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In copertina:
Laocoonte. Gruppo marmoreo (part.), Musei Vaticani
(elaborazione digitale di Jacopo Mascheroni)
http://sites.google.com/site/giovannidibrino
Massimo Gioseffi
Prefazione 7
Parte prima
Dal tardoantico all’età moderna
Luigi Pirovano
La Dictio 28 di Ennodio. Un’etopea parafrastica 15
Isabella Canetta
Diversos secutus poetas. Riuso e modelli nel commento 53
di Servio all’Eneide
Martina Venuti
La materia mitica nelle Mythologiae di Fulgenzio. La Fabula 71
Bellerofontis (Fulg. myth. 59.2)
Alessia Fassina
Il ritorno alla fama prior: Didone nel centone Alcesta 91
(Anth. Lat. 15 R.2)
Sandra Carapezza
Funzioni digressive nella didattica medievale. Psychomachia, 105
Anticlaudianus e L’Intelligenza
Cristina Zampese
«Nebbia» nei Rerum Vulgarium Fragmenta. Appunti 121
per un’indagine semantica
5
Sommario
Parte seconda
Il Cinquecento
Davide Colombo
«Aristarchi nuovi ripresi». Giraldi, Minturno e il riuso 153
dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
Guglielmo Barucci
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie 183
dalla villeggiatura
Marianna Villa
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno 209
Michele Comelli
Sortite notturne cinquecentesche. I casi di Trissino 233
e Alamanni
Parte terza
Il Novecento
Marco Fernandelli
«Inviolable voice»: studio su quattro poeti dotti 267
(Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)
Massimo Gioseffi
Dalla parte del latino. Citazioni classiche in tre autori 303
del Novecento
Giuliano Cenati
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini 387
6
Massimo Gioseffi
Prefazione
1
Th. Mann, Buddenbrooks. Verfall einer Familie, 10.2, p. 620 nell’edizione
Frankfurt a.M., 1960, 20027, da cui cito. Ecco la traduzione italiana, non fedelis-
sima, di Anita Rho, Torino 1952 (p. 565 nella ristampa 1994): «Se il senatore Bud-
denbrook avesse avuto due figli, certamente al secondo avrebbe fatto fare il liceo
[scil. classico] e terminare gli studi. Ma la ditta aveva bisogno di un continuatore,
e oltre a ciò, Thomas credeva di fare il bene del ragazzo dispensandolo dalle inutili
fatiche del greco».
7
Massimo Gioseffi
Geldverdienen … Brav, das alles, höchst brav! Aber ein bißchen stu-
pide, von der anderen Seite, so auf die Dauer». 2
Il latino e la cultura antica non sempre faranno bella figura nel seguito
del racconto. Le lezioni del pastore Hirte frequentate dai nipoti del
vecchio patriarca, ad esempio, non sembrano un gran modello educa-
tivo (2.3); la lettura obbligata della seconda Catilinaria di Cicerone da
parte del giovane Christian è motivo di disapprovazione per il padre
(3.1):
«Ich habe, im Gegensatze zu meinem seligen Vater, immer meine
Einwände gehabt gegen diese fortwährende Beschäftigung der jungen
Köpfe mit dem Griechischen und Lateinischen. Es gibt so viele ernste
und wichtige Dinge, die zur Vorbereitung auf das praktische Leben
nötig sind …». 3
2
Ivi, 1.5, p. 28 (trad. ital., p. 24: «Ideali pratici … no, non è roba per me!
Adesso spuntano dappertutto gli istituti professionali e tecnici, e le scuole com-
merciali, mentre i ginnasi e la cultura classica diventano di punto in bianco scioc-
chezze, e non si pensa più ad altro che a miniere … e industrie … e a far quattrini.
Bellissimo, tutto questo, bellissimo! Ma un po’ stupido, d’altra parte, alla lunga …
no?»).
3
Ivi, p. 96 = 90: «All’opposto del mio povero babbo, io non ho mai approvato
che le giovani menti si nutrano con tanta abbondanza di greco e di latino. Ci sono
altre cose serie e importanti, necessarie per la preparazione alla vita pratica …».
8
Prefazione
9
Massimo Gioseffi
10
Prefazione
cose non rispetta e non può rispettare la specificità storica del testo
di partenza, l’originale diviene la fonte necessaria a rendere possibile
una creazione autonoma e nuova, nella quale si perde e si sublima
allo stesso tempo. L’uso, insomma, non è mai distaccato dal riuso, ma
questi non lo è dall’abuso delle intenzioni di partenza. Eppure, senza
un simile abuso non ci sarebbero né produzione autonoma, né novità
di creazione 4.
4
I saggi sono stati consegnati dagli autori per la fine del 2007; una serie di
circostanze diverse, delle quali il curatore si fa carico, ha determinato il ritardo della
pubblicazione. A quella data si intendono pertanto aggiornati i riferimenti biblio-
grafici e cronologici.
11
Parte prima
dal tardoantico
all’età moderna
Luigi Pirovano
La «Dictio» 28 di Ennodio
Un’etopea parafrastica
1. Problemi di classificazione
1
Dictio 24 (= CCVIII Vogel) Dictio ex tempore quam ipse Deuterius iniunxit
(Verba Diomedis, cum uxoris adulteria cognovisset); 25 (= CCXX V.) Verba Theti-
dis cum Achillem videret extinctum; 26 (= CDXIV V.) Verba Menelai, cum Troiam
videret exustam; 27 (= CDXXXVI V.) Verba Iunonis, cum Antaeum videret parem
viribus Herculis extitisse; 28 (= CDLXVI V.) Nec tibi diva parens.
2
È il parere, ad esempio, di P.F. Magani, Ennodio, Pavia 1886, I, pp. 282-
300; H. North, The Use of Poetry in the Training of the Ancient Orator, «Traditio»
8, 1952, p. 14; L. Navarra, Le componenti letterarie e concettuali delle «Dictiones»
di Ennodio, «Augustinianum» 12, 1972, pp. 465 e 472-473; C. Fini, Le fonti delle
«Dictiones» di Ennodio, «AAntHung» 30, 1982-1984, p. 387; S.A.H. Kennel,
Ennodius and the Pagan Gods, «Athenaeum» 80, 1992, p. 237; M. Carini, Recenti
contributi alla critica ennodiana, «QC» 9, 1987, p. 335. Parlano genericamente di
«declamazioni» D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, Livorno 18722 (rist. Firenze
1941), p. 76 nt. 3; M. Roger, L’enseignement des lettres classiques d’Ausone à
Alcuin, Paris 1905, p. 191; W. Schetter, Die Thetisdeklamation des Ennodius, in
A. Lippold - N. Himmelmann (Hrsg.), Bonner Festgabe Johannes Straub zum 65.
Geburstag, Bonn 1977, pp. 395-412 (con riferimento alla Dictio 25); M. Squillante
Saccone, Le «Interpretationes Vergilianae» di Tiberio Claudio Donato, Napoli 1985,
p. 19; S.A.H. Kennel, Magnus Felix Ennodius. A Gentleman of the Church, Ann
Arbor 2000, p. 78.
15
Luigi Pirovano
spetto alle dieci controversiae (dictiones 14-23 S.) conservate nel corpus
ennodiano. La palese circolarità di questo ragionamento ne denuncia
però la mancanza di fondamento: in realtà, fermo restando lo stretto
legame che le dictiones ethicae intrattengono con la realtà delle scuole
tardoantiche e le tipologie di esercizio allora proposte nella prassi di-
dattica, pare indubbio che la loro particolare fisionomia si confaccia
piuttosto al progymnasma dell’etopea, per certi versi simile alle decla-
mazioni, ma più semplice e meno avanzato di quelle nel corso di studi
antico 3.
Poiché le confusioni moderne traggono origine dalla sistemazione
del corpus ennodiano introdotta a suo tempo da Jacques Sirmond 4,
non sarà inopportuno – prima di addentrarci nel problema – aprire
una breve parentesi in proposito. Com’è noto, nei manoscritti in no-
stro possesso 5 le opere di Ennodio sono riportate senza distinzioni
di genere, seguendo un ordine che, con qualche approssimazione, si
può definire cronologico 6. Per cercare di mettere chiarezza in un in-
sieme tanto complesso e disordinato, Sirmond pensò di suddividere
gli scritti ennodiani in base a criteri di carattere formale, introducen-
do così una classificazione che divenne canonica per la sua comodità
3
Così, correttamente, M. Schanz - C. Hosius - G. Krüger, Geschichte der
Römischen Literatur, IV.2, München 1959, p. 143 (§ 1073); O. Schissel, Severus von
Alexandreia. Ein verschollener griechischer Schriftsteller des IV. Jahrunderts n.Chr.,
«BNJ» 8, 1929-1930, p. 4; M.L. Clarke, Rhetoric at Rome. A Historical Survey,
London 1953, London - New York 19963, p. 196 nt. 52; Ch. Heusch, Die Achilles-
Ethopoiie des Codex Salmasianus. Untersuchungen zu einer spätlateinischen Versde-
klamation, Paderborn - München - Wien - Zürich 1997, p. 36; B.-J. Schröder, Cha-
rakteristika der «Dictiones ethicae» und der «Controversiae» des Ennodius, in B.-J. e
J.-P. Schröder (Hrsg.), Studium declamatorium. Untersuchungen zu Schulübungen
und Prunkreden von der Antike bis zur Neuzeit, München - Leipzig 2003, p. 267.
4
Magni Felicis Ennodii Episcopi Ticinensis Opera, Iac. Sirmondus Soc. Iesu
Presb. in ordinem digesta, multisque locis aucta emendavit, ac notis illustravit, Pari-
siis 1611.
5
Per un elenco cfr. C. Fini, Il censimento dei codici di Ennodio, Pisa - Roma
2000.
6
Kennel, Magnus Felix Ennodius cit., pp. 13-16 (con ulteriori rimandi biblio-
grafici); Ead., Ennodius and his Editors, «C&M» 51, 2000, pp. 265-270. Sull’ar-
gomento è tornato di recente S. Gioanni, Nouvelles hypothèses sur la collection
des oeuvres d’Ennode, in F. Gasti (a cura di), Atti della terza giornata ennodiana
(Pavia, 10-11 novembre 2004), Pisa 2006, pp. 59-76, per il quale il corpus ennodiano
avrebbe ricevuto la fisionomia tramandataci dai codici non nel periodo tardoantico,
bensì in età carolingia.
16
La «Dictio» 28 di Ennodio
7
Magni Felicis Ennodi Opera, Berolini 1885 (MGH AA VII).
8
La classificazione di Sirmond è invece ancora in uso nell’edizione di Wil-
helm Hartel (Magni Felicis Ennodii Opera omnia recensuit G. Hartel, Vindobonae
1882 [CSEL VI]).
9
Così, giustamente, Kennel, Ennodius and his Editors cit., p. 258.
10
È possibile che Sirmond abbia ricavato la denominazione da un passo
dell’epistolario di Sidonio Apollinare (epist. 8.11.6): Huc, ut arreptum suaserat opus,
ethicam dictionem pro personae, temporis, loci qualitate variabat, idque non verbis
qualibuscumque, sed grandibus, pulchris, elucubratis. In materia controversiali fortis
et lacertosus; in satirica sollicitus et mordax. Secondo Heusch, loc. cit., nelle parole
di Sidonio si dovrebbe cogliere un riferimento all’esercizio dell’etopea, ma il succes-
sivo accenno alla materia controversialis lascia aperta la possibilità che egli volesse
alludere alle suasoriae o anche a qualsiasi forma di discorso di tipo «mimetico»,
senza pensare a una precisa fattispecie di esercizio. Schröder, Charakteristika cit.,
pp. 252-253, ricorda giustamente come i manoscritti ennodiani utilizzino il termine
dictio per indicare numerosi e differenti componimenti, mentre l’aggettivo ethicus
non vi ricorre mai.
17
Luigi Pirovano
11
Seneca il Retore parla di una categoria di controversie, denominate per l’ap-
punto ethicae, nelle quali l’aspetto mimetico stemperava l’avversione del giovane
Ovidio verso la freddezza dell’argomentazione (contr. 2.2.12): Declamabat autem
Naso raro controversias et non nisi ethicas. Libentius dicebat suasorias. Molesta illi
erat omnis argumentatio. In aggiunta, Sulpicio Vittore definisce ethicae le causae
impostate sull’imitazione di un «tipo» di persona (rhet. 316.9-14 Halm): Ethica
igitur erit causa, id est moralis, cum erit suscipienda persona vel rustici vel dyscoli, aut
patris indulgentis aut contra severi. In eiusmodi causis, si † eas intellexerimus, <pote-
rimus> id facere, quod fieri oportebit, ut omnis oratio personarum apta sit moribus.
Pathetica est causa, cum personae eius quae loquitur repraesentandus adfectus est.
12
Cfr. D.A. Russell, Greek Declamation, Cambridge 1983, p. 12: «The essen-
tial difference between ethopoiia and melete is that the former has no ‘question’
(zetema); this means it has no legal setting and pleads no case».
13
Scrive H. Bornecque, Les déclamations et les déclamateurs d’après Sénèque
le Père, Lille 1902, p. 50, a proposito delle sole suasoriae: «En effet elles se rappro-
chent des éthopées, traitées chez le grammairien, avec cette différence que l’éthopée
place le personnage auquel elle se rapporte en face d’un fait accompli ou d’une
résolution prise […], au lieu que les suasoriae portent sur une action à accomplir ou
sur une décision à prendre».
18
La «Dictio» 28 di Ennodio
14
Cfr. in proposito Schetter, Die Thetisdeklamation cit.; Schröder, Charakte-
ristika cit., p. 265.
19
Luigi Pirovano
(Aen. 4.365 Nec tibi diva parens) 15, laddove le altre dictiones ethicae
sono introdotte da una formula convenzionale, riconducibile a quelle
presenti nei manuali progimnasmatici 16, può risultare significativo:
dietro la differente titolazione sembrano nascondersi due esercizi in
sostanza diversi; o meglio, come cercherò di dimostrare, due diverse
varianti del medesimo esercizio.
Tale particolarità ha finito però per creare alcuni ulteriori proble-
mi di definizione: lo stretto rapporto che lega la Dictio 28 al modello
virgiliano ha infatti indotto alcuni studiosi a classificarla come una
semplice «parafrasi» dello sfogo di Didone 17, mentre più di recente
Bianca-Jeanette Schröder, criticando alla base la suddivisione di Sir-
mond, ha suggerito di vedere nel nostro componimento la rielabora-
zione stilistica di un locus Vergilianus, che poco o nulla avrebbe a che
spartire con le altre dictiones ethicae 18. Non so fino a che punto queste
proposte colgano nel segno: nessuna parafrasi, per quanto libera, può
permettersi una rielaborazione del modello tanto radicale come quella
15
In maniera indebita e contro l’autorità dei manoscritti, Schott e Sirmond
hanno proposto di modificare il titolo tràdito, forgiandolo sul modello delle altre
dictiones ethicae (rispettivamente, Didonis morientis ad Aeneam verba e Verba Dido-
nis cum abeuntem videret Aenean). È interessante rilevare fin d’ora che il medesimo
titolo è preposto ad Anth. Lat. 255 R.2 (= 249 Sh.B.), un componimento poetico
d’argomento virgiliano su cui avremo modo di soffermarci più avanti.
16
In particolare, i titoli preposti da Ennodio richiamano alla lettera Drac.
Romul. 4 (Verba Herculis cum videret Hydriae serpentis capita pullare post caedes) e
Anth. Lat. 198 R.2 ([= 189 Sh.B.] Verba Achillis in Parthenone cum tubam Diomedis
audisset). In realtà, nessun manuale tramandatoci presenta questa formulazione,
ma la sua ricorrenza in tre ambiti e periodi differenti lascia ipotizzare che si trat-
tasse di un’espressione convenzionale, alternativa – e sicuramente precedente – a
quella introdotta da Prisciano (quibus verbis uti posset) sulla scorta della tradizione
greca.
17
Magani, Ennodio cit., p. 285: «amplificazione del verso di Virgilio: nec tibi
diva parens»; Navarra, Le componenti letterarie cit., p. 473: «un’interminabile serie
di variazioni sull’emistichio virgiliano nec tibi diva parens generis»; Fini, Le fonti
delle «Dictiones» cit., p. 387: «una parafrasi […], una versione in prosa, del pianto
di Didone del IV libro dell’Eneide»; G. Solimano, in Ead. (ed.), Epistula Didonis
ad Aeneam, Genova 1988, p. 11 nt. 7: «parafrasi di parti significative» dell’originale
virgiliano.
18
Schröder, Charakteristika cit., p. 262: «Die fünfte Dictio in der von Sir-
mond zusammengestellten Gruppe […] soll im folgenden beiseite bleiben, da sie
auf den ersten Blick zu einer anderen Art Ubung gehört, der Ausschmückung eines
locus Vergilianus».
20
La «Dictio» 28 di Ennodio
19
In effetti, l’unico testo tramandato con il titolo di Locus Vergilianus è Anth.
Lat. 223 R.2 = 214 Sh.B., un breve componimento in versi attribuito al poeta afri-
cano Coronato (Coronati viri clarissimi locus Vergilianus: Vivo equidem vitamque
extrema per omnia duco): cfr. G. Cupaiuolo, Un «locus Vergilianus» nell’Anthologia
Latina, «BStudLat» 6, 1976, pp. 37-53; S. Timpanaro, Problemi critico-testuali e lin-
guistici nell’Anthologia Latina I, in Id., Contributi di filologia e di storia della lingua
latina, Roma 1978, pp. 569-593 (= «SIFC» n.s. 25, 1951, pp. 33-48); S. McGill,
Other Aeneids: Rewriting Three Passages of the Aeneid in the Codex Salmasianus,
«Vergilius» 49, 2003, pp. 96-101; L. Cristante, Appunti su Coronato grammatico e
poeta (a proposito di Anth. Lat. 223-223a R. = 214-215 S.B.), «Incontri Triestini di
Filologia Classica» 3, 2004, pp. 247-260; S. McGill, Virgil Recomposed. The Mytho-
logical and Secular Centos in Antiquity, Oxford - New York 2005, p. XIX. In esso
l’autore immagina le parole che Enea avrebbe potuto pronunciare – ma, di fatto,
nell’Eneide non pronuncia – in seguito a un evento disastroso che ha distrutto la sua
flotta. Il titolo rimanda ad Aen. 3.315 (Enea risponde alle domande di Andromaca),
ma il contenuto sembra presentare solo qualche superficiale punto di contatto con
quell’episodio. Nell’apparato della sua edizione, Shackleton Bailey (seguito da
McGill, loc. cit.) ha perciò proposto di mettere in relazione il componimento con
l’incendio delle navi di Aen. 5.604, supponendo che la citazione del verso virgiliano
sia dovuta non a Coronato, bensì a un errore del lemmatista dell’Anthologia. Per
contro Timpanaro, Problemi critico-testuali cit., p. 581, e Cristante, Appunti cit.,
p. 256, hanno rilevato come la scena descritta sembri rimandare piuttosto all’idea di
un naufragio, durante il quale le donne troiane avrebbero avuto un ruolo di primo
piano nella messa in salvo della flotta: il componimento si riferirebbe dunque a un
episodio precedente al quinto libro. La corretta soluzione dipende in gran parte
dalla scelta di considerare Anth. Lat. 223a R.2 = 215 Sh.B. come un carme a sé
stante, oppure come la continuazione di questo testo. Io sono però d’accordo con
McGill, Other Aeneids cit., p. 97, nel ritenere che, a prescindere dalla sua esatta
interpretazione, l’opera di Coronato debba essere classificata come un’etopea paqh
tik», in cui Enea esprime le proprie violente emozioni in seguito a un avvenimento
inatteso, quale che esso sia: cosicché la designazione di locus Vergilianus – se pure
risale all’autore e non a un interpolatore – starebbe semplicemente a indicare un
componimento «with a Virgilian pedigree», senza riferimento all’esatta tipologia di
esercizio scolastico riprodotto. Sulla figura di Coronato, cfr. anche L. Cristante,
Grammatica di poeti e poesia di grammatici, in F. Gasti (a cura di), Grammatica e
grammatici latini: teoria ed esegesi, Atti della prima Giornata ghisleriana di filologia
classica (Pavia, 5-6 aprile 2001), Como 2003, pp. 75-92.
21
Luigi Pirovano
2. Le etopee «parafrastiche»
20
Così, correttamente, McGill, Other Aeneids cit., p. 87; Id., Virgil Recom-
posed cit., p. XVIII.
21
Cfr. la lucida definizione di M. Roberts, Biblical Epic and Rhetorical Para-
phrase in Late Antiquity, Liverpool 1985, p. 23: «The standard progymnasmata
were defined by the subject they treated, the paraphrase was a technique that could
be applied to the treatment of any subject. Paraphrase involved the expansion or
22
La «Dictio» 28 di Ennodio
abbreviation of a given text, more often, no doubt, the former, since the verbal
abundancy was particularly prized. In a sense, then, the progymnasmata could be
subsumed under the genus paraphrase, since they all involved the stylistic elabora-
tion of a predetermined subject».
22
M. Patillon, in Id. (ed.), Aelius Theon, Progymnasmata, Paris 1997,
pp. XXVIII-XXXII e CIV-CVII.
23
Roberts, Biblical Epic cit., pp. 23-24; Patillon, Progymnasmata cit., p. CV.
24
È anche interessante osservare che lo Ps. Ermogene, nella trattazione riser-
vata all’esercizio del mÚqoj, indica la necessità, a seconda delle circostanze, di abbre-
viare o rendere più prolissi gli esercizi inventati, secondo i meccanismi tipici della
parafrasi (prog. 2.11-12 R.).
25
La presenza di eccellenti etopee nelle opere poetiche, nonché l’utilità didat-
tica di una loro proposizione da parte degli insegnanti, sono sottolineate con luci-
dità da Teone nella prefazione al suo manuale (prog. 65.29-68.24 Sp.).
23
Luigi Pirovano
26
Al proposito cfr. G. Reichel, Quaestiones progymnasmaticae, Diss. Lipsiae
1909, p. 85.
27
Cfr. J. Ureña Bracero, Homero en la formación retórico-escolar griega: eto-
peyas con tema del ciclo troyano, «Emerita» 67, 1999, pp. 320 (per la precettistica) e
330 (per la realizzazione pratica).
28
Come esempio possiamo prendere Severo eth. 5 T…naj ¥n e‡poi lÒgouj Bri
sh>j ¢pagomšnh ØpÕ tîn khrÚkwn. Il tema è di chiara derivazione omerica, ma nel
l’Iliade Briseide non pronuncia nessun discorso del genere; Severo sviluppa dunque
autonomamente l’etopea, ma costruisce la caratterizzazione del personaggio a par-
tire dalla lettura di Hom. Il. 1.184, 323, 348, 392; 2.692; 19.296 (un’analisi detta-
gliata in Ureña Bracero, Homero en la formación cit., pp. 336-337).
29
Appare ragionevole supporre che questo fosse il livello più elementare di
insegnamento dell’esercizio: tramite l’imitazione del testo poetico i giovani studenti
potevano imparare a dosare le forze e a prendere confidenza nelle loro capacità, in
vista di prove maggiormente impegnative.
30
Si tratta di una sorta di «libro scolastico» antico di provenienza egiziana,
composto in totale da sette tavolette, datato da P.J. Parsons, A School-Book from the
Sayce Collection, «ZPE» 6, 1970, p. 147, al terzo secolo d.C.; per quanto riguarda
la parafrasi omerica, oltre all’analisi offerta dall’editore (pp. 138-141), ottimi spunti
24
La «Dictio» 28 di Ennodio
25
Luigi Pirovano
36
Il cambiamento più vistoso e significativo è introdotto a proposito degli
stšmmata di Crise, la cui menzione viene attratta dal parafraste all’interno del
discorso diretto, in modo da aumentarne l’efficacia e l’incisività (Morgan, Liter-
ate Education cit., p. 207; l’espediente è sottolineato anche da Parsons, A School-
Book cit., p. 141). Il grado di rielaborazione e amplificazione cui il parafraste della
Bodleian Inscription sottopone l’originale omerico risulta ancora più evidente
a confronto con la parafrasi del medesimo passaggio proposta dallo Ps. Aristide
(rhet. 68.22-69.10 S.), nella quale il discorso diretto di Crise viene di fatto eliminato,
con evidente soppressione dell’aspetto mimetico in favore di quello diegetico. In
tal modo non si osserva più uno stacco netto tra le parole di Omero e quelle del
vecchio sacerdote, ma queste vengono assorbite nel racconto generale delle cause
della peste.
37
Homero en la formación cit., p. 338 nt. 41.
26
La «Dictio» 28 di Ennodio
38
Stupisce, ad esempio, rilevare nell’opera di Quintiliano la mancanza di
allusioni a un impiego scolastico di Virgilio (inst. 3.8.53): Neque ignoro plerumque
exercitationis gratia poni et poeticas et historicas [scil. prosopopoeias], ut Priami verba
apud Achillem aut Sullae dictaturam deponentis in contione. Le parole di Quinti-
liano sembrerebbero attestare anche per l’ambito latino la consuetudine scolastica
di ricavare il tema delle suasoriae (e delle controversiae) di tipo «etico» dal vasto
repertorio di situazioni offerto dalle opere poetiche e storiche ma, se nel secondo
caso il thema dell’esercitazione propone una situazione romana, nel primo – dove ci
aspetteremmo Virgilio – compare un esempio di derivazione omerica, in linea con la
tradizione greca.
39
Cfr. in proposito L. Pirovano, L’insegnamento dei «progymnasmata» nel
l’opera di Emporio retore, in F. Gasti - E. Romano (a cura di), Retorica ed educa-
zione delle élites nell’antica Roma, Pavia 2008, pp. 195-236.
40
Est sane praeter ethos et pathopoeia, qua imitamur affectum non naturalem,
sed incidentem. Quam materiam ab ethopoeia prave distinguunt, qui putant esse ethi-
cas, quae laetos fingant, patheticas vero, quae tristium sint, cum ideo hoc sit pathetica
nomine nuncupata, quod accidens alter adfectus naturalem illum morem saepe subver-
tat, patiaturque natura velut vim quandam, cum is qui loquitur a suo loquendi more
declinat, ut cum Hercules, cuius constans fuit semper oratio, parricidium suum luget,
vel cum apud Homerum Achilles semper minax circumventum se a flumine gemit, aut
cum Mezentius semper crudelis vel Turnum precatur, ut se suscipiat, vel Aenean, ut
sibi tribuat sepulturam. Denique ethos personam sequitur, pathos causam. Igitur cum
incurrens praeponderabit adfectus, tum vocabitur quidem pathopoeia, nec tamen plene
adfectus, qui ingeneratus est, deseretur. Nam neque ipse Mezentius sic precatur ut
Turnus, nec sic vulnere suo Mars maeret ut Venus.
27
Luigi Pirovano
41
L’Eneide fornisce ad Emporio (rhet. 562.26-30 H.) gli esempi necessari –
senza bisogno di ricorrere alla tradizione greca – per illustrare la pragmatica, indi-
care i differenti principia possibili per un’etopea (de personis, de re, de tempore, de
loco), fornire le notizie sul temporum ordo da osservare nella composizione del sud-
detto esercizio (563.1-31 H.: qui i loci virgiliani addotti sono ben diciotto).
42
Parlano correttamente di etopea M.L. Clarke, Higher Education in the
Ancient World, London 1971, p. 26; S.F. Bonner, Education in Ancient Rome. From
the Elder Cato to the Younger Pliny, London 1977, p. 269; Roberts, Biblical Epic
cit., p. 22; McGill, Other Aeneids cit., p. 86; Id., Virgil Recomposed cit., p. XVIII.
Più generici i termini utilizzati da T.J. Haarhoff, Schools of Gaul. A Study of Pagan
and Christian Education in the Last Century of the Western Empire, Oxford 1920
(Johannesburg 19582), p. 69 («parafrasi»); E.R. Curtius, Europäische Literatur und
lateinisches Mittelalter, Bern 1948 (trad. ital. Firenze 1992, p. 167: «parafrasare
28
La «Dictio» 28 di Ennodio
brani dell’Eneide»); V. Tandoi, in Enc. Virg. I, Roma 1984, p. 199, s.v. «Antologia
Latina» («temi virgiliani»); M. Geymonat, in Enc. Virg. II, Roma 1985, p. 8, s.v.
«Declamazioni virgiliane» («pratica scolastica di rielaborare in prosa»); A.N. Cizek,
Imitatio et tractatio: die literarisch-retorischen Grundlagen der Nachahmung in
Antike und Mittelalter, Tübingen 1994, p. 47 nt. 133 («Prosaparaphrase vergilischer
Dichtung»); S. Spence, Rhetorics of Reason and Desire. Vergil, Augustine and the
Troubadours, Ithaca - London 1988, p. 55 («prose paraphrase»). North, The Use
of Poetry cit., p. 14, definisce invece l’esercizio come una vera e propria declamatio,
anche se tale interpretazione non sembra accettabile.
43
Che la rhesis di Giunone fosse un locus classico per le etopee scolastiche è
comprovato anche da Empor. rhet. 563.2-6 H. Sumitur [scil. principium] autem aut
de personis aut de re aut de tempore aut de loco. De personis ante omnia de nostra, vel
de eius apud quem sermonem habemus, vel de illius de quo loquimur. De nostra, ut est
apud Vergilium in verbis Iunonis (Aen. 1.37): «Mene incepto desistere victam?».
44
Questo è stato ben spiegato da Bonner, Education in Ancient Rome cit.,
p. 269: «It is clear from the last sentence that this was not a mere word for word
paraphrase of Juno’s speech in Virgil, but a fully-developed Speech in Character
[i.e. ethopoeia]; and usually the pupil had something to work upon, and was not
entirely thrown on his own resources for ideas». Cfr. anche Roberts, Biblical Epic
cit., p. 22.
45
Secondo Bonner, Education in Ancient Rome cit., p. 269, quello descritto da
Agostino sarebbe in realtà un esercizio a sé stante, denominato adlocutio, adottato
29
Luigi Pirovano
30
La «Dictio» 28 di Ennodio
48
Così McGill, Other Aeneids cit., p. 91: «The texts are not scholastic exer-
cises, but examples of scholastic poetry, or texts deriving from the schools rather
than arising in them».
49
Si veda l’analisi offerta da McGill, Other Aeneids cit., pp. 106-110. In
realtà, occorre precisare che la sovrapposizione fra il testo dell’Anthologia Latina e
la dictio ennodiana è solo parziale, visto che l’anonimo autore si è limitato a parafra-
sare i primi tre versi del discorso virgiliano (Aen. 4.365-367), ai quali ha premesso
un esordio (vv. 1-9) composto sulla base di Aen. 4.541-542 (McGill, Other Aeneids
cit., p. 110). Il risultato di questo accostamento, che ricorda in parte la tecnica del
centone, appare vistosamente contraddittorio: mentre nella prima parte Didone
collega il comportamento di Enea con la perfidia tipica della stirpe troiana (anti-
quos imitaris avos, periuria patrum), nei versi che ci interessano finisce per negare
recisamente tale ipotesi (nec non †aut Veneris† pulchrae de stirpe crearis / nec pater
Anchises vestrae <est> aut Dardanus auctor / gentis), con uno stridente contrasto
concettuale.
50
La cronologia di Donato non è sicura, ma sembra probabile che egli sia
vissuto nel quinto o nel sesto secolo: l’esegeta dovrebbe dunque essere di poco pre-
cedente, o al limite contemporaneo, rispetto a Ennodio.
31
Luigi Pirovano
51
Utilizzo il termine secondo le modalità e i limiti stabiliti da M. Gioseffi,
Ritratto d’autore nel suo studio. Osservazioni a margine delle «Interpretationes Vergi-
lianae» di Tiberio Claudio Donato, in Id. (a cura di), E io sarò tua guida. Raccolta di
saggi su Virgilio e gli studi virgiliani, Milano 2000, pp. 151-215.
52
A proposito del locus communis, cfr. in particolare il mio Tiberio Claudio
Donato e i «progymnasmata», «Incontri Triestini di filologia classica» 7 (2008),
pp. 177-199.
53
L. Pirovano, Le «Interpretationes Vergilianae» di Tiberio Claudio Donato.
Problemi di retorica, Roma 2006, pp. 150-188.
54
Fin dall’inizio Donato mostra di ritenere il discorso di Didone un’etopea
paqhtik»: TALIA DICENTEM IAMDUDUM AVERSA TUETUR HUC ILLUC
VOLVENS OCULOS TOTUMQUE PERERRAT LUMINIBUS TACITIS, quod est
maximum irascentis signum, ut, cum totum nolit visum, totum tamen errantibus oculis
cernat […]. ET SIC ACCENSA PROFATUR: qua consideratione tamquam incendio
accensa sic tumidam prorumpit in vocem […]. Va precisato che questa classifica-
zione, oltre al valore che assume dal punto di vista squisitamente retorico, rientra
nell’ambito di una lettura più generale di tutto il quarto libro, attraverso la quale
Donato ricava una serie di insegnamenti di tipo morale (o moralistico) da affidare al
figlio, dedicatario delle Interpretationes Vergilianae. In questa prospettiva, la regina
cartaginese diviene il paradigma di una persona sconvolta dalla passione amorosa,
che perde il controllo sulle proprie emozioni e sulle proprie azioni e pertanto va
incontro alla morte; un modello negativo, dunque, che il lettore dovrà farsi in grado
di non imitare. Cfr. in proposito M. Gioseffi, Nusquam sic vitia amoris: Tiberio
32
La «Dictio» 28 di Ennodio
3. Testo e commento
33
Luigi Pirovano
34
La «Dictio» 28 di Ennodio
56
Anche il Danielino osserva una contraddizione nelle parole di Didone, seb-
bene il suo rimando vada ad Aen. 1.617 Tune ille Aeneas quem Dardanio Anchisae
ecc.
57
Cfr. M. Gioseffi, Staffette esegetiche. Concatenazioni di note fra i lettori tar-
doantichi a Virgilio, in P. Esposito - P. Volpe Cacciatore (a cura di), Strategie del
commento a testi greci e latini, Soveria Mannelli 2008, pp. 83-99.
35
Luigi Pirovano
dissidet ille suae 58: in tal caso, fin dalle prime righe la dictio ennodiana
metterebbe in mostra delle velleità artistiche decisamente elevate, che
trovano espressione tramite l’allusione dotta a un altro classico della
letteratura latina. Non si può tuttavia escludere che Ennodio abbia
attinto questo motivo dall’esegesi virgiliana del suo tempo, visto che
qualcosa di analogo ricorre nella sezione «mimetica» della nota di Do-
nato (dicis te filium Veneris, falsum est: haberes enim aliquid matris et
esses in adfectus consideratione tractabilis) ed è dunque probabile che
l’idea fosse più diffusa di quanto oggi possiamo ricostruire.
58
H. Jakobson, Ovid’s «Heroides», Princeton 1974, p. 81 nt. 7; McGill, Other
Aeneids cit., pp. 107-109.
59
Cfr. Schol. Stat. Theb. 3.693 (NON SI MIHI) TIGRIDIS HORROR
(AEQUOREAEQUE SUPER RIGEANT PRAECORDIA CAUTES) totum Vergilia-
nae amantis expressit affectum. Dido enim, ut Aeneae exprobraret duritiam cordis,
ait [Aen. 4.366-367]: «sed duris genuit te Caucasus horrens cautibus <Hyrcanaeque
admorunt ubera tigres>».
60
Questo riferimento non compare invece nel commento di Servio, che si
limita ad offrire al lettore alcune delucidazioni di carattere geografico (CAUCASUS
mons Scythiae inhospitalis […]; nam Hyrcania silva est Arabiae), né nelle aggiunte
del Danielino, che per contro riportano la critica espressa da alcuni obtrectatores
virgiliani, i quali rinfacciavano al poeta la scarsa verosimiglianza – sia psicologica
che storica – del riferimento al Caucaso e all’Ircania.
61
Cfr. Plin. nat. 8.61.
62
Il riferimento all’opera ciceroniana non è del tutto chiaro: Georgii ha pro-
posto di istituire un collegamento con de orat. 3.44-45 e Tusc. 3.2, ma in nessuno dei
due passi si fa cenno, se non alla lontana, al motivo della scelta delle nutrici o alla
36
La «Dictio» 28 di Ennodio
riscrittura presente in Anth. Lat. 255 R.2 (vv. 12-15 […] Sed durae
tigres lapidesque sinistri / te genuere virum, silvae montesque profani, /
ubera <quae>que tibi [et] potum admovere malignum, / haec tibi perfi-
diam mixto cum lacte dederunt). Anche in questo passaggio la parafrasi
di Ennodio si segnala per la sua originalità, che rende difficile risalire
all’esatta interpretazione che giustifica la riscrittura. Mi sembra però
sicuro che il vescovo pavese conoscesse bene il motivo illustrato da
Gellio, per quanto il senso complessivo del riferimento risulti com-
pletamente stravolto. Mentre infatti gli altri autori mettono in corre-
lazione la durezza di Enea con l’allattamento delle tigri, secondo un
rapporto di causa-effetto («sei privo di umanità in quanto ti hanno
nutrito le tigri»), Ennodio attribuisce all’eroe troiano una natura già
in partenza disumana, che nella nutrizione delle tigri avrebbe trovato
solo una sorta di «irrobustimento»: nessun essere umano, altrimenti,
avrebbe potuto essere allattato dalle tigri (ne dira nutrimentis natura
mollesceret, eripientes salutem ceteris Hyrcanae tigrides alimenta prae-
buerunt. Nutrivit te illa feritas, quae trucidat). Così il motivo viene al
tempo stesso ricordato e variato, in modo da assumere un significato
almeno in parte differente. Ciò si inserisce in una più generale ten-
denza, che costituisce il Leitmotiv di questa sezione della dictio, ad
amplificare retoricamente l’idea di «durezza» presente nei versi virgi-
liani, sottolineandola attraverso una serie di immagini insistite e molto
ricercate dal punto di vista formale. Particolarmente forte mi sembra
il riferimento alla saxea alvus che avrebbe generato Enea: si tratta di
un accostamento senza dubbio efficace, che consente di avere un’idea
ben precisa di quanto la prosa ennodiana a tratti si avvicini alla solen-
nità della produzione più aulica della tradizione poetica latina.
37
Luigi Pirovano
63
Il problema è stato già posto dal Danielino ad loc.: QUAE ME AD MAIORA
RESERVO aut ad maiores scilicet iniurias; aut ad superiora pertinent, quia ei male
dixit.
64
Così Ruaeus («aut quae graviora expecto?»), Heyne («ad quas maiores iniu-
rias?»), Wagner («aut quae restat maior iniuria quam, si haec dissimulem, cavere
possim?»), Sabbadini («maggiori delusioni»), Pease, Austin.
65
È quanto propone ad esempio Forbiger («ad maiora me reservare non
possum, i.e. non sunt maiora, ad quae me reservare possim»).
66
J. Henry, Aeneidea: or Critical, Exegetical, and Aesthetical Remarks on the
Aeneis, London 1873, II, p. 713.
38
La «Dictio» 28 di Ennodio
67
Il Danielino, dopo aver istituito un legame tra queste manifestazioni di
insensibilità e quanto detto pochi versi prima, sottolinea acutamente l’efficacia del
ricorso alla terza persona, in senso di indignazione e distacco (et bene avertit ab eo
sermonem).
39
Luigi Pirovano
68
Cfr. Henry («What shall I put before what? What shall I speak of first,
and what last?»); Pease («What shall I say first [among all the things that might be
said]?»); Austin («What first, what last?»).
69
Così Heyne («Scilicet tamquam leniora durioribus? His quid praeferam?
Quid magis pati velim? h.e. Annon haec extrema sunt?»), Forbiger («Quibus durio-
ribus haec tamquam leniora anteponam? Quae maiora ab isto addi possint, quibus,
quae iam passa sum, postponam, minora iudicem? Nonne haec sunt extrema, tris
tissima omnium, ut nihil omnino durius excogitari possit?»), Wagner («Quibus
rebus tamquam durioribus quas tamquam leniores praeferam?»), Peerlkamp («Cui
rei quam rem anteferam? Qua re quid est indignius toleratu? Huic crudelitati quam
crudelitatem anteponam?»), Paratore («A quali onte dovrei preferire queste che già
ho dovuto subire?»).
70
Lo propongono Schirach («Sed quibus haec enarrem? i.e. nulli haec enarrari
a me possunt, neque homini, neque diis, nam nulla fides in iis retenta invenitur»);
Sabbadini («quae [haec] ad quos deferam?»).
40
La «Dictio» 28 di Ennodio
41
Luigi Pirovano
[371-372] Arrivati a questo punto Didone chiama in causa gli dèi, an-
che se – ancora una volta – gli studiosi non sono concordi sulla corret-
ta interpretazione di questo riferimento. Le possibilità interpretative
sono sostanzialmente due, a seconda del valore che si voglia attribuire
a oculis […] aspicit aequis: c’è infatti chi ha visto nelle parole di Dido-
ne un’accusa di ingiustizia nei confronti di Giunone e di Giove, che si
sono dimostrati impassibili – o forse addirittura complici – di fronte al
tradimento di Enea 72, oppure chi, ribaltando la prospettiva, ha visto
un’ennesima denuncia dell’ingiusto comportamento di Enea, che gli
dèi, dall’alto della loro giustizia, non possono né approvare né tolle-
rare 73. Per quanto non si soffermino a commentare esplicitamente il
nesso virgiliano, sia Servio che il Danielino sono concordi nel vedere
una certa ostilità nel riferimento a Giove, definito Saturnius pater, di-
mostrando di aderire così idealmente alla prima delle due possibilità
interpretative. In particolare, il Danielino sembrerebbe istituire un
riferimento specifico alla situazione cartaginese: Giunone e Giove so-
no ostili alla città che avrebbero dovuto proteggere. Sulla stessa linea
appare anche il commento di Donato, che – in modo più esplicito –
pone sulle labbra di Didone un’aperta condanna nei confronti di Giu-
none e Giove (et tamen haec […] iniustis deorum luminibus placent),
rimasti impassibili di fronte a una palese ingiustizia, perpetrata sotto
gli occhi di tutti (questo mi sembrerebbe il senso di cum inter omnes
fiunt). Completamente diversa appare invece l’interpretazione sulla
71
Aeneidea cit., p. 714.
72
Questa prima possibilità ammette a sua volta due possibili interpretazioni:
una più generica, a sottolineare la mancanza di imparzialità degli dèi di fronte alle
vicende umane (cfr. Sabbadini: «non c’è più da sperar giustizia nemmeno dagli
dèi»), un’altra più specifica, a indicare il venir meno del tradizionale sostegno accor-
dato da Giunone e Giove nei confronti di Cartagine (Paratore).
73
Così, ad esempio, Forbiger.
42
La «Dictio» 28 di Ennodio
74
Cfr. anche Anth. Lat. 255 R.2, v. 5 Naufragus atque miser segnisque in proelia
ductor. Questo collegamento è stato istituito da McGill, Other Aeneids cit., p. 107
nt. 80, che però rimanda all’interpretazione del Danielino (eiectum litore).
75
18.306 Virgilius tamen «eiectum litore» dixit pro «in litus», quamvis quidam
distinguentes «eiectum», ad consequens verbum dicunt «litore egentem suscepi et
regni demens in parte locavi».
76
R.A. Kaster, Guardians of Language: The Grammarian and Society in Late
Antiquity, Berkeley - Los Angeles - London 1988, pp. 169-197; A. Uhl, Servius als
Sprachlehrer. Zur Sprachrichtigkeit in der exegetischen Praxis des spätantiken Gram-
matikerunterrichts, Göttingen 1998.
43
Luigi Pirovano
77
Un’esegesi di questo genere è stata sostenuta da Henry (Aeneidea cit.,
pp. 718-719), che interpretava eiectum non come sinonimo di naufragum, ma come
equivalente di eiectum patria, exulem.
78
Cfr. M. Gioseffi, «Ut sit integra locutio»: esegesi e grammatica in Tiberio
Claudio Donato, in Gasti (a cura di), Grammatica e grammatici latini cit., pp. 139-
159.
44
La «Dictio» 28 di Ennodio
79
Un’interpretazione in parte simile è proposta da Conington («NUNC seems
to mean ‘now, just when it is most convenient to him and most fatal to me’»), mentre
Henry, Aeneidea cit., pp. 722-723, pensa che nunc equivalga a modo, ponendo in
relazione la risposta di Didone con le precedenti affermazioni di Enea: «Now, it is
the AUGUR APOLLO who is sending him away (verse 345); now it is the LYCIAE
SORTES which are sending him away (verse 346); now it is the INTERPRES
DIVUM IOVE MISSUS AB IPSO (the exact repetition of Aeneas’s words with his
very NUNC, verse 356) who is sending him away».
45
Luigi Pirovano
46
La «Dictio» 28 di Ennodio
fragando tra gli scogli. Sia Servio (satis artificiosa prohibitio, quae fit
per concessionem) che il Danielino (ergo hic cum eum videtur dimittere,
admonendo periculi retinet) sono concordi nell’interpretare le parole
della regina come un ultimo, disperato tentativo di trattenere l’amato
prospettandogli, tramite il ricorso a nomina terribilia, i pericoli della
navigazione. Si tratta del resto di una lettura tradizionale, visto che
già Quintiliano, inst. 9.2.48, classificava il nostro passo tra gli esempi
di ironia (e„rwne…a est et, cum similes imperantibus vel permittentibus
sumus: «I, sequere Italiam ventis», et cum ea, quae nolumus videri in
adversariis esse, concedimus eis). Un’interpretazione simile è presen-
te anche nel commento di Donato, che però non esclude del tutto
la possibilità di leggere in questa esortazione l’effettivo desiderio di
vendetta di un’amante abbandonata: le parole di Didone sono quelle
di una donna adirata e dunque possono ammettere interpretazioni
contrapposte (Iratae animo locuta est, sed tali genere dictionis, quod
duos intellectus admittat). Mentre però la prima alternativa viene pro-
spettata attraverso una normale glossa interpretativa, spiegando per
così dire dall’esterno le possibili intenzioni di Didone (eum terret, ne
naviget […]; nam obiecit undas et ventos quibus terreret properantem),
nel secondo caso l’esegeta fa parlare direttamente la regina cartagine-
se, secondo il procedimento dell’etopea «parafrastica» che abbiamo
più volte descritto (habebo occasionem qua possim tuis suppliciis vindi-
cari; spero enim te pro meritis tuis inter scopulos hausurum innumeras
poenas). Ed è proprio alla seconda delle ipotesi che aderisce tacita-
mente Ennodio, che nella sua parafrasi ci mostra una Didone ormai
totalmente pervasa dal desiderio di vendetta: Habet vindictam mei via
qua deseror, habebit pelagus in furore iudicium. Al di là del senso com-
plessivo da attribuire alle parole della regina, occorre precisare che il
v. 381 è interessato da un piccolo problema interpretativo, visto che
non è del tutto chiaro se ventis debba essere letto in correlazione con
quanto precede (I, sequere Italiam ventis) o con quanto segue (ventis
pete regna per undas). La prima soluzione, che sicuramente appare più
naturale, è preferita da Quintiliano e da Servio e dalla maggior parte
degli editori e dei commentatori moderni (Heyne, Forbiger, Sabba-
dini, Mynors, Geymonat, Pease), mentre la seconda era nota già al
Danielino, che la descrive come piuttosto diffusa ai suoi tempi (sane
multi «Italiam» distinguunt, ut sequatur «ventis pete regna per undas»),
ed è stata sostenuta da Henry. Sebbene Geymonat in apparato inclu-
47
Luigi Pirovano
80
Heyne: «Vocabis moribundus Didonem; tunc Furiae sceleris in me com-
missi tibi obversabuntur; sive: ego, etsi absens, tibi occurram tamquam ex Furiis
una et faces intentabo oculis».
48
La «Dictio» 28 di Ennodio
49
Luigi Pirovano
nata causale. In questo modo la sintassi del periodo risulta più lineare,
ma il senso non appare lo stesso del tutto chiaro, tanto che, sulla base
di una prima traduzione, sembrerebbe di trovarsi di fronte a un corto-
circuito logico: «Anzi, poiché temo che tu possa morire mentre io,
essendo ancora viva, mi vendico, conoscerò l’esito della navigazione
da te intrapresa dopo la mia morte». La prima parte della frase sem-
brerebbe in netto contrasto con la seconda: se Didone teme che Enea
possa morire prima di lei, perché mai dovrebbe attendere la propria,
di morte, per poter conoscere l’esito della navigazione, ossia che Enea
è morto? Del resto, sia il testo virgiliano (haec Manis veniet mihi fama
sub imos) che il prosieguo della parafrasi di Ennodio (vide sceleribus
indebitam mercedem: perire innocens ante cupio quam merentem) sono
concordi nel collocare la morte di Didone prima di quella di Enea.
Come spiegare questo controsenso? In realtà, credo che la contraddi-
zione possa essere sanata attraverso una corretta interpretazione del
nesso timeo ne, che va inteso non nel suo valore più classico («temo
che avvenga qualcosa che desidererei non si verificasse»), bensì secon-
do un’accezione per così dire secondaria, che comunque amplifica un
valore ben presente nel significato comune di timeo e, in certo modo,
si trova alla base del suo costrutto con ne ed il congiuntivo («desidero
che non avvenga qualcosa, preferisco che qualcosa non si verifichi») 81.
Interpretando il verbo in questo modo, la frase acquista un senso sod-
disfacente: «Anzi, poiché desidero che tu non muoia mentre io, essen-
do ancora viva, mi vendico, conoscerò l’esito della navigazione da te
intrapresa dopo la mia morte». In tal modo, timeo diviene l’esatto
contraltare di cupio che segue e la conclusione dell’etopea ennodiana
rappresenta la logica conclusione della frase che la precede immedia-
tamente. È però evidente che, ancor più che nel resto del suo compo-
nimento, Ennodio qui si sta allontanando decisamente dal testo virgi-
liano. Di fronte a questa conclusione, Henry 82 non ha esitato a mani-
festare tutte le sue riserve: «A fair specimen of the kind of under-
81
Cfr. Ae. Forcellini, Totius Latinitatis Lexicon, IV, p. 321 nell’edizione
Lipsiae - Londini 1839 di cui mi avvalgo («Timeo ut de iis, quae fieri cupimus; timeo
ne de iis, quae nollemus», con rimando a Cic. fam. 14.2.3 omnes labores te excipere
video, timeo ut sustineas, e Ter. Andr. 268-270 diem / […] in hunc sunt constitutae
nuptiae. Tum autem hoc timet, / ne deseras se).
82
Aeneidea cit., p. 724.
50
La «Dictio» 28 di Ennodio
standing there was of Virgil during the middle ages, up to the time of
Julius Scaliger, a period embracing that most renowned of all Virgil’s
commentators, Servius. Ennodius was a scholar, such as scholars were
in those days, a bishop and father of the church, yet he understands
Dido not as comforting herself with the prospect of Aeneas’s perish-
ing by shipwreck on his way to Italy, but as hoping she may be dead
herself before such deserved calamity befalls him. Is it any wonder
that Virgil has be taken to be a conjuror and necromancer, and his
fourth Eclogue a hymn in honour of the coming of Christ?». In realtà,
la variazione introdotta da Ennodio è molto più classica di quanto
Henry potesse pensare, visto che rimonta, in ultima analisi, a Ov. her.
7.63-64 Vive, precor! Sic te melius quam funere perdam. / Tu potius leti
causa ferere mei. Non si tratta, dunque, di una sorta di «cristianizza-
zione» medievale del personaggio di Didone o del messaggio virgilia-
no, ma del richiamo dotto a un altro classico della letteratura latina,
che certo in un passaggio di questo genere – ricco di quel pathos esa-
sperato tanto caro alle scuole di retorica – non poteva non incontrare
il favore di Ennodio 83. Questo rimando a Ovidio, che si pone così co-
me modello accanto a Virgilio e fornisce ad Ennodio lo spunto per
accentuare gli elementi «patetici» del discorso di Didone, ci consente
non solo di apprezzare l’intento letterario della Dictio 28, già più volte
sottolineato in fase di commento, ma anche di inserire il componi-
mento in un preciso panorama culturale e letterario, strettamente col-
legato con le scuole di retorica tardoantiche. La combinazione tra
Virgilio e Ovidio sembra infatti una sorta di trait d’union che unisce
opere differenti per origine e tipologia (i componimenti dell’Antholo-
gia Latina, i centoni, la nostra dictio ecc.), ma che sono tutte accomu-
nate da un medesimo gusto letterario e da una identica predilezione
per il gioco erudito. Ed è troppo facile bollare tutto ciò come una
produzione minore e poco significativa 84.
83
Il medesimo motivo ricorre anche nella cosiddetta Epistula Didonis ad
Aeneam (Anth. Lat. 83 R.2 = 71 Sh.B.), che – come s’è detto – si ispira esplicita-
mente alla settima delle Heroides ovidiane (vv. 148-150): […] Licet simul improbus
exul / et malus hospes eras et ubique timendus haberis, / vive tamen nostrumque nefas
post fata memento. Cfr. in proposito Solimano, Epistula Didonis cit., p. 113.
84
Sulla presenza di Ovidio nelle rielaborazioni virgiliane tardoantiche, cfr.
McGill, Virgil Recomposed cit., pp. 40-47 e 59-60.
