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Aldous Huxley. L'EMINENZA GRIGIA.

Traduzione di Edoardo Bizzarri. Copyright Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1946. Titolo dell'opera originale "Grey Eminence". Prima edizione "I Quaderni della Medusa" aprile 1946. Seconda edizione "I Quaderni della Medusa" luglio 1949. Prima edizione "I Record" giugno 1966. Su concessione Arnoldo Mondadori Editore.

Indice. Nota sull'autore: pagina 3. 1. Sulla via per Roma: pagina 7. 2. Infanzia e giovinezza: pagina 26. 3. Il mondo religioso: pagina 81. 4. L'evangelista: pagina 141. 5. Ingresso in politica: pagina 163. 6. I due collaboratori: pagina 213. 7. La Rochelle: pagina 238. 8. La Dieta di Ratisbona: pagina 268. 9. Niente delude come il successo: pagina 316. 10. Politica e religione: pagina 377. 11. Scena finale: pagina 421. Appendice: pagina 432.

Aldous Huxley nacque a Godalming, Gran Bretagna, nel 1894. Suo padre, Leonard Huxley, era direttore del Cornhill Magazine; suo nonno, Thomas Henry, fu scienziato di grandi meriti, seguace dell'evoluzionismo darwiniano. Il fratello di Aldous, Julian Sorrell, pi anziano di sette anni, biologo e saggista assai noto, deciso sostenitore della teoria della evoluzione ch'egli collega non soltanto al progresso dell'uomo ma a una vera filosofia della storia. Il clima intellettuale e psicologico della famiglia Huxley spiega anche le ragioni per cui Aldous volle avviarsi agli studi di medicina, che per gli furono impediti da una grave malattia agli occhi. Fu comunque educato a Eton e al Balliol College di Oxford e, lasciata l'universit, insegn per qualche tempo a Eton. Il suo esordio letterario avvenne gi nel 1916, con un volumetto di versi, The Burning Wheel, (La ruota ardente) dove si rivela l'influsso esercitato dai simbolisti francesi. Nel 1918 pubblica un secondo libro di versi in cui appare anche una magistrale traduzione de Il pomeriggio di un fauno di Mallarm. A questo punto gli interessi di Huxley si allargano ed egli sente di poter scrivere in prosa e affronta il genere-narrativa. Il primo romanzo, Giallo cromo,

testimonia una sorprendente maturit intellettuale; segue, nel 1928, Punto contro punto, romanzo che ebbe un rapido successo ma che fu variamente recensito. Nel 1932 appare Il mondo nuovo, romanzo fantastico-satirico che godette di grande popolarit. Secondo alcuni critici l'opera di Huxley si divide in due versanti, separati da uno spartiacque; il primo versante, umanista, fortemente ancorato alla tradizione letteraria europea, corre fino al 1930, e Punto contro punto ne l'esperienza pi riuscita. Da allora il substrato mistico, che gi affiorava nelle opere precedenti, si accentua e la critica huxleyana al mondo contemporaneo si fa pi acre e vivace, mentre sempre pi chiara in lui la visione delle politiche che stavano per condurre l'umanit verso un secondo macello. La realt delle cose, vista sotto questo angolo visuale, spinge progressivamente Huxley verso il trascendente, con una propensione assai marcata verso le filosofie orientali. E quando, verso gli anni quaranta, egli affronta il contradditorio personaggio di padre Giuseppe da Parigi, nella storia aneddotica L'eminenza grigia, gi pronto il tessuto psicologico intellettuale e morale della nuova opera. La storia ch'egli scrive una documentata biografia del padre cappuccino, al secolo Franois Leclerc du Tremblay; ma si tratta di una biografia assai particolare poich a Huxley importava dimostrare, fra l'altro, l'impossibile sintesi dell'idea politica e dell'idea religiosa, quasi l'una appartenesse alla sfera del Diavolo, l'altra a quella di Dio. Infatti egli chiarisce come pi e pi volte uomini di chiesa e laici devoti sono divenuti uomini di stato con la speranza di elevare la politica al loro livello morale, e sempre la politica riuscita a trascinarli gi al loro livello morale su cui gli uomini di stato, in quanto fanno della politica, sono costretti a vivere. Padre Giuseppe, ministro degli esteri permanente e consigliere di Richelieu, alla fine vittima di una contraddizione in termini poich - ce lo dice lo stesso Autore citando una frase basilare e chiarificatrice della filosofia mistica: pi c' della creatura meno c' di Dio Giova a Huxley il personaggio storico dell'Eminenza Grigia, anche per approfondire l'intervallo fra idea politica e idea religiosa, per ancorare i problemi di quel tempo ai nostri, per negare il preteso progresso attraverso la crisi, per svalutare la storia stessa, la quale se espressione della volont di Dio, lo soprattutto in senso negativo. Uscita nel 1941, L'Eminenza Grigia un'opera di raccordo con i Diavoli di Loudun, pubblicato nel 1952, uno dei suoi testi pi ambiziosi e forse il pi ricco di interesse. Gli ultimi libri di Huxley, e fra l'altro l'originalissima raccolta di saggi Adonis and the Alphabet, (Adonis e l'alfabeto), confermano anch'essi la paradossale figura di un intellettuale che non ha fiducia nell'intelletto, di un uomo che non vuole credere nell'uomo d'oggi ma che scruta, attraverso il passato e il presente, l'incerto futuro con un atto di fede non esplicito ma implicito. Anche L'altra visita del mondo nuovo, ultima opera significativa, del 1958, denuncia la condizione di asservimento dell'uomo cos come si va profilando nella nostra societ meccanicistica, mentre al tempo stesso un accorato appello all'uomo perch difenda la sua libert, perch allontani le minacce alla sua stessa essenza. Huxley, che da molti anni viveva negli Stati Uniti, in California, morto a Los Angeles nel 1963.

L'EMINENZA GRIGIA. Capitolo 1. SULLA VIA PER ROMA. Il frate s'era tirato su il saio e aveva i polpacci nudi infangati fino al ginocchio. Le piogge di primavera avevano trasformato la strada in un pantano. L'ultima volta che v'era passato, ripens il frate, quella strada era come una fornace da calce. E gli torn alla mente una poesia che aveva scritto a proposito di un altro viaggio: "Quand au plus chaud du jour l'ardente canicule fait de l'air un fourneau, des climats basanes mon pied franc ne recule, quoy que je coule en eau." Quell'estate del 1618, quando in tre avevano preso la strada per la Spagna! Povero fra Zeno da Guingamp era morto d'un colpo di sole a Tolosa. Una settimana dopo, vicino a Burgos, padre Romano s'era ammalato di dissenteria. In tre giorni era finito. Ed egli era entrato solo a Madrid, zoppicante. E anche ora sarebbe entrato a Roma solo e zoppicante. Padre Angelo era dovuto restare indietro, con i cappuccini di Viterbo, colpito da un febbrone che non gli aveva permesso di fare un altro passo. Che Dio lo facesse rimettere presto! Ni des Alpes neigeux, ni des hauts Pirenes le front audacieux N'a pu borner le cours de mes grandes journes, qui tendent jusqu'aux cieux. Cher Seigneur, si ta main m'enfona la blessure de ce perant dessein, j'ay droit de te montrer ma tendre meurtrissure et descouvrir mon sein." "'La blessure de ce perant dessein'" ridisse tra s. La frase era particolarmente felice: quasi latina nella sua limpida consistenza, come una di quelle frasi di Prudenzio... Il cappuccino sospir profondamente. Quella ferita riflett era ancora aperta e lui, stimolato dal pungolo del profondo disegno di Dio, correva ancora, alla media di sessanta chilometri al giorno, per tutta Europa. Quando quel disegno sarebbe stato tradotto in realt? Quando sarebbe stato concesso a un altro Goffredo di Buglione di conquistare Gerusalemme? Non per qualche tempo ancora, a quel che si poteva vedere: non finch le guerre non fossero finite, e la Casa d'Austria umiliata, e la Francia divenuta forte abbastanza da poter condurre le nazioni nella nuova Crociata. Quanto tempo ancora, o Signore, quanto? Sospir di nuovo, e la tristezza dei pensieri gli si rifletteva nel volto. Era il volto di un uomo di mezza et, provato dalle intemperie, reso smunto dai volontari patimenti, solcato e consunto dall'incessante travaglio della mente. Sotto la larga fronte pensosa, gli occhi chiari e prominenti si aprivano grandi, quasi sbarrati. Il naso era fortemente aquilino. Una barba rossiccia, gi brizzolata, gli copriva le guance e il mento; ma la bocca risoluta, dalle labbra ben rilevate, faceva indovinare sotto la barba lunga e incolta una mascella non meno decisa. Era il volto di un uomo forte, di un uomo di volont ferma e di intelligenza poderosa, di un uomo dotato, per giunta- sotto la seconda natura impostagli da un quarto di secolo di vita religiosa - di passioni potenti e di un'impetuosa intensit di

sentimento. A piedi nudi - s'era tolto i sandali e li portava in mano camminava nel fango, tutto assorto nei suoi melanconici pensieri. A un tratto, riprendendosi, si rese conto di quel che stava facendo. Chi era "lui" per criticare le vie seguite dal Signore? La sua tristezza era un'accusa alla Provvidenza, un'aperta disobbedienza a quella volont divina, cui era unico scopo della sua vita obbedire. E doveva essere obbedita senza riluttanza, con tutto il cuore, con gioia. L'essere tristi era un peccato e, in quanto tale, un ostacolo che si frapponeva tra l'anima e Dio. Egli si ferm e rimase immobile per pi di un minuto in mezzo alla strada, coprendosi il volto con le mani. Solo le labbra gli si muovevano. Invocava, con la preghiera, il perdono. Riprese a camminare con animo contrito. Pensava all'uomo naturale, al vecchio Adamo: quale insonne ostilit verso Dio portava ogni uomo nel fondo della mente e del corpo! Quale costante proposito di peccato! E quanta ricchezza di risorse nell'arte di peccare, quanta abilit - una volta che si era superata la tentazione - nello scoprire un altro male, pi sottile, cui arrendersi! N v'era altro rimedio, se non una perpetua vigilanza. Sentinelle sempre in guardia contro gli stratagemmi del nemico. "Timeo Danaos et dona ferentes". Ma c'era anche il grande alleato: l'amico divino, senza il cui aiuto la guarnigione era destinata a immancabile distruzione. Oh, fatelo venire! Aprite le porte! Spazzate le strade e ornate la citt di fiori! Il sole usc da dietro le nubi. Il cappuccino guard verso il cielo e calcol che dovevano esser passate da poco le due. Rimanevano ancora dodici chilometri per arrivare a Roma. Non c'era il tempo di fermarsi. Avrebbe dovuto praticare il suo annullamento nella Volont Essenziale, mentre camminava. Ebbene, non sarebbe stata la prima volta. Ripet la Preghiera del Signore lentamente, ed alta voce; quindi si dedic alla fase iniziale dell'esercizio, l'atto dell'intenzione pura. Fare la volont di Dio, la volont esterna, la volont interna, la volont essenziale. Farla solo per amore di Dio, e senza riferimento con i propri desideri, o con le proprie speranze, o col guadagno che se ne potrebbe trarre in questo mondo o in quello futuro... Annullare in s quanto egli pensava e sentiva e faceva, s che non ne rimanesse nulla se non lo strumento della volont di Dio e un'anima unita, per grazia di Dio, con quella sostanza divina, che si identificava con la volont divina, essenziale. Fiss la mente su questo unico proposito, per pi di duecento metri. Quindi riprese a parlare. Aprirmi a Dio, preparare la mia anima alla sua venuta, vigilante e reverente. Volgermi, spoglio di ogni altro intento e di ogni altro sentimento, pensiero e ricordo, verso quella luce di amore e di sapienza divini che Dio pu degnarsi di concedermi. E anche se Egli non mi dovesse concedere niente, anche se fosse sua volont lasciarmi senza luce e consolazione, volgermi nondimeno a Lui con gratitudine e con piena fede. "Qui adhaeret Deo, unus spiritus est". Unirsi ripet unirsi... Dall'atto dell'intenzione pura pass a quello dell'adorazione e dell'umilt. "Dio per se stesso e senza alcun pensiero del mio essere." Cos'era, infatti, questo suo essere? Un nulla, ma un nulla attivo, capace di peccare e pertanto capace di tagliarsi fuori dal Tutto. Un nulla attivo che doveva essere annientato in una nullit passiva, perch fosse fatta la volont di Dio. Egli aveva lavorato duro per annientare quel nulla attivo, e Dio, nella sua grande misericordia, gli aveva concesso molti favori: la forza di dominare almeno gli istinti pi grossolani della natura, consolazioni sensibili, visioni e rivelazioni, e in certi momenti gli aveva aperto l'accesso fino alla soglia della presenza divina. Ma, nonostante tutto questo, il suo nulla attivo persisteva ancora; ed egli cadeva ancora in negligenze e in imperfezioni di palese colpevolezza, come il compiacersi nel ricordare il proprio lavoro e i favori ricevuti da Dio. Il vecchio Adamo sapeva servirsi perfino degli sforzi che l'anima compiva per annientare il vecchio Adamo, e traendo

orgoglio da tali sforzi era capace di distruggerne i risultati e rafforzare la sua propria resistenza a Dio. S, le stesse grazie del Signore, se l'anima non stava incessantemente in guardia, potevano essere trasformate in un inciampo e in una fonte di gravi peccati e d'imperfezione. Il Figlio di Dio, la fonte incarnata di ogni grazia, come aveva proclamata la sua divinit? Con l'umilt, l'adorazione e la carit. Carit, carit, carit ripet il cappuccino, umilt e carit, umilt del nulla di fronte al tutto, carit e adorazione del tutto da parte del nulla, carit... Callosi come quelli di un selvaggio, per il loro incessante marciare avanti e indietro attraverso l'Europa, i suoi piedi scalzi sguazzavano nelle pozzanghere, calcavano sicuri le pietre, battendo il ritmo delle parole. Carit, amore di Cristo, carit... Si diceva che il Cardinale Nipote fosse stato offeso dal comportamento dell'ambasciatore di Sua Maest Cattolica. Amore di Cristo, amore di Cristo... Questi spagnoli si stavano rovinando da loro stessi, con la loro stupida arroganza. Carit, carit, carit... Ebbene, tanto meglio per la Francia. Di colpo si rese conto che le parole che continuava a ripetere a se stesso si erano venute staccando dal corso dei pensieri: la fiamma che si era venuta alimentando, si era estinta. "Marta, Marta, tu ti affanni e t'inquieti per un gran numero di cose; eppure una sola necessaria." Allontan dalla mente il Cardinale Nipote e l'ambasciatore spagnolo e ricolleg i pensieri con le parole. "Carit, carit, carit, amore di Cristo..." La piccola fiamma ardeva di nuovo. Egli la tenne accesa in s, fermamente, mentre percorreva altri quattrocento metri. Era tempo, ora, di passare all'azione: ripudiare quei pensieri che lo distraevano da Dio e decidere di bandirli dalla mente. Il Cardinale Nipote e l'ambasciatore spagnolo... Pi di venticinque anni erano passati da quando padre Benedetto da Canfield gli aveva insegnato a pregare. Pi di, venticinque anni... e non aveva ancora un pieno controllo della sua mente: i demoni della distrazione avevano ancora la forza, a volte, d'insinuarsi perfino nel santuario della preghiera. N v'era alcun rimedio definitivo, se non la grazia di Dio. Frattanto, uno poteva solo proporsi di bandire i pensieri distraenti, ogni volta che essi riuscissero a penetrare attraverso le difese. Il persistere nella lotta, la fatica dura e paziente sarebbero stati, senza dubbio, considerati come un merito. Dio conosceva le debolezze di ognuno e gli sforzi che ognuno faceva per vincerle. Muovendo nella direzione opposta, una fila di animali da soma provenienti da Roma gli passarono vicino lentamente con tinnir di sonagli. I mulattieri interruppero per un momento i loro discorsi e si levarono rispettosamente il berretto. Mezzo cieco com'era, per aver logorato la vista su libri e documenti, il frate vide quel gesto come una macchia di movimento contro il cielo. Ne distinse l'intento, e sollev la mano in una benedizione; quindi torn subito alla sua preghiera. Nel genere di preghiera ch'egli era solito praticare, agli esercizi preparatori faceva seguito un atto di meditazione in forma discorsiva. Il tema che egli aveva scelto per quel giorno era la carit. Seguendo l'ordine fissato per il discorso, si rivolse anzitutto a considerare Dio come fonte della carit. "Pater noster, qui es in coelis. Qui es in coelis". Dio, l'Essere infinito ed eterno. Ma quando un essere finito si abbandona all'Essere Infinito, l'Essere Infinito veniva appreso come Amore. Cos, l'Essere Infinito era al tempo stesso un Padre amoroso, ma di figlioli tanto ribelli e ingrati che facevano sempre tutto il possibile per staccarsi dal suo amore. Si staccavano dal suo amore e, per ci stesso, si staccavano dalla loro stessa felicit e dalla loro salvezza. "Qualsiasi forma di virt e di bont" bisbigli tra s il cappuccino, "e perfino quel Bene Eterno, che Dio stesso, non pu rendere un uomo virtuoso, buono e felice, finch gli rimanga fuori dell'anima."

Alz la testa per un momento. Nella volta azzurra del cielo lavato dalla pioggia, tra le nuvole, il sole brillava radioso. Ma se uno avesse chiuso le palpebre di fronte alla luce, cos... ebbene, allora era cieco e camminava nelle tenebre. Dio era amore; ma questo era pienamente noto solo a chi per parte sua amasse Dio. Questo pensiero gli serv di ponte tra il primo e il secondo stadio della meditazione, tra Dio come fonte di amore e le sue manchevolezze di uomo come amante di Dio. Egli non amava Dio abbastanza perch non era abbastanza staccato dal mondo degli esseri tra cui doveva svolgere il suo lavoro. "Factus est in pace locus ejus. Dio pu essere amato perfettamente solo da un cuore che sia stato santificato dalla presenza divina; e Dio presente solo in un cuore che sia in pace. Il travaglio dell'animo lo tiene lontano, anche quando questo travaglio nasce solo da una preoccupazione per le opere di Dio. Le opere di Dio vanno compiute; ma se non sono compiute nello stato di pace di una perfetta astrazione allontanano l'anima da Dio. Lui stesso si era avvicinato al massimo a quella perfetta astrazione nei giorni in cui era tutto dedito alla predicazione e all'istruzione spirituale. Ma ora Dio lo aveva chiamato a compiti pi difficili nel mondo dei grandi avvenimenti, e gli era divenuto sempre pi difficile raggiungere la pace di quell'astrazione. Permanere nella volont essenziale di Dio mentre si stanno facendo negoziati con il duca di Lerma o, che so io, con il principe di Cond: questa era davvero una cosa difficile. E tuttavia quei negoziati andavano fatti: erano un dovere ed era volont esterna di Dio che venissero fatti. Non ci si poteva tirare indietro da tali compiti. Se, nell'assolverli, egli vedeva sfuggirgli la pace, ci dipendeva dalla sua debolezza e dalla sua imperfezione. Il pi alto grado della preghiera - l'annientamento attivo di se stesso e di tutte le creature nella volont essenziale di Dio - era ancora al di l delle sue forze. Non c'era altro rimedio se non la grazia di Dio, n altro modo per guadagnare la grazia di Dio se non la preghiera costante e la costante umilt e l'amore costante. Solo cos poteva entrare in lui il regno di Dio, ed esser fatta la volont di Dio. Era tempo ora di passare alla terza fase della meditazione: la riflessione sugli atti e sulle sofferenze del Salvatore in rapporto con l'amore di Dio. "Fiat voluntas tua". Una volta in tutta la storia la volont di Dio era stata fatta, in modo pieno e completo: Dio era stato amato e adorato da un essere che, divino egli stesso, era stato capace di una devozione commisurata all'oggetto. L'immagine del Calvario si drizz alla mente del frate: l'immagine che l'aveva ossessionato fin da quando, fanciulletto appena, gli era stato raccontato per la prima volta quel che gli uomini cattivi avevano fatto a Ges. Ferm quell'immagine nella sua fantasia, ed era pi reale, pi viva della strada stessa che si vedeva sotto i piedi. "Padre, perdona loro, perch non sanno quel che fanno." Piet e amore e adorazione gli pervasero tutto l'essere, quasi con un calore sensibile che era al tempo stesso una specie di dolore. Deliberatamente, distolse il pensiero da quell'immagine. Non era ancora giunto il momento per quell'atto di amore e di volont. Egli doveva ancora meditare, in forma discorsiva, sugli scopi per cui il Salvatore aveva cos sofferto. Pens ai peccati del mondo, ai suoi propri peccati, e come egli avesse contribuito a tagliare la croce e a forgiare i chiodi, a intrecciare la sferza e la corona di spine, ad affilare la punta della lancia e a scavare il sepolcro. Eppure, nonostante ci, il Salvatore lo amava e, per amor suo, aveva sofferto, sofferto, sofferto. Aveva sofferto affinch il prezzo del peccato di Adamo fosse pagato. Aveva sofferto affinch, attraverso il suo esempio, i figli di Adamo imparassero a vincere il male che era in loro. "Le sono rimessi molti peccati, perch molto ha amato." Amando, si otteneva il perdono; ottenuto il perdono, si diveniva capaci di perdonare; perdonando, si apriva l'anima a Dio, si era in grado di amare ancor pi intensamente; e cos l'anima poteva innalzarsi ancora un poco sulla spirale ascendente che conduce l'anima verso l'unione

perfetta. "Ama, et fac quod vis". "Che ci sia amore" ripet, passando dalla fase meditativa a quella affettiva della preghiera, trasformandola da atto dell'intelletto che ragiona in atto d'amore della volont che rinuncia a se stessa. "che ci sia amore." E la sua capacit d'amore, quel nulla peccaminosamente attivo che era lui stesso, egli offr come un sacrificio, come un olocausto che dovesse essere consumato nel fuoco dell'amore di Dio. Perdere la vita per salvarla. Morire, s che la vita potesse essere nascosta con Cristo in Dio. Morire, morire, morire. Morire sulla croce della mortificazione, morire nell'annientamento continuo e volontario del proprio nulla attivo e passivo. Morire, morire, morire, morire... In un atto di pura contrizione egli supplic il perdono di Dio per essere ancora se stesso, Giuseppe da Parigi, e non ancora per intero lo strumento della volont divina, con l'animo in pace pur nei momenti dell'azione, e staccato dal mondo pur nel tumulto delle faccende. Morire, aiutami a morire, aiutami ad amare in modo che possa essere aiutato a morire. Egli depose tutta la sua capacit d'amore su un altare interiore e preg che vi si consumasse, preg che potesse sorgerne, dalle ceneri, un nuovo uccello d'amore. Sopraggiunse trottando, alle sue spalle, un giovane cavaliere, con piume vivaci, la sella borchiata in argento e due belle pistole dal calcio damascato che sporgevano dalle fondine. Interruppe il suo fischiettare per gridare un amichevole buon giorno. L'altro non rispose, non sollev neppure la testa reclinata. E' forse sordo? esclam il cavaliere, nel portarsi all'altezza del frate. Allora, per la prima volta, vide la faccia sotto il grigio cappuccio. La vista di quelle palpebre abbassate, di quelle labbra che si muovevano quasi impercettibilmente nella preghiera, quell'espressione di calma intensa e concentrata, fecero ammutolire il giovane, confuso. Borbott una parola di scusa, si lev il cappello, come davanti all'immagine di un santuario posto lungo la via, e si fece il segno della croce; quindi spron il cavallo e si allontan di galoppo, lasciando il frate a compiere indisturbato il suo atto di autoimmolazione. Con quanta delicatezza il sacrificio doveva essere compiuto! Con quanta accortezza, e senza sforzo, e senza nulla di brusco! Si davano circostanze in cui si poteva usare la violenza per entrare nel Regno dei Cieli; ma non era questo il caso. Un violento annientamento del suo essere avrebbe mancato allo scopo che egli si proponeva; poich tale violenza apparteneva alla volont meramente umana, e il ricorrere a essa avrebbe soltanto rafforzato quella volont in contrasto con la volont di Dio. In quest'atto di auto-abnegazione bisognava in certo modo agire senza sforzo; o meglio, permettere che su se stessi, quale oggetto passivo, operasse la volont divina... Nella faccenda della Valtellina, naturalmente, Sua Santit aveva maggiori ragioni di temere una pi stretta unione tra la Spagna e l'Austria che non di adirarsi con i francesi perch avevano tolto di mezzo una guarnigione papale. Il Cardinale Nipote avrebbe probabilmente... Il frate si rese conto, ancora una volta, che la preoccupazione per l'opera di Dio aveva steso una nube oscura, quasi un'eclissi, tra lui e Dio. Frenando un primo impulso di appassionato rimprovero, che avrebbe soltanto resa pi completa l'eclissi, egli dolcemente mut il fuoco della sua visione interiore, guardando oltre il Cardinale Nipote, oltre la Valtellina e la Spagna e la Francia verso la pura volont di Dio, che era al di l, al di sopra e all'interno di loro. La nube si allontan: egli era di nuovo esposto alla luce. Pazientemente, delicatamente, egli si apr a quella radiosit purificatrice e trasfiguratrice. Pass del tempo e alla fine giunse il momento in cui gli sembr di essere idoneo a passare nel successivo stadio di contemplazione. Lo specchio della sua anima era pulito; la polvere e i vapori che d'ordinario s'interponevano tra lo specchio e quel che doveva riflettere, s'erano depositati o dissolti. Se ora egli volgeva l'anima verso Cristo, l'immagine divina vi si sarebbe riflessa chiaramente e

senza empie deformazioni: l'immagine del Salvatore crocifisso sarebbe stata in lui, si sarebbe impressa sulla sua volont, sul suo cuore, sulla sua intelligenza, modello divino da imitare, spirito da animare e vivificare. Tenacemente egli mantenne l'immagine adorata dietro le palpebre semichiuse; e questa volta si concesse la felicit di quell'adorazione, intensa fino al punto di divenire dolore fisico: quella infinita beatitudine e quella sofferenza di compassione, da cui si era dovuto distogliere in precedenza nella parte discorsiva del suo esercizio. Sofferenza, sofferenza... Gli occhi gli si empirono di lagrime. Sofferenza del Figlio di Dio, e Dio stesso incarnato in uomo. Sofferenza sostenuta dal Salvatore amoroso di tutti i peccatori, di questo che era il pi nero dei peccatori. "Recede a me, quia homo peccator sum". Eppure il Salvatore venne, e prese quel lebbroso tra le sue braccia, e s'inginocchi di fronte a lui, e gli lav i piedi. "Tu mihi lavas pedes?" Questi piedi che hanno camminato nel male, che sono tutti incrostati dello sporco del peccato e dell'ignoranza? S, e non solo gli lava i piedi, ma, per amore del peccatore, si lascia prendere, giudicare, schernire, fustigare e crocifiggere. Torn con il cuore al Calvario, alla sofferenza, alla sofferenza del suo Dio. E l'annientamento cui tanto aveva teso sembrava ora essersi compiuto in una specie di rapimento di devozione e di compassione, di amore e di dolore. Egli era tutto assorbito in una beata partecipazione alle sofferenze di Dio incarnato, del Dio incarnato e quindi al tempo stesso della divinit pura essenziale da cui era proceduto il Dio Uomo. Quel corpo sulla croce era l'invisibile reso visibile. Il Calvario era immerso nella luce non creata, che da esso s'irradiava, consostanziale con esso. Assorbito nella sua sorgente ed origine, il Cristo crocifisso si annientava nella luce, e non c'era altro se non un'estasi luminosa d'amore e di sofferenza. Quindi la luce si condens e prese di nuovo la forma di Cristo crocifisso, fino a che una nuova trasfigurazione fuse ancora una volta il Calvario con la gloria che lo circondava. Continuando a camminare, il corpo del frate misurava con i piedi scalzi i metri e i minuti, le ore e i chilometri. All'interno, l'anima aveva raggiunto i margini dell'eternit e, in un'estasi di adorazione e di angoscia, contemplato il mistero dell'incarnazione. Un asino ragli; gli staffieri, davanti a un cocchio, suonarono i loro corni; qualcuno grid e ci fu un improvviso scoppio di risa femminili. Sotto il cappuccio del frate, c'era una lontana consapevolezza di queste cose. L'eternit si allontanava. Il tempo e l'essere s'insinuarono di nuovo a prenderne il posto. Con riluttanza, il frate alz la testa e si guard intorno. I suoi occhi miopi distinsero una casa o due e, davanti a lui, il movimento di uomini e di animali lungo la strada. Abbass di nuovo lo sguardo e, per attutire la scossa di quel ritorno brusco da un mondo all'altro, torn a una meditazione discorsiva sul Verbo fatto Carne. A ponte Milvio c'era un gruppo di soldati che esaminavano tutti i viaggiatori provenienti dal nord. Il cappuccino rispose alle loro domande con disinvoltura, ma con un accento straniero che diede di per s sospetto. Fu portato al corpo di guardia perch rendesse conto di s. L'ufficiale di servizio si tocc il cappello quando il frate entr, ma non si alz n tolse i piedi dal tavolo su cui li teneva appoggiati. Ritto davanti a lui, con le mani incrociate sul petto, il viaggiatore spieg che si chiamava padre Giuseppe, che il suo convento si trovava a Parigi, che era stato mandato dai suoi superiori per partecipare a una riunione del Capitolo Generale del suo Ordine. L'ufficiale lo ascoltava, pulendosi i denti con uno stecchino di argento dorato. Quando il cappuccino ebbe finito, l'ufficiale si tocc di nuovo il cappello, emise un rutto e disse che, mentre naturalmente non aveva alcuna ragione per mettere in dubbio la veridicit delle parole del reverendo padre, l'esistenza di certi malfattori, di certi briganti, di certi (e qui fece un gesto enfatico con lo stecchino) di certi

nemici di Dio e degli uomini, che non avevano scrupolo a nascondere la loro malvagit sotto il saio francescano, gli rendevano necessario richiedere al reverendo padre i suoi documenti. Il cappuccino esit un momento, quindi chin la testa in segno di assenso. Si apr il saio all'altezza del collo e port la mano a una tasca interna. Il pacchetto che ne tir fuori era avvolto in damasco blu e legato con un nastro di seta bianca. L'ufficiale alz le ciglia nel prenderlo, e quindi sorrise. Mentre disfaceva il nastro, osserv facetamente che c'era stato un tempo in cui lui aveva portato le lettere della sua bella in un pacchetto proprio come quello. Ora, con una moglie gelosa e una suocera che gli viveva in casa... Di colpo, il sorriso sulla sua faccia grassa fu rimpiazzato da un'espressione di stupore seguita a sua volta da una di effettivo spavento. Aveva tratto fuori dal pacco una lettera sigillata con le armi reali di Francia e indirizzata, con i pi magnifici ghirigori, a Sua Santit Urbano Ottavo. L'ufficiale guard con apprensione il frate, quindi di nuovo quella formidabile soprascritta, quel prodigioso sigillo; poi, con un grande strepito e tinnir di metalli tolse i piedi dal tavolo, balz dalla sedia e, cavandosi il cappello, fece un profondo inchino. Perdonatemi, reverendo padre disse. Se l'avessi saputo... Se me l'aveste fatto capire fin dal primo momento... C' anche una lettera per Sua Eminenza il Cardinale Nipote disse il cappuccino. E un'altra, se vi volete dar la pena di guardare, per l'ambasciatore di Sua Maest Cristianissima. E infine un passaporto consegnatomi e firmato da Sua Eminenza il Cardinale Ministro... A ogni nome l'ufficiale faceva un altro inchino. Se l'avessi saputo continuava a dire, mentre il frate raccoglieva le lettere, se l'avessi saputo... Troncando a mezzo, corse alla porta e cominci a gridare furiosamente ai suoi uomini. Quando il cappuccino usc dal corpo di guardia, trov schierata ai due lati del ponte una compagnia di moschettieri del Papa. Si ferm un momento, ricambi umilmente il saluto dell'ufficiale, alz la mano a benedire, poi, incrociando le mani sul petto, chin la testa e senza guardare n a destra n a sinistra si affrett silenzioso a piedi nudi tra la doppia fila di picche.

Capitolo 2. INFANZIA E GIOVINEZZA. Qualsiasi avvenimento, in qualsiasi parte dell'universo, ha le sue condizioni determinanti in tutti gli avvenimenti anteriori e contemporanei in ogni parte dell'universo. Coloro, peraltro, che professano d'investigare le cause di ci che accade intorno a loro, ignorano abitualmente la stragrande maggioranza degli avvenimenti contemporanei e anteriori. In ogni singolo caso costoro sostengono solo pochissime condizioni determinanti hanno un effettivo valore. Ci abbastanza vero quando si tratti di fatti semplici. Ecco, per esempio, una pentola che bolle. Vogliamo scoprire perch bolle. Investighiamo, troviamo un fornello a gas acceso, facciamo degli esperimenti che sembrano provare che c' un invariabile rapporto tra il bollire e l'elevarsi della temperatura. Dopo di che, affermiamo che la "causa" della ebollizione la vicina sorgente di calore. L'affermazione grossolana, ma pu bastare a scopi essenzialmente pratici. Quando si tratti di fenomeni semplici, possiamo anche ignorarne tutte le condizioni determinanti salvo una o pochissime, e tuttavia intenderli in modo sufficiente per poterli regolare secondo i nostri propositi pratici. Ma ci non si verifica quando si tratti di fenomeni complessi. In questo caso le condizioni determinanti che hanno un valore effettivo sono assai pi numerose. I fenomeni pi complessi con cui abbiamo a che fare sono gli avvenimenti storici. Se vogliamo fissare, per

esempio, le condizioni che hanno determinato la guerra del 1914-18, siamo costretti, anche se per ragioni puramente pratiche, come pu essere l'abbozzo di una futura linea politica, a considerare una grande variet di "cause", passate e contemporanee, locali e remote, psicologiche, sociali, politiche, economiche. Stendere un elenco completo di queste "cause" realmente significative, chiarendo il relativo grado d'importanza e le loro reciproche ripercussioni, impresa estremamente difficile. Cosi difficile, invero, da eccedere decisamente le capacit della mente umana nel suo presente grado di sviluppo. Ma ahim - l'insolubilit di un problema non ha mai trattenuto uomini e donne dall'avanzare fiduciosamente delle soluzioni. Il metodo in tali casi seguito stato sempre il medesimo: quello dell'eccessiva semplificazione. Cos, salvo quelli immediati, tutti gli antecedenti dell'avvenimento considerato vengono ignorati, e si tratta la storia come se fosse cominciata soltanto ieri. Al tempo stesso, viene mentalmente abolita qualsiasi complessit imbarazzante. Gli uomini sono ridotti a comode astrazioni. Le variet dei temperamenti, degli ingegni e dei motivi sono smussate in una generica uniformit. L'avvenimento si fa in tal modo apparire tanto semplice da consentirne la spiegazione sulla base di pochissime "cause", e anche a volte di una soltanto. Questa conclusione teorica quindi usata come guida per un'azione futura. Non innaturale che i risultati arrechino delle delusioni. L'eccessiva semplificazione fatale, ed impossibile determinare, in modo completo ed esatto, per gli eventi complessi tutte le cause di effettivo interesse pratico. Siamo dunque destinati a non capire mai la nostra storia e di conseguenza a non poter trarre mai alcun profitto dalle esperienze del passato? Si risponde che, sebbene la nostra intelligenza della storia sar sempre incompleta, pu tuttavia essere sufficiente almeno per alcuni scopi pratici. Per esempio, potremmo scoprire abbastanza circa le cause delle nostre recenti catastrofi per metterci in grado (se lo desideriamo) di costruire una politica almeno un po' meno suicida di quelle seguite per il passato. Nessun fatto nella storia del tutto irrilevante nei riguardi di un qualsiasi altro fatto posteriore. Ma alcuni avvenimenti, per quel che riguarda i nostri scopi pratici, sono correlazionati in modo pi significativo che non altri. Questo frate, per esempio, che abbiamo appena lasciato sul ponte Milvio sembra abbastanza lontano dalle nostre preoccupazioni di questo tempo. Ma in realt come troveremo considerando un po' da vicino la sua biografia - i suoi pensieri e i suoi sentimenti e i suoi desideri appartengono alle condizioni che hanno determinato in modo significativo il mondo in cui viviamo oggi. La strada battuta da quei piedi scalzi e callosi portava per il momento alla Roma di Urbano Ottavo. Ha portato, in seguito, all'agosto del 1914 e al settembre del 1939. Nella lunga catena di delitti e di pazzie che lega il mondo presente a quello passato, uno degli anelli di pi fatale importanza dato dalla Guerra dei Trent'Anni. Molti allora si adoprarono a forgiare tale anello; ma nessuno s'adopr pi tenacemente del collaboratore di Richelieu, Francesco Leclerc du Tremblay, conosciuto in religione sotto il nome di padre Giuseppe da Parigi, e nella storia aneddotica come l'Eminenza Grigia. Non questa, peraltro, l'unica ragione per cui la figura del frate richiama la nostra attenzione. Se padre Giuseppe non fosse stato altro che un esperto nel gioco della politica di predominio, non ci sarebbe alcuna particolare ragione per scegliere lui tra un buon numero di concorrenti. Ma il regno del frate non era, come i regni dei comuni politici della stessa scuola, esclusivamente di questo mondo. Non per via meramente intellettuale, ma per diretta ed effettiva conoscenza, egli sapeva qualcosa dell'altro mondo, del mondo dell'eternit. Egli aspir appassionatamente a divenire - e in certo grado fu di fatto, con una parte del suo essere - cittadino del Regno dei Cieli. Solo tra i fautori della politica di predominio, padre Giuseppe fu capace di fornire, traendolo dalle profondit della propria esperienza, il criterio obiettivo e definitivo, in base al quale la sua politica

potesse essere giudicata. Egli fu tra coloro che forgiarono uno degli anelli pi importanti nella catena del nostro disastroso destino; e fu al tempo stesso uno di quelli cui fu dato conoscere come tale anello poteva essere evitato. Doppiamente istruttiva nel campo della politica e in quello della religione, la sua vita inoltre interessante come uno stranissimo enigma psicologico: l'enigma di un uomo appassionatamente ansioso di conoscere Dio, familiare con le forme pi alte della gnosi cristiana, che era passato almeno attraverso gli stadi preliminari dell'unione mistica, e al tempo stesso inviluppato negli intrighi di corte e nella diplomazia internazionale, occupato nella propaganda politica e dedito senza restrizioni a una politica i cui effetti immediati di morte, di miseria e di degradazione morale dovevano apertamente vedersi in ogni parte dell'Europa del secolo diciassettesimo, e delle cui remote conseguenze il mondo soffre ancor oggi. Era la primavera del 1625, allorch padre Giuseppe si trascin a piedi nella sua terza visita a Roma. Lo scopo del suo viaggio era diplomatico e religioso. Da parte del governo francese egli era venuto per parlare della Valtellina e dei passi che collegavano le regioni italiane dominate dagli spagnoli con l'impero asburgico al di l delle Alpi. Da parte del suo ordine era venuto per ottenere il permesso di fondare delle missioni. Per conto suo, era venuto per parlare con il Papa e con il Cardinale Nipote del suo progetto favorito di una crociata contro i turchi. A Roma, dovunque andasse, la sua parola suonava piena di autorit, ed era ascoltata con deferenza e con attenzione. Quel frate scalzo era il consigliere confidenziale e il braccio destro del cardinale Richelieu. Inoltre, molto tempo prima che Richelieu giungesse al potere, era stato confidente e agente di Maria de' Medici e di molti altri grandi personaggi d'importanza quasi eguale. Richelieu era presidente del Consiglio di Stato da solo un anno; ma padre Giuseppe da Parigi era conosciuto e apprezzato alla Curia di Roma da pi di dieci anni. Ora, nel 1625, aveva quarantotto anni e gliene restavano ancora trenta da vivere: trent'anni di vita che dovevano anche essere anni di crescente potenza politica. Prima che una met di essi fosse trascorsa, padre Giuseppe era destinato a prender posto tra i cinque o sei pi importanti uomini d'Europa, tra i due o tre pi generalmente e cordialmente detestati. Ma prima di seguire gli ulteriori stadi di questa strana carriera, bene tornare un po' indietro e risalirne ai principi. Francesco Leclerc du Tremblay era nato il quattro novembre del 1577, figlio primogenito di Jean Leclerc, cancelliere del Duca di Alenon e "Premier Prsident des Requetes du Palais", e di Maria de La Fayette, sua moglie. Per parte paterna, egli veniva da una distinta famiglia di legali e di amministratori. La famiglia della madre apparteneva, non alla "noblesse de robe", ma alla nobilt terriera. Claudio de La Fayette, il nonno materno, possedeva quattro baronie, una delle quali egli lasci per testamento al nipote Francesco, che fu conosciuto durante il breve periodo di soggiorno alla Corte, come barone de Maffliers. Claudio de La Fayette e sua moglie Maria de Suze, erano calvinisti; ma avendo il cielo elargito loro sei figliole e, nonostante le quattro baronie, ben poco denaro, avevano fatto educare Maria nella religione cattolica, in modo che potesse entrare in un convento e risparmiar loro la spesa della dote. Si pu notare, di passaggio, che transazioni di tal genere non erano insolite nella Francia di questo periodo. Si potevano ben combattere guerre civili di religione, e gli ugonotti essere alternativamente massacrati e tollerati; ma per tutto questo tempo le famiglie francesi avevano continuato a tenere intrepidamente gli occhi sul problema principale. Cos, nelle regioni in cui cattolici e protestanti si trovavano pi o meno equamente distribuiti, i genitori allevavano le loro figliole senza una religione ben definita. Quando si presentava un buon partito, la ragazza poteva essere in tutta fretta istruita e cresimata nella fede seguita dal suo futuro marito. Sistema questo non certo "eroico" per risolvere le differenze di confessione in una comunit

mista; ma, comunque, funzionava, e favoriva la pace e la quiete. E' stato di moda per un certo tempo credere che le cause di ogni lotta siano generalmente, perfino invariabilmente, economiche. Niente pi lontano dal vero. Molti conflitti sono in origine meramente ideologici. In questi casi, considerazioni di vantaggio economico intervengono spesso nel pi felice dei modi per mitigare i furori dell'odio teologico. Maria de La Fayette fu salvata dal convento da una lontana cugina della madre: nientedimeno che la ex-favorita di Francesco Primo, Anna, duchessa d'Etampes. Questa concubina reale a riposo era ormai una vecchietta benigna di quasi settant'anni, buona amica dei Leclerc. Fu lei a combinare il matrimonio tra la sua giovane cugina e Giovanni Leclerc, fu lei a integrare la meschina dote di Maria con una cospicua donazione di sua tasca. Il matrimonio, che si dimostr felice, fu celebrato nel 1574 e il primo figlio nacque, come abbiamo visto, nel 1577 e fu battezzato Francesco. (Si volle, scegliendo questo nome, fare un delicato omaggio alla vecchia duchessa? Chi sa?) L'anno seguente venne alla luce una sorellina, Maria. Carlo, il pi giovane dei tre figlioli, nacque nel 1584. Francesco, non appena emerse dalla primissima infanzia, si rivel subito un bimbo strano e singolarmente notevole. Di carattere attivo e al tempo stesso introspettivo, gli piaceva fare, ma gli piaceva di essere lasciato a pensare per suo conto. Isolato anche quando, in compagnia, egli viveva in un mondo suo proprio che nessuno poteva scoprire. Questa gelosa riservatezza non era, peraltro, incompatibile con una forte emotivit. Amava appassionatamente il padre e la madre; era profondamente attaccato alla casa, alle persone di servizio, ai cani e ai cavalli, ai piccioni e alle anatre domestiche, ai falconi. Gli impulsi violenti e gli accessi passionali non solo d'amore, ma anche di odio e di collera, formavano un elemento importante in quel suo mondo personale; ma, pur nella prima fanciullezza, essi vivevano dietro un muro ferreo di dominio personale e di voluto ritegno, e non si esprimevano n attraverso le parole n attraverso quelle innumerevoli piccole azioni con cui i temperamenti introspettivi danno cos facilmente sfogo ai loro sentimenti. Francesco "si lasciava andare" solo in circostanze in cui non fossero direttamente e personalmente coinvolte altre persone. Egli poteva essere entusiasta ardente quanto alle cose e alle idee; ma rifuggiva, come da una forma d'impudicizia, dal manifestare il suo intimo mondo emotivo agli altri esseri umani. Dal punto di vista intellettuale, il fanciullo era vivace e precoce in modo quasi innaturale. A dieci anni, fu scelto dal suo maestro per fare un'orazione funebre in latino su Ronsard, della durata di un'ora, davanti a un pubblico numeroso e brillante. E se il pubblico numeroso e brillante fosse stato in grado di capirlo, egli avrebbe potuto fare una orazione non meno eloquente in greco, lingua da lui imparata quasi con la stessa precocit di John Stuart Mill e con gli stessi metodi di conversazione che erano stati usati per insegnare a Montaigne il suo latino. A questa precocit intellettuale si accoppiava un ardore non meno straordinario in fatto di devozione religiosa. Aveva quattro anni, si racconta, quando un giorno fu portato nella sala da pranzo ove i genitori stavano intrattenendo una bella brigata di ospiti. Cerchiamo di ricostruire la scena, trasferendola dallo stile telegrafico con cui la riporta il primo biografo di padre Giuseppe in un linguaggio pi adeguato al fatto. Vicino alla mamma, orgogliosa ma un po' trepidante, siede il bimbetto, vestito gi come un omino in miniatura, con un aspetto quasi indecentemente perspicace nel suo giubbetto color vino e con la sua gorgierina inamidata. Dall'altro lato del tavolo il padre gli dice di alzarsi ed egli obbedisce con un'infantile solennit che la delizia di tutti i presenti. Gli domandano cosa intende fare quando sar grande, se gli piace la sorellina, quando imparer ad andare a

cavallo. Alla fine, un magistrato gli fa una domanda con doppio senso. L'innocenza della risposta provoca un gran ridere che il bimbo non riesce proprio a capire. Gli occhi gli si empiono di lagrime; la mamma lo prende sulle ginocchia e lo bacia. Gli ospiti riprendono il convito e il bimbo viene messo a sedere su uno sgabello: gli si d un confetto, che egli succhia in silenzio. La sua presenza dimenticata. Ed ecco che, improvvisamente, in una pausa della conversazione, egli grida oltre la tavola a suo padre: pu dir loro qualcosa? Maria cerca di trattenerlo; ma Giovanni Leclerc indulgente: il piccolo Francesco pu dire quel che vuole. Il bimbo si rizza in piedi sullo sgabello. Gli ospiti, sorridendo, si preparano a essere sgridati e ad applaudire. Dopo le prime parole, per, si fanno d'un subito seri, e ascoltano in silenzio, profondamente commossi. Il bimbo racconta loro una storia che ha sentito dire, poco prima, da una delle persone di servizio: la storia della Passione. Parla della flagellazione, della corona di spine. Quando descrive la crocefissione, la voce gli trema e, tutto a un tratto, scoppia in irrefrenabili singhiozzi. La mamma lo prende in braccio e cerca di confortarlo; ma all'infelicit del bimbo non sembra esservi alcuna consolazione. Alla fine, costretta a portarlo fuori della stanza. Il fanciullo padre dell'uomo. Questo bimbetto, angosciato dal racconto della morte del Salvatore, era destinato a diventare uno dei fondatori e, per molti anni, il guardiano e il direttore spirituale di un nuovo Ordine di monache, la cui devozione doveva essere diretta principalmente alla madre sofferente ai piedi della croce. Era anche destinato a diventare un uomo di Stato, tutto assorbito dalla pi pericolosa politica di forza e, a quanto si poteva vedere, del tutto indifferente alle paurose sofferenze di cui la sua politica era responsabile. Il bimbo che si scioglieva in lagrime per Ges, l'adulto che meditava e insegnava agli altri a meditare sulle sofferenze patite sul Calvario: erano questi il padre e il fratello del collaboratore di Richelieu, dell'uomo che fece quanto era in suo potere per prolungare la Guerra dei Trent'Anni? E' questa una domanda cui dovremo, al debito momento, cercare di dare una risposta. Per ora, quel che c'interessa immediatamente seguire le vicende di un fanciullo nel secolo sedicesimo. A dieci anni, Francesco du Tremblay fu mandato in un collegio a Parigi; anzi, vi and di sua stessa volont: egli stesso, infatti, chiese di lasciare la casa, dicendo che veniva viziato dalla mamma, "qui en voulut faire un dlicat". Una volta ancora il fanciullo si rivela padre dell'uomo. Questo piccolo spartano doveva giungere all'et virile come militante cappuccino, desideroso di sottoporsi a ogni genere di non necessarie mortificazioni, doveva divenire l'uomo politico, dalla tonsura e dai piedi scalzi, che, anche al colmo della potenza, anche al massimo dell'infermit e della stanchezza, costantemente rifiut di accettare per s qualsiasi alleviamento della regola francescana del suo ordine. Nel Collge de Boncourt Francesco impar ancora del greco e del latino e fu senza dubbio spietatamente battuto, vessato e malnutrito, come erano in genere i ragazzi nella maggior parte dei collegi del tempo. Tra i suoi compagni e amici al Boncourt, ve ne fu uno di cui sentiremo parlare parecchio in un successivo capitolo di questo libro: Pietro de Brulle, futuro cardinale fondatore dell'Oratorio e uno dei pi influenti membri della scuola francese di misticismo, che fior nella prima met del secolo decimosettimo. Al pari di Francesco, Pietro era precocemente serio. Fin dall'infanzia la sua devozione era stata a un tempo ardente e intellettuale, spontanea e dotta. A dodici anni racconta una giovane protestante, che divenne in seguito carmelitana discuteva di teologia come un dottore della Sorbona. A diciotto, era un contraversista cos poderoso e acuto che i ministri ugonotti avevano paura d'incontrarsi con lui nei dibattiti pubblici. Pietro aveva due anni pi di Francesco, era perfino pi intelligente e non meno precoce. Inoltre, al pari del suo pi giovane amico, era gi appassionatamente religioso e serio, assai pi che l'et non

comportasse. La loro amicizia fu quella di due futuri teologi e mistici. Vien fatto d'immaginarsi questi due strani fanciulli, che s'acquattano da una parte, in un angolo del cortile della scuola, cinto da un alto muro. Gli altri monelli giocano a palla o si scambiano quelle stupide spiritosaggini che i ragazzini trovano cos deliziosamente divertenti. Con appassionata seriet e con voci tremanti, Pietro e Francesco discutono i pi profondi problemi della metafisica e della religione. Francesco aveva dieci anni, quando accadde un fatto che deve aver fornito ai due ragazzi materia per molte discussioni sul significato della vita e sulla natura di Dio e dell'uomo. Nel 1587 Giovanni Leclerc du Tremblay mor. Francesco amava il padre con tutto l'ardore represso di cui era capace la sua natura passionale e riservata. N'ebbe un dolore profondo; e pur quando n'ebbe superato il primo parossismo, gli rimase - latente in condizioni ordinarie, ma sempre pronto a venire alla superficie- un senso ossessionante della vanit, della fugacit, dell'inevitabile precariet di ogni felicit meramente umana. Questa precoce convinzione che il nostro fosse un mondo caduco, veniva confermata in Francesco da tutto quel che egli sentiva o udiva intorno a s. In tutta la Francia i seguaci della Lega e gli ugonotti, appoggiati ognuno dai loro alleati stranieri, s'eran messi d'impegno a tentar di fare al loro disgraziato paese quel che i luterani e gli imperialisti, con i loro alleati, avrebbero fatto una generazione dopo in Germania. Per un complesso di varie ragioni, la Lega e gli ugonotti non riuscirono a distruggere la Francia, come gli amici e i nemici politici di padre Giuseppe dovevano pi tardi riuscire a distruggere la Germania. Quindici anni di pace e di buon governo sotto Enrico Quarto furono sufficienti a riportare il paese alla prosperit: a farlo ingrassare come un tacchino natalizio per i futuri agenti delle tasse del Richelieu. Ma finch durarono le guerre di religione, la Francia dovette sopportare tutti gli orrori del massacro e del saccheggio, della pestilenza e della carestia, della mancanza di leggi e dell'anarchia politica. Coloro cui tocc vivere in quel caos sanguinario giunsero ad apprezzare i pregi dell'ordine e di quel tipo di monarchia, che era in quei tempi l'unico capace di portare l'ordine desiderato. Al tempo stesso, la presenza degli stranieri - spagnoli, tedeschi, inglesi che prolungavano le guerre sul suolo francese e sfruttavano la debolezza della Francia - serv a stimolare il patriottismo francese. Fu appunto in questi anni di guerra civile e d'intervento straniero che Francesco Leclerc divenne quale doveva poi rimanere per tutta la vita: un fermo sostenitore della monarchia assoluta e un ardente nazionalista. Queste convinzioni politiche sarebbero state elaboratamente giustificate in sede teologica, ma non bisogna dimenticare che esse ebbero la loro origine non in una teoria astratta, ma nei fatti concreti di cui il ragazzo ebbe esperienza. Nel 1585 la vita divenne cos pericolosa a Parigi che Maria Leclerc decise di portare tutta la famiglia a Le Tremblay vicino a Versailles, ove aveva una casa fortificata e poteva contare per la difesa su una banda di coloni e di braccianti. Qui Francesco continu i suoi studi sotto un precettore privato cui diede il soprannome affettuosamente rispettoso, di Minosse. I suoi studi ora includevano le lingue moderne, specialmente lo spagnolo e l'italiano (che egli in seguito impar a scrivere e a parlare quasi come la sua propria lingua), dei rudimenti di ebraico, la filosofia, la giurisprudenza e la matematica. Negli intervalli di riposo imparava ad andare a cavallo e a tirare d'archibugio, vagava in beata solitudine tra i boschi, indulgeva al suo gusto per la lettura. Non c'erano molti libri a Le Tremblay; ma tra quei pochi c'era una traduzione delle "Vite" di Plutarco e una raccolta di vite di santi uomini, soprattutto eremiti. Questi due libri Francesco lesse e rilesse. La lettura di Plutarco rafforz in lui l'inclinazione innata per l'eroismo e la vita battagliera; e sotto l'influenza degli eremiti, crebbe tanto in lui quel senso latente della vanit del mondo che egli si sent ispirato a scrivere un breve

trattato sui vantaggi della vita religiosa. Il trattato fu compiuto poco prima che il ragazzo compisse i dodici anni, e fu molto ammirato per il suo stile. Nessuno, peraltro, neppure sua madre, ebbe sufficiente penetrazione per accorgersi che la cosa realmente significativa in quella produzione giovanile non era l'eleganza sforzata e assurda della forma, frutto di laboriosa imitazione, ma il suo sostanziale spirito di cristianesimo primitivo. In questa alquanto pretenziosa operetta di argomentazione astratta, il fanciullo indirettamente annunciava l'intenzione di entrare un giorno nella vita religiosa. Due anni e mezzo pi tardi, quattordicenne, egli fece il primo e prematuro tentativo di tradurre in atto quell'intenzione. Questo significativo episodio fu registrato dallo stesso Francesco quando, a otto anni di distanza, come cappuccino novizio, ebbe dai suoi superiori l'ordine di scrivere un resoconto sulla sua vocazione. Si conserva ancora questo documento che porta il titolo curioso di "Discours en forme d'Exclamation". La storia che in esso si racconta dei fatti del 1591 , in breve, la seguente. Mamma Leclerc si era dovuta assentare per faccende e aveva affidato i tre figlioli a uno dei signori vicini. Era una casa gaia, resa rumorosa da un intero stuolo di fanciullette. Il ragazzo si accorse di guardare una di queste, pressappoco della stessa et, con crescente insistenza. L'aveva conosciuta fin da bambina (sembra che fosse una sua lontana cugina); ma fino a quel momento n lei n alcun'altra ragazza aveva suscitato in lui speciale interesse. Questa volta era diverso. Secondo il linguaggio penitenziale di quello scritto autobiografico, le sue concupiscenze si allarmarono e tremando di un vago benessere egli vide questa ragazza con occhi del tutto diversi da quelli che aveva avuto fino ad allora. Fu una di quelle prepotenti passioni della prima adolescenza, che gli adulti hanno la sciocca abitudine di deridere, ma che sono spesso pi violente e angosciosamente intense di qualsiasi altro sentimento che si possa provare in seguito nella vita. Quando Giulietta am e mor non era pi grande di Francesco Leclerc al tempo del suo primo e ultimo tormento del cuore: quattordicenne appena. Tutta la sua faccia scrisse il cappuccino novizio nel "Discours en forme d'Exclamation", tutta la sua faccia brillava, i suoi sguardi dardeggiavano lampi. In breve tempo Francesco non ebbe occhi se non per lei; non ebbe orecchie se non per lei; le aveva dato tutto il cuore e non riusciva a trovare riposo se non in lei. Fin dal primo momento fu una passione inquieta, turbata da un senso di colpa. C'erano l gli eroi plutarchiani a ricordargli che l'amore il nemico di ogni elevata ambizione; c'erano l gli eremiti a proclamare la vanit dei desideri umani; e quando pregava non trovava pi come un tempo la facile comunicazione tra l'anima e Dio e il Salvatore. Quel volto trasfigurato, quel giovane corpo voluttuoso, l'odore dei cappelli della fanciulla, i battiti violenti del cuore si frapponevano nelle sue preghiere, riempiendo per intero la sua visione interiore ed eclissando Dio. Ma un giorno avvenne qualcosa. Francesco stava giocando a carte con tutto il gruppo delle ragazze - mezza dozzina di "jeunes filles en fleur", - fra cui la sua diletta, e ridevano e scherzavano spensieratamente, quando di colpo, senza visibile ragione, egli ebbe coscienza di quel che stava facendo e ne percep l'assoluta insensatezza con terribile lucidit. Ne fu spaventato. Molti di noi, suppongo, hanno provato qualcosa di simile: si sono destati d'un subito dal sonno della vita quotidiana in una momentanea consapevolezza della natura nostra e di quel che ci ricorda. "E' una brigata in un salotto, stipati, come in terra furono stipati, chi beve punch e chi beve del t, tutti in silenzio quanto pi non si pu, tutti in silenzio e tutti dannati." Il rendersi conto, improvvisamente, che uno sta seduto, dannato, tra

gli altri dannati, una delle pi inquietanti esperienze; cos inquietante, che la maggior parte di noi vi reagisce tuffandosi senz'altro pi profondamente nella sua particolare dannazione con la speranza, in genere realizzata, di poter in tal modo, almeno per il momento, soffocare quella consapevolezza rivoluzionaria. Francesco apparteneva alla schiera di quelli cui un simile procedimento non possibile. La sconvolgente consapevolezza di quel che stava facendo fu seguita quasi immediatamente da un senso della presenza di Dio, e questo gli diede tale gioia, che egli fu sul punto di venir meno, l al tavolo di gioco. Le compagne notarono quell'improvviso pallore e insistettero per portare Francesco all'aria aperta. Nel momento in cui uscirono nel giardino, le campane presero a suonare il vespro. Francesco propose subito che andassero tutti in chiesa. In ginocchio, davanti all'altare, egli sent dentro di s la lotta fra due contrastanti amori, quello profano e quello sacro. Al suo fianco era la fanciulla, il cui volto grazioso era stato trasfigurato dalla sua passione fino a sembrargli il volto luminoso di chi abbia visto Dio; di fronte a lui, sull'altare, era la figura del Salvatore crocefisso. Vi fu una lotta alla fine della quale Francesco non vide altro se non i piedi di Cristo inchiodati alla croce e che sembrava lo attendessero, le braccia di Cristo aperte a riceverlo. A quell'immagine di sofferenza egli fece voto di consacrarsi definitivamente al servizio di Dio. Tornato a casa, cominci senz'altro i preparativi per scapparsene a Parigi. Sarebbe sgusciato via di notte, avrebbe fatto a piedi i trenta chilometri che lo separavano dalla citt e avrebbe chiesto di essere preso in un convento certosino, ove era stato spesso da bambino, cinque o sei anni prima. Era un progetto pazzesco, e il servitore cui lo confid quella sera non manc di farglielo subito notare. In Francesco l'impulsivit innata era tenuta a freno da un ottimo giudizio: egli si accorse che non era giusto adempiere il suo voto in quel modo furtivo e decise di non andare. Il giorno seguente gli fu offerta l'occasione di combattere una battaglia in favore di Dio contro le sue proprie inclinazioni. Si dava una gran festa nelle vicinanze e tutti i giovani erano stati invitati. Vi sarebbero state danze, senza dubbio, e musica, e vino, e luci: quei divertimenti festivi tanto pi intossicanti in quanto cos rari nella vita dei ragazzi allevati in campagna. E naturalmente, di notte, di ritorno a casa, resi languidi dall'eccesso della gaiezza, quante occasioni, tra i sobbalzi della carrozza, per parole bisbigliate in segreto al buio, per strette di mano e per contatti furtivi! Per un innamorato era un'occasione da non perdersi a qualsiasi costo; e fu appunto per questo che il giovane Francesco, anche a rischio di sembrare scortese e scontroso, decise di perderla. Preg molto quel giorno per avere la forza necessaria, e quando le fanciulle furono vestite in piena gala e la carrozza pronta alla porta, fu capace di rispondere di no a ogni supplica, anche a quelle della sua diletta. Alla fine, le ragazze dovettero andare senza di lui. Era una vittoria, ma una vittoria che un giorno o due dopo fu seguita dalla sconfitta. Prima che la settimana fosse passata, infatti, era pi che mai schiavo della sua passione. La sola differenza fu che ora egli soffriva, assai pi che nel passato, dei rimproveri della sua coscienza. Questa angosciosa situazione si prolung per quattro mesi. Alla fine di questo periodo intervennero due fatti, due accidenti che il novizio cappuccino doveva considerare come provvidenziali. Giocando con l'archibugio, Francesco per poco non ammazz la madre. (Maria Leclerc e i figlioli erano tornati a Le Tremblay.) Quasi contemporaneamente, una banda di soldati predoni passarono vicino alla casa e si lasciarono dietro, insieme con altra inutile roba saccheggiata, un libro tutto lacero intitolato "Barlaam et Josaphat". Nella profonda gratitudine per veder salvata la vita della madre dagli effetti della sua negligenza, Francesco rinnov il suo voto. Questa volta non sarebbe tornato indietro. Si svincol cos violentemente dalla schiavit dei mesi precedenti che appena poteva tollerare di

posar gli occhi sulla fanciulla di cui aveva cos ardentemente desiderato le carezze fino a pochi giorni prima. Al tempo stesso, concep un vero orrore per le donne in generale e per l'amore dei sessi. Questo orrore doveva accompagnarlo per tutta la vita. Egli riusciva, naturalmente, a dimenticarlo nella contemplazione di Dio; ma quando si trovava in mezzo al mondo, separato dalla presenza di Dio, l'antica avversione continuava ad ossessionarlo. In seguito, padre Giuseppe rifugg perfino da una troppo immediata vicinanza con la propria sorella. Non mi curo era solito dire, non mi curo di vedere il sesso (questa curiosa espressione usata nel Seicento per indicare le donne deve avergli dato una peculiare soddisfazione) se non coperte e velate alla vista, come misteri che non debbano essere guardati se non con un senso di orrore. In altre parole, lo soddisfaceva solo la donna chiusa nel chiostro e l'unico modo tollerabile per godere della compagnia femminile era dato secondo lui dalla grata del confessionale o dalle sbarre di un parlatorio conventuale. Altrimenti, esse dovrebbero essere considerate come le bestie selvagge, che uno si limita a vedere senza avvicinarsi loro. L'intensit dell'avversione provata da padre Giuseppe era senza dubbio proporzionata all'intensit di quella sua prima passione e allo sforzo violento che aveva dovuto compiere su se stesso per riuscire a dominarla. E veniamo ora al vecchio libro che i soldati avevano buttato via passando per Le Tremblay. Francesco lo raccolse, lo lesse e di colpo, come egli dice, se n'innamor. Era come se la voce di Dio parlasse da quelle pagine, rafforzandolo nella sua decisione e spaziando, per suo conforto, sulla pace e sulla felicit della vita spirituale. Tutta una letteratura si sviluppata nei tempi moderni intorno al pio racconto che fin per decidere la futura vocazione di padre Giuseppe. "Barlaam et Josaphat" una delle pi grandi curiosit storiche. Questo romanzo medioevale di un principe indiano che abbandona la vita di piaceri, cui l'ha condannato il padre troppo premuroso, e abbraccia la vita contemplativa sotto la guida di un eremita, non infatti altro che una vita cristianizzata di Gotamo Budda. Non solo nelle linee generali, ma anche negli episodi particolari e nella fraseologia, "Barlaam et Josaphat" segue il testo sanscrito del "Lalita Vistara". Non solo. Il nome stesso del principe rivela la sua identit. La storia era stata originariamente tradotta in greco da una versione araba, e le lettere arabiche per Y e B si possono facilmente confondere. Josaphat una corruzione di Bodisat. Il discepolo di Barlaam Bodisatva ovvero il futuro Budda. E' una delle tragedie della storia che il Cristianesimo non abbia conosciuto nulla del Buddismo a eccezione di questa mutila versione di una semileggendaria vita del fondatore. Degli insegnamenti del Buddismo primitivo e meridionale, il Cattolicesimo avrebbe trovato dei correttivi quanto mai salutari per la sua teologia stranamente arbitraria, per quelle venature di barbarie primitive ereditate dalle parti meno desiderabili del Vecchio Testamento, per quel suo preoccuparsi, incessante e pericoloso, della pena e della morte, per la sua credenza elaboratamente giustificata nella efficacia magica dei riti e dei sacramenti. Ma, ahim, per quanto riguarda l'Occidente, l'Illuminato era destinato a rimanere, fino a tempi assai recenti, nient'altro che l'eroe di una favola moralizzante. Nel 1594 Enrico Quarto aveva ascoltato la sua Messa e si trovava a Parigi. L'ordine era stato ristabilito e non era pi pericoloso vivere nella citt. Maria Leclerc torn pertanto a Parigi e Francesco fu mandato a continuare i suoi studi all'Universit, o meglio in quel poco che le guerre di religione avevano lasciato in piedi dell'Universit. Era cos poco; che dopo qualche mese il giovane decise di rivolgersi a un altro istituto, l'Accademia diretta da Antonio de Pluvinel. Nella Francia del Cinquecento un'Accademia era una specie di scuola di perfezionamento per i giovani signori. Vi si studiava equitazione e matematica, fortificazione e schema, esercizi militari, calligrafia e

buone maniere. All'Accademia di Pluvinel- la pi aristocratica che vi fosse allora in Francia e quella pi di moda - i corsi regolari duravano due anni; ma Francesco Leclerc du Tremblay, con la sua gi brillante preparazione, fu in grado di prendere il suo diploma di perfetto gentiluomo in meno di un anno. Nell'autunno del 1595 era pronto per il "Grand Tour". Accompagnato da un vecchio e fidato servitore, insieme ad altri dieci o dodici giovani signori coetanei, si mise in viaggio per l'Italia. E "Barlaam et Josaphat"? E gli eremiti, e quel trattato sulla vita religiosa e i suoi voti ai piedi del crocefisso? Gli erano forse usciti di mente? O li aveva gettati da una parte insieme con le altre sciocchezze della fanciullezza? Niente affatto. Nulla era stato dimenticato, e ferma rimaneva ancora l'antica decisione. Egli aspettava soltanto il momento giusto, il richiamo definitivo e inequivocabile. Poteva venire prestissimo; poteva tardare alcuni anni. Nel frattempo, Francesco obbediva alla mamma e faceva del suo meglio per assolvere i doveri inerenti al grado sociale in cui era nato. Per i giovani suoi compagni questo viaggio in Italia era la prima eccitante occasione per essere liberi dal controllo dei genitori, ed essere liberi (quel che contava di pi) nella terra promessa dei "Sonetti lussuriosi" e delle incisioni di Giulio Romano. Per Francesco, invece, era semplicemente un altro stadio del processo educativo che doveva prepararlo fisicamente e intellettualmente a compiere, in un campo non ancora definito, la volont del suo Dio e Salvatore. Forte nel voto di castit fatto dopo l'incidente dell'archibugio, forte anche nel suo orrore e nel suo terrore delle donne; non lo impaurirono le tentazioni cui i suoi compagni, mentre cavalcavano da Parigi verso il sud, si ripromettevano gi allegramente di soccombere. L'Italia gli avrebbe insegnato solo quel che per lui era giusto e necessario imparare; e nient'altro. Una volta passata la frontiera, Francesco non perse il suo tempo. A Firenze studi la lingua, la scherma e l'equitazione, in cui in quel periodo gli italiani erano considerati maestri. Era un eccellente cavaliere e aveva una vera passione per tutte le raffinatezze dell'equitazione: una passione che ben presto sarebbe stato costretto a sacrificare alla sua vocazione religiosa, poich un cappuccino poteva viaggiare solo a piedi. Da Firenze prosegu per Roma, e qui ebbe modo di imparare qualcosa della segreteria di Stato pontificia, modello di sagace pratica diplomatica senza rivali allora in Europa. Risalendo di nuovo al nord, si ferm a Loreto, per ragioni religiose; a Bologna, per visitare l'Universit; a Ferrara, per fare atto di omaggio al Duca e vedere il museo di storia naturale; a Padova, un po' pi a lungo, per studiare giurisprudenza. Le lettere mandate in questo periodo da Francesco alla madre sono andate perdute. E' un peccato: sarebbe interessante sapere se conobbe Galileo, che insegnava allora a Padova e quali furono gii argomenti discussi in quelle riunioni che si tenevano regolarmente, fuori dalle ore scolastiche, nelle case dei professori. Da Padova il giovane prosegu per Venezia, che era piena di dotti bizantini esuli e di conseguenza il posto migliore in Europa per lo studio del greco. Da Venezia, attraverso le Alpi, pass in Germania e ne vide abbastanza per sapere quale fosse l'aspetto del paese prima della guerra dei Trent'Anni. Non era ancora passato un anno dalla sua partenza, che rientrava a Parigi. Quando il giovane barone di Maffliers fu presentato a Corte, fece un'ottima impressione. Gabriella d'Estres, la giovane amante del re (di appena due anni maggiore di Francesco) lo chiam il Cicerone della Francia e del suo tempo. Il monarca si espresse in modo meno enfatico, ma non manc di notare con approvazione il giovane. N c'era da meravigliarsene. Francesco non solo aveva una bella aristocratica figura, era anche molto intelligente, si comportava con una discrezione superiore alla sua et, aveva un tratto squisito, poteva conversare in modo delizioso su qualsiasi argomento, ma senza mai abbandonare quella riservatezza, senza mai staccarsi da quella cautela, con cui moderava i suoi entusiasmi, la sua fertile immaginazione, e i suoi impulsi verso l'azione immediata. Molti anni

dopo, il cardinale Richelieu trov due soprannomi per il suo vecchio amico e collaboratore: Ezechiele e Tenebroso-Cavernoso. Questi due soprannomi sono mirabilmente appropriati per designare quella natura dotata di cos strana complessit. Ezechiele era l'entusiasta, il visionario, l'evangelico e mistico francescano; Tenebroso-Cavernoso era l'uomo che non si scopriva mai, il diplomatico dalla faccia di bronzo, il politico ricco di inesauribili risorse. Queste due personalit, stranamente dissimili, risiedevano nello stesso individuo e il loro incongruo accoppiamento costituiva un elemento importante del carattere dell'uomo di cui ci siamo messi a seguire la vita. Francesco pass un anno intero a Corte. Fu un interludio istruttivo. In quella scuola di coeducazione che era il Louvre, egli apprese ogni genere di utili lezioni: ad ascoltare con aria di rispettoso interesse i seccatori regali; a sopportare con animo lieto gli sciocchi di alto lignaggio; a fare delicati complimenti alle dame i cui seni troppo scoperti lo riempivano d'intenso disgusto; a sondare i beni informati senza mostrarsi curioso, a distinguere tra chi ha importanza e chi non l'ha, tra l'effettiva potenza e la mera apparenza. Per il futuro segretario di Stato e diplomatico, tale conoscenza era indispensabile. Al principio del 1597 si offr a Francesco l'occasione di continuare la propria educazione anche in un altro campo: fu mandato a fare la sua prima esperienza di guerra all'assedio di Amiens. Questa fortezza, piena di munizioni e di rifornimenti militari, era stata ceduta a tradimento da un sostenitore della Lega agli Spagnoli, i quali erano a loro volta assediati da un esercito francese al comando del Connestabile Montmorency. Ora, Montmorency era marito di quella figlia legittimata di Enrico Secondo che venti anni prima aveva graziosamente accondisceso a essere madrina di Francesco Leclerc. Egli prese pertanto il giovane sotto la sua personale protezione e fu molto lusingato dal modo con cui Francesco si comport durante l'assedio. La gente cominci a profetare che quel giovane barone di Maffliers avrebbe formato un soldato di prim'ordine. Amiens finalmente cadde, e la sua caduta fu un'eccellente occasione per porre termine a una guerra di cui sia Enrico Quarto che Filippo Secondo erano cordialmente stanchi. Enrico Quarto, per, aveva degli alleati e non poteva far pace senza il loro consenso. Di questi alleati il pi importante era Elisabetta d'Inghilterra, che aveva ragioni proprie per desiderare il prolungarsi delle ostilit. Per assicurarsi il consenso di Elisabetta alla pace, Enrico Quarto mand a Londra uno stagionato diplomatico, Hurault de Maisse, lontano parente dei du Tremblay. Francesco si serv di questa parentela per farsi includere nel seguito dell'ambasciatore e nell'autunno di quell'anno, 1597, sbarc in Inghilterra. Per un giovane che cercasse di perfezionare la propria educazione, Londra offriva occasioni d'oro. La Corte era frequentata da gentiluomini compiti e anche dotti, con cui si poteva parlare in latino di Erasmo e dell'"Iliade" e della nuova edizione di Aulo Gellio. Il dramma elisabettiano era in pieno sviluppo e gli ospiti stranieri di riguardo venivano spesso intrattenuti con quel che doveva sembrar loro un alquanto sconcertante spettacolo. Durante tutto questo tempo, naturalmente, Hurault de Maisse era occupato a negoziare con la regina e i ministri inglesi; e Francesco aveva modo di studiare il lavoro diplomatico in atto e dall'interno. Infine c'era quella vecchia virago della regina, ed era suo dovere corteggiarla. Lei, per parte sua, era ben lieta di conversare con un cos bel giovane, di cos raffinata educazione e dotato di tale padronanza di quelle lingue morte e viventi, che lei stessa conosceva cos bene e tanto si dilettava a parlare. (Quando Hurault de Maisse la compliment a questo riguardo, Elisabetta rispose - e la risposta veramente caratteristica che non c'era niente di notevole nell'insegnare a una donna a parlare; il difficile era indurla a dominare la lingua.) Per qualsiasi altro giovane, quella breve visita a Londra non sarebbe stata se non un'avventura molto divertente e forse istruttiva. E tale in realt fu anche per Francesco per una o due settimane. Era eccitato

dalla novit di tutto quel che vedeva, compiaciuto del suo successo, incantato dalle persone con cui veniva a contatto e gli piacevano gli inglesi. E appunto perch gli piacevano, quel felice senso di piacere che provava a stare in mezzo a loro si dilegu di colpo. Erano persone simpatiche, cordiali, che parlavano il latino con un accento cos deliziosamente comico: ed erano tutti eretici e di conseguenza tutti irrevocabilmente dannati. L'intera nazione era dannata: milioni e milioni di uomini, di donne e di bambini immersi in tenebre spirituali per cui non passava che una strada; e quella strada conduceva direttamente ai tormenti eterni. Francesco fu atterrito a questo pensiero, e l'antico senso della vanit dei desideri umani, della natura fugace e illusoria di quel che comunemente si chiama felicit, torn in lui con raddoppiata intensit. Pensare a quegli inglesi! Con quanta tranquillit passavano il loro tempo, come se fossero perfettamente a posto! Eppure, tra pochi brevi anni ognuno di loro si sarebbe trovato in inferno! Quanto a lui, la Provvidenza benigna aveva decretato che doveva nascere cattolico. Ma perfino questo inestimabile dono di Dio non era sufficiente garanzia di vera felicit. Egli era salvato solo in potenza. Fino all'ultimo momento della vita, il peccato avrebbe potuto distruggere gli effetti del battesimo. L'inferno non era per lui una certezza, come per Elisabetta e l'attempato Burleigh e tutti gli altri loro simili, ma una terrificante possibilit anzi una probabilit se egli avesse continuato a condurre l'attuale vita mondana. Ricchezza, onori, gloria militare, le gentilezze lusinghiere di un re, i complimenti di una favorita regale: quale era mai il valore di tali inezie di fronte alla salvezza eterna e all'attuazione della volont di Dio in terra. Ossessionato da tali interrogativi, il barone de Maffliers fece ritorno in Francia nelle prime settimane del 1598. Arrivato a Parigi, and subito dal suo confessore, Andrea du Val, che l'ascolt con attenzione e gli diede a leggere un libretto apparso mentre egli era in Inghilterra. Il libro s'intitolava "Bref Discours sur l'Abngation Intrieure" e l'autore era nient'altri che Pietro de Brulle ormai giovane prete che studiava teologia alla Sorbona. Abnegazione interiore! Queste parole sembravano miracolosamente appropriate. Francesco lesse il libro e subito lo rilesse, con passione. Era un altro "Barlaam et Josaphat", ma con il vantaggio che l'autore era vivo e si trovava a Parigi. Francesco and immediatamente a cercare il suo vecchio compagno di scuola. Brulle lo accolse con gioia; e da quel momento Francesco non fu pi visto a Corte ed evit tutte le conoscenze che vi aveva fatte. Coscientemente e di proposito, egli si preparava per il momento, che ormai presagiva assai vicino, il momento solenne in cui sarebbe stato chiamato a romperla con il passato e a cominciare un'esistenza totalmente nuova. Il piccolo mondo in cui fu introdotto da Brulle e da Du Val formava una societ veramente straordinaria, composta per la massima parte di persone in cui le pi elevate capacit d'ingegno si accompagnavano a un intenso fervore religioso e, in qualche caso, a rare e impressionanti doti spirituali. Ne costituiva la figura di centro una donna, Barbe Acarie, e intorno a lei gravitavano rispettosamente tutti gli altri, uomini e donne, laici e religiosi. Nata nel 1566, Barbe Avrillot era stata maritata a sedici anni con un uomo appartenente, al pari di lei, alla "noblesse de robe". Pietro Acarie era uno di quei pazzi irrequieti e non stupidi che debbono sempre "far qualcosa" e per mancanza di criterio finiscono sempre per fare qualcosa di futile o di disastroso. Egli dissip la maggior parte della sua cospicua fortuna finanziando degli eloquenti imbroglioni. Appassionato politico, spos la causa della Lega con tanto ardore che, dopo il trionfo di Enrico Quarto, fu privato del posto, esiliato da Parigi e poco manc che non perdesse, per una nuova imprudenza, quel po' che gli rimaneva e anche la vita. Dovette la salvezza agli sforzi instancabili di una moglie che aveva sempre maltrattata. Solo a ventidue anni Barbe Acarie scopr la propria vocazione religiosa. Leggendo un libro di devozione, incontr la frase: "Trop est avare qui Dieu ne suffit". L'effetto

che le produssero queste parole fu straordinario: fu come se Dio l'avesse colpita con un fulmine. Divenne un'altra persona: una persona che sapeva per immediata intuizione che il vero regno dentro di noi, che si pu progressivamente arrivare a confondersi con Dio, che dovere delle creature umane affrontare subito l'inconcepibile impresa di divenire perfette come il loro Padre nei cieli perfetto. Allorch Francesco Leclerc fece ritorno da Londra, Pietro Acarie si trovava in esilio da pi di tre anni e la moglie e i sei figlioli, ridotti per il momento in piena miseria, vivevano con i Brulle. La loro casa in rue Paradis - e pi tardi, quando la posizione di Pietro Acarie si fu in certo modo riassestata, l'Htel Acarie - divenne nella vita religiosa francese quel che l'Hotel de Rambouillet doveva essere, una generazione dopo, per la letteratura e i costumi francesi. L'influenza di Barbe Acarie fu sentita soltanto dai suoi contemporanei; poich Barbe, a diversit di Santa Teresa cui rassomiglia per l'incessante attivit pratica non meno che per le singolari facolt mistiche, non ha lasciato alcun documento scritto delle sue esperienze. La conosciamo solo attraverso una biografia scritta da Andrea Du Val e i ricordi di uomini e donne che la conobbero. Da questi appare che nessuno poteva stare con lei, anche per poco, senza accorgersi che si trovava davanti a una persona totalmente diversa dagli ordinari esseri umani. In Barbe Acarie il processo di illuminazione e di santificazione era giunto al punto in cui l'elemento meramente umano nient'altro che un sottile involucro psico-fisico in cui si racchiude una costante realizzazione dell'immanenza divina. Alcuni santi hanno affascinato i loro contemporanei; la santit della signora Acarie era invece di una specie che ispirava una reverenza mista a timore. San Francesco di Sales, che le fu amico e per un certo tempo anche confessore, scrisse che provava per lei un infinito rispetto; e lo stesso accadeva a chiunque avvicinasse questa donna straordinaria. Le persone meno familiari con la vita spirituale erano ancor pi impressionate dai fenomeni fisici che accompagnavano spesso gli stati mistici della signora Acarie: da quelle estasi e da quei rapimenti che lei si sforzava in ogni modo di controllare e considerava - in accordo con tutti i maestri spirituali di allora e di oggi come un sintorno non tanto della grazia divina quanto della sua propria debolezza. (La signora Acarie ricevette anche le stimmate, ma riusc a tenerne celati i segni a tutti coloro che la circondavano. Il fatto, confidato da lei soltanto a tre persone, tra cui Brulle, fu conosciuto solo dopo la morte.) Nel tardo Settecento Barbe Acarie fu formalmente beatificata; ma gi in vita la sua santit era stata universalmente, seppur non in via ufficiale, riconosciuta. Perfino dei professori di teologia, come Du Val, non potevano non vedere che e cosa fosse questa donna. Nel 1594, per una specie di scherzo voluto dalla Provvidenza, Du Vai, il professore favolosamente dotto, era stato presentato alla signora Acarie. Per la prima volta in vita sua, questo esperto della scienza della divinit si trov nella medesima stanza con una persona le cui conoscenze in materia erano non solo discorsive e intellettuali, ma immediate e intuitive. Dopo neppure cinque minuti, Du Val aveva avuto modo di constatare che mentre lui conosceva tutto intorno a Dio, quella donna conosceva Dio direttamente. Con ammirevole umilt, il teologo si pose sotto la guida spirituale di quella donna mistica e non dotta, e da quel momento fino alla morte di lei, nel 1618, Du Val rimase fedele discepolo e fidatissimo amico della signora Acarie. Tra i membri del circolo della signora Acarie c'era un frate cappuccino che in religione portava il nome di padre Benedetto. Questo padre Benedetto era nato intorno al 1560, a Canfield nell'Essex, da un ricco signore di campagna di nome Fitch. Da giovane, William Fitch and a Londra a studiare giurisprudenza. La lettura di un libro proibito di devozione cattolica lo fece di colpo convertire da una vita di dissipazione all'austerit e al vecchio credo religioso. Era

impossibile studiare la teologia cattolica in Inghilterra; di conseguenza il giovane pass la Manica e and a Douai, ove s'iscrisse a un collegio inglese. Nel 1586 prese l'abito di cappuccino e fin dai primi giorni del suo noviziato a Parigi si rivel dotato delle pi elevate facolt spirituali. La sua influenza sui contemporanei fu grande almeno quanto quella della signora Acarie, probabilmente anche pi grande; infatti, per dirla con Brmond, Benedetto da Canfield fu il maestro dei maestri, l'istruttore di tutta una generazione di santi mistici, alla cui dottrina e al cui esempio si deve la grande rinascita della religione personale, che infuse nuova vitalit al cattolicismo francese durante la prima met del secolo diciassettesimo. La stessa signora Acarie era una discepola di padre Benedetto. La storia di come ebbero inizio i loro rapporti una storia curiosa. Quella frase, "'trop est avare qui Dieu ne suffit'", aveva aperto per Barbe Acarie il regno di Dio esistente, se pur celato e non riconosciuto, entro lo spirito di lei. L'esperienza diretta della grazia divina era troppo per l'organismo fisico della signora Acarie: le estasi e i deliqui divennero di una frequenza imbarazzante. La suocera non nascose un'addolorata disapprovazione; il marito esplose in aperte forme d'indignazione. Furono chiamati dei dottori e Barbe fu sottoposta a salassi fino a non reggersi pi in piedi; ci si rivolse al parroco locale perch l'ammonisse a dovere, il che egli fece, qualche volta puranche in pubblico. Fu tutto inutile: a dispetto dei suoi stessi sforzi, la signora Acarie continuava a provare le grazie mistiche e ad andare soggetta periodicamente a estasi e a deliqui. Infine, nel 1593, fu mandato a chiamare padre Benedetto, accettato ormai da tutti come un'autorit in materia. Il cappuccino afferm senza esitazioni che le estasi della signora Acarie erano di origine divina e prese a istruire la giovane donna negli elementi di quella teologia mistica, di cui la convenzionale educazione religiosa l'aveva lasciata del tutto al buio. Grazie a padre Benedetto, la signora Acarie impar a conoscere quel che le accadeva; a sapere in quale rapporto si trovasse con i mistici che l'avevano preceduta, a quale disciplina spirituale dovesse sottoporsi e come dovesse prepararsi a ricevere le grazie divine. Brulle doveva a padre Benedetto ancor pi di quanto gli dovesse la signora Acarie. Il cappuccino gli insegn non solo la tecnica della meditazione e della contemplazione, ma anche una completa teoria mistica: una teoria, come vedremo nel prossimo capitolo, che differiva sotto alcuni importanti aspetti dalla tradizionale teologia di Dionisio e dei suoi seguaci fino al tempo di San Giovanni della Croce, e la cui propagazione da parte di Brulle e dei membri della sua scuola doveva influenzare tutto il futuro svolgimento del misticismo cristiano. Brulle e la signora Acarie furono i pi autorevoli discepoli di padre Benedetto; ma ve ne furono molti, molti altri di minor nome. Dio solo conosce scrive il biografo contemporaneo del Padre, il numero dei religiosi che, con l'aiuto dei suoi insegnamenti, dati a viva voce o mediante gli scritti, si sono elevati a un sublime stato di perfezione. Da questo maestro dei maestri Francesco Leclerc ricevette l'iniziazione alla "vita unitiva". Padre Benedetto e, in grado forse anche maggiore, la signora Acarie possedevano quella profonda penetrazione del carattere umano che si sviluppa negli uomini e nelle donne di progredita spiritualit ed indicata con l'espressione tecnica di "discernimento degli spiriti". Si racconta che la signora Acarie fosse in grado di distinguere infallibilmente coloro che ne erano privi, e che considerava quanto mai errato l'imporre a questi ultimi un'educazione mistica. Il fatto che padre Benedetto si assumesse l'educazione di Francesco, e che la signora Acarie non trovasse niente in contrario, sembra attestare pertanto in modo sufficiente che il giovane doveva avere in s la stoffa di un autentico mistico. Sta al biografo scoprire perch e in nome di quale principio religioso questo potenziale Giovanni della Croce preferisse divenire il braccio destro del cardinale Richelieu.

