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Sommario
Cinque postille
Note, p. 134
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Roberto Chiesi
Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna
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con militari e carri armati, con un più morbido golpe bianco che,
dopo aver creato i presupposti per un totale controllo dell'econo-
mia, asserviva l'informazione. La coppia Scalfari e Turani nel libro-
dossier del 1974 Razza padrona **, una delle rare inchieste gior-
nalistiche di denuncia, ne narra le conseguenze. Qui riportiamo
solo qualche passo invitando chi ci legge ad approcciare l'intero li-
bro.
“C'era perfetta intesa fra Fanfani e Cefis. Il quale ultimo, di suo,
ci aggiungeva il fatto che, avendo ormai puntato tutte le carte del
suo gioco su una Montedison privata e “privatistica” aspirava a ri-
prendere quella tradizionale leadership dell'imprenditorato che il
gruppo di Foro Bonaparte aveva avuto in tutto il periodo tra il
1946 e il 1963. Qualora l'operazione fosse riuscita, i vantaggi poli-
tici per Cefis sarebbero stati notevolissimi…” (p. 422).
“In quelle condizioni, mentre tutti gli imprenditori sia pubblici
che privati tiravano i remi in barca e cercavano di diminuire gli im-
pegni (nel frattempo la Banca d'Italia aveva contingentato il credi-
to e imposto regole di crescente austerità bancaria), la Montedison
produsse una di quelle operazioni-lampo per le quali Cefis rimane
un insuperato campione: nel giro di pochi mesi, anzi di poche set-
timane, profittando della generale incertezza s'impadronì della
stampa italiana. I modi coi quali l'operazione fu condotta sono de-
gni d'essere ricordati. La passività delle forze politiche, anzi la ge-
nerale connivenza, testimoniano, se mai ce ne fosse stato bisogno,
del grado di decomposizione cui era arrivato il sistema…” (p. 434).
“Con l'acquisto del “Corriere della sera” il piano di conquista
della stampa si conclude. Nel frattempo infatti la Montedison era
anche entrata in possesso, coi consueti prestanome in questo caso
domiciliati all'estero, della maggioranza azionaria del quotidiano
parafascista “Il Tempo”… A questo punto il quadro della scuderia
giornalistica del presidente della Montedison è il seguente. A Tori-
no la “Gazzetta del Popolo” dopo essere servita a spaventare
Agnelli, è stata abbandonata e non si sa che fine farà. A Milano il
“Corriere” è al 100 per cento di proprietà di Rizzoli il quale l'ha
comprato utilizzando un finanziamento senza interesse fornitogli
dalle banche della Montedison…
A Milano, tramite Caprotti, la Montedison controlla il “Tempo il-
lustrato”. Sempre la Montedison controlla “Il Giornale”… La situa-
zione di Roma è stata già descritta. I due grossi quotidiani di Bolo-
gna (“Resto del Carlino”) e di Firenze (“La Nazione”) sono di pro-
prietà di Attilio Monti e con essi il “Giornale d'Italia” di Roma. An-
che di Monti sono noti gli intimi legami con Foro Bonaparte…” (p.
452)
In quella fase a sinistra, mentre il riformismo d'impronta sociali-
sta è ormai annacquato da oltre un decennio di governo e sottogo-
verno, il disegno riformista del Pci viene piegato alle improduttive
alchimie del compromesso storico, e tramonta l'irreale sogno “ri-
voluzionario” dei gruppi extraparlamentari e di quelli armati. Ciò
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praticando l'eutanasia dei ceti operai a nome dei quali per anni ha
continuato a parlare.
Qualcuno ha detto, e mi perdoni se non lo cito perché rammen-
to l'essenza del concetto e non l'autore, che “per fare un regime
non sono necessari colpo di Stato e dittatura, basta la connivenza
dell'opposizione”.
Questo Cefis-Troya non riuscì ad attuarlo, ma i suoi odierni epi-
goni sì.
