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Splendore e percezione della forma nell’Estetica

Teologica di Von Balthasar


Di Maurizio Buoni C. P.
Introduzione

Poco prima della morte, in una intervista postuma, H. Marcuse


lasciava un messaggio alle nuove generazioni: “è l’eredità che
lascio alla soglia degli anni terribili che si annunciano. I
giovani devono capire che bisogna recuperare al più presto i
valori estetici. Non si devono rifiutare, in nome della violenza
astratta e feroce, l’amore e la visione poetica, lirica del mondo,
qualificando l’arte, la cultura, lo spirito come cose reazionarie.
È una vera e propria aberrazione. Se si è arrivati a questo punto
è perché da un secolo ci si è dimenticati della dimensione
estetica, la sola che possa assicurare la rivoluzione del XX
secolo, la sola che sia in grado di galvanizzare un mondo avido di
pensare, amare, contemplare"1.
Su quest'ultima prospettiva di Marcuse le interpretazioni sono
state diverse: riscoperta di una più ricca pluridimensionalità
dell'uomo, rifiuto della ripetizione, irruzione del bello come
preannuncio di un orizzonte radicalmente "altro" e diverso da
quello dell'economia e della sociologia, presenza di un più
profondo senso tragico della vita, ritrovato legame con Horkeimer
(con la tarda esaltazione del Totalmente Altro), e Adorno (la
concezione del bello come preludio di felicità)2. È vero: Marcuse
non esce dallo spazio tradizionale del suo filosofare, carente di
una fondazione propriamente metafisica. Ma non è forse in sintonia
con una pungente nostalgia dell'uomo contemporaneo? "Attendo che
la bellezza venga ad illuminare un giorno i muri sordidi della mia
quotidiana prigione", così E. Ionesco, inquieto cercatore di
luce3.
Le celebri parole di Dostoewskij richiamano la sua affermazione
sulla "bellezza che salverà il mondo". La frase non è il facile
slogan di un esteta; è, invece, tra le più pregnanti di questo
infaticabile scavatore del dramma umano. Non ne cerchiamo i
significati reconditi, la ricordiamo solo come un'intuizione
vicina alle nostre ansie e alle nostre domande: tanti aspetti
della nostra storia, nel bene e nel male, erano già dentro le sue
parole4.
È proprio nella dimensione della bellezza, che si offre a noi
gratuitamente, che parte la direzione della nostra ricerca, che
intende porre in evidenza un elemento della bellezza stessa tanto
chiaro, ma che nel corso dei secoli è rimasto uno dei più oscuri:
lo stupore della luce. La luce come luogo della rivelazione
dell'assoluto dove tutto trova la sua armonia e dove lo stesso
spazio illuminato fa emergere le varie forme create a immagine e
somiglianza di Dio.
Il nostro intento è quello di operare una lettura estetica a
partire dalla luce, vista come il contesto in cui la bellezza si
offre nella sua manifestazione eventica, ed anche come ciò che ci
permette di cogliere la stessa bellezza.
In un primo momento ci soffermeremo sulle caratteristiche
fondamentali dell'Estetica teologica di Balthasar. Il lavoro del

1
teologo elvetico ha inizio con un'operazione imprescindibile:
coniugare la gloria con la bellezza. La gloria suscita
soddisfazione, ammirazione, meraviglia, a volte rispetto e timore,
ovvero desta emozioni. I sette volumi, che trattano diffusamente
tale sforzo, protrattosi per un decennio, trovano nel fulcro
cristologico l'opera centrale di Dio, l'evidenza oggettiva che con
la sua luce rischiara l'evidenza soggettiva, vale a dire la fede.
Nel secondo momento evidenzieremo i tratti più suggestivi del suo
pensiero teologico, che ha tentato di percorrere provocatoriamente
la strada estetica, tenendo conto in modo particolare del primo
volume della sua Trilogia, La percezione della forma, per
cogliervi quegli elementi che ci permettono di vedere la via della
rivelazione sotto l'aspetto dominante della luce che, oltre ad
offrire la possibilità di una nuova lettura della bellezza, ci
mostra anche una realtà etica: la verità e la bontà della
rivelazione stessa. Nella croce il Dio trinitario, assumendo il
massimo della ricettività umana, mostra la sua verità che deve
risplendere per illuminare l'umanità immersa nella morsa del
peccato e delle tenebre. Come scrive Balthasar: "Questa parola
dell'amore deve essere una parola che genera luce e che deve
essere da tutti vista "volgeranno lo sguardo a colui che hanno
trafitto" (Zc. 12,10), perché saranno attratti dalla luce dei
Crocifisso stesso che mostra una bellezza inconsueta, che vince la
bellezza mondana, perché perde la sua stessa bellezza. In questo
paradosso inspiegabile il dolore è vinto dall'amore e le tenebre
sono rotte dallo squarcio di luce del Crocifisso che domina la
scena di questo mondo invocandone il cambiamento"5.
Prendendo il "bello" trascendentale, peculiare proprietà
dell'essere e inseparabile dalle altre sue determinazioni di vero
e buono, Balthasar intende il suo discorso tematico sulla gloria
di Dio. Il cristiano ha "il compito di realizzare e di vivere
anche oggi la segreta esperienza dell'essere per divenire il
custode responsabile della gloria" del Dio vivente apparsa
visibilmente in Gesù di Nazaret. Ma siccome la trattazione
rigorosamente teologica della gloria della rivelazione cristiana è
inseparabile da un riferimento costante alla metafisica da qui il
compito, del cristiano, di essere egli stesso il "custode della
metafisica". Egli filosofando in base alla fede "è e resta il
custode della meraviglia metafisica con cui comincia la filosofia
e nella cui persistenza la filosofia sussiste e vive". L'origine e
il punto culminante della contemplazione di questo stupore è Dio
stesso, la sua bellezza, ossia la sua gloria che è amore. "La
bellezza viene dall'amore, perfino il volto di Dio ha dell'amore
la sua amabilità, se no non ha splendore"6.

1. Fondamenti filosofici e teologici dell'estetica teologica

Cogliere l'estetica nei suoi risvolti metafisici, significa


volgere lo sguardo non ad una metafisica che pensa l'essere come
fondamento o assenza di fondamento, ma pensarla come dono che
viene offerto, che può anche sparire nel momento in cui tale dono
non è accolto. In questa dimensione possiamo cogliere la via

2
estetica come donazione che ha vissuto nella storia momenti di
accoglienza e di non accoglienza: "Nell'apparizione e nel ritorno
a sé del fondamento noi siamo al di là di ogni costrizione, nella
libertà dell'autodonarsi e dell'essere donati, che deve essere e
restare il mistero eterno rivelato a se stesso [...]. Ma il
fondamento vuole se stesso solo nell'apparizione, e la luce e la
misura che si danno quindi fra i due sono quanto di più manifesto
e misterioso c'è al tempo stesso: essere come grazia, gratuità,
bellezza, amore"7.
La ricerca del fondamento estetico come gratuità, grazia,
bellezza, e amore, ci condurrà sui sentieri della luce, e
Balthasar ci aiuterà a comprendere che dar luogo ad un'estetica
teologica: "non è riportare semplicemente nella teologia le
categorie di un campo essenzialmente estraneo, come ad esempio
della comprensione religiosa del mondo che avevano i greci.
Significa invece unicamente partire dal principio fondamentale
che, come questa rivelazione è verità e bontà assoluta, così è
anche bellezza assoluta"8.

1.1. Dio: un difficile incontro

L'esigenza fondamentale e più intima dell'uomo di ogni tempo è


quella di voler incontrare Dio: questa sembra essere l'espressione
più profonda e più significativa dell'avventura umana. È un'ansia
che l'uomo porta dentro di sé, la stessa identica ansia, anche se
nascosta sotto nomi differenti, di poter almeno una volta dire di
aver incontrato Dio nonostante poi la descrizione diventi nebulosa
e oscura.
È, in altri termini, il problema di come ascoltare il messaggio
cristiano, di come poter accreditare il mistero di Cristo alla
cultura del nostro tempo, di come esprimere la fede all'uomo. I
cristiani sanno che il loro annuncio è "scandalo per i giudei e
follia per i pagani" (1 Cor 1, 25), ma non possono fuggire da
questo grandissimo paradosso; se Cristo è realmente ciò che
credono non possono fare a meno di essere trasportati da questa
passione e annunciarlo agli uomini.
È un fatto: la recezione del cristianesimo non è più la stessa.
Non certo perché è cambiato Gesù Cristo, egli è sempre, come nella
primitiva predicazione apostolica, Cristo, Signore, Logos-Verbo,
Salvatore9, ma è l'uomo della nostra cultura che si è
disaffezionato e disinnamorato di questa presentazione. Sembra che
il cristianesimo sia stato messo fuori gioco, che ci si trovi
davanti ad una apparente inconciliabilità dell'antropologia con la
rappresentazione scritturistica e la formulazione dogmatica. Come
spiegare questo silenzio di Dio se non come una mutata posizione
dell'uomo rispetto al mondo10?
Due tappe particolari sembrano segnare il cammino, oggi non più
praticabile, con le quali l'uomo tentava di spiegare la presenza
di Dio.
1. Il tempo mitico: con esso si voleva rendere credibile e
accettabile il messaggio cristiano situandolo sullo sfondo della
religione naturale11. Questa prospettiva, particolarmente cara ai

3
Padri, concepiva il cristianesimo come completamento della
religione naturale. I vari "logoi sphrmatikoi" che davano
frammentarietà e molteplicità al cosmo, ritrovavano nella
interpretazione del "logo_ sarx", nel Verbo fatto carne, tutta la
loro unità e l'intera sintesi. Una simile concezione, facilmente
concretizzabile per i Padri, era possibile proprio perché essi
formulavano un'identità tra filosofia e teologia; l'ordine
naturale cioè era in perfetta identità con quello soprannaturale;
i due ordini avevano alla base una concezione profondamente
unitaria12.
Modificandosi la visione del cosmo però veniva a modificarsi, di
conseguenza, tutta la costruzione che su esso il cristianesimo
aveva creato; quella metodologia pertanto era valida fino a quando
l'uomo considerava il mondo come una realtà che avesse in sé
condizioni sacre. Oggi questo non sarebbe più né valido né
attuabile; l'uomo, infatti, non è più portato ad elevarsi per
contemplare le bellezze del creato come epifania di Dio, ma è
piuttosto rivolto ad esse per vedervi una materia capace di essere
strumentalizzata e dominata dalla sua avanzata tecnologia.
2. Il tempo filosofico: l'uomo viene qui a trovarsi al centro di
tutto il creato; egli assume il ruolo di partner privilegiato di
un dialogo tra l'Assoluto e l'Umanità, si concepisce come sintesi
di tutto l'universo e come punto di confine tra Dio e il mondo13.
Ne scaturisce che tutta la rivelazione, per poter essere accettata
dalla ragione, dovrà essere interpretata a partire dalla natura
umana. La filosofia diventa unicamente antropologia e la teologia
premessa per lo svolgimento ulteriore di una nuova antropologia;
l'uomo si sostituisce a Dio, anzi quest'ultimo diventa una
"ipotesi inutile" che può solo "alienare" e angosciare l'esistenza
dell'uomo che si sentirà continuamente oppresso da questa idea che
lo allontana dall'affrontare la reale situazione del mondo14.
Anche questa prospettiva oggi non è più perseguibile: la filosofia
ha limiti determinati dalla sua natura e dalla sua stessa
struttura; essa potrà delineare un'antropologia o una psicologia
(intesa come dottrina del comportamento individuale) o una
sociologia (intesa come una dottrina sul comportamento
collettivo)15, ma non potrà essere in grado di motivare il valore
eterno e insostituibile che la persona possiede.
Se poi si volesse interpretare la rivelazione in questa
prospettiva, allora si cadrebbe in un inevitabile riduzionismo; si
priverebbe, infatti, la Scrittura e la salvezza della loro
trascendenza e si toglierebbe loro qualsiasi possibilità per
essere percepite come dono gratuito dell'amore di Dio.
Come si potrà riportare Dio all'uomo? Cosa dovrà fare il credente
perché il messaggio cristiano sia accettato dai suoi
contemporanei? Come potrà la teologia presentare la credibilità
del kerigma senza tradire il kerigma stesso? "C'è una via d'uscita
tra l'estrinsecismo di Scilla e l'immanentismo di Cariddi?"16. Un
tentativo si può compiere anche se la strada che si vuole seguire
è pericolosa, ma non per questo impraticabile17.
Bisognerà ritornare alla fonte originaria della filosofia dove i
tre trascendentali, verum-bonum-pulchrum, erano tra loro
inscindibili. Sarà necessario compiere il passo decisivo,

4
importante e fondamentale, quello di assumere l'estetica come
metodo. È un cammino che ha lasciato nella Chiesa un solco
talmente profondo e penetrante che si è sempre avuta una visione
unilaterale e parziale della teologia quando ci si è dimenticati
di voler fare entrare in essa il pulchrum:

"Non si tratta quindi, a motivo di una vaga e nostalgica


malinconia; di far scivolare (la teologia cristiana) o, una
carreggiata laterale, tranquilla e poco frequentata. Si tratta
piuttosto di riportarla sulla strada principale, abbandonata,
senza per questo voler affermare che la prospettiva estetica debba
sostituire, per il futuro, nella conduzione della teologia, quella
logica ed etica. I trascendentali infatti non sono assolutamente
separabili e la dimenticanza di uno di essi non può che avere un
effetto distruttore sugli altri. È meglio quindi, proprio per
l'interesse comune non bollare a priori questo tentativo - di più
esso non può e non vuole essere - come "estetismo", per
sbarazzarsene subito, ma cercare, in primo luogo, di prestare
ascolto a ciò che esso vuol dire"18.

1.2. Perché la scelta del "pulchrum"

"Ciò che è bello appare beato in se stesso"19. Il pulchrum, in


quanto tale, si presenta come un fenomeno che si sottrae sempre
alla determinazione, ma che tuttavia resta sempre oggetto di
speculazione e di indagine. Esso è capace, proprio a causa della
sua sovranità e non disponibilità alle leggi razionali dell'uomo,
di spezzare ogni costrizione delle leggi tecniche ed economiche ed
è in grado, più di ogni altro, di indicare le varie lacune
metafisiche dell'interpretazione del cosmo. Proprio a partire dal
pulchrum Balthasar cerca di delineare la sua prima sintesi
teologica:

"La parola con la quale, noi diamo inizio ad una sequela di studi
teologici, è una parola con la quale l'uomo filosofico non
inizierà mai, ma con la quale piuttosto porrà fine alle sue
riflessioni; una parola inoltre che non ha mai posseduto nel
concerto delle scienze esatte un posto e una voce durevoli e
garantiti; una parola che quando è stata scelta come tema da parte
di queste scienze sembra tradire nel consesso di queste
indaffaratissimi specialisti, un dilettante stravagante e ozioso;
una parola infine dalla quale nell'epoca moderna, mediante
energiche delimitazioni di frontiere, hanno preso le loro distanze
sia la religione che, in particolare la teologia: in breve, una
parola anacronistica per la filosofia, la scienza e la teologia,
che non può quindi oggi essere in nessun modo sfoggiata e con la
quale si rischia di non trovare ascolto da nessuna parte. Se il
filosofo non può cominciare con questa parola, ma tutt'al più
(qualora non se ne sia scordato per strada) finire con essa, non
dovrebbe il cristiano, proprio per questo motivo, sceglierla come
sua parola iniziale? La nostra parola iniziale si chiama bellezza
è l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di
pronunciare, perché essa non fa altro che coronare, quale aureola

5
di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e
il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata
senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma ha
preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi,
per abbandonarlo alla sua cupidità e tristezza. Essa è la bellezza
che non è più amata e custodita neppure dalla religione ma che,
come maschera e strappata al suo volto mette allo scoperto dei
tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini.
Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui
abbiamo fatto un'apparenza per potercene liberare a cuor leggero.
Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per
lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e
della bontà, essa non si lascia ostracizzare e separare da queste
sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta
misteriosa"20.

1.2.1. Premesse bib1ico-teologiche

Alcuni testi particolari aiutano a comprendere maggiormente


l'impostazione che Balthasar dona alla sua opera, ma la
specificità di questi non deve allontanarci dalla visione globale
che si ritrova in tutta la Scrittura dove, sia il racconto mitico
che sapienziale che storico, è fin dalla sua struttura esterna,
elemento poetico: "occorre che noi, a guisa di una notazione
previa, riandiamo alla Scrittura che se non nella totalità, è
tuttavia in misura prevalente un libro poetico. È, necessario
quindi superare i limiti imposti dal metodo filologico-
archeologico nell'interpretazione dei testi sacri, perché qui
viene usata, come strumento di comunicazione, la poesia, forma
espressiva più antica dell'umanità"21.
C'è un'estetica teologica nell'Antico Testamento dove il rapporto
nuziale tra Dio e il suo popolo viene presentato al mondo intero
come dialogo di amore e di intimità. La stessa immagine la
ritroviamo nel Nuovo Testamento, ma la presenza della Parola di
Dio che si fa carne dà un contenuto nuovo ad ogni cosa e
l'immagine stessa ne risulta notevolmente differenziata dalla
presentazione precedente: "mentre nell'Antico Testamento la
designazione di Israele come Sposa era rimasta soprattutto
un'immagine etico-giuridica, condizionata dal rapporto personale
dialogico e dalla fedeltà rispettivamente promessa e sperata dai
contraenti il patto, nel Nuovo Testamento questa designazione
diventa radicalmente diversa a causa dell'incarnazione della
Parola"22.
Grande esempio di contemplazione e sensibilità estetica
veterotestamentaria ci è dato dai libri sapienziali dove
s'intravvede lo Spirito che riflette su se stesso. Come oggetto di
lode egli non prende solo i fatti storici del passato, ma anche la
gloria della creazione naturale, la situazione e i sentimenti
dell'uomo mortale e soprattutto la stessa sapienza che è cosciente
di "autogloriarsi" espressamente. L'autocontemplazione della
sophia diventa "glorificazione": "Essa è perciò, alla sua maniera,
altrettanto profetica e poetica quanto la rivelazione di Dio nella
storia, nella natura e nella vita umana, da essa cantata"23.

6
Un testo chiave è dato dal brano di 2 Cor 3, 18: "e noi tutti, a
viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del
Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di
gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore". Il
contesto di questa pericope è un confronto che troviamo descritto
nei vv. 7-15: la gloria che risplendeva sul volto di Mosè è
contrapposta alla gloria che si incarna in Cristo; l'una è
"effimera" e "passeggera", l'altra "sovraeminente" e "duratura".
In Cristo splende la gloria oggettiva di Dio, essa è il kabôd
definitivo, inviato e chiamato a coprire con la sua ombra il
tabernacolo di tutta la creazione.
A differenza di Mosè che portava il volto coperto (Es 34, 33) i
cristiani, che vivono del "ministero dello Spirito" (v. 8), uniti
a Cristo riflettono loro pure la gloria di Dio; il privilegio che
un tempo era solo di Mosè, con Cristo è diventato di tutti i
credenti. A partire da 2 Cor 4, 6 in cui Cristo concretizza in sé,
in modo totale e definitivo, la gloria di Dio sarà possibile
formulare una teologia che abbia alla base l'estetica come suo
metodo perché "la conoscenza della gloria divina risplende sul
volto di Cristo"24.
Altre premesse sono più tipicamente patristiche; non possiamo
dimenticare infatti che la formazione teologica di Balthasar ha lo
studio e la traduzione dei Padri. Costoro "hanno considerato la
bellezza come un trascendentale e hanno sviluppato una teologia
coerente con questa convinzione. Questo presupposto ha segnato in
maniera profondissima il modo e il contenuto del loro lavoro
teologico, giacché una teologia del bello non può essere
sviluppata altrimenti che in modo estetico. La specificità
dell'oggetto deve imporsi già attraverso la specificità del
metodo"25.
Sono particolarmente Ireneo, Dionigi, Massimo il Confessore e
Giovanni della Croce i punti di riferimento costanti che Balthasar
richiama continuamente per giustificare la scelta dell'estetica:
"nell'analisi dell'Aeropagita e di Giovanni della Croce26, i
teologi più attaccati al metodo apofatico, apparirà come essi non
lo isolano mai da quello catafatico e possono tendere in alto la
verticale, proprio perché non abbandonano mai l'orizzonte. È
questo il motivo per cui sia l'uno che l'altro possono essere
fatti valere come i più forti teologi estetici della storia
cristiana"27. Ma è soprattutto a Dionigi l'Aeropagita che
Balthasar si richiama per mostrare la dimensione complementare di
bellezza e amore28.

1.2.2. Premesse filosofiche

Due elementi caratteristici determinano, dal punto di vista di


riflessione filosofica, i vari momenti dell'estetica. Balthasar si
richiama qui espressamente ad Agostino, a Bonaventura e a
Tommaso29; egli compie un tale processo di integrazione tra il
dato filosofico in quello teologico che ne risulta una sintesi
talmente originale che non ha precedenti nel campo della teologia
cattolica.

7
"Distingueremo, nel bello, due momenti per rapportarli
vicendevolmente. Questi due momenti, che hanno determinato a
partire da sempre ogni estetica, possono essere contrassegnati con
Tommaso d'Aquino come forma e splendore: species (o forma) e lumen
(o splendor)"; e ancora: "le parole che tentano di esprimere il
bello ruotano, in primo luogo, attorno al mistero della forma o
della specie. Formosus proviene da forma, speciosus da species.
Immediatamente però si pone la questione sul "grande splendore che
irraggia dall'intimo" e rende speciosa la species: splendor. Nello
stesso istante si ha la specie e ciò che irraggia da essa
facendola preziosa e degna di essere amata"30. Sarà allora
necessario chiarificare innanzitutto i due concetti di forma e
lumen.
Gestalt è ciò che esprime l'assoluto, che lo rivela partendo da sé
e rimandando ad una profondità che essa esprime. "Esso (il
concetto di Gestalt) intende una delimitata totalità, come tale
concepita, di parti e di elementi, e riposante in se stessa, che
però per la sua consistenza ha bisogno non soltanto di un ambiente
(Umwelt)", ma dell'essere nel suo insieme e in questo bisogno essa
è una (come dice il Cusano) "contratta" rappresentazione
dell'assoluto" in quanto anch'essa, nel suo piccolo campo,
trascende e domina le parti in cui si articola"31.
Si dovrà pertanto dedurre da questo che più la Gestalt è pura
tanto più il suo rinviare al mistero dell'essere che possiede sarà
grande e, in una applicazione più particolarmente teologica, si
dovrà affermare che "quanto più un essere è spirituale e autonomo,
tanto più sa in se stesso di Dio e tanto più chiaramente rimanda a
Dio"32.
In altri termini diremo che: come Gestalt il bello può essere
afferrato materialmente, " anzi può essere calcolato come rapporto
di numeri, come armonia e legge dell'essere"33, ma non può essere
limitato a misura matematicamente comprensibile; Gestalt infatti
non sarebbe bello se non fosse " elementarmente l'indice e
l'applicazione di una profondità e di pienezza che, se presa
astrattamente e in sé, rimane inafferrabile e invisibile"34.
Ogni qual volta si è voluto togliere questa dimensione essenziale
all'essere si è caduti, nel campo dell'applicazione estetica, in
una "disestetizzazione della teologia"; questa trova il suo punto
culminante nella formulazione protestante che vuole vedere la
totalità del bello esclusivamente nella "irruzione della luce"35.
Eccezione è fatta per K. Barth il quale, sulla scia di Anselmo e
staccandosi decisamente da tutta la tradizione luterana, riscopre
nella contemplazione della "essenza di Dio", "della Trinità" e
"dell'Incarnazione", i tre momenti particolari della bellezza
nella teologia36. Balthasar si trova a suo agio in questa
interpretazione e può indubbiamente fare suo il culmine della
riflessione barthiana sotto questo aspetto: "Dio non è Dio perché
bello, egli è bello perché è Dio"37.
Il secondo concetto che dobbiamo prendere in esame è quello di
splendor, lumen, intimamente connesso con quello di Gestalt. Esso
si presenta come il continuo rapporto tra soggetto e oggetto: "ciò
che è oggettivamente armonico deve corrispondere ad un bisogno
soggettivo e da entrambi deve risultare una nuova armonia più

8
alta, la soggettività nel suo presagire e con la sua facoltà
immaginativa deve trovare espressione liberatrice in una opera
oggettiva e in essa ricuperare se stessa"38.
In altri termini, forse più adattati ad una problematica teologica
ritroviamo quanto era già esposto in un "saggio" dell'inizio del
lavoro di von Balthasar: Die Wahrheit39; dove, nella ricerca di
un'unità dei tre trascendentali40, egli mostra chiaramente la
dialettica di un continuo rivelarsi e nascondersi della realtà
dell'essere:

"in realtà l'essere non acquista una profondità se non divenendo


interiormente luminoso e arricchendosi di una sfera intima, di una
interiorità, in breve passando (o meglio avendo già sempre
passato) dal semplice "essere-per-sé" superficiale alla profondità
e all'interiorità dell'"essere-per-sé". Solo quando la profondità
si esteriorizza e si presenta in una apparizione diventa veramente
profondità (Grund) cioè qualcosa che acquista profondità nel
momento stesso in cui si inizia a misurare la profondità stessa.
Si vede così che in questo movimento di apertura di sé, la
profondità è sempre lo scopo ultimo di questo movimento; perché
solo l'essere realmente esteriorizzato ha trovato se stesso e
conoscendo la propria profondità per presentarsi agli altri"41.

L'essere tuttavia che è nella sua profondità misterioso e sublime


trova nello stesso tempo la sua piena espressione nella bellezza:
"la bellezza è la pura luminosità del vero e del bene [...] è la
comunicazione che poggia su se stessa [...] e infine una gioia
indescrivibile che è al di sopra di tutte le cose e che partecipa
alla gioia insondabile della luminosità originale dell'essere"42.
In tutto si nota però la stretta dipendenza da Tommaso a cui
Balthasar più volte esplicitamente si richiama. Tommaso deve aver
ascoltato la presentazione del pensiero estetico di Dionigi fatta
da Alberto Magno a Colonia dal 1248 al 1252; pur non avendo
formulato un'estetica sistematica, Tommaso non ne sentiva il
bisogno specifico in quanto gli era connaturale e spontanea una
visione del mondo in termini di bellezza43; egli fissa tuttavia i
criteri necessari per una corretta interpretazione estetica. Col
termine di forma infatti viene inteso da Tommaso il principio
strutturale della cosa, l'entelechia aristotelica e, in termini
più estetici dovremmo identificare la forma come la perfezione, la
determinazione della cosa che è pur sempre composta di materia, ma
non tuttavia riducibile ad essa. In altri termini: con l'ens
abbiamo la cosa strutturata e concreta, l'organismo retto da un
rapporto che informandolo, lo fa essere; questo organismo così
concepito è forma nel suo aspetto strutturale, al di fuori della
dipendenza ontologico-metafisica. "Ora quella bellezza che
s'identifica con la perfezione stessa della cosa, che riposa sulla
concretezza dell'atto di esistere, che si identifica con la
pienezza dell'essere, tanto da essergli trascendentalmente
indisgiungibile, non può non riposare sulla sostanzialità"44.
Avremo quindi necessariamente bisogno, per Tommaso, di un
organismo che sia strutturato in modo tale da essere integro e
proporzionato (proportio sive consonantia).

9
Altro termine usato da Tommaso, anche nelle accezioni più
disparate, è quello di splendor, lumen, claritas che non è da
interpretare come integrità o come proporzione, ma è il principio
comunicativo della forma che si realizza nel rapporto di
visualizzazione dell'oggetto.
Diremo così, concludendo, che per Tommaso la cosa è
ontologicamente disposta ad essere giudicata bella, ma per essere
tale necessita di una focalizzazione tra oggetto e soggetto in
modo tale che quest'ultimo possa essere messo in stato di
contemplazione45.

1.3. Peculiarità dell'Estetica Teologica

Possiamo ora delineare, nelle sue caratteristiche essenziali,


l'estetica teologica di Balthasar: egli parte dall'uomo che
contempla Dio, o meglio la gloria di Dio che si manifesta nella
persona di Cristo. Partendo dall'uomo che contempla la bellezza,
il teologo svizzero fonda giustamente l'estetica teologica
evitando il pericolo di formulare una teologia estetica, che
sarebbe stata tale se punto di partenza fosse stato Dio e non
l'uomo.
Il bello quindi appare all'uomo, egli lo può percepire quanto
rinviato dalla forma stessa alla profondità che essa contiene e,
in questa dinamica, è portato inevitabilmente ad essere rapito in
modo estatico per la contemplazione del bello stesso.
"L'apparizione (Erscheinung), come rivelazione della profondità, è
indissolubilmente e, allo stesso tempo, presenza reale della
profondità, del tutto, e rimando reale, al di là di se stessa, a
questa profondità. Noi "scorgiamo" la forma ma quando la scorgiamo
realmente, non solo come forma disciolta, bensì come profondità
che si manifesta in essa, allora la vediamo come splendore e
gloria dell'essere. Guardando questa profondità siamo "incantati"
da essa e in essa "rapiti", ma (fin quando si tratta del bello)
mai in modo tale da lasciare dietro di noi la forma (orizzontale)
per immergerci (verticalmente) nella nuda profondità"46.
Primo termine fondamentale per comprendere l'estetica teologica di
Balthasar è quello di "percezione" (Wahrnehmung) con la
conseguente "dottrina della percezione" (Erblickungslehre)47, esso
ruota intorno all'interrogativo costante di come l'uomo possa
entrare in comunicazione con Dio, e come possa percepire la sua
azione salvifica. Estetica in questo contesto è usata in senso
kantiano come intuizione sensibile dell'uomo, attività che è
movimento del soggetto verso l'oggetto percepito in cui il
soggetto stesso impegna tutte le sue attività48. A partire da qui
la bellezza manifesta una profondità che le è essenziale.

