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COLLOQUIUM

USO, RIUSO E ABUSO


DEI TESTI CLASSICI
A cura di
Massimo Gioseffi
COLLOQUIUM

USO, RIUSO E ABUSO


DEI TESTI CLASSICI
A cura di
Massimo Gioseffi
Edizione a stampa 2010
ISBN 978-88-7916-428-3
Edizione e-book 2012
ISBN 978-88-7916-568-6

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In copertina:
Laocoonte. Gruppo marmoreo (part.), Musei Vaticani
(elaborazione digitale di Jacopo Mascheroni)
http://sites.google.com/site/giovannidibrino

Videoimpaginazione: Paola Mignanego


Stampa: ..........................
Sommario

Massimo Gioseffi
Prefazione 7

Parte prima
Dal tardoantico all’età moderna
Luigi Pirovano
La Dictio 28 di Ennodio. Un’etopea parafrastica 15

Isabella Canetta
Diversos secutus poetas. Riuso e modelli nel commento 53
di Servio all’Eneide

Martina Venuti
La materia mitica nelle Mythologiae di Fulgenzio. La Fabula 71
Bellerofontis (Fulg. myth. 59.2)

Alessia Fassina
Il ritorno alla fama prior: Didone nel centone Alcesta 91
(Anth. Lat. 15 R.2)

Sandra Carapezza
Funzioni digressive nella didattica medievale. Psychomachia, 105
Anticlaudianus e L’Intelligenza

Cristina Zampese
«Nebbia» nei Rerum Vulgarium Fragmenta. Appunti 121
per un’indagine semantica

5
Sommario

Parte seconda
Il Cinquecento
Davide Colombo
«Aristarchi nuovi ripresi». Giraldi, Minturno e il riuso 153
dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

Guglielmo Barucci
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie 183
dalla villeggiatura

Marianna Villa
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno 209

Michele Comelli
Sortite notturne cinquecentesche. I casi di Trissino 233
e Alamanni

Parte terza
Il Novecento
Marco Fernandelli
«Inviolable voice»: studio su quattro poeti dotti 267
(Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

Massimo Gioseffi
Dalla parte del latino. Citazioni classiche in tre autori 303
del Novecento

Luigi Ernesto Arrigoni


Il carme 31 da Catullo a Quasimodo sotto il segno 357
di Vento a Tìndari

Giuliano Cenati
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini 387

Indice dei nomi 407

6
Massimo Gioseffi
Prefazione

In una pagina famosa de I Buddenbrook di Thomas Mann (1901), il


console Thomas si interroga circa l’educazione futura del figlio Hanno:
Hätte Senator Buddenbrook zwei Söhne besessen, so hätte er den jün-
geren ohne Frage das Gymnasium absolvieren und studieren lassen.
Aber die Firma verlangte einen Erben, und abgesehen hiervon glaubte
er dem Kleinen eine Wohltat zu erweisen, wenn er ihn der unnötigen
Mühen mit dem Griechischen überhob. 1

Non è la prima volta che, nel libro, educazione classica ed educazione


tecnica vengono a conflitto. Già nelle prime pagine del romanzo il
vecchio Johann, bisnonno di Hanno, si era posto un’analoga questio-
ne. Siamo nel 1835, una quarantina d’anni prima della scelta che si
impone a Thomas:
«Praktische Ideale … ne, ich bin da gar nich für!» Er verfiel von Ver-
druß in den Dialekt. «Da schießen nun die gewerblichen Anstalten
und die technischen Anstalten und die Handelsschulen aus der Erde,
und das Gymnasium und die klassische Bildung sind plötzlich Bêtisen,
und alle Welt denkt an nichts, als Bergwerke … und Industrie … und

1
Th. Mann, Buddenbrooks. Verfall einer Familie, 10.2, p. 620 nell’edizione
Frankfurt a.M., 1960, 20027, da cui cito. Ecco la traduzione italiana, non fedelis-
sima, di Anita Rho, Torino 1952 (p. 565 nella ristampa 1994): «Se il senatore Bud-
denbrook avesse avuto due figli, certamente al secondo avrebbe fatto fare il liceo
[scil. classico] e terminare gli studi. Ma la ditta aveva bisogno di un continuatore,
e oltre a ciò, Thomas credeva di fare il bene del ragazzo dispensandolo dalle inutili
fatiche del greco».

7
Massimo Gioseffi

Geldverdienen … Brav, das alles, höchst brav! Aber ein bißchen stu-
pide, von der anderen Seite, so auf die Dauer». 2

Il latino e la cultura antica non sempre faranno bella figura nel seguito
del racconto. Le lezioni del pastore Hirte frequentate dai nipoti del
vecchio patriarca, ad esempio, non sembrano un gran modello educa-
tivo (2.3); la lettura obbligata della seconda Catilinaria di Cicerone da
parte del giovane Christian è motivo di disapprovazione per il padre
(3.1):
«Ich habe, im Gegensatze zu meinem seligen Vater, immer meine
Einwände gehabt gegen diese fortwährende Beschäftigung der jungen
Köpfe mit dem Griechischen und Lateinischen. Es gibt so viele ernste
und wichtige Dinge, die zur Vorbereitung auf das praktische Leben
nötig sind …». 3

Di generazione in generazione, di caso in caso, il romanzo non fa che


ripercorrere una polemica sviluppatasi per oltre due secoli, che vede
lo studio delle letterature classiche – un tempo pilastro incontestato
nella formazione di qualsiasi persona cólta – messo sempre più in di-
scussione in nome dell’avvento di nuove generazioni, di nuovi bisogni
e nuove conoscenze, e della richiesta, più volte e in vari modi formu-
lata, di un riscontro immediato del sapere nella vita quotidiana. Non
è questa la sede per ripercorrere tale polemica. Interessa piuttosto
ricordare che nel seguito del romanzo, quando Mann ricostruisce una
giornata del piccolo Hanno, il latino vi ha ancora gran parte (11.2).
Dunque, nella scuola tecnica della Lubecca di tardo Ottocento il la-
tino era materia di insegnamento: e poco importa che quell’insegna-
mento sia cattivo o che la sua inutile barbarie venga derisa, come in
tutta la tradizione borghese, dal narratore …

2
Ivi, 1.5, p. 28 (trad. ital., p. 24: «Ideali pratici … no, non è roba per me!
Adesso spuntano dappertutto gli istituti professionali e tecnici, e le scuole com-
merciali, mentre i ginnasi e la cultura classica diventano di punto in bianco scioc-
chezze, e non si pensa più ad altro che a miniere … e industrie … e a far quattrini.
Bellissimo, tutto questo, bellissimo! Ma un po’ stupido, d’altra parte, alla lunga …
no?»).
3
Ivi, p. 96 = 90: «All’opposto del mio povero babbo, io non ho mai approvato
che le giovani menti si nutrano con tanta abbondanza di greco e di latino. Ci sono
altre cose serie e importanti, necessarie per la preparazione alla vita pratica …».

8
Prefazione

Nella storia della cultura occidentale due fattori sembrano avere


assunto un peso decisivo. Il primo è l’adozione, fino alla nostra più
stretta contemporaneità, della lettura diretta degli autori – gli aucto-
res – all’interno della scuola, accanto, e qualche volta addirittura al po-
sto, dei «manuali» nati per le specifiche esigenze didattiche. Il secon-
do è la mancata sostituzione del canone degli autori. Quando Roma,
sull’esempio della civiltà ellenistica da lei incontrata nelle colonie della
Magna Graecia, fondò una propria scuola, sia pure non ancora del tut-
to istituzionalizzata o controllata dal potere centrale, come prima cosa
si procurò adeguati libri di testo, all’inizio traducendo nella propria
lingua le opere greche (Livio Andronico), poi creandone di nuove,
che alla storia e alla cultura di Roma si ispirassero in toto (Nevio e En-
nio). Nel passaggio da quella che convenzionalmente chiamiamo l’età
arcaica alla Roma classica avvenne un ulteriore mutamento del canone
scolastico, e alle opere dei poeti sopra citati si sostituirono quelle dei
più vicini Virgilio, Orazio, Ovidio ecc. Identico mutamento non si
rea­lizzò invece nel tardoantico, e non si realizzò in età medievale. Non
che i canoni non siano mutati anche allora, con aggiunte, modifiche,
perdite di autori non più avvertiti come necessari o attuali. Ma, nella
sostanza, le basi della cultura e della scuola, che quella cultura – e le
sue possibilità d’esistere – si faceva carico di conservare e riprodurre,
rimasero identiche, mantenendosi in gran parte fondate sui testi sele-
zionati nella prima età imperiale. Ciò significa che quei testi, per ovvia
consequenzialità di cose, vennero letti e «riletti» in continuazione,
intendendo quest’ultimo termine nel suo doppio significato: perché
generazione dopo generazione dovettero essere riadattati ai bisogni e
a un sapere nuovi, pur rimanendo formalmente gli stessi.
Da una simile constatazione nasce la presente miscellanea, terza
di una serie realizzata nel corso di un decennio. Sono infatti raccolti i
lavori di alcuni giovani studiosi, molti dei quali giovanissimi (dottori
o dottorandi di ricerca), altri inevitabilmente più âgés, in vario modo
connessi alle sedi universitarie di Milano, Trieste e Venezia, che nella
costellazione dei settori disciplinari previsti dalle attuali disposizioni di
legge si collocherebbero fra latinistica, italianistica e contemporanei-
stica. L’idea che sorregge il tutto è prendere in considerazione, attra-
verso casi esemplari di diversi, possibili rapporti e tipologie di rappor-
to, tre momenti fondamentali nella storia dello sviluppo della scuola
e dell’uso della cultura classica come prodotto di un sapere di scuola:

9
Massimo Gioseffi

il tardoantico, con qualche escursione verso l’ultimo Medioe­vo, nel


quale si sono poste, o ri-poste, le basi del fenomeno appena descritto,
e se ne sono avvertite le prime conseguenze; il Cinquecento, nel quale
il fenomeno, rinnovato dalla scuola umanistica, si è riprodotto in tutta
la sua pienezza; il Novecento, nel quale più forti si sono fatte le con-
testazioni a questo stato di cose, ma non meno forti sono pur sempre
apparse le sue manifestazioni. Naturalmente si potevano individuare
molti altri casi, di pari valore ed importanza, e la selezione proposta
non pretende di esaurire l’argomento e le sue infinite possibilità, né
dal punto di vista degli autori e dei periodi prescelti, né da quello
delle riprese messe in luce. In linea di principio, ogni intervento do-
vrebbe avere, oltre che un suo interesse specifico, anche il compito
di evidenziare una particolare tipologia di riuso. Pirovano e Canetta
focalizzano perciò la loro attenzione sul destino dei testi virgiliani nel-
la scuola del retore e in quella del grammatico; Venuti e Fassina si in-
teressano all’epica classica (Omero e, ancora, Virgilio) quale base per
composizioni di altro genere, che mescolino istanze ‘antiche’ e istanze
‘moderne’ – ossia, contemporanee al nuovo autore. Carapezza indaga
il dipanarsi di un topos attraverso più epoche e più testi; Zampese
ricostruisce le ricorrenze petrarchesche di una parola/simbolo e le sue
radici antiche. Venendo ad altro periodo, Colombo mette al centro
del proprio lavoro i condizionamenti imposti dai testi classici alle poe-
tiche moderne; Barucci il sorgere di un’idea destinata a pesare sull’im-
maginario dei secoli a venire, la campagna intesa come rifugio dai mali
della città; Villa si interessa al variare dell’immagine di un personaggio
antico; Comelli a quello di una struttura narrativa tipica del­l’epica.
Passando al secolo da poco concluso, Fernandelli ricostruisce la fi-
gura del poeta doctus attraverso l’opera di Thomas Stearns Eliot e dei
suoi immediati antecedenti; Gioseffi indaga il valore e la credibilità
di talune citazioni in racconti e romanzi moderni; Arrigoni incentra
il suo studio su un poeta/traduttore; Cenati sull’ambiguo e tortuoso
rapporto che lega alla cultura classica anche uno scrittore che, per
altri versi, contesta violentemente sia quella cultura sia il suo abuso in
talune sfere politiche e sociali. Il percorso tracciato dai diversi inter-
venti dovrebbe sottolineare come, da parte dell’autore (o degli autori)
«moderni» fatti oggetto di studio, si avverta sempre uno sfruttamento
sistematico del testo antico, dovuto ai condizionamenti di chi scrive
e del suo pubblico ideale; ma in tale procedimento, che per forza di

10
Prefazione

cose non rispetta e non può rispettare la specificità storica del testo
di partenza, l’originale diviene la fonte necessaria a rendere possibile
una creazione autonoma e nuova, nella quale si perde e si sublima
allo stesso tempo. L’uso, insomma, non è mai distaccato dal riuso, ma
questi non lo è dall’abuso delle intenzioni di partenza. Eppure, senza
un simile abuso non ci sarebbero né produzione autonoma, né novità
di creazione 4.

4
I saggi sono stati consegnati dagli autori per la fine del 2007; una serie di
circostanze diverse, delle quali il curatore si fa carico, ha determinato il ritardo della
pubblicazione. A quella data si intendono pertanto aggiornati i riferimenti biblio-
grafici e cronologici.

11
Parte prima
dal tardoantico
all’età moderna
Luigi Pirovano
La «Dictio» 28 di Ennodio
Un’etopea parafrastica

1. Problemi di classificazione

Secondo un’opinione piuttosto diffusa presso la critica moderna, nelle


cosiddette dictiones ethicae di Ennodio (24-28 Sirmond) 1 si dovrebbe
vedere un esempio di realizzazione pratica dell’esercizio scolastico
della suasoria  2, in modo da ottenere una sorta di ideale pendant ri-

1
Dictio 24 (= CCVIII Vogel) Dictio ex tempore quam ipse Deuterius iniunxit
(Verba Diomedis, cum uxoris adulteria cognovisset); 25 (= CCXX V.) Verba Theti-
dis cum Achillem videret extinctum; 26 (= CDXIV V.) Verba Menelai, cum Troiam
videret exustam; 27 (= CDXXXVI V.) Verba Iunonis, cum Antaeum videret parem
viribus Herculis extitisse; 28 (= CDLXVI V.) Nec tibi diva parens.
2
È il parere, ad esempio, di P.F. Magani, Ennodio, Pavia 1886, I, pp. 282-
300; H. North, The Use of Poetry in the Training of the Ancient Orator, «Traditio»
8, 1952, p. 14; L. Navarra, Le componenti letterarie e concettuali delle «Dictiones»
di Ennodio, «Augustinianum» 12, 1972, pp. 465 e 472-473; C. Fini, Le fonti delle
«Dictiones» di Ennodio, «AAntHung» 30, 1982-1984, p. 387; S.A.H. Kennel,
Ennodius and the Pagan Gods, «Athenaeum» 80, 1992, p. 237; M. Carini, Recenti
contributi alla critica ennodiana, «QC» 9, 1987, p. 335. Parlano genericamente di
«declamazioni» D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, Livorno 18722 (rist. Firenze
1941), p.  76 nt.  3; M. Roger, L’enseignement des lettres classiques d’Ausone à
Alcuin, Paris 1905, p.  191; W. Schetter, Die Thetisdeklamation des Ennodius, in
A. Lippold  - N. Himmelmann (Hrsg.), Bonner Festgabe Johannes Straub zum 65.
Geburstag, Bonn 1977, pp. 395-412 (con riferimento alla Dictio 25); M. Squillante
Saccone, Le «Interpretationes Vergilianae» di Tiberio Claudio Donato, Napoli 1985,
p. 19; S.A.H. Kennel, Magnus Felix Ennodius. A Gentleman of the Church, Ann
Arbor 2000, p. 78.

15
Luigi Pirovano

spetto alle dieci controversiae (dictiones 14-23 S.) conservate nel corpus
ennodiano. La palese circolarità di questo ragionamento ne denuncia
però la mancanza di fondamento: in realtà, fermo restando lo stretto
legame che le dictiones ethicae intrattengono con la realtà delle scuole
tardoantiche e le tipologie di esercizio allora proposte nella prassi di-
dattica, pare indubbio che la loro particolare fisionomia si confaccia
piuttosto al progymnasma dell’etopea, per certi versi simile alle decla-
mazioni, ma più semplice e meno avanzato di quelle nel corso di studi
antico 3.
Poiché le confusioni moderne traggono origine dalla sistemazione
del corpus ennodiano introdotta a suo tempo da Jacques Sirmond  4,
non sarà inopportuno – prima di addentrarci nel problema – aprire
una breve parentesi in proposito. Com’è noto, nei manoscritti in no-
stro possesso  5 le opere di Ennodio sono riportate senza distinzioni
di genere, seguendo un ordine che, con qualche approssimazione, si
può definire cronologico 6. Per cercare di mettere chiarezza in un in-
sieme tanto complesso e disordinato, Sirmond pensò di suddividere
gli scritti ennodiani in base a criteri di carattere formale, introducen-
do così una classificazione che divenne canonica per la sua comodità

3
Così, correttamente, M. Schanz - C. Hosius - G. Krüger, Geschichte der
Römischen Literatur, IV.2, München 1959, p. 143 (§ 1073); O. Schissel, Severus von
Alexandreia. Ein verschollener griechischer Schriftsteller des IV. Jahrunderts n.Chr.,
«BNJ» 8, 1929-1930, p. 4; M.L. Clarke, Rhetoric at Rome. A Historical Survey,
London 1953, London - New York 19963, p. 196 nt. 52; Ch. Heusch, Die Achilles-
Ethopoiie des Codex Salmasianus. Untersuchungen zu einer spätlateinischen Versde-
klamation, Paderborn - München - Wien - Zürich 1997, p. 36; B.-J. Schröder, Cha-
rakteristika der «Dictiones ethicae» und der «Controversiae» des Ennodius, in B.-J. e
J.-P. Schröder (Hrsg.), Studium declamatorium. Untersuchungen zu Schulübungen
und Prunkreden von der Antike bis zur Neuzeit, München - Leipzig 2003, p. 267.
4
Magni Felicis Ennodii Episcopi Ticinensis Opera, Iac. Sirmondus Soc. Iesu
Presb. in ordinem digesta, multisque locis aucta emendavit, ac notis illustravit, Pari-
siis 1611.
5
Per un elenco cfr. C. Fini, Il censimento dei codici di Ennodio, Pisa - Roma
2000.
6
Kennel, Magnus Felix Ennodius cit., pp. 13-16 (con ulteriori rimandi biblio-
grafici); Ead., Ennodius and his Editors, «C&M» 51, 2000, pp. 265-270. Sull’ar-
gomento è tornato di recente S. Gioanni, Nouvelles hypothèses sur la collection
des oeuvres d’Ennode, in F. Gasti (a cura di), Atti della terza giornata ennodiana
(Pavia, 10-11 novembre 2004), Pisa 2006, pp. 59-76, per il quale il corpus ennodiano
avrebbe ricevuto la fisionomia tramandataci dai codici non nel periodo tardoantico,
bensì in età carolingia.

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La «Dictio» 28 di Ennodio

ed è comunemente utilizzata ancora oggi, nonostante che Friedrich


Vogel, l’ultimo editore di Ennodio 7, abbia recuperato la successione
presente nei manoscritti 8. È però chiaro che tale suddivisione, al di
là dell’indubbia utilità pratica, nasce in partenza come arbitraria, in
quanto rispecchia più la personalità di Sirmond e il gusto estetico del
suo tempo che un’effettiva volontà di Ennodio 9: cosicché può dive-
nire causa di errori o di fraintendimenti, quando la si consideri – e
sovente è capitato! – qualcosa di più rispetto a un semplice strumen-
to di lavoro. Per comprendere la vera natura delle dictiones ethicae è
dunque poco utile domandarsi che cosa Sirmond intendesse realmen-
te con questa designazione, che risulta piuttosto generica e non trova
parallelo nella terminologia dei retori antichi 10. Cercando di prescin-
dere quanto più è possibile dalla classificazione proposta dall’editore,
si rende semmai necessario osservare da vicino le caratteristiche che
contraddistinguono questi brevi componimenti, al fine di stabilire se
la scelta di raggrupparli sotto un’unica etichetta abbia qualche ragio-
ne d’essere e, in via subordinata, se sia possibile ricondurli a una tipo-
logia di esercitazione scolastica che trovi precisi riscontri nel periodo
antico e tardoantico.
Da un punto di vista, per così dire, «esteriore», il tratto distintivo
che sembra caratterizzare maggiormente le dictiones ethicae consiste
nel fatto che in esse l’autore non parla in prima persona, ma pone il
discorso sulle labbra di un personaggio ben definito, tratto dal mi-

7
Magni Felicis Ennodi Opera, Berolini 1885 (MGH AA VII).
8
La classificazione di Sirmond è invece ancora in uso nell’edizione di Wil-
helm Hartel (Magni Felicis Ennodii Opera omnia recensuit G. Hartel, Vindobonae
1882 [CSEL VI]).
9
Così, giustamente, Kennel, Ennodius and his Editors cit., p. 258.
10
È possibile che Sirmond abbia ricavato la denominazione da un passo
dell’epistolario di Sidonio Apollinare (epist. 8.11.6): Huc, ut arreptum suaserat opus,
ethicam dictionem pro personae, temporis, loci qualitate variabat, idque non verbis
qualibuscumque, sed grandibus, pulchris, elucubratis. In materia controversiali fortis
et lacertosus; in satirica sollicitus et mordax. Secondo Heusch, loc. cit., nelle parole
di Sidonio si dovrebbe cogliere un riferimento all’esercizio dell’etopea, ma il succes-
sivo accenno alla materia controversialis lascia aperta la possibilità che egli volesse
alludere alle suasoriae o anche a qualsiasi forma di discorso di tipo «mimetico»,
senza pensare a una precisa fattispecie di esercizio. Schröder, Charakteristika cit.,
pp. 252-253, ricorda giustamente come i manoscritti ennodiani utilizzino il termine
dictio per indicare numerosi e differenti componimenti, mentre l’aggettivo ethicus
non vi ricorre mai.

17
Luigi Pirovano

to o dalla letteratura, di cui si sforza di riprodurre le caratteristiche


espressive. A ben guardare, però, questa particolarità non costituisce
un elemento decisivo per stabilire con precisione la natura dei compo-
nimenti ennodiani, visto che il carattere «mimetico», in astratto, rap-
presenta un aspetto tipico sia delle etopee che delle suasoriae e poteva
interessare, occasionalmente, anche le controversiae 11. Per determina-
re l’ambito di appartenenza delle dictiones ethicae risulta necessario
stabilire quali fossero le differenze sostanziali tra queste tipologie
di esercizio. Dal punto di vista teorico, le declamazioni si distingue-
vano dalle etopee per il fatto di essere impostate su di una quaestio
aperta, che lo studente doveva discutere e risolvere servendosi degli
strumenti dell’inventio retorica 12. In termini più semplici e concreti,
potremmo dire che le etopee prevedevano una situazione di carattere
statico, ormai definita e senza possibilità di ulteriori sviluppi, mentre
le declamazioni erano impostate su una quaestio ancora in fieri, che lo
studente era chiamato a classificare attraverso la dottrina degli status e
a trattare in base alla topica prevista per il caso particolare, cercando
di favorire le ragioni della propria parte (controversiae) o di raggiun-
gere il fine della persuasione (suasoriae) 13.
È evidente che nelle dictiones ethicae di Ennodio la situazione pro-
posta risulta in tutti i casi definita e ormai priva di possibili sviluppi:

11
Seneca il Retore parla di una categoria di controversie, denominate per l’ap-
punto ethicae, nelle quali l’aspetto mimetico stemperava l’avversione del giovane
Ovidio verso la freddezza dell’argomentazione (contr. 2.2.12): Declamabat autem
Naso raro controversias et non nisi ethicas. Libentius dicebat suasorias. Molesta illi
erat omnis argumentatio. In aggiunta, Sulpicio Vittore definisce ethicae le causae
impostate sull’imitazione di un «tipo» di persona (rhet. 316.9-14 Halm): Ethica
igitur erit causa, id est moralis, cum erit suscipienda persona vel rustici vel dyscoli, aut
patris indulgentis aut contra severi. In eiusmodi causis, si † eas intellexerimus, <pote-
rimus> id facere, quod fieri oportebit, ut omnis oratio personarum apta sit moribus.
Pathetica est causa, cum personae eius quae loquitur repraesentandus adfectus est.
12
Cfr. D.A. Russell, Greek Declamation, Cambridge 1983, p. 12: «The essen-
tial difference between ethopoiia and melete is that the former has no ‘question’
(zetema); this means it has no legal setting and pleads no case».
13
Scrive H. Bornecque, Les déclamations et les déclamateurs d’après Sénèque
le Père, Lille 1902, p. 50, a proposito delle sole suasoriae: «En effet elles se rappro-
chent des éthopées, traitées chez le grammairien, avec cette différence que l’éthopée
place le personnage auquel elle se rapporte en face d’un fait accompli ou d’une
résolution prise […], au lieu que les suasoriae portent sur une action à accomplir ou
sur une décision à prendre».

18
La «Dictio» 28 di Ennodio

nella Dictio 24 Diomede, tornando ad Argo dopo la guerra di Troia,


esprime i propri sentimenti di fronte al tradimento della moglie Egia-
lea; nel componimento successivo (25) Teti lamenta la morte inevita-
bile del figlio Achille, nel momento in cui questi viene riconosciuto
presso Sciro 14; quindi è la volta di Menelao, che di fronte all’incendio
di Troia può sfogare il proprio desiderio di vendetta (26); nella Dic-
tio 27 viene data voce a Giunone durante il duello mortale tra Anteo e
l’odiato Eracle; infine, nella Dictio 28 Didone abbandonata esprime la
sua disperazione per la partenza di Enea. In nessuno dei casi proposti
vi è il minimo spazio per la persuasione o la disputa: il protagonista
è sempre di fronte a una situazione ben definita e dal forte impatto
emotivo, che è causa del suo sfogo e che, al tempo stesso, ne deter-
mina le caratteristiche stilistiche ed espressive. Prendendo a prestito
la terminologia tecnica dei retori antichi, potremmo perciò dire che
le dictiones ethicae di Ennodio sono delle etopee del tipo ærismšnwn
prosèpwn, vale a dire poste sulle labbra di personaggi determinati,
e paqhtika…, cioè rappresentative di uno stato d’animo sconvolto da
emozioni violente e temporanee.
Tra di esse ve n’è però una – e questo non emerge in nessun modo
dalla classificazione di Sirmond – che presenta delle caratteristiche
del tutto particolari, in virtù dello stretto rapporto che intrattiene,
diversamente dalle altre, con un testo poetico di riferimento. Mi ri-
ferisco alla Dictio 28, che si presenta come una libera rielaborazione
del celebre sfogo posto da Virgilio sulle labbra di Didone abbando-
nata (Aen.  4.365-387) ed è seguita da una sorta di «appendice» in
versi – anche questo è un caso unico in tutte le dictiones – nella quale
Ennodio riprende alcuni temi presenti nel suo componimento e sem-
bra quasi misurarsi con il modello in un ideale agone poetico. Natu-
ralmente, anche le altre dictiones ethicae si rifanno genericamente a
un episodio mitologico, oppure riecheggiano più o meno da vicino,
tramite il gioco dell’allusione cólta, qualche passaggio isolato di un
testo letterario; ma solo in questo caso è dato cogliere un rapporto di
dipendenza così stretto ed univoco con un modello di riferimento. Il
fatto stesso che la Dictio 28 abbia come titolo un emistichio virgiliano

14
Cfr. in proposito Schetter, Die Thetisdeklamation cit.; Schröder, Charakte-
ristika cit., p. 265.

19
Luigi Pirovano

(Aen. 4.365 Nec tibi diva parens) 15, laddove le altre dictiones ethicae
so­no introdotte da una formula convenzionale, riconducibile a quelle
presenti nei manuali progimnasmatici  16, può risultare significativo:
dietro la differente titolazione sembrano nascondersi due esercizi in
sostanza diversi; o meglio, come cercherò di dimostrare, due diverse
varianti del medesimo esercizio.
Tale particolarità ha finito però per creare alcuni ulteriori proble-
mi di definizione: lo stretto rapporto che lega la Dictio 28 al modello
virgiliano ha infatti indotto alcuni studiosi a classificarla come una
semplice «parafrasi» dello sfogo di Didone 17, mentre più di recente
Bianca-Jeanette Schröder, criticando alla base la suddivisione di Sir-
mond, ha suggerito di vedere nel nostro componimento la rielabora-
zione stilistica di un locus Vergilianus, che poco o nulla avrebbe a che
spartire con le altre dictiones ethicae 18. Non so fino a che punto queste
proposte colgano nel segno: nessuna parafrasi, per quanto libera, può
permettersi una rielaborazione del modello tanto radicale come quella

15
In maniera indebita e contro l’autorità dei manoscritti, Schott e Sirmond
hanno proposto di modificare il titolo tràdito, forgiandolo sul modello delle altre
dictiones ethicae (rispettivamente, Didonis morientis ad Aeneam verba e Verba Dido-
nis cum abeuntem videret Aenean). È interessante rilevare fin d’ora che il medesimo
titolo è preposto ad Anth. Lat. 255 R.2 (= 249 Sh.B.), un componimento poetico
d’argomento virgiliano su cui avremo modo di soffermarci più avanti.
16
In particolare, i titoli preposti da Ennodio richiamano alla lettera Drac.
Romul. 4 (Verba Herculis cum videret Hydriae serpentis capita pullare post caedes) e
Anth. Lat. 198 R.2 ([= 189 Sh.B.] Verba Achillis in Parthenone cum tubam Diomedis
audisset). In realtà, nessun manuale tramandatoci presenta questa formulazione,
ma la sua ricorrenza in tre ambiti e periodi differenti lascia ipotizzare che si trat-
tasse di un’espressione convenzionale, alternativa – e sicuramente precedente – a
quella introdotta da Prisciano (quibus verbis uti posset) sulla scorta della tradizione
greca.
17
Magani, Ennodio cit., p. 285: «amplificazione del verso di Virgilio: nec tibi
diva parens»; Navarra, Le componenti letterarie cit., p. 473: «un’interminabile serie
di variazioni sull’emistichio virgiliano nec tibi diva parens generis»; Fini, Le fonti
delle «Dictiones» cit., p. 387: «una parafrasi […], una versione in prosa, del pianto
di Didone del IV libro dell’Eneide»; G. Solimano, in Ead. (ed.), Epistula Didonis
ad Aeneam, Genova 1988, p. 11 nt. 7: «parafrasi di parti significative» dell’originale
virgiliano.
18
Schröder, Charakteristika cit., p. 262: «Die fünfte Dictio in der von Sir-
mond zusammengestellten Gruppe […] soll im folgenden beiseite bleiben, da sie
auf den ersten Blick zu einer anderen Art Ubung gehört, der Ausschmückung eines
locus Vergilianus».

20
La «Dictio» 28 di Ennodio

proposta da Ennodio; mentre la definizione di locus Vergilianus ri-


sulta fuorviante, in quanto indica genericamente un componimento
posto in qualche rapporto di dipendenza con il modello virgiliano,
senza lasciarsi ricondurre a nessuna precisa tipologia di esercitazio-
ne scolastica antica 19. Sulla base di queste considerazioni e di quelle
precedentemente esposte, credo allora che la Dictio 28 sia a tutti gli
effetti un’etopea, visto che, in analogia alle altre dictiones ethicae, si

19
In effetti, l’unico testo tramandato con il titolo di Locus Vergilianus è Anth.
Lat. 223 R.2 = 214 Sh.B., un breve componimento in versi attribuito al poeta afri-
cano Coronato (Coronati viri clarissimi locus Vergilianus: Vivo equidem vitamque
extrema per omnia duco): cfr. G. Cupaiuolo, Un «locus Vergilianus» nell’Anthologia
Latina, «BStudLat» 6, 1976, pp. 37-53; S. Timpanaro, Problemi critico-testuali e lin-
guistici nell’Anthologia Latina I, in Id., Contributi di filologia e di storia della lingua
latina, Roma 1978, pp. 569-593 (= «SIFC» n.s. 25, 1951, pp. 33-48); S. McGill,
Other Aeneids: Rewriting Three Passages of the Aeneid in the Codex Salmasianus,
«Vergilius» 49, 2003, pp. 96-101; L. Cristante, Appunti su Coronato grammatico e
poeta (a proposito di Anth. Lat. 223-223a R. = 214-215 S.B.), «Incontri Triestini di
Filologia Classica» 3, 2004, pp. 247-260; S. McGill, Virgil Recomposed. The Mytho-
logical and Secular Centos in Antiquity, Oxford - New York 2005, p. XIX. In esso
l’autore immagina le parole che Enea avrebbe potuto pronunciare – ma, di fatto,
nell’Eneide non pronuncia – in seguito a un evento disastroso che ha distrutto la sua
flotta. Il titolo rimanda ad Aen. 3.315 (Enea risponde alle domande di Andromaca),
ma il contenuto sembra presentare solo qualche superficiale punto di contatto con
quell’episodio. Nell’apparato della sua edizione, Shackleton Bailey (seguito da
McGill, loc. cit.) ha perciò proposto di mettere in relazione il componimento con
l’incendio delle navi di Aen. 5.604, supponendo che la citazione del verso virgiliano
sia dovuta non a Coronato, bensì a un errore del lemmatista dell’Anthologia. Per
contro Timpanaro, Problemi critico-testuali cit., p. 581, e Cristante, Appunti cit.,
p. 256, hanno rilevato come la scena descritta sembri rimandare piuttosto all’idea di
un naufragio, durante il quale le donne troiane avrebbero avuto un ruolo di primo
piano nella messa in salvo della flotta: il componimento si riferirebbe dunque a un
episodio precedente al quinto libro. La corretta soluzione dipende in gran parte
dalla scelta di considerare Anth. Lat. 223a R.2 = 215 Sh.B. come un carme a sé
stante, oppure come la continuazione di questo testo. Io sono però d’accordo con
McGill, Other Aeneids cit., p. 97, nel ritenere che, a prescindere dalla sua esatta
interpretazione, l’opera di Coronato debba essere classificata come un’etopea paqh­
tik», in cui Enea esprime le proprie violente emozioni in seguito a un avvenimento
inatteso, quale che esso sia: cosicché la designazione di locus Vergilianus – se pure
risale all’autore e non a un interpolatore – starebbe semplicemente a indicare un
componimento «with a Virgilian pedigree», senza riferimento all’esatta tipologia di
esercizio scolastico riprodotto. Sulla figura di Coronato, cfr. anche L. Cristante,
Grammatica di poeti e poesia di grammatici, in F. Gasti (a cura di), Grammatica e
grammatici latini: teoria ed esegesi, Atti della prima Giornata ghisleriana di filologia
classica (Pavia, 5-6 aprile 2001), Como 2003, pp. 75-92.

21
Luigi Pirovano

configura come un esercizio finalizzato a riprodurre le parole che un


determinato personaggio avrebbe pronunciato in una situazione ricca
di pathos, secondo il meccanismo della aversio ab oratore 20. Questa,
dal punto di vista retorico, è la caratteristica saliente della dictio, ri-
spetto alla quale gli altri aspetti rivestono un ruolo secondario e, per
così dire, accessorio. È però senz’altro vero che le proposte alterna-
tive di classificazione mettono in luce un problema reale, visto che
la tradizionale definizione di «etopea», quale normalmente emerge
dai manuali e dagli esempi pratici che ci sono stati tramandati, non
permette di rendere conto dello stretto rapporto di dipendenza che
lega la composizione di Ennodio al modello virgiliano. Pertanto, si
dovrà parlare di un’etopea con dei tratti parafrastici, oppure di un
esercizio che presenta al tempo stesso tratti caratteristici dell’etopea
e della parafrasi. Questa particolarità deve spingerci a indagare più
in profondità, al fine di appurare se esistano testimonianze, dirette o
indirette, che possano aiutarci a classificare con maggior precisione il
nostro componimento.

2. Le etopee «parafrastiche»

Normalmente siamo abituati a pensare alla parafrasi e all’etopea co-


me a due esercizi nettamente distinti, caratterizzati ciascuno da par-
ticolari qualità e differenti scopi: ma le cose stavano davvero così? In
realtà, da un punto di vista squisitamente teorico, il meccanismo della
parafrasi presenta numerosi punti di sovrapposizione con l’esercizio
dell’etopea e, più in generale, con tutti gli altri progymnasmata, visto
che questi ultimi prescrivono allo studente la trattazione di un deter-
minato argomento, mentre la parafrasi consente di formulare in modi
differenti qualsiasi tipo di argomento e dunque, almeno in astratto,
può ricomprendere al suo interno tutti i progymnasmata  21. Quanto

20
Così, correttamente, McGill, Other Aeneids cit., p. 87; Id., Virgil Recom-
posed cit., p. XVIII.
21
Cfr. la lucida definizione di M. Roberts, Biblical Epic and Rhetorical Para-
phrase in Late Antiquity, Liverpool 1985, p. 23: «The standard progymnasmata
were defined by the subject they treated, the paraphrase was a technique that could
be applied to the treatment of any subject. Paraphrase involved the expansion or

22
La «Dictio» 28 di Ennodio

sto dicendo non rappresenta una deduzione a posteriori degli studiosi


moderni, ma era un concetto ben noto già ai retori antichi: basti ricor-
dare che Teone classificava la parafrasi come una sorta di «esercizio
di accompagnamento», da praticare contemporaneamente agli altri
progymnasmata e per tutta la durata del corso di studi  22, mentre lo
Pseudo Ermogene, che si trova alla base di tutta la tradizione progim-
nasmatica successiva, prevedeva il ricorso alla parafrasi nell’elabora-
zione (™rgas…a) prescritta per la cre…a (prog. 7.12-13  R.) e la gnèmh
(10.7 R.)  23, due degli esercizi più elementari della serie canonica  24.
Resta tuttavia da vedere se, al di là di queste sporadiche osservazio-
ni teoriche, ci siano giunte oppure no testimonianze concrete di un
esercizio scolastico in cui etopea e parafrasi si sovrappongano almeno
parzialmente, come avviene nella Dictio 28 di Ennodio.
Ora, i dati in nostro possesso sono concordi nel mostrare come
spesso, nella prassi didattica, risultasse comodo ricavare il personaggio
e le circostanze particolari delle etopee del tipo ærismšnwn prosè­pwn
direttamente dalle opere poetiche, soprattutto da quelle che, grazie
alla diffusione e al prestigio di cui godevano, erano entrate a far parte
del patrimonio delle conoscenze comuni 25. Il vantaggio era duplice:
da un lato si aveva la possibilità di proporre situazioni universalmen-
te note e particolarmente adatte allo scopo, dall’altro si stimolava lo
studente a conseguire una conoscenza più approfondita e accurata
dei classici della letteratura. Presso il mondo greco, com’è naturale,
l’autore al quale i maestri fecero più ricorso fu Omero, considerato
abile a caratterizzare i suoi personaggi già da Aristotele (poet. 1460a)

abbreviation of a given text, more often, no doubt, the former, since the verbal
abundancy was particularly prized. In a sense, then, the progymnasmata could be
subsumed under the genus paraphrase, since they all involved the stylistic elabora-
tion of a predetermined subject».
22
M. Patillon, in Id. (ed.), Aelius Theon, Progymnasmata, Paris 1997,
pp. XXVIII-XXXII e CIV-CVII.
23
Roberts, Biblical Epic cit., pp. 23-24; Patillon, Progymnasmata cit., p. CV.
24
È anche interessante osservare che lo Ps. Ermogene, nella trattazione riser-
vata all’esercizio del mÚqoj, indica la necessità, a seconda delle circostanze, di abbre-
viare o rendere più prolissi gli esercizi inventati, secondo i meccanismi tipici della
parafrasi (prog. 2.11-12 R.).
25
La presenza di eccellenti etopee nelle opere poetiche, nonché l’utilità didat-
tica di una loro proposizione da parte degli insegnanti, sono sottolineate con luci-
dità da Teone nella prefazione al suo manuale (prog. 65.29-68.24 Sp.).

23
Luigi Pirovano

ed esplicitamente elogiato da Teone, in contrapposizione ad Euripide,


per la qualità delle sue etopee (prog. 60.22-30 Sp.) 26. Ai fini del nostro
discorso è importante rilevare che, sebbene i manuali non fornisca-
no in proposito nessuna indicazione esplicita, gli esempi di etopee
omeriche a noi noti possono essere suddivisi in due gruppi distinti,
a seconda che il discorso da pronunciare sia effettivamente presente
nel­l’Iliade e nell’Odissea, oppure venga solamente suggerito, ma non
sviluppato, dal poeta  27. La differenza non è di poco conto: mentre
infatti nel primo caso l’etopea presentava inevitabilmente alcuni punti
di contatto con la parafrasi, nel secondo si configurava come una crea-
zione quasi del tutto autonoma, attraverso la quale lo studente – che
pure poteva ricavare elementi utili alla caratterizzazione dal contesto
particolare, oppure da una lettura globale dei due poemi  – doveva
fa­re sfoggio di maggiore autonomia e originalità 28. Qui naturalmente
interessa approfondire il discorso a proposito della prima situazione.
Sembra indubbio che chiunque si trovasse a comporre un discorso
già sviluppato nel testo omerico non potesse fare a meno di confron-
tarsi con il modello, che inevitabilmente finiva per fungere da trac-
cia compositiva e dunque per guidare (e forse anche semplificare) 29
l’operato dello studente. Un esempio concreto si può individuare
nelle tavolette 1b e 4a della Bodleian Greek Inscription 3019  30, che

26
Al proposito cfr. G. Reichel, Quaestiones progymnasmaticae, Diss. Lipsiae
1909, p. 85.
27
Cfr. J. Ureña Bracero, Homero en la formación retórico-escolar griega: eto-
peyas con tema del ciclo troyano, «Emerita» 67, 1999, pp. 320 (per la precettistica) e
330 (per la realizzazione pratica).
28
Come esempio possiamo prendere Severo eth. 5 T…naj ¥n e‡poi lÒgouj Bri­
sh>j ¢pagomšnh ØpÕ tîn khrÚkwn. Il tema è di chiara derivazione omerica, ma nel­
l’Iliade Briseide non pronuncia nessun discorso del genere; Severo sviluppa dunque
autonomamente l’etopea, ma costruisce la caratterizzazione del personaggio a par-
tire dalla lettura di Hom. Il. 1.184, 323, 348, 392; 2.692; 19.296 (un’analisi detta-
gliata in Ureña Bracero, Homero en la formación cit., pp. 336-337).
29
Appare ragionevole supporre che questo fosse il livello più elementare di
insegnamento dell’esercizio: tramite l’imitazione del testo poetico i giovani studenti
potevano imparare a dosare le forze e a prendere confidenza nelle loro capacità, in
vista di prove maggiormente impegnative.
30
Si tratta di una sorta di «libro scolastico» antico di provenienza egiziana,
composto in totale da sette tavolette, datato da P.J. Parsons, A School-Book from the
Sayce Collection, «ZPE» 6, 1970, p. 147, al terzo secolo d.C.; per quanto riguarda
la parafrasi omerica, oltre all’analisi offerta dall’editore (pp. 138-141), ottimi spunti

24
La «Dictio» 28 di Ennodio

contengono la parafrasi in prosa di Iliade 1.1-21. Si tratta sicuramente


di un esercizio scolastico, anche se l’alta qualità del testo, unitamente
al fatto che, alle linee 58-61, lo scriba abbia iniziato a riscriverlo dac-
capo, inducono a pensare che, in realtà, fosse l’exemplum composto
da un maestro e affidato agli studenti perché lo copiassero  31. Nella
prima metà della parafrasi, relativa ai versi 1-11 (linee 1-30), l’ano-
nimo autore amplia notevolmente il dettato omerico, raggiungendo
dimensioni triple rispetto all’originale. Due sono le caratteristiche più
evidenti del metodo di riscrittura utilizzato: da un lato, la tendenza
a spiegare e chiarire i passaggi difficili, fino ad alterare la struttura
della narrazione omerica per sottolineare l’ordine cronologico degli
eventi 32; dall’altro, la precisa intenzione di elaborare retoricamente il
testo, in modo da gareggiare formalmente con il modello 33. In corri-
spondenza con l’inizio del discorso diretto di Crise (linee 31-55, ad
Hom. Il. 1.12-21), tali elementi risultano ulteriormente accentuati: la
parafrasi diviene ancora più abbondante ed elaborata che in prece-
denza, raggiungendo un’estensione cinque volte superiore rispetto al
testo omerico (dove il discorso occupa solo cinque versi)  34. Questo
evidente mutamento è stato spiegato da Michael Roberts con un ri-
mando ai meccanismi dell’etopea: «In effect, the Chryses speech is
an ethopoeia on a Homeric theme, set in the larger context of a rhe-
torical paraphrase of the beginning of the Iliad. The speech might be
entitled: t…naj ¥n e‡poi lÒgouj CrÚshj deÒmenoj tîn ’Atreidîn ¢poka­
ta­stÁsai aÙtù t¾n qugatšra» 35. La Bodleian Greek Inscription 3019

e osservazioni sono presenti in T. Morgan, Literate Education in the Hellenistic


and Roman Worlds, Cambridge 1998, pp. 205-209 (che si occupa soprattutto della
prima metà del testo), e Roberts, Biblical Epic cit., pp. 47-49 (che limita la propria
analisi alla seconda parte). Altri interessanti esempi di etopee «parafrastiche», che
qui non verranno analizzati, sono costituiti dalla met£frasij di Hom. Il. 12.322-
328 realizzata da Procopio di Gaza e conservata nell’opera di Giovanni Diacono
(Roberts, Biblical Epic cit., pp. 45-46), e da quella in versi presente in P.Oxy. XLII
3002, ispirata a Hom. Il. 1.207-214 (Atena trattiene Achille deciso ad attaccare Aga-
mennone: cfr. Ureña Bracero, Homero en la formación cit., pp. 324-325).
31
Cfr. Parsons, A School-Book cit., p. 141; Roberts, Biblical Epic cit., p. 47
nt. 32.
32
Morgan, Literate Education cit., p. 206.
33
Per un’analisi dettagliata, si veda ivi, pp. 207-208.
34
Parsons, A School-Book cit., p. 141.
35
Roberts, Biblical Epic cit., p. 48.

25
Luigi Pirovano

ci testimonia dunque non solo la compresenza di due tipologie di


esercizio nel medesimo testo scolastico, ma anche la possibilità di una
parziale sovrapposizione tra parafrasi ed etopea. Una volta iniziato il
discorso diretto, il parafraste si accosta all’originale omerico con mag-
giore libertà e, oltre a rielaborare stilisticamente il testo di partenza
(parafrasi), cerca anche di immedesimarsi nel personaggio parlante,
nel tentativo di riprodurre le parole che il vecchio sacerdote avrebbe
potuto pronunciare di fronte all’assemblea degli Achei (etopea), senza
tuttavia perdere mai di vista il proprio modello 36. La rielaborazione
del discorso di Crise si può allora definire un’etopea «parafrastica»,
indicando con questa etichetta un tipo di etopea particolare, nel quale
la presenza di un testo da imitare funge da limite e, al tempo stesso, da
guida per il processo di creazione. È pertanto sicuro che, nonostante
il quasi totale silenzio dei manuali, le scuole greche di età imperiale
conoscessero questa particolare tipologia di esercizio a metà tra l’eto-
pea e la parafrasi, basata sulla riscrittura dei discorsi diretti presenti
nelle opere poetiche di riferimento.
Sul versante latino le testimonianze sono – al solito – alquanto la-
cunose, tanto che risulta difficile tentare di ricostruire un quadro coe­
rente della situazione. Jesus Ureña Bracero ha ipotizzato che nell’inse-
gnamento delle etopee la situazione dovesse essere speculare rispetto
al mondo greco, fatta salva naturalmente la sostituzione di Omero
con Virgilio  37. Tale affermazione è da sottoscrivere in pieno, anche
se le testimonianze in nostro possesso non consentono di osservare il
fenomeno nella sua interezza, ma ci permettono al massimo di intrave-

36
Il cambiamento più vistoso e significativo è introdotto a proposito degli
stšmmata di Crise, la cui menzione viene attratta dal parafraste all’interno del
discorso diretto, in modo da aumentarne l’efficacia e l’incisività (Morgan, Liter-
ate Education cit., p. 207; l’espediente è sottolineato anche da Parsons, A School-
Book cit., p. 141). Il grado di rielaborazione e amplificazione cui il parafraste della
Bodleian Inscription sottopone l’originale omerico risulta ancora più evidente
a confronto con la parafrasi del medesimo passaggio proposta dallo Ps. Aristide
(rhet. 68.22-69.10 S.), nella quale il discorso diretto di Crise viene di fatto eliminato,
con evidente soppressione dell’aspetto mimetico in favore di quello diegetico. In
tal modo non si osserva più uno stacco netto tra le parole di Omero e quelle del
vecchio sacerdote, ma queste vengono assorbite nel racconto generale delle cause
della peste.
37
Homero en la formación cit., p. 338 nt. 41.

26
La «Dictio» 28 di Ennodio

derne i confini 38. L’unico riferimento manualistico di un certo rilievo


ricorre infatti nel De ethopoeia di Emporio, autore per noi del tutto
sconosciuto e in genere trascurato dalla critica moderna 39. Per quan-
to attiene alle finalità del nostro discorso, è interessante rilevare che,
tra gli esempi proposti per la pathopoeia (562.10-23 H.) 40, una delle
sottospecie dell’etopea, Emporio ha occasione di nominare, accanto
ad Ercole e Achille (importante, quest’ultimo, perché rimanda espres-
samente a Hom. Il. 21.273-283 e alla prassi delle etopee omeriche),
anche il latino Mezenzio, con una naturalezza tale da lasciar pensare a
un effettivo riferimento alla prassi didattica del tempo. La caratteriz-
zazione che Virgilio traccia di Mezenzio – osserva Emporio – insiste
sempre sulla sua efferata crudeltà (semper crudelis), ma in almeno due
circostanze tale personaggio, spinto da una causa impellente, è costret-
to a vestire l’abito del supplice: prima di fronte a Turno, poi davanti
ad Enea. Il dato è oltremodo interessante: se difatti per il secondo dei
due esempi è possibile citare il parallelo virgiliano, per quanto stringa-

38
Stupisce, ad esempio, rilevare nell’opera di Quintiliano la mancanza di
allusioni a un impiego scolastico di Virgilio (inst. 3.8.53): Neque ignoro plerumque
exercitationis gratia poni et poeticas et historicas [scil. prosopopoeias], ut Priami verba
apud Achillem aut Sullae dictaturam deponentis in contione. Le parole di Quinti-
liano sembrerebbero attestare anche per l’ambito latino la consuetudine scolastica
di ricavare il tema delle suasoriae (e delle controversiae) di tipo «etico» dal vasto
repertorio di situazioni offerto dalle opere poetiche e storiche ma, se nel secondo
caso il thema dell’esercitazione propone una situazione romana, nel primo – dove ci
aspetteremmo Virgilio – compare un esempio di derivazione omerica, in linea con la
tradizione greca.
39
Cfr. in proposito L. Pirovano, L’insegnamento dei «progymnasmata» nel­
l’ope­ra di Emporio retore, in F. Gasti - E. Romano (a cura di), Retorica ed educa-
zione delle élites nell’antica Roma, Pavia 2008, pp. 195-236.
40
Est sane praeter ethos et pathopoeia, qua imitamur affectum non naturalem,
sed incidentem. Quam materiam ab ethopoeia prave distinguunt, qui putant esse ethi-
cas, quae laetos fingant, patheticas vero, quae tristium sint, cum ideo hoc sit pathetica
nomine nuncupata, quod accidens alter adfectus naturalem illum morem saepe subver-
tat, patiaturque natura velut vim quandam, cum is qui loquitur a suo loquendi more
declinat, ut cum Hercules, cuius constans fuit semper oratio, parricidium suum luget,
vel cum apud Homerum Achilles semper minax circumventum se a flumine gemit, aut
cum Mezentius semper crudelis vel Turnum precatur, ut se suscipiat, vel Aenean, ut
sibi tribuat sepulturam. Denique ethos personam sequitur, pathos causam. Igitur cum
incurrens praeponderabit adfectus, tum vocabitur quidem pathopoeia, nec tamen plene
adfectus, qui ingeneratus est, deseretur. Nam neque ipse Mezentius sic precatur ut
Turnus, nec sic vulnere suo Mars maeret ut Venus.

27
Luigi Pirovano

to, di Aen. 10.903-906 (Mezenzio, in punto di morte, chiede ad Enea


di concedere sepoltura al suo cadavere), nel primo caso Emporio attri-
buisce a Mezenzio un discorso che in realtà nell’Eneide non compare
mai, ma viene lasciato da Virgilio all’immaginazione del lettore 41.
Anche in ambito latino sembra dunque attestata la pratica di
assegnare agli studenti due differenti tipi di etopea «letteraria», una
legata all’imitazione di discorsi diretti presenti nelle opere poetiche
di riferimento, l’altra più libera e creativa, che da esse prendeva sola-
mente lo spunto iniziale, per poi svilupparsi in modo autonomo. Tale
impressione trova conferma, al di fuori della letteratura manualistica,
in un celebre passaggio delle Confessiones, nel quale Agostino ricorda
uno degli esercizi in cui eccelleva allorché frequentava la scuola del
grammaticus, presso Tagaste:
Sine me, deus meus, dicere aliquid et de ingenio meo, munere tuo, in
quibus a me deliramentis atterebatur. Proponebatur enim mihi negotium
animae meae satis inquietum praemio laudis et dedecoris vel plagarum
metu, ut dicerem verba Iunonis irascentis et dolentis, quod non posset
«Italia Teucrorum avertere regem» [Verg. Aen. 1.38], quae numquam
Iunonem dixisse audieram. Sed figmentorum poeticorum vestigia erran-
tes sequi cogebamur et tale aliquid dicere solutis verbis, quale poeta di-
xisset versibus: et ille dicebat laudabilius, in quo pro dignitate adumbra-
tae personae irae ac doloris similior affectus eminebat verbis sententias
congruenter vestientibus. (Aug. conf. 1.27)

Questo passo è stato spesso citato dalla critica moderna, anche se


non sempre gli studiosi hanno compreso come l’esercizio descritto da
Agostino fosse, in realtà, un’etopea 42. Lo scopo era quello di ideare

41
L’Eneide fornisce ad Emporio (rhet. 562.26-30 H.) gli esempi necessari –
senza bisogno di ricorrere alla tradizione greca – per illustrare la pragmatica, indi-
care i differenti principia possibili per un’etopea (de personis, de re, de tempore, de
loco), fornire le notizie sul temporum ordo da osservare nella composizione del sud-
detto esercizio (563.1-31 H.: qui i loci virgiliani addotti sono ben diciotto).
42
Parlano correttamente di etopea M.L. Clarke, Higher Education in the
Ancient World, London 1971, p. 26; S.F. Bonner, Education in Ancient Rome. From
the Elder Cato to the Younger Pliny, London 1977, p. 269; Roberts, Biblical Epic
cit., p. 22; McGill, Other Aeneids cit., p. 86; Id., Virgil Recomposed cit., p. XVIII.
Più generici i termini utilizzati da T.J. Haarhoff, Schools of Gaul. A Study of Pagan
and Christian Education in the Last Century of the Western Empire, Oxford 1920
(Johannesburg 19582), p. 69 («parafrasi»); E.R. Curtius, Europäische Literatur und
lateinisches Mittelalter, Bern 1948 (trad. ital. Firenze 1992, p. 167: «parafrasare

28
La «Dictio» 28 di Ennodio

un discorso che si confacesse alla figura di Giunone irata, tenendo


conto sia della personalità della dea (Ãqoj), sia del suo stato d’animo
in quella particolare situazione (p£qoj). In termini tecnici, si trattava
di una ºqopoi…a ærismšnwn prosèpwn e paqhtik» o – per dirla con
Emporio – di una pathopoeia 43. Le incertezze degli studiosi moderni
sono tuttavia giustificabili, se consideriamo che la presenza del mo-
dello virgiliano rappresentava per gli studenti un punto di riferimento
costante e ineliminabile, rendendo il nostro esercizio per certi versi
simile alla parafrasi 44. Due appaiono infatti i momenti (o i passaggi)
descritti da Agostino: una fase di rielaborazione del modello, che
prevedeva una certa fedeltà verso il testo poetico e la sua versione in
prosa, analogamente a quanto avviene nella parafrasi (sed figmento-
rum poeticorum vestigia errantes sequi cogebamur et tale aliquid dicere
solutis verbis, quale poeta dixisset versibus); e una fase creativa, che ri-
chiedeva l’immedesimazione nel personaggio parlante e l’adattamen-
to del discorso al suo stato d’animo, secondo il procedimento tipico
dell’etopea (ille dicebat laudabilius, in quo pro dignitate adumbratae
personae irae ac doloris similior affectus eminebat verbis sententias con-
gruenter vestientibus) 45.

brani dell’Eneide»); V. Tandoi, in Enc. Virg. I, Roma 1984, p. 199, s.v. «Antologia
Latina» («temi virgiliani»); M. Geymonat, in Enc. Virg. II, Roma 1985, p. 8, s.v.
«Declamazioni virgiliane» («pratica scolastica di rielaborare in prosa»); A.N. Cizek,
Imitatio et tractatio: die literarisch-retorischen Grundlagen der Nachahmung in
Antike und Mittelalter, Tübingen 1994, p. 47 nt. 133 («Prosaparaphrase vergilischer
Dichtung»); S. Spence, Rhetorics of Reason and Desire. Vergil, Augustine and the
Troubadours, Ithaca - London 1988, p. 55 («prose paraphrase»). North, The Use
of Poetry cit., p. 14, definisce invece l’esercizio come una vera e propria declamatio,
anche se tale interpretazione non sembra accettabile.
43
Che la rhesis di Giunone fosse un locus classico per le etopee scolastiche è
comprovato anche da Empor. rhet. 563.2-6 H. Sumitur [scil. principium] autem aut
de personis aut de re aut de tempore aut de loco. De personis ante omnia de nostra, vel
de eius apud quem sermonem habemus, vel de illius de quo loquimur. De nostra, ut est
apud Vergilium in verbis Iunonis (Aen. 1.37): «Mene incepto desistere victam?».
44
Questo è stato ben spiegato da Bonner, Education in Ancient Rome cit.,
p. 269: «It is clear from the last sentence that this was not a mere word for word
paraphrase of Juno’s speech in Virgil, but a fully-developed Speech in Character
[i.e. ethopoeia]; and usually the pupil had something to work upon, and was not
entirely thrown on his own resources for ideas». Cfr. anche Roberts, Biblical Epic
cit., p. 22.
45
Secondo Bonner, Education in Ancient Rome cit., p. 269, quello descritto da
Agostino sarebbe in realtà un esercizio a sé stante, denominato adlocutio, adottato

29
Luigi Pirovano

Se Agostino ci offre la descrizione in assoluto più esplicita e parti-


colareggiata che ci sia giunta a proposito delle etopee «parafrastiche»,
in ambito latino non possediamo però nessun esempio di realizzazione
pratica di questo particolare esercizio – e certo non sarebbe stato lo-
gico aspettarsi altrimenti, stante la quasi totale assenza di ritrovamenti
papiracei. Il caso ci ha tuttavia conservato almeno tre testi che, pur
non essendo opera di studenti alle prime armi, derivano con evidenza
la loro forma scribendi dalla tipologia di esercitazione descritta nelle
Confessiones. Si tratta di tre brevi componimenti poetici conservati
nel Codex Salmasianus (Anth. Lat. 223 R.2 = 214 Sh.B. Locus Vergi-
lianus «Vivo equidem vitamque extrema per omnia duco» 46; 244 R.2 =
237 Sh.B. Thema Vergilianum «Turne: in te suprema salus»; 255 R.2  =
249 Sh.B. Thema Vergilianum «Nec tibi diva parens»), che offrono la
rielaborazione «artistica» di alcuni discorsi diretti presenti nell’Enei-
de  47. La funzione di questi componimenti non è del tutto chiara, e
poco o nulla conosciamo dei loro autori: se da un lato è evidente lo
stretto legame con il mondo della scuola, dall’altro la raffinatezza del-
lo stile, il ricorso alla veste metrica, l’ottima conoscenza del modello
virgiliano e la presenza di allusioni letterarie lasciano credere che si
tratti di esempi realizzati dai maestri a beneficio dei propri studenti
o, più verosimilmente, di una forma di intrattenimento erudito che,
pur traendo spunto ed ispirazione dagli esercizi proposti nelle scuole
di retorica, non conserva alcun effettivo legame con l’attività didat-

presso le scuole grammaticali latine in preparazione all’etopea vera e propria. Non


credo che questa ipotesi possa essere accolta: adlocutio è il termine utilizzato da
Prisciano 45.8-10 per tradurre l’ermogenea ºqopoi…a e anche Suet. gramm. 4.7 ed
Emporio sembrano servirsi del termine nella medesima accezione (R. Granatelli,
M. Fabio Quintiliano «Institutio oratoria» II 1-10: struttura e problemi interpretativi,
«Rhetorica» 13, 1995, p. 139 nt. 2). A ciò si aggiunga che, come abbiamo avuto
modo di vedere, le etopee «parafrastiche» erano presenti anche nella tradizione
didattica greca, dove però l’esercizio rientrava tra le competenze del retore, non del
grammatico. Sembra dunque più corretto parlare di un unico esercizio ( ºqopoi…a
per i greci, adlocutio per i latini) proposto secondo due differenti livelli di difficoltà,
in base a una prassi di insegnamento adottata dai maestri sia greci che latini.
46
Cfr. supra, nt. 19.
47
Su questi tre componimenti, cfr. McGill, Other Aeneids cit.; non ci occu-
peremo invece della cosiddetta Epistula Didonis ad Aeneam (Anth. Lat. 83 R.2 =
71 Sh.B.), visto che tale componimento presenta un valore artistico decisamente
superiore e risulta ispirato non tanto al modello virgiliano, quanto alla settima delle
Heroides ovidiane.

30
La «Dictio» 28 di Ennodio

tica  48. Ai fini del nostro discorso è particolarmente interessante os-


servare che l’ultimo dei tre testi appena ricordati ha lo stesso titolo
della Dictio 28 e riprende da vicino il medesimo discorso virgiliano,
secondo il meccanismo di imitazione e amplificazione che abbiamo
detto tipico dell’etopea «parafrastica» 49. Difficilmente si potrà attri-
buire questa coincidenza al caso: a quanto è dato comprendere, lo
sfogo posto da Virgilio sulle labbra di Didone abbandonata doveva
essere uno dei loci più frequentati per la proposizione di esercitazioni
scolastiche, in special modo durante il periodo tardoantico. Il testo di
Anth. Lat. 255 R.2 costituisce dunque un utile elemento di confronto
per comprendere e valutare con precisione il componimento ennodia-
no (soprattutto per quanto riguarda la sua «appendice» poetica), che
si fonda su un’identica sensibilità letteraria e, del pari, rappresenta
l’espressione delle velleità «artistiche» di una élite culturale stretta-
mente collegata con il mondo delle scuole di retorica.
Ad un ambiente per certi versi analogo rimanda anche un ultimo
testo che, entro i limiti di cui si dirà, può essere letto in parallelo alla
Dictio 28 e ad Anth. Lat. 255 R.2. Mi riferisco alla sezione di commen-
to che Tiberio Claudio Donato  50 ha dedicato allo sfogo di Didone
abbandonata (Claud. Don. ad Aen. 4.362-384 = I.405.26-409.23 G.),
una sorta di etopea «parafrastica» in qualche misura paragonabile a
quelle composte da Ennodio e dall’anonimo autore del Codex Sal-

48
Così McGill, Other Aeneids cit., p. 91: «The texts are not scholastic exer-
cises, but examples of scholastic poetry, or texts deriving from the schools rather
than arising in them».
49
Si veda l’analisi offerta da McGill, Other Aeneids cit., pp. 106-110. In
realtà, occorre precisare che la sovrapposizione fra il testo dell’Anthologia Latina e
la dictio ennodiana è solo parziale, visto che l’anonimo autore si è limitato a parafra-
sare i primi tre versi del discorso virgiliano (Aen. 4.365-367), ai quali ha premesso
un esordio (vv. 1-9) composto sulla base di Aen. 4.541-542 (McGill, Other Aeneids
cit., p. 110). Il risultato di questo accostamento, che ricorda in parte la tecnica del
centone, appare vistosamente contraddittorio: mentre nella prima parte Didone
collega il comportamento di Enea con la perfidia tipica della stirpe troiana (anti-
quos imitaris avos, periuria patrum), nei versi che ci interessano finisce per negare
recisamente tale ipotesi (nec non †aut Veneris† pulchrae de stirpe crearis / nec pater
Anchises vestrae <est> aut Dardanus auctor / gentis), con uno stridente contrasto
concettuale.
50
La cronologia di Donato non è sicura, ma sembra probabile che egli sia
vissuto nel quinto o nel sesto secolo: l’esegeta dovrebbe dunque essere di poco pre-
cedente, o al limite contemporaneo, rispetto a Ennodio.

31
Luigi Pirovano

masianus. L’accostamento tra opere così eterogenee potrebbe, sulle


prime, destare qualche perplessità, visto che l’aspetto «mimetico» e
creativo tipico delle etopee mal si concilia con il carattere freddamen-
te descrittivo del commentario. Occorre tuttavia ricordare che uno
dei tratti distintivi dell’opera di Donato è il frequente ricorso allo
strumento «parafrastico»  51, di cui l’esegeta si serve per interpretare
il poema virgiliano e, al contempo, riscriverlo «artisticamente», vale
a dire per creare un testo dotato di una propria autonomia e fruibili-
tà anche indipendentemente dall’originale. Ho già dimostrato altro-
ve come l’esegeta, nel momento di riscrivere il modello, avesse ben
presenti le varie tipologie di esercitazione in uso presso le scuole di
retorica, a partire da quelle più semplici  52 fino ad arrivare alle de-
clamazioni 53: a tal punto che, in alcuni punti della sua opera, non ha
esitato a inserire componimenti dotati di una loro (almeno parziale)
autonomia. Il nostro caso è appunto uno di quelli in cui Donato, per
così dire, si è lasciato prendere maggiormente la mano dalle sue vel-
leità «artistiche»: dopo aver classificato il discorso di Didone sotto il
profilo emozionale 54, l’esegeta non ha infatti resistito alla tentazione

51
Utilizzo il termine secondo le modalità e i limiti stabiliti da M. Gioseffi,
Ritratto d’autore nel suo studio. Osservazioni a margine delle «Interpretationes Vergi-
lianae» di Tiberio Claudio Donato, in Id. (a cura di), E io sarò tua guida. Raccolta di
saggi su Virgilio e gli studi virgiliani, Milano 2000, pp. 151-215.
52
A proposito del locus communis, cfr. in particolare il mio Tiberio Claudio
Donato e i «progymnasmata», «Incontri Triestini di filologia classica» 7 (2008),
pp. 177-199.
53
L. Pirovano, Le «Interpretationes Vergilianae» di Tiberio Claudio Donato.
Problemi di retorica, Roma 2006, pp. 150-188.
54
Fin dall’inizio Donato mostra di ritenere il discorso di Didone un’etopea
paqhtik»: TALIA DICENTEM IAMDUDUM AVERSA TUETUR HUC ILLUC
VOLVENS OCULOS TOTUMQUE PERERRAT LUMINIBUS TACITIS, quod est
maximum irascentis signum, ut, cum totum nolit visum, totum tamen errantibus oculis
cernat […]. ET SIC ACCENSA PROFATUR: qua consideratione tamquam incendio
accensa sic tumidam prorumpit in vocem […]. Va precisato che questa classifica-
zione, oltre al valore che assume dal punto di vista squisitamente retorico, rientra
nell’ambito di una lettura più generale di tutto il quarto libro, attraverso la quale
Donato ricava una serie di insegnamenti di tipo morale (o moralistico) da affidare al
figlio, dedicatario delle Interpretationes Vergilianae. In questa prospettiva, la regina
cartaginese diviene il paradigma di una persona sconvolta dalla passione amorosa,
che perde il controllo sulle proprie emozioni e sulle proprie azioni e pertanto va
incontro alla morte; un modello negativo, dunque, che il lettore dovrà farsi in grado
di non imitare. Cfr. in proposito M. Gioseffi, Nusquam sic vitia amoris: Tiberio

32
La «Dictio» 28 di Ennodio

di riscrivere in prima persona le parole della regina, intervallando le


sezioni «mimetiche» con osservazioni di vario genere (retoriche, stili-
stiche ecc.), che non di rado ci aiutano a chiarire l’interpretazione su
cui ha fondato la propria riscrittura del testo virgiliano. In questo mo-
do la sua etopea (se così possiamo definirla) non assume un aspetto
continuativo, ma appare suddivisa in diversi blocchi, che si alternano
con i lemmi dell’Eneide e con le parti più propriamente di commento:
ma è indubbio che l’approccio al modello virgiliano e la modalità di
rielaborazione dell’originale siano del tutto simili a quelli di Ennodio
e dell’anonimo autore dell’Anthologia Latina.
Questa particolarità ci aiuta a comprendere un aspetto della Dic-
tio 28 che occorre focalizzare con attenzione prima di passare alla lettu-
ra del testo: mentre le velleità «artistiche» di un esegeta rappresentano,
tutto sommato, un fatto eccezionale e privo di paralleli significativi, è in-
vece del tutto naturale che Ennodio, riscrivendo il testo virgiliano, non
potesse in alcun modo prescindere da una sua precisa comprensione,
fondata sui dettami dell’esegesi del tempo e sulle proposte interpretati-
ve previste per ogni singolo verso. In questo modo Donato, interprete
che «parafrasa», ed Ennodio, «parafrasta» che interpreta, hanno finito
per incontrarsi e confrontarsi più volte su uno stesso terreno proprio
grazie alla particolare fisionomia dell’etopea «parafrastica».

3. Testo e commento

[365]  55 Quantum docet inclementia, perdidisti testimonium generis,


quod opinione mentiris. Constat Veneris non esse filium nil amantem:

Claudio Donato di fronte a Didone, in AA.VV., Ricordando Raffaele Cantarella,


Bologna 1999, pp. 137-162.
55
Per ragioni di chiarezza espositiva ho riportato tra parentesi quadre il
numero dei versi virgiliani parafrasati da Ennodio, in corrispondenza con le sezioni
del commento. Il testo è quello stabilito da Vogel, con qualche isolato cambiamento
nell’interpunzione; eventuali variazioni o problemi di trasmissione sono discussi
e valutati in sede di commento. Per quanto segue, cfr. inoltre P. Virgilii Maronis
Opera interpretatione et notis illustravit C. Ruaeus, Parisiis 1722; P. Virgili Maronis
Opera varietate lectionis et perpetua adnotatione illustrata a Ch.G. Heyne, editio
quarta, curavit G.Ph. Wagner, Lipsiae - Londini 1830-1841; P. Virgilii Maronis
Aeneis, edidit P.H. Peerlkamp, Leidae 1843; P. Vergilii Maronis Opera, editio

33
Luigi Pirovano

ordo rerum est ut prosapiem mores annuntient, et quo quis auctore in


lucem venerit, eius facta sectetur. Diva Idaliae nescientem respondere
beneficiis non agnoscit. Non fama filios, sed conversationis monstrat ae-
qualitas. Si diversa sit conscientia, vix credenda est esse suboles quae vo-
catur. [366-367] Te potius Caucasei rigoris praerupta genuerunt aut con-
ceptum in recessibus montium saxea alvus effudit et, ne dira nutrimentis
natura mollesceret, eripientes salutem ceteris Hyrcanae tigrides alimenta
praebuerunt. Nutrivit te illa feritas, quae trucidat. [368] Nam quid mihi
dissimulatione pollicitor? Aut quid sperando meliora suspendor? [369-
370] Non reddidit fletibus lacrimas, quas eius amore torta fundebam;
non gemitus meos propriis mens cruenta est consolata suspiriis. In do-
loribus meis, quod unicum est remedium, non exhibuit pari dolore col-
legam, quia pae­ne solus est in anxietate terminus invenisse participem.
[371] Sed quae eloquar nescio, quae relinquam. [371-372] Haec nec
dexter Iunonis oculus, nec summi Tonantis patietur aspectus, ut pro tot
impensis sequestratione consumar nec aliud pietate promoverim, nisi ut
merear non amari. [373-375] Heu fides ab universis proturbata mortali-
bus, et quod hactenus numinibus homines iungebat, expulsum! Suscepi
miseranda naufragum, et eius dicioni reginam subdidi manente felicitatis
sorte captivam. Feci ut ageret dominum profugus imperantis. [376-378]
Nunc furore succensa discrucior et quare possessor me deserat ingemisco.
Ergo Apollinis auguriis vocatus abscedis et sortis Lyciae casum certis et
apud te iam manentis praeponis imperiis? [379-380] Scilicet coelestibus
crudelitas ista procuratur auctoribus et interpres superorum ad hos homi-
nem compellit excessus, ut diligentis litora quasi solum hostile diffugiat,
ut per tempestates salutem prodat qui solum fugit affectum. [381-384]
Vade! Ulterius non morabor. Habet vindictam mei via qua deseror, ha-
bebit pelagus in furore iudicium. Raucos tumentium procellarum aestus
exaudiam. Vocabis inter pericula Didonis nomen, quae et fuit portus et
praebuit. [384-387] Aut certe – quod timeo ne dum vindicor, me viven-
te, moriaris  – eventum expetitae navigationis post usuram lucis agno-
scam. Vide sceleribus indebitam mercedem: perire innocens ante cupio
quam merentem.

perpetua, et aliorum et sua adnotatione illustravit A. Forbiger, Lipsiae 1872-18754;


The Works of Virgil with a Commentary by J. Conington, revised and enlarged by
H. Nettleship, London 1881-1884; Publi Vergili Maronis Aeneidos liber quartus,
edidit A.S. Pease, Harvard 1935 (Darmstadt 1967); Publi Vergili Maronis Aeneidos
Liber Quartus, edidit R.G. Austin, Oxford 19632; Virgilio, Eneide. Libro quarto,
introduzione, commento e note di R. Sabbadini, revisione di C. Marchesi, Torino
1990; Virgilio, Eneide, II. Libri III-IV, a cura di E. Paratore, Milano 1978. Il testo
completo di Virgilio è in Appendice.

34
La «Dictio» 28 di Ennodio

[365] Durus et indomitus Veneris se semine cretum


iactat et abiurans conlaudat stemmata divae.
Edidit ergo Venus fugientem nomen amoris,
pectoris et rabidi fudit clementia virus.

[365] Lo sfogo di Didone si apre con un deciso attacco alla perso-


na di Enea, finalizzato a mettere in evidenza l’incompatibilità tra il
comportamento dell’eroe troiano e la nobiltà della sua stirpe. Servio
e Donato concordano tra loro nel sottolineare la durezza delle paro-
le della regina (il primo parla di vituperatio, il secondo di convicium)
e nel collegarne l’esordio con quanto affermato da Didone stessa ad
Aen. 4.12 credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum 56, anche
se poi – secondo un meccanismo consueto – i due esegeti si servono
di tale riferimento in modo differente 57: mentre Servio vede in questo
contrasto un consapevole rimprovero della regina all’indirizzo di se
stessa (in se obiurgatio), Donato, utilizzando le categorie interpreta-
tive che gli sono proprie, attribuisce il cambiamento alla animorum
mutatio di Didone, che, in preda alla magna vis dell’ira, contraddice
senza rendersene conto la sua precedente affermazione. Questo rife-
rimento incrociato non può naturalmente trovare posto nella dictio di
Ennodio, che concentra tutta la propria attenzione sul contrasto che
separa l’inclementia di Enea dalla nobiltà della sua prosapies: anche se,
a ben vedere, il vescovo pavese si limita a ricordare il caso di Venere
ed omette qualsiasi riferimento a Dardano, che non viene neppure
nominato. La «scomparsa» si spiega verosimilmente con il fatto che
Ennodio ha preferito concentrare il proprio virtuosismo sullo svi-
luppo di un motivo che ricorre solo a livello implicito nel testo virgi-
liano, vale a dire la precisazione che la dea dell’amore non può aver
partorito un figlio incapace di amare (constat Veneris non esse filium
nil amantem […]. Diva Idaliae nescientem respondere beneficiis non
agnoscit […]. Edidit ergo Venus fugientem nomen amoris). Questo ele-
mento di novità potrebbe derivare da Ov. her. 7.36 matris ab ingenio

56
Anche il Danielino osserva una contraddizione nelle parole di Didone, seb-
bene il suo rimando vada ad Aen. 1.617 Tune ille Aeneas quem Dardanio Anchisae
ecc.
57
Cfr. M. Gioseffi, Staffette esegetiche. Concatenazioni di note fra i lettori tar-
doantichi a Virgilio, in P. Esposito - P. Volpe Cacciatore (a cura di), Strategie del
commento a testi greci e latini, Soveria Mannelli 2008, pp. 83-99.

35
Luigi Pirovano

dissidet ille suae 58: in tal caso, fin dalle prime righe la dictio ennodiana
metterebbe in mostra delle velleità artistiche decisamente elevate, che
trovano espressione tramite l’allusione dotta a un altro classico della
letteratura latina. Non si può tuttavia escludere che Ennodio abbia
attinto questo motivo dall’esegesi virgiliana del suo tempo, visto che
qualcosa di analogo ricorre nella sezione «mimetica» della nota di Do-
nato (dicis te filium Veneris, falsum est: haberes enim aliquid matris et
esses in adfectus consideratione tractabilis) ed è dunque probabile che
l’idea fosse più diffusa di quanto oggi possiamo ricostruire.

[366-367] Il rimando all’aspro Caucaso e alle tigri dell’Ircania 59, come


hanno ben visto già Gellio 12.1.20, il Danielino ad locum e Macrobio,
Sat. 5.11.14-19, riecheggia il precedente omerico in cui Patroclo criti-
cava l’insensibilità di Achille di fronte alle sconfitte degli Achei (Hom.
Il. 16.33-35), anche se poi si sviluppa in modo parzialmente autonomo
con l’accenno al tema dell’allattamento 60. Gellio, seguito da Macro-
bio, spiegava il riferimento virgiliano rimandando alla convinzione, in
antico piuttosto diffusa, secondo cui in moribus inolescendis magnam
fere partem ingenium altricis et natura lactis tenet 61, e questa interpre-
tazione si trova alla base del commento di Donato (tigrides quoque ha-
buisti nutrices, quarum feris altus uberibus hominum mansue­tudinem
nescis […]; quod ipsum et Ciceroni placuisse manifestum est, qui in
educatione futuri oratoris iubet praecipuas adhiberi mulieres) 62 e della

58
H. Jakobson, Ovid’s «Heroides», Princeton 1974, p. 81 nt. 7; McGill, Other
Aeneids cit., pp. 107-109.
59
Cfr. Schol. Stat. Theb. 3.693 (NON SI MIHI) TIGRIDIS HORROR
(AEQUOREAE­QUE SUPER RIGEANT PRAECORDIA CAUTES) totum Vergilia-
nae amantis expressit affectum. Dido enim, ut Aeneae exprobraret duritiam cordis,
ait [Aen. 4.366-367]: «sed duris genuit te Caucasus horrens cautibus <Hyrcanaeque
admorunt ubera tigres>».
60
Questo riferimento non compare invece nel commento di Servio, che si
limita ad offrire al lettore alcune delucidazioni di carattere geografico (CAUCASUS
mons Scythiae inhospitalis […]; nam Hyrcania silva est Arabiae), né nelle aggiunte
del Danielino, che per contro riportano la critica espressa da alcuni obtrectatores
virgiliani, i quali rinfacciavano al poeta la scarsa verosimiglianza – sia psicologica
che storica – del riferimento al Caucaso e all’Ircania.
61
Cfr. Plin. nat. 8.61.
62
Il riferimento all’opera ciceroniana non è del tutto chiaro: Georgii ha pro-
posto di istituire un collegamento con de orat. 3.44-45 e Tusc. 3.2, ma in nessuno dei
due passi si fa cenno, se non alla lontana, al motivo della scelta delle nutrici o alla

36
La «Dictio» 28 di Ennodio

riscrittura presente in Anth. Lat. 255 R.2 (vv.  12-15 […] Sed durae
tigres lapidesque sinistri / te genuere virum, silvae montesque profani, /
ubera <quae>que tibi [et] potum admovere malignum, / haec tibi perfi-
diam mixto cum lacte dederunt). Anche in questo passaggio la parafrasi
di Ennodio si segnala per la sua originalità, che rende difficile risalire
all’esatta interpretazione che giustifica la riscrittura. Mi sembra però
sicuro che il vescovo pavese conoscesse bene il motivo illustrato da
Gellio, per quanto il senso complessivo del riferimento risulti com-
pletamente stravolto. Mentre infatti gli altri autori mettono in corre-
lazione la durezza di Enea con l’allattamento delle tigri, secondo un
rapporto di causa-effetto («sei privo di umanità in quanto ti hanno
nutrito le tigri»), Ennodio attribuisce all’eroe troiano una natura già
in partenza disumana, che nella nutrizione delle tigri avrebbe trovato
solo una sorta di «irrobustimento»: nessun essere umano, altrimenti,
avrebbe potuto essere allattato dalle tigri (ne dira nutrimentis natura
mollesceret, eripientes salutem ceteris Hyrcanae tigrides alimenta prae-
buerunt. Nutrivit te illa feritas, quae trucidat). Così il motivo viene al
tempo stesso ricordato e variato, in modo da assumere un significato
almeno in parte differente. Ciò si inserisce in una più generale ten-
denza, che costituisce il Leitmotiv di questa sezione della dictio, ad
amplificare retoricamente l’idea di «durezza» presente nei versi virgi-
liani, sottolineandola attraverso una serie di immagini insistite e molto
ricercate dal punto di vista formale. Particolarmente forte mi sembra
il riferimento alla saxea alvus che avrebbe generato Enea: si tratta di
un accostamento senza dubbio efficace, che consente di avere un’idea
ben precisa di quanto la prosa ennodiana a tratti si avvicini alla solen-
nità della produzione più aulica della tradizione poetica latina.

credenza, appena ricordata, secondo cui attraverso l’allattamento si verificherebbe


la trasmissione di particolari qualità dalla nutrice al bambino. Non mi risulta che
Cicerone si sia soffermato sulla trattazione di queste tematiche in altri passi della
sua pur copiosa produzione. Stando così le cose, sarei propenso a cogliere nelle
parole di Donato un lapsus memoriae, visto che Quintiliano, in un’opera che ben
corrisponde alla descrizione fornita dall’esegeta (in educatione futuri oratoris), sot-
tolinea più volte la necessità di selezionare delle nutrici all’altezza del compito. Cfr.
soprattutto Quint. inst. 1.1.4-5 Ante omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus: quas, si
fieri posset, sapientes Chrysippus optavit, certe quantum res pateretur, optimas eligi
voluit. Et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquan-
tur. Has primum audiet puer, harum verba effingere imitando conabitur.

37
Luigi Pirovano

[368] Lo sfogo iniziale è seguito da una serie di interrogative reto-


riche, attraverso le quali Didone sottolinea l’insensibilità di Enea di
fronte alle proprie sofferenze. Va detto che la seconda di queste do-
mande (quae me ad maiora reservo?) non appare del tutto chiara ed
è stata interpretata in vari modi dagli esegeti antichi e dagli studiosi
moderni. Il dubbio principale consiste nell’esatta determinazione del
senso di maiora 63, che secondo la maggior parte della critica sottin-
tenderebbe qualcosa di negativo («maggiori offese») 64, sebbene non
siano mancati interpreti che hanno proposto di individuare nell’agget-
tivo un senso positivo («una situazione migliore») 65. Mentre Donato
omette di commentare o riscrivere con parole proprie questo passag-
gio, la parafrasi ennodiana (aut quid sperando meliora suspendor?) si
segnala per la sua oscurità, peraltro aggravata da un problema di ca-
rattere testuale: accanto a suspendor, lezione tràdita dai codici migliori
(Bcb) ed accolta sia da Hartel che da Vogel, alcuni manoscritti (V aT 1)
attestano la variante sustentor, che figurava nell’edizione ennodiana
di De la Bigne. Proprio sulla base di sustentor James Henry 66 ha ten-
tato di ricostruire l’interpretazione di Ennodio, pensando di potervi
individuare un precedente di quella da lui stesso proposta per questo
verso: «The meaning is: ‘What other occasion is yet to come on which
I am to speak out if I do not speak out now? For what greater occa-
sion am I to reserve myself, i.e., to reserve my speaking out, to reserve
the full expression of my feelings?’. I am not sure I understand Enno-
dius’s paraphrase […]: ‘Nam quid mihi dissimulatione pollicitor? Aut
quid sperando meliora sustentor?’, but if it means, which I very much
doubt, ‘in the expectation of what still worse treatment shall I put
up with, bear patiently, this better (less bad) treatment’, I have that
ancient expositor and poet on my side». A quanto è dato compren-

63
Il problema è stato già posto dal Danielino ad loc.: QUAE ME AD MAIORA
RESERVO aut ad maiores scilicet iniurias; aut ad superiora pertinent, quia ei male
dixit.
64
Così Ruaeus («aut quae graviora expecto?»), Heyne («ad quas maiores iniu-
rias?»), Wagner («aut quae restat maior iniuria quam, si haec dissimulem, cavere
possim?»), Sabbadini («maggiori delusioni»), Pease, Austin.
65
È quanto propone ad esempio Forbiger («ad maiora me reservare non
possum, i.e. non sunt maiora, ad quae me reservare possim»).
66
J. Henry, Aeneidea: or Critical, Exegetical, and Aesthetical Remarks on the
Aeneis, London 1873, II, p. 713.

38
La «Dictio» 28 di Ennodio

dere, Henry legava quid a sperando e meliora a sustentor, ma credo


che la lezione suspendor (che richiede un’inversione dei rapporti di
dipendenza, interpretando meliora come complemento oggetto di spe-
rando) offra un senso più soddisfacente: «perché resto indecisa nella
speranza di un miglioramento?». È ad ogni modo sicuro che Ennodio
abbia costruito la propria riscrittura su un’interpretazione positiva del
senso di maiora, che viene da lui parafrasato con meliora.

[369-370] Nei due versi successivi Didone elenca i sintomi esteriori


che denunciano l’impassibilità di Enea: non ha pianto, non ha ab-
bassato lo sguardo, non ha commiserato l’amata. Al solito, Donato
alterna la sezione mimetica, in cui riprende da vicino e amplifica il
testo virgiliano, con delle osservazioni di carattere esegetico, istituen-
do un collegamento – come anche il Danielino 67 – tra lo sfogo amaro
di Didone, che coglie negli occhi di Enea il segno evidente della sua
impassibilità (Num lumina flexit?), con quanto era stato anticipato ai
vv. 331-332 (Ille Iovis monitis immota tenebat / lumina). La parafrasi
di Ennodio si segnala ancora una volta per la sua ricercatezza formale
e la forza delle immagini proposte, che contrastano in modo singolare
con il carattere diretto e immediato dei versi virgiliani. Le interroga-
tive dell’originale vengono sostituite (come del resto avviene anche
nella sezione «mimetica» di Donato) con una serie di rassegnate con-
statazioni, che mettono in evidenza una ricerca esasperata del pathos
espressivo. Enea viene così descritto come una «mente sanguinaria»
(mens cruenta), che non prova alcun dolore o emozione (non exhi-
buit pari dolore collegam) ed abbandona Didone, in preda ai tormenti
amorosi (amore torta), proprio nel momento del maggiore bisogno.

[371] La parte iniziale del v. 371, piuttosto ellittica, è stata interpreta-


ta variamente dagli studiosi moderni. Il problema principale consiste
nell’esatta determinazione della natura dei pronomi quae e quibus,
nonché del genere di quibus. Normalmente la critica ha interpretato
i due termini come neutri, attribuendo ad entrambi una funzione in-

67
Il Danielino, dopo aver istituito un legame tra queste manifestazioni di
insensibilità e quanto detto pochi versi prima, sottolinea acutamente l’efficacia del
ricorso alla terza persona, in senso di indignazione e distacco (et bene avertit ab eo
sermonem).

39
Luigi Pirovano

terrogativa; oppure, alternativamente, a uno interrogativa e all’altro


relativa; ma non è mancato neppure chi ha voluto vedere in quibus
un interrogativo maschile. Nel primo caso (quae + quibus interrogativi
neutri) ci troveremmo di fronte a un’efficace caratterizzazione dello
stato d’animo di Didone, che, sconvolta dall’ira e dalla disperazione,
non riesce più a ordinare logicamente la concatenazione dei propri
pensieri, e quindi delle proprie parole. In questo modo, il senso di
anteferre sarebbe da collegare all’esposizione orale dei pensieri e delle
preoccupazioni della regina, finendo per equivalere grosso modo a
quello di dicere, enarrare 68. Stando invece alla seconda interpretazione
(quae interrogativo neutro + quibus relativo neutro; quae relativo neu-
tro + quibus interrogativo neutro), le parole di Didone introdurrebbe-
ro un confronto quasi razionale (anteferre = praeferre, anteponere) tra
la situazione presente e un ipotetico male maggiore: un paragone che,
attraverso il tono disincantato e quasi rabbioso della domanda retori-
ca, non può che risolversi in negativo, visto che agli occhi di Didone
nulla di più grave potrebbe esservi rispetto alla situazione presente  69.
Interpretando infine quibus come un interrogativo maschile (+ quae
relativo neutro), si è pensato di cogliere in queste parole lo sfogo
estremo della regina cartaginese, posta di fronte all’impossibilità di
trovare un interlocutore – umano o divino che sia – al quale comu-
nicare (anteferre anche in questo caso equivarrebbe dunque a dicere,
enarrare) la propria disperazione 70. Gli esegeti antichi hanno costan-
temente interpretato i due pronomi come interrogativi neutri; anche

68
Cfr. Henry («What shall I put before what? What shall I speak of first,
and what last?»); Pease («What shall I say first [among all the things that might be
said]?»); Austin («What first, what last?»).
69
Così Heyne («Scilicet tamquam leniora durioribus? His quid praeferam?
Quid magis pati velim? h.e. Annon haec extrema sunt?»), Forbiger («Quibus durio-
ribus haec tamquam leniora anteponam? Quae maiora ab isto addi possint, quibus,
quae iam passa sum, postponam, minora iudicem? Nonne haec sunt extrema, tris­
tissima omnium, ut nihil omnino durius excogitari possit?»), Wagner («Quibus
rebus tamquam durioribus quas tamquam leniores praeferam?»), Peerlkamp («Cui
rei quam rem anteferam? Qua re quid est indignius toleratu? Huic crudelitati quam
crudelitatem anteponam?»), Paratore («A quali onte dovrei preferire queste che già
ho dovuto subire?»).
70
Lo propongono Schirach («Sed quibus haec enarrem? i.e. nulli haec enarrari
a me possunt, neque homini, neque diis, nam nulla fides in iis retenta invenitur»);
Sabbadini («quae [haec] ad quos deferam?»).

40
La «Dictio» 28 di Ennodio

se poi, sulla base di questa convinzione, hanno proposto soluzioni


almeno in parte differenti. L’esegesi di Servio (amphibolia: quid prius,
quid posterius dicam?) fa riferimento, anche se a livello implicito, allo
stato d’animo di Didone, che, turbata e sconvolta, non sa trovare l’or-
dine di esposizione adatto per il proprio sfogo. Meno chiara risulta
la chiosa del Danielino (quod fieri solet ubi omnia et paria et magna
sunt. Sane «anteferam» non est dividendum, ut «praeferam») che, per
quanto sia stata giustapposta alla nota serviana senza alcun avverti-
mento, quasi a indicare un’idea di continuità, sembra sottintendere
un’interpretazione differente. Il testo tràdito, recepito senza difficoltà
sia da Thilo che dagli autori della cosiddetta edizione harvardiana,
non mi pare del tutto perspicuo, soprattutto nella sua parte conclu-
siva. Sembra però di poter cogliere nelle parole del Danielino non
tanto un riferimento all’eventuale ordine di esposizione che Didone
dovrebbe seguire nel prosieguo del suo discorso, come vuole Servio,
quanto piuttosto l’idea di un confronto effettivo (praeferam) tra gli
avvenimenti presenti, tutti egualmente gravi ed insostenibili (omnia
et paria et magna sunt). In linea con la glossa del Danielino risulta il
commento di Donato, che affida l’esegesi di questo emistichio alla ri-
scrittura mimetica dell’originale. Pur conferendo valore interrogativo
sia a quae che a quibus, considerati entrambi come neutri plurali, l’au-
tore delle Interpretationes Vergilianae mostra di interpretare anteferre
come sinonimo di praeferre (alia aliis praeferri non possint), cogliendo
nella domanda retorica di Didone l’idea di un confronto tra le disgra-
zie presenti (e non più tra presente e futuro, come hanno proposto
i moderni intepretando quae come relativo); un confronto, anche in
questo caso, impossibile, visto che i mali subìti dalla regina sono tutti
parimenti gravi e insopportabili (tam acerba, tam dura […] itaque sunt
paria, ut ordinatione comparationis aequentur). A fronte di tante pos-
sibilità, Ennodio sembrerebbe essersi basato su un’interpretazione si-
mile a quella offerta da Servio, della quale vengono però leggermente
variati i termini. L’attenzione è infatti puntata non tanto sull’ordine di
esposizione, quanto sulla scelta degli argomenti da esporre (sed quae
eloquar nescio, quae relinquam): in tal modo la Didone del vescovo
pavese appare leggermente più razionale rispetto a quella serviana. Va
detto che questa soluzione non piaceva particolarmente a Henry, che
commenta con una certa ironia: «I think not, if it were only because
the question: ‘which subject of complaint shall I put forward, which

41
Luigi Pirovano

suppress’, hardly proper to be put even by a hired declaimer viva voce


to himself beyond the precincts of his closet, had been the last ques-
tion in the world to be put viva voce to herself by infuriate Dido face
to face with her betrayer» 71. Ma è quantomeno singolare che lo stu-
dioso, dopo aver criticato Ennodio, dichiari il proprio accordo con
l’interpretazione serviana, che con ogni evidenza non si distacca più
di tanto da quella offerta dal vescovo pavese.

[371-372] Arrivati a questo punto Didone chiama in causa gli dèi, an-
che se – ancora una volta – gli studiosi non sono concordi sulla corret-
ta interpretazione di questo riferimento. Le possibilità interpretative
sono sostanzialmente due, a seconda del valore che si voglia attribuire
a oculis […] aspicit aequis: c’è infatti chi ha visto nelle parole di Dido-
ne un’accusa di ingiustizia nei confronti di Giunone e di Giove, che si
sono dimostrati impassibili – o forse addirittura complici – di fronte al
tradimento di Enea 72, oppure chi, ribaltando la prospettiva, ha visto
un’ennesima denuncia dell’ingiusto comportamento di Enea, che gli
dèi, dall’alto della loro giustizia, non possono né approvare né tolle-
rare 73. Per quanto non si soffermino a commentare esplicitamente il
nesso virgiliano, sia Servio che il Danielino sono concordi nel vedere
una certa ostilità nel riferimento a Giove, definito Saturnius pater, di-
mostrando di aderire così idealmente alla prima delle due possibilità
interpretative. In particolare, il Danielino sembrerebbe istituire un
riferimento specifico alla situazione cartaginese: Giunone e Giove so-
no ostili alla città che avrebbero dovuto proteggere. Sulla stessa linea
appare anche il commento di Donato, che – in modo più esplicito –
pone sulle labbra di Didone un’aperta condanna nei confronti di Giu-
none e Giove (et tamen haec […] iniustis deorum luminibus placent),
rimasti impassibili di fronte a una palese ingiustizia, perpetrata sotto
gli occhi di tutti (questo mi sembrerebbe il senso di cum inter omnes
fiunt). Completamente diversa appare invece l’interpretazione sulla

71
Aeneidea cit., p. 714.
72
Questa prima possibilità ammette a sua volta due possibili interpretazioni:
una più generica, a sottolineare la mancanza di imparzialità degli dèi di fronte alle
vicende umane (cfr. Sabbadini: «non c’è più da sperar giustizia nemmeno dagli
dèi»), un’altra più specifica, a indicare il venir meno del tradizionale sostegno accor-
dato da Giunone e Giove nei confronti di Cartagine (Paratore).
73
Così, ad esempio, Forbiger.

42
La «Dictio» 28 di Ennodio

quale Ennodio ha costruito la propria parafrasi. Qui infatti l’accento è


posto sull’ingratitudine di Enea, che ha ricambiato la pietas di Didone
con la sua mancanza d’amore (ut merear non amari): un comporta-
mento che né Giunone né il sommo Giove, visti questa volta sotto una
luce positiva, potranno tollerare. La Didone di Ennodio sembra non
nutrire alcun dubbio sulla giustizia degli dèi e sulla loro capacità di
giudicare con correttezza ed equità le vicende degli uomini (nec dexter
Iunonis oculus, nec summi Tonantis […] aspectus), cosicché le parole
della regina, lungi dall’esprimere un’accusa o un rimprovero nei loro
confronti, suonano come una sorta di velata minaccia all’indirizzo di
Enea, che dovrà temere da un momento all’altro la punizione divina
(significativo l’impiego del futuro patietur).

[373-375] L’ultima parte del v. 373 ammette due interpretazioni, a


seconda che si voglia collegare litore con eiectum (= eiectum in litus)
o con egentem (= egentem litore). La seconda possibilità è sostenuta
da Servio, che propone di interpretare eiectum in senso assoluto (et
est separandum), come sinonimo di naufragum 74, mentre il Danielino,
che pure porta argomenti a sostegno dell’esegesi serviana, fa cenno
in alternativa anche alla prima (vel si iungas «eiectum litore» pro «in
litus»), approvata da Prisciano 75 e da pressoché tutti i moderni (Ru­
aeus, Heyne, Forbiger, Sabbadini, Pease, Austin). La difficoltà inter-
pretativa è determinata dalla presenza dell’ablativo semplice litore,
che può essere collegato a un verbo di moto come eicere solo a prezzo
di qualche forzatura e dunque ha spinto a ipotizzare una dipendenza
da egentem, ancor meno convincente, ma più consona a una visione
prettamente grammaticale e «analogista» come quella di Servio 76. È
probabilmente per questa ragione che Donato, commentando l’emi-

74
Cfr. anche Anth. Lat. 255 R.2, v. 5 Naufragus atque miser segnisque in proelia
ductor. Questo collegamento è stato istituito da McGill, Other Aeneids cit., p. 107
nt. 80, che però rimanda all’interpretazione del Danielino (eiectum litore).
75
18.306 Virgilius tamen «eiectum litore» dixit pro «in litus», quamvis quidam
distinguentes «eiectum», ad consequens verbum dicunt «litore egentem suscepi et
regni demens in parte locavi».
76
R.A. Kaster, Guardians of Language: The Grammarian and Society in Late
Antiquity, Berkeley - Los Angeles - London 1988, pp. 169-197; A. Uhl, Servius als
Sprachlehrer. Zur Sprachrichtigkeit in der exegetischen Praxis des spätantiken Gram-
matikerunterrichts, Göttingen 1998.

43
Luigi Pirovano

stichio, sembra respingere entrambe le possibilità, separando litore sia


da eiectum (visto come equivalente di naufragum, in perfetta corri-
spondenza con Servio), che da egentem (glossato con sine ope victus,
il che garantisce che Donato intendeva il participio in senso assoluto):
in questo modo litore diviene un semplice ablativo di stato in luogo,
da leggere in dipendenza da excepi 77. A fronte di queste possibilità,
è difficile dire quale interpretazione si trovi alla base della parafra-
si di Ennodio: come abbiamo visto, il fatto che Enea venga definito
naufragus (suscepi miseranda naufragum) potrebbe adattarsi a tutte le
possibilità interpretative. Nei due versi successivi Didone enumera i
benefici accordati ad Enea, che, per tutto ringraziamento, ha deciso
di abbandonarla, rompendo la fides. Sia Servio che Donato hanno
sentito la necessità di spiegare il forte zeugma del v. 375 (amissam
classem, socios a morte reduxi): il primo ha proposto di sottintende-
re un altro verbo (subaudis renovavi), mentre il secondo, sulla base
di un meccanismo esegetico costante in tutte le Interpretationes Ver-
gilianae 78, ha legato entrambi gli accusativi a reduxi, che dunque va
per così dire «raddoppiato» (amissam classem reduxi et socios a morte
reduxi, ut «reduxi» non semel, sed bis accipiatur), con l’avvertenza di
riferire a morte unicamente agli uomini e non alle navi. La parafrasi
che Ennodio ha costruito sulla base di questi due versi si segnala per
il suo carattere artificioso, che trae forza dall’accostamento di termini
ed espressioni dal significato contrapposto. La complessità di que-
sto passaggio ha finito per causare un problema di carattere testuale
nell’ultima frase: Feci ut ageret dominum profugus imperantis (inperant
B, imperant VL, imperantem TP, imperantur C, imperator Sirmond).
L’emendazione imperantis, proposta da Hartel e recepita da Vogel, ha
l’indubbio merito di restituire senso alla frase, salvaguardando da un
lato la verosimiglianza paleografica, dall’altro la studiata alternanza
di termini contrapposti e tra loro contrastanti: «Feci in modo che un
profugo facesse la parte del padrone di chi comanda».

77
Un’esegesi di questo genere è stata sostenuta da Henry (Aeneidea cit.,
pp. 718-719), che interpretava eiectum non come sinonimo di naufragum, ma come
equivalente di eiectum patria, exulem.
78
Cfr. M. Gioseffi, «Ut sit integra locutio»: esegesi e grammatica in Tiberio
Claudio Donato, in Gasti (a cura di), Grammatica e grammatici latini cit., pp. 139-
159.

44
La «Dictio» 28 di Ennodio

[376-378] Ormai travolta dall’ira, Didone ironizza sulle giustificazioni


addotte da Enea e sugli horrida iussa che gli impongono di partire per
l’Italia. Sia Servio (NUNC LYCIAE SORTES inrisio est honesta satis)
che il Danielino (et bene «nunc» saepius posuit ad inrisionem, quasi
«nunc de te curant, qui ante periclitanti non curaverunt sub­venire»;
HORRIDA IUSSA et hoc per inrisionem, quasi plena venerationis)
mettono in evidenza a più riprese il valore di irrisione presente nelle
parole di Didone, quasi a sottolineare come alla regina non resti altra
arma che l’ironia. È interessante osservare che la spiegazione offerta
dal Danielino a proposito del triplice nunc, insolitamente esplicitata
tramite la costruzione di un discorso diretto, trova un parallelo abba-
stanza vicino nelle parole di Donato, che del pari, riscrivendo e ampli-
ficando il testo virgiliano, fa sottolineare a Didone il carattere tardivo
dell’intervento divino (quando exclusis infortuniis superioribus otium
cum opibus consecutus est […]. Si ista vera sunt, cur non extiterunt ante
beneficia mea?) 79. La parafrasi di Ennodio prescinde invece quasi to-
talmente dal senso di nunc, ma, al solito, si segnala per la sua oscurità.
Il testo trasmesso dai manoscritti, recepito senza variazioni da Hartel e
da Vogel (ergo Apollinis auguriis vocatus abscedis et sortis Lyciae casum
certis et apud te iam manentis praeponis imperiis?), mi pare privo di
senso nella sua parte finale: a chi riferire il genitivo manentis? L’unica
soluzione mi sembra quella di pensare a Didone, ma in questo modo la
frase assumerebbe un andamento faticoso e ai limiti della correttezza
formale: «Dunque te ne vai chiamato dai responsi di Apollo e antepo-
ni il destino dell’oracolo della Licia a un regno sicuro e di una persona
che già si trova presso di te?». A fronte di questa interpretazione, for-
zata e poco convincente, ritengo di gran lunga preferibile accogliere
nel testo la correzione manentibus proposta in apparato da Hartel,
che offre un senso del tutto soddisfacente e consente di restituire al-
la frase non solo linearità, ma anche efficacia espressiva: «Dunque te

79
Un’interpretazione in parte simile è proposta da Conington («NUNC seems
to mean ‘now, just when it is most convenient to him and most fatal to me’»), mentre
Henry, Aeneidea cit., pp. 722-723, pensa che nunc equivalga a modo, ponendo in
relazione la risposta di Didone con le precedenti affermazioni di Enea: «Now, it is
the AUGUR APOLLO who is sending him away (verse 345); now it is the LYCIAE
SORTES which are sending him away (verse 346); now it is the INTERPRES
DIVUM IOVE MISSUS AB IPSO (the exact repetition of Aeneas’s words with his
very NUNC, verse 356) who is sending him away».

45
Luigi Pirovano

ne vai chiamato dai responsi di Apollo e anteponi il destino (incerto)


dell’oracolo della Licia a un regno sicuro e già nelle tue mani?».

[379-380] In questo ironico richiamo agli dèi Servio ha colto una


coloritura epicurea, che però – a suo dire – verrebbe successivamente
contraddetta dal carattere stoico del v. 382 si quid pia numina possunt.
Il Danielino riporta poi l’opinione di alcuni esegeti non meglio iden-
tificati (quidam), secondo i quali il riferimento agli dèi superi (superis)
indicherebbe Mercurio, Apollo e Giove, mentre l’aggettivo quietos
servirebbe a designare gli inferi, con particolare riferimento ad Anchi-
se. Questa seconda interpretazione, eccessivamente contorta e lam-
biccata, non sembra avere incontrato alcuna approvazione né presso
la critica virgiliana antica né presso gli studiosi moderni, tutti concor-
di nel riferire anche quietos ai superi, secondo un’interpretazione del
tipo di quella presente nella parafrasi di Donato: Nimirum deorum
curam tangit quid homines agant et ipsorum quietas mentes humani
commovent actus. Una differente interpretazione di quietos sembra
invece stare alla base della parafrasi di Ennodio, che ha rielaborato
questi due versi in modo particolarmente autonomo, aggiungendo al-
cuni dettagli che non trovano posto nell’originale (si veda soprattutto
la parte conclusiva, dove si insiste sul motivo, ricco di pathos, dell’ab-
bandono dell’amata: ut diligentis litora quasi solum hostile diffugiat, ut
per tempestates salutem prodat qui solum fugit affectum). Sebbene la
libertà che il vescovo pavese si è concesso in fase di riscrittura debba
indurre a una certa cautela, parrebbe di comprendere che egli inter-
pretasse quietos con riferimento a un sottinteso homines («una preoc-
cupazione di questo genere, cioè proveniente dagli dèi superi, mette
in agitazione gli uomini che si trovano in una situazione tranquilla»),
visto che il verbo che utilizza per parafrasare sollicitat ha come sogget-
to Mercurio (et interpres superorum ad hos hominem compellit exces-
sus). Se questo risponde a realtà, ci troveremmo di fronte a un unicum
nella storia della filologia virgiliana; ma non si può escludere del tutto
la possibilità che, sulla base di un’interpretazione simile a quella tra-
dizionale, Ennodio abbia rielaborato l’originale in modo autonomo,
fino a rendere irriconoscibile il dettato di partenza.

[381-384] Didone, ormai priva di ogni residua speranza, esorta Enea


ad andarsene in tutta fretta, augurandogli di scontare le sue pene nau-

46
La «Dictio» 28 di Ennodio

fragando tra gli scogli. Sia Servio (satis artificiosa prohibitio, quae fit
per concessionem) che il Danielino (ergo hic cum eum videtur dimittere,
admonendo periculi retinet) sono concordi nell’interpretare le parole
della regina come un ultimo, disperato tentativo di trattenere l’amato
prospettandogli, tramite il ricorso a nomina terribilia, i pericoli della
navigazione. Si tratta del resto di una lettura tradizionale, visto che
già Quintiliano, inst. 9.2.48, classificava il nostro passo tra gli esempi
di ironia (e„rwne…a est et, cum similes imperantibus vel permittentibus
sumus: «I, sequere Italiam ventis», et cum ea, quae nolumus videri in
adversariis esse, concedimus eis). Un’interpretazione simile è presen-
te anche nel commento di Donato, che però non esclude del tutto
la possibilità di leggere in questa esortazione l’effettivo desiderio di
vendetta di un’amante abbandonata: le parole di Didone sono quelle
di una donna adirata e dunque possono ammettere interpretazioni
contrapposte (Iratae animo locuta est, sed tali genere dictionis, quod
duos intellectus admittat). Mentre però la prima alternativa viene pro-
spettata attraverso una normale glossa interpretativa, spiegando per
così dire dall’esterno le possibili intenzioni di Didone (eum terret, ne
naviget […]; nam obiecit undas et ventos quibus terreret properantem),
nel secondo caso l’esegeta fa parlare direttamente la regina cartagine-
se, secondo il procedimento dell’etopea «parafrastica» che abbiamo
più volte descritto (habebo occasionem qua possim tuis suppliciis vindi-
cari; spero enim te pro meritis tuis inter scopulos hausurum innumeras
poenas). Ed è proprio alla seconda delle ipotesi che aderisce tacita-
mente Ennodio, che nella sua parafrasi ci mostra una Didone ormai
totalmente pervasa dal desiderio di vendetta: Habet vindictam mei via
qua deseror, habebit pelagus in furore iudicium. Al di là del senso com-
plessivo da attribuire alle parole della regina, occorre precisare che il
v. 381 è interessato da un piccolo problema interpretativo, visto che
non è del tutto chiaro se ventis debba essere letto in correlazione con
quanto precede (I, sequere Italiam ventis) o con quanto segue (ventis
pete regna per undas). La prima soluzione, che sicuramente appare più
naturale, è preferita da Quintiliano e da Servio e dalla maggior parte
degli editori e dei commentatori moderni (Heyne, Forbiger, Sabba-
dini, Mynors, Geymonat, Pease), mentre la seconda era nota già al
Danielino, che la descrive come piuttosto diffusa ai suoi tempi (sane
multi «Italiam» distinguunt, ut sequatur «ventis pete regna per undas»),
ed è stata sostenuta da Henry. Sebbene Geymonat in apparato inclu-

47
Luigi Pirovano

da Donato tra quanti aderiscono alla prima proposta interpretativa,


ritengo che né nel lemma né nella nota di commento vi siano elementi
che consentano di confermare questa ipotesi; a ben vedere, la parte
iniziale della sezione mimetica potrebbe indurre a credere il contrario
(bene contigit, quod desideratum imperium Italiae ventis et fluctibus
petiturus es), ma ritengo più prudente affermare che non siamo in gra-
do di ricostruire con esattezza l’interpunzione sulla quale Donato ha
basato la lettura di questo verso.

[384-387] Il discorso di Didone si conclude con una violenta minac-


cia, che rappresenta la definitiva maledizione dell’amato e al tempo
stesso preannunzia, per mezzo di una sinistra allusione, la morte im-
minente della regina. Servio (seguito dal Danielino) ha dedicato am-
pio spazio a chiarire il senso di atris ignibus (v. 384), su cui certo si
devono essere arrovellati a lungo gli esegeti antichi. Dopo aver propo-
sto al lettore due possibilità interpretative altrui, a suo giudizio non
sufficientemente persuasive, che prevedevano rispettivamente un rife-
rimento alle Furie (alii «furiarum facibus» dicunt, hoc est «invocatas
tibi inmittam Diras»)  80 o alle allucinate affermazioni di Didone al
v. 594 (alii «sociorum», ut paulo post «ferte citi flammas»), Servio di-
chiara di preferire la soluzione prospettata da Urbano, secondo cui la
regina alluderebbe al proprio rogo funebre, dato ormai come immi-
nente e inevitabile (melius tamen est, ut secundum Urbanum accipia-
mus «atris ignibus» rogalibus, qui visi tempestatem significant, ut
Aeneae, sicut in quinto legimus [5.7], contigit. Hoc ergo nunc, quod
factura est, dicit, id est «occidam me et rogalibus te persequar flammis»).
L’esatta interpretazione di atris ignibus è peraltro strettamente colle-
gata con quella di absens che segue: conformemente alla propria posi-
zione, Servio vede nell’aggettivo un sinonimo di mortuus («absens»,
quasi mortua), ma l’aggiunta del Danielino, che a supporto di questa
esegesi istituisce un confronto con Aen. 9.215 (ut «absenti ferat infe-
rias»), lascia credere che non tutti gli interpreti tardoantichi la pensas-
sero allo stesso modo. Contro questa proposta si schiera infatti Dona-
to, che dapprima riscrive il discorso di Didone interpretando letteral-

80
Heyne: «Vocabis moribundus Didonem; tunc Furiae sceleris in me com-
missi tibi obversabuntur; sive: ego, etsi absens, tibi occurram tamquam ex Furiis
una et faces intentabo oculis».

48
La «Dictio» 28 di Ennodio

mente absens (imaginaberis me absentem: quasi te facibus persequar


praesens), quindi si affretta, tramite l’aggiunta di una glossa interpre-
tativa, a confutare l’ipotesi di quanti vedevano nel termine un eufemi-
smo per mortua, citando proprio il caso di Aen. 9.215 tra gli exempla
impropria utilizzati dai suoi avversari. Questo ci permette peraltro di
escludere con buona sicurezza la possibilità che, per quanto la sua
parafrasi sia assolutamente generica, Donato intendesse atris ignibus
come un riferimento al rogo funebre di Didone. Più verosimilmente,
l’esegeta avrà avuto in mente l’immagine delle Furie, anche se questo
non viene detto esplicitamente. Occorre ad ogni modo precisare che
la definizione del senso di praesens e la relativa confutazione della teo-
ria «avversaria» non si basano su quanto precede, bensì sulle parole
successive di Didone (quorum errores sequentia probant), nelle quali la
regina fa esplicito riferimento alla propria morte (et, cum frigida mors
anima seduxerit artus, / omnibus umbra locis adero), inducendo l’ese-
geta a pensare a un momento successivo rispetto alla «persecuzione»
da viva. Così infatti Donato si esprime nella parafrasi conclusiva, che
parzialmente riprende e precisa quella precedente: cum vivo timebis
me absentem et, quasi te infesta persequar, semper et ubique terrebe-
ris … A questo punto però il testo delle Interpretationes si interrompe
bruscamente e si apre una lunga lacuna, che si estende fino al v. 621,
impedendoci dunque di conoscere l’interpretazione proposta riguar-
do alle ultime parole di Didone. È invece completa la parafrasi enno-
diana, che tuttavia, qui più che altrove, si sviluppa in piena autonomia
rispetto al testo virgiliano, al quale risulta legata solo superficialmente.
La frase iniziale (aut certe quod timeo ne dum vindicor me vivente mo-
riaris eventum expetitae navigationis post usuram lucis agnoscam) ap-
pare di ardua comprensione e ammette, io credo, due differenti inter-
pretazioni. La prima, in certo modo suggerita dall’interpunzione
adottata da Hartel e da Vogel (aut certe, quod timeo, ne ecc.), consiste
nel vedere in quod timeo un nesso parentetico, prolettico rispetto alla
finale negativa che segue: «O certamente, cosa che io temo, affinché
tu non muoia mentre io, essendo ancora viva, mi vendico, conoscerò
l’esito della navigazione da te intrapresa dopo la mia morte». Si tratta
di una soluzione di per sé non impossibile, ma sicuramente un po’
forzata e nel complesso meno probabile rispetto alla seconda, che
consiste nell’interpretare ne […] moriaris come una completiva in di-
pendenza da timeo e, di conseguenza, quod timeo come una subordi-

49
Luigi Pirovano

nata causale. In questo modo la sintassi del periodo risulta più lineare,
ma il senso non appare lo stesso del tutto chiaro, tanto che, sulla base
di una prima traduzione, sembrerebbe di trovarsi di fronte a un corto-
circuito logico: «Anzi, poiché temo che tu possa morire mentre io,
essendo ancora viva, mi vendico, conoscerò l’esito della navigazione
da te intrapresa dopo la mia morte». La prima parte della frase sem-
brerebbe in netto contrasto con la seconda: se Didone teme che Enea
possa morire prima di lei, perché mai dovrebbe attendere la propria,
di morte, per poter conoscere l’esito della navigazione, ossia che Enea
è morto? Del resto, sia il testo virgiliano (haec Manis veniet mihi fama
sub imos) che il prosieguo della parafrasi di Ennodio (vide sceleribus
indebitam mercedem: perire innocens ante cupio quam merentem) sono
concordi nel collocare la morte di Didone prima di quella di Enea.
Come spiegare questo controsenso? In realtà, credo che la contraddi-
zione possa essere sanata attraverso una corretta interpretazione del
nesso timeo ne, che va inteso non nel suo valore più classico («temo
che avvenga qualcosa che desidererei non si verificasse»), bensì secon-
do un’accezione per così dire secondaria, che comunque amplifica un
valore ben presente nel significato comune di timeo e, in certo modo,
si trova alla base del suo costrutto con ne ed il congiuntivo («desidero
che non avvenga qualcosa, preferisco che qualcosa non si verifichi») 81.
Interpretando il verbo in questo modo, la frase acquista un senso sod-
disfacente: «Anzi, poiché desidero che tu non muoia mentre io, essen-
do ancora viva, mi vendico, conoscerò l’esito della navigazione da te
intrapresa dopo la mia morte». In tal modo, timeo diviene l’esatto
contraltare di cupio che segue e la conclusione dell’etopea ennodiana
rappresenta la logica conclusione della frase che la precede immedia-
tamente. È però evidente che, ancor più che nel resto del suo compo-
nimento, Ennodio qui si sta allontanando decisamente dal testo virgi-
liano. Di fronte a questa conclusione, Henry 82 non ha esitato a mani-
festare tutte le sue riserve: «A fair specimen of the kind of under-

81
Cfr. Ae. Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon, IV, p. 321 nell’edizione
Lipsiae - Londini 1839 di cui mi avvalgo («Timeo ut de iis, quae fieri cupimus; timeo
ne de iis, quae nollemus», con rimando a Cic. fam. 14.2.3 omnes labores te excipere
video, timeo ut sustineas, e Ter. Andr. 268-270 diem / […] in hunc sunt constitutae
nuptiae. Tum autem hoc timet, / ne deseras se).
82
Aeneidea cit., p. 724.

50
La «Dictio» 28 di Ennodio

standing there was of Virgil during the middle ages, up to the time of
Julius Scaliger, a period embracing that most renowned of all Virgil’s
commentators, Servius. Ennodius was a scholar, such as scholars were
in those days, a bishop and father of the church, yet he understands
Dido not as comforting herself with the prospect of Aeneas’s perish-
ing by shipwreck on his way to Italy, but as hoping she may be dead
herself before such deserved calamity befalls him. Is it any wonder
that Virgil has be taken to be a conjuror and necromancer, and his
fourth Eclogue a hymn in honour of the coming of Christ?». In realtà,
la variazione introdotta da Ennodio è molto più classica di quanto
Henry potesse pensare, visto che rimonta, in ultima analisi, a Ov. her.
7.63-64 Vive, precor! Sic te melius quam funere perdam. / Tu potius leti
causa ferere mei. Non si tratta, dunque, di una sorta di «cristianizza-
zione» medievale del personaggio di Didone o del messaggio virgilia-
no, ma del richiamo dotto a un altro classico della letteratura latina,
che certo in un passaggio di questo genere – ricco di quel pathos esa-
sperato tanto caro alle scuole di retorica – non poteva non incontrare
il favore di Ennodio 83. Questo rimando a Ovidio, che si pone così co-
me modello accanto a Virgilio e fornisce ad Ennodio lo spunto per
accentuare gli elementi «patetici» del discorso di Didone, ci consente
non solo di apprezzare l’intento letterario della Dictio 28, già più volte
sottolineato in fase di commento, ma anche di inserire il componi-
mento in un preciso panorama culturale e letterario, strettamente col-
legato con le scuole di retorica tardoantiche. La combinazione tra
Virgilio e Ovidio sembra infatti una sorta di trait d’union che unisce
opere differenti per origine e tipologia (i componimenti dell’Antholo-
gia Latina, i centoni, la nostra dictio ecc.), ma che sono tutte accomu-
nate da un medesimo gusto letterario e da una identica predilezione
per il gioco erudito. Ed è troppo facile bollare tutto ciò come una
produzione minore e poco significativa 84.

83
Il medesimo motivo ricorre anche nella cosiddetta Epistula Didonis ad
Aeneam (Anth. Lat. 83 R.2 = 71 Sh.B.), che – come s’è detto – si ispira esplicita-
mente alla settima delle Heroides ovidiane (vv. 148-150): […] Licet simul improbus
exul / et malus hospes eras et ubique timendus haberis, / vive tamen nostrumque nefas
post fata memento. Cfr. in proposito Solimano, Epistula Didonis cit., p. 113.
84
Sulla presenza di Ovidio nelle rielaborazioni virgiliane tardoantiche, cfr.
McGill, Virgil Recomposed cit., pp. 40-47 e 59-60.

51
Luigi Pirovano

Appendice
Vergilius, Aeneis, 4.365-387
365 «Nec tibi diva parens generis nec Dardanus auctor,
perfide, sed duris genuit te cautibus horrens
Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres.
Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo?
Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit?
370 Num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est?
Quae quibus anteferam? Iam iam nec maxima Iuno
nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis.
Nusquam tuta fides. Eiectum litore, egentem
excepi et regni demens in parte locavi.
375 Amissam classem, socios a morte reduxi
(heu furiis incensa feror!): nunc augur Apollo,
nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipso
interpres divum fert horrida iussa per auras.
Scilicet is superis labor est, ea cura quietos
380 sollicitat. Neque te teneo neque dicta refello:
i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas.
Spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,
supplicia hausurum scopulis et nomine Dido
saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens
385 et, cum frigida mors anima seduxerit artus,
omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas.
Audiam et haec Manis veniet mihi fama sub imos».

52
Isabella Canetta
«DIVERSOS SECUTUS POETAS»
Riuso e modelli nel commento
di Servio all’Eneide

È noto come il commento di Servio all’opera virgiliana, scritto con


ogni probabilità fra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo d.C.,
sia stato ampiamente letto e consultato nel corso della tarda antichità,
del Medio Evo e del Rinascimento, svolgendo la funzione di indiriz-
zare e guidare la lettura e l’interpretazione di Bucoliche, Georgiche
ed Eneide 1. Sebbene il maggior numero di annotazioni contenga in-
dicazioni e chiarimenti relativi alla lingua – questioni di pronuncia,
grammatica, lessico e ortografia, per il probabile scopo di insegnare
l’uso corretto del latino – nel commentario non mancano riferimenti
ad altri argomenti, come la storia, la mitologia o le antiche usanze 2; vi

1
Cfr. M. Irvine, The Making of Textual Culture. ‘Grammatica’ and Literary
Theory, 350-1100, Cambridge 1994, p. 126. P.K. Marshall, Servius and Commen-
tary on Virgil, Asheville 1997, p. 14, definisce l’opera «a living text», in quanto essa
fu «clearly used, clearly adapted and ‘improved upon’ […] over the centuries».
2
Così Robert Kaster, nel suo studio dedicato al ruolo e alla funzione del
grammatico nella tarda antichità, illustra il compito di custos Latini sermonis assunto
da Servio: «He was to protect the language against corruption, to preserve its coher-
ence, and to act as an agent of control» (R.A. Kaster, Guardians of Language: The
Grammarian and Society in Late Antiquity, Berkeley - Los Angeles - London 1988,
p. 17). Circa la finalità del commentario serviano e la proporzione, in esso, delle
diverse tipologie di note, vd. anche ivi, p. 170, e A. Uhl, Servius als Sprachlehrer.
Zur Sprachrichtigkeit in der exegetischen Praxis des spätantiken Grammatikerunter-
richts, Göttingen 1998.

53
Isabella Canetta

si trovano inoltre frequenti rimandi ai modelli letterari, greci e latini,


che stanno (o starebbero) alle spalle dei tre testi virgiliani. Servio era
dunque consapevole del metodo compositivo di Virgilio, consistente
nel rielaborare, riscrivere e ricontestualizzare le opere di autori prece-
denti 3; e, quando ne era a conoscenza, rilevava le imitazioni compiute
dal poeta mantovano, pur senza mettere di solito in evidenza come
e perché tale riscrittura venisse attuata. Lo scoliaste giunge così ad
operare due diversi livelli di riscrittura: in primo luogo, infatti, il testo
virgiliano è da lui riutilizzato nel momento stesso in cui lo interpreta
secondo i propri canoni estetici e lo spiega sulla base delle sue co-
noscenze storiche e filosofiche  4; dopo di che, quando ne fa esplici-
ta menzione, egli riutilizza anche i testi-modello imitati da Virgilio.
Questi, in effetti, non vengono valutati in se stessi o per le loro qua-
lità letterarie estrinseche, ma sono ricordati e letti solo nella misura
in cui contribuiscono (o si presume che contribuiscano) ad illustrare
il componimento sottoposto ad esegesi, diventando subordinati ad
esso. Questo secondo tipo di riuso non determina soltanto la lettura
e l’interpretazione dei testi-modello, ma, in molti casi, anche la loro
sopravvivenza nella memoria dei lettori: questi ultimi, cioè, grazie ad
esso sono spinti a leggere, rileggere o comunque ricordare alcune ope-
re in luogo di altre e, soprattutto, a considerarle e a re-interpretarle in
funzione dei poemi di Virgilio.
Come esempio di tale operazione vorrei analizzare una breve
nota, tratta dal commento al secondo libro dell’Eneide, nella quale
Servio si occupa delle donne troiane assediate nella reggia di Priamo
(vv.  486-490). In questa descrizione Virgilio ricontestualizza gesti,
dettagli e lessico presi dalle opere di poeti precedenti, in modo tale da
attribuire loro significati nuovi. Servio, però, segnala solamente due

3
Cfr. J. Farrell, The Virgilian Intertext, in The Cambridge Companion to
Virgil, ed. by Ch. Martindale, Cambridge 1997, p. 222: «The poetics of intertex-
tuality is one of Virgil’s most powerfully evocative tools for communicating ideas,
for establishing his place in the literary canon, and for eliciting the reader’s active
collaboration in making meaning».
4
Sull’interpretazione dei poemi virgiliani da parte di Servio cfr. J.W. Jones,
An Analysis of the Allegorical Interpretations in the Servian Commentary on the
«Aeneid», Diss. Univ. of North Carolina, Chapel Hill 1959; A. Setaioli, La vicenda
dell’anima nel commento di Servio a Virgilio, Frankfurt a.M. 1995; M. Gioseffi,
Allegoria e cerimoniale negli scolii serviani, «Acme» 57, 2004, pp. 45-68.

54
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

dei modelli che stanno alle spalle dell’Eneide, vale a dire Apollonio
Rodio e (probabilmente) Ennio, senza menzionarne altri, come Lu-
crezio o un certo tipo di storiografia, ai quali pure il passo virgiliano
chiaramente si apparenta.

Un lungo episodio dell’Iliupersis narrata nel secondo libro dell’Eneide


ha infatti come protagonista Pirro, figlio di Achille, che con violen-
za penetra nella reggia di Priamo, seminandovi distruzione e morte
(vv. 469-505). Splendente nelle sue armi, simile a un serpente appe-
na tornato alla luce dopo essersi rivestito di nuova pelle, il giovane
guerriero tenta di svellere la porta d’entrata della reggia e vi produce
un’apertura tanto ampia da permettere la visione delle stanze più in-
terne del palazzo (vv. 469-485); nello stesso tempo, dentro la reggia,
le donne, spaventate, gemono, urlano e vagano per ogni dove, abbrac-
ciando e baciando gli stipiti delle porte (vv. 486-490):
At domus interior gemitu miseroque tumultu
miscetur, penitusque cavae plangoribus aedes
femineis ululant; ferit aurea sidera clamor.
Tum pavidae tectis matres ingentibus errant
amplexaeque tenent postis atque oscula figunt.

Il resoconto dell’attacco riprende subito dopo: Pirro riesce ad abbat-


tere la porta e a permettere ai Greci di penetrare nel palazzo (vv. 491-
495); la strage può avere così inizio (vv. 496-505).
I versi 486-490, separati da quanto precede attraverso la particella
avversativa at, segnano dunque una pausa nel racconto dell’assalto,
allo scopo di mettere in rilievo la forza e la violenza del giovane, in
preparazione dell’episodio principale che lo vedrà protagonista, lo
scontro con Priamo e la sua uccisione 5. Questa breve pausa, quindi,
sposta per poco tempo lo sguardo dall’esterno all’interno del palaz-
zo e soddisfa alcune necessità narrative. Innanzitutto, il lettore viene
informato di ciò che sta accadendo dentro la reggia mentre fuori, sul

5
Il paragone con il serpente, di origine iliadica, la distruzione della porta con
la bipenne, l’incalzare del figlio di Achille, sottolineato dal ritmo sostenuto della
narrazione, contribuiscono a mettere in rilievo la giovinezza, l’audacia e la baldanza
di Pirro, pronto a uccidere chiunque e dovunque, perfino Polite che cerca rifugio
presso gli altari della casa e gli anziani genitori.

55
Isabella Canetta

tetto, gli uomini cercano invano di difendersi lanciando pietre e ar-


mi sui nemici (vv. 467-468)  6; in questo modo si ottiene una visione
più ampia e completa della battaglia, prendendo in considerazione
non solo le azioni dei combattenti – i difensori troiani e gli attaccanti
achei  – ma anche la reazione delle donne impaurite e timorose del
loro destino. In secondo luogo, la descrizione segna la tappa iniziale
di una progressiva penetrazione nella dimora reale da parte degli assa-
litori: ora le matres piangono e si disperano, ma i nemici sono ancora
all’esterno; tra poco la porta cederà e i Danai potranno entrare e de-
vastare le stanze; alla fine Pirro, da nulla ormai ostacolato, ucciderà
prima Polite davanti agli occhi del padre, poi lo stesso re. Lo sposta-
mento momentaneo dell’interesse sulle donne, infine, rallenta il ritmo
della narrazione, creando tensione e suspense, in attesa del momento
in cui Pirro riuscirà ad irrompere nel palazzo.
Nella sua nota a commento del verso che dà inizio all’episodio,
Servio propone un primo rimando a un modello letterario: de Alba-
no excidio translatus est locus 7. Dunque, per lo scoliaste questo locus,
cioè il passo che ha inizio al v. 486, è il rifacimento di un’opera, o pro-
babilmente di parte di essa, che aveva come argomento la distruzione
di Alba Longa 8. Servio non specifica quale sia il componimento imi-
tato da Virgilio, forse perché quell’espressione designava qualcosa di

6
Cfr. R.G. Austin (ed.), P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Secundus, Oxford
1964, p. 190: «Virgil interrupts his account of the attack to describe the scene in the
inner court […]. At marks the contrast with the situation in limine primo, where
all is grim defence»; così anche E. Paratore, Virgilio. Eneide, I. Libri I-II, Milano
1978, p. 326: «La particella serve a contrapporre la tacita meraviglia degli assalitori
nello scoprire lo splendore interno della reggia alle angosciose reazioni delle donne
ivi custodite».
7
Cfr. Serv. ad Verg. Aen. 2.486; il testo di questa e di tutte le altre citazioni
serviane è tratto dall’edizione a cura di G. Thilo e H. Hagen, Servii Grammatici qui
feruntur in Vergilii carmina commentarii, I-III, Lipsiae 1881-1902. Dove possibile,
ho tenuto però conto anche dell’edizione degli studiosi di Harvard, Servianorum in
Vergilii carmina commentariorum editio Harvardiana, II, Lancastriae Pennsylvania-
norum 1946.
8
Il verbo transferre utilizzato da Servio è un termine tecnico della scoliastica
latina per indicare l’imitazione dell’opera di un poeta da parte di un altro poeta,
non una traduzione parola per parola: cfr. A. Traina, Vortit barbare. Le traduzioni
poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 1970, p. 57, e A. Thill, «Alter ab
illo». Recherches sur l’imitation dans la poésie personelle à l’époque augustéenne,
Lille 1976, p. 43 nt. 15 e p. 470.

56
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

noto ai suoi lettori. Eduard Norden suppose perciò che la scena fosse
ispirata alla descrizione che Ennio aveva fatto della caduta di Alba
nel secondo libro degli Annales, descrizione probabilmente arrivata al
poeta mantovano per via indiretta, tramite la mediazione degli annali-
sti 9. Più di recente, Otto Skutsch ha immaginato un’influenza diretta
del poeta antico su Virgilio  10; un parere diverso ha infine espresso
Ethel M. Steuert, secondo la quale Virgilio avrebbe riproposto il
tema di una ballata in voga al suo tempo, che aveva come evidente
argomento il sacco di Alba 11. L’opera di Ennio rappresenta però un
modello privilegiato per l’Eneide 12, e non vi è dunque necessità di po-
stulare una fonte diversa dagli Annales; benché Servio non menzioni
il nome dell’autore dell’Albanum excidium, è ragionevole supporre
che si tratti proprio di Ennio. Data la perdita dell’originale, rimane
invece impossibile stabilire in qual modo Virgilio abbia rielaborato
ed eventualmente variato la scena descritta dal modello. Il commento
serviano non ci aiuta a comprendere la relazione esistente fra ipotesto
e rifacimento, dal momento che lo scoliaste non opera nessun tipo
di confronto fra i due passi e si limita a una generica menzione della
presunta «fonte». In ogni caso, il ricordo dell’excidium di Alba e del
suo riutilizzo da parte di Virgilio sono rimasti così depositati nella me-
moria di generazioni di studenti e di lettori che hanno letto l’Eneide
con l’ausilio delle note serviane.
A tutto ciò, possiamo aggiungere un’ulteriore considerazione: la
descrizione di come si comportano le donne di una città caduta in ma-
no ai nemici, sul punto di essere costrette ad abbandonare la patria, è

9
E. Norden, Ennius und Vergilius. Kriegsbilder aus Roms grosser Zeit, Leip-
zig - Berlin 1915, pp. 154-158.
10
O. Skutsch (ed.), The Annals of Q. Ennius, Oxford 1985, p. 279.
11
E.M. Steuert, The Annals of Quintus Ennius, Cambridge 1925, pp. 169-
170: «The form of his [Servius] note is very unusual; we should expect his ordinary
Ennianus est locus or de Ennio if the original were really the Annales, and Albanum
excidium looks like a title. Moreover, there is no traceable imitation of the Annales
in the passage […]. Hence it is possible to see in ‘The Sack of Alba’ another prod-
uct of the ballad school». Nel corso del saggio la studiosa postula infatti l’esistenza
di una «school of native ballad poetry» che avrebbe dato origine a componimenti
poetici riguardanti gesta eroiche in funzione celebrativa: ivi, pp. 163-170.
12
Sul rapporto tra Ennio e Virgilio cfr. almeno, dopo Norden, M. Wigodsky,
Virgil and Early Latin Poetry, Wiesbaden 1972, pp. 40-79; P. Parroni, in Enc. Virg.
II, 1985, pp. 312-315, s.v. «Ennio».

