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Benedetta fame

Il Settecento inquieto di Rimini. Soccorso papale


per i nobili indebitati. Poveri in fuga a Roma per
cercar pane. E nel 1799 l'«inferocita plebe» ed il
«furore» dei marinai sono contro ogni potere
costituito, compreso quello pontificio.

Il nostro tema è la vita sociale di Rimini nel 1700, dove sono


le radici dei cambiamenti politici del secolo successivo.
Osserva Giorgio Candeloro: non è possibile studiare il
Risorgimento senza affrontare il problema «della sua
relazione con la precedente storia italiana» [1].
Rimini appartiene allo Stato della Chiesa, dominato e
sfruttato da «una ristretta cerchia di cardinali e di prelati,
quasi tutti appartenenti a famiglie aristocratiche». Essi
pensano prima agli interessi della Chiesa e poi a quelli
pubblici. La politica finanziaria papale ha immobilizzato e
disperso «i capitali accumulati nei secoli precedenti dalla
classe mercantile italiana». Nel Settecento questo Stato è in
piena crisi.
Già all'inizio del secolo XVIII e sul finire del Seicento, ai
viaggiatori stranieri esso offre lo spettacolo di campagne
abbandonate e di una generale condizione di «povertà e
miseria» [2]. Verso il 1790 circa 400 mila tra mendicati e
poveri sono nutriti a spese degli enti di beneficenza, sopra
un totale di circa due milioni e 300 mila abitanti [3]. L'unico
aspetto positivo che un visitatore estero può notare, è nelle
parole di un amabile ed istruito abate-conte di Ferrara,
secondo cui la felicità delle terre pontificie sta nel fatto che
non si arriva a violentare le figlie e rapire le mogli [4].

La carestia del 1764-1768


Sulla scena riminese nel 1775 avviene l'intervento di Pio VI
per la gestione dell'«Eredità Gambalunga». Analogamente a
quanto stabilito con sei provvedimenti decisi sullo stesso
problema a partire dal 1731 dai suoi quattro predecessori,
Pio VI sospende gli effetti del testamento di Alessandro
Gambalunga (fondatore a Rimini della prima biblioteca
civica d'Italia) e, anziché tutelare come esso prevedeva, i
diritti di quattro Luoghi Pii, interviene per riparare alle
«tante dissipazioni» e ad una mole «smisurata di debiti» che
stanno portando alla «total ruina» gli eredi di quella
famiglia.
Pio VI si giustifica con le parole usate nel 1731 da Clemente
XII: di aver agito per evitare l'estinzione di una Casa nobile,
come era già avvenuto per tante altre, a causa della
mancanza di beni di fortuna, con cui sostenere i pesi del
matrimonio e dei figli.
Per la carestia del 1764-1768, comune a tutta la Penisola,
contadini e pescatori fuggono a Roma, ospitati a spese
dell'Erario in due «serragli»: alle Terme gli uomini, ed alla
Bocca della Verità in Campo Vaccino le donne. Tra queste
ultime serpeggia un'epidemia di vaiolo. Gli ospiti arrivano a
26 mila. Molte persone sono lasciate nei fienili della città,
scrive nel 1841 il riformista abate Antonio Coppi (1783-
1870), continuatore degli «Annali» muratoriani per il periodo
1750-1861 [5].
Da Roma, spiega nel 1868 il medico e storico della Medicina
Salvatore De Renzi (1800-1872), «venne il primo grido di
allarme all'Italia. Di là dove si facevano meno complimenti al
popolo che costituiva il gregge prediletto, furono spediti
Prelati, poco dopo la messe del 1763» (ridotta a causa della
siccità), in tutti i territori dello Stato. L'ordine era di prendere
il frumento e mandarlo nella capitale. I popoli «spinsero a
Roma le loro grida di dolore».
Le successive, continue ed abbondanti piogge, costringono i
contadini ad emigrare «a schiere nella Città e non
ascoltando altra legge se non quella della fame, alcuni si
spinsero a saccheggiare i forni, altri a rapire il pane che si
trasportava dalla Città alle campagne e tutti investivano i
cittadini ed andavano per le case con voci più imperiose che
supplichevoli». I Reverendi per colpire gli affamati,
consideranti alla stregua di delinquenti per l'«oltraggio alle
leggi» e l'«irriverenza alla Maestà Divina», prosegue De
Renzi, «promulgarono tremendi editti, con i quali si
condannava a morte chi avesse osato trascorrere».
Intanto il papa predica l'indulgenza plenaria per chi
digiunasse due volte la settimana: «e così fu santificata la
fame» e per qualche tempo «rimediato» ad essa, mentre
«Clero Prelati e Cardinali erano satolli» [6]. La carestia è
pure considerata una punizione divina per i peccati della
gente [7], al pari della lebbra nel "buio" medioevo.

