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Andrea Vitali

Lombra di Marinetti
(1995)

Indice Introduzione Una Marinetti? Prova generale Chauffeur cercasi Profumo di donne Bersaglio mobile II postino innamorato La prima volta Il paraninfo L'arroseur arros Un'ernia da salotto Intonarumori Lo scommettitore Giallo Il rassista e il suo lacch L'infelice Finis terrae Requiem Una storia esemplare

Introduzione Un'ombra... sul lago


I protagonisti di questi racconti suggestivi, patetici e divertenti insieme, sono il notaio Augusto De Libertis, Cavaliere del Regno, Ausilio Grimaldi, redattore oscuro del "Corriere Volante", Andrea Furetti, solerte dipendente delle Regie Poste, Roberto Brevimani, detto il Dente, e tanti altri sconosciuti "comprimari" dell'esistenza. Sono racconti che ritmati da una narrazione gustosa, sapida come un buon vino di cui non difficile cogliere quel retrogusto amarognolo che ne esalta la fibra, ci conducono attraverso un mondo che poi sempre uguale a se stesso, tra risate e pianti, invettive e clamori, vittorie e inversamenti. Sin qui tutto bene, ma il Futurista Marinetti? Di Filippo Tommaso Marinetti qui s'insegue l'ombra nascosta tra le pieghe di esistenze anonime, che incrociano per caso o per fortuna, per sorte o malasorte il Vate mai domo della Velocit. Andrea Vitali, scrittore di lago, come ama definirsi, di quel lago di Como sulle cui rive vive, ha
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"incontrato" quest'ombra in quella Bellagio, dove Marinetti venne a morire. Le acque del lago ha cullato gli ultimi (tetri?) pensieri del Futurista principe e Vitali ha voluto inseguire quegli istanti definitivi calandosi dentro personaggi che di Marinetti colsero di sfuggita autentici barlumi di esistenza. Lo ha accompagnato, passo passo, verso quel suo ultimo appuntamento proprio l a Bellagio, sulle rive opposte a Bellano, lacustre paese che di Vitali l'umida Betlemme. Di riva in riva sono nati questi racconti, complice quel lago che ne stato l'inconsapevole suggeritore. Ci sono poi i disegni e le tempere di Velasco, anche lui affascinato dalla palandrana nera, dalla bombetta calata di un artista del vivere ormai in forzato disarmo. Niente vitalismo esasperato nei suoi disegni, piuttosto la percezione del sipario che cala, il senso gravido del commiato. In quella mano che stringe un sigaro (l'ultimo?), in quel volto diafano, in quell'idrovolante che sfiora le acque del lago, c' quell'ombra che la protagonista di tutto il libro. Velasco l'ha inseguita, penetrata, anche lui come Andrea Vitali, incantato dal caso che ha voluto la nave di Marinetti approdare per ultimo nel porto lacustre di Bellano.
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"L'ombra di Marinetti", per chi non l'avesse capito, un libro che, nato sulle prode del lago di Como, ha mescolato insieme umori e sensibilit di anime votate a specchiarsi e cercarsi in queste acque. Se questo libro non vi dovesse piacere - pace all'anima sua - sapete dove buttarlo. L'editore

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Una Marinetti?
-Nelle mie vene scorre il sangue di due mondiamava spesso dire l'egiziana Asim a suo nipote. In un certo senso era vero perch, a quello dei Mamelucchi, gli antichi dominatori d'Egitto da cui Asim discendeva, sua nonna aveva avuto l'idea di dare una spruzzatina di sangue francese commettendo, poco prima della battaglia delle Piramidi, un peccatuccio di carne con un sottufficiale dell'armata napoleonica. Il fallo le era valso l'espulsione dalla famiglia: nessuno aveva voluto prestare orecchio a ci che la nonna aveva gridato per difendersi e cio che lei era caduta nella trappola ordita dal francese controvoglia o, meglio, priva di voglia e volont. Il francese infatti, a suo dire, era una sorta di mago in grado di compiere mirabolanti burle con le carte da gioco ma anche di indurre le persone ad atteggiarsi in gesti e movenze secondo la sua volont. Si pu legittimamente supporre che il transalpino avesse qualche primitiva dote di ipnotismo e se ne servisse per i comodi suoi. Nel
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qual caso la nonna di Asim potrebbe, da noi posteri, essere in qualche modo assolta. Tuttavia, all'epoca dei fatti, tali elementi non vennero considerati ed ella si trov, raminga, fuori del cerchio rassicurante della famiglia. Per poco per perch la sorte, benignamente, le offr quasi subito l'occasione di sposare un sudanese e la donna non se la lasci scappare. La figlia del francese vide la luce nel 1804 e, a partire dai sei anni, dimostr quel quarto di sangue paterno dando mostra di capacit di sensitiva: percepiva infatti la presenza di oggetti nascosti e ci fu per lunghi anni motivo di gioco e divertimento. Quando, quattordici anni pi tardi, spos un egiziano di Alessandria che si definiva mercante ma in realt altro non era che una lazzarone che perdeva i suoi giorni nelle taverne del porto, impigliato in miseri inghippi e truffe di bassa lega, costui tent di sfruttare le sue doti, mettendole al servizio degli archeologi che battevano la regione scavando il deserto. Il risultato per non fu consono all'attesa poich la donna era in grado di ritrovare oggetti di cui conosceva la forma per averla vista, mentre nulla poteva contro
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cose, tesori o anticaglie che fossero, sepolte da secoli sotto terra. Da questo gramo matrimonio nacquero tre figli. Due maschi, che abbandonarono ben presto lo sciagurato genitore, e, nel 1840, Asim, che invece la sorte destin all'assistenza del padre sino alla morte avvenuta nel 1858 in causa di una leishmaniosi viscerale, altrimenti detta kala azar. Distratta dalle assidue cure che il genitore aveva richiesto, Asim arriv sino a diciotto anni senza interrogarsi su quale fosse lo scopo della sua vita. L'interrogativo si risolse quasi subito, pochi giorni dopo il funerale del vecchio, quando la giovane incontr al mercato una donna gravida: Asim percep nelle sue viscere una scossa ed ebbe nettamente la sensazione di vedere nel grembo di quella futura madre. Vide, cio, che il nascituro sarebbe stato maschio, lo disse alla donna la quale, sei mesi dopo, le conferm la giustezza della sua previsione. A partire da allora si diffuse per Alessandria la fama di Asim che, antesignana delle moderne ecografie, diagnosticava il sesso dei nascituri: dote tutt'altro che trascurabile perch cos molte
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famiglie, e soprattutto nobili, combinavano sicuri matrimoni quando gli eredi non erano che pochi centimetri, vincendo spesso concorrenti gelosi e al riparo da brutte sorprese al momento del parto. Asim infatti non sbagliava mai e, nel 1876, aveva collezionato qualcosa come pi di trecento previsioni di sesso senza mai aver commesso un solo errore. Poich abitava alla periferia di Alessandria, la sua fama era solida ed un suo nipote era al servizio in casa Marinetti, la signora Amalia Marinetti, da due mesi ormai senza regole, volle togliersi il gusto di consultarla. Davanti a lei la sensitiva dal sangue un po' africano e un po' europeo ebbe la solita aura di sintomi che precedeva la diagnosi: le budella fremettero, nel capo le si inser una sorta di vertigine, le palme delle mani sudarono. Sul pi bello per, quando mosse le labbra per svelare il mistero, la signora Marinetti la ferm. Disse che non voleva pi sapere. Asim tacque sconcertata e solo pi tardi, al nipote, confid la sua diagnosi. Femmina - disse. Una Marinetti allora - comment il nipote.
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Zia Asim accenn di s col capo. Sette mesi pi tardi, il 22 dicembre 1876, nasceva Filippo Tommaso Marinetti. Il nipote non si capacit di come zia Asim avesse potuto sbagliare. La zia, sconvolta, riflett lungamente sull'accaduto. - Era femmina - disse infine. - Ti dico che maschio zia. L'ho visto io conferm il nipote non meno sconcertato. Sul volto della donna allora cal un'ombra. - Per me - disse cupamente - forse segno che il dono di prevedere si esaurito. Ma ti dico che quel bambino era femmina quando l'ho visto io. Ora in lui vivono due anime, l'aurora incantevole e il tramonto di fuoco. Parler con la lingua di voi uomini e soffrir col cuore di noi donne. E' tutto quello che ho da dire. E adesso vattene - concluse spargi la voce che il mio dono svanito. D'ora in avanti non voglio pi gravide alla mia porta. -

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Prova generale
Nell'aria c'era sapore di nebbia. Il Cavaliere del Regno, Notaio Augusto De Libertis, uscendo dal suo ufficio, lo assapor come se fosse il profumo di una pietanza. Sul portone dello studio guard piazza della Scala e via Manzoni, velate, come in un souffl, dalla caliggine del crepuscolo e il suo appetito crebbe. Si rattrapp nel cappotto, quindi si avvi verso casa a passi rapidi e brevi, da brachitipo qual era e schioccando singolarmente la lingua poich aveva fame. Essendo in tale condizione, il suo cervello, lasciate in ufficio le cure degli affari, era tutto concentrato sul cibo che l'attendeva la cui previsione stuzzicava i succhi gastrici del suo stomaco e la sua fantasia di gourmet. Era gioved, e gioved, nel gastronomico calendario della sua casa dove il De Libertis era signore e padrone, significava gallina a lesso, delle cui carni il notaio era particolarmente ghiotto e del cui brodo era fanatico cultore. Giunto in piazza Cavour il notaio lanci
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un'occhiata alle finestre dell'appartamento che occupava e golosamente scrut i vetri della cucina per cogliere l'appannamento conseguente al lungo bollire sul fuoco dell'animale: nessun vapore per appannava quelle finestre. Il notaio, insospettito, affrett per quanto poteva il passo e imbocc il seicentesco scalone che portava al suo appartamento. Salendo annusava, ansioso di fiutare nell'aria delle scale la nota dolciastra che esala dal grasso di gallina quando si fonde al calore dell'acqua. I suoi sensi non colsero alcun indizio e solo quando fu entrato nel vestibolo di casa, sommessamente ricevuto dalla serva, cominci a comprendere la verit, perch anche l non aleggiava alcun profumo di gallina lessata, semmai impregnava l'aria un sentore di brasato, volgare ensemble di forti sapori che aveva giustificazione solo la domenica. La moglie Idina gli si fece incontro affranta. Spieg che quella mattina il giovanetto che dalla campagna portava la ruspante gallina per la tavola del notaio, una specie di Renzo Tramaglino senza Lucia ma figlio, si diceva, di qualche don
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Abbondio, non era arrivato. Cos il programma era saltato e lei s'era trovata costretta a cucinare un brasato d'emergenza. Il notaio accolse la spiegazione senza batter ciglio ma gi avvertendo nel suo stomaco una sorta di rivolta. Ci nonostante mangi gran parte del brasato, puntinando tuttavia la cena con osservazioni via via sempre pi pedanti circa la necessit di rispettare il calendario gastronomico della casa. A cui, disse "sono ormai asservite le funzioni del mio organismo il quale sa che il mercoled giorno di rognone mentre il venerd, per osservanza, non s'aspetta altro che verdure bollite e due uova in camicia". Con tali analisi si spinse ben oltre l'ora in cui era solito coricarsi. Ma anche il sonno gli fu problematico per un' iniziale pesantezza di stomaco che poi si trasform in bruciore pernicioso, cosa che lo obblig a ingurgitare, in una sola notte, pi bicarbonato di quanto non ne avesse mai preso in vita sua. E, da padrone di casa, poich stava male lui fece star male anche la signora Idina, continuando a tormentarla ora coi ragguagli sulla
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sua pirosi ora con le ragioni della stessa, individuate, come detto, nel mancato rispetto del calendario gastronomico. Fu una notte insonne per entrambi. All'alba il cavalier de Libertis aveva il viso sfatto, la moglie non gli era da meno. Ma mentre lei dava conto di una certa stanchezza, lui ancora perpetuava i lamenti notturni, ripetendo sempre le stesse ragioni. Tanto che quando, fatta una frugale colazione, il notaio chiese a sua moglie di accompagnarlo in corso Venezia dal sarto perch doveva provarsi una finanziera e voleva il suo parere, la donna si sent quasi male, pur non osando dire di no. I due uscirono poco dopo, l'uno al braccio dell'altra, lei silenziosa e smorta, lui smorto ma petulante, intento a rimestare ancora le ragioni di quel bruciore di stomaco che durava e, addirittura, forse per il freddo della mattina, sembrava aumentato. Il ronzare continuo di quel lamento maritale aveva ormai saturato la signora Idina che, tra s, s'augurava di giungere in fretta dal sarto, per porre fine a quel tormento che altrimenti, pensava, solo un intervento divino avrebbe potuto stroncare.
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L'intervento di Dio per non fu necessario, perch mentre i due passavano per via Senato, nei pressi del numero 2, un grosso volume della "Storia d'Inghilterra" del Trevelyan, piovendo dall'alto, cascava pesantemente sul capo del notaio de Libertis, obbligandolo finalmente a tacere. Cosa fosse successo lo si apprese qualche ora dopo e, a posteriori, possiamo anche tentare un'esegesi del fatto. Mentre notaio e signora imboccavano via Senato, Filippo Tommaso Marinetti, che in quella via abitava e al numero 2, riceveva l'ennesima visita del signor Dell'Acqua, suo padrone di casa, intenzionato a spillargli altri soldi per l'affitto dell'appartamento, con la segreta speranza che il poeta, logorato, si stancasse e lasciasse l'appartamento. Ora, il signor Dell'Acqua, quella mattina, aveva importunato il suo inquilino paventando un crollo del pavimento sotto il peso della biblioteca: voleva soldi quindi, per fare opere di consolidamento. Marinetti per volle dimostrare al Dell'Acqua che si poteva ovviare a quel pericolo senza spendere denari: e, presi i libri dalla biblioteca, si
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diede a lanciarli uno alla volta fuori dalla finestra, nel vuoto. Fu cos che il notaio de Libertis smise di seccare la moglie, al prezzo di una contusione parietale e tre giorni di prognosi: e cos fu anche che, forse senza saperlo, Filippo Tommaso Marinetti fece una specie di prova generale del modo in cui, di l a poco, avrebbe consigliato di trattare tutte le biblioteche del mondo.

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Chauffeur cercasi
Ausilio Grimaldi da qualche tempo scalpitava: gli sembrava di essere sul marciapiede di una stazione a guardar partire un treno sul quale avrebbe dovuto salire. Quel metaforico treno si chiamava Futurismo e stava partendo accompagnato dal clamore che il Manifesto marinettiano, pubblicato qualche mese prima sul Figaro e ripreso dai giornali di tutto il mondo, aveva sollevato. Su quel treno c'era forse un posto riservato anche a lui ma, se non si fosse sbrigato ad occuparlo, qualcun altro glielo avrebbe soffiato. Il Grimaldi era un oscuro redattore del "Corriere Volante", un serotino foglio milanese che aveva qualche pretesa intellettuale. L'emaciato giornalista vi lavorava ormai da qualche tempo, compitando cronachette di furti, ferimenti, risse e tentati suicidi. Bench in lui albergasse l'animo del novelliere, s'era dovuto arrendere a quella grigia routine, sacrificando parte delle sue ambizioni per ragioni puramente economiche. Lavorava quindi senza entusiasmo, scriveva per forza d'inerzia quegli
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articoli sempre uguali in cui cambiavano solo i nomi dei feriti o dei ladruncoli, immerso in una sorta di anestesia delle passioni e confortato in ci solo dal vedere che gli amici che praticavano il suo stesso lavoro erano combinati pi o meno come lui. Questo sino a che era scoppiata la bomba futurista: una vera e propria bomba che aveva scosso ambienti e coscienze e la cui deflagrazione aveva scatenato una caccia senza quartiere al bombarolo: cos chi in un modo chi nell'altro, parecchi suoi colleghi s'erano messi in bella luce, saltando, come gli capitava di pensare invidiosamente, sul carro del vincitore. La stessa cosa l'avrebbe fatta lui se solo avesse trovato una piccola opportunit, una fettina ancora sconosciuta di quel fenomenale Marinetti da assaggiare e raccontare in tutto il suo sapore al pubblico del Corriere Volante. Per questo il Grimaldi scalpitava: gli restava poco tempo e quella sola idea, vaga peraltro, in testa: dare una sua interpretazione del futurismo, raccogliere un fatto della vita di Marinetti, e arditamente, ma con sicurezza, dimostrare come da quello fosse scaturita la pianta della sua
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rivoluzione. Aveva letto e riletto il Manifesto: gli sembrava che quel rincorrersi di immagini turbolente e scoppiettanti nei suoi undici punti fosse la strada da seguire; capiva che la velocit era l'anima di quelle parole e di quei concetti e infine l'automobile l'oggetto che meglio di ogni altro, anche della stessa mitraglia, incarnava il sogno di Marinetti. Gi molte parole s'erano sprecate attorno a questo argomento, per... Per! Ausilio avvert un tuffo al cuore quando l'idea prese definitivamente forma nella sua testa. Tutti, vero, avevano parlato di automobile e velocit, lo stesso Marinetti aveva descritto un incidente di cui era stato vittima, ma nessuno aveva mai raccontato come monsieur le Futuriste si fosse avvicinato all'auto, come avesse imparato a maneggiarla. L'idea parve al Grimaldi grandiosa: avrebbe dovuto chiacchierare col meccanico che aveva insegnato a Marinetti i rudimenti della guida. Al resto avrebbe pensato lui, sentiva di aver gi per le mani un pezzo esplosivo e immagin di scrivere di Marinetti come di un essere che gi possedeva
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dentro di s i segreti di ogni motore: un domatore della velocit. Il Grimaldi part alla carica: si procur il nome del meccanico che compariva nelle cronache dell'incidente occorso a Marinetti e avvenuto il 15 ottobre 1908, e si mise sulle sue tracce. Doveva essere cauto. Si era lasciato sfuggire qualcosa attorno al suo progetto con uno o due dei suoi amici. Quindi pens bene di agire mascherato: baffi posticci, occhiali affumicati, un pastrano sbrindellato furono sufficienti a mutare il sembiante e, cos bardato, si mise sulle tracce del meccanico Luciano Martire che, secondo le sue informazioni, abitava nella zona di Lorenteggio. Trov quasi subito l'abitazione del Martire. Ma, la prima volta che si present, ebbe la sgradita sorpresa di vedersi sbattere la porta in faccia dalla moglie. Un secondo tentativo sort lo stesso effetto ed allora nell'animo del Grimaldi si insinu il sospetto: altri, forse, erano sulla sua stessa pista, magari il meccanico gli si sottraeva per questioni di denaro, gi della concorrenza. L'ipotesi lo rese frenetico e, riflettendo di dover battere sul tempo gli ipotetici nemici si appost, la
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sera del terzo giorno, all'angolo di una strada da cui poteva osservare la casa del meccanico. Attese sin oltre la mezzanotte ed infine la spunt: l'uomo, stretto in una giacchetta, col bavero alzato ed un cappellaccio schiacciato in testa, si avvicinava alla sua casa: Ausilio, con una balzo felino, gli si par davanti. - Signore - cominci a dire. Ma l'altro, anzich rispondergli, gli sped un cazzotto al mento e poi lo seppell, quando fu a terra, sotto una gragnuola di calci e sputi. Se non fosse passata di l una coppia di Reali Carabinieri in ronda notturna il redattore sarebbe finito male. Tradotti immediatamente in caserma i due dovettero fornire spiegazioni.

