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Rodja Bernardoni Civiltà e Barbarie: visioni distopiche nell’opera di Mario Vargas Llosa 493

XXXVI Convegno Internazionale di Americanistica – Perugia 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12 e 13 maggio 2014

Civiltà e Barbarie: visioni distopiche nell’opera di Mario


Vargas Llosa

Rodja Bernardoni
Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena – Università degli Studi di Siena, Italia

Mario Vargas Llosa è conosciuto soprattutto per essere uno dei maggiori narratori contemporanei di lingua
spagnola, ma negli ultimi anni ha spesso assunto il ruolo di ideologo sostenendo attivamente l’idea
dell’esistenza di un unico modello di modernità, basato sui paradigmi del liberismo e del capitalismo. Come
fautore di questa visione, lo scrittore ha manifestato in più occasioni un radicale rifiuto nei confronti di ogni
altra proposta sociale o economica. La sua più profonda convinzione è che:

«El desarrollo y la civilización son incompatibles con ciertos fenómenos sociales y el principal de
ellos es le colectivismo. Ninguna sociedad impregnada de esa cultura, es una sociedad que
desarrolle y se modernice. El colectivismo tiene muchas caras y manifestaciones: el comunismo,
el nazismo, el fascismo fueron en el pasado sus caras más visibles. Hoy en día se expresa
fundamentalmente a través del nacionalismo, de los integrismos religiosos. Pero es en su esencia
la misma cosa; la desaparición del individuo dentro de un colectivo, que se supone, representa el
valor supremo» (VARGAS LLOSA M. 2004: 126).

Per Vargas Llosa è l’individualità a essere il valore supremo della civiltà. Qualsiasi ideologia che neghi o metta
in discussione questo assioma, non è che una forma di autoritarismo. Attualmente, sostiene lo scrittore,
questo processo si manifesta principalmente in quei movimenti che nascono e scaturiscono dalla
rivendicazione del valore dei patrimoni etici e morali indigeni e tradizionali:

«Tenemos un rebrote del indigenismo de los años 20, que parecía haber quedado
completamente rezagado. Es lo que está detrás de fenómenos como el del señor Evo Morales en
Bolivia. En Ecuador, lo hemos visto operando y creando un verdadero desorden político y
social. En mi proprio país está también rebrotando en nombre de la identidad colectiva indígena
y ha lanzado una campaña que cuando se examina racionalmente, toca ese centro neurálgico que
Popper llamaba el «espíritu de la tribu». Ese rechazo a la soberanía del individuo que nunca
desaparece, incluso en las sociedades que han avanzado más en el camino de la civilización.
Parece un anacronismo más bien ridículo y sin embargo no lo es. En esta proclama colectivista
hay un elemento profundamente pertubador, que apela a los bajos instintos del individuo: la
desconfianza hacia el otro, al que tiene o una piel distintas o unas ideas distintas y que encuentra
en encerrarse en sí mismo su justificación y fuerza. Esa actitud es absolutamente incompatible
con la civilización y el desarrollo» (VARGAS LLOSA M. 2004: 126-127).

Lasciando da parte le polemiche e le obiezioni che tali affermazioni suscitano, ci proponiamo con questo
intervento di rintracciare nell’opera narrativa dell’autore la presenza e lo sviluppo di questo tema. Un primo
accenno alla incompatibilità tra civiltà e culture tradizionali lo si osserva nel romanzo La Casa Verde (1967); in
questo caso, tuttavia, l’autore sposa il punto di vista dei nativi, stigmatizzando e ridicolizzando le pretese di
quei personaggi, come le suore o i caucheros, che vorrebbero “civilizzare i selvaggi”. Qualche anno dopo lo
stessa tema riappare in maniera più articolata in Pantaleón y las visitadoras (1973). Il romanzo racconta le
tragicomiche avventure di Pantaleón Pantoja, incaricato dai suoi superiori di organizzare un servizio di
prostitute, per soddisfare le voraci necessità sessuali dei soldati di stanza nella foresta. Questa linea narrativa,
di carattere ironico e sarcastico, che descrive le vicissitudini del protagonista e del suo servizio di visitatrici, si
intreccia con un’altra decisamente più cupa e sinistra incentrata sulla diffusione del culto millenarista di
fratello Francisco e della sua setta la hermandad del Arca Santa. Man mano che il romanzo si sviluppa, quello