"Per vivere nella forma originaria occorre averla intravista.


Occorre avere un occhio dell'anima capace di percepire nel
rispetto profondo, le forme dell'esistenza. (Quale parola:
percezione, Wahrnehmung, cioè capacità di cogliere il vero! Ma
cosa ne ha fatto la filosofia: il contrario di ciò che esprime la
parola tedesca!). Non si tratta di atti puntuali, isolati nei

10
quali l'uomo, come con uno spillo, possa perforare la nebbia che
avvolge l'annichilimento e la quotidianità della sua esistenza
fittizia, per aprirsi un forellino verso cui scorge l'assoluto; in
questo modo egli non riuscirebbe a salvare la sua dignità perduta.
Si tratta piuttosto di una forma vitale disposta, e quindi capace,
a conferire nobiltà alla sua stessa quotidianità. Ma ancora una
volta: l'uomo ha bisogno per questo di possedere occhi capaci di
scorgere la forma spirituale"49.

La percezione impegna, quindi, l'uomo ad entrare in sintonia con


ciò che viene percepito per poter compiere il secondo momento,
inscindibile da questo primo appena descritto; il momento cioè in
cui si viene rapiti nella contemplazione estatica del bello. È
necessario quindi che in questo primo momento l'uomo usi "una tale
semplicità di sguardo" che permetta la decisiva "percezione del
vero"50. "A partire da qui bisogna guardare il punto più alto: la
forma della rivelazione divina nella storia della salvezza fino a
Cristo e a partire da lui. Qui, ancora una volta, si richiede uno
sguardo più affinato e non è da nutrire eccessiva speranza che
questi occhi nuovi ci siano comunicati e ci vengano aperti se
prima non abbiamo già imparato a contemplare con gli occhi vecchi
la forma dell'essere. La soprannatura non serve a sostituire ciò
in cui noi siamo falliti con le nostre capacità naturali. Gratia
perficit naturam, non supplet"51.
È il passo necessario per descrivere il secondo termine chiave
dell'estetica: estasi (Entrückung). "Solo ciò che ha forma può
trasportare e rapire nell'estasi; solo attraverso la forma può
guizzare il lampo della bellezza eterna. Si dà il momento in cui
la luce prorompente, lo spirito zampillante, irradiano la forma
esteriore e dalla maniera e dalla misura in cui ciò avviene,
dipende se è bellezza "sensibile" o "spirituale", grazia o dignità
- ma senza la forma l'uomo non può essere afferrato e rapito".
Questo è il momento inevitabile che deve compiere colui che passa
dall'essere "entusiasta della bellezza naturale" all'essere
"estasiato della bellezza cristiana"52; è il passaggio dal confine
della filosofia al campo dominato dalla teologia, da quello
dominato dalla natura a quello della grazia; è l'elevarsi continuo
della creatura,verso la contemplazione del Creatore. "Estasi non
significa alienazione dell'essere finito da se stesso per
ritrovarsi nella sua autenticità oltre se stesso nell'infinito, ma
significa superamento della nostra estraneità davanti all'amore
assoluto in cui l'io (o anche il noi) finito, chiuso in se stesso,
anzitutto e soprattutto vive, significa essere attirati nella
sfera della gloria tra il Padre e il Figlio quale è apparsa in
Gesù Cristo"53.
La conseguente dottrina del rapimento (o ugualmente dottrina
dell'estasi, Entrückungslehre) deve essere compresa non come un
semplice rimando ad una realtà superiore, ma come realtà stessa
presente già nella percezione: "la forma visibile non "rinvia"
soltanto ad un mistero invisibile della profondità, ma ne è
l'apparizione, lo rivela proprio mentre nello stesso tempo lo
nasconde e lo vela"54.

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In una trasposizione teologica, estetica diventa gloria, kabôd;
"autopresentarsi della gloria di Dio, della sua bellezza teologica
"; "estasi deve essere intesa nel Nuovo Testamento come un essere
rapiti dalla gloria di Dio - dal suo amore - in modo da non
rimanere spettatori, ma da divenire collaboratori della gloria"55.
Davanti a tale splendore di gloria l'uomo non viene accecato dalla
troppa luce emanata dalla bellezza divina ma, per grazia, lo
spirito umano diventa capace di resistere davanti alla semplicità
infinita e si pone in stato di contemplazione, di adorazione e
viene così trasformato in credente e discepolo.
Sembra quindi che nella fase dell'estasi si debbano distinguere
due momenti inscindibili tra loro, tanto da farne un unico atto:
l'autopresentazione di Dio e il rapimento dello spirito umano. Non
si può non rivedere così la scena descritta da Paolo in 2 Cor. 12,
2-4: "Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa, - se con
il corpo o fuori del corpo non lo so, Dio lo sa - fu rapito fino
al terzo cielo. E so che questo uomo - se con il corpo o senza
corpo non lo so, Dio lo sa - fu rapito in Paradiso e udì parole
indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare".
Il primo atteggiamento da parte del credente è quello
dell'entusiasmo che costituisce parte costitutiva della
contemplazione: "la dottrina della contemplazione che implica
necessariamente un momento entusiastico"56. E ancora in termini
più chiari dichiara che:

"Mancando questa contemplazione, la rivelazione di Dio


propriamente non sarebbe degna dell'uomo. Essa né distrugge nel
mistero della croce la rivelazione dell'essere (e quindi il
momento estetico), né la sostituisce (in tal caso, infatti,
sarebbe Dio ad abolire il suo disegno cosmico insieme con i
presupposti che ha stabiliti per il suo compimento); invece le
"svolte" i rivolgimenti, in cui Dio, provoca uno choc nell'uomo
peccatore, si velano e si dimostrano un invito e un motivo per
superare con un balzo i limiti di una finitezza rinchiusa su di sé
per entrare in quella manifestabilità e in quell'apertura di Dio,
e cui già rimandava la creaturalità, senza poterle pienamente
elargire"57.

Entusiasmo non deve però essere confuso o frainteso come una


reazione psicologica: "l'entusiasmo inerente alla fede cristiana
non è puramente idealistico, ma è un entusiasmo originato
dell'essere effettivo, realistico e perciò ad esso adeguato"58.
L'entusiasmo di cui si parla nella contemplazione è obbedienza a
Dio attraverso quell'atto di fede che è piena fiducia e amore in
colui che per primo ci ha amati:

"Lo spirito che nasconde in sé Dio (en-thous-iasmos) obbedisce ad


una istanza più alta che implica una forma ed è capace di
realizzarla: allora non è giusto rifiutare una analogia intrinseca
tra le due forme o i gradi di bellezza. È implicito nella natura
della cosa che si dia un progresso autentico dall'entusiasmo come
principio della forma, all'essere inabitati da uno spirito più
alto e che questo progresso, per esprimerci in termini cristiani,

12
con duce nel dominio della fede; nella fede cioè in uno spirito
divino personale ed originario, libero e signore. È proprio della
fede consegnarsi misticamente all'assoluto, non soltanto
originario che supera qualsiasi forma del mondo, la mette in
discussione, la distrugge anzi; è proprio della fede l'affidarsi
piuttosto, contemporaneamente, nella confidenza, al Creator
Spiritus"59.

Entusiasmo quindi è un momento che, teologicamente, abbraccia e


completa tutto l'arco della rivelazione divina all'uomo. Un
secondo momento è quello dell'indifferenza (Indifferenz) intesa
non come apa_eia della gnosi filosofica, come pura contemplazione,
quanto piuttosto ci sembra, nell'interpretazione data da Massimo
il Confessore come libertà assoluta, disponibilità alla fede e
all'amore: "noi cogliamo rettamente la rivelazione nella carne e
nella lettera quando, pur nella finitezza della carne e della
lettera, manteniamo quella disposizione di apertura verso
l'infinità della verità divina, che è una cosa sola con la
pienezza divina del Figlio [...]. Questo atteggiamento di
disponibilità è fede, in quanto poi soggetti portatori di valori,
questa medesima disponibilità è amore"60.
Per comprendere in fondo la portata dell'estetica teologica sarà
necessario vedere, a conclusione, l'inscindibile unità che
intercorre tra dottrina della percezione (Erblickungslehre) e
dottrina dell'estasi (Entrückungslehre); non sono queste realtà
giustapposte, ma un solo atto: "Visione ed estasi non sono una
accanto all'altra, ma una nell'altra"61.
In questo modo si dà alla rivelazione stessa un elemento dinamico;
essa non è statica, ferma, ma è in continuo passaggio che parte
dall'essere percepita, al suo mostrarsi come tale con il rimando
alla sua profondità e al suo contenuto, rapendo l'uomo in
atteggiamento estatico. "Dottrina della considerazione e della
percezione del bello ("estetica, nell'uso che fa del termine la
Critica della ragion pura) e dottrina della forza di rapimento del
bello sono vicendevolmente connesse. Nessuno infatti può percepire
in verità senza già essere stato rapito e nessuno che non abbia
già percepito può essere rapito. Questo vale anche per il rapporto
teologico tra fede e grazia"62.

1.3.1. Estetica e metodo in teologia

Non avremmo completato, anche se sommariamente, la presentazione


dell'estetica teologica se non vedessimo le implicanze che essa
comporta per la teologia in tutto il pensiero di Balthasar.
Cosa debba essere "metodo" in teologia il nostro autore lo dice
espressamente: è atteggiamento semplice, realizzato con gli occhi
della fede63 che permette di concretare sia la percezione che
l'estasi della bellezza divina:

"Diventa chiaro che il metodo teologico una volta presupposti gli


"occhi della fede" in cui avviene questo risplendere - non può mai
essere propriamente deduttivo (perché altrimenti sottometterebbe
la libertà della forma alle leggi del pensiero umano), ma

13
piuttosto induttivo, nel modo proposto da Newman, al punto da
presentare le convergenze delle linee e delle vie di valutazione
nell'unico punto splendente focale dove risplende la gloria. È il
metodo dell'essere semplici di fronte alla semplicità divina. Che
poi adesso si veda soprattutto l'inesprimibile semplicità della
gloria divina riversata su tutta la forma (come riesce soprattutto
a fare la teologia greca che resta perciò prevalentemente
"simbolica" e contempla ogni particolare in trasparenza
sull'infuocato centro dell'epifania di Dio) o che invece si
percorrano con diligenza razionale le vie verso il centro a
partire dalle articolazioni esterne (come ama fare la teologia
occidentale per capire meglio essa stessa e aprire ad altri più
vie alla intelligenza del mistero), in tutti e due i casi i due
metodi devono e possono completarsi a vicenda"64.

Il metodo estetico non è qualcosa di irrilevante, ma si presenta


come l'unico in grado di raggiungere il cuore stesso della
teologia. Sorgente prima dell'estetica infatti, da cui tutto
deriva e a cui tutto tende, è il fatto fondamentale
dell'Incarnazione.

"l'Incarnazione di Dio porta a compimento tutta l'ontologia e


l'estetica dell'essere creato che viene assunto in una nuova
profondità ad espressione e linguaggio dell'essere e dell'essenza
divina a dare testimonianza è Gesù Cristo che, in quanto uomo,
utilizza tutto l'apparato espressivo umano dell'esistenza storica,
dalla nascita alla morte, in tutte le età, le condizioni, le
situazioni individuali e sociali. Egli è ciò che esprime, cioè
Dio, ma egli non è colui che egli esprime, cioè il Padre.
Paradosso incomparabile che sostituisce il punto originario
dell'estetica cristiana e quindi di ogni estetica"65.

L'Incarnazione pertanto, in questa dimensione, non può essere


compresa come un esempio per illustrare una verità; ma è la verità
stessa che si rivela. È dall'Incarnazione che scaturisce la
testimonianza apostolica trasmessa dalla Chiesa nella Scrittura:
"solo a partire da questa immagine, contemplata con gli occhi
della fede, i testimoni oculari hanno dato la loro testimonianza
orale e poi anche scritta"; "l'insegnamento e l'esistenza di
Cristo non potrebbero essere compresi, nella loro forma, al di
fuori di questa sua connessione con la storia della salvezza che
tende a lui"66.
Oggetto specifico dell'estetica quindi è la percezione della
bellezza divina e il suo contenuto è l'amore del Padre che si
concretizza nell'esistenza umana del Figlio che vive rivelando
l'amore trinitario del Padre e dello Spirito Santo67.
Il metodo così concepito viene descritto da Balthasar come un
metodo di "integrazione" in opposizione a quello "evolutivo";
integrazione cioè tra la fedeltà all'evento storico della persona
di Cristo e la sua presentazione secondo le necessità dell'uomo
moderno68.
L'estetica tuttavia non è solo metodo in teologia, ma in certo
qual modo la definisce69, anzi, la teologia è l'unica che possa

14
avere come oggetto il pulchrum; in essa infatti si ritrova quel
processo "dialettico" che permette al pulchrum70 di essere
percepito e di riportare alla profondità che rivela.
La teologia, quindi, si pone al servizio della Scrittura guida la
riflessione della fede e permette un addentrarsi sempre maggiore
nella persona di Cristo che concretizza in sé il culmine di ogni
paradosso: l'inesprimibile infatti diventa parola. Davanti a
questo evento la teologia "costringe" se stessa a mettersi in
stato di adorazione, in ginocchio e diventa teologia apofatica71.
La teologia non può dimenticare neppure per un istante le sue
radici da cui trae la linfa: l'adorazione in cui, nella fede,
vediamo i cieli aperti, e l'obbedienza della vita che ci fa liberi
di intendere la verità72.
Date queste premesse, scaturiscono inevitabili conseguenze per
l'intera struttura della teologia; questa difatti non sarà più
frammentata a secondo delle differenti verità da dimostrare, ma
poggiandosi sull'atteggiamento di percezione e adorazione
dell'unica e complessa verità rivelata, si orienterà in due
direzioni; l'estetica quindi comprende:
1) dottrina della percezione o teologia fondamentale. Estetica
(nel senso kantiano) come dottrina della percezione della forma
del Dio che si rivela.
2) La dottrina del rapimento o teologia dogmatica. Estetica come
dottrina dell'Incarnazione della gloria di Dio e dell'elevazione
dell'uomo alla partecipazione di questa gloria73.
Si presenta, a questo punto, una conclusione metodologica di vasta
portata: l'inscindibile unità tra teologia fondamentale e teologia
dogmatica tra la dottrina della percezione e quella dell'estasi.
Il nostro autore, sotto questo aspetto, non lascia dubbi: Teologia
fondamentale e teologia dogmatica sono inseparabili"74.
La vera teologia quindi, quella dei santi, è quella che si fonda
sull'obbedienza della fede e sull'abbandono fiducioso all'amore,
puntando sempre al centro della rivelazione e indagando, come
pensiero umano, quale problematica, quale metodo speculativo siano
idonei ad illuminare il senso della rivelazione in se stessa.
Ma ogni teologia dovrà pure essere aperta all'uomo, abbracciare
tutto l'uomo nella sua globalità; apertura alla verità e idoneità
a rendere credibile il messaggio cristiano: "qualsiasi concetto
della teologia deve essere cattolico, cioè universale, cioè tale
da rappresentare ogni verità, da attirare in sé o da aprirsi ad
ogni verità, da spezzare i limiti, da risorgere nella verità
celeste, dopo aver attraversata una propria morte. E questo deve
avvenire nella fede, non (hegelianamente - dialetticamente) nel
sapere: o in un sapere che sia esso stesso una fede protesa nella
ricerca e appagata nel ritrovamento secondo la norma
dell'adorazione e dell'obbedienza e della grazia"75.
Non la storia e le sue leggi quindi e neppure la filosofia con i
suoi sistemi, ma la fede stimola la teologia e la rende capace di
inginocchiarsi nell'adorazione e nella kenosi dell'obbedienza.
Definendo la teologia si fissa necessariamente anche il fine e il
lavoro del teologo; egli è colui che di volta in volta applica le
leggi del pensiero umano in modo che la legge della fede vi
risulti più visibile. Dice Balthasar:

15
"Stranamente paradossale è nel mondo attuale la situazione del
teologo. Per vocazione egli è votato allo studio del passato dove
Dio si è manifestato e al di là anche di questo passato dove Dio
si è manifestato al di là anche di questo passato alla
contemplazione dell'Eterno. Ma nella sua esistenza è immerso in un
mondo che vacilla sulle proprie basi e sembra pronto a
sprofondarsi. Pur assorbito che sia nella preghiera e nelle
ricerche professionali, se egli ha conservato qualche libertà per
guardare attorno a sé e per elevarsi abbastanza alto per cercare
di comprendere quanto avviene, non può dubitare che egli
appartiene ad un'"epoca", come diceva Péguy, non ad un
"periodo""76.

Definendo il teologo e il ruolo che questi occupa nella Chiesa


come colui che, adorando e obbedendo, svela nella limitatezza del
pensiero umano le "insondabili ricchezze" della bellezza divina,
Balthasar definisce anche il programma della sua vita come
credente e come teologo.
Leggendo con occhio attento le alterne vicende della nostra storia
e ponendosi la radicale domanda di come poter manifestare nella
nostra cultura la grandezza della bellezza divina, von Balthasar
indirizza se stesso e ogni teologo, all'inno di giubilo come il
luogo privilegiato per una autentica teologia: "poiché solo
l'occhio semplice ottiene di scorgere un barlume della semplicità
infinita. Io ti esalto Padre, Signore del cielo e della terra,
perché hai nascosto queste cose ai saggi e sapienti, ma le hai
rivelate ai semplici"77.
2. Il Tema della luce nell'estetica teologica

Noi a volte vediamo la luce davanti a noi e vediamo un cielo


luminoso senza vedere la luce, e come riusciamo a vedere quella
luce? Forse perché abbiamo anche la luce nel nostro sguardo? Se
questa luce non è contigua allo strumento con il quale noi
guardiamo, allora essa è qualcos'altro? La luce è il luogo in cui
tutto si rivela? La luce è forse una totalità che cancella tutte
le differenze, è una totalità in cui tutte le cose perdono la loro
identità? La luce porta alla comprensione della bellezza?
Partendo da questi interrogativi cercheremo di evidenziare il
problema della luce così come è posto da Balthasar nella sua opera
ed in modo particolare nel primo volume: La percezione della
forma. Rileviamo come tale problema inerente alla luce non trova
in Balthasar il suo precorritore, ma egli è stato uno fra gli
autori che ne ha fatto oggetto della sua riflessione78.

2.1. Luce e bellezza come stile teologico

Esaminando lo stile teologico di Balthasar A. Scola afferma:


"all'irradiarsi assolutamente libero e affascinante della Signoria
di Dio sull'essere, su ogni essere, una Gloria da cui sprigiona
una bellezza che rapisce chi la percepisce. Lo stile per Balthasar
si trova alla confluenza delle categorie tomistiche di species

16
(forma) e di splendor (splendore). Sono i fattori costitutivi del
pulchrum che Tommaso stesso definisce come splendor veri"79.
Uno stile è, propriamente parlando, solo l'espressione (expressio)
dell'impressione (impressio), i termini cui Balthasar rinvia sono
di Bonaventura80, che una forma col suo splendore esercita su chi
la percepisce, il quale a sua volta ne è sempre rapito. Al di
fuori di questo nucleo costitutivo non si dà il bello e, quindi
non si dà stile alcuno. Teologicamente parlando la forma del bello
è la gloria di Dio il cui splendore afferra e rapisce. E la Gloria
di Dio tocca il suo vertice in Gesù Cristo, cioè in quella forma
imperitura che congiunge Dio e l'uomo (il mondo) nella nuova ed
eterna alleanza. E questa forma ha bisogno più che mai di quella
capacità di visione che è propria degli occhi semplici della
fede81.
La forma teologica chiama in causa l'uomo affascinato e rapito
dentro la gloria di Dio la cui vita ed il cui pensiero vogliono
essere un frammento in cui possa brillare per noi la bellezza
della forma assoluta: il Dio di Gesù Cristo82. Essa in senso
supremo è il Dio unitrino il cui misterioso splendore, la cui
gloria appunto, restando assolutamente se stessa, attraversa tutto
lo sconfinato campo degli esseri e vi imprime il suo sigillo, così
che questi a loro volta possono esprimere la bellezza ricevuta83.
Allora ci domandiamo: se l'uomo è forma, può percepire la forma
suprema irraggiata dalla Gloria di Dio dai mille fenomeni di
questo mondo? Proprio il primo volume di Gloria, si fa carico di
rispondere a tali questioni, sul piano soggettivo dell'esperienza
della fede e su quello oggettivo dello svelarsi dell'evento della
Rivelazione, giungendo fino a porre le condizioni per cogliere la
forma di Colui che si è inabissato per noi sulla Croce, trovandovi
per la potenza dello Spirito la Gloria del Padre. Per cogliere
questa forma, per farne in qualche modo un'interiore esperienza,
l'uomo possiede una precomprensione nella sua struttura umana84.
Balthasar tenta di mostrare, sulla scia della metafisica classica,
la natura enigmatica dell'uomo: "l'uomo esiste come essere
limitato, eppure la sua ragione è aperta all'illimitato,
all'Essere tutto intero"85. Ed è questa precomprensione umana che
permette alla teologia di trovarsi nella condizione di essere
aperta da tutte le parti, proprio come un frammento dove, se mai
vorrà, la gloria stessa potrà risplendere della luce di Dio.
Se per Rahner, il punto d'avvio della riflessione filosofica è
l'autocoscienza del soggetto e la messa in questione del suo
mondo86, per Balthasar l'esperienza umana originaria è quella del
Tu, l'attimo in cui il bambino, per la prima volta, diviene
consapevole del sorriso della madre. In questo incontro gli si
apre l'orizzonte di tutto l'essere infinito che gli mostra quattro
verità: "1° Nell'amore egli è "uno" con sua madre, benché le stia
di fronte, così che ogni essere è "uno". 2° Quest'amore è "buono",
dunque ogni essere è "buono". 3° Quest'amore è "vero", dunque ogni
essere è "vero". 4° Quest'amore suscita "gioia", dunque tutto
l'essere è "bello". È proprio dell'essere di manifestarsi: "Un
essere "appare", ha luogo un'epifania: in questo manifestarsi esso
è bello e ci rende felici. Apparendo esso si dona: è buono. E

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donandosi "si esprime", si svela: esso è vero (in sé e nell'altro
cui si rivela"87.
Per l'autore svizzero, contro Heidegger, è imprescindibile
rilevare che nell'epifania o manifestazione dell'essere noi non
cogliamo soltanto l'ente (il fenomeno) o la parvenza di essere, ma
l'essenza di ciò che si dà a vedere, cioè la realtà stessa. È
proprio della verità dell'essere il suo svelamento, la sua non
chiusura in sé, il suo non-nascondimento (a-létheia). Questo non-
nascondimento significa: "che da una parte appare l'essere e che
dall'altra l'essere appare"88. Questo svelamento è una peculiarità
dell'essere in quanto tale, indica il suo movimento e la
possibilità di farsi conoscere nel suo mistero. In questo
movimento ravvisiamo: "1° ciò che si apre, il fondo (Grund)
dell'essere; 2° ciò che è aperto, l'apparenza o fenomeno; 3°
l'apertura stessa come il movimento del fondo dell'apparenza.
L'apparenza non è un essere diverso indipendente accanto al detto
fondo, [...] è piuttosto l'esposizione del fondo, la sua
informazione, per così dire misurazione"89.
Dunque, l'epifania dell'essere, cioè la sua bellezza, è realmente
la breccia attraverso cui penetrare nell'uomo per destarlo,
contemporaneamente, alla coscienza di sé e del reale90.

2.2. splendore e gloria della forma

Solo nei sensi, e attraverso essi, l'uomo percepisce e sente la


realtà del mondo e dell'essere. L'uomo può percepire la bellezza
di una cosa, dì un oggetto solo perché questa cosa, elemento
qualsiasi della natura, possiede una sua forma particolare,
strutturata, articolata, complessa e allo stesso tempo semplice.
Una forma vede la forma. Questa forma, che delinea ogni cosa
rendendola percettibile, presenta dei tratti distintivi per
apparire bella agli occhi dell'uomo: una luce propria, che la
rende visibile all'occhio di chi guarda; una luce in cui ad essa è
data risplendere come forma particolare. In ultimo, un soggetto
che ha la capacità di vedere in essa una luce particolare, propria
di una forma concreta, che risplende nella sua bellezza. "Il bello
è in primo luogo una forma e la luce non cade su questa forma
dall'alto o dall'esterno, ma irrompe dal suo intimo. Species et
lumen sono nella bellezza una sola cosa, almeno se la species
porta a buon diritto e realmente il suo nome (che non sta ad
indicare una forma qualsiasi, ma la forma che s'irradia e suscita
diletto). La forma visibile non rinvia soltanto ad un mistero
invisibile della profondità, ma ne è l'apparizione, lo rivela
proprio mentre nello stesso tempo lo nasconde e lo vela"91.
Da ciò appare evidente che l'uomo avendo una forma coglie la
bellezza di un'altra forma particolare poiché ha la capacità
intrinseca di vedere nella luce. Egli, vedendo nella luce
risplendere altre luci particolari, coglie l'intensità di bellezza
dando vita ad una graduazione di forme dettata dalla loro maggiore
o minore intensità di luce: "il contenuto non giace dietro la
forma, ma in essa. Chi non riesce a vedere e a leggere la forma,

18
non può cogliere nemmeno il contenuto. A colui il quale la forma
non dà luce, rimarrà invisibile anche la luce del contenuto"92.
Balthasar offre l'esempio della conversione di San Paolo. Paolo
resta folgorato da una forma originaria luminosissima, splendente
di luce, in pieno giorno. Questa forma che era Cristo stesso non
era uguale alle altre, ma è stata percepita, vista o in modo
spirituale o in modo materiale proprio per la sua grande
luminosità, come coronata di spine e crocifissa93. Paolo si
converte perché coglie la bellezza di questa forma di Cristo
grazie alla sua luce particolare94. Paolo vede questa forma di
luce in pieno giorno (siamo quindi in un contesto luminoso)
rimanendone conquistato.
Si comincia a delineare così il discorso: la forma si dà nella
luce come contesto, e risplende in quella luce di una luce propria
e particolare che fa emergere la bellezza a coloro che possono
vederla, che cioè hanno la possibilità recettiva di ricevere tale
forma, perché anch'essi aventi una forma propria, con una luce
propria, che risplende nel contesto di luce dove può essere vista
e percepita. "In questo movimento si fondano il vero, il bello, il
bene. Ogni apparizione è al tempo stesso un illuminarsi del
fondamento e una misurazione delle proprie dimensioni; luce e
misura sono correlative, allo stesso modo in cui il fondamento è
tale solo nell'apparizione e si dà apparizione del fondamento. Lo
spazio di luce tra il fondamento e l'apparizione è misura e dove
questa luce diventa riflessione, la misura diventa parola
dell'essenza che raccoglie e legge se stessa e fa di se stessa un
valore e un dono comunicabile. La luce dell'essere diventa allora
fonte di felicità e la misura dell'essere fonte della verità"95.
Se affrontiamo la lettura del testo balthasariano con la
distinzione data dalla natura stessa dei termini, ci renderemo
conto che la luce manifesta, fa emergere lo splendore della forma
che mi fa percepire il bello, che appartiene a me soggetto che
guardo. Oppure, detto in altri termini: luce-splendore della
forma-bello trascendentale. Lo splendore è, quindi, una qualità
della luce, manifesta, che fa emergere ciò che permette di avere
una visione della bellezza.
Quindi se noi intendiamo il pulchrum, il bello come
trascendentale, cioè come bellezza dell'essere, dobbiamo
presupporre che questa bellezza dell'essere è percepibile da un
soggetto perché essa splende di una luce propria. In altri
termini, è inevitabile l'affermazione che l'essere è luce e come
tale appare bello, cioè appare in quell'elemento che l'uomo può
percepire perché predisposto nella sua precomprensione. L'essere è
luce che manifesta la sua bellezza agli occhi dell'uomo. Si può
concludere che se il bello è il trascendentale, esso ha come suo
fondamento la luce.
Balthasar, cogliendo queste distinzioni, utilizza i tre termini in
modo correlato al concetto di forma. Emerge che una forma è bella
perché splende, in quanto ha una luce propria. Quello che il
soggetto vede è una forma concreta, particolare, finita, inserita
in un contesto di forme che splendono in modo diverso, perché
diversa è la loro luce.

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Chiaramente la forma perfetta è quella di Cristo, che risulta
l'apice della manifestazione della bellezza, perché risplende sul
mondo intero, quindi splende più di tutte le altre forme che a lui
si accostano perché la sua luce propria e originaria, in quanto
gli viene conferita da Dio. Quindi una forma è tanto più perfetta
quanto più conforme a quella di Cristo: "alla contemplazione di
Dio, dove in una estasi irresistibile, bisogna prendere atto che
anche la forma, la maniera e il modo in cui Dio è perfetto, sono
perfetti, sono cioè la forma perfetta, questa forma è infatti
quella meravigliosa, sempre misteriosa e tuttavia sempre chiara in
se stessa, unità di identità e non identità, di semplicità e
molteplicità, di interiorità ed esteriorità, di Dio stesso e della
pienezza di ciò che egli, in quanto Dio, è"96.
Balthasar si rende conto che il compito rigorosamente teologico di
chi tratta della gloria della rivelazione cristiana non è
risolvibile senza una costante implicazione della metafisica. I
trascendentali sono in forte correlazione tra loro: Verum-Bonum-
Pulchrum, accompagnano la manifestazione, l'apparire dell'essere
all'ente. La svolta che Balthasar compie è di grande genialità:
sceglie il Pulchrum, il bello, perché risulta fondamentale.
Possiamo dire che, se non percepiamo una forma concreta, non
possiamo vedere la sua verità e la sua bontà. "Solo il divenire
manifesto di una forma espressiva nella cosa conferisce ad essa
quella dimensione profonda tra fondamento ed apparizione che, in
quanto luogo proprio della bellezza, scopre anche il luogo
ontologico della verità dell'essere e libera il soggetto, che
tende alla distanza spirituale, che rende il bello della forma
degno di essere amato nel suo essere in sé ( e non soltanto nel
suo essere per me) e quindi solo così degno di essere
perseguito"97.
È nella contemplazione di una forma che posso rendermi conto della
sua verità e della sua bontà. Il capovolgimento è giusto e non si
contrappone al pensiero precedente, ma lo rovescia nella sua
prospettiva in quanto i trascendentali dell'essere sono
correlativi (insieme danno la pienezza) e non esclusivi. Questo
significa che partendo dal bello di una forma, che è la prima cosa
che mi appare, che mi si manifesta, io mi renderò conto anche
della sua verità e della sua bontà. Se questo ragionamento è
corretto, si può affermare che quella luce che mi permette di
cogliere la bellezza tramite il suo splendore, mi permette anche
di percepire la verità e la bontà. L'essere quindi è luce, e
perché luce, io posso comprendere i suoi trascendentali, i suoi
modi di esprimersi. Ed ecco anche spiegato il piano dell'opera
balthasariana che, dopo aver esaminato i capisaldi di una forma,
ne vede i suoi percorsi storici nel suo evolversi. Nella luce
dell'essere comprendiamo la nostra luce e contempliamo la luce che
possiedono tutte le forme esistenti in natura e che appaiono
belle.

