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VIRGILIO

Dal quarto libro delle Georgiche

IL MITO DI ORFEO E ARISTEO


Traduzione basata sui ritmi dei versi originali a fronte

a cura di MARIO MALFETTANI

INTRODUZIONE

Questa traduzione di uno dei pi celebri passi virgiliani nasce dalla convinzione che le caratteristiche ritmiche, il suono o, se si vuole, la musica di una poesia siano elementi non meno importanti dei concetti, delle immagini e del sentimento che l animano. Essa perci realizzata in versi barbari (per usare la consolidata definizione carducciana), con la dichiarata ambizione di richiamare, per quanto possibile, il ritmo del testo originario, in esametri dattilici. Le migliori traduzioni attualmente disponibili rispondono infatti ad altre priorit: realizzate da profondi conoscitori della lingua e della letteratura latina, offrono precise, aggiornate e illuminanti versioni che una rigida gabbia metrica inevitabilmente comprometterebbe. Non v perci, in questa mia, alcuna pretesa di competere con quelle e non lo potrebbe ma solo di proporsi come una interpretazione che abbia nel ritmo il suo elemento caratterizzante. A questo scopo ho seguito un criterio ampiamente applicato in Germania anche nella composizione di poemi in esametri e di elegie originali, non legati a traduzioni di classici; basti pensare a Goethe, Klopstok e v. Platen. Esso consiste, in sostanza, nel disporre le parole in modo che la sequenza linguistica naturale di sillabe accentate e atone riproduca esattamente quella di arsi e tesi dei versi originali. Si tratta della trasposizione a livello intensivo (forte piano), che noi facilmente possiamo cogliere nella lettura, di un ritmo che ai tempi della latinit classica era invece ottenuto a livello tonale (alto basso), oggi da noi non pi percepibile n realizzabile*.

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* Qualcosa di simile avviene nella cosiddetta lettura metrica della poesia latina e greca attualmente praticata nella scuola: un artificio non v dubbio ma capace di trasmetterci in qualche modo il ritmo originale che andrebbe invece totalmente perduto nella lettura prosastica. Rispetto alla lettura metrica, tuttavia, la traduzione che segue ha il vantaggio di poter evitare quella sensazione di forzatura che si percepisce quando l accento metrico non coincide con quello naturale della parola.

Una certa fortuna tale criterio ebbe anche nelle letterature di lingua inglese (ricordiamo Coleridge e Longfellow), mentre in Italia fu messo in pratica quasi esclusivamente da Pascoli nelle sue traduzioni dei classici latini e greci e, nella sola elegia Nevicata, da Carducci. Proprio sulla scia di Carducci che a parte il caso citato pur riecheggiando atmosfere, tempi e pause della poesia latina prefer, pi liberamente, rinunciare ad un rigido legame con il ritmo delle arsi e delle tesi originarie, privilegiando limpiego di versi italiani tradizionali opportunamente combinati, Ettore Romagnoli realizz le traduzioni dei poemi omerici che tanto successo meritarono specie in ambito scolastico. Non dissimile la tecnica di Ferruccio Bernini, autore fra l altro di una pregevole traduzione integrale delle Metamorfosi in versi italiani che del mito di Orfeo ci offre la versione ovidiana. Ponendo quasi sempre una sillaba tonica all inizio dei suoi versi (costituiti da ottonari e novenari accoppiati) egli ancor pi richiama lo schema dell esametro latino, dal quale tuttavia si discosta per la caratteristica esclusivamente dattilica di tutte le battute o potremmo dire piedi fatto salvo il bisillabo finale. Qui si invece seguito il criterio alla tedesca, pi strettamente rispettoso del ritmo latino, cesure* comprese, prescindendo dall utilizzazione preordinata di versi italiani tradizionali, rinunciando all isosillabismo e impiegando sequenze sia dattiliche sia spondaiche nei primi quattro piedi, dattiliche nel quinto e spondaiche (o trocaiche) nel sesto. Sebbene io non disperi di suscitare qualche interesse tra coloro che, conoscendo la metrica latina, siano curiosi di verificare quanto di essa sia riuscito qui a riprodurre e con quale efficacia , quanto invece abbia dovuto escludere, il ______________________________________________________________
* Pi frequenti per, rispetto al modello latino, quelle del terzo trocheo. Le pentemimere ed eftemimere richiedono infatti l impiego di parole tronche delle quali la lingua italiana, tendenzialmente parossitona, povera.

destinatario primario di questa traduzione non pu essere che il lettore poco o per nulla esperto del latino e della sua metrica ma desideroso di accostarsi ad uno dei pi famosi passi della poesia latina classica attraverso una traduzione nella quale venga trasmesso, in buona misura, anche il ritmo dei versi originali. Per questa ragione ho ritenuto di evidenziare, nel testo italiano, le vocali su cui cade l accento ritmico con il carattere corsivo. Ci non sarebbe per lo pi necessario, dato che tale accento coincide quasi sempre con quello naturale di ciascuna parola polisillaba pronunciata singolarmente; questo accorgimento, tuttavia, potr favorire la corretta lettura ritmica nel caso dei monosillabi e di alcuni bisillabi in particolare gli articoli indeterminativi e le preposizioni articolate che possono invece essere o non essere accentati in relazione alle parole che li precedono e seguono. Sar poi utile nel caso di alcuni nomi composti, cui pu talvolta venire attribuito un doppio accento e dei nomi propri di persona o geografici di origine greca, la cui accentazione* oggetto di discussione tra gli studiosi ma che, in poesia, viene pi spesso lasciata alla libert dell autore, tenendo anche conto di esigenze metriche. Il duplice mito qui narrato quello di Aristeo fa da cornice a quello ancor pi famoso di Orfeo ed Euridice ha inizio con la moria delle api del pastore tessalo, presentata come una grande sciagura. Per meglio intendere il senso di questa valutazione, facciamo precedere, quale premessa al racconto, un altro passo, sempre del quarto libro delle Georgiche, in cui Virgilio esalta le virt della societ delle api.

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* In generale, per nomi propri di grande notoriet, ho utilizzato quella che ritengo pi consolidata nella nostra lingua (es.: Euridce anzich Eurdice). Per quelli meno noti ho preferito, nel dubbio, l accentazione alla latina, pi vicina alla fonia dell opera virgiliana, rispetto a quella alla greca, rispettosa di quella del nome nella sua lingua d origine (perci: Clmene anzich Climne).