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Tavola 1. Lombra di Marinetti Velasco 1995 - tempera su carta cm.18x 12,5

Piuttosto lineare fu quella che diede il presunto meccanico, che poi meccanico non era, ma ladruncolo e piccolo ricettatore, ben noto alla polizia di quartiere. Disse che vedendosi aggredito aveva risposto per legittima difesa. Il Grimaldi obiett che lo voleva solo intervistare per i suoi trascorsi di promiscuit con Marinetti: il ladro ridendo chiar che il giornalista era rimasto vittima di un'omonimia: al che Ausilio Grimaldi sbianc in viso. I Carabinieri non risero invece; ascoltarono con sospetto la storia di Ausilio: che bisogno c'era, chiesero, di baffi posticci, di occhiali fume, di mascheramenti e appostamenti notturni? E quell'omonimia che l'aveva indotto in errore: c'era da crederci oppure era una bugia, magari concordata con il ladro chiss per quale fine? Fu necessario, per la salvezza di entrambi, accertare che il Grimaldi lavorasse realmente presso il Corriere Volante ed anche convocare il
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vero meccanico che rispose alla chiamata giungendo in caserma, profumato e sbarbato, solo a tarda mattina. Informato di quanto era successo non ebbe difficolt a dimostrare la sua identit e il suo passato. Ausilio Grimaldi fu cos salvo: i Carabinieri lo mollarono, pregandolo di astenersi per il futuro da simili imbrogli. Dopo la paura, il redattore assapor la felicit: bench avesse il viso pesto e nonostante avesse sfiorato la galera, l'oggetto delle sue ricerche era 1, davanti a lui. Immediatamente il giornalista spieg al meccanico il motivo della sua inchiesta. Costui lo ascolt pazientemente cos come si fa con gli svitati. Alla fine, quando Ausilio tacque, parl. - Macch fulmine di guerra - disse - Non ho mai visto una persona pi negata di lui per la guida di un'auto. Credetemi, una vera frana. Tanto che, a quel tempo, visti i risultati delle mie lezioni, gli consigliai di assumere uno chauffeur. E' con lui, semmai, che dovreste parlare! Il Grimaldi non si capacitava di quello che aveva appena sentito: il suo sogno, la sua idea crollava.
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Poteva il soldato del futurismo essere un autiere di cos bassa capacit? - Siete sicuro che stiamo parlando della stessa persona, di Filippo Tommaso Marinetti, il poeta futurista? - chiese balbettando. - Io s, perch l'ho conosciuto e non mi faccio incantare dalle balle che scrivono i giornali rispose il meccanico con degnazione - E mi fa specie che voi, oltre a scriverle, a codeste balle ci credete pure ! -

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Profumo di donne
Ottavio, nonostante la giovane et, godeva di molto rispetto nel caseggiato dove abitava in zona Lambrate perch era serio lavoratore e sindacalista. Da parte sua anche lui voleva molto bene ai suoi vicini di casa; era infastidito solo dal fatto che lo chiamassero Ottavio con una sola ti: per orgoglio di campanile, essendo toscano, non voleva ammettere che nel parlare meneghino le doppie fossero un di pi. Sua moglie Imelda era felice della considerazione che l'Ottavio godeva nel quartiere e a quella felicit si aggiungeva la soddisfazione di aver sposato un uomo che non gli aveva mai dato motivo di lamentela da quando, ed erano ormai passati cinque anni, l'aveva portata all'altare. Sennonch una sera l'uomo dopo la cena, pacatamente, le disse che il giorno seguente non sarebbe rientrato che a tarda ora. Imelda fece appena in tempo a riprendersi dallo stupore per quella novit che l'Ottavio, senza scomporsi, le chiese di tirar fuori il vestito buono, quello dei
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giorni di festa che poi era quello che aveva indossato il giorno del matrimonio. - Perch mai? - chiese allora la donna con una certa stizza. - Domani sera - spieg Ottavio - ho una riunione sindacale. A quell'uscita del marito strabili. Scherzava l'Ottavio? Da quanti anni partecipava a riunioni sindacali: ma non aveva mai fatto il misterioso come quella sera, non aveva mai saltato la cena e tanto meno s'era agghindato come se dovesse andare a una prima della Scala! Non riuscendo a trattenersi Imelda rivers sul marito quella pioggia di domande. Ottavio non si scompose: anzi, sorridente, diede tutte le spiegazioni richieste. - Si tratta di una riunione particolare - cominci a dire. La particolarit stava nel fatto che la sera successiva, presso la sede della camera del lavoro, avrebbe tenuto un discorso un certo Filippo Tommaso Marinetti. - E' uno famoso - disse Ottavio. - Sar - replic asciutta la donna - ma io non lo conosco. -25 -

Nemmeno Ottavio, sino a tre giorni prima, l'aveva mai sentito nominare ma in quei tre giorni gli avevano raccontato tali e tante cose sul suo conto che ormai gli sembrava di conoscerlo da sempre. - E' un tipo deciso - continu Ottavio - che gi una volta stato arrestato qui a Milano dopo non so quale diavoleria che ha combinato alla Scala. La serata si presentava a rischio, puntualizz Ottavio, con un oratore cos e allora i dirigenti sindacali avevano stabilito di organizzare un servizio d'ordine che vigilasse nella sala. - Lo faremo noi del sindacato questo servizio di vigilanza - chiar l'uomo - e per distinguerci dagli altri metteremo tutti il vestito della festa. Subito dopo il turno mi aspettano alla camera del lavoro: per questo non ce la faccio a venire a casa per cena.Imelda non obiett oltre e, mentre il marito si accoccolava con un vecchio giornale tra le mani, fece quanto le era stato chiesto e prepar il vestito buono. La giornata seguente fu per la donna foriera di nuovi dubbi e nuove domande: le argomentazioni
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che Ottavio le aveva esposto erano perfettamente logiche. Ma, ragionava tra s la donna, anche i piani messi a punto dai ladri per svaligiare le banche sono logici pur avendo per scopo, l'inganno, l'imbroglio. Imelda non si sentiva quieta: avvertiva, forse, rumore di corna? Mentre sua moglie si macerava nei dubbi, l'Ottavio, fedele guardiano dei diritti di tutti i lavoratori, svolgeva il suo compito di sorvegliante. Quel tipo, quel Marinetti che parlava sbracciandosi, smanacciando l'aria, saltellando a volte di qua e a volte di l, era davvero un bel soggetto. Ma... c'erano dei ma. Prima di tutto era oltremodo difficile capire quello che diceva: parlava e parlava, ma beato chi riusciva a intenderlo. In secondo luogo era arrivato sul luogo della riunione con una Isotta Fraschini lucente come una stella e con tanto di chauffeur: l'Ottavio tra s dubitava che uno cos potesse realmente condividere i problemi e i dolori della classe operaia. Il rumore degli applausi che salutavano la fine del discorso di Marinetti trasse Ottavio dai suoi
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pensieri. A un cenno del capo del servizio di sorveglianza, assieme agli altri, Ottavio si fece sotto il palco per fare ala e proteggere il passaggio dell'oratore che si allontanava. Senonch, proprio mentre tutti loro erano stretti intorno a Marinetti, una donna, traendo dalle tasche del vestito boccette di profumo, si diede ad aspergere la sala e i presenti con quelle essenze: gocce di Violetta di Parma e Rosa di Liguria caddero su tutti coloro che erano l e in breve un pesante sentore di quei profumi saturava l'aria della sala. Quel gesto lasci attoniti i sindacalisti ma il Marinetti, che probabilmente era d'accordo con la donna, spieg immediatamente che anche quello era un agire futurista: contrapponeva al sudore dell'operaio l'estasi di quei profumi, faceva saltare la logica, stravolgeva il pensiero comune. Allo stesso modo, afferm che di l a qualche giorno avrebbe capeggiato una manifestazione di piazza indossando lo smoking. Molti tra quelli del servizio di sorveglianza allibirono; alcuni addirittura insospettiti, mormorarono che quel tipo aveva tutta l'aria di essere un provocatore. Ottavio ascolt i pareri di
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tutti ma non si espresse. In fondo s'era divertito e con un sorriso sulle labbra, emanando un fortore di Violetta di Parma, si avvi a piedi verso casa. Quando, poco pi tardi, si avvicin al letto, Imelda, che fingeva di dormire, percep la violenza di quel profumo da maison close di cui suo marito aveva impregnate le stoffe. "Disgraziato!" mormor tra s, pronta ad attaccare. L'Ottavio non lo sapeva ancora, ma era nei guai.

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Bersaglio mobile
Secondo il triestino Francesco Stupich, rampollo di una famiglia che doveva le sue fortune ai commerci via mare, Filippo Tommaso Marinetti altro non era che un parvenu dalla "testa ripiena d'osso" con la "lingua d'una lavandaia". In una parola l'apostolo del futurismo gli pareva uno scimpanz o meglio, "un orso, ma di cartone, come quelli che si vedono nei tirassegni delle sagre paesane". Poich lo Stupich non lasciava passar giorno senza uscirsene in tali affermazioni cui seguiva quella che gli sarebbe piaciuto tirare una verdura in fronte a quello "sciocco vanesio" che versificava "come un tarantolato" il destino gli offr l'occasione di esaudire il suo desiderio quando Marinetti, su invito di Silvio Benco, si rec a Trieste il 12 gennaio 1910 per tenere una conferenza al Politeama Rossetti. Per amore di verit bisogna dire che lo Stupich altro non era se non uno sbruffoncello da salotto, un giovane viziato dai troppi agi che la famiglia gli aveva concesso, di poco midollo e di principi
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ondivaghi. Per cui se la corte di amici cui quotidianamente recitava quegli insulti non gli avesse ricordato l'impegno a bersagliare il Futurista egli si sarebbe ben guardato dal mettere in atto il suo proposito. Colpito nell'onore, virt della quale peraltro aveva un fumoso concetto, dovette invece far fronte alla promessa e poich stimava di essere anche un buon tiratore volle scommettere che, con un carciofo, avrebbe colpito Marinetti al primo colpo. - Dovessi sbagliare - annunci solennemente seguir ovunque quel commediante da strapazzo sino a che non sar riuscito a piazzare la verdura l dove egli crede di avere un cervello! L'impegno era di quelli pomposi e subito, la stessa sera della conferenza futurista l a Trieste, lo Stupich dovette fare i conti col suo onore: poich, ignorante com'era, non appena vide sul palco la sagoma del poeta Palazzeschi lo scambi per Marinetti e spar il carciofo, colpendo il bersaglio. - Ma quello sbagliato - gli fece subito notare l'amico che lo seguiva in veste di testimone. Nessun dispetto traspar sul volto di Francesco Stupich anche se, dentro di s, il giovinastro
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fremeva. - Alla prossima - disse seccamente rivolto al palco dove si esibivano i futuristi, e se ne and. L'occasione si ripresent il 20 aprile del 1910, a Napoli, al teatro Mercadante. Stupich affront il viaggio lungo la penisola accompagnato dall'amico testimone, del quale sosteneva anche le spese. Era sicuro di s avendo imparato a distinguere la fisionomia di Marinetti. Purtroppo per lui, monsieur le Futuriste era un bersaglio, ma mobile, anzi mobilissimo: quando il tiratore triestino, appostato tra la gente che affollava il Mercadante, pens di scagliare il carciofo, Marinetti aveva appena annunciato la lettura del manifesto: nel tempo, brevissimo, che intercorse tra l'annuncio della lettura e l'inizio della stessa, lo Stupich tir, mentre Marinetti, come per prender aria o per schivare altre verdure, s'era flesso sulle ginocchia: il vegetale tirato dallo Stupich pass cos ben sopra al cranio del poeta. Questa seconda sconfitta fu mal digerita dal triestino che ormai s'era fatto un punto d'onore di colpire il Futurista, anche perch gli amici, avendo preso gusto al gioco, non perdevano occasione per
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ricordagli il suo impegno. Non fosse stato cos, Francesco Stupich avrebbe mandato all'aria tutte le sue promesse e al diavolo Marinetti e tutto il futurismo. Fu lunga l'attesa che lo port al terzo round col suo nemico. L'occasione si present infatti solo nel 1913 e si dovette recare sino a Roma, al teatro Costanzi, e in ben due occasioni, il 21 febbraio e il 9 marzo. In febbraio, infatti, sbagli mira, tradito, disse lui, dall'emozione e colp in pieno petto il pittore Carr. Durante la serata del 9 marzo invece mand il carciofo ad incastrarsi tra le maglie del leggio del poeta, subendo anche un affronto che venne poi raccontato e commentato in Trieste grazie ai resoconti dell'amico testimone: uno dei futuristi sul palco, infatti, raccogliendo l'ortaggio lo mostr al pubblico chiedendo di chi fosse quel ritratto. Ormai era un duello all'ultimo sangue, come si pu facilmente capire. Lo Stupich, vedeva rosso ogniqualvolta sentiva parlare di Marinetti e dei futuristi ed aveva l'impressione che, grazie a quella sua ostinazione, fosse diventato lo zimbello della compagnia. Non cedette tuttavia e, venuto a
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conoscenza dell'ennesima serata futurista a Firenze, presso il teatro Verdi, il 12 dicembre 1913, vi si prepar con estenuanti sedute di tiro e spendendo anche una considerevole cifra in carciofi. Raggiunse poi Firenze in treno e si piazz in teatro, celando il proiettile in una tasca della giacca. Attese, fremendo, preparandosi mentalmente al tiro e quando giudic di essere pronto sfil il carciofo ed esplose il colpo: ma, avendo le mani sudate per l'emozione, l'ortaggio gli scivol tra le dita ed anzich un tiro teso ne usc una parabola loffia, sconfortante. Marinetti, tra i fischi del pubblico fiorentino, stava declamando il manifesto: il carciofo, descritta nell'aria un'ampia ma stanca curva, gli cadde proprio sul vertice del capo. Il cozzo lo obblig a fermarsi per un istante.

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II postino innamorato
Una mattina, erano i primi giorni del mese di dicembre del 1912, il postino Andrea Furetti stava rientrando presso l'ufficio delle Regie Poste da una consegna in corso Venezia dove aveva scaricato una mezza borsa di corrispondenza indirizzata al poeta futurista Filippo Tommaso Marinetti: quel diavolo d'un uomo riceveva una quantit enorme di posta e lo sapeva bene il procaccia Furetti perch ci spesso lo obbligava a fare un giro supplementare senza nemmeno la soddisfazione di una mancia poich l'avvocato Marinetti, come lo chiamava il portiere dello stabile, non era quasi mai in casa. Come tante altre volte anche quella mattina il Furetti s'era sentito dire che Marinetti non c'era e il postino, rientrato in ufficio, stava per riempire di nuovo la borsa quando si avvide che sul fondo giaceva una lettera dimenticata. Di tornare in corso Venezia solo per quella non se ne parlava: Andrea la raccatt intenzionato a mettersela in tasca per consegnarla l'indomani quando avvert un profumo singolare che proprio
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da quella busta si sprigionava. Annus meglio ed i suoi sensi ebbero una scossa avvertendo, al pari di un cane sulle tracce di una lepre, un aroma femminino, un afrore merc il quale immagin che dentro quella busta, anzich una lettera, ci fosse una specie di formula viva, il segreto della fragranza che solletica il naso di ogni amante la mattina, dopo una notte di lussuria, e che la risultante di un inestricabile intreccio di essenze profumate e sudori. La tenne in tasca per tutta la giornata, annusandola di tanto in tanto come se fosse una reliquia sinch il giorno seguente, presentatosi in corso Venezia per la consegna del solito chilo di posta, illuminato da un'idea, chiese al portiere se il Marinetti fosse in casa. - No - rispose questi -1' via. A Parigi! Marinetti infatti era nella capitale francese per la mostra dei pittori futuristi alla galleria BernheimJaune. - Beato! - comment il postino estasiato, facendo sorridere il portiere: ma si riferiva a se stesso per il fatto che, assente il destinatario, poteva concedersi il lusso di tenere in tasca ancora per
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qualche giorno l'aulente lettera. La tenne con s per un'intera settimana e se ne delizi in ogni momento del giorno e della notte. Passati quei sette giorni dovette cedere al richiamo della coscienza che lo richiamava, specie di notte, al suo dovere di rispetto nei confronti del regolamento postale. E una mattina, a malincuore, dopo aver consegnato la solita posta, si dispose a cacciare la mano in tasca e a consegnare la missiva che aveva trattenuto. Senonch, sul pi bello, il portiere dello stabile si lasci sfuggire una frase. - Chiss quand' che la legger tutta `sta posta disse. Il Furetti, incuriosito, chiese perch. - Perch 1' sempre in giro. Ads el v a Londra. Figuremes ! La mano del procaccia si blocc repentinamente, la sua coscienza tacque all'istante: una languida felicit si impadron del cuore del postino ed egli, per la gioia, si ricover in un'osteria che era nei pressi e pass una decina di minuti di delizie annusando la busta. Fu quella la prima occasione in cui il suo piacere
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non fu completo. Dopo la prolungata sniffata infatti, il postino ragion che, ormai appagato l'olfatto, tutti gli altri sensi reclamavano la loro parte. Per far questo per doveva spingersi ben oltre i limiti del lecito, scoprire la mittente della missiva: e, poich sulla busta non compariva alcun indirizzo, avrebbe dovuto lacerarla, commettendo una grave infrazione. Si sentiva pronto ad arrivare a tanto? Macerandosi in quei tormenti il postino visse giorni di pena: godeva una breve quiete solo quando annusava la lettera ma nel contempo quell'azione provocava la rivolta degli altri sensi, dalla vista e dal tatto soprattutto, col che si garantiva notti insonni o popolate da visioni lubriche. Fu quindi a malincuore, ma con la coscienza di fare una cosa giusta sia per il rispetto che doveva al regolamento postale sia per la propria tranquillit, che si risolse a consegnare senza ripensamenti la fatale lettera. E l'avrebbe fatto se ancora il portiere non l'avesse nuovamente messo in crisi comunicandogli, senza che ne fosse stato richiesto,
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gli spostamenti di Marinetti. - Ads - disse - va in Germania, sempre con quei pittori. Dopo forse el va anca in Rusia ! Il Furetti, lacerato nell'animo da mille dubbi, ritorn sulle sue decisioni. Giur a se stesso per che mai pi avrebbe annusato la preziosa lettera, e che l'avrebbe conservata solo come se fosse un santino. Se la infil nella tasca posteriore dei pantaloni intatti e cominci subito a tentare di dimenticarla. Per molte notti non pot fare a meno di pensare al mistero di volutt e di lascivia che era racchiuso nella missiva e, pi delle parole che essa nascondeva, era roso dal desiderio di sapere da che cosa emanasse quel profumo cos intenso, cos vero, quale fosse la sua origine, chi ne fosse la detentrice. Arriv infine la mattina in cui, svegliandosi per recarsi al lavoro, non trov pi i pantaloni. Il suo terrore dur poco: sua madre gli spieg che quelle braghe, "unte e bisunte", dalle quali non si voleva separare avevano ricevuto il trattamento che meritavano a base di acqua bollente e lisciva. - E la roba che gh'era in scarsela? - protest
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Andrea. - L' l! - rispose la madre, indicandogli un mucchietto di piccole cose sul tavolo da cucina, tra le quali spiccava la lettera. Il procaccia si sent immediatamente libero da ogni dubbio, leggero: quello era il momento di agire, aprire la lettera, scoprire tutto e passare all'azione. Febbrilmente squarci la busta, ne estrasse un piccolo foglio colorato sul quale durava ancora una traccia di quel profumo. Due righe sole percorrevano la carta. Dicevano: "Tu solo, mio caro, sai chi sono e dove, per tutta la notte, ha riposato questo foglio su cui ti scrivo un breve saluto". Non c'era firma n data: solo quelle parole terribili e sensuali che al procaccia sembrarono sussurrate a fatica, rotte per l'intervento di un'emozione pi grande e segreta ... Andrea Furetti era sbiancato in viso dopo la lettura. La madre lo vide ma non ne intese gli intimi turbamenti. - Va l che sei bianco come uno straccio - disse F colazione ! E gli infil sotto il naso una scodella di
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minestrone riscaldato i cui fumi avvolsero il viso del postino veicolando nel suo naso miserandi odori ma anche lo nascosero agli occhi del mondo mentre due lacrime di stizza e di dolore gli rigavano il volto.