2.2.1. Il rapporto luce e forma

20
Ora è nostra intenzione concretizzare la nostra ipotesi per poter
leggere il pensiero del nostro autore, comprenderne il nesso
fondamentale persistente tra luce e forma.
La forma è la categoria decisiva98, tanto che Balthasar nella
Premessa , alla sua opera, così si esprime: "se tutto ciò che è
bello sta soggettivamente alla confluenza di due momenti che
Tommaso chiama species e lumen, forma e splendore, allora il loro
incontro può essere caratterizzato dai due momenti del percepire e
dell'essere rapiti"99.
Questo significa che i due momenti del percepire e dell'essere
rapiti formano un'unica realtà, il percepire segue l'essere
rapiti. Continuando la sua riflessione, chiamando ancora in causa
Tommaso, Balthasar afferma: "se Tommaso poteva contrassegnare
l'essere come "una certa luce" per l'ente, questa luce non si
spegnerà là dove si è disimparato il linguaggio della luce stessa
e non si lascia più che il mistero dell'essere esprima se stesso
[...]. La testimonianza dell'essere diventa incredibile per colui
il quale non riesce più a cogliere il bello"100.
Il teologo elvetico cerca di comprendere il campo semantico in cui
il bello viene espresso individuando nella forma o nella specie
quella modalità effettiva che permette di percepire101. La forma e
lo splendore sono uniti intimamente e ciò che fonda entrambi
facendoli preziosi e degni di essere amati e quello che permette
di far emergere dall'intimo: cioè la luce.
La forma può irraggiare perché possiede una sua intimità, un suo
centro, un suo fondamento che non può essere altro che la luce:
"che irradia dalla Gestalt e che si apre alla comprensione è in
tal modo indivisibilmente luce della forma stessa (la scolastica
parla perciò di splendor formae) e la luce dell'essere in genere
in cui la forma è immersa per poter avere in genere reale Gestalt.
Con l'immanenza sale la trascendenza. Esteticamente parlando:
quanto più alta e pura è una Gestalt, tanto più irradia la luce
dalla sua profondità e tanto più essa rinvia al mistero luminoso
dell'essere nel suo insieme"102.
Ciò chiarifica il legame intimo esistente tra la forma che appare,
rapisce e ciò che gli è di più intimo e le permette di apparire.
Anche l'uomo possiede una forma che non è capace però di darsi da
sé, ma gli viene conferita, pertanto: "egli nella sua totalità,
non è l'archetipo dell'essere e dello spirito, ma l'immagine
derivata, non è la parola originaria, ma la parola di
risposta"103, perciò deve imparare a cercare la via dell'origine,
che gli permette di vivere con serenità il dramma della propria
vita: "non gli resta altro che farsi tutto, nella spiritualità e
nella sua corporeità specchio di Dio e ricercare quella
trascendenza e quell'irraggiamento che devono pur trovarsi
nell'essere mondano se questo è realmente immagine e somiglianza
di Dio, sua parola e suo gesto, sua azione e suo dramma"104.
Questo significa che l'essere dell'uomo è già nella sua origine
forma che s'identifica con lo spirito e la libertà. E la libertà
"celebra la sua festa sempre più inebriante, nella varietà dei
giuochi espressivi delle forme"105. Questi giochi esprimono una
diversità di forme che si rendono visibili proprio per la loro
graduazione di luce che irradiano come immagine della luce

21
dell'essere. La sola forma che è capace di rendere manifesto lo
spirito e la libertà che porta in sé e che permette di
trascendersi può essere definita bella "e poiché lo spirito in
questo mondo si trova sempre a decidere tra l'abisso del cielo e
quello dell'inferno, qualsiasi bellezza di forma è sempre immersa
nel chiaroscuro della questione che tenta di sapere di quale
signore sia la gloria irradiata adesso dalla forma"106.
Ogni forma quindi irradia una certa luce. Il problema è, allora,
vedere se tale luce è quella reale dell'immagine di Dio, quindi
della suprema bellezza spirituale, o di un qualsiasi signore
risplendente di falsa luce: "tuttavia per vivere nella forma
originaria, è necessario averla intravista. Occorre avere un
occhio dell'anima capace di percepire, nel rispetto profondo, le
forme dell'esistenza"107.
Da questo si ricava che occorre una certa precomprensione
dell'essere e della sua forma originaria di luce, che ci permette
di risalire ad essa con il nostro atto conoscitivo che mi porta
alla sua percezione: "solo ciò che la forma può trasportare e
rapire nell'estasi, solo attraverso la forma può guizzare il lampo
della bellezza eterna. Si dà il momento in cui la luce
prorompente, lo spirito zampillante irradiano la forma esteriore,
e dalla maniera e dalla misura in cui ciò avviene, dipende, se è
bellezza sensibile o spirituale, grazia o dignità, ma senza la
forma l'uomo non può essere afferrato o rapito"108.
Ancora un passo di eccezionale forza, che consente di cogliere
l'importanza della percezione della forma nel momento in cui
questa luce prorompe nella creazione e nelle diverse forme. Il
rapporto è stringente, la forma esteriore ci è permessa di vederla
per mezzo del lampo. Siamo immessi nel campo della visione; il
lampo per un attimo illumina, poi svanisce, fa vedere e nasconde,
rende chiaro per poi far tornare nell'oscurità, e in questo
momento, che diviene per noi, soggetti conoscenti, tempo
opportuno, che contempliamo la bellezza eterna che non è sempre
davanti ai nostri occhi, ma che si rivela mostrandoci la strada di
altre forme esteriori che ci permettono di raggiungerla. Il
percorso diventa un'ascesa dove percepiamo la bellezza eterna come
un lampo, attraverso una visione rapidissima, che consente il
passaggio alla contemplazione delle forme sensibili irradiate
dalla Bellezza eterna. La visione ci permette di avere uno sguardo
d'insieme della luce originaria verso cui tendere.
Balthasar ritorna più volte sul problema della visione, dello
sguardo, vedendovi il centro di un'estetica della luce, che parte
dalle forme percepibili con i sensi ed in modo particolare con
quello della vista. Il vedere è diventato un osservare e un
costatare al quale segue, ordinando ed elaborando, l'attività
dell'intelletto astratto. Ciò autorizza la riflessione su come
l'occhio non è solo strumento che l'uomo impiega, ma è la sua
stessa vita. L'occhio ha la sua ragion d'essere in ciò che deve
essere visto: "vedere è incontrare la realtà: l'occhio è
semplicemente l'uomo, nella misura in cui egli può essere toccato
dalla realtà nelle forme di questa ordinate alla luce"109. E
dandoci una chiarificazione terminologica del rapporto tra il
vedere e l'oggetto visto, afferma: "la luce e il colore si aprono

22
nella oscurità del vedere che non ha oggetto, i suoni nella pace
dell'ascolto che non ha oggetto. L'occhio però non vede il suo
vedere, ma le cose; il vedere è quindi sempre al tempo stesso il
veduto, il senso è ciò che si è scorto nell'apertura del suo
cammino. Blicken (gettare uno sguardo) viene da blinken (brillare,
lampeggiare). Il Blick (sguardo) è il lampo che illumina
l'apparizione [...]. La visione è sia l'esercizio del vedere che
l'oggetto visto [...] l'Ansehen (aspetto) è sia il mio vedere
(sehen) che l'aspetto che una cosa o una persona importante hanno
come proprio"110.
La visione (conoscenza sensibile) è per se stessa rapita
nell'aperto e quindi nell'altro. Risvegliata a se stessa dalla
luce, fin dall'origine essa si è sperduta nell'altro e quindi
nell'esteriorità dell'estensione spaziale. La visione, quindi, non
si aggiunge alla natura, poiché essa stessa è il fondamento della
luce e degli esseri111. Le immagini si lasciano raccogliere e
comprendere come immagini formate solo nella luce originaria
dell'essere. Allora "la luce originaria della conoscenza
dell'essere è questo movimento ontologico della fondazione
dell'essere, in cui l'essere attua se stesso nell'altro"112.
La visione è vista come un incontro tra la causa ed il suo
effetto, è ciò che ci permette di leggere il tutto come
accadimento: "ora tutto ciò che è dovuto alla vista è visione
corrispondente e occhio rivolto alla causa [...]. Ogni essere in
effetti è una traduzione autonoma di questo sguardo creatore e la
realizzazione nel tempo della forma prescritta alla sua
obbedienza, cioè alla sua operazione, e del segno necessario alla
sua significazione"113.
La forma, dunque, è l'espressione concreta, e il mezzo stesso
della conoscenza che egli ha del generale in quanto particolare.
Balthasar continua affermando che: "tutto ciò che è forma ha
quindi il suo centro a partire dallo sguardo di risposta della
creatura allo sguardo creatore di Dio e tutta la nostra vita
religiosa e l'attenzione all'intenzione particolare che Dio ha
avuto chiamandoci all'esistenza, con quel nome nuovo che ci ha
donato nel Figlio suo"114.
Anche l'essere cristiano è, infatti, forma: "l'immagine
dell'esistenza è irradiata dall'archetipo Cristo e formata dalla
forza dello Spirito creatore"115. Cristo diviene la forma
originaria su cui confrontare la nostra forma di esistenza
concreta e d'interpretarla sotto una nuova dimensione: "Gli stessi
secoli della cristianità che seppero magistralmente comprendere il
linguaggio della forma del mondo naturale, furono dotati di un
occhio eccezionalmente formato a percepire, nella illuminazione
della grazia, la verità della rivelazione come forma e solo allora
ad interpretarla"116.
È nella capacità dell'uomo di vedere l'immagine che è suo
archetipo, che si trova la via della forma come luce, come
immagine che risplende, ed è nello Spirito che noi siamo invitati
ed ammessi come testimoni oculari alla visione originaria.
Balthasar, parafrasando l'apostolo Giovanni, descrive: "come
nell'incontro, nel dialogo, la forma di Gesù acquista risalto, si
delineano in maniera inconfondibile i suoi contorni e come

23
all'improvviso ed in maniera inesprimibile il lampo
dell'incondizionato, butti a terra nell'adorazione l'uomo, per
ricrearlo come credente alla sequela di Cristo"117.
La visione di una forma incondizionata resta inesprimibile, ma può
essere compresa solo come il lampo che appare e scompare, che
impressiona chi la vede fino a sconvolgerlo. Solo in questo modo
si possono comprendere le scelte del nostro autore: nel tracciare
gli stili teologici egli ha tenuto presente proprio questo
criterio esistenziale dello sconvolgere, nel senso di creare una
nuova mentalità, un nuovo clima culturale e spirituale: "non v'è,
nel tempo della Chiesa, alcuna teologia storicamente efficace che
non sia essa stessa riflesso della gloria di Dio; soltanto una
teologia bella, vale a dire soltanto una teologia che, afferrata
dalla gloria di Dio, riesce a sua volta a farla risplendere, ha la
possibilità di incidere nella storia degli uomini imprimendovisi e
trasformandola"118. Occorre, perciò, che la luce di Dio brilli
nelle tenebre perfette.

2.2.2. Il rapporto luce e bellezza

Il bello ha un suo mistero, manifestandosi come immagine


sintetica, come splendore dell'essere, allo stesso tempo non si
manifesta, rimanda cioè dietro alla semplice manifestazione; nella
superficie visibile di questa si percepisce la profondità che non
si rivela. Così il nostro autore coglie questo mistero: "la forma
del bello è apparsa in una tale capacità interiore del
trascendere, da scivolare, senza soluzione di continuità, dal
dominio mondano in quello sovramondano"119.
Questa capacità interiore del trascendere è data dall'incanto, che
porta ad un'autotrasfigurazione del mondo, sia pure soltanto per
un istante. Balthasar osserva: "il bello comporta un'evidenza che
s'impone immediatamente: è dovuto a questo che ci accostiamo alla
rivelazione divina con la categoria del bello"120.
Ciò è possibile in quanto ci accostiamo al primato dell'amore
divino, che si rivela come Gloria Dei, per questo l'Estetica
teologica non verte primariamente sul trascendentale del bello
filosofico, né sulla bellezza in senso mondano, ma sullo splendore
della divinità di Dio stesso manifestatosi, nell'ordine della
creazione e della redenzione, peculiarmente nella vita, morte e
resurrezione di Gesù Cristo. Il suo è un approccio profano (il
bello filosofico), ma la scelta della direzione e il punto
d'arrivo sono prettamente teologici e cristologici: la gloria di
Dio splendente sul volto di Cristo121. Infatti, l'uomo prende il
suo avvio da un approccio profano datogli dalla sua capacita
precomprensiva: "L'abitudine dell'uomo di designare come bello
solo ciò che a lui s'impone come tale è, almeno sulla terra,
impossibile da superare"122.
Questa, che è una struttura della capacità conoscitiva dell'uomo,
non ci blocca, tuttavia, nel nostro cammino di comprensione. La
forma, difatti, della Gloria Dei trova il suo inizio e la sua
discriminante: "con la resurrezione del Signore, la quale a sua
volta effonde il suo sublime splendore sulla chiesa e su ogni
partecipazione di grazia. Si procederà così alla eliminazione di

24
quella forma nascondimento che l'economia della croce comporta per
tutta la storia della salvezza?"123.
Quest'interrogativo ci fa riflettere. Nonostante la gloria e lo
splendore hanno la loro manifestazione concreta e singolare
nell’evento della croce, ciò non elimina il suo mistero di
nascondimento, che rimane nella sua incomprensione del mistero
stesso. Se per l’uomo ogni bellezza del mondo era epifania della
gloria divina, in modo diverso i Padri: “hanno considerato la
bellezza come un trascendentale e hanno sviluppato una teologia
coerente con questa convinzione: una teologia del bello non può
essere sviluppata altrimenti che in modo estetico”. Essi hanno
inteso l’estetica come metodo .sintetico per fare teologia. Ed era
loro convincimento, come Balthasar fa ancora notare, che solo qui
"si insegna l'ascesa verso l'alto e verso l'interiorità, fino al
punto in cui la luce definitiva permea le forme terrene e velate
della salvezza: la contemplazione diventa qui anticipazione
folgorante dell'illuminazione escatologica, presagio veggente
della gloria che traspare nella forma del Servo"125.
Il nascondimento-svelamento tipico della rivelazione cristiana può
essere compreso solo nella contemplazione del mistero che diviene
incanto e rapimento nel momento estetico. Rifacendosi a Evagrio
Pontico, Balthasar afferma come egli "vede la luce eterna
splendere attraverso l'anima purificata e pervenuta alla
conoscenza"126.
Questo indica che nel momento in cui si arriva alla conoscenza, e
quindi ci si eleva attraverso la contemplazione estetica dalle
cose mondane, si arriva a percepire il fulcro della rivelazione di
Dio che è luce eterna che splende. Riguardo alla contemplazione,
che è inscritta nel dato biblico, che permette di irradiare e di
fare emergere tutta la sua forza, afferma: "la forma
specificamente biblica della contemplazione ispirata getta sulla
storia della salvezza, su quella passata e su quella futura, una
luce estetica che, contemporaneamente alla forma spontaneamente
poetica della legge e dei profeti, ne fa risaltare le dimensioni
irriducibilmente soprannaturali [...]. Si tratta di far acquisire
coscienza e di svelare tutta la forza di irradiazione della
dimensione estetica implicita in questa irripetibile azione
drammatica, dimensione che costituisce l'oggetto di una estetica
teologica"127.
Karl Barth, nella sua Kirchliche Dogmatik, ha posto le basi per un
ritorno alla riflessione sul bello, come rileva Balthasar, e il
suo sforzo è quello di cercare di attribuire di nuovo a Dio il
titolo Bellezza che è contemplazione. Egli così sì esprime:
"potrebbe essere conoscenza, potrebbe essere rivelazione, ciò che
in ultima analisi non rimane che puro oggetto-oggetto senza forma?
Non occorre piuttosto prendere atto che c'è qualcosa di più che il
factum brutum della gloria di Dio nella sua rivelazione e non è
necessario quindi chiedersi in qual misura, nella sua
automanifestazione, la luce di Dio è luce, e quindi illuminante?
In che misura Dio, mentre è presente a se stesso e agli altri,
traspare e convince?"128.
Questo "di più" che interroga il pensiero di Barth è proprio il
nostro problema centrale: la luce. In qual misura la luce

25
nell'automanifestazione di Dio rivela e illumina colui al quale si
rivela? E l'interrogativo che ci guida nel vedere la luce come
fondamento. Barth continua così esprimendosi riguardo al bello:
"Dio è bello, bello in una maniera propria a lui e soltanto a lui,
bello come la bellezza originaria e irraggiungibile, ma proprio
per questo non già soltanto come fatto, non già soltanto come
forza, ma piuttosto come fatto e forza che egli impone alla sua
maniera, come colui che suscita diletto, crea il desiderio e
ricompensa con il godimento [...] come Dio che è degno di essere
amato"129.
Operando una lettura di questo testo di Barth, si può affermare
che la luce s'impone alla sua maniera come "fatto" e "forza". Come
fatto perché è evidente, manifesto; come forza perché dove essa è
non sono possibili le tenebre. Ed è proprio la luce che suscita il
diletto di chi ne è immerso, crea il desiderio di contemplarla, e
ricompensa con il godimento della piena manifestazione della
verità della realtà.
Allora in che modo si può rinunciare al concetto del Bello e
pensare ad un Dio senza gioia, senza splendore? Questo legame tra
la bellezza e la gloria che risplende fa nascere la gioia a cui si
è rapiti. Barth pone in evidenza tutta la sua riscoperta del
rapporto della bellezza con la rivelazione partendo da Anselmo e
trova il punto centrale di una bellezza che risplende, di luce
propria, nel Crocifisso: "Dio nella unità del suo abbassamento e
della sua esaltazione stessa, porta con sé la forma e la bellezza
propria, cosicché il detto di Isaia, "non aveva né forma, né
bellezza è proprio il luogo dove risplende la bellezza specifica
di Dio: si cerchi pure la bellezza di Cristo in una gloria di
Cristo che non sia quella del Crocifisso: la si cercherà
invano"130.
In questa cornice emerge chiaro anche il rapporto tra la bellezza
e la kenosi di Cristo, tra la luce che svela e il nascondimento.
Se il bello è la natura originaria del mondo: "il cristiano sa e
sente che la natura si è estraniata, dalla sua origine: Dio non
parla più attraverso tutti gli esseri ed il velo che ricopre il
volto di Dio è lo stesso che cela la magnificenza della natura.
Ciò che noi siamo soliti chiamare estetico è affetto, esattamente
come la ragione (illuministica), dalla vanità e dall'irrealtà del
peccato originale. Cristo soltanto, e la parola di Dio in lui
nella forma della sofferenza, del nascondimento sub contrario, la
parola storica nella sacra Scrittura, svelano nuovamente la gloria
di Dio"131.
Se la luce è nascosta, la via estetica ci autorizza a togliere
quel velo e di essere di nuovo rapiti dallo splendore della luce.
Ed è tramite l'abbassamento di Cristo che questo velo è tolto ed è
ridonato lo splendore e la bellezza:

"attraverso il mistero del proprio abbassamento, la gloria


originaria dell'amore di Dio che si umilia, la vera concidentia
oppositorum alla quale la fede, ma anche l'entusiasmo, si
accendono: una dimostrazione della maestà più gloriosa e
dell'annichilamento più spoglio! Un miracolo di una siffatta
tranquillità infinita che rende Dio uguale al nulla e tale che, o

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si nega senza scrupoli la sua esistenza, o bisogna essere bestie
[...]. Gloria come kenosi, non soltanto del Dio incarnato, ma già
del Dio creatore, che creando si reca nel nulla, ed anche dello
Spirito Santo che si nasconde sotto "tutti i cenci" e la
spazzatura della lettera della Scrittura, in maniera che occorre
avere occhi illuminati ed entusiasti, armati della gelosia di un
amico, di un confidente, di un amante, per riconoscere sotto un
tale travestimento i bagliori della gloria divina"132.

Balthasar, facendo proprio il modo di ragionare di Hamann, vede la


bellezza della luce rifulgere dalla via dell'obbedienza estetica
della croce: "nella stoltezza della Croce egli trova l'accesso a
quella bellezza originaria della nostra esistenza, alla forza
archetipa della parola autentica e generatrice, ed infine il
nucleo più profondo del mistero di tutta la realtà"133.

2.2.3. Il rapporto luce e rivelazione

Balthasar, continuando nell'individuazione del suo percorso,


attraverso gli studi degli autori che hanno messo in luce questa
intuizione della bellezza, come punto centrale di partenza, nota
l'importanza del tema dell'immagine in rapporto alla rivelazione.
La bellezza percepita nella luce ci fa volgere lo sguardo
all'immagine. Noi percepiamo la bellezza nella creazione stessa
che ci circonda, che è: "l'auto espressione vivente di Dio ed il
suo inno, il quotidiano canto del mattino che glorifica e nel
quale egli stesso si glorifica"134.
L'uomo stesso è immagine e somiglianza di Dio: questo tende a
porre in risalto il poema della creazione. Così Balthasar si
esprime, riportando le parole di Herder: "Nell'immagine egli vede
allora e nello stesso tempo se stesso e la sua origine eterna: nel
suo io-immagine l'assoluto Io divino"135.
Le immagini devono essere significative per se stesse, devono,
cioè, avere un valore da comunicare. Riaffiora, nuovamente, il
tema della luce, di conseguenza, dobbiamo interrogarci sul come
intenderla e che cosa essa ci svela. Balthasar scopre questo nesso
nel seguente passaggio: "La luce è la prima cosa: la sua
rivelazione in cui tutto può essere visto e compreso come ciò che
in realtà è: apparizione di Dio"136.
Questo indica che ogni dimostrazione dev'essere preceduta,
necessariamente, da una filosofia dell'intuizione, dell'evidenza,
del segno, della esperienza che è la parte più importante ed
originaria, che ci permette di cogliere l'evidenza e la certezza
delle cose137. Continuando su tale questione Balthasar afferma:
"L'anima umana che si svela vede immagini! Sono immagini? Sono
cose? È un sogno o una realtà esterna? Ma che cosa significa
esterna? Cosa significa è una cosa? Esistenza! Presenza! Chi le
mostra, chi le insegna, chi le rischiara? La luce! Luce, archetipo
della dimostrazione di Dio che tutto svela [...] linguaggio del
trono di Dio"138.
La luce, dunque, che viene vista come linguaggio che svela, che
assume una valenza ermeneutica, perché capace di rendere chiaro e
manifesto nelle immagini la bellezza, una luce che nello svelare

27
spiega e rende comprensibile perché evidente, ci pone in contatto
con ciò che è più originario, con Dio stesso. Proprio perché la
luce possiede la capacità di svelare il mistero originario,
diviene la più efficace dimostrazione di Dio, dimostrazione non
argomentativa, ma di presenza che viene affermata nella evidenza
di un mistero. Infatti: "nella luce della rivelazione di Dio
l'uomo è messo davanti all'essere divino, ed il sovrappeso
infinito di Dio, la sovranità del suo essere divino, brilla come
ciò che c'è di più immediato ai suoi occhi"139.
La rivelazione viene ad essere un mistero svelato e la Bibbia non
ne conosce un altro; questo svelamento avviene nel segno
dell'incarnazione: "perciò Cristo è il vertice e il compendio di
ogni rivelazione: sia di Dio che dell'uomo che è a sua volta il
compendio della creazione come immagine"140.
La Scrittura descrive e chiama Cristo "splendore, immagine
luminosa della gloria di Dio e con ciò intende l'impronta di ciò
che viene riportato nell'immagine"141. In una immagine, quella di
Cristo, troviamo presenti le nostre immagini, che in essa trovano
senso, trovano la loro scintilla della divinità, che permette
all'incomprensibile di divenire comprensibile, al velato di venire
svelato. L'immagine quindi trova il suo luogo di apparizione
proprio nella rivelazione. Balthasar, presentando l'opera di
Gügler142, sostiene: "la Rivelazione di Dio nella creazione è
naturale nel suo risultato, soprannaturale e meravigliosa nella
sua profondità divina; per chi ha la capacità di sentire questa
profondità sacra in cui Dio si rende presente e si manifesta a
tutti gli esseri, il mondo appare come l'opera d'arte affascinante
ed entusiasmante di Dio. Tutti i popoli testimoniano, attraverso
la loro arte, di qualcosa di quest'esperienza originaria. Mentre
tuttavia, in essi, la luce divina si scompone in colori diversi.
solo gli ebrei hanno conservato la massima trasparenza possibile
alla luce; l'elemento nazionale non si è separato in essi dalla
sua sorgente di origine"143.
Interessante a tal riguardo ciò che dichiara Gershom Scholem, uno
dei grandi filosofi e teologi ebrei, nel suo libro intitolato Le
grandi correnti della mistica ebraica: "Il simbolo nella quale la
vita del Creatore e quella della Creazione diventano una ... è un
raggio di luce che, uscito dalle oscure ed abissali profondità
dell'esistenza e della conoscenza, penetra tutto il nostro essere.
E una "totalità passeggera" che è percepita intuitivamente in un
istante mistico-misura del tempo proprio del simbolo"144.
L'esperienza del simbolo è uno dei luoghi privilegiati, ma non
l'unico in cui l'uomo attua la luce dell'uomo. È una qualità di
luce totalmente propria all'uomo, distinta dalla luce cosmica e
dalla luce divina. È la luce dell'uomo come creatura, e quindi
anche già la luce del Creatore. Questo tuttavia è muto, velato
quanto al proprio essere e alla propria vita: non possiamo
conoscere l'essere del Creatore né la sua vita a meno che non
decida di svelarli. Allora entriamo nel processo della
Rivelazione. Tuttavia la luce che riceviamo procede da questo
Creatore. Con parole mirabili è descritto: "E Dio disse: Facciamo
l'uomo a nostra immagine e somiglianza" (Gen 1,26). Ad "immagine"
e "somiglianza": c'è bisogno dei due termini. L'immagine è

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l'impronta, siamo segnati da quel Creatore dal quale procediamo in
ogni istante. La somiglianza è il movimento per ritrovare il
Creatore attraverso l'interezza della sua creazione, è un essere
appassionato145.
La storia, allora, è un accordo sempre risuonante alla ricerca
dell'armonia eterna, della natura e della vita tutta. La
conciliabilità e il rapporto tra un essere eterno delle cose e una
loro nascita e un loro declino, possono essere unicamente intesi e
dati nel concetto dell'accordo. Tutto ciò è adempiuto nel concetto
cristiano della Trinità: il Padre appare come colui che attira,
Cristo come il mediatore, lo Spinto in noi è l'accordo concreto di
Dio stesso146. È solo così che: "nell'incarnazione di Dio,
compiutasi in Cnisto, il superamento della storia e della
prenascosta dell'eternità nel regno santo della Chiesa, sono
senz'altro compimento dell'arte di Dio"147.
Viene ad essere chiaro perché: "secondo la concezione platonica
dei rapporti tra parola (che viene essenzialmente dall'esterno e
dall'alto) e luce (che si irradia essenzialmente nell'intimo),
cosicché il Cristo appare come parola di luce, anzi nutrimento di
luce interiore e la chiarificazione profetica del vecchio si
trasforma essenzialmente in una trasfigurazione neotestamentaria,
in una parola, in una teologia del Tabor"148.
L'esegesi deve essere, allora, interpretazione retrospettiva e
ritorno progressivo di tutto ciò che ha assunto storicamente una
forma nella luce originaria, a partire da una visione d'insieme
della storia della salvezza e della rivelazione divina149. Ed
ancora von Balthasar riporta un passaggio importante dell'opera di
Gügler: "una identità originaria di luce e occhio, di oggetto e
soggetto, di verità e conoscenza, e questo fino ad una specie di
gnosi cristiana totale (dal pensiero della luce nella posizione
assoluta dell'essere), fino alla lingua della luce e alla
intuizione della luce (egli vide ciò che era buono), dalla
creazione del tempo fino alla carne di luce per il mondo caduto,
nella kenosi della parola e, all'inverso nella piena
trasfigurazione"150.
Possiamo, allora, comprendere perché: "la teologia è l'aurora
della luce della visione"151, poiché con il punto di vista di Dio
noi possiamo iniziare a vedere già adesso quello che poi
contempleremo apertamente nell'eternità assieme a Dio. In questo
vedere gioca il suo ruolo fondamentale la fede: "gli occhi del
nostro spirito che, toccati da una luce nuova che proviene da Dio,
sono in grado di riconoscere visibilmente un oggetto che è
propriamente Dio, ma Dio mediatamente nella forma misteriosa
sacramentale del Verbo incarnato"152.
L'accento è posto non sull'ascoltare, né sul credere, ma su un
vedere, guardare, scorgere "ciò che viene visto è mistero e
annuncio del Dio invisibile"153. Ciò che allora ci apre ad una
percezione è come dice Balthasar: "una nuova luce che, illuminando
questa forma particolare, prorompa al tempo stesso da essa e sia
quindi contemporaneamente co-oggetto della visione e condizione
che la rende possibile. Lo splendore di questo mysterium che offre
se stesso non può essere equiparato ad un qualsiasi altro
splendore estetico che s'incontra nel mondo [...]. Ciò mostra che

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nonostante tutti i velamenti, c'è tuttavia qualcosa da vedere e
afferrare"154.
Infatti, viene sempre presupposto, anche se non detto
espressamente che "il mysterium Christi sia, come lux tuae
claritatis, l'apparizione dell'amor invisibi1is"155. È solo in
questa apparizione dell'amore che da invisibile diviene concreto e
coinvolgente nella vita del cristiano che ci rendiamo conto di
come: "la gloria della trasfigurazione cristiana non è inferiore
alla gloria trasfigurante della bellezza mondana, ma unisce
l'irradiazione dello splendore alla realtà solida: nella
risurrezione e nella sua anticipazione di fede nella vita
cristiana"156.
Nell'irradiazione dello splendore noi comprendiamo l'immenso
valore di una autorivelazione di Dio che è donazione capace di
creare un nuovo statuto epistemologico che interpreta con nuovi
parametri anche ciò che è nascosto: "se ogni bellezza mondana è
epiphaneia, splendore, prorompente disvelamento luminoso degli
occulti potenti fondamenti dell'essere in forme altamente
espressive, allora l'evento dell'autorivelazione del Dio nascosto,
assolutamente libero e sovrano, in forma mondana, nella parola,
nella storia ed in fine in forma umana, non può che costituire una
superlativa analogia di questo fenomeno"157.
Rimarcando questo rapporto tra la luce e la rivelazione, che
compiendosi nella libertà sostiene il paradosso dell'incontro tra
uomo e Dio, afferma che:

"l'epiphaneia cristiana non ha in sè più nulla della pura


autoirradiazione del platonico sole del bene; essa è azione di
liberissima presenzialità, ove sono messi in gioco le profondità
ultime dell'amore e gli estremi rischi di Dio e dell'uomo: l'etico
si realizza appunto nella forma dell'estetico: dietro la
perfezione di ogni parola, di ogni gesto ed incontro del Figlio
dell'Uomo sta, a renderla possibile ed a sostenerla, l'impegno
della esistenza dì Dio e dell'uomo, vita e morte insieme, cielo e
inferno e, ancora una volta, dunque non in una attestazione
collaterale scevra di partecipazione-risiede, come oggetto di una
logica teologica, la struttura della verità, che appunto non può
essere altro che disvelamento dell'essere nella libertà della
propria autorivelazione"158.

