinc quale casa può davvero essere definita
«casa comu ne e famiglia di tutti »?
L'ultima pagina della Bibbia offre una
stupenda vi sione, che non vale solo per i tempi
futuri, ma che si inaugura già nell'ora presente e
Dio lo garantisce: o Ecco, io sto facendo nuove
tutte le cose» (Ap 21,5). E la prima novità è proprio
una casa nella nuova Gerusalemme, «la casa di Dio
con gli uomini! Egli abiterà tra di loro ed. essi
saranno suo popolo» (Ap 21,3). Del resto, Gesù
aveva già assicurato che la sua uscita dal mondo
era in funzione della preparazione di «un posto»
nella « casa del padre mio » (Gv 14,2)
Le caratteristiche della nuova casa, quella
del libro dell'Apocalisse, ma anche quella che ha in
mente il papa chiamandola «casa comune e
famiglia di tutti », sono presentate con immagini.
Anzitutto è in un contesto di armonia con la
creazione, non di lotta e di sfruttamento delle
risorse naturali, ingiustamente godute dai ricchi e
negate ai poveri: c'è un nuovo cielo, una nuova
terra e il mare, simbolo del la malvagità paurosa e
incontrollabile, è scomparso (Ap 21,1). Poi, la
nuova Gerusalemme-casa di tutti i popoli ha
concluso il tempo del fidanzamento e ora «è pronta
come una sposa per il suo sposo» (Ap 21,2),
simbolo di una vertiginosa parità ormai acquisita
dell'uomo con Dio e, in analogia, della comunione
tra uguali nelle relazioni interpersonali. Come
applicazione ermeneutica, viene in mente la parola
231
significativa di Pietro al centurione pagano
Cornelio, che si era inginocchiato davanti a lui per
adorarlo: «Alzati, anch'io sono un uomo» (At
10,26). Il criterio di un'uguale umanità che li acco-
muna è il fattore che porta la relazione tra Pietro e
Cornelio su un piano di assoluta parità e permette
ai due di incontrarsi, nonostante la diversità
culturale, religiosa e persino etnica.
Poi, nella nuova « casa comune » si verifica
una straordinaria esperienza estetica: la bellezza
delle pietre preziose simboleggia la bellezza
dell'amore, che si declina nella solidarietà, nella
compassione, nel dono di sé fino all'eroismo del
sacrificio in favore del prossimo.
Attenzione, però: la nuova Gerusalemme
arriva solo all'ultima tappa del percorso storico
descritto dal libro dell'Apocalisse. Prima ci sono
fatiche, sofferenze, dolori. Quasi a dire che la «
casa comune » non aspetta solo inquilini che la
abitino, ma anzitutto muratori, falegnami, idraulici,
insomma la molteplice varietà dei carismi
personali, che vanno messi a servizio a beneficio
della «famiglia di tutti ». Per tornare alla metafora
di Gerusalemme, può essere illuminante sostituire
il nome della città biblica con la « casa comune »,
rileggendo questo passaggio del Talmud
Babilonese: « Dieci porzioni di bellezza sono state
accordate al mondo dal Creatore, e Gerusalemme
ne ha ricevute nove. Dieci porzioni di scienza sono
state accordate al mondo dal Creatore, e
Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci porzioni
232
di sofferenza sono state accordate al mondo dal
Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove ».
233
O felice quell'alleluia cantato lassù! O
alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà
nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi
risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche
ora qui. Qui però nell'ansia, mentre lassù nella
tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da
immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà.
Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria.
Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo,
quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da
viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare
le asprezze della marcia, ma cantando non
indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che
significa camminare? Andare avanti nel bene,
progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo
l'Apostolo, alcuni che progrediscono, sì, ma nel
male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi
camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede,
devi progredire nella santità. Canta e cammina.
(Agostino d'Ippona, Discorsi 256,3: PL
38,1193)
235
Tutti erano soliti stare insieme nel portico di
Salomone; degli altri nessuno osava associarsi a
loro, ma il popolo li esaltava. Intanto andava
aumentando il numero degli uomini e delle donne
che credevano nel Signore ». Proseguendo nel libro
degli Atti, ci rendiamo conto della progressiva e
inarrestabile crescita della prima comunità a
Gerusalemme. Al cap. 6,1 leggiamo: « In quei
giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli...
», e in 6,7: «Intanto la parola di Dio si diffondeva e
si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli
a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti
aderiva alla fede ».
Ben presto le comunità cristiane si diffusero
per tutto il vasto impero romano e oltre, tanto che
Pietro, più tardi, scrisse una lettera indirizzata «
agli eletti (che vivono come) stranieri dispersi nel
Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell'Asia e
nella Bitinia» (1Pt 1,1). L'apostolo Paolo, dal canto
suo, informò i cristiani di Roma che « la fama della
vostra fede si espande in tutto il mondo» (Rm 1,8).
Di questo rapido e sorprendente sviluppo
della Chiesa rendono testimonianza gli stessi storici
della Roma pagana. Tacito affermò che « furono
dunque arrestati dapprima quelli che professavano
la dottrina apertamente, poi, su denunzia di costoro,
altri in grandissimo numero furono condannati, non
tanto come incendiari, quanto come odiatori del
genere umano ». Plinio il Giovane scrisse che « non
soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne
sono pervase dal contagio di questa superstizione ».
236
La «corsa della Parola » era certamente
garantita dalla particolare assistenza dello Spirito
Santo, senza tuttavia sottovalutare l'entusiasmo e,
insieme, la semplicità della predicazione
apostolica. Nei suoi discorsi, ad esempio, Pietro si
limita a rimarcare il fatto che Gesù — con la sua
vita, morte, risurrezione e ascensione — ha
adempiuto le profezie messianiche. Dunque Israele
è fortemente chiamato alla conversione. La
evangelizzazione di Filippo è basata anch'essa sulla
semplice testimonianza della buona notizia di
Gesù. Ricordiamo anche qual è la ragione che
motiva gli apostoli nella scelta di trovare una
persona che sostituisca Giuda, quando, dice il libro
degli Atti: « Giuda comprò un pezzo di terra con i
proventi del suo delitto e precipitando in avanti si
squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue vi-
scere» (At 1,19). Dopo quella morte violenta, si di-
ce: « Bisogna che, tra coloro che ci furono
compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù
ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal
battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato
di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a
noi, testimone della sua risurrezione » (At 1,21-22).