57
Isabella Canetta

una «scena tipica» sia della storiografia tragica sia dei poemi epici  13,
ed è possibile che il poema enniano ritraesse la disperazione delle don-
ne di Alba in toni che risentivano della storiografia d’età ellenistica  14.
Sebbene Servio ricordi soltanto l’Albanum excidium, appare quindi
probabile che Virgilio avesse presenti anche altre scene di ugual tipo,
tratte da opere storiografiche scritte alla maniera «tragica». Nell’am-
bito della letteratura latina una rappresentazione del genere compare,
ad esempio, proprio nel resoconto che Tito Livio offre della caduta
di Alba (1.29) – rappresentazione che presenta più d’una affinità con
Aen.  2.486-490: il virgiliano tumultu / miscetur (vv. 486-487) si ap-
parenta infatti al clamor hostilis […] omnia ferro flammaque miscet
di Livio; l’errant del v. 489 riporta all’errabundi del testo in prosa;
il periodo voces miserabiles exaudiebantur, mulierum praecipue (5) ri-
chiama il plangoribus aedes / femineis ululant di Virgilio (vv. 487-488).
Come ho già detto, Norden riteneva che né Livio né Virgilio avessero
imitato la scena degli Annales per via diretta, ma solo attraverso la
mediazione degli annalisti ispiratisi alla storiografia tragica 15; Skutsch
pensa invece che Livio sia influenzato da Ennio, che forse conosceva
a memoria fin dai tempi della scuola, e anche Aen. 2.486-490, come
sappiamo, a suo dire «owes something to the earlier poet»  16. Allo
stato delle nostre conoscenze non è possibile stabilire se e quanto
Virgilio abbia riutilizzato stile e dettagli tipici della storiografia nella
composizione di questa scena; il passo di Livio sulla caduta di Alba

13
Sulla sua fortuna si legga il commento di Ogilvie al passo di Livio che
descrive la reazione degli abitanti di Alba obbligati ad abbandonare la patria
(R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965, p. 120): «Pathetic
descriptions of this kind were as much in vogue with Hellenistic historians as they
were with poets […]. The description of cities and the fate of their inhabitants were
a favourite theme for poets. Ultimately they derived their inspiration from the Epic
Cycle, from the Ilioupersis, but their vision was wider and more personal than the
objective descriptions of formulaic poetry. Rome, too, delighted in those fleeting
visions of triumph and ruin». Austin, Aeneidos Liber Secundus cit., p. 191, ritiene
il passo virgiliano un ottimo esempio di quello stile tragico che veniva censurato
da Polibio: «The passage well illustrates the kind of thing that Polybius censures
(2.56.7) in his criticism of the method of Phylarchus with its ‘tragic’ colouring». Lo
studioso, tuttavia, non ha colto l’ampiezza del riuso virgiliano della scena e le sue
implicazioni narrative.
14
Cfr. Norden, Ennius und Vergilius cit., pp. 157-158.
15
Ibid.
16
Skutsch, The Annals of Ennius cit., pp. 279-280.

58
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

dimostra solamente che il modo «tragico» di scrivere la storia non era


estraneo al gusto della Roma augustea e può avere influenzato l’autore
dell’Eneide, soprattutto se già lo spingeva in quella direzione il prece-
dente di Ennio 17. Oltre non è lecito andare. Virgilio, vuoi attraverso
la sola mediazione di Ennio, vuoi sfruttando parallelamente Annales
e altri modelli, ha riutilizzato e ricontestualizzato un topos ormai af-
fermato, ottenendo gli effetti indicati in precedenza. La critica che
Polibio rivolge allo storico Filarco, biasimato per le sue descrizioni
dai toni tragici, volti solamente a suscitare pietà nei lettori, chiarisce
quali fossero gli elementi caratteristici di simili scene, e cioè abbracci
di donne, capelli strappati e colpi al petto, non senza lacrime e lamen-
ti, nella prospettiva della separazione dai figli e dai genitori (2.56.7)  18.

17
Rimane difficile stabilire il rapporto tra l’Eneide e i primi libri degli Ab
urbe condita e decidere se Virgilio abbia potuto o no essere influenzato da Livio,
o viceversa se sia lo storico ad avere utilizzato il poema virgiliano (o, ancora, se
entrambi abbiano attinto indipendentemente alle stesse fonti). In effetti, sembra
improbabile che Livio conoscesse l’Eneide, o anche solo parti di essa, all’epoca
della composizione dei primi cinque libri degli Ab urbe condita, terminati verosimil-
mente entro il 27-25 a.C. e revisionati entro il 24, prima della diffusione postuma
del poema. Secondo P. Grimal, Virgile et Tite-Live face à la Révolution Romaine, in
M. Gigante (a cura di), Virgilio e gli Augustei, Napoli 1990, pp. 257-278, Virgilio
e Livio avrebbero attinto alla comune tradizione romana, ma in maniera indipen-
dente e con intenti differenti: pur riproponendo talvolta i medesimi miti, il poeta ha
conferito loro valore simbolico, mentre lo storico ne ha negato spesso l’autenticità,
relegandoli nell’ambito della leggenda. Sul rapporto tra i due autori resta utile la
sintesi critica di P.G. Walsh, in Enc. Virg. III, 1987, pp. 236-239, s.v. «Livio». Per
quanto riguarda Aen. 2.486-490, al di là delle affinità verbali segnalate da Norden,
va osservato che la scena virgiliana è abbastanza differente da quella di Livio: il
poeta rappresenta soltanto le donne che urlano e vagano all’interno del palazzo,
mentre Livio mostra prima l’arrivo delle truppe romane, che inaspettatamente non
fanno rumore né mettono a ferro e fuoco la città (non quidem fuit tumultus ille nec
pavor qualis captarum esse urbium solet, cum effractis portis stratisve ariete muris aut
arce vi capta clamor hostilis et cursus per urbem armatorum omnia ferro flammaque
miscet); poi l’indecisione di tutti gli Albani in procinto di essere deportati; e solo alla
fine ferma la sua attenzione sulle grida muliebri.
18
Polyb. 2.56.7 Spoud£zwn d’ e„j œleon ™kkale‹sqai toÝj ¢naginèskon­
taj kaˆ sumpaqe‹j poie‹n to‹j legomšnoij, e„s£gei periplok¦j gunaikîn kaˆ kÒmaj
dierrimmšnaj kaˆ mastîn ™kbol£j, prÕj dþ toÚtoij d£krua kaˆ qr»nouj ¢ndrîn kaˆ
gunaikîn ¢namˆx tšknoij kaˆ goneàsi ghraio‹j ¢pagomšnwn. Con queste parole Poli-
bio «polemizes against Phylarchus, not only as a representative of the ‘tragic’ school
of historians, following the fashion of Duris, but also as a partisan of Cleomenes
against Aratus» (F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius, Oxford
1957, p. 259).

59
Isabella Canetta

Nella rielaborazione di Aen. 2.486-490 Virgilio seleziona gli elementi


elencati da Polibio e conserva unicamente i gemiti, le urla e gli ab-
bracci, concentrando nei primi tre versi gli effetti sonori e negli ultimi
due l’immagine visiva del vagare delle donne e del loro avvinghiarsi
alle porte. Facendo così, egli riesce a trasmettere i sentimenti di terro-
re e dolore provati dalle Troiane senza servirsi di toni eccessivamente
drammatici e senza che il quadro risulti inverosimile o appesantito da
troppo pathos. Inoltre, Virgilio cambia la collocazione di questa scena
tipica, caricandola di significati e di funzioni differenti. Una descrizio-
ne del genere dovrebbe costituire la logica conclusione di un assedio
o, come dice Livio a proposito di Alba, il momento immediatamente
precedente l’evacuazione della città, prima che essa sia rasa al suolo.
Nell’Eneide, invece, la scena è posta all’inizio dell’episodio dedicato a
Pirro e, come s’è detto, offre il primo sguardo sull’interno della reggia,
che presto sarà devastata. Non si tratta cioè di una città, ma del palaz-
zo del re, e le donne si disperano e abbracciano le porte non perché
i nemici siano già arrivati e stiano per portarle via, ma perché hanno
paura e sono consapevoli di quanto potrà accadere loro. Nel raccon-
to dell’ultima notte di Troia i vv. 486-490 mostrano l’unica reazione
diretta di dolore e di spavento da parte degli assediati nel palazzo,
mentre per il resto il crollo della reggia di Priamo e la fine della stirpe
regale vengono descritti da Enea, «narratore esterno» e che osserva
gli avvenimenti «dall’esterno», dall’alto di un pinnacolo, testimone
consapevole e impotente del destino della patria 19. La riproposta di
una «scena tipica», allora, e la sua collocazione all’inizio dell’episodio
permettono di soffermarsi una volta sola sull’angoscia delle donne e
nello stesso tempo consentono di suggerire al lettore, presumibilmen-
te a conoscenza di altre scene altrettanto famose, quale sia il destino
che attende le Troiane. Dichiarare in maniera troppo esplicita che per
la maggior parte esse saranno deportate avrebbe probabilmente tolto
drammaticità al momento e avrebbe reso la descrizione pericolosa-


Verg. Aen. 2.499-505 […] Vidi ipse furentem / caede Neoptolemum gemi-
19

nosque in limine Atridas, / vidi Hecubam centumque nurus Priamumque per aras /
sanguine foedantem quos ipse sacraverat ignis. / Quinquaginta illi thalami, spes tanta
nepotum, / barbarico postes auro spoliisque superbi / procubuere. Sul verso 503 cfr.
ora G.B. Conte, «Defensor Vergilii»: la tecnica epica dell’«Eneide» secondo Richard
Heinze, in R. Heinze, La tecnica epica di Virgilio, ed. ital. Bologna 1996, pp. 19-20,
poi anche in G.B. Conte, Virgilio: l’epica del sentimento, Torino 2002, p. 137.

60
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

mente vicina alle raffigurazioni condannate da Polibio; in aggiunta, si


sarebbe così anticipato l’esito dell’assalto di Pirro, in quel momento
ancora impegnato ad aprire un varco all’esercito, vanificando la sa-
piente costruzione della narrazione virgiliana: costruzione che viene al
contrario esaltata dal rapido sguardo all’interno della reggia.
Quanto a Servio, l’assenza di un’analisi dettagliata si può spiega-
re in diversi modi: può essere infatti che il commentario contenesse
solamente gli appunti personali del magister, da sviluppare nel corso
della lezione; oppure, si può ritenere valida l’ipotesi di Marshall 20, se-
condo la quale l’opera serviana sarebbe diretta ad altri maestri che già
conoscevano i testi citati e non avevano bisogno di ulteriori ragguagli.
È anche possibile che un esegeta antico non fosse per nulla interessato
a un confronto puntuale fra testo-modello e testo commentato: for-
se per lui era sufficiente la sola segnalazione del rifacimento. In ogni
caso, quello che a me preme mettere in evidenza è come Servio, nel
suo ruolo di commentatore e quindi di «Guardian of the Tradition»,
per dirla con Kaster 21, abbia preservato il ricordo di opere e passi di
autori diversi dal poeta fatto oggetto di analisi – come avviene per
l’Albanum excidium nella nota a Aen. 2.486 – ma nello stesso tempo
ne abbia condannato all’oblio altri, vale a dire, nel nostro caso, gli
storiografi e gli annalisti che pure avevano utilizzato lo stesso tipo di
scena. In un’opera di stampo esegetico, si sa, quel tanto di riuso che
è sempre implicito in una citazione e nella selezione delle citazioni
comporta la persistenza nel tempo di alcuni componimenti a scapito
di altri, con tutte le conseguenze che ne possono derivare.

Confrontando i versi dell’Eneide con l’elenco degli elementi caratte-


ristici di scene relative alla caduta di città assediate, elenco fornitoci
da Polibio, come s’è visto, dobbiamo però tener conto della presenza
in Virgilio di un dettaglio nuovo: le matres troiane non solo gridano e
si tengono abbracciate alle porte, ma le ricoprono di baci (Aen. 2.490

20
Cfr. Marshall, Servius and Commentary on Virgil cit., pp. 20-21.
21
Kaster, Guardians of Language cit., p. 18: «The grammarian was the con-
servator of all the discrete pieces of tradition embedded in his texts, from matters
of prosody […] to the persons, events, and beliefs that marked the limits of vice
and virtue». Nel caso di Servio, questa definizione può essere ampliata inglobando
i numerosi rimandi a fonti letterarie greche e latine, di molte delle quali è il solo a
tramandare titolo, contenuto o addirittura un passo.

61
Isabella Canetta

amplexaeque tenent postis atque oscula figunt). Secondo il commento


di Servio ad locum, questo particolare deriverebbe da Apollonio Ro-
dio:
Apollonii locus, in quo inducitur Medea † patrem salutasse, et domum
relinquens. 22

Il poeta imiterebbe dunque un locus apolloniano, e cioè, con ogni


verosimiglianza, la scena che ritrae l’addio di Medea alla sua casa
(Arg. 4.11-25) 23. Il quarto e ultimo libro delle Argonautiche si apre de-
scrivendo il terrore della giovane donna, che ha intuito come il padre
la sospetti di tradimento e teme perciò di venire uccisa. Su ispirazione
di Era, Medea decide allora di abbandonare la propria casa e di unirsi
a Giasone di ritorno in Grecia. Si tratta, ovviamente, di una scelta
difficile e dolorosa, e la giovane esprime la sua riluttanza ad abban-
donare i luoghi dove è nata e cresciuta baciando il letto e la porta e
accarezzando le pareti della camera:
KÚsse d’ ˜Òn te lšcoj kaˆ dikl…daj ¢mfotšrwqen
staqmoÝj kaˆ to…cwn ™paf»sato.
(Ap. Rh. Arg. 4.26-27)

22
Cfr. Thilo - Hagen, Servii Grammatici commentarii cit., I, p. 294. La nota,
corrotta, sembra contenere un errore, perché Medea, nel poema di Apollonio, fugge
senza salutare nessun famigliare, tanto meno il padre Eeta da lei ingannato e tradito
per amore di Giasone. Per ovviare a tale problema Thilo proponeva in apparato
un’integrazione, che tuttavia non sembra convincente: lo studioso suggeriva infatti
di leggere Apollonii locus, in quo inducitur Medea postes osculata esse Aeetae domum
relinquens, sulla base di Ap. Rh. 4.26-27. Ma in questo modo viene attribuita a
Servio una precisione di dettagli per lui insolita in relazione al poema apolloniano.
Diverso è il testo proposto dagli editori di Harvard, i quali si basano principalmente
sul codice Cassellanus contenente le aggiunte danieline: Apollonii locus, in quo indu-
citur Medea † patris Aeetae relinquens domum ita facere – con la correzione Aeetae al
posto di aede, variante presente nel codice Fuldense e riportata da Caspar Schoppe
nell’appendice all’edizione parigina di Pierre Daniel (testo e apparati in Serviano-
rum in Vergilii carmina commentariorum editio Harvardiana cit., II, p. 446).
23
Sul rapporto tra Apollonio Rodio e Virgilio cfr. da ultimo D.P Nelis,
Vergil’s Aeneid and the Argonautica of Apollonius Rhodius, Leeds 2001, con rela-
tiva bibliografia. Nel repertorio delle affinità tra i due poemi lo studioso riporta i
versi da noi analizzati tra parentesi quadre (pp. 458 e 500), simbolo del fatto che la
supposta correlazione fra i due poeti può essere dovuta alla fedeltà alle norme di un
determinato genere letterario. Skutsch, The Annals of Ennius cit., p. 280, ricondu-
ceva ad Ennio anche il gesto di oscula figere, senza fornire però alcuna prova.

62
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

Baci e carezze sintetizzano l’esistenza trascorsa nella dimora paterna


e ben esprimono i sentimenti che agitano l’animo della donna: Me-
dea si appresta a lasciare quanto le è più caro per andare incontro a
un destino incerto. A detta di Servio, Virgilio avrebbe riutilizzato il
passo delle Argonautiche adattandolo a un contesto del tutto diverso,
così da rappresentare il sentimento delle Troiane non solo impaurite
(pavidae […] matres), ma anche afflitte perché presaghe della sorte
che le attende. Leggendo, come suggerisce Servio, questa descrizione
sulla scorta di Apollonio, l’atto di abbracciare e soprattutto baciare
le porte, e cioè di manifestare concretamente l’affetto per la propria
dimora, implica che le donne stiano per subire lo stesso destino di
Medea, benché non volontariamente né per colpa loro. Virgilio, in-
somma, inviterebbe il lettore cólto, in grado di cogliere il riferimento
ad Apollonio e di ricordare i gesti della giovane eroina delle Argonau-
tiche, a mettere a confronto la sua narrazione con quella del poeta gre-
co e ad intuire le conseguenze di simile fatto 24. Anche in questo caso,
però, lo scoliaste propone un solo modello, il locus di Apollonio  25,
e tace gli altri possibili confronti: la situazione virgiliana (e il passo
delle Argonautiche) ricalcano e rinnovano infatti analoghe scene di
tragedia, in particolare l’addio di Alcesti al letto nuziale, poco prima

24
Come osserva R.F. Thomas, Virgil’s «Georgics» and the Art of Reference,
«HSCP» 90, 1986 (ora in Id., Reading Virgil and His Texts. Studies in Intertextu-
ality, Ann Arbor 1999, p. 115 nt. 8), Virgilio «is not so much ‘playing’ with his
models but constantly intends that his reader be ‘sent back’ to them, consulting
them through memory or physically, and that he then return and apply his observa-
tion to the Virgilian text». Sulla tecnica virgiliana di lavorare su scene ed episodi
depositati nella memoria dei lettori vd. anche A. Barchiesi, La traccia del modello:
effetti omerici nella narrazione virgiliana, Pisa 1984.
25
Nel suo studio riguardante l’influenza della poesia ellenistica sull’Eneide
Wendell Clausen mette in relazione il passo di Apollonio con Aen. 4.659: il
bacio di Medea al suo letto costituirebbe così uno dei modelli, assieme all’Alcesti
di Euripide, per la scena di Didone che bacia il talamo sul quale si ucciderà (cfr.
W. Clausen, Virgil’s «Aeneid» and the Tradition of Hellenistic Poetry, Berkeley -
Los Angeles 1987, p. 56; Id., Virgil’s «Aeneid». Decorum, Allusion, and Ideology,
München - Leipzig 2002, p. 104). La presenza di elementi tragici all’interno di un
poema epico quale l’Eneide è stata studiata da M. Fernandelli, Come sulle scene.
Eneide IV e la tragedia, «Quaderni del Dipartimento di filologia A. Rostagni» n.s. 1,
2002, pp. 141-211; Id., Virgilio e l’esperienza tragica: pensieri fuori moda sul libro IV
dell’«Eneide», «Incontri Triestini di Filologia Classica» 2, 2003, pp. 1-54.

63
Isabella Canetta

di sacrificarsi per amore del marito (Eur. Alc. 175-185)  26. Oltretut-
to, come abbiamo già osservato a proposito dell’Albanum excidium,
Servio si astiene dall’approfondire la relazione fra la scena originale e
la riscrittura operata da Virgilio. Nel commento all’intera descrizione
vengono così menzionate, nel complesso, solamente opere di carat-
tere epico (interpreto in tal modo anche il carmen Albanum, la cui
esatta consistenza ci è sconosciuta): è come se in un libro che mette
in collegamento l’Eneide con l’Iliade e in una sequenza che prepara il
duello di Pirro con Priamo e conduce al crollo della reggia risultas-
sero impossibili riferimenti diversi dall’epos. Gli altri generi letterari,
si tratti della storiografia, della tragedia o, come vedremo, del poema
didascalico, non sembrano adeguati allo stile eroico e magniloquente
dell’Eneide, o, almeno, di questa parte dell’Eneide. La possibile imita-
zione da questo tipo di opere, perciò, non viene neppure presa in con-
siderazione, e questo sebbene lo scoliaste riveli in più punti del suo
commentario di essere consapevole che l’allusività a testi diversi da
quell’Omero proposto come modello principale fin dalla prefazione 27
costituisce un tratto distintivo del metodo compositivo di Virgilio 28.
Ma è come se il commentatore fosse naturaliter spinto a rimuovere
l’idea di una mescolanza di generi in un’opera di natura epica: an-
che a costo, agendo così, di illuminare solo parzialmente l’operazione

26
Enrico Livrea (Argonauticon. Liber Quartus, a cura di E. Livrea, Firenze
1973, p. 14) ritiene che la scena dell’Alcesti e di altre due tragedie di Sofocle (Oed.
Tyr. 1241-1243 e Trach. 912-926, rispettivamente il pianto di Giocasta e Deianira
sui loro letti, poco prima del suicidio), associate di norma dagli studiosi all’addio di
Medea al suo letto, non siano del tutto calzanti, «trattandosi qui di un letto virginale
ed in tragedia invece di un letto nuziale da cui un’eroina si congeda»; nondimeno,
aggiunge, «anche in assenza di precisi paralleli, non può sfuggire il carattere ‘tra-
gico’ del gesto». Apollonio Rodio era però presumibilmente consapevole della dif-
ferenza fra l’agire di Medea e quello delle altre eroine citate: il gioco letterario da lui
attuato sarà consistito appunto nel rimando dotto a una scena tipica della tragedia,
collocata in un contesto nuovo e inatteso.
27
Nella prefazione al commento all’Eneide Servio afferma esplicitamente
che intenzione di Virgilio nello scrivere il poema era Homerum imitari – oltre che
Au­gus­tum laudare a parentibus: cfr. M. Scaffai, La presenza di Omero nei commenti
antichi a Virgilio, Bologna 2006.
28
Macrobio pare esprimere la stessa consapevolezza quando rileva la difficoltà
di scoprire tutti i riferimenti presenti nell’opera virgiliana: Fuit enim hic poeta ut
scrupulose et anxie, ita dissimulanter et quasi clanculo doctus, ut multa transtulerit
quae unde translata sint difficile sit cognitu (Sat. 5.18.1).

64
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

compiuta da Virgilio. La reazione delle donne all’arrivo dei nemici de-


scritta in Aen. 2.486-490 rappresenta invece un ottimo esempio della
tecnica che Richard F. Thomas ha definito come «conflation» oppure
«multiple reference», cioè «a practice that allows the poet to refer to a
number of antecedents and thereby to subsume their versions, and the
tradition along with them, into his own» 29. In questo passo, inoltre,
il riuso e l’allusione ai diversi, possibili modelli – storiografia tragica
e Annales una volta, tragedia greca e Argonautiche la seconda – e il
loro adattamento a un contesto nuovo acquisiscono una funzione che
potremmo definire «prolettica»: mettendo a confronto i testi originari
con l’Eneide, il lettore cólto ha cioè la possibilità di comprendere an-
che quello che il poeta ha preferito lasciare nell’ombra. In virtù della
selezione di modelli da lui operata, Servio al contrario limita ed orien-
ta il giudizio critico sul poema virgiliano, consentendo di inserirlo in
un solo genere letterario – l’epica di ascendenza omerica – all’interno
del quale le influenze possono derivare solamente da testi appartenen-
ti alla medesima tipologia. Qual è la ragione di tale selezione? Da un
lato si dovrà pensare alla (relativamente) limitata cultura dello scolia-
ste, che, ad esempio, alla storia d’amore di Medea narrata negli ultimi
libri delle Argonautiche ama fare ricorso anche in altri casi 30, mentre
più rari sono i suoi riferimenti alla tragedia greca  31 e praticamente

29
Thomas, Reading Virgil cit., p. 135. Questa definizione è in realtà riferita alle
allusioni a poeti precedenti; ritengo però che possa essere valida anche per il riuso e
l’imitazione di passi letterari in genere. Tuttavia, non concordo completamente con
la conclusione dello studioso, secondo la quale la funzione del riferimento multiplo
«is ultimately polemical – that is, its function is to revise the tradition» (ibid.): a mio
avviso Virgilio utilizza la tecnica dell’allusione o del riuso di due o più opere lette-
rarie non solo per fare polemica con i predecessori – cosa che vedremo attuarsi, fra
poco, nel caso di Lucrezio – ma anche per aiutare i lettori a selezionare i significati
pertinenti a una comprensione più approfondita del testo e dei destini dei diversi
personaggi in gioco (che è poi il caso della scena presa in esame).
30
Ad Aen. 4.1 Apollonius Argonautica scripsit et in tertio inducit amantem
Medeam: inde totus hic liber translatus est. Cfr. W.S. Anderson, Servius and the
«Comic Style» of «Aeneid» 4, «Arethusa» 14, 1981, pp. 115-125.
31
Cfr. le note a Aen. 3.46, 4.694 e 4.703. Nel commento a Aen. 3.46 Servio
presumibilmente chiama in causa Euripide per difendere Virgilio da una delle cri-
tiche mosse dai suoi obtrectatores, i quali lo accusavano di discostarsi talvolta dalla
verità (ad Aen. 3.46 vituperabile enim est, poetam aliquid fingere, quod penitus a veri-
tate discedat): cfr. W. Görler, in Enc. Virg. III, 1987, p. 811, s.v. «Obtrectatores».

65
Isabella Canetta

assenti quelli agli storici d’età repubblicana 32. Ma, d’altra parte, non
dobbiamo dimenticare né le necessità e i gusti della sua (probabile)
committenza – che, se apparteneva al mondo della scuola o alla scuola
era comunque connessa, gli avrà presumibilmente dettato le proprie
esigenze e il proprio «canone»; né, infine, la volontà di imporre un
suo canone personale, secondo il principio dell’imitazione di un solo
autore e un solo testo enunciato nella praefatio dell’opera (sicché an-
che le eventuali eccezioni alla regola sono limitate all’utilizzo di non
più di un autore, e a un repertorio ristretto di autori).

Quali siano i limiti di una simile ottica si dimostra agevolmente, nel


nostro caso, attraverso il recupero di un’ulteriore «fonte» virgiliana,
un poeta cioè che Virgilio riusa, ma che Servio trascura. La scena re-
lativa alle matres all’interno della reggia rivela un altro e diverso riuso
di un poeta della tradizione precedente: nella struttura e nel lessico
Aen.  2.486-490 ricalca un passo del De rerum natura di Lucrezio  33.
Nonostante l’evidenza dell’imitazione, Servio non coglie questo rife-
rimento e nulla ci dice circa la risemantizzazione operata dal poeta
mantovano. Difficile spiegarne la ragione, dal momento che i versi di
Lucrezio sono ampiamente citati in altri passi del suo commentario 34.

32
Cfr. R.B. Lloyd, Republican Authors in Servius and the Scholia Danielis,
«HSCPh» 65, 1961, pp. 291-341. Giuseppe Ramires osserva che gli storici presi
in considerazione da Servio appartenevano probabilmente a un canone obbligato:
«Sallustio, Varrone, Catone, Igino furono per Servio, tra gli storici, gli idonei aucto-
res anche perché erano tra i pochi leggibili e presenti nella sua biblioteca» (G. Rami-
res, Riflessioni sulle fonti storiografiche dei «Commentarii» serviani a Virgilio, in
C. Santini - F. Stok [a cura di], «Hinc Italae gentes». Geopolitica ed etnografia
dell’Italia nel «Commento» di Servio all’«Eneide», Pisa 2004, p. 35). Sugli autori
d’età repubblicana presenti nella «biblioteca» di Servio cfr. anche A. Pellizzari,
Servio. Storia, cultura e istituzioni nell’opera di un grammatico tardoantico, Firenze
2003, pp. 220-234.
33
L’influenza del poema di Lucrezio sull’Eneide è stata poco studiata, diver-
samente da quanto accade per le Bucoliche e le Georgiche. Sull’argomento cfr.
W.S. Anderson, «Pastor Aeneas». On Pastoral Themes in the «Aeneid», «TAPhA»
99, 1968, pp. 1-17; V.J. Cleary, The Poetic Influence of the «De Rerum Natura» on
the «Aeneid», «CB» 47, 1970, pp. 17-21; Ph.R. Hardie, Virgil’s «Aeneid». Cosmos
and Imperium, Oxford 1986, pp. 157-240; G. Castello, in Enc. Virg. III, 1987,
pp. 264-271, s.v. «Lucrezio».
34
Cfr. la voce «Lucretius» in J.F. Mountford - J.T. Schultz, Index rerum et
nominum in scholiis Servii et Aelii Donati tractatorum, Ithaca 1930, p. 103.

66
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

Si potrà forse ipotizzare che lo scoliaste non conoscesse direttamen-


te l’intero poema lucreziano, ma ne avesse presenti soltanto alcune
parti o alcuni versi, presumibilmente quelli che leggeva in precedenti
commenti a Virgilio  35; oppure che, in quanto poema didascalico, il
De rerum natura non fosse giudicato appropriato per una sequenza
narrativa di impronta fortemente epica. La parte finale del quarto li-
bro del De rerum natura, tuttavia, è dedicata alla passione amorosa e
ai suoi effetti negativi; fra questi vi è l’accecamento dell’innamorato,
incapace di vedere in maniera oggettiva l’amata (4.1149-1176). In un
passo teso a dimostrare che perfino un’amante avvenente può riserva-
re sgradite sorprese, Lucrezio mette in contrapposizione una donna
chiusa in casa a farsi suffumigi (tanto maleodoranti che le sue stes-
se ancelle fuggono lontano) all’innamorato che, all’esterno di quella
stessa dimora, vorrebbe penetrarvi. A tale scopo, il poeta riutilizza la
scena tipica del lamento fuori dalla porta:
At lacrimans exclusus amator limina saepe
floribus et sertis operit postisque superbos
unguit amaracino et foribus miser oscula figit.
(Lucr. 4.1177-1179)

Secondo le convenzioni del paraclausithyron, l’uomo, al quale viene


impedito l’accesso nell’abitazione, orna la porta di ghirlande e di pro-
fumi e vi imprime baci 36. Analogamente all’episodio dell’Eneide sopra

35
È questa la conclusione alla quale giunge, per Macrobio, Alieto Pieri. Infatti,
benché nei Saturnalia venga dedicato ampio spazio al confronto tra Lucrezio e Vir-
gilio a livello di versi (6.1.25-30, 44-49, 63-65), loci similes (6.2.2-15) e verba (6.4.1 e
5), a Macrobio il De rerum natura «sembra giungere più attraverso commentari che
attraverso letture dirette e, se vi giunge attraverso commentari, questi sono senza
dubbio commentari virgiliani e non commentari lucreziani»; pertanto, prosegue lo
studioso, «può darsi che alcune comparazioni siano istituite da Macrobio stesso, ma
nella stragrande maggioranza sembrano già precostituite, secondo schemi (versus
loci verba) non estranei all’esegesi virgiliana e probabilmente collegati, attraverso
vari passaggi, alla teoria dei furta» (A. Pieri, Lucrezio in Macrobio. Adattamenti
al testo virgiliano, Messina - Firenze 1977, p. 256). È interessante notare come la
ripresa del sintagma oscula figere di cui ci occuperemo fra breve non venga segnalata
né da Servio né da Macrobio: è quindi ragionevole ipotizzare che entrambi ricavas-
sero i loro confronti dalle medesime fonti e che non fossero portati a cercare da soli
una somiglianza, qualora essa non fosse già indicata nel testo dal quale attingevano.
36
Sul paraklausithyron nella poesia latina resta fondamentale F.O. Copley,
Exclusus Amator: A Study in Latin Love Poetry, Madison (Wisconsin) 1956; sul

67
Isabella Canetta

analizzato, Lucrezio interrompe la sua argomentazione con l’inserzio-


ne di una scena, anche qui introdotta dalla particella at, che sposta lo
sguardo su un altro personaggio, che sta al di fuori della casa, come
se ne fosse un assediante. Nel De rerum natura, peraltro, l’amante
così descritto rimane protagonista della sequenza successiva: infatti,
commenta il poeta, se gli fosse concesso di entrare nella dimora, l’in-
namorato si accorgerebbe del cattivo odore che la impregna e cerche-
rebbe di fuggire da colei che tanto bramava (4.1180-1184). Virgilio si
è forse ispirato alla tecnica di Lucrezio: l’interruzione inaspettata di
una descrizione allo scopo di spostare lo sguardo su una scena e su
personaggi differenti – con un passaggio dall’interno all’esterno nel
De rerum natura, dall’esterno all’interno nell’Eneide – per poi tornare
alla narrazione principale. In questo modo Lucrezio ha la possibilità
di introdurre la figura dell’exclusus amator e di inserire il tema topico
del paraklausithyron, da lui utilizzato con effetti di parodia  37; come
sappiamo, Virgilio per parte sua intende invece introdurre una pausa
narrativa nella sequenza dell’irruzione nella reggia di Priamo, descri-
vendo nello stesso tempo quanto accade all’interno del palazzo.
Ma Lucrezio non si limita a costituire un modello letterario per
Virgilio, è anche una fonte lessicale. Le parole che raffigurano l’aman-
te nell’atto di baciare la porta (oscula figit) sono le stesse che ritrovia-
mo nel testo dal quale siamo partiti, dove conservano la medesima
sede metrica – mentre il contesto è completamente diverso. Il gesto
delle donne troiane rientra nelle manifestazioni della pietas verso la
patria e la casa; l’innamorato lucreziano è mosso dal furor amoroso
e da chiare intenzioni sessuali; le une guardano al passato, l’altro al
futuro. Ciò nonostante, il bacio impresso alle porte della reggia è in
Virgilio un segno di affetto e di dolore (oscula figunt), così come lo
è per l’amator escluso dalla casa della sua bella. L’espressione oscula

contesto specifico di Lucrezio cfr. R.D. Brown, Lucretius on Love and Sex. A Com-
mentary on «De rerum natura», IV, 1030-1287, Leiden 1987, pp. 134-136 e 296-
303.
37
Brown, Lucretius on Love cit., p. 135: «Lucretius’ handling of the motif is
similar to his derogation of the other erotic images: it is devalued by the presence
of a crudely realistic background (1174-76). Far from sympathizing with the lover,
Lucretius derides his exaggerated postures and implicitly condemns the kind of
poetry, epigram included, which romanticizes his pathetic plight. Idealistic love is
thus brought into conflict with stark reality and unmasked as an illusion».

68
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»

figere ricompare solo un’altra volta nell’Eneide, nel primo libro, quan-
do Venere ordina a Cupido di assumere l’aspetto di Ascanio, figlio di
Enea, così da ispirare a Didone l’amore per l’eroe:
Tu faciem illius noctem non amplius unam
falle dolo et notos pueri puer indue vultus,
ut, cum te gremio accipiet laetissima Dido
regalis inter mensas laticemque Lyaeum,
cum dabit amplexus atque oscula dulcia figet,
occultum inspires ignem fallasque veneno.
(Verg. Aen. 1.683-688)

Le testimonianze d’affetto per il falso Ascanio consistono anch’esse di


abbracci (dabit amplexus) e di baci (oscula […] figet), ma siamo ben
lontani dal clima lucreziano. L’aggettivo dulcia del v. 687, senza pa-
ralleli tanto in Lucrezio quanto ad Aen. 2.490, esprime il sentimento
che Didone prova non per il figlio, ma per il padre. Benché la giovane
donna sia vittima di un inganno e appaia destinata a futura rovina
(v.  712 pesti devota futurae), Virgilio non utilizza toni parodistici e
ridicolizzanti: l’amore potrà ben essere doloroso, tragico e perfino
causa di morte, uno strumento di cui si servono gli dèi per realizzare
i loro piani; ma rimane pur sempre qualcosa di nobile e di profondo,
da non deridere.
Ed eccoci allora alla conclusione: Virgilio usa e ri-contestualizza
l’espressione lucreziana oscula figere 38 in due diversi passi dell’Eneide,
entrambi preludio di una catastrofe imminente. Attraverso di essa, egli
evidenzia la distanza fra la sua concezione dell’amore e quella del De
rerum natura. Lucrezio condannava tale sentimento perché è causa di
cura e di certus dolor (4.1066-1067), provoca piaghe inguaribili e furore
insaziabile (4.1068-1072, 1088-1090), impedisce di raggiungere la cal-
ma interiore alla quale il saggio deve aspirare (4.1115-1120). L’amore
è solo inutile sofferenza, e il sapiente deve essere in grado di godere i
frutti di Venere evitando le complicazioni sentimentali (4.1073-1076).
Al contrario Virgilio, sebbene consapevole dell’irrequietezza, dell’an-
goscia e delle possibili conseguenze distruttive dell’amore, mette in

38
Dopo Lucrezio e Virgilio, la iunctura si trova variamente declinata, ma
sempre nella stessa sede metrica, anche in Ov. met. 4.141; Lucan. 6.565; Sil. Ital.
11.331; Ciris 253. Sull’espressione e la sua fortuna nella letteratura latina cfr.
G. Jackson, in Enc. Virg. IV, 1988, p. 512, s.v. «Figo».

69
Isabella Canetta

evidenza la centralità e la nobiltà di questo sentimento: Didone e, sia


pure con una sfumatura diversa, le donne troiane esprimono un affet-
to – per un uomo destinato ad altri compiti o per la patria sul punto
di crollare – degno della natura umana ed essenziale nell’esperienza
di vita. Quanto a Servio, il riuso dei testi-modello utilizzati da Vir-
gilio da lui riconosciuto e quello a sua volta da lui operato mostrano
di possedere alcune caratteristiche precise e ricorrenti. Innanzitutto
lo scoliaste, per quanto consapevole della tecnica allusiva presente
nell’Eneide, non segnala (o non conosce?) tutte le fonti che hanno
ispirato il poeta latino. In tal modo, egli limita fortemente la valuta-
zione delle relazioni esistenti fra il poema virgiliano e i suoi modelli,
così come alcuni aspetti importanti per la comprensione dell’opera.
Inoltre, quand’anche il modello venga giustamente segnalato, il ri-
mando consiste spesso in un’indicazione generica: lo scoliaste non
sente l’esigenza di illustrare il testo originario e nemmeno di appro-
fondire il confronto con il passo virgiliano. Questo atteggiamento può
dipendere da numerosi fattori, non ultimo la scarsa conoscenza che
Servio poteva avere delle opere che Virgilio aveva rielaborato e la sua
dipendenza, in molti casi, non da letture dirette, ma da una tradizione
plurisecolare di commenti a Virgilio. In ogni caso, l’analisi di un passo
specifico come quella fin qui condotta rivela soprattutto il disinteres-
se, o lo scarso interesse, dello scoliaste per l’esame dei testi-modelli e
per la riscrittura virgiliana. A Servio si direbbe sufficiente segnalare
che una qualunque scena, un gesto o un dettaglio risalivano ad una
specifica matrice, senza bisogno di valutarne troppo analiticamente la
fonte. Ignorando noi la destinazione del commentario, non possiamo
escludere che lo scoliaste intendesse illustrare più dettagliatamente i
passi indicati con la sua viva voce, durante la lezione o la conversazio-
ne con gli allievi. Le opere menzionate come modelli, però, non sono
mai prese in considerazione per il loro valore letterario o estetico, ma
solo per avere fornito a Virgilio il materiale narrativo da questi riela-
borato nel poema. È l’unica ragione per la quale vengono ricordati
taluni componimenti, anche di autori celebri: e se non avesse lasciato
una traccia nel rifacimento di Aen. 2.486-490, dell’Albanum excidium,
ad esempio, non avremmo serbato nessuna memoria.

70
Martina Venuti
La materia mitica
nelle «Mythologiae»
di Fulgenzio
La Fabula Bellerofontis
(Fulg. myth. 59.2)

La storia di Bellerofonte apre la serie delle fabulae del terzo libro delle
Mythologiae di Fulgenzio (Fulg. myth. 59.2) 1:
Pritus rex uxorem habuit Antiam nomine; quae amavit Bellerofontem.

Il racconto viene introdotto senza contestualizzazione o altro legame


con il piccolo prologo che precede l’inizio del libro, e la vicenda è
riportata in forma decisamente ellittica:
Cui dum ob stupri causam mandasset, ille noluit; quem marito criminata
est. Ille eum ad Cymeram interficiendam misit per socerum suum; quam
Bellerofons equo Pegaso residens interfecit, qui de Gorgonae sanguine
natus fuerat. (myth. 59.3-7)

Alla breve narrazione segue la proposta di un’etimologia dei nomi dei


diversi personaggi in gioco (Bellerofonte, Pegaso, la Chimera …), fon-
data su vari auctores: etimologia che è utilizzata in supporto alla spiega-

1
Testo e riferimenti di pagina e linea sono quelli dell’edizione di Rudolph
Helm: Fabii Planciadis Fulgentii V.C. opera […] recensuit R. Helm, Lipsiae 1898.

71
Martina Venuti

zione allegorico-morale del mito. Tuttavia, come si vedrà, lo sviluppo


dei vari meccanismi interpretativi messi in atto dall’autore (derivazione
etimologica, allegoria, citazioni, approccio morale, analisi «iconografi-
ca» …) non è di ordinata progressione; al contrario, essi si fondono in
un continuo intreccio nel quale, in una sorta di circolo ermeneutico
prolungato, ogni elemento risulta funzionale all’altro. Inoltre, la sto-
ria è suddivisa in brevi frammenti, ciascuno a sua volta sottoposto a
un trattamento esegetico comprensivo di tutti i diversi passaggi, che
creano così, internamente alla fabula, una specie di sotto-struttura mo-
dulare e reiterata 2. Nel caso specifico, tale struttura si compone di tre
nuclei principali, dedicati rispettivamente a Bellerofonte, a Pegaso e
alla Chimera 3. Vediamo di seguire più da vicino le mosse di Fulgenzio
alle prese con la rielaborazione della materia mitica.

1. Bellerofonte

Bellerofonta posuerunt quasi «buleforunta», quod nos Latine «sapientiae


consultatorem» dicimus, sicut Homerus ait: oÙ cr¾ pannÚcion eÞdein
boulhfÒron ¥ndra, id est: «nec decet tota nocte dormire consiliatorem

2
Non esiste un’analisi specificamente dedicata ai meccanismi che guidano le
Mythologiae di Fulgenzio. Tuttavia, gli strumenti di cui l’autore si serve sono stati
in parte indagati in interventi dedicati ad altri autori o a problematiche più ampie.
Vanno perciò ricordati, senza pretesa di completezza: per le citazioni fulgenziane
B. Baldwin, Fulgentius and his Sources, «Traditio» 44, 1988, pp. 37-57; A. Bisanti,
Le citazioni omeriche in Fulgenzio, in AA.VV., Studi di filologia classica in onore di
Giusto Monaco, IV, Palermo 1991, pp. 1483-1490; V. Ciaffi, Fulgenzio e Petronio,
Torino 1963; G. Pennisi, Fulgenzio e la «Expositio Sermonum Antiquorum», Firenze
1963; S. Mattiacci, Apuleio in Fulgenzio, «SIFC» s. IV 96, 2003, pp. 229-256; per
l’uso dell’etimologia N. Tadic, Une étymologie fulgentienne: celle d’Antée, «Lato-
mus» 28, 1969, pp. 685-690. Si vedano inoltre, anche perché relativamente recenti
e in parte riassuntivi del dibattito critico sul Mitografo: G. Hays, The Date and
Identity of the Mythographer Fulgentius, «The Journal of Medieval Latin» 13, 2003,
pp. 163-252; l’introduzione di M. Manca a Fulgenzio. Le età del mondo e dell’uomo,
Alessandria 2003; infine, come specimina di uno studio dedicato a parte del testo:
J. Relihan, Ancient Menippean Satire, Baltimore - London 1993; Id., Satyra in the
Prologue of Fulgentius’ Mythologies, in C. Deroux (ed.), Studies in Latin Literature
and Roman History, IV, Bruxelles 1986, pp. 537-548.
3
Cfr., rispettivamente, myth. 59.7-60.4 (primo modulo, storia di Bellero-
fonte); 60.4-19 (secondo modulo, storia di Pegaso); 60.19-61.15 (terzo modulo, la
Chimera).

72
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

virum» [Hom. Il. 2.24 e 61]. Nam et Menander similiter in Disexapaton


comedia ita ait: boulhfÒrwj ¹metšran Dhmša prokatšlabej Órasin,
id est: «consiliarie nostram, Demea, praeoccupavisti visionem» [Men.
fr.  123 Koch (109 Koerte)]. Nam ut hoc certum sit, Homerus in fa-
bula eiusdem Bellerofontis ita ait: ¢gaq¦ fronšonta da…frona Belle­
rofÒnthn, id est: «bona cogitantem, sapientissimum consili<ari>um»
[Hom. Il.  6.162]. Spernit libidinem, id est Antiam; «antion» enim
Grece «contrarium» dicitur, sicut «antichristus» dicimus, quasi ™nant…on
toà Cristoà, id est «contrarius Christo». Vide itaque cuius uxor Antia
dicatur; nihilominus Priti. «Pritos» Panfila lingua «sordidus» dicitur,
sicut Esiodus in bucolico carmine scribit dicens: bebriqëj stafulÁj eâ
<le>laktismšnhj aƒmorrÒJ, id est: «sordidus uvarum bene calcatarum
sanguineo rore» [Hes. fr. 199 Rz.]. (myth. 59.7-60.3)

Tra le principali fonti attraverso le quali conosciamo la vicenda di Bel-


lerofonte va annoverato in primo luogo Omero (citato cinque volte nel
corso della fabula) 4, che vi fa cenno all’interno del dialogo tra Glauco
e Diomede nel libro sesto dell’Iliade 5; seguono Esiodo 6, Pindaro 7 e
Pseudo Apollodoro 8; tra gli autori latini si possono invece menziona-
re – e sono utili per la loro «consonanza tipologica» con Fulgenzio 9 –
Igino  10 e Servio  11. Una delle varianti maggiormente degne di nota
di questo mito, almeno in relazione al segmento ritagliato dal nostro
autore 12, riguarda il nome della moglie di Preto, che ora è Antea (in

4
Quattro volte esplicitamente (myth. 59.9 e 15; 60.13 e 20), una, invece, è
una citazione «implicita»: myth. 61.11.
5
Hom. Il. 6.155-195.
6
Hes. Theog. 319-325; fr. 43a.81-90 M.-W.
7
Pind. Olymp. 13.
8
[Apoll.] bibl. 2.3.1.
9
Per quanto riguarda Igino, la consonanza deriva dalla struttura e dal conte-
nuto dell’opera (un insieme di fabulae mitologiche); con Servio Fulgenzio condivide
il lavoro di commento all’Eneide e l’intento esegetico.
10
Hyg. fab. 57.
11
Serv. ad Verg. Aen. 5.118. Più in generale, sul mito di Bellerofonte e le sue
fonti cfr. l’articolo «Bellerophon» a firma Rapp in W.H. Roscher, Ausführliches
Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, I.1, 1884-1886, coll. 757-774;
E. Bethe, in RE III, 1899, coll. 242-251, s.v.; C. Lochin, in LIMC VII.1, 1994,
pp. 214-230, s.v. «Pegasos».
12
Una serie significativa di varianti caratterizza infatti la vicenda di Bellero-
fonte anche prima del suo arrivo alla corte di Preto: vi accennano [Apoll.] bibl.
2.3.1 e Serv. ad Verg. Aen. 5.118, mentre Omero non ne parla.

73
Martina Venuti

Omero), ora Stenebea (in Pseudo Apollodoro, Igino, Servio). Nelle


Mythologiae viene adottato senza discussione il primo, conformemen-
te al testo omerico, anche perché funzionale all’etimologia che segue.
Nel corso del racconto vero e proprio, la fabula condensa la storia in
una successione di passaggi giustapposti dal punto di vista narrativo,
ma grammaticalmente connessi attraverso una serie di pronomi rela-
tivi (quae, cui, quem, quam, qui). La concatenazione che si viene così
a creare dà l’impressione che scopo dell’autore non sia l’esposizione
della vicenda mitica, ma la presentazione, in uno spazio il più possi-
bile ristretto, dei personaggi che ne sono protagonisti  13: l’elemento
narrativo risulta cioè fortemente sacrificato, condensato all’interno
di poche espressioni-chiave (uxorem, amavit, stupri causa, criminata,
interficiendam, de sanguine natus) – espressioni che, di fatto, fungono
da minimo tessuto connettivo per il vero interesse su cui si appunta
l’attenzione autoriale, vale a dire i nomi propri, assiepati di prepoten-
za nel giro di poche righe.
Il punto di approdo verso il quale questo meccanismo tende è
allora l’esposizione dell’etimologia, anch’essa introdotta piuttosto
brutalmente e senza tentativi di dissolvenza rispetto a quanto precede
(Bellerofunta posuerunt […]). Il nome di Bellerofonte viene scompo-
sto come bule-forunta (boul¾n fšrwn?), secondo un processo analiti-
co che è caratteristico del metodo derivativo fulgenziano 14: da qui il

13
Nel testo, in accordo a Omero, non è riportato il nome di Iobate, suocero di
Preto e re di Licia, presso il quale Bellerofonte viene mandato per essere ucciso. Il
nome compare invece in Pseudo Apollodoro, Igino e Servio. Tuttavia, in Fulgenzio
il ruolo «narrativo» di questo personaggio, per come viene presentato, risulta poco
chiaro, anzi inutile. Inoltre, anche la seconda parte della vicenda di Bellerofonte è
fortemente scremata: delle varie imprese che l’eroe compie, l’autore riporta solo
la lotta con la Chimera (mostro la cui identità è peraltro spiegata soltanto alla fine
del capitolo e la cui pericolosità era data in precedenza per scontata), né vi è alcun
accenno alla conclusione della storia.
14
Un ulteriore approfondimento meriterebbe in effetti il procedimento eti-
mologico ricorrente nelle fabulae delle Mythologiae, dal momento che esso conosce
diverse declinazioni e «combinazioni». In generale, si può individuare una sorta
di formula fissa che è usata come schema di partenza per introdurre le etimolo-
gie, vale a dire X dici voluerunt/posuerunt quasi Y; Y (o Y 1) enim Graece/Latine Z
dicitur, dove X sta per il nome del personaggio; Y/Y 1 per la proposta di scompo-
sizione e derivazione etimologica; Z per il significato da svelare. Tuttavia, a partire
da questa impostazione di base, l’autore arriva a volte a punte estreme di analiti-
cità e arbitrarietà. Ad esempio, a myth. 56.16-17 Centauri dicti sunt quasi «centum

74
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

passaggio successivo alla spiegazione morale, attraverso la traduzione


latina in «consigliere di saggezza» (quod nos Latine […] dicimus), è
breve e quasi automatico. L’etimologia proposta, peraltro, si discosta
dalle interpretazioni tradizionali date al nome di Bellerofonte, il cui
significato è di solito legato al tema di fÒnoj («uccisione») e/o a quello
di fa…nw («apparire»), e che quindi si possono tranquillamente inscri-
vere all’interno dell’esegesi «fisica»  15. La legittimità del riferimento
alla «saggezza» come nucleo semantico del mito è però sostenuta
dall’autore in base all’auctoritas di Omero, citato due volte a breve
distanza (sicut Homerus ait e ut hoc certum sit, Homerus) e a quella di
Menandro (nam et Menander similiter) 16. Proprio nel caso delle cita-
zioni omeriche si può puntare l’attenzione da un lato sul metodo con
il quale il nostro autore collega il testo originale con il suo discorso
interpretativo e sul riuso così operato; dall’altro, sul tipo di rapporto
che intercorre tra Fulgenzio e la fonte.

armati» – denique «centippi» dici debuerunt, il vocabolo Centauri è scomposto in


due unità semantiche indipendenti e poi addirittura sostituito da un nome, centippi,
più funzionale all’etimologia centum equites che a tutti i costi si vuole introdurre. Il
procedimento risulta così applicato all’inverso, nel senso che modifica il nome che
dovrebbe invece spiegare, in modo da poterlo adattare alla spiegazione che se ne
vuole dare, ed è inoltre di tipo «misto», essendo costituito da un elemento latino
(centum) e uno greco (hippoi). A questo proposito, è forse interessante il concetto
di «etimologia sillabica» introdotto da J. Whitman, Allegory. The Dynamics of an
Ancient and Medieval Technique, Oxford 1987, p. 107: «Perhaps nothing better
exemplifies his [scil. di Fulgenzio] atomistic treatment of mythological narrative
than his extreme deployment of ‘syllabic’ etymology – deriving meaning not just
from words but from syllabic fractions of them»; cfr. anche G. Hays, Fulgentius
the Mythographer, Diss. Ann Arbor 2001 (1996), p. 73, all’interno di un’analisi più
generale sul procedere stilistico di Fulgenzio internamente alle diverse fabulae.
15
P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des
mots, I, Paris 1968, p. 173a, s.v. BellerofÒnthj: «Interprété par les Anciens ‘meur-
trier de Belleros’ (cfr. ’AreifÒnthj)». Cfr. anche Sch. T ad Hom. Il. 6.155 e Eust.
ad Hom. Il. 6.162 e 181: Bellerofonte come uccisore del male (=EllerofÒnthj, ¿toi
fÒnea kak…aj – –Ellera g£r fas…, kat¦ di£lekton, t¦ kak£), rappresentato dalla
Chimera, mostro delle nuvole (ellero con caduta del digamma iniziale = villosus,
cioè «arruffato, nuvoloso»). Lo scontro fra i due è dunque il temporale; Bellero-
fonte è un eroe solare, che risplende tra le nuvole. È evidente che siamo all’interno
di un’interpretazione di tipo «fisico», stanti le diverse categorie di esegesi messe in
luce da F. Buffière, Les mythes d’Homère et la pensée grecque, Paris 1956, pp. 1-6.
Altre proposte in J.A. White, Bellerophon in the «Land of Nod». Some Notes on
«Iliad» 6.152-211, «AJPh» 103, 1982, pp. 119-127.
16
Vd. A. Dain, La survie de Ménandre, «Maia» n.s. 15, 1963, p. 297.

75
Martina Venuti

Il primo passo omerico è tratto dal secondo libro dell’Iliade  17:


ma esiste effettivamente, come propone il testo, un nesso semantico
o etimologico tra questo verso e il nome di Bellerofonte? Armando
Bisanti, pur esaminando un caso diverso  18, è arrivato a conclusioni
che possono valere anche per la nostra fabula: «ciò che difetta in tutto
il contesto è, se così può dirsi, la misura e la verosimiglianza; il verso
omerico chiamato in soccorso dall’autore, infatti, non ha alcun valore
nell’ambito del discorso fulgenziano; egli, in altre parole, avrebbe po-
tuto benissimo servirsi di un qualsiasi altro verso in cui fosse riportato
l’aggettivo […]. Ed è qui che balza evidente la funzionalità, e quella
che chiamavo la strumentalizzazione dell’Omero fulgenziano: Omero,
infatti, serve soltanto per corroborare una etimologia, serve solo come
auctor greco per antonomasia e definizione, cui appoggiarsi nel tenta-
tivo, spesso fallito e talvolta ridicolo, di spiegare nomi della mitologia
pagana»  19. Omero è dunque funzionale a un’etimologia a sua volta
strumentale alla spiegazione: tutto tende verso il messaggio morale
che l’autore vuole trasmettere. Per questo l’affermazione conclusiva
di Bisanti 20 secondo cui «non si può quindi, per Fulgenzio, parlare di
‘teoria della citazione’» va presa con cautela: certo, non si può parla-
re di citazione «in direzione largamente comprensiva e ‘culturale’» o
dotata di una «funzionalità critica ed ‘umanistica’», né tanto meno di
una citazione mossa da intenti in qualche misura filologici. Tuttavia,
se per «teoria» intendiamo una serie coerente di passi volti tutti a cor-
roborare attraverso accostamenti fonetici e lessicali (sia pure forzati)
l’interpretazione dell’autore, allora forse anche per Fulgenzio non è
del tutto fuori luogo parlare di una «teoria della citazione». Che poi
tale coerenza sia applicata a un metodo lontano dai nostri criteri e che
in nessun modo può rientrare nelle nostre categorie di riferimento,
è problema di altro ordine e grado: Fulgenzio cita in un modo che
facilmente e a ragione potremmo definire assurdo, per l’impossibilità
da parte nostra di rintracciare, nei collegamenti proposti, una qualche
connessione logica; ma, d’altra parte, le sue citazioni sembrano guidate

17
Si tratta del v. 24, ripetuto identico al v. 61: le parole del Sogno ad Agamen-
none, per indurlo a radunare l’assemblea degli Achei.
18
E cioè la nona fabula del primo libro (myth. 21.14-22.7).
19
Bisanti, Le citazioni omeriche cit., pp. 1483-1485.
20
Ivi, p. 1485.

76
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

dalla volontà di creare una rete evocativa, se non a livello concettuale,


almeno a livello linguistico. Per questo, tutto sommato, poco importa
quale sia il contesto da cui il verso omerico viene estrapolato: conta la
corrispondenza fonica tra il nome del personaggio, adeguatamente  21
(o arbitrariamente) rimaneggiato, e almeno un vocabolo del passo in
questione, il vocabolo, cioè, portatore del significato direttamente o
allegoricamente morale. Dal momento che tale procedimento viene
messo in atto in modo sistematico 22 e – come vedremo – con precisi
demarcatori lessicali, si può affermare che non solo nel testo viene
applicata una riconoscibile, ancorché oggi inammissibile, modalità di
citazione, ma anche che questa operazione è, in Fulgenzio, del tutto
consapevole.
Il secondo passo omerico, invece, induce a riflettere sul rapporto
tra l’autore e la sua fonte; in questa citazione (rara eccezione che con-
ferma la regola) il verso omerico, estrapolato dal racconto di Glauco
nel sesto libro 23, è riportato infatti «a proposito» rispetto al contenuto
della fabula. La modalità anomala, o comunque insolita rispetto alla
norma, è segnalata dalla diversa formula che introduce la citazione.
Mentre nella stragrande maggioranza dei casi essa si presenta attra-
verso espressioni cristallizzate come sicut Homerus ait oppure unde et
Homerus ait 24, qui l’intervento autoriale è più connotato in senso per-
suasivo: nam ut hoc certum sit. Vincenzo Ciaffi metteva in relazione
questo passo con l’ultimo inserto omerico della fabula Bellerofontis,
ossia con la citazione «implicita» di myth. 61.11: «Del sesto conosce-
va Fulgenzio per lo meno un episodio, quello che Glauco racconta a
Diomede (vv. 150 ss.): se […] egli stesso ne parla come fabula Bellero-
fontis (myth. 59.15), sulla fine, quando è già questione della Chimera,
altre due parole di lì egli ricava, che anche Glauco, procedendo con
le avventure dell’eroe, riferiva a quel mostro (v. 181), ma le comunica
senza aggiungere né la fonte né il testo, limitandosi invece, con un

21
«Adeguatamente», si intende, alla spiegazione morale che se ne vuole dare.
22
Nella fabula in esame seguono questa modalità, oltre alle due citazioni ome-
riche, anche quella da Menandro, già ricordata, e quelle da Esiodo (myth. 60.2 =
fr. 199 Rz., dall’editore indicato come fr. 15 falsum) e da Epicarmo (myth. 61.2 =
fr. 301 K.).
23
Hom. Il. 6.162.
24
Nella nostra fabula, cfr. myth. 60.20.

77
Martina Venuti

imprestito forse da Lucrezio (5.905)  25, alla semplice versione latina


(myth. 61.11), quasi che tutti, al modo suo evidentemente, abbiano
l’originale sotto gli occhi […]. Vale il sospetto, se pensiamo alla di-
zione fabula Bellerofontis, che Fulgenzio disponesse di un’antologia
di fabulae o ‘episodi’, che potevano a seconda dei casi servire o non
servire ai suoi scopi»  26. Le due citazioni prese in considerazione da
Ciaffi possiedono, cioè, una componente che potremmo definire «me-
taletteraria», in quanto in entrambi i casi troviamo una riflessione e
una rielaborazione a partire da una fonte riconosciuta come un testo
letterario, non solo come un’auctoritas: qui Fulgenzio attinge ad Ome-
ro (o, come viene suggerito dallo studioso, a una possibile antologia
di passi omerici) in un modo che si avvicina di più al nostro metodo
di citazione, in quanto individua con precisione il brano al quale si sta
riferendo (cfr. myth. 59.15 in fabula eiusdem Bellerofontis) e insieme
cerca di mostrarne la pertinenza rispetto al proprio discorso  27.
Queste due citazioni omeriche, unite a quella di Menandro subito
dopo l’esposizione del mito, producono un effetto quasi «di ritardo»
sull’introduzione della componente allegorica della spiegazione. Tale
effetto fa sì che questa prima sezione della fabula risulti ulteriormen-
te divisa in due parti, il cui discrimine si trova nell’attacco, secco e
privo di preavviso, dell’interpretazione: spernit libidinem. Se fino a
questo momento l’autore si era mosso solo all’interno di un’esegesi
etimologica con riflessi morali, ora, a partire da quelle basi, viene
sfruttato anche il metodo dell’allegoria. In altre parole: mentre il no-
me di Bellerofonte veniva fin qui spiegato come concetto morale in
virtù della sua derivazione etimologica, il personaggio di Antia sem-
brerebbe messo in relazione con Bellerofonte secondo un processo
diverso. Il concetto morale da lei rappresentato (la libidine che insidia

25
Lucr. 5.905 prima leo, postrema draco, media ipsa, Chimaera.
26
Ciaffi, Fulgenzio e Petronio cit., pp. 54-55.
27
In generale il problema delle citazioni di Fulgenzio – e quello, ad esso con-
nesso, della biblioteca che egli doveva avere a disposizione – è uno dei punti di
maggiore controversia nel dibattito critico su questo autore. Da una parte, infatti,
investe la questione della datazione e dell’identità del Mitografo, nel momento in
cui pone termini ante e post quos più o meno verificabili; dall’altra, solleva posizioni
contrastanti riguardo all’attendibilità delle Mythologiae come testimoni di tradizione
indiretta di autori e titoli che spesso non corrispondono a quelli che conosciamo
oggi.

78
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

la sapientia) le viene infatti attribuito a priori, grazie al ruolo di anta-


gonista da lei assunto. Allora, e soltanto allora, l’autore ne fornisce
la giustificazione, in un’etimologia preordinata del nome 28. Fulgenzio
sembra cioè utilizzare il sistema dei personaggi della vicenda mitica –
e soprattutto la dialettica interna delle loro relazioni reciproche – per
istituire rapporti di parallelismo tra i concetti: si crea così una cor-
rispondenza fra il piano concreto della narrazione e quello astratto
dell’insegnamento morale, dove il primo si fa in qualche misura pre-
testo per il secondo, attraverso un velo allegorico. Il momento in cui
si attua il passaggio da un livello all’altro è ancora myth. 59.17, dove
soggetto (sottinteso) di spernit è Bellerofonte, mentre complemento
oggetto non è direttamente Antia, bensì il suo corrispettivo, vale a
dire libidinem: e da questo punto in avanti, almeno fino alla fine della
sezione  29, la prospettiva interpretativa rimarrà focalizzata in questo
senso. Perciò, anche l’etimologia risulta in questo caso strumentale a
giustificare non più il semplice concetto morale associato al nome dei
personaggi, quanto piuttosto il significato complessivo del mito: An-
tia rappresenta la lussuria che Bellerofonte disprezza; ma dal punto
di vista etimologico il suo nome non viene messo in relazione diretta
con libido, bensì descrive l’opposizione (Antia/¢nt…on/contrario) che
esiste tra i due personaggi, e quindi anche tra i concetti da loro imper-
sonati. «En fait, – nota giustamente Nicole Tadic – il serait plus exact
de parler de rapport ‘étymologique’ que d’étymologie stricto sensu» 30.

28
Per la variante mitica con il nome di Antea, cfr. supra.
29
Fino a myth. 60.4 viene inoltre spiegato il rapporto Antia/Preto come rela-
zione lussuria/lordura, in base a un’etimologia ricavata questa volta da una citazione
di Esiodo: cfr. Ae. Jungmann, Coniectanea Fulgentiana, Lipsiae 1872, pp. 38-40. Da
rimarcare anche il Vide di myth. 59.20, con cui l’autore, rivolgendosi direttamente
al lettore e adottando così una tecnica di tipo retorico, rende più persuasiva la pro-
pria spiegazione.
30
Tadic, Une étymologie fulgentienne cit., p. 686. Un meccanismo analogo
a quello da me indicato si ritrova nella fabula Antei et Herculis (myth. 43.1-20),
oggetto di analisi in quell’articolo: anche lì il nome del gigante Anteo è collegato ad
antion secondo la formula Anteus/antion/contrarium e il personaggio è poi iden-
tificato con la libido. In quel caso, però, la virtus cui si contrappone tale concetto
negativo non è la sapientia Bellerofontis, ma la gloria Herculis: cfr. ancora Tadic,
Une étymologie fulgentienne cit., p. 688: «Anteus in modum libidinis ponitur. Il
apparaît que, dans l’esprit de Fulgence, Antée est une représentation allégorique
de la libido. Le mythographe est le premier à énoncer cette analogie […]. Ainsi, la
relation entre le nom Anteus et l’idée d’hostilité comprise dans antion a-t-elle été

79
Martina Venuti

Ecco dunque in atto quel particolare tipo di circolo ermeneutico che


abbiamo già evidenziato, in cui i diversi piani esegetici si intrecciano
fra loro. Interessante infine, per questa prima sezione, l’esempio por-
tato come legittimazione all’etimologia proposta per «Antia»: antion
[…] sicut «antichristus» dicimus quasi ™nant…on toà Cristoà. Qui la
derivazione non è sorretta da un’auctoritas letteraria, bensì da un’uni-
ca parola (antichristus), scelta come riscontro probante; eppure, lo si
comprende facilmente, non si tratta di un termine generico o casuale,
ma di un vocabolo di per se stesso connotato in senso morale  31.

2. Pegaso

Et cuius uxor libido est nisi sordis? At vero Bellerofons, id est «bona
consultatio», qualem equum sedet nisi Pegasum, quasi «pegaseon», id est
«fontem aeternum»? Sapientia enim bonae consultationis aeternus fons
est. Ideo pinnatus, quia universam mundi naturam celeri cogitationum
teoria conlustrat. Ideo et Musarum fontem ungula sua rupisse fertur;
sapientia enim dat Musis fontem. Ob hac re etiam sanguine Gorgonae
nascitur; Gorgona enim pro terrore ponitur; ideo et in Minervae pectore
fixa est, sicut Homerus in tertio decimo ait: tÍ d’ ™pˆ mþn Gorgë blo­
surîpij ™stef£nwto [re vera Hom. Il. 11.36]. Ergo hic duplex assertio
est: aut enim terrore finito sapientia nascitur, sicut de sanguine id est de
morte Gorgonae Pegasus, quia stultitia semper est timida; aut initium
sapientiae timor est, quia et magistri timore sapientia crescit et dum quis
famam timuerit sapiens erit. (myth. 60.3-19)

La seconda sezione, dedicata a Pegaso, è saldata alla prima attraver-


so domande che sono, allo stesso tempo, retoriche ed esplicative:
Et cuius uxor libido est nisi sordis? At vero Bellerofons […] qualem

en définitive déterminée par la philosophie de Fulgence. Le mythe de Bellérophon


confirme cette hypothèse».
31
Tra l’altro, questo inserto presenta due particolarità interessanti: da una
parte, come dicevo, si discosta dalle citazioni «normali» (come quelle omeriche) per
il fatto di costituire una sorta di exemplum fictum dell’autore; dall’altra, il nomina-
tivo del termine, laddove il dicimus richiederebbe l’accusativo, parrebbe indicare
che il vocabolo è, o fa parte di, un’espressione ormai cristallizzata e familiare, a
Fulgenzio e ai suoi lettori ideali.

80
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

equum sedet nisi Pegasum […]? Seguono poi la derivazione etimolo-


gica (Bellerofons, id est «bona consultatio» […]; Pegasum, quasi «pega-
seon», id est «fontem aeternum») 32 e la spiegazione allegorico-morale
(sapientia enim bonae consultationis aeternus fons est). Anche questa
parte centrale della fabula presenta perciò meccanismi degni di nota,
per diversi motivi.
Un’osservazione iniziale riguarda il modo in cui la trattazione con-
tinua, dopo l’introduzione del personaggio di Pegaso: come connette
Fulgenzio il concetto di sapientia, che peraltro risulta sostenuto e rin-
forzato da quell’enim, con Pegaso / fonte eterna? Anzitutto va nota-
to l’uso di enim, che nelle Mythologiae è formula pressoché fissa  33,
non tanto nel senso del nostro «infatti» – cioè di una affermazione
che spieghi ciò che nel testo precede – quanto piuttosto in quello di
particella introduttiva di un concetto nuovo, che segue 34. Qui l’intro-
duzione del concetto di sapientia, oltre che riferirsi al personaggio di
Bellerofonte 35, dà il via a una rete complessa di rapporti che ruotano
intorno a Pegaso: è come se Fulgenzio approfittasse dell’occasione
per accumulare, in una sorta di gioco di specchi in cui mano a ma-
no si sfocano i reali legami di dipendenza, quanti più collegamenti
allegorico-morali riesce a proporre. Tali nessi sfruttano i meccanismi
che abbiamo già evidenziato: ora la componente allegorica (Ideo et
Musarum fontem ungula sua rupisse fertur; sapientia enim dat Musis
fontem. Ob hac re etiam sanguine Gorgonae nascitur; Gorgona enim
pro terrore ponitur); ora quella «iconografica» (Ideo pinnatus […]; in
Minervae pectore fixa); ora, infine, la citazione (sicut Homerus in tertio
decimo ait).
È forse utile, a questo punto, istituire un confronto con il passo
della fabula Persei et Gorgonarum, la ventunesima del primo libro, che
proprio a Pegaso in parte si riferisce. Lì infatti leggiamo:

32
E cioè, phg¾ ¢šnaoj.
33
In unione al sostantivo che precede: cfr. le occorrenze registrate (nelle
Mythologiae e nelle altre opere del corpus profano di Fulgenzio) da M. Manca, Con-
cordantia Fulgentiana, Hildesheim 2003, I, pp. 198-202.
34
Esistono altri esempi di questo valore prolettico: cfr., nella stessa sezione
della fabula, Gorgona enim pro terrore ponitur.
35
Quando però era già stato associato ad altre figure: cfr., ad esempio, la
Minerva/sapientia di myth. 33.9, sfruttata anche nel prosieguo della nostra fabula.

81
Martina Venuti

Hos ergo terrores Perseus adiuvante Minerva, id est virtus adiuvante


sapientia, interfecit. Ideo aversus volat, quod virtus terrorem numquam
aspicit. Speculum etiam ferre dicitur, quod omnis terror non solum in
corde, sed etiam in figura transeat. De sanguine eius nasci fertur Pegasus
in figura famae constitutus; virtus enim, dum terrorem amputaverit, fa-
mam generat; unde et volare dicitur, quia fama est volucris. Unde et Ti-
berianus [fr. 1.10-11 Courtney]: «Pegasus hinnientem transvolaturus
ethram». Ideo et Musis fontem ungula sua rupisse fertur, quod Musae
ad describendum famam heroum aut sequantur proprium aut indicent
antiquorum. (myth. 33.8-19)

Pegaso, cioè, qui non rappresenta più la sapientia, ma la fama (che per
tradizione è sempre volucris) degli eroi oggetto dei canti epici (Pega-
sus in figura famae constitutus); la sapientia è invece tutta attribuita a
Minerva e la Gorgone/terrore genera la fama in seguito all’intervento
di Perseo/virtù. Di fatto vediamo come, intorno a un perno centrale
fisso, costituito dalla Gorgone/terrore, gli stessi concetti e gli stessi
particolari narrativi vengano ridistribuiti in modo diverso, anche
all’interno di un sistema di personaggi sostanzialmente immutato   36.
Allora, una volta di più si può affermare che ciò che interessa all’au-
tore non sono né la continuità narrativa né la correttezza del procedi-
mento etimologico, entrambe utilizzate come semplici strumenti; ciò
che sembra stare a cuore a Fulgenzio è una serie di nuclei semantici-
chiave, sparsi lungo le Mythologiae e riaffioranti periodicamente a ri-
badire il proprio contenuto morale.
Torniamo però alla nostra fabula. La citazione omerica di myth.
60.13 è interessante per almeno due motivi, di differente carattere:
da una parte, si tratta di una delle due «specific references to indi-
vidual books of the Iliad», delle quali «one is right, the other wrong»,
nel senso che attribuisce il passo al libro tredicesimo quando invece
è tratto dall’undicesimo  37. Dall’altra, il riferimento ad Omero serve
all’autore per inserire una sorta di glossa (ergo hic duplex assertio est;

36
A parte, naturalmente, il personaggio di Perseo, protagonista della fabula in
questione. Il fatto che l’autore riutilizzi più volte gli stessi miti rafforza l’impressione
che i personaggi delle varie vicende adempiano alla loro funzione più come semplici
nomi che come vere figure.
37
Baldwin, Fulgentius and his Sources cit., p. 46. Le citazioni alle quali si rife-
risce lo studioso sono, rispettivamente, a myth. 22.3 (quella giusta) e per l’appunto
questa (l’errata).

82
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

aut … aut  …), che, dal punto di vista contenutistico, si pone come
un’ulteriore declinazione dei concetti morali più volte riproposti, ma
che, nella forma, si presenta come un vero e proprio scolio, vale a dire
come un’operazione di riflessione (di qualsiasi tipo e valore risulti ai
nostri occhi oggi) che potremmo tranquillamente definire ancora una
volta «metaletteraria».

3. Chimera
Unde et Cymeram occidit; Cymera enim quasi «cymeron», id est «fluc-
tuatio amoris», unde et Homerus ait: kàma kel<ain>Õn korqÚetai
[Hom. Il. 9.6-7]. Ideo etiam triceps Cymera pingitur; quia amoris tres
modi sunt, hoc est incipere, perficere et finire. Dum enim amor noviter
venit, ut leo feraliter invadit, unde et Epicarmus comicus ait: damast¾j
œrwj leonte…v dun£mei qalerÒj, id est: «domitor cupido leontea virtu-
te praesumptior» [Epicharm. fr. 301 K.]; nam et Virgilius in georgicis
tetigit dicens: «Catulorum oblita leena sevior erravit campis» [Verg.
georg. 3.245-246]. At vero capra quae in medio pingitur perfectio libi-
dinis est, illa videlicet causa, quod huius generis animal sit in libidine
valde proclivum; unde et Virgilius in bucolicis ait: «edique petulci» [re
vera Verg. georg. 4.10]. Ideo et Satyri cum caprinis cornibus depingun-
tur, quia numquam noverunt saturari libidinem. At vero quod dicitur
«postremus draco» [Hom. Il. 6.181; Lucr. 5.905], illa ratione ponitur,
quia post perfectionem vulnus det penitentiae venenumque peccati. Erit
ergo hic ordo dicendi quod primum sit in amore inchoare, secundum per-
ficere, tertium vero peniteri de perfecto vulnere. (myth. 60.19-61.15)
La terza sezione della fabula utilizza ampiamente un ulteriore stru-
mento individuabile come strutturale, vale a dire l’elemento figurati-
vo 38. Il personaggio mitico viene presentato ancora una volta a partire
da un’etimologia basata su un passo omerico che non sembra avere

38
Si tratta del ricorso a un elemento in qualche misura «esterno» al normale
procedere di Fulgenzio, in genere più legato a meccanismi che muovano diretta-
mente dal testo. Tale elemento trova riscontro, ad esempio, nella già citata fabula
Antei, dove viene utilizzata in modo analogo la genealogia del personaggio: Anteo è
immediatamente identificato con la libido perché figlio di Gea, la terra; e la libidine
guarda alle cose terrene. In un caso come nell’altro, dunque, il fatto «esterno» serve
a fondare e a garantire un’identificazione fissata da Fulgenzio a priori.

83
Martina Venuti

nessuna effettiva pertinenza rispetto al nome «Chimera» 39: etimologia


e citazione sono funzionali all’inserimento del concetto morale che
l’autore vuole esporre, e a nulla più. A questi meccanismi si aggiunge
però ora, per avvalorare la spiegazione, una componente «iconogra-
fica»: Ideo etiam triceps Cymera pingitur; quia amoris tres modi sunt.
Componente che risulta richiamata tre volte nel corso del capitolo  40,
ognuna delle quali, se da una parte è sorretta da una corrispondente
citazione, dall’altra si fa a sua volta sostegno per l’allegoria, secondo il
circuito esegetico che abbiamo appena individuato.

Vale la pena, a questo punto, di utilizzare la fabula Bellerofontis co-


me spunto per indagare più da vicino quali siano i nuclei semantici
moraleggianti alla cui esposizione tende la macchina interpretativa
fulgenziana: non solo per ricostruire una piccola traccia del castello di
ammonimenti che nelle Mythologiae l’autore impartisce al lettore, ma
anche per cercare di capire se l’organizzazione della materia (l’ordine
delle fabulae, l’esposizione dei temi, il riuso delle fonti …) sia fondata
o meno su una consequenzialità di qualunque tipo.
Nel mito in esame emergono infatti alcuni nuclei tematici che si
rincorrono secondo diverse declinazioni – e spesso intrecciati tra lo-
ro – lungo tutto il corso delle Mythologiae. Il primo riguarda la sapien-
tia: Bellerofonte, come sappiamo, viene interpretato come consul­tator
sapientiae. Nell’opera il concetto di saggezza è prevedibilmente asso-
ciato alla figura di Minerva, con esiti però differenti: si rintraccia nella
già citata fabula Persei et Gorgonarum (myth. 33.9), ma soprattutto,
all’inizio del secondo libro (myth. 37.21-38.13), nel capitolo esplicita-
mente dedicato alla dea come rappresentante della vita teoretica – e
dunque della saggezza – dove compare una vera e propria personifi-
cazione allegorica di Minerva/sapientia. E ancora, ad esempio, nella
fabula Promethei 41 e in quella sull’unione/scontro con Vulcano 42. Ma,

39
Ossia kàma œrwn, mentre nel passo citato (Hom. Il. 9.6-7) compare solo la
parola kàma, riferita ovviamente alle onde marine (si tratta di una similitudine fra il
mare in tempesta e l’animo angosciato dalla paura degli Achei).
40
E cioè, oltre nel passo appena ricordato, anche a myth. 61.6-7 At vero capra
quae in medio pingitur perfectio libidinis est, e 61.9-10 Ideo et Satyri cum caprinis
cornibus depinguntur.
41
La sesta del secondo libro (myth. 45.5-46.24).
42
L’undicesima del secondo libro (myth. 51.1-52.15).

84
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

dal punto di vista etimologico, la sapientia è collegata almeno in un


caso, e poco importa se in forma «mediata» da una metafora, con un
personaggio diverso, cioè con Alcmena madre di Ercole (myth. 41.15-
18): quasi «almera», quod Grece «salsum» dicitur […]; ex salsidine
sapientiae ut ex Almena […] nascitur  43. Ancora, si può citare il ca-
so di Ulisse nella fabula a lui dedicata (myth. 48.8-49.2), nella quale,
attraverso una sorta di traslazione semantica, il concetto di saggezza
è associato al personaggio sulla base di un’etimologia a dir poco az-
zardata: Ulixes enim Grece quasi «olonxenos» [e cioè, Ólwn xšnoj], id
est «omnium peregrinus» dicitur; et quia sapientia ab omnibus mundi
rebus peregrina est, ideo astutior Ulixes dictus est. Ed è interessante
notare come tale collegamento venga ripreso anche a distanza, alla
fine del mito di Scilla (myth. 50.1-4), in un senso ancora rafforzato:
mentre prima l’astuto Ulisse, secondo l’interpretazione data al suo
nome, condivideva con la saggezza semplicemente l’estraneità dal
mondo, qui egli risulta rappresentare in toto il concetto di sapientia
(myth.  50.3-4 et uxorem habere dicitur Penelopam castissimam, quod
omnis castitas sapientiae coniungatur) 44.
Un secondo tema, anch’esso fondamentale nell’economia dell’in-
tera opera, è quello della libido: spernit libidinem, id est Antiam dice
Fulgenzio di Bellerofonte  45. Tale tema si ripropone in una grande
quantità di casi, toccando le diverse sfaccettature evidenziate all’in-
terno dei possibili meccanismi di scrittura. Innanzi tutto, come per la
sapientia, un personaggio mitico viene a costituire la personificazione
del concetto morale: si tratta ovviamente di Venere, rappresentante
della vita voluptaria, dotata di una serie di caratteristiche riconduci-
bili alla libido (myth. 39.10). Poco dopo, però, nella fabula Antei et
Herculis viene introdotto un nuovo personaggio: Anteus enim in mo-

43
Anche in questo caso sono i rapporti genealogici tra i vari personaggi del
mito a venire sfruttati per applicare i concetti morali ricavati dalle (false) etimologie
proposte.
44
E come tale si oppone quindi, di nuovo, alla libidine, davvero per Fulgenzio
radix omnium malorum. Cfr. Tadic, Une étymologie fulgentienne cit., p. 688: «La
libido engendre la furor, la confusio, le delirium. Elle est le contraire de la virtus, de
la sapientia, de l’ingenium, de la maiestas, de la bona consultatio».
45
Qui il tema si inserisce però in un circolo abbastanza coerente, dal momento
che – come sappiamo – Fulgenzio sembra presupporre in partenza la contrapposi-
zione libido vs. sapientia, cioè Antia vs. Bellerofonte. Si ricordi il breve sunto della
fabula: cui [scil. Bellerofonte] dum ob stupri causam mandasset, ille noluit.

85
Martina Venuti

dum libidinis ponitur (myth. 43.2). «Le mythographe conçoit la libido


comme un instinct nécessairement mauvais […]. Personnalisée sous
les traits d’Omphale, de Scylla, de Vénus, des Sirènes, elle est mépri-
sée par Ulysse, Bellérophon, Héraclés et Thésée» 46. La libido/lussuria
è dunque uno dei temi portanti delle Mythologiae, inserito a forza in
miti di carattere e di natura diversi: nella stessa fabula Bellerofontis lo
si trova per il personaggio di Antia, come sappiamo, ma lo si ritrova
ancora verso la fine, nella sezione dedicata alla Chimera 47. Fulgenzio,
del resto, utilizza spesso la materia mitica e il correlato ammonimen-
to morale come spunto per digressioni a carattere didascalico, inserti
che si presentano ora come brani di erudizione «tecnica», ora come
saggi di enciclopedismo di gusto tardoantico. Esempi in questo sen-
so sono dati da un passo della fabula Pelei et Thetidis, nella quale si
trova una parentesi di natura puramente medica 48 e – anche se non
collegato immediatamente al tema della lussuria – dalla fabula Orphei
et Euridicis, che riporta una sorta di catalogo delle artes e delle loro
sotto-articolazioni 49. Due ultime osservazioni, infine, sulla libido: da
un lato si può rilevare come a questo filone si leghi, secondo un uso
abbastanza frequente nella tradizione scoliastica 50, anche l’elemento

46
Tadic, Une étymologie fulgentienne cit., p. 688.
47
At vero capra quae in medio pingitur perfectio libidinis est, illa videlicet causa,
quod huius generis animal sit in libidine valde proclivum; unde et Virgilius in bucolicis
ait: «edique petulci». Ideo et Satyri cum caprinis cornibus depinguntur, quia numquam
noverunt saturari libidinem. È possibile che sull’errato riferimento virgiliano abbia
interferito il ricordo di buc. 3.8 e della lussuria lì assegnata ai caproni.
48
Myth. 71.13-72.1 Quod venae quae in talo sunt ad renum et femorum atque
virilium rationem pertineant, unde et aliquae venae usque ad pollicem tendunt; quod
tractantes et fisici et mulieres ad optinendos partus et sciadicos eodem flebotomant
loco; nam et inplastrum entaticum quem stisidem Africanus hiatrosofistes vocavit pol-
lici et talo inponendum praecepit. Nam et Orfeus illum esse principalem libidinis indi-
cat locum; nam denique et enterocelicis in isdem locis cauteria ponenda praecipiunt.
Ergo monstrat quod humana virtus quamvis ad omnia munita tamen libidinis ictibus
subiacet patula.
49
Myth. 77.17-78.4 In omnibus igitur artibus sunt primae artes, sunt secundae;
ut in puerilibus litteris prima abecetaria, secunda nota, in grammaticis prima lectio,
secunda articulatio, in rethoricis prima rethorica, secunda dialectica, in geometricis
prima geometrica, secunda arithmetica, in astrologis prima mathesis, secunda astrono-
mia, in medicinis prima gnostice, secunda dinamice, in aruspicinis prima aruspicina,
secunda parallaxis, in musicis prima musica, secunda apotelesmatice.
50
Cfr., ad esempio, Serv. ad Verg. Aen. 3.519 «castra» quasi casta, vel quod illic
castraretur libido; nam numquam his intererat mulier.

86
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

di una più o meno insistita misoginia, che qua e là riaffiora in tutte le


Mythologiae 51. Dall’altro canto, nella fabula Bellerofontis, e più in ge-
nerale nell’intera opera, emerge un altro tema connesso a quello della
lussuria, ma che da esso vorrebbe farsi in qualche misura distinto. È
il tema dell’amor. Cymera enim quasi «cymeron», id est «fluctuatio
amoris», unde et Homerus ait: kàma ke<lai>nÕn korqÚetai. Ideo etiam
triceps Cymera pingitur, quia amoris tres modi sunt, hoc est incipere,
perficere et finire. Tale tema assume nelle Mythologiae varie sfuma-
ture, delle quali alcune sembrano sfuggire a una connotazione com-
pletamente negativa: l’amore, per quanto presupposto della lussuria
e quindi anch’esso da condannare  52, è trattato come un sentimento
umano che, a differenza della libido, è inevitabile e, in ultima analisi,
naturale. Nella nostra fabula questo statuto di superiorità è forse se-
gnalato dall’analisi «strutturale» (amoris tres modi sunt)  53 alla quale
l’autore gli conferisce il diritto di essere sottoposto. L’amor, seppure
talvolta associato a concetti negativi, sembra sempre salvato o dall’ine-
vitabilità della sua natura istintuale (è il caso della leonessa virgiliana:
Virgilius in georgicis tetigit dicens: «Catulorum oblita leena sevior erra-
vit campis») o dalla sua buona fede (myth. 63.7-8 Amor cum periculo
sepe concordat et dum ad illud solum notat quod diligit, numquam videt
quod expedit) 54.

51
La componente misogina delle Mythologiae non riguarda in modo esclu-
sivo l’ambito della libido, ma poiché sto trattando questo filone porto gli esempi ad
esso connessi: cfr. myth. 41.3-6 mulieris enim inlecebra maior est mundo, quia quem
mundi magnitudo vincere non potuit libido compressit; myth. 41.20-21 libido enim
in umbilico dominatur mulieribus; myth. 49.21-22 laborem enim manuum et opera-
tionem libidinosa mulier non diligit; myth. 64.8-10 quamvis apud muliebres animos
libido optineat regnum, tamen etiam in invicta libidine zelus optinet dominatum. Nel
caso di Anteo, dove la libido è impersonata da un gigante che nulla ha di femmi-
nile, avranno avuto probabilmente maggiore forza il valore etimologico del nome e
la struttura preordinata della fabula (Anteo vs. Ercole = libido vs. gloria): al punto
da risultare più significativi di qualsiasi altra considerazione e da favorire, quindi,
l’identificazione.
52
Nella fabula Bellerofontis ciò avviene soprattutto attraverso una terminolo-
gia ancora in bilico tra moralismo neoplatonico e dottrina cristiana (post perfectio-
nem vulnus det penitentiae venenumque peccati).
53
Interessante qui l’uso del vocabolo modus, che mi sembra avvicinarsi a uno
specifico significato segnalato dal Thesaurus (ThLL VIII.2, 1957, coll. 1258.77-
1259.15 [Brandt], s.v.).
54
È l’incipit della fabula Ero et Leandri.

87
Martina Venuti

L’ultimo significativo campo semantico offertoci dalla fabula


Bellerofontis è quello della paura: Gorgona enim pro terrore ponitur;
ideo et in Minervae pectore fixa est. Come ho già avuto modo di di-
re, l’introduzione di questo filone tematico permette di inserire nel
corpo del testo una sorta di glossa al verso di Omero citato subito
dopo, glossa che tra l’altro si presenta piuttosto complessa perché
propone una spiegazione del passo con due opzioni diverse e alter-
native, la cui scelta è demandata al lettore: a u t enim terrore finito
sapientia nascitur, sicut de sanguine id est de morte Gorgonae Pegasus,
quia stultitia semper est timida, a u t initium sapientiae timor est, quia
et magistri timore sapientia crescit et dum quis famam timuerit sapiens
erit. La prima alternativa ben esemplifica le forzature che Fulgenzio
applica nel presentare i suoi accostamenti concettuali: l’uso prolet-
tico di enim, di cui s’è già parlato, insieme a quello di sicut serve da
perno per la proporzione terrore finito : de morte Gorgonae = sapien-
tia : Pegasus. Proporzione arbitraria, che introduce la sententia che
segue: stultitia semper est timida. Questa espressione, di carattere va-
gamente assiomatico, si lega al resto con un nuovo salto logico, tipico
dello strano circolo ermeneutico in cui il lettore è ormai completa-
mente invischiato. Infatti, ci si sarebbe aspettati una spiegazione del
fatto che la saggezza deriva dalla fine del terrore, cioè dall’esperienza
della paura; invece, questo passaggio manca e al suo posto troviamo
un concetto in un certo senso ribaltato: se diamo per scontato (pur
senza esplicitarlo) che la saggezza nasca dalla mancanza di timore,
allora è logico anche l’inverso, cioè che in presenza di stupidità vi sia
timore.
La seconda alternativa (initium sapientiae timor est) di fatto in-
troduce un’ipotesi contraria alla prima, ma appare significativa so-
prattutto per una considerazione di carattere «extratestuale»: nel giro
di poche parole l’autore tratteggia una vivida scenetta scolastica (ma­
gistri timore sapientia crescit), carica di comprovata verosimiglianza,
che si direbbe derivata dall’esperienza concreta delle «cose di scuola».
È appunto il timore di fare brutta figura (timor famae), unito forse alla
paura di un possibile rimprovero o di una punizione (magistri timore),
che induce lo scolaro a studiare e a prepararsi: quis famam timuerit
sapiens erit. Anche le altre occorrenze del filone tematico della paura
mettono in luce questa attenzione ai meccanismi di funzionamento
dei moti interni, individuali e collettivi: nella prima fabula del primo

88
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio

libro, Vnde idolum  55, ad esempio, la nascita delle superstizioni reli-


giose e dei culti ad esse legati viene spiegata attraverso il dolore di
un padrone che ha perso il suo unico figlio e cerca di prolungarne
un’immateriale esistenza attraverso un simulacro (idolum/idos-dolu 56/
species doloris) e il timore degli schiavi che in quella statua e nel suo
culto vedono un possibile rifugio contro le punizioni, al punto che
offerebant munuscula timoris potius effectu quam amoris affectu 57. La
conclusione concettuale della fabula, di matrice quasi sociologica, in
quel caso è affidata a Petronio: Primus in orbe deos fecit timor 58. Nel
mito di Perseo e delle Gorgoni (myth. 32.21-33.2) troviamo invece
una classificazione dei diversi gradi di terrore che possono cogliere
l’uomo e una particolare attenzione alla loro fenomenologia (psicolo-
gica, ma anche fisica), presentata sulla linea di una climax ascendente:
Gorgonas dici voluerunt tres, id est tria terroris genera; primus quippe
terror est qui mentem debilitat, secundus qui profundo quodam terrore
mentem spargit, tertius qui non solum mentis intentum, verum etiam
caliginem ingerat visus.

A questo punto possiamo cercare di tirare le fila di tutto il discorso,


provando a riassumere quanto è emerso finora. In primo luogo, si è
mostrato come il testo di Fulgenzio (fatto salvo il prologo, che costi-
tuisce sezione a sé stante e che necessita di una trattazione a parte) si
basi su uno schema fisso e in certa misura individuabile, composto da
diversi meccanismi, con caratteristiche precise: l’etimologia, la citazio-
ne, la componente «iconografica», la spiegazione allegorico-morale.
Tali meccanismi, pur non necessariamente sempre compresenti in
ognuna delle fabulae  59, costituiscono nel loro intreccio la sostanza
del procedere fulgenziano. Nel circolo ermeneutico che essi creano

55
Myth. 15.20-17.8.
56
Vale a dire e!doj doloris, con etimologia di nuovo «mista».
57
Myth. 17.1. Per il gioco paronomastico effectus/affectus cfr. ThLL V.2, 1931,
col. 135.5 [Hey], s.v. «effectus»: si tratta di un lusus verborum piuttosto diffuso,
soprattutto in Agostino.
58
Petron. fr. 27.1 Buecheler2. Per questo passo specifico, cfr. G. Heuten,
Primus in Orbe Deos Fecit Timor, «Latomus» 1, 1937, pp. 3-8.
59
Nel caso della fabula Bellerofontis, ad esempio, la derivazione genealogica è
al più ravvisabile nell’indicazione di un legame matrimoniale fra Preto e Antia, che
prelude alla domanda Et cuius uxor libido est nisi sordis? e alla spiegazione etimolo-
gica – fondata su un’improbabile lingua panfila – di Pritos come sordidus.

89
Martina Venuti

la materia mitica di partenza viene plasmata e piegata ai nuovi fini


che l’autore si propone; in qualche caso, come s’è visto, essa finisce
addirittura persa all’interno di scomposizioni e veri e propri arbitrî. Il
gioco delle citazioni, più che spiegare, confonde il lettore e lo allonta-
na dalla vicenda che era servita come spunto di partenza; anche l’ele-
mento «iconografico» risulta un’appendice di questo circuito. Cosic-
ché, quando si giunge alla spiegazione morale, il mito – ormai privato,
secondo l’intenzione programmatica dell’autore, dei veli menzogneri
della sua antica origine 60 – sprofonda sotto nuovi strati, sotto i quali è
perfino difficile riconoscerlo.
L’analisi del testo fulgenziano fin qui abbozzata non è certo esau-
stiva né pretendeva di esserlo, nel momento in cui ha tralasciato, per
sfiorarli solo marginalmente, alcuni dei problemi più intriganti legati
a quest’autore: la ricostruzione della sua biblioteca, l’affidabilità delle
sue citazioni, la lingua che egli usa, l’effettivo sistema di valori di cui
si fa portatore, il suo pubblico, la sua stessa identità. Ben consapevo-
le di questa complessità, ho cercato tuttavia di fornire, attraverso un
esempio concreto e circoscritto, alcune possibili chiavi di lettura, per
rendere più agevole l’accostarsi a un testo che, anche solo a partire
dagli spunti proposti, è ancora tutto da indagare. Già da questa par-
ziale ricognizione sarà possibile ravvisare con facilità come la pratica
fulgenziana del riuso della materia mitica e degli auctores antichi rag-
giunga estremismi spesso ineguagliati dalla restante tradizione tardo-
antica, arrivando a sconfinare diverse volte nel primo, più comune e
più allettante di tutti gli abusi: vale a dire, l’utilizzo di un testo preesi­
stente, noto e autorevole, per fargli dire qualcosa che nulla ha a che
vedere con esso, ma che il nuovo autore ha stabilito a priori 61.

60
Myth. 11.16 mendacis Greciae; myth. 31.5-6 mendax Grecia et poetica garruli-
tas semper de falsitate ornata; myth. 44.6-7 Grecia enim quantum stupenda mendacio,
tantum est admiranda commento.
61
In questa operazione Fulgenzio si apparenta, e nello stesso tempo si discosta,
dai veri e propri scoliasti virgiliani, anch’essi propensi a ricavare un insegnamento
morale extratestuale dall’opera commentata, ma nello stesso tempo più rispettosi –
né poteva essere diversamente – del testo che vengono illustrando e che limita in
parte la loro azione. Cfr., al proposito, M. Gioseffi, «Nusquam sic vitia amoris»:
Tiberio Claudio Donato di fronte a Didone, in AA.VV., Ricordando Raffaele Canta-
rella. Miscellanea di studi, Bologna 1999, pp. 137-162; Id., Un libro per molte morali.
Osservazioni a margine di Tiberio Claudio Donato lettore di Virgilio, in AA.VV.,
Nuovo e antico nella cultura greco-latina di IV-VI secolo, Milano 2005, pp. 281-305.

90
Alessia Fassina
Il ritorno
alla «fama prior»: Didone
nel centone «Alcesta»
(Anth. Lat. 15 R.2) *  

Nati per dare nuova forma e nuova vita all’opera del massimo poeta
latino, ma ben lontani dalla presunzione di emulare i livelli del loro
modello, i centoni virgiliani sono da annoverare tra i prodotti più inte-
ressanti, ma allo stesso tempo più controversi, della tarda Antichità 1.


* Questo lavoro è nato da uno scambio di idee con Marco Fernandelli, cui va
la mia più sincera gratitudine per i preziosi suggerimenti riguardanti il legame fra il
Didobuch e l’Alcesti di Euripide.
1
Si tratta in tutto di sedici composizioni poetiche, per lo più di argomento
secolare e mitologico, create attraverso la giustapposizione di versi o emistichi estra-
polati esclusivamente dall’Eneide, dalle Georgiche e dalle Bucoliche virgiliane. La
bibliografia, ancora piuttosto esigua, comprende tra gli altri R. Lamacchia, Dall’arte
allusiva al centone, «A&R» 5, 1958, pp. 193-216; J.L. Vidal, Observaciones sobre
centones virgilianos de tema cristiano, «BIEH» 3, 1973, pp. 53-64; M.L. Ricci,
Motivi arcadici in alcuni centoni virgiliani cristiani, in AA.VV., Atti del Convegno
Virgiliano sul bimillenario delle Georgiche, Napoli 1977, pp. 489-496; G. Polara,
Un aspetto della fortuna di Virgilio: tra Virgilio, Ausonio e l’Appendix Vergiliana,
«Koinonia» 5, 1981, pp. 49-62; Id., I centoni, in AA.VV., Lo Spazio Letterario di
Roma antica, III. La ricezione del testo, Roma 1990, pp. 245-275; F.E. Consolino, Da
Osidio Geta ad Ausonio e Proba. Le molte possibilità del centone, «A&R» 28, 1983,
pp. 133-151; D.F. Bright, The Theory and Practice in the Vergilian Cento, «ICS»
9, 1984, pp. 79-90; G. Salanitro, Omero, Virgilio e i centoni, «Sileno» 13, 1987,
pp. 231-240; E. Stehlíková, Centones Christiani as a Means of Reception, «LF» 110,

91
Alessia Fassina

Se in essi si ritrovano amplificati ed estremizzati tutti quei complessi


meccanismi alla base tanto della ricezione quanto dell’interpretazione
di Virgilio venutisi a creare in un arco di tempo compreso tra il terzo
e il sesto secolo d.C., la loro è tuttavia una singolarità solo apparente.
Lungi dall’essere un caso isolato nel panorama della letteratura latina,
non sono altro che il risultato estremo di quel processo imitativo alla
base della formazione culturale impartita nelle scuole di grammatica e
di retorica tardoantiche, nelle quali il culto per il poeta mantovano si
concretava abitualmente in esercizi scolastici – i themata, le declama-
tiones, le controversiae – non molto distanti per sensibilità ed intenti
dal genere centonario. È quanto dimostra lo stesso codex Salmasianus 2
che ci ha trasmesso, fra l’altro, anche un locus Vergilianus di Coro-
nato e due anonimi themata virgiliani, emblematici di una tradizione
letteraria che faceva di Virgilio materia di reinterpretazione almeno
quanto i dodici centoni in esso conservati 3.
Tra di loro, l’Alcesta si segnala per l’abilità e la raffinatezza con cui
il suo anonimo autore riesce ad attuare il gioco combinatorio dei versi
del modello 4. In prima battuta, ciò che colpisce di questo testo è l’ori-

1987, pp. 11-15; G. La Bua, Esegesi virgiliana e poesia centonaria, «A&R» 38, 1993,
pp. 99-107; S. McGill, Virgil Recomposed. The Mythological and Secular Centos in
Antiquity, Oxford - New York 2005.
2
Per il Parisinus lat. 10318 mi sono avvalsa della riproduzione fotografica
di H. Omont, Anthologie de Poètes Latins dite de Saumaise. Reproduction réduite
du manuscrit en onciale, Latin 10318, de la Bibliothéque Nationale, Paris 1903;
informazioni dettagliate sul codice in M. Spallone, Par. Lat. 10318 (Salmasiano):
dal manoscritto altomedievale ad una raccolta enciclopedica tardoantica, «IMU» 25,
1982, pp. 1-71.
3
Vale a dire, i numeri 7-18 in F. Buecheler - A. Riese (edd.), Anthologia
Latina, I.1, Lipsiae 18942. Com’è noto, Shackleton Bailey ha deliberatamente
omesso questi testi nell’edizione della Anthologia da lui curata nel 1982, motivando
così la sua decisione: «Centones Vergiliani opprobria litterarum, neque ope critica
multum indigent neque is sum qui vati reverendo denuo haec edendo contumeliam
imponere sustineam» (D.R. Shackleton Bailey [ed.], Anthologia Latina, Stutgar-
diae 1982, I, p. III). I dodici testi si intitolano, nell’ordine: De panificio; De alea;
Narcissus; Iudicium Paridis; Hippodamia; Hercules et Antaeus; Progne et Philomela;
Europa; Alcesta; De ecclesia; Medea e Epithalamium Fridi.
4
Non sono numerosi nemmeno gli studi critico-testuali sul nostro centone:
cfr. R. Lamacchia, Alcesta (Anth. Lat. 15), 162 e Iudicium Paridis (Anth. Lat. 10,
36), in AA.VV., Studi in onore di Adelmo Barigazzi, I, Roma 1986, p. 314; M. Val-
lozza, Rilievi di tecnica compositiva nei centoni tramandati con la «Medea» del
codice Salmasiano, in Studi in onore di Adelmo Barigazzi cit., I, p. 338; G. Salanitro,

92
Didone nel centone «Alcesta»

ginalità dei suoi contenuti rispetto al dramma euripideo: il centonario


sembra prendere volutamente le distanze dall’illustre modello greco
già nei versi iniziali che dedica all’antefatto del mito 5, sebbene attui la
sua innovazione più significativa nel momento in cui nega ad Alcesti
ogni possibilità di «resurrezione». Analogamente all’autore della pa-
piracea Alcestis Barcinonensis 6, il nostro testo accoglie la variante più
negativa della vicenda, quella che vede morire la regina senza che Era-
cle possa infrangere la rigida legge che impedisce ai morti di tornare
in vita, concentrando così, a fini patetici 7, «l’interesse della vicenda su
Alcesti, unica vera protagonista, cui è affidato, contrariamente che in
Euripide, il compito di sciogliere il nodo diegetico in modo del tutto
conforme ai canoni del genere tragico» 8.
Di estremo interesse si rivela anche il meccanismo allusivo che sta
alla base dei prelievi operati sul testo virgiliano per la «ricomposizio-
ne» della figura della regina di Fere. Nell’ultima sezione del centone,
completamente dedicata al sacrificio d’amore e alla lenta agonia della

Contributi critico-testuali ai centoni virgiliani, in AA.VV., Miscellanea di Studi in


onore di Armando Salvatore, Napoli 1992, p. 218; G.F. Giannotti, Note critico-
testuali all’«Alcesta» centonaria (Anth. Lat. 15 R 2), «Sileno» 21, 1995, pp. 167-175;
G. Focardi, A.L. 15 Riese: problemi di tecnica centonaria, in AA.VV., Poikilma: Studi
in onore di Michele R. Cataudella, I, La Spezia 2001, pp. 445-457; McGill, Virgil
Recomposed cit., pp. 214-216. Segnalo inoltre i recentissimi contributi di G. Sala-
nitro, Alcesta. Cento vergilianus, Bonanno 2007; Id., L’Alcesti latina, in AA.VV.,
La tragedia romana: modelli, forme, ideologia, fortuna. Giornate siracusane sul teatro
antico (Siracusa, 26 maggio 2006), Palermo 2007, pp. 71-76.
5
La gara indetta da Pelia per scegliere il giovane cui dare in sposa la figlia
è menzionata in [Apoll.] bibl. 1.9.15; Hyg. fab. 51; Fulg. myth. 1.22 (p. 34.4-10
Helm). Data la comune origine africana, si può forse supporre una fonte comune
per il mitografo Fulgenzio e l’anonimo centonarius dell’Alcesta, probabilmente da
identificare in uno dei poeti vissuti nell’ultimo periodo della dominazione vanda-
lica, autori di buona parte dei testi confluiti nella silloge di cui il Salmasiano è il
testimone principale.
6
Fra l’ampia bibliografia sull’Alcestis Barcinonensis, basti il rinvio alle edi-
zioni di M. Marcovich, Alcestis Barcinonensis, Leiden 1988, e L. Nosarti (ed.),
Anonimo. L’Alcesti di Barcellona, Bologna 1992.
7
Sembra che si possa parlare di una rivisitazione in chiave patetica del mito
di Alcesti in ambiente romano già a partire dall’Alcestis di Levio, di cui nulla ci
rimane se non i pochi versi conservati da Gell. 19.7.2-3, il quale attesta la fortuna
di cui l’opera godeva nel secondo secolo d.C., quando era ancora oggetto di lettura
durante le riunioni conviviali. Sull’intera questione rinvio a G. Pastore Polzonetti,
L’Alcesti di Levio, in AA.VV., Disiecti membra poetae, II, Foggia 1985, pp. 59-78.
8
Nosarti, L’Alcesti di Barcellona cit., p. XXI.

93
Alessia Fassina

protagonista (vv. 100-162), la voluta ripresa di alcuni dei versi più si-
gnificativi del quarto libro dell’Eneide non sembra dipendere soltanto
dalla «prigione versificatoria» in cui si trova inevitabilmente costretto
il centonarius, ma risponde alla volontà di assegnare una «funzione-
guida» ben precisa alla Didone virgiliana. Grazie a un sapiente utiliz-
zo del gioco allusivo, infatti, il centonario riesce ad adattare alla figura
emblema della mulier univira alcuni dei versi-chiave del Didobuch,
in modo tale che l’imitazione non riguardi solo la singola ripresa, ma
investa l’intero contesto virgiliano. Lo scopo sembra essere quello di
raggiungere la riabilitazione morale della regina di Cartagine attra-
verso un personaggio universalmente considerato come simbolo delle
virtutes matronali romane, prima fra tutte la pietas coniugale.
Di fatto, già in epoca antica s’era sviluppato per ovvi motivi patriot-
tici e nazionalistici un diffuso atteggiamento denigratorio nei confronti
della sovrana fenicia, di cui si mettevano in luce soprattutto l’accesa
sensualità e la sfrenata libido, che si esemplificavano in una condotta
diametralmente opposta a quella propagandata dalla morale romana,
che imponeva come virtù cardine femminile l’essere mulier univira. Se
in ogni età la tragica vicenda della Didone virgiliana riusciva a suscitare
una sorta di trasporto empatico da parte dei lettori, tanto da muovere
alle lacrime perfino il giovane Agostino 9, tuttavia, come ricorda Ovi-
dio nei Tristia 10, era la scabrosità dell’argomento trattato, vale a dire
il resoconto di un amore irregolare, a suscitare il maggiore interesse
da parte del pubblico. La tradizione successiva si era sentita pertan-
to legittimata a ricorrere allusivamente al libro quarto dell’Eneide e,
in particolare, al comportamento spregiudicato della regina fenicia 11.

9
Aug. conf. 1.13.20-21 Nam utique meliores, quia certiores, erant primae illae
litterae, quibus fiebat in me et factum est et habeo illud, ut et legam, si quid scriptum
invenio, et scribam ipse, si quid volo, quam illae, quibus tenere cogebar Aeneae nescio
cuius errores oblitus errorum meorum et plorare Didonem mortuam, quia se occidit
ab amore, cum interea me ipsum in his a te morientem, Deus, vita mea, siccis oculis
ferrem miserrimus. Quid enim miserius misero non miserante se ipsum et flente Dido-
nis mortem, quae fiebat amando Aeneam, non flente autem mortem suam, quae fiebat
non amando te, Deus, lumen cordis mei?
10
Ov. trist. 2.533-536 et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor / contulit in
Tyrios arma virumque toros, / nec legitur pars ulla magis de corpore toto, / quam non
legitimo foedere iunctus amor.
11
È il meccanismo in atto già nella novella della matrona di Efeso, in Petron.
111-112. Sulla tradizione poetica del tema, fonti e bibliografia in L. Mondin, Didone

94
Didone nel centone «Alcesta»

Emblematico in questo senso si rivela, ad esempio, un epigramma del


poeta bordolese Ausonio, che si presenta «come una sorta di didascalia
a un quadretto pornografico, che raffigura […] una donna impegnata
con quattro partner contemporaneamente»  12, con un ri-uso davvero
dissacrante di Aen.  4.415 ne quid inexpertum frustra moritura relin-
quat. Il famoso verso in cui Didone, spogliandosi del proprio orgoglio
di donna e di regina, arriva a chiedere alla sorella Anna d’implorare
Enea perché rinvii la partenza viene infatti trapiantato in questo com-
ponimento per fungere nientemeno che da chiusura alla descrizione
della performance sessuale della prostituta Crispa (epigr. 75 Green):
Subscriptum picturae mulieris impudicae.
Praeter legitimi genialia foedera coetus
repperit obscenas veneres vitiosa libido,
Herculis heredi quam Lemnia suasit egestas,
quam toga facundi scaenis agitavit Afrani
5 et quam Nolanis capitalis luxus inussit.
Crispa tamen cunctas exercet corpore in uno:
deglubit, fellat, molitur per utramque cavernam,
n e q u i d i n e x p e r t u m f r u s t r a m o r i t u r a r e l i n q u a t.
Se la censura morale della Didone virgiliana durerà inalterata per tut-
to il Medioevo, almeno fino a Dante, che la destina al secondo cerchio
dell’Inferno, dove vengono puniti i «peccator carnali, / che la ragione
sottomettono al talento»  13, non si deve però nemmeno dimenticare
che prima dell’epica neviana – ma, in realtà, ancora ai tempi di Virgi-
lio – la storia vulgata e ufficiale della regina di Cartagine si presentava
come un racconto in cui la virtù cardine della moralità femminile, il
pudor, assumeva uno splendore eroico dovuto sia all’assolutezza del
comportamento della donna, sia all’importanza del suo ruolo politico.
Del resto, è Virgilio stesso a ricordare tanto il pudor quanto la fama
prior di Didone, precedente all’arrivo di Enea, in Aen. 4.320-323:

hard-core, «Incontri Triestini di Filologia Classica» 3, 2004, pp. 227-246. Sull’inter-


pretazione scoliastica della figura di Didone cfr. invece R.J. Starr, Explaining Dido
to your Son: Tiberius Claudius Donatus on Vergil’s Dido, «CJ» 87, 1991, pp. 25-34;
M. Gioseffi, «Nusquam sic vitia amoris»: Tiberio Claudio Donato di fronte a Didone,
in AA.VV., Ricordando Raffaele Cantarella. Miscellanea di studi, Bologna 1999,
pp. 137-162.
12
Mondin, Didone hard-core cit., p. 229.
13
Dante If. 5.38-39.

95
Alessia Fassina

te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni


odere, infensi Tyrii; te propter eundem
exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,
fama prior. Cui me moribundam deseris, hospes?

La storia vulgata della regina si articolava nel suo tratto terminale


in un atto di costrizione subìto dall’esterno, quindi in un cedimen-
to simulato, per terminare poi nell’estremo di un suicidio che con-
traddiceva quel cedimento, affermando all’infinito la virtù opposta, il
primato del pudor. Esemplarità morale dell’univira assoluta e pathos
intenso e grandioso erano i costituenti essenziali della fama «storica»
e previrgiliana di Didone, che venne a riaffermarsi, almeno a partire
dal secondo secolo d.C., attraverso una tradizione erudita di matri-
ce soprattutto africana, che opponeva all’eroina virgiliana la statura
morale della fondatrice reale di Cartagine, la donna che scelse il rogo
piuttosto che tradire la memoria del marito Sicheo. In ambito cristia-
no venivano così esaltate le sue virtù di pietas e di castitas, tanto da es-
sere celebrata dai Padri della Chiesa «come una sorta di protomartire
pagana della purezza vedovile – o praeconium castitatis et pudicitiae!
esclama Tertulliano» 14.

Tra i sostenitori di questa tradizione si può annoverare anche l’anoni-


mo autore dell’Alcesta, che poteva trarre la legittimazione psicologica
della sua lettura del mito di Alcesti attraverso la vicenda dell’eroina
virgiliana dalla conversione operata nel libro quarto dell’Eneide della
fama prior di Didone in praxis tragica. È risaputo infatti che l’epilogo
del Didobuch ha una morfologia di tipo drammatico 15 e, pur derivan-
do fondamentalmente dall’episodio della morte di Aiace, assimila alla
linea sofoclea da un lato alcune versioni femminili del suicidio tragico,
dall’altro situazioni di agonia in scena, di esibizione del corpo sof-

14
Mondin, Didone hard-core cit., p. 227. Su Didone come modello di casta
vedovanza nella letteratura cristiana resta fondamentale M.L. Lord, Dido as
an Example of Chastity. The Influence of Example Literature, «HLB» 17, 1969,
pp. 22-44 e 216-232.
15
Nella sterminata bibliografia sul «tragico» virgiliano, basti il rinvio a due
recenti lavori di M. Fernandelli, Come sulle scene. Eneide IV e la tragedia, «Qua-
derni del Dipartimento di filologia A. Rostagni» n.s. 1, 2002, pp. 141-211; Id., Vir-
gilio e l’esperienza tragica: pensieri fuori moda sul libro IV dell’«Eneide», «Incontri
Triestini di Filologia Classica» 2, 2003, pp. 1-54.

96
Didone nel centone «Alcesta»

ferente, atte a supportare il prolungamento del pathos dopo il colpo


letale. L’effetto di novitas nella scena virgiliana dipende innanzitutto
dall’approfondimento dell’elaborazione tragica nella cornice forma-
le dell’epos, quindi da una serie di variazioni che, all’interno di una
struttura scenica ed emotiva concepita in modo perfettamente unita-
rio, sviluppano una sequenza di oscillazioni sottili, di estrema sensi-
bilità psicologica ed espressiva. La variazione fondamentale è quella
che trasfigura la storia esemplare di Didone in mito erotico di forma e
significato tragici, avvicinando la psicologia e il destino della regina di
Cartagine a quella di altre eroine della tragedia greca, prime fra tutte
Antigone, Deianira, Fedra e, per l’appunto, Alcesti.
Che nel finale del libro quarto dell’Eneide rimanesse una forte
traccia della costruzione drammaturgica e psicologica dell’agonia di
Alcesti era chiaro già agli eruditi e ai commentatori tardoantichi   16,
sebbene il lascito più importante non si debba riconoscere soltanto,
come è stato affermato fin dall’antichità, nelle riprese delle parole
di Thanathos in quelle di Iride, ma anche nella dialettica che viene
a instaurarsi fra l’iniziale rivendicazione divina e l’impulso umano
dell’amor vitae, introdotto come termine di contrasto della condot-
ta eroica per penetrare la psicologia e potenziare gli effetti di pathos
nel punto critico dell’azione. L’umanizzazione del suicidio eroico,
che è rappresentato nell’Alcesti dal cedimento emotivo della regina
nel segreto del talamo, riferito da un’ancella verso l’inizio del dram-

16
Cfr. Serv. Auct. ad Verg. Aen. 4.703 Euripides Alcestin Diti sacratum habu-
isse crinem dicit, quod poeta transtulit ad Didonem; Macr. Sat. 5.19.1-5 In libro quarto
in describenda Elissae morte ait quod ei crinis abscisus esset his versibus: «Nondum
illi flavum Proserpina vertice crinem / abstulerat, Stygioque caput damnaverat Orco»
[= Aen. 4.698-699]; deinde Iris a Iunone missa abscidit ei crinem et ad Orcum refert.
Hanc Vergilius non de  nihilo fabulam fingit, sicut vir alias doctissimus Cornutus
existimat, qui adnotationem eiusmodi adposuit his versibus: «Unde haec historia, ut
crinis auferendus sit morientibus, ignoratur: sed adsuevit poetico more aliqua fingere,
ut de aureo ramo» [= fr. 23 Mazzarino]. Haec Cornutus. Sed me pudet quod tantus
vir, Graecarum etiam doctissimus litterarum, ignoravit Euripidis nobilissimam fabu-
lam Alcestim. In hac enim fabula in scaenam Orcus inducitur gladium gestans quo
crinem abscidat Alcestidis, et sic loquitur: =H d’oân gun¾ k£teisin e„j “Aidou dÒmouj.  /
Ste…cw d’ ™p’ aÙt¾n, æj kat£rxwmai x…fei: / ƒerÕj g¦r oátoj tù kat¦ cqonÕj qeù, /
ÓtJ tÒd’ œgcoj kratÕj ¡gn…sV tr…ca [Eur. Alc. 73-76]. Proditum est, ut opinor, quem
secutus Vergilius fabulam abscidendi crinis induxerit: ¡gn…sai autem Graeci dicunt
«dis consecrare», unde poeta vester ait ex Iridis persona:  «[…] hunc ego Diti / sacrum
iussa fero, teque isto corpore solvo» [Aen. 4.702-703].

97
Alessia Fassina

ma (vv. 175-188), è trasferito da Virgilio all’addio di Didone alle dul-


ces exuviae dei vv.  650-658  17. La centralità patetica che nell’agonia
dell’eroina virgiliana assumono l’esibizione del corpo sofferente e il
motivo della ricerca della luce confermano infatti il carattere dinami-
co e associativo, non circoscritto a un frammento d’invenzione, della
presenza dell’Alcesti nel finale del Didobuch. È proprio in virtù del
fatto che la vicenda dell’amore non regolare di Didone per Enea di-
pendeva dalla costruzione drammaturgica e psicologica dell’agonia di
Alcesti che il nostro anonimo centonarius si deve essere sentito legitti-
mato a descrivere la «passione» della regina di Fere guardando allusi-
vamente alla vicenda dell’eroina virgiliana, specie nell’ultima sezione
del centone, i cui confini (v. 100 At regina gravi iamdudum saucia cura;
v. 162 dilapsus color atque in ventos vita recessit) vengono ideologica-
mente contraddistinti dal verso d’apertura e di chiusura del quarto li-
bro dell’Eneide. Come in Virgilio l’at incipitario segna un forte stacco
oppositivo, volto a spostare l’attenzione del lettore da Enea – che ha
appena concluso il suo racconto nel libro terzo – alla regina di Carta-
gine, così nel centone serve a catalizzare l’interesse su Alcesti e sul suo
profondo dolore alla notizia dell’imminente morte del marito. È cura
il termine attorno al quale ruota la risemantizzazione del modello: se
per Didone è un «tormento d’amore», causato da un caecus […] ignis,
come precisa subito dopo Virgilio stesso (Aen. 4.2 vulnus alit venis et
caeco carpitur igni), per la regina di Fere costituisce invece una «pena
dolorosa», determinata dalla terribile prospettiva di non rivedere più
Admeto. Il virgiliano affanno provocato da una passione amorosa che
sta nascendo si tramuta antiteticamente nel centone in afflizione per
l’imminente perdita di un amore coniugale.
Al v. 101 tristior et lacrimis et pallida morte futura – che nasce dal-
la sutura intorno alle cesure pentemimere delle parole rivolte da Ve-
nere a Giove per conoscere le sorti del figlio e del popolo troiano in
Aen. 1.228 tristior et lacrimis [oculos suffusa nitentis] e di Aen. 4.644
[interfusa genas] et pallida morte futura – il pallore dipinto sul volto
di Alcesti ricorda quello della regina fenicia prima di salire i gradini
del rogo da lei stessa preparato e di sguainare la spada su cui si getterà
di lì a poco. Se nel contesto virgiliano il pallore era dovuto all’insano

17
Vd., in questo stesso volume, l’articolo di I. Canetta, «Diversos secutus poe­
tas». Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide», ntt. 25-26.

98
Didone nel centone «Alcesta»

proposito di togliersi la vita, come Virgilio non manca di precisare


definendo la sventurata trepida, effera e furibunda (Aen. 4.642-646) 18,
l’ombra della morte imminente che traspare sul viso di Alcesti, pro-
prio perché dovuta a un estremo atto di pietas coniugale, non può
che ricevere il commosso compianto del centonarius, per il quale quel
pallore è miserabile visu 19 (come per Enea il penoso spettacolo delle
navi dei suoi compagni spezzate dalla tempesta al largo delle coste
libiche in Aen. 1.111 [in brevia et Syrtis urget,] miserabile visu). Nel
centone il pallore rappresenta un segno visibile dell’imminenza di una
morte dovuta a una decisione già intrapresa: un topos, questo, pre-
sente anche nel modello 20, e che viene rimarcato pure al v. 133 haec
effata silet, pallor simul occupat ora, completa ripresa di Aen. 4.499,
dove la reale presenza della morte che sta per sopraggiungere rende
pallido il viso della regina tessala, creando così una situazione analoga
a quella verificatasi a Didone, al termine del colloquio ingannatore
con la sorella Anna.
L’idea del centonario di indugiare più di una volta a breve distan-
za su questo particolare fisico, a differenza che nell’Alcestis Barcino-
nensis, nella quale l’arrivo della morte viene segnalato dal semplice
rigor mortis 21, sembra trovare una possibile giustificazione in conside-
razione dell’importanza attribuita proprio nella scena del suicidio di
Didone al motivo tragico del «corpo sofferente». La tragedia attica of-
friva a Virgilio molteplici esempi di morti rappresentate scenicamente
attraverso una protratta agonia; Alcesti, in particolare, esibisce a lun-
go sul palcoscenico il suo corpo sofferente: muore sulla scena, in una
situazione marcatamente collettiva, il suo corpo è a lungo oggetto di
spettacolo e il compianto ha luogo sia intorno al personaggio agoniz-
zante, sia sul cadavere senza vita. L’epigrammatico decrevitque mori
del v. 105 del centone, che segna il nodo più importante della vicen-

18
At trepida et coeptis immanibus effera Dido / sanguineam volvens aciem,
maculisque trementis / interfusa genas et pallida morte futura, / interiora domus
irrumpit limina et altos / conscendit furibunda gradus ensemque recludit.
19
Anth. Lat. 15 R.2 100-102 At regina gravi iamdudum saucia cura, / tristior et
lacrimis et pallida morte futura, / deficit ingenti luctu (miserabile visu).
20
Serv. ad Verg. Aen. 4.644 «Pallida morte futura» aut pallidior, quam solent
homines esse post mortem: aut «pallida» omine mortis futurae. A questa annotazione
il Servio Danielino aggiunge la precisazione aut «pallida» conscientia mortis futurae.
21
Cfr. v. 116 tardabatque manus rigor, omnia corripiebat.

99
Alessia Fassina

da – la decisione ferma e irremovibile di Alcesti di immolarsi al posto


di Admeto – e l’altrettanto lapidario quanto incisivo sed moriamur del
v. 107  22 rappresentano nel modello virgiliano il primo e l’ultimo pro-
posito di morte della regina di Cartagine, pronunciati rispettivamente
al v. 475 decrevitque mori, [tempus secum ipsa modumque], dopo i
terribili sogni notturni, e al v. 660 sed moriamur, ait, [sic, sic iuvat ire
sub umbras], nell’attimo prima di lanciarsi sulla spada sguainata. Di-
versi, però, i presupposti: Virgilio spiega espressamente al v. 474 ergo
ubi concepit furias evicta dolore che la sua eroina decide di togliersi
la vita nel momento in cui la sofferenza diviene così insopportabile
da lasciare spazio solo alla follia, volendo quasi giustificare un gesto
tanto insensato, reputandolo frutto di una volontà in quel momento
del tutto irrazionale. La decisione di Alcesti è un atto di devozione
coniugale profondamente meditato, come si desume sia dalla massima
consolatoria che occupa il secondo emistichio del v. 105, prelevata dal
discorso di Giove a Eracle in Aen. 10.467 [stat sua cuique dies,] bre-
ve et irreparabile tempus, sia dalla struttura generale dei vv. 104-105,
nei quali la perentoria affermazione della protagonista viene posta al
culmine di una climax inversa, che non presenta gli eventi in ordine
temporale, ma secondo una scansione «psicologica», volta a mette-
re in primo piano il sacrificio d’amore. Significativi anche i prelievi
che danno origine ai vv. 116-117 23: il primo nasce infatti dalla sutura
intorno alle cesure eftemimere di Aen. 4.519 testatur moritura deos
[et conscia fati] (Didone svolge i riti preparatori necessari al suicidio)
e 4.82 [sola domo maeret vacua] stratisque relictis (i tappeti cui si fa
riferimento sono quelli lasciati vuoti l’indomani del banchetto che ha
visto nascere la passione amorosa per Enea); il secondo è intimamente
connesso al precedente attraverso l’espediente compositivo di far ini-
ziare il verso con il medesimo termine con cui comincia nel modello
l’esametro successivo a quello suturato al v. 116 (Aen. 4.83 incubat. Il-
lum absens absentem auditque videtque), sebbene venga poi ritagliato

22
Anth. Lat. 15 R.2 104-107 talibus affata est dictis seque obtulit ultro / decre-
vitque mori: «Breve et irreparabile tempus / omnibus est vitae neque habet fortuna
regressus: / sed moriamur», ait, «nihil est, quod dicta retractent».
23
Testatur moritura deos stratisque relictis / incubuitque toro dixitque novis-
sima verba. Si tratta dei versi che danno l’avvio alle ultime parole di Alcesti al suo
sposo (vv. 118-132).

100
Didone nel centone «Alcesta»

da un luogo diverso, in questo caso dall’ultimo monologo di Didone


prima del suicidio (Aen. 4.650 incubuitque toro dixitque novissima
verba, con il mutamento di incubat in incubuit). Se nel centone manca
qualsiasi accenno al famoso «addio al letto» dei vv. 177-188 dell’Al-
cesti euripidea, il solo accenno a questo passo virgiliano, eco chiaris-
sima del modello greco, richiama immediatamente alla memoria dei
lettori il tema tragico dell’addio ai «luoghi della vita», così presente
nell’umanizzazione del suicidio eroico di Didone.
Al v. 120 te propter alia ex aliis in fata vocamur è sufficiente il nes-
so te propter, con il quale Alcesti rammenta al marito il suo estremo
atto di amore, così da pregarlo di restar fedele al letto nuziale, per
richiamare allusivamente il contesto virgiliano introdotto dalla famosa
anastrofe di Aen. 4.320-321 24. Tanto per Didone il fatale incontro con
Enea, quanto per Alcesti le nozze con Admeto sono foriere di una sor-
te diversa da quella cui erano entrambe destinate: ex aliis in fata vo-
camur precisa infatti la regina di Fere nel secondo emistichio del ver-
so, prelevato dall’addio di Enea a Eleno e Andromaca in Aen. 3.494
[iam sua: nos alia] ex aliis in fata vocamur. Se per l’eroina virgiliana si
tratterà di una morte privata di quel pudor e di quella fama prior per
le quali era universalmente stimata e conosciuta, per Alcesti la morte
rappresenterà invece l’esemplificazione imperitura delle sue doti di
mulier univira e propagherà la sua fama nei secoli.
Al v. 123 del centone, interamente prelevato da Aen. 4.316 per
co­nubia nostra, per inceptos hymenaeos, si assiste ancora una volta a
una «moralizzazione» del modello: se per fermare la partenza di Enea
Didone richiama alla mente dell’eroe il vincolo amoroso che li lega 25,
definendo però impropriamente pacti hymenaei quello che è in realtà
un furtivus amor, come aveva già puntualizzato Virgilio ad Aen. 4.171-
172 26, Alcesti – al contrario – accetta volontariamente la separazione
dal marito proprio in nome di quel vincolo coniugale cui l’eroina vir-
giliana si appellava per sventare l’abbandono. Ed è in virtù del grande

24
Ossia, il già ricordato Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni /
odere, infensi Tyrii; te propter eundem / exstinctus pudor.
25
Verg. Aen. 4.316-319 per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, / si bene
quid de te merui, fuit aut tibi quicquam / dulce meum, miserere domus labentis et
istam, / oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.
26
Nec iam furtivum Dido meditatur amorem: / coniugium vocat, hoc praetexit
nomine culpam.

101
Alessia Fassina

merito che ha nei confronti del marito, la sostituzione della propria vi-
ta alla sua, che chiede allo sposo di risparmiare ai figli la sofferenza di
vedere violato il letto coniugale. La paura della morte è infatti mitigata
per Alcesti dal pensiero dell’amore dei figli (vv. 137-139) 27, a differen-
za di Didone, che nel momento dell’abbandono non può nemmeno
appellarsi alla consolazione di un figlio avuto da Enea 28. Hanno infine
un valore straordinariamente allusivo anche i vv. 134-135 del cento-
ne 29, in cui l’autore ricorre a un particolare espediente compositivo,
che prevede l’impiego di due versi consecutivi del modello, limitata-
mente ai loro emistichi iniziali. Si tratta di Aen. 4.696-697:
nam quia nec fato merita nec morte peribat,
sed misera ante diem subitoque accensa furore.

Sono gli ultimi versi del libro, «quando la voce del poeta eredita e
stringe in giudizio la posizione affettiva del lettore»  30 di fronte agli
istanti finali dell’agonia di Didone, che muore prima del giorno a lei
destinato. Il secondo emistichio del v. 134 è prelevato da georg. 4.506
[illa quidem Stygia nabat] iam frigida cumba, riferito ad Euridice co-
stretta a far ritorno nell’Ade a causa dell’infrazione da parte di Orfeo
del divieto impostogli da Proserpina; mentre il v. 135 sutura nella sua
seconda parte Aen. 7.357 [mollius et solito] matrum de more locuta
est (ci si riferisce ad Amata, che tenta di convincere Latino a cambia-
re opinione circa il matrimonio di Lavinia). La liceità del prelievo da
parte del centonario di questo passo del Didobuch, in cui Virgilio pre-
cisa che la regina non muore né per destino né per debita morte, ma
misera ante diem, risulta tanto più chiara se si considera che il poeta
mantovano travasa in questi versi una delle verità tragiche assimilate
alla storia di Didone, vale a dire che gli dèi possono attraversare a loro
arbitrio la linea del destino personale e che la catastrofe umana che
deriva dalla mhcan» divina può mettere in luce la crudeltà o il cini-

27
Interea dulces pendent circum oscula nati; / illa manu moriens umeros dex-
tramque tenebat / amborum et vultum.
28
Verg. Aen. 4.327-330 Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset / ante fugam
suboles, si quis mihi parvulus aula / luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, / non
equidem omnino capta ac deserta viderer.
29
Nam quia nec fato ingeminat iam frigida cumba, / sed misera ante diem,
matrum de more locuta.
30
Fernandelli, Virgilio e l’esperienza tragica cit., p. 7.

102
Didone nel centone «Alcesta»

smo delle loro azioni. Questo rapporto tragico fra dèi e uomini non si
riflette compiutamente solo nella dolorosa esperienza dell’eroina vir-
giliana, che per iniziativa divina e senza meritarlo si trova all’improv-
viso contrapposta alla propria storia personale e alla propria fama, e
quindi muore prima del suo giorno – ignaro strumento della lotta fra
Venere e Giunone fino all’ultimo atto di vita – ma si ripropone anche
per la protagonista del centone che, non potendo contare né sull’aiuto
di Apollo né su quello di Eracle, è anch’essa costretta a lasciare svani-
re nell’aria la propria vita 31.

31
Verg. Aen. 4.705; Anth. Lat. 15 R.2 162 dilapsus calor atque in ventos vita
recessit.

103
Sandra Carapezza
Funzioni digressive
nella didattica medievale
Psychomachia, Anticlaudianus
e L’Intelligenza

Il rapporto fra Dante e la cultura antica è stato indagato più volte


nei suoi molteplici risvolti, e tale indagine trova legittimazione espli-
cita nell’opera dantesca, oltre che nella posizione storica e culturale
dell’autore, alle soglie della letteratura propriamente italiana. Contri-
buti recenti, accanto a studi di storico valore, mettono in luce, o – al
contrario – negano, i debiti contratti dall’autore della Commedia con i
poeti della classicità latina, ai quali Dante stesso non manca di tributa-
re onore per le diverse vie della citazione, del richiamo, della promo-
zione a personaggio all’interno del poema. Altri critici si sono invece
dedicati, anche sulla scorta di Curtius 1, ad approfondire i legami tra
l’opera dantesca e la latinità medievale. Nell’una e nell’altra linea d’in-
dagine, vari sono gli elementi su cui soffermare l’attenzione: lessico,
temi, figure retoriche, generi, poetiche, interpretazioni, vicende  …
Le due linee si intrecciano infatti produttivamente, dal momento che
l’analisi comparatistica presume la continuità, garantita appunto, fra
Dante e i classici latini, dal tramite medievale, spesso anch’esso in lin-
gua latina. Per intendere il riuso dantesco della materia antica non

1
Cfr. E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern
1948 (trad. ital. Firenze 1992; in particolare il capitolo XVII, Dante, pp. 387-419).

105
Sandra Carapezza

va perciò mai trascurato il filtro della tradizione. La filologia sottoli-


nea l’imprescindibilità dell’apparato di commento, dell’accessus, delle
glosse che si frappongono fra il lettore medievale e l’autore. E se ciò
vale innegabilmente per i testi sacri, non è pratica sconosciuta neppu-
re per i classici: i commenti virgiliani d’età medievale ne forniscono la
prova immediata. Ma come il riuso del testo passa sempre attraverso
la tradizione, così avviene anche per gli elementi sottounitari di esso.
Il recupero del testo antico è, a sua volta, recupero dei suoi elementi
retorici. I topoi che vivono nelle opere degli autori classici e si mostra-
no in catalogo nei manuali dei retori giungono fino alla Commedia
passando attraverso il Medioevo.
Una strada per indagare i rapporti fra il classico latino e quello
che diverrà classico italiano può allora essere questa: seguire un topos
in uno dei cammini che esso compie all’interno di un genere lette-
rario. La riflessione sul momento del passaggio può infatti gettare
luce sul modo in cui caratteri topici vengono codificati nella lettera-
tura italiana  – per quanto tale riflessione vada poi condotta con la
consapevolezza che si tratta di uno studio che assume a proprio fine
un punto di arrivo, ma che non deve ignorare il valore intrinseco di
ciascun momento. Il genere didattico, ad esempio, sotto l’egida del
cristianesimo che nasce e si afferma potentemente nell’arco di tempo
che ci interessa (dai suoi esordi nel quinto secolo, fino al pieno Me-
dioevo), passa senza interruzioni nell’età medievale e si presenta come
un’ottima via entro cui cercare le orme di un cammino dall’antico al
moderno, o piuttosto dal moderno all’antico. Al suo interno, uno spa-
zio tutto particolare si potrà poi ritagliare per un topos specifico come
la digressione, cioè l’allontanamento a fini didattici o descrittivi dalla
continuità narrativa dell’assunto principale.
Per questa indagine sarà forse conveniente partire dall’opera dan-
tesca e poi risalire a ritroso fino agli albori dell’età cristiana, così da
comprendere in che modo il genere didattico sia stato codificato con
l’avvento del cristianesimo. La Commedia offre un sicuro punto di
partenza, perché in essa il discorso metapoetico è presente dall’inizio
alla fine. Fra le molteplici derivazioni della scelta narrativa dantesca
di sdoppiare un Dante agens e un Dante auctor figura la possibilità di
sancire attraverso l’auctor le soluzioni retoriche e stilistiche adottate
nel poema. Non sorprende perciò la presenza nel testo di termini spe-
cifici del linguaggio letterario, il cui significato viene fissato proprio

106
Funzioni digressive nella didattica medievale

dalle parole dantesche. Anche la digressione trova esplicita menzio-


ne nella Commedia, e anche a questo proposito Dante non manca di
dare ad intendere senza possibilità di fraintendimento quale sia la
propria interpretazione del topos. Digressioni sono sicuramente, per
lui, l’apostrofe all’Italia del sesto canto del Purgatorio, così definita
nel medesimo canto (v. 128) 2, e l’invettiva di Beatrice contro i cattivi
predicatori nel nono cielo  3. Del termine Dante si serve poi con di-
screta frequenza nel Convivio, mentre non ne fanno uso né Petrarca
né Boccaccio nei loro scritti in volgare. Dai casi espliciti della Com-
media emerge pertanto che per Dante la digressione è un momento
di deviazione dal racconto della vicenda centrale del poema, che nei
due episodi citati conduce a un commento di ordine etico-civile, una
sorta di sfogo che il narratore o il personaggio si concede. La qualifica
ufficiale di digressione spetta cioè a digressioni in forma di invettiva,
anche se sembra naturale estendere la sfera semantica del termine a
includere deviazioni per descrivere lo spazio e il tempo (se inserite in
modo tale da interrompere bruscamente il flusso della narrazione)  4 o
per fornire spiegazioni di materia dottrinale, scientifica o filosofica.
Ossia: il criterio di distinzione della digressione si configura sul piano
formale, più che sulla base dell’argomento. È essenziale che si perce-
piscano l’improvviso abbandono della linea principale della narrazio-
ne e il passaggio al nuovo: non a caso, le due occorrenze del termine si
trovano nei versi di raccordo fra la digressione e la vicenda principale.
Il poeta è consapevole di avere inserito un topos, e il lettore lo avverte
inequivocabilmente come tale, anche per mezzo dei segnali esplicitati
alla fine di esso.
Il riuso del topos della digressione veniva a Dante, in primo luogo,
dalla tradizione retorica, dove trovava un posto di rilievo fra i proce-

2
«Fiorenza mia, ben puoi esser contenta / di questa digression che non ti
tocca» (Pg. 6.127-128). Le citazioni della Commedia sono tratte da La Commedia
secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1994 (già Milano 1966-
1967).
3
«Ma perché siam digressi assai, ritorci / li occhi oramai verso la dritta
strada» (Pd. 29.127-128).
4
La classificazione dei tipi di digressione e la riflessione sui relativi criteri
so­no in S. Corsi, Il «modus digressivus» nella «Divina Commedia», Potomac 1987,
in particolare nel capitolo II (pp. 51-120).

