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 Il partito Sardo d’Azione nacque all’indomani della prima guerra mondiale, grazie all’opera dei valorosi

combattenti della Brigata Sassari (brigata a reclutamento regionale), definiti non a caso “gli intrepidi sardi”, che,
durante il conflitto, si erano distinti per il loro coraggio e la loro tenacia. La guerra aveva infatti offerto ai sardi,
nonostante le gravi perdite subite, l’occasione di vivere un’esperienza in cui fu possibile creare un’unità d’intenti
tra persone che provenivano dalle diverse zone dell’isola e che mai si erano sentite appartenenti ad un popolo.

Su una popolazione di 853000 abitanti, circa 100000 maschi, appartenenti alla forza lavoro, parteciparono alla
guerra, e quasi 14000 morirono sui campi di battaglia. A partire dal novembre del 1915 i giovani sardi servirono
nel 151° e nel 152° reggimento di fanteria della riformata Brigata Sassari. La Brigata Sassari, grazie alle vittorie
ottenute durante la guerra, aveva portato la Sardegna al centro delle cronache; finalmente non si parlava dell’
isola per la sua arretratezza e per i fenomeni di banditismo.
Finito il conflitto, pagato dai “sassarini” a caro prezzo in termini di vite umane, oltre alle rivendicazioni, riemerse
l’antico rancore contro lo Stato. Ma, ciò che era stato vissuto durante i lunghi mesi trascorsi in trincea, aveva
fatto emergere, non solo un grande e viscerale amore per la propria terra d’origine, ma anche la volontà, una
volta rientrati nell’isola, di impegnarsi in uno sforzo quotidiano per risolvere i secolari mali della Sardegna. Nei
primi decenni del novecento la Sardegna era ancora una delle regioni più arretrate d’Italia, gran parte dei
villaggi era privo di reti idriche e fognarie, la comunicazione tra i centri abitati era complicata per la presenza di
poche strade, l’economia si basava principalmente sulla pastorizia e l’agricoltura. La situazione della
popolazione non era delle migliori, l’alimentazione non era completa, la malaria continuava a mietere vittime un
po’ ovunque, il tasso di analfabetismo era ancora molto elevato. Ma vi era un problema più serio e drammatico
che andava affrontato nell’immediato, riuscire a ricollocare i soldati che rientravano dal fronte dopo gli anni di
guerra; il ritorno dei reduci infatti non fu per niente facile perché le strutture produttive non erano in condizione
di offrire un lavoro alle centinaia di giovani che erano rientrati dalla guerra.

Uno dei fatti più importante che accadde nel primo dopoguerra in Sardegna fu la nascita, grazie ai membri del
movimento combattentistico, del Partito Sardo d’Azione, un movimento che cercò di tradurre in un articolato
progetto politico il disagio dei sardi e la loro volontà di superarlo. Il centro del dibattito in seno al movimento
combattentista era il progetto di rinascita della Sardegna, il sogno era quello di assicurare uno sviluppo duraturo
per l’isola attraverso uno sviluppo delle infrastrutture ed un migliore sfruttamento delle risorse dell’isola. Le
difficoltà del dopoguerra avevano dunque, paradossalmente, aumentato la fiducia del popolo sardo verso il
futuro; essi non dovevano più attendere nuovi dominatori, ma dovevano contare sulle proprie forze per cercare
di migliorare la sorte del loro popolo; solo attraverso il lavoro e i sacrifici sarebbe stato possibile migliorare le
loro condizioni di vita.

In questo clima di nuova fiducia è facile immaginare come le idee che venivano diffuse dagli ex combattenti
avessero grande successo; vi era una perfetta sintonia tra i giovani che erano diventati uomini tra le trincee e
l’orrore della guerra, e la popolazione dell’isola. Anzi, il messaggio di cui i combattenti si facevano portatori
rifletteva le speranze, i sogni, la voglia di riscatto che la Sardegna e la sua gente avevano sempre sognato, “La
Sardegna ai Sardi!” era uno degli slogan più sentiti in quegli anni. Solo i Sardi avrebbero potuto garantire un
futuro migliore per se stessi, anche se questo avrebbe comportato grosse fatiche e difficoltà.
La nascita del Partito Sardo d’Azione non fu però per niente facile e sarebbe avvenuta solo nel 1921,
nonostante il fatto che il movimento degli ex combattenti avesse ormai acquisito un ruolo importante nell’isola. Il
Congresso si svolse nei giorni 16-17 Aprile 1921, presso l’ex Cappella del Collegio degli Scolopi di Oristano. Al
Congresso parteciparono i rappresentanti di 93 sezioni, questo era un dato allarmante che poteva essere visto
come un segnale di declino del movimento, anche perché si contavano circa sezioni in meno rispetto agli anni
precedenti.
Gran parte dei combattenti, ma in generale tantissimi sardi furono, in quegli anni, influenzati da un opuscolo,
che era apparso a Cagliari nel Maggio del 1918, scritto da YK, pseudonimo dietro al quale si celava l’avvocato
Umberto Cao.