La signora Acarie, come ho detto, era una mistica attiva. La casa di rue Paradis era il punto di raccolta di tutti coloro, laici o religiosi, che prendevano interesse alla riforma degli ordini monastici allora esistenti, o alla creazione di nuove congregazioni. Era, al tempo stesso, il quartier generale di un'organizzazione molto efficiente per la distribuzione della carit. Le offerte venivano dalle fonti pi inaspettate. Il re, per esempio, ogni volta che sedeva al tavolo da gioco, si propiziava l'Onnipotente e faceva un sacrificio alla dea Fortuna mandando venticinque corone alla signora Acarie per le sue opere di carit. Aiutanti volontari distribuivano le somme raccolte e si assumevano il compito di visitare i poveri, i malati e i carcerati. Era un compito tutt'altro che lieto o gradevole. Parigi al principio del secolo diciassettesimo era una citt medievale eccessivamente cresciuta, senza fogne, senza nettezza per le vie, resa pestilenziale e bestiale dal congestionato affollamento. Gli ospedali sembravano carnai, e le carceri sembravano degli inferni in terra. In questa spaventosa Parigi dei poveri e dei criminali il giovane barone de Maffliers, in veste di uno degli aiutanti della signora Acarie, inizi un nuovo capitolo della sua educazione. Egli aveva provato successivamente lo studio, i viaggi, le corti, la guerra e la diplomazia. Ora sotto la guida spirituale di padre Benedetto e della signora Acarie, acquistava un'esperienza diretta dell'illuminazione divina da una parte e delle tenebre della miseria e della malvagit umana dall'altra. Il noviziato non ufficiale di Francesco Leclerc fu interrotto dopo alcuni mesi da un curioso episodio. Segretamente, senza dir nulla ad anima viva, il giovane lasci la casa e si diresse di tutta corsa al sud. Sua meta era la Grande Chartreuse, nelle montagne sopra Grenoble. Dietro consiglio di Du Val o di padre Benedetto o della signora Acarie aveva forse il giovane preso questa decisione di farsi frate certosino? E' lecito dubitarne. L'Ordine di San Bruno, imitazione medievale del monachesimo egiziano delle origini, s'era conservato quasi inalterato attraverso i secoli, "mai riformato perch mai deformato": istituzione venerabile, ma alquanto fuori del tempo, specie in un periodo cos indaffarato a modernizzare i vecchi Ordini religiosi e a crearne dei nuovi. Possiamo esser quasi certi che gli amici del circolo della signora Acarie avrebbero consigliato a Francesco di entrare in qualche altro Ordine di pi recente formazione che non quello certosino. La scelta del giovane fu dovuta, probabilmente, in parte all'impressione lasciata in lui dalla visita che aveva fatto fanciullo alla Certosa di Parigi, e in parte - si pu immaginare - al fatto che, entrando nell'Ordine certosino, egli avrebbe compiuto il pi grande atto di rinuncia e di mortificazione di cui fosse capace. E questo non perch la regola certosina fosse pi rigida e mortificante delle altre (i cappuccini, tanto per limitarci a un esempio, non erano certo meno severi verso il loro corpo): ma i cappuccini erano attivi non meno che contemplativi, mentre i certosini vivevano chiusi entro muri e in un quasi perpetuo silenzio. A un uomo come Francesco Leclerc, dal temperamento ardente e dall'intelletto attivo, questo totale estraniarsi dal mondo degli uomini deve essere sembrato il sacrificio assoluto e definitivo di se stesso. Il fanciullo che aveva chiesto di esser mandato in collegio per paura che sua madre lo viziasse, divenuto ora questo giovane, bramoso di una vita di reclusione e di forzata inattivit, appunto perch tale vita sarebbe stata per lui la pi dura a sopportarsi. Si mise dunque in cammino fermamente deciso a fare pieno sacrificio di tutte le sue inclinazioni; ma lungo la strada, vicino a Nevers, gli accadde qualcosa che l'indusse a mutar pensiero. Egli sent una voce interiore che gli imponeva di tornare subito a Parigi e di non entrare nella vita religiosa senza aver prima ottenuto il consenso della madre. Ubbid. San Bruno perse un monaco, ma San Francesco guadagn un frate, e il cardinale Richelieu un segretario di Stato per gli affari esteri. Come Francesco aveva previsto, quando era partito di casa senza

neppure congedarsi dalla madre, la signora Leclerc non aveva alcuna intenzione di aiutare il suo primogenito ad abbandonare un mondo in cui sembrava destinato a fare una brillante carriera. Per giunta, mamma Leclerc s'era data a lungo da fare per trovare un'ereditiera, e l'aveva ora finalmente trovata secondo i suoi desideri. Con la dote, Francesco avrebbe potuto riassestare le sostanze familiari, malinconicamente assottigliatesi dalla morte del signor du Tremblay; avrebbe potuto comprare una buona posizione al fratello pi giovane, e far s che la sorella trovasse una soddisfacente sistemazione matrimoniale; senza contare, naturalmente, tutto quel che il danaro gli avrebbe permesso di fare per se stesso. E ora il figlio parlava di gettar via tutto e di andare a chiudersi in un chiostro. Che stupidaggine! E che ingratitudine, anche, dopo tutto quello che lei aveva fatto per lui! Tenacemente, nei mesi che seguirono al ritorno da Nevers, mamma Leclerc combatt contro la vocazione del figlio; e non meno tenacemente il giovane la sostenne. Alla fine, torturato dai due contrastanti affetti, Francesco si ammal. Il male si prolung e crebbe di gravit fino a quando l'affetto materno ebbe nella signora Leclerc il sopravvento sull'ambizione. Con riluttanza e non senza condizioni, Maria Leclerc accondiscese a un compromesso: gli avrebbe permesso di entrare nella vita religiosa purch lui avesse scelto un Ordine la cui regola le consentisse di continuare a vedere il figliolo. Riconciliare cos le cose, Francesco cominci subito a ristabilirsi in salute. Dopo qualche esitazione, egli si decise per i cappuccini. Fu consultato padre Benedetto da Canfield; e da questo, nella sua qualit di guardiano del convento dei cappuccini di rue Saint-Honor, Francesco ricevette una "obbedienza" scritta e mandato alla casa dei novizi, a Orlans. Di nascosto, come la volta precedente, Francesco lasci Parigi; ma questa volta non sarebbe tornato indietro. Il 2 febbraio del 1599 indossava l'abito di novizio francescano. Aveva agito saggiamente nel lasciar la casa senza neppur salutare la madre e ne ebbe la riprova poco tempo dopo, quando la signora Leclerc si present alla porta del convento accompagnata da un alto magistrato e con uno scritto del re in cui s'ingiungeva ai cappuccini di renderle il figlio. Vi fu un'ultima, lunga discussione. Il tono della madre era violento; quello del giovane, gentile ma incrollabilmente risoluto. Lei dichiar che non aveva mai, veramente, dato il suo consenso; che lui era un ragazzaccio scappato di casa e i frati erano poco meno che rapitori di bambini; che lui trascurava i pi sacri doveri, condannando il fratello e la sorella alla povert e spezzando il cuore della madre. Francesco rispose che Dio l'aveva chiamato e non rispondere a tale chiamata sarebbe stato un peccato. C'era nelle sue parole una cos vibrante sincerit, che la signora Leclerc ne fu commossa, rimase indecisa, e quindi scoppi in lagrime: gli diede la sua benedizione, bruci la "lettre de jusson" e lo lasci alla Chiesa. Da implacabile oppositrice della vocazione del figlio, la signora Leclerc ne divenne da quel momento la pi ardente sostenitrice. Quell'incontro produsse in lei gli effetti di una conversione. Dalla vita del mondo, la signora Leclerc si volse alla religione, incoraggiata dalle istruzioni spirituali che le dava continuamente il figlio; e si dedic alle opere buone. Le fu di ricompensa, in questo mondo, il vivere tanto da veder padre Giuseppe fare una carriera incomparabilmente pi brillante di quella che ella avrebbe potuto sperare per il barone di Maffliers. A questo punto non sar fuor di luogo - credo - descrivere brevemente l'Ordine in cui il giovane barone; aveva irrevocabilmente eletto di passare tutta la sua vita. La storia del francescanesimo la storia di una lotta prolungata tra una religiosa saggezza del mondo da una parte, e un cristianesimo primitivo alieno da ogni compromesso, dall'altra. San Francesco era stato per il cristianesimo primitivo; frate Elia, suo successore, per la saggezza mondana. Durante le prime generazioni di francescani, un partito di "Moderati" fu contrastato da un partito di "Spirituali"; ma in prosieguo di tempo queste denominazioni mutarono. Nei secoli successivi, la causa della saggezza

mondana rappresentata dai "Conventuali", mentre nella posizione opposta si accampano gli "Osservanti", cos chiamati perch tentarono di osservare, sia pure con riserve considerevoli, la regola originaria di San Francesco. La consuetudine e infine l'autorit pontificia avevano fissato ormai la posizione di queste due branche del francescanesimo, quando, con la Controriforma, cominci a diffondersi nella stessa Chiesa un nuovo entusiasmo per le riforme. Tra i francescani abbiamo le riforme rappresentate dagli Alcantarini, dagli Zoccolanti, dai Riformati e finalmente dai Cappuccini. Quest'ordine ebbe i suoi inizi in Italia intorno al 1520, fu regolarizzato con una bolla papale del 1538 e aveva cominciato a svilupparsi bene quando il suo terzo vicario, Bernardino Ochino, si fece calvinista e, nel 1543, fugg prima a Ginevra e poi in Inghilterra, ove divenne prebendario di Canterbury e scrisse una specie di allegoria cosmica, in cui Lucifero fa del Papa un Anticristo, le cui macchinazioni vengono per sventate dalla provvidenziale apparizione di Enrico Ottavo. Il nuovo Ordine come naturale - ebbe a soffrire per le scappate del suo vicario e per un certo tempo si parl perfino di scioglierlo; alla fine, per, fu risparmiato e i suoi privilegi vennero riconfermati. Nel corso di pochi anni era divenuto, insieme con la Compagnia di Ges, uno degli strumenti pi potenti in tutto l'arsenale della Chiesa. I cappuccini si avvicinavano, pi di qualsiasi altro Ordine francescano, alla regola originaria di San Francesco. La norma che imponeva la povert, ad esempio, era rigidamente osservata. I conventi non potevano possedere alcuna propriet, n apertamente n nascostamente, per via di sotterfugi. Ai bisogni dei frati si doveva provvedere esclusivamente con le elemosine, e non era permesso al convento di accumulare provviste oltre lo stretto necessario per pochi giorni. Nessun frate poteva usare e perfino toccare il danaro. (Padre Giuseppe, come vedremo, quando si trov a rappresentare il re in missioni diplomatiche, fu costretto ad accettare, sebbene con riluttanza, una dispensa da questa norma.) Il saio dei cappuccini era di ruvido panno grigio, ed era rinnovato tanto di rado che la maggior parte dei frati erano sempre sporchi e cenciosi. Ai rigori della povert si aggiungevano quelli di una rigida disciplina. Nella vita di un cappuccino i digiuni erano numerosi e le penitenze severe. Una funzione religiosa alla mezzanotte interrompeva le ore del sonno. Oltre e al di sopra degli offici canonici, venivano riservate due ore per le preghiere individuali. Fuori del convento, i frati conducevano una vita d'incessante attivit. Il loro lavoro doveva consistere nel predicare, nel salvare le anime e nell'aiutare i poveri. Fuori patria, tra gli infedeli, e in patria tra gli eretici e i "libertini", i cappuccini furono i grandi missionari e i grandi operatori di conversioni di questo periodo. L dove lo spirito del Cattolicesimo s'era intepidito, essi furono i grandi ravvivatori. N le loro somministrazioni erano esclusivamente spirituali. Essi lavoravano sodo ad alleviare le miserie croniche dei poveri ed erano sempre presenti ovunque si fosse abbattuta una calamit: come portabarelle presso gli eserciti; come intercessori per la vita dei vinti; come infermieri e becchini nei periodi di pestilenza; come portatori di soccorsi tra le popolazioni colpite dalla carestia. E' stato notato che, tra il 1500 e il 1600, l'atteggiamento popolare verso il clero regolare sub un profondo mutamento. Prima, frati e monaci erano considerati o con irritato risentimento oppure con mera derisione; e tale atteggiamenti erano divenuti ormai tradizionali. La violenza dei primi protestanti ricorda quella dell'autore di "Piers Plowman"; il disprezzo faceto che pervade le "Epistulae Obscurorum Virorum" corrisponde in sostanza all'atteggiamento assunto da Boccaccio e da Chaucer. La Riforma produsse la Controriforma. Alla fine del secolo sedicesimo, l'immagine popolare del frate non pi l'essere dissoluto e avido dipinto nel "Decameron" e nei "Canterbury Tales". Il nuovo modello dato dal cappuccino: l'uomo che rispetta i suoi voti, che condivide i travagli del povero ed sempre pronto a dare il suo aiuto nei momenti

difficili e tristi. Il disinteresse e la bont attiva esercitano una influenza straordinaria sulle menti degli uomini e sono le fonti di una singolare specie di potere non coattivo. Nei loro primi cinquant'anni di vita i cappuccini s'erano totalmente conquistato questo potere e questa influenza. E' una delle tragedie della storia che questa forza morale dovesse ovunque essere sfruttata dai governanti della Chiesa e dello Stato, per il raggiungimento dei loro scopi, generalmente sinistri. Questo servirsi, da parte delle forze del male, del potere generato dalla bont uno dei temi principali e pi tragici della storia umana. Austerit di vita, volontaria adozione della povert, purezza di collaborazione senza atteggiamenti di protezione: furono queste le caratteristiche che guadagnarono ai cappuccini il rispetto e l'affetto delle masse. E fu precisamente per le medesime ragioni che il nuovo Ordine esercit un cos potente richiamo su uomini di un certo tipo nelle classi pi alte della societ. Francesco Leclerc non era affatto l'unico esempio di gentiluomo-frate. Molti nobili e perfino alcuni personaggi di sangue reale erano e sarebbero entrati nell'Ordine. Essi erano attratti proprio da quelle cose che ci si sarebbe aspettato dovessero respingerli: la severit estrema della regola, la povert evangelica, il contatto familiare con i pi poveri e con i pi umili. Coloro che sono nati con il cucchiaio d'argento in bocca s'interessano, per la massima parte, solo di conservare e se possibile di accrescere i loro privilegi. Ma in tutti i tempi si avuta una minoranza di uomini e di donne in cui il possesso dei privilegi ha agito come sfida al loro eroismo latente, come stimolo alla rinuncia. La ragione ultima pu trovarsi a volte in un amore sincero di Dio, ma pi spesso in una specie di orgoglio. L'individuo privilegiato sente il bisogno di dimostrare che qualcuno, di per s e indipendentemente dalla sua posizione sociale e dal suo conto in banca, che egli sa vincere la corsa contro ogni partecipante, anche se parte senza vantaggio. Una serie di nobili azioni, che comincino nell'orgoglio, pu continuare nell'orgoglio, s che alla fine l'eroe non praticamente migliore di quanto fosse al principio. D'altro lato, accade spesso che nobili azioni, cominciate per orgoglio, agiscano su chi le fa e lo trasformino, s che questo alla fine una persona fondamentalmente diversa e migliore da quel che era quando cominci. Vi sono mode anche nella grandezza, e le occasioni per l'eroismo mutano a secondo delle et. Cos, negli anni recenti, i giovani con troppi privilegi hanno cercato una vita di austerit eroica nella politica, negli sport o nella scienza. Si sono gettati in movimenti politici impopolari, si sono dati all'alpinismo o alla caccia grossa, hanno lottato contro le malattie, sono andati volontari a combattere nelle guerre di altri popoli. Anche ai privilegiati di altri tempi il combattere e l'andar a esplorare terre nuove offrivano ottime occasioni per l'eroismo e la rinuncia; ma si trattava di occasioni tenute in minor conto dalla pubblica opinione di quelle offerte dalla vita religiosa. Questa una vita da soldato scriveva Francesco alla madre poco tempo dopo essere entrato nell'Ordine, ma con questa differenza: che i soldati ricevono la morte a servizio degli uomini, mentre noi speriamo di ricevere la vita a servizio di Dio. Per un Francesco Leclerc del giorno d'oggi, l'equivalente del diventar cappuccino sarebbe stato l'entrare nel partito comunista o l'arruolarsi per la guerra in Spagna. Ma non sarebbe stato un equivalente completo; poich la vita del cappuccino era una vita da soldato con una differenza, una vita da soldato con l'aggiunta di un'altra dimensione: quella dell'eternit. E' la presenza di quest'altra dimensione che d a certe biografie dei primi tempi un loro particolare sapore. Anche i pi aridi resoconti di queste vite hanno qualcosa della profondit e dell'intensit di significato, che distingue la straordinaria fantasia cattolica di Claudel, "Le Soulier de Satin". Considerate, ad esempio, la vita di quel padre Angelo che, nel 1600, offici la cerimonia dell'ingresso definitivo del nostro novizio nell'Ordine dei cappuccini. Al pari del futuro padre Giuseppe,

padre Angelo era stato un gentiluomo: un gentiluomo di lignaggio incomparabilmente pi illustre di quello dei Leclerc. Prima di prendere gli ordini, questo frate era conosciuto come Enrico de Joyeuse, conte de Bouchage. Uno dei suoi fratelli era cardinale e aveva occupato successivamente i tre arcivescovati di Tolosa, di Narbona e di Rouen. Un altro, Anne de Joyeuse, era morto a Coutras nel 1587, alla testa delle truppe della Lega contro Enrico di Navarra; era stato ammiraglio di Francia, duca, governatore della Normandia, e in seguito al matrimonio con Margherita di Lorena-Vaudemont, cognato della regina Luisa, moglie del suo padrone e devoto amico, Enrico Terzo. Un terzo fratello, Antonio Scipione, era stato governatore della Linguadoca. Questi legami familiari, l'appoggio del cognato, il duca d'Epernon, e infine l'amicizia del re sembravano assicurare il pi brillante avvenire al giovane Enrico de Joyeuse. Ma nel 1587 gli mor la moglie e pochi giorni dopo egli traduceva in atto un'intenzione nutrita pur quando si trovava all'apice dei suoi successi di corte: divenne cappuccino. La lettera mandata in quella circostanza da Enrico Terzo al Provinciale dell'Ordine ancora si conserva "Mon Pre" scrive il re, "so che mi volete bene. Ve ne sono infinitamente obbligato; ma per rendere questo mio obbligo massimo e darmi una gran gioia, consentitemi di chiedervi che n ora n in avvenire (e sono certo che non rifiuterete una cos giusta richiesta) sar allontanato dal convento di Parigi frate Angelo, che mi caro come me stesso o un mio proprio figliolo; e ve ne prego con tutto il cuore, datemi questa gioia, che sar estrema, di poterlo ancora vedere e raccomandarmi alle sue preghiere" Senza dubbio, il Provinciale ubbid; ma l'infelice re ebbe ben poco tempo per raccomandarsi alle preghiere del frate. Un anno dopo aver scritto questa lettera il duca di Guisa veniva assassinato a Blois, e prima che un altro anno fosse passato la Lega si era presa la sua rivincita e l'ultimo dei re Valois giaceva cadavere, trafitto dal pugnale di fra Clemente. Frattanto, il suo protetto era felice elemosinando il pane, predicando, assistendo gli infermi, e imparando da padre Benedetto da Canfield l'arte della preghiera mentale. Per quanto riguarda la politica, i cappuccini erano, in questo tempo, sostenitori della Lega contro il nuovo e non ancora cattolico re. Quale membro di un'illustre famiglia di fautori della Lega padre Angelo fu scelto, nel 1592, per portare a termine una strana missione politica nella Provenza, nel Lionese e nella Linguadoca: doveva cercare di persuadere i governatori delle provincie meridionali (tutti pi o meno da vicino imparentati con lui) a formare una nuova federazione politica, indipendente dal resto della Francia, sotto la sovranit del pontefice. Parecchi mesi di negoziati l'avevano convinto che il progetto non era realizzabile, quando giunse la notizia che suo fratello, governatore della Linguadoca, aveva perduto la vita in una sfortunata azione contro le forze del re. Antonio Scipione era l'ultimo Joyeuse laico. Dei due fratelli che gli sopravvivevano, uno era cardinale e l'altro cappuccino; nessuno dei due pertanto disponibile per il servizio militare. Ma il popolo insist per avere a capo un Joyeuse. Una moltitudine enorme circond il convento in cui si trovava il cappuccino a Tolosa, gridando Vogliamo padre Angelo, vogliamo padre Angelo e (particolare di psicologia di folla veramente shakespeariano) minacciando di bruciare il convento se il Joyeuse non fosse consegnato loro. Fu consultata Roma; furono ottenute le dispense; e finalmente venne il giorno in cui, con cerimonia solenne, il cardinale de Joyeuse accolse il fratello, vestito tutto di nero in segno di lutto interiore per il mutamento di condizione, e, di fronte a una grande congregazione, gli pose al fianco la spada abbandonata cinque anni prima. Padre Angelo era stato trasformato nel duca de Joyeuse e nel governatore della Linguadoca. Per qualche anno govern la sua provincia e combatt contro Enrico Quarto. Ma con la conversione di Enrico e la pacificazione della Francia sotto un monarca cattolico, la Lega perse la sua ragion d'essere. Al pari di altri governatori di provincie, il duca de Joyeuse fece pace con il

re. Enrico Quarto, che sapeva bene come scegliere i propri servitori e collaboratori, lo conferm nei titoli e nelle propriet e lo cre Maresciallo di Francia. Il clamore popolare aveva trascinato padre Angelo fuori dal chiostro e sembrava ora che il favore reale dovesse tenernelo fuori. Ma il lutto che egli aveva indossato nel 1592 era il simbolo di un sincero cordoglio; e nel frattempo i suoi amici di rue Saint-Honor non restavano in ozio. Dov' quella vita estatica e unitiva gli scriveva padre Benedetto da Canfield in una lettera vibrante, dove il ruvido saio, e il cordone, e il mantello rappezzato, dove sono i digiuni, le discipline, i pasti di pane e d'acqua, gli atti di umilt di baciare la terra e di spazzare la casa? Lo specchio di Francia forse macchiato? E' fuggito dalla battaglia quel valoroso capitano dei frati minori? E' possibile che padre Angelo sia morto? Sono angosciato per te, fratel mio Gionata... E quanto al fatto che sull'esterno di questa lettera ti qualifico de Joyeuse, e all'interno ti chiamo mio fratello: non te ne meravigliare; perch solo esteriormente tu sei de Joyeuse, ma interiormente tu sei padre Angelo. E non solo devi essere padre Angelo, ma non puoi essere nient'altro, anche con tutte le dispense papali. Padre Benedetto diceva la verit. Avendo una volta assaggiato la vita unitiva ed estatica, Enrico de Joyeuse non poteva ora essere nient'altro se non fra Angelo. Dopo sette anni passati come governatore, comandante, duca e cortigiano, egli rientr nell'Ordine. Ci accadde nel 1599, l'anno del noviziato di Francesco Leclerc. Nel 1600, come abbiamo gi visto, fu padre Angelo che offici la cerimonia d'ingresso del nuovo padre Giuseppe nell'Ordine.

Capitolo 3. IL MONDO RELIGIOSO. Per quanto riguard la sua religione personale, padre Giuseppe rimase fino alla morte fedele discepolo di Benedetto da Canfield. Se vogliamo capire l'alunno, dobbiamo familiarizzarci con gli insegnamenti del maestro. Ma per poter adeguatamente valutare questi insegnamenti, dobbiamo prima conoscere qualcosa della tradizione mistica su cui sono basati e da cui divergono in modo significativo. La tradizione mistica fa, letterariamente, la sua prima apparizione negli "Upanishad", i pi antichi dei quali si ritiene risalgano all'ottavo secolo prima di Cristo. In queste scritture indostane troviamo una certa teoria metafisica dell'universo e del rapporto dell'uomo con esso. Questa teoria sintetizzata nella frase "Tat tvam asi": Tu sei quello. La realt ultima a un tempo trascendente e immanente. Dio il creatore e il sostenitore del mondo; eppure il regno di Dio anche dentro di noi, quasi un modo della coscienza sottostante, per cos dire, all'ordinaria coscienza individualizzata della vita di ogni giorno, ma non commensurabile con essa; di una specie diversa, eppure realizzabile da chiunque sia pronto a perdere la vita allo scopo di salvarlo. Questa teoria metafisica era un tentativo di spiegare un certo genere di esperienza immediata, e in India fu sempre insegnata insieme con certe istruzioni tecniche relative ai mezzi etici e psicologici con cui gli uomini potevano giungere a tale esperienza, ovvero, per usare il linguaggio della teoria metafisica, potevano realizzare il Brahman ossia la realt ultima latente in loro. Dai primi buddisti, la teoria metafisica non fu n affermata n negata, ma semplicemente ignorata, come inutile e priva di significato. Il loro interesse era per l'esperienza immediata, la quale, a causa delle sue conseguenze per la vita, venne a esser

conosciuta come "liberazione" o "illuminazione". Il Budda e i suoi discepoli della scuola meridionale sembrano aver applicato ai problemi della religione quella "filosofia operazionale" che i pensatori scientifici contemporanei avevano cominciato ad applicare alle scienze naturali. Il concetto dice il professor Bridgman nella sua "Logica della Fisica moderna", sinonimo della corrispondente serie di operazioni. Una domanda ha senso solo quando possibile trovare delle operazioni che le diano risposta. Le asserzioni che non si prestano a una verifica "operazionale" non sono n vere n false, ma senza senso. Budda non fu un "operazionista" integrale; sembra infatti che egli abbia preso per dimostrato, abbia accettato come qualcosa di provato e di evidente, una variante della teoria della metempsicosi corrente dalle sue parti. Per quanto riguardava il misticismo, peraltro, il suo operazionismo era completo. Egli non faceva affermazioni sulla natura della realt ultima perch non gli sembrava che la serie corrispondente di operazioni mistiche ne ammettesse una interpretazione teologica. Le operazioni mistiche, egli credeva, offrivano sufficiente risposta alle domande psicologiche: Cosa la liberazione? o, Cosa l'illuminazione? Esse non offrivano, a suo avviso, una sufficiente risposta alle domande: Cosa Brahman? o, Cosa Dio? Il Cristianesimo accett per dato un sistema metafisico derivato da parecchi sistemi gi esistenti e reciprocamente incompatibili. Sembra che Ges abbia preso per dimostrata l'esistenza di una divinit personale del Vecchio Testamento; ma al tempo stesso sembra che egli abbia usato una via meramente mistica per avvicinarsi al regno di Dio, di cui egli ebbe di fatto diretta esperienza entro la sua stessa anima. Questi due elementi, quello tradizionale ebraico e quello mistico, con la sua insistenza sull'esperienza immediata, furono anche presenti nella dottrina di San Paolo, insieme con altri che hanno ulteriormente complicato la teologia cristiana. Del misticismo della Chiesa primitiva sappiamo pochissimo. Fenomeni psico-fisici come i rapimenti, la glossolalia, le visioni e le rivelazioni erano comuni tra i primi cristiani e tenuti in alto conto. Queste manifestazioni si verificavano spesso in individui la cui religione era proprio l'opposto del misticismo; d'altro lato, un fatto constatato che essi a volte hanno luogo come sottoprodotti di una genuina esperienza mistica. Probabilmente, ci avvicineremo di molto al vero, immaginando che vi fosse, nella Chiesa primitiva, in gran parte un ritorno allo spirito coribantico e in piccola parte una contemplazione mistica. Per il quarto secolo, come testimonia Cassiano, una filosofia e una disciplina mistiche ben definite si erano sviluppate tra i solitari e i cenobiti del deserto egiziano. I dialoghi di Cassiano con i padri egiziani furono noti ai contemplativi medievali e ne influenzarono le teorie, i sistemi di vita e i procedimenti devoti. Assai pi vasta influenza, perch scritte da uno che era un artista consumato oltre che un conoscitore di Dio, ebbero le "Confessioni" di Sant'Agostino. Prima di divenire cristiano, Agostino era stato uno studioso di Plotino, e il Dio con cui egli cercava di unirsi era quel neoplatonico qualcosa non suscettibile di mutamento che si cela dietro ogni manifestazione personale di divinit e ne la fonte. Plotino nutr interesse per il pensiero orientale e da giovane aveva preso parte alla spedizione dell'imperatore Giordano in Oriente, allo scopo di raccogliere informazioni di prima mano sulla filosofia persiana e indiana. La sua realt ultima, che non pu essere capita se non attraverso una diretta esperienza mistica, somiglia molto da vicino al Brahman che anche Atman, a "Quello che al tempo stesso Te". Durante i secoli quarto e quinto, il neoplatonismo - e con esso a varie riprese, i pi importanti elementi della religione indostana penetr nel cristianesimo e fu incorporato, tra una quantit di elementi stranamente eterogenei, nello schema del pensiero e della devozione cristiani. Sant'Agostino, come abbiamo visto, ebbe una parte importante in questa cristianizzazione del misticismo orientale. Ma ancor pi importante fu la parte che v'ebbe un ignoto monaco siriano

del quinto secolo, il quale, per assicurare una pi ampia circolazione ai suoi scritti, li tir fuori sotto il nome di Dionisio l'Areopagita, il primo ateniese convertito da San Paolo. Questa pia mistificazione riusc in pieno. Dionisio l'Areopagita fu letto con la reverente attenzione dovuta alla sua poco meno che apostolica posizione. Il che fu buona ventura da una parte, e cattiva dall'altra; poich i libri del monaco siriano erano di valore assai ineguale. Nel bilancio negativo vanno messe le due disquisizioni rispettivamente sulla gerarchia celeste e su quella ecclesiastica: la prima contribu a giustificare il politeismo idolatra, in cui il cristianesimo popolare ha sempre avuto la tendenza di degenerare; la seconda ebbe una certa non desiderabile portata politica in quanto affermava l'origine divina dell'organizzazione temporale della Chiesa. All'attivo peraltro, in contrasto con questi, vanno segnati due libri notevolissimi, Dei "Nomi divini" e "Della Teologia mistica". Servendosi di materiale filosofico derivato dal platonismo e da varie fonti orientali e desunto dalla sua diretta esperienza, l'autore rappresenta la tradizione mistica nella sua forma pi austera, vedantica. Tradotti in latino da Scoto Eriugena, nel nono secolo, questi libri furono largamente letti durante tutto il medioevo ed esercitarono un'influenza straordinaria. Accettando come dati di fatto la teologia e la psicologia dell'Areopagita, i mistici medievali procedettero a elaborare per loro conto le operazioni corrispondenti a questi concetti; operazioni che in India, nel deserto egiziano, tra i mistici maomettani, ovunque sia stata praticata la contemplazione - hanno sempre portato a uno stesso genere di filosofia. Negli scritti lasciati da questi contemplativi possiamo leggere una descrizione di quelle operazioni e di quelle scoperte spirituali che i mezzi a disposizione rendevano loro possibili. Benedetto da Canfield era un uomo dotto e aveva letto non solo l'Areopagita, ma anche tutti i mistici importanti del medio evo e del Cinquecento, cui gli scritti dello pseudo-Dionisio erano serviti d'ispirazione e avevano dato confortante garanzia di ortodossia. L'artista nasce con certe doti che sono sue proprie; ma fa uso di queste doti sulle linee della tradizione artistica corrente. La medesima cosa accade al mistico, la cui vita religiosa costituita da un'azione interdipendente tra le attitudini spirituali innate e la tradizione entro cui si trova a pensare e a operare. Di quale specie era la tradizione filosofica, etica e psicologica, in cui fu educato padre Benedetto? Per rispondere a questa domanda riassumer brevemente un libretto che uno dei pi bei fiori della letteratura mistica medievale. Composta da un anonimo autore inglese del secolo decimoquarto, "La Nube dell'Inconoscibile" un'opera profondamente originale e al tempo stesso interamente rappresentativa nel suo genere. L'autore un uomo che alle pi elevate doti spirituali e a un notevole talento letterario e filosofico accoppiava una profonda conoscenza e un vivo amore della tradizione. Nell'ambito del breve libretto viene mostrato nella sua essenza tutto lo svolgimento medievale del misticismo dionisiano e al tempo stesso, come osserva uno scrittore cattolico moderno, padre John Chapman, sembra vi siano riassunte, con due secoli di anticipo, le dottrine di San Giovanni della Croce. Non v' dubbio che padre Benedetto conoscesse questo libro; infatti, nel suo mirabile commento su "La Nube" padre Agostino Baker, benedettino inglese e teologo mistico, che fu quasi coetaneo di padre Giuseppe, registra che la sua copia manoscritta del libro aveva appartenuto alla biblioteca privata di padre Benedetto Fitch, nostro connazionale, cappuccino, autore del libro intitolato "La Volont di Dio", e alla sua morte fu trovato tra gli altri libri della sua biblioteca. E ben meritava di starvi! Il titolo indica implicitamente il nucleo dottrinale del libro. Questa nube dell'Inconoscibile la medesima cosa che viene chiamata dall'Aeropagita l'oscurit luminosissima: I'impenetrabile mistero di un Dio fuori di noi. La realt ultima incommensurabile con la nostra

illusoriet e la nostra imperfezione; di conseguenza non pu essere capita mediante gli atti dell'intelletto, poich gli atti dell'intelletto sono legati alla lingua e il nostro vocabolario e la nostra sintassi si sono formati per trattare appunto quella imperfezione e quella illusoriet, con le quali Dio incommensurabile. La realt ultima non pu essere capita se non intuitivamente, mediante un atto della volont e dell'affetto. "'Plus diligitur quam intelligitur'" era un luogo comune della filosofia scolastica. L'amore pu andare pi lontano dell'intelletto; poich l'amore entra dove la scienza rimane fuori della porta. Noi amiamo Dio nella sua essenza, ma nella sua essenza non lo vediamo. L'autore della "Nube" si cura assai poco di speculazioni metafisiche. Per lui, come per Budda, il preoccuparsi di problemi cui, nella natura delle cose, il pensiero formulato con parole non pu dare una risposta, sembra uno sciupio di tempo e un impaccio sulla via del progresso spirituale. N si cura di citare le opinioni di altri uomini. Un tempo si riteneva umilt non dire niente di testa propria, senza indicarne una conferma nella Scrittura o nelle parole dei dottori; ma ora ci si mutato in curiosit e in esibizione di dottrina. A causa di queste sue opinioni sulla cultura e sulla speculazione, egli lascia senza spiegazione i particolari del sistema filosofico che alle radici del suo misticismo pratico. Ma da quanto dice, appare evidente che egli accetta per dimostrata l'ipotesi allora corrente tra i teologi mistici riguardo il rapporto esistente tra Dio e l'uomo. Secondo questa ipotesi, esiste dentro l'anima qualcosa che viene variamente chiamato la "sinderesi", la "scintilla", il "fondo dell'anima", "l'apice della volont superiore". Della presenza di questo elemento divino nel loro essere, gli uomini sono per la maggior parte inconsapevoli, perch tutta la loro attenzione fissa sulle cose che essi bramano o da cui rifuggono. Ma se essi eleggono di morire a se stessi, allora sono in grado di diventar consapevoli dell'elemento divino che in loro e, in tale elemento, sentire Dio. Per coloro che sono animati da tale desiderio e sono pronti a soddisfare le condizioni necessarie, il trascendente pu in certo modo diventare immanente entro la scintilla, all'apice della volont superiore. Questa storia presenta somiglianze assai strette con quella che, da tempi immemorabili, stata a fondamento del pensiero indiano. Ma mentre i mistici orientali non hanno mai esitato a stabilire una piena identit tra la scintilla e Dio stesso, i cristiani hanno generalmente adottato un atteggiamento pi cauto. Tu sei Quello affermano gli indiani; l'Atman della stessa sostanza di Brahman. Un mistico pensatore arabo poteva dire: Sono andato da Dio a Dio, finch loro hanno gridato da me in me "Oh, tu io". Per i pensatori cristiani, creatura e creatore erano incommensurabili, e la possibilit di un'unione con Dio non implicava una sostanziale identit della "scintilla" con quel con cui si univa. Alcune affermazioni dei mistici tedeschi, e pi tardi di quelli fiamminghi, hanno, vero, un timbro effettivamente indiano; ma fu appunto per questa ragione che scrittori come Eckhart furono considerati con sospetto dalle autorit ecclesiastiche. A questo riguardo, l'autore della "Nube" strettamente ortodosso. L'anima dell'uomo pu essere una con Dio; ma non per questa ragione della stessa sostanza di Dio. Solo per sua misericordia, senza che tu lo meriti, tu sei reso dio nella grazia, fatto uno con lui in spirito, senza separazione, sia qui, sia nella beatitudine infinita del cielo. S che sebbene tu sia tutta una cosa con lui nella grazia, pur tu ben sotto di lui in natura. Questo unirsi della divinit con la scintilla nell'anima non pu mai essere completo nella vita presente. La piena visione beatifica riservata all'eternit: invero, in certo senso, l'eternit. L'anima, infatti, immortale in quanto capace della visione beatifica. "Ut beatificabilis, est immortalis". Finch sono in carne e ossa, gli uomini non sono abbastanza forti da poter sostenere la piena esperienza di Dio, senza un danno fisico o la morte. Come dice il

cardinale Brulle Dio infinitamente desiderabile e infinitamente insopportabile. E quando si compiace di rivolgersi alla sua creatura, senza proporzionare s a lei, egli non pu essere sostenuto dall'essere creato, che si sente inabissato, schiacciato dalla sua infinita potenza. Del pari, gli indiani affermano che, oltre una certa quantit, il pi elevato "samadhi" fatale per il corpo di chi lo sperimenta. Questo per quanto riguarda il sistema metafisico che alla base della "Nube". Il nostro autore accetta le ipotesi correnti senza discussione. Qualcosa d'altro l'interessa: i fatti dell'esperienza empirica che originariamente postularono l'interpretazione in forma di tali ipotesi, e i mezzi con cui tali fatti possono essere riprodotti nelle anime di coloro che desiderano avere esperienza diretta di Dio. Solo implicitamente e incidentalmente questo libro un trattatello filosofico; esplicitamente un manuale di pratiche mistiche, una guida a un certo modo di vita: il modo della perfezione spirituale. L'autore della "Nube" fa precedere il suo volume da una calda ed enfatica raccomandazione a chiunque tu sia che avrai in mano questo libro che tu n lo legga, n ne scriva, n ne parli ad alcun'altra persona, e neppure tolleri che lo legga, o ne scriva o ne parli, alcun'altra persona che non si sia proposta con tutto il cuore e con sincera volont di essere un perfetto seguace di Cristo. La ragione di questa raccomandazione semplice: "La Nube" un libro per quelli che sono gi abbastanza avanti sulla via dell'educazione mistica. Non un breviario. E' ben vero che I'opera di questo libro, come l'autore chiama l'arte di raggiungere la mistica unione con Dio, necessaria non solo a pochi, ma a tutti. Per mancanza di quest'opera l'uomo cade sempre pi a fondo nel peccato e sempre pi lontano da Dio. Per questo, il comandamento di essere perfetto addirittura come il tuo Padre nei cieli perfetto, incombe su ogni uomo e su ogni donna. Non c' cristiano, checch chiunque possa dire al riguardo, che non sia tenuto, per i doveri impostigli dalla sua professione al fonte battesimale, a intraprendere lo studio e la pratica della teologia mistica. Cos scrisse, continuando una tradizione venerabile e ortodossa, il carmelitano padre Leone di San Giovanni, illustre contemporaneo del nostro padre Giuseppe. Ma, al pari di tutti gli altri, lo studio e la pratica della teologia mistica debbono cominciare dal principio. E il principio costituito da un prolungato processo di correzione morale, di meditazione discorsiva e di allenamento della volont. Di qui la scarsit dei mistici; poich il mondo popolato soprattutto da Micawber ottimisticamente convinti che qualche cosa o qualcuno interverr a tirarli fuori dalle difficolt da cui - come mero dato di fatto - potrebbero salvarsi solo mediante i loro sforzi. Molti, tutti in questo caso, sono chiamati; ma pochi vengono eletti, per la semplice ragione che pochi eleggono se stessi. L'autore della "Nube" parte dal presupposto che i suoi lettori abbiano gi fatto i primi passi per essere perfetti seguaci di Cristo e persistano nella loro risoluzione. A costoro egli assegna il lavoro appropriato al secondo o pi alto stadio della vita contemplativa. Questo lavoro consiste nel coltivare l'arte di amare Dio, solo per se stesso e come egli in se stesso, non per quello che l'adoratore pu trarre da lui e non come egli dopo esser passato per il medium rifrattivo della personalit umana. Eleva il tuo cuore a Dio con un cieco slancio d'amore; e con Dio intendi lui stesso e non i suoi beni. Questi "slanci d'amore" debbono essere ciechi, perch, se si vuol provare Dio quale in se stesso, egli deve essere amato con un puro atto della volont, non moderato dal ragionamento discorsivo. Non vi deve essere alcun tentativo, vano e aberrante, di capire quello che nella Sua natura incomprensibile. Il lavoro del contemplativo consiste nell'allenamento ad astrarsi da tutte le creature, a porsi al di sopra dei suoi stessi sentimenti, desideri, ricordi e pensieri. Egli deve metterli sotto una nube di dimenticanza e, fatto ci, deve percuotere "con nudo intento", con un "cieco slancio d'amore" la nera nube dell'inconoscibile entro cui Dio, quale egli in se stesso,

per sempre ravvolto alla vista umana. Se egli persiste a sufficienza nel battere alla nube, se il dardo del suo amore ansioso abbastanza acuminato, se la nube della dimenticanza tra questo amore e la sua stessa personalit sufficientemente densa, allora pu essere concesso al contemplativo di vedere Dio, se pur non ancora faccia a faccia, almeno in forma non cos oscura come al principio. Questo il punto pi lontano cui pu sperare di giungere l'opera attiva della contemplazione. Ma accade a volte - come affermano ripetutamente il nostro autore e gli altri mistici suoi compagni - che questa contemplazione attiva ceda il posto a una contemplazione passiva, in cui Dio l'agente e l'adoratore soltanto uno strumento che egli usa per i suoi fini divini. In tali casi, Dio emette un raggio di luce spirituale, trapassando questa nube d'inconoscibile che tra te e lui. E' questo un atto di grazia speciale, che non dipende in alcun modo dagli sforzi del contemplativo; di conseguenza hanno affermato d'accordo tutti i mistici - non si pu dire nulla con profitto sulla contemplazione passiva, se non che a volte si verifica. (Si pu notare che questa distinzione tra contemplazione attiva e passiva sembra corrispondere alla distinzione fatta da scrittori indiani tra i gradi inferiori e superiori del "samadhi". In qualsiasi linguaggio siano formulate e in qualsiasi periodo siano espresse, le teorie mistiche sono basate sui fatti empirici dell'esperienza mistica. Non c' pertanto da meravigliarsi se tali teorie rivelano fondamentali somiglianze di struttura.) La propria persona un medium grave e opaco, che inibisce per la massima parte il passaggio alla luce della realt e deforma anche quella poca che lascia passare. Il Vecchio Admo non pu vedere Dio come in se stesso. Chi aspira ad essere contemplativo deve di conseguenza; liberarsi della propria persona. L'autore della "Nube" presuppone che la persona per cui egli scrive abbia gi ottenuto un sufficiente dominio sulle sue passioni e abbia imparato nelle sue meditazioni a escludere l'intelletto analitico e discorsivo da una sfera in cui la sua attivit serve soltanto a inibire l'esperienza diretta della realt. Ma le passioni e l'intelletto discorsivo non sono i soli elementi che compongano l'individualit umana, c' anche una grande provincia psicologica che comunemente designata dalla maggior parte degli scrittori mistici con il nome "distrazioni": una provincia di cui i moralisti comuni parlano assai poco e che, pertanto, vale la pena di descrivere un po' minutamente. I contemplativi hanno paragonato le "distrazioni" alla polvere, a sciami di mosche, ai movimenti di una scimmia punta da uno scorpione. Le loro metafore richiamano sempre l'immagine di un agitarsi senza scopo; ed questo appunto l'aspetto interessante e tipico delle "distrazioni". Le passioni rispondono nella loro essenza a un proposito, e i pensieri, le emozioni, le fantasie connesse con le passioni hanno sempre un qualche riferimento ai fini proposti, reali o immaginari che siano, o ai mezzi con cui tali fini possano essere conseguiti. Le "distrazioni" presentano un caso del tutto diverso: proprio della loro essenza l'essere irrilevanti e sanza scopo. Per accorgersene, basta che uno si metta a sedere un momento e cerchi di ripensare a se stesso: affioreranno soprattutto alla nostra coscienza preoccupazioni connesse con le passioni, ma insieme a esse si presenter una frammentaria mescolanza di ricordi, nozioni e immagini infantili reminiscenze del cagnolino della nonna, il termine francese per giusquiamo; un ingegnoso progetto per acchiappare le bombe incendiarie a mezz'aria - insomma, ogni sorta di cose sciocche e prive di senso. Gli psicoanalisti affermano che tutte le divagazioni del subcosciente hanno un profondo significato emotivo, ma questa affermazione non si pu far collimare con i fatti. Basta osservare se stessi e gli altri per scoprire che non siamo esclusivamente servi delle nostre passione e dei nostri bisogni biologici, pi di quanto non si sia esseri esclusivamente razionali: siamo anche creature dotate di una macchina psico-fisiologica assai complessa la quale, nel suo incessante movimento, porta alla coscienza

tutta una serie di innumerevoli permutazioni e combinazioni mentali prodotte nel corso del suo casuale funzionamento. Queste combinazioni e permutazioni di elementi mentali non hanno niente a che fare con le nostre passioni o con i processi mentali pi razionali: sono giusto delle imbecillit, semplici prodotti di scarto dell'attivit psicofisiologica. E' vero che di esse possono far uso le passioni per i loro propri fini, come accade quando il vecchio Adamo che in noi forma una barriera di distrazioni, intrinsecamente futili, nel tentativo di annullare gli sforzi creativi della volont superiore. Ma anche quando non sono impiegate in tal modo dalle passioni, anche per se stesse, le distrazioni costituiscono un ostacolo formidabile a ogni specie di progresso spirituale. L'imbecille in noi non meno radicalmente nemico di Dio, che non il maniaco passionale e intenzionale, con l'insania dei suoi appetiti e delle sue repulsioni. Per giunta, l'imbecille rimane libero e attivo, anche quando il lunatico stato domato o di fatto distrutto. In altre parole un uomo pu essere riuscito a vincere le sue passioni sostituendole con un unico fisso desiderio di luce, ed essere tuttavia ostacolato nel suo avanzare dall'irrompere nella coscienza di distrazioni futili. E' questa la ragione per cui tutti gli spirituali progrediti hanno annesso tanta importanza a queste imbecillit e le hanno qualificate come imperfezioni gravi e perfino peccati. Alle distrazioni, o almeno a una delle principali categorie di distrazioni, credo che si riferisca Cristo con le parole stranamente enigmatiche e allarmanti che di ogni parola oziosa che gli uomini diranno, essi dovranno renderne contro nel giorno del giudizio. Poich dalle tue parole sarai tu giustificato, e dalle tue parole sarai tu condannato. Le imbecillit verbalizzate, le parole senza scopo, tutte le espressioni, in realt, che non servono al fine d'illuminare l'anima, debbono essere condannate in quanto formano delle barriere tra l'anima e la realt ultima. Possono sembrare innocue, ma lo sono soltanto rispetto ai fini terreni; rispetto a quelli spirituali ed eterni sono estremamente dannose. A questo riguardo, mi piacerebbe di citare un brano della biografia di un santo francese del secolo decimosesto, Carlo de Condren. Una devota, certa signorina de La Roche, era in grande angustia perch non le riusciva possibile fare una confessione soddisfacente. Il fatto che i suoi peccati le sembravano pi grandi di quanto lei non fosse capace di dire. Si trattava in realt di colpe non gravi, eppure lei era del tutto incapace, diceva, di dichiararle interamente. Se il confessore le diceva di ritenersi soddisfatto del semplice atto di accusa, lei rispondeva di non esserne soddisfatta e affermava che, non dicendo lei la verit, lui non poteva darle l'assoluzione. Se il confessore la sollecitava a dire intera la verit, lei si sentiva assolutamente incapace di farlo. Nessuno sapeva cosa dire alla disgraziata donna, che cominci a essere considerata come un po' fuori di cervello. Alla fine, la de La Roche si rivolse a Condren, e le considerazioni di questo sullo strano caso sano del massimo interesse. E' vero egli disse che voi non avete espresso in forma adeguata i vostri peccati; ma il fatto che, in questa vita, impossibile rappresentarli in tutta la loro bruttura; noi non li conosceremo mai per quel che realmente sono fino a quando non li vedremo nella pura luce di Dio. Dio vi d un'impressione della deformit del peccato e ve lo fa pertanto sentire incomparabilmente pi grande di quel che appare al vostro intendimento o di quel che possa essere espresso dalle vostre parole. Di qui la vostra angustia e la vostra angoscia... Dovete pertanto sentire i vostri peccati, quali la fede li rappresenta alla vostra mente; in altre parole, quali sono in se stessi. Ma dovete contentarvi di descriverli con quelle parole che la vostra bocca capace di formare. Quanto Condren dice a proposito dei peccati senza dubbio assai veniali della povera signorina de La Roche, si applica con altrettanta validit alle "distrazioni". Giudicate da un comune punto di vista umano, esse sembrano del tutto irrilevanti; eppure, prese in se stesse e quali sono in rapporto con quella pura luce di Dio, che possono eclissare

od oscurare, cos come il sole oscurato da una tempesta di polvere o da una nuvola di cavallette, queste insignificanti imperfezioni hanno sull'anima, ai fini del male, non meno potere che l'ira, o un brutto appetito, o qualche ossessionante apprensione. La macchina psico-fisica, che produce le "distrazioni" come un sottoprodotto del suo funzionamento, lavora su materiale derivato dal mondo esterno. E' questo - per quanto riguarda l'uomo civilizzato - un mondo principalmente umano, fatto cio a immagine dell'uomo: proiezione e materiale realizzazione della ragione, delle passioni e delle imbecillit dell'uomo. Alle distrazioni interiori corrispondono le distrazioni esteriori della vita civilizzata: notizie, pettegolezzi, varie specie di divertimenti sensori, emotivi e intellettuali, novit e quisquilie di ogni genere, i casuali rapporti sociali, le faccende non necessarie, tutte le varie cose di nessuna importanza il cui succedersi senza scopo costituisce la pi gran parte della vita degli uomini. Poich gran parte della nostra personalit per sua natura imbecille, poich ci piace questa imbecillit e ce ne siamo fatti un abito, ci siamo costruiti noi stessi per viverci dentro un mondo per larga parte imbecille. Il vuoto richiama il vuoto: le distrazioni interiori evocano quelle esterne, e a loro volta le esterne evocano quelle interiori. Tra gli individui congenitamente distratti e il loro ambiente, distraente e imbecille, si stabilisce una specie di risonanza che si perpetua automaticamente. "Il Fato che previde quanto sarebbe stato frivolo il fanciullo uomo da quali distrazioni si sarebbe fatto possedere, e come si sarebbe gettato in ogni contesa, finendo per cambiare la sua stessa identit per far s che egli potesse tener lontano da questo gioco capriccioso il suo vero essere e per costringerlo ad ubbidire, anche a suo dispetto, alle leggi del suo essere, volle che attraverso i profondi recessi del nostro petto il trascurato fiume della vita perseguisse con invisibile fluire il suo corso; e che noi non dovessimo vedere la corrente sepolta, e apparissimo muoverci vorticosamente in una cieca incertezza sebbene trascinati con esso per l'eternit. Ma spesso nelle pi affollate strade del mondo, ma spesso nel fragore della lotta, ecco sorgere un indicibile desiderio di conoscere la nostra vita sepolta: una sete di consumare il nostro fuoco e la forza inquieta nel rintracciare il nostro vero, originario cammino: un anelito a indagare il mistero di questo cuore che batte cos forte, cos profondo in noi, a conoscere donde vengano le nostre vite e dove vadano. E molti uomini scavano allora nel proprio petto, ma nessuno - ahim - va mai profondo abbastanza." Ogni essere umano dotato di sensibilit ha percepito, una volta o l'altra, la futilit e lo squallore della vita comune fatta di incessanti e reiterate distrazioni, ha provato l'anelito per un unico scopo dell'essere perseguito con purit di cuore. Ma ben pochi, penosamente pochi, hanno eletto di regolare le loro azioni in armonia con questa scoperta, e hanno cercato di soddisfare il loro anelito! Sulle miserie della vita "distratta" nessuno ha scritto con tanta eloquenza come Matthew Arnold. Eppure, sebbene avesse una conoscenza abbastanza buona della letteratura cristiana, sebbene da giovane fosse stato profondamente colpito da un'antica traduzione del "Bhagavad

Gita", egli non cerc alcun umano rimedio a tale miseria, anzi neg, anche in sede teorica, la possibilit stessa dell'esistenza di un tale rimedio. Il meglio che egli sa darci un mero simbolo, il riflesso umano deformato di un rimedio. "Soltanto - ma accade di rado quando una mano amata poggia sulla nostra... sentiamo qualcosa schiudersi nel nostro petto;... l'uomo diviene cosciente del fluire della sua vita e ne ode il mormorio sinuoso... e allora egli pensa di conoscere le montagne ove la sua vita sorse e il mare dove la sua vita va." Notate la triste perspicuit della frase pensa di conoscere. Pi romantico e ottimista, Browning avrebbe enfaticamente asserito che l'uomo di fatto conosce il segreto della vita ogni volta che l'orecchio assordato dal mondo carezzato dagli accenti di una voce amata. Matthew Arnold era di mentalit troppo realistica per cadere in una confusione di questo genere, ed era troppo onesto per far mostra di credere alla lusinghiera dottrina che eguaglia questi due incommensurabili, l'umano e il divino. Coloro che godono delle estasi naturali della passione e dell'affetto non sanno; essi semplicemente credono di sapere. E quando agli sfortunati che non hanno una mano amata da stringere, per loro non c' altro se non "...chiedere ai mille nulla dell'ora il loro stupefacente potere; Ah, s, ed essi c'impietrano al nostro richiamo!" Ma essi c'impietrano solo per un poco, e poi la vecchia miseria torna a essere pi insopportabile che mai. Nel linguaggio teologico di John Tauler (ovvero, quale egli si sia, dell'autore del "Seguito di Cristo"), ogni peccato, genera una speciale sofferenza spirituale. Una sofferenza di questo genere simile a quella dell'inferno, ove, pi si soffre e peggiori si diventa. Lo stesso accade ai peccatori: pi soffrono per i loro peccati e pi malvagi diventano, perch sprofondano sempre pi nel peccato per liberarsi dalla sofferenza. Al pari di tanti altri poeti e moralisti prima di lui, Arnold aveva enunciato un problema per cui non c' alcuna soluzione pratica, salvo attraverso un qualche sistema di esercizi spirituali. Nella stragrande maggioranza degli individui, la "distrazione" la condizione naturale; l'unicit dei propositi deve essere acquisita. L'unicit dei propositi, naturalmente, pu essere volta al male non meno che al bene. Ma il rischio di dar vita a un male potenziale deve sempre esser corso da coloro che cercano il bene. In questo caso, il bene non pu essere raggiunto senza l'unicit dei propositi. Il fatto che Arnold non abbia tratto la conclusione inevitabile dalle premesse dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti pu rendere perplessi solo quando si consideri il poeta fuori del suo ambiente. Il clima mentale del suo tempo era assolutamente sfavorevole al fiorire di un misticismo genuino. Il secolo decimonono poteva tollerare solo il misticismo falso: il misticismo nella natura di Wordsworth, il misticismo di sublimazione sessuale di Whitman, i misticismi nazionalistici di tutti i poeti e filosofi patriottici di ogni razza e cultura, da Fichte al principio del periodo a Kipling e a Barrs alla fine. Ancora una volta, la "triste perspicuit" non permise ad Arnold di abbracciare uno qualsiasi di questi insoddisfacenti sostituti in luogo dell'articolo genuino. Egli scelse invece la strada mite e rispettabile del modernismo letterario. Era un vicolo cieco, naturalmente; ma meglio un vicolo cieco che il dirupato pendio, attraverso i misticismi della nazionalit e dell'umanit, verso la guerra, la rivoluzione e la tirannia universale.