107
Sandra Carapezza

dimenti raccomandati per realizzare l’amplificatio 5. Tuttavia, intorno


alla definizione di «digressione» i manuali medievali non erano con-
cordi, né unanime era il giudizio sull’opportunità dell’uso di questo
procedimento retorico. A integrare le implicazioni teoriche non im-
mediatamente deducibili dai trattati soccorrono però le opere lettera-
rie medievali. Proprio il genere didattico è il primo a sfruttare le po-
tenzialità della retorica della digressione, nella quale trova un’ottima
soluzione per ottemperare all’esigenza stilistica di varietà e soddisfare
le premure di enciclopedismo insite in se stesso. Possiamo allora cer-
care di sviluppare un’indagine sulla digressione nel genere didattico
attraverso il Medioevo, scegliendo alcuni casi rappresentativi, crono-
logicamente disposti lungo l’asse temporale che va dal quinto secolo
al pieno sviluppo della letteratura in volgare. Testo archetipico della
didattica medievale è, in quest’ambito, la Psychomachia di Prudenzio,
una rappresentazione della vittoria della virtù sul vizio. La cultura
medievale conta notevoli opere di ugual genere, che risultano ben
diffuse. Un caso paradigmatico è l’Anticlaudianus di Alano di Lilla,
che funge da modello dal dodicesimo secolo fino a Boccaccio. Anche
la tradizione volgare è antica e consistente; dal vasto ed eterogeneo
complesso citiamo, a fini esemplificativi, un anonimo poemetto del
tredicesimo secolo, L’Intelligenza, che fornisce il modello di un poe-
ma didattico scritto in un’età in cui questo genere letterario aveva già
un proprio schema chiaramente definito.
La disamina dei trattati di poetica di autori medievali che passano
per le mani degli scrittori coevi a Dante rivela l’imbarazzo avvertito
nella classificazione di un topos tanto diffuso e intuitivamente rico-
noscibile quanto renitente all’inclusione in una tassonomia che impe-
disca sconfinamenti nei territori vicini. Le difficoltà di classificazione
derivano anche dalla necessità di tradurre per le rinnovate esigenze
degli scrittori medievali un sistema retorico ereditato dalla precetti-
stica latina, e dunque calibrato sulle esigenze dell’oratore antico. Nel
caso della digressione la distanza dal modello classico coinvolge finan-
che lo statuto dell’oggetto: nella Rhetorica ad Herennium, infatti, la
digressione si intuisce quale secondo genere (modus) della narrazione,
contraddistinto da un inserimento nonnumquam <aut> fidei aut crimi-

5
Cfr. Cic. inv. 1.27.

108
Funzioni digressive nella didattica medievale

nationis aut transitionis aut alicuius apparationis causa 6, mentre nelle


artes del basso Medioevo non sopravvive la condizione di genere (mo-
dus) e al modus digressivus subentra la digressione intesa come proce-
dimento di amplificatio. Né la retorica dell’amplificazione avrebbe del
resto potuto trovare posto fra le raccomandazioni dell’autore antico,
che inaugura l’illustrazione dei caratteri della narrazione proprio con la
brevità, frutto dell’omissione di passaggi non essenziali. La digressio-
ne come sovvertimento dell’ordine della narrazione (in un’accezione
che coesiste in età medievale con quella di deviazione verso l’esterno)
nuocerebbe alla raccomandata chiarezza, secondo requisito ideale di
una narrazione nella retorica latina. L’improduttività della digressione
trova conferma nello stesso testo: l’autore della Rhetorica, trattando
della memoria nella ricostruzione degli spazi, si arresta scrupolosa-
mente quando ritiene che l’esemplificazione sia sufficiente, per non
pregiudicare la lucida brevitas consigliata al destinatario dell’opera 7.
Il trattato, che il Medioevo attribuiva a Cicerone e considerava come
uno dei testi cardine nell’arte retorica, non menziona mai il termine
digressio né i corrispondenti aggettivi, ed esclude la possibilità che
l’oratore si allontani dalla via maestra nel suo discorso. Il rischio delle
lungaggini viziose assilla presto trattatisti e letterati (Curtius parla, in
proposito, di dilatatio)  8, come corollario non voluto dell’imitazione
degli epici classici. Lo attesta anche Plinio il Giovane, che ammette la
possibilità di effondersi oltre il limite normalmente ammissibile solo
se qualcosa attira in particolare lo scrittore. La digressione è comun-
que oggetto di attenzione per tutto il Medioevo 9: Goffredo di Vinsauf
ne parla sia nella Poetria nova sia nel Documentum de modo et arte dic-
tandi et versificandi. Nel secondo la trattazione procede con maggior

6
Rhet. Her. 1.12.
7
Ivi, 3.34.
8
Cfr. Curtius, Europäische Literatur cit., p. 546. Ivi la citazione di Plinio il
Giovane epist. 5.6.
9
Per una discussione più ampia della sua storia e del suo sviluppo in età
antica e tardoantica cfr. H. Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine
Grundlegung der Literaturwissenschaft, München 1960, §§ 340-342; L. Calboli
Montefusco, in Consulti Fortunatiani Ars Rhetorica, Bologna 1979, pp. 385-387;
R. Sabry, La digression dans la rhétorique antique, «Poétique» 79, 1989, pp. 259-
276; M. Panico, La «digressio» nella tradizione retorico-grammaticale, «BStudLat»
31, 2001, pp. 478-496.

109
Sandra Carapezza

chiarezza: due sono i modi con cui si dà la digressione, in materia ad


aliam partem materiae e a materia ad aliud extra materiam 10.
Prudenzio con la sua Psychomachia stabilisce nei primissimi an-
ni del quinto secolo un modello duraturo di poema didattico basato
sull’allegoria, ma che non ignora i pilastri dell’epica classica latina. In
novecentoquindici esametri egli mette infatti in scena efferati duelli
tra ciascuna virtù e il vizio opposto e dispensa i suoi contenuti morali
attraverso i discorsi delle virtù, oltre che attraverso l’icastica raffigu-
razione della tragica fine di ogni vizio. La scelta metrica, insieme con
il motivo militare, è rivelatrice dell’intenzione di inscrivere l’opera nel
genere epico e dunque di proporne un confronto dialettico per lo me-
no con l’Eneide 11. Attraverso il riuso dell’esametro e il filo conduttore
dello scontro militare Prudenzio costruisce un genere diverso, che sarà
detto «descriptive allegory» 12 o «personification allegory» 13. Entram-
be le espressioni da un lato sottolineano l’indole allegorica dell’opera,
dall’altro pongono l’accento sulle modalità con cui l’allegoria si con-
creta: l’intento pedagogico si realizza solo se l’immagine ripugnante
del vizio e quella magnifica della virtù si impongono con evidenza ed
efficacia alla mente del lettore. La componente descrittiva è perciò
necessariamente la parte fondamentale del poema; lo sviluppo narra-
tivo della vicenda nel suo complesso non conta, e infatti sono posti in
risalto soltanto i singoli scontri, che si succedono l’uno all’altro senza
l’ausilio di una cornice di raccordo, salvo quella del subitaneo avvicen-
damento dei combattenti. Questi sono pertanto figure più che perso-
naggi, tratteggiate con attenzione al principio retorico dell’evidentia,
che intende «porre davanti agli occhi» l’oggetto del discorso perché
chi legge o ascolta si concentri su di esso fino a raffigurarsi ciò di cui
si parla. I personaggi, così presentati, sono giustapposti l’uno all’altro,

10
G. de Vinsauf, Documentum de arte versificandi, 2.17, in E. Faral (éd.), Les
artes poétiques du XII et du XIII siècle, Paris 1962.
11
Il rapporto fra Virgilio e Prudenzio è stato indagato da molti. Cito a solo
scopo esemplificativo il lontano contributo di A. Mahoney, Vergil in the Works of
Prudentius, Washington 1934, e il più recente M. Lühken, Christianorum Maro et
Flaccus. Zur Vergil- und Horazrezeption des Prudentius, Göttingen 2002.
12
Cfr. K.R. Haworth, Deified Virtues, Demonic Vices and Descriptive Allegory
in Prudentius’ «Psychomachia», Amsterdam 1980.
13
Cfr. M. Smith, Prudentius’ «Psychomachia». A Reexamination, Princeton
1976.

110
Funzioni digressive nella didattica medievale

secondo un ordine predisposto. Con una simile struttura testuale, non


si può quindi legittimamente parlare di una digressione, proprio per
l’assenza di una via maestra dalla quale deviare: senza chiare coordi-
nate spazio-temporali non si può dare una fuga. Se la digressione si
qualifica spesso come una sosta nella narrazione e un recupero delle
modalità descrittive, nella Psychomachia il descrittivo si può sviluppa-
re intrinsecamente alla vicenda proprio per la dichiarata indole allego-
rica dell’opera. Ogni vizio e ogni virtù presentano ben visibili ed esi-
biti gli elementi essenziali a qualificarli, secondo un modello colorato
di dettagli e di accessori, al quale la letteratura didattica medievale at-
tingerà a piene mani. I personaggi di Prudenzio sono infatti muniti di
oggetti correlati a ciò che essi incarnano: Bellezza è incoronata, Iocus
et Petulantia hanno i cymbala … Il testo, come si è detto, è destinato
a influenzare potentemente il genere (e quello didattico sarà un gene-
re assai fortunato nel Medioevo italiano), ponendosi come archetipo
dello scontro «vizio vs. virtù». I poeti che si propongono di educare
i lettori e apparecchiare per loro insegnamenti morali conditi di non
sgradevole parvenza trovano nella Psychomachia l’utile paradigma di
una letteratura che, facendo tesoro del magistero epico, sappia però
amplificare le potenzialità rappresentative della parola, fino a renderla
competitiva rispetto all’immagine.
La Psychomachia appare dunque scarsamente coesa sul piano
narrativo, non troppo lontana da una collana di scene successive. La
stessa categoria di digressione non sembra perfettamente adeguata a
descrivere questo testo/archetipo dell’allegoria. La coesione dell’in-
treccio non è forte neppure in altre opere del genere, e non lo sarà
nemmeno nel tredicesimo secolo con L’Intelligenza. Tuttavia altri mo-
delli mostrano in atto la tendenza contraria: il tentativo, cioè, di ela-
borare una cornice per situarvi le allegorie o gli ammaestramenti che
il poeta didattico si propone. Un posto di rilievo in questa direzione
è sicuramente occupato dall’Anticlaudianus di Alano di Lilla, poema
in nove libri di esametri, scritto tra il 1181 e il 1183, quando Alano
era priore a Canterbury. L’urgenza didattica ai limiti dell’enciclopedi-
smo e l’anelito all’indottrinamento morale entro l’ortodossia teologica
pesano sugli sviluppi narrativi del poema: la sua trama si riduce alla
creazione di un uomo perfetto, Iuvenis, alla quale concorrono tutte le
virtù e lo spirito infuso da Dio, e alla canonica battaglia tra i vizi invi-
diosi e le virtù che difendono la loro creatura. La materia del racconto

111
Sandra Carapezza

abbraccia così l’intero complesso della natura umana e offre l’agio per
ampi inserti descrittivi. Nell’Anticlaudianus 14 la digressione non è mai
narrativa: nessun evento collaterale si innesta sulla trama, mentre pa-
recchie sono le digressioni di carattere descrittivo, in corrispondenza
dei luoghi di residenza delle virtù o di quelli da esse sorvolati nei loro
spostamenti. La descriptio loci appare nel suo aspetto esplicitamen-
te topico fin dalla formula introduttiva della prima virtù: est locus a
nostro secretus climate longo / tractu (1.55-56), ricalcata sul virgiliano:
Oceani finem iuxta solemque cadentem / ultimus Aethiopum locus est
(Aen. 4.480-481) 15. Si tratta qui della dimora di Natura, che da prin-
cipio è collocata in uno spazio meraviglioso, oggetto dell’inizio della
descrizione, poi viene presentata con un procedimento di progressi-
va delimitazione dell’elemento al centro del discorso: dall’ambiente
circostante fino alla silva e al monte che si erge al mezzo del bosco,
e che è la dimora stessa. A questo punto la descrizione assume i ca-
ratteri dell’ekphrasis per seguire i dipinti che adornano la reggia. Tale
parte si estende in complesso per più di centocinquanta versi (il libro
si compone di cinquecentodieci versi); la narrazione riprende con la
congiunzione temporale postquam (v. 207), che riassume l’ingresso e
l’accoglienza delle virtù presso Natura e consente di ricominciare il
racconto. La digressione di questo tipo, con funzione descrittiva, è un
procedimento frequente nell’Anticlaudianus: appena pochi versi dopo
la protratta descrizione della dimora di Natura si colloca ad esempio
il ritratto di Prudenza, articolato in poco meno di cinquanta versi. Il
primo libro rispecchia un equilibrio fra sezione narrativa pura e di-
gressione a tutto vantaggio della seconda; peso consistente, all’interno
dello stesso libro, è inoltre concesso alla parte diegetica, costituita dai
lunghi discorsi di Natura, di Prudenza e di Ragione.
Un tipo di digressione che sembra particolarmente appropriato
al genere didattico, dove l’intrusione autoriale è più legittima che
altrove, è invece costituito dalla digressione di carattere gnomico, o
dal commento di ordine morale. Nell’Anticlaudianus la presenza di
personaggi intrinsecamente dotati di autorità consente di trasferire

14
L’edizione di riferimento è quella di R. Bossuat (ed.), Anticlaudianus, Paris
1955; segnalo la traduzione a cura di C. Chiurlo, Anticlaudiano. Discorso sulla sfera
intelligibile, Milano 2004.
15
Cfr. anche Aen. 1.159 e 6.388-390.

112
Funzioni digressive nella didattica medievale

su di loro la funzione più scopertamente didattica della generalizza-


zione morale o sentenziosa. I lunghi monologhi delle virtù ospitano
perciò ampie digressioni di questo tipo; si tratta di espedienti retorici
immediatamente attinti dal repertorio delle tecniche per amplificare
il discorso e sostenere l’argomentazione, giustificati dalla finzione
di oralità in cui sono inscritti. Un esempio si ha nel secondo libro,
allorché Ragione, che a questo punto della vicenda è tuttora figura
autorevole, non ancora scalzata da Teologia, si scusa preventivamente
dell’eventualità che l’errore macchi il suo discorso. Per conferire più
credibilità alla sua autoassoluzione, generalizza il rischio: Nec stupor
invadat vestrae munimina mentis, / si sibi sermo meus maculas erroris
adoptat. / Error in humanis comes indefessus oberrat (2.30-32). Come
il dardo, il medico, il retore e il logico, così anche chi parla è legitti-
mato a mandare qualche colpo a vuoto: alla generalizzazione seguono
brevi similitudini con le quali Ragione perora la sua causa. Non c’è
una vera e propria deviazione dalla linea del discorso, né il richiamo
agli errori altrui è tanto esteso da poter esser qualificato sicuramente
come digressione. Tuttavia merita attenzione, in un’indagine quale è
quella che sto conducendo, il movimento che conduce dai termini di
paragone (prima l’uomo in generale, poi il dardo, il medico, il retore e
il logico), situati nello spazio esterno, allo spazio interno del racconto,
cioè a quel che potrebbe capitare al personaggio Ragione. Il racconto
include così, momentaneamente, dei personaggi esterni, seppure ti-
pizzati.
Questa dinamica è trasposta nel testo con l’abbandono della pri-
ma persona e il passaggio a espressioni generalizzanti (in humanis,
v. 32). Nel discorso orale la funzione inclusiva di tale procedimento è
trasparente; nel poema didattico l’intenzione di inscrivere un compor-
tamento nella norma più generale può assumere una valenza specifi-
camente marcata verso l’insegnamento: sollecitare il coinvolgimento
di chi legge, sia nel caso di comportamenti positivi da rinforzare, sia
nel caso di mancanze o errori da svelare, è principio essenziale per
la riuscita del genere. Ora, anche la digressione può assolvere que-
sto compito, qualificandosi come digressione di tipo morale: oltre
all’esempio offerto dal secondo libro, vari altri sono, nel poema, i casi
in cui il narratore o i personaggi inseriscono commenti, giudizi o os-
servazioni solo tangenzialmente pertinenti alla vicenda. Un esempio
paradigmatico si trova nel quarto libro. È il commento del narratore

113
Sandra Carapezza

contro la superbia, collocato all’interno della descrizione di quello


che Prudenza vede nel suo viaggio (4.307-331). Il primo verso, O
fastus vitanda lues, fugienda Caribdis (4.307), rivela esplicitamente la
funzione didattica tramite l’apostrofe enfatizzante, il vocativo iniziale
e, soprattutto, il doppio gerundivo. La digressione si configura allora
come topos passibile di declinazioni differenti, non solo dal punto di
vista contenutistico, ma anche da quello formale, con il ricorso, per
esempio, a figure retoriche come l’apostrofe.
La figura con cui la digressione si intreccia più frequentemente,
e con uno sviluppo quantitativo e qualitativo spesso notevole, è però
l’ekphrasis, non sconosciuta al poema di Alano. Nell’accezione più
corrente si intende l’ekphrasis come una descrizione di opere d’arte,
sebbene tale accezione non esaurisca i significati del termine, che, in
forza di una situazione teorica fluida almeno fino all’età tardo-antica,
si estendono nel dominio della descriptio 16. La descrizione si propone
come dialettica rispetto alla narrazione, e come tale può converge-
re nel modo digressivo, perché comporta una percepibile sosta nel
racconto delle vicende. Nell’Anticlaudianus la digressione descrittiva
comprende puntuali raffigurazioni di vesti o di dipinti, concretandosi
infine come ekphrasis secondo il significato più comune. La finalità
didattica impone che vizi e virtù siano presentati in maniera chiara e
tale da suscitare l’interesse del lettore: per questo a ciascuna virtù sono
dedicati una descrizione accurata dell’aspetto, sintesi allegorica della
virtù stessa e quindi comprensiva di oggetti-simbolo o abiti istoriati, e
un elenco dei suoi più illustri esponenti, secondo la retorica dell’exem-
plum, che propone di sostenere l’enunciazione teorica del buon com-
portamento con il racconto di casi virtuosi. Concordia (2.165-209)
porta ricamate sul suo mantello coppie celebri e poi, contrapposte a
esse, coppie di antagonisti noti; allo stesso modo, Grammatica (2.488-
513), Logica (3.1-136), Retorica (3.137-271), Aritmetica (3.272-385)
forniscono l’occasione per l’inserimento di un vero e proprio canone

16
I. Gualandri, Aspetti dell’ekphrasis in età tardo-antica, in AA.VV., Testo e
immagine nell’Alto Medioevo, Spoleto 1994, pp. 301-341. Ampia, naturalmente, la
bibliografia sul tema: cfr. almeno D. Fowler, Narrate and Describe: The Problem
of Ekphrasis, «JRS» 81, 1991, pp. 25-35; M.C.J. Putnam, Virgil’s Epic Designs.
Ekphrasis in the «Aeneid», New Haven - London 1998; G. Ravenna, Per l’identità
di «ekphrasis», «Incontri Triestini di Filologia Classica» 4, 2005, pp. 21-30.

114
Funzioni digressive nella didattica medievale

degli uomini famosi in ciascuna materia 17. La funzione descrittiva si


connette poi anche al movimento nel caso del viaggio che Prudenza
fa dalla dimora di Natura fino a Dio, cornice adeguata per accorpare
molteplici descrizioni: si può citare a titolo esemplificativo il palazzo
di Marte nel quarto libro (4.414-437). Il viaggio è però un elemento
importante della narrazione centrale del poema, e le descrizioni ad
esso collegate non si possono pertanto annoverare, se non problema-
ticamente, nell’ambito della digressione: si tratta piuttosto di svilup-
pi non essenziali alla progressione della vicenda, seppure interni alle
coor­dinate spazio-temporali di questa.
Il caso più tipico di digressione prevede invece l’intervento me-
tanarrativo del narratore, che, in quanto figura esterna alla vicenda,
porta di necessità una deviazione dalla fabula. Il narratore dell’Anti-
claudianus si riserva uno spazio in sede proemiale, anche struttural-
mente separato dal poema, distinto dalla forma in prosa; ma la voce
narrante ritorna poco oltre la metà dell’opera, nel quinto libro, con
una preghiera (5.265-305), coniugazione nei modi cristiani della to-
pica invocazione alle muse, che anche in Virgilio era replicata all’in-
terno del poema  18. L’uso della prima e della seconda persona, con
l’insistita ripresa pronominale, sono segnali inequivocabili dell’in-
tenzionale distinzione di questa sezione dal resto del poema: mentre
Prudenza sta raggiungendo Dio a cui dovrà esporre l’intenzione di
creare il Giovane perfetto, il poeta si arresta per fare professione di
modestia. Si completa così la tipologia delle digressioni nell’Anticlau-
dianus: descrittive, sentenzioso-morali, infine metapoetiche. Dal sesto
al nono libro la componente narrativa ha il sopravvento e, dopo qual-
che momento in cui il ritmo della narrazione rallenta per consentire
spiegazioni, commenti e brevi digressioni (nel sesto libro), gli ultimi
tre libri sono occupati interamente dall’azione e costituiscono una psi-
comachia all’interno del più articolato schema narrativo del poema.
L’ultimo testo che mi sono proposta di esaminare, L’Intelligen-
za 19, fornisce un modello di poema didattico in volgare alle soglie del

17
Ad esempio, Retorica è rappresentata da Cicerone per primo, e poi da
Ennodio, Quintiliano e Simmaco.
18
Aen. 7.37-45 e 10.163-165.
19
L’Intelligenza, a cura di M. Berisso, Parma 2000; ma per la questione dell’edi-
zione del poemetto si veda D. Cappi, Per una nuova edizione de «L’Intelligenza»,

115
Sandra Carapezza

quattordicesimo secolo. Si rivela dunque paradigmatico per un’indagi-


ne intorno alla digressione, perché, come risultava già dalle riflessioni
di Giuseppe Petronio nella sua introduzione ai poemetti del Duecen-
to 20, alla fine del tredicesimo secolo il genere didattico è ormai appro-
dato a uno schema ben definito: il carattere distintivo del poemetto
didattico-allegorico nell’età dell’Intelligenza è rappresentato dalla
tendenza a convogliare entro una cornice narrativa, seppure in alcuni
casi evidentemente pretestuosa, un’enciclopedia di nozioni e di am-
maestramenti il più vasta possibile. La funzionalità della digressione
in tale contesto è immediatamente evidente: quanto più si assottiglia
il filo narrativo portante, tanto più si ispessiscono e si moltiplicano
i fili delle diramazioni che variamente se ne spiccano. La possibilità
di accumulare nel testo il maggior numero di conoscenze possibili è
sorretta proprio dall’esistenza del topos digressivo.
L’Intelligenza, probabilmente non attribuibile a Dino Compagni
al quale pure è stata a lungo riferita, è un poemetto di trecentonove
stanze di nove versi, con una trama molto esile e a ben guardare nep-
pure adeguata allo statuto didattico-allegorico del poema: l’Io narran-
te racconta infatti il proprio innamoramento, mettendo in scena una
situazione topica della lirica, che solo la spiegazione finale impone di
rileggere in senso allegorico. L’inizio del poema consiste nella descri-
zione del tempo e dello spazio in cui avverrà l’incontro del protagoni-
sta con la sua donna; secondo uno dei modi topici incipitari, le prime
tre strofe sono interamente descrittive e il quadro raffigurato corri-
sponde al canonico locus amoenus, così come la stagione non può che
essere quella primaverile. In tale scenario si situa l’apparizione della
donna, quasi incarnazione di Amore, che offre lo spunto per la ripresa
del modo descrittivo, declinato nel tipo della bellezza muliebre, con
prestiti dalla tradizione lirica e calchi dalle prescrizioni manualistiche:
persiste il paragone con la stella diana, la gamma cromatica del viso è
fedelmente ancorata al vermiglio e al bianco, la prima strofa descritti-

«Filologia italiana» 2, 2005, pp. 40-103; Id., Contributo all’esegesi de «L’intel-


ligenza». Nuove postille sul testo, «Studi e problemi di critica testuale» 71, 2005,
pp. 91-144.
20
G. Petronio, Introduzione a Poemetti del Duecento, Torino 1951, p. 35. Il
volume comprende anche il testo dell’Intelligenza.

116
Funzioni digressive nella didattica medievale

va è chiusa dal binomio usuale «soave e piana» 21. Fino a questo punto


il bilancio fra narrativo e descrittivo è decisamente a favore del secon-
do, ma le descrizioni sono ancora contenute entro spazi tali da non
costituire vere e proprie deviazioni dal racconto.
La prima inequivocabile digressione inizia alla sedicesima strofa:
si tratta di un vero e proprio lapidario (strofe 16-58), che ha il suo
modello, in ambito didattico, nella Psychomachia prudenziana, dove il
tempio di Sapienza è adornato con pietre d’indubbio valore allegorico
(vv. 851-877). La valenza allegorica delle gemme preziose è sancita
dall’apparizione di esse nella Bibbia: Dio stesso prescrive l’ornamento
che deve fregiare Aronne (Esodo 28). Nella Bibbia, come nei poemi
didattici, il portato allegorico della pietra è inscindibile dal suo aspet-
to prezioso e ricco: per questo le gemme devono essere descritte con
cura minuziosa. Nel caso del nostro testo, le pietre sono presentate
l’una dopo l’altra e a ciascuna è riservata una parte sufficiente a forni-
re una descrizione sommaria dell’aspetto e, soprattutto, a enunciarne
le proprietà. L’indicazione della pietra è effettuata per mezzo della sua
posizione, che ha funzione deittica; quindi ne sono rivelati il nome, i
colori e le proprietà tipiche. A ogni pietra è riservata una strofa; tal-
volta l’ordine di esposizione dei dati essenziali può essere invertito, in
omaggio alla variatio, ma la presenza di numero, nome, colore e virtù
è un elemento certo, come certa è la mancanza di invenzioni originali
dell’autore. Il lapidario occupa più di cinquanta strofe (cinquattotto
sono le pietre presentate): la natura digressiva dell’inserto è compro-
vata dall’estensione e dall’indole pleonastica dello stesso, mentre va
segnalata la peculiarità dell’intreccio fra divagazione e deissi. Se infatti
per quanto concerne la progressione narrativa della vicenda queste
strofe si possono ritenere come divagazioni, sotto l’aspetto delle coor-
dinate spazio-temporali l’immanenza dei minerali allo scenario d’in-
venzione è tradita dall’accentuata deissi, che preclude la possibilità
di dimenticare il presente del racconto proprio con il farvi continuo
riferimento.
Se il lapidario si collega alla narrazione per il tramite della co-
rona di sessanta gemme preziose in capo alla donna apparsa al poe-
ta, la descrizione che segue si configura sotto ogni aspetto come una

21
L’Intelligenza 7.9. La dittologia riceve la sua più celebre sanzione dall’uso
dantesco di If. 2.56.

117
Sandra Carapezza

deviazione. «Savete voi ov’ella fa dimora / la donna mia? In part’è


d’orïente» (59.1-2): questa formula è sufficiente per inserire la rap-
presentazione del palazzo, che costituisce il vero nucleo centrale del
poe­ma, pro­traen­dosi per più di duecento strofe. La massima parte
del­l’Intelligenza appare così come una digressione, che a sua volta si
mostra articolata al proprio interno e accoglie in sé compendi di ma-
teria storica, travestiti da ekphraseis, e descrizioni con intenti didasca-
lici. L’obiettivo è infatti quello di accumulare il sapere, presentandolo
sotto le spoglie di un ornato narrativo che ne agevoli l’assimilazione.
L’ekphrasis assolve ottimamente tale funzione, e in effetti si sviluppa
abbondantemente nel testo: le dodici stanze del palazzo sono tutte
dipinte e il poema racconta i cicli pittorici e musaici dei soffitti e delle
pareti. Vi si trovano gli amanti celebri, affrescati sulla volta intorno
ad Amore, in scene che scorrono l’una dopo l’altra davanti agli occhi
di chi cammina; i personaggi sono colti in azione, intenti a compie-
re il gesto capitale della vicenda che diede loro fama, accompagnati
dall’amante tradizionalmente associato a ciascuno di loro. La rappre-
sentazione di soggetti fissati nella pietra nell’atto di compiere un’azio-
ne è una caratteristica tipica dell’ekphrasis. La cristallizzazione in pose
immodificabili, richiesta e consentita dalle ragioni narrative, offre in-
fatti l’agio per lo sviluppo delle descrizioni. La digressione descrittiva,
nella modalità specifica dell’ekphrasis, è però qui accompagnata da
una digressione di tipo metapoetico, imposta dal topos ecfrastico: nel
momento in cui si raccontano le immagini dipinte, intagliate o scol-
pite che siano, l’arte della poesia si fa traduttrice dell’arte figurativa e
deve dichiarare topicamente la propria inadeguatezza: «E non fallio
chi∙ffu lo ’ntagliadore» (75.1).
In un’altra zona del palazzo si trovano mosaici d’oro fino che
riproducono soggetti di ordine storico: le imprese di Cesare e la
guerra civile, secondo la narrazione contenuta nei Fatti di Cesare  22
e in Lucano. Attraverso la descrizione dei quadri sequenziali viene
così raccontata la guerra: la digressione assume dunque una funzione
eminentemente narrativa, al punto che la descrizione dei personag-
gi può anche essere soppressa dove non risulti necessaria alle finalità
cronachistiche e, a questo punto, ai ritratti subentra la mera indica-

22
Per le fonti si veda Berisso, Introduzione a L’Intelligenza cit., pp. IX-
XXXVII.

118
Funzioni digressive nella didattica medievale

zione del nome («E sonvi i nomi de li Sanatori», 80.1). La narrazione


prosegue fino alla morte di Cesare, evento che segna la conclusione
degli intagli e l’aprirsi, quindi, di una nuova vicenda. Si tratta ancora
di un’ekphrasis, che ha per oggetto la storia di Alessandro, costruita
al medesimo modo della precedente, cioè mediante l’espediente dei
mosaici successivi, che consente il racconto cronologico fedele alle
fonti (i Nobili fatti). La terza storia riguarda Troia e la Grecia, a par-
tire dalla vicenda di Giasone; la quarta Roma, per il tramite di Enea;
infine è narrato il ciclo arturiano, raffigurato genericamente per mez-
zo di donne e cavalieri intenti a battaglie, giostre, tornei … È questa
l’ultima pittura, che chiude la lunghissima digressione; la connessione
con la vicenda principale, o piuttosto con la narrazione-cornice, è af-
fidata a un verso speculare a quello che aveva introdotto il palazzo
della donna: «In quel palazzo sì maraviglioso / vidi Madonna e ’l su’
ricco valore» (289.1-2). Solo a questo punto compare Madonna e con
lei sette regine, e il poeta le dichiara il suo amore. Le ultime nove
strofe del poemetto sono la spiegazione della lettura allegorica a cui
la vicenda deve essere sottoposta: la donna è Intelligenza e il palazzo
è il corpo umano. Nell’epilogo prende parola il poeta che si configura
come un Io diverso dall’Io iniziale, perché detentore di una conoscen-
za che prima non possedeva: e il suo discorso si pone al di fuori delle
coordinate spaziali in cui era originariamente inscritta la vicenda.
Nell’economia narrativa dell’Intelligenza la digressione ha dun-
que un peso che supera quello del racconto primario, e proprio que-
sta ipertrofia ne ostacola l’identificazione in quanto topos. I tre casi
analizzati finora, fatte salve le specificità di ciascuno, consentono però
forse di individuare un percorso che conduce il topos digressivo lungo
il genere didattico fino a Dante e al Trecento. Rispetto all’archetipo
prudenziano, il velo dell’allegoria si è complicato al punto di richie-
dere la chiosa del narratore, mentre è rimasta intatta la propensione
all’evidentia. La digressione, che nel caso di Prudenzio non trovava
ampio spazio per la difficoltà di scorgere la via maestra da cui deviare,
nell’Intelligenza si impone al punto di far dimenticare la via maestra.
Gli autori di poesia didattica del tredicesimo secolo hanno ben intuito
le possibilità che venivano loro offerte da quel topos digressivo già
così efficacemente adottato nell’epica classica. Accanto alle perples-
sità manifestate intorno alla digressione dalla manualistica retorica, il
Trecento italiano eredita perciò una tradizione di testi didattici che

119
Sandra Carapezza

dal quinto secolo in poi è proseguita senza soluzione di continuità.


La Psychomachia, l’Anticlaudianus e l’Intelligenza sono tre tappe pa-
radigmatiche dell’iter compiuto dal poema didattico attraverso il Me-
dioevo; seguire un topos in questo cammino significa dunque seguire
anche uno dei molteplici fili della tradizione per mezzo dei quali la
letteratura italiana si riallaccia a quella antica. L’affermazione della re-
ligione cristiana e la conseguente esigenza di educazione morale e teo-
logica hanno spinto entro il poema didattico aspetti propri dell’epica;
i riferimenti all’Eneide all’interno delle digressioni ne fanno prova. Il
topos digressivo, trovatosi così incastonato in un genere finalizzato
all’insegnamento, ha dovuto ricercare faticosamente un equilibrio con
la narrazione principale. Nel corpus didattico casi come quello dell’In-
telligenza appaiono ai letterati del Trecento maturo come infrazioni ai
princìpi di equilibrio ribaditi nelle artes, pericolose fughe dall’ordine
della vicenda. Gli usi danteschi del topos e del termine, che paiono
intenzionalmente segnalati dall’autore, e la frequenza con la quale nel
Convivio si parla della digressione potrebbero allora qualificarsi come
spie dell’intenzione di Dante di regolamentare un topos di cui era nota
tanto l’importanza narrativa e stilistica quanto la complessità sia nella
definizione teorica sia nelle prescrizioni per l’uso.

120
Cristina Zampese
«Nebbia»
nei «Rerum Vulgarium
Fragmenta»
Appunti per un’indagine semantica

Passemo via
comò caligo,
linti, ma sensa un sigo
che diradi foschia. 1

Il termine «nebbia» compare in tredici componimenti del Canzoniere


di Petrarca 2. Nella sestina 66 esso è parola-rima, il che porta il nume-
ro delle occorrenze a diciannove; se aggiungiamo due apparizioni nei
Trionfi (Tr. Cupidinis 3.43 e Tr. Temporis 110) e una nella canzone
Quel ch’à nostra natura in sé più degno 117, estravagante ma sicura-
mente autentica, la presenza complessiva giustifica qualche conside-
razione.
Alcuni studiosi hanno segnalato en passant la rilevanza del termi-
ne: «L’immagine della nebbia sembra peculiare di Petrarca» 3; «parola
[…] intensamente petrarchesca» 4. I dizionari storici non hanno però
messo a frutto, nell’elaborazione del lemma, la ricchezza semantica
dell’uso petrarchesco. Il Grande dizionario della lingua italiana di Sal-
vatore Battaglia si limita a due occorrenze, salvo recuperare il sintag-
ma «importuna nebbia» attraverso il petrarchismo di un Baldi e di un

1
B. Marin, Xe destin de brusâ 11-14, in Id., I canti de l’isola (1970-81), Trieste
1981, p. 1204.
2
E cioè i nrr. 38, 66, 123, 129, 133, 144, 189, 204, 231, 270, 316, 323, 331.
3
M. Santagata, Per moderne carte, Bologna 1990, p. 110 nt. 23.
4
R. Bettarini (a cura di), F. Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium frag-
menta, Torino 2005, p. 1226.

121
Cristina Zampese

Capilupi 5. Il Vocabolario della Crusca nelle sue varie edizioni mantiene


due citazioni relative al senso proprio e una al traslato, mentre i conte-
sti dei luoghi che a noi interessano sono ampiamente fruiti a corredo
di altri lemmi (per esempio, lo stesso «importuno», e poi «gravato»,
«scarco», «pioggia», «impallidire» ecc. in tutte le edizioni; «conden-
so», «doloroso» dalla terza; «rallentare», «rabbioso» dalla quarta) 6.
Sub voce «Nebbia», appunto, la presente indagine prende avvio
dalle indicazioni di lettura fornite fin qui dall’esegesi 7, e intende sug-
gerire qualche ulteriore percorso, sempre passibile di approfondimen-
to e affinamento.

I.
Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni,
né mare, ov’ogni rivo si disgombra,
né di muro o di poggio o di ramo ombra
né nebbia che ’l ciel copra e ’l mondo bagni,
né altro impedimento, ond’io mi lagni,
qualunque più l’umana vista ingombra,
quanto d’un vel che due begli occhi adombra,
et par che dica: «Or ti consuma et piagni».
Et quel lor inchinar ch’ogni mia gioia
spegne o per humiltate o per argoglio,
cagion sarà che ’nanzi tempo i’ moia.
Et d’una bianca mano ancho mi doglio,
ch’è stata sempre accorta a farmi noia,
et contra gli occhi miei s’è fatta scoglio.
(Rvf 38)

5
Cfr. infra.
6
La ricognizione è resa agevole dalla potente risorsa elettronica della Lessico-
grafia della Crusca in rete (http://morpheus.micc.unifi.it:8080/cruscle/).
7
Costanti punti di riferimento, anche quando non esplicitamente citati, sono
i due commenti a cura di Marco Santagata, F. Petrarca, Canzoniere, Milano 2004
(d’ora in poi Santagata) e Rosanna Bettarini (cfr. supra, nt. 4: d’ora in poi Betta-
rini). I testi dei Rerum vulgarium fragmenta (d’ora in poi Rvf ) si citano da quest’ul-
tima edizione; quelli dei Trionfi e delle rime estravaganti da V. Pacca - L. Paolino
(a cura di), F.  Petrarca, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, Milano
1996 (d’ora in poi Pacca - Paolino); le Familiares da F. Petrarca, Le familiari,
trad. di E. Bianchi, in M. Martelli (a cura di), F. Petrarca, Opere, Firenze, 1975;
il Secretum da E. Fenzi (a cura di), F. Petrarca, Secretum. Il mio segreto, Milano
1992.

122
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

Secondo la suggestiva formula di Rosanna Bettarini, «il testo [del so-


netto 38] è architettato come un plazer negativo, cioè come una ras-
segna di luoghi mentali disturbanti» 8. I segnali che rimandano al sot-
togenere dell’enueg (termini «noia» e «impedimento», coordinazione
di «né … né …») non impediscono tuttavia che si imponga anche,
e nettamente, una suggestione «petrosa»: anzi, già la concentrazione
di realia nell’enumerazione della prima quartina evoca il sistema no-
menclatorio tipico delle sestine. Questi primi versi sono caratterizzati
da un riuso compatto di materiali prelevati dalla dantesca Al poco
giorno:
e dal suo lume non mi può far ombra
poggio né muro mai né fronda verde
(vv. 23-24) 9

con un’intensificazione «petrosa» per l’ulteriore prelievo di «nebbia»


da Io son venuto al punto della rota 18 10. Andrà subito notato che il
termine è hapax nelle rime di Dante; ben altro, come capiterà di osser-
vare, il suo peso nella Commedia.
Nel contesto della comparazione, l’accezione di questa occorren-
za è quella propria, meteorologica, in realtà leggermente spostata –
rispetto all’uso moderno – verso il valore etimologico di nubis/nebula
(che produce pioggia). Il contenuto tematico del sonetto induce però
un implicito slittamento semantico di questo «impedimento» verso
il motivo simbolico del velamen, che cela alla vista lo splendore de-
gli occhi, e che si concretizza realisticamente nel «vel» del v. 7  11. Il
collegamento con i vv. 41-43 della canzone 37, «Quante montagne
et acque,  / quanto mar, quanti fiumi / m’ascondon que’ duo lumi»
(segnalato con riserva da Marco Santagata sulla scorta di Cochin e

8
Bettarini, p. 210.
9
Cito da D. De Robertis (a cura di), Dante Alighieri, Rime, Firenze 2005.
10
I rimandi a P. Trovato, Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi
nei «Rerum vulgarium fragmenta», Firenze 1979, e D. De Robertis, Petrarca petroso,
«Revue des Études italiennes» n.s. 29, 1983, pp. 13-37 (in part. p. 18), sono impli-
citi.
11
Sulla «lettura multipla» del motivo cfr. R. Bettarini, «Fluctuationes» agosti-
niane nel «Canzoniere» di Petrarca, «Studi di filologia italiana» 60, 2002, pp. 129-
139 (in part. pp. 134-136).

123
Cristina Zampese

Foresti) 12, se non cogente sul piano della datazione, lo è su quello ma-


crotestuale, con un passaggio dall’allontanamento subìto per interpo-
sizione di ostacoli naturali, oggettivamente indifferenti, all’esclusione
provocata dalla volontà di Laura, con gesti che – reiterati nell’illusoria
trama narrativa  – offrono alcune delle distillate manifestazioni atti-
ve del personaggio. Proprio la sua qualità anche «visivamente» po-
lisemica consente alla parola «nebbia» di svolgere come altrove una
funzione di cerniera fra universale e privato. Resta affidato ad altro
significante, «tenebre mie» della canzone (v. 45), il valore etico, corri-
spondente alla caligo biblico-patristica ma in larga misura già classica,
che – come vedremo – è veicolato più volte dal termine «nebbia»  13.

II.

Di nuovo con il Dante petroso (Io son venuto; Amor, tu vedi ben) Pe-
trarca condivide situazioni e materiali lessicali per la sestina 66. La
sperimentazione altamente formalizzata del metro impone la pro-
grammatica fissità degli enti-refrain. Riferendosi all’insieme delle pro-
ve petrarchesche, tuttavia, Domenico De Robertis pone l’accento sulla
«dissomiglianza» come effetto dinamico di una «continua trasforma-
zione» semantica all’interno dell’identità  14. Ecco che infatti in 66 la
chiusa costellazione rimica è percorsa da un interno movimento:
L’aere gravato, et l’importuna nebbia
compressa intorno da rabbiosi vènti
tosto conven che si converta in pioggia;
et già son quasi di cristallo i fiumi,
e ’n vece de l’erbetta per le valli
non se ved’altro che pruine et ghiaccio.
Et io nel cor via più freddo che ghiaccio
ò di gravi pensier’ tal una nebbia,
qual si leva talor di queste valli,
serrate incontra agli amorosi vènti,
et circundate di stagnanti fiumi,
quando cade dal ciel più lenta pioggia.

12
Santagata, p. 212.
13
Cfr. infra.
14
De Robertis, Petrarca petroso cit., p. 34.

124
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

In picciol tempo passa ogni gran pioggia,


e ’l caldo fa sparir le nevi e ’l ghiaccio,
di che vanno superbi in vista i fiumi;
né mai nascose il ciel sì folta nebbia.
che sopragiunta dal furor d’i vènti
non fugisse dai poggi et da le valli.
Ma, lasso, a me non val fiorir de valli,
anzi piango al sereno et a la pioggia
et a’ gelati et a’ soavi vènti:
ch’allor fia un dì madonna senza ’l ghiaccio
dentro, et di for senza l’usata nebbia,
ch’i’ vedrò secco il mare, e’ laghi, e i fiumi.
Mentre ch’al mar descenderanno i fiumi
et le fiere ameranno ombrose valli,
fia dinanzi a’ begli occhi quella nebbia
che fa nascer d’i miei continua pioggia,
et nel bel petto l’indurato ghiaccio
che trâ del mio sì dolorosi vènti.
Ben debbo io perdonare a tutti vènti,
per amor d’un che ’n mezzo di duo fiumi
mi chiuse tra ’l bel verde e ’l dolce ghiaccio,
tal ch’i’ depinsi poi per mille valli
l’ombra ov’io fui, ché né calor né pioggia
né suon curava di spezzata nebbia.
Ma non fuggìo già mai nebbia per vènti,
come quel dì, né mai fiumi per pioggia,
né ghiaccio quando ’l sole apre le valli.

Una climax conduce a una sorta di concretizzazione della sostanza


psicologica, dalla caligo saturnina tutta interna all’Io lirico, tetrago-
na ai mutamenti delle circostanze ambientali («ò di gravi pensier’ tal
una nebbia», v. 8), alla manifestazione impenetrabilmente ostile di
Laura («ghiaccio / dentro, et di for […] l’usata nebbia», vv. 22-23:
una «nebbia di sdegni», come vedremo) 15, all’interposizione dell’im-
pedimento materiale, il velo («dinanzi a’ begli occhi quella nebbia»,

15
Bettarini sembra intendere diversamente: «la consueta nebula e cali-
gine dell’essere, che non si dissolve; è interpretata comunemente come ‘nebbia
di sdegni’» (Bettarini, p. 331). Mi pare tuttavia che l’antitesi «dentro»/«di for»
del v. 23 giustifichi la lettura tradizionale; cfr. anche – a giochi ormai ribaltati – la
rivelazione della strategia salvifica di Laura nel Tr. Mortis 2.97: «quel di fuor [scil.
sdegni e ire] miri, e quel dentro non veggia».

125
Cristina Zampese

v. 27). Il processo di reificazione prepara il ritorno della parola-rima


nel novero degli enti immutabili dal quale era uscita, con un movi-
mento circolare che manca per le altre tre entità bipolari («ghiaccio»,
«pioggia», «venti»).
«Ghiaccio» è termine di paragone nella seconda stanza («Et io nel
cor via più freddo che ghiaccio», v. 7); la condensazione metaforica
raggiunta poi nella quarta («’l ghiaccio / dentro», vv. 22-23) è sempli-
cemente replicata nella quinta («et nel bel petto l’indurato ghiaccio»,
v. 29).
«Pioggia» ha un’unica manifestazione traslata, la «continua piog-
gia» delle lacrime (quinta stanza, v. 28), indirettamente preannunciata
dal v. 20 (quarta stanza): «anzi piango al sereno et a la pioggia». I
«vènti amorosi» serrati fuori dalle valli (v. 10, seconda stanza), anche
se suggestivamente precursori dell’aura-situation, saranno realistica-
mente – come mi sembra non sia stato osservato – le tiepide brezze
di Zefiro maritus, la r e s e r a t a […] genitabilis a u r a Favoni della
primavera lucreziana (1.11)  16. Solo nella quinta stanza essi si disco-
stano in modo netto dal senso proprio, come metonimici «dolorosi
vènti» di sospiri del v. 30 17; la sesta stanza ripropone, sdoppiandola,
la bivalenza avvertita al v. 10 («Ben debbo io perdonare a tutti vènti /
per amor d’un», vv. 31-32), ma il motivo ancora in nuce dell’«aura» è
risucchiato all’interno del verso, sottratto all’evidenza rimica ma illu-
minato dal netto rilievo della cesura.
Nella seconda parte del componimento assistiamo a un rovescia-
mento da enueg a plazer fra la quinta stanza – nella quale con procedi-
mento retorico non consueto si razionalizza la vertigine degli adynata
precedenti (v. 24) – e l’inaspettata celebrazione contenuta nella sesta.
L’esplosione euforica è evocata indirettamente dal «suon […] di spez-
zata nebbia» dell’ultimo verso (v. 36). In questo caso, evidentemente,
«nebbia» non è la caligo (reale o metaforica), ma come nel sonetto 38
la nebula, «nube che squarciata tuona» di Pd. 23.99 (Carducci). La
stanza annulla dunque, sia pure in relazione a un punctum temporale

16
Cfr. anche, e non a caso come vedremo, Claud. rapt. 2.89 glaebas fecundo
rore maritat.
17
Correzione sulla formulazione meno organica della similitudine «sospir’
che paion venti», attestata dalla tradizione indiretta (postille al Casanatense e
al­l’Ha­rleia­no; segnalazione di Bembo: Bettarini, p. 331).

126
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

(cfr. poi il v. 38: «quel dì») il lamento topico espresso nelle stanze
quarta e quinta; il congedo riconsegna tutte le parole-rima alla loro
naturalistica valenza primaria. La ferrea coesione tematica del testo
poetico risulta poi confermata se accostiamo a questi versi la lettura
di un passo delle Tusculanae, opera carissima al Petrarca, nel quale
«l’aere gravato, et l’importuna nebbia / compressa intorno da rabbiosi
venti» fino a convertirsi «in pioggia» corrispondono a un paesaggio
etico-simbolico:
si [scil. animus] permanet incorruptus suique similis, necesse est ita fe-
ratur, ut penetret et dividat omne caelum hoc, in quo nubes, imbres,
ventique coguntur, quod et umidum et caliginosum est propter exhala-
tiones terrae. (1.43)

L’escursione semantica di «nebbia» saggiata in questa zona relativa-


mente alta del Canzoniere (mi riferisco qui alla posizione nell’ingra-
naggio macrotestuale, non alla cronologia di composizione) copre
già buona parte delle funzioni che vedremo in altri testi. Così Luigi
Blasucci, con visione allargata all’intero tessuto lessicale del compo-
nimento:
Tutte o quasi le metafore meteorologiche presenti nella sestina trova-
no […] una loro corrispondenza, e talvolta una vera e propria chiosa,
in altri testi del Canzoniere. Naturalmente non è da scartare in ipotesi
una considerazione diacronica di quelle metafore nel libro: la maggior
parte di esse è infatti posteriore alla sestina 66, e in questi casi è da
ipotizzare una utilizzazione della sestina come serbatoio metaforico.
Ma metafore o accenni di metafore del genere non mancano in com-
ponimenti precedenti. Così, anche in assenza di notizie certe sulla cro-
nologia di tanta parte del Canzoniere, pensiamo che non sia indebito,
almeno in questo caso, considerare il complesso del libro come un
sistema semantico. In questo sistema ciascuna di quelle metafore che
operano contestualmente nella sestina ha una sua più o meno varia
ricorrenza. 18

Riconsideriamo dunque in prospettiva sincronica all’interno dei Re-


rum vulgarium fragmenta le schede che abbiamo aperto per l’analisi
della struttura tematica di 66.

18
L. Blasucci, La sestina LXVI, in Lectura Petrarce, II, Padova 1982, pp. 41-60
(cito da p. 58).

127
Cristina Zampese

III.

• L’aere gravato, et l’importuna nebbia (v. 1)


• né mai nascose il ciel sì folta nebbia (v. 16)
• Ma non fuggìo già mai nebbia per venti (v. 37)

Il sintagma «importuna nebbia» si installa, come accennavo, nella


tradizione petrarchista (ad esempio Cesare Gonzaga, Bernardo Tas-
so, Gaspara Stampa), dando luogo anche a processi di variazione e
ricomposizione, come questo di Marino: «e fosca nebbia involve /
d’importuna caligine la vista» 19.
Nel sonetto 144
Né così bello il sol già mai levarsi
quando ’l ciel fosse più de nebbia scarco,
né dopo pioggia vidi ’l celeste arco
per l’aere in color’ tanti varïarsi,
in quanti fiammeggiando trasformarsi,
nel dì ch’io presi l’amoroso incarco,
quel viso al quale, et son del mio dir parco,
nulla cosa mortal pote aguagliarsi.
I’ vidi Amor che’ begli occhi volgea
soave sì, ch’ogni altra vista oscura
da indi in qua m’incominciò apparere.
Sennuccio, i’ ’l vidi, et l’arco che tendea,
tal che mia vita poi non fu secura,
et è sì vaga anchor del rivedere

l’immagine della «nebbia» si offre nel contesto di una doppia simili-


tudine di immediata evidenza, veicolata e giustificata dalla struttura
sintattica tipica del plazer («Né …») che abbiamo osservato anche in
38 20. Aggiungerò che la medesima movenza sintattica innerva la fonte
sottesa a questi versi, la descrizione degli effetti di Zefiro nel De raptu
claudianeo:
non tales volucer pandit Iunonius alas,
nec sic innumeros arcu mutante colores
incipiens redimitur hiemps, cum tramite flexo
semita discretis interviret umida nimbis.
(2.97-100)

19
M. Pieri - A. Ruffino (a cura di), G.B. Marino, La Galeria, Torino 2005.
20
Bettarini, p. 211.

128
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

Ma non sarà inutile un supplemento di indagine. La riconosciuta pa-


rentela di 144 con la dispersa Estravagante 11, testo «che una tradizio-
ne manoscritta pressoché concorde vuole indirizzato a Sennuccio del
Bene» 21,

Sì mi fan risentire a l’aura sparsi


i mille e dolci nodi in fin a l’arco,
che dormendo e vegghiando ora non varco
che la mia fantasia possa acquetarsi.
Or veggio lei di novi atti adornarsi
cinger l’arco e ’l turcasso e farsi al varco
e sagittarmi; or vo d’amor sì carco
che ’l dolce peso non porria stimarsi.
Poi mi ricordo di Venus iddea,
qual Virgilio descrisse ’n sua figura,
e parmi Laura in quell’atto vedere
or pietosa ver’ me or farsi rea:
io vergognoso e ’n atto di paura
quasi smarrir per forza di piacere,

evidente sul piano formale tanto da far ipotizzare nel sonetto estrava-
gante una prima redazione dell’altro  22, viene ulteriormente certificata
da Rosanna Bettarini sulla base del comune ricorso alla raffigurazione
di Venere nel primo libro dell’Eneide:

21
Paolino in Pacca - Paolino, p. 694.
22
Non mi sembra che Rosanna Bettarini, come invece annotano Santagata,
p. 695, e Paolino in Pacca - Paolino, p. 696, aderisca tout court alla pur cauta ipo-
tesi di Solerti: «Questo sonetto potrebbe apparire una prima redazione dell’altro»
(Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, per la prima volta raccolte
a cura di A. Solerti, introduzione di V. Branca; postfazione di P. Vecchi Galli,
Firenze 1997, p. 112). Scrive infatti la studiosa: «il Solerti, con ragionamento non
scritto ma certo non diverso dal mio, pensava che l’uno potesse essere una prima
redazione dell’altro. Non occorre giungere a una formulazione rigida, ma è indub-
bio che l’incipit […] di CXLIV sta con l’incipit ‘Sì mi fan risentire a l’aura sparsi’
in rapporto ritmico-timbrico marcato, per quel tipo di memoria interna che Contini
descrive per Dante con se stesso e poi per Petrarca con Dante. Insomma pare che il
sonetto delle Disperse sia esploso a doppio, e che la sua tensione strutturale sostan-
zialmente asemantica si sia scaricata nel sonetto CXLIV e la sua venatura tematica
(che è quella della visualità istantanea della memoria) nel sonetto CXLIII» (R. Bet-
tarini, Lacrime e inchiostro nel «Canzoniere» di Petrarca, Bologna 1998, pp.  164-
165).

129
Cristina Zampese

Cui mater media sese tulit obvia silva


virginis os habitumque gerens et virginis arma
[…]
Namque umeris de more habilem suspenderat arcum
venatrix dederatque comam diffundere ventis,
nuda genu nodoque sinus collecta fluentis.
(vv. 314-320)

Sic Venus, et Veneris contra sic filius orsus:


[…]
«O quam te memorem, virgo? Namque haut tibi voltus
mortalis, nec vox hominem sonat; o dea certe,
an Phoebi soror? An nympharum sanguinis una?
(vv. 325-329)

La memoria virgiliana 23 – è stato debitamente segnalato dai commen-


tatori – attira nell’orbita il sonetto 90:
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;
e ’l viso di pietosi color’ farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’ésca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di súbito arsi?
Non era l’andar suo cosa mortale,
ma d’angelica forma; et le parole
sonavan altro, che pur voce humana.
Uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi: et se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.

I sonetti 143
Quand’io v’odo parlar sì dolcemente
com’Amor proprio a’ suoi seguaci instilla,
l’acceso mio desir tutto sfavilla,
tal che ’nfiammar devria l’anime spente.

23
Che riceve anche una sorprendente riscrittura parodica nel dichiarato eser-
cizio in demonstrativo cause genere di Fam. 1.11.4: Vidi illum [un parassita] hodie
v a l d o a q u i l o n e i a c t a t u m; ibat alte succinctus, dederatque comam diffundere
ventis, maronee Veneris in morem.

130
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

Trovo la bella donna allor presente,


ovunque mi fu mai dolce o tranquilla
ne l’habito ch’al suon non d’altra squilla
ma’ di sospir’, mi fa destar sovente.
Le chiome a l’aura sparse, et lei conversa
indietro veggio; et cosí bella riede
nel cor, come colei che tien la chiave.
Ma ’l soverchio piacer, che s’atraversa
a la mia lingua, qual dentro ella siede,
di mostrarla in palese ardir non ave,
e 144, i primi fra quelli aggiunti nella forma Chigi, sono complemen-
tari, come avverte l’attacco sintattico «Né così bello il sol», «che lascia
pensare a un discorso poetico che debba rifarsi a qualcosa che non è
stato detto prima, a un’enumerazione sospesa»  24. Mi sembra anche
che questa coppia di testi continui e concluda, evocandone la sfavil-
lante epifania finale, il racconto dell’apparizione di Venere secondo
Virgilio, iniziato nella dispersa:
Dixit et avertens rosea cervice refulsit
ambrosiaeque comae divinum vertice odorem
spiravere; pedes vestis defluxit ad imos;
et vera incessu patuit dea.
(vv. 402-405) 25

Su un piano, per il momento, di possibile suggestione visiva e fonica


attiva sul tessuto lessicale di 144, richiamerei allora l’attenzione – ma
senza insistervi troppo – sull’ultimo atto della visita punica di Venere,
che non risponde all’accorato rimprovero del figlio, ma lo sostiene
con un prodigio:
At Venus obscuro gradientis aëre saepsit
et multo nebulae circum dea fudit amictu
(vv. 411-412)

affinché Enea, saeptus n e b u l a (v. 439), possa muoversi con sicurez-


za nella città di Didone 26.

24
Bettarini, p. 697.
25
Si vedano le espressioni sottolineate in 143, qui sopra, e nel 144 «fiammeg-
giando», «nulla cosa mortal pote aguagliarsi».
26
Un’articolata difesa di Venere madre si legge in M. Gioseffi, Un’eco vir-
giliana in «Vanity Fair» di W.M. Thackeray, in Id. (a cura di), Il dilettoso monte.

131
Cristina Zampese

Questo gruppo di testi registra involontari segni di reazione da


parte di Laura: in modo più evocativo che perspicuo nel sonetto 144
(«né […] vidi ’l celeste arco / per l’aere in color’ tanti varïarsi, / in
quanti fiammeggiando trasformarsi / […] / quel viso» [vv. 3-7]), più
esplicitamente nel 90 («e ’l viso di pietosi color’ farsi / non so se vero
o falso, mi parea», vv. 5-6). Il «color’» dell’emozione, la cui eziologia è
dottamente spiegata nel sonetto 94 Quando giugne per gli occhi al cor
profondo, ritorna più volte nel Canzoniere 27, colto sul viso dell’uno o
dell’altra; più lungamente accarezzato nella prima quartina di 123:
Quel vago impallidir che ’l dolce riso
d’un’amorosa nebbia ricoperse,
con tanta maiestade al cor s’offerse
che li si fece incontr’a mezzo ’l viso.
Conobbi allor sì come in paradiso
vede l’un l’altro, in tal guisa s’aperse
quel pietoso penser ch’altri non scerse:
ma vidil’io, ch’altrove non m’affiso.
Ogni angelica vista, ogni atto humile
che già mai in donna ov’amor fosse apparve,
fôra uno sdegno a lato a quel ch’i’ dico.
Chinava a terra il bel guardo gentile,
et tacendo dicea, come a me parve:
chi m’allontana il mio fedele amico?
Ma un conto è alludere al pallore, un altro nominarlo. La storicità dei
valori semantici, sulla quale ha insistito Michele Feo 28, impone di pre-
stare attenzione alla funzione attenuatrice e correttiva che l’aggettivo
«vago» – «bello» oppure «fuggevole» 29 – imprime a quell’«impallidir»

Raccolta di saggi di filologia e tradizione classica, Milano 2004, pp. 187-199 (alle
pp. 189-193).
27
Si vedano per esempio 58, 63, 93, 111 (e implicitamente 112.13: «cangiò ’l
viso»); Fam. 2.9.19 a Giacomo Colonna. Il «pietoso penser» di Quel vago impallidir
va accostato ai «pietosi color’» di 90.5.
28
M. Feo, «Pallida no, ma più che neve bianca», «Giornale storico della lette-
ratura italiana» 152, 1975, pp. 321-361 (in part. pp. 337-338).
29
La seconda accezione è preferita, se ho visto bene, dalla sola Bettarini,
p. 571. Ma la vera qualità semantica dell’aggettivo sembra effettivamente sfuggire ai
tentativi di circoscriverla, come è già stato rilevato: la sua «rarefazione semantica»,
appunto (A. Castellano, Storia di una parola letteraria: It. «vago», «Archivio glot-
tologico italiano» 47, 1962, pp. 126-169; qui, p. 156), ne fa «a crucial link between
form and theme, a key structural note that is necessarily lost in translation» (A. Imus,

132
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

troppo esplicitamente collegato, secondo l’estetica medievale e poi ri-


nascimentale, all’aspetto orroroso della morte (tanto da dover essere
recisamente negato nella trasfigurazione simbolica del trapasso: «Pal-
lida no, ma più che neve bianca»); e questo nonostante l’associazione
del pallore alla facies dell’innamorato fosse passata in giudicato fin
dalla classicità  30. Sembrerebbe allora plausibile riconoscere un’ana-
loga funzione eufemistica all’aggettivo «amorosa», ammettendo che
la «nebbia» metaforica prodotta dall’impallidire ne prolunghi l’infra-
zione estetica. Ma quale significato attribuire precisamente a questa
«nebbia»? «Turbamento dilettevole» (Castelvetro) è al massimo ap-
posizione, non spiegazione. Forse allora una nubes che offusca lieve-
mente uno splendore (come quella che, «in termini meno simbolici,
vela la faccia triste di Febo-Sole in 115.13»)  31 e che trova corrispon-
denza, ad altro proposito, in espressioni metaforiche stereotipate:

tu puoi ben dir, che ’l sai,


come lor gloria nulla nebbia offosca
(Estrav. 21.116-117)

Simile nebbia par ch’oscuri e copra


del più saggio figliuol la chiara fama
e ’l parta in tutto dal Signor di sopra
(Triumphus Cupidinis 3.43-45)

Un dubbio, hiberno, instabile sereno


è vostra fama, e poca nebbia il rompe,
e ’l gran tempo a’ gran nomi è gran veneno.
(Triumphus Temporis 109-111) 32

«Vaga è la donna vaga»: The Gendering of «Vago» in the «Commedia», the «Decame-
ron» and the «Canzoniere», «Forum Italicum» 2, 2006, pp. 213-233; qui, p. 227).
30
Lo stesso Petrarca latino, Contra medicum 2.9, cita insieme i due luoghi
canonici: Ov. ars 1.727 palleat omnis amans: hic est color aptus amanti e Hor. carm.
3.10.14 tinctus viola pallor amantium, accolto nel «pallor di vïola et d’amor tinto» di
224.8, probabilmente proprio per la visibilità dell’auctoritas.
31
Bettarini, p. 571; non vedrei qui invece, e non solo per le motivazioni che fra
breve attingerò al medesimo commento, una «nebbia» «che nasconde il pensiero e la
pulsione», «parente del velamen (d’incomprensione) interposto tra gli amanti» (ibid.),
proprio perché l’esperienza riferita nel sonetto è quella di un perfetto «intuarsi».
32
Ai quali accostare Pg. 30.3 «e d’altra nebbia che di colpa velo». Modifico
l’interpunzione di Tr. temp. 109 rispetto all’edizione Pacca in Pacca - Paolino,
in accordo con G. Gorni, «Un dubbio, hiberno, instabile sereno» e altre note sui

133
Cristina Zampese

Ma penso che, ancora una volta, la via corretta per l’esegesi passi
attraverso più complesse tensioni testuali. Leggiamo nel commento
Bettarini: «Il lemma maiestade, che invade il terzo verso, anticipa la
nozione di paradiso della seconda quartina e lascia sottilmente passare
il messaggio della nubes come contrassegno di divinità; cfr. 2 Mac. II.8
et tunc Dominus ostendit haec, et apparebit maiestas Domini, et nubes
erit sicut ut Moysi manifestabatur, con riferimento al colloquio facie
ad faciem di Dio con Mosé sicut solet loqui homo ad amicum suum
nell’Exodus (XXXIII.5-11)»  33. La limitazione verrebbe quindi rove-
sciata in glorificazione: questa si rivelerà, come vedremo, una pista
feconda per il nostro ragionamento.
Intuitivamente e sicuramente negativa è invece la valenza semanti-
ca cercata con similitudini e metafore di stampo biblico che additano
l’inconsistenza, in particolare delle cose mondane. Giovanni Pozzi ha
mostrato la strategia accumulatoria del devinalh 133 34
Amor m’à posto come segno a strale,
come al sol neve, come cera al foco,
et come nebbia al vento; et son già roco
donna, mercé chiamando, et voi non cale
(vv. 1-4)

indicando come fonte per il v. 3 Sap. 2.3 sicut nebula dissolvetur, sul
quale torneremo. Altrove osserva:
il binomio «nebbia/vento» non c’è nella Bibbia, ma il rapporto «polve-
re/vento» che il libro sacro descrive analiticamente nella sua dinamica
è ridotto dal poeta ai due termini:

«Triumphi», in J. Bartuschat - L. Rossi (a cura di), Studi sul canone letterario del
Trecento. Per Michelangelo Picone, Ravenna 2003, pp. 123-133 (p. 129). Per l’occor-
renza di Tr. Cup. Pacca in Pacca - Paolino, pp. 143-144, offre un’interpretazione
diversa dalla mia, parafrasando: «‘Pare che un analogo o f f u s c a m e n t o d e l l ’ i n -
t e l l e t t o oscuri ed eclissi l’illustre rinomanza del suo figlio più saggio’ […]. Salo-
mone, figlio di David, in tarda età si fece irretire da donne straniere, che lo spinsero
all’idolatria …». Si tratterebbe quindi di una caligo morale; ma l’accezione generica
che propongo mi sembra più diretta, e giustificata anche dalle altre due occorrenze
qui discusse.
33
Bettarini, p. 571.
34
G. Pozzi, Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia, «Studi petrarcheschi» n.s.
6, 1989, pp. 125-169 (p. 149); cfr. anche E. Giannarelli, L’immagine della neve al
sole dalla poesia classica al Petrarca: contributo per la storia di un «topos», «Quaderni
petrarcheschi» 1, 1983, pp. 411-452 (in part. pp. 122-123).

134
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

Ps. I, 4 Tanquam pulvis quem proicit ventus a facie terrae;


CCCXXXI, 22: Nebbia o polvere al vento,
fuggo. 35

Per questi versi della canzone Solea da la fontana di mia vita, tuttavia,
non escluderei una memoria lucreziana, da quel quinto libro nel quale
si afferma la caducità del mondo: [pars terrai non nulla] p u l v e r i s
exhalat n e b u l a m nubesque volantis, / quas validi toto d i s p e r g u n t
a ë r e v e n t i (vv. 253-254); si valuti anche, ma con maggior cautela e
solo in virtù della vicinanza nel contesto, la possibile attrazione eser-
citata sul credo cristiano «poi che ’n terra morendo, al ciel rinacque»
(v. 28) dai versi [neque umorem dubitavi] a u r a s q u e p e r i r e, / atque
eadem gigni r u r s u s q u e a u g e s c e r e dixi (vv. 249-250).
«‘Nebbia’ e ‘polvere’ sono potentemente addossate all’Io che
fugge e si dissolve», travolto da un inarrestabile «fluctus animi, Spes
e Timor intrecciati», annota Rosanna Bettarini  36, ricorrendo ancora
alla matrice gnomica sapienziale che abbiamo visto agire nel devinalh.
La stessa et transibit vita nostra tamquam vestigium nubis, et sicut
nebula dissolvetur, combinata con Iob. 7.9 (sicut consumitur nubes
et pertransit, sic […]), alimenta nel sonetto 316 il «motivo della fuga
temporis, immerso nella cenere e nella polvere delle Scritture» 37:
ché, come nebbia al vento si dilegua,
così sua vita sùbito trascorse
quella che già co’ begli occhi mi scorse,
et or conven che col penser la segua.
(vv. 5-8)

Memorie bibliche – tematiche e sintattiche – sulle quali si adagiano


memorie ritmiche e lessicali dantesche:
Come quando la nebbia si dissipa
(If. 31.34)
ed ecco un lustro sùbito trascorse.
(Pg. 29.16) 38

35
Pozzi, Petrarca, i Padri cit., p. 148.
36
Bettarini, p. 1458.
37
Ivi, p. 1380.
38
Santagata, p. 1206; e si veda D. De Robertis, Il trittico del «T» (RVF 315,
316, 317), in Lectura Petrarce, XIX, Padova 1999, pp. 167-180 (alla p. 170).

135
Cristina Zampese

IV.

ò di gravi pensier’ tal una nebbia


(Rvf 66.8)

Quotiens enim rationis passibus ad altissimam illam arcem etheree


mentis ascendo, unde non minus quam e summis Olimpi iugis nubes
sub pedibus cernuntur, video qua hic rerum caligine, qua errorum nu-
be circumdati, quantis in tenebris ambulemus; video nichil esse quo
passim gaudemus aut dolemus in hac vita, nichil quod tantopere vel
cupimus vel horremus; nugas meras quibus angimur, larvas quas pueri
senes expavescimus auramque levissimam qua deicimur ac levamur
prorsus arundinea levitare; video eam ipsam que vita dicitur, fugacis
umbram nebule vel fumum ventis impulsum denique vel confusum som-
nium esse vel fabulam inexpletam vel siquid inanius dici potest […].
Sane nos, imbecille caducumque genus, homines imis in vallibus ha-
bitantes gravi premente sarcina raro quidem ad excelsa conscendimus
ideoque vulgo quam vero proximiora fabulamur. (Fam. 11.3.9-11)

Satis superque satis hactenus terram caligantibus oculis aspexisti; quos


si usqueadeo mortalia ista permulcent, quid futurum speras si eos ad
eterna sustuleris? (Secr. Proh., p. 94)

Aug. […] Nempe passiones ex corporea commistione subortas obli-


vionemque nature melioris divinitus videtur attigisse Virgilius, ubi ait:
«Igneus est illis vigor et celestis origo
seminibus, quantum non noxia corpora tardant
terrenique hebetant artus, moribundaque membra.
Hinc metuunt cupiuntque dolent gaudentque, neque auras
respiciunt, clause tenebris et carcere ceco».
Discernis ne in verbis poeticis quadriceps illud monstrum nature ho-
minum tam adversum?
Fr. Discerno clarissime quadripartitam animi passionem, que primum
quidem, ex presentis futurique temporis respectu, in duas scinditur
partes; rursus quelibet in duas alias, ex boni malique opinione, sub-
distinguitur; ita quattuor velut flatibus aversis humanarum mentium
tranquillitas perit.
Aug. Rite discernis […]. Conglobantur siquidem species innume-
re et imagines rerum visibilium, que corporeis introgresse sensibus,
postquam singulariter admisse sunt, catervatim in anime penetralibus
densantur; eamque, nec ad id genitam nec tam multorum difformium­
que capacem, pregravant atque confundunt. Hinc pestis illa fanta-
smatum vestros discerpens laceransque cogitatus, meditationibusque

136
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

clarificis, quibus ad unum solum summumque lumen ascenditur, iter


obstruens varietate mortifera. (Secr. 1, p. 136)

Fr. Ego vero tibi, tum pro aliis multis, tum pro hoc triduano colloquio
magnas gratias ago, quoniam et caligantia lumina detersisti et densam
circumfusi erroris nebulam discussisti. (Secr. 3, p. 280)

Come non hanno mancato di segnalare ampiamente i commentatori,


del Secretum come dei Rerum vulgarium fragmenta, la sapienza cri-
stiana qui dispiegata rampolla da quella classica 39. Ma forse non suf-
ficiente rilievo si è dato a questo proposito alla meditazione laica di
Seneca, nel quale «l’uso insistentemente metaforico di caligo e caligare
attribuisce una densa corposità alla condizione umana, ambientale e
psichica; un’atmosfera greve avvolge la vita […], si addensa intorno
alla mens e la preme» 40.
Questa dolorosa caligo accompagna le fluctuationes dell’Io lirico
nella canzone 129 Di pensier in pensier, di monte in monte 41:
Ove d’altra montagna ombra non tocchi,
verso ’l maggiore e ’l più expedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso;
indi i miei danni a misurar con gli occhi
comincio, e ’ntanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso,
alor ch’i’ miro et penso
quanta aria dal bel viso mi diparte,
che sempre m’è sì presso et sì lontano.
(vv. 53-61)

Condenso (129.58) è hapax, anzi neologismo petrarchesco 42, general-


mente commentato, sulla scorta di Contini, come «participio forte»,

39
Ricchissimo il commento nell’edizione a cura di Fenzi, Secretum cit. Sul
Petrarca latino si veda anche V. Prosperi, «Curiositas» e «caligo». Sondaggi sulla
sopravvivenza di due «topoi» da Boezio a Tasso, «MD» 55, 2005, pp. 103-120.
40
G. Solimano, La prepotenza dell’occhio. Riflessioni sull’opera di Seneca,
Genova 1991, p. 100 nt. 8.
41
Per la quale rimando a E. Bigi, La canzone CXXIX, in Lectura Petrarce, III,
Padova 1983, pp. 9-30; poi in Id., Poesia latina e volgare nel Rinascimento italiano,
Napoli 1989, pp. 7-30.
42
M. Vitale, La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di France-
sco Petrarca, Padova 1996, p. 518.

137
Cristina Zampese

«dalla nebbia trasferito al cuore, ‘avvolto di condensata’ ecc.». Questa


accezione, che costringe quindi a ipotizzare un’ipallage, concorda con
il primo significato del latino condensus, «raccolto», «affollato» ecc.
(ad esempio, Hic Hecuba et natae […] condensae […] sedebant, Verg.
Aen. 2.515-517); ma un costrutto del tipo [vallis] condensa arboribus
(Liv. 25.39), presente soprattutto negli storici, rovescia la prospettiva
dall’esterno all’interno, perché vale «piantata/o fittamente». I sintag-
mi condensa saltus, e semplicemente condensa, -orum indicano luoghi
ombrosi e boscosi 43, e sono usati con relativa frequenza nella Vulgata.
Dalle expositiones bibliche, poi, nelle quali le singole espressioni ven-
gono minutamente chiosate per ricavarne i sensi autorizzati, emerge in
lettura anagogica un ulteriore slittamento semantico: commentando il
salmo 28.9, per esempio,

Vox Domini praeparantis cervos et revelabit condensa et in templo eius


omnis dicet gloriam,

Tommaso d’Aquino spiega condensa come ea quae aliis sunt abscon-


dita  44 (e lì saranno opacitates divinorum librorum et umbracula mys­
teriorum, come aveva chiosato a sua volta Agostino) 45.
Il cuore è dunque occupato da una caligo intima, fatta di quelle
perturbationes che agitano i mortali:

Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras


dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco
(Aen. 6.733-734) 46

43
Isid. diff. 1.42 Inter apricum et opacum […] opacum condensum est et
um­brosum.
44
Et ipse Deus revelabit eis condensa, idest ea quae aliis sunt abscondita (Mt. 11);
revelasti ea parvulis (Thomae Aquinatis In Psalmis Davidis Expositio, ad loc.).
45
Che però legge silvas anziché condensa (Enarr. in Ps. 28). Osservato tutto
ciò, non sarà forse azzardato ipotizzare che la scintilla creativa sia nata dalla lettura
di un passo descrittivo di Lucrezio: Fit quoque u t i m o n t i s v i c i n a c a c u m i n a
c a e l o / q u a m s i n t q u a e q u e m a g i s, tanto magis edita fument / assidue fulvae
n u b i s c a l i g i n e crassa, / propterea quia, cum consistunt n u b i l a primum, / ante
videre o c u l i quam possint, tenuia, venti / portantes cogunt ad summa cacumina
montis. / Hic demum fit uti turba maiore coorta / et c o n d e n s a queant apparere […]
(6.459-466).
46
Cfr. supra.

138
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

Fammi sentir de quell’aura gentile


di for, sì come dentro anchor si sente;
la qual era possente,
cantando, d’acquetar li sdegni et l’ire,
di serenar la tempestosa mente
et sgombrar d’ogni nebbia oscura et vile. 47
(270.31-36)

V.

[…] et di for senza l’usata nebbia


(Rvf 66.23)

Nella terza stanza della canzone 270, come abbiamo appena visto, il
traslato «nebbia» è connesso con quegli «sdegni» e con quelle «ire»
che abbiamo ricondotto al canone delle perturbationes: sofferenze
dell’animo qui sicuramente a carico dell’Io lirico, che solo il canto di
Laura (Laura come Casella 48 o magari come Orfeo?) può «serenare».
Senza dubbio imputabile a manchevolezza dell’Io è anche la «nebbia
di sdegni» che concorre con «pioggia» e «venti» – un trittico che si
ricorderà sperimentato nella sestina 66 – a ostacolare la navigazione
nella metafora continuata di Passa la nave mia (189):
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.
A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir’, di speranze et di desio.

47
Sulla storia redazionale di questa stanza cfr. L. Paolino, Appunti in mar-
gine alla canzone ‘Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo anticho (R.V.F. 270), «Studi e
problemi di critica testuale» 49, 1994, pp. 11-24. Il valore semantico che sto discu-
tendo corrisponde alle occorrenze dantesche di Pg. 1.97-99 («che non si converria,
l’occhio sorpriso / d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo / ministro, ch’è di quei
di paradiso») e Pg. 28.90 («e purgherò la nebbia che ti fiede»; con 81, «che puote
disnebbiar vostro intelletto»).
48
«Che mi solea quetar tutte mie doglie» (Pg. 2.108).

139
Cristina Zampese

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni


bagna et rallenta le già stanche sarte,
che son d’error con ignorantia attorto.
Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l’onde è la ragion et l’arte,
tal ch’incomincio a desperar del porto.

Analogo sintagma è viceversa riferito a Laura nel sonetto 204:


Anima, che diverse cose tante
vedi, odi et leggi et parli et scrivi et pensi;
occhi miei vaghi, et tu, fra li altri sensi,
che scorgi al cor l’alte parole sante:
per quanto non vorreste o poscia od ante
esser giunti al camin che sì mal tiensi,
per non trovarvi i duo bei lumi accensi,
né l’orme impresse de l’amate piante?
Or con sì chiara luce, et con tai segni,
errar non dêsi in quel breve viaggio,
che ne pò far d’etterno albergo degni.
Sfòrzati al cielo, o mio stancho coraggio,
per la nebbia entro de’ suoi dolci sdegni,
seguendo i passi honesti e ’l divo raggio

in un’accezione accostabile a quella dell’«usata nebbia» che nella se-


stina manifesta esteriormente il «ghiaccio» di lei: un velamen, quindi,
frapposto alla comunicazione. La differenza macroscopica sta natu-
ralmente nella capovolta polarità prodotta dall’ossimoro «dolci sde-
gni», che ritorna più volte, con qualche variatio, nel Canzoniere e nei
Triumphi.
Spostiamo per un momento l’attenzione direttamente sul lemma
«sdegno», che come prevedibile ha largo utilizzo nel Petrarca, come
nella lirica in generale. Esso compare innanzi tutto, declinato al singo-
lare o al plurale, in componimenti di lode o di schermaglia nel solco
della tradizione, come la canzone di lontananza 37.101; il sonetto 179
a Geri Gianfigliazzi; il 64, di aperta rimostranza, e l’excusatio 240 49.
Per vari di questi testi la datazione è piuttosto alta 50. Si ha l’impres-

49
Al quale si può accostare il 217, sull’«empia nube, che ’l [duro cor] rafredda
et vela» (v. 5).
50
Ciò non impedisce, come d’abitudine, che la costruzione macrotestuale
rifunzionalizzi, dislocandoli, i singoli testi.

140
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

sione – ma la verifica dovrà essere minuziosa – che nell’economia dei


Rerum vulgarium fragmenta il motivo degli «sdegni» abbia via via gua-
dagnato spessore, affrancandosi dalla dimensione del rituale cortese
per acquisire quella di presidio salvifico: «Dolci durezze, et placide re-
pulse / […] / leggiadri sdegni che le mie infiammate / voglie tempraro
(or me n’accorgo), e ’nsulse» (351.1-4) 51. Per 204 «il discorso cronolo-
gico è molto complesso» 52, ma potrebbe condurre anche ad anni post
mortem. La presenza del sintagma «[turbida] nebbia degli sdegni» in
un componimento non petrarchesco potrebbe fornire un aggancio
esterno: un aggancio che si vorrebbe saldo, e invece è sdrucciolevole,
perché si tratta della canzone S’io potessi di fuor mostrare aperto (35*),
di attribuzione non certa benché probabile al Boccaccio 53:
L’ardentissimo fuoco, ond’io sfavillo
parole sì cocenti,
e la turbida nebbia degli sdegni,
che del mio petto sereno e tranquillo
ha mossi tanti venti
di sospir gravi e fatti gli occhi pregni,
non m’è sì duro […].
(vv. 56-62)

VI.

né suon curava di spezzata nebbia


(Rvf 66.36)

Del tuono si è già detto. Sul presidio laurano qui dichiarato («l’ombra
ov’io fui, che né calor né pioggia / né suon curava»), e a chiosa della
celebre ammissione

51
Cfr: «Per lo migliore al mio desir contese / […] et co’ soavi sdegni / fecemi
ardendo pensar mia salute» (289.6 e 10-11). A questi e ad altri passi del Canzoniere
vanno accostate le rivelazioni di Laura apparsa «la notte che seguì l’orribil caso»
al suo fedele, che le rammenta i «dolci sdegni e le dolci ire, / le dolci paci ne’ belli
occhi scritte» (Tr. Mortis 2.82-83; e cfr. supra, nt. 15).
52
Santagata, p. 864.
53
«Questa [34*] e le due seguenti canzoni, adespote o attribuite al B., formano
nei mss. una piccola silloge di liriche dolorose e quasi di disperazione, con note ora
petrarchesche e ora boccacciane, ma non insolite nella rimeria del tardo Trecento»;
«Questa canzone [35*] per il tono generale sembra disdire meno delle altre due al
B.» (V. Branca [a cura di], G. Boccaccio, Rime, Milano 1992, alle pp. 323 e 325).

141
Cristina Zampese

Si michi igitur exprobrasses quod adversus fulminis fragorem timidior


sim, quia id negare non possem (est enim hec michi non ultima causa
lauri diligende quod arborem hanc non fulminari traditur), respondis-
sem Augustum Caesarem eodem morbo laborasse 54
si potranno allegare 24.1-2, 29.46-49, 113.6, 142.12 e l’augurio negati-
vo dell’invettiva di 60.12-14.

VII.

I’ mi vivea di mia sorte contento,


senza lagrime et senza invidia alcuna,
ché, s’altro amante à più destra fortuna,
mille piacer’ non vaglion un tormento.
Or quei belli occhi ond’io mai non mi pento
de le mie pene, et men non ne voglio una,
tal nebbia copre, sì gravosa et bruna,
che ’l sol de la mia vita à quasi spento.
O Natura, pietosa et fera madre,
onde tal possa et sì contrarie voglie
di far cose et disfar tanto leggiadre?
D’un vivo fonte ogni poder s’accoglie:
ma Tu come ’l consenti, o sommo Padre,
che del Tuo caro dono altri ne spoglie?
(Rvf 231)

Per ambigua concatenazione macrotestuale, sull’interpretazione di


questi versi esercitano una forte influenza retroattiva il contenuto ap-
parentemente referenziale del vicino sonetto 233,
Qual ventura mi fu, quando da l’uno
de’ duo i più belli occhi che mai furo,
mirandol di dolor turbato et scuro,
mosse vertù che fe’ ’l mio infermo et bruno!
(vv. 1-4)

(a sua volta tutt’altro che pacificamente spiegato dal probabile ipote-


sto ovidiano) 55, e l’ancor più intrigante, perché sotterraneo, collega-
mento con la cecità degli iracondi indagata per exempla in 232.

54
Secretum 3, p. 248.
55
Dum spectant laesos oculi, laeduntur et ipsi, / multaque corporibus transitione
nocent (rem. 615-616).

142
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

La nebbia «gravosa et bruna» sarebbe dunque metafora non ge-


nericamente di «malattia», ma più precisamente di «malattia degli
occhi»  56. Per quanto si chieda soccorso alle schede dell’erboristeria
pliniana 57, tuttavia, per questa strada non si va molto avanti verso la
definizione del valore semantico; converrà pertanto allargare il raggio
dell’indagine in altre direzioni. La fragilità terrena di Laura è regi-
strata con particolare preoccupazione nel sonetto 184, che chiama in
causa anch’esso la Natura:
Amor, Natura e la bella alma humile
ov’ogn’altra vertute alberga et regna,
contra me son giurati: Amor s’ingegna
ch’i’ mora a fatto, e ’n ciò segue suo stile;
Natura tèn costei d’un sì gentile
laccio, che nullo sforzo è che sostegna;
ella è sì schiva, ch’abitar non degna
più ne la vita faticosa et vile.
Così lo spirto d’or in or vèn meno
a quelle belle care membra honeste
che specchio eran di vera leggiadria;
et s’a Morte Pietà non stringe ’l freno,
lasso, ben veggio in che stato son queste
vane speranze, ond’io viver solia.
La previsione infausta è parzialmente esorcizzata dal contatto con il
testo che segue, trasfigurazione fenicea di Laura:
Questa fenice de l’aurata piuma
al suo bel collo, candido, gentile,
forma senz’arte un sì caro monile,
ch’ogni cor addolcisce, e ’l mio consuma:
forma un diadema natural ch’alluma
l’aere d’intorno; e ’l tacito focile
d’Amor tragge indi un liquido sottile
foco che m’arde a la più algente bruma.
Purpurea vesta d’un ceruleo lembo
Sparso di rose i belli homeri vela:
novo habito, et bellezza unica et sola.

56
Quasi tutti i commentatori; la sola Bettarini, p. 1064, parla di «nebbia di
separazione, di non-comunicazione, di rifiuto».
57
Che nel ventiquattresimo libro della Naturalis historia ricorda vari rimedi
contro le nubeculae, affezioni degli occhi, e le caligines visive.

143
Cristina Zampese

Fama ne l’odorato et ricco grembo


d’arabi monti lei ripone et cela,
che per lo nostro ciel sì altera vola.
(Rvf 185)

Nella pluralità delle fonti che concorrono alla ricca raffigurazione agi-
sce anche un carme minore di Claudiano, il Phoenix appunto:
[…] rutilo cognatum vertice sidus
attollit cristatus apex tenebrasque serena
luce secat. Tyrio pinguntur crura veneno.
(vv. 18-20)

Ai riscontri già segnalati  58 aggiungerei decisamente il rincalzo dei


vv. 21-22:
[…] quas caerulus aMBit
flore color sparsoque super ditescit in auro,

contrappunto lessicale sulla trama pliniana (nat. 10.2.3) della prima


terzina:
[…] d’un ceruleo leMBo
sparso di rose […]. 59

Credo si possa riconoscere anche in filigrana al sonetto 231 la memo-


ria del medesimo testo claudianeo, proprio per il racconto dell’eterna
vicenda che spegne l’arcanum […] oculi iubar (v. 17) per consentirne
la splendida rinascita:
Iam breve decrescit lumen languetque senili
segnis stella gelu 60, qualis cum forte tenetur
nubibus et dubio vanescit Cynthia cornu. 61
(vv. 36-38)

58
A partire da Zingarelli. Sulla frequentazione petrarchesca del poeta latino,
cfr. L. Chines, Per Petrarca e Claudiano, «Quaderni petrarcheschi» 11, 2001,
pp. 43-71.
59
Il caerulus […] color di Claudiano è ricordato anche da Bettarini, p. 854.
60
«e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi»
(90.3-4).
61
E Iam solitae medios alae transcurrere nimbos / v i x i m a t o l l u n t u r h u m o
(vv. 39-40): come per effetto della «nebbia […] gravosa» (Rvf 231.7).

144
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

Nella similitudine è la Luna – Cynthia – a venir meno, «quasi spen-


ta»; ma nei versi successivi si accampa decisamente il motivo laurano
dell’«almo Sol» 62, invocato a confortare il pium […] alumnum prossi-
mo al sacrificio. Intanto,
[…] curis Natura laborat,
aeternam ne perdat avem, flammasque fideles
admonet, ut rerum decus inmortale remittant
(vv. 62-64)

e sorveglia il processo di rigenerazione («far cose et disfar») 63. Come


nella coppia 184-185 64, dunque, ma con procedimento più sottilmente
allusivo, l’azione – «pietosa et fera» insieme – di madre Natura prepa-
ra un doloroso sacrificio che si spera possa essere riscattato. Ma il suc-
cessivo ricorso al mito dell’unica avis 65 nella seconda parte, a sacrificio
ormai consumato, liquida in un emistichio l’assioma consolatorio («or
se’ nel ciel felice», 321.8) e registra invece, con profonda desolazione,
la persistente «oscura notte intorno» ai «colli» laurani (ivi, v. 12) 66.

62
Nel sonetto 188 Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo anche altre tessere
(«ombra», «colle») appartengono all’universo semantico che stiamo esplorando.
63
Phoenix, vv. 65-71, in part. 69-72 qui fuerat genitor, natus nunc prosilit
idem / succeditque novus: geminae confinia vitae / exiguo medius discrimine separat
ignis.
64
F. Zambon, Sulla fenice del Petrarca, in Miscellanea di studi in onore di Vit-
tore Branca, I. Dal Medioevo al Petrarca, Firenze 1983, pp. 411-425, ipotizza che
il simbolo feniceo prefiguri anche nelle rime «in vita» «il funereo destino della
donna» (p. 422), e osserva: «Non è forse un caso che Questa fenice (CLXXXV) sia
preceduto dal sonetto Amor, Natura e la bella alma humile (CLXXXIV), scritto per
una malattia di Laura» (ibid., nt. 25). Cfr. anche Id., Il mito della fenice nella poesia
romanza del medioevo, in L’alfabeto simbolico degli animali: i bestiari del medioevo,
Milano 2001, pp. 213-241 (per Petrarca, pp. 234-239).
65
Nei sonetti 320 Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli e 321 È questo il nido
in che la mia fenice, significativamente preceduti dalle amare riflessioni di Al cader
d’una pianta che si svelse (318) e da un testo (I dì miei più leggier’ che nessun cervo,
319) che affida a un fittissimo reticolo di auctoritates, soprattutto bibliche, un tenta-
tivo di elaborazione del lutto.
66
Microscopiche tracce di contatto in quest’ultima direzione si potrebbero
ricavare dai testi vicini a 231, che fra l’altro entrarono nel Vat. Lat. 3195 (= V) nello
stesso giro d’anni di quelli intorno a 321 (1366-1369; ultimo 228, che nella «forma
Malatesta» andò a collocarsi nello spazio che in V era stato lasciato bianco fin dal
’69). Nell’ordine: il lauro piantato nel cuore in 228 (come in 318); le parole-rima
felice/radice in 229 (in 321 [fenice]/[elice]/radice/felice); la menzione di ali e piume
in 230 (penne e ali in 321).

145
Cristina Zampese

La «nebbia» di 231 è dunque presagio ferale, come quelle «im-


pressïon» che si chiede a Febo di allontanare dal lauro nel program-
matico sonetto 34 67, anch’esso tradizionalmente riferito a una malattia
di Laura. Il phoenix, si sa, iam sponte crematur / ut redeat g a u d e t q u e
m o r i festinus in ortum (vv. 57-58); ma perché questo slancio di fede
diventi risolutivo dobbiamo attendere un passaggio successivo. Nei
gruppi di testi che abbiamo appena visto, dolore umano e renovatio
non riescono ad essere altro che giustapposti.

VIII.

C’è nel Canzoniere un’altra «nebbia oscura», nell’ultima stanza di


Standomi un giorno solo a la fenestra (323) 68: canzone nella quale la
fenice fa la sua ultima, drammatica apparizione.
Alfin vid’io per entro i fiori et l’erba
pensosa ir sì leggiadra et bella donna,
che mai nol penso ch’i’ non arda et treme:
humile in sé, ma ’ncontra Amor superba;
et avea indosso sì candida gonna,
sì texta, ch’oro et neve parea inseme;
ma le parti supreme
eran avolte d’una nebbia oscura:
punta poi nel tallon d’un picciol angue,
come fior colto langue,
lieta si dipartio, nonché secura.
Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!
(VI stanza)

Il rimando intertestuale più diretto per quella «nebbia» intorno al


capo di Laura è naturalmente, come annotano da secoli i commen-
tatori, l’umbra presaga di morte che circonda il giovane Marcello nel
suo soggiorno elisio: sed nox atra caput t r i s t i circumvolat u m b r a
(Aen. 6.866) 69. Ma è altrettanto noto ed evidente che l’evento alluso è

67
Apollo, s’anchor vive il bel desio.
68
Il collegamento con l’«oscura notte» di 321 è suggerito da Bettarini,
p. 1985.
69
Il solo B. Martinelli, Veduta con naufragio: «Rerum vulgarium fragmenta»
CCCXXIII, 13-24, «Italianistica» 21, 1992, pp. 511-535, collega la «nebbia oscura»,

146
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

la morte di Euridice: la «prima» morte, che porta Orfeo ad affrontare,


per riaverla,
Taenarias […] fauces, alta ostia Ditis,
et caligantem nigra formidine lucum,
(georg. 4.467-468)

a percorrere cautamente con la sposa riscattata un


[…] adclivis per muta silentia trames,
arduus, obscurus, caligine densus opaca
(Ov. met. 10.53-54)

e a udirne poi – commessa l’imprudenza fatale – le parole estreme:


«Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte
invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas».
Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
commixtus tenuis, fugit diversa.
(georg. 4.497-500)

Michele Feo, che persuasivamente mostra per le precedenti tre stanze


uno stretto rapporto intertestuale con l’episodio del sogno di Cerere
nel De raptu Proserpinae claudianeo, ritiene che «dato il contesto del-
la canzone, non sia avventato vedere in questa fanciulla insidiata dal
male una sorella lontana della Proserpina che coglie i fiori di Enna
un attimo prima del rapimento» 70. La terribile visione di Cerere, che
in sogno vede la figlia incatenata nel Tartaro, mi sembra invece river-
berarsi piuttosto su testi «in vita» come 90 (Erano i capei d’oro) e lo
stesso 230:
[…] squalebat pulchrior auro
caesaries et nox oculorum infecerat ignes
exhaustusque gelu pallet rubor ille, superbi
flammeus oris honos, et non cessura pruinis
membra colorantur picei caligine regni.
(rapt. 3.86-90)

«chiaro indizio di negatività e di morte», all’aspetto iconografico della fenice, «quasi


sempre effigiata come un animale nimbato» (p. 518).
70
M. Feo, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, in G. Billano-
vich - G. Frasso (a cura di), Il Petrarca ad Arquà, Atti del Convegno di studi nel
VI centenario (1370-1374), Padova 1975, pp.117-148, alla p. 147 (corsivo mio).

147
Cristina Zampese

La lettura complessiva della canzone operata dallo studioso, che ve-


de nella morte invocata nel congedo («Canzon, tu puoi ben dire: /
‘Queste sei visioni al signor mio / àn fatto un dolce di morir desio’»)
«non più, come nella decima [egloga: Laurea occidens], un mezzo che
permette il riacquisto dell’aldilà, bensì la morte e null’altro, la libera-
zione dalla vita offuscata dalla fine della bellezza» 71, è profondamente
pessimistica.
In anni più recenti Marco Santagata ha parzialmente ribaltato
queste conclusioni, ponendo l’accento sulla caratterizzazione di Lau-
ra come santa cristiana e distinguendo fra il «visionario» che perde
irrimediabilmente ciò in cui crede e il narratore infine «attratto nel
cerchio della ‘dolce morte’» 72. Si può forse proseguire per questa stra-
da, allargando la portata del dialogo intertestuale. Ancora una volta
vorrei prestare attenzione al rilievo che un hapax riveste nel tessuto
linguistico dei Rerum vulgarium fragmenta: si tratta di «speco», il ba-
ratro dai «tratti valchiusani» 73 nel quale è risucchiata, con forte sugge-
stione infernale, la fonte della quarta visione.
Chiara fontana in quel medesmo bosco
sorgea d’un sasso, et acque fresche et dolci
spargea, soavemente mormorando;
al bel seggio, riposto, ombroso et fosco,
né pastori appressavan né bifolci,
ma nimphe et muse a quel tenor cantando:
ivi m’assisi; et quando
più dolcezza prendea di tal concento
et di tal vista, aprir vidi uno speco,
et portarsene seco
la fonte e ’l loco: ond’anchor doglia sento,
et sol de la memoria mi sgomento.
(IV stanza)

71
Ibid.
72
M. Santagata, Il naufragio dei simboli (R.v.f. 323), «Cenobio» 41/2, 1992,
pp. 133-151; poi «Chroniques italiennes» 41, 1995, pp. 19-41 (da cui, p. 40, cito);
infine come capitolo sesto, Il lutto dell’amante, in Id., Amate e amanti. Figure della
lirica amorosa fra Dante e Petrarca, Bologna 1999, pp. 195-221. Di recente ne è stata
proposta una lettura sacrale attraverso il filtro dell’Apocalisse: cfr. M.E. Raja, Per
Euridice (nel Trecento), in Ead. Il dolce inmaginar. Miti e figure della poesia trecente-
sca, Piacenza 2005, pp. 97-120.
73
Santagata, Il naufragio dei simboli cit., p. 35.

148
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»

Il crudo latinismo 74 fa sospettare l’influsso di un modello, che questa


volta troveremo nella letteratura cristiana. Il mito di Euridice, o me-
glio la débacle di Orfeo, è oggetto di interpretazione morale nel terzo
libro della Consolatio boeziana; il metro 12 si apre sulla benedizione
di colui
felix, qui potuit boni
fontem visere lucidum,
felix, qui potuit gravis
terrae solvere vincula.

Vengono poi narrati lo strazio del poeta trace, la sua perorazione, le


condizioni poste dagli dèi e infine la catastrofe, della quale Orfeo è
responsabile:
Quis legem det amantibus? 75
Maior lex amor est sibi.
Heu, noctis prope terminos
Orpheus Eurydicen suam
vidit, perdidit, occidit.
Vos haec fabula respicit,
quicumque in superum diem
mentem ducere quaeritis.
Nam qui Tartareum in specus
victus lumina flexerit,
quidquid praecipuum trahit
perdit, dum videt inferos.
(vv. 47-58)

Benché non gli venga attribuita esplicitamente alcuna colpa  76, l’Io/
Orfeo del Petrarca assiste sconfitto al rovinoso dissolversi dei simboli.
Lo scarto vincente è affidato invece al personaggio femminile, che è

74
Vitale, La lingua del Canzoniere cit., pp. 509 e 520. L’unica altra atte-
stazione volgare (Tr. Famae 1.71: episodio di Curzio) rimanda come un’omologa
occorrenza dell’Africa (3.558) a una stratificazione di fonti storiche.
75
«Chi pon freno a li amanti, o dà lor legge?» (222.9).
76
Ma l’adesione assorta alle lusinghe della contemplazione («che dal mondo
m’avean tutto diviso», 323.30, come la «turba» di Pg. 2) riceve di volta in volta una
sorta di sanzione dalle considerazioni accorate nella chiusa di ciascuna stanza, in
particolare le due gnomiche ai vv. 36 («ché simile ombra mai non si racquista») e 72
(«Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!»).

149
Cristina Zampese

sottoposto a una progressiva correzione ideologica nei confronti dei


referenti intertestuali. Penso sia il caso di far reagire su questi ver-
si il valore aggiuntivo che la lettura del sonetto 123 ci aveva lasciato
supporre per l’«amorosa nebbia» dell’impallidire: in realtà un’aura di
«maiestade», una nubes glorificante. La «bella donna» di 323 appare
«humile in sé, ma ’ncontra Amor superba» (v. 64): una «maiestade»,
appunto (Quantum instar in ipso! esclama Enea alla vista di Marcello,
Aen. 6.865) che non è offuscata ma sancita dall’ombra-presagio. L’im-
potente remissività di Euridice è arricchita dei tratti eroici di Marcel-
lo; ma se Laura è – come il giovane – predestinata al sacrificio, il suo
trapasso prelude a ben altro che la diafana sospensione del soggiorno
elisio:
sed frons laeta parum et deiecto lumina voltu
(Aen. 6.862)

lieta si dipartio, nonché secura. (v. 71)

La precarietà e il lutto abitano sulla terra (v. 72): diradata la caligine


dell’errore, la consapevolezza acquisita per aenigmata ha come appro-
do vittorioso 77 un «dolce di morir desio» (v. 75).

*
* *
Dedico questo studio petrarchesco al mio maestro, Emilio Bigi (1916-
2009).

77
Ancorché non definitivo: cfr. 332.49-52: «Or avess’io un sì pietoso stile /
che Laura mia potesse tôrre a Morte, / come Euridice Orpheo sua senza rime, /
ch’io viverei anchor più che mai lieto!».

150
Parte seconda
il cinquecento
Davide Colombo
«Aristarchi Nuovi ripresi»
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico
nella trattatistica del Cinquecento

1. Premessa

Nel classicismo d’Ancien Régime riuso memoriale dell’antico significa


sostanzialmente questo, la persuasione – o forse la fede – che il pa-
trimonio culturale del passato, dalla letteratura alla filosofia, dall’ar-
chitettura alle arti figurative, sia significativo per capire il presente e
orientarsi nel futuro, fuori dalle biblioteche e dai musei. Non conosco
esempio migliore della lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre
1513, in cui Niccolò Machiavelli svela che l’ingresso «nelle antique
corti degli antiqui huomini» gli permette la composizione del Prin-
cipe 1. Almeno sino al crollo dell’antico regime politico e letterario a
causa della rivoluzione francese e di quella romantica, ogni lettera-
to europeo è stato un classicista, guidato e vincolato da «una cultura
strutturalmente fondata sulla tradizione come insieme di valori da
tramandare, sulla norma come forma, sull’imitazione come principio
positivo e produttivo» 2. La presente miscellanea attesta che «in questi

1
N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini
(1513-1527), a cura di G. Inglese, Milano 19962, p. 195.
2
A. Quondam, Note su imitazione e «plagio» nel classicismo, in AA.VV., Son-
daggi sulla riscrittura del Cinquecento, a cura di P. Cherchi, Ravenna 1998, pp. 11-26
(la citazione è a p. 15). Di Quondam si veda anche Classicismi e Rinascimento: forme

153
Davide Colombo

studi che chiamiamo di umanità», come dice Baldassarre Castiglione 3,


ogni epoca, anzi ogni scrittore, fa dell’antico l’uso, il riuso e l’abuso
più congeniali alla vocazione profonda della propria biografia intel-
lettuale. Nel tardo Cinquecento, l’età dello straripamento delle poeti-
che e della più rigida codificazione di lingua, stile e generi, prevale la
convinzione – direi quasi l’assioma – che il riuso dell’antico, l’ingresso
«nelle antique corti degli antiqui huomini», consenta di giungere alla
cognizione teorica dei segreti dell’arte, spendibili poi in sede di una
concreta pratica artistica. Uno dei più brillanti e tormentati ingegni
dell’epoca, Torquato Tasso, anatomizzando nella Lezione sul sonetto
di Della Casa i due modi di composizione letteraria, quello fonda-
to sull’imitazione dei modelli e quello fondato sull’osservazione dei
precetti, reputa il secondo «in sé stesso più nobile, e più certo e più
sicuro dell’altro» 4. L’esemplarità paradigmatica d’un sonetto o d’un
poema dipende dalla congruenza alle regole, in particolare le regole
dei generi letterari legate alla riscoperta della Poetica di Aristotele, e
dal rapporto d’imitazione coi modelli antichi, greco-latini e volgari.
Questo saggio è l’analisi contrastiva di due peculiari declinazio-
ni del riuso teorico dell’antico come premessa per forgiare il nuo-
vo, i Discorsi intorno al comporre di Giovan Battista Giraldi detto il
Cinzio e l’Arte poetica di Antonio Minturno 5. È questi un umanista
d’osservanza pontaniana, che ha compulsato Aristotele sotto la guida
del «peripatetico» Agostino Nifo, e poi con in mano i commenti di

e metamorfosi di una tipologia culturale, in AA.VV., Il Rinascimento italiano e l’Eu-


ropa, I. Storia e storiografia, Treviso 2005, pp. 71-102.
3
B. Castiglione, Il cortigiano, a cura di A. Quondam, I, Milano 2002, p. 78.
4
T. Tasso, Lezione sopra un sonetto di Monsignor Della Casa (cito da
H. Grosser, La sottigliezza del disputare. Teorie degli stili e teorie dei generi in età
rinascimentale e nel Tasso, Firenze 1992, p. 9).
5
G.B. Giraldi Cinthio, Discorsi intorno al comporre rivisti dall’autore nel­
l’esemplare ferrarese Cl. I 90, a cura di S. Villari, Messina 2002, in cui si distin-
guono il Discorso dei romanzi, d’ora in poi siglato DR, seguito dal numero della
pagina, e il Discorso delle commedie e delle tragedie, o DCT; A. Minturno, L’Arte
poetica, Venetia 1564 (1563 nel colophon), contrassegnata AP nel seguito dell’inter-
vento e ammodernata nella trascrizione di punteggiatura e maiuscole. «Romanzo»
è il termine che nel Cinquecento identificava opere come il Furioso; ripercorre la
nomenclatura dei poemi del tempo S. Jossa, La fondazione di un genere. Il poema
eroico tra Ariosto e Tasso, Roma 2002, pp. 25-65.

154
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

Francesco Robortello e di Vincenzo Maggi 6. Dopo aver pubblicato il


dialogo latino De Poeta nel 1559, nella fase di allestimento dell’Arte
poetica, altro dialogo in volgare licenziato nel 1563, Minturno legge
i Discorsi, pubblicati nel 1554 da Giraldi, letterato ferrarese della sua
stessa generazione 7, giunto ad Aristotele dalla medicina e dalla filoso-
fia. De Poeta e Arte poetica paiono qualificati da un sostanziale eclet-
tismo, che, a detta di Giulio Ferroni, «assolve anche compiti di me-
diazione culturale, contribuendo a stimolare l’interesse dell’ambiente
meridionale per il più ampio fascio di problemi di poetica allora in
discussione in Italia» 8. Nell’Arte poetica Minturno instaura difatti con
Giraldi un dibattito a distanza: non lo cita mai però, nemmeno quan-
do il ferrarese, spesso celato dietro il personaggio di Angelo Costanzo,
uno degli interlocutori del dialogo, è in modo evidente l’antagonista
delle sue argomentazioni. Giraldi e Minturno rappresentano due
modi di riusare l’antico in rapporto alle mutate esigenze del sistema

6
Nel De Poeta, Venetiis 1559, p. 66 (d’ora in poi siglato DeP), Agostino Nifo
è definito «peripateticum […], omnium consensu in ea facultate [philosophia]
principem»; lo stesso giudizio in A. Minturno, Lettere, Vineggia 1549, p. 112v; cfr.
poi A. Pattin, Un grand commentateur d’Aristote: Agostino Nifo, in B. Mojsisch -
O.  Pluta (edd.), Historia philosophiae medii aevi: Zur Geschichte der Philosophie
des Mittelalters, II, Amsterdam - Philadelphia 1991, pp. 787-803. Per l’aristote-
lismo minturniano si veda almeno B. Hathaway, The Age of Criticism: The Late
Renaissance in Italy, Ithaca - New York 1962, pp. 225-228.
7
Le date suggeriscono una sfasatura fra biografia reale e biografia letteraria:
Giraldi era nato nel 1504; il culmine della carriera d’un autore come Minturno, nato
nel 1500, se non prima, s’inizia nel 1559, col De Poeta. A dire il vero già negli anni
Venti Minturno aveva completato una poetica in volgare, oggi perduta, l’Accademia;
inoltre, una lettera del 1541 sembrerebbe provare che a quella data il De Poeta era
in una fase compositiva relativamente avanzata. Su questi problemi intervengono
G. Belloni, G. Andrea Gesualdo e la scuola a Napoli, in Laura tra Petrarca e Bembo.
Studi sul commento umanistico-rinascimentale al Canzoniere, Padova 1992, pp. 189-
225, e F. D’Alessandro, Il Petrarca di Minturno e Gesualdo. Preistoria del pensiero
poetico tassiano, «Aevum» 79, 2005, pp. 615-637. Molte pagine dell’Arte poetica
sono la traduzione o l’adattamento di altre del De Poeta, per cui i due trattati affron-
tano sovente gli stessi temi – ad esempio la legge delle cinque uscite (DeP 255 =
AP 158) – ma solo l’Arte poetica risente delle precisazioni giraldiane, che non sareb-
bero sfigurate nel trattato latino: quindi Minturno lesse i Discorsi cinziani d o p o
aver scritto il De Poeta.
8
G. Ferroni - A. Quondam, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza
della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma 1973, p. 25. Fa perno sull’ecletti-
smo del De Poeta il mio saggio, La cultura letteraria di Antonio Minturno, «Giornale
storico della letteratura italiana» 181, 2004, pp. 544-557.

155
Davide Colombo

letterario dominato dal neoaristotelismo, da intendersi come «rispo-


sta rinnovata ad una più remota condizione di struttura» 9. Un buon
punto d’avvio per la mia indagine può essere allora la constatazione
di Giancarlo Alfano di una successiva divergenza tra il teorico ferra-
rese e quello meridionale a partire da una comune «incertezza tra un
patrimonio culturale illustre e in principio con­siderato inalienabile e
l’adeguamento alle richieste del pubblico, all’interno del più generale
mutamento politico e ideologico» 10. Il casus belli, che permetterà di
chiarire e determinare in diacronia e diatopia il concetto da cui sia-
mo partiti di un classicismo uniformemente declinato al singolare, è
forse l’opposta ricezione dell’Orlando Furioso: «Ariosto costituisce la
difesa del poeta contro la poetica» 11, nel senso che mentre Minturno
scrive un’Arte poetica volta alla definizione del poema attraverso nor-
me metastoriche, Giraldi è in bilico tra questo atteggiamento e uno
più retorico, teso alla formazione del poeta attraverso modelli storici
come Ariosto 12.
Va aggiunto che nella sua tacita contesa non di rado Minturno
accomuna ai Discorsi cinziani i Romanzi di Giovan Battista Nicolucci
detto il Pigna, un altro letterato estense, allievo di Giraldi, destinato
a ripercorrerne le orme come docente universitario e segretario duca-
le 13. I trattati del Cinzio e del Pigna, usciti nello stesso anno, il 1554,
e nella stessa temperie postariostesca, s’occupano con ampie conver-
genze dei generi della Poetica aristotelica, poema e teatro. Superare gli
effetti di sovrimpressione e distorsione provocati da questa concomi-

9
Lo ha chiarito G. Mazzacurati, Prologo e promemoria sulla «scoperta»
del­la Poetica (1500-1540), in Id., Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli 1977,
pp. 1-41 (la citazione è a p. 22).
10
G. Alfano, Dioniso e Tiziano. La rappresentazione dei «simili» nel Cinque-
cento tra decorum e sistema dei generi, Roma 2001, p. 145.
11
S. Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinasci-
mentali (1540-1560), Napoli 1996, p. 155.
12
«Per l’auttorità degli scrittori et per l’uso introdutto (dal quale sarebbe pre-
suntione a partirsi)» (DCT 105) i romanzi sono scritti in ottave, che per Giraldi
producono diletto negli ascoltatori e garantiscono riposo alla fine di ogni stanza.
Quando tratta dell’ottava Minturno riprende questi argomenti (AP 264-265) e
quindi si trova costretto a preferire i modelli alla norma tutte le volte che il suo
trattato assume la forma di grammatica descrittiva della poesia.
13
G.B. Pigna, I Romanzi, a cura di S. Ritrovato, Bologna 1997 (indicato in
seguito con Rom.).

156
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

tanza è arduo, anche perché Giraldi e il Pigna ammettono l’intreccio


interdiscorsivo tra Discorsi e Romanzi dopo che il Pigna ha accusato il
Cinzio di plagio, e quindi ciascuno deve accreditare la propria versio-
ne dei fatti 14. Ho però deciso di privilegiare la messa a fuoco del riuso
dell’antico da parte dei soli Giraldi e Minturno sia per non gravare il
saggio di richiami al raffronto routinier tra Giraldi e il Pigna, in linea
di massima già esperito dagli specialisti 15, sia perché l’apporto del Pi-
gna all’Arte poetica appare meno rilevante, in questa triangolazione,
di quello di Giraldi. Ho preferito perciò avvalermi dei Romanzi come
mero complemento all’indagine, in modo da non distrarre l’attenzio-
ne dall’assunto principale del mio lavoro, il rilievo che Giraldi occupa
nelle riflessioni di Minturno sull’antico. Il Calvino delle Lezioni ameri-
cane direbbe che «siamo sempre alla caccia di qualcosa di nascosto o
di solo potenziale o ipotetico, di cui seguiamo le tracce che affiorano
sulla superficie del suolo» 16.

2. Il romanzo: classicismo ortodosso


vs. classicismo modernista

Chi volesse risolvere con formule semplici questioni complicate po-


trebbe dire, in prima battuta, che Giraldi si fa interprete d’un classi-
cismo modernista che ammette che il gusto muti nei secoli 17, laddove

14
I trattati di Giraldi e del Pigna ebbero una comune incubazione in discorsi
orali, nati in ambito didattico forse nel segno di Ariosto, ma poi slittati su un tono
familiare: da qui deriva quella «intavolatura argomentativa in buona parte comune»
poi sviluppata da entrambi gli autori in autonomia, come scrive S. Benedetti,
Accusa e smascheramento del «furto» a metà Cinquecento: riflessioni sul plagio critico
intorno alla polemica tra G.B. Pigna e G.B. Giraldi Cinzio, «Studi (e testi) italiani» 1,
1998, pp. 233-261 (p. 235).
15
Le più esaustive analisi delle assonanze tra Romanzi e Discorso dei romanzi
sono condotte da A. Boilève-Guerlet, Le genre romanesque: des théories de la
Renaissance italienne aux réflexions du XVII e siècle français, Santiago de Com­postela
1993, pp. 71-98, e da Jossa, Rappresentazione e scrittura cit., pp. 139-252.
16
I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, I, Milano 1995, p. 693.
17
«Il bisogno di modernità» si stagliava già nella prima pagina della ricerca
di C. Guerrieri Crocetti, G.B. Giraldi ed il pensiero critico del sec. XVI, Milano -
Genova - Roma - Napoli 1932. In seguito diversi studiosi hanno compendiato il
riuso cinziano dell’antico attribuendo o togliendo a Giraldi la patente di modernista:

157
Davide Colombo

Minturno è fedele al classicismo radicale di un’arte immutabile, che


può adattarsi ai nuovi tempi solo per aspetti non sostanziali  18. Più
precisamente per Giraldi il romanzo è un genere moderno di poesia,
e come tale va dispensato dalle leggi di Aristotele e di Orazio e giu-
dicato sulla base d’una poetica nuova. Giraldi canonizza Ariosto non
perché – come vuole il Pigna – riprende l’epica antica, ma perché vi
si oppone, ad esempio nel continuo intrecciarsi di azioni diverse; di
contro l’Arte poetica di Minturno rappresenta la tendenza ad attacca-
re i romanzi in generale, il Furioso in particolare, da un punto di vista
neoaristotelico. I romanzi non sono poesia, sostiene Minturno, perché
non seguono i precetti di Aristotele e di Orazio relativi a unità e coe-
renza nell’intreccio. Per quanto sia un poeta di grande ingegno, mo-
dello per la satira volgare, Ariosto non s’è limitato a raccontare della
follia di Orlando, ma ha affastellato tante azioni che scompaginano
l’ordine narrativo  19. Questa versione della sempiterna Querelle des
Anciens et des Modernes 20 si polarizza attorno ai termini della poesia e
alle vestigia degli antichi 21. Al proposito Giraldi è esplicito:

cfr. ad esempio infra, nt. 20. In realtà, a seconda della visuale da cui lo si studia il
Cinzio può apparire antico o moderno, poiché da buon classicista crede che le let-
tere saranno moderne purché tornino a esser antiche.
18
Nella ricostruzione di A. Quondam, Rinascimento e Classicismo. Materiali
per l’analisi del sistema culturale di Antico regime, Roma 1999, che tra l’altro offre
stralci generosi dell’Arte poetica, questa assurge a «standard paradigmatico», in
senso anche compilativo e divulgativo, dell’estetica classicistica allo zenit della sua
parabola. Si veda infra, nt. 42.
19
Il quadro di riferimento è tracciato da D. Javitch, Ariosto classico. La cano-
nizzazione dell’Orlando Furioso, Milano 1999.
20
Secondo M. Bouchard, L’unité d’action face à la modernité de Giraldi Cinzio.
Le Discours sur la composition des Romants (1554) et la tradition narrative française,
«Quaderni d’Italianistica» 24, 2003, pp. 97-108, il Cinzio andrebbe ricollocato
nella lotta tra Antichi e Moderni per il suo rifiuto, appunto moderno, dell’unità
d’azione.
21
La metafora dei vestigia – nota caratteristica del lessico critico cinziano:
cfr. infra, nt. 53 – è la levatrice del riuso dell’antico nel Discorso dei romanzi. Nella
lettera del 25 luglio 1548 (pubblicata in G.B. Giraldi Cinzio, Carteggio, a cura di
S.  Villari, Messina 1996, pp. 224-225), il Pigna chiede a Giraldi un parere per
potersi difendere contro i «morditori dell’Ariosto», i quali l’accusavano tra l’altro
di questo, «ch’egli non abbi seguitato le vestigia degli antichi poeti». La risposta
di Giraldi rappresenta un primo abbozzo d’idee ch’egli promette di sviluppare.
Nell’ambito della contesa con l’ex maestro il Pigna smentisce però d’aver scritto

158
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

non debbono gli auttori che sono giudiciosi et atti a comporre, così
stringere la loro libertà fra i termini di chi prima di loro ha scritto,
che non ardiscan porre un piè fuori dell’altrui orme; che oltre che ciò
sarebbe male usare i doni c’havesse a loro dati la madre Natura, aver-
rebbe anco che la poesia mai non uscirebbe di que’ termini, i quali le
havesse posto uno scrittore, né più oltre moverebbe il piè di quello che
l’havessero fatta caminare que’ primi padri. (DR 54)

I «termini c’ha messi Aristotile» (DR 33) interessano non i romanzi,


ma i poemi epici di stampo omerico-virgiliano 22. Minturno controbat-
te schierandosi dietro l’insegna di Virgilio, «sommo et eccellentissimo
poeta» (AP 12):
Né perché sempre fu lecito a poeti, e sia sempre anchora, d’uscir della
via tenuta dagli altri, è da credere ch’egli credesse doversegli conce-
dere il poter trapassare i termini alla poesia prescritti. Lasciò Virgilio
quelle cose che potuto havrien tenere intenti ad udire gli animi otiosi,
come già dette dagli altri e divulgate, e si dispose di tentar quella via
per la qual egli anchora si potesse
di terra alzare, e per le bocche altrui
chiaro e vittorioso girne a volo [Verg. georg. 3.9],
non però sì che da’ circoscritti fini e da’ più degni authori servati si
di­lun­gasse. (AP 30)

Il cenno al topos «io offro cose mai dette prima», esemplificato da un


verso delle Georgiche, dimostra, a parere di Minturno, che Virgilio
seppe volare sulle bocche degli uomini senza però allontanarsi dalla
via segnata dai più grandi autori. Secondo Giraldi lo scrittore deve
sfruttare i talenti ricevuti da madre natura, che a Virgilio «nova ape»
aveva consentito di «scieglier tutto il buono» (DR 43) degli autori gre-
co-latini 23. Proprio Virgilio, favorito dalla natura, è l’autore chiamato

quella lettera, allo scopo di negare a Giraldi la priorità cronologica nella trattazione
dei romanzi.
22
Bernardo Tasso assume la posizione modernista proprio in una lettera a
Giraldi, edita nel Carteggio di questi (supra, nt. 21) alle pp. 289-293, e dedicata al
tema del titolo da dare a un poema: i «termini» della norma dei grandi scrittori sono
inviolabili, ma questo non vale per l’Amadigi, diverso dai poemi di quegli scrittori
e perciò non sottoposto alle loro regole (ivi, p. 291). Pur senza abbandonare Ari-
stotele, il Pigna ripete: «io non lodo lo star più ne’ termini della passata poesia»
(Rom. 51).
23
La poligenesi ideativa simboleggiata dall’ape è sondata da V. Gallo, Da
Trissino a Giraldi. Miti e topica tragica, Manziana 2005, la più aggiornata disamina

159
Davide Colombo

in causa da Giraldi nel prosieguo della citazione, che riaggiorna un


altro diffuso luogo comune, quello inaugurato da Marsilio Ficino di
un Rinascimento come età dell’oro di tutte le arti liberali:
La onde, conoscendo il gran Vergilio che, s’è lecito alla architettura,
all’arte militare, alla rhetorica, alla geometria, alla musica et alle altre
arti che son degne di libero animo, aggiungere, crescere, minuire,
mutare, giudicò che ciò tanto più fosse convenevole al poeta […]. Et
perciò in moltissimi luoghi mostrò come poteano i buoni scrittori, cal-
pestando la medesima via per la quale erano caminati i più antichi,
torcersi alquanto dal viaggio fatto da loro, et lasciando talhora le loro
orme, co’ propri lor passi andarsi ad Helicona. (DR 54)

Il gran Virgilio, «regola del giudicio delle cose gravi et magnifiche»


(DR 43), ha introdotto il cambiamento in poesia poiché ha riconosciu-
to ch’esso era consentito alle altre arti liberali. Pure Minturno ricorre
alla metafora delle api per prescrivere un’imitazione eclettica, capace
di assimilare in profondità, e quindi di occultare, i modelli 24. Tuttavia
è probabile ch’egli avesse in mente il passo cinziano appena citato 25
nel momento in cui scriveva, in piena contrapposizione, che nelle va-
rie discipline l’origine è anche la meta:

del riuso dell’antico da parte del Cinzio coturnato. Già Bartolomeo Lombardi,
nella Praefatio al commento scritto con Vincenzo Maggi, In Aristotelis librum De
Poetica communes explanationes, Venetiis 1550, p. 6, paragona Virgilio all’ape per
sot­tolinear­ne la capacità di prendere il meglio di tutte le arti. Nella prima parte
della Praefatio Lombardi sostiene un principio storicista (i poeti del presente pos-
sono superare quelli del passato), ma su base aristotelica (è necessario però ch’essi
seguano la Poetica dello Stagirita). Condizionano in parte l’analisi gli stessi problemi
che poi agitano il Cinzio: (1) Virgilio e le arti; (2) il rapporto antichi-moderni.
Lombardi e Giraldi sono divisi dal ruolo da assegnare ad Aristotele: assoluto per
Lombardi, esegeta aristotelico; relativo per Giraldi, convinto che il romanzo non
soggiaccia alle leggi del filosofo.
24
La matrice culturale del locus di AP 445 sulle api è però diversa, petrar-
chesca, come ha chiarito A. Afribo, Teoria e prassi della gravitas nel Cinquecento,
Firenze 2001, pp. 64-65. Dell’imitazione eclettica in Minturno discute B. Grazioli,
L’Amore innamorato di Antonio Minturno, in AA.VV., Il prosimetro nella letteratura
italiana, a cura di A. Comboni - A. Di Ricco, Trento 2000, pp. 351-401.
25
Si tenga comunque presente che nel secondo libro dei Romanzi Ariosto,
benché imitatore di Omero e di Virgilio, è appunto «l’ape» capace di selezionare il
meglio della tradizione romanzesca (Rom. 78), lo scrittore «prattico in assai scienze»
(ivi, p. 84).

160
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

E qual arte, quale scienza, qual disciplina si truova, non l’architettu-


ra, non la musica, non la pittura, non la scultura, non la militia, non
la medicina, nella quale chiunque s’essercita non s’ingegni di seguire
le vestigia degli antichi, e colui sia più lodato che a quelli ne va più
dapresso? Solamente la poesia presume ne’ nostri tempi quel che in
lei da savi fu sempre biasimato; né manca chi ne la tenga più bella e
miglior che mai. (AP 33)

Il Discorso dei romanzi di Giraldi viene attaccato in virtù di un oppo-


sto riuso dello stesso modello antico, Virgilio, dovuto a un’opposta
concezione del fare letterario: le leggi di Aristotele e di Orazio sono
per Minturno una verità che non cambia mai e alla quale occorre sem-
pre attenersi, visto che «una è la verità, e quel che una volta è vero,
convien che sia sempre et in ogni età, né differenza di tempi il cangia,
come ch’ella habbia potere di cangiare costumi e vita» (AP 33). Ma se
le regole dell’arte non cambiano mai, allora è inaccettabile una forma
artistica come il romanzo, che quelle regole consapevolmente misco-
nosce. Perciò Minturno ammette il successo del romanzo presso il
volgo, che accetta ciò che ignora e poi non cambia idea; non ammette
invece che illustri literati, pur consci del fatto che i romanzi non se-
guono i precetti di Aristotele e di Orazio, si sforzino comunque di di-
fenderli. Il rilievo che avvia la breve sezione dell’Arte poetica dedicata
ai romanzi è il loro successo presso «gli huomini volgari che non san-
no che cosa è la poesia, né conoscono in che consiste l’eccellentia del
poeta» (AP 26). L’obiettivo della polemica è ancora il progressismo
degli ariostisti estensi, Giraldi e il Pigna, i quali con toni diversi sug-
geriscono che lo scrittore di romanzi debba piacere anche ai dotti 26.
In tal modo presso la Scholarship del tardo Cinquecento incomincia a
prepararsi la strada per quella che sarà, nella generazione successiva,
l’antitesi fra Ariosto, «romanzatore» di successo fuori dagli schemi, e
Tasso, sprezzante verso il volgo ma ligio alla tradizione 27.

26
Scrive Giraldi che «dee essere a gran cura al poeta ch’egli [il soggetto della
composizione poetica] sia tale che […] possa piacere in ogni tempo, non pure a’
dotti, ma a tutti gli huomini di quella favella nella quale egli scrive» (DR 26). A
parere del Pigna «lo scrittor de’ romanzi […] pone le cose più chiaramente, percio-
ché finge d’esser ascoltato e da intendenti e da poco dotti» (Rom. 138).
27
La riscoperta della Poetica d’Aristotele nel secondo Cinquecento e i susse-
guenti commenti neoaristotelici collidono col successo di vendite dei romanzi, in
particolare del Furioso, superiore a quello del già canonizzato Petrarca, malgrado

161
Davide Colombo

3. Inizio «in medias res» ed «entrelacement»

Seguire le vestigia degli antichi in tutte le arti liberali, compresa la


poesia, per Minturno ha come corollario l’unità del soggetto: d’un so-
lo soggetto debbono scrivere i poeti del presente, come hanno fatto
quelli del passato. Sull’argomento interviene Vespasiano Gonzaga, un
altro personaggio del dialogo:
per maggior chiarezza del vero di questa cosa vi dimanderò: come la
regola che ci diede Aristotele, et Horatio confermò, convien che sia
vera, se quel che scrisse l’Heracleida, e quel che compose la Theseida,
e Papinio che fe’ l’Achilleida, et Ovidio che narrò le mutationi degl’id-
dii, degli huomini, e delle cose, da tutti già poeti son riputati? Anzi
Dione Chrysostomo, philosopho eccellentissimo, riprende Homero,
percioché scrivendo l’Iliada non cominciò da principio a narrare la
guerra troiana: onde egli più quel che fe’ la Picciola Iliada, e quel che
scrisse le Cose Cypriane, loderebbe. (AP 34)

La regola aristotelica confermata da Orazio è quella «ch’oggimai è in


bocca ad ognuno» secondo il Pigna, la regola che prescrive ai poeti «di
non raccontare la guerra di Troia a partire dal duplice uovo», ovvero
di cominciare in medias res 28. Secondo Giraldi così deve fare il poeta

l’inosservanza delle norme aristotelico-oraziane. Un passo dei tassiani Discorsi


dell’arte poetica (editi con quelli Del poema eroico da L. Poma, Bari 1964, pp. 22-23)
unisce in endiadi successo del Furioso e digressione dalle vestigia degli antichi:
«l’Ariosto […] partendo dalle vestigie de gli antichi scrittori e dalle regole d’Ari-
stotele, ha molte e diverse azioni nel suo poema abbracciate, è letto e riletto da
tutte l’età, da tutti i sessi, noto a tutte le lingue, piace a tutti, tutti il lodano, vive e
ringiovinisce sempre nella sua fama, e vola glorioso per le lingue de’ mortali»: dove
si noterà la criptocitazione finale del verso delle Georgiche richiamato da Minturno.
Rispetto dei modelli e superciglio verso il volgo profano qualificano Torquato nei
versi cinziani del capitolo L’autore all’opera, in coda agli Ecatommiti (pubblicato
da S. Villari, Per l’edizione critica degli Ecatommiti, Messina 1988, pp. 82-132):
«Questi, per torsi da la volgar gente, / segue di quanti son buoni i vestigi, / con
pronto passo e con vivace mente, / e, ammirando del padre l’Amadigi, / cerca di
fargli ir presso il suo Rinaldo» (ivi, p. 88). Dell’influenza di Minturno su Tasso
discorre la D’Alessandro, Il Petrarca di Minturno cit., a conferma del dialogo, tal-
volta del conflitto, fra Minturno e l’intellettualità ferrarese.
28
Giraldi crede «che ne’ componimenti di una sola attione sia da servare il
precetto d’Horatio, che disse: Nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo [ars
147]. Il quale precetto tolse però egli dalla Poetica di Aristotile et dall’essempio
de’ buoni poeti, che si sono dati a scrivere poema di una sola attione» (DR 30-31).

162
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

che descrive una sola azione; invece il poeta che volesse comporre un
romanzo dedicato alle molte azioni d’un uomo illustre – come chi ha
scritto di Ercole o di Teseo, oppure come Stazio, che ha scritto di
Achille – potrebbe incominciare non in medias res, bensì dall’inizio
della vita dell’eroe (DR 31). È vero che Aristotele loda Omero per non
aver raccontato tutta la guerra di Troia, perché altrimenti l’intreccio
sarebbe stato troppo lungo; tuttavia «vi sono mille modi di accorcia-
re la lunghezza dell’opera» (DR 32), come ha mostrato Ovidio nelle
Metamorfosi. Omero, che scrive un poema d’una sola azione, fa bene
a cominciare l’Iliade non dall’inizio della guerra di Troia, ma dall’ira
di Achille; nondimeno Dione Crisostomo lo riprende per non aver
cominciato dall’inizio (DR 34).
Ora il brano dell’Arte poetica diventa più comprensibile: se è vero
che bisogna cominciare in medias res, Minturno si chiede per quale
motivo siano comunque considerati poeti molti che non l’hanno fatto,
l’autore dell’Eracleida, quello della Teseida, Ovidio, Stazio, tutti nomi
già messi in fila da Giraldi. E giraldiano, con convergenze letterali in-
dubitabili, è il rimando a Dione Crisostomo, critico dell’Iliade e quin-
di dell’impostazione aristotelica:
Dione Chrisostomo, philosopho eccellente, biasima Homero che, nel
descrivere la ruina di Troia, non cominciasse dal principio et dall’ori-
gine della guerra. (DR 34)

Anzi Dione Chrysostomo, philosopho eccellentissimo, riprende Ho-


mero, percioché scrivendo l’Iliada non cominciò da principio a narrare
la guerra troiana. (AP 34)

Dione mostra di non aver chiara la differenza tra storico e poeta: gli
autori citati scrivono infatti storie in versi, ed Ovidio nelle Metamor-

Rappresentano un ausilio prezioso in materia le note del commento al Discorso dei


romanzi a cura di L. Benedetti - G. Monorchio - E. Musacchio, Bologna 1999:
a p. 54 nt. 51 ci si domanda «se Giraldi fraintenda coscientemente la lezione di
Aristotele, oppure se intenda proporre una poetica alternativa che accolga forme
letterarie inesistenti ai tempi dei Greci». Di errori e fraintendimenti parla G. Bal-
dassarri, Introduzione ai Discorsi dell’Arte Poetica del Tasso, «Studi tassiani» 26,
1977, pp. 5-38; tale linea esegetica è ricusata da P. Mastrocola, L’idea del tragico.
Teorie della tragedia nel Cinquecento, Soveria Mannelli 1998, pp. 26-27, poiché
appropriazione selettiva di Aristotele e dell’aristotelismo significa sempre deforma-
zione più che assoluta fedeltà.