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che sembrava essere un culto grottesco e improbabile si trasforma in una realtà sempre più violenta e
minacciosa. In un crescendo di sanguinosi sacrifici gli adepti del culto arrivano persino a crocifiggere varie
persone, tra cui un bambino ed un’anziana signora, immediatamente dichiarati martiri e innalzati agli onori dai
loro assassini. Qui la posizione dell’autore è netta; la fede cieca, la predicazione messianica ed apocalittica di
fratello Francisco, rappresenta l’espressione delle più elementari e primitive pulsioni dell’essere umano; una
realtà oscura e sanguinaria che si nasconde in ogni individuo e contro la quale è doveroso lottare, come
affermano nel romanzo i capi militari: «estos locos están convirtiendo a la Amazonía en una tierra bárbara y
ha llegado el momento de usar la mano dura» (VARGAS LLOSA M. 2003: 294). Gli incubi messianici e mistici
di Pantaleón y las visitadoras ricompaiono ancora più sviluppati ed elaborati in una successiva opera dell’autore:
La guerra del fin del mundo (1981). In questo romanzo, riscrittura del momumentale Os sertoes di Euclides Da
Cuhna, l’autore ci presenta attraverso un impianto polifonico, l’insurrezione popolare che alla fine del XIX°,
sotto la guida del predicatore Antonio el Consejero, si scontrò con la giovanissima repubblica brasiliana. Nel
testo, scritto mentre il Perú viveva i primi anni del conflitto tra Sendero Luminoso e lo Stato, Llosa sviluppa
la tesi secondo la quale una volta fanatizzato, l’uomo “naturale”, isolato dal progresso e dalla società, si
trasforma in un’entità pericolosa, imprevedibile e incontrollabile. Come scrive José Alberto Portugal, ne La
guerra del fin del mundo si analizza:

«[…] un tipo particular de idea de la revolución. La que se instala en el universo obsesional del
autor, la de la revolución mesiánica - el tipo de revolución, el tipo de Idea movilizadora que
puede adquirir particular fuerza en los espacios sociales más atrasados de sociedades divididas,
donde las distancias entre grupos humanos se encuentran exacerbadas por la enormidad de las
diferencias económicas y culturales. Es el carácter que adquiere la utopía cuando es encarnada
concretamente, políticamente, por un movimiento de masas en el que el liderazgo religioso se
conecta con el reclamo de los oprimidos, y reta de manera directa no sólo el orden establecido,
sino las posibilidades de otras formas de cambio, incluso de otras utopías, las utopías racionales
y sus lenguajes (como el liberalismo, el socialismo)» (PORTUGAL J.A. 2002: 55).

Se, per l’autore, i fanatismi ideologici e le dottrine rivoluzionarie costituiscono il principale pericolo per la
libertà e la democrazia, ciò non significa che certe forme di ribellione più spontanee ed apolitiche
rappresentino una minaccia minore: la povertà, la disperazione, il primitivismo e l’irrazionalità che, per il
narratore e per Vargas Llosa, caratterizzano alcuni settori della società, fanno sì che, come nel caso dei canudos
del romanzo, essi siano maggiormente vulnerabili al richiamo di esaltati e demagoghi. Nel romanzo
l’anarchico Galileo Gall, emblema dell’estremismo politico, intuendo la relazione esistente tra la magnitudine
dell’insurrezione e il carisma del leader religioso si chiede:

«¿Son estos diablos, emperadores y fetiches religiosos las piezas de una estrategia de que se vale
el Consejero para lanzar a los humildes por la senda de una rebelión que, en los hechos —a
diferencia de las palabras — es acertada, pues los ha impulsado a insurgir contra la base
económica, social y militar de la sociedad clasista? ¿Son los símbolos religiosos, míticos,
dinásticos, los únicos capaces de sacudir la inercia de masas sometidas hace siglos a la tiranía
supersticiosa de la Iglesia y por eso los utiliza el Consejero?» (VARGAS LLOSA M. 1987 [1981]: 52).