Egli sembra, in tale occasione, condividere l opinione di quanti credono che in quei piccoli esseri viva una parte dello spirito divino; essa non muore con i loro corpi ma ciclicamente ritorna ad animare tutti gli esseri viventi. In coerenza con il suo prevalente carattere divulgativo, il volumetto corredato soltanto da elementari note informative al fondo, con richiami al testo italiano. mm.

ELOGIO DELLE API

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Verg. Ge. IV, 197 227 Illum adeo placuisse apibus mirabere morem, quod neque concubitu indulgent, nec corpora segnes in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt; verum ipsae e foliis natos, e suavibus herbis ore legunt, ipsae regem parvosque Quirites sufficiunt, aulasque et cerea regna refingunt. Saepe etiam duris errando in cotibus alas attrivere, ultroque animam sub fasce dedere: tantus amor florum et generandi gloria mellis. ergo ipsas quamvis angusti terminus aevi excipiat (neque enim plus septima ducitur aestas), at genus immortale manet, multosque per annos stat fortuna domus, et avi numerantur avorum. Praeterea regem non sic Aegyptus et ingens Lydia nec populi Parthorum aut Medus Hydaspes observant. Rege incolumi mens omnibus una est; amisso rupere fidem, constructaque mella diripuere ipsae et cratis solvere favorum. Ille operum custos, illum admirantur et omnes circumstant fremitu denso stipantque frequentes, et saepe attollunt umeris et corpora bello obiectant pulcramque petunt per vulnera mortem. His quidam signis atque haec exempla secuti esse apibus partem divinae mentis et haustus aetherios dixere; deum namque ire per omnia, terrasque tractusque maris caelumque profundum; hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum, quemque sibi tenuis nascentem arcessere vitas: scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri omnia, nec morti esse locum, sed viva volare sideris in numerum atque alto succedere caelo.

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Virgilio Georgiche IV, 197 227 Certo ti stupir che le api non fiacchino i loro corpi al servizio di Venere n tra le doglie del parto facciano nascere i figli: da foglie ed erbe soavi loro, da s, con la bocca, li colgono; viene in tal modo dei cittadini e del re garantito il rimpiazzo e non cessa l opera per adeguare il palazzo e il reame di cera. Spesso infrangono l ali, vagando, contro macigni duri e, sotto il fardello, lo spirito esalano, consce: tanto grande l amore dei fiori, la gloria del miele! Breve la vita loro (ne segna la settima estate l ultimo termine) ma la razza continua, immortale; d una famiglia pu numerosi anni il favore della fortuna durare e si contano gli avi degli avi. Non riservano pari riguardo al loro sovrano n dell Egitto n della vasta Lidia le genti, o dell Idaspe o dei Parti: un volere solo li unisce, vivo il re; ma, se muore, si rompe l accordo: del miele fanno razzia, distruggendo dei favi il graticcio. Custode lui delle opere; a lui, venerato, s accalcano attorno tutte in un fremito intenso ed in guerra, sopra le spalle spesso l innalzano ed alle ferite espongono i propri corpi, cercando cos nella mischia una splendida morte. Dissero alcuni, per questi segnali ed esempi, che nelle api un frammento di mente divina vive, un celeste alito; infatti Dio pervade ogni cosa: le terre, gli ampi tratti di mare ed il cielo profondo; da Lui ogni animale, selvaggio o domestico, uomini e armenti, tutti l esile vita nascendo attingono e, quando poi si dissolvono, a Lui di nuovo si rendono: spazio dunque non v per la morte, ma vivi, assieme alle stelle, su, nella parte pi alta del cielo, s innalzano in volo.

IL MITO DI ORFEO E ARISTEO

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Verg. Ge. IV, 317 566 Pastor Aristeus fugiens Peneia Tempe, amissis, ut fama, apibus morboque fameque, tristis ad extremi sacrum caput astitit amnis multa querens, atque hac adfatus voce parentem: 320 Mater Cyrene mater, quae gurgitis huius ima tenes, quid me praeclara stirpe deorum (si modo, quem perhibes, pater est Thymbraeus Apollo) invisum fatis genuisti? Aut quo tibi nostri pulsus amor? Quid me caelum sperare iubebas? 325 En etiam hunc ipsum vitae mortalis honorem, quem mihi vix frugum et pecorum custodia sollers omnia temptanti extruderat, te matre relinquo. Quin age et ipsa manu felicis erue silvas, fer stabulis inimicum ignem atque interfice messis, 330 ure sata et duram in vitis molire bipennem, tanta meae si te ceperunt taedia laudis. At mater sonitum thalamo sub fluminis alti sensit. Eam circum Milesia vellera Nymphae carpebant hyali saturo fucata colore, 335 Drymoque Xanthoque Ligeaque Phyllodoceque, caesariem effusae nitidam per candida colla, [Nesaee Spioque Thaliaque Cymodoceque] [338] Cydippe et flava Lycorias, altera virgo, altera tum primos Lucinae experta labores, 340 Clioque et Beroe soror, Oceanitides ambae, ambae auro, pictis incinctae pellibus ambae, atque Ephyre atque Opis et Asia Deiopea et tandem positis velox Arethusa sagittis. Inter quas curam Clymene narrabat inanem 345 Volcani, Martisque dolos et dulcia furta, atque Chao densos divum numerabat amores. carmine quo captae dum fusis mollia pensa