“Centomila sardi – afferma il Cao - sono partiti per la guerra con psicologia di vinti del formidabile destino
storico che gravò sull’isola: dalla tirannide cartaginese alla dominazione romana, dalla signoria ispanica al
governo aulico del Piemonte.[…] Ma la docile forza fu, in campo, disciplina e abnegazione; quella docilità che
nella lotta civile era pochezza in guerra divenne strumento di miracolo: il miracolo della rivelazione dei Sardi al
mondo, nella lotta mondiale, e a sé stessi. Per questo miracolo la psicologia di vinti dei partenti divenne nei
combattenti psicologia di lottatori eroici; potrà diventare psicologia di vincitori. Forse dalle profondità della vita
remota della stirpe il sangue dei Shardana conquistatori, dei costruttori di nuraghi, zampillò come una polla
d’acqua affiorante nel deserto, e inturgidì di nuovo le vene delle braccia levate in armi”. (Y.K. [U. Cao], Per
l’autonomia, Cagliari, 1918).

In quegli anni furono molto apprezzate figure di spicco dell’ ANC isolano: Lussu, Bellieni, De Lisi, Mameli,
Mastino, Puggioni, Oggiano. Dietro questo inaspettato successo non c’era solo il rispetto per valorosi eroi che
erano rientrati in patria vittoriosi, c’era un comune modo di affrontare le difficoltà, di fare qualcosa di nuovo e
importante per la Sardegna. Il movimento dei combattenti era solo l’ultimo e più importante sintomo di un nuovo
clima culturale che era nato alla fine dell’ottocento, era cresciuto nei primi anni del novecento e che riguardava
diversi aspetti:dalle arti alla cultura, alla politica. Non possiamo non citare, tra i tanti, Sebastiano Satta ,Grazia
Deledda, Antonio Gramsci. Purtroppo l’Isola avrebbe perso gran parte del suo ceto politico-culturale durante il
ventennio fascista , e questo non avrebbe fatto altro che rendere ancora più povera una terra che solo
attraverso il lavoro delle sue “menti più illuminate” avrebbe potuto ottenere la sua redenzione. La spinta
riformatrice del sardismo dovette però interrompersi bruscamente con l’ascesa al potere del fascismo, e come
sottolinea R. Carta Raspi:

“Chi li ha vissuti, ha di quegli anni un ricordo caro e triste insieme, poiché furono gli anni in cui alle popolazioni
dell’isola, s’aprivano i cuori verso un domani migliore, eppure un’altra sventura come un’eterna maledizione,
stava per abbattersi di nuovo e distruggere anche l’ultima illusione”. (R. Carta Raspi, Storia della Sardegna,
Mursia, Milano, 1971, pag. 911.

Luciano Marrocu – “La nuova politica nata in trincea. Dal mito della grande guerra
all’opposizione contro il fascismo”
La Nuova Sardegna, 3 marzo 2005

Quando, nel novembre del 1919, la guerra finisce, Emilio Lussu è già in Sardegna una figura
leggendaria. Quattro medaglie al valore, il racconto giunto ai più sperduti villaggi delle sue imprese
al fronte ne fanno un eroe di guerra, anche se eroe di una specie nuova. Un eroe sardo, prima di
tutto. Il nome di Lussu è sempre associato a quello della Brigata Sassari. Lussu e la Brigata Sassari
hanno dato corpo al mito dei “sardi ottimo materiale di guerra”, una delirante autocandidatura al
macello che sin dal maggio del 1915 echeggia dalle pagine della Unione Sarda, e alla menzione che
“degli intrepidi sardi della Brigata Sassari” ha fatto il bollettino dello Stato Maggiore dopo l’azione
alle Frasche.  