Sarà poi un altro personaggio, il barone di Cañabrava, che nel testo rappresenta il punto di vista della cultura
ufficiale ed occidentale, e quindi quello dell’autore, a spiegare ciò che in realtà si nasconde dietro gli eventi di
Canudos:

«Encogió los hombros e hizo un gesto vago, catastrófico. —La única explicación es que a la
banda de Sebastianistas se hayan sumado miles de campesinos, incluso de otras regiones —dijo
el Barón—. Movidos por la ignorancia, por la superstición, por el hambre. Porque ya no existen
los frenos que mitigaban la locura, como antes» (VARGAS LLOSA M. 1987 [1981]: 199).

La distinzione tra ciò che appartiene alla sfera della civiltà e della modernità e ciò che invece è considerato

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frutto della follia e della barbarie non potrebbe essere più chiara. Come abbiamo visto prima, tutti i fenomeni
che si basano sul concetto di collettività e di collettivismo sono per l’autore privi di qualsivoglia fondamento
logico e razionale. Come dirà in un’altra sequenza il barone, ogni insurrezione non è che una «historia
estúpida, incomprensible, de gentes obstinadas, ciegas, de fanatismos encontrados» (VARGAS LLOSA M. 1987
[1981]: 302). In entrambe queste due opere, tuttavia, la critica portata avanti dallo scrittore si concentra su
episodi di matrice religiosa, rappresentati in modo generico e senza riferimenti a realtà politicamente o
etnicamente determinate. Qualche anno dopo, nel 1983, si pubblica in Perú un rapporto che si proponeva di
chiarire le cause dell’omicidio di otto giornalisti per mano degli abitanti della comunità di Uchuraccay. Qui
Vargas Llosa, presidente della commissione di inchiesta e autore del testo sosteneva che:

«¿Tiene el Perú oficial el derecho de reclamar de esos hombres, a los que su olvido e incurría
mantuvo en el marasmo y el atraso, un comportamiento idéntico al de los peruanos que, pobres
o ricos, andinos o costeños, rurales o citadinos, participan realmente de la modernidad y se rigen
por leyes, ritos, usos y costumbres que desconocen (o difícilmente podrían entender) los
iquichanos?» (VARGAS LLOSA M.: http://www.geocities.ws/javi270270/INFORMEVLL.htm).

«Perú Oficial», «Peruanos que participan realmente de la modernidad»; è evidente dal lessico utilizzato, come
ciò che si vuole sottolineare è che la società ufficiale, moderna ed occidentale, ed il mondo indigeno, arcaico e
primitivo, sono due realtà opposte e incompatibili. Il fatto che l’area fosse completamente militarizzata e che
l’Esercito incoraggiasse i contadini all’uso della violenza contro i terroristi, per la commissione non furono
che cause secondarie della strage. Il catalizzatore di un substrato violento e irrazionale pre-esistente che si era
formato nel corso di secoli di sfruttamento e prevaricazioni. Appare evidente che alla commissione non
interessa fare chiarezza sul contesto storico-sociale che aveva condotto i contadini all’omicidio. Ciò che i
commissari vogliono dimostrare con il loro rapporto, è che l’origine profonda della violenza scaturisce dalle
peculiari condizioni storico, culturali ed antropologiche della comunità. Come possiamo leggere nel testo,
sono state la mancanza di educazione, le condizioni di vita estreme e miserrime, la povertà e la totale assenza
dello Stato ad aver reso possibile che i comuneros rimanessero congelati in un remoto passato impermeabile a
qualsiasi forma di progresso e modernità. Nella sua analisi del mondo indigeno, la commissione si spinge
molto oltre; gli abitanti della comunità di Uchuraccay, anche se presentati come un caso estremo, non
rappresentano solamente una realtà isolata. Il loro stile di vita e il loro livello culturale sono quelli di tutti gli
indigeni del paese:

«Los hombres que los mataron no son una comunidad anómala en la sierra peruana. Son parte
de esa “nación cerrada”, como la llamó José María Arguedas, compuesta por cientos miles -
acaso millones- de compatriotas, que hablan otra lengua, tienen otras costumbres, y que, en
condiciones a veces tan hostiles y solitarias como las de los iquichanos, han conseguido
preservar una cultura - acaso arcaica, pero rica y profunda y que entronca nuestro pasado
prehispanico- que el Perú oficial ha desdeñado» (VARGAS LLOSA M.:
http://www.geocities.ws/javi270270/INFORMEVLL.htm).