Enrico Campofreda
Giornalista e scrittore
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Sulla presenza nel nostro paese dei fascisti, quelli di ieri e quelli di
oggi, commentava tempo addietro il giornalista e scrittore Enrico
Campofreda:
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giorni» (Enrico Gatta, “il Resto del Carlino”, 25 ottobre 1992); op-
pure che «L'articolata e molteplice produzione letteraria e cinema-
tografica pasoliniana e la sua complessa figura intellettuale, torna
a imporsi con la forza dei suoi miti, passioni, contraddizioni vitali,
mentre appare sempre più chiara di che lacrime grondi e di che
sangue la “modernità” da lui impietosamente criticata con tanta
preveggenza. Basterà leggere le rubriche giornalistiche degli anni
Sessanta, nelle quali Pasolini inizia quella requisitoria sulle violen-
tazioni e adulterazioni di uno sviluppo senza progresso, che im-
pronterà la stagione corsara degli anni Settanta. Un discorso tra
disperata regressione e lucida analisi, che appare comunque oggi
come una lunga e inascoltata premonizione» (Gian Carlo Ferretti,
“Tempo Medico”, 28 ottobre 1992).
Nico Naldini, poeta, scrittore, e cugino di Pasolini, rispose positi-
vamente a una intervista di Daniela Pasti di “Repubblica” (27 otto-
bre 1992) che gli chiedeva se il romanzo incompiuto di Pasolini
avrebbe potuto catturare il gradimento dei lettori, e aggiunse:
«[piacerà] non solo per le bellissime parti scritte, che probabilmen-
te sarebbero state riscritte magari molte volte come era nel suo
modo di lavorare, ma perché con questo libro ci troviamo dentro il
laboratorio dell'autore che nelle sue note intavola un dialogo con il
lettore. È come visitare un'officina in piena attività».
Alcuni commentatori probabilmente non si posero l'interrogativo
di quali fossero i temi realmente centrali, forse perché troppo va-
sto è il panorama di Petrolio, e ben pochi riuscirono a scorgerne le
prospettive spesso disagevoli da analizzare, soprattutto per la
frammentarietà che il romanzo presenta: oppure, più probabilmen-
te, perché non li vollero individuare. In molte recensioni furono
sottolineati soltanto, o prevalentemente, gli aspetti ritenuti erotici
nel romanzo fino a definirne “scandalosi” i contenuti.
Aldo Busi (che di fatto dichiarò comunque di non averlo letto;
molto probabilmente aveva soltanto preso visione di alcuni stralci
considerati scabrosi estrapolati dal romanzo pasoliniano e pubbli-
cati con intenti scandalistici, prima dell'uscita del libro,
dall'“Espresso”) scrisse su “Paese Sera” del 2 novembre 1992:
«Petrolio è volgaruccio, sembra il tema della zia Pina, io non lo
compro. È brutto, illeggibile. Quegli stralci, a chiunque appartenga-
no, aggiornano i tormenti e le viltà di una sessualità borghese tut-
ta intrisa di sociologia».
Nello Ajello, editorialista di “la Repubblica” ed ex condirettore de
“L'Espresso”, fece di più: «[…] un immenso repertorio di sconcezze
d'autore, un'enciclopedia di episodi ero-porno-sado-maso”, una
“galleria di situazioni omo ed eterosessuali come soltanto dall'auto-
re di Salò o le 120 giornate di Sodoma ci si può aspettare» [13].
Ad Ajello giunse una pronta risposta dalle pagine de “il manifesto”
da parte di Federico De Melis: «Ajello ama a tal punto Pasolini da
resistere stoicamente alla tentazione di vendette postume. Perché
un motivo ci sarebbe. […] "Ajello", sosteneva nel '74 Pasolini, "dà
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delle sceneggiature che hanno dato vita alla sua attività di regista
cinematografico.
Nel suo articolo del 1° febbraio 1975, Pasolini delinea un prima,
un durante e un dopo la scomparsa delle lucciole, a sottolineare le
fasi successive di decadenza e di colpevolezza della classe politica
espressa in primo luogo dalla Democrazia cristiana, sopraffatta da
un fenomeno che non è riuscita a comprendere per tempo: «In
Italia c'è un drammatico vuoto di potere. … Il potere reale procede
senza di loro. … I democristiani coprono con manovre da automi e
i loro sorrisi, il vuoto ... Prima della scomparsa delle lucciole … la
continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è stata
completa … con una maggioranza assoluta ottenuta attraverso ceti
medi e masse contadine gestiti dal Vaticano. … I valori che conta-
vano erano gli stessi: la Chiesa, la patria, la famiglia, l'obbedienza,
la moralità. … Uguali nel provincialismo, rozzezza, ignoranza sia
delle élites che delle masse». Dopo la scomparsa delle lucciole:
«questi valori nazionalizzati e quindi falsificati non contano più …
sostituiti da “valori” di un nuovo tipo di società … che poi ha pro-
dotto la prima “unificazione” reale del paese. … Era impossibile che
gli italiani reagissero peggio di così … sono divenuti un popolo de-
generato, ridicolo, mostruoso, criminale». Ecco, di fronte «a que-
sto disastro ecologico, economico, urbanistico, antropologico …
quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore)», conclude
Pasolini, «sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera
Montedison per una lucciola». Ed ecco dunque il poeta che afferma
la propria riprovazione nei confronti di Cefis e delle sue spregiudi-
cate manovre che lo condussero alla conquista in un primo tempo
dell'ENI, poi del colosso Montedison.