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Tavola 2 - Studio Velasco 1995 - matita su carta cm. 24x 12

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La prima volta
Roberto Brevimani era detto il Dente perch aveva un canino, a sinistra, fenomenalmente lungo e del quale andava orgoglioso come se la natura, anzich storpiarlo, l'avesse voluto premiare. Per anni quel canino era stato il divertimento preferito dei fratellini di Roberto che continuamente chiedevano di mostrarlo loro e a volte di afferrarlo tra dita per prendersi il gusto di tirarlo, traendo da ci un sollazzo tanto incomprensibile quanto continuo. All'et di 25 anni, quanti ne aveva quando fu arrestato per la prima volta, il Brevimani non aveva un lavoro fisso: si arrabattava, rubacchiando qua e l. Non era un furbo e lo dimostrano le circostanze del suo arresto e della sua condanna. Ci accadde la notte del 15 settembre 1914. Il Brevimani aveva girovagato per Milano alla ricerca di qualche colpetto da mettere a segno: all'alba, stanco, sfiduciato e infreddolito, s'era trovato dalle parti del Duomo con l'unico desiderio di ritornare a casa il pi in fretta possibile per andare a dormire. Passando per via Larga aveva visto, fuori da una
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panetteria, una bicicletta e l'aveva presa pi che con l'intenzione di rubarla, con quella di coprire il tragitto che lo separava da casa il pi rapidamente possibile. I1 velocipede per era legato a un palo per mezzo di una catena lunga qualche metro: il Dente, partito con sprint, s'era bloccato altrettanto rapidamente, era caduto, aveva picchiato il testone, scheggiato il mostruoso canino; poi s'era beccato un paio di calci in culo dal panettiere che era prontamente accorso e infine era stato consegnato ai Regi Carabinieri che l'avevano tradotto immediatamente in caserma. Berto aveva compreso immediatamente di essersi cacciato in un guaio per lui assolutamente nuovo, di cui non conosceva le proporzioni e le conseguenze: e, poich dietro la sua faccia da spaccone, si celava ancora un'anima da bamboccio, aveva pianto, cosa che non aveva commosso minimamente n i Carabinieri n i compagni dell'affollatissima cella in cui era stato sbattuto in attesa di chiss quale destino. Nella stazione dei carabinieri vigeva un'attivit che definire frenetica poco. Il Brevimani, osservando quel via vai di arrestati, quel continuo
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aprirsi e chiudere di porte era riuscito a vincere un poco lo sconforto della sua situazione: era meraviglioso infatti vedere quanti malavitosi ci fossero a Milano, cosa che non aveva nemmeno mai lontanamente immaginato. Pensava infatti che quella fosse una nottata di normale attivit, n il continuo lamentarsi a bassa voce di carabinieri e secondini l'avevano indotto a sospettare che qualcosa di grosso stesse succedendo in giro. In verit, invece, era proprio cos perch da un paio di giorni Milano era in fermento grazie all'attivismo dei futuristi, capeggiati da Filippo Tommaso Marinetti, Boccioni e altri: costoro reclamavano la necessit di rompere gli antichi legami con la Triplice Alleanza, scendere in guerra per riconquistare le terre irredente, Trento e Trieste, schierarsi al fianco di Francia, Inghilterra e Russia per porre fine all'impero asburgico. Futuristi e interventisti in quei giorni avevano scardinato l'ordine pubblico e obbligato le forze di polizia a fare gli straordinari: c'erano stati inseguimenti, tumulti, scontri, arresti e le patrie galere si erano cos riempite sino all'inverosimile. Il Dente, schiacciato in un angolo della cella,
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con le gote ancora umide di pianto, guardava tutti quelli che lui riteneva suoi colleghi malavitosi: non gli era sembrato che quel trovarsi in galera pesasse troppo sul loro morale, perch li aveva visti ridere, darsi pacche sulle spalle, chiacchierare come se si trovassero al caff, a volte gridare "Abbasso la Triplice" che, nella fantasia del ladruncolo di biciclette, era diventata una sorta di braccio segreto e terribile dell'arma dei carabinieri, una camera di tortura o chiss cosa. La mattina era trascorsa nella confusione di quel continuo arrivare di nuovi arrestati e verso mezzogiorno il Brevimani s'era trovato schiacciato contro il muro della cella impedito in ogni movimento tant'era l'affollamento. Proprio verso quell'ora, all'insaputa di Berto e di tutti i suoi compagni di cella, il comandante della stazione dei Carabinieri aveva appena terminato di parlare con un suo superiore che gli aveva trasmesso amichevolmente e soprattutto ufficiosamente un consiglio operativo: aveva tenuto a dire, il superiore, che si trattava di un passo informale che per ragioni di opportunit le alte sfere della politica non potevano benedire ma
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la cui applicazione non avrebbe determinato conseguenze per alcuno. La sostanza del consiglio era questa: poich il governo del Regno d'Italia stava, vero, dalla parte della Triplice Alleanza ma pencolava, dubitava e quindi, ragionevolmente, non si poteva escludere che prima o poi sarebbe passato dall'altra parte, nel reprimere le manifestazioni degli interventisti bisognava comportarsi con molto giudizio. Ora poich due giorni prima erano gi stati operati arresti eccellenti come quello di Filippo Tommaso Marinetti, di Boccioni e altri ancora, non aveva senso accanirsi contro personaggi minori: anzi, si correva il rischio di trasformare ardenti patrioti, dei quali forse di l a poco ci sarebbe stato un gran bisogno, in nemici giurati della patria asservita allo straniero. Giudizio, quindi, nell'arrestare, nel riempire le galere, nel trattenere i fermati. Il maresciallo, che dentro di s covava sentimenti antiaustriaci e a tutti quei bellimbusti avrebbe volentieri strappato i baffi pelo per pelo, aveva ragionato a lungo su quella direttiva non scritta e infine aveva chiamato a s un brigadiere,
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ordinandogli di smetterla con gli arresti. -Meno male - aveva commentato il sottoposto abbiamo le celle strapiene! -Quanti sono? - aveva chiesto il maresciallo. -Pi d'un centinaio. Il comandante aveva riflettuto brevemente. -Liberateli! - aveva poi ordinato. -Come ? - aveva chiesto, allibito, il brigadiere. -Tutti coloro che non hanno ancora avuto il verbale d'arresto vengano liberati. So io quello che faccio. Il brigadiere non aveva dimostrato di essere pienamente sicuro dell'ordine ricevuto. - Ma - aveva chiesto - dobbiamo liberarli tutti? -Certamente no - aveva chiarito il maresciallo solo i manifestanti! Il brigadiere, uso ad obbedir tacendo, si era avviato, apprestandosi ad eseguire l'ordine. Roberto Brevimani, ignaro di tutto e sempre pi stranito, aveva cominciato subito ad immaginare tragedie, anche esecuzioni sommarie, quando aveva visto la porta della cella aprirsi e il brigadiere che, impalato sulla soglia, faceva uscire
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i prigionieri uno alla volta ponendo loro una breve domanda: dopodich l'interrogato se ne andava verso chiss quale oscuro destino. Il brigadiere, confuso e a sua volta ignaro dei motivi dell'arresto di tutta quella gente che affollava la cella, non aveva trovato di meglio che chiedere direttamente ai detenuti il motivo del loro arresto: se rispondevano di aver manifestato li liberava, come da ordine ricevuto. Quando era toccato a lui, Berto s'era sentito sull'orlo del precipizio: aveva capito che da una risposta dipendeva il suo destino. Il brigadiere aveva fretta, l'aveva chiamato con un gesto della mano. -Avete manifestato anche voi contro la Triplice? - aveva chiesto il carabiniere. Berto aveva pensato che, davanti ad un rappresentante della legge, sarebbe stato opportuno negare di aver fatto comunque qualcosa contro qualcuno. -Mai - aveva risposto con un sospiro di sollievo. -Tornate dentro allora - aveva detto il brigadiere - Avanti un altro. -50 -

Il paraninfo
Il commendatore Veniero Ponti si era fatto da s e se ne vantava. Figlio di contadini, dal niente aveva tirato su un'industrietta tessile cui aveva dedicato tutto se stesso giorno dopo giorno per lunghi anni sino a che raggiunse il successo: fu nel 1919, quando lanci la moda dei costumi da bagno mimetici, conquistando un mercato che lo rese definitivamente ricco e famoso. Stabilita quella supremazia, un solo cruccio amareggiava ormai la vita del commendatore: suo figlio Damiano, il quale, un po' per la gracile complessione un po' per la timidezza ereditata da sua madre, alla bella et di 24 anni non solo non aveva ancora frequentato un donna ma, peggio, arrossiva e balbettava come un imberbe quando gli capitava di dover parlare con un'esponente del sesso femminile. Il commendatore era stato uno sfondatore di porte cui aveva bussato e avevano rifiutato di aprirsi: avvertiva, quindi, che quel figliolo navigava ancora nelle nebbie della fanciullezza ed era convinto che se non avesse sporcato quanto
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prima quel suo caratterino profumato non sarebbe mai arrivato a farsi uomo e quindi ad assumersi il peso e la responsabilit dell'industria che un giorno o l'altro gli sarebbero toccati. Il Ponti, stimando che la prima esperienza da farsi a questo mondo con le donne, aveva fatto alcuni tentativi per obbligare il figlio a quel passo: come quello di infilarlo in un bordello, segretamente accordandosi con alcuni suoi colleghi di universit, il cui esito per, era stato scoraggiante: Damiano non aveva voluto varcare la soglia della maison ma aveva atteso gli amici fuori, sul marciapiede col risultato di guadagnarsi una broncopolmonite che era durata un mese, perch ci era successo in novembre e il giovane come detto, era deboluccio, sensibile alle costipazioni. Finiti ugualmente altri simili tentativi di spingere Damiano tra le braccia di una donna, ancorch di vita, il commendatore, a malincuore, s'era dovuto convincere di aver procreato un ragazzo dall'animo lirico, forse un poeta, cosa che non gli piaceva affatto perch poeti e simili gli erano sempre parsi dei fannulloni, scrocconi, traditori e forse anche pederasti.
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Aveva divisato allora di cambiar tattica, di essere meno crudo e di spingere il figlio a frequentare ambienti pi raffinati dove l'approccio sessuale non sarebbe stato cos brutale ma il punto di arrivo di un lungo, e per lui inutile e noioso, lavorio, fatto di chiacchiere, complimenti, sottigliezze e ammiccamenti. Alcuni salotti milanesi si erano aperti al pallido Damiano ma egli non vi aveva lasciato traccia alcuna e men che meno quelle che suo padre si aspettava lasciasse. Damiano era talmente silenzioso e schivo che un giorno una di queste signore, parlando col commendatore Ponti, visto che era con lui in affari, gli aveva chiesto quando si sarebbe deciso a mandare il figliolo nel suo salotto. -Vedr commendatore - aveva detto la donna che era a parte delle difficolt del giovane Damiano - che nel mio salotto il suo figliolo trover pane per i suoi dentini. Il commendatore, a quell'uscita era allibito. - Ma se son pi di due mesi che ci viene - aveva protestato. -Ah s? - aveva ribattuto la donna meravigliata E chi se n' mai accorto ! -53 -

L'arrivo della guerra aveva distratto il commendatore dal suo compito di traviatore del figlio. Il confitto aveva rischiato di farlo fallire: erano stati anni duri, irti di difficolt. Il commendatore aveva combattuto contro tutto e tutti come un leone per tenere insieme la sua azienda e tanta fatica era stata premiata quando, agli inizi del 1919, aveva ceduto all'idea di mettere in produzione i costumi mimetici, articolo che, come abbiamo gi riferito, incontr immediatamente il favore del pubblico femminile. Il commendatore Ponti, da quel vecchio satiro che era, sognava spesso i corpi delle giovani donne che, dopo le ristrettezze della guerra, tornavano a godersi la vita in riva al mare: fantasticava spesso di essere lui stesso uno di quei costumi e di sostituirsi ad uno di loro in quell'estrema intimit. Tent di far partecipare Damiano a quelle sue golose fantasie ottenendo per gli stessi risultati d'anteguerra. Spinto dal successo dei costumi e attratto dal mare, che non aveva mai visto se non per brevissimi periodi, il commendatore Ponti decise con la moglie di passare qualche settimana di
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vacanza dell'estate 1919 sulle coste livornesi, luoghi d'appuntamento del bel mondo, crocevia di bellezze desiderabili e punto d'incontro di danarosi signori quale il commendatore ormai era. Vi and con la moglie, Silvana, e il solito Damiano che in quel primo dopoguerra sembrava pi spento che mai. Affitt una villetta poco fuori Livorno, in un luogo discreto e silenzioso ma vicino al mare, e vi si insedi attorno ai primi giorni del mese di luglio. Quasi subito la famiglia lo ripag per la munificenza della vacanza con una ben strana moneta: sua moglie Silvana infatti prese il comando della casa lavorando come fosse la cameriera, anzich la padrona. Damiano invece elesse un'enorme magnolia come suo territorio esclusivo e alla sua ombra prese a passare le giornate, senza far nient'altro. Vedendosi cos mal ripagato, il commendatore decise di far vita a s. Si sent libero quindi di scendere in spiaggia quando meglio credeva, di prendere il bagno, di conversare coi vicini d'ombrellone, di giocare a carte, a bocce o a palla ed anche di fermarsi a mangiare senza avvisare a casa. E un giorno, quando era ormai arrivato da pi
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di una settimana e l intorno lo conoscevano tutti, ebbe un sussulto al vedere una splendida ragazza uscire dall'acqua del mare. Pur non essendo poeta, l'immagine di qualche antica divinit greca gli attravers il cervello. Per tutta la giornata non la perse d'occhio: era veramente un fior di donna, dalle forme splendide e armoniose, elegante nel movimento: aveva un che di felino e di conturbante. Nei giorni seguenti non ebbe occhi che per lei e cercava di resistere alla tentazione di corteggiarla. Tuttavia non gli era sfuggito che la ragazza era venuta al mare, cos come lui con Damiano, accompagnata dal padre. Poteva lui insidiarla sotto gli occhi del genitore? Si rispose di no e decise allora di lavorare ancora per una volta per conto terzi e a favore dei figlio. Con la sua rumorosa chiacchiera riusc ad avvicinarla, a farla sorridere: per tre o quattro giorni fece in modo di prendere il bagno assieme a lei sinch un pomeriggio stim matura l'ora per invitarla a casa, a cena, e presentarla al figlio. -Resta inteso - disse col tono serio di quando trattava affari - che l'invito esteso anche a vostro
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padre - e indic l'uomo un po' pingue e pelato che li guardava standosene al riparo di un ombrellone. Sul volto della ragazza si dipinse una maschera di divertimento. -Mio padre ? - disse ridendo. - Certamente - ribatt il commendatore stupito. La ragazza non disse altro, si allontan ridendo. Non aveva risposto se aderiva all'invito a cena; il commendatore bofonchi qualcosa per avere una risposta ma la ragazza era lontana e continuava a ridere. Poco dopo, alle risa di lei, si aggiunsero quelle di lui. - Imbecilli - borbott allora il commendatore Cosa ci sar mai da ridere ! Ce n'era invece: perch la ragazza era Benedetta Cappa, diciannovenne, fidanzata e futura moglie di quel "padre" che altri non era se non Filippo Tommaso Marinetti, quarantatreenne. Le nozze tra i due sarebbero avvenuti pi tardi, nel 1923, anno in cui anche Damiano Ponti saliva all'altare, convolando a nozze riparatrici con certa Blagetta Casimin, stiratrice, che il giovane, repentinamente nato ai piaceri della vita, aveva
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fatto sua con modi da caserma, credendo infine di far cosa grata al genitore. Il quale invece, stizzito per la singolare bruttezza della serva, lo disered e cacci di casa.