Teniamo presente, poi, che il principio
centrale e fondamentale della predicazione
apostolica consisteva nell'invito alla fede in Gesù,
Messia e Signore, inviato dal Padre, morto sulla
croce, risuscitato il terzo giorno e salito in cielo alla
destra di Dio, elementi, questi, che fanno parte
delle più antiche formule di fede, che troviamo
237
nell'epistolario paolino, ma anche nella Prima
lettera di Pietro e negli altri scritti del Nuovo
Testamento.
La fede a sua volta produceva la
conversione, che si manifestava mediante la
confessione dei peccati e il battesimo, per la
remissione dei peccati e per ricevere il dono dello
Spirito Santo.
Possiamo dire che, se la predicazione
apostolica fu semplice nella sua forma, fu tuttavia
profonda e convincente nella sua sostanza: per
questo motivo molti uomini e donne, di diversa
estrazione etnica e sociale, entravano a far parte
della ekklesia.
Oggi da più parti ci si interroga per capire
come mai il messaggio evangelico, veicolato dalla
proclamazione della Chiesa, non trovi facile ascolto
e tanto meno ricezione. In parte, bisogna confessare
che la parola di Dio è poco conosciuta e, negli
strabilianti cambiamenti del nostro tempo, c'è
sempre meno tempo da dedicarvi. È anche vero,
però, che una parte di responsabilità ricade su
coloro che annunciano il kerygma, i quali non
riescono a presentare il messaggio di Cristo con
quella semplicità e con quell'entusiasmo che,
invece, erano tipici delle comunità della prima ora
del cristianesimo. Dunque, qui emerge la sfida
dell'ora presente, affinché il Vangelo, prima ancora
di essere predicato a parole, sia vissuto nel
quotidiano da coloro che hanno accolto la
238
vocazione all'annuncio, ponendo Cristo al centro
della vita.
239
il prossi mo con il quale cammini, per poter
giungere a colui con il quale desideri rimanere.
(Agostino d'Ippona, Trattati sul' Vangelo di
san Giovanni 17,8: CCL 36,174-175)
240
La sfida che il cristiano affronta oggi,
nell'incontro di culture diverse, consiste essenzial-
mente nella realizzazione della unità nella
diversità, che include il rispetto delle differenze tra
i popoli in vista di un reciproco arricchimento. In
questo processo, il cristiano non può dimenticare la
propria identità, anzi, questa fornisce la base irri-
nunciabile per il suo confronto con gli altri.
Certo, l'itinerario è pieno di difficoltà, di
incertezze e persino di fallimenti. Al presente come
nella Chiesa delle origini. Il libro degli Atti degli
Apostoli offre molte opportunità per approfondire
questo fatto, ma colpisce nel segno soprattutto il
racconto del centurione romano Cornelio, che
incontra Pietro a Cesarea marittima. Il fatto segna
un giro di boa nel processo di apertura della Chiesa
verso popoli di diversa cultura. È un passo
interessante, perché suggerisce il superamento della
diversità considerata come ostacolo all'unità. Oggi,
in effetti, è sempre più chiaro che solo
l'abbattimento delle barriere porta a compimento la
realizzazione della cattolicità della Chiesa.
Il primo personaggio a comparire sulla
scena lucana ê Pietro: primo della lista degli Undici
(1,13), è portavoce degli apostoli (1,15) e rende
testimonianza a Gesù con i suoi discorsi
kerigmatici (2,14-36; 3,11-26); guarisce i malati
(3,1-10; 5,15; 9,3235.38-43), insegna e predica con
coraggio (4,14.512.13; 5,42) ed è perseguitato e
arrestato a causa del nome di Gesù (4,1-4: cfr.
241
5,18.27-32.40-41; 12,3-5). Tuttavia, nel racconto
dei capitoli 10-11, Luca ci presenta
inaspettatamente un Pietro in difficoltà. Egli,
infatti, non riesce a capire la visione della tovaglia
piena di animali che scende dal cielo e la rifiuta
(10,9-16). Ci vuole un intervento dello Spirito per-
ché riesca a vincere i dubbi e accetti di recarsi a
Cesarea, con i messi-pagani di Cornelio (10,19b). Il
significato della visione gli si fa chiaro solo quando
incontra il centurione e i suoi familiari (10,28), de-
ducendone anche importanti conseguenze teologi-
che per la sua predicazione (10,34-35). Infine, la
discesa dello Spirito sui pagani lo obbliga a
riconoscere nuove possibilità di accoglienza nella
Chiesa (10,47). Tutta la vicenda coglie Pietro come
metafora dell'intera comunità cristiana nel suo
faticoso percorso di apertura al mondo estraneo
della paganità.
Il secondo protagonista del racconto,
Cornelio, è un pagano di straordinarie
caratteristiche religiose e morali. Tuttavia, per Luca
non è il pagano-modello, bensì un paradigma
volutamente positivo, che mette in risalto la
difficoltà della Chiesa e, nello stesso tempo, le
incertezze del mondo pagano. Cornelio è un gentile
(10,45; 11,1.18), incirconciso (11,3), ma è anche
«pio» (10,2.7), «timorato di Dio con tutta la sua
famiglia» (10,2), dedito alle opere di carità e alla
preghiera (10,2). Insomma, Cornelio è la figura
nuova, che non corrisponde ai classici pregiudizi
del mondo giudaico, che guardava con disprezzo il
242
mondo pagano. Così, Luca sembra suggerire che
l'unica possibilità di avvicinare l'estraneo è di la-
sciar cadere i pregiudizi, per poter cogliere nell'al-
tro il positivo.
Di fatto, i preconcetti di Pietro, che
rappresenta l'intera comunità giudeo-cristiana
(10,23), si scontrano con quelli di Cornelio, che
impersona il mondo pagano (10,24). Solo il
contatto diretto tra i due mondi, nella casa di
Cornelio, manda in frantumi gli steccati.
La simmetria con cui Luca registra i fatti è
significativa: Pietro entra e Cornelio gli va incontro
(10,25a); Cornelio, cadendo ai piedi di Pietro, lo
adora e questi lo rialza (10,25b-26a). Dai gesti
emerge la parola di Pietro, che porta la relazione tra
i due distinti gruppi su un piano di assoluta parità,
in base al criteria dell'uguale umanità: «Alzati!
Anch' io sono un uomo » (10,26b). Proprio questo
elemento di uguaglianza favorisce l'inizio di una
conversazione amichevole tra i due, mentre entrano
nella casa (10,27).