Il sistema annonario
Il 30 aprile 1763 la Comunità di Rimini invia a Roma
un'istanza al Buon Governo [8] per ottenere un «nuovo
sistema» annonario, sottolineando i gravi difetti di quello
corrente dell'appalto, risultato «dannoso alla Cassa
Communitativa, che non ricavava Provento alcuno
dall'affitto del Forno». Il contratto vigente è considerato
«dannosissimo al Povero stesso, e da ogni Legge riprovato»,
perché l'Annona impiega «i suoi effetti ricavati dalli Poveri in
beneficio delli Possidenti, a' quali appartiene principalmente
la soddisfazione de' Debiti della Comunità, come i Poveri
soddisfano quelli dell'Annona».
Nello stesso 1763 gli Ecclesiastici, pretendendo per i loro
grani dall'appaltatore Andrea Bagli una cifra superiore a
quella stabilita dal Buon Governo il 24 gennaio 1757, aprono
un loro forno «con moltiplicità di spacci, e Botteghe per tutta
la città». La Municipalità «si risolse di comprare» il grano
degli Ecclesiastici al prezzo che essi «volevano maggiore» di
quanto legalmente previsto, «ad effetto restasse chiuso quel
Forno».
Il potere laico si sottomette al clero, con un cavillo giuridico
[9]: per gli Ecclesiastici, doveva intervenire il Papa con
norme particolari. La Comunità ammonisce l'appaltatore:
egli era «obbligato pagare il prezzo giusto» agli Ecclesiastici,
secondo una disposizione del 1689. Forse anche questo
episodio, assieme alla situazione derivante dalla grave
carestia del 1764, fa sì che nell'anno successivo non si trovi
«verun Oblatore a cotesto pubblico Forno».
Quando (1763) avviene la discussione sull'appalto della
pubblica panificazione, con la difesa degli interessi dei
«Poveri», «molti Consiglieri» richiedono ai Consoli di
«escludere li Matrimonj disuguali di nascita» [10]. Nell'anno
annonario 1765-66 a Rimini è ripristinata la panizzazione
diretta dell'Abbondanza. Per la «straordinaria carestia», nel
1766 si decidono due sovvenzioni per i poveri e distribuzioni
di «elemosine».
La prima è del 12 luglio, quando si delibera «d'iniettare per
ora mille rubbj di Formentone», a favore «de' poveri Coloni
solamente di questo Barigellato nel presente anno di
straordinaria carestia [...] con idonea sigurtà però de'
rispettivi Padroni» [11]. La seconda del 29 novembre: la
fornitura del Formentone è estesa pure ai poveri della Città
[12].
Il 24 gennaio 1767 l'Annona decide di «stabilire un Piano» di
soccorso per «riparare, come la Divina, ed umana Legge
strettamente ingiunge, al gravissimo disordine di vedersi
morire di fame i Casarecci del Bargellato, ed altre Persone
miserabili, che nulla possedono, come pur troppo sentesi sia
sin ora seguito» [13]. Il «Piano stabilito» è approvato
all'unanimità dai Signori Dodici il 3 febbraio e giunge in
Consiglio il 4 febbraio, quando si differisce la risoluzione ad
altra adunanza: esso permette il 30 maggio una terza
«sovvenzione alli Coloni» di formentone, con i criteri stabiliti
il 12 luglio ed il 29 novembre 1766 [14].