Un anno dopo viene pubblicato Historia de Mayta (1984). Opera dove per la prima volta appare in maniera
organica e dettagliata l’idea che ogni utopia, quando si realizza, si trasforma necessariamente in una distopia.
Sono gli anni più cruenti del conflitto interno, e Vargas Llosa immagina un Perú sull’orlo di un’apocalisse
politica e militare, dove Sendero Luminoso è sul punto di prendere il potere. Circondato dal caos e dalla
follia, il protagonista, scrittore e giornalista, decide di ricercare nel passato i semi dei mali presenti; il suo
obiettivo sarà quello di indagare su una fallita insurrezione avvenuta negli anni ‘50 a Jauja e su uno dei suoi
leader, Alejandro Mayta. Un episodio che nel testo diviene il simbolo e l’antecedente storico di tutti i moti
rivoluzionari successivi. Uno degli elementi che più interessa il narratore è la scelta operata dai capi del
movimento, Mayta e Vallejos, che hanno deciso di innescare la ribellione nelle Ande, sperando che gli
indigeni, dopo secoli di soprusi, li avrebbero seguiti. Mayta e Vallejos incarnano qui quella linea di pensiero
utopista e passatista che, secondo Llosa, idealizzando il passato indigeno vede nel ritorno ad esso l’unico
rimedio per le ingiustizie del presente.

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«Y, casi sin transición, Mayta lo oyó enfrascarse en un discurso indigenista: el Perú verdadero
estaba en la sierra y no en la costa, entre los indios y los cóndores y los picachos de los Andes, y
no aquí, en Lima, ciudad extranjerizante y ociosa, antiperuana, porque desde que la fundaron los
españoles había vivido con la mirada en Europa y en Estados Unidos, de espaldas al Perú. Eran
cosas que Mayta había oído y leído muchas veces, pero sonaban distintas en boca del Alférez.»
(VARGAS LLOSA M. 2008 [1984]: 32)

Pensare però che culture così arcaiche possano indicare la via per un futuro migliore non è che un illusione.
Tutti i personaggi che nel romanzo appartengono alla sinistra rivoluzionaria ripetono come un mantra che «El
día que los Andes se muevan, el país entero temblará»( VARGAS LLOSA M. 2008 [1984]: 22). Quando,
finalmente, le masse indigene si ribellano ciò che si verifica è qualcosa di completamente diverso e
inaspettato. Spinti unicamente dalla disperazione e dalla fame i contadini indigeni danno vita a un’insurrezione
del tutto spontanea, priva di qualsiasi connotazione politica o sociale:

«Después supimos que esas tomas no eran obra de agitadores enviados por el Partido
Comunista ni por los grupitos trotskistas, y, en su origen, ni siquiera de carácter político, sino un
movimiento espontáneo, surgido enteramente de la masa campesina, que, espoleada por la
inmemorial situación de abuso, hambre de tierra, y, en alguna medida, por la atmósfera caldeada
de lemas y proclamas de justicia social que se creó en el Perú desde el resquebrajamiento de la
dictadura de Odría, decidió un buen día pasar a la acción. ¿Uchubamba? Otros nombres de
comunidades que se apoderaron de tierras y fueron desalojadas con muertos y heridos, o que
consiguieron quedarse con ellas, revolotean en mi memoria: Algolán, en Cerro de Pasco, las del
Valle de la Convención, en el Cusco. Pero ¿Uchubamba, en Junín?» (VARGAS LLOSA M. 2008
[1984]: 166-167).