L'acquisizione dell'unicit dei propositi e il culto del misticismo genuino erano nel secolo decimoquarto o nel decimosettimo pi facili che sotto la regina Vittoria; solo, sembravano pi ragionevoli e pi meritevoli di considerazione da parte degli uomini di cultura e d'intelligenza. Nessuna preoccupazione per la sua rispettabilit intellettuale trattenne l'autore della "Nube" dal dire ai suoi alunni i modi migliori per avvicinarsi a Dio e per reprimere o prevenire le distrazioni che s'interpongono tra l'anima e la realt ultima. Egli scrisse, e quelli che lessero il suo libro - anche quelli che lo lessero senza la minima intenzione di seguirne le istruzioni - lo considerarono come persona eminentemente sensata, che trattava un argomento di grande importanza. Nella "Nube" vengono descritti vari e diversi metodi da seguire contro le distrazioni. C' un metodo che consiste nel fissare la mente instabile mediante quel che gli indiani chiamano un "mantra": cio una parola o una frase breve ripetute di continuo in modo da riempire, per dir cos, l'intera facciata - cosciente e subcosciente - della personalit e lasciare quel che esiste dietro di essa (la volont superiore della psicologia scolastica) libera di battere con i suoi ciechi slanci d'amore contro la nube dell'inconoscibile. Un altro metodo pu essere indicato come il metodo della repressione e della disattenzione: le distrazioni sono schiacciate sotto la nube della dimenticanza, non con uno sforzo violento della volont (poich tali sforzi tendono a mancare il loro scopo e a rafforzare, anzich indebolire, gli impulsi della distrazione), ma dolcemente distogliendone lo sguardo per volgerlo verso l'oggetto della contemplazione. La distrazione viene ignorata: uno le guarda sopra le spalle mirando a quel che si trova al di l e la distrazione, priva dell'attenzione che le ha dato la vita, muore di inazione. A volte, peraltro, accade che le distrazioni muovono all'assalto in forza tale che non possono essere sconfitte o evitate con nessuno dei metodi suddetti. In questo caso, dice il nostro autore, meglio arrendersi, permettere che sciamino sulla mente come un'orda di conquistatori. Nel contempo, la mente dovrebbe farsi consapevole della sua umiliante sconfitta, dovrebbe soffermarsi sulla sua propria abiezione nell'essere incapace di resistere al nemico. Da questa consapevolezza d'impotenza pu svilupparsi un pi vivo senso della grandezza e della bont di Dio e, con esso, nuovi slanci d'amore, nuova forza di battere con nudo intento alla nube dell'inconoscibile. Andrebbe osservato a questo punto che, negli stadi pi elevati della contemplazione, tutti i pensieri e tutti i sentimenti, anche i pi santi, vanno considerati come distrazioni se trattengono la volont superiore dal suo cieco battere contro la nube. Al pari di Eckhart, al pari di San Giovanni della Croce, e in realt di tutti i mistici della tradizione di Dionisio, il nostro autore insiste con energia su questo punto. Piangere senza pari per il dolore dei tuoi peccati, o della passione di Cristo, o non avere altro pensiero se non le gioie del paradiso, cosa ti pu dare? Certamente molto bene, molto aiuto, molto profitto e molta grazia. Ma al confronto con questo cieco slancio d'amore, ben poco quel che ti danno o ti possono dare senza di esso. Questo, pur senza quelli, di per s la miglior parte di Maria. Quelli, senza questo, giovano a poco o a nulla. Esso non solo distrugge il terreno e la radice del peccato, ma fa anche acquistare le virt. Poich, se sinceramente concepito, in esso saranno sottilmente e perfettamente concepite, sentite e comprese tutte le virt, pur senza alcun intento da parte tua... La virt infatti nient'altro se non un'ordinata e misurata affezione apertamente diretta verso Dio per se stesso. Le meditazioni discorsive sulla passione sono utili in un precedente stadio della vita contemplativa: per quelli che si trovano pi avanti nella via della perfezione, esse sono distrazioni che s'interpongono tra l'anima e la nube oscura della divinit. Lo stesso accade per le meditazioni sopra i propri peccati. Il nostro autore presuppone che i suoi alunni si siano confessati e siano stati assolti dei loro vecchi peccati e stiano facendo del loro

meglio per vivere virtuosamente da "perfetti seguaci di Cristo". Per chi ha raggiunto tale stato, un costante indugiarsi sulle colpe passate e sulle mancanze presenti non solo non d alcun particolare profitto, ma tende in realt ad accrescere l'egotismo; e l'egotismo non altro che la radice del male, la prestabilita propensione al peccato. L'idea del peccato, come quella di Dio, non deve essere analizzata dal contemplativo. Considera queste parole tutte intere; e intendi per peccato una quantit, non sai quale, formata non d'altro se non di te stesso. Il peccato una manifestazione dell'io. Gli uomini commettono del male e provano la miseria, poich sono degli "ego" separati inseriti nel tempo. "Sono fiele, sono bruciore. I pi profondi decreti di Dio hanno voluto che sapessi d'amaro; il mio sapore ero io. Le ossa hanno costruito, la carne riempito, il sangue colmato in me la maledizione: lievito dello spirito fa fermentare un impasto inerte. Capisco che i perduti sono cos, e la loro punizione nell'essere i loro travaglianti se stessi, come io sono il mio; ma in grado peggiore." Questa angoscia d'essere un ente separato, che esclude Dio, l'atto decisivo di pentimento per il peccato essenziale. Troverai, quando avrai dimenticato tutte le altre creature e le loro opere - s, e anche le tue stesse opere, - che rimangono ancora tra te e il tuo Dio una nuda conoscenza e un sentimento del tuo essere. Questa conoscenza e questo sentimento del proprio essere sono il peccato che non pu essere perdonato finch e a meno che non procuriamo di avere l'esperienza unitiva di Dio. D'altro lato, la conoscenza e il sentimento di se stessi debbono sempre essere distrutti, prima che si arrivi al momento in cui tu possa sentire veramente la perfezione di questa opera. Come pu essere distrutto questo senso d'individualit separata? Solo mediante una grazia piena e speciale data liberamente e pienamente da Dio e anche mediante una corrispondente piena capacit da parte tua a ricevere questa grazia... E questa capacit non altro se non un forte e profondo dolore spirituale... Gli uomini tutti hanno motivi di dolore; ma soprattutto sente ragione di dolore chi conosce e sente che egli . In confronto a questo, tutti gli altri dolori sono come un gioco di fronte alla realt. Poich davvero si duole solo colui che conosce e sente non soltanto cosa egli , ma che . E chi non ha mai provato questo dolore, si dolga pure; poich egli non ha ancora sentito il perfetto dolore. Quando si doluto per il peccato della sua individualit separata, il contemplativo deve prendere il senso non analizzato del suo proprio essere e annullarlo nel senso dell'essere di Dio. E deve agire in questa direzione finch il cieco slancio d'amore, il percuotere contro la nube dell'inconoscibile, il nudo intento di divenire un'unica cosa con Dio quale in s, abbiano di fatto preso il posto del senso del proprio essere; in modo che quando lui conosce e sente il proprio essere, conosca e senta l'essere di Dio, almeno per quel tanto che egli stato capace di provare attraverso i veli dell'oscurit divina. Tale, in sintesi, l'insegnamento della "Nube dell'Inconoscibile": un insegnamento che in ogni suo elemento essenziale eguale a quello di tutti i grandi maestri della tradizione dionisiana. Negli anni immediatamente successivi alla sua conversione, Benedetto da Canfield acquist familiarit con questa tradizione e quando a sua volta si trov a insegnare agli altri l'arte della preghiera mentale, ne rimase in tutti i punti, salvo uno, fedele continuatore. Padre Benedetto impart la massima parte del suo insegnamento a viva voce mediante istruzioni scritte, preparate apposta per ognuno dei suoi alunni. Poco dopo il 1590, peraltro, egli compose un trattato vero e proprio sulle pratiche mistiche e sulla teologia mistica. Copie manoscritte furono date ad alcune persone e a comunit religiose, ma molte altre ne furono fatte, in genere senza l'autorizzazione del

frate. Infine, nei primi anni del nuovo secolo, venne stampata un'edizione abusiva dell'opera, assai inaccurata e con aggiunte dovute ad altra mano. A difesa della sua dottrina, padre Benedetto fu costretto a pubblicare il libro nella sua forma originaria. Questo apparve prima in francese, sotto il titolo "La Regola della Perfezione, ridotta al solo punto della Volont di Dio"; quindi in una traduzione latina dell'autore, pubblicata a Colonia del 1610. Se ne ebbero parecchie edizioni, e fu tradotta in parte in inglese (1609) e per intero in italiano (1667). Nonostante il successo notevole che consegu nel suo tempo, "La Regola della Perfezione" nel corso di un secolo fu completamente dimenticata ed molto difficile trovarla, in qualsiasi edizione o lingua. Tutti i mistici sono stati concordi nell'affermare che la conoscenza della realt ultima viene soltanto a coloro che hanno ucciso in s il vecchio Adamo e hanno conformato la volont personale alla volont di Dio; e d'altro lato che l'uccidere il Vecchio Adamo e il conformare la volont personale a quella di Dio possono essere attuati solo da coloro che sono sulla via di acquistare la conoscenza della realt ultima. Alcuni mistici hanno dato maggior rilievo a un aspetto di questo doppio e reciproco processo; alcuni all'altro. Padre Benedetto appartiene a coloro cui sembrato pi naturale e preferibile dare il maggior rilievo all'aspetto volontario dell'illuminazione dell'anima. Come implicitamente viene indicato dal titolo del libro, padre Benedetto s'interessa anzitutto della tecnica da seguire per perdere progressivamente, di giorno in giorno, la propria vita personale allo scopo di guadagnare la vita divina, per eliminare la volont personale allo scopo di cedere il posto alla volont di Dio. Egli si proponeva di mostrare in qual modo si potesse porre la vita attiva, di ogni giorno, al servizio della contemplazione, e in qual modo si potesse far animare e trasformare la vita attiva dallo spirito della contemplazione. In tutte le edizioni il libro presenta sul frontespizio un'incisione concepita di certo, e forse anche eseguita (opera com', in forma quasi patetica, di un inesperto e di un dilettante) dallo stesso padre Benedetto. La parte pi bassa dell'incisione fa vedere il Salvatore che prega sul Monte degli Olivi, con nello sfondo i discepoli addormentati e, in cielo, un angelo che offre un calice. Sotto, c' la scritta: "Non mea voluntas sed tua fiat". La parte superiore dell'incisione tutta presa da un elaborato diagramma circolare, stranamente simile a quei simboli "mandalas" in cui i buddisti sono riusciti a condensare tanta ricchezza di valore dottrinale. A fianco del frontespizio c' una pagina a stampa in cui padre Benedetto spiega il significato del suo diagramma: Questa figura in forma di sole rappresenta la volont di Dio. Le facce situate nel sole rappresentano anime viventi nella volont di Dio... Queste facce sono disposte in tre cerchi concentrici, che indicano i tre gradi di questa volont divina. Il primo grado indica le anime della vita attiva; il secondo, quelle della vita contemplativa; il terzo, quelle della vita di sopraeminenza. Fuori del primo cerchio sono molti arnesi, come tenaglie e martelli, che denotano la vita attiva. All'interno del terzo cerchio Jehova. Ma intorno al secondo cerchio non abbiamo messo nulla per indicare che in questo tipo di vita contemplativa, senza alcun'altra speculazione o alcun esercizio, uno deve seguire la guida della volont di Dio. Gli arnesi appaiono sullo sfondo e in ombra, in quanto le opere esteriori sono di per s piene di oscurit. Questi arnesi tuttavia sono toccati da un raggio di sole, per mostrare che le opere possono essere illuminate e ornate dalla volont di Dio. La luce della volont divina brilla solo un poco sulle facce del primo cerchio; molto di pi su quelle del secondo; mentre quelle del terzo ne sono risplendenti..; Le prime quindi si vedono pi chiaramente; le seconde meno; le terze quasi affatto. Questo significa che le anime del primo grado sono molto in se stesse; quelle del secondo grado sono meno in se stesse e pi in Dio; mentre quelle del terzo grado sono quasi niente in se stesse e tutte in Dio, assorbite

nella sua volont essenziale. Tutte queste facce hanno gli occhi fissi nella volont di Dio. Il resto di "La Regola della Perfezione" una specie di ampio commento a questo frontespizio, simbolico. Padre Benedetto comincia col classificare la volont di Dio sotto tre capi: Esterna, Interna ed Essenziale. La volont esterna di Dio una certa luce, norma o regola che ci guida nella vita attiva; quella interna, una luminosit che ci dirige e sostiene l'anima nella contemplazione; e quella essenziale, uno splendore che governa e rende perfetto lo spirito nella vita sopraeminente. Il primo esercizio che l'aspirante deve imparare la pratica dell'intenzione circa la volont di Dio. Vi sono sei gradi d'intenzione, e cio: effettiva, unica, volenterosa, senza dubbi, chiara e pronta. L'intenzione "effettiva" di chi prende nota in se stesso dell'effettivo ricordo della volont di Dio; ed esclude di conseguenza i peccati di dimenticanza e di dissipazione mentale. Questo dimenticare scrive padre Benedetto un errore comune che arreca un danno immenso, poich ci priva di un'incredibile quantit di luce e di grazia. L'intenzione "unica" significa concepire la volont di Dio come lo scopo unico di tutto quel che uno fa o soffre. In virt di quest'atto si vengono ad escludere tutti gli altri scopi egoistici o semplicemente futili. La volont di Dio non deve esser fatta con spirito stoico e arcigno, ma con piena inclinazione e un senso di pace e di gioia. In altre parole, l'intenzione deve essere spontanea. L'intenzione "volenterosa" viene ad escludere lo sforzo, la preoccupazione e la tetraggine, e rende l'anima capace di ricevere lo Spirito Santo, di cui scritto "Factus est in pace locus ejus". L'intenzione "senza dubbi" significa escludere ogni tentennamento; poich si crede fermamente che l'opera intrapresa per la volont di Dio sia realmente la volont di Dio. La "chiarezza" dell'intenzione si riferisce alla qualit della fede che in essa si richiede. Uno concepisce chiaramente il significato eterno e divino delle proprie azioni nel mondo delle creature. Infine, c' l'atto dell'intenzione "pronta", che esclude ogni dilazione e lentezza. La pratica di questi sei gradi dell'intenzione prescritta da padre Benedetto in ogni stadio della vita spirituale, dal pi rudimentale al pi progredito. E' un esercizio assai difficile, ma evidente che chiunque abbia imparato a compierlo scrupolosamente si portato ben avanti nel processo di trasformazione di tutta la sua vita in un atto continuo di preghiera e di contemplazione. Una domanda si presenta naturalmente nel leggere questa parte del libro: come facciamo a sapere quali atti siano in accordo con la volont di Dio, e quali no? Padre Benedetto cerca di rispondere; ma la sua risposta, bisogna ammetterlo, non del tutto soddisfacente. Egli divide le azioni in tre categorie: quelle comandate, direttamente o indirettamente, da Dio; quelle proibite; e quelle indifferenti. Per quanto riguarda le prime due, la volont di Dio chiara, perch vi sono leggi e comandamenti che costituiscono una norma obbiettiva di condotta. Per quanto riguarda la terza, quel che conta l'intenzione. Nelle cose indifferenti, infatti, l'opera si accorda con l'intenzione, non l'intenzione con l'opera. Se, mentre facciamo una cosa indifferente, dedichiamo la nostra azione a Dio, il farla sar in effetto la volont di Dio. Fare una passeggiata o mangiare il proprio pranzo coscienziosamente, per l'amor di Dio, meglio - per quanto riguarda l'anima, - che non il compiere atti intrinsecamente meritori esclusivamente per proprio vantaggio; Tutto questo va bene, entro certi limiti; e questi limiti, purtroppo, sono alquanto ristretti. Padre Benedetto non dice assolutamente nulla di un'intera categoria di azioni che, almeno per quanto riguarda le loro conseguenze terrene, sono pi importanti di ogni altra: quelle azioni voglio dire, che gli individui compiono non per proprio conto, ma da parte e a vantaggio di qualche organizzazione sociale, come una nazione, una chiesa, un partito politico, un ordine religioso, un'azienda, una famiglia. Non

vi sono problemi morali pi difficili di quelli connessi con questo genere di azioni. A maggior ragione, pertanto, dovrebbero essere compiutamente esaminati in un trattato sulla pratica della volont di Dio. Padre Benedetto, invece, preferisce ignorarli. In questo egli segue l'esempio di troppi moralisti cristiani, appartenenti a entrambe le due grandi tradizioni etiche: la tradizione mistica "teocentrica" e la tradizione "antropocentrica" derivata dallo stoicismo. Se padre Giuseppe devi dalla via della perfezione in quella della politica di forza, la colpa deve essere attribuita in parte, almeno alla sua educazione. Benedetto da Canfield non tratt mai della relazione tra l'azione politica e la vita unitiva, l'attuazione della volont di Dio. In un successivo capitolo sar necessario esaminare questa relazione un po' da vicino. La seconda parte della "Regola della Perfezione" tratta della volont interna di Dio: quella luminosit che dirige e sostiene l'anima nella contemplazione. Secondo padre Benedetto la volont interna di Dio si attua in vari stadi, ed egli ne conta cinque, cio: "manifestazioni", "ammirazioni", "umiliazioni", "esultanze" ed "elevazioni". (Quest'elenco, a dir cos di seguito un polisillabo dopo l'altro, sembra un po' ridicolo. Ma lo stesso accade per tutte le classificazioni. Di fronte alla continuit manifesta della natura, cosa potrebbe essere pi assurdo dell'elaborata gerarchia di nomi escogitata dagli uomini di scienza? Eppure, senza una tale gerarchia di nomi, non vi potrebbe essere alcuna analisi del mondo che ci circonda n comprensione dell'intelletto. Lo stesso si verifica per la psicologia superiore: le sue esperienze sono continue e dirette; ma non possono essere descritte n formare sostanza di una teoria, e le condizioni della loro attuazione non possono essere insegnate, se non con i termini di una gerarchia di nomi analitici. Fin quando ricordiamo che le parole sono segni delle cose ed evitiamo l'errore troppo comune e assolutamente fatale di far cose i segni delle parole, le classificazioni possono essere per noi della massima utilit. Con questo parentetico ammonimento torniamo ai polisillabi di padre Benedetto. Le manifestazioni - quelle esperienze cio della presenza divina che accompagnano d'ordinario i primi stadi della vita contemplativa fanno normalmente seguito all'esercizio delle pure intenzioni con riferimento alla volont esterna. Il meccanismo semplice: la purezza dell'intenzione in azione produce un estinguersi delle passioni e degli effetti volti verso obbietti mondani; l'estinguersi delle passioni e degli affetti produce la tranquillit della mente, la quale a sua volta produce quel silenzio interiore in cui l'anima pu cominciare a fare esperienza della divinit immanente. Le ammirazioni si sviluppano quando il contemplativo ottiene un'esperienza diretta della grandezza infinita di Dio, insieme con una correlativa esperienza della sua propria intrinseca nullit. Le umiliazioni sono un ulteriore frutto del senso della nullit della propria persona, e sono preziose come antidoto al compiacimento in cui i principianti cadono cos facilmente dopo aver sperimentato per le prime volte le grazie divine. La bont di Dio, che si unisce con l'anima nonostante la bassezza di questa, produce le esultanze. Questa gioia spirituale rende dolce la progressiva negazione della propria personalit che condizione necessaria per il progressivo procedere sulla via dell'unione. Secondo le parole di padre Benedetto, esse ci fanno disprezzare le consolazioni carnali, rendono facili cose che sembrano impossibili, aprono la via al cielo. Infine, il contemplativo raggiunge lo stadio delle elevazioni. Queste sono i ciechi slanci d'amore che portano all'unione. "Qui adhaeret Deo, unus spiritus est". La terza parte del libro, come padre Benedetto dice espressamente, non per i principianti. Ne argomento la volont essenziale di Dio, e vi si insegnano pratiche che sono gli equivalenti della pura intenzione e della pura contemplazione in uno stadio superiore di

quella spirale ascendente che la via della perfezione. La volont essenziale di Dio che l'anima si unisca con l'essenza di Dio. In questa unione, l'anima passiva, e Dio solo attivo. Tutto quel che l'anima pu fare aprirsi, assolutamente spoglia della sua volont, alla volont di Dio e usare un'accorta diligenza nello strappare gli ultimi brandelli della sua personalit individuale. Padre Benedetto comincia col descrivere due modi di accesso al compito massimo che consiste nel fare la volont di Dio. Il primo si svolge attraverso il considerare le imperfezioni nei propri atti contemplativi. Imperfezioni esistono in ogni stadio della vita spirituale. Nei primi stadi sono grossolane e palpabili; ma a mano a mano che la mente pi illuminata, le prime scompaiono e sono rimpiazzate da colpe di pi sottile natura. Nessuno spirituale, per quanto progredito, pu permettersi di rallentare un momento la sua vigilanza; poich in una mente illuminata la pi microscopica imperfezione pu di fatto impedire l'unione con Dio. La contemplazione degli spirituali progrediti pu cadere in tre comuni difetti: primo, pu essere troppo fervente, nel qual caso l'anima non abbastanza in stato di pace per ricevere Dio; secondo, l'anima pu ritenere una sottile immagine di quel che in se stesso privo d'immagine, l'essenza di Dio; terzo, l'anima pu concepire Dio come se stesse altrove che non nel suo proprio terreno, all'apice della volont superiore. A tutti questi difetti si pu porre rimedio con appropriati atti di "denudazione". L'emotivit e le immagini possono essere rimosse; e una volta che ci si spogliati di loro, si trover che l'anima divenuta atta a ricevere la coscienza di Dio come pura immanenza. Il secondo modo per arrivare a fare la volont di Dio dato dall'"annientamento", che l'ultimo definitivo stadio del lungo processo che porta a liberarsi della propria volont individuale. L'annientamento classificato da padre Benedetto come passivo e attivo. L'annientamento passivo si verifica quando Dio si fa effettivamente presente a noi nella contemplazione. L'annientamento attivo consiste nell'essere morti per il mondo mentre si lavora nel mondo, il dimorare interiormente nell'eternit mentre esternamente si opera nel tempo. Entrambi i tipi di annientamento sono necessari; ma l'annientamento attivo costituisce la condizione pi elevata e perfetta. Per quanto riguarda l'annientamento passivo, padre Benedetto aggiunge ben poco a quanto stato detto circa la contemplazione nelle precedenti pagine di questo libro. Egli parla delle distrazioni e consiglia il contemplativo di eludere e di aggirare le istruzioni irrilevanti, non mai di combatterle: Poich pi un uomo agisce, pi egli ed esiste; e pi l'uomo esiste, e meno Dio esiste entro di lui. Per analoga ragione, il contemplativo progredito dovrebbe evitare nelle sue meditazioni tutti gli aspetti particolari della vita divina e contentarsi di un semplice sguardo rivolto a Dio nella sua totalit. L'annientamento attivo si ottiene attraverso un processo di "registrazione", una specie di consapevolezza di Dio, continua e senza sforzo, e mediante una fede pura, che sente Dio come effettivamente presente anche in quelle condizioni in cui non c' alcuna sensibile evidenza interna di quella presenza, n vi sono ragioni per desumere che vi sia. In questa terza parte della "Regola" viene discusso esaurientemente e con gran sottigliezza il giusto rapporto tra azione e contemplazione, tra l'uomo nel tempo e Dio nell'eternit. Qui possiamo soltanto riassumere per sommi capi quel che padre Benedetto dice circa quel rifuggire dalle opere esterne, in cui cadono tanti spirituali, per timore di essere distratti dalla loro contemplazione di Dio. Questo rifuggire egli insiste - va contro il suo stesso proposito ed di fatto l'ultimo e pi grande ostacolo alla perfezione. Infatti, pi l'anima teme le opere esteriori e se ne ritrae, pi le immagini di

queste cose s'imprimono su lei. Inoltre, essa tende ad attribuire loro il posto e la posizione di Dio. Dio deve essere riconosciuto presente dovunque, e, per il contemplativo, la sua presenza dovrebbe eliminare le cose esteriori. Al contrario, l'anima che timorosa delle cose esterne d loro tanto posto che la loro presenza elimina quella di Dio. Lo spirituale che conosce soltanto la contemplazione passiva tende a ripiegare in s la mente staccandola dalle cose, a distoglierla da loro per volgerla esclusivamente in un atto interiore di contemplazione. Ma non si abolisce con questo il problema delle opere esterne; lo si pospone semplicemente a un'altra occasione. Inoltre, il ripiegamento in s implica l'aprirsi verso le cose, l'atteggiamento cio dell'uomo medio sensuale che considera le cose esterne come piena realt e meritevoli di esser trattate come oggetti che abbiano un fine in se stessi. Io dico, quindi, che il ripiegarsi su se stessi deve essere respinto proprio per la stessa ragione per cui l'aprirsi verso le cose non deve essere mai ammesso; ma uno deve vivere continuamente nell'abisso dell'essenza divina e in un assoluto nulla delle cose; e se a volte un uomo si trova staccato da esse (l'essenza e il nulla) deve tornarvi, non mediante il ripiegarsi su se stesso ma mediante l'annientamento. L'imparare a vivere in un costante annientamento attivo probabilmente la cosa pi difficile per un uomo, e quella che richiede maggiori sforzi; ma coloro che vi riescono conseguono la ricompensa che conseguirono fra Lorenzo e Santa Teresa, la signora Acarie, lo stesso padre Benedetto e in realt tutti i grandi mistici: l'esperienza di vivere contemporaneamente nel tempo e nell'eternit, tra gli uomini e in Dio, la pace e la beatitudine, in questa vita terrena, della visione beatificante. Lo stato dello spirito cui padre Benedetto diede il nome di annientamento attivo, stato descritto non solo dai mistici cristiani, ma anche dai contemplativi di altre fedi: dagli indostani, dai buddisti, dai taoisti, dai mistici arabi. E tutti concordano nel considerarlo come la condizione pi alta e perfetta cui pu sollevarsi l'anima umana purificata, volta a un unico scopo, e radicalmente trasformata. Fino a questo punto "La Regola della Perfezione" non contiene nulla che non si possa trovare negli scritti di qualsiasi altro grande contemplativo della tradizione dionisiana. Ma da questo momento, padre Benedetto abbandona il sentiero del misticismo puro e non dogmatico, seguito dai suoi predecessori, per prendere un'altra strada, pi specificamente cattolica. Padre Benedetto si stacca dal misticismo tradizionale con l'affermare che anche i contemplativi pi progrediti dovrebbero persistere nella pratica della passione - in altre parole, che dovrebbero meditare sulle sofferenze di Cristo - anche quando hanno raggiunto lo stadio in cui riescono a unire le loro anime a Dio mediante un atto di semplice sguardo. I mistici dionisiani, la cui professione era anzitutto sperimentale ed erano di conseguenza pronti ad adattare il dogma cattolico all'esperienza diretta e immediata, avevano sempre sostenuto il contrario. Negli stadi superiori della preghiera - essi hanno ripetutamente affermato - tutte le idee e tutte le immagini, perfino quelle connesse con la vita di Cristo, debbono esser messe da parte, come distrazioni che s'interpongono sulla via dell'unione perfetta. Nel suo commento a "La Nube dell'Inconoscibile", padre Agostino Baker osserva in modo specifico questo allontanarsi di padre Benedetto dall'insegnamento tradizionale. Richiamo la vostra attenzione sul fatto che egli (l'autore della "Nube") non lascia alcun posto per l'esercizio della passione, allorch uno abilitato a questo esercizio d'amore. Questo amore diretto alla pura divinit, senza l'uso di alcuna immagine, sia dell'umanit del Salvatore, sia di alcun'altra creatura. In modo che, secondo quanto insegna il nostro autore in tutto il suo libro, se uno abilitato al suddetto esercizio di amore della divinit - e ci valga per tutta la sua vita - non deve lasciarlo andare ed esercitarsi nella passione, e ancor meno in qualsiasi altra cosa di minore importanza. E su questo punto l'autore concorda in pieno con l'autore dei "Scrts Sentiers" e con quello che

io stesso ho affermato nel mio trattato sulla passione; e tutti differiamo dall'opinione di padre Benedetto nel terzo libro della sua Volont di Dio e di alcuni altri, che in qualsiasi stadio vorrebbero qualche esercizio della passione. Lo stesso padre Benedetto era chiaramente consapevole, non meno di padre Baker, della novit della sua dottrina a questo riguardo. Non vi alcun tentativo nella "Regola della Perfezione" di nascondere o di velare questa rottura con la tradizione. Al contrario, l'autore la riconosce e dedica un intero capitolo a un elaborato tentativo di giustificazione. Disgraziatamente, il saggio apologetico di padre Benedetto per noi una di quelle filastrocche assolutamente fantastiche, che erano cos convincenti per i teologi del medioevo e degli inizi dell'et moderna. Citazioni dal Vecchio e dal Nuovo Testamento vengono legate insieme a dozzine, a sostegno del punto di cui si sarebbe desiderata una dimostrazione. Alcune di queste citazioni hanno un vago riferimento al punto in questione, ma per la maggior parte sono del tutto irrilevanti e debbono di conseguenza essere sottoposte a un processo di arbitraria interpretazione. Questo sistema rende possibile di attribuire a qualsiasi affermazione il significato che si vuole. Cos, padre Benedetto capace di trovare una conferma dei suoi insegnamenti perfino nell'aneddoto di Rahab. Quell'accia di filo scarlatto che la prostituta di Gerico attacc alla finestra, come indicazione per gli israeliti che avanzavano, starebbe a significare profeticamente che "Dio vuole che noi si ponga la passione rossa e sanguigna di Cristo sulla finestra della nostra casa interiore, che il nostro intelletto, affinch si possa sempre meditarvi sopra e contemplarla." Che questo genere di argomenti possa esser mai servito a convincere qualcuno, sembra ora a noi del tutto incomprensibile. Il fatto che abbia servito, sta a ricordarci - cosa quanto mai salutare - che gli schemi analogici, entro cui gli uomini elaborano i loro ragionamenti e i loro sentimenti non rimangono sempre gli stessi e ch in qualunque momento della storia vi sono pensieri che sono impensabili e sentimenti che sono impossibili a provarsi. Le vere ragioni per cui padre Benedetto insegnava che la pratica della passione doveva essere continuata in ogni stadio della vita contemplativa erano senza dubbio le seguenti: prima, egli stesso era fortemente attaccato agli atti di devozione personale: seconda, egli era un francescano e la devozione francescana si sempre particolarmente rivolta alla passione; terza, egli sentiva (come molti teologi hanno sentito, prima o dopo di lui) che il misticismo empirico dei dionisiani era, almeno nei suoi stadi pi elevati, troppo libero dal dogma per essere veramente cattolico. Dalla nostra particolare finestra sul tempo, noi guardiamo indietro e ci meravigliamo perch mai padre Benedetto non si sia espresso senz'altro in questi termini, invece di tirar fuori Rahab e tante altre sciocchezze. Rimane comunque il fatto strano che - data la natura degli schemi analogici in cui era abituato a pensare e a sentire padre Benedetto ritenesse intrinsecamente pi convincente una giustificazione nei termini di una prostituta dell'et del bronzo, che non una giustificazione in termini di psicologia e di storia religiosa. La tesi che Rahab serve a giustificare che la contemplazione della passione pi cara a Dio della contemplazione della divinit. Uno non dovrebbe lasciare la passione per contemplare la divinit, ma perseguirle entrambe simultaneamente. Quel semplice sguardo con cui i dionisiani avevano contemplato la divinit, si sarebbe dovuto volgere su Cristo, ma non su Cristo come sola umanit, anzi come Dio e uomo in una sola persona. Tutta la difficolt di quel semplice sguardo proviene dalla contraddizione che sembra impedire alla ragione umana la capacit di contemplare con un unico semplice sguardo Dio e l'uomo, il corpo e lo spirito. Tale difficolt, dice padre Benedetto, pu essere superata soltanto mediante un sostenuto atto di fede che, mentre la mente s'affisa sull'immagine di Cristo in croce, assorbe e annulla quell'immagine nell'essenza di Dio. Da un punto di vista psicologico, tutto questo brano di peculiare interesse: esso ci

rivela in padre Benedetto un mistico sincero, molto avanti sulla via dell'unione, eppure forzato, dalla logica della teologia che egli aveva accettata per vera, a volgersi dalla realt ultima verso una particolare manifestazione della realt, dalla intuizione diretta di Dio verso immaginazioni e ragionamenti discorsivi legati a una persona. Questa, dunque, fu la dottrina che il giovane barone de Maffliers ricevette dal suo primo maestro di religione, e che, quale padre Giuseppe, doveva pi tardi ripetere, in forma pi semplice e sistematica, a beneficio dei suoi conversi e dei novizi affidati alle sue cure. Il personale metodo di preghiera del frate stato descritto in dettaglio nel primo capitolo e non necessario aggiungere qui alcun altro particolare. Basti dire che la sua "Introduction la vie spirituelle par une facile mthode d'oraison" un eccellente lavoro nel suo genere, ben equilibrato, pratico, caratterizzato dal buon senso non meno che dall'eloquenza. Nonostante tutti questi pregi, per, fu poco letto. Al pari della "Regola della Perfezione", "l'Introduzione" di padre Giuseppe fu ben presto dimenticata e non esercit alcuna influenza apprezzabile sullo sviluppo della vita religiosa nel secolo decimosettimo. Doveva essere opera non di padre Giuseppe, ma del suo amico e compagno di scuola Pietro de Brulle, lo sviluppare la dottrina di padre Benedetto e il portarla a un pi largo pubblico. La storia di questo lavoro e delle sue impreviste conseguenze ha un'attinenza solo indiretta con il nostro soggetto, ma di per s cos interessante e istruttiva che non ho bisogno di chieder scuse se m'indugio un poco a riassumerla. Un buon pensatore dei nostri tempi scrive Brulle ha sostenuto che il Sole, e non la Terra, si trova al centro dell'universo; che il primo sta fermo mentre la seconda si muove intorno a esso. Questa nuova opinione, non largamente accettata nella scienza degli astri, utile e dovrebbe essere seguita nella scienza della salute dell'anima. La rivoluzione copernicana che Brulle voleva portare nella teologia consisteva nella reazione al carattere intensamente personale delle pratiche devote dei gesuiti allora in voga e fondate sugli esercizi spirituali di Sant'Ignazio di Loyola. Ignazio aveva - vero - all'inizio dei suoi "Esercizi" riaffermato la dottrina fondamentale cristiana che fine e scopo dell'uomo su questa terra la gloria di Dio. Ma, fatta questa affermazione, egli procedette a scrivere un libro in cui la parte predominante rappresentata dall'individuo umano. Gli esercizi sono una ginnastica della volont personale; al punto che la stessa adorazione di Dio, anzich essere fine a se stessa, vien fatta in certo modo strumento da essere usato per istituire un pieno dominio di s. A questo sistema tolemaico del pensiero e del sentimento religioso, Brulle sostitu un totale teocentrismo. Dio deve essere adorato senza alcuna considerazione del proprio profitto spirituale; deve essere adorato per amor suo, con un atto di amore e di reverenza; deve essere adorato quale di per s, sovrano ed essere infinito. Per adorare in modo adeguato questo sovrano e quest'essere infinito, l'uomo dovrebbe essere egli stesso infinito e possedere la pi elevata realt. In pratica, una sola volta Dio stato adorato come si dovrebbe: da Cristo, il quale, essendo Dio non meno che uomo, stato il solo capace di tributargli l'adorazione infinita dovuta a una realt eterna e infinita. Tutto ci strettamente aderente alla tradizione dionisiana. Tutti i buoni contemplativi sono in religione dei copernicani: nel misticismo genuino l'ipotesi teocentrica assiomatica. Il contributo di Brulle al pensiero e alla pratica religiosa consiste in questo: egli svilupp e sistematizz il teocentrismo tradizionale, mentre al tempo stesso svilupp e sistematizz in un elaborato "Ges-centrismo" la dottrina mistica, deviata dalla tradizione, che egli aveva appreso da padre Benedetto. Esaminando le ragioni dell'allontanarsi di padre Benedetto dalla tradizione dionisiana, ho suggerito che una potesse trovarsi nell'impressione che il frate ebbe della non-cattolicit essenziale

del misticismo puro. Questo certamente vero per quanto riguarda Brulle. A proposito della scuola di cui Brulle fu il fondatore, Brmond scrive che la sua spiritualit fa continuo riferimento ai dogmi della Chiesa e da questi riceve autorit. Brulle possed indubbiamente una grande attitudine per la vita mistica; ma prima di essere un mistico, era un cattolico. La teologia, il Vangelo e la tradizione ecclesiastica erano per lui dati fondamentali, anteriori all'esperienza personale, che qualcosa da doversi piegare e modellare s da conformarla ad essi. I contemplativi della tradizione dionisiana, invece, avevano adattato il dogma alla loro propria esperienza, con il risultato che, con il progredire nel misticismo, avevano cessato di essere specificamente cattolici. Per un non cristiano il fatto al massimo grado importante e in singolar modo incoraggiante nei riguardi del misticismo, sembra appunto questo che esso offre le basi per una religione libera da dogmi inaccettabili, i quali sono di per s contingenti a fatti storici mal determinati e interpretati arbitrariamente. D'altro lato, per certi cristiani devoti il misticismo sospetto proprio per il suo carattere antidogmatico e antistorico. (Carlo Bart, per esempio, lo considera come nient'altro che un ateismo esoterico.) Brulle conosceva e rispettava i mistici della tradizione dionisiana, ma prefer non seguirli. Egli dedic invece tutte le energie del suo potente ingegno alla creazione di una nuova filosofia misticocattolica della vita. In questa filosofia, le materie grezze dei dogmi cattolici e della devozione popolare cattolica furono lavorate fino a formare un prodotto di alta spiritualit mediante una tecnica presa in prestito dai contemplativi dionisiani. Ne risult qualcosa di notevole al massimo grado; ma non era misticismo. Non era misticismo perch, sebbene il modo di accedervi fosse il medesimo dei contemplativi dionisiani, l'oggetto non era il Dio senza volto della loro esperienza diretta e della loro teologia. La rivoluzione compiuta da Brulle, dietro istigazione di Benedetto Fitch e sotto l'influenza del pensiero e della pratica cattolici, fu pi che copernicana. Non contento di affermare che il sole era il centro del mondo, egli sostenne che v'erano parecchi soli. Al teocentrismo egli aggiunse il Ges-centrismo e persino il Vergine-centrismo: la contemplazione di Cristo e della madre in se stessi e per se stessi. Questi due nuovi soli assunsero tanta importanza per Brulle che giunsero, nel suo sistema, a eclissare per buona parte il grande sole originario di Dio. Ogni uomo egli scrisse soltanto una parte di quell'intero che Ges. Non abbastanza per un uomo essere subordinato: deve essere disappropriato e annientato, e appropriato a Ges, sussistente in Ges, innestato in Ges, vivente e operante in Ges. Si sostituisca "Dio" a "Ges" e questo brano avrebbe potuto essere scritto dall'autore della "Nube dell'Inconoscibile". Le stesse somiglianze e differenze significative possono trovarsi tra le pratiche devote di Brulle e dei suoi seguaci da una parte, e quelle dei contemplativi dionisiani, rappresentati dall'autore della "Nube", dall'altra. Per Brulle, come per i primi mistici, fine e scopo della preghiera l'annientamento di se stessi in un totale abbandono alla volont divina. L'atto dell'abbandono di s comincia con l'adorazione o l'ammirazione - un'occupazione sublime, preziosa e affascinante secondo le parole di Brulle - e prosegue fino all'"aderenza" che il processo con cui si aderisce a quel che si adora, ci si immerge in esso, si transustanzia l'anima nell'oggetto che si contempla. Ma anche qui, mentre i mistici precedenti avevano insistito che l'adorazione doveva battere alla nube informe che avvolge la divinit, Brulle sostiene la "aderenza" e infine la "servit" a Cristo e perfino alla Vergine. Urbano Ottavo, che l'elev al cardinalato, gli diede, insieme con il Cappello, il titolo di apostolo del Verbo Incarnato. La natura e la portata della rivoluzione pi che copernicana di Brulle fu non solo riconosciuta dai suoi contemporanei, ma ebbe anche l'approvazione ufficiale. La virt aveva scritto l'autore della "Nube", traducendo

direttamente da Riccardo da San Vittore non altro che un affetto ordinato e misurato, diretto apertamente verso Dio per se stesso. Sant'Agostino aveva espresso la stessa idea in una frase: Ama e fa ci che vuoi. Un uomo che ha imparato ad amare Dio con inalterabile intensit pu senza pericolo fare ci che vuole, perch non potr mai volere il male. Brulle e i suoi seguaci spesso mettono in contrasto il loro metodo con quello dei moralisti pagani e non mistici. Il moralista - essi fanno notare - cerca di diventare virtuoso irrobustendo la volont cosciente. Il metodo consiste nel prendere una serie di risoluzioni per dimostrare una particolare virt: l'attuare tali risoluzioni virt in azione e viene, a lungo andare, a formare un'abitudine. Il difetto di questo metodo - come hanno messo in rilievo psicologi di ogni tempo e di ogni paese - sta nel fatto che esso impegna solo gli strati superficiali della mente e lascia il subcosciente pi o meno inalterato. Ma proprio dal subcosciente che sorgono in massima parte i nostri impulsi all'azione, i nostri appetiti e le nostre repulsioni. Ne segue, pertanto, che il metodo di addestramento del moralista fondamentalmente insoddisfacente. Dovremmo compiere i nostri atti di virt dice Brulle, pi in relazione e in omaggio a Ges Cristo che per un desiderio della virt in se stessa. E dovremmo far cos, non solo perch ogni vera religione teocentrica, ma anche perch il teocentrismo produce risultati etici migliori che non l'antropocentrismo e il moralismo. Infatti, come osserva un seguace e contemporaneo di Brulle, quando uno vuole tingere in rosso un pezzo di stoffa bianca, pu farlo in due modi: o applicando il colore alla stoffa, procedimento che richiede tempo, lavoro e fatica; oppure immergendolo nella tintura, il che si fa senza alcuna fatica. Lo stesso accade per le virt; la virt una tintura nel cuore di Ges Cristo e quando, mediante l'amore, l'adorazione e altri doveri della religione, il cuore s'immerge in esso, facilmente prende questa tintura. Questo immergersi nella tintura compiuto mediante la "aderenza", cio con l'aprire, attraverso un'attiva e pur rassegnata immolazione, l'anima all'oggetto della sua adorazione; il quale oggetto, nella pratica devota di Brulle, generalmente Cristo, e a volte la Vergine, e di rado, come nei veri mistici, quel Dio senza volto che l'esperienza diretta rivela quale realt ultima. La rivoluzione pi che copernicana di Brulle ebbe effetti profondi, di lunga portata e nel complesso disastrosi. Dalla fine del secolo decimosettimo alla fine del decimonono, il misticismo praticamente disparve dalla Chiesa Cattolica. Come per tutti gli eventi storici, le cause di questa sparizione sono molte e complesse; ma non v' dubbio che tra esse la rivoluzione berulliana occupi un posto importante. Col sostituire Cristo e la Vergine alla divinit non differenziata dei mistici precedenti, Brulle fece s che nessun seguace delle sue pratiche di devozione potesse accedere agli stadi pi elevati dell'unione e dell'illuminazione. La contemplazione di persone e delle loro qualit importa una buona quantit di pensiero analitico e un impiego costante dell'immaginazione. Ma il pensiero analitico e l'immaginazione sono appunto le cose che impediscono all'anima di raggiungere lo stato di luce. Su questo punto insistono, unanimi e con particolare enfasi, tutti i grandi scrittori mistici, cristiani e orientali. Di conseguenza l'aspirante mistico che segue Brulle e prende a oggetto dell'amore e della contemplazione, non la Divinit, ma una persona e delle qualit personali, erige per ci stesso delle barriere insormontabili tra se stesso e gli stadi pi elevati dell'unione. A questo riguardo, interessante confrontare Brulle e il berullismo con Ignazio di Loyola e la scuola gesuitica di devozione. Loyola sembra sia stato per natura un mistico, che rifiut il dono della contemplazione passiva in favore di una meditazione attiva fondata sul pensiero analitico e sull'immaginazione. I suoi Esercizi spirituali, antropocentrici e moralistici, rimangono fuori del campo della letteratura mistica e non esercitano alcun fascino sulla persone

dotate di temperamento mistico. Educati in questi esercizi, i teologi gesuiti ignorarono per la maggior parte i pi elevati stati mistici e, ignorandoli, ne negarono la stessa esistenza. L'influenza di Brulle e dei suoi seguaci fu invece di un genere pi sottile, giacch essi rivoluzionarono il misticismo dall'interno. A diversit di Loyola, Brulle non respinge le proprie facolt mistiche. Egli predic il teocentrismo tradizionale dei mistici fino al tempo di San Giovanni della Croce, e pratic la loro tradizionale "aderenza". Di qui l'appello che i suoi scritti ebbero sulle persone dotate di mentalit mistica; di qui la profondit e l'interiorit della sua influenza; di qui, anche, le conseguenze fatali della diretta subordinazione da lui operata dell'esperienza mistica alla teologia personalistica. Senza dubbio Brulle credeva sinceramente che l'anima potesse aderire al Verbo Incarnato o alla Vergine nello stesso identico modo con cui poteva aderire a Dio, e con le medesime conseguenze. Ma questo psicologicamente impossibile. Non vi pu essere aderenza a persone o a qualit personali senza l'analisi e l'immaginazione; e l ove l'analisi e l'immaginazione sono attive, la mente non in grado di ricevere in s l'essere di Dio. Brulle insegn agli aspiranti mistici a seguire un cammino che, per la natura stessa delle cose, non poteva portare alla meta ultima del misticismo. Era un cammino che li avrebbe portati alla virt; poich (come Cou ha dimostrato nel nostro tempo) l'immaginazione a questo proposito pi efficiente della volont: un'anima pu essere resa virtuosa immergendola nella sua immagine mentale della bont di un'altra. Era anche un cammino che li avrebbe condotti a una devozione d'affetto intenso per le persone divine e a un'instancabile attivit in nome loro. Ma non era un cammino che avrebbe condotto all'unione con la realt ultima. Al pari dei gesuiti, i seguaci di Brulle erano condannati per la natura stessa delle loro devozioni a un'ignoranza spirituale tanto pi fatale in quanto riteneva d'essere conoscenza. Fu appunto il prevalere di questa ignoranza tra gli uomini sinceri e virtuosi che port nella seconda met del secolo decimosettimo alla reazione contro il misticismo. Le aberrazioni dei "quietisti" vennero usate per giustificare la violenza di questa reazione. Ma, in realt, n Molinos n la signora Guyon scrissero nulla che non potesse essere neutralizzato con un po' di buon senso. Quel che in effetto dava fastidio nei quietisti era il fatto che essi erano i continuatori di quella tradizione mistica dionisiana di cui San Giovanni della Croce era stato l'ultimo grande rappresentante. Essi erano fuori di luogo in un mondo in cui gesuitismo e berullismo stavano sboccando, nel campo delle pratiche di devozione, nel culto del Sacro Cuore. (Giovanni Eudes, beatificato come padre, dottore e apostolo di questo culto, era un berulliano e le rivelazioni di Margherita Maria Alacocque ebbero a mallevadori i gesuiti.) Per la fine del secolo decimosettimo, il misticismo aveva perduto il suo antico significato nella cristianit ed era pi che defunto a met. E con questo? pu domandare qualcuno. Perch non dovrebbe morire? A che serve quando vivo? A questo domande va risposto che quando non c' una visione superiore, la gente perisce; e, se coloro che sono il sale della terra perdono il loro sapore, non c' nulla che le impedisca di cadere in una piena decadenza. I mistici sono i canali per cui un po' di conoscenza della realt filtra entro il nostro universo umano d'ignoranza e d'illusione. Un mondo totalmente antimistico sarebbe un mondo totalmente cieco e insano. Dal principio del secolo decimosettimo in poi, le fonti della conoscenza mistica sono venute costantemente diminuendo di numero su tutto il pianeta. Noi ci troviamo ora ben avanti, pericolosamente avanti, nell'oscurit. Per una tragica ironia (dovuta, naturalmente, all'ignoranza che accompagn le loro buone intenzioni) l'estatico padre Benedetto e il brillante e santo Pietro de Brulle presero posto tra gli uomini che hanno contribuito a oscurare lo spirito umano.

Capitolo 4. L'EVANGELISTA. Nel capitolo precedente ho rappresentato abbastanza minutamente il mondo religioso - storico, contemporaneo e personale - nel quale padre Giuseppe visse la sua vita. Su questo sfondo di intensa devozione cattolica, in parte mistica, in parte immaginativa ed emotiva, si svolsero gli episodi della sua carriera politica; e in relazione ad esso tali episodi dovettero trovare spiegazione e giustificazione nella mente stessa del frate. Nei primi anni della sua vita di cappuccino, l'attivit di padre Giuseppe fu esclusivamente religiosa. Cominci, abbiamo visto, con un anno di noviziato a Orlans. Dopo la sua professione, a Parigi, fu mandato nel seminario cappuccino di Rouen. Il corso ordinario di studi durava qui quattro anni, ma il nuovo alunno si trovava gi tanto avanti che fu esentato dall'anno preliminare di filosofia e da uno dei tre anni successivi di teologia. Nel seminario egli ebbe reputazione di un giovane religioso cui la grazia aveva concesso singolari facolt spirituali, fervente nella preghiera, infaticabile nelle buone opere, arso dalla pura ambizione di diventare un santo. Osservava regole pi rigide del prescritto in fatto di cibo e di lavoro; controllava tanto attentamente il suo orgoglio che non lo si sent mai parlare della sua vita passata, dei suoi desideri presenti o dei suoi progetti per l'avvenire; era ansioso in ogni occasione di far pi del suo dovere. Questo suo gusto spartano per i disagi e gli sforzi si manifestava di continuo, e talvolta nelle forme pi strane. Per esempio, in certi periodi di devozione era solito pregare stando in piedi, scalzo, sulle lastre del pavimento; quando il sonno stava per sopraffarlo (il che accadeva qualche volta poich egli aveva l'abitudine di dedicare parte della notte alla contemplazione) padre Giuseppe lo combatteva reggendosi su una gamba sola. Queste sue consuetudini non incontravano approvazione nel seminario; ma quando lo ammonivano circa i pericoli degli eccessi e la necessit della discrezione anche nelle pratiche devote, padre Giuseppe rispondeva che il Regno dei Cieli viene preso con la violenza e continuava ad accompagnare le sue preghiere con tormentosi sforzi muscolari. Tutto questo stava a indicare il pi lodevole zelo; ma i superiori erano principalmente interessati dal fatto che il nuovo alunno sembrava avere delle spiccate doti per la preghiera. Padre Benedetto gli aveva insegnato la teoria e la pratica del suo particolare misticismo di tipo dionisiano modificato; e il giovane cappuccino aveva introdotto nelle sue devozioni quella preoccupazione ossessionante e allucinante delle sofferenze del Calvario, che lo aveva dominato fin dalla prima infanzia. Ne risult un tipo di preghiera mentale che i suoi superiori definirono di amore serafico e crocifisso. Un esercizio intenso di questa forma di contemplazione (cui il giovane seminarista dedicava assai pi che non le due ore giornaliere prescritte dalla regola per la preghiera mentale) portavano non di rado all'estasi e alle visioni. Se a tutto questo aggiungiamo che padre Giuseppe era dotato di eloquenza e aveva una particolare disposizione per la controversia religiosa e per l'esortazione, non saremo sorpresi del giudizio singolarmente favorevole che di lui diede Angelo de Joyeuse. Padre Giuseppe dichiar questi nel 1601, quando il giovane si trovava ancora nel seminario di Rouen, il perfetto cappuccino e il religioso pi

completo della sua provincia, e in realt di tutto l'Ordine. In questo periodo, Benedetto da Canfield si trovava in una prigione inglese, da cui non usc e non nel 1602. Sebbene assente, peraltro, la sua influenza sulla mente del suo giovane alunno era ancora forte. Quanto fosse forte si pu giudicare dai libri che costituivano la lettura preferita di padre Giuseppe. L'elenco comincia con il "Vangelo" di San Giovanni e le "Epistole" di San Paolo, continua con le "Confessioni" e il "Soliloquio" di Sant'Agostino, la "Teologia mistica" e i "Nomi divini" di Dionisio l'Areopagita, gli scritti mistici di Ugo e di Riccardo di San Vittore e di San Bernardo, e finisce con Ruysbroeck e due contemplativi minori rispettivamente dei secoli quindicesimo e sedicesimo, Enrico de Herp e l'abate benedettino Blosio. E' una piccola biblioteca della pi pura tradizione mistica. I superiori manifestarono con i fatti non meno che con le parole l'alto concetto in cui tenevano padre Giuseppe. Nel 1603, infatti, pochi mesi dopo aver lasciato il seminario, fu nominato lettore di filosofia nel convento di rue Saint-Honor. La sua carriera di teologo e di studioso fu troncata, dopo appena un anno, da un aggravarsi di quella progressiva debolezza della vista che and sempre aumentando lungo tutta la sua vita fino a renderlo alla fine quasi cieco. Da allora, il mondo dei libri si chiuse per lui, ma rimaneva ancora aperto quello degli uomini. Nel 1604 ricevette gli ordini e l'autorizzazione a predicare, e gli fu affidata la cura dei novizi nella casa dei cappuccini di Meudon. Egli si mise al lavoro con energia sempre moderata dal tatto e dall'accortezza e prese a insegnare ai frati novizi quelle arti della preghiera mentale che egli stesso aveva imparato solo pochi anni prima da Benedetto da Canfield. Per maggiore facilit dei suoi alunni, egli ridusse l'essenza della vita spirituale - con i suoi tre stadi della purgazione, dell'illuminazione e dell'unione - a una serie di trentasei quartine rimate; e per ognuno dei novizi scrisse una lista di istruzioni spirituali in relazione con i suoi bisogni individuali. All'opera che svolgeva entro il convento, padre Giuseppe ne aggiunse un'altra: la rievangelizzazione della regione circostante. Meudon e tutti gli altri villaggi nelle vicinanze di Parigi avevano sofferto al massimo grado, durante le guerre di religione. I soldati predoni, non contenti di spogliare le fattorie e le botteghe, avevano saccheggiato e spesso rovinato le chiese. In alcune localit si era addirittura estinta ogni forma organizzata di attivit religiosa; e, tra i parroci rimasti, molti avevano ceduto all'influenza dell'anarchia circostante e conducevano una vita tutt'altro che edificante. Con l'approvazione dei superiori, padre Giuseppe si accinse a riconquistare alla Chiesa quella regione spiritualmente devastata. I suoi sforzi di missionario furono coronati da un immediato e sorprendente successo. Ovunque egli predicasse, la gente si radunava a migliaia, da chilometri e chilometri all'intorno, per ascoltare quella vibrante eloquenza. Le chiese e le cappelle dei conventi risultarono ben presto troppo piccole per quelle riunioni e padre Giuseppe fu costretto a parlare all'aperto. Molti degli ascoltatori subivano crisi di conversione e ovunque le pratiche del culto tradizionale furono ristabilite. Fu cos grande, in realt, la moltitudine di coloro che volevano essere confessati e comunicati, che fu necessario mandare da Parigi dei frati aggiunti. Ben addestrato all'umilt, padre Giuseppe non diede mostra di alcuna soddisfazione personale per questo trionfo, che egli consider come ottima occasione per l'"annientamento attivo" di s nella volont divina. Predicando, egli si sforzava di serbare una costante consapevolezza che lui non era nulla e Dio era tutto; che la sua eloquenza - che strappava agli ascoltatori gemiti per la paura dell'inferno e lagrime per le colpe commesse, e faceva loro levare supplicanti le braccia al cielo misericordioso - non era la sua eloquenza, ma la parola di Dio che trovava espressione attraverso lui, strumento assolutamente indegno della volont di Dio. Dall'annientamento attivo della predicazione egli si ritirava a sera nella sua cella e qui, nel buio e nel silenzio, si abbandonava

all'annientamento passivo in un atto di preghiera mentale. Poche ore di sonno, ed egli era di nuovo al lavoro, pieno di forze e di energie non sue proprie, soddisfatto e felice nella convinzione che gli si era rivelata la sua vera vocazione. Il servizio cui era chiamato era quello dell'evangelista e del missionario. Tutto ci era evidente, e non solo a lui e ai suoi compagni, ma anche ai suoi superiori. Cos evidente che, nell'autunno del 1605, fu tolto dall'insegnamento a Meudon e nominato guardiano del convento di Bourges. Qui avrebbe avuto relativamente poco da fare dentro le mura del convento e sarebbe stato di conseguenza in grado di dedicare il meglio delle sue energie al lavoro di evangelizzazione. A Bourges, davanti a un pubblico cittadino ed educato, padre Giuseppe ebbe non meno successo che tra gli agricoltori di Meudon e della campagna circostante. A richiesta degli anziani della citt egli fece una serie di prediche cui accorse tanto pubblico che fu necessario tenerle in un edificio pi spazioso della chiesa del convento. Queste prediche, che generalmente duravano due ore, avevano ad argomento l'arte della preghiera mentale. Negli anni successivi lo vedremo tornare pi e pi volte su questo stesso argomento. A viva voce e in sommari scritti, che lasciava agli uditori perch li copiassero e li facessero circolare, egli insisteva nel far presente a tutti i cristiani quanto fosse desiderabile, anzi, assolutamente necessario l'avvicinarsi misticamente a Dio. In uno di questi sommari, scritto press'a poco in questo periodo, egli afferma: Un uomo che trascura questo dovere dell'orazione davvero cieco, poich non distingue i suoi amici dai suoi nemici. Non possibile rammaricarsi a sufficienza della perdita causata da questa negligenza oziosa, la perdita delle grazie inestimabili che arreca all'anima la conversazione con Dio. Perfino negli anni in cui fu collaboratore di Richelieu, egli rimase, con una parte della sua persona, discepolo fedele del suo primo maestro, Benedetto da Canfield. Padre Giuseppe non fu lasciato a lungo a Bourges. Le sue doti di predicatore erano troppo preziose perch venissero dissipate a vantaggio di un'unica congregazione, e agli inizi della primavera del 1606 fu chiamato a fare le prediche quaresimali nella cattedrale di Le Mans. Qui non accadde nulla di notevole, se non che una donna isterica, avendolo inteso predicare e avendo concepito una violenta passione per lui, tent di sedurlo. Per un uomo che considerava le donne viventi fuori di un chiostro come bestie selvagge e come orridi misteri, la tentazione non fu troppo seria; e dopo aver convertito la sua bella assalitrice, padre Giuseppe prosegu per Angers, e da Angers a Saumur. Essere prescelto per predicare a Saumur era un particolare onore, poich questa era una delle citt assegnate dall'Editto di Nantes agli Ugonotti. Sotto l'abile e attivo governatore Du PlessisMornay, Saumur era diventata un centro di cultura calvinista. Vi era stata fondata non molto tempo prima un'accademia, ove i giovani ascoltavano lezioni di eminenti professori, reclutati non solo tra gli ugonotti francesi, ma anche tra i protestanti di ogni parte d'Europa. V'era anche un seminario per la preparazione dei futuri ministri della fede riformata e una tipografia ben attrezzata, dove i contraversisti protestanti - tra cui lo stesso Du Plessis-Mornay - potevano far stampare i loro volumi ed opuscoli. In questa prospera citt calvinista (che doveva pi tardi essere rovinata e spopolata a met in seguito alla revoca dell'Editto di Nantes) c'era una piccola minoranza cattolica che godeva libert di culto e aveva la sua chiesa. Qui padre Giuseppe predic e fece allocuzioni sull'arte dell'orazione; e anche qui, com'era sua consuetudine, scrisse il sommario delle sue prediche perch servisse come da manuale agli ascoltatori dopo che egli fosse andato via. Negli intervalli tra le prediche e gli esercizi, padre Giuseppe consult i membri pi autorevoli dei suo gregge circa la possibilit di fondare un convento di cappuccini in quella citt. Fino ad allora Du PlessisMornay si era rifiutato di ammettere i frati nelle zone riservate ai calvinisti. Padre Giuseppe non sapeva ancora come avrebbe potuto

vincerne o aggirarne la formidabile opposizione; ma era fermamente deciso a far s che, in un modo o in un altro, Saumur avesse i suoi cappuccini. Alla riunione del Capitolo della sua provincia, che fu tenuto quella stessa estate a Parigi, egli port sul tappeto la questione. Colleghi e superiori approvarono il suo progetto e alla fine di agosto egli part da Parigi con il posto di guardiano del convento di Rennes e l'incarico di far passi adeguati per giungere a stabilire dei frati a Saumur. Questo incarico doveva avere per il giovane cappuccino conseguenze profonde e lontane. L'intrigo per aver la meglio su Du Plessis-Mornay fu il primo anello di una lunga catena di circostanze imprevedibili che lo portarono da ultimo al sommo del potere politico. La cosa cominci con la sua visita all'abazia di Fontevrault. Fontevrult era la casa madre di un ordine del secolo decimosecondo, che comprendeva monaci e monache, tutti dipendenti dalla sua badessa. L'ordine era immensamente ricco, aveva dozzine di case minori sparse per tutto il paese, e reclutava le sue monache tra le famiglie pi aristocratiche. La badessa faceva parte dei grandi dignitari della chiesa gallicana. Come si conveniva all'importanza della posizione, "la signora di Fontevrault" Non era mai di grado inferiore alla duchessa, spesso di grado superiore; e spesso il titolo veniva dato a una principessa del sangue. Nel 1606 la badessa era una zia anzianotta di Enrico Quarto, di nome Eleonora de Bourbon. Il suo alto rango e il fatto che Fontevrault distava solo pochi chilometri da Saumur, facevano della signora de Bourbon una persona ovviamente adatta per trattare con Du Plessis-Mornay. A lei fu dunque mandato padre Giuseppe. Lei ascolt benevolmente la richiesta e scrisse subito al governatore di Saumur. Du Plessis-Mornay detestava i frati, ma non poteva permettersi di offendere una stretta parente del re. Egli diede il sua consenso per la fondazione di un convento cappuccino a Saumur; ma fece poi di tutto perch tale consenso non fosse di alcun giovamento ai cappuccini. Tutti i macchinosi impedimenti della legge furono messi in moto e per tre anni l'editto reale, che conferiva ai cappuccini il diritto di fondare un convento a Saumur, non riusc a ottenere la necessaria registrazione presso il parlamento locale. Ma i frati furono perseveranti, e alfine, nel 1609 fu solennemente posta la prima pietra del nuovo convento. Padre Giuseppe aveva vinto. Ma non doveva godere della sua vittoria. Dalla sua impresa di Saumur egli si era aspettato e aveva sperato il privilegio di servire come missionario tra gli eretici; quell'impresa viceversa lo port in realt a una carriera ben diversa. Il giovane frate aveva prodotto un'impressione assai favorevole sulla signora de Bourbon. Il suo zelo e la sua devozione erano esemplari, il suo giudizio non meno notevole del suo ardore; e soprattutto, sotto il saio cencioso e la barba incolta, egli era un aristocratico, di educazione e di modi raffinatissimi. Chi signore, tale rimane; e nulla poteva celare che padre Giuseppe era stato il barone de Maffliers. Nobili d'altro rango, ministri della corona, principi e principesse del sangue si trovavano a loro pieno agio con questo particolare frate: egli era "uno dei nostri", un membro della loro casta. Inoltre, a quanto riferisce un contemporaneo, la sua conversazione era affascinante, ed egli trattava la nobilt con infinita desirezza. La signora de Bourbon ne fu affascinata al pari degli altri e, sistemata la faccenda per cui le era stato mandato, volle consultare il giovane sulle sue difficolt: le quali non erano del tutto trascurabili. Senza essere scandalosa, la vita che si conduceva a Fontevrault e nelle case dipendenti era eccessivamente mondana. Questi conventi erano diventati come dei club campestri per signore, riservati all'alta societ. Dei tre voti monastici, quello della castit era rispettato scrupolosamente; quello dell'obbedienza, solo con borbottamenti, e quello della povert, affatto. Le monache godevano delle loro rendite private e vivevano circondate da domestiche e da roba di loro personale propriet. La signora de Bourbon era a suo modo vagamente devota e le sarebbe piaciuto di fare

qualcosa per ii suo ordine. Ma cosa? Ma come? Padre Giuseppe discusse la cosa con la badessa e con Antonietta d'Orlans, sua coadiutrice e nipote. Assai pi profondamente e intensamente religiosa che non la zia, la principessa aveva da tempo sognato di creare una congregazione di pure contemplative, dentro o fuori l'ordine di Fontevrault. Quel giovane mistico, pieno di energia e di capacit per gli affari, era proprio il consigliere e l'aiuto che essa aveva sempre sperato di trovare. Padre Giuseppe prepar due programmi, uno di riforma moderata per la signora de Bourbon e le monache alquanto mondane di Fontevrault, l'altro, radicale, per la signora d'Orlans e le monache e le novizie che desiderassero condividere con lei una vita rigidamente claustrale di contemplazione. Con queste sincere entusiaste di una religione mistica e ascetica, come l'intendeva lui, padre Giuseppe fu in grado di cooperare entusiasticamente e con la massima soddisfazione; non cos con la signora de Bourbon e il partito mondano. Il giovane desiderava una sola cosa: continuare la sua opera di evangelista e di apostolo del misticismo. E ora, per una strana concatenazione di circostanze, ecco che si trovava inestricabilmente ingolfato in un lavoro che gli era particolarmente sgradevole: la riforma di monache che non volevano essere riformate, neppure moderatamente, e che erano abbastanza ricche e potenti da intralciare il loro riformatore a ogni passo. Ma egli spieg tanta abilit nell'assolvere questo compito ingrato, che non gli fu mai permesso di desistere e di tornare alla sua opera di missionario. Guardiano successivamente nei conventi di Rennes, di Chinon e di Tours, egli veniva di continuo richiamato a Fontevrault. L, in mezzo a quelle gran signore mascherate da religiose, egli dov lottare eroicamente per annientare in s le ultime tracce di sentimento personale verso il compito che gli era stato assegnato. Era volont di Dio che tale compito fosse assolto, e lui era solo lo strumento della volont di Dio. Giorno per giorno, ora per ora, egli rinnovava la risoluzione di adempiere quella volont: effettivamente, unicamente, volenterosamente... Frattanto, rimaneva il fatto che l'impresa di riformare Fontevrault era particolarmente difficile e delicata. Poich in queste faccende due teste valgono pi di una, padre Giuseppe si rivolse per aiuto e per consiglio al vescovo della vicina diocesi di Lucon, un giovane non ancora trentenne, ma gi assai stimato per la sua abilit e il suo zelo di riformatore. Questo giovane ecclesiastico si chiamava Armando Giovanni du Plessis de Richelieu. I due s'incontrarono, parlarono della faccenda in questione, si scambiarono le loro opinioni su problemi d'interesse pi generale, e si separarono come amici animati da reciproca ammirazione. Un altro anello nella catena del destino di padre Giuseppe era stato forgiato. Il lavoro di riforma tir in lungo per anni. Nel 1610 padre Giuseppe fu trasferito dalla provincia di Parigi a quella di Tours, in modo che potesse trovarsi a Fontevrault con maggiore continuit, e da allora fino al 1613 egli visse per mesi di seguito nell'uno o nell'altro dei conventi dell'Ordine, assistendo la signora d'Orlans nella creazione della sua piccola comunit di contemplative, e tentando di persuadere le signore del club campestre di Fontevrault a comportarsi un po' pi come monache. I problemi che si trovava a dover trattare furono di colpo resi pi complicati dalla morte della vecchia signora de Bourbon. La nomina della nuova badessa era di competenza della corona, e la corona in quel momento era rappresentata dalla reggente Maria de' Medici, che scelse la duchessa de Lavedan. Prima e dopo questa nomina, la regina madre ricerc il consiglio di padre Giuseppe e, al pari di tutti gli altri, che lo conobbero in quell'epoca, si form un'opinione assai elevata delle virt e delle abilit del cappuccino: un'opinione che mantenne fino a quel giorno del 1630 in cui la fuga a Bruxelles la tolse dalla scena francese. Ancora una volta le circostanze cospirarono a distogliere il missionario dalla sua predicazione per portarlo nel mondo dell'alta politica. Sarebbe inutile descrivere in particolare l'opera svolta da parte

Giuseppe a Fontevrault e nell'abbazia vicina in cui la signora d'Orlans aveva istallato quelle monache che aspiravano sinceramente a una vita di austerit e di orazioni. Basti dire che grazie a padre Giuseppe il contegno di quelle signore mondane divenne un po' pi decoroso e che infine, nel 1617, la comunit fondata dalla signora d'Orlans fu promossa, con tanto di bolla papale, al rango di ordine nuovo e indipendente: la Congregazione di Nostra Signora del Calvario. Questo fu ottenuto combattendo contro la pi ostinata opposizione da parte della nuova badessa di Fontevrault, gelosa della sua autorit e avversa a qualsiasi riforma, sia pure intrinsecamente eccellente, che minacciasse di privarla di parte delle sue suddite. Dei due fondatori dell'Ordine del Calvario, la signora d'Orlans mor nel 1618, solo pochi mesi dopo che era stata dichiarata l'indipendenza da Fontevrault. Morendo, ella affid a padre Giuseppe il compito di guidare la nuova congregazione sulla strada che avevano insieme tracciata. Era la strada che, fin dal primo momento del suo ingresso in religione, il cappuccino aveva scelto per s: la strada della mortificazione, dell'orazione mistica e degli esercizi intensivi e allucinanti sulla passione di Cristo. Fin quasi dal momento cui poteva risalire la sua memoria, il Calvario gli aveva empito di s l'immaginazione; e al Calvario era dedicato il nuovo ordine. Immaginare se stesse nelle condizioni di Maria ai piedi della croce, ritrovare se stesse nei pensieri e nelle emozioni che Maria aveva provato durante le lunghe sofferenze del figlio: tale doveva essere la principale devozione delle monache; per il resto, dovevano praticare l'arte della preghiera mentale quale l'aveva sistematizzata padre Giuseppe traendola dagli scritti di Benedetto da Canfield. Alla loro guida, alla loro educazione spirituale e anche intellettuale, padre Giuseppe dedic da quel momento, senza limitazioni di tempo, il suo ingegno e le sue energie. Perfino al colmo del potere politico e sotto il peso delle pi gravi faccende, egli non trascur mai le monache del Calvario. Ogni volta che si trovava a Parigi o in una delle altre citt ove era stata istituita una casa del Calvario, padre Giuseppe trovava il tempo di dedicare almeno un giorno alla settimana a istruire e a incoraggiare le monache. Per loro uso egli compose una piccola biblioteca di trattati sulla preghiera, sulla morale, sulla filosofia, sulla teologia, oltre a un gran numero di lettere sui problemi giornalieri della vita spirituale. Molto di questo materiale ancora si conserva, ma non stato mai pubblicato. Secondo i calcoli dell'unico studioso moderno che abbia potuto vederli, i trattati e le lettere spirituali di padre Giuseppe alle suore del Calvario riempirebbero, a pubblicarli, trenta volumi in ottavo di cinquecento pagine l'uno. Questi scritti furono per la maggior parte composti nel tempo in cui il cappuccino faceva le funzioni di segretario di Stato per gli Affari Esteri e di Commissario Apostolico per le missioni: due incarichi tali da assorbire tutto il tempo di una persona; cui egli aggiungeva una terza mansione, quella di direttore spirituale di tutta una congregazione di religiose. Attraverso quelle contemplative, egli poteva darsi a quella vita di orazione che padre Benedetto gli aveva insegnato ad amare, ma che Richelieu e gli affari di Stato gli impedivano di condurre di persona. La gloria di Francia e l'umiliazione della Casa d'Austria: queste due cose significavano molto per un patriota convinto che il trionfo del suo paese era anche un trionfo per Dio. Ma il benessere spirituale delle sue monache e i loro progressi nell'arte della preghiera mentale erano cose di non minore importanza agli occhi di padre Giuseppe. Fino all'ultimo, il politico fece del suo meglio per rimanere un mistico. Mentre era ancora impegnato nella mansione delicata e sgradevole di Fontevrault, padre Giuseppe fu nominato coadiutore del Provinciale della Turenna; e poco dopo, quando era riuscito a liberarsi dalle suore mondane e doveva pensare solo alla signora d'Orlans e alle sue contemplative, divenne Provinciale. La provincia di Turenna comprendeva, per l'ordine dei cappuccini, non solo il distretto di Tours, ma tutto il Poitou e anche buona parte della Bretagna e della

Normandia. Come sopraintendente su questa vasta zona, padre Giuseppe consider suo dovere andare a conoscere personalmente ogni frate che si trovasse nella regione. Ai viaggi frequenti che era stato solito compiere fino ad allora, egli venne cos sostituendo un quasi incessante peregrinare, a marce forzate, avanti e indietro per la sua provincia. Durante questo periodo, padre Giuseppe deve aver percorso letteralmente migliaia di chilometri. E che razza di chilometri! Quando diciamo "Francia", noi pensiamo a una linda campagna con campi ben coltivati e boschi ben curati, coperta da una rete di magnifiche strade e cosparsa di villaggi e di citt. Ma al principio del secolo decimosettimo la Francia presentava un aspetto ben diverso: c'erano enormi foreste, non molto meno selvagge di quelle che Cesare aveva traversato durante le guerre galliche; i lupi abbondavano, e in qualche parte del paese potevano ancora incontrarsi gli orsi e i castori. I tratti liberi da foreste mancavano spesso di fossi e di opere di drenaggio. Grandi estensioni, ora coltivate, erano allora zone malariche, coperte d'acqua per tutto l'anno salvo i mesi pi asciutti. Le strade non erano diverse dal terreno che attraversavano e nei periodi di pioggia erano intransitabili con i mezzi a ruote e di difficile passaggio anche per i cavalieri e per i pedoni. I proprietari della terra vivevano in castelli e manieri, di cui molti ancora sussistono, ma quelli che di fatto la coltivavano abitavano in capanne di fango e di graticci, cos fragili nel loro squallore che sono per la maggior parte scomparse senza lasciar traccia della loro esistenza. La normale povert dei contadini sotto i signori feudali era stata resa pi acuta dalle devastazioni prodotte dalle guerre civili; ora peraltro, con il rifiorire della pace sotto Enrico Quarto, tornava a quello stato cronico che era allora considerato quasi prosperit. Degli uomini che avevano combattuto nelle guerre civili, molti erano disoccupati e si erano dati a far i ruffiani o i ladri in citt, o a fare briganti nelle campagne. I corpi in decomposizione di alcuni di questi malfattori penzolavano bene in vista dalle forche ai margini della strada. Ma ancor pi numerosi erano i briganti che infestavano la campagna e i viaggiatori solevano andare armati e finch era possibile in gruppi. Padre Giuseppe era fortunato a non posseder altro se non la reputazione di cappuccino per la carit attiva e la vita austera. Poteva essere assalito dai lupi, poteva prendersi la malaria o il tifo, poteva affogare nel tentativo di traversare un fiume in piena; ma era quanto mai improbabile che egli fosse ucciso dai banditi. I tesori che il Provinciale della Turenna portava con s, nelle visite ai conventi sotto la sua giurisdizione, erano di un genere che non permetteva di comprare alcuna cosa che potesse essere appetita da un brigante di strada. Per padre Giuseppe queste interminabili marce attraverso la campagna non erano un disagio, quanto piuttosto gradite occasioni per delle meditazioni che potevano legittimamente prolungarsi dal momento della partenza all'alba fino al termine del viaggio al tramonto. Tra i monaci della sua provincia padre Giuseppe aveva fama per la fermezza d'azione temperata da una dolcezza e da un'umilt di modi straordinaria. Gli abusi erano prontamente corretti, la disciplina fatta rispettare, le ammonizioni e le punizioni amministrate immancabilmente, ma sempre con dolcezza, sempre con una penetrazione psicologica tale da elevarsi quasi a quell'attributo dei santi che in sede tecnica chiamato il discernimento degli spiriti. Nei periodi d'intervallo tra un viaggio e l'altro, padre Giuseppe continuava a predicare e a scrivere. In questo tempo appunto compose, per i novizi della sua provincia, quell'"Introduzione alla vita spirituale" di cui abbiamo gi parlato e in cui egli espone nella forma pi completa la sua teoria e la sua pratica della vita mistica. Abbiamo visto anche che egli aveva scritto gi in precedenza trattati del genere; ma quest'ultimo fu il pi completo ed elaborato, per il semplice fatto che fu l'unico destinato alla pubblicazione. Durante tutto questo periodo, padre Giuseppe ebbe modo di praticare il suo particolare metodo di orazione mistica e immaginativa con

singolare persistenza. Egli sub pertanto un ripetersi dei fenomeni che avevano accompagnato le sue prime devozioni nel seminario di Rouen. Ebbe visioni, ricev rivelazioni, cadde in estasi. C'erano volte in cui non riusciva quasi a parlare delle sofferenze di Cristo senza cadere in estasi. Questo gli accadde, una volta almeno, anche sul pulpito. Parlando della crocefissione, fu preso da una commozione tale che perse i sensi, cadde svenuto e rimase per qualche tempo in uno stato quasi di catalessi. Questi sintomi fisici erano considerati dai mistici esperti, come segni probabilmente della grazia divina, ma certamente della debolezza umana, e anche in parte di un addestramento inadeguato nell'arte dell'orazione e di una pratica poco giudiziosa. Al tempo stesso, naturalmente, essi attestavano l'intensit dell'esperienza che li produceva. In Ezechiele non c'era certo niente di tepido e di fiacco. Padre Giuseppe parlava poco delle sue esperienze psichiche; ma non c' dubbio che vi attribuisse grande importanza. Negli anni successivi, egli si serv delle visioni e delle rivelazioni delle sue proprie a volte, ma pi spesso di quelle delle suore del Calvario affidate alle sue cure - come dati di fatto di cui tener conto nello stabilire una linea politica e nel condurre una campagna militare. Si sarebbe potuta risparmiare questa fatica. Tali apocalissi n lo rendevano infallibile n toglievano nulla alla sua innata sagacia di uomo politico. Vale la pena di osservare che l'atteggiamento tutto umano e antropocentrico di padre Giuseppe verso questi sottoprodotti della vita religiosa non era universalmente condiviso dai suoi contemporanei. Ecco, ad esempio, il giudizio che ne diede Gian Giacomo Olier, fondatore del seminario di San Sulpizio e degno alunno del pi grande discepolo di Brulle, Carlo de Condren: Le rivelazioni sono le aberrazioni della fede; sono una distrazione che sciupa la semplicit nei rapporti con Dio e imbarazza l'anima, facendola deviare dall'affisarsi diretto in Dio e occupando la mente con altre cose che non Dio. Le illuminazioni speciali, le voci, le profezie e tutto il resto sono i segni di debolezza di un'anima che non riesce a sostenere gli assalti delle tentazioni, o non riesce a sopportare l'ansia circa l'avvenire e il giudizio di Dio. Le profezie sono inoltre segni di curiosit terrena in un essere verso cui Dio indulgente e a cui, come un padre al figlio importuno, concede qualche zuccherino per placarne i desideri. Quanto lontano tutto questo da padre Giuseppe o, puranche, dalla brama ansiosa e dalla reverenza superstiziosa di Pascal per i segni e per i miracoli! Olier aveva raggiunto un grado di austerit intellettuale, di annientamento, come avrebbe detto padre Benedetto, da cui gli altri due si trovavano ben lontani.