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Virgilio Georgiche IV, 317 566 Dalla penea Tempe fuggendo, il pastore Aristeo come noto, perdute per fame e per morbo le api giunse alla sacra sorgente del fiume; fermatosi, triste, molto si lamentava e cos si rivolse alla madre: Madre Cirene, che gi nel profondo dimori di questo gorgo, perch da illustre divina stirpe se, come tu sostieni, Apollo Timbreo m padre mi hai fatto nascere inviso ai fati? Dov finito l amore tuo per me? Perch mi facevi sperare nel cielo? Madre tu mi sei, ma il premio stesso io perdo della mortale mia vita, con sforzo ottenuto tentando ogni via nella cura solerte di campi ed armenti. Sradica allora, su, con le stesse tue mani, le selve floride, porta il fuoco nemico alle stalle, distruggi messi, brucia raccolti e con l ascia bipenne le viti stronca, se un tale fastidio la fama mia ti procura. Ma, nel talamo, gi nel profondo del fiume, la madre come un rimbombo ud. Milesie lane, di intenso vitreo colore intrise, le ninfe filavano, a lei tutt attorno disposte; tra loro v erano Drimo, Xanto, Ligea, Fillodoce, le chiome lucenti sui colli candidi sciolte Cidippe e la bionda Licoride, l una vergine e l altra esperta del primo parto da poco; Clio e Beroe vi sono, sorelle, d Oceano entrambe figlie ed entrambe d oro e di pelli dipinte fasciate, Efire ed Opi; v Deiopea, dell Asia nativa e la veloce Aretusa, deposte alfine le frecce. Climene, in mezzo a loro, va di Vulcano narrando le precauzioni vane, gli inganni di Marte ed i suoi dolci furti; dal tempo del Caos, gli amori frequenti degli dei, elencava. Filavano, prese dal canto,

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devolvunt, iterum maternas impulit auris luctus Aristei, vitreisque sedilibus omnes obstipuere; sed ante alias Arethusa sorores prospiciens summa flavum caput extulit unda, et procul: o gemitu non frustra exterrita tanto, Cyrene soror, ipse tibi, tua maxima cura, tristis Aristaeus Penei genitoris ad undam stat lacrimans, et te crudelem nomine dicit. Huic percussa nova mentem formidine mater duc, age, duc ad nos; fas illi limina divum tangere ait. Simul alta iubet discedere late flumina, qua iuvenis gressus inferret. At illum curvata in montis faciem circumstetit unda accepitque sinu vasto misitque sub amnem. Iamque domum mirans genetricis et umida regna speluncisque lacus clausos lucosque sonantis ibat et ingenti motu stupefactus aquarum omnia sub magna labentia flumina terra spectabat diversa locis, Phasimque Lycumque, et caput unde altus primum se erumpit Enipeus, unde pater Tiberinus et unde Aniena fluenta saxosusque sonans Hypanis Mysusque Caicus et gemina auratus taurini cornua vultu Eridanus, quo non alius per pinguia culta In mare purpureum violentior effluit amnis. Postquam est in thalami pendentia pumice tecta perventum et nati fletus cognovit inanis Cyrene, manibus liquidos dant ordine fontis germanae, tonsisque ferunt mantelia villis; pars epulis onerant mensas et plena reponunt pocula, Panchaeis adolescunt ignibus arae. Et mater cape Maeonii carchesia Bacchi; Oceano libemus ait. Simul ipsa precatur Oceanumque patrem rerum Nymphasque sorores, centum quae silvas, centum quae flumina servant.

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morbide lane quando, piangendo, Aristeo della madre scosse di nuovo l udito e sui vitrei sedili stupite tutte rimasero. Prima dell altre sorelle, sporgendo fuori dall acqua il biondo suo capo, Aretusa: O sorella disse di l Cirene, temevi a ragione per questo forte pianto: Aristeo, proprio lui, l affetto pi grande tuo, se ne sta presso l onda del padre Peneo, sconsolato: te tra le lacrime invoca e per nome crudele ti chiama. Nuova apprensione assale la madre nell animo e a lei: Su, conducilo a me; degli dei varcare la soglia dice A lui permesso e comanda all acque profonde che si ritraggano, in modo che il giovane possa inoltrarsi. L onda, inarcatasi attorno a lui a mo di montagna, l ampio suo seno gli apr; lo introdusse al di sotto del fiume. Gi della madre, andando, la casa ammirava e i reami umidi, i laghi in grotte racchiusi, i boschi fruscianti. Fu dall enorme moto dell acque stupito e guardava tutti i fiumi sotto la grande terra fluire in direzioni diverse ed il Fasi, il Lico e la prima fonte da cui erompe il profondo Enipeo, quelle donde il Tevere, donde l Aniene sgorgano e ancora l Ipani, che di sassi risuona e il Caico di Misia e l Eridano d oro le corna e il volto di toro . Altro fiume non v che di lui pi impetuoso attraverso fertili campi scorra, nel mare purpureo sfociando. Giunto del talamo sotto le volte di pomice, il vano pianto del figlio Cirene conosce e gi le sorelle limpide acque dapprima gli versano sopra le mani, poi gli porgono panni di pelo rasato. Di cibi riempiono, alcune, le mense e di coppe ricolme; bruciare altre fanno essenze panchee che profumano l are. Quindi la madre: Prendi la coppa di Bacco meonio dice Ad Oceano, su, libiamo ed invoca lei stessa d ogni cosa il padre, Oceano; poi le sorelle ninfe: le cento custodi dei boschi, le cento dei fiumi.

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Ter liquido ardentem perfundit nectare Vestam, ter flamma ad summum tecti subiecta reluxit. Omine quo firmans animum sic incipit ipsa: Est in Carpathio Neptuni gurgite vates Caeruleus Proteus, magnum qui piscibus aequor et iuncto bipedum curru metitur equorum. Hic nunc Emathiae portus patriamque revisit Pallenen; hunc et Nymphae veneramur et ipse grandaevus Nereus: novit namque omnia vates, quae sint, quae fuerint, quae mox ventura trahantur; quippe ita Neptuno visum est, immania cuius armenta et turpis pascit sub gurgite phocas. Hic tibi, nate, prius vinclis capiundus, ut omnem expediat morbi causam eventusque secundet. Nam sine vi non ulla dabit praecepta, neque illum orando flectes; vim duram et vincula capto tende; doli circum haec demum frangentur inanes. Ipsa ego te, medios cum sol accenderit aestus, cum sitiunt herbae et pecori iam gratior umbra est, in secreta senis ducam, quo fessus ab undis se recepit, facile ut somno adgrediare iacentem. Verum ubi correptum manibus vinclisque tenebis, tum variae eludent species atque ora ferarum. Fiet enim subito sus horridus atraque tigris squamosusque draco et fulva cervice leaena, aut acrem flammae sonitum dabit atque ita vinclis excidet, aut in aquas tenuis dilapsus abibit. Sed quanto ille magis formas se vertet in omnis tam tu, nate, magis contende tenacia vincla, donec talis erit mutato corpore qualem videris incepto tegeret cum lumina somno. Haec ait et liquidum ambrosiae defundit odorem, Quo totum nati corpus perduxit; at illi dulcis compositis spiravit crinibus aura