Vicini a morir di fame


Ci sono «le continue suppliche de' Parochi, e l'istanza
personalmente fatta da medesimi Casarecci della Campagna
ridotti presso a morire di fame per un qualche
provvedimento» [15]. La commissione, dopo aver richiesto
ai parroci, attraverso il vescovo, un elenco dei poveri (sono
1.025 in Città, 1.124 in Campagna), propone una
sovvenzione per i primi di un bajocco e per gli altri di un
bajocco e mezzo al giorno «o in denaro o in farina di
Formentone».
Si suggerisce di far una scorta di danaro per quelli che
«saran fra breve nel deplorabil caso degl'altri Infelici
compresi, ed involti», per un totale di tremila scudi.
Per disinteresse e timore di esporsi lavorando all'Annona, ci
sono ben venti rinunce degli eletti all'ufficio di Cassiere
dell'Abbondanza il 30 maggio 1767 [16], proprio quando lo
stesso Consiglio concede ai quattro Abbondanzieri in carica,
su loro stessa richiesta, un premio complessivo di trecento
scudi per ripagarli delle «loro straordinarie fatiche».
Al Governatore della città, invece, si regala un pezzo
d'argento di scudi cento, attingendo al già misero bilancio
dell'Annona, «in rimostranza di gratitudine, e sincera
riconoscenza per le tante cure, applicazioni, e sollecitudini»
da lui dimostrate «per la sovvenzione somministrata alli
Poveri, e Coloni del Bargellato, e Contado di questa città»
[17].
Lo stesso 30 maggio il Consiglio è costretto pure a decretare
un'«altra sovvenzione alli Coloni», stante la gravità della loro
situazione. L'emergenza economica può essere la causa
della bocciatura della proposta di riaprire la «Fiera sul Porto»
nata nel 1656 e sospesa nel 1730.
Clero e Municipalità sono nuovamente ai ferri corti. L'8
gennaio 1767 gli Abbondanzieri chiedono al Vescovo, conte
Francesco Castellini, ed al clero «un congruo sussidio di
Generi da somministrarsi in prestanza senza sigurtà» ai
Casarecci della Campagna, «con eventualità ancora nel
ritirarne il prezzo, affinché non si dovesse sentire il
disordine, che fosse parte del Popolo perita di fame per
diffetto di provvidenza».
La Congregazione del Clero il 22 gennaio stabilisce che il
riparto per questo «sussidio caritativo» vada distribuito
«sopra ogni sorta di possidenti», come se si trattasse di una
normale imposta della Reverenda Camera Apostolica.

Garampi deluso
Il 25 gennaio il Governatore domanda a mons. Giuseppe
Garampi di intervenire presso il Papa affinché i Luoghi Pii di
Città, Bargellato e Contado siano obbligati «a somministrare
prontamente tutto il denaro che [h]anno» alla Municipalità:
«Findove sonosi estese le nostre forze non abbiamo sin'ora
mancato di giungere colli nostri provvedimenti. Incombe ora
a' Luoghi Pii il fare il partito loro a norma de Sagri Canoni»
[18]. Garampi, che a Roma ha raggiunto una prestigiosa
posizione, ha ricevuto da Rimini un «mandato di procura»
per gli affari della città.
Roma risponde: «Si [...] tiene per esagerato ogni bisogno». Il
Buon Governo ha spiegato a Garampi che per i «40 giorni
incirca che mancano al raccolto, non può essere la Città
tanto sprovvista, quanto si rappresenta, e che intanto la
Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi quali supplire a
qualche deficienza di Pane».
Commenta Garampi: «In somma nulla è da sperarsi. [...]
Compiango vivamente la presente nostra calamità, la quale
resta anche più sensibile, perché non compatita» [19].
Nel 1769 nei suoi pettegoli «Commentarj» Ernesto Capobelli
[20] accusa i gestori dell'Annona di «arricchirsi col vero
sangue de' poveri», e di voler far regnare «una vera
carestia», concludendo i propri argomenti con aria di
mistero: per non «pregiudicare il mio scrivere, ho pensato di
tacere». Nel 1773 un anonimo [21] accusa l'Annona di aver
perso in sedici anni ben 11.585 scudi, oltre ad altri 19.576 in
seguito alla carestia.
Il peggio nello Stato della Chiesa arriva tra 1793 e 1796: Pio
VI finisce di vuotare le casse dell'Erario «Sanctius» [22]
proprio nella fase più drammatica della storia europea. Il
Tesoriere generale di Roma (1785-1791) ha invano tentato
di sopprimere le numerosissime immunità fiscali con
«l'introduzione di un'imposta generale per tutto lo Stato».
Pio VI lo promuove cardinale per impedirgli di realizzare la
sua riforma, allontanandolo dalla carica di Tesoriere.
Il suo nome è Fabrizio Ruffo, meglio conosciuto come capo
delle bande sanfediste che nel 1799 agiscono contro la
Repubblica napoletana [23]. Suoi compagni d'avventura
sono ecclesiastici, ricchi proprietari, lavoratori di campagna,
assassini e ladri spinti da spirito di rapina, vendetta e
sangue [24].