Capitolo 5. INGRESSO NELLA POLITICA. Compiuta la riforma a Fontevrault, sembrava che padre Giuseppe se ne potesse tornare al suo lavoro prediletto, al lavoro che egli sentiva come sua vera vocazione. C'erano tante cose da fare: eretici da riconquistare alla Chiesa; cattolici tepidi e accomodanti che andavano risvegliati dalla loro fatale apatia; ovunque una minoranza di devoti cui insegnare la vera arte della preghiera mentale. Tante cose da fare; e quante poteva sperare di compierne padre Giuseppe, a capo di un'intera provincia di frati! Egli si allegrava al pensiero di tutto ci che gli sarebbe stato concesso di compiere e di soffrire in questa sua attivit missionaria. Ma di nuovo il destino intervenne, e questo intervento - poich rispondeva a uno dei lati della sua duplice natura e al TenebrosoCavernoso che era in lui - si dimostr troppo forte per l'evangelista francescano. Gi due volte l'alta politica l'aveva sfiorato, con le persone di Richelieu e della regina madre. Ora, improvvisamente, nelle ultime settimane del 1615, vi si trov in mezzo: si trov,

inopinatamente, in mezzo a una guerra civile e in posizione di negoziare un accordo. L'uccisione di Enrico Quarto aveva lasciato il governo della Francia nelle mani della vedova, cui sarebbe rimasta la reggenza fino alla maggiore et di Luigi Tredicesimo. Tutti i ritratti di Maria de' Medici ci mostrano un tipo di cameriera, grossa, carnosa, vestita con sfarzo; e gli atti del suo governo ce la mostrano ancor pi stupida se mai possibile - di quanto non sembri all'aspetto. A questa mancanza d'intelligenza si accoppiava una freddezza di temperamento quasi anormale. Le sue uniche grandi passioni furono il potere, che era incapace di esercitare, e gli ornamenti costosi, specie i gioielli, per cui indebit se stessa e il tesoro nazionale per dei milioni. Sembra che sia stata quasi insensibile all'amore materno non meno che a quello sessuale. Fu moglie frigida, vedova continente e madre trascurata e perfino senza cuore. (Il Delfino fu allevato a Saint-Germain, dove Maria assai di rado si prendeva il fastidio di andarlo a trovare. Indirettamente, peraltro, ebbe una parte decisiva nell'educazione del ragazzo, poich diede e costantemente conferm l'ordine che questi venisse battuto ogni mattina prima di colazione per le mancanze commesse il giorno precedente; consuetudine che si continu anche dopo che Luigi era divenuto re di Francia). L'unica persona per cui sembra che Maria abbia provato un certo affetto fu la sua piccola e deforme cameriera, Leonora Dati, chiamata Galigai, che le era stata compagna durante l'infanzia infelice. Questa donna fu trattata dalla sua padrona con indulgenza effettivamente idiota: il marito, Concini, avventuriero fiorentino, fu fatto primo ministro e maresciallo di Francia, mentre la Galigai dirigeva addirittura la politica del paese, nominava i ministri, i giudici, i vescovi, gli ambasciatori, i governatori di provincie (sempre dietro pagamento) e, con baratterie e rubando danaro al governo, riusc ad ammassare in pochi anni una fortuna di parecchi milioni di corone. Un governo corrotto, esercitato da avventurieri stranieri, ben difficile che possa essere popolare, e il governo di Maria de' Medici era debitamente odiato sia dai nobili sia dal popolo. Era odiato quel che pi conta - senza essere temuto, poich aggiungeva alla corruzione la debolezza e l'inefficienza. Le guerre civili del tardo Cinquecento avevano restituito ai grandi feudatari francesi buona parte di quel potere, di quella quasi-autonomia, di cui avevano goduto nel medioevo, prima che si affermasse la monarchia assoluta. Forte della fedelt e dell'approvazione del Terzo Stato, Enrico Quarto aveva ridotto i nobili all'obbedienza; ora, la reggenza, con la sua inettitudine e la sua corruzione, li invitava a riaffermare la loro indipendenza dalla corona. La politica consueta di Maria de' Medici, quando i nobili si ribellavano, era di comprarli con enormi doni in danaro, in terre e in privilegi. I nobili accettavano, giuravano fedelt e dopo qualche mese ricominciavano da capo. Era naturalmente il Terzo Stato a soffrire per questi disordini e a pagarne le spese. Ma nonostante questo, nonostante l'universale avversione suscitata dai favoriti italiani della Regina Madre, il popolo rimaneva indefettibilmente fedele alla corona: sia per una ragionata convinzione che la corona l'avrebbe protetto contro le intollerabili tirannie dei signorotti locali, laici ed ecclesiastici, sia per sentimento tradizionale. Nella Francia del secolo decimosettimo, il diritto divino dei re era un fatto di psicologia di massa. Il popolo non poteva vedere il clero e la nobilt non solo perch l'opprimevano, ma anche perch non avevano il dovuto rispetto per il re. "O noblesse, o clerg, les ains de la France, puisque l'honneur du roi si mal vous maintenez puisque le tiers tata en ce point vous devance, il faut que vos cadets deviennent vos ains." Cos scriveva un poeta popolare di questo periodo, e nel 1614, e alla

riunione degli Stati Generali (l'ultima, prima del 1789) il Terzo Stato avanz una mozione nel senso ch non c' potere, spirituale o temporale, che abbia alcun diritto sopra il regno. Era una dichiarazione di monarchismo rivoluzionario diretto contro i nobili e contro la gerarchia di Roma. Nel 1615 i feudatari si mossero di nuovo. Il principe di Cond, i duchi di Bouillon, di Longueville, di Mayenne e di Nevers tutti governatori di provincie e capi di eserciti privati insorsero contro il governo centrale. Il vero motivo della ribellione era il solito: accrescere il potere e la ricchezza della nobilt a spese della corona. Il motivo dichiarato particolare alquanto ironico - era il sostenere il Terzo Stato nella sua affermazione del diritto divino del re a governare senza interferenze; e ci, naturalmente, non perch il Cond, capo della ribellione, s'interessasse minimamente delle classi pi basse, o desiderasse di veder rafforzato il potere regio. Egli sottoscrisse la mozione del Terzo Stato, perch tale gesto poteva guadagnargli l'appoggio del popolo in generale e dei protestanti in particolare. Questi ultimi approvarono la mozione per la stessa ragione per cui Maria de' Medici la disapprovava: perch era antipapale. Cond sperava di servirsi del pregiudizio religioso per sostenere la richiesta di danaro e di potere da parte sua e dei suoi amici. La ribellione cominci nel tardo autunno del 1615. I ribelli raccolsero un esercito, il governo raccolse un esercito. Sembrava che vi dovesse essere effettivamente una guerra, quando, d'improvviso, padre Giuseppe fece la sua apparizione. Era, quello, il peggior inverno che si ricordasse a memoria d'uomo e un'epidemia di qualcosa di simile all'influenza stava mietendo vittime a migliaia in ogni citt e in ogni villaggio; ma il Provinciale della Turenna compiva i suoi giri d'ispezione come al solito. A Loudon si trov tutto a un tratto nel cuore stesso della rivolta. Far da paciere, era uno dei doveri dei cappuccini. Senza aspettare istruzioni dai superiori, padre Giuseppe decise senz'altro di presentarsi al Cond. Non gli fu difficile ottenere udienza dal principe. Come Provinciale egli era persona di qualche autorit, a parte il fatto che il suo fratello minore, Carlo du Tremblay, si trovava al seguito del Cond. Fu ricevuto, parl con il principe, ebbe lunghe discussioni con il consiglio riunito dei feudatari. Parlando con l'autorit di un uomo di Dio e con l'appassionata eloquenza di un predicatore nato, egli li scongiur di risparmiare al paese gli orrori della guerra civile e di tornare all'obbedienza verso il re. I feudatari sollevarono le loro obiezioni, misero avanti le loro ragioni, sciorinarono le loro lagnanze. Di colpo, il predicatore cedette il posto al diplomatico, Ezechiele a Tenebroso-Cavernoso. Con abilit affascinante e quel perfetto modo di fare che aveva appreso all'Accademia di Pulvinel, egli ragion con loro, li adul, a volte anche si permise qualche uscita estremamente franca, quale pu essere permessa a un gentiluomo quando parla tra eguali. Quindi, di colpo, cambiava tono di nuovo e di nuovo era il frate visionario, cui l'abito consentiva di denunciare le colpe anche nei gradi pi elevati e di ammonire perfino i principi delle fatali conseguenze del mal operare in questo mondo e in quell'altro. Questo doveva essere, in tutto il corso della sua carriera, il sistema seguito da padre Giuseppe nel condurre i negoziati. Riunendo in s i caratteri stranamente assortiti di Metternich e di Savonarola, egli portava nel gioco della diplomazia un doppio numero di "trumps". Non si deve credere che egli agisse in questi casi con intenzionale insincerit e che regolasse coscientemente l'alternarsi delle due personalit. No, egli era di fatto a un tempo Ezechiele e Tenebroso-Cavernoso, ed era realmente convinto che gli scopi politici perseguiti con tanta abilit da quest'ultimo erano in accordo con la volont di Dio, non meno della predicazione e dell'insegnamento che costituivano l'attivit propria del primo. Dopo aver passato una settimana con gli insorti, padre Giuseppe

ottenne l'autorizzazione di presentare il loro caso alla regina madre e ai suoi consiglieri, che si trovavano con il loro esercito a Tours. Cos fece e, dietro consiglio del nunzio pontificio, fu nominato da Maria de' Medici agente ufficioso per negoziare le condizioni di un accordo. A Tours padre Giuseppe riallacci la sua amicizia con il vescovo di Lucon. Richelieu era entrato nella vita pubblica l'anno precedente, come rappresentante del clero agli Stati Generali; s'era ingraziato la regina madre con un discorso pieno dell'adulazione pi sfacciata; aveva fatto la corte al Concini e alla Galigai; e ne era stato ricompensato con l'ufficio di elemosiniere della regina fanciulla, Anna d'Austria. Si aggirava ora intorno alla corte, cercando avidamente l'occasione di afferrare anche soltanto un po' di quel potere politico cui gli sembrava che le sue straordinarie qualit gli dessero diritto. Ogni volta che veniva a conoscenza dei viaggi del frate, faceva in modo di passare per la medesima strada con la sua carrozza. Per un duca o anche per un principe del sangue, padre Giuseppe non sarebbe venuto meno alla regola che gli proibiva di andare a cavallo o in carrozza. Ma Richelieu era un vescovo e bisognava ubbidirgli. Un suo ordine valeva come temporanea dispensa dalla prescrizione di viaggiare a piedi. E quando i lacch saltavano gi dalla carrozza e gli aprivano lo sportello, egli vi saliva con la coscienza tranquilla, sapendo di non far niente che non fosse, dal punto di vista ecclesiastico, perfettamente regolare. Seduti fianco a fianco nella vettura, i due religiosi parlavano a lungo e confidenzialmente: della ribellione in corso, della debolezza del governo, delle condizioni del paese in generale, dei minacciosi progetti della Spagna, dei torbidi che si preparavano in Germania, della triste situazione di Roma, stretta tra i suoi nemici dichiarati, i protestanti, e i suoi amici ancor pi pericolosi e sinistri, gli Asburgo. Sulla maggior parte dei problemi il frate e il vescovo si trovavano pienamente d'accordo. Entrambi erano convinti che la Francia avesse un estremo bisogno di un governo centrale forte; che il potere dei nobili e degli ugonotti doveva essere infranto e il re divenire unico padrone del reame. Entrambi desideravano vedere la chiesa gallicana riformata e portata a nuova vita. Entrambi erano convinti che la Francia era uno strumento della provvidenza e che il paese doveva esser reso potente s da poter assolvere, negli affari della Cristianit, quella funzione di guida cui era indiscutibilmente chiamata da Dio. Ma mentre Richelieu riteneva che la politica propria di questa Francia pi potente dovesse essere in modo specifico antispagnola e antiaustriaca, padre Giuseppe al contrario pensava a una collaborazione tra le grandi potenze cattoliche contro gli eretici. Primi tra eguali, i Borboni dovevano operare insieme con i due rami degli Asburgo per ricostituire una cristianit unita. E a questo punto il suo tono mutava: Tenebroso-Cavernoso cedeva il posto a Ezechiele. Richelieu ascoltava; poi, quando i tuoni profetici si erano placati, si limitava a far osservare con calma che, mentre ogni buon cristiano desiderava naturalmente di vedere la Cristianit pi unita, rimaneva il fatto che per pi di trecento anni la Spagna e l'Austria avevano cercato di dominare l'Europa. La Francia era chiusa tra i loro territori. Eserciti spagnoli si trovavano in ogni lato dei suoi confini; il naviglio spagnolo andava e veniva da Biscaglia ai Paesi Bassi. Prima o poi, sarebbe stato necessario dare una lezione a quegli Asburgo. Ma l'integrit della Chiesa protestava il frate, la veste inconsutile... Tessuta a Madrid interrompeva seccamente il vescovo, e trapunta a Vienna. E su questo tono la discussione continuava. Nonostante le divergenze in materia di politica estera, padre Giuseppe provava una sempre crescente ammirazione per il giovane vescovo. Tra tutti gli esseri corrotti, interessati e totalmente inetti che gravitavano, sia come amici sia come nemici, intorno al giovane re e a quella sciocca

vanesia della regina madre, Richelieu gli sembrava la sola persona capace di dare alla Francia quelle cose di cui il paese aveva tanto bisogno: la pace all'interno, un governo forte, la riforma degli abusi. Quanto pi rifletteva alle dolorose condizioni in cui si trovava il reame, tanto pi si convinceva che il vescovo di Luon era l'uomo che Dio aveva prescelto come suo strumento. Padre Giuseppe decise pertanto di fare quanto era in lui per aiutare l'amico ad assolvere il compito cui era evidentemente chiamato dal destino. Ogni volta che andava a Tours trovava il modo di esaltare alla regina madre le capacit del Richelieu. Pi tardi, partito il cappuccino per l'Italia, Maria de' Medici ne segu il consiglio e incaric il vescovo di Luon di continuare e di portare a compimento l'opera di pacificazione iniziata da padre Giuseppe a Loudun. Nei negoziati che portarono alla pace di Loudun padre Giuseppe spieg in pieno i suoi eccezionali talenti politici. Il suo principale oppositore nella schermaglia diplomatica fu un protestante, il duca di Bouillon, uomo di tale forza e di tale abilit che fu in seguito capace di mantenersi per anni in posizione di quasi completa indipendenza politica contro Richelieu. Alla fine dei negoziati, Bouillon tribut al frate un omaggio di cui ogni uomo politico potrebbe essere orgoglioso. Quest'uomo disse Bouillon, penetra i miei pensieri pi segreti; conosce cose che ho comunicato solo a pochissime persone di sicura fede; e va a Tours e ritorna, a piedi, con la pioggia, con la neve e con il ghiaccio, col tempo pi spaventoso, senza che nessuno se ne accorga. Giurerei che questo frate ha il diavolo in corpo. Il trattato fu finalmente conchiuso in seguito a un decisivo intervento di Ezechiele. Cond si ammal di influenza e per un giorno o due sembr che stesse proprio per morire. Padre Giuseppe approfitt di quel momento per mostrargli, nel modo pi solenne, i pericoli cui avrebbe esposto la sua anima se fosse morto lasciando il paese in preda alla guerra civile. Il principe ne fu cos spaventato che sebbene guarisse e dovesse ancora per molti anni essere un fastidio pubblico - fece pace in tutta fretta con la regina madre, seguendo l'ammonimento del frate. Il trattato di Loudun non risolse nulla: i feudatari infatti dovevano ancora ribellarsi varie volte prima di essere finalmente domati da Richelieu. Esso ebbe un valore decisivo solo per padre Giuseppe. I negoziati con il Cond e con Bouillon avevano rivelato le sue capacit di esperto politico. Da quel momento non gli sarebbe stato permesso di dedicarsi esclusivamente alla vita del missionario e del mistico. Anche se Richelieu non fosse salito al potere, padre Giuseppe avrebbe avuto una parte, sia pure secondaria, nella vita politica del suo tempo. A Loudun il destino lo aveva trascinato in una posizione da cui egli difficilmente avrebbe potuto ritrarsi, anche se l'avesse voluto. E sebbene a volte volesse di fatto ritrarsene, sebbene negli anni successivi egli dichiarasse spesso che la vita politica era come un inferno in terra, c'era pur sempre in lui il Tenebroso-Cavernoso che godeva del gioco in cui era cos abile, c'era sempre l'ardente patriota convinto che i propositi di Dio e quelli del governo francese fossero in sostanza identici. Tra i nobili riuniti a Loudun ce n'era uno, il duca di Nevers, con cui padre Giuseppe ebbe molte e lunghe conversazioni private. L'importanza storica di questo personaggio non era in alcun modo dovuta alle sue capacit naturali. Come il Zimri di Dryden era un uomo che "Ostinato nelle sue idee, sempre nel torto, si buttava in ogni impresa e non durava in nessuna." N la rassomiglianza si fermava a questo punto. Era vanesio al pari di Buckingham, e del pari stravagante e ostentatore e del tutto immeritevole di fiducia. Forse la cosa pi notevole in lui quella attestata con giuramento da uno dei suoi servitori: Che sempre dormiva con gli occhi aperti e da quegli occhi aperti emanava una luce

cos paurosa che lui (il servitore) n'era spesso spaventato e non ci si era mai potuto abituare. La ragione della particolare importanza che il Duca aveva per i suoi contemporanei va ricercata nel suo albero genealogico. Per educazione e per titolo nobiliare era francese; per nascita e per sangue, italiano, greco e tedesco. Sua madre era una principessa della casa di Clves; la nonna paterna apparteneva alla famiglia imperiale dei Paleologi; e suo padre era un Gonzaga. (In una lettera alla regina madre, Nevers scrisse una volta, con pi verit che tatto, che "era ben noto che i Gonzaga erano stati principi molto tempo prima che i Medici fossero appena gentiluomini"). Come Gonzaga egli poteva aspirare, nel caso che fosse venuta a mancare la discendenza diretta, a uno degli Stati italiani pi importanti. Alcuni anni pi tardi, la questione della sua successione al ducato di Mantova doveva provocare una guerra tra la Francia e la Spagna, e si sarebbe richiesta la pi astuta diplomazia di padre Giuseppe per sistemare la faccenda. Per il momento, peraltro, il duca suscit l'interessamento di padre Giuseppe non come Gonzaga ma come Paleologo. I sultani avevano governato Costantinopoli per pi di centocinquanta anni, ma tra i greci conquistati e oppressi era ancora assai vivo il ricordo della libert politica e dei loro ultimi imperatori. Il duca di Nevers era un discendente di quegli imperatori e a lui di conseguenza il popolo della Morea aveva di recente inviato una delegazione supplicandolo di mettersi a capo di una progettata rivolta dei cristiani contro i dominatori turchi. Il duca doveva portare alla rivolta il suo nome e delle armi; i greci promettevano di fare il resto. Nevers, che era assetato di gloria e teneva assai alla sua eminenza ereditaria, ne fu grandemente tentato; ma, sebbene sciocco e impulsivo, ebbe almeno il buon senso di capire che l'impero ottomano non poteva essere rovesciato da un esercito indisciplinato di montanari greci, anche se comandati da un Paleologo. Perch la rivolta avesse buon esito, bisognava che fosse appoggiata da una spedizione militare e navale approntata dalle grandi potenze dell'Europa occidentale. Ma le grandi potenze avrebbero acconsentito a impiegare le loro forze in quel modo? Questo era il problema; e questo era l'argomento di quelle lunghe conversazioni private tra il duca e padre Giuseppe. In un'et in cui non c'erano i romanzi polizieschi ne quelli delle avventure del West, la lettura pi eccitante per un ragazzo di fervida immaginazione era probabilmente data dalle cronache delle Crociate. Gli infedeli erano agli occhi di un ragazzo del tempo di Francesco du Tremblay, quel che i pellirosse hanno rappresentato per una pi recente generazione di scolari. I pi, divenuti adulti, dimenticavano allora gli infedeli, come oggi dimenticano gli indiani. Non per Francesco du Tremblay. Entrando nel chiostro, egli si era trovato in un mondo in cui gli infedeli formavano un argomento costante di conversazione e perfino di preghiera. San Francesco si era preoccupato molto delle missioni, del martirio, della liberazione dei Luoghi Santi. Questa preoccupazione era divenuta una tradizione per i suoi seguaci. Tutti i francescani, inclusi naturalmente i cappuccini, prendevano una specie d'interesse professionale nel predicar le crociate. A questo interesse professionale padre Giuseppe aggiungeva il suo personale entusiasmo. Fin dall'infanzia il Calvario era stato la dimora della sua immaginazione. I Luoghi Sacri gli erano non meno cari della terra natia. Liberarli era una questione di patriottismo spirituale. Muovendo dalle sofferenze di Cristo, come premessa, la logica del sentimento e dell'immaginazione portava a concludere che la crociata contro i turchi era uno dei pi importanti doveri dei cristiani. Le meditazioni di padre Giuseppe su questo tema si erano spesso concretate in visioni e in voci: Dio gli aveva comandato di lavorare per la crociata, sembrava che gli avesse in forma oscura promesso il successo. E ora, improvvisamente, per opera della Provvidenza, ecco qui l'ultimo dei Paleologi; e i greci lo avevano supplicato di venire a condurli contro gli infedeli. Era una nuova vocazione, questa, un richiamo a compiti ancor pi alti e gloriosi che

il predicare agli indifferenti e agli sviati. Ezechiele s'infiamm di entusiasmo; e, simultaneamente, Tenebroso-Cavernoso studi la situazione politica e trov che il momento era particolarmente favorevole a una crociata. L'equilibrio esistente in Europa era disperatamente instabile. Gli Asburgo, come Richelieu non si stancava mai di metter in rilievo, stavano progettando in nome della Controriforma d'imporre il loro dominio diretto a la loro influenza su tutta l'Europa. Messe in allarme dalla minaccia austro-spagnola, le nazioni protestanti si stavano preparando ansiosamente alla guerra, che si riteneva sarebbe scoppiata allo spirar della tregua di dodici anni tra la Spagna e l'Olanda, nel 1621, ma che di fatto cominci nel 1618 con la ribellione della Boemia all'Imperatore. Sotto la reggenza della Regina Madre, la tradizionale politica antispagnola della Francia era stata capovolta; ma era evidente che il timore del predominio asburgico doveva prima o poi ritornare alla strategia di Francesco Primo e di Enrico Quarto. Intanto, tutti gli Stati della Germania stavano allestendo eserciti; l'enorme macchina militare della Spagna aveva raggiunto una perfezione sconosciuta dal tempo dei romani; la potenza navale olandese era in aumento; gli svedesi avevano cominciato ad applicare alla guerra metodi scientifici. L'Europa rigurgitava di soldati, pronti a muoversi al primo comando. I dileggiatori possono considerare una crociata come assurda e chimerica; ma in quel particolare momento della storia, un politico accorto poteva trovare molti argomenti a sostegno di tale idea. Riuscendo a organizzare in tempo una crociata, si sarebbe potuta evitare la guerra considerata ormai da tutti come inevitabile e si sarebbero potute riconciliare le grandi potenze nello sforzo contro un comune nemico. Il sogno di Ezechiele per una Cristianit riunita si sarebbe realizzato. Gli avvenimenti dovevano dimostrare che quel programma non era realizzabile. Ma, se ammettiamo per un momento che fosse davvero desiderabile il massacro di un gran numero di maomettani, siamo costretti a riconoscere con padre Giuseppe che, nella seconda decade del secolo decimosettimo, non c'era politica pi lungimirante di quella che voleva una grande spedizione internazionale contro i turchi. Il problema pratico immediato era di persuadere le grandi potenze ad accettare una tale politica. Richelieu, quando fu consultato al riguardo, scosse la testa ed elenc tutti gli ostacoli che si sarebbero dovuti superare. Ma gli altri non si lasciarono raffreddare nei loro entusiasmi e alla fine il vescovo acconsent a fare quanto era in lui in favore del progetto, purch il duca di Nevers, non meno di padre Giuseppe, lo sostenesse nelle sue aspirazioni politiche personali. Nessuna crociata poteva essere bandita senza l'approvazione espressa e l'incoraggiamento della Santa Sede. Pertanto, non appena ottenuti i permessi necessari e fatti i necessari preparativi, padre Giuseppe mosse, naturalmente a piedi, alla volta di Roma. Non vi si recava solo per la crociata, n il Nevers era l'unico personaggio importante che egli rappresentasse. Da parte del Cond, portava spiegazioni e scuse, nonch la richiesta di essere perdonato per la sua recente cooperazione con gli ugonotti; da parte di Maria de' Medici un messaggio di saluto; dalla signora d'Orlans un promemoria in cui si ricordava che le monache del Calvario erano ancora in attesa della bolla pontificia che doveva riconoscerle quale congregazione indipendente; e da parte dei cappuccini una richiesta di autorizzazione a organizzare missioni tra gli eretici del Poitou. Camillo Borghese, che governava Roma sotto il nome di Paolo Quinto, era un uomo di mentalit estremamente legalista, attaccato alla lettera pi che allo spirito, un pedante. Ma, sebbene in un primo tempo gli accenni del frate a visioni e rivelazioni lo rendessero alquanto sospettoso, quella "conversazione affascinante", "quell'infinita destrezza nel trattare con i nobili" non mancarono di produrre presto il loro consueto effetto. Il pontefice ne fu impressionato e finalmente convinto. Egli promise di appoggiare il progetto della crociata con tutti i mezzi di cui disponeva

l'organizzazione della Chiesa. Ma prima che si procedesse in via ufficiale - egli insist - sarebbe stato necessario che il frate facesse sondaggi presso i vari governi interessati. Padre Giuseppe lasci Roma nella primavera del 1617, portando con s la promessa definitiva di bolle pontificie per le monache del Calvario e le missioni del Poitou, e una lettera pontificia indirizzata alla Corte di Spagna, con cui gli veniva data autorit di negoziare la crociata. Il suo soggiorno a Roma era stato lungo (circa otto mesi in tutto), ma egli aveva ottenuto tutto quello per cui era venuto a Roma. Inoltre, aveva conosciuto alcuni dei pi alti dignitari della Curia Romana e aveva in tutti, per il suo zelo, per la sua integrit e per i suoi eccezionali talenti, lasciato una profonda impressione. Le settimane di Loudun l'avevano reso in Francia un uomo di cui si doveva tener conto; i mesi passati a Roma avevano fatto di lui una persona di una certa importanza nell'ambito della Chiesa. Da questo momento lo troveremo in corrispondenza con nunzi, legati, cardinali e perfino con il segretario di Stato del papa. Un altro uomo ne sarebbe stato esultante; ma padre Giuseppe era costantemente in guardia contro certi peccati di orgoglio e di vanit. Da tempo egli aveva soppresso in s ogni manifestazione esteriore di soddisfazione o di dispiacere; e senza dubbio, in notevole misura, era anche riuscito a sopprimerne le manifestazioni interne. L'unica manifestazione emotiva cui indulse, mentre si affrettava al nord attraverso l'Umbria e la Toscana, fu di comporre versi. Sotto lo stimolo dell'esaltazione repressa, la sua mente ribolliva di immagini poetiche. Negli intervalli tra le varie meditazioni, egli componeva e mandava a memoria uno straordinario numero di versi in francese e in latino. Nella lingua morta egli cominci e port quasi a termine alla sorprendente media di duecento versi al giorno, un lungo poema epico sui turchi e i crociati. In francese, egli espresse i suoi sentimenti in una serie di liriche religiose, una delle quali - lunga rapsodia sulla primavera come simbolo della vita eterna - contiene queste strofe veramente deliziose sull'usignolo: "En mille tours il faonne de sa voix les longs replis: ainsi tout le ciel rsonne de mille choeurs accomplis. Aisment l'on ne peut dire de ce long chant nuit et jour, s'il meurt, s'il pme, ou soupire de tourment, d'aise ou d'amour. Quand par les champs je m'gaye, en quelque air dvotieux, ce chantre jaloux s'essaye d'lever sa voix aux cieux. Mais en plus pleine musique la violente douceur de l'harmonie anglique rpond aux voix de mon coeur: Ces oisillons qui rassemblent en un leurs accents divers aux motets des Saints ressemblent unis en tout l'univers." Componendo versi, pregando, cantando inni a gara con gli innumerevoli usignoli della primavera italiana, padre Giuseppe entr a Torino. Qui divenne di nuovo diplomatico. L'eloquenza profetica, la conversazione affascinante, l'infinita destrezza nel trattare con i nobili: tutto fu messo in opera; ma senza molto successo. Carlo Emanuele di Savoia si

trovava in guerra con la Spagna e non era in grado di pensare a crociate contro i turchi. Dopo qualche settimana, padre Giuseppe riprese la strada, travers le Alpi e a marce forzate giunse a Parigi ai primi di giugno. Durante quei dodici mesi di assenza, molte cose erano accadute nell'alto mondo politico in cui il destino stava lentamente ma decisamente trascinando padre Giuseppe. Nell'autunno del 1616 Richelieu era stato fatto membro del Consiglio di Stato e nominato ministro della guerra e degli affari esteri: sembrava che ora dovesse avere in pugno quel potere supremo, cui aveva costantemente aspirato fin dalla giovinezza e che aveva perseguito con modi cos obliqui e spesso cos degradanti; quando improvvisamente, il sistema di educazione adottato dalla regina madre port i suoi frutti, e questi frutti furono terribili. Il ragazzo che era stato fustigato ogni mattina, era ora legalmente, e non solo di nome, re di Francia; ma la madre continuava a trattarlo come un bambino e a mantenere tutto il potere nelle proprie mani e in quelle del Concini. Per forza d'inerzia, per apatia e per diffidenza, Luigi Tredicesimo si era fino ad allora silenziosamente piegato a quello stato di cose. Infine, tutt'a un tratto, si rivendic del lungo abbandono in cui l'aveva lasciato la madre e di tutte quelle migliaia di frustate impartite metodicamente e a mente fredda. Diede ordine al capitano della guardia di arrestare il Concini, aggiungendo che, se avesse fatto resistenza, erano autorizzati anche ad ucciderlo. Si trattava, in effetto, di una condanna a morte. Concini fu ucciso mentre entrava al Louvre e poche ore dopo il cadavere nudo e mutilato pendeva attaccato per i piedi alla forca di Pont Neuf, e la folla gli danzava intorno con grida di gioia bestiale. Il giorno dopo la folla era ancora cos fitta che la carrozza di Richelieu giunta in vicinanza del ponte dov sostare vari minuti e il futuro cardinale ebbe, cos, ampio modo di osservare quale la fine dei ministri poco popolari quando perdono il favore del re. La morale di quel disgustoso spettacolo era per lui ben chiara: Se mai arrivi a impadronirti del potere politico gli diceva quella povera carcassa mutilata e sventrata, guarda bene di non perderlo. Per i diciotto anni in cui fu al potere, Richelieu non cess mai di tener ben presente quel precetto in tutte le sue azioni. Intanto, manco a dirlo, il gioco era finito, almeno per il momento. Non essendo ancora abbastanza importante per subire la sorte del Concini, il vescovo di Luon segu la regina madre nell'esilio. Per i quattro anni successivi, il paese fu governato da Luynes, gentiluomo di campagna di mezz'et, la cui abilit nella caccia col falcone gli aveva conquistato al massimo grado l'affetto e l'ammirazione del giovane Luigi. Padre Giuseppe rimase fedele al suo amico esiliato e attese pazientemente l'occasione per riportarlo al potere. Per il momento, comunque, non c'era alcuna speranza per il vescovo di Luon. Era odiato e temuto da Luynes per la sua abilit ed era malvisto da Luigi come creatura dell'ignobile favorito della madre. Padre Giuseppe rimand la cosa a suo tempo e continu a lavorare al grande progetto della crociata. Dalle relazioni che gli mandava Nevers, in visita per le varie corti della Germania, e da quanto gli riferivano i suoi numerosi corrispondenti ecclesiastici, egli apprese che il progetto era accolto con una certa approvazione da tutti, fuorch dagli Spagnoli. Decise pertanto che era giunto il momento di servirsi della sua lettera pontificia a Filippo Terzo. Il Procuratore dell'ordine dei cappuccini gli aveva dato licenza di viaggiare quanto gli piacesse, e nella primavera del 1618 - pochi giorni dopo che Richelieu era stato separato dalla regina madre e mandato in pi remoto esilio ad Avignone - si mise in viaggio con due compagni per il sud. Un fatto inaspettato venne a interrompere il viaggio a Poitiers. Pochi giorni prima dell'arrivo di padre Giuseppe era morta la sua vecchia amica e collaboratrice, Antonietta d'Orlans, lasciando cos senza capo la Congregazione del Calvario, da poco riconosciuta ufficialmente. Mentre padre Giuseppe si tratteneva a Poitiers a sistemare le aggrovigliate faccende delle monache del Calvario, gli giunse una strana notizia: i

rappresentanti dell'imperatore in Boemia erano stati gettati da una finestra del terzo piano del palazzo di Praga. La guerra da lungo tempo prevista era cominciata; la guerra destinata - sebbene nessuno allora avrebbe potuto neppure immaginarlo - a durare trent'anni. Non appena eletta la nuova badessa e consolidatane in modo sicuro l'autorit, padre Giuseppe si affrett alla volta di Madrid, con un tale ritmo di marcia in quella torrida stagione estiva, che entrambi i suoi compagni ne ammalarono e morirono prima di arrivare alla fine del viaggio. Di costituzione pi robusta e sostenuto da uno spirito indomabile e da una pi costante pratica della presenza divina, padre Giuseppe raggiunse la sua meta e subito si diede a trattare con il duca di Lerma e con il suo regale padrone. L'accoglienza accordata al rappresentante del papa fu cortese e cordiale al massimo grado; l'idea della crociata fu definita eminentemente cattolica e meritoria. Ma quando si venne a trattare dei modi con cui questa pia approvazione di principio poteva tradursi in un'attiva cooperazione diplomatica militare e navale con la Francia, padre Giuseppe s'accorse d'aver a che fare non con dei figli ubbidienti della Chiesa, ma con dei nazionalisti spagnoli. Contemporaneamente, ovvio, gli spagnoli fecero la stessa scoperta nei riguardi di padre Giuseppe. L'aver una trave nell'occhio pu di fatto rendere pi perspicaci nel distinguere simili travi negli occhi degli altri. A Lerma e al suo padrone apparve ben evidente che il frate, pur credendo sinceramente che la crociata sarebbe stata un'impresa cara a Dio, era non meno convinto che la Francia dovesse guidarla e derivarne i maggiori benefici. Padre Giuseppe tent anche di dare un fondo razionale a questa sua credenza facendo ricorso alla storia: la Francia aveva avuto parte principale nelle precedenti crociate, ed era evidente volere della Provvidenza che cos fosse. Se non si fosse data alla Francia la parte principale nella nuova crociata, si sarebbe venuti meno alla tradizione storica e fatta un'offesa alla volont di Dio. La Francia, di conseguenza, doveva essere alla testa dell'impresa. Questa sembrava, a un francese, un'argomentazione inoppugnabile; disgraziatamente, suonava assai meno convincente per gli spagnoli. Essi erano certi che una crociata, quale l'aveva progettata padre Giuseppe, avrebbe rafforzato la Francia a spese della Spagna. L'esperienza aveva insegnato loro che il vecchio motto delle crociate, Gesta Dei per Francos, poteva troppo facilmente essere trasformato di fatto in Gesta Francorum, gesta Dei, e sospettavano che una trasformazione di questo genere si fosse gi verificata sotto la nuca chiericuta di padre Giuseppe. Dopo quattro mesi di negoziati attivissimi e perfettamente inconcludenti, il frate dov tornarsene a casa portando seco nient'altro che promesse vaghissime ed espressioni impegnative di buona volont. La freddezza degli spagnoli e i rigori dell'inverno sulle "sierras" non valsero a gelare l'entusiasmo di padre Giuseppe. Durante il viaggio di ritorno egli compose una lunga rapsodia lirica sulla liberazione dei greci dal giogo turco. Due strofe di questo componimento sono particolarmente significative. "Si pour te soulanger" scrive il frate apostrofando la Grecia, "Si pour te soulanger, l'univers je tournoie, c'est trop peu pour mes voeux; dans une mer de sang il faut que je me noie pour teindre mes feux." In altre parole, lo zelo di padre Giuseppe per la crociata era troppo bruciante per essere estinto se non da un mare di sangue. Pochi politici idealisti hanno parlato cos aspramente delle conseguenze del loro idealismo. La ragione pu essere che pochi politici idealisti hanno passato met della loro vita meditando sulla tortura e sulla morte dell'uomo-dio, a confronto delle quali le sofferenze dei comuni esseri umani sono cos infinitesimali da divenire addirittura trascurabili. E quando si fosse sparso quel lago di sangue, cosa sarebbe accaduto? La maggior parte dei politici idealisti non ha alcun

dubbio in materia: eliminate le persone che non la pensano come voi, e avrete l'Utopia. Di nuovo padre Giuseppe stranamente libero da illusioni e stranamente franco su questa sua libert: "J'ignore o mon dessein, qui surpasse ma vue, si vite me conduit; mais comme un astre ardent qui brille dans la nue, il me guide en la nuit." I risultati di qualsiasi piano d'azione sono sempre sconosciuti e inconoscibili: il piano dev'essere perseguito per se stesso e come fine a se stesso. Questa la verit nuda circa la politica; ma ben pochi politici hanno mai avuto la perspicacia di vederla, o il coraggio, se l'hanno vista, di proclamarla. La crociata contro i turchi rimase una delle principali preoccupazioni di padre Giuseppe, per tutta la sua vita. E' vero che nel 1625 fu costretto ad ammettere che qualsiasi piano per una crociata internazionale doveva essere abbandonato, almeno per molti anni ancora. Le ragioni di questo abbandono erano l'agitata situazione europea e la persistente opposizione delle due branche degli Asburgo. Quest'opposizione alla crociata trasform l'originaria politica filospagnola di padre Giuseppe in un'avversione intensa e ben radicata per "il nemico ereditario". Al principio della guerra dei Trent'Anni, egli era incondizionatamente dalla parte dell'imperatore contro l'Elettore Palatino e i protestanti. A proposito della vittoria imperiale della Montagna Bianca, egli scrisse con entusiasmo nel 1620: "Satana ha perduto uno dei suoi corni, e Ges, espulso da quelle regioni, sar riportato in Boemia". Pochi anni dopo, peraltro, egli faceva quanto era in suo potere per far crescere di nuovo il corno di Satana. Perch? Perch il trionfo degli Asburgo sarebbe stato un pericolo per la Francia e un ostacolo al bandire, sotto gli auspici della Francia, una grande crociata contro gli infedeli. Cattolico ardentissimo, egli giunse a credere che l'Austria cattolica e la Spagna cattolica fossero una minaccia per i veri interessi del cattolicesimo. Opinione, questa, non del tutto eterodossa, giacch era condivisa niente di meno che dal papa. Il papa, come principe italiano, aveva ottime ragioni per temere la casa degli Asburgo. Una vittoria schiacciante in Germania avrebbe reso l'imperatore e il re di Spagna padroni indiscussi della penisola. Di ritorno da Madrid, padre Giuseppe continu a lavorare con inalterato ardore per la crociata. Sotto mano, egli aiut il duca di Nevers a organizzare un nuovo ordine cavalleresco, che doveva essere il nucleo del progettato esercito internazionale. Questa Milizia cristiana - come fu chiamata - doveva raccogliere i suoi cavalieri e i suoi comandanti in ogni parte d'Europa: ogni aderente doveva fare il giuramento di crociato e dare al fondo comune per la guerra un contributo in denaro proporzionato al suo grado e alle sue ricchezze. La Milizia cristiana fece quel che ci si poteva aspettare da un'organizzazione del genere in quelle circostanze: molti nobili e molti gentiluomini vi s'iscrissero; si ebbero promesse per una considerevole somma di denaro; e questioni di comando e di prestigio provocarono un buon numero di risentimenti e portarono a interminabili dispute. La Milizia ricevette il suo primo grave colpo quando Filippo Quarto di Spagna non permise che si stabilisse in alcuno dei suoi territori. Infine, come la guerra venne ad assorbire le migliori energie d'Europa, l'ordine perse rapidamente ogni ragion d'essere. Nel 1625, quando padre Giuseppe ne ottenne il riconoscimento ufficiale da parte di papa Urbano Ottavo, la Milizia cristiana era, almeno per ogni fine pratico, morta ormai e sepolta. Gli sforzi del Nevers per la guerra non si limitarono all'organizzazione di un ordine cavalleresco. Egli raccolse truppe nei suoi possedimenti e fece costruire un certo numero di belle navi per trasportare quelle truppe in Grecia. Al comando della piccola flotta chiam un ben noto pirata normanno, che si era specializzato nel

Mediterraneo e aveva una conoscenza senza pari delle acque del Levante. Padre Giuseppe fece quanto pot per aiutare il potenziale imperatore di Bisanzio in questi preparativi, nessuno dei quali, peraltro, port alcun frutto. Le truppe si dissolsero, le navi furono catturate da una squadra protestante mossa da La Rochelle, il pirata torn alla sua attivit piratesca, e infine il duca di Nevers si annoi della crociata e cominci a pensare ad altre cose: "Benedetto pazzo, che poteva dedicare ogni ora a qualche nuovo desiderio, o a spassarsela!" Rimase soltanto padre Giuseppe, voce clamante nel deserto; e anche quella voce doveva cambiar presto motivo e gridare non pi per la distruzione dei turchi ma per l'umiliazione degli Asburgo. Ma prima di abbandonare (con quanta riluttanza!) la sua politica per la crociata, padre Giuseppe diede un ultimo e pi straordinario contributo alla causa. Nel 1617, tornando da Roma, aveva cominciato la composizione della sua "Turchiade". Trentacinque miglia, tre ore di meditazione e duecento esametri: tale fu l'arduo programma giornaliero di quel viaggio. Negli anni seguenti, e sulle strade di Francia e di Spagna, egli complet e lim la sua opera. Nel 1625 il poema epico, di quattromilaseicentotrentasette versi, era finito. Quell'anno ne port con s a Roma le due copie stampate che costituirono, almeno per quanto si potuto scoprire, la prima e unica edizione dell'opera. Una copia era per Urbano Ottavo, l'altra per il cardinale Barberini, nipote del Pontefice e segretario di Stato. Appassionato dei classici e autore egli stesso di eleganti composizioni poetiche, nonch di brevi e di bolle di sincero sapore ciceroniano, Urbano Ottavo si dilett molto del poema, e lo defin "l'Eneide cristiana". L'abate Dedouvres, che, poco pi di quarant'anni fa, scopr l'unica copia rimasta della "Turchiade", non se la sente di sottoscrivere in pieno, da coscienzioso latinista, il giudizio del pontefice. Padre Giuseppe egli ha dovuto riconoscere - incline a fare deplorevoli confusioni di modi dopo i verbi dichiarativi e nelle interrogazioni indirette. Al tempo stesso, la congiunzione copulativa troppo di frequente separata dalla negazione. Quanto alla prosodia, vi sono troppe elisioni di monosillabi e il persistere della sillaba breve in non meno di quarantaquattro sigmatismi. N il poema immune da pecche in fatto di scansione: infatti, "concidit" viene considerato dattilo, mentre in realt un cretico; peggio ancora, "inscitiam", che ovviamente un epitrito terzo, viene impiegato come coriambo. Colpe gravi! Ma coloro che sono senza peccato in fatto di false quantit lancino la prima pietra. La singolare materia del poema epico di padre Giuseppe di maggior interesse che non la forma linguistica. La "Turchiade" una di quelle opere in virt delle quali la mera realt dei fatti sempre molto pi strana che non il pi romantico dei romanzi. Un romanziere avrebbe forse potuto inventare un personaggio che fosse al tempo stesso un attivo sostenitore della politica di forza e un mistico attivo. Ma inventare un personaggio che, oltre a essere contemporaneamente un attivo sostenitore della politica di forza e un mistico attivo, avesse composto i quattromilaseicentotrentasette esametri della "Turchiade", qualcosa che supera i poteri di qualsiasi scrittore, per quanto possa esser dotato d'immaginazione. Ogni essere umano un frammento individuale della storia, unico e che non pu ripetersi; ma tali frammenti per la maggior parte rientrano in un certo numero di categorie familiari e ben riconoscibili. Questo non si verifica con gli individui d'eccezione; essi costituiscono dei fenomeni quanto mai impensabili, quali solo la vita pu creare; poich soltanto la vita possiede le risorse e la pazienza per continuare a giocare con le lotterie dell'ereditariet e dell'ambiente finch si verifica una serie delle pi stravaganti combinazioni, e viene fuori un individuo d'eccezione. E' per questo che la verit tanto pi strana, ricca e interessante della creazione letteraria.

La "Turchiade" si apre con la descrizione di un consiglio generale degli angeli convocato dalla Seconda Persona della Trinit. Parlando al suo uditorio, Cristo manifesta la sua angoscia per la supremazia dei maomettani nel Vicino e nel Medio Oriente ed esorta le potenze celesti a far qualcosa in proposito. Anche la Vergine, si dice, sarebbe felice di partecipare a una crociata, se ci fosse consono alla sua posizione. Dopo questo preambolo, I'oratore procede a dare un resoconto della vita di Maometto, assai pi pittoresco che storico. Vicino alla Mecca - dice agli ascoltatori - c' una caverna con un camino che va a finire direttamente all'inferno. Un giorno il giovane Maometto riusc a penetrare in questa caverna e fu cortesemente accolto da Lucifero e istruito nelle arti del male. Istruzione facile ad impartirsi, giacch intorno al camino c' una serie di gallerie organizzate dai diavoli come una specie di museo del Male. In esse vi si trova una serie di oggetti interessanti, come il dente del serpente che tent Eva, la clava di Caino, la prima arma di ferro inventata da Tubal-Caino; gli emblemi di Venere e di Bacco; tutto l'armamentario delle stregonerie e delle arti magiche; il materiale illustrativo di tutte le eresie da Ario fino a Calvino; e infine tutte le armi, gi preparate per le evenienze future, da impiegare nelle campagne dell'Anticristo. Debitamente illuminato dalla visita a questa camera degli orrori, Maometto fu mandato a casa a scrivere il Corano e a preparare la conquista dei Luoghi Sacri. Ottenuto l'appoggio delle gerarchie celesti per una crociata, Cristo si d ad agire sui principi d'Europa, e soprattutto su Luigi Tredicesimo e su Filippo Quarto di Spagna. Servendosi di sogni, egli spiega loro perch una guerra santa sia cos urgente e necessaria. A questo punto, senza che vi sia alcuna particolare ragione, l'autore del poema epico si presenta sulla scena e chiede il permesso di comunicare al pubblico ci che stato impartito ai principi. Il permesso viene concesso, ed egli s'imbarca senz'altro in una lezione teologica. Dopo aver brevemente spiegato la Santa Trinit, la creazione la caduta, il libero arbitrio, l'angiologia, la visione beatificante e la Nuova Gerusalemme, conclude - dopo qualcosa come settecentocinquanta esametri - con un'esortazione agli eventuali crociati affinch si alleino immediatamente con le forze del cielo. I successivi cinquecentosettanta versi sono dedicati al resoconto di un'altra pubblica assemblea in cielo. Questa volta l'udienza formata non da angeli, ma da santi che siedono, una fila sull'altra, in una specie di anfiteatro che porta al centro due troni d'oro. Dalla terra viene una squadra di cherubini che trasportano i principi d'Europa, i quali assistono allo spettacolo da una specie di tribuna formata dalle ali degli angeli. Ai nuovi arrivati vengono indicati, tra i nove cori dei santi, quelli che sono stati pi utili ai crociati. L'elenco si chiude con San Francesco, che padre Giuseppe, con un elegante gioco di parole, mette in rapporto con la Francia "Sibi nam cognata cohaerent, Francia, Franciscus, fatalia nomina Turcis." Improvvisamente appare di nuovo la Seconda Persona della Trinit, accompagnata dalla Vergine. Tutti si alzano e fanno atto di omaggio, mentre i due prendono posto sui troni. Nel silenzio che segue, Cristo chiama il duca di Nevers. L'arcangelo Michele solleva l'ultimo dei Paleologi dalla piattaforma di ali d'angelo ove sta seduto, scende sull'arena e lo depone, pi morto che vivo per la paura, ai piedi dei due troni. Dopo che la Vergine ha rassicurato il duca con qualche buona parola, Cristo lo arringa a lungo, ricordandogli le origini imperiali e i doveri che con esse gli incombono, e ricordandogli anche le sue colpe e la necessit per un crociato di essere un uomo di condotta esemplare. Profondamente commosso, Nevers fa voto di dedicare tutta la vita alla crociata contro i turchi. Dopo di che la Vergine lo investe delle insegne della Milizia cristiana. La cerimonia si chiude con una lunga processione di tutti gli eroi che hanno combattuto per

il Signore contro i suoi nemici. Mos e Giosu aprono il corteo, che si svolge in ordine cronologico da Goffredo di Buglione a don Giovanni d'Austria e agli eroi di Lepanto. Inutile dire che tutto ci offre a padre Giuseppe una occasione d'oro per tirar fuori uno di quei sonori elenchi di nomi, cos cari a tutti gli scrittori epici. Con quale gusto il pontefice deve aver pronunciato entro di s versi come "Hunneades sollers et Scanderbegius acer"! La notizia della riunione celeste giunge a Satana e lo riempie di apprensione. Ansiosamente, egli invoca la venuta dell'Anticristo; ma, come l'Anticristo non d segno di voler apparire, si arrangia a far quel che pu per suo conto facendo scoppiare la guerra in Boemia. La manovra coronata da successo; e padre Giuseppe avrebbe scoperto durante tutto il resto della sua vita di quale portata fosse quel successo. Nel 1625, quando la "Turchiade" fu compiuta, padre Giuseppe riteneva ancora che si trattasse soltanto di un ostacolo locale e temporaneo: i torbidi suscitati dal diavolo sarebbero stati presto sistemati; l'Europa unita avrebbe totalmente distrutto i turchi e, mediante questa guerra per porre termine alle guerre, avrebbe inaugurato l'et dell'oro di una pace universale, sotto la preminenza della Francia. E il poema finisce con un altro sogno, in cui l'autore apostrofato dalla personificazione del suo paese, quella Francia che egli adorava al pari di Dio, in piena buona fede e senza neppur sospettare l'idolatria in cui cadeva, tanto era convinto che la Francia fosse lo strumento della Provvidenza divina. Riassunta in questo modo schematico, la "Turchiade" sembra qualcosa di singolarmente fuori del suo tempo. Ma se applicate lo stesso procedimento al Paradiso perduto, non tenete conto dello stile, togliete gli ornamenti, e riducete il poema alla semplice e nuda materia, avrete qualcosa di non molto meno assurdo: le assemblee di angeli, le discussioni teologiche tra la Prima e la Seconda persona della Trinit, le battaglie di angeli, integrate da una strategia a tre dimensioni, dall'artiglieria infernale e l'equivalente divino del carro armato. Si trattava soltanto di una convenzione letteraria, di una mera imitazione del macchinario poetico di un'altra et? Erano questi resoconti stranamente materialistici di vita celeste considerati dai loro autori come mera favola, al pari del racconto patetico del giovane principe Syphilis, composto dal Fracastoro un centinaio di anni prima? Sarebbe confortante il crederlo; ma difficile giustificare una tale credenza. In un modo indicibilmente pickwickiano il "Paradiso perduto" e la "Turchiade" e l'"Apoteosi di Carlo Quinto" furono presumibilmente concepite da Tiziano, da padre Giuseppe e da Milton come qualcosa di pi di una pura creazione fantastica. Nel caso di Tiziano e di Milton ci abbastanza comprensibile; entrambi, se pur in modo diverso, erano uomini di fede piuttosto esoterica. Non cos padre Giuseppe. Che egli avesse avuto un'esperienza diretta e immediata della realt ultima, fuori di dubbio. Nella sua "Introduzione alla Vita spirituale" egli aveva descritto l'unione dell'anima con Dio. Pochi anni dopo, senza avvertire evidentemente alcuna incongruenza, egli scriveva la "Turchiade" e la scriveva con la convinzione di servire in certo modo Dio, e di dire in certo modo la verit intorno a quel Dio che egli aveva oscuramente avvicinato nell'atto della contemplazione. Il fatto , naturalmente, che gli esseri umani non trovano difficolt nel coltivare, successivamente o anche nello stesso momento, convinzioni che sono del tutto incompatibili l'una con l'altra. In realt, questa contraddizione con se stessi la condizione normale e naturale dell'uomo. Fa comodo al nostro libro di aver diverse idee nei diversi momenti; e di conseguenza noi abbiamo tali idee, anche se non troviamo il modo di conciliarle tra loro. La completa coerenza si raggiunge solo con la piena unicit dei propositi, il completo assorbimento nella realt ultima. Negli intervalli del lavoro per la crociata, padre Giuseppe dedic enormi energie a organizzare le missioni tra i protestanti del Poitou. N i soli protestanti avevano bisogno di essere evangelizzati, perch

il cattolicesimo, che pur era sopravvissuto nell'occidente della Francia, era stato ridotto dalla guerra, dall'indifferenza e dalla passione per le cose terrene nelle condizioni pi vergognose e sconfortanti. Quasi tutte le badie e la maggior parte delle parrocchie erano passate sotto il controllo della nobilt locale, che spendeva per proprio conto le entrate della Chiesa e si facevano rappresentare da vicari affamati e generalmente analfabeti. Benefici e cure sono dati alle ragazze come parte della dote, sono calcolati come propriet privata, dai cattolici non meno che dagli ugonotti, e sono venduti per contanti mediante contratti stipulati dal notaio. Queste stalle di Augia della simonia erano fatte per far rallegrare il cuore di Ezechiele. Qui poteva davvero svolgere un'opera proporzionata al suo zelo! Servendosi in principio di soltanto sette aiutanti raccolti qua e l, padre Giuseppe si lanci nell'opera di riforma e di conversione. Il successo che riport fu spettacoloso. I cattolici, bisognosi com'erano di una rinascita della religione, risposero con entusiasmo e un interesse di poco minore mostrarono gli ugonotti che si assembrarono a migliaia per vedere i riti dissueti, e ascoltare i canti liturgici e i sermoni. Colpiti dall'austerit di vita dei missionari non meno che dall'eloquenza della predicazione, molti tornarono alla fede, e numerosi furono anche i convertiti. Padre Giuseppe si trovava di nuovo nel suo elemento, dedito al suo lavoro prediletto. Ma egli era ormai troppo legato alla vita dell'alta politica per poter sia pure immaginare di tornare a essere quel che era stato: l'evangelista popolare, l'insegnante nomade dell'arte della preghiera mentale. Le sue campagne missionarie nell'occidente della Francia erano periodicamente interrotte da visite a Parigi, visite durante le quali era in contatto con i personaggi pi importanti, grandi feudatari, grandi ecclesiastici, il nunzio pontificio, lo stesso Luynes e perfino il re. Luigi Tredicesimo teneva in conto l'opinione politica del cappuccino ed era impressionato dall'eloquenza ardente del frate, e dai misteriosi resoconti di visioni e di rivelazioni accadute a lui o alle sue monache del Calvario. Cinque anni prima che Richelieu divenisse primo ministro, il monarca aveva ammesso padre Giuseppe nella sua intimit al punto di confidargli cosa era accaduto quando, diciottenne - inutilmente protestando e con la massima ripugnanza - era stato spinto da Luynes nel letto della sua regale consorte. Il fratello di Luigi, Gastone d'Orlans, sub non meno quel fascino profetico e rimase affezionato a padre Giuseppe fino alla fine, nonostante la posizione presa da questi come collaboratore dell'odiato cardinale. Durante una delle visite di padre Giuseppe a Parigi, nel febbraio del 1619, un corriere port da Blois una notizia allarmante: la regina madre era evasa di notte dal castello ed era fuggita ad Angoulme, dove si era messa sotto la protezione del duca di Epernon. Sembrava addensarsi la minaccia di una nuova e pi pericolosa ribellione. Cosa fare? Nella sua perplessit, Luynes mand a chiamare padre Giuseppe e Brulle. Essi consigliarono di mandare immediatamente alla regina madre qualche persona disinteressata di cui lei potesse fidarsi. Per esempio, sugger padre Giuseppe, il suo elemosiniere, Bouthillier. Ora Bouthillier era diacono di Luon e uno dei pi fedeli sostenitori del Richelieu. Il diacono era la punta di un cuneo alla cui base si trovava il vescovo. Bouthillier fu inviato e risult che la regina madre chiedeva, come prima condizione di pace, che le si mandasse dall'esilio il suo fidato consigliere. La riluttanza di Luynes a richiamare un rivale potenzialmente pericoloso fu sopraffatta dalla paura di una immediata guerra civile. Capendo che Richelieu - ci si poteva contare - avrebbe consigliato la moderazione, Luynes accett la condizione posta dalla regina madre. Al principio di marzo il fratello di padre Giuseppe, Carlo du Tremblay, fu mandato ad Avignone con una lettera del re per il vescovo di Luon. Tolto il suggello, Richelieu pot leggere l'ordine di recarsi immediatamente ad Angoulme a raggiungere la regina madre. A tale ordine egli obbed con un'alacrit che lo espose a non trascurabili pericoli, data la stagione ancora

invernale e lo stato pauroso delle strade. Ad Angoulme fu raggiunto da padre Giuseppe e insieme imbastirono un accordo precario tra il partito della regina madre e il re. La pace non dur a lungo. Un anno pi tardi, nel 1620, i nobili usarono di nuovo le lagnanze di Maria de' Medici come pretesto per un'altra rivolta. Nello scontro di Pontde-C, le forze regie riportarono una vittoria decisiva. Come premio di consolazione e per meglio assicurarsi la loro fedelt, Maria de' Medici diede ordine perch alle sue fanterie fosse permesso, prima di ritirarsi verso sud, di saccheggiare la citt di Angers. Padre Giuseppe, che si trovava nelle vicinanze, venne a saperlo e chiese immediatamente udienza alla regina. Questa volta "l'infinita abilit nel trattare con i nobili" ced il posto all'eloquenza profetica. Ritto davanti alla regina, egli le disse apertamente che, se lei avesse tollerato il saccheggio della citt di Angers, il sangue del popolo sarebbe ricaduto sulla sua testa e Dio l'avrebbe dannata per l'eternit. La dottrina del fuoco infernale non era sempre perniciosa nei suoi effetti. In casi come questi, per esempio, poteva rendere ottimi servigi. Una creatura stupida, ostinata, senza cuore, come Maria de' Medici, sarebbe stata sorda a qualsiasi appello a quei sentimenti superiori che non possedeva, o possedeva solo in uno stato cos latente che il risvegliarli avrebbe richiesto una quantit di tempo anche al pi grande dei santi. Ma la regina si preoccupava assai di s, e senza dubbio alcuno credeva nella realt fisica dell'inferno. Trattando, con voce tonante, quel pauroso tema, Ezechiele riusc a suscitare in lei il timore di Dio. Maria de' Medici revoc immediatamente l'ordine dato e Angers fu salvata. Grazie a una certa specie di "progresso" intellettuale, i governanti moderni non credono pi che saranno torturati per l'eternit se si comporteranno da malvagi. E' scomparsa la sanzione escatologica, che stata una delle armi principali in mano dei profeti del passato. Questo non avrebbe importanza, se la morale avesse proceduto di pari passo con il "progresso" intellettuale; Ma ci non accaduto. I governanti del secolo ventesimo si comportano in modo basso e spietato, proprio come quelli del secolo decimosettimo o di qualsiasi altro secolo. Solo, a diversit dei loro predecessori, non rimangono svegli la notte a domandarsi se sono dannati. Se Maria de' Medici avesse usufruito dei vantaggi di un'educazione moderna, padre Giuseppe avrebbe tuonato invano, e Angers sarebbe stata saccheggiata. Dopo la battaglia di Pont-de-C, all'azione militare seguirono i negoziati, che portarono finalmente alla Pace d'Angers. Come ricompensa per la parte svolta nell'evitare un'ulteriore lotta civile, nel moderare le richieste dei nobili, e nella riconciliazione del re con la madre, Richelieu domand il cappello cardinalizio. Luynes fece mostra di acconsentire, mand una richiesta a Roma affinch alla prima occasione il vescovo di Luon venisse promosso, e accompagn la lettera ufficiale con il suggerimento privato che non c'era alcuna fretta di far principe della Chiesa il suo rivale. Richelieu non ricevette di fatto il cappello se non nel 1622, alcuni mesi dopo la morte di Luynes. Il vescovo di Luon, frattanto, era divenuto una persona troppo importante perch ci si potesse burlare di lui. Come prezzo della sua amicizia, o almeno della sua neutralit benevola, Richelieu domand e ottenne la mano del nipote di Luynes, de Combalet, per la sua nipote, signorina de Pont-Courlay. Era un matrimonio eccellente; giacch nel breve periodo in cui era stato in carica, Luynes aveva ammassato grandi ricchezze non solo per s, ma per tutti i membri della sua famiglia bisognosa e oscura. Chi in realt si adopr per combinare questo matrimonio fu padre Giuseppe. Non possiamo dubitare che nel far cos egli fosse convinto di compiere ci che il suo maestro chiamava la volont esterna di Dio. In seguito alla brusca conclusione della guerra, il re si trov con un esercito considerevole, in pieno equipaggiamento, che non aveva nulla da fare. Luynes voleva scioglierlo subito. Non cos padre Giuseppe, cui sembr che si offrisse in tal modo un'occasione che sarebbe stato

un peccato perdere: l'occasione di dar inizio alla grande azione di unificazione nazionale, di cui tanto spesso il Richelieu e lui avevano parlato sulla strada tra Loudun e Tours. La presenza di un esercito era veramente provvidenziale: il re doveva servirsene per rafforzare l'autorit regia e far progredire la vera fede. Nel caso specifico, bisognava sottomettere il Barn, all'estremit occidentale dei Pirenei. Questa provincia, in cui era nato Enrico Quarto, godeva ancora di una specie di autonomia; peggio ancora, era cos violentemente protestante che per gli ultimi cinquant'anni poco mancava che il cattolicesimo non vi fosse stato proscritto per legge. Marciasse il re subito su quella provincia, riprendesse il patrimonio paterno e ristabilisse la vera fede! Luigi Tredicesimo ascolt e fu propenso a seguire il consiglio del frate, che trovava eco nel Richelieu e in tutto il partito cattolico. Ma Luynes era uomo quanto mai alieno dalla guerra e fece delle obiezioni. La decisione circa quella crociata in territorio nazionale era ancora in sospeso, quando padre Giuseppe fu chiamato a manifestare la sua opinione in una riunione del consiglio di Stato, presieduta dal re in persona. Secondo il cardinale de Retz, egli parl "come i profeti del Vecchio Testamento" in favore di un'immediata marcia al sud. La maggioranza approv e il re mosse per la crociata alla testa di un esercito le cui file si erano di molto accresciute con soldati cattolici provenienti dal campo dei ribelli. Il Barn cedette praticamente senza resistenza e fu formalmente incorporato nel regno di Francia. I decreti di Jeanne d'Albret furono revocati, furono restituite alla Chiesa le terre che le erano state confiscate, e il cattolicesimo fu riportato nella provincia. Padre Giuseppe, che seguiva l'esercito, ebbe un gran da fare a fondare conventi, riconsacrare chiese, organizzare i missionari che dovevano riconquistare gli eretici alla vera fede. Al pari di Richelieu, padre Giuseppe non credeva nell'impiego della forza per trascinare gli ugonotti al conformismo religioso. La religione imposta ebbe a dichiarare, non pi religione. Si doveva agire militarmente contro gli ugonotti non perch erano protestanti, ma perch sostenevano di voler costituire uno stato semi-indipendente entro lo stato della Francia. Una volta ridotti all'obbedienza, si doveva permettere loro di seguire il culto che preferivano. Il convertirli sarebbe stato compito di missionari cattolici, quali i cappuccini. Questi erano i principi di padre Giuseppe per quel che riguardava gli eretici; e a questi principi fu sempre, in linea di massima, conforme la sua azione. C'era una quantit di cattolici che avrebbero voluto un pi duro trattamento per i protestanti. Grazie a Richelieu, l'uomo di stato furbo e conservatore, e grazie a padre Giuseppe, l'evangelista e il missionario ardente, prevalse una politica pi tollerante. Il risultato fu che, dopo la loro sconfitta politica, gli ugonotti divennero una minoranza di cittadini, leali, soddisfatti e utili al loro paese. La persecuzione cui li sottopose Luigi Quattordicesimo nell'ultima parte del secolo, non ebbe alcuna giustificazione politica o economica; fu un atto di quel che si chiama "puro idealismo", ovvero di mera e gratuita bigotteria. Dal Barn le forze del re si diressero sulla grande fortezza ugonotta di Montauban. Ne aveva il comando Luynes, che era stato fatto Connestabile di Francia. Il contrasto tra la sonora qualifica del Generale e la sua assoluta incapacit militare suscitava in tutti un'allegria piena di disprezzo. Passarono settimane su settimane e infine si dovette ingloriosamente togliere l'assedio; poi, dopo alcuni altri umilianti insuccessi, il Connestabile evit l'imminente perdita del favore del re, prendendosi il tifo e morendo miserevolmente negli ultimi giorni del 1621. Il re si trovava ora senza un favorito e senza un consigliere capace. Per un periodo di due anni e mezzo il governo fu esercitato da una serie di ministri fiacchi, che lasciarono in genere tutti scontenti. Andando e venendo tra la Turenna e Parigi, padre Giuseppe lavorava con discrezione per portare avanti il suo amico, che da poco aveva

ricevuto il cappello cardinalizio. Non era impresa facile, poich, sebbene Richelieu fosse di gran lunga l'uomo politico pi abile in Francia, il re era riluttante a servirsi di lui. Questa riluttanza era motivata da varie ragioni. Tanto per cominciare, la semplice presenza fisica del Cardinale gli era estremamente repugnante. Malaticcio egli stesso e neurotico, il re amava circondarsi di uomini sani di mente e di corpo. Egli rifuggiva con una specie di disgusto dal contatto di quel prete invalido, che sotto il perfetto controllo dei modi celava delle anormalit nervose non meno cospicue di quelle del re. Inoltre, Luigi era consapevole, in grado addirittura doloroso, delle sue mancanze: sapeva d'essere tardo di spirito e ignorante, ed estroso e incerto in modo addirittura patologico. Le prodigiose capacit del Cardinale, quella volont inflessibile in modo quasi sovrumano, facevano al giovane l'effetto di un tacito rimprovero, e al tempo stesso di una minaccia alla sua personale indipendenza. Oltre a dargli un senso di disgusto e di vergogna, il Cardinale lo spaventava letteralmente. Ma contro le ragioni private che l'inducevano a rifiutare Richelieu, si schieravano le ragioni politiche e pubbliche che inducevano ad accettare Richelieu. E' vero che la reputazione del Cardinale era sotto certi rispetti piuttosto cattiva: aveva adulato gli infami Concini e si era apertamente riconosciuto loro creatura; poi, durante il periodo di esilio a Blois, si era mantenuto segretamente in corrispondenza con Luynes e lo aveva tenuto al corrente di tutti i progetti della regina madre. Le informazioni erano state utili; ma, dandole, l'informatore non aveva migliorato la sua fama di uomo di cui non ci si poteva fidar molto. Rimaneva peraltro il fatto che egli era un politico impareggiabile, e, a quel che si poteva vedere, l'unico uomo capace di risolvere i problemi pi urgenti della nazione. Luigi Tredicesimo prendeva molto sul serio i suoi doveri di regnante; ne abbiamo una riprova nel fatto che egli vinse la sua personale avversione per Richelieu e riusc a contenerla durante tutti i diciotto anni in cui, lo ebbe al governo. La prima e pi decisiva manifestazione dello spirito pubblico del sovrano si ebbe appunto quando questi, arrendendosi alla forza ormai irresistibile dei consigli e della persuasione, ammise Richelieu nel consiglio di Stato. Ci accadde nell'aprile del 1624. Quattro mesi pi tardi si ebbe la seconda manifestazione: La Vieuville, capo del ministero, fu arrestato e il cardinale ne prese il posto. Uno dei primi atti compiuti da Richelieu non appena ministro, fu di mandare una lettera al Provinciale della Turenna. "Dopo Dio" dichiar "padre Giuseppe era stato il principale strumento della sua presente fortuna", e preg il cappuccino di venire immediatamente a Parigi, ove, c'era dell'importante lavoro per lui. Furono ottenute dal generale dell'Ordine le necessarie "licenze" e poco dopo padre Giuseppe prese il posto che doveva occupare fino alla morte, nel 1638: il posto non ufficiale di segretario per gli affari esteri.

Capitolo 6. I DUE COLLABORATORI. In modo definitivo e inequivocabile, padre Giuseppe si era ormai arreso al suo destino. La sua carriera di evangelista e d'insegnante di esercizi spirituali non si era per questo chiusa: egli continu infatti con energia quasi sovrumana a istruire le sue monache e a

dirigere l'organizzazione sempre pi vasta dei missionari all'interno della Francia e all'estero; ma quest'attivit divenne secondaria rispetto a quella dell'uomo politico. Da quel momento in poi egli fu innanzi tutto il collaboratore di Richelieu e in tutto, fuorch di nome, il ministro degli affari esteri per la Francia. Nella vita del cappuccino, come in quella del cardinale, l'estate del 1624 aveva segnato una svolta decisiva. Avendo raggiunto questa data con il nostro racconto, possiamo - credo - dedicare opportunamente alcuni paragrafi a un confronto tra i due uomini che dovevano, a partire da quel momento, lavorare insieme con s intima collaborazione. Durante il suo infruttuoso soggiorno a Madrid, nell'estate del 1618, padre Giuseppe aveva ricevuto dai suoi ospiti una sola proposta concreta, e si trattava di una proposta disonorante. Personaggi importanti, assai vicini al governo, andarono a trovare il frate nella sua cella al convento dei cappuccini, lo assicurarono dell'alta stima di cui godeva presso il re, dell'ammirazione che gli tributava il duca di Lerma per le sue virt e i suoi talenti, e che entrambi desideravano si giungesse a una migliore intesa con la Francia ed erano pronti, pur che lui volesse appoggiare la politica filo-spagnola che era stata seguita da Maria de' Medici e con l'esilio della regina madre era caduta in discredito, a mettere a disposizione del frate qualsiasi somma egli potesse desiderare... oh, non per suo uso personale, naturalmente! Come poteva il Reverendo Padre pensare una simile cosa? No, no, per qualche opera buona in cui il Reverendo Padre fosse interessato: qualche missione, per esempio, qualche nuovo Ordine di religiosi, dediti alla contemplazione della maest e della bellezza trascendenti di Dio... Era la classica forma di tentazione, riservata alle anime superiori. La corruzione comune per gli uomini e le donne meramente animali poteva essere lasciata a Belial, "l'Incubo pi carnale, che diede questo consiglio: Belial, il pi dissoluto degli angeli caduti il pi sensuale e, dopo Asmodai, Fagli trovare donne sotto i suoi occhi e sul suo cammino". Ma quando si va a caccia degli eletti, una perdita di tempo innescare all'amo siffatti vermi, troppo solidi e troppo evidentemente privi di idealismo. "Tra i figli dell'uomo, quanti hanno con un sorriso tenuto poco conto della bellezza e dei suoi fascini, e facilmente spregiato tutti i suoi assalti, volti com'erano a cose pi degne." Pertanto, conclude Satana, "Pertanto, con qualcosa di pi nobile dobbiamo tentare la sua costanza, con cose che abbiano maggiore apparenza di valore, d'onore, di gloria e di lode popolare (scogli su cui gli uomini pi grandi hanno spesso fatto naufragio)". Per mezzo del governo spagnolo, Satana cerc di agire su padre Giuseppe, ma senza successo. Il frate era un buon francese, che diffidava degli stranieri "et dona ferentes". Egli era anche (quel che conta assai di pi) un buon cappuccino, che diffidava del danaro in quanto tale. Non si pu dire l'accoglienza che avrebbe fatta Richelieu a una simile offerta. Egli era un buon francese non meno di padre Giuseppe; ma in quell'et molti buoni francesi non si facevano scrupolo di accettare doni rilevanti e pensioni da governi stranieri. Le norme correnti dell'onore e della moralit non condannavano in modo deciso tale sistema, che era comune tra gli aristocratici d'ogni paese d'Europa. E' pertanto assai probabile che Richelieu non avrebbe visto alcuna ragione di rifiutare quel dono, tanto pi che non si sarebbe

affatto sentito per parte sua obbligato a rispettare l'impegno. Avrebbe accettato il dono senza alcuno scrupolo di coscienza, sia per considerazioni sociali che per considerazioni politiche. La sua coscienza personale, poi, non ne sarebbe rimasta turbata neppure per un attimo. Egli non provava scrupoli per quanto riguarda il danaro e poteva indulgere alla sua cupidigia senza alcun rimorso. Gli scrupoli che egli provava erano soprattutto di carattere sessuale. Aveva un alto concetto della continenza: senza dubbio perch aveva un basso concetto delle donne. "Questi esseri" scrisse delle donne "Sono molto strani. Si pensa a volte che debbano essere incapaci di far molto male, poich sono incapaci di fare alcunch di bene; ma io affermo sulla mia coscienza che niente capace come loro di mandare in rovina uno Stato." Come si vede, Belial non era pi pericoloso per il Cardinale di quel che lo fosse per il frate. Ma quando si veniva a Mammona, il demone della ricchezza, e a Lucifero, l'arcidiavolo dell'orgoglio e del potere, la cosa era ben diversa. Richelieu era divorato dalla brama del potere. N gli bastava solo la realt del potere; ne desiderava anche le forme esteriori. Si racconta che suo zio, La Porte, si trovasse presente a un incontro tra Richelieu e il duca di Savoia, in cui il Cardinale si prese la precedenza e pass per primo a ogni porta. Pensare esclam il vecchio in una specie di estatico "Nunc dimittis", pensare che avrei visto il nipote dell'avvocato La Porte camminare davanti al nipote di Carlo Quinto! Dietro la maschera impassibile e fredda del volto, il Cardinale si rallegrava di tali cose non meno dello zio borghese. Trionfi di tal genere erano profondamente importanti per lui. Non meno importanti erano i trionfi che poteva comprare con il danaro: i palazzi, la servit, i vasellami le biblioteche, i grandi banchetti, gli spettacoli lussuosi in cui dei vescovi facevano da coreografi, e il pubblico era formato da regine e da principi, da nobili e da ambasciatori. La passione per la ricchezza era innata in lui e si faceva pi forte a ogni soddisfazione che riceveva. Nel discorso tenuto di fronte agli Stati Generali nel 1614, troviamo un brano cui il successivo comportamento del Richelieu doveva dare un sapore squisitamente comico. Parlando dell'opportunit di servirsi di ecclesiastici negli affari di Stato, l'allora vescovo di Luon dichiarava che gli ecclesiastici "sono pi liberi degli altri uomini da quegli interessi privati che tanto spesso sono di danno agli interessi pubblici. Poich sono celibi, essi non hanno nessuno che sopravviva loro, salvo le loro anime, e queste non hanno bisogno di accumulare beni terreni". Chi aveva affermato ci, si trovava a percepire nel 1630 un reddito di un milione e cinquecento mila libbre solo dall'insieme dei suoi benefizi ecclesiastici. Gli stipendi, gli incerti e le entrate varie ammontavano ad altri quattro o cinque milioni. Del tutto, egli spendeva per s quattro milioni di libbre (il sussidio annuale dato dalla Francia ai suoi alleati svedesi era meno di un milione), e alla fine di ogni anno metteva da parte abbastanza da lasciare ai suoi nipoti maschi e femmine propriet valutate a dozzine di milioni. Quando si rifletta che il potere di acquisto della libbra corrispondeva nel primo Settecento a sette o otto franchi oro, bisogna riconoscere che, per un uomo la cui professione portava a non curarsi di "accumulare beni terreni", il Cardinale non si port troppo male. Il danaro e il potere non erano le sole cose "pi nobili" cui Richelieu anelava. Egli aveva anche il prurito della gloria letteraria. Impiegava un comitato di cinque poeti a tradurre in forma drammatica le sue idee, e quando uno di essi, Corneille, scrisse "Le Cid", il Cardinale ne fu divorato dall'invidia e per mezzo di critici assoldati cerc di dimostrare che la tragedia era del tutto immeritevole delle lodi tributatele. Come appare ben chiaro dalla biografia, il caso di Richelieu non avrebbe presentato difficolt per il Tentatore. Il Satana del "Paradiso riacquistato" di ben poco pi intelligente del povero Belial; ma prendere all'amo un pesce cos freneticamente vorace come

il Cardinale, non richiedeva che un semplice minimo di astuzia. Qualsiasi "pi nobile cosa" costituiva un'esca abbastanza buona per Richelieu. Su padre Giuseppe, invece, questi specchietti non esercitavano alcuna attrazione: ci volevano per lui esche di un genere pi sottile, qualcosa pi intrinsecamente prezioso del potere, del danaro, o della fama, qualche imitazione del vero Dio. Di simili tentazioni il Satana del Paradiso riacquistato non fa neppure menzione, per la semplice ragione che il suo inventore ne ignorava addirittura l'esistenza. Milton, per sua natura e per l'educazione puritana, era un moralista orgoglioso e stoico. Coltiv strenuamente per tutta la sua vita la fiducia in s e il "rispetto di s fondato sul giusto e sull'onesto" e visse pertanto in una felice ignoranza del fatto che la religione consiste proprio nell'opposto della fiducia in s e del rispetto di s: in un totale arrendere il proprio essere a Dio, il quale non semplicemente un virtuosissimo signore puritano debitamente ingrandito, ma un essere di un genere totalmente diverso, incommensurabile con l'uomo anche quando questo tocchi le espressioni pi elevate e di maggior rettitudine; e quest'essere incommensurabile consente tuttavia di essere sentito da coloro che sono pronti ad accogliere la condizione indispensabile per questa esperienza: il sacrificio di tutti gli elementi della loro personalit, quelli rispettabili non meno di quelli negativi. Il Cristo di Milton non dice mai la ragione definita ed essenziale per cui deve rifiutare la ricchezza, che gli darebbe il modo di "fare bene", il potere con cui potrebbe stabilire "il regno dei cieli". La ragione che un figlio di Dio quel che , in quanto esperimenta in s, in modo continuo e perfetto, la presenza di Dio, e questa esperienza continua e perfetta della presenza di Dio non possibile in un'anima preoccupata dalla ricchezza e dal potere. Il Paradiso riacquistato nel suo complesso qualcosa di singolarmente ottuso e privo d'interesse; le sue discussioni versificate sono battaglie di parole tra un Satana, che era soltanto il John Milton degli inibiti sogni ad occhi aperti ("egli era senza saperlo uno del partito del diavolo") e un Salvatore che lo stesso John Milton nel suo meglio idealizzato, in una specie di esaltante edizione "de luxe". Un Satana realmente intelligente avrebbe letto le vite dei santi e gli scritti dei mistici, e, in base a queste letture, avrebbe saputo come trattare con dei ricercatori della perfezione devoti e sinceri, del tipo di padre Giuseppe. E, naturalmente, il vero Satana - l'opposto della creazione di Milton - sapeva di fatto come trattare con lui; perch il vero Satana l'elemento presente in ogni essere umano e che impedisce all'essere di morire a se stesso per unirsi con la realt da cui stato separato. E cos stando le cose, l'intelligenza, la sensibilit e la spiritualit di Satana sono sempre esattamente proporzionate all'intelligenza, alla sensibilit e alla spiritualit dell'individuo in cui Satana lavora. Il Satana di Milton ha l'intelligenza, la sensibilit e la spiritualit di un grande poeta, che al tempo stesso uno stoico orgoglioso e appassionato. Il Satana di Richelieu quello di un grande uomo di Stato, con un'analoga moralit stoica dotata peraltro di un controllo assai meno effettivo sulle passioni pi oscure e distruttive. Il Satana che tent padre Giuseppe trascinandolo alla politica di forza era un demone diverso e molto pi interessante. Egli doveva tentare un uomo che non solo aveva fatto i voti di povert e di umilt ma si era anche, mediante una lunga pratica di disciplina spirituale teocentrica, portato al punto da non aver sinceramente alcun desiderio del danaro e da essere pi o meno totalmente indifferente al potere. Quanto alla fama, contemporanea o postuma, padre Giuseppe non se ne curava affatto. Come politico, egli oper senza far mostra di s e in silenzio, mantenendosi deliberatamente in secondo piano; come scrittore, egli stamp sotto l'anonimo e si content di lasciare inedita la maggior parte della sua produzione. In breve, le ordinarie "cose pi nobili" con cui sono tentati gli uomini di qualit eccezionali, non avevano

