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MILANO Se domani mattina fosse abrogato interamente larticolo 18, il diritto dei lavoratori ad essere licenziati con una giusta causa o motivazione resterebbe assolutamente inalterato. Questo passaggio, scontato per sindacalisti e avvocati giuslavoristi, forse uno di quelli che emergono meno dallattuale dibattito sul tema. Una precisazione che non scalfisce minimamente limportanza dellarticolo 18 come deterrente e pilastro di civilt cos come lo definisce il segretario della Cgil Susanna Camusso. Ma indubbio che su questo tema ci sia bisogno di maggiore chiarezza precisa Franco Toffoletto, avvocato giuslavorista, socio dello studio Toffoletto, De Luca Tamajo . Innanzitutto, larticolo 18 non la norma che disciplina il diritto dei lavoratori a ricevere un licenziamento con motivazione, come prevedono i principi di diritto europeo. Tale norma unaltra, e precisamente larticolo 3 della legge del 1966, numero 604 che prevede, appunto, che il licenziamento debba essere motivato: con una giusta causa, senza preavviso con effetto immediato, o per giustifi-
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I mesi di stipendio a cui ha diritto, in alternativa al reintegro, il dipendente licenziato senza giusta causa dallazienda che ottiene una sentenza favorevole dal giudice sulla base dellarticolo 18. una forma di indennizzo per evitare il rientro in un ambiente compromesso
Isidoro Trovato
itrovato@corriere.it
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Salvatore Trifir
Caro Direttore, avendo tenuto a battesimo lart. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come tra un momento ricorder, vorrei intervenire per dire ci che non mi risulta sia stato fin qui detto: a conferma che lo stesso, da un lato, non difende ormai il posto fisso e, dallaltro, non rappresenta un impedimento alla flessibilit in uscita. In questi ultimi 40 anni dal 1970, data di entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, ad oggi, i tempi sono profondamente cambiati e anche i giudici (nel senso che non si vive pi quel clima di soccorso rosso che ha caratterizzato la Giustizia di quegli anni, con lo sconvolgimento dell'organizzazione aziendale e peggio). Nessuno dice, infatti, che, ormai da tempo, il dipendente reintegrato non chiede pi di essere forzosamente installato nel posto di lavoro, come accadde tanti anni fa, in occasione della prima causa che si fece in Italia in applicazione dell'art. 18 (con me in difesa e Gino Giugni, padre dello Statuto, in
Chi
Avvocato Salvatore Trifir avvocato dal 1955. Negli Settanta diventa uno specialista del diritto del lavoro e il suo studio un punto di riferimento per il mondo imprenditoriale
attacco). A nulla valsero allora le difese della societ, che sosteneva l'impossibilit giuridica di una reintegrazione fisica nel posto di lavoro sulla base del principio che nemo ad factum cogi potest (nessuno pu essere costretto a fare ci che non vuole), cos come una cantante che non vuol cantare non la si pu costringere con le verghe. Non ci fu niente da fare: il dipendente reintegrato venne accompagnato dai carabinieri in azienda e fu fisicamente installato nel posto di lavoro. Segu da l in avanti una lunga serie di casi simili. D'altra parte era l'epoca in cui i giudici, politicizzati, durante la trattazione di cause relative a pretesi comportamenti antisindacali (art. 28 dello Statuto) non esitavano a rivolgersi ai legali del sindacato, domandando: Dove sono i nostri testi?. Oggi, per, come accennavo, i tempi sono cambiati. Il dipendente, ottenuta la reintegrazione, difficilmente si presenta in azienda. Si limita a chiedere l'equivalente di 15 mensilit di retribuzione in alternativa
alla reintegrazione, come pure previsto dallo stesso art. 18. La stortura della norma, se di ci trattasi, semmai conseguenza del mal funzionamento della giustizia. La norma, infatti, aggiunge a quelle mensilit il pagamento delle retribuzioni non percepite dalla data di licenziamento fino a quella della effettiva reintegrazione e, poich la giustizia va a passo di lumaca (vedi per i rimedi il suggerimento di Trimarchi, su questo stesso giornale del 5 febbraio), il datore di lavoro spesso si vede esposto ad un onere risarcitorio che pu divenire ingente a seconda della durata del processo. Questo non significa, tuttavia, che il dipendente licenziato, per una giusta causa poi dichiarata inesistente, non venga subito allontanato dall'azienda. In questo senso, quindi, un problema di flessibilit in uscita non si pone perch il dipendente, a torto o a ragione, viene subito estromesso. N si pone oggi, come gi detto, un problema per il lavoratore ingiustamente licenziato perch quest'ultimo opta ormai quasi sempre per la
monetizzazione. L'art. 18 , dunque, solo uno spauracchio, ingigantito dalle lunghe discussioni che si sono fatte e che viene agitato, o dall'una o dall'altra parte, pi per una questione di bandiera che di vera sostanza. La norma, a mio avviso, pu sopravvivere senza intaccare, da un lato, la flessibilit in uscita; dall'altro la certezza dei lavoratori circa la tenuta del loro contratto di lavoro: sia a tempo indeterminato che a tempo determinato. Per conciliare le opposte esigenze, sarebbe sufficiente sostituire la reintegrazione forzosa con la reintegrazione per equivalente e ci nella misura gi prevista dallo stesso art. 18 (o altra da concordare), con la sola esclusione del pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e con il solo limite, ovvio, della reintegrazione forzosa per i licenziamenti discriminatori.
Salvatore Trifir
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