Marinari in rivolta
A Rimini il 30 maggio 1799 i «marinari» prendono a sassate i
francesi. Dal porto risalgono verso la città. Li guida un
parone del Borgo San Giuliano, Giuseppe Federici, detto «il
glorioso» forse per qualificarlo fanfarone, come il soldato
plautino. A loro si uniscono i «birbanti»: assieme
saccheggiano le botteghe degli ebrei ed assaltano il palazzo
pubblico, rubando e distruggendo tutto [25].
Il notaio Michel Angelo Zanotti scrive che quel 30 maggio è
«giorno di terrore, e di allegrezza insieme» [26].
Ventiquattr'ore prima, la notizia che gli austriaci hanno fatto
ingresso a Ferrara, Bologna e Ravenna, e minacciavano
Forlì, ha cagionato «gran fermento nel Popolo, che diviso in
complotti dava segni di pericoloso tumulto». Si aspettavano
i soldati di Vienna, per regolare i conti in sospeso con quelli
di Parigi. L'occupazione napoleonica ha stremato le nostre
popolazioni. Sotto la cenere cova il fuoco della vendetta non
soltanto contro i militari francesi, ma anche verso chi ha
parteggiato per le idee repubblicane.
Non vogliono ripristinare il potere temporale dei papi, quei
ribelli. Anzi, essi sono contro ogni potere costituito. Da cui
hanno ricevuto soltanto vessazioni. I «villani sollevati» sono
per Antonio Bianchi (1784-1840) dei ladri che fingono di
«proteggere la religione» [27]. Secondo Domenico A. Farini,
tutti gli «insorgenti o briganti» delle «orde di facinorosi» che
terrorizzano la Romagna nel 1799, appartengono alla «solita
vanguardia dei nuovi signori», ovvero «Tedeschi e Papa»
[28].
Il capo degli austriaci sbarcati a Rimini, tenente Carlo
Martiniz, alloggia in casa di Giuseppe Pari «detto Blablà»,
dove il 27 luglio 1796 un'immagine della Vergine
dell'Aspettazione ha girato gli occhi. Pochi giorni prima, il 19
luglio, nel Borgo San Giuliano un'Addolorata ha pianto. Il
giorno 20 ha mosso gli occhi la Madonna dell'oratorio di san
Girolamo. Il 29 il Crocefisso della Confraternita della Santa
Croce apre «gli occhi e la bocca». Miracoli simili si registrano
a centinaia in tutto lo Stato ecclesiastico tra giugno 1796 e
febbraio 1797 [29].
Molti anni dopo, il repubblicano riminese Achille Serpieri
(1849-1909) conclude amaramente le proprie memorie con
un riepilogo sui nuovi tempi, non tanto dissimili da quelli
vecchi: «Vuoi vivere e star bene? / Passa il tuo tempo nelle
Sacrestie, / E grida sempre viva Papa, Re, e le Spie» [30].