163
Davide Colombo

fosi narra una storia favolosa (AP 34). A Giraldi che sostiene che i
poemi a più azioni sono simili alla storia, e quindi possono narrare
i fatti dall’inizio  29, Minturno ribatte secondo Aristotele che v’è una
differenza noumenica fra storico e poeta e che questa non consiste
nell’uso del verso: ad Ovidio non basta versificare nelle Metamorfosi
i racconti di scrittori greci per esser ritenuto poeta (AP 34)  30. È la
gente comune, continua Minturno, che chiama poeti coloro che scri-
vono in versi; ma questo, conclude, è un punto già indagato nel suo
precedente trattato latino, il De Poeta 31. Quel che Minturno non può
sapere è che il riuso cinziano dell’antico assume talvolta la funzione
strumentale-giustificativa di codificare la poetica in funzione della
poesia: Giraldi avrebbe voluto accludere a una nuova edizione dei Di-
scorsi la famosa lettera a Bernardo Tasso del 1556, in cui si legge che
il Discorso dei romanzi è stato scritto «per render conto» della coeva
stesura dell’Ercole 32.

29
È opinione di Giraldi che «come la compositione della historia si comin-
cia dal principio delle cose, così i componimenti delle attioni di tutta la vita di un
huomo hanno origine dal principio de’ suoi fatti illustri» (DR 31). Secondo il Pigna,
invece, proprio per non somigliare a uno storico non si dovrà raccontare dal «primo
principio» (Rom. 40). Aristotele dice sì che la storia racconta più azioni, ma non che
debba raccontarle dall’inizio.
30
Al pari di Minturno, anche Sperone Speroni, nel frammento De’ Romanzi
(pubblicato nel quinto volume delle sue Opere, Venezia 1740, pp. 520-522), impu-
gna contro Giraldi il discrimine aristotelico poesia/storia – verso/non verso: «è una
gagliofferia il dir come dice il Giraldo de’ romanzi: perché romanzi sono eroici, che
sono poemi, o sono istorie in verso, e non poemi: come son le tragedie e commedie
in prosa, che sono dialoghi, non poemi» (ivi, p. 521). Si vedano J.L. Fournel, Il
«camaleonte» e il «cuoco». Sperone Speroni e la critica del romanzo, «Schifanoia» 12,
1991, pp. 105-109, con cenni a Minturno; Jossa, Rappresentazione e scrittura cit.,
pp. 193-215.
31
Idque, mea quidem sententia, non recte, cum Poetae ut posita vis est in effin-
gendo, ita nomen ab eo quod effingitur sit deducendum, ut qui non utatur imitatione,
eo nomine haudquaquam proprie sit appellandus […]. Itaque, sive unius generis
versus ad scribendum assumant […], sive multorum generum […], nisi imitentur,
neutiquam poetae vocabuntur (DeP 26). Tra gli autori considerati poeti dal volgo
perché scrivono in versi (AP 34), figurano Arato e Nicandro, già accomunati da Cic.
de orat. 1.69, il modello strutturale del De Poeta (cfr. D. Colombo, La struttura del
De Poeta di Minturno, «Acme» 55, 2002, pp. 187-200).
32
Giraldi, Carteggio cit., p. 284. Della tendenza a codificare la poetica in fun-
zione della poesia il saggio di D. Javitch Self-justifying Norms in the Genre Theo-
ries of Italian Renaissance Poets, «Philological Quarterly» 67, 1988, pp. 195-217,
ha fatto uno dei perni interpretativi del Discorso delle commedie e delle tragedie di

164
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

Giraldi parla d’inizio in medias res nella sezione dei Discorsi dedi-
cata alla dispositio: difatti la dispositio dei romanzi, poemi a più azioni,
richiede due tecniche non adottate dai poemi ad azione unica come
quelli di Omero e di Virgilio (DR 51-54). La prima tecnica consiste
nell’intervento della voce narrante a inizio canto; la seconda, denomi-
nata nei romanzi francesi entrelacement (Giraldi preferisce «rompi-
menti»), è l’interrompere e il riprendere gli episodi senza svilupparli
in modo continuo. Giraldi, seguìto da non pochi studiosi di oggi, giu-
stifica la seconda tecnica in quanto mezzo per rafforzare la suspense:
[gli scrittori di romanzi] in questo loro troncar le cose conducono il
lettore a tal termine, prima che le tronchino, che gli lasciano nell’ani-
mo un ardente desiderio di tornare a ritrovarla. (DR 53)

Minturno contesta che interrompere più volte il corso del dire tenga
desta l’attenzione:
Né truovo esser vero che l’attentione più se n’accenda, ma più tosto
se ne spenga: conciosiach’ella se n’infiammi col desio d’intenderne il
fine, non quando si tralascia la cominciata narratione per un’altra, ma
quando per molti accidenti a quella istessa materia appertenenti s’in-
dugia la finale essecutione. (AP 35)

È in gioco lo stesso piano metaforico del desiderio che «arde» o «s’in-


fiamma»: il desiderio di conoscere il finale viene accresciuto quando
si ritarda la conclusione senza cambiare filo della storia, non quando
s’intrecciano più fili; e anzi, se questa tecnica non fosse viziosa, con-
clude Minturno, l’adopererebbero anche poeti di testi ad azione unica
come Virgilio 33.

Giraldi e di altre opere di poeti-teorici del Rinascimento. Arruolando Aristotele a


difendere le proprie novità teatrali, Giraldi, opina Javitch, «wanted simultaneously
to be modern and vital and yet to anchor his practice in tradition» (ivi, p. 205): da
un lato egli subordina i precetti classici al gusto del suo pubblico; dall’altro include
questa prassi moderna in una tradizione canonica ratificata da Aristotele, nel segno
d’una poetica borderline votata al compromesso e alla commistione.
33
Nel suo Ariosto classico cit., pp. 155-185, ancora Javitch spiega che l’irrego-
larità viziosa dell’intreccio discontinuo del Furioso è un topos degli oppositori cin-
quecenteschi all’Ariosto: in particolare, la polemica di Minturno (AP 35) colpisce la
distinzione del Pigna tra interruzioni opportune e inopportune (Rom. 49). Le discon-
tinuità provocate dalle interruzioni potrebbero allungare a dismisura il poema: però,
secondo il Pigna, «meglio è ch’egli in grandezza pecchi che in picciolezza, essendo

165
Davide Colombo

4. Il tempo della tragedia

L’urgenza d’indirizzare la produzione e ricezione dei nuovi generi


poetici – e pertanto di definirli in rapporto dialettico con i generi
antichi – spinge i teorici del Cinquecento a guardare alla Poetica di
Aristotele e quindi ad adottare la sua prospettiva unitaria su poema
e teatro 34. Condiviso da Giraldi e Minturno è l’intendimento di col-
mare la mancanza di regolamentazione del teatro contemporaneo  35,
intesa prima di tutto come criterio di efficacia spettacolare. Discorsi e
Arte poetica accolgono le prescrizioni cronometriche di Aristotele, e
cioè che il dramma deve finire quando s’è verificato un cambiamento
di fortuna, anche se il tempo della rappresentazione scenica non è
prestabilito, come invece accadeva per l’antichità, quando s’usava la
clessidra 36. In più, Giraldi azzarda un’indicazione – non meno di tre
ore per la commedia, non meno di quattro per la tragedia – deri-

da più un gigante che un pigmeo, ed essendo che la beltà più nell’esser grande con-
siste che ben lineato» (Rom. 49). Ribatte Minturno: «né se il gigante è più bello del
pimmeo e meglio è che si pecchi in grandezza che in picciola statura, parrà miga
bello l’animale che senza misura sia grande e con le membra le quali tra loro non
habbiano proportione» (AP 32).
34
Al pari del Pigna, Minturno rifiuta l’estensione cinziana al romanzo del
principio aristotelico per cui le tragedie possono esser inventate. A dire il vero
Aristotele, in riferimento a una tragedia per noi perduta, il Florindo (o Fiore) di
Agatone, osserva che i nomi degli eroi di quella tragedia sono inventati quanto gli
eventi e che, mentre la maggior parte della tragedie greche si basa su racconti tradi-
zionali, racconti puramente inventati ci danno un piacere non minore (Poet. 1451b).
Giraldi allarga tale marginale concessione (la favola inventata dà un piacere non
minore rispetto a quella storica) sino a farne una regola centrale della sua teoria. Di
contro, per il Pigna «Agatone loda non merita con questa sua popolaresca novità»
(Rom. 25). Per Minturno, benché il trageda scriva talvolta di cose nuove, «lo scrittor
de’ romanzi, senza haver punto riguardo alla verità, finge quel che non fu mai»
(AP 29), e questo è inaccettabile.
35
Penalizzato da drammaturghi che vogliono scrivere senza sapere «l’arte»:
si confronti «mi è stato grato che non habbiate voluto mettervi a comporre (come
veggio fare a molti hoggidì) senza saperne l’arte» (DCT 207), con «io domanderò
della scenica poesia: percioché a’ nostri tempi molti ne scrivono senz’arte» (AP 64).
36
La vicenda tragica finisce nel momento in cui giunge dalla sventura a uno
stato felice, o dalla felicità alla sventura: questa frase aristotelica (Poet. 1451a), in cui
il lieto fine e il suo contrario paiono alternative in ugual modo legittime, ha forse
aperto la strada alla cinziana tragedia a lieto fine, accanto alla tragedia tout court.
Aristotele si limita ad affermare che l’agnizione migliore nasce dalla vicenda stessa,
come nell’Edipo re di Sofocle e nell’Ifigenia in Tauride di Euripide (Poet. 1455a): e

166
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

vante dalla sua personale esperienza di Dramaturg, per cui «l’atten-


tione degli spettatori […] ha dato segno che troppo lunga non sia
lor paruta la rappresentatione condutta in scena fra quello spatio di
tempo» (DCT 210). Il criterio di efficacia spettacolare influisce pure
sul tempo della storia rappresentata, pari a un giorno o poco più
secondo Giraldi, il quale con l’autorità d’Aristotele dichiara d’aver
composto «l’Altile et la Didone di modo che la lor attione toccò al-
quanto di due giorni» (DCT 213) 37. Minturno, pur adeguandosi ad
Aristotele, aggiunge la nota personale trovata in Giraldi: il tempo
della storia «in un dì si termina, o non trapassa lo spatio di duo gior-
ni» (AP 71); il tempo della rappresentazione scenica – «non meno
di tre hore né più di quattro» (AP 71) 38 – è subordinato al giudizio
degli spettatori:
E nel vero il giudicioso poeta dee misurare il tempo con la materia del-
le cose che si rappresentano, sì che più tosto disiderio di voler l’opera
più lunga rimanga in quelli che l’ascoltano, che noia d’haver troppo
dimorato ad ascoltarla. (AP 71)

Ecco, presente e viva, l’impronta del precursore Giraldi:


è meglio lasciar più tosto un poco di desiderio negli animi degli spet-
tatori di haverla [la rappresentazione] voluta alquanto più lunga, ha-
vendo rispetto al tempo, che col troppo allungarla lasciargli infastiditi.
(DCT 210)

dato che l’Ifigenia finisce bene, Giraldi si sente autorizzato a scrivere che l’agnizione
migliore è appunto quella propria delle tragedie a lieto fine (DCT 235).
37
Dice bene C. Molinari, Scenografia e spettacolo nelle poetiche del ’500, «Il
Veltro» 8, 1964, pp. 885-902, a p. 897: «non gli [a Giraldi] interessa infatti tanto
interpretare l’esatto significato del noto passo aristotelico [sul tempo], quanto piut-
tosto dar rilievo al fatto che nelle due o tre ore in cui si svolge la rappresentazione si
racchiude un lasso di tempo comunque assai più lungo: non si tratta quindi di una
questione letteraria, ma al contrario squisitamente scenica: il tempo in cui si svolge
l’azione teatrale è diverso da quello reale e concretamente misurabile».
38
Così ha scritto anche A. Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo
di rappresentare le favole sceniche, a cura di M.L. Doglio, Modena 1989, p. 13: «non
devendo la rappresentazione con tutti i cori overo gl’intermedi ancora durar più di
tre ore e mezza in quattro; e quella che arriverà alle cinque, per dilettevole ch’ella
sia, non ischiferà il tedio di molti degli uditori». La committenza ducale pretende
però una durata di sei ore per la Cleopatra (DCT 210) e per la Didone (Giraldi,
Carteggio cit., p. 169).

167
Davide Colombo

Tanto deve durare un dramma da lasciare negli spettatori, una volta


finito, il desiderio che duri di più 39. Il pragmatismo cinziano scalfisce
l’assolutismo delle leggi poetiche predicato da Minturno: quanto deb-
ba durare una storia non è fissato dagli infallibili Aristotele e Orazio,
ma è condizionato dal labile gusto degli spettatori.

5. La legge delle cinque uscite

L’analisi della legge delle cinque uscite – il precetto stabilito da Do-


nato nel suo commento a Terenzio, per cui nessun personaggio può
presentarsi in scena più di cinque volte  40 – comprova che Giraldi
contribuisce ad allentare l’assolutismo minturniano in fatto di riuso
dell’antico. Minturno segue Giraldi nel constatare che un’applicazione
letterale del precetto non sempre trova riscontro nell’effettiva pratica
teatrale terenziana 41; il Cinzio conclude allora che «tante volte vi può
ella [la persona che vi s’introduce] uscire, quanto basti a sciogliere
convenevolemente il nodo della favola et condurla al fine» (DCT 290-
291), mentre Minturno osserva che i precetti degli antichi maestri non
sono princìpi intangibili che si debbano sempre osservare, ma vanno
intesi secondo l’uso comune (AP 158) 42. Malgrado ciò, subito dopo

39
A detta di S. Di Maria, The Italian Tragedy in the Renaissance. Cultural
Realities and Theatrical Innovations, Lewisburg - London 2002, pp. 37-46, una
rappresentazione teatrale del Cinquecento doveva essere così lunga da assolvere il
ruolo di evento politico-culturale unico, pensato per un pubblico nobile, abbastanza
educato per apprezzare la prevalenza della parola sull’azione.
40
Don. ad Ter. Andr. praef. 2 (3) principio dicendum est nullam personam
egressam quinquies ultra exire posse.
41
Giraldi, che attribuisce tale legge ai «grammatici» connettendola al numero
degli atti, è il primo studioso rinascimentale ad osservare però che Davo nell’An-
dria si presenta in scena sette volte, Cremete nell’Heautontimorumenos ben otto.
Nell’Arte poetica Angelo Costanzo interpreta come suo solito la parte di Giraldi,
senza però giungere all’identica conclusione per il fatto che al Davo dell’Andria
Minturno attribuisce un’uscita in meno.
42
Il classicismo ortodosso propugnato per il romanzo lascia dunque il posto
a una prospettiva più tollerante: che Minturno sia tradizionalista sul romanzo non
significa che lo sia sempre, con la stessa logica suggerita per Giraldi supra, nt. 17.
Serve perciò prudenza nell’opporre il «dogmatismo de Minturno» allo «espíritu
innovador y antiautoritario» di Giraldi, come scrive invece L. Beltrán Almería, La
teoría de la novela de G.B. Giraldi Cintio, «Romanische Forschungen» 108, 1996,

168
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

Giraldi continua ad essere l’obiettivo non dichiarato della «sottintesa


polemica letteraria» dell’Arte poetica, poiché il modernismo cinziano
va troppo oltre:
alcuni, i quali per aventura sanno poco del latino e pochissimo del gre-
co, non pur nella tragedia Seneca, appena da’ latini scrittori conosciu-
to, ad Euripide et a Sophocle, da tutti prencipi nella tragica poesia ri-
putati, antipongono, ma temerariamente affermano le favole de’ Greci
non esser divise in atti et in scene come quelle de’ Romani. (AP 158) 43
L’accusa qui rivolta a Giraldi, affine a quella mossagli anche dal Pi-
gna, di conoscere pochissimo la lingua greca, se non è generica, deriva
forse dalla disputa sulla morte in scena, in cui Minturno fa discendere
la propria interpretazione, ostile al Cinzio, dalla conoscenza «della
greca favella» 44. La nota predilezione per Seneca è stata espressa in
questi termini da Giraldi:
quasi in tutte le sue tragedie egli [Seneca] avanzò (per quanto a me
ne paia) nella prudenza, nella gravità, nel decoro, nella maestà, nelle
sentenze, tutti i Greci che scrissero mai. (DCT 235)

pp. 23-49, a p. 48. Le aperture di Minturno alla modernità sono rilevate da Afribo,
Teoria e prassi cit., p. 138, e Alfano, Dioniso e Tiziano cit., p. 120 nt. 32, sulla
scia di Benedetto Croce. Vida, Minturno, Castelvetro, Patrizi e altri trattatisti erano
infatti per Croce «i primi arditi sistematori della Poetica, i primi che cercarono di
costituire un corpo di dottrine logicamente connesse, le quali, certamente, dovevano
essere in seguito superate, ma furono tuttavia il punto d’appoggio pel progresso
e pel superamento: non pedanti, dunque, ma uomini d’ingegno; non retrivi, anzi,
secondo consentiva il loro tempo, novatori» (cfr. B. Croce, Di un giudizio romantico
sulla letteratura classica italiana, in Id., Problemi di estetica e contributi alla storia
dell’estetica italiana, Bari 1923, p. 458).
43
M. Lamagna, Un precetto donatiano, la divisione in atti ed un critero estetico
rinascimentale, «AAP» 42, 1993, pp. 65-100, ha avuto il merito di focalizzare la
«sottintesa polemica letteraria» di Minturno nei confronti di Giraldi riguardo alla
legge delle cinque uscite; non ha però chiarito a sufficienza i luoghi dei Discorsi che,
alimentando quella polemica, permettono l’identificazione di Giraldi come obiet-
tivo.
44
Il Pigna accusa Giraldi d’ignorare il greco nell’ambito della nota diatriba;
al riguardo mi permetto di rimandare al mio La postilla sulla morte in scena nei
«Discorsi» di Giraldi Cinzio, in AA.VV., Per Franco Brioschi. Saggi di lingua e let-
teratura italiana a cura di C. Milanini - S. Morgana, Milano 2007, pp. 137-147.
Noto solo che nell’Arte poetica Angelo Costanzo, assunti i panni consueti di Giraldi,
ripropone la tesi cara al Cinzio e al Pigna, che la morte può avvenire in scena a
condizione che non sia crudele. Il rifiuto minturniano di rappresentare sul palco la
morte di un personaggio si basa sulle fonti consuete, Aristotele in primis (AP 91).

169
Davide Colombo

Giraldi asserisce poi che le rappresentazioni greche non sono divise in


atti e in scene: la legge delle cinque uscite
non può cadere nelle favole greche, perché, secondo l’opinione de’ più
antichi, mai non rimaneva vuota la scena, perché non si partivano mai
tutti gli histrioni di scena, et non erano le lor favole divise in atti et in
scene come le nostre. (DCT 288)

Questi passi determinano la reazione di Minturno anche al di là del


problema specifico e tutto sommato secondario rappresentato dalle
cinque uscite, giacché s’innestano nel contrasto più generale, e per-
ciò stesso più radicale, i cui termini sono esemplarmente compendiati
dalle pagine che i due trattatisti riservano alla struttura della tragedia.

6. La struttura della tragedia:


sull’«Ecuba» di Euripide

L’innesto della tradizione classica sul teatro moderno richiede a Gi-


raldi di convogliare la propria esperienza di uomo di teatro nell’alveo
dell’aristotelismo medio-cinquecentesco. Non v’è dubbio che nell’ot-
tica di Giraldi, come di Minturno, Aristotele non sia Aristotele solo,
ma anche, e forse soprattutto, l’esegesi aristotelica, quella che Bernard
Weinberg chiama «the Tradition of Aristotle’s Poetics»: ossia quanti
si sono messi sulle tracce dello Stagirita come traduttori, interpreti,
commentatori  45. Per la Poetica la tragedia dalla struttura duplice si
conclude in maniera opposta per i buoni e per i cattivi. La glossa a
questa definizione da parte di Vincenzo Maggi, esegeta aristotelico
docente a Ferrara, può risultare dirottante: «duplicem autem Aristo-
teles eam constitutionem vocat, in qua duorum generum hominum
imitatio fiat»  46. Forse Giraldi è stato in tal modo spinto a credere
che la favola doppia contenga due innamorati, due anziani, due servi,
alla maniera delle commedie terenziane. L’interpretazione di favola

45
B. Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, I-II,
Chicago 1961.
46
Poet. 1453a e Maggi, Explanationes cit., p. 155. Si consulti anche la mia
Introduzione a G.B. Giraldi Cinzio, Arrenopia, Torino 2007, pp. VIII e XI.

170
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

doppia che Giraldi ha tratto da Maggi viene avversata da Minturno


attraverso le parole dell’interlocutore Angelo Costanzo, che, come già
s’è detto, nella finzione del dialogo presta spesso la voce al teorico
ferrarese:
Et doppia chiamo io quella favola, la quale ha nella sua attione diverse
sorti di persone in una medesima qualità, come due inamorati di diver-
so ingegno, due vecchi di varia natura, due servi di contrarii costumi,
et altre tali, come si vede nell’Andria et nelle altre favole del medesimo
poeta. (DCT 224)

Hor chiaramente m’avveggio quanto s’ingannino coloro che tengono


doppie quelle favole terentiane, le quali comprendono in una mede-
sima qualità diverse maniere di persone, cioè duo giovani innamorati,
duo vecchi, duo servi di natura e di costume diversi, quali nell’Andria
e nell’Heautontimorumeno e nell’altre comedie del medesimo poeta gli
troviamo. (AP 125)

La controversia sulla favola doppia concerne in particolare l’Ecuba


di Euripide, tradotta in latino e in volgare, in quanto testo base del
revival euripideo nell’ambiente umanistico e rinascimentale italiano 47.
Giraldi riporta l’opinione di coloro che ritengono ch’essa debba esser
semplice, non doppia, perché si conclude dolorosamente 48:
Non mancano, però, di quelli che dannano l’Hecuba di Euripide, per-
ché dicono ch’essendo ella di doloroso fine, deveva essere semplice et
non doppia, però che le persone doppie alla infelice non convengono.
(DCT 266)

47
Cfr. A. Pertusi, Il ritorno alle fonti del teatro greco classico: Euripide
nell’Umanesimo e nel Rinascimento, «Byzantion» 33, 1963, pp. 391-426; ma soprat-
tutto P. Cosentino, Cercando Melpomene. Esperimenti tragici nella Firenze del
primo Cinquecento, Manziana 2003. Tra quanti si cimentano con traduzioni euri-
pidee spicca il nome di Erasmo da Rotterdam: le sue traduzioni latine dell’Ecuba
e dell’Ifigenia in Aulide, uscite a Parigi nel 1506 e a Venezia nel 1507, lodate da
Giraldi nel Giudizio d’una tragedia di Canace e Macareo (1550), contribuiscono alla
rinascita del genere tragico (cfr. E. Rummel, Erasmus as a Translator of the Classics,
Toronto - Buffalo - London 1985; Erasmo Desiderio da Rotterdam, Tragedie di
Euripide. Hecuba-Iphigenia in Aulide, a cura di G. Bárberi Squarotti, introduzione
di F. Spera, Torino 2000).
48
Era stato il Pigna a scrivere invece che «l’Odissea festevolmente e gioiosa-
mente finisce intorno ad Ulisse e ad Elena, ma intorno a i Proci in doglianza e in
angosce si risolve, ed è perciò doppia» (Rom. 29).

171
Davide Colombo

Minturno pensa che non sia la conclusione felice o infelice della favola
a renderla doppia:
a quel philosopho [Aristotele] non la felicità de’ buoni e la infelicità
de’ rei nel fine faccia doppia la favola, ma senza dubbio il riconciliarsi
tra loro i nimici, et il finire in pace et in allegrezza. (AP 86)

Gli studiosi cinquecenteschi a bella posta ignorano che Aristotele è


un critico del suo tempo, che converte in canoni le convenzioni dei
drammi greci che conosce: perciò nell’abuso dirimente dell’auctoritas
della Poetica «non si tratta […] di capire Aristotele: ma di fare di Ari-
stotele un maestro e un impostatore di princìpi, come se i fondamenti
del suo pensiero fossero buoni tutt’ora» 49. L’Arte poetica ha assimilato
la tesi cinziana della presenza nell’Ecuba di due agnizioni e due peri-
pezie diverse:
Ma nell’Hecuba vi sono due peripetie et due agnitioni diverse et sepa-
rate l’una dall’altra: quella di Hecuba che, pensando Polidoro vivo et
salvo, il ritrova morto; quella di Polinestore, che pensandosi di haver
Hecuba amica et perciò devere havere novo thesoro, la prova nemica,
sì che da lei gli sono cacciati gli occhi et morti i figliuoli. (DCT 266)

Alcuni dicono esservi [nell’Ecuba] due riconoscenze e due peripetie


diverse, e l’une dall’altre separate. L’une d’Hecuba, che pensando
d’haver Polydoro vivo e salvo, morto il ritruova; e l’altre di Polynne-
store, che là dove egli s’avvisava Hecuba essergli amica, e dover perciò
conseguire nuovo thesoro, la si truova tanto nimica, che danno gravis-
simo ne riceve. (AP 87)

Se un teorico della cosiddetta Age of Criticism replica a un altro, com’è


il caso di Minturno nei confronti di Giraldi, ancorché motivato da
una generale attrazione o repulsione, egli seleziona specifici argomen-
ti o dottrine 50. Come accade per il romanzo, la questione non si limita
però solo al punto specifico dell’Ecuba, ma ritorna alla nota antinomia
fra due concezioni della letteratura:
Niuno io credo che in ciò vi possa contradire se non se alquanti simili
a questi nuovi Aristarchi, i quali, se ben intendessero l’arte della poesia

49
G. Toffanin, La fine dell’umanesimo, Manziana 1991-1992 (19201), pp. 41-42.
50
Hathaway, The Age of Criticism cit., p. VI.

172
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

insegnataci da’ savi antichi qual nell’opere de’ sommi poeti la trova-
rono, tanto arditi e presontoosi non certamente sarieno, che non si
vergognassero di riprendere immoderatamente Euripide e Sophocle, i
nomi de’ quali devrieno havere in somma riverenza; né di trovar nuove
poesie, come se l’antiche non fussero di molto pregio. (AP 88)

Anche quando sembra mero restauro archeologico, il riuso dell’an-


tico assume una fortissima carica di attualizzazione militante che lo
proietta sul presente e lo illumina di nuovi inaspettati risvolti. Aristar-
co è il critico arcigno e pedante per antonomasia: nella Tavola delle
cose memorabili che precede il testo vero e proprio dell’Arte poetica
compare l’indicazione «Aristarchi nuovi ripresi». I nuovi Aristarchi,
non comprendendo l’arte della poesia che i saggi antichi trassero dai
sommi poeti, criticano Euripide e Sofocle ed escogitano nuovi tipi di
poesia. Nel mirino Minturno ha inquadrato il Discorso delle comme-
die e delle tragedie, che per certuni aspetti si definirebbe «un grande
manifesto di avanguardia letteraria […], senza troppe reverenze nei
confronti dei mostri sacri del classicismo accademico», Aristotele da
un lato, Sofocle ed Euripide dall’altro 51. È stato a ragione osservato
che «l’escavazione classicistica del Giraldi alla ricerca dello spettacolo
antico mira […] a sottolineare la progressiva acquisizione di nuove
forme teatrali al palcoscenico moderno» 52. Orazio sostiene che i poeti
romani meritano grande onore poiché non hanno pedissequamente
seguito le orme dei Greci: «il che habbiamo anche <fatto> nelle nostre
tragedie» – postilla Giraldi, dopo aver citato i versi oraziani – «<nel-
le> parti che ci è paruto <lodevo>le trallasciare qualch<e uso an>tico
et introdurvi il n<uovo> o ritrovato da noi o to<lto dal> costume ro-

51
La definizione è di M. Ariani, La tragedia, in Storia di Ferrara, VII. Il Rina-
scimento. La letteratura, coordinamento scientifico di W. Moretti, Ferrara 1994,
pp. 380-406, a p. 384. Nei Discorsi il primo riferimento congiunto a Sofocle ed Euri-
pide è sfavorevole (DR 42), in virtù della considerazione che tutti i poeti presentano
aspetti deteriori da non imitare. Inoltre i princìpi stabiliti da Aristotele valgono solo
per le poesie dei tempi suoi, non, come s’è visto, per il romanzo: questo è l’arco
di volta del classicismo progressista cinziano. Giraldi non ha comunque quella
perentorietà di giudizio che Minturno gli attribuisce, dal momento che le pagine
sull’Ecuba terminano con una professione di relativismo critico: «quello che di ciò
sia da determinare il lascio io (come academico in questa parte) al giudicio de’ più
dotti di me» (DCT 267).
52
L. Riccò, Il teatro «secondo le correnti occasioni», «Studi italiani» 17, 2005,
pp. 5-39 (p. 10).

173
Davide Colombo

mano» (DCT 278) 53. L’epilogo dell’Orbecche 54 e il prologo dell’Altile


mettono ulteriormente a fuoco l’assioma di accidentalità dei fatti po-
etici e delle leggi che li governano. A differenza di Minturno, Giraldi
si presenta nelle vesti di militante aristotelico, disposto però a limitare
l’autorità metastorica dello Stagirita prima in nome d’Aristotele stes-
so, o meglio d’un aristotelismo mediato e «temperato» 55, poi in base
alla storicità dell’arte e alla necessità d’adeguarsi alle richieste della
committenza, del pubblico, dei tempi nei quali si scrive. La cultura
letteraria italiana del secondo Cinquecento è marcata dal frastagliato
valico dalla natura alla regola, verso il consolidamento delle norme
e la chiusura delle forme 56. Giraldi è allora un teorico di frontiera 57,
un camaleonte per certi aspetti già ancorato alle regole, per altri an-
cora aperto a moderate istanze antiregolistiche, «oltre l’auttorità di
Aristotile» (DCT 248). Più in generale, rileva Stefano Jossa, «Giraldi
resta in bilico tra natura e regola, platonismo ed aristotelismo, retori-
ca e poetica, in un estremo tentativo di difesa della funzione ‘totale’
dell’intellettuale […], costretto ad assecondare la committenza ma ca-

53
Scrive Orazio: Nil intemptatum nostri liquere poetae / nec minimum meruere
decus vestigia Graeca (ars 285-286). Le parentesi uncinate segnalano le integrazioni
della Villari alle postille di Giraldi ad un esemplare dei Discorsi conservato all’Ario-
stea di Ferrara e mutilato dalla rifilatura di uno sventato rilegatore.
54
In Teatro del Cinquecento, I. La tragedia, a cura di R. Cremante, Milano -
Napoli 1988, pp. 436-437: «ben pazzo fora / colui il qual, per non por cosa in uso /
che non fosse in costume appo gli antichi, / lasciasse quel che ’l loco e ’l tempo
chiede / senza disnor». La rivendicazione di libertà inventiva a causa delle mutate
condizioni di vita è un topos dei prologhi comici primo-cinquecenteschi: basti
vedere il dialogo tra Prologo e Argomento della Strega del Lasca, stampata nel 1582.
Nondimeno la rivendicazione di libertà nasce nel caso della commedia dall’assenza
di regole, nel caso di Giraldi dalla volontà di non assolutizzare regole d’incipiente
affermazione.
55
R. Scrivano, Classicismo ed esotismo nelle tragedie di Giambattista Giraldi
Cinzio, in AA.VV., Regards sur la Renaissance italienne. Mélanges de Littérature
offerts à Paul Larivaille, Études réunies par M.-F. Piéjus, Nanterre 1998, pp. 229-
236, a p. 233.
56
Valgano le indicazioni di E. Raimondi, Dalla natura alla regola, in Id., Rina-
scimento inquieto, Palermo 1965, pp. 7-21; C. Dionisotti, Geografia e storia della
letteratura italiana, Torino 1967; G. Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni. La
crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna 1985.
57
G. Mazzacurati, Aristotele a corte: il piacere e le regole (Castelvetro e l’edo-
nismo), in Id., Rinascimenti in transito, Roma 1996, pp. 131-157 (p. 147).

174
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

pace di orientarla e di guidarla» 58. La sigla di questa poetica ambigua,


basculante fra natura e regola, è un’idea storica della scrittura, attenta
ai bisogni d’una rappresentazione conveniente.

7. La convenienza delle persone

Nel teatro cinziano come in quello antico, età, sesso e status socia-
le, le uniche informazioni di solito fornite sui personaggi del dram-
ma oltre a qualche cenno sulla loro indole  59, sono valutate col me-
tro della convenienza, «categoria al tempo stesso retorica ed etica,
o meglio adattamento etico (generalizzante) di un principio retorico
(particolareggiante)» 60. La commedia non approva una «giovane ver-
gine o polzella» nelle vesti di personaggio, a meno che, come Plauto
meglio dimostra rispetto a Terenzio, ella sia non libera, ma «esposta»;
d’altra parte non è contrario al decoro che nella commedia recitino
madri di famiglia accorte, sagge, non toccate dalla passione amorosa.
È questa una delle differenze fra tragedia e commedia: la tragedia,
infatti, accetta da una parte le giovani, dall’altra gli amori scellerati di
donne gravi quali Fedra e Clitemnestra. Giraldi spiega che una donna
di giovane età può esser rappresentata in una tragedia ma non in una
commedia «per la ragion della scena, et per la ragion delle persone
in essa introdotte, et per gli ragionamenti che vi si fanno». La scena
comica, che accoglie «persone di lasciva et di dishonesta vita» e i loro
discorsi licenziosi, non s’addice al «decoro di una giovane vergine»;

58
Jossa, Rappresentazione e scrittura cit., p. 216.
59
È una delle fratture fra teatro antico e moderno-shakespeariano secondo
E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur,
Bern 1946 (ed. ital. Torino 1956, II, p. 71). Si consideri quanto osservano M. Mor-
rison e P. Osborn nella Nota bibliografica della loro edizione della Cleopatra di
Giraldi, Exeter 1985, pp. VIII-IX: «Giraldi viene biasimato e criticato per non
essersi adeguato a quelle che sono essenzialmente esigenze moderne nei confronti
del teatro – creazione di personaggi, azione diretta, confronto drammatico e con-
flitti psicologici. Queste caratteristiche […] non compaiono in nessuna tragedia del
sedicesimo secolo».
60
A. Quondam, Magna & minima moralia. Qualche ricognizione intorno
al­l’etica del Classicismo, «Filologia e critica» 25, 2000, pp. 179-221 (p. 207).

175
Davide Colombo

per contro le persone reali della tragedia non ragionano di cose lascive
e agiscono perlopiù nella corte 61.
Nell’Arte poetica chiara si rinnova una partizione di ruoli: Angelo
Costanzo fa sue le domande avanzate da Giraldi, Minturno dà rispo-
ste dissonanti rispetto a quelle giraldiane. Il primo dubbio riguarda le
«differenze» tra le «persone che nella scenica poesia si introducono»:
ho veduto che nella comedia non apparisce, né viene in scena a ragio-
nare, donzella la qual sia libera; e s’alcuna vi se ne ’ntroduce, come
nella plautina poesia veggiamo, benché nella terentiana non si vegga,
è divenuta serva; là dove nella tragedia fanciulle vergini non una volta
si rappresentano, quali furono Elettra, Antigone, Ismene, Iphigenia,
Polyssena, et altre simili. Nella comedia anchora non truovo donna
maritata la qual honesta e pudica non sia; come che nella tragedia non
una impudica e scelerata se ne mostri, qual fu Clytennestra e Phedra.
(AP 119)

Il quesito è lo stesso, perlopiù collimanti gli esempi, coincidenti certe


espressioni; diverso è lo stile, poiché alla scrittura agile e diretta di
Giraldi fanno da pendant in Minturno periodi folti d’incisi, che af-
fettano pompa di stile e copia di parole. In più la risposta del teorico
meridionale, per cui in una casa privata una donna vive ritirata prima
di sposarsi, mentre in una reggia ha più occasione di parlare con «ogni
maniera di persone», per quanto giraldianamente informata al deco-
ro 62, risulta ispirata non tanto ai dettami del palco, quanto alla pratica
della «civil conversazione», nata proprio in area meridionale col De

61
Il principio del decoro dei personaggi femminili è riscontrato dal Cinzio sul
teatro classico, dal Pigna sull’ariostesco (DCT 301 e Rom. 114-115). Lo svolgimento
è pressoché corrispondente nei due trattati, che concludono notando che una donna
può calcare le scene comiche solo se nelle mani d’un ruffiano. Allo stesso modo il
Pigna verifica nella Lena di Ariosto il divieto evanziano agli attori di rivolgersi agli
spettatori (Rom. 116-118). In materia il Cinzio e il Pigna mostrano una sostanziale
coincidenza di prospettive nei trattati usciti nel 1554, anche se già nel 1541 Giraldi
aveva impostato il problema nella lettera sulla Didone, e col Giudizio antisperoniano
del 1550 l’aveva approfondito nei termini poi ripresi dai Discorsi. Quando s’occupa
dello stesso tema, l’Arte poetica di Minturno segue, nell’analisi del v. 1031 dell’Eu-
nuchus di Terenzio O populares, ecqui’ me hodie vivit fortunatior?, la lettura del
Pigna, non quella del Cinzio.
62
Giraldi (DR 75-77) e Minturno (AP 426-429) condividono i princìpi di Cice-
rone e Quintiliano sul decoro; per Giraldi, cfr. il commento al Discorso dei romanzi
nell’edizione a cura di Benedetti - Monorchio - Musacchio cit., pp. 99-101.

176
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

sermone di Giovanni Pontano e ratificata, prima che da Stefano Guaz-


zo, da Castiglione: «il ragionare del cortigiano è sempre imperfettis-
simo, se le donne, interponendovisi, non danno loro parte di quella
grazia, con la quale fanno perfetta e adornano la cortigiania»  63. Oltre
a ciò, per Minturno le donne sposate sono oneste nella commedia e
impudiche nella tragedia in maniera consentanea alla conclusione dei
due tipi di favola, lieta e pacifica nella commedia, rovinosa e funesta
nella tragedia (AP 119) 64.
Anche per il vecchio innamorato è in gioco la convenienza. Il
senex libidinosus risulta accettabile se, senza moglie, agisce con di-
screzione, «con mezzani et con danari et con lo spendere più largo»
(DCT 304); «è fuori di quel che conviene», e quindi inaccettabile, se
diventa un cattivo esempio e commette le «sciocchezze […] che fe’
fare al suo Calandro il Bibiena» (DCT 303-304) 65. Il parere di Giraldi
è bollato come «openione d’Aristarchi» nel paratesto dell’Arte poetica
e riformulato in questi termini nel testo:

63
Castiglione, Cortigiano cit., I, p. 225.
64
Si noti però che Minturno rimodula un principio verificato dal Pigna nei
romanzi, allorché afferma che rappresentare una donna filosofa o guerriera non
è contrario al decoro in certe circostanze: «chiunque hoggi philosophare o pur
armeggiare alcuna donna facesse, con la fama e con l’authorità degli scrittori difen-
dersi potrebbe» (AP 50); e il Pigna: «i romanzi […] non tutte le donne fan gagliarde
né a tutte dan carico di cavalleria, ma a quelle sole che o per fama o per auttorità
di libri esser armigere ritrovano» (Rom. 39). Sul personaggio femminile nel teatro
di Giraldi cfr. da ultimo I. Romera Pintor, Dos heroínas giraldianas frente a frente:
Euphimia y Epitia, in I. Romera Pintor - J.L. Sirera (edd.), Relación entre los teatros
español e italiano: siglos XVI-XX, Valencia 2007, pp. 39-53; A. Bianchi, Alterità ed
equivalenza. Modelli femminili nella tragedia italiana del Cinquecento, Milano 2007.
65
Secondo il commento della Villari (DCT 304 nt. 1), oltreché il Calandro di
Bibbiena, «la critica doveva colpire implicitamente anche la figura di Cleandro dei
Suppositi dell’Ariosto […] e di messer Nicia della Mandragola di Machiavelli». Il
topos del «vecchio amoroso» – questo il titolo d’una pièce del fiorentino Donato
Giannotti (1533-1536) – è ampliamente usufruito da Gli Eudemoni (1549), l’unica
commedia di Giraldi, a partire dal monologo iniziale del servo Lamprino, sulla base
della convinzione che «l’inamorarsi così fissamente, che spesso sia indutto l’amante
a sconvenevolezza, è meno disdicevole nella gioventù, che nell’età matura» (Giraldi,
Carteggio cit., p. 326). Sugli «attempati scemi, et di poco consiglio», torna il terzo
dei Dialoghi della vita civile di Giraldi (in Id., La seconda parte degli Hecatommithi,
Monte Regale 1565, pp. 121-122): «i capelli canuti non fanno l’huomo vecchio, ma
il senno, et la prudenza, et non è cosa più sconvenevole nel mondo che un vecchio,
che ne’ maturi anni viva talmente, che paia che pure allhora cominci ad apparare di
vivere».

177
Davide Colombo

Adunque sarebbe degno di riprensione chi simili amori dal comico


trattati perciò riprendesse, che inducono cattivo essempio e sono con-
tro al convenevole ne’ costumi richiesto, conciosiacosaché al vecchio
non stia bene lo innamorarsi. (AP 120)

«Perché no?» ribatte Minturno, appellandosi al fine della poesia co-


mica: il riso che scoppia quando vediamo sul palco il vecchio innamo-
rato da un lato insegna che quel comportamento è da evitare, dall’al-
tro nasce dalla meraviglia intesa come fine della poesia comica  66. Quel
riso diventa conveniente nel momento stesso in cui intreccia retorica
ed etica.

8. Conclusioni

L’analisi svolta fin qui ha permesso di registrare quella «insorgenza


di modi e lemmi appartenenti a un preciso vocabolario concettuale»
rilevata da Afribo 67 riguardo alla gravitas: le vestigia degli antichi e i
termini della poesia fondano reti metaforiche che trapassano dai Di-
scorsi all’Arte poetica 68, ferma restando la difformità di stile e d’impo-
stazione, visto che Minturno non ha la scioltezza discorsiva di Giraldi.
Il rigorismo di pensiero minturniano, talora proclive alla sottigliezza

66
M.T. Herrick, Some Neglected Sources of Admiratio, «Modern Language
Notes» 62, 1947, pp. 222-226.
67
Afribo, Teoria e prassi cit., p. 30, invita a pensare «alla frequenza di una
parola come superstizione, ma nello stesso tempo alla sua pregnanza nel seguente
passo dell’Arte poetica minturniana» (segue citazione di AP 446; cfr. anche AP 370).
Il nostro Cinzio parla di soperstitione (DR 138) e di superstitiosa diligenza (DR 136)
riscrivendo quanto stampato alle pp. 127-130 dei Discorsi, e poco prima avversa
«la superstitiosa diligenza di coloro che non vogliono che in canto alcuno si trovi
replicatione et similitudine alcuna di rima» (DR 129-130, corsivo mio).
68
Giraldi prescrive la coerenza di reti metaforiche prolungate: «è da porre
gran cura che, come si pigliano le metaphore quando non consistono in una voce
sola […] ma si menano in lungo […], così si conducano al fine. Et non si faccia,
come fe’ colui [Bernardo Tasso] che, lodando monsignore il Bembo, cominciò il
sonetto in volare et il finì in tessere» (DR 174). Minturno sembra ripetere: «parmi
che ragionevolmente si commandi che si debba haver cura in questa maniera di
trasportare, che ciò che seguita risponda a quel che ne va innanzi, affine che, comin-
ciando dalla ruina o dallo ’ncendio, non conchiuda la medesima sentenza con la
tempesta» (AP 312).

178
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

e al cavillo, ritiene «Aristarchi nuovi ripresi» il Pigna e il Cinzio, an-


che se in questa sede abbiamo considerato solo il secondo. Giraldi è
«ripreso» sia, in misura minore, nel senso di rimodulato, come per
il tempo della rappresentazione scenica e della storia rappresentata,
sia, e soprattutto, nel senso di biasimato. S’è visto che il Cinzio con-
tribuisce ad allentare l’assolutismo delle leggi poetiche in precedenza
affermato da Minturno, che gli deve aperture moderniste inattese ri-
spetto al trattato latino gemello dell’Arte poetica, il De Poeta 69. D’altro
canto Minturno biasima il collega ferrarese perché egli colpevolmente
disconosce i teorici del passato, in primis Aristotele, che rinvennero
l’arte della poesia nei sommi tragedi Sofocle ed Euripide. Non a caso,
Minturno prescrive il riuso sia di Sofocle, e in particolare dell’An-
tigone tradotta da Alamanni (perché non esiste un modello tragico
migliore, da cui si possa prender esempio: AP 75), sia di Virgilio, con
siffatta giustificazione:
percioch’io non insegno romanzi, ma quella poesia la qual seguirono
Dante e Petrarca, come coloro che non si volsero partir dal camino il
qual tenne Virgilio et Homero, non trovando essempi di quel ch’io
dico in questi nostri, ricorro volentieri a più antichi, e spetialmente a
Virgilio. (AP 427) 70

Il riuso letterario dell’antico nel Cinquecento, decisivo per la fonda-


zione del classicismo volgare a opera di trattatisti quali Minturno e
Giraldi, trova la sua ragion d’essere nel movimento oscillatorio fra i
poli analizzati da Torquato Tasso ed evidenziati all’inizio di questo

69
Mentre il De Poeta, p. 348, replica la pagina di Donato de com. 8.6, sui
vestiti degli attori comici, l’Arte poetica s’apre al presente: «convien che s’habbia
a servare nell’habito di ciascuna maniera di persone quella forma la qual ne’ tempi
nostri si vede usare» (AP 150); apertura modernista che forse tiene dietro al Cinzio
(DCT 306) e al Pigna (Rom. 102).
70
Cfr. poi: «ricorro spesso a Virgilio, percioché non mi sovviene, ove si
dica da’ nostri» (AP 398); oppure: «Di molte tragedie la testimonianza ci recate,
le quali nella nostra favella non habbiamo. M[inturno]: Piacesse a Dio ch’io non
fussi costretto di ricorrere al testimonio degli stranieri, ma pur volentieri le v’allego,
accioché coloro li quali han cominciato ad arricchire la nostra lingua della scenica
poesia traducendola e dirivandola da’ fonti greci, s’inanimino a seguir l’impresa»
(AP 84). Allorché Giraldi a sua volta scrive: «non mi vergognerò di addurre essem-
pio latino, quantunque io parli delle cose volgari» (DR 165), si tratta d’un’eccezione,
non della regola.

179
Davide Colombo

saggio, imitazione dei modelli ed osservazione dei precetti. Nel passo


appena riportato, Minturno precisa invero che la sua didattica viene
da Dante e da Petrarca, pedissequi di Virgilio e di Omero, non da Ari-
stotele e da Orazio. Parrebbe di capire che nel Cinquecento un genere
poetico è identificato non con una serie di precetti, ma con lo scrit-
tore modello in quel genere: è la mancanza di un «modello forte» in
un genere che induce a riflettere su di esso 71. L’inibizione allo studio
del genere lirico – dovuta alla forza autonormativa di Petrarca come
auctor canonizzato da Bembo – vale ancora per Giraldi, che pure nel
segno di Bembo ha pubblicato nel 1547 il canzoniere Le Fiamme; non
vale più per Minturno, che attua «l’integrazione della lirica nel siste-
ma aristotelico dei generi» 72. A metà secolo teatro e poema non offro-
no auctores dallo statuto altrettanto paradigmatico, e qui s’accende il
fuoco della controversia. È vero che nel capitolo in coda agli Ecatom-
miti Giraldi omaggia Minturno grazie alla sua capacità di mostrare il
giusto modo di comporre a chi desidera cimentarsi nella tragedia, il
sommo tra i generi letterari 73. Ciò nonostante, per Minturno il giusto
modo di comporre tragedie richiede necessariamente di rivolgersi agli
Antichi, «percioché appena sono quaranta anni che i nostri a scrivere
scenici poemi […] si diedero» (AP 107). In altre parole troppo breve
è la storia del teatro volgare, cominciata nel 1524 con la Sofonisba di
Giovan Giorgio Trissino, perché vi si possano trovare auctores di rife-
rimento. Pertanto il riuso degli antichi drammaturghi è possibile solo
attraverso il filtro delle traduzioni: ad esempio Minturno, che nella
commedia auspica l’imitazione di Aristofane e dei latini, ha tradotto
proprio Aristofane, persuaso del fatto che così sarà possibile eliminar-
ne gli aspetti sgraditi al gusto moderno 74. Su Aristofane Giraldi riba-
disce il giudizio negativo allora corrente a causa della sua inclinazione

71
D. Javitch, La nascita della teoria dei generi poetici nel Cinquecento, «Italia-
nistica» 27, 1998, pp. 177-197, in debito riconosciuto con l’Introduzione di Gros-
ser, La sottigliezza cit., pp. 1-19.
72
P. Sabbatino, L’Arte poetica del Minturno. L’integrazione della lirica nel
sistema aristotelico dei generi, in Id., Il modello bembiano a Napoli nel Cinquecento,
Napoli 1986, pp. 103-124.
73
«Ed il Minturno, ch’ha la penna avezza / a mostrar di comporre il vero
modo / a chi brama poggiare a somma altezza» (Villari, Per l’edizione critica degli
Ecatommiti cit., p. 104).
74
AP 156 e 114. La traduzione è andata persa: cfr. Colombo, La cultura lette-
raria di Antonio Minturno cit., p. 545 nt. 3.

180
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento

verso le cose basse, come «chori di rane et d’augelli» (DCT 232); per
la commedia si limita a invocare il caposcuola Terenzio, assieme ad
Ariosto, imitatore dello stesso Terenzio e di Plauto. È quasi superflua
la raccomandazione di Minturno ai suoi interlocutori: «quei moder-
ni io m’aviso che da voi si tengan di laude più degni, che più sanno
gli antichi imitare, e più loro s’appressano» (AP 66-67). Egli rimane
ancorato all’idea che i migliori risultati antichi in un genere debbano
servire da base, eterni modelli per gli autori moderni. All’opposto,
Giraldi propugna il principio generalissimo della temporalità e con-
tingenza delle regole dell’arte, alla base del progetto dinamico d’una
nuova stagione di ripensamento critico e fervore creativo. Dinamico
ed esuberante sì, quel progetto di frontiera è però ambiguo a causa
del ruolo affidato a Virgilio  75, accostabile a quello di Aristotele nella
teoria cinziana della tragedia e di Trissino nella pratica drammaturgi-
ca: Virgilio è nel contempo la norma («la regola del giudicio delle cose
gravi et magnifiche»), e l’autorizzazione ad infrangerla (egli ha mo-
strato che è possibile «andarsi ad Helicona» senza percorrere la stessa
via calcata dai poeti antichi). Per il romanzo il permesso d’infrangere
la norma omerico-virgiliana viene da Ovidio, autore classico, benché
non aristotelico:
Veggiamo Ovidio, l’ingegnoso, havere trallasciati gli ordini di Vergilio
et di Homero nelle sue Mutationi, et non havere seguiti gli ordini di
Aristotile datici nella sua Poetica, et nondimeno essere riuscito vago
et gentil poeta, con tanto utile della lingua latina, ch’è stata una mara-
viglia, et nondimeno non è egli ripreso perché non habbia seguito le
orme degli altri; il che è avenuto perché egli si die’ a scrivere di cosa,
che sotto quelle regole et quegli essempi non stava, come non vi stan-
no anco le materie de’ nostri romanzi. (DR 55)

Le Metamorfosi sono un modello alternativo tale da giustificare i mo-


derni autori di romanzi, che s’allontanano dalle regole compositive

75
«Quella dei Discorsi è un’operazione culturale pericolosamente condotta sul
filo dell’ambiguità» – conclude D. Rasi, Proposte per una lettura dei Discorsi intorno
al comporre de i Romanzi di G.B. Giraldi Cinzio, in AA.VV., Studi in onore di Vit-
torio Zaccaria in occasione del settantesimo compleanno, a cura di M. Pecoraro,
Milano 1987, p. 285 – «poiché la codificazione delle spinte innovative che il criterio
della relatività del fare letterario ha suggerito è ritenuta possibile solo in quanto già
riscontrabile nel passato, in Virgilio appunto».

181
Davide Colombo

aristoteliche e omerico-virgiliane in quanto inapplicabili al nuovo mo-


do di fare epica. Sulla stessa lunghezza d’onda il Pigna esorta quegli
autori a imitare Ovidio, il quale – contrariamente a quanto asseve-
ra Minturno – merita il nome di poeta malgrado la sua inosservanza
delle leggi della poesia antica 76. Anzi, Giraldi prima aggiunge che ad
imitazione del titolo Metamorfosi Ariosto stesso meglio avrebbe fatto
a chiamare «romanzi» il suo poema a più azioni  77; poi, scrivendo a
Bernardo Tasso, evidenzia le somiglianze strutturali tra le Metamorfo-
si e l’Ercole 78. In definitiva il riuso cinziano di Ovidio, «il più moder-
no degli antichi», promosso da iniziative editoriali ora parallele ora
concorrenti a quelle ariostesche, è funzionale allo sforzo d’innalzare la
letteratura volgare dei Moderni sulle fondamenta di quella latina degli
Antichi nella forma d’una «terza via tra epos e romanzo» 79.

76
Rom. 51: le Metamorfosi «hanno con tutto ciò una bellissima orditura, e
quantunque a niuna certa parte dell’antica poesia sottoposte siano, non è che poeta
non mostrino il lor compositore; e chi in romanzevole forma le trasportasse, forse
che farebbe cosa che <ben> fatta gli verrebbe». In precedenza abbiamo già conte-
stualizzato il giudizio su Ovidio di AP 34.
77
Giraldi, Carteggio cit., p. 288. Rilievi sul titolo del poema ariostesco erano
frequenti tra i suoi primi lettori: si veda la lettera del Pigna riportata nel Carteggio
cit., pp. 224-225. Nell’Arte poetica Minturno riprende dal Pigna la controversia sul
titolo e sull’argomento dell’Orlando Furioso: perché chiamarlo così, se l’attenzione è
rivolta a Ruggiero?
78
Giraldi, Carteggio cit., pp. 311-336. Cfr. D. Rasi, Breve ricognizione di un
carteggio cinquecentesco: Bernardo Tasso e G.B. Giraldi, «Studi tassiani» 28, 1980,
pp. 5-24.
79
Z. Rozsnyói, Dopo Ariosto. Tecniche narrative e discorsive nei poemi posta-
riosteschi, Ravenna 2000, p. 26 per la prima citazione, p. 28 per la seconda. Il riuso
di Ovidio, point de repère per Ariosto e per i teorici del romanzo, è lumeggiato
da D. Looney, Compromising the Classics. Romance Epic Narrative in the Italian
Renaissance, Detroit 1996; da R. Bruscagli, Vita d’eroe: l’Ercole, «Schifanoia» 12,
1991, pp. 9-19; dal capitolo Affiliazioni alle Metamorphoses di Ovidio in Javitch,
Ariosto classico cit., secondo cui «fu grazie alla continua pubblicazione delle Meta-
morphoses in ottava rima di Dolce e di Anguillara che la sfida di Ovidio alla forma
classica venne ampiamente riconosciuta» (p. 152).

182
Guglielmo Barucci
Plinio, e Seneca,
in due lettere
rinascimentali fittizie
dalla villeggiatura

Intorno alla metà del sedicesimo secolo si assiste al recupero e all’im-


mediato apogeo di uno dei generi più tipicamente classici, il trattato
sull’agricoltura. Preannunciata nel 1514 dall’imponente edizione aldi-
na dei Libri de Re Rustica 1, il cui rilievo era confermato dalla scelta di
Leone X come dedicatario, nel volgere di pochi decenni si avvia una
fertile stagione di elaborazioni autonome – anche se sempre in diffi-
cile dialogo con i modelli latini – segnate da prestiti, travasi, recuperi
e prese di distanze che attestano il loro grande successo editoriale  2.

1
Includeva il testo latino di Catone, Varrone, Columella e Palladio.
2
Dopo la traduzione del Libro di agricoltura utilissimo di Gabriel Alonso
Herrera nel 1557, si susseguono già nel 1559 a Brescia La nuova, vaga e dilettevole
villa di Giuseppe Falcone e La villa di Bartolomeo Taegio; nel 1560 il Della agri-
coltura di Giovanni Tatti (un’edizione maturata all’interno di un più ampio pro-
getto editoriale di Francesco Sansovino, che include nello stesso 1560 anche Rutilio
Tauro Emiliano Palladio, col titolo La villa, e nel 1561 la volgarizzazione de Il libro
dell’agricoltura di Pietro de’ Crescenzi); nel 1564 le Dieci giornate della vera agricol-
tura, e piaceri della villa di Agostino Gallo (ampliate a tredici giornate nel 1566, a
venti nel 1569, senz’altro il testo di maggiore diffusione anche internazionale); nel
1565 il Ricordo d’agricoltura di Camillo Tarello, per non parlare delle numerose
riedizioni. È un’attenzione editoriale destinata a non arrestarsi, come indicano nel

183
Guglielmo Barucci

Alla parte strettamente tecnico-pratica sulle varie colture, nella cui


dimensione esperienziale e locale si registra la ragione d’essere rispet-
to ai classici latini, si affianca talora nei diversi trattati una sezione
più circoscritta dedicata alla lode della villa  3, termine tanto tecnico
da divenire metonimia di agricoltura negli stessi titoli  4. Queste se-
zioni, d’altronde, sono anche punto di convergenza di generi lette-
rari diversi ed epicentro di concezioni della vita in campagna tra loro
inconciliabili 5. Nell’idea di «vita in villa», infatti, si intarsiano con il
loro portato di topoi due immagini sostanzialmente diverse della cam-
pagna, riconoscibili già nell’archetipo classico: per cui «c’est l’otium
rural qui constitue l’idéal des Bucoliques, tandis que les Géorgiques
présentent une justification et une glorification du travail» 6, a rilevare
una dicotomia irrisolta tra arcadia di diletti e operosa ruralità. Su tale
opposizione, inoltre, se ne stratifica una ulteriore tra campagna e cit-
tà, imperniata sulla condanna moralistica della vita cittadina – quan-
do non della vita di corte – e sull’elogio della condizione di natura,
con un riscontro poetico ad esempio nell’Aminta tassiano (1573). La
villa dunque assume la funzione di sede della vita perfetta, in grado

1572 il Trattato dell’agricoltura di Clemente Africo; nel 1581 L’agricoltura, et casa di


villa di Charles Estienne (la cui princeps francese è del 1554); nel 1584 Le ricchezze
dell’agricoltura di Giovanni Maria Bonardo; nel 1592 i Villae libri XII di Giovan
Battista Della Porta. Un’ottima introduzione a tutti questi testi è C. Beutler, Un
chapitre de la sensibilité collective: la littérature agricole en Europe continentale au
XVI e siècle, «Annales» 23, 1973, pp. 1280-1301.
3
Riferimento fondamentale resta, naturalmente, J.S. Ackerman, The Villa:
Form and Ideology of Country Houses, Princeton 1990 (trad. ital. Torino 1992).
4
Cfr. D. Frigo, La «vita in villa»: cultura e società nobiliare nel Cinquecento
italiano, «ASSO» 94, 1998, pp. 103-130.
5
Non a caso, a confermare come nella descrizione della vita in villa collassino
più sistemi socio-culturali, Anton Francesco Doni nella Villa (1566, ma ne esistono
due codici, uno veneziano, l’altro reggiano, con marcate differenze tra loro) distin-
gue chiaramente cinque diverse tipologie di villa – in altri testi invece confuse l’una
con l’altra, salvo rare puntualizzazioni – in base ai diversi usi e ai differenti ceti
sociali (nel codice reggiano si aggiunge anche una diversa terminologia): «civile, da
signore» (la villa); «di spasso, da cittadino» (il podere); «di ricreatione, da mercante»
(la possessione); «di risparmio, da artegiano» (la casa); «dell’utile, da contadino» (la
capanna). È da notare che per Doni solo la tipologia più infima è rivolta alla vera e
propria produzione agricola: cfr. U. Bellocchi, Le ville di Anton Francesco Doni,
Modena 1969, da cui cito.
6
R. Martin, Recherches sur les agronomes latins et leurs conceptions économi-
ques et sociales, Paris 1971, p. 161.

184
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

di coniugare piacere e saggezza, come già dichiarato esplicitamente


proprio nella dedica dei Libri de Re Rustica da parte di Fra’ Giocondo
a Leone X 7.
Ciò che ci si propone qui è di seguire alcuni episodi di un par-
ticolare percorso/canone, che, sia pure minoritario, confluisce per
l’appunto nell’alveo maggiore della lode della villa, tanto da interse-
carsi talora con lo stesso trattato di agronomia: ossia lo sfaccettato
sottogenere epistolare che lega un corrispondente in villa a uno in
città. Una tipologia, peraltro, dai confini piuttosto porosi, poiché non
solo la forma epistolare diventa, autonomamente o in connessione
con altri generi di cui impronta in parte la forma, uno dei moduli in
cui si cristallizza la lode della villa, ma, in senso inverso, nelle epi-
stole rinascimentali si addensano elementi desunti da altre forme e
generi latini. L’archetipo fondamentale di tale tradizione è costituito
dalle lettere pliniane destinate a descrivere le ville del Laurentinum e
dei Tusci, come le celeberrime 2.17 e 5.6  8, o comunque imperniate
sul tema del soggiorno in villa, come alcune sezioni minori di quelle
stesse due lettere o, più organicamente, le epistole 1.9 e 9.36, a loro
volta archetipi specifici della tipologia della lettera descrittiva della
propria vita in villa 9. Se è possibile asserire che «nel complesso Plinio
il Giovane non ebbe larga fortuna durante il Rinascimento italiano», a
parte – come desumibile dalle introduzioni alle edizioni – un generico
apprezzamento per lo stile dell’epistolario e una certa tendenza imita-
tiva 10, le lettere sul tema della villa e della villeggiatura furono tuttavia
destinate a lasciare una traccia durevole. Per tale fortuna, più che la
(peraltro assai ricca) storia editoriale 11, sono persino più significativi

7
«Eae, quae ex illis capiuntur voluptates: proxime ad sapientis vitam viden-
tur accedere», in Libri de re rustica, Venetiis 1514, f. IIv.
8
Cfr. L. Beck, «Ut ars natura - ut natura ars». Le ville di Plinio e il concetto
del giardino nel Rinascimento, «ARID» 7, 1971, pp. 109-156, e E. Aubrion, La «Cor-
respondance» de Pline le Jeune: Problèmes et orientation actuelles de la recherche, in
ANRW II.33, 1989, pp. 304-374.
9
Sul ruolo dell’epistolario pliniano per la nostra stessa conoscenza della vita
aristocratica in villa si veda il paragrafo La giornata del proprietario, in H. Mielsch,
La villa romana, Firenze 1999, pp. 120-125.
10
F. Gamberini, Materiali per una ricerca sulla diffusione di Plinio il Giovane
nei secoli XV e XVI, «SCO» 34, 1984, pp. 133-170 (la citazione è a p. 169).
11
Ivi, pp. 157-170. Edizioni e ristampe pliniane ammontano almeno a quindici
tra il 1471 (princeps veneziana in otto libri) e il 1519, attraverso le introduzioni di

185
Guglielmo Barucci

alcuni episodi editoriali che vi si affiancano: ad esempio, nel 1548,


le volgarizzazioni della silloge ad opera di Ludovico Dolce, dal titolo
Epistole di G. Plinio, di m. Franc. Petrarca, del s. Pico della Mirandola
et d’altri eccellentiss. huomini (ossia Angelo Poliziano, Marsilio Fici-
no, Ermolao Barbaro e Girolamo Donato), che vale a identificare un
vero canone di precursori del fenomeno epistolare cinquecentesco  12.
E non sarà certo un caso se più o meno lo stesso canone si ritroverà
in uno dei testi al centro di questo intervento, la Lettera in laude della
villa di Alberto Lollio, allorquando si menziona un serrato catalogo di
autori che seppero coniugare amore per l’agricoltura e studi: catalogo
in cui, con esplicita menzione delle loro lettere 13, compaiono appunto
Ficino, Pico, Poliziano, Plinio, ai quali si affianca Petrarca ricordato
immediatamente prima in una breve sezione monografica 14. Né sarà
un caso se molte delle lettere pliniane antologizzate erano strettamen-
te incentrate proprio sul tema della vita in villa 15, e saranno tra quelle
destinate a essere menzionate in questa sede, a conferma del ricono-

molte delle quali è possibili seguire lo sviluppo delle teorizzazioni sullo stile episto-
lare.
12
Non per nulla nell’introduzione si afferma che nei latini moderni si ha
«Plinio ritornato in vita», c. 1v. D’altronde, Plinio era stato assunto a campione
dell’anticiceronianesimo, specie per l’epistolografia; al riguardo, e in particolare per
il ruolo da lui giocato nelle teorizzazioni di Poliziano e Erasmo, ci si limita a rinviare
a Gamberini, Materiali cit., pp. 150-151.
13
Per quanto concerne la vita in villa, si aggiunge in Lollio la Consolatoria
a Pino de’ Rossi di Boccaccio, un’epistola scritta presumibilmente nel 1361 a un
magnate fiorentino esiliato dopo il fallimento di una congiura antipopolare: vi si è
riconosciuto, principalmente per la descrizione del ritiro a Certaldo, uno dei modelli
della celebre lettera di Machiavelli a Francesco Vettori (1513). La consolatoria si
legge in G. Boccaccio, Opere in versi - Corbaccio - Trattatello in laude di Dante -
Prose latine - Epistole, a cura di P.G. Ricci, Milano - Napoli 1965, pp. 1112-1141.
14
Cito da A. Lollio, Delle Orationi di M. Alberto Lollio gentil’huomo Ferra-
rese, volume primo. Aggiuntavi una Lettera del medesimo in laude della villa […],
Ferrara 1563, c. 231r (ma la princeps è un’edizione giolitiana del 1544). Nel cata-
logo seguono Niccolò Perotti, Jacopo Sannazaro, Silio Italico, il Panormita, Marco
Lepido Orticola, Trifon Gabriele, Bartolo da Sassoferrato, Pietro de’ Crescenzi,
Bernardino Corio. Sostanzialmente lo stesso catalogo, d’altronde, ricorre per il suo
nucleo fondamentale (Pico, Poliziano, Ficino, Plinio, Petrarca, ai quali si aggiunge
Seneca) ancora ne Il diporto della villa. Canto di Senofonte Bindassi da Sant’Angelo
in Vado, Venetia 1582, cc. 13v-14r, e in B. Taegio, La villa, ora in C. Mozzarelli (a
cura di), L’antico regime in villa, Roma 2004, pp. 49-162 (in part. pp. 94-95).
15
Plin. epist. 1.9 (a Fundano); 2.2 (a Paolino); 2.8 (a Caninio); 4.6 (a Nasone);
5.18 (a Macro); 9.7 (a Romano); 9.36 (a Fusco).

186
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

scimento del ruolo giocato dallo scrittore latino in epoca rinascimen-


tale. Inoltre, nel 1588, quasi a sigillo di questa particolare fortuna, uscì
una singolare raccolta tematica intitolata Varie descrittioni di ville di
C. Plinio Secondo, in cui sono riunite alcune delle sue più importanti
epistole sul tema della villa, in specie quelle più tecnicamente descrit-
tive della topografia delle due residenze, assenti invece nel florilegio
di Dolce 16. È significativo che nella dedica di Marc’Antonio Abagaro
a papa Sisto V si proietti chiaramente, grazie alla menzione della villa
dell’Esquilino ad opera di Domenico Fontana, l’immagine di una villa
che sia «trattenimento di Prencipe», in cui questi «stanco tal volta
da gravi cure, ristori l’animo» 17. Siamo ben lontani dunque dall’idea
della villa legata all’agricoltura presentata nei vari trattati, per far af-
fiorare piuttosto l’immagine di un signorile buen retiro, per il quale la
suggestione pliniana di un soggiorno in villa fatto di otium e di letture
era particolarmente efficace.

Come ho già accennato, le lettere di Plinio non si sedimentarono so-


lo nel bacino dell’epistolografia rinascimentale, riaffiorando in molte
delle lettere dalla villa imperniate sulla descrizione della villa stessa  18
piuttosto che della vita quotidiana in campagna. L’impatto pliniano,
coniugato con altre forme e generi, si ripercosse infatti con una forza
timbrica singolare anche in testi non responsivi, lasciandovi, almeno
in parte, proprio un’impronta di tipo epistolare. Il caso più evidente è
costituito dalla già menzionata Lettera in laude della villa di Lollio (il
testo cinquecentesco divulgativo forse più efficace sul tema della vita
in villa, nonché, composto già nel 1544, uno dei primi che ne defini-

16
Varie descrittioni di Ville di C. Plinio Secondo tradotte nella lingua volgare
da Aldo Manucci, Roma 1588. Si tratta di 2.17; 5.6; 8.20; 9.7; 9.36. La ragione di
tale antologia è presentata nel fatto che «se havessero [scil. le descrizioni pliniane]
pari facilità alla leggiadria, sarebbono forse più nelle mani de gli huomini, che non
sono», c. A2r, presumibilmente proprio con riferimento all’ardua terminologia tec-
nica di 2.17 e 5.6.
17
Ibid.
18
La tipologia più strettamente descrittiva dell’architettura della villa, o della
topografia del giardino, riconoscibile in Plin. epist. 2.17 e 5.6, avrà una fortuna
parallela, per la quale basti rinviare alle lettere di Sabadino degli Arienti a Isabella
d’Este, di Battista Campeggi De Tusculana villa sua (in cui i rimandi pliniani sono
strettissimi), di Girolamo Casoni al «barone Sfondrato» in Lettere descrittive di cele-
bri italiani alla studiosa gioventù proposte da Bartolommeo Gamba, Venezia 1832.

187
Guglielmo Barucci

scono un pur disomogeneo, se non caotico, substrato ideologico)   19.


L’opera, pur genericamente ascrivibile al genere oratorio praticato da
Lollio, assume la forma esplicita di una lettera, come evidenziato dal
rinvio a una precedente missiva del destinatario («con la Vostra delli
XVI del passato, voi mi scrivete») e dalla presenza di proto- ed esca-
tocollo. Ciò si conferma nel successivo richiamo all’incipit di una delle
archetipiche lettere pliniane: il testo di Lollio, difatti, prende le mosse
dallo stupore dei conoscenti per i suoi soggiorni in villa («[…] mi scri-
vete che sono molti, i quali non poco si maravigliano, che un par mio,
che può commodamente, et honoratamente stare nella Città; voglia
nondimeno quasi la maggior parte del tempo, habitare alla Villa»)  20,
così come Plin. epist. 2.17.1, esordiva proprio dalla meraviglia di Gal­
lo: Miraris cur me Laurentinum vel, si ita mavis, Laurens meum tanto
opere delectet.
Una serie di elementi pliniani riemerge anche in una seconda
opera fondamentale, di ampio successo non solo italiano, le Venti
giornate dell’Agricoltura di Agostino Gallo 21, che abbandonano sia la
più asettica struttura manualistica allora dominante, sia la dimensione
epistolare, per optare per la forma classica, latina e volgare, del dialo-
go 22. Lo stesso elemento della meraviglia compariva all’esordio della
diciottesima delle Giornate di Gallo, quella in cui si apre il trittico fi-
nale dedicato alla villa, segnato da una forte escursione stilistica («po-
tervi narrare la maraviglia di molti della Città 23; i quali conoscendovi

19
Il rilievo di Alberto Lollio è confermato dalla Libraria di Doni (autore, si è
già detto, di un trattatello sulla villa), che gli dedica un’ampia voce biografica e che
negli elenchi dei generi testuali della «parte terza» riporta al lemma «Lettere» in
prima sede proprio la Lettera di Lollio.
20
Lollio, Lettera cit., c. 211.
21
Fondamentale, al riguardo, C. Poni, Struttura, strategia, ambiguità del­le
«Giornate»: Agostino Gallo fra l’agricoltura e la villa, «Intersezioni» 9, 1989,
pp. 5-39.
22
Già nell’edizione del 1566 delle Giornate compare, all’interno di un cor-
poso paratesto epistolare, uno scambio di lettere tra Lollio e Gallo sul tema della
Lettera in laude della villa. Sui contatti e le distanze tra i due autori si veda l’ottimo
E. Selmi, Alberto Lollio e Agostino Gallo, in M. Pegrari (a cura di), Agostino Gallo
nella cultura del Cinquecento, Atti del Convegno (Brescia, 23-24 ottobre 1987), Bre-
scia 1988, pp. 271-314.
23
Inoltre, sia in Plinio (epist. 5.6.3 quae et tibi auditu […] iucunda erunt) sia
in Gallo («si come mi è piaciuto udir per quali cagioni voi havete abbandonato
la Città») si ha il riferimento al piacere che l’ascoltatore riceve o riceverà dalla

188
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

per huomo di valore vi biasimano che l’habbiate abbandonata per


habitare in questa picciola villa»)  24. La struttura del testo di Gallo,
attualizzando in un certo senso l’elemento dialogico implicito nell’epi-
stolografia, recupera dunque proprio l’incipit pliniano, utilizzandolo
come battuta di esordio del confronto tra messer Avogadro e messer
Ducco che animerà le ultime tre giornate, imperniate sulla villa. Inol-
tre, a conferma della particolare coagulabilità della matrice epistolare,
nella stessa opera di Gallo la ventesima e ultima giornata si apre con la
lettura da parte di Avogadro di una lunga lettera che gli sarebbe stata
inviata da messer Lodovico Moro 25 per invitarlo ad abbandonare la
città e a raggiungerlo in campagna – una lettera che si presenta come
un particolare addensamento, tra gli altri, di elementi pliniani sui qua-
li avrò modo di soffermarmi tra breve.
Se forte è il segno pliniano posto all’esordio delle due disserta-
zioni rinascimentali sulla vita in villa, Lollio già in apertura, proprio
allorquando instaura esplicitamente il collegamento con gli antichi,
evidenzia però anche l’uso tendenzioso dell’apporto pliniano. Al pia-
cere del soggiorno in villa, tema dominante in Plinio e connaturato a
qualsiasi concezione aristocratica, si affianca in Lollio il riferimento al
lavoro effettivo nei campi, con un archetipo riconducibile piuttosto
al modello georgico: «Se questi tali vorranno per aventura leggere,
e considerare le felici memorie de gli antichi tempi; conosceranno,
che que’ savi, e non mai a bastanza lodati nostri maggiori, non solo
di stare e di vivere alla Villa si dilettavano grandemente, ma eziandio
con ogni loro possibil studio, cura, e diligenza, nel coltivare la terra si
affaticavano» 26. Così come, ancor più trattandosi di un vero testo di
agronomia, sia pure nella elegante forma dialogica, nelle prime dicias-
sette giornate di Gallo l’unico tema erano state le varie tecniche con-

spiegazione delle ragioni del ritiro in villa. Cito il testo di Gallo da Le venti gior-
nate dell’agricoltura et de’ piaceri della villa di M. Agostino Gallo, Venetia 1569 (qui,
c. 340).
24
D’altronde l’elemento, già radicato, era destinato a farsi topos di apertura
epistolare: «Molto meraviglio, che un uomo come voi, tutto civile […], voglia star-
sene il più del tempo in villa», scrive ad esempio Taegio, La villa cit., p. 65.
25
Gallo, Le venti giornate cit., cc. 382-386. Alla lettera «Gallo réserve
una place au genre épistolaire, d’une nature plus littérarire que le dialogue»: cfr.
J. Basso, Le genre epistolaire en langue italienne (1538-1662): repertoire chronologi-
que et analytique, Roma 1990, p. 235.
26
Lollio, Lettera cit., c. 211v.

189
Guglielmo Barucci

nesse alla conduzione di un’impresa agricola. La Villa, dunque, viene


presentata come strettamente connessa con l’Agricoltura, «sopra tutte
le cose utile, et necessaria»  27, con la laboriosità, la parsimonia e la
frugalità, rimandando, più che al soggiorno aristocratico pliniano, a
una fase arcaica della società romana, come rivelano tra gli altri gli
exempla canonici di Coriolano, Cincinnato, Curio Dentato, Catone,
Mar­co Regolo.
L’immagine del ricco romano in villa esemplato da Plinio 28 è ben
distante dalla superficie ideologica della Lettera 29, così come dai va-
ri testi di agronomia; la ricorda piuttosto ciò che anche nei testi più
espressamente tecnico-agronomici affiora improvvisamente come una
realtà riguardo al tenore della vita in villa da parte delle élites. Così nel
dialogo di Gallo 30, che pure è opera più strettamente tecnica, la villa
di Giovan Battista Avogadro è fornita di «sontuoso casamento, di vago
giardino, di bell’horto, di ampio pergolato, e di grande peschiera» 31,
e la giornata è trascorsa «insieme, hora nell’andar’a caccia, et uccel-
lare; et hora a ragionare, leggere, cantare, sonare, giocare, et mangia-
re […]» 32; nella stessa epistola di Lollio, allorché, terminata la sezione
centrale di tipo trattatistico, si torna alla parvenza di una vera lettera
dalla campagna, si inserisce la descrizione di una giornata trascorsa in
«tutti que’ piacevoli trattenimenti, e tutte quelle virtuose ricreazioni,

27
Ivi, c. 214v.
28
Per tale contrapposizione la volgarizzazione di Dolce nell’antologia del
1548 è persino più icastica dell’originale pliniano: «dove parte do opera a gli studi;
e parte non fo nulla: le quali cose ambedue procedono da non haver facende»
(c. 1, corrispondente a Plin. epist. 2.2.2) e «m’affatico in coltivar non le posses-
sioni, et i campi (che io non ve ne ho) ma me stesso con gli istrumenti de gli studi.
Onde hoggimai posso dimostrarti, sì come in altri luoghi le sale piene di frumento,
i miei armari pieni di libri e di componimenti» (c. 1v, corrispondente a Plin.
epist. 4.6.2).
29
Non a caso Pietro Aretino nella lettera a Lollio del luglio 1565 afferma
di aver imparato grazie alla sua Lettera a «stimar la vita de i cultori de i campi»
(P. Aretino, Lettere, III, a cura di P. Procaccioli, Roma 1999, pp. 235-236).
30
Per tali aspetti si veda ad esempio M. Aymard, Paesaggio rurale, paesaggio
sociale, in Pegrari, Agostino Gallo cit., pp. 141-152 e, relativamente anche a Lollio,
B. Basile, Villa e giardino nella trattatistica rinascimentale, in AA.VV., La letteratura
di villa e di villeggiatura, Atti del Convegno di Parma (29 settembre - 1 ottobre
2003), Roma 2004, pp. 205-232.
31
Gallo, Le venti giornate cit., c. 325.
32
Ivi, c. 340.

190
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

che altri honestamente possa desiderare», e in cui la villa si trasforma


in «fonte de’ sollazzi» e «albergo dell’allegria» 33. Indubbiamente, se
in tale proiezione un ruolo determinante è svolto dai testi volgari im-
perniati sulla vita di brigata, e in primo luogo dal Decameron, ma na-
turalmente anche dagli Asolani, è evidente che è proprio nelle lettere
pliniane che si trova una delle prime e più pregnanti descrizioni della
vita in campagna dissociata dalle incombenze dei campi 34.
La concezione pliniana della vita in villa, sintetizzabile in un otium
improntato alla moralità, può essere ipostatizzata in un passo fon-
damentale della epistola a Minicio Fundano, incentrata proprio sul
contrasto tra villa e città, in cui, pressoché in conclusione, si incontra
un’interiezione che riassume tutti gli elementi della lode del soggiorno
in villa: O rectam sinceramque vitam, o dulce otium honestumque ac
paene omni negotio pulchrius (Plin. epist. 1.9.6). È da osservare come
l’interiezione di Plinio ricompaia per certi versi in un passo di Gallo,
fondato su un’analoga interiezione anaforica, concettualmente affine
anche nella strutturazione su quattro elementi. Nella già menzionata
lettera di Ludovico Moro letta nella ventesima giornata, e dunque in
una sede in cui più forte doveva agire la memoria di un passo epi-
stolare, si trova infatti: «O vita fortunata della Villa […]. O vita soa-
ve della Villa […]. O vita gioiosa della Villa […]. O vita felice della
Villa […]»  35, in cui è possibile anche identificare una qualche cor-
rispondenza fra i quattro elementi pliniani (rectam vitam / sinceram
vitam / dulce otium / honestumque ac paene omni negotio pulchrius) e i
quattro dell’anafora di Gallo. Il primo elemento, la vita recta, è infatti
ribaltato e ampliato in una sequenza di professionisti disonesti tipici

33
Lollio, Lettera cit., c. 240v.
34
Stando a Lollio «ogni giorno si ragiona di lettere, d’arme, e d’amore. Leg-
gonsi libri piacevoli, Thoscani, Spagnuoli, e Latini. Parlavisi della Poesia, della
Cosmografia, e della Pittura. Si discorre sopra gli accidenti del Mondo […]. Fannosi
spesso musiche di più sorti. Giocasi a diverse guise di giuochi leciti e dilettevoli», in
Lollio, Lettera cit., c. 240r, con una certa vicinanza a Plin. epist. 9.36. D’altronde,
in tutte le «aziende agricole» il giardino era riservato, anche nei testi più stretta-
mente tecnici, al diletto del padrone, come si vede ad esempio dalla concisa osser-
vazione di Clemente Africo: «Et nel giardino (appresso gentil’huomini) si ricerca
diletto, più tosto, che frutto», cfr. C. Africo, Trattato dell’agricultura […],Venetia
1572, c. 95, o anche Ch. Estienne, L’agricoltura, et casa di villa […], Vinegia 1581,
cc. 163-164.
35
Gallo, Le venti giornate cit., cc. 383-384.

191
Guglielmo Barucci

della città («Et quel che più importa, non ci son’avocati senz’anima
che pelino, né procuratori senza descritione [sic] che ingarbuglino, né
causidici senza vergogna che abbarrino […]»); il secondo insiste sugli
elementi della semplicità contrapposti all’artificiosità del vivere urba-
no («la dolce conversazione de gli amici, la semplicità de’ contadini,
il cantar puro delle villanelle, la rustica sampogna de’ pastori […]»);
il terzo sulla dolcezza del riposo 36 («vi è gran spasso nel veder ballar
le pecorelle, giuocar i montoni, scherzar i capretti […]»); il quarto –
l’honestum e la superiorità dell’otium rispetto allo stesso negotium –
nel trapasso dal prosieguo delle immagini campestri al più pregnante
ricordo degli antichi che «abbandonarono le loro grandezze, come
cose che impedivano il lor vero bene, per viver’alle loro Ville».
D’altronde, già nella Lettera di Lollio si introduce nella tratta-
tistica specialistica quello che diverrà presto un topos radicato, che
costituisce un’evidente alterazione di un elemento presente, con al-
tro valore, nella lettere pliniane, in cui trovava anzi la prima efficace
codifica. La villa del Rinascimento si configura come il luogo della
libertà, identificata in quattro elementi principali, variamente intrec-
ciati: come affrancamento da comportamenti socialmente codificati;
come libertà da vincoli e doveri relazionali oppressivi; come lontanan-
za dalla miseria umana dei comportamenti di città; come possibilità
di sottrarsi agli spettacoli degradanti della città. Tali elementi sono
presenti in maniera embrionale in Plinio, allorché nella lettera a Do-
mizio Apollinare sulla villa di Tusci fa riferimento a un altius ibi otium
et pinguius eoque securius; nulla necessitas togae, nemo accersitor ex
proximo 37, in cui si affiancano la possibilità di un modo di vita più in-
formale e quella di sottrarsi a figure fastidiose diffuse in città. Il riferi-
mento alla toga sarà destinato ad assoluta fortuna 38, e si cristallizza ad

36
Vi si può eventualmente riconoscere il ricordo di Verg. georg. 2.458-540.
37
Plin. epist. 5.6.45. Il concetto è ampliato ulteriormente, e ribaltato, in una
lettera a ruoli invertiti in cui Plinio sollecita il suo destinatario a ritornare ai doveri
di città: Quin ergo aliquando in urbem redis? […] Quousque regnabis? Quousque
vigilabis cum voles, dormies quam diu voles? Quousque calcei nusquam, toga feriata,
liber totus dies? (Plin. epist. 7.3.2-3). Il riferimento alla toga, peraltro, si legge anche
in Iuv. 3.171-172 e 179, sebbene in tal caso l’allusione vada solo al tema della sem-
plicità, scevro da ogni richiamo alla libertà.
38
«Alla villa si sta senza troppe cerimonie, alla naturale» (Doni, Villa cit.,
p. 21 del codice veneziano).

192
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

esempio in Gallo: «Qui poi non ho carico di portar la gravosa toga»  39;
e, sempre nello stesso, amplificato e rovesciato nella dichiarazione che
«nella Città ci convien’andar ben vestiti, con servitori, e pieni di mille
rispetti; sberrettando questo, e quello assai volte contra il voler nostro
[…]; io cavo la berretta mal volentieri a quegli altri, che sono voti
di valore, e gonfi talmente di superbia […]; qui ci è lecito andare, e
stare senza servitori, senza cappa, e senza saio; vestendoci come più,
e meno ci gradisce»  40 – associandovi, per l’appunto, l’oppressione
provocata da personaggi sgradevoli e spregevoli, che pure impongono
l’osservazione di rigide norme sociali.
Proprio tale riferimento al fastidio provocato dalla necessità
di rispettare con personaggi miserevoli un sistema di norme sociali
codificate è un ulteriore sviluppo, e deformazione, di un altro degli
elementi della libertà riconosciuta da Plinio nella vita in villa. Nella
propria residenza extra-urbana, infatti, è possibile affrancarsi dalle
molteplici incombenze sociali o, più strettamente, professionali: nel-
la lettera a Minicio Fundano, scritta dalla villa di Laurento mentre
il corrispondente si trovava a Roma, Plinio denuncia corrosivamente
il vacuo stillicidio di impegni social-mondani della città richiesti dal
proprio ruolo 41, a fronte invece della possibilità che si ha in villa di
dedicarsi esclusivamente alla riflessione e alla lettura, mecum tantum
et cum libellis loquor  42. La rappresentazione dei soffocanti dove-
ri sociali, peraltro, compariva già in Orazio, e non a caso sempre in
un’epistola (pur dando per presupposti tutti i dubbi sulla sua reale
natura epistolare); la lettera a Giulio Floro, infatti, insisteva proprio
sull’impossibilità di praticare in città la poesia, e dunque non poteva
che essere di particolare suggestione per Lollio: Praeter cetera me Ro-
maene poemata censes / scribere posse inter tot curas totque labores? /
Hic sponsum vocat, hic auditum scripta, relictis / omnibus officiis; cubat

39
Gallo, Le venti giornate cit., c. 383.
40
Ivi, c. 346.
41
Plin. epist. 1.9.2 Si quem interroges: «Hodie quid egisti?», respondeat: «Offi-
cio togae virilis interfui, sponsalia aut nuptias frequentavi, ille me ad signandum testa-
mentum, ille in advocationem, ille in consilium rogavit».
42
Ivi, 1.9.5. Nel riferimento alla conversazione con i libelli non è da escludere
che si possa riconoscere, naturalmente attraverso un voluto fraintendimento, una
delle fonti del topos che avrà il più celebre esito nella lettera di Machiavelli a Vet-
tori, allorché si fa riferimento ai colloqui serali con gli antichi.

193
Guglielmo Barucci

hic in colle Quirini, / hic extremo in Aventino, visendus uterque 43. Così


in Gallo, nella già citata lettera di Lodovico Moro, tra i vantaggi della
campagna si menziona la possibilità di sottrarsi al gravame dei propri
doveri professionali: «Qui poi non ho carico […] di essere occupato
ne i tanti offici della città, o come giudice di ascoltare tuttodì avoca-
ti, procuratori, sollecitatori, o causidici che m’intrichino il cervello;
e manco mi conviene studiare gl’ingarbugliati, e lunghi processi, né
Bartolo con tanti altri simili» 44. Al che, nella fattispecie, si associa la
possibilità di sostituire lo studio topicamente frustrante di codici e
pandette con la lettura «con gran contento» di Platone, Filone, Se-
neca, e altri antichi 45. Si tratta di un elemento particolarmente ferti-
le, come attesta già una fortunata e celebre lettera di Pietro Bembo:
«Nella quale [scil. la villa di Noniano, presso Padova] vivo in tanta
quiete, in quanto a Roma mi stetti a travaglio e fastidi. Non odo noio-
se e spiacevoli nuove, non penso piati, non parlo con Procuratori, non
visito Auditori di Rota, non sento romori se non quelli che mi fanno
alquanti lusignuoli […]» 46. Ma in Bembo il topos manteneva una sua
dimensione di usurante rappresentanza sociale, più che di vera e pro-
pria professione; nella lettera di Ludovico Moro, invece, la figura che
affiora è chiaramente quella di un uomo schiacciato dalla nuova mac-
china burocratica statale e da un lavoro oscuro e sovente vessatorio,
se non addirittura, nel riferimento ai «falsi testimoni, perfidi notari,
bugiardi procuratori, infedeli avvocati, ingiusti giudici, né ingarbu-
gliosi causidici» 47, in balìa di un apparato giurisprudenziale distorto
e persecutorio, a rivelare una relazione completamente modificata tra
apparato statale e individuo. Nella lettera di Moro si aggiunge un’ul-
teriore rassegna di incombenze, «ancor’è netta [la Villa] di primati da
corteggiare, di gentildonne da servire, di cortigiane da presentare, di

43
Hor. epist. 2.2.65-69.
44
Gallo, Le venti giornate cit., c. 383.
45
Si rileva qui una sostanziale differenza rispetto alle due lettere di Plinio a
Fusco (9.36 e, più esplicitamente, 9.40), nelle quali, invece, parte cospicua della
giornata era dedicata allo studio della cause. Così in Plin. epist. 9.15.2 è dichiarato
esplicitamente che la rielaborazione delle proprie arringhe gli risulta un lavoro frigi-
dum et acerbum.
46
P. Bembo, Lettere, edizione critica a cura di E. Travi, II, Bologna 1990,
pp. 245-246, nr. 528.
47
Gallo, Le venti giornate cit., c. 347.

194
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

torniamenti o giostre da bagordare», che presenta una vera e propria


degradazione sociale. Vi si potrebbe riconoscere, sia pure ampiamen-
te modificata, l’eco di un passo della terza satira di Giovenale  48.
Ulteriore elemento già indicato è la possibilità di sottrarsi alla
degradazione morale della città: un elemento presente in nuce nelle
epistole pliniane, ma enfatizzato e ampliato nei testi rinascimentali
alla luce della polemica contro la vita urbana e la corte. Plinio insiste-
va da un lato sulla distanza da dicerie e malevolenze, anche proprie
nei confronti di altri, ma dall’altro sulla libertà da tutte le inquietudi-
ni provocate dall’incerta vita politica nella quale era immerso: Nihil
audio quod audisse, nihil dico quod dixisse paeniteat; nemo apud me
quemquam sinistris sermonibus carpit, neminem ipse reprehendo, nisi
tamen me, cum parum commode scribo; nulla spe, nullo timore sollici-
tor, nullis rumoribus inquietor 49. Gli stessi elementi tornano, stretta-
mente connessi, nell’opera di Gallo, con la particolarità di un chiaro
riferimento sociale, assente in Plinio, alla «loggia della città» e alle
«botteghe degli artigiani»: «Ancora dico che in questa villa non si
ode chi dica male d’altrui, come vien fatto alle volte sotto la loggia
della città, o nelle botteghe degli artigiani, et altri luoghi: sparlando
non tanto delle persone infami, ma di qual si voglia huomo, e donna
da bene […]. Poi qui non sono ambitiosi, invidiosi, orgogliosi, insi-
diosi, né che siano disleali ecc.» 50. Con un’asciuttezza che mancava
nell’opera di Lollio, nella quale i termini di disprezzo e di condanna
morale 51 si caricano invece di acre aggressività e di rivalsa, riversando
totalmente – avverrà peraltro così anche in Gallo – l’addebito sugli

48
Iuv. 3.41-48 Quid Romae faciam? Mentiri nescio; librum / si malus est,
nequeo laudare et poscere; motus / astrorum ignoro; funus promittere patris / nec volo
nec possum; ranarum viscera numquam / inspexi; ferre ad nuptam quae mittit adul-
ter, / quae mandat, norunt alii; me nemo ministro / fur erit, atque ideo nulli comes
exeo tamquam / mancus et exstinctae corpus non utile dextrae.
49
Plin. epist. 1.9.5, a sua volta elaborazione di Hor. epist. 1.14.37-38 Non istic
obliquo oculo mea commoda quisquam / limat, non odio obscuro morsuque venenat,
ricordato in Lollio, Lettera cit., c. 237v.
50
Gallo, Le venti giornate cit., c. 347.
51
Una forma ulteriore di abuso da parte di Lollio si riconosce nella citazione
petrarchesca da Rerum vulgarium fragmenta 259, che non implicava di per sé una
condanna della città in toto, ma solo della curia avignonese: «Cercato ò sempre soli-
taria vita / (le rive il sanno, et le campagne e i boschi) / per fuggir questi ingegni
sordi et loschi» (cfr. Lollio, Lettera cit., c. 229v).

195
Guglielmo Barucci

altri, e dunque con una sostanziale differenza rispetto al modello pli-


niano 52, in cui la tranquillità della villa metteva lo scrivente al riparo
dal rischio di cadere egli stesso in tali comportamenti moralmente
riprovevoli:
[…] guadagno almeno questa consolazione, che io fuggo e schivo […]
la invidia, l’odio, l’insolenza, il fastidio, e la noia di molti: i quali […]
altro non sanno fare, e d’altro non si dilettano, che con perversi uffi-
ci, e maligne calunnie sturbar la pace, et impedire la quiete d’altrui.
Però alla Villa, fondendomi la dolcissima, et a me sopra tutte le cose
gratissima libertà, ho questo contento, ch’io posso andare, stare, fa-
re, e vivere a mio modo: senza sospetto che alcuno di questi ignoranti
[…] mi ghigni dietro le spalle, o si faccia beffe di me; si come è loro
usanza di fare di tutti quelli, che veggono esser dissimili alla vita loro.
E perciò che io fui sempre alienissimo dalle ambizioni: né mai mi son
curato di fiumi, ombre, o favori, che tanto costano, e che di tanti af-
fanni, angoscie, e pericoli sono pieni: contentandomi dello stato in cui
mi ha posto la gran bontà di dio, me ne vivo allegramente con l’animo
riposato e tranquillo, sforzandomi a tutto mio potere, secondo il buon
precetto di Socrate, di esser tale in effetto, quale io desidero d’esser
tenuto da gli altri. 53

Non solo: ma in Lollio, l’elemento della distanza dalle malevolenze


della città si colora di una nuova fragilità sociale, quasi una debolezza
psicologica. Il soggiorno in villa si trasforma sostanzialmente in un na-
scondimento dettato dalla propria vulnerabilità e marginalità («senza
sospetto che alcuno di questi ignoranti […] mi ghigni dietro le spalle,
o si faccia beffe di me; si come è loro usanza di fare di tutti quelli,
che veggono esser dissimili alla vita loro»), che affiorerà similmente
in Gallo stesso («Poi sì come ivi siamo spesse volte biasimati da mol-
ti per non andare, e viver secondo le voglie loro, qui [non essendo
invidiosi, o menabeffe] non ci è, che del proceder nostro ci dia no-
ia, o censori») 54. Così, sempre in Lollio, il topos è stato ampiamente
svuotato, modificato e ricostruito come accettazione di un’inferiorità

52
Il riferimento più immediato dovrebbe essere piuttosto nella acredine ora-
ziana di Hor. epist. 1.14.37-38 Non istic obliquo oculo mea commoda quisquam /
limat, non odio obscuro morsuque venenat, citato supra e in Lollio, Lettera cit.,
c. 237v.
53
Lollio, Lettera cit., c. 241v.
54
Gallo, Le venti giornate cit., c. 346.

196
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

sociale irredimibile («contentandomi dello stato in cui mi ha posto la


gran bontà di dio») 55.
Se la condanna morale della città costituisce indubbiamente un
elemento topico, un confronto con i Libri della famiglia di Leon Batti-
sta Alberti rivela tuttavia il differente riuso proposto dai nostri autori:
[…] senza sentire romori, o relazioni, o alcuna altra di quelle furie
quali dentro alla terra fra’ cittadini mai restano, – sospetti, paure,
maledicenti, ingiustizie, risse, e l’altre molte bruttissime a ragionarne
cose, e orribili a ricordarsene, In tutti e’ ragionamenti della villa ulla
può non molto piacerti, di tutte si ragiona con diletto, da tutti se’ con
piacere e volentieri ascoltato. Ciascuno porge in mezzo quello che co-
nosce utile alla cultura; ciascuno t’insegna ed emenda, ove tu errassi in
piantare qualche cosa o sementare. Niuna invidia, niuno odio, niuna
malevolenza ti nasce dal cultivare e governare il campo […]. E an-
che, quello che più giova, puoi alla villa fuggire questi strepiti, questi
tumulti, questa tempesta della terra, della piazza, del palagio. Puoi in
villa nasconderti per non vedere le ribalderie, le sceleraggine e la tanta
quantità de’ pessimi mali uomini, quali pella terra continuo ti farfal-
lano inanti agli occhi, quali mai restano di cicalarti torno all’orecchie,
quali d’ora in ora seguono stridendo e mugghiando per tutta la terra,
bestie curiosissime e orribilissime. 56

Al di là dell’assenza di più pregnanti legami linguistici, se indubbia-


mente anche in Alberti c’è il riferimento al pesante clima cittadino, è
però da vedervi un riferimento alle lotte intestine e ai conflitti politi-
ci 57 che coinvolsero la sua famiglia, piuttosto che alla maldicenza vera
e propria. E, allo stesso modo, Alberti offre un’immagine particolare
della villa in campagna («Ciascuno porge in mezzo quello che cono-

55
Pur se con ben altra credibilità e drammaticità, il tema della fragilità sociale
era già in Giovenale (Iuv. 3.147 e 153), in cui, come emblema dell’inidoneità, com-
pariva proprio il riferimento a materiam […] causasque iocorum e ai ridiculos homi-
nes.
56
L.B. Alberti, I libri della famiglia, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson,
Bari 1960, I, pp. 1-341 (la citazione è alle pp. 200-201).
57
D’altronde, anche nel ben più tardo Bindassi l’immagine della città è sostan-
zialmente ancora quella di un teatro di scontri politici, con un’enumeratio, però, che si
palesa come mero accumulo di elementi che rimandano a scenari diversi: «In villa non
si senton tanti inganni, / tante frodi, e lacciuoi, tanti rumori, / tante insidie, et aguati,
tanti danni, / tanti sdegni, e rancor, tanti furori, / crudeli inimicizie, risse, affanni, /
sospir, singulti, pianti, urli, e stridori» (Il diporto della villa cit., 6r, ottava 3).

197
Guglielmo Barucci

sce utile alla cultura; ciascuno t’insegna ed emenda, ove tu errassi in


piantare qualche cosa o sementare. Niuna invidia, niuno odio, niuna
malevolenza ti nasce dal cultivare e governare il campo») 58, disegnan-
do un ambiente di mutuo sostegno e consiglio tra pari, assente invece
in Lollio – la cui condizione è piuttosto quella del confinato ed iso-
lato.

Peraltro, lo stesso concetto pliniano e poi rinascimentale di soggior-


no in villa come riposo, come otium, profilava il rischio dell’eccesso,
dell’ignavia, tradito dal calembour rivolto da Plinio a Fundano che sia
meglio otiosum esse quam nihil agere 59. In connessione a tale pericolo,
la stessa epistola di Lollio presenta un legame soprattutto con l’epi-
stolario senecano, nell’esplicita menzione, come esempio negativo, di
Vatia, ritiratosi in villa per sfuggire ai rischi dei periodi più torbidi
della capitale. Una scelta che per Seneca costituiva un esempio di
abdicazione: At ille latere sciebat, non vivere; multum autem interest,
utrum vita tua otiosa sit an ignava 60. Lollio tuttavia procede a una du-
plice trasformazione dei modelli: definisce l’esistenza in villa di Vatia
come un «marcirsi nell’otio» da «scioperato», recuperando dunque,
e ribaltando, proprio il termine tecnico che costituiva il nucleo della
proposta pliniana; e, soprattutto, accosta a Vatia, come aberrazione
del soggiorno in villa, coloro che vi si ritirano «per fuggir la spesa, e
starsi miseramente; che ciò in persona di gentil sangue, sarebbe vitio
bruttissimo» 61, elemento assolutamente originale rispetto ai modelli –
e anzi in contrasto con le morigerate indicazioni di Seneca per la vita
in villa – e con un’evidente connotazione sociale, che implica l’idea
di una qual certa necessaria spesa di rappresentanza anche durante
la villeggiatura 62. Il particolare riuso dei due classici da parte di Lol-
lio, inoltre, riceve ulteriore risalto se accostato a una singolare opera

58
Alberti, I libri della famiglia cit., p. 200.
59
Plin. epist. 1.9.8.
60
Sen. epist. 55.4.
61
Lollio, Lettera cit., c. 228r.
62
Non a caso per Doni, Villa cit., p. 31, saranno solo gli artigiani a ritirarsi in
campagna per mere ragioni di risparmio. Lo stesso Giannozzo de I libri della fami-
glia dell’Alberti indicava tra le varie ragioni per ritirarsi in villa proprio la «minore
spesa» (Alberti, I libri della famiglia cit., p. 201).

198
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

di Antonio de Guevara, l’Aviso de’ favoriti e dottrina de cortigiani 63,


un vero e proprio anti-Cortegiano, che, nella condanna generale della
corte e della città, concede largo spazio alla villa: in quest’opera – non
si dimentichi che Guevara era un religioso – la condanna involve talo-
ra la scelta stessa di ritirarsi in campagna 64, osservando che vi «sono
ancora dell’altri che si parteno dalla corte per haver più agio ne’ di-
letti, e più tempo da consumare in otio, di questi tali non diremo che
come buoni se ne partino, ma solamente per haver maggior conmodo
da peccare» 65. La villa dunque non solo può essere occasione di ozio,
di inertia, ma subisce un’ulteriore degradazione nella sua identifica-
zione come fonte di peccati proprio per l’assenza di controllo sociale.
Si tratta di un sostanziale ribaltamento della topica, adottata sia da
Lollio sia da Guevara, della maggior libertà della villeggiatura dai vari
vincoli comportamentali e relazionali, a confermare tutta l’ambiguità
con cui, in una società avviata verso un progressivo conformismo so-
ciale, si guarda alla villa, agognata e sospetta isola di evasione.
Se nei testi rinascimentali la città non è più solo luogo di disagio
psicologico, ma diviene sentina di vizio, scenario di turpitudini, fon-
dale di ogni volgarità con una marcata stimmate sociale, qui si sovrap-
pone piuttosto un passo di Seneca, la cui idea della villa e del soggior-
no in villa, quantomeno come appare dalle epistole, era decisamente
incompatibile con la dimensione aristocratica rinascimentale – ma an-
che con quella dello stesso Plinio – come denuncia esplicitamente la
lettera dedicata alla descrizione del frugale e severo ritiro di Scipione
a Literno (Sen. epist. 86). In un’altra lettera, incentrata sul luogo del
soggiorno del saggio e sulla lotta alle mollezze e al vizio, Seneca de-
scrive le ragioni per cui si è allontanato da Baia; è rilevante osservare

63
A. de Guevara, Aviso de’ favoriti e dottrina de cortegiani, con la commen-
datione della Villa, opera non meno utile che dilettevole. Tradotta nuovamente di
Spagnolo in Italiano per Vicenzo Bondi Mantuano, Vinetia 1549.
64
Ivi, cc. 136v-137r. Richiamandosi a Seneca e Orazio, Guevara sottolinea
anche l’inutilità di ritirarsi in villa qualora sia solo frutto d’inquietudine: «s’egli
stava nella corte mal contento, nella sua villa viverà disperato, perché non potrà egli
essere che la privatione della compagnia, la importunità della moglie, li dispetti de’
figliuoli, le poche considerationi de’ servitori, il mormorare de’ vicini non li rechino
alcuna volta fastidio […]».
65
Ivi, c. 135r.

199
Guglielmo Barucci

che la villeggiatura ora si configura come deversorium vitiorum, uno


sgradevole scenario in cui si mescolano ignominia e corruzione:
Non tantum corpori, sed etiam moribus salubrem locum eligere debe-
mus; quemadmodum inter tortores habitare nolim, sic ne inter popinas
quidem. Videre ebrios per litora errantes et comessationes navigantium
et symphoniarum cantibus strepentes lacus et alia, quae velut soluta le-
gibus luxuria non tantum peccat, sed publicat, quid necesse est? (Sen.
epist. 51.4)

Da un lato, si offre così in Seneca un’immagine che potrà essere re-


cuperata nelle descrizioni d’età moderna per esprimere la nausea del-
la città  66 – e si aggiunga il riferimento a inter tortores habitare, che
avrà specifica fortuna; dall’altro, è notevole il ribaltamento operato
da Seneca, per cui in realtà è la stessa residenza suburbana ad essere
condannata. Una condanna moralistica che sarà ulteriormente radica-
lizzata e sistematizzata in un’altra lettera che, sia pure specificatamen-
te relativa alla città, in realtà è imperniata sulla necessità per il saggio
della serenità interiore piuttosto che sul silenzio esterno, e dunque
sull’indifferenza per il luogo in cui si vive:
Ecce undique me varius clamor circumsonat: supra ipsum balneum habi-
to […]. Adice nunc scordalum et furem deprehensum et illum, cui vox
sua in balineo placet […]; iam biberari varias exclamationes et botula-
rium et crustularium et omnes popinarum institores mercem sua quadam
et insignita modulatione vendentis […]. In his, quae me sine avocatione
circumstrepunt essedas transcurrentes pono et fabrum inquilinum et ser-
rarium vicinum, aut hunc, qui ad Metam Sudantem tubulas experitur et
tibias, nec cantat, sed exclamat. (Sen. epist. 56.1-2, 4)

Anche se il referente più immediato è riconoscibile in un’epistola


oraziana, sempre giocata sul rapporto tra mittente in campagna e
destinatario in città, che poneva come irrisolvibile il contrasto tra la

66
Tale elemento avrà notevole risonanza in Petrarca, ad esempio in una
lettera a Lombardo da Serico (Lettere senili di Francesco Petrarca, volgarizzate e
dichiarate da G. Fracassetti, II, Firenze 1870, pp. 393-407 = epist. 15.3): «Quante
sono le città, tante si contano sentine di libidine, ed officine di misfatti. E qual
altra, dalle città in fuori, è la sede della più lubrica voluttà?» e «ed essi intanto colla
feccia del popolaccio trovan le loro delizie nelle taverne, nei bagni, ne’ macelli, ne’
lupanari».

200
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

caoticità della città e il bisogno di quiete campestre per il poeta  67,


si tratta senza dubbio di una posizione deliberatamente antifrastica
rispetto alla topica per cui l’uomo di lettere abbisogna del silenzio
della campagna. La descrizione delle esperienze rumorose della città
costituisce però un patrimonio destinato a nuova fortuna 68, che avrà
particolare sedimentazione nella virulenza delle Giornate di Gallo, in
una progressione dai già visti «ambitiosi, invidiosi, orgogliosi, insidio-
si», ascrivibili direttamente alla tipologia di molestatori e denigrato-
ri 69, alle accuse ad «assassini, e beccari d’huomini», al coinvolgimento
di cui abbiamo parlato di professioni collegate a un distorto ambito
giurisprudenziale, per culminare in un’enumerazione di mestieri so-
cialmente degradati e di particolare, fastidiosa rumorosità: «Qui pa-
rimente non si sentono spazzacamini e zavattini che gridino, facchini
e brentatori che urtino, ruffiane e meretrici che inveschino, malefici
e incantatori che fascinino, arioli e pitonesse che indovinino, mariuo­
li e tagliaborse che truffino»  70. Elenco nel quale paiono depositarsi
elementi senecani e oraziani della rappresentazione della disordina-
ta sporcizia della città, peraltro con una condanna sociale, di classe
verrebbe quasi da dire, a delineare il bisogno di fuga non più per
una necessità di silenzio e di concentrazione, ma come esigenza di
allontanamento da un contesto sociale che non garantiva la separa-
zione sociale. Proprio questo sprezzo sociale trova forme molto simili
nell’invettiva della satira terza di Giovenale (Iuv. 3.30-33): la città è
da abbandonare ormai a qui nigrum in candida vertunt, / quis facile
est aedem conducere, fulmina, portus, / siccandam eluviem, portandum
ad busta cadaver, / et prae­bere caput domina venale sub hasta. L’enu-
merazione di lavori spregiati potrebbe avere lasciato un segno nella
squallida rassegna di Gallo.

67
Hor. epist. 2.2.72-77 festinat calidus mulis gerulisque redemptor, / tor-
quet nunc lapidem, nunc ingens machina tignum, / tristia robustis luctantur funera
plaustris, / hac rabiosa fugit canis, hac lutulenta ruit sus; / i nunc et versus tecum
meditare canoros. / Scriptorum chorus omnis amat nemus et fugit urbem.
68
Che una delle ragioni della fuga in villa dovesse essere proprio la ricerca del
silenzio attesta Doni, Villa cit., p. 27 (ed. 1566), sia pure solo con riferimento alla
villa dei signori: «Fannosi i Signori per potersi separare da quei gran rumori del
vulgo di belle Ville».
69
Gallo, Le venti giornate cit., c. 347.
70
Ibid.

201
Guglielmo Barucci

L’immagine negativa del contesto urbano deflagra con violenza


nella sanguinolenta descrizione dei supplizi capitali e delle torture a
cui si deve assistere in città:
[…] non si veggono a strascinar’in prigione debitori, incarcerar per
forza malfattori, mandar’in galea truffatori, cavar gli occhi a’ stronza-
tori, tagliar le lingue a’ bestemmiatori, bollar le faccie a’ mariuoli, tron-
car le mani a’ falsi testimoni, mozzar le teste a’ micidiali, impiccar per
la gola i ladroni, fare in quattro quarti i traditori, e tanagliar, e scannar
gli assassini. Spettacoli veramente di non poca compassione, di assai
tristezza, di molta abominatione, e di grandissimo orrore.  71

Un quadro che si presenta come una truculenta amplificazione del


conciso rifiuto di Seneca di vivere inter tortores, ma la cui amplifica-
zione si giustifica con la percezione di una proletarizzazione e di una
violenza implicita alla città, in cui convergono emersione della crimi-
nalità dal basso da un lato, repressione giudiziaria dall’altro  72.
Nella radicale dicotomia tra città e campagna, e così tra il cor-
rispondente in città e il corrispondente in villa, la città si costituisce
dunque come il luogo delle sperpero esistenziale, percepito come
molto più evidente proprio nella distanza procurata dalla campagna,
secondo quanto postulato da Plinio nella lettera a Fundano per solle-
citarlo ad abbandonare Roma (epist. 1.9.3): Haec quo die feceris neces-
saria; eadem, si cotidie fecisse te reputes, inania videntur, multo magis
cum secesseris. Tunc enim subit recordatio: «Quot dies quam frigidis
rebus absumpsi!». Il tempo trascorso in città, nel ricordo, deve segnar-
si del colore del rimpianto e del rammarico, come avviene appunto
in un passo già visto nella lettera di Ludovico Moro, in cui si solleci-
tava l’Avogadro a raggiungerlo in campagna: «Io vi giuro, che non vi

71
Ivi, c. 348.
72
Lo stesso elemento ritornerà succintamente in Taegio, La villa cit., p. 121.
La villa è infatti uno dei testi più virulenti nei confronti della città, anche in questo
caso messa in stretta associazione con la sua proletarizzazione: «Taccio i crudeli
ed orribili spettacoli che si fanno dei condennati a morte per giustizia. Taccio il
piacevole incontro di certi cancherosi forfanti che, fingendo lo stroppiato, lasciano
il foco di santo Antonio […]. Taccio il grato spettacolo degli ammorbati spedali.
Taccio la bella perspettiva del puzzolente borgo la nocte». Allo stesso modo, la con-
danna della città in Gallo, Le venti giornate cit., cc. 346-347, e Taegio, La villa cit.,
p. 125, trarrà indubbiamente forte stimolo dalla condanna di Seneca degli spettacoli
circensi (Sen. epist. 7).

202
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

potrei esprimer’il ramarico che ogni hora sento della lunga prigionia,
dove sono stato, la quale mi ha privato di questo pacifico vivere, che
hora gusto in questa terra» 73. E così, a ruoli ribaltati, quando è Plinio
a scrivere dalla città a un corrispondente in campagna, come nel caso
della lettera a Caninio (epist. 2.8.2-3), viene espressa la percezione di
non riuscire a spezzare i laquei dei vincoli e dei doveri sociali e di es-
sere soggiogato dal loro continuo accumulo: Angor tamen non et mihi
licere, quae sic concupisco ut aegri vinum, balinea, fontes. Numquamne
hos artissimos laqueos, si solvere negatur, abrumpam? Numquam, puto.
Nam veteribus negotiis nova accrescunt, nec tamen priora peraguntur:
tot nexibus, tot quasi catenis maius in dies occupationum agmen ex-
tenditur. Un’affascinante risonanza di tali elementi si può riconoscere
sempre nell’epistola di Ludovico Moro:
E vedendo che il tempo passa, e che voi non vi risolvete di lasciare in
tanti travagli che tuttavia vi crescono alle spalle, sono sforzato prote-
starvi, che se non tagliate cotai lacci in un bel colpo (dico più tosto
hoggi che dimane) e venir a goder la quiete che qui si trova, non so-
lamente voi restarete prigione loro, ma vi tormenteranno anco tutto il
tempo del viver che vi resta. Io vi giuro, che non vi potrei esprimer’il
ramarico che ogni hora sento della lunga prigionia, dove sono stato, la
quale mi ha privato di questo pacifico vivere, che hora gusto in questa
terra. (Gallo, Le venti giornate cit., c. 382)

Non abbiamo solo i riferimenti (lacci, prigione, prigionia) all’ambito


«carcerario», a tutte le difficoltà di sottrarvisi e a tutti gli sforzi per
liberarsene, ma anche l’osservazione sui negotia che continuano ad ac-
crescersi gli uni sugli altri e l’insistenza sul tempo che passa e i piaceri
negati dalla permanenza in città. E tutto ciò in un contesto in cui lo
scrivente invita ad abbandonare il mondo urbano, in un percorso che
lui stesso ha già saputo compiere e per il quale si offre come modello,
insistendo sulla vacuità di quello cui si dovrebbe rinunciare. Così, se
nella lettera a Fundano Plinio concludeva con l’invito all’amico perché
abbandonasse tu quoque strepitum istum inanemque discursum et mul-
tum ineptos labores, per dedicarsi invece a studiis vel otio (epist. 1.9.7),
Moro sigilla la sua lettera ribadendo come l’invito sia a ripercorrere

73
Gallo, Le venti giornate cit., c. 383.

203
Guglielmo Barucci

un percorso da lui già tracciato: «Et certamente voi vedete, che non vi
essorto a cosa alcuna, che prima non l’habbia fatta io» 74.
Come esito di tali contrapposizioni tra campagna e città, il sog-
giorno in villa – quantomeno nell’accezione esposta da Lollio – risul-
ta strettamente connesso con la meditazione e l’esercizio letterario,
ossia con l’attività per certi versi dominante nelle epistole sul tema,
sia di Plinio, sia di Seneca. In un esplicito riferimento alle epistole a
Lucilio, infatti, si richiama il suggerimento del filosofo all’allievo epi-
stolare, «che egli debba schivare il commercio delle genti, et andare
in luogo remoto, in cui non senta romore che lo interrompa, né vegga
cosa, che lo devii, o ritragga dal suo proponimento»  75. Nel passo è
da riconoscere una libera e arbitraria parafrasi di Sen. epist. 1.7.1 e 7
Quid tibi vitandum precipue existimem quaeris? Turbam […]. Unum
exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit, che di per sé non
considerava affatto la turba come un elemento intrinseco e inevitabile
della città, piuttosto che un rimando all’epistola 68. Si produce dun-
que un deliberato appiattimento rispetto al complesso delle epistole
senecane, nelle quali, come già si osservava, non è il luogo a essere
determinante, ma la predisposizione dell’animo  76. Lollio procede,
sulla base dei classici, a un’elaborazione della villa come ambiente di
volontario eremitaggio, che in realtà rivela una certa forzatura rispetto
ai due modelli. Similmente si ha poi un riuso piuttosto arbitrario di
un passo dell’epistola di Plinio a Fusco, che a sua volta, come già si è
osservato, costituisce uno degli archetipi della descrizione epistolare
della giornata in villa: «Così appunto intese Plinio minore, quando
disse che gli occhi nostri allora veggono ciò che vede l’animo, quando
alcuna altra cosa non veggono: come specialmente interviene alla villa:
dove le cose che noi veggiamo, svegliano l’intelletto, e accendono in
noi il desiderio d’investigar le cause de gli effetti veduti» 77. L’esplica-
zione è un’evidente forzatura del senso della lettera di Plinio (epist.
9.36.1-2): Clausae fenestrae manent; mire enim quam silentio et tene-

74
Ivi, c. 386.
75
Lollio, Lettera cit., c. 229r.
76
Sen. epist. 55.8 Sed non multum ad tranquillitatem locus confert: animus est,
qui sibi commendet omnia. Vidi ego in villa hilari et amoena maestos, vidi in media
solitudine occupatis similes.
77
Lollio, Lettera cit., c. 229r.

204
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

bris ab iis quae avocant abductus et liber et mihi relictus non oculos ani-
mo, sed animum oculis sequor, qui eadem quae mens vident, quotiens
non vident alia. In Plinio l’osservazione origina dalla descrizione della
giornata-tipo, e specie del momento mattutino, ed è relativa soltanto
alla particolare concentrazione intellettuale concessa dalla possibilità
di restare nella camera buia, senza alcunché che distragga. Si tratta
dunque della conseguenza della superiore disponibilità di tempo della
villa, un tempo strappato alla congestione della vita urbana e dedicato
esclusivamente al lavoro; non a caso, ultimate elaborazione e corre-
zioni, la luce del sole è lasciata entrare e il notarius viene convocato
per la dettatura. In Lollio, al contrario, attraverso la soppressione del
riferimento alla stanza buia e alle concrete fasi elaborative, si arriva
a una sostanziale alterazione del senso, per cui ciò che in villa cade
sotto gli occhi si deposita in maniera diversa nell’animo dell’uomo,
inducendolo alla ricerca della cause ultime del visibile, come l’autore
confermerà poco dopo osservando che «quell’aer puro e libero, il si-
lentio, e la giocondissima verdura, ricreano molto gli spiriti, e aguzza-
no l’intelletto mirabilmente» 78. Una posizione rafforzata dal rimando
esplicito a Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta 10.5-9  79, che è fra
l’altro un sonetto epistolare rivolto a Stefano o Giacomo Colonna e
concluso dall’invito, altrettanto topico nelle lettere tra mittente in villa
e destinatario in città, a raggiungere il destinatario in campagna, come
già nella lettera di Plinio a Fundano e poi nella lettera di Ludovico
Moro all’interno delle Giornate di Gallo.
Oltre ad essere un singolare ribaltamento della contrapposizione
tra colui che potuit rerum cognoscere causas e le più semplici gioie del-
la vita agreste 80, l’intervento di Lollio si collega piuttosto con un’idea
della villa intesa non solo come isolamento, ma anche come forma
di eremitaggio ascetico, di progressione speculativa dal sensibile al
metafisico, sollecitata proprio da quello studio dei processi biologici
necessario al contadino per ottenere i migliori risultati.

78
Ivi, c. 230v. Selmi, Alberto Lollio cit., pp. 298-300, parla di platonismo e
dimensione religiosa delle litterae.
79
«Qui non palazzi, non theatro o loggia, / ma ’n lor vece un abete, un faggio,
un pino / tra l’erba verde e ’l bel monte vicino, / onde si scende poetando et
poggia, / levan di terra al ciel nostr’intellecto».
80
Cfr. Verg. georg. 2.490-540.

205
Guglielmo Barucci

In Villa più che altrove […] si gode appunto quella felice maniera di
vivere, la quale da tutti i savi per eccellenza è chiamata vita: et è, quan-
do l’huomo libero da’ travagli, e sciolto dalle passioni, che aspramente
affliggono l’animo de’ mortali, se ne vive quietamente, essercitando
però sempre il pretiosissimo dono dell’intelletto: e co’l mezzo suo spe-
culando hor la natura e forza degli Elementi; hora il flusso, e reflusso
dell’acque; hora la fertilità della Terra, hora la virtù dell’herbe […].
E finalmente co’l pensier penetrando dentro al gran chiostro del Cie-
lo, risguarda il bello e meraviglioso ordine di que’ purissimi Angelici
Intelletti; e dall’uno all’altro colla mente salendo, si conduce alla con-
templatione della prima causa. (Lollio, Lettera cit., c. 224r) 81

Naturalmente, come si accennava in apertura, l’immagine della villa


nel Rinascimento è frutto, all’interno di complesse trasformazioni so-
ciali non omogenee nella stessa Italia 82, della stratificazione di molte-
plici paradigmi e modelli culturali, sia latini sia volgari, in una trama
di topoi spesso intricata. Rilevante è osservare come tuttavia la villa sia
strettamente connessa con la dimensione dialogico-relazionale  83 e co-
me, in questa prospettiva, due dei principali testi rinascimentali sulla
villa assumano, almeno in parte, proprio la dimensione epistolare, il
dialogo tra due pari che supera la distanza spaziale tra città e campa-
gna. In tale ottica era inevitabile il recupero dell’archetipo di un simile
dibattito, ossia di Plinio – ma anche di Seneca, che costituiva per certi
versi la cosciente inversione di quello che era un già definito reperto-
rio di loci. Un recupero, sì, ma anche una consapevole trasformazione:
le opere di Lollio e di Gallo partecipano del generale processo di ela-
borazione di una nuova normativa cortese, un ideale aristocratico non
più solo urbano e alla ricerca di uno status rinnovato 84, ma soprattut-
to – pur nella distanza fra loro – lasciano affiorare con radicale forza
l’esigenza della fuga dalla città. È una fuga da una società che, nella
generale crisi culturale, politica e religiosa, si prospetta come sempre

81
Lo stesso genere di elaborazione anche in Taegio, La villa cit., pp. 69 e 71.
82
R. Bentmann - M. Müller, Die Villa als Herrschaftsarchitektur, Frankfurt
a.M. 1970 (trad. ital. con titolo Uno proprio paradiso. La villa: architettura del domi-
nio, Roma 1986).
83
G. Benzoni, Conversare in villa, in N. Borsellino - B. Germano (a cura di),
L’Italia letteraria e l’Europa, II. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Conve-
gno di Aosta (7-9 novembre 2001), Roma 2003, pp. 15-49.
84
Frigo, La «vita in villa» cit., pp. 103-130.

206
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura

più soffocante e inquieta: il Plinio che rinviava alla vecchiaia  85 il ritiro
definitivo in villa è lontano; molto più vicino è il concilio tridentino.

85
Plin. epist. 3.1.11. Sembra piuttosto una concessione al decoro signorile
la dichiarazione di Lollio, peraltro inconsueta e antitetica con buona parte delle
asserzioni della Lettera, che la città resti necessaria «per le comunanze de’ Populi:
in cui s’imparino le belle creanze, i costumi lodevoli, et le pregiate virtù» (Lollio,
Lettera cit., c. 228r), rielaborazione dell’epistola pliniana a Presente, in cui, invertiti
i ruoli, Plinio sollecitava il corrispondente a tornare in città, unico insostituibile
cardine sociale del vivere civile, il luogo dove si trovano dignitas, honor, amicitiae
tam superiores quam minores (Plin. epist. 7.3.2). Un passo che, peraltro, conferma
l’attenzione di Lollio verso il grande archetipo.

207
Marianna Villa
Plutarco e Castiglione:
il personaggio
di Alessandro Magno

La strategia argomentativa del dialogo Cortegiano di Baldassarre Ca-


stiglione (Venezia 1528), com’è noto, fa largo uso di esempi, sebbene
la loro funzione esemplare risulti di fatto poi ridotta 1: è la stessa Corte
di Urbino a mostrarsi sulla scena, come soggetto e oggetto dell’enun-
ciazione, modello e norma, anche mediante i rapporti sociali che ven-
gono rappresentati e che si rispecchiano nelle discussioni 2. Pertanto,
dominano situazioni e personaggi contemporanei, per una «apologia
del presente» 3 lucidamente consapevole dei limiti e delle contraddi-
zioni della realtà.

1
L. Mulas, Funzioni degli esempi, funzione del «Cortegiano», in C. Ossola -
A. Prosperi (a cura di), La corte e il «Cortegiano», I. La scena del testo, Roma 1980,
pp. 97-117.
2
La scelta della forma dialogica risponde all’esigenza di riprodurre una delle
più tipiche forme del rapporto sociale cortigiano, ovvero l’«intertenimento» mon-
dano. La discussione sul perfetto cortigiano è infatti presentata dall’autore come un
vero e proprio gioco di società, tra gli altri proposti per trascorrere piacevolmente
le serate nella corte di Urbino (Cort. 1.5-12). La strategia enunciativa organizza il
dialogo diegetico in modo regolare, su modello del De oratore ciceroniano, come
dimostrano la corrispondenza del numero di libri con le serate e la presenza di un
interlocutore principale che ha la funzione di esporre il tema specifico di ogni sera,
mentre gli altri personaggi, realmente vissuti, assistono in circolo intervenendo con
battute o contraddizioni.
3
G. Mazzacurati, Baldessar Castiglione e l’apologia del presente, in Id.,
Misure del classicismo rinascimentale, Napoli 1967, pp. 7-131.

209
Marianna Villa

L’institutio proposta nell’opera è tuttavia alimentata dai modelli


della paideia antica, secondo la formazione umanistica di Castiglione.
E, tra gli esempi antichi, emerge il personaggio di Alessandro Magno,
il più citato, un riferimento costante pur nella varietà degli argomen-
ti discussi  4. La centralità del Macedone all’interno del dialogo, non
ancora adeguatamente rilevata, si configura come un acquisto della
redazione definitiva dell’opera  5, che vede un aumento delle occor-
renze sia quantitativo che qualitativo, in riferimento alla rifunziona-
lizzazione politica del cortigiano e al portato idealizzante del quarto
libro. Mentre nei primi due libri i richiami ad Alessandro, rimasti
sostanzialmente identici a quelli della seconda redazione, sono infatti
tratti da molteplici fonti già ampiamente note, da Curzio Rufo a Va-
lerio Massimo, nel corso della trattazione del quarto libro predomina
Plutarco, autore riscoperto e avidamente fruito dalla cultura umani-
stico-rinascimentale a partire dalla seconda metà del Quattrocento.
Ne risulta un’immagine del Macedone fortemente positiva, in sintonia
con la visione plutarchea, diversa da quella prospettata fino a quel

4
Probabili suggestioni derivano dall’ambiente urbinate, in relazione alla
figura di Guidubaldo: cfr. i motivi della fortuna avversa e della precocità ravvisabili
in Cort. 1.3 e nell’Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini ducis indirizzata da
Castiglione al re d’Inghilterra Enrico VII nel 1508, ma anche nel De Guido Ubaldo
Feretrio deque Elizabetha Gonzaga Urbini Ducibus di Pietro Bembo (Venetiis 1530;
il testo risale però agli anni 1508-1510).
5
Nella lunga e tormentata storia compositiva del Cortegiano si individuano
tre fasi redazionali, a partire dai primi abbozzi del 1513, poi rielaborati e assestati
in una prima redazione (1516) molto lontana dalla configurazione d’arrivo. Il con-
tinuo lavoro di revisione porta a una seconda redazione, completata tra il 1520 e
il 1521, e pubblicata in forma autonoma da Ghino Ghinassi (B. Castiglione, La
seconda redazione del Cortegiano, edizione critica a cura di G. Ghinassi, Firenze
1968). Testimone della terza redazione (1521-1524) è il manoscritto Laur. Ashb.
409, che registra significativi mutamenti strutturali nello sdoppiamento e nella riela-
borazione dell’originario terzo libro della seconda redazione, portando così a quat-
tro il numero totale dei libri. Ulteriormente corretto in Spagna, dove Castiglione si
era recato in qualità di Nunzio apostolico, il Laurenziano venne spedito a Venezia
per la stampa e subì un nuovo processo di revisione, prettamente linguistica, ad
opera di Francesco Valier, dando origine alla princeps aldina del 1528. In attesa
di un’edizione critica di riferimento, le citazioni sono tratte dall’edizione di Bruno
Maier (B. Castiglione, Il libro del Cortegiano con una scelta delle Opere Minori, a
cura di B. Maier, Torino 19733), che assume il codice fiorentino come testimone
privilegiato, in quanto apografo ma con «valore d’autografo», preparato da Casti-
glione medesimo.

210
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

momento sulla base degli autori latini 6. Se Plutarco costituisce un mo-


dello sfruttato in profondità, differente è invece la modalità di riuso
delle altre auctoritates, impiegate generalmente solo come bacino di
esempi a sostegno delle argomentazioni, e per di più soggette a varie
interpretazioni. Così l’aneddoto dell’ammirazione di Alessandro per
Omero 7 (da Cic. Arch. 24, ma tramite il riferimento a Petrarca, Rerum
vulgarium fragmenta 187), richiamato da Pietro Bembo per affermare
la superiorità delle lettere, è reso problematico dal Conte Ludovico da
Canossa (Cort. 1.46), interlocutore principale del primo libro:
E se Alessandro ebbe invidia ad Achille per esser laudato da chi fu,
non conchiude però questo che estimasse piú le lettre che l’arme; nelle
quali se tanto si fosse conosciuto lontano da Achille, come nel scrivere
estimava che dovessero esser da Omero tutti quelli che di lui fossero
per scrivere, son certo che molto prima averia desiderato il ben fare in
sé che il ben dire in altri.

Come si accennava, nell’assegnare a Bembo il richiamo all’aneddoto


Castiglione si era avvalso – coerentemente alla rappresentazione del
personaggio – della citazione petrarchesca, di cui va rilevata anche
la sfumatura (aggiuntiva rispetto al testo ciceroniano) del «sospiro»,
una costante psicologica e morale attribuita ad Alessandro in tutta
la produzione di Petrarca 8. L’intermediazione petrarchesca, operan-
te presumibilmente anche nell’aneddoto, tratto da Valerio Massimo
8.14, sulla volontà di conquiste territoriali da parte di Alessandro
(Cort. 1.18) 9, risulta a sua volta significativa per demarcare un oriz-

6
Il mantenimento di occorrenze non plutarchee nei primi libri è probabil-
mente ascrivibile non solo alla prassi editoriale di Castiglione, tendenzialmente
conservativa, ma anche alla volontà di rimarcare la propria originalità nel segno di
Plutarco.
7
Cort. 1.45: «Ah, – disse messer Pietro – voi dianzi avete dannati i Fran-
zesi che poco apprezzan le lettre e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli
omini e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenzia. Non
vi ricorda che ‘Giunto Alessandro a la famosa tomba / del fero Achille, sospirando
disse: / - O fortunato, che sí chiara tromba / trovasti e chi di te sí alto scrisse’».
8
Dalla Collatio laureationis (10.17) del 1341 al tardo De ignorantia: cfr.
E. Fenzi, Saggi petrarcheschi, Fiesole 2003, pp. 471-472.
9
Castiglione aggiunge l’elemento del pianto sconsolato che è assente in
Valerio Massimo, con tutta probabilità accentuando il «sospiro» di Petrarca, De
ignorantia 113: «Rise qui ognuno; ma messer Cesare Gonzaga suggiunse: ‘Di che
ridete voi? Non sapete che Alessandro Magno, sentendo che opinion d’un filosofo

211
Marianna Villa

zonte di riferimento da cui Castiglione vuole prendere le distanze.


Articolata è la rappresentazione di Alessandro all’interno della produ-
zione di Petrarca 10. Le postille al codice di Curzio Rufo delle Historiae
Alexandri (Par. lat. 5720), frutto di una lettura privata, sottolineano la
grandezza del Macedone e denotano un atteggiamento di compren-
sione verso alcuni difetti  11. È invece nella produzione ufficiale che
si può vedere l’ostilità di Petrarca verso il personaggio, per influsso
del celebre excursus liviano (9.16-19) 12 in cui Alessandro è giudicato
inferiore ai grandi condottieri romani e risulterebbe sconfitto in una
ipotetica guerra combattuta contro Roma. Esemplare risulta la Vita di
Alessandro, basata sulla giustapposizione di Curzio Rufo e Giustino, e
inserita, probabilmente dagli anni Sessanta, nel De viris 13: in un’ottica
politico-morale viene evidenziata la mutatio del protagonista all’indo-
mani delle conquiste in Oriente, opponendo la sua degenerazione alla
moralità dei condottieri romani. L’immagine del «vincitore vinto»  14
dalle passioni è ben diversa, dunque, da quella offertaci da Plutarco:
non sembra allora un caso che, nel Cortegiano, Alessandro venga mes-
so sullo stesso piano proprio di quei grandi condottieri a lui contrap-
posti dalle fonti latine e da Petrarca. Così in Cort. 1.43 («Qual animo
è cosí demesso, timido ed umile, che leggendo i fatti e le grandezze
di Cesare, d’Alessandro, di Scipione, d’Annibale e di tanti altri, non
s’infiammi d’un ardentissimo desiderio d’esser simile a quelli […]»),
i personaggi da imitare ricordano la classifica di Efeso stilata da Livio
(35.14) 15, salvo la sostituzione di Pirro con Cesare, accostato al Ma-

era che fussino infiniti mondi, cominciò a piangere, ed essendoli domandato perché
piangeva, rispose, - Perch’io non ne ho ancor preso un solo; come se avesse avuto
animo di pigliarli tutti?’».
10
Per un quadro generale, cfr. Fenzi, Saggi petrarcheschi cit.
11
Fenzi, Petrarca lettore di Curzio Rufo, in Saggi petrarcheschi cit., pp. 417-445.
12
Su cui cfr. N. Biffi, L’excursus liviano su Alessandro Magno, «BStudlat» 25,
1995, pp. 462-476; P. Treves, Il mito di Alessandro e la Roma di Augusto, Milano -
Napoli 1953; L. Braccesi, L’ultimo Alessandro: dagli antichi ai moderni, Padova
1986, p. 43; e il più recente L. Braccesi, L’Alessandro occidentale. Il Macedone e
Roma, Roma 2006.
13
Fenzi, Alessandro nel «De viris», in Saggi petrarcheschi cit., pp. 447-468.
14
Curt. 6.2.1, ma anche Sen. epist. 83.23, a proposito dell’ubriachezza del Ma­­
cedone.
15
Il motivo ricorre in Petrarca nella Collatio inter Scipionem, Alexandrum,
Hannibalem et Pyrrhum e quindi nel De viris: cfr. V. Pacca, Petrarca, Bari 1998,
p. 43.