Il racconto delle imprese del capitano Lussu presenta però, come si è detto, un eroismo diverso da
quello che di solito si celebra nelle cerimonie militari: parla non solo di coraggio fisico ma anche di
coraggio morale, ed elegge Lussu a capo della tribù dei sardi che cerca di sottrarre i suoi al macello
e riesce a volte a difenderli dalla sanguinaria stoltezza degli alti comandi. Il capitano Lussu vuole
che le forme, anche quelle del comando, siano rigidamente osservate -- che i soldati si alzino in
piedi al suo passaggio, che le giberne siano sempre allacciate, il fucile sempre pulito -- ma è anche
capace, ancora tenente, di disobbedire a un generale che gli ordina di portare per l’ennesima volta
all’assalto (e alla conseguente carneficina) il suo battaglione.

La guerra ha voluto dire per la Sardegna 13.602 morti, il che significa 138,6 morti ogni mille
abitanti, una media considerevolmente più alta di quella nazionale. Ha anche voluto dire, la guerra,
che 98.142 maschi adulti, l’11 per cento degli 870.077 abitanti dell’isola, sono stati mobilitati.
Un’esperienza di nazionalizzazione di massa, visto che grandissima parte dei 98.142 sardi mobilitati
proprio in questa occasione entrano per la prima volta direttamente, personalmente, fisicamente,
nella sfera dell’italianità. Cosa c’è di più italiano di morire per la patria italiana, rischiare di morire
per essa, provare ogni giorno il terrore di morire per essa? Cosa c’è di più italiano di condividere
questa esperienza con calabresi e lombardi, siciliani e veneti, romani e milanesi? La peculiarità
dell’esperienza dei sardi in guerra - dei “sassarini”, certo, ma anche di quelli, e sono i più, che
“sassarini” non sono - è che nel loro caso il processo di nazionalizzazione risulta doppio, e insieme
a una nazionalizzazione di segno italiano se ne svolge un’altra, una “nazionalizzazione sarda” per
così dire.  

Nello stesso momento in cui i sardi chiamati alle armi imparano sulla loro pelle ad essere italiani,
imparano anche ad essere sardi: a questo, ad imparare ad essere sardi, serve la Brigata Sassari, a
questo servono le citazioni al merito. E questo racconta, in modo dolente, un canto di allora che
dice: “Pro defender sa patria italiana/Distrutta s’este sa Sardigna intera.” Emilio Lussu è un
interprete particolarmente espressivo di questo processo, anche se nel suo caso va tenuto presente
che, diversamente dai fanti pastori-contadini al suo comando, è un ufficiale, che si è laureato, che ha
fatto il liceo a Roma, e che non ha dovuto aspettare la guerra per sentirsi italiano. Come la gran
parte degli studenti universitari italiani, Lussu, prima ancora che l’Italia entrasse in guerra, ha
manifestato per l’intervento. Semmai, nel suo caso, la scoperta fatta in trincea è quella della sardità.

La nuova politica che prende forma all’indomani dell’armistizio utilizza risorse e linguaggi tratti
dall’esperienza della guerra. La comunità di trincea è il nucleo intorno a cui recluta i suoi adepti e li
organizza. La nuova politica è permeata dal linguaggio della violenza, così a destra come a sinistra,
sia che si tratti della violenza rivoluzionaria rigeneratrice sia che si tratti della mistica del “santo
manganello”. I nuovi partiti sono partiti di reduci. Nel tumulto politico e organizzativo che
accompagna in Sardegna la nascita dell’Associazione combattenti, il capitano Lussu, prima ancora
di essere tornato a casa, viene acclamato capo, lui che è stato il capo tribù dei giorni della trincea.
L’otto giugno 1919, quando è ancora col suo reparto in territorio jugoslavo, viene eletto
all’unanimità presidente dei reduci di Cagliari.