Insomma, Pietro riesce a superare lo scoglio
del pregiudizio, che impediva ai giudei di avere
contat ti con i pagani, lasciandosi guidare dallo
Spirito, che lo spinge a recarsi a Cesarea e a entrare
in casa di Cornelio, accettandone l'ospitalità.
D'altra parte l'iniziativa di Pietro permette al
centurione di yin cere il pregiudizio pagano,
secondo il quale un in viato di Dio era considerato
un essere celeste degne di adorazione. Una volta
abbattuti i muri di separa zione, si apre la via
243
all'incontro interpersonale, do ve Pietro comprende
di aver raggiunto uno strepito so traguardo,
finalmente illuminato dalla visione che
inizialmente gli era sembrata incomprensibile: «
Voi sapete che non è lecito per un giudeo unirsi o
incontrarsi con persone di altra razza; ma Dio mi ha
mostrato che non si deve dire profano o immondo
nessun uomo» (10,28).
Il lungo racconto si attarda, poi, sulla
ripetizione dei fatti, quasi a « ruminare » con
insistenza la fati cosa conquista di un nuovo stile di
concepire la co munione, a partire dalle diversità
apparentemente inconciliabili. Certo, l'argomento
che Luca sottoli nea non è la semplice accettazione
delle differenze magari sigillandone la pacifica
convivenza, quanto piuttosto la finalità
dell'incontro tra due mondi totalmente diversi: tutto
è indirizzato all'evangelizzazione. In effetti, i
messaggeri avevano spiegato che la visita di Pietro
doveva sciogliere il desiderio di Cornelio di «
ascoltare le parole da parte di lui » (10,22b); il
centurione, poi, portavoce del gruppo pagano,
aveva finito per confermare: « Siamo qui riuniti per
ascoltare tutto ciô che dal Signore ti è stato
ordinato» (10,33). E Pietro ben comprende il suo
ruolo missionario, senza trascurare l'acquisizione
dei nuovi orizzonti, che si sono aperti grazie al-
l'incontro con i pagani. Ora bisogna partire dalla
certezza che in Dio non esiste parzialità e, perciò,
anche tra le persone le barriere dei pregiudizi non
hanno più diritto di esistere: « In verità sto renden-
244
domi conto che Dio non fa preferenze di persone,
ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque
popolo appartenga, è a lui accetto »» (10,34-35).
Su questa nuova base teologica, con i suoi
riflessi su una corretta visione antropologica ed
ecclesiologica, a tutti può essere annunciato il
kerygma, la salvezza attuata da Dio in Gesù Cristo.
Storicamente, l'iniziativa salvifica di Dio si è
concretizzata nell'antico popolo dell'alleanza,
poiché esso è stato destinatario della Parola rivelata
(10,36a) e i fatti storici di Gesù-Salvatore si sono
compiuti all'interno di questo popolo (10,37-41),
ma con la risurrezione egli è diventato «il Signore
di tutti» (10,36b) e i suoi testimoni sono inviati ad
annunziare che «chiunque crede in lui ottiene la
remissione dei peccati per mezzo del suo nome »
(10,43). Ecco, quindi, che l'evento storicamente
singolare e unico di Gesù è divenuto di portata
salvifica universale, tanto che anche i pagani
possono accedere alla salvez za. A questo punto,
l'effusione del Paraclito, così come era avvenuta a
Gerusalemme per il gruppo apostolico, non è che la
conferma definitiva che il dono dello Spirito è
offerto a tutti: «Anche sui pagani è stato effuso il
dono dello Spirito Santo » (10,45.47). La presenza
dello Spirito è già garanzia di partecipazione alla
comunità dei salvati, per cui nessuno puô
impedirne la ratifica conferita dal battesimo, che
decreta la piena integrazione nella Chiesa (10,47-
48), Infine, la fraternità cristiana si rende visibile
nella sosta di Pietro per alcuni giorni nella casa di
245
244
Cornelio: la nuova realtà teologica trova un
immediato risvolto nella concretezza della vita,
mediante la generosa ospitalità e la festosa condivi-
sione dei beni materiali, insieme alle realtà spiritua
li (10,48).
246
(Gregorio di Nissa, Commento al Cantico
dei Cantici 2: PG 44,802)
FILIPPO, EVANGELISTA
ITINERANTE
26
Un angelo del Signore parlô intanto a
Filippo: «Alzati, e va' verso il mezzogiorno, sulla
strada che discende da Gerusalemme a Gaza; essa è
deserta ». 27Egli si alzò e si mise in cammino,
quand'ecco un Etiope, un eunuco, funzionario di
Candâce, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i
suoi tesori, venuto per il culto a Gerusalemme, 28se
ne ritornava, seduto sul suo carro da viaggio,
leggendo il profeta Isaia. 29Disse allora lo Spirito a
Filippo: «Va' avanti, e raggiungi quel carro ».
30
Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta
Isaia, gli disse: « Capisci quello che stai leggendo? ».
31
Quegli rispose: « E come lo potrei, se nessuno mi
istruisce? ». E invitò Filippo a salire e a sedere
accanto a lui. 3211 passo della Scrittura che stava
leggendo era questo: Come una pecora fu condotto
al macello e come un agnello senza voce innanzi a
chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. 33Nella
sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, ma la
sua posterità chi potrà mai descriverla? Poiché è
stata recisa dalla terra la sua vita. 34E rivoltosi a
Filippo, l'eunuco disse: « Ti prego, di quale persona
il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun
altro? ». 35Filippo, prendendo a parlare e partendo da
quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona
novella di Gesù. 36Proseguendo lungo la strada,
giunsero a un luogo dove c'era acqua e l'eunuco
disse: «Ecco qui c'è acqua; che cosa mi impedisce di
essere battezzato? ». [37] 38Fece fermare il carro e
247
discesero tutti e due nell'acqua, Filippo e l'eunuco, ed
egli lo battezzà. 39Quando furono usciti dall'acqua, lo
Spirito del Signore rapi Filippo e l'eunuco non lo
vide più e proseguì pieno di gioia il suo cammino (At
8,26-39).
248
Nel racconto di At 8,26-40, è facile cogliere
che, con tutta probabilità, Filippo non si sarebbe
mai fermato di propria iniziativa a dialogare con un
eunuco e tanto meno a condividerne l'itinerario
nella ricerca della verità. In effetti, la Torah
prescriveva che non può entrare nella comunità di
JHWH alcun evirato (Dt 23,2). Per questo il
personaggio principale che guida Filippo
nell'incontro con l'eunuco, anche se è fuori scena, è
lo Spirito, come d'altro canto in tutto il libro degli
Atti degli apostoli.