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atque habilis membris venit vigor. Est specus ingens

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Il focolare asperse tre volte di nettare puro e, per tre volte, la fiamma rifulse al sommo del tetto. Resa sicura da questo presagio, cos cominciava: V di Nettuno nell acque di Scarpanto un vate, l azzurro Proteo, che il vasto mare percorre; lo scortano pesci e da cavalli bipedi va trainato il suo carro. Sta ritornando a vedere d Emazia i porti e la patria sua Pallene; noi ninfe e il vegliardo Nero stesso lo veneriamo; tutto conosce quel vate: il presente come il passato e ci che presto avverr; decisione fu di Nettuno, del quale gli immani armenti e le turpi foche fa pascolare laggi, nel fondo del mare. Prima, figlio, dovrai catturarlo e legarlo; v solo questo modo per fargli svelare la causa del morbo e propiziarne la fine, poich spontanei consigli lui non dar, n preghiera potr piegarlo, ma dura forza e lacci; vane saranno, cos, le sue astuzie. Quando il sole acceso avr l ardente meriggio, l erbe assetate, il bestiame bramoso d ombra io stessa ti condurr dove, stanco dell onde, il vecchio si apparta; tu, cos, facilmente potrai assalirlo nel sonno. Mentre lo stringerai con le mani e con lacci, in svariate forme ingannevoli e aspetti di belve sapr tramutarsi. E diverr d improvviso cinghiale irsuto, crudele tigre, squamoso drago, leonessa dal collo rossiccio; poi, crepitante fiamma, vorr liberarsi dai lacci o fuggire via, dissolvendosi in limpide acque. Pi, tuttavia, si andr tramutando in tutte le forme, tanto pi, figliolo, tenaci vincoli stringi fino a che ritorni, mutato il suo corpo, tale quale lo avevi visto, con gli occhi chiusi nel sonno. Disse e una liquida essenza d ambrosia vers, con la quale tutto il corpo del figlio cosparse: a lui dai capelli dolce un aura eman; nelle membra gli nacque un vigore agile. V nel fianco d un monte eroso un enorme

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exesi latere in montis, quo plurima vento cogitur inque sinus scindit sese unda reductos, deprensis olim statio tutissima nautis; intus se vasti Proteus tegit obice saxi. His iuvenem in latebris aversum a lumine Nympha conlocat, ipsa procul nebulis obscura resistit. Iam rapidus torrens sitientis Sirius Indos ardebat caelo et medium sol igneus orbem hauserat, ardebant herbae et cava flumina siccis faucibus ad limum radii tepefacta coquebant, cum Proteus consueta petens e fluctibus antra ibat; eum vasti circum gens umida ponti exsultans rorem late dispergit amarum. Sternunt se somno diversae in litore phocae; ipse, velut stabuli custos in montibus olim, Vesper ubi e pastu vitulos ad tecta reducit auditisque lupos acuunt balatibus agni, consedit scopulo medius, numerumque recenset. cuius Aristaeo quoniam est oblata facultas, vix defessa senem passus componere membra cum clamore ruit magno, manicisque iacentem occupat. Ille suae contra non immemor artis omnia transformat sese in miracula rerum, ignemque horribilemque feram fluviumque liquentem. Verum ubi nulla fugam reperit fallacia, victus In sese redit atque hominis tandem ore locutus Nam quis te, iuvenum confidentissime, nostras Iussit adire domos? Quidve hinc petis? inquit, at ille: scis, Proteu, scis ipse, neque est te fallere quicquam: sed tu desine velle. Deum praecepta secuti venimus hinc lassis quesitum oracula rebus. Tantum effatus. Ad haec vates vi denique multa ardentis oculos intorsit lumine glauco, et graviter frendens sic fatis ora resolvit: Non te nullius exercent numinis irae;

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grotta in cui l onde, sospinte dal vento, s accalcano, in varie piccole baie poi dividendosi gi ben protetto scalo di marinai da tempeste sorpresi, in passato . Proteo l si rifugia, d un grande masso al riparo. Contro luce il giovane in quel nascondiglio dispone e, da nebbia occultata, discosta si tiene la ninfa. Gi nel cielo Sirio, che scalda gl indiani assetati, torrido, ardeva; il sole di fuoco, a met del suo corso, aride l erbe rendeva, fangosi i letti dei fiumi, secche le loro foci coi caldi suoi raggi; quand ecco, fuori dai flutti, Proteo si reca alle solite grotte; va saltellandogli attorno del vasto mare la stirpe umida, amara rugiada per ampio spazio spargendo. Cedono al sonno le foche, distese qua e l per la spiaggia; lui, come gi mandriano che dopo il pascolo, a sera, guida i vitelli alle stalle gli agnelli intanto, belando, fanno eccitare i lupi fra loro nel mezzo, seduto sopra uno scoglio, tutte le passa in rassegna e le conta. Non appena si offr l occasione, quasi Aristeo tempo non diede al vecchio di stendere a terra le stanche membra: con grande clamore l assale e lo blocca con lacci mentre ancora giace; lui, tuttavia, nelle sue arti fidando, le forme pi strane assume e di fuoco, prende e di fiera orrenda e di fiume fluente l aspetto. Poi, falliti gli inganni e tornato, vinto, in se stesso, disse infine cos, con voce d uomo parlando: Chi, temerario giovane, qui t ordin di venire, nelle dimore mie? Che mai vai cercando? ma l altro: Proteo, da te lo sai; l inganno non giova; desisti. Noi, nell avversa fortuna, seguendo precetti divini, siamo venuti qui per chiedere oracoli. Solo questo disse. Poi l indovino, a forza, gli ardenti occhi di luce glauca rivolse a lui digrignando forte i denti e la bocca dischiuse al racconto dei fati: L ira di qualche dio ti perseguita; gravi misfatti