Per Vargas Llosa, chi vive lontano dalla modernità e dai suoi benefici non può comprendere concetti come
democrazia, libertà, coscienza politica e di conseguenza concetti come quello di rivoluzione. Nel romanzo le
masse andine lottano solo per ottenere quello di cui hanno bisogno per sopravvivere: la terra. Tutto il resto è
privo di valore e di significato. Sarà questa la ragione della debacle del protagonista. L’indifferenza dei contadini
e la loro estraneità ai valori rivoluzionari di Mayta, viene utilizzata per dimostrare l’infondatezza delle
rivendicazioni di coloro che per il narratore/autore non sono altro che un manipolo di intellettuali da caffé,
affascinati da miti e fantasie irrealizzabili. Historia de Mayta segna un punto di svolta nello sviluppo del tema
che stiamo trattando; per la prima volta infatti, le masse superstiziose e disumanizzate che apparivano ritratte
nei romanzi precedenti vengono rappresentate come parte di quelle culture indigene descritte dal rapporto di
Uchuraccay. Nei due successivi romanzi, El Hablador (1987) e Lituma en los Andes (1993), la trasformazione
degli universi indigeni e dei loro valori in distorte e sanguinarie distopie giunge al suo culmine. Nel primo dei
due romanzi, che lasceremo da parte per ragioni di spazio, Vargas Llosa tenta di smontare e neutralizzare gli
argomenti e i topoi dei vari indigenismi e delle loro narrative. In Lituma en los Andes, invece come sostiene il
critico peruviano Víctor Vich, l’autore cerca di «[...]«invertir» los valores tradicionalmente asignados por los
discursos indigenistas y así contraponer a sus idealizadas imágenes una concepción infernal y violenta» (VICH
V. 2002: 62).

Nel romanzo il mondo delle Ande viene descritto a partire da quelle caratteristiche che abbiamo incontrato
nei testi precedenti: la realtà che ci viene presentata è quella realtà inospitale e minacciosa che si descriveva nel
rapporto di Uchuraccay. Le Ande sono rappresentate come un luogo aspro e desolato dove gli uomini,
schiacciati da una natura avara e spietata, riescono a malapena a sopravvivere. Il protagonista Lituma in varie
occasioni si riferisce all’ostilità del mondo e della gente che lo circonda: «La sierra es infernal, Tomasito. No
me extraña con tanto serrucho» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 71), dice a un certo punto il personaggio. Al
contrario delle visioni arcadiche e idealizzate della cultura andina, che secondo Vargas Llosa sono proposte
dagli indigenisti e dai loro epigoni, le Ande del romanzo sono un mondo arcaico e primitivo, dove la violenza
e la superstizione regnano indisturbate e dove l’essere umano langue e si abbrutisce: «todos los serruchos son
unos supersticiosos que creen en diablos, pishtacos y mulos» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 145), assicura
Lituma. Come rappresentante del mondo civilizzato il protagonista vive l’alterità culturale in modo quasi
paranoico:

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«¿Se burlaban de él? A ratos le parecía que detrás de esas caras inexpresivas, de esos
monosílabos pronunciados con desgano, como haciéndole un favor, de esos ojitos opacos,
desconfiados, los serruchos se reían de su condición de costeño extraviado en estas punas, de la
agitación que aún le producía la altura, de su incapacidad para resolver estos casos» (VARGAS
LLOSA M. 2006 [1993]: 37).

In Lituma en los Andes, violenza e mondo aborigeno rappresentano due facce della stessa medaglia; ancora
prima di arrivare a sospettare che dietro alla scomparsa delle tre persone sulle quali sta investigando si celano
in realtà riti sacrificali e antropofagici, il caporale Lituma afferma: «No no podía haber sido Sendero. Más bien
alguna brujería o estupidez de los serruchos» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 105). Lo stesso conflitto
armato è per il protagonista unicamente un problema tra «serruchos hoscos y desconfiados que se mataban
por la política y, para colmo, se desaparecían» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 15). Il romanzo, composto
nei primi anni novanta, si svolge nel periodo più cruento della guerra. L’intera narrazione trascorre sotto la
minaccia di un imminente attacco di Sendero Luminoso. Le prime ipotesi circa il mistero delle sparizioni in
un primo momento sembrano persino condurre ai terroristi. Ma come nel rapporto sui fatti di Uchuraccay,
Vargas Llosa vuole dimostrare che la violenza di Sendero e dei militari non è che l’effetto di una situazione
pre-esistente: un sottoprodotto della barbarie e dell’irrazionalismo connaturati alle realtà culturali e
antropologiche andine e tradizionali. Uno dei personaggi, attraverso cui si veicola il punto di vista occidentale
e civilizzato, dirà:

«–Yo me pregunto – murmuró el ingeniero rubio, completamente abstraído, hablando para sí


mismosi lo que pasa en el Perú no es una resurrección de toda esa violencia empozada. Como si
hubiera estado escondida en alguna parte y, de repente, por alguna razón, saliera de nuevo a la
superficie» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 178).