D'altra parte, il tempo dello Spirito è
descritto dalla Bibbia come il tempo della
realizzazione delle promesse messianiche, che non
emargina nessuno, nemmeno tra i più lontani della
società: « Non dica lo straniero: Certo mi escluderà
il Signore dal suo popolo. Non dica l'eunuco: Ecco
sono un albero secco» (Is 56,3-4). L'eunuco di At 8
è doppiamente « straniero »: infatti, proviene dal
regno lontano della regina Candace, l'odierno
Sudan, ed è anche una persona esclusa dalla
comunità israelitica, in quanto eunuco. Forse si
tratta di un eunuco fin dalla nascita, che non ha il
privilegio di entrare a far parte del popolo ebraico
come proselita né come timorato di Dio; il testo
dice che è semplicemente un simpatizzante
d'Israele che legge senza comprendere le Scritture.
È certamente un «lontano », non soltanto rispetto a
Saulo di Tarso che perseguita i cristiani (cfr. At 9;
Gal 1), ma anche rispetto a Cornelio, il pagano al
quale Luca dedicherà tanta attenzione per la sua
249
conversione (cfr. At 10). Di quest'uomo Luca non
ricorda neppure il nome, quantunque sia un
personaggio di rilievo nel suo ruolo di alto ufficiale
della regina.
L'intreccio narrativo del brano segue il
modello di quello già articolato da Luca in
occasione dell'incontro del Risorto con i due
discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). C'è un
incontro, che favorisce il dialogo catechetico in
forma di evangelizzazione, e tutto si conclude con
un momento sacramentario, che è anche il culmine
del racconto. Nell'episodio degli Atti la novità è
che all'epilogo dell'incontro non c'è l'eucaristia ma
il battesimo.
Il centro narrativo del brano è costituito
dalla seguente annotazione, che tradotta
letteralmente suona così: « Filippo, aperta la sua
bocca e avendo cominciato da questa Scrittura, gli
evangelizzò Gesù » (v. 35). L'espressione è carica
di significato, oltre che solenne: si tratta di una
liturgia sinagogale in atto, come dimostra il
parallelo lucano di Lc 4,21: « ... Cominciò a dire:
"Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete
udito con i vostri orecchi" ». Di fatto, l'evento del
battesimo è ridotto all'essenziale, in quanto manca
l'annotazione sul dono dello Spirito e la professione
di fede da parte dell'eunuco, anche se alcuni antichi
codici hanno voluto integrare questa mancanza,
aggiungendo il v. 37, che manca nelle nostre
traduzioni, appunto perché considerato
un'inserzione tardiva: « E Filippo disse: se tu credi
250
con tutto il tuo cuore, puoi. E quegli rispose e disse:
Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio ».
Attraverso l'essenzialità del racconto, Luca
sembra evidenziare la preparazione al battesimo,
più che il rito stesso, perché egli vede in questione
proprio la catechesi. In effetti, Cristo è la chiave
ermeneutica del sacramento, che necessita un
accompagnamento paziente e personale, e che
conduce alla ricezione del mistero battesimale.
Ecco perché al centro narrativo dell'incontro
tra Filippo e l'eunuco si trova l'espressione: « Gli
evangelizzò Gesù ».
L'episodio, dunque, si concentra su Filippo
e sull'eunuco. Filippo obbedisce allo Spirito,
consapevole che non sono gli uomini né tanto meno
la comunità cristiana da sola a guidare i cammini
dell'evangelizzazione, ma lo Spirito.
L'evangelizzatore non pone alcuna domanda allo
Spirito. Invece, fa una domanda all'eunuco,
chiedendogli se comprende quello che sta
leggendo. Filippo è l'esegeta per eccellenza, colui
che non si sostituisce alla Parola ma che adempie
fedelmente il proprio ruolo senza obiettare. In
effetti, il rapimento di Filippo, alla fine del
racconto, non sta soltanto a indicare un prodigio
analogo a quello del Risorto che scompare agli oc-
chi dei discepoli di Emmaus, bensì il ruolo della
co- munità che, mettendo se stessa in disparte, si fa
esegeta di Cristo.
Invece, l'eunuco é l'uomo dalle tante
domande, che desidera capire ciò che sta leggendo
251
e che chiede con coraggio: « Ecco l'acqua; che cosa
impedisce che io sia battezzato? ». Le sue
domande, senza risposta fino all'intervento di
Filippo, si trasformano nella gioia della salvezza e
dell'incontro non soltanto con Filippo, ma
soprattutto con Gesù di Nazaret. Ha incontrato
Filippo, ma mediante quest'apostolo ha incontrato
Cristo.
Potremmo definire Filippo come l'uomo che
«prese a parlare» (At 8,35). Il buon senso avrebbe
dovuto sconsigliargli di esporsi in una situazione
delicata e ambigua, ma la Chiesa apostolica aveva
ricevuto la parola d'ordine: « Non è per me un
vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me:
guai a me se non predicassi il Vangelo! » (1 Cor
9,16).
È sterile una fede che non affida alle labbra
e alle azioni il messaggio della salvezza. E Filippo
parlava, a piccoli e grandi, uomini e donne,
individui isolati e intere folle. Sebbene non fosse
un apostolo, era conosciuto come Filippo l'«
evangelista », poi ché possedeva le doti
indispensabili del missionario, cioè l'obbedienza
che non discute, ma mette coraggiosamente in
movimento, fino all'annuncio esplicito della
salvezza in Gesù Cristo. Ecco l'itinerante Filippo: il
diacono che ubbidì, accorse e parlò!
252
L'intera vita del fervente cristiano è un santo
desiderio. Ciò che poi desideri, ancora non lo vedi,
ma vivendo di sante aspirazioni ti rendi capace di
essere riempito quando arriverà il tempo della
visione.
Se tu devi riempire un recipiente e sai che
sarà molto abbondante quanto ti verrà dato, cerchi
di aumentare la capacità del sacco, dell'otre o di
qualsiasi altro continente adottato. Ampliandolo lo
rendi più capace. Allo stesso modo si comporta
Dio.
Facendoci attendere, intensifica il nostro
desiderio, col desiderio dilata l'animo e,
dilatandolo, lo rende più capace.
Cerchiamo, quindi, di vivere in un clima di
desiderio perché dobbiamo essere riempiti.