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magna luis commissa: tibi has miserabilis Orpheus haudquaquam ob meritum poenas, ni fata resistant, suscitat, et rapta graviter pro coniuge saevit. Illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps, immanem ante pedes hydrum moritura puella servantem ripas alta non vidit in herba. At chorus aequalis Dryadum clamore supremos implevit montis; flerunt Rodopeiae arces altaque Pangea et Rhesi Mavortia tellus atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia. Ipse cava solans aegrum testudine amorem te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, te veniente die, te decedente canebat. Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis, et caligantem nigra formidine lucum ingressus, Manisque adiit regemque tremendum nesciaque humanis precibus mansuescere corda. At cantu commotae Erebi de sedibus imis umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum, quam multa in foliis avium se milia condunt, Vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber, matres atque viri defunctaque corpora vita magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae, impositique rogis iuvenes ante ora parentum, quos circum limus niger et deformis harundo Cocyti tardaque palus inamabilis unda alligat et novies Styx interfusa coercet. Quin ipsae stupuere domus atque intima Leti Tartara ceruleosque implexae crinibus anguis Eumedines, tenuitque inhians tria Cerberus ora, atque Ixionii vento rota constitit orbis. Iamque pedem referens casus evaserat omnis, redditaque Eurydice superas veniebat ad auras pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem), cum subita incautum dementia cepit amantem,

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ora tu paghi: Orfeo, sventurato senza sua colpa, queste pene ti causa finch non si oppongano i fati reso folle da quando la sposa gli venne sottratta. Lei, che da te a precipizio, seguendo il fiume, fuggiva, prossima ormai alla morte non vide infatti un enorme serpe nell erba alta, dinnanzi ai suoi piedi in agguato. Giunsero fino alle cime dei monti allora dell altre Driadi amiche le grida; le vette del Rodope e l alto monte Pangeo cos ne piansero e pure la terra marzia di Reso e i Geti con l Ebro e l attica Orizia. Sulla testuggine cava lui, per lenire il dolore, lungo il lido deserto cantava te, la sua dolce sposa, te sul fare del giorno, te col tramonto. Oltre le bocche tenarie, profondo ingresso di Dite, quindi nel bosco oscurato da tenebre orrende si spinse; poi raggiunse i Mani, il re tremendo ed i cuori che impietosirsi non sanno d umane preghiere all ascolto. Ma, da quel canto attratte, venivano fin dagli estremi siti dell Erebo l ombre leggere e i fantasmi di quanti hanno perduto la luce; cos numerosi gli uccelli dietro le foglie a sera si celano o quando, d inverno, dalle montagne li scaccia la pioggia: v erano madri, uomini e corpi privi di vita d eroi generosi; bimbi, fanciulle illibate, ragazzi che furono posti dai genitori sui roghi: lo scuro limo li lega tutti quanti e l orrendo canneto e la triste palude mentre lo Stige, lento, con nove cerchi li chiude. Sono ammaliate le stesse profonde dimore del Lete e pure le Eumenidi, che di cerulei serpenti i capelli hanno intrecciati. Trattiene le triplici fauci dischiuse Cerbero e il vento la ruota d Issione pi non sospinge. Tutti gli ostacoli gi superati, durante il ritorno, la restituita Euridice veniva oramai alla luce, dietro salendo (cos Proserpina aveva prescritto), quando l incauto amante da un folle impulso fu colto,

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ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes: restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa 490 immemor heu! victusque animi respexit. Ibi omnis, effusus labor atque immitis rupta tyranni foedera, terque fragor stagnis auditus Avernis. Illa Quis et me inquit Miseram et te perdidit, Orpheu, quis tantus furor? En iterum crudelia retro 495 fata vocant, conditque natantia lumina somnus. Iamque vale: feror ingenti circumdata nocte invalidasque tibi tendens, heu non tua, palmas. Dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras commixtus tenuis, fugit diversa, neque illum 500 prensantem nequiquam umbras et multa volentem dicere praeterea vidit; nec portitor Orci amplius obiectam passus transire paludem. Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret? Quo fletu Manis, quae numina voce moveret? 505 Illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba. Septem illum totos perhibent ex ordine mensis rupe sub aria deserti ad Strymonis undam flesse sibi, et gelidis haec evolvisse sub antris mulcentem tigris et agentem carmine quercus: 510 qualis populea maerens philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus arator observans nido implumis detraxit; at illa flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen integrat, et maestis late loca questibus implet. 515 Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei: solus Hyperboreas glacies Tanaimque nivalem arvaque Riphaeis numquam viduata pruinis lustrabat, raptam Eurydicen atque inrita Ditis dona querens. Spretae Ciconum quo munere matres 520 inter sacra deum nocturnique orgia Bacchi discerptum latos iuvenem sparsere per agros. Tum quoque marmorea caput a cervice revulsum

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certo scusabile, se scusare sapessero i Mani: solo un istante ristette, volgendo lo sguardo a Euridice, ahi, dimentico e vinto: la sua fatica a quel punto tutta fu vana e i patti di quello spietato signore rotti; tre volte echeggi sugli stagni d Averno un fragore. Quale enorme follia lei disse allora Ha potuto perderci entrambi, Orfeo? Di nuovo il fato, crudele, ecco, mi chiama ed il sonno richiude gli occhi miei spenti. Ora addio! Mi circonda e trascina una notte profonda mentre a te, non pi tua, le palme invano protendo. Disse e in breve spar dalla vista, simile a fumo che per un lieve alitare di vento svanisce e non oltre vide lui che abbracciava le ombre invano e molt altro dire voleva; n permise il nocchiero dell Orco che l interposta palude venisse di nuovo varcata. Cosa fare mai? due volte la sposa sottratta dove andare? I Mani commuovere? O quali fra i numi? Fredda ormai sulla barca di Stige lei navigava. Sette lunghi mesi si dice che sotto un eccelsa rupe lo Strimone, l di fronte, deserto scorreva lui ripetesse, piangendo, quei fatti in gelide grotte. Rese mansuete le tigri col canto e mosse le querce: quale dolente usignolo lamenta, all ombra di un pioppo, come il duro aratore, scovati gli implumi suoi figli, via li portasse dal nido; di notte, posato su un ramo, un miserevole canto ripete e di mesti lamenti riempie tutt intorno per ampia distanza quei luoghi. Non un amore pi, non talami; lui percorreva, solo, iperborei ghiacci ed il Tanai, come la neve gelido e i campi Rifei, mai privi di brina, Euridice sempre e i vani doni di Dite sottratti invocando. Lo sbranarono e i resti del giovane sparsero in vasti campi le Ciconi donne respinte da lui che fedele volle restare durante le orge notturne di Bacco. Anche quando la testa, dal collo marmoreo strappata,