alcuna presa su lui. Per poterlo prendere, il demonio sarebbe dovuto divenire assai pi astuto e sottile che non il Satana del "Paradiso riacquistato". Padre Giuseppe fu distolto dalla strada della perfezione mistica da una serie di tentazioni strettamente connesse: la tentazione di fare ci che gli sembrava fosse il suo dovere, di soddisfare quella che si presentava come la volont esterna di Dio; la tentazione d'ingannarsi quanto alla volont di Dio e di scegliere un dovere inferiore a spese di uno superiore; e la tentazione di credere che un compito sgradevole dovesse essere buono proprio perch era sgradevole. Esaminiamo queste tentazioni da vicino. Padre Giuseppe, abbiamo visto, era profondamente patriotta e monarchico. Nato e cresciuto durante le guerre civili, aveva concepito una vera passione per l'unit nazionale, per l'ordine e per la monarchia, che era l'unica garanzia dei due precedenti beni. Questa passione era stata razionalizzata in principio religioso mediante la vecchia fede crociata nella missione divina della Francia e la nuova popolare dottrina del diritto divino dei re. "Gesta Dei per Francos sintetizzava la prima credenza; la seconda doveva trovare la sua pi sostanziosa sintesi nelle parole di Bossuet: Il re, Ges Cristo, la Chiesa: Dio sotto tre nomi. Hanotaux, lo storiografo del Cardinale Richelieu, scrive del cappuccino che questi si diede a due grandi cause, che assorbirono tutta la sua vita, Dio e la Francia, sempre pronto a lavorare e a combattere per l'una o l'altra, ma senza mai separarle l'una dall'altra, e rispondendo sempre all'appello di un'intima convinzione, e cio che la Francia lo strumento della Provvidenza e la grandezza della Francia una cosa provvidenziale. Ammessa la validit di queste dottrine - in cui egli fermamente credeva - era ovviamente un dovere per padre Giuseppe intraprendere un'attivit politica per il suo re e la sua nazione, qualora vi fosse chiamato. Era suo dovere perch, "ex hypothesi", tale attivit politica rispondeva alla vera volont di Dio, non meno che l'attivit della predicazione, dell'insegnamento e della contemplazione. Veniamo ora alla seconda tentazione: quella di cadere in errore riguardo alla volont di Dio. Una delle ragioni immediate di tale errore stata gi enunciata: padre Giuseppe credeva che la causa di Dio e la causa della Francia fossero inseparabili. Dobbiamo vedere ora perch mai accogliesse tale credenza. Due sembra che ne siano state le ragioni. La prima che le condizioni stesse in cui si era svolta la sua educazione avevano creato in lui abiti mentali e sentimentali che, a dispetto di tutti gli sforzi per uccidere in s il vecchio Adamo, gli era stato impossibile eliminare. Quanto alla seconda, ne abbiamo forse indizio in un'acuta frase di Victor Cousin. In uno dei suoi studi sui costumi del secolo decimosettimo, lo storico-filosofo osserv che padre Giuseppe era un uomo senza ambizione per s, ma pieno di sconfinata ambizione per la Francia, da lui considerata come il grande strumento della Provvidenza. A dispetto della lettura dei moralisti teocentrici, a dispetto di tutte le meditazioni che aveva consacrate al vero rapporto tra l'uomo e Dio, padre Giuseppe non si era reso conto che l'ambizione per altri , non meno di quella personale, un ostacolo all'unione con Dio; che la brama per la glorificazione della Francia non era altro che una delle "cose pi nobili" di Satana. E mentre tutti i moralisti considerano l'ambizione personale come cosa non desiderabile, solo i teocentrici pi avanzati hanno percepito quanto sia perniciosa l'ambizione che si prova per altri, sia una setta, o una nazione o una persona. Per la maggior parte degli uomini tali ambizioni appaiono del tutto encomiabili; ed appunto questo che le rende cos particolarmente pericolose per gli uomini di buona volont, perfino per gli aspiranti alla santit, quali il nostro cappuccino. Padre Giuseppe si era liberato di ogni ambizione personale, ma come servo devoto della Francia eletta dalla Provvidenza e di Luigi Tredicesimo re per volere divino, poteva continuare a indulgere a passioni connesse con l'ambizione e, quel che pi conta, a indulgervi senza alcun senso di colpa. Per dirla in modo cinico, egli

poteva godere nel suo subcosciente i piaceri della malizia, del dominio e della gloria, pur conservando la convinzione di fare la volont di Dio. E gli era tanto pi facile conservare questa convinzione in quanto egli si sforzava attivamente, per dirla secondo l'espressione di Padre Benedetto, di annientare le sue azioni politiche, anche nel momento stesso in cui le stava compiendo. Fino a qual punto tali azioni fossero "annientabili" un'altra questione, e dovremo discuterne pi avanti. Per il momento basti affermare che tale annientamento attivo era costantemente tentato. Quel che per ultimo tent padre Giuseppe a darsi definitivamente alla carriera politica fu il fatto che tale carriera era estremamente dura e, almeno per una parte della personalit del cappuccino, estremamente sgradevole. Tenebroso-Cavernoso poteva godere dei progetti e della diplomazia, ed Ezechiele poteva interpostamente esultare per i trionfi del suo padrone regale. Ma il contemplativo che aveva passato tante ore ogni giorno in comunione con Dio non poteva non soffrire di dover da quel momento dedicare il pi del suo tempo agli affari di Stato. Che egli dovesse trattare gli affari era peraltro suo dovere ed era la volont di Dio; di Dio che evidentemente desiderava sperimentare al massimo le capacit di annientamento attivo di cui il frate era dotato. Inoltre, la carriera politica era assai faticosa, specie se la si univa - come padre Giuseppe fece fin dal primo momento - con la direzione di un'intera congregazione di monache, con il lavoro di Commissario Apostolico per le Missioni e con almeno due ore al giorno d'intensa preghiera mentale. Ma per ci stesso lo attraeva. Bimbo, egli aveva chiesto di essere mandato a scuola per paura che la madre facesse di lui un viziato; uomo, egli pensava ora fosse suo dovere accettare il fardello della responsabilit politica. Una parte di lui, a dire il vero, godeva alquanto di tale fardello, ma c'era un'altra parte che si doleva sotto il peso. E proprio per quel dolersi egli si sentiva giustificato nel goderne, e sent infine la certezza che con l'accettare l'invito di Richelieu faceva la volont di Dio. Richelieu condivideva le convinzioni del frate per quanto riguardava la Francia, la monarchia, e il disgusto della vita politica e degli obblighi che quello stesso disgusto imponeva. Ma mentre per padre Giuseppe queste convinzioni erano d'importanza fondamentale, per Richelieu erano semplicemente secondarie. Anche se la Francia e la monarchia non avessero significato niente per lui, egli avrebbe pur sempre trovato nel suo genio naturale, nella sua brama di potere, nella sua passione per la ricchezza, ragioni pi che sufficienti per darsi alla vita politica. Alcuni brani delle lettere e dei ricordi del Cardinale gettano una luce piena d'interesse sui problemi che siamo venuti discutendo; essi ci rivelano infatti cosa Richelieu pensasse delle sue attivit politiche in rapporto a Dio, di suoi simili e alla sua propria salute spirituale. Il Cardinale comincia facendo una netta distinzione tra moralit personale e moralit pubblica, tra quel che Niebuhr chiamerebbe gli uomini morali e la societ immorale. "Autre chose est tre homme de bien selon Dieu et autre chose tre tel selon les hommes. Per dare un esempio di questa differenza: I'uomo buono secondo Dio deve perdonare le offese contro se stesso non appena queste siano state commesse; ma qualora le offese siano state commesse contro la societ, l'uomo buono secondo gli uomini deve fare quanto in lui per punirle. La ragione di tale differenza va ricercata nell'applicazione dello stesso principio a due diversi generi di obbligo. Il primo e pi grande obbligo dell'uomo la salvezza dell'anima, e questa vuole che la punizione sia lasciata a Dio e non data alla persona offesa. L'obbligo pi grande dei re la tranquillit dei loro sudditi, il mantenimento dell'integrit dei loro Stati, e della reputazione del loro governo; e a questo fine necessario punire tutte le offese contro lo Stato in modo cos efficace che la severit della punizione faccia allontanare ogni pensiero di ripetere l'offesa. Richelieu era un rappresentante del re e un "homme de bien selon les

hommes". E pertanto non era legittimo per lui comportarsi come "homme de bien selon Dieu", anche se facendo cos potesse mettere a rischio la sua beatitudine eterna. Egli ebbe di s un'idea molto simile, in fondo, a quella che i simpatizzanti comunisti pi benigni hanno di Lenin: e cio di una specie di redentore laico, il quale si assume la responsabilit di atti intrinsecamente cattivi - con piena consapevolezza delle conseguenze cui va incontro come individuo - allo scopo di assicurare la felicit futura del genere umano. Molti uomini scrisse il Cardinale si salverebbero l'anima come persone private, mentre se la dannano come uomini pubblici. Per fare il bene del popolo francese (se non sul momento, almeno nell'avvenire), per accrescere il potere e la gloria della Francia, personificati nei suoi re, egli era pronto a correre il rischio di andare all'inferno. E la punizione non gli era riservata esclusivamente per la vita futura: come tutti gli uomini di Stato egli era chiamato, di quando in quando, ad accettare un pauroso fardello di fatiche, e di scrupoli e di ansiet. Egli era uno che, per servirci di una frase famosa, rimane sveglio la notte s che gli altri possano dormire senza timore all'ombra delle sue veglie, " l'ombre de ses veilles". In questo eroico autoritratto c', naturalmente, un elemento di verit; ma siamo ben lontani peraltro dall'intera verit. Nel descrivere se stesso come un Prometeo salvatore, come un volontario capro espiatorio per amore del popolo, Richelieu omise di ricordare quei cinque milioni all'anno, il ducato, il potere assoluto, la precedenza sui principi del sangue, le lusinghe e le adulazioni di quelli che l'avvicinavano. "In verit, essi hanno la loro ricompensa." Le ricompense per padre Giuseppe erano di un genere pi astratto e consistevano nell'indulgere quale interposta persona a passioni che egli aveva soppresso in s personalmente, nella soddisfazione che accompagnava l'assolvimento di doveri sgradevoli, nel sentimento rinvigorante di compiere la volont di Dio. A diversit del Richelieu, egli non si considerava un "homme de bien selon les hommes", che rischiava la salute dell'anima col fare cose immorali da parte dello Stato. Egli si considerava sempre l'"homme de bien selon Dieu", poich poteva sempre (o almeno cos gli sembrava al principio della sua carriera politica) "annientare" le cose discutibili che faceva per il suo paese dedicandole per intero a Dio. In questo modo credeva di poter vivere e lavorare, anche nella politica di forza, in uno stato di "santa indifferenza", molto simile allo stato raccomandato nel "Bhagavad Gita" all'eroe Arjuna mentre si prepara a entrare nella battaglia. Tutto questo per quanto riguarda i motivi e le loro razionalizzazioni. Quanto al temperamento, i due uomini differivano profondamente. Padre Giuseppe, come abbiamo visto, era al tempo stesso Ezechiele e Tenebroso-Cavernoso. In Richelieu non appariva la minima traccia del profeta ebreo. Non aveva entusiasmi ma solo una ferma intensit di propositi. Le ispirazioni, le intuizioni felici ebbero pochissima parte o nessuna nella sua vita: qualunque cosa egli facesse era progettata e calcolata per il solo scopo di apportare, non certo una maggiore felicit al maggior numero di persone, ma il massimo vantaggio a Du Plessis de Richelieu e la massima gloria alla Francia. In una parola, egli era esclusivamente Tenebroso-Cavernoso; ma un Tenebroso-Cavernoso, non bisogna mai dimenticarlo, stranamente mitigato dalla salute malferma e dall'instabilit psicologica. C'era della pazzia in famiglia. Il fratello maggiore di Richelieu - monaco certosino da lui tratto dal monastero e fatto cardinale-arcivescovo di Lione - non era soltanto un debole di mente: soffriva anche di allucinazioni di grandezza durante le quali arrivava a credersi la Prima Persona della Trinit. Si sa che lo stesso Richelieu era vittima di accessi di depressione morbosa e di esplosioni di rabbia quasi epilettici nella loro violenza. Inoltre, a quanto si raccontava nella famiglia reale, egli era a volte soggetto, al pari del fratello, ad allucinazioni. Ma mentre quel debole di cervello pensava di essere Dio, il genio arrogante e presuntuoso di Richelieu era portato a convincersi - per un atto di giustizia ricco di poesia - di essere

meno che umano. Nei suoi momenti di aberrazione mentale il Cardinale riteneva d'essere un cavallo. Queste lesioni psicologiche non erano, peraltro, cos gravi da impedire a Richelieu di svolgere il suo lavoro. Egli lo svolgeva con l'efficienza che possibile solo in coloro che possiedono, insieme alle pi elevate abilit intellettuali, una straordinaria forza e fermezza di decisione. Pochi uomini sanno volere una cosa davvero fortemente, e di questi pochi solo pochissimi sono capaci di unire la forza di volont con una costanza che non conosca tentennamenti. La maggior parte degli esseri umani sono creature spasmodiche e intermittenti, che amano pi di ogni altra cosa i piaceri dell'indolenza mentale. E' per questa ragione dice Bryce che una volont forte e senza vacillamenti diviene a volte una forza tanto tremenda, quasi ipnotica. Lucifero la pi alta incarnazione mitologica di questa intensa volont personale, e i grandi uomini che hanno incarnato quest'ultima sulla scena della storia partecipano, in certo grado, di quella forza e di quella grandezza sataniche. Appunto per questa forza e per questa grandezza, cos diverse dalla debolezza e dallo squallore delle nostre mentii, noi continuiamo a tornare nostalgicamente sulle biografie di uomini come Alessandro, Cesare, Napoleone, e, quando appare ogni nuovo imitatore di Lucifero, ci prostriamo di fronte a lui pregandolo di salvarci. E, naturalmente, a molti di questi Grandi piacerebbe sinceramente di salvare gli altri uomini. Ma poich sono quel che sono - non santi, ma piccoli Luciferi - i loro sforzi bene intenzionati possono portare solo a perpetuare, in qualche forma temporaneamente meno o pi spiacevole, quelle condizioni da cui l'umanit prega perpetuamente di essere salvata. I Grandi Uomini hanno inevitabilmente mancato di "consegnare la merce"; ma poich ammiriamo le loro qualit e invidiamo il loro successo, continuiamo a credere in loro e a sottometterci al loro potere. Al tempo stesso, sappiamo benissimo, con una parte del nostro essere, che i Luciferi non possono darci niente di buono; e cos passiamo per un momento da queste incarnazioni della volont personale a quegli esseri umani, molto diversi, che incarnano la volont di Dio. I Santi sono desiderosi di aiutarci, ancor pi dei Grandi Uomini; ma i loro consigli si prestano a sembrare deprimenti a uomini e a donne che desiderano godere i piaceri dell'indolenza. Dio dicono i Santi aiuta chi si aiuta; e continuano a prescrivere i sistemi con cui uno pu aiutare se stesso. Ma noi non vogliamo aiutarci da noi stessi: vogliamo essere aiutati, aver qualcuno che faccia il lavoro per nostro conto. E cos ci rivolgiamo di nuovo alle incarnazioni della volont personale. Questi Grandi Uomini non hanno il minimo dubbio circa la loro capacit di darci esattamente quel che noi vogliamo: un sistema politico che render ognuno buono e felice, una religione di Stato che assicuri i favori di Dio qui sulla terra e una beatitudine eterna in Paradiso. Accettiamo la loro offerta; e immediatamente l'altra parte di noi si rivolge ai Santi, da cui di nuovo torniamo a volgerci ai nostri disastrosi Grandi Uomini. E cos continuiamo, di secolo in secolo. Queste patetiche oscillazioni hanno accumulato le loro tracce nelle nostre biblioteche, dove i ricordi dei Grandi Uomini e delle loro attivit nella storia occupano non meno posto dei ricordi dei Santi e dei loro rapporti con Dio. Richelieu era una di queste grandi incarnazioni della volont personale. Alla sua inflessibilit di propositi, che mai venne meno, egli dovette la sua straordinaria carriera, e in virt di questa fu in grado di lasciare un'impronta cos profonda nella storia d'Europa. Padre Giuseppe sembra a prima vista pi disperso e fluttuante del suo superiore politico. Ma sotto le variazioni di tono e di modi, e nonostante quegli improvvisi slanci di entusiasmo da cui sembrava di quando in quando essere trascinato, egli manteneva una fermezza di propositi non meno inflessibile. Pi di una volta, in realt, egli si mostr il pi deciso dei due; quando Richelieu denunciava segni di debolezza, il frate ne ravvivava il coraggio e, per pura forza di volont, lo portava avanti, attraverso ogni sorta di difficolt, fino

alla meta desiderata. Ho perduto il mio sostegno continu a ripetere Richelieu dopo la morte dell'amico, ho perduto il mio sostegno. Che padre Giuseppe fosse in grado di agire come sorgente di forza per quest'uomo, il cui genio consisteva precisamente nell'essere forte, fu dovuto - possiamo immaginare - al fatto che per un quarto di secolo egli aveva seguito "La Regola della Perfezione, ridotta a un solo punto con la Volont di Dio", di Benedetto da Canfield. Nel linguaggio dei mistici, "Perfezione" lo stato di totale e continua abnegazione di s nella realt, lo stato di coloro che possono dire: Io vivo, ma non io, Dio che vive in me. Appare evidente, dalle loro biografie, che gli uomini e le donne che raggiungono tale perfezione ricevono, tra gli altri frutti dello spirito, uno straordinario accrescimento di forza morale. Si tratta di una forza totalmente diversa per qualit dall'inflessibilit della volont personale, tesa ed egocentrica, propria dello stoico e del piccolo Lucifero, del "nemico della giustizia", secondo l'espressiva frase di Blake, e del nemico dell'ingiustizia. La volont della persona che fa abnegazione di s, rilasciata e senza sforzo, poich non la sua propria volont, ma un gran fiume di forza che scorre attraverso lui da un mare di coscienza inconsapevole verso l'oceano della realt. Egli irradia gioia e una serenit bella e che pur incute timoroso rispetto; egli opera con dolcezza irresistibile; essendo integralmente umile, egli ha l'autorit di un potere infinitamente pi grande della sua persona, e di cui mero strumento. Nei primi anni dell'et virile, padre Giuseppe manifest questa forza peculiare che appartiene all'uomo che ha fatto piena abnegazione di s. Si pu dubitare che egli avesse pienamente raggiunto la perfezione della vita unitiva. Qualora cos fosse stato, riuscirebbe difficile credere che qualsiasi cosa - sia pure un senso del dovere, sia pure un desiderio di doloroso sacrificio di s - potesse mai indurlo a entrare in politica. Ma se pur non aveva percorso l'intera strada, egli si era spinto molto avanti, abbastanza avanti comunque da poter fare una profonda impressione sui monaci che, in qualit di Provinciale della Turenna, toccava a lui dirigere e istruire. I frati, come ho gi notato, erano colpiti dalla dolcezza e dall'umilt con cui padre Giuseppe; esercitava la sua autorit. Vigilante, fermo, non disposto a tollerare alcuno strappo alla regola francescana, egli sapeva come punire senza suscitare risentimenti, come somministrare rimproveri che non erano suoi, poich lui era solo il tramite di una forza palesemente divina. Angelo de Joyeuse, nel chiamarlo il cappuccino perfetto, s'era avvicinato di moltissimo al vero; ma, purtroppo, non del tutto. In lui era rimasto abbastanza del vecchio Adamo perch egli soccombesse a quelle tentazioni estremamente sottili preparategli dal suo Satana. Senza abbandonare i suoi esercizi mistici e con la convinzione di poter servire al tempo stesso Dio e il Cardinale, egli divenne un uomo politico. Nonostante gli sforzi quasi sovrumani, il tentativo del frate di trarre il miglior partito da entrambi i mondi fall completamente, come il suo Maestro aveva detto che sarebbe fallito. La sua politica (noi possiamo ora vederlo con sufficiente chiarezza) non produsse i risultati che egli si era proposti; e la qualit della sua vita spirituale (egli stesso se ne rese conto prima di morire) venne progressivamente degenerando. Nondimeno, a dispetto di questa degenerazione, egli conserv nel periodo della sua collaborazione con Richelieu parte della forza pi che personale che aveva acquistato nel periodo precedente. Non dobbiamo dimenticare che, anche nei casi in cui non si conseguono in realt la perfezione o la totale abnegazione di s, la semplice pratica degli esercizi spirituali vale di per s ad accrescere la forza della volont. Gli esercizi spirituali non detto che debbano di necessit essere associati con Dio; un uomo pu, se vuole, raggiungere l'unicit d'intenti per se stessa, o per amore del suo paese, del partito, della setta, o perfino del diavolo. Egli guadagner forza in tutti questi casi per la semplice ragione che gli esercizi spirituali sono un accorgimento per intercettare, convogliare e dirigere le sorgenti della volont che si trovano sotto la soglia

del cosciente. Una corrente che fluisca dal mare del subcosciente di per s una forza tremenda, anche se tale mare rimanga tagliato fuori dall'oceano della realt. Richelieu - a quanto sembra - poggiava esclusivamente sugli strati superiori della volont personale cosciente. Di qui la tensione paurosa in cui viveva di continuo, una tensione che fece sentire le sue ripercussioni in un organismo che non era stato mai robusto e provoc di quando in quando un temporaneo collasso di nervi. In quei momenti Richelieu si volgeva per appoggio al cappuccino. E padre Giuseppe era in grado di dargli la forza che gli abbisognava traendola dalle profondit di una natura in cui il cosciente era stato sistematicamente portato in linea con il subcosciente e attraverso cui forse ancora fluiva un po' del potere inerente alla realt ultima.

Capitolo 7. LA ROCHELLE. Richelieu si era proposto due grandi compiti: unificare la Francia sotto una monarchia onnipotente; spezzare la potenza degli Asburgo ed esaltare in luogo loro i Borboni. La possibilit di battere la Spagna e l'Austria dipendeva, naturalmente, dal conseguimento del primo proposito. Divisa, la Francia era debole. Ostacolato dalle ribellioni croniche dei nobili e dei protestanti, che formavano uno stato dentro lo stato, il re era impotente ad agire contro i suoi "nemici ereditari" all'estero La gloria della dinastia e addirittura la salvezza del regno (giacch gli Asburgo di Spagna e d'Austria sembravano mirare a niente di meno che all'egemonia in Europa) richiedevano l'immediata soppressione dei privilegi feudali e della potenza degli ugonotti. Solo dopo aver fatto questo, il re sarebbe stato in grado di condurre una guerra contro gli stranieri. Nel frattempo si sarebbero attaccati gli Asburgo principalmente con mezzi diplomatici: con dei "bluff", con negoziati interminabili, spostando l'equilibrio delle potenze, dando sussidi ai governi che si trovavano gi in guerra con la Spagna o con l'Austria. Per quanto riguarda la politica interna, padre Giuseppe si era sempre trovato d'accordo con il Cardinale; e nel 1624 s'induceva con qualche riluttanza ad accettarne anche la politica estera. Egli vedeva che, per poter intraprendere la grande crociata, era necessario piegare la Spagna e l'Austria a sottomettersi alla direzione della Francia. In breve la sua conversione politica fu a questo riguardo completa: padre Giuseppe era divenuto un nemico degli Asburgo non meno deciso di Richelieu. Nel 1624 la Guerra dei Trent'Anni si combatteva da sei anni e aveva gi causato enormi sofferenze. La Boemia, ove la cosa aveva avuto inizio, era stata la prima a soffrire. Poi, nel 1619, Bethlen Gabor, il principe protestante della Transilvania, era entrato nei domini imperiali e aveva depredato l'Austria. Nel 1620 i cattolici del Tilly

avevano di nuovo corso la Boemia e commesso molte atrocit contro la popolazione civile. Alle proteste umanitarie che si fecero allora, Tilly si limit a rispondere che i suoi uomini non erano monache. Nel 1621 i protestanti rientrarono in Boemia al comando di Mansfeld e il paese ebbe a soffrire sotto i difensori non meno atrocemente di quanto avesse sofferto l'anno precedente sotto i nemici. Quando l'esercito protestante ebbe divorato tutto quel che c'era da mangiare in Boemia, Mansfeld port i suoi uomini nel Palatinato. Privo di danari e di rifornimenti, egli era costretto a subordinare le sue mosse politiche e strategiche alle richieste dello stomaco dei suoi soldati. Dove c'era del cibo, l doveva andare il suo esercito, indipendentemente da ogni altra considerazione. Nel Palatinato, Mansfeld fu raggiunto da Cristiano di Brunswick, e tra loro due riuscirono a ridurre la popolazione alla rovina e alla disperazione. Sconfitti dagli imperiali, furono costretti a ritirarsi in Alsazia, e quando l'Alsazia fu rosa fino all'osso passarono in Lorena. Dalla Lorena, l'esercito fu invitato a passare in Olanda nel 1623. Combatt alcune battaglie nel farsi strada attraverso i Paesi Bassi spagnoli, e le forze assedianti Berg-op-Zoom furono sconfitte. Dopo di che, nel 1624. Mansfeld port le sue truppe nel Friesland orientale, che sub la stessa sorte della Boemia, del Palatinato, dell'Alsazia e della Lorena. Da Parigi, Richelieu e padre Giuseppe osservavano quel che accadeva oltre i confini e delineavano una politica diretta appositamente a prolungare quelle stragi. La Francia non aveva un esercito efficiente e non c'era da pensare per il momento a un attacco diretto e su larga scala contro gli Asburgo. Ma se si riusciva a portare avanti la guerra in Germania, la Spagna e l'Austria avrebbero dovuto attingere tanto alle loro risorse da trovarsi esauste per il tempo in cui la Francia sarebbe stata forte. Con questo scopo, fu deciso a Parigi di dare un appoggio diplomatico e finanziario ai protestanti in lotta. Al tempo stesso, nuovi alleati andavano cercati tra i non belligeranti e si fecero precisi tentativi per allontanare dall'imperatore gli Elettori cattolici (cui - fu messo in rilievo - il trionfo dell'imperatore avrebbe nociuto non meno che ai protestanti) e per raggrupparli in un blocco sotto la protezione di Luigi Tredicesimo. Questi procedimenti "tenebrosi-cavernosi" furono integrati da una piccola operazione militare contro uno dei gangli vitali del sistema asburgico: la Valtellina. Lungo questa valle, che scende dalle Alpi all'estremit del lago di Como si svolgeva l'unica strada con cui la Spagna poteva comunicare con l'Austria. Truppe spagnole e oro proveniente dal Messico o dal Per potevano essere sbarcati a Genova, portati a Milano attraverso un territorio dominato dagli Spagnoli, e da Milano, attraverso la Valtellina, che era sotto il protettorato della Confederazione Svizzera dei Grigioni, e attraverso i valichi alpini, in Austria. Tagliata quella strada, le due branche della Casa d'Austria avrebbero potuto comunicare solo per mare, e con il sorgere della potenza navale olandese, la Manica e lo stretto di Dover si erano chiusi a qualunque fine per il naviglio spagnolo. Intervenendo nominalmente dietro richiesta dei suoi alleati Svizzeri, Richelieu piomb su quella valle d'importanza strategica e alla fine del 1624 la presidi con truppe francesi. Fu appunto, tra le altre cose, per parlare della Valtellina che padre Giuseppe si rec a Roma nella primavera del 1625. Vi rimase quattro mesi e, grazie alla "Turchiade" e al suo fascino di conversatore, fu trattato da Urbano Ottavo con segnalato favore: due volte alla settimana, per tutti quei quattro mesi, il papa lo ricev in udienza privata e rimase chiuso a discutere con lui per ore. Quando riprese la via per la Francia, il frate aveva con s il titolo di Commissario apostolico per le Missioni. Da quel momento fin quasi al giorno della morte, le missioni all'estero furono una delle sue principali preoccupazioni. Per interposta persona, attraverso la sua organizzazione di devoti cappuccini, egli fu cos in grado di continuare l'opera di evangelizzazione da cui era stato tanto attratto

nella giovent. I suoi frati si trovavano in ogni parte del mondo, dalla Persia all'Inghilterra, dall'Abissinia al Canad. In mezzo ad attivit politiche tediose e discutibili, il pensiero del contributo che dava alla diffusione del verbo di Cristo deve essere stato spesso una fonte di soddisfazione per padre Giuseppe. E' vero che i suoi nemici in Spagna e in Austria e alla Curia di Roma lo accusavano di servirsi dei missionari come agenti francesi e come quinta colonna antiasburgica. E, purtroppo, l'accusa non era del tutto gratuita. Come Cromwell doveva, con assoluta sincerit, identificare gli interessi dell'Inghilterra con quelli della vera fede protestante, cos padre Giuseppe, con convinzione non meno sincera, identificava gli interessi del vero cattolicesimo con quelli della Francia. Egli sapeva che il commercio segue la croce e che un evangelista pu essere molto utile nel rappresentare gli interessi della nazione cui appartiene. Inevitabilmente, i suoi cappuccini francesi predicavano il vangelo dei Borboni non meno di quello di Cristo. Le missioni tenevano padre Giuseppe in contatto con ogni sorta di paesi lontani; e questa conoscenza delle terre al di l dei mari, congiunta alla fede nella natura provvidenziale della monarchia francese, fece di lui un imperialista. Dedouvres ha mostrato in maniera convincente che lo storico rapporto sulla colonizzazione e sulla potenza navale, che nel 1626 fu presentato al re come frutto di altra penna, stato in realt composto da padre Giuseppe. Le raccomandazioni formulate in quel documento furono seguite alla lettera prima da Richelieu e pi tardi da Colbert. A nome dei grandi colonizzatori e navigatori della Francia dice Dedouvres, dobbiamo salutare nella persona di padre Giuseppe uno dei loro pi decisi e lungimiranti precursori sulla via della potenza marinara: una potenza marinara che - come insiste il rapporto - un aiuto prezioso non solo per il commercio, ma anche e soprattutto per l'attivit missionaria. La realizzazione del sogno di padre Giuseppe circa la potenza sul mare e un impero dipendeva, non meno che dall'abbattimento della potenza asburgica, dalla unificazione della Francia; e non era questa un'opera che si potesse compiere facilmente o molto rapidamente. Richelieu mosse dapprima contro la nobilt. Nel 1626 fu emesso un editto che ordinava la distruzione di tutti i castelli fortificati non necessari per la difesa dei confini nazionali. Ma non bastava buttar gi vecchi muri e rovesciare torri per portare i nobili all'obbedienza: essi sarebbero rimasti ribelli fin quando Richelieu non fosse riuscito a colpirli nei loro privilegi e nelle loro persone. La prima occasione per un'azione di questo genere fu offerta al Cardinale nella primavera del 1626 quando il fratello del re, Gastone, si lasci indurre a porsi alla testa di una congiura le cui fila erano mosse dal principe di Cond, da due figli bastardi di Enrico Quarto, e da una signora infaticabile nell'esercitare i suoi fascini e nel mutare amanti, la duchessa di Chevreuse. Tra i cospiratori di secondo piano c'era l'amante del giorno della Chevreuse, il giovane e brillante marchese di Chalais. Questi, avuto l'incarico di uccidere il Richelieu, fu improvvisamente sopraffatto da scrupoli di coscienza, and dal Cardinale e gli raccont la parte che aveva avuto nella congiura. Il Cardinale gli promise una ricompensa e si rec immediatamente da Gastone; questi, terrorizzato, diede subito le prove a favore del re. In base a queste, Luigi e il suo ministro agirono in modo deciso e rapido: i due bastardi, Vendme e il Grande Priore, furono attirati a Parigi e qui arrestati e messi in prigione. Il prudente Cond evit una sorte simile facendo in tutta fretta la pace con il Cardinale. Maria de' Medici, che prediligeva il suo inetto Gastone ed era stata implicata nella congiura, fu costretta a firmare un documento in cui, secondo una formula allora consueta in quelle circostanze, prometteva in forma solenne di comportarsi bene e lealmente per l'avvenire. Alla signora di Chevreuse non fu fatto nulla; ma di l a non molto tempo, doveva pagare questa impunit col divenire uno degli agenti segreti del Cardinale in Inghilterra. Quale amante di Lord Holland e confidente di tutti i segreti dell'amore di Buckingham per Anna

d'Austria, essa pot disporre di fonti d'informazioni quali non sarebbero mai state aperte a un qualsiasi ambasciatore di sesso maschile. Le sue relazioni da Londra dovevano essere del massimo valore per Richelieu. Per il momento, comunque, era una sua nemica; e infatti, quando l'incidente sembrava ormai sedato, essa lo riport di nuovo in vita. Le sue seduzioni indussero l'infatuato Chalais a iniziare nuovi intrighi. Egli si rec a parlare segretamente con Gastone e tent di persuaderlo a fuggire dal paese o a mettersi alla testa di una rivolta di ugonotti. Ma gli agenti di Richelieu e di Tenebroso-Cavernoso erano al lavoro: il nuovo intrigo fu scoperto e Gastone, per la seconda volta in tre mesi, forn le prove e rovesci ogni colpa su Chalais. Il giovane fu arrestato, processato - non da una corte regolare, ma da uno di quei tribunali speciali che dovevano negli anni successivi divenire uno degli strumenti preferiti da Richelieu per la repressione e, dopo essere stato indotto a incriminare la sua amante, fu giustiziato. Questo fatto parve agli altri signori feudali incredibilmente strano e allarmante. Era questa la prima volta, da molti anni ormai, che un nobile ribelle non fosse stato trattato come un candidato a una pensione. Con la morte di Chalais, il congiurare perse gran parte del fascino che aveva avuto fino ad allora. Richelieu aveva vinto il suo primo scontro con la nobilt e per il momento aveva poco da temere da quella parte. Era libero pertanto di dedicare tutta la sua attenzione agli ugonotti. Dopo l'assedio fallito di Montaugan da parte di Luynes, nel 1621, il re e i protestanti avevano firmato un trattato di pace. Ma questo trattato, come ognuno sapeva benissimo, era soltanto un accordo temporaneo e provvisorio: tanto temporaneo e provvisorio che nessuna delle due parti si prese la briga di rispettarlo. Ogni qualvolta si presentasse l'occasione di approfittare di un vantaggio, questa veniva presa senza alcun riguardo per quel che era stato scritto su quel pezzo di carta. Prima o poi, questo prolungato e non risolto conflitto tra il re e i due milioni di sudditi protestanti avrebbe dovuto essere risolto una volta per sempre. Nessuna delle due parti credeva che questa soluzione si sarebbe potuta raggiungere se non con la forza delle armi, ed entrambi di conseguenza facevano i loro preparativi. La prima grave infrazione alla pace fu compiuta nel 1625 da un protestante, il duca di Soubise. Al comando di una piccola squadra di navi da guerra, egli occup una delle isole strategiche poste al largo di La Rochelle, fece incursioni nei porti realisti e ne port via, insieme con altro bottino, cinque magnifiche navi che l'ultimo dei Paleologi aveva costruito, con enormi spese, per trasportare i crociati di padre Giuseppe. Quando la situazione divenne piuttosto bruciante per lui nelle acque francesi, alz le vele e con tutto il bottino si diresse in Inghilterra, dove fu considerato generalmente dal popolo come un eroe protestante. Osservando questo fatto, Buckingham decise di divenire anche lui un eroe protestante. Mettendosi alla testa di una spedizione navale e militare in aiuto di La Rochelle egli sper di prendere due piccioni con una fava: di riacquistare la popolarit che aveva perduto in seguito alla sfortunata spedizione in aiuto dell'Elettore Palatino e al matrimonio del re con una principessa cattolica; e di vendicarsi di Richelieu che l'aveva giocato nel fare i negoziati e peggio ancora aveva ostacolato i suoi progetti amorosi su Anna d'Austria. Nell'estate del 1627 egli salp con una grossa flotta e settemila uomini. Dopo un vivace combattimento, fece uno sbarco sull'isola di Rh, vicino a La Rochelle, e procedette ad assediare il caposaldo di Saint-Martin. Le settimane si susseguirono in mesi. La guarnigione francese fu ridotta dalla fame fin quasi al punto di arrendersi; quando, quasi miracolosamente, dei rifornimenti riuscirono ad arrivare dalla terraferma. I difensori ripresero animo e l'assedio continu. Si tentarono assalti diretti e fallirono. Il tempo peggior, e le truppe inglesi cominciarono ad ammalarsi. Infine, a novembre, Buckingham fu costretto a togliere l'assedio e a tornare in patria. Aveva perduto quattromila uomini senza conseguire alcun risultato.

Gli atti di guerra tra le forze del re e la citt di La Rochelle scoppiarono nel settembre 1627. Un mese pi: tardi arrivava il re con truppe fresche da Parigi. Con lui veniva il Cardinale, avvolto nella porpora romana, ma con corazza e cappello piumato, e dietro al Cardinale, a piedi nudi nel fango, veniva padre Giuseppe. La Rochelle era fortificata troppo bene per essere presa d'assalto e l'esercito del re rimase per lungo tempo in assedio nelle paludi saline che circondavano la citt. A padre Giuseppe fu offerto l'alloggio nella casa occupata dal Cardinale; ma il frate declin l'offerta, onorifica e comoda, a favore di un chioschetto abbandonato che sorgeva vicino a un largo fosso all'estremit del giardino. La costruzione era vecchia e piena di fessure; e quando il vento soffiava forte dal mare e la marea era alta, l'acqua rifluiva dal fosso e ricopriva di un buon palmo la camera da letto del frate. Ma di fronte a questi piccoli difetti, il chiosco offriva un vantaggio inestimabile: la solitudine. Andando a letto molto tardi e alzandosi molto presto, padre Giuseppe riusciva a trovare ogni giorno il tempo per almeno due ore di preghiera mentale. Nella solitudine umida e ventosa di quel belvedere egli poteva meditare in pace. Questi momenti di meditazione, di conversazione senza parole con Dio e con il Salvatore crocifisso, gli erano pi che mai necessari in quel periodo. Della sua vita sotto le mura di La Rochelle egli scrisse, in una lettera a una delle sue monache del Calvario, che era peggiore dell'inferno: peggiore non per gli incomodi e i pericoli (questi al contrario dovevano renderla cara a un uomo del carattere di padre Giuseppe), ma perch l'assillo e l'ansia dovuti alle sue molteplici attivit gli rendevano cos difficile l'avvicinarsi misticamente a Dio. Nell'inferno, secondo i teologi, il tormento principale dei dannati consiste nell'essere privati totalmente e per sempre della presenza di Dio. Quando padre Giuseppe diceva che la vita pubblica, particolarmente la vita pubblica in condizioni di guerra, era peggio dell'inferno non faceva semplicemente uso di un'espressione pittoresca: egli dava, nei termini della filosofia da lui accettata, una precisa e sobria descrizione del suo stato psicologico. In passato, egli si era almeno avvicinato alla soglia del regno di Dio, aveva avuto un'esperienza, almeno parziale, della realt umana. Ora, la polvere e il fumo del regno del Cardinale stavano oscurando quella visione. Avendo conosciuto il cielo, padre Giuseppe si trovava ora escluso da quella luce. Nell'affermare che tale condizione era peggiore dell'inferno, non esagerava; poteva, peraltro, trovare una leggera consolazione nel pensiero che l'ostacolo che s'interponeva tra lui e la luce di Dio era dato dal suo faticoso assolvimento della volont esterna di Dio e che, se vi avesse messo l'impegno sufficiente, sarebbe un giorno riuscito a imparare, con la grazia di Dio, ad "annientare" in una continua consapevolezza della presenza divina, perfino una vita del tipo di quella che stava allora conducendo. Le attivit di padre Giuseppe durante i lunghi mesi dell'assedio furono varie e poderose. Tanto per cominciare - e questo era certamente il lavoro ch'egli trov pi consono con la sua natura- era responsabile del benessere morale, spirituale e in certo grado anche fisico dell'esercito. Aveva ai suoi ordini un'intera truppa di cappuccini, ch'egli teneva costantemente occupati. V'eran da celebrare funzioni, fare sermoni, ascoltare confessioni. In collaborazione con i medici, i frati organizzavano gli ospedali e attendevano ai bisogni dei malati e dei feriti. Quando c'erano dei combattimenti, essi vi si trovavano in mezzo per fare da portaferiti e per aiutare i morenti a prepararsi per l'eternit. Il loro coraggio e la loro devozione facevano una profonda impressione; perfino i soldati erano disposti ad ascoltare le prediche di uomini di quel genere. Osservatori contemporanei ebbero a notare che i risultati furono addirittura sbalorditivi. Nessuno aveva mai visto, n sentito dire che esistesse, un esercito che si comportasse cos bene. Disgraziatamente per padre Giuseppe, questo lavoro missionario tra le

truppe era soltanto un'attivit minore. Egli era ancora il braccio destro del Cardinale. Gli affari esteri particolarmente complessi in quel periodo di lotta interna dovevano essere discussi; si dovevano prendere decisioni e spedire dispacci. Si dovevano sventare gli intrighi di corte e riconciliare i nobili in lite tra loro. Il frate era continuamente chiamato a usare la sua infinita destrezza con la nobilt. Eran queste le cose che egli era venuto facendo fin da quando Richelieu era salito al potere. A La Rochelle gli furono date, o comunque si assunse, nuovo responsabilit. Cos, prese parte ai consigli di guerra e diede il suo parere su problemi di tattica e di strategia. Ricco d'immaginazione e ingegnoso, egli proponeva sempre i piani pi brillanti. Alcuni di questi furono anche tentati, ma, per deficiente preparazione da parte dei capi militari, andarono ogni volta a vuoto. Il frate non ne aveva colpa, ma la sua reputazione ne soffr ed egli cominci a essere considerato come un piuttosto assurdo Cavaliere Bianco in veste religiosa, pieno di idee stravaganti rese anche pi ridicole dalla sua abitudine di suffragarle con rivelazioni divine. Queste rivelazioni venivano a padre Giuseppe alla fine di lunghe notti, durante le quali - come egli diceva - aveva raddoppiato le sue preghiere affinch Dio gli desse una qualche luce sul miglior modo di prendere la citt di sorpresa. Il suo metodo consisteva nello studiare tutte le informazioni disponibili, nell'elaborare un certo numero di piani e quindi offrirli tutti in un atto di petizione, supplicando la guida di Dio per una scelta. Quando la guida veniva, egli prendeva il piano prescelto e lo portava a Richelieu e al consiglio di guerra. Le informazioni su cui il Signore era chiamato a decidere giungevano a padre Giuseppe soprattutto da spie che egli aveva nel campo nemico; davanti a La Rochelle, infatti, come a Parigi, il frate fungeva da capo del servizio segreto di Richelieu. Al Tenebroso-Cavernoso che era in lui, questa parte tutt'altro che attraente sembrava addirsi in modo naturale. Parecchi anni prima che gli si presentasse il problema d'entrare nella politica egli aveva provveduto a organizzarsi un servizio di informazioni per suo conto. Una quantit di corrispondenti lo tenevano al corrente di tutto quel che accadeva in ogni parte del regno. Questo suo servizio era cos efficiente che al tempo della spedizione nel Barn egli era stato in grado di dire al re e a Luynes quel che stava accadendo in tutte le roccheforti ugonotte. N la sua organizzazione si limitava solo alla Francia. La sua impareggiabile conoscenza degli affari esteri, che lo rendeva cos utile al Cardinale, era frutto dello stesso servizio d'informazioni. Essere ben informato, preferibilmente attraverso tramiti personali e segreti, era stata sempre una vera passione per padre Giuseppe. Al soddisfacimento di questa passione egli aveva dedicato molto tempo e molta energia; e pu anche darsi che la possibilit di poterla soddisfare in modo ancor pi completo fosse una delle ragioni che l'indussero a entrare nella politica. La "curiosit oziosa", per usare il linguaggio teologico, pu essere stata un'esca usata da Satana per allontanarlo da Dio. Contro questa sete di informazioni mondane padre Giuseppe era stato ammonito non solo dal suo proprio maestro, ma da tutti i grandi contemplativi del medioevo e dei tempi moderni. Le notizie - gli avevano assicurato tutti sono una delle grandi distrazioni che separano la mente dalla realt. Per questa ragione l'aspirante contemplativo deve praticare la negazione di s rispetto alla curiosit, come rispetto a ogni altra forma di brama o di dissipazione intellettuale. E' strano che padre Giuseppe non abbia tenuto alcun conto del consiglio unanime di tutti i mistici. Come se ne giustific di fronte a se stesso? In parte, senza dubbio, col credere di poter "annientare" le sue attivit di raccolta delle notizie; in parte, forse, con la convinzione (nata dalla consapevolezza dei suoi enormi talenti) di aver per la politica una vocazione paragonabile a quella che aveva per predicare e per insegnare. Anche in quel primo periodo, quando Ezechiele andava in giro per il paese a conquistare anime al Signore, Tenebroso-Cavernoso aveva sentito di poter fare la volont di

Dio e si era preparato per questo compito ancora indefinito mediante una raccolta segreta e metodica di informazioni. Ora, per mezzo di Richelieu, quel compito gli era stato assegnato, ed era peggio dell'inferno: peggio dell'inferno anche se era in armonia con la volont divina; peggio dell'inferno, a dispetto del fatto che egli aveva un vero genio, non solo per le forme pi confessabili della politica, ma anche per le segrete e furtive faccende di spionaggio e per l'organizzazione di quinte colonne. Nelle imprese di Richelieu scrive Fagniez, interveniva quasi sempre il tradimento a integrare la forza aperta, o a rendere non necessario l'impiego della forza. E prosegue dando vari esempi del modo con cui padre Giuseppe, agendo come capo del servizio segreto, faceva uso del danaro o degli onori per comprare ora un'informazione utile, ora un assenso, ora senz'altro un vero e proprio tradimento. Ancora una volta vien fatto di domandarsi come egli riuscisse a giustificarsi di fronte a se stesso: lui, un frate francescano, votato al servizio di una Chiesa che esisteva per la salvezza delle anime, e che usava tutti i suoi talenti, tutte le insidie di Lucifero, di Mammona e di Belial per indurre i suoi fratelli cristiani a dannarsi col mentire, col rompere il giuramento, col tradire la fede posta in loro. Per fare ci che riteneva fosse il suo dovere politico, egli doveva fare l'opposto di quel che aveva promesso di fare quando era entrato nella vita religiosa. Gli agenti segreti cattolici e i traditori ugonotti venivano ricevuti da padre Giuseppe nel suo quartier generale nel piccolo chiosco invaso dall'acqua. Venivano di notte, scivolando inosservati attraverso le linee della difesa. Il frate rimaneva seduto con loro fino alle ore piccole, ascoltando rapporti e dando istruzioni. Quindi, li pagava, li mandava via e si metteva a dormire. Prima dell'alba s'alzava di nuovo e dedicava in ginocchio un'ora o due alla preghiera mentale, senza di cui non poteva vivere, ma in cui, tra il moltiplicarsi delle sue attivit politiche, trovava sempre pi difficile portare uno spirito idoneo a conversare con Dio. Era una vita strenua, tanto pi che padre Giuseppe osservava quattro quaresime all'anno e visse, per la maggior parte di quell'inverno nelle paludi saline, di pane e d'acqua, con qualche volta un po' di pesce nei giorni di festa. Il suo corpo mostrava i segni della stanchezza e della denutrizione; pure, a dispetto delle proteste del Cardinale, egli continu tenacemente nel suo regime. L'assedio s'era stabilizzato in una sconfortante "routine" e nel febbraio del 1628 Luigi Dodicesimo s'era cos disperatamente annoiato che insist per lasciare l'esercito e tornarsene a Parigi. La caccia della volpe a Versailles lo richiamava. Nei dintorni di La Rochelle uno sportivo poteva trovare soltanto degli uccelli selvatici e qualche lepre. Il re aveva fatto del suo meglio per divertirsi col falcone e l'archibugio e i bracchi. Pi di una volta le operazioni militari erano state sospese per non disturbare la caccia e non privare il re della sua ricreazione preferita e a vero dire unica. Ma a febbraio la nostalgia delle volpi era divenuta irresistibile. Richelieu supplic il suo padrone di restare. Con la partenza del re, egli fece presente, l'esercito avrebbe perduto coraggio. Peggio ancora, i grandi feudatari che lo avevano accompagnato nella spedizione, potevano venir meno alla loro lealt, cos facile sempre a vacillare. Erano, vero, dei buoni cattolici; ma l'esistenza di una forte minoranza di protestanti veniva ad assicurare la debolezza del re, e la debolezza del re era la condizione prima per il potere dei nobili. Saremmo degli sciocchi aveva detto Bassompierre, se prendessimo La Rochelle. Ma finch il re era presente di persona, era difficile a Bassompierre e ai suoi compagni di non comportarsi da sciocchi. di non subordinare interessi a lunga scadenza alle manifestazioni immediate e attive di una fedelt tradizionale. C'era anche un'altra ragione per cui Richelieu voleva che il re rimanesse con l'esercito. A Parigi si trovava la regina madre, e Richelieu - sebbene non mancasse di profondersi in manifestazioni di deferenza e di gratitudine verso di lei aveva fatto

tutto il possibile per impedirle d'intromettersi negli affari di Stato: non solo perch era stupida e incompetente, ma perch seguiva una politica estera filospagnola diametralmente opposta alla sua. La simpatia di Maria de' Medici per il Cardinale s'era mutata in un odio pieno di rancore e il palazzo della regina madre era divenuto il punto di riunione di tutti coloro che, per una qualsiasi ragione, desideravano rovesciare Richelieu. A Parigi questi malcontenti avrebbero potuto avvicinare liberamente il re. Cosa sarebbe accaduto se egli avesse dato ascolto alle loro mormorazioni? Se egli si fosse fatto piegare dalle sonore e continue bravate della madre? A dispetto di tutte le proteste del suo ministro, Luigi lasci La Rochelle, acconsentendo solo a promettere che sarebbe tornato a primavera. Richelieu rimase con l'esercito in un'angoscia continua. Da Parigi i suoi agenti gli davano notizie degli intrighi che si tramavano contro di lui: notizie cos allarmanti che pi di una volta fu sul punto di lasciare tutto e di correre a raggiungere il re. Fu padre Giuseppe a trattenerlo a La Rochelle: disertare l'esercito in quel momento, egli diceva, sarebbe stato un tradimento verso la Chiesa. Il posto del Cardinale era in mezzo ai crociati che combattevano l'eresia. Quanto agli intrighi di Parigi, essi non avrebbero portato a nulla; Dio non avrebbe permesso che avessero successo. Richelieu rimase. In aprile il re riprese la strada verso La Rochelle, molto lentamente, fermandosi pi volte lungo il cammino a dar la caccia al cervo; ma alla fine arriv. L'assedio continuava a trascinarsi pigramente. Dopo una serie di tentativi infruttuosi per tagliare La Rochelle dal mare, si decise di costruire una grande diga di pietre attraverso il porto esterno, fuori del tiro dei cannoni dei difensori. Si trattava di un'impresa formidabile, poich il canale in quel punto era largo quasi due chilometri. Nonostante le obiezioni dei pessimisti, il lavoro fu cominciato; ma progred lentamente, cos lentamente, che nell'estate del 1628 Richelieu si perse d'animo e parl di abbandonare la campagna contro gli ugonotti. Il re diveniva impaziente; la situazione internazionale si faceva sempre pi minacciosa: i consiglieri del Cardinale erano convinti per la maggior parte che La Rochelle fosse imprendibile; e intanto la spedizione costava una quantit di danaro, si erano dovute aumentare le tasse e la popolazione mormorava. Togliere l'assedio ora - argomentava debolmente il Cardinale - sarebbe stato umiliante, ma non fatale; insistere ed essere costretti a toglierlo pi tardi sarebbe stato una catastrofe, da cui non poteva sperare di riprendersi. Ancora una volta intervenne padre Giuseppe. Al Cardinale ormai tentennante, egli port il sostegno di una volont che nessun rovescio poteva scuotere. La Rochelle- insisteva il cappuccino - doveva esser presa e il re e il Cardinale dovevano essere presenti alla resa. Sostenuto dall'inflessibilit di proposito del frate, Richelieu ritrov la sua forza; intanto l'eloquenza tonante di Ezechiele conseguiva buoni effetti nella camera del consiglio e negli appartamenti reali. L'assedio continu, e il re e il suo ministro rimasero con l'esercito. Quando, pi tardi, la citt fu presa, Luigi Tredicesimo riconobbe pubblicamente il debito che avevano con il cappuccino, affermando che era stato l'unico a rimaner fermo nella speranza di ridurre la citt ad obbedienza, ed era lui che aveva dato fiducia agli altri. In questa lotta quasi individuale contro l'ostinato eroismo dei protestanti da una parte, e dall'altra contro il temporaneo disanimarsi del Cardinale e l'impazienza e lo scoraggiamento del re e dei nobili, padre Giuseppe fece uso di tutte le sue risorse, umane e divine. Tra queste ultime vanno ricordate le sue monache del Calvario. Egli considerava tra l'altro queste comunit di contemplative come potenti macchine di preghiera, capaci - una volta messe in moto e fatte funzionare per ventiquattro ore al giorno per i sette giorni della settimana di far precipitare, per dir cos, dall'etere considerevoli quantit di favore divino. Le lettere che in questo periodo egli scrisse alle sue monache contengono, insieme con molte

esortazioni, istruzioni e consigli, resoconti dei principali problemi strategici e politici del momento, con la richiesta che le monache dedicassero tutte le loro energie a pregare per una felice soluzione. E per quante cose non dovevano pregare! Dovevano pregare, per esempio, per la buona riuscita di un piccolo piano di padre Giuseppe per entrare di notte nella citt attraverso una fogna sotterranea e prendere la guarnigione di sorpresa (non riusc); per la conversione del duca de La Tremoille che era protestante (riusc); perch il fratello del re, Gastone, si comportasse meglio (la sua condotta rimase bassa e spregevole come era sempre stata); per la sconfitta della seconda spedizione inglese (la flotta di Lord Denbigh arriv, incroci per alcuni giorni in vista della citt, quindi se ne and via). E cos di seguito. Nell'uso comune, la parola "precario" implica un'idea di rischio e d'incertezza; etimologicamente significa "condizionato all'esaudimento di una preghiera". Pensando alla sua educazione mistica, sembra strano che padre Giuseppe attaccasse tanta importanza a questo, genere di preghiera. Le preghiere con cui si fanno a Dio richieste specifiche sono abbastanza appropriate negli uomini e nelle donne la cui religione sia antropocentrica; ma nella vita di coloro che hanno imparato non solo a pensare, ma a sentire e a vivere in modo teocentrico, sono ovviamente fuori di luogo. L'atteggiamento teocentrico trova la sua pi solenne affermazione negli scritti di Meister Eckhart: Io vi dico sulla verit eterna che finch avrete la volont di soddisfare la volont di Dio, e finch avrete desiderio della vita eterna e di Dio, per tutto questo tempo non sarete veramente poveri di spirito: perch povero soltanto chi non vuole nulla, non sa nulla, non desidera nulla. Ecco qui l'annientamento totale, passivo nella contemplazione, attivo nelle faccende della vita quotidiana: l'annientamento che Benedetto da Canfield aveva insegnato e che padre Giuseppe aveva strenuamente tentato di attuare. Ma padre Giuseppe si trovava ora nella politica e la natura della politica tale che anche l'uomo politico pi devoto e spirituale deve costantemente esercitare la volont personale, o per s o per qualche organizzazione sociale. Ma quando la volont personale esercitata da qualcuno che religioso le preghiere in cui si richiede qualche esaudimento specifico sembrano essere naturali e nell'ordine delle cose. Di qui la natura anomala della vita spirituale di padre Giuseppe, per un lato centrata in Dio, e per l'altro in desideri troppo umani; di qui, quelle comunit di pure contemplative, che egli istruiva cos amorosamente nell'arte della meditazione e trattava al tempo stesso come macchine preganti per la materializzazione di benefici concreti. Frattanto, dentro la citt, la gente stava lentamente morendo di fame. Cavalli, gatti, cani: erano stati uccisi tutti e divorati; anche la riserva dei topi si stava esaurendo. Su splendidi piatti d'argento la vecchia duchessa di Rohan mangiava topi e beveva un brodo fatto con i finimenti delle sue stalle. I poveri facevano bollire le scarpe vecchie e i cappelli di pelle. Eppure, sotto la guida del suo indomabile sindaco, Giovanni Guiton, la citt resisteva. Attraverso i suoi agenti segreti, padre Giuseppe cercava di incidere sul morale dei difensori. Furono stampati dei manifestini, introdotti nella citt e distribuiti. In essi, il sindaco e i suoi fautori erano accusati di tirannia: una tirannia doppiamente odiosa, in quanto violava l'antica costituzione di La Rochelle e non poteva provocare altro che l'esaurirsi della clemenza del re e una spaventosa punizione per tutti coloro che si trovavano entro le mura della citt, colpevoli o innocenti che fossero. Altri foglietti accusavano i ricchi di accaparramento di cibi e di speculazioni. Questa propaganda ebbe i suoi effetti: si ebbero parecchi attentati alla vita di Guiton; profittatori sospetti furono attaccati dalla folla: molti disertori lasciarono di notte la citt nella speranza di ottenere cibo, perdono e salvezza. Vana speranza, perch quelli che venivano presi, venivano impiccati subito. Per negoziare con le autorit della citt, padre Giuseppe si serviva

di un suo cugino Feuquires, uomo di una certa importanza nel servizio reale, che era stato catturato in una scaramuccia fuori delle mura ed era tenuto dagli ugonotti come prigioniero di guerra. (Vale la pena di ricordare che, durante tutta la prigionia, a Feuquires fu portato ogni giorno il pranzo direttamente dalla tavola reale. Piccole anatre arrosto, piatti di piselli freselli e di fragole, pasticcini, bei pezzi di manzo, di vitella e di selvaggina venivano portati attraverso le linee sotto una bandiera di tregua e consegnati ai carcerieri che immancabilmente li passavano al marchese. Tutto questo mentre la popolazione di La Rochelle stava letteralmente morendo di fame. Un episodio di questo genere sembra a noi stravagante e fuori del pensabile; ma nel secolo decimosettimo - bisogna tener presente - era assiomatico che un nobile fosse qualcosa del tutto diverso dalla gente comune e si dovesse trattare pertanto in modo del tutto diverso.) Servendosi di Feuquires, padre Giuseppe tent di persuadere i capi ribelli a rimettersi alla misericordia del re; ma la fede nel loro Dio calvinista e la speranza di soccorsi da parte dell'Inghilterra li rendeva sordi a ogni discorso di resa. L'assedio continu. Alla fine dell'estate, la maggior parte dei vecchi e dei giovanissimi erano gi morti, e uomini e donne nel pieno del vigore morivano ogni giorno a dozzine e, con l'avanzarsi dell'autunno, a centinaia. I digiuni, le penitenze e l'attivit incessante avevano minato la resistenza di padre Giuseppe: nell'agosto egli si prese una febbre e cadde gravemente malato. La sua condizione fu peggiorata dall'ostinato rifiuto del frate a concedersi il riposo di cui aveva bisogno. Dal suo letto d'infermo continuava a scrivere relazioni politiche e a dirigere il servizio segreto. Quest'ultima attivit fu l l per causargli la morte. Venendo di notte, come erano costrette a fare, le spie impedivano al malato di dormire. La febbre sal e padre Giuseppe, nonostante i disperati sforzi per rimanere lucido e concentrarsi, si sent sfuggire la realt esterna e fu sommerso in una fantasmagoria di delirio. Per alcuni giorni oscill tra la vita e la morte; quindi, gradualmente e dolorosamente si riaffacci alla luce. Allorch giunse e fall la terza ed ultima spedizione inglese, il frate cominciava a ristabilirsi, e tre settimane pi tardi, quando finalmente la citt si arrese stava abbastanza bene per seguire le truppe vittoriose e assistere il Cardinale nella Messa solenne che fu celebrata nella cattedrale, per la prima volta dopo pi di cinquant'anni. Subito dopo, La Rochelle fu proclamata sede di una nuova diocesi cattolica e il re offr a padre Giuseppe, in riconoscimento dei servigi prestati durante l'assedio, l'onore di divenire il primo vescovo della citt. Il cappuccino rifiut: nulla - disse - poteva indurlo a svestirsi dell'abito di San Francesco o ad abbandonare la santa regola dell'umilt e della povert. Nondimeno fu profondamente sensibile alla gentilezza del re e, per esprimere la sua gratitudine, stese in fretta un libretto intitolato "Il 're vittorioso', dedicato alla regina madre": pezzo di trascinante eloquenza in cui si conclude che, ora che La Rochelle era caduta, Sua Maest sarebbe stata libera di volgere le sue armi contro un altro nemico della Santa Chiesa, gli abominevoli turchi. Correva allora l'undicesimo anno della guerra dei Trent'Anni e padre Giuseppe sapeva anche troppo bene che il suo non era che un vano desiderio. Ma con questo? Egli amava la sua Crociata, di un amore che era "cos raro di nascita come era il suo oggetto, strano ed elevato: era stato generato dalla Disperazione sull'Impossibilit." Amando in tal modo, egli reclamava il diritto di porre tributo verbale sulla tomba in cui l'oggetto della sua ormai cos profondamente sepolto. Con la caduta di La Rochelle, il potere politico degli Francia era al termine. Roccheforti protestanti tenevano a volte un passione era ugonotti in ancora duro,

vero, nella Linguadoca e nelle Cevenne; ma sottometterle sarebbe stato facile, poich erano lontane dal mare e non potevano sperare aiuti dagli stranieri. Al principio dell'assedio, La Rochelle contava venticinquemila abitanti; quando si arrese non ne rimanevano vivi che cinquemila. Eppure, tanta era la violenza dell'odio teologico che molti cattolici non esitarono a chiedere un'ulteriore e pi dura punizione. Il Cardinale, sia detto a suo eterno credito, non volle sentir parlare di alcuna rappresaglia: i protestanti sopravviventi a La Rochelle furono perdonati, furono confermati nel godimento delle loro propriet e fu loro concessa la libert di culto. Il risultato di tale politica fu l'indefettibile fedelt dei protestanti alla corona. Mezzo: secolo dopo, Luigi Quattordicesimo capovolse la politica seguita dal Cardinale, perseguit gli ugonotti e infine revoc l'Editto di Nantes. Ne risult per la Francia la perdita, in seguito all'emigrazione, di un buon numero dei suoi cittadini pi produttivi. In fatto di politica religiosa, padre Giuseppe - come ho gi avuto occasione di ricordare - era completamente d'accordo con il Cardinale. Egli sapeva che l'ortodossia accettata per costrizione non avrebbe salvato le anime, e si opponeva pertanto alle conversioni forzate. La vera fede, egli credeva, doveva esser propagata dai missionari e non dai dragoni. In certe circostanze, peraltro, egli era disposto a impiegare mezzi non del tutto spirituali, pur di ottenere una conversione molto desiderata. Tanto per dare un esempio, nell'autunno del 1629, quando il re fece seguito alla vittoria di La Rochelle con una spedizione nei territori protestanti della Francia meridionale padre Giuseppe and con gli eserciti e s'incaric della conversione degli eretici. La sua politica era di concentrare dapprima i suoi sforzi sui nobili e sui cittadini pi in vista di ogni comunit. Se questi passavano dalla parte di Roma, egli riteneva (non con assoluta esattezza, come i fatti dovevano dimostrare) che la gente comune ne avrebbe seguito l'esempio. Per ottenere queste conversioni base, egli impieg i soliti strumenti spirituali: l'esortazione, la discussione, l'esempio edificante di una vita devota; ma quando le circostanze lo richiedessero non esitava a integrare questi strumenti con forme pi mondane di persuasione: l'offerta di doni da parte del tesoriere del re, di pensioni, di onori, di posti nell'amministrazione del governo. I nobili protestanti pi astuti videro la buona occasione e fecero abili contrattazioni. Nessun gentiluomo - obbiettarono - nessun uomo di coscienza poteva cambiare le proprie convinzioni religiose per una meschinit di seimila libbre all'anno. Ma se i Reverendo Padre le avesse portate a diecimila, ebbene, allora forse... Si sarebbe raggiunto un compromesso sulla cifra di ottomila, e la Madre Chiesa, con tutte le pompe e le cerimonie tradizionali, avrebbe aperto le braccia a un'altra pecorella smarrita.

Capitolo 8. LA DIETA DI RATISBONA. Da quando Richelieu era salito al potere, gli affari europei non erano andati peggiorando in modo sensazionale. I veri orrori della Guerra dei Trent'Anni non erano ancora venuti. Per il momento sembrava che il diavolo si contentasse di segnare il passo. Nel 1625 la Danimarca entr in guerra contro l'Imperatore. L'Inghilterra aveva promesso aiuti finanziari ai danesi; ma tali sussidi non vennero mai pagati, poich il Parlamento, dopo aver costretto Giacomo a rompere le trattative con la Spagna e incoraggiato Carlo a sostenere il suo cognato protestante, l'Elettore Palatino, s'era rifiutato di votare qualsiasi stanziamento per la guerra. Per liberarsi dalle sue

difficolt finanziarie, Carlo dov adottare dei provvedimenti non costituzionali, e questi provvedimenti non costituzionali portarono alla fine a una grande rivolta. Il male contagioso: la guerra civile, l'esecuzione di Carlo e la tirannia di Cromwell furono dovute, almeno in parte, a un'infezione promanante dalla Germania infestata di guerra. Frattanto, i danesi, venuto meno il danaro promesso, non erano in grado di far molto contro il nemico. Cristiano Quarto raccolse un esercito considerevole e gli si un Mansfeld con le sue truppe di saccomanni. La situazione sembr minacciosa all'imperatore Ferdinando, tanto minacciosa che per farvi fronte s'indusse a concedere al Wallenstein l'autorit di raccogliere e di comandare un grande esercito imperiale. In questo modo fu forgiato un nuovo strumento di tirannia e d'oppressione, uno strumento destinato a infliggere incalcolabili sofferenze al popolo tedesco. Con maggiore parvenza di legalit che non il Mansfeld, ma in modo ancor pi efficiente e non meno spietato, Wallenstein spogli le varie provincie in cui ebbe a passare di tutte le loro riserve di danaro, di cibo, e di qualunque cosa potesse essere utile all'esercito. E il saccheggio prosegu, di anno in anno, anche dopo la morte del Wallenstein, fino alla fine della guerra. Nelle campagne del 1625 e del 1626, Cristiano Quarto e Mansfeld furono separati. Wallenstein segu quest'ultimo nella Slesia, ove aveva unito le forze con Bethlen Gabor, e lo costrinse ad accettare una tregua; alla quale segu non molto tempo dopo la morte di Mansfeld. Bisognoso in modo disperato di vettovaglie per le truppe che aveva raccolto e che (venutogli a mancare il sussidio inglese) non poteva pagare, Cristiano Quarto avanz nel Brunswick, saccheggi il paese per qualche tempo e fu quindi sconfitto dal Tilly a Lutter. Dopo di che, la guerra venne languendo per un certo periodo in una serie di assedi alle fortezze danesi. Tornato dalla Slesia nel 1627, Wallenstein si dedic a due imprese: la sottomissione del suo nuovo ducato di Mecklenburgo, che Ferdinando aveva tolto al suo legittimo proprietario per la parte avuta nella guerra danese e aveva offerto come dono al suo comandante in capo; e la conquista, in nome dell'imperatore, di tutta la costa baltica. Le citt anseatiche, gelose delle loro libert, ricusarono di aprirgli le porte e, al principio del 1628, Wallenstein circond d'assedio la citt di Stralsund. Nello stesso momento, centinaia di miglia a Sud-Ovest, Richelieu e il suo esercito erano accampati sotto le mura di La Rochelle. Ma mentre, grazie a padre Giuseppe, l'assedio di La Rochelle doveva continuare fino alla caduta della citt, Wallenstein perse la pazienza e, dopo sei mesi, lev l'assedio da Stralsund e se ne and via. La posizione di Richelieu - come meglio doveva apparire con il tempo - ne risult grandemente migliorata, e quella degli Asburgo indebolita in grado corrispondente. La vittoria di La Rochelle un la Francia e tampon una breccia attraverso la quale potenze ostili potevano intervenire negli affari interni del paese; la ritirata da Stralsund lasci la costa baltica aperta all'invasione della Scandinavia, ma al tempo stesso il pericolo di una vittoria del Wallenstein intimor i protestanti della Germania settentrionale e li indusse a una resistenza pi decisa contro la politica accentratrice degli Asburgo. L'anno seguente, 1629, l'imperatore fece una cosa che gli assicur la continuazione e l'intensificarsi dell'ostilit dei protestanti: emise l'Editto di Restituzione che reclamava alla Chiesa Romana tutte le terre ch'erano state propriet ecclesiastica prima del 1552. La prospettiva di perdere pi di centocinquanta ricchi vescovati fece riunire i principi protestanti del Nord, mentre quella di essere perseguitati dai gesuiti fece unire i loro popoli nel resistere a quella che essi consideravano una brutta aggressione religiosa e politica. Frattanto, erano scoppiati dei disordini in Italia. Alla fine del 1627 Vincenzo Secondo di Mantova era morto senza discendenti e aveva lasciato per testamento il suo ducato al vecchio amico di padre Giuseppe, Carlo Paleologo Gonzaga, duca di Nevers. Il nuovo duca s'era precipitato in Italia e s'era installato tra i tesori magnifici,

accumulati da lungo tempo, nei palazzi mantovani. Nevers fu costretto di l a un po' a vendere alcuni di quei tesori - tra cui il Trionfo di Cesare del Mantegna, ora a Hampton Court - poich si trov in bisogno disperato di denaro per pagare le armi con cui difendere la sua eredit. Ancor prima che Vincenzo morisse, la validit del suo testamento era stata discussa, e il nuovo duca si trov ben presto assalito da tutte le parti da Gonzaga rivali: il duca di Guastalla, la duchessa di Lorena e, pi minaccioso di tutti, il duca di Savoia, che domandava il ducato di Monferrato dipendente dal Mantovano per la moglie di suo nipote, figlia del fratello maggiore di Vincenzo Secondo e suo predecessore sul trono ducale. Posto sulla strada da Torino ad Alessandria e a Genova, il Monferrato, con la sua formidabile fortezza di Casale, era un territorio di grande importanza strategica. Carlo Emanuele di Savoia non desiderava che un principe francese, sostenuto dalle armi e dal danaro francese, venisse a istallarsi cos vicino alla sua capitale. Una simile eventualit riusciva ancor pi sgradevole alla Corte di Madrid, giacch il Monferrato si stendeva sulla linea delle comunicazioni tra la provincia spagnola di Milano e il mare. Al principio del 1628 Carlo Emanuele e l'ambasciatore di Filippo Quarto a Torino firmavano un accordo con cui le due nazioni s'impegnavano a intraprendere una comune azione militare contro il Monferrato, che avrebbero poi diviso tra loro. Furono raccolte ed equipaggiate truppe e dopo qualche mese Carlo Emanuele invadeva la parte del ducato sulla sponda sinistra del Po, mentre il governatore spagnolo di Milano affrontava il compito pi duro e laborioso di sottomettere la fortezza di Casale. Finch La Rochelle resistette, Richelieu non pot fare nulla per venire in soccorso di quell'avamposto francese che gli accidenti dell'eredit avevano cos convenientemente stabilito al di l delle Alpi. La resa degli ugonotti lo lasci libero di agire, ed egli mosse con tutta la velocit che gli consentirono la stagione invernale, la cattiva organizzazione e gli intrighi di corte. Nei primi giorni del marzo 1629, un esercito francese di 35000 uomini, con alla testa il re e il Cardinale, pass le Alpi, sconfisse le truppe del duca di Savoia e prese la roccaforte di Susa. Pochi giorni dopo Carlo Emanuele era costretto a firmare la pace e, il 15 marzo, veniva tolto l'assedio a Casale e l'esercito spagnolo se ne tornava a Milano. Richelieu prepar la citt per l'attacco che egli sapeva si sarebbe rinnovato non appena le truppe francesi si fossero ritirate, rafforz le fortificazioni e lasci una cospicua guarnigione agli ordini di Thoiras, il comandante che cos valorosamente aveva resistito a Buckingham nell'isola di Rh. Frattanto, padre Giuseppe si trovava a Mantova e diceva al duca cosa il Cardinale si aspettava da lui e cosa lui poteva aspettarsi quanto ad aiuti dalla Francia. Richelieu aveva la mano pesante in queste contrattazioni, e il duca fece le sue rimostranze; ma la paura degli Asburgo e l'eloquenza persuasiva del suo vecchio amico e compagno di crociata l'indussero ad accettare tutte le condizioni del Cardinale: accettazione, questa, che gli permise (sebbene Mantova fosse saccheggiata dalle truppe imperiali nel 1630) di conservare il titolo e di trasmetterlo alla sua morte, nel 1637, a un nipotino. Questo nipote divenne un dissoluto e lasci a suo tempo il ducato a un figlio quasi imbecille che se lo lasci prendere dagli austriaci nel 1708. E' questa una vicenda triste e non priva di un generico ammonimento; essa ammonisce - al pari di tutta la storia, del resto - contro le conseguenze del comportarci meramente come esseri umani, dell'esistere senza rigenerazioni come uomini naturali. Noi possiamo anche desiderare sinceramente di evitare i delitti e le follie delle generazioni passate; ma al tempo stesso vogliamo vivere quella vita naturale che (insieme con la sua parte di bont e di bellezza) produce proprio i delitti e le follie che vogliamo evitare. Ed per questo che le lezioni della storia sono del tutto inutili, fuorch per i santi, i quali peraltro non ne hanno bisogno. Padre Giuseppe torn dall'Italia in Francia con le truppe del re, che passarono quindi la primavera e l'estate del 1629 a schiacciare la

potenza politica degli ugonotti nella Provenza e nella Linguadoca. Fu una campagna feroce, con stragi nelle citt conquistate, e molte impiccagioni di ribelli, e molti uomini condannati a far da schiavi sulle galee. Padre Giuseppe fece del suo meglio per mitigare questi orrori; ma il re e soprattutto il Cond, che aveva il comando di parte delle forze, erano spietati. Per la fine di luglio l'esercito del re era totalmente vittorioso, e il Cardinale pot andare da una citt protestante all'altra, facendo ingressi trionfali, ricevendo obbedienza dai magistrati, nominando intendenti regi che governassero in nome del re, accertandosi della demolizione delle mura e delle torri. Tornando a Parigi per fare fronte agli intrighi sempre pi minacciosi di Maria de' Medici, egli lasci nella Francia meridionale padre Giuseppe, con il difficile compito di iniziare la conversione delle popolazioni al cattolicesimo. Ho gi parlato dei metodi usati qualche volta dal frate per giungere a questo scopo, metodi un po' foschi, a dir poco. Ma si trattava di compiere la volont esterna di Dio pi rapidamente ed efficacemente che fosse possibile... Al principio del 1630 la guerra scoppi di nuovo in Italia. Senza tener conto del trattato di pace firmato l'anno prima, Carlo Emanuele si gett un'altra volta dalla parte della Spagna. La potenza spagnola costituiva una minaccia per tutti i principi italiani; ma, almeno per il momento, Madrid aveva interesse a conservare la Savoia come stato cuscinetto tra la Francia e i possedimenti spagnoli nella Lombardia. L'atteggiamento della Francia nei riguardi della Savoia era viceversa incerto ed equivoco. Meglio un male noto che uno ignoto. A parte il fatto che Carlo Emanuele voleva la sua fetta del Monferrato. Ancora una volta l'esercito spagnolo pose l'assedio a Casale. Ne aveva il comando Ambrogio Spinola, l'uomo d'armi genovese immortalato nella tela di Velasquez "La sera di Breda" maestro insigne nell'arte di condurre gli assedi, egli aveva servito la Corona di Spagna non solo sul campo, ma anche sacrificando tutte le sue sostanze personali (per evitare l'ammutinamento delle truppe non pagate), e tutto questo per essere trattato negli ultimi anni della sua vita con la pi vergognosa ingratitudine. Gli insulti e le ingiurie di cui lo copr Olivares durante questa campagna, lo addolorarono al punto che nel settembre del 1630 egli cadde malato e mor al suo posto davanti alle mura di Casale. Liberare Casale era necessario nel 1630 non meno di quanto lo fosse stato nel 1629; ma questa volta Richelieu si trov paralizzato dall'opposizione in seno alla famiglia reale e nei quadri del suo stesso gabinetto. Maria de' Medici prese un atteggiamento decisamente contrario alla campagna in Italia, soprattutto per il suo personale rancore nei riguardi del Cardinale, ma anche perch sosteneva una politica estera preminentemente cattolica, una politica di collaborazione con gli Asburgo per lo sterminio dell'eresia. La giovane regina, Anna d'Austria, era stata Infanta di Spagna e su questo punto almeno si trovava d'accordo con la suocera. Il loro pi forte sostenitore nel Consiglio di Stato era Marillac, il Guardasigilli. Un altro sostenitore era stato il cardinale Brulle, che, fino alla sua morte, nel 1629, aveva usato l'autorit che gli veniva dal suo grado e dalla straordinaria santit di vita per sostenere la regina madre nell'opporsi a Richelieu. Egli soleva parlare a questo riguardo della veste inconsutile di Cristo, di un mondo occidentale purificato dall'eresia e riunito sotto le tre grandi potenze cattoliche, la Francia, la Spagna e l'Austria. Vien fatto di domandarsi se egli abbia mai usato la sua fantasia per tradurre in immagini pittoriche il valore implicito in quella metafora. Suo scopo era di trasformare una veste piena di cuciture in una veste inconsutile. Per raggiungere tale scopo egli proponeva che i Borboni e gli Asburgo unissero le loro forze per sfregiare e cauterizzare il corpo che si trovava dentro quella veste. A un certo momento del processo le cuciture sarebbero automaticamente scomparse e tutta la cristianit si sarebbe ritrovata unita. Proprio per amor suo, bisogna esser grati che Brulle sia morto cos presto. Se avesse continuato a