(Agostino d'Ippona, Trattati sulla Prima
lettera di Giovanni 4,6: PL 35,2008-2009)
NÉ STRANIERI NÉ OSPITI
19
Così dunque voi non siete più stranieri né
ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di
Dio, 20edificati sopra il fondamento degli apostoli e
dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso
Cristo Gesù. 211n lui ogni costruzione cresce ben
ordinata per essere tempio santo nel Signore; 22in
lui anche voi insieme con gli altri venite edificati
per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito
(Ef 2,19-22).
253
«Così non siete più stranieri né ospiti »:
l'affermazione di Ef 2,19 qualifica i cristiani come
xenoi kai paroikoi. La traduzione di questi due
aggettivi con «estranei e forestieri » potrebbe
rendere più efficacemente il senso originale del
testo, in linea con il linguaggio della lettera, che
non suggerisce una opposizione tra «patrie» diver-
se, ma la mancanza di rapporti specifici tra soggetti
diversi. A ogni modo, questo passo sembra
contraddire tante altre frasi della Bibbia, che spesso
parlano della dimensione dell'uomo come straniero
sulla terra.
Il riferimento allo statuto dello straniero,
nella rivelazione biblica, non indirizza tanto alla
dimensione geografica della lontananza dalla
patria, quanto piuttosto al fatto dell'esistenza
terrena, con la sua transitorietà e provvisorietà. In
effetti, nel Nuovo Testamento, questa idea emerge
non solo là dove si ricorda con approvazione e
simpatia la fede dei patriarchi antichi, che vissero «
dichiarando di essere stranieri e pellegrini (xenoi
kai parepidemoi) sopra la terra » (Eb 11,13), ma
anche a proposito dell'esistenza storica attuale degli
stessi cristiani. Così nella Prima lettera di Pietro 1,1
e 2,1 i destinatari sono detti «stranieri e pellegrini»
(paroikoi kai parepidemoi), che devono
distinguersi dall'ambiente in cui vivono. E su
questa linea anche Fil 3,20: «La nostra patria
(politeuma) è nei cieli, da dove aspettiamo pure
come salvatore il Signore Gesù Cristo ».
254
Queste espressioni confermano una visione
delle cose contraria a quella di coloro « che hanno
il ventre come dio, pongono la gloria nella loro
vergogna e pensano solo alle cose della terra» (Fil
3,19). Qui il contrasto fra « le cose terrene » e «
quelle nei cieli» si spiega con il richiamo al
cristiano affinché tenga lo sguardo fisso verso « le
cose in alto,... non quelle sulla terra» (Col 3,1-2),
poiché «non quaggiù abbiamo una città stabile, ma
cerchiamo quella futura » (Eb 13,14). Del resto,
questo pensiero ripete quanto si legge in Eb 11,14:
« Chi dice cosi dimostra di essere alla ricerca di
una patria », nel senso che il cristiano ha la
consapevolezza di non avere nessuna patria o
comunque di non averla ancora raggiunta. In questa
linea si comprende bene il fatto che il cristiano, in
continuità con la tradizione veterotestamentaria, sa
di essere straniero e pellegrino sulla terra.
Proprio per questo il passo di Ef 2,19 lascia
perplessi, dal momento che tutti gli altri testi
annunciano come realtà futura il traguardo che qui
sembra essere, invece, già a portata di mano. Per
capire questo testo è importante chiarire a chi viene
riferito. Infatti, non si tratta di persone straniere in
quanto hanno diversa nazionalità, ma di tutti i
cristiani indistintamente, nei confronti dell'antico
popolo di Israele e, soprattutto, nei confronti di
Dio. Chi scrive invita i cristiani, nei loro rapporti
interpersonali, a non sentirsi né estranei né
forestieri.
255
Ma allora viene da chiedersi: ha ragione chi
dice che i credenti sono tutti forestieri sulla terra o
chi dice che non sono più né estranei né forestieri.?
L'itinerario è ancora tutto da compiere o si è già al
termine? A confronto con l'esperienza quotidiana
della provvisorietà tipica dello straniero di passag-
gio, sembrerebbe più accettabile la descrizione rea-
listica tradizionale, anche perché l'affermazione di
Ef 2,19 è unica nel suo genere, sebbene si debba te-
ner presente il parallelo della lettera «sorella» (Col
1,21), dove ci sono due termini diversi e ancor più
forti: «Voi che un tempo eravate separati e nemici
».
Ebbene, la frase di Ef 2,19 intende spiegare,
da parte di un cristiano convertito dal giudaismo a
cristiani convertiti dal paganesimo (come si capisce
da 1,12-13 dove si distingue tra «noi che per primi
abbiamo sperato nel Cristo — i giudei con la loro
attesa del Messia — e anche voi... — i pagani che
hanno accolto il Vangelo »), che c'è stato un tempo
passato, quando tra pagani ed ebrei non correva
buon sangue; ma ora si è instaurata una nuova era,
un presente di vita con Cristo. La novità consiste
nella riconciliazione, nella pace, nell'armonia tra
pagani ed ebrei. Infatti, ora i cristiani che si sono
convertiti dal paganesimo non possono più essere
considerati « estranei e forestieri » nei confronti
dell'antico popolo dell'alleanza, perché posseggono
alcune comuni prerogative, che non avevano affatto
prima della conversione, quando « erano lontani »
(2,13). Anzitutto, l'attesa del Messia, identificato in
256
Gesù Cristo (cfr. 1,12; cfr. anche Rm 9,5). Poi, i
cristiani convertiti dal paganesimo sono ora «
coeredi e concorporati e compartecipi della
promessa» (3,6), dal momento che finalmente sono
diventati beneficiari della promessa, di cui Israele
era l'unico depositario, mentre tutti gli altri ne
erano estranei. Quindi, ebrei e cristiani condividono
la speranza, cioè la tensione verso sicure
realizzazioni storiche nel presente, ma anche verso
le realtà escatologiche. Infine, i due gruppi hanno
ugualmente accesso a un rapporto personale con
Dio.
Quell'estraneità del passato è stata superata
mediante una nuova vicinanza, proprio grazie al
rapporto con Dio mediante Gesù Cristo, come ben
si sottolinea in 2,18: « Poiché mediante lui
entrambi abbiamo accesso in un solo spirito al
Padre ». Tutto è cambiato con l'evento-Cristo e
specialmente con la sua croce. L'autore celebra la
strepitosa novità in 2,14-18, partendo dall'inedita
sintesi del v. 14: «Egli è la nostra pace », che mette
in luce la vicinanza tra due partiti un tempo nemici.
Ora, appunto in Cristo, la distanza è annullata e ci
si ritrova affratellati a un livello superiore.