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gurgite cum medio portans Oeagrius Hebrus volveret, Eurydicen vox ipsa et frigida lingua, a! miseram Eurydicen anima fugiente vocabat: Eurydicen toto referebant flumine ripae. Haec Proteus, et se iactu dedit aequor in altum, quaque dedit, spumantem undam sub vertice torsit. At non Cyrene, namque ultro adfata timentem: nate, licet tristis animo deponere curas. Haec omnis morbi causa, hinc miserabile Nymphae, cum quibus illa choros lucis agitabat in altis, exitium misere apibus, tu munera supplex tende petens pacem, et facilis venerare Napeas; namque dabunt veniam votis, irasque remittent. Sed modus orandi qui sit prius ordine dicam: quattuor eximios praestanti corpore tauros, qui tibi nunc viridis depascunt summa Lycaei, delige, et intacta totidem cervice iuvencas. quattuor his aras alta ad delubra dearum constitue, et sacrum iugulis demitte cruorem, corporaque ipsa boum frondoso desere luco. Post, ubi nona suos Aurora ostenderit ortus, inferias Orphei Lethaea papavera mittes et nigram mactabis ovem, lucumque revises; placatam Eurydicen vitula venerabere caesa. Haud mora, continuo matris praecepta facessit: ad delubra venit, monstratas excitat aras, quattuor eximios praestanti corpore tauros ducit et intacta totidem cervice iuvencas. Post, ubi nona suos Aurora induxerit ortus, inferias Orphei mittit, lucumque revisit. Hic vero subitum ac dictu mirabile monstrum aspiciunt, liquefacta boum per viscera toto stridere apes utero et ruptis effervere costis, immensasque trahi nubes, iamque arbore summa confluere et lentis uvam demittere ramis.

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l Ebro d Eagro faceva tra i gorghi ruotare oramai fredda la lingua Euridice! da sola invocava la voce sua, Sventurata Euridice!. Fuggiva la vita e le rive lungo l intera corrente rendevano l eco: Euridice!. Questo disse Proteo e gi si tuff nel profondo mare, facendo in un gorgo di schiuma torcere l onda. Non Cirene per, che cos dissipava i timori: Figlio, dai tristi affanni puoi liberare la mente. Ecco la causa del morbo; per questo le ninfe, con cui ella nel folto dei boschi danzava, quel male esiziale contro le api lanciarono; tu, supplicando, la pace chiedi, offrendo dei doni, poich le indulgenti Napee non negheranno il perdono e faranno l ira acquietare. Ma in qual modo pregare, con ordine, prima ti dico: scegli quattro tori dai corpi prestanti tra quelli che sulle cime del verde Liceo pascolare tu fai ed altrettante giovenche dal collo ancora non domo. Quattro altari prepara lass, delle dee nei santuari; scorrere il sangue rituale fai dalle gole dei buoi, quindi abbandonane i corpi nel folto d un bosco frondoso. Nove volte mostratasi, al suo risveglio, l aurora, offri funebre omaggio letei papaveri a Orfeo, quindi una pecora nera sacrifica; torna nel bosco, rendi onore a Euridice, placata, con una giovenca. Non un indugio; i precetti materni subito esegue: va nei santuari e gli altari prescritti subito innalza, quattro eccellenti tori dai corpi prestanti conduce ed altrettante giovenche dal collo ancora non domo. Nove volte mostratasi, al suo risveglio, l aurora, reso ad Orfeo l omaggio dei morti, ritorna nel bosco. Un improvviso prodigio, mirabile, loro si mostra: dalle viscere sfatte, per tutto il ventre dei buoi, d api si leva un ronzio; ribollono fuori dai rotti fianchi, in nubi enormi s addensano e, a un albero in cima, fanno col grappolo loro piegare i cedevoli rami.

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Haec super arvorum cultu pecorumque canebam et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum fulminat Euphraten bello victorque volentis per populos dat iura viamque adfectat Olympo. Illo Vergilium me tempore dulcis alebat Parthenope studiis florentem ignobilis oti, carmina qui lusi pastorum audaxque iuventa, Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi.

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Mentre ci sulla cura dei campi, degli animali e degli alberi andavo cantando, folgora il grande Cesare in guerra l Eufrate profondo e d, vittorioso, leggi alle genti concordi, schiudendo la via dell Olimpo. Me, Virgilio, la dolce Partenope allora nutriva, dedito ad opere prive di gloria; mi dilettai di pastorali carmi e cos, da giovane audace, Titiro, te cantai, d un ampio faggio al riparo.

NOTE

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Virgilio. Considerato nei secoli il massimo poeta latino, visse tra il 70 e il 19 a.C. godendo della protezione dell influente Mecenate e dello stesso imperatore Augusto. La sua fama in gran parte legata all Eneide, poema epico in dieci libri che non ebbe tempo di rifinire completamente; in esso viene esaltata la figura dell eroe troiano Enea e dei suoi discendenti, fondatori di Roma, ultimo dei quali lo stesso Ottaviano Augusto. Notevole anche la fama delle dieci Bucoliche, opera giovanile di ambientazione pastorale, e soprattutto delle Georgiche. Georgiche. Opera in quattro libri in versi esametri dedicata a Mecenate; appartiene al genere didascalico e tratta della coltivazione dei campi e degli alberi, dell allevamento del bestiame e dell apicoltura. Le Georgiche sono da molti studiosi considerate il capolavoro di Virgilio, l opera pi congeniale a lui, amante della natura e della pace. Il brano qui riportato tratto dal quarto libro, riguardante l apicoltura e pu costituire una opportuna premessa al racconto del mito di Orfeo e di Aristeo, che inizia proprio con un riferimento alla disperazione di Aristeo per la perdita delle sue api. 197 ti stupir. Virgilio si rivolge a Mecenate. 198 servizio di Venere. Nata dalla spuma del mare presso Cipro, Venere (Afrodite), moglie di Vulcano (Efesto), amante di Marte (Ares) e di Adone, era la dea della bellezza e dell amore. Per Virgilio le api sarebbero assolutamente caste, non generate attraverso la riproduzione sessuale. Questa virt si aggiunge a quelle della laboriosit, della fedelt al loro capo (un re si noti e non, come oggi sappiamo, una regina), e dello spirito di gruppo; tutte doti che Augusto, impegnato in una dura politica moralizzatrice della societ romana, certamente avrebbe apprezzato. 210 212. Vengono elencati esempi di popolazioni soggette a monarchie assolute, presso le quali i sovrani avevano connotazioni quasi divine. 211 Lidia. Regione dell Asia minore. 212 Idaspe. Fiume dell India. 212 Parti. Storici e temibili nemici di Roma di origine iranica.