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L'arroseur arros
Circolava insistentemente la voce, nelle grigie sale della questura milanese, che quel giorno, 23 marzo 1919, nel covo di piazza San Sepolcro qualcosa poteva succedere: con la scusa della fondazione dei fasci di combattimento si sarebbero radunati esaltati delle pi varie estrazioni; la presenza di Filippo Tommaso Marinetti e dei suoi futuristi era una vera garanzia di disordini: se si aggiungeva poi quella di Mussolini il gioco era fatto, la mistura esplosiva, poteva davvero succedere di tutto. Cos, seguendo questo filo di inattaccabile logica, il questore e i suoi consiglieri avevano pensato di rinforzare il servizio di sorveglianza; oltre ai soliti carabinieri, che andavano bene soprattutto per dimostrare alla gente comune che lo stato c'era, pronto a difendere l'ordine pubblico, era necessario mettere l intorno degli osservatori vestiti in borghese, esperti nell'arte di riconoscere una persona e le sue intenzioni con un sol colpo d'occhio e in quella, non meno sottile, di passare
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inosservati, affinch non si istigasse nei sansepolcristi l'idea di essere perseguitati. Quattro o cinque di questi uomini grigi sarebbero bastati e, se si fosse presentata la necessit, avrebbero dato l'allarme. I partecipanti alla riunione di piazza San Sepolcro avevano cominciato presto ad affluire presso il grande salone di palazzo Castani. Erano arrivati perlopi a piccoli gruppi, favorendo cos il lavoro di classificazione ideologica fatto dagli occhi senza volto che la questura aveva mandato per spiarli. C'era di tutto: arditi, volontari di guerra, mutilati, futuristi - tanti di questi! - irredentisti, repubblicani e anche anarchici, massimalisti, sicuramente qualche comunista e infine semplici curiosi, attirati l dal baccano che nei giorni precedenti era stato fatto attorno a quell'avvenimento che doveva riscattare, nelle intenzioni degli organizzatori, il pusillanime comportamento del governo italiano e ridare dignit alla nazione. Quando ormai l'assemblea poteva ritenersi completa e i suoi lavori avviati, tanto che l fuori si riversavano di tanto in tanto gli echi di fragorosi
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battimani o quelli di grida forsennate, fece capolino in piazza San Sepolcro un individuo di giovane et, un solitario che per qualche istante scrut gli edifici che contornavano il perimetro della piazza e quindi si mosse, a piccoli. passi, verso l'ingresso del covo. A tutta prima era sembrato uno che era capitato l per caso o per sbaglio. Ma quel suo dirigersi, pur se con cautela, verso il salone del congresso fece tramontare l'ipotesi. Era un ritardatario allora? Pi d'un paio d'occhi lo esaminarono ben bene, scrutandolo dalla testa ai piedi. Era giovane: se fosse stato un reduce della guerra, ardito o volontario non importa, sarebbe arrivato l coi suoi commilitoni, com'era nel costume di quella categoria che amava comportarsi nella vita civile come se ancora si trovasse in qualche trincea del fronte. Futurista non era: vestiva poveramente, senza alcuna pretesa di eleganza al contrario dei futuristi, e ne erano sfilati parecchi quella mattina, che proprio in quelle occasioni amavano sfoggiare abiti eleganti, addirittura eccentrici. Comunista?
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Difficile, se non impossibile. In quell'assemblea i comunisti non erano visti di buon occhio: se uno avesse voluto infiltrarsi e spiare cos il nemico in tutta tranquillit, si sarebbe intruppato nella folla di poco prima, avrebbe approfittato del disordine e non si sarebbe fatto notare. Anarchico individualista: poteva rientrare in questa categoria, anzi forse era la sua. Ci stava bene per il fatto che era arrivato l da solo, dopo tutti gli altri. Per... per gli mancava la spavalderia, il disprezzo quasi, quel senso di superiore visione della vita che gli anarchici manifestano sempre in ogni loro gesto, convinti come sono che tutto il mondo sia una truffa colossale da far saltare in aria. Inoltre le tasche dei pantaloni e della giacca del giovane non mostravano alcun rigonfiamento: se era un anarchico era l senza bombe e un anarchico senza bombe che anarchico ? Chi era mai allora quel soggetto che infine, dopo aver passeggiato per la piazza, era giunto ormai sulla soglia di palazzo Castani? Le quattro o cinque paia d'occhi che l'osservavano gli diedero un'ultima ripassata.
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Dopodich la diagnosi fu bell'e fatta: era un ladro, senza alcun dubbio, che entr nel carnaio dell'assemblea di piazza San Sepolcro e ne usc mezz'ora dopo per finire in bocca a due carabinieri i quali, dopo averlo perquisito, gli trovarono addosso i portafogli di Bianchi Michele, collaboratore di Mussolini, Funi Achille, pittore futurista, Cattaneo Michele, ardito, Contini Biagio, ardito, Invernizzi Giovanni, sarto. Il ladro invece si rivel essere persona gi nota alla questura milanese ed anche ai lettori di queste righe, perch era quel Roberto Brevimani, detto il Dente, incosciente compagno di cella di Marinetti nei giorni che precedettero l'entrata in guerra dell'Italia. Per appurare ufficialmente l'identit del Brevimani ci volle comunque del tempo perch mentre il Dente grassava alcuni sansepolcristi qualcuno, che aveva eluso la sorveglianza, aveva alleggerito lui del proprio portafoglio. Il questore era uomo che si interessava di cinema, una vera passione per lui. Sentendosi raccontare l'episodio pens all'Arroseur Arros, uno dei primi filmati di Louis Lumire, e tra s
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concluse che il Brevimani aveva fatto quella stessa fine. Abbagliato da quella riflessione che riteneva estremamente singolare, il questore non si avvide delle lacrime che il Dente spargeva avviandosi fuori del suo ufficio, poich prevedeva nel suo immediato futuro nuova galera sotto il segno, ancora una volta, del Futurismo.

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Tavola 3 - Idrovolante Velasco 1995 - tecnica mista su carta cm. 52x39

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Un'ernia da salotto
Il professor Gaetano Boniventa, chirurgo di fama, non ricordava come, quella sera, fosse arrivato a parlare di futurismo con sua moglie Letizia: sapeva solo che, dal momento in cui erano entrati in argomento, la donna aveva esibito una conoscenza del fenomeno futurista che lo aveva lasciato allibito. Aveva citato date, nomi, titoli e programmi e sera dilungata a dare delle personali interpretazioni degli undici punti che costituivano il Manifesto. -Ma tu - chiese il professore quando la moglie si diede la pena di tacere un istante - come fai a sapere tutte queste cose? -Tu piuttosto - ribatt polemicamente donna Letizia - come fai a non saperle? Tutta Milano ne parla, in ogni salotto non si discute d'altro. molto chic... Poi, assunta una posa sognante: - Oh - sospir se avessi vent'anni di meno mi farei futurista anch'io! Il Boniventa allib a quell'uscita: futurista quella
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donna pingue, imbellettata, golosa di dolciumi e carica d'ori che era sua moglie non ce la vedeva proprio. E, nel suo intimo, non si sentiva minimamente in colpa di non conoscere alcunch dei futuristi, troppo lontani dal grave e serio mondo in cui egli esercitava. Tuttavia, per riguadagnare un po' di terreno nella stima che, in quell'ultimo quarto d'ora, aveva perso presso la moglie, afferm che anche il futurismo doveva passare sotto i suoi ferri. La matrona non comprese il senso dell'affermazione, chiese lumi. Con degnazione il professore spieg. -Per l'esattezza - disse - domani mattina questo tuo nuovo vate, questo Marinetti di cui ti riempi tanto la bocca giacer come un comune mortale sul mio tavolo operatorio! Donna Letizia, sulle prime, fece mostra di offendersi: suo marito aveva il vezzo di prendersi gioco di lei, spesso le tendeva innocenti burle: forse era in uno di quei momenti, tuttavia non le sembrava il caso di farsi beffe del futurismo e della passione con cui lei gliene aveva parlato. Invece, lungi dal voler celiare, il professore aveva raccontato la pura e semplice verit. Filippo
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Tommaso Marinetti infatti, insieme agli altri compagni del movimento futurista, aveva chiesto di essere arruolato nel battaglione lombardo dei Volontari Ciclisti Automobilisti: alla visita per gli avevano scoperto un'ernia inguinale che lo rendeva inadatto al servizio militare. Tuttavia, deciso a prendere parte attiva quale soldato alla guerra, Marinetti s'era messo nelle mani dei chirurghi per risolvere il problema. La moglie del Boniventa, udita la circostanziata spiegazione del marito, lasci immediatamente di far l'offesa: anzi s'illumin, cominci a far domande su domande, a battere la mani, ridendo come se fosse stata pervasa da una gioia singolare e inattesa. Nuovamente il professore la guard con sospetto, non capendo cos'altro le fosse preso. - Ma caro - disse la donna - sto pensando alla faccia che faranno le mie amiche quando dir loro che tu, il professor Boniventa, hai operato Filippo Tommaso Marinetti. Pensa che onore, che invidia! Il professore la lasci dire per qualche altro istante, poi la fredd. -Puoi pure smettere di pensare alle facce delle
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tue amiche. Non sar io ad operarlo. Ho lasciato l'intervento ad un mio assistente Donna Letizia si scuri repentinamente. - Come sarebbe a dire? - chiese. Il chirurgo, senza parlare, rispose con un'alzata di spalle. - una follia! - declam la donna. - E perch mai? - chiese il professore. -Parola mia - ribatt la moglie - ti dico che hai fatto una fesseria. Alla quale per, se mi vuoi un poco di bene, devi riparare. - Riparare? -Certo, riparare. Se il primario sei tu, se vero, come spesso dici, che nel tuo ospedale non cade foglia senza che tu lo voglia, allora ti devi riappropriare di quell'intervento. Devi farlo tu! Pensaci bene caro; sarai l'uomo che ha permesso a Marinetti di realizzare il suo sogno di combattente. Il chirurgo non vedeva nulla di eroico nel rimettere a posto l'erniazione di un viscere ancorch nell'addome di un uomo che si chiamava Filippo Tommaso Marinetti.
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Ma donna Letizia, che voleva assolutamente vincere quella battaglia, lo mise sotto un fuoco tale di motivazioni, lusinghe, minacce e preghiere che alla fine il professore, sfibrato, disse di s: l'indomani si sarebbe recato di buon'ora in ospedale e avrebbe fatto tutto ci che la moglie desiderava al fine di consentirle il vanto con le amiche del suo salotto. Le querule chiacchiere muliebri avevano indisposto il professore che difatti pass una nottata inquieta: lo torment anche il pensiero di dover agire prepotentemente col suo assistente, cosa che non aveva mai fatto. Dorm male, cosa che a un chirurgo alla vigilia di una seduta operatoria non dovrebbe mai capitare, e la mattina seguente, sbattuto ed ancora irritato, fu, come da promessa, al tavolo operatorio: dietro di lui stava, impalato, l'assistente cui l'intervento era stato scippato. Come andarono le cose non si sa. O, meglio, si sa che qualcosa non funzion a dovere e a questo punto ogni ipotesi lecita. Ci che i biografi di Filippo Tommaso Marinetti hanno raccontato che, subito dopo l'intervento, la
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gamba del poeta prese a gonfiarsi e a dolere e che per lunghi giorni, dopo l'operazione, l'arto inferiore di Marinetti dovette stare a riposo. C'era chi vociferava di una garza dimenticata nei visceri del futurista, chi invece parlava di un punto messo male, chi ancora cianciava di una vena ferita durante l'intervento da una mano tremula. In ogni caso il risultato fu che, anzich riprendersi in fretta e partire per l'agognato fronte, Marinetti dovette subire una lunga convalescenza domestica, sulle cui ragioni e responsabilit tutti i salotti milanesi ebbero comodo di discettare. Ne parlarono anche in quello privato di donna Letizia Boniventa: era anzi lei che spesso imponeva ai suoi frequentatori quell'argomento. Per prima, con singolare faccia tosta, lanciava strali contro l'imperizia del giovane assistente che aveva operato il poeta e da qui, spesso, traeva spunto per dire che i giovani ormai non avevano pi alcun rispetto per l'esperienza degli anziani, credendo di saper fare di meglio e di pi: coi risultati che, diceva, erano sotto gli occhi di tutti e che monsieur le Futuriste, soffertamente testimoniava.
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Intonarumori
Antonio Sorego era partito da Tolmezzo per il Belgio nel 1888. L aveva fatto il muratore per tre anni. Poi, nella primavera del 1891, a causa del crollo di una parete, era rimasto imprigionato in un budello della miniera, ad oltre duecento metri di profondit, per dieci, terribili e interminabili giorni. A differenza di altri suoi compagni di sventura che non avevano retto all'infernale esperienza lui l'aveva scampata ed era uscito fisicamente indenne dalle viscere della terra. Ma, a guardar bene le cose, gli sarebbe convenuto morire perch se aveva salvato la pelle cos non si poteva dire della testa che era rimasta laggi nelle tenebre della prigione sotterranea. Sconvolto da quell'esperienza era stato rimpatriato: ricoverato a Udine qualche mese era stato infine riconsegnato alla famiglia, senza alcuna speranza di guarigione con due precise raccomandazioni: mantenerlo in uno stato di perenne penombra, poich la luce del giorno lo gettava in un penoso sconforto, ed evitargli ogni
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rumore, soprattutto quelli che potevano evocare scoppi o spari, perch questi scatenavano in lui furiose reazioni, crisi di panico scomposte e potenzialmente pericolose per la sua o l'altrui incolumit. Cos, all'et di 51 anni, l'ex minatore era ridotto allo stato di una larva che le sue due sorelle tenevano in una stanza della casa avita i cui scuri erano sempre, perennemente accostati; gli si rivolgevano con dei sussurri ora per invitarlo a mangiare ora per comunicargli che si doveva coricare: e sempre sottovoce le due sorelle gli alitavano brevi parole d'affetto quando massima era la pena di vedere cos ridotto un pezzo d'uomo che vent'anni prima era emigrato nascondendo in una tasca dei pantaloni i fazzoletti bagnati di lacrime di pi d'una ragazza. Il rigore con cui le due sorelle vegliavano su quella vita vegetale era strettissimo e, sino al 1917, fu inappuntabile. Ma, proprio nel corso di quell'anno, comparve un pericolo: un pericolo interno, si potrebbe dire, rappresentato dai due figlioli delle sorelle, due bambini nati quasi contemporanea-mente sei anni prima, i quali,
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scoperto quello zio attonito e stranito, l'avevano immediatamente assunto nel loro mondo di giochi e gli avevano assegnato una parte importante. Per i due monelli infatti il gioco pi divertente era riuscire ad eludere la sorveglianza dei genitori e penetrare nella stanza semibuia dove lo zio stava seduto a guardare una finestra oscurata oppure sdraiato a fissare il soffitto. Infine, dopo aver lungamente rimirato quel tronco d'uomo immobile come una statua di cera, i due raggiungevano l'apice del godimento provocandone una furia. Per arrivare a ci avevano scoperto che bastava poco: era sufficiente battere le mani con forza a poca distanza dalle orecchie del pover'uomo ed ecco che sul suo viso si produceva una metamorfosi: i muscoli si contraevano, la pelle si chiazzava qua e l di piccole macchie congeste, dalla sua gola, solitamente muta, uscivano versi gutturali, parole fiamminghe, incitamenti, imprecazioni, parolacce e bestemmie, di cui i monelli erano ghiotti, e infine, quando il turbamento dell'uomo non aveva pi alcun controllo, un grido - Fuoco, fuoco! - a cui i due nipoti, ridendo a crepapelle ed eccitando ancor pi
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lo zio, rispondevano in coro - Brucia, brucia! Quelle scorribande nella camera dello zio avevano un finale scontato: scoperti, una tempesta di scapaccioni si abbatteva sulle loro zucche. I due monelli, sotto la gragnuola dei colpi, non si dimenavano per niente n tentavano fughe: sapevano che quello era il prezzo che dovevano pagare e lo pagavano volentieri visto che, passato qualche giorno e scordate le contusioni, si ritrovavano daccapo a studiar piani per gabbare nuovamente la sorveglianza dei genitori e penetrare una nuova volta nella stanza dello zio ebete. Le mattane dell'uomo avevano una durata variabile e non era sfuggito ai due delinquentelli che quanto pi forte era il rumore che le risvegliava tanto pi grande era l'agitazione che ne conseguiva: ma, soprattutto, pi vario e colorito era il catalogo di parolacce e volgarit che usciva dalla bocca dello zio. A un certo punto, dopo mesi di esperimenti e di sganassoni, decisero di osare affinch lo zio, superata la fase iniziale, ormai ben nota, che arrivava sino al grido - Fuoco, fuoco! - si spingesse oltre. I due infatti erano convinti che, spinto oltre,
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lo zio avrebbe potuto insegnar loro nuove parolacce e sconosciute sapidit e giudicarono che per portarlo a ci fosse necessario l'intervento di un rumore vero, uno scoppio. Si diedero da fare, si consigliarono con gli amici; per settimane cercarono la soluzione a quel problema ed erano ormai l per cedere le armi quando un giorno uno dei due riusc ad entrare in possesso di una castagnola. L'arma per scardinare la voce dello zio adesso c'era, il piano fu presto fatto. Era la mattina del 4 novembre 1918, luned: i due erano meravigliosamente soli a casa e partirono senza indugi per quel definitivo assalto. Entrati nella camera dell'ex minatore lo stettero a guardare per un po': lo zio era seduto in poltrona, aveva gli occhi chiusi: i due ne furono felici pensando che la sorpresa del botto ne avrebbe tratto giovamento. Stabilirono di far esplodere il colpo alle spalle dello zio e si apprestavano ormai ad eseguire l'azione quando, improvvisamente, successe il finimondo: il silenzio della stanza si riemp di un rumore secco e metallico, vicino, terribile, mostruoso: era l'inconfondibile voce di
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una mitragliatrice che, fuori, sotto le finestre di casa, sparava all'impazzata. I due monelli, spaventati, si irrigidirono. Il rumore degli spari era cos forte che lo sparatore sembrava essere l, nascosto nella stanza: lo zio, sgranati gli occhi, entr in fermento e diede la stura ad una serie di improperi da primato. Filippo Tommaso Marinetti entrava cos, da par suo, in Tolmezzo liberata, durante la prima mattina di pace dopo gli anni della guerra: si lasciava alle spalle lunghi mesi durante i quali era stato ferito, ricoverato due volte in ospedale, nel corso dei quali aveva perso due insostituibili amici come Boccioni e Sant'Elia; ma anche tanti altri giovani sconosciuti erano morti intorno a lui e lui stesso aveva combattuto, sparato, ucciso, aveva condiviso con la sua truppa il fango della trincea e la paura della battaglia. - Igiene stata fatta tenente Marinetti - gli aveva detto un soldato della sua compagnia pochi giorni prima della fine del conflitto - Ma a quale prezzo? Marinetti spar nell'aria gli ultimi colpi che aveva nel caricatore: dal giorno seguente mitraglia e guerra sarebbero tornate ad essere due parole dal
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bel suono aggressivo ma inoffensive. Lo zio ebete intanto smoccolava e and avanti sino a sera inoltrata. I due monelli, orgogliosamente padroni di quel colorito vocabolario, iniziarono immediatamente a ripetere le parolacce tanto agognate e nuove sberle presero ad abbattersi sulle loro zucche.