E sarà sempre un altro rappresentante della modernità che, rivelando la vera e intima natura del mondo
indigeno, contribuirà alla soluzione del mistero degli scomparsi. Mi riferisco al personaggio dell’etnologo
danese Paul Stirmson, conosciuto come Escarlatina, esperto di fama mondiale di culture andine; un individuo
che come ci dice il narratore «era como Dios, sabía todo y conocía todos» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]:
174). Con il suo intervento che, così come accadeva con il barone di Cañabrava ne La Guerra del fin del mundo,
segna l’irruzione nella storia del punto di vista razionale, scientifico e occidentalista, si realizza nel romanzo la
completa e definitiva demistificazione del mito indigenista di un età dell’oro precolombiana:

«En materia de horrores, podía dar lecciones a los terrucos, unos aprendices que sólo sabían
matar a la gente a bala, cuchillo o chancándoles las cabezas, mediocridades comparadas con las
técnicas de los antiguos peruanos, quienes, en esto, habían alcanzado formas refinadísimas. Más
aún que los antiguos mexicanos, aunque hubiera un complot internacional de historiadores para
disimular el aporte peruano al arte de los sacrificios humanos. (...) ¿Cuántos habían oído de la
pasión religiosa de los chancas y los huancas por las vísceras humanas, de la delicada cirugía con
que extirpaban los hígados y los sesos y los riñones de sus víctimas, que se comían en sus
ceremonias acompañados de buena chicha de maíz?» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 170).

Attraverso questa emanazione dell’autore, la visione distopica delle civiltà preispaniche trova appoggio e
giustificazione, imponendosi come unica chiave di lettura del passato andino. Oppressione, paura, violenza,
superstizione, queste erano le caratteristiche precipue delle antiche culture peruviane. Ma, come ci dice ancora
Escarlatina, quelle realtà, lungi dall’essere scomparse, sopravvivono in varie zone della cordigliera. I valori e le
cosmovisioni di quelle società, per quanto affascinanti e pittoreschi, appartengono, secondo Llosa, a una fase
arcaica della storia umana, una pre-modernità incompatibile con i parametri e le necessità della
contemporaneità. La loro sopravvivenza può solamente significare che la barbarie ha prevalso sulla civiltà e
sulla ragione. I dubbi che avevamo visto avanzare dall’ingegnere biondo sulla reale origine della violenza
trovano conferma. Il caos del conflitto interno non è che l’espressione contingente e momentanea di una più
antica e primigenia violenza. Custodi di questo mondo infernale sono la coppia Dionisio/Adriana, i due
gestori della locale bettola, che spingono gli operai del cantiere a sacrificare e divorare i loro compagni per

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placare le divinità della montagna. I due personaggi, evidente rilettura in chiave andina delle figure
mitologiche di Dioniso e Arianna, introducono nel testo una prospettiva magico-religiosa funzionale al
messaggio che l’autore ci vuole trasmettere. La trasformazione del mito europeo in mito andino, diviene lo
strumento con cui l’autore traccia in maniera netta: «un claro contraste entre el barbarismo superado por
occidente y el barbarismo que prevalece en los Andes» (KOKOTOVIC M. 2004: 89). Se nelle Ande del
romanzo, «la vida en comunidad desaparecía en un apocalipsis de sangre» ci dice lo scrittore, è proprio perché
là la ragione non è riuscita a imporsi sugli istinti e sulle pulsioni più profonde e animalesche dell’essere
umano. Simbolo di questo universo feroce e brutale, è come abbiamo già detto, Dionisio, il cui soprannome,
ci dice il narratore, significa in quechua «comedor de carne cruda» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 191). Il
sillogismo postulato da Llosa è chiaro; se Dioniso e Arianna nel racconto mitologico corrispondono nel
romanzo a Dionisio e Adriana, la realtà primitiva e arcaica che rappresentano trova il suo corrispettivo nel
mondo andino e nelle sue tradizioni. Attraverso la coppia, tutto il patrimonio etico, filosofico, cosmologico e
morale andino viene degradato e deformato trasformandosi nella manifestazione della più bassa e primordiale
bestialità. Non a caso il nucleo degli insegnamenti iniziatici e magici proposti da Dionisio si reduce alla
semplice dottrina del ritorno all’animalità come forma di liberazione. Abbandonarsi agli istinti e ai desideri più
elementari e immediati, disfarsi della propria umanità e visitare il proprio lato animale, sono questi per il
personaggio il significato e il fine ultimo dell’esistenza umana:

«El que no pone a dormir su pensamiento, el que no se olvida de sí mismo, ni se saca las
vanidades y soberbias ni se vuelve música cuando canta, ni baile cuando baila, ni borrachera
cuando se emborracha. Ése no sale de su prisión, no viaja, no visita a su animal ni sube hasta
espíritu. Ése no vive: es decadencia y está vivomuerto» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 273).

La nota caricaturale che l’autore vuole conferire alla sua rappresentazione del mondo andino si nota
soprattutto nella rilettura parodica alla quale viene sottoposto uno degli episodi centrali del racconto mitico di
Arianna: il mito del labirinto e del minotauro. Nel romanzo la figura del mostro taurino è sostituita da quella
del Pishtaco, mentre quella dell’eroe Teseo è rimpiazzata da quella del minatore nasone Timoteo Fajardo. Il
labirinto di Creta si trasforma in una grotta e, aspetto fondamentale, per riuscire a scappare l’eroe non si serve
più del celeberrimo filo, bensì di una scia di escrementi che riesce a seguire grazie al suo prodigioso olfatto.
L’esegesi tradizionale del mito, che vedeva nell’episodio la vittoria dell’astuzia e dell’intelligenza umane sulle
cieche forze dell’istinto e della bestialità, subisce nella versione di Vargas Llosa una grottesca inversione in
senso escatologico e corporale. Come regno dell’irrazionale, il mondo delle Ande può solo produrre storie «de
sangre, cadáveres y caca» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 273). Per l’autore, però, l’esistenza di queste realtà
non è solo un problema localizzato e limitato a una zona geografica. Una volta scatenate, la barbarie e la
follia, come abbiamo visto, potrebbero portare alla fine dell’intera società. Alla fine del romanzo, uno dei
protagonisti del sacrificio, come il Kurtz di Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, racconterà a Lituma di quel
«gusto en la boca» che «No se va por más que uno se la enjaugue» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 310). La
discesa negli abissi della psiche umana può essere un viaggio senza ritorno. Nel testo romanzesco questo si
manifesta in una scena cruciale: quando Lituma, scopre che si stanno diffondendo a Lima superstizioni simili
a quelle dei serranos, afferma che «los diablos y la locura» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 189) si stanno
impadronendo del paese e che «Es como si ese par de salvajes estuvieran teniendo razón y los civilizados no.
Saber leer y escribir, usar saco y corbata, haber ido al colegio y vivido en la ciudad, ya no sirve. Sólo los brujos
entienden lo que pasa» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 189). La violenza scatenata dal diffondersi della
paura e della superstizione è quasi contagiosa. La ragione non può che soccombere in mezzo a tale caos. Alla
fine della sua indagine Lituma sapendo che Dionisio e Adriana non potranno essere arrestati e che la violenza
non potrà essere interrotta, dovrà ammettere che:

«Me arrepiento de haberme entercado tanto en saber lo que les pasó a ésos. Mejor me quedaba
sospechando» (VARGAS LLOSA M. 2006 [1993]: 311).

La proposta di Llosa è chiara: solo la società nel suo complesso può porre rimedio a situazioni simili,
propiziando l’integrazione e la normalizzazione di quelle realtà marginali che favoriscono il nascere di questi
fenomeni. Come scrive in un saggio del 1992:

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«Sólo se puede hablar de sociedades integradas en aquellos países en los que la población nativa
es escasa o inexistente. En las demás, un discreto, a veces inconsciente apartheid prevalece. En
ellos, la integración es sumamente lenta y el precio quel el nativo debe pagar por ella es altísimo:
renunciar a su cultura –a su lengua, a su creencias, a sus tradiciones y usos— y adoptar la de sus
viejo amos. Tal vez no hay otra manera realista de integrar nuestras sociedades que pidiendo a
los indios pagar ese alto precio; tal vez, el ideal, es decir, la preservación de las culturas
primitivas de América, es una utopía incompatible con otra meta más urgente: el establecimiento
de sociedades modernas» (VARGAS LLOSA M. 1992: 811).