Avvicinandoci quindi al centro della rivelazione cristiana, al


Verbo di Dio fattosi carne, Gesù Cristo, Dio e uomo, allora si
impone assolutamente l'affermazione che: "qui una forma è posta
davanti allo sguardo dell'uomo. Checché ne sia del nascondimento
di Dio, della sua mascherata (Lutero), del suo incognito
(Kierkegaard) in Cristo, la prima cosa da dire è tuttavia che qui
noi ci troviamo di fronte ad una forma autentica"159.
È tuttavia possibile, quindi, che nella luce della rivelazione, la
luce dell'essere splenda molto più chiaramente e profondamente e
che ciò che noi possiamo chiamare la sua rivelazione, la sua
grazia e il suo favore possano essere compresi dal filosofo in
maniera del tutto diversa e nuova, cosicché qui la filosofia,
coscientemente o no, volente o nolente, oggettivamente o

30
soggettivamente, entra nella luce cristiana e diventa filosofia
cristiana160.
2.2.4. La luce nel cammino conoscitivo della fede

L'autorivelazione di Dio manifesta la sua luce e il suo mistero,


ovvero, la conoscenza che proviene dalla fede è determinata dal
suo oggetto, che rimanda immediatamente al primato della
rivelazione. La fede, per sua natura, è già inserita nel processo
rivelativo che la pone come condizione di possibilità per la
conoscenza coerente del contenuto rivelato. Senza la fede,
insomma, non si verrebbe a conoscere in pienezza l'oggetto della
rivelazione; come dire senza l'intelligenza che proviene
primariamente dalla luce della rivelazione non è possibile pensare
di entrare all'interno del suo circuito gnoseologico. L'uomo si
realizza pienamente nella relazione perenne con Dio; egli è creato
per la fede e per questo atto che ontologicamente lo costituirà
nella sua struttura personale: "II quaerens ha la sua ragione di
esistere, giacché la fede tende interiormente, dal credente alla
luce di Dio e alla evidenza che giace soltanto in Dio, ma deve
essere completata mediante un inveniens tale, quale può essere
conciliato con la condizione terrena della fede"161.
La fede viene ad essere il fondamento del nostro cammino verso la
luce. Cristo è presentato come maestro e pedagogo, e l'uomo, nella
fede, si affida a lui per essere guidato, attraverso la grazia, il
pensiero, l'ascesi e l'amore verso la luce. Una luce che viene a
sua volta donata, nel senso giovanneo, nella grazia
dell'illuminazione battesimale o "unzione dello Spirito", ma che
dev'essere maturata dal credente condotto per mano da Cristo
stesso162. Per un'ulteriore chiarificazione del concetto relativo
alla fede biblica Balthasar afferma: "sia in Giovanni e Paolo, che
in Clemente ed Origene, la gnosi della fede può essere chiarita
con l'impiego dei concetti della teoria, della contemplazione
prolungata e sorgente di luce, qualora si intende questo concetto
insieme ai suoi presupposti teologici: incorporazione a Cristo
mediante la fede e i sacramenti, partecipazione allo Spirito Santo
che ci introduce ad ogni verità, volontà di rivelazione del Padre
celeste che vuole farci partecipare già adesso, mediante la Parola
e lo Spirito, sotto il velo della fede, alla sua stessa verità
trinitaria"163.
Questo ci fa vedere come l'atto di fede sia intimamente unito alla
visione e alla comprensione. Ciò ci permette di accostarsi al
teologo svizzero sapendo che in lui, quando si parla di
contemplazione, non si è davanti ad un'estasi religiosa; piuttosto
ad una rationis contemplatio, una ragione contemplativa
costantemente pellegrinante tra fede terrena e visione eterna.
Se l'autorivelazione di Dio evoca il nome di doxa, di gloria
luminosa (kabod), è allora possibile stabilire un'analogia tra la
realtà estetica e quella teologica della rivelazione e la sua
esperienza, assunta come categoria per addentrarsi nella
comprensione del dato rivelato: "II Dio che infatti ha detto:
"splenda la luce dalle tenebre", è anche colui che fa brillare nei
nostri cuori (di servi) la sua luce, perché (attraverso noi)

31
splenda la gnosi della doxa di Dio che è sul volto di Cristo (2
Cor 4,5-6)"164.
In questa prospettiva, fede e ragione vengono incontro come due
necessità, due esigenze, che il credente non solo sa di possedere,
ma le ritiene essenziali per la propria esistenza. La dinamica
progressiva che si attua nell'andare incontro ad esse consente la
realizzazione di un equilibrio tra i due poli che porta ad
individuarne l'autonomia e si risolve nella soddisfazione per
averle raggiunte: "Conoscenze teologiche sulla gloria, bontà,
verità di Dio, presuppongono naturalmente una struttura non solo
formalistica o gnoseologica, bensì ontologica dell'essere del
mondo: senza filosofia nessuna teologia"165.
Queste considerazioni portano a verificare la dimensione della
fede come forma di conoscenza e accesso alla verità della
rivelazione nella storicità dell'evento Gesù Cristo. In lui, la
verità viene data nel presente di ogni uomo e tocca il senso
dell'esistenza personale, poiché possiede, una volta per tutte
nella storia dell'umanità le caratteristiche dell'universalità
nella singolarità della sua persona166: "questa verità eterna è
l'interiorità dell'essere assoluto, il mistero della sua vita e
del suo amore, che costituisce anche la profondità manifestatasi
dell'oggetto formale della filosofia. Questa dottrina della fede
tende perciò a spostare i propri punti di appoggio da una parte
nel dinamismo conoscitivo del soggetto spirituale e dall'altra nel
carattere di luce e di illuminazione che conviene all'essere
assoluto. Essa pone così il carattere specifico cristiano nella
sopraelevazione del filosoficamente valido e, per quanto riguarda
i fatti storici, li inserisce con forza nel dinamismo finale della
consocenza"167.
Balthasar ripropone, seguendo l'esempio dei Padri, l'inscindibile
rapporto tra l'essere e la luce che si gioca nel campo
conoscitivo finito dell’uomo, che ha però la possibilità di
comprendere l’infinito per grazia:”l’essere è luce, questa luce è
la sua parola (logos) che irraggia nello spirito e questa parola,
già per l’intelletto creato viene ricevuta come una specie di
grazia e di rivelazione. Non c’è che da tradurre presso a poco la
generale teoria filosofica della conoscenza nel modo cristiano
trinitario e comprendere Cristo come colui che illumina e redime
lo spirito e rivela il Padre per guadagnare la teologia della fede
a partire dalla filosofia"168.
È nel dinamismo conoscente dello spirito, che tende alla visione
di Dio, che la sua azione rivelatrice è vista come concessione
della luce interiore dell'essere: "la fede è ornamento dello
spirito con una luce nuova (lumen fidei) che, se per adesso non
permette di contemplare ancora l'oggetto dell'illuminazione nelle
sue ragioni intrinseche, può essere tuttavia compreso come
l'inizio di una visione siffatta"169.
Le diverse tendenze, che nel corso della riflessione dei secoli si
sono susseguite, non hanno potuto evitare di affermare come
all'aspetto della fede cristiana, corrisponda un'intelligenza che
le è propria, infatti: "è alla fede che si comunica la luce di
Dio, mediata certo nei segni e nelle testimonianze, ma già

32
segretamente in quella immediatezza che si avrà in modo manifesto
solo nella visione beata"170.

2.2.5. La luce come elemento della forma della fede

Visto il legame inscindibile tra la fede e la conoscenza, vogliamo


vedere ora gli elementi costitutivi che giacciono nella fede
stessa. Bisogna notare che il discorso deve essere inquadrato in
una dimensione trinitania. Infatti "solo la luce del Padre sul
Figlio porta il credente all'incontro di unione con lui, incontro
che è opera dello Spirito santo"171.
È opportuno, ora, considerare gli elementi di questa fede e
com'essa concerne l'operato dell'uomo posto nel creato:

"la fede è la luce di Dio che brilla nell'uomo; Dio infatti, nella
sua intimità trinitaria, può essere conosciuto solo mediante Dio.
in questo senso i Padri e la grande scolastica hanno parlato del
lumen fidei ed occorre che noi trattiamo in primo luogo di questa
luce, nella quale noi crediamo a Dio e la quale costituisce il
fondamento intimo (causa, motivum, fundamentum) della nostra fede.
Dobbiamo trattarne in primo luogo perché, anche se la
testimonianza di Dio è in sé una e indivisibile e la sua luce,
accesa nel cuore dell'uomo, illumina centralmente il Figlio
fattosi uomo, tuttavia è anche vero che di fatto ciò che è
illuminato può non essere colto dall'uomo, senza che per questo la
luce interiore debba necessariamente essere estinta"172.

In un altro brano l'autore svizzero evidenzia le dimensioni della


luce di Dio che nella morte per amore spalanca le possibilità di
conoscenza da parte dell'uomo: "La luce di Dio che brilla nei
nostri cuori (2 Cor 4,6), splende ai fini della conoscenza del
Figlio, ma anche mediante lui che, morendo nel mondo, della morte
d'amore di Dio, e vincendo nella sua espiazione le tenebre del
cuore, rende possibile l'írradiarsi di questa luce.Essa è luce di
Dio come vita, grazia, verità"173.
La fede, allora, è segno: "della partecipazione alla libera
apertura della vita e della luce intradivina, così come la
spiritualità creata significa partecipazione all'apertura della
realtà in quanto tale"174. E nel momento in cui si rivela la sua
luce libera, al tempo stesso è detto che questa luce deve, in
colui nel quale splende, liberare verso la libertà divina: essa
dona cioè la libertà della risposta e quindi anche la possibilità
del rifiuto175. Infatti, l'autore afferma che: "l'autentica luce
divina può essere giustamente oscurata, per cui spesso non riesce
a filtrare che solo un bagliore"176.
La fede conserva, quindi, nella sua libertà la possibilità di un
rifiuto: ecco perché essa contiene anche l'aspetto di essere
"oscura inchoatio visionis"177.
Ancora in un altro passaggio Balthasar afferma l'intraprendenza di
Dio capace di vincere tutti i nostri ostacoli: "La luce
dell'essere, nella quale noi conosciamo ogni ente, senza poterla
ogni volta osservare oggettivamente e che tuttavia nello stesso
tempo scorgiamo ogni ente, giacché noi possiamo conoscere

33
qualsiasi cosa soltanto nella luce e nella prospettiva dell'essere
questa luce si approfondisce e si eleva nel lumen fidei
origeniano-agostiniano-tomasiano"178.
In questo presupposto il credente può sottomettersi ad un'autorità
esterna in quanto: "il lumen fidei infuso in lui e al cui
splendore egli si sottomette, non è più eteronomo della luce della
ragione naturale innata. Infatti anche questa luce (come lumen
intelleclus agentis) propriamente non è la luce sua propria, ma il
suo essere aperto alla luce dell'essere stesso che brilla a
lui"179.
Questo ci fa riflettere come solo nella conoscenza, già ogni volta
presente dell'essere, è possibile pensare razionalmente, volere ed
amare liberamente. Lo spirito che conosce l'essere, sa ed ama,
ogni volta, più di quanto non riesca a portare nelle dimostrazioni
o nelle formulazioni logiche. Allora la fede diviene quell'atto di
donazione obbediente alla luce che si irraggia, nella quale,
credendo ma non vedendo, si riceve la partecipazione alla saggezza
del Dio che rivela. È chiaro, allora, come solo nella forma di
Cristo presente nel mondo: "la luce interiore della grazia e della
fede incontra la sua verifica unicamente valida, nella misura in
cui qui e soltanto qui diventa visibile una forma nella quale
tutto si accorda alla luce che vede, ma nella quale chiaramente
questo accordo non poteva essere raggiunto che a partire da Dio e
non può quindi essere riconosciuto come tale se non a partire
dalla luce della fede"180.
Parlare della fede cristiana resta impossibile se si vuole
prescindere dal tema della luce e della forma. Così, infatti, si
esprime von Balthasar: "La luce della fede non può quindi essere
mai concepita o sperimentata, nemmeno per istante, come una realtà
psichica puramente immanente, bensì unicamente come irraggiamento
della presenza di un lumen increatum, di una gratia increata,
senza che noi possiamo astrarre in questa luce e in questa grazia,
dalla incarnazione di Dio. Se questa luce, questa grazia, è
cristiforme, allora quanto vi è di luminosità in essa è anche
determinato dalla forma oggettiva"181.
Ed ancora oltre: "Ciò che Dio mi dona interiormente come sua
parola di luce e di grazia, non a caso, ma essenzialmente,
possiede la forma che Gesù Cristo ha nella dimensione pubblica
della storia"182.
Tutto il mistero del cristianesimo consiste nel fatto che la
forma, proprio perché posta ed affermata da Dio "non si oppone
alla luce infinita e anche se in quanto forma finita e mondana
deve morire allo stesso modo in cui è destinata a morire ogni
bellezza terrena, tuttavia non scompare in una realtà senza forma,
lasciando dietro di sé una nostalgia tragica ed infinita, ma
risorge in Dio come forma che adesso in Dio è diventata
definitivamente una sola cosa con la parola e la luce divina che
Dio ha destinato e donato al mondo"183.
Nel soggetto stesso, la luce di fede solo allora è luce quando
l'uomo uscendo da sé e rinunciando ad ogni evidenza propria, si
consegna all'origine che gli sta aperta dinanzi, per grazia:
"l'origine della luce nella forma di Gesù Cristo, così come gli si
fa incontro nello spazio della Chiesa"184.

34
Il cristiano, che con il battesimo muore e risorge in Dio, vede
che tutta la vita non è altro che l'iniziazione e l'esercizio
della morte e risurrezione radicale. Infatti, sperimenta che: "la
sua forma terrena passa, ma dalla luce di Cristo gli viene donata
sempre nuovamente una forma cristiana"185.

2.3. La luce nell'orizzonte ermeneutico della croce

L'evento della Croce ci spinge a vedere i suoi risvolti positivi


all'interno di quel contesto della visibilità di tutte le cose che
è la bellezza. In questo ambito la Croce appare come il massimo
della visibilità, e se il contesto, l'orizzonte di questa bellezza
è la luce, la Croce come forma di questo orizzonte, come sua
chiusura, sarà il suo centro luminoso più intenso e visibile. La
Croce si segnala al nostro vedere come il centro e la luce che in
essa è rivelata e nascosta, la continua dialettica tra la tenebra
che viene dissipata dalla luce del segno che la contiene, ci svela
la sua centralità che è un vedere, un contemplare la verità stessa
come luce.

"I cristiani di oggi, in una notte più profonda di quella del


medioevo, hanno il compito di compiere imperturbati a dispetto di
ottenebramenti e di distorsioni quell'atto fondamentale che dice
di sé all'essere in rappresentanza supplente per l'umanità: atto
per essi a tutta prima teologico, che però reca inclusa tutta la
dimensione dell'atto metafisico dell'affermazione dell'essere
[...]. Se devono brillare come stelle nell'universo tocca ad essi
il dovere di illuminare lo spazio ottenebrato dell'essere,
affinché la sua luce originaria tomi ad irradiare non solo per
loro, bensì per tutto il mondo; giacché solo in questa luce l'uomo
può comunicare in modo conforme al suo vero destino"186.

Il confronto che la narrazione della Passione di Gesù e della sua


Croce impone è un confronto con la storia degli uomini, nello
svolgimento di una storia chiaramente definita nel senso che
quella morte e quella Croce includeva, in ragione del Crocifisso e
della crocifissione. L'appello compromesso nel giudizio dell'uomo,
nel deliberare o volere la crocifissione di Gesù, ha implicato
tutte le dimensioni dell'uomo e della storia umana: quella
religiosa, in quanto la morte data è un appello alla non divinità
dell'uomo, quella della libertà dell'uomo in quanto la morte è
limite ed è posta storicamente come costrizione di un patibolo;
della verità in quanto la morte è una caduta nell'oblio del senso:
la morte è un non senso che chiude nell'ignoto ogni verità
dell'uomo, allo stesso modo sembra far esaurire l'appello a Dio
come a un Dio ignoto.
Se la Croce di Gesù deve porsi come criterio ermeneutico della
Rivelazione e quindi della teologia, come criterio di comprensione
dell'evento cristiano, la situazione della Croce di Gesù, di una
sua interpretazione e comprensione teologica, non deve essere
posta dialetticamente in rapporto alla Risurrezione o alla

35
Divinità o alla salvezza, ma compresa nella sua stessa
problematica storica.
È la stessa Croce di Gesù che pone una tensione ermeneutica, che
urge una comprensione, che pone un confronto in termini
definitivamente aporetici, sospendendo ogni altro confronto e
nello stesso tempo elevandolo alla dimensione della propria verità
che dovremo dichiarare come "differenza teologica" della Croce di
Gesù.
Necessita, dunque, assumere quella croce nel suo porsi originario,
in modo che la comprensione dell'uomo venga a trovarsi davanti ad
un diverso interrogativo: quello implicato e compromesso in modo
unico e irripetibile nella croce di Gesù, nella verità del morire
di Gesù con quella Morte.
L'oscuramento della comprensione di fede della verità del morire
storico impone una sospensione, una interruzione, un vuoto, una
tensione nell'istanza di dover ammettere la negatività della morte
connotata da una storicità. La dimostrazione o svelamento della
verità che in essa accade come configurazione del morire vissuto.
Questa concentrazione sulla croce, quale elemento della forma
oggettiva della rivelazione, ci obbliga a far astrazione dal
momento centrale della correlazione fra chi si manifesta recando
con sé le condizioni per essere percepito, e il destinatario di
tanta manifestazione.
Vogliamo, cioè, far luce sul fatto per cui Dio avrebbe trovato la
sua vera rivelazione e glorificazione nell'evento della morte di
croce di Gesù Cristo. Inoltre comprendere il motivo per cui la
croce, l'evento dello iato della morte e della diastasi
intratrinitaria, rappresenta l'apice della rivelazione e in ciò
stesso la sua massima glorificazione187.
Quanto prospettato ci porta, in modo particolare, a soffermarci
sull'evidenza oggettiva che permette di cogliere la croce
nell'assieme della forma della rivelazione e a vedere il centro
della forma della rivelazione, precisato ulteriormente, nella non
figura del Crocifisso.

2.3.1. La croce centro luminoso della rivelazione

Abbiamo già ravvisato in precedenza il rapporto che intercorre tra


luce e rivelazione in senso generale. Ora, scendendo in un'analisi
particolare, vogliamo vedere quale sia il centro della
Rivelazione, che nella sua posizione originaria si mostra a noi
come una luce in cui appare la bellezza della sua forma.
Balthasar introduce quest'analisi con parole che permettono di
cogliere per il credente l'indispensabilità del rapporto con
Cristo, giacché scopre in Lui la forma originaria e il modello da
realizzare: "L'immagine dell'esistenza è irradiata dall'archetipo
Cristo e formata dallo Spirito creatore, con l'elevatezza di colui
che non ha bisogno di distruggere quanto c'è di naturale per
raggiungere il suo fine spirituale. Per ciò stesso è anche
evidente che il cristiano solo allora compie la sua missione,
sempre e anche soprattutto oggi, quando diventa questa forma
voluta e fondata da Cristo, nella quale l'esterno esprime e
riflette un interno credibile al mondo, e l'interno viene

36
dimostrato e giustificato nella sua verità attraverso ciò che è
rappresentato, e viene cosi reso degno di essere amato nella sua
bellezza sfavillante”.
Il piano divino si realizza nel rispetto, senza il bisogno di
dover annientare la natura, e quindi nell’umanità stessa che viene
così valorizzata ed innalzata, pur conservando la debita distanza:
“a dare testimonianza è Gesù Cristo che, in quanto uomo, utilizza
tutto l’apparato espressivo umano dell’esistenza storica, dalla
nascita alla morte, in tutte le età, le condizioni, le situazioni
individuali e sociali. Egli è ciò che esprime, cioè Dio, ma egli
non è colui che egli esprime, cioè il Padre. Paradosso
incomparabile che costituisce il punto originario dell'estetica
cristiana e quindi di ogni estetica"189.
Tutta la vita di Cristo allora diviene opera salvifica iniziata
dal Padre, ed ogni momento è collegato e dipende da ciò che
precede e ciò che segue: "da qui l'idea grandiosa di vedere nella
risurrezione di Cristo, cadere dall'alto, per portare consumando
con sé, il fuoco di Dio e di porre quindi la croce e la
risurrezione (e quindi tutta l'esistenza eternamente trasfigurata,
nel cielo, di Cristo) come due fasi di un unico atto sacrificale
redentore e di trovare così anche un nuovo approccio alla
spiegazione del sacrificio della messa. Nel momento in cui la
croce stessa viene vista come gloria e questa s'irradia su tutta
l'incarnazione, nel momento in cui la croce viene considerata non
già come mezzo, ma come rappresentazione dell'amore e dell'essenza
di Dio"190.
Sorge, allora, l'interrogativo che deve stimolarci nella nostra
riflessione teologica ed aprirci alla visione del vasto orizzonte
salvifico in cui siamo chiamati a collaborare, la dimensione della
bruttezza e della brutalità di una morte che rinnova dando nuovo
senso alle cose: "Come poter comprendere però la bellezza della
croce senza l'abisso della tenebra nella quale sprofonda il
Crocifisso"191.
Per S. Paolo tuttavia l'uomo può comprendere se stesso solo se
crede, se ha coscienza di essere in cammino tra la sua
giustificazione nella morte e nella risurrezione di Cristo ed il
ritorno del Signore192. Continuando il nostro discorso, notiamo la
differenza che von Balthasar ci mostra tra il discorso di Dio in
Gesù e il discorso della Chiesa: "la testimonianza che Dio dà di
se stesso in Gesù Cristo, fattosi uomo, morto in croce e risorto
dal sepolcro, identica con la testimonianza della vita di Cristo,
è per Dio qualitativamente diversa dalla testimonianza ufficiale,
data dall'annuncio della chiesa, su questa testimonianza
trinitaria. È a partire da quest'ultima che deve essere mostrata e
giustificata la fede umana"193.
Stimolante e provocatoria appare la netta distinzione che il
nostro autore pone a riguardo della luce della fede e della luce
della ragione, cioè dei due differenti modi di poter comprendere
la rivelazione di Cristo, conservando le prerogative dei
differenti approcci:

"è possibile obiettare che la luce della fede, in quanto


partecipazione alla natura e alla verità divina, in quanto

37
elevazione e ordinamento ontologico dell'uomo alla visione di Dio,
è essa stessa un mistero della fede e che non perviene quindi
nella sfera della coscienza o vi perviene solo in modo inadeguato.
La risposta a partire dalla visione agostiniano-tomista
dibatterebbe, fondandosi sull'analogia tra luce della ragione e
luce della fede, che il lumen fidei (come quello dell'intellectus
agens) come tale non può divenire mai oggettivo, ma che brilla
solo nell'atto della fede (o dell'atto della conoscenza)
oggettivamente orientato. Qui tuttavia fede e conoscenza
divergono: mentre ciò che, nell'atto di conoscenza, brilla nella
conversio ad phantasma è la luce dell'essere, a cui l'intelletto
agente in quanto tale è in potenza di credere, bensì la potenza di
Cristo di far partecipare alla sua luce e alla sua forza colui che
non ne è capace. La luce dell'essere avvolge soggetto ed oggetto
ed è, nell'atto, la loro identità superiore. La luce della fede ha
origine dall'oggetto che si rivela al soggetto e lo attira al di
là di se stesso"194.