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317 566. Questi versi costituiscono la parte finale del quarto libro e di tutte le Georgiche. In essi si rievoca il mito di Orfeo, a sua volta inserito nel racconto di un altro mito, quello di Aristeo. Il complesso ha

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caratteristiche tali da poter essere apprezzato anche in s, avulso dal resto del libro. 317 penea Tempe. La valle di Tempe, in Tessaglia, attraversata dal fiume Peneo, il cui nume Peneo, padre di Cirene. 317 Aristeo. Figlio di Apollo e della ninfa Cirene, pastore in Tessaglia, insegn agli uomini l agricoltura e la produzione del miele; rappresenta la figura dell uomo concreto, in quanto agricoltore e perch pronto a conformarsi alla volont degli dei (pius, in latino), anche per espiare le proprie colpe. Costituisce l antitesi di Orfeo, geniale e sfortunato poeta e cantore, capace di incantare con la sua arte persino gli dei infernali ma sconfitto infine per non aver saputo rispettare le condizioni del patto con loro contratto per ottenere il ritorno alla vita della sua amata sposa Euridice. 321 Cirene. Madre di Aristeo, avuto dal dio Apollo, una ninfa, una delle divinit minori legate al culto dei fiumi (Naiadi), delle acque marine (Nereidi e Oceanine), delle selve (Driadi), delle valli (Napee) ecc. 323 Apollo Timbreo. Apollo il nome greco di Febo. Figlio di Latona (Leto) e di Giove (Zeus); fratello di Diana (Artemide), il dio della musica, della poesia, della medicina e della divinazione. Molti gli apellativi attribuitigli a seconda dei luoghi in cui fiorirono particolari culti e sorsero templi a lui dedicati. Qui si fa riferimento alla valle di Timbra, nella Troade. 334 Milesie lane. Lane provenienti da Mileto, di qualit pregiata. 336 345 Drimo, Xanto, Ligea, Fillodoce, Cidippe, Licoride, Clio, Beroe, E-fire, Opi, Deiopea, Aretusa, Climene. Tutte ninfe, la pi nota delle quali Aretusa ( vedi 344). 338. Nel testo latino questo verso per lo pi considerato un arbitrario inserimento, del quale non tener conto. 340 Oceano. Uno dei titani; divinit primordiale, figlio di Urano e di Gea, prolifico padre di migliaia di ninfe Oceanine e di fiumi. Da lui si riteneva avessero origine moltissime cose. 343 Asia. Provincia romana nell attuale Asia Minore. 344 Aretusa. Divenuta fonte in Sicilia per sfuggire Alfeo (figlio di Oceano) fu da lui, trasformatosi in fiume sotterraneo, egualmente raggiunta. Il riferimento alla sua velocit e alle frecce deposte dovuto al fatto di essere stata, in precedenza, al seguito della dea cacciatrice Diana

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(Artemide). 346 Vulcano, Marte. Vulcano (Efesto), era figlio di Giove (Zeus) e di Giunone (Era); dio del fuoco, zoppo, nella sua officina sotto l Etna, coadiuvato dai Ciclopi (mostruosi giganti con un solo occhio), produceva mirabili opere di artigianato del ferro. La moglie Venere lo trad con Marte (Ares), dio della guerra, che seppe vanificare le sue precauzioni. 346 Caos. L entit spaziale primordiale, all inizio di tutte le cose.

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355 padre Peneo. Nel senso di progenitore in linea diretta di Cirene o in generale di molte ninfe. 367 Fasi, Lico. Fiumi della Colchide, regione oltre il Caucaso. 368 Enipeo. Fiume della Tesssaglia. 370 Ipani. Fiume della Scizia, regione a nord del Mar Nero. 370 Caico di Misia. La Misia era una regione ai confini dell Asia Minore. 371 Eridano. Nome greco del Po. 371 d oro le corna. Riferimento all aspetto con cui la divinit del fiume si manifest ai fondatori della citt di Torino (Augusta Taurinorum, in latino) secondo una delle numerose leggende ad essa collegate. 373 purpureo. Il Po anche pi che in proporzione alla sua portata particolarmente attivo nel trasporto di materiali verso la foce, ove si caratterizza per una colorazione intensa. 379 essenze panchee. Provenienti da Pancaia, isola favolosa del Mare Eritreo (Mar Rosso), ricca d incenso, mirra e metalli pregiati. 379 are. Altari, ma anche focolari domestici. 382 d ogni cosa il padre. Vedi 340. 380 Bacco meonio. Bacco (Dioniso), dio del vino e del benessere, qui accostato alla Meonia (Lidia, provincia dell Asia Minore), produttrice di celebri vini.

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384 asperse di nettare. Il nettare la bevanda degli dei. Versare una bevanda pregiata sul fuoco sacrificale pu determinare anche un presagio positivo o negativo, a seconda che la fiamma si ravvivi ed innalzi o meno. 387 di Nettuno nell acque. Nelle acque del mare. Nettuno (Poseidone) era il dio del mare, fratello di Giove, marito di Anfitrite, padre di Tritone; dominava le forze dell oceano e di tutti i mari e veniva raffigurato armato di un tridente. Spesso, come in questo caso, sta a significare il mare stesso. 387 di Scarpanto. Isola dell Egeo, fra Creta e Rodi. 388 Proteo. una creatura mirabile (monstrum, in latino), dotata di capacitdivinatorie (vate) e trasformistiche. Virgilio lo definisce azzurro (caeruleus, in latino) e dagli occhi glauchi, tipici colori marini, come gi quelli dei sedili del talamo di Cirene e delle lane filate dalle ninfe. 389 cavalli bipedi. Secondo l iconografia mitologica erano simili a cavalli nella parte anteriore mentre assomigliavano a grandi pesci in quella posteriore. 390 Emazia. Macedonia o Tessaglia. 391 Pallene. A sud della Macedonia. 391 lo stesso Nereo. Altra divinit marina, dalle caratteristiche del tutto simili a quelle di Proteo, rappresentato assai vecchio. Ebbe da Doride numerose figlie, le ninfe Nereidi. 415 ambrosia. Cibo degli dei, come il nettare ne era la bevanda; valeva a conservare loro l immortalit.

