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La linguistica. Un corso introduttivo.

di Gaetano Berruto e Massimo Cerruti.

Capitolo primo: la linguistica.


1.1 Lingue, linguaggio e comunicazione.
La linguistica è la scienza che studia la lingua. Si divide in linguistica generale, che si occupa di cosa sono, di
come sono fatte e come funzionano le lingue, e linguistica storica, che invece studia l'evoluzione delle
lingue nel tempo, i rapporti tra le lingue e i rapporti tra lingua e cultura.

La linguistica studia le lingue storico-naturali cioè le lingue nate spontaneamente durante il corso della
civiltà umana e usate dagli esseri umani. Tutte le lingue storico-naturali sono espressione del linguaggio
verbale umano, una facoltà innata dell'uomo che è uno degli strumenti di comunicazione più raffinati e
complessi che possano esistere.

Da questo punto di vista, non c'è differenza tra lingue e dialetti: l'unica differenza è data da considerazioni
sociali e storico-culturali. La sociolinguistica è la branca della linguistica che si occupa dell'interazione fra
lingua e società e della variazione dei comportamenti linguistici.

Per capire come funziona il linguaggio verbale umano dobbiamo partire dalla nozione di "segno". Segno è
qualcosa che rappresenta qualcos'altro e serve per comunicare, per "mettere in comune" questo
qualcos'altro. Secondo una nozione molto ampia di comunicazione tutto può comunicare qualcosa, ogni
fatto culturale può essere interpretato da qualcuno e quindi dare o veicolare un'informazione. La
comunicazione intesa quindi in senso lato è un passaggio di informazione, a carattere non intenzionale.

Una definizione più ristretta di comunicazione prende in considerazione il parametro della intenzionalità: la
comunicazione avviene quando il passaggio di informazione è il risultato di un comportamento che ha
come scopo il passaggio di informazione e che viene percepito come intenzionale da chi lo riceve.
Comunicazione equivale a passaggio d’informazione. La comunicazione si distingue da un semplice
passaggio di informazione perche è caratterizzata dall’intenzionalità, ovvero dal fatto che vi è un
comportamento atto a veicolare una informazione. Abbiamo tre tipi di comunicazione:

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1.2 Segni e codice.
L'unità fondamentale della comunicazione è il "segno". Ogni fatto dotato di valore informativo si chiama
"fatto segnico". Nell'ambito generale della comunicazione, il linguaggio verbale umano è una specifica della
comunicazione umana naturale.

Esistono diversi tipi di segni. Una classificazione potrebbe essere la seguente, basata sui criteri
dell'intenzionalità e della motivazione, cioè della relazione esistente tra il segno e ciò che esso vuole
rappresentare, in cui la motivazione diminuisce via via che si scende nella classificazione:

• Indici: motivati naturalmente ma non intenzionali (es. starnuto = avere il raffreddore)


• Segnali: motivati naturalmente, usati intenzionalmente (es. sbuffare = sono annoiato)
• Icone: riproducono proprietà dell’oggetto designato (es. mappa geografica)
• Simboli: motivati culturalmente (es. lutto)
• Segni: convenzionali (es. suono del telefono occupato).

Gli indici, in quanto fatti di natura, hanno valore universale, sono uguali in tutte le culture e in tutti i tempi,
mentre simboli e segni dipendono da ogni singola tradizione culturale.
I segni linguistici sono segni in senso stretto, prodotti per comunicare intenzionalmente ed essenzialmente
arbitrari. Il ricevente interpreta il segno perché condivide con l'emittente il codice di cui il segno fa parte,

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cioè l’insieme di corrispondenze fissatesi per convenzione tra un insieme manifestante e uno manifestato,
che fornisce le regole di interpretazione dei segni.
Esso interviene nell’emittente e nel ricevente attraverso la codificazione (associare un significato a un
significante) e la decodificazione (ricondurre il significato al significante).

1.3 Le proprietà della lingua.


Le proprietà rilevanti, tipiche del linguaggio verbale umano, sono diverse. Di seguito la loro definizione.

1.3.1 Biplanarità.
Indica il fatto che il segno sia composto da due "facce": il "significante", che è la parte fisicamente
percepibile, il suono pronunciato o la parola scritta (es. GATTO), ed il "significato", che è l'informazione
veicolata dalla parte fisica (es. il CONCETTO di gatto). Tutti i segni sono costituiti indissolubilmente da
significante e significato, e il codice è l'insieme delle corrispondenze tra significanti e significati.

1.3.2 Arbitrarietà.
Indica il fatto che non vi è alcun legame logico o motivato tra il significante ed il significato: nella natura
della cosa non vi è nulla che rimandi al suo nome. Se i segni linguistici non fossero arbitrari, parole simili
dovrebbero indicare concetti simili in lingue diverse, il che non avviene.
L. Hjemslev ha approfondito il concetto di arbitrarietà, individuando nel segno linguistico tre componenti,
che formano il "triangolo semiotico":

Ai vertici ci sono:
Significato: una sedia. E’ componente del segno. Significante: s e d i a. E’ componente del segno.
Referente: oggetto realmente esistente, quella sedia che sto indicando. E’ componente del mondo esterno.
La parola SEDIA, formata dal significante e dal significato, si riferisce all'oggetto reale "sedia" e lo identifica.
La linea di base del triangolo è tratteggiata perché il rapporto tra significante e referente non è diretto, ma
è mediato dal significato. Il procedimento che si fa assegnando un referente a un segno è anche detto
“designazione”.
Vi sono quindi 4 livelli di arbitrarietà:
E’ arbitrario il rapporto tra segno e referente;
E’ arbitrario il rapporto tra significante e significato;
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E’ arbitrario il rapporto tra forma e sostanza del significato, ogni lingua organizza come vuole la sostanza
del significato (es. italiano andare = tedesco fahren / gehen);
E’ arbitrario il rapporto tra forma e sostanza del significante, ogni lingua organizza come vuole la scelta dei
suoni (es. la lunghezza delle vocali in Tedesco: Stadt/Staat).
Vi sono delle eccezioni al principio dell'arbitrarietà: le ONOMATOPEE ad esempio riproducono o richiamano
nel significante aspetti del significato (es. CHICCHIRICHI'), ma che sono comunque parzialmente sottoposte
alle convenzioni della lingua di riferimento (CHICCHIRICHI' in italiano, COCORICO in francese), o gli
IDEOFONI (espressioni imitative che designano fenomeni o azioni, es. BOOM/GULP ecc.).

Secondo alcuni studi l'arbitrarietà del linguaggio non è così assoluta: nella grammatica sarebbero presenti
ad esempio meccanismi ICONICI, cioè motivati. Per esempio, in alcune lingue per formare il plurale si
aumenta il numero di lettere del significante (rooster/roosters, child/children): l'idea di pluralità, di
quantità maggiore, verrebbe suggerita dalla maggiore quantità di materiale fonico nel plurale. Ma ciò non è
vero in italiano (gallo/galli). Altra prospettiva è il fonosimbolismo, secondo il quale certi suoni avrebbero di
per se un significato e sarebbero associati a tale significato (es. i = cose piccole). Esistono però
numerosissimi controesempi.
Sul rapporto tra arbitrarietà e motivazione indaga anche l'approccio cognitivo e funzionalista, che
considera le categorie linguistiche e le strutture sintattiche motivate come realizzazione concreta di
proprietà ed attitudini innate nell'uomo.

1.3.3 Doppia articolazione.


La doppia articolazione è una proprietà posseduta solo dalle lingue, ed indica la capacità del significante di
scomporsi in elementi più piccoli. Ad un primo livello, il significante si può scomporre in elementi unitari
che sono dotati di significato e che possono essere riutilizzati in altre parole. Il significante GATTO si può
scomporre in due elementi distinti, GATT- (che conserva il significato di felino domestico) e -O (che
conserva a sua volta il significato di singolare). Questi elementi si possono combinare con altri per formare
parole diverse (GATT-i, GATT-ara, top-O, libr-O), e non sono ulteriormente scomponibili in elementi più
piccoli dotati di significato. Queste unità minime di prima articolazione si chiamano MORFEMI, sono
costituiti dall'associazione di un significante e di un significato e quindi sono segni a tutti gli effetti: sono i
segni MINIMI.
Ad un secondo livello i morfemi sono ancora scomponibili in unità più piccole, che non possono essere
considerati segni perché sono privi di significato: i FONEMI, le unità linguistiche minime di seconda
articolazione. La parola GATTO si può scomporre quindi in G- A- T- T- O, 5 morfemi (o 4 se contiamo la
doppia T).
Ricapitolando: nella parola GATTO abbiamo, a livello di prima articolazione, 2 MORFEMI (GATT- e -O, dotati
ognuno del rispettivo significato, "felino domestico" e "uno solo, singolare"); a livello di seconda
articolazione abbiamo 4 FONEMI (G-A-T-O), di cui uno raddoppiato, privi di significato individuale specifico.
NB a volte gli elementi minimi di prima e di seconda articolazione possono coincidere nella forma, come -O
nell'esempio del gatto, ma non nella sostanza.
La doppia articolazione, proprietà cardine ed unica del linguaggio verbale umano, permette una grande
ECONOMICITÀ di funzionamento: con un numero relativamente limitato di MORFEMI (unità di seconda
articolazione), si possono costruire in teoria infinite parole. Di conseguenza è fondamentale anche il
principio della COMBINATORIETÀ, cioè la capacità di una lingua di combinare un inventario limitato di unità
minori in un numero indefinito di unità maggiori.
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1.3.4 Trasponibilità di mezzo.
La TRASPONIBILITÀ è la capacità del significante di essere trasmesso sia attraverso il canale fonico/acustico
(suoni e rumori) che attraverso il canale visivo/grafico (segni). A questo proposito bisogna sottolineare che
il canale orale è prioritario rispetto a quello visivo, tanto che una delle proprietà del linguaggio verbale
umano è proprio la FONICITÀ.
Il primato del parlato sullo scritto è antropologicamente prioritario: tutte le lingue scritte hanno una forma
parlata, non tutte le lingue parlate hanno una forma scritta, a causa di fattori storico-sociali contingenti;
inoltre, il parlato è statisticamente prevalente nella vita quotidiana, e si usa in una gamma di funzioni molto
più ampia rispetto allo scritto. Il primato del parlato sullo scritto è di tipo ontogenetico (relativo al singolo
individuo): ogni essere umano impara prima a parlare, per via naturale e spontanea, e solo in seguito a
scrivere/leggere su addestramento. Anche a livello filogenetico (relativo alla specie umana) la
predominanza va alla lingua parlata: le lingue scritte risalgono al più a 5.000 anni fa, mentre le origini del
linguaggio sono certamente molto più antiche e risalgono quasi sicuramente all'Homo sapiens sapiens,
vissuto oltre 30.000 anni fa.
Il canale fonico ha vari vantaggi:
• Basta che ci sia aria e la comunicazione è possibile;
• Non ostacola altre attività e richiede poca energia;
• Permette la localizzazione dell’emittente;
• Ricezione e emissione sono contemporanee;
• E’ più rapido;
• Un messaggio può essere trasmesso simultaneamente a più destinatari diversi;
• E’ evanescente, quindi lascia subito libero il canale ad altri messaggi, anche se in alcuni casi questo
può essere uno svantaggio;
• Non richiede grandi quantitativi di energia per essere realizzato perché è un'attività concomitante
con la respirazione.
Lo scritto ha una priorità sociale perché viene considerato di maggiore prestigio ed utilità, è la "fissazione"
del parlato, rispetto al quale ha sviluppato però aspetti e caratteri propri: non tutto il parlato può essere
rappresentato come scritto (es. intonazione, modulazione della voce), ne' tutto lo scritto può essere rso nel
parlato (es. uso delle maiuscole, elenchi, disposizione del testo).

1.3.5 Linearità e discretezza.


LINEARITÀ si intende la capacità del significante di essere prodotto in successione nel tempo e nello spazio.
Infatti non possiamo decodificare un segno se non dopo aver udito tutto (il blocco comunicativo deve
essere completo), e non si possono emettere due elementi fonici insieme, ma solo uno dopo l’altro. Anche
l'ordine in cui le parti del segno si susseguono è determinante: "Maria chiama Gianni" non ha lo stesso
significato di "Gianni chiama Maria". In altri casi invece ci sono segni globali che comunicano tutto
simultaneamente (es. segnali stradali). DISCRETEZZA significa che la differenza tra gli elementi è assoluta,
c’è una grande differenza tra un segno e l’altro e due segni non presentano possibilità di intermediazione
(es. tra “pollo” e “bollo” non c’e un elemento intermedio). Ne deriva che il significato non varia in
proporzione al significante: per esempio urlare "gatto" non vuol dire che il gatto sia più grosso.

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1.3.6 Onnipotenza semantica.
L’onnipotenza semantica si riferisce al fatto che con la lingua è possibile dare espressione a qualsiasi
contenuto, si può parlare di tutto. Ogni segno è traducibile in lingua ma non viceversa. L’onnipotenza
semantica non è provabile, quindi viene più prudentemente chiamata “plurifunzionalità” (o
"pluripotenza"). Data questa caratteristica la lingua può assolvere alle più disparate funzioni (esprimere
pensieri e sentimenti, trasmettere informazioni, instaurare e mantenere rapporti e relazioni sociali,
risolvere problemi ecc.). R. Jakobson identifica tali possibili funzioni:

• Emotiva: esprime emozioni del parlante


• Metalinguistica (o riflessiva): parla di se stessa NB non esistono altri codici comunicativi che
permettano di formulare messaggi relativi a sé stessi
• Referenziale: fornisce informazioni sulla realtà
• Conativa: mira a far compiere un risultato, es. chiudi la porta)
• Fàtica: sottolinea il canale della comunicazione (es. pronto?)
• Poetica: mette in risalto le potenzialità insite nel messaggio.

1.3.7 Produttività e ricorsività.


La PRODUTTIVITÀ indica la capacità della lingua di creare nuovi messaggi mai prodotti prima e di parlare di
cose inesistenti. Tale possibilità è conferita dalla compresenza della doppia articolazione e dall’onnipotenza
semantica. Si chiama anche “creatività regolare”: si può creare un numero infinito di nuovi messaggi, ma
solo secondo le regole della lingua. Tale regole sono limitate e vengono continuamente ripetute: si parla
quindi di RICORSIVITÀ. La ricorsività è una proprietà formale importantissima: prevede infatti che uno
stesso procedimento possa essere applicato un numero teoricamente illimitato di volte. Un esempio è la
creazione di una parola attraverso l'uso di un suffisso: in italiano da ATTO abbiamo ATTUALE, da cui
possiamo ricavare ATTUALIZZARE, a sua volta trasformato in ATTUALIZZABILE e infine ATTUALIZZABILITÀ.
Tutte queste parole sono state create usando la RICORSIVITÀ, applicando cioè svariate volte la stessa regola
(applicazione di un suffisso).

1.3.8 Distanziamento e libertà da stimoli.


Con la lingua si può parlare di cose lontane nello spazio e/o nel tempo. Il DISTANZIAMENTO è la possibilità
di parlare di una esperienza in assenza di tale esperienza. Con gli altri codici questo non e possibile (es. un
gatto può comunicare che ha fame, ma non che ieri aveva fame). LIBERTÀ DA STIMOLI significa che la lingua
può essere usata senza determinazione, a differenza della comunicazione animale: un cane abbaia a causa
di qualche situazione, l'uomo parla e comunica senza che sia necessario un motivo contingente.

1.3.9 Trasmissibilità culturale.


Ogni lingua si trasmette per tradizione all’interno di una società come fatto costitutivo di una cultura,
attraverso un processo di apprendimento/insegnamento. I segnali degli animali invece sono trasmessi
geneticamente. Anche la comunicazione umana ha una componente innata (la facoltà del linguaggio, la
predisposizione a comunicare, una sorta di schema generale da riempire con materiali tratti dall'ambiente
culturale specifico). Ogni essere umano conosce per forza una lingua e, data la parte innata, entro gli 11-12
anni si può imparare una lingua con estrema facilita, dopo non è più possibile: si parla a tal proposito di
prepubertà linguistica e di periodo critico.

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1.3.10 Complessità sintattica.
I messaggi linguistici possono avere un alto grado di elaborazione strutturale che intercorre nei rapporti tra
i suoi elementi. Ciò è percepibile nella sintassi della frase. Fra gli aspetti rilevanti della complessità sintattica
abbiamo:
Ordine: solo l’ordine della frase permette di capire chi compie l’azione e chi la subisce (A picchia B);
Dipendenze tra elementi non contigui (es. il libro di Carmelo è bello: “è” e “libro” sono dipendenti ma
distanti);
Incassatura: (es. “di Carmelo” è una parte di messaggio incastrata e indipendente)
Discontinuità: (ovvero è possibile che uno stesso elemento sia diviso, come accade nei verbi separabili in
tedesco).

1.3.11 Equivocità.
L'EQUIVOCITÀ è un'altra proprietà della lingua intesa come codice, cioè come insieme di corrispondenze tra
significanti e significati. La lingua è un codice tipicamente equivoco, nel senso che la corrispondenza tra
significanti e significati non è sempre biunivoca, ma spesso invece è plurivoca: ad un unico significante
possono corrispondere diversi significati (OMONIMIA e POLISEMIA), come ad un significato possono
corrispondere più significanti (SINONIMIA). Questa proprietà, lungi dal costituire uno svantaggio, è invece
un vantaggio per il sistema linguistico: assieme all'onnipotenza semantica ed alla produttività contribuisce a
rendere il linguaggio umano uno strumento estremamente flessibile ed adattabile.

1.3.12 Esclusività.
Con il termine ESCLUSIVITÀ si fa riferimento alla capacità tipica ed esclusiva degli esseri umani di usare la
facoltà verbale come mezzo di espressione. Solo l'uomo possiede le caratteristiche anatomiche e
fisiologiche che rendono possibile l'uso del linguaggio (adeguato volume cerebrale e connessioni
neurologiche, conformazione del canale fonatorio connessa con la stazione eretta). Studi condotti sul
sistema di comunicazione degli animali hanno evidenziato come solo il linguaggio umano possieda
contemporaneamente tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio, e i tentativi di insegnamento a
primati (scimpanzé e gorilla) si sono dimostrati poco conclusivi, soprattutto dal punto di vista dell'uso
creativo del linguaggio.
La neurolinguistica sperimentale dà quindi ragione a N. Chomsky, il quale sostiene che il linguaggio è una
capacità innata ed esclusiva dell'essere umano, dimostrando che nell'uso del linguaggio vengono attivate
aree specifiche della corteccia cerebrale (LATERALIZZAZIONE).

1.3.13 Definizione di lingua.


Da quanto finora detto emerge la definizione di lingua: "La lingua è un CODICE che organizza un sistema di
SEGNI dal significante primariamente FONICO-ACUSTICO, sostanzialmente ARBITRARI ad ogni livello e
DOPPIAMENTE ATICOLATI, capaci di esprimere OGNI ESPERIENZA esprimibile e posseduti come
CONOSCENZA INTERIORIZZATA che permette di produrre INFINITI enunciati a partire da un numero FINITO
di elementi.

1.4 Principi generali per l'analisi della lingua.

1.4.1 Sincronia e diacronia.


Il primo principio prevede la distinzione tra SINCRONIA e DIACRONIA. Diacronia è la considerazione delle
lingue e degli elementi della lingua lungo uno sviluppo temporale. Operazione diacronica è l’etimologia di
una parola. La diacronia permette il punto di vista storico. Sincronia è un punto su quell’asse temporale,
come se si fermasse il tempo e si considerasse la lingua per come è in quel dato momento. Operazione
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sincronica è descrivere il significato di un termine oggi. La sincronia permette il punto di vista strutturale
(strutturale è sinonimo di sincronico).
Nb. Nei fatti linguistici concreti è molto difficile separare sincronia e diacronia. Ma solo l’astrazione
sincronica permette di analizzare la lingua in modo indipendente dagli sviluppi precedenti.

1.4.2 Langue e parole.


La seconda importante distinzione da fare è quella tra l’insieme astratto, che viene chiamato “langue”
(Saussure) “sistema” (Hjelmslev) “competenza” (Chomsky), e la realizzazione concreta, che viene chiamata
“parole” (Saussure) “uso” (Hjelmslev) “esecuzione” (Chomsky).
LANGUE è l’insieme di conoscenze mentali e regole interiorizzate che conferiscono la capacità di produrre
messaggi in una certa lingua e che sono possedute come sapere astratto. Per Saussure la langue è anche un
fatto sociale perché posseduta da tutti i parlanti della comunità. Per Chomsky invece è individuale in
quanto è solo nella mente di ognuno.
PAROLE invece è l'atto linguistico individuale e quindi la realizzazione concreta. Alcuni linguisti come
Coseriu pongono tra langue e parole un terzo elemento che sarebbe la norma, sociale e concreta.
L’oggetto della linguistica è la langue, ma per scoprirla il linguista deve partire dalla parole. Dunque la
linguistica opera partendo da un dato concreto compiendo poi una astrazione.
Un'altra distinzione che molti linguisti adoperano è quella tra LANGAGE e MOT. LANGAGE indica la capacità
di una specie di utilizzare la parola ed è caratteristica dei soli esseri umani. Per i semiotici, "langage" ha
l’accezione ancora più larga di capacità di parlare attraverso un sistema di segni. MOT in francese significa
parola, segno linguistico. In altre lingue che non siano il francese, come ad esempio l’italiano, la
differenziazione tra “mot” e “parole” non è possibile a livello linguistico. A livello concettuale ovviamente si.

1.4.3 Asse paradigmatico e sintagmatico.


Ogni attuazione del sistema di segni implica la scelta in un paradigma, visto che il segno scelto elimina gli
altri. Quella scelta però implica una precedente presenza di altri segni selezionabili, che una volta scelti si
pongono sull’asse sintagmatico formando una catena. Dunque l'asse paradigmatico è il "serbatoio" delle
parole, mentre l'asse sintagmatico lega tutto in base alle norme che regolano quella determinata lingua ed
è il luogo dove si posizionano le parole scelte sull’asse paradigmatico.

1.4.4 Livelli di analisi.


L’analisi della lingua si compie attraverso quattro livelli di analisi, ognuna corrispondente a una branca della
linguistica:

• Realtà fisica: fonetica e fonologia; studiano lo strato del significante in se', la sua realizzazione.

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• Rapporto tra realtà fisica e significato: morfologia (studia le parole e la loro composizione), sintassi
(studia le frasi e la loro composizione); si occupa dello strato del significato.
• Significato: semantica; studia la categorizzazione del mondo che l'essere umano attua.

REALTA' FISICA

Fonetica e fonologia Morfologia Sintassi Lessico e semantica

MONDO ESTERNO COGNITIVAMENTE CODIFICATO

Capitolo secondo: fonetica e fonologia.

2.1 Fonetica e fonologia.


Della forma orale della lingua si occupano le scienze foniche, che sono la fonetica e la fonologia. La
fonetica si occupa della parte fisica della comunicazione verbale: i suoni, partendo dall'idea che se
due suoni sono oggettivamente diversi, allora vanno considerati come due suoni diversi. Dunque la
fonetica si basa sul principio della diversità. La fonologia invece parte dal presupposto che se due
suoni sono diversi ma non hanno valore distintivo (ovvero non distinguono due parole) allora non
sono da considerarsi in modo diverso, ma semplicemente due varianti dello stesso elemento.
Dunque la fonologia si basa sul principio della distintività.

A seconda del punto di vista da cui vengono studiati i suoni di una lingua, avremo:

• la FONETICA ARTICOLATORIA, che studia i suoni in base al modo in cui vengono prodotti;
• la FONETICA ACUSTICA, che studia i suoni in base alla loro consistenza fisica e al modo in cui
vengono trasmessi;
• la FONETICA UDITIVA, che studia i suoni in base al modo in cui vengono percepiti dall'orecchio
umano e decodificati dal cervello.

2.1.1 L'apparato fonatorio e il meccanismo di fonazione.


L'apparato fonatorio è l'insieme degli organi che gli umani utilizzano per parlare. L’apparato fonatorio, al
quale appartengono organi che originariamente sono da includersi in altri apparati, è composto dai
polmoni, dai bronchi e dalla trachea, dalla laringe, che contiene la glottide che a sua volta contiene le pliche
vocali (o corde vocali); dalla faringe, dalle cavità nasali, dal palato (suddiviso in velo palatino, palato molle e
palato duro), ugola, lingua, denti e alveoli di denti,
labbra.

Gli articolatori che si muovono durante la produzione di


suono sono detti articolatori mobili. Gli articolatori che
non si muovono mai sono invece detti articolatori fissi.

I suoni del linguaggio vengono prodotti attraverso


l'espirazione: un flusso d'aria esce dai polmoni,
attraversa la trachea e arriva alla laringe. Nella laringe,
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dove inizia il tratto vocalico, l'aria incontra le corde (o pliche) vocali, due pieghe della mucosa laringea che
durante la respirazione sono separate e rilassate mentre si contraggono e si tendono durante la fonazione.
Lo spazio compreso tra le corde vocali si chiama "rima vocale" e può quindi risultare aperto, parzialmente
chiuso o completamente chiuso dal movimento delle corde vocali. Nella fonazione (emissione di voce), la
contrazione e il rilassamento rapidissimi delle pliche vocali crea una vibrazione che permette il suono.
Aumentando o diminuendo il numero di cicli di apertura/chiusura delle pliche vocali aumenta o diminuisce
la frequenza fondamentale del suono emesso, che si misura in Hertz (Hz): maggiore la frequenza, più
alto/acuto il suono e viceversa (voci infantili e femminili = 200/250 Hz, voci maschili adulte 100 Hz).

L'aria emessa dai polmoni passa nella faringe e poi nelle cavità orale. Nella parte superiore della faringe si
trova il velo, che può spostarsi all'indietro fino a chiudere la connessione tra faringe e cavità nasale.

Nella cavità orale abbiamo diversi organi fondamentali per la formazione: Sono divisi in fissi (denti e alveoli)
e mobili (lingua, labbra, palato). Ognuno di questi organi può assumere determinate posizioni, ostacolando
il passaggio dell'aria: E in questo modo che sono prodotti i suoni del linguaggio.

I suoni sono classificati secondo una serie di parametri. Uno di questi è il luogo, vale a dire il punto specifico
dell'apparato fonatorio in cui viene prodotto il suono; altro parametro importante è il modo di
articolazione, cioè la posizione che gli organi fonatori assumono e se questa ostacola o meno il flusso
dell'aria. Un terzo parametro è dato dal contributo di singoli organi alla produzione del suono.