NOTE
1 Cfr. G. Candeloro, Le origini del Risorgimento, 1700-1815, I, Milano 1956, p. 14.
L'opera (11 voll.) è completata nel 1986.
2 Cfr. F. Venturi, L'Italia fuori d’Italia, in Storia d'Italia. 3. Dal primo Settecento
all'Unità, Torino 1973, pp. 987-1481, 992, 1012.
3 Cfr. Candeloro, cit., pp. 133-135.
4 Cfr. P-J. Grosley, Nouveaux Memoires, I, Nourse, Londres 1764, pp. 350-351.
5 Cfr. A. Coppi, Discorso sull'agricoltura dell'agro romano, Monaldi, Roma 1841,
pp. 47-48.
6 Cfr. S. De Renzi, Napoli nell'anno 1764, ossia documenti della carestia e della
epidemia che desolarono Napoli nel 1764, Nobile, Napoli, 1868, pp. 32-33 .
7 Cfr. P. Ebneri, Chiesa, baroni e popolo nel Cilento, I, Roma 1982, p. 258.
8 I documenti sono in AP 876, Atti del Consiglio Generale, 1760-1766, Archivio di
Stato di Rimini [ASRn], cc. 92-97, 11.6.1763.
9 Cfr. AP 876, cit., cc. 100-104r. Si tratta del grano della Mensa vescovile e delle
abbazie di San Giuliano e di San Gaudenzio.
10 Cfr. A. Montanari, Per soldi non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini
(1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, "Romagna arte e storia",
n. 52/1998, pp. 45-60.
1 Cfr. AP 876, cit., pp. 163-164.
2 Cfr. AP 877, Atti del Consiglio Generale, 1766-1777, ASRn, pp. 19-23.
3 Ib., p. 19.
4 Ib., pp. 23, 33-34.
5 In AP 54, Congregazione dei Signori Dodici, 1765-1775, ASRn, 23.1.1767.
6 Cfr. AP 877, cit., 11.8.1777, p. 41.
17 Ib., pp. 33-34.
8 Cfr. A. Montanari, Una fame da morire, Carestia a Rimini 1765-1768, in «Pagine
di Storia & Storie», a. V, n. 11, suppl. al settimanale «Il Ponte», Rimini,
14.3.1999. La lettera a Garampi è in AP 487, Registro delle lettere, 1766-68,
ASRn. Sul tema, cfr. pure Id., Fame e rivolte nel 1797, Documenti inediti della
Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli» XLIX (1998), Cesena 2000, pp. 671-
731.
19 Cfr. in AP 662, 1700, Corrispondenza epistolare colla Magistratura, ASRn,
9.5.1767
20 Cfr. tomo V, SC-MS. 307, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR].
Capobelli presenta uno spaccato vivace della realtà riminese in pagine che non
espongono dati di fatto, ma interpretazioni molto tendenziose.
2 Cfr. AP 539, Registro informazioni, 1767-1775, 25.5.1773.
22 Sull'Erario «Sanctius» cfr. Candeloro, cit. p. 134.
23 Ib., p. 136.
24 Cfr. A. M. Rao (a c. di), Folle controrivoluzionarie. Le insorgenze popolari
nell'Italia giacobina e napoleonica, Roma 1999, p. 362.
25 Cfr. N. Giangi, Cronaca, SC-MS. 340, BGR. Essa raccoglie notizie sul periodo
1782-1809. Fu continuata dal figlio Filippo per gli anni 1811-1846 (cfr. SC-MS.
1242, BGR). Sugli eventi del periodo 1796-97, cfr. A. Montanari, Fame e rivolte
nel 1797, cit. (sul quadro politico caratterizzato da «anarchia e miseria») e Id.,
L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici». Nobili, borghesi e clero in lotta per il
«sopravanzo» della contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità
di Rimini, per una storia sociale cittadina del XVIII secolo, «Studi Romagnoli» LI
(2000), Cesena 2003, pp. 941-986. Nel corso del 1700 e per la prima metà del
1800 nella vita sociale di Rimini, la marineria gioca un ruolo molto importante, a
cui però non corrispondono né una soddisfacente condizione economica, né un