Il linguaggio usato in Scritti corsari e Lettere luterane è colto,
ma non complicato; Pasolini cerca di essere preciso e chiaro, spie-
gando sempre con la massima semplicità possibile concetti nuovi e
astratti (e anche in questo penso consista la sua grandezza di
scrittore), difficili da cogliere nella loro concreta realizzazione. Lo
stile punta alla chiarezza del discorso ed evita un linguaggio troppo
specialistico. Tutto ciò non esclude che si tratti di testi pieni di nuo-
ve idee, che però Pasolini vuole esporre e spiegare con un linguag-
gio comprensibile o comunque accessibile. I suoi interventi non
seguono il classico stile giornalistico, di cui Pasolini evita tratti les-
sicali e sintattici. Di Petrolio è lo stesso Pasolini che ci dà qualche
indicazione di carattere linguistico:
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«La sua vicenda biografica era anche quella del povero, ricco di
genio e di cultura e di sregolatezza […], entrato di forza a far
parte del mondo dei ricchi potenti e beneducati e a orgoglio e
orrore della propria genealogia di classe; ma nel senso di non
voler sapere […] quali contropartite visibili e invisibili gli sareb-
bero state richieste, incluso il proprio assassinio […]. Non era
solo mancanza di attenzione o penetrazione dei moti profondi
della economia e della sociologia […] Era furia metabolica che
voleva restituire subito, sulle pagine, ogni informazione» [18].
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«Io patisco ciò che di peggio può patire uno scrittore. La mistifi-
cazione della mia opera: una mistificazione totale, completa, ir-
rimediabile. Una vera e propria operazione industriale. Tutto
quanto io dico e scrivo subisce, attraverso l'interpretazione cal-
colata della stampa “libera”, una metamorfosi implacabile […]. I
miei romanzi e le mie poesie perdono a vista d'occhio il loro si-
gnificato, per aggiunte e falsificazioni continue, per un'interpre-
tazione denigratoria portata a un grado d'intensità e di ferocia
mai viste».
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no un dito; c'è, alla fine, la pena di morte, eseguita una notte, dal-
le parti di Ostia. Una condanna verrà, nell'ultimo processo in cui
Pasolini comparirà come protagonista, ma che, alla fine, non obbe-
dirà a regole diverse da quelle puntigliosamente seguite in tutti i
processi precedenti. Formalmente l'accusato è Pino Pelosi, l'assas-
sino […].»: così dichiarò Stefano Rodotà nel corso di una intervista
televisiva all'indomani dell'omicidio del poeta.
Mentre in quegli anni lo sbeffeggiano e gli danno la caccia, e i
fascisti Stefano Delle Chiaie e Flavio Campo lo schiaffeggiano non
solo metaforicamente, «Pasolini compie una requisitoria che oggi è
il suo testamento, indagando il potere dentro il potere e facendone
un'autopsia narrativa. Scriveva cose premonitrici, concependo “la
verità al di fuori dell'autorità” con il candore dell'innocenza (“difen-
do una ingenuità di ossesso”). Mentre costruivano ad arte la sua
distruzione pubblica, Pasolini colpiva al cuore il Potere, lo racconta-
va con accanimento forte di verità intellettuale e morale» [23].