51
Luigi Pirovano
Appendice
Vergilius, Aeneis, 4.365-387
365 «Nec tibi diva parens generis nec Dardanus auctor,
perfide, sed duris genuit te cautibus horrens
Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres.
Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo?
Num fletu ingemuit nostro? Num lumina flexit?
370 Num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est?
Quae quibus anteferam? Iam iam nec maxima Iuno
nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis.
Nusquam tuta fides. Eiectum litore, egentem
excepi et regni demens in parte locavi.
375 Amissam classem, socios a morte reduxi
(heu furiis incensa feror!): nunc augur Apollo,
nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipso
interpres divum fert horrida iussa per auras.
Scilicet is superis labor est, ea cura quietos
380 sollicitat. Neque te teneo neque dicta refello:
i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas.
Spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,
supplicia hausurum scopulis et nomine Dido
saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens
385 et, cum frigida mors anima seduxerit artus,
omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas.
Audiam et haec Manis veniet mihi fama sub imos».
52
Isabella Canetta
«DIVERSOS SECUTUS POETAS»
Riuso e modelli nel commento
di Servio all’Eneide
1
Cfr. M. Irvine, The Making of Textual Culture. ‘Grammatica’ and Literary
Theory, 350-1100, Cambridge 1994, p. 126. P.K. Marshall, Servius and Commen-
tary on Virgil, Asheville 1997, p. 14, definisce l’opera «a living text», in quanto essa
fu «clearly used, clearly adapted and ‘improved upon’ […] over the centuries».
2
Così Robert Kaster, nel suo studio dedicato al ruolo e alla funzione del
grammatico nella tarda antichità, illustra il compito di custos Latini sermonis assunto
da Servio: «He was to protect the language against corruption, to preserve its coher-
ence, and to act as an agent of control» (R.A. Kaster, Guardians of Language: The
Grammarian and Society in Late Antiquity, Berkeley - Los Angeles - London 1988,
p. 17). Circa la finalità del commentario serviano e la proporzione, in esso, delle
diverse tipologie di note, vd. anche ivi, p. 170, e A. Uhl, Servius als Sprachlehrer.
Zur Sprachrichtigkeit in der exegetischen Praxis des spätantiken Grammatikerunter-
richts, Göttingen 1998.
53
Isabella Canetta
3
Cfr. J. Farrell, The Virgilian Intertext, in The Cambridge Companion to
Virgil, ed. by Ch. Martindale, Cambridge 1997, p. 222: «The poetics of intertex-
tuality is one of Virgil’s most powerfully evocative tools for communicating ideas,
for establishing his place in the literary canon, and for eliciting the reader’s active
collaboration in making meaning».
4
Sull’interpretazione dei poemi virgiliani da parte di Servio cfr. J.W. Jones,
An Analysis of the Allegorical Interpretations in the Servian Commentary on the
«Aeneid», Diss. Univ. of North Carolina, Chapel Hill 1959; A. Setaioli, La vicenda
dell’anima nel commento di Servio a Virgilio, Frankfurt a.M. 1995; M. Gioseffi,
Allegoria e cerimoniale negli scolii serviani, «Acme» 57, 2004, pp. 45-68.
54
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
dei modelli che stanno alle spalle dell’Eneide, vale a dire Apollonio
Rodio e (probabilmente) Ennio, senza menzionarne altri, come Lu-
crezio o un certo tipo di storiografia, ai quali pure il passo virgiliano
chiaramente si apparenta.
5
Il paragone con il serpente, di origine iliadica, la distruzione della porta con
la bipenne, l’incalzare del figlio di Achille, sottolineato dal ritmo sostenuto della
narrazione, contribuiscono a mettere in rilievo la giovinezza, l’audacia e la baldanza
di Pirro, pronto a uccidere chiunque e dovunque, perfino Polite che cerca rifugio
presso gli altari della casa e gli anziani genitori.
55
Isabella Canetta
6
Cfr. R.G. Austin (ed.), P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Secundus, Oxford
1964, p. 190: «Virgil interrupts his account of the attack to describe the scene in the
inner court […]. At marks the contrast with the situation in limine primo, where
all is grim defence»; così anche E. Paratore, Virgilio. Eneide, I. Libri I-II, Milano
1978, p. 326: «La particella serve a contrapporre la tacita meraviglia degli assalitori
nello scoprire lo splendore interno della reggia alle angosciose reazioni delle donne
ivi custodite».
7
Cfr. Serv. ad Verg. Aen. 2.486; il testo di questa e di tutte le altre citazioni
serviane è tratto dall’edizione a cura di G. Thilo e H. Hagen, Servii Grammatici qui
feruntur in Vergilii carmina commentarii, I-III, Lipsiae 1881-1902. Dove possibile,
ho tenuto però conto anche dell’edizione degli studiosi di Harvard, Servianorum in
Vergilii carmina commentariorum editio Harvardiana, II, Lancastriae Pennsylvania-
norum 1946.
8
Il verbo transferre utilizzato da Servio è un termine tecnico della scoliastica
latina per indicare l’imitazione dell’opera di un poeta da parte di un altro poeta,
non una traduzione parola per parola: cfr. A. Traina, Vortit barbare. Le traduzioni
poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 1970, p. 57, e A. Thill, «Alter ab
illo». Recherches sur l’imitation dans la poésie personelle à l’époque augustéenne,
Lille 1976, p. 43 nt. 15 e p. 470.
56
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
noto ai suoi lettori. Eduard Norden suppose perciò che la scena fosse
ispirata alla descrizione che Ennio aveva fatto della caduta di Alba
nel secondo libro degli Annales, descrizione probabilmente arrivata al
poeta mantovano per via indiretta, tramite la mediazione degli annali-
sti 9. Più di recente, Otto Skutsch ha immaginato un’influenza diretta
del poeta antico su Virgilio 10; un parere diverso ha infine espresso
Ethel M. Steuert, secondo la quale Virgilio avrebbe riproposto il
tema di una ballata in voga al suo tempo, che aveva come evidente
argomento il sacco di Alba 11. L’opera di Ennio rappresenta però un
modello privilegiato per l’Eneide 12, e non vi è dunque necessità di po-
stulare una fonte diversa dagli Annales; benché Servio non menzioni
il nome dell’autore dell’Albanum excidium, è ragionevole supporre
che si tratti proprio di Ennio. Data la perdita dell’originale, rimane
invece impossibile stabilire in qual modo Virgilio abbia rielaborato
ed eventualmente variato la scena descritta dal modello. Il commento
serviano non ci aiuta a comprendere la relazione esistente fra ipotesto
e rifacimento, dal momento che lo scoliaste non opera nessun tipo
di confronto fra i due passi e si limita a una generica menzione della
presunta «fonte». In ogni caso, il ricordo dell’excidium di Alba e del
suo riutilizzo da parte di Virgilio sono rimasti così depositati nella me-
moria di generazioni di studenti e di lettori che hanno letto l’Eneide
con l’ausilio delle note serviane.
A tutto ciò, possiamo aggiungere un’ulteriore considerazione: la
descrizione di come si comportano le donne di una città caduta in ma-
no ai nemici, sul punto di essere costrette ad abbandonare la patria, è
9
E. Norden, Ennius und Vergilius. Kriegsbilder aus Roms grosser Zeit, Leip-
zig - Berlin 1915, pp. 154-158.
10
O. Skutsch (ed.), The Annals of Q. Ennius, Oxford 1985, p. 279.
11
E.M. Steuert, The Annals of Quintus Ennius, Cambridge 1925, pp. 169-
170: «The form of his [Servius] note is very unusual; we should expect his ordinary
Ennianus est locus or de Ennio if the original were really the Annales, and Albanum
excidium looks like a title. Moreover, there is no traceable imitation of the Annales
in the passage […]. Hence it is possible to see in ‘The Sack of Alba’ another prod-
uct of the ballad school». Nel corso del saggio la studiosa postula infatti l’esistenza
di una «school of native ballad poetry» che avrebbe dato origine a componimenti
poetici riguardanti gesta eroiche in funzione celebrativa: ivi, pp. 163-170.
12
Sul rapporto tra Ennio e Virgilio cfr. almeno, dopo Norden, M. Wigodsky,
Virgil and Early Latin Poetry, Wiesbaden 1972, pp. 40-79; P. Parroni, in Enc. Virg.
II, 1985, pp. 312-315, s.v. «Ennio».
57
Isabella Canetta
una «scena tipica» sia della storiografia tragica sia dei poemi epici 13,
ed è possibile che il poema enniano ritraesse la disperazione delle don-
ne di Alba in toni che risentivano della storiografia d’età ellenistica 14.
Sebbene Servio ricordi soltanto l’Albanum excidium, appare quindi
probabile che Virgilio avesse presenti anche altre scene di ugual tipo,
tratte da opere storiografiche scritte alla maniera «tragica». Nell’am-
bito della letteratura latina una rappresentazione del genere compare,
ad esempio, proprio nel resoconto che Tito Livio offre della caduta
di Alba (1.29) – rappresentazione che presenta più d’una affinità con
Aen. 2.486-490: il virgiliano tumultu / miscetur (vv. 486-487) si ap-
parenta infatti al clamor hostilis […] omnia ferro flammaque miscet
di Livio; l’errant del v. 489 riporta all’errabundi del testo in prosa;
il periodo voces miserabiles exaudiebantur, mulierum praecipue (5) ri-
chiama il plangoribus aedes / femineis ululant di Virgilio (vv. 487-488).
Come ho già detto, Norden riteneva che né Livio né Virgilio avessero
imitato la scena degli Annales per via diretta, ma solo attraverso la
mediazione degli annalisti ispiratisi alla storiografia tragica 15; Skutsch
pensa invece che Livio sia influenzato da Ennio, che forse conosceva
a memoria fin dai tempi della scuola, e anche Aen. 2.486-490, come
sappiamo, a suo dire «owes something to the earlier poet» 16. Allo
stato delle nostre conoscenze non è possibile stabilire se e quanto
Virgilio abbia riutilizzato stile e dettagli tipici della storiografia nella
composizione di questa scena; il passo di Livio sulla caduta di Alba
13
Sulla sua fortuna si legga il commento di Ogilvie al passo di Livio che
descrive la reazione degli abitanti di Alba obbligati ad abbandonare la patria
(R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965, p. 120): «Pathetic
descriptions of this kind were as much in vogue with Hellenistic historians as they
were with poets […]. The description of cities and the fate of their inhabitants were
a favourite theme for poets. Ultimately they derived their inspiration from the Epic
Cycle, from the Ilioupersis, but their vision was wider and more personal than the
objective descriptions of formulaic poetry. Rome, too, delighted in those fleeting
visions of triumph and ruin». Austin, Aeneidos Liber Secundus cit., p. 191, ritiene
il passo virgiliano un ottimo esempio di quello stile tragico che veniva censurato
da Polibio: «The passage well illustrates the kind of thing that Polybius censures
(2.56.7) in his criticism of the method of Phylarchus with its ‘tragic’ colouring». Lo
studioso, tuttavia, non ha colto l’ampiezza del riuso virgiliano della scena e le sue
implicazioni narrative.
14
Cfr. Norden, Ennius und Vergilius cit., pp. 157-158.
15
Ibid.
16
Skutsch, The Annals of Ennius cit., pp. 279-280.
58
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
17
Rimane difficile stabilire il rapporto tra l’Eneide e i primi libri degli Ab
urbe condita e decidere se Virgilio abbia potuto o no essere influenzato da Livio,
o viceversa se sia lo storico ad avere utilizzato il poema virgiliano (o, ancora, se
entrambi abbiano attinto indipendentemente alle stesse fonti). In effetti, sembra
improbabile che Livio conoscesse l’Eneide, o anche solo parti di essa, all’epoca
della composizione dei primi cinque libri degli Ab urbe condita, terminati verosimil-
mente entro il 27-25 a.C. e revisionati entro il 24, prima della diffusione postuma
del poema. Secondo P. Grimal, Virgile et Tite-Live face à la Révolution Romaine, in
M. Gigante (a cura di), Virgilio e gli Augustei, Napoli 1990, pp. 257-278, Virgilio
e Livio avrebbero attinto alla comune tradizione romana, ma in maniera indipen-
dente e con intenti differenti: pur riproponendo talvolta i medesimi miti, il poeta ha
conferito loro valore simbolico, mentre lo storico ne ha negato spesso l’autenticità,
relegandoli nell’ambito della leggenda. Sul rapporto tra i due autori resta utile la
sintesi critica di P.G. Walsh, in Enc. Virg. III, 1987, pp. 236-239, s.v. «Livio». Per
quanto riguarda Aen. 2.486-490, al di là delle affinità verbali segnalate da Norden,
va osservato che la scena virgiliana è abbastanza differente da quella di Livio: il
poeta rappresenta soltanto le donne che urlano e vagano all’interno del palazzo,
mentre Livio mostra prima l’arrivo delle truppe romane, che inaspettatamente non
fanno rumore né mettono a ferro e fuoco la città (non quidem fuit tumultus ille nec
pavor qualis captarum esse urbium solet, cum effractis portis stratisve ariete muris aut
arce vi capta clamor hostilis et cursus per urbem armatorum omnia ferro flammaque
miscet); poi l’indecisione di tutti gli Albani in procinto di essere deportati; e solo alla
fine ferma la sua attenzione sulle grida muliebri.
18
Polyb. 2.56.7 Spoud£zwn d’ e„j œleon ™kkale‹sqai toÝj ¢naginèskon
taj kaˆ sumpaqe‹j poie‹n to‹j legomšnoij, e„s£gei periplok¦j gunaikîn kaˆ kÒmaj
dierrimmšnaj kaˆ mastîn ™kbol£j, prÕj dþ toÚtoij d£krua kaˆ qr»nouj ¢ndrîn kaˆ
gunaikîn ¢namˆx tšknoij kaˆ goneàsi ghraio‹j ¢pagomšnwn. Con queste parole Poli-
bio «polemizes against Phylarchus, not only as a representative of the ‘tragic’ school
of historians, following the fashion of Duris, but also as a partisan of Cleomenes
against Aratus» (F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius, Oxford
1957, p. 259).
59
Isabella Canetta
Verg. Aen. 2.499-505 […] Vidi ipse furentem / caede Neoptolemum gemi-
19
nosque in limine Atridas, / vidi Hecubam centumque nurus Priamumque per aras /
sanguine foedantem quos ipse sacraverat ignis. / Quinquaginta illi thalami, spes tanta
nepotum, / barbarico postes auro spoliisque superbi / procubuere. Sul verso 503 cfr.
ora G.B. Conte, «Defensor Vergilii»: la tecnica epica dell’«Eneide» secondo Richard
Heinze, in R. Heinze, La tecnica epica di Virgilio, ed. ital. Bologna 1996, pp. 19-20,
poi anche in G.B. Conte, Virgilio: l’epica del sentimento, Torino 2002, p. 137.
60
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
20
Cfr. Marshall, Servius and Commentary on Virgil cit., pp. 20-21.
21
Kaster, Guardians of Language cit., p. 18: «The grammarian was the con-
servator of all the discrete pieces of tradition embedded in his texts, from matters
of prosody […] to the persons, events, and beliefs that marked the limits of vice
and virtue». Nel caso di Servio, questa definizione può essere ampliata inglobando
i numerosi rimandi a fonti letterarie greche e latine, di molte delle quali è il solo a
tramandare titolo, contenuto o addirittura un passo.
61
Isabella Canetta
22
Cfr. Thilo - Hagen, Servii Grammatici commentarii cit., I, p. 294. La nota,
corrotta, sembra contenere un errore, perché Medea, nel poema di Apollonio, fugge
senza salutare nessun famigliare, tanto meno il padre Eeta da lei ingannato e tradito
per amore di Giasone. Per ovviare a tale problema Thilo proponeva in apparato
un’integrazione, che tuttavia non sembra convincente: lo studioso suggeriva infatti
di leggere Apollonii locus, in quo inducitur Medea postes osculata esse Aeetae domum
relinquens, sulla base di Ap. Rh. 4.26-27. Ma in questo modo viene attribuita a
Servio una precisione di dettagli per lui insolita in relazione al poema apolloniano.
Diverso è il testo proposto dagli editori di Harvard, i quali si basano principalmente
sul codice Cassellanus contenente le aggiunte danieline: Apollonii locus, in quo indu-
citur Medea † patris Aeetae relinquens domum ita facere – con la correzione Aeetae al
posto di aede, variante presente nel codice Fuldense e riportata da Caspar Schoppe
nell’appendice all’edizione parigina di Pierre Daniel (testo e apparati in Serviano-
rum in Vergilii carmina commentariorum editio Harvardiana cit., II, p. 446).
23
Sul rapporto tra Apollonio Rodio e Virgilio cfr. da ultimo D.P Nelis,
Vergil’s Aeneid and the Argonautica of Apollonius Rhodius, Leeds 2001, con rela-
tiva bibliografia. Nel repertorio delle affinità tra i due poemi lo studioso riporta i
versi da noi analizzati tra parentesi quadre (pp. 458 e 500), simbolo del fatto che la
supposta correlazione fra i due poeti può essere dovuta alla fedeltà alle norme di un
determinato genere letterario. Skutsch, The Annals of Ennius cit., p. 280, ricondu-
ceva ad Ennio anche il gesto di oscula figere, senza fornire però alcuna prova.
62
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
24
Come osserva R.F. Thomas, Virgil’s «Georgics» and the Art of Reference,
«HSCP» 90, 1986 (ora in Id., Reading Virgil and His Texts. Studies in Intertextu-
ality, Ann Arbor 1999, p. 115 nt. 8), Virgilio «is not so much ‘playing’ with his
models but constantly intends that his reader be ‘sent back’ to them, consulting
them through memory or physically, and that he then return and apply his observa-
tion to the Virgilian text». Sulla tecnica virgiliana di lavorare su scene ed episodi
depositati nella memoria dei lettori vd. anche A. Barchiesi, La traccia del modello:
effetti omerici nella narrazione virgiliana, Pisa 1984.
25
Nel suo studio riguardante l’influenza della poesia ellenistica sull’Eneide
Wendell Clausen mette in relazione il passo di Apollonio con Aen. 4.659: il
bacio di Medea al suo letto costituirebbe così uno dei modelli, assieme all’Alcesti
di Euripide, per la scena di Didone che bacia il talamo sul quale si ucciderà (cfr.
W. Clausen, Virgil’s «Aeneid» and the Tradition of Hellenistic Poetry, Berkeley -
Los Angeles 1987, p. 56; Id., Virgil’s «Aeneid». Decorum, Allusion, and Ideology,
München - Leipzig 2002, p. 104). La presenza di elementi tragici all’interno di un
poema epico quale l’Eneide è stata studiata da M. Fernandelli, Come sulle scene.
Eneide IV e la tragedia, «Quaderni del Dipartimento di filologia A. Rostagni» n.s. 1,
2002, pp. 141-211; Id., Virgilio e l’esperienza tragica: pensieri fuori moda sul libro IV
dell’«Eneide», «Incontri Triestini di Filologia Classica» 2, 2003, pp. 1-54.
63
Isabella Canetta
di sacrificarsi per amore del marito (Eur. Alc. 175-185) 26. Oltretut-
to, come abbiamo già osservato a proposito dell’Albanum excidium,
Servio si astiene dall’approfondire la relazione fra la scena originale e
la riscrittura operata da Virgilio. Nel commento all’intera descrizione
vengono così menzionate, nel complesso, solamente opere di carat-
tere epico (interpreto in tal modo anche il carmen Albanum, la cui
esatta consistenza ci è sconosciuta): è come se in un libro che mette
in collegamento l’Eneide con l’Iliade e in una sequenza che prepara il
duello di Pirro con Priamo e conduce al crollo della reggia risultas-
sero impossibili riferimenti diversi dall’epos. Gli altri generi letterari,
si tratti della storiografia, della tragedia o, come vedremo, del poema
didascalico, non sembrano adeguati allo stile eroico e magniloquente
dell’Eneide, o, almeno, di questa parte dell’Eneide. La possibile imita-
zione da questo tipo di opere, perciò, non viene neppure presa in con-
siderazione, e questo sebbene lo scoliaste riveli in più punti del suo
commentario di essere consapevole che l’allusività a testi diversi da
quell’Omero proposto come modello principale fin dalla prefazione 27
costituisce un tratto distintivo del metodo compositivo di Virgilio 28.
Ma è come se il commentatore fosse naturaliter spinto a rimuovere
l’idea di una mescolanza di generi in un’opera di natura epica: an-
che a costo, agendo così, di illuminare solo parzialmente l’operazione
26
Enrico Livrea (Argonauticon. Liber Quartus, a cura di E. Livrea, Firenze
1973, p. 14) ritiene che la scena dell’Alcesti e di altre due tragedie di Sofocle (Oed.
Tyr. 1241-1243 e Trach. 912-926, rispettivamente il pianto di Giocasta e Deianira
sui loro letti, poco prima del suicidio), associate di norma dagli studiosi all’addio di
Medea al suo letto, non siano del tutto calzanti, «trattandosi qui di un letto virginale
ed in tragedia invece di un letto nuziale da cui un’eroina si congeda»; nondimeno,
aggiunge, «anche in assenza di precisi paralleli, non può sfuggire il carattere ‘tra-
gico’ del gesto». Apollonio Rodio era però presumibilmente consapevole della dif-
ferenza fra l’agire di Medea e quello delle altre eroine citate: il gioco letterario da lui
attuato sarà consistito appunto nel rimando dotto a una scena tipica della tragedia,
collocata in un contesto nuovo e inatteso.
27
Nella prefazione al commento all’Eneide Servio afferma esplicitamente
che intenzione di Virgilio nello scrivere il poema era Homerum imitari – oltre che
Augustum laudare a parentibus: cfr. M. Scaffai, La presenza di Omero nei commenti
antichi a Virgilio, Bologna 2006.
28
Macrobio pare esprimere la stessa consapevolezza quando rileva la difficoltà
di scoprire tutti i riferimenti presenti nell’opera virgiliana: Fuit enim hic poeta ut
scrupulose et anxie, ita dissimulanter et quasi clanculo doctus, ut multa transtulerit
quae unde translata sint difficile sit cognitu (Sat. 5.18.1).
64
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
29
Thomas, Reading Virgil cit., p. 135. Questa definizione è in realtà riferita alle
allusioni a poeti precedenti; ritengo però che possa essere valida anche per il riuso e
l’imitazione di passi letterari in genere. Tuttavia, non concordo completamente con
la conclusione dello studioso, secondo la quale la funzione del riferimento multiplo
«is ultimately polemical – that is, its function is to revise the tradition» (ibid.): a mio
avviso Virgilio utilizza la tecnica dell’allusione o del riuso di due o più opere lette-
rarie non solo per fare polemica con i predecessori – cosa che vedremo attuarsi, fra
poco, nel caso di Lucrezio – ma anche per aiutare i lettori a selezionare i significati
pertinenti a una comprensione più approfondita del testo e dei destini dei diversi
personaggi in gioco (che è poi il caso della scena presa in esame).
30
Ad Aen. 4.1 Apollonius Argonautica scripsit et in tertio inducit amantem
Medeam: inde totus hic liber translatus est. Cfr. W.S. Anderson, Servius and the
«Comic Style» of «Aeneid» 4, «Arethusa» 14, 1981, pp. 115-125.
31
Cfr. le note a Aen. 3.46, 4.694 e 4.703. Nel commento a Aen. 3.46 Servio
presumibilmente chiama in causa Euripide per difendere Virgilio da una delle cri-
tiche mosse dai suoi obtrectatores, i quali lo accusavano di discostarsi talvolta dalla
verità (ad Aen. 3.46 vituperabile enim est, poetam aliquid fingere, quod penitus a veri-
tate discedat): cfr. W. Görler, in Enc. Virg. III, 1987, p. 811, s.v. «Obtrectatores».
65
Isabella Canetta
assenti quelli agli storici d’età repubblicana 32. Ma, d’altra parte, non
dobbiamo dimenticare né le necessità e i gusti della sua (probabile)
committenza – che, se apparteneva al mondo della scuola o alla scuola
era comunque connessa, gli avrà presumibilmente dettato le proprie
esigenze e il proprio «canone»; né, infine, la volontà di imporre un
suo canone personale, secondo il principio dell’imitazione di un solo
autore e un solo testo enunciato nella praefatio dell’opera (sicché an-
che le eventuali eccezioni alla regola sono limitate all’utilizzo di non
più di un autore, e a un repertorio ristretto di autori).
32
Cfr. R.B. Lloyd, Republican Authors in Servius and the Scholia Danielis,
«HSCPh» 65, 1961, pp. 291-341. Giuseppe Ramires osserva che gli storici presi
in considerazione da Servio appartenevano probabilmente a un canone obbligato:
«Sallustio, Varrone, Catone, Igino furono per Servio, tra gli storici, gli idonei aucto-
res anche perché erano tra i pochi leggibili e presenti nella sua biblioteca» (G. Rami-
res, Riflessioni sulle fonti storiografiche dei «Commentarii» serviani a Virgilio, in
C. Santini - F. Stok [a cura di], «Hinc Italae gentes». Geopolitica ed etnografia
dell’Italia nel «Commento» di Servio all’«Eneide», Pisa 2004, p. 35). Sugli autori
d’età repubblicana presenti nella «biblioteca» di Servio cfr. anche A. Pellizzari,
Servio. Storia, cultura e istituzioni nell’opera di un grammatico tardoantico, Firenze
2003, pp. 220-234.
33
L’influenza del poema di Lucrezio sull’Eneide è stata poco studiata, diver-
samente da quanto accade per le Bucoliche e le Georgiche. Sull’argomento cfr.
W.S. Anderson, «Pastor Aeneas». On Pastoral Themes in the «Aeneid», «TAPhA»
99, 1968, pp. 1-17; V.J. Cleary, The Poetic Influence of the «De Rerum Natura» on
the «Aeneid», «CB» 47, 1970, pp. 17-21; Ph.R. Hardie, Virgil’s «Aeneid». Cosmos
and Imperium, Oxford 1986, pp. 157-240; G. Castello, in Enc. Virg. III, 1987,
pp. 264-271, s.v. «Lucrezio».
34
Cfr. la voce «Lucretius» in J.F. Mountford - J.T. Schultz, Index rerum et
nominum in scholiis Servii et Aelii Donati tractatorum, Ithaca 1930, p. 103.
66
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
35
È questa la conclusione alla quale giunge, per Macrobio, Alieto Pieri. Infatti,
benché nei Saturnalia venga dedicato ampio spazio al confronto tra Lucrezio e Vir-
gilio a livello di versi (6.1.25-30, 44-49, 63-65), loci similes (6.2.2-15) e verba (6.4.1 e
5), a Macrobio il De rerum natura «sembra giungere più attraverso commentari che
attraverso letture dirette e, se vi giunge attraverso commentari, questi sono senza
dubbio commentari virgiliani e non commentari lucreziani»; pertanto, prosegue lo
studioso, «può darsi che alcune comparazioni siano istituite da Macrobio stesso, ma
nella stragrande maggioranza sembrano già precostituite, secondo schemi (versus
loci verba) non estranei all’esegesi virgiliana e probabilmente collegati, attraverso
vari passaggi, alla teoria dei furta» (A. Pieri, Lucrezio in Macrobio. Adattamenti
al testo virgiliano, Messina - Firenze 1977, p. 256). È interessante notare come la
ripresa del sintagma oscula figere di cui ci occuperemo fra breve non venga segnalata
né da Servio né da Macrobio: è quindi ragionevole ipotizzare che entrambi ricavas-
sero i loro confronti dalle medesime fonti e che non fossero portati a cercare da soli
una somiglianza, qualora essa non fosse già indicata nel testo dal quale attingevano.
36
Sul paraklausithyron nella poesia latina resta fondamentale F.O. Copley,
Exclusus Amator: A Study in Latin Love Poetry, Madison (Wisconsin) 1956; sul
67
Isabella Canetta
contesto specifico di Lucrezio cfr. R.D. Brown, Lucretius on Love and Sex. A Com-
mentary on «De rerum natura», IV, 1030-1287, Leiden 1987, pp. 134-136 e 296-
303.
37
Brown, Lucretius on Love cit., p. 135: «Lucretius’ handling of the motif is
similar to his derogation of the other erotic images: it is devalued by the presence
of a crudely realistic background (1174-76). Far from sympathizing with the lover,
Lucretius derides his exaggerated postures and implicitly condemns the kind of
poetry, epigram included, which romanticizes his pathetic plight. Idealistic love is
thus brought into conflict with stark reality and unmasked as an illusion».
68
Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide»
figere ricompare solo un’altra volta nell’Eneide, nel primo libro, quan-
do Venere ordina a Cupido di assumere l’aspetto di Ascanio, figlio di
Enea, così da ispirare a Didone l’amore per l’eroe:
Tu faciem illius noctem non amplius unam
falle dolo et notos pueri puer indue vultus,
ut, cum te gremio accipiet laetissima Dido
regalis inter mensas laticemque Lyaeum,
cum dabit amplexus atque oscula dulcia figet,
occultum inspires ignem fallasque veneno.
(Verg. Aen. 1.683-688)
38
Dopo Lucrezio e Virgilio, la iunctura si trova variamente declinata, ma
sempre nella stessa sede metrica, anche in Ov. met. 4.141; Lucan. 6.565; Sil. Ital.
11.331; Ciris 253. Sull’espressione e la sua fortuna nella letteratura latina cfr.
G. Jackson, in Enc. Virg. IV, 1988, p. 512, s.v. «Figo».
69
Isabella Canetta
70
Martina Venuti
La materia mitica
nelle «Mythologiae»
di Fulgenzio
La Fabula Bellerofontis
(Fulg. myth. 59.2)
La storia di Bellerofonte apre la serie delle fabulae del terzo libro delle
Mythologiae di Fulgenzio (Fulg. myth. 59.2) 1:
Pritus rex uxorem habuit Antiam nomine; quae amavit Bellerofontem.
1
Testo e riferimenti di pagina e linea sono quelli dell’edizione di Rudolph
Helm: Fabii Planciadis Fulgentii V.C. opera […] recensuit R. Helm, Lipsiae 1898.
71
Martina Venuti
1. Bellerofonte
2
Non esiste un’analisi specificamente dedicata ai meccanismi che guidano le
Mythologiae di Fulgenzio. Tuttavia, gli strumenti di cui l’autore si serve sono stati
in parte indagati in interventi dedicati ad altri autori o a problematiche più ampie.
Vanno perciò ricordati, senza pretesa di completezza: per le citazioni fulgenziane
B. Baldwin, Fulgentius and his Sources, «Traditio» 44, 1988, pp. 37-57; A. Bisanti,
Le citazioni omeriche in Fulgenzio, in AA.VV., Studi di filologia classica in onore di
Giusto Monaco, IV, Palermo 1991, pp. 1483-1490; V. Ciaffi, Fulgenzio e Petronio,
Torino 1963; G. Pennisi, Fulgenzio e la «Expositio Sermonum Antiquorum», Firenze
1963; S. Mattiacci, Apuleio in Fulgenzio, «SIFC» s. IV 96, 2003, pp. 229-256; per
l’uso dell’etimologia N. Tadic, Une étymologie fulgentienne: celle d’Antée, «Lato-
mus» 28, 1969, pp. 685-690. Si vedano inoltre, anche perché relativamente recenti
e in parte riassuntivi del dibattito critico sul Mitografo: G. Hays, The Date and
Identity of the Mythographer Fulgentius, «The Journal of Medieval Latin» 13, 2003,
pp. 163-252; l’introduzione di M. Manca a Fulgenzio. Le età del mondo e dell’uomo,
Alessandria 2003; infine, come specimina di uno studio dedicato a parte del testo:
J. Relihan, Ancient Menippean Satire, Baltimore - London 1993; Id., Satyra in the
Prologue of Fulgentius’ Mythologies, in C. Deroux (ed.), Studies in Latin Literature
and Roman History, IV, Bruxelles 1986, pp. 537-548.
3
Cfr., rispettivamente, myth. 59.7-60.4 (primo modulo, storia di Bellero-
fonte); 60.4-19 (secondo modulo, storia di Pegaso); 60.19-61.15 (terzo modulo, la
Chimera).
72
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
4
Quattro volte esplicitamente (myth. 59.9 e 15; 60.13 e 20), una, invece, è
una citazione «implicita»: myth. 61.11.
5
Hom. Il. 6.155-195.
6
Hes. Theog. 319-325; fr. 43a.81-90 M.-W.
7
Pind. Olymp. 13.
8
[Apoll.] bibl. 2.3.1.
9
Per quanto riguarda Igino, la consonanza deriva dalla struttura e dal conte-
nuto dell’opera (un insieme di fabulae mitologiche); con Servio Fulgenzio condivide
il lavoro di commento all’Eneide e l’intento esegetico.
10
Hyg. fab. 57.
11
Serv. ad Verg. Aen. 5.118. Più in generale, sul mito di Bellerofonte e le sue
fonti cfr. l’articolo «Bellerophon» a firma Rapp in W.H. Roscher, Ausführliches
Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, I.1, 1884-1886, coll. 757-774;
E. Bethe, in RE III, 1899, coll. 242-251, s.v.; C. Lochin, in LIMC VII.1, 1994,
pp. 214-230, s.v. «Pegasos».
12
Una serie significativa di varianti caratterizza infatti la vicenda di Bellero-
fonte anche prima del suo arrivo alla corte di Preto: vi accennano [Apoll.] bibl.
2.3.1 e Serv. ad Verg. Aen. 5.118, mentre Omero non ne parla.
73
Martina Venuti
13
Nel testo, in accordo a Omero, non è riportato il nome di Iobate, suocero di
Preto e re di Licia, presso il quale Bellerofonte viene mandato per essere ucciso. Il
nome compare invece in Pseudo Apollodoro, Igino e Servio. Tuttavia, in Fulgenzio
il ruolo «narrativo» di questo personaggio, per come viene presentato, risulta poco
chiaro, anzi inutile. Inoltre, anche la seconda parte della vicenda di Bellerofonte è
fortemente scremata: delle varie imprese che l’eroe compie, l’autore riporta solo
la lotta con la Chimera (mostro la cui identità è peraltro spiegata soltanto alla fine
del capitolo e la cui pericolosità era data in precedenza per scontata), né vi è alcun
accenno alla conclusione della storia.
14
Un ulteriore approfondimento meriterebbe in effetti il procedimento eti-
mologico ricorrente nelle fabulae delle Mythologiae, dal momento che esso conosce
diverse declinazioni e «combinazioni». In generale, si può individuare una sorta
di formula fissa che è usata come schema di partenza per introdurre le etimolo-
gie, vale a dire X dici voluerunt/posuerunt quasi Y; Y (o Y 1) enim Graece/Latine Z
dicitur, dove X sta per il nome del personaggio; Y/Y 1 per la proposta di scompo-
sizione e derivazione etimologica; Z per il significato da svelare. Tuttavia, a partire
da questa impostazione di base, l’autore arriva a volte a punte estreme di analiti-
cità e arbitrarietà. Ad esempio, a myth. 56.16-17 Centauri dicti sunt quasi «centum
74
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
75
Martina Venuti
17
Si tratta del v. 24, ripetuto identico al v. 61: le parole del Sogno ad Agamen-
none, per indurlo a radunare l’assemblea degli Achei.
18
E cioè la nona fabula del primo libro (myth. 21.14-22.7).
19
Bisanti, Le citazioni omeriche cit., pp. 1483-1485.
20
Ivi, p. 1485.
76
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
21
«Adeguatamente», si intende, alla spiegazione morale che se ne vuole dare.
22
Nella fabula in esame seguono questa modalità, oltre alle due citazioni ome-
riche, anche quella da Menandro, già ricordata, e quelle da Esiodo (myth. 60.2 =
fr. 199 Rz., dall’editore indicato come fr. 15 falsum) e da Epicarmo (myth. 61.2 =
fr. 301 K.).
23
Hom. Il. 6.162.
24
Nella nostra fabula, cfr. myth. 60.20.
77
Martina Venuti
25
Lucr. 5.905 prima leo, postrema draco, media ipsa, Chimaera.
26
Ciaffi, Fulgenzio e Petronio cit., pp. 54-55.
27
In generale il problema delle citazioni di Fulgenzio – e quello, ad esso con-
nesso, della biblioteca che egli doveva avere a disposizione – è uno dei punti di
maggiore controversia nel dibattito critico su questo autore. Da una parte, infatti,
investe la questione della datazione e dell’identità del Mitografo, nel momento in
cui pone termini ante e post quos più o meno verificabili; dall’altra, solleva posizioni
contrastanti riguardo all’attendibilità delle Mythologiae come testimoni di tradizione
indiretta di autori e titoli che spesso non corrispondono a quelli che conosciamo
oggi.
78
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
28
Per la variante mitica con il nome di Antea, cfr. supra.
29
Fino a myth. 60.4 viene inoltre spiegato il rapporto Antia/Preto come rela-
zione lussuria/lordura, in base a un’etimologia ricavata questa volta da una citazione
di Esiodo: cfr. Ae. Jungmann, Coniectanea Fulgentiana, Lipsiae 1872, pp. 38-40. Da
rimarcare anche il Vide di myth. 59.20, con cui l’autore, rivolgendosi direttamente
al lettore e adottando così una tecnica di tipo retorico, rende più persuasiva la pro-
pria spiegazione.
30
Tadic, Une étymologie fulgentienne cit., p. 686. Un meccanismo analogo
a quello da me indicato si ritrova nella fabula Antei et Herculis (myth. 43.1-20),
oggetto di analisi in quell’articolo: anche lì il nome del gigante Anteo è collegato ad
antion secondo la formula Anteus/antion/contrarium e il personaggio è poi iden-
tificato con la libido. In quel caso, però, la virtus cui si contrappone tale concetto
negativo non è la sapientia Bellerofontis, ma la gloria Herculis: cfr. ancora Tadic,
Une étymologie fulgentienne cit., p. 688: «Anteus in modum libidinis ponitur. Il
apparaît que, dans l’esprit de Fulgence, Antée est une représentation allégorique
de la libido. Le mythographe est le premier à énoncer cette analogie […]. Ainsi, la
relation entre le nom Anteus et l’idée d’hostilité comprise dans antion a-t-elle été
79
Martina Venuti
2. Pegaso
Et cuius uxor libido est nisi sordis? At vero Bellerofons, id est «bona
consultatio», qualem equum sedet nisi Pegasum, quasi «pegaseon», id est
«fontem aeternum»? Sapientia enim bonae consultationis aeternus fons
est. Ideo pinnatus, quia universam mundi naturam celeri cogitationum
teoria conlustrat. Ideo et Musarum fontem ungula sua rupisse fertur;
sapientia enim dat Musis fontem. Ob hac re etiam sanguine Gorgonae
nascitur; Gorgona enim pro terrore ponitur; ideo et in Minervae pectore
fixa est, sicut Homerus in tertio decimo ait: tÍ d’ ™pˆ mþn Gorgë blo
surîpij ™stef£nwto [re vera Hom. Il. 11.36]. Ergo hic duplex assertio
est: aut enim terrore finito sapientia nascitur, sicut de sanguine id est de
morte Gorgonae Pegasus, quia stultitia semper est timida; aut initium
sapientiae timor est, quia et magistri timore sapientia crescit et dum quis
famam timuerit sapiens erit. (myth. 60.3-19)
80
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
32
E cioè, phg¾ ¢šnaoj.
33
In unione al sostantivo che precede: cfr. le occorrenze registrate (nelle
Mythologiae e nelle altre opere del corpus profano di Fulgenzio) da M. Manca, Con-
cordantia Fulgentiana, Hildesheim 2003, I, pp. 198-202.
34
Esistono altri esempi di questo valore prolettico: cfr., nella stessa sezione
della fabula, Gorgona enim pro terrore ponitur.
35
Quando però era già stato associato ad altre figure: cfr., ad esempio, la
Minerva/sapientia di myth. 33.9, sfruttata anche nel prosieguo della nostra fabula.
81
Martina Venuti
Pegaso, cioè, qui non rappresenta più la sapientia, ma la fama (che per
tradizione è sempre volucris) degli eroi oggetto dei canti epici (Pega-
sus in figura famae constitutus); la sapientia è invece tutta attribuita a
Minerva e la Gorgone/terrore genera la fama in seguito all’intervento
di Perseo/virtù. Di fatto vediamo come, intorno a un perno centrale
fisso, costituito dalla Gorgone/terrore, gli stessi concetti e gli stessi
particolari narrativi vengano ridistribuiti in modo diverso, anche
all’interno di un sistema di personaggi sostanzialmente immutato 36.
Allora, una volta di più si può affermare che ciò che interessa all’au-
tore non sono né la continuità narrativa né la correttezza del procedi-
mento etimologico, entrambe utilizzate come semplici strumenti; ciò
che sembra stare a cuore a Fulgenzio è una serie di nuclei semantici-
chiave, sparsi lungo le Mythologiae e riaffioranti periodicamente a ri-
badire il proprio contenuto morale.
Torniamo però alla nostra fabula. La citazione omerica di myth.
60.13 è interessante per almeno due motivi, di differente carattere:
da una parte, si tratta di una delle due «specific references to indi-
vidual books of the Iliad», delle quali «one is right, the other wrong»,
nel senso che attribuisce il passo al libro tredicesimo quando invece
è tratto dall’undicesimo 37. Dall’altra, il riferimento ad Omero serve
all’autore per inserire una sorta di glossa (ergo hic duplex assertio est;
36
A parte, naturalmente, il personaggio di Perseo, protagonista della fabula in
questione. Il fatto che l’autore riutilizzi più volte gli stessi miti rafforza l’impressione
che i personaggi delle varie vicende adempiano alla loro funzione più come semplici
nomi che come vere figure.
37
Baldwin, Fulgentius and his Sources cit., p. 46. Le citazioni alle quali si rife-
risce lo studioso sono, rispettivamente, a myth. 22.3 (quella giusta) e per l’appunto
questa (l’errata).
82
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
aut … aut …), che, dal punto di vista contenutistico, si pone come
un’ulteriore declinazione dei concetti morali più volte riproposti, ma
che, nella forma, si presenta come un vero e proprio scolio, vale a dire
come un’operazione di riflessione (di qualsiasi tipo e valore risulti ai
nostri occhi oggi) che potremmo tranquillamente definire ancora una
volta «metaletteraria».
3. Chimera
Unde et Cymeram occidit; Cymera enim quasi «cymeron», id est «fluc-
tuatio amoris», unde et Homerus ait: kàma kel<ain>Õn korqÚetai
[Hom. Il. 9.6-7]. Ideo etiam triceps Cymera pingitur; quia amoris tres
modi sunt, hoc est incipere, perficere et finire. Dum enim amor noviter
venit, ut leo feraliter invadit, unde et Epicarmus comicus ait: damast¾j
œrwj leonte…v dun£mei qalerÒj, id est: «domitor cupido leontea virtu-
te praesumptior» [Epicharm. fr. 301 K.]; nam et Virgilius in georgicis
tetigit dicens: «Catulorum oblita leena sevior erravit campis» [Verg.
georg. 3.245-246]. At vero capra quae in medio pingitur perfectio libi-
dinis est, illa videlicet causa, quod huius generis animal sit in libidine
valde proclivum; unde et Virgilius in bucolicis ait: «edique petulci» [re
vera Verg. georg. 4.10]. Ideo et Satyri cum caprinis cornibus depingun-
tur, quia numquam noverunt saturari libidinem. At vero quod dicitur
«postremus draco» [Hom. Il. 6.181; Lucr. 5.905], illa ratione ponitur,
quia post perfectionem vulnus det penitentiae venenumque peccati. Erit
ergo hic ordo dicendi quod primum sit in amore inchoare, secundum per-
ficere, tertium vero peniteri de perfecto vulnere. (myth. 60.19-61.15)
La terza sezione della fabula utilizza ampiamente un ulteriore stru-
mento individuabile come strutturale, vale a dire l’elemento figurati-
vo 38. Il personaggio mitico viene presentato ancora una volta a partire
da un’etimologia basata su un passo omerico che non sembra avere
38
Si tratta del ricorso a un elemento in qualche misura «esterno» al normale
procedere di Fulgenzio, in genere più legato a meccanismi che muovano diretta-
mente dal testo. Tale elemento trova riscontro, ad esempio, nella già citata fabula
Antei, dove viene utilizzata in modo analogo la genealogia del personaggio: Anteo è
immediatamente identificato con la libido perché figlio di Gea, la terra; e la libidine
guarda alle cose terrene. In un caso come nell’altro, dunque, il fatto «esterno» serve
a fondare e a garantire un’identificazione fissata da Fulgenzio a priori.
83
Martina Venuti
39
Ossia kàma œrwn, mentre nel passo citato (Hom. Il. 9.6-7) compare solo la
parola kàma, riferita ovviamente alle onde marine (si tratta di una similitudine fra il
mare in tempesta e l’animo angosciato dalla paura degli Achei).
40
E cioè, oltre nel passo appena ricordato, anche a myth. 61.6-7 At vero capra
quae in medio pingitur perfectio libidinis est, e 61.9-10 Ideo et Satyri cum caprinis
cornibus depinguntur.
41
La sesta del secondo libro (myth. 45.5-46.24).
42
L’undicesima del secondo libro (myth. 51.1-52.15).
84
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
43
Anche in questo caso sono i rapporti genealogici tra i vari personaggi del
mito a venire sfruttati per applicare i concetti morali ricavati dalle (false) etimologie
proposte.
44
E come tale si oppone quindi, di nuovo, alla libidine, davvero per Fulgenzio
radix omnium malorum. Cfr. Tadic, Une étymologie fulgentienne cit., p. 688: «La
libido engendre la furor, la confusio, le delirium. Elle est le contraire de la virtus, de
la sapientia, de l’ingenium, de la maiestas, de la bona consultatio».
45
Qui il tema si inserisce però in un circolo abbastanza coerente, dal momento
che – come sappiamo – Fulgenzio sembra presupporre in partenza la contrapposi-
zione libido vs. sapientia, cioè Antia vs. Bellerofonte. Si ricordi il breve sunto della
fabula: cui [scil. Bellerofonte] dum ob stupri causam mandasset, ille noluit.
85
Martina Venuti
46
Tadic, Une étymologie fulgentienne cit., p. 688.
47
At vero capra quae in medio pingitur perfectio libidinis est, illa videlicet causa,
quod huius generis animal sit in libidine valde proclivum; unde et Virgilius in bucolicis
ait: «edique petulci». Ideo et Satyri cum caprinis cornibus depinguntur, quia numquam
noverunt saturari libidinem. È possibile che sull’errato riferimento virgiliano abbia
interferito il ricordo di buc. 3.8 e della lussuria lì assegnata ai caproni.
48
Myth. 71.13-72.1 Quod venae quae in talo sunt ad renum et femorum atque
virilium rationem pertineant, unde et aliquae venae usque ad pollicem tendunt; quod
tractantes et fisici et mulieres ad optinendos partus et sciadicos eodem flebotomant
loco; nam et inplastrum entaticum quem stisidem Africanus hiatrosofistes vocavit pol-
lici et talo inponendum praecepit. Nam et Orfeus illum esse principalem libidinis indi-
cat locum; nam denique et enterocelicis in isdem locis cauteria ponenda praecipiunt.
Ergo monstrat quod humana virtus quamvis ad omnia munita tamen libidinis ictibus
subiacet patula.
49
Myth. 77.17-78.4 In omnibus igitur artibus sunt primae artes, sunt secundae;
ut in puerilibus litteris prima abecetaria, secunda nota, in grammaticis prima lectio,
secunda articulatio, in rethoricis prima rethorica, secunda dialectica, in geometricis
prima geometrica, secunda arithmetica, in astrologis prima mathesis, secunda astrono-
mia, in medicinis prima gnostice, secunda dinamice, in aruspicinis prima aruspicina,
secunda parallaxis, in musicis prima musica, secunda apotelesmatice.
50
Cfr., ad esempio, Serv. ad Verg. Aen. 3.519 «castra» quasi casta, vel quod illic
castraretur libido; nam numquam his intererat mulier.
86
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
51
La componente misogina delle Mythologiae non riguarda in modo esclu-
sivo l’ambito della libido, ma poiché sto trattando questo filone porto gli esempi ad
esso connessi: cfr. myth. 41.3-6 mulieris enim inlecebra maior est mundo, quia quem
mundi magnitudo vincere non potuit libido compressit; myth. 41.20-21 libido enim
in umbilico dominatur mulieribus; myth. 49.21-22 laborem enim manuum et opera-
tionem libidinosa mulier non diligit; myth. 64.8-10 quamvis apud muliebres animos
libido optineat regnum, tamen etiam in invicta libidine zelus optinet dominatum. Nel
caso di Anteo, dove la libido è impersonata da un gigante che nulla ha di femmi-
nile, avranno avuto probabilmente maggiore forza il valore etimologico del nome e
la struttura preordinata della fabula (Anteo vs. Ercole = libido vs. gloria): al punto
da risultare più significativi di qualsiasi altra considerazione e da favorire, quindi,
l’identificazione.
52
Nella fabula Bellerofontis ciò avviene soprattutto attraverso una terminolo-
gia ancora in bilico tra moralismo neoplatonico e dottrina cristiana (post perfectio-
nem vulnus det penitentiae venenumque peccati).
53
Interessante qui l’uso del vocabolo modus, che mi sembra avvicinarsi a uno
specifico significato segnalato dal Thesaurus (ThLL VIII.2, 1957, coll. 1258.77-
1259.15 [Brandt], s.v.).
54
È l’incipit della fabula Ero et Leandri.
87
Martina Venuti
88
La materia mitica nelle «Mythologiae» di Fulgenzio
55
Myth. 15.20-17.8.
56
Vale a dire e!doj doloris, con etimologia di nuovo «mista».
57
Myth. 17.1. Per il gioco paronomastico effectus/affectus cfr. ThLL V.2, 1931,
col. 135.5 [Hey], s.v. «effectus»: si tratta di un lusus verborum piuttosto diffuso,
soprattutto in Agostino.
58
Petron. fr. 27.1 Buecheler2. Per questo passo specifico, cfr. G. Heuten,
Primus in Orbe Deos Fecit Timor, «Latomus» 1, 1937, pp. 3-8.
59
Nel caso della fabula Bellerofontis, ad esempio, la derivazione genealogica è
al più ravvisabile nell’indicazione di un legame matrimoniale fra Preto e Antia, che
prelude alla domanda Et cuius uxor libido est nisi sordis? e alla spiegazione etimolo-
gica – fondata su un’improbabile lingua panfila – di Pritos come sordidus.
89
Martina Venuti
60
Myth. 11.16 mendacis Greciae; myth. 31.5-6 mendax Grecia et poetica garruli-
tas semper de falsitate ornata; myth. 44.6-7 Grecia enim quantum stupenda mendacio,
tantum est admiranda commento.
61
In questa operazione Fulgenzio si apparenta, e nello stesso tempo si discosta,
dai veri e propri scoliasti virgiliani, anch’essi propensi a ricavare un insegnamento
morale extratestuale dall’opera commentata, ma nello stesso tempo più rispettosi –
né poteva essere diversamente – del testo che vengono illustrando e che limita in
parte la loro azione. Cfr., al proposito, M. Gioseffi, «Nusquam sic vitia amoris»:
Tiberio Claudio Donato di fronte a Didone, in AA.VV., Ricordando Raffaele Canta-
rella. Miscellanea di studi, Bologna 1999, pp. 137-162; Id., Un libro per molte morali.
Osservazioni a margine di Tiberio Claudio Donato lettore di Virgilio, in AA.VV.,
Nuovo e antico nella cultura greco-latina di IV-VI secolo, Milano 2005, pp. 281-305.
90
Alessia Fassina
Il ritorno
alla «fama prior»: Didone
nel centone «Alcesta»
(Anth. Lat. 15 R.2) *
Nati per dare nuova forma e nuova vita all’opera del massimo poeta
latino, ma ben lontani dalla presunzione di emulare i livelli del loro
modello, i centoni virgiliani sono da annoverare tra i prodotti più inte-
ressanti, ma allo stesso tempo più controversi, della tarda Antichità 1.
* Questo lavoro è nato da uno scambio di idee con Marco Fernandelli, cui va
la mia più sincera gratitudine per i preziosi suggerimenti riguardanti il legame fra il
Didobuch e l’Alcesti di Euripide.
1
Si tratta in tutto di sedici composizioni poetiche, per lo più di argomento
secolare e mitologico, create attraverso la giustapposizione di versi o emistichi estra-
polati esclusivamente dall’Eneide, dalle Georgiche e dalle Bucoliche virgiliane. La
bibliografia, ancora piuttosto esigua, comprende tra gli altri R. Lamacchia, Dall’arte
allusiva al centone, «A&R» 5, 1958, pp. 193-216; J.L. Vidal, Observaciones sobre
centones virgilianos de tema cristiano, «BIEH» 3, 1973, pp. 53-64; M.L. Ricci,
Motivi arcadici in alcuni centoni virgiliani cristiani, in AA.VV., Atti del Convegno
Virgiliano sul bimillenario delle Georgiche, Napoli 1977, pp. 489-496; G. Polara,
Un aspetto della fortuna di Virgilio: tra Virgilio, Ausonio e l’Appendix Vergiliana,
«Koinonia» 5, 1981, pp. 49-62; Id., I centoni, in AA.VV., Lo Spazio Letterario di
Roma antica, III. La ricezione del testo, Roma 1990, pp. 245-275; F.E. Consolino, Da
Osidio Geta ad Ausonio e Proba. Le molte possibilità del centone, «A&R» 28, 1983,
pp. 133-151; D.F. Bright, The Theory and Practice in the Vergilian Cento, «ICS»
9, 1984, pp. 79-90; G. Salanitro, Omero, Virgilio e i centoni, «Sileno» 13, 1987,
pp. 231-240; E. Stehlíková, Centones Christiani as a Means of Reception, «LF» 110,
91
Alessia Fassina
1987, pp. 11-15; G. La Bua, Esegesi virgiliana e poesia centonaria, «A&R» 38, 1993,
pp. 99-107; S. McGill, Virgil Recomposed. The Mythological and Secular Centos in
Antiquity, Oxford - New York 2005.