qualsiasi coinvolgimento nella gestione della cosa pubblica. Nel 1791 Francesco
Battaglini scrive che alla «classe marinaresca tanto utile alla Città nostra, e nel
tempo stesso sì grama, e misera», fanno capo «a dir poco» duemila persone. Nel
1796, un documento ufficiale della Municipalità riminese calcola questa classe in
«circa tre mila Persone», quasi un quarto degli abitanti della città (13.015).
Faticosamente, dopo l’armistizio del 23 giugno 1796, la Municipalità ha impedito
«l’emigrazione di molti abitanti del Porto» (cfr. AP 99, Annona frumentaria,
ASRn). Sul tema, cfr. A. Montanari, Marinai: dimenticati, poveri e ribelli, web
«Riministoria».
26 Cfr. M. A. Zanotti, Giornale di Rimino dell’anno MDCCIC, Tomo decimo, SC-MS.
317, BGR.
27 Cfr. A. Bianchi, Storia di Rimino, Manoscritti inediti a cura di A. Montanari,
Rimini 1997, p. 174. Dei suoi umori politici si possono trovare efficaci espressioni
nel ms. 628, Il nostro antico territorio, BGR, sotto la data del 1796: «Se per
mezzo secolo i nostri paesi stettero in pace, in quest'anno si cominciò a provare
gli effetti della terribile rivoluzione francese, cominciata già in Parigi nel 1789
coll'apertura degli Stati generali, rivoluzione che produsse incalcolabili disastri
nel Mondo intero, e che seguiterà a produrne chi sa per quanto tempo». Bianchi
non distingue tra le premesse democratiche degli Stati generali, e la tragica
conclusione della rivoluzione. Nel discorso storico sul XVIII secolo, Bianchi (che
non dimentica mai un inquadramento dei dati locali nel contesto nazionale ed
europeo), tralascia qualsiasi accenno alla rivoluzione americana, i cui contenuti
economici non avrebbero dovuto sfuggire a lui che si dimostra tanto attento alle
novità delle idee rappresentante ad esempio nell'Antologia, la rivista toscana
fondata nel 1821 da Gian Pietro Viesseux, della quale era lettore. Rispettoso
della religione, Bianchi appare molto critico nei confronti della Chiesa cattolica
come istituzione. L'opinione negativa espressa da Bianchi sull'uso strumentale
della Religione («in tutti i tempi», quando «un partito vuole opprimere un altro
che sia di diverse opinioni, cerca di farlo sotto il manto di legge, o di Religione»),
ribalta un celebre pensiero di Machiavelli: «Quelli principi o quelle repubbliche le
quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere
incorrotte le cerimonie della loro religione». Cfr. A. Montanari, «Per fuggir l'ozio e
non per cercar gloria»: Antonio Bianchi scrittore, XI-LXII, nella cit. Storia di
Rimino.
28 Cfr. D. A. Farini, La Romagna dal 1796 al l828, Roma 1899, p. 32.
29 Cfr. Rao, cit., p. 259. In Atlante per il dipartimento del Rubicone, «Romagna
arte e storia», n. 6/1982, pp. 26-27, si legge: a Forlì, sparsasi la voce del
movimento degli occhi della Vergine in un’edicola pubblica, il locale vescovo la
fa smontare da un muratore e da un falegname, e la nasconde in curia. A
Ravenna succede un episodio analogo, ma si tratta di una falsa voce. Lo ricorda
il monaco Benedetto Fiandrini, precisando che chi non crede al «preteso
miracolo», è chiamato col nome di «Giacobino (che in questi tempi significava
incredulo, atteo o cosa simile)».
30 Cfr. Alcuni cenni sulla mia vita, c. 35, SC-MS. 1300, BGR.

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