Sulla base del modo di articolazione abbiamo una prima distinzione tra vocali e consonanti. Le vocali sono i
suoni prodotti senza ostacolo alcuno al flusso d'aria, le consonanti invece sono suoni prodotti quando il
flusso d'aria proveniente dai polmoni è ostacolato in qualche punto del percorso da un organo fonatorio.

Altra distinzione è fra suoni sonori, prodotti cioè attraverso una vibrazione delle corde vocali, e suoni sordi,
in cui le corde vocali non vibrano.

In genere le vocali sono tutte sonore, mentre le consonanti possono essere sorde o sonore.

2.1.2 Le consonanti.
Modo di articolazione: caratteristica delle consonanti è quella di essere prodotte frapponendo un ostacolo
al flusso dell'aria. Se l'ostacolo è completo avremo le consonanti occlusive, parziale avremo le consonanti
fricative. Simili alle fricative ma meno intense sono le approssimative cioè le semivocali e le
semiconsonanti. Esistono suoni consonantici che iniziano con un occlusione e si concludono con una
fricativa e sono detti affricate.

All'articolazione dei suoni partecipano anche altri organi, e le cavità nasali. Le consonanti prodotte
articolando la lingua si chiamano liquide e si dividono in laterali, prodotte quando l'aria passa ai lati della
lingua, e vibranti, quando la lingua vibra contro un altro organo articolatorio. Quando l'aria passa attraverso
le cavità nasali abbiamo le consonanti nasali.

Un altro parametro in base al quale sono caratterizzate le consonanti è l'energia con la quale vengono
prodotte: Avremo quindi consonanti forti (per esempio le occlusive sorde) o leni (le approssimanti). Un
altro parametro è l'aspirazione, un breve intervallo di tempo tra la fine dell'occlusione e l'inizio della vocale.
Se l'ostacolo è completo avremo le consonanti occlusive, parziale avremo le consonanti fricative. Simili alle
fricative ma meno intense sono le approssimative cioè le semivocali e le semiconsonanti. Esistono poi suoni
consonantici che iniziano con un occlusione e si concludono con una fricativa e sono detti affricate.

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Luogo di articolazione: Oltre che in sorde e sonore, le consonanti sono classificate anche in base al punto
dell'apparato fonatorio in cui vengono articolate.

Partendo dal punto più esterno, le labbra, avremo:

1. Consonanti bilabiali, prodotte dalle o tra le labbra;

2. Consonanti labiodentali, prodotte tra i denti superiori ed il labbro inferiore;

3. Consonanti dentali, prodotte dalla lingua contro i denti e consonanti alveolari, prodotte dalla lingua
contro la radice dei denti;

4. Consonanti palatali, prodotte dalla lingua contro o vicino al palato;

5. Consonanti velari, prodotte dalla lingua contro o vicino al velo;

6. Consonanti uvulari, prodotte dalla lingua contro o vicino all'ugola;

7. Consonanti faringali, prodotte fra la radice della lingua e la parte posteriore della faringe;

8. Consonanti glottidali, prodotte direttamente nella glottide.

Un altro tipo di articolazione è quello tipico delle consonanti retroflesse, in cui la punta della lingua è
articolata all'indietro verso il palato.

2.1.3 Le vocali.
Le vocali sono prodotte senza incontrare ostacoli alla formazione e si differenziano per la posizione che
assumono gli organi fonatori, principalmente la lingua. Per classificare i suoni vocalici si fa quindi
riferimento alla posizione della lingua e precisamente al grado di avanzamento o arretramento ed al grado
di innalzamento o di abbassamento.

In base al primo parametro abbiamo:

1. Vocali anteriori, la lingua è spostata in avanti verso le labbra (es. i);

2. Vocali posteriori, la lingua è spostata all'indietro verso la glottide (es. u);

3. Vocali centrali, la lingua si trova al centro della bocca (es. a).

In base all'altezza della lingua avremo:

1. Vocali alte, in cui lingua è spostata verso il palato;

2. Vocali medie, divise in medio alte e medio basse, in cui la lingua si trova al centro della bocca;

3. Vocali basse, in cui la lingua si trova verso la base della bocca.

Altro parametro è dato dalla posizione delle labbra, che possono essere distese oppure arrotondate. Le
vocali prodotte con le labbra arrotondate si chiamano appunto vocali arrotondate o procheile, mentre le
vocali prodotte con le labbra distese si chiamano non arrotondate o aprocheile. Infine le vocali possono
essere realizzate anche attraverso il passaggio dell'aria nella cavità nasale e in questo caso si chiamano
vocali nasali.

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2.1.4 Le approssimanti.
Sono suoni intermedi fra le vocali e le consonanti fricative. Perché gli organi fonatori interessati si
avvicinano ma non bloccano il passaggio dell'aria, producendo un fruscio. Fanno parte delle approssimanti
le semivocali, che assieme alla vocale contigua formano un dittongo o un trittongo e che si dividono in
anteriori e posteriori o palatali e velari. Altre approssimanti sono le semiconsonanti, vicine come pronuncia
alle consonanti fricative.

2.1.5 la trascrizione fonetica.


In genere, nei sistemi alfabetici ogni suono della lingua viene reso con un simbolo grafico. Le grafie
alfabetiche non sono però univoche e coerenti: non c'è rapporto biunivoco tra suoni e grafemi perché ad
un suono possono corrispondere grafemi diversi (ad esempio in italiano C di cane e Q di quadro hanno lo
stesso suono), oppure lo stesso grafema rende suoni diversi (ad esempio C di ciao e C di cane). Ancora, un
singolo suono può essere reso da più grafemi combinati (ad esempio SCI di scienze in italiano usa tre
simboli per descrivere un unico suono), o ci possono essere grafemi a cui non corrisponde alcun suono (H in
italiano).

Per alcune lingue, come l'italiano ed il tedesco, la grafia è quasi simile alla realizzazione fonica; in altre
lingue come il francese o l'inglese, ciò non accade.

Bisogna fare attenzione, riguardo a ciò, ricordando che la lingua è una realtà fonica, quindi conta la fonia e
non la grafia. L'analisi linguistica si deve basare sul suono, non sull'aspetto delle parole.

Uno strumento di rappresentazione grafica dei suoni di tutte le lingue, in cui ad ogni suono corrisponde un
segno grafico, è l'alfabeto fonetico internazionale (IPA), che permette di rappresentare, e quindi riprodurre,
qualunque suono di qualunque lingua. Convenzionalmente, la trascrizione fonetica si racchiude tra
parentesi quadre, l'accento è rappresentato da un apice ' collocato prima della sillaba su cui cade e vocali e
consonanti lunghe sono rappresenta da due punti triangolari posti dopo il simbolo fonetico.

2.2 LA FONOLOGIA.

2.2.1 Foni, fonemi ed allofoni.


Ogni suono del linguaggio si dice fono, termine che può indicare sia un singolo suono realizzato
concretamente sia un'intera classe di suoni che condividono le stesse caratteristiche articolatorie. Fra tutti i
foni producibili al suo interno, ogni lingua ne individua alcuni a cui assegna un valore distintivo.

I foni con valore distintivo, che si oppongono sistematicamente ad altri foni distinguendo le parole di una
lingua sono detti fonemi. I foni sono le unità minime della fonetica, i fonemi sono le unità minime della
fonologia (o fonematica), che studia l'organizzazione ed il funzionamento dei suoni nel sistema linguistico.

Vediamo in dettaglio questa distinzione: La parola mare è formata da quattro foni. Se pronunciamo in
modo diverso uno o più foni, (ad esempio se pronunciassimo la vocale E anteriorizzata invece che centrale),
la parola MARE non cambierebbe di significato: Le due diverse non danno luogo ad una opposizione
fonematica, sono solo realizzazione diverse dello stesso suono. Al contrario virgola se al posto di E
pronunciassimo I la parola cambierebbe significato (MARE/MARI).

E ed I sono dunque fonemi, suoni con valore distintivo, in questo caso in italiano. Il fonema si trascrive per
convenzione tra due barre oblique (//). A differenza della trascrizione fonetica, che può essere più o meno
dettagliata (LARGA o STRETTA), la trascrizione fonematica riproduce solo le caratteristiche pertinenti della
realizzazione fonica, trascurando tutto quello che non ha valore distintivo (è una trascrizione larga).
12
L'identificazione di un fonema come tale avviene tramite la prova di commutazione, che consiste nel
confrontare unità che differiscono fra di loro solo per il fono oggetto di indagine (es. PARE/PERE): Se il
significato cambia, il fono è un FONEMA di quella lingua.

NB: Vocali e consonanti non sono mai in opposizione tra di loro, le consonanti si oppongono alle consonanti
e le vocali si oppongono alle vocali.

Il fonema è l'unità minima di seconda articolazione di un sistema linguistico. È una classe astratta di foni
che è dotata di valore distintivo, distingue cioè una parola da una simile. Suoni diversi che rappresentano
realizzazioni diverse di uno stesso fonema sono detti allofoni o varianti dello stesso fonema, e non danno
luogo a parole diverse. Gli allofoni che avvengono in un dato contesto fonotattico, (la N che diventa nasale
in italiano davanti a consonante velare ad esempio in ANCHE) sono detti varianti combinatorie.

La coppia minima è una coppia di parole che differisce solo per un fonema. Per dimostrare che un fono è un
fonema in una determinata lingua, bisogna individuare almeno una coppia minima in quella lingua che lo
opponga ad un altro fonema.

NB il fonema non è un segno perché, per definizione, non ha significato.

2.2 FONEMI E TRATTI DISTINTIVI.


I fonemi non sono ulteriormente scomponibili in componenti più piccoli, ma possono essere analizzati in
base alle loro caratteristiche articolatorie: T è una occlusiva dentale sonora, F è una fricativa labiodentale.
Un fonema quindi si può definire dal punto di vista articolatorio come un fascio di proprietà articolatorie
che si realizzano contemporaneamente.

Fonemi diversi sono definiti da combinazioni diverse di questi tratti. Due fonemi si distinguono in base ad
almeno un tratto fonetico binario (presente/assente): Ad esempio, P è occlusiva bilabiale, B è occlusiva
bilabiale sonora.

La teoria dei tratti distintivi è basata su queste considerazioni e riesce a rappresentare tutti i fonemi
possibili in modo economico, usando cioè un numero chiuso e abbastanza limitato di tratti distintivi binari.
Alcuni di questi, che servono individuare per opposizione classi molto ampie di fonemi, sono:

+/- coronale, prodotto con la corona, cioè la anteriore della lingua, sollevata (ad esempio la T);

+/- sonorante, prodotta con l'intero canale vocale libero, ad esempio le vocali e le approssimanti;

+/- sillabico, cioè foni che possono costituire nucleo di sillaba, ad esempio le vocali;

+/-ATR, prodotti cioè con la radice, o parte posteriore, della lingua spostata in avanti.

I tratti distintivi permettono di rappresentare, sotto forma di regole, i fenomeni fonologici della lingua,
quali ad esempio l'assimilazione, cioè quando due foni contigui diventano simili assumendo l'uno qualche
tratto dell'altro.

In italiano, una fricativa alveolare come /s/ si pronuncia sempre sonora quando precede un'altra
consonante sonora, ad esempio in sgabello oppure sbaglio. Se volessimo descrivere questo fatto con una
regola che operi con foni e fonemi dovremmo indicare tutti i fonemi consonantici che possono essere
preceduti da una fricativa dentale/alveolare: Usando invece i tratti fonetici e chiamando sibilanti le fricative
dentali/alveolari possiamo descrivere il fenomeno come segue:

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[sibilante]--> [+SON]/______ [+CONS]
[+ SON]

che si legge: una sibilante diventa sempre sonora nel contesto davanti ad una consonante sonora. È una
regola contestuale che specifica nell'uscita, dopo la barra obliqua, il contesto in cui avviene il fenomeno
descritto.

BOX 2.5: TRATTI DISTINTIVI E REGOLE FONOLOGICHE.

I tratti distintivi rappresentano il complesso degli atteggiamenti articolatori che possono avere valore
distintivo in tutte le lingue del mondo. Dal punto di vista fonetico (fisico e fisiologico), i tratti sono i
movimenti e le posizioni degli organi fonatori; dal punto di vista fonologico (sistema linguistico) sono
proprietà astratte che si realizzano contemporaneamente nei singoli segmenti fonematici. Introdotti da
Jakobson e poi approfonditi da Chomsky e Halle negli anni '60, sono all'incirca una trentina.

2.2.3 I fonemi dell'italiano.


Ogni lingua un determinato numero di fonemi specifici. Non vi è accordo fra gli studiosi, per cui il numero di
fonemi di una lingua può variare a seconda dei criteri adottati. L'italiano standard ne ha 30, 28 secondo
alcuni autori; si arriva a 45 se si contano come fonemi le consonanti lunghe: Infatti, se consideriamo la
coppia minima CANE/CANNE individuata dall'opposizione N/NN, dobbiamo aggiungere al numero dei
fonemi dell'italiano tutte le consonanti che possono dare luogo a coppie minime in base alla lunghezza.
Sono cioè tutte le consonanti italiane tranne /z/, che non è mai lunga, e le 5 consonanti che sono sempre
lunghe quando si trovano tra due vocali XXXXXXXXXX.

Nella pronuncia dell'italiano vi sono molte varianti regionali, che però partecipano all'individuazione di
poche coppie minime (si dice quindi che hanno un basso rendimento funzionale): ad esempio in toscano la
parola CHIESE pronunciata con la s sonora indica edifici di culto, mentre se pronunciata con la s sorda è
terza persona singolare del verbo chiedere.

Lo stesso accade per l'opposizione tra vocali medio alte e medio basse in sillaba accentata: PESCA può voler
significare tanto il frutto quanto l'azione di pescare.

Il raddoppiamento fonosintattico è l'allungamento della consonante iniziale di una parola con l'accento
sull'ultima sillaba. In alcuni casi è rappresentato nell'ortografia, ad esempio in COSIDDETTO o
SOPRATTUTTO, comunque è una variante regionale assente al nord.

2.2.4 Sillabe e fatti fonotattici.


Le proprietà fonotattiche dei suoni, cioè la capacità dei suoni di influenzarsi a vicenda in determinati
contesti, sono molto importanti nella strutturazione della catena parlata. Fondamentali sono le sillabe, le
combinazioni minime pronunciabili di fonemi che sono usate nella costruzione fonica delle parole. In
genere la sillaba è costituita attorno ad una vocale, che ne costituisce la testa o nucleo, anche se in alcune
lingue possiamo avere R, N o L come apice di sillaba, caratterizzate quindi dal tratto +sillabico.

La struttura della parola si basa sull'alternanza tra suoni più e meno sonori (vocali e consonanti). Ogni
sillaba è formata da almeno una e non più di una vocale e da un certo numero di consonanti o
approssimanti (che può essere anche 0, perché la vocale da sola può costituire una sillaba). Se in una sillaba
ci sono più consonanti, queste si combinano fra di loro sulla base di specifiche restrizioni che impongono
limitazioni nella struttura sillabica.

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Vi sono delle strutture sillabiche dette canoniche, preferenziali. In italiano la struttura sillabica più comune
è consonante/vocale (CV), anche se sono abbastanza comuni le strutture vocale (V), vocale/consonante
(VC), consonante/consonante/vocale (CCV), consonante/vocale/consonante (CVC) e
consonante/consonante/consonante/vocale (CCCV). Non è possibile invece in italiano avere strutture
sillabiche consonante/vocale/consonante/consonante (CVCC), canoniche invece in inglese. Si possono
avere sillabe consonante/consonante (CC) eccezionalmente nei prestiti linguistici o nelle abbreviazioni (es.
COLF, SPORT).

Per individuare le singole sillabe si fa riferimento a diversi criteri fonetici e fonologici. In italiano, ad
esempio, due consonanti contigue costituiscono una sillaba unite alla vocale seguente se la combinazione
risultante compare anche in principio di parola (ad esempio in MA-GRE GRE è sillaba perché può comparire
come inizio di parola, ad esempio in GRE-CO; nella parola TANTO le sillabe sono TAN-TO perché nessuna
parola italiana inizia con il nesso consonantico NT.

Lo stesso avviene considerando le consonanti lunghe o doppie come una ripetizione dello stesso fonema:
GAT-TO e non GATT-O.

La vocale della sillaba accentata è lunga se la sillaba è aperta, cioè se la sillaba termina in vocale; è corta se
la sillaba è chiusa, se finisce cioè con una consonante. In una sillaba la parte che eventualmente precede la
vocale è detta attacco, la vocale è il nucleo e la parte che eventualmente segue la vocale è detta coda. Le
sillabe con coda sono dette chiuse, le sillabe senza coda sono dette aperte. Nucleo e coda assieme sono
detti rima.

Nella fonologia metrica o in quella prosodica, che usano le sillabe come base per descrivere il ritmo
dell'enunciato, la sillaba assume una struttura gerarchica a due livelli. È la rima a determinare il peso di una
sillaba: una sillaba dotata di coda o che contiene una vocale lunga è detta pesante, una sillaba senza coda o
che contenga una vocale breve è detta leggera.

Il dittongo è una combinazione di fonemi che può essere sillaba a sé o fare parte di una sillaba più ampia. È
sempre formato dalla combinazione vocale+approssimante, in cui la vocale è ovviamente l'apice sillabico.

Se la sequenza è vocale+approssimante avremo un dittongo discendente (es. AUTO); se la combinazione è


approssimante+vocale avremo un dittongo ascendente (es. PIENO). La combinazione di due semivocali più
una vocale è detta trittongo (es. AIUOLE).

Nel dittongo ascendente c'è un maggiore restringimento del canale fonatorio quindi le approssimanti
tendono ad essere semiconsonanti, mentre nel dittongo discendente il canale fonatorio è più aperto quindi
le approssimanti tendono ad essere semivocali.

2.3 FATTI PROSODICI (O SOVRASEGMENTALI).


I fatti prosodici riguardano la catena parlata nella sua successione lineare. Si chiamano così perché agiscono
al di sopra del singolo segmento e riguardano le relazioni fra i suoni determinandone il ritmo. Tratti
prosodici fondamentali sono l'accento, il tono, l'intonazione e la durata relativa.

L'accento è l'intensità di pronuncia di una sillaba rispetto alle altre, per cui in ogni parola plurisillabica
avremmo una sillaba tonicamente prominente (detta appunto TONICA) rispetto alle altre (definite ATONE).
In italiano l'accento è intensivo, in altre lingue può essere musicale (connesso cioè all'altezza della sillaba) o
di durata (connesso alla durata della sillaba nel tempo).

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Non bisogna confondere l'accento prosodico con quello grafico, cioè il simbolo diacritico obbligatorio che
nella grafia italiana indica l'accento fonico nelle parole ossitone (es. COSI', CITTA') e in alcuni monosillabi.

La posizione della sillaba tonica può essere libera o fissa. Ad esempio in francese è fissa sull'ultima sillaba, in
altre lingue è libera e può avere valore distintivo, come nell'italiano CAPITANO, che a seconda della
posizione della sillaba tonica può significare " persona al comando" oppure " voce del verbo capitare". In
questo caso parliamo di valore fonematico dell'accento. In altre lingue la posizione dell'accento è stabilita
sulla base di criteri non necessariamente fonologici: In tedesco, l'accento tende a cadere sulla radice
lessicale.

In italiano l'accento è libero. Può trovarsi quindi in ultima sillaba, dando origine ad una parola tronca; può
trovarsi sulla penultima sillaba, dando origine ad una parola piana o parossitona; sulla terzultima sillaba
avremo una parola sdrucciola o proparossitona e più raramente avremo l'accento sulla quartultima sillaba,
in parole dette bisdrucciole o anteproparossitone. Rarissime sono le parole con l'accento sulla quintultima
sillaba, le trisdrucciole: sono quelle composte usando i pronomi clitici (es. fabbricamelo).

NB. Clitici sono tutti quegli elementi o particelle che non hanno un accento proprio e quindi devono
appoggiarsi ad un'altra parola. In italiano sono critici i pronomi personali e gli articoli atoni.

Nelle parole con quattro o più sillabe si trovano anche uno o più accenti secondari.

L'accento è importante nella strutturazione prosodica, cioè nel ritmo di una lingua. Ogni lingua ha il suo
ritmo particolare. L'italiano è una lingua ad isocronismo sillabico, vale a dire che tutte le sillabe atone
hanno la stessa lunghezza; l'inglese invece è una lingua ad isocronismo accentuale, mantiene costante la
distanza fra gli accenti, per cui le sillabe atone vengono abbreviate, dando luogo a fenomeni di
modificazione e riduzione, quando non di cancellazione, delle vocali delle sillabe atone. Questo carattere è
presente anche in alcune varianti regionali dell'italiano, specialmente meridionale. La posizione della sillaba
tonica può essere libera o fissa. Ad esempio in francese è fissa sull'ultima sillaba, in altre lingue è libera e
può avere valore distintivo, come nell'italiano CAPITANO, che a seconda della posizione della sillaba tonica
può significare " persona al comando" oppure " voce del verbo capitare". In questo caso parliamo di valore
fonematico dell'accento. In altre lingue la posizione dell'accento è stabilita sulla base di criteri non
necessariamente fonologici: In tedesco, l'accento tende a cadere sulla radice lessicale.

Dal punto di vista fonologico, l'unità ritmica di base è il piede, formato dall'associazione fra una sillaba
tonica, o forte ed una atona, o debole. La combinazione forte+debole dà origine al ritmo trocaico, la
combinazione debole+forte dà origine al ritmo giambico.

2.3.2 Tono ed intonazione.


Tono e intonazione sono fenomeni che riguardano l'altezza musicale con cui le sillabe sono pronunciate e la
curva melodica a cui danno luogo quando pronunciate in successione. Per la precisione, tono è l'altezza di
pronuncia di una sillaba e dipende dalla velocità e dalla frequenza delle vibrazioni prodotte dalle corde
vocali, che determinano la frequenza fondamentale, il parametro principale. Rispetto alla frequenza
fondamentale avremo un tono alto quando la frequenza aumenta, basso quando la frequenza diminuisce,
innalzamento quando il tono è ascendente e abbassamento quando il tono è discendente.

Vi sono lingue,dette appunto tonali (ad es. cinese, thailandese, svedese), in cui il tono può avere valore
distintivo a livello di parola, dando significati diversi alla stessa parola pronunciata con toni diversi.

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L'intonazione è l'andamento melodico con cui è pronunciato un gruppo tonale, cioè una sequenza
pronunciata con un'unica emissione di voce o un intero enunciato. Può essere ascendente dell'ultima o le
ultime sillabe sono pronunciate con un tono più alto o, viceversa, discendente. In molte lingue l'intonazione
ha valore pragmatico: permette cioè di capire a quale funzione assolve un enunciato, se ad esempio è un
esclamazione, un ordine o una domanda. In italiano, ascendente caratterizza la domanda, l'intonazione
costante caratterizza gli enunciati dichiarativi mentre l'intonazione discendente ha valore grosso modo
esclamativo.

La lunghezza riguarda la durata nel tempo di un suono o di una sillaba. Vocali e consonanti fricative, per
loro natura, possono avere una durata indeterminata dell'articolazione, mentre avviene il contrario per le
consonanti occlusive.

La quantità, o durata, delle vocali può avere valore distintivo (es. Stadt, città e Staat, stato, in tedesco).
Anche la quantità delle consonanti può avere valore distintivo, se consideriamo l'opposizione tra
consonanti semplici e doppie come un'opposizione di durata, in cui le consonanti semplici sono considerate
brevi e le consonanti doppie sono considerate lunghe.

Capitolo terzo: Morfologia.


3.1 Parole e morfemi.
La morfologia studia la struttura della parola, cioè della combinazione minima di morfemi (elementi minori
dotati di significato), costruita attorno ad una base lessicale, che funziona come entità autonoma della
lingua e quindi che può da sola rappresentare un segno linguistico compiuto o comparire come unità
discreta costitutiva di un messaggio. La definizione di parola è abbastanza complessa: infatti essa è
contemporaneamente una unità semantica, fonologica e grammaticale, cioè rappresenta l'unione di una
particolare combinazione di suoni con un particolare significato, suscettibile di un particolare uso
grammaticale. E' molto difficile elaborare criteri validi in tutte le lingue per l'individuazione di una parola: il
criterio ortografico, in base al quale si definisce parola un elemento scritto compreso fra due separatori,
non vale per le lingue orali, non è sufficiente a definire espressioni come pesce spada o unità lessicali
polilessematiche come luna di miele o sacco a pelo.

Dal punto di vista fonologico vi sono criteri quali la posizione fissa dell'accento nelle lingue che presentano
questa caratteristica, come ad esempio il francese. Questo criterio però non riesce a distinguere nella
catena parlata gli elementi che sono privi di accento, e può considerarli erroneamente parte della parola.

Dal punto di vista morfologico, un insieme di morfemi si considera una parola sulla base del grado di
coesione interna. Abbiamo quindi criteri come la non interrompibilità della combinazione (in una parola
l'ordine dei morfemi non può essere interrotto con l'immissione di altro materiale morfologico), la
posizione fissa dei singoli morfemi (l'ordine dei singoli morfemi non può essere alterato), la mobilità della
combinazione (una parola può assumere, all'interno di un enunciato, tutte le posizioni permesse in quella
data lingua), l'enunciabilità in isolamento (una parola da sola può costituire un enunciato).

Alcune combinazioni di morfemi rispettano tutti questi criteri, quindi rappresentano in modo tipico il
concetto di parola: sono detti in questo senso più "parola" di altre.

I morfemi. Scomponendo una parola nei suoi costituenti dotati di significato proprio arriviamo ai morfemi.
Nella parola "dentale" abbiamo tre morfemi: 1. dent- (organo della masticazione), 2. -al- (aggettivo,
"relativo a"), 3. -e (singolare).

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Il morfema deve essere isolabile e comparire in un'altra parola con lo stesso significato. Dent- è morfema in
dentario, non lo è in studente (stud- ent- e).

Anche per individuare i morfemi si fa ricorso alla prova di commutazione confrontando fra di loro parole
simili fino ad individuare, per sottrazione, la parte uguale e comune. Il morfema quindi è la minima
associazione tra un significante ed un significato.