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Le fonti di Petrolio
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Pier Paolo Pasolini cinque anni dopo. Questo è Cefis vive solo pochi
mesi, poi sparisce. Dalle due sedi della Biblioteca Centrale spari-
scono anche le copie d'obbligo: se ne trova ancora traccia nel regi-
stro di quella fiorentina, ma il libro non c'è. E si capisce: Steimetz
racconta la spregiudicata avventura di uno dei timonieri del pubbli-
co-privato, la mescolanza di poteri tra Stato e potenze occulte. Pier
Paolo Pasolini sta lavorando sugli stessi temi e, forse (è il caso di
Verzotto), sta utilizzando le stesse fonti; quell'anno comincia a
scrivere Petrolio, il grande romanzo incompiuto sul Potere (Einaudi
lo pubblicherà postumo nel 1992, 17 anni dopo la sua morte). Un
romanzo del quale la critica ha enfatizzato l'aspetto omosessuale –
la doppia vita di un ingegnere petrolchimico – mentre la vera so-
stanza di Petrolio è il “rapporto terribile tra economia e politica, le
bombe fasciste e di Stato, la struttura segreta delle società 'bruli-
canti', come i loro nomi, in beffardi acronimi” (Il Petrolio delle stra-
gi, p. 22), a partire da Cefis, che nel libro è 'Troya'. Il poeta D'Elia
ha anche considerato “con una certa sorpresa” che l'ultimo Pasolini
“corsaro”, quello che potremmo anche chiamare “il poeta delle
stragi”, riprende quasi sicuramente dal colorito pamphlet di Stei-
metz il suo aggettivo più romanzesco, salgariano, fortunato e con-
notato, come si può leggere in Questo è Cefis: “come corsari sulla
filibusta” (p.64)”. Petrolio è il profetico e incompiuto romanzo-veri-
tà sull'Italia del doppio boom: sviluppo e bombe. Bombe stragiste
e piduiste. Lo stesso “Stato nello Stato” che ha tolto di mezzo Mat-
tei, De Mauro e lo stesso Pasolini» [30].
Nelle circa trecento pagine di Questo è Cefis Steimetz descrive
sia la personalità senza scrupoli di Eugenio Cefis sia l'incredibile
rete di aziende grandi e piccole che fanno capo al suo impero. Mol-
tissime pagine sono dedicate all'elenco di centinaia di tali aziende,
facenti capo a Cefis per i rapporti fiduciari o di parentela che i re-
sponsabili dichiarati ufficialmente nei documenti costitutivi intrat-
tengono con lui: «Le Carte […] riposano ben custodite in capaci e
segreti armadi a serratura combinata, al riparo da indiscrezioni, in-
dagini, indebite ingerenze, specialmente del fisco. Ma quale indu-
striale mai giocherebbe a carte scoperte? Meglio intestarle, se oc-
corre, a nomi di paglia, ad innocue persone del seguito, con dipen-
denza a Vaduz, l'eden degli storni e delle franchigie tributarie».
A una parte delle aziende enumerate da Steimetz si riferiscono
anche alcuni appunti pasoliniani di Petrolio, dal numero 22, Il co-
siddetto impero dei Troya: lui, Troya ai successivi, che portano
sempre nel titolo la dizione Il cosiddetto impero dei Troya seguita
da specifiche caratteristiche relative a tale impero (pp. 94-108). In
essi, Pasolini descrive in dettaglio le aziende suddette, rifacendosi
alle pagine di Steimetz e modificando i nomi delle società stesse e
delle persone che se ne occupano per conto del Cavaliere del Lavo-
ro Eugenio Cefis:
22a, Il cosiddetto impero dei Troya: le filiali più vicine alla casa madre;
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«[…] Dirò subito, e l'avrete già intuito, che la mia tesi è molto
più pessimistica, più acremente e dolorosamente critica di quel-
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mentre indagava sul caso Mattei. Quello che D'Elia non dice, per-
ché pasolinianamente “non ne ha le prove”, il sagace lettore lo può
però dedurre fra le righe. Si delineerebbe, cioè, un collegamento
tra l'omicidio Mattei e l'omicidio Pasolini. Magari attraverso una pi-
sta “siciliana”. A Catania venne manomesso il bimotore di Mattei.
Siciliani pare fossero gli uomini spuntati la notte del 2 novembre
1975 a massacrare il poeta, secondo le dichiarazioni di Pelosi del
novembre 2005. Responsabile per l'ENI in Sicilia, nonché segretario
regionale Dc, era Graziano Verzotto, dietro cui c'è la fantomatica
casa editrice del libro nero su Cefis. Insomma due omicidi politici
legati da inquietanti fili in comune. Fantastoria? L'adagio pasolinia-
no “Io so. Ma non ho le prove” non è ancora spento e riserverà
sorprese per il futuro».