2
Per il Parisinus lat. 10318 mi sono avvalsa della riproduzione fotografica
di H. Omont, Anthologie de Poètes Latins dite de Saumaise. Reproduction réduite
du manuscrit en onciale, Latin 10318, de la Bibliothéque Nationale, Paris 1903;
informazioni dettagliate sul codice in M. Spallone, Par. Lat. 10318 (Salmasiano):
dal manoscritto altomedievale ad una raccolta enciclopedica tardoantica, «IMU» 25,
1982, pp. 1-71.
3
Vale a dire, i numeri 7-18 in F. Buecheler - A. Riese (edd.), Anthologia
Latina, I.1, Lipsiae 18942. Com’è noto, Shackleton Bailey ha deliberatamente
omesso questi testi nell’edizione della Anthologia da lui curata nel 1982, motivando
così la sua decisione: «Centones Vergiliani opprobria litterarum, neque ope critica
multum indigent neque is sum qui vati reverendo denuo haec edendo contumeliam
imponere sustineam» (D.R. Shackleton Bailey [ed.], Anthologia Latina, Stutgar-
diae 1982, I, p. III). I dodici testi si intitolano, nell’ordine: De panificio; De alea;
Narcissus; Iudicium Paridis; Hippodamia; Hercules et Antaeus; Progne et Philomela;
Europa; Alcesta; De ecclesia; Medea e Epithalamium Fridi.
4
Non sono numerosi nemmeno gli studi critico-testuali sul nostro centone:
cfr. R. Lamacchia, Alcesta (Anth. Lat. 15), 162 e Iudicium Paridis (Anth. Lat. 10,
36), in AA.VV., Studi in onore di Adelmo Barigazzi, I, Roma 1986, p. 314; M. Val-
lozza, Rilievi di tecnica compositiva nei centoni tramandati con la «Medea» del
codice Salmasiano, in Studi in onore di Adelmo Barigazzi cit., I, p. 338; G. Salanitro,
92
Didone nel centone «Alcesta»
93
Alessia Fassina
protagonista (vv. 100-162), la voluta ripresa di alcuni dei versi più si-
gnificativi del quarto libro dell’Eneide non sembra dipendere soltanto
dalla «prigione versificatoria» in cui si trova inevitabilmente costretto
il centonarius, ma risponde alla volontà di assegnare una «funzione-
guida» ben precisa alla Didone virgiliana. Grazie a un sapiente utiliz-
zo del gioco allusivo, infatti, il centonario riesce ad adattare alla figura
emblema della mulier univira alcuni dei versi-chiave del Didobuch,
in modo tale che l’imitazione non riguardi solo la singola ripresa, ma
investa l’intero contesto virgiliano. Lo scopo sembra essere quello di
raggiungere la riabilitazione morale della regina di Cartagine attra-
verso un personaggio universalmente considerato come simbolo delle
virtutes matronali romane, prima fra tutte la pietas coniugale.
Di fatto, già in epoca antica s’era sviluppato per ovvi motivi patriot-
tici e nazionalistici un diffuso atteggiamento denigratorio nei confronti
della sovrana fenicia, di cui si mettevano in luce soprattutto l’accesa
sensualità e la sfrenata libido, che si esemplificavano in una condotta
diametralmente opposta a quella propagandata dalla morale romana,
che imponeva come virtù cardine femminile l’essere mulier univira. Se
in ogni età la tragica vicenda della Didone virgiliana riusciva a suscitare
una sorta di trasporto empatico da parte dei lettori, tanto da muovere
alle lacrime perfino il giovane Agostino 9, tuttavia, come ricorda Ovi-
dio nei Tristia 10, era la scabrosità dell’argomento trattato, vale a dire
il resoconto di un amore irregolare, a suscitare il maggiore interesse
da parte del pubblico. La tradizione successiva si era sentita pertan-
to legittimata a ricorrere allusivamente al libro quarto dell’Eneide e,
in particolare, al comportamento spregiudicato della regina fenicia 11.
9
Aug. conf. 1.13.20-21 Nam utique meliores, quia certiores, erant primae illae
litterae, quibus fiebat in me et factum est et habeo illud, ut et legam, si quid scriptum
invenio, et scribam ipse, si quid volo, quam illae, quibus tenere cogebar Aeneae nescio
cuius errores oblitus errorum meorum et plorare Didonem mortuam, quia se occidit
ab amore, cum interea me ipsum in his a te morientem, Deus, vita mea, siccis oculis
ferrem miserrimus. Quid enim miserius misero non miserante se ipsum et flente Dido-
nis mortem, quae fiebat amando Aeneam, non flente autem mortem suam, quae fiebat
non amando te, Deus, lumen cordis mei?
10
Ov. trist. 2.533-536 et tamen ille tuae felix Aeneidos auctor / contulit in
Tyrios arma virumque toros, / nec legitur pars ulla magis de corpore toto, / quam non
legitimo foedere iunctus amor.
11
È il meccanismo in atto già nella novella della matrona di Efeso, in Petron.
111-112. Sulla tradizione poetica del tema, fonti e bibliografia in L. Mondin, Didone
94
Didone nel centone «Alcesta»
95
Alessia Fassina
14
Mondin, Didone hard-core cit., p. 227. Su Didone come modello di casta
vedovanza nella letteratura cristiana resta fondamentale M.L. Lord, Dido as
an Example of Chastity. The Influence of Example Literature, «HLB» 17, 1969,
pp. 22-44 e 216-232.
15
Nella sterminata bibliografia sul «tragico» virgiliano, basti il rinvio a due
recenti lavori di M. Fernandelli, Come sulle scene. Eneide IV e la tragedia, «Qua-
derni del Dipartimento di filologia A. Rostagni» n.s. 1, 2002, pp. 141-211; Id., Vir-
gilio e l’esperienza tragica: pensieri fuori moda sul libro IV dell’«Eneide», «Incontri
Triestini di Filologia Classica» 2, 2003, pp. 1-54.
96
Didone nel centone «Alcesta»
16
Cfr. Serv. Auct. ad Verg. Aen. 4.703 Euripides Alcestin Diti sacratum habu-
isse crinem dicit, quod poeta transtulit ad Didonem; Macr. Sat. 5.19.1-5 In libro quarto
in describenda Elissae morte ait quod ei crinis abscisus esset his versibus: «Nondum
illi flavum Proserpina vertice crinem / abstulerat, Stygioque caput damnaverat Orco»
[= Aen. 4.698-699]; deinde Iris a Iunone missa abscidit ei crinem et ad Orcum refert.
Hanc Vergilius non de nihilo fabulam fingit, sicut vir alias doctissimus Cornutus
existimat, qui adnotationem eiusmodi adposuit his versibus: «Unde haec historia, ut
crinis auferendus sit morientibus, ignoratur: sed adsuevit poetico more aliqua fingere,
ut de aureo ramo» [= fr. 23 Mazzarino]. Haec Cornutus. Sed me pudet quod tantus
vir, Graecarum etiam doctissimus litterarum, ignoravit Euripidis nobilissimam fabu-
lam Alcestim. In hac enim fabula in scaenam Orcus inducitur gladium gestans quo
crinem abscidat Alcestidis, et sic loquitur: =H d’oân gun¾ k£teisin e„j “Aidou dÒmouj. /
Ste…cw d’ ™p’ aÙt¾n, æj kat£rxwmai x…fei: / ƒerÕj g¦r oátoj tù kat¦ cqonÕj qeù, /
ÓtJ tÒd’ œgcoj kratÕj ¡gn…sV tr…ca [Eur. Alc. 73-76]. Proditum est, ut opinor, quem
secutus Vergilius fabulam abscidendi crinis induxerit: ¡gn…sai autem Graeci dicunt
«dis consecrare», unde poeta vester ait ex Iridis persona: «[…] hunc ego Diti / sacrum
iussa fero, teque isto corpore solvo» [Aen. 4.702-703].
97
Alessia Fassina
17
Vd., in questo stesso volume, l’articolo di I. Canetta, «Diversos secutus poe
tas». Riuso e modelli nel commento di Servio all’«Eneide», ntt. 25-26.
98
Didone nel centone «Alcesta»
18
At trepida et coeptis immanibus effera Dido / sanguineam volvens aciem,
maculisque trementis / interfusa genas et pallida morte futura, / interiora domus
irrumpit limina et altos / conscendit furibunda gradus ensemque recludit.
19
Anth. Lat. 15 R.2 100-102 At regina gravi iamdudum saucia cura, / tristior et
lacrimis et pallida morte futura, / deficit ingenti luctu (miserabile visu).
20
Serv. ad Verg. Aen. 4.644 «Pallida morte futura» aut pallidior, quam solent
homines esse post mortem: aut «pallida» omine mortis futurae. A questa annotazione
il Servio Danielino aggiunge la precisazione aut «pallida» conscientia mortis futurae.
21
Cfr. v. 116 tardabatque manus rigor, omnia corripiebat.
99
Alessia Fassina
22
Anth. Lat. 15 R.2 104-107 talibus affata est dictis seque obtulit ultro / decre-
vitque mori: «Breve et irreparabile tempus / omnibus est vitae neque habet fortuna
regressus: / sed moriamur», ait, «nihil est, quod dicta retractent».
23
Testatur moritura deos stratisque relictis / incubuitque toro dixitque novis-
sima verba. Si tratta dei versi che danno l’avvio alle ultime parole di Alcesti al suo
sposo (vv. 118-132).
100
Didone nel centone «Alcesta»
24
Ossia, il già ricordato Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni /
odere, infensi Tyrii; te propter eundem / exstinctus pudor.
25
Verg. Aen. 4.316-319 per conubia nostra, per inceptos hymenaeos, / si bene
quid de te merui, fuit aut tibi quicquam / dulce meum, miserere domus labentis et
istam, / oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.
26
Nec iam furtivum Dido meditatur amorem: / coniugium vocat, hoc praetexit
nomine culpam.
101
Alessia Fassina
merito che ha nei confronti del marito, la sostituzione della propria vi-
ta alla sua, che chiede allo sposo di risparmiare ai figli la sofferenza di
vedere violato il letto coniugale. La paura della morte è infatti mitigata
per Alcesti dal pensiero dell’amore dei figli (vv. 137-139) 27, a differen-
za di Didone, che nel momento dell’abbandono non può nemmeno
appellarsi alla consolazione di un figlio avuto da Enea 28. Hanno infine
un valore straordinariamente allusivo anche i vv. 134-135 del cento-
ne 29, in cui l’autore ricorre a un particolare espediente compositivo,
che prevede l’impiego di due versi consecutivi del modello, limitata-
mente ai loro emistichi iniziali. Si tratta di Aen. 4.696-697:
nam quia nec fato merita nec morte peribat,
sed misera ante diem subitoque accensa furore.
Sono gli ultimi versi del libro, «quando la voce del poeta eredita e
stringe in giudizio la posizione affettiva del lettore» 30 di fronte agli
istanti finali dell’agonia di Didone, che muore prima del giorno a lei
destinato. Il secondo emistichio del v. 134 è prelevato da georg. 4.506
[illa quidem Stygia nabat] iam frigida cumba, riferito ad Euridice co-
stretta a far ritorno nell’Ade a causa dell’infrazione da parte di Orfeo
del divieto impostogli da Proserpina; mentre il v. 135 sutura nella sua
seconda parte Aen. 7.357 [mollius et solito] matrum de more locuta
est (ci si riferisce ad Amata, che tenta di convincere Latino a cambia-
re opinione circa il matrimonio di Lavinia). La liceità del prelievo da
parte del centonario di questo passo del Didobuch, in cui Virgilio pre-
cisa che la regina non muore né per destino né per debita morte, ma
misera ante diem, risulta tanto più chiara se si considera che il poeta
mantovano travasa in questi versi una delle verità tragiche assimilate
alla storia di Didone, vale a dire che gli dèi possono attraversare a loro
arbitrio la linea del destino personale e che la catastrofe umana che
deriva dalla mhcan» divina può mettere in luce la crudeltà o il cini-
27
Interea dulces pendent circum oscula nati; / illa manu moriens umeros dex-
tramque tenebat / amborum et vultum.
28
Verg. Aen. 4.327-330 Saltem si qua mihi de te suscepta fuisset / ante fugam
suboles, si quis mihi parvulus aula / luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, / non
equidem omnino capta ac deserta viderer.
29
Nam quia nec fato ingeminat iam frigida cumba, / sed misera ante diem,
matrum de more locuta.
30
Fernandelli, Virgilio e l’esperienza tragica cit., p. 7.
102
Didone nel centone «Alcesta»
smo delle loro azioni. Questo rapporto tragico fra dèi e uomini non si
riflette compiutamente solo nella dolorosa esperienza dell’eroina vir-
giliana, che per iniziativa divina e senza meritarlo si trova all’improv-
viso contrapposta alla propria storia personale e alla propria fama, e
quindi muore prima del suo giorno – ignaro strumento della lotta fra
Venere e Giunone fino all’ultimo atto di vita – ma si ripropone anche
per la protagonista del centone che, non potendo contare né sull’aiuto
di Apollo né su quello di Eracle, è anch’essa costretta a lasciare svani-
re nell’aria la propria vita 31.
31
Verg. Aen. 4.705; Anth. Lat. 15 R.2 162 dilapsus calor atque in ventos vita
recessit.
103
Sandra Carapezza
Funzioni digressive
nella didattica medievale
Psychomachia, Anticlaudianus
e L’Intelligenza
1
Cfr. E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern
1948 (trad. ital. Firenze 1992; in particolare il capitolo XVII, Dante, pp. 387-419).
105
Sandra Carapezza
106
Funzioni digressive nella didattica medievale
2
«Fiorenza mia, ben puoi esser contenta / di questa digression che non ti
tocca» (Pg. 6.127-128). Le citazioni della Commedia sono tratte da La Commedia
secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1994 (già Milano 1966-
1967).
3
«Ma perché siam digressi assai, ritorci / li occhi oramai verso la dritta
strada» (Pd. 29.127-128).
4
La classificazione dei tipi di digressione e la riflessione sui relativi criteri
sono in S. Corsi, Il «modus digressivus» nella «Divina Commedia», Potomac 1987,
in particolare nel capitolo II (pp. 51-120).
107
Sandra Carapezza
5
Cfr. Cic. inv. 1.27.
108
Funzioni digressive nella didattica medievale
6
Rhet. Her. 1.12.
7
Ivi, 3.34.
8
Cfr. Curtius, Europäische Literatur cit., p. 546. Ivi la citazione di Plinio il
Giovane epist. 5.6.
9
Per una discussione più ampia della sua storia e del suo sviluppo in età
antica e tardoantica cfr. H. Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine
Grundlegung der Literaturwissenschaft, München 1960, §§ 340-342; L. Calboli
Montefusco, in Consulti Fortunatiani Ars Rhetorica, Bologna 1979, pp. 385-387;
R. Sabry, La digression dans la rhétorique antique, «Poétique» 79, 1989, pp. 259-
276; M. Panico, La «digressio» nella tradizione retorico-grammaticale, «BStudLat»
31, 2001, pp. 478-496.
109
Sandra Carapezza
10
G. de Vinsauf, Documentum de arte versificandi, 2.17, in E. Faral (éd.), Les
artes poétiques du XII et du XIII siècle, Paris 1962.
11
Il rapporto fra Virgilio e Prudenzio è stato indagato da molti. Cito a solo
scopo esemplificativo il lontano contributo di A. Mahoney, Vergil in the Works of
Prudentius, Washington 1934, e il più recente M. Lühken, Christianorum Maro et
Flaccus. Zur Vergil- und Horazrezeption des Prudentius, Göttingen 2002.
12
Cfr. K.R. Haworth, Deified Virtues, Demonic Vices and Descriptive Allegory
in Prudentius’ «Psychomachia», Amsterdam 1980.
13
Cfr. M. Smith, Prudentius’ «Psychomachia». A Reexamination, Princeton
1976.
110
Funzioni digressive nella didattica medievale
111
Sandra Carapezza
abbraccia così l’intero complesso della natura umana e offre l’agio per
ampi inserti descrittivi. Nell’Anticlaudianus 14 la digressione non è mai
narrativa: nessun evento collaterale si innesta sulla trama, mentre pa-
recchie sono le digressioni di carattere descrittivo, in corrispondenza
dei luoghi di residenza delle virtù o di quelli da esse sorvolati nei loro
spostamenti. La descriptio loci appare nel suo aspetto esplicitamen-
te topico fin dalla formula introduttiva della prima virtù: est locus a
nostro secretus climate longo / tractu (1.55-56), ricalcata sul virgiliano:
Oceani finem iuxta solemque cadentem / ultimus Aethiopum locus est
(Aen. 4.480-481) 15. Si tratta qui della dimora di Natura, che da prin-
cipio è collocata in uno spazio meraviglioso, oggetto dell’inizio della
descrizione, poi viene presentata con un procedimento di progressi-
va delimitazione dell’elemento al centro del discorso: dall’ambiente
circostante fino alla silva e al monte che si erge al mezzo del bosco,
e che è la dimora stessa. A questo punto la descrizione assume i ca-
ratteri dell’ekphrasis per seguire i dipinti che adornano la reggia. Tale
parte si estende in complesso per più di centocinquanta versi (il libro
si compone di cinquecentodieci versi); la narrazione riprende con la
congiunzione temporale postquam (v. 207), che riassume l’ingresso e
l’accoglienza delle virtù presso Natura e consente di ricominciare il
racconto. La digressione di questo tipo, con funzione descrittiva, è un
procedimento frequente nell’Anticlaudianus: appena pochi versi dopo
la protratta descrizione della dimora di Natura si colloca ad esempio
il ritratto di Prudenza, articolato in poco meno di cinquanta versi. Il
primo libro rispecchia un equilibrio fra sezione narrativa pura e di-
gressione a tutto vantaggio della seconda; peso consistente, all’interno
dello stesso libro, è inoltre concesso alla parte diegetica, costituita dai
lunghi discorsi di Natura, di Prudenza e di Ragione.
Un tipo di digressione che sembra particolarmente appropriato
al genere didattico, dove l’intrusione autoriale è più legittima che
altrove, è invece costituito dalla digressione di carattere gnomico, o
dal commento di ordine morale. Nell’Anticlaudianus la presenza di
personaggi intrinsecamente dotati di autorità consente di trasferire
14
L’edizione di riferimento è quella di R. Bossuat (ed.), Anticlaudianus, Paris
1955; segnalo la traduzione a cura di C. Chiurlo, Anticlaudiano. Discorso sulla sfera
intelligibile, Milano 2004.
15
Cfr. anche Aen. 1.159 e 6.388-390.
112
Funzioni digressive nella didattica medievale
113
Sandra Carapezza
16
I. Gualandri, Aspetti dell’ekphrasis in età tardo-antica, in AA.VV., Testo e
immagine nell’Alto Medioevo, Spoleto 1994, pp. 301-341. Ampia, naturalmente, la
bibliografia sul tema: cfr. almeno D. Fowler, Narrate and Describe: The Problem
of Ekphrasis, «JRS» 81, 1991, pp. 25-35; M.C.J. Putnam, Virgil’s Epic Designs.
Ekphrasis in the «Aeneid», New Haven - London 1998; G. Ravenna, Per l’identità
di «ekphrasis», «Incontri Triestini di Filologia Classica» 4, 2005, pp. 21-30.
114
Funzioni digressive nella didattica medievale
17
Ad esempio, Retorica è rappresentata da Cicerone per primo, e poi da
Ennodio, Quintiliano e Simmaco.
18
Aen. 7.37-45 e 10.163-165.
19
L’Intelligenza, a cura di M. Berisso, Parma 2000; ma per la questione dell’edi-
zione del poemetto si veda D. Cappi, Per una nuova edizione de «L’Intelligenza»,
115
Sandra Carapezza
116
Funzioni digressive nella didattica medievale
21
L’Intelligenza 7.9. La dittologia riceve la sua più celebre sanzione dall’uso
dantesco di If. 2.56.
117
Sandra Carapezza
22
Per le fonti si veda Berisso, Introduzione a L’Intelligenza cit., pp. IX-
XXXVII.
118
Funzioni digressive nella didattica medievale
119
Sandra Carapezza
120
Cristina Zampese
«Nebbia»
nei «Rerum Vulgarium
Fragmenta»
Appunti per un’indagine semantica
Passemo via
comò caligo,
linti, ma sensa un sigo
che diradi foschia. 1
1
B. Marin, Xe destin de brusâ 11-14, in Id., I canti de l’isola (1970-81), Trieste
1981, p. 1204.
2
E cioè i nrr. 38, 66, 123, 129, 133, 144, 189, 204, 231, 270, 316, 323, 331.
3
M. Santagata, Per moderne carte, Bologna 1990, p. 110 nt. 23.
4
R. Bettarini (a cura di), F. Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium frag-
menta, Torino 2005, p. 1226.
121
Cristina Zampese
I.
Orso, e’ non furon mai fiumi né stagni,
né mare, ov’ogni rivo si disgombra,
né di muro o di poggio o di ramo ombra
né nebbia che ’l ciel copra e ’l mondo bagni,
né altro impedimento, ond’io mi lagni,
qualunque più l’umana vista ingombra,
quanto d’un vel che due begli occhi adombra,
et par che dica: «Or ti consuma et piagni».
Et quel lor inchinar ch’ogni mia gioia
spegne o per humiltate o per argoglio,
cagion sarà che ’nanzi tempo i’ moia.
Et d’una bianca mano ancho mi doglio,
ch’è stata sempre accorta a farmi noia,
et contra gli occhi miei s’è fatta scoglio.
(Rvf 38)
5
Cfr. infra.
6
La ricognizione è resa agevole dalla potente risorsa elettronica della Lessico-
grafia della Crusca in rete (http://morpheus.micc.unifi.it:8080/cruscle/).
7
Costanti punti di riferimento, anche quando non esplicitamente citati, sono
i due commenti a cura di Marco Santagata, F. Petrarca, Canzoniere, Milano 2004
(d’ora in poi Santagata) e Rosanna Bettarini (cfr. supra, nt. 4: d’ora in poi Betta-
rini). I testi dei Rerum vulgarium fragmenta (d’ora in poi Rvf ) si citano da quest’ul-
tima edizione; quelli dei Trionfi e delle rime estravaganti da V. Pacca - L. Paolino
(a cura di), F. Petrarca, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, Milano
1996 (d’ora in poi Pacca - Paolino); le Familiares da F. Petrarca, Le familiari,
trad. di E. Bianchi, in M. Martelli (a cura di), F. Petrarca, Opere, Firenze, 1975;
il Secretum da E. Fenzi (a cura di), F. Petrarca, Secretum. Il mio segreto, Milano
1992.
122
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
8
Bettarini, p. 210.
9
Cito da D. De Robertis (a cura di), Dante Alighieri, Rime, Firenze 2005.
10
I rimandi a P. Trovato, Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi
nei «Rerum vulgarium fragmenta», Firenze 1979, e D. De Robertis, Petrarca petroso,
«Revue des Études italiennes» n.s. 29, 1983, pp. 13-37 (in part. p. 18), sono impli-
citi.
11
Sulla «lettura multipla» del motivo cfr. R. Bettarini, «Fluctuationes» agosti-
niane nel «Canzoniere» di Petrarca, «Studi di filologia italiana» 60, 2002, pp. 129-
139 (in part. pp. 134-136).
123
Cristina Zampese
II.
Di nuovo con il Dante petroso (Io son venuto; Amor, tu vedi ben) Pe-
trarca condivide situazioni e materiali lessicali per la sestina 66. La
sperimentazione altamente formalizzata del metro impone la pro-
grammatica fissità degli enti-refrain. Riferendosi all’insieme delle pro-
ve petrarchesche, tuttavia, Domenico De Robertis pone l’accento sulla
«dissomiglianza» come effetto dinamico di una «continua trasforma-
zione» semantica all’interno dell’identità 14. Ecco che infatti in 66 la
chiusa costellazione rimica è percorsa da un interno movimento:
L’aere gravato, et l’importuna nebbia
compressa intorno da rabbiosi vènti
tosto conven che si converta in pioggia;
et già son quasi di cristallo i fiumi,
e ’n vece de l’erbetta per le valli
non se ved’altro che pruine et ghiaccio.
Et io nel cor via più freddo che ghiaccio
ò di gravi pensier’ tal una nebbia,
qual si leva talor di queste valli,
serrate incontra agli amorosi vènti,
et circundate di stagnanti fiumi,
quando cade dal ciel più lenta pioggia.
12
Santagata, p. 212.
13
Cfr. infra.
14
De Robertis, Petrarca petroso cit., p. 34.
124
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
15
Bettarini sembra intendere diversamente: «la consueta nebula e cali-
gine dell’essere, che non si dissolve; è interpretata comunemente come ‘nebbia
di sdegni’» (Bettarini, p. 331). Mi pare tuttavia che l’antitesi «dentro»/«di for»
del v. 23 giustifichi la lettura tradizionale; cfr. anche – a giochi ormai ribaltati – la
rivelazione della strategia salvifica di Laura nel Tr. Mortis 2.97: «quel di fuor [scil.
sdegni e ire] miri, e quel dentro non veggia».
125
Cristina Zampese
16
Cfr. anche, e non a caso come vedremo, Claud. rapt. 2.89 glaebas fecundo
rore maritat.
17
Correzione sulla formulazione meno organica della similitudine «sospir’
che paion venti», attestata dalla tradizione indiretta (postille al Casanatense e
all’Harleiano; segnalazione di Bembo: Bettarini, p. 331).
126
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
(cfr. poi il v. 38: «quel dì») il lamento topico espresso nelle stanze
quarta e quinta; il congedo riconsegna tutte le parole-rima alla loro
naturalistica valenza primaria. La ferrea coesione tematica del testo
poetico risulta poi confermata se accostiamo a questi versi la lettura
di un passo delle Tusculanae, opera carissima al Petrarca, nel quale
«l’aere gravato, et l’importuna nebbia / compressa intorno da rabbiosi
venti» fino a convertirsi «in pioggia» corrispondono a un paesaggio
etico-simbolico:
si [scil. animus] permanet incorruptus suique similis, necesse est ita fe-
ratur, ut penetret et dividat omne caelum hoc, in quo nubes, imbres,
ventique coguntur, quod et umidum et caliginosum est propter exhala-
tiones terrae. (1.43)
18
L. Blasucci, La sestina LXVI, in Lectura Petrarce, II, Padova 1982, pp. 41-60
(cito da p. 58).
127
Cristina Zampese
III.
19
M. Pieri - A. Ruffino (a cura di), G.B. Marino, La Galeria, Torino 2005.
20
Bettarini, p. 211.
128
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
evidente sul piano formale tanto da far ipotizzare nel sonetto estrava-
gante una prima redazione dell’altro 22, viene ulteriormente certificata
da Rosanna Bettarini sulla base del comune ricorso alla raffigurazione
di Venere nel primo libro dell’Eneide:
21
Paolino in Pacca - Paolino, p. 694.
22
Non mi sembra che Rosanna Bettarini, come invece annotano Santagata,
p. 695, e Paolino in Pacca - Paolino, p. 696, aderisca tout court alla pur cauta ipo-
tesi di Solerti: «Questo sonetto potrebbe apparire una prima redazione dell’altro»
(Rime disperse di Francesco Petrarca o a lui attribuite, per la prima volta raccolte
a cura di A. Solerti, introduzione di V. Branca; postfazione di P. Vecchi Galli,
Firenze 1997, p. 112). Scrive infatti la studiosa: «il Solerti, con ragionamento non
scritto ma certo non diverso dal mio, pensava che l’uno potesse essere una prima
redazione dell’altro. Non occorre giungere a una formulazione rigida, ma è indub-
bio che l’incipit […] di CXLIV sta con l’incipit ‘Sì mi fan risentire a l’aura sparsi’
in rapporto ritmico-timbrico marcato, per quel tipo di memoria interna che Contini
descrive per Dante con se stesso e poi per Petrarca con Dante. Insomma pare che il
sonetto delle Disperse sia esploso a doppio, e che la sua tensione strutturale sostan-
zialmente asemantica si sia scaricata nel sonetto CXLIV e la sua venatura tematica
(che è quella della visualità istantanea della memoria) nel sonetto CXLIII» (R. Bet-
tarini, Lacrime e inchiostro nel «Canzoniere» di Petrarca, Bologna 1998, pp. 164-
165).
129
Cristina Zampese
I sonetti 143
Quand’io v’odo parlar sì dolcemente
com’Amor proprio a’ suoi seguaci instilla,
l’acceso mio desir tutto sfavilla,
tal che ’nfiammar devria l’anime spente.
23
Che riceve anche una sorprendente riscrittura parodica nel dichiarato eser-
cizio in demonstrativo cause genere di Fam. 1.11.4: Vidi illum [un parassita] hodie
v a l d o a q u i l o n e i a c t a t u m; ibat alte succinctus, dederatque comam diffundere
ventis, maronee Veneris in morem.
130
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
24
Bettarini, p. 697.
25
Si vedano le espressioni sottolineate in 143, qui sopra, e nel 144 «fiammeg-
giando», «nulla cosa mortal pote aguagliarsi».
26
Un’articolata difesa di Venere madre si legge in M. Gioseffi, Un’eco vir-
giliana in «Vanity Fair» di W.M. Thackeray, in Id. (a cura di), Il dilettoso monte.
131
Cristina Zampese
Raccolta di saggi di filologia e tradizione classica, Milano 2004, pp. 187-199 (alle
pp. 189-193).
27
Si vedano per esempio 58, 63, 93, 111 (e implicitamente 112.13: «cangiò ’l
viso»); Fam. 2.9.19 a Giacomo Colonna. Il «pietoso penser» di Quel vago impallidir
va accostato ai «pietosi color’» di 90.5.
28
M. Feo, «Pallida no, ma più che neve bianca», «Giornale storico della lette-
ratura italiana» 152, 1975, pp. 321-361 (in part. pp. 337-338).
29
La seconda accezione è preferita, se ho visto bene, dalla sola Bettarini,
p. 571. Ma la vera qualità semantica dell’aggettivo sembra effettivamente sfuggire ai
tentativi di circoscriverla, come è già stato rilevato: la sua «rarefazione semantica»,
appunto (A. Castellano, Storia di una parola letteraria: It. «vago», «Archivio glot-
tologico italiano» 47, 1962, pp. 126-169; qui, p. 156), ne fa «a crucial link between
form and theme, a key structural note that is necessarily lost in translation» (A. Imus,
132
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
«Vaga è la donna vaga»: The Gendering of «Vago» in the «Commedia», the «Decame-
ron» and the «Canzoniere», «Forum Italicum» 2, 2006, pp. 213-233; qui, p. 227).
30
Lo stesso Petrarca latino, Contra medicum 2.9, cita insieme i due luoghi
canonici: Ov. ars 1.727 palleat omnis amans: hic est color aptus amanti e Hor. carm.
3.10.14 tinctus viola pallor amantium, accolto nel «pallor di vïola et d’amor tinto» di
224.8, probabilmente proprio per la visibilità dell’auctoritas.
31
Bettarini, p. 571; non vedrei qui invece, e non solo per le motivazioni che fra
breve attingerò al medesimo commento, una «nebbia» «che nasconde il pensiero e la
pulsione», «parente del velamen (d’incomprensione) interposto tra gli amanti» (ibid.),
proprio perché l’esperienza riferita nel sonetto è quella di un perfetto «intuarsi».
32
Ai quali accostare Pg. 30.3 «e d’altra nebbia che di colpa velo». Modifico
l’interpunzione di Tr. temp. 109 rispetto all’edizione Pacca in Pacca - Paolino,
in accordo con G. Gorni, «Un dubbio, hiberno, instabile sereno» e altre note sui
133
Cristina Zampese
Ma penso che, ancora una volta, la via corretta per l’esegesi passi
attraverso più complesse tensioni testuali. Leggiamo nel commento
Bettarini: «Il lemma maiestade, che invade il terzo verso, anticipa la
nozione di paradiso della seconda quartina e lascia sottilmente passare
il messaggio della nubes come contrassegno di divinità; cfr. 2 Mac. II.8
et tunc Dominus ostendit haec, et apparebit maiestas Domini, et nubes
erit sicut ut Moysi manifestabatur, con riferimento al colloquio facie
ad faciem di Dio con Mosé sicut solet loqui homo ad amicum suum
nell’Exodus (XXXIII.5-11)» 33. La limitazione verrebbe quindi rove-
sciata in glorificazione: questa si rivelerà, come vedremo, una pista
feconda per il nostro ragionamento.
Intuitivamente e sicuramente negativa è invece la valenza semanti-
ca cercata con similitudini e metafore di stampo biblico che additano
l’inconsistenza, in particolare delle cose mondane. Giovanni Pozzi ha
mostrato la strategia accumulatoria del devinalh 133 34
Amor m’à posto come segno a strale,
come al sol neve, come cera al foco,
et come nebbia al vento; et son già roco
donna, mercé chiamando, et voi non cale
(vv. 1-4)
indicando come fonte per il v. 3 Sap. 2.3 sicut nebula dissolvetur, sul
quale torneremo. Altrove osserva:
il binomio «nebbia/vento» non c’è nella Bibbia, ma il rapporto «polve-
re/vento» che il libro sacro descrive analiticamente nella sua dinamica
è ridotto dal poeta ai due termini:
«Triumphi», in J. Bartuschat - L. Rossi (a cura di), Studi sul canone letterario del
Trecento. Per Michelangelo Picone, Ravenna 2003, pp. 123-133 (p. 129). Per l’occor-
renza di Tr. Cup. Pacca in Pacca - Paolino, pp. 143-144, offre un’interpretazione
diversa dalla mia, parafrasando: «‘Pare che un analogo o f f u s c a m e n t o d e l l ’ i n -
t e l l e t t o oscuri ed eclissi l’illustre rinomanza del suo figlio più saggio’ […]. Salo-
mone, figlio di David, in tarda età si fece irretire da donne straniere, che lo spinsero
all’idolatria …». Si tratterebbe quindi di una caligo morale; ma l’accezione generica
che propongo mi sembra più diretta, e giustificata anche dalle altre due occorrenze
qui discusse.
33
Bettarini, p. 571.
34
G. Pozzi, Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia, «Studi petrarcheschi» n.s.
6, 1989, pp. 125-169 (p. 149); cfr. anche E. Giannarelli, L’immagine della neve al
sole dalla poesia classica al Petrarca: contributo per la storia di un «topos», «Quaderni
petrarcheschi» 1, 1983, pp. 411-452 (in part. pp. 122-123).
134
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
Per questi versi della canzone Solea da la fontana di mia vita, tuttavia,
non escluderei una memoria lucreziana, da quel quinto libro nel quale
si afferma la caducità del mondo: [pars terrai non nulla] p u l v e r i s
exhalat n e b u l a m nubesque volantis, / quas validi toto d i s p e r g u n t
a ë r e v e n t i (vv. 253-254); si valuti anche, ma con maggior cautela e
solo in virtù della vicinanza nel contesto, la possibile attrazione eser-
citata sul credo cristiano «poi che ’n terra morendo, al ciel rinacque»
(v. 28) dai versi [neque umorem dubitavi] a u r a s q u e p e r i r e, / atque
eadem gigni r u r s u s q u e a u g e s c e r e dixi (vv. 249-250).
«‘Nebbia’ e ‘polvere’ sono potentemente addossate all’Io che
fugge e si dissolve», travolto da un inarrestabile «fluctus animi, Spes
e Timor intrecciati», annota Rosanna Bettarini 36, ricorrendo ancora
alla matrice gnomica sapienziale che abbiamo visto agire nel devinalh.
La stessa et transibit vita nostra tamquam vestigium nubis, et sicut
nebula dissolvetur, combinata con Iob. 7.9 (sicut consumitur nubes
et pertransit, sic […]), alimenta nel sonetto 316 il «motivo della fuga
temporis, immerso nella cenere e nella polvere delle Scritture» 37:
ché, come nebbia al vento si dilegua,
così sua vita sùbito trascorse
quella che già co’ begli occhi mi scorse,
et or conven che col penser la segua.
(vv. 5-8)
35
Pozzi, Petrarca, i Padri cit., p. 148.
36
Bettarini, p. 1458.
37
Ivi, p. 1380.
38
Santagata, p. 1206; e si veda D. De Robertis, Il trittico del «T» (RVF 315,
316, 317), in Lectura Petrarce, XIX, Padova 1999, pp. 167-180 (alla p. 170).
135
Cristina Zampese
IV.
136
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
Fr. Ego vero tibi, tum pro aliis multis, tum pro hoc triduano colloquio
magnas gratias ago, quoniam et caligantia lumina detersisti et densam
circumfusi erroris nebulam discussisti. (Secr. 3, p. 280)
39
Ricchissimo il commento nell’edizione a cura di Fenzi, Secretum cit. Sul
Petrarca latino si veda anche V. Prosperi, «Curiositas» e «caligo». Sondaggi sulla
sopravvivenza di due «topoi» da Boezio a Tasso, «MD» 55, 2005, pp. 103-120.
40
G. Solimano, La prepotenza dell’occhio. Riflessioni sull’opera di Seneca,
Genova 1991, p. 100 nt. 8.
41
Per la quale rimando a E. Bigi, La canzone CXXIX, in Lectura Petrarce, III,
Padova 1983, pp. 9-30; poi in Id., Poesia latina e volgare nel Rinascimento italiano,
Napoli 1989, pp. 7-30.
42
M. Vitale, La lingua del Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta) di France-
sco Petrarca, Padova 1996, p. 518.
137
Cristina Zampese
43
Isid. diff. 1.42 Inter apricum et opacum […] opacum condensum est et
umbrosum.
44
Et ipse Deus revelabit eis condensa, idest ea quae aliis sunt abscondita (Mt. 11);
revelasti ea parvulis (Thomae Aquinatis In Psalmis Davidis Expositio, ad loc.).
45
Che però legge silvas anziché condensa (Enarr. in Ps. 28). Osservato tutto
ciò, non sarà forse azzardato ipotizzare che la scintilla creativa sia nata dalla lettura
di un passo descrittivo di Lucrezio: Fit quoque u t i m o n t i s v i c i n a c a c u m i n a
c a e l o / q u a m s i n t q u a e q u e m a g i s, tanto magis edita fument / assidue fulvae
n u b i s c a l i g i n e crassa, / propterea quia, cum consistunt n u b i l a primum, / ante
videre o c u l i quam possint, tenuia, venti / portantes cogunt ad summa cacumina
montis. / Hic demum fit uti turba maiore coorta / et c o n d e n s a queant apparere […]
(6.459-466).
46
Cfr. supra.
138
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
V.
Nella terza stanza della canzone 270, come abbiamo appena visto, il
traslato «nebbia» è connesso con quegli «sdegni» e con quelle «ire»
che abbiamo ricondotto al canone delle perturbationes: sofferenze
dell’animo qui sicuramente a carico dell’Io lirico, che solo il canto di
Laura (Laura come Casella 48 o magari come Orfeo?) può «serenare».
Senza dubbio imputabile a manchevolezza dell’Io è anche la «nebbia
di sdegni» che concorre con «pioggia» e «venti» – un trittico che si
ricorderà sperimentato nella sestina 66 – a ostacolare la navigazione
nella metafora continuata di Passa la nave mia (189):
Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte il verno,
enfra Scilla et Caribdi; et al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.
A ciascun remo un penser pronto et rio
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento humido eterno
di sospir’, di speranze et di desio.
47
Sulla storia redazionale di questa stanza cfr. L. Paolino, Appunti in mar-
gine alla canzone ‘Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo anticho (R.V.F. 270), «Studi e
problemi di critica testuale» 49, 1994, pp. 11-24. Il valore semantico che sto discu-
tendo corrisponde alle occorrenze dantesche di Pg. 1.97-99 («che non si converria,
l’occhio sorpriso / d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo / ministro, ch’è di quei
di paradiso») e Pg. 28.90 («e purgherò la nebbia che ti fiede»; con 81, «che puote
disnebbiar vostro intelletto»).
48
«Che mi solea quetar tutte mie doglie» (Pg. 2.108).
139
Cristina Zampese
49
Al quale si può accostare il 217, sull’«empia nube, che ’l [duro cor] rafredda
et vela» (v. 5).
50
Ciò non impedisce, come d’abitudine, che la costruzione macrotestuale
rifunzionalizzi, dislocandoli, i singoli testi.
140
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
VI.
Del tuono si è già detto. Sul presidio laurano qui dichiarato («l’ombra
ov’io fui, che né calor né pioggia / né suon curava»), e a chiosa della
celebre ammissione
51
Cfr: «Per lo migliore al mio desir contese / […] et co’ soavi sdegni / fecemi
ardendo pensar mia salute» (289.6 e 10-11). A questi e ad altri passi del Canzoniere
vanno accostate le rivelazioni di Laura apparsa «la notte che seguì l’orribil caso»
al suo fedele, che le rammenta i «dolci sdegni e le dolci ire, / le dolci paci ne’ belli
occhi scritte» (Tr. Mortis 2.82-83; e cfr. supra, nt. 15).
52
Santagata, p. 864.
53
«Questa [34*] e le due seguenti canzoni, adespote o attribuite al B., formano
nei mss. una piccola silloge di liriche dolorose e quasi di disperazione, con note ora
petrarchesche e ora boccacciane, ma non insolite nella rimeria del tardo Trecento»;
«Questa canzone [35*] per il tono generale sembra disdire meno delle altre due al
B.» (V. Branca [a cura di], G. Boccaccio, Rime, Milano 1992, alle pp. 323 e 325).
141
Cristina Zampese
VII.
54
Secretum 3, p. 248.
55
Dum spectant laesos oculi, laeduntur et ipsi, / multaque corporibus transitione
nocent (rem. 615-616).
142
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
56
Quasi tutti i commentatori; la sola Bettarini, p. 1064, parla di «nebbia di
separazione, di non-comunicazione, di rifiuto».
57
Che nel ventiquattresimo libro della Naturalis historia ricorda vari rimedi
contro le nubeculae, affezioni degli occhi, e le caligines visive.
143
Cristina Zampese
Nella pluralità delle fonti che concorrono alla ricca raffigurazione agi-
sce anche un carme minore di Claudiano, il Phoenix appunto:
[…] rutilo cognatum vertice sidus
attollit cristatus apex tenebrasque serena
luce secat. Tyrio pinguntur crura veneno.
(vv. 18-20)
58
A partire da Zingarelli. Sulla frequentazione petrarchesca del poeta latino,
cfr. L. Chines, Per Petrarca e Claudiano, «Quaderni petrarcheschi» 11, 2001,
pp. 43-71.
59
Il caerulus […] color di Claudiano è ricordato anche da Bettarini, p. 854.
60
«e ’l vago lume oltra misura ardea / di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi»
(90.3-4).
61
E Iam solitae medios alae transcurrere nimbos / v i x i m a t o l l u n t u r h u m o
(vv. 39-40): come per effetto della «nebbia […] gravosa» (Rvf 231.7).
144
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
62
Nel sonetto 188 Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo anche altre tessere
(«ombra», «colle») appartengono all’universo semantico che stiamo esplorando.
63
Phoenix, vv. 65-71, in part. 69-72 qui fuerat genitor, natus nunc prosilit
idem / succeditque novus: geminae confinia vitae / exiguo medius discrimine separat
ignis.
64
F. Zambon, Sulla fenice del Petrarca, in Miscellanea di studi in onore di Vit-
tore Branca, I. Dal Medioevo al Petrarca, Firenze 1983, pp. 411-425, ipotizza che
il simbolo feniceo prefiguri anche nelle rime «in vita» «il funereo destino della
donna» (p. 422), e osserva: «Non è forse un caso che Questa fenice (CLXXXV) sia
preceduto dal sonetto Amor, Natura e la bella alma humile (CLXXXIV), scritto per
una malattia di Laura» (ibid., nt. 25). Cfr. anche Id., Il mito della fenice nella poesia
romanza del medioevo, in L’alfabeto simbolico degli animali: i bestiari del medioevo,
Milano 2001, pp. 213-241 (per Petrarca, pp. 234-239).
65
Nei sonetti 320 Sento l’aura mia anticha, e i dolci colli e 321 È questo il nido
in che la mia fenice, significativamente preceduti dalle amare riflessioni di Al cader
d’una pianta che si svelse (318) e da un testo (I dì miei più leggier’ che nessun cervo,
319) che affida a un fittissimo reticolo di auctoritates, soprattutto bibliche, un tenta-
tivo di elaborazione del lutto.
66
Microscopiche tracce di contatto in quest’ultima direzione si potrebbero
ricavare dai testi vicini a 231, che fra l’altro entrarono nel Vat. Lat. 3195 (= V) nello
stesso giro d’anni di quelli intorno a 321 (1366-1369; ultimo 228, che nella «forma
Malatesta» andò a collocarsi nello spazio che in V era stato lasciato bianco fin dal
’69). Nell’ordine: il lauro piantato nel cuore in 228 (come in 318); le parole-rima
felice/radice in 229 (in 321 [fenice]/[elice]/radice/felice); la menzione di ali e piume
in 230 (penne e ali in 321).
145
Cristina Zampese
VIII.
67
Apollo, s’anchor vive il bel desio.
68
Il collegamento con l’«oscura notte» di 321 è suggerito da Bettarini,
p. 1985.
69
Il solo B. Martinelli, Veduta con naufragio: «Rerum vulgarium fragmenta»
CCCXXIII, 13-24, «Italianistica» 21, 1992, pp. 511-535, collega la «nebbia oscura»,
146
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
147
Cristina Zampese
71
Ibid.
72
M. Santagata, Il naufragio dei simboli (R.v.f. 323), «Cenobio» 41/2, 1992,
pp. 133-151; poi «Chroniques italiennes» 41, 1995, pp. 19-41 (da cui, p. 40, cito);
infine come capitolo sesto, Il lutto dell’amante, in Id., Amate e amanti. Figure della
lirica amorosa fra Dante e Petrarca, Bologna 1999, pp. 195-221. Di recente ne è stata
proposta una lettura sacrale attraverso il filtro dell’Apocalisse: cfr. M.E. Raja, Per
Euridice (nel Trecento), in Ead. Il dolce inmaginar. Miti e figure della poesia trecente-
sca, Piacenza 2005, pp. 97-120.
73
Santagata, Il naufragio dei simboli cit., p. 35.
148
«Nebbia» nei «Rerum vulgarium fragmenta»
Benché non gli venga attribuita esplicitamente alcuna colpa 76, l’Io/
Orfeo del Petrarca assiste sconfitto al rovinoso dissolversi dei simboli.
Lo scarto vincente è affidato invece al personaggio femminile, che è
74
Vitale, La lingua del Canzoniere cit., pp. 509 e 520. L’unica altra atte-
stazione volgare (Tr. Famae 1.71: episodio di Curzio) rimanda come un’omologa
occorrenza dell’Africa (3.558) a una stratificazione di fonti storiche.
75
«Chi pon freno a li amanti, o dà lor legge?» (222.9).
76
Ma l’adesione assorta alle lusinghe della contemplazione («che dal mondo
m’avean tutto diviso», 323.30, come la «turba» di Pg. 2) riceve di volta in volta una
sorta di sanzione dalle considerazioni accorate nella chiusa di ciascuna stanza, in
particolare le due gnomiche ai vv. 36 («ché simile ombra mai non si racquista») e 72
(«Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!»).
149
Cristina Zampese
*
* *
Dedico questo studio petrarchesco al mio maestro, Emilio Bigi (1916-
2009).
77
Ancorché non definitivo: cfr. 332.49-52: «Or avess’io un sì pietoso stile /
che Laura mia potesse tôrre a Morte, / come Euridice Orpheo sua senza rime, /
ch’io viverei anchor più che mai lieto!».
150
Parte seconda
il cinquecento
Davide Colombo
«Aristarchi Nuovi ripresi»
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico
nella trattatistica del Cinquecento
1. Premessa
1
N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini
(1513-1527), a cura di G. Inglese, Milano 19962, p. 195.
2
A. Quondam, Note su imitazione e «plagio» nel classicismo, in AA.VV., Son-
daggi sulla riscrittura del Cinquecento, a cura di P. Cherchi, Ravenna 1998, pp. 11-26
(la citazione è a p. 15). Di Quondam si veda anche Classicismi e Rinascimento: forme
153
Davide Colombo
154
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
6
Nel De Poeta, Venetiis 1559, p. 66 (d’ora in poi siglato DeP), Agostino Nifo
è definito «peripateticum […], omnium consensu in ea facultate [philosophia]
principem»; lo stesso giudizio in A. Minturno, Lettere, Vineggia 1549, p. 112v; cfr.
poi A. Pattin, Un grand commentateur d’Aristote: Agostino Nifo, in B. Mojsisch -
O. Pluta (edd.), Historia philosophiae medii aevi: Zur Geschichte der Philosophie
des Mittelalters, II, Amsterdam - Philadelphia 1991, pp. 787-803. Per l’aristote-
lismo minturniano si veda almeno B. Hathaway, The Age of Criticism: The Late
Renaissance in Italy, Ithaca - New York 1962, pp. 225-228.
7
Le date suggeriscono una sfasatura fra biografia reale e biografia letteraria:
Giraldi era nato nel 1504; il culmine della carriera d’un autore come Minturno, nato
nel 1500, se non prima, s’inizia nel 1559, col De Poeta. A dire il vero già negli anni
Venti Minturno aveva completato una poetica in volgare, oggi perduta, l’Accademia;
inoltre, una lettera del 1541 sembrerebbe provare che a quella data il De Poeta era
in una fase compositiva relativamente avanzata. Su questi problemi intervengono
G. Belloni, G. Andrea Gesualdo e la scuola a Napoli, in Laura tra Petrarca e Bembo.
Studi sul commento umanistico-rinascimentale al Canzoniere, Padova 1992, pp. 189-
225, e F. D’Alessandro, Il Petrarca di Minturno e Gesualdo. Preistoria del pensiero
poetico tassiano, «Aevum» 79, 2005, pp. 615-637. Molte pagine dell’Arte poetica
sono la traduzione o l’adattamento di altre del De Poeta, per cui i due trattati affron-
tano sovente gli stessi temi – ad esempio la legge delle cinque uscite (DeP 255 =
AP 158) – ma solo l’Arte poetica risente delle precisazioni giraldiane, che non sareb-
bero sfigurate nel trattato latino: quindi Minturno lesse i Discorsi cinziani d o p o
aver scritto il De Poeta.
8
G. Ferroni - A. Quondam, La «locuzione artificiosa». Teoria ed esperienza
della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma 1973, p. 25. Fa perno sull’ecletti-
smo del De Poeta il mio saggio, La cultura letteraria di Antonio Minturno, «Giornale
storico della letteratura italiana» 181, 2004, pp. 544-557.
155
Davide Colombo
9
Lo ha chiarito G. Mazzacurati, Prologo e promemoria sulla «scoperta»
della Poetica (1500-1540), in Id., Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli 1977,
pp. 1-41 (la citazione è a p. 22).
10
G. Alfano, Dioniso e Tiziano. La rappresentazione dei «simili» nel Cinque-
cento tra decorum e sistema dei generi, Roma 2001, p. 145.
11
S. Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinasci-
mentali (1540-1560), Napoli 1996, p. 155.
12
«Per l’auttorità degli scrittori et per l’uso introdutto (dal quale sarebbe pre-
suntione a partirsi)» (DCT 105) i romanzi sono scritti in ottave, che per Giraldi
producono diletto negli ascoltatori e garantiscono riposo alla fine di ogni stanza.
Quando tratta dell’ottava Minturno riprende questi argomenti (AP 264-265) e
quindi si trova costretto a preferire i modelli alla norma tutte le volte che il suo
trattato assume la forma di grammatica descrittiva della poesia.
13
G.B. Pigna, I Romanzi, a cura di S. Ritrovato, Bologna 1997 (indicato in
seguito con Rom.).
156
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
14
I trattati di Giraldi e del Pigna ebbero una comune incubazione in discorsi
orali, nati in ambito didattico forse nel segno di Ariosto, ma poi slittati su un tono
familiare: da qui deriva quella «intavolatura argomentativa in buona parte comune»
poi sviluppata da entrambi gli autori in autonomia, come scrive S. Benedetti,
Accusa e smascheramento del «furto» a metà Cinquecento: riflessioni sul plagio critico
intorno alla polemica tra G.B. Pigna e G.B. Giraldi Cinzio, «Studi (e testi) italiani» 1,
1998, pp. 233-261 (p. 235).
15
Le più esaustive analisi delle assonanze tra Romanzi e Discorso dei romanzi
sono condotte da A. Boilève-Guerlet, Le genre romanesque: des théories de la
Renaissance italienne aux réflexions du XVII e siècle français, Santiago de Compostela
1993, pp. 71-98, e da Jossa, Rappresentazione e scrittura cit., pp. 139-252.
16
I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, I, Milano 1995, p. 693.