Il significato di una parola è la somma combinata dei significati dei singoli morfemi che la compongono. Il
morfema è un elemento grammaticale, l'elemento che ha valore lessicale è il semantema (es. dent-
semantema, organo della masticazione; -e morfema, singolare maschile). Nella morfologia si distingue tra
morfema, morfo e allomorfo. Il morfema è l'unità pertinente a livello di sistema, il morfo è il morfema
inteso come forma dal punto di vista del significante (es. il morfema del singolare è realizzato dal morfo -e)
mentre l'allomorfo è ognuna delle forme diverse in cui si può presentare lo stesso morfema (es. Nel verbo
venire, il morfema lessicale che indica lo spostamento verso un determinato luogo ha ben 5 forme: ven-
(venire, venuto); venn- (venni, vennero); veng- (vengo, vengano); vien- (vieni, viene) e ver- (verrò,
verremo). In questo caso il morfema ven- di venire ha 4 allomorfi diversi ma tutti con lo stesso significato.

L'allomorfo deriva in genere dalla diacronia, cioè dal cambiamento subito dalla parola nel tempo.
L'allomorfia richiede comunque una certa affinità fonetica tra i diversi morfi, data generalmente dalla
stessa origine dal punto di vista diacronico o da modifiche fonetiche in ambito sincronico, causate da
fenomeni fonosintattici (es. in- di inutile e il- di illecito sono allomorfi del prefisso con valore di negazione
in-). A volte però i morfemi lessicali assumono forme completamente diverse (es. acquatico ed idrico, in cui
il morfema lessicale ha due forme completamente diverse: acqu- derivata dal latino e idr- derivata dal
greco). Questo fenomeno è detto suppletivismo.

3.2 Tipi di morfemi.

I morfemi si differenziano in base alla loro classificazione funzionale, cioè in base al valore che essi
contribuiscono a dare al significato della parola, ed alla loro classificazione posizionale, cioè in base alla
posizione che assumono all'interno della parola ed al modo in cui essi contribuiscono alla sua struttura.

3.2.1 Tipi funzionali di morfemi.

Dal punto di vista della classificazione funzionale, nella parola dentale abbiamo il morfema dent- che ha un
significato referenziale, denotativo. E' insomma un morfema lessicale, sulla cui base si forma una parola
"piena". Gli altri due morfemi invece, -al- ed -e, portano un altro tipo di significato, non riferito alla realtà
esterna ma con un valore interno alla struttura della lingua e previsto dalla grammatica. Hanno quindi un
Valore funzionale/ grammaticale: -al- è un morfema derivazionale, che serve a formare parole derivanti da
altre già esistenti, mentre -e è un morfema flessionale, che attualizza una delle varie forme in cui una
parola può comparire (in questo caso la forma del singolare), secondo il significato obbligatoriamente
previsto dal sistema grammaticale.

Nella classificazione funzionale avremo quindi morfemi lessicali e morfemi grammaticali, che a loro volta si
dividono in derivazionali e flessionali. I morfemi grammaticali costituiscono una classe chiusa, che non
accoglie nuove unità ed è formata da elementi predicibili, compresi nella grammatica di una lingua.

I morfemi lessicali invece sono contenuti nel lessico di una lingua e costituiscono una classe aperta,
continuamente arricchibile di nuovi elementi non predicibili.

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È facile capire la differenza tra i due tipi di morfema: Anche nel caso di parole sconosciute o addirittura
inventate riusciamo ad individuare le parti che recano un significato grammaticale. Ad esempio, nella
parola *breco (l'asterisco indica una forma non esistente nella lingua), sappiamo che al plurale farà *brechi,
che l'aggettivo *brecoso vuol dire "dotato di *breco" e che il verbo *brechizzare vuol dire "rendere
*breco".

Questa distinzione non è sempre così semplice. In italiano, ad esempio, abbiamo parole funzionali (o
vuote), come articoli, preposizioni o pronomi personali, che pur formando classi grammaticale chiuse
difficilmente possono definirsi morfemi grammaticali (gli articoli addirittura possono a loro volta essere
scomposti in morfemi: lo = l+o, uno = un+o). Una distinzione utile in questo contesto potrebbe essere
quella tra morfemi liberi (i morfemi lessicali) e morfemi legati (i morfemi grammaticali), che non possono
mai comparire da soli ma che devono essere appunto legati ad altri morfemi. Questa distinzione, valida per
lingue come l'inglese in cui spesso i morfemi lessicali costituiscono parola (es. boy, run, cat ecc.), mal di
adatta invece all'italiano, in cui anche i morfemi lessicali (o radici) sono del tipo legato. Gatt- ad esempio
non può stare da solo.

Gli affissi, cioè i morfemi combinati con una radice, sono per definizione sempre morfemi legati. In questa
prospettiva le parole funzionali possono essere designate come morfemi semiliberi.

La morfologia si divide in derivazione, che crea le parole regolandone il processo di formazione, e flessione,
che crea le forme di una parola regolandone il modo in cui si realizzano nelle frasi.

La derivazione è quella che agisce per prima, partendo dalla radice e costruendo parole su cui interviene
poi la flessione per attualizzare le forme. La priorità della derivazione, unità al principio di non
interrompibilità della parola fa sì che nella struttura di una parola i morfemi flessionali siano più lontani
dalla radice rispetto a quelli derivazionali (es. can-e, radice lessicale+ morfema; can-il-e, radice lessicale+
morfema derivazionale+ morfema flessionale). La derivazione non è obbligatoria, nel senso che non tutti i
morfemi lessicali che possono combinarsi con un certo morfema derivazionale in effetti si combinano con
esso (da punire deriva punizione, ma da stupire non deriva *stupizione), la flessione invece sì: si applica
invariabilmente a qualunque base lessicale ad essa soggetta.

In lingue come l'italiano non esistono parole corrispondenti alla radice lessicale nuda, mentre esistono
sempre forme di parole generate dalla flessione (can-e, can-i).

3.2.2 Tipi posizionali di morfemi.

Dal punto di vista della posizione morfemi grammaticali assumono rispetto al morfema lessicale (radice)
che costituisce la testa della parola, i morfemi grammaticali, detti in generale affissi, si suddividono in
prefissi, che precedono la radice e in italiano hanno solo valore derivazionale (es. in-utile, in- prefisso) e
suffissi, che seguono sempre la radice (es. compr-ensibil-e, -ensibil- suffisso).

I suffissi con valore flessionale, che in italiano occupano l'ultima posizione della parola, dopo la radice e gli
eventuali suffissi derivazionali, si chiamano desinenze.

Abbiamo poi gli infissi, cioè affissi inseriti dentro la radice. In italiano non esistono procedimenti di
infissazione, in altre lingue (es. il latino) sì: Può essere considerata un infisso la consonante nasale che
contrassegna il tempo del presente (es. vinco al presente ma vici al perfetto e victum al participio passato).

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Abbiamo poi i circonfissi, formati da due parti collocate una prima ed una dopo la radice (es. il circonfisso
ge-t del participio passato in tedesco: GEsagT, da sagen, dire), ed i transfissi, che si incastrano
alternativamente dentro la radice creando discontinuità sia dell'affisso che della radice (in arabo la radice di
solito è triconsonantica discontinua mentre il morfema grammaticale è uno schema vocalico discontinuo
che si incastra tra le consonanti della radice, es. k- t- b-, radice di scrivere/scrittura, unità al morfema
grammaticale i - a, nome di oggetto singolare, da come risultato [ki'ta:b], libro).

L'analisi in morfemi viene rappresentata sotto forma di trascrizione morfematica, in cui la forma dei
morfemi si può trascrivere tra parentesi graffe indicando nella riga sottostante significato e valore dei
morfemi grammaticali per mezzo di sigle e abbreviazioni in maiuscoletto, dette glosse:

es. {dent}- -{al}- -{e} {ge-} -{sag}- -{t}

"dente" AGG SG "dire"

PART. PASSATO

3.2.3 Altri tipi di morfemi.

Esistono morfemi i cui costituenti non possono essere isolati separatamente. Sono i morfemi sostitutivi,
detti così perché sono caratterizzati dalla sostituzione di un fono. In pratica, attuano un mutamento fonico
nella radice della parola per rendere un valore grammaticale (es. goose/geese in inglese). Anche i morfemi
sostitutivi possono essere discontinui, risultando formati da una parte sostitutiva in unione ad una parte
suffissale (es. il tedesco Buch/Bücher, in cui il valore grammaticale di plurale è reso contemporaneamente
dalla modifica nella vocale radicale e dalla desinenza -er).

Morfema zero è il caso in cui una distinzione obbligatoriamente marcata nella grammatica di una data
lingua non è rappresentata in alcun modo nel significante. È il caso, ad esempio, dei plurali invariabili (es.
città in italiano, sheep in inglese). In questi casi abbiamo il morfo 0, in cui il valore plurale, non essendo
marcato in nessun modo nella forma fonica, viene segnalato appunto con 0 (assenza).

Esistono anche morfemi soprasegmentali, in cui un determinato valore morfologico si manifesta appunto
attraverso tratti soprasegmentali come l'accento o il tono (es. record verbo e record sostantivo in inglese,
differenziati dalla posizione dell'accento).

L'analisi in morfemi non copre tutta la gamma dei modi in cui si manifesta la morfologia nelle lingue: alcuni
valori, in certe lingue, vengono espressi attraverso processi come ad esempio la reduplicazione o
ripetizione delle radici (es. indonesiano anak, bambino, anak-anak bambini). Ancora, i morfemi
grammaticali recano contemporaneamente più valori o significati. In italiano, la desinenza -e di buone vale
contemporaneamente femminile e plurale. In questi casi parliamo di morfemi cumulativi.
Alcuni linguisti fanno riferimento ad una nuova entità, il morfoma, priva di una forma fonologica concreta è
dotata di significato esclusivamente morfologico, senza controparte semantica funzionale. Questo
morfoma permette di descrivere fenomeni come quelli dell' allomorfia nella radice lessicale (quando da una
stessa radice si hanno cioè forme leggermente diverse): si può dare quindi conto delle diverse forme che si
trovano ad esempio nella flessione di un verbo (es. scrivere, scriv- nel presente/imperfetto/futuro, scris- nel
passato, scrit- nel participio passato) senza necessariamente interpretarle come derivate per allomorfia
dalla stessa base, considerandole come un esempio di morfoma, una regolarità strutturale astratta, uno
schema ricorrente in un paradigma morfologico.

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Un caso un po' più complesso di morfema cumulativo è l'amalgama, risultante dalla fusione di due morfemi
in cui non è possibile distinguere i morfemi originali. un esempio è l'articolo italiano i, in cui si trovano fusi
in modo indistinguibile il morfo dell'articolo determinativo l- e quello del maschile plurale -i.

3.3 Derivazione e formazione delle parole.

La formazione delle parole avviene attraverso l'applicazione dei morfemi derivazionali, che aggiungono
informazioni rilevanti alla radice delle parole e ne mutano così il significato. Questo meccanismo permette
la formazione di un numero teoricamente infinito di parole a partire da una determinata base lessicale,
dando origine a famiglie di parole potenzialmente infinite (famiglia di parole è l'insieme di tutte le parole
che condividono la stessa base lessicale). In italiano è molto frequente l'uso di morfemi derivativi anche in
modo ricorrente: es. socializzabilità, formata da ben 5 morfemi (soci-, radice; al-, aggettivo; -izz-, verbo; -
abil-, potenzialità; -ità, sostantivo astratto).

Nel contesto specifico dell'italiano si pone il problema della cosiddetta vocale tematica, la vocale iniziale
della desinenza dell'infinito dei verbi. Applicando ad un verbo il suffisso derivativo -abil potremmo
considerarlo 1. unitariamente come allomorfo del suffisso (cfr. analizzare/analizzabile,
comprendere/comprensibile), 2. come composto da due morfemi, {a} e {bil} di cui il primo è un morfema
vuoto, privo di un reale significato che va a modificare il significato della radice oppure 3. Considerare il
suffisso solo nella forma {bil}, riportando la vocale tematica come facente parte della radice. Avremo allora
analizza-bil-e e comprensi-bil-e. Questa alternativa è quella preferita nella teoria morfologica attuale.

Abbiamo poi le categorie dei prefissoidi e suffissoidi. Sono morfemi che hanno contemporaneamente
valore lessicale e derivazionale (es. socio- in sociolinguistica, socioterapia, che significa "società" e funziona
come un prefisso, la parola a cui si unisce, oppure il suffisso -metro, che indica misura in termometro o
cronometro). Prefissoidi e suffissoidi derivano in genere dal latino e greco e vengono definiti anche confissi
o semiparole.

Un altro meccanismo per la formazione delle parole è il ricorso alle parole composte (portacenere,
asciugamano, cassaforte ecc.). In questo meccanismo, ognuna delle radici lessicali che coesiste nella parola
mantiene il significato originale. È un costrutto molto comune in tedesco, in cui si segue rigorosamente
l'ordine modificatore-modificato, mentre in italiano è più comune l'ordine modificato-modificatore, in cui la
seconda parola modifica la prima, che funge da testa sintattica (es. Portacenere non è " genere che porta
qualcosa" ma " qualcosa che porta la cenere"). Abbiamo però anche esempi dello schema modificatore-
modificato (es. Bagnoschiuma, "schiuma per il bagno").

Diverse dalle parole composte sono le parole plurilessematiche, composte da sintagmi fissi che hanno un
significato unico non corrispondente, come nelle parole composte, alla somma dei significati dei singoli
componenti (es. il gatto delle nevi non è un gatto che vive in luoghi freddi e nevosi ma è un automezzo per
muoversi sulla neve). Molto spesso queste formazioni hanno valore idiomatico (es. essere al verde,
arrampicarsi sugli specchi), e costituiscono una categoria molto ampia che comprende classi diverse di
elementi (ad es. verbi sintagmatici come buttare via, portare fuori ecc.) o i cosiddetti binomi coordinati:
Sale e pepe, anima e corpo, usa e getta ecc. Questi fenomeni sono collocati nel punto di incontro tra il
lessico e la sintassi e non sono di pertinenza della morfologia derivazionale.

Una posizione intermedia tra le parole composte e le unità plurilessematiche è quella delle parole
bimembri (es. nave scuola, sedia elettrica), in cui non vi è ancora una vera e propria fusione tra i due

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membri e pertanto vengono rappresentati separatamente nello scritto, anche se vengono comunque
considerate parole composte.

Box 3.2 Le parole composte in italiano.


La composizione, come la derivazione, è uno strumento di formazione di nuove parole partendo da una
determinata radice lessicale. La differenza è che nella derivazione la parola derivata contiene una sola
radice lessicale, nella composizione la parola Contiene più radici, ognuna delle quali può comparire come
parola autonoma (tranne i composti detti neoclassici, come termometro, telefono ecc.). In italiano La
maggioranza delle parole composte appartiene alla classe dei nomi, vale a dire che qualunque sia la
classificazione delle parole che partecipano alla composizione il risultato sarà sempre un nome: bassorilievo
(aggettivo più nome), bagnasciuga (verbo più verbo), pesce spada (sostantivo + sostantivo). Si avrà un
aggettivo quando tutte e due le parole combinate sono aggettivi (es. Sordomuto, agrodolce), oppure
quando appartengono a classi diverse (es. Maleducato, avverbio più aggettivo; mozzafiato, verbo più
sostantivo).

In sostanza i nomi composti appartengono alla classe di parole di uno dei due costituenti. Per definire quale
sia è fondamentale la nozione di testa del composto: il costituente che funziona da testa del composto gli
assegna la propria classe di parola e gli conferisce le proprie caratteristiche di significato e i propri tratti di
flessione. Per individuare la testa di un composto si può applicare il test "è un", che deve valere sia per la
classe di parola sia per le proprietà di significato. ad es. bassorilievo è un nome perché rilievo è un nome e
bassorilievo è un tipo di rilievo; pesce spada è un nome perché pesce è un nome e pesce spada è un tipo di
pesce. La testa quindi è un iperonimo (sovraordinato) del composto: il pesce spada è uno dei tanti pesci
indicati dal nome pesce.

I composti più comuni in italiano sono quelli con testa a sinistra. Quelli con testo destra sono generalmente
di origine latina (terremoto) o derivano da altre lingue (grattacielo dall'inglese skyscraper).

Sono anche possibili composti senza testa, come scolapasta. Se applichiamo il test "è un" otteniamo che lo
scolapasta non è una pasta. I composti con una testa sono detti endocentrici, quelli senza testa sono detti
esocentrici. I composti formati da due teste, sia categoriali che semantiche (es. Tragicomico, agrodolce)
sono detti "dvandva", dal sanscrito. I composti in cui ciascun costituente mantiene la propria individualità
fonologica (es. camera oscura, mozzafiato) si dicono larghi, mentre sono definiti stretti i composti in cui i
costituenti si sono fusi tra loro a livello fonologico (es. tragicomico, biancazzurro).

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Altri meccanismi di formazione sono la lessicalizzazione delle sigle, la cui pronuncia sillabata è promossa a
parola autonoma (es. CGIL, cigielle, SMS, essemmesse) e l'unione con accorciamento (es. cantante + autore
= cantautore, smoke+fog = smog).

Il processo di formazione più importante e produttivo in italiano è la suffissazione, seguito dalla


prefissazione. La suffissazione cambia la classe grammaticale di appartenenza di una parola (es. da noia,
sostantivo, noioso, aggettivo), mentre la prefissazione la lascia invariata (es. utile, aggettivo, inutile,
aggettivo). Nella categoria della derivazione suffissata rientra l'alterazione, procedimento molto rilevante in
italiano. Con l'alterazione si creano parole che aggiungono al significato della radice un valore di tipo
valutativo, che può essere diminutivo, accrescitivo o peggiorativo (es. gatt-ino, libr-one, parol-accia). Le
parole derivate sono definite sulla base del procedimento di derivazione, della classe lessicale della base da
cui derivano e della classe lessicale a cui appartiene la parola derivata.

Un altro meccanismo di formazione di parole è la conversione o derivazione zero, in cui in una coppia di
parole aventi la stessa radice lessicale ed entrambe prive di suffisso non è possibile stabilire la parola
primitiva è quella derivata (es. lavoro/lavorare, fiore/fiorire). In linea di massima nelle coppie
verbo/sostantivo si assume che la forma base sia il verbo, in quanto il nome designa l'atto indicato dal
verbo; nelle coppie verbo/aggettivo si assume che la forma base sia l'aggettivo, in quanto il verbo indica
l'azione di far assumere le qualità o lo stato indicate dall'aggettivo. Il processo di derivazione di una parola
si può rappresentare con un diagramma ad albero, ripercorrendo dal basso verso l'alto la successione delle
operazioni applicate a partire dalla radice lessicale di base.

manca figura

3.4 Flessione e categorie grammaticali.

I morfemi flessionali non modificano il significato della radice lessicale, semplicemente lo adattano a quel
particolare contesto di enunciazione e lo fanno solo con le classi cosiddette variabili di parole, quelle cioè
che possono accogliere la flessione. I morfemi flessionali realizzano valori delle categorie grammaticali.
Diciamo allora che il morfema che realizza il valore di una determinata categoria grammaticale è la marca di
quel valore. A loro volta, le categorie grammaticali danno espressione ad alcuni significati fondamentali di
una determinata lingua, che devono essere espressi in quanto previsti dalla grammatica di quella lingua
perché realizzano le dimensioni semantiche elementari del termine. Le categorie grammaticali più
importanti sono quelle flessionali: ogni categoria è l'insieme dei valori che una determinata dimensione
semantica può assumere, in cui ogni valore è rappresentata. Ad esempio la categoria genere è
rappresentata in italiano da e morfemi maschile e femminile. Le categorie flessionali si dividono tra quelle
che operano sui nomi e quelle che operano sui verbi. In lingue come l'italiano la morfologia nominale ha
come categorie fondamentali genere e numero. La categoria del genere espressa con i due morfemi del
maschile e del femminile, che sono appunto i due valori che questa categoria può e deve assumere in
italiano.

In altre lingue il genere può non esistere o può essere mancato per più valori (ad es. in tedesco e in latino
abbiamo maschile, femminile e neutro). La categoria del numero è marcata, sempre in italiano, con i
morfemi del singolare e del plurale, mentre in altre lingue possono essere presenti le marche del duale e
del triale.
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Un'altra categoria importante è quella del caso, che mette in relazione la forma delle parole con la funzione
che essa (o meglio, il sintagma di cui la parola fa parte) assume nella frase. In italiano abbiamo tracce della
flessione casuale nel sistema dei pronomi personali (es. tu soggetto, te complemento).

Nelle lingue a sistema casuale il numero dei casi può variare: sono quattro in tedesco, sei in latino, alcune
decine nelle lingue uraliche.

La reggenza è il processo attraverso il quale un verbo assegna il caso al suo complemento. Anche le
preposizioni possono assegnare il caso (es. in tedesco il verbo bringen, portare, richiede l'accusativo
dell'oggetto portato e il dativo della persona a cui si dà l'oggetto; la preposizione mit regge il dativo). Il
concetto di reggenza si estende anche al rapporto fra verbi e preposizioni, quando vi siano verbi che
appunto richiedono determinate preposizioni (es. fidarsi di, dipendere da, contare su ecc.).

Gli aggettivi qualificativi in molte lingue sono marcati per grado (comparativo e superlativo). In italiano è
affidato alla flessione solo il superlativo (-issim-), mentre l'inglese esprime con la flessione anche il
comparativo. Altre lingue possiedono morfemi marcatori per altre categorie come la definitezza (in arabo)
o il possesso (in turco).

Le categorie del verbo: la morfologia verbale ha 5 categorie flessionali principali.

1. Modo. Esprime il modo in cui il parlante si pone nei confronti di quanto viene detto e della realtà in cui la
scena viene rappresentata (es. l'indicativo esprime certezza, il condizionale esprime incertezza o
supposizione).

2. Tempo. Localizza nel tempo quanto viene detto (presente/passato/futuro).

3. Aspetto. Riguarda il modo in cui vengono osservate e presentate azioni ed eventi in relazione al loro
svolgimento (ad es. in italiano il passato prossimo esprime l'azione come compiuta, mentre l'imperfetto
esprime l'azione come in svolgimento.

Un carattere simile dei verbi, presentato attraverso il lessico e non nella morfologia, è quello dell'azionalità,
che riguarda il modo in cui si svolge nel tempo l'azione o processo espresso dal verbo. In questo caso va
fatta una distinzione fra verbi telici, che indicano un'azione dotata di fine o conclusione (ad es. crescere,
invecchiare, raggiungere), e verbi atelici, che indicano un'azione priva di momento conclusivo, verbi di stato
(es. sapere) o di processo indefinito (es. camminare).

4. Diatesi. Esprime il rapporto in cui viene rappresentata l'azione rispetto ai partecipanti, in particolare
rispetto al soggetto (attivo o passivo, es amo/sono amato).

5. Persona. Indica Chi compie l'azione o, più in generale, collega la forma verbale al suo soggetto
manifestandosi con morfemi deittici o di accordo. La marcatura di persona implica in genere anche una
marcatura di numero. Alcune lingue marcano sul verbo anche il genere (es. in italiano, limitatamente al
participio passato, abbiamo forme come era partita/sarà partita).

Altre lingue ancora, come il giapponese, marcano sul verbo anche i rapporti sociali tra il parlante e
l'interlocutore.

Altre categorie grammaticali sono le parti del discorso, che operano a livello di parola e non di morfema
raggruppando le parole in classi a seconda del significato, del comportamento nel discorso e delle
caratteristiche flessionali. Nella grammatica tradizionale sono 9: nome (o sostantivo), aggettivo, verbo,
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pronome, articolo, preposizione, congiunzione ed interiezione (a quest'ultima categoria si potrebbero
aggiungere gli ideofoni come ad esempio zig zag. Si tenga Comunque presente che la reale natura
linguistica delle interiezioni e piuttosto dubbia, perché si tratta di espressioni non integrate nel sistema
linguistico e che condividono molti aspetti della comunicazione non verbale).

Molte parole non sono chiaramente assegnabili ad una determinata classe, dato che presentano proprietà
particolari o comuni a più classi (ad es. tutto è ritenuto un aggettivo perché concorda con il nome, ma
diversamente dagli aggettivi precede l'articolo, non lo segue: "tutti i libri"; ecco è un avverbio che però
condivide con il verbo la proprietà di reggere un pronome clitico: "eccolo").

Le parole vengono classificate in categorie secondo tre criteri fondamentali:

1. Criterio semantico, dato dal tipo di significato;

2. Criterio morfologico, dato dal comportamento delle parole in relazione alle categorie morfologiche
presenti nella lingua di riferimento;

3. Criterio sintattico, dato dal contesto in cui le parole possono comparire.

L'applicazione di questi Tre criteri consente in linea di massima di assegnare una parola ad una determinata
categoria, ma non mancano le eccezioni: anche le due classi dei nomi e dei verbi a volte non sono ben
differenziabili (in italiano ci sono verbi che funzionano come nomi, es. il mangiare qui costa molto), oppure
le preposizioni articolate del/degli che possono funzionare anche come articoli partitivi.

Tutte queste categorie grammaticali, tranne il caso, sono definibili sull'asse paradigmatico, cioè
considerando le parole isolatamente.

Altre categorie invece operano sull'asse sintagmatico, sperando le parole del loro rapporto con altre parole
in un determinato messaggio. Queste categorie sono le funzioni sintattiche, tradizionalmente definite come
oggetto, soggetto, predicato ecc. A tali funzioni corrispondono, nella marcatura a livello di morfema, i casi.

La morfologia flessionale si articola in flessione inerente e flessione contestuale. La flessione inerente


riguarda la marcatura assegnata alla singola parola isolata: in italiano, ad esempio, il nome è realizzato
necessariamente come singolare o plurale, il verbo è marcato secondo tempo, modo e aspetto. La flessione
contestuale dipende invece dal contesto, specifica una forma selezionando i morfemi flessionali in relazione
al contesto sintattico in cui una parola si trova. Sempre in italiano, articoli e aggettivi devono assumere una
forma che dipende dal nome a cui si riferiscono; soggetto e verbo devono concordare in base alla persona.

Un meccanismo comune a molte lingue è quello dell'accordo, in base al quale tutti gli elementi di un
costrutto soggetti a flessione devono prendere le marche delle categorie flessionali dell'elemento a cui si
riferiscono.

Box 3.4 Tempo ed aspetto.


Il tempo localizza cronologicamente l'evento espresso dal verbo e lo colloca in una rete di relazioni
temporali. Tra queste fondamentale è la relazione tra il momento dell'avvenimento (MA) e il momento
dell'enunciazione (ME). Al presente MA e ME coincidono, al passato MA precede ME, al futuro ME precede
MA.