Dunque, i credenti un tempo erano esclusi
dalla cittadinanza d'Israele, estranei alle promesse;
ora non sono più estranei, ma concittadini dei santi,
non più forestieri ma familiari di Dio.
Il vertice dell'argomentazione è certamente
questo: il superamento dell'estraneità verso Israele
non è che una tappa nell'itinerario più completo che
257
porta tutti, indistintamente, al superamento
di una estraneità più radicale, quella con Dio. In
secondo luogo, si suggerisce anche l'urgenza del
superamento dell'estraneità nei confronti gli uni
degli altri. In effetti, il cristianesimo è una via
particolare per raggiungere un faccia a faccia con
Dio. È a questo livello che si supera alla radice
ogni possibile qualifica di straniero, estraneo,
forestiero, ospite.
Proprio l'evento decisivo della croce di
Cristo separa nettamente 1'« allora» dei passato (Ef
2,11; Col 1,21) e il «non più» (Ef 2,19) o 1'«
adesso» (Col 1,22) della nuova condizione in cui
siamo chiamati a vivere una particolare accoglienza
reciproca, che va al di là della semplice
benevolenza filantropica e del doveroso soccorso
umanitario.
258
in ozio. Se non vuole comportarsi in questo modo,
è uno che fa commercio di Cristo. Guardatevi da
gente simile.
(Didaché dei Dodici Apostoli 12,1-5: Funk
1,8)
260
Dio (come richiamerà alla fine della lettera in
5,12).
L'elezione, del resto, è un tema ricorrente
della lettera. Si può notare, nella struttura generale
della lettera, che a eklektois di 1,1 corrisponde
suneklekté di 5,13, dove, invece di parlare degli
eletti, che formano la Chiesa, o della Chiesa in
astratto, l'autore parla dei membri del corpo
ecclesiale, chiamandoli conchiamati, popolo
chiamato da Dio. È particolarmente interessante
anche il sintagma ghenos eklekton di 2,9: i credenti
sono popolo santo, popolo di riservato possesso...
In definitiva, l'idea di elezione porta con sé due
elementi caratteristici: anzitutto l'individualitã, in
quanto ogni persona è chiamata, ma non perché
appartiene a una particolare razza o perché
proviene da un certo ambiente sociale, culturale o
semplicemente geografico. Ciascuno è chiamato
per la gratuita bontà di Dio. Poi, la consapevolezza
di essere eletti da Dio, ma non in un contesto di
nazionalismo, di settarismo, come invece
ritroviamo tipicamente a Qumran, dove la comunità
essena si considera eletta da Dio, ma contro tutti gli
altri gruppi; non c'è posto nella setta se non per gli
adepti, che accettano tutte le regole della comunità.
Al fatto dell'elezione, l'autore della Prima
lettera di Pietro aggiunge che il credente è per
definizione un parepidemos. In tutto il Nuovo
Testamento questo vocabolo ricorre solo nella
nostra Lettera (1,1 e 2,11) e nella Lettera agli Ebrei
(11,13) . Si tratta dello straniero che dimora
261
temporaneamente in un luogo, che non è la sua
terra di origine. È un forestiero, che si trova di
passaggio in una terra straniera. Per questo motivo,
è una persona che non può rivendicare i diritti che
hanno i cittadini residenti in una città. Al nostro
autore non interessa tanto la figura dello straniero
della sua epoca. Attraverso questo vocabolo vuole
rievocare le figure bibliche dell'Antico Testamento
e, dunque, utilizza il termine come una metafora. Il
credente, in effetti, è come Abramo a Canaan,
come Giacobbe nella terra degli Aramei, come
Giuseppe in Egitto... Questi modelli biblici
vengono richiamati dal nostro autore per dire ai
suoi lettori che il credente vive nella provvisorietà,
nella instabilità.
Affine al vocabolo parepidemos, l'autore
della Prima lettera di Pietro utilizza anche il
termine paroikos in 2,11: « Carissimi, vi esorto
come stranieri (paroikoi) e pellegrini (parepidemoi)
ad astenervi dai desideri della carne, che
combattono contro l'anima ».
Chi è il paroikos, che sembra tanto vicino e
addirittura sinonimo di parepidemos?
Paroikos è un aggettivo del greco classico, a
volte usato come sostantivo. Significa confinante,
vicino, è colui che sta para-oikia, vicino
all'abitazione. Dunque, si tratta di una persona non
in quanto oggetto di una accoglienza cortese, anche
se temporanea (com'è l'italiano « ospite »), ma in
quanto diverso e addirittura scomodo. Nell'Antico
Testamento paroikos indica lo stato di residente di
262
uno straniero, il quale vive in maniera permanente
in una città che non è la sua. Ma, come il
parepidemos, anche il paroikos non gode dei diritti
riconosciuti agli autoctoni della città. Nel Nuovo
Testamento il sostantivo paroikos si trova quattro
volte: At 7,6.29; E£ 2,19; 1 Pt 2,11. 11 vocabolo
paroikia, poi, compare in At 13,17 e in i Pt 1,17. La
forma verbale non è mai utilizzata nella nostra
lettera.
Nella Bibbia, però, questo termine non ha
solo valenza sociologica, anzi, ha una sua forte
rilevanza teologica: il popolo dei credenti è
straniero nel mon- do in cui vive, ha la
configurazione di una colonia in qualunque posto
vada. Non ha diritti nella società che lo ospita,
perché i suoi diritti sono nella sua patria. E poiché
appartiene a Dio, il popolo di Dio ha la patria che
Dio gli offre (Gn 23,3-4 ). Sotto questo profilo,
Abramo, in quanto paroikos, diventa modello del
popolo di Dio. La Lettera agli Ebrei dice molto
bene questa idea: « Abramo soggiornò, visse da
straniero (parokesen) nella terra promessa, come se
fosse la terra di qualcun altro, e abitò in tende, in-
sieme con Isacco e Giacobbe, eredi insieme con lui
della medesima promessa» (11,9).
Il libro del Levitico adopera questa
terminologia anche come espressione giuridico-
cultuale adeguata, quando dice che lo straniero-
abitante in mezzo al popolo (il paroikos) deve
essere guardato con attenzione e simpatia, perché
ricorda al popolo qual è il modello di ogni ebreo: «
263
Se verrà a stabilirsi presso di voi un forestiero, non
molestatelo. Come uno nato tra di voi sarà colui
che viene a stabilirsi presso di voi. Lo amerai come
te stesso, perché voi siete stati forestieri nella terra
d'Egitto » (19,33-34) e poi conclude: «La terra è
mia e voi siete presso di me come forestieri (gerim
nel Testo Masoretico; proselytoi nella LXX) e
inquilini (tosabîm nel Testo Masoretico; paroikoi
nella LXX)» (Lv 25,23).