212
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

cedone proprio da Plutarco. E ancora: Alessandro è l’unico greco in


Cort. 3.36 (già presente nella seconda redazione, come 3.70): «Non ci
son ancor omini come Cesare, Alessandro, Scipione, Lucullo e quegli
altri imperatori romani […]». Nella terza redazione, infine, la riabili-
tazione di Alessandro viene accentuata mediante nuovi accostamenti a
Scipione, con cui il Macedone condividerebbe la virtù della continen-
za (Cort. 3.39 e 42), assorbendone, per così dire, i caratteri: proprio
Scipione, per Livio e Petrarca, era infatti il modello positivo opposto
alla sregolatezza del Macedone. È perciò sufficiente un breve accenno
all’episodio delle donne di Dario, famosissimo anche nell’iconografia
umanistica sulla scorta dell’interpretazione moralistica di Plutarco 16,
per legittimare l’inserimento di Alessandro nel discorso di Gasparo
Pallavicino sulla continenza maschile, in uno stretto collegamento con
Scipione per la giovane età e per il successo militare:
Ed io circa questo non voglio recitarvi tante istorie o fabule quante
avete fatto voi, e rimettovi alla continenzia solamente di dui grandis-
simi signori giovani, e su la vittoria, la quale suol far insolenti ancora
gli omini bassissimi; e dell’uno è quella d’Alessandro Magno verso le
donne bellissime di Dario, nemico e vinto; l’altra di Scipione […].
(Cort. 3.39)

Un’ulteriore conferma della sovrapposizione con l’Africano proviene


dalla replica di Cesare Gonzaga a favore delle donne, che reinterpreta
in senso riduttivo gli esempi di Pallavicino. Porzioni testuali che nella
redazione precedente riguardavano solo Scipione vengono ora riferite
anche ad Alessandro:

16
L’episodio è presente in numerose altre fonti, tra cui Plut. mor. 338e = De
Alex. fort. I: cfr. K. Ziegler (ed.), Plutarchus. Vitae Parallelae, II.2, Lipsiae 1968,
ad loc. Secondo la presentazione plutarchea, l’episodio viene letto in chiave morale
e può essere accostato a quello della schiava Campaspe di Cort. 1.52, derivante da
Plin. nat. 35.86, per il motivo del «vincere sé»: cfr. Plut. Alex. 21.5-7 «Alessan-
dro, ritenendo che a un re si addicesse vincere se stesso più che non i nemici, non
le toccò» (la traduzione è tratta da Plutarco, Vite Parallele. Alessandro e Cesare,
a cura di D. Magnino, Torino 1996). Nella tradizione figurativa, dalle Storie del
Sodoma alla Farnesina, dipinte nel 1513-1518, negli anni in cui Castiglione era a
Roma, alla Sala Paolina di Castel Sant’Angelo di Perin del Vaga (1543-1547), al
quadro del Veronese conservato presso la National Gallery di Londra (1565 ca.),
fino al Tiepolo, domina la raffigurazione della generosità di Alessandro rispetto alle
scene connesse alla battaglia di Isso: cfr. R. Guerrini, Biografia dipinta. Plutarco e
l’arte del Rinascimento (1400-1550), La Spezia 2001, pp. 3-21, 36, 56-58.

213
Marianna Villa

Parvi, signor Gasparo, che questi sian atti di continenzia equali a quel-
la d’Alessandro? Il quale, ardentissimamente innamorato non delle
donne di Dario, ma di quella fama e grandezza che lo spronava coi
stimuli della gloria a patir fatiche e pericoli per farsi immortale, non
che le altre cose ma la propria vita sprezzava per acquistar nome so-
pra tutti gli omini; e noi ci maravigliamo che con tai pensieri nel core
s’astenesse da una cosa la qual molto non desiderava? Ché, per non
aver mai piú vedute quelle donne, non è possibile che in un punto
l’amasse 17, ma ben forse l’aborriva, per rispetto di Dario suo nemico;
ed in tal caso ogni suo atto lascivo verso di quelle saria stato iniuria e
non amore; e però non è gran cosa che Alessandro, il quale non meno
con la magnanimità che con l’arme vinse il mondo, s’astenesse da far
ingiuria a femine. (Cort. 3.44)

Sebbene la pertinenza dell’esempio di Pallavicino venga contestata,


l’immagine di Alessandro entro la polifonia del discorso cortigiano
non ne risulta compromessa, forte dell’impronta plutarchea. Non solo
bacino di esempi e fonte per tutte le occorrenze aggiunte nella versio-
ne definitiva, Plutarco è soprattutto un modello, fruito in profondità,
come si diceva prima. Infatti i riferimenti ad Alessandro entro il pro-
cedere delle discussioni risultano disposti in ordine cronologico, quasi
a costituire una biografia: gli episodi riguardanti l’infanzia narrati nei
primi capitoli della Vita plutarchea ricorrono nei primi libri del Cor-
tegiano, viceversa quelli che si riferiscono ad Alessandro maturo sono
presenti nel quarto libro. Plutarchei sono anche i caratteri di tale bio-
grafia: la selezione di episodi, disposta in ordine cronologico, risulta
funzionale ad esaltare l’ethos del personaggio, le virtù dell’eroe antico,
fornendone un ritratto ideale  18. Dalla Vita discende l’atteggiamento

17
Cfr. anche la ripresa sintattica, con l’interrogativa iniziale, di Cort. 3.78
(della seconda redazione): «Or parvi Frisio, che questo sia più che la continenzia
di Scipione? Il quale essendo in un paese inimico, nuovo e non conosciuto […],
per questi rispetti nel principio de una tanta impresa se astenne da una cosa, la qual
molto non desiderava, ché per non aver mai più veduta quella donna non è già da
creder che così in un punto l’amasse». Nella configurazione definitiva del passo è
evidente il parallelo con Scipione: «La continenzia ancor di Scipione è veramente
da laudar assai; nientedimeno, se ben considerate, non è da agguagliare a quella
di queste due donne; perché esso ancora medesimamente s’astenne da cosa non
desiderata, essendo in paese nemico, capitano novo, nel principio d’una impresa
importantissima […]» (Cort. 3.44).
18
È un’operazione per certi versi analoga a quella che avviene in pittura a
partire dal secondo decennio del sedicesimo secolo, quando – grazie all’influsso di

214
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

di comprensione e indulgenza verso i difetti di Alessandro, che inve-


ce erano l’oggetto privilegiato di interesse delle fonti latine: sebbene
non manchino accenni in Plutarco all’ira e all’ubriachezza, questi vizi
risultano giustificati e passano in secondo piano. Anche nei capitoli
conclusivi della biografia, corrispondenti agli ultimi anni, in cui si av-
verte il cambiamento in negativo del personaggio, più propenso a pu-
nire e a comportarsi con slealtà 19, la colpa finisce per ricadere sull’am-
biente che circonda Alessandro all’apice della grandezza, dominato
da servilismo e adulazione. Significativi per i rapporti con Castiglione
sono anche gli opuscoli morali De Alexandri Magni fortuna aut vir-
tute, spesso compresenti con la Vita dietro a un medesimo passo del
Cortegiano. In essi risulta ancora centrale l’elemento didattico-morale,
in una visione maggiormente idealizzata 20: Alessandro vi è presentato
come la personificazione di tutte le virtù, un modello da emulare, su-
periore a tutti i filosofi, gli eroi e i grandi uomini dell’antichità (prima
orazione), e come un politico ideale, incarnazione della giustizia (se-
conda orazione).

L’operazione di Castiglione è quella di un’accurata selezione, da tut-


ta la produzione plutarchea, di quegli aspetti funzionali a una rap-
presentazione positiva del Macedone, in linea col modello ideale di
cortigiano che egli vuole tratteggiare. L’atteggiamento apologetico
investe Alessandro anche nel ruolo di sovrano: in relazione all’esem-
pio che segue (2.73), il suo nome diventa sinonimo di eccellenza ed è
impiegato per lodare un particolare tipo di facezie, fondate sull’arte
dissimulata di rendere evidente il proprio pensiero pur dicendo altro:
«Vedete come il motto è salso, ingenioso e grave e degno veramente
della magnanimità d’uno Alessandro». I difetti vengono riletti come

Plutarco – nei cicli figurativi il modello petrarchesco degli uomini illustri è soppian-
tato della «biografia dipinta», con varie storie riferite a un unico personaggio, dispo-
ste in un tracciato cronologico lineare: cfr. Guerrini, Biografia dipinta cit., pp. 3-21.
19
Cfr., ad esempio, il cap. 57 della Vita plutarchea.
20
Nelle orazioni Plutarco segue la vulgata senza correggere o controllare alcuni
dati; vi predomina quindi l’elemento romanzesco e favoloso. All’intento apologetico
della Vita si sostituiscono la negazione o l’omissione dei difetti di Alessandro. Per le
differenze tra le opere, dovute anche all’influsso del genere epidittico nelle orazioni,
cfr. M.R. Cammarota, Il «De Alexandri Magni fortuna aut virtute» co­me espressione
retorica: il panegirico, in I. Gallo (a cura di), Ricerche Plutarchee, Napoli 1992,
pp. 105-124.

215
Marianna Villa

segni della grandezza d’animo, della megalopsychia celebrata da Plu-


tarco. La notizia secondo cui Alessandro avrebbe pianto di fronte alla
prospettiva di infiniti mondi, in quanto impossibilitato a conquistarli
(Cort. 1.18), diventa così l’occasione per distinguere gli umili dagli
uomini grandi, per i quali non solo la stima di sé non viene ascritta
alla temerarietà, ma è addirittura considerata necessaria come stimolo
all’azione. In quest’ottica celebrativa risulta emblematico il riferimen-
to al filosofo Callistene e alle conseguenze negative della sua uccisio-
ne per la reputazione di Alessandro – vicenda che forse rappresenta
l’unica ombra nel suo ritratto. Rispetto ad altre fonti 21, nella Vita plu-
tarchea sono presenti diversi episodi che testimoniano l’insofferenza
di Callistene verso il sovrano e si insinua la possibilità che egli fosse
realmente implicato nella congiura dei paggi del 327 a.C.; inoltre, con
l’intento di attenuare la responsabilità di Alessandro 22, sono riportate
differenti possibili cause della morte del filosofo, tra cui la malattia
in carcere. Castiglione compie un passo avanti nella stessa direzione,
addossando tutta la colpa a Callistene, riletto in chiave cortigiana: «Il
che non seppe far Calistene, ancorché Aristotile glielo mostrasse; ché,
per voler esser puro filosofo e cosí austero ministro della nuda verità,
senza mescolarvi la cortegiania, perdé la vita e non giovò, anzi diede
infamia ad Alessandro» (Cort. 4.47). Alessandro risulta danneggiato
dal comportamento del filosofo, presentato in antitesi con Aristotele:
la pura formazione filosofica viene così distinta dall’arte della «corte-
giania», costantemente in contatto con la realtà della corte, col centro
del potere politico. Si tratta di un’arte sicuramente difficile, che ri-
chiede mediazione e compromessi, ma che tuttavia – nella prospettiva
dell’opera – risulta accessibile e perfettibile tramite «studio e fatica».
La tematica pedagogica, assioma costitutivo dell’Umanesimo,
è allora uno dei motivi fondanti la rappresentazione di Alessandro
nel Cortegiano. Il progetto letterario è garantito dal modello, dal

21
Ad esempio, Curzio Rufo sottolinea l’innocenza del filosofo e l’odio provo-
cato nei Greci dalla crudeltà di Alessandro, costretto poi a pentirsi. Sulla congiura
dei paggi a danno di Alessandro cfr. Curt. 8.7-8, e, in particolare su Callistene,
8.8.21-23.
22
Plut. Alex. 52-55. Al contrario, Sen. nat. 6.23.2-3 si basa sull’uccisione di
Callistene per scagliare la sua più violenta invettiva contro Alessandro: cfr. D. Las-
sandro, La figura di Alessandro Magno nell’opera di Seneca, in M. Sordi (a cura di),
Alessandro Magno tra Storia e Mito, Milano 1984, pp. 155-168.

216
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

momento che i primi dieci capitoli dalla Vita plutarchea sono dedi-
cati all’infanzia, con particolare attenzione alla figura di Aristotele,
ritenuto superiore, per importanza, al padre naturale Filippo (Alex.
8.4) 23. Non diversamente Castiglione evidenzia, sin dal primo libro,
la centralità dell’educazione nel determinare il carattere di un uomo,
sovrapponendosi alle doti naturali: «posson quei che non son da na-
tura cosí perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere
in gran parte i diffetti naturali» (Cort. 1.14)  24. La presa di distanza
dai «privilegiati», dotati di qualità che permettono loro di raggiungere
l’eccellenza con poco sforzo, come il Cardinale Ippolito d’Este   25, è

23
«[Alessandro] lo ammirava ed amava non meno di suo padre (così diceva
egli stesso) perché il padre gli aveva dato la vita ma il filosofo gli aveva insegnato
a vivere bene». Plutarco in realtà accenna ai dissapori che seguirono tra i due, pur
attenuandone i toni, a differenza di Castiglione, che, mediante l’aggiunta di 4.47,
ribadisce ulteriormente l’importanza del rapporto educativo e riporta lo stesso
motivo plutarcheo della superiorità di Aristotele rispetto a Filippo, presente, fra
l’altro, anche nella prima orazione di Plut. mor. 327f. Sebbene Castiglione cono-
scesse il greco, era consuetudine ricorrere alle traduzioni latine, che proliferarono a
partire dal secondo decennio del quindicesimo secolo: cfr. L. Cesarini Martinelli,
Plutarco e gli umanisti, Bologna 2000, pp. 5-33, e M. Pade, Sulla fortuna delle «Vite»
di Plutarco nell’Umanesimo italiano del ’400, «Fontes» 1, 1998, pp. 101-116. In rela-
zione alla Vita di Alessandro, le ricostruzioni di Giustiniani individuano in Guarino
il principale traduttore, al ritorno da Bisanzio nel 1408 ed entro il 1416; vengono
inoltre attribuite a Iacopo Angeli altre versioni, in corrispondenza alle dispute sulla
superiorità di Cesare o Alessandro, diffuse in ambiente fiorentino (V.R. Giustiniani,
Sulle traduzioni latine delle «Vite» di Plutrarco nel Quattrocento, «Rinascimento»
12, 1961, pp. 3-62, e M. Pade, Latin Manuscripts of Plutarch’s Lives Corrected and
Annotated by Guarino Veronese, in AA.VV., Manuele Crisolora e il ritorno del greco
in Occidente, Atti del Convegno internazionale [Napoli, 26-29 giugno 1997], a cura
di R. Maisano - A. Rollo, Napoli 2002, pp. 249-268). La biblioteca urbinate pos-
sedeva tutte le Vite in greco, come ricorda Vespasiano da Bisticci (Commentario
de la vita del signore Federico, duca d’Urbino, in Id., Le vite, a cura di A. Greco, I,
Firenze 1970, pp. 395-396) e molteplici traduzioni in latino, tra cui il Vat. Urb. Lat.
443 e il Vat. Urb. Lat. 448, contenenti la vita di Alessandro tradotta da Guarino
(M.  Pade, A Checklist of the Manuscripts of the Fifteenth Century Latin Transla-
tions of Plutarch’s Lives, in AA.VV., L’eredità culturale di Plutarco dall’antichità al
Rinascimento, Atti del VII Convegno plutarcheo [Milano - Gargnano, 28-30 maggio
1997], a cura di I. Gallo, Napoli 1998, pp. 251-288).
24
«E cosí intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati, quasi
sempre son simili a quelli d’onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro
chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano» (Cort. 1.14).
25
«E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este cardinal
di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo

217
Marianna Villa

funzionale alla delineazione dei destinatari ideali dell’opera, ovvero


coloro che necessitano di un buon maestro e hanno la possibilità di
migliorarsi mediante «studio e fatica» 26. E il modello pedagogico di
riferimento è costituito proprio dalla coppia Aristotele/Alessandro  27
che, come si vedrà in seguito, ricompare nel quarto libro in una pro-
spettiva ribaltata, in cui il cortigiano ha il ruolo attivo di istitutore del
principe e quindi assume le veci di Aristotele:
[…] presuponendo prima che da natura non sia inabile, dee cominciar
per tempo ed imparar i princípi da ottimi maestri; la qual cosa quan-
to paresse a Filippo re di Macedonia importante, si po comprendere,
avendo voluto che Aristotele, tanto famoso filosofo e forse il maggior
che sia stato al mondo mai, fosse quello che insegnasse i primi elemen-
ti delle lettere ad Alessandro suo figliolo. (Cort. 1.25)

La figura del Macedone penetra in profondità le discussioni del primo


libro, in quanto realizzazione della formazione ideale che contempera
armi e lettere:
[…] né mi mancheriano esempi di tanti eccellenti capitani antichi, i
quali tutti giunsero l’ornamento delle lettere alla virtú dell’arme. Ché,
come sapete, Alessandro ebbe in tanta venerazione Omero, che la Ilia-
de sempre si teneva a capo del letto; e non solamente a questi studi, ma
alle speculazioni filosofice diede grandissima opera sotto la disciplina
d’Aristotele [nella seconda redazione si legge anche: e tanto quello amò
che Stagira, patria sua, disatta, fece reedificare]. (Cort. 1.43)

aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed
accommodati, che tra i piú antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una
tanto grave autorità, che piú presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’impa-
rare» (ibid.).
26
Cort. 1.24: «Ma perché voi diceste, questo spesse volte esser don della natura
e de’ cieli, ed ancor quando non è cosí perfetto potersi con studio e fatica far molto
maggiore, quegli che nascono cosí avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro, come
alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d’altro maestro;
perché quel benigno favor del cielo quasi al suo dispetto i guida piú alto che essi
non desiderano, e fagli non solamente grati, ma ammirabili a tutto il mondo. Però
di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi l’acquistarlo.
Ma quelli che da natura hanno tanto solamente, che son atti a poter esser aggraziati
aggiungendovi fatica, industria e studio, desidero io di saper con qual arte, con qual
disciplina e con qual modo possono acquistar questa grazia».
27
La fonte del passo va ricercata nell’Institutio oratoria di Quintiliano, 1.1.23,
opera di taglio pedagogico e ampiamente utilizzata nel primo libro del Cortegiano
per sottolineare la necessità di un’educazione graduale sin dalla prima infanzia.

218
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

Anche in questo caso la fonte è rappresentata da Plut. Alex. 8.2, che


richiama un’edizione dell’Iliade, altrimenti non nota, curata da Ari-
stotele  28: significativa è la connessione plutarchea tra Aristotele e
Omero, in quanto anche nel passo citato del Cortegiano (Cort. 1.43)
sono considerati i due cardini dell’educazione di Alessandro. La
consonanza con la visione plutarchea – derivata dalla storiografia
ellenistica – del Macedone come realizzazione di Achille, paradigma
poetico dell’eroe 29, porterebbe a spiegare la presenza del successivo
aneddoto su Alessandro, benché non plutarcheo, ovvero quello del
«sospiro» sulla tomba di Achille (Cort. 1.45), già ricordato. Inoltre,
una ricognizione in prospettiva diacronica testimonia l’importanza
del personaggio di Alessandro per il processo di smontaggio e riuso
delle fonti. Il capitolo ottavo della Vita plutarchea è anche la fonte di
Cort. 4.47, aggiunto nella terza redazione, per il riferimento alla supe-
riorità di Aristotele su Filippo nei confronti di Alessandro. A ulteriore
conferma del collegamento con Cort. 1.43 è lo spostamento della no-
tizia sulla ricostruzione di Stagira 30 nel quarto libro: «Aristotile cosí
ben conobbe la natura d’Alessandro e con destrezza cosí ben la se-
condò, che da lui fu amato ed onorato piú che padre, onde, tra molti
altri segni che Alessandro in testimonio della sua benivolenzia gli fece,
volse che Stagira sua patria, già disfatta, fosse reedificata» (Cort. 4.47).

28
Plutarco è il primo che cita in modo esplicito l’Iliade, e non genericamente
Omero: «[Alessandro] era anche amante per natura del leggere e dello studio lettera-
rio: ritenendo che l’Iliade fosse un viatico di virtù bellica (così la definiva), la teneva
con sé nell’edizione di Aristotele che chiamano della cassetta, e sempre la poneva
con il pugnale sotto il cuscino». Già Alberti aveva utilizzato l’esempio di Alessandro
nei Profugiorum ab aerumna libri tres, ma per sottolineare la preziosità del volume,
con lo scopo di elogiare la cultura e l’utilità degli insegnamenti di Agnolo Pandol-
fini: «E ricordommi di quello che e’ referiscono di Alessandro Macedone, quale
essendogli presentato un forzerino bellissimo lavorato, non sapea che imporvi cosa
preziosissima e condegna d’allogarla in sì maravigliosa cassetta. Pertanto comandò
vi riponessero e serbassono entro e’ libri di Omero, quali certo, non nego, sono
specchio verissimo della vita umana» (la citazione è tratta da L.B. Alberti, Profu-
giorum ab aerumna libri, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari 1966, II,
p. 162).
29
Cfr., ad esempio, Plut. Alex. 5.8, in cui il pedagogo di Alessandro si assimila
a Fenice, e nel contempo collega Alessandro ad Achille e Filippo a Peleo, con allu-
sione all’episodio dell’ambasceria ad Achille contenuto nel nono libro dell’Iliade.
30
Indicata tra parentesi quadre nella citazione riportata sopra di Cort. 1.43: «e
tanto quello amò che Stagira, patria sua, disfatta, fece reedificare».

219
Marianna Villa

Nel processo di elaborazione lungo la terza redazione Castiglione si è


quindi concentrato sulla figura di Alessandro Magno, assunto come
importante modello pedagogico, rileggendo le «sezioni plutarchee»
del Cortegiano già composte, come Cort. 1.43, per poi risalire diretta-
mente al testo di Plutarco, dal quale avrebbe tratto spunti per le parti
aggiunte (Cort. 4.47), così da ricollocare anche le tessere precedenti.
Un simile procedimento è rinvenibile dietro l’aggiunta di una compa-
razione tra il Macedone e Alessandro Gonzaga (Cort. 2.67), che assu-
me la funzione di compensare un passo espunto nella configurazione
definitiva. Si tratta ancora di un accostamento tra Alessandro e un
personaggio contemporaneo, Federico Gonzaga, oltretutto prelevato
dal medesimo capitolo plutarcheo (Alex. 5). Castiglione è risalito di-
rettamente alla fonte della parte non convincente, l’elogio di Federico
Gonzaga, e, mantenendo la struttura della comparazione, ne ha tratto
spunto per il nuovo inserimento su un altro Gonzaga, Alessandro. La
soppressione della comparazione con Federico presente nella seconda
redazione (3.42) è probabilmente ascrivibile all’esigenza di eliminare
elogi troppo scoperti, come avviene per quelli che precedevano, rivolti
a Francesco Maria della Rovere, non più nominato nella configurazio-
ne finale del dialogo, mentre di Federico rimane un generico encomio
nel quarto libro, come possibile realizzazione del principe ideale  31.
Nella parte espunta Castiglione aveva arricchito di particolari l’episo-
dio plutarcheo 32, specificando le curiosità di Alessandro e, mediante
la variazione della battuta finale, aveva paragonato il giovane non con

31
«Ancora in Italia se ritrovano oggidí alcuni figlioli de signori, li quali,
benché non siano per aver tanta potenzia, forse suppliranno con la virtú; e quello
che tra tutti si mostra di meglior indole e di sé promette maggior speranza che alcun
degli altri, parmi che sia il signor Federico Gonzaga, primogenito del marchese
di Mantua nepote della signora Duchessa nostra qui; ché, oltra la gentilezza de’
costumi e la discrezione che in cosí tenera età dimostra, coloro che lo governano di
lui dicono cose di maraviglia circa l’essere ingenioso, cupido d’onore, magnanimo,
cortese, liberale, amico della giusticia; di modo che di cosí bon principio non si po
se non aspettar ottimo fine» (Cort. 4.42).
32
«Una volta, in assenza di Filippo, ricevette dei messi giunti da parte del re
dei Persiani, e intrattenendoli, con la sua amabilità e col non rivolgere loro nessuna
domanda sciocca o banale, ma informandosi della lunghezza delle strade e del modo
di viaggiare nell’interno dell’Asia, e circa lo stesso re, come si comportava in guerra
e quale era la forza e la potenza dei persiani, li affascinò a tal punto che essi ne
rimasero ammirati e ritennero che la celebrata abilità di Filippo non fosse niente a
paragone dell’impostazione di pensiero e dell’alto sentire del figlio» (Plut. Alex. 5).

220
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

il padre, ma con lo stesso re dei Persiani, considerandolo superiore


per qualità spirituali. Come gli ambasciatori nell’aneddoto, così Lu-
dovico da Canossa nel dialogo aveva sottolineato i segni della futura
grandezza di Federico, rendendo il riferimento troppo apertamente
elogiativo:
Et essendo io a questi dì passati ito a Mantua, feci quel giudizio di
questo fanciullo che si scrive che già fecero di Alexandro certi amba-
sciatori del Re di Persia, li quali venuti alla corte di Filippo, essendo
esso assente, furono da Alexandro suo figliuolo, che ancor era fanciul-
lo, ricevuti onoratissimamente; et intertenendoli esso domesticamente,
come si suole, non gli adimandò mai cosa alcuna puerile, come degli
orti o giardini, né delle altre delizie del loro Re, che a quei tempi erano
celebratissime, ma solamente quanta gente a piedi e quanta a caval-
lo potesse mettere alla campagna il Re di Persia, e che ordinanza e
modo teneano del combattere, et in qual parte dello exercito stava la
persona del Re, e chi stavano con lui, e come aveano modo di levar
le vettovaglie, alli nimici che venissero in Persia da una banda, e co-
me dall’altra, e come far che a sé non mancassero, et altre tai cose; di
modo che quelli ambasciatori, maravigliati, dissero: «El nostro si può
chiamar meritamente ricco re, ma questo fanciullo gran re», et insino
allora giudicorno che avesse da essere quello che fu. (Cort. 3.42 della
seconda redazione)

Ben diverso è il passo su Alessandro Gonzaga della redazione definiti-


va, in cui la fonte è adattata al contesto delle facezie, per esemplificare
un’arguzia costruita mediante paragoni. Si verifica un rovesciamento
della situazione plutarchea 33, funzionale a generare il sorriso:
Disse allor il signor Giovanni: «Voi v’ingannate, perché Alessandro
non pensa a cosí piccol cosa; ma, come si scrive che Alessandro Ma-
gno, mentre che era fanciullo, intendendo che Filippo suo padre avea
vinto una gran battaglia ed acquistato un certo regno, cominciò a pian-
gere, ed essendogli domandato perché piangeva rispose, perché du-
bitava che suo padre vincerebbe tanto paese, che non lassarebbe che

33
«Ogni volta che sentiva annunciare che Filippo aveva conquistato una
città famosa o aveva vinto una celebrata battaglia, non dimostrava molta gioia e ai
coetanei diceva: ‘Amici, mio padre si prenderà tutto e non mi lascerà la possibilità
di compiere con voi qualche grossa, luminosa impresa’. Egli infatti non aspirava a
piaceri o ricchezze, ma a virtù e fama, e pensava che quanto più riceveva dal padre,
tanto meno avrebbe guadagnato da solo» (Plut. Alex. 5).

221
Marianna Villa

vincere a lui; cosí ora Alessandro mio figliolo si dole e sta per pianger
vedendo ch’io suo padre perdo, perché dubita ch’io perda tanto, che
non lassi che perder a lui». (Cort. 2.67)

Tralasciando l’aneddotica, che pure è utile, come si è detto, a mette-


re in rilievo i processi compositivi, risultano interessanti sotto altro
profilo i riferimenti ad Alessandro nel terzo e nel quarto libro del
Cortegiano, funzionali a completarne il ritratto. All’amore per la co-
noscenza e alla liberalità presenti nel primo libro 34, si aggiungono la
continenza, come si è visto a proposito dell’episodio delle donne di
Dario (Cort. 3.39), e quelle virtù che sono costitutive del principe edu-
cato dal cortigiano. Per Castiglione la problematica pedagogica risulta
predominante sui concreti temi politici, perché è la superiorità mora-
le, frutto dell’educazione, a determinare il successo militare e quindi a
giustificare il potere, in sintonia con la visione plutarchea. Accanto agli
opuscoli morali, ampiamente presenti nel quarto libro, com’è noto,
anche la Vita di Alessandro risulta significativa per il rilievo conferito
non tanto ai successi militari, quanto alla personalità del Macedone e
al suo progetto di riunire Greci e Orientali in un grande impero, usan-
do la benevolenza 35. Si tratta di una visione che ritorna nel Cortegiano,
come dimostra l’elogio del capitolo trentasette, rimasto invariato dalla
redazione precedente, in cui la conquista dei popoli diventa un’azione
pedagogica per diffondere le proprie virtù e la civiltà:
E di coloro che voi avete nominati, non vi par che Alessandro giovasse
con le sue vittorie ai vinti, avendo instituite di tanti boni costumi quel-
le barbare genti che superò, che di fiere gli fece omini? Edificò tante
belle città in paesi mal abitati, introducendovi il viver morale; e quasi
congiungendo l’Asia e l’Europa col vinculo dell’amicizia e delle sante
leggi, di modo che piú felici furno i vinti da lui, che gli altri; perché ad
alcuni mostrò i matrimoni, ad altri l’agricoltura, ad altri la religione, ad
altri il non uccidere, ma il nutrir i padri già vecchi, ad altri lo astenersi

34
Cfr. Cort. 1.43 e l’episodio di Apelle in Cort. 1.52.
35
«Intanto egli cercava sempre più di conformarsi al modo di vivere dei Per-
siani e operava per avvicinare il modo persiano a quello macedone, ritenendo che
avrebbe reso saldo il suo potere, mentre stava partendo per un lungo viaggio, con
la concordia e la fusione dei due popoli ottenuta con la benevolenza più che con
la forza. Per questo egli scelse trentamila giovani e ordinò che si insegnasse loro la
lingua greca, e che anche fossero addestrati nell’uso delle armi macedoni» (Plut.
Alex. 47.4-5).

222
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

dal congiungersi con le madri e mille altre cose che si porian dir in
testimonio del giovamento che fecero al mondo le sue vittorie. (Cort.
4.37)

Le sezioni aggiunte nella configurazione definitiva vanno nella stessa


direzione:
ed Aristotile, oltre allo indrizzar lui a quel fin gloriosissimo, che fu il
voler fare che ’l mondo fosse come una sol patria universale, e tutti gli
omini come un sol populo, che vivesse in amicizia e concordia tra sé
sotto un sol governo ed una sola legge lo formò nelle scienzie naturali
e nelle virtú […]; ché non si po imaginare piú nobil filosofia, che indur
al viver civile i populi tanto efferati come quelli che abitano Battra e
Caucaso, la India, la Scizia ed insegnar loro i matrimoni, l’agricultura,
l’onorar i padri, astenersi dalle rapine e dagli omicidii e dagli altri mal
costumi, lo edificare tante città nobilissime in paesi lontani, di modo
che infiniti omini per quelle leggi furono ridutti dalla vita ferina alla
umana. (Cort. 4.47)

Se nel primo libro dell’opera Alessandro è presentato come un fan-


ciullo ammaestrato da Aristotele, ora, nelle vesti del sovrano che porta
civiltà e giustizia nel mondo  36, diventa egli stesso educatore, riassu-
mendo in sé il processo prospettato nel Cortegiano (il cortigiano che
viene formato nel primo libro, per poi «formare» il principe; il cor-
tigiano prima «oggetto» e quindi «soggetto» dell’educazione) e ge-
nerando, sulla falsariga dell’opera plutarchea, quella biografia di cui
si è detto prima. Accanto alla Vita, per la rappresentazione di Ales-
sandro come educatore e civilizzatore è importante la prima orazione
plutarchea De Alexandri Magni fortuna aut virtute  37. La superiorità

36
Cfr., in riferimento al principe, Cort. 4.27, in cui la guerra è considerata
necessaria per abbattere i tiranni e instaurare la pace: «Però debbono i príncipi far
i populi bellicosi non per cupidità di dominare, ma per poter diffendere se stessi
e li medesimi populi da chi volesse ridurgli in servitú, o ver fargli ingiuria in parte
alcuna»; ibid.: «Come adunque nella guerra debbono intender i populi nelle virtú
utili e necessarie per conseguirne il fine, che è la pace, cosí nella pace, per conse-
guirne ancor il suo fine, che è la tranquillità, debbono intendere nelle oneste, le
quali sono il fine delle utili».
37
Per quanto riguarda le due orazioni, la versione in latino venne eseguita da
Iacopo Angeli (Vat. Lat. 1875) nel 1409 e poi fu rifatta da Niccolò Perotti nel 1452
su invito di Nicolò V (Vat. Urb. Lat. 297): cfr. A. D’Angelo, N. Perotti traduttore
di Plutarco: il «De Alexandri Magni fortuna aut virtute, oratio I», «RPL» 14, 1994,
pp. 39-47, con le puntualizzazioni di Marcello Gigante, soprattutto per la datazione:

223
Marianna Villa

sui filosofi del passato è sancita mediante la contrapposizione tra la


speculazione teorica di questi e la prassi di Alessandro, divulgatore
della civiltà greca e promotore di una politica di fusione con i barbari.
Come dimostrano i passi riportati in precedenza (Cort. 4.37 e 4.47),
Castiglione preleva i motivi di fondo del discorso plutarcheo: l’unione
di Asia e Europa, il passaggio dallo stato ferino a quello civile attraver-
so l’agricoltura, l’istituzione del matrimonio 38, la religione, il rispetto
dei legami di parentela e la cura degli anziani – insomma gli aspetti
che contraddistinguono un popolo «civile» – evitando quegli esempi
concreti, pur presenti nel modello (mor. 328c) 39, che implicherebbero
l’evasione in un mondo lontano e di sapore esotico o lo sfoggio di
erudizione. Così l’azione civilizzatrice assume nel Cortegiano un’im-
portanza e un valore extratemporali, tale da poter essere piegata alle
ragioni del presente, a un modello di gentiluomo che si pone al di so-
pra delle barriere nazionali 40. Il pensiero corre all’attualità, al proble-
ma urgente dei difficili rapporti con gli infedeli, con l’auspicio di una

M. Gigante, Plutarco su Alessandro Magno, «A&R»» 44, 1999, pp. 53-56. In gene-


rale, sui Moralia cfr. C. Bevegni, Appunti sulle traduzioni latine dei «Moralia» di
Plutarco nel Quattrocento, «RPL» 14, 1994, pp. 71-84, e F. Stok, Le traduzioni
latine dei «Mo­­ralia» di Plutarco, «Fontes» 1, 1998, pp. 117-136.
38
Quello del matrimonio con Rossane (Plut. Alex. 47 e mor. 338de) è un sog-
getto che avrà grande successo a livello figurativo nei decenni successivi, per cele-
brare gli istituti civili e famigliari: cfr. il caso della Sala Paolina studiato da R. Guer-
rini, Storia antica e iconografia umanistica (D. Zaga, Episodi della vita di Alessandro
Magno, Sala Paolina, Castel Sant’Angelo), «Athenaeum» 63, 1985, pp. 37-43.
39
«Se invece volgi lo sguardo all’attività educatrice di Alessandro, vedrai che
educò gli Ircani al matrimonio, insegnò agli Aracoti a coltivare la terra, convinse i
Sogdiani ad assistere i loro padri e a non ucciderli, ed i Persiani ad avere rispetto
delle madri e a non sposarle» (trad. di A. D’Angelo in Plutarco, La fortuna o virtù
di Alessandro Magno. Orazione I, a cura di A. D’Angelo, Napoli 1998).
40
Amedeo Quondam analizza il passaggio dall’orizzonte più particolaristico
della seconda redazione a quello più «inter-nazionale» della terza, in cui Castiglione
rinuncia alla superiorità degli Italiani e promuove una prospettiva di scambio inter-
culturale: le caratteristiche del gentiluomo, dalle lettere al vestito, risultano fatti di
cultura, «sovranazionali e interscambiabili». Castiglione registrerebbe la progressiva
«conformità» delle nazioni, eliminando l’equivalenza straniero/barbaro (A. Quon-
dam, Questo povero Cortegiano, Roma 2000, pp. 331-403). La rappresentazione plu-
tarchea di Alessandro può quindi essere stata determinante anche in questo senso:
Plutarco infatti sottolinea continuamente il processo di fusione culturale tra Greci
e Barbari promosso da Alessandro, che tenta di contemperare gli usi e i costumi di
entrambi, in vista di un reciproco arricchimento, senza imporsi sui vinti.

224
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

possibile crociata che trovi giustificazione nell’istanza civilizzatrice,


proprio come le campagne militari del Macedone: «Ma lassando gli
antichi, qual piú nobile e gloriosa impresa e piú giovevole potrebbe
essere, che se i Cristiani voltasser le forze loro a subiugare gli infideli?
Non vi parrebbe che questa guerra, succedendo prosperamente ed es-
sendo causa di ridurre dalla falsa setta di Maumet al lume della verità
cristiana tante migliaia di omini, fosse per giovare cosí ai vinti come
ai vincitori?» (Cort. 4.38). E il motivo del giovamento della guerra sia
per i vinti che per i vincitori viene affermato grazie al riferimento a
Temistocle, anch’esso tratto dall’opuscolo plutarcheo: «E veramente,
come già Temistocle, essendo discacciato dalla patria sua e raccolto
dal re di Persia e da lui accarezzato ed onorato con infiniti e ricchissi-
mi doni, ai suoi disse: ‘Amici, ruinati eravamo noi, se non ruinavamo’;
cosí bene poriano allor con ragion dire il medesimo ancora i Turchi e i
Mori, perché nella perdita loro saria la lor salute» (ibid.). La struttura
del discorso rispecchia la fonte, dal momento che Castiglione associa
le parole di Temistocle agli infedeli, beneficati da un’eventuale scon-
fitta, come Plutarco ai sudditi di Alessandro (mor. 328ef) 41. Il passo
successivo è la delineazione, nell’attualità, dei possibili continuatori
della missione civilizzatrice del Macedone. In primo luogo Monsignor
d’Angolem, per il quale l’interlocutore rimanda alle discussioni del-
la prima sera quando Giuliano il Magnifico si era posto a testimone
della grandezza del futuro sovrano, in seguito a un viaggio in Francia
(Cort. 1.42) 42; quindi Enrico VIII, di cui si fa garante Castiglione in

41
«Sicchè ciò che disse Temistocle (quando, esule, ottenne dal Gran Re ricchi
doni e ricevette come tributarie tre città, una per il suo pane, l’altra per il suo vino,
la terza per il suo companatico): ‘Figli miei, saremmo rovinati, se non fossimo andati
in rovina!’, è più giusto riferirlo a coloro che furono conquistati da Alessandro: ‘Essi
non avrebbero appreso la vita civile, se non fossero stati soggiogati’». Da notare la
consueta prassi di Castiglione, che riscrive le fonti eliminando particolari superflui
(come la menzione delle tre città preposte al mantenimento di Temistocle), che pos-
sono appesantire la narrazione e generare «affettazione», per focalizzare l’attenzione
su ciò che risulta funzionale al proprio discorso.
42
In quella sede il futuro Francesco I è presentato come realizzazione dell’ide-
ale umanistico delle lettere congiunte alle armi, dunque una sorta di corrispettivo
moderno di Alessandro: «Voi dite il vero, rispose – che questo errore già gran tempo
regna tra’ Franzesi; ma se la bona sorte vole che monsignor d’Angolem, come si
spera, succeda alla corona, estimo che sí come la gloria dell’arme fiorisce e risplende
in Francia, cosí vi debba ancor con supremo ornamento fiorir quella delle lettere;
perché non è molto ch’io, ritrovandomi alla corte, vidi questo signore e parvemi

225
Marianna Villa

persona, sdoppiandosi come vero e proprio personaggio; infine il fu-


turo imperatore Carlo V, aggiunto nella terza redazione:
[…] il quale, non essendo ancor giunto al decimo anno della sua età,
dimostra già tanto ingegno e cosí certi indici di bontà, di prudenzia, di
modestia, di magnanimità e d’ogni virtú, che se l’imperio di Cristianità
sarà, come s’estima, nelle sue mani, creder si po che debba oscurare il
nome di molti imperatori antichi ed agguagliarsi di fama ai piú famosi
che mai siano stati al mondo. (Cort. 4.38)

Le qualità che gli vengono attribuite sono, non casualmente, quelle di


Alessandro Magno, un «imperatore antico» tra i «piú famosi che mai
siano stati al mondo», modello di eccellenza. Per oscurare i grandi
del passato, al principe moderno sono richieste, accanto alla capacità
di mantenere la giustizia e di civilizzare i popoli, nuove virtù legate
all’ambiente di corte, ovvero la liberalità, la magnificenza, la promo-
zione delle arti e della cultura, indispensabili per la propaganda, il
mantenimento del potere e soprattutto per la fama presso i posteri 43.
E dietro la celebrazione delle corti contemporanee, legate alla biogra-
fia di Castiglione (Mantova, con Francesco Gonzaga; Urbino, con il
nobile palazzo sede del dialogo; la corte papale, con i grandiosi pro-
getti architettonici di Giulio II), il modello di riferimento per l’eccel-
lenza è ancora Alessandro Magno, che rese la sua gloria immortale
con la fondazione di città:
Cosí ancor fece Alessandro Magno, il qual, non contento della fama
che per aver domato il mondo con l’arme avea meritamente acquistata,

che, oltre alla disposizion della persona e bellezza di volto, avesse nell’aspetto tanta
grandezza, congiunta però con una certa graziosa umanità, che ’l reame di Francia
gli dovesse sempre parer poco. Intesi da poi da molti gentilomini, e franzesi ed
italiani, assai dei nobilissimi costumi suoi, della grandezza dell’animo, del valore e
della liberalità; e tra l’altre cose fummi detto che egli sommamente amava ed esti-
mava le lettere ed avea in grandissima osservanzia tutti e litterati». Cfr. Quondam,
Questo povero Cortegiano cit., pp. 338-345 e 490-500.
43
«Cercherei d’imprimergli nell’animo una certa grandezza, con quel splen-
dor regale e con una prontezza d’animo e valore invitto nell’arme, che lo facesse
amare e reverir da ognuno di tal sorte, che per questo principalmente fusse famoso
e chiaro al mondo […]; dovesse essere liberalissimo e splendido e donar ad ognuno
senza riservo, perché Dio, come si dice, è tesauriero dei príncipi liberali; far conviti
magnifici, feste, giochi, spettacoli publici; aver gran numero di cavalli eccellenti,
per utilità nella guerra e per diletto nella pace; falconi, cani e tutte l’altre cose che
s’appartengono ai piaceri de’ gran signori e dei populi» (Cort. 4.36).

226
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

edificò Alessandria in Egitto, in India Bucefalia ed altre città in altri


paesi 44; e pensò di ridurre in forma d’omo il monte Athos, e nella man
sinistra edificargli una amplissima città e nella destra una gran coppa,
nella quale si raccogliessero tutti i fiumi che da quello derivano e di
quindi traboccassero nel mare  45: pensier veramente grande e degno
d’Alessandro Magno! Queste cose estimo io, signor Ottaviano, che si
convengano ad un nobile e vero principe e lo facciano nella pace e
nella guerra gloriosissimo. (Cort. 4.36)

Ad Alessandro spetta anche di chiudere i discorsi sul rapporto tra


principe e cortegiano, prima dell’intervento di Bembo sull’amore
platonico. Accanto ai più tradizionali esempi di Achille e Fenice, nel
capitolo quarantasettesimo del quarto libro ricorrono Aristotele e
Platone nelle vesti di cortigiani perfetti, a sintesi delle caratteristiche
tratteggiate nel corso dell’opera:
Né penso che Aristotile e Platone si fossero sdegnati del nome di per-
fetto cortegiano, perché si vede chiaramente che fecero l’opere della
cortegiania ed attesero a questo fine, l’un con Alessandro Magno, l’al-
tro con i re di Sicilia. E perché officio è di bon cortegiano conoscer
la natura del principe e l’inclinazion sue e cosí, secondo i bisogni e le
opportunità, con destrezza entrar loro in grazia, come avemo detto,
per quelle vie che prestano l’adito securo, e poi indurlo alla virtú, Ari-
stotile cosí ben conobbe la natura d’Alessandro e con destrezza cosí
ben la secondò, che da lui fu amato ed onorato piú che padre. (Cort.
4.47)

I meriti di Alessandro, e in particolare la sua missione civilizzatrice,


vengono così ascritti di nuovo all’azione educativa di Aristotele, se-
condo un’interpretazione idealizzata del loro rapporto, derivata dai
primi dieci capitoli della Vita plutarchea, senza considerare cioè il
successivo allontanamento. In primo piano viene messo il ruolo del

44
La fonte è nuovamente un passo del medesimo opuscolo plutarcheo, oltre-
tutto collocato dopo il riferimento a Temistocle (mor. 328ef) e ancora una volta
ripreso in sintesi, con l’eliminazione dei nomi troppo esotici – un’ulteriore conferma
di come i toponimi prevalenti nel Cortegiano siano quelli della geografia contempo-
ranea: «L’Egitto non avrebbe Alessandria, nè la Mesopotamia Seleucia, né Proftasia
la Sogdiana, né l’India Bucefala, né il Caucaso una città greca posta attorno alle sue
pendici».
45
Cfr. la seconda orazione plutarchea (mor. 335c-e), in cui l’architetto Stasi-
crate propone il progetto ad Alessandro.

227
Marianna Villa

cortigiano – Aristotele – ma in modo non esibito, dietro l’elogio del


sovrano:
oltre allo indrizzar lui [Alessandro] a quel fin gloriosissimo, […] lo
formò nelle scienzie naturali e nelle virtú dell’animo talmente, che lo
fece sapientissimo, fortissimo, continentissimo e vero filosofo mora-
le 46, non solamente nelle parole ma negli effetti; ché non si po imagi-
nare piú nobil filosofia, che indur al viver civile i populi tanto efferati
come quelli che abitano Battra e Caucaso, la India, la Scizia […]; e di
queste cose in Alessandro fu autore Aristotile, usando i modi di bon
cortegiano.

Alessandro, principe eccellente, diventa un modello raggiungibile


tramite l’educazione morale, posta come baluardo contro l’abuso di
potere e il malgoverno in un’età in cui non è possibile intervenire di-
rettamente sui sovrani, troppo presuntuosi di sé (Cort. 4.7). In questo
modo l’educazione del cortigiano tratteggiata nel primo libro, con la
necessità di una competenza vasta ma non specialistica che includa
le lettere, riceve nella terza redazione una nuova funzionalizzazione e
può riflettersi nella politica e nella vita civile, unica possibilità entro il
potere assoluto delle corti.
Come sopra si accennava, il ricorrere della coppia Alessandro/
Aristotele nelle parole di Ottaviano Fregoso, in risposta alle obie-
zioni del Magnifico Giuliano e in una sezione non a caso aggiunta
anch’essa nella redazione finale (Cort. 4.44-47), testimonia la centra-
lità dell’esempio per la nuova significazione che il Cortegiano assume
nella terza redazione. Il riferimento ad Aristotele, infatti, dimostra
la fattibilità del modello proposto di un cortigiano vecchio, carico
d’esperienza, di contro a un principe giovane, e consente il passaggio
alla tematica amorosa 47, sviluppata da Bembo per sanare la contrad-

46
La definizione deriva dalla prima orazione plutarchea (mor. 328ab), in cui
l’autore greco considera Alessandro come un filosofo superiore a tutti i grandi del
passato in virtù della prassi (un «filosofo in azione»): «Alessandro fu filosofo per ciò
che disse, ciò che fece, ciò che insegnò». L’amore per la filosofia è sottolineato più
volte anche nella Vita, sebbene rimanga un motivo secondario rispetto all’idea della
superiorità morale del Macedone e all’elogio delle sue qualità: cfr. Plut. Alex. 7.6-7;
8.4-5; 14.5.
47
«Perché, reassumendo quello che s’è detto insin qui, si poria cavar una con-
clusione che ’l cortegiano, il quale col valore ed autorità sua ha da indur il principe
alla virtú, quasi necessariamente bisogna che sia vecchio, perché rarissime volte il

228
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

dizione che l’inserimento della coppia Aristotele/Alessandro poneva.


In questo modo la sezione sull’amore platonico viene ancorata alle di-
scussioni precedenti, risolvendo il problema di una difficile giuntura,
in virtù di una maggiore coerenza strutturale.
In secondo luogo, la relazione tra Aristotele e Alessandro risulta
fondamentale per comprendere la nuova configurazione dei rapporti
tra principe e cortigiano, rispetto alla seconda redazione. In quest’ul-
tima, nell’originario capitolo ottavo del terzo libro, era presente un
elenco di coppie illustri:
Però se agli príncipi de’ nostri tempi venisse inanti un severo filosofo,
el quale così apertamente e senza arte alcuna volesse mostrargli quella
orrida faccia della vera virtute ed insignarli gli buoni costumi e qual
vita debba esser quella de un vero e degno principe, come è da credere
che facesse Platone a Dione Siracusano, Aristotile ad Alexandro, Lisia
pitagorico ad Epaminunda, Xenofonte ad Agesilao, Panezio a Sci-
pione, Plutarco a Traiano et infiniti altri, son certissimo che al primo
aspetto lo aborririano come un aspide, o veramente se ne fariano beffe
come di cosa vilissima, e più estimariano un buffone scioco o vero un
nuovo inventore de qualche sceleritate che quello. (Cort. 3.8, seconda
redazione) 48

Nel passaggio alla terza redazione l’inversione dei termini delle cop-
pie segnala a livello formale il cambiamento di prospettiva, per cui
l’attenzione viene rivolta ai prìncipi che devono disporsi ad ascoltare

saper viene innanzi agli anni, e massimamente in quelle cose che si imparano con
la esperienzia, non so come, essendo di età provetto, se gli convenga l’essere ina-
morato; atteso che, come questa sera s’è detto, l’amor ne’ vecchi non riesce e quelle
cose che ne’ giovani sono delicie e cortesie in essi sono pazzie ed inezie ridicule
[…]. Però se questo vostro Aristotile, cortegian vecchio, fosse inamorato e facesse
quelle cose che fanno i giovani inamorati, come alcuni che n’avemo veduti a’ dí
nostri, dubito che si scorderia d’insegnar al suo principe, e forse i fanciulli gli fareb-
bon drieto la baia e le donne ne trarebbon poco altro piacere che di burlarlo» (Cort.
4.49).
48
La fonte è un passo dell’opuscolo Maxime cum principibus philosopho esse
disserendum 1 (Plut. mor. 777): «Se invece [i filosofi] raggiungono un magistrato,
un politico, uno dedito all’azione, lo riempiono di virtù e di bontà, e tramite una
sola persona giovano a molti, come Anassagora, che fu in dimestichezza con Pericle,
Platone con Dione e Pitagora con gli uomini più illustri d’Italia. Lo stesso Catone,
lasciando l’esercito, navigò per mare incontro a Atenodoro, e Scipione mandò a
chiamare Panezio quando il senato lo incaricò […]» (Plutarco, Consigli ai politici,
introduzione di S. Beta, traduzione e note di G. Giardini, Milano 2007).

229
Marianna Villa

i filosofi. Questi, da «severi» e improponibili maestri che insegnano


«senz’arte», diventano punti di riferimento, atti a valorizzare e giusti-
ficare il discorso pedagogico del Cortegiano 49. La deprecazione divie-
ne allora esortazione:
Ma piacesse a Dio che i príncipi de questi nostri tempi accompagnas-
sero i peccati loro con tante virtú, con quante accompagnavano quegli
antichi; i quali, se ben in qualche cosa erravano, non fugivano però i
ricordi e documenti di chi loro parea bastante a correggere quegli er-
rori, anzi cercavano con ogni instanzia di componer la vita sua sotto la
norma d’omini singulari; come Epaminunda di Lisia Pitagorico, Agesi-
lao di Senofonte, Scipione di Panezio, ed infiniti altri. (Cort. 4.8)

Come ha sottolineato Claudio Scarpati, i tempi non consentono più


un rapporto diretto con il principe, ma richiedono la capacità di
«adescare» l’animo e di infondere a poco a poco le virtù con qualche
«inganno salutifero» grazie alla «cortegiania», che l’opera vuole ap-
punto insegnare  50. La risistemazione del periodo segnala dunque il
passaggio dal modello classico della institutio principis, presente nella
seconda redazione con i discorsi di carattere morale su vizi e virtù
(peraltro recuperati nel nuovo assetto senza cambiamenti), alla nuova
prospettiva della terza, di dialogo tra principe e cortigiano su un piano

49
La stessa funzione ricopre l’elemento polemico, che rimane comunque, allo
scopo di marcare la distanza temporale: «Ma se ad alcuni de’ nostri príncipi venisse
innanti un severo filosofo, o chi si sia, il qual apertamente e senza arte alcuna volesse
mostrar loro quella orrida faccia della vera virtú ed insegnar loro i boni costumi e
qual vita debba esser quella d’un bon principe, son certo che al primo aspetto lo
aborririano come un aspide, o veramente se ne fariano beffe come di cosa vilissima»
(Cort. 4.8).
50
C. Scarpati, Dire la verità al principe. «Cortegiano IV, 5», in AA.VV., Dire la
verità al principe. Ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Milano 1987, pp. 9-54.
In Cort. 4.47 della terza redazione viene aggiunto l’esempio di Callistene, che, privo
dei modi della «cortegiania», come sappiamo fallisce la propria missione educativa:
«Di queste cose in Alessandro fu autore Aristotile, usando i modi di bon cortegiano;
il che non seppe far Calistene, ancorché Aristotile glielo mostrasse; ché, per voler
esser puro filosofo e cosí austero ministro della nuda verità, senza mescolarvi la
cortegiania, perdé la vita e non giovò, anzi diede infamia ad Alessandro». Anche in
questo caso Castiglione ha parzialmente riutilizzato materiale precedente, in quanto
il riferimento a Callistene, poi espunto, era presente a conclusione della riprensione
sui vecchi nel proemio del secondo libro: «e dicono Aristotele essere versato nella
corte di Alessandro et avere quasi insegnato a Calistene, suo discipulo, di adularlo»
(Cort. 2.4 della seconda redazione).

230
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno

di parità, non ostentato, ma tale da eliminare il timore del cortigiano


di essere contraddetto 51. Si tratta cioè dell’esercizio della «sprezzatu-
ra» nell’ambito politico, ovvero dell’arte simulata di ammaestrare. In
questo modo è possibile spiegare anche l’eliminazione del riferimen-
to a Plutarco e Traiano: non solo per celare la «parte preponderante
assegnata a Plutarco», come ipotizza Scarpati  52, ma soprattutto per
segnare lo stacco dal modello tradizionale della institutio principis di
cui l’Institutio Traiani, attribuita allora proprio a Plutarco, costituiva
un illustre esempio. La soppressione dell’unico riferimento esplicito a
Plutarco viene compensata dal ruolo rilevante che questi assume nella
redazione definitiva: a fronte di secondarie eliminazioni, per lo più
legate a esigenze di coesione strutturale e di efficacia espositiva 53, le
aggiunte sono di grande rilievo in tutti i libri.
Insieme alla coppia Aristotele/Alessandro anche quella Platone/
Dione viene eliminata dal capitolo ottavo, per essere ricollocata al ca-
pitolo quarantasettesimo:
Per lo medesimo modo della cortegiania Platone formò Dione Sira-
cusano; ed avendo poi trovato quel Dionisio tiranno come un libro
tutto pieno di mende e d’errori e piú presto bisognoso d’una universal
litura che di mutazione o correzione alcuna, per non esser possibile
levargli quella tintura della tirannide, della qual tanto tempo già era
macchiato, non volse operarvi i modi della cortegiania, parendogli che
dovessero esser tutti indarno. (Cort. 4.47)

51
Scarpati, Dire la verità al principe cit., p. 32, e G. Arbizzoni, «E se non
volete chiamarlo cortegiano non mi dà noia» (Cort. IV, 47), in L. Secchi Tarugi (a
cura di), Cultura e potere nel Rinascimento, Atti del IX Convegno internazionale
(Chianciano - Pienza, 21-24 luglio 1997), Firenze 1999, pp. 149-157.
52
Scarpati, Dire la verità al principe cit., p. 23. Del resto, il nome di Plutarco
non è l’unico a scomparire nella terza redazione: per motivi diversi anche due riferi-
menti a Giovanni Pontano vengono soppressi (2.35 e 2.74 della seconda redazione),
così come due serie di autori illustri contemporanei (cfr. Cort. 3.85, nella seconda
redazione).
53
Cfr., ad esempio, Cort. 3.58 della seconda redazione: gli esempi legati al
mondo greco, di Timoclia (da Plut. Alex. 12), Teoxena, Policreta, Telesilla, nel­la
terza redazione sono sostituiti dal riferimento alla sola Leona. In questo modo
Ca­stiglione evita lo sbilanciamento della seconda redazione dovuto alla presenza di
quattro donne greche accanto all’unica romana, Epicari, e conferisce una struttura
binaria al discorso, presentando le vicende di Epicari e Leona come speculari, in
ambito romano e greco.

231
Marianna Villa

Siamo di fronte a microspostamenti a distanza di porzioni testuali,


secondo la prassi di revisione di Castiglione, che abbiamo già detto es-
sere tendenzialmente conservativa: il riferimento a Dionisio, ancora di
origine plutarchea 54 (cfr. Cort. 3.30 della seconda redazione) 55, viene
risistemato in modo da formare una struttura binaria. Accanto al suc-
cesso è così presentato il limite dell’azione educativa nel fallimento:
risultati entrambi possibili in una realtà, come quella rappresentata
nel Cortegiano, dominata dalla necessaria compresenza di bene e di
male in una «concatenata contrarietà», come emerge dal proemio
del secondo libro. In una sorta di struttura circolare, si instaura un
collegamento con l’elenco dei filosofi di Cort. 4.8, tratto dal capitolo
3.8 della seconda redazione, da cui sono stati estrapolati i riferimen-
ti ad Aristotele e Platone: collocati nella nuova redazione al capitolo
quarantasette, fungono da conclusione del discorso inaugurato al ca-
pitolo ottavo sulla funzione etico-politica del cortigiano, prima della
trattazione sull’amore platonico, volta a conferire dignità speculativa
al gentiluomo. Il fallimento di Platone con Dionisio rappresenta in-
fatti l’inveramento di quanto presentato al capitolo ottavo del quarto
libro: la colpa non è dell’educatore, quanto del sovrano, non disposto
ad ascoltarlo, a differenza di quei prìncipi antichi «i quali, se ben in
qualche cosa erravano, non fugivano però i ricordi e documenti di
chi loro parea bastante a correggere quegli errori, anzi cercavano con
ogni instanzia di componer la vita sua sotto la norma d’omini singula-
ri» (Cort. 4.8).

Alessandro, principe antico e personalità d’eccezione, rappresenta


al­lora la fattibilità del modello proposto, conciliando progetto pe-
dagogico e costruzione dell’immagine sociale. Anche il passato può
così entrare nel ritratto di pittura della corte urbinate, mediante un
processo di assimilazione in funzione nobilitante: mentre il presente,
sottratto al divenire, viene ad acquistare prestigio e autorevolezza.

54
Maxime cum principibus philosopho esse disserendum 4 (Plut. mor. 779c).
55
«Sono adunque molti príncipi che sariano buoni, se gli animi loro fussero
cultivati di buona creanza; e di questi parlo io, non di quelli che sono sterili, o vero
inveterati nel male; come quel Dionisio il qual Platone ritrovò come un libro tutto
pieno di mende e di errori e piú presto bisognoso d’una universal litura che di
mutazione o correzione alcuna, per non essere possibile levargli quella tintura della
tirannide, della qual tanto tempo già era macchiato».

232
Michele Comelli
Sortite notturne
cinquecentesche
I casi di Trissino e Alamanni

Tasso contro Ariosto? Così recita il titolo di un capitolo di Sergio Zat-


ti 1 e, in effetti, tra l’Orlando Furioso (1532, ma con una prima edizio-
ne già nel 1516) e la Gerusalemme Conquistata (1593) la storia della
fondazione di un poema eroico «regolare» in lingua volgare, in grado
di competere con l’epica classica, si delinea come conflitto, ripresa,
apologia e palinodia della tradizione, dei suoi modelli, dei suoi topoi.
Anche la tradizione antica, e Omero per primo (seppure individuato
come modello perfetto, sulla scorta della Poetica aristotelica), deve
passare attraverso una lettura critica e «dubitativa», all’insegna del de-
corum e della modernità 2. Partendo da questo punto di vista, la storia
di un topos come la sortita notturna può allora farsi paradigma di un
costante e laborioso tentativo di rileggere la tradizione, interpretando-
la e, se occorre, perfino correggendola 3.

1
S. Zatti, L’ombra del Tasso. Epica e romanzo nel Cinquecento, Milano 1996
(il capitolo occupa le pp. 1-27).
2
In proposito si veda il fondamentale studio di G. Baldassarri, Il sonno di
Zeus. Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma
1982.
3
Il punto di partenza di questo studio sono, ovviamente, Baldassarri, Il sonno
di Zeus cit. (in part. pp. 107-127), e soprattutto M.C. Cabani, Gli amici amanti.
Coppie eroiche e sortite notturne nell’epica italiana, Napoli 1995. Per la ricostru-
zione del topos, da Omero ad Ariosto, rinvio al volume della Cabani (pp. 1-41); lo

233
Michele Comelli

Com’è noto, già nel passaggio da Omero a Virgilio l’episodio


del­la Doloneia, ossia il decimo libro dell’Iliade, era andato incontro
a una profonda rielaborazione, attraverso la commistione di modelli
diversi (non solo la sortita di Odisseo e Diomede, ma anche il legame
tra Patroclo e Achille) e l’affermazione di nuovi motivi (l’amicizia, il
sacrificio per il compagno, la disperazione per la morte di un figlio),
che in parte lo avevano snaturato: nel raccontare la storia di Eurialo
e Niso (Aen. 9.176-502), all’«avventura epica» Virgilio aveva infatti
sostituito una «vicenda tragico-elegiaca» 4. La coppia virgiliana ha ben
poco da spartire con quella di Odisseo e Diomede e la storia si af-
ferma immediatamente come modello patetico di amicizia esemplare,
di audacia e cupido giovanile, di tragica sorte, solo tangenzialmente
connessa – almeno in apparenza – con la sortita notturna e presso-
ché indipendente da quelle considerazioni di tipo strategico-militare
proprie invece dell’episodio omerico 5. Sulla scia virgiliana era sorta la
coppia staziana di Opleo e Dimante (Theb. 10.347-448): l’episodio era
stato però inserito da Stazio all’interno di una sortita notturna ben or-
ganizzata (Theb. 10.156-479). Stazio aveva dunque ripreso da Omero
l’aspetto tecnico-militare dell’assalto notturno, ma lo aveva collegato
alla coppia tragica in modo più equilibrato rispetto alla priorità asse-
gnata all’elemento patetico da Virgilio. Non solo: Stazio aveva anche
portato all’attenzione una serie di elementi «correttorî» e migliorativi,
nei confronti sia del testo omerico sia di quello virgiliano. Il tema,
ad esempio, della natura anticavalleresca di una spedizione notturna

stesso vale per la bibliografia sul versante classico, alla quale aggiungerei perlomeno
Ph. Hardie (ed.), Virgil. Aeneid Book IX, Cambridge 1994, pp. 23-34; S. Casali,
Nisus and Euryalus: Exploiting the Contradictions in Virgil’s Doloneia, «HSCPh»
102, 2004, pp. 319-354, con gli opportuni rimandi. Sia il volume di Baldassarri che
quello della Cabani si occupano degli esperimenti di Trissino e di Alamanni: ma
mentre il primo mette in luce l’affermarsi in questa linea «omerizzante» del «pri-
mato dell’‘interpretazione’ sulla ‘critica del testo’» (p. 99), valutandolo soprattutto
in direzione tassiana, la seconda, più interessata agli sviluppi del modello virgiliano,
si limita ad annotare la «fedeltà alla matrice omerica» (p. 42) di queste esperienze di
metà secolo, all’interno delle quali gli accenti lirico-patetici virgiliani sparirebbero
in nome di un forte «bisogno teorico-dimostrativo».
4
Cabani, Gli amici amanti cit., p. 6.
5
Così P. Mazzocchini, Forme e significati della narrazione epica nell’epos vir-
giliano. I cataloghi degli uccisi e le morti minori nell’«Eneide», Fasano (BR) 2000,
pp. 335-357.

234
Sortite notturne cinquecentesche

appare già nella Tebaide, dove l’impresa si configura immediatamente


come fraudolenta (Theb. 10.192-193 Nox fecunda operum pulchrae­
que accomoda fraudi / panditur augurio divom), tanto che Capaneo
si rifiuta di prendere parte a un’operazione così antieroica (Theb.
10.258-259)  6; l’impresa è inoltre collettiva e perfettamente organiz-
zata. All’interno di questa operazione di reminiscenza e, nello stesso
tempo, di correzione omerica si inserisce la ripresa virgiliana, a sua
volta «correttoria» nei confronti della fonte, dell’episodio di Opleo e
Dimante: non più esempio di amore discutibile, come quello offerto
dal modello (al quale comunque i due vengono esplicitamente affiliati
da Theb. 10.445-448), ma di pietas nei confronti del proprio re. La
sorte dei due eroi costituisce però una nuova correzione ad Omero:
Dimante, di fronte alla possibilità di rivelare i piani argivi in cambio
della concessione di seppellire il suo sovrano, sceglie la morte, scoc-
cando così una frecciata a Dolone.
Già in Stazio, quindi, il modello omerico e quello virgiliano si
erano posti come possibili alternative indipendenti, ma anche inte-
grabili. Lo sviluppo nella tradizione latina del topos, in effetti, vede
certamente un’affermazione della linea «patetica» virgiliana su quella
strategico-militare omerica, ma si tratta di una tendenza pervasiva, per
cui tutta la tradizione epica latina post-virgiliana in realtà è contrad-
distinta, rispetto ad Omero, da una vena fortemente patetica 7. Il ri-
sultato è che il patetismo virgiliano diventa una «maniera» poetica e il
motivo della «dualità», della «coppia inseparabile» si fa, nella Tebaide
e in tutta la tradizione d’età imperiale, un motivo ricorrente, fino a cri-
stallizzarsi come tema prediletto del romanzo cavalleresco 8. In Silio,
perciò, i due filoni della sortita notturna e della coppia di amici sono
liberamente scissi e riuniti e nei Punica, come trovano spazio tragiche
morti di coppie legate da amore (ma amore familiare: i due gemelli; i
tre fratelli contro i tre fratelli; Satiro e i suoi figli …) e sortite notturne
militari (si veda l’astuzia di Annibale che manda, nel buio della notte,

6
Ma in realtà Stazio insiste soprattutto sulla tracotanza di Capaneo, che non
accetta di seguire la volontà degli dèi, che quella sortita hanno variamente propi-
ziato.
7
Ph. Hardie, The Epic Successors of Virgil. A Study in the Dynamics of a Tra-
dition, Cambridge 1993.
8
Cfr. Cabani, Gli amici amanti cit., pp. 11-12.

235
Michele Comelli

gli armenti con legate alle corna frasche incendiate perché appicchino
fuoco e creino scompiglio tra l’esercito di Fabio, in Pun. 7.282-380),
così vediamo anche ricongiunti i due temi nell’episodio del padre
fuggito di notte dalla prigionia cartaginese e ucciso dal suo stesso fi-
glio (Pun. 9.66-177). A ragione, dunque, Baldassarri dice che il topos
giunge al Cinquecento diffranto nei suoi possibili sviluppi tematici,
ed è certo la «rinascita» omerica che si accompagna alla riscoperta di
Aristotele a favorire la scissione «critica» dei due temi e a determinare
la propensione dei diversi autori per l’uno o per l’altro di essi.
Fino ad Ariosto, in sostanza, le diverse possibilità possono an-
che coesistere, per quanto l’impronta virgiliana sia preponderante.
Quando la tradizione giunge ad Ariosto, che la rielabora come ha ben
illustrato la Cabani 9, una serie di questioni, testimoniate già dai com-
mentatori antichi (per esempio, dal commento all’Eneide di Tiberio
Claudio Donato) 10, si era come depositata sull’episodio; e forse sarà
il caso di integrare lo studio della Cabani ricordando due passi del
Furioso che si riallacciano – a mio avviso – alla tradizione in esame;
vale a dire il rifiuto di Orlando, come di Capaneo, di colpire i nemici
nel sonno (Fur. 9.3-4) e, più avanti, l’assalto notturno organizzato da
Rinaldo per togliere l’assedio saraceno a Parigi (Fur. 31.50-58). Anche
nel Furioso, dunque, la legittimità di una sortita notturna è messa in
discussione, ma nel poema ariostesco gli opposti possono convivere
facilmente e il poeta sembra distinguere prontamente fra cavalleria
e guerra – e le regole di cavalleria non sempre valgono nella guerra!
La differenza tra Ariosto e gli autori successivi risiede però nel modo
di trattare le fonti e la tradizione: il classicismo ariostesco si mani-
festa nella possibilità di commistione, rielaborazione e ribaltamento
dei modelli. La formula ormai standardizzata dell’ironia ariostesca,
del resto, si realizza in questa capacità del Ferrarese di giocare con

9
Cfr. Cabani, Gli amici amanti cit., pp. 17-35.
10
Esemplare è la lettura moralista offerta da Donato per l’episodio di Eurialo e
Niso: cfr. M. Gioseffi, Amici complici amanti: Eurialo e Niso nelle «Interpretationes
Vergilianae» di Tiberio Claudio Donato, «Incontri Triestini di Filologia Classica»
5, 2006, pp. 185-208. Il ruolo esercitato dai commenti antichi per questa rilettura
«critica» della tradizione è un campo, in realtà, ancora tutto da indagare. Quel che è
certo è che tali commenti erano, nel Cinquecento, parte integrante e costitutiva del
testo virgiliano: è perciò auspicabile una futura riconsiderazione della loro funzione
e del loro peso interpretativo.

236
Sortite notturne cinquecentesche

la tradizione, con una sorta di distacco intellettuale che non riguarda


solo la realtà contemporanea e le sue ideologizzazioni, ma anche il
bagaglio culturale della tradizione letteraria, quella latina in primo
luogo 11.

La frattura – è noto – venne determinata a metà secolo dalla risco-


perta di Aristotele, ma si era già prospettata, nel secondo quarto, nel-
la fondazione di un nuovo classicismo grecizzante, teso a emulare i
generi classici. Una nuova forma di classicismo e un nuovo modo di
rapportarsi con la tradizione: un nuovo modo di riscrivere i classici,
insomma (spesso anche correggendoli nel nome del decorum moder-
no), che troverà nella riscoperta della Poetica e nel dibattito che ne
segue forse un effetto, più che una causa. Questo processo si riassume,
nel campo della poesia narrativa, nella macrocategoria dell’«aristo-
telismo omerizzante», ma ha radici più profonde, prima di tutto nel
dibattito sul principio d’imitazione. Tale omerismo trova in Giovan
Giorgio Trissino uno dei suoi padri fondatori e in Luigi Alamanni uno
dei suoi più diretti interpreti. È un aristotelismo che si lega inevitabil-
mente a questioni ideologiche, morali ed educative, oltre che poetiche.
La riscrittura deve ora passare necessariamente attraverso il filtro del
decorum, ma anche attraverso quello della verosimiglianza, della mora-
le e della funzione esemplare-didattica della poesia. L’opzione eroica
e omerica, così, non viene interpretata solo come scelta di un modello,
ma soprattutto come codificazione del genere epico: per cui il poe-
ma eroico si deve fare trattato militare e civile e il realismo omerico
si delinea come risposta didattica al lirismo della tradizione lettera-
ria volgare, non solamente quella di derivazione virgiliana. Lo stesso
Virgilio  – come vedremo – nel poema del Trissino non sparisce, ma

11
La bibliografia sul ri-uso ariostesco dei classici, a partire dal lavoro fon-
damentale di Pio Rajna (P. Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 19002)
è troppo estesa per poter essere riportata qui. Mi limito a citare alcuni titoli fon-
damentali, rimandando alle bibliografie interne ad essi per gli ulteriori approfon-
dimenti: C. Segre, Esperienze ariostesche, Pisa 1966; D. Javitch, The Imitation of
Imitations in Orlando Furioso, «Renaissance Quarterly» 38, 1985, pp. 215-239;
S. Zatti, Il Furioso fra epos e romanzo, Lucca 1990; S. Jossa, La fantasia e la memo-
ria. Intertesualità ariostesche, Napoli 1996; D. Looney, Compromising the Classics.
Romance Epic Narrative in the Italian Renaissance, Detroit 1996.

237
Michele Comelli

in nome dell’«enargia»  12 viene recuperato in termini esclusivamente


narrativi, non lirici 13.
In questa sede mi accontento di proporre una lettura del topos
della sortita nei poemi di Trissino, l’Italia liberata dai Goti (edito nel
1547-1548, ma iniziato nel 1527) 14, e di Alamanni, l’Avarchide (edito
postumo nel 1570, ma composto tra il 1548 e il 1556) 15, esponenti di
quella linea «minoritaria omerizzante» tesa ad affermare, sulla scorta
di un aristotelismo ancora in nuce (in gran parte di derivazione uma-
nistica), il modello iliadico come poema civile ed esemplare. Pur vici-
ni per ambiente, epoca e modelli, i due poemi sono espressione di due
«omerismi» diversi: e se per Trissino l’omerismo si può riassumere
nel recupero dell’«enargia», del realismo omerico (in opposizione ai
princìpi della «piacevolezza» lirica), per Alamanni si esprime essen-
zialmente nel recupero dell’unità narrativa omerica all’interno di un
contesto cavalleresco, dunque adatto al gusto moderno.

1. Trissino: un omerismo «formale»

L’Italia liberata dai Goti  16, il poema «mentovato da pochi, letto da


pochissimi, muto nel teatro del mondo e morto a la luce, sepolto a

12
Termine che Trissino mutua dallo pseudo-Demetrio e sul quale fonda so­­
stanzialmente il suo «omerismo».
13
Per il dibattito sul poema eroico mi limito a rimandare a pochi titoli fon-
damentali: oltre ai già citati volumi di Zatti e Baldassarri, ancora indispensabile è
B.  Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, I-II, Chi-
cago 1961; più moderno e incentrato su temi e problemi del poema «regolare» tra
Ariosto e Tasso è il volume di S. Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico
tra Ariosto e Tasso, Roma 2002. Infine, sulla dialettica gravitas/«piacevolezza» si
veda A. Afribo, Teoria e prassi della «gravitas» nel Cinquecento, Firenze 2001.
14
Cito il poema di Trissino da G.G. Trissino, L’Italia liberata da’ Gotti, in Id.,
Tutte le opere non più raccolte, a cura di S. Maffei, I, Verona 1729 (il testo è distri-
buito su due colonne e i versi non sono numerati); nelle citazioni il poema verrà
indicato con It. Lib., facendo seguire al numero del libro e della pagina l’indicazione
della colonna.
15
Per l’Avarchide cito da L. Alamanni, L’Avarchide, Venezia 1841. Nelle cita-
zioni la indico con Av., seguito dal numero del libro e dell’ottava.
16
Giovan Giorgio Trissino (Vicenza, 1478 - Roma, 1550) è figura tra le più
originali del panorama letterario del primo Cinquecento, sia sul versante pratico

238
Sortite notturne cinquecentesche

pena ne le librarie e ne lo studio d’alcun letterato» 17, al di là del suo


insuccesso, detiene assolutamente il primato per originalità e impatto
rivoluzionario, se è vero che tutto il dibattito successivo sul poema
eroico non ne può prescindere. Trissino non solo recupera per pri-
mo Aristotele per «maestro» e Omero per «duce», ma fonda anche
sostanzialmente l’opposizione epica/romanzo, in virtù della quale
il ritorno all’epica antica (e, nella fattispecie, omerica) si configura
come rifiuto della tradizione cavalleresca in ottave, a cominciare dal
Furioso, «che piace al vulgo» 18. Sulla scorta di Omero e di Aristotele –
dice il Trissino nella dedicatoria – il poema sarà di una sola azione
e mescolerà «cose utili, e dilettevoli»  19; ma soprattutto, secondo le
indicazioni del De elocutione dello pseudo-Demetrio (a cui Trissino
rimanda esplicitamente nella dedica), cercherà di imitare l’«enargia»
omerica, ossia quella «efficace rappresentazione», che «si fa col dire
diligentemente ogni particolarità de le azioni, e non vi lasciar nulla».

che su quello teorico. Promotore di un umanesimo «grecizzante», riscoprì e divulgò


il De vulgari eloquentia (che pubblicò volgarizzato nel 1529); prese parte attiva al
dibattito sulla lingua con il dialogo Il castellano (1529) e con la sua Poetica (le prime
quattro Divisioni furono pubblicate nel 1529; le ultime due, postume, nel 1562)
fu tra i primi codificatori di una poetica volgare e tra i promotori dell’aristoteli-
smo omerizzante (in particolare nelle ultime due divisioni). Sul versante pratico, si
ricordano la sua tragedia Sofonisba (1524), la prima tragedia «regolare» italiana, ma
soprattutto il poema epico l’Italia liberata dai Goti, nel quale il Vicentino ripose
tutte le sue ambizioni e col quale sperava di fondare un’epica volgare modellata
sull’Iliade e lo stile omerico e sui precetti di Aristotele. Nell’Italia liberata dai Goti
Trissino cerca di attuare gli insegnamenti esposti nella sua Poetica: sceglie l’endeca-
sillabo sciolto come possibile pendant dell’esametro greco e latino; narra la conqui-
sta dell’Italia ad opera di Belisario e Narsete, introducendo le divinità cristiane come
corrispettive di quelle omeriche; imita in più luoghi lo stile e gli episodi omerici. Per
la bibliografia di riferimento rimando al datato ma ricco studio di B. Morsolin,
Giangiorgio Trissino. Monografia d’un gentiluomo letterato del secolo XVI, Firenze
1894, e a AA.VV., Atti del convegno di studi su Giangiorgio Trissino (Vicenza, 31
marzo - 1 aprile 1979), a cura di N. Pozza, Vicenza 1980; a questi, si aggiungano
anche il capitolo di Zatti, L’imperialismo epico del Trissino, in L’ombra del Tasso
cit., pp. 59-110; il volume di Jossa, La fondazione di un genere cit. (che si occupa dei
diversi esperimenti di poema eroico tra Ariosto e Tasso); il capitolo di C. Gigante,
Un’interpretazione dell’«Italia liberata dai Goti», in Id., Esperienze di filologia cin-
quecentesca, Roma 2003, pp. 46-79.
17
T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma,
Bari 1964, p. 23.
18
Si veda Gigante, Un’interpretazione cit., in part. le pp. 51-65.
19
It. Lib., dedicatoria, c. 2r (la dedicatoria occupa 3 carte non numerate).

239
Michele Comelli

Questa peculiarità stilistica di Omero fa sì che chi «lo legge, par essere
quasi presente a quelle azioni, ch’egli descrive; cosa, che leggendo la
maggior parte de i Poeti Latini, non avviene» 20. Si viene così a fondare
un’ulteriore opposizione tra minuziosità e oggettività omerica da una
parte, sinteticità e lirismo dell’epica virgiliana dall’altra: non più solo
Omero versus Ariosto, ma anche Omero versus Virgilio, o, meglio,
la «maniera» epica latina. Tale opposizione trova esemplare riscontro
nella riscrittura della sortita: secondo una prassi tipica del Vicentino,
l’episodio omerico della Doloneia viene sdoppiato nelle due sortite
simmetriche di Frodino (libro tredicesimo) e della coppia Traiano/
Mundello (libro diciannovesimo), suddividendo così le spedizioni
intrecciate di Dolone e della coppia Odisseo/Diomede  21. L’aspetto
strategico militare, inteso come particolareggiare realistico, diviene
preponderante e non mancano i prestiti narrativi dalla tradizione lati-
na, senza però che trovino assolutamente spazio i motivi lirico-patetici
prettamente virgiliani.
Al libro tredicesimo 22 Trissino riprende, nell’episodio di Frodino,
la vicenda omerica di Dolone, ma alcuni particolari sono significativi
del nuovo rapporto instaurato con i modelli: il protagonista è Frodino,
che anche nel nome richiama il suo predecessore greco. Vitige dopo la
vittoria diurna dei Goti, arrestata soltanto dal calare della notte, chiede
se qualcuno sia disposto ad andare a Roma per scrutare i piani dei nemi-
ci e vedere la loro disposizione, o, nel caso in cui non riesca a penetrare
entro le mura, a spaventare almeno con minacce e insulti le genti 23; in
cambio, egli riceverà il miglior corsiero tra quelli di Vitige 24. Frodino,

20
Ibid.
21
Forse anche in questo si può riconoscere un rifiuto dell’entralacement
romanzesco.
22
Tutto il libro è esemplare della commistione fra elementi tratti da un’am-
pia tradizione epica classica, trasformati in pura narrazione: dopo essersi chiuso in
Roma su consiglio del Conte d’Isaura e avere accuratamente disposto la guardia
intorno alle mura della città, Belisario manda – sempre secondo l’esortazione del
vecchio consigliere – un’ambasciata a chiedere il ritorno di Corsamonte sdegnato;
intanto il negromante Filodemo, sulla scorta della Eritto di Lucano (civ. 6.507-830),
riesce a localizzare attraverso un rito spiritico Corsamonte.
23
Com’è evidente, qui ed altrove il disinteresse trissiniano per i motivi lirici e
patetici fa spesso sfociare la narrazione nel grottesco.
24
Non così in Omero, dove Ettore promette il miglior cocchio e i migliori due
cavalli achei (Hom. Il. 10.303-306).

240
Sortite notturne cinquecentesche

che corrisponde pienamente nella descrizione a Dolone («brutto di


faccia, ma veloce al corso», e ricco di famiglia) 25, si offre e chiede in
cambio del successo il cavallo e le armi di Belisario. Vitige ovviamente
acconsente e Frodino raggiunge le mura di Roma; vedendo che tutte le
porte sono inaccessibili (una delle prime puntualizzazioni rispetto alla
tradizione consiste nel sottolineare che la guardia imperiale, disposta
dal «perfetto» condottiero Belisario, non può essere così militarmente
sprovveduta da lasciar penetrare una spia), come da accordo inizia a
insultare i Romani, che hanno accolto le armate di Belisario. Tra le
guardie preposte alla porta Salaria ci sono il giovane Lucillo e suo cugi-
no Tibullo (chiara l’allusione a Eurialo e Niso, ma evidente la censura
dell’amore, sostituito dal legittimo affetto parentale; anche se, in realtà,
a un legame affettivo tra i due non è fatto alcun cenno) che sentono le
grida; il primo sprona il secondo ad andare a punire l’arroganza di quel
goto:
«Che ti par, frate mio, di quello altero
parlar, che fa costui? Certo pur troppo
morde arrogantemente il nostro onore;
non è da sopportarlo; andiamo adunque
a dar risposta a quel superbo Gotto,
et al suo minacciar con le nostr’arme».

La prima preoccupazione di Tibullo è però di carattere militare (quin-


di, niente pathos):
Rispose allor Tibullo, «Io n’ho più voglia
di te, ma temo, che non sia molesto
a Belisario, che lasciam l’officio,
che n’ha commesso, per novella impresa,
senza saputa sua, senza licenza».
(It. Lib. 13.134a)

Lucillo allora, per non perdere tempo, propone di andare comunque,


perché se cattureranno una simile preda forse potranno anche sco-
prire i piani dei Goti e Belisario sarà loro infinitamente grato; inol-
tre, lasceranno a guardia della porta il compagno Gualtiero, che avrà

25
Cfr. It. Lib. 13.133b con Hom. Il. 10.313-331.

241
Michele Comelli

il comando di tutta la centuria. Comunicano dunque il proposito a


Gualtiero, che «assai lodollo, e comendollo».
La coppia Lucillo/Tibullo fa esplicito riferimento a quella virgilia-
na di Eurialo/Niso, ma il lavoro «correttorio» sull’episodio eneadico
ne attenua inevitabilmente i motivi portanti: l’animus lucis contemptor
di Eurialo (Verg. Aen. 9.205) non è neppure pallidamente rievocato
dall’orgoglioso desiderio di riscatto di Lucillo, e la toccante preoccu-
pazione di Niso per il giovane amico (Aen. 9.207-218) è stemperata
in Tibullo da una considerazione esclusivamente militare, legata al
proprio ufficio; per non dire dell’entusiasmo di Alete e di Ascanio
di fronte al coraggio della coppia troiana (Aen. 9.224-313), liquida-
to nelle «lodi» e nelle «commendazioni» di Gualtiero, del quale non
viene riportata neppure una parola. Ogni commento lascia spazio
all’azione. Il racconto torna perciò rapidamente a Omero: Lucillo e
Tibullo escono dalle mura e di soppiatto raggiungono Frodino, che,
inizialmente, è convinto si tratti di Goti venuti a portargli notizie di
Vitige; non appena si accorge che si tratta invece di nemici, inizia a
fuggire; i due, come «veltri, / che corran dietro a capriola, o lepre»
(It. Lib. 13.134b)  26, gli vanno dietro, tenendolo lontano dal campo.
A un certo punto si avvicinano alle guardie della porta Nomentana e
Lucillo, temendo che qualcun altro possa togliere loro la preda, mi-
naccia Frodino e gli scaglia contro una lancia 27. Frodino allora si fer-
ma terrorizzato e chiede salva la vita: è ricco e suo padre può pagare
qualsiasi riscatto. Lucillo ricalca la promessa di Odisseo:
«Piglia ardimento, e non pensar di morte»
(It. Lib. 13.134b)
Q£rsei, mhdš t… toi q£natoj kataqÚmioj œstw.
(Hom. Il. 10.383)

26
La similitudine traduce fedelmente Hom. Il. 10.360-362.
27
Cfr. It. Lib. 13.134b («Gridò Lucillo a lui, ‘Se non ti fermi, / Gotto crudel,
ti giungerò con l’asta; / né vivo fuggirai da le mie mani’. / E detto questo, lasciò gir
la lancia / de industria, che gli andò sopra la spalla, / e ’l ferro avanti a lui ficcossi in
terra, / ond’ei restò tremando, e per paura / era già verde, e gli crollava il mento; /
tal che i Baroni ansando lo pigliaro / con le lor mani, et ei piangendo disse: / ‘Valo-
rosi Signor, non m’uccidete, / ma fatemi prigion, ch’io vi prometto / di riscattarmi
con assai tesoro. / Mio padre è ricco, et è senz’altro erede, / e se saprà, ch’io sia ne
le man vostre / vivo, daravvi molto argento, et oro, / per liberarmi, e rimenarmi a
casa’») con Hom. Il. 10.369-381.

242
Sortite notturne cinquecentesche

Frodino avrà salva la vita in cambio di informazioni sulla sua missione


e sulla disposizione del campo goto; la spia risponde di essere stato
indotto dalle «promesse larghe» di Vitige (nel che segue fedelmente
la struttura del discorso di Dolone, cfr. Hom. Il. 10.390-399) e ag-
giunge che, se i due guerrieri vogliono proprio penetrare nel campo
dei Goti, l’unica via sicura è quella che porta ai soldati di Abruzzo
guidati da Urtado, arrivati il giorno prima e accampati poco distanti
con i loro bellissimi cavalli e tesori (tutto il dialogo ricalca fedelmente
Hom. Il. 10.390-445). Lucillo, contrariamente a Odisseo e Diomede,
mantiene la parola data:
[…] «Certo, Frodino,
le villane parole, aspre, e superbe,
c’hai dette or ora de la gente nostra,
meriterian, che senza alcun rispetto
subitamente io ti mandassi a morte;
ma per l’avviso tuo, che pur mi piace,
voglio menarti dentr’a la cittade,
e darti al Capitanio de le genti,
che poi farà di te, quel che gli piaccia».
(It. Lib. 13.135b)

Lucillo e Tibullo consegnano così Frodino a Gualtiero e vanno a fare


nuovo bottino: seguendo fedelmente le mosse di Odisseo e Diome-
de, i due raggiungono Urtado e i suoi uomini, che dormono, stanchi
per il cammino affrontato e per la cena; mentre Tibullo uccide venti-
quattro uomini (il doppio di Diomede) e per venticinquesimo Urtado
(come Reso era il tredicesimo), Lucillo si occupa di spoglie e cavalli,
spostando i cadaveri lungo il cammino; poi, senza indugiare oltre
nella strage (non così Diomede, che smetteva solo per esortazione di
Atena: cfr. Hom. Il. 10.509-511)  28, tornano sui cavalli a Roma. Nel
frattempo Belisario, Paulo, Costanzo e Bessano sono venuti presso le
mura e, incuriositi dal rumore di cavalli, aspettano e ricevono Lucillo
e Tibullo. Lucillo racconta la loro impresa e consegna Frodino, ma
poi si scusa:

28
Ma è certo corretta anche la colpevole smemoratezza di Eurialo, che lo
aveva spinto a prendere e rivestire l’elmo di Messapo (Aen. 9.365-366 e 373-374
prodidit immemorem).

243
Michele Comelli

Dicendo, «Almo Signor, s’i’ avesse errato,


a prender questa spia senza licenza,
vi dimando perdon, che’l fei per bene,
e per onore, et util de la impresa; 29
né per questo la guardia ebbe a patire,
che vi restò Gualtier nostro compagno,
ch’ebbe in governo la centuria tutta».

La risposta di Belisario esprime con evidenza la nuova prospettiva in


cui si colloca il topos:
«Figliuol, per questa volta io ti perdono;
che s’hai ben fatto, et utile, e gioconda
cosa a la nostra gloriosa impresa,
pur non è bene abbandonar la scolta,
per alcun uopo, che ci appaja avanti,
che incontrar ti potea qualche vergogna».
(It. Lib. 13.136b)

Ecco che emerge per la prima volta anche il tema della legittimità di
un’azione impulsiva e imprudente come la sortita notturna. E qui si
ritorna alla tradizione virgiliana e staziana in particolare, all’interno
della quale si era configurata la discussione sui rischi e l’opportunità
di un attacco individuale notturno, per gloria o per bottino.

Se la sortita del libro tredicesimo riprende quella di Dolone, quella


del libro diciannovesimo si richiama invece alla spedizione e alla si-
tuazione iniziale di Odisseo e Diomede. Belisario, dopo la sconfitta
del giorno, raduna tutti i suoi Baroni alla ricerca di un «ristoro» alla
«asperrima tempesta», e chiede:
«Penso che saria ben mandar qualcuno
de i nostri Cavalier verso i steccati
dei Gotti, e questi over entrando in essi,
over pigliando alcun di quei, che fuori
per la campagna van cercando i morti,
tentasse di scoprire i lor consigli.
Il che seriaci di piacer immenso,
e di gran beneficio a questa impresa;
che’l sapere i pensier de i lor nimici,

29
Il corsivo nelle citazioni, qui come in seguito, è mio.

244
Sortite notturne cinquecentesche

spesso trasmuta la fortuna avversa.


Vadavi adunque alcun ch’abbia ardimento;
ch’oltra, che acquisterà fama immortale,
ancora ogni Signor, quando ritorni,
daralli un dono di cavalli, o d’arme,
o d’altra cosa preziosa, e rara,
per testimonio de la sua virtute».
(It. Lib. 19.197a)

Il discorso richiama quello di Nestore all’adunanza achea presso il


vallo (Hom. Il. 10.204-217), ma è importante notare che Trissino si
affretta a giustificare la liceità di un attacco notturno fatto in nome
del­l’«impresa» collettiva: dunque, la sortita trova la sua legittimità
strategica solo qualora sia un’azione che non metta a repentaglio le
sorti dell’esercito. Se la spedizione di Lucillo e Tibullo non era legit-
timamente corretta (se non in deroga al successo ottenuto), perché
non autorizzata né organizzata, ma fatta per puro onore, una spedi-
zione strategicamente pianificata è invece cosa legittima e giusta. Co-
me Diomede in Omero (Trissino segue pedissequamente le «pedate»
omeriche)  30, dopo l’indugio e il silenzio comune si offre Mundello,
che, ancora come il Tidide, chiede di essere accompagnato, poiché
«[…] s’ancor meco ne venisse un altro,
saria più salda, e più sicura andata;
che quando vanno dui, s’ajutan meglio
l’un l’altro a ritrovar ciò, che den fare,
che sempre un solo ha più l’ingegno tardo,
e più dubbioso, e debole il pensiero».
(It. Lib. 19.197a) 31

Un’altra volta Omero: in molti si offrono all’impresa, finché Belisario


non chiede a Mundello di scegliere lui stesso un compagno «e non
guardare a dignità, né a grado, / ma solamente a la virtù, ch’è in loro».
Mundello sceglie Traiano, «ch’è di cuor pronto, e di giudizio saldo, /
e buon tolerator d’ogni fatica»; Traiano chiede al compagno di riman-
dare le lodi e di affrettare l’impresa, visto che è già trascorso il terzo
della notte  32;

30
Cfr. It. Lib, dedicatoria, 2r.
31
I versi traducono perfettamente Hom. Il. 10.218-226.
32
Cfr. il discorso di Odisseo in Hom. Il. 10.248-253.

245
Michele Comelli

E detto questo, subito s’armaro


d’arme sicure, e senza alcun splendore.
(It. Lib. 19.197b)

Le armi non sono dein¦ come in Omero, ma «sicure»; di nuovo è


chiamato in causa e corretto l’episodio virgiliano: tra gli accorgimenti
spicca la necessità di non indossare armi che possano riflettere la luce.
L’ingenuità, come sappiamo, è la colpa di Eurialo  33. Appena usciti
dalla porta Salaria, Mundello e Traiano sentono «a man destra» una
civetta mandata dall’Angelo Palladio ed entrambi, come Odisseo e
Diomede (ma diversamente da Eurialo e Niso), pregano piamente
l’Angelo di Dio perché li protegga nel «periglioso […] viaggio» (Mun-
dello, anzi, non si accontenta – come Diomede – di promettere un
sacrificio, ma fa voto, in cambio del successo dell’impresa, di costrui-
re un altare all’Angelo: ennesimo, grottesco eccesso di «omerismo»
trissiniano). Qui il racconto prende una piega diversa e si distacca dal
modello per recuperare Virgilio, ma non il Virgilio della sortita, ben-
sì quello dell’arrivo di Enea a Cartagine (Aen. 1.411-414). L’Angelo
avvolge infatti i due devoti nella nebbia, per agevolare la loro infiltra-
zione nel campo goto:
«Ite sicuri, o miei diletti amici,
ch’io sarò vosco, e coprirovvi tutti
di nebbia tal, che non sarete offesi».
(It. Lib. 19.197b)

Anche la pietas religiosa di matrice classica viene così ad assumere


un ruolo determinante all’interno di un’operazione militare rischiosa
come la sortita notturna. Il contatto col testo omerico è mantenuto at-
traverso una similitudine, in questo nuovo contesto non troppo felice:
come Odisseo e Diomede, Mundello e Traiano sono paragonati a dei
leoni che si muovono tra i cadaveri (ma, diversamente dalla coppia
omerica, sono celati dalla nebbia!). I due arrivano alle mura della cit-
tà, dove sentono un «duro» lamento e pianto; riescono a entrare nel
vallo mettendosi – non visti – alle spalle di Unigasto e qui, come Enea
a Cartagine, assistono all’assemblea dei capi goti (ripresa con variazio-

33
Così già P.A. Perotti, L’eroismo «privato» di Eurialo e Niso, «Latomus» 64,
2005, pp. 56-69.

246
Sortite notturne cinquecentesche

ne della duplice assemblea achea e troiana del settimo libro dell’Ilia-


de). Unigasto, che nello scontro del giorno, insieme a tanti uomini, ha
perso anche il figlio, chiede a Vitige di proporre una tregua a Belisario
per seppellire i morti e trattare la pace. A Vitige il consiglio piace e
decide di mandare l’indomani un ambasciatore a Belisario; intanto,
Unigasto esce dal vallo e Mundello e Traiano lo seguono non visti;
una volta fuori, i due decidono di andare presso il campo di Marzio,
duca di Vicenza (che si era accampato con i suoi uomini all’esterno
delle mura della città, fra il Vaticano e Trastevere), per vedere se rie-
scono a «buscar» qualche altra notizia. Sulla strada sentono avvicinar-
si qualcuno e Traiano propone:
«Mundello, o questi è un uom, che vien de prati,
a portar qualche nuova al Re de’ Gotti,
od è qualcun, che va spogliando i morti.
Tiriamci ove è quel subero, e lasciamlo
venirci appresso, e subito pigliamlo;
e se ci narrerà cosa che vaglia,
lo menerem prigion dentr’ a le mura,
se non, l’uccideremo in questo loco».
(It. Lib. 19.198b)

La precisazione è importante: la pietà verso l’avversario è determinata


dalla sua utilità, non dall’etica cavalleresca, come sarà per Alamanni.
Si ripropone la scena di Dolone, ma senza riprese testuali: i due, que-
sta volta come gatti che assalgono un topo uscito incautamente dalla
tana, bloccano Lucimborgo, che li supplica di salvargli la vita in cam-
bio di «grossa taglia» (come Dolone e Frodino). Pronta è la risposta
formulare di Traiano:
«[…] Non temer di morte
se cosa mi dirai, che mi talenti».
(It. Lib. 19.198b)

E poi gli chiede chi sia e che cosa stia facendo. Lucimborgo rivela il
«trattato» tra due traditori romani e due goti:
«Corrotti, e mossi con argento, et oro,
a far, ch’essi portassen su quel muro
acqua alloppiata mescolata in vino,
e darlo quivi a bere a quelle guarde,

247
Michele Comelli

che le farian dormir tutta la notte;


onde lieve saria prender le mura
con le barchette, che porrian nel fiume,
carche di scale, e di fiorita gente».
(It. Lib. 19.199a)

Questo inserto – mi sembra – richiama allusivamente l’episodio di


Eurialo e Niso e la sua ripresa ariostesca, nell’immagine delle guar-
die potenzialmente indotte alla colpa di essere addormentate dal vino
«alloppiato». Alla notizia, Mundello e Traiano lasciano la strada per
l’accampamento di Marzio e corrono da Belisario con il prigioniero;
Traiano racconta tutto a Belisario, poi va di persona a prendere i due
traditori, Saturnino e Gracco 34. Al sorgere del nuovo giorno, ai due
vengono mozzati orecchie e naso e sono mandati così da Marzio sopra
un asino, affinché il loro vituperio mostri che «il folle suo dissegno» è
stato scoperto: di nuovo è rievocata la coppia virgiliana, esemplarmen-
te punita dai nemici. L’opposizione Omero/Virgilio è dunque ancora
una volta chiamata in causa come opposizione tra realismo bellico e
lirismo patetico.

Come si vede dai due episodi, per Trissino omerismo significa imi-
tazione dello stile omerico, vale a dire narrazione particolareggiata,
asciutta e il più possibile fedele al principio di impersonalità dell’au-
tore; ma è un’impersonalità che si concretizza spesso in rifiuto dell’in-
tero versante «lirico-patetico», che invece la tradizione letteraria vol-
gare aveva consolidato; un’impersonalità che a volte sfocia addirittura
nell’indecoroso e nel non conveniente. È chiaro che una simile opera-
zione, che noi potremmo definire archeologica, e non solo anacroni-
stica, doveva essere accolta con polemica e unanime rifiuto nel secolo
di Bembo e di Della Casa, negli anni in cui «dolcezza» e gravitas cer-
cavano di acquisire un nuovo statuto letterario – al punto che Bolo-
gnetti in un capitolo a Giraldi poteva dire che Trissino «d’Homero /
colse lo sterco, e non conobbe l’oro» 35; e Tasso, quando si tratterà di

34
La scelta dei nomi dei personaggi rivela evidentemente l’imperialismo ideo-
logico trissiniano.
35
F. Bolognetti, I capitoli letterari di Francesco Bolognetti: tempi e modi della
letteratura epica fra l’Ariosto e il Tasso, a cura di A.N. Mancini, Napoli, 1989 (A
Messer Giovanbattista Giraldi Cinthio, vv. 11-12). La formula, in realtà, era già stata

248
Sortite notturne cinquecentesche

condannare il poema del Vicentino, parlerà del suo stile «dimesso» e


riguardo al decorum non mancherà di accusare che nell’Italia libera-
ta «poco giudicioso in questa parte si mostrò il Trissino ch’imitò in
Omero quelle cose ancora, che la mutazione de’ costumi avea rendute
men lodevoli» 36. Sarà proprio Tasso, del resto, a recuperare gli unici
aspetti «salvabili» della poetica trissiniana e a condannare definitiva-
mente l’impossibilità di un «omerismo» stilistico 37.

2. Alamanni: un omerismo «moralizzato»

Diversa è l’operazione tentata da Alamanni  38 sul poema omerico, e


ancor più significativa della preoccupazione ideologica sottesa al recu-
pero dell’Iliade: l’Avarchide è sostanzialmente una riscrittura dell’Ilia-

usata da Giraldi nel suo Discorso intorno al comporre dei Romanzi (cfr. G.B. Giraldi
Cinzio, Scritti critici, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano 1973, p. 63).
36
Tasso, Discorsi dell’arte poetica cit., p. 33.
37
Cfr. Zatti, L’ombra del Tasso cit., pp. 87-103.
38
Luigi Alamanni (Firenze, 1495 - Amboise, 1556) fu tra i principali fautori
di inizio Cinquecento di un nuovo classicismo volgare, intento a riprodurre i generi
della poesia classica in lingua volgare. Dopo una giovinezza «repubblicana» antime-
dicea a Firenze, dove fu frequentatore degli Orti Oricellari e discepolo di Machia-
velli, trascorse il resto della sua vita, in seguito al secondo esilio (1530), presso la
corte di Francesco I prima, di Enrico II poi. Fu in Francia che Alamanni iniziò
a costruire la propria immagine di letterato classicista attraverso la pubblicazione
delle Opere toscane (1531-1532), vera e propria raccolta di esperimenti anche gio-
vanili, di impostazione classicista (oltre a canzoni e sonetti o ecloghe in terza rima,
spiccano le elegie, le odi, le satire, i poemetti mitologici e la traduzione in sciolti
dell’Antigone); la Coltivazione (1546), cui si legò nei secoli successivi la fama del
poeta; il Girone il cortese (1548), traduzione in ottave del romanzo omonimo fran-
cese; e, infine l’Avarchide, poema in ottave che canta l’ira di Lancillotto contro re
Artù durante l’assedio di Avarco (l’odierna Bourges). Il poema segue fedelmente
la trama del poema omerico e ne riproduce ogni singolo episodio. Su Alamanni
rimando a H. Hauvette, Un exilé florentin à la cour de France au XVI e siécle, Luigi
Alamanni (1495-1556). Sa vie et son œuvre, Paris 1903, e alla voce contenuta nel
DBI, I, Roma 1960, pp. 568-571, a firma R. Weiss. Sull’Avarchide si vedano invece
i datati contributi di E. De Michele, L’Avarchide di Luigi Alamanni, Aversa 1895,
e U. Renda, L’elemento Bretone nell’Avarchide di Luigi Alamanni, «Studi di Lette-
ratura Italiana» 1, 1899, pp. 1-159. Cfr. inoltre i più recenti Jossa, La fondazione di
un genere cit., e ancora Id., Dal romanzo cavalleresco al poema omerico: il «Girone» e
l’«Avarchide» di Luigi Alamanni, «Italianistica» 1, 2002, pp. 13-37, con le bibliogra-
fie di riferimento.

249
Michele Comelli

de e la trama del poema omerico vi è fedelmente ricalcata – pur con


dislocazioni, ampliamenti e adattamenti – anche nei singoli episodi.
L’omerismo alamanniano, infatti, si configura come ripresa dell’azione
unitaria del poema greco e dell’intera sua struttura narrativa, mentre
l’operazione di «restauro» si applica allo stile e alla forma: non più
l’endecasillabo sciolto, ma l’ottava affermatasi nella tradizione cavalle-
resca; l’ambientazione è quella romanzesca del ciclo bretone, consona
ai gusti dell’epoca; soprattutto, lo stile non è lo stile rozzo e asciutto
trissiniano, ma quello moderno e raffinato della poesia volgare. Non a
caso, Tasso nei tardi Discorsi del poema eroico riconoscerà all’Avarchi-
de, pur se priva d’invenzione nella favola, il merito di essere il poema
meglio scritto in lingua toscana  39. L’omerismo di Alamanni, quindi,
consiste nella rielaborazione morale e formale della perfetta «favola»
omerica.
Anche in questo caso la sortita è trasposizione esemplare di sif-
fatta «maniera». La sortita si colloca, come in Omero, all’apice della
sconfitta dell’esercito arturiano, chiuso nel proprio vallo dalle truppe
degli Avarchidi (quando i più forti guerrieri arturiani sono feriti e do-
po l’insuccesso dell’ambasceria mandata a Lancillotto perché torni in
battaglia) 40. Artù, preoccupato, si desta nel cuore della notte e raduna
un’assemblea presso il vallo del campo con i capi più forti (la scena
omerica è perfettamente ricalcata). Qui ritrova Tristano, intento a si-
stemare le guardie, a controllare che siano sveglie e attente, a uccider-
le se stanno dormendo: ha già fatto scuola il tema trissiniano dell’im-
portanza di non abbandonare la propria postazione; ma soprattutto
è chiara la presenza del modello virgiliano, filtrato dall’Ariosto, circa
l’inadempienza militare, che non è più occasione per patetiche o ludi-
che stragi, come in Aen. 9.314-356, ma solo per enunciare un precetto
comportamentale. Diversamente dal poema omerico, è però ora l’eroe
arturiano a proporsi per andare a fare strage di nemici (solo o accom-
pagnato da uno, comunque in pochi), e questa volta non per carpire
informazioni, ma unicamente per indebolire le forze nemiche, proprio
come in Stazio. Fatto ancora più significativo, è Tristano, il perfetto


Cfr. Tasso, Discorsi dell’arte poetica cit., p. 92.
39

Si vedano le considerazioni sull’episodio in Jossa, Dal romanzo cavalleresco
40

al poema omerico cit, p. 27; e quelle della Cabani, Gli amici amanti cit., pp. 41-43.

250
Sortite notturne cinquecentesche

cavaliere, a offrirsi per una missione notturna, legittimando dunque di


primo acchito, contro il Capaneo staziano, la spedizione notturna:
«Or io per ragionar di quel che preme
più nell’ora presente, loderei,
per più aperto mostrar, che non si teme,
né vogliam soggiacere ai casi rei,
ch’io solo andassi, o con un altro insieme,
in poca compagnia d’alcun de’ miei,
assalire i nemici alla fosc’ombra,
or che ’l sonno tra ’l vin gli lega e ’ngombra.
E di lor penserei sì larga palma
ben tosto riportar, che quasi fora
dei ricevuti danni egual la salma,
ch’or di peso maggior fra noi dimora;
che di gente infinita saria l’alma
dalle indomite membra uscita fuora,
e le schiere svegliate in fuga messe,
pria che d’arme il romor sonato avesse».
(Av. 15.40-41)

Vediamo confluire una serie di elementi della tradizione: dall’immagi-


ne virgiliana delle guardie in preda al sonno per il vino, alla proposta
omerica di andare solo o in piccola compagnia all’impresa notturna.
Sono ancor più critici verso la tradizione i termini in cui si pone
la risposta di Artù alla proposta di Tristano. Non è in discussione la
legittimità di un assalto notturno, che anzi farebbe comodo alla causa
comune; il problema è piuttosto quello della prudenza: il re non vuole
che il suo più forte guerriero si metta a repentaglio nei pericoli della
notte.
Il Britannico re con lieto volto
risponde: «E chi potria sì chiara impresa,
se non con alto dire onorar molto,
come d’invitto cor, qual è discesa?
Ma in notturni perigli udire involto
ogni sostegno mio, troppo mi pesa,
perch’ogni altro soccorso avria per vano,
se mi furasse il Fato il mio Tristano.
Però per quello amor che mi mostrate,
e che col raro oprare aperto veggio,
che l’ardente vostr’animo tempriate,

251
Michele Comelli

ove l’uopo è minore, in grazia chieggio;


e che tal alma in rischio riserviate,
ove il nostro morir si mostri, o peggio;
né si creda alla notte, e gli error suoi 41
quello invitto guerrier, che sete voi».
(Av. 15.42-43)

Il motivo staziano dell’anticavalleria di un’azione notturna, che ave-


va indignato Capaneo, non si pone neppure e verrà, anzi, più avanti
definitivamente destituito in nome delle logiche di guerra; piuttosto,
sono da evitare le sortite audaci delle coppie latine, nel nome di una
prudente strategia militare.
Il vecchio e saggio Lago approva le parole del re, ma ammette che
sarebbe un bel guadagno per l’esercito una sortita (avvertita quindi an-
che da lui come giusta e legittima), specie per estorcere qualche infor-
mazione: purché non fatta a rischio, e tanto meno dall’eroe più forte.
«Veramente il fidar sì gran valore
all’orror tenebroso si disdice.
Quando ne mostra il dì luce maggiore,
e più ralluma il sol questa pendice,
e che ’l mezzo cammin fra noi ricopre,
spiegar sol di Tristan si devon l’opre.
Vero è, che a gran ragion fatto saria
per le cagion, ch’ei disse, e per avere
dei consigli nemici alcuna spia,
del modo e del cammin, ch’hanno a tenere;
se di espugnarne ancor cercheran via,
o di così l’assedio mantenere,
ristringendo di noi le forze e ’l corso,
fin ch’egli aggiano altronde altro soccorso.
Ma deve in tale affare essere eletto
chi non fosse fra noi di sì gran danno,
di piè snello e leggier, di forte petto
da soffrir senza pena il molto affanno,
di core alto e sicuro, che ’l sospetto
e ’l timor di morir sovente fanno
cose apparire altrui mostrose e fere,
men che oscuri fantasmi, o sogni vere».
(Av. 15.44-46)

41
Vaga reminiscenza delle fallentes umbrae di Stazio (Theb. 10.260).

252
Sortite notturne cinquecentesche

Nel poema alamanniano lo slancio eroico, per non trasformarsi in col-


pa, deve sempre essere contemperato dalla priorità dell’«impresa»  42.
Maligante (che ricopre il ruolo di Odisseo) si riconosce nella descri-
zione di Lago in quanto astuto, esperto del luogo, veloce ecc., e si
offre (anche perché la sua morte non apporterebbe gran danno alla
spedizione), ma chiede come Diomede che qualcuno sia mandato con
lui: il testo qui torna a recuperare direttamente Omero e le parole di
Maligante ricalcano quelle del Tidide 43.
In quindici si propongono per andare, ma alla fine sorge Tristano
a dirimere la questione:
Quando il saggio Tristan la lite vede,
della quale ei medesmo era inventore;
di dar ordine al tutto al suo re chiede,
ed egli il consentìo con lieto core;
ond’ei: «Poi che l’andar non mi si cede,
ov’io sperai trovar supremo onore,
contento sto, che indegno è il cavaliero,
che non vuole ubbidir, d’avere impero.
Io vi consiglierei, che Maligante
con sei di quei guerrier, che voglion gire,
con venti poi ciascun, gissero avante
l’empie schiere nemiche ad assalire;
pochi andasser primieri, che ’l restante
in parte ascoso, ove potesse udire
ben del tutto avvisato, e stretto stesse,
a rispinger da’ suoi chi gli premesse.
Ed io con cinque insegne poi de’ miei
non di molto lontan sarei da’ fossi,
e l’inchinate schiere sosterrei

42
Per questa impostazione ideologica del poema alamanniano rimando al mio
L’errore di Lancillotto: riscrittura dell’ira di Achille nell’«Avarchide» di Luigi Ala-
manni, in C. Berra - M. Mari (a cura di), Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, Milano
2007, pp. 259-323.
43
«Il vero è ben, che ’n solitario orrore, / e per vie perigliose avvolte e ’ncerte /
non porria lungo far, né chiaro il volo / come faria mestier chi fusse solo. // Però,
s’a voi parrà, qualch’altro meco / di quei, che più vorran, vegna all’impresa, / che sia
in vece di scorta all’andar cieco / e nell’arme adoprar salda difesa. / Poi il ragionare
e ’l consigliarsi seco, / o nel ritrarre il piede, o in fare offesa, / mentre ch’aiuta l’un,
l’altro conforta, / la vittoria o lo scampo spesso apporta» (Av. 15.49-50). Cfr. con
Hom. Il. 10.220-226.

253
Michele Comelli

di quei dal loco lor per forza mossi;


poi la Fortuna chiara seguirei,
se da lei favorito in parte fossi;
né saria da sprezzar, perché sovente
vincitrice vid’io la minor gente.
Or perché troppi son quei cavalieri,
cui del novello onore ha punti sprone,
e dell’oste, e di voi sostegni interi,
di tutti insieme andar non è ragione;
ma però che di sdegno ai petti alteri
porria l’elezion donar cagione,
da poi ch’esser non può se non perfetta,
di fortuna all’arbitrio si rimetta».
(Av. 15.54-57)

Tutta la scena riprende, non senza correggerla e dilatarla, l’azione


staziana (Theb. 10.176-261). L’entusiasmo dei giovani che vorrebbero
partecipare alla sortita; le preoccupazioni di Adrasto ampiamente di-
latate nei discorsi di Tristano (ma anche di Lago e di Artù); soprattut-
to, ci interessa notare che all’elezione dei guerrieri per la spedizione
in Stazio (Theb. 10.221-223) Alamanni oppone il topos del sorteggio,
altrove rifiutato per motivi ideologici 44. Si organizza quindi una vera
e propria spedizione, con tanto di retroguardia; e anche in questo il
modello più vicino è evidentemente quello staziano. Ma non è finita;
come in Trissino, ricompare il motivo virgiliano delle armi luccicanti:
Ogn’ uom dei venti suoi lo stuolo adduce
con quell’arme più oscure, che si truove;
ogni piuma, ogni arnese, che riluce,
dando in guardia al vicin, da sé rimuove.
(Av. 15.61)

Poi si incamminano; dopo aver velocemente ucciso una spia di Avarco,


i sette comandanti – evidente richiamo ai sette contro Tebe – lasciano
i loro uomini in appostamento e vanno avanti tra i nemici dormienti,
a fare strage:

44
Infatti al libro decimo (ottave 33-45) Alamanni, rifacendo l’episodio ome-
rico del duello tra Ettore e Aiace, aveva criticato l’affidare la sorte di un esercito al
sorteggio e aveva proposto in cambio «l’elezione».

254
Sortite notturne cinquecentesche

Quai sette lupi van, che dalla fame


per più dì molestati escon del bosco;
ch’ove più dalle mandre odor gli chiame,
drizzano il fero corso all’aer fosco;
le quai ritrovin miserelle e grame,
ove il cane è indormito e ’l pastor losco,
sì che molte hanno uccise della greggia,
pria che senta il mastino o ’l guardian veggia 45.
Tai giugnendo costor sul lato manco,
ove al fiume lontan più surge il colle,
il fer gotico stuol ferono al fianco,
e fan del sangue suo l’arena molle;
che la sera assetato, afflitto, e stanco,
di vivande e di vin sì ben satolle
avea lieto in tra sé l’avide voglie,
che dal sonno al romor non si discioglie.
(Av. 15.66-67)

È di nuovo sulla scena Virgilio, al quale rimanda chiaramente «il goti-


co stuol» che ha sedato «l’avide voglie», con connotazione certamente
negativa, nel cibo e nel vino. Sempre virgilianamente, ma non negli
ironici termini ariosteschi, inizia la serie di morti spettacolari (un mor-
to per ognuno dei sette) 46, fra cui quella di Tepulto, ispirata all’ucci-
sione di Reto in Virgilio (Aen. 9.345-350):
Tepulto il fero, che dormir si finge,
perché de’ suoi vicin la cruda guerra
d’infinito timor l’alma gli stringe,
né d’indi rifuggir vede la via,
che non sia dal nemico oppresso pria.
Così tacito sta, ma non gli vale,
che ’l feroce Toscan sopra la testa,
che bassa tien, gli dà colpo mortale
tal, che degli altri tre compagno resta.
(Av. 15.72-73)

Intanto gli Avarchidi sono andati a chiamare soccorso e arriva Segura-


no (novello Ettore) con le sue armate. I sette si ritirano, ma non senza

45
Simile, seppure non identico, è il paragone che Stazio istituisce per la schiera
dei Tebani che si dispongono ad assediare il campo argivo (Theb. 10.42-48).
46
In modo abbastanza simmetrico, com’è tipico del poema alamanniano, il poeta
dedica circa un’ottava all’aristeia di ognuno dei sette cavalieri cristiani (Av. 15.68-76).

255
Michele Comelli

far strage; anzi, rischiano di attardarsi, anche se il saggio Maligante li


invita alla prudenza:
«Or è il tempo di cedere a chi viene,
e sicuri tornare a miglior seggio,
o del nostro fallir pagar le pene,
ci apparechiamo al grave stuol, ch’io veggio»;
obbediscegli ogni uom, come conviene
a chi nulla ha speranza, e teme peggio;
e ciascun rifuggendo il corso stende
verso la schiera lor, che dietro attende.
(Av. 15.85)

Perciò fanno cadere nell’imboscata dei loro uomini appostati gli


Avarchidi e ricomincia così la strage, nuovamente contenuta dal sag-
gio Maligante, che frena il «volo» degli altri. Florio il Toscano, spinto
da troppo «desio», resta però indietro:
Ma il saggio Maligante d’altro lato
a’ compagni gridando affrena il volo;
al suo impero ciascuno è ritornato,
ma in tra’ folti nemici Florio solo
tratto dal gran desio s’è tanto spinto,
che si scorge da quelli in giro cinto.
(Av. 15.92)

Che il «volo» abbia qualcosa a che fare con la dira cupido di Niso è
fuori di dubbio, così come lo è il «gran desio» di Florio il Toscano,
che è una colpa e quasi lo porta alla sconfitta; ma il guerriero ita-
liano riesce a farsi strada e a fuggire con i compagni grazie al fatto
che la spedizione è una vera e propria missione militare. Nonostante
che Segurano e le sue armate incalzino, i sette arrivano dove Trista-
no e Boorte si sono appostati come retroguardia e gli Avarchidi sono
respinti e scornati, al punto che Segurano, rabbioso, riconoscendo
Tristano, cerca di ingiuriarlo per la mancanza di cavalleria di una spe-
dizione notturna:
[…] «E chi v’apprese, o in quali scuole,
alto re dell’Armorico Leone,
di ricovrar l’onor perduto al sole,
nella più oscura ed orrida stagione?
Qual la timida volpe, o il lupo suole,
che negli inganni suoi la speme pone:

256
Sortite notturne cinquecentesche

la notturna vittoria ai buoni è scorno


vie più ch’esser oppressi al chiaro giorno».
(Av. 15.102)
Tristano neppure si degna di rispondere, mentre Maligante legittima
la sortita e il saper essere, machiavellianamente, «volpe» in guerra:
«Dell’ottimo guerrier la gloria splende
sempre in ogni fortuna o buona o ria:
e quando ascoso è il dì, quando risplende,
e di terra e di mar per ogni via,
per ogni occasion, che ’l ciel gli scuopra,
con generoso cor pon l’arme in opra.
Ma voi, quale al villan, quale al pastore,
vorreste ai cavalier dar rozza forma,
che poi ch’aggia al gran dì sudate l’ore,
neghittoso la notte queti e dorma;
né consentir vorreste, che ’l valore
già mai di travagliar non lasse l’orma;
e ch’al chiaro, all’oscuro, al caldo, al gelo
aggia di faticar lodato zelo».
(Av. 15.103-104)
Quando poi Tristano e Maligante ordinano la ritirata, perché ormai
potrebbero arrivare nuove truppe da Avarco, tutti obbediscono; ma
non è ancora finita: Florio lungo la strada ha fatto un prigioniero,
Sanzio, e lo porta con sé «senza averlo offeso» (Av. 15.111), per farlo
interrogare da Artù. Virgilio fa ora la sua ricomparsa, con altri mec-
canismi. Sanzio chiede pietà come Dolone, ma come Eurialo il suo
pensiero va all’amore familiare, in questo caso paterno:
[…] tutto tremante i detti scioglie,
pregando: «O dei Britanni eterna luce,
ch’a tutti splende, poi ch’or vostro sono,
fatemi della vita intero dono.
E se di questa età giovine ancora,
e della mia Fortuna non v’incresce,
muovavi il vecchio padre, che dimora
lontano, e pan con lagrime commesce;
ch’udir gli sembra il messo d’ora in ora,
ch’a lui porte il mio fine, e a sé rincresce;
e se d’un tal perdono avesse nuove,
non men v’adoreria, che ’l proprio Giove».
(Av. 15.113-114)

257
Michele Comelli

Ovviamente, il cortese Artù non solo gli promette salva la vita (per-
ché sarebbe vergognoso uccidere un indifeso), ma fa anche dei doni a
Sanzio, che, all’opposto di Eurialo, s’illumina
qual si fa dopo il gel novella rosa
all’apparir del sol vaga e gioiosa.
(Av. 15.116.7-8)

A dimostrazione del fatto che, dove regna cortesia, non c’è posto per
la crudezza omerica, ma neppure per il patetismo virgiliano.
Omerismo dunque sì per Alamanni, ma non esente dagli influssi
più diversi della tradizione classica; il patetismo virgiliano non è li-
quidato nei termini del realismo omerico, ma è sottoposto a un forte
rigore morale e alle regole della Ragion di Stato. Piuttosto, il grande
escluso è Ariosto, la cui rilettura ironica della tradizione classica non
può assolutamente trovar luogo nel poema «regolare».

A riprova di questa rilettura «morale» del filone patetico virgiliano,


c’è un episodio dell’Avarchide che richiama in modo ancora più di-
retto la coppia virgiliana di Eurialo e Niso. Il libro quinto del poema
non trova infatti riscontro nel modello omerico e, pur mantenendo i
contatti con l’Iliade attraverso la ripresa di similitudini, tipologie di
morti, nessi formulari e nomi, contiene un episodio tutto alamannia-
no, le imprese di Lago e del figlio Eretto, che, legati dall’amore usuale
tra padre e figlio, più volte mettono a repentaglio la propria vita per
salvarsi a vicenda e, sul punto di una tragica morte per entrambi, ven-
gono strappati al pericolo da Boorte. L’episodio in realtà non rimanda
mai in modo esplicito al modello virgiliano, ma è evidente che i temi
del sacrificio, del giovane audace che per sogno di gloria finisce preda
dei nemici e del padre che, pur di salvarlo, dimentica i rischi e i peri-
coli sono tutti ripresi dal poema eneadico, rispetto al quale si deve an-
zi notare un tentativo di epurazione nella scelta di optare per l’amore
che lega padre e figlio, piuttosto che per l’amore amicale (scelta che
elimina molte delle accuse di impudicizia che il passo virgiliano po-
teva suscitare) 47. La funzione patetica dell’episodio è dimostrata dal

47
È bene però precisare che l’episodio si interseca con un altro topos di deri-
vazione prettamente lucanea, quello cioè delle coppie di parenti uccise durante uno
scontro; si tratta di un topos che certo ha a che fare con il patetismo virgiliano, ma
che si cristallizza, soprattutto nel Cinquecento, in un interesse per la dimensione

258
Sortite notturne cinquecentesche

continuo ribaltamento della situazione offerto dal poeta, che finisce


per svelare in modo fin troppo evidente la volontà di porre sulla scena
un’emulazione «decorosa» dell’amore di Eurialo e Niso.
Siamo in piena battaglia campale e il poeta, che nel libro prece-
dente si era occupato degli scontri dell’ala destra delle armate arturia-
ne, sposta ora il suo obiettivo sul corno sinistro, momentaneamente
comandato dal vecchio re Lago (coma abbiamo già visto, modellato
sull’omerico Nestore)  48. Tra le armate di Lago si distingue proprio
suo figlio, Eretto:
E fra molti miglior più d’altro appare
il figliuol del re Lago, il forte Eretto,
tutto pien di desio d’alto montare
in brevissimi giorni al fin perfetto
di somma gloria, e ’n dietro a sé lassare
gli altrui canuti onor, lui giovinetto;
così dove scernea più gran periglio,
di più innanzi passar prendea consiglio.
Né a sì nobil disegno fu nemica
nel primo incominciar fortuna infida,
ché con sommo valor ratto s’intrica
tra i più folti nemici, ed ella il guida
ove Bucalion danno e fatica
dava ai Britanni, e loro appella e sfida.
[…]
E mentre dice pur, sopra gli [a Bucalione] viene
il valoroso Eretto, e dritto pose
il ferro entro la bocca, ch’ancor tiene
parlando aperta, e tutto in essa ascose;
così senza altro dir, qual si conviene,
al folle ragionar silenzio pose;
cadde egli a terra, come sciolta salma,
e mordendo il terren si fuggì l’alma.
Oltra varcando poi trova Mecisto,
in Frisia nato, e nel medesmo loco,
che del compagno suo doglioso e tristo

realistica, strategica e fenomenologica della guerra e in un gusto per la narra-


zione macabro-orrorosa. Si veda, in proposito, Baldassarri, Il sonno di Zeus cit.,
pp. 47-49.
48
Il quale fra l’altro, stante la tradizione mitografica antica, nel seguito delle
vicende troiane veniva ridotto a mal partito da Memnone e salvato dall’intervento
del figlio Antiloco, che moriva al suo posto. Cfr., ad esempio, Pind. Pyth. 6.28.

259
Michele Comelli

per desio di vendetta ha il cor di foco;


ma il fero giovinetto, al nuovo acquisto
volto il pensiero, il passo affrena un poco,
fin ch’ei s’appresse, e poi ver lui si getta,
come d’arco miglior leve saetta.
E pria ch’a lui ferir presto il vedesse,
il colpo gli addrizzò, dove le coste
son nel mezzo del petto aggiunte e spesse,
delle parti migliori in guardia poste:
e passò levemente oltra per esse,
nelle spine del dorso a quelle opposte;
così la man, percosse quelle a pena,
lasciò l’asta cader sopra la rena.
Ed ei tutto incurvato, e riversando
per la bocca doglioso l’esca e ’l vino,
andò col volto in giù di vita in bando,
e dié l’ultimo fine al suo destino.
Trovò dopo costui, che van cercando,
se sarà il ferro lor del suo più fino,
Astillo, Polipete, Ablero, Elato,
ai quali ad uno ad un la morte ha dato.
(Av. 5.6-12)

Questo esordio rievoca immediatamente l’episodio virgiliano: se Eu-


rialo è pulchrior tra gli Eneadi (Aen. 9.179), Eretto è il «migliore» tra
molti, prima correzione al modello; se il troiano è magno laudum per-
cussus amore (Aen. 9.197), l’altro è «pien di desio d’alto montare»;
ma, soprattutto, entrambi sono simbolo di una giovinezza audace e
imprudente 49. Anche il breve inciso del poeta sulla «fortuna infida» –
vedremo più avanti – sembra richiamare la prova del giovane Eurialo.
Intanto, le stragi compiute da Eretto rimandano sicuramente sia alla
tradizione macabro-orrorosa diventata cliché fisso nel poema cavalle-
resco 50, sia alle stragi compiute da Eurialo (Aen. 9.342-350) 51.
Eretto, come lupo tra un gregge indifeso, pensa di continuare la
vittoria, quando arrivano Brunoro e Dinadano, che guidano la riscos-
sa pagana e lo costringono a tornare fra le sue schiere. Dopo alterne

49
Così Eretto esorta i suoi uomini: «Non s’onora chi in pace cangiò il pelo, /
ma chi con l’arme in man giovin morio; / folle errore è il salvar la vita in sorte, / che
ti sia grave poi più ch’altra morte» (Av. 5.44.5-8).
50
Cfr. nt. 47.
51
La morte di Mecisto riprende infatti da vicino quella di Reto.

260
Sortite notturne cinquecentesche

vicende e numerose morti su entrambi i fronti, Eretto si ritrova, in-


sieme a pochi uomini, circondato dagli avversari e in grave pericolo.
Alla notizia il padre affida il fronte a Ivano e corre dal figlio, che, al
vederlo, si commuove, ma lo invita a ritirarsi, visto che quello non è
il luogo adatto alla sua età e lui non vuole doversi preoccupare anche
per la sorte del padre.
Rispose il vecchio re con volto irato:
«Dunque vuoi tu, figliuolo, oggi privarme
di quel, ch’io bramo più, ch’è d’esser teco,
per cui dolce m’è solo il mondo cieco?
Lassami pur venir, che poche notti
ha in sua forza di me Fortuna fera,
e i giorni a tanto onor fin qui condotti,
qual mai chiuder porria più degna sera?
Esser ben ponno a te troncati e rotti
mille disegni, ch’hai l’etade intera;
a me il sepolcro sol puote esser tolto,
che non fu dai migliori in pregio molto».
(Av. 5.55-56)
Le parole di Lago riprendono a un tempo, amplificandole, quelle
di Eurialo (Aen. 9.199-200) e quelle di Niso (9.210-212); è il moti-
vo della giovinezza che va preservata, perché è ingiusto che la guerra
stronchi i sogni giovanili. Ma la giovinezza con la sua audacia, spesso
ai limiti della colpevolezza, qui come in Virgilio è una sorta di spet-
tro, di fantasma che aleggia su tutto l’episodio, e ben presto è Lago a
trovarsi troppo fiducioso nelle sue forze, convinto di essere tornato
giovane (Av. 5.59), cosicché resta avvolto dai nemici. Eretto allora si
scaglia fra gli avversari (con le ormai solite parole patetiche, cfr. ottava
61) 52, mentre Lago, vedendosi accanto il figlio, riacquista valore 53; i
due riescono a liberarsi dei nemici, ma Eretto, scorgendo i suoi uomi-

52
Eretto chiama di nuovo i suoi uomini in soccorso del padre: «[…] Ora è,
signor, quel tempo eletto, / nel qual fia guadagnar perder la vita, / per salute di
quel, dentro al cui petto / ripose il Ciel la sua virtude unita: / né possa esser già mai
saputo o detto, / che fra sì altera gente e sì gradita / fosse ucciso dell’Orcadi il re
Lago, / senza ampissimo far di sangue un lago».
53
Anche in questo caso le parole di Lago, che recupera ardire alla vista del
coraggio di Eretto, rievocano dei versi virgiliani: «[…] Or vegg’io ben, che dai leoni
/ non usciron giammai damme né cerve; / né bisogna al buon cor verga né sproni, /
perché ’l dritto sentier d’onore osserve» (Av. 5.64.1-4); cfr. le parole di Alete: «Di

261
Michele Comelli

ni schiacciati dall’altra parte, non può fare a meno di intervenire e si


ritrova di nuovo praticamente solo, circondato dagli avversari, con tre
compagni in tutto. Eccoci da capo:
Ma chi vorrà narrar l’aspro dolore
del magnanimo re, poi ch’ha tornato
il volto indietro al marzial romore,
né il suo caro figliuol si scorge a lato;
ma il sente e vede, che da lui ben lunge
ricinto è intorno da chi ’l batte e punge.
Viene in sì gran furor, che come egli era,
senza gran compagnia, ratto si mosse,
e per entro passò la stretta schiera,
non curando di lei piaghe, o percosse.
(Av. 5.73-74)

L’immagine di Niso, che nell’oscurità della selva si accorge di aver


perso l’amico (Aen. 9.389-401) e poco dopo si getta tra il folto dei
nemici, curandosi solo di vendicarsi su Volcente (9.438-442), è forse
debolmente richiamata da questa di Lago: manca la suspense virgi-
liana e manca il toccante e vano tentativo di Niso di fermare l’ira di
Volcente (Me me! Adsum qui feci); ma il ricordo del lettore non può
non muovere alla scena dell’Eneide. Padre e figlio sono nuovamente a
fianco nel combattimento e sarebbero ormai preda degli avversari se
non intervenisse Boorte, che sconfigge la schiera che li circonda e li
porta in salvo; poi la battaglia riprende per tutti, aspramente. Ma ecco
come interpreta l’esemplarità dell’accaduto Lago a fine libro, mentre
cerca di ridare vigore ai suoi uomini:
«Maraviglia non sia, s’avvien talora,
che i più forti guerrier si veggian vinti,
che non sempre la grazia in noi dimora
del ciel, ch’a bene oprar ne tiene accinti;
lo qual sovente i suoi più cari ancora
con avversa fortuna ha in basso spinti,
per ammonirgli e rendergli più accorti,
ch’al sommo del suo ben gli ha poscia scorti.
Rendiam pur grazie a lui, che ne dimostra
l’errore, ove il più saggio più s’intrica,

patrii, quorum semper sub numine Troia est, / non tamen omnino Teucros delere
paratis, / cum talis animos iuvenum et tam certa tulistis / pectora» (Aen. 9.247-250).

262
Sortite notturne cinquecentesche

che non è la vittoria in forza nostra,


e ’ndarno senza lui l’uom s’affatica;
ben sempre gli è nelle terrene chiostra,
l’onorata virtù, sovrana, amica:
con la qual dunque, e con la sua speranza,
seguitiamo il cammin, ch’omai n’avanza».
(Av. 5.110-111)

È qui – mi pare – che il poeta suggerisce come chiave interpretativa


dell’episodio lo sviluppo del tema eneadico che Eurialo aveva a suo
tempo introdotto:
«[…] Me nulla dies tam fortibus ausis
dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda
aut adversa cadat».
(Aen. 9.281-283)

Una volta censurati, infatti, gli aspetti più discutibili dell’episodio vir-
giliano, vale a dire l’amore tra i due amici (sostituito con quello legit-
timissimo tra padre e figlio), l’imprudenza dell’assalto notturno non
organizzato e il colpevole eccesso di cupido o di imprudentia, il tema
dell’eroicità giovanile può recuperare spazio nel poema «regolare» e
trovare la sua formulazione esemplare in questo episodio. Il messaggio
è che se la vittoria dipende esclusivamente dalla fortuna e dalla grazia
divina, la virtù eroica, «l’onorata virtù» è invece il mezzo per l’uomo
di acquistarsi onore. In sostanza, l’episodio della coppia che si sacri-
fica viene rivisitato in termini militari ed etici e l’aspetto patetico, se
non scompare, resta in secondo piano di fronte alle implicazioni ideo-
logiche e alla volontà di affermare la distanza tra romanzo ed epica nei
termini della subordinazione, seppur non sempre così limpida, della
virtù individuale alla Ragion di Stato.
È vero che proprio in questo episodio vediamo contaminarsi e
sovrapporsi topoi diversi, da quello virgiliano della coppia, a quello
di derivazione lucanea dei congiunti uccisi in guerra, fino al topos più
antico dell’opposizione tra audacia giovanile e saggia vecchiaia (pre-
sente, ad esempio, anche in Omero) 54; ma è importante notare come
proprio per mezzo di questa progressiva emancipazione dei topoi dai
puri meccanismi di ripresa letteraria Alamanni trovi la via verso l’af-

54
Cfr. B. Zucchelli, I poemi e gli inni omerici, in U. Mattioli (a cura di),
Senectus. La vecchiaia nel mondo classico, I. Grecia, Bologna 1995, pp. 1-58.