L'aspetto invece considera l'evento in base al modo in cui il parlante osserva e presenta l'evento. I due
valori principali dell'aspetto sono l'imperfettivo, che considera l'evento da una prospettiva interna al suo
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svolgimento, senza dare indicazioni sull'eventuale prosecuzione, ed il perfettivo, che considera l'evento da
una prospettiva esterna, globale, visualizzandone il momento finale (es. ascoltai la radio a lungo).

Aspetto imperfettivo ha tre accezioni: la progressiva, in cui l'azione iniziata è colta in un momento del suo
svolgimento (es. Quando sei entrato ascoltavo la radio); la continua, che coglie un evento nella sua durata
rispetto ad un certo periodo di tempo (es. Mentre leggevo ascoltavo la radio) e l'abituale, che coglie un
evento nella sua durata e con caratteristiche di ripetizione o consuetudine (es. tutte le sere ascoltavo la
radio prima di dormire).

Tempo e aspetto esprimono quindi valori differenti e non vanno confusi. Non esistono però lingue con un
sistema puramente temporale o puramente aspettuale: tutte dispongono di un sistema ibrido, che
presenta forme di commistione tra valori temporali e valori aspettuali.

Capitolo quarto: sintassi.


4.1 Analisi in costituenti.

La sintassi analizza la struttura delle frasi, il modo in cui le parole si combinano tra di loro per formare frasi.
Non è facile dare una definizione univoca di frase: diremo che frase è l'unità minima comunicativa
autosufficiente. Ciò che rende tale una frase e la proprietà della predicazione, cioè un'affermazione
riguardo ad una qualità o un modo di essere di un entità.

In termini tecnici, predicazione è la capacità di assegnare una proprietà ad una variabile o ad un insieme
collegato di variabili (es. Gianni è alto = frase: Gianni= variabile, è alto= assegnazione della qualità altezza).
Generalmente sono i verbi ad avere funzione/ valore predicativo, quindi in linea di massima ogni verbo
autonomo coincide con una frase (NB ci sono pure frasi senza verbo, dette frasi nominali, che pure in
assenza del verbo riescono comunque ad attribuire una qualità: Bella la tua casa!). Per individuare quante
frasi ci sono in un testo si possono quindi contare le forme verbali.

Una frase può essere costituita da più predicazioni, allora il nome di proposizione.

Le parole che formano le frasi sono collegate tra di loro da un sistema di rapporti. Per individuare ed
analizzare Questi rapporti bisogna scomporre la frase nei suoi costituenti (è lo stesso principio applicato
all'analisi fonetica e fonologica) attraverso la prova di commutazione. Questo tipo di approccio si chiama
analisi in costituenti immediati perché individua diversi sottolivelli di analisi ed ogni costituente individuato
ad un determinato sottolivello costituisce immediatamente, senza altri passaggi, il costituente del
sottolivello di analisi superiore.

Il metodo più comune di rappresentazione schematica di una frase è quello degli alberi etichettati, cioè un
grafo costituito da nodi da cui si dipartono i rami. Ogni nodo rappresenta un sottolivello di analisi della
sintassi ed è contrassegnato dal simbolo della categoria a cui appartiene il costituente di quel sottolivello.
L'albero è l'indicatore sintagmatico della frase (immagine 1 pagina 140)

SINTAGMI: L'analisi in costituenti immediati identifica 3 sotto livelli di analisi sintattica: quello delle frasi,
quello dei sintagmi (o gruppi) e quello delle parole.

Il più importante è quello dei sintagmi, che sono la minima combinazione di parole che si può usare in una
frase.

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I sintagmi sono costruiti attorno ad una testa, in base alla quale vengono classificati. La testa è la classe di
parole che rappresenta l'elemento minimo che da solo può costituire il sintagma. Eliminando la testa, che
determina il tipo di sintagma, il gruppo di parole esaminato perde la natura e la tipologia specifica di
sintagma. Per esempio, nel sintagma nominale " la copertina blu" possiamo eliminare "la", "blu" o tutte e
due ed avremo comunque un sintagma nominale (copertina blu, la copertina, copertina), ma eliminando la
parola "copertina" ci rimane "la blu", che non è un sintagma nominale.

Il sintagma nominale è un sintagma costruito attorno ad un nome che è la testa del sintagma nominale.
Anche i pronomi possono costituire la testa di un sintagma, perché possono sostituirsi ai nomi.

Il sintagma nominale minimo è un nome o un pronome, quello massimo può avere una struttura molto
complessa e l'avere un numero variabile di elementi basato sulle regole di una determinata lingua.

Un verbo costituisce la testa di un sintagma verbale, un aggettivo sarà la testa di un sintagma aggettivale.

COME RICONOSCERE UN SINTAGMA: I criteri per individuare un sintagma costituiscono il cosiddetto "test di
costituenza", e sono i seguenti:

MOBILITA'. Un gruppo di parole costituisce un sintagma se le parole che lo formano si muovono assieme
all'interno della frase. Es. "La scorsa settimana sono andato al cinema". In questa frase, il gruppo "la scorsa
settimana" può essere collocato indifferentemente all'inizio o alla fine della frase (si noti che questo criterio
è valido anche se cambia il senso della frase). "la scorsa settimana" quindi è un sintagma, in questo caso
nominale, mentre "la scorsa" o "settimana" non lo sono.

SCISSIONE. Un sintagma è tale se può essere separato dal verbo della preposizione andando a costituire
una frase scissa, o inciso. Es. "ho guardato dentro la scatola/ è dentro la scatola che ho guardato", ma "ho
portato dentro la scatola/ è dentro la scatola che ho portato". Anche se le frasi sono simili cambia la
struttura: "ho guardato" è un sintagma verbale, "ho portato dentro" è un sintagma preposizionale.

ENUNCIABILITA' IN ISOLAMENTO. Un sintagma è tale quando da solo può costituire un enunciato (ha
senso).

COORDINABILITA'. Sintagmi diversi sono dello stesso tipo se possono essere coordinati.

Ci sono molti elementi che possono attaccarsi alla testa di un sintagma e dare quindi origine a sintagmi
molto complessi.

ANALISI IN COSTITUENTI. Anche il principio generale impiegato per l’analisi sintattica è basato sulla
scomposizione o segmentazione della frase. Nell’analisi in costituenti queste unità sono appunto i
costituenti o costituenti immediati. Essa individua infatti vari sottolivelli di analisi che a loro volta possono
essere ulteriormente sottoposti a scomposizione ed analisi. Anche in questo caso per capire che taglio
individuano i vari costituenti di una frase è utile una prova di commutazione.

Esistono vari modi per rappresentare l’analisi in costituenti, il più utilizzato è quello dei diagrammi ad
albero etichettati, ma ci sono anche le parentesi etichettate. Tali alberi si chiamano “indicatori sintagmatici”
delle frasi, e rappresentano la struttura in costituenti delle frasi.

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Il costituente da cui si parte è F, ovvero la frase nella sua totalità. In F verosimilmente
avremo una bipartizione in SV (sintagma verbale, contiene un verbo) e SN (sintagma
nominale, contiene un nome: se non c’e, come nella frase “corro!”, allora si mette una
O barrata sotto il ramo di SN):

SV e SN a loro volta possono essere scomposti in unita minori: SV avrà sicuramente V


(verbo) e forse Aus (ausiliare), SN avrà sicuramente N (nome), magari Art (articolo),
Poss (possessivo), Agg (aggettivo). Tutte le parole funzionali che occorrono davanti al
nome e hanno la funzione di determinarlo in qualche modo (ad esempio un articolo)
prendono anche il nome di Det (determinanti). Il principio generale degli alberi è che all’interno di essi
l’elemento che sta a destra modifica sempre quello che c’è a sinistra sotto lo stesso nodo (per esempio se
c’e un avverbio come “probabilmente” che modifica tutta la frase, la bipartizione sarà tra Avv e una nuova F
comprendente sia SN che SV al secondo snodo). L’albero diventa così:

AMBIGUITA'. Nel caso in cui una frase sia ambigua, ovvero non si sa per esempio a chi attribuire una
qualità, allora si ricorre a un particolare tipo di ramificazione, quella triangolare, dove il triangolo sta ad
indicare il ramo che porta ad un costituente che, essendo la sua struttura non pertinente per il fenomeno
che si vuole analizzare, non viene analizzato nella rappresentazione. Nel caso infatti in cui non si sappia
come restituire questa ambiguità, le due parti ambigue possono essere rappresentate con dei triangoli
sotto la normale denominazione di sintagma senza che si scenda ad ulteriori ramificazioni.

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Della struttura interna dei sintagmi si occupa in
modo approfondito la teoria X- Barra, che indica i
vari livelli di complessità di un sintagma (indicato con
X) attraverso una serie di barre. Secondo questa
teoria tutti i sintagmi hanno una struttura generale
comune, e i vari ranghi di complessità di un sintagma
sono individuati con apici (X’’’) per indicare i livelli di
complessità crescente: ovvero se un sintagma
nominale contiene a sua volta un sintagma nominale,
il secondo sarà X, il primo (da cui il secondo nasce)
sarà X’, e cosi via. Per rappresentare correttamente
la struttura della frase con un indicatore
sintagmatico è fondamentale che ogni costituente compaia con il rango gerarchico in cui interviene a
contribuire al valore generale della frase, ovvero ogni parte deve essere agganciata all’opportuno nodo. Per
evitare errori, considerare una ramificazione solo binaria può essere d’aiuto. Il principio generale di questa
teoria è che ogni elemento che si trova sul ramo di destra di un nodo modifica/va messo direttamente in
relazione con l'elemento che sta alla sua sinistra sotto lo stesso nodo (costituente fratello).

4.2 FUNZIONI SINTATTICHE, STRUTTURAZIONE DELLA FRASE ED ORDINE DEI COSTITUENTI.


Il modo in cui i costituenti si combinano per formare le frasi è organizzato in base a principi piuttosto
complessi, che interagiscono tra di loro per determinare la struttura sintattica di superficie della frase,
stabilendo l'ordine degli elementi e la gerarchia dei loro rapporti.

FUNZIONI SINTATTICHE: questa prima classe di principi dipende dal reggenza del verbo e riguarda il ruolo e
i sintagmi assumono nella struttura sintattica della frase. I sintagmi nominali possono valere da
soggetto/complemento oggetto, i sintagmi verbali da predicato ecc. È difficile definire in modo rigoroso le
diverse funzioni sintattiche. Le principali sono: Soggetto (chi fa l'azione), predicato verbale (l'azione) e
oggetto (chi subisce l'azione). A questo si aggiungono numerosi altri complementi (es. specificazione,
mezzo, termine ecc.).

SCHEMI VALENZIALI.
Le funzioni sintattiche vengono assegnate a partire da schemi valenziali, della strutturazione delle frasi.

Quando vogliamo enunciare una frase, per prima cosa scegliamo il verbo. Ogni verbo porta con sé un
insieme di elementi, che dipendono dal processo o dall'azione che il verbo rappresenta. Questi elementi
sono detti valenze o argomenti.

Ogni verbo stabilisce numero e natura delle proprie valenze: si dice quindi che il verbo a un determinato
schema valenziale (o struttura argomentale). Da questo punto di vista i verbi possono essere mono-, bi- o
trivalenti. Abbiamo anche un'altra categoria, quella dei verbi zerovalenti o avalenti, che comprende i verbi
privi di valenza come verbi meteorici tipo piove nevica eccetera.

Monovalenti: sono i verbi che implicano una sola entità (es. camminare, ridere);

Bivalenti: implicano due entità (es. mangiare implica 1. qualcuno che mangia e 2. qualcosa che viene
mangiato);

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Trivalenti: implicano tre valenze (es. dare implica 1. qualcuno che manda, 2. qualcosa che viene mandata e
3. qualcuno che riceve).

Tetravalenti: è una categoria molto rara, i cui verbi implicano 4 valenze (es. spostare implica 1. qualcuno
che sposta, 2. qualcosa che viene spostata, 3. un luogo di origine e 4. un luogo di destinazione).

Bisogna infine ricordare che ci sono verbi che ammettono schemi diversi, a seconda del significato che
assumono. Ad es. ATTACCARE nel senso di "assalire" è bivalente perché implica 1. qualcuno che attacca e 2.
qualcuno che è attaccato; nel senso di "appendere" è trivalente perché implica 1. qualcuno che attacca, 2.
qualcosa che attaccato e 3. un luogo dove si trova l'oggetto attaccato.

NB. Le valenze sono sempre presenti, anche quando non sono espresse: es. Marco manda un messaggio, la
terza valenza non è espressa ma c'è, in questo caso si dice che non tutte le valenze sono saturate.

Secondo lo schema valenziale allora, il soggetto è la prima valenza di ogni verbo (tranne quelli
metereologici, tutti i verbi hanno almeno la prima valenza).

La seconda valenza coincide con il complemento oggetto, nel caso dei verbi transitivi (cioè i verbi che
ammettono la forma passiva), o con altri tipi di complemento.

A volte però nelle frasi si possono trovare dei costituenti che realizzano elementi al di fuori dello schema
valenziale: sono gli elementi circostanziali o avverbiali. Non essendo direttamente implicati dal significato
del verbo non rientrano nelle configurazioni di valenza e quindi non fanno parte delle funzioni sintattiche
fondamentali, ma sono comunque importanti perché aggiungono informazioni a volte anche più
importanti, dal punto di vista comunicativo, di quelle codificate dagli schemi valenziali.

Negli indicatori sintagmatici, i circostanziali operano modifiche a livello della frase, del sintagma verbale o
di quello nominale (es. Luisa cuoce con pazienza la torta nel forno per un'ora. Frase nucleare a schema
bivalente: Luisa cuoce la torta; circostanziali: 1. Con pazienza (come?), 2. Nel forno (dove?); 3. Per un'ora
(per quanto tempo?).

Rispetto alle valenze i circostanziali hanno più libertà di posizione e sono permutabili. Secondo lo schema
valenziale allora, il soggetto è la prima valenza di ogni verbo (tranne quelli metereologici, tutti i verbi hanno
almeno la prima valenza).

La seconda valenza coincide con il complemento oggetto, nel caso dei verbi transitivi (cioè i verbi che
ammettono la forma passiva), o con altri tipi di complemento.

A volte però nelle frasi si possono trovare dei costituenti che realizzano elementi al di fuori dello schema
valenziale: sono gli elementi circostanziali o avverbiali. Non essendo direttamente implicati dal significato
del verbo non rientrano nelle configurazioni di valenza e quindi non fanno parte delle funzioni sintattiche
fondamentali, ma sono comunque importanti perché aggiungono informazioni a volte anche più
importanti, dal punto di vista comunicativo, di quelle codificate dagli schemi valenziali.

Negli indicatori sintagmatici, i circostanziali operano modifiche a livello della frase, del sintagma verbale o
di quello nominale (es. Luisa cuoce con pazienza la torta nel forno per un'ora. Frase nucleare a schema
bivalente: Luisa cuoce la torta; circostanziali: 1. Con pazienza (come?), 2. Nel forno (dove?); 3. Per un'ora
(per quanto tempo?).

Rispetto alle valenze i circostanziali hanno più libertà di posizione e sono permutabili.
30
4.3 RUOLI SEMANTICI.
Un altro ordine di principi è quello che regola il modo in cui il referente del sintagma, (la "cosa" indicata)
contribuisce all'evento nella frase. Queste funzioni, dette "ruoli semantici", vanno individuate considerando
la frase come la rappresentazione di una scena o di un evento, in cui gli elementi presenti sono in relazione
tra di loro riguardo a cosa avviene nella scena. La frase qui non è considerata dalla prospettiva del
significante (= sequenza di espressioni collegate da connessioni e dipendenze sintagmatiche), ma dal punto
di vista del significato (= scena in cui le entità presenti interpretano ciascuna una parte, detta appunto ruolo
o funzione semantica).

Non esistono procedimenti formali di definizione o liste complete e condivise dei possibili ruoli semantici;
comunque c'è accordo sulle categorie usate per denominare i principali.

AGENTE: entità animata che provoca intenzionalmente ciò che accade;

PAZIENTE: entità coinvolta passivamente in ciò che accade;

SPERIMENTATORE: entità che prova un certo stato o processo psicologico (es. A Luisa piacciono i gelati: a
Luisa = sperimentatore);

BENEFICIARIO: entità che trae beneficio dall'azione (es. Gianni regala un libro a Luisa: a Luisa =
beneficiario);

STRUMENTO: entità inanimata mediante la quale avviene ciò che accade;

DESTINAZIONE: entità verso la quale si dirige l'attività è espressa dal predicato (verbo).

Sono presenti anche altre categorie di ruoli semantici: località, dimensione, provenienza, comitativo (è il
ruolo semantico dell'entità che partecipa all'attività svolta dall'agente. Es. Luisa ha discusso la tesi con
professore: col professore = comitativo).

Anche nei verbi possiamo avere diversi ruoli semantici, come stato (esistere ecc.), azione (correre, uscire
ecc.), processo (crescere, fiorire, invecchiare ecc.).

I ruoli semantici agiscono al di sotto della struttura sintattica: nelle frasi "Gianni ha aperto la porta", "La
porta si è aperta" e "Il vento ha aperto la porta" il ruolo semantico di "la porta" rimane sempre lo stesso,
quello di paziente, nonostante che la sua funzione sintattica sia soggetto nella seconda frase e
complemento oggetto nella prima e nella terza.

Tra funzioni sintattiche e ruoli semantici ci sono rapporti preferenziali: per esempio, l'agente della struttura
semantica tende a comparire come soggetto in quella sintattica, ma non c'è una corrispondenza biunivoca,
proprio perché sono nozioni che operano su piani diversi.

Nella frase passiva il rapporto tra ruoli semantici e funzioni sintattiche è diverso rispetto alla frase attiva:
l'agente, che di norma fa il soggetto, passa a complemento d'agente mentre il paziente, che di norma è
l'oggetto, nella frase passiva diventa il soggetto.

La possibilità di reggere un oggetto (e quindi di ammettere la forma passiva) è un criterio importante per
distinguere classi di verbi sulla base del loro comportamento sintattico: i verbi passivizzabili sono i verbi
transitivi, quelli non passivizzabili sono i verbi intransitivi. A loro volta questi si distinguono, sulla base
dell'ausiliare richiesto, in verbi inaccusativi (con ausiliare essere) e verbi inergativi (con ausiliare avere).

31
4.4 STRUTTURA PRAGMATICO-INFORMATIVA.
Una frase collega una rappresentazione operata dall'intelletto umano ad una catena fonica o grafica
costituita dai suoni del linguaggio o dalla loro codifica scritta. Vediamo nel dettaglio come ciò avviene. Si
comincia con la scelta (all'interno del patrimonio lessicale della lingua di riferimento) del verbo. Il verbo
reca con sé uno schema valenziale (= numero di entità coinvolte nel l'azione espressa dal verbo), a cui viene
attribuita una interpretazione semantica assegnando i ruoli semantici ai diversi elementi. I ruoli semantici, a
loro volta, vengono tradotti in funzione sintattiche; si passa infine all'espressione, che si realizza attraverso
una struttura in costituenti, vale a dire un indicatore sintagmatico retto dai principi della teoria X-Barra.

La struttura in costituenti è la parte visibile/udibile della frase, la parte superficiale, mentre le fasi
precedenti sono frasi astratte, avvengono nella mente e non sono quindi visibili. Da qui la distinzione fra
struttura profonda e struttura superficiale. L'organizzazione pragmatico- informativa è un ulteriore piano di
strutturazione della frase e riguarda il valore pragmatico, quello che il parlante vuole fare producendo la
frase.

Abbiamo 5 tipi di frasi:

DICHIARATIVE (= affermazione generica), INTERROGATIVE (= domanda. A loro volta le interrogative si


dividono in totali/polari, con risposta chiusa Sì/No, e parziali/aperte, con risposta aperta), ESCLAMATIVE
(=esclamazione), IUSSIVE/IMPERATIVE (=comando o istruzione), OTTATIVE/DESIDERATIVE (= desiderio o
auspicio).

Dal punto di vista informativo, la frase può essere definita come un'affermazione relativa a qualcosa.
Diventa quindi importante individuare, nella frase, la parte che fornisce l'informazione e quella che invece
indica ciò su cui si viene informati. Occorre quindi distinguere fra tema (= ciò su cui si informa) e rema (=
l'informazione). Di solito il tema occupa la prima posizione della frase, visto che rappresenta il punto di
partenza dell'informazione. Possono comunque esistere frasi atematiche (es. Prendi la valigia!), ma non
esistono frasi senza rema.

Sotto un altro punto di vista, sempre legato all'informazione, possiamo distinguere fra dato (= conosciuto) e
nuovo (= informazione non nota in precedenza).

La distinzione tra tema/rema e dato/nuovo riflette due diversi aspetti del processo di elaborazione di una
frase: da un lato si sceglie l'argomento (tema) e si afferma qualcosa (rema) su questo argomento, dall'altro
si tiene conto della differenza fra le informazioni già possedute (dato) perché precedentemente introdotte
nel discorso o comunque condivise, e (nuovo), informazioni aggiuntive, non note.

In genere, soggetto, agente e tema tendono a coincidere col primo costituente della frase, però nelle varie
lingue sono presenti dispositivi che permettono di separare queste tre funzioni cambiando l'ordine dei
costituenti all'interno della frase.

In italiano, questo avviene ad esempio con la dislocazione a sinistra, che sposta all'inizio della frase uno
degli elementi che la costituiscono.

Possiamo quindi avere frasi in cui l'oggetto, che generalmente è rematico, si trova in posizione di tema: la
frase "Il gatto (=tema, soggetto) insegue il topo (=rema, verbo+oggetto)" diventa "Il topo lo (=oggetto,
tema) insegue il gatto (=verbo+soggetto, rema). Nella dislocazione a sinistra quindi si anticipa all'inizio della
frase uno dei costituenti, riprendendolo con il pronome clitico che ne rappresenta la funzione sintattica sul
verbo.
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Questo processo è simile, ma non uguale, a quello della costruzione passiva, con la differenza però che
nella frase passiva cambia anche la correlazione tra ruoli semantici e funzioni sintattiche: nella frase "Il topo
lo insegue il gatto" "il gatto", che ha il ruolo semantico di agente, rimane soggetto, mentre nella frase "il
topo è inseguito dal gatto" soggetto diventa "il topo", che ha il ruolo semantico di paziente.

Altri tipi di marcatura della frase per spostamento di costituenti sono la dislocazione a destra e la frase
scissa.

Nella dislocazione a destra uno dei costituenti viene spostato in fondo alla frase è ripreso con un pronome
clitico sul verbo. Qui l'ordine naturale tema-rema è invertito perché si attribuisce valore tematico
all'elemento in fondo alla frase (es. Lo vuole un caffè?).

Nella frase scissa abbiamo la divisione della frase in due parti e lo spostamento di un costituente all'inizio
della frase seguito da una frase (pseudo)relativa: es. "E' il gatto che insegue il topo". La frase scissa serve
per evidenziare nella frase l'elemento dotato del maggiore carico informativo, che assume la funzione di
focus, cioè l'elemento più interessante per il parlante e che dà il massimo di informazione nuova. Il focus in
genere fa parte del rema ed è l'elemento della frase che può essere contrastato.

Altri mezzi di focalizzazione sono avverbi e particelle come anche, solo, addirittura ecc. Una frase normale
può essere sempre trasformata in una frase marcata.

In conclusione: una frase può essere analizzata dal punto di vista sintattico secondo quattro diverse
prospettive, che assieme permettono di comprendere appieno la struttura della frase. Avremo quindi:

1. PROSPETTIVA CONFIGURAZIONALE (relativa alla struttura in costituenti) es. "Gianni corre" SN + SV;

2. PROSPETTIVA SINTATTICA (relativa alle funz. sintattiche propriamente dette) es. "Gianni corre"
sogg. + predicato verbale;

3. PROSPETTIVA SEMANTICA (relativa ai ruoli semantici) es. "Gianni corre" agente + azione;

4. PROSPETTIVA PRAGMATICO-INFORMATIVA (relativa alle articolazioni tema/rema e dato/nuovo)


es. "Gianni corre" tema + rema.

BOX 4.3 ORDINI MARCATI DEI COSTITUENTI DI FRASE.

In tutte le lingue il tema compare Preferibilmente in principio di frase, seguito dal rema. Allo stesso modo è
comune la tendenza a considerare il soggetto come tematico, e poi verbo ed oggetto come remi. Queste
strutture (SOV e SVO) caratterizzano la maggioranza delle lingue del mondo. Una lingua però possiede
meccanismi che permettono di cambiare l'ordine non marcato dei costituenti per comunicare ulteriori
sfumature di significato. Di seguito i principali ordini marcati in italiano:

DISLOCAZIONE A SINISTRA. Permette di collocare come tema un costituente rematico, collocandolo al


primo posto a sinistra dell'enunciato. Il costituente è ripreso da un pronome clitico anaforico, che ne
segnala la funzione sintattica, posto accanto al verbo. Quando il costituente è spostato all'inizio di una frase
priva di marca della funzione sintattica oppure è privo di clitico e quindi senza alcun legame morfosintattico
esplicito con la frase da cui è estrapolato avremo il cosiddetto tema sospeso o libero (anacoluto). Es. Elena,
le avevamo chiesto un favore.

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DISLOCAZIONE A DESTRA. Anche questa rende tematico un costituente rematico, spostandolo però alla fine
(a destra) della frase e facendolo precedere da un pronome clitico ma cataforico. L'ordine informativo
marcato che ne consegue è rema/tema. Il costituente tematizzato a destra è un elemento considerato
dato, cioè conosciuto dal parlante (es. Li hai portati i biglietti?), una specie di aggiunta esplicativa ad una
frase già comprensibile.

FRASE SCISSA. Consente di mettere in evidenza un Costituente separandolo dal resto della frase. La frase
risulta divisa in due parti, la prima col verbo essere seguito dall'elemento che si vuole evidenziare e la
seconda introdotta da che (pseudorelativa). Es. "Elena spegne la luce" diventa "E' Elena che spegne la luce",
indicando che è proprio Elena e non un'altra persona quella che spegne la luce.

REMATIZZAZIONE A SINISTRA. Si ha quando un costituente (solitamente il soggetto) viene messo in


evidenza collocandolo prima del verbo. Es. "E' te che cercavo, non lui". A differenza della dislocazione, il
costituente anteposto non è ripreso da un pronome clitico e soprattutto non è un tema ma è un rema (es.
"Solo questo volevo dirti").