Quando nel Nuovo Testamento si ricorre al
termine paroikos, c'è sempre un richiamo all'Antico
Testamento, segno di un profondo legame tra
antico e nuovo popolo: il cristiano, in continuità
con l'ebreo dell'Antico Testamento, è l'uomo
sperduto nel mondo, in una terra che non è sua e
deve essere salvato, liberato. L'estraneità, momento
essenziale nel popolo dell'Antico Testamento, si
completa nella paroikia del popolo del Nuovo
Testamento, come popolo di pellegrini. Dunque,
l'essere pellegrini diventa caratteristica essenziale
del cristiano. Tra l'altro, questa idea ha una sua
forte continuità nella tradizione, basti ricordare le
belle espressioni della lettera a Diogneto o della
Didaché.
Infine, dobbiamo considerare il genitivo
diasporas. Notiamo subito che il vocabolo non ha
articolo. Questo ci mette nella difficoltà di
interpretarlo come partitivo o come attributivo. Se è
un partitivo, allora l'autore si sta rivolgendo a
giudeo-cristiani, cioè a una parte di ebrei, a coloro
che vivono nella diaspora. La diaspora, in questo
264
caso, sarebbe da considerare come fatto storico,
non come cifra simbolica. L'autore, perciò,
scriverebbe agli eletti pellegrini, quelli che vivono
fuori dalla Palestina, nella diaspora.
Se, invece, il genitivo lo interpretiamo come
attributivo o epesegetico, allora l'autore non si
rivolgerebbe solo a dei giudeo-cristiani, ma anche
ai cristiani che vivono sparsi in tutto il mondo,
nella condizione di diaspora. La diaspora, in questo
caso, non sarebbe da intendere come fatto storico,
ma come condizione normale del cristiano. E
questa seconda ipotesi sembra preferibile. L'autore
della Prima lettera di Pietro si rivolge a tutti i
cristiani, eletti pellegrini in condizione di diaspora.
Ma che cosa intende con questa aggiunta a
eletti pellegrini?
La diaspora è un elemento qualificante per
gli ebrei: indica sempre la dispersione del popolo
dell'alleanza in mezzo a non-ebrei, a pagani. Ma nel
Nuovo Testamento la diaspora si riempie di un si-
gnificato cristiano: i credenti sono dispersi su tutta
la terra a causa del nome di Cristo, a causa dell'e-
vangelizzazione o anche, semplicemente, perché da
ogni angolo della terra i credenti in Cristo sono in
cammino verso la patria del cielo.
In conclusione, l'autore della Prima lettera
di Pietro fa ricorso a termini specifici, che mettono
in evidenza la tensione dialettica in cui vivono i
credenti, sottolineando l'aspetto diasporico, come
metafora: i cristiani sono eletti da Dio in quanto
vivono come vive uno straniero fuori dalla sua
265
patria su tutta la faccia della terra, in attesa della
riunificazione universale. La mancanza del kai
determina lo statuto ontologico, cioè l'essere stesso
dei cristiani. I termini non sono in
contrapposizione, ma invitano a cogliere un più di
senso: il cristiano vive la conflittualità dialettica tra
storia profana e storia salvifica, con la
consapevolezza di essere eletto da Dio, ma
esistenzialmente nella condizione della precarietà.
L'autore esprime la convinzione che il cristiano sia
un essere «in tensione ». E questo non è un inciden-
te che capita a qualcuno, ma è la condizione che
qualifica tutti coloro che seguono Cristo. Perciô bi-
sogna dedurre che i cristiani sono parepidemoi dia-
sporas proprio perché sono eklektoi! La vocazione
cristiana non è per le persone sedentarie, ma per
quelle che si sentono in cammino!
266
ri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono
distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è
patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano co-
me tutti e generano figli, ma non gettano i neonati.
Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono
nella carne, ma non vivono secondo la carne.
Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza
nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la
loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti
vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e
vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a
vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano
di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e
nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e pro-
clamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono
maltrattati e onorano. Facendo del bene vengono
puniti come malfattori; condannati gioiscono come
se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti
come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che
li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio. A
dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel
mondo sono i cristiani.
(Lettera a Diogneto 5,1-17; 6,1: Funk 1,317-321)
267
CONCLUSIONE
268
dell'umanità nel mondo contemporaneo. Questa
convinzione è diventata, come si dice, "pane
quotidiano" specialmente per chi opera a contatto
con i migranti, i rifugiati e con le diverse categorie
di persone itineranti. Stiamo vivendo tempi nei
quali i cristiani sono chiamati a coltivare uno stile
di dialogo aperto sul problema religioso, non
rinunciando a presentare agli interlocutori la
proposta cristiana in coerenza con la propria
identità » (Discorso ai partecipanti all'Assemblea
Plenaria del Pontificio Consiglio della pastorale per
i migranti e gli itineranti, 15 maggio 2006).
Ecco, dunque, che la lettura, la meditazione, la
contemplazione e la preghiera della lectio divina
sfociano, senza soluzione di continuità, nell'attività
missionaria, che non trascura uomini e donne, bam-
bini e anziani coinvolti nel fenomeno delle migra-
zioni. I movimenti migratori, in effetti, si
affermano come un evento strutturale della
modernità, che coinvolge milioni di persone e
tocca, in particolare, la questione dei loro diritti e,
soprattutto, quella della tutela della dignità umana.
Oggi tale fenomeno costituisce un problema
sempre pin complesso, dal punto di vista sociale,
culturale, politico, religioso, economico e pastorale.