vivere, se la sua politica fosse stata adottata, egli sarebbe sempre pi sprofondato nell'iniquit su larga scala, al pari del suo vecchio compagno di scuola padre Giuseppe, avrebbe conosciuto l'amarezza di vedere le conseguenze disastrose delle sue buone intenzioni, si sarebbe alla fine reso conto che tra la politica sua e quella di Richelieu v'era poco o nulla da scegliere; poich entrambe proponevano l'impiego di mezzi che non avrebbero mai potuto portare a un miglioramento dello stato esistente. Tra sua madre e il Cardinale, Luigi Tredicesimo oscillava in un'incertezza angosciosa. Richelieu gli era antipatico e si sentiva umiliato dalla superiorit di quell'uomo; ma al tempo stesso ne riconosceva l'abilit, gli era grato per tutto quello che aveva fatto per la gloria della monarchia, e sapeva che nessuno avrebbe potuto sostituirlo. Contro Richelieu si ergeva Maria de' Medici, florida e gonfia di energia femminile, volgare, strillona, piena di rancori e ostinatamente stupida. Fin dall'infelice fanciullezza il re l'aveva odiata e temuta, ma sempre con un certo senso di colpa e con l'idea che avrebbe dovuto amarla e ascoltarla. Ora lei diceva che la guerra doveva essere subito interrotta e Richelieu dimesso. E sebbene fosse certo che Richelieu aveva ragione e che avrebbe continuato a fare grandi cose per la Casa dei Borboni, Luigi ascoltava le parole della madre e ne era quasi a met persuaso. La primavera e l'estate del 1630 furono cos sprecate, dal punto di vista militare, perch il re non riusciva a decidersi se continuare la guerra o fare la pace, se accompagnare l'esercito in Italia o restarsene a casa. Malaticcio sempre e delicato, egli ebbe parecchi attacchi violenti di un male, che in seguito al trattamento prescritto dai medici - purghe giornaliere e salassi settimanali - minacci di divenire cronico. Lontano dalla corte, soldato tra i soldati, si sentiva meglio per un certo periodo; ma prima o poi le lettere della madre lo riportavano alla vecchia nevrastenia ed egli insisteva perch Richelieu tornasse dalla frontiera al luogo dove erano alloggiate le due regine, a Lione. Qui, nel consiglio, Richelieu doveva esporre ancora una volta le ragioni per cui si doveva continuare la guerra in Italia. Il consiglio gli dava il voto di fiducia e Luigi si sentiva rassicurato. Tre volte si ripet questa scena; e intanto il tempo passava, l'epidemia aveva scompaginato l'esercito e migliaia di soldati disertavano. A Casale, tuttavia, Thoiras resisteva ancora. In questa situazione, Richelieu fece del suo meglio per compensare la forzata inattivit sul campo con raddoppiati sforzi sul fronte della diplomazia. Il suo primo sistema di alleanze protestanti gli era venuto meno. Invano Luigi Tredicesimo aveva dato la sorella in sposa a Carlo Primo; invece di collaborare con la Francia, l'Inghilterra era entrata in guerra dalla parte degli ugonotti. Nel frattempo la Danimarca era stata decisamente sconfitta dagli imperiali. L'Olanda era troppo debole per fare alcunch d'importante per terra. Rimaneva soltanto la Svezia. Nell'autunno del 1629 Richelieu aveva mandato un agente a Gustavo Adolfo, offrendo la mediazione francese tra lui e il cugino Sigismondo di Polonia, con cui era stato in guerra per vari anni. La pace fu rapidamente ristabilita tra i due sovrani, che si accordarono per una tregua di sei anni. Essendosi cos assicurato un fianco, Gustavo era libero adesso d'invadere la Germania: piano questo che egli aveva carezzato a lungo, sia per ragioni religiose (era, infatti, un protestante ardente che considerava la Controriforma degli Asburgo come diabolica), e in parte perch aveva l'ambizione di trasformare il Baltico in un lago svedese. Ma la Svezia era un paese povero e Gustavo, sebbene avesse l'esercito migliore d'Europa, mancava di quel nerbo della guerra che l'oro. Richelieu gli offr un sussidio di seicentomila libbre meno di un ottavo del suo reddito personale - a condizione che Gustavo invadesse la Germania, battesse gli imperiali, ma rispettasse i diritti dei principi cattolici. Gustavo che non aveva alcuna voglia di rispettare i cattolici, respinse l'offerta; e nell'estate del 1630 invase audacemente la Pomerania senza sussidio. Richelieu aspett che venisse il suo momento

e continu a tendere l'amo dorato, sapendo bene che prima o poi il re svedese sarebbe stato costretto dalla povert ad accettare le condizioni propostegli. Intanto, all'altro capo della Germania, Ferdinando aveva convocato una Dieta imperiale a Ratisbona. Egli intendeva persuadere i sette Elettori dell'Impero a nominare suo figlio Re dei Romani, titolo che l'avrebbe ufficialmente consacrato successore del padre al trono imperiale. Egli avrebbe naturalmente dovuto pagare per questo favore: quanto e in che modo sarebbe stato fissato mediante una lunga serie di contrattazione alla Dieta. La convocazione della Dieta forn a Richelieu il pretesto per mandare una speciale legazione a Ratisbona: nominalmente per discutere la questione della successione del ducato di Mantova, ma in realt per creare dissensi tra l'Imperatore e gli Elettori. Un diplomatico di professione, Brulart de Lon, era ufficialmente l'ambasciatore del re; ma il vero rappresentante della Francia, come tutti sapevano, era un umile cappuccino che lo accompagnava nella missione. Padre Giuseppe non aveva alcuna veste ufficiale, e le sue credenziali presso l'Imperatore non gli attribuivano alcuna autorit. Era un osservatore e nient'altro. Come semplice osservatore egli era in grado di agire e di parlare con una libert che non sarebbe stata possibile per un ambasciatore; come braccio destro del cardinal Richelieu egli era ascoltato con un'attenzione e una deferenza che un semplice funzionario come Brulart non poteva pretendere. Dal Generale dell'Ordine dei cappuccini padre Giuseppe aveva ricevuto una "licenza" che gli permetteva d'infrangere le regole dell'Ordine per quanto si riferiva all'andare in carrozza e al maneggiare del danaro. Armato, di questa e delle credenziali, egli aveva raggiunto Brulart in Svizzera (ove questi si trovava come ambasciatore francese) e insieme, nel mese di luglio del 1630, si diressero verso Ratisbona, con tutta la pompa che si conveniva a dei rappresentanti del re. La guerra non era molto attiva in quel momento e poich c'era ancora qualcosa da mangiare nella Germania meridionale, Wallenstein aveva stabilito il suo comando generale a Memmingen, a met strada tra Augusta e la frontiera svizzera. Come seppe dell'avvicinarsi dell'inviato francese e del suo interessante compagno, il comandante dell'esercito imperiale usc dalla citt per andar loro incontro, accompagnato da "diciotto cocchi, pieni di principi, duchi e palatini dell'Ungheria e della Boemia". Ci si pu immaginare la scena in quel caldo pomeriggio di luglio: il corteo di carrozze ferme lungo la strada polverosa, l'andare e venire, tra l'ambasciatore e il generalissimo, di emissari allo scopo di discutere le questioni di precedenza cos delicate e cos infinitamente importanti per i nobili del secolo decimosettimo; la felice soluzione del problema mediante la decisione che entrambe le parti dovessero scendere simultaneamente e salutarsi a un punto che si trovava esattamente a met strada tra le due carrozze di testa; quindi il solenne avvicinarsi e il saluto magnificamente stilizzato: il profondo inchino, con il piede destro in avanti e leggermente in fuori, come nella prima posizione di danza, l'ampio ed elaborato movimento con il cappello piumato! seguito dalla stretta di mano, le parole ben scelte, gli esagerati complimenti. E quando i due protagonisti hanno compiuto il loro cerimoniale, un simile scambio barocco di riverenze si ha tra il seguito di Brulart e i principi, duchi e palatini che riempiono le diciotto carrozze. Nello sfondo, intanto, sta il cappuccino, i nudi piedi immersi nella polvere: e il saio grigio e cencioso vivamente risalta in mezzo a tanto velluto cremisi, a tanti merletti e a tanti gioielli. In risposta ai saluti, egli china la testa e alza la mano destra a benedire. Quando Wallenstein l'invita a salire con loro nell'enorme carrozza dorata, padre Giuseppe protesta che troppo onore; ma il generale insiste e alla fine egli sale dopo gli altri e tutti vanno verso Memmingen a un banchetto ufficiale, al quale il frate non pu partecipare perch si trova in una delle sue quattro quaresime annuali. Il giorno dopo, durante una pausa dei festeggiamenti, Wallenstein

invit il frate a venire nei suoi quartieri ed ebbe con lui una lunga conversazione confidenziale, che padre Giuseppe riassunse per sommi capi nel suo primo dispaccio al Cardinale. Si tratt di una conversazione interessante e che qualsiasi casuale ascoltatore avrebbe trovato singolarmente strana. Infatti i due uomini discussero soprattutto di Bisanzio e dei Luoghi Sacri, della potenza turca e di comuni spedizioni dall'Occidente. Dai giorni felici passati con il duca di Nevers e con Paolo Quinto, padre Giuseppe non aveva avuto la gioia di parlare di crociate con un cos ardente entusiasta. Wallenstein era desideroso di schiacciare gli infedeli, non meno di quanto lo fosse stato San Luigi, sebbene, come padre Giuseppe doveva scoprire a poco a poco, non proprio per le medesime ragioni. Per uno che era stato a scuola prima dagli hussiti di Moravia e poi dai gesuiti, che aveva mutato il suo luteranesimo in adesione alla Chiesa Romana per puro interesse, e che credeva davvero solo nell'astrologia, il trionfo della Chiesa militante non presentava il minimo interesse. Il fare la crociata era per Wallenstein semplicemente un pretesto per il "Drag nach Osten". Che egli parlasse del suo grande progetto in termini di Croce e di Mezzaluna era dovuto esclusivamente a una contingenza storica e a ragioni di opportunit. Se nel secolo decimosettimo fosse esistita la macchina a vapore, egli avrebbe parlato con altrettanto entusiasmo della ferrovia Berlino-Bagdad. Era sua ambizione creare un grande impero federale, che si estendesse dal Baltico al Bosforo e oltre, nell'Asia minore e nella Siria. Tale impero sarebbe stato retto o dagli Asburgo, con lui, Albrecht von Wallenstein, come loro generalissimo e vice, oppure (e a questo punto quella sua faccia scura, orribilmente sinistra, quella faccia da Mefistofele gonfio, la faccia di un diavolo non gentiluomo, s'illuminava di esultanza interiore nel piegarsi confidenzialmente verso il frate) oppure - perch no? da Albrecht von Wallenstein in persona, governante in suo proprio nome, in virt di un'irresistibile forza militare. Venendo dal comandante supremo dell'Imperatore ed essendo rivolte all'uomo che andava a Ratisbona con un compito specifico, tra l'altro, l'indebolire la posizione di Wallenstein presso l'Imperatore, queste parole erano, a dir poco, sorprendenti. Ma Wallenstein aveva, in una con l'astuzia e la cautela, la temerariet di chi sa che tutte le cose sono predestinate, che il fato gi segnato negli astri e non pu essere mutato. Che sapessero pur tutti quel che lui aveva in mente, l'Imperatore, il Cardinale, il Papa, il re di Spagna, tutti quanti! Cosa importava finch dalle volte celesti gli astri guardassero a lui con favore? Dalla crociata la conversazione fu portata, per via dei Paleologi, su Mantova; e con la medesima sorprendente franchezza Wallenstein si dichiar del tutto contrario alla politica degli Asburgo in Italia. Conosceva Nevers e aveva simpatia per lui; a parte il fatto che, come ultimo dei Paleologi, quell'uomo poteva riuscirgli utile un giorno o l'altro. E comunque, era insensato da parte dell'Imperatore aumentare le proprie difficolt entrando in guerra con la Francia per un meschino ducato che non interessava nessuno se non gli spagnoli. Padre Giuseppe ader con tutto il cuore a questi sentimenti ed espresse la speranza che Sua Altezza volesse fare tutto il possibile per indurre Sua Maest Imperiale a condividere tale opinione. Non che Wallenstein avrebbe avuto molto tempo o molte occasioni per esercitare la sua influenza sull'Imperatore, pens tra di s il frate; egli si sentiva anzi abbastanza sicuro di riuscire a convincere gli Elettori d'imporre le dimissioni del generale. E questo, in certo senso, era un peccato, poich Wallenstein sarebbe stato un alleato utilissimo nella questione di Mantova. Ma intanto Gustavo Adolfo si trovava gi in territorio tedesco ed era essenziale che prima dell'inizio della campagna, gli eserciti imperiali venissero indeboliti dalla perdita del loro comandante. In seguito forse, quando il re di Svezia avesse compiuto l'opera sua, si poteva riportare al potere Wallenstein e incoraggiarlo nelle sue sfrenate ambizioni di supremazia: incoraggiarlo quanto era sufficiente per farne un elemento imbarazzante e paralizzante per

l'Imperatore, ma non fino al punto, naturalmente, di permettergli di diventare il dittatore militare di tutti i tedeschi. Riposato e considerevolmente illuminato dal soggiorno a Memmingen, padre Giuseppe prosegu il viaggio, con Brulart e il loro seguito, fino a Ratisbona, ove la Dieta si era gi aperta. L'Imperatore e i cinque Elettori cattolici erano presenti di persona; i due Elettori protestanti si erano limitati a mandare i loro rappresentanti. Con sua sorpresa - giacch egli continuava a considerarsi quale era di fatto nella vita privata, un umile frate cappuccino - padre Giuseppe s'accorse d'essere l'uomo pi in vista, quello pi universalmente noto e di cui pi si parlava in tutta Ratisbona. Sei anni di stretta collaborazione con Richelieu gli avevano gi dato una fama internazionale. Qualunque persona bene informata in Europa aveva sentito parlare del frate scalzo che aveva lasciato il convento per diventare il pi astuto - e per quel che riguardava i simpatizzanti degli Asburgo - il pi pericoloso uomo politico del secolo. Universalmente conosciuto, padre Giuseppe era anche universalmente biasimato. Questo seguace di San Francesco che aveva tradito Madonna Povert per vivere in mezzo ai principi, quest'uomo votato al servizio della Chiesa che aveva cospirato con gli eretici per intralciare la Controriforma: cosa era se non un rinnegato, un nemico di Dio e degli uomini? A Ratisbona padre Giuseppe scopr per la prima volta cosa i contemporanei pensavano di lui. Ne ebbe una prima manifestazione, ancora agli inizi della Dieta, un giorno in cui era andato a porgere i suoi rispetti a Tilly, il vecchio generale cui aveva dedicato nella "Turchiade" due graziosi versi elogiativi: "Tilli, etenim te nostra canet testudo, nec unquam egregium nomen gelidi teget umbra sepulcri." Il complimento era stato scritto nel tempo in cui padre Giuseppe era ancora un ardente imperialista; si sarebbe forse espresso diversamente ora che si era convinto della necessit di distruggere la potenza degli Asburgo, affinch la vera religione potesse fiorire sotto la guida dei Borboni. Ma quale che fosse la sua attuale opinione su Tilly, l'etichetta voleva che andasse a fargli visita. Alla fine del colloquio, Tilly accompagn l'ospite fino alla soglia della sala da ricevere, e di qui il frate fu scortato fino ai piedi della scalinata che immetteva nella strada da un gruppo di aiutanti del generale. Mentre dunque si dirigevano verso l'uscita, uno dei gentiluomini, di nome Flammel, si rivolse al frate e gli domand se fosse davvero padre Giuseppe; e avendo ricevuto risposta affermativa, continu: Voi siete dunque un cappuccino; e cio siete obbligato dalla vostra professione a fare quanto potete per promuovere la pace nella cristianit. E invece siete l'uomo che promuove una guerra sanguinosa tra i sovrani cattolici, tra l'Imperatore e il re di Spagna e il re di Francia. Dovreste arrossire dalla vergogna Reagendo non all'offesa fatta alla sua persona, ma all'insulto rivolto a un rappresentante di Sua Maest Cristianissima, padre Giuseppe volle che gli fossero fatte le scuse. Tilly porse le scuse e fece mettere l'offensore ai ferri: ma a dispetto di tutto ci, padre Giuseppe ebbe ragione di credere che l'affronto fosse stato premeditato e che l'incidente verificatosi sulle scale fosse stato accuratamente inscenato dallo stesso Tilly. Ebbene, a chi si metteva al servizio di Cristo veniva insegnato di aspettarsi la calunnia, e anche di goderne; giacch, per chi si trovava sulla via della perfezione, l'esser sottoposto alla calunnia voleva dire che Dio lo considerava maturo per le prove pi dure. Sopportare le ingiuste offese senza risentimento e senza amarezza era possibile solo alle anime che avessero annientato se stesse nel Signore. A Ratisbona, padre Giuseppe raddoppi i suoi esercizi di annientamento passivo e attivo. E ne ebbe ben bisogno; poich l'incidente avvenuto al quartier generale di Tilly fu solo la prima di un lunga serie di prove cui fu

sottoposta la pazienza del frate. Per le strade di Ratisbona furono annunciati e distribuiti dei libelli in cui lui e il Cardinale suo padrone venivano denunciati con la sfrenata intemperanza di linguaggio caratteristica di tutti gli scritti polemici del secolo decimosettimo. I libelli erano scritti in latino e anonimi. Corse voce che ne fossero autori due ecclesiastici spagnoli; ma il fatto che gli autori fossero nemici politici di padre Giuseppe non toglie che essi dicessero alcune cose assai giuste e sensate nei riguardi del frate, cose che venivano dette in quel tempo da gente di normale intelligenza e di sentimenti onesti in ogni parte d'Europa. Dovunque la gente si domandava, al pari di Flamel, come mai un cappuccino potesse conciliare la sua professione con la formulazione e l'esecuzione di una politica che portava, come poteva vedere chiunque avesse gli occhi, a un moltiplicarsi delle miserie e dei delitti. A costoro sembrava che il frate usasse deliberatamente la reputazione dell'ordine religioso cui apparteneva per imbiancare il sepolcro delle iniquit di Richelieu; ovvero, secondo il latino epigrammatico dei libellisti, "'huic ille tegendo sceleri cucullum praebet'" (egli, Giuseppe, offre a lui, Richelieu, un cappuccio da frate perch vi nasconda i suoi delitti). Richelieu stesso sapeva bene quanto sia importante per un uomo politico coprire le proprie azioni con il prestigio della religione e della moralit. Nei suoi rapporti con le altre potenze, egli prendeva sempre ogni cura per non sembrare mai l'aggressore, per aver sempre dalla parte sua la parvenza della legalit e del diritto. N questo era tutto; infatti, secondo quanto dice un diplomatico italiano di quel periodo, si dice che quando il Cardinale Richelieu vuol fare qualche mossa astuta, per non dire qualche furfanteria, si serva sempre di religiosi. Gli uomini cattivi non riuscirebbero 0mai a compiere il danno, che in realt compiono, se non riuscissero a indurre degli uomini buoni a divenire dapprima loro vittime, e quindi i loro complici, pi o meno compiacenti e pi o meno consapevoli. "'Huic ille tegendo sceleri cucullum praebet.'" Cosa accade quando gli uomini buoni entrano nella politica di forza con la speranza di spingere a forza l'umanit nel regno di Dio? Facendo eco alla saggezza degli uomini comuni, i due libellisti di Ratisbona avevano dato una risposta chiara e precisa nel migliore stile di Seneca: "'Sacrilega sunt arma quae sacra tractantur manu... Miles mitrae imperat cum mitra militibus imperat'" (Sacrileghe sono le armi impugnate da una mano consacrata... Quando la mitra comanda al soldato, il soldato che comanda alla mitra). Tutta la storia politica della Chiesa sintetizzata in queste frasi. Pi e pi volte uomini di chiesa e laici devoti sono divenuti uomini di Stato con la speranza di elevare la politica al loro livello morale, e sempre la politica riuscita a trascinarli gi al basso livello morale su cui gli uomini di stato, in quanto fanno della politica, sono costretti a vivere. Disgraziatamente i libellisti di Ratisbona nascosero questa grande verit politica e morale in un tessuto di menzogne e di volgarit; e questo era il modo pi sicuro per far s che padre Giuseppe non prestasse alcuna attenzione a quel che dicevano. L'opera di padre Giuseppe a Ratisbona fu un miracolo, di virtuosismo diplomatico. Suo primo compito era di dissipare i sospetti dell'Imperatore, ripetutamente avvertito dai nemici di Richelieu in Francia - da Marillac, dalla regina madre, dai grandi nobili, dagli estremisti cattolici fautori di una collaborazione con la Spagna - che il Cardinale tramava addirittura di rovesciare la potenza degli Asburgo. Questo, naturalmente, era vero; ed era di conseguenza tanto pi importante persuadere Ferdinando che era falso. Padre Giuseppe vi riusc abbastanza felicemente mettendo in discredito le persone da cui l'Imperatore aveva ricevuto simili avvertimenti. Si trattava, spieg, di persone le cui personali ambizioni erano state contrariate dall'assurgere del Cardinale al potere, o che si opponevano agli sforzi che il Cardinale faceva per realizzare in Francia quel che la Sua Imperiale Maest, cos saggiamente e benignamente, stava cercando di realizzare in Germania: l'unione di un paese diviso sotto un'unica

autorit centrale. Era vero che la Francia era stata costretta a prendere misure di protezione contro l'aggressione spagnola; ma pretendere che il Cardinale o il suo padrone avessero un qualsiasi disegno contro l'Austria, era una maliziosa menzogna... Dopo questa intervista con l'Imperatore, padre Giuseppe si rec da Massimiliano di Baviera e dai suoi compagni Elettori. A questi parl delle gravissime preoccupazioni che Sua Maest Cristianissima nutriva circa le libert dei principi tedeschi, suoi cugini. Egli era scandalizzato nel vedere il modo con cui queste libert venivano ora messe in pericolo; e il suo cuore sanguinava per le vittime infelici della tirannia dell'Imperatore. L'esercito imperiale era stato raccolto per combattere gli eretici, sotto quell'arrogante arrivista di Wallenstein; ma era usato ora molto pi efficacemente per soggiogare gli elettori cattolici. Con Wallenstein accampato a Memmingen, quella Dieta solenne non era altro che una farsa. Sotto la minaccia di quella forza schiacciante, gli Elettori non potevano pi agire liberamente: era la fine della grande, vecchia costituzione germanica, cui la Sua Maest Cristianissima e il Cardinale erano cos profondamente e incrollabilmente attaccati. L'unica speranza che rimaneva agli Elettori era tutta nell'azione immediata, mentre l'Imperatore aveva ancora bisogno di loro perch nominassero il figlio Re dei Romani. Rifiutassero dunque di discutere la questione fino a che Wallenstein era al potere. Se fossero sorte delle difficolt; le Loro Altezze contassero pure sull'aiuto del Cardinale. Gli Elettori lo ascoltarono e si animarono a fare ci che i successi militari dell'Imperatore e il suo Editto di Restituzione li aveva da tempo indotti a desiderare in cuor loro: chiesero le dimissioni di Wallenstein e una riduzione dell'esercito imperiale. Ferdinando non nutriva grande affetto per Wallenstein: dubitava della sua lealt ed era pienamente informato delle sue enormi ambizioni personali. Al tempo stesso per, detestava di disfarsi di lui in quel particolare momento. Dopo tutto, Gustavo si stava consolidando nel nord e si preparava ad attaccare. Padre Giuseppe si affrett a rassicurare l'Imperatore. Gustavo - esclam sprezzantemente -, e chi era Gustavo? Un minuscolo principotto alla testa di un gruppo di barbari affamati. No, Gustavo non contava; se si fosse opposto all'esercito imperiale, sarebbe stato spazzato via senz'altro. E, naturalmente, se per una qualche disgraziata eventualit, egli dovesse creare imbarazzi, l'Imperatore poteva sempre richiamare Wallenstein e reclutare qualche altro reggimento. Intanto, per quel che si riferiva alle elezioni, la Sua Imperiale Maest non doveva nutrire timori. Una volta tolto di mezzo Wallenstein, i principi avrebbero fatto per gratitudine quanto si chiedeva loro, e il fatto che avessero votato liberamente sarebbe ridondato in modo singolare a gloria dell'Imperatore e ne avrebbe accresciuto l'autorit morale in tutte le Germanie. Tutto ci era abbastanza sensato e Ferdinando, considerando che Wallenstein era un prezzo modesto per l'elezione del figlio, acconsent a dimettere il generale. Emissari vennero mandati nel settembre a Wallenstein a portargli l'ordine di cedere il comando. Padre Giuseppe, intanto, aveva mandato una lettera al generale: gli ricordava la loro simpatica conversazione sugli infedeli e lo consigliava a sottomettersi, senza renitenze, all'ordine dell'Imperatore. Dopo tutto, gli faceva notare, Gustavo Adolfo si trovava in Pomerania; con il suo magnifico esercito avrebbe senz'altro riportato delle vittorie, e allora l'Imperatore sarebbe stato costretto a rivolgersi umilmente all'unico soldato in Europa capace di far fronte a un cos formidabile nemico. Sua Altezza avrebbe allora potuto chiedere qualsiasi cosa volesse. Consentire a lasciare il comando ora, sarebbe stato un colpo di abilissima politica. Wallenstein accett il consiglio, che si accordava con quel che i suoi oroscopisti (tra cui Giovanni Keplero) avevano scoperto nelle stelle. Obbedendo senza alcuna protesta, egli ced il comando, e con lui furono licenziati diciottomila cavalieri e non meno del doppio di fanti. Servendosi semplicemente dalla parola, padre Giuseppe aveva

ottenuto l'equivalente di una vittoria militare di prima grandezza. Ora che Wallenstein era stato privato del comando e l'esercito ridotto della met, l'Imperatore si volse agli Elettori per avere la ricompensa promessa. Ma Tenebroso-Cavernoso l'aveva prevenuto insinuandosi nelle riunioni private degli Elettori e facendo loro notare che, s, le Loro Altezze avevano riportato una bella vittoria; ma i frutti di quella vittoria sarebbero andati perduti, se ad essa non se ne fosse aggiunta una seconda. Ora che avevano indebolito l'Imperatore, dovevano colpire subito di nuovo, colpire nel punto pi vulnerabile dell'armatura degli Asburgo: la successione imperiale. Rifiutandosi di designare a tale successione il figlio di Ferdinando, facendo intravedere come possibile l'elezione di un imperatore appartenente a qualche altra casa reale, essi potevano istillar il timor di Dio in quei tiranni di Vienna e di Madrid. E se i tiranni avessero strepitato e minacciato, gli Elettori non avevano che da rivolgersi a Sua Maest Cristianissima: tutte le risorse della Francia sarebbero state a loro disposizione. Era questo per le Loro Altezze il momento per affermare se stesse, per ricordare agli Asburgo che erano imperatori non per diritto ereditario, ma soltanto per grazia degli Elettori e della grande vecchia Costituzione Germanica. Quando l'Imperatore chiese formalmente il titolo di Re dei Romani per suo figlio, gli Elettori diedero voto negativo. Wallenstein e l'esercito erano stati sacrificati per nulla. Tornando col pensiero alle cause di quella sconfitta, Ferdinando distinse, ad ogni svolta di quella tortuosa vicenda diplomatica, una figura incappucciata di grigio che silenziosamente spariva tra le ombre. Con i suoi ministri Ferdinando si dolse riconoscendo che un povero cappuccino li aveva battuti con il suo rosario ed era riuscito a far entrare nel suo cappuccio di frate, per angusto che fosse, sei berretti elettorali Nel frattempo, peraltro, la guerra dei negoziati stava andando piuttosto male per padre Giuseppe su altri fronti diplomatici, ove gli avvenimenti francesi lo avevano posto in una situazione precaria da cui era difficile districarsi. Sempre oscillando tra la madre e il Cardinale, Luigi Tredicesimo fin, dopo tanta nevrastenia, per ammalarsi sul serio. Il 22 settembre, a Lione, fu preso da una febbre cos violenta che, dopo una settimana, parve ormai in condizione disperata e gli furono amministrati i sacramenti. Infine, il primo ottobre, i medici dissero che gli era scoppiato un ascesso, la febbre gli era calata e sembrava possibile che il re guarisse. La posizione di Richelieu durante quegli ultimi giorni di settembre fu simile a quella di chi sia sospeso su un precipizio con una corda le cui fibre saltino a una a una sotto il peso. Se il re fosse morto, egli sarebbe stato un uomo irrimediabilmente perduto. Era detestato da Gastone, che sarebbe succeduto a Luigi, senza prole; era detestato dalla regina madre; era detestato dai grandi feudatari, di cui mirava a diminuire la potenza; era detestato dalla gente qualunque, che vedeva in lui soltanto lo spietato impositore di tasse, l'istigatore di una guerra gratuita e incomprensibile, che poteva a ogni momento dilagare dall'Italia in ogni angolo d'Europa e perfino nella stessa Francia. Non appena le condizioni del re si fecero gravi, un gruppo di nobili si era riunito segretamente e aveva deciso, nel caso che il re morisse, di trattare Richelieu come era stato trattato Concini, tredici anni prima. Ricordando la carcassa mutilata appesa per i piedi alla forca di Pont Neuf, il Cardinale aveva fatto i suoi piani per fuggire e riparare nella citt papale di Avignone. Sarebbe stata una gara di corsa tra gli assassini e la vittima. Infine, proprio nel momento in cui la gara stava per cominciare, il re prese a migliorare. Richelieu pot trarre un respiro dalle sue apprensioni mortali; ma si trattava solo di un respiro, non di una liberazione definitiva e duratura. Il re era fuori di pericolo, per il momento, ma era ancora malato, e al suo capezzale si alternavano la regina madre e Anna d'Austria. A mano a mano che Luigi entrava in convalescenza, le due donne prolungarono e intensificarono le loro persuasioni. Erano tutte devozioni, e dolcezza, e amore e perdono; ma erano decise a indurre

quel disgraziato a far quello che loro e i loro amici politici desideravano. Giorno e notte, alternandosi l'una all'altra, come un paio di magistrati inquisitori che sottopongano un accusato recalcitrante al terzo grado, insistettero con il giovane re perch facesse la mossa definitiva: licenziare il ministro, por fine alla guerra, capovolgere la sua politica. Luigi non aveva la forza di discutere con loro; ma riusc infine a raccogliere sufficiente forza di volont per dichiarare, in modo risoluto, che non avrebbe preso nessuna decisione fino a quando non si fosse pienamente ristabilito e non fosse tornato a Parigi. Il momento di respiro per il Cardinale venne cos a prolungarsi per qualche settimana. Al corrente di quel che stava accadendo a Lione, padre Giuseppe si trov nella pi imbarazzante situazione. La sua missione segreta, creare cio una scissura tra l'Imperatore e gli Elettori, era stata assolta; ma anche la missione ufficiale, quella cio di arrivare accordo sulla questione di Mantova. L'Imperatore, come era stato previsto, faceva pressioni per una sistemazione generale di tutte le principali divergenze tra la Francia e la Spagna ma poich la campagna di Richelieu contro gli Asburgo era appena cominciata, tale sistemazione generale sarebbe stata prematura e doveva pertanto essere evitata. Fino a quel momento padre Giuseppe era riuscito a eludere tutti i tentativi fatti dal l'Imperatore per collegare Mantova con l'intera situazione europea. Era una politica di dilazioni e di evasioni, volutamente progettata per prolungare la lotta tra gli Asburgo e la Francia e i suoi alleati. Tale politica poteva essere perseguita solo a patto che Richelieu conservasse all'interno tanto potere da superare l'opposizione che l'aristocrazia e il popolo facevano alla guerra. Ma ora che Richelieu era in pericolo di essere dimesso, e perfino di essere ucciso, la condizione prima della politica antiasburgica della Francia - il potere assoluto del Cardinale - veniva a cadere. A padre Giuseppe, a Ratisbona, parve chiaro che l'unica speranza per il Cardinale fosse riposta nel riguadagnare la popolarit e nel riconciliarsi con i grandi feudatari. Ma c'era un modo solo per arrivarci, e questo imponeva l'immediato mutamento di politica estera. Si trattava di una decisione molto grave, e, prima di prenderla, egli aveva scritto d'urgenza chiedendo istruzioni precise. A causa in parte del ritardo con cui il Cardinale aveva risposto, e in parte del cattivo tempo che aveva trattenuto il corriere il frate non aveva ricevuto nessun messaggio; e il 13 ottobre, agendo di sua iniziativa, diede istruzione a Brulart di firmare un documento che provvedeva a una generale sistemazione delle divergenze franco-austriache. Egli rifiut dapprima, quale semplice osservatore, di apporre la sua firma al trattato; ma l'Imperatore insistette e alla fine padre Giuseppe dovette cedere. Riconsiderando quella cerimonia, Ferdinando pens con gioia di essere riuscito a trarre dal grigio cappuccio francescano vantaggi che eccedevano di gran lunga i sei berretti elettorali che il frate vi aveva da poco messo dentro. Ma il trionfo dell'imperatore fu di breve durata. La notizia che l'accordo era stato firmato fu portata a Richelieu il 19 ottobre, mentre stava tornando a Parigi insieme con il re convalescente. Intanto, il testo completo del trattato era stato inviato alla Corte a Lione, ove incontr l'approvazione di tutti quelli che lo lessero. La notizia che la guerra era finita e che non vi sarebbero state pi avventure oltre i confini si diffuse con la rapidit del fuoco per tutto il paese, provocando, come padre Giuseppe aveva previsto, gioia universale. Il giorno dopo una copia del trattato fu portata a Richelieu, a Roanne. Egli la lesse; quindi la strapp con stizza. Gli ambasciatori erano andati oltre le istruzioni ricevute, disse: il trattato non sarebbe stato ratificato. Fu, questo un atto di straordinario coraggio da parte sua. Ripudiando il trattato, Richelieu attirava su di s l'odio delle masse e rendeva ancor pi implacabile l'ostilit della regina madre e dei nobili. Gli era stata data la possibilit di salvarsi la vita, e lui l'aveva rifiutata. Se ora il re

gli fosse venuto meno - e alla Corte si scommetteva dieci a uno in favore della regina madre - egli era irrimediabilmente perduto. Gli avvenimenti dovevano giustificare Richelieu per il rischio che aveva affrontato. Tre settimane dopo il rifiuto di ratificare il trattato di padre Giuseppe, ebbe luogo un colloquio decisivo tra Luigi e la madre: il colloquio da cui Maria de' Medici era fiduciosa di uscire con la vittoria sul Cardinale. Insinuandosi per una porta posteriore che non era stata serrata, Richelieu s'intromise nel colloquio e nel vederlo la regina madre perse ogni controllo e prese a inveire contro di lui gridando come una pescivendola. Questa volgarit fu la sua rovina. Nel secolo decimosettimo il monarca assoluto era una persona sacra, e in sua presenza anche i pi intimi dovevano comportarsi con la compostezza di un filosofo stoico, con dignit degna di un Confucio. Quell'esplosione plebea della madre fu un insulto alla dignit regale. Offeso e disgustato, Luigi si liber al pi presto possibile da quella situazione sgradevole e si ritir a Versailles. Maria rimase esultante con l'illusione di aver riportato un trionfo. Quella sera, Luigi mand a chiamare il Cardinale e lo conferm nella carica. Marillac fu arrestato e, come ne corse notizia, Gastone, ch'era rimasto chiuso in camera con la madre, si precipit a Versailles ad assicurare il re della sua lealt e il Cardinale del suo indefettibile affetto. Quanto a Maria, la "Tourne des Dupes" segn una sconfitta decisiva. Dopo aver creato imbarazzi ancora per qualche mese, la regina madre fu abilmente indotta dal Cardinale a compiere un errore irreparabile: fugg dal paese. Luigi non le permise pi di tornare e la regina madre pass gli ultimi dodici anni della sua vita vagando di corte in corte, ospite sempre meno gradita, perpetuamente a corto di danaro e costretta a dipendere dall'umiliante carit dell'uomo che era stato un tempo suo ossequioso protetto ed era ora padrone della Francia e arbitro di tutta Europa. Di ritorno a Parigi poco tempo dopo la "Tourne des Dupes", padre Giuseppe fu accolto dal suo capo con la massima cordialit. Richelieu non gli serbava rancore per aver ecceduto dalle istruzioni. Immediatamente ripudiato, il trattato non aveva recato alcun danno. Quanto al resto, la spedizione di padre Giuseppe era stata un pieno successo: Wallenstein era stato licenziato e l'esercito indebolito; gli Elettori avevano affermato la loro indipendenza dall'Imperatore e mostravano palesemente di voltarsi verso la Francia, e (cosa non meno importante) si era guadagnato tempo, un tempo che serviva a Gustavo per prepararsi alla campagna dell'anno successivo e al Cardinale per rovesciare i suoi nemici all'interno e consolidare il suo potere. Il tempo, in quelle circostanze, lavorava a favore dei Borboni e contro gli Asburgo, i quali necessariamente venivano a soffrire per il prolungarsi del caos in Germania, mentre i loro rivali a occidente del Reno non potevano che trar vantaggio dal progressivo esaurirsi delle risorse imperiali. In un rapporto sulla Germania - scritto nel gennaio 1631 per informazione del re - padre Giuseppe insist che la politica francese dovesse essere diretta a sfruttare sistematicamente il tempo quale l'arma pi terribile in tutto l'arsenale dei Borboni. In vista di ci, i negoziati che lui aveva cominciato a Ratisbona, dovevano essere continuati senza interruzioni. Per mezzo dei suoi agenti il re doveva insistere nell'offrire la protezione della Francia agli Elettori, a condizione che tutti, protestanti e cattolici del pari, si unissero in un blocco tedesco e antispagnolo, indipendente dall'Imperatore. Tale blocco doveva essere abbastanza forte per poter negoziare da pari a pari con gli Asburgo, e se il re di Francia fosse chiamato ad agire come mediatore, gli Elettori potevano esser certi che la sistemazione finale sarebbe stata in loro favore. Se non si fossero fatte subito tali offerte, e non si fossero fatte cosa sommamente importante - con ogni apparenza di sincerit, gli Elettori sarebbero stati sospinti verso l'Imperatore dalla paura di Gustavo. Se questo fosse avvenuto, proseguiva padre Giuseppe, l'Imperatore si sarebbe trovato in grado d'imporre un'immediata

soluzione di tutte le dispute; e questo sarebbe stato disastroso per i Borboni, giacch gli Asburgo sarebbero stati allora liberi di rivolgere tutta la loro potenza militare contro la Francia. Ogni sforzo verso una pace sollecita entro l'Impero e tra l'Imperatore e i suoi nemici esterni doveva pertanto essere individuato e mandato a vuoto. Ma come? Ecco la risposta di padre Giuseppe. Sua Maest Cristianissima poteva evitare la catastrofe di una pace intempestiva offrendosi come paciere. Assumendo l'ufficio di mediatore e di arbitro e promettendo di aiutare gli Elettori, qualora ne avessero bisogno, il re poteva trascinare la faccenda all'infinito, controbilanciare l'autorit dell'Imperatore e ritardare la pace in Germania fino a quando non avesse ottenuto la sicurezza di una pacificazione generale, una pacificazione generale, manco a dirlo, favorevole agli interessi dei Borboni. Durante la Dieta, si era riversata su Ratisbona da ogni angolo della Germania un'interminabile processione di gente, che chiedeva supplicante ai principi riuniti il risarcimento dei torti inflitti loro durante le campagne militari degli anni precedenti. Naturalmente, non ottenevano nulla e dovevano ritornare amareggiati alle loro case devastate, oppure, come accadde a Keplero che era venuto dalla Slesia per chiedere gli arretrati dello stipendio di matematico dell'Imperatore, morivano e venivano stipati in un cimitero della citt. Tra questi supplicanti c'era una delegazione della Pomerania. Umilmente, ma con decisa insistenza, i delegati avevano scongiurato: l'Imperatore e gli Elettori di considerare lo stato lamentevole in cui era ridotta la loro provincia. L'anno prima, gli eserciti di Wallenstein avevano spogliato in tal modo il paese, che da allora la gente aveva cominciato a morire di fame. Molti erano in effetto morti, e i sopravviventi mangiavano erba e radici, e anche i bambini e i malati e perfino i cadaveri tumulati di recente. Sembra che sia stata questa la prima volta, durante la Guerra dei Trent'Anni, in cui fu richiamata l'attenzione pubblica sul cannibalismo forzato che doveva divenire cos comune in Germania in quegli anni disastrosi. L'Imperatore e gli Elettori ascoltarono commossi i pomerani, li assicurarono del loro profondo interessamento, e lasciarono le cose come stavano. Dato il sistema politico in cui vivevano e compivano le loro funzioni, dati gli abiti di pensiero e di sentimento allora correnti nei circoli principeschi, non ci si poteva aspettare altro da loro. Inoltre, durante la Guerra dei Trent'Anni, nessun signore tedesco prov mai la fame. I duchi e i vescovi ebbero sempre da mangiare in abbondanza. Il popolo ordinario poteva ben morire di fame o alimentarsi oscenamente di carogne umane; ma nelle sale da banchetto dell'imperatore, degli Elettori e in quelle vescovili il vecchio costume tedesco dell'ingozzarsi e del tracannare non fu mai abrogato. Pieni di bistecche e di vino, i principi erano in grado di sopportare le sofferenze dei loro sudditi con la massima fortezza. Ma che dire di padre Giuseppe? Egli aveva vissuto tra i poveri e amava i poveri. Ne conosceva le sofferenze e apparteneva a un ordine religioso che era, tra l'altro, votato al loro servizio. Eppure, eccolo qui a perseguire, con pazienza e con consumatissima abilit, una politica che poteva portare solo un accrescimento di sofferenze a quei poveri che lui aveva giurato di servire. Ben sapendo quel che gi era accaduto in Pomerania, egli continu a sostenere una condotta che veniva ad assicurare in modo positivo il diffondersi del cannibalismo nelle altre provincie. Vien fatto di domandarsi cosa passasse per la mente del frate in quei periodi di meditazione giornaliera in cui, esaminando i suoi pensieri e le sue azioni, si preparava per quel che il suo maestro di misticismo chiamava "l'annientamento passivo" della preghiera mentale. Per prima cosa, senza dubbio, egli ricordava a se stesso che lavorando per la Francia faceva la volont di Dio. "Gesta Dei per Francos" era un assioma, e se ne deduceva che la Francia era divina, che coloro che lavoravano per la grandezza della Francia erano strumenti divini, e

che i mezzi da loro impiegati non potevano non essere in accordo con la volont di Dio. Satana, nel gettare l'amo all'anima di padre Giuseppe, lo innesc con le tentazioni pi nobili: il dovere patriottico e il sacrificio di s. Padre Giuseppe abbocc l'amo e si diede alla Francia con lo stesso ardore come se si fosse dato a Dio. Ma un uomo non pu servire due padroni: Dio geloso e le conseguenze dell'idolatria sono disastrose. Appunto perch persisteva nell'identificare la monarchia francese con la realt ultima appresa nella contemplazione, padre Giuseppe non fu in grado di collegare le tristi condizioni dei pomerani cannibali con le infrazioni dei primi due Comandamenti fatte da lui e da tutti gli altri uomini di Stato europei. A volte, durante quegli esami di s, il frate dov certamente essere colpito dall'aver fatto ricorso, durante i negoziati, a sistemi di un carattere piuttosto discutibile. (Fu un contemporaneo di padre Giuseppe, sir Henry Wotton, a definire l'ambasciatore come un uomo onesto mandato a mentire all'estero per il bene del suo paese. Nel secolo decimosettimo, ci si aspettava non solo che l'ambasciatore mentisse, ma che conducesse anche dello spionaggio nel paese presso cui era accreditato.) Padre Giuseppe poteva giustificare le sue attivit in due modi: in primo luogo, era suo dovere verso la patria fare queste cose; in secondo luogo, egli faceva ogni sforzo per praticare "l'annientamento attivo" in Dio mentre compiva queste cose. Tilly e de Flamel e gli anonimi libellisti spagnoli potevano ben accusarlo di condotta criminale; ma c'era una cosa che non sapevano e non potevano sapere e cio che tutte le sue azioni erano compiute da una persona che coltivava indefessamente quella virt suprema, e abbracciante tutto, che San Francesco di Sales indica come "santa indifferenza". Il primo riferimento letterario alla "santa indifferenza" si presenta nel "Bhagavad Gita", dove Krishna assicura Arjuna che pu ben uccidere i suoi nemici, purch lo faccia sempre con animo staccato da ogni sentimento. Quando la medesima dottrina venne ripresa dagli "Illumins" di Piccardia per giustificare la promiscuit sessuale, tutte le persone di buon sentire, compreso padre Giuseppe, ne furono a ragione inorridite. Per qualche strana ragione, il delitto sembrato pi rispettabile della fornicazione. Poche persone si scandalizzano a sentir parlare del Dio delle Battaglie; ma quale grido d'indignazione si leverebbe se qualcuno venisse fuori a parlare del Dio dei Lupanari! Padre Giuseppe condusse una piccola crociata contro gli "Illumins", i quali asserivano di poter andare liberamente a letto tra di loro in uno spirito di santa indifferenza; ma non vide nulla di scandaloso nella sua propria pretesa a fare, con uno spirito di santa indifferenza, l'intrigante, la spia e il provocatore di guerre. La verit , naturalmente, che la santa indifferenza pu essere praticata solo riguardo ad azioni intrinsecamente buone o eticamente neutre. A dispetto di quel che Krishna o chiunque altro possa dire, le azioni cattive non sono "annientabili". Non sono "annientabili" perch, come mero fatto psicologico esse accrescono l'ego personale e separato di coloro che le compiono. Ma pi c' della creatura, come dice Tauler e meno c' di Dio. Qualunque atto che sviluppi l'ego personale e separato automaticamente diminuisce per chi agisce le possibilit di stabilire un contatto con la realt. Egli pu ben cercare in ogni modo di annientarsi in Dio, di praticare la presenza di Dio anche mentre agisce; ma la natura di quel che sta facendo rende di necessit vano ogni suo sforzo. Le attivit di padre Giuseppe a Ratisbona anche come ministro degli Esteri di Richelieu erano essenzialmente incompatibili con la vita unitiva cui, da giovane, s'era dedicato e che ora cercava disperatamente di conciliare con la politica di forza. Egli poteva scusarsi delle azioni pi discutibili pensando che faceva del suo meglio per compierle in uno stato di attivo annientamento in Dio. E attribuiva il fatto che i suoi sforzi non fossero coronati da molto successo, non alla natura intrinsecamente non "annientabile" di quel che stava facendo, ma alle

sue personali imperfezioni; imperfezioni che dovevano essere emendate con maggiore austerit, con una pi severa autodisciplina. Tornando alla propria introspezione, egli poteva scoprire una specie di giustificazione cosmica e metafisica per i suoi disegni nel pensiero che quel che sembrava cattivo da un punto di vista meramente umano, poteva in realt essere buono. "'Il faut aimer Dieu vengeur'" diceva alle sue monache "'aussi bien que Dieu misricordieux.'" Dio vendicatore poteva avere le sue ragioni per volere che fosse distrutto un gran numero di abitanti dell'Europa centrale. In realt, dato che la storia era secondo padre Giuseppe un'espressione delle intenzioni della divina provvidenza, e dato che, come semplice fatto storico, un gran numero di abitanti dell'Europa centrale stavano morendo di fame e venivano massacrati, era evidente che Dio vendicatore "voleva" la loro distruzione. Di conseguenza, la politica di prolungare la guerra non era ingiusta. A questo riguardo, la sua ambizione per la Francia gli faceva dimenticare quanto detto nei Vangeli degli scandali che sorgono sempre, ma guai a coloro che se ne fanno tramite. C' una correlazione facilmente osservabile tra certi indesiderabili atteggiamenti del pensiero e certa condotta di azione da una parte, e dall'altra certe catastrofi, quale la Guerra dei Trent'Anni. Ma certamente non ne segue che, poich una guerra pu - in questo particolare senso - essere considerata come volont di Dio, l'individuo che si affatichi a prolungarla faccia la volont di Dio. Passando attraverso i labirinti della sua volontaria ignoranza, cos ragionava tra s, esplicitamente o implicitamente, padre Giuseppe nell'inginocchiarsi ogni sera e ogni mattina davanti al suo crocifisso. Dalle argomentazioni giustificatorie, la sua mente passava alla meditazione sulla Passione del Redentore, il cui corpo torturato gli appariva l davanti agli occhi. E a volte questa meditazione cedeva a sua volta il posto a una contemplazione estatica e fuori del tempo delle sofferenze divine, una contemplazione profonda fino all'orlo della catalessi. Padre Giuseppe veniva trasportato al luogo che era stato per lui, fin da fanciulletto, la vera casa del suo strano spirito: si trovava sul Calvario, ai piedi della Croce, con il discepolo prediletto e con le sante donne. Si sarebbe portati a immaginare, "a priori", che coloro che fanno delle sofferenze del Redentore il centro della loro vita religiosa debbano essere particolarmente pietosi, e pi di ogni altro scrupolosi nell'evitare azioni intese a dare o a prolungare dolori. Ma nessun principio "a priori" pu determinare o limitare le possibilit dell'esperienza. L'esperienza determinata solo dall'esperienza. Come dato storico di fatto, coloro che fanno delle sofferenze del Salvatore il centro della loro vita religiosa non sono stati particolarmente pietosi, non sono stati pi attenti degli altri nell'evitare d'infliggere dolori. Come dato storico di fatto, il buddismo ha sotto questo riguardo un passato assai migliore di quello del cristianesimo. Esaminiamo alcune delle ragioni per l'effettiva crudelt da un lato, e per l'indifferenza alle sofferenze dall'altro, che ha troppo spesso caratterizzato le azioni di ardenti cristiani. Anche considerata meramente come relazione del modo con cui un uomo buono fu accalappiato, torturato e messo ingiustamente a morte, la storia della Passione di per s abbastanza commovente; e il valore teologico, per coloro che l'accolgono per vero, l'arricchisce di una portata assai pi profonda. Le reazioni emotive del buon cristiano a questa storia sono sempre intense, ma, purtroppo, non sempre desiderabili. Considerate, anzitutto, quel tipo comune di reazione cos vivamente illustrato da un aneddoto su un contemporaneo di padre Giuseppe, Luigi de Crillon, detto "Le Brave". Nel suo ritiro ad Avignone, il vecchio guerriero ascoltava un giorno un sermone. Il predicatore parlava della passione di Cristo ed era pieno di fuoco e di eloquenza. A un tratto, a mezzo di una patetica descrizione della crocefissione, il vecchio balz in piedi, snud la spada che aveva usato cos eroicamente a Lepanto e contro gli ugonotti, e brandendola

al di sopra della testa, col gesto di chi balzi a difendere un innocente perseguitato, grid: O tais-tu, Crillon?. Raccontata in modo impressionante, la storia di un'ingiustizia crudele ha la forza di trascinare gli uomini a commettere ingiustizie di rappresaglia o contro gli autori o, qualora questi siano morti o fuori di mano, contro gli uomini e le donne che, per un abuso di termini fatalmente comune, vengono temporaneamente identificati con i criminali. I motivi che hanno mosso gli antisemiti i crociati, gli inquisitori e gli altri persecutori cristiani sono stati molti e vari; ma tra essi ha figurato quasi invariabilmente il desiderio di rivendicare, in un certo modo del tutto simbolico e pickwickiano, l'ingiustizia commessa sul Calvario. La Cristianit nella sua essenza emotiva ha due aspetti: su un lato della medaglia sono impresse la croce e le forme dell'adorazione pietosa; ma troppo spesso nel corso della storia, il retro della medaglia ha mostrato gli emblemi orridi della guerra e della crudelt sanguinaria. L'idea delle sofferenze patite a beneficio degli altri strettamente associata con la storia della Passione, e nella mente dei cristiani ha prodotto un effetto non meno duplice. La gratitudine verso un Dio che si vestito di umanit e ha sofferto affinch gli uomini potessero essere salvati dal meritato castigo, porta con s, quasi arbitrario corollario, la tesi che le sofferenze sono buone in se stesse e che, poich il sacrificio volontario di s meritorio e nobilita, vi debba essere qualcosa di splendido anche nel sacrificio involontario di s, imposto dall'esterno. Le parole seguenti sono tolte da una lettera indirizzata a un giornale da un religioso della Chiesa d'Inghilterra e pubblicata nella primavera del 1936: Il principio del soffrire per gli altri pervade tutta la storia, che ci mostra alcuni soffrire e morire per amore degli altri. La madre per il suo figliolo malato, il dottore nel suo laboratorio, il missionario tra gli atei, il soldato sul campo di battaglia: costoro soffrono e a volte muoiono affinch altri possano vivere e star bene ed essere felici. Non in accordo con questo grande principio che gli animali debbano sostenere la loro parte, soffrendo a volte e morendo, per contribuire a che i britanni si mantengano forti, e in buona salute, e coraggiosi?. Donde ne viene, naturalmente, che la caccia alla volpe qualcosa di assolutamente buono e cristiano. Che tali parole siano state scritte con tutta seriet da un ministro della religione, pu sembrare a molti quasi incredibile. Ma il fatto che siano state effettivamente scritte, ha un profondo significato: esso mostra, infatti, come possa divenire pericolosa l'idea del soffrire per gli altri e quali iniquit essa possa essere portata, in piena buona fede, a giustificare. Dio s'accoll su di s i peccati dell'umanit e mor affinch gli uomini potessero essere salvati. Di conseguenza (questa l'implicita deduzione che se ne viene a trarre), noi possiamo far guerra, sfruttare i poveri, render schiave le razze di colore, senza il minimo scrupolo di coscienza; le nostre vittime, infatti, illustrano il grande principio del soffrire per gli altri e, ben lungi dal far un torto, noi rendiamo loro un servizio rendendo loro possibile di "soffrire e morire, s che gli altri (noi stessi, in questo caso, per una felice coincidenza) possano vivere e star bene ed essere felici". Altro punto: le sofferenze degli uomini e, "a fortiori", degli animali non sono niente al confronto con le sofferenze di un Dio che assunse forma umana, si accoll i peccati del mondo ed elesse di espiarli tutti in un unico atto di sacrificio di s. Cos stando le cose, le sofferenze degli esseri umani e degli animali non hanno molta importanza. Una costante meditazione sulle sofferenze di Cristo e dei martiri pu portare il cristiano a un'indifferenza tutto sommato ammirevole per i suoi propri dolori; ma, a meno che egli non prenda ogni cura per coltivare in s una piet proporzionata al coraggio, pu finire per diventare indifferente ai dolori degli altri. Il bimbo che aveva singhiozzato tanto amaramente perch avevano fatto soffrire e ucciso il povero Ges, divenne l'uomo che, cinquant'anni pi tardi,

fece quanto era in suo potere per prolungare una guerra che aveva gi causato la morte di centinaia di migliaia dei suoi simili e stava portando i sopravvissuti al cannibalismo.

Capitolo 9. NIENTE DELUDE COME IL SUCCESSO. La "Tourne des Dupes" lasci Richelieu in posizione d'indiscussa autorit. Egli divenne stabilmente primo ministro del re e padre Giuseppe, cui fu dato appunto in questo periodo un seggio ufficiale nel Consiglio di Stato, fu fatto ministro degli Esteri permanente e, dal 1634 in poi, designato successore in caso di morte del Cardinale. Sulla vita del frate durante questi anni del suo massimo potere politico, abbiamo le pi particolareggiate notizie. Padre Giuseppe aveva la sua cella nel convento dei cappuccini in rue Saint-Honor, e una stanza riservata al Louvre. Ma per comodit del Cardinale, che desiderava consultarsi con lui su ogni problema importante, il cappuccino passava la maggior parte del tempo nelle stanze riservategli nella casa di campagna di Richelieu a Rueil, sei miglia a occidente di Parigi, o a Parigi stesso, al Palais Cardinal, ora Palais Royal. Qui, tra gli splendori pi che regali della corte di Richelieu, egli conduceva, come nel suo convento, una vita della semplicit e della regolarit pi austere. Estate e inverno, si alzava ogni mattina alle quattro. La prima ora del giorno era dedicata alla preghiera mentale: atti d'intenzione, di mortificazione, d'adorazione, seguiti prima da una meditazione discorsiva su qualche perfezione divina, e quindi dall'annientamento passivo nelle sofferenze di Cristo e nel Dio da Cristo incarnato. Poi, insieme con padre Angelo da Mortagne, suo segretario e fin dal 1619 suo costante compagno, leggeva i breviari. Il lavoro cominciava alle sei: padre Angelo leggeva ad alta voce, decifrandoli se necessario, i dispacci giunti dagli ambasciatori francesi e dagli agenti segreti delle quinte colonne di padre Giuseppe all'estero. A lettura finita, padre Giuseppe dettava le risposte. Tutto questo durava tre ore. Alle nove, le porte dell'appartamento venivano spalancate e il frate dava udienza agli alti funzionari del governo e agli ambasciatori di potenze straniere. In casi particolarmente spinosi e delicati, egli portava i visitatori dal Cardinale, ai cui appartamenti poteva accedere senza esser visto mediante una scala interna. Le udienze si prolungavano fino a mezzogiorno, e poco dopo, ora in cui il cappuccino si ritirava in una delle cappelle del palazzo in cui si trovava, a dir Messa. (Il Cardinale sentiva Messa alla stessa ora, ma - fatto abbastanza strano - in un'altra cappella.) Di ritorno dalle sue devozioni, padre Giuseppe trovava l'anticamera affollata di visitatori di ogni genere e di ogni condizione: uomini di corte venuti a chiedere un favore, frati che venivano a riferire della loro attivit missionaria tra gli ugonotti, funzionari in disgrazia, mogli angosciate con i mariti alla Bastiglia. Nessuno veniva mai mandato via senza essere stato ascoltato, e solo alla una passata padre Giuseppe

poteva sedere a mensa, per il primo pasto della giornata, che consisteva in una minestra e in "un unico piatto di carne, senza sughi o condimenti". Questa claustrale semplicit di dieta faceva una profonda impressione ai suoi contemporanei, letteralmente sbalorditi che un uomo nella sua posizione si dovesse contentare di cos poco. (Sia detto tra parentesi, quanto la facevano lunga i nostri antenati in materia di mangiare! Per tutto il medioevo, e per molto tempo dopo, fin quasi ai nostri giorni, un uomo che non bevesse vino e seguisse una dieta vegetariana o quasi, era considerato addirittura come persona di singolari e quasi eroiche virt. Le condizioni di vita sono cambiate e oggi milioni di persone non solo fanno a meno della carne e dell'alcool e non per questo si considerano martiri, ma ne sono del tutto soddisfatte e sarebbero quanto mai contrarie a mutare il loro sistema dietetico. Se i nostri antenati soffrirono e si sentirono virtuosi sotto un regime quaresimale, che molti considererebbero oggi abbastanza indulgente e gustoso, ci si deve alla fede che era in loro. Essi credevano nella carne e nell'alcool; e di conseguenza la mancanza della carne e dell'alcool costituiva per loro una terribile privazione.) A volte, padre Giuseppe mangiava alla tavola del Cardinale; ma quasi sempre prendeva i pasti nel suo appartamento, con il segretario e talvolta con qualche amico, ecclesiastico o letterato (di questi ultimi - specie se noiosi ed edificanti l'autore della "Turchiade" era costante patrono). Quando mangiava solo, padre Angelico, o un altro frate, leggeva ad alta voce qualche brano di libri di devozione o di storia della Chiesa. Padre Giuseppe non aveva danaro di suo n riceveva alcuno stipendio. Le spese per gli alimenti venivano tratte da un apposito fondo messo a disposizione dal re. Tale fondo era sufficiente a provvedere il frate, oltre che degli alimenti, di una carrozza (aveva ottenuto la "licenza" di andare in carrozza ovunque fosse chiamato dal suo ufficio), di un cocchiere e di quattro valletti, vestiti d'una bella livrea grigia e gialla. Dopo il pranzo, se c'era del lavoro urgente, veniva chiamato dal Cardinale. Il pi delle volte, per, aveva un paio d'ore libere per dare udienza. Appunto in queste ore la gente del gran mondo soleva venire a fargli omaggio e a chiedergli dei favori. Alle quattro salutava l'ultimo dei visitatori e, accompagnato da padre Angelo, scendeva in giardino o, quando pioveva, si ritirava in una delle gallerie del palazzo per recitare la restante parte dell'ufficio; dopo di che generalmente trovava il tempo per un altro periodo di preghiera mentale. Alle cinque era di nuovo al lavoro: le porte dell'appartamento venivano chiuse e per tre ore padre Giuseppe dettava pro-memoria per il re, libelli politici o lettere agli agenti del re all'estero. Alle otto cenava. La lista della cena non giunta fino a noi. Sappiamo solo che "per dolce prendeva sempre del pan di zenzero, sia che il pan di zenzero gli piacesse, sia che volesse in questo seguire il gusto del re, che ne mangiava assai spesso". Finito di cenare, il frate raggiungeva per la scala privata l'appartamento di Richelieu, e i due rimanevano chiusi a discutere gli affari di Stato fino all'ora di andare a letto. A volte, quando la situazione politica era stagnante, veniva ammesso qualche uomo di corte e si teneva conversazione, parlando un po' di tutto: della nuova Accademia Francese, di quelle tre unit che il signor Chapelin era cos desideroso d'introdurre nel teatro francese, della guerra in Germania, degli ultimi casi di stregoneria e di ossessi. Il letto su cui finalmente si ritirava padre Giuseppe era formato da un materasso duro e sottile, steso su tavole. Non c'erano lenzuola e il frate dormiva nella camicia ruvida che aveva indossato tutto il giorno sotto il saio macchiato e cencioso. Aveva, in seguito alle fustigazioni penitenziali, le spalle e il dorso coperti quasi sempre di cicatrici non rimarginate, e il primo contatto con il materasso doveva essere particolarmente doloroso. Ma padre Giuseppe era ben provato a tali sofferenze e aveva imparato non solo a sopportarle con

pazienza, ma a gioirne sinceramente; giacch si trattava di dolori imposti e sopportati per la maggior gloria di Dio e la salvezza della propria anima. La sua capacit di sopportazione del dolore fisico si era talmente sviluppata, mediante la lunga consuetudine, che negli ultimi anni della vita padre Giuseppe volle aggiungere alle mortificazioni religiose una tortura prescrittagli dai medici. Questa tortura, consistente in cauterizzazioni periodiche alla nuca, si riteneva gli giovasse contro la progressiva cecit. Ogni volta che abbassava il cappuccio gli si vedeva, sotto la tonsura, la cicatrice rossa e aperta di quelle ripetute bruciature. Questa era la vita abituale di padre Giuseppe, come politico. Ma questo ministro degli Esteri aveva altri doveri, non meno importanti per lui di quelli del ministero. Una o due volte alla settimana, egli lasciava il palazzo del Cardinale per passare la giornata tra i cappuccini di rue Saint-Honor, oppure nel convento di Marais delle monache del Calvario. In rue Saint-Honor, egli trattava i problemi di quella grande organizzazione di missioni all'interno e all'estero, alla cui testa si trovava fin dal 1625. Nel convento di Marais, egli predicava, faceva lezioni di filosofia scolastica e di psicologia, impartiva istruzioni sull'arte della preghiera mentale, ascoltava i resoconti di progressi spirituali e dava consigli alle monache su tutti i problemi della vita spirituale. Vale la pena di notare che a Parigi, come a Ratisbona, la reputazione di padre Giuseppe era assai cattiva; tanto cattiva che i contemporanei non s'inducevano ad accettare per vera questa spiegazione delle assenze settimanali del frate dalla corte. Si vociferava che, durante il tempo in cui avrebbe dovuto trovarsi con i cappuccini o con le monache del Calvario, egli di fatto si aggirasse travestito per la citt, o a far la spia per il Cardinale, o a dar danari e istruzioni ad agenti cos segreti e cos sinistri che non ci si poteva abboccare con loro se non di notte, a un angolo di strada o in qualche stanzetta interna di una bettola di cattiva fama. Il romanzo sempre pi povero e meno singolare dei fatti che esso deforma e semplifica oltremodo. Ii padre Giuseppe immaginario, che il prototipo della figura omonima e ridicolmente malvagia del "Cinq-Mars" di Vigny, semplicemente un personaggio noioso, mentre il vero padre Giuseppe muove attraverso la storia come uno degli enigmi pi ricchi di fascino. Naturalmente, coloro che conoscevano bene il cappuccino non caddero mai nell'errore di cui si pascevano i pettegolezzi del giorno. Ecco, per esempio, una descrizione lasciataci da Avaux, testimone degno di fede che ebbe modo di stare molto a contatto con il frate. Dopo aver parlato dello straordinario potere di concentrazione e della singolare capacit di lavoro di cui era dotato padre Giuseppe, Avaux dice: Per natura e per pratica volontaria, egli era una persona chiusa in s; una persona che, salvo per necessit, si abbandonava ben poco alla comune vita dei sensi, e che, oltre a osservare la regola del suo ordine, sembrava essersi prescritta una speciale regola sua propria. Godendo cos in pieno di tutte le facolt della sua anima, che non fu mai occupata da quelle distrazioni che riempiono per buona met le nostre vite, e avendo praticato regolarmente la meditazione, egli era in grado di giudicare in modo pi equilibrato cose e faccende. Questo padre Giuseppe, in quanto uomo di mondo, portato dall'autodisciplina e dalla consuetudine della concentrazione mentale a un grado di efficienza superiore a quella degli altri uomini. Per una relazione contemporanea relativa ad altri aspetti della personalit del frate, possiamo rivolgerci a Dom Tarisse, un eminente benedettino, che ebbe occasione di parlar spesso con padre Giuseppe e, al pari di Avaux, rimase sbalordito dal modo con cui un uomo con tante cose da fare, e cos importanti, riuscisse a concentrarsi su un qualunque problema, anche irrilevante, come se questo fosse la sua unica faccenda. A questa capacit di concentrazione intellettuale si accompagnava un tale controllo dei propri sentimenti, che, se mai gli accadeva, in mezzo a tanti e cos spinosi colloqui, di lasciarsi andare a dire qualcosa di un po' rude o di troppo enfatico, non aveva ancor

pronunciato le parole che lo si sentiva moderare il tono della voce e lo si vedeva sorridere. Dom Tarisse prosegue parlando dell'austerit della vita del frate e descrive la "rcollection incroyable" con cui riceveva il sacramento. Nel pieno di una faccenda, ci viene cos riferito, quando aveva pi fretta, se per caso la conversazione cadeva su soggetti spirituali, la faccia gli si illuminava ed egli si metteva a parlare della vita orante per un'ora di seguito, con tanta gioia, e sentimento e conoscenza che l'avreste preso per un eremita, per un uomo dedito continuamente all'orazione. E ancor pi sorprendente per Dom Tarisse era il modo con cui il frate dirigeva le monache del suo Ordine. Questo ministro degli Esteri, secondo in comando nel governo di un grande Stato, istruiva quelle monache nella vita spirituale con tanto fervore e tanta sapienza, con s elevata dottrina mistica, che il pi dotto dei contemplativi e degli spirituali non avrebbe potuto fare altrettanto. Questa vita austera e operosa aveva a sfondo una sempre pi vasta miseria nel popolo, un esercizio sempre pi spietato dei poteri da parte del governo. Le somme necessarie per finanziare la politica estera di padre Giuseppe e del Cardinale venivano estorte in Francia, soldo a soldo, da coloro che meno erano in grado di pagare. Il danaro osservava Richelieu con il tono di superiorit di chi vive sontuosamente a spese degli altri, il danaro non significa nulla, se raggiungiamo i nostri scopi. Avendo a cuore esclusivamente la politica estera, il grande gioco dei negoziati e delle guerre che si svolge tra i principi per la gloria personale e il prestigio dinastico, egli era pronto a spingersi a ogni eccesso all'interno. Per i privilegiati, fin tanto che non pretendessero di ergersi contro l'autorit centrale, Richelieu fu sempre in via di principio molto indulgente. Coloro che sentirono tutto il peso della tirannia fiscale di Richelieu furono i poveri: gli artigiani e i piccoli commercianti nelle citt, e nella campagne la massa amorfa dei contadini. Alla fine del regno di Enrico Quarto, la "taille", una tassa che colpiva gli appartenenti al terzo stato solo perch tali, ammontava a circa dieci milioni di libbre all'anno; alla fine del governo di Richelieu, una popolazione di poco maggiore pagava quattro volte e mezzo tanto. Le privazioni imposte dalla politica fiscale del Cardinale erano cos forti che pi volte le vittime disperate si ribellarono, pur sapendo in anticipo che la ribellione sarebbe stata inutile e che non ne avrebbe tratto se non la forca, il supplizio alla ruota, il marchio del ferro rovente, i lavori forzati e per coloro che restavano impuniti un trattamento ancora pi spietato da parte degli esattori delle tasse. A dispetto di tutto ci, le ribellioni si susseguirono. Vi furono rivolte nella Borgogna nel 1630, nella Provenza nel 1631, a Lione e a Parigi nel 1632, a Bordeaux nel 1635, in tutte le provincie della Francia sud-occidentale nel 1636, nella Normandia nel 1639. Richelieu mandava le sue truppe a soffocare i disordini e continuava ad emettere regolarmente decreti che stabilivano nuovi aumenti nelle tasse. Gliene dispiaceva per il popolo; ma, come scriveva con filosofia, "soltanto Dio pu trarre qualcosa dal nulla e le estorsioni, che sono di per s intollerabili, sono giustificate dalle necessit della guerra". Egli non si sofferm neppure a domandarsi se la guerra di per s fosse una necessit; che tale fosse, egli accett per cosa gi dimostrata. Al di l dei confini orientali della Francia la situazione era, manco a dirlo, incomparabilmente peggiore. Nel 1633 fu pubblicata a Parigi, "avec Privilge du Roy", una serie di incisioni, sotto un frontespizio adorno di fregi e recante le parole: "Les misres et les malheurs de la Guerre, reprsents par Jacques Callot, noble Lorrain, et mis en lumire par Israel, son ami". Al pari di "'Los desastres de la Guerra'", "Les misres et les malheurs" sono un documentario. Ogni serie d un quadro della guerra tratto dal vero; ma tratto, nel primo caso, da un artista di temperamento passionale e dotato di un'inimitabile capacit di esprimere in forma pittorica la sua indignazione e la sua commozione; nel secondo caso da un uomo dotato come artista di una totale astrazione emotiva congiunta in modo

veramente paradossale a una singolare capacit di rappresentazione viva della realt in tutti i suoi aspetti, quello orribile e quello piacevole, quello tragico e quello farsesco. Dei due, naturalmente, Goya artista pi grande; ma vi sono nell'arte di Callot delle qualit che fanno s che uno torni pi volte sui suoi disegni e li studi con un'ammirazione in cui rientrano l'attrazione e lo sbalordimento, e un senso di divertimento e un senso di orrore. Queste illustrazioni, piccole e cos dense, minutissime nei particolari eppure perfette nella composizione e nell'equilibrio, sono veramente qualcosa di unico: illustrazioni di feste e di maschere 0fiorentine, di personaggi della Commedia dell'Arte, di fiere e di carnevali, di soldati in parata, di tutte le complesse operazioni di un assedio, degli orrori e delle atrocit della guerra. Sono veramente qualcosa di unico, in quanto nessun altro artista si avvicinato alla materia della sua arte con uno spirito cos totalmente neutrale, con tanta imperturbabilit, con un tal grado di "ataraxia" pirronica. L'arte di Callot nel campo estetico l'equivalente della condotta personale di Francesco di Sales, con riferimento specifico a quel che fu detto di quel santo: ch'era indifferente per lui il trovarsi in stato di consolazione o di desolazione. Dedurre, peraltro, da questa caratteristica della sua arte che Callot fosse, dal punto di vista emotivo, indifferente alla scena da lui rappresentata, , naturalmente, arbitrario. In realt, il fatto che egli abbia scelto di rappresentare le miserie della guerra sta di per s a indicare che egli trovava tali miserie angosciose. L'imperturbabilit di Callot un'imperturbabilit di stile; e lo stile non affatto sempre o interamente l'uomo. In arte, la sincerit dipende dal talento. Un uomo senza talento incapace di esprimere "onestamente" i propri sentimenti e i propri pensieri; poich in tal caso il disegno stentato o il verso incerto non riescono a corrispondere con il processo mentale. Del pari, le qualit ereditarie e l'esercizio possono conferire a un uomo un certo genere di talento, che gli permette di dare espressione a una categoria di idee, ma non adatto ad esprimere altre categorie. Intrinsecamente, la precisione nitida ed elegante dello stile di Callot era pi consona a soggetti decorativi o topografici. Egli prefer, peraltro, applicare il suo talento alla rappresentazione di allegrie selvaggie e di orrori ancor pi selvaggi, a Francatrippa e ai suoi compagni nelle loro maschere e nei loro travestimenti carnevalizi, alle atrocit di una guerra particolarmente selvaggia. Ne risulta qualcosa di curioso in modo indicibile. E' come se l'argomento di "Per chi suona la campana" fosse stato trattato da Jane Austen nello stile di "Emma". Dignitosamente, impassibilmente, con una cura meticolosa per i particolari e una costante preoccupazione per l'eleganza formale, egli ci pone davanti, dapprima i bei preliminari di una campagna militare - le truppe in ordine di parata sotto i loro stendardi, quindi la campagna, battaglie tra le opposte armate, e infine, assai pi per esteso e con maggiori particolari, le sofferenze della popolazione civile per opera dei soldati saccheggiatori, e i feroci tentativi dei comandanti per imporre la disciplina. Di disegno in disegno seguiamo la documentazione che l'artista ci d di saccheggi, di assassini, di gesta di incendiari, di violazioni, di torture e di esecuzioni. Le piccole figure con i loro cappelli slabbrati, i pantaloni a sacco, gli stivaloni rovesciati sotto il ginocchio in una piega larga e floscia, sono l fissate nel pieno delle pi atroci attivit, ma sempre (grazie allo stile supremamente anti-espressionistico di Callot) con l'aria di ballerini colti nella posa di un balletto. In una delle incisioni c' una locanda che viene svaligiata. In un'altra dei soldati che si sono dati al brigantaggio di strada. Una terza ci mostra il salone di un palazzo: una mezza dozzina di furfanti sta aprendo a forza casse e stipi, e nello sfondo uno tien gi una signora, mentre il compagno, senza neppure prendersi la bega di togliersi il cappello, si prepara a violarla; sulla destra, c' un gruppo in piedi intorno a un fuoco fatto con mobili ridotti a pezzi, pende sul fuoco, appeso a testa in