ENUNCIATI TETICI. Sono enunciati senza tema, completamente rematici e nuovi. Sono usati tipicamente per
aprire un discorso, introdurre un elemento nuovo e rispondono a domande come "che succede/è
successo?". Sono enunciati tetici gli enunciati con ordine verbo-soggetto (es. "E' arrivata la lettera"), anche
con soggetto indefinito, e le strutture con il c'è presentativo (es. "C'è qualcosa che manca").

4.4 LA GRAMMATICA GENERATIVA E LE REGOLE IN SINTASSI.


La grammatica generativa è un'impostazione teorica dello studio della sintassi elaborata da Noam
Chomsky, basata sul presupposto che il linguaggio verbale umano sia un sistema cognitivo specifico ed
innato dell'uomo. Si chiama "generativa" perché intende predire il modo esplicito e formalizzato tutte le
frasi possibili di una lingua, escluse naturalmente quelle agrammaticali o malformate. NB. Il termine
"generativo" si rifà al significato logico-matematico del verbo generare, cioè definire ed enumerare
esplicitamente. Nella generazione delle frasi è fondamentale la sintassi, che unisce le parti "esterne" della
lingua, cioè significati e significanti, fornendo loro un'interpretazione semantica basata su un sostrato
comune a tutte le lingue, grammatica universale. In sostanza una grammatica è costituita da un lessico
(insieme di parole ognuna con il suo significato e con le sue proprietà) e da regole che descrivono
formalmente il meccanismo di formazione delle frasi. Le regole formulano i principi operanti nella struttura
linguistica e rappresentano i fenomeni descritti. Sono istruzioni da applicare e non leggi da seguire.

In genere le regole sono regole di riscrittura a struttura sintagmatica: la forma è X-->Y+Z, dove X è la frase, Y
e Z sono i costituenti immediati in un diagramma ad albero e la freccia a destra vuol dire " riscrivere come".
Questa regola vale anche in direzione opposta: Y+Z-->X vuol dire " unire i due costituenti Y e Z in una frase
X".

Questa operazione, detta merge, assieme all'operazione move costituisce la coppia di regole fondamentali
della struttura in costituenti.

In sintassi è utile vedere le regole come corrispondenti alle successive ramificazioni di un indicatore
sintagmatico: La prima ramificazione di un nodo F (frase) è in SN (sintagma nominale) e SV (sintagma
verbale), da cui la regola F-->SN+SV, che si legge " riscrivi la frase come sintagma nominale più sintagma
verbale".

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REGOLE RICORSIVE. Una regola è ricorsiva, cioè si ripete al suo interno, quando a destra della freccetta è
contenuto di nuovo il simbolo della categoria che rappresenta l'entrata della regola (la parte a sinistra della
freccia). Es. SN-->SN+Sprep (riscrivi il sintagma nominale come sintagma nominale più sintagma
preposizionale): "Il maglione di Gianni", "Un uovo di struzzo".

Le regole ricorsive consentono di formare costrutti molto complessi, dotati di un alto livello di incassatura,
cioè la presenza di elementi dello stesso livello inseriti gli uni dentro gli altri (es. il cappello di paglia di
Firenze della figlia di mia sorella). Queste regole rendono la grammatica molto potente, cioè efficace nel
descrivere i fenomeni linguistici.

REGOLE CONTESTUALI. Vi sono delle convenzioni da tenere presenti nella lettura e comprensione delle
regole:

1. Le regole che contengono una barra obliqua / sono regole contestuali, applicabili solo nei contesti
specificati da quanto formalizzato dopo la barra; la linea orizzontale _____ indica il contesto locale, cioè la
posizione in cui si trova la categoria interessata dalla regola, mentre le specificazioni riportate prima e/o
dopo la linea orizzontale indicano le caratteristiche che gli elementi collocati prima e/o dopo questa
posizione devono possedere perché la regola si possa applicare. V-->legge/[+Um] è una regola contestuale
perché contiene la barra obliqua / e si legge "riscrivi il verbo come 'legge' nel contesto (indicato dalla barra
orizzontale ____) in cui V sia preceduto da un elemento contenente la proprietà [+Umano] (indichi cioè un
essere umano)".

REGOLE E TRATTI. Nelle regole possono essere espressi, quando necessari, anche i tratti, indicati tra
parentesi quadra, che sono proprietà rilevanti per la grammatica. I tratti possono essere morfologici o
sintattici (indicare cioè caratteristiche morfosintattiche degli elementi,, ad es. [+Masch.] che vale "di genere
maschile") o semantici (che indicano proprietà inerenti al significato dell'elemento, ad es- [+Um.], che vale
"essere umano"). Tutti assieme, i tratti costituiscono le sottocategorizzazioni che restringono la selezione,
specificando quali elementi della classe designata dal simbolo di categoria sono combinabili con un
determinato altro elemento.

INTERPRETAZIONE DELLA FRASE. In una lingua ogni frase ha il suo indicatore sintagmatico che ne
rappresenta la struttura e che ne determina l'interpretazione. Ci sono però frasi che ammettono
interpretazioni diverse, pur avendo la stessa forma. Es. "L'interpretazione di Gramsci era sbagliata" può
voler dire tanto che Gramsci ha sbagliato ad interpretare qualcosa quanto che qualcuno ha sbagliato ad
interpretare il pensiero di Gramsci. Allo stesso modo si possono avere frasi con struttura sintagmatica
diversa ma con la medesima interpretazione: es. "A Lucia piacciono i gatti/Lucia ama i gatti". Per poter
assegnare biunivocamente indicatori sintagmatici a frasi è stata quindi introdotta la distinzione fra struttura
superficiale e struttura profonda.

STRUTTURA SUPERFICIALE: è la forma sintattica della frase, così come viene prodotta è rappresentata dagli
indicatori sintagmatici.

STRUTTURA PROFONDA: è l'organizzazione strutturale astratta che sta dietro la frase e rappresenta gli
effettivi rapporti semantici e sintattici che ne danno l'interpretazione. È il luogo astratto in cui si trovano
tutti gli elementi necessari ad interpretare correttamente la frase.

La frase "L'interpretazione di Gramsci" avrà due strutture profonde, una in cui Gramsci sia oggetto e una in
cui Gramsci sia soggetto o meglio, dato che in struttura profonda usiamo i ruoli semantici, abbiamo una

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struttura in cui Gramsci è sperimentatore (chi prova uno stato/processo psicologico) o agente (chi provoca
ciò che accade) e che da conto dell'interpretazione in base alla quale è Gramsci in persona ad interpretare
in modo sbagliato un contenuto, ed una seconda struttura in cui Gramsci è il paziente (chi subisce l'azione),
che dà conto dell'interpretazione in base alla quale qualcuno interpreta erroneamente il pensiero di
Gramsci.

La struttura profonda è quella in cui sono pertinenti i ruoli semantici, mentre la struttura superficiale è
quella in cui sono pertinenti le funzioni sintattiche. Nella grammatica generativa la struttura delle frasi è
rappresentata mediante alberi più complessi, che raggiungono un maggiore livello di astrazione attraverso
l'introduzione di nuove categorie.

TESTE FUNZIONALI. Fungono da testa del sintagma in aggiunta alle teste lessicali V (verbo), N (nome), Prep.,
Agg., Avv. e Det. (determinante) e sono: SFless (sintagma della flessione), che rende conto della flessione
del predicato verbale, e SComp (sintagma del complementatore). Nelle frasi "Luisa mangia sempre mele" e
"Luisa ha sempre mangiato mele" l'avverbio "sempre" si trova dopo la forma verbale flessa. Ciò significa
che il rapporto fra verbo e sintagma nominale è dominato dalla flessione, e quindi è necessario il nodo
SFless per concretizzare la frase rendendola attuale nel tempo (il nodo SFless è chiamato anche ST,
sintagma del tempo). SFless è il morfema autonomo della flessione del verbo (es. in ha mangiato, Fless è
“ha”), è un sintagma verbale con verbo flesso in tal modo non si nomina SV ma SFless finche Fless non
diviene un ramo autonomo, lasciando all’altra parte di verbo il nome di SV. Il motivo principale per il quale
non si considera SFless come SV è che con Fless si dà conto del fatto che tra Fless e V possono esserci altri
costituenti come ad esempio Avv.

COMP è il complementatore, ovvero l’elemento generale che indica ogni elemento che introduce una frase
subordinata (siano esse congiunzioni o preposizioni). Se è testa di un sintagma, quel sintagma è SComp.

Dato che SFless rappresenta un verbo sempre e comunque flesso, a ripetersi saranno gli elementi che
flettono il verbo e il verbo stesso, che convenzionalmente verrà posto all’infinito. Dato che la flessione del
verbo è un'operazione temporalizzante, è per questo che SFless si sfalda e viene ripetuto sia in una
posizione che temporalizzi tutto (dove è originariamente posto) sua che fletta o venga flesso o che abbia un
oggetto (in basso nell’albero). Su tali basi, un diagramma ad albero di grammatica generativa sarà così:

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La struttura astratta generale di una frase è vista dalla grammatica generativa come formata da tre campi:
SComp, SFless e SV, ognuno dotato di diversi sottolivelli ed ognuno deputato ad esprimere valori ad aspetti
diversi nella generazione e nell'interpretazione semantica di una frase. SV ha una testa lessicale ed è il
campo in cui si collocano le entrate lessicali selezionate per la frase (è l'interfaccia fra la sintassi e la
semantica); SFless ha una testa funzionale ed è il campo in cui si collocano gli elementi che attualizzano la
frase nel tempo, ognuno con le sue specifiche marcature (è l'interfaccia tra la sintassi e la morfologia);
SComp, con la testa funzionale, è il campo che accoglie gli elementi che indicano il modo in cui la frase va
intesa (è l'interfaccia tra la sintassi e la pragmatica).

MINIMALISMO. La configurazione attuale della grammatica generativa, detta minimalismo, è una sintassi
frasale rigorosamente basata sulle entità "frase" e "sintagma", autonome dalla realtà esterna ed autonome
tanto dal parlante quanto dall'uso.

In opposizione a questa impostazione abbiamo grammatiche basate sulla nozione di costruzione,


riconducibili a teorie cognitive e funzionaliste del linguaggio.

LINGUISTICA COGNITIVA. Secondo la linguistica cognitiva, non esiste una competenza linguistica a sé
stante; la produzione verbale avviene secondo gli stessi principi e meccanismi che la mente umana adopera
in altri comportamenti. La lingua traduce sotto forma di simboli le concettualizzazioni fondamentali
dell'agire umano (es. muoversi nello spazio), e va descritta come parte integrante di una struttura
psicologica unitaria. Le strutture grammaticali sono quindi strutture semantiche, basate sull'esperienza
umana. È una concezione mentalista e cognitivista, opposta a quella di Chomsky, per il quale la capacità
linguistica è altamente specifica, un organo mentale indipendente, dotato di una strutturazione autonoma
e con strutture cognitive in parte proprie.

Secondo queste grammatiche, l'unità primaria è la costruzione, non il sintagma. La costruzione è ogni
combinazione di parole dotata di una strutturazione interna che compare frequentemente nell'uso e reca
un particolare valore semantico e pragmatico. La costruzione è una combinazione di elementi memorizzata
tale e quale dal parlante, a cui spesso viene assegnata una funzione convenzionale, non ricavabile
direttamente dagli aspetti semantici e formali dei suoi componenti (es. "per poco non cadevo").

4.5 OLTRE LA FRASE. LE FRASI COMPLESSE.


Il raggio d'azione della sintassi non si limita alla frase. Spesso le frasi si combinano tra di loro per formare
frasi complesse o periodi. Il sistema linguistico governa anche i rapporti tra le frasi. A questo proposito è
fondamentale la distinzione fra coordinazione e subordinazione.

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COORDINAZIONE si ha quando diverse preposizioni vengono unite senza che venga stabilito fra di esse un
rapporto di dipendenza (sono tutte allo stesso livello gerarchico); SUBORDINAZIONE si ha quando si
individua, tra le preposizioni unite, una preposizione come gerarchicamente superiore alle altre, stabilendo
così un rapporto di dipendenza tra le preposizioni.

I rapporti di coordinazione/subordinazione sono realizzati dai connettivi o connettori. Connettori della


coordinazione sono E, O, MA ecc. (o anche la semplice giustapposizione di frasi); connettori della
subordinazione sono QUANDO, BENCHE', MENTRE, PERCHE' ecc. oppure modi verbali non finiti (infinito,
gerundio, participio passato ecc.).

Le subordinate sono esplicite quando contengono un verbo di modo finito, sono invece implicite quando il
verbo è ai modi infiniti (infinito, gerundio, participio).

TIPI DI FRASI SUBORDINATE. Abbiamo tre tipi di frasi subordinate, ognuno definito dal modo strutturale in
cui si unisce alla frase principale.

1. FRASE AVVERBIALE (o circostanziale): è una frase subordinata che modifica l'intera frase da cui dipende
(es. esco, benché piova). A questa tipologia appartengono le subordinate causali, concessive, temporali,
ipotetiche e finali.

2. FRASE COMPLETIVA (o argomentale): è una frase subordinata che sostituisce un costituente nominale
maggiore (soggetto, oggetto o predicato nominale), riempiendo una valenza del predicato verbale (es.
"penso a come risolvere questo problema"). Appartengono a questa tipologia le subordinate soggettive e
oggettive e le interrogative indirette.

3. FRASE RELATIVA: È una frase subordinata che modifica un costituente nominale della frase ed ha sempre
come testa un nome oppure un pronome (es. "non ho più visto lo studente a cui ho prestato il mio libro").

FRASI COMPLESSE: l'unione di una frase principale con una frase subordinata dà luogo ad una frase
complessa.

La subordinazione è un prodotto della ricorsività della lingua, che giustifica l'inserimento di frasi all'interno
di altre frasi.

4.5.1. I testi.
Al di sopra delle frasi abbiamo il testo, che si può definire come una combinazione di frasi unita ad un
contesto nel quale il testo funziona come unità comunicativa. Per contesto intendiamo sia il contesto
linguistico, cioè la parte di comunicazione che precede e segue il testo, sia il contesto extralinguistico (o
cotesto), cioè la situazione specifica in cui è prodotto il testo. La linguistica testuale è la branca della
linguistica che si occupa dell'analisi del testo, spiegando elementi e fenomeni della struttura sintattica della
frase di cui la sintassi della frase non riesce a dare conto.

Un esempio è quello della pronominalizzazione, cioè l'impiego ed il comportamento dei pronomi,


specialmente quelli personali. Nel testo " il cane abbaia. Maria si affaccia alla finestra. Lo vede tutto
infuriato..." è impossibile spiegare l'interpretazione del pronome LO rimanendo all'interno della struttura
delle singole frasi: Come dobbiamo fare infatti riferimento alle frasi precedenti per capire che il pronome
"lo" riprende il nome "cane" della prima frase e lo rappresenta nella struttura della terza frase. Questo
fenomeno è detto anafora e si riferisce ad elementi per la cui interpretazione è necessario far riferimento al
contesto linguistico precedente; catafora e invece il fenomeno simmetrico e contrario, in cui bisogna fare

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riferimento al contesto linguistico seguente per interpretare un elemento. Anafora e catafora individuano
elementi coreferenti, che cioè rimandano ad una stessa identità designata.

Oltre al valore anaforico e cataforico, i pronomi hanno anche valore deittico quando, per la loro
interpretazione, è necessario far riferimento al contesto situazionale. La deissi è la proprietà di alcuni segni
linguistici indicare cose o elementi presenti nella situazione extralinguistica, specialmente in termini di
spazio e tempo, in modo tale che l'interpretazione specifica di ciò a cui il segno si riferisce dipenda
interamente dalla situazione in cui il segno è enunciato. Nella frase "tu eri lì ieri" non è possibile identificare
chi sia "tu", quale luogo sia "lì" e che giorno specifico sia "ieri" se non facendo riferimento ad uno specifico
contesto situazionale.

Abbiamo tre tipi principali di deissi:

1. DEISSI PERSONALE, che codifica il riferimento al parlante, all'interlocutore e alle terze persone e che ha
come centro il parlante stesso (pronomi personali, persone verbali, possessivi);

2. DEISSI SPAZIALE, che identifica le posizioni delle entità coinvolte rispetto al luogo in cui si trovano i
partecipanti all'interazione (dimostrativi, avverbi di luogo ecc.). Si dividono in deittici prossimali, che
indicano la vicinanza (questo, qui, venire ecc.) e deittici distali, che indicano la distanza (quello, là, andare
ecc.).

3. DEISSI TEMPORALE, che specifica la localizzazione degli eventi nel tempo rispetto al momento
dell'enunciazione (avverbi ed espressioni di tempo, tempi verbali ecc.).

4. DEISSI SOCIALE è un tipo di deissi derivato per estensione ed è usato per definire gli elementi, detti
allocativi, usati per Codificare le relazioni sociali tra i partecipanti all'interazione (es. tu e Lei - forma di
cortesia).

Molti deittici, come i pronomi personali o i dimostrativi, possono essere sia cataforici che anaforici.

ELLISSI. Un altro fenomeno impossibile da spiegare rimanendo nell'ambito della singola frase è l'ellissi, cioè
l'omissione di elementi indispensabili per la comprensione della frase ma che possono comunque essere
recuperati facilmente dal contesto linguistico (es. Dove vai? A casa)

BOX 4.4 FONDAMENTI DELLA TEORIA GENERATIVA.


Il generativismo concepisce il linguaggio verbale umano come un sistema cognitivo specifico del genere
umano, costituito da un insieme di conoscenze mentali interiorizzate che consente a un parlante nativo
ideale (quindi non soggetto alle limitazioni e ai disturbi che si verificano quando si usa il concretamente la
lingua) di produrre messaggi verbali in una data lingua. Questo insieme di conoscenze è chiamato
competenza e ha le seguenti caratteristiche.

1. INTERNA alla mente umana: l'uso concreto delle conoscenze linguistiche (esecuzione) e gli aspetti storici,
culturali e sociali dei fenomeni linguistici non sono considerati pertinenti;

2. INCONSCIA (o implicita): un parlante nativo è sempre in grado di decidere se una data produzione
linguistica è accettabile o no nella propria lingua, anche se non è capace di formulare un principio generale
per giustificare l'accettazione o il rifiuto di quella specifica produzione (non sai il perché, ma se la sa se la
produzione appartiene o no alla propria lingua);

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3. INDIVIDUALE: è l'insieme delle conoscenze linguistiche interiorizzate dal singolo parlante, non ha niente a
che vedere con l'insieme delle conoscenze linguistiche socialmente condivise che rendono un sistema
linguistico la lingua di una comunità. Da ciò discende che l'intercomprensione tra parlanti è possibile solo
quando le competenze individuali dei singoli individui sono simili;

4. INNATA: appartiene al corredo genetico della specie umana. L'acquisizione del linguaggio avviene in
primo luogo attraverso una capacità linguistica innata trasmessa per via biologica.

La grammatica generativa vuole costruire una teoria della competenza, cioè esplicitare e formalizzare per
mezzo di regole e principi l'insieme di "intuizioni" che costituiscono la conoscenza implicita di un parlante
riguardo la propria lingua.

Bisogna innanzitutto decidere, partendo dal giudizio dei parlanti nativi, quali frasi siano grammaticali e quali
no in una lingua. Sì badi bene che la teoria generativa non vuole definire esplicitamente la grammatica di
una lingua, ma vuole definire le strutture astratte del sistema linguistico o sedute da un parlante nativo; in
altri termini, vuole formalizzare le strutture che un parlante nativo ha la capacità mentale di costruire,
indipendentemente dal fatto che vengano o meno realizzate a livello di esecuzione. Questa è la capacità
che permette ad un parlante nativo di generare e comprendere frasi mai prodotte prima, ed è per questo
che la grammatica generativa non si occupa delle frasi realmente prodotte: a fronte delle infinite frasi
realizzabili, quelle effettivamente prodotte sono una minoranza.

La teoria generativa vuole insomma costruire una grammatica universale, definendo esplicitamente
l'insieme delle capacità linguistiche innate che costituiscono la facoltà di linguaggio degli uomini.

La teoria dei principi e dei parametri qui svolge un ruolo rilevante. Secondo questa teoria, tutte le lingue del
mondo condividono principi universali e differiscono fra di loro per alcuni parametri. Per esempio, turco e
di italiano rispettano il principio universale in base al quale "tutti i sintagmi hanno una testa", ma
differiscono perché applicano parametri diversi alla posizione della testa: X compl (testa prima del
complemento) in italiano, compl X (testa dopo il complemento) in turco.

Per la teoria generativa il linguaggio si apprende per una capacità innata, mentre per il comportamentismo
la conoscenza avviene come risposta agli stimoli dell'ambiente, per mezzo di un processo analitico
dell'esperienza basato su induzione, associazione e generalizzazione. Per la concezione mentalistica invece
l'individuo dispone geneticamente non solo di procedimenti generali di analisi dell'esperienza, ma anche di
una capacità innata di apprendimento linguistico che gli permette di costruire un sistema astratto di
conoscenze linguistiche partendo dai dati a cui è esposto. L'apprendimento linguistico e comunque legato
all'esperienza linguistica: un bambino che non è esposto a nessuna lingua non impara a parlare.

Il principale argomento addotto a favore della teoria ambientalista è quello della povertà dello stimolo:
l'esperienza linguistica (stimolo) da sola non basta a costruire la competenza di un parlante nativo perché è
frammentaria e limitata. Ciononostante, una volta acquisita la propria lingua materna, un bambino è
capace (salvo patologie) di formulare frasi ben formate e di produrre e comprendere un numero infinito di
frasi mai prodotte e sentite prima. E' questa capacità innata di costruire un sistema astratto di conoscenze
linguistiche che la teoria generativa vuole arrivare a definire esplicitamente.

La grammatica universale definisce lo stato iniziale della facoltà di linguaggio umana, poi è l'esperienza
linguistica che attiva questa capacità innata fissandone i parametri su determinati valori, che sono quelli
della lingua appresa. A loro volta questi parametri, una volta fissati, consentono al parlante di acquisire la

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grammatica della propria lingua senza sforzo e in tenerissima età. Dallo stato iniziale (facoltà di linguaggio
generale) si passa quindi allo stato stabile (lingua madre).

Capitolo quinto: semantica, lessico e pragmatica.


5.1 Il significato.
È la parte della linguistica che si occupa del piano del significato. Il significato non è visibile ed è il punto di
incontro tra la lingua, la mente e il mondo esterno. Per questo motivo la definizione stessa di significato è
molto meno chiara.

Definire ed analizzare il significato è estremamente difficile, esistono due modi fondamentali di concepirlo:
La concezione referenziale o concettuale, in cui il significato è visto come un concetto, un'immagine
mentale creata dalla nostra mente che corrisponde a qualcosa che esiste al di fuori della lingua, e la
concezione operazionale secondo la quale il significato è funzione dell'uso che si fa dei segni. In altre parole
il significato è ciò che accomuna i contesti di impiego di un segno e ne permette l'uso appropriato.

La concezione più usata è quella che considera il significato come concetto, operazione mentale codificata
o codificabile nel sistema linguistico.

Definiamo quindi il significato come informazione veicolata da un segno o da un elemento linguistico.


Bisogna però vedere quali tipi di informazione possono veicolare i segni linguistici: La distinzione più
comune è quella fra il significato denotativo detto anche concettuale ed il significato connotativo detto
anche stilistico oppure espressivo. Il significato denotativo è quello inteso nel senso oggettivo di ciò che il
segno descrive e rappresenta, mentre il significato connotativo è invece il significato per così dire indotto,
soggettivo. Gatto, micio e felino domestico hanno uguale significato denotativo, ma connotazioni diverse:
micio è connotato positivamente in senso affettivo mentre felino domestico è connotato come neutro.

Un'altra distinzione rilevante è quella fra significato linguistico e significato sociale. Significato linguistico è il
significato che un termine ha in quanto elemento di un sistema linguistico che codifica una
rappresentazione mentale; significato sociale è invece il significato che un segno può avere in relazione ai
rapporti fra i parlanti. Un'altra distinzione è quella fra significato lessicale e significato grammaticale: hanno
significato lessicale i termini che rappresentano oggetti concreti o astratti, entità, fatti o concetti del mondo
esterno; hanno invece significato grammaticale i termini che rappresentano concetti o rapporti interni al
sistema linguistico, alle categorie che questo prevede o alle strutture a cui da luogo (ad esempio benché - è
una congiunzione concessiva, io - prima persona singolare ecc.).

I termini dal significato lessicale vengono anche definiti parole piene mentre quelli dal significato
grammaticale vengono definiti parole vuote.

Bisogna infine tenere distinto il significato vero e proprio in tutti i suoi aspetti da quella che si usa chiamare
enciclopedia: Il significato fa parte della lingua, è una delle sue facce, e non va confuso con la conoscenza
del mondo esterno che noi abbiamo in quanto esseri viventi in un determinato ambiente e in una
determinata cultura.

Il significato fa parte del sapere linguistico, l'enciclopedia fa invece parte del sapere in senso generale.
Anche qui i confini sono spesso difficili da stabilire. La distinzione è motivata dalla constatazione che, se non

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tenessimo separato il significato dalle conoscenze enciclopediche, occuparsi di semantica equivarrebbe a
descrivere il mondo intero.

Ancora, un'altra distinzione è quella fra significato e senso, dove per senso si intende il significato
contestuale, la specificazione che il contenuto di un termine assume ogni volta che viene effettivamente
usato in una produzione linguistica in un certo contesto ( ad esempio la parola finestra indica un'apertura in
una parete, ma in ambito informatico indica i riquadri che si aprono sullo schermo di un computer).

Oltre alle opposizioni lessicale/grammaticale e referenziale/sociale vi sono altre opposizioni che


contribuiscono a definire il significato, ad esempio astratto/concreto, relazionale/non relazionale,
valutativo/non valutativo ecc. Pazienza e buono sono entrambi nomi astratti ma pazienza non è valutativo
come buono.

I nomi propri sono etichette che designano un individuo e non una classe e che hanno solo estensione, cioè
l'insieme delle proprietà che costituiscono il concetto designato da un termine, e non intensione, cioè
l'insieme degli individui/oggetti a cui il termine si può applicare. L'intensione di cane è l'insieme di proprietà
che costituiscono la caninità, l'estensione di cane è data da tutti i membri della classe dei cani, l'insieme di
tutti gli individui a cui è possibile riferirsi adoperando il termine cane. Il nome proprio Antonio ammette più
referenti, ciascuno dei quali però è unico: quando dico Antonio mi riferisco soltanto ad un determinato
Antonio, e non a tutti i potenziali esseri umani di nome Antonio.