La Chiesa ha avvertito l'importanza e l'urgenza di
affrontare la delicata questione e, nel 2004, ha
emanato l'Istruzione Erga migrantes caritas
Christi, del Pontificio Consiglio della pastorale per
i migranti e gli itineranti. Ma quel documento, che
conferma la Chiesa in prima linea nell'arena
269
internazionale dei dibattiti e delle attività in favore
di tutti i migranti, si colloca nell'alveo di una lunga
tradizione di sollecitudine, di difesa e di
promozione dei migranti. L'Istruzione, infatti,
aggiorna — tenendo conto dei nuovi flussi
migratori e delle loro caratteristiche — la pastorale
migratoria, a distanza di trentacinque anni dalla
pubblicazione del motu proprio di papa Paolo VI
Pastoralis migratorum cura e dalla relativa
Istruzione della congregazione dei vescovi De
pastorali migratorum cura (conosciuta anche come
Nemo est), che, a sua volta, si metteva in continuità
con la Costituzione apostolica Exsul familia di Pio
XII, dell'anno 1952. Del resto, anche il primo
messaggio di Benedetto XVI per la Giornata
mondiale del migrante e del rifugiato — celebratasi
il 15 gennaio 2006 — ha ribadito la sollecitudine
pastorale che si è venuta maturando in decenni di
generoso servizio all'umanità migrante: « Tra i
segni dei tempi oggi riconoscibili », scrive il papa,
« sono sicuramente da annoverare le migrazioni, un
fenomeno che ha assunto nel corso del secolo da
poco concluso una configurazione, per così dire,
strutturale, diventando una caratteristica importante
del mercato del lavoro a livello mondiale, come
conseguenza, tra l'altro, della spinta poderosa
esercitata dalla globalizzazione.
Naturalmente, in questo "segno dei tempi"
confluiscono componenti diverse. Esso comprende
infatti le migrazioni sia interne che internazionali,
quelle forzate e quelle volontarie, quelle legali e
270
quelle irregolari, soggette anche alla piaga del
traffico di esseri umani. Né può essere dimenticata
la categoria degli studenti esteri, il cui numero
cresce ogni anno nel mondo ». In effetti, il
fenomeno migratorio riguarda oggi quasi duecento
milioni di persone e le sue dinamiche toccano la
globalizzazione, la questione demografica
soprattutto nei Paesi industrializzati, l'aumento del-
le disparità tra Nord e Sud del pianeta, come anche
la proliferazione dei conflitti e delle guerre civili,
con l'acuirsi di situazioni complesse e problemati-
che, tanto nei Paesi di origine come in quelli di
transito e di destinazione.
In questo contesto, la missione della Chiesa
segue due principali direttrici, che talora corrono
parallele, talora si intersecano o si rincorrono:
anzitutto, quella che vede le migrazioni sotto il
profilo della povertà, della sofferenza, del problema
dalle implicazioni addirittura drammatiche. Qui si
incontrano gli interventi socio-umanitari di prima
emergenza, di soccorso, di protezione e di
immediato sostegno. Poi, emerge un secondo
orientamento, che evidenzia gli aspetti positivi, le
potenzialità e le risorse di cui i migranti sono
depositari: su questa direttrice si sviluppano le
molteplici iniziative che accompagnano il
progressivo inserimento del migrante nel nuovo
contesto socio-culturale, fino alla piena
integrazione.
La Chiesa e le varie forze che ad essa si
ispirano si sentono impegnate in entrambe le
271
direzioni. Così, non ha senso l'accusa di
assistenzialismo, che a volte viene mossa contro gli
organismi ecclesiali, come se i cristiani si
impegnassero solo con interventi di tamponamento
verso i migranti e non, invece, anche con sforzi per
riabilitarli e favorire la loro immissione nella nuova
società in qualità di protagonisti attivi, capaci di
assicurare apporti originali, con pieni diritti di
cittadinanza, in una dialettica arricchente di dare e
ricevere. Questo, in fondo, corrisponde al
passaggio dall'ospitalità all'accoglienza, con fonda-
mento biblico, che indirizza all'esito finale, dove la
società multiculturale, in cui etnie e culture sono
semplicemente accostate e giustapposte, assume
coraggiosamente la sfida di diventare una società
interculturale, dove le culture e i gruppi etnici
interagiscono e vicendevolmente si arricchiscono e
si completano.
A questo proposito, è vero che il riferimento
all'« integrazione interculturale» appare rare volte
nell'Istruzione Erga migrantes caritas Christi. Se,
però, si traduce tale modulo con universalismo/plu-
ralismo, incontro/inculturazione, comunione/mis-
sione, identità/dialogo, accoglienza/solidarietà, al-
lora questa impostazione pervade tutto il
documento e ne forma la struttura portante,
evidenziando una nuova rotta sulla quale la Chiesa
impegna le sue forze migliori.
Certo, la Chiesa si rende conto della
complessità della questione. Basti ricordare il
rapporto, sempre difficile, tra culture dominanti e
272
culture minoritarie, oppure l'applicazione del
criterio di reciprocità nell'incontro con l'islam.
Tuttavia, se gli ostacoli suggeriscono pazienza e
prudenza, d'altra parte non devono compromettere
l'orientamento verso cui le società sono oggi
avviate.
La strada o la via è il luogo privilegiato
della Chiesa, vale a dire la strada dell'uomo che
cammina desideroso di giungere all'incontro con
Cristo, insieme ad altri viatores del tempo
moderno. Su questo itinerario lo Spirito agisce
rompendo gli steccati e abbattendo le barriere
sociali, culturali e religiose, al fine di permettere
l'incontro tra le persone. E la lectio divina si offre
come strumento utile per riscoprire la gioia del
reciproco conoscersi, rispettarsi e apprezzarsi. Non
si tratta, dunque, di erudizione sulla Scrittura, bensì
di obbedienza faticosa e gioiosa alla Parola, che
dicendo di Cristo parla di ogni uomo. Quindi, lectio
divina come negazione della manipolazione della
Parola e altresì come affermazione della sua
potenza profetica nella comunità dei credenti. In
effetti, una delle espressioni più audaci del
cristianesimo delle origini è uscita dal cuore mis-
sionario di Paolo, sollecito nell'annuncio del keryg-
ma a tutte le genti: «Quanti siete stati battezzati in
Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è giudeo né
greco; non c'è schiavo né libero; non c'è uomo o
donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»
(Gal 3,27-28).
273
Il cammino verso l'unità, nel rispetto delle
diversità, è lungo e costellato di intralci e ritardi.
Certo non avanzerà se i credenti cesseranno di
valorizzare il dinamismo vitale della preghiera. I1
profeta Geremia, dal canto suo, raccomandava ai
deportati di Babilonia non solo di darsi da fare
perché la città straniera godesse il suo shalom, ma
anche di pregare il Signore per il popolo che aveva
causato il triste esilio, lontano dalla città santa di
Gerusalemme. Allo stesso modo, la lectio divina,
che abbiamo condotto su alcune «icone» che
rimandano all'ambito della pastorale della mobilità
umana, suggerisce e impone il confronto con il
mondo moderno, ma a tutti noi, pellegrini sulla
terra, viene chiesto anzitutto di pregare, attraverso
l'intercessione, così come mediante la confessione e
persino il ringraziamento e l'adorazione.
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