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Lo scommettitore
Salvatore Capece era cameriere da quasi trent'anni e da ormai dieci prestava il suo inappuntabile servizio al piano presso il Grand Hotel de Londres, l'albergo che Filippo Tommaso Marinetti prediligeva quando faceva tappa a Napoli prima di ripartire alla volta di Capri. Capece lo conosceva bene: lo trovava simpatico, esuberante, allegro e generoso. Tutt'altra pasta insomma se paragonato a molti altri settentrionali che quando calavano a Napoli si comportavano come se fossero padroni, davano poca confidenza e infine erano strettissimi di borsa. Salvatore Capece questi soggetti non li sopportava, li chiamava tra s piemontesi di merda e di tanto in tanto, spiace dirlo, sputava nelle colazioni che serviva loro in camera. Don Fili invece era un'altra cosa: la pancetta e la pelata non avevano tolto nulla alla carica di giovent che investiva ogni suo atto; non era superbo, anzi, aveva dei rapporti camerateschi con quasi tutti i camerieri e lo stesso Salvatore, che tra i
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tanti era forse il prediletto, si era spesso intrattenuto con lui a spiegargli il senso di un motto in vernacolo o a fornirgli indicazioni e raccomandazioni per questa o quella trattoria tipica. E poi don Fili lasciava mance che valevano un quarto dello stipendio. Cos, ogni volta che Marinetti arrivava a Napoli per Salvatore Capece si trattava di una doppia festa: ne gioiva lo spirito e le tasche si arricchivano. Non era, Capece, tipo venale ma necessario chiarire che dietro la maschera irreprensibile di cameriere di un albergo di gran lusso, si celava un animo tormentato quale pu essere solo quello di uno scommettitore, di un uomo uso all'azzardo e a farsi beffe delle certezze. Perch tale, per vocazione, era Salvatore Capece e se altri, agendo in favore suo, in anni ormai lontani, non fossero corsi ai ripari, Salvatore non sarebbe certo sopravvissuto al suo vizio. La giovent del cameriere Capece era stata contrassegnata dall'azzardo: l'uomo aveva rischiato soldi su tutto, era stato preda a un certo punto dell'isterico bisogno di tramutare ogni cosa in scommessa e pi
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volte s'era trovato a fare il passo pi lungo della gamba, esponendosi per cifre di cui non poteva garantire la copertura. Non ancora ventenne era ormai avviato su quella strada irta di pericoli che prima o poi gli avrebbe proposto una scommessa fatale quando l'amore, nelle tonde e pastose forme di Ciccilla Incarmine, l'aveva salvato. Si era trattato di un amore fulminante, una passione vera e propria che subito aveva preso a duellare con l'altra passione che albergava nell'animo di Salvatore Capece. Era stato un lungo tira e molla al termine del quale il cameriere aveva compreso che senza la sua Ciccilla non avrebbe potuto campare. Cos, da onest'uomo qual era, aveva confessato alla ragazza il vizio che lo consumava e s'era messo nelle sue mani. Ciccilla, alla bellezza, univa un solido senso del pratico: gli aveva proposto un compromesso, umiliante, ma condizione sine qua non, per salire con lui all'altare: dal momento in cui sarebbero stati marito e moglie lo stipendio, anzich a lui, sarebbe stato consegnato nelle mani di lei, affinch Salvatore fosse sottratto alla tentazione di giocarsi
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quei soldi in qualche scommessa. Mance escluse aveva per suggerito il diavolo che possedeva il Capece. E cos da allora era stato. logico che, da quel giorno, le mance fossero divenute ancor pi gradite e che persone come Filippo Tommaso Marinetti fossero particolarmente benvenute nel piccolo regno del terzo piano dell'albergo dove dominava, silenzioso e compito, il cameriere Salvatore Capece. Nella primavera del 1923 Filippo Tommaso Marinetti cal, con la consueta esuberanza e fornito del solito, raffinato ed eccentrico guardaroba, a Napoli. Era una bella primavera, calda, profumata, che invitava all'ozio e alle passeggiate. Napoli splendeva di suoni e di colori, ma l'allegria che era nell'aria non aveva contagiato un intristito Salvatore Capece per il quale l'arrivo del futurista fu solo una brevissima parentesi di gioia. Mala tempora correvano: la direzione dell'albergo, forse per difficolt finanziarie o forse per un passaggio di propriet, meditava di ridimensionare il personale di servizio: i camerieri di servizio al piano erano quelli che avrebbero pi degli altri pagato la necessit di ridurre il numero
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dei dipendenti e correva voce dell'esistenza di una lista di licenziandi sulla quale Salvatore sapeva per certo essere il suo nome: se l'avessero licenziato, a quasi 50 anni di et, chi mai gli avrebbe dato un altro lavoro? Si sentiva perduto, prossimo ad affogare quando, nelle prime ore di un pomeriggio di quella primavera, capit a chiacchierare presso la stireria dell'albergo con un altro cameriere, sorta di factotum, Antonino Pizzo, il quale, essendo lontano cugino del direttore, poteva vantare la certezza di mantenere il posto di lavoro cui, peraltro, non sembrava troppo affezionato. Parlavano di clienti e mance e fu fatale che in quel discorso cadesse qualche accenno a Marinetti, il quale, secondo il Pizzo, per il vizio che aveva di fumare anche di notte, bruciacchiava lenzuoli e federe che la direzione naturalmente gli metteva in conto. -Fuma sempre - afferm Antonino. -Beh s, fuma, fuma - lo assecond Salvatore. -Cinquanta al giorno, come minimo - calcol il Pizzo. -No, troppe - obiett Capece.
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-Troppe? - ribatt l'altro - Sessanta! -Fesserie! -Te lo dico io. Ci puoi credere - conferm Antonino. -Esageri - lo rampogn Capece. -Esagero? Arriver anche a settanta! - spar il Pizzo. Salvatore, anzich rispondere, ridacchi. Antonino Pizzo, punto sul vivo, insorse. -La vuoi fare una scommessa? - propose con tono maligno. Salvatore divent serio di colpo come sempre quando si parlava di scommesse. - E che ci scommettiamo? - chiese. -Dillo tu - propose Antonino. Salvatore riflett per qualche istante: l'idea ce l'aveva e la medit per un poco. - Il lavoro! - disse poi; -Che cosa? - chiese Antonino. Capece gli spieg: mettevano in palio il posto di lavoro: se avesse vinto lui, Antonino Pizzo si sarebbe sacrificato al posto suo. -Se invece vinci tu, visto che non rischi il posto come me, ti prendi il mio prossimo stipendio! -85 -

Il viso della moglie Ciccilla attravers brevemente la mente del cameriere Capece: lo scacci con uno sforzo, il dado, ormai, era tratto. Pizzo valut equi i termini della scommessa non ritenendo gran disgrazia l'eventualit di perdere il posto di lavoro. Strinse la mano al collega e quindi stabil con lui i termini della scommessa: avrebbero contato, ai fini del risultato finale, le sigarette fumate dal momento del rientro in albergo di Marinetti dopo la cena sino al mattino, momento in cui un'imparziale cameriera avrebbe ritirato il posacenere. Salvatore, mentre stringeva la mano al Pizzo, meditava gi di truccare il risultato. Lo fece importunando poco prima della cena Filippo Tommaso Marinetti e mettendolo a parte della scommessa. Il futurista, ridendo e fumando, accett di aiutarlo e promise che l'indomani mattina avrebbero trovato nel suo posacenere dieci mozziconi, non uno di pi, che era il numero su cui Salvatore aveva scommesso, contro i quindici di Antonino Pizzo. Sicuro di s, Salvatore Capece dorm quella
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notte un sonno tranquillo: si sentiva in tasca la pi importante vittoria della sua vita di scommettitore. Non immaginava che il futurista, dimentico della promessa, stava passando quelle ore tra le braccia di una napoletanina "di seta e velluto", fumatrice accanita quanto e forse pi di lui. Al mattino infatti c'erano ben trentadue mozziconi irriconoscibili, inzaccherati dal rossetto della donna poich gli amanti, nella loro lussuria, s'erano evidentemente passati l'un l'altro le sigarette. Scommessa nulla quindi: l'incertezza del futuro, che sembrava essersi definitivamente allontanata, ripiomb nell'animo di Salvatore Capece che tuttavia, nonostante le angustie, rivolse un saluto mentale a quel signore del settentrione che nella fresca mattina partenopea navigava alla volta di Capri.

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Giallo
Epaminonda Venturi spar la sera del 28 settembre 1919. Aveva 30 anni, era impiegato da due nelle ferrovie, personale viaggiante. Era sposato, aveva due figli. Quella sera avrebbe dovuto arrivare a Monfalcone, dove abitava, di ritorno da Trieste con un treno rapido. La moglie lo attese sino a tardi in un crescendo di ansia e cattivi pensieri. La cena si fredd. Ai due figli che non volevano mettersi a letto e continuavano a chiedere del padre raccont vaghe bugie. Trascorse la notte in un'inutile attesa. L'alba del giorno seguente la trov come la sera prima seduta in cucina, davanti alla tavola apparecchiata, disfatta dalla vana attesa, incapace di risolversi a fare qualsiasi altra cosa. I due figli le chiesero ancora del genitore. Rispose loro che era rientrato tardi ed era uscito molto presto per questioni di lavoro. Quindi affid i due ad una vicina di casa e si rec alla stazione di Monfalcone per sapere qualcosa. All'ufficio del personale non seppero dirle niente se non che, quel giorno, suo
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marito era di riposo. Disperata, si rec a casa dei genitori i quali vedendola cos prostrata dapprima si diedero a consolarla e poi le consigliarono l'unica cosa che restava da fare: avvisare i Regi Carabinieri della scomparsa dell'uomo. La donna volle attendere sino al giorno seguente, sperava ancora. I genitori glielo concedettero, fu inutile. Alla stazione dei carabinieri la donna si rec accompagnata dal padre. Ebbero fortuna, trovarono un giovane graduato molto ben disposto: costui ascolt attentamente la moglie del Venturi, prese appunti sulle scarne circostanze della sparizione, pretese una precisa descrizione delle abitudini dell'uomo e infine richiese una fotografia. Le ricerche partirono immediatamente e interessarono l'area della stazione e tutti i locali nei pressi dello scalo ferroviario. I Carabinieri non tralasciarono di frugare n il bordello, n un malfamato locale vicino al porto dove era noto che si davano convegno cocainomani e omosessuali. Non emerse alcun indizio. Gli interrogatori del personale della stazione diedero gli stessi frutti: nessuno aveva visto Epaminonda Venturi quando il
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treno era arrivato a Monfalcone. Il capotreno, reperito e interrogato, ammise di non ricordare se l'aveva visto alla partenza del convoglio da Trieste. Fu impossibile rintracciare passeggeri di quel 28 settembre che ricordassero di aver visto il ferroviere. A complicare le indagini c'era il fatto che il Venturi era un tipo schivo, di poche parole e, praticamente, non aveva amici. Passati tre giorni il responsabile dell'indagine convoc i genitori e la moglie del Venturi: disse loro che si vedeva costretto a ridurre l'impegno nelle ricerche. La moglie del ferroviere ebbe un malore: le parole del comandante suonarono al suo orecchio come un lugubre vaticinio, una condanna che lei, nel suo intimo, aveva gi emesso. Il militare consigli di far pubblicare un annuncio corredato di fotografia sulla Gazzetta di Venezia, con la richiesta esplicita di fornire informazioni, dietro compenso. Il viso del Venturi apparve sul quotidiano. L'annuncio diede il modo ad un discreto numero di mitomani e sciacalli di tormentare la famiglia dello scomparso: Epaminonda Venturi fu segnalato in decine di posti diversi, nessuna segnalazione
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rispondeva alla verit, i sopralluoghi, immediatamente eseguiti, furono tutti vani. A distanza di due settimane dalla sua scomparsa, nel corso di un nuovo incontro tra la famiglia del Venturi e gli investigatori, emerse la necessit di sospendere le ricerche attive e di stare in attesa degli eventi: era come dire che moglie, figli e suoceri dovevano cominciare a mettere da parte la speranza di ritrovare il loro congiunto: le possibilit che Epaminonda Venturi ritornasse a casa erano ridotte al lumicino. Di l a due giorni su quel lumicino soffi una folata di freddo vento che Io spense del tutto: un contadino di un paese poco fuori Monfalcone aveva ritrovato sulla massicciata lungo la linea ferroviaria una divisa da ferroviere e l'aveva consegnata alla locale polizia ferroviaria. Le misure della divisa corrispondevano a quelle di Epaminonda Venturi. La moglie riconobbe la divisa per la presenza di due strappi, uno sul gomito di destra e l'altro all'altezza del ginocchio sinistro, che ella stessa aveva riparato. Cosa ci facesse quella divisa nel mezzo della campagna monfalconese restava un mistero: solo il
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ferroviere scomparso avrebbe potuto risolverlo. Questa frase, sommessamente recitata all'orecchio della moglie del Venturi da un investigatore della polizia ferroviaria, suon come un requiem. La donna comprese che suo marito aveva fatto una fine misteriosa e che da quel momento in avanti avrebbe dovuto pensarlo come uno di quei soldati partiti per il fronte e dei quali a casa non ritorna pi niente, nemmeno un corpo straziato. Fu sull'onda di questa commozione che la donna, il 30 ottobre 1919, fece celebrare una messa per l'anima di Epaminonda Venturi, misteriosamente scomparso, cui presero parte i figli, che avevano smesso di far domande, i genitori di lei, i suoceri. Il sacerdote ebbe parole commoventi, i presenti piansero.

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Tavola 4 - Bellagio Velasco 1995 - acrilico su tela cm. 120x 150

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Tale era l'apparenza dei fatti e tale sarebbe rimasta per sempre se Epaminonda Venturi non fosse ricomparso, lacero e stranito, di l a otto mesi. Tornava da Fiume dove s'era recato, senza dir niente a nessuno, in quell'ormai lontano 28 settembre 1919. Aveva creduto di trovare nella citt Olocausta chiss quale destino che lo risollevasse dalla monotonia della vita quotidiana e invece s'era ritrovato immerso in una Babele di lingue, costumi e idee nella quale s'era perso. Secondo il medico che lo visit presso la sua abitazione, il soggiorno fiumano gli era anche valso la contrazione di una malattia venerea e il vizio di far uso di cocaina: quest'ultimo fatto poteva ben spiegare lo stato di ottundi-mento del sensorio in cui il ferroviere era immerso. Sulle circostanze della sua fuga il Venturi non seppe dare molte spiegazioni ma sul particolare della divisa da ferroviere fu molto chiaro: era l'unico fatto di cui conservava una memoria precisa. Raccont allora che appena giunto a Fiume, un giorno, al massimo due giorni dopo, era stato contattato da un uomo che si chiamava Marinetti, il quale gli aveva proposto uno scambio:
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voleva la sua divisa da ferroviere ed in cambio gli dava quella da ardito fiumano che il tizio indossava in quel momento. Epaminonda Venturi non aveva avuto esitazioni ed aveva accettato lo scambio. Filippo Tommaso Marinetti cos, deluso per la gestione dell'affare fiumano, in disaccordo con la reggenza e per di pi pressato da voci che lo davano per ricercato e in odore di arresto, poteva fuggire, non visto, da Fiume, mascherato con una divisa da ferroviere, della quale solo in treno, e ben lontano da Fiume, si era poi liberato. Quella divisa che ancora la moglie del Venturi conservava e con la quale volle vestire il marito il giorno in cui questi fece il suo ingresso in manicomio.