5.2 il lessico.
Anche per il livello semantico abbiamo un unità d'analisi basilare: il lessema. Il lessema corrisponde ad una
parola considerata dal punto di vista del significato, senza riferimento ai valori codificati dalla morfologia
flessionale. L'insieme dei lessemi di una lingua costituisce il suo lessico ed è l'oggetto di studio della
lessicologia. La lessicografia invece è lo studio dei metodi e della tecnica di composizione di vocabolari e
dizionari.

Dal punto di vista del linguista, il lessico presenta aspetti contrastanti: da un lato è uno dei due componenti
essenziali di una lingua (senza lessico non esisterebbe una lingua), dall'altro è lo strato più esterno di un
sistema linguistico, la parte visibile più esposta alle circostanze extralinguistiche e la più
condizionata/condizionabile da fattori estranei all'organizzazione del sistema. Da questo punto di vista, il
lessico è anche il livello di analisi meno linguistico è relativamente meno interessante per l'analisi del
funzionamento del sistema linguistico.

Inoltre, il lessico è lo strato della lingua più ampio e meno strutturato, il più caotico, composto da elementi
eterogenei in quantità sempre variabile. La numerosità e l'eterogeneità del lessico sono dovuti al fatto che
esso riflette la realtà esterna e la incamera codificandola. I comuni dizionari contengono fra i 90.000 ed i
130.000 lessemi o meglio lemmi, termine tecnico usato per designare le entrate del dizionario. Il lessico
posseduto almeno dal punto di vista della competenza passiva, cioè a livello di comprensione e non
necessariamente di produzione, da parte di un parlante nativo colto si aggira mediamente intorno alle
40/50.000 unità. Naturalmente non tutte le unità lessicali sono allo stesso livello: le parole del lessico si
dividono in classi a seconda della frequenza d'uso e della disponibilità, che può essere immediata o meno.

In termini di frequenza nel lessico di una lingua vi è un gruppo non numeroso di lessemi che occorrono
molte volte (hanno quindi una frequenza molto alta), contrapposto al resto dei lessemi che invece occorre
nell'uso poche volte, con una frequenza rara o ridotta. Associando alla frequenza la disponibilità, cioè il
fatto che i lessemi siano di valore comune, oggetti e concetti presenti comunemente nella vita quotidiana,
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avremo il nucleo centrale del lessico, detto vocabolario di base da Tullio de Mauro, il suo ideatore. Per
l'italiano il vocabolario di base è costituito da circa 7.000 unità fra cui 2.000 lessemi di altissima frequenza,
ed altri lessemi di frequenza relativamente alta oppure di alta disponibilità pratica.

5.3 Rapporti di significato tra lessemi.


Il lessico è un insieme aperto, numeroso ed eterogeneo. Primo compito della semantica è quello di cercare
di ordinare questo insieme disordinato cercando relazioni di significato fra i vari lessemi.

5.3.1 Omonimia e polisemia.


Si considerano omonimi i lessemi che hanno lo stesso significante ma a cui corrispondono significati diversi,
non imparentati fra di loro e non derivabili l'uno dall'altro (es. riso, l'atto di ridere, e riso, il cereale). Se due
parole si scrivono allo stesso modo ma hanno pronuncia differente sono omografi es. pésca, l'atto di
pescare, e pèsca il frutto) mentre sono definite omofoni le parole identiche in tutto e per tutto (es. pianta,
albero, e pianta, mappa).

Se i diversi significati associati ad uno stesso significante sono fra di loro imparentati e derivati/derivabili
l'uno dall'altro abbiamo invece la polisemia. In questo caso non possiamo parlare di lessemi formalmente
uguali che hanno un significato diverso, ma parliamo di un unico lessema che ha più significati: è appunto
un lessema polisemico.

Spesso gli omonimi non appartengono alla stessa categoria lessicale e di solito hanno anche una diversa
origine etimologica.

L'eniantiosemia è un caso molto particolare di polisemia: Si ha quando significati diversi dello stesso
termine sono tra di loro in un rapporto di opposizione (es. spuntare può voler dire sia "mettere la punta" - è
spuntata la lattuga nell'orto, sia "togliere la punta" - spunta i carciofi e mettili a lessare).

5.3.2 Rapporti di similarità.


Alcuni rapporti di significato si basano sulla compatibilità o vicinanza semantica fra i lessemi.

È il caso della sinonimia, lessemi diversi che hanno lo stesso significato (es. urlare/gridare,
iniziare/cominciare ecc.).

In realtà, se i sinonimi avessero tutti lo stesso significato sarebbero perfettamente intercambiabili in tutti i
possibili contesti, non è vero in quanto spesso la sostituzione di un termine con un suo sinonimo crea
sfumature diverse di significato o implica una diversa varietà di lingua (es. raffreddore/rinite, in cui il
secondo termine è proprio della medicina, o padre/papà, in cui il secondo termine ha un valore affettivo
non presente nel primo).

Un altro tipo di somiglianza semantica è l'iponimia, in cui il significato del lessema rientra in un significato
più ampio, generale, rappresentato da un altro lessema: "armadio" è iponimo di "mobile", che a sua volta è
iperonimo rispetto ad "armadio", oppure "liceale" che è iponimo di "studente" (tutti i liceali sono studenti,
non tutti gli studenti sono liceali, vi sono studenti degli istituti tecnici e professionali).

I rapporti iponimici costituiscono delle serie che percorrono il lessico e che vengono definite catene
iponimiche, catene in cui ogni termine è iponimo diretto di quello successivo (es. siamese - gatto - felino -
mammifero - animale). Questa catena può essere ulteriormente espansa verso destra, cioè verso l'alto, o
verso sinistra, cioè verso il basso. Il miglior compromesso fra la quantità di informazione e la necessità di
specificazione

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Da non confondere con l'iponimia è la meronimia, il rapporto che si ha fra i termini che designano la parte
specifica di un tutto il termine che invece designa il tutto: braccio, piede, testa sono meronimi di corpo
umano, mese è meronimo di anno.

Sinonimia e iponimia sono rapporti di carattere paradigmatico, implicano cioè una scelta nell'ambito di un
paradigma: l'elemento che compare in quella determinata posizione esclude tutti gli altri che potrebbero
potenzialmente apparire nello stesso punto. Esistono però anche rapporti di compatibilità semantica
sull'asse sintagmatico, quello cioè in cui gli elementi entrano in relazione fra di loro. Uno di questi è la
solidarietà semantica o solidarietà lessicale, baciata sulla cooccorrenza obbligatoria di un lessema con un
altro, nel senso che un termine è dipendente dall'altro e la possibilità di essere usato in combinazione con
altri lessemi è molto ridotta,se non assente (es. miagolare/gatto, leccare/lingua, raffermo/pane: solo il
gatto miagola, si può leccare solo con la lingua, solo il pane può essere raffermo).

Rapporti meno semanticamente determinati fra lessemi ma ugualmente basati su cooccorrenze regolari nel
discorso vengono chiamati collocazioni (bandire/concorso, rassegnare/dimissioni ecc.). La differenza è che
il rapporto di solidarietà è basato sulle restrizioni semantiche tipiche del sistema linguistico, mentre il
rapporto di collocazione riflette convenzioni tipiche dell'uso della singola lingua. Non c'è nessun motivo
interno alla lingua per il quale in italiano si debba dire "spegnere la luce".

5.3.3 Rapporti di opposizione.


Esistono relazioni semantiche in cui un lessema non può essere sostituito perché il significato è opposto.
Uno di questi rapporti di incompatibilità semantica è l'antonimia, in cui due lessemi sono di significato
contrario in quanto designano i due estremi opposti di una dimensione graduale (es. alto/basso,
giovane/vecchio, buono/cattivo ecc.). Fra gli antonimi esistono gradini intermedi lessicalizzabili: si può
essere abbastanza giovani oppure molto vecchi.

Altre relazioni di incompatibilità sono la complementarità, in cui due lessemi sono uno la negazione
dell'altro perché condividono lo stesso spazio semantico in due dimensioni opposte (es. vivo/morto,
maschio/femmina) e l'inversione, in cui due lessemi di significato relazionale esprimono la stessa relazione
semantica vista da due direzioni opposte (es. sotto/sopra, marito/moglie, comprare/vendere).

5.3.4 Insiemi lessicali.


È possibile individuare insieme o sottosistemi lessicali, vale a dire gruppi di lessemi che costituiscono dei
complessi organizzati in cui ogni elemento è unito agli altri da rapporti di significato. Il concetto più
conosciuto è quello di campo semantico, l'insieme dei lessemi che coprono tutte le sezioni di un
determinato spazio semantico. Tecnicamente campo semantico è l'insieme dei lessemi che hanno tutti uno
stesso iperonimo immediato (es. il campo semantico degli aggettivi di età o i termini di colore). Una nazione
più ampia rispetto a quella di campo semantico è la nozione di sfera semantica, un insieme di lessemi che
hanno in comune il riferimento a un certo ambito semantico. Si parlerà quindi di sfera semantica per
l'insieme delle parole della moda o della musica. Per loro natura, le sfere semantiche sono in parziale
sovrapposizione fra di loro e contengono sempre numerosissimi termini. Famiglia semantica invece è un
insieme di lessemi imparentati nel significato o anche nel significante: si tratta quindi delle parole derivate
da una stessa radice lessicale e quindi dalla stessa base etimologica. Gerarchia semantica invece è un
insieme in cui ogni termine è una parte determinata del termine che nell'insieme lo segue in una
determinata scala di misura (es. le unità di misura del tempo - secondo, minuto, ora, giorno, mese, anno,
lustro, secolo - formano una gerarchia semantica).

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Tutti i generi di rapporti fin qui esaminati valgono per il significato linguistico denotativo proprio dei
termini: molti lessemi possono assumere significati traslati, che si allontanano dal normale significato
primario. I processi su cui si basano questi spostamenti di significato sono la metafora, fondata sulla
somiglianza concettuale (es. coniglio = persona molto paurosa) e la metonimia, basata sulla continuità
concettuale (es. bottiglia = quantità di liquido contenuto in una bottiglia/ho bevuto due bottiglie di
Barbera).

5.4 L'analisi del significato.


L'analisi del significato dei lessemi pone problemi pressoché insolubili. Il metodo più utilizzato, anche se
non del tutto soddisfacente, è quello dell' analisi componenziale, basato su un metodo simile alla
scomposizione dei numeri in fattori primi ed analogo a quello dell'analisi dei fonemi in tratti distintivi.

Si tratta infatti di scomporre il significato dei lessemi in unità di significato più piccole, elementari e
generali, tali da essere ricorrenti nel costituire il significato di più lessemi. Ciò avviene per confronto gli uni
con gli altri, cercando di cogliere in cosa differisca il loro rispettivo significato.

Prendiamo ad esempio alcuni lessemi del campo semantico degli esseri umani: uomo, donna, bambino,
bambina, e cerchiamo di esprimere che cosa hanno in comune di significato e che cosa invece li distingue
l'uomo dall'altro. Il significato comune di tutti e quattro i termini è quello di essere umano. Per vedere cosa
li differenzia, confrontiamoli a coppie: uomo/donna sono differenziati per il genere, uomo/bambino per
l'età e via dicendo fino ad arrivare ad una matrice come quella seguente:

/UMANO/ /ADULTO/ /MASCHIO/


"uomo" + + +
"donna" + + -
"bambino" + - +
"bambina" + - -

In maiuscolo fra barre sono indicate le proprietà di significato necessarie e sufficienti per dar conto del
significato di ognuno dei quattro lessemi. Esse costituiscono le proprietà semantiche elementari (o
componenti semantici) che combinandosi simultaneamente danno luogo al significato dei lessemi. Secondo
questo metodo, è analizzabile e rappresentabile come un fascio di componenti semantici che si realizzano
simultaneamente.

Gli usi metaforici e i traslati semantici possono essere interpretati come neutralizzazione o abbandono, in
un determinato contesto, di uno o più dei tratti che caratterizzano il significato denotativo di un termine. In
una metafora come "d'inverno il bosco si addormenta" il tratto /-ANIMATO/ di bosco viene annullato per
rendere il lessema compatibile con il tratto /+ANIMATO/ richiesto dalle restrizioni semantiche sul sintagma
nominale soggetto di un verbo come addormentarsi.

Questo tipo di analisi è economica perché grazie ad un numero relativamente ristretto di tratti si riesce ad
analizzare il significato di un numero molto alto di lessemi. Molti di questi tratti semantici sono
probabilmente universali, ritornano nel significato di moltissimi lessemi in tutte le lingue.

Nella descrizione componenziale di un lessema è sufficiente ed economico rappresentare solo il


componente che implica quelli gerarchicamente più ampi: Nel caso di bambino ad esempio basta
rappresentare il tratto /+UMANO/, che contiene tutti quelli precedenti.

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I tratti semantici in genere sono binari, ammettono cioè solo i due valori +/-, ma possono a volte utilizzare
anche un tratto a tre valori /PENETRABILE/:1, 2 e 3 rappresentano tre diversi gradi di penetrabilità,
corrispondenti rispettivamente a 1. sostanze solide, con un grado minimo di penetrabilità; 2. sostanze
liquide, con un grado intermedio di penetrabilità; 3. sostanze gassose, con un grado massimo di
penetrabilità.

Non bisogna equiparare o confondere i tratti semantici con i lessemi omonimi: i nomi dei componenti
semantici sono termini della metalingua, quindi entità astratte che potrebbero essere rappresentate anche
mediante simboli convenzionali. /UMANO/ non è il lessema "umano" ma è una proprietà semantica
elementare che esprime la caratteristica di "umanità".

L'analisi componenziale funziona abbastanza bene su sistemi lessicali delimitati che indicano cose e azioni
concrete. Diventa invece problematica quando si vogliono analizzare termini astratti, o quando la quantità
di lessico da analizzare aumenta, in quanto o non si riescono più a formulare tratti specifici o viceversa
questi tratti diventano così numerosi da vanificare l'intento principale del metodo, che è descrivere il
significato dei lessemi utilizzando un numero relativamente ridotto di elementi minimi di significato.

Ciononostante i tratti semantici, per lo meno quelli fondamentali, che dividono e oppongono grandi classi
di elementi lessicali mantengono la loro importanza nella linguistica come strumenti di
sottocategorizzazione del significato delle entità lessicali.

5.4.2 Semantica prototipica.


La semantica componenziale concepisce il significato di un lessema come costituito da un insieme di tratti
semantici categorici, tutti necessari e sufficienti a descriverlo. Questo presuppone che una data categoria
sia da intendersi come un'entità 1. definita da proprietà tutte necessarie e sufficienti, 2. delimitata da
confini netti e rigidi e 3. costituita da membri tutti ugualmente rappresentativi di quella categoria. In
contrapposizione a questa visione, a partire dagli anni 70 e basandosi su studi di psicologia cognitiva, si è
diffusa una concezione delle categorie basata su presupposti diversi. Una categoria andrebbe infatti
considerata come un'entità 1. definita sia da un nucleo di proprietà di carattere categorico quindi
necessarie e sufficienti, sia da proprietà di carattere graduale e non essenziali; 2. delimitata da confini
fumati in sovrapposizione con quelli di altre categorie e 3. costituita da membri più tipici ed altri meno
rappresentativi. A questa concezione, nota come teoria dei prototipi, fa riferimento il metodo di
descrizione e analisi del significato denominato semantica prototipica.

In semantica prototipica il significato di un lessema è concepito appunto come un prototipo, che


rappresenta l'immagine mentale immediata che per i parlanti di una determinata cultura e società
corrisponde ad un determinato concetto. Il prototipo occupa il punto focale di un concetto, mentre i
componenti non prototipici si allontanano dal punto focale quanto meno posseggono le caratteristiche del
prototipo. Nell'analisi componenziale il significato di uccello può essere definito da un fascio di tratti come
animale, mammifero, alato, con piume. Ogni membro della categoria uccello è ugualmente
rappresentativo. Nell'analisi prototipica invece il significato di uccello è dato dal concetto di volatile che in
un certo ambiente è una in una certa cultura viene a coincidere con l'immagine prototipica di uccello, ad
esempio passero o piccione. Il significato di uccello contiene tutti i tratti costitutivi del prototipo, e da
questo punto di vista la differenza fra significato lessicale e significato enciclopedico tende ad affievolirsi,
mentre i membri non prototipici della categoria non ne possiedono tutti i tratti costitutivi. In questa
prospettiva i tratti semantici vengono visti come dotati di un diverso potere identificativo e disposti in
ordine di importanza. I componenti semantici dunque non sono più una lista fissa di proprietà tutte

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necessarie e sufficienti per definire il significato di un lessema, diventano invece un insieme di criteri più o
meno importanti per identificare quella categoria. In questa prospettiva i concetti hanno una struttura
basata sulla gradualità e non soltanto sulla categoricità. Quello che la semantica prototipica contesta è
l'esistenza di un insieme chiuso di proprietà tutte discrete che definisce l'intero complesso dei membri di
una categoria. Il concetto di grado di esemplarità è importante nella semantica prototipica. Nella semantica
prototipica i confini delle categorie non sono netti e ben separabili ma sfumati e sovrapponibili: i termini
meno tipici di una categoria sono collocati ai margini e possono essere quindi considerati
contemporaneamente anche membri di un'altra categoria. L'approccio prototipico è servito a correggere
una concezione troppo limitante dell'analisi componenziale, però si trova ad affrontare problemi analoghi
quando deve essere applicata alla descrizione di valutazioni, processi psicologici o concetti astratti in
generale. Il vantaggio è che la concezione prototipica è più corrispondente alla realtà dei fatti specialmente
quando viene usata per definire concetti che raggruppano elementi molto diversi come ad esempio le
categorie della metalingua e della linguistica: è facile per esempio dimostrare che nella categoria delle
parole non tutte hanno le stesse caratteristiche. Alcune presentano comportamenti condivisi da tutti gli
elementi che siamo disposti a considerare parole, altre invece hanno comportamenti particolari.

Nel complesso la semantica lessicale è il settore in cui le conoscenze sono più incerte e i metodi più
problematici.

5.4.3 Cenni di semantica frasale.


Per quanto riguarda le frasi, il significato di una frase è la somma e la combinazione dei significati dei
lessemi che la compongono. Questo però non esaurisce il senso globale di una frase: a questo proposito
dobbiamo distinguere innanzitutto tra frase ed enunciato. L'enunciato è una frase considerata dal punto di
vista del suo impiego concreto in una situazione comunicativa reale. Enunciato quindi è il corrispettivo della
frase nell'uso della lingua, mentre a sua volta la frase è una unità del sistema linguistico.

Fondamentali per interpretare il valore degli enunciati sono i connettivi, fra cui le congiunzioni coordinanti
e subordinanti, i quantificatori e la negazione. A questo proposito è fondamentale la composizionalità del
significato, cioè l'interazione fra i significati dei singoli lessemi che compongono l'enunciato. Sul modo in cui
i parlanti costruiscono e intendono il significato di una frase agiscono principi diversi. J. Pustejovsky ne ha
individuati quattro: il principio della composizione (il significato della frase è la somma dei significati dei
lessemi che la compongono); il principio di cocomposizione (il significato degli argomenti di un verbo
contribuisce a definire il significato di un verbo: nelle frasi "Gianni cuoce la carne" e "Gianni cuoce il pane" il
verbo cuocere indica rispettivamente un'attività che porta a un cambiamento di stato - cuocere la carne - e
un'attività che porta alla produzione di qualcosa che prima non esisteva - cuocere il pane; il principio di
coercizione (è il significato del verbo a condizionare il significato di un suo argomento: nelle frasi "ho
comprato un libro" e "ho iniziato un libro" la parola "libro" assume rispettivamente i significati di "oggetto
fisico" e "testo scritto" e infine il principio di legamento selettivo (in cui un nome seleziona e determina il
valore di un aggettivo dal significato non specifico: Un treno veloce è un treno che si muove rapidamente
mentre un lavoro veloce è un lavoro che si esegue rapidamente).

5.4.4 Elementi di pragmatica.


Aspetto pragmatico del significato è quello che riguarda cosa si fa, cosa si ottiene in un determinato
contesto situazionale attraverso la produzione di un determinato enunciato. Sotto questo aspetto la lingua
è studiata non come un sistema di comunicazione ma come un modo di agire, ed è il campo di azione della
pragmatica linguistica e, più in generale, della filosofia del linguaggio.

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Da questo punto di vista, gli enunciati costituiscono degli atti linguistici articolati in tre distinti livelli.
Produrre un enunciato equivale infatti a compiere contemporaneamente tre atti in uno: 1. Un atto locutivo,
che consiste nel formare in una data lingua una proposizione con la sua struttura fonetica grammaticale e
lessicale; 2. Un atto illocutivo, che consiste nel l'intenzione con la quale e per la quale si produce la frase,
nel valore che si intende attribuire a quella frase; 3. Un atto perlocutivo, che consiste nell' effetto che si
vuole provocare nel destinatario del messaggio, nel risultato ottenibile da un enunciato prodotto in una
determinata situazione.

La frase "chiuderesti la finestra?" ha la struttura fonetica e grammaticale di una frase interrogativa (atto
locutivo), il valore di una richiesta o di un ordine (atto illocutivo) è l'effetto di ottenere che la finestra venga
chiusa (atto perlocutivo).

L'aspetto centrale è l'atto illocutivo, che definisce la natura è il tipo dell'atto linguistico messo in opera.
Ciascun atto, per valere come tale, deve obbedire ad una serie di condizioni necessarie: Sono atti illocutivi
l'affermazione, la richiesta, la promessa, la minaccia, l'ordine, l'invito ecc. Molti verbi indicano atti illocutivi,
vi sono verbi particolari, detti verbi performativi (prometto, autorizzo, condanno ecc.) che usati alla prima
persona annullano la distinzione fra il contenuto referenziale e l'atto illocutivo compiuto.I verbi
performativi sono usati per "fare" e non per "dire" qualcosa, mentre in genere i verbi hanno un valore
descrittivo, non costituiscono essi stessi l'azione indicata. Possono avere valore performativo anche
espressioni come "divieto di accesso" o "vietato fumare", in cui il verbo non è usato alla prima persona.

Esistono modi diversi per realizzare uno stesso atto illocutivo: "chiuderesti la finestra?" si può realizzare
anche in modo più diretto, "chiudi la finestra" oppure in modo più indiretto e ortese "potresti per favore
chiudere la finestra?" ho infine in modo particolarmente brusco "la finestra!". In questo caso, quando un
atto illocutivo è realizzato mediante atti locutivi tipici di altri atti illocutivi parliamo di atti linguistici
indiretti.

La teoria degli atti linguistici ha descritto tutte le condizioni linguistiche, semantiche, pragmatiche, sociali e
convenzionali che devono essere soddisfatte perché un determinato atto illocutivo valga come tale, che
cioè rappresenti sia per chi lo produce che per chi lo riceve la specificazione desiderata. Nel caso di un
ordine, ad esempio, la condizione da soddisfare è che chi riceve il messaggio sia in grado di compiere
l'azione richiesta.

Un'altra nozione importante è quella di significato implicito, cioè il significato che si inferisce da quanto
viene detto. che quindi non fa parte del significato letterale degli annunciati ma è ricavabile/ricavato da ciò
che viene detto e da come lo si dice (es. A: vieni al cinema? B: ho mal di testa...).

Esistono regole di conversazione, le massime di Grice (dal nome del filosofo del linguaggio che le ha
formulate), attraverso le quali si possono spiegare i meccanismi con cui i parlanti attuano significati impliciti
del genere e che sono fondamentali nell'andamento dell'interazione verbale. Queste massime partono dal
presupposto che fra i partecipanti all'interazione comunicativa agisca un principio di cooperazione e sono
riunite in quattro categorie: 1. Quantità (dare esattamente il contributo informativo richiesto, né troppa
informazione né troppo poca); 2. Qualità (dare un contributo vero o quanto più possibile verificabile); 3.
Relazione (essere pertinenti all'argomento del discorso) e 4. Modo (esprimersi in modo chiaro evitando per
quanto possibile ambiguità e confusione). La violazione di una o più massime genera "implicature
conversazionali" che comunque riescono a trasmettere il significato voluto, grazie alla presupposizione da
parte del destinatario.

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Un tipo particolare di significato implicitato è la presupposizione, cioè la parte di significato di una frase che
rimane vera o valida anche quando neghiamo la frase (es. la frase "Gianni legge" presuppone l'esistenza di
Gianni, esistenza che rimane vera anche quando neghiamo l'azione di leggere). In logica, si dice che “un
enunciato A presuppone un enunciato B quando affinché A sia vero anche B lo sia”.

Nella frase "il gatto insegue il topo" (enunciato A) ha come presupposto che esistano un gatto ed un topo
noti all'ascoltatore (enunciato B), mentre la presupposizione di esistenza di UN topo qualunque è più
difficile da dimostrare, perchè questa presupposizione dipende dal dominio (= parte di enunciato) su cui
agisce la negazione. La frase "il gatto non insegue un topo" può voler significare 1. il gatto fa qualcos'altro
(mangia, dorme, si lava), e quindi viene negato tutto il SV, compreso il complemento oggetto, oppure 2. il
gatto non insegue il topo ma gli fa qualcos'altro (lo guarda, lo ghermisce, ci gioca ecc.), e allora viene
negato solo il predicato verbale.

In questo secondo caso, quando cioè il dominio della negazione è rappresentato solo dal verbo, possiamo
presupporre che esista un topo qualsiasi.

Questa differenza nel dominio della negazione ha sempre effetti molto importanti sul significato
dell'enunciato: frasi come "non mi ricordo di aver detto questo" e "mi ricordo di non aver detto questo"
sono profondamente differenti nel significato: la prima nega il fatto che si ricordi, la seconda nega il fatto di
aver detto una determinata cosa.

Nell’inferenza si passa da una preposizione accolta come vera a una seconda proposizione in cui la verità è
dedotta dal contenuto della prima. Funziona come la presupposizione, ma l’inferenza non è sottoponibile al
principio di verità: “Piero ha finito di leggere” implica che Pietro sa leggere, e data la prima affermazione, la
seconda non è sottoponibile al principio di verità.

La presupposizione è tutto ciò che in un enunciato il parlante assume come vero o noto all'interlocutore, ed
ha una funzione conversazionale: in generale, ogni volta che diciamo qualcosa poniamo sempre delle
presupposizioni. Nella normale conversazione il destinatario accetta le presupposizioni dell’emittente
secondo la regola della cooperazione, ma può anche rifiutarle, rompendo tale regola, e di qui si arriva al
fraintendimento o addirittura al litigio.

Capitolo sesto: le lingue del mondo.