gi da un gancio del soffitto, il cadavere del padron di casa, mentre un figlio, forse, o un servitore troppo fedele, sta seduto sul pavimento, ben legato, con i piedi in mezzo alle fiamme e alle spalle le spade dei tormentatori. E' orribile; ma l'orrore viene sterilizzato attraverso lo stile di Callot in simbolo coreografico dell'orrore. Il disegno successivo ci fa vedere una chiesa messa a fuoco e dei soldati che caricano gli ornamenti sacri su un carro, mentre da un convento vicino secondo le parole delle didascalie rimate che accompagnano le incisioni - altri soldati "...tirent des saints lieux les vierges desoles, qu'ils osent enlever pour estre violes." Circa una ventina di queste monache sono trascinate via per essere poi violate con comodo la sera intorno al fuoco del campo. Una - senza dubbio la pi giovane e la pi graziosa delle novizie - sollevata da due soldati e messa tra le braccia di un ufficiale montato su di un alto destriero. Un anno o due dopo, queste monache - quelle cio che fossero sopravvissute si sarebbero unite a quelle orde di maschi e di femmine che seguivano gli eserciti nei loro spostamenti per la Germania. Denutrite, coperte solo di pochi cenci fetenti, sifilitiche e piene di insetti, con i loro fagotti sulla schiena e trascinandosi dietro le loro creature nude e panciute, avrebbero marciato tutta l'estate dietro i loro padroni, si sarebbero piegate sotto le piogge e i geli degli inverni interminabili, fin quando, finalmente, il Dio che le aveva forse abbandonate non avesse di nuovo provato piet di loro, e sarebbero morte, per essere mangiate dai cani o fors'anche dai loro compagni affamati. Tale sarebbe stata probabilmente la sorte delle monache del Calvario di padre Giuseppe, se avessero vissuto dall'altro lato del Reno. Dopo le monache violate, Callot prosegue a rappresentare contadini uccisi o portati via come schiavi, viaggiatori sorpresi da un agguato nella foresta, derubati per avidit di danaro e massacrati per divertimento. Vengono quindi le meritate punizioni per ordine del generale (Sia detto incidentalmente, Callot sembra dimenticare che i generali erano spesso complici dei loro uomini, e che le rapine, gli incendi e i delitti, non erano sempre dovuti all'anarchia, ma venivano spesso usati deliberatamente per ragioni di strategia o come strumenti di una politica.) Alle punizioni dei soldati disubbidienti, Callot dedica cinque dei suoi migliori disegni. Nel primo, i soldati sono semplicemente torturati davanti a una gran folla di spettatori pieni di interesse. Ma questo solo il principio. Un secondo disegno ci mostra al centro una bella quercia dai cui rami pendono gi ventun cadaveri. Su una scala una ventiduesima vittima sta per essere mollata dal boia, mentre, tre o quattro pioli pi in basso, un frate le tiene un crocifisso davanti agli occhi. Un altro frate d la sua benedizione ad un ventitreesimo condannato ai piedi della scala; un ventiquattresimo gioca a dadi su un tamburo con un gruppo di alabardieri, mentre sul davanti della scena un altro frate occupato con il venticinquesimo condannato. Lontano, si possono vedere le tende dell'accampamento, e a mezza distanza le picche di due reggimenti di fanteria che si disegnano come lunghi fili contro il cielo. Nel disegno seguente, due moschettieri, con gran fiocchi di nastri pendenti dai pantaloni insaccati sotto al ginocchio, prendono di mira un malfattore legato a un palo. Tre o quattro cadaveri coprono il terreno dietro al palo, e un frate, che dal cappuccio appuntito riconosciamo per un cappuccino, sta parlando a un altro condannato che far presto la stessa fine. Parecchi ufficiali e un grosso cane da caccia scheletrito stanno a guardare. Altri frati appaiono nel disegno seguente in atto di preparare altri condannati a raggiungere un loro compagno che, questa volta, viene bruciato vivo. Sono colpevoli di sacrilegio; sono essi, infatti, che hanno dato fuoco alla chiesa che vediamo ardere nello sfondo. Callot conchiude la didascalia rimata con due versi che potrebbero trovar

posto in una delle "Cautionary Stories" di Jane e Ann Taylor: "Mais pour punition de les avoir brulez, sont eux-mmes enfin aux flammes immolez." Dopo di che passiamo all'esecuzione pi elaborata e pi terrificante nella impassibilit del disegno: quella di un "voleur inhumain" sottoposto alla ruota su un alto palco. Su di lui sta il carnefice, con la verga di ferro levata sopra la testa, pronto a frantumare uno degli arti della vittima; dal lato opposto della ruota un religioso in berretta si piega sul condannato ignudo, gli accosta il crocefisso al volto rovesciato, e muove le labbra alla preghiera tra gli urli che si susseguono. In un angolo del palco, in un bel mucchietto, come se fossero stati lasciati l da un uomo andato a fare una nuotata per tornare poco dopo, sono i vestiti del condannato e un cappello dalle falde larghe. Dalle esecuzioni Callot passa alle opere della giustizia provvidenziale e poetica. Nel primo dei tre disegni dedicati a questo soggetto si vede un certo numero di veterani mutilati che si trascinano su monconi di gambe. Il secondo ci fa vedere una piacevole passeggiata suburbana in periodo di tregua: l'esercito locale stato disciolto e la legge e l'ordine sono stati temporaneamente ristabiliti. Senza lavoro e privi della possibilit di rubare, i soldati sono ridotti a chiedere l'elemosina. Ma la loro "mendicit fait rire le passant", e alcuni si sono gi abbandonati in attesa della morte sui mucchi di letame al margine della strada. Pi drammatica la triste fine cui vanno incontro i soldati nel disegno seguente: qui i contadini infuriati si sono rivoltati contro i saccheggiatori, ne hanno attirata una compagnia in un'imboscata e la stanno massacrando. Al centro del disegno c' il corpo inerte di un fante seminudo, cui hanno gi strappato di dosso la camicia e la giacca. Gli son sopra due contadini, dei quali uno gli sta sfilando gli stivali, mentre l'altro, con un arnese da trebbiatura, percuote il cadavere, in una frenesia di odio accumulato contro tutti i soldati, in uno sforzo insensato di rifarsi, sia pure simbolicamente e su un corpo senza vita, per tutte le violenze subite durante i lunghi anni di guerra. Senza dubbio quella sera il trebbiatore torn in trionfo alla sua famiglia e al suo saccheggiato tugurio, con sulle spalle il fardello pesante del bottino: qualche chilo di farina, due o tre camicie, un po' stracciate vero e tutte macchiate di sangue, ma ancora portabili, un intero prosciutto, un paio di stivali, due pistole e una fiaschetta di liquore distillato. Ci fu una festa dopo il tramonto, e tutti erano felici e pieni di speranze. La pace n'eran tutti convinti - sarebbe ormai venuta da un momento all'altro, i soldati sarebbero svaniti e quell'incubo avrebbe avuto fine. Ma il trebbiatore e i suoi vicini erano dei poveri ignoranti; essi non sapevano nulla di quei due uomini che si trovavano a centinaia di miglia di distanza, a Parigi, l'uno vestito di scarlatto e l'altro di un grigio saio cencioso, e lavoravano tutto il giorno e buona parte della notte per far s che non vi fosse pace, che i soldati continuassero a marciare e l'incubo fosse prolungato. Nel 1633, quando Callot disegn quel ritratto nitido e impassibile dell'Uomo con la trebbia, la Guerra dei Trent'Anni era giunta esattamente a met del suo corso. Le "misres et malheurs" dovevano ancora prolungarsi per quindici anni. E' necessario ora ritornare agli avvenimenti politici e militari che furono la causa immediata di quelle miserie e di quelle sventure negli anni successivi al 1630. Nelle prime settimane del 1631, Gustavo Adolfo aveva finalmente accettato l'offerta d'oro, estorto da Richelieu ai disperati contadini francesi, e, insieme con l'oro, aveva accettato le condizioni del Cardinale. In virt del Trattato di Barwalde, il re di Svezia veniva assoldato per servire, in quella corrida europea, non come "espada", ma piuttosto come "banderillero" e "picador". Richelieu e padre Giuseppe non avevano alcun desiderio di

veder ucciso il mostro asburgico, specie da un "matador" protestante; la funzione di Gustavo era di ferire e di esaurire non solo il toro, ma anche se stesso e tutti i protestanti. Dopo di che la Francia si sarebbe fatta avanti e avrebbe occupato l'arena. Una politica analoga era stata seguita il secolo prima dal Papato, che aveva da un lato incoraggiato Carlo Quinto contro quei nemici dell'unit cattolica che erano i protestanti, e dall'altro i protestanti contro quella minaccia della sovranit pontificia, che era Carlo Quinto. Era una politica ingegnosa, ma non certo quella che poteva pi soddisfare i contribuenti francesi o i tedeschi vittime delle atrocit militari. Rifornito di moneta francese, Gustavo era pronto a entrare in azione; ma i protestanti, e specialmente il potente Elettore di Sassonia, Giovanni Giorgio, erano ancora riluttanti a unirsi a lui. All'inizio della stagione militare del 1631, Tilly avanz nella Germania nordorientale e, nella seconda met di marzo, annient una guarnigione svedese a Brandeburgo nuova. Quindici giorni dopo, Gustavo conquistava Francoforte sull'Oder e per rappresaglia uccideva esattamente tanti prigionieri cattolici per quanti svedesi erano stati massacrati da Tilly. Intanto Pappenheim, il luogotenente di Tilly, assediava Magdeburgo. La citt fu conquistata d'assalto il 10 maggio, messa a fuoco e la maggior parte dei suoi trentamila e pi abitanti fu massacrata. La Germania cattolica suon le campane, cant dei "Te Deum" e s'ubbriac in onore degli eroi conquistatori. Timorosi dell'imperatore e scettici quanto alle capacit militari di Gustavo Adolfo, i protestanti non osavano ancora dar espressione all'odio accesosi in loro. Esaltato dal successo, Ferdinando commise allora l'errore di rifiutare perentoriamente la richiesta rivoltagli dalla Sassonia per il ritiro dell'Editto di Restituzione, e procedette a invadere i territori dell'Elettore. Di conseguenza, Giovanni Giorgio si decise finalmente a unirsi agli svedesi. Tilly ebbe due scontri non decisivi con Gustavo, quindi si disimpegn muovendo su Lipsia. Gustavo lo segu e lo costrinse a battaglia a Breitenfeld, dove il 17 settembre gli inflisse una piena sconfitta. Da Lipsia, gli svedesi marciarono verso la Renania, e qui, in una parte del paese cui erano stati per alcuni anni risparmiati gli orrori della guerra e dell'occupazione militare, svernarono nell'abbondanza, mentre il loro capo organizzava i protestanti ora vincitori in una lega evangelica sotto il controllo svedese. Intanto, dai suoi palazzi a Praga e a Gitschin, Wallenstein continuava a mandare al conquistatore misteriosi emissari, offrendogli di unirsi a lui per costruire un nuovo e pi grande impero germanico libero dalle influenze francesi, spagnole e asburgiche e unito con le armi sotto la dittatura dei due pi grandi comandanti del secolo. Era il sogno grande e sfrenato di cui aveva parlato a padre Giuseppe un anno prima: forse il momento della realizzazione, pronosticato dalle stelle, era giunto. Ma Gustavo era poco incline a far alleanza con un uomo cos facilmente disposto a tradire i vecchi amici e a venir meno a un padrone indulgente, e le offerte provenienti dalla Boemia furono cortesemente declinate. Contro sua voglia, Wallenstein fu costretto a mantenere una dubbia sembianza di fedelt all'Imperatore. Nel marzo 1632 Gustavo mosse contro la Baviera. Gli eserciti imperiali furono ancora una volta sconfitti sul fiume Lech e Tilly mor poco dopo in seguito alle ferite ricevute. Augusta e Monaco furono occupate dagli svedesi e i contadini, che pochi anni prima erano stati indotti a un'infruttuosa rivolta dalla tirannia del loro governo, si trovarono alla merc di un esercito conquistatore. La disperazione costrinse l'Imperatore, secondo quanto padre Giuseppe e i pianeti avevano profetato, a rivolgersi di nuovo al Wallenstein, che usc dal suo ritiro e in poche settimane, con il solo fascino del suo nome, raccolse un grande esercito di mercenari di ogni nazionalit: scozzesi, ungheresi, irlandesi, croati, polacchi, spagnoli, italiani; tutti soldati di professione e tutti "Indifferenti a ogni bandiera, sia che fosse

l'Aquila bicipite, o il Giglio o il Leone," indifferenti a tutto fuorch alla prospettiva della paga, del bottino, delle donne e della possibilit di servire sotto un comandante capace e fino ad allora fortunato. I quattordici anni di guerra e il precedente lungo periodo di riarmo avevano creato in tutta Europa una classe di avventurieri delle armi, senza terra, senza casa, senza famiglia, senza alcun naturale sentimento di piet, senza religione o scrupoli, senza conoscenza di alcun mestiere se non quello della guerra e capaci solo di distruggere. A costoro la Guerra dei Trent'Anni sembr deplorevolmente breve. La guerra era per loro un interesse creato, e a ogni possibilit di pace essi reagivano con tutto il timore e tutta la furia dei vescovi alla minaccia di perdere l'autorit laica, o degli industriali tessili alla prospettiva di una legge che regolasse il lavoro dei fanciulli. Quando, nel 1648, fu finalmente firmata la pace di Westfalia, molti eserciti si ammutinarono e i comandanti trovarono ogni difficolt nel far loro accettare il "fait accompli". La smobilitazione fu graduale e si dov trascinare per un certo periodo di anni; ma anche cos non mancarono i disordini e molti mercenari non rientrarono mai nell'organismo sociale e conservarono, come banditi e ruffiani e assassini di professione, il carattere di parassiti acquistato durante i lunghi anni di guerra. Con questo esercito multicolore Wallenstein cacci i sassoni dalla Boemia e mosse quindi contro Gustavo. Per alcune settimane gli eserciti si fronteggiarono nelle vicinanze di Norimberga. Quindi, spinti dalla fame, in quella regione ormai totalmente devastata, gli svedesi si ritrassero in cerca di cibo. Wallenstein allora entr nella Sassonia e prese e devastarla con un'accuratezza straordinaria. Gustavo torn indietro e nel novembre lo costrinse a battaglia a Lutzen. L'esercito imperiale fu sconfitto, ma Gustavo fu ucciso in battaglia. La notizia della morte di Gustavo arrec un enorme sollievo a Richelieu e a padre Giuseppe. Da figlio devoto della Chiesa, padre Giuseppe aveva accettato il patto con la Svezia con una riluttanza vinta sola dalla convinzione che non c'era altro modo di assicurare la vittoria di quelli che erano per lui i veri principi cattolici. A proposito delle alleanze con i protestanti egli osservava in generale che uno dovrebbe farne uso come di una droga, che presa in piccole dosi un antidoto e presa in grandi dosi uccide senz'altro. Il guaio con Gustavo era che costui, essendo un genio militare di prima grandezza, aveva costretto i suoi alleati francesi a trangugiare dosi di protestantesimo assai pi grandi di quanto non fosse giovevole a uno stomaco cattolico. Ovvero, per rifarci a una metafora precedente, il "picador" era divenuto "espada" e quando l'incidente di Lutzen lo lev di mezzo, stava per inferire il colpo mortale alla potenza austriaca. Ma, come abbiamo visto, Richelieu non desiderava la fine della monarchia asburgica: egli voleva solo, secondo le parole di uno storico francese, rompere l'anello degli Stati cattolici riuniti intorno alla casa d'Austria e trarli sotto il patronato e la protezione della Francia. Le sue simpatie non erano per la Lega Evangelica, ma per il partito cattolico tedesco e il suo capo Massimiliano di Baviera. Se egli si serv dell'Inghilterra protestante, dell'Olanda protestante, della Danimarca protestante e infine della Svezia protestante, ci era dovuto al fatto che gli unici argomenti persuasivi che i principi cattolici tedeschi erano disposti ad ascoltate, erano quelli portati loro dagli eserciti anglicani, luterani e calvinisti. Gustavo aveva commesso l'increscioso errore di condurre troppo bene questi eserciti e di divenire cos, in pochi mesi, padrone di quasi tutta la Germania. La sua morte aveva raddrizzato la bilancia tra cattolici e protestanti, ristabilito l'equilibrio di forze distruggentisi a vicenda. A coloro che capivano la politica estera francese, quell'avvenimento parve provvidenziale; tanto provvidenziale in realt che molti si rifiutarono di considerarlo come un mero accidente. Corse voce che Gustavo fosse

stato ucciso non dai soldati di Wallenstein, ma da assassini che si trovavano nelle sue stesse file. E chi aveva assoldato questi assassini? Chi aveva impartito loro le istruzioni e trovato loro un posto vicino alla persona di Gustavo? Diamine, manco a dirlo, il capo del servizio segreto di Richelieu, il sinistro e onnipresente padre Giuseppe. Tale era la reputazione del frate che la gente ora collegava il suo nome con qualsiasi avvenimento strano e dubbio di quel tempo. Cos, non solo egli aveva progettato l'uccisione di Gustavo Adolfo, ma era anche profondamente implicato in quella "cause clbre" che fu per molti mesi soggetto favorito di conversazione a corte, tra la borghesia parigina e in tutte le citt di provincia, in ogni monastero, convento e vicariato per tutto il paese: il caso di padre Urbano Grandier di Loudun e delle monache che si diceva egli avesse stregato. Una finta possessione demoniaca, artatamente simulata da un intero convento di Orsoline isteriche, trascinate dai loro direttori spirituali; monaci complottanti con avvocati per dare falsa testimonianza contro un Ordine detestato e professionalmente e sessualmente rivale; un prete fornicatore, sorpreso in flagrante nell'atto della sua lussuria e della sua vanit e infine ucciso per sentenza di tribunale sotto falsa accusa e con ogni raffinatezza della crudelt: questa una storia che occupa un posto notevole negli annali della bestialit umana in generale e della bestialit religiosa in particolare. Le dicerie incriminarono in quella vicenda tutte e due le Eminenze, quella rossa e quella grigia. Si disse che Richelieu aveva iscenato la condanna al rogo di Grandier per vendicarsi di una satira di cui questi era ritenuto autore. Si disse che padre Giuseppe avesse stimolato i protagonisti dell'iniquo dramma per ragioni di mera vanit. Una volta esorcizzate, le Orsoline ebbero visioni di San Giuseppe, e queste apparizioni del suo divino omonimo sembra siano state prese dal cappuccino come un grazioso complimento personale. Entrambe le accuse erano infondate. Nell'affare di Loudun, n Richelieu n padre Giuseppe peccarono se non forse di debolezza. Pensando di acquistare un po' di popolarit associando il proprio nome a un caso che aveva suscitato tanta agitazione e (nei suoi primi stadi) tanto fanatico entusiasmo, Richelieu diede del danaro agli esorcisti che erano stati chiamati nel 1633 a operare sulle monache. Fu una mossa infelice, che sembr conferire una certa sanzione ufficiale al procedimento. Quanto all'intervento di padre Giuseppe, questi si limit a una visita a Loudun, a una breve inchiesta sul posto e a un affrettato ritorno a Parigi. Loudun era il nido del calabrone; e si lasci che il caso seguisse il suo terribile corso. Il 18 agosto 1634, Grandier fu debitamente bruciato vivo. Intanto, in Germania le cose andavano di male in peggio. Una nuova alleanza franco-protestante, la Lega di Heilbronn, venne formata nella primavera del 1633, con eserciti comandati da Bernardo di Saxe-Weimar, Horn e Baner. Avventuriero in cerca di un paese da governare, Bernardo si mise al lavoro per procurarsi un ducato. Rovesciando la politica dell'Imperatore di far tornare cattolici i protestanti, egli occup larghe zone nella Renania, se ne fece signore e cominci a imporre il protestantesimo alla popolazione cattolica. Questo gesto esercit sugli imperiali un effetto simile a quello prodotto sui protestanti dall'Editto di Restituzione quattro anni prima: li rianim alla guerra. Il breve tentativo di conversione forzata effettuato da Bernardo gett l'Imperatore in braccio agli spagnoli e al partito cattolico estremista. Wallenstein intanto continuava a lavorare per la realizzazione del suo vecchio sogno di una Germania unita; sotto un'autorit centrale controllata da lui stesso. Fatta una pace separata con l'Elettore di Sassonia, di cui sperava di servirsi come alleato, avanz verso il nord, sconfisse gli svedesi a Steinau, occup un certo numero di citt in cui Gustavo aveva lasciato delle guarnigioni e, avanzando fin quasi al Baltico, devast totalmente una parte del paese che, per pi di due anni era stata in certo grado immune dalle violenze militari. Mentre Wallenstein era impegnato nel nord, gli svedesi e i protestanti tedeschi erano analogamente occupati

nella Germania meridionale. L'occupazione di Ratisbona da parte di Bernardo fece richiamare Wallenstein, che abbandon il Mecklenburgo e la Pomerania senza aver conseguito altro risultato se non la devastazione di quelle regioni. La cattiva stagione paralizz ora entrambi gli eserciti. Gli uomini erano alloggiati in quartieri d'inverno a dar fondo alle magre riserve accumulate dalla popolazione civile. Wallenstein intanto perseguiva i suoi piani di far pace e di riunire la Germania sotto il suo dominio. Al tempo stesso, con l'aiuto degli agenti di padre Giuseppe e un certo numero di nobili cechi, intrigava per essere coronato re di Boemia. Allarmatosi, l'Imperatore lo licenzi per la seconda volta. Wallenstein si rivolse ai suoi ufficiali e cerc apertamente l'appoggio degli svedesi. Gli svedesi esitarono e la maggior parte degli ufficiali rimase fedele all'Imperatore. Wallenstein fu bandito, dov fuggire e il 25 febbraio del 1634 fu assassinato a Eger da due scozzesi presbiteriani e da un irlandese cattolico tutti e tre ufficiali del suo esercito poliglotta. Il posto di Wallenstein fu preso da Gallas, sotto il comando nominale del re d'Ungheria, figlio ed erede di Ferdinando. Ratisbona fu ripresa e Augusta, che nel 1632 era stata occupata da Gustavo, fu assediata dagli imperiali. La citt s'arrese l'anno seguente, dopo aver perduto quattro quinti della popolazione in seguito alla fame e alle malattie. Nell'estate del 1634, il Cardinale Infante, alla testa di quindicimila picche spagnole, pass le Alpi e si un alle forze del re d'Ungheria, suo cugino. Rubens ci ha lasciato una bella composizione che rappresenta il re bruno e il biondo Infante nell'atto di salutarsi a vicenda, con affetto misto a deferenza, in mezzo alle loro truppe e a un buon numero di aquile allegoriche, di corone d'alloro, divinit fluviali e muse. O si tratta forse delle virt cardinali? Chi sa? Questi capolavori madreperlacei di belle carni dipinte sono singolarmente simili gli uni agli altri, e non c' mai un contrassegno naturale che valga a far distinguere, che so io, Pasifae dalla Temperanza, o Bellona da Elena Fourment. Questo dipinto illumina un fatto troppo spesso ignorato dai "filosofi" della storia, e cio: che l'arte pu essere quasi totalmente estranea alla vita e che lo studio dei capolavori della pittura e della poesia e della musica getta assai poca luce sul carattere effettivo dell'et in cui essi furono prodotti. Chi potrebbe mai desumere da una collezione di dipinti del secolo decimoquinto la societ descritta da Machiavelli? Il pi delle volte, anche l'opera dell'artista pi "rappresentativo" mostra, nel migliore dei casi, quel che i contemporanei avrebbero desiderato di essere, e non quel che erano in effetto. Artisti come Rubens o Corneille possono offrire interesse dal punto di vista storico, non perch ci dicano qualcosa dei fatti concreti e dei veri personaggi del loro tempo, ma perch i loro dipinti e le loro tragedie illuminano cos vivamente alcuni aspetti dei sogni bovaristici da cui erano ossessionate le menti nel secolo decimosettimo: il sogno dello splendore sovrumano e il sogno della nobilt sovrumana, il desiderio di una magnificenza pi che persiana assurdamente congiunto con quello di un eroismo pi che spartano. Per un breve periodo il re e il Cardinale Infante riuscirono quasi a mantenersi all'altezza delle glorie dell'immaginaria pittura che di essi aveva fatto Pietro Paolo. Il 6 settembre, a Nordlingen, incontrarono il grosso dell'esercito svedese sotto il comando di Bernardo de Saxe-Weimar e gli diedero una schiacciante sconfitta. Eger aveva posto fine al sogno di Wallenstein di una Germania unita sotto un dittatore militare; Nordlingen pose fine al sogno di Gustavo di un grande impero protestante tedesco, sotto la guida di Stoccolma. E per quanto possa sembrare paradossale, Nordlingen mise anche fine al sogno di Ferdinando di un impero cattolico della controriforma sotto l'autorit degli Asburgo. La vittoria troppo decisiva di Gallas fece anticipare l'intervento attivo della Francia; e quell'intervento doveva in ultimo portare alla rovina definitiva della Spagna e all'esclusione permanente dell'Austria dalla Germania occidentale e

settentrionale. In Francia, i mesi successivi alla battaglia di Nordlingen furono passati a preparare uomini e armi per un'immensa campagna su parecchi fronti: in Italia, nella Valtellina, sul Reno, nelle Fiandre. Si raccolsero duecentomila uomini, si aumentarono di nuovo le tasse e s'intensific l'oppressione dei poveri. Nelle sue stanze fredde e nude a Rueil o nel Palais Cardinal, padre Giuseppe lavor pi sodo che mai all'esecuzione di una politica che gli riusciva sempre pi difficile di "annientare" nella volont di Dio coscientemente realizzata. Un aspetto di tale politica, in particolare, deve aver costretto a un eccessivo sforzo le capacit del contemplativo, ma anche del casista. Il crociato convinto si mise a cercare di negoziare, attraverso il principe di Transilvania, un accordo con i turchi, cui si sarebbe pagato un sussidio purch attaccassero gli Asburgo d'Austria per terra e gli Asburgo di Spagna con le loro galee e con una spedizione militare attraverso il Mediterraneo. Di fronte a se stesso e ad altri cattolici assaliti da scrupoli, padre Giuseppe giustific questo suo progetto con argomenti simili a quelli che aveva usato a difesa delle alleanze con i protestanti. Una piccola dose di turchi, egli sosteneva, si sarebbe dimostrata antidoto non solo contro la potenza degli Asburgo, ma anche (cosa abbastanza sorprendente) contro la potenza della Turchia. Come si aspettava padre Giuseppe di conseguire questa prodezza di omeopatia politica? La miglior risposta a questa domanda ci data dalle parole usate da Luigi Tredicesimo in una dichiarazione fatta al suo confessore, padre Gaussin: Mi piacerebbe che i turchi si trovassero a Madrid disse il re, sintetizzando i progetti ingegnosi del suo ministro, per costringere gli spagnoli a far pace con me, e mi unirei quindi agli spagnoli per far guerra ai turchi. E questa la "reductio ad absurdum" della politica di forza di Machiavelli: Tenebroso-Cavernoso aveva veramente superato se stesso. Fortunatamente, per i francesi forse non meno che per gli Asburgo, i turchi non aderirono all'alleanza proposta. I negoziati con il principe di Transilvania e, per suo tramite, con la Porta durarono fino alla morte di padre Giuseppe e furono a tratti rinnovati per alcuni anni dopo. Prima che potessero portar ad alcun risultato concreto, la firma della Pace di Westfalia rese inutile l'alleanza con la Turchia, e l'intero progetto fu silenziosamente fatto cadere. Mentre Richelieu e padre Giuseppe s'incamminavano verso un'aperta dichiarazione di guerra all'Austria, l'imperatore, per la prima volta, cercava davvero di fare la pace. Ritirandosi dalle posizioni estreme della Controriforma, Ferdinando si accord con Giovanni Giorgio di Sassonia per un compromesso sulla questione dell'Editto di Restituzione. L'Elettore, e qualsiasi altro principe protestante che lo desiderasse, poteva far pace con l'imperatore sulla base di un ritorno allo "status quo" del 1627. Questo trattato di pace, che fu finalmente concluso a Praga a met di maggio del 1635, offriva una base solida e abbastanza giusta per una pacificazione generale. Disgraziatamente, una settimana prima che fosse stato firmato, un araldo francese aveva fatto la sua apparizione sulla Grand Place di Bruxelles e, con elaborato cerimoniale medievale, aveva annunciato che sua Maest Cristianissima era in guerra con la Casa d'Austria. Uno o due giorni prima di questa dichiarazione di guerra, padre Giuseppe aveva scritto ad Avaux che l'intenzione del re di arrivare appena possibile a una pace generale con garanzie per l'avvenire: una pace che segner una nuova et dell'oro, una nuova et d'Augusto. I mezzi per raggiungere tale fine sono i seguenti: sostenere con l'azione di parecchi eserciti ogni negoziato promettente e ogni possibilit di pace. In altre parole, si doveva far la guerra affinch il mondo fosse liberato dagli Asburgo e reso sicuro per l'autocrazia borbonica, con Luigi che avrebbe rappresentato la prima parte non nel dramma (poich i drammi sono dinamici e padre Giuseppe accarezzava l'illusione, comune a quasi tutti i politici, di una sistemazione definitiva e duratura), ma in un magnifico e immutevole

"tableau vivant" dell'et augustea. Sia Richelieu sia padre Giuseppe credevano che la guerra sarebbe stata breve e decisiva. Il piano strategico francese di portare un attacco simultaneo su diversi fronti (piano, sia detto incidentalmente, concepito su una scala di vastit senza precedenti) era opportunamente diretto a frantumare la potenza austro-spagnola al primo colpo. Un'estate di operazioni militari avrebbe dovuto portare la vittoria decisiva. Il deplorevole fallimento di tale progetto fu dovuto a un insieme di ragioni: lo stato d'indisciplina dell'esercito francese e l'efficienza della fanteria spagnola, che era ancora (nonostante i metodi un po' antiquati dei comandi) senza confronti la migliore d'Europa; la difficolt, data l'organizzazione inadeguata di cui disponeva Richelieu, di rifornire forze cos disperse; e, infine, la penuria cronica di danaro. Salvo che nella Valtellina, i successi previsti non furono conseguiti. Il solo considerevole risultato della campagna del 1635 fu che l'Alsazia venne ridotta in condizioni quasi peggiori di quelle della Pomerania del 1630. La politica svolta da padre Giuseppe a Ratisbona port i suoi frutti con una carestia che fece morire la gente a decine di migliaia e trasform in cannibali molti dei sopravvissuti. Venivano sottratti alle forche i cadaveri ancora appesi dei malfattori perch servissero da carne da tavola, e chi aveva di recente perduto qualche familiare era costretto a montare la guardia ai cimiteri per impedire le attivit dei ladri di cadaveri. Dopo la battaglia di Nordlingen, molte migliaia di sciagurati al seguito dell'esercito protestante sconfitto presero a vagare in torme, quali gruppi di scimmie affamate, in una disperata ricerca di qualcosa da mangiare. I villaggi aperti furono sopraffatti e saccheggiati; e citt chiusero le porte e mandaron fuori i loro soldati per allontanare quelle turbe fameliche. Strasburgo lasci le porte aperte e vi si riversarono dentro trentamila creature che ormai non sembravano pi umane; poi, esaurita la carit dei cittadini, cominciarono a morire per le strade a centinaia. Gli anziani della citt dovettero cacciar via i sopravviventi a colpi di picca. A queste torme, vanno aggiunte le innumerevoli vittime delle violenze militari: i contadini che erano stati derubati di tutto, fin degli stessi mezzi di sussistenza, gli artigiani rovinati, i negozianti e i professionisti ridotti in estrema miseria. Per qualche tempo riuscivano ancora a vivere mangiando carogne ed erba; quindi morivano. Oppure s'imbattevano in soldati dell'uno o dell'altro esercito e venivano uccisi: non per quel che portavano addosso, poich non portavano nulla, ma solo per divertimento. Chi ha del danaro scrisse un contemporaneo un nemico per il soldato. Chi non ne ha, viene torturato perch non ne ha, e anche perch la consuetudine di commettere atrocit aveva sviluppato un gusto generale per le atrocit. Per la crudelt, come per la libidine, l'avarizia, la ghiottoneria e l'amore del potere, "l'appetit vient en mangeant". Di qui l'importanza di preservare a ogni costo la tradizione non ragionata della condotta civile, la convenzione sociale del comune decoro. Se voi li distruggete, un enorme quantit di uomini e di donne non trovando in s stessi alcuna ragione per cui non dovrebbero comportarsi come diavoli - si comportano in effetto come diavoli, e continuano cos fino a quando o finiscono per distruggere fisicamente se stessi, o si stancano della tensione e dell'incertezza della vita diabolica, oppure, per qualsivoglia provvidenziale ragione, scoprono in fondo alle loro anime le sorgenti nascoste della compassione, la bont che esiste in potenza, sia pure allo stato latente, anche negli uomini peggiori ed dai migliori tradotta pienamente in atto nello splendore sovrumano della santit. Nel 1635 la reazione dovuta alla guerra contro le norme del viver civile stava giungendo al culmine, e per vari anni in seguito il modo di comportarsi degli eserciti fu ancor pi diabolico di quanto non fosse stato nel periodo in cui Callot collezionava le sue impressioni per le "Misres et malheurs de la Guerre". E come diminuivano le riserve e le provviste a causa delle precedenti depredazioni, tanto pi selvaggi divenivano i metodi di

estorsione; e ancor pi selvaggi li rendeva la consuetudine, sviluppando in entrambe le parti il gusto delle crudelt. I soldati si divertivano a fare il tiro a segno sui civili che passavano; a lanciare i loro mastini non contro gli orsi o i tori, ma sugli esseri umani; a provare, a mo' di esperimento, quante volte e fino a quale profondit si potesse ferire un uomo senza ammazzarlo; a legare la gente a un cavalletto e a segarla in due quasi si trattasse di un tronco di legno. Tali furono i primi frutti dell'entrata in guerra di Richelieu. Nel secondo anno di guerra i ben congegnati piani del Cardinale e del cappuccino portarono all'invasione della Francia e quasi alla caduta di Parigi. L'insuccesso di una spedizione in Belgio da parte degli olandesi alleati di Richelieu e l'arrivo di rinforzi dalla Germania, resero possibile al Cardinale Infante di sfondare le difese francesi sul confine nord-occidentale. Corbie e La Chapelle furono occupate, fu traversata la Somme e gli spagnoli si spinsero fino d Compigne. Parigi, fortificata in modo del tutto inadeguato e praticamente indifesa (tutti gli eserciti francesi si trovavano lontani, sui confini e oltre), sembr si trovasse alla loro merc. Vi fu un panico generale e, insieme con il terrore, un violento movimento d'ira contro chi era la causa di quella situazione. Tutto l'odio popolare contro Richelieu, accumulato durante undici anni di governo che si pu dire avessero portato a ogni persona in tutto il paese travagli e privazioni, scoppi d'improvviso. Il popolo si ricord le tasse opprimenti e la favolosa ricchezza del Cardinale, la magnificenza piena di ostentazioni in cui lui viveva. Ricordarono anche la guerra insensata in Italia, la possibilit di concludere una pace, il rifiuto di firmare il trattato di Ratisbona: un rifiuto che l'opinione pubblica non attribuiva alla sua vera causa, la convinzione patriottica che la monarchia francese sarebbe stata servita meglio dalla guerra, ma esclusivamente all'ambizione personale del Cardinale, al suo desiderio di rendersi indispensabile trascinando il paese in una guerra che lui solo avrebbe potuto dirigere. Ebbene, egli aveva avuto la sua guerra; e cosa era accaduto? Gli spagnoli si trovavano a Compigne e di l in pochi giorni sarebbero stati a Parigi. Il popolo ricordava cosa era accaduto cinque anni prima a Magdeburgo e, ricordandosene, odiava con ancor maggiore frenesia il Cardinale. Richelieu era stato male e soffriva dello sforzo dell'eccessivo lavoro e per l'ansia continua. Il disastro imprevisto, il peso terribile della responsabilit e ora l'odio apertamente espressogli dal popolo furono troppo per lui. I suoi nervi non ressero: parl di dimettersi, di ritirarsi a vita privata e di lasciare ad altri il compito di negoziare con la Spagna. Ancora una volta, come alla Rochelle, intervenne padre Giuseppe. Con l'eloquenza e gli accenti profetici di Ezechiele, egli disse al Cardinale che il dimettersi ora voleva dire ritirarsi dal compito cui la provvidenza l'aveva palesemente chiamato, voleva dire rigettare la sua croce, insultare la volont di Dio, arrendersi alle forze del male. Il Cardinale sent tornare in s forza e calore a queste parole. Quella divinit su cui da giovane aveva scritto catechismi e trattati teologici, che aveva difeso contro gli eretici e di cui giornalmente leggeva nel breviario, di cui sentiva parlare e che perfino (non aveva alcun dubbio al riguardo) percepiva effettivamente nella Messa: quella divinit, mentre Ezechiele parlava, sembrava assumere una nuova realt e un nuovo potere di redenzione. Con l'aiuto di Dio: quante volte (e quanto meccanicamente) aveva pronunciato e scritto queste parole! Ritto di fronte a lui nel saio vecchio e sporco, gli occhi brillanti della luce dell'ispirazione, la voce profonda vibrante di appassionato fervore, Ezechiele gli diede la sensazione effettiva che quelle parole avessero un significato. Per Richelieu il frate era il tramite vivente attraverso cui fluiva nella sua anima una forza che veniva da oltre il mondo del tempo e della contingenza. Padre Giuseppe, nelle sue esortazioni, pass dal generale al particolare; non bastava, insist, resistere alla tentazione di rinunciare; non bastava tornare a lavorare nei recessi ben protetti

del suo palazzo. Richelieu doveva uscire e mostrarsi al popolo, doveva con le parole e con l'esempio ravvivarne il coraggio, ridargli la fede nei destini della Francia. Che egli si offrisse di guidarli nella difesa del paese, e il popolo l'avrebbe seguito con entusiasmo. Al pensiero della folla parigina la folla che aveva tratto Concini dalla fossa e aveva danzato con oscena allegria intorno alla carcassa mutilata, la folla che ora l'odiava non meno fortemente di quanto avesse odiato il favorito italiano vent'anni prima - Richelieu si sent abbandonare da quel senso della potenza salvatrice di Dio. Esit, cominci a discutere, prese a suggerire altre e meno azzardose soluzioni. Padre Giuseppe osserv i segni di quell'infiacchimento morale e lasci di colpo andare il tono profetico e assunse la libert quasi brutale del vecchio amico, del compagno d'armi, del pari grado. Egli disse senz'altro al Cardinale che si stava comportando "comme une poule mouille". Era un insulto - giacch nel linguaggio popolare la gallina bagnata figurava come simbolo della codardia, - ma era l'insulto di un amico che intendeva non insultare semplicemente, ma attraverso l'insulto ridare forza e vigore. Le parole ebbero l'effetto sperato da padre Giuseppe. Richelieu si tir su, fece chiamare la sua carrozza e si fece portare senza scorta per le vie di Parigi. Fermatosi dove la folla era pi fitta, il Cardinale si sporse dalla carrozza e parl al popolo, esortandolo a farsi animo, a rimanere calmo, ad arruolarsi per la difesa della citt. I parigini lo applaudirono entusiasti. Ammirando il coraggio dell'uomo che da "poule mouille" s'era trasformato nel pi asciutto dei leoni, il popolo dimentic il suo odio. Per un breve periodo il Cardinale godette quasi di popolarit. Parigi fu salvata a un tempo dall'ardore dei suoi difensori civili e dall'incompetenza dei generali nemici. Invece di attaccar subito, gli spagnoli indugiarono a Compigne, dando alla milizia parigina il tempo di organizzarsi e a rinforzi di mercenari la possibilit di giungere da fronti lontani. Perduta cos l'occasione propizia, gli spagnoli si diressero di nuovo al nord senza dare battaglia, lasciando soltanto una guarnigione nella citt di Corbie, la quale infine dovette arrendersi a novembre dopo ripetute profezie al riguardo da parte delle ispirate monache di padre Giuseppe. Dopo di ci, la guerra si stabilizz in una monotona alternativa di successi e di rovesci del pari non decisivi. Nella Germania settentrionale, gli Svedesi combattevano contro gli imperiali e i sassoni. Gli olandesi combattevano contro gli spagnoli nei Paesi Bassi e sul mare. Gli eserciti francesi combattevano gli spagnoli e gli imperialisti e i bavaresi nella Renania. Bernardo di Saxe-Weimar si avanzava e si ritirava dalla sua base nell'Alsazia, provincia di cui sperava ottimisticamente di farsi duca (sebbene il Cardinale avesse altri piani). In Italia le truppe francesi cooperavano con quelle della Savoia in azioni non molto conclusive contro gli spagnoli del Milanese. E da Bayonne a Perpignano altri eserciti francesi alternativamente invadevano la Spagna e ne venivano respinti. Il primo successo veramente significativo non si ebbe se non un giorno o due prima della morte di padre Giuseppe, quando Bernardo di Saxe-Weimar occup Breisach, la fortezza dominante la via di comunicazione tra l'Italia e i Paesi Bassi. (Pochi mesi dopo la Provvidenza volle che Bernardo morisse di febbri, con il che venne a risolversi la spinosa questione del ducato e il suo esercito semi-indipendente venne a essere incorporato nelle forze francesi.) Ma Breisach fu solo il principio e solo nel 1643, quando il Cardinale era morto, la guerra che avrebbe dovuto essere cos breve e risolutiva volse decisamente in favore della Francia. A Rocroi, il duca di Enghien annient totalmente l'esercito di veterani dei Paesi Bassi, che era il nerbo della potenza spagnola. Da allora il grande arco dell'impero asburgico eretto da Carlo Quinto e da Filippo Secondo cominci a crollare. Il trattato di Westfalia, nel 1648, pose termine alle aspirazioni austriache e quello dei Pirenei, nel 1660, segn il definitivo disintegrarsi della Spagna e l'elevarsi della Francia all'egemonia europea. Ma tutto questo

doveva ancora avvenire: nei loro ultimi anni, padre Giuseppe e il Cardinale si trovarono a dirigere una guerra che senz'essere disastrosa era ben lungi dal potersi dire ricca di successo. Negli anni successivi al ritorno da Ratisbona, padre Giuseppe aveva visto costantemente crescere il suo potere politico. Non solo egli era il braccio destro del Cardinale; ma godeva anche al massimo grado il favore del re. Luigi ne ammirava i talenti, ne aveva in gran rispetto l'integrit per quanto si riferiva ai rapporti personali, ed era inoltre grato al frate per quel che aveva fatto, a volte anche con buon successo, per stimolare la buona armonia e l'ordine nell'ambito dell'intollerante famiglia reale. E non basta. Devoto fino alla superstizione, Luigi Tredicesimo provava una specie di venerazione in presenza di un ministro degli Esteri che era anche un contemplativo, un profeta, e il fondatore di uno degli ordini religiosi pi austeri che contasse la Chiesa Cattolica. Egli ammirava la serenit senza sforzo dell'uomo che attraverso l'esercizio incessante della meditazione, si era addestrato a un cos perfetto dominio di s. Ancor pi profondamente era impressionato dalle subite veemenze da profeta del Vecchio Testamento, dalle ispirazioni - a volte attraverso una delle monache del Calvario da lui dirette - del visionario estatico. Al pari della maggior parte delle persone incolte, il re prendeva il massimo interesse a questo lato spiritualmente oscuro, ma spettacolare, della vita contemplativa. Egli era vivamente impressionato dai "siddhis", per dirla con gli indiani: le potenze psichiche che possono essere suscitate mediante la meditazione e a cui i mistici pi saggi prestano la minima attenzione possibile. A questo riguardo, padre Giuseppe non era tanto progredito quanto alcuni dei suoi pi giovani contemporanei - Olier, per esempio - di cui abbiamo gi citato le opinioni in proposito. Anche nei giorni primi e pi felici della sua vita mistica, padre Giuseppe era rimasto intensamente ortodosso; e la cristianit ortodossa ha sempre avuto la tendenza di sopravvalutare gli avvenimenti soprannaturali di identificare l'insolito con il divino, di confondere quel che meramente psichico con lo spirituale. Questo culto dello stravagante un fenomeno che si pu osservare su due piani distinti, quello primitivo e quello altamente spirituale: il piano della gente semplice e credulona come Luigi Tredicesimo e la media dei contadini, e quello degli scienziati impressionati dalla testimonianza di cose che non possono essere spiegate nei termini delle ipotesi correnti, di un Pascal, per esempio, che partendo dai miracoli argomenta la verit della teologia cristiana, di un Descartes che da giovane perdeva il suo tempo con le pratiche dei rosicruciani, di un Oliver Lodge che costruisce una religione fondandola sulla testimonianza implicante il sopravvivere alla morte di un certo fattore psichico, di un Carrel impressionato dal sovrannaturale cicatrizzarsi di una ferita e dalla potenza della preghiera. Abituati come sono a concentrarsi sugli avvenimenti del mondo dello spazio e del tempo, gli uomini di scienza sono particolarmente suscettibili, allorch divengono religiosi, a volgersi verso quella specie primitiva di religione in cui i "miracoli" rappresentano una parte importante. Essi si preoccupano meno del "regno interiore dei cieli" che non dei suoi "segni" esteriori, meno della conoscenza dell'eternit che del potere nello spazio-tempo. In una parola la loro religione non mistica, ma una specie di occultismo. Occultismo e misticismo sono presenti in tutte le religioni storiche: molto del primo e ben poco del secondo. Come dato biografico, molti uomini e molte donne di grande penetrazione spirituale hanno cominciato la loro carriera religiosa come occultisti, assai interessati nei "segni", e son finiti come puri mistici, esclusivamente o principalmente interessati nel regno dei cieli, nella visione beatifica, nella conoscenza della realt eterna. Assai pi numerosi sono coloro che si sono messi in cammino per la strada del misticismo, ma non si sono mai completamente liberati dell'occultismo in cui erano stati educati. Padre Giuseppe era appunto uno di questi ultimi. Egli aveva intrapreso l'annientamento passivo e

attivo, in modo che la sua anima potesse essere idonea a unirsi con la divinit eterna e senza forma; ma egli attribuiva anche grande importanza ai "siddhis" e, in realt, a ogni fenomeno psichico insolito che potesse manifestarsi nel corso delle sue meditazioni. E insegnava alle sue monache quel che praticava egli stesso. Le monache del Calvario venivano pertanto istruite minutamente nell'arte della preghiera mentale, ma erano anche incoraggiate a coltivare i loro "siddhis" e a porgere molta attenzione alle attivit del loro subcosciente. Come abbiamo gi visto, padre Giuseppe si serviva dei conventi affidati alle sue cure non solo come macchine di preghiera per la materializzazione di favori divini, ma anche come macchine profetiche per affinare le previsioni politiche e militari. Non solo: in risposta alle lettere che egli scriveva sulla situazione di corte assai insoddisfacente, le monache ricevevano dall'alto ammonimenti rivolti agli alti personaggi che in quel momento stavano dando pi fastidi. Di queste rivelazioni veniva scritta una relazione e mandata a padre Giuseppe, che la passava, con gli adeguati commenti di Ezechiele, alla parte interessata. Ecco, per esempio, un messaggio per Luigi Tredicesimo, trasmesso da Cristo, raccolto da una delle monache del Calvario e letto ad alta voce da padre Giuseppe al suo regale signore. In questo momento (tali sono le precise parole della Seconda Persona della Trinit) essenziale che il re applichi tutta la sua mente alla guerra, prendendo cura di far sapere ai suoi servi che egli li compenser o li punir a seconda delle loro azioni; e cos via, con molti consigli utili circa la condotta di un sovrano in tempo di guerra. La rivelazione si chiudeva con un ammonimento a Luigi perch fosse pi attivo e la smettesse d'indulgere ai suoi neri stati d'animo di depressione e di autocommiserazione. Luigi ascoltava umilmente comunicazioni di questo genere e i commenti con cui il frate le accompagnava, con la sensazione, piena di paura e di rispetto, d'essere assai vicino alla fonte di ogni bont e potenza e conoscenza. Ben risoluto a correggersi, il re registrava questa sua buona intenzione in un documento formale da lui firmato e suggellato con tanto di testimoni: una specie di contratto fatto con la parte migliore di s. Assolutamente deciso a far fronte ai suoi impegni, imponeva a se stesso con tutta la sua energia di obbedire al comandamento divino. Ma dopo pochi giorni, ahim, queste decisioni si rivelavano troppo pesanti per il suo povero temperamento di neurotico. La vecchia indecisione veniva a paralizzare di nuovo ogni suo sforzo per lavorare sul serio; il vecchio patologico senso del tedio gli impediva di interessarsi perfino della guerra; il vecchio senso di colpevolezza e di inferiorit veniva di nuovo a oscurargli il mondo e a renderglielo orribile ed opprimente. Ezechiele doveva di nuovo correre alla riscossa con un'altra rivelazione e un'altra esplosione d'eloquenza profetica. Fin dal 1632 era stato deciso, in forma non ufficiale, che in caso di morte di Richelieu, padre Giuseppe ne avrebbe preso il posto come presidente del Consiglio di Stato. Affinch egli potesse, in tale eventualit, parlare con l'autorit necessaria, era indispensabile che fosse fatto principe della Chiesa. Per mezzo del suo ambasciatore a Roma, Luigi chiese che alla prossima nomina di cardinali un cappello fosse riservato per padre Giuseppe. Per sei anni la richiesta fu ripetuta, con crescente insistenza. Ma, nonostante la sua ammirazione per la "Turchiade" e la sua personale simpatia per l'autore, Urbano Ottavo non si sentiva disposto a soddisfare il desiderio del re di Francia. Le ragioni per cui il papa non voleva dare il cappello cardinalizio a padre Giuseppe erano diverse. Anzitutto, c'era gi un cappuccino cardinale e questi si sarebbe decisamente opposto a ogni tentativo di dargli un rivale e concorrenti nel Sacro Collegio. V'era poi l'imperatore Ferdinando che ricordava l'incontro con padre Giuseppe a Ratisbona e non desiderava vedere un suo nemico, tanto potente, elevato a una posizione in cui avrebbe potuto essere ancor pi pericoloso per gli interessi austriaci.

Obbiezioni analoghe venivano fatte a Madrid. Infine v'era un fatto che nessun papa della Controriforma poteva ignorare senza pericolo, e cio che padre Giuseppe aveva la peggior reputazione possibile nel mondo cattolico, laico ed ecclesiastico. Ben noto gi prima della Dieta di Ratisbona, il cappuccino era salito dal 1630 in poi a una singolare eminenza di cattiva fama. Tutto considerato, non c' da meravigliarsi che il papa abbia rifiutato s a lungo di soddisfare la richiesta di Sua Maest Cristianissima. La cosa sorprendente , piuttosto, che alla fine abbia accondisceso. Nel 1638 il cappello fu definitivamente promesso: troppo tardi, giacch il frate mor prima di poterlo ricevere. L'uomo cui padre Giuseppe avrebbe dovuto succedere, gli sopravvisse di quattro anni malato vero, ma fino all'ultimo nel pieno possesso dell'intelligenza e di quell'inflessibile volont che l'avevano portato al potere e ve l'avevano mantenuto per diciotto anni. Nella vita di Richelieu, come in quella di tutti gli invalidi cronici, vi furono alti e bassi periodici, un alternarsi di miglioramenti e di peggioramenti. Nel 1632 l'anno in cui venne richiesto per la prima volta il cappello per padre Giuseppe Richelieu soffriva gravemente dell'aggravarsi di un male che aveva cominciato ad affliggerlo dieci anni prima. Le emorroidi - di questo infatti soffriva il Cardinale - possono essere molto dolorose ed esaurire e deprimere anche il vigore della mente. Unite ad altre indisposizioni, esse demoralizzarono di molto il Cardinale. Nel Seicento e nel Settecento non c'era fatto della vita di un eminente personaggio che fosse del tutto privato. Anche l'atto di evacuare era spesso compiuto in pubblico e per coloro qualificati dal rango nobiliare a tale privilegio, i re e le principesse ricevevano e facevano conversazione stando seduti sulla "chaise perce". Non meno pubbliche erano le malattie e le forme anche pi intime di cura. I clisteri di Luigi Quattordicesimo formavano argomento di discussione per tutta la Corte e la sua fistola all'ano era materia di preoccupazione nazionale. Una generazione prima, era accaduta la medesima cosa per le emorroidi del Cardinale. Non c'era remoto angolo del regno in cui non ne fosse giunta la notizia. Al Cardinale pervenivano le espressioni di simpatia di quanti erano in grado di comprenderlo e molti rimedi considerati infallibili, tra gli altri una polvere inventata da un cappuccino e di cui si assicurava l'efficacia curativa non solo per le emorroidi del Cardinale ma anche per la mancanza di prole del re. Riusciti vani tutti questi rimedi, una deputazione di religiosi si rec alla cattedra di Meaux e ne torn con le reliquie di un eremita irlandese del secolo settimo, patrono di Brie che ha dato il suo nome a un tipo di carrozza a nolo, San Fiacre. Le reliquie furono debitamente applicate; ma, a dispetto della sua alta reputazione come rimarginatore di ferite, San Fiacre non ebbe pi successo degli altri. Della qual cosa vien fatto di dolersi non solo per il povero Richelieu, ma anche perch l'insuccesso di San Fiacre ci ha privato di un po' di letteratura curiosa e forse di qualche splendida opera d'arte. E' facile immaginare, se il miracolo si fosse verificato, quante odi sarebbero state scritte da diversi poeti a celebrazione dell'avvenimento. Si sarebbe trattato certo di composizioni pi stravaganti che buone; ma non lo stesso si sarebbe potuto dire dell'enorme composizione di Rubens, che sarebbe stata qualcosa di bellezza e di magnificenza indefinibili. Avvolto in una cascata di seta rossa, Richelieu s'inginocchia in primo piano a destra e leva i neri occhi privi di espressione verso un cielo ove, nell'angolo superiore a sinistra e a un'altezza di circa una sessantina di metri, la Santa Trinit e la Vergine guardano da una morbida nube, considerevolmente rimpiccioliti ma con un'espressione piena di eloquente benevolenza. Un trenta centimetri sopra la testa del Cardinale, in atto di discendere dal cielo, si vede San Fiacre, con la barba lunga e il mantello cencioso di panno tessuto in casa quale si conviene a un anacoreta. Solleva una mano nella benedizione, e porta sull'altro braccio, ripiegato, i suoi emblemi: una fetta di formaggio di Brie, il suo bastone irlandese di quercia, e una carrozza

in miniatura. E seguito da una squadra di cherubini che si tuffano a testa in gi, dall'alto, mentre in distanza, su un magnifico paesaggio, si vede l'assedio di La Rochelle nel suo colmo. Immediatamente sopra e dietro il Cardinale, Luigi Tredicesimo sta in piedi, alla sommit di una scalea, con la sinistra al fianco e la destra appoggiata a una lunga canna di Malacca. Su lui si libra la Vittoria, con una scia di panneggiamenti rosa, mentre l'immagine livida dell'Eresia striscia in terra a distanza. Nella parte inferiore della tela, subito sotto alla Trinit e quasi in primo piano, vediamo un gruppo formato da padre Giuseppe in atto di preghiera, dalla Sacra Teologia, in bianco e celeste, e da una giovane donna di Antwerp, ignuda, che simboleggia le "Literae Humaniores" e indica una lastra di marmo con un'iscrizione latina che allude alla fondazione della Acadmie Franaise... Ma, ahim, questa magnifica opera d'arte non fu mai dipinta; le ossa di San Fiacre furono riportate a Meaux e l'infelice Cardinale continu a soffrire le pene dell'inferno. Gli effetti deprimenti di questa e di altre malattie contribuirono al collasso nervoso di Richelieu nel 1636. L'intervento di padre Giuseppe aiut il Cardinale a superare la crisi psicologica, ma non pot far nulla, naturalmente, per eliminarne la causa fisica. Dopo la crisi, Richelieu rimase pur sempre un malato, profondamente depresso dalle sue infermit e bisognoso sempre di appoggio morale non meno che di assistenza medica. Per il primo, si rivolgeva a padre Giuseppe, che combatteva gli scoraggiamenti del suo amico con frequenti discorsi sulla religione e con esortazioni a una vita migliore. Sotto l'influenza di questi discorsi Richelieu cominci a dar prove d'insolita devozione: faceva continue e cospicue donazioni in danaro a istituzioni religiose; si confessava spesso e regolarmente, e prendeva la Comunione ogni settimana. Cosa ancor pi sorprendente, il Cardinale compose tra il 1636 e il 1639 un "Trattato della perfezione cristiana", in cui sosteneva quel che padre Giuseppe e il suo maestro Benedetto Fitch avevano chiamato "annientamento attivo", e frate Lorenzo e la maggior parte degli altri mistici avevano descritto come "pratica della presenza di Dio". E' sufficiente scriveva Richelieu mettersi varie volte al giorno alla presenza divina e non compiere alcuna azione che valga a distruggerla; poich certo che la presenza divina rimane in noi fin a quando non compiamo qualche azione che le sia contraria. Si pu ritenere che egli praticasse, almeno in certa misura, quanto predicava. E con effetti confortanti. Infatti, sebbene avesse avuto sempre paura dell'inferno, il Cardinale affront la morte senza alcuno scrupolo di coscienza e con l'evidente convinzione di non aver fatto nulla per meritare di essere dannato. Il prete che gli fu accanto nelle ultime ore, l'ammon di preparar l'anima all'incontro con il Creatore perdonando a tutti i suoi nemici. Dal letto di morte il Cardinale serenamente rispose che non aveva mai avuto alcun nemico, salvo quelli dello Stato. C' qualcosa che incute rispetto in un autocompiacimento cos grande ed espresso in un simile momento. Quando la notizia della morte del Cardinale fu portata a Urbano Ottavo, il vecchio pontefice rimase un momento pensoso. Poi disse: Ebbene, se c' Dio, il Cardinal Richelieu dovr render conto di molte cose. Se non c', allora ha fatto molto bene. Intanto, l'uomo cui Richelieu si volgeva per trarne un appoggio morale ("'o est mon appui?'" grid quando gli dissero della morte di padre Giuseppe, "'j'ai perdu mon appui'") aveva egli stesso bisogno di conforto. Il suo tentativo di conseguire il meglio in entrambi i mondi - di essere a un tempo un uomo politico interessato a promuovere gli interessi dei Borboni e un contemplativo interessato ad adorare Dio "nello spirito e nella verit" - era fallito e padre Giuseppe veniva acquistando una consapevolezza sempre pi viva di questo fallimento. Richelieu, essendo essenzialmente inconsapevole della vera natura di Dio, poteva dire blandamente che era sufficiente mettersi varie volte al giorno nella presenza divina e non compiere alcuna azione che possa distruggerla. Padre Giuseppe conosceva qualcosa di Dio e sapeva di conseguenza che questo non era sufficiente, e che azioni, ritenute da

un uomo come Richelieu incapaci di distruggere la presenza divina, erano assolutamente fatali alla presenza della realt quale in se stessa. Egli aveva cercato di annientare le sue attivit di ministro degli Esteri, di negoziatore, di capo di agenti segreti, di scrittore di libelli politici; ma queste attivit erano state troppe e intrinsecamente troppo cattive per poter essere annientate. In qualsiasi condizione della vita aveva scritto il cappuccino vent'anni prima, necessario che ogni individuo sia in grado, nel colmo della tempesta, di sollevare gli occhi, quando sorga il bisogno, verso la sovrana bont, come verso una torcia fiammeggiante che a lui accenna di lontano e verso cui lui tende con questo atto d'unione, non invero come uno degli esseri perfetti nei loro gradi di maggior eminenza non con tutte le vele spiegate e sul mare aperto di una totale denudazione di s, di un abbandono completo di tutti i mezzi ordinari, a modo delle grandi navi che varcano gli oceani, - ma costeggiando la spiaggia ben nota, senza rinunciare alla meditazione e agli altri ausili descritti in questo Metodo, che conducono all'Unione. Ebbene, egli era stato un novizio, e aveva costeggiato la spiaggia della preghiera vocale e della meditazione discorsiva; poi divenuto pi capace nella contemplazione pura, si era spinto sempre pi lontano nel mare sconfinato della realt divina. Poi Richelieu era apparso nella sua vita e padre Giuseppe aveva ritenuto suo dovere fare la volont esterna di Dio, servendo quello strumento della Provvidenza che era la monarchia francese. In principio non aveva avuto alcun dubbio sulla sua capacit di compiere i doveri politici e rimanere pur sempre al largo, nella presenza di Dio. Ma con il passare del tempo si era trovato respinto verso la costa, e gli sguardi che poteva lanciare sulla torcia luminosa della sovrana bont si erano fatti sempre meno frequenti. Da giovane egli aveva descritto l'esperienza dell'unione con un tale appassionato ardore di eloquenza che sembra dimostrare due cose: prima, che egli aveva avuto un'esperienza personale dell'unione; e seconda, che quell'esperienza non era stata dell'ordine pi elevato; poich le esperienze mistiche d'ordine superiore non si prestano a essere espresse con il linguaggio violentemente emotivo usato da padre Giuseppe. Dio aveva scritto si degna d'entrare in noi e ci concede la grazia di entrare in lui, con un atto mutuo d'immersione e un reciproco fluire, che espresso nella Sacra Scrittura, quando Dio ci comanda di tener aperta la bocca e ci promette di riempirla. Questo aprirsi significa che l'anima deve ampliare tutta la sua capacit di libera volont, e cio produrre atti dell'amore pi grande e totale che essa pu concepire. E non sufficiente aprire la propria bocca in modo ordinario, come uno fa per mangiare, per parlare e per respirare; bisogna fare come chi, avendo corso a lungo e con tutte le sue forze dietro qualcosa cui aneli disperatamente di giungere, si fermi senza fiato, apra la bocca e senta il cuore battergli in modo tale, quasi fosse sul punto di morire. Alcuni aprono la loro volont a Dio, come aprono la bocca per mangiare, e cio come se dovessero ingoiare qualcosa di dolce; altri come per parlare e fare discorsi su Dio; altri infine come per respirare, per dare cio sollievo allo spirito soffocato dalle cure mondane. Chi fa cos non ama Dio in modo perfetto. Bisogna espellere la vita della propria volont di s in ogni ansante respiro, bisogna soffocare la propria natura in una corsa implacabile verso la perfezione, al fine di poter esalare il proprio essere e infonderlo tutt'intero, dalla bocca aperta entro la bocca di Dio... Cos la Scrittura dice, secondo gli ebrei, che Mos mor sulla bocca di Dio... Oh, sacro luogo di riposo della felice stanchezza! Oh, tesoro di riposo eterno, di cui la nostra anima porta entro s la profondit e l'ampiezza, giacch Dio si apre a lei nella stessa esatta misura con cui lei disposta ad aprirsi a lui. Soltanto la parte mondana di padre Giuseppe, il Tenebroso-Cavernoso, era ora tranquilla. Ezechiele, viceversa, viveva in una specie di passione cronica, quasi in una frenesia di zelo. Per Ezechiele era la cosa pi naturale del mondo parlare in termini cos violenti della preghiera della pace dell'anima, paragonare il contemplativo a un

corridore convulsamente ansante. Tutti i mistici praticanti, incluso Benedetto da Canfield, avevano ammonito gli aspiranti mistici contro gli eccessi di zelo. La fame e la sete di Dio, non controllate, possono divenire un ostacolo, che separa l'anima da quel che desidera. Chi voglia spingersi ben avanti sulla strada del misticismo, deve imparare a desiderare Dio con intensit ma senza orgasmo, in modo passivo eppure con tutto il cuore e tutta la mente e tutte le forze. Lo stesso padre Giuseppe parla dello stato di confusione in cui viene a cadere l'anima cui non stato insegnato di controllare le proprie inclinazioni per virt della Grazia, che uno riceve in copia durante l'atto dell'unione, quando gli viene dato lo scettro per dominare i propri sentimenti. C' da chiedersi, peraltro, se a lui fosse mai stato concesso questo scettro dello spirito. E ben certo che egli ebbe un completo controllo di tutte le passioni pi basse; ma i suoi scritti appassionati ed esplosivi, non meno che quel suo gusto per le rivelazioni improvvise, le visioni, le estasi, ci provano che non gli era mai riuscito di superare il desiderio tutto naturale d'impadronirsi del regno dei cieli con la forza. E' lecito credere che se vi fosse riuscito, se la sua esperienza dell'unione fosse stata pi tranquilla, pi libera dall'intensit personale del sentimento di Dio e pi piena di Dio stesso, egli non avrebbe mai consentito a mettere a rischio questa genuina consapevolezza della realt in omaggio a doveri politici che mal si accordavano persino con i voti monastici ed erano certamente incompatibili con la vita della contemplazione. L'esperienza che padre Giuseppe ebbe dell'unione pu essere stata incompleta e non d'ordine superiore, ma era, nel suo piano, indubbiamente autentica. Con il passare degli anni, tuttavia, anche quest'esperienza si fece sempre pi rara. Datosi ad attivit non annientabili, egli divenne dominato, nonostante la pratica quotidiana della preghiera mentale, da un senso di amarezza e di delusione. Aveva ancora, vero, visioni e rivelazioni profetiche; ma la vita unitiva della sua giovinezza era finita; ed egli aveva la paurosa certezza che Dio si fosse allontanato da lui. Si trovava nella buia notte dell'anima. E non era il buio salutare descritto da San Giovanni della Croce, non la notte buia di coloro che stanno per affrontare la purificazione definitiva e dolorosissima dalla volont autonoma: era la notte oscura assai pi terribile, perch infeconda e degradante, propria di coloro che hanno visto Dio e per loro colpa l'hanno perduto. Padre Giuseppe doveva aver coscienza di ci che gli era accaduto; e ne abbiamo una prova nel seguente brano di una lettera scritta nell'ultimo periodo della vita a una badessa delle monache del Calvario: So per personale esperienza - io che, per punizione delle mie colpe e dell'aver fatto cattivo uso del tempo datomi da Dio, ho cos poco modo di pensare al mio essere interiore e sono sempre distratto da una torma di diverse occupazioni - so quanto sia brutto non essere unito a Dio, non dare la propria anima in possesso allo spirito di Ges, che la guidi a seconda della sua volont; e so anche quanto sia necessario a questo fine il mantenersi in buona compagnia, s che un fedele pu aiutare e sostenere l'altro. Quando penso a tutto questo, e poi mi guardo intorno e vedo come io e la maggior parte delle creature viviamo le nostre vite, mi vien fatto di credere che questo mondo non sia altro che una favola e che noi tutti abbiamo perso la testa; poich non faccio differenza, salvo per qualche cosa esteriore, tra noi stessi e i pagani e i turchi. Sono, queste, parole piene di disperazione, parole che inducono a chiedersi se il disgraziato cappuccino non fosse giunto ad aver dubbi sulla sua propria salvezza. E dopo averle scritte egli doveva tornare al ripugnante lavoro di cui l'aveva gravato il suo dovere ai Borboni: il lavoro di diffondere la carestia e il cannibalismo e le innominabili atrocit per l'Europa. Doveva tornare a quelle occupazioni che lo avevano staccato dalla visione della realt; alla cattiva compagnia del re e del Cardinale, degli ambasciatori e delle spie; a tutte le follie criminali dell'alta politica; alla lotta satanica per il potere in un mondo che egli sapeva essere una favola,

una mera illusione; alle orge della violenza e dell'astuzia, alle orribili battaglie di forza e d'inganno, tra due gruppi di pazzi, nessuno dei quali, come egli era giunto a scoprire, aveva niente da dargli. E come compenso per aver volto le spalle al Signore, gli era stato promesso un cappello rosso.