In un altro intervento, Flavio Santi si sofferma ancora su quanto
scritto da D'Elia: «Chi tocca Mattei muore. Perché scende nel cuore
di tenebra dell'Italia, fatto di corruzioni, complicità politiche e indu-
striali (da un appunto del Sismi, Cefis risulta il fondatore della Log-
gia P2), servizi segreti deviati, golpisti (Cefis fu indicato come fi-
nanziatore del fallito golpe Borghese del 1970), stragi di massa
usate come strumento politico […] aggiungiamo che negli ultimi
anni di vita Cefis si era interessato a società televisive (già in pas-
sato aveva tentato di scalare il “Corriere della Sera”, proprio negli
anni in cui vi scriveva Pasolini...), e che una delle società della
“Edilnord centri residenziali”, già “Edilnord Sas” del socio piduista
Berlusconi, si chiamava Cefinvest. Semplici, per quanto inquietan-
ti, casualità? [39]».
Quanto ancora al “Chi tocca Mattei muore”, emergono dalla re-
lazione di Vincenzo Calia alcune informazioni e testimonianze signi-
ficative che si riferiscono sia alla morte di Mattei, sia alla scompar-
sa di Mauro De Mauro. Si tratta prevalentemente di alcuni stralci di
deposizioni, che si riferiscono ad alcuni dei numerosissimi testimo-
ni ascoltati dal Pm pavese. Danno un'idea del clima creatosi intor-
no a quei due delitti, e delle manovre investigative spesso segnate
da depistaggi e annacquamenti. Un clima che purtroppo è stato
molto presente anche nelle indagini superficiali, parziali, imprecise,
spesso fuorvianti, che hanno segnato il periodo successivo all'as-
sassinio di Pier Paolo Pasolini.
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Lucarelli entra poi nel merito del “Chi tocca Mattei muore”, cioè
della relazione di Vincenzo Calia: «[…] Per sbrogliare questa intri-
cata matassa, ci viene in soccorso […] la conclusione dell'inchiesta
del giudice Calia, che fornisce, sia pure indirettamente, una possi-
bile chiave di lettura anche di questi fatti. Negli atti conclusivi della
sua inchiesta (20 febbraio 2003), Calia dedica ampio spazio alla vi-
cenda della sparizione del giornalista de “L'Ora” Mauro De Mauro.
De Mauro fu rapito a Palermo la sera del 16 settembre 1970 da-
vanti alla sua abitazione. Se il suo corpo non fu mai ritrovato e di
lui, da quel momento, non si seppe più nulla, ben presto però fu
chiaro che il suo rapimento era da collegarsi al “caso Mattei”. […]
Il giornalista si era molto appassionato al tema, anche perché
otto anni prima proprio lui era stato inviato de “l'Ora” a seguirli “in
presa diretta”. E aveva cominciato a sentire un'infinità di testimo-
ni. Fu proprio raccogliendo queste testimonianze che si trovò im-
provvisamente di fronte a una versione radicalmente diversa dei
fatti, a un'altra “verità”. A fornirgliela fu Graziano Verzotto, un se-
natore democristiano, che in quel momento era presidente dell'En-
te minerario siciliano.
Al giudice Calia, Verzotto dichiara: “Eugenio Cefis e Vito Guarra-
si (un celebre avvocato civilista, consulente dell' ENI e di molte altre
società nazionali operanti in Sicilia, quasi sconosciuto alla stampa e
all'opinione pubblica, ma al centro di vicende economiche e politi-
che di rilevanza nazionale) – e il loro entourage – si erano sicura-
mente avvantaggiati della morte di Mattei: entrambi, infatti, erano
stati poco prima della sua morte allontanati dagli incarichi che rico-
privano prima”. E ancora: “Ritengo che il sequestro del giornalista
sia intimamente connesso al progetto per la costruzione di un me-
tanodotto tra l'Africa e la Sicilia”. Era nata, infatti, un'accesa dispu-
ta tra l'Ems e l'ENI sulla fattibilità e sulla convenienza del contro-
verso metanodotto. “Io avevo ritenuto”, dichiara sempre a Calia
Verzotto, “che era mio dovere, quale aderente a una corrente Dc
(Gullotti) che si opponeva alla corrente 'fanfaniana' (cui faceva ri-
ferimento Eugenio Cefis), nonché quale presidente dell'Ems (come
tale direttamente interessato alla realizzazione del metanodotto),