17
«Il bisogno di modernità» si stagliava già nella prima pagina della ricerca
di C. Guerrieri Crocetti, G.B. Giraldi ed il pensiero critico del sec. XVI, Milano -
Genova - Roma - Napoli 1932. In seguito diversi studiosi hanno compendiato il
riuso cinziano dell’antico attribuendo o togliendo a Giraldi la patente di modernista:
157
Davide Colombo
cfr. ad esempio infra, nt. 20. In realtà, a seconda della visuale da cui lo si studia il
Cinzio può apparire antico o moderno, poiché da buon classicista crede che le let-
tere saranno moderne purché tornino a esser antiche.
18
Nella ricostruzione di A. Quondam, Rinascimento e Classicismo. Materiali
per l’analisi del sistema culturale di Antico regime, Roma 1999, che tra l’altro offre
stralci generosi dell’Arte poetica, questa assurge a «standard paradigmatico», in
senso anche compilativo e divulgativo, dell’estetica classicistica allo zenit della sua
parabola. Si veda infra, nt. 42.
19
Il quadro di riferimento è tracciato da D. Javitch, Ariosto classico. La cano-
nizzazione dell’Orlando Furioso, Milano 1999.
20
Secondo M. Bouchard, L’unité d’action face à la modernité de Giraldi Cinzio.
Le Discours sur la composition des Romants (1554) et la tradition narrative française,
«Quaderni d’Italianistica» 24, 2003, pp. 97-108, il Cinzio andrebbe ricollocato
nella lotta tra Antichi e Moderni per il suo rifiuto, appunto moderno, dell’unità
d’azione.
21
La metafora dei vestigia – nota caratteristica del lessico critico cinziano:
cfr. infra, nt. 53 – è la levatrice del riuso dell’antico nel Discorso dei romanzi. Nella
lettera del 25 luglio 1548 (pubblicata in G.B. Giraldi Cinzio, Carteggio, a cura di
S. Villari, Messina 1996, pp. 224-225), il Pigna chiede a Giraldi un parere per
potersi difendere contro i «morditori dell’Ariosto», i quali l’accusavano tra l’altro
di questo, «ch’egli non abbi seguitato le vestigia degli antichi poeti». La risposta
di Giraldi rappresenta un primo abbozzo d’idee ch’egli promette di sviluppare.
Nell’ambito della contesa con l’ex maestro il Pigna smentisce però d’aver scritto
158
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
non debbono gli auttori che sono giudiciosi et atti a comporre, così
stringere la loro libertà fra i termini di chi prima di loro ha scritto,
che non ardiscan porre un piè fuori dell’altrui orme; che oltre che ciò
sarebbe male usare i doni c’havesse a loro dati la madre Natura, aver-
rebbe anco che la poesia mai non uscirebbe di que’ termini, i quali le
havesse posto uno scrittore, né più oltre moverebbe il piè di quello che
l’havessero fatta caminare que’ primi padri. (DR 54)
quella lettera, allo scopo di negare a Giraldi la priorità cronologica nella trattazione
dei romanzi.
22
Bernardo Tasso assume la posizione modernista proprio in una lettera a
Giraldi, edita nel Carteggio di questi (supra, nt. 21) alle pp. 289-293, e dedicata al
tema del titolo da dare a un poema: i «termini» della norma dei grandi scrittori sono
inviolabili, ma questo non vale per l’Amadigi, diverso dai poemi di quegli scrittori
e perciò non sottoposto alle loro regole (ivi, p. 291). Pur senza abbandonare Ari-
stotele, il Pigna ripete: «io non lodo lo star più ne’ termini della passata poesia»
(Rom. 51).
23
La poligenesi ideativa simboleggiata dall’ape è sondata da V. Gallo, Da
Trissino a Giraldi. Miti e topica tragica, Manziana 2005, la più aggiornata disamina
159
Davide Colombo
del riuso dell’antico da parte del Cinzio coturnato. Già Bartolomeo Lombardi,
nella Praefatio al commento scritto con Vincenzo Maggi, In Aristotelis librum De
Poetica communes explanationes, Venetiis 1550, p. 6, paragona Virgilio all’ape per
sottolinearne la capacità di prendere il meglio di tutte le arti. Nella prima parte
della Praefatio Lombardi sostiene un principio storicista (i poeti del presente pos-
sono superare quelli del passato), ma su base aristotelica (è necessario però ch’essi
seguano la Poetica dello Stagirita). Condizionano in parte l’analisi gli stessi problemi
che poi agitano il Cinzio: (1) Virgilio e le arti; (2) il rapporto antichi-moderni.
Lombardi e Giraldi sono divisi dal ruolo da assegnare ad Aristotele: assoluto per
Lombardi, esegeta aristotelico; relativo per Giraldi, convinto che il romanzo non
soggiaccia alle leggi del filosofo.
24
La matrice culturale del locus di AP 445 sulle api è però diversa, petrar-
chesca, come ha chiarito A. Afribo, Teoria e prassi della gravitas nel Cinquecento,
Firenze 2001, pp. 64-65. Dell’imitazione eclettica in Minturno discute B. Grazioli,
L’Amore innamorato di Antonio Minturno, in AA.VV., Il prosimetro nella letteratura
italiana, a cura di A. Comboni - A. Di Ricco, Trento 2000, pp. 351-401.
25
Si tenga comunque presente che nel secondo libro dei Romanzi Ariosto,
benché imitatore di Omero e di Virgilio, è appunto «l’ape» capace di selezionare il
meglio della tradizione romanzesca (Rom. 78), lo scrittore «prattico in assai scienze»
(ivi, p. 84).
160
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
26
Scrive Giraldi che «dee essere a gran cura al poeta ch’egli [il soggetto della
composizione poetica] sia tale che […] possa piacere in ogni tempo, non pure a’
dotti, ma a tutti gli huomini di quella favella nella quale egli scrive» (DR 26). A
parere del Pigna «lo scrittor de’ romanzi […] pone le cose più chiaramente, percio-
ché finge d’esser ascoltato e da intendenti e da poco dotti» (Rom. 138).
27
La riscoperta della Poetica d’Aristotele nel secondo Cinquecento e i susse-
guenti commenti neoaristotelici collidono col successo di vendite dei romanzi, in
particolare del Furioso, superiore a quello del già canonizzato Petrarca, malgrado
161
Davide Colombo
162
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
che descrive una sola azione; invece il poeta che volesse comporre un
romanzo dedicato alle molte azioni d’un uomo illustre – come chi ha
scritto di Ercole o di Teseo, oppure come Stazio, che ha scritto di
Achille – potrebbe incominciare non in medias res, bensì dall’inizio
della vita dell’eroe (DR 31). È vero che Aristotele loda Omero per non
aver raccontato tutta la guerra di Troia, perché altrimenti l’intreccio
sarebbe stato troppo lungo; tuttavia «vi sono mille modi di accorcia-
re la lunghezza dell’opera» (DR 32), come ha mostrato Ovidio nelle
Metamorfosi. Omero, che scrive un poema d’una sola azione, fa bene
a cominciare l’Iliade non dall’inizio della guerra di Troia, ma dall’ira
di Achille; nondimeno Dione Crisostomo lo riprende per non aver
cominciato dall’inizio (DR 34).
Ora il brano dell’Arte poetica diventa più comprensibile: se è vero
che bisogna cominciare in medias res, Minturno si chiede per quale
motivo siano comunque considerati poeti molti che non l’hanno fatto,
l’autore dell’Eracleida, quello della Teseida, Ovidio, Stazio, tutti nomi
già messi in fila da Giraldi. E giraldiano, con convergenze letterali in-
dubitabili, è il rimando a Dione Crisostomo, critico dell’Iliade e quin-
di dell’impostazione aristotelica:
Dione Chrisostomo, philosopho eccellente, biasima Homero che, nel
descrivere la ruina di Troia, non cominciasse dal principio et dall’ori-
gine della guerra. (DR 34)
Dione mostra di non aver chiara la differenza tra storico e poeta: gli
autori citati scrivono infatti storie in versi, ed Ovidio nelle Metamor-
163
Davide Colombo
fosi narra una storia favolosa (AP 34). A Giraldi che sostiene che i
poemi a più azioni sono simili alla storia, e quindi possono narrare
i fatti dall’inizio 29, Minturno ribatte secondo Aristotele che v’è una
differenza noumenica fra storico e poeta e che questa non consiste
nell’uso del verso: ad Ovidio non basta versificare nelle Metamorfosi
i racconti di scrittori greci per esser ritenuto poeta (AP 34) 30. È la
gente comune, continua Minturno, che chiama poeti coloro che scri-
vono in versi; ma questo, conclude, è un punto già indagato nel suo
precedente trattato latino, il De Poeta 31. Quel che Minturno non può
sapere è che il riuso cinziano dell’antico assume talvolta la funzione
strumentale-giustificativa di codificare la poetica in funzione della
poesia: Giraldi avrebbe voluto accludere a una nuova edizione dei Di-
scorsi la famosa lettera a Bernardo Tasso del 1556, in cui si legge che
il Discorso dei romanzi è stato scritto «per render conto» della coeva
stesura dell’Ercole 32.
29
È opinione di Giraldi che «come la compositione della historia si comin-
cia dal principio delle cose, così i componimenti delle attioni di tutta la vita di un
huomo hanno origine dal principio de’ suoi fatti illustri» (DR 31). Secondo il Pigna,
invece, proprio per non somigliare a uno storico non si dovrà raccontare dal «primo
principio» (Rom. 40). Aristotele dice sì che la storia racconta più azioni, ma non che
debba raccontarle dall’inizio.
30
Al pari di Minturno, anche Sperone Speroni, nel frammento De’ Romanzi
(pubblicato nel quinto volume delle sue Opere, Venezia 1740, pp. 520-522), impu-
gna contro Giraldi il discrimine aristotelico poesia/storia – verso/non verso: «è una
gagliofferia il dir come dice il Giraldo de’ romanzi: perché romanzi sono eroici, che
sono poemi, o sono istorie in verso, e non poemi: come son le tragedie e commedie
in prosa, che sono dialoghi, non poemi» (ivi, p. 521). Si vedano J.L. Fournel, Il
«camaleonte» e il «cuoco». Sperone Speroni e la critica del romanzo, «Schifanoia» 12,
1991, pp. 105-109, con cenni a Minturno; Jossa, Rappresentazione e scrittura cit.,
pp. 193-215.
31
Idque, mea quidem sententia, non recte, cum Poetae ut posita vis est in effin-
gendo, ita nomen ab eo quod effingitur sit deducendum, ut qui non utatur imitatione,
eo nomine haudquaquam proprie sit appellandus […]. Itaque, sive unius generis
versus ad scribendum assumant […], sive multorum generum […], nisi imitentur,
neutiquam poetae vocabuntur (DeP 26). Tra gli autori considerati poeti dal volgo
perché scrivono in versi (AP 34), figurano Arato e Nicandro, già accomunati da Cic.
de orat. 1.69, il modello strutturale del De Poeta (cfr. D. Colombo, La struttura del
De Poeta di Minturno, «Acme» 55, 2002, pp. 187-200).
32
Giraldi, Carteggio cit., p. 284. Della tendenza a codificare la poetica in fun-
zione della poesia il saggio di D. Javitch Self-justifying Norms in the Genre Theo-
ries of Italian Renaissance Poets, «Philological Quarterly» 67, 1988, pp. 195-217,
ha fatto uno dei perni interpretativi del Discorso delle commedie e delle tragedie di
164
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
Giraldi parla d’inizio in medias res nella sezione dei Discorsi dedi-
cata alla dispositio: difatti la dispositio dei romanzi, poemi a più azioni,
richiede due tecniche non adottate dai poemi ad azione unica come
quelli di Omero e di Virgilio (DR 51-54). La prima tecnica consiste
nell’intervento della voce narrante a inizio canto; la seconda, denomi-
nata nei romanzi francesi entrelacement (Giraldi preferisce «rompi-
menti»), è l’interrompere e il riprendere gli episodi senza svilupparli
in modo continuo. Giraldi, seguìto da non pochi studiosi di oggi, giu-
stifica la seconda tecnica in quanto mezzo per rafforzare la suspense:
[gli scrittori di romanzi] in questo loro troncar le cose conducono il
lettore a tal termine, prima che le tronchino, che gli lasciano nell’ani-
mo un ardente desiderio di tornare a ritrovarla. (DR 53)
Minturno contesta che interrompere più volte il corso del dire tenga
desta l’attenzione:
Né truovo esser vero che l’attentione più se n’accenda, ma più tosto
se ne spenga: conciosiach’ella se n’infiammi col desio d’intenderne il
fine, non quando si tralascia la cominciata narratione per un’altra, ma
quando per molti accidenti a quella istessa materia appertenenti s’in-
dugia la finale essecutione. (AP 35)
165
Davide Colombo
da più un gigante che un pigmeo, ed essendo che la beltà più nell’esser grande con-
siste che ben lineato» (Rom. 49). Ribatte Minturno: «né se il gigante è più bello del
pimmeo e meglio è che si pecchi in grandezza che in picciola statura, parrà miga
bello l’animale che senza misura sia grande e con le membra le quali tra loro non
habbiano proportione» (AP 32).
34
Al pari del Pigna, Minturno rifiuta l’estensione cinziana al romanzo del
principio aristotelico per cui le tragedie possono esser inventate. A dire il vero
Aristotele, in riferimento a una tragedia per noi perduta, il Florindo (o Fiore) di
Agatone, osserva che i nomi degli eroi di quella tragedia sono inventati quanto gli
eventi e che, mentre la maggior parte della tragedie greche si basa su racconti tradi-
zionali, racconti puramente inventati ci danno un piacere non minore (Poet. 1451b).
Giraldi allarga tale marginale concessione (la favola inventata dà un piacere non
minore rispetto a quella storica) sino a farne una regola centrale della sua teoria. Di
contro, per il Pigna «Agatone loda non merita con questa sua popolaresca novità»
(Rom. 25). Per Minturno, benché il trageda scriva talvolta di cose nuove, «lo scrittor
de’ romanzi, senza haver punto riguardo alla verità, finge quel che non fu mai»
(AP 29), e questo è inaccettabile.
35
Penalizzato da drammaturghi che vogliono scrivere senza sapere «l’arte»:
si confronti «mi è stato grato che non habbiate voluto mettervi a comporre (come
veggio fare a molti hoggidì) senza saperne l’arte» (DCT 207), con «io domanderò
della scenica poesia: percioché a’ nostri tempi molti ne scrivono senz’arte» (AP 64).
36
La vicenda tragica finisce nel momento in cui giunge dalla sventura a uno
stato felice, o dalla felicità alla sventura: questa frase aristotelica (Poet. 1451a), in cui
il lieto fine e il suo contrario paiono alternative in ugual modo legittime, ha forse
aperto la strada alla cinziana tragedia a lieto fine, accanto alla tragedia tout court.
Aristotele si limita ad affermare che l’agnizione migliore nasce dalla vicenda stessa,
come nell’Edipo re di Sofocle e nell’Ifigenia in Tauride di Euripide (Poet. 1455a): e
166
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
dato che l’Ifigenia finisce bene, Giraldi si sente autorizzato a scrivere che l’agnizione
migliore è appunto quella propria delle tragedie a lieto fine (DCT 235).
37
Dice bene C. Molinari, Scenografia e spettacolo nelle poetiche del ’500, «Il
Veltro» 8, 1964, pp. 885-902, a p. 897: «non gli [a Giraldi] interessa infatti tanto
interpretare l’esatto significato del noto passo aristotelico [sul tempo], quanto piut-
tosto dar rilievo al fatto che nelle due o tre ore in cui si svolge la rappresentazione si
racchiude un lasso di tempo comunque assai più lungo: non si tratta quindi di una
questione letteraria, ma al contrario squisitamente scenica: il tempo in cui si svolge
l’azione teatrale è diverso da quello reale e concretamente misurabile».
38
Così ha scritto anche A. Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo
di rappresentare le favole sceniche, a cura di M.L. Doglio, Modena 1989, p. 13: «non
devendo la rappresentazione con tutti i cori overo gl’intermedi ancora durar più di
tre ore e mezza in quattro; e quella che arriverà alle cinque, per dilettevole ch’ella
sia, non ischiferà il tedio di molti degli uditori». La committenza ducale pretende
però una durata di sei ore per la Cleopatra (DCT 210) e per la Didone (Giraldi,
Carteggio cit., p. 169).
167
Davide Colombo
39
A detta di S. Di Maria, The Italian Tragedy in the Renaissance. Cultural
Realities and Theatrical Innovations, Lewisburg - London 2002, pp. 37-46, una
rappresentazione teatrale del Cinquecento doveva essere così lunga da assolvere il
ruolo di evento politico-culturale unico, pensato per un pubblico nobile, abbastanza
educato per apprezzare la prevalenza della parola sull’azione.
40
Don. ad Ter. Andr. praef. 2 (3) principio dicendum est nullam personam
egressam quinquies ultra exire posse.
41
Giraldi, che attribuisce tale legge ai «grammatici» connettendola al numero
degli atti, è il primo studioso rinascimentale ad osservare però che Davo nell’An-
dria si presenta in scena sette volte, Cremete nell’Heautontimorumenos ben otto.
Nell’Arte poetica Angelo Costanzo interpreta come suo solito la parte di Giraldi,
senza però giungere all’identica conclusione per il fatto che al Davo dell’Andria
Minturno attribuisce un’uscita in meno.
42
Il classicismo ortodosso propugnato per il romanzo lascia dunque il posto
a una prospettiva più tollerante: che Minturno sia tradizionalista sul romanzo non
significa che lo sia sempre, con la stessa logica suggerita per Giraldi supra, nt. 17.
Serve perciò prudenza nell’opporre il «dogmatismo de Minturno» allo «espíritu
innovador y antiautoritario» di Giraldi, come scrive invece L. Beltrán Almería, La
teoría de la novela de G.B. Giraldi Cintio, «Romanische Forschungen» 108, 1996,
168
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
pp. 23-49, a p. 48. Le aperture di Minturno alla modernità sono rilevate da Afribo,
Teoria e prassi cit., p. 138, e Alfano, Dioniso e Tiziano cit., p. 120 nt. 32, sulla
scia di Benedetto Croce. Vida, Minturno, Castelvetro, Patrizi e altri trattatisti erano
infatti per Croce «i primi arditi sistematori della Poetica, i primi che cercarono di
costituire un corpo di dottrine logicamente connesse, le quali, certamente, dovevano
essere in seguito superate, ma furono tuttavia il punto d’appoggio pel progresso
e pel superamento: non pedanti, dunque, ma uomini d’ingegno; non retrivi, anzi,
secondo consentiva il loro tempo, novatori» (cfr. B. Croce, Di un giudizio romantico
sulla letteratura classica italiana, in Id., Problemi di estetica e contributi alla storia
dell’estetica italiana, Bari 1923, p. 458).
43
M. Lamagna, Un precetto donatiano, la divisione in atti ed un critero estetico
rinascimentale, «AAP» 42, 1993, pp. 65-100, ha avuto il merito di focalizzare la
«sottintesa polemica letteraria» di Minturno nei confronti di Giraldi riguardo alla
legge delle cinque uscite; non ha però chiarito a sufficienza i luoghi dei Discorsi che,
alimentando quella polemica, permettono l’identificazione di Giraldi come obiet-
tivo.
44
Il Pigna accusa Giraldi d’ignorare il greco nell’ambito della nota diatriba;
al riguardo mi permetto di rimandare al mio La postilla sulla morte in scena nei
«Discorsi» di Giraldi Cinzio, in AA.VV., Per Franco Brioschi. Saggi di lingua e let-
teratura italiana a cura di C. Milanini - S. Morgana, Milano 2007, pp. 137-147.
Noto solo che nell’Arte poetica Angelo Costanzo, assunti i panni consueti di Giraldi,
ripropone la tesi cara al Cinzio e al Pigna, che la morte può avvenire in scena a
condizione che non sia crudele. Il rifiuto minturniano di rappresentare sul palco la
morte di un personaggio si basa sulle fonti consuete, Aristotele in primis (AP 91).
169
Davide Colombo
45
B. Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, I-II,
Chicago 1961.
46
Poet. 1453a e Maggi, Explanationes cit., p. 155. Si consulti anche la mia
Introduzione a G.B. Giraldi Cinzio, Arrenopia, Torino 2007, pp. VIII e XI.
170
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
47
Cfr. A. Pertusi, Il ritorno alle fonti del teatro greco classico: Euripide
nell’Umanesimo e nel Rinascimento, «Byzantion» 33, 1963, pp. 391-426; ma soprat-
tutto P. Cosentino, Cercando Melpomene. Esperimenti tragici nella Firenze del
primo Cinquecento, Manziana 2003. Tra quanti si cimentano con traduzioni euri-
pidee spicca il nome di Erasmo da Rotterdam: le sue traduzioni latine dell’Ecuba
e dell’Ifigenia in Aulide, uscite a Parigi nel 1506 e a Venezia nel 1507, lodate da
Giraldi nel Giudizio d’una tragedia di Canace e Macareo (1550), contribuiscono alla
rinascita del genere tragico (cfr. E. Rummel, Erasmus as a Translator of the Classics,
Toronto - Buffalo - London 1985; Erasmo Desiderio da Rotterdam, Tragedie di
Euripide. Hecuba-Iphigenia in Aulide, a cura di G. Bárberi Squarotti, introduzione
di F. Spera, Torino 2000).
48
Era stato il Pigna a scrivere invece che «l’Odissea festevolmente e gioiosa-
mente finisce intorno ad Ulisse e ad Elena, ma intorno a i Proci in doglianza e in
angosce si risolve, ed è perciò doppia» (Rom. 29).
171
Davide Colombo
Minturno pensa che non sia la conclusione felice o infelice della favola
a renderla doppia:
a quel philosopho [Aristotele] non la felicità de’ buoni e la infelicità
de’ rei nel fine faccia doppia la favola, ma senza dubbio il riconciliarsi
tra loro i nimici, et il finire in pace et in allegrezza. (AP 86)
49
G. Toffanin, La fine dell’umanesimo, Manziana 1991-1992 (19201), pp. 41-42.
50
Hathaway, The Age of Criticism cit., p. VI.
172
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
insegnataci da’ savi antichi qual nell’opere de’ sommi poeti la trova-
rono, tanto arditi e presontoosi non certamente sarieno, che non si
vergognassero di riprendere immoderatamente Euripide e Sophocle, i
nomi de’ quali devrieno havere in somma riverenza; né di trovar nuove
poesie, come se l’antiche non fussero di molto pregio. (AP 88)
51
La definizione è di M. Ariani, La tragedia, in Storia di Ferrara, VII. Il Rina-
scimento. La letteratura, coordinamento scientifico di W. Moretti, Ferrara 1994,
pp. 380-406, a p. 384. Nei Discorsi il primo riferimento congiunto a Sofocle ed Euri-
pide è sfavorevole (DR 42), in virtù della considerazione che tutti i poeti presentano
aspetti deteriori da non imitare. Inoltre i princìpi stabiliti da Aristotele valgono solo
per le poesie dei tempi suoi, non, come s’è visto, per il romanzo: questo è l’arco
di volta del classicismo progressista cinziano. Giraldi non ha comunque quella
perentorietà di giudizio che Minturno gli attribuisce, dal momento che le pagine
sull’Ecuba terminano con una professione di relativismo critico: «quello che di ciò
sia da determinare il lascio io (come academico in questa parte) al giudicio de’ più
dotti di me» (DCT 267).
52
L. Riccò, Il teatro «secondo le correnti occasioni», «Studi italiani» 17, 2005,
pp. 5-39 (p. 10).
173
Davide Colombo
53
Scrive Orazio: Nil intemptatum nostri liquere poetae / nec minimum meruere
decus vestigia Graeca (ars 285-286). Le parentesi uncinate segnalano le integrazioni
della Villari alle postille di Giraldi ad un esemplare dei Discorsi conservato all’Ario-
stea di Ferrara e mutilato dalla rifilatura di uno sventato rilegatore.
54
In Teatro del Cinquecento, I. La tragedia, a cura di R. Cremante, Milano -
Napoli 1988, pp. 436-437: «ben pazzo fora / colui il qual, per non por cosa in uso /
che non fosse in costume appo gli antichi, / lasciasse quel che ’l loco e ’l tempo
chiede / senza disnor». La rivendicazione di libertà inventiva a causa delle mutate
condizioni di vita è un topos dei prologhi comici primo-cinquecenteschi: basti
vedere il dialogo tra Prologo e Argomento della Strega del Lasca, stampata nel 1582.
Nondimeno la rivendicazione di libertà nasce nel caso della commedia dall’assenza
di regole, nel caso di Giraldi dalla volontà di non assolutizzare regole d’incipiente
affermazione.
55
R. Scrivano, Classicismo ed esotismo nelle tragedie di Giambattista Giraldi
Cinzio, in AA.VV., Regards sur la Renaissance italienne. Mélanges de Littérature
offerts à Paul Larivaille, Études réunies par M.-F. Piéjus, Nanterre 1998, pp. 229-
236, a p. 233.
56
Valgano le indicazioni di E. Raimondi, Dalla natura alla regola, in Id., Rina-
scimento inquieto, Palermo 1965, pp. 7-21; C. Dionisotti, Geografia e storia della
letteratura italiana, Torino 1967; G. Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni. La
crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna 1985.
57
G. Mazzacurati, Aristotele a corte: il piacere e le regole (Castelvetro e l’edo-
nismo), in Id., Rinascimenti in transito, Roma 1996, pp. 131-157 (p. 147).
174
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
Nel teatro cinziano come in quello antico, età, sesso e status socia-
le, le uniche informazioni di solito fornite sui personaggi del dram-
ma oltre a qualche cenno sulla loro indole 59, sono valutate col me-
tro della convenienza, «categoria al tempo stesso retorica ed etica,
o meglio adattamento etico (generalizzante) di un principio retorico
(particolareggiante)» 60. La commedia non approva una «giovane ver-
gine o polzella» nelle vesti di personaggio, a meno che, come Plauto
meglio dimostra rispetto a Terenzio, ella sia non libera, ma «esposta»;
d’altra parte non è contrario al decoro che nella commedia recitino
madri di famiglia accorte, sagge, non toccate dalla passione amorosa.
È questa una delle differenze fra tragedia e commedia: la tragedia,
infatti, accetta da una parte le giovani, dall’altra gli amori scellerati di
donne gravi quali Fedra e Clitemnestra. Giraldi spiega che una donna
di giovane età può esser rappresentata in una tragedia ma non in una
commedia «per la ragion della scena, et per la ragion delle persone
in essa introdotte, et per gli ragionamenti che vi si fanno». La scena
comica, che accoglie «persone di lasciva et di dishonesta vita» e i loro
discorsi licenziosi, non s’addice al «decoro di una giovane vergine»;
58
Jossa, Rappresentazione e scrittura cit., p. 216.
59
È una delle fratture fra teatro antico e moderno-shakespeariano secondo
E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur,
Bern 1946 (ed. ital. Torino 1956, II, p. 71). Si consideri quanto osservano M. Mor-
rison e P. Osborn nella Nota bibliografica della loro edizione della Cleopatra di
Giraldi, Exeter 1985, pp. VIII-IX: «Giraldi viene biasimato e criticato per non
essersi adeguato a quelle che sono essenzialmente esigenze moderne nei confronti
del teatro – creazione di personaggi, azione diretta, confronto drammatico e con-
flitti psicologici. Queste caratteristiche […] non compaiono in nessuna tragedia del
sedicesimo secolo».
60
A. Quondam, Magna & minima moralia. Qualche ricognizione intorno
all’etica del Classicismo, «Filologia e critica» 25, 2000, pp. 179-221 (p. 207).
175
Davide Colombo
per contro le persone reali della tragedia non ragionano di cose lascive
e agiscono perlopiù nella corte 61.
Nell’Arte poetica chiara si rinnova una partizione di ruoli: Angelo
Costanzo fa sue le domande avanzate da Giraldi, Minturno dà rispo-
ste dissonanti rispetto a quelle giraldiane. Il primo dubbio riguarda le
«differenze» tra le «persone che nella scenica poesia si introducono»:
ho veduto che nella comedia non apparisce, né viene in scena a ragio-
nare, donzella la qual sia libera; e s’alcuna vi se ne ’ntroduce, come
nella plautina poesia veggiamo, benché nella terentiana non si vegga,
è divenuta serva; là dove nella tragedia fanciulle vergini non una volta
si rappresentano, quali furono Elettra, Antigone, Ismene, Iphigenia,
Polyssena, et altre simili. Nella comedia anchora non truovo donna
maritata la qual honesta e pudica non sia; come che nella tragedia non
una impudica e scelerata se ne mostri, qual fu Clytennestra e Phedra.
(AP 119)
61
Il principio del decoro dei personaggi femminili è riscontrato dal Cinzio sul
teatro classico, dal Pigna sull’ariostesco (DCT 301 e Rom. 114-115). Lo svolgimento
è pressoché corrispondente nei due trattati, che concludono notando che una donna
può calcare le scene comiche solo se nelle mani d’un ruffiano. Allo stesso modo il
Pigna verifica nella Lena di Ariosto il divieto evanziano agli attori di rivolgersi agli
spettatori (Rom. 116-118). In materia il Cinzio e il Pigna mostrano una sostanziale
coincidenza di prospettive nei trattati usciti nel 1554, anche se già nel 1541 Giraldi
aveva impostato il problema nella lettera sulla Didone, e col Giudizio antisperoniano
del 1550 l’aveva approfondito nei termini poi ripresi dai Discorsi. Quando s’occupa
dello stesso tema, l’Arte poetica di Minturno segue, nell’analisi del v. 1031 dell’Eu-
nuchus di Terenzio O populares, ecqui’ me hodie vivit fortunatior?, la lettura del
Pigna, non quella del Cinzio.
62
Giraldi (DR 75-77) e Minturno (AP 426-429) condividono i princìpi di Cice-
rone e Quintiliano sul decoro; per Giraldi, cfr. il commento al Discorso dei romanzi
nell’edizione a cura di Benedetti - Monorchio - Musacchio cit., pp. 99-101.
176
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
63
Castiglione, Cortigiano cit., I, p. 225.
64
Si noti però che Minturno rimodula un principio verificato dal Pigna nei
romanzi, allorché afferma che rappresentare una donna filosofa o guerriera non
è contrario al decoro in certe circostanze: «chiunque hoggi philosophare o pur
armeggiare alcuna donna facesse, con la fama e con l’authorità degli scrittori difen-
dersi potrebbe» (AP 50); e il Pigna: «i romanzi […] non tutte le donne fan gagliarde
né a tutte dan carico di cavalleria, ma a quelle sole che o per fama o per auttorità
di libri esser armigere ritrovano» (Rom. 39). Sul personaggio femminile nel teatro
di Giraldi cfr. da ultimo I. Romera Pintor, Dos heroínas giraldianas frente a frente:
Euphimia y Epitia, in I. Romera Pintor - J.L. Sirera (edd.), Relación entre los teatros
español e italiano: siglos XVI-XX, Valencia 2007, pp. 39-53; A. Bianchi, Alterità ed
equivalenza. Modelli femminili nella tragedia italiana del Cinquecento, Milano 2007.
65
Secondo il commento della Villari (DCT 304 nt. 1), oltreché il Calandro di
Bibbiena, «la critica doveva colpire implicitamente anche la figura di Cleandro dei
Suppositi dell’Ariosto […] e di messer Nicia della Mandragola di Machiavelli». Il
topos del «vecchio amoroso» – questo il titolo d’una pièce del fiorentino Donato
Giannotti (1533-1536) – è ampliamente usufruito da Gli Eudemoni (1549), l’unica
commedia di Giraldi, a partire dal monologo iniziale del servo Lamprino, sulla base
della convinzione che «l’inamorarsi così fissamente, che spesso sia indutto l’amante
a sconvenevolezza, è meno disdicevole nella gioventù, che nell’età matura» (Giraldi,
Carteggio cit., p. 326). Sugli «attempati scemi, et di poco consiglio», torna il terzo
dei Dialoghi della vita civile di Giraldi (in Id., La seconda parte degli Hecatommithi,
Monte Regale 1565, pp. 121-122): «i capelli canuti non fanno l’huomo vecchio, ma
il senno, et la prudenza, et non è cosa più sconvenevole nel mondo che un vecchio,
che ne’ maturi anni viva talmente, che paia che pure allhora cominci ad apparare di
vivere».
177
Davide Colombo
8. Conclusioni
66
M.T. Herrick, Some Neglected Sources of Admiratio, «Modern Language
Notes» 62, 1947, pp. 222-226.
67
Afribo, Teoria e prassi cit., p. 30, invita a pensare «alla frequenza di una
parola come superstizione, ma nello stesso tempo alla sua pregnanza nel seguente
passo dell’Arte poetica minturniana» (segue citazione di AP 446; cfr. anche AP 370).
Il nostro Cinzio parla di soperstitione (DR 138) e di superstitiosa diligenza (DR 136)
riscrivendo quanto stampato alle pp. 127-130 dei Discorsi, e poco prima avversa
«la superstitiosa diligenza di coloro che non vogliono che in canto alcuno si trovi
replicatione et similitudine alcuna di rima» (DR 129-130, corsivo mio).
68
Giraldi prescrive la coerenza di reti metaforiche prolungate: «è da porre
gran cura che, come si pigliano le metaphore quando non consistono in una voce
sola […] ma si menano in lungo […], così si conducano al fine. Et non si faccia,
come fe’ colui [Bernardo Tasso] che, lodando monsignore il Bembo, cominciò il
sonetto in volare et il finì in tessere» (DR 174). Minturno sembra ripetere: «parmi
che ragionevolmente si commandi che si debba haver cura in questa maniera di
trasportare, che ciò che seguita risponda a quel che ne va innanzi, affine che, comin-
ciando dalla ruina o dallo ’ncendio, non conchiuda la medesima sentenza con la
tempesta» (AP 312).
178
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
69
Mentre il De Poeta, p. 348, replica la pagina di Donato de com. 8.6, sui
vestiti degli attori comici, l’Arte poetica s’apre al presente: «convien che s’habbia
a servare nell’habito di ciascuna maniera di persone quella forma la qual ne’ tempi
nostri si vede usare» (AP 150); apertura modernista che forse tiene dietro al Cinzio
(DCT 306) e al Pigna (Rom. 102).
70
Cfr. poi: «ricorro spesso a Virgilio, percioché non mi sovviene, ove si
dica da’ nostri» (AP 398); oppure: «Di molte tragedie la testimonianza ci recate,
le quali nella nostra favella non habbiamo. M[inturno]: Piacesse a Dio ch’io non
fussi costretto di ricorrere al testimonio degli stranieri, ma pur volentieri le v’allego,
accioché coloro li quali han cominciato ad arricchire la nostra lingua della scenica
poesia traducendola e dirivandola da’ fonti greci, s’inanimino a seguir l’impresa»
(AP 84). Allorché Giraldi a sua volta scrive: «non mi vergognerò di addurre essem-
pio latino, quantunque io parli delle cose volgari» (DR 165), si tratta d’un’eccezione,
non della regola.
179
Davide Colombo
71
D. Javitch, La nascita della teoria dei generi poetici nel Cinquecento, «Italia-
nistica» 27, 1998, pp. 177-197, in debito riconosciuto con l’Introduzione di Gros-
ser, La sottigliezza cit., pp. 1-19.
72
P. Sabbatino, L’Arte poetica del Minturno. L’integrazione della lirica nel
sistema aristotelico dei generi, in Id., Il modello bembiano a Napoli nel Cinquecento,
Napoli 1986, pp. 103-124.
73
«Ed il Minturno, ch’ha la penna avezza / a mostrar di comporre il vero
modo / a chi brama poggiare a somma altezza» (Villari, Per l’edizione critica degli
Ecatommiti cit., p. 104).
74
AP 156 e 114. La traduzione è andata persa: cfr. Colombo, La cultura lette-
raria di Antonio Minturno cit., p. 545 nt. 3.
180
Giraldi, Minturno e il riuso dell’antico nella trattatistica del Cinquecento
verso le cose basse, come «chori di rane et d’augelli» (DCT 232); per
la commedia si limita a invocare il caposcuola Terenzio, assieme ad
Ariosto, imitatore dello stesso Terenzio e di Plauto. È quasi superflua
la raccomandazione di Minturno ai suoi interlocutori: «quei moder-
ni io m’aviso che da voi si tengan di laude più degni, che più sanno
gli antichi imitare, e più loro s’appressano» (AP 66-67). Egli rimane
ancorato all’idea che i migliori risultati antichi in un genere debbano
servire da base, eterni modelli per gli autori moderni. All’opposto,
Giraldi propugna il principio generalissimo della temporalità e con-
tingenza delle regole dell’arte, alla base del progetto dinamico d’una
nuova stagione di ripensamento critico e fervore creativo. Dinamico
ed esuberante sì, quel progetto di frontiera è però ambiguo a causa
del ruolo affidato a Virgilio 75, accostabile a quello di Aristotele nella
teoria cinziana della tragedia e di Trissino nella pratica drammaturgi-
ca: Virgilio è nel contempo la norma («la regola del giudicio delle cose
gravi et magnifiche»), e l’autorizzazione ad infrangerla (egli ha mo-
strato che è possibile «andarsi ad Helicona» senza percorrere la stessa
via calcata dai poeti antichi). Per il romanzo il permesso d’infrangere
la norma omerico-virgiliana viene da Ovidio, autore classico, benché
non aristotelico:
Veggiamo Ovidio, l’ingegnoso, havere trallasciati gli ordini di Vergilio
et di Homero nelle sue Mutationi, et non havere seguiti gli ordini di
Aristotile datici nella sua Poetica, et nondimeno essere riuscito vago
et gentil poeta, con tanto utile della lingua latina, ch’è stata una mara-
viglia, et nondimeno non è egli ripreso perché non habbia seguito le
orme degli altri; il che è avenuto perché egli si die’ a scrivere di cosa,
che sotto quelle regole et quegli essempi non stava, come non vi stan-
no anco le materie de’ nostri romanzi. (DR 55)
75
«Quella dei Discorsi è un’operazione culturale pericolosamente condotta sul
filo dell’ambiguità» – conclude D. Rasi, Proposte per una lettura dei Discorsi intorno
al comporre de i Romanzi di G.B. Giraldi Cinzio, in AA.VV., Studi in onore di Vit-
torio Zaccaria in occasione del settantesimo compleanno, a cura di M. Pecoraro,
Milano 1987, p. 285 – «poiché la codificazione delle spinte innovative che il criterio
della relatività del fare letterario ha suggerito è ritenuta possibile solo in quanto già
riscontrabile nel passato, in Virgilio appunto».
181
Davide Colombo
76
Rom. 51: le Metamorfosi «hanno con tutto ciò una bellissima orditura, e
quantunque a niuna certa parte dell’antica poesia sottoposte siano, non è che poeta
non mostrino il lor compositore; e chi in romanzevole forma le trasportasse, forse
che farebbe cosa che <ben> fatta gli verrebbe». In precedenza abbiamo già conte-
stualizzato il giudizio su Ovidio di AP 34.
77
Giraldi, Carteggio cit., p. 288. Rilievi sul titolo del poema ariostesco erano
frequenti tra i suoi primi lettori: si veda la lettera del Pigna riportata nel Carteggio
cit., pp. 224-225. Nell’Arte poetica Minturno riprende dal Pigna la controversia sul
titolo e sull’argomento dell’Orlando Furioso: perché chiamarlo così, se l’attenzione è
rivolta a Ruggiero?
78
Giraldi, Carteggio cit., pp. 311-336. Cfr. D. Rasi, Breve ricognizione di un
carteggio cinquecentesco: Bernardo Tasso e G.B. Giraldi, «Studi tassiani» 28, 1980,
pp. 5-24.
79
Z. Rozsnyói, Dopo Ariosto. Tecniche narrative e discorsive nei poemi posta-
riosteschi, Ravenna 2000, p. 26 per la prima citazione, p. 28 per la seconda. Il riuso
di Ovidio, point de repère per Ariosto e per i teorici del romanzo, è lumeggiato
da D. Looney, Compromising the Classics. Romance Epic Narrative in the Italian
Renaissance, Detroit 1996; da R. Bruscagli, Vita d’eroe: l’Ercole, «Schifanoia» 12,
1991, pp. 9-19; dal capitolo Affiliazioni alle Metamorphoses di Ovidio in Javitch,
Ariosto classico cit., secondo cui «fu grazie alla continua pubblicazione delle Meta-
morphoses in ottava rima di Dolce e di Anguillara che la sfida di Ovidio alla forma
classica venne ampiamente riconosciuta» (p. 152).
182
Guglielmo Barucci
Plinio, e Seneca,
in due lettere
rinascimentali fittizie
dalla villeggiatura
1
Includeva il testo latino di Catone, Varrone, Columella e Palladio.
2
Dopo la traduzione del Libro di agricoltura utilissimo di Gabriel Alonso
Herrera nel 1557, si susseguono già nel 1559 a Brescia La nuova, vaga e dilettevole
villa di Giuseppe Falcone e La villa di Bartolomeo Taegio; nel 1560 il Della agri-
coltura di Giovanni Tatti (un’edizione maturata all’interno di un più ampio pro-
getto editoriale di Francesco Sansovino, che include nello stesso 1560 anche Rutilio
Tauro Emiliano Palladio, col titolo La villa, e nel 1561 la volgarizzazione de Il libro
dell’agricoltura di Pietro de’ Crescenzi); nel 1564 le Dieci giornate della vera agricol-
tura, e piaceri della villa di Agostino Gallo (ampliate a tredici giornate nel 1566, a
venti nel 1569, senz’altro il testo di maggiore diffusione anche internazionale); nel
1565 il Ricordo d’agricoltura di Camillo Tarello, per non parlare delle numerose
riedizioni. È un’attenzione editoriale destinata a non arrestarsi, come indicano nel
183
Guglielmo Barucci
184
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
7
«Eae, quae ex illis capiuntur voluptates: proxime ad sapientis vitam viden-
tur accedere», in Libri de re rustica, Venetiis 1514, f. IIv.
8
Cfr. L. Beck, «Ut ars natura - ut natura ars». Le ville di Plinio e il concetto
del giardino nel Rinascimento, «ARID» 7, 1971, pp. 109-156, e E. Aubrion, La «Cor-
respondance» de Pline le Jeune: Problèmes et orientation actuelles de la recherche, in
ANRW II.33, 1989, pp. 304-374.
9
Sul ruolo dell’epistolario pliniano per la nostra stessa conoscenza della vita
aristocratica in villa si veda il paragrafo La giornata del proprietario, in H. Mielsch,
La villa romana, Firenze 1999, pp. 120-125.
10
F. Gamberini, Materiali per una ricerca sulla diffusione di Plinio il Giovane
nei secoli XV e XVI, «SCO» 34, 1984, pp. 133-170 (la citazione è a p. 169).
11
Ivi, pp. 157-170. Edizioni e ristampe pliniane ammontano almeno a quindici
tra il 1471 (princeps veneziana in otto libri) e il 1519, attraverso le introduzioni di
185
Guglielmo Barucci
molte delle quali è possibili seguire lo sviluppo delle teorizzazioni sullo stile episto-
lare.
12
Non per nulla nell’introduzione si afferma che nei latini moderni si ha
«Plinio ritornato in vita», c. 1v. D’altronde, Plinio era stato assunto a campione
dell’anticiceronianesimo, specie per l’epistolografia; al riguardo, e in particolare per
il ruolo da lui giocato nelle teorizzazioni di Poliziano e Erasmo, ci si limita a rinviare
a Gamberini, Materiali cit., pp. 150-151.
13
Per quanto concerne la vita in villa, si aggiunge in Lollio la Consolatoria
a Pino de’ Rossi di Boccaccio, un’epistola scritta presumibilmente nel 1361 a un
magnate fiorentino esiliato dopo il fallimento di una congiura antipopolare: vi si è
riconosciuto, principalmente per la descrizione del ritiro a Certaldo, uno dei modelli
della celebre lettera di Machiavelli a Francesco Vettori (1513). La consolatoria si
legge in G. Boccaccio, Opere in versi - Corbaccio - Trattatello in laude di Dante -
Prose latine - Epistole, a cura di P.G. Ricci, Milano - Napoli 1965, pp. 1112-1141.
14
Cito da A. Lollio, Delle Orationi di M. Alberto Lollio gentil’huomo Ferra-
rese, volume primo. Aggiuntavi una Lettera del medesimo in laude della villa […],
Ferrara 1563, c. 231r (ma la princeps è un’edizione giolitiana del 1544). Nel cata-
logo seguono Niccolò Perotti, Jacopo Sannazaro, Silio Italico, il Panormita, Marco
Lepido Orticola, Trifon Gabriele, Bartolo da Sassoferrato, Pietro de’ Crescenzi,
Bernardino Corio. Sostanzialmente lo stesso catalogo, d’altronde, ricorre per il suo
nucleo fondamentale (Pico, Poliziano, Ficino, Plinio, Petrarca, ai quali si aggiunge
Seneca) ancora ne Il diporto della villa. Canto di Senofonte Bindassi da Sant’Angelo
in Vado, Venetia 1582, cc. 13v-14r, e in B. Taegio, La villa, ora in C. Mozzarelli (a
cura di), L’antico regime in villa, Roma 2004, pp. 49-162 (in part. pp. 94-95).
15
Plin. epist. 1.9 (a Fundano); 2.2 (a Paolino); 2.8 (a Caninio); 4.6 (a Nasone);
5.18 (a Macro); 9.7 (a Romano); 9.36 (a Fusco).
186
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
16
Varie descrittioni di Ville di C. Plinio Secondo tradotte nella lingua volgare
da Aldo Manucci, Roma 1588. Si tratta di 2.17; 5.6; 8.20; 9.7; 9.36. La ragione di
tale antologia è presentata nel fatto che «se havessero [scil. le descrizioni pliniane]
pari facilità alla leggiadria, sarebbono forse più nelle mani de gli huomini, che non
sono», c. A2r, presumibilmente proprio con riferimento all’ardua terminologia tec-
nica di 2.17 e 5.6.
17
Ibid.
18
La tipologia più strettamente descrittiva dell’architettura della villa, o della
topografia del giardino, riconoscibile in Plin. epist. 2.17 e 5.6, avrà una fortuna
parallela, per la quale basti rinviare alle lettere di Sabadino degli Arienti a Isabella
d’Este, di Battista Campeggi De Tusculana villa sua (in cui i rimandi pliniani sono
strettissimi), di Girolamo Casoni al «barone Sfondrato» in Lettere descrittive di cele-
bri italiani alla studiosa gioventù proposte da Bartolommeo Gamba, Venezia 1832.
187
Guglielmo Barucci
19
Il rilievo di Alberto Lollio è confermato dalla Libraria di Doni (autore, si è
già detto, di un trattatello sulla villa), che gli dedica un’ampia voce biografica e che
negli elenchi dei generi testuali della «parte terza» riporta al lemma «Lettere» in
prima sede proprio la Lettera di Lollio.
20
Lollio, Lettera cit., c. 211.
21
Fondamentale, al riguardo, C. Poni, Struttura, strategia, ambiguità delle
«Giornate»: Agostino Gallo fra l’agricoltura e la villa, «Intersezioni» 9, 1989,
pp. 5-39.
22
Già nell’edizione del 1566 delle Giornate compare, all’interno di un cor-
poso paratesto epistolare, uno scambio di lettere tra Lollio e Gallo sul tema della
Lettera in laude della villa. Sui contatti e le distanze tra i due autori si veda l’ottimo
E. Selmi, Alberto Lollio e Agostino Gallo, in M. Pegrari (a cura di), Agostino Gallo
nella cultura del Cinquecento, Atti del Convegno (Brescia, 23-24 ottobre 1987), Bre-
scia 1988, pp. 271-314.
23
Inoltre, sia in Plinio (epist. 5.6.3 quae et tibi auditu […] iucunda erunt) sia
in Gallo («si come mi è piaciuto udir per quali cagioni voi havete abbandonato
la Città») si ha il riferimento al piacere che l’ascoltatore riceve o riceverà dalla
188
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
spiegazione delle ragioni del ritiro in villa. Cito il testo di Gallo da Le venti gior-
nate dell’agricoltura et de’ piaceri della villa di M. Agostino Gallo, Venetia 1569 (qui,
c. 340).
24
D’altronde l’elemento, già radicato, era destinato a farsi topos di apertura
epistolare: «Molto meraviglio, che un uomo come voi, tutto civile […], voglia star-
sene il più del tempo in villa», scrive ad esempio Taegio, La villa cit., p. 65.
25
Gallo, Le venti giornate cit., cc. 382-386. Alla lettera «Gallo réserve
una place au genre épistolaire, d’une nature plus littérarire que le dialogue»: cfr.
J. Basso, Le genre epistolaire en langue italienne (1538-1662): repertoire chronologi-
que et analytique, Roma 1990, p. 235.
26
Lollio, Lettera cit., c. 211v.
189
Guglielmo Barucci
27
Ivi, c. 214v.
28
Per tale contrapposizione la volgarizzazione di Dolce nell’antologia del
1548 è persino più icastica dell’originale pliniano: «dove parte do opera a gli studi;
e parte non fo nulla: le quali cose ambedue procedono da non haver facende»
(c. 1, corrispondente a Plin. epist. 2.2.2) e «m’affatico in coltivar non le posses-
sioni, et i campi (che io non ve ne ho) ma me stesso con gli istrumenti de gli studi.
Onde hoggimai posso dimostrarti, sì come in altri luoghi le sale piene di frumento,
i miei armari pieni di libri e di componimenti» (c. 1v, corrispondente a Plin.
epist. 4.6.2).
29
Non a caso Pietro Aretino nella lettera a Lollio del luglio 1565 afferma
di aver imparato grazie alla sua Lettera a «stimar la vita de i cultori de i campi»
(P. Aretino, Lettere, III, a cura di P. Procaccioli, Roma 1999, pp. 235-236).
30
Per tali aspetti si veda ad esempio M. Aymard, Paesaggio rurale, paesaggio
sociale, in Pegrari, Agostino Gallo cit., pp. 141-152 e, relativamente anche a Lollio,
B. Basile, Villa e giardino nella trattatistica rinascimentale, in AA.VV., La letteratura
di villa e di villeggiatura, Atti del Convegno di Parma (29 settembre - 1 ottobre
2003), Roma 2004, pp. 205-232.
31
Gallo, Le venti giornate cit., c. 325.
32
Ivi, c. 340.
190
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
33
Lollio, Lettera cit., c. 240v.
34
Stando a Lollio «ogni giorno si ragiona di lettere, d’arme, e d’amore. Leg-
gonsi libri piacevoli, Thoscani, Spagnuoli, e Latini. Parlavisi della Poesia, della
Cosmografia, e della Pittura. Si discorre sopra gli accidenti del Mondo […]. Fannosi
spesso musiche di più sorti. Giocasi a diverse guise di giuochi leciti e dilettevoli», in
Lollio, Lettera cit., c. 240r, con una certa vicinanza a Plin. epist. 9.36. D’altronde,
in tutte le «aziende agricole» il giardino era riservato, anche nei testi più stretta-
mente tecnici, al diletto del padrone, come si vede ad esempio dalla concisa osser-
vazione di Clemente Africo: «Et nel giardino (appresso gentil’huomini) si ricerca
diletto, più tosto, che frutto», cfr. C. Africo, Trattato dell’agricultura […],Venetia
1572, c. 95, o anche Ch. Estienne, L’agricoltura, et casa di villa […], Vinegia 1581,
cc. 163-164.
35
Gallo, Le venti giornate cit., cc. 383-384.
191
Guglielmo Barucci
della città («Et quel che più importa, non ci son’avocati senz’anima
che pelino, né procuratori senza descritione [sic] che ingarbuglino, né
causidici senza vergogna che abbarrino […]»); il secondo insiste sugli
elementi della semplicità contrapposti all’artificiosità del vivere urba-
no («la dolce conversazione de gli amici, la semplicità de’ contadini,
il cantar puro delle villanelle, la rustica sampogna de’ pastori […]»);
il terzo sulla dolcezza del riposo 36 («vi è gran spasso nel veder ballar
le pecorelle, giuocar i montoni, scherzar i capretti […]»); il quarto –
l’honestum e la superiorità dell’otium rispetto allo stesso negotium –
nel trapasso dal prosieguo delle immagini campestri al più pregnante
ricordo degli antichi che «abbandonarono le loro grandezze, come
cose che impedivano il lor vero bene, per viver’alle loro Ville».
D’altronde, già nella Lettera di Lollio si introduce nella tratta-
tistica specialistica quello che diverrà presto un topos radicato, che
costituisce un’evidente alterazione di un elemento presente, con al-
tro valore, nella lettere pliniane, in cui trovava anzi la prima efficace
codifica. La villa del Rinascimento si configura come il luogo della
libertà, identificata in quattro elementi principali, variamente intrec-
ciati: come affrancamento da comportamenti socialmente codificati;
come libertà da vincoli e doveri relazionali oppressivi; come lontanan-
za dalla miseria umana dei comportamenti di città; come possibilità
di sottrarsi agli spettacoli degradanti della città. Tali elementi sono
presenti in maniera embrionale in Plinio, allorché nella lettera a Do-
mizio Apollinare sulla villa di Tusci fa riferimento a un altius ibi otium
et pinguius eoque securius; nulla necessitas togae, nemo accersitor ex
proximo 37, in cui si affiancano la possibilità di un modo di vita più in-
formale e quella di sottrarsi a figure fastidiose diffuse in città. Il riferi-
mento alla toga sarà destinato ad assoluta fortuna 38, e si cristallizza ad
36
Vi si può eventualmente riconoscere il ricordo di Verg. georg. 2.458-540.