263
Michele Comelli

fermazione della modernità. Per questo passaggio l’esperienza trissi-


niana è fondamentale, anche se appare evidente come l’atteggiamento
alamanniano nei confronti della tradizione sia certo dubitativo e criti-
co, ma in modo nuovo rispetto a Trissino: la scelta in favore di Omero
si fa moderata e costituisce un ulteriore passo nella direzione che sarà
poi presa da Tasso. Se l’omerismo di Trissino era troppo pedissequo
e poteva sfociare in un indecoroso recupero del modello greco, Ala-
manni sposta la questione nella direzione di Aristotele e si limita a
riutilizzare quella parte di Omero che effettivamente la Poetica indi-
cava come modello ideale: la fabula. Ma fabula e topoi di questa tra-
dizione si trasformano in tracce sulle quali innestare contaminazioni e
amplificazioni, soprattutto sulle quali applicare una lettura critica atta
ad affermare la propria modernità ideologica, prima che poetica. La
ripresa diviene così luogo privilegiato per prendere le distanze dagli
stessi modelli classici, e migliorarli.
Come ha ben illustrato Baldassarri 55, e come emerge già dai gio­
va­nili Discorsi dell’arte poetica, il passo successivo di Tasso sarà ulte-
riormente critico nei confronti dei predecessori e anche il topos della
sortita – come l’intera macchina del poema – subirà un’emancipazio-
ne dai modelli stilistici e narrativi classici. Le sortite tassiane recupe-
reranno solo allusivamente e con maggior libertà i precedenti omerici
e virgiliani, ed erediteranno semmai l’atteggiamento dubitativo attra-
verso il quale i predecessori avevano cercato di affermare la propria
novità: ma questa volta al fine di nascondere, attraverso la loro so-
vrapposizione, i modelli (che non sono più prettamente classici, ma
anche biblici e romanzeschi), in favore di una lettura allegorica non
tanto dei singoli episodi, quanto della poesia stessa.
Mi sembra però che da questo scorcio sui percorsi del poema
eroico a metà Cinquecento si possa intravedere uno sviluppo coerente
del pensiero critico cinquecentesco, di cui il topos della sortita è solo
una delle tante diffrazioni possibili, all’interno di un dibattito ricco ed
articolato. Il quadro non è certo lineare, ma mostra chiaramente che
nelle logiche del ri-uso si attua il tentativo di fondare il poema «rego-
lare» in tutta la sua originalità non solo rispetto al romanzo, ma anche
alla stessa poesia epica classica.

55
Baldassarri, Il sonno di Zeus cit., pp. 116-127.

264
Parte terza
il novecento
Marco Fernandelli
«Inviolable voice»:
studio
su quattro poeti dotti
(Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot) *  

1. Virgilio, «Eneide» 7.10-20

Alla fine della prima esade dell’Eneide due grandi figure singole re-
stano ancora estranee alla retractatio virgiliana dell’Odissea: Circe e
Calipso. Ma all’inizio del libro settimo, nel tratto del viaggio che porta
i Troiani dal golfo di Gaeta alle bocche del Tevere, la flotta costeggia
di notte le spiagge del Circeo, antico confine meridionale del Lazio
e sede della maga, secondo una tradizione alternativa a Omero che
rimontava a Esiodo. Qui Virgilio colloca la sua Circe e, approfittando
della somiglianza che già il testo omerico affacciava tra i due personag-
gi (Od. 9.29-32; 5.59-62 ~ 10.220-223), le assimila aspetti dell’azione e
della sfera di vita di Calipso (Aen. 7.10-20):
Proxima Circaeae raduntur litora terrae,
dives inaccessos ubi Solis filia lucos
adsiduo resonat cantu tectisque superbis
urit odoratam nocturna in lumina cedrum
arguto tenuis percurrens pectine telas.


* Vorrei dedicare queste pagine a Gianfranco Agosti: della sua probità e intel-
ligenza sono ricchi anche i lavori degli amici.

267
Marco Fernandelli

Hinc exaudiri gemitus iraeque leonum


vincla recusantum et sera sub nocte rudentum,
saetigerique sues atque in praesepibus ursi
saevire ac formae magnorum ululare luporum,
quos hominum ex facie dea saeva potentibus herbis
induerat Circe in voltus ac terga ferarum.

Ai connotati della Circe omerica (la presenza non vista, il canto, la


tessitura, la magia metamorfica), i vv. 12b-13 aggiungono la combu-
stione di legname pregiato. Secondo l’interpretazione più attendibile
del passo (con nocturna in lumina inteso nel senso finale di «a far bril-
lare luci notturne») il legno bruciato fonde il suo aroma con la fiamma
sorgente dal focolare; e ciò avviene all’interno di un superbo palazzo.
Nel quinto libro dell’Odissea Hermes scende a volo a Ogigia
(vv. 43-75). In viaggio egli passa dall’etere al mare all’isola e infine alla
spelonca abitata da Calipso: il suo percorso si svolge dunque dall’alto
verso il basso e dal grande verso il piccolo. La ninfa non si vede, ma
la sua presenza è segnalata da un gran fuoco che arde sul focolare,
dall’aroma del cedro e della tuia combusti, e dal canto che proviene
dall’interno della grotta (vv. 59-62). Mancando l’incontro atteso, il
racconto si sviluppa allora come ekphrasis, in cinque segmenti: ecco
un bosco di piante pregiate (vv. 63-64); poi uccelli vari (vv. 65-67);
una vite che inghirlanda l’apertura dell’antro (vv. 68-69); quattro fonti
(vv. 70-71); e infine prati fioriti e profumati (vv. 72-73a). Ci troviamo
di fronte al primo locus amoenus della poesia occidentale e lo vediamo
con gli occhi del dio appena sopraggiunto (vv. 73b-75). Come la sua
contemplazione dell’Eden di Ogigia si completa e la sua meraviglia si
satura, Hermes entra nella grotta e l’azione epica riprende.
Nel testo virgiliano i dettagli assunti dal quinto libro dell’Odissea
all’interno del quadro di Circe non hanno solo la funzione di esauri-
re la retractatio odissiaca, ma servono uno scopo interno. Il buio della
notte e una cortina vegetale – inaccessos […] lucos, v. 11 – impediscono
ai viaggiatori la visione di Circe e del suo mondo. Una presenza è se-
gnalata da suoni, odori, forse bagliori. Questi stimoli sensoriali agisco-
no sui Troiani suggestivamente: al v. 18, ac formae magnorum ululare
luporum, il suono che viene da una sorgente invisibile si converte in
immagine mentale. Qualcosa di simile accade anche al lettore. La voce
che descrive l’ambiente di Circe, in Aen. 7.10-14, muove dal grande al
piccolo e dall’esterno all’interno: ossia dai litora al bosco al palazzo al

268
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

focolare al pettine. Nonostante questa progressione verso il dettaglio


minuto, però, Circe resta esclusa dalla vista, e cioè dal senso che deter-
mina. La sua è una presenza indiziaria, segnalata all’udito e all’olfatto
dei personaggi in azione, e riunita nella mente del lettore dalla memo-
ria poetica. Questa presenza senza immagine – questa indefinitezza –
sollecita la fantasia: per Leopardi tali condizioni stabiliscono la natura
lirica del soggetto; il passo di Virgilio è addirittura, ai suoi occhi, un
simbolo dell’esperienza lirica (Zibaldone, 1928-1930, 16 ottobre 1821):
È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga
ed indefinita che desta, un canto […] udito da lungi, o che paia lonta-
no senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando […]; un
canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte […]; mas-
sime di notte, si è più disposti a questi effetti, perché né l’udito né gli
altri sensi non arrivano a determinare né circoscrivere la sensazione, e
le sue concomitanze. È piacevole qualunque suono […] che largamen-
te e vastamente si diffonda […]. A queste considerazioni appartiene
il piacere che può dare e dà […] il fragore del tuono […], lo stormire
del vento […]. Perocché oltre la vastità, e l’incertezza e confusione
del suono, non si vede l’oggetto che lo produce […]. E tutte queste
immagini in poesia ecc. sono sempre bellissime, e tanto più quanto
più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar
l’intenzione per cui ciò si fa […]. Vedi in questo proposito Virgilio,
Eneide, VII, v. 8 segg. La notte, o l’immagine della notte è la più pro-
pria ad aiutare, o anche a cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da
maestro l’ha adoperata.

2. Milton, «Paradise Lost» 4.131 ss.

Nel libro quarto del Paradise Lost Satana giunge alle porte dell’Eden:
una barriera boschiva, fitta di piante e scoscesa, separa l’esterno
dall’interno, incoronando la cima del Paradiso
of a steep wilderness, whose hairy sides
with thicket overgrown, grotesque and wild,
access denied.
(vv. 135-137)

Di là da questa cortina vegetale, più in alto, si leva un altro ordine di


piante – cedro, pino, abete, palma – che formano

269
Marco Fernandelli

a sylvan scene, and as the ranks ascend


shade above shade, a wondy theater
of stateliest view.
(vv. 140-142)

In un altro punto si erge, altissima, una chiostra di alberi illuminati


dal sole, ornati di fiori e frutti, che danno al paesaggio il suo tono
amabile. Le brezze che soffiano tra questi alberi rigogliosi trasporta-
no all’esterno della muraglia boschiva il profumo dell’Eden: l’effetto
sui sensi è degno di essere illustrato da una similitudine monumentale
(vv. 159b-167):
As when to them who sail
beyond the Cape of Hope, and now are past
Mozambic, off at sea north-east winds blow
Sabaean odors from the spicy shore
of Araby the Blest. With such delay
well pleased they slack their course, and many a league
cheered with the grateful smell old ocean smiles;
so entertained those odorous sweets the Fiend
who came their bane […].

Una prima campata descrittiva, data dai vv. 131-171, inquadra dun-
que il paesaggio nel suo insieme e risulta incorniciata dall’atto percet-
tivo di Satana (vv. 131-132 ~ 166-171); ora questi si prepara a risalire
la ripida altura e a varcare la barriera del bosco, alla cui densità im-
penetrabile è dato nuovamente rilievo (vv. 172-177). Poco più avan-
ti, Satana supera a volo la muraglia di piante e contempla dalla cima
dell’Albero della Vita l’interno dell’Eden. Egli osserva così «esposta
in breve spazio al godimento dei sensi umani, tutta l’abbondanza della
Natura» (vv. 205-207). In questa contemplazione del paesaggio ame-
no egli ricalca dunque la posizione dell’Hermes omerico di fronte al
par£­deisoj di Calipso; e anche ciò che egli vede rimanda a quell’an-
tico originale. Ricorrono infatti, nell’Eden miltoniano, i cinque ele-
menti caratteristici del locus amoenus odissiaco, per quanto elencati in
ordine diverso: il boschetto (vv. 248-251); i prati fioriti (vv. 252-256);
le grotte contornate di viti (vv. 257-260); le quattro fonti (vv. 233 +
260-263); gli uccelli (v. 264). Questo scenario beato è l’ambiente di
vita di Adamo ed Eva (288 ss.), così come il paradiso di Ogigia era sta-
to il luogo degli amori di Calipso e Odisseo: il che si conferma anche
dopo la visita di Hermes alla ninfa (Hom. Od. 5.225-227).

270
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

Dunque la descrizione dell’Eden, in Milton, si articola in due fasi,


scandite dal progredire della missione di Satana. Nella prima campata,
Satana è all’esterno del Paradiso: ha perciò rilievo lo strumento della
sua esclusione, la «muraglia vegetale», cui si riconducono per via di
comparazione o di rapporto topografico tutti gli altri elementi del pae-
saggio, che sono dati da altri raggruppamenti di alberi. In questa prima
sezione, il testo di Milton aderisce a una base virgiliana in tre punti:
1. il nesso in rejet «access denied», che al v. 137 riproduce il notevole
epiteto inaccessos, riferito a lucos, di Aen. 7.11;
2. l’immagine della «scena silvestre», vv. 140-142, notoriamente model-
lata sulla topothesia di Aen. 1.159-169 (v. 164 silvis scaena coruscis);
3. la similitudine dei naviganti investiti dall’onda di profumi di cui non
vedono l’origine, immagine parallela a quella dei Troiani in viaggio
lungo le coste del Circeo a Aen. 7.10-20, specialmente v. 13.
È notevole che il primo e il terzo punto siano collegati da Milton
come termini che formano la cornice del racconto intorno al suo
centro descrittivo, rappresentando la graduale percezione del pae-
saggio edenico sperimentata da Satana. Nella prima fase si tratta di
una esperienza sensoriale dalla quale è esclusa la vista. C’è poi da fare
un importante rilievo tecnico: l’imitazione del passo del primo libro
dell’Eneide, incorniciata dalle due riscritture del settimo libro di quel
medesimo poema, è relativa alla particolare esecuzione di un tipo de-
scrittivo, il tipo «valle di Tempe», che contempera in un unico quadro
paesaggistico aspetti inquietanti e aspetti ameni. La baia libica che fa
da modello a Milton (Aen. 1.157-159) rappresenta per certo la più
notevole esecuzione del topos da parte di Virgilio: il poeta inglese non
si è dunque limitato a trarre dal suo originale un dettaglio mirabile –
l’immagine del teatro boschivo – ma ne ha anche derivato un’idea per
la composizione. Il suo paesaggio, infatti, riproduce su più larga scala
la compresenza dei toni, facendo seguire al passo che esalta la «mura-
glia vegetale» quello che celebra l’amenità al suo interno. In contrasto
con questa sequenza descrittiva è il processo dell’azione, che fa coin-
cidere il crescere della meraviglia – cioè del piacere dei sensi – con il
crescere del pericolo.
Un’ultima osservazione: che il passo virgiliano di Circe fosse im-
manente alla concezione miltoniana dell’Eden ci è testimoniato da un
altro luogo del Paradise Lost. A 8.217 ss. l’Arcangelo Raffaele interro-
ga Adamo sull’ora della creazione dell’uomo, cui non aveva potuto as-

271
Marco Fernandelli

sistere, poiché in quella circostanza Dio lo aveva mandato a presidiare


le porte dell’Inferno. Di là da quelle porte egli aveva udito provenire
(vv. 243-244)
noise, other than the sound of dance or song,
torment, and loud lament, and furious rage.
Giustamente i commentatori segnalano come modello per il v. 244 il
tricolon, distribuito su due versi, di Aen. 6.557-558:
Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
verbera, tum stridor ferri tractaeque catenae.

Non si è però notato che il poeta inglese, ben cosciente di un’eco


interna al testo virgiliano, ha variato l’ultimo termine della sua serie
pensando alla coppia dolore-ira di Aen. 7.15-16:
Hinc exaudiri gemitus iraeque leonum
vincla recusantum et sera sub nocte rudentum.
Nel testo di Milton questo suggerimento acustico fa da base per uno
sviluppo a contrasto: all’orrendo ricordo di Raffaele si contrappon-
gono i versi immediatamente successivi, in cui Adamo narra del suo
venire alla vita nell’amenità del paesaggio edenico: boschi, ruscelli,
uccelli canori, fragranze … (vv. 261-266).
Ricapitolando, dunque: in Milton ricorre il tema virgiliano di Circe;
e come nel testo di Virgilio, ad esso si associa il ricordo della Ca­lipso
odissiaca. I due poeti procedono però in modo inverso. Mentre Vir-
gilio connota il quadro di Circe con l’evocazione dotta di Calipso,
Milton tratta la visita di Hermes al paradiso di Ogigia come modello
primario e usa la memoria della Circe virgiliana per arricchire la sua
base. In Milton questo modello secondario riproduce la struttura e
la funzione che ha nell’originale, ma all’interno di un quadro mutato
di segno: se nell’Eneide la barriera boschiva separava un insidiatore
interno (Circe) da un insidiato esterno (i viaggiatori), ora essa separa
un insidiatore esterno (il viaggiatore) da insidiati interni (Adamo ed
Eva). In entrambi i testi il rapporto tra l’interno non visto e il soggetto
che si trova all’esterno è mediato dallo stimolo dell’olfatto: e questo
motivo risale  – come si è visto – all’Odissea. Sia da Virgilio, sia da
Milton, poi, esso è portato al centro dell’attenzione e rielaborato con
cura speciale.

272
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

3. Keats, «Lamia»
e «La Belle Dame sans Merci»

All’alba di una giornata di ottobre del 1816, a Southwark, Keats scrive


la sua prima grande poesia, il sonetto On First Looking into Chapman’s
Homer. Per tutta la notte precedente, il poeta e il suo amico Cowden
Clarke avevano letto insieme, per la prima volta, parti dell’Omero di
Chapman: Keats ne era rimasto rapito. Come ricorda Silvano Sabba-
dini (Keats, Poesie, Milano 1986) nel suo commento al sonetto, quella
notte l’attenzione dei due giovani si era appuntata specialmente sul
libro quinto dell’Odissea. In questo libro una certa ricchezza di sti-
moli figurativi, atmosferici, affettivi è al servizio dell’architettura del
racconto: ad esso è assegnato il compito di impostare il complesso
narrativo del nostos, che occupa – psicologicamente e di fatto – la pri-
ma metà dell’Odissea. Nel libro di Calipso, dunque, motivi lirici e arte
narrativa si presentavano in una combinazione piena di interesse.
Tre anni dopo Keats lavora a Lamia. Nella prima delle due parti
di questo poemetto, in uno scenario isolano e silvestre, si ripropone
l’evento cruciale del quinto libro dell’Odissea, anzi l’evento che avvia
l’azione odissiaca nel suo insieme, ovvero la discesa di Hermes sul-
la terra. Di nuovo Hermes ricerca una ninfa, questa volta una ninfa
cretese di cui s’è innamorato, e la trova in un bosco grazie alla me-
diazione di una fiera, un serpente dotato di poteri magici che un tem-
po era stato donna, e che donna vuole ridiventare per guadagnarsi
l’amore di un giovane di Corinto, Licio. La soddisfazione del dio ha
dunque per corollario la metamorfosi del serpente in Lamia; il che
fa intendere – con sottigliezza eziologica – che quel serpente era una
lamia. Il dittico del poemetto è dunque costituito da due storie d’amo-
re parallele e complementari, che hanno per protagonisti Hermes e
la lamia: l’una di ambientazione silvestre e di tono mitico-fantastico,
l’altra di ambientazione urbana e di assetto pseudostorico; l’una sem-
plice e di esito felice, l’altra complessa e di esito doloroso. Questo tipo
di corrispondenza riguarda anche il movimento iniziale dei due cicli:
Hermes raggiunge gradualmente la selva cretese, che percorre poi in
ogni sua parte alla ricerca della ninfa, in un viaggio che restringe pro-
gressivamente l’orizzonte; Lamia, da parte sua, dopo la metamorfosi
da serpente in dama, sparisce dal bosco isolano e si ritrova davanti alla
città (vv. 173-181):

273
Marco Fernandelli

She fled into that valley they pass o’er


who go to Corinth from Cenchreas’ shore;
and rested at the foot of those wild hills,
the rugged founts of the Peræan rills,
and of that other ridge whose barren back
stretches, with all its mist and cloudy rack,
south-westward to Cleone. There she stood
about a young bird’s flutter from a wood,
fair, on a sloping green of mossy tread […].

Questi versi ricordano per un momento, ma con evidenza, la situazio-


ne del Satana miltoniano che sosta davanti alla collina dell’Eden: è il
momento di raccogliersi prima di compiere l’impresa. Una sezione su-
bito successiva riprende il motivo dell’indugio di Lamia (vv. 200-201:
«Why this fair creature chose so faerly / by the wayside to linger, we
shall see») per ritrovare un antecedente psichico e d’azione nei sogni
vigilanti della lamia (vv. 202-206: «But first ’tis fit to tell how she could
muse / and dream, when in the serpent prison-house, / of all she list,
strange or magnificent. / How, ever, where she willed, her spirit went; /
whether to faint Elysium […]»). Il sogno come autopsia, e quindi co-
me forma della conoscenza verace, estende la base miltoniana di questa
sezione, richiamando il tema del sogno d’Adamo. Al contempo la lamia
si sovrappone a tratti al poeta, impersonandone le facoltà di immagina-
zione; ella è del resto anche assai abile nel canto (vv. 298-327).
A volte, nei suoi viaggi onirici, la lamia si era spinta verso la città
e in un’occasione aveva scorto il giovane Licio che riusciva vincitore
in una gara di carri. Ciò era accaduto «nell’ora dei moscerini» (v. 220:
«on the moth time»); divenuta reale, più avanti, mentre i due giovani
la attraversano di notte, la città ha essa stessa una qualità di sogno
(vv. 350-359):
As men talk in a dream, so Corinth all,
throughout her palaces imperial,
and all her populous streets and temples lewd,
muttered, like tempest in the distance brewed,
to the wide-spreaded night above her towers.
Men, women, rich and poor, in the cool hours,
shuffled their sandals o’er the pavement white,
companioned or alone; while many a light
flared, here and there, from wealthy festivals,
and threw their moving shadows on the walls […].

274
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

Nella notte keatsiana, la città mercantile – grande, affollata, opulenta –


è sul punto di svuotarsi, di trapassare in città irreale, in porto delle
ombre. La Corinto di Lamia è un luogo simile alla «unreal city» di
Eliot (The Waste Land, vv. 60 ss.), in cui si fondono l’«immonde cité»
baudelairiana, immagini dell’Inferno, il paesaggio metropolitano della
Londra contemporanea. Corinto è l’inconsistente materia urbana che
incornicia il volgare e inconsistente banchetto nuziale nel palazzo di
Lamia, dove la coppia isolata affronta una «verifica di realtà», la prova
di una consacrazione sociale. Questa scena occupa per intero la secon-
da metà del poemetto, e ne costituisce la tragica dšsij. Lo svolgimento
di questa parte conduce alla seconda identificazione della protagoni-
sta, facendo emergere la metamorfosi come tema di significato esisten-
ziale. Toccata dalla verga di Hermes, nel bosco cretese, la lamia si era
dissolta per concretarsi nuovamente come Lamia alle porte di Corinto;
nel banchetto metropolitano, una volta sottoposta all’analisi e al rico-
noscimento del sofista Apollonio, Lamia «diviene» agli occhi di tutti
un serpente, e sparisce. Perdendo – con tutto il palazzo – la sua appa-
renza, ella subisce anche una metamorfosi esistenziale, il cui segno è il
transito dal nome di individuo al nome di specie, da Lamia a serpente,
cioè a lamia. Nel mondo del mito, in cui si danno le metamorfosi, il
passaggio onomastico da individuo a specie è finale (come per esempio
nel passaggio da Alcione ad alcione, da Giacinto a giacinto, da Eco
a eco ecc.) e il mutamento non comporta dispersione ontologica. La
metamorfosi può mettere in comunicazione il piano del mito e il piano
della storia, ponendosi come eziologia di un dato di realtà (da elementi
della natura a istituzioni culturali): ma i termini del mutamento – il
mito e la storia – non sono messi in crisi dallo scoprirsi di questa rela-
zione causale, concorrendo anzi a un reciproco rinforzo ontologico.
Keats, tuttavia, opera qui in un altro modo. Egli stacca la sua storia
dalla cornice del mito, la sottrae alla salvaguardia delle leggi classiche
del mutamento, assorbendo la «metamorfosi» di Lamia in lamia nel
processo vitale di Licio, che non sopravvive alla sparizione della «sua»
Lamia. Diventando agli occhi di tutti un serpente, Lamia sparisce; la
pronunzia del nome comune surroga la presenza del personaggio sva-
nito (vv. 305-306), e proprio di quello che, con il suo idionimo, aveva
dato un titolo al poemetto:
«A Serpent» echoed he [scil. Apollonius]; no sooner said,
than with a frightful scream she vanished.

275
Marco Fernandelli

A differenza di quanto accade in quei racconti metamorfici antichi


che presentano la serie oggettiva «apparenza di A – illusione di B –
pericolo (o morte) di A o di B, o di A e B», come per esempio nella
storia ovidiana di Callisto (met. 2.409-530) o di Atteone (3.138-252)
o nella «tragedia degli errori» di Piramo e Tisbe (4.55-166), qui noi
assistiamo a una metamorfosi del credere (secondo Apollonio, Lamia
è «in realtà» una lamia), che determina una collettiva uscita dall’il-
lusione; e la morte di Licio è l’esito diretto di una causa inequivoca
(l’effettivo non esser più di Lamia). Ma poiché con la rivelazione di
Apollonio tutti i segni apparenti si convertono in dati reali, e sparisco-
no Lamia e il suo palazzo, è inconsistente anche tutta la storia che ha
dato vita al racconto, e che nel lettore ha generato immagini mentali,
emozioni, riflessioni? È una storia che non produce al proprio interno
un aumento di coscienza, dato che Licio considera il suo amore più
vero della verità che il filosofo ha svelato? Al lettore Lamia non pa-
re né un aneddoto in versi né la trasposizione poetica di una novella
esemplare.
Nel suo poema Keats intreccia il flusso ininterrotto dell’esistente,
che il racconto metamorfico rende visibile (una donna era divenuta
un serpente che poi diviene Lamia che poi ritorna serpente), con il
singolo processo vitale (quello di Licio), destinato a compiersi nella
morte; al contempo egli fa estinguere una serie metamorfica prove-
niente da un quadro mitico (Hermes, Creta, ambiente delle ninfe) in
condizioni di esperienza extramitiche (Apollonio, Corinto, banchetto
nuziale): questi due fattori, alla fine del racconto, determinano una
dissoluzione del campo di esistenza della storia, che con la morte di
Lamia e poi di Licio non esaurisce semplicemente il plot, ma il mondo
stesso di cui sembrava esser parte. Di là dai confini di ogni racconto
mitico o realistico c’è una prosecuzione virtuale nel mito o nella sto-
ria, oppure un mito contiguo o un contesto di fatti; qui l’estinguer-
si dell’azione chiude il racconto cristallizzandolo, assorbendo tutto
l’interesse drammatico nell’interesse per il significato. Privata di ogni
possibilità di estensione laterale o di proiezione in avanti, la storia nar-
rata si isola, fa riemergere nel pensiero il ruolo delle relazioni interne,
il sistema delle connotazioni, la costruzione del racconto come unità
simbolica.
Su questo torneremo tra poco; facciamo ora un passo indietro.
Poco prima di Lamia, nell’aprile del 1819, Keats aveva composto

276
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

una delle sue liriche più impegnative e riuscite, La Belle Dame sans
Merci. In questa ballata, com’è noto, un Io-viandante si imbatte in un
cavaliere pallido, che langue in un luogo desolato, e questi gli narra
del proprio incontro con una bella dama, dell’ascolto del suo canto,
dell’amore con lei nella sua grotta, di una visione onirica di vittime
urlanti (vv. 37 ss.: «I saw pale kings […]») e della propria perdizione
finale. Il racconto del cavaliere ricalca per un buon tratto (strofe 4-8)
la prima parte della storia di Menippo di Licia e della bella dama così
come essa è narrata da Filostrato, una storia che Keats aveva letto nel-
la versione della Anatomy of Melancholy di Robert Burton, all’interno
della sezione dedicata ai poteri dell’amore (3.2.1). Qui si narrava che
Menippo, in viaggio tra Cencrea e Corinto, aveva incontrato un fan-
tasma nelle sembianze di una bella donna, la quale lo aveva condotto
a casa propria promettendogli alcuni piaceri, tra cui l’ascolto di un
canto. Il giovane filosofo, preso dall’amore per lei, aveva acconsentito
alla proposta e l’aveva infine sposata. Al banchetto nuziale interviene
anche Apollonio, che intuisce la vera natura della sposa, «scoprì che
ella era un serpente, una lamia […] e che tutta la casa non aveva so-
stanza, ma era solo illusione». La scoperta causa la sparizione della
donna, del banchetto, della dimora.
Dunque il testo di Filostrato, riportato da Burton, è una matrice
narrativa che dà luogo a due racconti keatsiani, tra loro complemen-
tari: il primo, centrato sul punto di vista del viaggiatore incantato, e
quindi memore della prima parte del racconto filostrateo; il secondo,
gravitante invece sull’esperienza dell’amore, e del dolore, vissuta dalla
donna, ovvero legato piuttosto alla seconda parte della fonte antica.
Nella ballata c’è una dislocazione cronologica in avanti, poiché i fat-
ti appartengono al tempo delle fate, mentre l’azione del poemetto si
svolge «before the faery broods / drove Nymph and Satyr from the
prosperous woods» (Lamia 1-2). Questa ambientazione più antica –
come s’è visto – serve a radicare nel mito il tema metamorfico, che in
Lamia è strutturante e insieme caratteristico, cioè innovativo rispetto
all’originale. La lamia ha poteri magici che poi Lamia erediterà come
capacità di ammaliare con il canto; è una specie di Circe (al giuramen-
to di Hermes, «ravished, she lifted her Circean head», v. 115); ma in
lei prevale la condizione di una Circe «passiva», che subisce la meta-
morfosi piuttosto che operarla. Una Circe in senso «attivo» è invece la
dame sans merci, che affascina con il suo canto indecifrabile – e quindi

277
Marco Fernandelli

puro – ma anche trasforma gli uomini che incontra svuotandoli della


loro sostanza vitale, convertendoli in ombre.
Se dunque la base classica del poemetto sembrava essere il libro
di Calipso, dove ha luogo la discesa di Hermes, nella ballata si avverte
piuttosto la presenza di Circe. Ma questa distinzione è tutto sommato
esteriore. Il racconto che Keats aveva trovato in Burton, come si è
detto, è la matrice sia della ballata che del poemetto. Sì che, a leggerla
attentamente, la storia narrata da Filostrato appare come una partico-
lare esecuzione del tipo narrativo che incontriamo per la prima volta
nel quinto libro dell’Odissea, in cui si trovano:
1. un pellegrino (Odisseo ~ Licio);
2. una figura femminile soprannaturale, bella, ingannatrice, abile nel
canto (Calipso ~ il fantasma-donna);
3. una dimora (la grotta ~ la casa isolata nei pressi di Corinto);
4. l’intenzione della donna di tenere il viaggiatore con sé, in eterno
isolamento e come sposo, in cambio di piaceri e di una speciale
immunità (la protezione dalla morte ~ l’assenza di offese);
5. l’intervento di una figura autorevole che vanifica tale disegno, ren-
dendo possibile il ripristino delle condizioni di partenza (Hermes ~
Apollonio).
In Filostrato il racconto si discosta dal tipo odissiaco nella par-
te finale, là dove però si sviluppa più evidentemente come discorso
a tesi: nel banchetto nuziale, in cui la donna si rivela serpente e poi
svanisce, e con essa la casa e tutti i suoi contenuti, noi ci troviamo
di fronte alla allegoria di un vecchio principio filosofico, la capacità
del sapere critico di far emergere la verità proprio come ¢l»qeia, e
cioè dissipando le apparenze che velano ciò che è. Mentre Apollonio
svela la verità facendo sparire le cose apparenti, ossia i contenuti del
racconto, il racconto stesso si rivela come discorso a tesi, dissolven-
do così la propria forma apparente, la forma narrativa. Di qui anche
l’effetto di «esaurimento del mito» concomitante con l’affermarsi del
racconto come simbolo, che si avverte nell’epilogo di Lamia. Eppure
anche per la parte finale del testo di Filostrato è possibile rinvenire
una parentela con l’episodio omerico, poiché nel nome stesso di Ca-
lipso («colei che vela») si concentra un potenziale allegorico allineato
agli interessi del filosofo, e poiché anche nel quinto libro dell’Odissea
la separazione finale tra il pellegrino e la dama – i mancati sposi – è
preceduta da uno sfarzoso banchetto (vv. 192-224).

278
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

La predilezione accordata da Keats e da Clarke al quinto libro


dell’Odissea, in quella non troppo lontana notte di studio e di fol-
gorazioni omeriche, diviene a questo punto una notizia davvero im-
portante. Nel libro di Calipso il giovanissimo poeta aveva trovato le
figure e l’assetto narrativo capaci di dare forma a un suo tema pro-
fondo. Il sonetto On First Looking into Chapman’s Homer (1816) e
il poemetto Lamia (finito nel 1820) incorniciano la sua carriera poe-
tica maggiore. Non sappiamo se Keats intravvide Calipso alle spalle
della dama-lamia di Filostrato, ma la sua attenzione per il brano che
egli lesse nel libro di Burton fu verosimilmente sollecitata – inconsa-
pevolmente o no – dalla sua passione per quell’episodio odissiaco.
In modo indiretto, essa lo aveva anche reso un critico penetrante di
Omero. Se ne può dare un esempio che mi sembra degno di interes-
se. Nella Belle Dame sans Merci la figura della ammaliatrice, come
si è detto, vira verso Circe. La sua malia promana innanzitutto dalla
figura, ma è specialmente un effetto del canto. Il canto accomuna
in Omero Calipso e Circe, ed è anzi un elemento-guida per ricono-
scere l’affinità tra questi due personaggi, che possono anche essere
intesi (così per esempio riteneva Wilamowitz) come risultanza di una
figura-base, Circe, raddoppiata e moderatamente variata in un suo
alter ego, appunto Calipso. Il canto lega anche la dama della ballata e
la Lamia del poemetto, entrambe «figure» della poesia incantatrice.
Nella ballata, in particolare, l’azione della Dama-Circe che ammalia
i viandanti e li trasforma in ombre sofferenti, quasi coincide con il
canto, che opera come commento magico al comportamento sempre
più docile del cavaliere: in questa «fairy’s song» (v. 20) si articolano
suoni indecifrabili (v. 24 «And made sweet moan»; vv. 27-28 «And
sure in language strange she said / ‘I love thee true’»); e questo cu-
rioso particolare svela che Keats aveva in mente qui la figura della
lamia, così come la trovava definita nel repertorio mitologico a lui più
noto, la Bibliotheca Classica di Lemprière: lì egli leggeva che le lamie,
mostri per metà donne e per metà serpenti, pur non essendo dotate
di parola, allettavano gli stranieri con «i loro sibili […] gradevoli e
intriganti». Poi li divoravano; in altre fonti antiche, tra cui la Vita di
Apollonio di Tiana di Filostrato, esse invece succhiavano il sangue dei
loro «ospiti», mentre costoro erano addormentati: e questo sembra
anche il caso del cavaliere pallido e delle altre pallide vittime della
bella Signora senza pietà.

279
Marco Fernandelli

Il sequestro dei viandanti ha luogo nella grotta, sede dell’amore,


del sonno e del contatto con i morti. La dimora di Circe in Omero
non è una grotta; e sotto l’influsso di Virgilio (Aen. 7.12 tectis […] su-
perbis) una tradizione che raggiunge Hawthorne (Circe’s Palace, 1853)
immagina Circe come signora di un palazzo. Nella ballata keatsiana la
sede della dama è una «elfin grot» (v. 29); addormentatosi lì, il cava-
liere avrà la sua visione di morte: «I saw pale kings, and princes too, /
pale warriors, death-pale were they all» (vv. 37-38). Nell’Odissea Ca-
lipso, «l’occultatrice», vive in una grotta nella terra più occidentale.
Nel primo Novecento la critica scientifica di Omero ha incominciato
a notare la parentela di Calipso con figure del mito germanico e scan-
dinavo; si è giunti a parlare di una Calipso-elfa (Radermacher, 1915);
ponendo l’accento sul simbolo della grotta – diaframma tra il mondo
di qua e il mondo di là – la ninfa è stata vista come dea della morte
(Güntert, 1919); a questa identificazione – si è osservato più tardi – ha
concorso anche il confronto con figure di altri ambiti culturali, come
la Siduri del poema di Gilgamesh (Dirlmeier, 1970; un bilancio gene-
rale di queste indagini si può leggere oggi nel bel libro di C. Crane,
Calypso: Backgrounds and Conventions of the Odyssey, Frankfurt a.M.
1988).
Anche se si tratta di tesi disputate, esse formano un termine di
confronto che fa emergere l’intuito antropologico di Keats. La Ca-
lipso omerica può essere intesa come una figura simile a quella belle
dame sans merci che si esprime nei modi di una lamia e opera gli
incantamenti di una Circe; nella ballata essa assume identità lirica
prima di sostenere in Lamia, pochi mesi più tardi, il principale ruo-
lo narrativo. La somiglianza di cui qui si parla non è superficiale né
episodica, ma appartiene al tipo che la scienza antropologica defi-
nisce «strutturale». Sotto l’impulso di una motivazione profonda e
unitaria – la sintesi creativa – le fonti allineate nella mente di Keats
entrano in un rapporto osmotico, che rivela il loro nesso essenziale;
di qui si sviluppano le varianti, distinte secondo i generi, di un’unica
intuizione, l’intuizione della struttura culturale che soggiace al rac-
conto omerico di Calipso e che si ripropone, con formula di pensiero
e di linguaggio autodistruttivi, nel racconto filostrateo della fata/la-
mia: lì l’analisi filosofica aveva reso irreale il personaggio-tentatore,
al contempo esautorandone l’unico possibile campo di esistenza, la
forma-racconto.

280
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

Per Keats ciò era accaduto nel clima «malinconico», e cioè mo-
derno, dell’opera di Burton, un trattato che pretendeva di classifi-
care e studiare con metodo scientifico gli esempi antichi del potere
universale di Eros. La cultura comune considera oggi ingenuo o pe-
dantesco l’atteggiamento classicista tradizionale; l’autorità dell’anti-
co nel pensiero moderno deriva non da una funzione normativa ma
da una funzione ermeneutica, poiché l’antico avvicina all’autentico,
aiuta a dirigere lo sguardo verso un’essenza. Sappiamo che questo
atteggiamento critico – filosofico, antropologico, psicoanalitico – è
inimmaginabile senza le intuizioni che si sono date in poesia, cioè in
costruzioni creative, e nella poesia romantica in particolare. Rispetto
a quanto abbiamo visto in Virgilio, che ripropone – arricchendola –
la figura odissiaca di Circe, e in Milton, colpito da dispositivi poetici
omerici e virgiliani adatti a esprimere la qualità centrale del suo tema,
la pienezza sensuale dell’Eden, il ritorno dell’antico sembra arric-
chirsi in Keats di una dimensione: un «tipo» ritorna (il tipo-Calipso),
al centro di uno schema narrativo «tipico» (il sequestro dell’amato
e l’esperienza di una perdita finale), facendo da «correlativo ogget-
tivo» a un tema profondo, insieme personale e caratteristico di una
atmosfera culturale, urgente e autocosciente nell’attualità vissuta.
Siamo alle radici di quel metodo poetico-critico che darà alla luce,
nel 1922, i due capolavori del modernismo, l’Ulysses e The Waste
Land, e che Eliot denominerà «metodo mitico»: i parallelismi tra i
due piani, il piano del mito e quello del mondo contemporaneo, of-
frono la possibilità di attribuire forma e significato a ciò che si dà
nell’esperienza comune come realtà caotica, multivalente, indefini-
bile. L’individuazione di affinità reali tra i due piani implica però
la convinzione che esistano costanti antropologiche esprimibili in
racconti tipici, potenzialmente interscambiabili tra loro. Il poema di
Ulisse può dare forma e significato al flusso di una giornata di vita
comune contemporanea.
Per Eliot il «metodo mitico» è alternativo al metodo narrativo,
nasce anzi dalla coscienza di un’impossibile resa narrativa del mondo
così com’è. L’aporia di Lamia, in cui la tensione posta sul piano del te-
ma si trasferisce sul piano della forma e perviene a una finale autone-
gazione del poema come racconto, sarà risolta da Eliot, nella seconda
parte di The Waste Land, proprio con la più consapevole applicazione
del «metodo mitico».

281
Marco Fernandelli

4. Th.S. Eliot, «The Waste Land» 77-110

L’esito funesto dell’amore di Lamia e Licio, preannunciato allo spirare


della prima parte di Lamia (vv. 394-395: «And but the flitter-winged
verse must tell / for truth’s sake, what woe afterwards befell […]»),
si compie effettivamente nel finale della parte seconda, con interno
rincaro di quel precedente annuncio (vv. 142-145):

Approving all, she faded at self-will,


and shut the chamber up, close, hushed and still,
complete and ready for the revels rude,
when dreadful guests would come to spoil her solitude.

Il racconto del banchetto nuziale nel palazzo di Lamia si articola in


una serie di sei, ben scandite sezioni:
1. Una prima (vv. 106-145), di cui i versi sopra citati rappresentano
l’epilogo, inquadra i preparativi della sala, che Lamia cura in solitu-
dine, dirigendo uno stuolo di servi invisibili.
2. Una seconda (vv. 146-172) descrive l’arrivo degli ospiti, e in par-
ticolare di Apollonio, il cui comportamento «filosofico» – «with
calm-planted steps walked in austere», v. 158 – si distingue da
quello gregario degli altri commensali.
3. Nella terza sezione (vv. 173-198) è descritta la sala apparecchiata e
ha inizio il banchetto, con l’uscita degli ospiti, rinfrescati e ornati,
dal­l’anticamera.
4. La quarta sezione (vv. 199-212) marca un passaggio interno alla
cena, e cioè il momento in cui il vino esercita il suo effetto, produ-
cendo un’impennata del volume di voce nei convitati.
5. Una quinta sezione (vv. 213-238) si apre con il picco dell’effetto del
vino, e contiene una ben nota digressione reprobativa sulla filosofia
(vv. 221-238), che rappresenta il cuore ideologico del poemetto.
6. Una sesta sezione (vv. 239-311) si apre con Licio che, levata una
coppa ricolma di vino, propone un brindisi, cercando con lo sguar-
do l’assenso di Apollonio: tale gesto avvia l’epilogo tragico, che si
concreta nello «smascheramento» di Lamia, poi nella sua morte e
infine in quella di Licio.
Keats aveva tratto molte notizie adatte a colorire le fasi del ban-
chetto dalle Antiquities di John Potter, ma la sequenza che egli adotta

282
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

ha una base abbastanza evidente nel banchetto cartaginese del primo


libro dell’Eneide. Qui si susseguono:
1. I preparativi del banchetto, in assenza degli ospiti, su ordine della
regina; risponde a questo segmento la predisposizione dei doni da
parte dei Troiani (vv. 637-642 + 643-656).
2. L’intermezzo divino che culmina con l’arrivo alla reggia degli ospi-
ti, e in particolare dell’ospite che causerà la peripezia tragica, Cupi-
do travestito da Ascanio (vv. 657-694 + 695-700).
3. Gli ospiti, che hanno già preso posto nella sala, ricevono dai servi
acqua per rinfrescarsi, Cerere – cioè pani – e stuoie morbide su
cui distendersi; descrizione dell’opulenza del banchetto, affidata al
motivo dei servi (numerosissimi, attivi in più operazioni, ben coor-
dinati nei loro movimenti, vv. 701-706) e al lusso dei doni troiani,
che pareggia il lusso dell’ambiente (vv. 707-711: cfr. vv. 637-642).
In questa situazione si avvia la peripezia negativa, che la voce nar-
rante annuncia in modo scoperto (vv. 712-722 Praecipue infelix,
pesti devota futurae).
4. La comissatio segna una svolta nel banchetto (vv. 723-727):
Postquam prima quies epulis mensaeque remotae,
crateras magnos statuunt et vina coronant.
Fit strepitus tectis vocemque per ampla volutant
atria; dependent lychni laquearibus aureis
incensi et noctem flammis funalia vincunt.
Dei tre dati che la descrizione qui presenta (crateras statuunt / fit
strepitus / noctem funalia vincunt), i primi due hanno significato
psi­cologico (l’arrivo del vino causa un’impennata del volume di vo­
ce), il terzo è un fattore di atmosfera, in cui culmina la serie. In
Keats l’effetto di atmosfera del banchetto è principalmente affidato
all’intreccio di luce e profumo, due suggerimenti sensoriali che si
fondono nel costruire un’immagine ascendente dello spazio inter-
no: dal fiume di luci compenetrate dal diffondersi degli aromi (La-
mia, vv. 130-133) si passa all’intreccio avvampante dei rampicanti
leggeri (vv. 139-141) e infine all’immagine che fissa il quadro della
sala allestita nella sezione 3 (vv. 173-182):
Of wealthy lustre was the banquet-room,
filled with pervading brilliance and perfume:
before each lucid pannel fuming stood
a censer fed with myrrh and spiced wood,
each by a sacred tripod held aloft,

283
Marco Fernandelli

whose slender feet wide-swerved upon the soft


wool-woofed carpets; fifty wreaths of smoke
from fifty censers their light voyage took
to the high roof, still mimicked as they rose
along the mirrored walls by twin-clouds odorous.

Dunque «brilliance and perfume» sono i fattori dell’effetto complessi-


vo, «wealthy lustre». Non il soffitto riccamente decorato come in Vir-
gilio (laquearibus aureis), ma l’ingegnoso cooperare di luce e aromi, in
viaggio verso «l’alto tetto», determina l’atmosfera della sala. Ma, mentre
la diversa impostazione del motivo distingue il testo moderno da quel-
lo antico, ancora colpisce una affinità nella costruzione complessiva: il
passo di Keats rimanda alla prima sezione (cfr. specialmente i vv. 138-
141), di cui è l’accurata realizzazione; il sistema premessa-realizzazione
è la regola aurea del banchetto virgiliano, addirittura costruito a chia-
smo (preparazione del banchetto, preparazione dei doni, scena divina,
effetto dei doni, effetto del vino a banchetto). In Keats proprio il verso
che apre la sezione cruciale, la terza, in cui si realizzano le premesse
della prima e il sistema costruttivo si scopre, proprio questo verso, di-
cevo, è l’eco di Aen. 1.637, l’attacco del banchetto virgiliano:
At domus interior regali splendida luxu

Of wealthy lustre was the banquet-room.

Completiamo ora la rassegna dei parallelismi di composizione: in Vir-


gilio il particolare dei lychni che «vincono la notte» con la loro luce,
amplificato dallo sfondo d’oro dei laquearia, chiude dunque una serie
descrittiva creando un breve stacco tra due segmenti narrativi; dopo
l’effetto dei doni, quello del vino.
5. La parola nox (v. 727), ancora interna al segmento descrittivo,
ren­de nuovamente visibile il filo della catastrofe subito prima che
Didone prenda un’iniziativa di discorso all’interno del banchetto:
ciò accade (vv. 728-740) con la proposta del brindisi (cfr. sesta se-
zione di Keats). Di qui in avanti, in questa coincidenza di azione e
perdizione, ogni lineamento del banchetto – la libagione agli dèi,
la bevuta di Bitia, il canto di Iopa, le richieste di racconti a Enea –
appartiene al protocollo sociale e insieme è sintomo del destino
personale che avanza: Nec non et vario noctem sermone trahebat /
infelix Dido longumque bibebat amorem (vv. 748-749).

284
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

Tranne che per la quinta sezione, dunque, che in Keats rappresen-


ta una digressione ideologica, abbiamo una corrispondenza piuttosto
chiara tra l’evolvere del banchetto fatale nell’Eneide e in Lamia. Keats
era, da un lato, un buon conoscitore di Virgilio e dall’altro doveva
essersi imbattuto nella notizia, testimoniata da varie fonti antiche, se-
condo cui Lamia era figlia di Belo e di Libia; Filostrato stesso, nel bra-
no riportato da Burton, menziona le origini fenicie della donna che ir-
retisce Licio. Ora, proprio nel momento del brindisi, Virgilio rimarca
l’origine di Didone da Belo (vv. 728-730): Hic regina gravem gemmis
auroque poposcit / implevitque mero pateram, quam Belus et omnes / a
Belo soliti. Sviata forse dalle corrispondenze tra l’apparato erudito di
Lamia e le informazioni recate dal manuale di Potter, la critica non ha
visto la presenza del primo libro dell’Eneide alle spalle della compo-
sizione keatsiana. Il testo di Filostrato nominava il banchetto nuziale,
ma solo per indicarne l’esito, cioè senza descriverne l’evoluzione. Per
dare carne e sangue a questo involucro vuoto, Keats aveva evidente-
mente bisogno di un modello, e cioè di una costruzione poetica viven-
te, non solo di fonti sulla morfologia del banchetto antico.
Un’intuizione di questa stratigrafia si trova espressa tuttavia in
un’opera poetica, The Waste Land di Thomas Stearns Eliot. Pochi
anni dopo la pubblicazione del poemetto (1922), Ernst Robert Cur-
tius, in un noto studio che si legge ora nei suoi Kritische Essays zur
europäischer Literatur (Bern 1954), lo considerava il capolavoro di un
moderno poeta doctus:
Eliot è, nel senso più preciso della parola, un poeta alessandrino con le
sembianze che può e deve avere oggi. In primo luogo è un poeta eru-
dito: conosce le lingue, le letterature, le tecniche e adorna le sue opere
con citazioni preziose e reminiscenze di letture. Fa dunque esattamen-
te quello che fecero gli alessandrini e i romani […]. I filologi potreb-
bero imparare da lui il senso artistico di questa tecnica del mosaico:
come si esalta l’esperienza personale, come diventa iridescente, come
si illumina quando si annota in ricordi sapienti […]. È la poesia di un
intenditore e non darà se non all’intenditore il meglio di se stessa.

La parte seconda di The Waste Land, intitolata A Game of Chess, è


dedicata alla corruzione dei rapporti individuali. L’eros degradato si
manifesta dapprima nella sfera della upper class. Il brano che apre A
Game of Chess (vv. 77-100) è un ritratto del boudoir in cui la Lady
attende il suo amante. La descrizione si articola in due quadri (vv. 77-

285
Marco Fernandelli

93 + 94-106) con un breve epilogo (vv. 107-110), che completa il brano
preparando l’esordio della parte drammatizzata (vv. 111-138 + 139-
172). Il primo quadro descrive soprattutto gli oggetti d’uso della Lady
alla toilette (il Seggio, lo specchio, la tavola, gioielli e profumi); il se-
condo si concentra piuttosto sull’arredo, e in particolare dà risalto alla
decorazione soprastante il caminetto, una immagine del mito classico:
il mutamento di Philomela successivo allo stupro e alla mutilazione.
Nel primo quadro uno splendore abbagliante lega fra loro oggetti
preziosi: il Seggio splende sul marmo; lo specchio riflette le fiamme di
candelabri a sette bracci, riverberandone la luce sulla tavola; di qui si
leva, incontro a quella sorgente artificiale, il brillìo dei gioielli, sparsi
a profusione dai loro astucci lussuosi. Si ha dunque un movimento
descrittivo che segue i giochi della luce, e si completa con un sugge-
rimento di ascesa e oggetti piccoli in primo piano (vv. 84-85: «The
glitter of her jewels rose to meet it, / from satin cases poured in rich
profusion»). C’è un momento di indugio sugli oggetti che giacciono
sul tavolino del boudoir, dove accanto ai gioielli si vedono fiale di pro-
fumi stappate. Il passaggio da astucci a fiale associa il motivo della
luce al motivo del profumo e di qui la tendenza ascendente si ripropo-
ne, sviluppandosi l’immagine dal piccolo al grande e dal basso verso
l’alto, fino a porre in evidenza il termine del movimento (vv. 86-93):
In vials of ivory and coloured glass
unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,
unguent, powdered, or liquid – troubled, confused
and drowned the sense in odours; stirred by the air
that freshened from the window, these ascended
in fattening the prolonged candle-flames,
flung their smoke into the laquearia,
stirring the pattern of the coffered ceiling.
La nota di Eliot a «laquearia» del v. 92 rimanda ad Aen. 1.726, che il po-
eta riporta insieme con il verso successivo: dependent lychni laquea­ribus
aureis / incensi, et noctem flammis funalia vincunt. Si osservi l’accuratez-
za del procedimento imitativo: Eliot pareggia il grecismo dotto lychni
del testo latino con il latinismo dotto «laquearia» nel testo inglese, ren-
dendosi conto di come il forestierismo renda «idiomatico», nel contesto
prezioso, l’oggetto esotico (lychni) o remoto nel tempo («laquearia»).
Nel testo di Eliot accade però anche molto di più: come il paesag-
gio domestico allinea oggetti di diversa provenienza, annullando in

286
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

assemblaggi arbitrari lo spazio e il tempo storici, così anche le parole


in cui si condensano i frammenti di cultura, estorti ai loro contesti,
accostati gli uni agli altri, formano un paesaggio di simboli verbali.
«Laquea­ria» non è solo il significante che rimanda a un particolare
significato, qui trattato come sinonimo di «coffered ceiling» in una
formulazione insistente, ma è – accanto al tono shakespeariano, alla
sintassi e al lessico keatsiani, ad altri forestierismi dotti – una paro-
la-cosa, una parola che si dà nel testo come frammento di cultura ora
acquisito a un nuovo insieme: un insieme che annulla il tempo, un
mosaico culturale. «Tecnica del mosaico» è di nuovo un’espressione
di Curtius. Nel mosaico ogni tessera si accosta alle altre, ma la tecnica
non è additiva: ogni tessera è determinata, per forma e collocazione,
dall’insieme voluto. La sintassi di questi frammenti di cultura, risolti
in simboli verbali, si trova in tensione con i contenuti: al criterio che
presiede all’arredamento del boudoir – l’espressione di sé o il confor-
mismo snobistico o l’utilitarismo – si oppone il criterio che organizza
le parole-cose nel mosaico poetico: esso rappresenta la responsabilità
culturale del significato.
Per Eliot il poeta moderno, che non può più parlare con la pro-
pria voce, che non può più contare sul potere semantico di significanti
ormai troppo socializzati, troppo «storici», deve dimettere punto di
vista e storicità e chiamare a raccolta tutta la cultura in ogni suo at-
to linguistico. L’inventio si esercita sulla cultura trattata come tota-
lità oggettiva; gli oggetti di qui assunti per formare il nuovo insieme
devono essere dotati essi stessi delle proprietà dell’insieme, devono
essere cioè testi altamente rappresentativi o condensati di tradizione.
La composizione diviene infine il tempo forte dell’atto poetico: essa è
innanzitutto un’operazione critica, che rappresenta l’individuale rico-
noscimento dei nessi essenziali interni alla cultura.
Le parti che si compongono nell’insieme sono dunque conformi al
famoso assunto dell’epilogo, «These fragments I have shored against
my ruins» (v. 430): in The Waste Land si alternano citazioni – pure o
rielaborate – e imitazioni di modelli – loci, stili, ritmi – riconoscibili in
vario grado, a volte dissimulati. Nelle note illustrative o esplicative del
testo, compilate da Eliot stesso, l’origine delle citazioni è in genere in-
dicata, mentre lo stesso non vale per i modelli imitati. All’interno del
testo si riconoscono preesistenze che fondano il metodo: autori che
citano altri autori, come nel caso del finale del ventiseiesimo canto del

287
Marco Fernandelli

Purgatorio, rievocato al v. 427 («Poi s’ascose nel foco che gli affina»);
o autori che imitano altri autori, con tecnica allusiva o dissimulando il
procedimento di derivazione; ciò riguarda anche le riprese di modelli
classici in opere moderne. Due casi interessanti della prima sezione di
A Game of Chess illustrano bene quest’ultimo punto.
La nota eliotiana al v. 77 rimanda a Antony and Cleopatra 2.2.190 ss.:
il v. 77, che impone allo sguardo il Seggio della Lady, è in effetti una
citazione quasi letterale dal testo di Shakespeare (il pédigrée lettera-
rio rende unico l’oggetto e quindi idionimo – «Chair» – il suo no-
me comune); di lì poi derivano anche immagini satelliti e elementi
di atmosfera che si collegano bene con le altre due basi del primo e
del secondo quadro, ossia i passi relativi alla stanza di Imogene nel
Cymbeline, che li attraversa entrambi, e la descrizione del banchetto
di Lamia in Keats, che fonda le invenzioni caratteristiche del primo
(vari altri riferimenti scoperti nel tempo dalla critica hanno efficacia
più circoscritta). L’identificazione di questi due modelli nel tessuto
poetico di A Game of Chess può dirsi sicura, per quanto Eliot non vi si
riferisca in nota. L’interesse del poeta per Lamia ha motivazioni gene-
rali (il tema della metamorfosi, la doppia metamorfosi del personaggio
centrale, una figura di «veggente» come Tiresia) o comunque ampie (il
motivo della «città irreale» – una derivazione trascurata dalla critica
eliotiana) o più specifiche: lo stimolo sui sensi reso dall’intrecciarsi di
luce e profumo, che occupa tutto il primo quadro di Eliot (vv. 77-93),
è certa derivazione da Keats, anche nella complessità barocca della
sintassi. Nel ripensamento del modello, però, Eliot iscrive la tessera
alloglotta – «laquearia» – di cui indica in nota l’origine letteraria: con
un procedimento dotto che i filologi classici chiamano «imitazione a
finestra», dunque, il poeta indica il modello (il banchetto dell’Eneide)
presente ma dissimulato nel proprio modello (il banchetto di Lamia).
Se riguardiamo il dettato eliotiano, in effetti, la singola parola «laquea-
ria» è glossata solo linguisticamente per mezzo del distico dell’Eneide,
il quale non è certo sufficiente a spiegare la formazione dell’immagi-
ne moderna: nel boudoir della Lady i profumi misti alle fiamme delle
candele «flung their smoke into the laquearia / stirring the pattern on
the coffered ceiling» (vv. 92-93). Niente del genere si legge nel testo
virgiliano; è vero però che l’immagine del soffitto prezioso, ribadita
al v. 93 del testo di Eliot, non ha una vera base in Keats, mentre ha
il compito di completare un segmento del discorso – e dunque ha

288
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

un’evidenza particolare – come accade in Virgilio. Tornerò tra poco


su questo punto.
Nei versi di A Game of Chess, il testo dell’Eneide è presente anco-
ra una volta come sottinteso. Passando al secondo quadro eliotiano,
si vede dapprima una complessa scultura (vv. 94-96) e poi, sopra il
camino, un dipinto (vv. 97-103):
Above the antique mantel was displayed
as though a window gave upon the sylvan scene
the change of Philomel, by the barbarous king
so rudely forced; yet there the nightingale
filled all the desert with inviolable voice
and still she cried, and still the world pursues,
«Jug Jug» to dirty ears.
La nota di Eliot al v. 98 ricorda, per «sylvan scene», Milton, Para-
dise Lost 4.140, che, come abbiamo visto, dipende a sua volta da
Aen.  1.164. La derivazione miltoniana da Virgilio è scoperta, e non
c’è in Eliot imitazione a finestra; c’è invece l’immagine della finestra,
che chiama in causa l’idea del «riguardante». Il passo di Milton insce-
nava Satana in contemplazione del Paradiso terrestre: lì una barriera
naturale separava il contemplatore dall’oggetto contemplato, e così
anche due condizioni di esistenza. Nella scena eliotiana, in effetti, di
nuovo dall’Inferno si guarda al Paradiso terrestre. Nel boudoir della
Lady il mito è un articolo dell’arredamento: è, cioè, ridotto a cosa,
reso relativo a un ordine temporaneo e arbitrario, iscritto nel tempo
sociale insieme con le altre reliquie in cui si è condensata e cristalliz-
zata un’antica totalità. Ed è elemento di uno «scenario» che attornia e
favorisce il realizzarsi di un evento guasto, di una sterile intimità. Ma
quale immagine inquadrata dalla «finestra» e contenuto della scena
edenica – un «paradiso perduto» – l’usignolo del mito dà sollievo, per
un momento, allo spettatore, ossia, come ha visto Edmund Wilson
(Th.S. Eliot, in Id., Axel’s Castle, New York 1959), al poeta violenta-
to dalla città: lì (vv. 100-101: «yet there […]») vive pura la voce che
la libidine e la ferocia barbariche non hanno potuto violare. Il mito
vive sempre nella metamorfosi di Filomela, ma la sua eco nell’al di
qua – nell’Inferno della città moderna – è raccolta come un rumore
tra i rumori, se non proprio come un suono triviale, di meccanica co-
pulazione. Al v. 103 il suono «Jug Jug», tradizionalmente imitativo
di una nota del canto dell’usignolo (così già in Skelton e Gascoigne,

289
Marco Fernandelli

ci segnala Mario Praz nella sua edizione commentata, Torino 1966 1),
allude a un secondo senso ben diffuso e decisamente osceno; così an-
che ai vv. 203-206 («Twit twit twit / Jug jug jug jug jug jug / so rudely
forc’d / Tereu»), cui rimanda Eliot stesso (ad v. 100).
Per il tema della degradazione del mito, che attraverso l’esempio
scelto coinvolge – come vedremo – due altri temi cruciali del West
Land, la metamorfosi e il poeta, Eliot mira a un risultato di speciale
evidenza e concentrazione. Davanti a sé egli aveva due suggerimen-
ti primari, che la critica mi sembra aver sottovalutato. Da una parte
il fatto che in antico, e in particolare nella tragedia greca, il suono
emesso dall’usignolo è una evocazione concentrata della sua biografia
premetamorfica, cioè del mito che fonda il dato di natura. Il canto
dell’usignolo ripete il lamento di Procne (o di Filomela, da Virgilio in
poi) per la morte del figlio Iti (o Itilo), il nome del quale, iscritto nel
verso dell’uccello, è il memento del trapasso da vicenda particolare e
mitica (la storia di Procne o di Filomela, culminante nella metamorfo-
si) in realtà generale e contenuto dell’esperienza comune (l’esito del-
la metamorfosi, la specie usignolo). Il ricordo individuale si esprime
nel lamento di specie; insistenza e permanenza sono i due versanti
del tempo postmetamorfico, un eterno presente. Ma questo ultimo
aspetto non è quello sviluppato dai racconti antichi. La metamorfosi
dell’eroina in usignolo è interna a un mito tragico, che racconta vio-
lenza, mostruosità, perdita; il canto dell’usignolo è un lamento; chi
ascolta la natura con dottrina intende l’etimo autobiografico, mito-
logico di quel verso animale. L’accento delle versioni antiche è cioè
emotivo-morale e non è posto, pertanto, sulla conversione dell’indivi-
duo in specie (da Philomela: philomela).
Questa regola è invece presente, come abbiamo visto, nella meta-
morfosi di Lamia in lamia, una metamorfosi che dipende dalla lettura
filosofica – cioè disincantata, analitica, normalizzatrice – di un’identi-
tà e di una realtà formatesi in condizioni mitiche: abbiamo anche visto
che in Keats lo svelamento di Lamia come lamia distrugge dall’inter-
no, insieme con i contenuti del racconto, anche le sue condizioni di
esistenza. L’affermarsi nel convito, ai vv. 305-306, del nome comune
«Serpent» (con l’iniziale maiuscola, a marcare il cortocircuito), coinci-
de con la sparizione di Lamia dalla società, ma è accompagnato dalla
dimostrazione psicologica e somatica che il vero serpente è il filosofo
dallo sguardo fisso, affilato, incantatorio. Nel finale di Lamia, Keats

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Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

inscena la sua esecrazione della filosofia come sapere che disanima le


cose svelandole (vv. 221-238); e quindi anche come discorso critico-
didattico che prende il posto del racconto al centro delle relazioni
umane.
L’idea della degradazione moderna del mito, in The Waste Land,
è qualche passo più avanti, ma su questa medesima strada. Nella ca-
mera da letto della Signora della upper class, racconti fossili arredano
le pareti (vv. 104-105: «And other withered stumps of time / were told
upon the walls»). Il quadro che rappresenta Philomela divenuta phi-
lomela è l’oggetto descritto più estesamente: prima della metamorfosi
ella era stata vittima di una libidine capace di travalicare ogni limite
morale; ora, nel presente generico della realtà sterile, senza prospet-
tive, orecchie qualunque scambiano la voce inviolabile dell’usignolo
per uno sfregamento di parti genitali. In mezzo – tra quel fondante
«prima» e quello stagnante «ora» – il contemplatore della scena sil-
vana, per la durata della descrizione lirica, vede l’evento mitico della
metamorfosi e sente il canto che, inviolabile, riempie il quadro. Es-
so dunque rispecchia, da un lato, l’elemento vitale dell’interiorità, e
dall’altro è adatto a formare lo scenario dell’evento imminente, l’eros
sterile di figure sociali, senza volto.
L’idea dell’incontro erotico in presenza di un esempio artistico
che lo anticipa e lo accompagna viene a Eliot, come ha ben visto Gior­
gio Melchiori (Echi nel «Waste Land», in Id., The Tightrope Walkers,
London 1956), dal Cymbeline di Shakespeare (2.2-4), dove, in un pae­
saggio domestico ricco di suggerimenti per l’arredo del boudoir della
Lady, compare anche il libro che Imogene aveva letto fino a tarda
notte (2.2.44-46): il suo non visto insidiatore, Jachimo, scopre da un
segno su una pagina che la lettura si era interrotta all’interno della
storia di Tereo, «là dove Filomena cedette». Il mito anticipa il fatto
in essere; questa è una buona sollecitazione per il metodo di Eliot,
poiché tutto l’insieme shakespeariano diviene una preesistenza – nella
sostanza e nel metodo – rispetto alla situazione di A Game of Chess.
Ma va anche notato che la versione del mito del Cymbeline è diversa
rispetto a quella che ci dà Ovidio nel sesto delle Metamorfosi e che
Eliot (ad v. 99) indica come fonte di tutto il suo passaggio. Jachimo,
che insidia la fedele Imogene e che aveva cercato con ogni mezzo di
indurla a un cedimento, conosce una versione del mito, confermata
nel libro, in cui «Filomena cedette». Questa versione inserisce nella

291
Marco Fernandelli

storia classica un dettaglio morboso, conformandola al particolare im-


pianto drammatico di cui è parte. Successivamente, quando Jachimo a
Roma descrive la camera da letto di Imogene, egli nomina un camino
decorato con Diana al bagno e dice di non aver mai visto «figure più
parlanti»; figure effigiate da uno scultore di abilità superiore alla natu-
ra, «ma senza parola» (2.4).
Non c’è dubbio che questa sia la base per una imitazione eliotia-
na, insieme allineata e in contrappunto, che concentra più dettagli del
modello in un unico quadro: essa parte dal motivo (l’arredo decora-
to, specchio della situazione), procede nel soggetto (il mito classico,
segnatamente la storia di Tereo e Filomena) e scende nei particola-
ri (il canto insistito dell’usignolo, che vive nel quadro, di contro al
mutismo delle «figure parlanti» nella descrizione di Jachimo). Vista
nei termini di una ekphrasis dotta – che assorbe le proprietà del suo
modello primario e le raffina e le potenzia per mezzo di nuovi ap-
porti – la rinascita moderna del mito di Philomela fa emergere alcuni
dati che interessano il filologo classico. In primo luogo, così come fa
Shakespeare, anche Eliot piega al suo scopo alcuni contenuti del mi-
to citato. Perché, se alla storia si guarda come a una «scena silvana»,
l’usignolo – che è effettivamente un cantore silvano – «riempiva il de-
serto di voce inviolabile»?
Il particolare del «deserto» è importante, perché di qui si avvia,
passaggio dopo passaggio, la contrometamorfosi che riporta alla si-
tuazione dell’amplesso, ora ridotto a meccanismo (v. 103): essa ha
per soggetto appunto il canto dell’usignolo e presuppone di nuovo
un astante, questa volta non un osservatore ma un ascoltatore; e un
ascoltatore generico, che accompagna, con il degrado della sua di-
sposizione di ascolto («dirty ears»), il degradarsi retro-metamorfico
del mito («Jug jug» […]). Quel deserto è «tutto riempito» dalla voce
«inviolabile» dell’usignolo: le due espressioni assolute («filled all, in-
violable») riguardano spazio e tempo, e sono enunciati di forza avver-
sativa rispetto a un’idea di negazione (il deserto, lo stupro): sono cioè
immagini di rinascita, che investono la relazione tra il contemplatore
e il suo oggetto, ovvero tra il poeta e l’usignolo, tra la voce liricamente
intonata – per un momento – e quell’inviolabile voce che riempie tutto
il suo ambiente. La voce dell’usignolo, che è dappertutto e per sempre,
riscatta dunque la vicenda del mito (al posto del mutismo di Philome-
la, l’inviolabile voce di philomela), rappresentando in sé l’evento della

292
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

rigenerazione. Altrove, nel finale del suo poema (v. 428), dove ha in


mente il Pervigilium Veneris, Eliot connette il mito di origine dell’usi-
gnolo con l’attività del poeta: nel suo modello (vv. 85-93), le due so-
relle trasformate, la puella Terei che canta all’ombra del pioppo e la
rondine che segnala l’avvento della primavera, sono stimolo per il poe­
ta che vuole ritrovare la sua vena di canto. L’emistichio riportato da
Eliot – Quando fiam uti chelidon – nell’originale completa la domanda
con le parole ut tacere desinam?, evidentemente alludendo al fatto che
Philomela (nel poemetto latino destinata alla metamorfosi in rondine)
era rinata recuperando per sempre la voce dopo la mutilazione. In lei
il ritorno della voce e l’annuncio della primavera si identificano.

La pertinenza del mito di Philomela in A Game of Chess è dunque


almeno duplice: esso riguarda la scena erotica, ma anche il poeta che
riconosce la metamorfosi per ciò che è, avverte il significato del cam-
biamento («yet there the nightingale / filled all the desert with inviola-
ble voice»), e in esso brevemente – liricamente – rispecchia la propria
condizione. L’usignolo è il modello naturale, non mitico, del poeta; il
modello mitico è piuttosto Orfeo, o uno degli altri grandi cantori che
hanno istituito, in un’epoca remotissima, l’arte dei carmi, il cui potere
è insieme catartico e incantatorio. Il poeta per eccellenza, Orfeo, e
l’usignolo nominato come philomela (per la prima volta in latino) so-
no posti in relazione in una similitudine celeberrima delle Georgiche
(4.507-515), in cui il tertium comparationis è dato dal lamento dell’uno
e dell’altra (flesse, v. 509 / flet, v. 514) per un dolore inconsolabile:
Septem illum totos perhibent ex ordine menses
rupe sub aëria deserti ad Strymonis undam
flesse sibi et gelidis haec evolvisse sub astris
mulcentem tigris et agentem carmine quercus:
qualis populea maerens philomela sub umbra
amissos queritur fetus, quos durus arator
observans nido implumis detraxit; at illa
flet noctem ramoque sedens miserabile carmen
integrat et maestis late loca questibus implet.

Come si sa, questo complesso poetico – racconto-immagine – è l’esito


di una meditazione ricca di componenti (idee critico-letterarie, remi-
niscenze testuali, combinazioni di toni e registri), attentamente sele-
zionate e orchestrate; è anzi uno di quei punti delle Georgiche in cui

293
Marco Fernandelli

la comprensione del significato, nella realtà dei suoi gradi e della sua
direzione, dipende largamente dall’intelligenza del processo compo-
sitivo. Si tratta dunque di un luogo di speciale attrattiva per il lettore
dotto nel senso antico, e cioè per il lettore attivo, che sa «seguire sullo
spartito» il flusso dei contenuti; o meglio ancora per il lettore-poeta.
Consideriamo ora il testo da vicino: l’illustrandum tratta come
fuga all’indietro (strato di perhibent; di flesse/evolvisse; di haec) la
sospensione del destino di Orfeo (Septem […] totos […] ex ordine
menses). «Ciò che accadde a Orfeo» è il tema di un racconto svol-
to al passato per spiegare le circostanze presenti (moria delle api di
Aristeo). L’illustrans passa invece dal presentare una realtà naturale
permanente (populea maerens […] sub umbra), a un segmento di rac-
conto biografico (queritur fetus, quos […] detraxit) che traspone la
premessa mitica suggerita (philomela = Philomela?) in uno scenario di
comune vita campestre. Di qui riprende vita il quadro iniziale (qualis
[…] queritur), ma con una dilatazione ad infinitum dell’atto presente
(flet/integrat/implet): ora infatti la permanenza del dato naturale – il
lamento dell’usignolo – è mostrata come esito della gravità di un fat-
to biografico particolare, il rapimento dei figli, e come espressione di
uno stato psicologico irrisolvibile, il lutto.
Mentre insomma l’illustrandum richiede l’ausilio dell’immagine
in quanto eccezionale sospensione del flusso vitale-narrativo, che va
secondo logica dal passato al presente, l’illustrans procede al con-
trario, ed eccezionalmente introduce un dato narrativo (l’agguato
crudele dell’arator) per guadagnare il massimo di sensibilità al fatto
permanente, al canto – che è tutt’uno con il maeror – dell’usignolo
«mutilato», privato al contempo dei figli e del suo destino di madre.
Si è molto insistito sulla corrispondenza multipla tra illustrandum e
illustrans in questa similitudine, ma va preliminarmente notato che le
corrispondenze particolari rifiniscono relazioni di più larga portata:
1. Nell’illustrandum è in evidenza lo spazio, nell’illustrans il tempo.
Grandiosità e gelo dello scenario deserto accentuano l’idea di soli-
tudine (Orfeo); l’ossessiva ripetizione del lamento esprime l’impo-
tenza e lo strazio dopo la violenza subìta (philomela). Septem […]
totos […] ex ordine menses (v. 507), in quanto iperbole, si allinea
alle iperboli dell’inquadramento spaziale caratteristiche dell’il­
lustrandum; la notazione spaziale dell’illustrans – late loca (v. 515) –
trapassa invece nell’effetto temporale come icona dell’eco, cioè

294
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

della ripetizione del lamento: esso satura, in un presente senza via


d’uscita, tutto lo spazio mentale.
2. L’illustrandum è mito, l’illustrans è vita comune, realtà dell’am-
biente georgico. Virgilio ha qui evitato di illustrare una situazione
mitica con un’altra – basta immaginare ciò che ha evitato per com-
prendere immediatamente la sua scelta – ma ha lasciato latenti i
ruoli del mito alle spalle degli attori georgici. Il nome philomela è
conversione in nome di specie del nome personale del mito, Philo-
mela; nessuno ha finora notato, per quanto ne so, che il raro obser-
vo (vv. 512-513 durus arator / observans), prima usato da Virgilio
solo un’altra volta (georg. 4.212), è calco semantico di thršw (sul
contemplare avidamente la preda da parte di ThreÚj-Te–reus, cfr.
Ov. met. 6.478, 514). Nel mito il canto lamentoso dell’usignolo è
l’esito della metamorfosi della madre addolorata che piange il figlio
perduto. In Virgilio non c’è ovviamente ricordo di una metamorfo-
si fondante, ma il nome philomela – un grecismo – sembra glossato
dal suo contesto: una causa particolare, episodica, biografica, è
assunta in una dimensione superiore, paradigmatica, con il sugge-
rimento di una eziologia del nome di specie (intendendo philo- co-
me prefisso di abitudine, e con la licenza di suggerire nel secondo
elemento del composto, -me–la, una derivazione da mšloj). Secondo
questa paretimologia philomela, l’usignolo, è l’uccello «che sempre
canta».
3. L’illustrandum è racconto, l’illustrans è esempio; il tempo-base
dell’illustrandum è il passato, quello dell’illustrans il presente. La
solitudine di Orfeo in Scizia «per sette interi mesi» è sintagma, il la-
mento dell’usignolo in campagna, ininterrotto, echeggiante in ogni
luogo, è paradigma.
Insomma: un doppio ordine di rapporti lega illustrandum e il­
lustrans nella similitudine virgiliana. C’è un effetto di giustapposizio-
ne, marcato subito dall’attacco con qualis, che favorisce l’intendimen-
to complementare dei due quadri; e c’è un effetto di intreccio, che
pone su nuova base – biotica e psicologica – la relazione ideale tra il
migliore dei poeti e il più canoro tra gli uccelli. La storia di Orfeo e la
similitudine dell’usignolo sono poi contenuto del racconto commosso
di Proteo, che – come Sileno nella sesta ecloga – narra incantando.
Comunque si interpreti questa stratigrafia, non c’è dubbio che essa
impegni l’idea che Virgilio ha di sé come poeta.

295
Marco Fernandelli

Torniamo dunque a Eliot. Io credo che l’aporia «sylvan sce­ne»/­


«desert» sia esito dell’imitazione del passo virgiliano ora discusso,
con:
• deserti Strymonis = «desert»;
• miserabile carmen / integrat et maestis late loca questibus implet =
«filled all the desert with inviolable voice»;
• at illa / flet = «and still she cried».

Credo che il testo georgico spieghi anche il difficile passaggio «yet


there the nightingale / filled […] and still she cried, and still the world
pursues», una brusca transizione da passato a presente che Edmund
Wilson intendeva come recessione del mito in ordinaria attualità: essa
riflette quella giustapposizione virgiliana dell’illustrandum (al passato)
e dell’illustrans (al presente di permanenza), che credo avesse colpito
la sensibilità di Eliot con l’inversione dei ruoli tra mito e vita comune,
la seconda portata nel rango del paradigma, grazie anche all’autorità
culturale e psicologica dei motivi latenti nel testo dell’illustrans.
Ma il paradigma campestre-quotidiano dell’evento mitico è an-
che, in figura, un richiamo alla sproporzione che si è creata su scala
ben più ampia tra il discorso didascalico (istruzioni sull’allevamento
delle api) e la sua illustrazione narrativa (l’aition della bougonia, in cui
è iscritto l’«epillio» di Orfeo): la dialettica dei generi, nel finale delle
Georgiche, è un dato della struttura che suscita interrogativi intorno
al compito che Virgilio attribuisce al poeta e al fondamento artistico
della poesia: la questione si è posta come un interesse centrale alla cri-
tica virgiliana negli ultimi decenni. Mentre si eclissa il dolore mitico di
Orfeo, le Georgiche si chiudono portando a effetto le lodi di Aristeo,
e dunque celebrando il miracolo georgico della bougonia, la tecnica
appresa, e poi tramandata, dal pastore-benefattore «che fece rinascere
la vita dalla morte».
Come si è già visto, nel finale di The Waste Land il mito di Fi-
lomela è collegato contemporaneamente al ritorno della primavera
e all’ispirazione del poeta: così, come sottolinea nel suo commento
Mario Praz, il «richiamo al Pervigilium Veneris, il canto della fecondi-
tà primaverile, dell’umidità generatrice, riconnette la fine del poema
col principio (‘Aprile è il più crudele dei mesi …’)». La nota di Eliot
al v.  428 rimanda esternamente al Pervigilium Veneris (vv. 85-93) e
internamente a «Filomela nelle parti II e III». Nel passo antico chia-

296
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

mato in causa, il v. 86 adsonat Terei puella subter umbram populi è


un’evidente eco del primo verso della similitudine virgiliana, qualis
populea maerens philomela sub umbra (georg. 4.511). Dunque corri-
spondenze ideologiche, strutturali, di contenuto, di dettaglio lingui-
stico mi sembrano garantire la presenza del passo delle Georgiche tra
i modelli di quella «caduta del mito» di cui si legge ai vv. 97-103 di A
Game of Chess.
Vorrei concludere questa rassegna con un ultimo confronto,
che propongo come un’ipotesi da collegare a quanto già detto. Ad
Aen.  8.18-25, l’eroe troiano è in preda al turbamento. Il suo animo
fluttuante tra diverse valutazioni e decisioni è illustrato da un’immagi-
ne celebre (vv. 22-25), che Virgilio deriva da una similitudine – eviden-
temente già celebre – di Apollonio Rodio (Argonautiche 3.755 ss.):
sicut aquae tremulum labris ubi lumen aënis
sole repercussum aut radiantis imagine lunae
omnia pervolitat late loca iamque sub auras
erigitur summique ferit laquearia tecti.

Come si vede, questo passo ha in comune laquearia con laquearibus


di Aen. 1.726 (base dichiarata dell’eliotiano «laquearia» al v.  92);
e [omnia pervolitat] late loca con late loca [questibus implet] di
georg. 4.515 (base dissimulata di «yet there the nightingale / filled all
the desert with inviolabile voice», ai vv. 100-101 del testo di Eliot). Da
una fonte naturale (il raggio del sole o della luna) la luce raggiunge in
un interno una superficie liquida, che tremula la riverbera in ogni luo-
go, facendola ascendere verso l’alto – dall’alto la luce era venuta – fin-
ché il riflesso luminoso, in un terzo segmento descrittivo (omnia […]
iamque […] summique), raggiunge la sommità chiusa di quell’ambien-
te, rivelandolo come la lussuosa sala di un palazzo: summique ferit
laquearia tecti (v. 25). La costruzione sonora traghetta l’immagine da
tremulum […] lumen (rinforzato al v. 23 da lunae) fino a laquearia, fa-
cendo perno su pervolitat late loca, il sintagma cui è assegnato il com-
pito di far vibrare tutto l’ambiente per mezzo del tremolio della luce
(notevole l’imitazione – quasi epesegetica – in Sil. Ital. 7.143-145 sicut
aquae splendor radiatus lampade solis / dissultat per tecta vaga sub ima-
gine vibrans /luminis et tremula laquearia verberat umbra). La tecnica
compositiva, nel verso che suggella l’illustrans, è molto simile a quella
adottata nella chiusa della similitudine georgica, con una coppia di

297
Marco Fernandelli

ver­bi che si bilanciano, il primo in rejet (integrat […] / erigitur […]),


il secondo che ribadisce, precisandolo, il significato del primo ([…]
implet / […] ferit); in entrambi i casi i due verbi appartengono a una
serie ternaria (flet/integrat/implet; pervolitat/erigitur/ferit) che pro-
gressivamente completa l’immagine, per fissarla infine nel suo aspetto
più significativo. Nel passo dell’ottavo libro il termine del movimento
è amplificato dall’accumularsi dell’idea di «sommità», summique ferit
laquearia tecti, cui la descrizione del moderno boudoir risponde con
la sinonimia in epifora dei vv. 91-92: «[…] laquearia / […] coffered
ceiling».
Se ora riconsideriamo più estesamente il passo eliotiano, possiamo
osservare che il dettaglio dei lychni che pendono dai laquearia (Aen.
1.726-727) manca di una rappresentazione degli effetti di luce, la qua-
le si trova invece in forma molto elaborata nell’immagine dell’ottavo
libro dell’Eneide, dove il particolare dei laquearia è culminante (co-
me nel primo libro) e ben sottolineato (più che nel primo libro). In
Eliot abbiamo – mi pare – una sintesi di questi due spunti, poiché le
fiammelle che salgono dalle «lampade» del boudoir (le candele) pro-
ducono sui lacunari un effetto luminoso simile a quello che ci colpisce
nell’ottavo dell’Eneide. La costruzione eliotiana è ben interpretata da
Mario Praz, a tutt’oggi il miglior traduttore in italiano di The Waste
Land:
[gli odori] mossi («stirred») dall’aria
che ventilava dalla finestra, ascendevano
alimentando le allungate fiamme delle candele,
soffiavano il loro fumo sui laquearia,
facendo tremolare («stirring») il disegno del soffitto a lacunari.

Dopo il particolare dei soffitti c’è passaggio al racconto – cioè ai fatti –


in entrambi i passi dell’Eneide, passaggio ai «pezzi di tempo» – cioè al
mito – nel testo di Eliot.

Vengo alle conclusioni. In A Game of Chess la descrizione del boudoir


dove si celebrerà l’incontro erotico è divisa in due quadri, che rispetti-
vamente accolgono l’insieme della stanza con il suo centro e gli oggetti
che la decorano. Ogni cosa ha due valori, uno nell’ordine della stanza,
un altro nell’ordine del testo. Nella stanza le cose sono state scelte
secondo la funzione, nel testo secondo l’origine: sono costituenti – at-

298
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

mosferici o strumentali – dell’atto di seduzione nel primo caso, tessere


del mosaico culturale nel secondo. Le eccedenze di identità che gli
oggetti hanno rispetto alla loro funzione di arredi sono assunte nella
sintassi del mosaico e rigenerate come strumenti della significazione.
Ciò si verifica bene in concreto. La sedia, i Cupidi, le torce, il
soffitto lavorato (primo quadro), il ceppo marino con il delfino, il
camino con la decorazione mitologica (secondo quadro) sono «pezzi
d’antiquariato» e insieme «pezzi» shakespeariani, cioè brani lettera-
ri omogenei assemblati in una nuova cornice. Ad essi è assegnato il
compito di una super-significazione, che sortisce dall’investire nel-
la sintassi delle parti il pieno valore paradigmatico – evocativo – di
ciascuna di esse. Alla logica decorativa dei «pezzi d’antiquariato» si
oppone dunque la logica semantica delle citazioni letterarie: mentre
il boudoir della Lady è un interno della «città irreale» in cui si ce-
lebrano rapporti vuoti, rapporti che nell’esprimersi attraverso cose
estendono la sterilità, la parola che descrive quelle cose, sostanziata
di autorità culturale, resa fluida dalla coesione dei suoi momenti, è
parola di comunicazione: la ricerca di oggettività – parlare con la vo-
ce della cultura, realizzare i nessi che rendono le citazioni coerenti
tra loro e necessarie all’insieme – è tutt’uno con la responsabilità del
significato e con il concretarsi della critica della desolazione in opera
di poesia. Nella «scena silvana», diceva Edmund Wilson, si specchia
per un momento il poeta; Philomela comporta un ragionamento del
poeta su se stesso. Ciò accade nel boudoir della Lady e nell’explicit del
poema, quando la fine – l’annuncio della primavera, il presentimen-
to dell’ispirazione – si ricongiunge all’inizio – «April is the cruellest
month», così cominciava la poesia una volta pronta.
Torniamo al testo e alla sua organizzazione. Va notato che l’arre-
do della stanza di Imogene nel Cymbeline offre elementi per il primo
così come per il secondo quadro eliotiani; e che su questa base è stata
operata una variazione assai significativa rispetto al metodo del poeta.
Eliot ha infatti introdotto, in capo alla sua descrizione, il seggio della
Lady («The Chair she sat in […]») – un oggetto assente dal modello
base – dichiarando in nota la sua derivazione dall’Antony and Cleo-
patra; ma anche in questa innovazione egli è stato «autorizzato» dal
Cymbeline: nella stanza di Imogene c’erano arazzi che rappresentava-
no «la storia dell’altera Cleopatra quando incontrò il suo romano». Si
tratta dunque di un metodo che individua elementi contigui o comuni

299
Marco Fernandelli

tra i modelli, allargando così la base imitativa per via di associazio-


ne o sostituzione. Dunque Eliot traccia innanzitutto una cornice e
le linee di un paesaggio domestico shakespeariani; ma Imogene è il
contrario della sua Lady. All’interno del boudoir si muove infatti una
Circe moderna, che manipola insidiosi profumi-filtri (vv. 86-88), e che
come la Circe virgiliana è invisibile, resa presente in modo indiretto,
dal suo effetto sui sensi, attiva in un ambiente in cui, come accade in
Aen. 7.12-13 (tectisque superbis / urit odoratam nocturna in lumina
cedrum), aromi seducenti si uniscono al fuoco – delle candele (v. 91:
«candle-flames») o di un focolare (v. 108: «firelight») – che dà la luce
interna. È difficile però dimostrare una dipendenza diretta di Eliot da
Virgilio per gli aspetti «magici» della sua Lady. In A Game of Chess
la fusione di aromi e fuoco, un motivo atmosferico cruciale nel primo
quadro, è sviluppato piuttosto secondo la descrizione del banchetto
di Lamia in Keats, donde Eliot trae anche il particolare barocco del
raddoppiamento delle luci per mezzo di specchi. Questo imprestito
apre però all’invenzione eliotiana il repertorio del banchetto classico,
anche perché il poeta dotto moderno comprende che alle spalle del
banchetto di Lamia si trova il banchetto cartaginese di Didone. Nel
tempo è stato facile vedere in Didone una allegoria della storica re-
gina africana, Cleopatra. Secondo Melchiori la memoria di Algernon
Charles Swinburne, che in Notes on Designs of the Old Masters at
Florence accostava Lamia a Cleopatra, suggerì a Eliot i termini della
combinazione di Keats con Shakespeare, specie nel finale della de-
scrizione; ma ciò significa che in questo quadro Didone – modello di
Lamia, allegoria di Cleopatra – ha una pertinenza addirittura duplice.
«Laquearia» (v. 92) e il soggetto mitologico che decora la parete
sopra il camino (vv. 97-103) sono le due reliquie classiche che com-
paiono, una per quadro, in questa prima sezione di A Game of Chess.
Forse il poeta, intento a una ricerca dotta su laquearia, si era imbat-
tuto nel passo dell’ottavo libro dell’Eneide, che di laquearia presenta
l’unica altra occorrenza, magari da questa rarità deducendo anche la
caratura stilistica del termine (il suo testo ne presenta una chiara co-
scienza). Oppure, egli era partito dalla familiarità diretta con la simi-
litudine dell’ottavo, un passo noto di un contesto ancor più noto, che
gli era senz’altro utile per lavorare al motivo barocco dei giochi di luce
sul soffitto – un particolare, quest’ultimo, che non si ritrova in effetti
nei suoi modelli maggiori. Come che sia, mentre la camera di Imogene

300
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)

nel Cymbeline è il modello latente barocco che forma l’ossatura dei


due quadri eliotiani, fondandone gli sviluppi particolari, così, su uno
strato soprastante, la similitudine virgiliana del raggio riflesso appare
quale latente trait d’union tra i due motivi classici di A Game of Chess,
che nel testo di Eliot risultano come isolata emergenza di Aen. 1.726 e
come dissimulato ripensamento di georg. 4.507-515. Dunque come un
singolo poeta – e cioè Shakespeare – è il dominante auctor moderno
di Eliot in questi versi, così un singolo poeta è il suo primo referente
classico – e cioè Virgilio.
In The Waste Land, si è detto, la cultura è il materiale su cui si
esercita l’inventio; e la cultura è pensata come tutta presente su unico
piano alla coscienza moderna educata: Eliot afferma testualmente che,
in chi ha sensibilità per ciò che conosce, «l’intera letteratura europea a
partire da Omero […] ha un’esistenza simultanea»; solo un passo più
avanti si trova il senso, che egli considera come fondamento del «me-
todo mitico» joyceano (e poi suo), «che ogni cosa accada simultanea­
mente». Per analogia, in questa visione sincronica dei processi della
coscienza, anche i nessi essenziali interni a una singola opera risultano
quelli del senso piuttosto che quelli del racconto, quelli tematici piut-
tosto che quelli sintagmatici.
Laquearia e late loca, espressioni coesistenti nel testo dell’ottavo
libro dell’Eneide, rappresentano con laquearia di Aen. 1.726 e con il
nesso ecolalico late loca di georg. 4.515 (anche qui nell’illustrans di
una similitudine) l’unità «nella mente» del poeta imitato. Scegliendo
oculatamente i frammenti con cui «puntellare le sue rovine», Eliot
assorbe dunque dall’originale anche un principio generativo e una
forza d’insieme. Come Shakespeare con la materia del Cymbeline, così
Virgilio lo aiuta a gettare un ponte invisibile, un ponte «classico», tra
i due quadri della sua descrizione. È in questo modo che Eliot trasfi-
gura la virtù della parte nella regola del tutto: nel passaggio da inven-
zione a composizione, le «tessere» (citazioni da almeno trentacinque
autori), cedono all’effetto d’insieme, al «mosaico», il loro principio
costitutivo, e cioè la concentrazione in frammento di un’antica, com-
plessa, autorevole unità.

301
Massimo Gioseffi
Dalla parte del latino
Citazioni classiche
in tre autori del Novecento *  

È credenza di molti che l’universo si racchiuda in un punto; altri so-


no invece convinti che da un punto si possa far scaturire un intero
universo. Non è perciò insolita la presunzione di utilizzare un singolo
dettaglio per rivelare un mondo e un modo di fare, di avvalersi di
una visuale particolare per illuminare il complesso di un’opera, di
una biografia, di un tema. Forse non sempre avviene così. Però è vero
che l’assunzione di uno specifico punto di vista, per quanto limitato
e limitativo, non manca di consentire annotazioni interessanti, se non
proprio inattese o sorprendenti (e, certo, mai esaustive). Non si tratta
di un’affermazione originale: siamo piuttosto di fronte a quella che
è stata chiamata, assai a proposito, la «tecnica del riflettore», e che
consiste – con tutti i limiti che questo comporta – nel «gettare molta
luce su un aspetto di un problema lasciando nell’ombra, o al buio,
altri aspetti» 1.


* Vado debitore di segnalazioni e suggerimenti a Giuliano Cenati, Bruno
Pi­schedda, Tiziana Privitera e Riccardo Scarcia, che hanno letto, in toto o in parte,
queste pagine. Vorrei dedicarle a Davide Casati, che mi ha iniziato alla lettura di
Benni.
1
G. Orelli, Per Erika Burkart, «Cenobio» 55, 2006, p. 299, in riferimento a
E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur,
Bern 1946 (ed. ital. Torino 1956).

303
Massimo Gioseffi

Dopo una simile premessa, e con la necessaria aggiunta, nel mio


caso, che nel tentare un’impresa fuori dal proprio repertorio non si
può poi pretendere di dominare completamente il nuovo repertorio,
vorrei proporre l’analisi di alcune citazioni latine in tre autori del
Novecento italiano, e cioè – nell’ordine cronologico di nascita – Elsa
Morante (1912-1985), Franco Fortini (1917-1994) e Stefano Benni
(1947-). Esempio preclaro, tutti e tre, della permanenza dei classici
nella cultura della nostra epoca, ma anche dell’uso e del ri-uso da essi
subìto: non per nulla le «riprese» che analizzeremo sono, in realtà,
espliciti tradimenti, mai citazioni fedeli o rispettose del contesto entro
il quale originariamente comparivano.
Tutti «abbiamo fatto il classico» scrisse un giorno, con la sobrietà
e l’eleganza che la caratterizzavano, Lalla Romano 2. L’affermazione si
può ripetere per i nostri autori, e per molti e molti ancora. Sebbene
l’insorgere della cultura borghese – una nuova classe e un nuovo modo
di porsi (o supporsi) davanti al mondo e alle cose – abbia cercato di
demolire, almeno a parole, le strutture e i credi dell’Ancien Régime, di
nessuna di quelle strutture e di quei credi ci si è liberati per davvero.
Nei romanzi ottocenteschi numerosissimi sono gli attacchi contro il
sapere classico, legato al vecchio mondo, ancorato a una tradizione di
scuola che si vorrebbe superare e modificare, a una serie di esigenze e
di distinzioni sentite ormai come inattuali (il cavaliere Des Grieux, al
contrario, poteva ancora pensare di consolarsi dei tradimenti di Ma-
non scrivendo un commentario al quarto libro dell’Eneide …) 3. Ma
quanto più numerosi sono gli sfoghi e gli attacchi, tanto più numerose
sono le testimonianze dell’incapacità di scrollarsi di dosso quella cul-
tura e quella formazione, che nella scuola e nella sua immota moti-

2
L. Romano, Ancora gli dèi, «Il Giornale», 6 marzo 1989, poi in Ead., Un
sogno del Nord, Torino 1989 (= Ead., Opere, a cura di C. Segre, Milano 1992, II,
p. 1393, da cui cito).
3
«Les lumières que je devais à l’amour me firent trouver de la clarté dans
quantité d’endroits d’Horace et de Virgile, qui m’avaient paru obscurs auparavant.
Je fis un commentaire amoureux sur le quatrième Livre de l’Énéide; je le destine
à voir le jour, et je me flatte que le public en sera satisfait. Hélas! Disais-je en le
faisant, c’était un coeur tel que le mien qu’il fallait à la fidèle Didon» (A. Prévost
d’Exiles, Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut, p. 67 nell’edizione
a cura di C. Jaquier, Paris 2001, di cui mi avvalgo). La curatrice commenta (ivi,
p. 267): «On voit ici que Des Grieux, dans la retraite […], songe […] à une carrière
d’homme de lettres», ma credo che le sfugga il senso del passo.

304
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

lità ha sempre trovato l’aiuto per tenersi a galla. «La sopravvivenza


dell’arte greca […] è stata assicurata da un prodigioso relais culturale,
da Orazio a Canova, che ci rende parlanti gli scorticati marmi di Lord
Elgin. (Negli intervalli del relais, i contadini feudali fondevano tran-
quillamente i bronzi pagani)» scriveva Franco Fortini, uno dei nostri
autori 4. Siamo noi che diamo valore ai testi del passato, che ne deci-
diamo o meno l’irrinunciabilità. Nello stesso tempo, però, non pos-
siamo fingere che ciò che è stato non sia stato, non possiamo negare,
dimenticare o anche solo sottovalutare una continuità che congiunge
tremila anni di letteratura, che ha imposto scelte, stabilito gerarchie,
conoscenze comuni – giuste o ingiuste, discutibili o integrabili, modi-
ficabili e modificate di fatto nei secoli, perché anch’esse nella Storia
e con la Storia  – ma che se eliminate del tutto rischiano di rendere
incomprensibile il procedere delle generazioni passate, di falsificare,
con la coscienza di farlo, una vicenda, un’evoluzione, un cammino.
Chiuso questo preambolo, passo alle proposte di lettura: volte a
dimostrare non solo la presenza dei classici nella cultura degli autori
in esame (un dato che si poteva ritenere scontato in partenza), ma
anche l’uso diversamente affinato che ne è stato fatto, in relazione a
un pubblico di lettori mutato nelle sue competenze, nel sapere, nelle
informazioni di base che l’autore può pensare di attribuirgli – e quindi
dei giochi che, in virtù di quelle informazioni, gli è possibile innesca-
re. La mia ambizione sarebbe di indicare così non tanto la persistenza
dei classici in epoche lontane da quella antica o l’importanza della co-
noscenza dei classici per chi voglia fare indagini sul Novecento – due
constatazioni che non abbisognerebbero di essere illustrate – quanto
piuttosto che l’adozione di un’ottica particolare può divenire anch’es-
sa uno strumento utile per ricavare notizie, giudizi, dati sugli autori
oggetto di studio, fino a farsi cartina al tornasole (una delle molte,
possibili cartine al tornasole) per la valutazione di opere distanti fra
loro, ma vicine a noi e al nostro tempo.

4
F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie,
Torino 1965, 19893, p. 161 = Id., Saggi ed epigrammi a cura di L. Lenzini, Milano
2003, p. 204 (da cui cito).

305
Massimo Gioseffi

1. Elsa Morante, «Prima della classe»

Partiamo allora da Elsa Morante e dal racconto Prima della classe. Si


tratta di un testo pubblicato il 17 giugno 1939 nella rubrica «Giardino
d’infanzia» del settimanale «Oggi» e mai più ripreso dall’autrice, che
non lo inserì né nella raccolta di novelle del 1941, Il gioco segreto, né
in quella del 1963, Lo scialle Andaluso. È stato riedito, a mia noti-
zia, soltanto nel primo dei Cahiers Elsa Morante e poi nel volume dei
Racconti dimenticati (senza fornire notizia di quel precedente) 5. Quale
allora la ragione del suo interesse? Vi si narra la storia di una bambina
di nome Elsa, che ha – come d’usuale – molti tratti che l’accomunano
all’autrice (a cominciare dal nome), pur non potendosi identificare con
essa 6. Elsa è una enfant prodige: a due anni e mezzo ha composto il suo
primo poema in versi sciolti, ora scrive delle opere in rima; a scuola è
sempre stata portata ad esempio ai compagni, venendo considerata
dagli adulti che la circondano come un genio, la prima della classe –
da ciò il titolo del racconto 7. Isolata per tutti questi motivi e tenuta
lontana dalla confidenza dei coetanei, Elsa non è però felice: vorrebbe

5
E cioè, rispettivamente, in J.-N. Schifano - T. Notarbartolo (a cura di),
Cahiers Elsa Morante 1, Napoli 1993, pp. 67-69, e I. Babboni - C. Cecchi (a cura
di), Elsa Morante. Racconti dimenticati, Torino 2002, pp. 225-227 (da cui traggo le
citazioni).
6
A ragione si è parlato di «autobiografismo psicologico (non realistico)»
per i personaggi della Morante, pur senza specifico riferimento a questo: cfr. E. e
C. Sgorlon, Profilo di Elsa Morante, in Cahiers Elsa Morante 1 cit., p. 18.
7
Tutti i dettagli tranne uno trovano un preciso parallelo nella biografia della
scrittrice (o, meglio, in quella sorta di biografia di cui la Morante si compiaceva),
stando ad affermazioni da lei ripetute in più occasioni. Anche l’esibizione di fronte
alle amiche della madre ha una corrispondenza nella realtà, sebbene con le riserve
formulate sopra: l’episodio però non sarebbe avvenuto nella casa paterna, ma
presso la madrina di battesimo della futura narratrice, la marchesa Maria Guer-
rieri Gonzaga, che ospitò Elsa bambina nella sua villa al Nomentano. Dopo anni,
la scrittrice ancora ricordava: «Là, le nobili teste della capitale mi chiedevano di
recitare delle poesie, di interpretare dei ruoli di teatro, ed ero follemente applau-
dita. Noi avevamo, con i bambini ricchi e nobili ed i bambini della servitù, creato
un piccolo teatro, e ci travestivamo e davamo delle rappresentazioni. Ero adulta,
ben nutrita, ben vestita, ma in mezzo a tutto questo lusso, rimpiangevo la mia casa
del Testaccio …» (J.-N. Schifano, La divina barbara, in Cahiers Elsa Morante 1 cit.,
pp. 12-13). Come che siano andate le cose, è chiara la volontà di prestare alla Elsa
del racconto molti tratti della Elsa reale e poi, a distanza, di ricostruire una biografia
della Elsa reale rimodellandola su quella del racconto.

306
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

essere trattata come gli altri, bambina fra i bambini, apprezzata per le
sue doti fisiche e di simpatia, non solo per le capacità prodigiose:
Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e
colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperata-
mente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica
e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà
quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano
recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La
direttrice mi presentava al pubblico dicendo: «Signori, devo premet-
tere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui
presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo
dinanzi a un genio». Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi
lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi
delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Mar-
cella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena
di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboc-
cante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando
intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti.
Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un
simile prodigio.

L’insoddisfazione si tramuta in un precoce male di vivere: Elsa è sgar-


bata con gli adulti, che l’ammirano, la lodano, la esibiscono come un
fenomeno da baraccone, ma non la comprendono davvero; non crede
alle manifestazioni d’interesse degli altri bambini; odia se stessa 8; psi-
cosomatizza l’infelicità in una malattia al dito, il patereccio («giradi-
to»); è ossessionata da un incubo, motivo di ulteriore separazione dai
compagni, che la indicano a distanza, a bassa voce, con importanza o,
nel migliore dei casi, come avviene per i fratelli, con una certa derisio-
ne: «Ha un incubo». A spezzare il cerchio che la soffoca interviene,
un giorno, uno dei compagni, l’unico maschio in una classe tutta fem-
minile. È il figlio della maestra, un bambino poco gradevole alla vista
(«grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse
e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste»), che di cognome
fa Amore. Il bimbo corteggia Elsa, per ragioni del tutto inaspettate:

8
«Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei
‘coccetti’, e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che
esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi
copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo».

307
Massimo Gioseffi

La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il
fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’in-
cubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera
ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate
soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro,
e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e
toccandomi estatico mi disse: «Che bei riccetti che hai».
Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano
solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei
loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi
magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresì me ne
offriva. Mi guardava e diceva: «Come sei pulita», rapito, ridacchiando.
E mi prendeva per mano andando in su ed in giù e una volta perfino,
in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia.

Amore svolge, nei confronti di Elsa, la funzione di psicopompo, uno


psicopompo al contrario, il cui compito è riportare Elsa in mezzo agli
uomini e al mondo:
Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che co-
stui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segre-
te alla terra.

Ora, il cognome del bambino (per quanto abbastanza comune) e il


ruolo da lui svolto fanno pensare a una ripresa della novella apuleiana
di Amore e Psiche (Apul. met. 4.28-6.24), o almeno a una ripresa del
mito che è alla base della novella – mito diffuso un po’ a tutti i livelli
e in tutte le aree culturali, e che appare una delle numerose variazioni
sul tema de «La Bella e la Bestia», presente nella tradizione letteraria,
pittorica e popolare. Un ulteriore dettaglio si direbbe andare nella
stessa direzione. L’incubo di Elsa non è un incubo qualsiasi:
Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva
piano: «Elsa ha l’incubo». Subito i miei fratelli si precipitavano al mio
lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare:
«Sì, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi.
Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio», e vedendomi slar-
gare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando
a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre
diceva: «Vergogna, disgraziati», ed essi in preda ad ilarità furiosa si
buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio
incubo fosse oggetto della generale ammirazione.

308
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

Fra le prove imposte a Psiche per riconquistare Amore vi era anche


quella – pur essa attestata nella tradizione novellistica, peraltro – di se-
parare un certo numero di semi di tipologie differenti, chicco per chic-
co, mettendo insieme tutti i grani della stessa qualità (Apul. met. 6.10).
L’impresa sembra impossibile e lascia Psiche costernata e senza voce,
incapace perfino di dare inizio all’opera, finché in suo aiuto non in-
terviene un esercito di formiche, impietositesi della sposa di Amore.
Il dettaglio potrebbe risultare poco significativo, e certo ne è possibi-
le la derivazione da altre fonti. Ma tre particolari che si sommano (il
nome di Amore, il suo ruolo, l’incubo) fanno una supposizione, forse
qualcosa di più di una supposizione  9. Le letture classiche della Mo-
rante, ricostruite da Franco Serpa, che ha ben conosciuto la scrittrice,
erano complessivamente scarse  10; inoltre, in parziale contraddizione
con l’aforisma di Lalla Romano da cui abbiamo preso avvio, la cultura
scolastica della Morante appare a sua volta limitata 11. Non serve sot-

9
Si potrebbe aggiungere un’ulteriore circostanza, per quanto più labile: il
mondo al femminile della Elsa del racconto trova riscontro nel mondo al femminile
(le sorelle) di Psiche. La Morante, del resto, presentando Amore parlava di «gentile
coincidenza».
10
Cfr. F. Serpa, Greci e latini, in G. Agamben (a cura di), Per Elsa Morante.
La narrativa, la poesia e le idee di uno dei maggiori scrittori del ’900, Milano 1993,
pp.  257-262; Id., Il greco di Elsa, in N. Orengo - T. Notarbartolo (a cura di),
Cahiers Elsa Morante 2, Salerno 1995, pp. 76-78. Poco conta ai nostri fini l’assalto di
Nino contro il latino, «il latino scritto il latino orale», rappresentante primo, ma non
unico, delle costrizioni imposte ai giovani dalla scuola in La Storia (1975. Le opere
maggiori della Morante saranno sempre citate da E. Morante, Opere, I-II, a cura di
C. Cecchi - C. Garboli, Milano 1988-1990; qui II, p. 774). Né è granché significativo
che la Morante abbia scritto un testo teatrale ispirato a Sofocle, La serata a Colono,
poi inserito nella seconda parte de Il mondo salvato dai ragazzini (1968). Piuttosto,
Serpa, Greci e latini cit., p. 258, parla di «poche e sparse […] vere suggestioni, allu-
sioni intenzionali, memorie della poesia greca» nell’opera della scrittrice, ma – sog-
giunge – «non sono poche, però, le connessione sotterranee e simboliche». C. Gar-
boli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Milano 1995, p. 130, ricorda
che la Morante sceglieva i suoi libri preferiti «tra i classici, soprattutto nell’epica» (è
noto che Achille era per lei un personaggio/simbolo). Un intertesto antico, il fram-
mento 31 Voigt di Saffo, è stato riconosciuto ne L’isola di Arturo (1957) da M. Piz-
zocaro, Saffo nell’isola di Arturo, «Belfagor» 45, 1990, pp. 198-201.
11
Figlia di due insegnanti, la Morante per molte cose fu autodidatta. Fra l’al-
tro, non venne iscritta alle scuole elementari pubbliche (è questo il dettaglio che
differenzia racconto e realtà, supra, nt. 7), cosa che da adulta avvertì come una
menomazione, proprio per quella segregazione dagli altri che nel testo assegna – per
diversa ragione – al suo doppio. Ginnasio e liceo furono frequentati con relativa

309
Massimo Gioseffi

tolineare che le Metamorfosi apuleiane sono uno dei pochi testi sicura-
mente letti e conosciuti dalla scrittrice, visto che il loro nome ricorre
nel (più tardo) saggio sul romanzo 12. Perché, in realtà, nessuno degli
elementi del racconto richiede una conoscenza diretta di quel testo;
del mito, invece, sì 13. Dirò di più: è proprio leggendolo in controluce
con il mito narrato da Apuleio che il racconto acquista ulteriore luce e
nuova profondità.
In Apuleio, infatti, Psiche – nome parlante per l’anima umana 14 –
attraverso una serie di prove e di peripezie, tutte di derivazione novel-
listica, grazie all’aiuto di Amore, suo sposo (goduto, perduto, ricon-
quistato) viene ammessa tra gli dèi. Philosophus platonicus quale lui
stesso si definisce, Apuleio sa che Eros è in grado di innalzare l’anima
alla contemplazione delle cose celesti, anzi di trasformare l’anima in
creatura celeste. Amore è mezzo di ascesi al divino: il pensiero del
Simposio e del Fedro viene illustrato con una bella fabella di caratte-
re popolare; nello stesso tempo la novella (che occupa circa un sesto
dell’intero romanzo, e non è quindi elemento di pura divagazione) si
fa ipostasi e prefigurazione del testo che la contiene – la storia della

regolarità; a diciotto anni la giovanissima Elsa lasciò la famiglia, interrompendo gli


studi universitari presso la facoltà di Lettere (cfr. Cecchi - Garboli, Cronologia, in
Opere cit., I, pp. XIX-XXI e XXV-XXVII).
12
Opere cit., II, p. 1497 (si tratta, in realtà, delle risposte fornite a un’inchie-
sta promossa nel 1959 dalla rivista «Nuovi Argomenti»). L’unico altro testo latino
ricordato in quel contesto è l’Eneide, con intuizione geniale.
13
Che potrebbe essere derivato, oltre che dalle letture di favole, dalla recente
conoscenza, da parte della scrittrice, della psicanalisi e di Freud. Di quell’espe-
rienza, più volte rievocata in seguito, è testimone il Diario onirico – noto anche come
Lettere ad Antonio – composto fra gennaio e luglio 1938, ma pubblicato postumo
(cfr. E. Morante, Diario 1938, a cura di A. Andreini, Torino 1989, 20052 = Opere
cit., II, pp. 1575-1628). Sulla presenza di Freud nella Morante, ammessa da tutti,
ma discussa nella sua effettiva portata, cfr. S. Lucamante, Elsa Morante e l’eredità
proustiana, Fiesole 1998, pp. 118-119.
14
Come Elsa, nel racconto, è nome parlante per indicare l’autrice? Una stretta
corrispondenza fra le due persone è propugnata da C. Garboli, Dovuto a Elsa, in
Racconti dimenticati cit., p. XIII, che legge tutti gli «aneddoti infantili» (ai quali il
nostro testo appartiene) come testimonianze della vita e dei gusti della scrittrice. Sui
rischi di un simile atteggiamento mette però in guardia un racconto come Patrizi e
plebei, pubblicato su «Oggi» il 19 agosto 1939, che ripercorre il periodo vissuto in
casa della matrigna, già menzionato alla nt. 7: «Ma in realtà alla piccola non impor-
tava niente né della casina, né della madre, e tanto meno dei fratelli bizzosi; a lei
piaceva moltissimo stare nella villa».

310
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

lenta e complicata iniziazione al divino di Lucio, il protagonista delle


Metamorfosi, che attraverso varie prove e peripezie cade e risorge a
nuova vita – e vita divina – grazie alla consacrazione al culto di Iside 15.
Ciò detto, risulta facile cogliere non solo la derivazione, ma anche la
distanza fra il testo della scrittrice e il suo presumibile modello (uso
il termine in senso lato). Se simili sono, nel racconto, la situazione
narrativa e alcuni dettagli a fare da indizio, esattamente opposta è la
morale che se ne trae. Nel che, però, sta l’elemento di maggiore fasci-
no del testo, altrimenti banale. Non è solo che una scrittrice di inizio
Novecento abbia percepito il bisogno di rifarsi a un mito antico, cosa
tutt’altro che insolita 16; è che, nel momento stesso in cui ha avvertito
questo bisogno, la Morante ha sentito anche la necessità di svuotare –
anzi, ribaltare – il significato del mito di cui si serviva. Amore per lei
non è più un mezzo di innalzamento verso la divinità, pur rimanendo
forma primaria di conoscenza, in accordo al pensiero platonico e di
Apuleio 17. Suo compito è divenuto portare a contatto con l’umano:
di spazio per gli dèi, nel secolo appena concluso, non ce n’è molto, e
forse non se ne avverte nemmeno il bisogno. Per questo anche l’incu-
bo può essere rovesciato: se Psiche era aiutata dalle formiche e accet-
tava di buon grado il loro aiuto, senza del quale mai sarebbe riuscita
nell’impresa 18, Elsa, novella Psiche, si appella a un generico (e molto

15
Che però poi, nell’ultimo libro, si svela essere anche la storia di Apuleio,
dalla nativa Madaura all’iniziazione filosofica, con un cortocircuito già denunciato
da Aug. civ. 18.18.
16
E forse già nota, o almeno intuibile: cfr. Sgorlon, Profilo di Elsa Morante
cit., p. 23: «Sulle storie della Morante si proietta spesso l’ombra o la struttura di
favole antiche. Favole e miti compaiono continuamente nelle sue immagini, nei suoi
paragoni e metafore, e servono a completare l’atmosfera favolosa di fondo».
17
Nonché a un concetto che si afferma più volte nella sua opera: cfr. le
osservazioni – fra loro peraltro divergenti – di R. Paris, La guardiana della notte,
in Cahiers Elsa Morante 1 cit., p. 35, e Lucamante, Elsa Morante e l’eredità cit.,
p. 135 e nt. 96. Va aggiunto che nei romanzi della Morante l’amore è in genere un
sentimento estremo ed erroneo, nevrotico e ingannevole, che priva della libertà chi
ne va soggetto e lo porta a infelicità e rovina. «Barbarico» lo definisce C. Sgorlon,
Invito alla lettura di Elsa Morante, Milano 1972, 19852, p. 36; cfr. anche Profilo di
Elsa Morante cit., p. 19, e Garboli, Il gioco segreto cit., pp. 54-58.
18
Il narratore di secondo grado, ossia la vecchia che recita la fabella, fa deri-
vare l’intervento degli animali dalla loro pietà per Amore e la sua sposa e dall’odio
per chi quella prova aveva crudelmente imposto, Venere – cioè, in sostanza, da
un’idea di giustizia compensativa.

311
Massimo Gioseffi

moderno) perdono divino, ma di fatto rifiuta ogni sostegno esterno.


Vuole essere amata e riuscire per se stessa, vuole essere una come tut-
te, senza privilegi: perciò scaccia le formiche che le si presentano in
sogno e che divengono parte integrante dell’incubo. Il difficile, si sa,
oggi è ben altra cosa!

Sebbene sia certo sbagliato schiacciare i Racconti sulla produzione


successiva e maggiore della Morante  19, è però vero che questi testi,
la «preistoria» della scrittrice, come amava definirli lei stessa  20, per
noi hanno valore soprattutto quale testimonianza di una fase precisa
dell’evoluzione psichica e letteraria della loro autrice  21. Uscita assai
presto di casa, negli anni Trenta la Morante scriveva e pubblicava su
giornali e riviste, senza guardare troppo per il sottile, per procurarsi
da vivere. L’incontro con Alberto Moravia prima (1936), con Giaco-
mo Debenedetti poi (1937), unitamente alla già ricordata scoperta di
Freud e al venir meno dell’assillo economico dopo il matrimonio con
Moravia (1941), la spingeranno nella direzione del romanzo. Nacque
così Menzogna e Sortilegio, pubblicato in forma definitiva nel 1948,
ma già sul tavolo di lavoro dal 1943, sia pure in una versione provviso-
ria intitolata Vita di mia nonna, poi rifatta a partire dal 1944 e ancora
rivista alla vigilia della pubblicazione. Ora, a me pare che il nostro
racconto trovi ulteriore interesse una volta che lo si ponga in relazione
proprio con Menzogna e Sortilegio; anzi, arriverei perfino ad azzardare
l’ipotesi – se il rischio non è eccessivo – che esso non sia stato inserito
in nessuna delle sillogi successive (anche tenendo conto che ciascuna

19
Così, a ragione, M. Ciccuto, Elsa Morante. Racconti dimenticati, «Paragone.
Letteratura» s. III 36-38, 2001, pp. 175-180. Eppure, non ha torto nemmeno Gar-
boli, Dovuto a Elsa cit., p. V, che parla di «antefatti essenziali per la ricostruzione e
l’intelligenza» della scrittrice e di un «misterioso serbatoio, il pozzo da cui nacque
il romanzo che lasciò tutti sorpresi» (ivi, p. VI). Lo stesso Garboli aveva già rico-
nosciuto nel racconto eponimo de Il gioco segreto «l’incunabolo» di Menzogna e
Sortilegio: cfr. Garboli, Il gioco segreto cit., pp. 139-140.
20
Nella Nota d’autore a Lo scialle Andaluso, in Opere cit., I, p. 1579.
21
Lo ha dimostrato G. Rosa, Ovvero: il romanziere, in Per Elsa Morante cit.,
pp. 55-87; Ead., Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Milano 1995, 20062,
pp. 9-17, entrambe le volte riferendosi al romanzo giovanile Qualcuno bussa alla
porta, pubblicato a puntate sulla rivista «I Diritti della Scuola» fra il settembre 1935
e l’agosto 1936 (sulla stessa linea S. DaiPra, La preistoria della Morante: «Qualcuno
bussa alla porta», «Allegoria» 54, 2006, pp. 47-56).

312
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

di quelle sillogi ha una sua storia, e che la presa di distanza della Mo-
rante dai suoi esordi narrativi fu sempre assai forte) 22 appunto per-
ché, in certo senso, si trattava di un testo superato e reso inattuale dal
romanzo. Fra racconto e romanzo vi è infatti un tratto comune, che
però è anche, allo stesso tempo, un elemento di sensibile differenzia-
zione – e tutta a favore del romanzo, naturalmente; ma è elemento nel
quale Apuleio (o, se vogliamo, il mito apuleiano) ha di nuovo qualche
rilievo, e che dunque ci può interessare. Vedo di spiegarmi meglio.
Protagonista e narratrice del romanzo è Elisa – semplice variante
dell’una e dell’altra Elsa 23 – attraverso i cui occhi scorgiamo tutte le
vicende che ci vengono raccontate. Menzogna e Sortilegio è, se così si
può dire, un «romanzo degli avi» (la nonna e la madre della narratrice,
in particolare), rievocato a circa due mesi dalla scomparsa della madre
adottiva di Elisa, Rosaria, dalla quale la protagonista era stata allevata
alla morte dei genitori naturali. Fino a quella data, gli «avi» sono sta-
ti presenze fisiche e palpabili, che hanno circondato la vita di Elisa,
ne hanno popolato l’esistenza e turbato i sogni, presentandosi come
fantasmi, per raccontare quella parte della storia che Elisa non poteva
conoscere in prima persona. Dalla morte di Rosaria la giovane vive
invece sola, con un gatto, Alvaro, simbolo e simbiosi della creatività
poetica. È una spostata, una sradicata, che non ha famiglia né amici
né legami di altro tipo; una «sepolta viva», come si definisce lei stessa,
una reclusa (volontaria) nella casa che Rosaria le ha lasciato in eredità
e dalla quale ha allontanato tutti. Già negli ultimi anni, dopo la morte
dei suoi, Elisa aveva scelto di vivere isolata, considerandosi brutta e
selvatica, rifiutando di incontrare gli altri, ostile all’idea di esibirsi di
fronte a parenti ed amici della sua protettrice – e da loro considerata
perciò un po’ folle – assorta in compagnia dei libri, come un monaco
meditativo, in preda ad umori solitari, immune dalle frivolezze delle
coetanee, sempre più distaccata dalla vita che si svolgeva sotto i suoi
occhi. Per tutto questo tempo ha accolto nella cameretta come soli

22
Rosa, Cattedrali di carta cit., p. 9 («rifiuto intransigente»). Di «rimozione»
della fase giovanile aveva parlato Garboli, Il gioco segreto cit., p. 21, benché poi,
nel presentare la raccolta, egli ricordi il «vago progetto» di ristampare quei lontani
lavori al quale la scrittrice allude nella citata nota d’autore a Lo scialle andaluso: cfr.
Garboli, Dovuto a Elsa cit., p. XIII.
23
G. Rugarli, «Menzogna e Sortilegio»: un’altra maniera di vivere, in Cahiers
Elsa Morante 1 cit., p. 48.

313
Massimo Gioseffi

compagni, a parte il gatto, i fantasmi degli avi, vendicandosi così della


mancanza d’amore da loro subìta finché erano in vita – al punto di ri-
manere succube del suo stesso gioco, tiranneggiata dalla loro invasiva
presenza. Ma adesso che è davvero sola, abbandonata anche dai suoi
fantastici visitatori, attraverso la scrittura della loro storia Elisa cerca
di liberarsi dall’isolamento e dall’abbandono, si psicanalizza, fa autoa-
nalisi, ricostruendo le vicende delle generazioni femminili che l’hanno
preceduta, le loro sconfitte, le umiliazioni ricevute.
In tutto questo, come si riconosce già dal breve (e impreciso)
sommario, si ritrovano una serie di elementi autobiografici della Mo-
rante – sempre a condizione di non prendere troppo sul serio l’affer-
mazione – qui, come nel racconto, forse meno schermati che altrove:
il senso di estraneità dal resto del mondo, il sonno popolato da mostri
e da apparizioni che fa da contrasto con le lunghe notti di veglia de-
dicate alla scrittura, un mélange inestricabile di sogni, memoria, me-
moria di sogni, il desiderio di essere accettata e amata spinto a livelli
patologici, perfino la civetteria sul proprio aspetto fisico; cose che
appartengono alla Morante storica, oltre che alle figure da lei create  24.
La descrizione di Elisa che viene fuori dalle pagine iniziali del libro,
con il suo senso di estraneità dalla realtà che la circonda e l’ossessio-
ne di sentirsi brutta, ricorda la pari ossessione dell’Elsa del racconto.
Accomuna i due testi anche il comportamento tenuto dalle ragazze a
scuola. Elisa, come Elsa, è una «prima della classe» 25, che avverte il ge-
lo creatole attorno da questa situazione, l’ostilità delle compagne (sta
dalle monache), dalle quali è odiata e che odia del pari 26; e per spez-
zare questo cerchio che le si stringe addosso, non trova di meglio che
cercare una compagna ideale da venerare sopra tutto e sopra tutti. Per
questo arriva a farsi schiava di una ragazza che riconosce come incolo-
re (la Marcella Pélissier di turno?), ma che è bella, o, almeno, è dotata

24
Cfr. P. Azzolini, Mettersi al mondo, Elsa!, in Ead., Il cielo vuoto dell’eroina.
Scrittura e identità femminile nel Novecento italiano, Roma 2001, pp. 173-208.
25
Così si descrive lei stessa più volte: cfr. ad esempio Opere cit., I, pp. 653-
654, 789, 803; sui successi scolastici della piccola Elisa, vd. anche ivi, pp. 588-589.
26
«Nella mia classe, ero io che ottenevo i voti migliori; ma fra le mie com-
pagne, solo a colei che considerassi in quel momento la mia prediletta concedevo
suggerimenti e aiuti, e ciò non senza preghiere da parte di lei, né dignitosa condi-
scendenza dalla mia parte. In simili occasioni, io vedevo le compagne umiliarsi al
mio cospetto» (ivi, p. 611).

314
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

di quella bellezza che vorrebbe avere anche Elisa  27. Non riuscendo
nello scopo (a differenza che nel racconto, nel romanzo non esiste un
Amore che si faccia figura salvifica) 28, Elisa reagisce divenendo misan-
tropa, contraddizione che l’accomuna all’Elsa del racconto  29. Elisa,
cioè, vorrebbe essere accolta dagli altri, a cominciare dai genitori; ma,
sentendosi rifiutata, sentendosi una di coloro «che s’innamorano in
modo eccessivo e inguaribile, e dei quali nessuno mai s’innamora» 30,
si rinchiude in se stessa e avverte l’altrui ostilità come un male insupe-
rabile, che la porta ad auto-detestarsi 31. A un simile stato di cose ar-
riva, fra altre ragioni, anche in virtù dell’educazione sbagliata che le è
stata impartita 32, educazione sulla quale incidono tanto la condizione

27
«M’avvenne così, ricordo, durante il primo autunno seguíto all’estate
famosa, d’ubbidire come una serva agli ordini d’una insipida e petulante scola-
retta, mia compagna di scuola, sol perché i miei occhi l’avevano giudicata al primo
sguardo la più bella della nostra classe» (ivi, p. 20).
28
In effetti, è Amore il personaggio più insolito del racconto, quello che non
trova riscontro immediato nei romanzi successivi della scrittrice, sebbene il tema
del «ragazzo/angelo» che salva, che perde, che cade o fa cadere sia in essi ricor-
rente (Garboli, Il gioco segreto cit., pp. 114-122). Con questa precisazione: lontano
erede di Tit il Senza Paura, protagonista maschile delle fiabe dell’adolescenza poi
raccolte in Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (Torino 1942; riedito
dall’autrice con il titolo Le straordinarie avventure di Caterina, Torino 1959), Amore
è accomunato dalla sua capacità di cogliere la vita in quanto offre di naturale e di
immediato al Pazzariello de Il mondo salvato dai ragazzini e, soprattutto, a Useppe
de La Storia. In Menzogna e Sortilegio la funzione rasserenatrice del personaggio è
piuttosto svolta, almeno per un certo periodo e con i dovuti distinguo, da Rosaria
(cfr. ad esempio Opere cit., I, p. 631).
29
Ivi, p. 21. La scrittrice, con bella immagine, dice che Elisa si sente «come un
cerbiatto appena svezzato in mezzo a una muta di cani».
30
Opere cit., I, p. 19. Per la figura della madre, in particolare, cfr. ivi, pp. 19-20
e 585-588.
31
«Io covo un acerbo disdegno verso la mia nullità, e proprio la mia convin-
zione d’esser nulla m’incoraggia a saziami dei trionfi altrui» (ivi, p. 25).
32
Tema che all’interno di Menzogna e Sortilegio si ripropone più volte, e –
va aggiunto – con una serie di sfaccettature sconosciute al racconto: basti citare il
caso parallelo del cugino Edoardo, personaggio egoista ed egocentrico, solo in parte
giustificato dall’appartenenza a una casta nobiliare, sia pure in decadenza. Anche
Edoardo è rovinato da una cattiva educazione: la madre lo ha allevato nella convin-
zione che nessun bambino della terra si possa paragonare a lui; poiché da piccolo
mostrava predilezione per le arti, è ritenuto un prodigio; i suoi disegni vengono
chiusi in cornici preziose e appesi al muro come opere di grandi maestri; i suoi versi
sono letti in salotto per la meraviglia delle signore (ivi, p. 107). È il mondo della Elsa
del racconto, che Elsa detesta.

315
Massimo Gioseffi

di «prima della classe» che non è contenta di esserlo, quanto – e forse


più – il complicato rapporto familiare che sta alle sue spalle, nel quale
le tensioni fra i genitori si scaricano sulla figlia e i ruoli generazionali
risultano confusi, quando non addirittura invertiti  33. In ogni modo,
nel romanzo come nel racconto, la misantropia e la tensione opposta,
il desiderio di non sentirsi sola e disamata, generano uno stato con-
tinuo di frustrazione, che si sfoga, in Elisa come in Elsa, attraverso i
sogni  34. C’è una condizione morbosa di desiderio che risulta insod-
disfatta nella realtà quotidiana e che nel sogno (o nell’incubo) trova
invece espressione 35.
A livello più generale potremmo forse aggiungere che in entrambi
i testi si avverte come la cifra stilistica della Morante, almeno in quegli
anni, fosse la coesistenza, divenuta poi formulare, di due registri in
apparenza contradditorî fra loro, la favola e il realismo, specie quello
psicologico (non per nulla lo stesso Apuleio aveva definito la vicen-
da di Amore e Psiche, psicagogica se non proprio psicologica, una
bella fabella) 36. Questa coesistenza diventa la forma entro la quale si
esternano il conflitto dei singoli con il mondo che li circonda, la loro

33
«Io penso, cioè, che a quel tempo, sebbene io fossi appena sulla prima fan-
ciullezza, in realtà mio padre e mia madre erano i miei fanciulli […]. Ora minuscolo
ponte gettato fra loro e gli altri; ora ostacolo affinché non li si potesse giungere;
ora scudo per difenderli! Ora maschera per i loro inganni, ora ventaglio per i lor
bisbigli confidenziali, ora bambola per i loro giochi! Tutto ciò tu fosti, Elisa!» (ivi,
p. 651).
34
Opere cit., I, pp. 28 e 678-679. L’elemento onirico è d’altronde ricorrente
in tutte le opere della scrittrice, ed è stato variamente indagato: cfr. G. Yehya, «Il
segreto dei dormienti». I sogni nei romanzi di Elsa Morante, «Avanguardia» 18, 2001,
pp. 123-138; E. Porciani, Racconto del sogno e metodo della finzione nelle «Lettere
ad Antonio» di Elsa Morante, in A. Piemonti - M. Polacco (a cura di), Sogni di
carta. Dieci studi sul sogno raccontato in letteratura, Firenze 2001, pp. 120-135.
35
Il disperato amore che Elisa percepisce come non corrisposto coincide con
l’attrazione (di amore non è il caso di parlare) di Elsa per le compagne – ed è il
tratto che la unisce ai genitori, a loro volta vittime di un sentimento analogo, seb-
bene diversamente (e variamente) indirizzato. Nel racconto Elsa viene salvata da
Amore; Elisa si libera, o cerca di liberarsi, attraverso i fantasmi che sostituisce alle
persone reali, «fantastici Doppi» senza corpo, destinati a farsi vero oggetto della sua
passione e di una (non veritiera) epopea. Immaginazione e menzogna sono croce
e conforto di pressoché tutti i personaggi del romanzo, l’ultima e più importante
eredità che si trasmette fra le generazioni (cfr. Opere cit., I, pp. 22-23).
36
Apul. met. 6.25. Di narratio lepida e fabula anilis si era invece parlato a
met. 4.27, all’inizio del racconto.

316
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

incapacità di venire a patti con la realtà nella quale sono immersi, le


loro ansie e paure 37. Le letture di psicanalisi, oltre a indirizzare forse
la Morante al mito di Psiche (allegorico da sempre), possono aver fat-
to sì che in entrambi i testi in esame l’autobiografismo venisse trasceso
e diventasse immagine di questo difficile rapporto. Tutti i personaggi
della Morante sono in lotta contro i mostri: mostri che vengono nel
sonno, mostri che vengono dalla realtà familiare, da quel circolo di
presenze ossessive ed ossessionanti che soffocano l’individuo. E in-
fatti, nel romanzo come nel racconto, c’è un senso di claustrofobia, di
stringimento, di cui sono causa la famiglia, la scuola, la società o, più
in generale, l’intera cerchia degli adulti. Elsa vi lotta dall’esterno, at-
tendendo l’arrivo di un salvatore, che sarà Amore; Elisa dall’interno,
utilizzando la scrittura come strumento d’esorcismo. Permane però,
oltre al malessere psicologico di cui ho appena parlato, un malesse-
re più generale, che viene dall’incapacità di uscire dalla situazione di
scacco cui ci costringe il reale, dalle maglie dell’esistente (quello che
con termine tradizionale, ma oggi forse un poco abusato, si chiame-
rebbe un orizzonte «piccolo borghese»). Elsa, e così pure Elisa, non
sanno infatti immaginare una vita «altra», che cambi completamente
le regole del gioco e le faccia ribelli al loro stato di cose. Ragion per
cui è nel sogno, nell’incubo (o nella menzogna e nel sortilegio) che
cercano una via di salvazione, senza rendersi conto che così in realtà
non sfuggono alle regole, vi sottostanno.
Non mancano nemmeno le differenze fra i due testi. Nel romanzo,
riconosciuto da tempo come uno dei capolavori indiscussi del nostro
Novecento 38 – ma nel contempo anche uno dei più elusivi e sfuggen-
ti  39 – sono mutate la consapevolezza e la capacità dello scrivere, la
complessità della costruzione affabulatoria (ecco perché la Morante

37
Nel già ricordato intervento Sul Romanzo, la Morante individuava la carat-
teristica del genere nel proporre un «dramma psicologico» che «rappresenta il rap-
porto dell’uomo con la realtà» (Opere cit., II, p. 1503).
38
È la definizione datane da C. Cases, Patrie Lettere, Torino 1987, p. 104 (il
giudizio risale al 1974). Più o meno le stesse parole aveva usato Lukács in un’inter-
vista ad Andrea Barbato, su «L’Espresso» del 20 maggio 1962.
39
Alla bibliografia fin qui segnalata, tutta sostanzialmente concorde in questo
giudizio e variamente utile per dipanare le trame del libro, aggiungo ancora il
volume miscellaneo Per Elisa, Pisa 1990: che con l’ampiezza dei suoi interventi testi-
monia già da solo la complessità dell’opera in questione.

317
Massimo Gioseffi

parlava per le sue prime opere di «preistoria»), la possibilità di rea-


lizzare attraverso gli interventi metanarrativi e un ampio ventaglio di
personaggi un racconto articolato su più piani. I testi giovanili hanno
una struttura più semplice e tradizionale, con un narratore esterno e
uno svolgimento chiaro, lineare – in questo la destinazione a riviste
di largo consumo avrà avuto, naturalmente, il suo peso 40. Non solo:
nel racconto Elsa rivela il potenziale di attrazione della «normalità»,
quella normalità quotidiana e borghese avvertita nello stesso tempo
come la gabbia, la sfera dalla quale uscire, ma della quale si mette
comunque in evidenza il potere ammaliante (essere nel mondo e con
il mondo). Pur riconoscendo che le chiacchiere delle compagne so-
no fatte di cose «frivole» e senza importanza, Elsa ha come massimo
desiderio di venire accolta nel cerchio delle altre ragazze, di parteci-
pare ad esso, alla sua vacuità, avvertendo che il legame con il mondo
adulto non è meno vuoto, meno fasullo, e che non è data una terza
strada. Diverso il caso di Elisa, che vive in modo più tormentato il
complicato rapporto fra la mediocre realtà che la circonda e il mondo
immaginato e illusorio della leggenda, con la sua volontà di evasione e
il rimorso che ogni evasione porta sempre con sé. Per questo, mentre
Elisa è oggettivamente sola, nella sua cameretta, e unicamente con la
scrittura può sperare di trovare qualcuno che la stia a sentire, Elsa «si
sente» sola, ma in realtà è inserita in un mondo di relazioni, fra le qua-
li è ancora possibile reperire quella giusta. La differenza è sostanziale,
perché sta alla base dei diversi esiti delle vicende: anche se è proprio
l’isolamento di Elisa a spingerla all’atto della composizione, facendosi
così motivo di forza e speranza di «guarigione». Non è quindi muta-
ta soltanto la via della salvezza (ad Amore si è sostituita la scrittura);
sono mutate anche l’idea stessa di guarigione – che non si risolve nel
rientrare nel cerchio frivolo delle compagne – e la possibilità di quella
salvezza, nel romanzo non più così sicura. Se questo è un tema noda-
le dell’uno e dell’altro testo (e non solo della Morante, ma di ampia
parte del secolo), non lo è di meno il rilievo concesso nel racconto
al sogno, che finisce per essere allo stesso tempo profezia e sintomo
di malessere. Sintomo di malessere perché si configura come incubo
e come esternazione di un’incapacità di riuscire da sola nell’impresa

40
In generale (e senza riferimento specifico al nostro testo), vd. M. Perpetua,
L’analisi strutturale dei racconti di Elsa Morante, Roma 1999.