A partire da Lituma en los Andes, la critica al concetto di utopia arcaica e alle varie forme di indigenismo sparirà
per un po’ dalla narrativa dell’autore, ricomparendo solo più avanti con toni decisamente più tenui e smorzati
in due romanzi pubblicati dopo il 2000; El paraíso en la otra esquina (2003) e El sueño del Celta (2010). Due opere
dove a partire dalle figure storiche di Paul Gaugain e di Roger Casement, l’autore ci offre le parabole di due
spiriti libertari e sognatori che pagarono con la vita per avere seguito il folle miraggio di utopie che loro stessi
si erano fabbricati per sfuggire dalla realtà.

Non vogliamo con questo giudicare le posizioni dell’autore riguardo i rapporti tra culture tradizionali e
modernità. Siamo dell’opinione che altri abbiano già adempiuto adeguatamente a questo compito. Non
vogliamo neanche, nel breve spazio di questo intervento, proporre un’interpretazione dell’intera opera
dell’autore. Le opere letterarie, e soprattutto quelle di uno scrittore come Vargas Llosa, sono realtà troppo
complesse e ricche per potere essere comprese esaustivamente attraverso un’unica chiave interpretativa. Il
nostro scopo è stato quello di esplorare una delle tante linee tematiche che si offrono al critico. Abbiamo
voluto rintracciare, e seguire la nascita e lo sviluppo di un’idea, di un tema, di uno di quei “demonios” di cui
parla l’autore in tanti dei suoi testi teorici, e analizzare le dinamiche e i meccanismi con cui esso si è espresso e
si è manifestato nella sua opera narrativa.

Bibliografia
KOKOTOVIC Misha, 2006, Modernidad andina en la narrativa peruana: conflicto social y transculturación,
Latinoamericana Editores, Berkeley-Lima.
PORTUGAL José Alberto, 2003, Miguel Gutiérrez y Mario Vargas Llosa: el amargo sueño de la utopía, pp. 53-70, in
Cecilia MONTEAGUDO (Editor), Del viento, el poder y la memoria: materiales para una lectura crítica de Miguel
Gutiérrez, Fondo Editorial de la Pontificia Universidad del Perú, Lima.
VARGAS LLOSA Mario, 1987 [1981], La guerra del fin del mundo, Seix Barral, Barcelona.
VARGAS LLOSA Mario, 2003 [1973], Pantaleón y las visitadoras, Punto de lectura, Madrid.
VARGAS LLOSA Mario, 2004, Palabras de clausura: discurso, pp. 123-128, in Las amenazas a la democracia en América
Latina: terrorismo, neopopulismo y debilidad del Estado de derecho: seminario internacional: Bogotá, 6 y 7 de noviembre de
2003, Fundación Internacional para la Libertad/Instituto de ciencias políticas, Bogotá.
VARGAS LLOSA Mario, 2006 [1993], Lituma en los Andes, Planeta, Barcelona.
VARGAS LLOSA Mario, 2008 [1984], Historia de Mayta, Punto de lectura, Madrid.
VARGAS LLOSA Mario, 2008b [1967], La casa verde, Punto de lectura, Madrid.
VARGAS LLOSA Mario, 2008c [1987], El Hablador, Seix Barral, Barcelona.
VARGAS LLOSA Mario, 2008d [2003], El paraíso en la otra esquina, Punto de lectura, Madrid.
VARGAS LLOSA Mario, 2010, El sueño del Celta, Alfaguara, Buenos Aires.
VARGAS LLOSA Mario, El nacimiento del Peru, “Hispania”, vol. 75, n. 4, 1992, pp. 805-811.
VICH Víctor, 2002, El caníbal es el Otro, I.E.P. Istituto de Estudios Peruános, Lima.

Sitografia
VARGAS LLOSA Mario, 1983, Informe de la comisión de Uchuraccay,
http://www.geocities.com/javi270270INFORMEVLL.htm, 5/4/1977.

Immaginario e memoria: studi culturali

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