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Il rassista e il suo lacch


Le carriere politiche, durante il ventennio, potevano finire da un giorno all'altro: era, questa, una regola non scritta ma ferrea che valeva per tutta la piramide delle gerarchie, dalla base sino al vertice, e pi d'un segretario politico ne aveva apprezzata la validit sulla propria persona. Con una spesa di poca fantasia si pu quindi facilmente immaginare quello che accadeva nel mare, o magma, degli zerbinotti e dei lacch che strisciavano ai piedi di questo o quell'uomo politico per averne favori e prebende. La carriera di Nello Tuozzo in questo senso esemplare ed illustra bene la situazione dell'epoca. Nello Tuozzo apparteneva alla corte del ferroviere cremonese Roberto Farinacci, salito al soglio della segreteria del Partito Nazionale Fascista nel febbraio del 1925. Farinacci era soprannominato il rassista, cio il ras dei ras: era l'estremo ideologo di certo pane e companatico, manganello e olio di ricino, che sino ad allora aveva distribuito con larghezza ad avversari
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politici, dissidenti, agnostici e concorrenti in affari. Era un duro quindi e, appena nominato segretario del partito, cominci a far suonare la musica che prediligeva, quella del bastone, tanto per chiarire che aria avrebbe tirato sotto il suo regno e affinch nel paese, dopo la crisi seguita al delitto Matteotti, nessuno si potesse illudere di scardinare il regime. I collaboratori della sua segreteria dovevano essere come lui, puri di cuore e duri di testa, perch il ras dei ras predicava continuamente la diffidenza nei confronti dei "cosiddetti uomini intellettualissimi" i quali, sempre a detta sua, con le loro maniere pulite e le loro belle parole finivano sempre per cercare di metterlo laddove sarebbe stata massima offesa riceverlo per un fascista. Bisognava tenerli sempre d'occhio, impedire che "rompessero i coglioni": e di costoro non bisognava perdere nemmeno una mossa soprattutto di quei sedicenti futuristi i quali, con la scusa di essere stati interventisti, di aver fatto un paio di manifestazioni e di aver avuto rappresentanti in piazza San Sepolcro, il giorno della fondazione dei fasci di combattimento, si dichiaravano fascisti ma si comportavano in una maniera che faceva
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vergogna. Bisognava metter loro in testa che l'Italia era diventata una nazione seria, austera, e gli italiani un popolo di guerrieri: non era pi un'accozzaglia di straccioncelli versificanti, di rammolliti chini nel baciamano, di pittorucoli estasiati. Gi su quella strada era stato fatto molto: bene avevano fatto i predecessori di Farinacci, con l'oscura regia del Crapone, a cominciare l'opera di marginalizzazione dei futuristi: l'esempio pi clamoroso era stata l'esclusione dei pittori futuristi dalla Biennale di Venezia, fatto che per aveva dato modo a Marinetti di inscenare una clamorosa protesta davanti a sua Maest Vittorio Emanuele III, proprio nel giorno dell'inaugurazione della mostra. D'ora in avanti bisognava impedire che fatti come questo potessero accadere: se i futuristi volevano rientrare nel fascismo che abbandonassero tutti i loro modi demenziali di vestire, parlare e scrivere. Abbandonassero anche quel nome stupido e insignificante: che cazzo voleva dire futurismo, che cosa significava, dove portava? Diritto in galera, ecco la risposta! Nello Tuozzo conosceva bene, quasi a memoria,
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le prediche di Farinacci, che i suoi sottoposti puntualmente ripetevano, circa la questione del futurismo. Si beava anzi di ripeterle da s, davanti allo specchio della sua camera da letto, cercando di imitare il capo, i suoi modi, la sua voce. Non gli riusciva tanto bene perch, essendo di origine salernitana, trapiantato poi nel cremonese, aveva sviluppato una lingua ibrida, personalissima mistura tra dialetto campano e padano dalla quale erano anche scaturite parole nuove, neologismi di cui lui solo conosceva il significato, Quando faceva rapporto al capo per non incorrere nelle contumelie di lui, si esprimeva in napoletano: ci un poco Io umiliava e per questa ragione non passava giorno senza che facesse esercizi di lingua per arrivare a possedere prima o poi quella parlata padana che era la lingua dei padroni. Non appena Roberto Farinacci divenne segretario del partito, Nello Tuozzo tir un bel sospiro di sollievo. L'averlo servito fedelmente negli anni in cui era stato l'incontrastato ras di Cremona gli garantiva ora di essere tra coloro che avrebbero goduti i frutti di tanta fedelt. Il Tuozzo non aveva mai preso parte alle
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spedizioni punitive contro i rossi, i sindacalisti, i tiepidi e gli stitici. Non che non avesse voluto farlo ma la sua struttura fisica - era infatti mingherlino, asmatico e sofferente di una lieve zoppia - l'aveva sempre escluso a priori da quelle azioni: ciononostante al suo ras aveva dato la parte migliore di s che era quella dello spione, dell'infame. Tuozzo era un provocatore nato, uno spregevole mentitore, un viscido sicofante: la sua abilit consisteva nella capacit di introdursi, con moine da eunuco e salamelecchi, in qualsiasi ambiente, per ascoltare e poi riferire. Grazie a lui parecchi oppositori del regime avevano ricevuto il trattamento che meritavano e solo quando nel cremonese la sua fama s'era diffusa, e da tutti Nello Tuozzo era evitato come se veicolasse la peste, la sua attivit s'era forzatamente spostata verso altri centri, senza che ci nuocesse alla bont del suo lavoro, poich anche in trasferta Tuozzo aveva sempre colto splendidi risultati. - Una carogna cos - dicevano di lui presso la sede del partito - non nasce tutti i giorni. Farinacci quindi era a Roma, sul trono di segretario. Nello Tuozzo aspettava ma il mese di
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febbraio del 1925 trascorse senza che dall'Urbe gli giungesse alcuna novit. Era, pensava il Tuozzo, un silenzio comprensibile perch in quei primi giorni di comando Farinacci stava lavorando febbrilmente attorno al progetto di ripulire il partito e l'Italia dai tiepidi. Bisognava dar tempo al tempo e tempo al capo di sistemare per bene tutte le cose. Arrivato marzo lo spione incorse in un incidente che lo spinse a desiderare pi fortemente che mai una chiamata da Roma. Successe che, approfittando di una notte di nebbie, un manipolo di sconosciuti, dopo averlo lungamente appostato, gli infil in testa un sacco e gli ripass per bene tutte le vertebre a suon di randellate. Alla fine del trattamento, un paio di quei criminali gli bendarono gli occhi e lo obbligarono ad ingurgitare una quantit enorme di olio di ricino: Tuozzo ne ricav un movimento di visceri che dur pi di una settimana, arco di tempo nel corso del quale lo spione ebbe modo di riflettere che l'aria intorno a lui s'era fatta, nel pi ampio dei significati, pesante. Tuttavia i giorni passavano senza che da Roma arrivassero le notizie che Tuozzo tanto attendeva e quando ormai Nello
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accarezzava l'idea di farsi vivo lui col capo, una comunicazione telegrafica, giuntagli mentre si compiva l'equinozio di primavera, venne a spazzare dubbi e perplessit sulla memoria del rassista. Le stanze romane del segretario da qualche tempo erano in subbuglio: circolavano, insistenti, voci secondo le quali i futuristi milanesi volessero calare a Roma: sembrava che tramassero qualcosa, non c'erano notizie precise, ma sospetti, tanti, sopra tutti quello che i futuristi volessero manifestare pubblicamente per ribadire il loro ruolo di inventori del fascismo. Sarebbe stato, nel caso, un affronto, ma per ribattere il colpo bisognava saperne di pi, capire, per prevenire e reprimere. Nello Tuozzo sembrava l'uomo adatto allo scopo. Bastava che si facesse un po' addentro agli ambienti futuristi milanesi, lisciasse i pi vanitosi, ascoltasse e riferisse. Che i futuristi e il loro capo Marinetti in quei mesi si sentissero un po' snobbati da Mussolini era vero: si percepiva nell'aria un atteggiamento velatamente ostile nei loro confronti e l'esempio pi clamoroso era stato quello, gi citato, dell'esclusione dei pittori futuristi dalla Biennale di
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Venezia. Ma tanti altri esempi si potevano citare quali esclusioni da conferenze, mancati inviti a inaugurazioni di mostre, teatri non concessi per serate futuriste. Forse i futuristi non servivano pi? Secondo Nello Tuozzo non erano mai serviti, come diceva il suo capo "a un cazzo" e calando su Milano, come da ordini ricevuti, si mise subito al lavoro. In quella citt era vergine, non aveva alcuna cattiva fama da temere ed in pochi giorni riusc a capire quello che stava succedendo. Pareva che in effetti qualcosa di grosso bollisse in pentola. I futuristi erano in fermento, parlavano di rivendicare un certo ruolo avuto nella rivoluzione fascista, discutevano di un incontro che si sarebbe tenuto a Roma. Tuozzo inform immediatamente la segreteria. In risposta gli giunse un secondo, telegrafico ordine "Seguirli ovunque e riferire". Nello Tuozzo obbed e cal, con alcuni di loro, a Roma dove per si trov di fronte a una sorpresa, e sgradita per giunta. Perch tutto ci che a Milano era sembrato cospirazione e complotto, a Roma, forse in virt dell'aria dolce che spirava sulla capitale, si rivel essere un convivio di vecchi
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goliardi. I futuristi infatti avrebbero tenuto una grande riunione presso il cabaret del Diavolo di Gino Gori. Vi avrebbero preso parte futuristi in gran numero, ma anche dame del bel mondo, intellettuali, fascisti, viveur, goliardi e buontemponi. Niente di preoccupante quindi, mand a dire Nello al capo, solo una gran cena che sarebbe probabilmente finita con una colossale sbronza, com'era nei costumi dei degenerati futuristi. La segreteria non diede segno di ricevuta comunicazione n impart altre direttive: segno che Nello Tuozzo aveva ben svolto il suo compito e avrebbe ricevuto il meritato compenso. Ma, il giorno dopo la cena, sul giornale di Carli e Settimelli "L'Impero" comparve un esplosivo rendiconto della serata e in prima pagina, con un'aria quasi di sfida, troneggiava un titolo a lettere di scatola che diceva Il Duce del futurismo. Era successo che, approfittando dell'occasione e dei molti presenti, Filippo Tommaso Marinetti, aveva scatenato il suo spirito e a seguire quello dei convenuti, esaltando lo spirito interventista e diciannovista del gruppo dei futuristi, e dileggiando
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gli uomini della poltrona che in pochi anni avevano trasformato un movimento rivoluzionario in un salotto di vecchi tromboni. Il giornale venne presentato, fresco di stampa, a Mussolini che fremette: a partire da quel titolo era tutta una vergogna: il fascismo aveva un solo Duce, ed era lui. Chi altri si poteva fregiare di quell'appellativo, ponendosi cos al pari suo? Da Mussolini a Farinacci il passo fu breve. Se si considera che il cremonese era alla segreteria da poco pi di un mese e rimediava quella bella figura, si immagina facilmente con che animo egli fece ritorno nel suo ufficio dopo l'incontro con l'unico, vero Duce. Smorto e silenzioso come gli capitava di essere solo nei momenti di rabbia violenta, prima ancora di riflettere sulla situazione prese un foglio di carta e verg un breve telegramma da spedire alla spia Nello Tuozzo: scrisse "Imbecille". Ricevendolo il Tuozzo s'inorgogl, credendo che contenesse le direttive per un nuovo, forse pi impegnativo incarico.

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L'infelice
Lisa Garganelli, da qualche tempo, era infelice. Tutti coloro che le restavano intorno l'avevano compreso, la cameriera, le amiche con le quali si incontrava quotidianamente, fin il cagnolino Tut che passava le giornate a dormicchiare su di una sedia del salotto gnaulando di tanto in tanto per esprimere la sua solidariet con la padrona. Quali fossero le ragioni di questa sua infelicit non lo sapeva nessuno con certezza. Ma le amiche, ed i mariti di queste, avevano dei seri sospetti e guardavano al marito di Lisa con solide ragioni. Probabilmente anche a quelle di sua moglie, che di politica non s'era mai impicciata e che per, non essendo stupida, aveva capito su quale strada s'era messo il marito. Una strada che portava lontano, precisamente all'isola di Ventotene com'era specificato sul provvedimento di confino che il 15 ottobre 1930 venne recapitato al professore. Partito il marito, la vita della donna cambi. E, paradossalmente, in meglio. Successe infatti che colleghi, alunni, estimatori del professore, non
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potendo esprimere la propria solidariet e stima a lui direttamente, riversarono sulla moglie l'affetto che provavano per il marito. Fu cos che la casa del Garganelli, sino ad allora dimora severa, pregna delle austere teorie del professore sul diritto italiano, divenne un salotto discreto per entrare nel quale bisognava essere naturalmente antifascisti ma nemmeno pi di tanto: e questo al fine di non imbarazzare la bella padrona di casa che di politica non aveva mai voluto saperne. Quindi, una volta entrati in casa del Garganelli con la scusa di stigmatizzare l'esilio del professore, bisognava tener desta la conversazione con altri argomenti, anche futilit, spiritosaggini che rendevano allegra la padrona di casa. Nel numero dei visitatori, che era buona cosa non mancassero mai onde evitare che la signora dell'esiliato si sentisse abbandonata, comparve a un certo punto un giovane studente che, quasi subito, conquist la supremazia su tutti gli altri visitatori sia per la prestanza fisica sia per la facondia: aveva battute salaci cui la padrona rispondeva con acuti trilli di divertimento. Alla sua comparsa tutti gli altri amici di casa
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Garganelli percepirono in lui la violenza e la sicurezza del cervo maschio che sgomina gli avversari e segna il territorio. Si chiamava Umberto Presicci e nel corso di una delle sue prime visite confess a Lisetta di essere un rappresentante del fronte interno. Mentre nel salotto del professore il giovane Presicci si dava da fare, un altro fronte si stava muovendo, quello costituito dagli amici del professore che attraverso contatti segreti e amicizie altolocate cercava di ottenere la liberazione del Garganelli o uno sconto di pena. Le laboriose manovre di costoro cominciarono a tingersi di vittoria quando fu sicuro che Filippo Tommaso Marinetti avrebbe garantito il suo appoggio: il futurista aveva ormai una lunga esperienza in questo campo; non si contavano pi i suoi interventi a favore di artisti e intellettuali maltrattati dal regime. Si riteneva tra l'altro, nella cerchia degli amici del professore, che il ritorno a casa dell'uomo avrebbe salvato sua moglie dal cadere tra le braccia del giovane Presicci le cui mire non erano pi un segreto per nessuno. L'infelice Lisetta aveva, vero, ritrovato il sorriso,
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ma a un prezzo che a tutti sembrava troppo alto per l'onorabilit sua e di suo marito. Di comune accordo strinsero i tempi, supplicarono di fare in fretta e quando ormai la polizia fascista era incline a perdonare il ribelle professore, costui, informato di quell'azione in suo favore, intervenne e mand all'aria ogni cosa, scrisse infatti agli amici un'infervorata lettera in cui li informava che mai e poi mai avrebbe accettato il perdono da quel governo che combatteva da anni e che avrebbe scontato la pena sino in fondo, considerando un onore l'essere stato condannato da simili figuri. Non si sa come l'infelice Lisetta accogliesse la decisione del marito: forse anche lei che si sentiva, cos sola, esposta a tutti i venti, considerava favorevolmente un suo ritorno tempestivo per allontanare da s le tentazioni, ma suo marito non voleva tornare, preferiva restare laggi, confinato e solitario. Forse non le voleva pi bene, forse aveva trovato un'altra donna e lei, in quel salotto dove ormai solo il giovane Persicci si esibiva, si sentiva tanto, ma tanto infelice.
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Finis terrae
L'allegria finita, se ne sono accorti tutti ma come al solito quando gi successo, adesso non c' pi niente da fare, bisogna solo prenderne atto. Se n' accorto anche un toscano, uno dei militi della "23 marzo", la divisione di camicie nere di cui Filippo Tommaso Marinetti seniore, dislocata sul fronte russo a coprire un breve tratto del Don. Senza alcuna malizia un giorno, a quell'ufficiale di sessantasei anni che nonostante una pregressa ulcera duodenale ed una recidiva di ernia ha voluto essere ancora una volta al centro della battaglia, ha detto scherzosamente: -Era meglio quando ci si abbronzava, eh? Sulle prime il seniore Marinetti non ha ben compreso il significato di quella frase. Ha richiamato a s il giovane e gli ha chiesto il motivo di quella sua uscita. Il milite, intimidito, forse improvvisamente conscio di essersi rivolto a un superiore con un tono un po' troppo confidenziale ha balbettato qualcosa. -Dicevo che forse piuttosto che qui, era meglio
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stare in Africa, per via del freddo. Allora il seniore Marinetti gli ha dato una pacca sulla spalla e a sua volta ha mormorato qualcosa. Ha detto: - Adorare l'Italia -, una frase che da qualche tempo lo tormenta come un'idea fissa e che il giovane in camicia nera non ha ben capito. Gli parso anzi che Marinetti abbia borbottato qualcosa come: - Ritornare in Italia. Pi tardi il toscano l'ha detto ai suoi commilitoni e per il campo adesso gira la voce che Filippo Tommaso Marinetti, provato dal fronte russo, si sta preparando a tornare in patria. L'accenno del giovane all'Africa contrapposto al freddo mortale che gi in settembre padrone della steppa, ha fatto breccia nel pensiero del Futurista: non al punto da pentirsi per essersi voluto misurare a tutti i costi con quell'estrema avventura russa, bench nessuno ce l'abbia obbligato, ma tanto da riportarlo con la memoria ai lontanissimi giorni della sua giovinezza egiziana e a quelli pi recenti e pi allegri della guerra in Africa orientale. L'allegria, allora, era tutta intera, cos come il suo patrimonio. In pochi anni invece cambiato tutto. L'allegria
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si sciolta come neve al sole grazie ai tromboni di partito che hanno trasformato l'Italia in una caserma e gli italiani in funebri marionette. Il patrimonio si via via assottigliato, consunto: pazienza, almeno quello servito a sostenere le battaglie futuriste, a dar da mangiare agli aeropoeti e agli aeroscrittori che altrimenti non se la sarebbero cavata: ha prodotto letteratura, musica, sogni e vita. Il sogno adesso non c' pi, la vita pu sparire da un momento all'altro. Dall'altra parte del Don ci sono i russi: sparano e tirano bene. Sono sicuramente patrioti come lui, forse tra loro c' qualche futurista come lui. La malattia che ha fatto dimagrire il seniore Marinetti, che gli ha scavato i muscoli, che gli ha fatto venire le occhiaie quella: si sente un soldato di carne cui hanno imposto idee di cartone. La carne soffre e sanguina, patisce il freddo dell'inverno russo e le pallottole dei patrioti russi; il cartone delle idee non d alcun riparo: con esso tentano di fabbricare scarpe con le quali i soldati italiani dovrebbero sfidare il gelo del generale inverno. "Adorare l'Italia" sopra la musica dei tromboni
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che l'hanno affossata. La frase, ripetuta ossessivamente come una formula magica, diventata una preghiera intima e segreta. Bisogna adorare l'Italia, la vita e le idee: non quelle di cartone, ma quelle che ti asciugano muscoli e patrimonio, per le quali si rischia la pelle. "Ritornare in Italia" la frase che corre per l'accampamento, tra i commilitoni del seniore Filippo Tommaso Marinetti. I quali sono consci di avere tra di loro una personalit, un Accademico d'Italia, un uomo che ha fatto parlare di s e che alla soglia dei settant'anni ha voluto essere con loro in Russia. Sono consci del fatto che, proprio perch il seniore Marinetti quello che , pu decidere da s se proseguire la guerra sul fronte russo oppure tornarsene a casa al caldo: nessuno avrebbe il coraggio di rimproverarlo. Comunque ha deciso, l'ha detto a quel toscano: "Ritornare in Italia", beato lui che pu farlo. Chi pu dargli torto? Non ha un bell'aspetto, si vede che soffre: molti pensano che se non si affretta a tornare difficilmente passerebbe indenne l'inverno che incombe.
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Il seniore Marinetti non pensa a nessun ritorno anche se avverte che i suoi muscoli non reggono pi la fatica. a conoscenza della bugia che gira per il campo: non ne tiene conto, una bugia piccola, soprattutto se confrontata a quelle raccontate dai capi prima di aprire il fronte russo. Tuttavia quando gli giunge l'ordine di rientrare in Italia non riesce a opporsi: lascia che si compia quello che la giovane camicia nera ha profetizzato . Ognuno dei suoi commilitoni immagina il viaggio di ritorno. Molti stringerebbero un patto col diavolo: la loro giovane et per quella acciaccosa del seniore Marinetti pur di prendere il suo posto sul treno che lo riporta indietro. Il viaggio a ritroso un viaggio lungo e penoso. Ma succede un miracolo perch il destino si deve compiere. La velocit, la dea pi volte cantata da Marinetti e dai suoi compagni, plana su quei binari, manovra il locomotore. Filippo Tommaso Marinetti in Italia in un lampo. Zang tumb tumb, dalle parole ai fatti. Due colpi al cuore, Il primo, piccolo, zang, il 5 gennaio 1943,
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a Brescia, durante una manifestazione al teatro Grande. Marinetti deve parlare per infuocare gli animi, deve dare credibilit alle balle del regime: sa gi che le parole possono diventare fatti, ha toccato con mano la dea Velocit di cui tanto ha scritto e che dalla Russia l'ha riportato in Italia volando. Non ha il sospetto che la sua corsa quella di un sasso che rotola gi da una china. Parla e s'infervora: lui ha provato tutti i fronti, conosce la guerra e il rumore della mitraglia. Quindi zang, il primo colpo al cuore. E poi tumb tumb, il colpo grosso, qualche giorno dopo. Il colpo lo strappa dalla trincea che s'era scavato anche in patria e lo butta su di una poltrona: il cuore del futurista trema come quello di un innamorato al chiaro di luna. Soffre, secondo l'antica profezia. Molti dei suoi vecchi compagni combattono sui pi vari fronti di guerra ed egli ne rivendica la presenza che nessuno vuole riconoscere, le sue parole per sono ormai difficili da cogliere, sono veloci, volano sulle ali della dea Velocit che non lo molla, anzi lo segue passo passo e non potendo spingerlo a niente aspetta il momento buono e intanto si diverte a
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creargli intorno un vorticoso succedersi di avvenimenti che Io turbano e ogni tanto gli stringono il cuore sino a fargli male: gli alleati sbarcano in Sicilia, le notizie di amici uccisi, l'arresto del Duce, Badoglio capo del governo, Roma met nazifascista e met lealista, i bombardamenti, il ritorno di Mussolini, la sua voce da radio Monaco, una voce d'oltretomba che annuncia la fondazione della Repubblica Sociale. Quella voce un lugubre richiamo di lupo. colorata di nero. Anche la dea Velocit che aveva preso per mano Marinetti si ferma ad ascoltarla: ne coglie i toni luttuosi, le pause che sembrano piene di un vento che solleva polvere. Quella voce la voce di un uomo che sta annegando, ma non in mare, dove gli echi si perdono, in uno stagno piuttosto o forse, chiss, in un lago. Dalle parole ai fatti ma i fatti a volte le contraddicono. Sia quindi lode al cielo che ha preservato Venezia, anzi Venedig, dagli strali dei futuristi. La Velocit ha ripreso il suo lavoro feroce, quello di mangiarsi uno dopo l'altro tutti i giorni
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del Futurista. Marinetti respira a fatica: c' un vento che soffia contro di lui e sembra togliergli l'ossigeno che gli serve. A Venezia abita prima in una pensione poi passa in un appartamento che d sul Canal Grande. Venezia si va riempiendo di ruminatori, smemorati, papponi, opportunisti, spie e cani rognosi: nessuno pi ricorda il futurismo, la sua carica eversiva, la sua religione della quale il fascismo, a un certo punto, aveva fatto la bandiera. In tutto quel popolo che infetta Venezia c' una sorta di fretta, come se non ci fosse pi tempo da perdere in niente che non sia importante. Dopo non ci sar pi tempo. Ma cos' importante? Dalle finestre dell'appartamento sul Canal Grande Marinetti vede un'acqua torbida come le facce che incontra a volte in giro per le calli: sono quei visi maschere, in una citt che la patria del carnevale, in un'Italia che tutta una mascherata. importante strappare le maschere, gridare che il futurismo c' ancora, resiste. Fare insomma l a Venezia un Congresso Futurista di guerra, tirar fuori dal silenzio gli antichi slogan, gridare, sbracciarsi.
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Tavola 5 Lombra di Marinetti Velasco 1995 - carboncino su carta cm. 38x11