37
Plin. epist. 5.6.45. Il concetto è ampliato ulteriormente, e ribaltato, in una
lettera a ruoli invertiti in cui Plinio sollecita il suo destinatario a ritornare ai doveri
di città: Quin ergo aliquando in urbem redis? […] Quousque regnabis? Quousque
vigilabis cum voles, dormies quam diu voles? Quousque calcei nusquam, toga feriata,
liber totus dies? (Plin. epist. 7.3.2-3). Il riferimento alla toga, peraltro, si legge anche
in Iuv. 3.171-172 e 179, sebbene in tal caso l’allusione vada solo al tema della sem-
plicità, scevro da ogni richiamo alla libertà.
38
«Alla villa si sta senza troppe cerimonie, alla naturale» (Doni, Villa cit.,
p. 21 del codice veneziano).
192
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
esempio in Gallo: «Qui poi non ho carico di portar la gravosa toga» 39;
e, sempre nello stesso, amplificato e rovesciato nella dichiarazione che
«nella Città ci convien’andar ben vestiti, con servitori, e pieni di mille
rispetti; sberrettando questo, e quello assai volte contra il voler nostro
[…]; io cavo la berretta mal volentieri a quegli altri, che sono voti
di valore, e gonfi talmente di superbia […]; qui ci è lecito andare, e
stare senza servitori, senza cappa, e senza saio; vestendoci come più,
e meno ci gradisce» 40 – associandovi, per l’appunto, l’oppressione
provocata da personaggi sgradevoli e spregevoli, che pure impongono
l’osservazione di rigide norme sociali.
Proprio tale riferimento al fastidio provocato dalla necessità
di rispettare con personaggi miserevoli un sistema di norme sociali
codificate è un ulteriore sviluppo, e deformazione, di un altro degli
elementi della libertà riconosciuta da Plinio nella vita in villa. Nella
propria residenza extra-urbana, infatti, è possibile affrancarsi dalle
molteplici incombenze sociali o, più strettamente, professionali: nel-
la lettera a Minicio Fundano, scritta dalla villa di Laurento mentre
il corrispondente si trovava a Roma, Plinio denuncia corrosivamente
il vacuo stillicidio di impegni social-mondani della città richiesti dal
proprio ruolo 41, a fronte invece della possibilità che si ha in villa di
dedicarsi esclusivamente alla riflessione e alla lettura, mecum tantum
et cum libellis loquor 42. La rappresentazione dei soffocanti dove-
ri sociali, peraltro, compariva già in Orazio, e non a caso sempre in
un’epistola (pur dando per presupposti tutti i dubbi sulla sua reale
natura epistolare); la lettera a Giulio Floro, infatti, insisteva proprio
sull’impossibilità di praticare in città la poesia, e dunque non poteva
che essere di particolare suggestione per Lollio: Praeter cetera me Ro-
maene poemata censes / scribere posse inter tot curas totque labores? /
Hic sponsum vocat, hic auditum scripta, relictis / omnibus officiis; cubat
39
Gallo, Le venti giornate cit., c. 383.
40
Ivi, c. 346.
41
Plin. epist. 1.9.2 Si quem interroges: «Hodie quid egisti?», respondeat: «Offi-
cio togae virilis interfui, sponsalia aut nuptias frequentavi, ille me ad signandum testa-
mentum, ille in advocationem, ille in consilium rogavit».
42
Ivi, 1.9.5. Nel riferimento alla conversazione con i libelli non è da escludere
che si possa riconoscere, naturalmente attraverso un voluto fraintendimento, una
delle fonti del topos che avrà il più celebre esito nella lettera di Machiavelli a Vet-
tori, allorché si fa riferimento ai colloqui serali con gli antichi.
193
Guglielmo Barucci
43
Hor. epist. 2.2.65-69.
44
Gallo, Le venti giornate cit., c. 383.
45
Si rileva qui una sostanziale differenza rispetto alle due lettere di Plinio a
Fusco (9.36 e, più esplicitamente, 9.40), nelle quali, invece, parte cospicua della
giornata era dedicata allo studio della cause. Così in Plin. epist. 9.15.2 è dichiarato
esplicitamente che la rielaborazione delle proprie arringhe gli risulta un lavoro frigi-
dum et acerbum.
46
P. Bembo, Lettere, edizione critica a cura di E. Travi, II, Bologna 1990,
pp. 245-246, nr. 528.
47
Gallo, Le venti giornate cit., c. 347.
194
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
48
Iuv. 3.41-48 Quid Romae faciam? Mentiri nescio; librum / si malus est,
nequeo laudare et poscere; motus / astrorum ignoro; funus promittere patris / nec volo
nec possum; ranarum viscera numquam / inspexi; ferre ad nuptam quae mittit adul-
ter, / quae mandat, norunt alii; me nemo ministro / fur erit, atque ideo nulli comes
exeo tamquam / mancus et exstinctae corpus non utile dextrae.
49
Plin. epist. 1.9.5, a sua volta elaborazione di Hor. epist. 1.14.37-38 Non istic
obliquo oculo mea commoda quisquam / limat, non odio obscuro morsuque venenat,
ricordato in Lollio, Lettera cit., c. 237v.
50
Gallo, Le venti giornate cit., c. 347.
51
Una forma ulteriore di abuso da parte di Lollio si riconosce nella citazione
petrarchesca da Rerum vulgarium fragmenta 259, che non implicava di per sé una
condanna della città in toto, ma solo della curia avignonese: «Cercato ò sempre soli-
taria vita / (le rive il sanno, et le campagne e i boschi) / per fuggir questi ingegni
sordi et loschi» (cfr. Lollio, Lettera cit., c. 229v).
195
Guglielmo Barucci
52
Il riferimento più immediato dovrebbe essere piuttosto nella acredine ora-
ziana di Hor. epist. 1.14.37-38 Non istic obliquo oculo mea commoda quisquam /
limat, non odio obscuro morsuque venenat, citato supra e in Lollio, Lettera cit.,
c. 237v.
53
Lollio, Lettera cit., c. 241v.
54
Gallo, Le venti giornate cit., c. 346.
196
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
55
Pur se con ben altra credibilità e drammaticità, il tema della fragilità sociale
era già in Giovenale (Iuv. 3.147 e 153), in cui, come emblema dell’inidoneità, com-
pariva proprio il riferimento a materiam […] causasque iocorum e ai ridiculos homi-
nes.
56
L.B. Alberti, I libri della famiglia, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson,
Bari 1960, I, pp. 1-341 (la citazione è alle pp. 200-201).
57
D’altronde, anche nel ben più tardo Bindassi l’immagine della città è sostan-
zialmente ancora quella di un teatro di scontri politici, con un’enumeratio, però, che si
palesa come mero accumulo di elementi che rimandano a scenari diversi: «In villa non
si senton tanti inganni, / tante frodi, e lacciuoi, tanti rumori, / tante insidie, et aguati,
tanti danni, / tanti sdegni, e rancor, tanti furori, / crudeli inimicizie, risse, affanni, /
sospir, singulti, pianti, urli, e stridori» (Il diporto della villa cit., 6r, ottava 3).
197
Guglielmo Barucci
58
Alberti, I libri della famiglia cit., p. 200.
59
Plin. epist. 1.9.8.
60
Sen. epist. 55.4.
61
Lollio, Lettera cit., c. 228r.
62
Non a caso per Doni, Villa cit., p. 31, saranno solo gli artigiani a ritirarsi in
campagna per mere ragioni di risparmio. Lo stesso Giannozzo de I libri della fami-
glia dell’Alberti indicava tra le varie ragioni per ritirarsi in villa proprio la «minore
spesa» (Alberti, I libri della famiglia cit., p. 201).
198
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
63
A. de Guevara, Aviso de’ favoriti e dottrina de cortegiani, con la commen-
datione della Villa, opera non meno utile che dilettevole. Tradotta nuovamente di
Spagnolo in Italiano per Vicenzo Bondi Mantuano, Vinetia 1549.
64
Ivi, cc. 136v-137r. Richiamandosi a Seneca e Orazio, Guevara sottolinea
anche l’inutilità di ritirarsi in villa qualora sia solo frutto d’inquietudine: «s’egli
stava nella corte mal contento, nella sua villa viverà disperato, perché non potrà egli
essere che la privatione della compagnia, la importunità della moglie, li dispetti de’
figliuoli, le poche considerationi de’ servitori, il mormorare de’ vicini non li rechino
alcuna volta fastidio […]».
65
Ivi, c. 135r.
199
Guglielmo Barucci
66
Tale elemento avrà notevole risonanza in Petrarca, ad esempio in una
lettera a Lombardo da Serico (Lettere senili di Francesco Petrarca, volgarizzate e
dichiarate da G. Fracassetti, II, Firenze 1870, pp. 393-407 = epist. 15.3): «Quante
sono le città, tante si contano sentine di libidine, ed officine di misfatti. E qual
altra, dalle città in fuori, è la sede della più lubrica voluttà?» e «ed essi intanto colla
feccia del popolaccio trovan le loro delizie nelle taverne, nei bagni, ne’ macelli, ne’
lupanari».
200
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
67
Hor. epist. 2.2.72-77 festinat calidus mulis gerulisque redemptor, / tor-
quet nunc lapidem, nunc ingens machina tignum, / tristia robustis luctantur funera
plaustris, / hac rabiosa fugit canis, hac lutulenta ruit sus; / i nunc et versus tecum
meditare canoros. / Scriptorum chorus omnis amat nemus et fugit urbem.
68
Che una delle ragioni della fuga in villa dovesse essere proprio la ricerca del
silenzio attesta Doni, Villa cit., p. 27 (ed. 1566), sia pure solo con riferimento alla
villa dei signori: «Fannosi i Signori per potersi separare da quei gran rumori del
vulgo di belle Ville».
69
Gallo, Le venti giornate cit., c. 347.
70
Ibid.
201
Guglielmo Barucci
71
Ivi, c. 348.
72
Lo stesso elemento ritornerà succintamente in Taegio, La villa cit., p. 121.
La villa è infatti uno dei testi più virulenti nei confronti della città, anche in questo
caso messa in stretta associazione con la sua proletarizzazione: «Taccio i crudeli
ed orribili spettacoli che si fanno dei condennati a morte per giustizia. Taccio il
piacevole incontro di certi cancherosi forfanti che, fingendo lo stroppiato, lasciano
il foco di santo Antonio […]. Taccio il grato spettacolo degli ammorbati spedali.
Taccio la bella perspettiva del puzzolente borgo la nocte». Allo stesso modo, la con-
danna della città in Gallo, Le venti giornate cit., cc. 346-347, e Taegio, La villa cit.,
p. 125, trarrà indubbiamente forte stimolo dalla condanna di Seneca degli spettacoli
circensi (Sen. epist. 7).
202
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
potrei esprimer’il ramarico che ogni hora sento della lunga prigionia,
dove sono stato, la quale mi ha privato di questo pacifico vivere, che
hora gusto in questa terra» 73. E così, a ruoli ribaltati, quando è Plinio
a scrivere dalla città a un corrispondente in campagna, come nel caso
della lettera a Caninio (epist. 2.8.2-3), viene espressa la percezione di
non riuscire a spezzare i laquei dei vincoli e dei doveri sociali e di es-
sere soggiogato dal loro continuo accumulo: Angor tamen non et mihi
licere, quae sic concupisco ut aegri vinum, balinea, fontes. Numquamne
hos artissimos laqueos, si solvere negatur, abrumpam? Numquam, puto.
Nam veteribus negotiis nova accrescunt, nec tamen priora peraguntur:
tot nexibus, tot quasi catenis maius in dies occupationum agmen ex-
tenditur. Un’affascinante risonanza di tali elementi si può riconoscere
sempre nell’epistola di Ludovico Moro:
E vedendo che il tempo passa, e che voi non vi risolvete di lasciare in
tanti travagli che tuttavia vi crescono alle spalle, sono sforzato prote-
starvi, che se non tagliate cotai lacci in un bel colpo (dico più tosto
hoggi che dimane) e venir a goder la quiete che qui si trova, non so-
lamente voi restarete prigione loro, ma vi tormenteranno anco tutto il
tempo del viver che vi resta. Io vi giuro, che non vi potrei esprimer’il
ramarico che ogni hora sento della lunga prigionia, dove sono stato, la
quale mi ha privato di questo pacifico vivere, che hora gusto in questa
terra. (Gallo, Le venti giornate cit., c. 382)
73
Gallo, Le venti giornate cit., c. 383.
203
Guglielmo Barucci
un percorso da lui già tracciato: «Et certamente voi vedete, che non vi
essorto a cosa alcuna, che prima non l’habbia fatta io» 74.
Come esito di tali contrapposizioni tra campagna e città, il sog-
giorno in villa – quantomeno nell’accezione esposta da Lollio – risul-
ta strettamente connesso con la meditazione e l’esercizio letterario,
ossia con l’attività per certi versi dominante nelle epistole sul tema,
sia di Plinio, sia di Seneca. In un esplicito riferimento alle epistole a
Lucilio, infatti, si richiama il suggerimento del filosofo all’allievo epi-
stolare, «che egli debba schivare il commercio delle genti, et andare
in luogo remoto, in cui non senta romore che lo interrompa, né vegga
cosa, che lo devii, o ritragga dal suo proponimento» 75. Nel passo è
da riconoscere una libera e arbitraria parafrasi di Sen. epist. 1.7.1 e 7
Quid tibi vitandum precipue existimem quaeris? Turbam […]. Unum
exemplum luxuriae aut avaritiae multum mali facit, che di per sé non
considerava affatto la turba come un elemento intrinseco e inevitabile
della città, piuttosto che un rimando all’epistola 68. Si produce dun-
que un deliberato appiattimento rispetto al complesso delle epistole
senecane, nelle quali, come già si osservava, non è il luogo a essere
determinante, ma la predisposizione dell’animo 76. Lollio procede,
sulla base dei classici, a un’elaborazione della villa come ambiente di
volontario eremitaggio, che in realtà rivela una certa forzatura rispetto
ai due modelli. Similmente si ha poi un riuso piuttosto arbitrario di
un passo dell’epistola di Plinio a Fusco, che a sua volta, come già si è
osservato, costituisce uno degli archetipi della descrizione epistolare
della giornata in villa: «Così appunto intese Plinio minore, quando
disse che gli occhi nostri allora veggono ciò che vede l’animo, quando
alcuna altra cosa non veggono: come specialmente interviene alla villa:
dove le cose che noi veggiamo, svegliano l’intelletto, e accendono in
noi il desiderio d’investigar le cause de gli effetti veduti» 77. L’esplica-
zione è un’evidente forzatura del senso della lettera di Plinio (epist.
9.36.1-2): Clausae fenestrae manent; mire enim quam silentio et tene-
74
Ivi, c. 386.
75
Lollio, Lettera cit., c. 229r.
76
Sen. epist. 55.8 Sed non multum ad tranquillitatem locus confert: animus est,
qui sibi commendet omnia. Vidi ego in villa hilari et amoena maestos, vidi in media
solitudine occupatis similes.
77
Lollio, Lettera cit., c. 229r.
204
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
bris ab iis quae avocant abductus et liber et mihi relictus non oculos ani-
mo, sed animum oculis sequor, qui eadem quae mens vident, quotiens
non vident alia. In Plinio l’osservazione origina dalla descrizione della
giornata-tipo, e specie del momento mattutino, ed è relativa soltanto
alla particolare concentrazione intellettuale concessa dalla possibilità
di restare nella camera buia, senza alcunché che distragga. Si tratta
dunque della conseguenza della superiore disponibilità di tempo della
villa, un tempo strappato alla congestione della vita urbana e dedicato
esclusivamente al lavoro; non a caso, ultimate elaborazione e corre-
zioni, la luce del sole è lasciata entrare e il notarius viene convocato
per la dettatura. In Lollio, al contrario, attraverso la soppressione del
riferimento alla stanza buia e alle concrete fasi elaborative, si arriva
a una sostanziale alterazione del senso, per cui ciò che in villa cade
sotto gli occhi si deposita in maniera diversa nell’animo dell’uomo,
inducendolo alla ricerca della cause ultime del visibile, come l’autore
confermerà poco dopo osservando che «quell’aer puro e libero, il si-
lentio, e la giocondissima verdura, ricreano molto gli spiriti, e aguzza-
no l’intelletto mirabilmente» 78. Una posizione rafforzata dal rimando
esplicito a Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta 10.5-9 79, che è fra
l’altro un sonetto epistolare rivolto a Stefano o Giacomo Colonna e
concluso dall’invito, altrettanto topico nelle lettere tra mittente in villa
e destinatario in città, a raggiungere il destinatario in campagna, come
già nella lettera di Plinio a Fundano e poi nella lettera di Ludovico
Moro all’interno delle Giornate di Gallo.
Oltre ad essere un singolare ribaltamento della contrapposizione
tra colui che potuit rerum cognoscere causas e le più semplici gioie del-
la vita agreste 80, l’intervento di Lollio si collega piuttosto con un’idea
della villa intesa non solo come isolamento, ma anche come forma
di eremitaggio ascetico, di progressione speculativa dal sensibile al
metafisico, sollecitata proprio da quello studio dei processi biologici
necessario al contadino per ottenere i migliori risultati.
78
Ivi, c. 230v. Selmi, Alberto Lollio cit., pp. 298-300, parla di platonismo e
dimensione religiosa delle litterae.
79
«Qui non palazzi, non theatro o loggia, / ma ’n lor vece un abete, un faggio,
un pino / tra l’erba verde e ’l bel monte vicino, / onde si scende poetando et
poggia, / levan di terra al ciel nostr’intellecto».
80
Cfr. Verg. georg. 2.490-540.
205
Guglielmo Barucci
In Villa più che altrove […] si gode appunto quella felice maniera di
vivere, la quale da tutti i savi per eccellenza è chiamata vita: et è, quan-
do l’huomo libero da’ travagli, e sciolto dalle passioni, che aspramente
affliggono l’animo de’ mortali, se ne vive quietamente, essercitando
però sempre il pretiosissimo dono dell’intelletto: e co’l mezzo suo spe-
culando hor la natura e forza degli Elementi; hora il flusso, e reflusso
dell’acque; hora la fertilità della Terra, hora la virtù dell’herbe […].
E finalmente co’l pensier penetrando dentro al gran chiostro del Cie-
lo, risguarda il bello e meraviglioso ordine di que’ purissimi Angelici
Intelletti; e dall’uno all’altro colla mente salendo, si conduce alla con-
templatione della prima causa. (Lollio, Lettera cit., c. 224r) 81
81
Lo stesso genere di elaborazione anche in Taegio, La villa cit., pp. 69 e 71.
82
R. Bentmann - M. Müller, Die Villa als Herrschaftsarchitektur, Frankfurt
a.M. 1970 (trad. ital. con titolo Uno proprio paradiso. La villa: architettura del domi-
nio, Roma 1986).
83
G. Benzoni, Conversare in villa, in N. Borsellino - B. Germano (a cura di),
L’Italia letteraria e l’Europa, II. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Conve-
gno di Aosta (7-9 novembre 2001), Roma 2003, pp. 15-49.
84
Frigo, La «vita in villa» cit., pp. 103-130.
206
Plinio, e Seneca, in due lettere rinascimentali fittizie dalla villeggiatura
più soffocante e inquieta: il Plinio che rinviava alla vecchiaia 85 il ritiro
definitivo in villa è lontano; molto più vicino è il concilio tridentino.
85
Plin. epist. 3.1.11. Sembra piuttosto una concessione al decoro signorile
la dichiarazione di Lollio, peraltro inconsueta e antitetica con buona parte delle
asserzioni della Lettera, che la città resti necessaria «per le comunanze de’ Populi:
in cui s’imparino le belle creanze, i costumi lodevoli, et le pregiate virtù» (Lollio,
Lettera cit., c. 228r), rielaborazione dell’epistola pliniana a Presente, in cui, invertiti
i ruoli, Plinio sollecitava il corrispondente a tornare in città, unico insostituibile
cardine sociale del vivere civile, il luogo dove si trovano dignitas, honor, amicitiae
tam superiores quam minores (Plin. epist. 7.3.2). Un passo che, peraltro, conferma
l’attenzione di Lollio verso il grande archetipo.
207
Marianna Villa
Plutarco e Castiglione:
il personaggio
di Alessandro Magno
1
L. Mulas, Funzioni degli esempi, funzione del «Cortegiano», in C. Ossola -
A. Prosperi (a cura di), La corte e il «Cortegiano», I. La scena del testo, Roma 1980,
pp. 97-117.
2
La scelta della forma dialogica risponde all’esigenza di riprodurre una delle
più tipiche forme del rapporto sociale cortigiano, ovvero l’«intertenimento» mon-
dano. La discussione sul perfetto cortigiano è infatti presentata dall’autore come un
vero e proprio gioco di società, tra gli altri proposti per trascorrere piacevolmente
le serate nella corte di Urbino (Cort. 1.5-12). La strategia enunciativa organizza il
dialogo diegetico in modo regolare, su modello del De oratore ciceroniano, come
dimostrano la corrispondenza del numero di libri con le serate e la presenza di un
interlocutore principale che ha la funzione di esporre il tema specifico di ogni sera,
mentre gli altri personaggi, realmente vissuti, assistono in circolo intervenendo con
battute o contraddizioni.
3
G. Mazzacurati, Baldessar Castiglione e l’apologia del presente, in Id.,
Misure del classicismo rinascimentale, Napoli 1967, pp. 7-131.
209
Marianna Villa
4
Probabili suggestioni derivano dall’ambiente urbinate, in relazione alla
figura di Guidubaldo: cfr. i motivi della fortuna avversa e della precocità ravvisabili
in Cort. 1.3 e nell’Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini ducis indirizzata da
Castiglione al re d’Inghilterra Enrico VII nel 1508, ma anche nel De Guido Ubaldo
Feretrio deque Elizabetha Gonzaga Urbini Ducibus di Pietro Bembo (Venetiis 1530;
il testo risale però agli anni 1508-1510).
5
Nella lunga e tormentata storia compositiva del Cortegiano si individuano
tre fasi redazionali, a partire dai primi abbozzi del 1513, poi rielaborati e assestati
in una prima redazione (1516) molto lontana dalla configurazione d’arrivo. Il con-
tinuo lavoro di revisione porta a una seconda redazione, completata tra il 1520 e
il 1521, e pubblicata in forma autonoma da Ghino Ghinassi (B. Castiglione, La
seconda redazione del Cortegiano, edizione critica a cura di G. Ghinassi, Firenze
1968). Testimone della terza redazione (1521-1524) è il manoscritto Laur. Ashb.
409, che registra significativi mutamenti strutturali nello sdoppiamento e nella riela-
borazione dell’originario terzo libro della seconda redazione, portando così a quat-
tro il numero totale dei libri. Ulteriormente corretto in Spagna, dove Castiglione si
era recato in qualità di Nunzio apostolico, il Laurenziano venne spedito a Venezia
per la stampa e subì un nuovo processo di revisione, prettamente linguistica, ad
opera di Francesco Valier, dando origine alla princeps aldina del 1528. In attesa
di un’edizione critica di riferimento, le citazioni sono tratte dall’edizione di Bruno
Maier (B. Castiglione, Il libro del Cortegiano con una scelta delle Opere Minori, a
cura di B. Maier, Torino 19733), che assume il codice fiorentino come testimone
privilegiato, in quanto apografo ma con «valore d’autografo», preparato da Casti-
glione medesimo.
210
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
6
Il mantenimento di occorrenze non plutarchee nei primi libri è probabil-
mente ascrivibile non solo alla prassi editoriale di Castiglione, tendenzialmente
conservativa, ma anche alla volontà di rimarcare la propria originalità nel segno di
Plutarco.
7
Cort. 1.45: «Ah, – disse messer Pietro – voi dianzi avete dannati i Fran-
zesi che poco apprezzan le lettre e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli
omini e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenzia. Non
vi ricorda che ‘Giunto Alessandro a la famosa tomba / del fero Achille, sospirando
disse: / - O fortunato, che sí chiara tromba / trovasti e chi di te sí alto scrisse’».
8
Dalla Collatio laureationis (10.17) del 1341 al tardo De ignorantia: cfr.
E. Fenzi, Saggi petrarcheschi, Fiesole 2003, pp. 471-472.
9
Castiglione aggiunge l’elemento del pianto sconsolato che è assente in
Valerio Massimo, con tutta probabilità accentuando il «sospiro» di Petrarca, De
ignorantia 113: «Rise qui ognuno; ma messer Cesare Gonzaga suggiunse: ‘Di che
ridete voi? Non sapete che Alessandro Magno, sentendo che opinion d’un filosofo
211
Marianna Villa
era che fussino infiniti mondi, cominciò a piangere, ed essendoli domandato perché
piangeva, rispose, - Perch’io non ne ho ancor preso un solo; come se avesse avuto
animo di pigliarli tutti?’».
10
Per un quadro generale, cfr. Fenzi, Saggi petrarcheschi cit.
11
Fenzi, Petrarca lettore di Curzio Rufo, in Saggi petrarcheschi cit., pp. 417-445.
12
Su cui cfr. N. Biffi, L’excursus liviano su Alessandro Magno, «BStudlat» 25,
1995, pp. 462-476; P. Treves, Il mito di Alessandro e la Roma di Augusto, Milano -
Napoli 1953; L. Braccesi, L’ultimo Alessandro: dagli antichi ai moderni, Padova
1986, p. 43; e il più recente L. Braccesi, L’Alessandro occidentale. Il Macedone e
Roma, Roma 2006.
13
Fenzi, Alessandro nel «De viris», in Saggi petrarcheschi cit., pp. 447-468.
14
Curt. 6.2.1, ma anche Sen. epist. 83.23, a proposito dell’ubriachezza del Ma
cedone.
15
Il motivo ricorre in Petrarca nella Collatio inter Scipionem, Alexandrum,
Hannibalem et Pyrrhum e quindi nel De viris: cfr. V. Pacca, Petrarca, Bari 1998,
p. 43.
212
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
16
L’episodio è presente in numerose altre fonti, tra cui Plut. mor. 338e = De
Alex. fort. I: cfr. K. Ziegler (ed.), Plutarchus. Vitae Parallelae, II.2, Lipsiae 1968,
ad loc. Secondo la presentazione plutarchea, l’episodio viene letto in chiave morale
e può essere accostato a quello della schiava Campaspe di Cort. 1.52, derivante da
Plin. nat. 35.86, per il motivo del «vincere sé»: cfr. Plut. Alex. 21.5-7 «Alessan-
dro, ritenendo che a un re si addicesse vincere se stesso più che non i nemici, non
le toccò» (la traduzione è tratta da Plutarco, Vite Parallele. Alessandro e Cesare,
a cura di D. Magnino, Torino 1996). Nella tradizione figurativa, dalle Storie del
Sodoma alla Farnesina, dipinte nel 1513-1518, negli anni in cui Castiglione era a
Roma, alla Sala Paolina di Castel Sant’Angelo di Perin del Vaga (1543-1547), al
quadro del Veronese conservato presso la National Gallery di Londra (1565 ca.),
fino al Tiepolo, domina la raffigurazione della generosità di Alessandro rispetto alle
scene connesse alla battaglia di Isso: cfr. R. Guerrini, Biografia dipinta. Plutarco e
l’arte del Rinascimento (1400-1550), La Spezia 2001, pp. 3-21, 36, 56-58.
213
Marianna Villa
Parvi, signor Gasparo, che questi sian atti di continenzia equali a quel-
la d’Alessandro? Il quale, ardentissimamente innamorato non delle
donne di Dario, ma di quella fama e grandezza che lo spronava coi
stimuli della gloria a patir fatiche e pericoli per farsi immortale, non
che le altre cose ma la propria vita sprezzava per acquistar nome so-
pra tutti gli omini; e noi ci maravigliamo che con tai pensieri nel core
s’astenesse da una cosa la qual molto non desiderava? Ché, per non
aver mai piú vedute quelle donne, non è possibile che in un punto
l’amasse 17, ma ben forse l’aborriva, per rispetto di Dario suo nemico;
ed in tal caso ogni suo atto lascivo verso di quelle saria stato iniuria e
non amore; e però non è gran cosa che Alessandro, il quale non meno
con la magnanimità che con l’arme vinse il mondo, s’astenesse da far
ingiuria a femine. (Cort. 3.44)
17
Cfr. anche la ripresa sintattica, con l’interrogativa iniziale, di Cort. 3.78
(della seconda redazione): «Or parvi Frisio, che questo sia più che la continenzia
di Scipione? Il quale essendo in un paese inimico, nuovo e non conosciuto […],
per questi rispetti nel principio de una tanta impresa se astenne da una cosa, la qual
molto non desiderava, ché per non aver mai più veduta quella donna non è già da
creder che così in un punto l’amasse». Nella configurazione definitiva del passo è
evidente il parallelo con Scipione: «La continenzia ancor di Scipione è veramente
da laudar assai; nientedimeno, se ben considerate, non è da agguagliare a quella
di queste due donne; perché esso ancora medesimamente s’astenne da cosa non
desiderata, essendo in paese nemico, capitano novo, nel principio d’una impresa
importantissima […]» (Cort. 3.44).
18
È un’operazione per certi versi analoga a quella che avviene in pittura a
partire dal secondo decennio del sedicesimo secolo, quando – grazie all’influsso di
214
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
Plutarco – nei cicli figurativi il modello petrarchesco degli uomini illustri è soppian-
tato della «biografia dipinta», con varie storie riferite a un unico personaggio, dispo-
ste in un tracciato cronologico lineare: cfr. Guerrini, Biografia dipinta cit., pp. 3-21.
19
Cfr., ad esempio, il cap. 57 della Vita plutarchea.
20
Nelle orazioni Plutarco segue la vulgata senza correggere o controllare alcuni
dati; vi predomina quindi l’elemento romanzesco e favoloso. All’intento apologetico
della Vita si sostituiscono la negazione o l’omissione dei difetti di Alessandro. Per le
differenze tra le opere, dovute anche all’influsso del genere epidittico nelle orazioni,
cfr. M.R. Cammarota, Il «De Alexandri Magni fortuna aut virtute» come espressione
retorica: il panegirico, in I. Gallo (a cura di), Ricerche Plutarchee, Napoli 1992,
pp. 105-124.
215
Marianna Villa
21
Ad esempio, Curzio Rufo sottolinea l’innocenza del filosofo e l’odio provo-
cato nei Greci dalla crudeltà di Alessandro, costretto poi a pentirsi. Sulla congiura
dei paggi a danno di Alessandro cfr. Curt. 8.7-8, e, in particolare su Callistene,
8.8.21-23.
22
Plut. Alex. 52-55. Al contrario, Sen. nat. 6.23.2-3 si basa sull’uccisione di
Callistene per scagliare la sua più violenta invettiva contro Alessandro: cfr. D. Las-
sandro, La figura di Alessandro Magno nell’opera di Seneca, in M. Sordi (a cura di),
Alessandro Magno tra Storia e Mito, Milano 1984, pp. 155-168.
216
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
momento che i primi dieci capitoli dalla Vita plutarchea sono dedi-
cati all’infanzia, con particolare attenzione alla figura di Aristotele,
ritenuto superiore, per importanza, al padre naturale Filippo (Alex.
8.4) 23. Non diversamente Castiglione evidenzia, sin dal primo libro,
la centralità dell’educazione nel determinare il carattere di un uomo,
sovrapponendosi alle doti naturali: «posson quei che non son da na-
tura cosí perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere
in gran parte i diffetti naturali» (Cort. 1.14) 24. La presa di distanza
dai «privilegiati», dotati di qualità che permettono loro di raggiungere
l’eccellenza con poco sforzo, come il Cardinale Ippolito d’Este 25, è
23
«[Alessandro] lo ammirava ed amava non meno di suo padre (così diceva
egli stesso) perché il padre gli aveva dato la vita ma il filosofo gli aveva insegnato
a vivere bene». Plutarco in realtà accenna ai dissapori che seguirono tra i due, pur
attenuandone i toni, a differenza di Castiglione, che, mediante l’aggiunta di 4.47,
ribadisce ulteriormente l’importanza del rapporto educativo e riporta lo stesso
motivo plutarcheo della superiorità di Aristotele rispetto a Filippo, presente, fra
l’altro, anche nella prima orazione di Plut. mor. 327f. Sebbene Castiglione cono-
scesse il greco, era consuetudine ricorrere alle traduzioni latine, che proliferarono a
partire dal secondo decennio del quindicesimo secolo: cfr. L. Cesarini Martinelli,
Plutarco e gli umanisti, Bologna 2000, pp. 5-33, e M. Pade, Sulla fortuna delle «Vite»
di Plutarco nell’Umanesimo italiano del ’400, «Fontes» 1, 1998, pp. 101-116. In rela-
zione alla Vita di Alessandro, le ricostruzioni di Giustiniani individuano in Guarino
il principale traduttore, al ritorno da Bisanzio nel 1408 ed entro il 1416; vengono
inoltre attribuite a Iacopo Angeli altre versioni, in corrispondenza alle dispute sulla
superiorità di Cesare o Alessandro, diffuse in ambiente fiorentino (V.R. Giustiniani,
Sulle traduzioni latine delle «Vite» di Plutrarco nel Quattrocento, «Rinascimento»
12, 1961, pp. 3-62, e M. Pade, Latin Manuscripts of Plutarch’s Lives Corrected and
Annotated by Guarino Veronese, in AA.VV., Manuele Crisolora e il ritorno del greco
in Occidente, Atti del Convegno internazionale [Napoli, 26-29 giugno 1997], a cura
di R. Maisano - A. Rollo, Napoli 2002, pp. 249-268). La biblioteca urbinate pos-
sedeva tutte le Vite in greco, come ricorda Vespasiano da Bisticci (Commentario
de la vita del signore Federico, duca d’Urbino, in Id., Le vite, a cura di A. Greco, I,
Firenze 1970, pp. 395-396) e molteplici traduzioni in latino, tra cui il Vat. Urb. Lat.
443 e il Vat. Urb. Lat. 448, contenenti la vita di Alessandro tradotta da Guarino
(M. Pade, A Checklist of the Manuscripts of the Fifteenth Century Latin Transla-
tions of Plutarch’s Lives, in AA.VV., L’eredità culturale di Plutarco dall’antichità al
Rinascimento, Atti del VII Convegno plutarcheo [Milano - Gargnano, 28-30 maggio
1997], a cura di I. Gallo, Napoli 1998, pp. 251-288).
24
«E cosí intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati, quasi
sempre son simili a quelli d’onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro
chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano» (Cort. 1.14).
25
«E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este cardinal
di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo
217
Marianna Villa
aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed
accommodati, che tra i piú antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una
tanto grave autorità, che piú presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’impa-
rare» (ibid.).
26
Cort. 1.24: «Ma perché voi diceste, questo spesse volte esser don della natura
e de’ cieli, ed ancor quando non è cosí perfetto potersi con studio e fatica far molto
maggiore, quegli che nascono cosí avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro, come
alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d’altro maestro;
perché quel benigno favor del cielo quasi al suo dispetto i guida piú alto che essi
non desiderano, e fagli non solamente grati, ma ammirabili a tutto il mondo. Però
di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi l’acquistarlo.
Ma quelli che da natura hanno tanto solamente, che son atti a poter esser aggraziati
aggiungendovi fatica, industria e studio, desidero io di saper con qual arte, con qual
disciplina e con qual modo possono acquistar questa grazia».
27
La fonte del passo va ricercata nell’Institutio oratoria di Quintiliano, 1.1.23,
opera di taglio pedagogico e ampiamente utilizzata nel primo libro del Cortegiano
per sottolineare la necessità di un’educazione graduale sin dalla prima infanzia.
218
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
28
Plutarco è il primo che cita in modo esplicito l’Iliade, e non genericamente
Omero: «[Alessandro] era anche amante per natura del leggere e dello studio lettera-
rio: ritenendo che l’Iliade fosse un viatico di virtù bellica (così la definiva), la teneva
con sé nell’edizione di Aristotele che chiamano della cassetta, e sempre la poneva
con il pugnale sotto il cuscino». Già Alberti aveva utilizzato l’esempio di Alessandro
nei Profugiorum ab aerumna libri tres, ma per sottolineare la preziosità del volume,
con lo scopo di elogiare la cultura e l’utilità degli insegnamenti di Agnolo Pandol-
fini: «E ricordommi di quello che e’ referiscono di Alessandro Macedone, quale
essendogli presentato un forzerino bellissimo lavorato, non sapea che imporvi cosa
preziosissima e condegna d’allogarla in sì maravigliosa cassetta. Pertanto comandò
vi riponessero e serbassono entro e’ libri di Omero, quali certo, non nego, sono
specchio verissimo della vita umana» (la citazione è tratta da L.B. Alberti, Profu-
giorum ab aerumna libri, in Id., Opere volgari, a cura di C. Grayson, Bari 1966, II,
p. 162).
29
Cfr., ad esempio, Plut. Alex. 5.8, in cui il pedagogo di Alessandro si assimila
a Fenice, e nel contempo collega Alessandro ad Achille e Filippo a Peleo, con allu-
sione all’episodio dell’ambasceria ad Achille contenuto nel nono libro dell’Iliade.
30
Indicata tra parentesi quadre nella citazione riportata sopra di Cort. 1.43: «e
tanto quello amò che Stagira, patria sua, disfatta, fece reedificare».
219
Marianna Villa
31
«Ancora in Italia se ritrovano oggidí alcuni figlioli de signori, li quali,
benché non siano per aver tanta potenzia, forse suppliranno con la virtú; e quello
che tra tutti si mostra di meglior indole e di sé promette maggior speranza che alcun
degli altri, parmi che sia il signor Federico Gonzaga, primogenito del marchese
di Mantua nepote della signora Duchessa nostra qui; ché, oltra la gentilezza de’
costumi e la discrezione che in cosí tenera età dimostra, coloro che lo governano di
lui dicono cose di maraviglia circa l’essere ingenioso, cupido d’onore, magnanimo,
cortese, liberale, amico della giusticia; di modo che di cosí bon principio non si po
se non aspettar ottimo fine» (Cort. 4.42).
32
«Una volta, in assenza di Filippo, ricevette dei messi giunti da parte del re
dei Persiani, e intrattenendoli, con la sua amabilità e col non rivolgere loro nessuna
domanda sciocca o banale, ma informandosi della lunghezza delle strade e del modo
di viaggiare nell’interno dell’Asia, e circa lo stesso re, come si comportava in guerra
e quale era la forza e la potenza dei persiani, li affascinò a tal punto che essi ne
rimasero ammirati e ritennero che la celebrata abilità di Filippo non fosse niente a
paragone dell’impostazione di pensiero e dell’alto sentire del figlio» (Plut. Alex. 5).
220
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
33
«Ogni volta che sentiva annunciare che Filippo aveva conquistato una
città famosa o aveva vinto una celebrata battaglia, non dimostrava molta gioia e ai
coetanei diceva: ‘Amici, mio padre si prenderà tutto e non mi lascerà la possibilità
di compiere con voi qualche grossa, luminosa impresa’. Egli infatti non aspirava a
piaceri o ricchezze, ma a virtù e fama, e pensava che quanto più riceveva dal padre,
tanto meno avrebbe guadagnato da solo» (Plut. Alex. 5).
221
Marianna Villa
vincere a lui; cosí ora Alessandro mio figliolo si dole e sta per pianger
vedendo ch’io suo padre perdo, perché dubita ch’io perda tanto, che
non lassi che perder a lui». (Cort. 2.67)
34
Cfr. Cort. 1.43 e l’episodio di Apelle in Cort. 1.52.
35
«Intanto egli cercava sempre più di conformarsi al modo di vivere dei Per-
siani e operava per avvicinare il modo persiano a quello macedone, ritenendo che
avrebbe reso saldo il suo potere, mentre stava partendo per un lungo viaggio, con
la concordia e la fusione dei due popoli ottenuta con la benevolenza più che con
la forza. Per questo egli scelse trentamila giovani e ordinò che si insegnasse loro la
lingua greca, e che anche fossero addestrati nell’uso delle armi macedoni» (Plut.
Alex. 47.4-5).
222
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
dal congiungersi con le madri e mille altre cose che si porian dir in
testimonio del giovamento che fecero al mondo le sue vittorie. (Cort.
4.37)
36
Cfr., in riferimento al principe, Cort. 4.27, in cui la guerra è considerata
necessaria per abbattere i tiranni e instaurare la pace: «Però debbono i príncipi far
i populi bellicosi non per cupidità di dominare, ma per poter diffendere se stessi
e li medesimi populi da chi volesse ridurgli in servitú, o ver fargli ingiuria in parte
alcuna»; ibid.: «Come adunque nella guerra debbono intender i populi nelle virtú
utili e necessarie per conseguirne il fine, che è la pace, cosí nella pace, per conse-
guirne ancor il suo fine, che è la tranquillità, debbono intendere nelle oneste, le
quali sono il fine delle utili».
37
Per quanto riguarda le due orazioni, la versione in latino venne eseguita da
Iacopo Angeli (Vat. Lat. 1875) nel 1409 e poi fu rifatta da Niccolò Perotti nel 1452
su invito di Nicolò V (Vat. Urb. Lat. 297): cfr. A. D’Angelo, N. Perotti traduttore
di Plutarco: il «De Alexandri Magni fortuna aut virtute, oratio I», «RPL» 14, 1994,
pp. 39-47, con le puntualizzazioni di Marcello Gigante, soprattutto per la datazione:
223
Marianna Villa
224
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
41
«Sicchè ciò che disse Temistocle (quando, esule, ottenne dal Gran Re ricchi
doni e ricevette come tributarie tre città, una per il suo pane, l’altra per il suo vino,
la terza per il suo companatico): ‘Figli miei, saremmo rovinati, se non fossimo andati
in rovina!’, è più giusto riferirlo a coloro che furono conquistati da Alessandro: ‘Essi
non avrebbero appreso la vita civile, se non fossero stati soggiogati’». Da notare la
consueta prassi di Castiglione, che riscrive le fonti eliminando particolari superflui
(come la menzione delle tre città preposte al mantenimento di Temistocle), che pos-
sono appesantire la narrazione e generare «affettazione», per focalizzare l’attenzione
su ciò che risulta funzionale al proprio discorso.
42
In quella sede il futuro Francesco I è presentato come realizzazione dell’ide-
ale umanistico delle lettere congiunte alle armi, dunque una sorta di corrispettivo
moderno di Alessandro: «Voi dite il vero, rispose – che questo errore già gran tempo
regna tra’ Franzesi; ma se la bona sorte vole che monsignor d’Angolem, come si
spera, succeda alla corona, estimo che sí come la gloria dell’arme fiorisce e risplende
in Francia, cosí vi debba ancor con supremo ornamento fiorir quella delle lettere;
perché non è molto ch’io, ritrovandomi alla corte, vidi questo signore e parvemi
225
Marianna Villa
che, oltre alla disposizion della persona e bellezza di volto, avesse nell’aspetto tanta
grandezza, congiunta però con una certa graziosa umanità, che ’l reame di Francia
gli dovesse sempre parer poco. Intesi da poi da molti gentilomini, e franzesi ed
italiani, assai dei nobilissimi costumi suoi, della grandezza dell’animo, del valore e
della liberalità; e tra l’altre cose fummi detto che egli sommamente amava ed esti-
mava le lettere ed avea in grandissima osservanzia tutti e litterati». Cfr. Quondam,
Questo povero Cortegiano cit., pp. 338-345 e 490-500.
43
«Cercherei d’imprimergli nell’animo una certa grandezza, con quel splen-
dor regale e con una prontezza d’animo e valore invitto nell’arme, che lo facesse
amare e reverir da ognuno di tal sorte, che per questo principalmente fusse famoso
e chiaro al mondo […]; dovesse essere liberalissimo e splendido e donar ad ognuno
senza riservo, perché Dio, come si dice, è tesauriero dei príncipi liberali; far conviti
magnifici, feste, giochi, spettacoli publici; aver gran numero di cavalli eccellenti,
per utilità nella guerra e per diletto nella pace; falconi, cani e tutte l’altre cose che
s’appartengono ai piaceri de’ gran signori e dei populi» (Cort. 4.36).
226
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
44
La fonte è nuovamente un passo del medesimo opuscolo plutarcheo, oltre-
tutto collocato dopo il riferimento a Temistocle (mor. 328ef) e ancora una volta
ripreso in sintesi, con l’eliminazione dei nomi troppo esotici – un’ulteriore conferma
di come i toponimi prevalenti nel Cortegiano siano quelli della geografia contempo-
ranea: «L’Egitto non avrebbe Alessandria, nè la Mesopotamia Seleucia, né Proftasia
la Sogdiana, né l’India Bucefala, né il Caucaso una città greca posta attorno alle sue
pendici».
45
Cfr. la seconda orazione plutarchea (mor. 335c-e), in cui l’architetto Stasi-
crate propone il progetto ad Alessandro.
227
Marianna Villa
46
La definizione deriva dalla prima orazione plutarchea (mor. 328ab), in cui
l’autore greco considera Alessandro come un filosofo superiore a tutti i grandi del
passato in virtù della prassi (un «filosofo in azione»): «Alessandro fu filosofo per ciò
che disse, ciò che fece, ciò che insegnò». L’amore per la filosofia è sottolineato più
volte anche nella Vita, sebbene rimanga un motivo secondario rispetto all’idea della
superiorità morale del Macedone e all’elogio delle sue qualità: cfr. Plut. Alex. 7.6-7;
8.4-5; 14.5.
47
«Perché, reassumendo quello che s’è detto insin qui, si poria cavar una con-
clusione che ’l cortegiano, il quale col valore ed autorità sua ha da indur il principe
alla virtú, quasi necessariamente bisogna che sia vecchio, perché rarissime volte il
228
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
Nel passaggio alla terza redazione l’inversione dei termini delle cop-
pie segnala a livello formale il cambiamento di prospettiva, per cui
l’attenzione viene rivolta ai prìncipi che devono disporsi ad ascoltare
saper viene innanzi agli anni, e massimamente in quelle cose che si imparano con
la esperienzia, non so come, essendo di età provetto, se gli convenga l’essere ina-
morato; atteso che, come questa sera s’è detto, l’amor ne’ vecchi non riesce e quelle
cose che ne’ giovani sono delicie e cortesie in essi sono pazzie ed inezie ridicule
[…]. Però se questo vostro Aristotile, cortegian vecchio, fosse inamorato e facesse
quelle cose che fanno i giovani inamorati, come alcuni che n’avemo veduti a’ dí
nostri, dubito che si scorderia d’insegnar al suo principe, e forse i fanciulli gli fareb-
bon drieto la baia e le donne ne trarebbon poco altro piacere che di burlarlo» (Cort.
4.49).
48
La fonte è un passo dell’opuscolo Maxime cum principibus philosopho esse
disserendum 1 (Plut. mor. 777): «Se invece [i filosofi] raggiungono un magistrato,
un politico, uno dedito all’azione, lo riempiono di virtù e di bontà, e tramite una
sola persona giovano a molti, come Anassagora, che fu in dimestichezza con Pericle,
Platone con Dione e Pitagora con gli uomini più illustri d’Italia. Lo stesso Catone,
lasciando l’esercito, navigò per mare incontro a Atenodoro, e Scipione mandò a
chiamare Panezio quando il senato lo incaricò […]» (Plutarco, Consigli ai politici,
introduzione di S. Beta, traduzione e note di G. Giardini, Milano 2007).
229
Marianna Villa
49
La stessa funzione ricopre l’elemento polemico, che rimane comunque, allo
scopo di marcare la distanza temporale: «Ma se ad alcuni de’ nostri príncipi venisse
innanti un severo filosofo, o chi si sia, il qual apertamente e senza arte alcuna volesse
mostrar loro quella orrida faccia della vera virtú ed insegnar loro i boni costumi e
qual vita debba esser quella d’un bon principe, son certo che al primo aspetto lo
aborririano come un aspide, o veramente se ne fariano beffe come di cosa vilissima»
(Cort. 4.8).
50
C. Scarpati, Dire la verità al principe. «Cortegiano IV, 5», in AA.VV., Dire la
verità al principe. Ricerche sulla letteratura del Rinascimento, Milano 1987, pp. 9-54.
In Cort. 4.47 della terza redazione viene aggiunto l’esempio di Callistene, che, privo
dei modi della «cortegiania», come sappiamo fallisce la propria missione educativa:
«Di queste cose in Alessandro fu autore Aristotile, usando i modi di bon cortegiano;
il che non seppe far Calistene, ancorché Aristotile glielo mostrasse; ché, per voler
esser puro filosofo e cosí austero ministro della nuda verità, senza mescolarvi la
cortegiania, perdé la vita e non giovò, anzi diede infamia ad Alessandro». Anche in
questo caso Castiglione ha parzialmente riutilizzato materiale precedente, in quanto
il riferimento a Callistene, poi espunto, era presente a conclusione della riprensione
sui vecchi nel proemio del secondo libro: «e dicono Aristotele essere versato nella
corte di Alessandro et avere quasi insegnato a Calistene, suo discipulo, di adularlo»
(Cort. 2.4 della seconda redazione).
230
Plutarco e Castiglione: il personaggio di Alessandro Magno
51
Scarpati, Dire la verità al principe cit., p. 32, e G. Arbizzoni, «E se non
volete chiamarlo cortegiano non mi dà noia» (Cort. IV, 47), in L. Secchi Tarugi (a
cura di), Cultura e potere nel Rinascimento, Atti del IX Convegno internazionale
(Chianciano - Pienza, 21-24 luglio 1997), Firenze 1999, pp. 149-157.
52
Scarpati, Dire la verità al principe cit., p. 23. Del resto, il nome di Plutarco
non è l’unico a scomparire nella terza redazione: per motivi diversi anche due riferi-
menti a Giovanni Pontano vengono soppressi (2.35 e 2.74 della seconda redazione),
così come due serie di autori illustri contemporanei (cfr. Cort. 3.85, nella seconda
redazione).
53
Cfr., ad esempio, Cort. 3.58 della seconda redazione: gli esempi legati al
mondo greco, di Timoclia (da Plut. Alex. 12), Teoxena, Policreta, Telesilla, nella
terza redazione sono sostituiti dal riferimento alla sola Leona. In questo modo
Castiglione evita lo sbilanciamento della seconda redazione dovuto alla presenza di
quattro donne greche accanto all’unica romana, Epicari, e conferisce una struttura
binaria al discorso, presentando le vicende di Epicari e Leona come speculari, in
ambito romano e greco.
231
Marianna Villa
54
Maxime cum principibus philosopho esse disserendum 4 (Plut. mor. 779c).
55
«Sono adunque molti príncipi che sariano buoni, se gli animi loro fussero
cultivati di buona creanza; e di questi parlo io, non di quelli che sono sterili, o vero
inveterati nel male; come quel Dionisio il qual Platone ritrovò come un libro tutto
pieno di mende e di errori e piú presto bisognoso d’una universal litura che di
mutazione o correzione alcuna, per non essere possibile levargli quella tintura della
tirannide, della qual tanto tempo già era macchiato».
232
Michele Comelli
Sortite notturne
cinquecentesche
I casi di Trissino e Alamanni
1
S. Zatti, L’ombra del Tasso. Epica e romanzo nel Cinquecento, Milano 1996
(il capitolo occupa le pp. 1-27).
2
In proposito si veda il fondamentale studio di G. Baldassarri, Il sonno di
Zeus. Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma
1982.
3
Il punto di partenza di questo studio sono, ovviamente, Baldassarri, Il sonno
di Zeus cit. (in part. pp. 107-127), e soprattutto M.C. Cabani, Gli amici amanti.
Coppie eroiche e sortite notturne nell’epica italiana, Napoli 1995. Per la ricostru-
zione del topos, da Omero ad Ariosto, rinvio al volume della Cabani (pp. 1-41); lo
233
Michele Comelli
stesso vale per la bibliografia sul versante classico, alla quale aggiungerei perlomeno
Ph. Hardie (ed.), Virgil. Aeneid Book IX, Cambridge 1994, pp. 23-34; S. Casali,
Nisus and Euryalus: Exploiting the Contradictions in Virgil’s Doloneia, «HSCPh»
102, 2004, pp. 319-354, con gli opportuni rimandi. Sia il volume di Baldassarri che
quello della Cabani si occupano degli esperimenti di Trissino e di Alamanni: ma
mentre il primo mette in luce l’affermarsi in questa linea «omerizzante» del «pri-
mato dell’‘interpretazione’ sulla ‘critica del testo’» (p. 99), valutandolo soprattutto
in direzione tassiana, la seconda, più interessata agli sviluppi del modello virgiliano,
si limita ad annotare la «fedeltà alla matrice omerica» (p. 42) di queste esperienze di
metà secolo, all’interno delle quali gli accenti lirico-patetici virgiliani sparirebbero
in nome di un forte «bisogno teorico-dimostrativo».
4
Cabani, Gli amici amanti cit., p. 6.
5
Così P. Mazzocchini, Forme e significati della narrazione epica nell’epos vir-
giliano. I cataloghi degli uccisi e le morti minori nell’«Eneide», Fasano (BR) 2000,
pp. 335-357.
234
Sortite notturne cinquecentesche
6
Ma in realtà Stazio insiste soprattutto sulla tracotanza di Capaneo, che non
accetta di seguire la volontà degli dèi, che quella sortita hanno variamente propi-
ziato.