6.1. Le lingue del mondo.
Le lingue storico naturali sono numerosissime, anche se non vi è accordo tra gli studiosi riguardo il numero
esatto. La differenza nei numeri deriva dai criteri che vengono adottati per l'enumerazione, dal fatto che
alcune aree linguistiche non sono ancora sufficientemente studiate e infine dal fatto che non è semplice
stabilire se parlate diverse simili tra loro sono da considerare varietà o dialetti di una stessa lingua, oppure
lingue a sé stanti. L'Italia è un caso esemplare da questo punto di vista: abbiamo infatti alcune lingue delle
minoranze, parlate da gruppi più o meno consistenti di parlanti in alcune aree del paese (sono tedesco,
sloveno, francese e ladino - riconosciute da una legge nazionale del 1999 - più altre lingue come il
neogreco, l'albanese, il serbo-croato, il provenzale, il Catalano, le parlate zingare a cui alcuni studiosi
aggiungono anche il sardo e il friulano. In secondo luogo, è dubbio lo Statuto dei vari dialetti italiani, che dal
punto di vista storico e della distanza linguistica possono essere considerati sistemi linguistici a sé stanti,
autonomi rispetto all'italiano e non sue semplici varietà.

49
Tra lingue delle minoranze e dialetti arriviamo già ad almeno una trentina di lingue indigene presenti in
Italia.

NB le lingue romanze vengono ovviamente considerate ognuna una lingua a sé stante, mentre il cinese
viene considerato un'unica lingua anche se in realtà è un gruppo di lingue tra loro strettamente
imparentate.

Il modo principale per mettere ordine in questo insieme di sistemi linguistici è quello di raggrupparli per
famiglie, seguendo criteri di parentela genealogica che sostanzialmente consistono nella possibilità di
riportare le lingue ad un antenato comune. Un metodo semplice anche se piuttosto rozzo è quello basato
sul cosiddetto lessico fondamentale, vale a dire un insieme di circa 200 termini che designano nozioni
comuni a tutte le lingue, da considerare indenni da interferenze di altre lingue e quindi indicativi del lessico
ereditario di una data lingua.

L'assunto di base è che se per questi termini troviamo lo stesso significante o significante simile, vorrà dire
che questo rimanda una forma originaria condivisa, quindi le lingue che li presentano hanno un antenato
comune.

In realtà la ricostruzione linguistica (cioè la descrizione di stadi precedenti non documentati di una
determinata lingua), la comparazione tra le lingue è il riconoscimento di parentele più o meno strette
rappresentano un compito molto complesso, che si basa non solo sulle somiglianze dei significanti, ma
anche su affinità e differenze lessicali, morfologiche e sintattiche e sulle culture che le lingue
rappresentano. In quest'ambito un ruolo importante è quello svolto dalle leggi fonetiche.

Partiamo dall'italiano. L'italiano è strettamente imparentato con tutte le lingue che provengono dal latino
ed assieme a queste costituisce il ramo delle lingue romanze. Il ramo romanzo, assieme ad altri rami
linguistici con cui le lingue romanze hanno una parentela, più remota ma comunque dimostrabile, come le
lingue germaniche, slave, baltiche, celtiche, indo-arie, iraniche e tre lingue isolate, il (neo) greco, l'albanese
e l'armeno, forma la grande famiglia delle lingue indoeuropee.

La famiglia rappresenta il più alto livello di parentela ricostruibile con i mezzi della linguistica storico-
comparativa, che individua le somiglianze tra le lingue come prova della loro origine comune. All'interno di
una famiglia, a seconda dei gradi più o meno stretti di parentela, si possono riconoscere delle sottofamiglie,
a loro volta divise in gruppi e sottogruppi.

La linguistica comparativa riconosce oggi fino a un massimo di 18 famiglie linguistiche, raggruppamenti


separati tra i quali almeno attualmente non sono dimostrabili ulteriori rapporti di parentela a livello più
alto, a cui si aggiungono alcune lingue isolate, di cui cioè non si è riusciti a provare la parentela con altre
lingue e quindi ad assegnarle ad una delle famiglie esistenti.

A queste lingue vanno aggiunte le lingue Creole o Pidgin, nate dall'incontro in situazioni particolari di lingue
diverse tra di loro e che si sono sviluppate secondo propri tratti particolari. Sono spesso difficili da collocare
con precisione in una determinata famiglia linguistica, e vengono assegnate alla famiglia della lingua che ha
loro fornito la maggior parte del lessico.

Pidgin è un sistema linguistico semplificato che non ha parlanti nativi, diventa creolo quando diventa lingua
materna di una comunità: esempi sono il Tok Pisin parlato in Papua Nuova Guinea, il Chinese Pidgin English;
esempi di lingue Creole sono il giamaicano e il creolo haitiano.

50
Di tutte le lingue esistenti soltanto alcune decine possono essere considerate grandi lingue, parlate cioè da
un numero sostanzioso di parlanti e appoggiate a una tradizione culturale di ampio prestigio.

I parlanti nativi di una lingua sono i parlanti di una lingua che l'hanno appresa nella socializzazione primaria
e che quindi la possiedono come lingua materna: In base a questo parametro abbiamo come lingue
principali il cinese mandarino, l'hindi-urdu, l'inglese, lo spagnolo e l'arabo. Molte lingue, specialmente in
aree isolate e con pochi parlanti, come in Oceania e in Amazzonia, si stanno estinguendo.

Al di là del dato puramente demografico, il numero dei parlanti è solo uno dei criteri con i quali giudicare
l'importanza di una lingua. Altri criteri sono il numero di paesi e nazioni in cui una lingua è lingua ufficiale o
comunque parlata, l'importanza politica ed economica del paese in cui quella lingua e parlata, la tradizione
letteraria culturale, l'insegnamento nelle scuole come lingua straniera. Dal punto di vista demografico, ha
molta importanza anche il numero dei parlanti non nativi che parlano una determinata lingua come lingua
seconda e straniera.

In base a questi parametri l'85% delle lingue ha meno di 100 mila parlanti ciascuna: vi sono paesi che
presentano un eccezionale frammentazione linguistica (in Papua Nuova Guinea sono presenti 860 lingue,
670 in Indonesia, 430 in Nigeria ecc.).

In Europa sono tradizionalmente parlate lingue appartenenti a 5 diverse famiglie linguistiche. Oltre alle
lingue indoeuropee, che sono quelle predominanti, troviamo le lingue uraliche-ugrofinniche (ungherese,
estone, finlandese,lappone ecc.); le lingue altaiche (turco e tataro); le lingue caucasiche (georgiano e
ceceno); le lingue semitiche e infine una lingua isolata, il basco.

6.2 Tipologia linguistica.


Un altro sistema di classificazione delle lingue è quello per tipologia linguistica. Questo metodo individua
uguaglianze e differenze nel modo in cui le lingue sono organizzate e strutturate rispetto ai principi generali
che governano le lingue possibili.

La tipologia è strettamente connessa allo studio degli universali linguistici, proprietà ricorrenti nella
struttura delle lingue sia sotto forma di invarianti necessariamente possedute dalle lingue sia sotto forma di
un repertorio di possibilità a cui le lingue si rifanno in maniera diversa l'una dall'altra.

Un universale linguistico come " tutte le lingue hanno consonanti e vocali" è tale quando non viene
contraddetto dalle caratteristiche di nessuna lingua. Un universale può essere anche il frutto
dell'osservazione empirica: nel primo caso un universale dipende dall'assioma " non può esistere una lingua
senza X", Mentre nel secondo caso un universale discende dalla constatazione " tutte le lingue note
possiedono X".

Sulla base di tratti strutturali comuni si possono classificare le lingue secondo la loro appartenenza a tipi
diversi e alla somiglianza relativa della loro organizzazione strutturale. Un tipo linguistico si può definire
come un insieme di tratti strutturali correlati tra di loro; in concreto equivale a un raggruppamento di
sistemi linguistici che hanno molti caratteri in comune.

La lingua non corrisponde mai in assoluto a un tipo particolare: In genere in una lingua si trovano, oltre alle
caratteristiche tipologiche prevalenti di un tipo, anche caratteri propri di altri tipi.

51
6.2.1 Tipologia morfologica.
Un primo criterio di individuazione dei diversi tipi linguistici si basa sulla morfologia, più precisamente sulla
struttura della parola. A seconda del rapporto che c'è tra parole e morfemi e a seconda del tipo e natura dei
morfemi che costituiscono le parole abbiamo 4 tipi morfologici fondamentali di lingua.

1. Lingue isolanti: sono le lingue in cui la struttura della parola è la più semplice possibile. Ogni parola è
tendenzialmente costituita da un solo morfema, dunque il rapporto morfemi:parole, detto indice di sintesi,
è di 1:1. (indice di sintesi è il rapporto che rappresenta il numero di morfemi per parola. Più è basso, cioè
più il numero dei morfemi tende a coincidere con quello delle parole, più la lingua è detta analitica. Al
contrario, un indice di sintesi alto indica una lingua sintetica).

Queste lingue vengono dette isolanti perché non solo isolano le singole parole sotto forma di blocco
unitario indivisibile, ma anche perché spesso esprimono significati complessi dividendoli in lessemi semplici
giustapposti. Le lingue isolanti non hanno una morfologia flessionale e hanno pochissima morfologia
derivazionale. I significati codificati nelle lingue di altro tipo attraverso la morfologia, nelle lingue isolanti
sono affidati al lessico. Nel tipo isolante le parole sono spesso monosillabiche. Lingue di questo tipo sono ad
esempio il vietnamita, il cinese, il thailandese. Anche l'inglese presenta caratteri di lingua isolante, dovuti
alla ridotta morfologia flessionale che possiede: I morfemi flessionali in inglese sono sì e no una decina (es.
il suffisso del plurale, i suffissi dei comparativi e superlativi degli aggettivi ecc.).

2. Lingue agglutinanti: nelle lingue agglutinanti le parole hanno una struttura complessa, sono formate dalla
giustapposizione di più morfemi in una catena anche lunga. Queste lingue presentano quindi un alto indice
di sintesi. Nelle lingue agglutinanti di solito i morfemi hanno un valore univoco ed una sola funzione: ogni
affisso marca in modo biunivoco solo una categoria grammaticale. All'interno della parola in morfemi si
possono individuare e separare facilmente e la grammatica è regolare. Sono lingue agglutinanti il turco,
l'ungherese, il giapponese.

In una lingua agglutinante le parole possono essere anche molto lunghe perché sono costituite da una
radice lessicale a cui sono attaccati diversi affissi che realizzano nella morfologia valori che in altre lingue
vengono manifestati invece attraverso il lessico. Ad esempio in turco il possesso viene reso attraverso un
suffisso, mentre in italiano il possesso viene reso con pronomi o aggettivi possessivi. Di conseguenza, il
significato di una parola in una lingua agglutinante è reso attraverso un sintagma nominale o un verbo
complesso in una lingua come l'italiano.

3. Lingue flessive o fusive: nelle lingue flessive le parole sono internamente abbastanza complesse: Sono
costituite infatti da una base lessicale semplice o derivata e da assistiti flessionali che spesso sono morfemi
cumulativi, cioè che veicolano più valori grammaticali contemporaneamente ed assumono diverse funzioni
nello stesso momento.

Rispetto alle lingue agglutinanti, hanno un indice di sintesi minore: Le parole hanno una struttura meno
complessa e sono composte da una catena più corta di morfemi. I morfemi però non sono ben separabili e
si identificano con qualche difficoltà. La morfologia delle lingue flessive presenta molte irregolarità e
idiosincrasie.

E' da questa caratteristica di riunire più significati su un solo morfema flessionale e di fondere assieme in
morfemi che viene il nome "fusive", mentre si dicono "flessive" le lingue in cui è presente molta morfologia
flessionale, che dà origine a più forme flesse della stessa parola.

52
Sono lingue flessive in genere le lingue indoeuropee, tra cui il greco e in latino forniscono ottimi esempi di
lingue flessive.

Le lingue flessive comprendono al loro interno un sottotipo, quello delle lingue introflessive, caratterizzato
dal fatto che i fenomeni di riflessione avvengono anche dentro la radice lessicale: i morfemi flessionali e
quelli derivazionali sono in parte transfissi vocalici che si inseriscono alternandosi all'interno di una base
discontinua, formata da tre consonanti.

Un esempio di lingua introflessiva è l'arabo: dalla radice lessicale triconsonantica k- t- b (scrittura/scrivere)


avremo "kitab", libro attraverso l'inserimento dei transfissi i- a.

4. Lingue polisintetiche: sono quelle in cui la struttura della parola è più complessa. Come le lingue
agglutinanti, hanno la parola formata da più morfemi attaccati assieme, ma nella stessa parola compaiono
più radici lessicali. In queste lingue quindi le parole tendono a corrispondere a quelle che nelle altre lingue
sarebbero frasi intere. Contrariamente alle lingue isolanti, le lingue polisintetiche (dette così proprio per la
loro capacità di sintetizzare in una sola parola elementi che in altre lingue sarebbero corrispondenti a più
parole diverse) realizzano nella morfologia valori semantici che generalmente sono affidati al lessico.

L'indice di sintesi medio delle lingue polisintetiche e quindi di 4:1 o superiore. Sono lingue polisintetiche
molte lingue amerindie, australiane ecc.

Le lingue polisintetiche comprendono il sottotipo delle lingue incorporanti, cioè lingue in cui si incontrano
parole nella cui struttura è presente una radice verbale e la radice nominale che rappresenta il
complemento oggetto o il complemento diretto di una preposizione.

Passando dal tipo linguistico isolante al tipo linguistico polisintetico abbiamo quindi un progressivo
complicarsi della struttura della parola: le lingue isolanti sono lingue analitiche, le lingue agglutinanti e
quelle polisintetiche sono invece lingue tipicamente sintetiche mentre il tipo flessivo occlusivo ha una
posizione intermedia tra l'analiticità e la sinteticità. Sintetizzando potremmo dire che le strutture
riconosciute nelle lingue di tipo flessivo come parole corrispondono nelle lingue di tipo isolante a
componenti minimi del contenuto delle parole, nelle lingue di tipo agglutinante corrispondono ai sintagmi e
infine nelle lingue di tipo polisintetico corrispondono alle frasi.

L'italiano dal punto di vista della tipologia morfologica è una lingua flessiva. In alcuni settori della
formazione delle parole però troviamo fenomeni tipici degli altri tipi morfologici: agglutinazione per
esempio nel caso dei suffissi e dei prefissi che ricorrono (es. ristrutturazione, probabilisticamente),
polisinteticità nelle parole composte (ad es. retrocedere, che contiene a rigore 2 radici lessicali, "retro" e
"cedere").

6.2.2 Tipologia sintattica.


Tipologia dell'ordine dei costituenti. Un altro criterio di classificazione delle lingue in tipi linguistici è quello
basato sulla sintassi, sull'ordine basico, cioè normale, che i costituenti della frase assumono. È il criterio
cardine della tipologia linguistica.

I costituenti sintattici fondamentali presi in considerazione sono quelli che realizzano il soggetto (S), il verbo
o predicato verbale (V) ed il complemento oggetto o diretto (O). Dal punto di vista delle combinazioni sono
possibili 6 ordini diversi: SVO, SOV, VSO, VOS, OVS ed OSV. Questi ordini risultano presenti nelle lingue di
tutto il mondo ma cambia la loro distribuzione statistica: l'ordine SOV è quello di gran lunga più frequente,
presente in oltre un terzo delle lingue conosciute; abbiamo poi l'ordine SVO, poco meno testato e
53
comunque il secondo in ordine di frequenza, seguito da VSO, che riguarda il 15% circa delle lingue
conosciute, e da VOS, che riguarda il 10% circa delle lingue conosciute. Tirando le somme, quasi due terzi
delle lingue del mondo hanno un ordine di base in cui il soggetto occupa la prima posizione nella frase e
almeno i quattro quinti delle lingue conosciute pongono il soggetto prima dell'oggetto.

Gli ultimi due ordini sono molto marginali: OSV ricorre al massimo nel 5% delle lingue parlate mentre OSV
appare rarissimo se non assente del tutto.

L'italiano, come le altre lingue romanze, le lingue germaniche e molte altre è una lingua SVO (mentre il
latino era fondamentalmente del tipo SOV). A questo proposito è molto discusso lo statuto del tedesco: Vi
sono infatti ragioni sia per ritenerlo una lingua SVO che per ritenerlo una lingua SOV, a seconda che si
prenda in considerazione l'ordine basico che il tedesco segue nelle preposizioni principali o in quelle
subordinate. Fondamentalmente comunque il tedesco nelle frasi dichiarative non ammette mai il verbo in
posizione iniziale. A sua volta in latino potrebbe essere considerato sia una lingua SOV che una lingua ad
ordine libero, vista la frequenza in cui sono riportati anche gli altri ordini. In genere l'ordine delle parole e
rigido in correlazione alla quantità di morfologia flessionale: meno morfologia flessionale hanno le lingue,
più tendono ad avere un ordine fisso che permette di identificare le funzioni sintattiche in assenza di mezzi
morfologici.

La predominanza degli ordini SOV, SVO e (anche se staccato) di VSO si spiega col fatto che il soggetto di una
frase coincide con il tema, il tema a sua volta nell'ordine naturale dei costituenti informativi sta in prima
posizione: prima il tema, quello di cui si parla, poi il rema, ciò che si dice proposito del tema.

I due ordini predominanti hanno infatti il soggetto in prima posizione. Parzialmente collegati a questa
condizione basilare sono due principi:

1. Il principio di precedenza, per cui il soggetto, data la sua preminenza e priorità logica, deve precedere
l'oggetto;

2. Il principio di adiacenza, in base al quale verbo e oggetto devono essere contigui perché a) fra di loro vi è
una stretta relazione sintattico-semantica e b) l'oggetto dipende direttamente dal verbo.

Abbiamo quindi che i sistemi SOV e SVO obbediscono ad entrambi i principi, mentre il sistema VSO realizza
soltanto il primo principio ma non secondo. Le altre tre possibilità hanno una distribuzione inferiore perché
ho violano il primo principio o li violano entrambi. A rigore l'ordine OSV dovrebbe essere impossibile in
tutte le lingue.

Vi è una evidente correlazione tra l'ordine basico dei costituenti principali della frase e l'ordine degli
elementi in altri tipi di costrutti: se sappiamo che una lingua è del tipo SOV o VSO abbiamo una buona
possibilità di predire gli ordini degli elementi in altri costrutti (anche se bisogna ricordare che ciò non vale
per l'ordine SVO). Su queste basi sono stati elaborati degli universali implicazionali, vale a dire principi
generalmente validi che collegano tra di loro le posizioni di diversi elementi nella frase e nei sintagmi. Un
universale implicazionale che non ha eccezioni è il seguente: "Se una lingua ha l'ordine SOV e se in quella
lingua nel sintagma nominale l'aggettivo precede il nome, allora invariabilmente il genitivo precede il nome
che gli fa da testa".

Alcuni studiosi hanno cercato di costruire tipologie complesse partendo dalla collocazione reciproca di
verbo e oggetto. Sono stati così riconosciuti due tipi fondamentali di lingue: le lingue VO, che seguono

54
l'ordine operando/operatore o meglio testa/modificatore, e le lingue OV, che seguono l'ordine
operatore/operando (modificatore/testa).

Le lingue VO avrebbero in linea di massima anche l'aggettivo, il genitivo e il possessivo dopo il nome mentre
le lingue del tipo OV avrebbero in linea di massima l'aggettivo, il genitivo e il possessivo prima del nome.

Queste correlazioni plurime vanno considerate comunque soltanto tendenze statistiche prevalenti perché è
molto difficile trovare lingue che siano completamente congruenti tipologicamente. In ogni lingua c'è
sempre un certo quantitativo di incoerenza tipologica. In italiano ad esempio, una lingua del tipo SVO,
presenta comunque molti tratti tipici delle lingue VO, come ad esempio il genitivo o l'aggettivo qualificativo
dopo il nome (il libro di Mario, NG, libri difficili, NA) assieme a tratti tipici delle lingue OV, come ad esempio
il possessivo prima del sostantivo (i miei libri, PossN).

Un terzo parametro tipo logico è quello dell'ergatività, riguardante l'organizzazione dei sistemi di casi che
portano in superficie i ruoli semantici connessi al verbo. Esistono i fatti delle lingue che a differenza delle
lingue con sistemi di caso più conosciute (latino greco o tedesco) assegniamo il soggetto una marcatura
diversa di caso a seconda che sia soggetto di un verbo transitivo o di un verbo intransitivo. Queste lingue si
chiamano ergative perché attribuiscono particolare rilevanza alla funzione di agente (dal greco ergon).

Nelle lingue ergative il complemento oggetto delle frasi transitive e il soggetto delle frasi intransitive (che
nella struttura profonda della frase sarebbero il paziente) sono collocati allo stesso caso, detto caso
assolutivo, mentre il soggetto delle frasi transitive (che in struttura profonda sarebbe l'agente) va al caso
ergativo. Queste lingue contrappongono un sistema di casi assolutivo-ergativo al sistema più diffuso in cui i
casi contrapposti sono nominativo-accusativo.

Nelle frasi italiane a) la nave affonda e b) i pirati affondano la nave il ruolo semantico di nave è identico in
entrambe le frasi ed è il ruolo di "paziente", ciò o colui al quale accade qualcosa. Una lingua ergativa,
collocando il nome "nave" allo stesso caso assolutivo in tutte e due le frasi non fa altro che portare alla
superficie della frase l'identità del ruolo semantico. È proprio questa la caratteristica dei sistemi ergativi:
Riflettere in maniera più diretta il rapporto fra i ruoli semantici e le funzioni sintattiche.

Un altro parametro tipologico è dato dal fatto che accanto al lingue con sistemi di caso che marcano le
funzioni sintattiche strutturando la frase in base ad esse ve ne sono altre invece strutturano la frase in base
alle funzioni sintattiche; altre che strutturano la frase sia in base alla sintassi in base alla struttura
informativa, marcando grammaticalmente sia le funzioni sintattiche sia le funzioni pragmatico-informative,
altre infine che strutturano la frase solo in base alle funzioni della struttura informativa.

Avremo quindi lingue subject-prominent, tra cui le lingue indoeuropee e in particolare le lingue europee
occidentali, lingue topic-prominent, come ad esempio il cinese, che non costruisce le frasi secondo lo
schema soggetto-predicato verbale ma secondo lo schema topic-comment, isolando il tema in prima
posizione, e lingue sia subject- che topic-prominent, come il giapponese che può marcare un costituente
come soggetto, come oggetto o come altro caso attraverso delle particelle posposte.

Capitolo settimo: mutamento e variazione delle lingue.


7.1 La lingua lungo l'asse del tempo.
Una proprietà empiricamente evidente delle lingue è quella della variazione: una lingua si presenta sotto
forme diverse, non è un blocco uniforme e immutabile. Questa differenza che si manifesta in tutte le lingue

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è visibile soprattutto lungo l'asse del tempo, nella diacronia. Col passare del tempo, anche le lingue
cambiano, assieme alla cultura ed alla società di cui sono manifestazione.

I cambiamenti di una lingua sono definiti mutamenti linguistici e il settore della linguistica che li studia è la
linguistica storica o linguistica diacronica.

La lingua è in continuo mutamento, anche se i risultati di questi cambiamenti si colgono soltanto dopo un
certo periodo di tempo, dopo cioè che sono completamente avvenuti. I cambiamenti che avvengono in
parti diverse del sistema possono sommarsi tra di loro e rendere le differenze tra uno stato di lingua e
l'altro così grandi che a un certo momento lo stato di lingua più antico non viene più riconosciuto dai
parlanti e si è in presenza quindi di una nuova lingua.

Uno dei criteri per stabilire che si tratti di un'altra lingua è la mancanza di comprensibilità che nell'arco di
un determinato periodo di tempo si viene a creare tra il vecchio stato di lingua e quello nuovo: Quando Ciò
avviene possiamo dire che è nata una nuova lingua e lo stato di lingua precedente è il suo genitore.

È in sostanza ciò che è avvenuto nel passaggio dal latino alle lingue romanze: Il latino ha subito una serie di
mutamenti che sommandosi e sovrapponendosi nel tempo hanno finito col determinare una lingua nuova
completamente diversa.

I meccanismi che regolano questi mutamenti seguono una trafila abbastanza determinata. Si comincia con
l'innovazione, cioè un nuovo elemento che viene introdotto nell'uso linguistico dei parlanti. Si prosegue con
una fase in cui l'elemento linguistico innovativo si diffonde e coesiste con l'elemento presidente (se
esistente); l'innovazione può essere accettata da tutta la comunità parlante e quindi poi avere successo fino
a soppiantare completamente il vecchio elemento e a diventare un nuovo elemento costitutivo del sistema
linguistico. A questo punto il mutamento è compiuto e il nuovo elemento si è fissato nel sistema linguistico,
spesso sostituendo un altro elemento precedente.

Le cause del mutamento linguistico sono molteplici: abbiamo motivazioni interne alla lingua o fatti esterni
(ambientali storici demografici economici e così via), possiamo avere un fattore extralinguistico, una causa
esterna scatenante un mutamento linguistico che può portare anche alla decadenza o all'estinzione di una
lingua. Una lingua si dice che muore quando non ha più parlanti e quando viene completamente sostituita
da un'altra nell'uso. Spesso la lingua che si estingue lascia delle tracce nella lingua che la sostituisce: e il
fenomeno del sostrato, termine col quale si indica in generale l'influenza di una lingua precedente sulla
lingua successiva in una comunità parlante.

In italiano per esempio l'assimilazione -nd- in -nn- in alcuni dialetti dell'Italia centro meridionale (es.
"monne" per "mondo") è attribuita ad un sostrato osco (la lingua parlata in quei territori prima dell'avvento
del latino).

Fattori interni del mutamento linguistico sono sia le tendenze del sistema a regolarizzare, rendere
simmetriche e ottimizzare le strutture, sia le operazioni inconsce del parlante che tanto nella produzione
che nella ricezione tende a semplificare le strutture della lingua.

Tutti questi mutamenti avvengono secondo una logica interna che collega in una determinata direzione i
vari mutamenti che si verificano nei diversi settori della lingua: questa direzione tendenziale del
mutamento linguistico viene definita deriva (o drift).

7.1.2 Fenomeni del mutamento.


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I fenomeni attraverso cui si manifesta il mutamento linguistico sono molteplici ed estremamente
eterogenei. Di seguito una lista esemplificativa dei tipi di fenomeni più comuni.