Con questi punti fermi, non ci resta che entrare nel vivo della
questione, notando come il kerigma ponga Cristo al centro della
Rivelazione: "nella misura in cui tutto il contenuto del kerigma
proprio in quanto dottrina dell'avvenimento pasquale, non è altro
che la trasposizione in parole di Gesù, Verbo incarnato, che muore
e risorge per noi, e la fede consiste nell'essere consepolti e nel
conrisorgere di tutta l'esistenza credente con questa parola di
Dio, allora l'atto di fede, compreso nella sua globalità"195.
La croce non è, dunque, da leggere in modo distaccato dalla vita
di Cristo, ma è la conclusione di un cammino di realizzazione di
un progetto: "chi è stato in grado di leggere la croce non
soltanto come un evento puramente materiale, ma come il compimento
di tutta la forma interna della vita di Cristo, per costui è
ovvio, anzi è da attendersi, che il risultato di questo evento in
cui il peccato del mondo è portato, espiato, cancellato, venga
adesso applicato, in un segno sacramentale efficace, al peccatore
che confessa la sua colpa e si mette sotto la redenzione operata
nella croce"196.
La rivelazione diviene il momento massimo della ricapitolazione,
ma anche il paradosso per eccellenza, in cui è affermata la
distanza tra umano e divino, colmata solo analogicamente dalla sua
gloria. Essa "doveva però, al di là di ogni attesa e speranza
delle creature, ricapitolare tutto il cielo e la terra in un capo
divino-umano e dare quindi loro un coronamento di grazia il cui
splendore di gloria, appartenente al Signore del mondo, doveva
irraggiare su tutta la creazione. Così la stessa forma del mondo
che, era già in quanto tale rivelazione della doxa divina, diventa
in Cristo e nello Spirito santo effuso da lui, un tempio che in sé
e al di sopra di sé contiene il kabod di Dio come il tabernacolo e
l'edificio di Salomone"197.
Cristo, dunque, non è solo il punto centrale di convergenza, ma il
centro stesso della rivelazione, anzi ne è la forma per eccellenza
perché tutte le forme mondane ad essa si rapportano ed in essa si
misurano: "solo nella divinità di Cristo, cioè nel rapporto che in
lui c'è tra le due nature e, in esso, nel suo rapporto al Padre

38
nello Spirito Santo, si manifesta la forma propria ed intima della
rivelazione cristiana"198.
Continuando ancora oltre, ponendo Cristo come forma fondante a
confronto con tutte le forme create, afferma: "La forma di tutte
le forme è la misura di tutte le misure, così come è anche la
gloria di tutte le glorie della creazione"199.
Balthasar ci aiuta nella comprensione che solo in Gesù è possibile
il manifestarsi a noi della forma nel suo splendore, proprio
perché egli come uomo si presenta e manifesta il progetto
trinitario: "ciò che è decisivo è che nella sua forma-splendore
non venga separato e distinto ciò che egli è come uomo e ciò che è
come Dio, ma che venga costatato soltanto che può essere
l'impronta irraggiante di Dio che è in quanto uomo, solo perché è
essenzialmente e trinitariamente uguale a Dio. E tuttavia questa
sua gloria eterna può essere afferrata da noi solo in quanto egli
l'ha ricevuta e ne è stato investito come uomo"200.
L'uomo Gesù, nella sua visibilità, non è un segno che rimanda al
di là di sé ad un invisibile Cristo della fede, ma è egli stesso
l'immagine e la manifestazione di Dio e l'indivisibile uomo-Dio,
l'uomo nel quale brilla Dio è Dio che appare nell'uomo Gesù. Il
nostro autore rifacendosi all'apostolo Paolo afferma come egli
intende "con il Figlio di Dio sempre già il Figlio incarnato,
nella cui luce e nella cui gloria si rende presente la pienezza
trinitaria di Dio e riempie con la sua gloria la creazione
redenta, non ha bisogno di essere dimostrato. L'immagine e lo
splendore in cui guardiamo, per essere trasformati in questa
stessa immagine, di splendore in splendore, irraggia dal Signore
incarnato. Egli è lo Spirito, egli è l'accesso al Padre e la sua
immagine. Ed anche l'illuminazione più intima di Dio nel nostro
cuore avviene perché la conoscenza della gloria di Dio brilla sul
volto di Cristo, che è la stessa cosa, perché vediamo e
comprendiamo che il vangelo risplende della gloria del Cristo"201.
Notiamo bene come la gloria di Dio non è mai separata, neppure per
un solo istante, da quella dell'Agnello, come, allo stesso modo,
non è mai disgiunta la luce trinitaria da quella del Verbo
incarnato nel quale il cosmo è ricapitolato ed elevato a città
sponsale202.
Si può constatare chiaramente che si rivela non solo ciò che Dio
è, cioè, amore. Si rivela al tempo stesso che Dio si è impegnato
in modo insuperabile, senza possibilità di ritorno nella sua
rivelazione amorosa attraverso la carne e il sangue e nel loro
sacrificio. Per chi ha imparato a leggere l'immagine del Figlio
che effonde il suo sangue sulla Croce non offre più alcuna
sorpresa il permanere di questo impegno nell'eucarestia, la quale
non è se non la dimensione dell'eucarestia che esce fuori203.
Comprendiamo bene le dense parole del nostro autore che intuisce
nella bellezza offerta per amore il senso pieno del suo offrirsi
in sacrificio che, se da un lato, può deturpare la forma esterna
non può, dall'altro, intaccare in alcun modo la luce della sua
fonte: "alla bellezza appartengono non solo misura, numero e peso
della materia organizzata, ma anche la forza del principio
organizzatore che si esprime nella forma senza perdersi

39
nell'espressione esterna. La gloria dell'essere libero e più
profondamente ancora del potersi prodigare per amore"204.
Il Dio di Israele, assolutamente comprensibile nella sua
rivelazione ed esigente una comprensione di fede, si mostra nella
storia come colui che è sempre più inafferrabile e solo così
mostra veramente se stesso. E solo una fede estremamente viva,
sostenuta dalla rivelazione, è in grado di riconoscerlo, in questa
forma di rivelazione, proprio come il Dio vero e vivo: "La
rivelazione positiva di Dio, iniziante con la promessa originaria
all'uscita del Paradiso, attraverso Noè, Abramo e Mosè fino a
Cristo e alla sua chiesa, non è un surrogato o un rattoppo, ma
compimento assolutamente intrinseco ed organico del piano
originario di Dio, anche se ormai la forma ultima in questo mondo
sarà la croce e la luce della glorificazione dello Spirito Santo
che cade su di essa"205.
In Gesù Cristo la rivelazione di Dio si compie nel velamento. Non
soltanto negli avvenimenti della passione, ma già prima nella
incarnazione. Già nel puro fatto che la parola diventa carne:
paradosso inconcepibile nel quale confluiscono tutti i paradossi
della creazione e della storia della salvezza206. L'incarnazione
della Parola sta però a significare, ancor prima dì ogni
riflessione particolare, la rivelazione, perché Dio viene qui
spiegato all'uomo attraverso, nient'altro che l'uomo stesso,
soprattutto non attraverso delle parole di insegnamento, ma
attraverso la sua stessa vita e il suo stesso essere207.
Ricorrendo, ancora, alle parole del nostro autore, consideriamo
come la rivelazione, unitamente all'incarnazione come suo naturale
prosieguo, sia una prima forma di kenosi da parte del Cristo: "Il
Figlio rivela il Padre nella forma di servo e lo Spirito Santo,
come gloria di Dio, illumina questa forma di servo e fa vedere la
sua gloria"208.
Un servo che mostra tutta la sua gloria perché ha in se stesso la
luce necessaria per risplendere di quella bellezza propria fin
dall'eternità: "Allora la glorificazione del Figlio ad opera dello
Spirito Santo non avrebbe potuto far risplendere niente che non si
fosse già rivelato nell'umanità del Figlio"209.
La forma di Cristo esige però, per essere afferrata oggettivamente
come essa si dà, la compagnia degli uomini che essa incontra in
tutte le sue dimensioni. L'incarnazione è avvenuta anzi in
funzione di questa compagnia e di questo essere presi assieme:
"anche se solo il Figlio di Dio è uomo, la sua umanità è tuttavia
necessariamente espressione di tutta l'essenza trinitaria di Dio.
Solo così egli può essere rivelazione dell'Essere assoluto"210.
Se, come abbiamo cercato di cogliere, mostrando la centralità
luminosa di Gesù Cristo nella Rivelazione, per il fatto stesso che
la rivelazione, con la sua incarnazione, diviene oggetto del
nostro orizzonte di visibilità in cui noi, percependo la bellezza
dell'evento ne restiamo estasiati, nel senso di esserne coinvolti
perché irraggiati, ciò non elimina l'ostacolo fondamentale di
vedere la rivelazione, in quanto forma armonica, si scontra
inevitabilmente contro lo scandalo della croce, la quale possiede
tutte le prerogative per essere esattamente l'opposto di ogni
contemplazione estetica e quindi la negazione di ogni forma.

40
Balthasar, come vedremo meglio, è cosciente di questa obiezione,
ma farà proprio di questa negazione, insita nella croce, il centro
della forma della rivelazione.

2.3.2. Duplice dialettica: velamento-svelamento, tenebra-luce

"Il conflitto tra le tenebre e la luce è una guerra di potenze,


una guerra di dei a tutti i livelli cosmici, antropologici etici
ed escatologici. Una guerra che costituisce il mito soggiacente a
tutta la storia umana"211.
In cosa consiste il conflitto fra le tenebre e la luce? Quale
possibilità di mediazione può esistere tra questi due estremi?
Come si realizza la vittoria della luce? sono gli interrogativi
che ci guideranno nel nostro ulteriore sondare il mistero della
Croce di Cristo.
Balthasar invita il lettore a riflettere sul problema della
negatività, del tenebroso come momento di passaggio per uno
svelamento pieno della luce del bello che si deve imporre passando
nel momento della purificazione, della rottura:

"Laddove non bisogna dimenticare che anche l'estetica mondana non


può mettere da parte il momento della bruttezza, della rottura
tragica, del demoniaco, ma deve venire fuori. Ogni estetica,
infatti, che tenta semplicemente di ignorare questa dimensione
tenebrosa, può essere fin dall'inizio ignorata come estetismo. Non
è soltanto la limitatezza e la minaccia che pesa su ogni forma
bella ad appartenere al fenomeno, ma la rottura come tale. In essa
soltanto infatti risplende il senso della promessa escatologica
implicita nel bello. Ciò non viene qui ricordato per rinchiudere
la croce e la kenosi di Dio dentro le misure e le leggi di una
estetica naturale. Questa assume da parte sua le modalità
dell'esistenza decaduta per dare ad esse, nella sofferenza
redentrice, un valore nuovo"212.

Il tema delle tenebre e della luce ci pone su un altro piano, ma


di uguale intensità, quello del velamento-svelamento che racchiude
il mistero stesso della rivelazione e il suo centro stesso, la
Croce, come momento degli opposti che si concretizzano e si
mantengono nella loro alterità: "si tratta cioè
dell'inafferrabilità sovrana e soggiogante del fatto che Dio ci ha
amato tanto, da dare per noi il suo unico Figlio, per cui il Dio
della pienezza si è annichilito non solo nella creazione, ma anche
nella modalità dell'esistenza determinata dal peccato, votata alla
morte e lontana da Dio. Questo è il velamento che si manifesta
nell'autosvelamento, l'inafferrabilità di Dio divenuta afferrabile
nell'afferrabile"213.
Il carattere dell'incomprensibilità del mistero, nonostante la sua
visibilità, è parte integrante del mistero stesso e il nostro
stesso vedere un giorno Dio faccia a faccia non eliminerà quegli
aspetti di difficoltà e di lontananza che distinguono il Creatore
dalla creatura. Quindi, non è contraddittorio poter affermare che
noi vedremo Dio incomprensibile dentro ogni comprensione, cioè è
un vedere ed un comprendere il mistero senza che esso venga

41
defraudato del suo carattere di mistero. Comprendiamo bene com'è
proprio qui che si fonda la visione della kenosi storico-salvifica
di Dio, che noi consideriamo alla luce della gloria di Dio. Ma
proprio in questa luce la kenosi ci apparirà come essa è.
Un altro problema sorge nel nostro rapportarci a questa luce che
rivela, ed è la nostra capacità come soggetti di avere una
precomprensione di ciò che può accadere, perché quella infinita
distanza in qualche modo è stata colmata con il rivelarsi di Dio
in Gesù di Nazaret: "La precomprensione fondamentalmente non è
qualcosa che il soggetto porta come contributo alla conoscenza
cristiana. Essa è invece data necessariamente per il fatto
semplice ed oggettivo che Dio si fa uomo e si dà quindi una
corrispondenza tra lui e le forme universali umane dell'esistenza
e del pensiero. Ma ciò che vi è di particolare nella forma di
Cristo può manifestarsi solo a partire da lui dentro queste forme
generali"214.
Il mistero del messaggio salvifico di Cristo non cambia nei
secoli, perché la sua luce è permanente, ed anche la
precomprensione dell'uomo di tutte le epoche ne viene irraggiata
direttamente come se si trattasse di un rapporto istantaneo con la
verità di Cristo. La sua comprensione è quindi possibile nella
misura in cui l'uomo si lascia trasformare da questa verità:
Ciò che trasforma non un singolo evento, quanto tutta l'esistenza
di Gesù, nella sua interezza di comprensione è, nell'unità della
sua vita che si svela, il mistero nascosto nei secoli che cerca il
suo adempimento: "il vangelo ci presenta invece la forma di Cristo
in maniera tale che carne e spirito, incarnazione nella passione e
nella morte e risurrezione dalla morte siano vicendevolmente in
rapporto fin nei dettagli più minuti. Se si elimina, la
risurrezione allora, nella vita terrena di Gesù, non è solo
qualche aspetto, ma tutto che diventa incomprensibile. La prima
forma, terrena, può essere letta solo se si vede che deve essere
totalmente consumata nella morte o nella risurrezione. Ma morte e
risurrezione, che formano una stretta unità ideale, sono
comprensibili solo come trasformazione di questa forma terrena,
nella potenza di Dio"215.
Altro punto di contrasto che potrebbe in qualche modo non far
comprendere questa dialettica del velamento-svelamento è
l'accordo, come ci sia accordo, armonia, proporzione tra volere
del Padre e missione del Figlio: "Questo accordo tra missione ed
esistenza è riportato da Cristo al fatto che egli non compie la
sua volontà, ma quella del Padre, che non si è quindi dato da sé
la sua missione, ma l'ha ricevuta nell'obbedienza, che non si
tratta quindi di un caso privilegiato dell'armonia tra idea ed
esistenza, tra idealità e realtà, ma di una presa in servizio di
tutta la sua esistenza da parte del Dio vivente: la missione
quindi è divina, l'esecuzione umana e la proporzione di perfetto
accordo tira le due è divino-umana"216.
In questa missione del Figlio non si nota disaccordo o
incongruenza, discontinuità o cambiamento di orientamento, ma
tutto resta un cammino verso una meta incomprensibile alla mente
umana. Fa parte del fenomeno, che egli non solo mantenga la sua
parola e sia pronto a morire per essa, ma che egli sia questa

42
parola stessa, che gli metta già in conto ogni volta la sua morte
particolare, come qualcosa che appartiene alla sua esistenza: "Il
pendio della sua esistenza corre verso una morte che non soltanto
viene attesa, messa in conto, affermata, desiderata ma viene
compresa altresì come la quintessenza della sua missione di
redenzione per il mondo. L'insuccesso crescente, l'isolamento
progressivo, lo scandalo che egli costituisce, non costringono ad
una strategia nuova, ma svelano lentamente il senso primo ed
autentico"217.
Constatiamo come sia dinamica l'incarnazione della Parola, nella
sua discesa sempre più profonda fino ai confini della sofferenza
fisica e spirituale, a cui bisogna aggiungere il memoriale
passionis come momento ultimo del suo svelamento.
L'immagine di Dio, che Cristo concretizza per noi, abbraccia quel
dinamismo per cui si può parlare ed agire nella potenza di Dio, da
una parte, e soffrire e morire nell'impotenza dell'uomo,
dall'altra: "Dio scende ormai nella carne umana giudicata, la cui
sofferenza e la cui morte sono tutt'altro, tranne che un come se:
questo è l'incarnazione, non più come stato, ma come avvenimento
o, se si vuole, come misurazione dinamica ed evenenziale della
propria condizione statica previa"218.
Inoltre, tale considerazione, dà rilievo all'altro aspetto di
questo movimento di Dio che si fa uomo, quello dell'innalzamento
dell'uomo stesso alla gloria di Dio, tramite la sua obbedienza
umana fino alla morte, fatto che rende palese come l'uomo non è
Dio: "questo adeguamento dell'uomo a Dio, è il movimento contenuto
già nel movimento di Dio, il movimento dell'esaltazione dell'uomo
alla destra di Dio, dell'innalzamento del servo a Kyrios del
mondo, della trasfigurazione del sofferente e del morente
nell'immortalità e nella risurrezione divina"219.
Cristo non ha bisogno di essere riconosciuto come luce: lo è già
per la sua stessa qualità che l'impone all'attenzione delle
tenebre ponendo quella differenza qualitativa con tutti gli altri
oggetti, che sono illuminati dalla sua luce: "è la luce oggettiva
del fenomeno, la sua giustezza oggettiva ed irraggiante, che deve
brillare, come grazia della fede, al soggetto che lo incontra. Il
soggetto illuminato riconosce allora, e sempre meglio, in che
misura la luce proviene dall'oggetto e inabita in esso, e nella
luce dell'oggetto impara a distinguere questo da tutti gli altri
oggetti"220.
Ma il fatto che la luce s'imponga non significa che tutti siano in
grado di coglierla nella sua visibilità, che tutti coloro che
hanno occhi per essa la riconoscano, perché è li che si evidenzia
lo scandalo della tenebra: "Colui che vede in forza della sua
visione, comprende che l'evidenza oggettiva di questa forma non
esclude la possibilità e la realtà dello scandalo, ma che al
contrario lo esige; egli è quindi in grado di mostrare come lo
scandalo sorga"221.
La luce ha la possibilità di imporsi sulle tenebre diradandole, ma
fa a meno di usare lo splendore esterno di questa luce, per
conservare il mistero della rivelazione che è svelamento e
velamento allo stesso tempo: "Ha il suo splendore dall'interno e
fa necessariamente a meno, unitamente all'oggetto contemplato,

43
dello splendore esteriore, della forza di convinzione puramente
mondana"222.
La luce deve assumere il mondo dell'oscurità, farlo proprio per
fare emergere poi la sua verità. Il nascondimento di Cristo può
risplendere solo nel mio nascondimento, operato da lui stesso,
allora solo il conformarsi della nostra esistenza all'immagine che
Dio ci offre e che splende interiormente nella nostra tenebra come
luce di Dio: "Se il mondo sussistesse per istruire l'uomo su Dio,
la sua divinità splenderebbe in esso da ogni parte in modo
incontestabile; ma siccome non sussiste che in Gesù Cristo, e per
istruire gli uomini sulla loro corruzione e sulla loro redenzione,
tutto nel mondo risplende delle prove di questa verità"223.
Solo in questi termini possiamo comprendere ciò che von Balthasar
esprime in termini lapidari, di una chiarezza unica, mostrando
come la rivelazione è il nascondersi della luce, cioè il cammino
dell'amore fino alla fine: "La gloria lampeggiante stessa possiede
il modo del nascondimento ed esige occhi adeguati per essere
percepita"224.
Non basta che Cristo si riveli, ma occorre avere uno sguardo
illuminato da quella stessa luce per poter comprendere la
rivelazione stessa, farla propria testimoniandola con la vita. È
una rivelazione che nel rivelarsi invita l'uomo a scoprirla,
lasciandolo nella sua massima libertà di potere accostarsi
accettandola o starsene lontano rifiutandola. Ma il confronto con
l'uomo non può eliminare l'oggettività del dono e del mistero
della rivelazione stessa nella sua dimensione di tenebra e di
luce. Questo è l'enigma, il mistero che s'impone tra necessità e
libertà, eroismo, ordine e scissione. La scelta da parte dell'uomo
del tutto, dell'ordine o della colpa. L'uomo è chiamato a superare
se stesso. Una situazione tragica esistenziale necessaria perché
l'uomo scelga no da eroe, l'eroe è abbattuto nella tragedia, ma da
misero, succube dell'ignoto di cui la tragedia rivela un mistero
occulto225.

2.3.3. La morte in croce come effusione di luce

La passione, morte e risurrezione di Gesù, come unico centro


focale e luminoso del percorso della rivelazione del Padre, ci
appare come il momento fondante la nostra riflessione sulla
bellezza tragica della Croce. La vicenda del Golgota è descritta
come un quadro dalle diverse tonalità di colore: "nella passione
egli trova tutta la predicazione di Gesù come nel suo nucleo di
energia, qui egli ha il Padre che si rivela, qui ha lo Spirito,
qui i sacramenti, qui l'origine della Chiesa spiritualmente
invisibile e visibile in immagini di eloquente somiglianza: la
sostituzione con Barabba, la crocifissione tra i due ladroni così
diversi e così uniti, il concorso di pagani, giudei-cristiani
nella maniera più caratteristica, l'equilibrio della giustizia e
della ingiustizia suprema, del velamento più profondo e dello
svelamento più alto di Dio"226.
È proprio in questa sintesi del mistero, che rivela con forza la
bellezza del proprio contenuto, che l'uomo è rinviato fino
all'origine del mistero stesso: "ora è il tutto sintetico che

44
rimane inafferrabile nella evidenza della sua bellezza. E come lo
sguardo rivolto al bello, risalendo all'indietro, si perde nelle
profondità del soggetto geniale, al di là della pura psicologia,
in quel luogo in cui a lui e al suo occhio particolare si è
rivelata la realtà nel suo mistero, che risalga all'indietro fino
al mistero di Dio che, in questa genialità cristologica: manifesta
se stesso nel proprio mistero sovraluminoso"227.
Solo in questo mistero sovraluminoso noi comprendiamo che la
tragicità di un evento può essere innalzato a modello di amore,
lasciando dietro di sé la brutalità dell'evento stesso: "si può
vedere nel modo più evidente la conseguenza di questa
identificazione là dove il Figlio del Padre stesso è l'uomo Gesù,
la morte e risurrezione di Gesù vengono sottratte alla sfera del
destino umano e mondano ed innalzate ad espressione dell'amore
divino"228.
Fare della morte uno strumento di salvezza rimane inconcepibile
alla logica umana, ma è proprio nel dramma dell'uomo che Dio
s'inserisce con il suo dramma per gettare uno spiraglio di luce e
per aprire una strada all'amore: "solo il cristianesimo invece ha
fatto della morte la salvezza. Tutte le religioni con un salvatore
predicano la vita dalla morte, il vangelo della croce annuncia
invece la salvezza nella morte. Qui diviene sviluppo supremo di
potenza l'estrema impotenza, diviene salvezza il disastro
peggiore. Non è un dramma che viene coronato con la vittoria
divina, ma è il dramma della rovina umana che diventa, nella sua
totalità espressione dell'amore eterno"229.
È chiara l'attenzione, del nostro autore, nel ravvisare in Cristo
l'evento trinitario, nella misteriosità di lontananza e vicinanza
all'uomo stesso, come l'unica via percorribile d'incontro e di
scontro: "la Trinità che si rivela in Cristo come luce in sé
incomprensibile, illumina invece il rapporto tra Dio e l'uomo in
un modo completamente nuovo ed originalissimo. Le possibilità che
si aprono con questa rivelazione, e le quali evitano gli aspetti
insoddisfacenti delle altre vie, sono inesauribili [...]. La
dottrina trinitaria appare come l'unica possibile teodicea del
mondo, nella cui luce soltanto diventa luminoso ciò che è
inaccessibile a qualsiasi altra"230.
Il mistero nel suo eccesso di luminosità, capace di illuminare e
di dare un senso nuovo a tutte le cose, è capace di produrre
nell'uomo stesso un'ampiezza conoscitiva efficace per la sua
esistenza: "l'interpretazione trinitaria dell'esistenza umana, del
cosmo e della storia del mondo, operata sempre in modo tale che
dalla incomprensibilità del mistero si effonda una luce che rende
comprensibili le cose, procura all'intelletto e alla volontà un
soddisfacimento altissimo progressivo, attinto dal seno dei
mistero sempre più grande dell'essere"231.
Allora ben comprendiamo il perché a Gesù stesso è stato affidato
il compito, apparentemente, contraddittorio di manifestarsi e
nascondersi al tempo stesso. Quanto egli nella sua attività
pubblica più annuncia e guarisce, tanto più chiaramente appare
come il rivelatore e la rivelazione di Dio; proprio questa
rivelazione chiara della sua potenza e della sua parola non può

45
irraggiare svelatamente, perché egli è il Figlio dell'uomo
nascosto nel suo modo divino e nel suo modo umano232.
Balthasar ci fa riflettere su come la discriminante del dramma
della Croce sia quel "già aver saputo" che accompagna il mistero
di una morte che può sembrare ingiusta, ma che è salvifica proprio
per questa sua connotazione particolare: "questo amore è dal
principio luce nelle tenebre che non la comprendono, non la
riconoscono, non l'accolgono. L'accento giace sul dal principio; è
un dramma al di là dell'azione drammatica, di fronte ad un "avere-
sempre-già saputo", cosicché la fine, la morte, è già
all'inizio"233.
Il paradosso di una luce nelle tenebre rimane sempre come
difficile da comprendere proprio per la difficoltà di cogliere
questa realtà del discorso dell'amore racchiusa nella Passione
stessa: "luce nelle tenebre significa sempre: amore che si riversa
sovrabbondante nell'indigenza, cioè concretamente, nella
incredulità, nel brontolio, nella minaccia nascosta o aperta della
morte. Il discorso della morte rivela lo stato interno di
passione: un offrirsi fino al limite dell'indegnità, del gettarsi
in pasto alla gente; un amore inerme che abbandona la propria
sicurezza e che subito dopo deve tuonare come giudizio"234.
Per l'evangelista Giovanni, tuttavia, si tratta sempre di amore
che si dà nelle tenebre e, proprio per questo, si rivela nella sua
gloria, fino al confronto dell'ultima cena con Giuda, nel
turbamento dell'anima di Gesù235.
Di conseguenza la colpa che può generarsi dal misconoscimento
della forma di Cristo non si verifica a motivo di una
insufficiente evidenza oggettiva, o di una poca luce interna al
mistero stesso di Cristo che si rivela, ma per colpa della tenebra
che non vede la luce, non la riconosce e non l'accoglie. La forma
del nascondimento è al tempo stesso la forma della passione, ed in
essa non c'è nulla di gioioso e di edificante, ma solo di
disprezzabile da guardare236. Se le cose si presentano a noi in
questo modo c'è da lasciarsi interrogare da Balthasar sulla
seguente questione: "si può per lo meno formulare allora la
questione se il crocifisso possa essere, per così dire, l'immagine
ufficiale di Cristo nella comunità, oppure se questa in quanto
tale non debba avere come segno distintivo, com'era il caso nella
chiesa antica, il Signore glorioso"237.
La Chiesa è chiamata a contemplare e meditare l'immagine del
nascondimento come cosa necessaria per essere trasformata nella
stessa immagine, nella forza dello Spirito. La contemplazione
diventa proprio qui, quando Dio si vela, una dimensione essenziale
della fede cristiana. Mentre sul Tabor ai discepoli viene impedita
una contemplazione tranquilla della gloria sovrana, qui il raggio
della divinità è talmente richiamato indietro, che l'occhio umano
è in grado di vedere, anche se solo per essere ferito da questa
luce velata, tanto più profondamente, quanto viene più realmente
vista e sostenuta238. Solo così possiamo comprendere, le seguenti
parole: "la forma è percepita già, essa sta compiutamente dentro
l'anima, ma come al buio, ed occorre soltanto ancora
l'autosvelamento della luce, l'identificazione con l'io che si

46
rivela, per trasformare ciò che è oggettivamente conosciuto e
posseduto in possesso soggettivo"239.
La Chiesa, perciò, non è chiusa in se stessa, nel mondo e accanto
al mondo, ma effusione della luce di Cristo in una storia e in una
creazione che non appaiono ancora redente, partecipazione al suo
portare la colpa del mondo, ma al tempo stesso, del suo "aver-già-
portato" tutta la colpa240.
Il dramma di Cristo, resta invisibile al mondo. Infatti il fatto
che esso sia confermato da testimoni oculari non significa ancora
che il mondo, e persino la Chiesa lo possano vedere. Non siamo più
in una condizione di luce non riconosciuta dalle tenebre, ma di
una tenebra che sopravvive grazie ad un eccesso di luce. I piani
quindi sono rovesciati, non è più la tenebra a dettare le sue
leggi, ma è la luce stessa: "la forma di Cristo, che è la
rivelazione di questa drammatica ultima tra Dio e il mondo, appare
nel mondo con una tale pienezza di senso, con una accumulazione
tale delle varie formazioni religiose, che stanno tra il cielo e
la terra, che questa sintesi divina e divino-umana deve operare
l'effetto di una pura sovrabbondanza e quindi di una tenebra che
proviene dall'eccesso di luce"241.
Abbiamo indicato più volte come l'Estetica teologica culmina nella
forma cristologica della storia della salvezza che rende visibile
l'Invisibile, dove l'uomo non è diminuito, ma illuminato da questa
luce più sobria, autenticamente medicinale, nella quale si staglia
in maniera inesorabilmente precisa ogni contorno e ogni gradazione
mondana: "Queste azioni di Dio sono la luce della giustezza che
cade sul mondo corrotto, e in questa luce pensa e comprende in
misura crescente l'Antico Testamento. Si tratta di una luce divina
e non è perciò sostanzialmente diversa dalla luce che si incarnerà
nella natura umana"242.
L'uomo, investito da questa luce, riceve un senso che è più forte
ed autentico di quello che lui è capace di darsi autonomamente:
gli è data la consapevolezza dell'unica possibilità, cioè quella
di far disporre Dio di sé. "È una luce che irrompe dal centro
dell'esistenza storica dell'uomo e del popolo e costringe, in
questo centro, alla decisione e alla confessione, ma che, in
quanto luce storica si estende in avanti e all'indietro:
all'indietro, prendendo nella sua orbita, in quanto luce di
verità, la storia precedente, imponendone così la
reinterpretazione al proprio interno; in avanti proiettando la
decisione e la confessione di Dio per l'uomo nel futuro, dal quale
soltanto può essere attesa la giustificazione di questo giudizio
nel presente"243.
In modo sintetico Balthasar si esprime, condensando tutto il
processo della rivelazione, nei seguenti termini: "Nell'uomo è Dio
stesso che è quindi diventato manifesto: manifesto come il Dio
nascosto nella sua libertà; il suo nascondimento non è nascosto,
ma manifesto"244. In questo processo di manifestazione il luogo
privilegiato è la croce perché in essa abbiamo lo scontro di
gloria contro gloria, di una bellezza dal basso contro una
bellezza dall'alto: a una bellezza, che è irretimento e
sprofondamento rovinante e corrotto nella potenza del piacere e
nel piacere della potenza, si oppone la bellezza dell'adorazione e

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del servizio: "se questo disarmo avviene sulla croce, che è quindi
il luogo del trionfo sul mondo, tuttavia il cammino tutto che
porta dal presepe alla croce è già marcia trionfale al cospetto
delle potenze. Altrettanto Gesù appare di fronte agli uomini come
l'abbassato e l'umiliato, altrettanto egli, di fronte alle
potenze, è colui che fin da principio regna nella gloria"245.
L'evento cristiano del processo della croce del Crocifisso, del
profeta di Nazaret, apre un ulteriore orizzonte di comprensione ed
interpretazione dell'esistenza tragica. Questo evento manifesta in
ogni epoca culturale la sua unicità irripetibile, come offerta al
pensiero tragico, per un avanzamento della domanda interrogante
dell'uomo in modo però che l'uomo la percepisca, nella sua
lucidità di una coscienza storica e nella assunzione libera della
propria libertà, non più come una domanda, ma, al contrario, come
una risposta da dare ad un interrogativo posto, questa volta, da
Dio all'uomo nella croce di Gesù.
L'evento cristiano identificabile nella Croce di Gesù postula un
riconoscimento ed un accoglimento: la fede in Cristo,
l'accoglimento di essere salvato, per essere protagonisti della
storia di salvezza.