7
Ph. Hardie, The Epic Successors of Virgil. A Study in the Dynamics of a Tra-
dition, Cambridge 1993.
8
Cfr. Cabani, Gli amici amanti cit., pp. 11-12.
235
Michele Comelli
gli armenti con legate alle corna frasche incendiate perché appicchino
fuoco e creino scompiglio tra l’esercito di Fabio, in Pun. 7.282-380),
così vediamo anche ricongiunti i due temi nell’episodio del padre
fuggito di notte dalla prigionia cartaginese e ucciso dal suo stesso fi-
glio (Pun. 9.66-177). A ragione, dunque, Baldassarri dice che il topos
giunge al Cinquecento diffranto nei suoi possibili sviluppi tematici,
ed è certo la «rinascita» omerica che si accompagna alla riscoperta di
Aristotele a favorire la scissione «critica» dei due temi e a determinare
la propensione dei diversi autori per l’uno o per l’altro di essi.
Fino ad Ariosto, in sostanza, le diverse possibilità possono an-
che coesistere, per quanto l’impronta virgiliana sia preponderante.
Quando la tradizione giunge ad Ariosto, che la rielabora come ha ben
illustrato la Cabani 9, una serie di questioni, testimoniate già dai com-
mentatori antichi (per esempio, dal commento all’Eneide di Tiberio
Claudio Donato) 10, si era come depositata sull’episodio; e forse sarà
il caso di integrare lo studio della Cabani ricordando due passi del
Furioso che si riallacciano – a mio avviso – alla tradizione in esame;
vale a dire il rifiuto di Orlando, come di Capaneo, di colpire i nemici
nel sonno (Fur. 9.3-4) e, più avanti, l’assalto notturno organizzato da
Rinaldo per togliere l’assedio saraceno a Parigi (Fur. 31.50-58). Anche
nel Furioso, dunque, la legittimità di una sortita notturna è messa in
discussione, ma nel poema ariostesco gli opposti possono convivere
facilmente e il poeta sembra distinguere prontamente fra cavalleria
e guerra – e le regole di cavalleria non sempre valgono nella guerra!
La differenza tra Ariosto e gli autori successivi risiede però nel modo
di trattare le fonti e la tradizione: il classicismo ariostesco si mani-
festa nella possibilità di commistione, rielaborazione e ribaltamento
dei modelli. La formula ormai standardizzata dell’ironia ariostesca,
del resto, si realizza in questa capacità del Ferrarese di giocare con
9
Cfr. Cabani, Gli amici amanti cit., pp. 17-35.
10
Esemplare è la lettura moralista offerta da Donato per l’episodio di Eurialo e
Niso: cfr. M. Gioseffi, Amici complici amanti: Eurialo e Niso nelle «Interpretationes
Vergilianae» di Tiberio Claudio Donato, «Incontri Triestini di Filologia Classica»
5, 2006, pp. 185-208. Il ruolo esercitato dai commenti antichi per questa rilettura
«critica» della tradizione è un campo, in realtà, ancora tutto da indagare. Quel che è
certo è che tali commenti erano, nel Cinquecento, parte integrante e costitutiva del
testo virgiliano: è perciò auspicabile una futura riconsiderazione della loro funzione
e del loro peso interpretativo.
236
Sortite notturne cinquecentesche
11
La bibliografia sul ri-uso ariostesco dei classici, a partire dal lavoro fon-
damentale di Pio Rajna (P. Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso, Firenze 19002)
è troppo estesa per poter essere riportata qui. Mi limito a citare alcuni titoli fon-
damentali, rimandando alle bibliografie interne ad essi per gli ulteriori approfon-
dimenti: C. Segre, Esperienze ariostesche, Pisa 1966; D. Javitch, The Imitation of
Imitations in Orlando Furioso, «Renaissance Quarterly» 38, 1985, pp. 215-239;
S. Zatti, Il Furioso fra epos e romanzo, Lucca 1990; S. Jossa, La fantasia e la memo-
ria. Intertesualità ariostesche, Napoli 1996; D. Looney, Compromising the Classics.
Romance Epic Narrative in the Italian Renaissance, Detroit 1996.
237
Michele Comelli
12
Termine che Trissino mutua dallo pseudo-Demetrio e sul quale fonda so
stanzialmente il suo «omerismo».
13
Per il dibattito sul poema eroico mi limito a rimandare a pochi titoli fon-
damentali: oltre ai già citati volumi di Zatti e Baldassarri, ancora indispensabile è
B. Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, I-II, Chi-
cago 1961; più moderno e incentrato su temi e problemi del poema «regolare» tra
Ariosto e Tasso è il volume di S. Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico
tra Ariosto e Tasso, Roma 2002. Infine, sulla dialettica gravitas/«piacevolezza» si
veda A. Afribo, Teoria e prassi della «gravitas» nel Cinquecento, Firenze 2001.
14
Cito il poema di Trissino da G.G. Trissino, L’Italia liberata da’ Gotti, in Id.,
Tutte le opere non più raccolte, a cura di S. Maffei, I, Verona 1729 (il testo è distri-
buito su due colonne e i versi non sono numerati); nelle citazioni il poema verrà
indicato con It. Lib., facendo seguire al numero del libro e della pagina l’indicazione
della colonna.
15
Per l’Avarchide cito da L. Alamanni, L’Avarchide, Venezia 1841. Nelle cita-
zioni la indico con Av., seguito dal numero del libro e dell’ottava.
16
Giovan Giorgio Trissino (Vicenza, 1478 - Roma, 1550) è figura tra le più
originali del panorama letterario del primo Cinquecento, sia sul versante pratico
238
Sortite notturne cinquecentesche
239
Michele Comelli
Questa peculiarità stilistica di Omero fa sì che chi «lo legge, par essere
quasi presente a quelle azioni, ch’egli descrive; cosa, che leggendo la
maggior parte de i Poeti Latini, non avviene» 20. Si viene così a fondare
un’ulteriore opposizione tra minuziosità e oggettività omerica da una
parte, sinteticità e lirismo dell’epica virgiliana dall’altra: non più solo
Omero versus Ariosto, ma anche Omero versus Virgilio, o, meglio,
la «maniera» epica latina. Tale opposizione trova esemplare riscontro
nella riscrittura della sortita: secondo una prassi tipica del Vicentino,
l’episodio omerico della Doloneia viene sdoppiato nelle due sortite
simmetriche di Frodino (libro tredicesimo) e della coppia Traiano/
Mundello (libro diciannovesimo), suddividendo così le spedizioni
intrecciate di Dolone e della coppia Odisseo/Diomede 21. L’aspetto
strategico militare, inteso come particolareggiare realistico, diviene
preponderante e non mancano i prestiti narrativi dalla tradizione lati-
na, senza però che trovino assolutamente spazio i motivi lirico-patetici
prettamente virgiliani.
Al libro tredicesimo 22 Trissino riprende, nell’episodio di Frodino,
la vicenda omerica di Dolone, ma alcuni particolari sono significativi
del nuovo rapporto instaurato con i modelli: il protagonista è Frodino,
che anche nel nome richiama il suo predecessore greco. Vitige dopo la
vittoria diurna dei Goti, arrestata soltanto dal calare della notte, chiede
se qualcuno sia disposto ad andare a Roma per scrutare i piani dei nemi-
ci e vedere la loro disposizione, o, nel caso in cui non riesca a penetrare
entro le mura, a spaventare almeno con minacce e insulti le genti 23; in
cambio, egli riceverà il miglior corsiero tra quelli di Vitige 24. Frodino,
20
Ibid.
21
Forse anche in questo si può riconoscere un rifiuto dell’entralacement
romanzesco.
22
Tutto il libro è esemplare della commistione fra elementi tratti da un’am-
pia tradizione epica classica, trasformati in pura narrazione: dopo essersi chiuso in
Roma su consiglio del Conte d’Isaura e avere accuratamente disposto la guardia
intorno alle mura della città, Belisario manda – sempre secondo l’esortazione del
vecchio consigliere – un’ambasciata a chiedere il ritorno di Corsamonte sdegnato;
intanto il negromante Filodemo, sulla scorta della Eritto di Lucano (civ. 6.507-830),
riesce a localizzare attraverso un rito spiritico Corsamonte.
23
Com’è evidente, qui ed altrove il disinteresse trissiniano per i motivi lirici e
patetici fa spesso sfociare la narrazione nel grottesco.
24
Non così in Omero, dove Ettore promette il miglior cocchio e i migliori due
cavalli achei (Hom. Il. 10.303-306).
240
Sortite notturne cinquecentesche
25
Cfr. It. Lib. 13.133b con Hom. Il. 10.313-331.
241
Michele Comelli
26
La similitudine traduce fedelmente Hom. Il. 10.360-362.
27
Cfr. It. Lib. 13.134b («Gridò Lucillo a lui, ‘Se non ti fermi, / Gotto crudel,
ti giungerò con l’asta; / né vivo fuggirai da le mie mani’. / E detto questo, lasciò gir
la lancia / de industria, che gli andò sopra la spalla, / e ’l ferro avanti a lui ficcossi in
terra, / ond’ei restò tremando, e per paura / era già verde, e gli crollava il mento; /
tal che i Baroni ansando lo pigliaro / con le lor mani, et ei piangendo disse: / ‘Valo-
rosi Signor, non m’uccidete, / ma fatemi prigion, ch’io vi prometto / di riscattarmi
con assai tesoro. / Mio padre è ricco, et è senz’altro erede, / e se saprà, ch’io sia ne
le man vostre / vivo, daravvi molto argento, et oro, / per liberarmi, e rimenarmi a
casa’») con Hom. Il. 10.369-381.
242
Sortite notturne cinquecentesche
28
Ma è certo corretta anche la colpevole smemoratezza di Eurialo, che lo
aveva spinto a prendere e rivestire l’elmo di Messapo (Aen. 9.365-366 e 373-374
prodidit immemorem).
243
Michele Comelli
Ecco che emerge per la prima volta anche il tema della legittimità di
un’azione impulsiva e imprudente come la sortita notturna. E qui si
ritorna alla tradizione virgiliana e staziana in particolare, all’interno
della quale si era configurata la discussione sui rischi e l’opportunità
di un attacco individuale notturno, per gloria o per bottino.
29
Il corsivo nelle citazioni, qui come in seguito, è mio.
244
Sortite notturne cinquecentesche
30
Cfr. It. Lib, dedicatoria, 2r.
31
I versi traducono perfettamente Hom. Il. 10.218-226.
32
Cfr. il discorso di Odisseo in Hom. Il. 10.248-253.
245
Michele Comelli
33
Così già P.A. Perotti, L’eroismo «privato» di Eurialo e Niso, «Latomus» 64,
2005, pp. 56-69.
246
Sortite notturne cinquecentesche
E poi gli chiede chi sia e che cosa stia facendo. Lucimborgo rivela il
«trattato» tra due traditori romani e due goti:
«Corrotti, e mossi con argento, et oro,
a far, ch’essi portassen su quel muro
acqua alloppiata mescolata in vino,
e darlo quivi a bere a quelle guarde,
247
Michele Comelli
Come si vede dai due episodi, per Trissino omerismo significa imi-
tazione dello stile omerico, vale a dire narrazione particolareggiata,
asciutta e il più possibile fedele al principio di impersonalità dell’au-
tore; ma è un’impersonalità che si concretizza spesso in rifiuto dell’in-
tero versante «lirico-patetico», che invece la tradizione letteraria vol-
gare aveva consolidato; un’impersonalità che a volte sfocia addirittura
nell’indecoroso e nel non conveniente. È chiaro che una simile opera-
zione, che noi potremmo definire archeologica, e non solo anacroni-
stica, doveva essere accolta con polemica e unanime rifiuto nel secolo
di Bembo e di Della Casa, negli anni in cui «dolcezza» e gravitas cer-
cavano di acquisire un nuovo statuto letterario – al punto che Bolo-
gnetti in un capitolo a Giraldi poteva dire che Trissino «d’Homero /
colse lo sterco, e non conobbe l’oro» 35; e Tasso, quando si tratterà di
34
La scelta dei nomi dei personaggi rivela evidentemente l’imperialismo ideo-
logico trissiniano.
35
F. Bolognetti, I capitoli letterari di Francesco Bolognetti: tempi e modi della
letteratura epica fra l’Ariosto e il Tasso, a cura di A.N. Mancini, Napoli, 1989 (A
Messer Giovanbattista Giraldi Cinthio, vv. 11-12). La formula, in realtà, era già stata
248
Sortite notturne cinquecentesche
usata da Giraldi nel suo Discorso intorno al comporre dei Romanzi (cfr. G.B. Giraldi
Cinzio, Scritti critici, a cura di C. Guerrieri Crocetti, Milano 1973, p. 63).
36
Tasso, Discorsi dell’arte poetica cit., p. 33.
37
Cfr. Zatti, L’ombra del Tasso cit., pp. 87-103.
38
Luigi Alamanni (Firenze, 1495 - Amboise, 1556) fu tra i principali fautori
di inizio Cinquecento di un nuovo classicismo volgare, intento a riprodurre i generi
della poesia classica in lingua volgare. Dopo una giovinezza «repubblicana» antime-
dicea a Firenze, dove fu frequentatore degli Orti Oricellari e discepolo di Machia-
velli, trascorse il resto della sua vita, in seguito al secondo esilio (1530), presso la
corte di Francesco I prima, di Enrico II poi. Fu in Francia che Alamanni iniziò
a costruire la propria immagine di letterato classicista attraverso la pubblicazione
delle Opere toscane (1531-1532), vera e propria raccolta di esperimenti anche gio-
vanili, di impostazione classicista (oltre a canzoni e sonetti o ecloghe in terza rima,
spiccano le elegie, le odi, le satire, i poemetti mitologici e la traduzione in sciolti
dell’Antigone); la Coltivazione (1546), cui si legò nei secoli successivi la fama del
poeta; il Girone il cortese (1548), traduzione in ottave del romanzo omonimo fran-
cese; e, infine l’Avarchide, poema in ottave che canta l’ira di Lancillotto contro re
Artù durante l’assedio di Avarco (l’odierna Bourges). Il poema segue fedelmente
la trama del poema omerico e ne riproduce ogni singolo episodio. Su Alamanni
rimando a H. Hauvette, Un exilé florentin à la cour de France au XVI e siécle, Luigi
Alamanni (1495-1556). Sa vie et son œuvre, Paris 1903, e alla voce contenuta nel
DBI, I, Roma 1960, pp. 568-571, a firma R. Weiss. Sull’Avarchide si vedano invece
i datati contributi di E. De Michele, L’Avarchide di Luigi Alamanni, Aversa 1895,
e U. Renda, L’elemento Bretone nell’Avarchide di Luigi Alamanni, «Studi di Lette-
ratura Italiana» 1, 1899, pp. 1-159. Cfr. inoltre i più recenti Jossa, La fondazione di
un genere cit., e ancora Id., Dal romanzo cavalleresco al poema omerico: il «Girone» e
l’«Avarchide» di Luigi Alamanni, «Italianistica» 1, 2002, pp. 13-37, con le bibliogra-
fie di riferimento.
249
Michele Comelli
Cfr. Tasso, Discorsi dell’arte poetica cit., p. 92.
39
Si vedano le considerazioni sull’episodio in Jossa, Dal romanzo cavalleresco
40
al poema omerico cit, p. 27; e quelle della Cabani, Gli amici amanti cit., pp. 41-43.
250
Sortite notturne cinquecentesche
251
Michele Comelli
41
Vaga reminiscenza delle fallentes umbrae di Stazio (Theb. 10.260).
252
Sortite notturne cinquecentesche
42
Per questa impostazione ideologica del poema alamanniano rimando al mio
L’errore di Lancillotto: riscrittura dell’ira di Achille nell’«Avarchide» di Luigi Ala-
manni, in C. Berra - M. Mari (a cura di), Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, Milano
2007, pp. 259-323.
43
«Il vero è ben, che ’n solitario orrore, / e per vie perigliose avvolte e ’ncerte /
non porria lungo far, né chiaro il volo / come faria mestier chi fusse solo. // Però,
s’a voi parrà, qualch’altro meco / di quei, che più vorran, vegna all’impresa, / che sia
in vece di scorta all’andar cieco / e nell’arme adoprar salda difesa. / Poi il ragionare
e ’l consigliarsi seco, / o nel ritrarre il piede, o in fare offesa, / mentre ch’aiuta l’un,
l’altro conforta, / la vittoria o lo scampo spesso apporta» (Av. 15.49-50). Cfr. con
Hom. Il. 10.220-226.
253
Michele Comelli
44
Infatti al libro decimo (ottave 33-45) Alamanni, rifacendo l’episodio ome-
rico del duello tra Ettore e Aiace, aveva criticato l’affidare la sorte di un esercito al
sorteggio e aveva proposto in cambio «l’elezione».
254
Sortite notturne cinquecentesche
45
Simile, seppure non identico, è il paragone che Stazio istituisce per la schiera
dei Tebani che si dispongono ad assediare il campo argivo (Theb. 10.42-48).
46
In modo abbastanza simmetrico, com’è tipico del poema alamanniano, il poeta
dedica circa un’ottava all’aristeia di ognuno dei sette cavalieri cristiani (Av. 15.68-76).
255
Michele Comelli
Che il «volo» abbia qualcosa a che fare con la dira cupido di Niso è
fuori di dubbio, così come lo è il «gran desio» di Florio il Toscano,
che è una colpa e quasi lo porta alla sconfitta; ma il guerriero ita-
liano riesce a farsi strada e a fuggire con i compagni grazie al fatto
che la spedizione è una vera e propria missione militare. Nonostante
che Segurano e le sue armate incalzino, i sette arrivano dove Trista-
no e Boorte si sono appostati come retroguardia e gli Avarchidi sono
respinti e scornati, al punto che Segurano, rabbioso, riconoscendo
Tristano, cerca di ingiuriarlo per la mancanza di cavalleria di una spe-
dizione notturna:
[…] «E chi v’apprese, o in quali scuole,
alto re dell’Armorico Leone,
di ricovrar l’onor perduto al sole,
nella più oscura ed orrida stagione?
Qual la timida volpe, o il lupo suole,
che negli inganni suoi la speme pone:
256
Sortite notturne cinquecentesche
257
Michele Comelli
Ovviamente, il cortese Artù non solo gli promette salva la vita (per-
ché sarebbe vergognoso uccidere un indifeso), ma fa anche dei doni a
Sanzio, che, all’opposto di Eurialo, s’illumina
qual si fa dopo il gel novella rosa
all’apparir del sol vaga e gioiosa.
(Av. 15.116.7-8)
A dimostrazione del fatto che, dove regna cortesia, non c’è posto per
la crudezza omerica, ma neppure per il patetismo virgiliano.
Omerismo dunque sì per Alamanni, ma non esente dagli influssi
più diversi della tradizione classica; il patetismo virgiliano non è li-
quidato nei termini del realismo omerico, ma è sottoposto a un forte
rigore morale e alle regole della Ragion di Stato. Piuttosto, il grande
escluso è Ariosto, la cui rilettura ironica della tradizione classica non
può assolutamente trovar luogo nel poema «regolare».
47
È bene però precisare che l’episodio si interseca con un altro topos di deri-
vazione prettamente lucanea, quello cioè delle coppie di parenti uccise durante uno
scontro; si tratta di un topos che certo ha a che fare con il patetismo virgiliano, ma
che si cristallizza, soprattutto nel Cinquecento, in un interesse per la dimensione
258
Sortite notturne cinquecentesche
259
Michele Comelli
49
Così Eretto esorta i suoi uomini: «Non s’onora chi in pace cangiò il pelo, /
ma chi con l’arme in man giovin morio; / folle errore è il salvar la vita in sorte, / che
ti sia grave poi più ch’altra morte» (Av. 5.44.5-8).
50
Cfr. nt. 47.
51
La morte di Mecisto riprende infatti da vicino quella di Reto.
260
Sortite notturne cinquecentesche
52
Eretto chiama di nuovo i suoi uomini in soccorso del padre: «[…] Ora è,
signor, quel tempo eletto, / nel qual fia guadagnar perder la vita, / per salute di
quel, dentro al cui petto / ripose il Ciel la sua virtude unita: / né possa esser già mai
saputo o detto, / che fra sì altera gente e sì gradita / fosse ucciso dell’Orcadi il re
Lago, / senza ampissimo far di sangue un lago».
53
Anche in questo caso le parole di Lago, che recupera ardire alla vista del
coraggio di Eretto, rievocano dei versi virgiliani: «[…] Or vegg’io ben, che dai leoni
/ non usciron giammai damme né cerve; / né bisogna al buon cor verga né sproni, /
perché ’l dritto sentier d’onore osserve» (Av. 5.64.1-4); cfr. le parole di Alete: «Di
261
Michele Comelli
patrii, quorum semper sub numine Troia est, / non tamen omnino Teucros delere
paratis, / cum talis animos iuvenum et tam certa tulistis / pectora» (Aen. 9.247-250).
262
Sortite notturne cinquecentesche
Una volta censurati, infatti, gli aspetti più discutibili dell’episodio vir-
giliano, vale a dire l’amore tra i due amici (sostituito con quello legit-
timissimo tra padre e figlio), l’imprudenza dell’assalto notturno non
organizzato e il colpevole eccesso di cupido o di imprudentia, il tema
dell’eroicità giovanile può recuperare spazio nel poema «regolare» e
trovare la sua formulazione esemplare in questo episodio. Il messaggio
è che se la vittoria dipende esclusivamente dalla fortuna e dalla grazia
divina, la virtù eroica, «l’onorata virtù» è invece il mezzo per l’uomo
di acquistarsi onore. In sostanza, l’episodio della coppia che si sacri-
fica viene rivisitato in termini militari ed etici e l’aspetto patetico, se
non scompare, resta in secondo piano di fronte alle implicazioni ideo-
logiche e alla volontà di affermare la distanza tra romanzo ed epica nei
termini della subordinazione, seppur non sempre così limpida, della
virtù individuale alla Ragion di Stato.
È vero che proprio in questo episodio vediamo contaminarsi e
sovrapporsi topoi diversi, da quello virgiliano della coppia, a quello
di derivazione lucanea dei congiunti uccisi in guerra, fino al topos più
antico dell’opposizione tra audacia giovanile e saggia vecchiaia (pre-
sente, ad esempio, anche in Omero) 54; ma è importante notare come
proprio per mezzo di questa progressiva emancipazione dei topoi dai
puri meccanismi di ripresa letteraria Alamanni trovi la via verso l’af-
54
Cfr. B. Zucchelli, I poemi e gli inni omerici, in U. Mattioli (a cura di),
Senectus. La vecchiaia nel mondo classico, I. Grecia, Bologna 1995, pp. 1-58.
263
Michele Comelli
55
Baldassarri, Il sonno di Zeus cit., pp. 116-127.
264
Parte terza
il novecento
Marco Fernandelli
«Inviolable voice»:
studio
su quattro poeti dotti
(Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot) *
Alla fine della prima esade dell’Eneide due grandi figure singole re-
stano ancora estranee alla retractatio virgiliana dell’Odissea: Circe e
Calipso. Ma all’inizio del libro settimo, nel tratto del viaggio che porta
i Troiani dal golfo di Gaeta alle bocche del Tevere, la flotta costeggia
di notte le spiagge del Circeo, antico confine meridionale del Lazio
e sede della maga, secondo una tradizione alternativa a Omero che
rimontava a Esiodo. Qui Virgilio colloca la sua Circe e, approfittando
della somiglianza che già il testo omerico affacciava tra i due personag-
gi (Od. 9.29-32; 5.59-62 ~ 10.220-223), le assimila aspetti dell’azione e
della sfera di vita di Calipso (Aen. 7.10-20):
Proxima Circaeae raduntur litora terrae,
dives inaccessos ubi Solis filia lucos
adsiduo resonat cantu tectisque superbis
urit odoratam nocturna in lumina cedrum
arguto tenuis percurrens pectine telas.
* Vorrei dedicare queste pagine a Gianfranco Agosti: della sua probità e intel-
ligenza sono ricchi anche i lavori degli amici.
267
Marco Fernandelli
268
Studio su quattro poeti dotti (Virgilio, Milton, Keats, Th.S. Eliot)
Nel libro quarto del Paradise Lost Satana giunge alle porte dell’Eden:
una barriera boschiva, fitta di piante e scoscesa, separa l’esterno
dall’interno, incoronando la cima del Paradiso
of a steep wilderness, whose hairy sides
with thicket overgrown, grotesque and wild,
access denied.
(vv. 135-137)
269
Marco Fernandelli
Una prima campata descrittiva, data dai vv. 131-171, inquadra dun-
que il paesaggio nel suo insieme e risulta incorniciata dall’atto percet-
tivo di Satana (vv. 131-132 ~ 166-171); ora questi si prepara a risalire
la ripida altura e a varcare la barriera del bosco, alla cui densità im-
penetrabile è dato nuovamente rilievo (vv. 172-177). Poco più avan-
ti, Satana supera a volo la muraglia di piante e contempla dalla cima
dell’Albero della Vita l’interno dell’Eden. Egli osserva così «esposta
in breve spazio al godimento dei sensi umani, tutta l’abbondanza della
Natura» (vv. 205-207). In questa contemplazione del paesaggio ame-
no egli ricalca dunque la posizione dell’Hermes omerico di fronte al
par£deisoj di Calipso; e anche ciò che egli vede rimanda a quell’an-
tico originale. Ricorrono infatti, nell’Eden miltoniano, i cinque ele-
menti caratteristici del locus amoenus odissiaco, per quanto elencati in
ordine diverso: il boschetto (vv. 248-251); i prati fioriti (vv. 252-256);
le grotte contornate di viti (vv. 257-260); le quattro fonti (vv. 233 +
260-263); gli uccelli (v. 264). Questo scenario beato è l’ambiente di
vita di Adamo ed Eva (288 ss.), così come il paradiso di Ogigia era sta-
to il luogo degli amori di Calipso e Odisseo: il che si conferma anche
dopo la visita di Hermes alla ninfa (Hom. Od. 5.225-227).
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3. Keats, «Lamia»
e «La Belle Dame sans Merci»
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una delle sue liriche più impegnative e riuscite, La Belle Dame sans
Merci. In questa ballata, com’è noto, un Io-viandante si imbatte in un
cavaliere pallido, che langue in un luogo desolato, e questi gli narra
del proprio incontro con una bella dama, dell’ascolto del suo canto,
dell’amore con lei nella sua grotta, di una visione onirica di vittime
urlanti (vv. 37 ss.: «I saw pale kings […]») e della propria perdizione
finale. Il racconto del cavaliere ricalca per un buon tratto (strofe 4-8)
la prima parte della storia di Menippo di Licia e della bella dama così
come essa è narrata da Filostrato, una storia che Keats aveva letto nel-
la versione della Anatomy of Melancholy di Robert Burton, all’interno
della sezione dedicata ai poteri dell’amore (3.2.1). Qui si narrava che
Menippo, in viaggio tra Cencrea e Corinto, aveva incontrato un fan-
tasma nelle sembianze di una bella donna, la quale lo aveva condotto
a casa propria promettendogli alcuni piaceri, tra cui l’ascolto di un
canto. Il giovane filosofo, preso dall’amore per lei, aveva acconsentito
alla proposta e l’aveva infine sposata. Al banchetto nuziale interviene
anche Apollonio, che intuisce la vera natura della sposa, «scoprì che
ella era un serpente, una lamia […] e che tutta la casa non aveva so-
stanza, ma era solo illusione». La scoperta causa la sparizione della
donna, del banchetto, della dimora.
Dunque il testo di Filostrato, riportato da Burton, è una matrice
narrativa che dà luogo a due racconti keatsiani, tra loro complemen-
tari: il primo, centrato sul punto di vista del viaggiatore incantato, e
quindi memore della prima parte del racconto filostrateo; il secondo,
gravitante invece sull’esperienza dell’amore, e del dolore, vissuta dalla
donna, ovvero legato piuttosto alla seconda parte della fonte antica.
Nella ballata c’è una dislocazione cronologica in avanti, poiché i fat-
ti appartengono al tempo delle fate, mentre l’azione del poemetto si
svolge «before the faery broods / drove Nymph and Satyr from the
prosperous woods» (Lamia 1-2). Questa ambientazione più antica –
come s’è visto – serve a radicare nel mito il tema metamorfico, che in
Lamia è strutturante e insieme caratteristico, cioè innovativo rispetto
all’originale. La lamia ha poteri magici che poi Lamia erediterà come
capacità di ammaliare con il canto; è una specie di Circe (al giuramen-
to di Hermes, «ravished, she lifted her Circean head», v. 115); ma in
lei prevale la condizione di una Circe «passiva», che subisce la meta-
morfosi piuttosto che operarla. Una Circe in senso «attivo» è invece la
dame sans merci, che affascina con il suo canto indecifrabile – e quindi
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Per Keats ciò era accaduto nel clima «malinconico», e cioè mo-
derno, dell’opera di Burton, un trattato che pretendeva di classifi-
care e studiare con metodo scientifico gli esempi antichi del potere
universale di Eros. La cultura comune considera oggi ingenuo o pe-
dantesco l’atteggiamento classicista tradizionale; l’autorità dell’anti-
co nel pensiero moderno deriva non da una funzione normativa ma
da una funzione ermeneutica, poiché l’antico avvicina all’autentico,
aiuta a dirigere lo sguardo verso un’essenza. Sappiamo che questo
atteggiamento critico – filosofico, antropologico, psicoanalitico – è
inimmaginabile senza le intuizioni che si sono date in poesia, cioè in
costruzioni creative, e nella poesia romantica in particolare. Rispetto
a quanto abbiamo visto in Virgilio, che ripropone – arricchendola –
la figura odissiaca di Circe, e in Milton, colpito da dispositivi poetici
omerici e virgiliani adatti a esprimere la qualità centrale del suo tema,
la pienezza sensuale dell’Eden, il ritorno dell’antico sembra arric-
chirsi in Keats di una dimensione: un «tipo» ritorna (il tipo-Calipso),
al centro di uno schema narrativo «tipico» (il sequestro dell’amato
e l’esperienza di una perdita finale), facendo da «correlativo ogget-
tivo» a un tema profondo, insieme personale e caratteristico di una
atmosfera culturale, urgente e autocosciente nell’attualità vissuta.
Siamo alle radici di quel metodo poetico-critico che darà alla luce,
nel 1922, i due capolavori del modernismo, l’Ulysses e The Waste
Land, e che Eliot denominerà «metodo mitico»: i parallelismi tra i
due piani, il piano del mito e quello del mondo contemporaneo, of-
frono la possibilità di attribuire forma e significato a ciò che si dà
nell’esperienza comune come realtà caotica, multivalente, indefini-
bile. L’individuazione di affinità reali tra i due piani implica però
la convinzione che esistano costanti antropologiche esprimibili in
racconti tipici, potenzialmente interscambiabili tra loro. Il poema di
Ulisse può dare forma e significato al flusso di una giornata di vita
comune contemporanea.
Per Eliot il «metodo mitico» è alternativo al metodo narrativo,
nasce anzi dalla coscienza di un’impossibile resa narrativa del mondo
così com’è. L’aporia di Lamia, in cui la tensione posta sul piano del te-
ma si trasferisce sul piano della forma e perviene a una finale autone-
gazione del poema come racconto, sarà risolta da Eliot, nella seconda
parte di The Waste Land, proprio con la più consapevole applicazione
del «metodo mitico».
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93 + 94-106) con un breve epilogo (vv. 107-110), che completa il brano
preparando l’esordio della parte drammatizzata (vv. 111-138 + 139-
172). Il primo quadro descrive soprattutto gli oggetti d’uso della Lady
alla toilette (il Seggio, lo specchio, la tavola, gioielli e profumi); il se-
condo si concentra piuttosto sull’arredo, e in particolare dà risalto alla
decorazione soprastante il caminetto, una immagine del mito classico:
il mutamento di Philomela successivo allo stupro e alla mutilazione.
Nel primo quadro uno splendore abbagliante lega fra loro oggetti
preziosi: il Seggio splende sul marmo; lo specchio riflette le fiamme di
candelabri a sette bracci, riverberandone la luce sulla tavola; di qui si
leva, incontro a quella sorgente artificiale, il brillìo dei gioielli, sparsi
a profusione dai loro astucci lussuosi. Si ha dunque un movimento
descrittivo che segue i giochi della luce, e si completa con un sugge-
rimento di ascesa e oggetti piccoli in primo piano (vv. 84-85: «The
glitter of her jewels rose to meet it, / from satin cases poured in rich
profusion»). C’è un momento di indugio sugli oggetti che giacciono
sul tavolino del boudoir, dove accanto ai gioielli si vedono fiale di pro-
fumi stappate. Il passaggio da astucci a fiale associa il motivo della
luce al motivo del profumo e di qui la tendenza ascendente si ripropo-
ne, sviluppandosi l’immagine dal piccolo al grande e dal basso verso
l’alto, fino a porre in evidenza il termine del movimento (vv. 86-93):
In vials of ivory and coloured glass
unstoppered, lurked her strange synthetic perfumes,
unguent, powdered, or liquid – troubled, confused
and drowned the sense in odours; stirred by the air
that freshened from the window, these ascended
in fattening the prolonged candle-flames,
flung their smoke into the laquearia,
stirring the pattern of the coffered ceiling.
La nota di Eliot a «laquearia» del v. 92 rimanda ad Aen. 1.726, che il po-
eta riporta insieme con il verso successivo: dependent lychni laquearibus
aureis / incensi, et noctem flammis funalia vincunt. Si osservi l’accuratez-
za del procedimento imitativo: Eliot pareggia il grecismo dotto lychni
del testo latino con il latinismo dotto «laquearia» nel testo inglese, ren-
dendosi conto di come il forestierismo renda «idiomatico», nel contesto
prezioso, l’oggetto esotico (lychni) o remoto nel tempo («laquearia»).
Nel testo di Eliot accade però anche molto di più: come il paesag-
gio domestico allinea oggetti di diversa provenienza, annullando in
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Purgatorio, rievocato al v. 427 («Poi s’ascose nel foco che gli affina»);
o autori che imitano altri autori, con tecnica allusiva o dissimulando il
procedimento di derivazione; ciò riguarda anche le riprese di modelli
classici in opere moderne. Due casi interessanti della prima sezione di
A Game of Chess illustrano bene quest’ultimo punto.
La nota eliotiana al v. 77 rimanda a Antony and Cleopatra 2.2.190 ss.:
il v. 77, che impone allo sguardo il Seggio della Lady, è in effetti una
citazione quasi letterale dal testo di Shakespeare (il pédigrée lettera-
rio rende unico l’oggetto e quindi idionimo – «Chair» – il suo no-
me comune); di lì poi derivano anche immagini satelliti e elementi
di atmosfera che si collegano bene con le altre due basi del primo e
del secondo quadro, ossia i passi relativi alla stanza di Imogene nel
Cymbeline, che li attraversa entrambi, e la descrizione del banchetto
di Lamia in Keats, che fonda le invenzioni caratteristiche del primo
(vari altri riferimenti scoperti nel tempo dalla critica hanno efficacia
più circoscritta). L’identificazione di questi due modelli nel tessuto
poetico di A Game of Chess può dirsi sicura, per quanto Eliot non vi si
riferisca in nota. L’interesse del poeta per Lamia ha motivazioni gene-
rali (il tema della metamorfosi, la doppia metamorfosi del personaggio
centrale, una figura di «veggente» come Tiresia) o comunque ampie (il
motivo della «città irreale» – una derivazione trascurata dalla critica
eliotiana) o più specifiche: lo stimolo sui sensi reso dall’intrecciarsi di
luce e profumo, che occupa tutto il primo quadro di Eliot (vv. 77-93),
è certa derivazione da Keats, anche nella complessità barocca della
sintassi. Nel ripensamento del modello, però, Eliot iscrive la tessera
alloglotta – «laquearia» – di cui indica in nota l’origine letteraria: con
un procedimento dotto che i filologi classici chiamano «imitazione a
finestra», dunque, il poeta indica il modello (il banchetto dell’Eneide)
presente ma dissimulato nel proprio modello (il banchetto di Lamia).
Se riguardiamo il dettato eliotiano, in effetti, la singola parola «laquea-
ria» è glossata solo linguisticamente per mezzo del distico dell’Eneide,
il quale non è certo sufficiente a spiegare la formazione dell’immagi-
ne moderna: nel boudoir della Lady i profumi misti alle fiamme delle
candele «flung their smoke into the laquearia / stirring the pattern on
the coffered ceiling» (vv. 92-93). Niente del genere si legge nel testo
virgiliano; è vero però che l’immagine del soffitto prezioso, ribadita
al v. 93 del testo di Eliot, non ha una vera base in Keats, mentre ha
il compito di completare un segmento del discorso – e dunque ha
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ci segnala Mario Praz nella sua edizione commentata, Torino 1966 1),
allude a un secondo senso ben diffuso e decisamente osceno; così an-
che ai vv. 203-206 («Twit twit twit / Jug jug jug jug jug jug / so rudely
forc’d / Tereu»), cui rimanda Eliot stesso (ad v. 100).
Per il tema della degradazione del mito, che attraverso l’esempio
scelto coinvolge – come vedremo – due altri temi cruciali del West
Land, la metamorfosi e il poeta, Eliot mira a un risultato di speciale
evidenza e concentrazione. Davanti a sé egli aveva due suggerimen-
ti primari, che la critica mi sembra aver sottovalutato. Da una parte
il fatto che in antico, e in particolare nella tragedia greca, il suono
emesso dall’usignolo è una evocazione concentrata della sua biografia
premetamorfica, cioè del mito che fonda il dato di natura. Il canto
dell’usignolo ripete il lamento di Procne (o di Filomela, da Virgilio in
poi) per la morte del figlio Iti (o Itilo), il nome del quale, iscritto nel
verso dell’uccello, è il memento del trapasso da vicenda particolare e
mitica (la storia di Procne o di Filomela, culminante nella metamorfo-
si) in realtà generale e contenuto dell’esperienza comune (l’esito del-
la metamorfosi, la specie usignolo). Il ricordo individuale si esprime
nel lamento di specie; insistenza e permanenza sono i due versanti
del tempo postmetamorfico, un eterno presente. Ma questo ultimo
aspetto non è quello sviluppato dai racconti antichi. La metamorfosi
dell’eroina in usignolo è interna a un mito tragico, che racconta vio-
lenza, mostruosità, perdita; il canto dell’usignolo è un lamento; chi
ascolta la natura con dottrina intende l’etimo autobiografico, mito-
logico di quel verso animale. L’accento delle versioni antiche è cioè
emotivo-morale e non è posto, pertanto, sulla conversione dell’indivi-
duo in specie (da Philomela: philomela).
Questa regola è invece presente, come abbiamo visto, nella meta-
morfosi di Lamia in lamia, una metamorfosi che dipende dalla lettura
filosofica – cioè disincantata, analitica, normalizzatrice – di un’identi-
tà e di una realtà formatesi in condizioni mitiche: abbiamo anche visto
che in Keats lo svelamento di Lamia come lamia distrugge dall’inter-
no, insieme con i contenuti del racconto, anche le sue condizioni di
esistenza. L’affermarsi nel convito, ai vv. 305-306, del nome comune
«Serpent» (con l’iniziale maiuscola, a marcare il cortocircuito), coinci-
de con la sparizione di Lamia dalla società, ma è accompagnato dalla
dimostrazione psicologica e somatica che il vero serpente è il filosofo
dallo sguardo fisso, affilato, incantatorio. Nel finale di Lamia, Keats
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la comprensione del significato, nella realtà dei suoi gradi e della sua
direzione, dipende largamente dall’intelligenza del processo compo-
sitivo. Si tratta dunque di un luogo di speciale attrattiva per il lettore
dotto nel senso antico, e cioè per il lettore attivo, che sa «seguire sullo
spartito» il flusso dei contenuti; o meglio ancora per il lettore-poeta.
Consideriamo ora il testo da vicino: l’illustrandum tratta come
fuga all’indietro (strato di perhibent; di flesse/evolvisse; di haec) la
sospensione del destino di Orfeo (Septem […] totos […] ex ordine
menses). «Ciò che accadde a Orfeo» è il tema di un racconto svol-
to al passato per spiegare le circostanze presenti (moria delle api di
Aristeo). L’illustrans passa invece dal presentare una realtà naturale
permanente (populea maerens […] sub umbra), a un segmento di rac-
conto biografico (queritur fetus, quos […] detraxit) che traspone la
premessa mitica suggerita (philomela = Philomela?) in uno scenario di
comune vita campestre. Di qui riprende vita il quadro iniziale (qualis
[…] queritur), ma con una dilatazione ad infinitum dell’atto presente
(flet/integrat/implet): ora infatti la permanenza del dato naturale – il
lamento dell’usignolo – è mostrata come esito della gravità di un fat-
to biografico particolare, il rapimento dei figli, e come espressione di
uno stato psicologico irrisolvibile, il lutto.
Mentre insomma l’illustrandum richiede l’ausilio dell’immagine
in quanto eccezionale sospensione del flusso vitale-narrativo, che va
secondo logica dal passato al presente, l’illustrans procede al con-
trario, ed eccezionalmente introduce un dato narrativo (l’agguato
crudele dell’arator) per guadagnare il massimo di sensibilità al fatto
permanente, al canto – che è tutt’uno con il maeror – dell’usignolo
«mutilato», privato al contempo dei figli e del suo destino di madre.
Si è molto insistito sulla corrispondenza multipla tra illustrandum e
illustrans in questa similitudine, ma va preliminarmente notato che le
corrispondenze particolari rifiniscono relazioni di più larga portata:
1. Nell’illustrandum è in evidenza lo spazio, nell’illustrans il tempo.
Grandiosità e gelo dello scenario deserto accentuano l’idea di soli-
tudine (Orfeo); l’ossessiva ripetizione del lamento esprime l’impo-
tenza e lo strazio dopo la violenza subìta (philomela). Septem […]
totos […] ex ordine menses (v. 507), in quanto iperbole, si allinea
alle iperboli dell’inquadramento spaziale caratteristiche dell’il
lustrandum; la notazione spaziale dell’illustrans – late loca (v. 515) –
trapassa invece nell’effetto temporale come icona dell’eco, cioè
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301
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Dalla parte del latino
Citazioni classiche
in tre autori del Novecento *
* Vado debitore di segnalazioni e suggerimenti a Giuliano Cenati, Bruno
Pischedda, Tiziana Privitera e Riccardo Scarcia, che hanno letto, in toto o in parte,
queste pagine. Vorrei dedicarle a Davide Casati, che mi ha iniziato alla lettura di
Benni.
1
G. Orelli, Per Erika Burkart, «Cenobio» 55, 2006, p. 299, in riferimento a
E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur,
Bern 1946 (ed. ital. Torino 1956).
303
Massimo Gioseffi
2
L. Romano, Ancora gli dèi, «Il Giornale», 6 marzo 1989, poi in Ead., Un
sogno del Nord, Torino 1989 (= Ead., Opere, a cura di C. Segre, Milano 1992, II,
p. 1393, da cui cito).
3
«Les lumières que je devais à l’amour me firent trouver de la clarté dans
quantité d’endroits d’Horace et de Virgile, qui m’avaient paru obscurs auparavant.
Je fis un commentaire amoureux sur le quatrième Livre de l’Énéide; je le destine
à voir le jour, et je me flatte que le public en sera satisfait. Hélas! Disais-je en le
faisant, c’était un coeur tel que le mien qu’il fallait à la fidèle Didon» (A. Prévost
d’Exiles, Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut, p. 67 nell’edizione
a cura di C. Jaquier, Paris 2001, di cui mi avvalgo). La curatrice commenta (ivi,
p. 267): «On voit ici que Des Grieux, dans la retraite […], songe […] à une carrière
d’homme de lettres», ma credo che le sfugga il senso del passo.
304
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
4
F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie,
Torino 1965, 19893, p. 161 = Id., Saggi ed epigrammi a cura di L. Lenzini, Milano
2003, p. 204 (da cui cito).
305
Massimo Gioseffi
5
E cioè, rispettivamente, in J.-N. Schifano - T. Notarbartolo (a cura di),
Cahiers Elsa Morante 1, Napoli 1993, pp. 67-69, e I. Babboni - C. Cecchi (a cura
di), Elsa Morante. Racconti dimenticati, Torino 2002, pp. 225-227 (da cui traggo le
citazioni).
6
A ragione si è parlato di «autobiografismo psicologico (non realistico)»
per i personaggi della Morante, pur senza specifico riferimento a questo: cfr. E. e
C. Sgorlon, Profilo di Elsa Morante, in Cahiers Elsa Morante 1 cit., p. 18.
7
Tutti i dettagli tranne uno trovano un preciso parallelo nella biografia della
scrittrice (o, meglio, in quella sorta di biografia di cui la Morante si compiaceva),
stando ad affermazioni da lei ripetute in più occasioni. Anche l’esibizione di fronte
alle amiche della madre ha una corrispondenza nella realtà, sebbene con le riserve
formulate sopra: l’episodio però non sarebbe avvenuto nella casa paterna, ma
presso la madrina di battesimo della futura narratrice, la marchesa Maria Guer-
rieri Gonzaga, che ospitò Elsa bambina nella sua villa al Nomentano. Dopo anni,
la scrittrice ancora ricordava: «Là, le nobili teste della capitale mi chiedevano di
recitare delle poesie, di interpretare dei ruoli di teatro, ed ero follemente applau-
dita. Noi avevamo, con i bambini ricchi e nobili ed i bambini della servitù, creato
un piccolo teatro, e ci travestivamo e davamo delle rappresentazioni. Ero adulta,
ben nutrita, ben vestita, ma in mezzo a tutto questo lusso, rimpiangevo la mia casa
del Testaccio …» (J.-N. Schifano, La divina barbara, in Cahiers Elsa Morante 1 cit.,
pp. 12-13). Come che siano andate le cose, è chiara la volontà di prestare alla Elsa
del racconto molti tratti della Elsa reale e poi, a distanza, di ricostruire una biografia
della Elsa reale rimodellandola su quella del racconto.
306
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
essere trattata come gli altri, bambina fra i bambini, apprezzata per le
sue doti fisiche e di simpatia, non solo per le capacità prodigiose:
Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e
colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperata-
mente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica
e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà
quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano
recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La
direttrice mi presentava al pubblico dicendo: «Signori, devo premet-
tere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui
presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo
dinanzi a un genio». Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi
lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi
delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Mar-
cella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena
di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboc-
cante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando
intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti.
Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un
simile prodigio.
8
«Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei
‘coccetti’, e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che
esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi
copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo».
307
Massimo Gioseffi
La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il
fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’in-
cubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera
ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate
soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro,
e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e
toccandomi estatico mi disse: «Che bei riccetti che hai».
Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano
solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei
loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi
magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresì me ne
offriva. Mi guardava e diceva: «Come sei pulita», rapito, ridacchiando.
E mi prendeva per mano andando in su ed in giù e una volta perfino,
in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia.
308
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
9
Si potrebbe aggiungere un’ulteriore circostanza, per quanto più labile: il
mondo al femminile della Elsa del racconto trova riscontro nel mondo al femminile
(le sorelle) di Psiche. La Morante, del resto, presentando Amore parlava di «gentile
coincidenza».
10
Cfr. F. Serpa, Greci e latini, in G. Agamben (a cura di), Per Elsa Morante.
La narrativa, la poesia e le idee di uno dei maggiori scrittori del ’900, Milano 1993,
pp. 257-262; Id., Il greco di Elsa, in N. Orengo - T. Notarbartolo (a cura di),
Cahiers Elsa Morante 2, Salerno 1995, pp. 76-78. Poco conta ai nostri fini l’assalto di
Nino contro il latino, «il latino scritto il latino orale», rappresentante primo, ma non
unico, delle costrizioni imposte ai giovani dalla scuola in La Storia (1975. Le opere
maggiori della Morante saranno sempre citate da E. Morante, Opere, I-II, a cura di
C. Cecchi - C. Garboli, Milano 1988-1990; qui II, p. 774). Né è granché significativo
che la Morante abbia scritto un testo teatrale ispirato a Sofocle, La serata a Colono,
poi inserito nella seconda parte de Il mondo salvato dai ragazzini (1968). Piuttosto,
Serpa, Greci e latini cit., p. 258, parla di «poche e sparse […] vere suggestioni, allu-
sioni intenzionali, memorie della poesia greca» nell’opera della scrittrice, ma – sog-
giunge – «non sono poche, però, le connessione sotterranee e simboliche». C. Gar-
boli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Milano 1995, p. 130, ricorda
che la Morante sceglieva i suoi libri preferiti «tra i classici, soprattutto nell’epica» (è
noto che Achille era per lei un personaggio/simbolo). Un intertesto antico, il fram-
mento 31 Voigt di Saffo, è stato riconosciuto ne L’isola di Arturo (1957) da M. Piz-
zocaro, Saffo nell’isola di Arturo, «Belfagor» 45, 1990, pp. 198-201.
11
Figlia di due insegnanti, la Morante per molte cose fu autodidatta. Fra l’al-
tro, non venne iscritta alle scuole elementari pubbliche (è questo il dettaglio che
differenzia racconto e realtà, supra, nt. 7), cosa che da adulta avvertì come una
menomazione, proprio per quella segregazione dagli altri che nel testo assegna – per
diversa ragione – al suo doppio. Ginnasio e liceo furono frequentati con relativa
309
Massimo Gioseffi
tolineare che le Metamorfosi apuleiane sono uno dei pochi testi sicura-
mente letti e conosciuti dalla scrittrice, visto che il loro nome ricorre
nel (più tardo) saggio sul romanzo 12. Perché, in realtà, nessuno degli
elementi del racconto richiede una conoscenza diretta di quel testo;
del mito, invece, sì 13. Dirò di più: è proprio leggendolo in controluce
con il mito narrato da Apuleio che il racconto acquista ulteriore luce e
nuova profondità.
In Apuleio, infatti, Psiche – nome parlante per l’anima umana 14 –
attraverso una serie di prove e di peripezie, tutte di derivazione novel-
listica, grazie all’aiuto di Amore, suo sposo (goduto, perduto, ricon-
quistato) viene ammessa tra gli dèi. Philosophus platonicus quale lui
stesso si definisce, Apuleio sa che Eros è in grado di innalzare l’anima
alla contemplazione delle cose celesti, anzi di trasformare l’anima in
creatura celeste. Amore è mezzo di ascesi al divino: il pensiero del
Simposio e del Fedro viene illustrato con una bella fabella di caratte-
re popolare; nello stesso tempo la novella (che occupa circa un sesto
dell’intero romanzo, e non è quindi elemento di pura divagazione) si
fa ipostasi e prefigurazione del testo che la contiene – la storia della
310
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
15
Che però poi, nell’ultimo libro, si svela essere anche la storia di Apuleio,
dalla nativa Madaura all’iniziazione filosofica, con un cortocircuito già denunciato
da Aug. civ. 18.18.
16
E forse già nota, o almeno intuibile: cfr. Sgorlon, Profilo di Elsa Morante
cit., p. 23: «Sulle storie della Morante si proietta spesso l’ombra o la struttura di
favole antiche. Favole e miti compaiono continuamente nelle sue immagini, nei suoi
paragoni e metafore, e servono a completare l’atmosfera favolosa di fondo».
17
Nonché a un concetto che si afferma più volte nella sua opera: cfr. le
osservazioni – fra loro peraltro divergenti – di R. Paris, La guardiana della notte,
in Cahiers Elsa Morante 1 cit., p. 35, e Lucamante, Elsa Morante e l’eredità cit.,
p. 135 e nt. 96. Va aggiunto che nei romanzi della Morante l’amore è in genere un
sentimento estremo ed erroneo, nevrotico e ingannevole, che priva della libertà chi
ne va soggetto e lo porta a infelicità e rovina. «Barbarico» lo definisce C. Sgorlon,
Invito alla lettura di Elsa Morante, Milano 1972, 19852, p. 36; cfr. anche Profilo di
Elsa Morante cit., p. 19, e Garboli, Il gioco segreto cit., pp. 54-58.
18
Il narratore di secondo grado, ossia la vecchia che recita la fabella, fa deri-
vare l’intervento degli animali dalla loro pietà per Amore e la sua sposa e dall’odio
per chi quella prova aveva crudelmente imposto, Venere – cioè, in sostanza, da
un’idea di giustizia compensativa.
311
Massimo Gioseffi
19
Così, a ragione, M. Ciccuto, Elsa Morante. Racconti dimenticati, «Paragone.
Letteratura» s. III 36-38, 2001, pp. 175-180. Eppure, non ha torto nemmeno Gar-
boli, Dovuto a Elsa cit., p. V, che parla di «antefatti essenziali per la ricostruzione e
l’intelligenza» della scrittrice e di un «misterioso serbatoio, il pozzo da cui nacque
il romanzo che lasciò tutti sorpresi» (ivi, p. VI). Lo stesso Garboli aveva già rico-
nosciuto nel racconto eponimo de Il gioco segreto «l’incunabolo» di Menzogna e
Sortilegio: cfr. Garboli, Il gioco segreto cit., pp. 139-140.
20
Nella Nota d’autore a Lo scialle Andaluso, in Opere cit., I, p. 1579.