1. Assimilazione: Due foni articolatoriamente diversi all'interno della parola tendono a diventare simili o
uguali attraverso l'acquisizione da parte di uno dei suoni di uno o più tratti comuni con l'altro fono (es.
nocte -> notte per assimilazione regressiva in cui la consonante velare sorda perde il tratto velare e diventa
dentale come la consonante che la segue, kentum -> cento per palatalizzazione della consonante velare
davanti a vocali anteriori).

2. Metafonia: è un tipo di assimilazione che avviene tra foni non contigui nella catena parlata ed indica la
modificazione del timbro di una vocale interna per effetto della vocale finale.

3. Dissimilazione: è il fenomeno contrario all'assimilazione e consiste nella differenziazione tra foni che sia
quando due foni simili uguali non contigui in una parola si differenziano (es. venenum -> veleno).

4. Metatesi: è lo spostamento dell'ordine dei foni in una parola (es. periculum -> peligro in spagnolo).

5. Caduta: è la soppressione di foni, specialmente vocali, all'interno di una parola. Se la caduta della vocale
si verifica all'inizio della parola, abbiamo l'aferesi (es. bottega da apotheca); in posizione interna abbiamo la
sincope (es. donna da domina) ed infine in posizione finale abbiamo l'apocope (città da civitatem). Oltre
alle vocali, possiamo avere la caduta di consonanti nella semplificazione di essi consonantici complessi dal
punto di vista dell'articolazione (es. ostacolo da obstaculum, con caduta per semplificazione della b davanti
a st).

6. Aggiunta: contrariamente all'aferesi, l'epentesi aggiunge dei foni nel corpo di una parola. All'inizio della
parola abbiamo la protesi (es. spagnolo estado da statum), in fine di parola abbiamo l'epitesi (cuore da cor).

7. Dittongazione: è lo sdoppiamento di una vocale in un dittongo.

La linguistica di fine 800 ha fatto molto affidamento sulle leggi fonetiche per ricostruire nei dettagli le
parentele fra le lingue e la loro classificazione in famiglie, rami e gruppi.

Per leggi fonetiche intendiamo mutamenti fonetici regolari che nell'evoluzione delle lingue toccano intere
serie di parole in cui si assiste alla trasformazione sistematica di un fono in un altro fono. La scoperta di
queste leggi fonetiche attraverso la comparazione fra lingue ha permesso di classificare rigorosamente i
rapporti di parentela che intercorrono fra le lingue stesse.

Un esempio classico di legge fonetica è quello delle rotazioni consonantiche, che fa parte delle cosiddette
leggi di Grimm, dal nome del linguista che le ha ideate.

Nella rotazione consonantica abbiamo il passaggio dalla dentale sonora d indoeuropea al fono sordo t tipico
delle lingue germaniche (es. duo/two, dens/tooth, edo/eat ecc.).

A livello fonologico abbiamo altri fenomeni ricorrenti: 1. Fonologizzazione, quando gli allofoni di un fonema
Acquisiscono un valore distintivo e diventano fonemi indipendenti;

2: Defonologizzazione, che è il fenomeno inverso e si ha quando fonemi perdono il loro valore distintivo
diventando allofoni di un'altro fonema. Spesso La defonologizzazione porta ad una fusione di fonemi: é
quello che è successo alle vocali lunghe e brevi del latino, che da fonemi diversi sono diventati un solo
fonema in italiano;

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3. Perdita, che sia quando un fonema scompare in una lingua lasciando traccia soltanto nella forma scritta.
È il caso dell'approssimante laringale latina h, scomparsa in italiano di cui però è rimasta la traccia grafica.

I mutamenti fonetico fonologici possono consistere anche in spostamenti a catena che coinvolgono intere
serie di foni o di fonemi Tra gli esempi più noti di mutamento a catena Chi sono le cosiddette rotazioni
consonantiche. La prima riguarda il passaggio delle occlusive sorde a fricative sorde, delle occlusive sonore
a occlusive sorde e delle occlusive sonore aspirate a occlusive e fricative sonore. Questo passaggio
caratterizza il ramo Germanico delle lingue indoeuropee rispetto agli altri rami.

La seconda rotazione consonantica invece caratterizza esclusivamente l'evoluzione del tedesco tra le lingue
germaniche: le occlusive sorde p- t- k- diventano affricate in inizio di parola e in posizione postconsonantica
(es. zehn/ten, Herz/heart) e fricative in posizione postvocalica (es. Wasser/water); le fricative sonore
diventate occlusive passano a sorde (es. Gott/God) e la fricativa dentale sorda diventa occlusiva sonora (es.
Bruder/brother).

Nella morfologia i mutamenti possono portare alla caduta di categorie o di distinzione morfologiche e alla
nascita di nuove, mentre i morfemi possono cambiare le loro regole di impiego. Nel passaggio dal latino
all'italiano si è persa la categoria flessionale del caso, nella categoria del genere si è perso il neutro,
riducendo in italiano la distinzione a due valori maschile e femminile.

Il principale meccanismo che agisce nella morfologia è l'analogia, che consiste nell'estensione di forme a
contesti in cui non sono appropriate, modellandole su contesti più frequenti e normali. L'analogia quindi è
un fatto regolarizzante, che tende ad eliminare le eccezioni basandosi su un rapporto proporzionale tra gli
elementi coinvolti (es. habere/habui, volere (e non velle, che sarebbe la forma originale)/volui).

Altri fenomeni importanti sono la rianalisi e la grammaticalizzazione. Un esempio classico di rianalisi è la


formazione del passato prossimo nelle lingue romanze, in confronto al latino nel quale questo tempo
verbale è inesistente. La nascita di questo nuovo tempo verbale implica una diversa analisi del valore
semantico e del comportamento sintattico del verbo avere, che in latino non è un ausiliare ma ha un valore
di verbo pieno (avere, possedere). In latino esistono sintagmi costituiti da una forma coniugata del verbo
avere unita ad un participio passato (es. habeo epistulam scriptam), il cui significato è "ho in mano (adesso)
una lettera scritta (in precedenza)". Il participio passato è modificatore della testa nominale epistula, non
della forma verbale finita habeo (cfr. in italiano le frasi " ho gli occhi aperti" e " ho aperto gli occhi"). Ad un
certo punto il significato del verbo avere si è indebolito, facendo prevalere il valore aspettuale perfettivo
del participio passato su quello di contemporaneità del presente. Questo costrutto è stato quindi
rianalizzato come un verbo complesso che regge un complemento oggetto, con valore di tempo passato e
reinterpretato come "habeo scriptum epistulam", "ho scritto una lettera", con "habeo scriptum" fuso in
un'unica unità verbale.

Grammaticalizzazione è il mutamento attraverso il quale un elemento del lessico diventa un elemento della
grammatica: Un lessema perde il suo valore semantico lessicale e viene assorbito dalla grammatica come
parola funzionale o come morfema. Un esempio di grammaticalizzazione è quello della frase precedente, in
cui il verbo avere perde il suo significato lessicale autonomo e da parola piena passa a diventare parola
vuota (verbo ausiliare).

I fenomeni più importanti nel mutamento sintattico riguardano di solito l'ordine dei costituenti. Spesso il
mutamento sintattico coincide con un mutamento tipologico: il latino ha un ordine non marcato di tipo SOV
in cui normalmente il complemento oggetto precede il verbo; le lingue romanze invece sono di tipo SVO.
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Nella semantica lessicale il mutamento si manifesta innanzitutto come arricchimento lessicale attraverso
l'ingresso di nuove unità dette neologismi. L'arricchimento lessicale può avvenire con materiali e mezzi
interni alla lingua, utilizzando meccanismi di formazione di parola partendo da lessemi già esistenti. Un
meccanismo di formazione molto produttivo in italiano è quello che prevede l'uso di suffissi e prefissi;
abbiamo poi il ricorso a materiali di altre lingue sotto forma di prestito (assunzione di parole straniere con
adattamenti morfologici al sistema linguistico di arrivo, ad es. chattare) o di calco (attribuzione di un nuovo
significato ad una parola o combinazione di parole esistente, sul modello di un lessema straniero es. fine
settimana/week end).

Lungo l'asse diacronico avvengono ovviamente anche fenomeni di perdita di lessemi. Molte parole latine si
sono perse, al pari di termini dell'italiano antico.

Avvengono poi dei cambiamenti nelle associazioni fra significanti e significati: un significato esistente può
essere rappresentato da un diverso significante oppure si può attribuire un nuovo significato ad un
significante esistente. Questi mutamenti si basano su vari tipi di rapporti tra i significati. Abbiamo
innanzitutto rapporti di somiglianza, o metafora (es. testa, vaso di terracotta in latino/testa parte del corpo
in italiano) e di contiguità, o metonimia (es. penna, in latino piuma d'uccello usata per scrivere/penna in
italiano lo strumento usato per scrivere).

Analogo alla rianalisi in morfosintassi è il fenomeno di reinterpretazione detto paretimologia, o etimologia


popolare, che consiste nella risemantizzazione di una parola attraverso la rimotivazione del suo significato,
che la rende così più comprensibile attraverso l'apparentamento ad una parola nota (es. cubare, in latino
giacere, diventa covare, stare accovacciato sulle uova, ricollegato ad ovum, uovo).

A volte cambia l'area semantica coperta da una parola: abbiamo così le estensioni o generalizzazioni
(domina in latino padrona di casa, signora/donna in italiano) e i restringimenti o specializzazioni (domus, in
latino casa/duomo in italiano casa del Signore). In questo ambito rientrano anche I mutamenti semantici
per tabuizzazione, o proibizione, in cui parole relative a determinate sfere semantiche non vengono usate e
vengono sostituite da altre parole di significato non diretto (eufemismi).

I mutamenti possono riguardare anche campi semantici. Ad esempio in latino il campo semantico dei colori
comprendeva anche una distinzione in termini di brillantezza e intensità luminosa: all'italiano nero
corrispondono ater (nero come gamma cromatica) e niger (nero brillante), albus (bianco come gamma
cromatica) e candidus (bianco brillante). In italiano questa opposizione si è mantenuta tra bianco e candido,
mentre si è persa per il nero.

Si hanno dei mutamenti anche nella pragmatica: il modo di interagire con gli interlocutori, cioè il sistema
dell'allocuzione, è passato dal latino tu/vos (singolare e plurale) alla bipartizione italiana dapprima tra tu
(allocutivo confidenziale)/voi (allocutivo di rispetto) e poi alla tripartizione tu (di confidenza)/ voi (di
cortesia)/ Lei (di formalità), per arrivare infine all'italiano moderno in cui abbiamo l'opposizione fra il tu
confidenziale e informale ed il Lei formale, con il voi che funge da plurale per entrambe le forme.

7.2 La variazione sincronica.

7.2.1 Varietà di lingua e variabili sociolinguistiche.


La proprietà di una lingua di variare è evidente anche nella sincronia, cioè in un dato periodo di tempo.
Ogni lingua ha al suo interno usi diversificati, forme differenti e modi diversi di esprimersi, grazie ai quali la
lingua è in grado di adattarsi a tutti i contesti di impiego possibili in una cultura e in una società esprimendo

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anche significati sociali e valori simbolici di varia natura. La ragione della variazione linguistica sta quindi nel
suo essere funzionale a tutti i bisogni comunicativi e più ampiamente sociali dei suoi parlanti periodo
storico ed in una determinata comunità.

La sociolinguistica studia la variazione interna della lingua, studia cioè cosa accade quando un sistema
linguistico è calato nella realtà concreta degli usi che ne fanno i parlanti e quindi mette in correlazione la
lingua con la società e gli usi linguistici delle persone. Un insieme di forme linguistiche che hanno la stessa
distribuzione sociale, cioè che si presentano in concomitanza con certe caratteristiche della società, dei suoi
membri e delle situazioni in cui questi si trovano ad agire, costituisce una varietà di lingua.

Una lingua si presenta sempre, nell'uso comunicativo concreto che una certa comunità sociale ne fa, sotto
forma di una determinata varietà. Dal punto di vista

sociolinguistico una lingua va considerata come una somma di varietà, mentre dal punto di vista
strettamente linguistico una varietà di lingua è costituita da un insieme di varianti solidali tra loro, nel senso
che tendono a comparire assieme in contesti simili.

Dal punto di linguistico le varietà di lingua altro non sono che le variabili sociolinguistiche, cioè punti o unità
del sistema linguistico (es. parole o costrutti, pronuncia, regola ecc.) che ammettono diverse realizzazioni
equipollenti, ciascuna delle quali è correlata a qualche fatto extra linguistico. Esempi di variabili
sociolinguistiche a livello fonologico sono ad esempio le differenti realizzazioni regionali di certi fonemi
dell'italiano; a livello morfologico è una variante sociolinguistica la forma del pronome clitico di terza
persona obliquo: gli/le in italiano standard, ci nelle varietà non colte dell'italiano (es. a mio zio ci ho
regalato una sciarpa); a livello lessicale possono essere considerate variabili sociolinguistiche i lessemi
sinonimici collegati ad ambiti diversi di uso della lingua (es. padre/papà/babbo: padre è formale e neutro,
papà è di uso informale e affettivo, babbo è una variante regionale tosco-emiliana).

7.2.2 Dimensioni di variazione.


Abbiamo quattro fondamentali dimensioni di variazione: 1. Diatopia, che riguarda la variazione nello spazio
geografico, 2. Diastratia, che riguarda la variazione nello spazio sociale attraverso le classi o strati sociali, 3.
Diafasia, che riguarda la variazione attraverso le diverse situazioni comunicative, e 4. Diamesia, che
riguarda la variazione attraverso il mezzo della comunicazione, con la fondamentale opposizione fra orale e
scritto.

In italiano la variazione diatopica è molto rilevante e si manifesta principalmente nella fonetica e nel
lessico. Le varietà diatopiche dell'italiano sono i cosiddetti italiani regionali. In ambito lessicale abbiamo
moltissimi geosinonimi, vale a dire termini diversi usati in diverse regioni d'Italia per definire lo stesso
oggetto o concetto (es. anguria al Nord, cocomero al Centro e melone d'acqua al sud). Sono molto
frequenti anche i regionalismi semantici, vale a dire significati particolari che un lessema assume in una
determinata area (es. salire, in alcune zone del Meridione assume il significato di "portare su", "fare
salire").

Anche morfologia e sintassi sono interessate alla variazione diatopica: per esempio il suffisso -aro del
centro Italia in contrapposizione alla forma -aio del Toscano e dell'italiano standard (benzinaio/benzinaro).
La differenziazione diatopica può superare anche i confini geografici di una nazione quando la lingua viene
parlata come lingua nazionale in più paesi. Un esempio classico è quello delle differenze fra il British english
e l'American english.

60
La variazione diastratica, cioè quella legata all'appartenenza sociale, e anch'essa evidente ai vari livelli di
analisi. Nella fonetica abbiamo per esempio pronunce italiane influenzate dal dialetto, che tendono a
comparire parlanti con scarso grado di istruzione. Abbiamo ad esempio lo scempiamento della -r
intervocalica a Roma, oppure fenomeni di semplificazione della pronuncia per assimilazione
(arimmetica/aritmetica), epentesi (pisicologia/ psicologia), metatesi (spicologia/psicologia) ecc.

Nella morfologia abbiamo generalizzazioni di forme e regolarizzazioni di paradigmi complessi per analogia
(ad esempio nella formazione dei comparativi: più bene/meglio). Nella sintassi esempi di variazione
diastratica sono la costruzione del periodo ipotetico dell'irrealtà con il doppio condizionale o con il doppio
congiuntivo imperfetto. A livello lessicale infine sono una marca diastratica i cosiddetti malapropismi, cioè
la deformazione di parole difficili per assimilarle a parole note (es. febbrite per flebite).

Tutti questi fenomeni sono caratteristici delle varietà diastratiche basse, definite così perché stanno verso
l'estremo inferiore dell'asse della diastratia, che è considerato l'estremo non di prestigio. Molti di questi
fenomeni dipendono infatti dal cattivo padroneggiamento della lingua standard da parte di parlanti non
colti, abituati a parlare perlopiù il dialetto. Tutte queste varianti sono state chiamate italiano popolare.

Anche nella diafasia abbiamo un asse che va da un estremo alto ad un estremo basso, però è relativamente
più complessa delle altre in quanto al suo interno si articola in due insiemi paralleli e indipendenti: la classe
dei registri e quella dei sottocodici.

I registri sono le varietà diafasiche che dipendono dal carattere dell'interazione comunicativa (formale o
informale) e dal ruolo reciproco di parlanti è interlocutori; i sottocodici invece (detti anche linguaggi
settoriali) sono le varietà diafasiche che dipendono dall'argomento a a cui ci si riferisce.

I registri vanno lungo una scala in cui all'estremo più alto abbiamo le situazioni formali, quelle in cui la
produzione linguistica è accurata e sorvegliata, mentre all'estremo opposto, l' estremo basso, abbiamo
situazioni informali in cui la produzione linguistica è spontanea e non accurata.

Nella fonetica ad esempio, sono indicatori di registro informale fenomeni di fusione, riduzione sillabica e
ipoarticolazione delle parole nella catena parlata: ciò è dovuto alla velocità dell'eloquio e alla ridotta
attenzione che il parlante pone ai tratti di esplicitazione formale del messaggio (avremo quindi parole
pronunciate tutte attaccate, 'sto/'sta al posto di questo/questa ecc.). A livello morfosintattico invece il
registro è indicato dall'uso degli allocutivi e delle forme con cui ci si rivolge agli interlocutori: dare del tu
indica generalmente un registro informale, dare del lei è tipico del registro formale. Nel lessico abbiamo
inoltre un'infinità serie di termini sinonimi differenziati per registro: andare/recarsi, inizio/esordio,
regalare/donare ecc. E' inoltre tipico dei registri bassi l'uso di termini fortemente espressivi, metaforici o in
genere connotati come volgari, mentre il registro formale usa termini aulici letterari e rari.

Caratteristica dei sottocodici sono i termini tecnici o scientifici dei rispettivi settori: lessema, morfema,
sintagma sono ad esempio termini tecnici del sottocodice della linguistica.

Ogni parlante di una determinata lingua ha a propria disposizione una certa gamma di registri in cui si
muove a seconda del carattere della situazione e a seconda dell'attività in cui è impegnato possiede o no
determinati sottocodici.

La variazione diafasica ha molti tratti in comune con la variazione diamesica, in quanto la lingua
tipicamente parlata tende a coincidere con il registro informale mentre la lingua tipicamente scritta tende a
coincidere con registro formale.
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Anche nella diafasia abbiamo due dimensioni connesse fra di loro La prima è connessa al carattere fisico del
mezzo, l'altra è connessa alle caratteristiche strutturali di elaborazione interna del messaggio. Nella
produzione e nella struttura dei messaggi possiamo quindi distinguere da una parte un modo fonico
opposto ad un modo grafico (per quanto riguarda il supporto fisico del messaggio) e dall'altro un modo
parlato opposto ad un modo scritto (che riguarda l'organizzazione linguistica interna del messaggio). Il
titolo di un articolo di giornale o un testo tecnico sono tipicamente "scritto grafico", mentre
un'esclamazione come "ehi molla sta borsa!" è tipicamente "parlato fonico". Nella comunicazione attuata
attraverso le nuove tecnologie è sempre più frequente trovare produzione linguistiche che presentano
contemporaneamente i caratteri strutturali del modo parlato e di quello grafico (es. "sei 3mendo!").

Ogni dimensione rappresenta un asse di variazione della lingua su cui si possono collocare le diverse varietà
di lingua. Col termine "architettura di una lingua" indichiamo l'insieme delle varietà di lingua in cui si
articola una lingua storico naturale in un dato periodo temporale e la loro collocazione lungo i diversi assi di
variazione.

7.2.3 Repertori linguistici.


Il repertorio linguistico di una comunità è l'insieme delle varietà di lingue presenti in quella comunità
sociale. Possono essere varietà della stessa lingua varietà di più lingue diverse: avremo quindi repertori
monolingui e repertori plurilingui. Nell'ambito di un paese o di una nazione i repertori monolingue sono
piuttosto rari in quanto è abbastanza comune la presenza di più lingue nel repertorio. Quando parliamo di
comunità che coincidono con un paese o con uno stato avremo in genere che almeno una delle lingue
presenti nel repertorio, in genere la lingua nazionale e ufficiale, ha una varietà standard. La varietà
standard di una lingua è quella codificata da una norma prescrittiva, che ha manuali di riferimento come
grammatica e dizionari e una tradizione letteraria prestigiosa e di lunga data; è tendenzialmente unitaria, è
adottata come modello per l'insegnamento scolastico ed è ritenuta dai parlanti la lingua "buona" e
"corretta".

Contrapposta alla lingua standard troviamo nel repertorio linguistico anche dei dialetti, vale a dire varietà di
lingua di uso prevalentemente orale che hanno un'estensione ed una diffusione geografica e demografica
inferiore rispetto la lingua standard, esprimendo una realtà e una cultura regionale o locale.

Il concetto di dialetto però non è così lineare: Possono essere dialetti dei sistemi linguistici strettamente
imparentati con la lingua standard ma che hanno una struttura è una storia autonoma (questo è il caso dei
dialetti italiani, che non sono varianti diatopiche dell'italiano ma vere e proprie lingue sorelle, derivate dal
latino, una delle quali, il fiorentino, acquisì un particolare prestigio e nel '500 fu codificato come italiano
standard sulla base di ragioni culturali, letterarie, storico-politiche ed economiche, non linguistiche.

Possono ugualmente essere considerati i dialetti delle varietà che risultano dalla diversificazione di una
certa lingua su base territoriale, dopo che questa si è diffusa in un determinato Paese (ad esempio i dialetti
inglesi d'America, che negli Stati Uniti rappresentano varietà diatopiche dell'inglese consolidate nelle
diverse aree geografiche).

All'interno di un repertorio troviamo anche lingue di minoranza: si tratta di varietà di lingue non
imparentate con la lingua standard, che rappresentano una cultura ed una tradizione diverse da quella
dominante del paese, sono parlate da gruppi demograficamente inferiori rispetto al resto della popolazione
del paese e costituiscono quindi " minoranze linguistiche". In Italia le minoranze linguistiche ufficialmente
riconosciute sono tre: la tedescofona, in Alto Adige, la francofona, in Valle d'Aosta e la slovena, in provincia
di Trieste e di Gorizia. A queste si aggiungono una dozzina di altre lingue o varietà di lingua minoritarie
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riconosciute dalla legge 482/99 (ad es. l'albanese nel sud Italia, il Catalano in Sardegna, il Grecanico in
provincia di Lecce e di Reggio Calabria.

Nei repertori plurilingui raramente accade che i diversi sistemi linguistici siano sullo stesso piano e svolgano
le stesse funzioni: la situazione più diffusa è quella in cui le diverse lingue o varietà di lingue sono
diversificate tra di loro per funzioni e collocazione nel repertorio e quindi per prestigio. Questa situazione è
indicata col termine diglossia, che si riferisce appunto ad una situazione di bilinguismo in cui gli ambiti di
ogni lingua sono nettamente separati tra di loro. In una situazione di diglossia una delle varietà linguistiche
è tipicamente usata nello scritto e nelle situazioni formali ed ufficiali, è insegnata a scuola ma non viene
comunemente parlata in famiglia (questa varietà viene detta lingua alta), mentre l'altra viene impiegata
nell'uso quotidiano ed informale (ed è definita lingua bassa). Un esempio classico è il tedesco standard
rispetto ai vari dialetti tedeschi. Una situazione leggermente differente è quella in cui abbiamo l'italiano e i
dialetti locali: l'uso dell'italiano non è limitato alle situazioni formali ed ufficiali ma viene usato anche nella
lingua parlata quotidiana. Questo tipo di repertorio si indica con il termine dilalia.

7.2.4 Il contatto linguistico.


Fra le diverse lingue che sono presenti in un repertorio e, più in generale, fra le diverse lingue con cui i
parlanti entrano in contatto, si crea tutta una serie di fenomeni che sono condizionati dai caratteri
sociolinguistici delle comunità interessate. I principali fenomeni del contatto linguistico sono l'interferenza,
i prestiti e la commutazione di codice.

L'interferenza è il risultato dell'influenza di un sistema linguistico su di un altro ed essenzialmente consiste


nel passaggio di materiali linguistici (parole, regole, costrutti, categorie ecc.) da una lingua all'altra.
L'interferenza riguarda tutti i livelli di analisi ed è particolarmente evidente nei parlanti bilingue. Spesso si
manifesta sotto la superficie linguistica: il materiale linguistico di superficie appartiene ad una lingua ma il
modo in cui è organizzato risente dell'influsso dell'altra lingua (un esempio è la diffusione in italiano di un
costrutto con il superlativo relativo accompagnato da un ordinale - es.la seconda montagna più alta della
terra - costrutto tipicamente inglese e sconosciuto in italiano, in cui il superlativo relativo a un referente
unico).

Il prestito è il risultato del passaggio da una lingua all'altra di materiale linguistico di superficie (fonemi,
morfemi, parole ecc.), tipicamente elementi lessicali. L'uso dei prestiti non implica necessariamente il
bilinguismo dei parlanti: Appropriarsi di unità lessicali di un'altra lingua è un tratto storicamente comune a
tutte le lingue, e gli esempi si potrebbero contare a migliaia. In genere i prestiti subiscono un adeguamento
alle strutture proprie del sistema ricevente, per esempio nella fonetica o nella morfologia o nel significato,
diventando così parte integrante della lingua che li accoglie (es. stagista, integrazione morfologica con
aggiunta del suffisso derivazionale -ista del termine francese "stage", tirocinio).

Quando a passare da una lingua all'altra è il significato o la struttura interna di una parola, che viene resa
con i mezzi propri della lingua ricevente, parliamo di calco linguistico: grattacielo è un calco dall'inglese sky-
scraper.

La commutazione di codice invece riguarda i fenomeni che avvengono sul piano del discorso ed è un
comportamento tipico dei parlanti bilingui. Per commutazione di codice si intende infatti l'uso alternato di
due lingue diverse (codici appunto) nella stessa interazione comunicativa da parte dello stesso parlante.
Questo passaggio può avvenire con il cambiamento dell'interlocutore a cui parlante si rivolge o con il
cambiamento della funzione/ atto linguistico che il parlante intende compiere, oppure può venire quando il
parlante passa da una lingua all'altra in un punto qualsiasi del suo discorso senza che ci sia un mutamento
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di situazione o di funzione pragmatica. La commutazione può avvenire in linea di principio fra due
qualunque delle varietà di lingua presenti in un repertorio e possedute dal parlante, quindi anche fra lingua
e dialetto.

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