Capitolo 10. POLITICA E RELIGIONE. La natura della vita di padre Giuseppe tale che non pu non suscitare nella mente di un ricercatore un certo numero di interrogativi non direttamente connessi con la mera biografia. Questi interrogativi possono essere pi o meno imbarazzanti, ma hanno tanta importanza intrinseca, che lo storico di quella strana vita verrebbe meno al suo dovere se non cercasse di dar loro una risposta. La prima domanda si riferisce a dei fatti: quali furono storicamente le conseguenze della politica per cui padre Giuseppe prest il suo aiuto a Richelieu? Le altre sono di natura pi speculativa e implicano questioni relative al problema morale: quale dovrebbe essere l'atteggiamento di un uomo che si trovasse nella posizione di padre Giuseppe, verso la politica? Cosa potrebbe fare un contemplativo per il suo prossimo fuori del campo della politica? E, viceversa, cosa possono fare gli uomini politici per il loro prossimo entro quel campo, e senza aiuto da parte dei contemplativi? Consideriamo in ordine queste domande. Ho gi parlato dei risultati immediati della politica estera di Richelieu, misurata in termini di infelicit umane. Nel linguaggio statistico, quale fu la somma totale di tali sciagure? La tradizione popolare in Germania ha avuto la tendenza di esagerare le cifre. Verso la fine del secolo decimosettimo e per tutto il decimottavo si venne sviluppando un mito della Guerra dei Trent'Anni: un mito i cui drammatici colori superavano la stessa realt e che, proprio per questa ragione, impression tanto pi profondamente l'immaginazione di coloro che lo accolsero. Indagini recenti hanno dimostrato che si debbono apportare notevoli riduzioni alle vecchie e mitiche statistiche. Ma pur fatti tutti i necessari sconti, le cifre rimangono abbastanza impressionanti. Nel 1618 la popolazione della Germania si aggirava sui 21 milioni; nel 1648 si era contratta a circa 13 milioni. In un periodo in cui gli indici della popolazione in tutta l'Europa in genere segnavano un ritmo ascendente, le terre a oriente del Reno persero pi di un terzo della loro popolazione in seguito ai massacri, alle carestie, ai disagi e alle malattie. Pi di ogni altra guerra nella storia moderna d'Europa, la Guerra dei Trent'Anni fu una guerra di popolo, nel senso che coinvolse i non combattenti al pari dei soldati di professione. La distruzione materiale fu relativamente inferiore alla distruzione di vite umane. Nel secolo decimosettimo non c'era una produzione in massa di esplosivi, e questi non erano molto efficaci. E senza un largo impiego di esplosivi difficile distruggere edifici in pietra di solida costruzione. Si distrusse pertanto solo ci che poteva essere bruciato con facilit, e cio le case di abitazione e soprattutto i fragili tuguri dei poveri. Citt e campagna soffrirono della guerra in misura quasi eguale: i cittadini furono spogliati del

loro danaro e persero il loro commercio; i campagnoli furono spogliati dei loro prodotti e persero le loro case, gli attrezzi, le sementi e gli animali. La perdita dei bovini, degli ovini e dei suini fu particolarmente grave. Come abbiamo visto nel caso della Russia rivoluzionaria, un patrimonio zootecnico depauperato richiede un tempo assai lungo per ricostituirsi. Due o tre generazioni passarono prima che per via di naturale accrescimento si fossero riempiti i vuoti lasciati dalle depredazioni di Wallenstein e di Mansfeld, di Tilly e di Gustavo, degli spagnoli e dei francesi. Sulla struttura della societ tedesca la Guerra dei Trent'Anni produsse alcuni effetti non desiderabili, che si sono dimostrati di grande importanza storica. Anche in questo caso, il mito che ha contribuito a formare la mentalit tedesca moderna non corrisponde su vari punti alla realt. In Germania divenne consuetudine attribuire tutti i mali del paese alla Guerra dei Trent'Anni. Ma la verit che, anche prima che cominciasse quella guerra, la Germania si trovava gi in tristi condizioni. La prosperit tedesca era fondata sui commerci ed era legata a quella di Venezia. Durante il secolo decimosesto le vie dei commerci si erano spostate, il Mediterraneo aveva perduto la sua importanza, e la base economica, su cui era stata costruita la vita delle citt tedesche, cominciava a sgretolarsi. Intanto la produzione agricola era venuta declinando in seguito alla Guerra dei Contadini, da cui quest'ultimi erano usciti sconfitti, maggioranza oppressa implacabilmente ostile ai suoi padroni. L'agricoltura non fiorisce l dove esista uno stato di latente guerra civile tra proprietari e lavoratori. La confusione veniva accresciuta dalle divisioni religiose e politiche. Duemila stati sovrani, cinti per la maggior parte da barriere doganali e spesso con monete proprie, il cui valore era pi o meno gravemente alterato, creavano un tale attrito interno da rendere lo scambio delle merci e dei servizi, tra una parte e l'altra del paese, estremamente difficile. Al tempo stesso, la Riforma aveva diviso la popolazione prima in due e quindi, con l'avvento del Calvinismo, in tre campi ostili e reciprocamente avversi. In questa triste Germania del tardo Cinquecento e del primo Seicento non nacque alcuna figura di grande rilievo. La vita intellettuale del paese era stagnante e il comune livello della morale e dei costumi era brutalmente basso. I viaggiatori stranieri in Germania erano colpiti da una sola cosa: la golosit e l'intemperanza rivoltanti degli abitanti. I tedeschi, o almeno i pi prosperi tra di essi, mangiavano e bevevano pi di ogni altro popolo d'Europa ed erano estremamente orgogliosi di questo fatto. In questo particolare momento della storia, non avevano altro di cui essere orgogliosi. La Guerra dei Trent'Anni complet la rovina che era stata iniziata dalla scoperta dell'America, dalla Riforma e dalla Guerra dei Contadini. Il commercio e l'industria si fermarono, e ne consegu che una cospicua quantit di cittadini persero la loro indipendenza economica e divennero piccoli funzionari al soldo di uno dei duecento sovrani indipendenti che governarono il paese dopo la Pace di Westfalia. La burocrazia tedesca questo grande strumento della tirannia governativa - fu forgiata nel secolo decimosettimo. Una burocrazia dirigente non pu funzionare in modo efficiente senza avere a necessario complemento una popolazione docile, rassegnata a farsi governare. Anche questa docile popolazione tedesca fu un risultato della Guerra dei Trent'Anni. La Guerra dei Contadini si era chiusa con la vittoria dei proprietari terrieri; ma, a dispetto di ci, la fine del secolo decimosesto aveva assistito a un certo rallentarsi dei vecchi vincoli feudali. Durante la Guerra dei Trent'Anni e subito dopo, i contadini che erano sopravvissuti ai massacri e alle carestie si trovarono, data l'estrema scarsit di mano d'opera, in grado di pretendere migliori condizioni sociali ed economiche. Sembr per un momento che tanta catastrofe potesse almeno portare un buon risultato: la liberazione della classe rurale tedesca. In realt, ebbe l'effetto diametralmente opposto. La Pace di Westfalia rafforz i principi indipendenti e la loro nobilt, li rafforz al

punto da permettere loro di capovolgere il movimento verso una modernizzazione della societ tedesca e di imporre di nuovo le vecchie servit feudali con un rigore e un'efficienza sconosciuti ormai da molte generazioni. Per quanto riguarda la popolazione agricola della Germania, la conseguenza pi importante della politica estera francese fu la creazione di un nuovo e mostruoso genere di medioevo artificiale. E quando venne il momento per il sorgere di una nuova potenza tedesca, i prussiani trovarono gi pronte a loro disposizione una burocrazia complessa e una popolazione domata e irreggimentata. Nell'ambito della Germania le conseguenze politiche della Guerra dei Trent'Anni furono quasi totalmente cattive. Dopo Westfalia, i principi si modellarono sull'esempio di Luigi Quattordicesimo e svuotarono o abolirono del tutto le diete locali che erano servite, almeno in parte, a mitigare la tirannia dei loro padri. L'autocrazia divenne la tradizione del paese. Intanto, la potenza austriaca era stata finalmente e per sempre esclusa dalla Germania occidentale e settentrionale. Gli Stati che nominalmente formavano ancora parte dell'Impero erano di fatto indipendenti dagli Asburgo, abbastanza indipendenti secondo i piani di Richelieu e di padre Giuseppe - per cadere sotto l'influenza dei Borboni. Per quanto riguardava la Francia, questa sistemazione era magnifica; ma era una sistemazione che poteva prolungarsi solo sotto due condizioni: prima, che la monarchia francese rimanesse stabile, senza indebitamente perdere o aumentare il proprio potere; seconda, che i tedeschi non si riunissero, sia volontariamente sia per un'azione di forza. Al principio dell'Ottocento entrambe queste due condizioni erano venute meno: la monarchia francese era crollata ed era stata sostituita da un'aggressiva dittatura militare che, incutendo paura a tutti, si era trovata contro tutta l'Europa; ed era sorta una monarchia prussiana in grado di creare un nuovo stato tedesco unito. Spezzando la potenza dell'Austria, Richelieu e padre Giuseppe avevano di fatto assicurato che l'unione della Germania non sarebbe stata, quando fosse giunto il momento, l'unione di un impero federale, non nazionale e non interamente tedesco, ma quella di una nazione fortemente centralizzata ed esclusivamente teutonica. Il colpo finale all'idea federale - la sola filosofia politica che, nelle condizioni moderne, abbia qualche possibilit di funzionare nell'Europa centrale e orientale - fu inferto nel 1919 quando gli uomini politici alleati, invece di riformare e di rafforzare l'impero asburgico, lo frantumarono in una mezza dozzina di stati indipendenti, su base nazionale ma non del tutto vitali. La politica di Richelieu era stata diretta a indebolire la Spagna e l'Austria, a disintegrare la Germania e a sostituire i Borboni agli Asburgo nel predominio in Europa. Quella politica era stata coronata da successo: da tanto successo, a dire il vero, che quando Luigi Quattordicesimo la port alle sue insane e logiche conclusioni perpetua aggressione bellica contro ognuno - tutta l'Europa s'un contro i Borboni, cos come in precedenti circostanze tutta l'Europa, Francia compresa, s'era unita contro gli Asburgo. Alla fine del lungo regno, la Francia era in bancarotta: il commercio e l'industria quasi rovinati, la classe agricola oppressa in uno stato di latente ribellione, e larghi tratti di territorio quasi spopolati. Nel campo economico, l'iniziativa privata era stata scoraggiata; in quello religioso e politico, la libert di culto e tutte le autonomie tradizionali e i freni alla tirannia erano aboliti. Era stato preparato il terreno per la Rivoluzione; e dalla Rivoluzione dovevano scaturire, insieme con il "progresso attraverso la crisi" di cui gli ottimisti politici amano tanto parlare, l'imperialismo napoleonico e per reazione il nazionalismo germanico, l'impero prussiano e i disastri del ventesimo secolo. In fatto di politica si pu fare una sola generalizzazione del tutto indiscutibile: e cio che assolutamente impossibile per gli uomini di Stato prevedere, oltre limiti di tempo assai brevi, i risultati di qualsiasi azione politica d'ampia portata. E' ben vero che molti di

loro giustificano le loro azioni asserendo a se stessi e agli altri di essere in grado di vedere molto lontano; ma rimane il fatto che essi non sono in grado di farlo. Se fossero del tutto onesti, direbbero come padre Giuseppe: "J'ignore o mon dessein, qui surpasse ma vue, si vite me conduit; Mais comme un astre ardent qui brille dans la nue, il me guide en la nuit." Se l'inferno lastricato di buone intenzioni, ci si deve, tra l'altro, all'impossibilit di calcolare le conseguenze. Il vescovo Stubbs di conseguenza condanna quegli storici che si divertono ad attribuire a individui o a gruppi di uomini la responsabilit delle conseguenze pi remote delle loro azioni. Mi colpisce egli scrive come cosa non solo ingiusta, ma che rivela una totale ignoranza dei pi semplici aforismi del buon senso... l'addossare a un personaggio storico la responsabilit di mali e di delitti, che sono risultati dalle sue azioni in seguito a sviluppi che egli non poteva prevedere. Tutto ci va bene, entro certi limiti; ma questi limiti sono alquanto ristretti. Oltre a essere un moralista, lo storico una persona che cerca di formulare delle generalizzazioni sugli avvenimenti umani; e solo rintracciando i rapporti tra le azioni e le loro conseguenze, tali generalizzazioni possono esser fatte. Quando sono state fatte, esse sono a disposizione degli uomini politici per la formulazione dei loro piani d'azione. In questo senso, gli studi sui rapporti tra le azioni e le loro conseguenze entrano nel campo etico, come fattori importanti nel determinare la condizione in cui viene fatta una scelta. E si pu a questo riguardo mettere in rilievo che, sebbene sia impossibile prevedere le pi remote conseguenze di una determinata azione, non affatto impossibile prevedere, alla luce dell'esperienza storica, quale genere di conseguenze far presumibilmente seguito, in senso generale, a un determinato genere di azioni. Cos, tenendo presente la documentazione dell'esperienza passata, sembra abbastanza chiaro che le conseguenze di una linea politica che richiede cose come guerre su grande scala, rivoluzioni violente, tirannia e persecuzioni senza freno, sono verosimilmente cattive. Di conseguenza, qualsiasi politico s'imbarchi in tale condotta non pu invocare a sua scusa l'ignoranza. Padre Giuseppe, per esempio, conosceva abbastanza la storia per sapere che una politica del genere di quella che Richelieu e lui perseguivano, assai di rado produce, anche quando nominalmente coronata da successo, alcun bene duraturo a chi l'ha programmata. Ma la sua passionale ambizione per i Borboni fece s che si attaccasse a una volontaria ignoranza, e procedesse quindi a giustificarla con speculazioni intorno alla volont di Dio. Vale qui la pena di dedicare un breve commento al senso strano del tempo che hanno coloro che pensano in termini politici. Alcune linee di azione politica vengono consigliate con il presupposto che la loro attuazione non mancher di dare una soluzione a tutti i principali problemi: una soluzione o definitiva o eterna, come quella che Marx previde quale risultato dell'istituzione di una societ senza classi; oppure di assai lunga durata, come l'avvenire millenario profetato per i loro regimi da Mussolini e da Hitler, o come la pi modesta "Pax americana" di cinquecento anni di cui ha parlato Dorothy Thompson. Gli ammiratori di Richelieu intravedevano un'et aurea dei Borboni pi dell'ipotetica era nazista o fascista, ma pi breve (giacch aveva un limite) della fase finale del comunismo. In uno scritto contemporaneo a difesa della politica del Cardinale contro gli ugonotti, Voiture giustifica le enormi spese richieste da quella politica dicendo che la presa di La Rochelle soltanto ha fatto economizzare dei milioni; giacch La Rochelle avrebbe causato ribellioni in ogni periodo di minore et del re, e ogni rivolta di nobili nei prossimi duemila anni. Tali sono le illusioni accarezzate dagli uomini di mentalit politica quando riflettono alle conseguenze di una politica immediatamente prima o

dopo che sia stata eseguita. Ma quando la politica comincia a dare i suoi frutti, allora quel senso del tempo subisce un radicale mutamento. I calcoli in termini di secoli o di millenni spariscono. Una singola vittoria si ritiene debba meritare un "Te Deum", e se una politica consegue risultati felici solo per qualche anno, l'uomo di Stato si ritiene soddisfatto e i suoi sicofanti si prodigano in elogi del suo genio. Anche gli storici pi moderati, che scrivono molto tempo dopo gli avvenimenti, hanno una certa tendenza a seguire questa medesima vena. Cos, Richelieu viene elogiato da scrittori moderni come un uomo di Stato grande e lungimirante, sebbene sia assolutamente chiaro che le azioni da lui intraprese per l'accrescimento della potenza della dinastia borbonica crearono le condizioni sociali, economiche e politiche che portarono alla caduta della dinastia, al sorgere della Prussia e alle catastrofi dei secoli decimonono e ventesimo. La sua politica viene lodata come singolarmente ricca di successo, e coloro che vi si opposero sono biasimati come gente dalla vista corta. Ecco, per esempio, quel che Gustavo Fagniez dice dei contadini e dei borghesi francesi che si opposero alla politica bellicista del Cardinale, una politica per cui essi ebbero a pagare con il loro danaro, le loro privazioni e il loro sangue: Non ci si pu aspettare che le masse, sempre egoiste e prive d'intelligenza, sopportino a lungo i sacrifici, di cui le generazioni future sono destinate a raccogliere i frutti. E questo subito dopo un brano in cui viene esposta la natura di tali particolari frutti: l'unione di tutta l'Europa contro Luigi Quattordicesimo e la rovina del popolo francese. Tale singolare incoerenza pu essere spiegata solo con il fatto che i pi, quando parlano dei successi della loro nazione, pensano in termini molto ristretti di tempo. Un successo viene cos osannato e contemplato con ammirazione anche se non dura pi di un giorno. Retrospettivamente, uomini come Richelieu, Luigi Quattordicesimo e Napoleone, ricevono pi ammirazione per la breve gloria da essi conseguita, che non odio per il lungo strascico di sciagure che furono il prezzo di quella gloria. Tra le milleseicento e pi signore, i cui nomi furono trascritti nella lista delle conquiste di don Giovanni, ve ne furono senza dubbio non poche i cui favori costrinsero l'eroe a ricorrere al medico. Ma, lue o no, il semplice fatto che i favori fossero stati concessi era cosa da sentirsene orgogliosi, una vittoria da registrare nella cronaca dei successi tenuta da Leporello. La storia delle nazioni scritta con analogo spirito. Questo per quanto riguarda la nostra prima domanda, relativa alle conseguenze della politica, alla cui programmazione ed esecuzione padre Giuseppe diede il suo contributo. Veniamo ora alle domande d'ordine morale. Dal punto di vista morale, la posizione di padre Giuseppe non era quella di un uomo politico qualunque; non era la stessa, poich, a diversit degli uomini politici comuni, padre Giuseppe era un aspirante alla santit, un contemplativo con una considerevole conoscenza viva del misticismo, uno che conosceva la natura della religione spirituale e aveva di fatto compiuto qualche progresso sulla "via della perfezione" verso l'unione con Dio. I teologi sono d'accordo nell'affermare che tutti i cristiani sono chiamati all'unione con Dio, ma che solo pochi sono disposti a fare l'elezione che li qualifica ad appartenere agli eletti. Padre Giuseppe era uno di questi pochi. Ma, avendo fatto la sua scelta, egli procedette alcuni anni pi tardi a farne un'altra, e decise di entrare in politica, come collaboratore di Richelieu. Come abbiamo visto, era intenzione di padre Giuseppe unire la vita dell'attivit politica con quella della contemplazione, fare quel che richiedeva la politica di forza e annientarlo nella volont di Dio nel momento stesso in cui lo compiva. In realt, le cose che dov fare si dimostrarono non annientabili, e con una parte del suo essere padre Giuseppe si dolse amaramente di essere entrato in politica. Ma c'era in lui un'altra parte, una parte bramosa d'azione, anelante a fare qualcosa di eroico per la maggior gloria di Dio. Riesaminando la sua vita, padre

Giuseppe, il contemplativo, sent di aver fatto male, o comunque di aver agito poco saggiamente, a entrare nel mondo della politica. Ma se cos non avesse fatto, se fosse rimasto evangelista, insegnante e riformatore religioso, egli avrebbe probabilmente sentito fino all'ultimo di aver fatto male a trascurare la possibilit di attuare la volont di Dio nel gran mondo della politica internazionale: "Gesta Dei per Francos". Il dilemma di padre Giuseppe si presenta a tutti gli spirituali e a tutti i contemplativi, a tutti coloro che aspirarono ad adorare Dio teocentricamente e per se stesso, a tutti coloro che cercano di obbedire al comandamento di essere perfetti come perfetto il loro Padre nei cieli. Per poter ragionare chiaramente su questo dilemma, necessario imparare a pensar prima chiaramente su certi problemi di portata pi generale. I teologi cattolici avevano operato non poco nel campo di questo necessario chiarimento del pensiero, e padre Giuseppe, se avesse voluto servirsi di loro, avrebbe potuto trovare negli insegnamenti dei suoi predecessori e dei suoi contemporanei la maggior parte del materiale per una sana filosofia dell'azione e per una sana sociologia della contemplazione. Il fatto che egli non se ne servisse fu dovuto alla particolare natura del suo temperamento e del suo ingegno e, soprattutto, alla sua profonda ambizione per la monarchia francese. Egli fu allontanato dal cammino della perfezione mediante la pi raffinata delle tentazioni: l'esca della fedelt e del sacrificio di s; ma della fedelt a una causa inferiore al bene supremo, di un sacrificio di s in nome di qualcosa d'inferiore a Dio. Cominciamo con una considerazione circa la teoria dell'azione comune negli scritti speculativi che erano alla portata di padre Giuseppe. La prima cosa che dobbiamo tener presente che quando i teologi parlano della vita attiva in contrasto con quella contemplativa, non si riferiscono a ci che i nostri contemporanei, non teologi, chiamano con lo stesso nome. Per noi "vita d'azione" significa quel genere di vita condotta dagli eroi del cinematografo, dai dirigenti dell'industria e del commercio, dai corrispondenti di guerra, dai ministri e simili. Per i teologi, tutte queste sono vite meramente mondane, vissute in modo pi o meno destituito di rigenerazione da gente che ha fatto poco o nulla per liberarsi del vecchio Adamo. Per via attiva essi intendono una vita di opere buone. Essere attivi vuol dire seguire l'esempio di Marta, che passava il tempo provvedendo ai bisogni materiali del suo padrone, mentre Maria (che in tutta la letteratura mistica sta a rappresentare il contemplativo) restava seduta ad ascoltarne le parole. Quando padre Giuseppe elesse la vita della politica, egli sapeva assai bene che non era quella la vita d'azione nel senso teologico, e che la via di Richelieu non era identica alla via di Marta. Vero che la Francia, "ex hypothesi" e quasi per definizione, era lo strumento della Provvidenza divina. Di conseguenza qualsiasi politica che tendesse a rendere pi potente la Francia doveva essere buona nella sua essenza. Ma per quanto l'essenza potesse essere buona e pienamente in accordo con la volont di Dio, gli accidenti erano spesso discutibili. Qui interveniva la pratica dell'annientamento attivo; ricorrendo al quale, padre Giuseppe sperava di poter sterilizzare le azioni piuttosto sporche che egli compiva e di renderle innocue, almeno a se stesso. La maggior parte della gente oggi accetta forse per dimostrata la validit dell'affermazione pragmatista secondo cui il fine del pensiero l'azione. Nella filosofia che padre Giuseppe aveva studiata e fatta sua, questa posizione totalmente capovolta: la contemplazione il fine, e l'azione (in cui viene incluso anche il pensiero discorsivo) conta solo come strumento per la visione beatifica di Dio. Secondo le parole di Tommaso d'Aquino, l'azione deve essere qualcosa aggiunto alla vita della preghiera, non qualcosa detratto da essa. Per un uomo di mondo, quest'affermazione quasi totalmente priva di senso. Essa suona viceversa assiomatica per i contemplativi, le cui cure sono rivolte alla religione spirituale, al regno di Dio anzich al regno di se medesimi. Partendo da questo

fondamentale principio della religione teocentrica, i mistici praticanti hanno esaminato criticamente l'intero concetto di azione e hanno steso, al riguardo, una serie di norme a guida di coloro che desiderano seguire la strada mistica verso la visione beatifica. Una delle migliori formulazioni della tradizionale dottrina mistica per quanto riguarda l'azione, fu fatta da un contemporaneo di padre Giuseppe, Luigi Lallemant. Lallemant era un gesuita che, nonostante le prevalenti tendenze antimistiche del suo Ordine, pot svolgere un insegnamento di spiritualit molto avanzata (ma totalmente ortodossa) sugli uomini affidati alle sue cure. Ogni volta che intraprendiamo un'azione, insiste padre Lallemant, dobbiamo modellarci su Dio, che crea e sostiene il mondo senza modificare in alcun modo la propria esistenza essenziale. Ma non possiamo farlo se non impariamo a praticare la contemplazione formale e una costante consapevolezza della presenza di Dio. Entrambe sono difficili, e specialmente quest'ultima che possibile solo a coloro che si trovino molto avanti sulla via della perfezione. Per quanto riguarda i principianti, anche il fare buone opere pu distrarre l'anima da Dio. L'azione non sicura se non per chi abbia fatto molti progressi nell'arte della preghiera mentale. Se siamo ben avanti nell'orazione dice Lallemant, daremo molto all'azione; se siamo solo a met strada nella vita interiore, dobbiamo darci solo in misura moderata alla vita esteriore; se siamo appena al principio, non dobbiamo dar nulla al mondo esterno, a meno che non ce lo comandino i nostri voti di obbedienza. Alle ragioni gi date per questa raccomandazione, possiamo aggiungerne altre di natura strettamente utilitaria. E' un dato dell'esperienza e dell'osservazione che le azioni intraprese da gente comune non rigenerata, immersa nel proprio essere e senza interiore visione spirituale, assai di rado producono del bene. Una generazione prima di Lallemant, San Giovanni della Croce aveva riassunto tutto ci in una sola domanda e risposta: quelli che si precipitano a corpo morto nelle buone opere senza aver acquistato attraverso la contemplazione la capacit di agire bene, cosa conseguono? "'Poco mas que nada, y a veces nada y aun a veces dao'". Abbiamo gi ricordata una delle ragioni per cui l'inferno lastricato di buone intenzioni. A questa all'impossibilit cio di prevedere le conseguenze delle azioni- dobbiamo ora aggiungerne un'altra: la natura intrinsecamente insoddisfacente delle azioni compiute dalla media ordinaria degli uomini e delle donne non rigenerati. Stando cos le cose, Lallemant raccomanda il minimo possibile di attivit esteriore fino a quando, mediante la contemplazione e la pratica instancabile della presenza, l'anima si alienata a darsi completamente a Dio. Coloro che hanno percorso ancora solo poco cammino sulla strada dell'unione non dovrebbero uscire da loro stessi per aiutare i loro vicini, se non per via di prova e di esperimento. Dobbiamo essere come quei cani da caccia che sono ancora trattenuti dal guinzaglio. Quando saremo giunti mediante la contemplazione a possedere Dio, saremo in grado di concedere maggior libert al nostro zelo. L'attivit esteriore non produce interruzioni in chi ha fatto molti progressi nell'orazione; anzi, un mezzo per portarlo pi vicino alla realt. Ma coloro per cui essa non rappresenta un mezzo di tal genere, debbono trattenersi il pi possibile dall'azione. Ancora una volta padre Lallemant si giustifica facendo ricorso all'esperienza e a una considerazione puramente utilitaria delle conseguenze. Per quanto riguarda la salvezza delle altre anime e il miglioramento del modo di pensare e di sentire degli altri, un uomo di preghiera far in un anno pi di quanto un altro uomo riesca a fare in tutta la sua vita. Quel che vero a proposito delle buone opere, vero, a "fortiori", a proposito dell'attivit mondana, particolarmente quando si tratti di attivit su larga scala, implicante la collaborazione di un gran numero di individui privi in ogni possibile grado di luce. Il bene un prodotto della creazione etica e spirituale degli individui; qualcosa per cui non si pu avere una produzione in massa. Tutti i

teologi cattolici sono ben consapevoli di questa verit, e su di essa la Chiesa ha fondato la sua azione fin dagli inizi. Gli ordini monastici - e in modo particolare quello cui apparteneva padre Giuseppe erano dimostrazioni viventi della dottrina tradizionale dell'azione. Questa dottrina affermava che la bont, di qualit e di quantit superiore alla media, pu essere praticamente realizzata solo su piccola scala, da individui che vi si dedichino volontariamente ed abbiano una speciale preparazione. Nella sua opera di riforma religiosa e di istruzione spirituale, padre Giuseppe ag sempre seguendo questo principio: insegn l'arte della preghiera mentale solo a individui o a piccoli gruppi; diede la regola del Calvario come norma di vita solo a pochissime delle monache di Fontevrault, giacch l'ordine era troppo vasto per essere in grado di tradurre in atto quel particolare bene spirituale che la riforma mirava a produrre. Eppure, ben sapendo per teoria e per diretta esperienza che il bene non pu essere prodotto in massa in una societ non rigenerata, padre Giuseppe entr in politica, convinto non solo di far in tal modo la volont di Dio, ma che, pure, grandi e duraturi benefici spirituali e materiali sarebbero risultati dalla guerra che egli si adopr del suo meglio a prolungare e ad esacerbare. Egli sapeva che sarebbe stato inutile cercar di costringere le buone signore di Fontevrault a essere pi virtuose e spirituali di quanto esse non volessero; e tuttavia credette che l'intervento attivo della Francia nella Guerra dei Trent'Anni avrebbe portato una "nuova et dell'oro". Questa strana incoerenza, come abbiamo pi volte ripetuto, era frutto principalmente della volont, quella volont che padre Giuseppe s'era illuso di aver subordinato alla volont di Dio e che era rimasta invece, sotto taluni importanti riguardi, quella non rigenerata dell'uomo naturale. Era dovuta anche, in parte, a cause intellettuali, e in ispecie all'accettazione di una certa teoria della Provvidenza, largamente sostenuta nella Chiesa e inconsistente con le teorie dell'azione e del bene sopra ricordate. Secondo questa teoria, tutta la storia guidata dalla Provvidenza e il suo interminabile catalogo di delitti e di insanie un'espressione della volont divina. E come i delitti e le insanie pi spettacolari della storia sono perpetrati agli ordini dei governi, ne consegue che questi e gli Stati da essi retti sono anche espressione della volont di Dio. Accettata per vera questa teoria della storia e dello Stato, padre Giuseppe era giustificato nel credere che la Guerra dei Trent'Anni fosse una cosa buona e che una politica, la quale diffondeva il cannibalismo e universalizzava la pratica delle torture e dei delitti, potesse essere pienamente in accordo con la volont di Dio, purch fosse vantaggiosa alla Francia. Questa condizione era essenziale; quale politico, infatti, egli era giustificato dalla teoria provvidenziale della storia a credere che Dio compisse le sue gesta "per Francos", sebbene, come riformatore e direttore spirituale, egli ben sapesse che le opere di Dio vengono fatte non dai franchi in massa, ma da un franco qui e uno l, e a volte perfino da britanni, come Benedetto Fitch, e da spagnoli, come Santa Teresa. La filosofia mistica pu essere riassunta in un'unica frase: Pi c' della creatura, meno c' di Dio. Le attivit su larga scala di uomini e donne non rigenerati sono quasi interamente naturali; e di conseguenza escludono quasi interamente Dio. Se la storia espressione della volont di Dio, lo soprattutto in senso negativo. I delitti e le insanie compiuti da larghi agglomerati umani possono essere connessi con la volont di Dio solo in quanto sono atti di disobbedienza a quella volont, ed soltanto in questo senso che tali atti e le sciagure che ne conseguono possono essere considerate come provvidenziali. Padre Giuseppe giustificava le campagne da lui progettate con un appello al Dio delle Battaglie. Ma non c' un Dio delle Battaglie: c' soltanto una realt ultima, che si esprime in un certo ordine di cose, la cui armonia viene violata da avvenimenti quali le battaglie, con conseguenze pi o meno disastrose per tutti coloro che sono direttamente o indirettamente connessi con la

violazione. Questo ci porta al nocciolo di quel gran paradosso della politica: al fatto che l'azione politica necessaria ed al tempo stesso incapace di soddisfare le necessit che ne richiedono l'esistenza. Solo delle societ statiche e isolate, il cui sistema di vita determinato da una tradizione indiscussa, possono fare a meno di una politica. In societ come le nostre, instabili, non isolate, e tecnicamente in progresso, un'azione politica su larga scala inevitabile. Ma anche quando bene intenzionata (e molto spesso non lo ), l'azione politica sempre predestinata a un parziale, e a volte perfino totale, auto-invilimento. La natura intrinseca degli strumenti umani di cui l'azione politica deve servirsi e dei materiali umani su cui deve agire, costituiscono un'effettiva garanzia contro la possibilit per tale azione di conseguire i risultati che da essa si aspettano. Questa generalizzazione pu essere illustrata da un numero infinito di esempi desunti dalla storia. Consideriamo, per esempio, i risultati raggiunti da due riforme su cui persone bene intenzionate hanno posto enormi speranze: l'istruzione obbligatoria e la propriet pubblica dei mezzi di produzione. L'istruzione obbligatoria si dimostrata lo strumento pi efficace per l'irreggimentazione e la militarizzazione da parte dello Stato, e ha assoggettato milioni di persone, fino ad allora immuni, all'influenza della menzogna organizzata e alle seduzioni di distrazioni incessanti, sciocche e degradanti. La produzione pubblica dei mezzi di produzione stata posta in atto su larga scala soltanto in Russia, dove i risultati di tale riforma non sono stati l'eliminazione dell'oppressione, ma la sostituzione di questa con un altro genere di oppressione, del potere del danaro con il potere politico e della burocrazia, della tirannia dei ricchi: con la tirannia della polizia e del partito. Per parecchie migliaia di anni, ormai, gli uomini sono venuti sperimentando differenti metodi per migliorare la qualit degli strumenti umani e del materiale umano. Si cos trovato che molto pu esser fatto mediante metodi strettamente umanistici, come il miglioramento dell'ambiente sociale ed economico, e mediante le varie tecniche di educazione della personalit. Tra uomini e donne di un certo tipo, risultati davvero sorprendenti si possono ottenere mediante la conversione e la catarsi. Ma, sebbene questi ultimi metodi siano in certo modo pi efficaci di quelli di tipo puramente umanistico, essi peraltro funzionano solo irregolarmente e non producono quella trasformazione radicale e permanente della personalit, necessaria, e su larga scala, perch l'azione politica possa mai avere quei risultati benefici che da essa si attendono. Per la trasformazione radicale e permanente della personalit si trovato soltanto un metodo efficace: quello dei mistici. E' un metodo difficile, che richiede da coloro che vi si sottomettono una quantit di pazienza, di risoluzione, di abnegazione e di consapevolezza assai maggiore di quel che i pi sono disposti a dare, salvo forse in tempi di crisi, quando sono pronti per un breve periodo a fare i pi grandi sacrifici. Ma disgraziatamente il miglioramento del mondo non pu essere conseguito con sacrifici fatti nei momenti di crisi; esso dipende da sforzi fatti e ripetuti costantemente durante i periodi monotoni e piatti che separano una crisi dall'altra e che costituiscono la parte principale della vita degli uomini. A causa della riluttanza generale a fare simili sforzi durante i periodi non critici, pochissime persone sono pronte, in qualsiasi momento della storia, a sottomettersi al metodo dei mistici. Stando cos le cose, sarebbe sciocco aspettarsi che una qualsiasi azione politica, per quanto buone siano le intenzioni e accorto il disegno, produca pi di una frazione del miglioramento generale che da essa ci si attendeva. La storia delle nazioni segue un corso ondulato. Nel vuoto tra un'onda e l'altra troviamo un'anarchia pi o meno completa; ma sulla cresta dell'onda non troviamo una pi o meno completa Utopia, bens, nel migliore dei casi, solo una societ abbastanza umana e parzialmente libera e alquanto giusta, che invariabilmente porta entro di s i

germi del suo proprio decadimento. Le organizzazioni su larga scala, sembra siano capaci di andare in basso assai pi che non di andare in alto. Noi possiamo ragionevolmente aspettarci di raggiungere di nuovo il limite pi elevato, ma non possiamo aspettarci di superarlo, a meno che assai pi persone che non per il passato siano pronte a sottomettersi all'unico metodo capace di trasformare la personalit. Al principio di questo capitolo ci siamo domandati cosa potrebbero fare gli uomini politici per il loro prossimo mediante azioni limitate nel campo politico e senza l'aiuto dei contemplativi. Non molto, sembra debba essere la risposta a tale domanda. Non ci si pu aspettare che le riforme politiche producano un notevole miglioramento generale, a meno che larghe quantit di individui non intraprendano la trasformazione della loro personalit mediante l'unico metodo conosciuto che effettivamente funzioni: quello dei contemplativi. Non basta: se la quantit del lievito mistico e teocentrico nella massa dell'umanit dovesse subire una notevole diminuzione, gli uomini politici potranno trovare impossibile risollevare le societ che essi governano perfino alle altezze molto modeste raggiunte nel passato. Intanto, i politici possono fare qualcosa per creare un ambiente sociale favorevole ai contemplativi. O forse meglio porre la questione in forma negativa e dire che possono astenersi dal fare certe cose e dal prendere certe disposizioni che sono particolarmente sfavorevoli per i contemplativi. L'attivit politica che sembra meno compatibile con la religione teocentrica quella che mira ad aumentare un certo tipo particolare di efficienza sociale: l'efficienza necessaria per condurre o per minacciare una guerra su grande scala. Per conseguire questo genere di efficienza, gli uomini politici tendono sempre a qualche genere di totalitarismo. Agendo in modo analogo all'uomo di scienza - il quale pu trattare i complessi problemi della vita reale solo semplificandoli arbitrariamente per i suoi scopi sperimentali, - il politico in cerca dell'efficienza militare semplifica arbitrariamente la societ con cui deve trattare. Ma mentre lo scienziato semplifica seguendo un processo di analisi e di isolamento, il politico pu semplificare soltanto mediante la violenza, mediante un processo procusteo di tagli e di stiramenti volti a conformare l'organismo sociale vivente a un certo modello meccanico di facile comprensione e di pronta manipolazione. Propostosi una nuova specie di efficienza militare nazionale, Richelieu si mise a semplificare la complessit della societ francese. Quella societ era per buona parte caotica, e una politica di semplificazione, attuata giudiziosamente e con mezzi buoni, sarebbe stata pienamente giustificata. Ma la politica di Richelieu non era giudiziosa e, continuata dopo la morte di lui, port al totalitarismo di Luigi Quattordicesimo: un totalitarismo che mirava a essere completo quant'altri mai noi si possa vedere nel mondo moderno, e che non riusc a esser tale solo per i sistemi inferiori di comunicazione e di organizzazione di cui poteva disporre la polizia segreta del gran monarca. Lo spirito tirannico era assai spinto, ma, per buona fortuna dei francesi, il tessuto tecnico era debole. Nell'et dei telefoni, delle impronte digitali, dei carri armati e delle mitragliatrici, il compito di un governo totalitario pi facile che non per il passato. I politici totalitari esigono obbedienza e conformismo in ogni sfera della vita, inclusa, naturalmente, la religione. Essi mirano pertanto a servirsi della religione come strumento, per il consolidamento sociale, come mezzo per accrescere l'efficienza militare della nazione. Il genere di religione che essi favoriscono perci solo quello strettamente antropocentrico, esclusivo e nazionalistico. La religione teocentrica, e cio l'adorare Dio per se stesso, inammissibile in uno Stato totalitario. Tutti i dittatori contemporanei, russi, turchi, italiani e tedeschi, hanno avversato o attivamente perseguitato ogni organizzazione religiosa i cui membri sostenessero l'adorazione di Dio, anzich l'adorazione dello Stato deificato o del capo politico. Luigi Quattordicesimo era quel che si

dice "un buon cattolico"; ma il suo atteggiamento verso la religione era tipicamente totalitario. Voleva l'unit religiosa, e perci revoc l'Editto di Nantes e perseguit gli ugonotti. Voleva una religione esclusiva nazionalistica, e litig pertanto con il Papa insistendo perch fosse avocata a s la supremazia spirituale in Francia. Voleva il culto dello Stato e del re, e pertanto rigidamente osteggi coloro che insegnavano la religione teocentrica, coloro che sostenevano l'adorazione di Dio soltanto e di per se stesso. Il declinare del misticismo alla fine del secolo decimosettimo fu dovuto in parte, come abbiamo notato in un precedente capitolo, al fatale eccesso di ortodossia di Brulle e della sua scuola, e in parte anche alla deliberata persecuzione dei mistici da parte di quegli ecclesiastici che potevano affermare, con Bossuet, di adorare Dio sotto le forme del re, di Ges Cristo e della Chiesa. L'attacco al quietismo fu non solo quel che professava d'essere - e cio una spedizione punitiva contro certe opinioni stupidamente eretiche e certe pratiche piuttosto brutte; fu anche, quel che pi conta, un attacco velato contro il misticismo. Gli scritti controversistici di Nicole, che lavor in stretta collaborazione con Bossuet, fanno capire molto chiaramente che il vero nemico era per loro la religione spirituale. Disgraziatamente per Nicole, la Chiesa aveva dato la sua approvazione alle dottrine e alle pratiche dei primi mistici ed era pertanto necessario procedere in questo campo con cautela; ma tale cautela non era incompatibile con una buona dose di violenza antimistica. Consapevolmente o inconsapevolmente, Nicole e gli altri avversari della. contemplazione e della religione teocentrica, facevano il gioco del totalitarismo. L'efficienza di uno Stato totalitario pre-industriale, quale quello progettato da Richelieu e di fatto realizzato da Luigi Quattordicesimo, non pu mai essere cos elevata come quella di uno Stato industriale, che possiede le armi, le comunicazioni e i metodi di organizzazione moderni. D'altro lato, non ha bisogno di un'efficienza tanto elevata. Un sistema industriale nazionale qualcosa di cos complicato che, per funzionare a dovere e competere con gli altri sistemi nazionali, ha bisogno di essere controllato in tutti i suoi particolari da un'autorit statale centralizzata. Anche se le intenzioni delle varie autorit statali centralizzate fossero pacifiche (il che non ), l'industrialismo tenderebbe per sua natura a trasformarle in governi totalitari. Quando alla necessit dell'efficienza industriale si aggiunge quella dell'efficienza militare, il totalitarismo diviene inevitabile. Il progresso tecnico, il nazionalismo e la guerra sembrano garantire che l'avvenire immediato del mondo apparterr a varie forme di totalitarismo. Ma un mondo reso sicuro per il totalitarismo , con tutta probabilit, un mondo assai insicuro per il misticismo e per la religione teocentrica. E un mondo reso insicuro per il misticismo e per la religione teocentrica un mondo in cui sar sempre meno praticato l'unico metodo accertato per la trasformazione della personalit, e dove un numero sempre minore di persone potr possedere qualsiasi conoscenza diretta e sperimentale della realt da opporre alla falsa dottrina dell'antropocentrismo totalitario e alle idee e alle pratiche perniciose dello pseudo-misticismo nazionalistico. In tale mondo non sembra esservi alcuna probabilit che qualsivoglia riforma politica, per quanto animata di buone intenzioni, possa produrre i risultati che da essa si aspettano. La qualit del comportamento morale varia in proporzione inversa al numero degli esseri umani interessati. Individui e piccoli gruppi non si comportano sempre e automaticamente bene. Ma almeno essi possono essere morali e razionali fino a un grado non raggiungibile dai gruppi pi larghi. Infatti, con il crescere del numero, le relazioni personali tra i membri del gruppo e tra i membri di esso con quelli di altri gruppi, diventano pi difficili e infine, per la gran maggioranza degli individui che ii compongono, impossibile. L'immaginazione deve prendere il posto della conoscenza diretta, il comportamento motivato dalla benevolenza ragionata e impersonale deve

sostituire quello motivato dall'affetto personale e dal sentimento spontaneo e non guidato dalla riflessione. Ma nella maggior parte degli uomini e delle donne la ragione, l'immaginazione ricca di comprensione e l'osservazione spassionata delle cose sono sviluppate in grado assai debole. Ed per questo, tra le altre ragioni, che il livello morale prevalente tra gruppi numerosi, all'interno di gruppi numerosi, e tra i governanti e i governati di un gruppo numeroso, generalmente inferiore a quello che prevale entro e tra i piccoli gruppi. L'arte di ci che pu essere chiamata la "politica della bont" quale opposto alla politica di forza, l'arte di costruire un'organizzazione su larga scala senza sacrificare i valori etici che emergono soltanto tra gli individui e nei piccoli gruppi; per essere pi specifici, l'arte di congiungere la decentralizzazione del governo e dell'industria, l'autonomia locale e funzionale e la piccola entit delle unit amministrative con una sufficiente efficienza che garantisca l'agevole funzionamento delle forze cos federate. La politica della bont non stata mai tentata in qualsiasi vasta societ umana e si pu dubitare che tale tentativo, se fosse fatto, possa raggiungere qualcosa di pi che un assai parziale successo, almeno fin quando gli individui interessati rimangano nella loro maggioranza incapaci o non desiderosi di trasformare la loro personalit ricorrendo all'unico metodo che sappiamo essere efficace. Ma sebbene il tentativo di sostituire la politica della bont alla politica di forza possa non raggiungere mai un pieno successo, rimane peraltro vero che i metodi della politica della bont con l'addestramento individuale della teoria teocentrica e nella pratica contemplativa possono unici offrire i mezzi mediante i quali le societ umane sarebbero in grado di raggiungere un livello un po' meno insoddisfacente di quello attuale. Fino a quando non si ricorra a tali metodi, dobbiamo aspettarci di vedere un indefinito perpetuarsi di quel familiare e triste alternarsi di un male estremo con un bene molto imperfetto e in via di auto-involuzione, alternarsi che costituisce la storia di tutte le societ civilizzate. In un mondo abitato da uomini naturali - o non rigenerati, per dirla con i teologi - la chiesa e lo Stato non hanno probabilmente la possibilit di migliorare in modo apprezzabile rispetto agli stati e alle chiese migliori di cui il passato ci ha lasciato ricordo. La societ non potr mai migliorare in modo cospicuo sino a quando la maggior parte dei suoi membri non elegga di abbracciare la santit teocentrica. Frattanto i pochi santi teocentrici che esistono in qualsiasi determinato momento sono in grado di definire e di mitigare, sia pure in lieve misura, i veleni che la societ genera in se stessa con le sue attivit politiche ed economiche. Secondo la frase del Vangelo, i santi teocentrici sono il sale che preserva il mondo sociale dal disfarsi in un decadimento irrimediabile. I teocentrici adempiono questa funzione di antisettici e di antidoti in vari modi. Anzitutto, il semplice fatto della loro esistenza profondamente salutare e importante. La conoscenza di Dio e l'unione con Dio sono potenzialmente presenti in tutti gli uomini e in tutte le donne; ma nella maggior parte di essi sono coperti, come dice Eckhart, da trenta o quaranta pelli dure e spesse come quelle del bue o dell'orso. Ma sotto tutta questa copertura e a dispetto del suo spessore, quell'elemento divino pi che personale, che la parte vitale e il principio del nostro essere, rimane viva e pu rispondere e di fatto risponde alle manifestazioni luminose dello stesso principio nei santi teocentrici. Il "vecchio uomo coperto tutto di pelli" incontra l'uomo nuovo che riuscito a spogliarsi dell'ingombro delle sue trenta e quaranta pelli e cammina attraverso il mondo, anima nuda, che non pi vela con la sua forma opaca la luce immanente in lui. E' facile che da questo incontro ii vecchio uomo esca profondamente impressionato dalla stranezza di quello che ha visto e con il senso nostalgico che il mondo sarebbe un posto migliore se gli uomini fossero meno coperti di "pelli". Pi e pi volte nel corso della storia, l'incontro con uno spirito nudo e

irradiante luce, o anche il solo leggere intorno a tali spiriti, sono stati sufficienti a far astenere gli uomini primitivi, che governano i loro simili, dall'usare il loro potere sino all'eccesso. E' appunto un rispetto per i santi teocentrici quello che suggerisce la strana ipocrisia con cui si accompagnano e con cui si cercano di velare i fatti brutali dell'azione politica. I preamboli dei trattati sono sempre formulati nel pi elevato stile pecksniffiano, e quanto pi sono sinistre le intenzioni degli uomini politici, tanto pi, di regola, diviene sublime la nobilt del loro linguaggio. L'ipocrisia sempre piuttosto nauseante; ma prima di condannare l'ipocrisia politica dobbiamo ricordarci che un tributo pagato dagli uomini bruti agli uomini di Dio e che il fatto che si reciti la parte di qualcuno migliore di noi, pu in realt indurci a una linea di condotta un po' meno cattiva di quella che sarebbe stata normale e naturale in un cinico confesso. Il santo teocentrico suscita impressione non solo per quel che egli , ma anche per quel che fa e dice. Le sue azioni e tutti i suoi rapporti con il mondo portano il segno del disinteresse e della serenit, di una invariabile sincerit e di una totale assenza di ogni paura. Queste qualit sono i frutti della dottrina che egli predica. Il loro manifestarsi nella sua vita rinvigorisce in modo enorme quella dottrina e gli d sugli altri uomini una strana specie di autorit, non coercitiva e pur non meno forte. L'essenza di questa autorit che essa meramente spirituale e morale e non associata con alcuna delle ordinarie sanzioni sociali della potenza, della posizione o della ricchezza. E' appunto in questo, naturalmente, che padre Giuseppe commise il suo pi grave e pi fatale errore. Anche se il suo misticismo si fosse dimostrato compatibile con la sua politica (il che non si verific), egli avrebbe pur sempre fatto male ad accettare la posizione di collaboratore di Richelieu; infatti, accettandola, egli veniva automaticamente a privare se stesso della capacit di esercitare un'autorit veramente spirituale, si inibiva da se medesimo la possibilit stessa di essere un apostolo del misticismo. E' ben vero che egli pot ancora essere utile alle sue monache del Calvario, come maestro di contemplazione; ma questo perch egli entrava nel loro convento non come ministro degli Esteri di Francia, ma come semplice direttore spirituale. Fuori del convento, egli era sempre l'Eminenza Grigia. La gente non poteva parlargli senza ricordarsi che egli era un uomo da cui c'era molto da sperare o da temere; tra loro e questo frate divenuto uomo politico non vi poteva pi essere il contatto diretto di un'anima con l'altra. Per essi la sua autorit era temporale, non spirituale. Inoltre, essi ricordavano che era questo l'uomo che aveva organizzato il servizio segreto, che dava istruzioni alle spie, che aveva ingannato l'imperatore a Ratisbona, che aveva fatto di tutto per prolungare la guerra; e ricordando queste cose, potevano ben essere giustificati per i loro dubbi circa la qualit della religione di padre Giuseppe. L'albero si conosce dai frutti, e se questi erano i frutti della preghiera mentale e della vita unitiva, ebbene, allora essi non vedevano ragione alcuna per cui non dovessero darsi al vino e alle donne, temperando la loro condotta con l'andare in chiesa la domenica, col confessarsi ogni quattro mesi e col prendere la comunione a Pasqua e a Natale. E' facile, dicono gli indiani, che i membri di una casta usurpino le funzioni che appartengono propriamente a un'altra casta. Cos, quando i mercanti invadono il terreno dei "kshatriyas" e cominciano a governare, la societ afflitta da tutti i mali del capitalismo; e quando i "kshatriyas" fanno ci che spetta di diritto soltanto ai bramini teocentrici, quando presumono di dettar legge su problemi spirituali, allora c' il totalitarismo, con le sue religioni idolatre, con le sue deificazioni della nazione, del partito, del capo politico locale. Conseguenze non meno disastrose si hanno quando i bramini si danno alla politica o agli affari; infatti essi perdono in tal caso la loro visione e la loro autorit spirituali, e la societ che essi avrebbero dovuto illuminare rimane interamente all'oscuro,

priva d'ogni forma di comunicazione con la realt divina e di conseguenza facile vittima dei predicatori di dottrine false. Padre Giuseppe un esempio eminente di quest'ultima confusione delle caste. Abbandonando la veggenza per il dominio, egli perse gradualmente, nonostante i pi strenui sforzi per conservarla, la visione mistica che gli aveva dato autorit spirituale; e la perse, disgraziatamente, non prima di aver coperto con quella autorit molte azioni e molte decisioni politiche di natura quanto mai discutibile. Richelieu era un buon psicologo, ed noto che (ogni qualvolta egli voleva compiere qualche furfanteria, si serviva sempre di religiosi.) In poco tempo, gli ultimi vestigi dell'autorit spirituale di padre Giuseppe scomparvero ed egli, come abbiamo visto, fu considerato con generale orrore, come un uomo capace di ogni delitto e di ogni slealt. I gesuiti, dotati di mentalit politica e praticanti la stessa disastrosa confusione di caste, giunsero ad avere una reputazione tanto brutta quanto quella di padre Giuseppe. Il pubblico aveva torto nel considerare questi uomini, generalmente virtuosi e bene intenzionati, quali mostri delle favole; ma aveva profondamente ragione nel condannare il fondamentale principio del lavoro che essi svolgevano nel mondo. Il compito del veggente vedere; se egli si mescola in quel genere di attivit che oscurano la divinit e gli rendono impossibile di vedere, egli tradisce la fiducia che i suoi simili hanno tacitamente posta in lui. I mistici e i teocentrici non sono sempre amati n invariabilmente ascoltati; tutt'altro: il pregiudizio e l'avversione per ci che insolito pu rendere ciechi i contemporanei alle virt di questi uomini e di queste donne, e pu far s che siano odiati come nemici della societ. Ma se essi abbandonano il loro posto, se si danno a competere nel corpo stesso della societ in cerca di posizione e di potere, sono certi di essere generalmente odiati e disprezzati come traditori della loro missione. Essere veggente non la stessa cosa che essere un semplice spettatore. Una volta che il contemplativo sia riuscito a divenire, secondo l'espressione di Lallemant, un uomo di molta preghiera, egli pu cominciare a lavorare nel mondo senza alcun pericolo di essere distratto dalla sua visione della realt e con una ragionevole speranza di attuare una discreta quantit di bene. Come dato storico di fatto, molti dei grandi teocentrici, uomini e donne, hanno avuto una grande e benefica attivit. Il lavoro dei teocentrici sempre marginale, sempre iniziato sulla scala pi piccola e, allorch si espande, l'organizzazione che ne risulta sempre suddivisa in unit sufficientemente piccole s che possano giovarsi di un'esperienza spirituale comune e di una condotta morale e razionale. Il primo scopo dei teocentrici di rendere possibile a chiunque lo desideri di condividere la loro propria esperienza della realt ultima. I gruppi da essi creati sono organizzati in primo luogo per l'adorazione di Dio in se stesso. Essi esistono allo scopo di diffondere i vari metodi (non tutti dello stesso valore) per trasformare "l'uomo naturale" e per imparare a conoscere la realt pi che personale, immanente entro l'involucro dell'individualit. A questo punto molti teocentrici si fermano, soddisfatti. Essi hanno la loro esperienza della realt e procedono a impartire il segreto a pochi discepoli loro vicini o ad affidarlo mediante lo scritto a un libro che sar letto da un circolo pi vasto, separato da loro da grandi intervalli di spazio o di tempo. Oppure, pi sistematicamente, essi istituiscono piccoli gruppi organizzati, un ordine autoperpetuantesi di contemplativi che vivano sotto una regola. Tutto questo ha una considerevole importanza sociale, in quanto ci si pu aspettare che in tal modo si mantenga o possibilmente s'accresca il numero dei veggenti e dei teocentrici in una certa comunit. Molti teocentrici, peraltro, non se ne contentano, ma vanno oltre con l'impiegare le loro organizzazioni per un attacco diretto contro i pi spinosi problemi sociali. Tali attacchi partono sempre dal margine e non dal centro della societ, sempre (almeno nelle loro fasi iniziali)

con la sanzione di un'autorit puramente spirituale, e non con la forza coercitiva dello Stato. A volte l'attacco diretto contro i mali economici, come quando i benedettini si dedicarono a far rinascere l'agricoltura e a bonificare le paludi. A volte i mali sono quelli dell'ignoranza, e l'attacco viene svolto attraverso varie specie di educazione. Anche in questo i benedettini furono pionieri. (Vale la pena di osservare che l'Ordine benedettino dov la sua esistenza all'apparente follia di un giovane che, invece di fare la cosa pi appropriata e sensata, compiere cio i suoi studi nelle scuole di Roma e divenire amministratore sotto gli imperatori gotici, scapp via e per tre anni visse solo in una caverna sulle montagne. Divenuto "un uomo di molta preghiera", egli riapparve, fond monasteri e compose le norme che dovevano soddisfare i bisogni di un Ordine auto-perpetuantesi di contemplativi laboriosi. Nei secoli successivi l'Ordine benedettino civilizz l'Europa nord-occidentale, introdusse o ristabil le migliori pratiche agricole del tempo, forn le uniche possibilit di istruzione che si ebbero per tutto quel periodo, e preserv e dissemin i tesori dell'antica letteratura. Per generazioni il movimento benedettino fu il principale antidoto contro la barbarie. L'Europa ha un debito incalcolabile con il giovane che, avendo interesse pi a conoscere Dio che a far carriera o a "far bene" nel mondo, abbandon Roma per quella tana sulla montagna di Subiaco. L'attivit nel campo educativo stata intrapresa da molte organizzazioni teocentriche, oltre l'ordine benedettino: tutte, disgraziatamente, troppo spesso sotto l'influenza restrittiva della Chiesa politica, o appoggiata dallo Stato o in appoggio allo Stato. Pi di recente, lo Stato si assunto dovunque la parte di educatore universale; posizione, questa, che espone i governi a particolari tentazioni alle quali presto o tardi tutti soccombono, come vediamo nei nostri giorni in cui il sistema scolastico usato quasi in ogni paese come strumento di irreggimentazione, di militarizzazione e di propaganda nazionalistica. In qualsiasi Stato che persegua la politica della bont piuttosto che la politica di forza, l'istruzione rimarrebbe cosa pubblica in quanto sostenuta con il reddito delle tasse, ma sarebbe restituita ai privati dietro il soddisfacimento di certe condizioni. Sotto un tale sistema, la maggior parte delle scuole sarebbero di poco o nulla migliori di quel che sono attualmente; ma la loro deficienza almeno sarebbe variegata, mentre gli educatori dotati di eccezionale originalit o del dono della veggenza avrebbero possibilit di insegnamento che attualmente sono loro negate. La filantropia un campo in cui molti uomini e molte donne appartenenti alla vita contemplativa hanno lavorato con grande vantaggio del loro prossimo. Possiamo ricordare il lavoro veramente sbalorditivo compiuto da un contemporaneo di padre Giuseppe, San Vincenzo de' Paoli, grande teocentrico e grande benefattore del popolo nella Francia del secolo diciassettesimo. Il lavoro di Vincenzo tra i poveri - piccolo e insignificante nei suoi inizi e attuato, pur nel suo espandersi sotto la sola autorit spirituale e ai margini della societ, - serv non poco a mitigare le sofferenze imposte dalla guerra. Naturalmente, avendo a loro disposizione tutti i poteri e tutte le risorse dello Stato Richelieu e padre Giuseppe poterono fare assai pi danno di quanto San Vincenzo e la sua piccola schiera di teocentrici non potessero fare di bene. L'antidoto fu sufficiente a eliminare solo una parte del veleno. Lo stesso accade con un'altra grande figura del secolo diciassettesimo, George Fox. Nato nel momento stesso in cui Richelieu veniva fatto presidente del consiglio e padre Giuseppe si dava definitivamente alla vita politica, Fox cominci la sua missione l'anno prima della firma della pace di Westfalia. Nel corso dei 20 anni successivi, la Societ degli Amici venne gradualmente a fissarsi nella sua forma definitiva. Fanaticamente ostinato nel rimanere al margine della societ tanto che rifiut l'invito di pranzare alla tavola di Cromwell per paura di compromettersi, - Fox non si fece mai corrompere dal successo, ma rimase sino alla fine l'apostolo della

luce interiore. La societ da lui fondata ebbe i suoi alti e bassi, i lunghi periodi di torpore spirituale e di ristagno non meno che i momenti di vera vita spirituale; ma i quacqueri si sono sempre tenuti al teocentrismo intransigente di Fox e con esso alla convinzione che il bene, per rimanere puro e incontaminato, deve essere attuato dal margine della societ, da parte di individui e di organizzazioni abbastanza piccole per essere capaci di vita morale, razionale e spirituale. Ed per questo che nei duecentosettantacinque anni della sua esistenza, la Societ degli Amici stata in grado di compiere una quantit di lavoro utile e benefico che sembra interamente sproporzionata al numero dei suoi componenti. Anche in questo caso l'antidoto non stato mai sufficiente a eliminare se non una parte del veleno iniettato nell'organismo politico dagli uomini di Stato, dai finanzieri, dagli industriali e da tutti i milioni di persone indefinite che riempiono i gradi inferiori della gerarchia sociale. Eppure, sebbene sufficiente solo a controbattere alcuni degli effetti del veleno, il teocentrismo il lievito che ha da allora salvato il mondo civilizzato da una totale autodistruzione. La speranza di padre Giuseppe di guidare una intera comunit nazionale mediante la scorciatoia politica al Regno dei Cieli in terra illusoria, fino a quando gli strumenti umani e il materiale dell'azione politica rimangono non trasformati. Il suo posto era con coloro che preparavano l'antidoto, non con quelli che distillavano il veleno. Capitolo 11. SCENA FINALE. Nel maggio 1638, padre Giuseppe ebbe un attacco, e per qualche tempo rimase parzialmente paralizzato e incapace di parlare. Il riposo, tuttavia, valse a farlo ristabilire ben presto, e a riportarlo allo stato di salute alquanto precario di un uomo che invecchia, in una continua tensione, carico di responsabilit e sotto un eccessivo lavoro. Durante l'estate, egli torn ai suoi doveri di ministro; ma, sapendo che la fine non poteva essere molto lontana, prese a delegare una buona quantit del suo lavoro ad altri in modo di aver maggior tempo per "stare in buona compagnia". In questi ultimi mesi di vita, egli pass molto tempo con le sue figlie spirituali, le monache del Calvario, nel loro convento di Marais. Qui lavorava incessantemente, predicando, dando lezioni su argomenti religiosi e filosofici, istruendo nell'arte della preghiera mentale, offrendo una direzione spirituale a Coloro che ne avevano bisogno. In questo periodo lo si ud spesso dire che egli riteneva pi importante il contributo da darsi alla perfezione della pi umile delle monache del Calvario che non tutti i regni di questo mondo. Si portati a desiderare che egli fosse stato sempre di questa opinione. In quell'anno le cose non andavano troppo bene per l'esercito francese. Cond aveva avuto un ignominioso insuccesso nella Spagna settentrionale. In Italia, le forze della Francia e della Savoia si erano dovute ritirare di fronte agli spagnoli. Un'offensiva nei Paesi Bassi era stata arrestata dagli imperiali. Le sole buone notizie venivano dall'Alsazia. Qui, in una regione affamata e ormai semispopolata, Bernardo di Saxe-Weimar aveva sconfitto successivamente gli eserciti di De Weert, di Goetz e di Carlo di Lorena e ora, nell'autunno del 1638 stava assediando Breisach, la fortezza che dominava le linee di comunicazione spagnole tra l'Italia e i Paesi Bassi. Spostandosi tra il Convento di Marais e Rueil o Palais Cardinal, padre Giuseppe seguiva le fluttuazioni della lontana campagna militare con un interesse che, a dispetto delle sue parole circa i regni della terra, non era certo meno acuto ed ansioso della sua preoccupazione per la perfezione delle monache del Calvario. Nonostante quel primo attacco e l'imminenza della morte, egli era ancora il ministro degli Esteri di Francia, il successore designato di

Richelieu, l'autore insieme con il Cardinale della politica per cui Bernardo e i suoi selvaggi avventurieri stavano combattendo a Breisach. Un sabato, l'11 dicembre, padre Giuseppe lasci la cella che gli serviva da ufficio e pass nella cella riservatagli come direttore spirituale delle monache del Calvario a Marais. In quella fine di settimana egli intendeva fare tre lunghe lezioni sulla debita applicazione di quella versione modificata degli esercizi spirituali di Benedetto Fitch, in cui le monache si venivano addestrando. Le lezioni del sabato e della domenica furono date senza contrattempi e senza eccessiva fatica; ma a mezzo della terza lezione, che cominci alle sei del mattino di luned, 13 dicembre, il cappuccino fu interrotto da una improvvisa crisi di vomito. Si ritir per un poco, ma non permise che l'udienza delle monache si sciogliesse, e superata la crisi continu il suo discorso che dur in tutto due ore e mezzo. Provava una sensazione estrema di debolezza fisica ed era ossessionato dall'idea che la voce non arrivasse sino in fondo alla sala. Ogni tanto si interrompeva per domandare se tutti riuscivano a sentirlo. Le monache rispondevano di s ed era la verit: padre Giuseppe stava infatti facendo tali sforzi per superare quello stato di debolezza che la sua voce davvero era pi forte del solito. A lezione finita, padre Giuseppe si ritir nelle sue stanze e pass il resto della giornata nella preghiera, interrompendola solo per ricevere il prete che faceva da confessore del convento. Sentendo che la sua fine doveva essere vicina, egli fece una confessione generale. A sera usc dalla cella ed ebbe un colloquio con la badessa e con le monache anziane che le facevano da assistenti. La conversazione si aggir su quello che era stato un tempo il soggetto preferito di padre Giuseppe: le Crociate. Una delle monache osserv che era certo che i Luoghi Santi sarebbero stati ripresi molto presto; padre Giuseppe infatti aveva avuto delle rivelazioni in questo senso. Il frate rispose che la monaca si era sbagliata: non gli era mai stato rivelato che i Luoghi Santi sarebbero stati presto liberati. Nelle Sue visioni e nelle estasi egli aveva ricevuto soltanto un divino comandamento "di fare tutto quello che potevo per liberare Ges dalla prigionia". La mattina successiva padre Giuseppe disse Messa alle sette nella cappella del convento ed ebbe quindi il suo ultimo colloquio con la badessa e le sue assistenti. Parl dei loro doveri e di quella perfezione spirituale, di quella condizione di continua unione con Dio, a raggiunger la quale avevano dedicato tutte le loro vite. Quando finalmente si conged, le parole di saluto furono pronunziate da entrambe le parti con speciale solennit, con commozione insolita. Da Marais padre Giuseppe si rec in una lettiga tirata da cavalli a Rueil, dove aveva un appuntamento con il Cardinale. Parl con Richelieu quella notte e di nuovo il giorno seguente. Il gioved, 16 dicembre, si alz come di solito prima dell'alba e, dopo aver fatto le devozioni, si dedic alle faccende del giorno. Era appena arrivata una lunga lettera dai cappuccini missionari in Abissinia. Padre Giuseppe ne ascolt la lettura col maggiore interesse e dett subito una risposta. Alle dieci usc dalla stanza, disse Messa e dopo aver concesso qualche colloquio and a pranzo. Pranz con appetito e sembr che la sua salute fosse migliore che nei giorni precedenti. Finito il pranzo, ricev la visita del nunzio pontificio, il cardinale Bichi, con cui ebbe una lunga conversazione di politica ecclesiastica; e forse parl anche del cappello cardinalizio, promessogli ormai in maniera cos definitiva, che di giorno in giorno si attendeva l'annunzio ufficiale della promozione. Alla fine del colloquio padre Giuseppe accompagn ossequiosamente il nunzio fino all'uscita principale del palazzo. Di ritorno dov traversare il grande salone in cui si stavano facendo i preparativi per la rappresentazione di un'opera teatrale. Trov qui Richelieu che era uscito dai suoi appartamenti per vedere come procedevano i lavori. Il cardinale era d'ottimo umore e invit scherzosamente il suo vecchio amico a venir quella sera a vedere lo spettacolo, assicurandolo che avrebbe potuto

farlo senza alcun scrupolo di coscienza: il lavoro infatti trattava un soggetto molto serio ed era di carattere altamente morale. Padre Giuseppe rispose che purtroppo aveva gi l'impegno di "recitare il breviario", e preso congedo dal Cardinale ritorn nella sua stanza. Qui disse l'uffizio, pass del tempo in preghiere, quindi si mise a cena. Mentre mangiava, il segretario, padre Angelo da Mortagne, gli leggeva ad alta voce un brano della cronaca delle Crociate. Quegli strani racconti di eroismo e di brutalit, di devozione e di avidit, di unicit di propositi e delle forme pi ciniche di doppio gioco, furono gli ultimi messaggi che giunsero a padre Giuseppe dal mondo della politica. Nell'alzarsi da tavola, egli fu improvvisamente abbattuto da un altro attacco di apoplessia. Incapace di parlare e quasi totalmente paralizzato, fu deposto sul letto. Furono mandati di corsa messaggeri a chiamare un prete e i medici del Cardinale. Sul palcoscenico del salone, gli attori riversavano a bocca piena i loro alessandrini nell'oscurit in cui stavano seduti il Cardinale e i cortigiani. Improvvisamente vi fu un leggero movimento nell'uditorio: il capitano della guardia conduceva un frate che aveva qualcosa di assai importante ed urgente da dire a sua Eminenza. Richelieu aggrond irritato la fronte per quella interruzione e si preparava a pronunciare una dura frase di rimprovero; senonch, udendo ci che il frate gli bisbigliava, balz in piedi lanciando un grido quasi di dolore. Gli attori rimasero ammutoliti a met della loro dizione. Fissando a bocca aperta la sala, ora animata improvvisamente di luci, videro il Cardinale che si allontanava di fretta tra due file di nobildonne e di gentiluomini che si inchinavano ossequiosamente. Profondamente angosciato, Richelieu raggiunse la stanza del frate, sed vicino al lettuccio angusto, prese la mano del malato tra le sue e la sent priva di vita e inerte al tatto. "'Mon appui'" pensava "'o est mon appui?'" Arrivarono i dottori e fecero un salasso al paziente. Fu quindi la volta del prete. Tutti si inginocchiarono veniva impartita l'estrema unzione. Padre Giuseppe sopravvisse tutta la notte e sembr che la mattina avesse un leggero miglioramento. La notizia di questo secondo attacco era stata portata a Parigi dove un segretario prudente prepar subito, per la firma del re, una lettera al Papa, in cui Sua Santit veniva informata del triste evento e supplicata di non procedere all'annunzio della promozione di padre Giuseppe. Sua Maest Cristianissima aveva il diritto di chiedere solo un limitato numero di promozioni al Sacro Collegio; perci, il cappello conferito a un uomo morente avrebbe costituito una grossa perdita per la monarchia francese. Intanto, dal convento dei cappuccini di rue Saint-Honor tre frati si erano messi in cammino per Reuil: Pasquale da Abbeville, guardiano del convento, il Provinciale di Parigi, e il Generale dell'Ordine dei cappuccini, un italiano che si trovava in quel momento in Francia. Furono fatti entrare nella stanza del frate e il Generale chiese in italiano: Mi riconosci? Padre Giuseppe fu capace di stringergli la mano in segno di assenso. Il Generale prosegu allora a dire che il malato per ottenere l'assoluzione e una indulgenza plenaria secondo le regole dell'Ordine, doveva fare qualche dimostrazione di pentimento. Con un immenso sforzo di volont, padre Giuseppe sollev la mano destra e si colp diverse volte debolmente il petto. Quindi dopo aver sostato a lungo per riposare, si fece il segno della croce. Aveva gli occhi pieni di lacrime. L'assoluzione venne data e il Generale e il Provinciale si ritirarono lasciando padre Pasquale che rimase con il morente sino all'ultimo. Pi tardi si present un visitatore ancor pi eminente e del tutto inaspettato, niente di meno che Gastone d'Orlans. Negli ultimi quindici anni Gastone aveva capitanato e quindi tradito varie congiure contro l'autorit reale e in parecchie di queste circostanze padre Giuseppe aveva svolto la parte di intermediario tra il re e questo sciagurato fratello minore. Durante queste vicende, Gastone aveva concepito per il frate grande simpatia e grande rispetto. Questa sua visita al letto di morte era motivata in realt da un affetto sincero.

Verso sera giunse il prete che, quattro giorni prima, aveva ricevuto a Marais la confessione generale di padre Giuseppe. Prendendo posto al capezzale, egli disse al penitente che era giunto per lui il momento di porre da un lato ogni pensiero mondano e di rivolgere la mente esclusivamente a Dio; il Dio cui avrebbe dovuto ben presto rendere conto di tutte le sue azioni. Come il prete parl di pentimento, gli occhi del frate si riempirono di nuovo di lacrime e improvvisamente, tra lo stupore dei medici che per un momento pensarono potesse riprendersi, padre Giuseppe ritrov la sua voce. Render conto bisbigli facendo eco alla frase finale del confessore. S insist il prete, dovrai renderne conto; perch Dio tuo giudice e ti peser sulla bilancia. Sempre piangendo, padre Giuseppe continu a ripetere quelle due parole. Rendere conto disse e ripet di nuovo, rendere conto. Nella speranza di salvare il loro paziente, i dottori raddoppiarono i loro sforzi. Apertagli una vena, ne lasciarono uscire una gran quantit di sangue, ma l'effetto fu contrario a quel che si aspettavano. La capacit di muovere le gambe, che egli era venuto riacquistando in piccolo grado durante la giornata, cominci ad abbandonarlo col procedere della notte. Padre Angelo, che da ragazzo era stato convertito da padre Giuseppe e che per circa venti anni era stato suo compagno costante, s'inginocchi vicino al letto e, con la pazienza di chi insegna a un bambino, aiut il morente a fare gli ultimi piccoli gesti di contrizione, gli ultimi piccoli segni di amore per Dio e di confidenza nella misericordia divina. Un crocifisso fu dato in mano a padre Giuseppe ed egli fu capace di portarselo una volta o due alle labbra. Nonostante l'insidioso progredire della paralisi, gli rimaneva ancora un po' di forza per parlare, appena quanto era necessaria per permettergli di ripetere la stessa unica frase: Rendere conto, rendere conto. Verso mezzanotte le sue mani non furono pi capaci di sostenere il crocifisso. Vedendo che la fine era ormai assai vicina, padre Angelo chiese al suo vecchio amico di dargli la benedizione. Per qualche tempo non vi fu alcun movimento in quel corpo che veniva irrigidendosi; quindi lentamente, un dito della mano destra si sollev di poco dal lenzuolo e dopo qualche secondo ricadde, per non muoversi pi. L'agonia dur tutta la notte e solo nelle prime ore del mattino di sabato 18 dicembre il cuore cess di battere. Nel periodo che intercorse tra la morte del frate e la sepoltura, Carlo de Condren, che era succeduto a Brulle come Generale dell'Oratorio ed una delle pi belle figure per santit del suo tempo, fu richiesto se voleva fare l'orazione funebre. All'alto personaggio che gli aveva recato tale invito, Condren rispose che non poteva, in coscienza, lodare un uomo che era stato lo strumento delle passioni del Cardinale e che era odiato da tutta la Francia. Il corpo di padre Giuseppe fu sepolto nella Chiesa dei Cappuccini, in una tomba presso i gradini dell'Altare, vicino a quella di Angelo de Joyeuse, il nobile-frate che lo aveva accolto nell'Ordine. Pochi giorni dopo il funerale, tutta Parigi rideva di una anonima pasquinata. Sulla lapide che copriva i resti dell'uomo che era stato una volta chiamato il cappuccino perfetto, una mano sconosciuta aveva scritto col gesso questo distico: "Passant, n'est-ce pas chose trange Qu'un dmon soit prs d'un ange?" E' sempre l'uomo. pi facile fare un epigramma su un uomo, che non capire

Appendice. La storia postuma di padre Giuseppe cos strana e inverosimile che meriterebbe di esser presa a soggetto d'ampio e particolare studio. Entro dieci anni dalla morte del cappuccino, una lunga e dettagliata biografia dell'Eminenza Grigia fu scritta da un certo Lepr-Balin, che fu amico di padre Angelo da Mortagne ed ebbe accesso a tutti i documenti importanti posseduti dai cappuccini non meno che all'intera raccolta delle carte di Stato di padre Giuseppe. Egli raccolse queste ultime sotto il titolo di "Supplemento alla storia di Francia". Per qualche ragione a noi non nota, n la biografia n il "Supplemento" furono mai pubblicati. Il manoscritto della prima rimase negli archivi delle monache del Calvario, donde pass ai cappuccini di Parigi. Quello del secondo spar per duecentocinquanta anni e fu scoperto, intorno ai 1890, da Gustavo Fagniez nella biblioteca del British Museum. Come sia andato a suo tempo a finire in Inghilterra, non chiaro; con certezza si sa solo che al principio del secolo decimonono apparteneva al conte di Bridgewater e che dalla raccolta di questo pass a quella di Tom Moore. Intanto, le sole biografie di padre Giuseppe che videro la pubblicazione furono quelle tirate fuori nei primi anni del settecento da un singolare individuo, certo abate Riccardo. Privo di benefizi e bisognoso di danaro, Riccardo aveva posto l'occhio su una canonica di Notre-Dame di Parigi di cui poteva disporre un signor du Tremblay, nipote del fratello minore di padre Giuseppe, Carlo. Per ingraziarsi il nipote, Riccardo pens di scrivere una biografia elogiativa dello zio. Avendo trovato il modo di consultare il manoscritto di LeprBalin, Riccardo butt gi un volumetto nel suo complesso abbastanza accurato, lo pubblic e aspett la ricompensa. Ma questa non venne. Allora l'abate, furioso, decise di vendicarsi, e interpol nel testo della prima biografia encomiastica un certo numero di paragrafi in cui padre Giuseppe era accusato di ogni delitto dall'omicidio alla simonia. Questa nuova versione apparve anonima sotto il titolo allettante "Le vritable Pre Joseph". Inutile dire che questo "vero" padre Giuseppe ebbe uno smercio assai maggiore che non padre Giuseppe "tout court". Ma i soldi che l'autore pot raccogliere dai librai erano una miseria rispetto alla rendita di quel delizioso canonicato. L'abate ebbe un'idea geniale: riprese la penna in mano e scrisse un'ardente refutazione delle sue proprie calunnie. Questo terzo scritto fu debitamente pubblicato, suscit un certo interesse nel pubblico, ma lasci impassibile la famiglia du Tremblay. Il reverendo Riccardo mor in miseria. Per pi di un secolo e mezzo gli storici si limitarono a prendere l'adulazione, la calunnia e la refutazione dovute a Riccardo, di sommarle e quindi di dividerle per tre. E si ritenne che il risultato di questa operazione desse un vero ritratto dell'Eminenza Grigia. Verso la met del secolo scorso, un dotto archivista. il signor Pelletier, s'interess di padre Giuseppe e pass degli anni a raccogliere il materiale per una nuova e adeguata biografia. Questo enorme lavoro preliminare era stato portato praticamente a termine quando Napoleone entr in guerra con la Prussia. Durante la Comune del 1871, l'edificio in cui il signor Pelletier era venuto accumulando l'enorme mole dei suoi appunti fu totalmente bruciato. Sembrava quasi

che qualche potenza superiore avesse interesse a mantenere il mondo all'oscuro su padre Giuseppe. Quest'impressione - bisogna confessare - non si dissip del tutto neppure nel 1891, quando Gustavo Fagniez pubblic la sua mastodontica opera "Le Pre Joseph et Richelieu". Infatti, sebbene l'autore avesse compiuto vaste ricerche e avesse avuto la fortuna di scoprire il "Supplemento" di Lepr-Balin, non si pu dire che il libro contribuisca molto a dar luce al soggetto. Esso getta sulla scena una visibile oscurit, anzich della luce. "Le Pre Joseph et Richelieu" costituito da milleduecento pagine di documenti storici miscellanei, assai male ordinati e pubblicati senza un indice. Non si tratta insomma di una biografia (l'interesse di Fagniez era volto alla storia politica, e sembra che egli non prenda neppure in considerazione padre Giuseppe come essere vivente), ma di una raccolta di materiale grezzo per una biografia e in quanto tale, purtroppo, deve esser letto da chiunque s'interessi all'Eminenza Grigia. Quando Fagniez pubblic il suo libro, un giovane e dotto ecclesiastico, l'abate (in seguito canonico) Dedouvres, aveva appena cominciato su padre Giuseppe delle ricerche che dovevano prolungarsi per tutta la vita. Dedouvres, che mor verso il 1929, era professore di latino in un'Universit cattolica della Francia occidentale e insieme elemosiniere della Congregazione di Nostra Signora del Calvario, nei cui archivi sono conservati gli scritti inediti del fondatore della Congregazione: tre o quattro milioni di parole di varia documentazione su cui, dal 1638 a oggi, nessuno studioso, a eccezione di Dedouvres, ha mai potuto gettare uno sguardo. I rapporti tra i due storici di padre Giuseppe furono tutt'altro che cordiali. A Fagniez sembrava di aver diritto a un assoluto monopolio sull'Eminenza Grigia; ed era cos vivo in lui questo senso di propriet che egli rifiut addirittura di rivelare ove si trovasse il prezioso "Supplemento" di Lepr-Balin, che aveva avuto la fortuna di scoprire nel British Museum. La crema di Lepr-Balin era passata in "Le Pre Joseph et Richelieu"; ma Fagniez era deciso che nessuno storico dovesse usufruire di neppure una goccia di quel latte. A ogni richiesta di informazioni al riguardo egli oppose un netto rifiuto. E' facile immaginare pertanto quale fu la sua rabbia quando il giovane Dedouvres riscopr per suo conto il "Supplemento" e rese nota la cosa a tutto il mondo dei dotti! Pochi anni pi tardi, l'abate aggiunse a questo un nuovo insulto. Fagniez aveva dichiarato che la "Turchiade" era irrimediabilmente perduta. Dedouvres, in base a un procedimento logico puramente intuitivo, giunse alla conclusione che una copia del poema doveva essere rimasta e trovarsi nella biblioteca Barberini a Roma. Una cartolina al bibliotecario ebbe in effetto una risposta affermativa. Le regole del gioco esigevano che Fagniez si congratulasse con il suo rivale per tale successo; ma i suoi veri sentimenti trovarono sfogo in una feroce critica che egli fece alla successiva pubblicazione dell'abate. Fino a ora questa storia ha qualcosa di Balzac, del Balzac di "Le Cur de Tours". Da questo momento acquista uno schietto sapore di Anatole France. Per circa quarant'anni l'abate aveva lavorato su padre Giuseppe e in tutto questo periodo aveva pubblicato non pi di venti articoli ed opuscoli sul suo eroe. Ma gli articoli apparvero su fogli parrocchiali e su periodici cattolici di provincia; e gli opuscoli furono pubblicati in edizioni di due o trecento esemplari da piccoli stampatori di cittadine di provincia. Alla morte dell'autore solo quattro di questi venti numeri erano entrati nella "Bibliothque Nationale". Lo stesso Lord Acton non offre un pi eloquente esempio di studi per amore dello studio e non per il pubblico. Negli ultimi anni della sua vita, Dedouvres decise di elaborare i suoi appunti e i suoi articoli in una biografia organica di padre Giuseppe. Inutile aggiungere che la morte lo interruppe assai prima che il compito fosse portato a termine. Chi scrivesse un romanzo sarebbe portato a concludere a questo punto con un delizioso capitoletto descrivente il graduale annientamento dell'opera di tutta una vita di

studioso: l'infanzia di padre Giuseppe rosicchiata dai topi per guarnire i loro nidi, le sue istruzioni spirituali alle monache del Calvario usate come carta da toletta, la Dieta di Ratisbona adibita a incartare le frattaglie per il gatto; e cos via. Ma la vicenda storica di rado cos definitiva come quella creata dall'immaginazione. Nel 1932 furono pubblicati i due volumi che Dedouvres era riuscito a completare; con essi la biografia di padre Giuseppe giunge, con grande ricchezza di particolari, fino all'assedio di La Rochelle. Tuttavia, le forze che per tanto tempo avevano avuto cura di preservare l'oscurit intorno alla memoria del cappuccino, fecero s che anche questa parziale rimozione del velo dovesse servire a illuminare il minor numero possibile di lettori. Al pari degli opuscoli e degli articoli, il libro non compiuto fu pubblicato in provincia e in edizione quanto mai limitata. Anche tra gli storici di professione, ben pochi l'hanno letto o ne hanno puranche inteso parlare. Eppure questo libro merita d'essere conosciuto, giacch, pur non essendo affatto quel che si potrebbe chiamare una grande biografia, riesce a dare al lettore una qualche impressione della figura enigmatica cui dedicato. Il che molto pi di quanto si possa dire per "Le Pre Joseph et Richelieu" di Fagniez. Il presente volume basato, per la massima parte, sul materiale contenuto nelle duemila pagine di Fagniez e di Dedouvres. Molte cose sono state omesse poich scarse d'interesse intrinseco e soprattutto prive d'importanza per quel che il tema dominante di questo volume, la storia cio di un uomo che tent di conciliare la politica con la religione spirituale. Pertanto non ho fatto cenno ai rapporti di padre Giuseppe con i gallicani estremisti del suo tempo; n al suo urto con santa Cyrna, l'affascinante, patetica e assurda pseudosanta di PortRoyal; n alle sue campagne contro quei precursori dei quietisti che sono gli "Illumins". N mi sembrato necessario riprodurre i particolari, che pur ci rimangono, dei negoziati di padre Giuseppe o le minute delle sue lettere. Considerati in se stessi, questi documenti di sottigliezze e di cavilli diplomatici non sono pi interessanti di un resoconto stenografico della discussione tra due contadini sui pregi e sul prezzo di un cavallo sfiatato. In queste tetre transazioni non c' nulla di significativo storicamente, salvo il loro risultato e le loro conseguenze generalmente disastrosi. Per la storia religiosa del tempo di padre Giuseppe mi sono fondato sui primi cinque volumi della "Histoire du sentiment religieux en France" di Brmond. Quest'opera - che al tempo stesso una narrazione storica, un commento critico e un'antologia tratta da una letteratura praticamente inaccessibile - uno dei pi pregevoli lavori di dottrina prodotti in questo secolo. Per chiunque s'interessi della psicologia degli esseri umani, quali normalmente sono e quali potrebbero essere se lo volessero, i volumi di Brmond costituiscono un'indispensabile fonte di materiale. E sono non meno indispensabili anche a coloro che, pi modestamente, s'interessano della storia francese del secolo decimosettimo. Degli scritti religiosi importanti di questo periodo, soltanto pochi sono stati ristampati e, per la maggior parte di essi, difficile trovare le prime edizioni pur nelle biblioteche importanti. Io mi considero particolarmente fortunato per essere riuscito ad avere tra le mani una copia della seicentesca traduzione italiana della "Regola della Perfezione" di Benedetto Fitch. Questo volume, estremamente interessante di per se stesso, ha anche una grande importanza storica; da esso infatti, come ho cercato di chiarire, Brulle e i suoi seguaci trassero i principii del loro pseudo-misticismo personalistico, e padre Giuseppe apprese quella tecnica dell'"annientamento attivo", mediante il quale sper di poter purificare la sua politica. Non si in alcun modo tentato di dipingere in questo libro, nei suoi particolari, lo sfondo politico e sociale su cui si svolse la carriera politica di padre Giuseppe. Condizioni e avvenimenti storici sono stati descritti con la maggior brevit possibile e solo in quanto avessero una importanza immediata per il tema principale.

Per finire, vorrei esprimere la mia gratitudine al bibliotecario e alla direzione della biblioteca dell'Universit di California di Los Angeles per il prezioso aiuto fornitomi.

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