dare un fattivo contributo per contrastare chi si opponeva al più
volte citato progetto di realizzazione del metanodotto. [...] Tra gli
oppositori al progetto [...] si stagliava, naturalmente, il presidente
dell'ENI” [Cefis]. La ragione per la quale Verzotto decise di dire
queste stesse cose, e molte altre, al giornalista de “L'Ora” fu, ap-
punto, questa. Egli era perfettamente consapevole che il film di
Rosi “poteva essere uno strumento per sostenere e alimentare la
campagna che l'Ente da me presieduto intendeva portare avanti
contro la presidenza dell' ENI e contro coloro che si opponevano alla
realizzazione del metanodotto”. E quando De Mauro verrà seque-
strato, Verzotto non ci metterà molto a capire che quella è anche
un'intimidazione nei suoi confronti, e cercherà di adeguarsi. “Ebbi
l'impressione che De Mauro fosse stato sequestrato anche per spa-
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dio delle coscienze, degli animi, delle menti? E se ciò che Pasolini
sostiene nei suoi scritti giornalistici, nelle sue sceneggiature cine-
matografiche fino a Salò o le 120 giornate di Sodoma (anzi, fino a
quel Porno-theo-kolossal rimasto a livello di trattamento in cui Pa-
solini descrive una “Città-Utopia che si chiama Gomorra”…) e nei
suoi libri fino a Petrolio, è legittimo affermare che il suo è stato un
omicidio politico, tragica conseguenza attribuibile a burattinai di
una politica degenerata, la stessa che ha prodotto in quegli anni,
oltre al malgoverno e alle malversazioni, stragi e tentativi di colpi
di stato?
Su chi ha avuto la responsabilità maggiore del massacro del
poeta, quindi sui mandanti, sospetti sono stati spesso manifestati
negli oltre trent'anni che corrono tra l'omicidio di Pier Paolo Pasoli-
ni e i giorni nostri. Ora possediamo elementi in più da valutare e
su cui riflettere. Uno è quello costituito dal riferimento a Pasolini
contenuto nelle carte di Calia: il magistrato, infatti, dopo averci
fatto conoscere le testimonianze riguardanti Eugenio Cefis, non ca-
sualmente si appella anche a Pasolini, in particolare ai contenuti di
Petrolio.
Non è in questione il fatto di respingere o di abbracciare alcuna
teoria dei complotti. Né di accogliere acriticamente o di costruire
romanzi gialli. Si tratta, molto più semplicemente, di prendere atto
che vi sono nuovi elementi sui quali indagare che, oggi più di ieri,
possono condurre a ciò che dovrebbe interessare tutti: pretendere
cioè di far luce in maniera risolutiva sull'assassinio di Pier Paolo Pa-
solini. D'altronde, dovrebbe essere noto che il nostro Paese si è
nutrito a lungo, appunto, di complotti, di insabbiamenti, di reticen-
ze, di connivenze e di trame oscure e segrete che hanno interessa-
to sia eliminazioni fisiche (individuali o stragistiche) sia progetti di
colpi di Stato. I misteri d'Italia sono innumerevoli, a partire da
quello sul ruolo reale di Salvatore Giuliano, con le sue connessioni
mafiose e politiche che facevano capo all'allora ministro Mario
Scelba, fino a quelli riguardanti le connessioni del terrorismo anni
'70 che insanguinò il nostro Paese. Le stragi di Piazza Fontana, di
Brescia, di Bologna e di Ustica, sono tuttora senza colpevoli accer-
tati. Per avere notizia della strage nazifascista di Sant'Anna di
Stazzema (12 agosto 1944) e di altri eccidi di quei giorni occorsero
cinquant'anni. E la “scoperta” dell'armadio della vergogna in cui
erano stati celati molti fascicoli sulle stragi di quell'epoca mise in
luce eventi tragici, collusioni tra governi, inammissibili, vergognosi
e omertosi opportunismi politici. Il caso Moro è ancora attuale poi-
ché molti aspetti non sono stati del tutto chiariti. Lo stesso caso De
Mauro è tuttora oggetto di approfondimenti presso la Procura pa-
lermitana. Si dovrebbe farla finita di indagare? O sarebbe forse il
caso che gli Archivi di Stato venissero finalmente svincolati dal se-
greto e, laddove si riscontrassero elementi validi, anche complotti-
stici, le Procure si rimettessero in moto?