318
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

che Elsa si prefigge, a dispetto delle doti che le vengono riconosciute;


profezia perché attraverso il richiamo alla fabula apuleiana non svela
solo la possibile fonte della narrazione e la letterarietà del contesto 41,
ma anche il suo significato complessivo e lo svolgimento che l’attende.
Chi in virtù dell’incubo riconosce il modello al quale la Morante sta
più o meno inconsciamente guardando, infatti, intuisce già a questo
punto della narrazione quale saranno il prosieguo e lo scioglimento
della fiaba e si attende l’intervento salvifico di Amore (gli resta solo
la sorpresa di scoprire, come sappiamo, che Amore è ben diverso dal
misterioso e bellissimo adolescente descritto da Apuleio e che il suo
intervento sarà di segno opposto rispetto a quello delle Metamorfosi).
Come ho detto, però, si può forse osare qualcosa di più. In Men-
zogna e Sortilegio è stata riconosciuta da tempo l’applicazione di una
via antica di acquisizione della consapevolezza di sé attraverso quella
che Freud chiamava la memoria dei «genitori dei genitori» 42; da ciò
discende la necessità di ripercorrere, nel romanzo, la storia delle ge-
nerazioni passate, così da chiarire il ruolo e la figura della narratrice
primaria, Elisa – ricostruire la storia degli avi è infatti l’esorcismo che
la donna pratica, la sua forma di analisi. Nel racconto si potrebbe dire
che avvenga in certa misura lo stesso, salvo che in piccolo e, differenza
sostanziale, individuando non una linea parentale, quanto piuttosto
una linea ancestrale puramente letteraria, una memoria cioè non di
persone, ma di testi e di tradizioni, che trova nel mito e nella letteratu-
ra antica la consapevolezza di sé e la strada per esorcizzare fantasmi e
timori. Se l’idea ha qualche ragionevolezza, Elsa nel racconto starebbe
cioè applicando, per via di rifacimento letterario, quello che Elisa nel
romanzo applica, in modo più consono ai dettati di Freud, per via di
analisi degli avi e di sé. Apuleio, o comunque il mito da lui raccontato,
non sarebbero allora soltanto il testo progenitore del racconto, il testo
o il mito in virtù del quale trova forma il racconto, che lo strutturano
e ne condizionano la trama (come pure di fatto sono). Diverrebbero
anche lo strumento, non dichiarato, ma sottilmente presente, con il
quale la Morante viene a curare i propri fantasmi, mostrando cioè per
via traversa e forma implicita che l’unico rimedio possibile sta nello

41
E che il dettaglio venga da Apuleio, da qualche raccolta di fiabe o semplice-
mente dalla tradizione popolare fa quindi poca differenza.
42
Rosa, Cattedrali di carta cit., p. 33.

319
Massimo Gioseffi

scrivere e nella letteratura. Che è poi la scoperta di Elisa, alla base di


Menzogna e Sortilegio 43. Con questa differenza: che il rapporto di Elisa
con il mondo è, come s’è detto, più complesso, più difficile, più ambi-
guo; e così è il rapporto con la scrittura e con la tradizione letteraria.
La Morante da «adulta» ha imparato che Amore, quand’anche possa
salvare dalla solitudine e dal disamore, mantiene sempre un’illusione
menzognera, e «uscire dalla cameretta» non significa necessariamente
guarire dalla malattia; mentre nel racconto Elsa crede ancora nel ruolo
e nella forza di Amore, come il mito del resto le impone. Altrettanto
si può dire per la scrittura, e per la tradizione nella quale la scrittura si
inserisce e con la quale si confronta. Ovvero, per dirla con le parole di
un altro studioso: nel racconto la protagonista pensa ancora di parlare
di quello che le succede «solo a partire dalla letteratura; mentre Men-
zogna e Sortilegio scavalca il bovarismo, di cui ci dà un’immagine più
ambigua e compromessa»  44. Il racconto, al contrario, si illudeva di
risolvere la malattia della protagonista con il semplice inserirsi, sia pu-
re in opponendo, all’interno di una catena letteraria. Catena alla base
della quale, a questo punto, non può che venirsi a trovare – e non sarà
una casualità – un testo (o un mito) latino; ma catena dalla quale la
Morante, una volta divenuta narratrice completa e matura, non potrà
fare altro che liberarsi.

2. Franco Fortini, «La morte del cherubino»

Anche nell’opera di Fortini ci sono tracce di una lunga frequentazione


dei classici, o almeno dei classici latini: e ciò sia che si guardi al Fortini
poeta, al narratore o al saggista – le tre facce di una stessa, multiforme
personalità. È appunto a un racconto che si rivolge la mia attenzio-
ne: opera giovanile, datata dall’autore 1938, anche se pubblicata nel
1941 sulla rivista «La Ruota» e, più di recente (1988, vivente e con-

43
Ivi, pp. 20-21.
44
R. Donnarumma, «Menzogna e sortilegio» oltre il bovarismo, «Allegoria» 31,
1999, pp. 121-135 (la citazione, che si riferisce all’insieme dei racconti giovanili,
non al nostro testo in particolare, è a p. 122). Tutto ciò non contrasta con l’idea,
più volte ripetuta, anche dalla diretta interessata, della Morante come una scrittrice
la cui letteratura «non proviene che da se stessa»: cfr. Garboli, Dovuto a Elsa cit.,
p. V; Id., Il gioco segreto cit., pp. 19 e 219-220.

320
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

senziente Fortini, dunque), in un volume a sé, per i senesi «Taccuini


di Barbablù» 45. Prima di entrare nel dettaglio del testo, però, si rende
necessaria qualche precisazione. Tutti «abbiamo fatto il classico», di-
ceva Lalla Romano nell’aforisma da cui siamo partiti. Nel caso di For-
tini l’affermazione andrebbe completata: «Tutti ci siamo laureati in
Lettere» (la Morante, come s’è detto, no). Il che significa, in aggiunta
ai tre più cinque anni di studio del latino previsti dal curriculum scola-
stico di allora, almeno la frequentazione di due corsi della medesima
materia, un esame biennale, una certa quantità di testi da leggere e da
studiare, di persone da incontrare. È così per Fortini: lo sarebbe per
Bassani, Calvino, Pasolini – cito alla rinfusa e senza pretesa di com-
pletezza, pensando ad autori dei quali possediamo l’epistolario (e nel
cui epistolario non mancano i riferimenti a un’esperienza che  – sia
pure in sedi diverse – appare sempre fra le più impegnative) o nella
cui opera qualche traccia di quell’evento, prima o poi, riaffiora. Ma
torniamo a Fortini. Nato a Firenze, nel 1917, con il nome di Franco
Lattes (Fortini viene dal cognome della madre, Fortini del Giglio: il
cambiamento si attua nel 1940, il padre essendo di religione ebraica),
«laurearsi in Lettere» nella sua città natale ha significato, per lui, l’in-
contro con Giorgio Pasquali. Incontro che non fu senza esito. Ma qui,
mi perdoni il lettore, occorre un’altra divagazione. Non esiste figura
del Novecento (escluso forse Pasolini) che abbia lasciato un numero
equivalente di testimonianze, interviste, ricordi quanto Fortini. La
memoria dei poeti, si sa, è sempre selettiva. La ridda di testimonian-
ze, interviste, ricordi  – a volerla passare al setaccio – non manca di
rivelare lacune, crepe, contraddizioni più o meno palesi. Nel caso di
Fortini, poi, a renderla ulteriormente inaffidabile è una svolta imposta
dal destino, vero Wendepunkt della sua vita, che Fortini non ha man-
cato di enfatizzare più volte. Mi riferisco, non occorre dirlo, agli anni
della guerra, al rifugio in Svizzera dopo l’otto settembre del 1943, alla

45
F. Fortini, La morte del cherubino, Siena 1988 [Taccuini di Barbablù –
nr. 9]. «La Ruota» era una rivista fondata da Mario Alberto Meschini, ma promossa
da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale. Nella terza serie del 1941
il comitato di redazione era costituito da personalità multiformi, e non perfetta-
mente allineate, quali Mario Alicata, Giuliano Briganti, Carlo Muscetta, Guglielmo
Petroni e Antonello Trombadori – il fior fiore, in molti casi, di una futura intelli-
ghenzia di sinistra. Il racconto, fra l’altro, è fra le prime testimonianze della firma
«Fortini» (e non Lattes) del nostro scrittore.

321
Massimo Gioseffi

partecipazione – per quanto marginale – alle vicende della repubblica


partigiana della Val d’Ossola 46, alla nuova fuga in Svizzera nell’otto-
bre del 1944, all’arrivo definitivo nella Milano dei giorni successivi
alla fine del conflitto (25 aprile 1945). Nel raccogliere materiale per
un’autobiografia edita solo di recente  47, Fortini faceva partire da lì
la propria vicenda biografica, come se tutto quanto era venuto prima
non avesse senso, o non avesse valore. Nel presentarsi al pubblico del
dopoguerra con una plaquette edita da una casa editrice di qualche
nome e con un ambizioso romanzo in prosa 48, egli poteva parlare di
sé sia come di un autore inedito (solo in parte lo era), sia come di un
autore post-resistenziale, che al periodo fiorentino guardava con di-
stacco, presentandolo come un’epoca di sonno (sonno della ragione),
dal quale solo ora si andava risvegliando 49. Si deve a Luca Lenzini il
merito di aver dimostrato che le cose non stanno proprio così, e che i
germi del Fortini postbellico vanno cercati – com’era ovvio attendersi,
del resto – nel Fortini prebellico. In una serie di saggi confluiti nel suo
Il poeta di nome Fortini 50, alcuni capitoli sono perciò dedicati al tema
della formazione del nostro autore, alla sua giovinezza, alle diverse

46
Sulla quale resta utile G. Bocca, Una repubblica partigiana. Ossola 10 set-
tembre - 23 ottobre 1944, Milano 1964.
47
F. Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci - V. Tinacci, Mace-
rata 2006. Il titolo viene da una poesia di Giacomo Noventa («un zorno o l’altro /
mi tornarò»); al libro, annunciato già nel controfrontespizio di Una volta per sempre
(1978), Fortini aveva lavorato in forme alterne per tutti gli anni Ottanta e primi
Novanta, fino alla morte.
48
E cioè, rispettivamente, Foglio di via e altri versi e Agonía di Natale, entrambi
editi da Einaudi. Il romanzo reca la data del 1948 (è il nr. 17 de «I Coralli» della casa
torinese), ma è datato dall’autore (p. 161) «Milano, inverno 1946». Se ne ebbe una
seconda edizione nel 1972, con ripristinato il titolo di Giovanni e le mani, voluto in
origine da Fortini.
49
L’immagine sulla copertina della raccolta di versi, Foglio di via, raffigura un
giovane dormiente, col viso appoggiato sul braccio destro. L’abbozzo in inchiostro
di china, su carta da quaderno quadrettata, è riprodotto in F. Fortini, Disegni Inci-
sioni Dipinti, a cura di E. Crispolti, Macerata 2001, p. 54, nrr. 45-46/1 (cfr. anche
ivi, p. 140).
50
L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Lecce 1999.
In particolare, interessano il racconto di cui mi occupo il secondo e il terzo capitolo
(rispettivamente, pp. 19-48 e 49-72), intitolati L’educazione e Il paesaggio e la gioia.
Osservazioni su Leopardi in Fortini, il primo dei quali già edito in M. Ciccuto  -
A. Zingone (a cura di), I segni incrociati. Letteratura italiana del ’900 e arte figura-
tiva, Viareggio 1998, pp. 709-730.

322
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

«discipline» alle quali egli aveva inizialmente prestato attenzione: la


storia dell’arte, materia in cui si laureò; la poesia ermetica, imperante
nella città toscana; la poesia non ermetica, del passato o del presente
(nota è la sua amicizia con Giacomo Noventa, quasi una sorta di affi-
liazione discepolare) 51; la religione – che vide Fortini convertirsi, per
un breve periodo, alla fede valdese, ottenendone ufficiale battesimo 52.
Nonostante tutto questo, molto resta ancora da fare. Gli studi classici
(nel senso di antichità classica, ma anche in quello di tradizione lette-
raria italiana) sono tuttora da ricostruire. Alle affermazioni di Fortini
su poeti, scrittori, amici del tempo, affidate in parte ad articoli stam-
pati nella seconda metà degli anni Trenta su riviste non di primissimo
rango, in parte a dichiarazioni e saggi degli anni successivi, e fino alla
morte, si dovranno accostare le affermazioni parallele, ma non sempre
combacianti, che amici, poeti e scrittori fiorentini ci hanno lasciato
su di lui – il che consentirà forse di verificare quell’immagine di sé
che Fortini ha pazientemente costruito, ma che sembra smentita dalla
ricorrenza del suo nome negli epistolari e nei ricordi degli altri. Ci
sono poi da valutare i rapporti con la poesia dominante nella Firenze
della sua giovinezza, appunto quella ermetica 53, e più in generale con

51
Sui rapporti Fortini/Noventa si vedano almeno A. Berardinelli, Franco
Fortini, Firenze 1974, pp. 9-16, e – più di recente – E. Urgnani, Fortini lettore di
Noventa, «Allegoria» 21-22, 1996, pp. 80-91; R. Luperini, Il futuro di Fortini. Saggi,
San Cesario di Lecce 2007, pp. 15-27 (ristampa aggiornata di Id., La lotta mentale.
Per un profilo di Franco Fortini, Roma 1986).
52
Cfr. D. Dalmas, Fortini tra Riforma e «Riforma letteraria», «Antologia
Vieusseux» n.s. 11, 2005, pp. 25-37; Id., La protesta di Fortini, Aosta 2006. «La
Riforma letteraria» si intitolava la rivista di cui era animatore Noventa, che ebbe il
giovane Lattes (non ancora Fortini) tra i suoi collaboratori.
53
Alle molte testimonianze sul (discusso) ermetismo del giovane Fortini,
aggiungo un’attestazione divertente, anche se non risolutiva. Ecco infatti la reazione
di due lettori comuni rifugiatisi in Svizzera, Franca Magnani e il padre, Fernando
Schiavetti, giornalista repubblicano: «[Fortini] dopo aver trascorso la quarantena
uscì dal campo [l’internamento ad Adliswil] e divenne attivo nell’ambiente politico
di Zurigo; frequentava casa nostra. Aveva allora ventisei anni ed era già letterato;
scriveva poesie – ermetiche. Facevo gran fatica a seguire i suoi versi […]. Allora mi
rivolsi al babbo; sorrise – anche lui capiva poco di ermetismo, ammise; era legato
ai canoni della poesia tradizionale» (così F. Magnani, Una famiglia italiana, Milano
1991, p. 186 – una precedente edizione, parzialmente diversa, era uscita in tedesco,
con titolo Eine italienische Familie, Köln 1990). Il giudizio non ha valore scientifico,
ovviamente, ma rende bene una percezione generalizzata che lo stesso Fortini ha
spesso favorito, presentando la sola sua produzione postbellica come l’allontanamento

323
Massimo Gioseffi

la cultura allora prevalente 54; c’è da stabilire quale sia stato il peso, in


questa «conversione» (chiamiamola così) 55, della scuola, della forma-
zione del giovane poeta. In molti casi, perfino i testi editi nel periodo
d’anteguerra da Fortini (e ancora peggio, quelli pubblicati con il nome
originario, Franco Lattes) sono in attesa di essere rimessi in circolo, e
non per nulla le più recenti antologie fortiniane, inclusa la raccolta
(parziale) dei saggi per «I Meridiani», hanno finito sostanzialmente,
forse inevitabilmente, per privilegiare gli interventi del dopoguerra.
Insomma, non manca il da fare. Qualcosa, naturalmente, è già stato
fatto. Oltre agli articoli di Lenzini ricordati in precedenza, una prima
ricognizione del periodo fiorentino si deve a Paolo Pulina 56; parte del
materiale giovanile è stata riedita da Sergio Palumbo 57, che ne aveva
iniziato la raccolta su richiesta dello stesso autore: ma il contesto (la
pur benemerita rivista «Poesia») e l’occasione (la recente scomparsa
del poeta) che hanno dato origine alla pubblicazione non consentiva-
no, evidentemente, una rielaborazione critica 58.

da un ermetismo a quel tempo di moda. Sulla possibilità di accostare i primi esperi-


menti poetici di Fortini alla tradizione ermetica c’è invece sempre stato scetticismo
nella critica, a partire dalla recensione di Gianni Scalia a Poesia ed errore (G. Scalia,
Un poeta maieu­tico: Franco Fortini, «Presenza» 5, giugno 1959, p. 13).
54
Lenzini, Il poeta di nome Fortini cit., pp. 49-72, ha convincentemente
dimostrato l’importanza di Leopardi come modello di certe forme dello scrivere
fortiniano, fin dalle composizioni giovanili. Più di recente (infra, nt. 58) sono stati
fatti i nomi di Carducci, d’Annunzio, Pascoli, dei Manieristi del Cinquecento (nomi
accostati alla rinfusa e ritenuti equivalenti fra loro, si direbbe), ma senza fornire
esempi né prove di altro tipo.
55
Fortini preferiva però parlare di «storia di un arricchimento, piuttosto che
di ‘conversioni’» (cfr. E.A. Albertoni - E. Antonini - R. Palmieri [a cura di], La
generazione degli anni difficili, Bari 1962 = F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Inter-
viste 1952-1994, a cura di V. Abati, Torino 2003, p. 32).
56
P. Pulina, La poesia di Franco Fortini dai «Primi versi» a «Foglio di via»
(1937-1945), «Bollettino per biblioteche» 34, 1989, pp. 68-76. Il saggio, pubblicato in
occasione della tavola rotonda inaugurale della mostra «Autografi», organizzata dalla
Amministrazione Provinciale di Pavia e dal Fondo Manoscritti di Autori Contempo-
ranei dell’ateneo pavese, risale, stando alla nota autoriale, a quindici anni prima.
57
S. Palumbo, Franco Fortini esordiente. 1. Poesie e prose sconosciute. 2. Quel
busto romano di una dea. Intervista con Franco Fortini, «Poesia» 11 (118), 1998,
pp.  24-30 (la sola intervista, già parzialmente pubblicata con il titolo La mia for-
mula? Non troppo genio su «La Gazzetta del Sud» del 25 maggio 1997, è stata poi
riedita in Fortini, Un dialogo ininterrotto cit. pp. 732-737).
58
Non assolve il compito neppure L. Daino, Un’interpretazione partigiana del
passato. Elementi autobiografici e strategie compositive in «Foglio di via e altri versi»

324
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

C’è dunque un lavoro da svolgere, abbiamo detto, che attende un


ricercatore, un ricercatore vero, che ci si possa e voglia impegnare.
Non è questo il mio caso e non sarebbe del resto questa la sede per far-
lo; non lo è nemmeno per un compito più circoscritto, lo studio delle
citazioni e dei riferimenti di Fortini alla cultura classica. Senza pecca-
re di presunzione, qui vorrei piuttosto limitarmi – come latinista – a
suggerire qualcosa a quello studioso futuro, dal mio limitato angolo di
visuale. Torniamo allora a Pasquali. In un’intervista del 1990 ad Aldo
Grandi, Fortini lo ricordava come una figura importante di maestro,
nonostante le concessioni fatte alla cultura e alle istituzioni fasciste:
Un uomo di eccezionale valore come Giorgio Pasquali era molto tol-
lerante con il fascismo, accettava o desiderava funzioni rilevanti nelle
istituzioni fasciste e, nello stesso tempo, guidava gruppi di giovani stu-
denti, come noi, in piccoli cinema della periferia di Firenze a vedere
con gioia e intenzione un film ben chiaramente non «in linea» come À
nous la liberté di René Clair, che fu un nostro idolo di quegli anni. 59

Tre anni più tardi, parlando della Firenze degli anni Trenta con Pa-
lumbo, Fortini resta di quell’idea:
Si può dire che quello fu un grande momento, perché tutta la miglio-
re letteratura era lì. A Firenze contemporaneamente c’erano i critici
Gianfranco Contini e Luigi Russo, per fare l’esempio di due opposti,
ma convergenti. C’era in giro una qualità intellettuale straordinaria, si
pensi a un antichista e filologo come Giorgio Pasquali. 60

Un po’ diverso il tono di un’altra affermazione, contenuta sempre


nell’intervista a Grandi del 1990:

di Franco Fortini, «Acme» 60, 2007, pp. 209-247, che ne avrebbe l’ambizione. Il
lavoro, accettabile quando si concentra sulle «strategie compositive» della raccolta
poetica, perde di peso allorché si occupa della «conversione» tra Firenze e Milano
o del complesso dell’opera di Fortini. Basti dire che, nonostante il proposito di
indagare la ricostruzione fortiniana del proprio passato, ignora sia il racconto del
1938/1941 sia – fuorché di nome – il romanzo del 1946/1948, ovvero il punto di
partenza e quello d’arrivo del percorso fra le due città: quasi che le diverse anime di
Fortini possano essere separate e considerate parti a sé stanti.
59
A. Grandi, Autoritratto di una generazione, Catanzaro 1990, pp. 156-157;
cfr. anche Fortini, Un dialogo ininterrotto cit., p. 616.
60
Palumbo, Quel busto romano cit., p. 28. La citazione viene però da Fortini,
Un dialogo ininterrotto cit., p. 733 (dove, fra l’altro, è corretta la svista «filosofo»
per «filologo»).

325
Massimo Gioseffi

Una sera, proprio in casa di Alberto Carocci, ci fu una grande festa da


ballo. Partecipava tutto il fior fiore dell’intellighenzia fiorentina, pitto-
ri, artisti, professori universitari. Mi pare ci fossero Giorgio Pasquali, il
pittore Felice Carena (accademico d’Italia), Montale, il pittore Capoc-
chini, Delfini, Landolfi, ma la memoria non mi aiuta.
In quell’occasione, nella mia ingenuità, cercai di metter pace fra No-
venta e Montale, anche profferendomi, per la serata, quale cavalier
servente della compagna di Montale. 61
Che cosa è lecito trarre da tutto questo? Forse voglio forzare i testi,
però ne ricaverei, in prima battuta, il risalto concesso alla figura del
maestro, del quale, nell’intervista a Grandi, ci offre uno squarcio inedi-
to 62. Fortini sta parlando del suo disorientamento nella Firenze di pri-
ma della guerra, della difficoltà di capire che cosa fosse l’antifascismo
e chi si potesse ritenere oppositore del regime, dei rapporti «cifrati»
e «incomprensibili» (così li chiama) che si instauravano tra fascismo e
antifascismo 63. Pasquali non è certo nel numero degli oppositori, ma
ciò non toglie che il suo incontro risulti fra quelli che hanno segnato il
futuro poeta. Nel ricordo a distanza egli appare lontano dal professore
di cose classiche, tutto chiuso in se stesso; lo vediamo prendersi cura
di un allievo non suo (come già s’è accennato, Fortini, impossibilitato
a laurearsi con Attilio Momigliano, esonerato dall’insegnamento per
le leggi razziali del 1938, scriverà una tesi su Rosso Fiorentino sotto la
guida dello storico dell’arte Mario Salmi), senza limitarsi a indirizzar-
lo nello studio, per portarlo piuttosto al cinematografo, a scoprire una

61
Grandi, Autoritratto di una generazione cit., pp. 155-156 (= Fortini, Un dia-
logo ininterrotto cit., p. 616; Daino, Un’interpretazione partigiana cit., p. 214, con
inutili alterazioni e la curiosa attribuzione del titolo di Grandi a Fortini).
62
Un «allievo di Pasquali», Renzo Nobili, è personaggio fugacemente evocato
in una successiva (1956) prova narrativa di Fortini, Racconto fiorentino (un romanzo
per molti aspetti imparentato al racconto che prenderemo in esame: cfr. F. Fortini,
La cena delle ceneri e Racconto fiorentino, Milano 1988, p. 158; Lenzini, Il poeta di
nome Fortini cit., p. 21). Nel necrologio per Gianfranco Contini («Il manifesto»,
3 febbraio 1990), Fortini ricordava l’emozione di aver parlato, a un congresso di
italianisti, sotto lo sguardo ironico dello studioso: «Ero più agitato che per l’esame
di latino con Giorgio Pasquali» (cito da F. Fortini, Disobbedienze, II. Gli anni della
sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, Roma 1996, p. 74).
63
Al tema sono dedicate anche le parole raccolte in R. Zangrandi, Il lungo
viaggio attraverso il fascismo - contributo alla storia di una generazione, Milano 1962,
pp. 547-549; ivi, pp. 547-548, sono ricordati in particolare l’esperienza de «La
Ruota» e i contatti con Alicata e Muscetta.

326
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

cultura «alternativa» 64. Un vero maestro, verrebbe da pensare, anche


se in altra occasione Fortini non mancherà di affermare di non avere
avuto maestri, né al liceo né all’università 65. Con Pasquali, non meno
importante risulta la cultura classica nel suo insieme: in un’intervista
rilasciata a Franco Loi, a una precisa domanda sulle origini della sua
poesia, Fortini ricorda un «moto […] eroico, storico», carducciano,
«ma che in realtà si nutriva in quegli anni anche – chissà – di fram-
menti di Tito Livio o di Erodoto»  66. Nello stesso tempo, però, egli
prende anche le distanze da un mondo e un’esperienza di vita che nel
1990 gli appaiono estranei e lontani. Ecco allora l’ultima testimonian-
za dall’intervista a Grandi, non priva di una sua perfidia, che incomin-
cia da se stesso («nella mia ingenuità»; e già prima: «come eravamo
ingenui», p. 153 = 613), per ribadire la propria diversità rispetto a un
ambiente, quello delle «Giubbe Rosse», l’«ambiente letterario ufficia-
le», come lo aveva definito poche righe sopra, che a distanza gli sem-
bra pretenzioso, falso e pieno di veleni. In un altro passo del colloquio
era già affiorato il ricordo di «esperienze poco gratificanti […] dovute
a scarsa pratica dei rituali di ossequio a questo o a quel maestro (c’era
chi si faceva chiamare così)»; poi c’era stata una stoccata contro Mon-
tale, che per ostilità personale «non si era fatto scrupolo di diffamare
Noventa in tutti i modi»; quindi, adesso, una festa da ballo, con il fior

64
Che il Fortini della testimonianza inclusa in Zangrandi, Il lungo viaggio cit.,
p. 547 (una conversazione a un «Circolo Gobetti», di data incerta, ma intorno al
1960), bolla di «antifascismo ‘morale’ o ‘estetico’: l’amore per René Clair, per la
Parigi ‘artista’, per Gide, le letture di Kierkegaard o di Kafka».
65
«Non ebbi, purtroppo, ‘maestri’, né al liceo né all’università. Non avevo un
‘bagaglio di idee’; ma un sentimento, forse superficiale, della serietà della vita e della
storia, una volontà di comunione e di oltranza, una tendenza a rifiutare ogni sopraf-
fazione e ogni ottimismo» (Albertoni - Antonini - Palmieri [a cura di], La gene-
razione degli anni difficili cit., p. 146 = Fortini, Un dialogo ininterrotto cit., p. 31).
Cfr. Zangrandi, Il lungo viaggio cit., p. 549: «In conclusione, attività minima, mia o
del mio ambiente. Dovuta, per quanto mi riguarda: a) all’assenza, al liceo, di almeno
uno fra gli insegnanti che ‘ci aprisse gli occhi’ […] c) alla determinazione classista
che traduceva ogni movente antifascista in termini letterari, morali o religiosi, for-
tissima a Firenze […] e) al fatto, fondamentale, che […] nell’ambiente fiorentino mi
trovai intorno al vuoto e, scioccamente quanto vanamente, tentai di ‘normalizzarmi’
senza rendermi conto che era ormai impossibile» (corsivo d’autore). Già in pre-
cedenza Fortini sottolineava la «frattura con l’antifascismo intellettuale, liberaleg-
giante e filobritannico, dei letterati fiorentini ermetici e para-ermetici» (ivi, p. 547).
66
F. Fortini - F. Loi, Franchi dialoghi, Lecce 1998, pp. 24-25.

327
Massimo Gioseffi

fiore dell’intellighenzia (il termine di per sé la connota), due giovani


che hanno esordito da poco, più anziani di una decina d’anni, l’uno
proveniente da una famiglia di proprietari terrieri (Delfini), l’altro
dalle pretese nobiliari (Landolfi)  67, un pittore insignito del titolo di
accademico d’Italia, un professore, Pasquali, che per quel titolo si sa
(e lo si sapeva bene soprattutto nel 1990) sarà disposto a qualche con-
cessione di troppo … Tutto vero, naturalmente, ma messa così viene
fuori una piccola, insidiosa «fiera delle vanità», giudicata dall’esterno,
volendo porre in rilievo la propria sostanziale diversità, con un astio
che non ha proprio nulla di quella innocua «atmosfera da cavalieri e
dame», come è stata definita di recente 68.
Eppure, l’autore antico al quale Fortini è maggiormente legato è,
guarda caso, il pasqualiano Orazio: lo traduce (da vecchio, l’inedito
Fons Bandusiae 69, e poco prima il Tu ne quaesieris) 70; lo introduce per
Roberto Lerici 71; lo sbeffeggia nella traduzione/parodia di Composita
solvantur 72; lo cita, trasformando un suo sintagma in titolo di poesia
(vice veris, in Foglio di via); se ne avvale con sottile arte allusiva 73; lo
ingloba in proprie composizioni 74, ne fa cartina al tornasole per va-

67
Al riguardo cfr. anche l’articolo La luna di Landolfi – poco simpatetico verso
lo scrittore di Pico, ma importante per la rievocazione degli anni fiorentini – pub-
blicato su «Il manifesto» del 24 giugno 1990 e ora in Fortini, Disobbedienze II cit.,
pp. 106-109.
68
Daino, Un’interpretazione partigiana cit., p. 214. A leggere per intero l’in-
tervista si scopre del resto che Fortini parlava di «episodio singolare e sgradevole»
in cui la polemica affiorava «violentissima» (Grandi, Autoritratto cit., p. 155 = For-
tini, Un dialogo ininterrotto cit., p. 615).
69
In F. Fortini, Poesie inedite, a cura di P.V. Mengaldo, Torino 1995, p. 41.
70
La traduzione fortiniana sta in V. Guarracino (a cura di), Poeti latini tra-
dotti da scrittori italiani contemporanei, Milano 1993, I, pp. 376-377 (un’antologia a
più mani, edita da Bompiani).
71
In Quinto Orazio Flacco, Liriche, trad. di R. Lerici, Milano 1957,
pp. 7-11.
72
E cioè, Orazio al bordello basco, in F. Fortini, Composita solvantur, Torino
1994, p. 77; cfr. A. Fo, La presenza dei classici 2: Prospezioni, «Semicerchio» 26-27,
2002, p. 47.
73
F. Fortini, Lettera sul Realismo. To Miss Darkness, «Nuovi Argomenti» 11,
1976, pp. 3-4 (ora in Id., Saggi e epigrammi cit., pp. 1523-1524, da cui cito). Il riferi-
mento a Orazio è ai vv. 7-8.
74
Ad esempio nell’epigramma per Renato Solmi, in F. Fortini, L’ospite
ingrato. Testi e note per versi ironici, Bari 1966 (lo trascrivo da Id., Saggi e epigrammi
cit., p.  910): «Sume superbiam, giovane filosofo. / Transvola il mare dell’essere.

328
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

lutare la poesia altrui 75 … Ce n’è quanto basta: tanto più che, si noti,
tutto questo lavorio è legato solo ed esclusivamente all’Orazio lirico,
anzi verrebbe da dire all’Orazio lirico, cioè alla maggior opera pasqua-
liana. Mai viene utilizzato un altro testo del poeta latino!
Torniamo alla testimonianza del 1990: che cosa vi dobbiamo allo-
ra vedere riflesso, l’animo del 1990 o quello di quando l’avvenimento
ebbe luogo? Difficile dirlo, e del resto Fortini si cautela con un pru-
denziale «mi pare», poi ripreso da «Ma la memoria non mi aiuta»:
amnesia di vecchio, o abile escamotage? Notevole è però che, nella
prassi comune del ricevimento presso un editore importante, il vero
padrone di casa risulti Montale e intorno a lui girino un po’ tutti i tipi
umani descritti. Tipi, appunto, non persone. Fra loro Pasquali, come
a segnalare che qui il distacco è già avvenuto, almeno sul piano morale
e sentimentale: non c’è più il maestro che guida verso verità e varietà,
Pasquali è un burattino in cerca di onori (che vede dati agli altri), co-
stretto a partecipare a riunioni mondane – dove la sua stella, oltretut-
to, non brilla troppo. L’atteggiamento risente del Fortini maturo; ma
che il commiato fosse nell’aria fin dagli anni fiorentini (a qualunque
data risalga il frammento memoriale preso in esame) 76 e che contem-
plasse una più profonda presa di distanza nei confronti della materia
«latino», è appunto quanto ci viene a dire il nostro racconto.

Vediamo allora da vicino di che cosa si tratta. Il testo, intitolato La


morte del cherubino 77, era pensato come un racconto storico, ma an-
che allegorico, ambientato nella Sicilia di inizio Settecento. All’origi-
ne c’è, parole di Fortini, un viaggio compiuto nell’isola nel 1938, per

L’esofago / gonfio di pnèuma, la ragione vergine … / Quaesitam meritis. Ecco la


vertigine».
75
F. Fortini, Un indice, «Il manifesto», 5 aprile 1977 (= Id., Disobbedienze, I.
Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972-1985, Roma 1997, pp. 147-148, da
cui ricavo la citazione). È la recensione al volume di M. Coviello, Indice, Milano
1977; l’autore vi è definito «uno che ha capito qualcosa di Orazio e magari di Pin-
daro» (ivi, p. 147).
76
Fortini dice «era il 1938 o piuttosto il 1939», con nuova, forse significativa,
imprecisione (Grandi, Autoritratto cit., p. 155 = Fortini, Un dialogo ininterrotto
cit., p. 615).
77
Ma, su rivista, La morte del cherubino di stucco. Le citazioni vengono tutte
dalla ristampa del 1988.

329
Massimo Gioseffi

partecipare ai littoriali di Palermo 78, poi ampliato con la visita ad altri


luoghi storici e artistici dell’isola, Agrigento, Cefalù, Messina, Sira-
cusa. Nel racconto avrebbero dovuto trovare spazio un po’ tutti gli
interessi del giovane scrittore: la storia, la letteratura, ma soprattutto
la storia dell’arte e il latino (con prevalenza della prima, naturalmen-
te, il racconto venendo descritto dall’autore come «un vero e proprio
omaggio al Serpotta») 79. La trama la descrive lo stesso Fortini, nella
già ricordata intervista rilasciata a Palumbo nel 1993:
Il racconto è un episodio picaresco in un quartiere malfamato della
Palermo secentesca: un giovane cavaliere va a cercare il vecchio sculto-
re perché vuole avere un certo gesso. Il tutto si svolge in un’atmosfera
erotica tardobarocca con uno scioglimento drammatico perché la ca-
sa prende fuoco e una fanciulla vola dal tetto. La mattina successiva,
mentre lo stesso giovane cavaliere sta cavalcando lungo il mare, in un
clima questa volta del tutto sereno, proponendosi di cominciare una
nuova vita, i pescatori tirano a riva il busto romano di una dea, che
sta a significare simbolicamente il passaggio da un gusto all’altro, da
quello barocco a quello neoclassico. 80

Il riassunto, abbastanza preciso, contiene però delle omissioni e delle


inesattezze (fra l’altro, come vedremo, il riferimento all’incendio della
casa). Di fatto, un giovane nobile, il barone di Grottasanta, ultimo
rappresentante di una classe in decadenza (lo zio era stato un celebre
eroe di non si sa quale guerra), si presenta da uno scultore palermita-
no, il cavalier Zampaglio, per comperare il gesso preparatorio di una

78
F. Fortini, I miei vent’anni ai littoriali di Palermo, «Corriere della Sera», 15
maggio 1988.
79
E cioè Giacomo Serpotta, Palermo 1656-1732, scultore e stuccatore: cfr.
D.  Garstang, Giacomo Serpotta and the Stuccatori of Palermo, London 1984 (ed.
ital. Palermo 2006). Come scrive Carlo Fini nella prefazione alla ristampa del rac-
conto, si tratta di un «quasi inconsapevole superatore del barocco locale in direzione
dei moduli dell’incipiente rococò». L’interesse di Fortini per la storia dell’arte è qui
testimoniato, oltre che dalla situazione narrativa, anche dalla citazione in epigrafe
(derivata da A. Venturi, L’arte italiana. Disegno storico, Bologna 1924, p. 292). In
ogni caso, nella narrazione l’alter ego di Serpotta, il cavalier Zampaglio, importa
soprattutto per la «suggestione della cadente parabola biografica […], dalla gloria
dell’altare alla polvere dell’oblio» (Fini, Prefazione a La morte del cherubino cit.,
p. 3).
80
Palumbo, Quel busto romano cit., p. 29 (= Fortini, Un dialogo ininterrotto
cit., p. 734).

330
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

statua di cherubino – quella che dà titolo al racconto – da lui vista


nella cappella di Santa Eufemia. La ragione è semplice: quella statua
è il ritratto, a suo parere, di Lucilla, la fanciulla amata, che però lo ha
tradito ed è stata da lui sorpresa, una notte, fra le braccia di un aman-
te. Da quel momento, il giovane ha preso l’abitudine di contemplare
la raffigurazione d’arte, nella quale scorge un riflesso della ragazza; e
ne vorrebbe il gesso preparatorio, per portare a casa un’immagine, sia
pure inanimata, della donna di cui si crede ancora innamorato. Nella
sua mente, cioè, l’arte dovrebbe farsi sostituto e, per quanto possibile,
alternativa alla vita. Ma le cose, si sa, non vanno mai come si spera. Il
colloquio con lo scultore è lungo e difficoltoso; lo studio dell’artista
risulta un ambiente equivoco, contiguo a un bordello di basso rango,
frequentato da contadini venuti in città per il mercato (da questa con-
tiguità, censurata nel riassunto fortiniano, deriva l’episodio del volo di
Elisabetta, una giovane che irrompe nello studio a portarvi un alito di
vita, in fuga da un cliente troppo insistente; e che dallo studio passa
poi sui tetti, dai quali precipita) 81. Una volta ottenuto lo scopo, e pre-
sa visione del gesso richiesto, il giovane non può che inorridire. Se la
bella immagine vista in chiesa pareva assomigliare all’oggetto del suo
amore e le sculture di Zampaglio risultavano figure «spiranti, felici, vi-
ve …» (La morte del cherubino cit., p. 22), nulla accomuna quel calco,
mutilo e sporco, all’amata. L’arte non può prendere il posto della vita,
della quale è pallida eco; può solo fornire una temporanea illusione,
una parvenza di vero – che a un’indagine attenta si rivela fallace. Fatto
persuaso di questo, il cavaliere fugge verso la marina.
Lo studio del cavaliere è squallido: un luogo che sa di chiuso e di
morte, con un andito buio, un basso soffitto di travicelli, tendaggi pe-
santi, gessi e stucchi di tutte le grandezze a ingombrarlo, che rivelano

81
Ciò crea l’impressione che la ragazza venisse dall’essere stata con lo scultore
e indirizza l’ostilità della folla verso l’artista e il suo giovane postulante. Per questo,
e in preda all’angoscia del momento, il barone fugge a precipizio, inseguito dalle
male parole degli astanti. Mentre si allontana, «s’accorse che la mano gli sanguinava.
La carrozza con un grande fragore partì. Qualche sasso colpì il mantice. Poco dopo
il giovane s’affacciò sperando ardentemente di scorgere fra i tetti lunghe lingue di
fuoco, scintille levarsi tra il fumo, dalla casa del cavaliere Zampaglio». Una spe-
ranza, non un fatto reale, dunque: «Ma presto la carrozza fu nel buio della campa-
gna, fuori porta» (La morte del cherubino cit., p. 34).

331
Massimo Gioseffi

i segreti della loro intelaiatura. E dappertutto, una gran quantità di


polvere, che ricopre ogni cosa:
ma sopra la polvere bianca di gesso e di calce sparsa per terra e sopra
le figure, gravava un’altra polvere grigia, antichissima. Tutte quelle
sculture n’erano ricoperte: anzi, quella sporcizia depositata, segnan-
do i piani, traeva in inganno fra ombre e penombre, creandone false
accanto alle vere, oppure facendo più leggère quelle reali, o più pro-
fonde. Le teste si bendavano d’orride ragnatele; e molte figure, giunte
a quella definitiva calma mortale dopo lunghi travagli, giacevano muti-
late, slabbrate, snasate. (ivi, pp. 12-13) 82
Non diversa impressione suscita la vista del cavaliere: l’artista è colto
mentre consuma un cannolo, la parrucca mal messa in testa, una fac-
cina vizza e sdentata, occhi di coniglio 83, una coperta pesante («un co-
pertoio») a nascondergli i piedi, dalle ginocchia in giù. «Figurava più
tosto un giudeo che un cristiano» dice il narratore, con frase quanto
mai ambigua. Zampaglio ha circa sessant’anni, ma ne dimostra di più,
quasi fosse «una larva, un’ombra», come si definisce lui stesso (p. 14).
Nonostante l’interesse che sembra prestare al suo ospite e alle sue vi-
cende 84, non è figura simpatica. «Buffone», lo apostrofa mentalmente
il barone; che lo percepisce come un vinto: «aveva raggiunto grande
fama in tutta la provincia, come scultore; chiese ed oratori avevano
gareggiato per possedere le sue decorazioni. Ma, così com’era venu-

82
Concorrono all’effetto anche le circostanze esterne: l’ora del crepuscolo (ivi,
p. 13), la giornata uggiosa e malinconica di pioggia che infeltrisce la città (p. 9), il
palazzo dall’aspetto miserabile dove ha la sua abitazione Zampaglio (p. 10).
83
Unico elemento simpatetico, questo, e infatti lo sguardo appare benevolo
ed ilare. Quanto al coniglio, ne troviamo un altro nel finale: in pieno clima arcade il
giovane barone, rappacificato con se stesso, vede un animaletto «ritto sulle zampe
posteriori, le orecchie tese, [che] lo guardava attento. Rise, e lanciò un sasso. Il
coniglio, con goffi lanci, sparì nelle siepi. Un altro sasso volò tra i rami, rimbalzò
sulle scaglie del tronco di un pino, si perdette tra le frasche» (ivi, p. 41).
84
Lo scultore, al racconto delle vicissitudini del visitatore, piange, sia pure
pensando più a sé che al ragazzo. Con fine tocco di psicologia, Fortini ricorda infatti
che «quel vivo dipingere le gioie e le passioni di un’età lontana, il balcone con la
luna, la fresca bellezza di Lucilla, avevano ricondotto Zampaglio in una illusione
frequente: egli – che non aveva avuto una giovinezza particolarmente avventurosa
o ricca di tempestosi affetti – non s’era rassegnato, con l’andar degli anni, a ricono-
scere quanto avaramente fossero state mantenute dalla sua vita le vivaci promesse
dell’adolescenza. Così che, ormai, egli vedeva la propria gioventù come la gioventù
che avrebbe voluto vivere» (p. 21).

332
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

ta, quella fama se n’era scomparsa, l’artista s’era ammalato, poi s’era
chiuso in quella grande stanza, con gli ultimi sacchetti di monete na-
scosti nel materasso» (p. 17). Lieto di avere finalmente qualcuno con
cui parlare, il vecchio, abbandonato e dimenticato da tutti, travolge
il suo ospite con una quantità di parole. Si incomincia con un facile
lamento sulla vecchiaia che avanza:
«Vedete […] le mie povere gambe, saeva senectus … Galeno ebbe a
pensare che ogni parte del corpo ha la sua anima … e l’anima delle mie
gambe, eh, non so dov’abbia intenzione di vagare».
Si prosegue con una puntata più metafisica:
«È vero quello che dice santo Agostino, che cioè corruptibile corpus ag-
gravat animum et deprimit; quindi io domando in quale abiezione sarei
caduto, senza di questi (e sfogliava i volumi) oro, vita, luce, tutto».
Infine, si passa alla poesia:
«Ma ancora! Eh, Lucano! Udite!
Ac veluti montis saxum de vertice praeceps
cum ruit avulsum vento, seu turbidus imber
proluit, aut annis solvit sublapsa vetustas …».

Il giovane subisce con fastidio questo profluvio di parole, pensando di


avere dinnanzi un pazzo, delle cui parole (e specie di quelle in latino)
comprende solo una minima parte. Zampaglio non demorde:
Disegnava nell’aria, il viso gli si schiariva, le rughe si distendevano, tut-
ta la figura irradiata godeva, come quando, passando un panno sulla
tela di un quadro coperto di polvere, i colori ne scintillano e le forme
improvvisamente si animano:
fertur in abruptum magno mons improbus actu
exultatque solo silvas armenta virosque …
E infine, gioiosamente:
involvens secum! … (pp. 15-16)
Come una Sibilla che abbia smesso di essere posseduta dal dio, Zam-
paglio infine si placa, non senza mormorare un’ultima volta «Luca-
no … involvens secum …». «Buffone!», esclama a quel punto fra sé e
sé il visitatore.
Argomento del racconto, l’abbiamo intuito, è il rapporto fra arte e vi-
ta. Il barone, che spera di trovare nell’arte un sostituto alla vita, rimar-

333
Massimo Gioseffi

rà deluso; Zampaglio, che dell’arte ha fatto la propria vita, appare un


vecchio sconfitto. Il concetto si fa evidente quando viene finalmente
ritrovato, in mezzo a mille cianfrusaglie, il gesso tanto cercato:
L’angelo stava appoggiato alla parete, seminascosto da altri frammenti
della decorazione, la testa adattata nello spigolo della stanza. Si alzò
quel collo; il sorriso del cherubino – che rilevava i denti sotto le labbra
ambigue – era sfregiato. Il naso mancava, spezzato alla radice: lì, le
gote lisce perdevano l’aspetto della carne paffuta e si mutavano in una
scheggia granulosa.
Con fatica, il giovane rialzò la figura: anche un braccio era caduto e
mancava la metà del corpo adolescente, dove s’apriva una cavità di
legni e di tralicci […]. «Si potrebbe rifarlo … un lavoro da nulla, eh …
un lavoretto». «Che vuol rifare, che rifare, Cristo! – scattò, esasperato,
l’altro – Lo vede benissimo, che non c’è nulla da fare. Ah, quanto son
stato idiota a lasciarmi tirar fin qui …». (p. 25)

Da questo momento scatta nel barone il desiderio di fuga, che troverà


compimento dopo l’evento drammatico. Scatta però anche l’odio ver-
so quel cimelio, che suona quasi una caricatura della donna perduta:
Il sordo stato d’animo che s’era accumulato entro di lui gli ronzava nel
capo, creando, accanto all’eccitazione divertita del vecchio, una cupa
sorda stanchezza. Vedeva, come in sogno, il vecchio agitarsi, piombare
sull’impiantito i pezzi di gesso, oscillare i pendoli delle statue, vedeva
con quelle rallentarsi, farsi misurati i propri gesti, e astratti. Si avvicinò
poi, disperato, al busto, e disse: «Bene, bene!». Lo rovesciò per terra
e schiacciò quella faccia col tallone dello stivale. «Su, su, ecco … co-
sì …» gridava il vecchio. (pp. 26-27)

La vicenda, come sappiamo, non si esaurisce a questo punto. Al mat-


tino dopo, in parte rinsavito, accortosi non solo della follia del giorno
innanzi, ma anche di non amare affatto più Lucilla, il giovane barone
trova nella natura e nella pace dei sensi la propria consolazione: «Non
c’era più traccia di amarezza; gli pareva d’aver dormito lunghi anni»
(p. 36, corsivo mio). E subito dopo: «‘Che se ne vada per il suo de-
stino’, pensava, ‘e con lei la casa di Zampaglio, gli orrori della città,
tutto’». È una completa palingenesi, la sua, che prelude all’assunzione
di un diverso tono descrittivo, di una prosa che ora si fa lirica, non
esente da toni bucolici (non vi manca nemmeno «un flauto di canna,
come quelli dei pastori», p. 41). A cavallo, vestito per andare a caccia,
il giovane gode dell’atmosfera della giornata, che torna a rifiorire do-

334
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

po le piogge del giorno precedente (altro elemento simbolico), mentre


piante ed erbe scintillano rugiadose ai raggi del sole, l’aria è tersa, il
clima mite, l’umidità fa apparire vicini i casolari lontani, tutta la terra
odora di buono, carica di colori, di profumi, di piacere 85. Neanche il
ritrovamento della statua turba la nuova gioia. La statua riporta alla
memoria i fatti della giornata precedente, ma il barone ne coglie su-
bito la differenza: la dea non potrà mai essere «carica di piaceri amari
come una delle lascive sorridenti figure di Zampaglio, desiderabili
amanti»; «una madre, avrebbe potuto essere, quella donna; una madre
o una sorella» (p. 38). Il suo sguardo è calmo e tranquillo, il sorriso
quieto disvela «una diversa bellezza, più solenne, interminabile, me-
no tormentosa» (ibid.). È l’inizio di una vita nuova, che è però anche
l’inizio di un’arte nuova, nonché di un nuovo modo di concepire la
vita – e gli amori.
«E chissà, qualcuno avrà amata la donna di marmo tratta su dai pe-
scatori, come io il cherubino di stucco … La ritroverò a casa … E fra
tanto tanto tempo, un giovane come me camminerà sulla spiaggia. E
come si raccontano le storie degli antichi, racconteranno di me …».
(pp. 39-40)
Il pensiero di quanto è accaduto non agita più il barone, che si avvia
verso la frescura, verso un fiumiciattolo nel quale bagnarsi, sotto lo
sguardo – già lo sappiamo – di un innocente coniglietto:
Si sentiva così giovane! Alla villa, ci sarebbe rimasto più spesso; sa-
rebbe venuto volentieri a cavalcare sulla marina, che era così bella.
(p. 39)
Cosa ricaviamo da ciò? Primo elemento, sbalorditivo, l’immagine del
sonno dal quale è necessario risvegliarsi come incipit di una «vita nuo-
va» – immagine già rimarcata nel passo sopra riportato, ma evidente
fin dalle prime parole della nuova sezione, separate anche graficamen-
te, con uno stacco netto, da quanto precede:

85
«Non s’era sentito mai così leggero e così sano. Dalla briglia che stringeva e
dal dorso del cavallo che sentiva sotto la sella gli veniva un lieto segno di realtà e di
possesso […]. Tornò col pensiero a Lucilla; ché, abbassando gli occhi aveva veduto
sulla mano il segno ancora rosso di una sgraffiatura. Ma il viso di Lucilla e tutta la
storia che aveva narrato il giorno precedente, gli parevano ormai cose remote, quasi
inesistenti […]. Sentiva una forza pura e calma dentro le vene. ‘Sono felice’, disse
ancora a se stesso, con meraviglia» (pp. 35-36).

335
Massimo Gioseffi

«Si svegliò tranquillamente, dopo un lungo sonno calmo». (p. 34)

Come sappiamo, è l’immagine che Fortini accrediterà per sé alla fine


della guerra, ponendola sulla copertina e nel testo di Foglio di via, la
sua raccolta di versi 86: ed è importante trovarla già qui, sia pure con-
nessa a un personaggio e a una situazione di fantasia (come tali, solo
con molti distinguo considerabili un corrispettivo dello scrittore e
della sua esperienza di vita) 87. Si individua infatti in tal modo un per-
corso unitario, che dal racconto va ad Agonía di Natale, passando per
gli anni di guerra, il periodo milanese e quello ossolano – i cui ricordi
confluiscono in Sere in Valdossola (1963) – le poesie di Foglio di via e
alcuni di quei Versi primi e distanti. 1937-1957, parte dei quali Fortini
raccoglierà per Scheiwiller nel 1987, in un’edizione fuori commercio,
a tiratura limitata e numerata, con acquaforte di accompagnamento.
Elemento dominante del percorso è il tema del progressivo distacco
dalla giovinezza, per acquisire una piena coscienza di sé e del proprio
ruolo nel mondo. Su questa via, nel racconto vediamo utilizzati per la
prima volta una situazione (la necessità di un rinnovamento interiore
che sia anche un netto allontanamento dal proprio passato) e il sim-
bolo che ad essa dà forma (il sonno dal quale risvegliarsi) – situazione
e simbolo destinati a tornare negli anni a venire e ad assumere nel de-
cennio 1938/1948 valenze sempre più profonde e personali, man ma-
no che le vicende storiche e quelle individuali renderanno più netta e
precisa la lontananza del poeta dalla propria giovinezza. Assolutizzare
un momento solo di questo percorso sarebbe, naturalmente, miope e
privo di fondamento. Il che non toglie che il racconto conservi l’at-
testazione di un’inquietudine che appartiene al suo protagonista, ma
appartiene in gran parte anche all’autore e che nelle poesie del do-
poguerra troverà una diversa e più autobiografica esplicitazione (sia

86
Che si apre con una poesia senza titolo, da tempo riconosciuta come la più
ermetica del poeta, pur risalendo al 1946, e che inizia con il sintagma E questo è il
sonno: cfr. P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Prima serie, Milano 1975,
Torino 19962, p. 416; A. Manfredi, Fortini traduttore di Eluard, Lucca 1992, p. 112.
Il sintagma è citato e deriso nel più tardo Composita solvantur cit., p. 62.
87
Lo ha segnalato Lenzini, Il poeta di nome Fortini cit., p. 26., che parla di La
morte del cherubino come del primo testo dal quale traspare «una rivisitazione non
passiva né neutrale, bensì cosciente e critica, della giovinezza» (rimandando a opere
più mature, quali la raccolta Questo muro [1973] o Cani del Sinai [1967]).

336
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

pure in una biografia ricostruita ad hoc e tesa a far coincidere questa


inquietudine con la realtà nuova scaturita dalla guerra). Al termine
del cammino sta Agonía di Natale, il libro che non ammette più l’idea
di un sonno ristoratore né alcuna indulgenza verso il giovanile dor-
micchiare, ed è lontano da qualsiasi forma di (auto)condiscendenza,
compresa quella implicita nell’idea di un possibile risveglio 88. Scrive
giustamente Alfonso Berardinelli che Agonía di Natale si configura di
fatto come il «romanzo della fine dell’adolescenza, della situazione in
cui questa fine è diventata il sigillo di un rimorso, la coscienza di una
piaga inguaribile. È la resa dei conti con il morbo più sottilmente in-
sidioso e micidiale ereditato dagli anni fiorentini» 89. All’altro estremo
cronologico sta il nostro testo, nel quale senso di crisi e bisogno di
rinascita sono ancora avvertiti in modo informe, né appaiono ben de-
finiti i nuovi fini verso i quali tendere, rappresentati sub specie di una
completa palingenesi, di una trasformazione spirituale che deve farsi
metamorfosi di gusto e personale 90. In questo procedimento qualche
peso assumono la cultura classica e il porsi dell’autore (e dei suoi per-
sonaggi) nei confronti della cultura classica. Il racconto si fa così mo-
mento importante e tappa a sé in quella «presa di coscienza» e in quel
«distacco da un gruppo di giovani» coetanei ricostruito, a posteriori,
da Fortini, nella direzione di un rinnovamento, se non ancora di un

88
Niente sonno e niente risveglio si danno infatti per Giovanni Penna, il
protagonista di Agonía di Natale, che pure dichiara (ivi, p. 97) di avere «sempre
desiderato le lunghe notti d’inverno»: «Era l’ora nella quale chi ha vegliato nell’aria
della notte, prova l’orrore di precipitare in una nuova giornata senza l’intervallo del
sonno, e sente, come per un moto nel cranio, l’assurda lunghezza dell’esistenza e la
fatica del giorno» (p. 81). È passato pochissimo tempo, ma è ormai immedicabile
lo «scandalo» dell’essere malato in un mondo «di piena salute». Una volta fattisi
chiari la propria identità storica e sociale e i nuovi fini verso i quali dirigerla (p. 7: «a
chi, come noi, vuole nell’altrui la propria salute»), il passato personale può apparire
solo un errore «lontano, irraggiungibile», per il quale si muore o dal quale ci si deve
allontanare il più in fretta possibile (p. 151).
89
Franco Fortini cit., p. 38. È la messa in discussione di quanto vi era ancora
di immaturo in Foglio di via, verrebbe da aggiungere, laddove nella raccolta poetica
si avverte qualche incertezza sia nel tentativo di recuperare parte della produzione
d’anteguerra, sia nel proporre una possibile coesistenza delle due fasi.
90
«An allegory of transformation» ha definito il racconto Th.E. Peterson,
The Ethical Muse of Franco Fortini, Gainesville 1997, p. 44, che suggerisce anche
l’ipotesi – un poco più azzardata – che nel giovane barone si debba vedere «no
more than the old man’s [cioè Zampaglio] dreamed and recollected self».

337
Massimo Gioseffi

impegno morale e civile ben precisati, al quale gli interessi «propria-


mente letterari» e politicamente non sempre cristallini della gioventù
fiorentina non sembravano dare adeguata soddisfazione 91. Non meno
importante è il gioco che si instaura, nel racconto, con la storia dell’ar-
te e che non implica solo il contrasto fra uno stile e l’altro – dando
preferenza all’uno a scapito dell’altro – ma anche sulla finalità e i mo-
di dell’arte (al teatro dei sentimenti di Zampaglio/Serpotta, vuoto di
realtà quando lo si voglia staccare dal suo contesto di origine e ren-
dere frammento assoluto, si sostituisce la linearità «classica», ma non
priva di risonanze e di accenti, della testa trovata in mare) e sull’idea
stessa di antichità, che sta dietro, sia pure in misure diverse, all’una e
all’altra concezione 92. La statua ripescata è antica, ma ancora capace
di creare vita e sensazioni; è stata viva e torna ad esserlo, perché certe
storie si ripetono in eterno; non trasmette lascivia, ma serenità; non
pretende di farsi oggetto di un culto morboso, ma si pone come para-
digma di un’infinità di storie a catena, ognuna debitrice di qualcosa ai
suoi antecedenti, ognuna però non priva di una propria autonomia ed
originalità. Lo dice assai bene, mi pare, Giuseppe Nava:
Non si tratta dell’atemporalità dell’opera d’arte cara all’estetismo, ma
piuttosto del suo situarsi all’incrocio «dell’ordine profano e di quel-
lo sacro», che la sottrae in quanto valore al flusso del tempo, proprio
mentre nel tempo è radicata come grumo di vissuto personale e di
storia collettiva, e sul tempo torna poi ad agire come modello di inten-
zionalità. Riletto sotto questo profilo, il racconto giovanile La morte
del cherubino […] si presenta come un’anticipazione degli sviluppi se-
guenti della poetica di Fortini, soprattutto nell’apparizione del busto
di marmo […]. Nel destino di scrittore di Fortini è segnato dall’inizio
il fascino intellettuale dell’ideale artistico classico, sotto forma non

91
Cfr. le parole di Fortini in Zangrandi, Il lungo viaggio cit., p. 547: «Una
maggiore presa di coscienza venne (mi pare nel ’37) col mio distacco da un gruppo
di giovani che si avviavano ad interessi propriamente letterari (caffè delle ‘Giubbe
Rosse’, Frontespizio, poi Campo di Marte)». Delle inquietudini fortiniane a inizio
anni Quaranta lascia una bella testimonianza P. Ingrao, Volevo la luna, Torino
2006, pp. 83-84.
92
Cfr. Lenzini, Il poeta di nome Fortini cit., p. 29: «È lecito e suggestivo get-
tare un ponte tra l’autore del Cherubino di stucco e il poeta del Paesaggio, e cercare
in quel Seicento un’allegoria in cui Eros e Thanatos sono chiamati a dire altro da
sé». L’allusione va a Paesaggio con serpente (1984), una delle maggiori raccolte poe-
tiche fortiniane.

338
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

di un’impossibile resurrezione di quel mondo ormai estinto nella sua


totalità, ma del suo frammento scampato al naufragio e simile a quei
«frammenti di ferro meteoritico che pur sempre ferro sono e stanno
sulla terra ma ‘significano’ una diversa origine». 93

È il valore e il senso di che cosa sia un classico, di quale sia il compito


della tradizione quello che dunque affiora – un tema, del resto, che
ha occupato la riflessione critica di Fortini per tutto l’arco del suo
svolgimento 94. Nel racconto, anche Zampaglio si circonda di cose an-
tiche, di libri, di riferimenti, di citazioni (Galeno, Lucano). Ma in que-
sto suo modo di fare c’è esibizione, non vera dottrina. Quei testi che
sfoggia con tanta apparente soddisfazione non servono a nulla, non
sono inseriti in una continuità di racconto e non portano serenità né
conforto; sono un sapere falso, sbagliato, morto. «Al fuoco, al fuoco,
diavolo! Vecchio schifoso! Lucano! Galeno! Al diavolo, il demonio
che sei» pensa il barone quando si accorge del suo errore (La morte
del cherubino cit., p. 33). Un sapere falso, dicevo. E di questa falsità
c’è forse una prova nella lunga citazione di Lucano che ho riportato in
precedenza: perché, pur tanto insistita e sottolineata, la citazione, in
realtà … non è di Lucano! Si tratta infatti di una similitudine virgilia-
na, che viene da Aen. 12.684-689 e descrive Turno nel momento in cui
si reca in battaglia. Ora, ci vuole un orecchio abbastanza stonato per
confondere un poeta con l’altro – il meno noto in luogo del più noto,
oltretutto. Errore d’autore? È possibile. Come è possibile, natural-
mente, che si tratti di una svista priva di significato e di intenzionalità.
Eppure, è lecita una titubanza: l’esattezza e la relativa lunghezza della

93
G. Nava, Fortini e le arti figurative, in Fortini, Disegni Incisioni Dipinti cit.,
p. XVII. Le citazioni nella citazione vengono da Fortini, Verifica dei poteri cit.,
p. 140 = Id., Saggi ed epigrammi cit., p. 177. È impossibile dire quanto ci sia, in tutto
ciò, del magistero di Pasquali.
94
Si ricordi, una fra molte, la folgorante definizione che si legge in Dieci
inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Milano 1957, p. 75: «Fin
quando la realtà che l’opera configura e interpreta non è concretamente oltrepas-
sata dalla storia umana, la presenza dell’opera chiede […] l’incarnazione; quando
lo sia […] essa residua uno scheletro di relazioni pure (di carattere esemplare,
pedagogico: il cosiddetto ‘classico’) le quali tuttavia non possono intendersi se non
sostituendo alle parti morte […] la loro traduzione, quasi sempre istintiva, irriflessa,
in termini vivi; recitandole, quelle opere, per così dire, in costumi moderni». Come
leggere i classici? si intitolava un intervento su «Il Politecnico» del luglio/agosto
1946, pp. 54-58.

339
Massimo Gioseffi

citazione rendono improbabile una conservazione affidata solamente


alla memoria; ma una citazione, è stato opportunamente scritto 95, può
essere «letterale e precisa» o «variata» e, se variata, «adattata» oppure
«erronea». Qual è il nostro caso? L’impressione è che Fortini avesse
sottomano un testo dal quale copiare e sul quale controllare quanto
scriveva; tanto più che se l’Eneide era probabilmente – come all’epoca
era uso – letta e conosciuta per intero, il dodicesimo libro non è mai
stato fra i più frequentati né dalla critica né dai lettori occasionali. Che
Fortini ne ricordasse quasi sei versi di seguito, e senza errori significa-
tivi 96, non è quindi incredibile, ma appare improbabile 97. Stando così
le cose, però, è più difficile non pensare che l’errata attribuzione sia
voluta e significativa, la spia – appunto – di quel falso sapere al qua-
le Zampaglio si affida. Anche quel «Lucano!» con il quale il barone
prende le distanze dal vecchio potrebbe acquistare, in tal caso, un’ul-
teriore valenza sarcastica, facendosi segnale, insieme agli altri, più
espliciti e meno necessitanti di un lettore avveduto, di un’indicazione
di senso che a questo livello della narrazione è ancora in costruzione,
ma che è destinata a venir fuori – come abbiamo visto – dall’intero
complesso del racconto.

3. Stefano Benni, «Il bar sotto il mare»

Terzo e ultimo nome è quello di Stefano Benni. Nato a Bologna nel


1947, per età Benni appartiene ancora a quella generazione che si è
formata attraverso una serie di passaggi obbligati, che attraverso una
certa cultura – volente o nolente – è dovuta passare per forza. Nono-
stante il pubblico giovanile e giovanilistico al quale è indirizzata la

95
Da G. D’Ippolito, L’Omero di Plutarco, in I. Gallo (a cura di), La biblioteca
di Plutarco, Atti del IX Convegno plutarcheo (Pavia, 13-15 giugno 2002), Napoli
2004, pp. 11-35.
96
In realtà, ho corretto ex silentio sia l’arcaico quum in luogo di cum al v. 685,
sia exsultas per exultat al v. 688, probabile svista di stampa dell’edizione 1988.
97
Quanto all’altra citazione di Zampaglio, si tratta di Aug. civ. 14.3, a sua volta
ripresa (con qualche modifica) di Sap. 9.15.

340
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

sua opera 98, nonostante la divisione un po’ manichea che caratterizza


pressoché tutti i suoi libri – con un eroe adolescenziale, portatore di
una speranza di rinnovamento, in lotta contro un mondo orrendo, fat-
to e popolato da adulti 99 – Benni appartiene pur sempre alla schiera
degli adulti e ne conserva una serie di tratti e di caratteri, a comin-
ciare dagli elementi di formazione. Il latino è fra questi: e del latino,
quindi, anche nella sua opera si trovano tracce forse non cospicue, ma
certo interessanti. Qui mi occuperò di tre attestazioni in particolare.
La prima, che viene da una raccolta di racconti del 1994, L’ultima
lacrima (una serie di brevi aneddoti caustici su chi ha avuto vent’anni
nell’Italia televisiva degli anni Novanta – e non c’è da stare allegri), è
la più tipica, anche se cronologicamente la più tarda. Nella divisione
netta in buoni e cattivi, che si è detto caratteristica dello scrittore, gli
adulti rappresentano in sostanza, con pochissime eccezioni, i cattivi,
poiché appartengono a un mondo passato che pretende di occupare
ancora il presente (e occuparlo, oltretutto, malamente). È allora ovvio
che il latino, lingua non più parlata, sopravvissuta solo come materia
di scuola 100, non possa che costituire il male. Con la sintesi fulminante
che lo caratterizza, Benni nel racconto Un uomo tranquillo  101 narra
la storia del dottor Adattati, responsabile «del Settore Srotolamento
Tappeti, Encomio Botanico e Bandistico» dell’ufficio «cittadino Ono-
ranze e Stima del Cerimoniale Patrio»: ossia, la tipica maschera del
conformista che ha rinunciato alla fatica fisica di avere idee proprie. Il
capoufficio di un simile personaggio, il dottor Panunzio, è la figura di
riferimento del nostro eroe: Adattati per sua natura sa modellarsi sulle
regole e sui pensieri del capo, chiunque egli sia. La narrazione si apre
però su un momento difficile per il protagonista, perché il capoufficio
sta per andare in pensione e l’inevitabile cambio di superiore lo ob-
bliga a doversi creare una nuova pelle, un nuovo sistema di valori. Per

98
Intendendo sia chi giovane lo è veramente, per anni «zoccolo duro» fra i
lettori di Benni, sia chi giovane non lo è più troppo, ma è rimasto ancorato a un’età
felice e contestataria, in bilico tra rifiuto dell’integrazione e mito di Peter Pan.
99
Cfr. F. La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine
secolo. Nuova edizione ampliata, Torino 1999, 20032, p. 190.
100
E la scuola, non occorre dirlo, a sua volta è il luogo fisico nel quale si
e­sercitano – per definizione – il potere e la prepotenza degli adulti su giovani e
giovanissimi.
101
S. Benni, Un uomo tranquillo, in Id., L’ultima lacrima, Milano 1994, pp. 73-86.

341
Massimo Gioseffi

questo, mentre il pensionamento di Panunzio è accolto da tutti con


sommo distacco 102, perché il capoufficio di un uomo incolore è a sua
volta una persona incolore, Adattati entra invece in crisi. Il suo credo,
del resto, lo conosciamo: primo,
non avere idee. In subordine (quindi), avere soltanto le idee dei suoi
superiori. Come conseguenza teorica (riquindi), conoscere alla perfe-
zione le loro idee. Come esito pratico (triquindi) adattare in tutto e per
tutto il suo comportamento alle loro idee. (Un uomo tranquillo cit.,
pp. 73-74)

Capire quali fossero le idee di Panunzio non gli era stato difficile; ca-
pire quelle del nuovo capo si rivelerà un problema. Di tutto il raccon-
to a noi interessano però soltanto le idee di Panunzio, ossia il ritratto
di mediocre funzionario che Benni, per suo tramite, viene a comporre.
Uomo insipido e «filogovernativo», non per convinzione, ma perché
là dove sta il governo sta anche il potere – indipendentemente, dun-
que, da chi si trovi al governo – Panunzio si caratterizza (ivi, p. 74) per
il «perbenismo quacchero-governativo con idiosincrasia per il sud del
paese, una vaga misoginia con sospette fantasie lolitiche, il gusto della
citazione latina, la pipa, le scarpe inglesi, la squadra del Deportivo,
l’attore B., il conducatore televisivo T., le barzellette un po’ spinte,
i temperini a ghigliottina, la sfiducia nei medici e i discorsi sull’ul-
cera, intesa come malattia degli eletti». È una sorta di campionario,
questo, dove si vedono in atto le due figure maggiormente ricorrenti
nella prosa di Benni, l’accumulo e l’ossimoro 103. Fra i tanti elementi
che compongono il ritratto (nei quali è facile riconoscere alcuni luoghi
comuni della «cultura» anni Novanta), non manca il latino – o meglio,
«il gusto della citazione latina», segno di un sapere un po’ antiquato,
di buona scuola, dunque fané per definizione, ma che appunto per
questo conferisce prestigio, distinzione, nobiltà – le qualità ideali di

102
«Gli impiegati dell’ufficio accolsero la sua dipartita [il pensionamento di
Panunzio] con cospicua indifferenza, alcuni sbadigliando, altri appisolandosi
durante la cerimonia, altri grattandosi nei recessi» commenta il narratore, ivi, p. 73.
103
La Porta, La nuova narrativa cit., p. 238, nella preponderanza di «ossimoro»
e «paratassi» riconosce la lezione di Alberto Arbasino, alla quale si ispirerebbe più
o meno tutta la letteratura degli anni Ottanta (in Benni, però, con l’aggiunta di un
«uso ironico degli stereotipi linguistici commerciali» e di «una forte intenzionalità
morale», ivi, p. 46).

342
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

un capo, almeno dall’esterno. In realtà quel latino, che vorrebbe es-


sere segno di privilegio e cultura, è indice solo di conformismo a una
certa immagine prestabilita di persona cólta, è prova e conferma di
provincialismo, di arretratezza e meschinità – ma in bocca a un per-
sonaggio filogovernativo e conservatore a tutti i costi, il latino, a sua
volta antico e conservatore a tutti i costi, ci sta a perfezione. La cosa
non dispiacerà certo ai lettori ideali di Benni, per il quale il latino è
la scuola, dunque un idolo negativo. L’assenso è assicurato; il latino
è cosa vecchia e noiosa, adatta a un vegliardo in procinto di ritirarsi
in pensione. A ben vedere, siamo sempre dalle parti dell’Azzeccagar-
bugli: allora come oggi, la lingua antica è mezzo per una distinzione
culturale che è anche sopraffazione sociale; ma, allora come oggi, il
narratore ritiene suo compito segnalare un simile stato di cose e ridere
alle spalle di chi conta su siffatti espedienti. La conoscenza del latino
(un latino preconfezionato, naturalmente, ridotto a poche frasi fatte
e a celebri citazioni) è superflua, non dà un di più di conoscenza, ma
solo riconoscibilità. Riconoscibilità che finisce per ritorcersi contro
chi ad essa si affida, per sminuire e mettere in ridicolo chi ci crede.
Del resto, lo diceva già la Morante: «Il Potere – qualunque tipo di Po-
tere, si intende, anche quello che si limita a una ridicola esibizione di
simboli – […] è degradante per chi lo subisce, per chi lo esercita e per
chi lo amministra! Il Potere è la lebbra del mondo! E la faccia umana,
che guarda in alto e dovrebbe rispecchiare lo splendore dei cieli, tutte
le facce umane invece dalla prima all’ultima sono deturpate da una
simile fisionomia lebbrosa!». È inutile, alla fine siamo tutti nipotini di
Elsa … 104.

Eppure, pochi anni prima, nel romanzo Comici Spaventati guerrieri


(1986) 105, la situazione appariva diversa. Se ne capisce la ragione. Pro-
tagonista del romanzo è Lucio Lucertola, un anziano ex-professore di
italiano e latino, ora settantenne e in pensione. Lucio si trova ad inve-
stigare sulla morte di uno dei suoi allievi più cari, ad onta di risultati
scolastici non proprio brillanti, il ventunenne Leone Leoni (tutti i per-
sonaggi del romanzo hanno un nome che riporta ad animali, simbolo
del loro carattere). Leone è stato rinvenuto morto, ucciso da un colpo

104
Morante, La Storia, in Opere cit., II, pp. 677-678.
105
S. Benni, Comici spaventati guerrieri, Milano 1986.

343
Massimo Gioseffi

di fucile, una mattina d’estate, nel giardinetto di un condominio – anzi


ConDominio, come scrive Benni – di un quartiere elegante della cit-
tà 106. A rigore di logica, non avrebbe dovuto trovarsi lì. Le ragioni che
ve lo hanno spinto restano ignote; le indagini, condotte da un com-
missario solerte e non privo di interessi (legge i lirici greci e si riposa
con le parole crociate) non approdano a nulla. La versione ufficiale
sostiene, e sosterrà fino alla fine, che Leone è stato ucciso per legitti-
ma difesa da ignoti che si apprestava a derubare. Lucio, coadiuvato da
un altro amico di Leone, un ragazzino di undici anni, Luca Lupetto,
e ­– in minor misura – dalla fidanzata dell’ucciso, Lucia Libellula, non
accetta questa idea, e si mette a indagare per proprio conto. In realtà,
anche le sue indagini non approdano a nulla: la verità ufficiale resta
la sola possibile. Nel complesso, Lucio può soltanto scoprire (senza
arrivare a dimostrarlo) che il ConDominio è abitato da furfanti d’alto
bordo, che hanno fatto fortuna chi nel commercio delle armi, chi del-
la droga, o nella produzione di materiale pornografico; ma in virtù di
parentele e affiliazioni giuste, dalla mafia alle logge massoniche, senza
trascurare una carriera in parlamento, sono destinati a rimanere im-
puniti. Come dice amaramente un ben informato, il Gallo, a volte si
cerca per trovare, a volte si cerca per nascondere (Comici spaventati
guerrieri cit., p. 153). Non sapremo mai la ragione della morte di Leo­
ne: l’importante del resto non è il «perché» sia avvenuta, ma «che»
sia avvenuta, che passi nella nostra coscienza di assuefatti l’idea che è
possibile uccidere e morire senza un motivo apparente. «La gente sa
che in fondo si può fare» (ivi, p. 168). A lottare contro una simile ras-
segnazione restano unicamente pochi ribelli, che credono ancora in
un mondo nel quale la verità e il rispetto reciproco sono valori, poveri
sopravvissuti destinati a essere irrisi e malconci, «comici spaventati
guerrieri», appunto.
In tutto questo Lucio si pone, in virtù dell’età, come custode idea­
le di un mondo in via di sparizione (o, forse meglio, di auto­di­stru­zio­
ne) 107. Figura e situazione sono ricorrenti nella prosa di Benni, e molti

106
Sul ruolo della città all’interno del romanzo cfr. E. Godono, La città nella
letteratura postmoderna, Napoli 2001, pp. 116-119.
107
«Un custode della memoria» lo definisce Benni in una conversazione con gli
studenti dell’università di Verona, raccolta in S. Tani (a cura di), Scrittori a Verona,
Verona 2001, pp. 41-63 (l’affermazione è a p. 47).

344
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

potrebbero essere i casi da citare a confronto  108. Più interessante è


osservare che Lucio e Luca sono, se non lo stesso, quanto meno nomi
strettamente assimilati, ai quali si unisce, variazione paronomastica e
allitterante, anche il terzo, Leone e, quarto, quello della protagonista
femminile del romanzo, Lucia – Lucio, Lucia e Luca essendo tutte va-
riazioni paretimologiche sull’idea di lux (Luca, in realtà, non c’entra).
Viene in mente, in parallelo, il dipinto di Tiziano oggi alla National
Gallery di Londra sulle tre età della vita umana  109. Il quadro raffi-
gura tre teste maschili, di età differenti, il giovane, l’uomo maturo,
il vecchio, con sotto tre musi animali, e cioè un cane, un leone e un
lupo. Messi a confronto i due «testi», c’è da osservare la sostituzione
della lucertola (raffigurazione totemica di Lucio) al cane, trattandosi
di animale meglio confacentesi a un vecchio che passa le giornate a
crogiolarsi al sole sul terrazzino della sua casa all’undicesimo piano
di un quartiere di periferia. Naturalmente, non so se si possa pensare
a una derivazione diretta da quel quadro, ma a una parentela temati-
ca direi senz’altro di sì 110. Lucio, Leone e Luca non sono, in Benni,
tre persone, ma tre facce, corrispondenti a tre età differenti di uno
stesso personaggio, che appunto per questo possono trovarsi in re-
ciproca sintonia, in opposizione al mondo esterno – il ConDominio
del romanzo. Ognuna di queste età è caratterizzata dal suo animale: il
lupo divoratore di curiosità e conoscenza; il leone padrone del mon-
do, come solo i giovani sanno esserlo; la lucertola amante del sole e

108
In una intervista rilasciata a Grazia Cherchi per «Panorama», agosto 1989
(ora in G. Cherchi, Scompartimento per lettori e taciturni. Articoli, ritratti, interviste
a cura di R. Rossi, Milano 1997, pp. 217-222), lo scrittore dichiara di essersi ispirato
a una figura reale, «un vecchio professore che avevo conosciuto in passato» (ivi,
p. 219); cfr. anche Tani, Scrittori a Verona cit. Lì Benni insiste sulla corrispondenza
fra personaggi del romanzo e figure di spicco del movimento del Settantasette bolo-
gnese.
109
Da altri inteso come un’allegoria del Tempo e della Prudentia (così sembra
indicare la scritta «Ex praeterito praesens prudenter agit, ni futurum actione detur-
pet»). Il dipinto, che probabilmente conserva i ritratti del pittore, del figlio e del
nipote, è databile intorno al 1565: cfr. l’ampia dossografia raccolta da L. Puppi, in
Tiziano, Palazzo Ducale, Venezia - National Gallery of Art, Washington, Venezia
1990, pp. 347-349, nr. 67.
110
Godono, La città nella letteratura cit., p. 116 nt. 203, nei nomi animaleschi
dei diversi personaggi riconosce un elemento da «‘fiaba’ postmoderna», probabil-
mente ispirato dai cartoons della Walt Disney (il padre di Luca si chiama Ezechiele,
come un personaggio disneyiano).

345
Massimo Gioseffi

della stasi, che però, se è riscaldata dal sole di un ideale, si muove


come un vecchio riflessivo e indomito. Ciascuno di noi, se non cade
vittima del ConDominio, è un po’ tutti e tre questi animali; ma è fine
precipuo del ConDominio cercare di impedire e bloccare la nostra
naturale evoluzione dall’uno all’altro, spegnere il tratto ferino che è
in noi. Quanto alla corrispondenza fra i personaggi, nel testo essa è
esplicita: se Lucio viene descritto come un settantenne con proble-
mi prostatici, insegnante di italiano e latino, s’è detto, «ma curioso
in altre materie», di Leone, Leone l’allegro, Leone il curioso, Lucio
dice esplicitamente: «Se avessi vent’anni sarei come lui». E a Leone
guarda anche Luca come al proprio modello, a quello che vorrebbe
diventare da grande. Sicché, quando Lucio vede Luca dall’alto del
suo appartamento, ignorando ancora il legame che si verrà a creare
fra loro (Luca sta giocherellando in cortile con un pallone, con fare
annoiato), può ben dire «Quello sono io» (p. 16). Non stupisce nem-
meno che proprio il vecchio sia la figura centrale di questo trittico,
né che sia figura assimilabile ai molti ribelli della prosa di Benni, o
che il latino (più ancora dell’italiano) sia la materia prescelta a con-
notarlo. Non è stato Benni a inventare il ruolo di risolutore di enigmi
cui porta la cultura classica. Nei romanzi dell’Ottocento già esiste una
tradizione che agisce in tal senso: lo studioso di cose antiche, proprio
perché il suo sguardo è rivolto a un passato lontano, non si lascia ir-
retire dalle sirene del contemporaneo, quindi neanche dalla parvenza
di verità, infondata e truffaldina, che molti vorrebbero imporre alle
cose. Se questo può diventare motivo di grettezza, come avviene per
il Casaubon di Middlemarch, per intenderci, può anche essere, invece,
un punto di forza. È quanto succede al dottor Strong (nomen omen)
di Dickens, oppure al Monsieur Bergeret di Anatole France. Ma quel-
lo che importa al nostro assunto è appunto che nel romanzo di Benni
risulta con chiarezza come, alla ricerca di un personaggio simbolico,
il professore di latino offra proprio questo: il ripiegamento verso un
passato senza essere necessariamente chiusi al presente, una sicurezza
e una continuità fra le epoche e le generazioni.
Su questo fondamento, si apre lo spazio per una serie di giochi
e di citazioni, tutti di carattere comico, nel quale il latino e chi lo usa
vengono (simpaticamente) derisi. A differenza che nella raccolta del
1994, il tono è bonario. Si tratta di proverbi famosi e di dominio co-
mune, come semel in anno licet insanire (lo ricorda, p. 155, Arturo

346
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

l’Astice, operaio in pensione mutilato di una mano, compagno di


Lucio al bar); oppure, di facili formule trasformate da «Un Po’ No-
iose Verità» (maiuscolo d’autore) in rassicuranti premonizioni, come
nel caso delle parole rivolte da Lucio a Lucia poco prima di morire,
p. 169, nelle quali spero promitto e iuro «reggono un infinito radioso
futuro»; infine, di celebri motti, come, a p. 186, nascitur in igne (con
allusione al fuoco della passione e della irriducibilità a ciò cui vogliono
costringerci gli altri). Uscita da chissà quale via è una neoformazione
poetica (o, almeno, così definita, pp. 11-12), pensata da Lucio all’atto
della difficoltosa minzione mattutina: tam citus prosilit, nunc prolapsa
prostata. Il primo emistichio (chiamiamolo così), prima della giocosa
allitterazione, è un calco umoristico su Pomponio Mela, 2.55-56, che
si sta riferendo al Po, il quale nasce dal Monviso parvis […] primum e
fontibus, ma che poi tam citus prosilit ut discussis fluctibus diu qualem
emisit undam agat suumque etiam in mari alveum servet (sembra spia
della derivazione il non indispensabile tam del conio benniano). Nella
ricontestualizzazione si avverte l’ironia: dalle acque grandi e solenni
del fiume alle difficoltà di un vecchio ammalato … Un analogo gioco
si riconosce per il richiamo a Aen. 2.1, conticuere omnes intentique ora
tenebant, che si trasforma, p. 185, nel sogno del vecchio professore –
di tutti i professori – riuscire a tenere inchiodato un uditorio come
Enea a Cartagine. A p. 42 funere mersit acerbo è citazione virgiliana,
malamente interpretata (e volutamente male interpretata). È il pen-
siero di Lucio alla morte di Leone, una vita sprecata a poco più di
venti anni; ma le parole autoriali del narratore esterno che discute il
giudizio di Lucio collidono con Virgilio, e il motto famoso diviene oc-
casione per prendere le distanze da una certa cultura vista non come
esempio di pietas e dolore di fronte allo sciupio della giovinezza, ma
come ennesima variazione sul tema trito e ritrito (e poco adeguato al
momento, ma anche al contesto virgiliano) del «muore giovane chi è
caro agli dèi».
Funere mersit acerbo, muore giovane chi è caro agli dèi un cazzo,
professore. Come possono il Fato il Supremo il Caso le Parche il Dio
Burlone fare simili errori?

È il Benni più tradizionale, quello che gioca all’accumulo, all’ironia,


all’associazione di termini inaspettati, ma soprattutto sollecita – titilla,
verrebbe da dire – i suoi lettori e la loro adesione. Non saranno concor-

347
Massimo Gioseffi

di tutti a vedere deriso, con tanto di turpiloquio simil-giovanile, uno


dei concetti cardine che ancora la scuola si affanna a insegnare? Tan-
to meglio se nel contempo passa anche una verità importante – poco
importa, invece, se l’autore citato è completamente travisato nelle sue
parole 111. Ecco infatti soddisfatti due princìpi cardine del comico: da
una parte, lo scarto fra comparando e comparato, che nel nostro caso
si fonda sulla distanza ironica fra il latino (avvertito pur sempre come
alto, nobile, solenne) e l’oggetto a proposito del quale viene utilizzato,
fosse anche un’aula scolastica o l’umile urina 112. Dall’altra, ci trovia-
mo di fronte a una nuova tipologia di ossimoro, la citazione cólta che
però il vero narratore provvede poi a smontare, scavandole la terra
sotto i piedi, prendendo le distanze dalle parole di cui si compone e
dall’autore che quelle parole aveva pronunciato, per rivelarne la boria,
il trionfalismo, la vacuità – ma boria, trionfalismo, vacuità sono gli in-
gredienti di quanto si impara a scuola. Di diversa forma, ma identico
genere, vanno considerate l’affermazione che non è certo Virgilio a
procurare a Lucio l’ultimo turbamento erotico della sua vita (p. 147);
oppure, e forse meglio, la lista di grandi poeti, pp. 140-141, che sono
tutti morti giovani, entro i quaranta anni (l’età di Benni al momento
di congedarsi dal libro) 113, messi a confronto con chi a quell’età è so-
pravvissuto, l’irriso Manzoni giunto a ottantotto o D’Annunzio che
inneggia alla morte e poi «la tira in lungo fino a 75 anni».
Ma c’è un altro Benni, all’interno del romanzo. È il Benni che
affiora sotto questa superficie, che utilizza il latino non per semplice
gioco, ma per convogliare qualche informazione ai suoi lettori, o al-

111
Di «acuta satira dell’insegnamento scolastico nozionistico, predefinito»
parla invece Godono, La città nella letteratura cit., p. 118 nt. 212; ma una vera satira
non dovrebbe avere un’alternativa da proporre? E non dovrebbe fondarsi su dati
esatti, non su un forzato travisamento, come nel caso del testo virgiliano? È lecito
qualche dubbio, mi pare.
112
«I poveri gesti e abiti e comportamenti dei nostri ‘spaventati guerrieri’, cioè
del mondo dei sobborghi, viene gravato [sic] di frasi dotte, sentenziose, estratte da
altri contesti e trasferite in modo da stridere al contatto», scriveva già R. Barilli, È
arrivata la terza ondata. Dalla neo alla neo-neoavanguardia, Torino 2000, p. 44; in
questo procedere soccorrono «le armi del comico, con i loro meccanismi obbligati:
che stanno nel giocare sistematicamente di incongruità, di spiazzamenti, di carichi
eccessivi» (ibid.).
113
Lista non priva di imprecisioni, peraltro: ad esempio, Oscar Wilde (1854-
1900) vi è detto morto a trentaquattro anni, con palese svista.

348
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

meno a parte di essi: quella parte, cioè, che è in grado di intendere la


citazione, il riferimento; significando con questo non tanto capire che
cosa vogliano dire le singole parole usate, o da dove esse siano tratte
(notizie, queste, che Benni non nasconde al suo pubblico), ma quale
sia l’uso che ne viene fatto, il meccanismo narrativo applicato e le sue
implicazioni – notizie, viceversa, che lo scrittore lascia tutte sottinte-
se, a sfida di chi legge. È quanto avviene per la sindrome di Anchise
citata a p. 134 come impossibilità di deambulazione autonoma, senza
indicare l’origine dell’espressione e divertendosi anzi ad offrirne una
descrizione (para)medica paradossale; oppure, e anche meglio, per
una citazione virgiliana che è una presa di distanza dai personaggi ai
quali si riferisce – personaggi che però non sono i soliti, odiosi adulti,
ma un gruppo di giovani, o almeno una certa tipologia di giovani. Si
tratta dei Notturni, i forzati della notte, del divertimento a tutti i costi,
della discoteca. Li vediamo, p. 86, in strada a tarda ora, davanti al bar/
gelateria di moda, convinti di essere liberi e forti, ma in realtà perfet-
tamente omologati in tutto, perfino nel modo di vestire – l’allusione
va agli anfibi, simbolo ineludibile degli anni Ottanta.
Lucio appoggiò la fedele destriera [Bice, la bicicletta con la quale
dialoga] a un muro e si mise ad ascoltare il rumore dei notturni che
marciavano.
Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum [Aen. 11.875]
«Verso onomatopeico che suggerisce cavalli in corsa», spiegò, «di Vir-
gilio Marone».
«Morto anche lui giovane?»
«Nato nel 70»
«Poveraccio! Neanche vent’anni. Fatti un gelato e non pensarci».

Siamo dalle parti di Totò («Come passa il tempo!»); la citazione – non


del tutto appropriata: i Notturni solo in virtù del rumore prodotto
dai loro scarponi/zoccoli possono essere paragonati a cavalli al ga-
loppo nell’impeto di una battaglia 114 – risponde al gioco di sempre,
un testo nobile e famoso che viene accostato a un oggetto basso, che

114
Con forse una possibile eco di Gadda e della Cognizione del dolore, nella
quale si ritrovano sia la forma «quadrupedante» e derivati vari, sia il popolo di
«peoni e peonesse» zoccolanti, oranghi pronti a invadere la casa di don Gonzalo e
della madre: cfr. C.E. Gadda, La cognizione del dolore, in Id., Romanzi e racconti, I,
a cura di R. Rodondi - G. Lucchini - E. Manzotti, Milano 1988, p. 728.

349
Massimo Gioseffi

non sa di esserlo e si crede à la page, mentre proprio l’accostamento


con un testo alto ma non pertinente mette in evidenza il suo essere
basso e inappropriato. Nel contempo, l’imprecisione del riferimento
e gli equivoci cui danno origine le parole alle quali si accompagna
consentono di smorzare il tono altrimenti troppo solenne, troppo
paludato del contesto, prendendosi gioco dei personaggi in azione: a
cominciare da Lucio, che quella citazione pronuncia, facendo sfoggio
di una dottrina inopportuna; ma senza escludere Bice, che con petu-
lanza commette uno strafalcione dopo l’altro. È il Benni più tipico,
insomma, con però una differenza: che lo scarto qui è occasione per
una valutazione morale lasciata in sostanza implicita, anche se in parte
convogliata dall’intera scena, e che si rende pienamente percepibile
solo nel momento in cui si sia in grado di cogliere la differenza fra i
guerrieri virgiliani e questi giovani falsamente anticonformisti. È un
po’ come se fossero previsti due lettori: uno che sa e capisce, e allora
avverte anche quanto non viene apertamente detto; l’altro che non si
trova in una simile condizione, e quindi si deve fermare alla superficie
delle cose e accontentarsi delle parole di Lucio (e di Benni)  115.

Ciò è ancora più vero, mi pare, se guardiamo a Oleron, l’ultimo testo


che vorrei analizzare. Ci troviamo nella raccolta di racconti Il bar sotto
il mare, del 1987 116. Il bar del titolo si trova davvero sotto la superfi-
cie marina, in un mondo «altro» che non rispecchia la nostra Terra.
Il narratore primario vi è arrivato per caso, inseguendo un anziano
signore gettatosi in acqua, scambiandolo per un suicida (il coniglio di
Alice?). Il locale è popolato da avventori molto differenti tra loro, raf-
figurati nella copertina di Giovanni Mulazzani, che del volume è parte
integrante e imprescindibile. Ci sono una bionda che potrebbe essere
Jean Harlow o Marilyn Monroe, un signore dagli occhiali neri pare
proprio John Belushi, due ragazzi col ciuffo da punk alla moda di
Nina Hagen, un uomo intabarrato con i tratti di Edgar Allan Poe, una
vecchietta in stile Miss Marple, una sirena, un nano, un cane nero, un

115
Va ricordato che la citazione non è priva di una sua popolarità, proprio come
esempio di onomatopea. Pasolini la usava a questo scopo con gli allievi romani (lo
ricavo da G. Meacci, Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma 2000); in
letteratura se ne segnala un significativo riuso in S.S. Van Dine, The Garden Murder
Case, New York 1935.
116
S. Benni, Il bar sotto il mare, Milano 1987, pp. 87-115.

350
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

cuoco, un marinaio … Inutile l’elenco: l’impressione è che ci si trovi


davanti a rappresentanti eterogenei del popolo dei Freaks, in una sorta
di accumulo e di mescolanza di culture – e livelli di cultura – diversi,
vero emblema del postmoderno. Ognuno dei personaggi raffigurati,
quasi si trovasse sulla strada per Canterbury, reciterà un racconto,
che da lui prende nome; per ultimo, il narratore primario («L’ospite»)
viene invitato a rispettare il gioco e inizia una storia subito troncata
alle prime parole: che però sono le prime parole del libro, quelle del
prologo, nel quale si narrava l’apparente suicidio del vecchio, il suo
inseguimento, l’arrivo al bar dove tutti dicono una storia. È un circolo
chiuso quello che si viene così a creare, di evidente (e scoperta) ma-
trice metaletteraria. Non meno scoperto è il gioco che si instaura con
la tradizione, la letteratura «alta»: ognuno dei narratori non si limita a
raccontare, ma adegua la narrazione alla propria immagine o allo stile
che si suppone possa appartenergli. Ogni storia è perciò mimetica di
una forma letteraria, in un gioco di accumuli (sempre la stessa figura)
che si fa emblema precipuo della scrittura benniana. A noi interessa il
racconto dell’uomo con il mantello, quello con le sembianze di Poe. Si
intitola Oleron, che è il nome del protagonista, il conte Maurizio De-
nian di Oleron. In una notte buia e tempestosa, il narratore (Egistus)
si trova ad attraversare in automobile una valle deserta e inospitale, la
Valle dell’Ombra. Sul più bello, la macchina si guasta ed Egistus è co-
stretto ad abbandonarla e a chiedere ricovero in un vicino casale. Da lì
viene inviato alla villa del conte Oleron, l’unica abitazione nei paraggi
che sia dotata di telefono. Oleron non è una persona qualsiasi. Egistus
lo ha conosciuto circa vent’anni prima, quando entrambi frequentava-
no il collegio in una città dei dintorni. Già allora Oleron era un ragaz-
zo speciale, dall’aria lugubre e sinistra, sempre vestito di nero, adepto
di culti e riti satanici, bravissimo a scuola (soprattutto in greco e in
latino), ma odiato da tutti e da tutti tenuto lontano, inclusi gli stessi
professori, urtati da quanto di freddo emanava dalla sua persona («È
come se facesse odore di cimitero», commenta un compagno, p. 90).
Durante la permanenza a scuola, Oleron aveva esercitato un’influenza
nefasta su Egistus, che a poco a poco si era lasciato trascinare nelle
stesse pratiche e fissazioni; per fortuna la permanenza di Oleron nel
collegio era durata poco: cacciato dopo avere sputato in faccia a un
insegnante, era stato abbandonato anche da Egistus, coinvolto in una
(apparente) cerimonia macabra sfociata nell’incendio della casa dello

351
Massimo Gioseffi

stesso Oleron. Del giovane conte, da quel momento, si erano perse


le tracce. Ora Egistus lo ritrova, e non è entusiasta. Tanto più che il
comportamento di Oleron appare ambiguo: da un lato rassicura più
volte l’ospite inatteso circa la sua condizione odierna di rispettabile e
stimato gentiluomo di campagna; dall’altro, si diverte a provocarlo,
rievocando fatti e credenze del passato, ma – ancora più – l’atmosfera
morbosa e terrorizzante che lo circondava da ragazzo. Vari elementi
acuiscono il disagio: la notte, il buio, la tempesta, la casa dall’aspetto
poco rassicurante, l’isolamento, l’assenza di altre persone all’infuori
dei due (ex) amici e di una portinaia sdentata e poco socievole, la
mancanza di luce elettrica, strani rumori che vengono dalle stanze
interne, un grido improvviso e ripetuto, un’apparizione di Oleron
in veste di simil-pipistrello (ma forse stava solo recando una coperta
all’ospite), libri di esoterismo sparsi un po’ dovunque, oggetti strani,
fra i quali un pugnale che si direbbe sporco di sangue e sul cui manico
sono incise alcune parole latine, tum cruor et volsae labuntur ab aethe-
re plumae – il latino era il linguaggio prediletto dal giovane Oleron,
non per amore verso quella lingua o quella letteratura, ma in quanto
strumento magico, adatto ai commerci con il demoniaco. Ce n’è quan-
to basta per impressionare Egistus (e anche il lettore). Ogni arcano
però si svela nel sottofinale – il finale riserva un’ulteriore sorpresa,
che qui tacciamo. Oleron è effettivamente ciò che ha detto di essere,
un oscuro e imbolsito avvocato di provincia, con moglie e figli (dalla
televisione derivavano gli strani rumori e le grida), che non ha proprio
nulla di misterioso e nulla, quindi, da nascondere.
Così ora sai. Non devo più recitare. È vero, sono un tranquillo avvo-
cato di provincia, con una moglie noiosa, due figli, amici stupidi, ore
vuote. Questo è l’orrore che non mi attendevo. (Oleron cit., p. 113)

Il vero orrore è la quotidianità, il resto sono artifici, elementi fasulli


di una messinscena fasulla; in una parola, letteratura – e proprio per
questo il racconto esibisce in modo così ostentato la sua letterarietà,
addirittura sfacciata, verrebbe da dire, fin dall’incipit (o forse ancora
prima, dall’essere la narrazione dell’uomo con il mantello e una veste
ottocentesca). Ora, a voler verificare i possibili testi paralleli, dovre-
mo senza dubbio tenere conto di tutta quella letteratura che Benni
stesso denuncia, e che costituisce la base della cultura e delle letture
di Oleron, Poe e Baudelaire in testa; forse un pensiero andrà dedicato

352
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

anche a The Sphinx without a Secret di Oscar Wilde (1887), mentre il


finale si direbbe riportare all’indiscusso capolavoro di questa tradizio-
ne, The Turn of the Screw di Henry James (1898). A noi però interessa
l’uso del latino. Il latino, l’ho già detto, è la lingua dei testi sapienziali,
la lingua magica per definizione: è noto e riconoscibile, ma ormai è
poco studiato e non realmente diffuso; ha un sapore antico e arcano;
può assumere valenza di gergo.
Latino e greco – mi spiegò – sono lingue dei libri magici. Anche l’ara-
bo e il cinese antico sono lingue che custodiscono segreti. Nessuna
delle lingue moderne è utile per interpretare i segni del tempo dietro
al tempo. (ivi, p. 95)

Anche per questo non mancano i termini di confronto, e Cien años


de soledad (1967) basti per tutti 117. Quanto importa di più, nel conte-
sto del racconto di Benni, è tuttavia il gioco relativo alla citazione sul
pugnale. Non è difficile riconoscervi un passo famoso dell’Eneide, un
verso (Aen. 11.724) che viene da una similitudine nella quale Camil-
la – che sta uccidendo il figlio di Auno – è paragonata a uno sparviero
che abbia ghermito una colomba e la trascini nell’alto del cielo, men-
tre con gli artigli la sta già facendo a pezzi, cosicché cruor e vulsae […]
plumae cadono al suolo 118. È chiaro che sul manico del pugnale la ci-
tazione risulta decontestualizzata, e importa soltanto per il riferimento
al sangue che vi si incontra. La posizione dell’incisione (ossia il coltel-
lo), le macchie alle quali si accompagna (probabilmente di ruggine), il

117
Nel romanzo di Gabriel García Márquez il latino è – oltre che la lingua inse-
gnata dal vecchio catalano ai quattro amici del sottofinale (sulle pagine di Ovidio e
Seneca) – il linguaggio nel quale si esprime il vecchio José Arcadio Buendía legato al
castagno di casa. Lingua misteriosa, dunque, percepita come esoterica, non diversa
da quella parlata dallo zingaro Melquíades: ed è solo la penetrazione a Macondo
della Chiesa (che del latino si è fatta garante) a permettere di riconoscerla per un
linguaggio non più parlato, ma non privo di storia e di una sua norma: cfr., nella
recentissima edizione commemorativa con testo rivisto dall’autore, s.l. 2007, alle
pp. 96, per la «lengua extraña» di José Arcadio; 103, per la scoperta del latino; 452,
per le letture di Ovidio e Seneca. Si potrebbe aggiungere che nella saga di Harry
Potter le desinenze in -us di gran numero di parole e le assonanze di certi nomi
riportano a questo uso magico del latino: che però, significativamente, non è quasi
mai «vero» latino.
118
Scena ed immagine vengono da Hom. Il. 22.139-142 (Achille all’inseguimento
di Ettore), il pathos è tutto virgiliano: Omero si limitava a descrivere la fuga affannosa
dell’animale che teme di essere catturato; Virgilio lo fa raggiungere e uccidere.

353
Massimo Gioseffi

senso magico che dal latino traspira sono tutti motivi che concorrono
a ottenere l’effetto desiderato 119. Effetto che, in ogni caso, sarà diverso
a seconda del lettore che affronta il passo. Per il lettore dotto, in grado
di riconoscere la citazione, i versi virgiliani avranno infatti valore di
ammicco; per gli altri saranno un elemento del macabro, come Egistus
con la sua narrazione ha cercato di farci credere. Il che però vuole
dire, pensando allo scrittore e al suo pubblico di riferimento, operare
una netta distinzione fra coloro che si trovano davanti al testo. Gli
uni possono sfruttare fin da questo momento il dettaglio che viene
loro offerto come un mezzo per cogliere la letterarietà della situazio-
ne, l’innocenza del contesto narrativo, la non drammaticità del finale,
prevedendo anche l’esito del racconto – o, quanto meno, la falsità del-
la situazione nella quale Egistus, narratore inaffidabile, ci ha sagace-
mente introdotti, inducendoci a leggere come preoccupanti cose che
preoccupanti, di fatto, non sono. Gli altri, sprovvisti delle necessarie
informazioni (in nessuna parte del racconto viene indicato che la frase
incisa costituisce, in realtà, una citazione), sono costretti a credere a
quanto il narratore vuole che essi credano, si trovano cioè esclusi dai
mezzi di decifrazione e da alcune informazioni di cui i primi sono, al
contrario, dotati. Si crea così un doppio regime, una doppia capacità
di lettura. A una parte del pubblico Benni esibisce la superficie del
racconto, il gioco del macabro, che poi si rivela innocuo, che poi si
rivela macabro, con continui rivolgimenti del punto di vista narrativo
e di quella barriera fra reale e irreale che è l’elemento di forza del
libro; all’altra ha indicato il suo richiamarsi a fonti alte, che sono fonti
letterarie, ostentatamente tali (notizia che dal dettaglio specifico si ri-
verbera sull’intero racconto) 120. Usando i termini della classificazione
di Wayne Clayson Booth, potremmo parlare di un «pubblico auto-
riale» e un «pubblico narrativo»: il primo costituito da «quei lettori

119
Riccardo Scarcia mi ha giustamente ricordato un parallelo dal Capitan Fra-
cassa (1861-1863): la giovane Chiquita reca con sé un pugnale sulla cui lama si legge
«Cuando esta vivora pica, / no hay remedio en la botica» (cito da Th. Gautier, Le
Capitaine Fracasse, Paris 1967, p. 194). Lo spagnolo come il latino, dunque, esotico
se non esoterico, oltre che a priori più adatto al personaggio in questione.
120
E che era sottintesa da altri segnali, meno perspicui (almeno fino al momento
in cui non possono essere messi in relazione fra loro, dopo che si è fatta luce): la
raffigurazione dell’uomo del mantello, ad esempio; oppure la serie di allusioni e
riferimenti ad autori del secolo diciannovesimo, quali Poe e Baudelaire.

354
Citazioni classiche in tre autori del Novecento

che sono impliciti in tutto ciò che dice o non dice l’autore per rendere
il libro accessibile, e in particolare per rendere accessibile la sua ba-
se fattuale. I membri di questo pubblico […] in ogni lettura riuscita
[…] giungono prima o poi a condividere tutti (o la maggior parte, o
i più importanti) i fatti e i valori comunicati dall’autore implicito»;
il secondo è un pubblico che «vive gli avvenimenti come se fossero
reali, e la narrazione come se fosse un resoconto storico»  121. Messa
così, la distinzione è forse eccessiva: la letteratura d’intrattenimento, il
genere fantastico, l’approccio ludico-ironico dell’insieme del libro – se
non di questo specifico racconto – invitano a non esagerare troppo.
Resta, ad ogni buon conto, la divisione fra chi è in grado di cogliere la
citazione (citazione peregrina, si osservi, da un libro e da un contesto
poco frequentati a scuola) e chi invece no. E ciò, nel caso di Benni,
rischia di comportare una distinzione «tipologica», se così si può di-
re, fra i suoi lettori: perché pubblico autoriale saranno, con maggiore
probabilità, gli adulti, i coetanei dell’autore, che hanno sperimentato i
medesimi passaggi obbligati e sono presumibilmente ancora in grado
di decifrare il latino, e magari perfino di riconoscere la provenienza
della citazione, con quanto ne consegue; pubblico narrativo saranno
senz’altro i giovanissimi, dai quali non ci si attende che siano lettori di
Virgilio, né che sappiano individuare la citazione, con quello che por-
ta con sé. In altri termini, questo significa che all’interno del racconto,
e grazie al latino, si viene a creare una sorta di barriera generazionale,
nella quale l’autore, adulto, stringe la mano ai suoi lettori adulti, alle
spalle, se non proprio ai danni, dei lettori giovani  122. Il tutto all’in-
terno di una poetica nella quale, come autore, Benni proclama una
morale in cui il giovane è la figura positiva, il solo in grado di fare spe-
rare in un rinnovamento altrimenti impossibile, entro un mondo fatto
dagli adulti a loro immagine e somiglianza e nel quale gli adulti sono
sempre pronti a tenersi reciproco bordone. Con le considerazioni che
ciascuno, a questo punto, è libero di trarre per proprio conto.

121
W.C. Booth, The Rhetoric of Fiction, Chicago - London 1961 (trad. ital.
Scandicci 1996, pp. 439-443).
122
Una serie di casi affini e paralleli, sebbene riferiti a un diverso romanzo
(Terra!, Milano 1983) e a un diverso ambito di cultura, è segnalata da B. Pischedda,
La fantasia ingorda di Stefano Benni, in Id., Mettere giudizio. Venticinque occasioni
di critica militante, Reggio Emilia 2006, pp. 158-173.

355
Luigi Ernesto Arrigoni
Il carme 31
da Catullo a Quasimodo
sotto il segno
di «vento a Tìndari»

1. L’iter editoriale
1. dei «Catulli Veronensis Carmina» quasimodiani 1

Il primo incontro di Quasimodo con Catullo risale al 1939, sulle pa-


gine di «Corrente»: la rivista ospita le traduzioni dei carmina 31 e 65,
intitolate rispettivamente A Sirmio e A Quinto Ortensio Ortalo 2. Nel
1942 i due testi vengono riediti in appendice a Ed è subito sera, selezio-
ne d’autore della produzione poetica anteriore: ai componimenti tratti
da Acque e terre (1930), Òboe sommerso (1932) ed Erato e Apòllion

1
Ringrazio Alessandro Quasimodo, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mon-
dadori di Milano, e in particolare la sua direttrice, Luisa Finocchi, nonché il prof.
Renzo Cremante, direttore del «Centro di Ricerca sulla tradizione manoscritta di
autori moderni e contemporanei» dell’Università degli Studi di Pavia, per avermi
concesso la possibilità di studiare e utilizzare alcuni inediti di Quasimodo. Altri rin-
graziamenti devo a Giovanna Rosa, Paolo Rusconi, Stefano Ghidinelli, Luca Carlo
Rossi ed Elisa Mencaglia per i loro preziosi consigli. La tavola di Birolli a p.  373
è riprodotta, con l’autorizzazione di Zeno Birolli, dal volume conservato presso il
Centro Apice (Archivi della Parola, dell’Immagine e della Comunicazione editoriale)
dell’Università degli Studi di Milano. La fotografia è stata realizzata da Valentino
Albini con la collaborazione di Gaspare Luigi Marcone.
2
«Corrente» 17, 30 settembre 1939; 20, 15 novembre 1939.

357
Luigi Ernesto Arrigoni

(1936) Quasimodo aggiunge la sezione delle Nuove poesie, numerose


versioni di poeti greci, le due traduzioni da Catullo e alcuni brani dalle
Georgiche di Virgilio. L’opera, fondamentale per la collocazione criti-
ca di Quasimodo all’interno del panorama letterario del tempo, segna
l’inizio della collaborazione, destinata a durare decenni, con la Casa
Editrice Mondadori, che decide di pubblicare Ed è subito sera nella
prestigiosa collana di poesia «Lo Specchio». Come ricorda Silvio Ra-
mat, è un «atto editoriale che laurea ‘definitivamente’ Quasimodo» 3,
annoverandolo fra i poeti contemporanei di maggior spicco.
L’incontro si rivela particolarmente fortunato e negli anni della
guerra Quasimodo torna a occuparsi del poeta latino con grande de-
dizione. Vede così la luce, nel 1945, la raccolta dei Catulli Veronensis
Carmina, pubblicata da una piccola casa editrice milanese, le Edizioni
di Uomo 4. In essa trovano spazio trentadue poesie, tutte con il testo a
fronte 5. La traduzione si colloca nel «clima di fervore intellettuale» 6
dell’immediato dopoguerra, che vide la moltiplicazione di «sigle, e
la fioritura di piccoli editori» 7, la maggior parte dei quali destinati a
chiudere i battenti con la successiva contrazione del mercato. Su alcu-
ni esemplari dell’edizione originale dei Catulli Veronensis Carmina si
può trovare applicato il bollino della Editrice Accademia, che rilevò
i diritti in seguito alla chiusura della Uomo  8. Quasimodo si rivolge

3
S. Ramat, Poesie (1938) di Salvatore Quasimodo, in La poesia italiana 1903-
1943. Quarantuno titoli esemplari, Venezia 1997, p. 364.
4
«L’Uomo» era un periodico con «scritti di politica, filosofia, letteratura e
poesia. La prima serie [fu] diffusa clandestinamente a partire dal 1944 […]. La
seconda serie […] va dall’8 settembre 1945 al 1° settembre 1946 […]. Uomo pro-
mosse anche una serie di pubblicazioni, che comprende il volume delle traduzioni
di Quasimodo da Catullo» (AA.VV., Quasimodo, a cura di A. Quasimodo, catalogo
della mostra tenuta a Palazzo Reale a Milano [1999-2000], Milano 1999, p. 123; la
nota riportata è di M. Bignamini).
5
I carmi tradotti sono i seguenti: 1, 3, 4, 5, 8, 9, 11, 27, 30, 31, 35, 38, 46, 49,
58, 60, 65, 66, 68a, 70, 76, 82, 85, 86, 87, 93, 96, 101, 107, 108, 109, 116. Il testo a
fronte sarà pubblicato anche nelle edizioni Mondadori, ma non era presente nelle
versioni del 1939 e del 1942. In nessun caso sono inserite prefazioni dell’autore o
note filologiche (per esempio, l’indicazione del testo adottato).
6
G. Vigini, L’Italia del libro, Milano 1990, p. 9.
7
A. Cadioli - G. Vigini, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi. Un
profilo introduttivo, Milano 2004, p. 89.
8
L’editrice Accademia era una casa milanese legata ad alcune figure di spicco
dell’ermetismo, tra cui Carlo Bo e Luciano Anceschi (vd. G. Ragone, Un secolo di

358
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

dunque, come negli anni Trenta, a una piccola casa legata a una rivi-
sta, per pubblicare un libro il cui pubblico di riferimento è quello dei
lettori cólti, appassionati di poesia (e poesia ermetica, in particolare)  9.
Non lascia alcun dubbio sulla fisionomia dei destinatari elettivi la nota
in terza pagina: «Di questo volume sono stati impressi 2000 esemplari
per l’edizione originale, 215 esemplari per l’edizione di lusso illustrata
di cui 10 ad personam, e 50 esemplari per la stampa»  10. Il carattere
fortemente elitario dell’opera è inequivocabilmente messo in evidenza
dall’edizione di lusso, arricchita da quindici illustrazioni del pittore
Renato Birolli, amico personale del poeta. Marco Valsecchi ricorda
come nacque l’idea del progetto durante i difficili giorni della guerra:
Il luogo d’incontro era il «Motta» di San Babila, […] un caffè-pastic-
ceria che vide gli incontri dei poeti ermetici […]. Non ricordo come
si venne in discorso: ma ci si accordò per stampare una sua traduzione
[di Quasimodo] da Catullo, con tavole in nero dello stesso Birolli. Per

libri, Torino 1999, pp. 173-174). L’edizione di lusso dei Catulli Veronensis Carmina
uscì con la data 25 aprile 1945. Quella originale è invece successiva di un mese
(24 maggio).
9
Dalle lettere di Alberto Mondadori a Quasimodo sappiamo che il poeta
aveva «l’obbligo di offrire [alla Mondadori] prima che a qualsiasi altro le opere di
qualsiasi genere» (27 settembre 1945), riferendosi specificamente alle traduzioni,
in base ai «precisi accordi intercorsi secondo l’art. 1° del contratto stipulato il 13
ottobre 1941» (27 ottobre 1945). Quasimodo, contagiato dal clima di entusiasmo
culturale legato alle piccole case editrici, ha probabilmente evitato l’opzione Mon-
dadori, viste anche le enormi difficoltà della Casa dovute all’assenza di Alberto e di
Arnoldo, esuli in Svizzera fin dall’occupazione tedesca del 1943. Alberto, al ritorno
in Italia, si risentì e scrisse al poeta: «Le tue amnesie in fatto di contratti [diventano]
sempre più numerose e preoccupanti […]. Non fai che passare da un editore all’al-
tro» (27 settembre 1945). Le lettere fra Quasimodo e la Casa Editrice, in gran parte
inedite, sono conservate presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di
Milano nell’Archivio storico Arnoldo Mondadori editore. Il carteggio fra Arnoldo
e Quasimodo è nella «Sezione Arnoldo Mondadori. Fascicolo Quasimodo Salva-
tore (dal 18-10-1941 al 07-06-1966)»; quello con Alberto nella «Sezione Alberto
Mondadori. Fascicolo Quasimodo Salvatore (dal 13-06-1945 al 28-06-1967)». Nella
«Sezione Segreteria editoriale autori italiani. Fascicolo Quasimodo Salvatore (dal
18-07-1946 al 11-10-1971)» sono presenti lettere fra il poeta e alcuni collaboratori
della Casa, fra i quali spicca Vittorio Sereni.
10
Questa è la nota dell’edizione originale. In quella di lusso è scritto: «Di
questo volume sono stati impressi 205 esemplari originali numerati dal n. 1 al n. 205
e 10 esemplari ad personam siglati da A a L. Tutte le copie sono firmate dal tra-
duttore. Gli esemplari dal n. 1 al n. 15 contengono un disegno originale di Renato
Birolli».

359
Luigi Ernesto Arrigoni

molti giorni ci si scambiò le bozze e gli stamponi. Quasimodo era pre-


ciso, Birolli era impaziente. 11
Le illustrazioni assolvono una precisa «funzione espressiva»  12, mai
analizzata dai recensori dell’opera, in stretta connessione con la stra-
tegia compositiva dei testi tradotti 13.
La fredda accoglienza riservata dalla critica 14 al «suo Catullo» 15
stimola Quasimodo a riprendere il testo in vista di una nuova edizio-
ne; a testimonianza di questo lungo lavoro esiste un corposo materiale
manoscritto e dattiloscritto, conservato presso il «Centro di ricerca

11
M. Valsecchi, Quasimodo, 1944, in Visti da Salvatore Quasimodo: Birolli,
X. Bueno, Cantatore, De Chirico, Esa D’Albisola, Fabbri, Manzù, Marino, C. Mastro­
ianni, Migneco, Rossello, Rossi, Sassu, Sotilis, Usellini, Tamburi, Milano 1969,
pp. 7-8. Birolli, in un’annotazione del 2 febbraio 1945, scriveva: «Mi preparo per le
12 [tavole] sulle traduzioni di Salvatore Quasimodo dei Catulli Veronensis Carmina»
(Taccui­ni 1936-1959, a cura di E. Emanuelli, Torino 1960, p. 240). La composi-
zione dei disegni (che passarono dai dodici previsti ai quindici presenti nel volume) è
quindi avvenuta tra febbraio e aprile dell’anno conclusivo della guerra.
12
R. Chartier, Textes, formes, interprétations, Préface à D.F. McKenzie, La
bibliographie et la sociologie des textes, Paris 1991 (ed. ital. a cura di I. Amaduzzi
- A. Capra, Milano 1999, p. 99). Anche G. Genette, Seuils, Paris 1987 (ed. ital. a
cura di C.M. Cederna, Torino 1989, p. 9), ricorda come «manifestazioni iconiche»
possano assumere «valore paratestuale».
13
Vd. però il mio Il Catullo di Quasimodo e Birolli fra parola e immagine,
«Acme» 61, 2008, pp. 179-209.
14
Mi riferisco in particolare alle recensioni di Luciano Anceschi, Antonio La
Penna e Virginio Cremona. Secondo Anceschi (Catullo tradotto da Quasimodo,
«Avanti!», 17 ottobre 1945) l’incontro di Quasimodo con Catullo «non ha questa
volta la forza rivelatrice che ebbe quello felice coi Lirici Greci, e accade talvolta che
il verso, là dove in Catullo pare inquietarsi in un leggero tremore d’affetto, scada
un poco ad un tono quasi aere di notizia». Prevedibilmente ancora più scettico è il
commento di un filologo di mestiere, La Penna («Il fiore delle Georgiche» e «Catulli
Veronensis Carmina», «Belfagor» 1, 31 gennaio 1946; ora in AA.VV., Quasimodo
e la critica, a cura di G. Finzi, Milano 1969, 19752, p. 322), il quale ritiene che
«nemmeno nei carmi catulliani più lontani dal tono del lusus, più scavati nella pena
dell’amante, Quasimodo abbia ritrovato se stesso e veramente ricreato». Cremona
(Il Catullo di Salvatore Quasimodo, «Humanitas», agosto 1948, p. 804) nota come
«la tendenza a semplificare e a ridurre […] conduce spesso il Quasimodo a infiac-
chire il ritmo, a smorzare le tonalità» fornendo così «un altro Catullo magari più
morbido, […] certamente meno vivace e colorito».
15
«A ognuno, dunque, il suo Catullo» (S. Quasimodo, Traduzioni dai classici,
1945; ora in Il poeta, il politico e altri saggi, collana «Tutte le opere di Salvatore
Quasimodo», Milano 1967, pp. 111-112); vd. anche Anceschi, Catullo tradotto cit.:
«Comunque Quasimodo ci ha dato il ‘suo’ Catullo».

360
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei»


dell’Università degli Studi di Pavia, che copre tutto l’iter editoriale
e consente di ricostruire la storia delle varianti, dei ripensamenti, dei
mutamenti che il poeta non mancava di apportare alle traduzioni  16.
Viene così portata a termine nel 1955 la nuova raccolta dedicata a
Catullo, con un titolo di copertina ormai completamente italiano (Va-
lerio Catullo. Canti; all’interno rimarrà invece il titolo originale), nu-
merose correzioni e un ampliamento del numero dei componimenti,
che giungono a un totale di quarantuno 17. La Mondadori non si lascia
sfuggire l’occasione di pubblicare la versione quasimodiana e la collo-
ca all’interno della collana «Lo Specchio». Il vivo interesse dell’autore
per questa riedizione è testimoniato da un bigliettino di auguri del 3
gennaio di quell’anno, in cui, dopo aver ringraziato Alberto Monda-
dori per un regalo natalizio, si raccomanda di «[ricordarsi] delle mie
Georgiche e del Catullo». Quasimodo apporta nel 1959, in una nuova
edizione per «Lo Specchio», modeste variazioni di punteggiatura. Nel
1965 il volume è inserito nella collana «Tutte le opere di Salvatore
Quasimodo», progettata appositamente da Alberto Mondadori per
valorizzare i testi dell’autore siciliano 18. Quasimodo vi porta ulteriori

16
Il materiale consiste in centodiciassette fogli manoscritti (cartella IV), di
varia dimensione e in buono stato di conservazione, con varianti, cassature, versi
sparsi, redazioni provvisorie, il tutto abbastanza confuso, perché un singolo foglio
può contenere versi da diverse poesie, o solo piccole parti di componimenti più
vasti. Vi è poi un fascicolo dattiloscritto di cinquantuno fogli (cartella IVbis) con
correzioni manoscritte; esso corrisponde al testo inviato alla Mondadori per l’edi-
zione del 1955, con minime discrepanze che furono probabilmente corrette sulle
bozze. Tutti i fogli sono descritti, ma non pubblicati, in Salvatore Quasimodo e gli
autori classici. Catalogo delle traduzioni di scrittori greci e latini conservate nel Fondo
manoscritti, a cura di I. Rizzini, Pavia 2002, pp. 63-84. Quando citerò dal fondo,
userò due numeri preceduti da f.: il primo (in caratteri romani) si riferisce alla car-
tella, il secondo al foglio.
17
I carmina aggiunti sono i nrr. 12, 13, 26, 32, 41, 43, 55, 56, 105.
18
«Mi sono convinto che la tua opera, la sua complessità dovuta soprattutto
alla mole ormai imponente delle traduzioni, e la varietà delle tue esigenze che a
volte non ti sembrano soddisfatte […] richiedono soluzioni editoriali più appro-
priate […]. La mia proposta è la seguente: istituire una collana riservata esclusi-
vamente alle tue opere» (lettera dell’11 dicembre 1964 di Alberto Mondadori a
Quasimodo). Già all’inizio del 1963 Alberto Mondadori aveva scritto al poeta: «Per
una via piuttosto indiretta mi è poi giunta voce del quesito da te posto circa l’op-
portunità di ristampare i Canti di Catullo». Alberto lo informava poi dell’esistenza
di un «largo margine di giacenza» e accennava a un possibile rilancio pubblicitario

361
Luigi Ernesto Arrigoni

ritocchi, limitati principalmente alla punteggiatura e a poche variazio-


ni lessicali. È questa la forma definitiva assunta dalle poesie, riprodot-
ta nell’edizione del volume attualmente in commercio per la collana
«Oscar. Poesia del ’900» 19 e nel «Meridiano» dedicato al poeta 20.

Prima di passare all’analisi testuale di uno dei più significativi com-


ponimenti della raccolta sono forse necessarie alcune precisazioni.
Il testo latino che Quasimodo aveva seguito è stato identificato da
Giuseppe Savoca 21 nell’edizione di Massimo Lenchantin De Guber-
natis 22. Sempre Savoca ha notato che la traduzione di Georges Lafaye
per «Les Belles Lettres» era servita da appoggio a Quasimodo per la
propria versione  23. Quasimodo trae suggerimenti lessicali anche dal
commento di De Gubernatis e da Lyra; sull’antologia pascoliana è
inoltre esemplata la scelta dei carmi da accogliere 24.

(31 gennaio 1963), che si concretizzerà con una «finestrella sul Giorno» del 7 marzo
(lettera di Vittorio Sereni a Quasimodo del 6 maggio 1963 con i dati del Servizio
Stampa Pubblicità). Un anno più tardi, nel 1964, a Quasimodo che faceva notare
come i Canti fossero esauriti (19 novembre 1964), Arnoldo rispondeva rassicurando
che l’opera sarebbe stata ristampata l’anno successivo (30 novembre 1964).
19
S. Quasimodo, Catullo. Poesie, introduzione di G. Finzi, Milano 2004. Se
non è indicato diversamente, le citazioni dei Canti (ad esclusione del 31) vengono
dall’edizione del 1945.
20
S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Milano
199610. Le citazioni di poesie originali quasimodiane sono tutte tratte da questa edi-
zione; ne saranno indicate la raccolta e la pagina.
21
Vd. G. Savoca, Per Quasimodo traduttore di Catullo: il carme LXV, in Tra
testo e fantasma, Roma 1985, pp. 67-87; ora anche in AA.VV., Quasimodo e l’Erme-
tismo, Atti del 1° Incontro di studio (Modica, Palazzo dei Mercedari, 15-16 febbraio
1984), Modica 1986, p. 110.
22
Il libro di Catullo veronese, a cura di M. Lenchantin De Gubernatis, Torino
1928, 19332 (le citazioni vengono dall’edizione del 1933).
23
Catulle, Poésies, texte établi et traduit par G. Lafaye, Paris 1932 (le cita-
zioni tratte da Lafaye all’interno di questo articolo provengono da p. 21).
24
Nell’edizione del 1945, solo cinque componimenti su trentadue non erano
stati inclusi nella raccolta di Pascoli. Nel 1955 Quasimodo si discosta in modo più
netto dal modello, perché sei dei nove nuovi componimenti non erano stati com-
mentati dal poeta di Myricae. L’edizione originale di Lyra è del 1895; Quasimodo
faceva probabilmente riferimento a quella edita da Giusti, Livorno 1934, da cui
citerò anch’io.

362
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

2. Sirmio e Tìndari: rivisitazione di un tema quasimodiano

La decisione di focalizzare la mia attenzione sulla sola traduzione del


carme 31 è motivata dal ruolo particolare che essa assume all’interno
della raccolta, grazie alle spiccate consonanze (strutturali, lessicali e
simboliche) con Vento a Tìndari, una delle poesie più famose di Ed è
subito sera. Le osservazioni che saranno fatte in questo saggio non so-
no quindi generalizzabili all’intera traduzione del Liber. A giustificare
la scelta va però ricordato come il carme 31 sia stato il componimento
che Quasimodo aveva tradotto per primo e uno di quelli che ha de-
stato nel poeta maggiore affetto ed interesse, come testimoniano le
sue diverse versioni. Di questo testo esistono infatti cinque redazioni
a stampa: su «Corrente» del 30 settembre 1939  25; in appendice a Ed
è subito sera nel 1942; nei volumi del 1955, del 1959 e del 1965. A
queste andrebbe aggiunta la stesura inserita nella raccolta del 1945,
identica al testo del 1942, ma peculiare per l’accostamento dell’illu-
strazione di Birolli. La versione del 1942 rispetto a quella del 1939
presenta soltanto poche modifiche di tipo lessicale, mentre fra le tre
ristampe Mondadori intercorrono variazioni unicamente nella pun-
teggiatura: le fasi compositive si possono perciò ridurre in sostanza
a due, quella del 1939 e quella del 1955. Si conservano inoltre due
fogli manoscritti: le varianti di f. IV.41 risalgono sicuramente alla fase
preparatoria per l’edizione del 1955, quelle di f. IV.40 sembrano in-
vece anteriori alla stesura del 1939, anche se non si può escludere un
ripensamento successivo. Il dattiloscritto f. IVbis.133, infine, presenta
il testo inviato alla Mondadori per la stampa del 1955, con minime
differenze a livello di punteggiatura. Da un altro dattiloscritto sappia-
mo inoltre che Quasimodo intendeva inserire il carme in un’antologia
della letteratura latina da lui curata, con una presentazione e alcune
note filologiche 26. Confrontiamo allora il testo latino e le due redazio-
ni principali della traduzione quasimodiana:

25
Quasimodo lavorava al testo già dall’estate di quell’anno: «Stanotte ho lavo-
rato su dodici versi di Catullo. Ma spero di completare tutta la poesia A Sirmio
e di mandartela …» (S. Quasimodo, Lettere d’amore a Maria Cumani, 1939-1959,
Milano 1973, p. 141, lettera del 2 agosto 1939).
26
Quasimodo aveva preparato un’antologia della letteratura latina sino al
periodo umanistico, con introduzione biografica per ogni autore, testi, note e con-
sigli per la traduzione. La stesura risale ai tempi della Seconda Guerra Mondiale,

363
Luigi Ernesto Arrigoni

A. Catullo, carme 31
Paene insularum, Sirmio, insularumque
ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
marique vasto fert uterque Neptunus,
quam te libenter quamque laetus inviso,
vix mi ipse credens Thuniam atque Bithunos
liquisse campos et videre te in tuto.
O quid solutis est beatius curis,
cum mens onus reponit, ac peregrino
labore fessi venimus larem ad nostrum,
desideratoque acquiescimus lecto.
Hoc est, quod unumst pro laboribus tanti.
Salve, o venusta Sirmio, atque ero gaude:
gaudete vosque, o Lydiae lacus undae:
ridete, quicquid est domi cachinnorum. 27

B. Quasimodo, A Sirmio (1939)


O mia Sirmio, diletta fra le isole
e tutte le penisole che su acque
chiare di laghi e sopra il mare dòmina
l’uno e l’altro Nettuno; come ansioso
e con quanta letizia ti rivedo!
Non credo ancora d’essere lontano
dalle piane bitinie e dalla Tinia,
e di poterti rivedere incolume.
Quale cosa è più grata, se liberi
d’affanni, esausti, da paesi stranieri
torniamo in patria e nel desiderato
nostro letto troviamo quiete, quando
la mente non è grave di pensieri:
sola dolcezza di tante fatiche!

come si deduce dalla lettera a Maria Cumani del 3 giugno 1942 (ivi, p. 169: «L’An-
tologia latina dovrebbe essere costituita almeno di 350 pagine fitte di note»), ma
l’opera non fu mai edita. Presso il fondo di Pavia sono conservati quattrocentotre
dattiloscritti inediti (cartella XIX). Per Catullo sono presenti nove fogli (f. XIX.319-
327) con la vita dell’autore e i testi commentati dei carmi 3, 31 e 101. Quando
parlo delle note di Quasimodo o della presentazione, faccio sempre riferimento a
f. XIX.324.
27
Il testo riportato è quello di De Gubernatis. L’edizione critica di Mynors
presenta tantis (v. 11), gaudente (v. 13) e quidquid (v. 14) in luogo di tanti, gaudete
e quicquid (C. Valerii Catulli, Carmina, recognovit brevique adnotatione critica
instruxit R.A.B. Mynors, Oxonii 1958, 19602, p. 17).

364
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

Felice tu sia, bella Sirmio; e tu


o Catullo, rallegrati; e voi limpide
onde del lago, esprimete al moto
tutta la gioia che allieta la mia casa.

C. Quasimodo, O mia Sirmio, diletta fra le isole (1955) 28


O mia Sirmio, diletta fra le isole
e tutte le penisole che su acque
chiare di laghi innalzano, e sul mare,
l’uno e l’altro Nettuno, con quanta
gioia e quanto piacere ti rivedo!
Non mi par vero d’essere lontano
dalle terre bitinie e della Tinia
e sereno poterti contemplare!
Quale felicità più grande, se
liberi d’ogni pena, con la mente
leggera di pensieri, ritornando
a casa stanchi, da paesi stranieri,
nel sospirato letto riposiamo.
Questo il compenso di tante fatiche!
O mia bella Sirmio, salve!, rallègrati,
ora il tuo signore è qui, e voi lidie onde
del lago, rallegratevi; echeggiate
gridi ridenti di gioia nella casa.

Varianti edizione 1942 rispetto a quella del 1939: v. 10 esausti,] e stanchi, –


vv. 17-18 onde del lago, ridite nel dolce / moto, che ora è più lieta la mia casa.
Varianti edizione 1959 rispetto a quella del 1955: v. 18 casa.] casa!
Varianti edizione 1965 rispetto a quella del 1955: v. 3 innalzano, e sul ma-
re,] innalzano e sul mare – v. 8 contemplare!] contemplare.

Fin dall’inizio della sua traduzione Quasimodo modifica la posizione


degli elementi in rilievo rispetto al testo latino: in Catullo Sirmio è al
centro del primo verso, attorniato da un virtuosismo retorico, l’epana-
diplosi con omoteleuto di paene insularum […] insularumque; mentre
ocelle, vezzeggiativo figurato, è in enjambement al v. 2. Nella tradu-
zione «Quasimodo anticipa il toponimo dando[gli] una connotazione

28
La modifica del titolo è dovuta a una semplice convenzione formale, per cui
tutte le poesie inserite nel volume del 1955 assumono come titolo l’incipit del testo,
necessità che ovviamente non sussisteva per la pubblicazione su rivista.

365
Luigi Ernesto Arrigoni

[…] più affettiva» 29, grazie anche alle aggiunte della particella «o» e
del possessivo «mia» 30. Il successivo nesso liquentibus stagnis suona, in
una traduzione letterale come potrebbe essere quella di Guido Padua-
no, «sui laghi limpidi» 31, mentre qui abbiamo lo sviluppo «su acque /
chiare di laghi», con l’aggiunta del lessema «acque» in grande risalto
nella posizione in clausola e la resa di liquentes (dalla stessa radice di
liqueo e liquidus) con «chiare». Queste prime scelte appaiono partico-
larmente originali, ma non sono solo elementi di una semplice versio-
ne personale. Se confrontiamo infatti l’intera poesia – e in particolare
i primi versi – con Vento a Tìndari, ci accorgiamo che Quasimodo ha
istituito un’ampia serie di corrispondenze fra i due componimenti:
Vento a Tìndari
Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,

29
M.C. Albonico, Catullo e Quasimodo, «Rivista di letteratura italiana» 1,
2004, p. 128. L’articolo, con titolo Il Catullo di Quasimodo, era stato anticipato in
forma ridotta su un numero monografico dedicato a Quasimodo della stessa rivista
(Nell’antico linguaggio altri segni. Salvatore Quasimodo poeta e critico, 1-2, 2003,
pp. 269-273).
30
Quasimodo era indeciso su questo possessivo, infatti, in f. IV.40 «mia» è
stato cassato e poi riscritto, e successivamente conservato in tutte le edizioni: l’uso
del possessivo in italiano è comunque molto meno connotato che in latino. Nel testo
latino il vocativo è presente ai vv. 7, 12 e 13 ed «expresses strong emotion» (Catul-
lus. A Commentary by C.J. Fordyce, Oxford 1973, p. 169). Quasimodo mantiene
solo quello del v. 12 (trasferendolo però inizialmente al poeta, come vedremo) e
aggiunge quello dell’incipit.
31
Catullo, Le poesie, trad. e nota storico-biografica di G. Paduano, commento
di A. Grilli, Torino 1997, p. 99. Vd. anche C. Valerius Catullus, hrsg. und erkl. von
W. Kroll, Leipzig 1923, 19292, p. 58: «liquentia stagna sind limpidi lacus».