2.3.4. Per un'estetica della croce

La sofferenza trova un senso di accettazione nel riferimento al


Dio giusto. La sofferenza tragica dell'innocente, del giusto che
soffre, che domanda pietà e rigetta la vita, fino al punto di
desiderare che il mondo non esista, che il non esistere sia meglio
dell'esistere. Ma il desiderare che il mondo non esista significa
desiderare che io, così come sono, sia tutto. La sofferenza-dono
del servo sofferente scopre una possibilità estrema del soffrire
umano come luce che illumina. Una sofferenza per un dono: una
sofferenza per-dono, per-donare rivela la via della bellezza.
Questa sofferenza che congiunge destino e dono, costrizione e
libertà, disperazione e speranza, rigetto e consenso, odio e
amore, giustizia ed ingiustizia, punizione e grazia, è
comprensibile solo nella mediazione dell'alterità, nella
reciprocità del dono. Come dobbiamo intendere e comprendere questa
mediazione della sofferenza-perdono perché costituisca un nuovo
senso della sofferenza?
L'umiltà dell'annientamento di Cristo, il suo morire, non deve
essere considerato come una dimensione estrinseca all’opera
riconciliatrice. L’effusione del sangue è veramente il linguaggio
disarmato della giustizia misericordiosa del Padre; il linguaggio
persuasivo per chi vuol comprendere il senso divino dell’amore, il
linguaggio di una bellezza trasfigurata che risplende di luce
nell’uomo dei dolori crocefisso per amore: “la croce è il primo,
finché dura questo mondo, l’ultimo fine dell’incarnazione, e ogni
partecipazione al gaudio della risurrezione non può surrogare
l’obbligo di essere redenti attraverso la croce e d'un insondabile
partecipazione che condivida la passione stessa. Pertanto la
gloria luminosa che irradia la Rivelazione di Dio, il
sovracolmarsi di ogni bellezza o estetica, necessariamente devono

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rimanere velati agli occhi di tutti, credenti e increduli, seppure
a livelli e gradazioni assai diversi"246.
Se la luce è il centro della rivelazione ed è solo dalla luce del
morire di Cristo che noi siamo in grado di poter comprendere a
pieno titolo il dono della rivelazione dell'amore, non ci resta
che vedere come il dramma della croce sia da inserire nell'ambito
di una bellezza che qualifica il bello attraverso il momento della
forte negatività di Cristo. Balthasar ci fa riflettere
ulteriormente su tale tema con le seguenti interrogazioni: "Tutto
sta immerso in una luce aperta, che è più grande e magnifica di
tutta la quintessenza del mondo bello e terribile. Perciò: dove
sarebbe la luce se non ci fossimo noi (tutti) a vederla? Che non
abbia addirittura bisogno di noi? Ma no, io e noi tutti siamo
rispetto ad essa casuali: tutti noi insieme non siamo una
sufficiente spiegazione dell'essere; esso è libero di mostrarsi in
modo infinitamente diverso, di far luce a infiniti altri.
Tuttavia: che cosa sarebbe la luce se nessuno la vede? Non siamo
forse entrambi bisognosi a vicenda?"247.
Luce e bellezza si mostrano ancora in un rapporto inscindibile,
come in un rapporto inscindibile si trova colui che mostra e chi
viene da esso rapito ed estasiato da una visione, che nel nostro
caso è salvifica. Siamo entrambi bisognosi di vedere questa luce
che splende dall'innalzato sulla Croce, come colui che si lascia
innalzare diviene necessario strumento nella sua scelta libera di
compiere per noi questo dono così profondo.
La luce, in cui tutto è immerso, è ciò che ci permette di
distinguere e di comprendere la singolarità dell'evento che si
manifesta. Nessuna parola umana è in grado di esprimere il mistero
di dolore e di amore che avvolge il Crocifisso, issato tra cielo e
terra, sul Golgota di Gerusalemme, rigettato dalla sua gente,
tradito e rinnegato dai suoi amici, abbandonato dai suoi
discepoli, ridicolizzato dai passanti e persino abbandonato da Dio
in cui aveva riposto la sua fiducia, ogni speranza.
L'oscurità cosmica che, alla morte di Gesù, sembra avvolgere il
mondo intero in una tenebra di luce ancora più fitta, è invece
squarciata dal raggio di luce, che solo la fede può incontrare.
Nello spazio del bello Balthasar scorge nella modernità, in
maniera prevalente, l'urto, il conflitto tra Dio e uomo, tra
infinito e finito, il cui superamento avviene con
l'identificazione dei due poli e con la conseguente perdita, per
la luce dell'essere, della differenza originaria, che può essere
ricuperata solo nella bellezza come momento del rapimento e della
visione del tutto per mezzo della croce di Cristo che inaugura un
nuovo parametro di bellezza248. Per Balthasar, come per Barth, c'è
una bellezza proprio là dove essa è negata249.
È in questo contrasto, in questa negatività che gli opposti non
vengono riconciliati, ma superati, ed è solo qui che la luce della
Croce crea un contesto di bellezza, nel superamento, nell'andare
oltre entrambe le negatività, nella trasgressione stessa:
"Immagine originaria della gloria divina e suo riflesso nella
immagine umana e alla fine il rapporto reciproco tra immagine
originaria e immagine derivata nella gloria dell'Alleanza di
amore: di conseguenza l'uno, di cui ora dobbiamo trattare, diviene

49
in un senso inaudito confondatore di tutti i tempi, anzi
irradiazione della gloria e impronta della sostanza di Dio
stesso"250.
Ed è proprio in questa "impronta della sostanza di Dio", che reca
con sé, che l'uomo è chiamato a rinnovarsi in una nuova visione
del mondo esibita dalla luce del Crocifisso, che l'immerge in una
contemplazione nuova della bellezza capace di far risorgere: "No,
l'uomo che rappresenta ed è il mondo, ha il suo tempo e muore, ma
anche risorge nella vita eterna di Dio con la sua storia, il suo
tempo, la sua morte e il suo mondo"251.
Gesù, il Figlio di Dio, con la sua scelta libera di una forma
opposta a quella della sua dignità ridona alla persona una dignità
perduta: solo in questo incontro definitivo e unificante di Dio e
dell'uomo conseguiamo quella visione della forma attraverso gli
occhi della fede che trasformano il nostro vivere.

"Come estetica trascendentale: quanto più una forma è alta nel


valore, tanto più diventa trasparente per la luce in genere
dell'essere. Soltanto che questa legge metafisica generale si
realizza nell'avvenimento unico, la cui iniziativa poggia nella
libertà assoluta di Dio, in un modo così immenso da essere
radicalmente messa in crisi: l'uno il cui nome è Gesù Cristo deve
discendere nell'assoluto opposto alla sua maestà di Signore, nella
notte dell'abbandono di Dio e nell'informe caos infernale per
essere e per erigere, al di là di tutto ciò che l'uomo può
intendere per forma, quella forma imperitura e indivisibile che
congiunge Dio e il mondo in una nuova ed eterna Alleanza"252.

La visione che spinge ad una vita da vivere nel superamento


continuo, consente all'uomo, come fa notare Balthasar, di stare in
adorazione davanti alla bellezza dell'opera di Dio e della sua
piena luce che rapisce in una nuova situazione di vita: "Questa
visione, che per grazia di Dio non porta all'accecamento per
troppa luce ma rende lo spirito umano capace di reggere davanti
alla semplicità infinita, sprofonda è vero anzitutto l'uomo in
adorazione davanti alla gloria, tuttavia è al tempo stesso
l'impulso più forte per il pensiero che si completa
seguendola"253.
Solo così comprendiamo quello che significa per noi la gloria
divina, e che cosa sia alla fine la gloria divina che risplende
sul volto di Cristo crocifisso: "Parliamo di bellezza di Dio
soltanto per spiegare la sua gloria che in ogni caso racchiude e
porta ad espressione anche quel che noi chiamiamo bellezza"254.
L'unico splendente punto focale, dove risplende la gloria, è
proprio il Crocifisso che diviene al tempo stesso conciliazione e
superamento di tutte le diversità, ed è proprio su questa parola
bellezza, che è riversato un lume di bellezza differente da quella
umana e passeggera, che in modo radicale e differente ci mostra la
corrispondenza armoniosa tra promessa e compimento, che ci apre ad
una dimensione futura irraggiante semplicità. Parliamo, dunque, di
bellezza di Dio soltanto per spiegare la sua gloria che, in ogni
caso, racchiude ed esprime ciò che definiamo come bellezza: "la
bellezza di Dio nella bellezza di Gesù Cristo appare perciò

50
proprio nel crocefisso, ma come tale, risorto: in questa
automanifestazione la bellezza di Dio abbraccia la morte e la
vita, la paura e la gioia, ciò che potremo chiamare odioso e ciò
che potremo chiamare bello"255.
Cogliamo la bellezza e la perfezione di Dio perché in essa si
manifesta, in modo unico e sovrabbondante, quella unità, al
contempo, enigmatica e chiara di identità e non identità, di
semplicità e molteplicità, di intimo e di esterno. L'apparire di
Dio, che mostra e conferma la sua unità, avviene solo nell'essere
attratti, qui riceviamo la possibilità di vedere e di essere
trasformati a sua "immagine e somiglianza": "Dobbiamo percorrere
la strada di quei rudes e incipientes che da principio non sono in
grado di vedere la luce della bellezza, come dice Origene,
soltanto quando diventano perfetti, assurgono a innamorati della
sua bellezza. Questo cambiamento è descritto in un detto
misteriosamente oscuro di Gesù nel vangelo di Tommaso: Le immagini
sono rivelate agli uomini, ma la luce che è in loro è nascosta
nell'immagine del Padre. Questa luce si rivelerà e allora la sua
immagine sarà avvolta nella sua luce"256.
Siamo davanti all'autopresentarsi della bellezza di Dio,
attraverso la luce che non abbaglia, non acceca, ma che pervade
ogni cosa che si dirama dall'immagine del suo Figlio crocifisso
per amore.
Allora comprendiamo bene come la bellezza che qui viene colta è
tale perché mediata dalla Croce, non percepibile agli occhi
profani, per i quali mantiene un carattere di scandalo e di
profonda incomprensibilità. Agli occhi dello sguardo marcato dalla
fede essa è però esaltazione massima del cammino kenotico, è
rivelazione di ciò che Dio ha fatto in modo del tutto gratuito per
l'uomo: la discesa kenotica nel grande smarrimento del mondo ha
fatto spalancare gli estremi abissi della libertà che si oppone a
Dio.
La gloria che avvolge la Croce non è, tuttavia, da interpretarsi
al pari di uno svuotamento dei contenuti della sofferenza, di
durezza estrema di questa morte, nei suoi risvolti di abbandono
trinitario, e d'impatto con tutta la realtà del peccato del mondo:
questi rimangono, in un certo senso sono anche potenziati. Essi
figurano al centro dell'estetica teologica giacché sono
espressione di un atteggiamento, più precisamente, dell'amore
concreto di Dio per il mondo. Il cammino kenotico fino negli
abissi della morte è glorioso, perché è percorso per amore,
nell'amore. La Croce è esaltazione poiché manifesta fino a quale
punto Dio ha amato gli uomini; è gloriosa perché è l'espressione
massima dell'amore di Dio per la creatura. Così anche la
presentazione degli eventi, che tiene conto dei ruoli diversi
delle persone trinitarie257, ha senso unicamente poiché è al
servizio della concentrazione dell'amore: l'amore di un Dio che si
lascia coinvolgere, senza però venire meno a se stesso. La gloria
che avvolge la Croce è appunto riverbero, più precisamente, della
qualità come amore258.

"Nessuna filosofia [...] e nessuna legge filosofica può


autorizzarci a derivare dalla struttura del mondo creato la

51
liberissima decisione di grazia della kenosi di Dio o a fare di
questa una legge del mondo. Si è tentato ripetutamente di
universalizzare questa kenosi in senso gnostico o idealistico, di
farne la struttura dell'essere, dell'alienazione di sé e del suo
superamento, del "muori e divieni" di ogni vita, come pure si è
tentato di concludere dalle leggi dell'amore umano, del suo
altruismo e della sua povertà, al necessario comportamento di Dio.
Ma è soltanto il suo liberissimo amore che può indurre Dio sia a
creare il mondo, sia a redimerlo in un modo tanto meraviglioso. Se
è vero che tale emersione ad extra del mistero intratrinitario ci
svela qualcosa della legge immanente della Trinità, tuttavia non è
in nessun caso possibile derivare da questa legge interna una
necessità di quell'emersione. Ma se in Gesù Cristo il mistero
dell'amore divino si è una volta svelato, allora possiamo inferire
che Dio poteva fare ciò che ha fatto, che il suo abbassamento e
svuotamento non contraddicevano all'essenza sua propria, ma le
erano perfino - in modo insospettabile - commisurati"259.

Di fronte a ciò che Dio ha scelto come "necessario" (la kenosi e


la croce), la mente tace, limitandosi a cogliere, o meglio ad
accogliere, la non contraddizione tra quanto si verifica nella
storia salvifica, in particolare sulla croce, e la vita intima di
Dio. Il credente, di fronte agli eventi stupendi di cui il Dio
trinitario si rende interprete, da una parte mette in atto
un'umile adorazione e dall'altra cerca di esprimere in termini
sensati le ricchezze divine emergenti da tali eventi. Egli, nella
fede, non oserà mai dichiarare marginale o secondario ciò che Dio
stesso ha stabilito essere necessario, ma l'intenderà come
maggiore convenienza delle scelte divine in vista della
realizzazione del progetto salvifico260. E se per questa necessità
da Lui stesso voluta, Dio esce dal suo mistero e si sottopone
all'umiliazione e all'abbassamento, vivendo una storia di
sofferenza e di croce, si potrà forse rimproverarlo di aver
occultato la propria beatitudine? Il mutismo totale condiziona la
novità radicale di cui la Pasqua è lo splendore mattinale261.
La visione del Crocifisso, condotta nella fede, si traduce in
contemplazione della gloria incarnata e nascosta in Lui, che è
immagine di Dio. Essa consiste in quell'unità d'amore tra il
Padre, e lui, il Figlio Unigenito, vissuta nello Spirito Santo e
manifestata agli uomini come esistente dall'eternità, e rivelata
perché questi ne siano partecipi facendosi testimoni e discepoli
del Crocifisso: "nella grazia e nel dovere dell'amore, che esiste
da sempre e che si rivolge tanto a lui quanto al fratello in cui
s'imbatte, in questo presupposto di luce assoluta che sempre
brilla, il cristiano incontra il fratello nell'umanità; non è lui
che, titanicamente, strappa il fratello dalle tenebre e lo solleva
nella luce in forza della sua propria capacità di amore; anche in
un totale impegno di carità (come il samaritano) egli rende solo
testimonianza alla luce, allo stesso modo che Cristo, il Figlio
del Padre, al quale era stato dato di brillare di luce propria,
non ha voluto in tutto il suo risplendere che rendere
testimonianza del Padre"262.

52
In questa dimensione testimoniale, verso l'umanità, dell'amore
crocifisso e della luce, che emana dal suo trono di gloria "colui
che crede riceve una luce di salvezza che da sempre gli brilla
incontro da sopra i confini della ragion pura e in ordine alla
gloria di questa luce egli si muove con una specie di emersione
dalla sorgente in posizione recettiva, di sguardo e di ascolto,
insomma contemplativa"263.
Gesù, il Figlio di Dio crocifisso, è davvero: "l'ultima parola
pronunciata da Dio, irraggiungibile da qualsiasi pensiero o prassi
[...]. Il gesto estremo dell'amore trinitario che si dona supera
le immagini di Dio giudaiche, samaritane e pagane, e diventa per
esse il tèlos: videbunt in quem transfixerunt. In futuro non ci
sarà nient'altro da vedere da parte di Dio"264.

Conclusione

Da quanto abbiamo rilevato, nel nostro percorrere la strada


intrapresa da Balthasar, in Gloria, è emerso in modo particolare
come il tema della luce per un'estetica teologica sia notevole e
fondamentale. Nello stesso tempo però, ci siamo resi conto di come
questo filone teologico non sia stato sufficientemente elaborato
come tematica negli scritti e negli studi che sul teologo di
Lucerna sono stati fatti.
Pertanto, ai fini di un'ulteriore ricerca sulla prospettiva della
luce e della gloria come bellezza e come verità, che si svela e si
rivela, sarebbe suggestiva una rilettura di tutta la storia della
teologia occidentale ed orientale capace di far spiccare quelle
figure teologiche e filosofiche che hanno considerato, nel loro
itinerario culturale, simili contenuti. Solo ora, tenendo conto,
particolarmente, dell'ultimo decennio, la teologia contemporanea
si affaccia su questa prospettiva, che, invece, ha guidato il
pensiero dei Padri e della Scolastica, nel fondare una vera e
propria metafisica della luce e quindi una teologia della luce,
diventando il centro focale e il punto di partenza per
un'intelligenza della bellezza che mostra la verità.
Nella prima parte del nostro studio, abbiamo visto come Balthasar,
con Gloria, ha inteso presentare la teologia alla luce del
trascendentale filosofico: il bello. La motivazione nasce dal
fatto che lo splendore dell'essere è la prima cosa che vede un
bambino o che capisce un uomo semplice. Il suo tentativo si
presenta come un ritorno alle origini, dove la bellezza ripresenta
alla ragione il suo duplice volto del vero e del bene nella loro
reciprocità assoluta.
In questo orizzonte la rivelazione che Dio fa di se stesso ha un
nome: Gloria, kabod, doxa, Herrlichkeit. È il manifestarsi
dell'amore divino in una donazione piena e gratuita, un
dispiegarsi del suo essere misterioso che viene incontro all'uomo,
nella storia, rivelando la gloria del suo eterno amore trinitario.
Qui rifulgono gli elementi della bellezza: assenza di interesse,
libertà, pura, mancanza di costrizione, espressione piena,
autosufficiente e diffusiva di se stessa. Solo attraverso la forma
può, infatti, spiccare un lampo della Bellezza eterna. E la forma

53
più splendente del percorso storico della gloria è il Crocifisso
perché sul Calvario l'irruzione dell'Amore tocca l'intensità più
alta. Dopo aver fissato gli occhi su questa Luce, Balthasar ne
cerca i raggi che si annidano in ogni dove.
Egli ha messo in evidenza come questa estetica teologica non va
confusa con il sentimento romantico: essa è il riconoscimento
della maiestas divina attraverso un amore filiale che si esprime
poi in adorazione. La bellezza di cui il teologo svizzero scrive è
lo splendore dell'essere, dell'originaria, essenziale realtà in
un'immagine, che si comunica senza ricorrere a concetti, ma
attraverso l'esaltante emozione che l'immagine bella sa suscitare
nell'animo disposto ad accoglierla e a goderne la presenza.
Attività soggettiva e luminosità oggettiva si congiungono e
segnano, nella coscienza, il duplice ritmo della soggettività che
rapporta a sé l'immagine e quello della disponibilità all'immagine
stessa, al lasciarsi possedere dai significati originari che in
essa risplendono.
Una prima conclusione si affaccia, giacché l'esistenza è solcata
dalla negatività e la Luce si scontra con le tenebre, in altre
parole, dal conflitto e dalla tensione tra la libertà di Dio e
quella dell'uomo. Quindi, uno sfondo drammatico accompagna la
rivelazione realizzando il passaggio dalla teo-estetica alla teo-
drammatica. Chi volesse, allora, limitare l'opera di Balthasar
alla sola estetica teologica ridurrebbe il suo pensiero isolando
l'originalità di una riflessione teologica.
La forma della rivelazione, che trova il suo centro nella storia
di Gesù di Nazaret, risulta convincente per se stessa, ma viene
percepita come tale solo se la facoltà conoscitiva umana è
illuminata e abilitata a vedere la rivelazione della grazia. Ci
vuole una corrispondenza fra l'esistenza umana nel suo insieme e
la forma di Gesù Cristo. Non basta la semplice luce della ragione
che può constatare solo una quantità di linee e di proporzioni, ma
non riesce a cogliere per virtù propria l'evidenza della forma.
Non esiste, pertanto, conoscenza della credibilità che anteceda in
maniera pura e semplice l'assenso di fede al contenuto della
rivelazione. Se la rivelazione costituisce la vera risposta ad
ogni attesa e ogni desiderio, allora non si può negare che le
attese e le aspirazioni umane con-costituiscono l'orizzonte in cui
soltanto è possibile vedere e comprendere la forma della
rivelazione.
Nella seconda parte abbiamo percorso alcuni temi centrali del
rapporto della luce con ciò che appare a noi che si svela a noi,
nella realtà concreta. Già nella contemplazione sensibile la luce
è la bellezza per se stessa, la bellezza intuitiva per eccellenza,
che ci mostra l'originario delle diverse forme, che a noi si
manifestano con una molteplice gamma di splendore. Questo rilievo
ci ha consentito di rileggere l'evento della croce sotto l'aspetto
luminoso che lo pervade, fino a cogliere la luce della verità
nella Trinità stessa, quale sorgente inesauribile di originalità e
bellezza. Se la bellezza è luce e la luce è bellezza, il rapporto
si presenta indivisibile. Ulteriori conseguenze, qualificanti
un'estetica teologica della croce, affiorano nella direzione della
luce come verità della morte di Gesù Cristo.

54
Se il centro del kerigma cristiano è la verità della morte di Gesù
di Nazaret, compresa nella sua autenticità di un morire
messianico, questo centro rivelativo possiede una densità di luce
che deve illuminare ed espandersi nel mondo intero. In modo più
appropriato l'argomento deve enunciarsi come il dirsi della verità
del morire di Gesù, in quanto si assume la verità che avviene,
come evento, in quel morire; il suo dirsi come dire originario è
la luce.
Una verità che accade nella temporalità, come apertura alla sua
storicità; storicità intesa come coscienza storica, aperta al dire
interpretativo, come parola di possibilità progettuale, proprio
come annuncio dischiudente un futuro del messaggio evangelico, di
buona notizia di salvezza per la condizione umana curvata dalla
morte, vinta dal destino tragico. Una percezione di necessità
deterministica, non libera, della vita e della morte è ancora la
luce in cui noi siamo coinvolti e ci coinvolgiamo.
Con quest'affermazione si vuol affermare che l'accadere della
morte avviene come svolgimento o evento di cui costituisce e
rivela la verità: la sua verità come modo di essere
dell'accadimento stesso, non percepibile in delle significazioni
che cadono fuori di quel morire o in dei valori attribuiti a
quella morte.
La bellezza emergente dalla luce della Croce, dunque, non è uno
dei modi in cui è presente la verità, ma è l'unica possibilità.
Allora, l'autenticità del morire messianico è da vedere come
verità epifanica, evento che porta a compimento la rivelazione
dell'amore trinitario nella sua massima manifestazione di luce.
Domandandoci qual è il dirsi della verità e come sostenere la
verità del morire di Gesù, intendiamo rilevare la forza rivelativa
della croce nel duplice aspetto di evento luminoso e di kerigma
illuminante. Il nostro pensare e la nostra parola vengono a
trovarsi in una tensione veritativa verso la croce, che squarcia
le tenebre dell'indifferenza schiudendoci la salvezza che da essa
viene gratuitamente offerta.
La verità dell'uomo assunto nella sua morte, nella sua angoscia
tragica davanti al mistero dell'essere e dei nulla, succube del
destino fatale che incombe sulle storie dei popoli, è ancora una
verità di luce che ci mostra la sua piena bellezza e splendore
nella negatività che assunta è modificata e perfezionata. Se,
dunque, la luce assoluta manifestata sulla croce è il bello
assoluto, la stessa croce trasformerà ogni persona che ad essa
volgerà il suo sguardo fiducioso. Pertanto, un'estetica teologica
che guarda alla croce come via della salvezza racchiude quel
legame intimo che pervade la luce, la bellezza e la verità, perché
tutto ciò che appare si svela per la luce265.
La lettura di Balthasar, proposta in queste pagine, sottende, a
nostro avviso, una tematica che riteniamo sostanziale. Nella
moderna situazione culturale, frastagliata e frammentata, emerge
l'esigenza di individuare un lògos di verificabilità e un punto di
convergenza della fede cristiana, che non ne tradisca però il
nucleo essenziale, la sua peculiarità e pretesa, senza esaurirne
la portata salvifica.

55
Con quali categorie o principi tradurre il messaggio della
rivelazione, dove porre il segno di autenticità delle verità
cristiane: nel cosmo, nell'uomo, nella storia? Quale testo, quale
linguaggio può rappresentare la chiave di accesso al Dio
cristiano? La tradizione patristica e medievale aveva individuato
il lògos di credibilità e universabilità nella via cosmologica:
ciò che poteva permettere un confronto universale, anche con
prospettive non cristiane, era la visione religiosa del mondo,
della natura, l'osmosi indiscussa tra piano naturale e
sovrannaturale. Tale orientamento naturale del finito verso
l'infinito è venuto meno, però, con l'ingresso della modernità e
il disincanto della natura operato dalla mentalità scientifica e
positivista. Alla via cosmologica subentra quella antropologica:
l'anima universale cristiana non è più ravvivata affidandosi alle
prove cosmologiche dell'esistenza di Dio, che avevano il loro
punto di partenza nella natura, ma alla struttura dell'uomo, alla
sua esperienza spirituale e storica. Il centro della relazione con
Dio è, dunque, l'uomo. Il cristianesimo, come tutta la realtà, è
posto, secondo Balthasar, in un orizzonte di verificabilità, di
credibilità, di autenticazione che appartiene totalmente e
puramente allo spirito finito (idealismo, romanticismo, eticismo
kantiano): vi è certamente l'intenzione positiva di rendere
universale la fede e il tentativo di superare una visione
oggettivistica ed estrinsecistica del cristianesimo. Il pericolo e
il limite, però, da cui in maniera perentoria Balthasar pone in
guardia, è quello di ridurre il Tu all'io, l'indeducibiltà
dell'amore di Dio e della sua rivelazione a una deduzione
antropologica (la critica più forte a Rahner); è compromesso il
caso serio della fede e dell'amore di Dio. La sua posizione si
caratterizza per il superamento delle due vie percorse dalla
teologia, quella cosmologica e antropologica, in quanto entrambe
fondano la credibilità del cristianesimo al di fuori del nucleo
stesso e dell'essenza della fede.
Per Balthasar credibile significa indivisibile, originario (che
corrisponde all'essere), intrinseco (interno al contenuto, non
previo o esterno), autentico, genuino. Solo l'amore, manifestato
nella sua essenza nella rivelazione, è credibile, ha in se motivo
per essere accolto, corrisponde all'essere nella sua originarietà.
Il linguaggio usato per esprimere la credibilità dell'amore si
rifà all'orizzonte personalistico che ricupera la dimensione
dialogica, di alterità del Tu (rispetto alla dialettica
hegeliana), ed estetico che ricupera la priorità del darsi e la
dimensione della verità come dono: l'amore non può essere
manipolabile o riducibile ad esigenza; può essere compreso ma non
catturato; è incondizionato, libero, assoluto. Tale amore si
comprende nella sua indeducibilità in rapporto a quello umano, di
cui Balthasar descrive mirabilmente la grandezza e la miseria,
l'intima contraddizione di eterno e temporale, spirituale e
mortale, l'insita consapevolezza di colpa e fallimento, di mistura
di egoismo e di paralisi. Tra l'amore divino e quello umano vi è
un rapporto di precognizione (è un concetto a priori per
interpretare il segno di Cristo) e d'inciampo (l'amore di Dio è
scandalo, paradosso, abisso). Ma come concretamente l'uomo giunge

56
a conoscere e percepire l'amore di Dio? L'amore di Dio, secondo
Balthasar, possiede in sé le condizioni per la sua conoscibilità e
le comunica: è il dono della grazia, della fede-speranza-carità
che ridesta, riaccende l'amore umano assopito e spento.
Le qualifiche di tale credibilità si danno nel concetto di forma,
di cui si possono individuare tre elementi: unità in quanto è il
darsi contemporaneo di interiorità e comunicazione, di anima e
corpo; splendore perché irradia luce, possiede una propria forza
di persuasione e attrazione; originarietà in quanto è la forma
dell'essere nel suo darsi originario (non è estetismo: bellezza
sganciata dal vero, dal buono, dall'uno). Cristo è la forma perché
raccoglie in sé questi elementi, realizza in sé le proprietà
universali dell'essere, è l'universale concreto, unità perfetta di
forma e contenuto, continuo rinvio al Tu, al Padre. La forma di
Cristo (espressione di Dio e quindi della sorgente dell'essere) ha
in se stessa la sua credibilità perché esprime esternamente
l'essere interno nella sua originarietà (dipendenza da Dio); è
credibile in quanto riflesso dell'essere autentico. Si tratta di
una forma che informa, nel senso che dà, comunica la propria
figura, modella e plasma l'esistenza del cristiano.
Il segno culminante di tale amore è la croce di Cristo, segno che
non è posto al di là dell'essere, ma vi è rappresentato e
adombrato. Dio ha creato l'essere in modo tale che sia kenosi,
povertà, finitezza, contingenza, creaturalità capace
dell'accoglienza di Dio, vuoto che si lascia ricolmare da Dio,
rinvio all'oltre: "L'eterno prius della parola divina d'amore
s'asconde in un'impotenza che concede il prius alla creatura
amata"266. Il compito del cristiano per rendere ragione della sua
fede di fronte al mondo d'oggi, afferma Balthasar, è quello di
ridare luce all'essere, alla sua differenza creaturale rispetto a
Dio, alla sua situazione di perfettibilità. La croce, d'altro
canto, viene salvaguardata e compresa nel suo carattere di dono,
amore sempre più grande, libertà, indeducibilità, salvezza donata
e non sintesi ritrovata, se viene superata la riduzione
trascendentale-antropologica moderna (che conduce il tu e l'essere
stesso all'io) e viene ridestata la dimensione dell'essere come
povertà, vuoto, passività, grazie alla quale l'essere rinvia
continuamente a Dio e si lascia plasmare da lui. La credibilità
dell'amore di Dio nella croce non è vanificata se è salvato e
colto il di più, il semper maior di tale amore, l'urto e il
paradosso di tale forma, il suo carattere di non-forma, di
silenzio, di contraddizione: solo così si può spezzare il circolo
chiuso della logica moderna e rinsaldare il rapporto di amore e
liberta tra Dio e il mondo, restaurare il rinvio all'oltre e lo
scambio vivente tra uomo e Dio, recuperando nell'immanenza la
trascendenza e illuminando il carattere di mistero dell'essere che
è insieme povertà e ricchezza.
La risposta della fede è dunque il riscontro essenziale
dell'amore. L'atto di fede non va compreso in un orizzonte
astratto, razionalista (come conoscenza naturale di Dio) ma nello
spazio vitale dell'incontro con Dio, della ricezione della
rivelazione. La credibilità e la significatività dell'atto di fede
non si fonda al di fuori della fede (prove cosmologiche, struttura

57
antropologica) ma all'interno: se è vera in se stessa può essere
vera-credibile per il mondo. La fede è intesa da Balthasar come
abbandono (Gelassenheit). In tale atto, nella "forma", è evidente
(e qui si pone la ragione, la forza e la convinzione che è propria
della fede) Dio stesso, l'amore di Dio, poiché essa è modellata,
"informata" dalla fede di Cristo. Anche la fede soggettiva rimanda
continuamente all'oggetto, poiché in essa rifulge Dio.
Nell'abbandono del credente è richiamato lo stesso Cristo che si
abbandona al Padre; l'evidenza della fede indica che in essa si
vede in maniera chiara chi è Dio. La fides qua (il credente) è
modellata sulla fides quae (contenuto di fede) e solo nella loro
unità sono segno evidente di Dio. Sempre nella fede si sperimenta
e si conosce l'essenza dell'amore di Dio, essa cioè diventa
trasparenza della rivelazione, ha la sua ragione e credibilità
nell'atto stesso di credere in quanto irradia la luce e la gloria
della croce, rendendo evidente l'unità e l'unicità dell'evento di
Cristo. Il sensus fidei del credente esprime la capacità di
discernimento oggettivo del contenuto di fede, di cogliere la
totalità-unità e la straordinarietà e unicità del fatto cristiano;
il cristiano coglie dall'interno le connessioni del mistero
salvifico. La rivelazione, dunque, mistero di amore, può essere
compresa solo accogliendo nell'amore l'amore di Dio.
Per il teologo elvetico la fede non ha bisogno di un sapere che
funga da anticamera, che le serva come preambula fidei per poterne
afferrare la luce o la portata. La fede stessa, dal punto di vista
biblico (soprattutto in Giovanni e Paolo), si presenta come
"gnosi" ben fondata, racchiude in se stessa l'intelligenza del
proprio mistero. Non è solo un quaerens intellectum al di fuori di
sé, ma un inveniens intellectum in se stessa. Occorre, perciò,
recuperare il momento della ratio all'interno della fede (non in
un'intuizione di Dio previa, o in un sentimento religioso o
esperienza interiore), per poterla pensare come sintesi unitaria,
come esperienza viva e spirituale globale di colui che s'incontra
concretamente con Dio. Secondo Balthasar si tratta di questione
vitale per la cristianità di oggi il presentare la fede in se
stessa credibile, nella sua unità, nella sua intima essenza, senza
doversi appoggiare ad affermazioni esterne o ritenere
semplicemente per vere, solo in forza dell'autorità rivelativa,
affermazioni incomprensibili alla ragione: "la fede infatti
nonostante tutta la trascendenza della verità divina, anzi proprio
mediante essa conduce l'uomo alla comprensione di ciò che Dio è in
verità, e in questa comprensione anche alla comprensione di se
stesso"267.
Qualsiasi forma di kantismo nella teologia, secondo Balthasar, non
può che deformare il fenomeno e non coglierlo. L'assioma classico,
quidquid recipitur, recipitur ad modum recipientis non può essere
giustificato, poiché Cristo non dipende da alcuna condizione
soggettiva. La teologia di Balthasar, tuttavia può risultare
anacronistica per la filosofia e la scienza, e rischia di non
trovare ascolto. Non si tratta di una teologia legittima solo
all'interno della Chiesa quindi non avrebbe molta attendibilità
agli occhi del mondo? Esiste anche per Balthasar una
precomprensione, una premessa su cui innestare la rivelazione?