Ma il cuore, zang tumb tumb, gli dice pi di una volta che il tempo di gridare c' gi stato, passato e il cervello risponde che senza un grido potente e prolungato, nessun orecchio ora potrebbe udire le voci sotterranee del futurismo: bisogna superare il rumore dei bombardamenti. Va giocata una grande scommessa: dileggiare per l'ennesima volta Venezia, mostrarle le chiappe, fuggire da l. Ubbidire all'invito di Mussolini, andare sul Garda. Il Duce l'ha sempre ascoltato e lo ascolta ancora. Non una marcia verso la Svizzera ma una corsa verso il futurismo e il cuore gi pi volte colpito far quell'ennesima fatica e sosterr il passo. Via da Venezia, sul Garda. Sul Garda c' buio, silenzio, morti in piedi. La rivelazione improvvisa dopo un viaggio pericoloso, interrotto frequentemente dalla paura dei bombardamenti e dalle tachicardie che assalgono il cuore di Marinetti.
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La dea Velocit ha trovato nella lontananza un alleato, tradendo un'altra volta il poeta Marinetti. Da lontano sembrava che l a Gargnano pulsasse un cuore nuovo per l'Italia e ci fossero i polmoni del Futurismo. Sembrava che l, vicino a chi l'ha sempre ascoltato, la parola potesse ripartire e sferzare le orecchie e le coscienze. Cos, con quei miraggi nella testa, Marinetti ha affrontato il viaggio rischioso e alla fine inutile. Non c' niente di niente. Silenzio, buio, odore di cimitero, puzza di acqua marcia, paramenti funebri. E tedeschi dagli occhi vacui, i nipotini di Rosemberg e Von Ribbentrop che del futurismo non hanno mai capito nulla e non potranno mai essere i padrini della sua rinascita. Il cuore di Filippo Tommaso Marinetti comincia allora a comprendere la verit: l'alleanza della velocit con la lontananza simile a quella del troncone nord dell'Italia con la Germania nazista: non c' futuro, odora di morte. Non resta altro da fare che fuggire, questa volta per davvero. Ma la fuga, Marinetti lo sa, una cosa veloce: bisogna stringere ancora la mano alla dea Velocit, affidarsi ad essa.
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Durante una delle ultime sere passate sul Garda Marinetti cerca di scrutare il fondo del lago e non ci riesce: riflette sulla sua sorte e su quella di tutti coloro che stanno con lui: sarebbero morti tutti. A ucciderli sarebbero stati i figli che hanno mandato in guerra. Le parole e i pensieri con cui li hanno illusi sono diventati armi e corpi, divise e aquile d'acciaio. Nessuna idea futurista mai diventata strumento di morte: libri, invece, dipinti, spartiti, giornali e poesie. necessario fuggire dal Garda, dove la poetica futurista diventata la nenia di un rosario recitato in una camera ardente. Ecco quindi, firmato un nuovo patto con la Velocit, per la fuga. Ma adesso comanda lei. Non ha pi bisogno di nascondersi, padrona, alleata con la lontananza, col buio, col nero, col silenzio, Fa quello che vuole. Corre su una via di fuga che quella di tutti, la Svizzera. Como, la prima sosta, inutile, non c' posto. Neanche un rifugio temporaneo da cui spiccare il salto. Como pericolosa. Lo chiamano il gerarca Marinetti. Frase che suona a condanna. La velocit non ha requie. Via da Como, Cadenabbia, Griante.
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Paesaggi di fine ottocento, silenzi che inclinano alla poesia. Cento dialetti s'incrociano, mille inflessioni. Fuggiaschi di tutta Italia ammassati in attesa di passare di l. "Di l dove?" si chiede il cuore del poeta. Marinetti combatte una battaglia, ha un cuore malato ma indomito. I suoi alleati, i suoi nemici non si fidano. Hanno bisogno di un aiuto, arriva, un frettoloso giudizio. La fretta tale per cui nessuno, anche chi ha letto qualcosa di lui o ne sa pi degli altri, si chiede quale mai mostro incarna e perch lo si debba ritenere un simbolo da abbattere, quasi che fosse un segretario di partito o un fucilatore di partigiani. Ma in una partita senza quartiere va bene anche cos: i suoi nemici segnano un punto a favore e si strizzano l'occhio: dicono, l'abbiamo in pugno. Via da Griante a tutta velocit. "Ti aspettiamo, Marinetti, vieni qui, a Bellagio". Il miracolo si compie a Bellagio. Marinetti scende all'hotel Splendid. stordito e abbattuto. Tutto quel correre lo ha confuso. I suoi pensieri hanno corso alla stessa velocit delle vicende che in poco tempo lo hanno portato dal Don alla riva
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del lago. A Bellagio, nel paesaggio di un lago morbido e sornione, dai boschi quieti e sontuosi nell'abito autunnale, come d'incanto egli finalmente atterra, il suo cuore si placa, la sua mente si rasserena. Sembra che i nemici l'abbiano affidato alle mani di un carceriere su cui possono contare: loro hanno altro da fare, altri da trattare come lui. Sulla riva del lago, una sera, Marinetti guarda la superficie dell'acqua. una bella sera, il cielo terso, non c' un alito di vento, freddo, l'aria profumata, non ci sono rumori, i contorni delle cose sono perfetti. L'acqua del lago scura. Non si vede il fondo. Marinetti alza piano lo sguardo, verso la sponda opposta, verso la montagna. Ci sono pochissime luci, l'oscuramento non le permette. Ma c' la luce della luna e il cielo profondo e limpido. Guarda la montagna dietro la quale c' la salvezza. Sale con lo sguardo fino al suo profilo netto contro il cielo. All'improvviso capisce, sente, sa per certo che dietro quella montagna non c' niente. O meglio, forse c' un mare, forse un vuoto d'aria ma non
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certo la Svizzera. Lui sul confine, sulla finis terrae. L'Italia finisce l, come il mondo, la terra. C' giusto il tempo per scrivere un inno alla vita che esplode, alla giovent, all'amore per l'Italia: un inno dedicato alla X Mas, ai suoi uomini che offrono un sacrificio supremo. Ma non va bene cos, monsieur le Futuriste, non hai compreso la lezione. La dea Velocit ritorna brevemente sul lago per rimettere a posto le cose: ha fretta, molti altri attendono. Non lo prende pi per mano, gli stringe il cuore, glielo fa battere oltre il sopportabile. Il cuore si ferma. Forse batte ad una velocit tale che l'occhio umano non riesce a coglierla. In ogni caso lo scopo raggiunto, Marinetti morto.

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Requiem
L'ultimo rompiscatole con cui ebbe a che fare, per interposta persona, Filippo Tommaso Marinetti, si chiamava Oscar Ghislanzoni: era un ventunenne di madre bergamasca e padre bellagino, di professione fornaio, disoccupato. Aveva la vaga idea di farsi aeropoeta ed essendo a conoscenza della presenza in Bellagio del capo di quella scuola aveva tentato di incontrarlo. Il portiere dell'albergo Splendid di Bellagio lo conosceva bene: l'aveva gi ricacciato pi di una volta in strada dalla soglia dell'hotel. Il Ghislanzoni non aveva mai fatto storie ma nemmeno si era scoraggiato per le brusche maniere esibite dal portiere il quale, alla fine, aveva soprannominato il fornaio "Marinetti c'". Il Ghislanzoni, infatti, aveva preso l'abitudine di presentarsi alla portineria dell'albergo, chiedere compitamente: - Marinetti c'? -. Il "No!" solenne del portiere lo dissuadeva dall'insistere, rispondeva "Torner" e il giorno seguente ritentava. La stessa scena si ripet anche la mattina del 3
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dicembre 1944. Era una splendida mattina invernale. Il freddo aveva cancellato ogni profumo dall'aria ma aveva dato alle cose, agli alberi, alle montagne, alle case, al cielo e al lago, una sontuosa immobilit: il Ghislanzoni, avviandosi verso lo Splendid, aveva poeticamente pensato che sembrava di camminare in un quadro a olio, poi aveva cassato il pensiero, non sembrandogli sufficientemente futurista. Nel corso della notte Filippo Tommaso Marinetti si era spento. Il fornaio non lo sapeva. Fischiettava allegramente, fiducioso che prima o poi l'incontro tanto desiderato si sarebbe realizzato. Come suo solito si present al portiere e chiese: - Marinetti c'? - S - rispose il portiere - l che ti aspetta. Ed indic al giovane fornaio la camera ardente che era stata appena allestita. Il giovane rest di sasso, il suo sogno croll. Rest ipnotizzato dallo spettacolo che gli si presentava: il corpo senza vita del poeta che aveva vanamente inseguito, il silenzio che regnava nella sala, l'odore pesante di chiuso. Gli sembr di essere gi in una cappella cimiteriale. Per contrasto pens alla bella giornata
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che si era appena lasciato alle spalle: ne ebbe voglia ma gli manc il coraggio di tradire Marinetti in quel momento estremo. Rest per tutta la giornata a vegliare la salma del poeta senza scambiare parola con alcuno. Fu il portiere dell'albergo, verso sera, che gli chiese gentilmente di andarsene. Il giorno seguente prese parte al funerale, Il tempo era cambiato. Il cielo era velato da un'uniforme coltre di nubi e sembrava lontanissimo. Senza la luce del sole il paesaggio era piombato in un omogeneo colore grigio, non c'era alcuna vitalit nelle cose, i rumori erano ovattati: sembrava prossima la neve. La gente era giunta alla spicciolata sul sagrato della basilica bellagina di San Giacomo. S'erano formati piccoli capannelli, da cui saliva un chiacchiericcio composto, tipicamente funebre. Il Ghislanzoni aveva esitato un po' prima di entrare in chiesa. Quell'esitazione gli fu fatale. Infatti, cos solo e incerto, lo not un tenente della Guardia Nazionale Repubblicana che lo affront spavaldamente: gli chiese, senza giri di parole, come mai, alla sua et, fosse in abiti civili. Era un disertore, un ribelle o un
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fesso? Qualunque fosse la sua categoria di appartenenza, specific il tenente, era pronto un destino di piombo. L'Oscar, preso alla sprovvista, balbett, incespic nella risposta e si sarebbe certamente messo in un brutto guaio se non fosse intervenuto un milite della Brigata nera "Cesare Rodini" il cui drappello aveva aperto il corteo funebre, offrendogli l'arruolamento immediato. Il fornaio aveva capito che c'era di mezzo la pelle: accett, simulando anche un discreto entusiasmo. Gli venne dato l'ordine di aggregarsi alla brigata, di seguirla in ogni suo movimento. Il Ghislanzoni, terrorizzato, ubbid e nel tardo pomeriggio si trov sbalzato su di un camion che viaggiava in direzione di Milano. Nel capoluogo gli tocc ancora di vegliare, in piazza San Sepolcro, la salma di Filippo Tommaso Marinetti e infine, inumato il corpo del poeta, esplet le formalit del suo arruolamento. All'atto dell'incorporamento il Ghislanzoni declin false generalit: disse infatti di chiamarsi Martinetti. Con precisione non sapeva spiegare nemmeno a se stesso perch avesse agito cos ma la
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lugubre aria che circolava nella caserma gli aveva suggerito che era meglio schermarsi dietro un falso nome, e conservare quello vero per tempi migliori. Il furiere lo registr come tale. Poi gli chiese quale fosse la sua attivit da borghese. Vergognosamente, perch avrebbe voluto rispondere che era poeta ma gliene manc il coraggio, ammise di essere capace solo di impastare michette. La notizia scaten l'entusiasmo del furiere che gliene chiese conferma: da tempo cercava qualcuno in grado di fare il pane come Dio comanda, in caserma avevano forno e farina ma nessuno capace di panificare. Fu un colpo di fortuna insperato, perch in virt di ci Oscar Ghislanzoni venne esentato da qualunque servizio armato: l'unico suo compito era quello di dedicarsi al pane della truppa. Fu questa la salvezza di Oscar Ghislanzoni perch, seguendo le regole di vita del buon fornaio, dormiva di giorno e lavorava di notte, cos che non dovette mai compromettersi con le azioni della brigata cui apparteneva; e, in secondo luogo, non ebbe mai occasione per indossare la divisa ma solo una sbrindellata canottiera. In tale guisa infatti, e
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impiastricciato di farina, lo trovarono i liberatori i quali da mesi anelavano di mangiare una michetta di pane bianco. Fatta piazza pulita dei militi repubblicani e trovatisi davanti all'Oscar a nessuno dei barbuti partigiani venne in mente che il Ghislanzoni potesse essere un brigatista nero: lo presero invece per quello che sembrava e che in effetti era, un fornaio e, come tale, anche loro lo impiegarono. Il fornaio pass quei giorni d'aprile lavorando come non mai perch i suoi nuovi clienti avevano una fame infinita. Approfitt anche della confusione per bruciare nel forno alcuni versi liberi che aveva scritto ispirandosi ai camerati di prima e che ora giudicava a ragione compromettenti: tanto pi che la passione delle parole in libert gli era passata quasi del tutto, affrontata e vinta da quella dell'aeroscultura che aveva trovato nella farina da impastare una materia versatile. Per vincere la noia delle lunghe ore passate a impastare e a cuocere l'Oscar aveva preso a dare al suo pane forme strane, aerodinamiche, spaziali e, per ironia della sorte, i partigiani le apprezzavano grandemente: dicevano addirittura che quelle michette li
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sfamavano meglio delle altre. Passato indenne anche attraverso questa seconda esperienza il fornaio fece ritorno a casa, in quel di Bellagio, con la coscienza che far michette era la sua vocazione. Apr quindi un forno con annessa panetteria. In memoria delle sue avventure belliche volle battezzarlo "il forno di Martino". A chiunque gli chiese la ragione di quel nome diede sempre vaghe risposte. Pi tardi si spos, mise al mondo dei figli, ampli la bottega e si ritrov poi a rievocare, con la moglie e coi figli, quelle ormai lontane avventure, che costituivano l'episodio pi turbolento della sua vita, in quanto dopo non era mai pi successo niente di altrettanto movimentato: solo michette, che aveva impastato per anni e anni. E, accanto a quelle tradizionali, quando l'ispirazione lo prendeva, le altre, quelle futuriste dalle forme strane, che piacevano tanto ai bambini e ai ragazzi, e soprattutto alle mamme che dicevano che i loro figli le mangiavano pi volentieri delle altre. A quelle affermazioni Oscar Ghislanzoni sorrideva contento e si sentiva un benefattore dell'umanit cos come tale si era sentito in quegli
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anni ormai lontani, quando quel suo stesso pane aveva riempito gli stomaci di tutti, senza riguardo per il colore della camicia indossata.