21
Lo ha dimostrato G. Rosa, Ovvero: il romanziere, in Per Elsa Morante cit.,
pp. 55-87; Ead., Cattedrali di carta. Elsa Morante romanziere, Milano 1995, 20062,
pp. 9-17, entrambe le volte riferendosi al romanzo giovanile Qualcuno bussa alla
porta, pubblicato a puntate sulla rivista «I Diritti della Scuola» fra il settembre 1935
e l’agosto 1936 (sulla stessa linea S. DaiPra, La preistoria della Morante: «Qualcuno
bussa alla porta», «Allegoria» 54, 2006, pp. 47-56).
312
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
di quelle sillogi ha una sua storia, e che la presa di distanza della Mo-
rante dai suoi esordi narrativi fu sempre assai forte) 22 appunto per-
ché, in certo senso, si trattava di un testo superato e reso inattuale dal
romanzo. Fra racconto e romanzo vi è infatti un tratto comune, che
però è anche, allo stesso tempo, un elemento di sensibile differenzia-
zione – e tutta a favore del romanzo, naturalmente; ma è elemento nel
quale Apuleio (o, se vogliamo, il mito apuleiano) ha di nuovo qualche
rilievo, e che dunque ci può interessare. Vedo di spiegarmi meglio.
Protagonista e narratrice del romanzo è Elisa – semplice variante
dell’una e dell’altra Elsa 23 – attraverso i cui occhi scorgiamo tutte le
vicende che ci vengono raccontate. Menzogna e Sortilegio è, se così si
può dire, un «romanzo degli avi» (la nonna e la madre della narratrice,
in particolare), rievocato a circa due mesi dalla scomparsa della madre
adottiva di Elisa, Rosaria, dalla quale la protagonista era stata allevata
alla morte dei genitori naturali. Fino a quella data, gli «avi» sono sta-
ti presenze fisiche e palpabili, che hanno circondato la vita di Elisa,
ne hanno popolato l’esistenza e turbato i sogni, presentandosi come
fantasmi, per raccontare quella parte della storia che Elisa non poteva
conoscere in prima persona. Dalla morte di Rosaria la giovane vive
invece sola, con un gatto, Alvaro, simbolo e simbiosi della creatività
poetica. È una spostata, una sradicata, che non ha famiglia né amici
né legami di altro tipo; una «sepolta viva», come si definisce lei stessa,
una reclusa (volontaria) nella casa che Rosaria le ha lasciato in eredità
e dalla quale ha allontanato tutti. Già negli ultimi anni, dopo la morte
dei suoi, Elisa aveva scelto di vivere isolata, considerandosi brutta e
selvatica, rifiutando di incontrare gli altri, ostile all’idea di esibirsi di
fronte a parenti ed amici della sua protettrice – e da loro considerata
perciò un po’ folle – assorta in compagnia dei libri, come un monaco
meditativo, in preda ad umori solitari, immune dalle frivolezze delle
coetanee, sempre più distaccata dalla vita che si svolgeva sotto i suoi
occhi. Per tutto questo tempo ha accolto nella cameretta come soli
22
Rosa, Cattedrali di carta cit., p. 9 («rifiuto intransigente»). Di «rimozione»
della fase giovanile aveva parlato Garboli, Il gioco segreto cit., p. 21, benché poi,
nel presentare la raccolta, egli ricordi il «vago progetto» di ristampare quei lontani
lavori al quale la scrittrice allude nella citata nota d’autore a Lo scialle andaluso: cfr.
Garboli, Dovuto a Elsa cit., p. XIII.
23
G. Rugarli, «Menzogna e Sortilegio»: un’altra maniera di vivere, in Cahiers
Elsa Morante 1 cit., p. 48.
313
Massimo Gioseffi
24
Cfr. P. Azzolini, Mettersi al mondo, Elsa!, in Ead., Il cielo vuoto dell’eroina.
Scrittura e identità femminile nel Novecento italiano, Roma 2001, pp. 173-208.
25
Così si descrive lei stessa più volte: cfr. ad esempio Opere cit., I, pp. 653-
654, 789, 803; sui successi scolastici della piccola Elisa, vd. anche ivi, pp. 588-589.
26
«Nella mia classe, ero io che ottenevo i voti migliori; ma fra le mie com-
pagne, solo a colei che considerassi in quel momento la mia prediletta concedevo
suggerimenti e aiuti, e ciò non senza preghiere da parte di lei, né dignitosa condi-
scendenza dalla mia parte. In simili occasioni, io vedevo le compagne umiliarsi al
mio cospetto» (ivi, p. 611).
314
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
di quella bellezza che vorrebbe avere anche Elisa 27. Non riuscendo
nello scopo (a differenza che nel racconto, nel romanzo non esiste un
Amore che si faccia figura salvifica) 28, Elisa reagisce divenendo misan-
tropa, contraddizione che l’accomuna all’Elsa del racconto 29. Elisa,
cioè, vorrebbe essere accolta dagli altri, a cominciare dai genitori; ma,
sentendosi rifiutata, sentendosi una di coloro «che s’innamorano in
modo eccessivo e inguaribile, e dei quali nessuno mai s’innamora» 30,
si rinchiude in se stessa e avverte l’altrui ostilità come un male insupe-
rabile, che la porta ad auto-detestarsi 31. A un simile stato di cose ar-
riva, fra altre ragioni, anche in virtù dell’educazione sbagliata che le è
stata impartita 32, educazione sulla quale incidono tanto la condizione
27
«M’avvenne così, ricordo, durante il primo autunno seguíto all’estate
famosa, d’ubbidire come una serva agli ordini d’una insipida e petulante scola-
retta, mia compagna di scuola, sol perché i miei occhi l’avevano giudicata al primo
sguardo la più bella della nostra classe» (ivi, p. 20).
28
In effetti, è Amore il personaggio più insolito del racconto, quello che non
trova riscontro immediato nei romanzi successivi della scrittrice, sebbene il tema
del «ragazzo/angelo» che salva, che perde, che cade o fa cadere sia in essi ricor-
rente (Garboli, Il gioco segreto cit., pp. 114-122). Con questa precisazione: lontano
erede di Tit il Senza Paura, protagonista maschile delle fiabe dell’adolescenza poi
raccolte in Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (Torino 1942; riedito
dall’autrice con il titolo Le straordinarie avventure di Caterina, Torino 1959), Amore
è accomunato dalla sua capacità di cogliere la vita in quanto offre di naturale e di
immediato al Pazzariello de Il mondo salvato dai ragazzini e, soprattutto, a Useppe
de La Storia. In Menzogna e Sortilegio la funzione rasserenatrice del personaggio è
piuttosto svolta, almeno per un certo periodo e con i dovuti distinguo, da Rosaria
(cfr. ad esempio Opere cit., I, p. 631).
29
Ivi, p. 21. La scrittrice, con bella immagine, dice che Elisa si sente «come un
cerbiatto appena svezzato in mezzo a una muta di cani».
30
Opere cit., I, p. 19. Per la figura della madre, in particolare, cfr. ivi, pp. 19-20
e 585-588.
31
«Io covo un acerbo disdegno verso la mia nullità, e proprio la mia convin-
zione d’esser nulla m’incoraggia a saziami dei trionfi altrui» (ivi, p. 25).
32
Tema che all’interno di Menzogna e Sortilegio si ripropone più volte, e –
va aggiunto – con una serie di sfaccettature sconosciute al racconto: basti citare il
caso parallelo del cugino Edoardo, personaggio egoista ed egocentrico, solo in parte
giustificato dall’appartenenza a una casta nobiliare, sia pure in decadenza. Anche
Edoardo è rovinato da una cattiva educazione: la madre lo ha allevato nella convin-
zione che nessun bambino della terra si possa paragonare a lui; poiché da piccolo
mostrava predilezione per le arti, è ritenuto un prodigio; i suoi disegni vengono
chiusi in cornici preziose e appesi al muro come opere di grandi maestri; i suoi versi
sono letti in salotto per la meraviglia delle signore (ivi, p. 107). È il mondo della Elsa
del racconto, che Elsa detesta.
315
Massimo Gioseffi
33
«Io penso, cioè, che a quel tempo, sebbene io fossi appena sulla prima fan-
ciullezza, in realtà mio padre e mia madre erano i miei fanciulli […]. Ora minuscolo
ponte gettato fra loro e gli altri; ora ostacolo affinché non li si potesse giungere;
ora scudo per difenderli! Ora maschera per i loro inganni, ora ventaglio per i lor
bisbigli confidenziali, ora bambola per i loro giochi! Tutto ciò tu fosti, Elisa!» (ivi,
p. 651).
34
Opere cit., I, pp. 28 e 678-679. L’elemento onirico è d’altronde ricorrente
in tutte le opere della scrittrice, ed è stato variamente indagato: cfr. G. Yehya, «Il
segreto dei dormienti». I sogni nei romanzi di Elsa Morante, «Avanguardia» 18, 2001,
pp. 123-138; E. Porciani, Racconto del sogno e metodo della finzione nelle «Lettere
ad Antonio» di Elsa Morante, in A. Piemonti - M. Polacco (a cura di), Sogni di
carta. Dieci studi sul sogno raccontato in letteratura, Firenze 2001, pp. 120-135.
35
Il disperato amore che Elisa percepisce come non corrisposto coincide con
l’attrazione (di amore non è il caso di parlare) di Elsa per le compagne – ed è il
tratto che la unisce ai genitori, a loro volta vittime di un sentimento analogo, seb-
bene diversamente (e variamente) indirizzato. Nel racconto Elsa viene salvata da
Amore; Elisa si libera, o cerca di liberarsi, attraverso i fantasmi che sostituisce alle
persone reali, «fantastici Doppi» senza corpo, destinati a farsi vero oggetto della sua
passione e di una (non veritiera) epopea. Immaginazione e menzogna sono croce
e conforto di pressoché tutti i personaggi del romanzo, l’ultima e più importante
eredità che si trasmette fra le generazioni (cfr. Opere cit., I, pp. 22-23).
36
Apul. met. 6.25. Di narratio lepida e fabula anilis si era invece parlato a
met. 4.27, all’inizio del racconto.
316
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
37
Nel già ricordato intervento Sul Romanzo, la Morante individuava la carat-
teristica del genere nel proporre un «dramma psicologico» che «rappresenta il rap-
porto dell’uomo con la realtà» (Opere cit., II, p. 1503).
38
È la definizione datane da C. Cases, Patrie Lettere, Torino 1987, p. 104 (il
giudizio risale al 1974). Più o meno le stesse parole aveva usato Lukács in un’inter-
vista ad Andrea Barbato, su «L’Espresso» del 20 maggio 1962.
39
Alla bibliografia fin qui segnalata, tutta sostanzialmente concorde in questo
giudizio e variamente utile per dipanare le trame del libro, aggiungo ancora il
volume miscellaneo Per Elisa, Pisa 1990: che con l’ampiezza dei suoi interventi testi-
monia già da solo la complessità dell’opera in questione.
317
Massimo Gioseffi
40
In generale (e senza riferimento specifico al nostro testo), vd. M. Perpetua,
L’analisi strutturale dei racconti di Elsa Morante, Roma 1999.
318
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
41
E che il dettaglio venga da Apuleio, da qualche raccolta di fiabe o semplice-
mente dalla tradizione popolare fa quindi poca differenza.
42
Rosa, Cattedrali di carta cit., p. 33.
319
Massimo Gioseffi
43
Ivi, pp. 20-21.
44
R. Donnarumma, «Menzogna e sortilegio» oltre il bovarismo, «Allegoria» 31,
1999, pp. 121-135 (la citazione, che si riferisce all’insieme dei racconti giovanili,
non al nostro testo in particolare, è a p. 122). Tutto ciò non contrasta con l’idea,
più volte ripetuta, anche dalla diretta interessata, della Morante come una scrittrice
la cui letteratura «non proviene che da se stessa»: cfr. Garboli, Dovuto a Elsa cit.,
p. V; Id., Il gioco segreto cit., pp. 19 e 219-220.
320
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
45
F. Fortini, La morte del cherubino, Siena 1988 [Taccuini di Barbablù –
nr. 9]. «La Ruota» era una rivista fondata da Mario Alberto Meschini, ma promossa
da Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale. Nella terza serie del 1941
il comitato di redazione era costituito da personalità multiformi, e non perfetta-
mente allineate, quali Mario Alicata, Giuliano Briganti, Carlo Muscetta, Guglielmo
Petroni e Antonello Trombadori – il fior fiore, in molti casi, di una futura intelli-
ghenzia di sinistra. Il racconto, fra l’altro, è fra le prime testimonianze della firma
«Fortini» (e non Lattes) del nostro scrittore.
321
Massimo Gioseffi
46
Sulla quale resta utile G. Bocca, Una repubblica partigiana. Ossola 10 set-
tembre - 23 ottobre 1944, Milano 1964.
47
F. Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci - V. Tinacci, Mace-
rata 2006. Il titolo viene da una poesia di Giacomo Noventa («un zorno o l’altro /
mi tornarò»); al libro, annunciato già nel controfrontespizio di Una volta per sempre
(1978), Fortini aveva lavorato in forme alterne per tutti gli anni Ottanta e primi
Novanta, fino alla morte.
48
E cioè, rispettivamente, Foglio di via e altri versi e Agonía di Natale, entrambi
editi da Einaudi. Il romanzo reca la data del 1948 (è il nr. 17 de «I Coralli» della casa
torinese), ma è datato dall’autore (p. 161) «Milano, inverno 1946». Se ne ebbe una
seconda edizione nel 1972, con ripristinato il titolo di Giovanni e le mani, voluto in
origine da Fortini.
49
L’immagine sulla copertina della raccolta di versi, Foglio di via, raffigura un
giovane dormiente, col viso appoggiato sul braccio destro. L’abbozzo in inchiostro
di china, su carta da quaderno quadrettata, è riprodotto in F. Fortini, Disegni Inci-
sioni Dipinti, a cura di E. Crispolti, Macerata 2001, p. 54, nrr. 45-46/1 (cfr. anche
ivi, p. 140).
50
L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Lecce 1999.
In particolare, interessano il racconto di cui mi occupo il secondo e il terzo capitolo
(rispettivamente, pp. 19-48 e 49-72), intitolati L’educazione e Il paesaggio e la gioia.
Osservazioni su Leopardi in Fortini, il primo dei quali già edito in M. Ciccuto -
A. Zingone (a cura di), I segni incrociati. Letteratura italiana del ’900 e arte figura-
tiva, Viareggio 1998, pp. 709-730.
322
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
51
Sui rapporti Fortini/Noventa si vedano almeno A. Berardinelli, Franco
Fortini, Firenze 1974, pp. 9-16, e – più di recente – E. Urgnani, Fortini lettore di
Noventa, «Allegoria» 21-22, 1996, pp. 80-91; R. Luperini, Il futuro di Fortini. Saggi,
San Cesario di Lecce 2007, pp. 15-27 (ristampa aggiornata di Id., La lotta mentale.
Per un profilo di Franco Fortini, Roma 1986).
52
Cfr. D. Dalmas, Fortini tra Riforma e «Riforma letteraria», «Antologia
Vieusseux» n.s. 11, 2005, pp. 25-37; Id., La protesta di Fortini, Aosta 2006. «La
Riforma letteraria» si intitolava la rivista di cui era animatore Noventa, che ebbe il
giovane Lattes (non ancora Fortini) tra i suoi collaboratori.
53
Alle molte testimonianze sul (discusso) ermetismo del giovane Fortini,
aggiungo un’attestazione divertente, anche se non risolutiva. Ecco infatti la reazione
di due lettori comuni rifugiatisi in Svizzera, Franca Magnani e il padre, Fernando
Schiavetti, giornalista repubblicano: «[Fortini] dopo aver trascorso la quarantena
uscì dal campo [l’internamento ad Adliswil] e divenne attivo nell’ambiente politico
di Zurigo; frequentava casa nostra. Aveva allora ventisei anni ed era già letterato;
scriveva poesie – ermetiche. Facevo gran fatica a seguire i suoi versi […]. Allora mi
rivolsi al babbo; sorrise – anche lui capiva poco di ermetismo, ammise; era legato
ai canoni della poesia tradizionale» (così F. Magnani, Una famiglia italiana, Milano
1991, p. 186 – una precedente edizione, parzialmente diversa, era uscita in tedesco,
con titolo Eine italienische Familie, Köln 1990). Il giudizio non ha valore scientifico,
ovviamente, ma rende bene una percezione generalizzata che lo stesso Fortini ha
spesso favorito, presentando la sola sua produzione postbellica come l’allontanamento
323
Massimo Gioseffi
324
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
Tre anni più tardi, parlando della Firenze degli anni Trenta con Pa-
lumbo, Fortini resta di quell’idea:
Si può dire che quello fu un grande momento, perché tutta la miglio-
re letteratura era lì. A Firenze contemporaneamente c’erano i critici
Gianfranco Contini e Luigi Russo, per fare l’esempio di due opposti,
ma convergenti. C’era in giro una qualità intellettuale straordinaria, si
pensi a un antichista e filologo come Giorgio Pasquali. 60
di Franco Fortini, «Acme» 60, 2007, pp. 209-247, che ne avrebbe l’ambizione. Il
lavoro, accettabile quando si concentra sulle «strategie compositive» della raccolta
poetica, perde di peso allorché si occupa della «conversione» tra Firenze e Milano
o del complesso dell’opera di Fortini. Basti dire che, nonostante il proposito di
indagare la ricostruzione fortiniana del proprio passato, ignora sia il racconto del
1938/1941 sia – fuorché di nome – il romanzo del 1946/1948, ovvero il punto di
partenza e quello d’arrivo del percorso fra le due città: quasi che le diverse anime di
Fortini possano essere separate e considerate parti a sé stanti.
59
A. Grandi, Autoritratto di una generazione, Catanzaro 1990, pp. 156-157;
cfr. anche Fortini, Un dialogo ininterrotto cit., p. 616.
60
Palumbo, Quel busto romano cit., p. 28. La citazione viene però da Fortini,
Un dialogo ininterrotto cit., p. 733 (dove, fra l’altro, è corretta la svista «filosofo»
per «filologo»).
325
Massimo Gioseffi
61
Grandi, Autoritratto di una generazione cit., pp. 155-156 (= Fortini, Un dia-
logo ininterrotto cit., p. 616; Daino, Un’interpretazione partigiana cit., p. 214, con
inutili alterazioni e la curiosa attribuzione del titolo di Grandi a Fortini).
62
Un «allievo di Pasquali», Renzo Nobili, è personaggio fugacemente evocato
in una successiva (1956) prova narrativa di Fortini, Racconto fiorentino (un romanzo
per molti aspetti imparentato al racconto che prenderemo in esame: cfr. F. Fortini,
La cena delle ceneri e Racconto fiorentino, Milano 1988, p. 158; Lenzini, Il poeta di
nome Fortini cit., p. 21). Nel necrologio per Gianfranco Contini («Il manifesto»,
3 febbraio 1990), Fortini ricordava l’emozione di aver parlato, a un congresso di
italianisti, sotto lo sguardo ironico dello studioso: «Ero più agitato che per l’esame
di latino con Giorgio Pasquali» (cito da F. Fortini, Disobbedienze, II. Gli anni della
sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, Roma 1996, p. 74).
63
Al tema sono dedicate anche le parole raccolte in R. Zangrandi, Il lungo
viaggio attraverso il fascismo - contributo alla storia di una generazione, Milano 1962,
pp. 547-549; ivi, pp. 547-548, sono ricordati in particolare l’esperienza de «La
Ruota» e i contatti con Alicata e Muscetta.
326
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
64
Che il Fortini della testimonianza inclusa in Zangrandi, Il lungo viaggio cit.,
p. 547 (una conversazione a un «Circolo Gobetti», di data incerta, ma intorno al
1960), bolla di «antifascismo ‘morale’ o ‘estetico’: l’amore per René Clair, per la
Parigi ‘artista’, per Gide, le letture di Kierkegaard o di Kafka».
65
«Non ebbi, purtroppo, ‘maestri’, né al liceo né all’università. Non avevo un
‘bagaglio di idee’; ma un sentimento, forse superficiale, della serietà della vita e della
storia, una volontà di comunione e di oltranza, una tendenza a rifiutare ogni sopraf-
fazione e ogni ottimismo» (Albertoni - Antonini - Palmieri [a cura di], La gene-
razione degli anni difficili cit., p. 146 = Fortini, Un dialogo ininterrotto cit., p. 31).
Cfr. Zangrandi, Il lungo viaggio cit., p. 549: «In conclusione, attività minima, mia o
del mio ambiente. Dovuta, per quanto mi riguarda: a) all’assenza, al liceo, di almeno
uno fra gli insegnanti che ‘ci aprisse gli occhi’ […] c) alla determinazione classista
che traduceva ogni movente antifascista in termini letterari, morali o religiosi, for-
tissima a Firenze […] e) al fatto, fondamentale, che […] nell’ambiente fiorentino mi
trovai intorno al vuoto e, scioccamente quanto vanamente, tentai di ‘normalizzarmi’
senza rendermi conto che era ormai impossibile» (corsivo d’autore). Già in pre-
cedenza Fortini sottolineava la «frattura con l’antifascismo intellettuale, liberaleg-
giante e filobritannico, dei letterati fiorentini ermetici e para-ermetici» (ivi, p. 547).
66
F. Fortini - F. Loi, Franchi dialoghi, Lecce 1998, pp. 24-25.
327
Massimo Gioseffi
67
Al riguardo cfr. anche l’articolo La luna di Landolfi – poco simpatetico verso
lo scrittore di Pico, ma importante per la rievocazione degli anni fiorentini – pub-
blicato su «Il manifesto» del 24 giugno 1990 e ora in Fortini, Disobbedienze II cit.,
pp. 106-109.
68
Daino, Un’interpretazione partigiana cit., p. 214. A leggere per intero l’in-
tervista si scopre del resto che Fortini parlava di «episodio singolare e sgradevole»
in cui la polemica affiorava «violentissima» (Grandi, Autoritratto cit., p. 155 = For-
tini, Un dialogo ininterrotto cit., p. 615).
69
In F. Fortini, Poesie inedite, a cura di P.V. Mengaldo, Torino 1995, p. 41.
70
La traduzione fortiniana sta in V. Guarracino (a cura di), Poeti latini tra-
dotti da scrittori italiani contemporanei, Milano 1993, I, pp. 376-377 (un’antologia a
più mani, edita da Bompiani).
71
In Quinto Orazio Flacco, Liriche, trad. di R. Lerici, Milano 1957,
pp. 7-11.
72
E cioè, Orazio al bordello basco, in F. Fortini, Composita solvantur, Torino
1994, p. 77; cfr. A. Fo, La presenza dei classici 2: Prospezioni, «Semicerchio» 26-27,
2002, p. 47.
73
F. Fortini, Lettera sul Realismo. To Miss Darkness, «Nuovi Argomenti» 11,
1976, pp. 3-4 (ora in Id., Saggi e epigrammi cit., pp. 1523-1524, da cui cito). Il riferi-
mento a Orazio è ai vv. 7-8.
74
Ad esempio nell’epigramma per Renato Solmi, in F. Fortini, L’ospite
ingrato. Testi e note per versi ironici, Bari 1966 (lo trascrivo da Id., Saggi e epigrammi
cit., p. 910): «Sume superbiam, giovane filosofo. / Transvola il mare dell’essere.
328
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
lutare la poesia altrui 75 … Ce n’è quanto basta: tanto più che, si noti,
tutto questo lavorio è legato solo ed esclusivamente all’Orazio lirico,
anzi verrebbe da dire all’Orazio lirico, cioè alla maggior opera pasqua-
liana. Mai viene utilizzato un altro testo del poeta latino!
Torniamo alla testimonianza del 1990: che cosa vi dobbiamo allo-
ra vedere riflesso, l’animo del 1990 o quello di quando l’avvenimento
ebbe luogo? Difficile dirlo, e del resto Fortini si cautela con un pru-
denziale «mi pare», poi ripreso da «Ma la memoria non mi aiuta»:
amnesia di vecchio, o abile escamotage? Notevole è però che, nella
prassi comune del ricevimento presso un editore importante, il vero
padrone di casa risulti Montale e intorno a lui girino un po’ tutti i tipi
umani descritti. Tipi, appunto, non persone. Fra loro Pasquali, come
a segnalare che qui il distacco è già avvenuto, almeno sul piano morale
e sentimentale: non c’è più il maestro che guida verso verità e varietà,
Pasquali è un burattino in cerca di onori (che vede dati agli altri), co-
stretto a partecipare a riunioni mondane – dove la sua stella, oltretut-
to, non brilla troppo. L’atteggiamento risente del Fortini maturo; ma
che il commiato fosse nell’aria fin dagli anni fiorentini (a qualunque
data risalga il frammento memoriale preso in esame) 76 e che contem-
plasse una più profonda presa di distanza nei confronti della materia
«latino», è appunto quanto ci viene a dire il nostro racconto.
329
Massimo Gioseffi
78
F. Fortini, I miei vent’anni ai littoriali di Palermo, «Corriere della Sera», 15
maggio 1988.
79
E cioè Giacomo Serpotta, Palermo 1656-1732, scultore e stuccatore: cfr.
D. Garstang, Giacomo Serpotta and the Stuccatori of Palermo, London 1984 (ed.
ital. Palermo 2006). Come scrive Carlo Fini nella prefazione alla ristampa del rac-
conto, si tratta di un «quasi inconsapevole superatore del barocco locale in direzione
dei moduli dell’incipiente rococò». L’interesse di Fortini per la storia dell’arte è qui
testimoniato, oltre che dalla situazione narrativa, anche dalla citazione in epigrafe
(derivata da A. Venturi, L’arte italiana. Disegno storico, Bologna 1924, p. 292). In
ogni caso, nella narrazione l’alter ego di Serpotta, il cavalier Zampaglio, importa
soprattutto per la «suggestione della cadente parabola biografica […], dalla gloria
dell’altare alla polvere dell’oblio» (Fini, Prefazione a La morte del cherubino cit.,
p. 3).
80
Palumbo, Quel busto romano cit., p. 29 (= Fortini, Un dialogo ininterrotto
cit., p. 734).
330
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
81
Ciò crea l’impressione che la ragazza venisse dall’essere stata con lo scultore
e indirizza l’ostilità della folla verso l’artista e il suo giovane postulante. Per questo,
e in preda all’angoscia del momento, il barone fugge a precipizio, inseguito dalle
male parole degli astanti. Mentre si allontana, «s’accorse che la mano gli sanguinava.
La carrozza con un grande fragore partì. Qualche sasso colpì il mantice. Poco dopo
il giovane s’affacciò sperando ardentemente di scorgere fra i tetti lunghe lingue di
fuoco, scintille levarsi tra il fumo, dalla casa del cavaliere Zampaglio». Una spe-
ranza, non un fatto reale, dunque: «Ma presto la carrozza fu nel buio della campa-
gna, fuori porta» (La morte del cherubino cit., p. 34).
331
Massimo Gioseffi
82
Concorrono all’effetto anche le circostanze esterne: l’ora del crepuscolo (ivi,
p. 13), la giornata uggiosa e malinconica di pioggia che infeltrisce la città (p. 9), il
palazzo dall’aspetto miserabile dove ha la sua abitazione Zampaglio (p. 10).
83
Unico elemento simpatetico, questo, e infatti lo sguardo appare benevolo
ed ilare. Quanto al coniglio, ne troviamo un altro nel finale: in pieno clima arcade il
giovane barone, rappacificato con se stesso, vede un animaletto «ritto sulle zampe
posteriori, le orecchie tese, [che] lo guardava attento. Rise, e lanciò un sasso. Il
coniglio, con goffi lanci, sparì nelle siepi. Un altro sasso volò tra i rami, rimbalzò
sulle scaglie del tronco di un pino, si perdette tra le frasche» (ivi, p. 41).
84
Lo scultore, al racconto delle vicissitudini del visitatore, piange, sia pure
pensando più a sé che al ragazzo. Con fine tocco di psicologia, Fortini ricorda infatti
che «quel vivo dipingere le gioie e le passioni di un’età lontana, il balcone con la
luna, la fresca bellezza di Lucilla, avevano ricondotto Zampaglio in una illusione
frequente: egli – che non aveva avuto una giovinezza particolarmente avventurosa
o ricca di tempestosi affetti – non s’era rassegnato, con l’andar degli anni, a ricono-
scere quanto avaramente fossero state mantenute dalla sua vita le vivaci promesse
dell’adolescenza. Così che, ormai, egli vedeva la propria gioventù come la gioventù
che avrebbe voluto vivere» (p. 21).
332
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
ta, quella fama se n’era scomparsa, l’artista s’era ammalato, poi s’era
chiuso in quella grande stanza, con gli ultimi sacchetti di monete na-
scosti nel materasso» (p. 17). Lieto di avere finalmente qualcuno con
cui parlare, il vecchio, abbandonato e dimenticato da tutti, travolge
il suo ospite con una quantità di parole. Si incomincia con un facile
lamento sulla vecchiaia che avanza:
«Vedete […] le mie povere gambe, saeva senectus … Galeno ebbe a
pensare che ogni parte del corpo ha la sua anima … e l’anima delle mie
gambe, eh, non so dov’abbia intenzione di vagare».
Si prosegue con una puntata più metafisica:
«È vero quello che dice santo Agostino, che cioè corruptibile corpus ag-
gravat animum et deprimit; quindi io domando in quale abiezione sarei
caduto, senza di questi (e sfogliava i volumi) oro, vita, luce, tutto».
Infine, si passa alla poesia:
«Ma ancora! Eh, Lucano! Udite!
Ac veluti montis saxum de vertice praeceps
cum ruit avulsum vento, seu turbidus imber
proluit, aut annis solvit sublapsa vetustas …».
333
Massimo Gioseffi
334
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85
«Non s’era sentito mai così leggero e così sano. Dalla briglia che stringeva e
dal dorso del cavallo che sentiva sotto la sella gli veniva un lieto segno di realtà e di
possesso […]. Tornò col pensiero a Lucilla; ché, abbassando gli occhi aveva veduto
sulla mano il segno ancora rosso di una sgraffiatura. Ma il viso di Lucilla e tutta la
storia che aveva narrato il giorno precedente, gli parevano ormai cose remote, quasi
inesistenti […]. Sentiva una forza pura e calma dentro le vene. ‘Sono felice’, disse
ancora a se stesso, con meraviglia» (pp. 35-36).
335
Massimo Gioseffi
86
Che si apre con una poesia senza titolo, da tempo riconosciuta come la più
ermetica del poeta, pur risalendo al 1946, e che inizia con il sintagma E questo è il
sonno: cfr. P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Prima serie, Milano 1975,
Torino 19962, p. 416; A. Manfredi, Fortini traduttore di Eluard, Lucca 1992, p. 112.
Il sintagma è citato e deriso nel più tardo Composita solvantur cit., p. 62.
87
Lo ha segnalato Lenzini, Il poeta di nome Fortini cit., p. 26., che parla di La
morte del cherubino come del primo testo dal quale traspare «una rivisitazione non
passiva né neutrale, bensì cosciente e critica, della giovinezza» (rimandando a opere
più mature, quali la raccolta Questo muro [1973] o Cani del Sinai [1967]).
336
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
88
Niente sonno e niente risveglio si danno infatti per Giovanni Penna, il
protagonista di Agonía di Natale, che pure dichiara (ivi, p. 97) di avere «sempre
desiderato le lunghe notti d’inverno»: «Era l’ora nella quale chi ha vegliato nell’aria
della notte, prova l’orrore di precipitare in una nuova giornata senza l’intervallo del
sonno, e sente, come per un moto nel cranio, l’assurda lunghezza dell’esistenza e la
fatica del giorno» (p. 81). È passato pochissimo tempo, ma è ormai immedicabile
lo «scandalo» dell’essere malato in un mondo «di piena salute». Una volta fattisi
chiari la propria identità storica e sociale e i nuovi fini verso i quali dirigerla (p. 7: «a
chi, come noi, vuole nell’altrui la propria salute»), il passato personale può apparire
solo un errore «lontano, irraggiungibile», per il quale si muore o dal quale ci si deve
allontanare il più in fretta possibile (p. 151).
89
Franco Fortini cit., p. 38. È la messa in discussione di quanto vi era ancora
di immaturo in Foglio di via, verrebbe da aggiungere, laddove nella raccolta poetica
si avverte qualche incertezza sia nel tentativo di recuperare parte della produzione
d’anteguerra, sia nel proporre una possibile coesistenza delle due fasi.
90
«An allegory of transformation» ha definito il racconto Th.E. Peterson,
The Ethical Muse of Franco Fortini, Gainesville 1997, p. 44, che suggerisce anche
l’ipotesi – un poco più azzardata – che nel giovane barone si debba vedere «no
more than the old man’s [cioè Zampaglio] dreamed and recollected self».
337
Massimo Gioseffi
91
Cfr. le parole di Fortini in Zangrandi, Il lungo viaggio cit., p. 547: «Una
maggiore presa di coscienza venne (mi pare nel ’37) col mio distacco da un gruppo
di giovani che si avviavano ad interessi propriamente letterari (caffè delle ‘Giubbe
Rosse’, Frontespizio, poi Campo di Marte)». Delle inquietudini fortiniane a inizio
anni Quaranta lascia una bella testimonianza P. Ingrao, Volevo la luna, Torino
2006, pp. 83-84.
92
Cfr. Lenzini, Il poeta di nome Fortini cit., p. 29: «È lecito e suggestivo get-
tare un ponte tra l’autore del Cherubino di stucco e il poeta del Paesaggio, e cercare
in quel Seicento un’allegoria in cui Eros e Thanatos sono chiamati a dire altro da
sé». L’allusione va a Paesaggio con serpente (1984), una delle maggiori raccolte poe-
tiche fortiniane.
338
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
93
G. Nava, Fortini e le arti figurative, in Fortini, Disegni Incisioni Dipinti cit.,
p. XVII. Le citazioni nella citazione vengono da Fortini, Verifica dei poteri cit.,
p. 140 = Id., Saggi ed epigrammi cit., p. 177. È impossibile dire quanto ci sia, in tutto
ciò, del magistero di Pasquali.
94
Si ricordi, una fra molte, la folgorante definizione che si legge in Dieci
inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Milano 1957, p. 75: «Fin
quando la realtà che l’opera configura e interpreta non è concretamente oltrepas-
sata dalla storia umana, la presenza dell’opera chiede […] l’incarnazione; quando
lo sia […] essa residua uno scheletro di relazioni pure (di carattere esemplare,
pedagogico: il cosiddetto ‘classico’) le quali tuttavia non possono intendersi se non
sostituendo alle parti morte […] la loro traduzione, quasi sempre istintiva, irriflessa,
in termini vivi; recitandole, quelle opere, per così dire, in costumi moderni». Come
leggere i classici? si intitolava un intervento su «Il Politecnico» del luglio/agosto
1946, pp. 54-58.
339
Massimo Gioseffi
95
Da G. D’Ippolito, L’Omero di Plutarco, in I. Gallo (a cura di), La biblioteca
di Plutarco, Atti del IX Convegno plutarcheo (Pavia, 13-15 giugno 2002), Napoli
2004, pp. 11-35.
96
In realtà, ho corretto ex silentio sia l’arcaico quum in luogo di cum al v. 685,
sia exsultas per exultat al v. 688, probabile svista di stampa dell’edizione 1988.
97
Quanto all’altra citazione di Zampaglio, si tratta di Aug. civ. 14.3, a sua volta
ripresa (con qualche modifica) di Sap. 9.15.
340
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
98
Intendendo sia chi giovane lo è veramente, per anni «zoccolo duro» fra i
lettori di Benni, sia chi giovane non lo è più troppo, ma è rimasto ancorato a un’età
felice e contestataria, in bilico tra rifiuto dell’integrazione e mito di Peter Pan.
99
Cfr. F. La Porta, La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine
secolo. Nuova edizione ampliata, Torino 1999, 20032, p. 190.
100
E la scuola, non occorre dirlo, a sua volta è il luogo fisico nel quale si
esercitano – per definizione – il potere e la prepotenza degli adulti su giovani e
giovanissimi.
101
S. Benni, Un uomo tranquillo, in Id., L’ultima lacrima, Milano 1994, pp. 73-86.
341
Massimo Gioseffi
Capire quali fossero le idee di Panunzio non gli era stato difficile; ca-
pire quelle del nuovo capo si rivelerà un problema. Di tutto il raccon-
to a noi interessano però soltanto le idee di Panunzio, ossia il ritratto
di mediocre funzionario che Benni, per suo tramite, viene a comporre.
Uomo insipido e «filogovernativo», non per convinzione, ma perché
là dove sta il governo sta anche il potere – indipendentemente, dun-
que, da chi si trovi al governo – Panunzio si caratterizza (ivi, p. 74) per
il «perbenismo quacchero-governativo con idiosincrasia per il sud del
paese, una vaga misoginia con sospette fantasie lolitiche, il gusto della
citazione latina, la pipa, le scarpe inglesi, la squadra del Deportivo,
l’attore B., il conducatore televisivo T., le barzellette un po’ spinte,
i temperini a ghigliottina, la sfiducia nei medici e i discorsi sull’ul-
cera, intesa come malattia degli eletti». È una sorta di campionario,
questo, dove si vedono in atto le due figure maggiormente ricorrenti
nella prosa di Benni, l’accumulo e l’ossimoro 103. Fra i tanti elementi
che compongono il ritratto (nei quali è facile riconoscere alcuni luoghi
comuni della «cultura» anni Novanta), non manca il latino – o meglio,
«il gusto della citazione latina», segno di un sapere un po’ antiquato,
di buona scuola, dunque fané per definizione, ma che appunto per
questo conferisce prestigio, distinzione, nobiltà – le qualità ideali di
102
«Gli impiegati dell’ufficio accolsero la sua dipartita [il pensionamento di
Panunzio] con cospicua indifferenza, alcuni sbadigliando, altri appisolandosi
durante la cerimonia, altri grattandosi nei recessi» commenta il narratore, ivi, p. 73.
103
La Porta, La nuova narrativa cit., p. 238, nella preponderanza di «ossimoro»
e «paratassi» riconosce la lezione di Alberto Arbasino, alla quale si ispirerebbe più
o meno tutta la letteratura degli anni Ottanta (in Benni, però, con l’aggiunta di un
«uso ironico degli stereotipi linguistici commerciali» e di «una forte intenzionalità
morale», ivi, p. 46).
342
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104
Morante, La Storia, in Opere cit., II, pp. 677-678.
105
S. Benni, Comici spaventati guerrieri, Milano 1986.
343
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106
Sul ruolo della città all’interno del romanzo cfr. E. Godono, La città nella
letteratura postmoderna, Napoli 2001, pp. 116-119.
107
«Un custode della memoria» lo definisce Benni in una conversazione con gli
studenti dell’università di Verona, raccolta in S. Tani (a cura di), Scrittori a Verona,
Verona 2001, pp. 41-63 (l’affermazione è a p. 47).
344
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108
In una intervista rilasciata a Grazia Cherchi per «Panorama», agosto 1989
(ora in G. Cherchi, Scompartimento per lettori e taciturni. Articoli, ritratti, interviste
a cura di R. Rossi, Milano 1997, pp. 217-222), lo scrittore dichiara di essersi ispirato
a una figura reale, «un vecchio professore che avevo conosciuto in passato» (ivi,
p. 219); cfr. anche Tani, Scrittori a Verona cit. Lì Benni insiste sulla corrispondenza
fra personaggi del romanzo e figure di spicco del movimento del Settantasette bolo-
gnese.
109
Da altri inteso come un’allegoria del Tempo e della Prudentia (così sembra
indicare la scritta «Ex praeterito praesens prudenter agit, ni futurum actione detur-
pet»). Il dipinto, che probabilmente conserva i ritratti del pittore, del figlio e del
nipote, è databile intorno al 1565: cfr. l’ampia dossografia raccolta da L. Puppi, in
Tiziano, Palazzo Ducale, Venezia - National Gallery of Art, Washington, Venezia
1990, pp. 347-349, nr. 67.
110
Godono, La città nella letteratura cit., p. 116 nt. 203, nei nomi animaleschi
dei diversi personaggi riconosce un elemento da «‘fiaba’ postmoderna», probabil-
mente ispirato dai cartoons della Walt Disney (il padre di Luca si chiama Ezechiele,
come un personaggio disneyiano).
345
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346
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
347
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111
Di «acuta satira dell’insegnamento scolastico nozionistico, predefinito»
parla invece Godono, La città nella letteratura cit., p. 118 nt. 212; ma una vera satira
non dovrebbe avere un’alternativa da proporre? E non dovrebbe fondarsi su dati
esatti, non su un forzato travisamento, come nel caso del testo virgiliano? È lecito
qualche dubbio, mi pare.
112
«I poveri gesti e abiti e comportamenti dei nostri ‘spaventati guerrieri’, cioè
del mondo dei sobborghi, viene gravato [sic] di frasi dotte, sentenziose, estratte da
altri contesti e trasferite in modo da stridere al contatto», scriveva già R. Barilli, È
arrivata la terza ondata. Dalla neo alla neo-neoavanguardia, Torino 2000, p. 44; in
questo procedere soccorrono «le armi del comico, con i loro meccanismi obbligati:
che stanno nel giocare sistematicamente di incongruità, di spiazzamenti, di carichi
eccessivi» (ibid.).
113
Lista non priva di imprecisioni, peraltro: ad esempio, Oscar Wilde (1854-
1900) vi è detto morto a trentaquattro anni, con palese svista.
348
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114
Con forse una possibile eco di Gadda e della Cognizione del dolore, nella
quale si ritrovano sia la forma «quadrupedante» e derivati vari, sia il popolo di
«peoni e peonesse» zoccolanti, oranghi pronti a invadere la casa di don Gonzalo e
della madre: cfr. C.E. Gadda, La cognizione del dolore, in Id., Romanzi e racconti, I,
a cura di R. Rodondi - G. Lucchini - E. Manzotti, Milano 1988, p. 728.
349
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115
Va ricordato che la citazione non è priva di una sua popolarità, proprio come
esempio di onomatopea. Pasolini la usava a questo scopo con gli allievi romani (lo
ricavo da G. Meacci, Improvviso il Novecento. Pasolini professore, Roma 2000); in
letteratura se ne segnala un significativo riuso in S.S. Van Dine, The Garden Murder
Case, New York 1935.
116
S. Benni, Il bar sotto il mare, Milano 1987, pp. 87-115.
350
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351
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352
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117
Nel romanzo di Gabriel García Márquez il latino è – oltre che la lingua inse-
gnata dal vecchio catalano ai quattro amici del sottofinale (sulle pagine di Ovidio e
Seneca) – il linguaggio nel quale si esprime il vecchio José Arcadio Buendía legato al
castagno di casa. Lingua misteriosa, dunque, percepita come esoterica, non diversa
da quella parlata dallo zingaro Melquíades: ed è solo la penetrazione a Macondo
della Chiesa (che del latino si è fatta garante) a permettere di riconoscerla per un
linguaggio non più parlato, ma non privo di storia e di una sua norma: cfr., nella
recentissima edizione commemorativa con testo rivisto dall’autore, s.l. 2007, alle
pp. 96, per la «lengua extraña» di José Arcadio; 103, per la scoperta del latino; 452,
per le letture di Ovidio e Seneca. Si potrebbe aggiungere che nella saga di Harry
Potter le desinenze in -us di gran numero di parole e le assonanze di certi nomi
riportano a questo uso magico del latino: che però, significativamente, non è quasi
mai «vero» latino.
118
Scena ed immagine vengono da Hom. Il. 22.139-142 (Achille all’inseguimento
di Ettore), il pathos è tutto virgiliano: Omero si limitava a descrivere la fuga affannosa
dell’animale che teme di essere catturato; Virgilio lo fa raggiungere e uccidere.
353
Massimo Gioseffi
senso magico che dal latino traspira sono tutti motivi che concorrono
a ottenere l’effetto desiderato 119. Effetto che, in ogni caso, sarà diverso
a seconda del lettore che affronta il passo. Per il lettore dotto, in grado
di riconoscere la citazione, i versi virgiliani avranno infatti valore di
ammicco; per gli altri saranno un elemento del macabro, come Egistus
con la sua narrazione ha cercato di farci credere. Il che però vuole
dire, pensando allo scrittore e al suo pubblico di riferimento, operare
una netta distinzione fra coloro che si trovano davanti al testo. Gli
uni possono sfruttare fin da questo momento il dettaglio che viene
loro offerto come un mezzo per cogliere la letterarietà della situazio-
ne, l’innocenza del contesto narrativo, la non drammaticità del finale,
prevedendo anche l’esito del racconto – o, quanto meno, la falsità del-
la situazione nella quale Egistus, narratore inaffidabile, ci ha sagace-
mente introdotti, inducendoci a leggere come preoccupanti cose che
preoccupanti, di fatto, non sono. Gli altri, sprovvisti delle necessarie
informazioni (in nessuna parte del racconto viene indicato che la frase
incisa costituisce, in realtà, una citazione), sono costretti a credere a
quanto il narratore vuole che essi credano, si trovano cioè esclusi dai
mezzi di decifrazione e da alcune informazioni di cui i primi sono, al
contrario, dotati. Si crea così un doppio regime, una doppia capacità
di lettura. A una parte del pubblico Benni esibisce la superficie del
racconto, il gioco del macabro, che poi si rivela innocuo, che poi si
rivela macabro, con continui rivolgimenti del punto di vista narrativo
e di quella barriera fra reale e irreale che è l’elemento di forza del
libro; all’altra ha indicato il suo richiamarsi a fonti alte, che sono fonti
letterarie, ostentatamente tali (notizia che dal dettaglio specifico si ri-
verbera sull’intero racconto) 120. Usando i termini della classificazione
di Wayne Clayson Booth, potremmo parlare di un «pubblico auto-
riale» e un «pubblico narrativo»: il primo costituito da «quei lettori
119
Riccardo Scarcia mi ha giustamente ricordato un parallelo dal Capitan Fra-
cassa (1861-1863): la giovane Chiquita reca con sé un pugnale sulla cui lama si legge
«Cuando esta vivora pica, / no hay remedio en la botica» (cito da Th. Gautier, Le
Capitaine Fracasse, Paris 1967, p. 194). Lo spagnolo come il latino, dunque, esotico
se non esoterico, oltre che a priori più adatto al personaggio in questione.
120
E che era sottintesa da altri segnali, meno perspicui (almeno fino al momento
in cui non possono essere messi in relazione fra loro, dopo che si è fatta luce): la
raffigurazione dell’uomo del mantello, ad esempio; oppure la serie di allusioni e
riferimenti ad autori del secolo diciannovesimo, quali Poe e Baudelaire.
354
Citazioni classiche in tre autori del Novecento
che sono impliciti in tutto ciò che dice o non dice l’autore per rendere
il libro accessibile, e in particolare per rendere accessibile la sua ba-
se fattuale. I membri di questo pubblico […] in ogni lettura riuscita
[…] giungono prima o poi a condividere tutti (o la maggior parte, o
i più importanti) i fatti e i valori comunicati dall’autore implicito»;
il secondo è un pubblico che «vive gli avvenimenti come se fossero
reali, e la narrazione come se fosse un resoconto storico» 121. Messa
così, la distinzione è forse eccessiva: la letteratura d’intrattenimento, il
genere fantastico, l’approccio ludico-ironico dell’insieme del libro – se
non di questo specifico racconto – invitano a non esagerare troppo.
Resta, ad ogni buon conto, la divisione fra chi è in grado di cogliere la
citazione (citazione peregrina, si osservi, da un libro e da un contesto
poco frequentati a scuola) e chi invece no. E ciò, nel caso di Benni,
rischia di comportare una distinzione «tipologica», se così si può di-
re, fra i suoi lettori: perché pubblico autoriale saranno, con maggiore
probabilità, gli adulti, i coetanei dell’autore, che hanno sperimentato i
medesimi passaggi obbligati e sono presumibilmente ancora in grado
di decifrare il latino, e magari perfino di riconoscere la provenienza
della citazione, con quanto ne consegue; pubblico narrativo saranno
senz’altro i giovanissimi, dai quali non ci si attende che siano lettori di
Virgilio, né che sappiano individuare la citazione, con quello che por-
ta con sé. In altri termini, questo significa che all’interno del racconto,
e grazie al latino, si viene a creare una sorta di barriera generazionale,
nella quale l’autore, adulto, stringe la mano ai suoi lettori adulti, alle
spalle, se non proprio ai danni, dei lettori giovani 122. Il tutto all’in-
terno di una poetica nella quale, come autore, Benni proclama una
morale in cui il giovane è la figura positiva, il solo in grado di fare spe-
rare in un rinnovamento altrimenti impossibile, entro un mondo fatto
dagli adulti a loro immagine e somiglianza e nel quale gli adulti sono
sempre pronti a tenersi reciproco bordone. Con le considerazioni che
ciascuno, a questo punto, è libero di trarre per proprio conto.
121
W.C. Booth, The Rhetoric of Fiction, Chicago - London 1961 (trad. ital.
Scandicci 1996, pp. 439-443).
122
Una serie di casi affini e paralleli, sebbene riferiti a un diverso romanzo
(Terra!, Milano 1983) e a un diverso ambito di cultura, è segnalata da B. Pischedda,
La fantasia ingorda di Stefano Benni, in Id., Mettere giudizio. Venticinque occasioni
di critica militante, Reggio Emilia 2006, pp. 158-173.
355
Luigi Ernesto Arrigoni
Il carme 31
da Catullo a Quasimodo
sotto il segno
di «vento a Tìndari»
1. L’iter editoriale
1. dei «Catulli Veronensis Carmina» quasimodiani 1
1
Ringrazio Alessandro Quasimodo, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mon-
dadori di Milano, e in particolare la sua direttrice, Luisa Finocchi, nonché il prof.
Renzo Cremante, direttore del «Centro di Ricerca sulla tradizione manoscritta di
autori moderni e contemporanei» dell’Università degli Studi di Pavia, per avermi
concesso la possibilità di studiare e utilizzare alcuni inediti di Quasimodo. Altri rin-
graziamenti devo a Giovanna Rosa, Paolo Rusconi, Stefano Ghidinelli, Luca Carlo
Rossi ed Elisa Mencaglia per i loro preziosi consigli. La tavola di Birolli a p. 373
è riprodotta, con l’autorizzazione di Zeno Birolli, dal volume conservato presso il
Centro Apice (Archivi della Parola, dell’Immagine e della Comunicazione editoriale)
dell’Università degli Studi di Milano. La fotografia è stata realizzata da Valentino
Albini con la collaborazione di Gaspare Luigi Marcone.
2
«Corrente» 17, 30 settembre 1939; 20, 15 novembre 1939.
357
Luigi Ernesto Arrigoni
3
S. Ramat, Poesie (1938) di Salvatore Quasimodo, in La poesia italiana 1903-
1943. Quarantuno titoli esemplari, Venezia 1997, p. 364.
4
«L’Uomo» era un periodico con «scritti di politica, filosofia, letteratura e
poesia. La prima serie [fu] diffusa clandestinamente a partire dal 1944 […]. La
seconda serie […] va dall’8 settembre 1945 al 1° settembre 1946 […]. Uomo pro-
mosse anche una serie di pubblicazioni, che comprende il volume delle traduzioni
di Quasimodo da Catullo» (AA.VV., Quasimodo, a cura di A. Quasimodo, catalogo
della mostra tenuta a Palazzo Reale a Milano [1999-2000], Milano 1999, p. 123; la
nota riportata è di M. Bignamini).
5
I carmi tradotti sono i seguenti: 1, 3, 4, 5, 8, 9, 11, 27, 30, 31, 35, 38, 46, 49,
58, 60, 65, 66, 68a, 70, 76, 82, 85, 86, 87, 93, 96, 101, 107, 108, 109, 116. Il testo a
fronte sarà pubblicato anche nelle edizioni Mondadori, ma non era presente nelle
versioni del 1939 e del 1942. In nessun caso sono inserite prefazioni dell’autore o
note filologiche (per esempio, l’indicazione del testo adottato).
6
G. Vigini, L’Italia del libro, Milano 1990, p. 9.
7
A. Cadioli - G. Vigini, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi. Un
profilo introduttivo, Milano 2004, p. 89.
8
L’editrice Accademia era una casa milanese legata ad alcune figure di spicco
dell’ermetismo, tra cui Carlo Bo e Luciano Anceschi (vd. G. Ragone, Un secolo di
358
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
dunque, come negli anni Trenta, a una piccola casa legata a una rivi-
sta, per pubblicare un libro il cui pubblico di riferimento è quello dei
lettori cólti, appassionati di poesia (e poesia ermetica, in particolare) 9.
Non lascia alcun dubbio sulla fisionomia dei destinatari elettivi la nota
in terza pagina: «Di questo volume sono stati impressi 2000 esemplari
per l’edizione originale, 215 esemplari per l’edizione di lusso illustrata
di cui 10 ad personam, e 50 esemplari per la stampa» 10. Il carattere
fortemente elitario dell’opera è inequivocabilmente messo in evidenza
dall’edizione di lusso, arricchita da quindici illustrazioni del pittore
Renato Birolli, amico personale del poeta. Marco Valsecchi ricorda
come nacque l’idea del progetto durante i difficili giorni della guerra:
Il luogo d’incontro era il «Motta» di San Babila, […] un caffè-pastic-
ceria che vide gli incontri dei poeti ermetici […]. Non ricordo come
si venne in discorso: ma ci si accordò per stampare una sua traduzione
[di Quasimodo] da Catullo, con tavole in nero dello stesso Birolli. Per
libri, Torino 1999, pp. 173-174). L’edizione di lusso dei Catulli Veronensis Carmina
uscì con la data 25 aprile 1945. Quella originale è invece successiva di un mese
(24 maggio).