58
Egli riconosce la premessa fondamentale con cui l'uomo si accosta
alla rivelazione, che è data dall'aporia filosofica: la filosofia
come domanda d'infinito e come incapacità di risposta. La
precomprensione non è qualcosa che il soggetto fornisce come
contributo alla conoscenza cristiana, ma è data dal fatto reale
che Dio si è fatto uomo, e che a questo titolo corrisponde alle
forme generali del pensiero e dell'esistenza umana. Tale
precomprensione può essere così delineata: l'uomo è aperto nel suo
spirito a Dio, e questo fa sì lo stesso che possa riconoscersi
come colui che "rationabiliter comprehendit incomprensibile esse"
e individuare Dio come "id quo maius cogitari nequit". Ma l'uomo
può conoscere Dio solo in grazia della rivelazione.
Anche Balthasar dunque, e questo lo avvicina molto a Rahner,
riconosce che l'atteggiamento di risposta alla rivelazione
dev'essere strettamente e inevitabilmente connesso con
l'atteggiamento più intimo dell'uomo che è quello filosofico:
l'oggetto formale della teologia (e dell'atto di fede) "giace nel
cuore dell'oggetto formale della filosofia: è dalla profondità
misteriosa di quest'ultimo che esso irrompe, come autorivelazione
del mistero dell'essere stesso, in una maniera che non può essere
derivata da ciò che l'intelletto creato può, con le sue forze,
decifrare del mistero dell'essere"268.
Il cristiano deve partire sempre dal centro vitale del mistero, e
muoversi tra l'adorazione e l'obbedienza: colui che non ha provato
il mistero della croce mediante la contemplazione non ne potrà mai
parlare. Per entrare perciò nella logica della forma bisogna
entrare nella logica dell'obbedienza e della contemplazione:
condizioni sine qua non per cogliere l'amore di Dio. Dio si rivela
a noi solo quando i nostri concetti vengono meno. Balthasar ha
coniato l'espressione teologia in ginocchio: essa è tesa tra
l'obbedienza adorante e l'amore credibile, può svilupparsi solo in
quel contatto col Dio vivente che si compie nella preghiera.
Contemplazione significa meraviglia di fronte all'essere che si è
concretamente manifestato nella sua trascendenza in Gesù Cristo.
Il cristiano è custode della meraviglia dell'essere con cui
comincia sempre la filosofia. "Il mistero cristiano tra
"contemplazione" e "azione", detto con più profondità, tra
l'assoluto venir destinati da Dio e l'assoluto farsi fabbri del
proprio destino nella libertà, è l'illuminazione risolutiva
dell'orizzonte dell'essere e dell'uomo che ci vive"269.
La fede è esperienza profondamente umana, poiché ne riflette la
grandezza e la fragilità, è esperienza di via, di cammino.
L'oggettivismo radicale di Balthasar rischia di squalificare le
attese, le aspirazioni umane, mentre l'attesa dell'uomo gioca un
ruolo decisivo nella ricezione della forma. Il merito e l'eredità
di Rahner, che non dovrebbe andar perduta, è di aver preso in
tutta serietà l'esperienza fondamentale dell'uomo, la sua attesa
della grazia, e di aver resa familiare la fede mettendo in luce
l'intreccio vitale tra il dinamismo trascendentale umano e la
rivelazione categoriale, storica di Dio. Pur nella connessione di
trascendentalità e storicità, tuttavia, esiste sempre uno scarto e
un divario esistenziale tra l'aspetto soggettivo e quello
oggettivo della fede, tra l'esperienza personale e la sequela

59
radicale di Cristo. In tale divario si pone anche la storicità
costitutiva della fede, il suo compiersi nel tempo, l'esigenza
delle mediazioni quali la chiesa, la testimonianza di fede, la
dimensione comunitaria. La fede non è solo senso ma anche
consenso, si genera in un contesto vitale, in uno spazio
comunitario, in una situazione storica. La trascendentalità
dell'esperienza di fede è sempre mediata dalla forma storica della
fede.
La fede, pertanto, è assenso responsabile che nasce da una ragione
o da un processo dotato di un'intrinseca razionalità esistenziale,
globale, inoltre è risposta alla rivelazione che si presenta come
Verità, ossia con una coerenza interna capace di essere la
risposta, per il credente, più completa, più credibile agli
interrogativi inquietanti della vita. L'insistenza su tale
maturità e responsabilità dell'esperienza della fede pongono in
rilievo il centro unitario e l'opzione fondamentale poste nel
dialogo, libero e misterioso, tra l'uomo e Dio attivato dalla
grazia.
Questo porrà in essere una riflessione teologica più esistenziale,
globale e maggiormente rispondente alla cultura, alla spiritualità
odierna, di cui sta cercando di valorizzare alcune dimensioni
fondamentali: l'esperienza dell'autotrascendenza, la maggior
credibilità dell'amore, la capacità di stupore, di meraviglia, la
costituzione linguistica, storica dell'essere umano.

1. L'intervista è stata riportata, in Italia, sul quotidiano La


Repubblica del 5-6 agosto 1979; vedi pure H. MARCUSE, La
dimensione estetica, Mondadori, Milano 1979.
2. Vedi le riflessioni di A. RIZZI, Qualità della vita. Itinerario
di riflessione, in "Servitium" 13 (1979), p. 18-21.
3. A. BAGORDO, Ionesco o l'inquieto cercatore di luce, in "La
scuola e l'uomo" 31 (1974), pp. 19-21; cfr., G. TOSCHI, E.
IONESCO, in IDEM, Angoscia e solitudine nel teatro contemporaneo,
Esperienze, Fossano 1970, pp. 69-83, qui p. 83.
4. Su questa espressione di Dostoewskij vedi l'ampio studio di A.
DELL'ASTA, La Bellezza splendore del vero, in "Russia Cristiana" 5
(1980) pp. 32-53; sul pensiero religioso di Dostoewskij, in
particolare sulla sua visione cristologica e sul rapporto Cristo-
Bellezza-Verità, vedi F. CASTELLI, Herrlichkeit in "Civiltà
Cattolica" III (1981), pp. 225-237 citeremo CivCatt; L. DAL SANTO,
Dostoievschij, cristiano contemporaneo e profeta, in "Rivista del
Clero Italiano" 63 (1982), pp. 273-280; T. SPIDLIK, L'antropologia
cristiana di Dostoievschij, in E. ANCILLI (a cura di), Temi di
antropologia teologica, Teresianum, Roma 1981, pp. 388-402.
Segnaliamo alcuni recenti saggi che incoraggiano e stimolano nel
percorrere una riflessione attorno alla bellezza: J. NAVONE, Verso
una teologia della bellezza, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998; B.
FORTE, La porta della bellezza. Per un'estetica teologica,
Morcelliana, Brescia 1999; GIOVANNI PAOLO II, Lettera agli
artisti, in Enchiridion Vaticanum. Documenti della Santa Sede,

60
Dehoniane, Bologna 1999; C. M. MARTINI, Quale bellezza salverà il
mondo?, Lettera Pastorale 1999-2000, Milano 1999.
5. H. U. VON BALTAHASAR, Il tutto nel frammento [tr. it. di Das
Ganze in Fragment. Aspekte der Geschichtsthelogie, Einsiedeln
1963], Jaka Book, Milano 1990, p. 193, citeremo TF.
6. IDEM, Gloria,V. 580. Qui Balthasar cita il Pellegrino cherubino
di Angelo Silesio: "Die Schönheit kommt von Lieb, auch Gottes
Angesicht Hat seine Lieblichkeit von ihr, sonst glänzt es nicht".
Per l'opera Gloria-Herrlichkeit, seguiremo le seguenti
abbreviazioni: Gloria I, Gloria. Un'estetica teologica. I: La
percezione della forma [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische
Aesthetik. I: Schau der Gestalt, Einsiedeln 1961]. Gloria II,
Gloria. Un'estetica teologica. II: Stili Ecclesiastici [tr. it. di
Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik. II: Fächer der Stile,
I. Klerikale Stile, Einsiedeln 1962]. Gloria III, Gloria.
Un'estetica teologica. III: Stili Laicali [tr. it. di
Herrlichkeit. Ein theologische Aesthetik. II: Fächer der Stile,
II. Laikale Stile, Einsiedeln 1962]. Gloria IV, Gloria.
Un'estetica teologica. IV: Nello spazio della metafisica:
l'antichità [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik,
III/1. Im Raum der Metaphysik, Einsiedeln 1965]. Gloria V, Gloria.
Un'estetica teologica. V: Nello spazio della metafisica: l'epoca
moderna [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik.
III/I. Im Raum der Metaphysik, Einsiedeln 1965]. Gloria VI,
Gloria. Un'estetica teologica. VI: Vecchio Patto [tr. it. di
Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik. III/2: 1. Alter Bund,
Einsiedeln 1966]. Gloria VII, Gloria. Un'estetica teologica. VII:
Nuovo Patto [tr. it. di Herrlichkeit. Eine theologische Aesthetik.
III/2: II. Neuer Bund, Einsiedeln 1969].
7. Gloria, I, 574.
8. Ibidem, 571; cfr., A. BOGGETTI, Estetica e teologia in Hans Urs
von Balthasar, in "Rivista di Estestica" 16 (1971), 390.
9. È ormai un dato acquisito che la prima predicazione cristiana
si sia concepita alla luce di un imminente ritorno del Signore;
questo annuncio tuttavia è stato adattato alle differenti culture
cui veniva rivolto per questo ritroveremo che per i giudei si
aveva una corrispondenza con l'Antico Testamento e Gesù era
Christos per i pagani si parlava più volentieri di kyrios, Re e
Signore; per la cultura ellenistica in genere era invece logos:
Parola e luce in relazione al nous; per i provenienti dalla
religione misterica era soter ed è sotto questi vari aspetti che
il cristianesimo si è aperto ai vari popoli.
10. "Se nulla è potuto mutare nella posizione antica di Dio nei
confronti del mondo e della costituzione fondamentale dello
spirito umano nei confronti di Dio, quale origine ha dunque il
lamento che si ode, lamento che parla dell'oscuramento di Dio,
anzi della "tenebra di Dio" di quest'epoca? Risponderemo subito,
in via di tentativo e provvisoriamente col dire: esso ha origine
con la mutata posizione dell'uomo nei confronti delle cose del
mondo, le quali non sono più per lui motivo per un contemplativo
elevarsi verso l'assoluto, ma lo sono invece per essere dominate
praticamente nella strumentalità tecnica", in Spiritus Creator.
Saggi teologici, III [tr. it. di Spiritus Creator. Skizzen zur

61
Theologie, III, Einsiedeln 1967], pp. 255-256, citeremo d'ora in
poi SC.
11. "Per rendere credibile e accettabile il messaggio cristiano al
mondo, i Padri della Chiesa collocano questo messaggio sullo
sfondo e nella cornice della religione naturale, considerata o
nella sua varietà e molteplicità di forme (Eusebio, Arnobio,
Lattanzio), o nella sua riduzione filosofico-religiosa (Giustino,
Origene, Agostino)" in Solo l'amore è credibile, p. 17, [tr. it.
di Glaubhaft ist nur die Liebe, Einsiedeln 1963], citeremo d'ora
in poi AC.
12. "Un simile metodo era reso possibile non solo dal concetto di
una identità fra religione e filosofia, ereditato dalle civiltà
antiche e accettato come ovvio e evidente, ma più ancora da una
concezione unitaria dell'ordine naturale e soprannaturale: Dio è
manifesto dal principio del mondo", AC, p. 18. "Può bastare a
questo punto qualche richiamo sul cosmo greco. Il mondo è 1) da
intendere come epiphaneia del divino all'uomo e come luogo di
comparsa dell'uomo destinato a comprenderlo. Solo in un tempo più
tardo il cosmo è divenuto "ordine" (in modo manifesto nelle
stelle) che guida lo sguardo verso l'epifania del divino, in epoca
anteriore a far questo ci sono gli stessi dei che appaiono. Da
questa epifania deriva per l'uomo la misura morale che egli deve
"tenere" _(sofrosoune)_ la diffida contro il peccato d'orgoglio, e
di lì discende pure luce sufficiente per rendere tollerabili e
asseribili le oscurità dell'esistenza per la morte... 2) L'ordine
del mondo riposa sul giusto e sull'appropriato ed equo (themis,
dike) in quanto divina fondazione. L'uomo realizza la sua propria
natura individuale e politica riconoscendo questo ordine e rende
omaggio a Dio con la sua fedeltà, anzi tende a lui nell'amore
(eros)", Gloria, IV p. 29.
13. Il concetto che l'uomo sia sintesi di tutto il mondo non è del
tutto moderno come si è spinti a credere. Già Origene, Agostino,
Gregorio Magno, Massimo il Confessore [...]. Hanno sottolineato
questo aspetto. Il mondo del Rinascimento, per arrivare poi a Kant
e Marx, lo ha fatto proprio indebitamente. "L'uomo come "confine"
(methorion) fra il mondo e Dio: la concezione che era stata
propria dell'antichità e della patristica rivive nel Rinascimento
nelle tante esaltazioni della dignità dell'uomo. Egli è
l'interlocutore di Dio e il dialogo termina con l'incarnazione di
Dio che si fa uomo egli stesso. L'uomo non è solo un microcosmo;
ma nella scienza naturale che sorge è l'interprete della natura,
che allo stesso tempo egli supera e trascende nel suo intelletto
", AC, p. 33.
14. Prova storica di questo è il sistema filosofico di Feuerbach e
Marx che devono formulare primariamente un ateismo metodologico
per costruire poi, il loro sistema filosofico, cfr., C. FABRO,
Introduzione all'ateismo moderno, Roma 1964, pp. 620-660.
15. SC, pp. 262-263.
16. "Non esiste dunque una via tra la Scilla dell'estrinsecismo e
la Cariddi dell'immanentismo? Non esiste una intuizione del
cristianesimo tale che, evitando sia la fede fanatica dei semplici
(aplousteroi), sia l'arrogante presunzione gnostica dei saccenti
(gnostikoi), percepisca in pura, schietta evidenza la luce che

62
scaturisce dalla rivelazione, senza per questo dover essere
riconducibile al metro alle dimensioni e alle leggi dell'uomo,
cioè di colui che la intuisce?", AC, pp. 53-54.
17. Gloria, I, p. 28.
18. Ibidem, p. 3.
19. "Was aber schön, ist, selig scheint es in ihm selbst" è questo
l'ultimo verso di una poesia di Mörik del 1846, che noi
riprendiamo insieme ad altre osservazioni da un articolo di H. R.
SCHLETTE, Il cristiano e la esperienza del bello, in AA.VV.,
Comprensione del mondo nella fede, Dehoniane, Bologna 1969, pp.
99-125.
20. Gloria, I, pp. 9-11.
21. Ibidem, pp. 31-33.
22. Gloria, VII, p. 89. La parola gloria è una di quelle che
ritornano più frequentemente nella Bibbia, nella liturgia, nella
tradizione, nei testi del magistero e nelle esperienze dei
mistici. Non sempre però è facile coglierne il senso preciso. Con
la parola gloria si traduce il termine ebraico kabod e il termine
greco doxa. Queste due parole non si corrispondono
fondamentalmente. L'ebraico marca di più la gloria radicale,
quello che noi potremmo dire ragione e fondamento della gloria.
Essa significa il peso, l'importanza della persona che ha gloria.
Per un uomo può essere la ricchezza che possiede, per un re il
popolo o il gran numero dei suoi soldati, per la donna la bellezza
intesa come capacità di essere feconda, cfr., Grande Lessico del
Nuovo Testamento, [tr. it. di Theologisches Wörterbuch zum Neuen
Testament, G. KITTEL-G. FRIEDRICH (edd.), Stuggart 1933-1973], (a
cura di), F. MONTAGNINI, Brescia 1965-1990, vol. II, Paideia,
Brescia 1966, v. Doxa, kabod nell'AT, col. 1358 ss, citeremo GLNT;
P. DASEILLE-P. ADNÈS, Gloire de Dieu, in Dictionnaire de
Spiritualité ascétique et mystique. Doctrine et histoire,
Beauchesne, Paris 1965, vedi 6, col. 422ss. Per il senso di kabod
nell'AT, e per il rapporto con tutti gli altri termini che
connotano la gloria, Gloria, VI, pp. 33-176. Alle pagine 34-35, in
nota, si trova una bibliografia su Kabod Jahvè. La gloria di Dio è
costituita dal suo stesso essere: "Io sono colui che è". La gloria
appare, risplende. Dio si manifesta per mezzo della gloria, si fa
conoscere per mezzo della gloria. La gloria perciò è all'inizio
dell'incontro dell'uomo con Dio ed è condizione del suo
riconoscimento in vista dell'alleanza. In quanto la gloria di Dio
è potenza, imponenza, grandezza, splendore e anche mistero,
impenetrabilità, genera sorpresa, ammirazione, meraviglia,
stupore, a volte rispetto e timore. Non si può vedere Iddio senza
morire? La manifestazione della gloria di Dio è sempre, perciò,
misericordia. Il significato originario della parola doxa con cui
i LXX traducono la parola ebraica kabod e che è poi usato nel
Nuovo Testamento, è ben diverso da quello di gloria. Derivata da
dokéo, essa significa fondamentalmente l'opinione, ciò che si
ritiene vero. In questo senso è opposta alla epistéme (scienza) e
alla alétheia (verità). Il senso di gloria lo ha assunto in quanto
ha teso a significare godere buona fama, buona opinione, buona
stima. Nell'uso del NT, la parola doxa ha una forte variazione
semantica, che la porta a corrispondere al senso dell'ebraico

63
kabod e la fa distaccare dal verbo dokéo, che continua a mantenere
il suo senso originario di ritenere, sembrare, sostituito dal
verbo doxázo, per esprimere l'atto di dare gloria, glorificare,
cfr., G. VON RAD-G. KITTEL, Doxa_ in GLNT, II, col. 1343-1345. Per
il senso di doxa e in genere sulla gloria nel NT si ha una buona
scelta di bibliografia in Gloria, VII, pp. 217-219.
23. Ibidem, p. 33.
24. Per una esegesi più completa circa il brano di 2 Cor. 3, 18 si
può confrontate pure Gloria, VII, pp. 420-422. La pericope di 2
Cor. è concepita da von Balthasar come "luogo classico"
dell'estetica per questo trova qui un posto particolare. Si
confronti pure in Ibidem, pp. 268-274.
25. Gloria, I, p. 29.
26. Cfr., Gloria, II, p 217.
27. Gloria, I, p. 109.
28. Per Dionigi l'eros comprende in sé al di lá dell'"agape", il
momento del rapimento ontologico e questa è per lui
un'affermazione soteriologica oltre che estetica. Infatti, il
rapimento dell'uomo non si ferma all'aristotelico e neoplatonico
kinoun ws eramenon, ma fonda questo in una previa estasi divina
discendente nella quale Dio viene tirato da sé, attraverso l'eros,
nella creazione, nella rivelazione e nella incarnazione. Von
Balthasar fa riferimento esplicito ad un brano di Dionigi di De
Divinis nominibus, 4, 13; cfr., Gloria, I, pp. 106-108.
29. Nessuno come Agostino, "divenuto il fondatore permanente di
una estetica cristiana", in Verbum Caro. Saggi teologici, I [tr.
it. di Verbum Caro. Skizzen zur Theologie, I, Einsiedeln 1960], p.
113, citeremo d'ora in pio VC; "negli anni della sua conversione e
in quelli successivi ha così costantemente lodato Dio come suprema
bellezza e ha cercato così conseguentemente di definire il vero e
il bene con le categorie dell'estetico", Gloria, II, pp. 81-123.
"Fra i grandi scolastici, Bonaventura è quello che nella propria
teologia dà più spazio alla trattazione del bello, non
semplicemente perché ne parla spessissimo, ma perché vi esprime
palesemente un'intima esperienza", Gloria, II, pp. 237-325. "In
Tommaso d'Aquino avviene di rado che la bellezza si trovi al
centro della riflessione e questa è per lo più condizionata dal
materiale che la tradizione gli mette al riguardo sotto gli occhi,
egli rivede calmo questo materiale ereditario, cerca di
armonizzare gli elementi che affluiscono a lui da Agostino,
Dionigi, Aristotele, Boezio e dal suo maestro Alberto, e in
apparenza senza fornire all'estetica in senso stretto un
contributo originale. Nel retroterra tuttavia viene trasferito in
una luce nuova per il fatto che tutta la teoria dei trascendentali
viene investita da quella che fu la fondamentale prestazione
creatrice dell'Aquinate: la sua determinazione dell'esse e del
rapporto dell'esse alle essenze ", Gloria, IV, pp. 355-371.
30. Gloria, I, p. 12; p. 103.
31. "Ogni essere reale che incontriamo è secondo gradi analogici
diversi una Gestalt, la cui altezza viene valutata in base al
potere più o meno grande della sua unità a raccogliere elementi
molteplici (Ehrenfels) ma tutte le Gestalten spiritualmente
visibili rinviano oltre se stesse all'essere nella sua pienezza e

64
perfezione il quale secondo Goethe "non può essere da noi
pensato". La luce irradia dalla Gestalt e che si apre alla
comprensione è in tal modo indivisibilmente luce della forma
stessa (la scolastica perciò parla di splendor formae) e luce
dell'essere in genere in cui la forma è immersa per poter avere in
genere reale Gestalt. Con l'immanenza sale la trascendenza",
Gloria, IV, pp. 34-36.
32. Gloria, IV, p. 36.
33. Gloria, I, p. 103. Per comprendere l'unità di misura: " si
misura una cosa mediante un'altra, ma se ciò che viene misurato e
ciò che misura (o viceversa) sono parte o aspetto di un tutto, si
può dire allora che il tutto è misurato da se stesso. Solo quando
le parti o gli aspetti di un tutto si misurano vicendevolmente,
possono dare assieme una forma. La forma si ha solo dalle parti o
dagli aspetti che sono vicendevolmente ripartiti e adattati
(proportio), in modo tale tuttavia che non hanno da se stessi la
misura ultima ma dall'insieme che è al tempo stesso distributore
ed ultimo beneficiario di tutta la propria misurazione", Ibidem,
p. 438.
34. Gloria, I, p. 103.
35. Ibidem, p. 103. Inoltre: "Non si può trascendentalizzare
l'evento del bello in modo tale che esso divenga una pura
irruzione dall'esterno e dall'alto. Un tale evento che aderisce
all'"essere", ma che calpesta l'essente e l'ente, distrugge la
metafisica nell'atto stesso in cui la fonda", VC, p. 120.
36. Karl Barth fu l'unico nell'imperversare del tifone che ha
saputo raddrizzare decisamente il timone. Superando l'aut-aut tra
Hegel e Kierkegaard egli ha promosso (a partire da Hegel) una
dogmatica oggettivamente normata ed anche formata che tuttavia ha
il suo contenuto (a partire da Kierkegaard) nel rapporto
reciproco, originato dalla fede, tra il Dio creatore e salvatore
da una parte e l'uomo disvolto da lui e a lui rivolto, dall'altra,
rapporto mediato in Gesù Cristo, Dio fattosi uomo. Per la prima
volta nella storia della teologia protestante si è ritornati ad
attribuire a Dio nuovamente il titolo della bellezza. Occorre
notare che Barth, in opposizione al concetto kierkegaardiano
dell'estetica, riguadagna il contenuto della "bellezza" in maniera
puramente teologica, a partire dalla considerazione dei dati
biblici, in particolare della "gloria" di Dio, alla cui
comprensione gli sembra indispensabile la bellezza come "concetto
ausiliare". Proprio a partire da una considerazione che è
"contemplazione", cfr., Gloria, I, p. 43. Da notare anche
l'importanza che von Balthasar concede a J. G. Hamann; l'unico che
pone il problema di una dottrina estetica: "Alle soglie dell'epoca
moderna si erge una figura che come nessuna altra nella storia
porta i segni tragici della questione che ci interessa... Ci
riferiamo a Johann Georg Hamann egli è stato l'unico a prendere in
considerazione l'esigenza di abbozzare una dottrina estetica dove
si potesse realizzare tutta l'aspirazione di una bellezza mondana
e pagana e tuttavia si desse tutto l'onore a Dio in Gesù Cristo",
Gloria, I, p. 69. E ancora: "Il suo sentiero all'indietro non fu
tuttavia percorso più e la sua indicazione non fu compresa da
tutto l'idealismo tedesco, che invece preferì seguire la via del

65
suo discepolo infedele Herder, attraverso Schleiermacher, fino a
Hegel", Ibidem, p. 40.
37. "Abbiamo qui schizzato a mo' di introduzione il progetto di K.
Barth non solo perché si accorda con il nostro, ma anche per quel
che concerne proprio il rapporto tra gloria e bellezza", Gloria,
VII, pp. 27-28; Gloria, I, p. 45.
38. VC, p. 117.
39. IDEM, Wahrheit der Welt, Johannes Verlag, Einsiedeln 1947. Noi
lo citiamo della traduzione francese di R. GIVORD, Phénoménologie
de la vérité. La vérité du monde, Paris 1952.
40. "Si la vérité et la bonté son réellement deux propriétés
trascendentales de l'être, elles doivent se compénétrer
mutuellement, et il en résulte nécessairement que tout essai de
les délimiter d'une manière exclusive ne peut conduire qu'à une
fatale méconnaissance de leurs deux natures. On pourrait en dire
autant, avec les nuances voulues, de la dernière propriété,
trascendentale de l'être, le beauté: elle aussi prétend à juste
titre à l'universalité, elle aussi en conséquence est inséparable
de ses deux soeurs? C'est pourquoi, pour apercevoir la nécessité
abolument fondamentale d'une éthique et d'une esthétique de la
vérité et de la connaissance de la vérité, il suffit de
reconnaître que les trois déterminations trascendentales de l'être
sont nécessaires pour manifester toute sa richesse intime,
autrement dit pour dévoiler sa vérité; ce qui revient à dire
encore que seule une vérité vivante et durable de la triple
attitude théorique, éthique et esthétique, peut nous amener à la
vraie connaissance de l'être ", Ibidem, p 13.
41. Ibidem, p. 207.
42. Ibidem, p. 213.
43. "Tommaso non si è mai occupato ex professo dei problemi del
bello, non vi ha mai dedicato un trattato o un articolo, non ha
mai sentito il bisogno di sistemare in modo evidente le proprie
idee estetiche. Tommaso affronta il problema del bello quasi per
caso e le risposte che formula costituiscono sempre degli incisi;
ma non per disinteresse estetico quanto per la ragione opposta:
una visione del mondo in termini di bellezza gli era connaturata,
spontanea, facile e quotidiana, e si manifestava come tonalità
dominante di un clima sentimentale-religioso, piuttosto che come
una questione teologica formulabile in termini problematici e
aperta a soluzioni controverse", U. ECO, Il problema estetico in
Tommaso d'Aquino, Bompiani, Milano 1970, p. 146; Gloria, IV, pp.
355-371.
44. Ibidem, p. 97.
45. Ibidem, pp. 149-150. Confronta pure Summa Theologiae, II-II,
p. 142; II-II, p. 180.
46. Gloria, I, p. 104.
47. "Percezione-Wahrnehmung- è un termine chiave che si può
trasportare in italiano sia con "percezione" che con "evidenza".
Nella storia della filosofia lo si ritrova in tre accezioni
particolari: 1) esso sta ad indicare, in senso generale, qualsiasi
attività conoscitiva; 2) più particolarmente sta ad indicare
l'atto conoscitivo mediante il quale un oggetto reale è presente
alla mente; 3) in chiave più tecnica esso è un'operazione

66
specifica dell'uomo in rapporto all'ambiente in cui vive, N.
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1977, pp. 659-
663. A noi sembra che sulla linea di interpretazione e dell'uso
fatto da Agostino, Tommaso, Kant, Hegel, Balthasar abbia ad usare
il termine in senso più specifico come cioè il rendere presente
una realtà esistente, l'afferrare, in questo caso specifico, la
realtà dell'essere come bello che è poi rivelazione di Dio. Ancora
così si esprime Marchesi: "Quando nel contesto letterario
l'accento è posto sul nehmung allora è indicato l'atto soggettivo
del vedere, sentire, contemplare [...] se invece l'accento cade
sul wahr si ha piuttosto il senso di evidenza oggettiva: è
l'autorivelazione, l'automanifestazione della verità divina vista
nel suo atto di irradiarsi come centro fontale verso la
periferia", IDEM, La cristologia di H. U. von Balthasar, p. 132.
48. "Estetica (nel senso kantiano) come dottrina della percezione
della forma di Dio che si rivela", Gloria, I, p. 110; e ancora:
"nella dottrina della visione nel primo volume (visione della
forma) l'estetica era intesa in senso kantiano come dottrina della
percezione", Gloria, VII, p. 32.
49. Gloria, VII, p. 16.
50. Ibidem, p. 21.
51. Gloria, I, p. 20.
52. Ibidem, pp. 23-24.
53. Gloria, VII, p. 349.
54. Gloria, I, p. 137.
55. Gloria, VII, pp. 32-33.
56. Gloria, I, p. 30.
57. VC, p. 127.
58. Gloria, I, p. 108.
59. Ibidem, p. 26.
60. VC, p. 165.
61. Gloria, VII, P. 32.
62. Gloria, I, p. 4.
63. Si noti qui, anche nella terminologia, la dipendenza di
Balthasar, o forse sarebbe meglio parlare di concordanza di
visione teologica, con P. ROUSSELOT, Les yeux de la foi, in
"Récherches de Science Religieuse" 1 (1910), pp. 241-449, e la
ripresa del termine patristico di "occhi della fede", "les yeux de
la foi", presentato dal nostro autore in Gloria, I, pp. 160-162,
qui mostra la dipendenza di Rousselot da Tommaso e Blondel: "Fu un
grande passo avanti quello compiuto quando Pierre Rousselot, a
partire dal 1910, cominciò a sviluppare la sua dottrina degli
"occhi della fede". Già lo stesso titolo, scelto come parola
d'ordine, derivato dai Padri e soprattutto da Agostino e
rifacentesi alla concezione biblica della fede, indica come ci sia
qualcosa da vedere per la fede, anzi come la fede cristiana
consista essenzialmente in una capacità di vedere ciò che Dio
vuole mostrare e che non può essere visto senza la fede. Dietro
Rousselot ci sono da una parte Tommaso d'Aquino e dall'altra
Blondel con la sua concezione dell'apertura dinamica dello spirito
alla pienezza dell'essere, Ibidem, p. 160.
64. Gloria, VII, pp. 23-24.
65. Gloria, I, p. 20.