L’Associazione dei combattenti è solo un primo passo. Nasce come fatto quasi sindacale - si tratta
di difendere l’interesse dei reduci in tempo di pace - ma è da subito anche un fatto politico, se è
vero che tra i suoi primi effetti c’è quello di contribuire a ridisegnare la mappa del potere locale.
Lussu, che pure non ha alle spalle nessuna specifica preparazione politica, ha una percezione
vivissima di tutto questo. Scriverà più tardi: “I soldati della Brigata Sassari avevano constatato che i
colonnelli e i generali, considerati prima monumenti di autorità e di scienza, non capivano niente.
Proprio non capivano nulla, tanto da sembrare che fossero là per errore e che il loro mestiere fosse
un altro. Ma chi comandava in Italia? I governo del re. La critica militare si spostava
elementarmente sul terreno politico. Nel villaggio, il sindaco, il farmacista, l’esattore, il maresciallo
erano del partito del governo del re. Nemici anche loro? Tutti nemici”.

Insomma, l’esperienza della guerra si traduce in una percezione diffusa che il potere nazionale,
quello dei generali e del governo del re, e il potere locale, quello dei prinzipales del villaggio, sono
due facce della stessa medaglia. Intorno a questa idea nasce, dall’Associazione combattenti, il
Partito sardo d’Azione, o almeno il Partito sardo d’Azione come lo vede Lussu. Non tutti infatti, nel
nuovo partito, la pensano allo stesso modo.  

Questo emergerà nei primi mesi del 1923, quando il Psd’Az si trova ad affrontare una sfida
decisiva. Mussolini ha appena fatto la sua Marcia su Roma e ha appena conquistato il governo: sino
a quel momento tra fascisti e sardisti, in Sardegna, non è corso certo buon sangue, e i sardisti sono
stati anche loro vittime dello squadrismo fascista. Ma Mussolini medita di imprimere un cambio
d’indirizzo al fascismo isolano. Valuta che se il Partito Nazionale Fascista non cresce dell’isola
questo è perché è troppo violento, e questo lo isola. Lo squadrismo, che va bene per il Nord, non va
bene per il Sud, e soprattutto non serve in Sardegna. Serve trovare consensi, radicarsi nella società.
E’abbastanza chiaro perché Mussolini individui nel Psd’Az il cavallo di Troia capace di espugnare
la Sardegna.  

Insieme a molte cose che li dividono, fascisti e sardisti hanno tratti e un retroterra comuni. Nascono
entrambi dall’esperienza della trincea, sono partiti di reduci, condividono antiparlamentarismo e
antigiolittismo, guardano con disprezzo ai vecchi equilibri e alle vecchie clientele e a quella
versione sarda del giolittismo che è il “coccortismo”.
Interprete della strategia mussoliniana è il generale Asclepia Gandolfo, che negli ultimi giorni del
1922 il capo del governo invia a Cagliari come prefetto. La direttiva è di realizzare in Sardegna una
“fusione” tra Partito Nazionale Fascista e sardisti. Il mandato di Gandolfo è molto ampio e il
generale può porre sul tavolo delle trattative l’impegno che a “fusione” avvenuta saranno i sardisti a
dirigere il fascismo isolano. Vi è poi, molto più generica, la prospettiva di una realizzazione
attraverso il fascismo degli obiettivi autonomistici del sardismo.  

Emilio Lussu, che nel 1921 è stato eletto deputato, viene delegato dal Psd’Az a trattare con
Gandolfo. Nel gennaio del 1923 lo incontra. Non ci sono dubbi che, di primo acchito, Lussu
giudichi favorevolmente la proposta di Gandolfo. Lo ammetterà lui stesso qualche settimana dopo:
“Esposi lealmente al generale Gandolfo le ragioni per cui mi sarei mostrato favorevole alla
unificazione dei due partiti superando ogni teorica riluttanza”. Poi insorgono i dubbi. Il 3 febbraio
restituisce il mandato con cui il Psd’Az lo ha delegato a trattare con Gandolfo. A febbraio un primo
gruppo di sardisti salta il fossato e aderisce al fascismo. Lussu non è tra questi. Come nell’aprile
dello stesso anno non sarà con un altro gruppo di dirigenti del Psd’Az -- spicca tra essi il nome di
Paolo Pili -- che aderiscono alla “fusione”. Nel giro di poche settimane i Fasciomori, come vengono
chiamati i transfughi dal sardismo, occupano le posizioni di comando del fascismo isolano.

Il loro leader, Paolo Pili, diviene federale di Cagliari. Ma Emilio Lussu non è con Pili, sta dall’altra
parte. Inizia per lui la lunga strada che lo porterà, ancora e sempre cavaliere dei Rossomori,
attraverso il carcere, il confino, l’esilio all’antifascismo militante e alla Resistenza.

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