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3. […]
4. La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l'ha gestita
sino a quando è rimasto Presidente della MONTEDISON. Da tale
periodo ha abbandonato il timone, a cui è subentrato il duo OR-
TOLANI-GELLI, per paura. Sono di tale periodo gli attacchi vio-
lenti (ROVELLI della SIR) contro uomini legati ad ANDREOTTI con
il quale si giunse ad un armistizio per interessi comuni: lo scan-
dalo dei petroli.
5. […]
6. Alle ore 15.30 di oggi, 21 settembre 1983, ho conversato te-
lefonicamente con la nota fonte di New York che mi ha confer-
mato quanto al precedente appunto, […]. Non ha potuto ag-
giungere altro per motivi di sicurezza nelle trasmissioni.
Sarà disponibile dal 5 ottobre p.v. dovendosi assentare per
motivi di lavoro […]».
«RISERVATO – APPUNTO
1. Intensi contatti sarebbero intercorsi in SVIZZERA, fino al
mese di agosto u.s., tra Licio GELLI ed Eugenio CEFIS, Presiden-
te della MONTEDISON INTERNATION.
2. È probabile che la notizia venga pubblicata da organi di
stampa».
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“Appunti 20-30
Storia del problema del petrolio e retroscena
[…]
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lo è rimasto solo il titolo, come per tanti altri rimasti in bianco” […]
Nella stessa intervista la Chiarcossi negava anche che dopo la mor-
te di Pier Paolo si sia mai verificato un furto di carte nella casa del-
l'EUR in cui viveva con suo cugino. Ricorda invece un'effrazione
precedente».
Inaspettatamente, il 2 marzo 2010, alcuni quotidiani informano
che il collezionista-bibliofilo Marcello Dell'Utri, senatore del Pdl, ha
dichiarato di essere in possesso di un manoscritto di Pasolini, che
definisce “inedito”, sottratto a suo tempo alle cartelle di Petrolio
nello stesso studio dello scrittore: si tratterebbe del capitolo “Lam-
pi sull'ENI”. Anzi, Dell'Utri afferma che il titolo esatto sarebbe
“Lampi su ENI”. Quelle che seguono sono soltanto alcune delle sva-
riate dichiarazioni rilasciate dal senatore: «[si tratta di] una set-
tantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano […]
sono esattamente 78 di un totale di circa 200» (“Corriere della
Sera”, 2 marzo); «C'è un giallo perché credo che questo capitolo
sia stato rubato dallo studio di Pasolini; è un capitolo inquietante
per l'ENI, di grande interesse, perché si lega alla storia del Paese, a
Eugenio Cefis, alla morte misteriosa di Enrico Mattei e di Pasolini»
(“la Repubblica”, 3 marzo). Analoghe dichiarazioni sono state rese
da Dell'Utri ad altri quotidiani il 3 e il 9 marzo.
Sia che le cartelle attribuite a Pasolini dal senatore – e oggetto
di ricettazione poiché, secondo le sue dichiarazioni, provenienti da
un furto – siano autentiche, sia che si tratti di una mistificazione di
Dell'Utri o di chi ha ideato quest'ultima vicenda, è opportuno un
accertamento, e un eventuale successivo provvedimento di seque-
stro di tali pagine – che costituiscono un corpo di reato – da parte
della magistratura, cosa d'altronde puntualmente richiesta dall'av-
vocato Stefano Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini il 2
marzo, a integrazione della loro iniziativa giudiziaria; lo scorso
anno avevano infatti inoltrato alla Procura di Roma richiesta di ria-
pertura delle indagini sul delitto Pasolini.
Il 9 aprile 2010 tali indagini sono state riaperte. E il 22 aprile un
lancio dell'agenzia di stampa Adnkronos ha annunciato: «Sul caso
di Pier Paolo Pasolini tornato all'esame della Procura della Repub-
blica di Roma per verificare nuove circostanze circa i motivi della
sua uccisione, il pubblico ministero Francesco Minisci ha sentito
oggi per circa mezz'ora Marcello Dell'Utri. Al centro dell'interroga-
torio alcune dichiarazioni fatte tempo fa dal parlamentare circa il
suo possesso di un capitolo del libro Petrolio pubblicato dopo la
morte dello scrittore. Capitolo scomparso, ma che Dell'Utri affer-
ma, come ha confermato oggi, di aver visto qualche tempo fa. A
mostrarglielo una persona che lo aveva avvicinato a Milano in oc-
casione di una mostra su Curzio Malaparte. Dopo l'incontro con il
magistrato, Dell'Utri si è fermato a conversare con i giornalisti ai
quali ha confermato le dichiarazioni fatte tempo fa e cioè che il ca-
pitolo del libro, dattiloscritto su fogli di carta velina e intitolato
“Lampi su ENI” gli è stato mostrato, l'ha sfogliato rapidamente no-
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«[…] Pino Pelosi, nella sua nuova versione, non si limita ad ac-
cusare i tre sconosciuti. Descrive un vero e proprio agguato che
aveva come obiettivo Pier Paolo Pasolini “sporco comunista”. È
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sono accorto subito, e perciò gli ho detto chiaro che io non vo-
levo partecipare, non ne volevo sapere nulla».