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Una storia esemplare


Quella di Maria Bissolati, nata a Como nel 1892, sarebbe stata una vita anonima, normale, e quindi inadatta per farne motivo di un racconto, se nel suo corso, quando la Bissolati era appena ventenne, non fosse accaduto un fatto che, al momento del suo verificarsi, le regal un quarto d'ora di gloria ma alla lunga, negli anni della vecchiaia e della malattia le procur pi di qualche amarezza. Poich la rivelazione di quell'episodio giovanile fece seguito a piccoli misteri e a drammi intrisi di meschinit, ritengo opportuno rivelare la storia cos come si svolse e come poi io stesso l'appresi, comportamento che mi offre il destro sia di rispettare la verit, potrei dire, storica dei fatti sia di mantenere sempre ad una certa temperatura la suspence, cosa che in un racconto non guasta mai. Maria Bissolati era nata a Como nel 1892, si era sposata all'et di 24 anni, aveva abitato in citt sino ai 30 anni poi aveva seguito il marito ferroviere a Cremona e a Mantova. In quell'arco di tempo mise al mondo due figlie. Quando, nel 1954, suo marito
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mor, la Bissolati lasci Mantova, dove non aveva amicizie o parenti, e si trasfer nel Comune di Costamasnaga dove le figlie, sposate, abitavano. Non volendo importunare con la sua presenza nessuna delle due, scelse di abitare in una frazioncina di questo comune, in una piccola casa che arred parcamente, disponendo di pochi mezzi. La soluzione accontent le due figlie e la madre che si vedevano spesso ma, come diceva la signora Maria, non si pestavano mai i piedi. Nell'ottobre del 1962 la Bissolati venne colpita da un ictus. Fu un attacco di media gravit che lasci poche sequele, ma come dissero i medici dell'ospedale dimettendola dopo un mese di degenza non ci si poteva fidare a lasciarla sola in casa. a questo punto che nell'economia della storia intervengono decisamente le due figlie: una, Maria Pia, un'occhialuta insegnante di lettere, l'altra Agnese, un'asmatica casalinga. Erano entrambe sposate ed entrambe avevano un figlio. Maria Pia si offr subito di ospitare in casa la madre. Agnese, presa un po' alla sprovvista dalla decisione della sorella, accett. Qualcosa per le
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fece bruciare la punta della lingua: il sospetto che dietro la generosit della sorella si celasse un secondo fine. Quale, sarebbe difficile da dire, perch Maria Bissolati di suo aveva ben poco: la sua maggiore entrata era un'asfittica pensione di reversibilit. Agnese tenne per s il sospetto e non fece storie, anche perch non le sarebbe stato assolutamente facile convincere il marito musone ad accettare in casa la madre. Fu cos che la Bissolati approd alla casa della figlia Maria Pia. Il trasferimento avvenne verso la met di dicembre del 1962. Non fu un vero e proprio trasloco: Maria Bissolati non possedeva n mobili n suppellettili. Usc dalla sua casa con una borsa che conteneva quattro vestiti e un po' di biancheria. - tutto qua? - chiese sconcertata Maria Pia. -S - conferm la Bissolati. Giunti a Costamasnaga Maria Pia mostr alla madre la casa e infine il suo angolo, una cameretta odorosa di naftalina e di muffa: era stata pensata per un secondo figlio che non era arrivato. Ormai n Maria Pia, n suo marito lo aspettavano pi. Ripulita, con un lettuccio e un comodino, divent la camera della nonna. Maria Bissolati si guard in
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giro: c'era poco da vedere. Si sedette sul bordo del letto. Senza particolare interesse chiese: -Quanto? Maria Pia finse di non capire. -Cosa vuoi dire? - chiese. -Dovr ben contribuire al mio mantenimento no? - Maria Pia si rilass. -Ma ti pare un discorso da fare adesso? ammon. -Adesso o fra due giorni lo stesso - comment la madre. -Ne parleremo - esclam Maria Pia. La madre tir un sospiro. -In fondo la mia pensione serve a questo - disse. Le festivit natalizie furono motivo di inquietudine per Maria Pia. Di solito i nonni sono generosi coi loro nipotini anche perch costoro verso i nonni, hanno sempre un'attenzione, un pensiero particolare. Il nipote Roberto non mostr alcuna attenzione significativa per la nonna. Tocc a Maria Pia prenderlo in disparte, spiegargli che per Natale avrebbe dovuto fare un regalo alla nonna. Fu lei ad acquistare uno scialletto, lei a
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scrivere il biglietto d'auguri. Quindi spinse il ragazzo a consegnare il dono qualche giorno prima di Natale. Poi attese. La nonna Maria non fece regali a nessuno. Pazienza per lei e suo marito. Ma almeno la classica mancia di Natale al nipotino se l'era aspettata. Invece niente. Passarono Natale e la fine d'anno. Maria Pia si illuse che la madre fosse legata all'antica tradizione che voleva i Re Magi o la Befana dispensatori di doni. Pass anche l'Epifania senza che nemmeno una lira uscisse dalle tasche della nonna. Inoltre della pensione e del suo contributo al mantenimento non avevano pi parlato. Per un paio di mesi, dopo le festivit natalizie, non successe niente di particolare. La nonna se ne stava la maggior parte del tempo chiusa nella sua cameretta a leggiucchiare qualche giornale femminile che Maria Pia le passava. Di tanto in tanto l'asmatica Agnese andava a trovarla. Una volta Maria Pia le confid le sue perplessit circa la pensione della madre: l'asmatica Agnese risposte tenendosi sulle generali ma si sent stranamente pacificata al pensiero che sua sorella non traeva
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alcun vantaggio dall'ospitare la donna. Tuttavia, nell'animo di Maria Pia, s'era insinuato una sorta di dispetto per quell'atteggiamento materno: le era difficoltoso ammetterlo, ma ogni volta che la donna sedeva a tavola con loro la sua mente calcolava quanto, dello stipendio del marito e del suo, sua madre mangiava. Non vedeva alcuna soluzione a quel problema, se non quella di continuare a subire e per chiss quanti anni ancora, visto che la salute della donna sembrava aver ripreso l'antica saldezza. Senonch, poco prima di Pasqua, successe un guaio: Maria Pia, contro ogni volont e previsione, rest incinta. Aveva 38 anni. Il ginecologo la rassicur prontamente sui pericoli di quella gravidanza tardiva. Non c'era motivo di spaventarsi n di temere per la salute del bambino. Quando Maria Pia diede notizia della novit alla sorella Agnese, questa era preda di una crisi d'asma. Le parole della sorella non fecero che aumentare l'affanno di Agnese anche perch, nella mente di entrambe, si present il pensiero della madre. Non c'era pi spazio per lei nella casa di Maria Pia, non ce n'era mai stato in quella di
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Agnese. In sostanza bisognava cercarle un posto in una casa di riposo. Maria Bissolati apprese la lieta novella con una mansueta meraviglia che la figlia Maria Pia attribu allo svanimento della vecchiaia. L'occhialuta insegnante aveva predisposto un lungo discorso con la madre che, per gradi, l'avrebbe portata a considerare la necessit di trovarle una sistemazione. Pensava Maria Pia che, se avesse agito bene e con intelligenza, la donna stessa sarebbe arrivata alla conclusione di dover cambiare aria. Cos fu. Maria Bissolati fu estremamente candida nell'esprimere la sua gioia per la gravidanza della figlia e consider senza angoscia la necessit di trovarsi un posto: posto che, stante la sua et, non poteva che essere in una casa di riposo. -La pi vicina - disse Maria Pia risollevata. -Vedremo - comment la madre.

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Tavola 6 - L'ombra di Marinetti Velasco 1995 - tempera su carta cm. 26x21

Le ricerche partirono immediatamente con grande spreco di energie da parte di entrambe le figlie e dei mariti i quali misero in campo tutte le loro conoscenze per ottenere raccomandazioni: anche allora infatti era difficile trovare agevolmente un ricovero nelle case per anziani. Tuttavia le due figlie furono fortunate. Nemmeno un mese dopo l'inizio delle ricerche trovarono quello che cercavano: il posto c'era, presso la casa di riposo san Francesco di Bellano. Ormai rassicurata dall'aver trovato una sistemazione per la madre Maria Pia volle fare le cose con calma. Non voleva imprimere alcuna fretta al trasferimento per non dare l'impressione che, sino ad allora, la presenza della donna le era stata di peso. Lasci passare un paio di settimane nel corso delle quali si preoccup di revisionare il guardaroba materno, integrandolo a spese proprie con quanto le sembrava mancasse. A un certo punto ricevette una telefonata da parte della madre superiora dell'istituto: voleva sapere se per caso
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avessero cambiato idea. Maria Pia le assicur di no e le chiese di portar pazienza ancora per qualche giorno. Fu sua madre per che le chiese lumi circa la partenza, dimostrando di non tollerare pi quell'attesa. - Hai cos fretta di lasciarci? - chiese Maria Pia. -No - rispose Maria Bissolati - ma visto che si deve fare vorrei sapere quando. La figlia le rispose con vaghezza, due, tre giorni ancora, disse. -Non potresti essere pi precisa? - insist la madre. - cos importante? Maria accenn di s. -Prima di partire - spieg - devo passare in banca. - L'occhialuta insegnante rest di sasso: in banca a fare che, visto che la pensione veniva versata in un conto postale? - Mamma - disse - cosa stai dicendo! -Devo prendere una cosa - risposte l'imperturbabile Maria - da una cassetta di sicurezza! A questo punto d'uopo rivelare l'arcano, il
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piccolo mistero che si nascondeva tra le pieghe della vita di Maria Bissolati: la quale, attorno ai diciott'anni e parimenti a quanto accade a molti giovani in qualunque epoca, s'era messa a scrivere versi. Ci che rese per breve tempo il suo destino diverso da quello di tanti altri fu il fatto che una sua poesia venne recitata nientemeno che da Filippo Tommaso Marinetti, la sera del 20 aprile 1911, presso il teatro Politeama di Como, nel corso di una delle solite, movimentate serate futuriste. ma ci non basta a spiegare il mistero: va aggiunto infatti che il futurista, non nuovo a exploit di quel genere, accompagn la lettura della poesia della Bissolati con parole di sperticato elogio, presentando la ragazza come una delle pi sincere voci della nuova poesia italiana, cosa che scaten l'entusiasmo del pubblico comasco presente in sala e gett la donna in una euforica confusione. Al termine della serata il poeta volle conoscere Maria Bissolati, le strinse la mano, le predisse un sicuro avvenire e le regal, a memoria dell'evento, un anellino d'oro che, da allora, la donna port sempre con s, ricoverandolo in una cassetta di sicurezza della banca subito dopo la fine della
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seconda guerra mondiale, per timore che le venisse rubato. Il suo avvenire di poetessa si pu dire che fin sul nascere, la sera stessa in cui si concluse la serata futurista comasca. Maria Bissolati non scrisse pi niente: prima il matrimonio, poi le figlie e le cure della casa la tolsero dall'infruttuoso lavoro di scrivere versi. Le rimaneva per quell'anello, unica, tangibile prova di un momento di vera gloria a cui pensava spesso come simbolo di un momento cruciale della sua vita, un bivio del quale aveva scelto a caso una delle due strade. L'occhialuta Maria Pia veniva solo ora messa a parte di questo segreto, ma fino a che non vide l'anellino futurista tornare, dopo tanti anni, al dito della madre, nutr il dubbio che nel racconto materno ci fosse troppa fantasia. Maria Bissolati forse colse qualche onda di incredulit dallo sguardo della figlia. - tutto vero - le disse infatti la mattina della partenza per l'ospizio di Bellano - Quando morir lo lascer a te, cos potrai raccontare questa storia ai miei nipoti e mostrando l'anello capiranno che non sono bugie. Quindi, salita in macchina, la Bissolati si chiuse
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nel silenzio che interruppe solo quando la vettura si ferm davanti all'ingresso della casa di riposo. Era una giornata di giugno, limpida: dal cortile della casa di riposo la vista spaziava senza ostacoli dalle prealpi orobiche lungo tutta la costa occidentale del lago di Como. La superficie del lago era immobile, lucida come uno specchio. -Ti piace il panorama? - chiese Maria Pia alla madre. -Mi scappa - mormor Maria in risposta. Quindi entrarono. Per otto anni, sino al 1970, Maria Bissolati fu una delle ospiti pi socievoli e discrete che la casa di riposo bellanese ebbe mai. Incurante della lieve zoppia che era l'unico strascico dell'ictus patito nel 1962, la donna divenne in breve una sorta di collaboratrice delle suore addette alla cura degli anziani, tanto da assurgere a simbolo delle ottime condizioni in cui venivano tenuti gli anziani ricoverati. Nell'arco di quegli anni, a scadenze regolari, sia Maria Pia sia l'asmatica Agnese andavano a trovarla, raramente in coppia, pi spesso divise. Capitava che se l'una decideva di santificare il
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Natale con la madre, l'altra lo faceva per Pasqua. Ugualmente capitava per l'onomastico e per il compleanno, per l'anniversario di matrimonio e per quello di morte del marito: tanto che la donna giunse a sospettare che qualcosa tra le due sorelle non andasse troppo bene e si spinse a chiedere lumi all'occhialuta Maria Pia. L'insegnante sulle prime nicchi e dribbl le domande della madre. Quest'ultima per, tutt'altro che svanita, non cedette e un giorno la costrinse a darle delle spiegazioni chiare. Venne cos a conoscenza del fatto che tutta la questione era incentrata sul famoso anellino futurista: Maria Pia aveva incautamente raccontato ad Agnese la storia del gioiello e l'aveva messa a parte della promessa che l'avrebbe ereditato lei. A quel punto Agnese era insorta, reclamando il pari diritto ad averlo. Da allora le due si annusavano poco ed evitavano accuratamente di incontrarsi. La Bissolati dentro di s disapprov il contegno delle due figlie ma si guard bene dal farlo apertamente e rivolse mentalmente al buon Dio una richiesta di aiuto per dirimere salomonicamente quella contesa.
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Nel 1971 Maria Bissolati venne colpita da un nuovo attacco cerebrale. Questa volta fu pi forte. Il suo fisico, bench sano, fu l l per cedere. Pencol per quasi due mesi tra la vita e la morte. Usc dal pericolo di vita ma non era pi la donna che era stata in precedenza. Quando la Bissolati usc dall'ospedale non era pi in grado di badare a se stessa e per qualche giorno le due figlie ebbero il timore che le suore non la rivolessero pi tra le ospiti della casa di riposo. Timore infondato, perch n la superiora, n le altre religiose si espressero mai in questo senso. Maria venne riaccolta nella sua solita cameretta e tra le suore e gli ospiti ancora validi si scaten una sorta di gara di solidariet per restituire alla Bissolati tutte le gentilezze e le premure che lei aveva distribuito con larghezza a tutti sino a qualche mese prima. Tuttavia le sue condizioni generali erano tutt'altro che rassicuranti. Il medico che la visitava settimanalmente la trovava sempre peggio: era chiaro che la donna aveva imboccato l'ultimo tratto di strada. Le due figlie incrementarono la frequenza delle visite presso la casa di riposo; quando non andavano di persona a
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visitare la madre, telefonavano per aver ragguagli. Va detto che, a onor del vero, la pena di vedere la madre spegnersi cos lentamente era superiore a qualunque altro immaginabile calcolo: la faccenda dell'anellino futurista e della sua destinazione era completamente scomparsa dalla mente dell'asmatica Agnese e dell'occhialuta Maria Pia. Ma si ripresent, velenosamente, nel novembre del 1971 quando Maria Bissolati, dopo tre giorni e tre notti di agonia, spir. Accadde verso le cinque del mattino. La superiora, constatato il decesso della donna, avvis il medico verso le otto, quindi le due figlie. All'ospizio arriv dapprima Maria Pia, all'incirca un'ora dopo Agnese, cui la notizia aveva provocato un attacco d'asma. Nonostante la commozione e il respiro stentoreo, quest'ultima not immediatamente che il dito della madre era senza il famoso anello. Quando giudic opportuno parlare, nell'atrio della casa di riposo, si avvicin a Maria Pia e disse: - Hai fatto in fretta a prenderti l'anello eh! Maria Pia rest di sale. Anche a lei, appena arrivata, era sfuggito uno sguardo tanto
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involontario quanto irrefrenabile al dito della madre, e l'aveva notato privo dell'anello. Quindi risposte con veemenza alla sorella, che si guardasse bene dall'accusarla di un'azione tanto meschina. Sfogata la bile, le due sorelle stettero per un po' zitte, interrogandosi ciascuna per conto proprio. Se nessuna di loro due s'era appropriata dell'anello futurista, c'era di che sospettare qualcuno degli ospiti. - La superiora? - si chiese a mezza voce Maria Pia. Il suo sguardo s'incroci con quello di Agnese. Era quasi ripugnante l'idea di interrogare la suora per una simile questione: tuttavia, per amor di verit, andava fatto e le due sorelle, alleate per l'occasione, lo fecero. La superiora era una donna di modi spicci, quasi bruschi. Aveva una trentennale esperienza di case di riposo e sapeva a memoria tutte le sciocchezze che i parenti dicono per blandire i vecchi e tutte le meschinit cui ricorrono quando ci sono di mezzo pensioni ed eredit varie. Non stette nemmeno ad ascoltare le due sorelle. Le lasci dire per qualche secondo e poi le mand a
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quel paese con un'espressione invero insolita per una religiosa. Un tale atteggiamento serv alle due per convincersi di essere su di una strada sbagliata ed allora, rianalizzando criticamente la successione degli eventi, giunsero alla conclusione che il maggior sospettato poteva essere il dottore che, la sera prima, aveva visto Maria Bissolati. Forse la superiora ebbe la percezione di quello che le due avevano pensato perch, dopo averle mandate a quel paese ed essersi ricoverata nelle cucine, fece improvviso ritorno e le mise in guardia dall'importunare altri, ospiti e no, con quei ridicoli sospetti. Se volevano davvero fare le cose sul serio, disse, che chiamassero i Carabinieri. - E poi si vedr! - concluse. Agnese e Maria Pia, cos strapazzate, colsero in quell'istante tutta la meschinit del loro comportamento. Si sgonfiarono. Ruppero quell'effimera alleanza e tornarono nella camera ardente dove giaceva il corpo di Maria Bissolati, ponendosi una in un angolo, una nell'altro. Per la tranquillit di tutti era meglio che riprendessero a sospettare l'una del1' altra.
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Nel giugno del 1982 il corpo di Maria Bissolati veniva esumato. Il becchino, che solitario procedeva a questa macabra incombenza, constat che i resti della donna erano completamente mineralizzati e che quindi si poteva, a termini di legge, ricomporre gli avanzi in una cassettina da sistemare nell'ossario, liberando cos un posto per quell'albergo che non conosceva mai periodi di bassa stagione. Fu cos che, lietamente ma senza quella gran meraviglia che ci si potrebbe aspettare poich non era un fatto straordinario, ritrov tra i resti della Bissolati un gingillino lucente. Lo raccolse, gli alit sopra, lo ripul e scopr che si trattava di un anellino d'oro, dalla forma strana ma carino. La superficie era, qua e l, appena erosa. Se lo guard per bene prima di infilarselo in tasca, riflettendo su come avesse potuto giungere sino a lui, scampando agli artigli dei parenti che, per ricordo o per avidit, raramente lasciavano addosso ai morti oggetti d'oro. Giudic che l'unica maniera grazie alla quale la donna, per chiss quali motivi, era riuscita a portare
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con s l'anellino, era stata quella di inghiottirlo, occultandolo cos nel suo stomaco. Le piccole chiazze di erosione del metallo confermavano la sua ipotesi. Il becchino, che voleva finire il lavoro prima che il sole cominciasse a scaldare troppo l'aria, ringrazi brevemente i resti di Maria Bissolati, recit un pater-ave-gloria e s'infil in tasca l'anellino futurista. Due giorni dopo lo faceva fondere assieme ad altri piccoli, simili reperti, simboli della caducit delle cose umane, in una croce che avrebbe donato a un nipotino prossimo alla prima comunione.

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Tavola 7 - L'ombra di Marinetti Velasco 1995 - tempera su carta cm. 56x42

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