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Tra storia e letteratura c un rapporto strettissimo, ineludibile.

Va da s che, almeno in parte, la letteratura sia la storia: le fonti narrative rappresentano, infatti, un lato importante della redazione storiografica. Tuttavia, la letteratura pu anche essere un indicatore storico neutrale: un elemento, per cos dire, statistico, utile a sottolineare i caratteri antropologici di unepoca o di un fenomeno. Cosa sapremmo dello spirito dellantica Grecia, senza Omero, senza Eschilo, senza Simonide? Potremmo cogliere gli aspetti esteriori della storia greca, ma ci sfuggirebbe lo Stimmung. Non avremmo idea di ci che i protagonisti di quella storia provavano, pensavano: di come, insomma, percepivano il mondo e la vita. Questo, sempre tenendo conto dellamplificazione cui la letteratura sottopone, inevitabilmente, la realt. Daltronde, anche lassenza di letteratura pu essere un dato significativo: nel caso degli Etruschi, ad esempio, questo ci d la percezione di una societ centrata sul reale e del tutto refrattaria allelaborazione filosofica. Alcune di queste caratteristiche sarebbero passate ai Romani, che degli Etruschi furono, se non figli, figliastri: almeno fino a quando la Grecia non fosse diventata la prigioniera che cattura, intrappolando i suoi conquistatori quiriti nella rete seducente della propria civilt letteraria. Anche riguardo a tempi pi recenti, possiamo stilare una sorta di mappa culturale, elaborando i dati sulla produzione letteraria (ma anche quelli sulle abitudini alimentari, i gustemi, quelli sul senso religioso o sul grado di fedelt coniugale) in modo da trarne interessanti informazioni sugli aspetti epistemologici e storici di un determinato periodo o di un fenomeno specifico. Questo genere di operazione, per, non si mai effettuata sul nazismo: troppo recente, forse, oppure troppo studiato da altri punti di vista. E talmente inevitabile il giudizio di condanna sul periodo nazista da pesare, come una cappa di piombo, anche sulle metodologie di ricerca storica che lo riguardano: si utilizzato un approccio psicologico (o psicopatologico, meglio), un approccio sociologico, uno antropologico, uno semiotico. Ma mai si cercato di analizzare il fenomeno del nazismo sotto il profilo della sua letteratura o, meglio, della sua assenza di letteratura. Naturalmente, non possibile, in questa sede, affrontare la questione con la dovuta profondit: tuttavia, pu essere di una qualche utilit anche soltanto accennare al problema, in termini strettamente storici. Di fronte alla questione del rapporto tra universo nazista e civilt letteraria, lo storico si trova in una situazione abbastanza imbarazzante. In realt, un giudizio sintetico potrebbe ridursi alla negazione, tout court, di questo rapporto. Non esiste, per intenderci, una letteratura nazista. Il fascismo, con tutti i suoi limiti e difetti, si dimostr eccezionalmente (per una dittatura) tollerante, in campo letterario, permettendo non solo deviazionismi e sperimentazioni, ma, perfino, la comparsa e la distribuzione di opere scopertamente afasciste, quando non antifasciste. Si pensi, ad esempio, alluscita, in tutta Italia e presso una major editoriale come Bompiani, nel 1929, de Gli indifferenti di Alberto Moravia: un libro che mostra un fascismo corrotto e clientelare, e una famiglia agli antipodi, morali e culturali, rispetto ai modelli propagandati dal regime; e, per di pi, scritto da un giovanotto ebreo. E vero che, allora, il fascismo era tuttaltro che antisemita, anzi: per, Moravia continu a pubblicare libri fino alla caduta del fascismo, il che la dice lunga sullatteggiamento fascista verso la letteratura. Oppure, considerando che di Moravia ospit gli scritti su La Stampa, si rifletta sulla eccezionale figura di Malaparte, autentico genio rabdomantico nello scoprire e lanciare giovani talenti, soprattutto con la rivista Prospettive. N si pu dimenticare linusitata apertura mentale di Giuseppe Bottai, gerarca illuminato e conclamato protettore delle arti. Daltronde, tutti gli