Su quanto specificamente avvenne all'Idroscalo di Ostia, Pelosi
dichiara: «[…] Poi io sono uscito dalla macchina, sono andato a
urinare vicino alla rete… E in quel momento è spuntata una
macchina scura, non so se era un 1300 o un 1500, e una moto.
Sono arrivate in tutto cinque persone. A me m'ha bloccato subi-
to uno con la barba, sulla quarantina, m'ha detto: “Fatti i cazzi
tua, pederasta” ho preso una bastonata e un cazzotto. Ho visto
che trascinavano Pasolini fuori dalla macchina, e lo riempivano
di pugni e calci, picchiavano forte. Gridavano, ho sentito le urla,
gli dicevano: “Sporco comunista, frocio, carogna”. Ho avuto
paura, mi sono allontanato nel buio. Sono tornato quando tutto
è finito».
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Capitalismo, neocapitalismo,
[****]
globalizzazione, da Quasi un testamento,
di Pier Paolo Pasolini
Capitalismo e neocapitalismo
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[Ricostruzione dell'assassinio]
L'istruttoria dibattimentale ha offerto con sufficiente chiarezza
un quadro che consente ora una ricostruzione dei tragici fatti in
termini assai credibili e vicini alla verità, pur se ci si mosse all'inizio
delle indagini tra infinite difficoltà e incertezze.
È stata soprattutto la consulenza del prof. Durante che ha per-
messo una chiarificazione attraverso l'elaborazione logica e indutti-
va degli elementi non certo abbondanti che la situazione offriva.
È nostra profonda convinzione di essere riusciti a fornire al Tri-
bunale elementi di giudizio sufficienti al fine di giungere alle con-
clusioni indicate circa la volontarietà dell'omicidio e la pluralità de-
gli esecutori.
Qui desideriamo riassumere, sia pure sinteticamente e schema-
ticamente, gli elementi che ci hanno condotto a tale convinzione e
che nel corso dell'istruttoria dibattimentale hanno trovato ampio ri-
scontro.
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- 1°. La reiterazione dei colpi inferti fin dalla prima fase, che è pro-
vata da:
1.1. La camicia inzuppata di sangue. […]
1.2. La presenza di capelli di Pasolini nel tragitto di fuga. […]
- 2°. La reiterazione dei colpi inferti nella seconda fase, che è pro-
vata da:
2.1. La presenza di sangue e di capelli di Pasolini su tutte e due le
superfici larghe e sui margini della tavoletta “Buttinelli” strappata
dal cancello avanti al quale fu rinvenuto il corpo di Pasolini.
2.2. La emorragia cerebrale dai periti non attribuita al sormonta-
mento ma ai colpi inferti con mezzi contusivi prima del sormonta-
mento.
2.3. Il calcio ai testicoli: è da precisare che si trattò di un così vio-
lento trauma da determinare una infiltrazione di sangue anche nei
tessuti profondi come riportato nella perizia d'ufficio.
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2°) spiega la frase del Pelosi laddove dice di aver smesso di colpire
Pasolini perché ormai lo vedeva a terra esanime e quindi lo ritene-
va morto; e quindi non ha capito neanche perché lo si dovesse sor-
montare con l'auto;
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Tale ipotesi trova la sua base sugli elementi oggettivi che spie-
gano incongruenze, lacune e contraddizioni e che tuttavia non si
contrappongono alla tesi della volontarietà dell'omicidio. Questa,
infatti, attiene all'autore del delitto chiunque esso sia.
Se l'omicida è Pelosi questa è soltanto una ipotesi e ferma resta
la certezza della sua volontà omicida. Se Pelosi non è invece il solo
omicida, la volontarietà va attribuita ad altri e, pur tuttavia, Pelosi
resta comunque, e forse in forma ancor più grave, compartecipe
lucidamente cosciente dell'omicidio.
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