366
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

rifugi di dolcezze un tempo assidue


e morte d’anima.
A te ignota è la terra
ove ogni giorno affondo
e segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo nel buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tìndari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato. 32

La poesia è divisa in cinque strofe: nella prima e nell’ultima è presente


il saluto a Tìndari (una località in provincia di Messina, sfruttata lette-
rariamente in un recente romanzo di Camilleri) 33. Nelle strofe centra-
li, invece, l’Io lirico si allontana mentalmente dalla «brigata» di amici

32
La redazione qui presentata è quella definitiva per la collana «Tutte le opere
di Salvatore Quasimodo» nel 1965. Le varianti dei manoscritti e delle edizioni pre-
cedenti sono descritte in Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 1223, ma
non coinvolgono i passi utili per il confronto con il carme 31. Sull’interpretazione
di Vento a Tìndari vd. S. Pugliatti, Interpretare la poesia, «Solaria» 1, gennaio
1932, ora in Quasimodo e la critica cit., pp. 29-38; M. Tondo, Salvatore Quasimodo,
Milano 1976, pp. 25-26; N. Tedesco, L’isola impareggiabile: significati e forme del
mito di Quasimodo, Firenze 1977, pp. 9-19 e 102-103; P.M. Sipala, I versi di quel
ragazzo, in Quasimodo e l’Ermetismo cit., pp. 9-19.
33
Alla pronuncia del nome «Tindari» affiora involontario alla mente del com-
missario Montalbano l’incipit della poesia di Quasimodo: «‘E dove andavate?’. ‘Al
santuario della Madonna di Tindari’. Tindari, mite ti so … versi di Quasimodo gli
tintinnarono nella testa» (A. Camilleri, La gita a Tindari, Palermo 2000, p. 54; dal
romanzo è stato tratto anche un episodio della serie TV nel 2001 per la regia di
Alberto Sironi).

367
Luigi Ernesto Arrigoni

che l’accompagna e rievoca una figura del passato, probabilmente una


donna, con la quale intreccia un amaro dialogo sulla propria vita e il
proprio «esilio». Il carme 31 era strutturato in modo simile: le sezioni
iniziali e finali presentavano l’invocazione a Sirmione, mentre il cuore
del componimento era occupato dalla descrizione dello stato d’animo
del poeta. Sfruttando la somiglianza fra il carme di Catullo e il proprio
testo, Quasimodo traduce il componimento latino scrivendo una nuo-
va Vento a Tìndari, una poesia che entra a pieno titolo nel suo mondo
creativo e offre una rimeditazione sul tema dell’isola. Del resto, già
Michele Tondo aveva notato come «A Sirmio [fosse] un carme così
congeniale al poeta siciliano nel tema del ritorno alla propria terra»  34.
Tìndari è una zona archeologica, affacciata sul mare; Sirmione
è invece, come ricorda Quasimodo stesso, una «penisola del lago di
Garda unita alla terra ferma da una sottile striscia di terra che è quasi
sempre sommersa. Per questa ragione Sirmione ha anche l’apparen-
za di un’isola» 35. Entrambe sono fatte rientrare nell’universo poetico
delle «isole», cui presiedono antiche divinità. Le «isole» della tradu-
zione, in evidenza nella clausola del v. 1 (enfatizzata dalla forte dialefe
dopo «le»), sono dominate da Nettuno 36 e ricordano, per il richiamo
mitologico, le «isole dolci del dio» di Tìndari, cioè le Eolie, protette
da Eolo, signore dei venti. Mantenendo il nome latino «Sirmio», forse
su influenza di Carducci  37, Quasimodo ottiene che l’accento ricada
sulla -i-, come in Tìndari, creando un legame sonoro fra i due testi.

34
Tondo, Salvatore Quasimodo cit., p. 57.
35
La nota di Quasimodo per l’antologia dattiloscritta ricalca quella di Lyra
(p. 74): «Sirmione è congiunta alla terraferma con una lingua di terra, che alle volte
è sommersa: ciò che allora dà alla penisola aspetto d’isola».
36
Nelle note antologiche Quasimodo spiega che uterque «si riferisce al Net-
tuno lacustre e a quello marino». La sua interpretazione è quella adottata dalla mag-
gior parte della critica (cfr. Kroll, C. Valerius Catullus cit., p. 58; Fordyce, Catul-
lus cit., p. 168). Quasimodo trovava una diversa lettura nei commenti di Pascoli
(Lyra cit., p. 74: «L’Oceano d’Oriente e d’Occidente») e De Gubernatis (Il libro di
Catullo cit., p. 60: «Nettuno orientale e occidentale»). Pascoli riportava però anche
l’alternativa «il dio del mare e degli stagni».
37
Il quale, nelle Odi Barbare, usava la forma «Sirmio» quattro volte: «Sirmio
che ancor del suo signore allegrasi»; «move da Sirmio una canora immagine» (Da
Desenzano, vv. 12 e 66); «Ecco la verde Sirmio nel lucido lago sorride»; «ed essi dai
cieli vi lasciano cadere Sirmio» (Sirmione, vv. 1 e 9). Quasimodo leggeva il primo
verso di Sirmione nelle note di De Gubernatis (Il libro di Catullo cit., p. 60). In una
variante inedita Quasimodo usa la forma italiana «Sirmione» (f. IV.40).

368
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

I secondi versi dell’uno e dell’altro sono affini tanto strutturalmente


(endecasillabi di 2a-6a, con accento di 6a su una sdrucciola; il primo ha
anche un accento di 4a) quanto fonicamente:
fra larghi colli pensile sull’acque.
e tutte le penisole che su acque.

«Pensile» di Vento a Tìndari viene ripreso e quasi anagrammato nel


catulliano «penisole», mentre entrambe le clausole presentano il so-
stantivo «acque»  38, anticipato dalla preposizione «su», articolata in
un caso, semplice nell’altro. Il nome privo di articolo (sostantivo asso-
luto) è qui in grande risalto perché segnala l’inizio di un’ampia catena
di apici culminativi basata sulla -a-, meccanismo formale reso ancora
più evidente nell’edizione del 1955 («àcque / chiàre di làghi innalzà-
no, e sul màre»). Il sostantivo assoluto, com’è noto, costituisce uno
dei tratti della grammatica ermetica messi in luce dal celebre studio
di Pier Vincenzo Mengaldo. Il linguaggio delle poesie quasimodia-
ne degli anni Trenta (confluite successivamente in Ed è subito sera)
era caratterizzato da una «serie di infrazioni microgrammaticali»  39,
scarti dalla norma comune che rendevano la lingua «interiorizzata
e immateriale»  40. La manipolazione della grammatica creava perciò
«una sorta di compenetrazione e insieme di vacillazione dei rappor-
ti logici» 41, una «astrazione e simbolizzazione» 42 dei contenuti. Tali

38
La parola «acqua», «elemento fondamentale nella posizione e nella costitu-
zione del linguaggio di Quasimodo» (F. Flora, Salvatore Quasimodo, in Scrittori ita-
liani contemporanei, Pisa 1952, p. 172), ricorre settantotto volte nelle raccolte origi-
nali del poeta siciliano; «isola» occorre invece in ventiquattro passi. Le concordanze
delle poesie originali quasimodiane derivano da G. Savoca, Concordanza delle poesie
di Salvatore Quasimodo. Testo, Concordanza, Liste di frequenza, Indici, Firenze 1994.
39
V. Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino
1993, p. 430.
40
L. Spitzer, Dye syntaktischen Errungenschaften der Symbolisten, in Aufsätze
zur Romanischen Syntax und Stilistik, Halle 1918 (ed. ital. in Marcel Proust e altri
saggi di letteratura francese moderna, a cura di P. Citati, Torino 1959, p. 12).
41
P.V. Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica, in La tradizione del
Novecento. Terza serie, Torino 1991, p. 139.
42
Ivi, p. 137. Fra gli altri stilemi studiati da Mengaldo spiccano l’animazione
delle preposizioni, la preferenza per i plurali in luogo dei singolari, gli «accostamenti,
o apposizioni, analogici immediati» (p. 140), «la cancellazione dell’aggettivo deter-
minativo» (p. 138).

369
Luigi Ernesto Arrigoni

ricorrenze stilistiche, collocate entro un ordito sintattico nominale,


mostravano la preferenza dell’ermetismo verso i sostantivi (spesso
astratti), all’interno di una poetica della parola in cui
più che l’immagine, più che il verso, l’organismo costitutivo, la cellula
elementare è la parola [e dove] l’espressione, l’effetto, tendono a rac-
cogliersi nella parola singola, musicalmente insistita nelle sue sillabe.  43

Nelle poesie ermetiche di Quasimodo il sostantivo assoluto contri-


buiva così al «deragliamento dei sensi» 44 e all’estrema tendenza alla
«semplificazione delle strutture lessicali e sintattiche»  45, sino a con-
ferire una totale oscurità a molte liriche. Anche il fenomeno delle ca-
tene vocaliche non è una novità della traduzione catulliana, tanto che
è già stato studiato in relazione a Ed è subito sera: Franco Musarra,
ad esempio, nota in alcuni testi di quella raccolta il «potenziamento
dei valori fonici dei microelementi, come le corrispondenze degli api-
ci culminativi» 46. Nelle sillogi di stretta osservanza ermetica, Acque e
terre, Òboe sommerso ed Erato e Apòllion, le parole si disponevano
infatti sul piano sintagmatico spesso più per rapporti di evocazione
sonora che di implicazione semantica: i versi, nell’assenza di sintas-
si, si reggevano così sulla sola orchestrazione fonica, che diventava il
«vettore primario di semanticità» 47.
Nel carme 31 il sostantivo assoluto 48 e la catena di apici 49 non par-
tecipano dell’atmosfera esoterica ed alogica che si avvertiva nelle rac-

43
S. Solmi, Prefazione a S. Quasimodo, Ed è subito sera, Milano 1942; ora in
Quasimodo e la critica cit., p. 117.
44
A. Pietropaoli, Un’ipotesi di narcisismo retorico in Quasimodo, in Le strut-
ture della poesia: saggi su Campana, Ungaretti, Sbarbaro, Montale, Quasimodo, Gatto,
Napoli 1983, p. 106.
45
G. Finzi, Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo, Milano 19925, p. 69.
46
F. Musarra, Rinnovamento ritmico nel Quasimodo post-ermetico, in AA.VV.,
Quasimodo e il post-ermetismo, Atti del 2° Incontro di studio (Modica, Domus
S. Petri, 14-16 maggio 1988), Modica 1989, p. 108.
47
Ibid. Dello stesso autore vd. anche Strutture foniche e semantiche nella poesia
di Salvatore Quasimodo, in AA.VV., Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre,
Atti del Convegno nazionale di studi su Salvatore Quasimodo (Messina, 10-12 aprile
1985), a cura di G. Finzi, Roma 1986, pp. 105-118.
48
Già nei Lirici Greci (1940) e nelle Nuove poesie (1942) l’uso delle tecniche
ermetiche, seppure ancora massiccio, assumeva del resto una funzione diversa, dal
momento che le immagini non presentavano il grado di astrattezza di Ed è subito
sera, ma mantenevano solo un alone di indeterminatezza poetica, mai di oscurità.

370
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

colte precedenti. L’importanza del vocalismo nei Canti non è comun-


que da sottovalutare, sebbene non coincida più con la parola-musica
di stampo simbolista di Ed è subito sera o con l’amplificazione a scopo
civile che sarà propria di Giorno dopo giorno (1947) 50: Quasimodo, in
una lettera ad Arnaldo Bocelli si lamentava che 49 50
chi non conosce Catullo […] non s’è accorto che ho tentato di rispet-
tare i valori fonici del poeta, né poteva, anche filologicamente, darmi
qualche merito per alcune nuove interpretazioni. 51
La partitura fonica del carme 31, incentrata sulla vocale aperta, fornisce
infatti un corrispettivo sonoro della descrizione visiva, maggiormente
spiccata all’interno della traduzione, in cui «Quasimodo [ha] voluto
appositamente allargare il motivo lirico […] in più disteso respiro» 52:
quel «poterti contemplare» dell’edizione del 1955 ritaglia uno spazio
d’osservazione (molto debole nel semplice videre di Catullo) 53, e il let-

Nel resto dei Canti i sostantivi assoluti sono spesso utilizzati nei componimenti che
suggeriscono una grave crisi nell’animo del poeta veronese, quelli cioè che trattano
della disperazione di Catullo per gli eventi più tragici della sua vita: l’abbandono
da parte di Lesbia e la morte del fratello. Siamo all’interno di quel gruppo di car-
mina «strettamente lirici», giudicati da Quasimodo come i più significativi, in cui
andrebbe «ricercata la vera voce di Catullo», dove il poeta latino «canta la tristezza
e la sua disperazione di uomo innamorato di una donna, nota per i facili costumi,
dove parla degli amici, dove piange la morte del fratello, dove il riflesso di una vita
consumata nei piaceri contrasta con la perenne, grigia malinconia» (Introduzione
biografica per l’antologia della letteratura latina, f. XIX.319-320).
49
Nella traduzione catulliana le catene vocaliche sono presenti in diversi e
significativi luoghi del testo, per marcare la prevalenza di determinati toni, aperti o
cupi: vd. 3.13-14; 4.11-12; 11.23-24; 46.10; 60.5; 66.17-18; 68.19; 70.4; 108.2.
50
Gianfranca Lavezzi sottolinea l’importanza della orchestrazione fonica, e in
particolare delle catene vocaliche, nella raccolta Giorno dopo giorno, utilizzata per
«favorire un’amplificazione del suono» e illustrare così, sul versante del significante,
i centri semantici delle liriche in linea con la nuova finalità etica del poeta siciliano:
cfr. G. Lavezzi, Il metro che si cala nella storia: l’endecasillabo di «Giorno dopo
Giorno», in Nell’antico linguaggio altri segni cit., p. 421.
51
Lettera del 17 febbraio 1956, citata da A. Iurilli, Quasimodo e Bocelli, in
Nell’antico linguaggio altri segni cit., p. 205.
52
Cremona, Il Catullo cit., p. 804.
53
Eliminando «rivedere», Quasimodo evita la ripetizione col v. 5 (Lafaye: «te
revois»), che pure non era ingiustificata, visto che invisere è un intensivo di videre. Invi-
sere è in realtà più specifico e significa «here ‘look upon’ [but] the more usual sense
is ‘go to see’, ‘visit’» (Fordyce, Catullus cit., p. 168). Vd. anche Kroll (C. Valerius
Catullus cit., p. 59): «erblicke». Nel testo di Catullo i due esotismi Thuniam e Bithu-
nos sono elegantemente incastonati fra due segmenti di lingua colloquiale: vix mi ipse

371
Luigi Ernesto Arrigoni

tore di questa lirica, «legata [come altre di Quasimodo] alle tradizioni


del ‘quadro’» 54, si fa spettatore dell’apertura luminosa del paesaggio,
sottolineata dall’illustrazione di Birolli (Tav. 1). La poesia reca così i
segni di quella «luce liquida, originaria e immanente nel testo […],
archetipo dell’opera ermetica» 55. Si spiega perciò la traduzione al v. 2
di liquentibus (letteralmente «limpide» o «liquide») con «chiare», che
accentua il significato secondario del lessema latino 56, e la consonanza
della laterale -l-, la liquida per eccellenza, già segnalata da Rosalma Sa-
lina Borello in Vento a Tìndari, ma che ora si ripresenta in A Sirmio:
Il verso [3 di Vento a Tìndari] acquista una connotazione mitico-evo-
cativa, sia per l’accenno al dio Eolo […] sia per la musicalità non solo
intrinseca (si noti la combinazione dell’allitterazione in d con la conso-
nanza interna in l, rinforzata dalla riduzione timbrica alternativamente
a o ed e secondo lo schema ell - ol - ol - el), ma anche rispetto al verso
precedente, di cui diventa la cassa armonica, riprendendone alcuni
suoni (còlli - dòlci; pénsile - isole). 57
O mia Sirmio, diletta fra le isole
e tutte le penisole che su acque
chiare di laghi innalzano e sul mare
l’uno e l’altro Nettuno […] 58

credens e videre te in tuto. Quasimodo li rende inizialmente con costruzioni neutre


(«Non credo ancora»; «poterti rivedere incolume»); nella redazione del 1955 adotta
invece forme più sostenute («Non mi par vero»; «sereno poterti contemplare»).
Questo innalzamento del tono del testo catulliano è, come vedremo anche nella
chiusa, generale all’intera poesia. «Contemplare» è suggerimento di Lafaye.
54
S. Ramat, L’Ermetismo, Firenze 1969, 19732, p. 80.
55
Ivi, p. 30.
56
R. Ellis, A Commentary on Catullus, Oxford 1889, p. 110: «The two ideas
seem to pass into each other, ‘liquid’ and ‘clear’». Quasimodo traduce 4.25 novis-
simo hunc ad usque limpidum lacum con «giunse a questo lago d’acque limpide»
(edizione del 1955; nel 1945: «fino a questo lago così limpido»). Il nesso in clausola
è identico a quello di una poesia di Erato e Apòllion: «sera d’acque limpide» (Al tuo
lume naufrago, v. 2, p. 86). «Limpido» occorre quattro volte nella raccolte originali.
La scelta di «limpide» nel v. 3 sarebbe stata quindi consona al corpus quasimodiano,
ma con «chiare» si è accentuato il carattere di luminosità, latente in liquentibus;
quasi a compensare la perdita, «limpide» è presente al v. 16 dell’edizione del 1939.
57
Per conoscere Quasimodo, a cura di R. Salina Borello, Milano 1973, p. 4.
58
Fert è tradotto dapprima con «dòmina» (singolare come il testo latino), poi
con «innalzano», resa stilistica migliore che permette la catena di apici culminativi e di
consonanti liquide. Di questo verso si conservano anche alcune varianti manoscritte:
«porta» (f. IV.40; suggerimento di Pascoli, Lyra cit., p. 74), «solleva» (f. IV.41).

372
Tavola 1.
Luigi Ernesto Arrigoni

Il vasto latino del v. 3 (mari […] vasto), ritenuto pleonastico nella


traduzione quasimodiana, apportava due diverse sfumature: l’idea di
immensità, che è stata resa dal poeta con raffinati espedienti fonici, e
«the sense of emptiness or desolation» 59, che invece si è deliberata-
mente perso per non incrinare la maestosità della scena. L’apertura
spaziale è sottolineata anche dalla misura dei primi otto endecasillabi,
tutti leggibili come a maiore, e dal continuo travalicare del periodo ol-
tre il verso. L’aggettivazione («sull’acque / dell’isole dolci»; «acque /
chiare») svela il sottofondo petrarchesco («Chiare, fresche, dolci
acque») e leopardiano («Dolce e chiara è la notte e senza vento»)  60,
che conferisce all’inizio del carme 31 il tono di «leggerezza incanta-
ta» segnalato da La Penna 61, e a quello di Tìndari «l’andatura legge-
ra e alata di un inno», secondo la suggestiva immagine di Montale 62.
La luminosità e l’aspetto visivo erano presenti già in alcune varian-
ti manoscritte del vocativo ocelle (da oculus): «pupilla, cara», «luce
agli occhi» (f. IV.40). Quasimodo nelle note dell’antologia ricordava
che il significato letterale del termine era «piccolo occhio», ma sug-
geriva poi di tradurlo con «diletta», mantenendo quindi soltanto il
senso figurato. «Diletta» è collocato in rilievo, all’inizio del secondo
emistichio del primo verso, dopo una forte cesura, ed è formato dalla
combinazione dell’occlusiva -d- con la laterale -l-, che Salina Borello
rileva anche in Vento a Tìndari. Suggestionato però dall’immagine del
«piccolo occhio», Quasimodo ha amplificato l’impatto visivo della
poesia e ha recuperato l’idea della «luce» nell’aggettivo «chiare» (pre-
sente con dodici occorrenze nel corpus delle sue poesie originali), che

59
Fordyce, Catullus cit., p. 167. In f. IV.40 vasto era tradotto da Quasimodo
con «immenso».
60
F. Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 126.1; G. Leopardi, La sera del
dì di festa, v. 1. Entrambi i versi erano ben presenti alla memoria poetica di Qua-
simodo, che li celebra in due saggi: «‘Chiare, fresche, dolci acque’! E fosse tempo,
questo, di così care sillabazioni» (S. Quasimodo, Discorso sulla poesia, 1953; ora in
Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 292); «In questo senso abbiamo inteso i risultati
di metrica nel corpo della sintassi leopardiana: ‘Dolce e chiara è la notte e senza
vento’» (S. Quasimodo, D’Annunzio e noi, 1939; ora in Il poeta, il politico e altri
saggi cit., p. 180).
61
La Penna, «Il fiore delle Georgiche» cit., p. 322.
62
E. Montale, «Acque e terre», «Pegaso» 3, marzo 1931; ora in Quasimodo e
la critica cit., p. 295.

374
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

ribalta la prospettiva di Tìndari, dove la «luce» era «altra», lontana


cioè dall’ambito dell’Io lirico.
Al v. 4 Catullo si valeva di una «loose coordination of adverb
and adjective»  63, legati dai due quam per descrivere il proprio sta-
to d’animo alla vista di Sirmione. Quasimodo inizialmente cerca di
rispettare questa scelta sintattica con un complemento («con quanta
letizia») e un aggettivo («ansioso») 64. Nella versione finale snellisce il
dettato utilizzando due complementi («con quanta gioia e quanto pia-
cere»), forse per l’influenza di Lafaye («avec quel plaisir, avec quelle
joie»): oltre ad eliminare l’aulica «letizia», si illanguidiscono così le
connotazioni dell’espressione «ansioso», a favore di un più semplice
«piacere». Anche il successivo stemperamento di «incolume» (fedele
all’originale in tuto del v. 6, a indicare il superamento di un viaggio
lungo e arduo) in «sereno» contribuisce alla perdita dell’immagine
del Wanderer Catullo, ma intensifica l’importanza di Sirmione per
l’animo del poeta 65. Quasimodo cambia così l’intonazione poetica del
componimento, accentuando gli elementi dell’interiorità a discapito
di altre componenti. Per i Latini era usuale descrivere azioni; Qua-
simodo mira invece all’opposto: l’«ansioso» del 1939 suggerisce non
solo la preoccupazione di non farcela durante il viaggio o il desiderio
di raggiungere la casa il prima possibile, ma anche un sentimento più
esistenziale e profondo, quell’«ansia precoce di morire» che in Tìndari
condiziona la vita del poeta. Tale inflessione è confermata dall’inedita
presentazione al carmen, che Quasimodo aveva steso per l’antologia

63
Fordyce, Catullus cit., p. 168.
64
Esistono varianti manoscritte in cui traduceva «come lieto», evidente calco
dal latino laetus, e «volentieri» per libenter (f. IV.41).
65
Il tema del lungo viaggio si affievolisce anche con la modifica di «esausti»
per un più lieve «stanchi» e di un’altisonante «patria» a favore di una più modesta
«casa». Si smarrisce però il valore sacrale del lessema larem al v. 9, che in latino
conserva una «Erinnerung an die Sitte, bei der Heimkehr den Lar zu Begrüßen»
(Kroll, C. Valerius Catullus cit., p. 59). Inoltre, in quello stesso verso non viene tra-
dotto labore, che designava – a detta di Quasimodo – la stanchezza «per le fatiche
dei viaggi in paesi stranieri» (cfr. De Gubernatis, Il libro di Catullo cit., p. 61: «fati-
che durate in paese straniero»). In Catullo il nesso peregrino labore era enfatizzato
dalla spezzatura a cavallo dei vv. 8 e 9 e dall’opposizione con nostrum in clausola al
verso 9. Labore era poi ripetuto al v. 11, dove Quasimodo lo traduce con «fatiche»
(Lafaye: «fatigue»). Per bilanciare queste perdite Quasimodo rinuncia alla variante
manoscritta «Credo appena d’avere abbandonato» (f. IV.41) per sfruttare le sfuma-
ture dell’avverbio «lontano».

375
Luigi Ernesto Arrigoni

della letteratura latina, in cui si sottolinea l’ansia che avrebbe attana-


gliato Catullo in terra straniera (oltre il riposo e la serenità raggiunti
al ritorno):
Catullo ritorna dalla Bitinia dopo essere stato a lungo tempo lontano
dalla patria; e saluta Sirmione, la terra lacustre da lui tanto amata. Nel-
la casa sulle rive del Garda spera di trovare riposo e serenità dopo le
ansie e i disagi della sua vita in terra straniera.
«Nell’opera di Quasimodo il tema dell’isola ha la sua fondazio-
ne nella condizione d’esiliato» 66: l’isola, carica di «significati remoti e
metafisici» 67, è il simbolo di quel mondo originario e felice che il poe­
ta ha dovuto abbandonare per percorrere la dura strada dell’esilio.
L’incontro con Tìndari stimola quindi il ricordo di quell’antica vita.
Secondo Salina Borello
il motivo dell’acqua si configura in Quasimodo come metafora agglu-
tinante per eccellenza, ma anche come infinito rinvio, eterno altrove
rispetto al qui ed ora […]. Il ripiegamento sull’acqua […] innesca un
movimento all’indietro verso un passato sepolto nella memoria, verso
mitiche archeologie interiori. 68
Attraverso la propria proiezione in Catullo, che aveva fatto ritorno
al Benaco da una terra lontanissima, Quasimodo rivive questa antica
esperienza come un ritorno al luogo primigenio, all’isola natìa, «spa-
zio-eden dell’anima, luogo psichico e meta piena di […] felicità»  69.
Significativi i campi semantici opposti che vengono sviluppati nelle
due poesie: l’oscurità («buio», «ombre») e l’infelicità («male», «morte
d’anima», «aspro», «esilio», «tristezza») in Tìndari; la luce («chiare»,
«limpide») e la serenità («letizia», «piacere», «sereno», «felicità»   70,

66
Tedesco, L’isola impareggiabile cit., p. 10.
67
O. Macrì, La poetica della parola e Salvatore Quasimodo, Prefazione a
S. Quasimodo, Poesie, Milano 1938; ora in Quasimodo e la critica cit., p. 67.
68
R. Salina Borello, Oltre l’arco chiuso. Dicibilità dell’indicibile in Salvatore
Quasimodo, in La poesia nel mito e oltre cit., p. 225. Nello stesso studio «l’infanzia-
isola», sulla scia dell’interpretazione archetipica di Jung, è definita «mitico luogo di
armoniosa simbiosi con la natura» (p. 222, corsivi dell’autrice).
69
G. Zagarrio, Quasimodo, Firenze 1979, p. 78 (corsivo dell’autore).
70
«Felice» proprio perché «usato con una certa parsimonia nella poesia del
primo periodo […] tende a sottolineare i rari momenti di completa comunione con
la natura» (E. Silvestrini, L’aggettivazione nelle traduzioni poetiche di Quasimodo
dalle «Georgiche», «Vichiana» n.s. 2, 2002, p. 354). Vd. gli esempi citati dall’autrice:

376
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

«quiete») in Sirmio. Le «dolcezze» erano prima confinate entro il


ricordo («un tempo assidue»)  71, la serenità di Tìndari restava inat-
tingibile per il poeta («Tìndari serena torna») e la «gioia» («non mia
riposa / sul tuo grembo») 72 rimaneva esclusa dalla percezione del sog-
getto. Ora, con preciso rimando lessicale, l’Io lirico può finalmente
esperire queste sensazioni: «sola dolcezza di tante fatiche»  73; «con
quanta / gioia […] ti rivedo»; «sereno poterti contemplare»; «nel so-
spirato letto riposiamo». Cum mens onus reponit (al v. 8) è reso in
prima istanza con «quando / la mente non è grave di pensieri»; nelle
versioni successive Quasimodo scioglie la litote («con la mente / leg-
gera di pensieri») ed elimina il verbo, in sintonia con lo stile delle sue
poesie originali, dove la sintassi nominale è prevalente. La soluzione

«E fammi vento che naviga felice» (Curva minore, da Òboe sommerso, v. 6, p. 47);
«Ti trovo nei felici approdi» (Fresche di fiumi in sonno, da Òboe sommerso, v. 1,
p. 72).
71
L’aggettivo «dolce», di cui abbiamo già sottolineato l’eco leopardiana, è
analizzato da Elena Silvestrini nello studio, sopra ricordato, sul lessico quasimo-
diano della traduzione dal Fiore delle Georgiche, dove «sembra evocare un senti-
mento di conforto, che ridona vita» (Silvestrini, L’aggettivazione nelle traduzioni
cit., p. 350). Esso è molto frequente (anche come sostantivo) nelle raccolte originali
(ventuno occorrenze) e negli altri carmi di Catullo: «tanto era dolce» (3.6); «Che
dolci cose erano fra voi» (8.6); «Ascolta, mia dolce Ipsililla» (32.1; edizione del
1955); «al dolce / soffiare dello zèfiro» (46.2-3); «dolce ricordo delle lotte notturne»
(66.14); «per il dolce sposo» (66.36); «dolce amarezza mischia nell’amore» (68.18).
72
«Gioia» è usata spesso con valore antifrastico in Ed è subito sera: «gioia di
foglie perenni, / non mie» (Òboe sommerso, da Òboe sommerso, vv. 5-6, p. 39); «grama
gioia accolse» (L’Eucalyptus, da Òboe sommerso, v. 12, p. 40); «mai di gioia nutre /
la mia vita diversa» (Nascita del canto, da Òboe sommerso, vv. 7-8, p. 42), «serenità di
morte estrema gioia» (Sillabe a Erato, da Erato e Apòllion, v. 14, p. 79). Vd. anche il
titolo Imitazione della gioia (da Nuove poesie, p. 117). Nei Canti, «gioia» non è ripreso
solo in accezione positiva, come nel carme 31, bensì copre un’ampia gamma di situa-
zioni: è infatti utilizzato come vezzeggiativo di una ragazza («mia dolce Ipsililla, / mia
gioia»; 32.1-2, edizione del 1955) e per dipingere la felicità per il ritorno di Veranio
(«Sei ritornato, è vero. O annunzio / a me di gioia!»; 9.5-6), ma ricorre anche come
apposizione del passero di Lesbia appena morto («passero, gioia della mia fanciulla»;
3.4) o per descrivere il passato sereno, prima dell’abbandono da parte della donna
amata («Se il bene compiuto dà qualche gioia nel ricordo»; 76.1, edizione del 1955) e
della scomparsa del fratello («con te sono finite tutte le nostre gioie»; 68.23).
73
«Dolcezza» è sostituito nell’edizione del 1955 dal più concreto «compenso»,
su influenza di Pascoli (Lyra cit., p. 75: «questo solo è il compenso»). Anche il pre-
cedente «felicità» («Quale felicità più grande») viene da Lyra cit., p. 74: «Oh! quale
felicità è maggiore».

377
Luigi Ernesto Arrigoni

finale, senza verbo e figura retorica, rende con grande finezza la levità
dell’espressione: la «mente» del poeta è «leggera», lontana dagli affan-
ni in terra straniera e libera di vagare come «la brigata» di amici che
«lieve» lo accompagnava a Tìndari, per poi allontanarsi «nell’aria».
A enfatizzare il segno positivo della nuova composizione, come sap-
piamo, nella redazione del 1955 «gioia» sostituisce quell’«ansioso»
ancora troppo legato all’angoscia di Tìndari ed entra in epanalessi con
l’ultimo verso, di cui amplifica il motivo.
Nella conclusione, infatti, Quasimodo, suggestionato dal movi-
mento delle onde lacustri, e memore dell’«onda di suoni e amore»
della brigata che gli faceva compagnia nella poesia per Tìndari, perde
totalmente di vista l’originale latino (Salve, o venusta Sirmio, atque ero
gaude, v. 12) e trasferisce «the joy of [the] house»  74 al poeta stesso
(ripercorrendo quindi a ritroso il correlativo oggettivo), «sdoppiando
così il motivo lirico» 75: «Felice tu sia, bella Sirmio; e tu / o Catullo, ral-
legrati; e voi limpide / onde del lago, esprimete al moto / tutta la gioia
che allieta la mia casa» 76. I critici non sono concordi su questa scelta:
Virginio Cremona parla genericamente di «semplificazione dei nessi
sintattici»  77, mentre Filippo Maria Pontani pensa a un errore, visto
che Quasimodo sembra male interpretare ero 78, che in Catullo, «oltre
al tradizionale rapporto padrone-servo, configura quello tra proprie-
tario e res personata» 79. Arnaldo Bocelli ritiene invece che Quasimodo
si sia «attenuto ad una diversa lezione del testo» 80. Quest’ultima af-

74
Ellis, A Commentary cit., p. 112.
75
Cremona, Il Catullo cit., p. 805.
76
Quasimodo dimostra qualche incertezza nel tradurre Salve, «the Roman’s
everyday word of greeting» (Fordyce, Catullus cit., p. 169). Inizialmente lo tra-
sforma in un solenne ottativo «Felice tu sia», forse perché Pascoli lo definisce un
«soave e religioso saluto» (Lyra cit., p. 75). In seguito, preferisce ripiegare su un
calco dal latino («salve!»), enfatizzato dal punto esclamativo. Il problema si estende
all’aggettivo venusta, che in latino mantiene un forte legame etimologico con Venus.
Quasimodo traduce «bella», che entra in assonanza e parziale consonanza con
«diletta» ma perde completamente ogni allusione alla dea dell’amore.
77
Cremona, Il Catullo cit., p. 803.
78
F.M. Pontani, Un secolo di traduzioni da Catullo, «RCCM» 25, 1977,
p. 634.
79
G. Maselli, Affari di Catullo: rapporti di proprietà nell’immaginario dei car­
mi, Bari 1994, p. 28.
80
A. Bocelli, Quasimodo e Catullo, «Il Mondo», 7 febbraio 1956; ora in Qua-
simodo e la critica cit., p. 366.

378
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

fermazione sembra smentita dal latino stampato a fronte, che reca la


lezione corretta; tuttavia, al v. 13 Quasimodo traduce Lydiae come se
leggesse limpidae, congettura effettivamente proposta da alcuni filo-
logi 81. Nel resto della raccolta, però, Quasimodo dimostra di seguire
fedelmente l’edizione di De Gubernatis e nelle note (che risalgono
agli anni della guerra) commenta esplicitamente il lemma Lydiae, con
tanto di cenno storico: «Lydiae: Lidie. Molto probabilmente perché
il territorio del Garda fu abitato nell’antichità dagli Etruschi, ritenu-
ti discendenti dei Lidii». È quindi possibile che nella sua traduzione
Quasimodo abbia volutamente preferito «limpide» per recuperare la
sfumatura di liquentes, che era stata persa al v. 2. L’ipotesi di Pontani,
quella dell’errore, può invece spiegare perché Quasimodo proponga
una redazione più vicina all’originale nell’edizione Mondadori, spo-
stando il vocativo e il sentimento di felicità su Sirmione (con figura
etymologica, «rallègrati  […] rallegratevi», per rendere gaude […]
gaudete) e recuperando Lydiae ed ero («signore»): «O mia bella Sir-
mio, salve!, rallègrati, / ora il tuo signore è qui, e voi lidie onde / del
la­go, rallegratevi; echeggiate / gridi ridenti di gioia nella casa»  82. In
definitiva: se non si può escludere a priori un fraintendimento, è però
preferibile interpretare la primitiva opzione come una scelta di crea-
tività volta ad aumentare l’interiorità della poesia, in sintonia con gli
elementi fin qui evidenziati.
Il v. 14 dell’originale latino è tradotto interpretando «la proposi­
zione relativa» come «un oggetto interno», e non secondo la para-
frasi «ridete cachinni quotquot domi estis»  83. Quasimodo conosceva
entrambe le spiegazioni dalle note di Pascoli e di De Gubernatis e ha
optato per quella adottata oggi dai filologi più autorevoli 84.

81
Ellis, A Commentary cit., p. 113: «Of the proposed emendations the least
improbable are Avancius’ limpidae (IV.24) or lucidae (B. Guarinus and, later,
Bergk)».
82
La variante manoscritta «ora è giunto il tuo signore» (f. IV.40) delineava
un’azione, cioè il faticoso ritorno di Catullo dalle terre straniere; nella versione a
stampa Quasimodo preferisce ripiegare sulla descrizione di uno stato, in sintonia
con le precedenti modificazioni volte a stemperare i dettagli sul lungo viaggio.
83
De Gubernatis, Il libro di Catullo cit., p. 61.
84
La lettura quasimodiana è ritenuta la meno corretta da De Gubernatis. Vd.
invece Kroll, C. Valerius Catullus cit., pp. 59-60: «Der Relativsatz […] vertritt die
Stelle eines inneren Objektes […]. Die Auffassung, als würden die cachinni ange-
redet und zum Lachen aufgefordert, ist abzuweisen, schon weil der Leser ridete

379
Luigi Ernesto Arrigoni

onde del lago, esprimete al moto


tutta la gioia che allieta la mia casa. (1939)
onde
del lago, rallegratevi; echeggiate
gridi ridenti di gioia nella casa. (1955)

A livello stilistico la chiusa, specialmente quella del 1955, si attesta su


un’evidente aulicità lessicale, venendo a perdere l’interazione fra pa-
role di diversi livelli del testo latino, come i termini tecnico-economici
est domi («of your own» e non «at my home» 85, come interpreta Qua-
simodo) e il domestico ridete, seppure utilizzato in funzione di meta-
fora e qui elevato ad «echeggiate / gridi ridenti». La partitura fonica
risulta però aspra, giocata sul contrasto fra la vibrante /r/, le occlusive
velari /k/ /g/ e l’affricata alveopalatale sonora /dƷ/: «rallegratevi;
echeggiate / gridi ridenti di gioia nella casa». L’opposizione con i
versi dell’esordio, imperniati sulle liquide, è moderata solo dalla rima
interna ipermetra (rallegratevi : echeggiate).
L’edizione del 1955 presenta nel complesso una sintassi molto più
sciolta 86. Bocelli rilevava che «quel tanto che la prima versione aveva
ancora di contorto nella sintassi e di sostenuto nel linguaggio, adesso
è scomparso. La soggezione al testo […] ora si è fatta padronanza,
che non esclude la fedeltà, anzi l’accresce» 87. Le sostituzioni lessicali
fra le due fasi compositive vanno in direzione di un avvicinamento
alla poesia originale quasimodiana: parole con poche occorrenze co-
me «credere» (due) e «grave» (tre occorrenze come aggettivo e una
come sostantivo), o con nessuna occorrenza («incolume», «esausto»)

auf dasselbe Subjekt bezieht wie das parallel gestellte gaudete»; Fordyce, Catullus
cit., p. 170: «the quidquid-clause […] takes the place of an internal accusative with
ridete».
85
Ibid.
86
«Quale cosa è più grata» dovette apparire una traduzione troppo scolastica e
poco elegante, inoltre «grato» in italiano suonava più aulico del gratus latino; molto
meglio risulta la nuova redazione: «Quale felicità più grande». Altre modificazioni
portano a soluzioni più aeree nel tratto: «Riposiamo» sostituisce un pesante «tro-
viamo quiete» e ricorda il «riposa» di Tìndari (in f. IV.41 è conservata una variante
manoscritta intermedia «troviamo riposo», identica alla nota di traduzione di
De Gubernatis, Il libro di Catullo cit., p. 61). Il «desiderato / nostro letto», evidente
calco dal latino, acquista una notazione psicologica più vivace grazie a «sospirato» e
all’eliminazione del possessivo.
87
Bocelli, Quasimodo e Catullo cit., p. 366.

380
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

sono eliminate a favore di termini più frequenti, come «parere» (otto),


«sereno» (otto), «pena» (nove), «stanco» (sette), «leggero» (otto).

Un ultimo, ma non meno importante, aspetto da prendere in conside-


razione della traduzione del carme 31 è quello della veste metrica. Le
prime raccolte di Quasimodo sono infatti composte secondo il mo-
dello del verso breve novecentesco, che alterna unità fra il quinario
e il decasillabo, con qualche rara presenza di versi più lunghi (dode-
casillabo e tredecasillabo) o brevissimi (trisillabo) 88. Mengaldo parla
a questo proposito di «metrica molecolare» ungarettiana, i cui «con-
traccolpi […] sono subito diretti e forti in Quasimodo» 89 e Lavezzi
evidenzia la disgregazione del «verso tradizionale in versicoli» con
la conseguente frantumazione «del discorso in una serie di monadi
verbali sillabate» 90. «Contenuto di questa poesia», secondo Gilberto
Finzi, «è dunque l’esperienza psicologica dell’immaginazione, il senso
musicale risvegliato da ritmi verbali stretti e dissonanti nella libertà
totale del verso» 91. A detta di Quasimodo, la propria poesia seguiva
«una metrica non prestabilita […] orientata verso i valori di ‘quanti-
tà’ della parola assoluta» grazie a «un superamento della percezione
sillabica» 92. Questo sistema ritmico comincia a incrinarsi con le Nuo-
ve poesie del 1942: cinque di esse sono esclusivamente endecasillabi-
che 93, e nelle restanti quindici della raccolta alla prevalenza di versi
brevi si affianca una sensibile presenza di versi lunghi. Anche nella
traduzione dei Lirici greci si registra un aumento degli endecasillabi
e dei versi lunghi, pur in uno sfondo complessivo ancora dominato

88
In realtà, nella prima redazione di Acque e terre numerose erano le poesie
che seguivano una metrica di tipo tradizionale, fra cui molte in endecasillabi. Esse
sono state espunte o modificate nelle selezioni successive.
89
P.V. Mengaldo, Questioni metriche novecentesche, in La tradizione del
Novecento. Terza serie cit., p. 64.
90
G. Lavezzi, Manuale di metrica italiana, Roma 1996, p. 311.
91
Finzi, Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo cit., p. 62.
92
Quasimodo, D’Annunzio e noi cit., p. 179.
93
Finzi suppone perciò che «le prime delle Nuove Poesie [quelle in endeca-
sillabi] nell’ordine di pubblicazione di Ed è subito sera siano state composte per
ultime, e viceversa che le ultime […] siano cronologicamente precedenti» (Finzi,
Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo cit., pp. 82-83). L’ipotesi è confermata
dalla datazione dei manoscritti (1941-1942; vd. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla
poesia cit., pp. 1249-1250).

381
Luigi Ernesto Arrigoni

dal verso breve. La raccolta postbellica, Giorno dopo giorno, presenta


invece una situazione del tutto diversa, con ben sedici poesie in ende-
casillabi e quattro in versi lunghi.
Il punto di svolta per le scelte metriche quasimodiane è stato da
tutti individuato nelle Nuove poesie, tanto che lo stesso Mengaldo
nota in esse l’emergere di «un nuovo classicismo metrico centrato
sull’endecasillabo sciolto» 94, tale da determinare una «fase di cristal-
lizzazione classicistica» rispetto alla relativa «libertà metrica»  95 della
prima stagione. Sarebbe «a questo punto e solo a questo punto che
nello stile quasimodiano la presenza di Montale, e in particolare delle
Occasioni, lascia un solco destinato ad approfondirsi nel successivo
Giorno dopo giorno» 96. Simile era stata anche la valutazione di Franco
Fortini, secondo il quale «l’endecasillabo classicheggiante stempera e
distende l’accento vibrato delle prime raccolte» 97. Per Finzi ben più
cruciale per la svolta sarebbe invece
la lezione dei lirici greci che nello stesso periodo [Quasimodo] va
traducendo: lezione di concretezza ma anche lezione metrica […]. Il
ritmo tende a mutare [e] prevale l’endecasillabo sul verso breve.  98

Non è stato invece fino ad oggi osservato che la prima traduzione da


Catullo, ossia il carme dedicato a Sirmione, fu pubblicata su rivista
già nel 1939 e presentava, con largo anticipo rispetto alle Nuove poe-
sie, diciotto endecasillabi. Dopo i componimenti del 1939 e del 1942,
Quasimodo ha ripreso l’endecasillabo per tradurre altri undici testi
del poeta latino, da inserire nella raccolta del 1945: sperimentando
così nuove soluzioni, che lo guideranno nella composizione di Gior-
no dopo giorno. Decisiva è stata forse in questo senso l’influenza dei
metri originali del poeta veronese: diciassette poesie del Liber accol-
te nell’antologia quasimodiana sono infatti in endecasillabi faleci   99.

94
Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica cit., p. 133.
95
Ivi, p. 135.
96
Ivi, p. 134.
97
F. Fortini, I poeti del Novecento, Roma - Bari 1988, p. 89.
98
Finzi, Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo cit., pp. 82-83.
99
Le poesie di Catullo in endecasillabi faleci accolte nell’antologia di Quasi-
modo già dal 1945 sono le nrr. 1, 3, 5, 9, 27, 35, 38, 46, 49, 58. Nella pubblicazione
del 1955 vengono aggiunte le nrr. 12, 13, 26, 41, 43, 55, 56 (il carme 32 è invece tra-
dotto in novenari). Anche i carmi 65, 82, 105, 116, in distici elegiaci, sono tradotti in

382
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

Questo tipo di verso non è frequente nella letteratura latina, perché


ha  – rispetto agli altri – «un numero fisso di sillabe»  100: nonostante
le differenze fra i due sistemi metrici, quello latino e quello italiano, a
Quasimodo dovette sembrare però «naturale» la trasposizione in un
metro di grande tradizione, oltretutto affine per lunghezza. L’endeca-
sillabo falecio stimolava il recupero dell’endecasillabo italiano, venen-
do a generare un caso di «interferenze produttive fra metrica in pro-
prio e metrica dell’àlacre traduttore»  101. Lo schema endecasillabico
nella raccolta è pervasivo, tanto che Quasimodo traduce con questo
verso perfino il carme 4 e lo stesso carme 31, che in latino sono rispet-
tivamente composti in trimetri giambici e in coliambi (una variante
del trimetro giambico), vale a dire in un metro di dodici sillabe. Nella
tradizione letteraria italiana, del resto, «fin dal Cinquecento l’endeca-
sillabo sdrucciolo è sentito come un equivalente naturale del trimetro
giambico acatelettico»  102; Quasimodo forse risente di questa sugge-
stione formale, visto l’alto numero di proparossitone in clausola  103.
Nella successiva raccolta Giorno dopo giorno, «la poetica dell’uo-
mo», cioè il bisogno di nuovi contenuti, di nuove istanze enunciative
in grado di aprirsi al dialogo con gli altri, sostituirà «la poetica della
parola» 104 ed eleggerà a sua misura fondamentale, e spesso esclusiva,
l’endecasillabo, lo strumento più adatto a scandire quella nuova poe-
sia «di natura corale [che] scorre per larghi ritmi [e] parla del mondo
reale con parole comuni» 105. L’impegno della struttura lirica
dopo due guerre nelle quali l’«eroe» è diventato un numero stermi-
nato di morti […], è ancora più grave, perché deve «rifare» l’uomo,
quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pen-
sieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità […]. Rifare
l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia

endecasillabi nell’edizione del 1955 (il 65 e il 116 erano stati precedentemente resi
in versi lunghi).
100
S. Boldrini, La prosodia e la metrica dei Romani, Roma 1992, p. 159. Vd.
anche S. Timpanaro, Nozioni elementari di prosodia e metrica latina, in appendice a
A. La Penna, Romanae Res, Torino 1966, p. 434.
101
Mengaldo, Questioni metriche novecentesche cit., p. 27.
102
P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna 1991, 19942, p. 201.
103
Cinque nell’edizione del 1939 («isole», «dòmina», «incolume», «liberi»,
«limpide»), solo due in quella del 1955 («isole», «rallègrati»).
104
C. Bo, Prefazione a Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. XVII.
105
Quasimodo, Discorso sulla poesia cit., p. 293.

383
Luigi Ernesto Arrigoni

come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estra-


neo alla vita […], diciamo che il tempo delle «speculazioni» è finito.
Rifare l’uomo, questo è l’impegno. 106
Il poeta, sentendosi investito di uno scopo così alto, ricerca ora nel-
la tradizione modelli che possano permettere un dialogo con gli altri
uomini. In questo senso vanno lette le traduzioni che Quasimodo
opera nei «giorni della furia tedesca e latina»  107: la prosa del Van-
gelo di Giovanni, il «discepolo diletto, [l’unico che] poteva darci la
vita interiore di Gesù» 108; gli esametri di «Virgilio silenzioso e casto,
contadino della piana e raffinato amante delle lettere» 109; le elegie di
Catullo «là dove la sua pena d’uomo raggiunge l’accento più eterno,
là dove non più Callimaco lo tocca ma la sua natura di latino, la sua
umana disperazione di giovane già destinato alla morte» 110.
I versi di 19 gennaio 1944, riferiti a Virgilio, ben descrivono lo
stato d’animo con il quale Quasimodo si accostava a questi testi nel
corso dell’orrore bellico:
Ti leggo dolci versi d’un antico,
e le parole nate fra le vigne,
le tende, in riva ai fiumi delle terre
dell’est, come ora ricadono lugubri
e desolate in questa profondissima
notte di guerra in cui nessuno corre
il cielo degli angeli di morte,
e s’ode il vento con rombo di crollo
se scuote le lamiere che qui in alto
dividono le logge, e la malinconia
sale dei cani che urlano dagli orti
ai colpi di moschetto delle ronde
per le vie deserte. Qualcuno vive.
Forse qualcuno vive. Ma noi, qui,
chiusi in ascolto dell’antica voce,
cerchiamo un segno che superi la vita,

106
S. Quasimodo, Poesia contemporanea, 1946; ora in Poesie e discorsi sulla poe­­
sia cit., p. 273.
107
Quasimodo, Traduzioni dai classici cit., p. 109.
108
S. Quasimodo, Introduzione a una lettura del «Vangelo Secondo Giovanni»,
1942; ora in Il poeta, il politico e altri saggi cit., p. 105.
109
Quasimodo, Traduzioni dai classici cit., p. 109.
110
Ivi, p. 111.

384
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo

l’oscuro sortilegio della terra


dove anche fra tombe di macerie
l’erba maligna solleva il suo fiore. 111

In questa poesia Quasimodo rivela come abbia cercato nei libri del
passato quel «segno che superi la vita», che permetta di rifare l’uomo,
distrutto dalla «scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore,
senza Cristo»  112. Oltre alla lezione di umanità e moralità, l’esempio
dei latini offre lo stimolo per un affinamento tecnico e stilistico:
I latini, dicono, sono più difficili dei greci, quando si tenta una tradu-
zione; e forse è vero: i latini sono analitici là dove i greci sono densi e
fulminei; i primi ragionano dove i secondi evocano. 113
Lo stesso poeta ha riconosciuto il valore di spartiacque che le tradu-
zioni assumono all’interno del suo percorso poetico:
dalla mia prima poesia a quella più recente non c’è che una matura-
zione verso la concretezza del linguaggio: il passaggio fra i greci e i
latini è stata una conferma della mia possibile verità nel rappresentare
il mondo. 114
Quasimodo era consapevole che «rifare l’uomo, oltre che sul piano
morale, aveva significato [anche] su quello estetico» 115: la «ricerca di
un nuovo linguaggio più aderente alla vita» 116 si concretizza così nel
recupero dell’endecasillabo, propiziato da Catullo, e nella creazione di
un particolare verso lungo su influenza degli esametri virgiliani. L’en-
decasillabo è apparso come lo strumento più idoneo per descrivere il
«sentimento della solitudine» del poeta veronese, sentimento «che è il
riflesso della pena dell’uomo, del dolore in senso assoluto»  117. Dopo
l’«esplorazione impetuosa dell’umano» 118, Quasimodo ha sviluppato

111
19 gennaio 1944, da Giorno dopo giorno, p. 127.
112
Uomo del mio tempo, da Giorno dopo giorno, vv. 6-7, p. 144.
113
Quasimodo, Traduzioni dai classici cit., p. 109.
114
S. Quasimodo, Una poetica, 1950; ora in Poesie e discorsi sulla poesia cit.,
p. 281.
115
Ivi, p. 280.
116
F. Della Corte, Tre poeti traducono Catullo, «Aufidus» 7, 1989, p. 166; poi
in Opuscula XII, Genova 1990, p. 264.
117
S. Quasimodo, Il fiore delle Georgiche. Nota del traduttore, 1942; ora in
Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 715.
118
Della Corte, Tre poeti traducono Catullo cit., p. 165 = 263.

385
Luigi Ernesto Arrigoni

il metro in senso «epico e comunicativo» 119 per cantare altre pene –


non più quelle individuali, bensì quelle di un’intera generazione, rap-
presentata da una «madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul
palo del telegrafo» 120.
L’endecasillabo, pertanto, è sintomo e simbolo della sostantività eter-
nale punto per punto ricostituita dalle sue ceneri della guerra, delle
rovine ed eccidi, della viltà. Il lettore rivive nel verso quasimodiano
abrupto-normalizzato questa tragica vicenda. 121

Alla fonte di questa evoluzione sta la versione del 1939 di A Sirmio:


lo stimolo per tradurre in endecasillabi può essere venuto dal testo
di Catullo, composto in coliambi, ma forse non solo dall’originale
latino. Un movimento endecasillabico, irregolare e celato spesso a
cavallo fra i versi, infatti, si può rinvenire anche in Vento a Tìndari,
dove si assiste, secondo Mario Martelli, a «una folata di endecasillabi
e settenari (imperfetti metricamente, musicalmente perfettissimi)»  122.
Quasimodo decide quindi di recuperare questa latenza, riadattando
così la sua «totale, nativa disponibilità al canto» 123 all’interno di una
misura regolare e compatta che gli fornirà la base strutturale per una
nuova poetica e che gli permette di rivisitare uno dei temi cardine
della sua mitologia, quello dell’isola. Il risultato è di una finezza tale
da consentire di annettere A Sirmio, come è stato ripetuto altre volte,
fra le sue più «belle poesie» 124.

119
Ramat, Poesie (1938) cit., p. 367.
120
Alle fronde dei salici, da Giorno dopo giorno, vv. 6-7, p. 125.
121
O. Macrì, Poesia di Quasimodo: dalla «poetica della parola» alle «parole della
vita»; in La poesia nel mito e oltre cit., p. 32 (corsivo dell’autore).
122
M. Martelli, Il problema metrico nella poesia di Salvatore Quasimodo, in
La poesia nel mito e oltre cit., p. 92. Anche Daniele Maggi ha messo in luce il ruolo
centrale del verso: «Gli endecasillabi più i versi che gravitano nell’area dell’endeca-
sillabo in forma più o meno coperta o con valenze anche solo parziali risultano alla
fine 18, la metà eccedente del totale […]. L’endecasillabo si propone […] come una
sorta di fine metrico – fine metrica e fine metrico – del componimento» (D. Maggi,
Annotazioni metriche a «Vento a Tìndari» di Salvatore Quasimodo, «Studi e saggi
linguistici» 43-44, 2005-2006, pp. 165-166).
123
Martelli, Il problema metrico nella poesia di Salvatore Quasimodo cit.,
p. 92.
124
Bocelli, Quasimodo e Catullo cit., p. 369.

386
Giuliano Cenati
Carlo Emilio Gadda
e i «cattivi maestri» latini

Pubblicato dapprima nelle Novelle dal Ducato in fiamme (1953) quindi


negli Accoppiamenti giudiziosi (1963), San Giorgio in casa Brocchi è un
racconto gaddiano del 1931 che mette in scena le premure educative
di una famiglia milanese altolocata e della sua corte di frequentazioni,
più o meno benpensanti. Oggetto della tutela parentale e pe­da­go­gica è
la salute morale del rampollo Gigi, prossimo ai diciannove an­ni e dun-
que esposto a tutti i peggiori esempi di corruzione che offra una gran-
de città sul finire degli anni Venti del Novecento. Il tema conduttore
è rappresentato dal contrasto tra l’ipocrisia sessuofo­bi­ca degli adulti
e l’urgenza del desiderio giovanile, nell’ambiente del­l’aristocrazia im-
borghesita. A dominare il quadro, tuttavia, sono le ansie, gli orgasmi,
le pretese bigotte della generazione matura – in particolare della ma-
dre contessa Brocchi – che vede un fomite di vizio in ogni possibile
contatto con il mondo esterno alla cerchia domesti­ca, si tratti di ma-
nifestazioni dell’arte d’avanguardia o di esuberanze della studentaglia
politecnica, di amicizie poco castigate o, dio ne scampi, di insidie della
femminilità popolaresca. In questo vero e pro­prio «disegno milane-
se», che misura una cinquantina di pagine, si trova il luogo più emi-
nente dedicato alla Latinità nell’intera opera di Gadda: una corposa
digressione anticiceroniana che si staglia netta sul racconto principale,
sino a occupare oltre un decimo dell’intera narrazione, pressoché un
racconto nel racconto. La sua collocazione è in sede assolutamente
mediana, equidistante dagli estremi: nel cuore della seconda parte,
delle tre in cui si articola San Giorgio in casa Brocchi. Se si tiene conto

387
Giuliano Cenati

della simmetria strutturale del testo, infatti, che si apre e si chiude


sulla figura della giovane cameriera Jole, circonfusa di una forte carica
erotica, ecco che la digressione d’argomento classico appare in tutta la
sua geometrica centralità, che è insieme centralità funzionale.
Il corpo principale del racconto, povero di azione, illumina ironi-
camente il perbenismo miope delle classi agiate ambrosiane di fronte
ai fermenti della contemporaneità metropolitana. L’unico momento
dinamico della vicenda è anche quello che la conclude, con l’atto di
seduzione compiuto dall’intraprendente Jole nei confronti del con-
tino Gigi, per contrappasso beffardo verso la rigidezza degli adulti
bacchettoni. La simpatia del narratore va ai giovani e alla loro dispo-
nibilità vitale, all’espressione spontanea degli istinti amorosi, mentre i
custodi attempati di una morale baciapilesca sono esposti a derisione,
delineati con intensa uniformità caricaturale o con gusto macchiet-
tistico  1. Un racconto formalmente secondario e subordinato, com’è
la digressione anticiceroniana, si rivela dunque perno compositivo
attorno al quale ruota il racconto primario di atmosfera novecentesca.
Lungi dall’essere escursione ghiribizzosa estranea alla linea portante
d’intreccio, come da Gadda ci si potrebbe attendere, stavolta il nucleo
digressivo è pienamente conforme ai motivi del discorso sovraordina-
to, anzi li corrobora allargando lo scenario della rappresentazione ai
più ampi orizzonti storico-civili: per meglio significare che, nonostan-
te il tono talora grossamente comico, non siamo alle prese con una
questioncella domestica tra madri e figli. La faccenda è più seria di
quanto le caricature familiari in primo piano lascino sospettare.
La sintesi degli avvenimenti in cui culmina la crisi tardorepubbli-
cana di Roma antica – fatti di sangue drammatici e insieme di portata
storica decisiva – è interpolata alla rappresentazione ironicamente di-
stesa della cappa moralistica che grava sulla Milano contemporanea.
Si raffrontano così da un lato eventi politici della Romanità più aurea,
incisi nella memoria ufficiale e nell’immaginario europei, dall’altro la
morale della sfera individuale elaborata dalla civiltà borghese. Mentre

1
Per un’analisi del racconto gaddiano cfr. V. Spinazzola, Una festa di com-
pleanno raccontata da Gadda, in AA.VV., Studi vari di Lingua e Letteratura italiana
in onore di Giuseppe Velli, Milano - Bologna 2000, pp. 827-843; poi anche in Id., La
modernità letteraria, Milano 2001, pp. 247-264; E. Narducci, La gallina Cicerone.
Carlo Emilio Gadda e gli scrittori antichi, Firenze 2003, pp. 1-62.

388
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

il racconto dell’antico calamita i toni più estremi espressi dalla voce


narrante, nel segno dell’invettiva denigrante o della contemplazione
tragica, il racconto della modernità borghese si svolge secondo le for-
me della satira di costume, dell’ironia divertita o della ridicolizzazione
grottesca. Ma la partizione dei registri ammette senz’altro inversioni
tra i due poli storico-ambientali, sottolineando aspetti di provocato-
ria equiparazione o di paradossale vicinanza. Il collegamento tra la
digressione classica e la narrazione di costume attuale è dato dal culto
umanistico della Latinità – e di Cicerone in special modo – professato
con vario grado d’incompetenza e di semplicioneria da tutti i rappre-
sentanti del benpensantismo aristocratico-borghese: dalla contessa
Brocchi al professor Frugoni, allo zio Agamennone. Quest’ultimo ha
in programma, per essere all’altezza del proprio nome, niente meno
che di stendere un trattato Dei Doveri, sull’esempio del De officiis ci-
ceroniano. Il libro, di così anacronistica pretenziosità, è indirizzato
precisamente al nipote Luigi, in un circuito familiare di amorosi sensi
che vorrebbe conformarsi agli esempi della trattatistica rinascimentale
e allo stesso prototipo latino, nel quale l’autore si rivolge al figlio Mar-
co. Non potrebbe apparire maggiore la sproporzione tra l’intento e il
risultato, tra lo scrivente e gli illustri modelli evocati. Di fatto, sarà il
compendio di morale redatto dallo zio Agamennone a farsi galeotto
fra Luigi e Jole: materialmente consegnato al contino dalla cameriera
dello zio, esso costituisce tramite e pretesto al compiersi dell’incontro
amoroso.
La percezione della cultura classica in casa Brocchi riflette un’edu-
cazione scolastica votata alla banalità madornale, alla tromboneria,
alla contraddizione marchiana: denuncia la tendenza a espurgare tutto
quanto costituisca problema culturale e perciò inciampo all’afferma-
zione di pochi sani eterni princìpi. L’assiduità di siffatti cultori non
rende senz’altro merito al magistero dell’Arpinate, anzi lo trascina agli
occhi del narratore autoriale in una gora di convenzionalismo e gret-
tezza. La levatura francamente irrisoria di coloro che al giorno d’oggi
gli tributano un omaggio convinto quanto conformista è fatta ragione
di stima intellettuale ed etica dello stesso Cicerone: i risibili fautori
gettano una macchia di discredito incancellabile sulla sua fama, sul
pregio nel quale è stato tenuto dai dotti d’Europa. D’altronde, se i ceti
cólti sono degnamente rappresentati dalle contesse Brocchi, dagli zii
Agamennoni e dai professori Frugoni, è meglio sottoporre a verifica la

389
Giuliano Cenati

fonte prima di cotanta cultura. Il solo fatto che Cicerone abbia saputo
riscuotere durevolmente il consenso di figure simili sarebbe condi-
zione sufficiente, senza ancora affrontare nel merito la sua opera, per
revocare in dubbio l’alta considerazione di cui ha goduto nei secoli.
Senz’altro la satira ordita da Gadda si appunta anzitutto contro la rice-
zione e la fortuna di Cicerone: il personaggio del sommo autore latino
è assunto a mezzo per colpire le componenti più retrograde del milieu
aristocratico-borghese d’inizio Novecento 2. Ma l’acredine che sostiene
l’invettiva anticiceroniana e la diligente messa a fuoco dell’orizzonte
storico tardo-repubblicano depongono a favore di una critica mirata
ad personam, al di là delle proiezioni ricettive di cui Cicerone è stato
oggetto nel corso dei tempi. Insomma, ad essere sottoposto a uno svi-
limento ridicolizzante è proprio Cicerone, ammesso che lo si possa di-
sgiungere da ciò che egli ha rappresentato e continua a rappresentare
nella percezione ideologica delle élites dirigenti. Il narratore gaddiano
ha buon gioco nel prendere spunto polemico dal De officiis, dove il
conservatorismo legalitario di Cicerone tende ad allinearsi con specio-
sa durezza agli interessi del regime senatorio, in contrasto con qualun-
que istanza – anzitutto di parte «democratica» – possa perturbare lo
stato vigente dei rapporti economico-politici. A dispetto dei processi
di proletarizzazione patiti da corposi settori della cittadinanza duran-
te il I secolo a.C., nel trattato «sui doveri» la condizione di paupertas
viene prospettata insistentemente come una condizione naturale, per
quanto spiacevole, né più né meno che il dolore o la morte; sottrarsene
a scapito altrui e dell’altrui possesso, sarebbe empio nonché antisocia-
le (Cic. off. 3.21-28). Netto è il ripudio di ogni proposta che possa al-
terare i rapporti di proprietà costituiti o gli obblighi creditizi, imputata
perciò stesso di minare le fondamenta dello Stato:
Qui vero se populares volunt ob eamque causam aut agrariam rem
temptant, ut possessores pellantur suis sedibus, aut pecunias creditas
debitoribus condonandas putant, labefactant fundamenta rei publicae,
concordiam primum, quae esse non potest, cum aliis adimuntur, aliis
condonantur pecuniae, deinde aequitatem, quae tollitur omnis, si habe-
re suum cuique non licet. Id enim est proprium, ut supra dixi, civita-

2
Identico procedimento aveva seguito Alexandre Dumas nei suoi Mémoires
d’Horace (1860), verosimilmente ignoti a Gadda: cfr. A. Dumas, Mémoires d’Horace
écrits par lui-même, édition, préface et commentaires de C. Aziza, Paris 2006.

390
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

tis atque urbis, ut sit libera et non sollicita suae rei cuiusque custodia.
Atque in hac pernicie rei publicae ne illam quidem consequuntur, quam
putant, gratiam. Nam cui res erepta est, est inimicus; cui data est, etiam
dissimulat se accipere voluisse et maxime in pecuniis creditis occultat
suum gaudium, ne videatur non fuisse solvendo. At vero ille, qui accipit
iniuriam, et meminit et prae se fert dolorem suum, nec, si plures sunt ii,
quibus inprobe datum est, quam illi, quibus iniuste ademptum est, id-
circo plus etiam valent. Non enim numero haec iudicantur, sed pondere.
Quam autem habet aequitatem, ut agrum multis annis aut etiam saeculis
ante possessum qui nullum habuit habeat, qui autem habuit amittat?
(Cic. off. 2.78-79) 3

Il discorso del narratore gaddiano contro Cicerone è scarsamente


articolato in termini argomentativi, si svolge piuttosto come feroce
arringa tesa al pathos dell’irrisione, mettendo in opera risorse ritrat-
tistiche di gusto singolarmente «ciceroniano»: gli strali della caratte-
rizzazione denigrante, che l’oratore Cicerone ha rivolto verso i suoi
avversari processuali con tanta perizia del grottesco, sono ora adibiti
alla mortificazione di Cicerone stesso e del suo mito umanistico. Forte
della sapienza letteraria e della spregiudicatezza satirica di cui ha dato
prova sin lì nel corso del racconto, il narratore gaddiano si consente
nei riguardi di Cicerone una disinvoltura e una familiarità assoluta-
mente sconsacranti. L’autore latino non è trattato come un classico,
da riverire e mandare a memoria, circondato dai riusi e dai diaframmi
ermeneutici che una tradizione millenaria gli ha costruito intorno, a
rischio di renderlo inafferrabile e intangibile, isolato nella sua aura-
tica eccellenza. Ogni distanza classicistica è drasticamente abolita;
viene per così dire sospesa la consapevolezza storicista di misurarsi
con un orizzonte di civiltà altro dall’attuale, remoto e incomparabile.
La figura di Cicerone è affrontata con piglio risolutamente riduttivo:
il padre della prosa latina viene paragonato a un azzeccagarbugli di
provincia, al «scior avocatt», dalla vita familiare comicamente trava-
gliata, nel garbuglio dei conti che non tornano, tra litigi con la vecchia
moglie e doti e debiti da pagare. Il suo legalitarismo istituzionale è
fatto coincidere con una difesa ossessiva dei titoli patrimoniali e delle
prerogative proprietarie consolidate, quale in effetti emerge dal De

3
In merito a questo passo, che introduce la più nota trattazione antica
sull’economia e la legislazione del debito, cfr. A.R. Dyck, A Commentary on Cicero,
«De Officiis», Ann Arbor 1996, pp. 470-479.

391
Giuliano Cenati

officiis, di fronte a ogni ipotesi di legge agraria o remissione parziale


dei debiti; ma, prima ancora, viene a delinearsi come mistificazione di
un «moralista-padron di casa» oltremodo taccagno: toccato nel vivo
del portafoglio dai decreti dittatoriali di Cesare proprio quando i più
diversi creditori, a vario titolo, battono cassa. Come a dire: il carattere
sacro della proprietà e l’esigibilità del credito a stento sono osservati
da colui medesimo che se ne fa paladino con fermezza così catoniana.
Il gran dispiegamento di paroloni e di ideali, di leggi divine ed umane,
in definitiva ammanta interessi economici ben concreti, rendite di po-
tere del tutto partigiane, a dispetto del bene pubblico e dell’interesse
generale più volte invocati.
D’altra parte, durante il suo consolato, neppure il Pater patriae
si era mostrato così ligio al diritto che va predicando, sotto il prete-
sto dell’emergenza eversiva: nel far giustiziare i complici di Catilina
in tutta fretta, senza processo, è contravvenuto alla legislazione che,
da penalista incontrastato, più di chiunque altro avrebbe dovuto ono-
rare e tutelare. Ma il torto primo di Cicerone, agli occhi di Gadda,
consiste nell’opposizione alla politica di Cesare, che egli avrebbe av-
versato anche dopo la morte del dittatore, senza peritarsi di calcare
scandalisticamente le tinte a danno del defunto. In nome del blocco
sociale patrizio e delle tradizioni oligarchiche, nel De officiis l’idealiz-
zazione della repubblica senatoria risponderebbe per simmetria alla
fosca raffigurazione di colui che ha attentato alla libertà degli ordi-
namenti statali. Tra i provvedimenti mandati ad effetto da Cesare, il
narratore gaddiano rammenta in modo particolare quelli che hanno
suscitato l’insofferenza dei possidenti: il condono dei fitti arretrati e
l’imposizione del prestito a titolo forzoso 4. Di contro alla prospettiva
costituzionale di Cicerone, librata nella disquisizione dei più alti prin-
cìpi etico-politici, la satira di Gadda sposta l’asse del discorso su un
piano di solido empirismo, atto a raccordare ogni professione ideo­
logica con gli interessi concreti da cui essa muove: seppure sfiorando
l’appiattimento qualunquistico.

4
Sulla dittatura di Cesare, come più in generale sull’avvento del principato,
cfr. il classico R. Syme, The Roman Revolution, Oxford 1939 (trad. ital. Torino 1962,
pp. 63-79). Sulle implicazioni tra lotta politica, assetto giuridico-istituzionale e prassi
giudiziaria nei decenni anteriori alla guerra civile, cfr. E.S. Gruen, The Last Genera-
tion of the Roman Republic, Berkeley - Los Angeles 1974, 19952, pp. 211-259.

392
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

L’approvazione pedissequa suscitata da Cicerone in piena età


novecentesca presso i più dabbenuomini, come sono quelli che fre-
quentano casa Brocchi, la dice lunga sui filtri idealistici che ostacolano
un’autentica educazione alla realtà: un’imparziale valutazione delle
ragioni che reggono il mondo, considerato iuxta propria principia e
non secondo un qualche crivello imposto dalle migliori intenzioni de-
gli educatori. In fin dei conti, Cicerone stesso – malgrado tutta la sua
moderazione e al di là del coraggio che il narratore gaddiano, pur con
riluttanza, gli riconosce – non manca di rivelarsi per certi versi profeta
disarmato: stretto a una concezione inadeguata della società romana
della sua epoca, preso a mezzo tra forze politico-militari troppo più
consistenti delle risorse intellettuali e dei consensi su cui poteva con-
tare. Laddove l’estremo gesto politico di Cicerone, compiuto con le
Filippiche, è identificato come la «difesa della più santa e della più
perduta di tutte le cause» 5, Gadda non fa che rimproverare all’Arpi-
nate uno scarso senso del reale, un’errata stima delle forze materiali
dell’avversario e una sopravvalutazione delle armi dialettiche a propria
disposizione. Radice prima dell’errore è proprio il disconoscimento
di marca stoico-accademica dei moventi storici che governano l’agire
degli uomini, a favore di un castello in aria di virtù predicate: Cicero-
ne viene osteggiato in quanto idolo supremo del moralismo romano,
ottuso dalla sua stessa ipocrisia di possidente. La testa dell’oratore ser-
vita sul piatto di Antonio, che Gadda non menziona, è immagine sicu-
ra della disparità tra concezioni opposte dell’impegno pubblico: una
intesa a stabilizzare la vita politico-istituzionale dell’oligarchia romana
entro un quadro ideologico più coeso, dove l’eloquenza e la scrittura
intervengono come potenti mezzi di egemonia; l’altra basata sull’ag-
gregazione più dinamica, ma anche più diffusamente violenta, tra ceti,
clientele e clan, intesi ad acquisire un predominio unilaterale. Tutta-
via, all’altezza degli anni Trenta, la raffigurazione così irriguardosa di
Cicerone e di quanto egli rappresentava nella tradizione umanistica
appare un po’ meno goliardica e un po’ più ardita se si considera il cli-
ma di romanesimo militante e ultranazionalista diffuso dal Fascismo
in Italia. Il culto dell’Urbe, la ritualità marziale di impronta quiritaria,

5
San Giorgio in casa Brocchi, in Accoppiamenti giudiziosi [1963]; cito da
Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, II. Romanzi e racconti
II, Milano 19993, p. 677.

393
Giuliano Cenati

la mistica della stirpe latina agricola e guerriera costituiscono l’arma-


mentario propagandistico più consistente del regime mussoliniano: at-
to a legittimare un’aggressiva politica di potenza, ma anche a integrare
nel progetto dello Stato totalitario i gruppi intellettuali di formazione
classica e ad annettere in qualche modo la «rivoluzione fascista», in
quanto regime di massa, al filone più prestigioso della cultura italiana,
di connotazione prettamente letteraria.
Cicerone, nella misura in cui è valorizzato come uomo di lettere
e di studio piuttosto che come attore politico di primo piano del suo
tempo, non occupa una posizione davvero centrale nell’ideologia della
Romanità propalata dalla dittatura. È la fase imperiale della storia roma-
na, nel suo spessore politico-militare, che si presta meglio a supportare
l’autoritarismo e l’espansionismo mussoliniani. Nondimeno, bistratta-
re l’Arpinate con la sfrontatezza comica che gli infligge Gadda, signi-
fica assumere nei riguardi dell’intero universo classico una prospettiva
totalmente estranea alla seriosità e alla supponenza della propaganda
ufficiale: come pure significa trasgredire le cautele e le falsificazioni
del conformismo accademico 6. Sulla pagina gaddiana gli antichi non si
presentano quali modelli venerabili e insigni, né in ambito culturale né
in ambito statuale; ma soprattutto non si presentano come un fronte
compatto, allontanato in una separatezza incolmabile. C’è del buono e
del gramo anche tra loro, e conviene distinguere per meglio apprezzar-
li: essi anzi sono così prossimi, incidono così pesantemente sull’attuale
sistema di valori e di comportamenti, che urge schierarsi per l’uno o
per l’altro, e farne al limite oggetto di ludibrio, di sonora protesta, ma
non di ostensione reliquiaria. Sotto questo profilo l’approvazione di
Cicerone da parte della contessa Brocchi non è troppo diversa dalla
generica esaltazione delle gloria imperiale di Roma perseguita da Mus-
solini: analoga è la capacità di azzerare ogni differenza e ogni alterità
oggettiva a beneficio del proprio scopo ideologico.

Al personaggio grottescamente straniato di Cicerone, Gadda oppone


il mito energetico di Cesare, immagine di coerenza austera tra il dire e
il fare, di ferma capacità analitica e conseguente carisma decisionale.

6
Almeno in Italia; sul più variegato profilo ciceroniano nel campo degli studi
classici, dopo Mommsen e Boissier, cfr. E. Narducci, Cicerone e i suoi interpreti.
Studi sull’Opera e la Fortuna, Pisa 2004.

394
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

Senz’altro una simile rappresentazione risente dell’opera storiografica


di Theodor Mommsen, proprio nell’alternativa radicale tra un Cice-
rone legittimista tentennone, ligio emissario dell’apparato oligarchico,
e un Cesare statista e stratega di razza, capace di orientare gli avveni-
menti collettivi secondo la propria ferrea intenzione 7. Colpisce in ogni
caso la disparità di trattamento tra due dei massimi auctores della clas-
sicità, proprio in relazione alla riuscita etico-politica delle rispettive
opere letterarie. Il mito di Cicerone, a fronte del progetto irrealizzato
di una repubblica di boni cives, è sottoposto a uno smantellamento
comico-satirico di indole decisamente anticlassicistica e antidealisti-
ca, oltre che anticiceroniana. Viceversa, il mito di Cesare è assunto in
tutta la sua efficacia irrazionalistica, come campione di un nuovo e
più autentico umanesimo, malgrado l’esito parimenti cruento che ha
stroncato la carriera del dittatore romano. Gadda disconosce il pro-
getto ciceroniano abbandonandosi al dileggio polemico, piuttosto che
indagarne con ponderazione gli intenti e le prospettive; a maggior ra-
gione, illumina positivamente l’iniziativa politica di Cesare sulla scorta
di un’ammirazione pregiudiziale, nell’idoleggiamento della personalità
forte, capace di plasmare la Storia. Che ciò valga essenzialmente in
una prospettiva classicistica è confermato, e contrario, dall’idiosincra-
sia che l’autore esibisce costantemente nei confronti di un altro co-
spicuo statista-stratega: Napoleone. Il discrimine sarà motivato tanto
da ragioni di ordine nazionalistico, quanto dal fastidioso nesso che,
agli occhi del conservatore Gadda, lega l’imperatore dei francesi con
la rivoluzione del 1789 8.
Il ruolo grandioso di Cesare si misura nella solitudine dell’azione
condotta da vivo, non meno che nell’isolamento superstizioso in cui
è abbandonato il suo cadavere dopo l’assassinio. La voce narrante di
San Giorgio in casa Brocchi raggiunge vibrazioni tragiche proprio nella
contemplazione del corpo morto sullo sfondo della vacuità cosmica,

7
Cfr. in proposito la sistematica disamina intertestuale di Narducci, La gal-
lina Cicerone cit., la cui prima parte è interamente dedicata al rapporto tra l’opera
gaddiana e Cicerone.
8
L’attestazione capitale di antibonapartismo, protratta per circa sei pagine,
è fornita da Gadda nella nt. 10 di Quando il Girolamo ha smesso, racconto appar-
tenente a L’Adalgisa. Disegni milanesi [1943], in Opere cit., I. Romanzi e racconti I,
Milano 20005, pp. 331-336. Il risultato, pur godibilissimo, appare meno funzionale
rispetto alla digressione anticiceroniana contenuta nel San Giorgio.

395
Giuliano Cenati

nello spettacolo stupefacente dell’inerzia biologica alla quale è ridotto


anche l’individuo d’eccezione, che ha saputo essere polo accentratore
di ogni possibilità:
La vecchia Roma era lì, dentro la vecchia fortezza! Da basso, nella
«valle» e nella curia subitamente deserta, il cadavere dell’assassinato
giaceva solo: abbandonato dai vivi, a cui faceva troppa paura: atroce
delle profonde ferite: con segni orridi, sopra il volto, del suo sangue
cagliato e per tutta la tunica lacera, macera di scarlatto. Intorno a quel
cadavere l’Eternità irreversibile elucubrava il computo delle sue ore:
ma sul Tirreno si sarebbero accese le stelle, con la puntualità regola-
mentare ch’egli aveva loro prescritto. 9

Con originalità, Gadda sceglie di descrivere il dittatore antico nel


momento estremo, di abbandono e forzata quiete, in antitesi alla
potente vitalità che ne ha pervaso l’ambizione politica e alimentato
la leggenda letteraria. Ma la sua presenza percorre sotterraneamente
l’intera digressione di argomento romano, in forma di richiamo alle
decisioni politico-amministrative con le quali ha provocato sconcerto

9
San Giorgio in casa Brocchi cit., p. 672. Questa contemplatio mortis declinata
in senso materialistico offre motivo di contrappunto sublime nel contesto di una
narrazione modulata largamente sul comico basso e satirico: come sarebbe avve-
nuto a proposito dell’omicidio di Liliana Balducci, la cui salma sgozzata costituisce
il fulcro drammatico di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957). Del resto,
già agli albori della scrittura di Gadda, nel racconto Passeggiata autunnale (datato
1918, ma apparso in «Letteratura» nel 1963) il baricentro dell’intreccio è costituito
dal cadavere di un assassinato, che si prospetta nella sua oggettività enigmatica e
sanguinosa, sia pure entro una diversa calibratura dei registri e dei mezzi narra-
tivi. Il corpo disanimato e derelitto è cifra universale di sofferenza, è interrogativo
ingombrante sulla necessità della coscienza, sull’autenticità del rapporto tra i viventi
(circa il motivo del «corpo violato» cfr. F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’in-
venzione della realtà, Torino 2001). Nondimeno, il personaggio di Liliana Balducci
è disegnato con sapiente ambiguità di tratti, sullo sfondo borghese-popolare di una
Roma anni Venti: è fatto rivivere attraverso testimonianze di parenti e conoscenti
come caso patologico, che tocca il lesbismo incestuoso nel rapporto con una serie di
figliocce sbandate, accolte in casa a soddisfare un desiderio frustrato di maternità.
Caratterizzando in questi termini la vittima del Pasticciaccio, Gadda sovvertirà un
altro luogo comune classiccheggiante caro all’ideologia fascista: quello della fem-
minilità matronale, prolifica di soldati da consegnare ai ranghi delle forze armate.
Al contrario, l’immagine di Cesare, che nel San Giorgio è tracciata in poche righe,
non si presta ad alcuna lettura anticonformista o antistituzionale. Il tributo di com-
mozione che ad essa viene riconosciuto dal narratore consegue risultati di lirismo
assorto.

396
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

nell’aristocrazia senatoria: non la sua figura, dunque, ma i suoi atti


sono evocati. Eccetto che sul finale della parabola eroica, quando
viene pietosamente fissato come carne mortale, il personaggio cesa-
riano si trasfonde tutto nell’azione, sicura e documentata, in perfetta
rispondenza all’attivismo galvanizzante che gli viene per solito attri-
buito. È l’altra faccia della medaglia rispetto alla scatenata caricatura
di Cicerone: non solo nella specularità degli strumenti espressivi, ma
anche in relazione al romanesimo nazionalista del fascismo. Quanto il
Cicerone tratteggiato da Gadda, paglietta e sofista imbolsito, poteva
turbare l’idea della virtù romana più congeniale al regime, altrettanto
vi trova rispondenza l’omaggio tragico-sublime offerto alla salma di
Cesare.
Cicerone, del resto, non si affaccia con altrettanta vividezza al-
trove, nell’opera gaddiana, sebbene in alcuni luoghi non manchino
espressioni di apprezzamento delle sue alte qualità stilistiche. Per
contro, l’eco di Cesare risuona quasi sempre in maniera episodica e
frammentaria, ma con una certa continuità da un libro all’altro, che
si tratti di citazioni o di richiami alla sua tempra politico-militare o
di echi strutturali afferenti al genere memorialistico. Dal che si può
ricavare la sentita partecipazione di Gadda al mito del condottiero fa-
tale, coltivato a suo dire sin dall’infanzia, quando gli venne trasmesso
dalla madre insegnante: autrice a sua volta di una dissertazione storio-
grafica relativa ai fatti che sarebbero stati raccontati nella digressione
del San Giorgio 10. Se l’assegnazione retrospettiva delle fantasie cesa-
riane al tempo candido della fanciullezza serve a prevenire accuse di
compromissione ideologica, non può non sorprendere l’affinità con
omologhe dichiarazioni di Mussolini, che del pari, in sede biografica
ufficiale, faceva risalire il proprio amore per Roma all’età più tenera 11.
Al di là delle forzature ideologiche e autoapologetiche, è senz’altro
indice di una diffusa temperie storico-civile questo ravvicinamento
nel culto della romanità tra Gadda e Mussolini, il quale ultimo, pure,
in Eros e Priapo (1967) – per tacer d’altro – sarebbe stato sottopo-

10
A. Lehr, Contributo alla storia romana dalla morte di Giulio Cesare alla
morte di Cicerone, Grosseto 1890.
11
Riguardo a questo falso ideologico offerto da Margherita G. Sarfatti in
Dux, Milano 1926, cfr. A. Giardina - A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno
a Mussolini, Roma - Bari 2000, pp. 212-214.

397
Giuliano Cenati

sto a uno strepitoso martellamento di contumelie e di trasfigurazioni


farsesche, ridotto ossessivamente a feticcio fallico-scatologico. Come
per tanti esponenti delle generazioni di fine Ottocento, la militanza
nazionalista del giovane Gadda è vissuta nello spirito dell’eredità ri-
sorgimentale assimilato in famiglia e trova saldo appoggio nell’imma-
ginario umanistico della Latinità. Mentre il Risorgimento si era valso
dell’opera di cementazione ideologica condotta dall’intellettualità
letteraria, in senso liberaleggiante, il nazionalismo interventista prima
e il movimento fascista poi allargano il portato letterario della patria
italiana agli antecedenti classici della romanità, in senso massimamen-
te bellicista e autoritario 12.
A partire da siffatto contesto, ben si comprende la baldanza che
anima il Gadda studente politecnico alla vigilia della partenza per il
fronte della prima guerra mondiale, dopo le sue brave manifestazioni
a favore dell’intervento. L’entusiasmo dannunziano della prova d’ar-
mi gli si smorzerà abbastanza presto, nel constatare il divario tra i suoi
sogni di gloria e la logorante realtà delle trincee, dove risaltano la di-
sorganizzazione militare, la malversazione nelle forniture, l’imperizia
tattica, la vana carneficina. Il futuro scrittore, nondimeno, si appresta
all’impresa annotando scrupolosamente su diversi quaderni la propria
vicenda di soldato: dal campo di addestramento al fronte, alla rotta
di Caporetto, sino alla deportazione come prigioniero di guerra in
territorio germanico. La disposizione con cui attende a registrare gli
avvenimenti, compreso del proprio dovere istituzionale, echeggia per
certi versi l’attitudine memorialistica del commentarium antico. Con
l’arruolamento volontario e la documentazione scritta del proprio
operato, il sottotenente Gadda sembra voler calcare in qualche modo
le orme di Cesare. Come capita all’autobiografico tenente Tolla del
Racconto italiano di ignoto del novecento (che peraltro mostra già una
più dolente e ironica consapevolezza di reduce),
La lettura di Cesare lo aveva profondamente appassionato tanto che
aveva pensato di scrivere lui pure dei commentarî, ma gli mancava la
guerra delle Gallie: «nostri autem quid sine imperatore et sine reliquis
legionibus adulescentulo duce efficere possent perspici cuperent». La
voce del dittatore gli pareva una fredda lama per il cuore di ogni filoso-

12
Fondamentali al riguardo le linee tracciate da P. Treves in Id. (a cura di), Lo
studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano - Napoli 1962, pp. VII-XLVI.

398
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

fastro e la vitalità romana ricostituiva con la nativa energia le battaglie


che per altri sarebbero perse. Ma questi, in cinquanta avevano avuto
ragione di lui. Però, pensava il tenente Tolla, si può pugnalare anche
Cesare, ma non si può rinverginare una puttana. 13

Elementi riconducibili all’epicità oggettiva di un De bello Gallico so-


no, nel Giornale di guerra e di prigionia, l’osservanza del dispositivo
militaresco, il referto puntuale e analitico, l’attenzione agli usi dell’av-
versario germanico, l’adozione di un linguaggio tecnicamente avverti-
to: sovente prossimo al dispaccio o al rapporto di servizio, propenso
all’esposizione sistematica e alla funzionalità comunicativa, sostanzia-
to dei sottocodici burocratico-militare, balistico, logistico, geografico.
Ma se Cesare presumibilmente ordinò i propri scritti a posteriori, Gad-
da procede a ragguagli parcellizzati e progressivi, come è proprio del
genere diaristico: la contingenza della stesura è pressoché sincronica
allo svolgimento dei fatti, e di essi rispecchia l’attualità impellente e la
precarietà cronachistica. L’esito del singolo episodio, della guerra, del
proprio personale itinerario sono tutt’altro che determinati.
La fisionomia problematica della testimonianza psicologica depo-
sta sulla pagina, di giorno in giorno, è ben lontana dalla scioltezza tut-
ta fatti dell’imperio cesariano. Con l’atticismo scattante del generale
romano contrasta la stessa mole delle annotazioni, oltre quattrocento
pagine accumulate senza discernere tra il quadro sintetico della cam-
pagna bellica e la minuziosa descrizione della routine vissuta nelle re-
trovie, tra l’acme dello scontro e l’accidia della vita da campo. D’altra
parte, la destinazione privata della scrittura, che non preclude un’at-
tenta sorveglianza stilistico-compositiva, è subito messa in forse dalla
configurazione – sia pure ipotetica – di un lettore terzo, indefinita-
mente allontanato nel tempo a venire. Gadda non oblitera il potenzia-
le orizzonte pubblico del proprio lavoro di annotazione, benché non
sia pubblico il suo fine immediato. Nei diari gaddiani di guerra hanno
certo larghissima parte le riflessioni di carattere introspettivo e finan-
che intimistico: l’immagine dell’Io scrivente non è ritagliata esclusi-
vamente sulla base del proprio ruolo ufficiale, ad uso politico, come
nel caso di Cesare. D’altra parte, non vengono esaltati l’industriosità

13
Racconto italiano di ignoto del novecento [datato al 1924-1925], in Opere
cit., V.1. Scritti vari e postumi, Milano 1993, pp. 450-451.

399
Giuliano Cenati

militare, l’efficacia della catena di comando, il cameratismo paterna-


listico, il clima di sintonia gerarchica tra il generale e i suoi sottopo-
sti, la prontezza nell’affrontare gli imprevisti della campagna bellica.
Insomma, il discorso gaddiano non si attiene tutto e solo al versante
estrinseco della vita in uniforme, illuminato dalle sue ricadute pratiche
palpabili: mira anzi a sondare i tempi d’attesa, le zone d’ombra, l’or-
dinaria amministrazione, le dinamiche psicologiche – a cominciare da
quelle dell’Io narrato – che costituiscono il retroterra dell’avventura
guerresca e ne determinano in buona misura il risultato.
In effetti, il nome di Cesare appare di rado nel Giornale. Ciò non­
dimeno, è sintomatico il paragone diretto e impietoso che Gadda isti-
tuisce tra il presente italiano più deludente e il passato assoluto della
romanità, evocato con innocenza pressoché liceale:
Il generale Cavaciocchi, che deve essere un perfetto asino, non ha
mai fatto una visita al quartiere, non s’è mai curato di girare per gli
alloggiamenti dei soldati; eppure Giulio Cesare faceva ciò.– Si dirà:
«non è suo compito.» E con ciò? Forse che un professore di calcolo
integrale, sentendo un allievo che sproposita in geometria proiettiva,
non si curerà di correggerlo perché quella non è la branca a lui affida-
ta? – Asini, asini, buoi grassi, pezzi da grand hôtel, avana, bagni; ma
non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci
d’osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla
sintesi: scrivono nei loro manuali che il morale delle truppe è la prima
cosa, e poi dimenticano le proprie conclusioni. 14

Alla purezza dell’ideale calato in forme classiche, susseguono la luci-


dità dell’analisi documentaria e la rabbia della contestazione «antibor-
ghese». Se l’effigie di Cesare si profila nelle parole gaddiane secondo
scontati accenti tardoromantici, decisamente poco convenzionale è la
franchezza che essa alimenta nell’osservazione delle inefficienze po-
litico-militari di parte italiana. In questa luce, al di là della menzione
esplicita, il modello cesariano pare costantemente sotteso alle consi-
derazioni dell’ufficiale Gadda: proprio nell’accanita denuncia delle
manchevolezze, delle piccinerie, dei malfunzionamenti che affliggono
la macchina dell’esercito e, più in generale, il sentimento d’identità
nazionale. Il confronto con la magniloquente storiografia dei Latini

14
Giornale di guerra e di prigionia [1955], in Opere cit., IV. Saggi Giornali
Favole II, Milano 19922, p. 468 (20 settembre 1915).

400
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

evidenzia la corrispondenza tra l’individualità geniale, nella fattispe-


cie di Cesare, e l’ambiente storico-sociale che a quel genio garantisce
i mezzi necessari per dispiegarsi al meglio. La spontanea vocazione
dell’Io può conseguire i massimi risultati solo perché la assecondano
l’ethos collettivo e il medesimo sistema civile da cui essa sorge: la gran-
dezza di Cesare è la grandezza di Roma, e viceversa. Nessun talento
singolo potrebbe riverberare un’influenza altrettanto significativa,
senza la tradizione militare di Roma, la sua potenza economica, la
compattezza del suo apparato giuridico-cultuale.
Agli occhi di Gadda, per comprendere la situazione italiana con-
temporanea, l’esempio di Cesare va rovesciato: nel segno della disto-
nia tra l’animo eletto e la mediocrità dilagante. Si tratta dopotutto di
un motivo romantico abbastanza consueto, aggiornato sulla scorta
dell’interpretazione dannunziana: quello del genio – magari di indole
letteraria – soffocato dalla bassezza dell’ambiente, dall’inettitudine
diffusa tra i suoi connazionali. È il tema che Gadda avrebbe coltivato
con profusione d’impegno, ma senza venirne a capo in maniera soddi-
sfacente, nel Racconto italiano di anonimo del novecento: dove l’Io au-
toriale tende a immedesimarsi nella figura di Grifonetto Lampugnani,
giovane militante destrorso e depositario di virtù aristocratiche, sullo
sfondo dei mutamenti apportati dalla civiltà industriale e dei timori di
deriva socialista. D’altronde, nel valutare le suggestioni cesariane ac-
cusate da Gadda, non bisogna dimenticare l’angolazione prospettica
alla quale il resoconto del Giornale è improntato. La politezza me-
morialistica di Cesare rispecchia e amplifica l’ottica del comandante
in capo, intento a illustrare l’efficacia della propria condotta militare,
l’autorevolezza acquisita agli occhi dei legionari, l’importanza e la
qualità dei benefici procurati alla patria 15. Egli consegna alla posteri-
tà la miglior immagine di sé, conforme all’epopea militare di Roma e
degna della sua migliore tradizione storiografica, che da lui possono
trarre solo ulteriore lustro: la causa di Cesare è la causa stessa della
patria romana.
Gadda, per contro, incarna la prospettiva di un giovane sottote-
nente, volontario e nazionalista sì, rigoroso nel compiere il proprio
dovere, maniaco dell’ordine senza essere inclemente con i subordi-

15
Cfr. M. Rambaud, L’Art de la Déformation historique dans les Commentaires
de César, Paris 1953, 19662.

401
Giuliano Cenati

nati: il quale tuttavia avverte in sé tracce di un’inattitudine morale


insormontabile, e ancor più patisce la lontananza incompetente dei
superiori, il particolarismo infingardo delle diverse componenti so-
ciali e gerarchiche coinvolte nell’impegno bellico. A tutto ciò egli si
ribella – mentre riconferma la propria fede nazionalista – producen-
dosi nella più appassionata e insultante delle invettive. Il dettato è
alquanto diverso dal Gadda più noto, tende alla forbitezza uniforme,
alla paratassi cronachistica, per quanto sia movimentato dagli scatti
umorali e dalle insorgenze del turpiloquio atrabiliare. Ma l’umore ne-
ro, che si tinge di sarcasmo, coincide con la tensione etica più tipica
di Gadda: le sfuriate contro la dabbenaggine e il menefreghismo dei
quadri dirigenti, contro lo sbraco e il fatalismo dei soldati, precorrono
le pagine più celebri.
La trascrizione diaristica dell’esperienza di guerra viene lunga-
mente confinata da Gadda nella sfera privata: solo tardi e in maniera
incompleta essa vedrà la luce delle stampe, addirittura nel 1955 16. Il
retaggio luttuoso delle trincee gli riesce per l’innanzi troppo brucian-
te, e d’altra parte troppo oltraggiosa rischia di apparire l’insofferenza
verso le autorità preposte alla conduzione del conflitto, senza contare
le possibili accuse di disfattismo e lesa maestà che gli sarebbero state
imputate durante il Ventennio. Invece una parziale rielaborazione de-
gli appunti di guerra appare nelle prose del Castello di Udine (1934),
filtrata nei modi letterari della prosa d’arte. Si tratta del primo libro
che dà a Gadda qualche fama d’autore; rispetto ai diari, la scrittura
risulta senz’altro più prossima allo stile gaddiano delle opere mature:
se la soggettività autoriale vi è altrettanto evidente e consapevole, ben
più ponderosa è invece la sofisticazione culturale e linguistica di cui
essa si avvolge, in un variegato esercizio di dissimulazione umoristica.
Assai più che i diari, Il castello di Udine mostra come il militari-
smo e il nazionalismo fanatico del giovane Gadda siano permeati in
misura notevole del patrimonio epico-storico di ascendenza latina. O,
quanto meno, l’intento di dignificazione classicistica – proprio perché
la scrittura stavolta può beneficiare dei tempi lunghi di ricreazione
della memoria – passa ora attraverso una più esplicita propensione

16
Cfr. A. Cadioli, La guerra di Carlo Emilio Gadda, in B. Peroni (a cura di),
Milano da leggere. Leggere la guerra, Atti della terza edizione del convegno letterario
ADI-SD, Milano 2006, pp. 68-75.

402
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

a riecheggiare i sublimi precedenti degli antichi: lo attestano in par-


ticolare i momenti di sostenutezza epico-lirica che vengono intessuti
su una morfosintassi e un lessico assiduamente latineggianti. L’opera,
che già nel titolo allude a contenuti di carattere memorialistico, si ap-
parenta alla prosa poeticistica e alla letteratura di viaggio. Ha carattere
frammentario ma è unificata da un Io scrivente spiccato e sempre pa-
lese, padrone di una vasta gamma di registri. Dopo un’espressionistica
ouverture, connotata in senso programmatico-poetologico (Tendo al
mio fine), allinea sedici capitoli di vario tenore, suddivisi in tre parti
per affinità tematica e d’ambientazione. Secondo il disegno germina-
le, Il castello di Udine doveva verosimilmente raccogliere solo prose
attinenti all’esperienza di guerra 17. Il libro pubblicato, invece, dedi-
ca solo la prima parte, costituita di cinque capitoli, al vero e proprio
«Castello di Udine», cioè al miraggio dell’impegno patriottico in armi,
mentre le parti successive riguardano perlopiù situazioni postbelli-
che: di viaggio, di lavoro, di atmosfera. Le due tensioni, da un lato
alla frammentarietà discontinua e dall’altro all’unitarietà della voce
d’autore, si propongono in misura marcata specialmente nella prima
parte dell’opera: quella dedicata appunto alla celebrazione del pro-
prio paradossale entusiasmo guerresco, dei compagni di prigionia, dei
commilitoni eroicamente caduti, ma anche alla critica della gestione
militare del conflitto. La materia, pur a distanza di anni, risulta ancora
incandescente: Gadda non può ricavarne un discorso o una riflessione
organica e continuativa, ma fissa una serie di punti, con tono assevera-
tivo. Non un affresco compatto, retto da una visione omogenea, chiara
e articolata: piuttosto, brani divaganti in forma di aforismi ed episodi
narrativi alla spicciolata, una rivendicazione della propria scelta mi-
litarista a dispetto degli enormi costi umani della vittoria, e insieme
un’acre riprovazione degli errori tattici commessi dalle autorità per
ignoranza o per bassezza.
Al di là delle notazioni arcicólte e dell’abito di aulica distinzione
che informa l’Io scrivente, la tramatura di rimandi alla classicità latina,
a Cesare e a Livio anzitutto, costituisce un termine di paragone insisti-
to e contrastivo sul quale misurare la pochezza della contemporaneità.
I Latini sono proposti come maestri, oltre che di prosa, di vita: di

17
Cfr. la corrispondenza tra Gadda e Alberto Carocci del 1932, in G. Mana-
corda (a cura di), Lettere a Solaria, Roma 1979, pp. 371, 372, 375.

403
Giuliano Cenati

strategia, organizzazione materiale, unanimismo patriottico, consape-


volezza storica. Quand’anche gli esempi prospettati dagli storiografi
antichi siano ad deterrendum, la coscienza sicura dell’azione pubblica
che sorregge il loro discorso è contraltare implacabile alle magagne
e ai pressappochismi manifestati dall’esercito italiano e dalla sua di-
rigenza. Le attestazioni si moltiplicano proprio in sede d’apertura
del Castello di Udine: «L’abito del riflettere è consueto (più che uno
non creda) ai condottieri di esercito. La rapidità delle loro decisioni
è dovuta a vivace natura, ma in parte a sicurezza […]. Quando la raz-
zamaglia brontola […], Cesare governa sé col suo ‘scire’»; «Perché
Cesare è ‘certo’ che le Gallie devono esser di Roma e non di Ariovi-
sto»; «Cesare combatte due guerre alla volta. L’una contro Ariovisto,
l’altra contro quella parte che lo vuol ferire alle spalle»; «Bisogna che
Cesare disponga della legione decima e che la decima sia adoperata
da Cesare. Il sangue bisogna darlo, i soldati lo devono dare. Cesare
lo deve impiegar bene»; «Ma i comandanti d’armata è meglio che ab-
biano i loro diplomi in regola. / Cesare sapeva leggere, scrivere, e far
di conto» 18. È vero che la Latinità offre anche, con Tibullo, un caso
di manifesta insofferenza verso l’epopea guerresca; ma la polemica
«pacifista» dell’elegiaco, come la nuance «giolittiana» del Cicerone di
casa Brocchi, soccorre Gadda a meglio ribadire, per contrasto attua-
lizzante, la necessità e il dovere politico-militari inverati dal dittatore.
Tibullo, relegato in nota, cioè nel commento umoristico attribuito a
tale dottor Feo Averrois, viene così piegato alle categorie del dibattito
interventista; diventa il tramite per contestare il neutralismo nei suoi
presupposti classicistico-decadenti, per rigettare l’idea che la millena-
ria civiltà italiana sia ormai estranea al conflitto armato: «I neutralisti
e poi gli stanchi della guerra e poi un po’ tutti allegavano che una
gente d’antico vivere non dovesse imbestiarsi nel sangue. Insomma
dovevamo prenderle, tenercele, e ringraziarli; in onore di Tibullo»  19.

18
C.E. Gadda, Elogio di alcuni valentuomini, in Il castello di Udine, compreso
tra i Romanzi e racconti I cit., pp. 128, 130, 132.
19
C.E. Gadda, Imagine di Calvi, ivi, p. 176 nt. 1. Vale la pena ricordare il
seguito della nota gaddiana, espunto dalla seconda edizione del Castello di Udine
(compresa nel volume I sogni e la folgore, 1955), poiché proprio lì, dietro l’elegia
dell’ex-combattente, tralucono i motivi più truci del militarismo gaddiano: «Durante
la giovinezza il Ns. reluttò agli epifonemi civili e prediligeva nei sogni ‘barbariche’
gesta: [sic]. Quando poi le conobbe rimproverò solo ai suoi la pochezza della

404
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini

Nel momento stesso in cui, con aria sapienziale, Gadda invita ri-
solutamente a bandire ogni vanagloria, a lasciar perdere i miti della
guerra e della pace per fare i conti con la realtà, e allestisce un suo
massimario dell’ottimo condottiero, ecco che si avvale precisamente
del mito di Cesare, dell’esemplare storiografia di Cesare, volgendoli ai
fini di un vitalismo militaresco di schietta marca reducistica. E proprio
qui, nelle note demandate alla controfigura umoristica di Feo Aver-
rois, Gadda riconduce addirittura ai tempi d’infanzia la sua ammira-
zione per il proconsole delle Gallie: ma il contrasto tra la perentorietà
aforistica e l’intenerimento retrospettivo lo porta a sfiorare l’umori-
smo involontario. La favola fantasticata da bambino trova persegui-
mento nella volontà civica e nella scrittura etico-politica dell’adulto:
nella quale i sogni patriottici sussistono ancora, dopo la folgore delle
battaglie che li ha ridotti a cenere, dietro il saldo richiamo ai princìpi
di realtà, economia, razionalità. Non di illusionistica prosopopea si
tratta, o almeno non solo, poiché il buon funzionamento della compa-
gine umana, in specie degli organismi militari, trova fondamento nei
criteri di analisi, pianificazione, efficacia che il ministro o il comandan-
te avveduto dovrebbero fare propri. In controluce, certo, emerge una
spregiudicata critica dell’operato degli alti comandi, ma in funzione di
un militarismo migliore, più consapevole dei propri mezzi e insieme
più disciplinato, più aggressivo: come quello che ha saputo esprimere
nella Grande Guerra l’avversario prussiano. Entro un orizzonte del
genere, tuttavia, il sangue versato non è meno sangue – semmai il con-
trario! – per il fatto di essere versato con discernimento e intelligenza.
E la fedeltà alle proprie illusioni, mascherandosi dietro lo stereotipo
classicistico, non lascia campo se non all’umiliazione brillante delle
possibilità presenti e future: «Il viale Giulio Cesare mette capo al lar-
go Ermenegildo Fregnetti. E tal è di noi. Amen» 20.

barbarie, cioè la miserevole preparazione militare, e a sé medesimo la scarsezza del


fisico. Vedasi l’Elogio, Cap. 1°: ‘Bravura e generoso ardimento bisogna temperarli
a ferire’: e così il prologo del Cap. 2°»; cfr. R. Rodondi, Appendice al «Castello di
Udine», ivi, pp. 835-836.
20
C.E. Gadda, Il primo libro delle Favole [1952], in Saggi Giornali Favole II
cit., p. 46 (favola 146).

405
Indice dei nomi

Autori antichi Ciris 69


Claudiano 126, 128, 144, 145, 146,
Agatone 166 147
Agostino 28, 29, 30, 89, 94, 138, Columella 183
311, 333, 340 Curzio Rufo 210, 212, 216
Alcestis Barcinonensis 93, 99
Anthologia Latina 20, 21, 30, 31, [Demetrio Falereo] 238, 239
33, 36, 37, 43, 51, 91-103 Dione Crisostomo 162, 163
[Apollodoro] 73, 74, 93 Donato, Elio 168, 179
Apollonio Rodio 55, 62, 63, 64, 65, Donato, Tiberio Claudio 31, 32, 33,
297 35, 36, 37, 38, 39, 41, 42, 43, 44,
Apuleio 308, 309, 310, 311, 313, 45, 46, 47, 48, 49, 236
316, 319, 320 Draconzio 20
Arato 164
Aristarco 173
Aristofane 180, 181 Ennio 55, 57, 58, 59, 62
Aristotele 23, 154-156, 158-170, Ennodio 15-23, 31, 33-39, 41-47,
172-174, 179-182, 216-219, 223, 50-51, 115
227-233, 236-239, 264 Epicarmo 77, 83
Ausonio 95 Erodoto 327
Esiodo 73, 77, 79, 267
Bibbia 117, 134, 135, 138, 340, 384 Euripide 24, 63, 64, 65, 91, 93, 97,
Boezio 149 98, 101, 166, 167, 169, 170-175,
179
Catone 66, 183 Eustazio 75
Catullo 357-386 Evanzio 176
Cesare 118, 119, 212, 213, 217, 392,
394-401, 403-405 Filarco 59
Cicerone 36, 37, 50, 108, 109, 115, Filone d’Alessandria 194
127, 164, 176, 209, 211, 387- Filostrato 277, 278, 279, 280, 285
395, 397, 404 Fulgenzio 71-90, 93

407
Indice dei nomi

Galeno 333, 339 Plauto 175, 176, 181


Gellio 36, 37, 93 Plinio il Giovane 109, 185-196, 198-
Giovenale 192, 195, 197, 201 199, 202-207
Giustino 212 Plinio il Vecchio 36, 143, 144, 213
Plutarco 210-217, 219-225, 227-229,
Igino 66, 73, 74, 93 231-232
Isidoro di Siviglia 138 Polibio 58, 59, 60, 61
Pomponio Mela 347
Levio 93 Prisciano 20, 30, 43
Livio 58, 59, 60, 138, 212, 213, 327, Procopio di Gaza 25
403 Prudenzio 108, 110-111, 117, 119,
Lucano 69, 118, 240, 258, 263, 333, 120
339, 340
Lucrezio 55, 65, 66, 67, 68 69, 78, Quintiliano 27, 37, 47, 115, 176, 218
83, 126, 135, 138
Retori Greci 16, 22-26, 30
Macrobio 36, 64, 67, 97 Retori Latini 18, 28, 29
Menandro 73, 75, 77, 78 Rhetorica ad Herennium 108, 109

Nicandro 164 Saffo 309


Sallustio 66
Omero 23-27, 36, 64-65, 72-78, 80- Seneca Retore 18
84, 87-88, 159-160, 162-163, Seneca 137, 169, 186, 194, 198, 199,
165, 179-182, 211, 218-219, 233- 200, 201, 202, 204, 206, 212,
243, 245-246, 248-251, 253-254, 216, 353
258-259, 263-264, 267-268, 270, Servio (Servio Danielino) 35, 36, 38,
273, 278-281, 301, 353 39, 41-48, 53-70, 73, 74, 86, 97,
Orazio 133, 158, 161, 162, 168, 99
173, 174, 180, 193, 194, 195, Sidonio Apollinare 17
196, 199, 200, 201, 202, 304, Silio Italico 69, 186, 235, 236, 297
305, 328, 329 Simmaco 115
Ovidio 18, 30, 35, 36, 51, 69, 94, Sofocle 64, 96, 97, 166, 169, 173,
133, 142, 147, 162, 163, 164, 179, 309
181, 182, 276, 291, 295, 353 Stazio 36, 163, 234, 235, 236, 244,
250, 251, 252, 254, 255
Palladio 183 Svetonio 30
Pervigilium Veneris 292, 293, 296,
297 Terenzio 50, 168, 170, 171, 175, 176,
Petronio 89, 94 181
Pindaro 73, 259, 329 Tertulliano 96
Platone 174, 194, 227, 229, 231, Tiberiano 82
232, 310, 311 Tibullo 404

408
Indice dei nomi

Valerio Massimo 210, 211 Benni, S. 304, 340-355


Varrone 66, 183 Bibbiena, vd. Dovizi, B.
Virgilio 19-22, 26-33, 35-52, 53-70, Bindassi, S. 186, 197
83, 86, 87, 91-103, 110, 112, Boccaccio, G. 107, 108, 141, 186, 191
115, 129-132, 136, 138, 146, Bolognetti, F. 248
147, 150, 159-161, 162, 165, Bonardo, G.M. 184
179, 180, 181, 182, 184, 192, Burton, R. 277, 278, 279, 281, 285
205, 234-238, 240-244, 246, 248,
250, 251, 254-264, 267-269, Calvino, I. 157, 321
271-272, 280, 281, 283-284, 285, Camilleri, A. 367
286, 288, 289, 290, 293-295, Campeggi, B. 187
296, 297, 298, 300, 301, 304, Capilupi, L. 121, 122
310, 333, 339-340, 347, 348, Carducci, G. 324, 327, 368
349-350, 353-355, 358, 384, 385 Carocci, A. 326, 403
Casoni, G. 187
Castelvetro, L. 133, 169
Autori moderni Castiglione, B. 154, 177, 199, 209-
232
Abagaro, M.A. 187 Chapman, G. 273, 279
Alamanni, L. 179, 234, 237-238, Cinzio, vd. Giraldi, G.B.
247, 249-264 Clemente, A. 183, 191
Alano di Lilla 108, 111-115 Compagni, D. 116
Alberti, L.B. 197, 198, 219 Corio, B. 186
Alighieri, D. 95, 105-108, 117, 119, Coviello, M. 329
120, 123, 124, 126, 129, 133, Crescenzi, P. de’ 183, 186
135, 139, 149, 179, 180, 287, 288
Ambrogini, A. 186 D’Annunzio, G. 324
Angeli, I. 217, 223 Dante, vd. Alighieri, D.
Anguillara, G.A. 182 Delfini, A. 326, 328
Arbasino, A. 342 Della Casa, G. 154, 248
Aretino, P. 190 Della Porta, G.B. 184
Ariosto, L. 154, 156, 157, 158, 160, Dickens, Ch. 346
161, 162, 165, 174, 176, 177, Dolce, L. 182, 186, 187, 190
181, 182, 233, 236, 237, 238, Donato, G. 186
239, 240, 248, 250, 255, 258 Doni, A.F. 184, 188, 192, 198, 201
Dovizi, B. 177
Baldi, B. 121 Dumas, A. 390
Barbaro, E. 186
Bartolo da Sassoferrato 186, 194 Eliot, G. 346
Baudelaire, Ch. 275, 352, 354 Eliot, Th.S. 275, 281, 285-293, 296-
Beccadelli, A. 186 301
Bembo, P. 126, 178, 180, 191, 194, Erasmo da Rotterdam 171, 186
210, 248 Estienne, Ch. 183, 184, 191

409
Indice dei nomi

Falcone, G. 183 Maggi, V. 154-155, 160, 170, 171


Fatti di Cesare (I) 118 Mann, Th. 7, 8
Ficino, M. 160, 186 Marin, B. 121
Fortini, F. 304, 320-340 Marino, G.B. 128
France, A. 346 Márquez, G.G. 353
Milton, J. 269-272, 274, 281, 289
Gabrielli, T. 186 Minturno, A. 153-182
Gadda, C.E. 349, 387-405 Mondadori, A. 359, 361, 362
Gallo, A. 183, 188-196, 201-206 Montale, E. 326, 327, 329, 374, 382
Gascoigne, G. 289 Morante, E. 304, 306-320, 321, 343
Gautier, Th. 354
Giannotti, D. 177 Nicolucci, G.B. 156-166, 169, 171,
Giocondo fra’, vd. Ognibene, G. 176, 177, 179, 182
Giraldi, G.B. 153-182, 248-249 Nifo, A. 154-155
Goffredo di Vinsauf 109 Nobili fatti (I) 119
Gonzaga, C. 128 Noventa, G. 322, 323, 326, 327
Grazzini, A.F. 174
Guazzo, S. 177
Guevara, A. de 198, 199 Ognibene, G. 185
Orticola, M.L. 186
Hawthorne, N. 280
Herrera, G.A. 183 Panormita, vd. Beccadelli, A.
Pascoli, G. 324, 362, 368, 372, 377,
Ingegneri, A. 167 378, 379
Intelligenza (L’) 108, 111, 115-120 Pasquali, G. 321, 325-329, 339
Patrizi, F. 169
James, H. 353 Perotti, N. 186, 223
Joyce, J. 281, 306 Petrarca, F. 107, 121-150, 160, 161-
162, 179, 180, 186, 195, 200, 205,
Keats, J. 273-285, 287, 288, 290, 291, 211, 212, 213, 215, 374
300 Pico della Mirandola, G. 186
Pigna, vd. Nicolucci, G.B.
Landolfi, T. 326, 328
Poe, E.A. 350, 351, 352, 354
Lasca, vd. Grazzini, A.F.
Poliziano, vd. Ambrogini, A.
Lehr, A. 397
Pontano, G. 154, 176-177, 231
Lemprière, J. 279
Potter, J. 282, 285
Leopardi, G. 269, 324, 374, 377
Prevost d’Exiles, A. 304
Lerici, R. 328
Lollio, A. 186-193, 195-196, 198-
199, 204-207 Quasimodo, S. 357-386
Lombardi, B. 160
Robortello, F. 154-155
Machiavelli, N. 153, 177, 186, 193, Romano, L. 304, 309, 321
249, 257 Rowling, J.K. 353

410
Indice dei nomi

Sabadino degli Arienti, G. 187 Alfano, G. 156, 169


Sannazaro, J. 186 Amaduzzi, I. 360
Sansovino, F. 183 Anceschi, L. 358, 360
Sarfatti, M.G. 397 Anderson, W.S. 65, 66
Sereni, V. 359, 362 Andreini, A. 310
Shakespeare, W. 175, 287, 288, 291, Antonini, E. 324, 327
292, 299, 300, 301 Arbizzoni, G. 231
Skelton, J. 289 Ariani, M. 173
Solmi. R. 328-329 Arrigoni, L.E. 360
Speroni, S. 164, 176 Aubrion, E. 185
Stampa, G. 128 Auerbach, E. 175, 303
Swinburne, Ch. 300 Austin, R.G. 34, 38, 40, 43, 56, 58
Aymard, M. 190
Taegio, B. 183, 186, 189, 202, 206 Aziza, C. 390
Tarello, C. 183 Azzolini, P. 314
Tasso, B. 128, 159, 164, 178, 182
Tasso, T. 154,161, 162, 179-180, Babboni, I. 306
184, 233, 234, 238, 239, 248-249, Baldassarri, G. 163, 233, 234, 236,
250, 264 238, 259, 264
Tatti, G. 183 Baldwin, B. 72, 82
Thackeray, W.M. 131-132 Barberi Squarotti, G. 171
Tommaso d’Aquino 138 Barchiesi, A. 63
Trissino, G.G. 180, 181, 234, 237, Barenghi, M. 157
238-249, 250, 254, 264 Barilli, R. 348
Bartuschat, J. 134
Ungaretti, G. 381 Basile, B. 190
Basso, J. 189
Van Dine, S.S., vd. Wright, W.H. Battaglia, S. 121
Vida, G. 169 Beck, L. 185
Bellocchi, U. 184
Wilde, O. 348, 353 Belloni, G. 155
Wright, W.H. 350 Beltrami, P.G. 383
Beltrán Almería, L. 168-169
Benedetti, L. 163, 176
Benedetti, S. 157
Studiosi moderni Bentmann, R. 206
Benzoni, G. 206
Abati, V. 324 Berardinelli, A. 323, 337
Ackerman, J.S. 184 Berisso, M. 115, 118
Afribo, A. 160, 169, 178, 238 Berra, C. 253
Agamben, G. 309 Bertoni, F. 396
Albertoni, E.A. 324, 327 Beta, S. 229
Albonico, M.C. 366 Bethe, E. 73

411
Indice dei nomi

Bettarini, R. 121, 122, 123, 125, 126, Casali, S. 234


128, 129, 131, 132, 133, 134, Cases, C. 317
135, 143, 144, 146 Castellano, A. 132
Beutler, C. 184 Castello, G. 66
Bevegni, C. 224 Cecchi, C. 306, 309, 310
Bianchi, A. 177 Cederna, C.M. 360
Bianchi, E. 122 Cesarini Martinelli, L. 217
Biffi, N. 212 Chantraine, P. 75
Bigi, E. 137, 150 Chartier, R. 360
Bignamini, M. 358 Cherchi, G. 345
Billanovich, G. 147 Cherchi, P. 153
Bisanti, A. 72, 76 Chines, L. 144
Blasucci, L. 127 Chiurlo, C. 112
Bo, C. 358, 383 Ciaffi, V. 72, 77,78
Bocca, G. 322 Ciccuto, M. 312, 322
Bocelli, A. 378, 380, 386 Citati, P. 369
Boilève-Guerlet, A. 157 Cizek, A.N. 29
Boissier, G. 394 Clarke, M.L. 16, 28
Boldrini, S. 383 Clausen, W. 63
Bonner, S.F. 28, 29, 30 Cleary, V.J. 66
Booth, W.C 354, 355 Cochin, H. 123
Bornecque, H. 18 Coletti, V. 369
Bossuat, R. 112 Colombo, D. 155, 164, 169, 170,
Bouchard, M. 158 180
Braccesi, L. 212 Comboni, A. 160
Branca, V. 129, 141 Comelli, M. 253
Brandt, S. 87 Comparetti, D. 15
Bright, D.F. 91 Conington, J. 34, 45
Brown, R.D. 67-68 Consolino, F.E. 91
Bruscagli, R. 182 Conte, G.B. 60
Bücheler, F. 92 Contini, G. 129, 137, 325, 326
Buffière, F. 75 Copley, F.O. 67
Corsi, S. 107
Cabani, M.C. 233-234, 235, 236, Cosentino, P. 171
250 Crane, C. 280
Cadioli, A. 358, 402 Cremante, R. 174
Calboli Montefusco, L. 109 Cremona, V. 360, 371, 378
Cammarota, M.R. 215 Crispolti, E. 322
Canetta, I. 98 Cristante, L. 21
Cappi, D. 115, 116 Croce, B. 169
Capra, A. 360 Cupaiuolo, G. 21
Carducci, G. 126 Curtius, E.R. 28, 29, 105, 109, 285,
Carini, M. 15 287

412
Indice dei nomi

D’Alessandro, F. 155, 162 Frasso, G. 147


D’Angelo, A. 223, 224 Frigo, D. 184, 206
D’Ippolito, G. 340
Dain, A. 75 Gallo, I. 215, 217, 340
Daino, L. 324, 325, 326, 328 Gallo, V. 159, 160
DaiPra, S. 312 Gamberini, F. 185, 186
Dalmas, D. 323 Garboli, C. 309, 310, 311, 312, 313,
De Michele, E. 249 315, 320
De Robertis, D. 123, 124, 135 Garstang, D. 330
Della Corte, F. 385 Gasti, F. 16, 21, 27, 44
Di Maria, S. 168 Genette, G. 360
Di Ricco, A. 160 Geymonat, M. 29, 47, 48
Dionisotti, C. 174 Ghinassi, G. 210
Dirlmeier, F. 280 Giannarelli, E. 134
Doglio, M.L. 167 Giannotti, G.F. 93
Donnarumma, R. 320 Giardina, A. 397
Dyck, A.R. 391 Giardini, G. 229
Gigante, C. 239
Ellis, R. 372, 378, 379 Gigante, M. 59, 223, 224
Emanuelli, E. 360 Gioanni, S. 16
Esposito, P. 35 Gioseffi, M. 32, 33, 35, 44, 54, 90,
95, 131-132, 236
Faral, E. 110 Giustiniani, V.R. 217
Farrell, J. 54 Godono, E. 344, 345, 348
Fenzi, E. 122, 137, 211, 212 Görler, W. 65
Feo, M. 132, 147 Gorni, G. 133, 134
Fernandelli, M. 63, 96, 102 Granatelli, R. 30
Ferroni, G. 155 Grandi, A. 325, 326, 327, 328, 329
Fini, C. 15, 16, 20 Grayson, C. 197, 219
Fini, C. 330 Grazioli, B. 160
Finzi, G. 360, 362, 370, 381, 382 Greco, A. 217
Flora, F. 369 Grilli, A. 366
Fo, A. 328 Grimal, P. 59
Focardi, G. 93 Grosser, H. 154, 180
Forbiger, A. 33, 34, 38, 40, 42, 43, 47 Gruen, E.S. 392
Forcellini, E. 50 Gualandri, I. 114
Fordyce, C.J. 366, 368, 371, 374, Guarracino, V. 328
375, 378, 380 Guerrieri Crocetti, C. 157, 249
Foresti, A. 124 Guerrini, R. 213, 215, 224
Fortini, F. 305, 382 Güntert, H. 280
Fournel, J.L. 164
Fowler, D. 114 Haarhoff, T.J. 28
Fracassetti, G. 200 Hagen, H. 56, 62

413
Indice dei nomi

Hardie, Ph.R. 66, 235 Lafaye, G. 362, 371, 372, 375


Hartel, W. 17, 38, 44. 45, 49 Lamacchia, R. 91, 92
Hathaway, B. 155, 172 Lamagna, M. 169
Hauvette, H. 249 Lassandro, D. 216
Haworth, K.R. 110 Lausberg, H. 109
Hays, G. 72, 75 Lavezzi, G. 371, 381
Heinze, R. 60 Lenchantin De Gubernatis, M. 362,
Helm, R. 71 364, 368, 375, 379
Henry, J. 38, 39, 40, 41, 42, 44, 45, Lenzini, L. 305, 322, 324, 326, 336,
47, 50, 51 338
Herrick, M.T. 178 Lippold, A. 15
Heusch, Ch. 16, 17 Livrea, E. 64
Heuten, G. 89 Lloyd, R.B. 66
Hey, O. 89 Lochin, C. 73
Heyne, Ch.G. 33, 38, 40, 43, 47, 48 Loi, F. 327
Himmelmann, N. 15 Looney, D. 182, 237
Hosius, C. 16 Lord, M.L. 96
Lucamante, S. 310, 311
Imus, A. 132, 133 Lucchini, G. 349
Inglese, G. 153 Lühken, M. 110
Ingrao, P. 338 Lukács, G. 317
Irvine, M. 53 Luperini, R. 323
Isella, D. 393
Iurilli, A. 371 Macrì, O. 376, 386
Maffei, S. 238
Jackson, G. 69 Magani, P.F. 15, 20
Jakobson, H. 36 Maggi, D. 386
Jaquier, C. 304 Magnani, F. 323
Javitch, D. 158, 164, 165, 180, 182, Magnino, D. 213
237 Mahoney, A. 110
Jones, J.W. 54 Maier, B. 210
Jossa, S. 154, 156, 157, 164, 174, 175, Maisano, R. 217
237, 238, 239, 249, 250 Manacorda, G. 403
Jungmann, E. 79 Manca, M. 72, 81
Mancini, A.N. 248
Kaster, R.A. 43, 53, 61 Manfredi, A. 336
Kennel, S.A.H. 15, 16, 17 Manzotti, E. 349
Kroll, W. 366, 368, 371, 375, 379 Marchesi, C. 34
Krüger, G. 16 Marcovich, M. 93
Mari, M. 253
La Bua, G. 92 Marrucci, M. 322
La Penna, A. 360, 374, 383 Marshall, P.K. 53, 61
La Porta, F. 341, 342 Martelli, M. 122, 386

414
Indice dei nomi

Martin, R. 184 Nosarti, L. 93


Martindale, Ch. 54 Notarbartolo, T. 306, 309
Martinelli, B. 146, 147
Maselli, G. 378 Ogilvie, R.M. 58
Mastrocola, P. 163 Omont, H. 92
Mattiacci, S. 72 Orelli, G. 303
Mattioli, U. 263 Orengo, N. 309
Mazzacurati, G. 156, 174, 209 Osborn, P. 175
Mazzocchini, P. 234 Ossola, C. 209
McGill, S. 21, 22, 28, 30, 31, 36, 43,
51, 92, 93 Pacca, V. 122, 129, 133, 134, 212
McKenzie, D.F. 360 Pade, M. 217
Meacci, G. 350 Paduano, G. 366
Melchiori, G. 291, 300 Palmieri, R. 324, 327
Mengaldo, P.V. 328, 336, 369, 381, Palumbo, S. 324, 325, 330
382, 383 Panico, M. 109
Mielsch, H. 185 Paolino, L. 122, 129, 133, 134, 139
Milanini, C. 169 Paratore, E. 34, 40, 42, 56
Mojsisch, B. 155 Paris, R. 311
Molinari, C. 167 Parroni, P. 57
Mommsen, Th. 394, 395 Parsons, P.J. 24, 25, 26
Mondin, L. 94-95, 96 Pastore Polzonetti, G. 93
Monorchio, G. 163, 176 Patillon, M. 23
Moretti, W. 173 Pattin, A. 155
Morgan, T. 25, 26 Pease, A.S. 34 38, 40, 43, 47
Morgana, S. 169 Pecoraro, M. 181
Morrison, M. 175 Peerlkamp, P.H. 33, 40
Morsolin, B. 239 Pegrari, M. 188, 190
Mountford, J.F. 66 Pellizzari, A. 66
Mozzarelli, C. 186 Pennisi, G. 72
Mulas, L. 209 Peroni, B. 402
Müller, M. 206 Perotti, P.A. 246
Musacchio, E. 163, 176 Perpetua, M. 318
Musarra, F. 370 Pertusi, A. 171
Mynors, R.A.B. 47, 364 Peterson, Th.E. 337
Petrocchi, G. 107
Narducci, E. 388, 394, 395 Petronio, G. 116
Nava, G. 338, 339 Piéjus, M.-F. 174
Navarra, L. 15, 20 Piemonti, A. 316
Nelis, D.P. 62 Pieri, A. 67
Nettleship, H. 34 Pieri, M. 128
Norden, E. 57, 58, 59 Pietropaoli, A. 370
North, H. 15, 29 Pirovano, L. 27, 32

415
Indice dei nomi

Pischedda, B. 355 Roberts, M. 22, 23, 25, 28, 29


Pizzocaro, M. 309 Rodondi, R. 349, 405
Pluta, O. 155 Roger, M. 15
Polacco, M. 316 Rollo, A. 217
Polara, G. 91 Romano, E. 27
Poma, L. 162, 239 Romera Pintor, I. 177
Poni, C. 188 Rosa, G. 312, 313, 319
Pontani, F.M. 378, 379 Roscher, W.H. 73
Porciani, E. 316 Rossi, L. 134
Pozza, N. 239 Rossi, R. 345
Pozzi, G. 134, 135 Rozsnyói, Z. 182
Praz, M. 290, 296, 298 Rue, Ch. de la 33, 38, 43
Procaccioli, P. 190 Ruffino, A. 128
Prosperi, A. 209 Rugarli, G. 313
Prosperi, V. 137 Rummel, E. 171
Pugliatti, S. 367 Russell, D.A. 18
Pulina, P. 324
Puppi, L. 345 Sabbadini, R. 34, 38, 40, 42, 43, 47
Putnam, M.C.J. 114 Sabbadini, S. 273
Sabbatino, P. 180
Quondam, A. 153, 154, 155, 158, Sabry, R. 109
175, 224, 226 Salanitro, G. 91, 92, 93
Salina Borello, R. 372, 374, 376
Radermacher, L. 280 Santagata, M. 121, 122, 123, 124,
Ragone, G. 358, 359 129, 135, 141, 148
Raimondi, E. 174 Santini, C. 66
Raja, M.E. 148 Savoca, G. 362, 369
Rajna, P. 237 Scaffai, M. 64
Ramat, S. 358, 372, 386 Scalia, G. 324
Rambaud, M. 401 Scarcia, R. 354
Ramires, G. 66 Scarpati, C. 230, 231
Rapp, A. 73 Schanz, M. 16
Rasi, D. 181, 182 Schetter, W. 15, 19
Ravenna, G. 114 Schifano, J.-N. 306
Reichel, G. 24 Schissel, O. 16
Relihan, J. 72 Schoppe, C. 62
Renda, U. 249 Schröder, B.-J. 16, 17, 19, 20
Ricci, M.L. 91 Schröder, J.-P. 16
Ricci, P.G. 186 Schultz, J.T. 66
Riccò, L. 173 Scrivano, R. 174
Riese, A. 92 Secchi Tarugi, L. 231
Ritrovato, S. 156 Segre, C. 237, 304
Rizzini, I. 361 Selmi, E. 188, 205

416
Indice dei nomi

Serpa, F. 309 Treves, P. 212, 398


Setaioli, A. 54 Trovato, P. 123
Sgorlon, C. 306, 311
Sgorlon, E. 306, 311 Uhl, A. 43, 53
Shackleton Bailey, D.R. 21, 92 Ureña Bracero, J. 24, 25, 26
Silvestrini, E. 376, 377 Urgnani, E. 323
Sipala, P.M. 367 Vallozza, M. 92
Sirera, J.L. 177 Valsecchi, M. 359, 360
Sirmond, J. 16, 17, 19, 20, 44 Vauchez, A. 397
Skutsch, O. 57-58, 62 Vecchi Galli, P. 129
Smith, M. 110 Venturi, A. 330
Solerti, A. 129 Vidal, J.L. 91
Solimano, G. 20, 51, 137 Vigini, G. 358
Solmi, S. 370 Villari, S. 154, 158, 162, 174, 177,
Sordi, M. 216 180
Spallone, M. 92 Vitale, M. 137, 149
Spence, S. 29 Vogel, F. 17, 33, 38, 44, 49
Spera, F. 171 Volpe Cacciatore, P. 35
Spinazzola, V. 388
Spitzer, L. 369 Wagner, G.Ph. 33, 38, 40
Squillante Saccone, M. 15 Walbank, F.W. 59
Starr, R.J. 95 Walsh, P.G. 59
Stehlíková, E. 91, 92 Weinberg, B. 170, 238
Steuert, E.M. 57 Weiss, R. 249
Stok, F. 66, 224 White, J.A. 75
Syme, R. 392 Whitman, J. 75
Wigodsky, M. 57
Tadic, N. 72, 79, 85, 86 Wilamowitz-Moellendorff, U. von
Tandoi, V. 29 279
Tani, S. 344, 345 Wilson, E. 289, 296, 299
Tedesco, N. 367, 376
Yehya, G. 316
Thill, A. 56
Thilo, G. 41, 56, 62 Zagarrio, G. 376
Thomas, R.F. 63, 65 Zambon, F. 145
Timpanaro, S. 21, 383 Zangrandi, R. 326, 327, 338
Tinacci, V. 322 Zatti, S. 233, 238, 239, 249
Toffanin, G. 172 Ziegler, K. 213
Tondo, M. 367, 368 Zingarelli, N. 144
Traina, A. 56 Zingone, A. 322
Travi, E. 194 Zucchelli, B. 263

417
Titoli dal catalogo LED:

M. Zambarbieri • L’Odissea com’è. Lettura critica. 2 voll.


C. Castelli • Meter sophiston. La tragedia nei trattati greci di retorica
N. Stanchi • La presenza assente. L’attesa del personaggio fuori scena nella tragedia attica
A. Capra • Agon logon. Il «Protagora» di Platone tra eristica e commedia
Platone • Liside • A cura di F. Trabattoni • Vol. I. Edizione critica, traduzione e commento filologico
di S. Martinelli Tempesta • Vol. II. Testo italiano con saggi di M. Bonazzi, A. Capra, F. Trabattoni
Papiri dell’Università degli Studi di Milano - VIII. Posidippo di Pella. Epigrammi (P.Mil.Vogl. VIII 309) •
Cur. G. Bastianini e C. Gallazzi
Posidippi Pellaei quae supersunt omnia • Ediderunt C. Austin et G. Bastianini
Il Papiro di Artemidoro (P. Artemid.) • Edito da C. Gallazzi - B. Kramer - S. Settis
Intorno al Papiro di Artemidoro. I. Contesto culturale, lingua, stile e tradizione • Atti del Convegno internazionale del 15
novembre 2008 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa • Editi da C. Gallazzi, B. Kramer e S. Settis
con A. Soldati
P. Cappelletto • I Frammenti di Mnasea. Introduzione, testo e commento
P.F. Moretti • Non harundo sed calamus. Aspetti letterari della «Explanatio psalmorum XII» di Ambrogio
A. Pizzone • Sinesio e la ‘sacra ancora’ di Omero. Intertestualità e modelli tra retorica e filosofia
M. Bonazzi • Academici e Platonici. Il dibattito antico sullo scetticismo di Platone
La felicità e il tempo. Plotino, Enneadi, I 4 - I 5 • Introduzione, traduzione e commento di A. Linguiti
E. Gritti • Proclo. Dialettica Anima Esegesi
F. Marelli • Lo sguardo da Oriente. Simbolo, mito e grecità in F. Creuzer
M. Tullio Cicerone - De Officiis, Libro II. Con Antologia dai Libri I e III • Introduzione, testo e commento
a cura di P. Cugusi
Quinto Orazio Flacco. Odi ed Epodi • Traduzione italiana di G. Zanghieri • e-book
E io sarò tua guida. Raccolta di saggi su Virgilio e gli studi virgiliani • A cura di M. Gioseffi
L. Cadili • Viamque adfectat Olympo. Memoria ellenistica nelle «Georgiche» di Virgilio
P.F. Moretti • Non Harundo sed Calamus. Aspetti Letterari della «Explanatio Psalmorum XII» di Ambrogio
A. Pizzone • Sinesio e la ‘Sacra ancora’ di Omero. Intertestualità e modelli tra retorica e filosofia
Diritto e teatro in Grecia e a Roma • A cura di Eva Cantarella • e-book
Il Dilettoso Monte. Raccolta di saggi di filologia e tradizione classica • A cura di M. Gioseffi
Uso, riuso e abuso dei testi classici • A cura di M. Gioseffi

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Rivista di Diritto Romano. Periodico di storia del diritto romano, di diritti antichi e della tradizione romanistica
medioevale e moderna • e-journal • www.ledonline.it/rivistadirittoromano/

Il catalogo aggiornato di LED - Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto è consultabile


all’indirizzo web http://www.lededizioni.com, dove si possono trovare anche informazioni dettagliate sui
volumi sopra citati: di tutti è disponibile il sommario, di alcuni vengono date un certo numero di pagine in
lettura. Tutti i volumi possono essere ordinati on line.

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