scrittori che entrarono a far parte della gioiosa macchina da guerra comunista nellimmediato dopoguerra, facevano gi gli scrittori sotto il regime di Mussolini, e con un certo successo: basti, a tal proposito, il bel saggio di Mirella Serri su I Redenti, che fecero il salto della quaglia alla fine della guerra. Completamente diverso il discorso riferito alla Germania nazista: i grandi scrittori, salvo qualche sporadico caso, si schierarono compattamente contro il regime e, di solito, espatriarono. Emblematico il caso di Thomas Mann, che pure aveva avuto posizioni decisamente nazionaliste, alla vigilia della Grande Guerra, e che si autoesili nel 1933, allascesa al potere di Hitler. Mann, subito prima di andarsene dalla Germania, aveva pronunciato, a Monaco di Baviera, il celebre discorso su Dolore e grandezza di Richard Wagner, in cui criticava apertamente i contatti dellarte col movimento nazista. A suo modo, scelse lesilio anche Hermann Hesse: un esilio interiore, fra i suoi acquerelli e la sua continua elaborazione letteraria (Il gioco delle perle di vetro ne fu il frutto, nel 1943). Hesse si astenne da un giudizio di condanna del nazismo: tuttavia egli, implicitamente, avvers lideologia nazista, rifiutando letica dello scrittore militante e sostenendo il totale distacco dellarte dalla politica, vista come elemento negativo per lispirazione di un artista. Possiamo dire che questi due esempi eclatanti, riferiti ai massimi scrittori tedeschi di quel periodo, possono dare unidea abbastanza verosimile degli atteggiamenti comuni ai letterati germanici durante il periodo nazista. A questo distacco degli intellettuali dalla vita culturale e letteraria della Germania nazista si aggiunga il fatto che il nazismo non diede particolare importanza alle lettere e che, perci, non coltiv un vivaio di giovani scrittori: non esiste una pepinire hitleriana. Da questo deriv una pressoch assoluta assenza di opere letterarie di un certo livello, nel periodo nazista. Inoltre, una caratteristica del tutto peculiare del fenomeno nazista fu quella scenografico-simbolica: non i fondali di cartapesta ed i costumi legionari di certi carmina saecularia fascisti, sempre a cavallo tra farsa in costume e recita scolastica, ma una mitologia cupamente teutonica, notturna, nibelungica. Forse, anche per questo, esiste unimponente produzione letteraria sul nazismo, ma non esiste affatto una letteratura nazista: i mitologemi hitleriani erano sostanzialmente visivi (le adunate, la geometrica potenza dello schieramento, la bellezza del corpo atletico) o, al massimo, teatrali, con linevitabile riferimento a Bayreuth e a Wagner. Questi si prestavano egregiamente ad essere analizzati o commentati, ma non a diventare arte narrativa. La letteratura non era lo strumento pi adatto per appropriarsi di questo spirito simbolico, tanto votato alla spiritualit fanatica del Fuehrerprinzip: cos, gli scrittori tedeschi degli anni Trenta, oggi, risultano essere quasi tutti comprimari senza volto. Dopo la grande stagione postbellica dellEspressionismo e prima di quella della riflessione dolorosa sui destini della Germania, che illumin di una luce crepuscolare la narrativa del secondo dopoguerra, la Germania nazista conobbe veramente un periodo di poverissima letteratura. Perfino Ernst Juenger, a ragione considerato un cantore del mito nazista delloperaio-soldato (Der Arbeiter Herrschaft und Gestalt, 1932), fu, in realt, un prenazista: confluivano in lui le suggestioni boscherecce dei Wandervogel (Bltter und Steine, 1934 e Auf den Marmorklippen, 1939) ed i ricordi vividi dei campi di battaglia (In Stahlgewittern, 1920 e Das Wldchen 125, 1925) ma questi erano elementi gi assolutamente presenti nella Germania degli anni immediatamente successivi alla guerra. Juenger si limit (si fa per dire) a descriverli, col suo incomparabile nitore. Va detto anche che il nazismo dur, cronologicamente, poco: se escludiamo gli anni della guerra, che, anche

culturalmente, sono cosa a s, il potere hitleriano si afferm per soli sei anni. Troppo pochi per influenzare un movimento letterario, una scuola o anche solo una tendenza, una sensiblerie. A ci si aggiunga un sostanziale primitivismo nazista: unidea di ripartire da zero, facendo tabula rasa. Mentre in Italia il fascismo non solo non si sognava minimamente di mettere in discussione il valore della cultura accademica, ma faceva proprio dellAccademia un veicolo di propaganda, lideologia millenaristica del Terzo Reich provava nei confronti della civilt letteraria tedesca un senso quasi di diffidenza, preferendo, di gran lunga, il concetto epistemologico di Kultur a quello di Zivilisation. La Kultur era atavismo, tradizione, sangue e terra, insomma: questo meglio si accoppiava alla visione nazista del mondo, rispetto ad un sistema di pensiero che rischiava di rispolverare i grandi nemici della dottrina hitleriana, dal razionalismo allo spiritualismo idealista. La somma di questi fattori, disinteresse per la letteratura, diffidenza per la cultura accademica, oppressione censoria, mitologia essenzialmente visiva, fecero s che una letteratura nazista non potesse mai, non si dice decollare, ma neppure battere timidamente le ali. Cos, oggi, se vogliamo cogliere il senso della cultura nazista, dobbiamo ricorrere alle coreografie di Norimberga, ai castelli del progetto Lebensborn, ai film della Riefenstahl: non certo alla pittura, che fu conformista e didascalica, o alla scultura, che assunse i toni del gigantismo classicheggiante, tipici delle dittature novecentesche. E, men che meno, cerchiamola in Juenger, gigantesco anarca. In fondo, i letterati nazisti si rapportarono con la letteratura come il loro Fuehrer si rapportava alla pittura: volonterosi dilettanti.

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