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453 L ira di qualche dio. Inizia cos, per bocca di Proteo, la parte relativa al mito di Orfeo, che si conclude con il verso 527. 453 gravi misfatti. Aristeo risulter, secondo la versione virgiliana del mito, colpevole, seppure indirettamente, della morte di Euridice, sposa di Orfeo, provocando cos l ira delle ninfe contro di lui.

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454 Orfeo sventurato. Certamente Il pi celebrato poeta e cantore (aedo) dell antichit, capace di incantare la natura, gli uomini e gli stessi dei (vedi 317). A lui viene ricondotta l origine dei riti orfici e dell orfismo, religione misterica. Della sua discesa agli inferi e della sua fine esistono differenti versioni; quella accolta da Virgilio la pi tragica e ben giustifica l epiteto con il quale viene introdotto il personaggio. 455 finch non si oppongano i fati. Il Fato, o i fati (cio quanto stato predetto dalle Parche) non sono modificabili neppure dagli dei. 458 enorme serpe. Dovrebbe trattarsi di un serpente acquatico velenoso. 461- 462 Rodope Pangeo. Monti della Tracia. 463 terra marzia di Reso. La Tracia la terra in cui nacque Marte e della quale fu re Reso. 463 Geti. Popolo della Tracia. 463 Ebro, fiume della Tracia 463 attica Orizia. Orizia era figlia del re Eretteo di Atene, nell Attica. 464 testuggine cava. Lo strumento musicale (citara, cetra) con cui Orfeo il suo canto aveva come cassa di risonanza il guscio di una testuggine. accompagnava

467 bocche tenarie. Le porte degli inferi erano situate presso il promontorio del Tenaro, nel Peloponneso. 467 Dite. Uno dei vari nomi con i quali veniva indicato il re degli inferi o il suo stesso regno. Pi comunemente: Plutone (Ade). 469 Mani. Le anime dei morti, oggetto di culto familiare, ma anche, come in questo caso, le divinit infernali. 469 il re tremendo. Plutone era considerato inflessibile ma non crudele. 472 Erebo. Altra denominazione del regno dei morti. 480 Stige. Uno dei fiumi che scorrono nel regno sotterraneo dei morti. 481 Lete. Altro fiume infernale; le sue acque davano alle anime dei morti loblio.

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482 Eumenidi. Dette anche Erinni, erano tre spaventose divinit che perseguitavano i colpevoli di gravi delitti di sangue. 484 Cerbero. Mostruoso cane a tre teste posto a guardia dell Ade. 484 Issione. Colpevole di gravi delitti, fu da Giove condannato ad essere legato ad una ruota perennemente in movimento. 486 Euridice. Vedi 453 e 317. 487 Proserpina. (Persefone), figlia di Giove e Cerere (Demetra), fu rapita da Plutone (Ade) e divenne regina degli inferi.

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493 Averno. Altro nome usato per indicare il regno dei morti in generale e una zona di laghi e paludi infernali in particolare. anche il nome di un lago nelle vicinanze di Cuma, presso il quale si apre un accesso all aldil. 506 barca di Stige. L imbarcazione con la quale Caronte traghettava le anime dei morti nell Ade. 508 Strimone. Fiume della Tracia. 517 Tanai. L attuale Don. 518 campi Rifei. Montagne della Scizia, regione a nord del Mar Nero. 521 ciconi donne. Sono le Baccanti (vedi 522) ciconi, una popolazione della Tracia, stanziata alla foce dell Ebro. 522 orge notturne di Bacco. Dette Baccanali; feste notturne in onore del dio, guidate dalle Menadi o Baccanti, sacerdotesse di Bacco (Dioniso), con danze e riti sfrenati, propiziati dall ebbrezza procurata dal vino.

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524 Ebro d Eagro. In quanto Eagro, padre di Orfeo era re della Tracia. 535 Napee. Ninfe delle valli, vedi 321. 539 Liceo. Monte dell Arcadia. 545 letei papaveri. Come il fiume Lete, dotati di potere soporifero. 546 pecora nera. la tipica offerta sacrificale a divinit infernali.

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548 Non un indugio. Aristeo (pius) si conforma puntualmente ai voleri divini. 554 improvviso prodigio. Virgilio intende spiegare l origine rituale di una pratica, la Bugonia, ritenuta idonea a dar vita ad un nuovo sciame di api dalle viscere di un bue putrefatto.

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559 566. Era consuetudine terminare un opera letteraria con una firma e qui Virgilio fa riferimento alla sua attivit di poeta didascalico con le Georgiche appena concluse e pastorale con le giovanili Bucoliche , opere che modestamente definisce senza gloria quale invece spetterebbe alla poesia epica o a quella capace di svelare i grandi misteri della natura, degli astri e della scienza. Sullo sfondo vengono evocate le grandi imprese civili e militari che contemporaneamente vedevano Cesare Augusto schiudere la via dell Olimpo, cio elevarsi al rango degli dei. 561 Eufrate. Il grande fiume al confine del regno dei Parti. Vedi 212. 562 Olimpo. Monte del nord della Grecia, sede degli dei. 563 la dolce Partenope. Partenope il nome pi antico di Napoli, affettuosamente evocata dal poeta. L verr sepolto alla sua morte. 566 Titiro, te cantai riparo. L intero verso conclusivo del quarto libro e delle Georgiche richiama quello iniziale della prima Bucolica.

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pagina Introduzione Elogio delle api Il mito di Orfeo e Aristeo Note 9 13 31 3

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