9
Dalle lettere di Alberto Mondadori a Quasimodo sappiamo che il poeta
aveva «l’obbligo di offrire [alla Mondadori] prima che a qualsiasi altro le opere di
qualsiasi genere» (27 settembre 1945), riferendosi specificamente alle traduzioni,
in base ai «precisi accordi intercorsi secondo l’art. 1° del contratto stipulato il 13
ottobre 1941» (27 ottobre 1945). Quasimodo, contagiato dal clima di entusiasmo
culturale legato alle piccole case editrici, ha probabilmente evitato l’opzione Mon-
dadori, viste anche le enormi difficoltà della Casa dovute all’assenza di Alberto e di
Arnoldo, esuli in Svizzera fin dall’occupazione tedesca del 1943. Alberto, al ritorno
in Italia, si risentì e scrisse al poeta: «Le tue amnesie in fatto di contratti [diventano]
sempre più numerose e preoccupanti […]. Non fai che passare da un editore all’al-
tro» (27 settembre 1945). Le lettere fra Quasimodo e la Casa Editrice, in gran parte
inedite, sono conservate presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori di
Milano nell’Archivio storico Arnoldo Mondadori editore. Il carteggio fra Arnoldo
e Quasimodo è nella «Sezione Arnoldo Mondadori. Fascicolo Quasimodo Salva-
tore (dal 18-10-1941 al 07-06-1966)»; quello con Alberto nella «Sezione Alberto
Mondadori. Fascicolo Quasimodo Salvatore (dal 13-06-1945 al 28-06-1967)». Nella
«Sezione Segreteria editoriale autori italiani. Fascicolo Quasimodo Salvatore (dal
18-07-1946 al 11-10-1971)» sono presenti lettere fra il poeta e alcuni collaboratori
della Casa, fra i quali spicca Vittorio Sereni.
10
Questa è la nota dell’edizione originale. In quella di lusso è scritto: «Di
questo volume sono stati impressi 205 esemplari originali numerati dal n. 1 al n. 205
e 10 esemplari ad personam siglati da A a L. Tutte le copie sono firmate dal tra-
duttore. Gli esemplari dal n. 1 al n. 15 contengono un disegno originale di Renato
Birolli».
359
Luigi Ernesto Arrigoni
11
M. Valsecchi, Quasimodo, 1944, in Visti da Salvatore Quasimodo: Birolli,
X. Bueno, Cantatore, De Chirico, Esa D’Albisola, Fabbri, Manzù, Marino, C. Mastro
ianni, Migneco, Rossello, Rossi, Sassu, Sotilis, Usellini, Tamburi, Milano 1969,
pp. 7-8. Birolli, in un’annotazione del 2 febbraio 1945, scriveva: «Mi preparo per le
12 [tavole] sulle traduzioni di Salvatore Quasimodo dei Catulli Veronensis Carmina»
(Taccuini 1936-1959, a cura di E. Emanuelli, Torino 1960, p. 240). La composi-
zione dei disegni (che passarono dai dodici previsti ai quindici presenti nel volume) è
quindi avvenuta tra febbraio e aprile dell’anno conclusivo della guerra.
12
R. Chartier, Textes, formes, interprétations, Préface à D.F. McKenzie, La
bibliographie et la sociologie des textes, Paris 1991 (ed. ital. a cura di I. Amaduzzi
- A. Capra, Milano 1999, p. 99). Anche G. Genette, Seuils, Paris 1987 (ed. ital. a
cura di C.M. Cederna, Torino 1989, p. 9), ricorda come «manifestazioni iconiche»
possano assumere «valore paratestuale».
13
Vd. però il mio Il Catullo di Quasimodo e Birolli fra parola e immagine,
«Acme» 61, 2008, pp. 179-209.
14
Mi riferisco in particolare alle recensioni di Luciano Anceschi, Antonio La
Penna e Virginio Cremona. Secondo Anceschi (Catullo tradotto da Quasimodo,
«Avanti!», 17 ottobre 1945) l’incontro di Quasimodo con Catullo «non ha questa
volta la forza rivelatrice che ebbe quello felice coi Lirici Greci, e accade talvolta che
il verso, là dove in Catullo pare inquietarsi in un leggero tremore d’affetto, scada
un poco ad un tono quasi aere di notizia». Prevedibilmente ancora più scettico è il
commento di un filologo di mestiere, La Penna («Il fiore delle Georgiche» e «Catulli
Veronensis Carmina», «Belfagor» 1, 31 gennaio 1946; ora in AA.VV., Quasimodo
e la critica, a cura di G. Finzi, Milano 1969, 19752, p. 322), il quale ritiene che
«nemmeno nei carmi catulliani più lontani dal tono del lusus, più scavati nella pena
dell’amante, Quasimodo abbia ritrovato se stesso e veramente ricreato». Cremona
(Il Catullo di Salvatore Quasimodo, «Humanitas», agosto 1948, p. 804) nota come
«la tendenza a semplificare e a ridurre […] conduce spesso il Quasimodo a infiac-
chire il ritmo, a smorzare le tonalità» fornendo così «un altro Catullo magari più
morbido, […] certamente meno vivace e colorito».
15
«A ognuno, dunque, il suo Catullo» (S. Quasimodo, Traduzioni dai classici,
1945; ora in Il poeta, il politico e altri saggi, collana «Tutte le opere di Salvatore
Quasimodo», Milano 1967, pp. 111-112); vd. anche Anceschi, Catullo tradotto cit.:
«Comunque Quasimodo ci ha dato il ‘suo’ Catullo».
360
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
16
Il materiale consiste in centodiciassette fogli manoscritti (cartella IV), di
varia dimensione e in buono stato di conservazione, con varianti, cassature, versi
sparsi, redazioni provvisorie, il tutto abbastanza confuso, perché un singolo foglio
può contenere versi da diverse poesie, o solo piccole parti di componimenti più
vasti. Vi è poi un fascicolo dattiloscritto di cinquantuno fogli (cartella IVbis) con
correzioni manoscritte; esso corrisponde al testo inviato alla Mondadori per l’edi-
zione del 1955, con minime discrepanze che furono probabilmente corrette sulle
bozze. Tutti i fogli sono descritti, ma non pubblicati, in Salvatore Quasimodo e gli
autori classici. Catalogo delle traduzioni di scrittori greci e latini conservate nel Fondo
manoscritti, a cura di I. Rizzini, Pavia 2002, pp. 63-84. Quando citerò dal fondo,
userò due numeri preceduti da f.: il primo (in caratteri romani) si riferisce alla car-
tella, il secondo al foglio.
17
I carmina aggiunti sono i nrr. 12, 13, 26, 32, 41, 43, 55, 56, 105.
18
«Mi sono convinto che la tua opera, la sua complessità dovuta soprattutto
alla mole ormai imponente delle traduzioni, e la varietà delle tue esigenze che a
volte non ti sembrano soddisfatte […] richiedono soluzioni editoriali più appro-
priate […]. La mia proposta è la seguente: istituire una collana riservata esclusi-
vamente alle tue opere» (lettera dell’11 dicembre 1964 di Alberto Mondadori a
Quasimodo). Già all’inizio del 1963 Alberto Mondadori aveva scritto al poeta: «Per
una via piuttosto indiretta mi è poi giunta voce del quesito da te posto circa l’op-
portunità di ristampare i Canti di Catullo». Alberto lo informava poi dell’esistenza
di un «largo margine di giacenza» e accennava a un possibile rilancio pubblicitario
361
Luigi Ernesto Arrigoni
(31 gennaio 1963), che si concretizzerà con una «finestrella sul Giorno» del 7 marzo
(lettera di Vittorio Sereni a Quasimodo del 6 maggio 1963 con i dati del Servizio
Stampa Pubblicità). Un anno più tardi, nel 1964, a Quasimodo che faceva notare
come i Canti fossero esauriti (19 novembre 1964), Arnoldo rispondeva rassicurando
che l’opera sarebbe stata ristampata l’anno successivo (30 novembre 1964).
19
S. Quasimodo, Catullo. Poesie, introduzione di G. Finzi, Milano 2004. Se
non è indicato diversamente, le citazioni dei Canti (ad esclusione del 31) vengono
dall’edizione del 1945.
20
S. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Milano
199610. Le citazioni di poesie originali quasimodiane sono tutte tratte da questa edi-
zione; ne saranno indicate la raccolta e la pagina.
21
Vd. G. Savoca, Per Quasimodo traduttore di Catullo: il carme LXV, in Tra
testo e fantasma, Roma 1985, pp. 67-87; ora anche in AA.VV., Quasimodo e l’Erme-
tismo, Atti del 1° Incontro di studio (Modica, Palazzo dei Mercedari, 15-16 febbraio
1984), Modica 1986, p. 110.
22
Il libro di Catullo veronese, a cura di M. Lenchantin De Gubernatis, Torino
1928, 19332 (le citazioni vengono dall’edizione del 1933).
23
Catulle, Poésies, texte établi et traduit par G. Lafaye, Paris 1932 (le cita-
zioni tratte da Lafaye all’interno di questo articolo provengono da p. 21).
24
Nell’edizione del 1945, solo cinque componimenti su trentadue non erano
stati inclusi nella raccolta di Pascoli. Nel 1955 Quasimodo si discosta in modo più
netto dal modello, perché sei dei nove nuovi componimenti non erano stati com-
mentati dal poeta di Myricae. L’edizione originale di Lyra è del 1895; Quasimodo
faceva probabilmente riferimento a quella edita da Giusti, Livorno 1934, da cui
citerò anch’io.
362
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
25
Quasimodo lavorava al testo già dall’estate di quell’anno: «Stanotte ho lavo-
rato su dodici versi di Catullo. Ma spero di completare tutta la poesia A Sirmio
e di mandartela …» (S. Quasimodo, Lettere d’amore a Maria Cumani, 1939-1959,
Milano 1973, p. 141, lettera del 2 agosto 1939).
26
Quasimodo aveva preparato un’antologia della letteratura latina sino al
periodo umanistico, con introduzione biografica per ogni autore, testi, note e con-
sigli per la traduzione. La stesura risale ai tempi della Seconda Guerra Mondiale,
363
Luigi Ernesto Arrigoni
A. Catullo, carme 31
Paene insularum, Sirmio, insularumque
ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
marique vasto fert uterque Neptunus,
quam te libenter quamque laetus inviso,
vix mi ipse credens Thuniam atque Bithunos
liquisse campos et videre te in tuto.
O quid solutis est beatius curis,
cum mens onus reponit, ac peregrino
labore fessi venimus larem ad nostrum,
desideratoque acquiescimus lecto.
Hoc est, quod unumst pro laboribus tanti.
Salve, o venusta Sirmio, atque ero gaude:
gaudete vosque, o Lydiae lacus undae:
ridete, quicquid est domi cachinnorum. 27
come si deduce dalla lettera a Maria Cumani del 3 giugno 1942 (ivi, p. 169: «L’An-
tologia latina dovrebbe essere costituita almeno di 350 pagine fitte di note»), ma
l’opera non fu mai edita. Presso il fondo di Pavia sono conservati quattrocentotre
dattiloscritti inediti (cartella XIX). Per Catullo sono presenti nove fogli (f. XIX.319-
327) con la vita dell’autore e i testi commentati dei carmi 3, 31 e 101. Quando
parlo delle note di Quasimodo o della presentazione, faccio sempre riferimento a
f. XIX.324.
27
Il testo riportato è quello di De Gubernatis. L’edizione critica di Mynors
presenta tantis (v. 11), gaudente (v. 13) e quidquid (v. 14) in luogo di tanti, gaudete
e quicquid (C. Valerii Catulli, Carmina, recognovit brevique adnotatione critica
instruxit R.A.B. Mynors, Oxonii 1958, 19602, p. 17).
364
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
28
La modifica del titolo è dovuta a una semplice convenzione formale, per cui
tutte le poesie inserite nel volume del 1955 assumono come titolo l’incipit del testo,
necessità che ovviamente non sussisteva per la pubblicazione su rivista.
365
Luigi Ernesto Arrigoni
[…] più affettiva» 29, grazie anche alle aggiunte della particella «o» e
del possessivo «mia» 30. Il successivo nesso liquentibus stagnis suona, in
una traduzione letterale come potrebbe essere quella di Guido Padua-
no, «sui laghi limpidi» 31, mentre qui abbiamo lo sviluppo «su acque /
chiare di laghi», con l’aggiunta del lessema «acque» in grande risalto
nella posizione in clausola e la resa di liquentes (dalla stessa radice di
liqueo e liquidus) con «chiare». Queste prime scelte appaiono partico-
larmente originali, ma non sono solo elementi di una semplice versio-
ne personale. Se confrontiamo infatti l’intera poesia – e in particolare
i primi versi – con Vento a Tìndari, ci accorgiamo che Quasimodo ha
istituito un’ampia serie di corrispondenze fra i due componimenti:
Vento a Tìndari
Tìndari, mite ti so
fra larghi colli pensile sull’acque
dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
29
M.C. Albonico, Catullo e Quasimodo, «Rivista di letteratura italiana» 1,
2004, p. 128. L’articolo, con titolo Il Catullo di Quasimodo, era stato anticipato in
forma ridotta su un numero monografico dedicato a Quasimodo della stessa rivista
(Nell’antico linguaggio altri segni. Salvatore Quasimodo poeta e critico, 1-2, 2003,
pp. 269-273).
30
Quasimodo era indeciso su questo possessivo, infatti, in f. IV.40 «mia» è
stato cassato e poi riscritto, e successivamente conservato in tutte le edizioni: l’uso
del possessivo in italiano è comunque molto meno connotato che in latino. Nel testo
latino il vocativo è presente ai vv. 7, 12 e 13 ed «expresses strong emotion» (Catul-
lus. A Commentary by C.J. Fordyce, Oxford 1973, p. 169). Quasimodo mantiene
solo quello del v. 12 (trasferendolo però inizialmente al poeta, come vedremo) e
aggiunge quello dell’incipit.
31
Catullo, Le poesie, trad. e nota storico-biografica di G. Paduano, commento
di A. Grilli, Torino 1997, p. 99. Vd. anche C. Valerius Catullus, hrsg. und erkl. von
W. Kroll, Leipzig 1923, 19292, p. 58: «liquentia stagna sind limpidi lacus».
366
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
32
La redazione qui presentata è quella definitiva per la collana «Tutte le opere
di Salvatore Quasimodo» nel 1965. Le varianti dei manoscritti e delle edizioni pre-
cedenti sono descritte in Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 1223, ma
non coinvolgono i passi utili per il confronto con il carme 31. Sull’interpretazione
di Vento a Tìndari vd. S. Pugliatti, Interpretare la poesia, «Solaria» 1, gennaio
1932, ora in Quasimodo e la critica cit., pp. 29-38; M. Tondo, Salvatore Quasimodo,
Milano 1976, pp. 25-26; N. Tedesco, L’isola impareggiabile: significati e forme del
mito di Quasimodo, Firenze 1977, pp. 9-19 e 102-103; P.M. Sipala, I versi di quel
ragazzo, in Quasimodo e l’Ermetismo cit., pp. 9-19.
33
Alla pronuncia del nome «Tindari» affiora involontario alla mente del com-
missario Montalbano l’incipit della poesia di Quasimodo: «‘E dove andavate?’. ‘Al
santuario della Madonna di Tindari’. Tindari, mite ti so … versi di Quasimodo gli
tintinnarono nella testa» (A. Camilleri, La gita a Tindari, Palermo 2000, p. 54; dal
romanzo è stato tratto anche un episodio della serie TV nel 2001 per la regia di
Alberto Sironi).
367
Luigi Ernesto Arrigoni
34
Tondo, Salvatore Quasimodo cit., p. 57.
35
La nota di Quasimodo per l’antologia dattiloscritta ricalca quella di Lyra
(p. 74): «Sirmione è congiunta alla terraferma con una lingua di terra, che alle volte
è sommersa: ciò che allora dà alla penisola aspetto d’isola».
36
Nelle note antologiche Quasimodo spiega che uterque «si riferisce al Net-
tuno lacustre e a quello marino». La sua interpretazione è quella adottata dalla mag-
gior parte della critica (cfr. Kroll, C. Valerius Catullus cit., p. 58; Fordyce, Catul-
lus cit., p. 168). Quasimodo trovava una diversa lettura nei commenti di Pascoli
(Lyra cit., p. 74: «L’Oceano d’Oriente e d’Occidente») e De Gubernatis (Il libro di
Catullo cit., p. 60: «Nettuno orientale e occidentale»). Pascoli riportava però anche
l’alternativa «il dio del mare e degli stagni».
37
Il quale, nelle Odi Barbare, usava la forma «Sirmio» quattro volte: «Sirmio
che ancor del suo signore allegrasi»; «move da Sirmio una canora immagine» (Da
Desenzano, vv. 12 e 66); «Ecco la verde Sirmio nel lucido lago sorride»; «ed essi dai
cieli vi lasciano cadere Sirmio» (Sirmione, vv. 1 e 9). Quasimodo leggeva il primo
verso di Sirmione nelle note di De Gubernatis (Il libro di Catullo cit., p. 60). In una
variante inedita Quasimodo usa la forma italiana «Sirmione» (f. IV.40).
368
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
38
La parola «acqua», «elemento fondamentale nella posizione e nella costitu-
zione del linguaggio di Quasimodo» (F. Flora, Salvatore Quasimodo, in Scrittori ita-
liani contemporanei, Pisa 1952, p. 172), ricorre settantotto volte nelle raccolte origi-
nali del poeta siciliano; «isola» occorre invece in ventiquattro passi. Le concordanze
delle poesie originali quasimodiane derivano da G. Savoca, Concordanza delle poesie
di Salvatore Quasimodo. Testo, Concordanza, Liste di frequenza, Indici, Firenze 1994.
39
V. Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino
1993, p. 430.
40
L. Spitzer, Dye syntaktischen Errungenschaften der Symbolisten, in Aufsätze
zur Romanischen Syntax und Stilistik, Halle 1918 (ed. ital. in Marcel Proust e altri
saggi di letteratura francese moderna, a cura di P. Citati, Torino 1959, p. 12).
41
P.V. Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica, in La tradizione del
Novecento. Terza serie, Torino 1991, p. 139.
42
Ivi, p. 137. Fra gli altri stilemi studiati da Mengaldo spiccano l’animazione
delle preposizioni, la preferenza per i plurali in luogo dei singolari, gli «accostamenti,
o apposizioni, analogici immediati» (p. 140), «la cancellazione dell’aggettivo deter-
minativo» (p. 138).
369
Luigi Ernesto Arrigoni
43
S. Solmi, Prefazione a S. Quasimodo, Ed è subito sera, Milano 1942; ora in
Quasimodo e la critica cit., p. 117.
44
A. Pietropaoli, Un’ipotesi di narcisismo retorico in Quasimodo, in Le strut-
ture della poesia: saggi su Campana, Ungaretti, Sbarbaro, Montale, Quasimodo, Gatto,
Napoli 1983, p. 106.
45
G. Finzi, Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo, Milano 19925, p. 69.
46
F. Musarra, Rinnovamento ritmico nel Quasimodo post-ermetico, in AA.VV.,
Quasimodo e il post-ermetismo, Atti del 2° Incontro di studio (Modica, Domus
S. Petri, 14-16 maggio 1988), Modica 1989, p. 108.
47
Ibid. Dello stesso autore vd. anche Strutture foniche e semantiche nella poesia
di Salvatore Quasimodo, in AA.VV., Salvatore Quasimodo. La poesia nel mito e oltre,
Atti del Convegno nazionale di studi su Salvatore Quasimodo (Messina, 10-12 aprile
1985), a cura di G. Finzi, Roma 1986, pp. 105-118.
48
Già nei Lirici Greci (1940) e nelle Nuove poesie (1942) l’uso delle tecniche
ermetiche, seppure ancora massiccio, assumeva del resto una funzione diversa, dal
momento che le immagini non presentavano il grado di astrattezza di Ed è subito
sera, ma mantenevano solo un alone di indeterminatezza poetica, mai di oscurità.
370
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
Nel resto dei Canti i sostantivi assoluti sono spesso utilizzati nei componimenti che
suggeriscono una grave crisi nell’animo del poeta veronese, quelli cioè che trattano
della disperazione di Catullo per gli eventi più tragici della sua vita: l’abbandono
da parte di Lesbia e la morte del fratello. Siamo all’interno di quel gruppo di car-
mina «strettamente lirici», giudicati da Quasimodo come i più significativi, in cui
andrebbe «ricercata la vera voce di Catullo», dove il poeta latino «canta la tristezza
e la sua disperazione di uomo innamorato di una donna, nota per i facili costumi,
dove parla degli amici, dove piange la morte del fratello, dove il riflesso di una vita
consumata nei piaceri contrasta con la perenne, grigia malinconia» (Introduzione
biografica per l’antologia della letteratura latina, f. XIX.319-320).
49
Nella traduzione catulliana le catene vocaliche sono presenti in diversi e
significativi luoghi del testo, per marcare la prevalenza di determinati toni, aperti o
cupi: vd. 3.13-14; 4.11-12; 11.23-24; 46.10; 60.5; 66.17-18; 68.19; 70.4; 108.2.
50
Gianfranca Lavezzi sottolinea l’importanza della orchestrazione fonica, e in
particolare delle catene vocaliche, nella raccolta Giorno dopo giorno, utilizzata per
«favorire un’amplificazione del suono» e illustrare così, sul versante del significante,
i centri semantici delle liriche in linea con la nuova finalità etica del poeta siciliano:
cfr. G. Lavezzi, Il metro che si cala nella storia: l’endecasillabo di «Giorno dopo
Giorno», in Nell’antico linguaggio altri segni cit., p. 421.
51
Lettera del 17 febbraio 1956, citata da A. Iurilli, Quasimodo e Bocelli, in
Nell’antico linguaggio altri segni cit., p. 205.
52
Cremona, Il Catullo cit., p. 804.
53
Eliminando «rivedere», Quasimodo evita la ripetizione col v. 5 (Lafaye: «te
revois»), che pure non era ingiustificata, visto che invisere è un intensivo di videre. Invi-
sere è in realtà più specifico e significa «here ‘look upon’ [but] the more usual sense
is ‘go to see’, ‘visit’» (Fordyce, Catullus cit., p. 168). Vd. anche Kroll (C. Valerius
Catullus cit., p. 59): «erblicke». Nel testo di Catullo i due esotismi Thuniam e Bithu-
nos sono elegantemente incastonati fra due segmenti di lingua colloquiale: vix mi ipse
371
Luigi Ernesto Arrigoni
372
Tavola 1.
Luigi Ernesto Arrigoni
59
Fordyce, Catullus cit., p. 167. In f. IV.40 vasto era tradotto da Quasimodo
con «immenso».
60
F. Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, 126.1; G. Leopardi, La sera del
dì di festa, v. 1. Entrambi i versi erano ben presenti alla memoria poetica di Qua-
simodo, che li celebra in due saggi: «‘Chiare, fresche, dolci acque’! E fosse tempo,
questo, di così care sillabazioni» (S. Quasimodo, Discorso sulla poesia, 1953; ora in
Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 292); «In questo senso abbiamo inteso i risultati
di metrica nel corpo della sintassi leopardiana: ‘Dolce e chiara è la notte e senza
vento’» (S. Quasimodo, D’Annunzio e noi, 1939; ora in Il poeta, il politico e altri
saggi cit., p. 180).
61
La Penna, «Il fiore delle Georgiche» cit., p. 322.
62
E. Montale, «Acque e terre», «Pegaso» 3, marzo 1931; ora in Quasimodo e
la critica cit., p. 295.
374
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
63
Fordyce, Catullus cit., p. 168.
64
Esistono varianti manoscritte in cui traduceva «come lieto», evidente calco
dal latino laetus, e «volentieri» per libenter (f. IV.41).
65
Il tema del lungo viaggio si affievolisce anche con la modifica di «esausti»
per un più lieve «stanchi» e di un’altisonante «patria» a favore di una più modesta
«casa». Si smarrisce però il valore sacrale del lessema larem al v. 9, che in latino
conserva una «Erinnerung an die Sitte, bei der Heimkehr den Lar zu Begrüßen»
(Kroll, C. Valerius Catullus cit., p. 59). Inoltre, in quello stesso verso non viene tra-
dotto labore, che designava – a detta di Quasimodo – la stanchezza «per le fatiche
dei viaggi in paesi stranieri» (cfr. De Gubernatis, Il libro di Catullo cit., p. 61: «fati-
che durate in paese straniero»). In Catullo il nesso peregrino labore era enfatizzato
dalla spezzatura a cavallo dei vv. 8 e 9 e dall’opposizione con nostrum in clausola al
verso 9. Labore era poi ripetuto al v. 11, dove Quasimodo lo traduce con «fatiche»
(Lafaye: «fatigue»). Per bilanciare queste perdite Quasimodo rinuncia alla variante
manoscritta «Credo appena d’avere abbandonato» (f. IV.41) per sfruttare le sfuma-
ture dell’avverbio «lontano».
375
Luigi Ernesto Arrigoni
66
Tedesco, L’isola impareggiabile cit., p. 10.
67
O. Macrì, La poetica della parola e Salvatore Quasimodo, Prefazione a
S. Quasimodo, Poesie, Milano 1938; ora in Quasimodo e la critica cit., p. 67.
68
R. Salina Borello, Oltre l’arco chiuso. Dicibilità dell’indicibile in Salvatore
Quasimodo, in La poesia nel mito e oltre cit., p. 225. Nello stesso studio «l’infanzia-
isola», sulla scia dell’interpretazione archetipica di Jung, è definita «mitico luogo di
armoniosa simbiosi con la natura» (p. 222, corsivi dell’autrice).
69
G. Zagarrio, Quasimodo, Firenze 1979, p. 78 (corsivo dell’autore).
70
«Felice» proprio perché «usato con una certa parsimonia nella poesia del
primo periodo […] tende a sottolineare i rari momenti di completa comunione con
la natura» (E. Silvestrini, L’aggettivazione nelle traduzioni poetiche di Quasimodo
dalle «Georgiche», «Vichiana» n.s. 2, 2002, p. 354). Vd. gli esempi citati dall’autrice:
376
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
«E fammi vento che naviga felice» (Curva minore, da Òboe sommerso, v. 6, p. 47);
«Ti trovo nei felici approdi» (Fresche di fiumi in sonno, da Òboe sommerso, v. 1,
p. 72).
71
L’aggettivo «dolce», di cui abbiamo già sottolineato l’eco leopardiana, è
analizzato da Elena Silvestrini nello studio, sopra ricordato, sul lessico quasimo-
diano della traduzione dal Fiore delle Georgiche, dove «sembra evocare un senti-
mento di conforto, che ridona vita» (Silvestrini, L’aggettivazione nelle traduzioni
cit., p. 350). Esso è molto frequente (anche come sostantivo) nelle raccolte originali
(ventuno occorrenze) e negli altri carmi di Catullo: «tanto era dolce» (3.6); «Che
dolci cose erano fra voi» (8.6); «Ascolta, mia dolce Ipsililla» (32.1; edizione del
1955); «al dolce / soffiare dello zèfiro» (46.2-3); «dolce ricordo delle lotte notturne»
(66.14); «per il dolce sposo» (66.36); «dolce amarezza mischia nell’amore» (68.18).
72
«Gioia» è usata spesso con valore antifrastico in Ed è subito sera: «gioia di
foglie perenni, / non mie» (Òboe sommerso, da Òboe sommerso, vv. 5-6, p. 39); «grama
gioia accolse» (L’Eucalyptus, da Òboe sommerso, v. 12, p. 40); «mai di gioia nutre /
la mia vita diversa» (Nascita del canto, da Òboe sommerso, vv. 7-8, p. 42), «serenità di
morte estrema gioia» (Sillabe a Erato, da Erato e Apòllion, v. 14, p. 79). Vd. anche il
titolo Imitazione della gioia (da Nuove poesie, p. 117). Nei Canti, «gioia» non è ripreso
solo in accezione positiva, come nel carme 31, bensì copre un’ampia gamma di situa-
zioni: è infatti utilizzato come vezzeggiativo di una ragazza («mia dolce Ipsililla, / mia
gioia»; 32.1-2, edizione del 1955) e per dipingere la felicità per il ritorno di Veranio
(«Sei ritornato, è vero. O annunzio / a me di gioia!»; 9.5-6), ma ricorre anche come
apposizione del passero di Lesbia appena morto («passero, gioia della mia fanciulla»;
3.4) o per descrivere il passato sereno, prima dell’abbandono da parte della donna
amata («Se il bene compiuto dà qualche gioia nel ricordo»; 76.1, edizione del 1955) e
della scomparsa del fratello («con te sono finite tutte le nostre gioie»; 68.23).
73
«Dolcezza» è sostituito nell’edizione del 1955 dal più concreto «compenso»,
su influenza di Pascoli (Lyra cit., p. 75: «questo solo è il compenso»). Anche il pre-
cedente «felicità» («Quale felicità più grande») viene da Lyra cit., p. 74: «Oh! quale
felicità è maggiore».
377
Luigi Ernesto Arrigoni
finale, senza verbo e figura retorica, rende con grande finezza la levità
dell’espressione: la «mente» del poeta è «leggera», lontana dagli affan-
ni in terra straniera e libera di vagare come «la brigata» di amici che
«lieve» lo accompagnava a Tìndari, per poi allontanarsi «nell’aria».
A enfatizzare il segno positivo della nuova composizione, come sap-
piamo, nella redazione del 1955 «gioia» sostituisce quell’«ansioso»
ancora troppo legato all’angoscia di Tìndari ed entra in epanalessi con
l’ultimo verso, di cui amplifica il motivo.
Nella conclusione, infatti, Quasimodo, suggestionato dal movi-
mento delle onde lacustri, e memore dell’«onda di suoni e amore»
della brigata che gli faceva compagnia nella poesia per Tìndari, perde
totalmente di vista l’originale latino (Salve, o venusta Sirmio, atque ero
gaude, v. 12) e trasferisce «the joy of [the] house» 74 al poeta stesso
(ripercorrendo quindi a ritroso il correlativo oggettivo), «sdoppiando
così il motivo lirico» 75: «Felice tu sia, bella Sirmio; e tu / o Catullo, ral-
legrati; e voi limpide / onde del lago, esprimete al moto / tutta la gioia
che allieta la mia casa» 76. I critici non sono concordi su questa scelta:
Virginio Cremona parla genericamente di «semplificazione dei nessi
sintattici» 77, mentre Filippo Maria Pontani pensa a un errore, visto
che Quasimodo sembra male interpretare ero 78, che in Catullo, «oltre
al tradizionale rapporto padrone-servo, configura quello tra proprie-
tario e res personata» 79. Arnaldo Bocelli ritiene invece che Quasimodo
si sia «attenuto ad una diversa lezione del testo» 80. Quest’ultima af-
74
Ellis, A Commentary cit., p. 112.
75
Cremona, Il Catullo cit., p. 805.
76
Quasimodo dimostra qualche incertezza nel tradurre Salve, «the Roman’s
everyday word of greeting» (Fordyce, Catullus cit., p. 169). Inizialmente lo tra-
sforma in un solenne ottativo «Felice tu sia», forse perché Pascoli lo definisce un
«soave e religioso saluto» (Lyra cit., p. 75). In seguito, preferisce ripiegare su un
calco dal latino («salve!»), enfatizzato dal punto esclamativo. Il problema si estende
all’aggettivo venusta, che in latino mantiene un forte legame etimologico con Venus.
Quasimodo traduce «bella», che entra in assonanza e parziale consonanza con
«diletta» ma perde completamente ogni allusione alla dea dell’amore.
77
Cremona, Il Catullo cit., p. 803.
78
F.M. Pontani, Un secolo di traduzioni da Catullo, «RCCM» 25, 1977,
p. 634.
79
G. Maselli, Affari di Catullo: rapporti di proprietà nell’immaginario dei car
mi, Bari 1994, p. 28.
80
A. Bocelli, Quasimodo e Catullo, «Il Mondo», 7 febbraio 1956; ora in Qua-
simodo e la critica cit., p. 366.
378
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
81
Ellis, A Commentary cit., p. 113: «Of the proposed emendations the least
improbable are Avancius’ limpidae (IV.24) or lucidae (B. Guarinus and, later,
Bergk)».
82
La variante manoscritta «ora è giunto il tuo signore» (f. IV.40) delineava
un’azione, cioè il faticoso ritorno di Catullo dalle terre straniere; nella versione a
stampa Quasimodo preferisce ripiegare sulla descrizione di uno stato, in sintonia
con le precedenti modificazioni volte a stemperare i dettagli sul lungo viaggio.
83
De Gubernatis, Il libro di Catullo cit., p. 61.
84
La lettura quasimodiana è ritenuta la meno corretta da De Gubernatis. Vd.
invece Kroll, C. Valerius Catullus cit., pp. 59-60: «Der Relativsatz […] vertritt die
Stelle eines inneren Objektes […]. Die Auffassung, als würden die cachinni ange-
redet und zum Lachen aufgefordert, ist abzuweisen, schon weil der Leser ridete
379
Luigi Ernesto Arrigoni
auf dasselbe Subjekt bezieht wie das parallel gestellte gaudete»; Fordyce, Catullus
cit., p. 170: «the quidquid-clause […] takes the place of an internal accusative with
ridete».
85
Ibid.
86
«Quale cosa è più grata» dovette apparire una traduzione troppo scolastica e
poco elegante, inoltre «grato» in italiano suonava più aulico del gratus latino; molto
meglio risulta la nuova redazione: «Quale felicità più grande». Altre modificazioni
portano a soluzioni più aeree nel tratto: «Riposiamo» sostituisce un pesante «tro-
viamo quiete» e ricorda il «riposa» di Tìndari (in f. IV.41 è conservata una variante
manoscritta intermedia «troviamo riposo», identica alla nota di traduzione di
De Gubernatis, Il libro di Catullo cit., p. 61). Il «desiderato / nostro letto», evidente
calco dal latino, acquista una notazione psicologica più vivace grazie a «sospirato» e
all’eliminazione del possessivo.
87
Bocelli, Quasimodo e Catullo cit., p. 366.
380
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
88
In realtà, nella prima redazione di Acque e terre numerose erano le poesie
che seguivano una metrica di tipo tradizionale, fra cui molte in endecasillabi. Esse
sono state espunte o modificate nelle selezioni successive.
89
P.V. Mengaldo, Questioni metriche novecentesche, in La tradizione del
Novecento. Terza serie cit., p. 64.
90
G. Lavezzi, Manuale di metrica italiana, Roma 1996, p. 311.
91
Finzi, Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo cit., p. 62.
92
Quasimodo, D’Annunzio e noi cit., p. 179.
93
Finzi suppone perciò che «le prime delle Nuove Poesie [quelle in endeca-
sillabi] nell’ordine di pubblicazione di Ed è subito sera siano state composte per
ultime, e viceversa che le ultime […] siano cronologicamente precedenti» (Finzi,
Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo cit., pp. 82-83). L’ipotesi è confermata
dalla datazione dei manoscritti (1941-1942; vd. Quasimodo, Poesie e discorsi sulla
poesia cit., pp. 1249-1250).
381
Luigi Ernesto Arrigoni
94
Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica cit., p. 133.
95
Ivi, p. 135.
96
Ivi, p. 134.
97
F. Fortini, I poeti del Novecento, Roma - Bari 1988, p. 89.
98
Finzi, Invito alla lettura di Salvatore Quasimodo cit., pp. 82-83.
99
Le poesie di Catullo in endecasillabi faleci accolte nell’antologia di Quasi-
modo già dal 1945 sono le nrr. 1, 3, 5, 9, 27, 35, 38, 46, 49, 58. Nella pubblicazione
del 1955 vengono aggiunte le nrr. 12, 13, 26, 41, 43, 55, 56 (il carme 32 è invece tra-
dotto in novenari). Anche i carmi 65, 82, 105, 116, in distici elegiaci, sono tradotti in
382
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
endecasillabi nell’edizione del 1955 (il 65 e il 116 erano stati precedentemente resi
in versi lunghi).
100
S. Boldrini, La prosodia e la metrica dei Romani, Roma 1992, p. 159. Vd.
anche S. Timpanaro, Nozioni elementari di prosodia e metrica latina, in appendice a
A. La Penna, Romanae Res, Torino 1966, p. 434.
101
Mengaldo, Questioni metriche novecentesche cit., p. 27.
102
P.G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna 1991, 19942, p. 201.
103
Cinque nell’edizione del 1939 («isole», «dòmina», «incolume», «liberi»,
«limpide»), solo due in quella del 1955 («isole», «rallègrati»).
104
C. Bo, Prefazione a Quasimodo, Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. XVII.
105
Quasimodo, Discorso sulla poesia cit., p. 293.
383
Luigi Ernesto Arrigoni
106
S. Quasimodo, Poesia contemporanea, 1946; ora in Poesie e discorsi sulla poe
sia cit., p. 273.
107
Quasimodo, Traduzioni dai classici cit., p. 109.
108
S. Quasimodo, Introduzione a una lettura del «Vangelo Secondo Giovanni»,
1942; ora in Il poeta, il politico e altri saggi cit., p. 105.
109
Quasimodo, Traduzioni dai classici cit., p. 109.
110
Ivi, p. 111.
384
Il carme 31 da Catullo a Quasimodo
In questa poesia Quasimodo rivela come abbia cercato nei libri del
passato quel «segno che superi la vita», che permetta di rifare l’uomo,
distrutto dalla «scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore,
senza Cristo» 112. Oltre alla lezione di umanità e moralità, l’esempio
dei latini offre lo stimolo per un affinamento tecnico e stilistico:
I latini, dicono, sono più difficili dei greci, quando si tenta una tradu-
zione; e forse è vero: i latini sono analitici là dove i greci sono densi e
fulminei; i primi ragionano dove i secondi evocano. 113
Lo stesso poeta ha riconosciuto il valore di spartiacque che le tradu-
zioni assumono all’interno del suo percorso poetico:
dalla mia prima poesia a quella più recente non c’è che una matura-
zione verso la concretezza del linguaggio: il passaggio fra i greci e i
latini è stata una conferma della mia possibile verità nel rappresentare
il mondo. 114
Quasimodo era consapevole che «rifare l’uomo, oltre che sul piano
morale, aveva significato [anche] su quello estetico» 115: la «ricerca di
un nuovo linguaggio più aderente alla vita» 116 si concretizza così nel
recupero dell’endecasillabo, propiziato da Catullo, e nella creazione di
un particolare verso lungo su influenza degli esametri virgiliani. L’en-
decasillabo è apparso come lo strumento più idoneo per descrivere il
«sentimento della solitudine» del poeta veronese, sentimento «che è il
riflesso della pena dell’uomo, del dolore in senso assoluto» 117. Dopo
l’«esplorazione impetuosa dell’umano» 118, Quasimodo ha sviluppato
111
19 gennaio 1944, da Giorno dopo giorno, p. 127.
112
Uomo del mio tempo, da Giorno dopo giorno, vv. 6-7, p. 144.
113
Quasimodo, Traduzioni dai classici cit., p. 109.
114
S. Quasimodo, Una poetica, 1950; ora in Poesie e discorsi sulla poesia cit.,
p. 281.
115
Ivi, p. 280.
116
F. Della Corte, Tre poeti traducono Catullo, «Aufidus» 7, 1989, p. 166; poi
in Opuscula XII, Genova 1990, p. 264.
117
S. Quasimodo, Il fiore delle Georgiche. Nota del traduttore, 1942; ora in
Poesie e discorsi sulla poesia cit., p. 715.
118
Della Corte, Tre poeti traducono Catullo cit., p. 165 = 263.
385
Luigi Ernesto Arrigoni
119
Ramat, Poesie (1938) cit., p. 367.
120
Alle fronde dei salici, da Giorno dopo giorno, vv. 6-7, p. 125.
121
O. Macrì, Poesia di Quasimodo: dalla «poetica della parola» alle «parole della
vita»; in La poesia nel mito e oltre cit., p. 32 (corsivo dell’autore).
122
M. Martelli, Il problema metrico nella poesia di Salvatore Quasimodo, in
La poesia nel mito e oltre cit., p. 92. Anche Daniele Maggi ha messo in luce il ruolo
centrale del verso: «Gli endecasillabi più i versi che gravitano nell’area dell’endeca-
sillabo in forma più o meno coperta o con valenze anche solo parziali risultano alla
fine 18, la metà eccedente del totale […]. L’endecasillabo si propone […] come una
sorta di fine metrico – fine metrica e fine metrico – del componimento» (D. Maggi,
Annotazioni metriche a «Vento a Tìndari» di Salvatore Quasimodo, «Studi e saggi
linguistici» 43-44, 2005-2006, pp. 165-166).
123
Martelli, Il problema metrico nella poesia di Salvatore Quasimodo cit.,
p. 92.
124
Bocelli, Quasimodo e Catullo cit., p. 369.
386
Giuliano Cenati
Carlo Emilio Gadda
e i «cattivi maestri» latini
387
Giuliano Cenati
1
Per un’analisi del racconto gaddiano cfr. V. Spinazzola, Una festa di com-
pleanno raccontata da Gadda, in AA.VV., Studi vari di Lingua e Letteratura italiana
in onore di Giuseppe Velli, Milano - Bologna 2000, pp. 827-843; poi anche in Id., La
modernità letteraria, Milano 2001, pp. 247-264; E. Narducci, La gallina Cicerone.
Carlo Emilio Gadda e gli scrittori antichi, Firenze 2003, pp. 1-62.
388
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
389
Giuliano Cenati
fonte prima di cotanta cultura. Il solo fatto che Cicerone abbia saputo
riscuotere durevolmente il consenso di figure simili sarebbe condi-
zione sufficiente, senza ancora affrontare nel merito la sua opera, per
revocare in dubbio l’alta considerazione di cui ha goduto nei secoli.
Senz’altro la satira ordita da Gadda si appunta anzitutto contro la rice-
zione e la fortuna di Cicerone: il personaggio del sommo autore latino
è assunto a mezzo per colpire le componenti più retrograde del milieu
aristocratico-borghese d’inizio Novecento 2. Ma l’acredine che sostiene
l’invettiva anticiceroniana e la diligente messa a fuoco dell’orizzonte
storico tardo-repubblicano depongono a favore di una critica mirata
ad personam, al di là delle proiezioni ricettive di cui Cicerone è stato
oggetto nel corso dei tempi. Insomma, ad essere sottoposto a uno svi-
limento ridicolizzante è proprio Cicerone, ammesso che lo si possa di-
sgiungere da ciò che egli ha rappresentato e continua a rappresentare
nella percezione ideologica delle élites dirigenti. Il narratore gaddiano
ha buon gioco nel prendere spunto polemico dal De officiis, dove il
conservatorismo legalitario di Cicerone tende ad allinearsi con specio-
sa durezza agli interessi del regime senatorio, in contrasto con qualun-
que istanza – anzitutto di parte «democratica» – possa perturbare lo
stato vigente dei rapporti economico-politici. A dispetto dei processi
di proletarizzazione patiti da corposi settori della cittadinanza duran-
te il I secolo a.C., nel trattato «sui doveri» la condizione di paupertas
viene prospettata insistentemente come una condizione naturale, per
quanto spiacevole, né più né meno che il dolore o la morte; sottrarsene
a scapito altrui e dell’altrui possesso, sarebbe empio nonché antisocia-
le (Cic. off. 3.21-28). Netto è il ripudio di ogni proposta che possa al-
terare i rapporti di proprietà costituiti o gli obblighi creditizi, imputata
perciò stesso di minare le fondamenta dello Stato:
Qui vero se populares volunt ob eamque causam aut agrariam rem
temptant, ut possessores pellantur suis sedibus, aut pecunias creditas
debitoribus condonandas putant, labefactant fundamenta rei publicae,
concordiam primum, quae esse non potest, cum aliis adimuntur, aliis
condonantur pecuniae, deinde aequitatem, quae tollitur omnis, si habe-
re suum cuique non licet. Id enim est proprium, ut supra dixi, civita-
2
Identico procedimento aveva seguito Alexandre Dumas nei suoi Mémoires
d’Horace (1860), verosimilmente ignoti a Gadda: cfr. A. Dumas, Mémoires d’Horace
écrits par lui-même, édition, préface et commentaires de C. Aziza, Paris 2006.
390
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
tis atque urbis, ut sit libera et non sollicita suae rei cuiusque custodia.
Atque in hac pernicie rei publicae ne illam quidem consequuntur, quam
putant, gratiam. Nam cui res erepta est, est inimicus; cui data est, etiam
dissimulat se accipere voluisse et maxime in pecuniis creditis occultat
suum gaudium, ne videatur non fuisse solvendo. At vero ille, qui accipit
iniuriam, et meminit et prae se fert dolorem suum, nec, si plures sunt ii,
quibus inprobe datum est, quam illi, quibus iniuste ademptum est, id-
circo plus etiam valent. Non enim numero haec iudicantur, sed pondere.
Quam autem habet aequitatem, ut agrum multis annis aut etiam saeculis
ante possessum qui nullum habuit habeat, qui autem habuit amittat?
(Cic. off. 2.78-79) 3
3
In merito a questo passo, che introduce la più nota trattazione antica
sull’economia e la legislazione del debito, cfr. A.R. Dyck, A Commentary on Cicero,
«De Officiis», Ann Arbor 1996, pp. 470-479.
391
Giuliano Cenati
4
Sulla dittatura di Cesare, come più in generale sull’avvento del principato,
cfr. il classico R. Syme, The Roman Revolution, Oxford 1939 (trad. ital. Torino 1962,
pp. 63-79). Sulle implicazioni tra lotta politica, assetto giuridico-istituzionale e prassi
giudiziaria nei decenni anteriori alla guerra civile, cfr. E.S. Gruen, The Last Genera-
tion of the Roman Republic, Berkeley - Los Angeles 1974, 19952, pp. 211-259.
392
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
5
San Giorgio in casa Brocchi, in Accoppiamenti giudiziosi [1963]; cito da
Opere di Carlo Emilio Gadda, edizione diretta da D. Isella, II. Romanzi e racconti
II, Milano 19993, p. 677.
393
Giuliano Cenati
6
Almeno in Italia; sul più variegato profilo ciceroniano nel campo degli studi
classici, dopo Mommsen e Boissier, cfr. E. Narducci, Cicerone e i suoi interpreti.
Studi sull’Opera e la Fortuna, Pisa 2004.
394
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
7
Cfr. in proposito la sistematica disamina intertestuale di Narducci, La gal-
lina Cicerone cit., la cui prima parte è interamente dedicata al rapporto tra l’opera
gaddiana e Cicerone.
8
L’attestazione capitale di antibonapartismo, protratta per circa sei pagine,
è fornita da Gadda nella nt. 10 di Quando il Girolamo ha smesso, racconto appar-
tenente a L’Adalgisa. Disegni milanesi [1943], in Opere cit., I. Romanzi e racconti I,
Milano 20005, pp. 331-336. Il risultato, pur godibilissimo, appare meno funzionale
rispetto alla digressione anticiceroniana contenuta nel San Giorgio.
395
Giuliano Cenati
9
San Giorgio in casa Brocchi cit., p. 672. Questa contemplatio mortis declinata
in senso materialistico offre motivo di contrappunto sublime nel contesto di una
narrazione modulata largamente sul comico basso e satirico: come sarebbe avve-
nuto a proposito dell’omicidio di Liliana Balducci, la cui salma sgozzata costituisce
il fulcro drammatico di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957). Del resto,
già agli albori della scrittura di Gadda, nel racconto Passeggiata autunnale (datato
1918, ma apparso in «Letteratura» nel 1963) il baricentro dell’intreccio è costituito
dal cadavere di un assassinato, che si prospetta nella sua oggettività enigmatica e
sanguinosa, sia pure entro una diversa calibratura dei registri e dei mezzi narra-
tivi. Il corpo disanimato e derelitto è cifra universale di sofferenza, è interrogativo
ingombrante sulla necessità della coscienza, sull’autenticità del rapporto tra i viventi
(circa il motivo del «corpo violato» cfr. F. Bertoni, La verità sospetta. Gadda e l’in-
venzione della realtà, Torino 2001). Nondimeno, il personaggio di Liliana Balducci
è disegnato con sapiente ambiguità di tratti, sullo sfondo borghese-popolare di una
Roma anni Venti: è fatto rivivere attraverso testimonianze di parenti e conoscenti
come caso patologico, che tocca il lesbismo incestuoso nel rapporto con una serie di
figliocce sbandate, accolte in casa a soddisfare un desiderio frustrato di maternità.
Caratterizzando in questi termini la vittima del Pasticciaccio, Gadda sovvertirà un
altro luogo comune classiccheggiante caro all’ideologia fascista: quello della fem-
minilità matronale, prolifica di soldati da consegnare ai ranghi delle forze armate.
Al contrario, l’immagine di Cesare, che nel San Giorgio è tracciata in poche righe,
non si presta ad alcuna lettura anticonformista o antistituzionale. Il tributo di com-
mozione che ad essa viene riconosciuto dal narratore consegue risultati di lirismo
assorto.
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Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
10
A. Lehr, Contributo alla storia romana dalla morte di Giulio Cesare alla
morte di Cicerone, Grosseto 1890.
11
Riguardo a questo falso ideologico offerto da Margherita G. Sarfatti in
Dux, Milano 1926, cfr. A. Giardina - A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno
a Mussolini, Roma - Bari 2000, pp. 212-214.
397
Giuliano Cenati
12
Fondamentali al riguardo le linee tracciate da P. Treves in Id. (a cura di), Lo
studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano - Napoli 1962, pp. VII-XLVI.
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Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
13
Racconto italiano di ignoto del novecento [datato al 1924-1925], in Opere
cit., V.1. Scritti vari e postumi, Milano 1993, pp. 450-451.
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Giuliano Cenati
14
Giornale di guerra e di prigionia [1955], in Opere cit., IV. Saggi Giornali
Favole II, Milano 19922, p. 468 (20 settembre 1915).
400
Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
15
Cfr. M. Rambaud, L’Art de la Déformation historique dans les Commentaires
de César, Paris 1953, 19662.
401
Giuliano Cenati
16
Cfr. A. Cadioli, La guerra di Carlo Emilio Gadda, in B. Peroni (a cura di),
Milano da leggere. Leggere la guerra, Atti della terza edizione del convegno letterario
ADI-SD, Milano 2006, pp. 68-75.
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Carlo Emilio Gadda e i «cattivi maestri» latini
17
Cfr. la corrispondenza tra Gadda e Alberto Carocci del 1932, in G. Mana-
corda (a cura di), Lettere a Solaria, Roma 1979, pp. 371, 372, 375.
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Giuliano Cenati
18
C.E. Gadda, Elogio di alcuni valentuomini, in Il castello di Udine, compreso
tra i Romanzi e racconti I cit., pp. 128, 130, 132.
19
C.E. Gadda, Imagine di Calvi, ivi, p. 176 nt. 1. Vale la pena ricordare il
seguito della nota gaddiana, espunto dalla seconda edizione del Castello di Udine
(compresa nel volume I sogni e la folgore, 1955), poiché proprio lì, dietro l’elegia
dell’ex-combattente, tralucono i motivi più truci del militarismo gaddiano: «Durante
la giovinezza il Ns. reluttò agli epifonemi civili e prediligeva nei sogni ‘barbariche’
gesta: [sic]. Quando poi le conobbe rimproverò solo ai suoi la pochezza della
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Nel momento stesso in cui, con aria sapienziale, Gadda invita ri-
solutamente a bandire ogni vanagloria, a lasciar perdere i miti della
guerra e della pace per fare i conti con la realtà, e allestisce un suo
massimario dell’ottimo condottiero, ecco che si avvale precisamente
del mito di Cesare, dell’esemplare storiografia di Cesare, volgendoli ai
fini di un vitalismo militaresco di schietta marca reducistica. E proprio
qui, nelle note demandate alla controfigura umoristica di Feo Aver-
rois, Gadda riconduce addirittura ai tempi d’infanzia la sua ammira-
zione per il proconsole delle Gallie: ma il contrasto tra la perentorietà
aforistica e l’intenerimento retrospettivo lo porta a sfiorare l’umori-
smo involontario. La favola fantasticata da bambino trova persegui-
mento nella volontà civica e nella scrittura etico-politica dell’adulto:
nella quale i sogni patriottici sussistono ancora, dopo la folgore delle
battaglie che li ha ridotti a cenere, dietro il saldo richiamo ai princìpi
di realtà, economia, razionalità. Non di illusionistica prosopopea si
tratta, o almeno non solo, poiché il buon funzionamento della compa-
gine umana, in specie degli organismi militari, trova fondamento nei
criteri di analisi, pianificazione, efficacia che il ministro o il comandan-
te avveduto dovrebbero fare propri. In controluce, certo, emerge una
spregiudicata critica dell’operato degli alti comandi, ma in funzione di
un militarismo migliore, più consapevole dei propri mezzi e insieme
più disciplinato, più aggressivo: come quello che ha saputo esprimere
nella Grande Guerra l’avversario prussiano. Entro un orizzonte del
genere, tuttavia, il sangue versato non è meno sangue – semmai il con-
trario! – per il fatto di essere versato con discernimento e intelligenza.
E la fedeltà alle proprie illusioni, mascherandosi dietro lo stereotipo
classicistico, non lascia campo se non all’umiliazione brillante delle
possibilità presenti e future: «Il viale Giulio Cesare mette capo al lar-
go Ermenegildo Fregnetti. E tal è di noi. Amen» 20.
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