67
66. Ibidem, pp. 22-23.
67. "Una verità teologica che non si rivelasse sempre più
luminosamente come l'incomprensibile irruzione e affermazione
dell'eterno amore (trinitario), non sarebbe una verità", Gloria,
VII, p. 85.
71. Gloria, VII, pp. 240-244.
72. "La teologia è un mezzo, una mediazione, un rendere possibile,
uno schiudere la dovizia infinita della verità divina nei
ricettacoli finiti in cui ci è donata la rivelazione, affinché il
credente diventi capace di incontrare tale infinità
nell'adorazione e nell'obbedienza di vita. La verità della
rivelazione in quanto è verità divina e vissuta, è strutturata
così che la teologia, compiendo la sua opera come riflessione
teoretica, che poi trapassa néll'adorazione e nell'obbedienza di
vita, nel suo contenuto di verità debba lasciarsi misurare col
metro dell'adorazione e dell'obbedienza", VC, pp. 168-169.
73. Gloria, I, p. 110.
74. Gloria, VII, p. 32. Per quanto riguarda poi i rapporti tra
teologia e metafisica, cfr., Gloria, IV, p. 20 s.
75. VC, pp. 171-172.
76. IDEM, Liturgia cosmica, [tr. it. di Kosmische Liturgie. Das
Weltbild Maximus des Bekenners, Johannes Verlag, Einsiedeln 1961],
A.V.E., Roma 1976, p. VII,. Testo ripreso dalla introduzione che
von Balthasar fece a Présence et Pensée. Essai sur la philosophie
religieuse de Grégoire de Nysse, Paris 1942.
77. IDEM, Con occhi semplici. Verso una nuova coscienza cristiana,
[tr. it. di Einfaltungen. Auf Wegen christlicher Einigung, Kosel,
München, 1969], Herder-Morcelliana, Brescia 1970, p. 10.
78. Basti pensare a tutte le estetiche della luce sviluppatesi nel
Medioevo a cui fa riferimento U. Eco nel suo saggio Arte e
bellezza nell'estetica medievale, Strumenti Bompiani, Milano1994,
pp. 55-63, dove si affronta il problema del gusto del colore e
della luce, la metafisica della luce di Grossatesta, ed il
pensiero di Bonaventura. Altri autori evidenziano una metafisica
della luce come P. EVDOKIMOV, Teologia della bellezza, pp. 185-
190; B. FORTE, La porta della bellezza, pp. 73-84; per il rapporto
tra luce-bellezza e verità vedi il saggio di N. VALENTINI, PAVEL
A. FLORENSKIJ, la sapienza dell'amore. Teologia della bellezza e
linguaggio della verità, Dehoniane, Bologna 1997, pp. 161-175.
79. A. SCOLA, Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca
Book, Milano 1991, pp. 13-14.
80. Riguardo a Bonaventura ed alla sua ermeneutica, J. Navone
scrive: "San Bonaventura usò il simbolo della luce nel suo
approccio teologico alla bellezza. Per lui, come per altri teologi
medievali, la luce era il simbolo centrale per la bellezza
trascendentale e reale della creature. La luce in quanto tale non
viene vista; si vedono soltanto gli oggetti illuminati", in idem,
Verso una teologia della bellezza, p. 74.
81. Cfr., A. SCOLA, Hans Urs von Balthasar, p. 14.
82. Cfr., A. SCOLA, p. 19.
83. Cfr., Ibidem, p .52.
84. Cfr., Ibidem, p. 52.
85. A. SCOLA, cit., p. 30.

68
86. Cfr., K. RAHNER, Uditori della Parola, Borla, Torino 1967,
specialmente il I capitolo dedicato alla filosofia della religione
come ontologia della potentia oboedentialis di fronte alla
rivelazione. Il tema che prende corpo alla fine del testo citato è
che l'uomo non potrà mai essere pienamente tale se non in
relazione con la rivelazione e, a sua volta, la rivelazione non
potrà mai realizzare la propria identità se non sarà raggiungibile
dal soggetto; cfr., pp. 195-210 e sempre dello stesso autore:
Filosofia e teologia in Saggi Teologici I, [tr. it. di Philosophie
und Theologie, in Schriften zur Theologie], Paoline, Roma 1968,
pp. 137-152. In questo Balthasar si contrappone nettamente al
metodo trascendentale di Rahner. Nel corso di un'intervista, senza
nascondere la sua ammirazione per la vivacità teologica di Rahner,
egli soggiunge: "le nostre posizioni di partenza furono, a dire il
vero, sempre diverse. C'è un libro di Simmel che si intitola Kant
e Goethe. Rahner ha scelto Kant, o se si preferisce: Fichte, cioè
l'impostazionme trascendentale. E io ho scelto Goethe da
germanista. La figura (Gestalt), indissolubilmente unica,
organica, che si sviluppa - io penso a Metaformosi delle piante di
Goethe - questa figura con cui Kant anche nella sua estetica non
arriva mai davvero a venire a capo [...]. Una figura, una forma,
la si può circondare, le si può girare attorno e vederla da tutte
le parti. Ogni volta si vede qualche cosa di diverso e tuttavia si
vede sempre la stessa cosa", in M. ALBUS, Geist und Feuer. Ein
Gespräche mit Hans Urs von Balthasar, in "Herder Korrespondenz" 30
(1976), p. 75. citato in P. HENRICI, La filosofia di Hans Urs von
Balthasar,in K. LEHMANN-W. KASPER, p. 313.
87. H. U. VON BALTHASAR, Mein Werk, p. 92. È da questa esperienza
che l'autore svizzero prende le mosse per analizzare la fede in
SC, pp. 11-18. Sul rapporto Io-Tu e sulla sua significatività
nello spiegare la dinamica della fede cfr., M. BUBER, Werk, I,
Schriften zur Philosophie, Kösel und Lambert Schneider, München-
Heidelberg 1962, pp.505-603, dove si evidenzia che il problema
della fede si pone quando non ci si lascia assorbire dalla
relazione Ich-Es e ci si apre alla relazione Ich-Du; perciò la
fede, più che la capacità conoscitiva, investe la nostra capacità
di incontrarci a livello interpersonale. Sulla fede come
ritrovamento del "Tu", cfr., anche J. RATZINGER, Introduzione al
cristianesimo, [tr it. di Einführung in das Christentum],
Queriniana, Brescia 19909, pp. 46-47.
88. Teologica, I: Verità del mondo, p. 41, [tr it. di Theologik.
I: Wahrheit der welt, Einsieldeln 1985], abbrevieremo: TL I.
89. Ibidem, 215.
90. Cfr., A. SCOLA, cit., pp. 44-45.
91. Gloria, I, p. 137.
92. Ibidem, p. 137.
93. Cfr., Ibidem, p. 24.
94. La "luce dal cielo", al v. 3, è uno dei segni ordinari delle
apparizioni divine, lo stesso vale per il "cadere in terra", del
versetto seguente, quale atteggiamento di adorazione dell'uomo di
fronte al mistero divino. In questo caso si tratta, piuttosto, del
rovesciamento dei disegni umani da parte dell'iniziativa divina.
Le parole pronunciate da Cristo esprimono l'identificazione tra il

69
Signore risorto e i suoi fedeli, come Paolo stesso evidenzierà,
nelle sue Lettere (1Cor 3,16s; 10,17; 12,27; 2Cor 6,16),
dichiarando l'unione Cristo-cristiani poiché fondata su questa
voce divina; cfr., C. M. MARTINI, Atti degli Apostoli, Edizioni
Paoline, Roma 1970, p. 153. Paolo rimane accecato quando alla fine
si rialza da terra e tenta di aprire gli occhi e trascorre tre
giorni di silenzio dove gli diventa chiaro quanto segue: "1. gli
si rivela come volontà di Dio esattamente quello che finora aveva
considerato come bestemmia, come un grave peccato contro la
volontà di Dio e comprende, quindi, che tutto quello che egli
pensava e faceva era un combattere contro Dio. 2. Gesù, che egli
aveva ritenuto come un falso messia giustamente condannato ad una
morte ignominiosa, è il Signore celeste, che gli è apparso nella
luce della gloria divina; egli è veramente risorto. Inoltre,
avverte che questo Signore lo ha perdonato senza alcun motivo;
anzi, vuol prendere al proprio servizio proprio lui, il suo
nemico, per quanto Paolo non sappia ancora in che modo", in G.
STÄHLIN, Gli Atti degli Apostoli, [tr. it. di Die
Apostolgeschichte], Paideia Editrice, Brescia 1973, pp. 244-245.
L'episodio "non è stato un puro e semplice processo di
autocoscienza, bensì un prodigio di grazia. Siamo indubbiamente di
fronte a una lettura del cambiamento esistenziale del persecutore
fatta con gli occhi della fede dal cristianesimo primitivo, ma
ancor prima dallo stesso protagonista", in G. BARBAGLIO, Paolo di
Tarso e le origini cristiane, Cittadella Editrice, Assisi 1985, p.
75.
95. Gloria, I, p. 574.
96. Ibidem, p. 45.
97. Ibidem, p. 148.
98. Cfr., B. FORTE, La porta della bellezza, pp. 63-66.
99. Gloria, I, p. 4.
100. Ibidem, p. 12.
101. A riguardo della forma G. RUGGIERI, afferma nella prima nota
del testo, che il termine "forma" (Gestalt), con cui l'autore
rende la species e la forma latina, costituisce una delle parole-
chiavi per intendere il suo pensiero, come abbiamo già specificato
nella parte introduttiva del nostro lavoro. Forma indica la
struttura concreta dell'essere, essa è una figura dinamica che
pervade ogni singolo essere unificandolo in tutte le sue parti e
lo apre all'Essere che propriamente lo informa, gli dà forma e di
cui è quindi espressione, e lo rende a sua volta capace di
irradiare il suo proprio splendore; cfr., anche G. MARCHESI, La
figura di Gesù Cristo nell'estetica teologica di Hans Urs von
Balthasar, in "CivCatt" II (1999), pp. 123-128.
102. Gloria, IV, pp. 5-36.
103. Gloria, I, p. 14.
104. Ibidem, p. 14.
105. Ibidem, p. 13.
106. Ibidem, p. 15.
107. Ibidem, p. 26.
108. Ibidem, p. 23.

70
109. Ibidem, p. 361. Il saggio citato di R. GUARDINI è Die Sinne
und die religiöse Erkenntnis.
110. Ibidem, p. 364.
111. Ibidem, p. 366.
112. Ibidem, p. 367. Analizzando l'opera di Paul Claudel l'autore
svizzero ne riporta il pensiero: "la luce si apre un varco fino
all'occhio, attraverso i colori e le ombre. L'occhio da parte sua
è il bisogno di visione dello spirito finito che è divenuto
organo, la scintilla di luce messa da Dio dentro l'uomo, perché
organizzi in forma vivente le tenebre che lo circondano", Ibidem,
p. 373
113. Ibidem, pp. 373-374.
114. Ibidem, p. 374.
115. Ibidem, p. 19.
116. Ibidem, p. 20.
117. Ibidem, p. 24,
118. Ibidem, pp. 3-4.
119. Gloria, I, p. 25.
120. Ibidem, p. 28.
121. G. MARCHESI, La cristologia trinitaria, p. 282.
122. Gloria, I, p. 28.
123. Ibidem, p. 29.
124. Ibidem, p. 29.
125. Ibidem, p. 30.
126. Ibidem, p. 30.
127. Ibidem, p. 33.
128. K. BARTH, KD II/1, 732 ss, citato in Gloria, I, p. 43.
129. Gloria, I, p. 44.
130. Ibidem, p. 45.
131. Ibidem, p. 70.
132. Ibidem, pp. 70-71.
133. Ibidem, p. 71.
134. Ibidem, p. 74. È una lettura diversa da quanto proposto, ad
esempio, dalla mistica dalla mistica apofatica, fiammingo-renana,
che collegandosi alla tradizione metafisica della teologia
negativa, vede nella Croce l'attuazione della doppia negazione
necessaria perché Creatore e creature si possano incontrare: la
kenosi del Verbo e il riconoscimento della nullità della creatura
davanti a Dio. Gli scritti di Meister Eckhart si muovono in questa
direzione: la forma platonica del pensare prevale su quella
biblica, la fede indica il distacco da ogni esteriorità; cfr., M.
VANNINI, Dialettica della fede, Piemme, Casale-Monferrato 1983,
26-27. Diversa è l'interpretazione offerta dal filosofo francese
S. Breton, che vede nel misticismo speculativo la chiave per
passare dal linguaggio dell'essere a quello dell'abisso, che è il
vero linguaggio della theologia crucis. Lo stesso Eckhart che
parla il linguaggio dell'ontologia dell'essere lascia la parola al
Prologo giovanneo; l'essere non è più il primo intelligibile, ma
l'effetto dell'intelletto stesso della sapienza, cfr, in IDEM, La
Mistica della Passione, Stauròs, Pescara 1986, [tr. it. di La
Mystique de la Passion, Desclée, Tournai 1962], pp. 66-98.
135. Ibidem, p. 73.
136. Ibidem, p. 74.

71
137. Cfr., Ibidem, p. 74.
138. Ibidem, p. 74.
139. Ibidem, p. 19.
140. Ibidem, p. 75.
141. Ibidem, p. 75.
142. Alois Gügler è stato un geniale teologo di Lucerna
prematuramente morto che ha svolto portando a compimento una
teologia estetica, sua opera principale L'arte sacra o l'arte
degli ebrei 1814/1836.
143. Gloria, I, p. 82.
144. G. SCHOLEM, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il
Saggiatore, Milano 1965, p. 295.
145. J. VIDAL, Sacro, Simbolo, Creatività, Jaca Book, Milano 1992,
pp. 122-123.
146. Cfr., Gloria, I, p. 86.
147. Ibidem, p. 87.
148. Ibidem, p. 88.
149. Cfr., Ibidem, p. 88.
150. Ibidem, p. 89.
151. Ibidem, p. 93.
152. Ibidem, p. 105.
153. Ibidem, p. 105.
154. Ibidem, p. 106.
155. Ibidem, p. 106.
156. Ibidem, p. 108-109.
157. Gloria, II, p. 1.
158. Ibidem, p. 3.
159. Gloria, I, p. 139.
160. Cfr., Ibidem, p. 146.
161. Ibidem, p. 122.
162. Cfr., Ibidem, p. 123.
163. Ibidem, pp. 124-125.
164. Ibidem, p. 26.
165. TL, I, p. 13. Tuttavia, ponendo tutto sotto la luce di Dio e
dentro l'orizzonte della storia della salvezza, a Balthasar riesce
impossibile concepire una filosofia che prescinda completamente
dai contenuti della rivelazione. Infatti "il mondo, come oggetto
della conoscenza, è da sempre costretto in questa sfera
sovrannaturale, e così analogamente il potere conoscitivo
dell'uomo si trova anch'esso sotto la positiva premessa della fede
o sotto quella negativa della miscredenza. Vero è che la
filosofia, in quanto si muove in una relativa astrattezza,
prescindendo da questo inalveamento sovrannaturale della natura
creata, può evidenziare certe strutture fondamentali naturali del
mondo e della conoscenza, le quali non vengono affatto, da
quell'inserimento, eliminate o alterate nella loro essenza; ma la
filosofia, quanto più si avvicina all'oggetto concreto e quanto
più presume dal suo potere conoscitivo concreto, tanto più si
troverà a includere, consapevolmente o meno, dati teologici. Il
soprannaturale si radica, appunto nelle più intime strutture
dell'essere, per impregnarle come un lievito, per attraversarle
come un soffio e un aroma onnipresente. È non solo impossibile, ma
sarebbe anche folle, voler bandire ed escludere con ogni mezzo

72
quest'aroma della verità soprannaturale è troppo profondamente
impregnato nella natura perché questa possa essere ancora
ricostruita nel suo stato di natura pura", Ibidem, p. 17
166. Cfr. per questo TS, p. 61-70.
167. Gloria, I, p. 134.
168. Ibidem, p. 134.
169. Ibidem, p. 135.
170. Ibidem, p. 136.
171. Ibidem, p. 142.
172. Ibidem, p. 143.
173. Ibidem, p. 143.
174. Ibidem, p. 144.
175. Cfr., Ibidem, p. 145.
176. Ibidem, p. 155.
177. Ibidem, p. 148.
178. Ibidem, p. 151.
179. Ibidem, p. 151.
180. Ibidem, p. 157.
181. Ibidem, p. 197.
182. Ibidem, p. 197.
183. Ibidem, p. 198.
184. Ibidem, p. 198.
185. Ibidem, p. 199.
186. Gloria, V, p. 581.
187. Cfr., M. JÖHRI, Descensus Dei, pp. 308-309.
188. Gloria, I, p. 19.
189. Ibidem, p. 20.
190. Ibidem, p. 100.
191. Ibidem, p. 101.
192. Cfr., Ibidem, p. 119.
193. Ibidem, p. 127.
194. Ibidem, p. 166.
195. Ibidem, p. 180.
196. Ibidem, p. 186.
197. Ibidem, p. 400.
198. Ibidem, p. 400.
199. Ibidem, p. 400.
200. Ibidem, p. 406.
201. Ibidem, p. 407.
202. Ibidem, p. 408.
203. Cfr., Ibidem, p. 410.
204. Cfr., Ibidem, p. 412.
205. Ibidem, p. 422.
206. Cfr., Ibidem, p. 425.
207. Cfr., Ibidem, p. 426.
208. Ibidem, p. 426.
209. Ibidem, p. 427.
210. Ibidem, p. 427.
211. C. HELOU, Il conflitto delle tenebre e della luce negli
scritti giovannei. Un approccio simbolico, in J. RIES-C. M.
TERNES (a cura di), Simbolismo ed esperienza della luce nelle
grandi religioni, Jaca Book, Milano 1997, p. 174. A riguardo del
simbolismo delle tenebre e della luce, sarebbe di estrema

73
importanza poterlo analizzare nel vangelo giovanneo, vedendone i
suoi presupposti e le sue conseguenze, tenendo presente che
Balthasar utilizzi a proprio questo il vangelo per meglio
comprendere il rivelarsi della forma, il suo manifestarsi
all'umanità.
212. Gloria, I, p. 429.
213. Ibidem, p. 429.
214. Ibidem, p. 435.
215. Ibidem, p. 437.
216. Ibidem, p. 439.
217. Ibidem, p. 440.
218. Ibidem, p. 444.
219. Ibidem, p. 445.
220. Ibidem, p. 451.
221. Ibidem, p. 452.
222. Ibidem, p. 452.
223. Ibidem, p. 453.
224. Ibidem, p. 454.
225. Per quanto concerne il tema del tragico esiste una vasta
letteratura: P. SZONDI, Sul tragico, Einaudi, Torino 1996; U.
CURI, (a cura di), Metamorfosi del tragico fra classico e moderno,
Laterza, Roma 1991; R. OTTONE, ad esempio ne Il tragico come
domanda. Una chiave di volta della cultura occidentale, Roma 1998,
scrive: "una eccezione significativa in campo cattolico è
rappresentata, in questo secolo, dalla figura di Hans Urs von
Balthasar nella cui opera il tema del tragico costituisce un
filone fra i più rilevanti. In estrema sintesi possiamo dire che
per von Balthasar, la tragedia di Gesù supera quella greca e
quella ebraica soltanto col darle compimento e consumazione
perfetta", in idem, p. 203.
226. Ibidem, p. 457. S. Kierkegaard avrebbe rigettato il paragone
croce-dipinto: "come potrei decidermi, cioè come potrei lasciarmi
andare a prendere il pennello per rappresentare Cristo o lo
scalpello per scolpire la sua figura? Poco importa a questo
riguardo ch'io sia o non sia un artista; chiedo semplicemente in
quale misura mi sarebbe possibile fare questo se ne avessi le doti
necessarie. E rispondo: no, mi è impossibile assolutamente", in
IDEM, Esercizio del Cristianesimo, p. 311ss.
227. Ibidem, p. 458.
228. Ibidem, p. 472.
229. Ibidem, p. 472.
230. Ibidem, p. 474.
231. Ibidem, p. 475.
232. Cfr., Ibidem, p. 484.
233. Ibidem, p. 486.
234. Ibidem, p. 486.
235. Cfr., Ibidem, p. 487.
236. Cfr., Ibidem, p. 488.
237. Ibidem, p. 489.
238. Cfr., Ibidem, p. 490.
239. Ibidem, p. 490.
240. Ibidem, p. 498.
241. Ibidem, p. 605.

74
242. Ibidem, p. 608.
243. Ibidem, p. 609.
244. Ibidem, p. 611.
245. Ibidem, p. 622. È nella espropriazione massima che si apre a
noi la via nuova dell'amore di Dio che offre la sua vita, e che
nell'offrirla la innalza al di là del tempo contingente,
rendendola una icona eterna, la cui luce dona salvezza al
contemplante: "inaudito equilibrio dell'amore corporeo:
disincantato fino al midollo, sulla croce e davanti all'agape di
Dio che si è rivestita del linguaggio corporeo, innalzato al di
sopra di sé ed elevato nell'eternità, in questo linguaggio
inebriante della carne e dei sangue, per diventare, in quanto eros
creato, la tenda e l'abitazione dell'amore di Dio! Espropriato per
diventare espressione di qualcosa di più alto! Si ha quindi una
duplice vicendevole espropriazione: di Dio dentro la forma umana,
dell'uomo dentro la forma di Dio. E questa duplice espropriazione
contiene la vita più concreta", Ibidem, p. 631.
246. VC, p. 126.
247. Gloria, V, p. 569-570.
248. Cfr., A. TONIOLO, La theologia crucis nel contesto della
modernità. Il rapporto tra croce e modernità di E. JÜNGEL, H.U.
von Balthasar e G.W.F. Hegel, Glossa, Roma-Milano 1995, p. 91.
249. VC, p. 126.
250. Gloria, VII, p. 19.
251. Ibidem, p. 20.
252. Ibidem, p. 20.
253. Ibidem, p. 21.
254. Ibidem, p. 27.
255. Ibidem, p. 28.
256. Ibidem, pp. 28-29.
257. "L'amore trinitario è la grande verità attestata dal Nuovo
Testamento. Esso è la "gloria divina", lo "splendore" (Glantz) che
si irradia dalla forza dirompente, dal peso (Wucht)
dell'obbedienza della croce. Ora, in che senso il Crocifisso è
manifestazione trinitaria dell'amore di Dio? Con introspezione
acuta Balthasar legge la croce come azione del Dio trinitario,
come suo impegno irreversibile. Dio Padre è l'agente originario:
"Tutte le cose (hanno origine) da Dio che ci ha riconciliato a sé
mediante Cristo e ha dato a noi (apostoli) il ministero della
riconciliazione; perché Dio in Cristo si è riconciliato il mondo"
(2 Cor 5,18s.). e lo Spirito Santo, che è "lo Spirito di Cristo",
"Cristo in noi" (Rm 8,9-10), è il segno (das Zeichen) che
quest'opera di riconciliazione ha conseguito il suo compimento",
in G. MARCHESI, La cristologia trinitaria, p. 544.
258. Cfr., M. JÖHRI, Descensus Dei, p. 337.
259. Gloria, VII, p. 196.
260. "Nell'immagine della piena kenosi c'è il "risplendere della
gloria di Dio sul volto di Gesù Cristo" (2 Cor 4,6).
Quest'immagine dell'Uomo-Dio, trafitto ed innalzato sulla croce,
deriso ed esaltato, costituisce per il credente "la definitiva
icona di meditazione", "l'ultima raffigurazione ed esposizione del
Dio che nessuno ha mai visto". L'immagine visiva dell'Ecce Homo-
Ecce Deus diventa quindi anche una formula suprema di fede: è la

75
confessione esplicita della realtà dell'incarnazione e della
redenzione; ed è il riconoscimento senza veli di ciò che Dio ha
voluto essere e di come si è voluto manifestare nel velamento
della morte del Figlio", in G. MARCHESI, La cristologia
trinitaria, p. 545.
261. "L'impresa, cha fa ruotare il destino e la fatalità, si
produce nel silenzio molto fitto della morte [...] tutte le tracce
lasciate sulla terra dal Verbo vivente di Dio sono come
cancellate; l'anima che ritorna dall'assenza di tracce, il corpo
che risuscita dal sepolcro sigillato, non sono più Cristo secondo
la carne, sono una nuova creatura. Le cose vecchie sono passate.
Vedete, tutte le cose sono nuove", Gloria, V, 217.
262. Gloria, III, p. 582.
263. Ibidem, p. 583. La kenosi, secondo Balthasar, si proroga e si
perpetua nella Gloria poiché la croce è manifestazione estrema e
definitiva dell'Amore indefettibile di Dio. inoltre l'esistenza
kenotica di Gesù prosegue nella vita nascosta della Chiesa, con la
scuola del cristianesimo, con l'imitazione dei Santi, cammino di
umiliazione e di nudità, e soprattutto con i sacramenti e la
Scrittura: i sacramenti nei quali risiede Gesù sono lo spessore
del velo, in particolare l'Eucaristia, abbandonata allo spreco e
alla profanazione - la Scrittura nella quale egli asservisce alla
parola umana e al chiacchiericcio esegetico. Ecclesia forma servi.
Cfr. Ibidem, p. 100.
264. Gloria, VII, p. 345.
265. L'Apostolo delle Genti, descrivendo la radicale
trasformazione operata dalla fede, che comporta il passaggio dalle
tenebre alla luce, afferma: "Se un tempo eravate tenebra ora
siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce;
il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità.
Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere
infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente,
poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso
perfino parlare. Tutte queste cose che vengono apertamente
condannate sono rivelate dalla luce, perché tutto quello che si
manifesta è luce", Lettera agli Efesini. 5,8-13.
266. AC, p. 143.
267. Gloria, I, p. 125.
268. Ibidem, p. 435.
269. Gloria, V. p. 583.

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